Stili americani 8873950140, 9788873950141


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Italian Pages 507 [510] Year 2006

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Stili americani
 8873950140, 9788873950141

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Bononia University Press Via Zamboni 25 - 40126 Bologna

© 2003 Bononia University Press ISBN 88-7395-014-0

www.buponline.com e-mail: [email protected]

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica; di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

Progetto di copertina: Enrico Marcandalli Redazione: Vittoria Lanzavecchia Impaginazione: Giovanna Frullani Responsabile di produzione: Vitiano Zaini

Stampa: Arti Grafiche Battala

Prima edizione: aprile 2003 Ristampe:

0 1 2003

2 3 2004

4 5 2005

6 7 2006

8 9 2007

Indice

Premessa Prima parte: Autori

Capitolo 1 Busby Berkeley: lo spazio come fantasmagoria

xi 1

3

Capitolo 2 Struttura e destino: tre romance di Mervyn Leroy

13

Capitolo 3 Mi chiamo Fritz Lang, faccio incubi. Ovvero: la vita di lato

23

Capitolo 4 II cinema metaideologico di Orson Welles

35

Capitolo 5 Joseph L. Mankiewicz: autore di film d’autore

41

Capitolo 6 Chuck Jones: la follia nel metodo

51

Capitolo 7 La metafisica bassa di Monte Hellman

57

Capitolo 8 Annie diventa Alice: il cinema cormaniano di Coppola e Scorsese

65

Capitolo 9 “Comunque vada, siamo in trappola”: introduzione al cinema di Robert Altman

75

Capitolo 10 Memorandum per la critica: ringraziare Woody Alien

91

Capitolo 11 Cowboy, locuste e scarafaggi: tre film hollywoodiani di John Schlesinger

101

Capitolo 12 Joe Dante

127

STILI AMERICANI

VI

Capitolo 13 Gus Van Sant: Sleepless in Seattle (cioè Portland)

Seconda parte: Generi e case di produzione

141

151

Capitolo 1 La commedia americana: lo specchio (rotto) dei tempi

153

Capitolo 2 Strictly USA: il musical americano e l’ideologia nazionale

163

Capitolo 3 II musical MGM: la bellezza del reale

175

Capitolo 4 Tra il sonoro e occhio-di-falco: i musical Paramount negli anni Trenta

181

Capitolo 5 “È questo quel che volete?”: i musical della Columbia

187

Capitolo 6 B-movie: i vantaggi del cucù

193

Capitolo 7 La RKO fra A minus e B plus

205

Capitolo 8 Sulla nozione di crimine nel cinema hollywoodiano dagli anni Trenta ai Settanta

215

Capitolo 9 II signor Jean Giraud uno e due: la doppia influenza di Moebius sul cinema di fantascienza americano

223

Capitolo 10 Philip K. Dick a Hollywood, ovvero: la quadratura del cerchio

229

Capitolo 11 L’alieno e l’ideologia: dalla padella nella brace

241

Capitolo 12 Spazio: (pen)ultima frontiera

249

Capitolo 13 Uno (anzi due) Star Trek di meno

259

Capitolo 14 Consummatum west, ovvero: sulla traslazione retorica di un mito cinematografico americano 265

INDICE

Terza parte: I film

VII

273

Capitolo 1 Sentieri selvaggi di John Ford: romanzo familiare

275

Capitolo 2 Brivido nella notte di Clint Eastwood: benvenuti in paradiso (e all’inferno)

281

Capitolo 3 II ritorno di Harry Collings di Peter Fonda

287

Capitolo 4 La leggenda di Sleepy Hollow di Tim Burton e American Beauty di Sam Mendes: le due facce della medaglia

289

Capitolo 5 Fanteria dello spazio di Paul Verhoeven

299

Capitolo 6 Soldati e filosofi: Malick e il trascendentalismo americano

305

Capitolo 7 A Texas funeral di William Blake Hanon

313

Capitolo 8 Kansas City di Robert Altman

317

Capitolo 9 Dr. T. e le donne di Robert Altman

323

Capitolo 10 Cast Away di Robert Zemeckis

331

Capitolo 11 Niente staccionate in paradiso: Una storia vera di David Lynch

337

Capitolo 12 II matto in maschera: Man on the moon di Milos Forman

341

Capitolo 13 American Psycho di Mary Marron

347

Capitolo 14 “No Irish Need Apply”, ovvero: un’isola di gioia

351

Quarta parte: Questioni

357

Capitolo 1 Natura e cultura: l’eredità di Valentino

359

Capitolo 2 “Conosco un’anziana signora...”: riflessioni occasionali sulla serialità

369

Capitolo 3 II cinema e le arti popolari

377

STILI AMERICAN!

Vili

Capitolo 4 Film (song) of myself: l’americanità del cinema americano

391

Capitolo 5 Malattie attoriali: istinto e scuola nel cinema americano degli anni Trenta

405

Capitolo 6 Mae West e Ginger Rogers: la maschera dietro il volto

411

Capitolo 7 Da quale parte della cerniera? Il giornalismo e il cinema americano

423

Capitolo 8 La cospirazione e il cinema americano contemporaneo

431

Capitolo 9 L’impossibile trapianto dei fagioli e le sue conseguenze

439

Capitolo 10 La critica e l’industria cinematografica americana

445

Capitolo 11 L’immagine ha una storia: il cinema, la narrazione e le nuove tecnologie

455

Indice dei film e delle opere citate

465

Indice dei nomi

487

A Maria Teresa, che ha pazientato.

Because love grows where my Rosemary goes And nobody knows like me. Barry Mason - Tony Macauley

Premessa

“Stili americani” può sembrare un titolo generico per un volume che raccoglie una serie di saggi e che dunque può ingenerare il sospetto di un collante utilizzato a posteriori. Ho tuttavia frequentato critica* mente l’area del cinema hollywoodiano abbastanza tempo per presu­ mere di essermi formato un quadro generale e strutturato di essa. Pra­ ticando ormai da lustri gli studi culturali, mi è anzi lecito pensare che, lungi dall’essere un insieme più o meno variegato (per non dire caoti­ co), quel cinema ha come e più di altre tradizioni dispiegato lo stretto rapporto che lo lega alla cultura nazionale (intesa come estetica, certo, ma anche storia, politica, costume, mentalità eccetera) della quale esso è un aspetto particolarmente popolare. E tuttavia, in questo volume compaiono capitoli che, a rigore, non possono essere classificati sotto l’etichetta di studi culturali (le pagine sulle case di produzione, per esempio). Sono peraltro convinto che anch’essi in ultima analisi ne facciano parte, se non altro come esempi di creazione e creatività nell’ambito dell’arte popolare. La stessa critica cinematografica statunitense - e confido alcune di queste pagine ne diano atto - è una forma di evolu­ zione culturale nazionale, e anche se storia e politica americane non rientrano in quel caso a far parte del discorso è pur vero che essa si è fatta di pari passo con una serie di eventi nazionali che in qualche mi­ sura l’hanno determinata. Sta ovviamente a chi su essa scrive e scriverà individuare sempre più convincentemente questo rapporto. Il concetto di stile è sempre discutibile, e va qui inteso in un senso molto largo: come qualcosa che determina una specifica identificazio­ ne (del film, del genere, della filmografia autoriale eccetera) in termini nazionali. Una questione di contenuti, certo, ma anche e soprattutto di forme, sempreché al termine forma noi si sia disposti a concedere una

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STILI AMERICANI

vitale e causale relazione con la vita di un paese, le sue tradizioni, i suoi costumi, i suoi miti, speranze e contraddizioni. Più del precedente Letà dell’occhio. Il cinema e la cultura ameri­ cana (1999), dunque, questo libro allarga lo sguardo sulla gigantesca industria americana dello spettacolo, sperando di cogliere ciò che uni­ sce nella enorme diversità di autori, generi, film e questioni cinemato­ grafiche. Quasi tutti i capitoli hanno a suo tempo visto la luce altrove, spes­ so in forma diversa, e più d’uno fra loro era rimasto sepolto fra le carte di pubblicazioni istituzionali tanto apprezzabili quanto occasionali. La loro riunione, comunque, non è casuale e ha anzi, come si diceva, l’ambizione di riposare su un terreno comune della cui sostanza giudi­ cherà il lettore.

AZ.p.

Prima parte Autori

Capitolo 1

Busby Berkeley: lo spazio come fantasmagoria

Ho il sospetto che la penalizzazione subita da Busby Berkeley nella storia del cinema americano (e del cinema tutto) non abbia precedenti. Da Stroheim a Welles allo stesso Sternberg non mancano i nomi di ar­ tisti innovatori cui l’industria del cinema ha chiuso presto la porta in faccia. Tuttavia, essi rimangono nella storia di quell’arte come, talvol­ ta, veri e propri numi tutelari. Con Berkeley le cose stanno all’opposto: l’industria l’ha emargina­ to, sì, ma soltanto quando il tipo di film di cui era maestro, il musical, non trovò più un pubblico altrettanto interessato quanto lo era stato nel periodo in cui, pochi anni prima, esso faceva ressa alle sue première. Una cosa normale, in fondo. Quel che è meno normale è l’esorcizzazione della sua figura di straordinario talento visuale, relegata nello scaffale delle stravaganze, magari geniali ma strettamente legate a un’epoca. Va­ le a dire, l’ostinata negazione di attribuirgli il posto che gli compete nel­ la storia dell’evoluzione del mezzo cinematografico, e probabilmente per il pregiudizio che la storiografia critica da sempre nutre nei confron­ ti del cinema di intrattenimento e più largamente dei generi cinemato­ grafici. Berkeley regista datato? Certamente, come del resto innumerevoli altri autori, da Capra allo stesso Stroheim. Fiumi di parole, anzi, sono state scritte sul rapporto fra i suoi musical girati alla Warner e la De­ pressione. E parole tutt’altro che gratuite o insensate. Ma come in Ca­ pra o in Stroheim v’è anche in lui qualcosa che trascende il marchio d’epoca delle sue produzioni, il legame limitativo - la databilità, se si preferisce - che ce lo indica regista americano degli anni Trenta. In genere si citano le sue invenzioni floreali, le sue organizzazioni militaresche del chorus e degli extra, la sua omologazione delle linee e dei volti femminili e il top shot che spesso di tutto questo e d’altro an­ cora era veicolo.

4

STILI AMERICANI

Ma Berkeley ha fatto molto di più: un po’ come il settecentesco William D’Avenant, che aveva eliminato Parco di proscenio teatrale, Berkeley dilatò lo spazio fìlmico al di là della sua inevitabile teatralità. Mai e poi mai gli spettacoli teatrali messi in scena dai suoi personaggi avrebbero potuto essere rappresentazioni da inscenare in un teatro re­ golare. Nelle acute parole di Gerald Mast, “Berkeley coreographed space, not people”, e in pratica ci ha mostrato inequivocabilmente che il cinema è inverosimiglianza, che quel che ci mostra (o parte di esso) non potrebbe mai accadere nella realtà. E nel contempo egli fingeva che le sue messe in scena fossero reali. Quando allo Hippodrome il palcoscenico diventa un’immane pi­ scina nella quale la Esther Williams di La ninfa degli antipodi (Million Dollar Mermaid, 1952) si prodiga in figurazioni ed evoluzioni acqua­ tiche, noi sappiamo che quel teatro, pur mitico e amplissimo, non avrebbe potuto permettersi uno spazio tanto vasto; e lo stesso vale per la famosa scena “teatrale” della cascata in Viva le donne! (Footlight Pa­ rade, 1933). Berkeley ha strappato allo spazio il suo segreto. Come un fisico ri­ voluzionario, ha immaginato e scoperto altre dimensioni, nelle quali ha viaggiato e ci ha fatto viaggiare mostrandoci quello che esse aveva­ no in serbo, come si organizzavano, in che cosa esse differivano dalla nostra. La sua importanza nella storia del cinema, e non solo americano, non va calcolata in relazione alle conseguenze, agli epigoni o agli even­ tuali allievi: no, essa è lì grazie alla sua fantasia di innovatore, poco im­ porta quanto il musical seguente si sia indirizzato verso una visione più realistica del mondo, addirittura più metropolitana. Il re del genere fra gli anni Quaranta e i Cinquanta, Vincente Minnelli gli deve qualcosa: nell’arrivo dei clan al matrimonio in Brigadoon (id., 1954), per esem­ pio, o nella processione di Kismet (Uno straniero fra gli angeli, 1955); come del resto il suo contemporaneo Mark Sandrich del celebrato Cappello a cilindro (Top Hat, 1935), che nel numero finale, “The Piccolino”, riprende pari pari la trovata dei nastri trattenuti (ed estesi o accorciati) dai ballerini in circolo, impiegata da Berkeley un anno pri­ ma in Wonder Bar (id., 1934). E persino il Gene Kelly di Hello, Dollyl (id., 1969) ha visto Babes on Broadway (1941). Ma qual è dunque lo spazio di Berkeley? Si può ben dire che esso sia uno spazio fantasmagorico nel senso che nulla di prevedibile vi prende posto e che la sua dominante è quella della fantasia. Ma questo è ancora poco. La fantasia di Berkeley non è semplice invenzione fantastica, non ha nulla a che vedere con gli eso­ tismi medio-orientali che avrebbero invaso gli schermi americani una decina d’anni dopo né tantomeno con il film metafisico anch’esso qua-

BUSBY BERKELEY: LO SPAZIO COME FANTASMAGORIA

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rantesco (non parliamo poi delle fantasie orrifiche targate Europa Dracula, Frankenstein eccetera - a lui contestuali). La fantasia berkeleyana è fantasmagoria perché coniuga l’inconiugabile: giovani donne che vengono non comparate a petali di fiori, ma che sono petali di fiori; una folla di violiniste che scompare nel buio diventando, con un abile gioco coreografico, l’immagine di un violino in La danza delle luci (Gold Diggers of 1933,1933); ragazze che compaiono come polene di grandi arpe suonate da altre donne in Le armi di Eva (Fashions of 1934,1934); e naturalmente i geometrici ghirigori caleidoscopici for­ mati dal chorus ripreso in verticale in tanti suoi film. La nostra cultura ha un nome per cose come queste: Kitsch, inten­ dendo con essa l’accostamento di elementi inaccostabili, pena la cadu­ ta nel cattivo gusto. Oggi, tuttavia, dopo gli studi di Susan Sontag sul camp e in genere la rivalutazione del trash, è meno difficile leggere l’universo berkeleyano in modo culturale. Intanto, sottolineando la sua stretta liaison con la Depressione: ma non nei termini banali in cui l’ha spesso fatto la storia del cinema sino a oggi, vale a dire semplicemente come entertainment il cui fine era quello di mettere fra parentesi per un’ora e mezza le tribolazioni del pubblico americano in preda alla Grande Crisi. In realtà, il rapporto con quel triste periodo esiste, sì, ma in termini più sottili. Se infatti da un lato \e gold-diggers di Berkeley e gli spettacoli nei quali esse compa­ rivano erano metafora della Depressione e della vigorosa spinta voluta dal New Deal, come - un nome per tutti - ha sostenuto Mark Roth in uno storico articolo del 1977, dall’altro non è difficile leggere le gran­ diosità scenografiche berkeleyane come una sorta di dépense intesa a esorcizzare il fantasma della crisi. In fondo, era quello che i musical della coppia Astaire/Rogers stavano facendo contestualmente, presen­ tando un’America sfarzosa, elegante, ricca che rimandava allo stile del decennio precedente e che di anni Trenta aveva ben poco. Berkeley mostrò, per dirla con un adagio dell’epoca, che la ricchezza era dietro l’angolo, che era ancora possibile confezionare un cinema sfarzoso. Ma a differenza dalla RKO di Fred e Ginger lo sfarzo, prima che nell’ambiente, era nell’invenzione, nella fantasia. Anche lui in fondo si ispirava al periodo precedente: le sue scenografie barocche e muliebri devono non poco all’esperienza broadwayana di Ziegfeld, White, Car­ roll (il suo primo film, Whoopee!, 1930, anzi, era stato fatto insieme con Ziegfeld) e in un certo senso è possibile affermare che Berkeley ne­ gli anni Trenta prese il testimone passatogli dal grande impresario, continuando la sua tradizione in una direzione e con un mezzo adegua­ ti a tempi ben diversi da quelli che ne avevano visto l’ascesa e il trionfo. Non è un caso infatti che l’ultimo Ziegfeld Follies teatrale prodotto dal suo eponimo dati al 1931 (ve ne sarebbero stati altri in seguito, ma fi­

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nanziati da differenti produttori) e che esso abbia contato solo 165 re­ pliche. E Gerald Bordman ha ragione quando afferma che il tramonto di quel tipo di intrattenimento non fu dovuto soltanto alla Depressio­ ne, ma anche al ritmo più spigliato proposto da spettacoli contempo­ ranei e a un’intellettualizzazione che stava invadendo i palcoscenici di Broadway in quell’epoca: diversamente, non si spiegherebbe facilmen­ te il successo cinematografico delle arditezze berkeleyane (che peraltro in quel decennio non fu costante). Per di più, come scrive bene J. Hoberman, nei numeri di Berkeley

fantasie estremamente spettacolari suggeriscono, nei loro eccesso vi­ sionario, la descrizione baudelairiana di un uomo in una folla come “un caleidoscopio dotato di coscienza”, se non fosse che questo è un caleidoscopio di incoscienza. La responsabilità personale si dissolve in un’orgia di pienezza. Non c’è alcun dubbio, intendo dire, che, al di là dalla loro discuti­ bile maturità e serietà sociale e politica, i numeri berkeleyani risponda­ no a uno Zeitgeist forte e riconoscibile: ciò che, dopo avere paragonato talune figurazioni riprese in top shot a variazioni del mandala, porterà John Thomas ad affermare che i suoi numeri “non sono tanto i pro­ dotti di un’età meccanizzata, quanto i prodotti di un’età così disorga­ nizzata da far sembrare la meccanizzazione un fine desiderabile”. Tal­ ché, viene alla mente la straordinaria lettura che nel suo purtroppo po­ co noto Eccentric Spaces Robert Harbison dà della Hipnerotomachia Poliphili del quattrocentesco Francesco Colonna, nella quale l’opera d’arte è concepita (letteralmente) come una macchina, una cosa artifi­ cialmente animata che continua a produrre lavoro e nella quale “sim­ ple material” come l’acqua viene elaborato sino a farlo diventare arti­ ficio - il tipo più puro di macchinario - come quando il protagonista incontra tre fontane semoventi che distribuiscono lo spettacolo dell’acqua ai loro passeggeri. Indipendentemente da tutto questo, Berkeley si era di fatto preso il compito di continuare la tradizione ziegfeldiana: più d’un critico, da Mordden a Rubin, da Mast alia Mizejewski, ha in sostanza acciarato che “l’estetica di Berkeley è un corrispettivo cinematico perfetto dell’esteticizzazione e feticizzazione di Ziegfeld” (Mizejewski) e che al­ cuni dei suoi numeri più grandiosi sono tributi agli elaborati numeri di danza e di parata nelle Follies (Mordden). Mast scrive addirittura che “capire Berkeley, il suo fascino e i suoi eccessi, significa capire anche Ziegfeld”. E vale la pena ricordare, a titolo d’esempio, che la piattaforma ro­ tante riempita di chorine, così cara a Berkeley, era stata inventata e usata da Ziegfeld sin dal 1906.

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BUSBY BERKELEY: LO SPAZIO COME FANTASMAGORIA

D’altra parte, è anche vero che la prassi berkeleyana di ampliamen­ to dello spazio teatrale era un po’ il contrario di quella ziegfeldiana. In Ziegfeld l’esposizione muliebre rispondeva abbastanza bene al signifi­ cato letterale originario della fantasmagoria come di immagini che si presentano davanti agli occhi dell’osservatore e si protendono verso di lui: questo, in fondo, era il senso degli straordinari défilé nei quali le Ziegfeld girl indossavano costumi mirabolanti (farfalle, baccelli e via dicendo), offrendosi alla vista in una fantasiosa sublimazione della stessa attrattiva sessuale. Berkeley, al contrario, attivava lo spettatore in una direzione fan­ tasiosa che penetrava lo spazio del supposto palcoscenico, io conduce­ va in un viaggio in mezzo ai corpi (i volti e le gambe soprattutto) delle chorus girl e addirittura all’interno di oggetti e luoghi attraverso un in­ grandimento iperbolico, decisamente imparentato da un lato con la tradizione ottocentesca South-Western americana del gigantismo e dell’eccesso, dall’altro con la gnoseologia puritana che vedeva nel mi­ crocosmo lo specchio del macrocosmo e viceversa. Per arrivare al mon­ do delle fantasmagorie berkeleyane è spesso necessario passare per un nodo minuscolo oltre il quale sta un universo variegato e complesso che funge da termine d’opposizione alla stazione di partenza, come si vede bene nel passaggio della coppia a miniatura nel secondo chorus del numero “The Words Are in My Heart’* in Donne di lusso (Gold Diggers of 1935, 1935): mondo reale

fantasmagoria

Poi, di regola, l’intero numero ritorna in perfetta circolarità, come ricorda Gerald Mast, alla situazione d’inizio. Ciò che peraltro più colpisce di quell’universo è il suo ordine, vale a dire il modo in cui esso si struttura armonicamente nonostante la esu­ berante quantità delle sue componenti. Berkeley era noto per la disci­ plina militaresca con cui allestiva e realizzava le sue coreografie. In un suo film le chorine figuravano addirittura direttamente come soldati con tanto di divise, elmetti, tamburi e stendardi (Amore in otto lezioni [Golddiggers of 1937], 1936), per non dire del diretto riferimento mi­ litaresco nel famoso numero “The Forgotten Man” di La danza delle luci. Certo, una coreografia deve comunque comunicare un senso di ordine, ma la complessa perfezione delle composizioni berkeleyane ac­ quista un ulteriore valore se si pensa che nei suoi film degli anni Trenta esse rientrano spesso in una vicenda di crisi economica, di difficoltà

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STILI AMERICANI

materiali causate dalla Depressione. Ecco allora che non solo la storia, come vuole Mark Roth, è leggibile in termini di metafora del New De­ ai, e in particolare colui che allestisce lo spettacolo come immagine di Roosevelt, ma che la straordinaria organizzazione delle più elaborate e intricate scenografie si pone come una sorta di risposta al caos socio­ economico dell’epoca, come la concreta figura degli obiettivi del New Deal, come, insomma, {’armoniosa risposta dell’arte alle tribolazioni del periodo. Un po’ alla stessa stregua della danza risolutiva nelle varie vicende della coppia Astaire/Rogers in quel decennio, la bellezza im­ peccabile e l’unità d’intenti veicolata dalle coreografìe berkeleyane parla di quello che è possibile non solo sognare ma anche raggiungere, di quello che l’intera nazione è chiamata a compiere in uno sforzo co­ mune che non poteva trovare migliore metafora del lavoro di messa in scena di un chorus che è facilmente leggibile come immagine di un’America senza volto perché piena di volti. Ecco allora che l’anonimità delle singole chorines, i loro tratti che spesso la critica ha definito stereotipati perché sempre uguali fra loro (si pensi alla lettura in chiave femminista di Lucy Fischer e alla solita tiritera della “donna-oggetto”) acquistano un senso particolare diventando la anonimità stessa della folla statunitense, la massa indistinguibile nella quale tutti sono non soltanto - come recita il titolo di un numero di 42.a strada (42nd Stre­ et, 1933) - “giovani e sani”, ma anche uguali (e in fondo in questo v’è anche un tocco di riflessione democratica) e dunque tutti possono con­ correre in pari misura al recupero e al rilancio del paese. Contrariamente a quanto afferma Leo Braudy nel suo peraltro acu­ tissimo The World in a Frante, sarà anche vero che i musical del primo Berkeley mancano di un qualunque senso dell’individualità, ma la ra­ gazza che nel numero-chiave “Lullaby of Broadway” di Donne di lusso 1935 muore cadendo da un balconcino, pressata dalla folla dei balle­ rini che la costringe a dirigersi verso di esso, non commette suicidio e meno che mai perché “la sua individualità è in contrasto con le esigen­ ze del gruppo musicale uniforme”, ma muore unicamente perché la su­ perficialità gaudente della sua vita non può non portarsi dietro un’om­ bra di moralistica fatalità (un termine, quello di fatalità, usato del resto dallo stesso Braudy). Vale anzi la pena soffermarsi su questo numero eccezionale, meno scenograficamente costruito di altri, ma certamente il più impressio­ nante mai divisato e girato da Berkeley. Le riprese delle due squadre di ballerini, direttamente divisi in bianchi e neri, godono delle angolazio­ ni più disparate (persino dal basso, e dunque attraverso un pavimento di vetro trasparente) mentre la musica dispone e segue le loro evolu­ zioni. Tuttavia, a un certo punto la musica cessa e le due squadre insce­ nano una vera e propria tenzone fatta di tap dancing antifrastico che

BUSBY BERKELEY: LO SPAZIO COME FANTASMAGORIA

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instilla nella scena un ritmo dionisiaco cui fa da contrappeso la stupe­ facente sincronia dei due choruses. È un momento trascinante nel qua­ le davvero l’individualità trova assoluta cancellazione e nel quale la tradizionale aura spumeggiante che domina la serialità berkeleyana la­ scia spazio alla pura misura dei passi suggerendo senza alcuna media­ zione la meccanicità perfetta del movimento. Non meraviglia che il Him fosse quello preferito da Hitler: uno dei pochi, veri momenti del cinema di Berkeley in cui lo spettatore ha la sensazione di un corpo globale in movimento percepito come una forza inarrestabile più che come un momento di corale grazia e sofisticatezza. Se dunque è vero che Berkeley prende il testimone passatogli da Ziegfeld, è anche vero che la sua più o meno implicita posizione ideo­ logica è lontanissima da quella del celebre impresario. In questi lo spet­ tacolo era pura superficie sgargiante, parata da rimirare immobili e ab­ bagliati; in Berkeley il movimento stesso della macchina da presa va sempre in direzione normale allo schermo entrando nello spazio della messa in scena con carrelli in avanti che tridimensionalizzano lo spazio dello show sino a renderlo improbabile o addirittura impossibile, e perciò stesso squisitamente cinematografico. Va da sé che il musical berkeleyano di cui stiamo parlando è quello che fa capo alla produzione Warner degli anni Trenta. Nel 1939, com’è noto, Berkeley passerà alla MGM (con qualche puntata isolata alla Fox, alla RKO e alla stessa Warner). E vi passerà tentando di portare anche là lo stile che lo aveva contraddistinto nel decennio: Broadway Serenade (1939) segna infatti l’ultima sua pellicola ancora collegata ai fasti della Warner. In realtà, si vede bene che la sua rivoluzione spazia­ le ha ormai il fiato corto: alle ardite riprese dei suoi titoli più classici si sostituisce una storia di decadenza (nella fattispecie, quella dell’operet­ ta), o per meglio dire, lo scontro fra forme di entertainment musicale tradizionale e la nuova, irruente moda del jazz e dello swing. Jeannette MacDonald lotta strenuamente per restare fedele alla prima, e nel far­ lo si ritrova in un gioco coreografico che è soltanto una pallidissima imitazione delle arditezze spaziali berkeleyane di pochissimi anni pri­ ma. Il coreografo, anzi, copia il motivo della maschera che due anni prima i suoi rivali musicali, la coppia Astaire/Rogers, avevano finemen­ te impiegato in Voglio danzare con te (Shall We Dance, 1937), ma - se­ condo la sua usuale iperbolicità - trasformandola in una componente grottesca che all’inquietudine suggerita dalla moltiplicazione dei volti della Rogers nel film di Sandrich sostituiva una componente involon­ tariamente mostruosa che questa volta non rasentava ma colpiva diret­ tamente il bersaglio del cattivo gusto. Da quel momento il cinema di Berkeley cambierà completamente stile, anche se mi sembra che Mast non colga nel segno quando, a que­

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STILI AMERICANI

sto proposito, afferma che alla MGM il regista-coreografo, definito “an antiquated relic”, si limiterà a riflessioni nostalgiche su alcuni aspetti del lontano passato dell’America. Che Berkeley abbia lavorato in quella direzione è certo vero, ma sarà bene ricordare che il musical MGM fra gli anni Quaranta e Cinquanta si era specializzato in strug­ genti esempi di “Americana”, da Meet Me in St. Louis (1944) di Min­ nelli a Summer Holiday (1948) di Mamoulian. Si trattava insomma di un orientamento generale, nel quale Berkeley si inserì a suo modo. Quel modo fu di norma alquanto contenuto rispetto alle esuberanze degli anni Trenta alla Warner - come dimostra, per esempio, il pur gra­ devole Facciamo il tifo insieme (Take Me Out to the Ball Game., 1949) - ma è anche vero che nel citato La ninfa degli antipodi egli avrebbe tentato di rinverdire quei fasti, rendendosi conto, quanto meno, che il colore “sporcava” non poco le sue fantasie coreografiche (i gialli e i rossi delle scene di piscina all’Hippodrome sono decisamente, irrime­ diabilmente stridenti fra loro). E in modo diverso, ma sostanzialmente identico, nell’unico film girato alla Fox, The Gang’s All Here (1943), l’ispirazione scenografica colpisce, sì, ma solo nella misura in cui la tro­ vata di base (le gigantesche banane) si rivela stravagante e addirittura metaforicamente audace: lo spazio ormai è sparito, esso non è più l’og­ getto della coreografia, Berkeley non lo sonda, non lo svolge, non lo manipola, non lo amplia e restringe a suo piacere in funzione delle sue idee coreografiche. In certo senso, il cinema di Berkeley, pur restando iperbolico, è diventato bidimensionale. E se fantasmagoria è termine che allude a immagini fantasmatiche che ti balzano davanti da uno schermo (cfr. Zingarelli), qui nulla balza davanti a nessuno e il quadro berkeleyano può anche essere ammirato, ma come si ammira una fan­ tasia stravagante che trova nella serialità delle immagini giustificazione a se stessa. Fra la serialità delle chorines Warner e quella degli enormi frutti di dieci anni dopo sta un mondo che nel frattempo ha trasforma­ to il proprio desiderio di stupore e si è ripiegato verso quel tessuto ur­ bano che paradossalmente proprio Berkeley aveva ricostruito - ancor­ ché in modo meccanico (si veda il numero omonimo in 42.a strada) nella sua “realtà” quotidiana ben più che i gangster film coevi. L’iperspazio di Berkeley era stato un viaggio affascinante, ma ora, con la guerra in piena azione e con quel che attendeva l’America alla fine di essa, il cinema americano d’intrattenimento poteva permettersi di di­ menticare l’unico grande visionario che aveva avuto, privandolo del posto che gli competeva e ancora gli compete nella storia di Holly­ wood e del cinema tutto.

BUSBY BERKELEY: LO SPAZIO COME FANTASMAGORIA

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Riferimenti bibliografici

Tutte le varie citazioni da Gerald Mast vengono dal suo ottimo Can’t Help Singin’. The American Musical on Stage and Screen, The Overlook Press, Woodstock-New York, 1987; il noto saggio di Mark Roth, “Some Warner Musicals and the Spirit of the New Deal”, origi­ nariamente pubblicato su The Velvet Light Trap, 17, Winter 1977, si può leggere anche in Rick Altman (ed.), Genre: The Musical, Routled­ ge 8c Kegan Paul, London-Boston, 1981; le riflessioni di Gerald Bordman sulle ragioni del tramonto dello spettacolo teatrale alla Ziegfeld sono nel suo ammirevole American Musical Theatre. A Chronicle, Oxford UP, New York, 1978; l’accenno baudelairiano di J. Hoberman, così come la citazione da John Thomas sulla figura del mandala e sulla meccanizzazione, è nella sua monografia, 42nd Street, BFI, London, 1993; la lettura della Hipnerotomachia Poliphili da parte di Robert Harbison è nel suo formidabile volume, Eccentric Spaces, Avon, New York, 1980; sui rapporti fra lo spettacolo di Berkeley e quello di Ziegfeld, oltre al citato libro di Mast, i riferimenti sono a Ethan Mordden, The Hollywood Musical, St. Martin’s Press, New York, 1981; Martin Rubin, Showstoppers. Busby Berkeley and the Tradition of Spectacle, Columbia UR New York, 1993; Linda Mizejewski, Ziegfeld Girl. Image and Icon in Culture and Cinema, Duke UR Durham & London, 1999; il saggio intelligente, partigiano e forzoso di Lucy Fi­ scher, “The Image of Woman as Image: The Optical Politics of Da­ mes”, che insiste sul luogo comune della donna-oggetto in Berkeley, è apparso su Film Quarterly, 30, Fall 1976, ma lo si può rintracciare an­ che in Rick Altman (ed.), op. cit.; l’errata lettura della morte della ra­ gazza come suicidio in Gold Diggers of 1935 da parte di Leo Braudy è nel suo altrimenti fondamentale The World in a Frame. What We See in Films, Anchor Books, Garden City-New York, 1977.

Capitolo 2

Struttura e destino: tre romance di Mervyn LeRoy

Mervyn LeRoy ha sempre rappresentato la tipica figura dell’arti­ giano hollywoodiano, buono per una commedia come per un melo­ dramma, per un gangster film come per un musical, pronto a seguire i dettati della produzione (fu sovente produttore egli stesso) e nel con­ tempo a non perdere ogni lineamento di regista professionalmente ca­ pace. Alcuni suoi film come Piccolo Cesare (Little Caesar, 1930) e lo so­ no un evaso (lAm a Fugitive front a Chain Gang, 1932) sono a tutt’oggi considerati dei classici americani, mentre altri fanno ormai parte del mito hollywoodiano, da La danza delle luci (Gold Diggers of 1933, 1933) a II ponte di Waterloo (Waterloo Bridge, 1940). Pure, LeRoy ha ben poco goduto di una considerazione che consentisse di qualificarlo come “autore”. La cosa è tanto più strana se si tiene conto che la critica “d’auteur” è in genere d’accordo nel concedere al regista un qualche rilievo (la britannica Moiré nel 1962 l’aveva inserito fra i “talented di­ rectors”). È mia intenzione prendere qui in considerazione un piccolo grup­ po di film da lui diretti negli anni Quaranta, tutti connessi da una spe­ cifica matrice, quella del romance a carattere melodrammatico, che an­ che Henri Agel considera una produzione caratteristica del cinema di Le Roy in questo periodo. Specificamente, Il ponte di Waterloo, Prigio­ nieri del passato (Random Harvest, 1942) e La lunga attesa (Homeco­ ming, 1948). La ricca produzione di LeRoy negli anni Trenta era stata caratterizzata soprattutto da commedie (musicali e non) e da crime movies, e quasi ogni suo film di quel decennio denotava un qualche in­ teresse - sia pure a volte solo tangenziale - di tipo sociale. Negli anni Quaranta LeRoy sembra, ancorché parzialmente, più interessato al ro­ mance melodrammatico e al film drammatico in genere. Naturalmente continua con la commedia e con alcuni temi gangsteristici, aggiungen­ dovi, se è per questo, anche una certa attenzione per il war movie. Ma

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per la prima volta il regista sembra occuparsi di temi rigorosamente sentimentali che impiegano le componenti di carattere sociale (e addi­ rittura classistico) in termini strutturali oppositivi. D’altro canto - sem­ pre in senso generale - le pellicole in questione denunciano una sorta di “romanticizzazione” decisamente in contrasto con le durezze del film sentimentale anni Trenta (e non soltanto di LeRoy). Per esempio, il regista, coadiuvato dall’ottima musica di Herbert Stothart nei primi due film del gruppo, è addirittura riuscito a romanticizzare ancor più (ma, come vedremo, solo all’apparenza) un romanziere come James Hilton, maestro di edulcorazione almeno da Addio, Mr. Chips! (Goo­ dbye, Mr. Chips, 1939) di Sam Wood in poi: Prigionieri del passato ha infatti eliminato ogni parte del romanzo di Hilton che non fosse stret­ tamente funzionale alla storia d’amore dei due protagonisti (per esem­ pio, l’inizio sul treno in periodo antebellico). E non è affatto un caso che Paul Warshow in una nota brevissima ma precisa a un suo saggio su Non si uccidono così anche i cavalli? (They Shoot Horses, Don’t They?, 1969) di Sydney Pollack rintracci la ragione della sostituzione di Frank Borzage (citato nel testo originale di Horace McCoy) con Le­ Roy fra le personalità presenti alla maratona di danza “a causa del tipo di film che il suo nome evoca”, aggiungendo che le pellicole di Borza­ ge, rispetto a quelle di LeRoy, sono “molto meno dure e più romanti­ che”. Questo non significa certo che negli anni Quaranta LeRoy abbia inaugurato nella sua produzione una direzione à la Borzage, ma è in­ negabile che il suo cinema sentimentale si sia fatto meno duro, meno nervoso, più disteso, affidando la drammaticità delle situazioni anche alla psicologia dei personaggi e alla funzione della scenografia, e non solo al ritmo e al respiro degli eventi. Non per nulla nei pochi film me­ lodrammatici a componente sentimentale da lui girati negli anni Trenta figurano protagonisti come Wallace Beery (Cuori in burrasca (Tugboat Annie], 1933) e Paul Muni (Il mondo cambia [The World Changes], 1933), attori di eccezionale rilievo, ma ben lontani dal divismo quieta­ mente romantico di un Robert Taylor (Il ponte di Waterloo) e di un Ro­ nald Colman (Prigionieri del passato). Per non parlare del forte senti­ mentalismo di interpreti femminili come Greer Garson e Vivien Leigh. Ancora: il romance di LeRoy negli anni Quaranta evidenzia in mo­ do schiacciante il modello dell’amore contrastato da eventi esteriori aleatori e incontrollabili. Non il turbamento di un incontro misterioso (Tonight or Never, 1931), non le vicissitudini di una coppia alle prese con problemi di sussistenza quotidiana (Cuori in burrasca, con un tema da Borzage, che però ribalta il romanticismo originario del racconto di Norman Reilly Raine, da cui è tratto, scegliendo la via della commedia drammatica e della caratterizzazione degli attori: primo fra tutti, ov­

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viamente, Wallace Beery), non una saga di scalata al successo al prezzo di sacrificare affetti e sentimenti (1/ mondo cambia), ma meccanismi imprevedibili del Fato che determinano lo sviluppo del dramma in una coppia. In linea, del resto, con i dettami del moralismo hollywoodiano, LeRoy è in particolare sensibilissimo al nucleo familiare istituzionale. Lo è a un punto tale da limitare in modo tutto sommato contraddittorio la “irresponsibility” che caratterizza all’inizio di Prigionieri del passato il personaggio di Paula, come denuncia Canham, scrivendo che la don­ na “fa mostra di una certa irresponsabilità (incontrando cioè Colman, un perfetto sconosciuto, e, scoprendo che egli è infelice, ella dice: ‘Se non ti piace il manicomio, non dovresti starci’)”. Per non dire della leg­ gerezza con cui la donna si accompagna subito a Charles, peraltro mi­ tigata dall’euforia della festa (un tema su cui tornerò più avanti). LeRoy, si diceva, è sensibilissimo a) nucleo familiare, tanto che innesca il seme della tragedia che porta II ponte di Waterloo alla sua triste con­ clusione non tanto perché Myra teme il risentimento e la reazione di Roy quanto perché la sua vergogna diverrebbe quella della famiglia di lui, gettando nel fango un nome onorato (“That badge is never going to suffer at your hands”, le dice soddisfatto e ignaro l’impeccabile C. Aubrey Smith, soverchiando la coscienza della ragazza e inferendole il colpo di grazia). Per non dire dell’ovvia conclusione di La lunga attesa: poteva Hollywood nel 1948 consentire il coronamento di un amore extramatrimoniale, anzi di un vero e proprio adulterio? Vale subito la pena notare che il modello familiare sopra indicato, sia esso inteso come l’obiettivo della coppia, sia esso già istituzionaliz­ zato, si accompagna regolarmente con - o quantomeno è connesso a una situazione storico-sociale alterata, anomala: la guerra. Myra e Roy in II ponte di Waterloo si incontrano durante un attacco aereo, si sepa­ rano perché lui deve ripartire per il fronte, e l’azione precipita quando la ragazza lo crede morto in combattimento; in Prigionieri del passato Charles è un ufficiale che ha perso la memoria per uno shock da batta­ glia, e lui e Paula si incontrano il giorno festoso della fine del conflitto; in La lunga attesa è la guerra a separare la coppia Ulysses/Penny ed è la guerra a unire il primo con Jane, ed è sempre la guerra a uccidere Jane consentendo all’uomo di tornare in famiglia con una nuova co­ scienza del matrimonio, del lavoro, della società stessa. Naturalmente la costante della guerra trova una ragione psicologi­ ca nel periodo in cui le pellicole furono girate (1940,1942 e 1948: du­ rante la seconda guerra mondiale e nel periodo immediatamente se­ guente). Tuttavia è innegabile che LeRoy usi abilmente questo tema per oliare a dovere il meccanismo narrativo, quando non - come in La lun­ ga attesa - per conferire alla storia uno spessore morale d’eccezione.

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All’interno di questo quadro, poi, abbiamo regolarmente un terzo che si inserisce come elemento di diversione: in modo diretto in un film come La lunga attesa (dove però tale fattore è ambiguo, presen­ tandosi, a seconda del punto di vista, in modi nettamente opposti: Jane se si osserva la vicenda in termini rigorosamente moralistici, Penny se invece la si intende nei suoi valori strettamente sentimentali), in modo indiretto in Prigionieri del passato e soprattutto II ponte di Waterloo. In quello infatti il “terzo” è rappresentato dallo stesso Charles, personag­ gio dalla doppia vita la cui precedente esistenza riemerge - attraverso il ricordo attivato da un incidente stradale - eliminando ogni traccia del rapporto con Paula, mentre in questo esso si identifica in parte con la madre di Roy. Quest’ultimo caso è di particolare interesse perché attiva meccani­ smi psicologici di notevole rilievo. Myra infatti sarebbe con tutta pro­ babilità destinata alla vita di vergogna che l’attende anche se non in­ contrasse la madre di Roy, talché è lecito chiedersi qual è la funzione della peraltro bella sequenza dell’incontro fra le due donne al caffè (convinta della morte dell’uomo amato, non avrebbe Myra potuto evi­ tare del tutto 1’incontro seguendo poi passo passo la strada dell’abie­ zione?). In realtà tale sequenza rivela l’estrema finezza di LeRoy: essa è infatti giustificata e significante a più livelli. Prima di tutto ci indica la distanza oggettiva fra le due donne attraverso una trovata di carat­ tere soggettivo. Myra è convinta che Roy sia morto e si comporta con la lady come fosse ubriaca, mentre Lady Cronin fa del suo meglio per sopportare un atteggiamento che dal suo punto di vista non ha giusti­ ficazione. Soggettiva separazione di classe fra la ballerina e la lady si amplifica davanti a un comportamento della prima che per la seconda è del tutto inadeguato. Di più: la sequenza è in pretta direzione aristo­ telica, dal momento che il pubblico si attende comunque: a) un ritorno di Roy (per cui Myra sarebbe vittima di un errore); b) una rivelazione a Lady Cronin in modo che la ricca signora possa - attraverso le sue intuibilimente ampie possibilità e conoscenze - chiarire quel che non può essere che un equivoco. “La tragedia è mimesi di un’azione seria e compiuta in se stessa, atta a suscitare nel pubblico la pietà e la trepida­ zione Iphòbos] che si prova nell’imminenza di una catastrofe”, aveva scritto Aristotele nella Poetica a proposito della tragedia, e la scena si attaglia perfettamente a tale definizione. Il “terzo”, dunque, in II ponte di Waterloo è, sì, la guerra, ma è an­ che - psicologicamente - una differenza di classe che precipita nella se­ quenza citata. Una differenza di classe che se sopportabile, per così di­ re, al “primo stadio” (Myra è una ballerina) non lo è, come dimostra la parte finale, al “secondo stadio” (Myra è divenuta una prostituta). E quel che più conta, l’avvio del meccanismo di degradazione viene for-

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nito da un malinteso che poteva a suo tempo trovare una soluzione. Da questo punto di vista II ponte di Waterloo sembrerebbe un esempio di “tragedia cristiana” secondo la formulazione indicata da Alexander Sewall nel suo The Vision of Tragedy, ovvero una tragedia il cui perno sta nella scelta della protagonista; ma al tempo stesso presenta un forte elemento di fatalità che la imparenta con quella classica. Vale a dire, se è vero che Myra cade nell’abiezione ed è responsabile di avere scelto quella strada, d’altro canto i motivi che l’hanno portata a quella scelta erano del tutto al di fuori dalla responsabilità di alcuno. Per il momento, tuttavia, non è questo l’aspetto di LeRoy che ci in* teressa, bensì i modi in cui il regista struttura il suo ricorrente (e varia­ to) modello (ritorneremo più avanti sull’importante tema del Destino). Il più esemplarmente chiaro è quello scenografico. Lo scenario sentimentale dei romances leroyani degli anni Quaranta è usualmente un luogo separato: la casetta campestre di Prigionieri del passato, la tenda e soprattutto le macerie della casa diroccata vicino alla linea del fuoco in La lunga attesa. Ancora una volta II ponte di Waterloo fa in certo modo parte a sé: il film non evidenzia alcun luogo isolato di immediata lettura dal mo­ mento che i termini della storia non lo consentono (i due innamorati, nelle pochissime occasioni che hanno di stare insieme, possono - ogni volta per ragioni diverse - godere di poche ore). A meno che non si vo­ glia intendere come tale il rifugio antiaereo (peraltro popolato di per­ sone) all’inizio del film. Il luogo isolato, comunque, è di solito intonato alla natura in rapporto alle situazioni specifiche in cui i vari personaggi si trovano: si pensi all’atmosfera idillica della casetta di Charles e Pau­ la, circondata da alberi e fiori (e per di più connotata da un ulteriore segno di isolamento: il ruscello e il ponte che è necessario attraversare per arrivarvi); si pensi alle macerie entro le quali per la prima volta Ja­ ne ha il coraggio di confessare apertamente il suo amore a Ulysses. Ora, come dicevo, questi luoghi sono perfettamente intonati - se­ condo i migliori dettati retorici della cosiddetta pathetic fallacy (il ter­ mine è di John Ruskin) - alle situazioni, ai sentimenti dei protagonisti. Si tratta di un tòpos ben noto alla cultura classica e rivisitato a suo mo­ do in seguito proprio dal romanticismo, nel quale l’attribuzione origi­ naria di sentimenti umani alla natura diventa armonizzazione fra natu­ ra e sentimenti umani (dal Werther all’Orris i casi sono infiniti), per cui la dimora di Paula e Charles riflette esattamente il tipo di rapporto che lega la coppia in questione, così come il rapporto professionale che le­ ga Jane a Ulysses si attua e sviluppa di regola sotto la tenda da campo, ma non a caso il momento della confessione d’amore avviene fra le ma­ cerie di un casolare dal significato polivalente: quel luogo è l’unico ni­ do che i due potranno mai sognare d’avere, ed è anche l’immagine sim­

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bolica di uno sgretolamento della precedente vita del medico, dei suoi pregiudizi, delle sue leggerezze, del suo egoismo a opera dell'esempio umano e morale dell’infermiera, intensificato da quei lampi e tuoni di cannone tedesco, chiaro riferimento alla passione tempestosa (e peri­ colosa) fra Jane e Ulysses. In un certo modo, come si diceva più sopra, anche Myra e Roy si ritrovano brevemente isolati all’inizio del film. È vero che il posto è un rifugio antiaereo (quindi un luogo pubblico), ma è anche vero che il lo­ ro incontro è trattato dal regista - secondo i più regolari canoni hol­ lywoodiani - con una serie di campi e controcampi alternati di primi piani dei due protagonisti che escludono idealmente e materialmente la presenza degli altri rifugiati: una sequenza che solo al momento del “cessato allarme” riprende l’impiego regolare di campi più larghi in­ cludendo così la gente circostante. Più esattamente, i luoghi vengono ripresi dal regista in campo lun­ go quando sussistono concretamente all’interno della storia prigionie­ ri del passato); attraverso campi estremamente ravvicinati quando il luogo del rapporto riveste - nell’ambito strettamente diegetico - una sua apparenza di casualità (ZZ ponte di Waterloo, La lunga attesa). In al­ tre parole, il luogo - pur fungendo usualmente da metafora - è ripreso globalmente quando si giustifica istituzionalmente (il matrimonio di Charles e Paula), mentre è ripreso dall’interno con particolare atten­ zione ai protagonisti (i primi piani) quando non ha connotazioni isti­ tuzionali, per cui l’illecito amore di Ulysses e Jane o quello prematri­ moniale (e per il momento del tutto platonico) fra Roy e Myra trovano ugualmente uno spazio che funge da metafora, ma che non può per­ mettersi di presentarsi come luogo privilegiato e istituzionale della coppia, bensì soltanto come occasione aleatoria. Tuttavia, l’attenzione strutturale, compositiva di LeRoy non si fer­ ma a questo. Sempre, il regista costruisce lo scenario dei film immet­ tendovi un elemento positivo. In Prigionieri del passato la casetta rurale trova la sua antitesi nella magione sontuosa dei Rainier, in La lunga attesa la tenda e le macerie nell’elegante casa americana di Ulysses. Persino II ponte di Waterloo fornisce una simile opposizione: specificamente, nella misera, squalli­ da camera che Myra divide con l’amica prostituta da un lato e nella vil­ la patrizia dei Cronin dall’altro. La celebrata abilità nella costruzione di splendidi interni (“lavish” è l’aggettivo più ricorrente nella critica anglosassone) da parte di Cedric Gibbons trova qui il suo trionfo non tanto per la qualità elegante delle scene quanto perché tale qualità è funzionale a esaltare l’opposizione di cui si diceva (l’esempio più deci­ sivo essendo certamente II ponte di Waterloo). Tutto in questi film è differenza sociale. Ma anche all’interno di

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questa componente vanno rilevate le debite differenze. Mentre infatti in Prigionieri del passato e La lunga attesa i protagonisti maschili ap­ partengono a una ricca borghesia (industriale nel primo, professionale nel secondo) e ambedue trovano, scoprono i veri valori della vita ab­ bandonando, forzatamente o meno, il loro ambiente, in II ponte di Wa­ terloo la classe opposta a quella di Myra (o quantomeno quella cui lei non appartiene e in cui sta per entrare) non è sottoposta ad alcuna im­ plicita critica. Al contrario, essa è portatrice di valori nobili, tradizio­ nali, di un lignaggio che si sposa con la lealtà e l’onore (un fattore che sarà determinante nel rifiuto di coscienza da parte della ragazza). Si tratta di un punto importante, perché in II ponte di Waterloo non sia­ mo più di fronte alla classe cui appartengono Charles e Ulysses (con le dovute differenze: dopotutto il primo è inglese mentre l’altro è ameri­ cano), ma un’aristocrazia che LeRoy guarda con occhio alquanto di­ verso. Non ci sono, nella famiglia di Roy, i maneggi e le meschinità che si intuiscono in quella di Charles, né il vuoto guscio di mondanità che caratterizza quella di Ulysses. Al contrario, si tratta di un mondo ele­ gante, sì, ma non meno ammirevole per forma, gusto, sentimenti. Non a caso la vicenda dei protagonisti di Prigionieri del passato e La lunga attesa si presenta come una parabola morale - implicita la pri­ ma, esplicita la seconda - nella quale i due uomini, pur in modi diver­ sissimi l’uno dall’altro, non si riconoscono più in quello che originaria­ mente erano. Non a caso Charles si abbandona, assecondato dalla sua amnesia non meno che da Paula, alla sua sopita vocazione originaria di scrittore, e ancor meno a caso l’incidente stradale che lo “risveglia” av­ viene proprio quando questo suo sogno sta per avverarsi (egli si è re­ cato a Liverpool per accordarsi su un suo impiego come giornalista). Allo stesso modo, e in maniera ancora più evidente, Ulysses (il cui no­ me a questo punto è altamente allusivo della sua odissea morale) giun­ ge - grazie alla forte, dura mediazione di Jane - a comprendere la vuo­ tezza della sua vita, la necessità di un riferimento di valori. Al contrario, in II ponte di Waterloo sono la perdita di questo rife­ rimento e la coscienza dell’irrimediabilità dell’errore compiuto che spingono Myra alla sua scelta finale. In questo modo le differenze di classe si stagliano precise non solo fra borghesia e ceto inferiore (Hi­ gham e Greenberg sottolineano il “mobilio piccolo borghese” della bo­ arding house di Myra), ma anche e soprattutto fra borghesia e aristo­ crazia, una classe, quest’ultima, di cui raramente LeRoy si era occupato e quasi sempre in un contesto di commedia (Il re e la ballerina [The King and the Chorus Girl], 1937; Il piacere dello scandalo [Fools for Scan­ dals], 1938), con l’eccezione alquanto marginale di Tonight or Never. Quel che importa è che in questo contesto di sostanziale critica anti­ borghese emerge la storia di un iter morale. In questo modo i film si pre-

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sentano come parabole verso la conoscenza di se stessi da parte dei pro­ tagonisti, una conoscenza che è poi presa di coscienza della verità, dei sentimenti, dei valori. Anche quando, caso limite, come in Prigionieri del passato, il protagonista si sdoppia in due uomini diversi e separati. Non si tratta dunque della semplice entrée di un “terzo” (come si diceva più sopra) ma di un problema ben più grave, poiché il “terzo”, poco im­ porta se reale o no, fa precipitare una situazione d’equilibrio attraverso una domanda che uno dei componenti la coppia non può a quel punto esimersi dal porre a se stesso. Charles, Myra, Ulysses hanno tutti in co­ mune questa domanda, per quanto ogni volta formulata in modo ade­ guato alle loro singole, particolari situazioni. Con l’unica differenza che, nel caso di Charles e Myra, il terzo è un altro aspetto di loro stessi. In questo quadro non va dimenticata un’altra costante di LeRoy: la funzione della festa. Sia II ponte di Waterloo che Prigionieri del pas­ sato presentano un momento di euforia collettiva con una funzione pre­ cisa. E durante la festa per la fine della guerra che si incontrano Charles e Paula ed è durante un’identica celebrazione che vediamo anche Myra. Momento di rilassamento sociale, la festa è sempre impiegata da LeRoy in funzione contrastata: all’euforia generale fa riscontro una si­ tuazione psicologica opposta (anche questo è un tòpos di stampo ro­ mantico, perfettamente speculare a quello precedentemente indicato di adeguamento fra stato d’animo e natura circostante). Di più: la festa per la fine della guerra è celebrazione della fine di un’“anomalia” nell’ordine sociale, laddove i protagonisti vivono invece proprio in quel momento l’apice della loro anomalia. In questo modo la festa evi­ denzia, esalta dialetticamente una precaria situazione personale. Si tratta di un luogo retorico che il cinema ha impiegato a piene mani (da Amanti perduti di Marcel Carnè a Rapporto confidenziale di Orson Welles, per citare titoli fra i più disparati), ma in LeRoy esso diventa una specie di marchio di fabbrica, un espediente per sottolineare estra­ neità, alterazione, disturbo, frustrazione. Così come a piene mani il ci­ nema ha impiegato la presenza di un oggetto-chiave nel quale si con­ centra idealmente tutto il senso della storia, degli eventi, del rapporto stesso fra i personaggi (si pensi soltanto a quanto spesso tale espediente è riscontrabile in Hitchcock): in LeRoy - ancora - questo impiego è co­ stante. La chiave che Charles si porta addosso e che simboleggia da un lato la domanda di conoscenza che lo perseguita e dall’altro la chiave per una vita serena e felice, l’accendino donato da Jane a Ulysses prima di morire, oggetto nel quale ella (e in seguito anche lui) identifica non tanto l’immagine affettivamente sempre presente del marito morto quanto tutto quello che di nobile l’uomo aveva rappresentato per lei, il portafortuna che rimane tristemente (e anche ironicamente) nella mano di Roy per tutta la sua vita.

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Si tratta, è evidente, di un espediente estremamente funzionale alla carica emozionale dei vari film, ma in genere anche alla comprensione dello sviluppo morale delle singole vicende, una sorta di supporto sim­ bolico che ci comunica, al momento opportuno, la conclusione dell’iter morale dei vari personaggi. Un iter morale che, dicevo, è la conseguen­ za dell’innesco del dramma. Il dramma, peraltro, nasce regolarmente da un fattore ben preciso. Non si tratta mai di scontro di volontà o di­ vergenza di scopi, ma di qualcosa di molto più labile, aleatorio: una mancanza di informazione in relazione ai dati oggettivi della realtà Memoria o malinteso, pregiudizio o inganno, i personaggi cadono vittime inconsapevoli e involontarie di un avvenimento o di una serie di avvenimenti in se stessi potenzialmente verificabili, modificabili, e che a volte - con l’eccezione di La lunga attesa - escludono ogni loro responsabilità. LeRoy elabora e propone una concezione sostanzial­ mente hardyana del Destino, non nel senso che essa sia dominata da un irrimediabile pessimismo, ma perché la meccanica dei fatti prende nei suoi ingranaggi anche i migliori, i meglio intenzionati. Ovviamente non è il caso di parlare di vera e propria tragedia (tranne, in certo mo­ do, per II ponte di Waterloo, come si diceva più sopra), ma è certo le­ cito parlare di un meccanismo tragico dal momento che la modifica­ zione subita dalle vicende è mossa da forze che appartengono all’am­ bito del caso. Una tragedia, ripeto, di estrazione hardyana, dal momen­ to che - a parte ancora una volta II ponte di Waterloo - nessun perso­ naggio si perde in conseguenza di una scelta morale errata e colpevole (Ulysses, al contrario, ne ricava gli elementi per compiere una scelta giusta; Charles è del tutto innocente a causa dello stato patologico di cui è, o era, vittima). E un dato che riveste una certa importanza perché contiene impli­ citi i segni del superamento di quel “romanticismo” che in genere si legge nel romance melodrammatico leroyano degli anni Quaranta. Va­ le a dire, LeRoy dispiega senza alcun dubbio un ampio cóté romantico nella trattazione del rapporto sentimentale (si pensi alla scena della ri­ chiesta di matrimonio a Paula da parte di Charles, al suo scenario na­ turale: ed è solo un esempio), ma supera questa innegabile componen­ te nella trattazione delle cause degli eventi, o, se si vuole, nella sua per­ sonale visione del Destino. Persino nel film più decisamente romantico dell’intero gruppo, Il ponte di Waterloo. Si evidenzia così abbastanza chiaramente un filo conduttore in questo momento della produzione melodrammatica di LeRoy, che da un lato ne testimonia l’attenzione compositiva e dall’altro elimina la vecchia mitologia del regista “romantico” per renderci invece un’im­ magine dell’autore come cineasta consapevole e munito di una “filoso­ fia” perfettamente tradotta nella struttura e nelle immagini.

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Riferimenti bibliografici

L’attribuzione di LeRoy al gruppo dei “talented directors” è nel nu­ mero di Movie pubblicato nel Maggio 1962, mentre l’opinione di Hen­ ri Agel sulle caratteristiche riconoscibili del melodramma leroyano ne­ gli anni Quaranta si trova nel suo Romance américaine, Ed. du Cerf, Paris, 1963; la lettura della sostituzione del nome di Borzage con quel­ lo di LeRoy nel film di Pollack da parte di Paul Warshow è nel saggio “The Unreal McCoy”, in The Modem American Novel and the Movies, curato da Gerald Peary e Roger Shatzkin, Ungar, New York, 1978; la critica di Canham all’irresponsabilità di Paula nel suo iniziale compor­ tamento con Charles è rintracciabile nella sezione dedicata a LeRoy di The Hollywood Professionals, voi. 5, Tantivy-Barnes, London-New York, 1976; la notazione sul mobilio piccolo borghese di Myra si rin­ traccia in Charles Higham e Joel Greenberg, Hollywood in the Forties, Zwemmer-Barnes, London-New York, 1968.

Capitolo 3

Mi chiamo Fritz Lang, faccio incubi. Ovvero: la vita di lato

In una delle pochissime sequenze commosse dell’intera produzio­ ne americana di Fritz Lang - specificamente in II grande caldo (The Big Heat, 1953) - Debbie, la donna del gangster, mentre giace morente sul pavimento, si copre con la pelliccia la parte sinistra del volto, sfigurata dal caffè bollente gettatole in faccia da Vince. Si tratta di un close up, una di quelle inquadrature che, dice Lotte Eisner, Lang impiega solo se indispensabili (torneremo su questo argomento). Quel che interessa evidenziare in questa scena è il ribaltamento del tòpos forse più larga­ mente rintracciabile del cinema langhiano, quella della bellezza, del lusso, dell’eleganza (e spesso anche della rispettabilità) che prima o poi lasciano intravedere, scoprire dietro (no: sotto) di loro l’orrore, la tur­ pitudine, l’abiezione. Qui no, qui la piccola fraschetta privata del suo unico, effimero capitale (la sua bellezza aggressiva, giovane, sensuale) si prepara alla morte come nei rituali antichi - e del resto anche nella pompa funeraria odierna - eliminando il difetto, l’imperfezione, ma anche, su un versante simbolico, mondandosi dei peccati che in quello sfiguramento si identificavano. Questa immagine va sottolineata non tanto perché tutto sommato inconsueta nella galleria orrifica langhiana, ma perché lascia uno spi­ raglio di speranza nel modello morale paradigmatico dell’universo di un autore i cui film si rifiutano di piegarsi allo happy end anche quando Hollywood glielo imporrebbe (una costante, questa, sulla quale hanno insistito parecchi critici, da Colin McArthur a Noel Simsolo). Molto si è detto sul pessimismo e sullo scetticismo morale di Lang, e a me sembra che proprio questo atteggiamento condizioni il suo ci­ nema non solo tematicamente ma anche formalmente, nelle procedure che lo marcano e che possono facilmente essere riconosciute come suoi tratti caratterizzanti.

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Sempre in II grande caldo, pellicola seminale, lo stesso personaggio di Debbie pronuncia una battuta memorabile dopo che Bannion, aven­ done visto il volto sfigurato, esprime la propria inorridita meraviglia. Dice la ragazza: “Posso sempre passare attraverso la vita di lato...” Un’uscita magnifica nel suo secco dolore, che mi sembra anche sinte­ tizzare lo “stile” complessivo del cinema dell’autore. Lang, intendo dire, non conta tanto sull’esibizione delle cose, ma, molto più sottilmente, sulla loro rivelazione. Il suo procedimento co­ mune, dice Stephen Jenkins, è quello di partire da un dato per poi am­ pliare l’informazione, oppure, secondo la lettura di Philippe Demonsablon, quello di mostrarci una situazione da più angolazioni, spesso dirette verso il medesimo punto focale. Ora, apparentemente procedimenti di questo tipo si direbbero ac­ cumulativi, quando non ridondanti. E invece no, perché il regista non li impiega mai per un eccesso di chiarezza, per una pedantesca volontà di evidenziazione, per una debolezza che lo porta alla tautologia. Nel primo caso infatti l’ampliamento dell’informazione conduce spesso al ribaltamento dell’impressione fornita dal dato primitivo da cui si era partiti; nel secondo caso l’apparente accumulo costruisce ima tensione - quantomeno un’indicazione - diretta verso qualcosa di preciso, l’at­ tesa del cui verificarsi la sequenza contribuisce a creare. Sempre, co­ munque, la macchina da presa non opera secondo la regola generale che vuole l’oggetto della ripresa sia un sistema complesso (di oggetti, di movimenti, di azioni, eccetera) le cui componenti sono il risultato di una selezione in ambito profilmico - momento sceneggiativo o regi­ stico che sia - ma secondo una pratica tutta langhiana che rifiuta le usuali regole della retorica narrativa hollywoodiana e che, idealmente o concretamente, porta la macchina da presa in diversi punti dello spa­ zio del setting come se essa si muovesse in modo altro rispetto a quello che un qualunque obiettivo adotterebbe per seguire quel che segue o mostrare ciò che mostra. Non per nulla Lang riesce a narrare attraver­ so l’ambiente (da bravo architetto, ricorda la Eisner, era solito dire che gli ambienti rivelano allo spettatore la personalità di chi vi abita), a rendere significante un oggetto qualsiasi, a farci intendere quel che ve­ dremo sulla scena prima ancora che i personaggi vi compaiano. È in­ somma la differenza che sussiste fra il “dire” e il “rivelare”. Il bravo re­ gista hollywoodiano dice, e dice molto bene; Lang invece suggerisce, ammicca, anticipa, ma solo per coloro che vogliono partecipare alla scoperta del film. Questa è un po’ la ragione per cui, come si ricordava più sopra, egli non usa soverchiamente i primi piani. Il primo piano dell’attore è infatti per sua natura espressione assoluta (di uno stato d’animo, di una condizione psicologica) e non può che fornire maggior eenfasi alla linea vettoriale del racconto in relazione a ciò che è già sta­

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to detto. Nulla, insomma, in termini generali (cioè nel cinema narrati­ vo regolare), è più atteso e prevedibile di un primo piano, la cui fun­ zione, ripeto, è di intensificare quello che è già palese nella narrazione. La rivelazione richiede invece organizzazione, sistema, confronto di elementi contestuali, e dunque distanziazione, spazio, ampiezza d’an­ golo. Certo, tutto questo è possibile ottenerlo anche all’interno della più larga struttura narrativa che è un’intera sequenza (o se si vuole, di quella ancora più larga che è l’intero film), ma bisogna ricordare l’innata estraneità di Lang a ogni interesse psicologico, di cui parla McArthur, il che spiega fra l’altro sia le sue predilezioni fantastiche sia quelle reali­ sticamente documentarie, due componenti sulle quali si è intrattenuta Lotte Eisner, per la quale, molto acutamente, la seconda “corrisponde all’oggettività di Brecht”. Lang insomma non intende scavare nei per­ sonaggi se non nella misura in cui lo scavo garantisce non tanto il rag­ giungimento di un “fondo”, ma piuttosto la testimonianza dell’esisten­ za di un abisso (di “improvvisa illuminazione di abissi” parla molto bene Michel Mourlet): la psicanalisi non poteva non essere una delle chiavi di volta della sua opera, e anche il còté psicanalitico contribuisce a far comprendere i “modi” del suo cinema. Lang, come Debbie, attraversa la vita “di lato”; non certo nel senso letterale (che so?, un’eventuale pre­ dominanza dei carrelli laterali), ma perché gli spazi della sua investiga­ zione e della sua ricognizione della realtà (intesa come consorzio uma­ no) possono essere osservati soltanto da un occhio che adotti un movi­ mento diverso da quello comunemente stabilito e accettato. Lue Moullet, parlando di Sono innocente Qfou Only Live Once, 1938), ma in realtà indicando un vero e proprio modello stilistico langhiano, ha giustamente osservato che La macchina da presa [...] si identifica spesso con lui [il protagonista, N.J.R.] o crea delle situazioni particolari per lo spettatore identiche a quelle che può incontrare l’eroe. Così si spiega il carattere ingannevole dei movimenti di macchina, e più particolarmente del breve carrello indietro che permette di rivelare in modo rimarchevole la relatività della conoscenza, come della condizione umana.

Soltanto abbandonando la soggettività di ripresa, dunque, l’obiet­ tivo diventa obiettivo rendendoci una visione delle cose abbastanza ampia da farci comprendere il carattere illusorio, errato della prima vi­ sione. E questa visione finale, definitiva, deriva da un movimento esat­ tamente opposto a quello frontale di un occhio che si muove verso le cose. Idealmente essa è legata a un movimento “laterale”, che passa a fianco delle cose senza mai aggredirle singolarmente, ma accumulando elementi sino a che il quadro non rivela le discrepanze e le contraddi­ zioni. Moullet ha perfettamente ragione, quindi, a definire Vobliquo

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come “la figura predominante” nel cinema di Lang. Tutto infatti vi è vi­ sto, in ultima analisi, secondo un’ottica che scarta regolarmente la pri­ ma proposizione, avvertendoci implicitamente che è bene non fidarsi delle apparenze, che è saggio risparmiare il nostro giudizio sulle cose per il momento in cui saremo in grado di operare un confronto che so­ lo ci metterà in grado di capire che cosa realmente esse sono. Questa incertezza sulle cose non è in Lang soltanto una questione gnoseologica. Essa, piuttosto - sicuramente derivatagli dall’esperienza dell’espressionismo - non va intesa come una raccomandazione illumi­ nistica, poiché in realtà trova le sue radici in una cultura della crisi. L’ammonimento langhiano prende anzi la sostanza di una messa in di­ scussione dei dati più tranquillizzanti e quotidiani della realtà. Schiere di critici, da Mourlet alla Eisner, hanno insistito sulla minacciosità che prima o poi gli oggetti più usuali esprimono nel suo cinema (come del resto in quello di Hitchcock, un autore a Lang più vicino di quanto al­ cuni pensino e dal quale questi, conversando con Bogdanovich, ha am­ messo di avere in qualche misura tratto ispirazione), e altri hanno ag­ giunto che l’intero apparato del setting langhiano si può comprendere in una pura prospettiva di mistero e terrore. Ma al di là di questo aspet­ to tutto sommato tematico, vale la pena soffermarsi su un altro impor­ tante suggerimento della Eisner quando scrive: Dopo il simbolismo elaborato dai film tedeschi, negli Stati Uniti Lang scopre che semplicemente esasperando la concretezza delle situazioni o degli oggetti gli si fa assumere un significato astratto fino a diventare vero e proprio simbolo.

Qui è infatti uno dei punti centrali per la comprensione globale della produzione americana di Lang. Proveniente dal cartellone espressionista, dalla sua astrattezza, dal suo simbolismo, dalle sue generalizzazioni e dalla sua scenografia a vol­ te grandiosa, è vero, ma sempre geometrica, irreale, ispirata da un lato al mondo onirico e dall’altro a quell’ossessione del meccanico che per non poco tempo ha infestato l’immaginazione di tutta la produzione intellettuale del Modernismo, Lang si ritroverà in un paese nel quale l’enorme quoziente di immaginario veniva vissuto in modo radical­ mente diverso, dal momento che in America esso era la realtà. Gli Stati Uniti, cioè, sono in certo senso la realizzazione di Metropolis e la messa in atto di quella assurdità d’accostamenti che caratterizza il paesaggio del sogno. Gli Stati Uniti non hanno alcun bisogno di giustificare la contraddizione, il paradosso, la frizione. Walt Whitman l’aveva detto molto tempo prima: “Do I contradict my self? Very well then. I contra­ dict myself, I am large, I contain multitudes”, La mente fredda, lucida, ordinata di Lang si ritrovò di colpo, carne e sangue, fredda com’era, nel

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paese dei cartoni animati. Solo che a toccarli, quei cartoni, avevano tre dimensioni e la loro forma era quella degli esseri umani e delle cose che conosciamo, vediamo, frequentiamo ogni giorno. La verità del non ve­ ro, la concretezza del costruito, dell’evanescente, dello spettacolare era il terreno migliore perché il regista tedesco, così sensibile all’aspetto il­ lusorio della superficie delle cose, imparasse a utilizzare questa loro na­ tura a vantaggio della propria. Non vi fu più bisogno per lui, così, di costruire il simbolo attraverso il procedimento dell’isolamento, dell’evidenziazione esemplare - cioè astraendolo idealmente dal contesto nell’inquadratura o addirittura nella scenografia - ma al contrario egli si trovò nella condizione di sfruttare l’apparenza evidenziandola a un grado tale da toglierle ogni scontato valore comune col solo procedi­ mento della sua messa in scena e del suo proporla alla vista. Giocando quindi sulle due apparentemente opposte componenti della sua esperienza culturale - l’espressionismo e l’iperrealismo (ov­ viamente inteso non in senso storico, ma come dato epistemico della società americana identificabile in una vera e propria ideologia della nazione) - Lang potè permettersi opere in apparenza stilisticamente molto diverse fra loro come Prigioniero del terrore (Ministry of Fear, 1944) e La donna del ritratto (The Woman in the Window, 1944), l’una onirica, cupa, distorta, antieuclidea, l’altra caratterizzata da una “nu­ dità della luce” (Moullet) che in realtà proviene proprio dall’ultimo at­ to dell’espressionismo tedesco, da quella Nuova Oggettività che su Lang ebbe un’influenza non minore della produzione più classicamen­ te allucinata del primo periodo di quella corrente, una luce che certo non può identificarsi con quella artificialmente solare di certe pagine del Diario di Pabst, ma che altrettanto certamente le è imparentata, conferendo all’intero La donna del ritratto quel “carattere fantastico” in assenza di ogni “elemento inquietante” (indicando così di essersi al­ meno temporaneamente sbarazzato delle suggestioni inaugurate e teo­ rizzate dall’ormai lontano gruppo espressionista del Brucke) che molto acutamente Moullet vi legge e sottolinea. Anche se, peraltro, Paul M. Jensen, nella sua contestata monografia sul regista, continua, e giusta­ mente, a rintracciare in alcuni momenti dei due film indicati indiscuti­ bili influenze del primo espressionismo come i “significati misteriori at­ tribuiti a occorrenze naturali” e uno scioglimento finale simile a quello del classico Caligari. Un altro modo di formulare questa doppia componente langhiana riguarda la sua celebrata attenzione al dettaglio, anche questa sottoli­ neata da molta critica. L’atteggiamento del regista in questo senso è te­ stimoniato magnificamente dalla formidabile sequenza della accusa di Czaka da parte di Mascha nel ristorante in Anche i boia muoiono (Hangmen Also Die, 1942), con la coralità delle voci degli avventori so­

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praffatte soltanto quando i due si mettono a urlare riuscendo così udi­ bili sia per le comparse che per il pubblico (in una chiave biografica, ri­ portata da Jensen, la testimonianza migliore in questo senso la trovia­ mo nello scambio di battute fra Lang e Zanuck sul set di Caccia all’uo­ mo (Man Hunt, 1941): quando questi chiese al regista come era riusci­ to a far sì che i cani abbaiassero sempre nei momenti opportuni, Lang rispose: “Ero io che abbaiavo”). Ora, in Lang questa incredibile osses­ sione del dettaglio, pur sviluppandosi usualmente in un contesto oni­ rico, non carica l’oggetto di aprioristico, specifico significato, lasciando al prosieguo del film il compito di evidenziarne il coefficiente simboli­ co, talché alla resa dei conti ci ritroviamo sempre davanti a qualcos’al­ tro rispetto all’immediata significazione del visto, senza però che il sen­ so del suo spessore ci fosse chiaro sin dall’inizio in accordo con gli usuali, istituzionalizzati procedimenti di significazione simbolica. Peraltro, limitarsi alla definizione di “onirismo” potrebbe essere fuorviarne. La parola giusta è piuttosto “incubo”, che non a caso ricor­ re in più d’un critico, da Bogdanovich a McArthur, dalla Eisner a, più indirettamente, Jensen. Nessun altro termine potrebbe infatti definire non solo l’atmosfera psicologica di Furia (Fury, 1936) e Sono innocen­ te, non solo le avventure di Prigioniero della paura, La donna del ritrat­ to, Dietro la porta chiusa (The Secret Beyond the Door, 1948), Bassa marea (House by the River, 1950), ma anche il tono complessivo di II covo dei contrabbandieri (Moonfleet, 1955), pellicola che, come dice Simsolo, è davvero il “dominio dei dati dell’inconscio”. E l’inconscio non è mai tanto efficace e incisivo come quando non lo si coglie imme­ diatamente nella sua natura di sistema diverso da quello tranquillizzan­ te della solare razionalità. A partire dal titolo, è evidente che si tratta di un film notturno, di un’opera addirittura cimiteriale, la quale se è vero che, come vuole la Eisner, rimanda a Dickens, è altrettanto vero che fa venire alla mente lo Stevenson di Disola del tesoro. Solo che in Lang l’avventura vista attraverso gli occhi del ragazzo, questa volta, non denota tanto l’incanto e la meraviglia, ma piuttosto, come dice be­ ne Moullet, un “lirismo dell’infame” che imparenta la pellicola addi­ rittura a Gardenia blu (Blue Gardenia, 1953), opera che attende ancora una lettura attenta, con quell’occhio critico del suo autore che a tratti non riesce a non diventare tenero e tristemente umano. Il “lirismo dell’infame” è qualcosa che segna il cinema americano di Lang nella sua interezza, da Rancho Notorious (id., 1952) a Mentre la città dorme (While the City Sleeps, 1956), ed è in fondo un’altra te­ stimonianza dell’influenza che Brecht, e più largamente il tardo espres­ sionismo cinematografico, ebbero sul regista. Lo si coglie, trasformato dall’inusitato (per Lang) tono comico, persino in You and Me (1938), pellicola disprezzata un po’ da tutti (a cominciare dal suo autore), che

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però mantiene ancor oggi un fascino particolarissimo sulle cui ragioni varrebbe forse la pena di incominciare a riflettere (ma chissà, potrebbe anche trattarsi solo del fatto che, riuscito o no, è l’unico film dichiara­ tamente “comico* del suo autore, e dunque un’eccezione che per il semplice fatto d’esser tale stimola la curiosità e merita attenzione). Per troppo tempo comunque, magari anche solo inconsciamente, si è identificato il còté orrifico (l’incubo) della fantasia scenografica e luministica langhiana con una matrice sostanzialmente gotica. Natural­ mente non si può negare che Dietro la porta chiusa si imparenti tema­ ticamente con una tradizione letteraria che non è soltanto fiabesca ma anche ascrivibile all’eredità che, soprattutto nel romanzo inglese, la scuola del gotico aveva elaborato (Jane Eyre di Charlotte Bronte, per esempio) o che Prigioniero della paura affidi alla sua formidabile co­ struzione fotografica di indiscutibile suggerimento espressionista, cu­ po, oscuro, a tratti di costruzione addirittura teatrale, non poche delle sue migliori caratteristiche. Tuttavia il marchio dell’inquietante, del­ l’allucinante, del misterioso inteso come una sorta di disegno superiore alle forze del protagonista, ordito contro di lui da una mente, da una volontà che a non pochi è venuto spontaneo chiamare “destino”; tutto questo, dicevo, pervade l’intero corpus americano di Lang in una visio­ ne delle cose che trova nel cinema - e più largamente nell’opera d’arte - il miglior terreno d’esercizio e realizzazione. In Lang, infatti, il senso del disegno perfetto, della trama, del complotto tessuti rigorosamente nell’ombra ai danni di un ignaro Biedennann o comunque di qualcuno le cui colpe sono del tutto inferiori rispetto alla minaccia che incombe su di lui, si sposano alla struttura stessa del film, si identificano con es­ sa, utilizzandone ogni dettaglio in modo che ciascuna sua particella sia pensata in termini adeguati a ciascun’altra, in modo, insomma, che l’intera struttura sia un complesso di corrispondenze non solo formal­ mente conchiuso ma anche veicolo dell’ossessione che Lang nutre nei confronti dell’imprevisto, inteso non come casualità ma come forma di profonda inadeguatezza, impotenza, condanna. Qualche esempio? Demonsablon ricorda che in Strada scarlatta (Scarlet Street, 1945) Cross segna col dito sulla schiena di Kitty il punto esatto dove in seguito la colpirà col ferro da ghiaccio; e che in Rancho Notorious Aitar viene ferita a morte esattamente nel punto del petto sul quale portava il gioiello che le era stato strappato. Allo stesso modo Monile: sottolinea in Furia la funzione centrale della passione che il protagonista ha per le noccioline. La spiegazione che Demonsablon of­ fre di queste folgoranti coincidenze, però, non convince. Egli scrive:

Lang spesso si diverte nel fornire anche al gesto più naturale ripercus­ sioni così forti che la mente, non potendo negare il fatto evidente, si ritrova a mettere in questione il sistema logico che vi sta dietro.

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In realtà questa non è una spiegazione, così come la pratica langhiana di cui sta parlando non è semplicemente un gioco barocco della regia. Il fatto è che, esattamente come nel sogno, sono i dettagli a rico­ prire il ruolo più importante e significativo; ma qui non nel senso che l’oggetto e la situazione rivestono chissà quali significati simbolici. Semplicemente, la realtà langhiana ha un ritmo perfetto, ogni sua ma­ nifestazione, per trascurabile che possa apparire, gode dello stesso gra­ do d’impotenza nello statuto che nel sistema generale lega insieme le componenti di esso. Come ho detto più sopra, riportando la Eisner, in America Lang abbandona il simbolismo alla tedesca e, concentrandosi sugli oggetti in sé, riesce a caricarli ugualmente di spessore simbolico. Ma, e questo è un punto fondamentale, una realtà perfettamente orga­ nizzata in tal senso non può non presentarsi come paurosa e allucinan­ te, come, appunto, un sistema il cui meccanismo e la cui teleologia sfuggono a qualunque occhio comune. Il bello è che nel momento in cui Lang ci comunica, in questo modo, la sua visione del mondo, ci esorta a guardare con più attenzione il film poiché esso è fatto di quelle stesse cose che il nostro occhio “normale” non riesce in genere a distin­ guere. Insomma, vita (o meglio, l’idea della vita che nutre il regista) e cinema (o meglio, l’idea e la pratica di cinema che Lang professa e at­ tua) si identificano. Laddove qualunque artista tende e non può non tendere a costruire la propria opera come perfetto sistema di elementi armonicamente connessi ed eventualmente corrispondenti, spesso ad­ dirittura in opposizione ai modi in cui la vita si propone (penso alla ce­ lebre affermazione di Truffaut/Ferrand in Effetto notte), in Lang invece la perfezione della costruzione, della struttura dell’opera è segno pre­ ciso e sostanzialmente non mediato (cioè mediato al minimo esponen­ ziale che qualunque traduzione di un’esperienza e di un’idea permette in un altro linguaggio) del meccanismo delle cose come sono. Ecco per­ ché la sua visione del mondo non può non apparire gotica: perché una mente, una volontà che elaborano una serie di corrispondenze talmen­ te simmetriche non può non farci pensare a qualcosa che è tutto tranne che casuale e che opera al di sopra di noi, senza il paternalismo e la ter­ ribilità del Dio giudaico-cristiano, ma senza nemmeno l’occasionalità epicurea della circostanza che si fa senza alcuna intromissione del di­ vino. Intendo dire che in Lang è la realtà a proporsi come oscura e in­ quietante, proprio perché non suggerisce alcuna ragione, non fornisce alcune fonte della sua oscurità e del suo mistero. È più facile attribuire onnipotenza a un essere supremo e poi, non comprendendone i modi d’operazione, confessare la propria impotenza intellettuale, che pren­ dere atto di un disegno del cui operatore non conosciamo l’identità, né le intenzioni, e a cui in ultima analisi non possiamo neanche rifiutare di essere soggetti.

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Il film langhiano è in questo senso una forma perfetta: ci mostra l’organizzazione della trappola senza interessarsi minimamente alle ragioni per cui essa è stata costruita e all’identità di chi l’ha appronta­ ta. Qui infatti non si tratta di nazismo, di violenza, di immoralità, ecce­ tera. Questi sono i motori della storia, è vero, ma non spiegano affatto l’organizzazione del sistema di corrispondenze di cui si diceva. Insom­ nia, c’è una forza che va oltre quella dell’antagonista. Costui si oppone a noi e può vincere o perdere (in genere, anzi, perde), ma le cose sem­ brano accadere indipendentemente dalla sua volontà (e dalla nostra, naturalmente). Rileggendo il cinema di Lang si comprende quanto gli sia debitore più d’un autore della scena contemporanea. Un solo esempio: il Polanski di Chinatown (id., 1974), quegli stupendi partico­ lari corrispondenti (la Dunaway che si appoggia inavvertitamente al clacson dell’auto così come farà alla fine fuori scena, colpita dalla pistola del poliziotto; oppure la macchia nell’iride sinistro della don­ na, che anticipa lo sfiguramelo finale dello stesso occhio a opera dello stesso proiettile) non li avremmo mai avuti senza la rigorosa struttura di rimandi che Lang concepì non come intenzionalità, ma come ogget­ tiva macchinazione delle cose. Il gotico dunque non è tanto nella for­ ma del gusto visivo langhiano (peraltro innegabile), quanto nella sen­ sazione, che il regista riesce a instillarci, di un mondo della superficie dietro al quale si cela una macchinazione inesorabile e segreta quanto le mene del turpe Schedoni e di tutti i demoni di ispirazione miltoniana nel romanzo gotico inglese. Solo, Lang non è un tardo settecente­ sco, non è un inglese e non è un romanziere. È un uomo del XX seco­ lo, ha vissuto in prima persona l’esperienza dell’espressionismo, ha studiato architettura, ha dietro di sé il decadentismo e il Modernismo europei, due guerre mondiali e una bomba atomica (per non dire del nazismo). Quindi il suo Schedoni non può esistere, non ha volto: è il Capitale di Marx e Brecht, è il potere che regge l’immane agglomerato di Masse Mensch in Metropolis; ma è anche la massa stessa, è insomma tutto quello che non ha anagrafe, ma che pure esiste nel momento in cui gli uomini si costituiscono in società, in insieme, in gruppo. È un processo inevitabile e regolarmente pericoloso: come un’entropia incontrollabile, dalla miglior volontà di consorzio civile nasce pun­ tualmente un mostro. E il mostro, pur irrazionale com’è, non lascia niente al caso: è anzi mostro soprattutto per questo. Lang non ha nulla del moralismo e dell’aristocraticità francofortese (tranne forse il sin troppo celebrato monocolo), ma ne condivide la sensazione di males­ sere, di sfiducia, di pessimismo che è ormai divenuto cinismo. Certo che la sua Weltanschauung non può che essere quella dell’incubo; cer­ to che una mente, una sensibilità, un’educazione del genere non pos­ sono adeguarsi ai danni inevitabili della democrazia, alle sue perver­

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sioni, alle sue aberrazioni. Non nei film, ma nello spirito Lang è un utopista che, avendo in odio il passato e avendo sperimentato l’odiosa malattia del presente, non ha dove rifugiarsi, e quindi scava la realtà mostrandone non le contraddizioni (evidenti a chiunque), ma l’ineso­ rabilità. Forse lo fa per rabbia, forse per confortare chi come lui soffre ogni giorno a causa della volgarità e della crudeltà della falsa apparen­ za, del deterministico complotto che la democrazia ordisce quotidia­ namente contro gli onesti (dunque i deboli). E, come dimostra in pra­ tica la sua intera opera oltre Atlantico, da Furia a Mentre la città dor­ me, quale società è più “democratica” di quella americana? Non si può rifiutare e non si può abbattere, non si può migliorare e non si può combattere: la si può solo descrivere. E per far questo bisogna viverla e osservarla con l’attenzione che solo l’occhio di un regista cinemato­ grafico può e deve avere. Magari passandovi attraverso di lato, per coglierla da un’angolazione che ne riveli ogni trama e ogni maschera, si, ma anche per non sporcarsi.

Riferimenti bibliografici

Sullo scarso uso del primo piano in Lang, sull’importanza per lui degli ambienti per comprendere la personalità di chi vi abita, sulle sue predilezioni sia fantastiche che documentaristiche, sull’esasperazione della concretezza per giungere all’astrazione, sulla sua attenzione al dettaglio e sul rimando dickensiano di II covo dei contrabbandieri si ve­ da Lotte Eisner, Fritz Lang, Mazzotta, Milano, 1978; sul rifiuto lan­ ghiano del happy end e l’estraneità a ogni interesse psicologico si veda invece Colin McArthur, Underworld USA, Seeker & Warburg, Lon­ don, 1972; Stephen Jenkins parla invece della pratica langhiana di am­ pliamento dell’informazione a partire da un dato iniziale nel suo saggio “Lang: Fear and Desire”, in Fritz Lang. The Image and the Look, ed. by S. Jenkins, BFI, London, 1981, mentre, nella stessa raccolta, Philip­ pe Demonsablon si sofferma sulla tecnica langhiana di osservare il me­ desimo punto focale da diverse angolazioni nel suo studio “The Impe­ rious Dialectic of Fritz Lang”; sempre nel detto volume di saggi Michel Mourlet parla di “improvvisa illuminazione di abissi”, nonché della minacciosità degli oggetti, nel suo scritto “Fritz Lang’s Trajectory”; sul carattere ingannevole dei movimenti di macchina langhiani, sull’ob/iquo come figura dominante nel cinema del regista, sulla “nudità della luce”, sull’attenzione al dettaglio, sul “lirismo dell’infame” in II covo dei contrabbandieri e sulla passione per le noccioline del protagonista di Furia ha parlato finemente Luc Moullet, Fritz Lang, Seghers, Paris, 1963; sul carattere ingannevole dei movimenti di macchina ha scritto

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anche Peter Bogdanovich nel suo celebre libro-intervista, Il cinema se­ condo Fritz Lang, Pratiche, Parma, 1988, nel quale ritroviamo cenni anche all’influenza hitchcockiana (di cui aveva parlato anche la Eisner) e alla nozione di incubo; molto contestata ma anche di un qualche in­ teresse la monografia di Paul M. Jensen, The Cinema of Fritz Lang, Barnes and Zwemmer, New York and London, 1969, che si sofferma sulle influenze del primo espressionismo nel cinema americano di Lang e che riporta l’aneddoto con Zanuck; anche a Noel Simsolo, Fritz Lang, Edilig, Paris, 1982, si deve la notazione sul happy end, condivisa con McArthur, nonché la frase su II covo dei contrabbandieri come “dominio dei dati dell’inconscio”.

Capitolo 4

Il cinema metaideologico di Orson Welles

Se una cosa ha sempre contraddistinto il cinema americano questa è la narratività delle sue realizzazioni secondo modelli sostanzialmente immutabili desunti da una tradizione letteraria melodrammatica sette e ottocentesca. La grandezza autoriale si è sempre misurata, in Ameri­ ca, sulla capacità, da parte del singolo, di superare tali limiti avendo l’accortezza di far le viste di accettarli (diversamente, Hollywood ha sempre dimostrato di saper eliminare senza pietà i blasfemi e gli impu­ ri, almeno da Stronheim in poi). È il caso di Billy Wilder, grande regista che sagacemente ha sempre operato aH’intemo di tradizioni dramma­ tiche e comiche stabilite per inserire, quasi non visto, il suo granello di sabbia all’interno dell’ingranaggio. All’apparenza tutto fila liscio, ma basta soffermarsi un attimo su certi particolari perché essi acquistino proporzioni inusitate, perché si pongano, nella loro dimensione di al­ ternativa, come la vera cifra del film: finali lietissimi che si fondano su una menzogna, felicità pagate a un prezzo troppo alto perché si possa credere a una risoluzione realmente positiva della vicenda, disperazio­ ne che culmina, così come è incominciata, nell’alcol e negli stupefacen­ ti, eccetera. Welles ha combattuto la sua battaglia in altro senso. In particolare, ha tentato quasi sempre di ridurre, depauperare, mettere in crisi la nar­ ratività attraverso espedienti che prima o poi rivelano la loro naturea linguistico-teorica. Essi sono ben noti, ma varrà la pena rivederli un momento, a titolo esemplificativo, alla luce della loro funzione critica all’interno delle tradizioni codificate e intoccabili del cinema hollywo­ odiano. Intanto, in Welles l’inizio, la prima “figura” del film è spesso rias­ suntiva dell’intera opera. Si pensi a Rapporto confidenziale (Mr. Arkadin, 1955), a La signora di Shangai (The Lady front Shanghai, 1948), a Quarto potere (Citizen Kane, 1941), a Storia immortale (The Immortai Story, 1968). Come giustamente dice McBride, questo ci coinvolge in

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un giudizio, ma al tempo stesso ci mette immediatamente in posizione di superiorità rispetto a personaggio e azione, in una sorta di giudizio senza identificazione. Molto di più: sin dalla prima “figura” sappiamo in fondo quel che dobbiamo aspettarci, quel che sarà il film al di là di colpi di scena e idee evidentemente non prevedibili. Tzvetan Todorov, nel suo Introduction à la littérature fantastique, dice che ogni fabulazione letteraria (e noi aggiungiamo, cinematogra­ fica) parte dalla tragsressione di un ordine iniziale, da una stasi violata, da un atto di disquilibrio. Anche in Welles è così, ma con la differenza che la sequenza narrativa non si presenta in ordine “regolare” se non raramente, bensì offre in medias res la violazione già attuata (e spesso da tempo). Le carte dunque vengono mescolate, gli elementi combinatori clas­ sici ricomposti. Naturalmente non si vuole qui fare di Welles una spe­ cie di Faulkner del cinema americano. Pure, è innegabile che la prima “figura” totalizzante comporti quel che si diceva in ambito di fruizione narrativa. Peraltro, Welles stabilirà in questo senso un interessante pre­ cedente per registi posteriori: si pensi a più d’un film di Sydney Pollack (Non si uccidono così anche i cavalli? [They Shoot Horses, Don’t They?], 1969, per esempio) i cui inizi si rivelano densi del senso del­ l’opera intera. E paradossalmente il primo lungometraggio di Welles, Quarto potere, è quello che porta più avanti degli altri questa istanza, ponendosi come ricerca di una narratività, come momento addirittura metanarrativo che trova nella prima “figura” la sua iniziale e definitiva sanzione (l’inchiesta giornalistica). In un certo senso è possibile affer­ mare che Quarto potere è la prima “figura" di tutto il cinema di Welles, quella che lo riassume prima ancora che esso si sviluppi e si componga nel tempo come totalità, come corpus. Bisogna rilevare che il procedimento comporta anche un còté ironi­ co di non poco conto. Gli eroi di Welles sono normalmente dei vinti, dei distrutti (anche se bisogna ammettere che qualcosa della grandezza dell’avventura in cui si trovano coinvolti tocca per analogia anche loro, dal protagonista di Rapporto confidenziale a quello di La signora di Shangai. E anche i pochi “grandi”, come Kane, saranno debellati dal formidabile, ultimo, definitivo interrogativo del tempo. Come bene di­ ce ancora McBride, in questo modo tutta la storia è come fra parentesi, e dunque lungo momento di ironia nei confronti di un destino già noto, il quale, avendo perso la sostanza rituale del mito che sola permetteva, come nella tragedia greca, l’impiego del modello iterativo in termini di attesa, altro non è che una beffa. Non è chi non veda come il modello sia del tutto estraneo alla tradizione hollywoodiana, non soltanto per quel che riguarda, in questa, l’impiego dell’eroe positivo, ma anche per la serietà della vicenda, per il suo senso di riscatto, di espiazione (o,

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eventualmente, di trionfo). Un’intera etica salta in questo modo clamo­ rosamente e solo rimane l’ambiguo, sottile sorriso dell’autore, pronto a trasformarsi in una vera e propria risata che a volte diviene anche sber­ leffo alle attese del pubblico (caso lampante: il rovesciamento etico compiuto sul terreno dell’attesa narrativa - relativo alla figura di Quin­ lan in Linfemale Quinlan (Touch of Evil, 1958). Welles non avrebbe mai potuto fare un film con Clark Gable, John Wayne o James Stewart: insomma, non avrebbe mai potuto fare un film con un primario attore hollywoodiano come protagonista. Non per nulla, le rare volte che ne sceglie uno o è il rappresentante di una “genteel tradition” che però ri­ mane esterna alle implacabili norme etiche del casting hollywoodiano (come Joseph Cotten in I magnifici Amberson [The Magnificent Amber­ sons], 1942), o è una sorta di anti-attore separato a priori da qualunque certezza e affidato a qualificazioni addirittura nevrotiche (Anthony Pe­ rkins in II processo, The Trial, 1963), o si tratta di un personaggio anoni­ mo e tutto sommato incolore (ottimo correlativo oggettivo, fra l’altro, della sua impreparazione all’avventura che sta vivendo, come Robert Arden in Rapporto confidenziale). Diversamente, sulla scena è sempre lui, Welles, e non altri, perché nessuno è comparabile non solo qualita­ tivamente, ma sostanzialmente, rappresentativamente a lui. Ed è inne­ gabile che Welles operi quasi sperimentalmente in questo senso: non per nulla La signora di Shangai presenta un personaggio in una situazio­ ne non poi molto diversa da quella di Van Stratten in Rapporto confi­ denziale, ma questa volta è Welles che interpreta il personaggio: dun­ que non più il correlativo oggettivo dell’impreparazione all’avventura, come si diceva, ma semplicemente un attore-personaggio “altro”, che esula dai termini umani e morali della codificazione hollywoodiana. Il distacco, lo straniamento che il procedimento dell’anticipazione, della prima “figura” comporta sarà vieppiù potenziato nell’ultima pro­ duzione wellesiana attraverso l’impiego del narratore esterno (Storia immortale; F for Fake [id.], 1973), la cui presenza era già ravvisabile so­ prattutto nel finale di I magnifici Amberson, quando è il regista stesso (assente dal film come attore) a presentare verbalmente cast e credit. Ma mentre in quest’opera la funzione dell’espediente si risolveva nell’implicita indicazione di una presenza dell’artista nel film che si at­ tuava tacitamente, in assenza, per rivelarsi, appunto, solo a opera con­ clusa, negli ultimi film tale presenza è continua, quasi ossessiva risultan­ te di personaggio e voce, e in più assolve all’ulteriore, parallela funzio­ ne di porci la vicenda con un distacco che ci estrania del tutto da un coinvolgimento che, specialmente in F for Fake, era già di per sé alquan­ to difficile. Si noti come Welles, in questo caso, non si opponga tanto a un’eventuale tradizione anti-autoriale del cinema americano, quanto

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piuttosto a un impiego diverso del suo contrario. In altre parole, il ci­ nema americano aveva spesso e volentieri usato la voce fuori campo, ma sempre per potenziare il coinvolgimento del pubblico, sempre per drammatizzare, patetizzare le vicende narrate, per prendere il pubblico per mano e portarlo alla massima resa del meccanismo identificativo. Welles, invece, usa la voce e il commento come diaframma tra schermo e platea, come demarcazione invalicabile tra rappresentazione e realtà, sempre conscio della natura onirica del mezzo, di quella stessa natura che il cinema hollywoodiano tenta con ogni mezzo di celare prospet­ tandola come coincidenza con il reale. E del resto, poteva essere diver­ samente per il prestigiatore, il mago, il saltimbanco che Welles ha sem­ pre detto di essere in quanto artista? Non che egli abbia mai brechtianamente sostenuto che lo spettato­ re non debba essere coinvolto. Semplicemente, è il tipo di espedienti impiegati che decide il tipo di coinvolgimento praticato dal regista nei confronti del pubblico. Per esempio, l’impiego della macchina da presa come personaggio è senza dubbio un modo diverso di richiamare lo spettatore ai termini delle vicende, di riscattarlo dalla passività impli­ cita nella semplice fruizione del rappresentato. Certo, siamo sempre e comunque nell’ambito della rappresentazione, del campo d’operazio­ ne di un demiurgo che pensa, dirige, guida, ma - appunto - insieme a una partecipazione, a un coinvolgimento “attivo”. Ed è questo il senso funzionale dell’impiego wellesiano del famoso piano-sequenza. È vero, il piano-sequenza è azione senza scarti, senza soluzioni (sia pure abilis­ sime) di continuità. E d’altra parte, Welles stesso in un’intervista del 1964 a Cobos, Rubio e Pruneda aveva affermato di essere in linea di massima contrario all’uso del primo piano, poiché esso non permette al pubblico di selezionare gli elementi compositivi della scena che que­ sti decide essere centrali. Ecco dunque le due strutture di fondo dell’operazione registica di Welles: una prima decisamente autoriale, creativa e compositiva; una seconda affidata alla selezione individuale del pubblico, messo in grado - attraverso determinati espedienti tecni­ ci - di isolare idealmente la dominante della significazione all’interno della macrostruttura proposta in prima istanza dall’autore. Si confron­ ti una concezione cinematografica del genere, per “riformistica” che sia, con quella tradizionale del cinema americano, con l’occhio artigia­ nale che presiede alla costruzione, all’attribuzione del senso anche nel meno vigoroso degli autori hollywoodiani. In costoro la stessa inqua­ dratura, e a livello più ampio l’intero film, è una struttura che ruota at­ torno a un centro costituito dal prodotto dell’incontro di etica e ico­ nografia, ovvero quella sostanziale risultante che è Videologia, o meglio la traduzione in termini cinematografici di essa. In Welles abbiamo in­ vece, per sua stessa definizione, un labirinto senza centro, determinato

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da una struttura generale che s’incontra, per così dire, con il risultato della selezione che l’autore è riuscito a mettere in grado il pubblico di fare all’interno delle unità semplici (inquadratura, fotogramma, lo stesso piano-sequenza, eccetera) fino alle più complesse (sequenza) per arrivare a quel macrocosmo che è il film nella sua totalità. L’intersecarsi delle due strutture di fondo e delle sottostrutture (il termine è di co­ modo) in cui ognuna di esse si articola è il modo in cui a priori l’artista rinuncia al centro, e di conseguenza all’elemento unificatore tradizio­ nale che catalizza messaggi codificati, ideologie prestabilite. In altre parole, il cinema di Welles richiede un’altra metratura cri­ tica, ben diversa da quella del cinema hollywoodiano, proprio perché da esso si discosta radicalmente nella concezione, nell’esecuzione e nel tipo stesso di fruizione richiesta. Per chiarire ulteriormente questo punto - che è poi la questione di fondo relativa alla differenza del cinema di Welles da quello hollywo­ odiano - si pensi all’idea di piazzare la macchina da presa con un gran­ dangolare sul tetto dell’automobile che corre lungo la strada all’inizio di L’infernale Quinlan: un procedimento alquanto ardito che implica l’assenza della persona autoriale al momento della ripresa e che dà nel contempo un carattere di estrema concretezza all’azione. Dopo alcuni anni (una decina) arriverà il travel movie a impiegare tecniche non molto diverse (forse anche più raffinate nella loro apparente rozzezza), ma al servizio di un mitologema americano (il viaggio) che immediata­ mente rivela la corda della sua sostanza ideologica, condizionata e con­ dizionante. Mezzo di ripresa di una realtà pittoresca e invitante, artifi­ cio inteso a blandire - resuscitandolo una volta di più - il mito del mo­ vimento e della fuga così caro alla cultura americana di sempre, esso si svirilizza e si imbastardisce nei modi sempre uguali della routine, dell’accademia, gradevole finché si vuole, ma retorica e manieristica. Ecco il cinema americano: la tecnica al servizio dell’ideologia. Ec­ co il cinema di Welles: l’ideologia della tecnica, ovvero la capacità fan­ tastica di forgiare tecniche al servizio di un cinema che si decentra con­ tinuamente e che quindi non è univocamente significante ma informa­ tivo. La struttura generale dei film di Welles è in tal senso eloquente: essa è sempre una mancanza, nelle forme di una progressione spezzata, imbrogliata, o in quella, che è lo stesso, del cerchio labirintico, della spirale, del poliedro inafferrabile, non postulabile a una configurazio­ ne fissa, magari complessa ma precisa. Non certo un cinema pre-ideologico, ma semmai meta-ideologico: ovvero il cinema di un’ideologia che parla di se stessa nel momento in cui essa è elusa dalla pratica anti-hollywoodiana di Welles, il quale pe­ raltro ha rilevato un’ulteriore contraddizione di quel cinema quando, nella citata intervista, gli ha attribuito i migliori tecnici e i peggiori pro-

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duttori del mondo. È davvero un’ironia - per un autore, però, alquan­ to drammatica - dover riconoscere a un cinema che si pone a priori al servizio dell’iterazione rassicurante delle proprie classiche strutture narrative un’efficienza superiore, una professionalità insuperata. E an* che qui Welles si discosta da quel cinema: illusionista fornito degli ap­ parati che egli stesso ha inventato sperimentando la propria capacità di prestigiatore. Falsario della realtà dichiarato, Welles è da questo punto di vista tutto tranne che un professionista. E dunque, vedere il suo ci­ nema è una rara occasione, una rara possibilità anche solo di intuire che cosa c’è oltre le colonne d’Èrcole del professionismo cinematogra­ fico americano, quali luci si oppongono alla “nuit américaine” che si stende da sempre sul cinema occidentale, quali sogni si possono sogna­ re nel buio del cilindro di un mago inquietante e non nel confortevole letto di una casa prefabbricata, uguale a mille altre.

Riferimenti bibliografici

Il riferimento al giudizio senza identificazione (cioè alla posizione di superiorità nella quale si trova lo spettatore di Welles) è nel bello studio di Joseph McBride, Orson Welles, Seeker and Warburg, London, 1972; nel noto volume di Tzvetan Todorov sulla letteratura fantastica, Introduction à la littérature fantastique, Seuil, Paris, 1970 (poi tradot­ to in italiano presso Garzanti, Milano) si rintraccia l’affermazione sulla narrativa come trasgressione di un ordine iniziale; la contrarietà espressa da Welles all’impiego del primo piano e l’opinione del regista su tecnici e produttori americani sono formulate nell’intervista di Juan Cobos, Miguel Rubio e José Antonio Pruneda al regista, la cui ultima ristampa si ritrova in un numero speciale fuori serie dei Cahiers du Cinéma, 12, pubblicato nel 1982 e dedicato a Welles.

Capitolo 5

Joseph L. Mankiewicz: autore di film d’autore

Joseph L. Mankiewicz, com’è noto, fu il primo - ancora negli anni Quaranta - a impiegare il termine “autore” a proposito di registi e ci­ neasti, anticipando, qualcuno dice, quella teoria di cui si faranno por­ tavoce i Cahiers du Cinéma e la critica francese in genere, la quale non avrà dubbi nel definire, appunto, “autore” il regista di Èva contro Èva (All About Eve, 1950) e La contessa scalza (The Barefoot Contessa, 1954). Ma sarà bene intendersi su quel termine. Di esso esistono in se­ de cinematografica almeno due accezioni. Una, la più semplicistica, in­ tende con esso un regista dalle tematiche riconoscibili in modo imme­ diato e dietro le apparenze spesso imposte dalla produzione, altre vol­ te, semplicemente, da una sceneggiatura scritta da altri al di fuori di ogni contatto col regista stesso. Diciamo: un po’ quel che una trentina d’anni fa si intendeva con “strutture profonde” dell’opera di un auto­ re. È chiaro, in realtà, che si tratta di un’impostazione sostanzialmente contenutistica. L’altra, più raffinata e tecnica, vede nelle varie opere di un regista alcune reiterate costanti formali che risolvono in modo alquanto per­ sonale i medesimi problemi di rappresentazione di un contenuto varie­ gato ma sostanzialmente costante. Ora, la critica (e non solo quella francese) che ha volentieri attri­ buito a Mankiewicz la qualifica di “autore” ha di regola incentrato il suo discorso sulla prima accezione. Tematicamente il mondo di Mankiewicz è riconoscibile, definibile, circoscrivibile, classificabile. N. T. Binh, per fare un nome, ha individuato brillantemente non poche componenti contenutistiche primarie e secondarie della sua opera, trattando peraltro da elementi formali presenze che invece, es­ sendo di carattere strettamente scenografico, non riescono a divenire momenti di una costruzione tecnica globale dell’intera filmografia mankiewicziana, non riescono, insomma, a proporsi come cifra stilisti­ ca se non, appunto, di carattere scenografico. Il fatto è che Mankiewicz

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è un regista troppo “letterario” per essere un autore; vale a dire, trop­ po attento ai valori verbali e teatrali del film per prestare forte atten­ zione a quelli cinematici. Il suo senso dello spazio è grande, ma sempre in termini di messa in scena teatrale più che di regia cinematografica. D’altra parte, Mankiewicz è troppo intelligente per limitarsi a fare del cosiddetto “teatro filmato” (e riteniamo che una definizione come questa, da tanti formulata, sia profondamente ingiusta nei suoi con­ fronti). In Improvvisamente l’estate scorsa {Suddenly, Last Summer, 1959) la sequenza di Catherine che ricorda l’orrenda fine di Sebastian non è girata senza stacchi (il volto di lei sulla destra dello schermo, le immagini delle gambe del giovane sulla spiaggia e dei ragazzi che alla fine lo trucideranno), ma con continui salti di montaggio. Questa idea, come bene scrive Gordon Gow, “fornì un ulteriore, anche se super­ fluo, tocco di nevrosi a una passaggio già altamente denso”. Ma, e que­ sto è un punto fondamentale, le tecniche spesso e volentieri impiegate - e altrettanto spesso in modo originale, come il freeze in apertura e chiusura di flashback in Èva contro Èva, con grande anticipo su Truf­ faut - dal regista americano non assurgono a elementi di stile e restano al livello di intelligenti risoluzioni formali, come del resto notava an­ che Andrew Sarris. La letterarietà di Mankiewicz subordinando (non ignorando!) la componente cinematografica alle proprie esigenze, non meraviglia che la critica si sia gettata sui temi, sul contenuto del suo ci­ nema. Solo che Mankiewicz non è un autore tranquillo, non è un regi­ sta dal realismo incontestabile, dalla piana riproduzione della realtà in termini hollywoodiani. Il suo cinema, contorto, obliquo, scardinato non aiuta certo confortanti letture in chiave di catalogo, di inventario, di lista (ancorché ossessiva). La sua distorsione, che prende soprattutto corpo in sede di elaborazione del plot e di caratterizzazione della per­ formance attoriale, pone non pochi intralci lungo la strada della classi­ ficazione. Facciamo un esempio, La gente mormora {People Will Talk, 1951), che forse non casualmente è la pellicola più amata dal regista. Appa­ rentemente il film tratta in modo metaforico della caccia alle streghe e inoltre, più specificamente, della necessità di un rapporto più umano fra chi cura la gente e le sofferenze. Il medico, l’artista, la lotta al pre­ giudizio, le meschinità dei benpensanti, qui c’è davvero molto Mankiewicz, ma stiamo bene attenti: il fulcro della storia, per come es­ so viene presentato, è alquanto assurdo. Un medico di fama, odiato dai bigotti del luogo, aiuta una ragazza incinta decidendo di sposarla. Non è questa decisione che meraviglia, ma il modo assolutamente inadegua­ to in cui ci viene presentato il personaggio nel momento in cui opera la sua inusitata scelta. Nulla ci prepara, magari velocemente, a essa. Ec­ co perché la figura del protagonista, il Dr. Praetorius, ne esce quasi su-

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bito strana, misteriosa, allusiva. Qualcosa, dice il risvolto della nostra mente, ci dev’essere perché il protagonista si comporti così. Che cosa nasconde un personaggio che fa scelte tanto strane, o comunque tanto poco spiegate da ciò che, unico, avrebbe potuto e dovuto spiegarcele, cioè il film stesso? Ecco perché una lettura tematica con Mankiewicz non potrebbe essere che limitata: il suo cinema è fondato sulla stravaganza, e invece i temi si leggono in genere solo su un terreno di causalità. La strava* ganza governa pellicole come Improvvisamente restate scorsa (qui anzi in modo tanto forte da diventare patologia), Bulli e pupe (Guys and Dolls, 1955), Cleopatra (id., 1963), Masquerade (The Honey Pot, 1967), Uomini e cobra (There Was a Crooked Man, 1970) e quel film davvero finale in questo senso che è Gli insospettabili (Sleuth, 1972). Ma non si deve pensare che questa breve lista sia esauriente. Se os­ serviamo il cinema di Mankiewicz dal punto di vista della Storia vedre­ mo che essa è lo sfondo di e persino l’occasione per una metafora della scena della vita. Giulio Cesare (Julius Caesar, 1953) e Cleopatra - ma anche Operazione Cicero (Five Fingers, 1952) e Un americano tranquil­ lo (The Quiet American, 1958) - sono drammi sul contrasto fra logica, coerenza, causalità da un lato e moti dello spirito (anche negativi) dall’altro: come, su un altro piano, La gente mormora. Ma la stravaganza di Mankiewicz è perversione: il blasfemo ritrat­ to di Dio in Uomini e cobra, l’asfittica decadenza della flora in Improv­ visamente l’estate scorsa, il pesante barocchismo delle decorazioni in Masquerade, le impressionanti maschere che pendono dal muro in Bandito senza nome (Somewhere in the night, 1946), l’idea stessa su cui si regge Lettera a tre mogli (A Letter to Three Wives, 1949) e quel ma­ gnifico labirinto approntato per la comodità di Andrew Wyke in Gli in­ sospettabili, prefigurato dall’ultima immagine di Masquerade che ri­ prende dall’alto le greche di Piazza San Marco e prefigurante un altro stravagante labirinto, quello di Shining (id., 1980) di Kubrick ben tre­ dici anni dopo. Non si tratta di una perversione necessariamente compromessa sul diretto versante della sessualità. I personaggi di Mankiewicz indulgono in beffe piene di tensione e malizia e in qualche caso, come dicevamo, di diretta patologia: Operazione Cicero, Uomini e cobra, Gli insospet­ tabili, Masquerade, Improvvisamente l’estate scorsa, Bulli e pupe, Èva contro Èva, Lettera a tre mogli, Il castello di Dragonwyck (Dragonwyck, 1946), Uomo bianco, tu vivrai (No Way Out, 1950). La beffa e la trappola sono le figure costitutive dell’universo di Mankiewicz. Drammatiche o no, la loro organizzazione è la figura del mondo. E, più importante, esse sono in genere convogliate dalla parola (in linea, ov­ viamente, con la letterarietà di cui si parlava più sopra). Visivamente il

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regista è attratto da teatrini, meccanismi, maschere (Bandito senza no­ me, Uomini e cobra, Gli insospettabili), ma egli non ha uno stile figu­ rativo, filmico, tanto che Richard Corliss, nel suo libro sugli sceneggia­ tori nel cinema americano, pone il suo nome nella sezione intitolata “Themes in Search of a Style”. Ecco perché in lui la stravaganza si af­ fida alla scenografia, a dettagli dell’ambiente, a volte scaturendo dalla semplice, oggettiva inusitatezza di esso, come nel caso del tempio orientale in Un americano tranquillo. Letterato e uomo di vocazione teatrale, per Mankiewicz il cinema è veicolo di altri interessi, ed è per di più un luogo ambito dai cattivi, il luogo della menzogna e del falso professionismo (si veda la partenza finale di Èva per Hollywood in Èva contro Èva). Forse per questo il suo cinema è pieno di cattiverie, mi­ steri, tradimenti, sgomento, odio e in genere sentimenti forti e improv­ visi, o anche radicati e insistenti. Come dice il regista stesso: [...] il y a une colóre inexprimée qui, s’elle n’est pas sublime par le tra­ vail ou l’amour, trouvera une multitude d’exutoires. C’est ce qui me fascine. L’horreur du cercueil qui s’ouvre, c’est de la masturbation: ce qui me intéresse, c’est l’incontrolable, les emotions qui soudain prennet possession d’un homme alors qu’il ignorati qu’elles étaient en lui.

Attraverso di esse si può mostrare meglio la vita. Paradossalmente in Mankiewicz il teatro è l’arte e il cinema è la vita (il cinema è “la più complessa di tutte le attività drammatiche”), intesa come incertezza, durezza, cinismo, menzogna, spietatezza. Per Mankiewicz il teatro è come il cinema per Truffaut: tutto vi fila liscio, tutto in esso è perfetto, tutto è “migliore della vita”. Si tratta probabilmente della sicurezza fornita dall’istituzione della messa in scena. A più riprese (soprattutto in una bella intervista con Michel Ciment) il regista ha sottolineato che considera la vita come una sceneggiatura continuamente interrotta - e comunque condiziona­ ta - dalle sceneggiature degli altri, dal momento che ogni nostro gesto è la risultante di un passato individuale. Ora, il teatro in quanto messa in scena che richiede un altissimo grado di credenza convenzionale da parte dello spettatore è già esorcizzazione di ciò che esso stesso inscena desumendolo dalla vita. Il cinema, invece, proprio per il suo grado de­ cisamente inferiore di convenzionalità rispetto al teatro, è potenzial­ mente più simile alla vita, può più facilmente esser confuso con essa. È probabilmente per questo che Mankiewicz inietta regolarmente nei suoi film forti dosi di quello che in modo insoddisfacente chiameremo “antirealismo” (il debole correlativo oggettivo della scelta di Praetorius, il forte grottesco di Gli insospettabili, il tema vagamente gotico e quello soprannaturale, rispettivamente, di II castello di Dragonwyck e Il fantasma e la signora Muir [The Ghost and Mrs. Muir], 1947), l’as-

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surdo décor decadente di Improvvisamente l'estate scorsa, la trovata al­ quanto sensazionalistica di Lettera e tre mogli, eccetera). È questo il suo modo di esorcizzare il film in quanto diretto riflesso della vita. O meglio, questo è uno dei suoi modi per farlo. Il suo disinteresse nei confronti del montaggio: Parfois j’entends parler de cinéasces qui ont passé toute la nuit dans une salle de montage et sont sortis avec un film totalement différent de ce qu’ils avaient à l’origine. Je ne crois pas et pense que Fon ne peut que rassembler ce que l’on a tourné [...] Physiquement, je ne m’occupe pas du montage. è un altro modo di vivere il cinema più come teatro che come vita. E si pensi alle tecniche e alle trovate impiegate come procedimenti di stupore e non per la fondazione di uno stile. Si pensi soprattutto all’uso della voice off, della voce fuori campo, così tipicamente mankiewicziana a detta della critica; ed è vero, ma solo come tecnica. A) più, riguardo a questo procedimento, si può parlare ancora una volta di una “letterarietà’’ del regista. In fondo, le voci che si intrecciano a commen­ to della vicenda in flashback di Èva contro Èva hanno un che di jamesiano, “punti di vista circoscritti” che peraltro non danno diverse lettu­ re della stessa vicenda ma si trovano sostanzialmente d’accordo sulla fi­ gura della protagonista titolare parlando a nostro beneficio. Diversamente, ma allo stesso modo, la voce di Celeste Holm (cioè di Addie Ross in Lettera a tre mogli) è più una cattiva coscienza che non una ve­ ra e propria tecnica narrativa tale da caratterizzare stilisticamente il ci­ nema del nostro autore. Trovata elaborata e tutto sommato macchino­ sa, essa ci affascina, certo, ma non chiede di essere classificata come una cifra stilistica. Tecniche come queste e il loro impiego in quei termini indicano un cinema non organizzato registicamente, autorialmente. Il regista che per primo ha definito la propria professione in direzione autoriale è poi quello che più di altri se ne distacca, lasciando emergere piuttosto, a ben vedere, la pratica di uno sceneggiatore, cioè di un letterato che “riorganizza” la realtà (la vita) secondo un linguaggio che per lui è nuovo, diverso, ma che si avvale pur sempre della parola come elemen­ to prioritario, non rispetto all’immagine ma rispetto all’universo siste­ matico di immagini che compone il mondo di un autore di film. Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che questo non è un han­ dicap. Mankiewicz, erroneamente interpretato come un precursore della politique des auteurs francese, nel noto articolo più sopra citato ha addirittura teorizzato l’idea dello sceneggiatore come figura prima­ ria, addolcendo però la sua tesi attraverso una coniugazione equamen­ te distribuita fra il lavoro di questi e quello del regista. Apparentente-

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mente egli esalta la continuità fra i due, ma in realtà non fa che sotto­ lineare - e per quei tempi con coraggio - la funzione di un ruolo in ge­ nere ritenuto minore. Dunque, la sua idea di cinema non è affatto li­ mitata o condizionata: semplicemente, è diversa. Che il regista debba tener conto della sceneggiatura originale, oltre a essere segno, evidentemente, di un indebolimento “storico” della fi­ gura del produttore, implica anche un forte scotto da pagare. Privile­ giare il momento dello scenario può significare anche un indebolimen­ to della regìa, se questa è già stata impostata: si pensi al caso Cleopatra, una pellicola gli unici mutamenti della quale - una volta subentrato Mankiewicz nella direzione - furono operabili in alcune battute di dia­ logo di una pacchianeria così incredibile da render lecito pensare che si trattasse di una chirurgia calcolata e dunque non poco ironica. Anche un dialogo come quello che in certi momenti segna indele­ bilmente Cleopatra rientra in fondo nella stravaganza mankiewicziana come mezzo per sopperire all'assenza di un minimo comun denomina­ tore che renda i suoi film riconoscibili come suoi. Anch'esso, in qual­ che modo, è un gioco di maschere e ruoli, di funzioni imprevedibili e a tratti grottesche. Ecco un breve centone suggerito da un paio di libri che hanno sottolineato il naufragio della pellicola: CESARE AD ANTONIO (parlando di Cleopatra): Hai mai visto il Nilo? Risparmiati il viaggio. È nei suoi occhi. E ancora:

...salute a te, Pothinos, Ciambellano e Eunuco in capo, posizione ac­ quistata non senza un certo sacrificio... CESARE A CLEOPATRA: Come sono i Commentari di Cesare in confronto a Catullo? Sono diversi.

ANTONIO (mentre tenta di uccidersi con la spada): Ho sempre invidiato le braccia lunghe di Raffio. Frasi come queste sono naturalmente esempi al limite, e in quanto tali si trovano a essere tanto indicative di quel che dicevamo più sopra quanto poco utilizzabili per una comprensione approfondita del cine­ ma del loro autore. Ma nell’insieme il cinema di Mankiewicz è carat­ terizzato da un grottesco “traslato”. Non, intendo dire, il grottesco di Orson Welles (si pensi al macroscopico caso di L’infernale Quinlan [Touch of Evil], 1958) che instilla una sensazione di turbamento nella realtà, bensì un mondo fatto di turbamento, una costruzione di natura assurda, o comunque sovracuta, rispetto ai toni del reale.

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Si è spesso parlato di Mankiewicz come di un fustigatore di costu­ mi, di ipocrisie, di malafede, e più generalmente lo si è definito regista cinematografico legato alla comedy of manners. Forse è tutto vero, ma non osserviamolo come un cinema sociale perché, pur essendo tale, la sua opera esibisce prima di tutto una precisa cura nel rendere un uni­ verso scardinato, alterato rispetto alla realtà quotidiana degli eventi. Quando mai l’untuosità di Èva non balzerebbe agli occhi di chiunque? Chi mai entrerebbe in scena con ascensori come quelli di Improvvisa­ mente l’estate scorsa e Masquerade? Quale scrittore di successo si get­ terebbe in un jeu de massacre fatto di travestimenti col parrucchiere amante di sua moglie? Quale autorità professionale e giuridica non comprenderebbe immediatamente l’odio razzista di Ray che ne motiva ogni gesto in Uomo bianco, tu vivrai? In quale altro film shakespearia­ no, come in Giulio Cesare nelle parole di Binh, “ogni movimento di gru assomiglia a un viaggio”? Di La gente mormora e delle battute di Cleopatra si è già detto. Ma altro si potrebbe dire sulla struttura goti­ co-grottesca del mondo di II castello di Dragonwyck, sull’inadattabilità di Maria, in La contessa scalza, a un mondo già di per sé falso cui ol­ tretutto la sua Bildung di attrice cinematografica (cioè a due dimensio­ ni) non consente alcun accomodamento, a gioco di inganno di quel film fondato sull’inganno che è Operazione Cicero. E, esempio più pa­ radossale di tutti perché fatto su un genere per definizione antirealisti­ co, in quale altro musical la scenografia e i costumi apparirebbero così falsi, in quanto lontani dai modi usuali della comune falsità del genere, come in Bulli e pupe? Quest’ultimo film è un esempio particolarmente interessante. Usci­ to nello stesso anno di È sempre bel tempo (It’s Always Fair Weather, 1955) di Donen e Kelly, e col quale condivideva lo stesso coreografo, Michael Kidd, è però lontano da esso galassie. Si pensi alla verità sce­ nografica della metropoli di Donen e Kelly e si pensi alla stilizzazione - anche se apportata in modo inusuale - di quella di Mankiewicz. La prima è un sistema di comunicazione convenzionale costruito su un si­ stema reale: la città è quella vera, concreta, che il pubblico americano conosce molto bene, ma sul suo sfondo i protagonisti ne combinano di tutte, imponendole una significazione che eccede quella che usualmen­ te le compete. In altre parole, il musical come genere opera qui in mo­ do da rendere la metropoli realistica come sfondo in sé, del tutto im­ pensabile come sfondo delle azioni compiute dai suoi vivaci e tormen­ tati protagonisti. La seconda, invece, crea un sistema interno al sistema. I vestiti, i colori, il linguaggio non sono quelli a cui siamo abituati nella realtà, né, d’altra parte, quelli che convenzionalmente accettiamo in un qual­ siasi musical dell’epoca (e più specificamente, d’ambiente urbano), ma

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una sorta di loro parodia. Assecondato dall’umanità un po’ folle che popola ^underground di Damon Runyon, il regista falsifica i termini stessi della falsificazione notoriamente operata dal musical come gene­ re nei confronti della realtà. Così viene scardinata ogni realtà stabilita, persino queDa fondata su una riconosciuta convenzione di genere. Probabilmente è per questa ragione che nel film il personaggio di Nathan Detroit non figura essere, come invece nell’originale racconto di Runyon, un vecchio ebreo: ne­ gli anni Cinquanta questo avrebbe decisamente guastato il roseo onirismo caratteristico del musical, anche perché, date le convinzioni anti­ razziste di Mankiewicz, l’inserimento di un personaggio del genere sa­ rebbe comunque stato scomodo. Infatti, o ne sarebbe uscito un ritratto ispirato dall’impegno democratico, oppure un’immagine non suffi­ cientemente esemplare in questo senso: in ambedue i casi qualcosa che col musical aveva poco a che fare. Del resto, la ventata di antirazzismo del cinema hollywoodiano che annovera, fra i molti, film come Odio implacabile (Crossfire, 1947) di Edward Dmytryk e Pinky la negra bianca (Pinky, 1949) di Elia Kazan, finirà davanti al terrore sollevato dal maccartismo proprio nel periodo in cui Mankiewicz gira il suo Uo­ mo bianco, tu vivrai. Ha ragione quindi Terenci Moix quando afferma che in Bulli e pu­ pe “Mankiewicz non si adatta al musical, ma piuttosto adatta a sé il musical”. Lo adatta, cioè, a quello scarto che sempre compare nei suoi film fra la verosimiglianza e gli elementi che ci despistano da essa. Im­ propriamente ho chiamato prima questo depistaggio col termine “grottesco”. A volte esso gli si addice, altre no. Intendevo comunque alludere a un eccesso che, in vari modi, mina le pellicole di Mankie­ wicz per quel che riguarda la credibilità dell’assunto, convenzional­ mente accettata nei film hollywoodiani. La tanto decantata “teatralità” mankiewicziana in ultima analisi è proprio questo: il trattamento della messa in scena - dagli attori ai costumi, dalla scenografia al dialogo come se essi comparissero e/o operassero non davanti alla macchina da presa ma su un palcoscenico. Naturalmente non alludo qui allo spazio del palcoscenico, bensì a quel sistema di segni che è l’universo della rappresentazione teatrale, al quale perdoniamo e del quale accettiamo - si diceva sopra - molte più cose che non a quello e di quello del ci­ nema. Forse per questo Mankiewicz non ha sviluppato uno “stile” autoriale; forse perché cimentandosi via via con vari e diversi generi gli è stato obiettivamente più difficile elaborarne uno specifico e ricono­ scibile come invece John Ford o Gorge Cukor. C’è il caso di Howard Hawks, è vero, ma Hawks era uno sperimentatore, Mankiewicz no. Il suo cinema, pur brillando di momenti tecnici addirittura virtuosistici, non si cimenta con i generi tentando volta a volta di superarli. E in que­

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sto senso, dunque, va correttamente interpretata l’affermazione di Eric Smoodin secondo cui il nostro regista sarebbe il maggior sperimenta­ tore del cinema hollywoodiano: egli lo è certamente ma, ancora una volta, in senso tecnico. I suoi “momenti tecnici” gli servono piuttosto per esemplificare il suo mondo, la sua etica: un meccanismo predatorio di grande cinismo, fatto di trappole perfette, ma lontano da quel senso di scelta (e dunque di implicazione, di compromissione morale) che ri­ troviamo invece in un altro allievo dello stesso maestro (Lubitsch), Bil­ ly Wilder. In esso chi sbaglia non ha nemmeno tempo di pensare al pro­ prio errore. Esaurito il ruolo, le maschere devono venire eliminate. È una crudele “selezione naturale”, un determinismo spietato del quale ogni pellicola di Mankiewicz è straordinaria, spesso entusia­ smante esemplificazione. Ma questa non è una critica. Finalmente un regista che non finge di proporci messaggi morali consolanti, sospetta fiducia nei valori umani, barlumi di un credo che troppo spesso sembra adottato per discorsi di circostanza. Mankiewicz, passando per il tea­ tro, ci parla della vita con il cinema. In Italia l’abbiamo apprezzato ma non molto ascoltato. Presi dall’avvertenza, che tutti davano, sul suo uso del linguaggio (della parola), abbiamo troppo spesso perso l’occa­ sione di vedere quanto il cinema può essere tale senza necessariamente ispirarsi a grandi teorizzazioni o affidarsi a un uso nuovo e insieme co­ dificato della tecnica. E quindi tempo di porgere orecchio a un corpus fra i più parlati nella storia del cinema, concedendogli finalmente l’at­ tenzione del nostro sguardo.

Riferimenti bibliografici

L’ottimo studio di N.T. Binh sul cinema di Mankiewicz, nel quale si ritrova anche anche la frase sui movimenti di gru in Giulio Cesare è intitolato Mankiewicz, Rivages/Cinéma, Paris, 1986, mentre la frase di Gordon Gow sull’immagine di Catherine e i piedi di Sebastian in Im­ provvisamente l’estate scorsa è nel suo Hollywood in the Fifties, Barnes/Zwemmer, New York-London, 1971; Andrew Sarris nel suo cele­ bre saggio svU'auteurism pubblicato su Film Culture nel 1962 nega a Mankiewicz la qualifica di “autore” affermando che le sue tecniche so­ no solo intelligenti soluzioni formali, ma non elementi di uno stile, e lo stesso fa in fondo Richard Corliss nel noto Talking Pictures. Screen­ writers in the American Cinema, Penguin Books, New York-Baltimore, 1975; le affermazioni di Mankiewicz sulla collera, l’incontrollabile e le emozioni, nonché sul cinema come “la più complessa di tutte le attività drammatiche” e sul suo disinteresse verso il montaggio, sono nella rac­ colta di interviste curate da Michel Ciment, Passeport pour Hollywo-

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od, Seuil, Paris, 1987; le battute del Giulio Cesare vengono da John Ba­ xter, Hollywood in the Sixties, Tantivy/Barnes, London-New York, 1972, e da Michael Wood, L’America e il cinema, Garzanti, Milano, 1979; l’osservazione sul rapporto di adattamento fra Mankiewicz e il musical è di Terenci Moix, citato da José Ruiz nella monografia, Joseph L. Mankiewicz, un maestro del cine, Semana de Cine de Valladolid, Valladolid, 1985; infine l’affermazione secondo cui il regista sarebbe il maggior sperimentatore hollywoodiano si ritrova in Eric Smoodin, The Macmillan Dictionary of Film and Filmmakers, vol. II, Directors/ Filmmakers, Macmillan, London, 1984.

Capitolo 6

Chuck Jones: la follia nel metodo

In principio era Tex Avery. Con lui terminava - ancorché soltanto idealmente - il mondo eufemistico di Walt Disney, i suoi bruchi indu­ striosi, i suoi coscienti e compresi lavoratori con la coda, le sue incar­ nazioni sostanzialmente esopiche del corretto spirito americano. In se­ guito, lo spirito ci sarebbe stato ancora, ma esemplato nei suoi risvolti, nelle sue ossessioni, nelle sue debolezze, esaltati al punto da farne un universo a sé stante, con leggi proprie e con un’idea inusitata del rap­ porto causa/effetto. Chuck Jones, che aveva fatto da animatore ad Avery alla fine degli anni Trenta, parte da lì ed elabora alcuni principi fondamentali svilup­ pando il suo magistero. “Non si può imitare un maestro”, aveva detto di lui, “ma si è stupidi se lo si ignora”. Jones ignorò in gran misura Ub Iwerks e Walt Disney, coi quali pure aveva lavorato, e trattenne forse per sé qualcosa della lezione di Walter Lantz (di cui era stato collabo­ ratore). Ma Avery, quello non lo poteva ignorare. La prima versione di Bugs Bunny era stata sua: Jones ne mantenne il geniale surrealismo, sviluppandone però il carattere. Da coniglio selvatico Bugs divenne nelle sue mani una mente raffinata, una sorta d’incrocio - sono parole di Jones - fra l’erudito Professor Higgins, D’Artagnan e Dorothy Parker. I nomi non sono scelti a caso: essi rappresentano il didatticismo pedagogico, l’avventura sfrenata e la divertente paradossalità cui può giungere l’ironia. A ben vedere le tre fondamentali componenti del­ l’esperienza americana sin dai suoi esordi, che Mark Twain seppe mi­ scelare come nessun altro nei suoi maggiori capolavori. Ma se è vero che gli ingredienti della miscela vantano una lunga tradizione naziona­ le, è anche vero che i tre nomi di cui sopra non rimandano a particolari memorie storiche delia pre-nazione americana né di quella che, a pieno titolo, si sarebbe in seguito sviluppata come Stati Uniti. Anzi, l’unica americana del gruppo è la Parker, scrittrice pressoché contemporanea

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al giovane Jones; mentre, come si sa, Higgins appartiene al Novecento dissidente di G. B. Shaw e D’Artagnan può a buon diritto reclamare un ruolo senza tempo nell’universo dell’avventura in Occidente. Insomma, ben pochi potevano vantare il senso del ritmo di Tex Avery e Friz Freleng, ma quanto a modernità di cultura soltanto un di­ segnatore (ma non animatore!) come Carl Barks riusciva a raggiungere - in modi peraltro diversissimi - le altezze di Chuck Jones (o viceversa, se si preferisce), che ha letto e conosce bene personalità come H. L. Mencken, umoristi e letterati come Robert Benchley, James Thurber e il Mark Twain di Roughing It. Modi diversissimi, certo, perché la Warner non era la Disney. Sarà stata la vocazione proletaria, concreta, materialistica che la famosa Ca­ sa dispiegò in quasi tutti i suoi prodotti sin dagli anni Trenta, ma i suoi cartoon sono un inno alla crudeltà, una celebrazione del caos. In real­ tà, due cose bisogna a questo punto ricordare:

a) oltre a una celebrazione del caos in questi cartoon si legge molto chiaramente anche una (parziale) visione celebrativa dell’animale; b) questo atteggiamento ha una sua precisa e ampia tradizione nel folklore americano. In effetti, se Walt Disney si rivolse ai racconti di Unde Remus (un classico popolare ottocentesco di Joel Chandler Harris) per immettere in modo diretto e chiaro una dose di folklore nel suo cinema, Jones e la Warner non dovettero necessariamente andare a cercare ulteriori e rappresentativi esempi, ché la loro produzione era naturalmente popo­ lare (Jones, insisto, era un appassionato lettore di Mark Twain). Gli animali della Warner sembrano la versione animata per lo schermo di certi tall tales di frontiera riportati da un collezionista come Lowell Thomas (ne parla Roger Welsch in un suo studio sull’umorismo ame­ ricano): cani così furbi che per andare a caccia di notte rimpinzano di lucciole un rospo che farà loro da lanterna, galline che mangiano sega­ tura e depositano tavole di legno o che mangiano lucciole e depositano lampadine, e così via. Oh certo, il caos è anche in Disney, ma solo come parentesi che pri­ ma o poi va richiusa. Alla Warner la parentesi è invece la quiete, ma con un particolare: il caos della Warner obbedisce a precise, anche se imprevedibili, leggi di una geometria non euclidea, è la versione ani­ mata del surreale mondo dei Marx (non a caso citatissimi nella bella autobiografìa Chuck Amuck del 1989). Naturalmente Jones non lancia frecciate al mondo Wasp e tutto sommato nemmeno a istituzioni e ad aree compiesse come l’università, la politica, l’arte. Talvolta una garba­ tissima polemica di questo genere la si può leggere in filigrana nei suoi cartoon, ma quel che li rende jonesiani è il lavoro operato sui caratteri,

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lo scavo che riesce a renderceli riconoscibili, familiari, a far sì che noi si veda bene e subito che Bugs Bunny è sempre in controllo di ciò che gli accade, che Daffy Duck sa bene come esserlo ma non vi riesce mai, che Elmer neanche se lo immagina. Il cartoon Warner e i personaggi di Jones in particolare sommuo­ vono le acque del genere al punto da far saltare tutti i riferimenti sta­ biliti dal mondo disneyano. In questo l’eroe animale incarnava i buoni sentimenti del cittadino modello e celebrava il “common sense” come primaria qualità del carattere. Disney, insomma, non si conformò a quello che in seguito un antropologo, Richard Tapper, doveva indicare come una premessa della ricerca e del riconoscimento della propria identità da parte del soggetto: In ogni società i bambini devono imparare a distinguere il Sé dall’AItro e “persone come me” (parenti e amici) da “persone non come me” (estranei, nemici e streghe), e le “persone” dalle “non-persone” (soli­ tamente animali). Chi invece - almeno in certa misura - vi si conformò fu Jones. È vero che qualche suo personaggio (Daffy o Porky per esempio) è mo­ dellato su un “carattere” umano (e se è per questo è anche vero che al­ cuni personaggi si intendono umani senza alcuna mediazione animale: Elmer o Yosemite Sam, per esempio), ma esopicamente rappresentati­ vo o meno che l’animale sia, egli appartiene a un universo impazzito nel quale è impossibile ritrovarsi, riconoscersi (e proprio per questo tanto divertente). Alle formiche o agli scoiattoli che guastano un picnic di Paperino Jones sostituisce esplosioni di tritolo in faccia, cadute di kilometri dall’alto di un canyon, corpi che si decostruiscono cadendo per terra a cubetti. In lui non vale più quanto sostiene Steve Baker in me­ rito a quella che lo studioso britannico chiama “disnification of the ani­ mal”, la cui primaria procedura è di “render it stupid by rendering it visual”. E in seconda battuta: “Disnification is common sense applied to the image of the animal”. Buon senso? In Bugs Bunny, Daffy, Sylve­ ster? (ho allargato il discorso anche a personaggi della Warner non cre­ ati da Jones). Il mondo di Jones è fatto in modo tale da ampliare ogni sensazione di chi lo abita, da condurre ai termini estremi qualsiasi di­ vergenza, da minacciare la propria stessa esistenza in un’implosione non diversa dall’autoannientamento di Harpo alla fine di Animal Crac­ kers. Se il mondo di Disney è quello ordinato della società borghese, entro il quale prima o poi si inserisce un elemento di disordine che spesso la fa franca perché simpatico, sbarazzino, vezzoso, o semplicemente più debole rispetto alla reazione di chi ne è contrariato, nel mondo di Jones e dei cartoon Warner non si salva nessuno, violenti o pacifici tutti sono compromessi con una visione apocalittica del mon­

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do: Tweetie non è meno spietato di Sylvester, la differenza è che lui, a differenza dal gattaccio, ha capito che non è necessario spendere tante energie per raggiungere il proprio scopo. Ecco un altro tipico punto jonesiano: la lezione di economia regolarmente impartita da chi a prima vista dovrebbe soccombere. Qui Jones, e la Warner nel suo insieme, operano un ribaltamento abbastanza interessante. Il cartoon si basa su una costruzione iperboli­ ca che amplia a dismisura le azioni e i loro risultati. L’iperbole, si sa, è non “una” ma la figura retorica americana per eccellenza, quella su cui si regge l’intero sistema dell’umorismo popolare nazionale (Yosemite Sam essendone probabilmente l’esempio più direttamente, tradizional­ mente rappresentativo). Ma nei personaggi jonesiani, in misura infini­ tamente più rilevante che non in Disney, la storia va nel senso opposto all’iperbole, congiura contro il suo successo: i marchingegni costruiti e messi in atto da Wile Coyote si disintegrano, trascinando rovinosa­ mente il loro autore, a volte senza che l’antagonista Road Runner ci metta becco, a volte con un solo tocco di zampa o con un veloce pas­ saggio a fil di strada. Critica della vocazione statunitense al grandioso, all’enorme, al complesso, le storie di Jones ci ricordano che, dopotutto, come dice il titolo di una canzone popolare americana, “It’s a gift to be simple” ov­ vero “la semplicità è un dono”. Anche se poi da esse trapela bene che quella semplicità è soltanto apparente e che in realtà, come si diceva, essa si identifica con l’economia. Ma, non dimentichiamolo, Jones è un cineasta. Vale a dire che, co­ me afferma egli stesso, i suoi personaggi non si riconoscono come ca­ ratteri soltanto per quello che dicono, ma per quello che appaiono e fanno. Dopotutto il Coyote e Road Runner non pronunciano sillaba (ai massimo parlano attraverso cartelli), e le imprese del pur verboso Bugs Bunny non sono meno comprensibili - è sempre Jones a dirlo - se si elimina la banda sonora. È vero, questo vale anche per Disney e tanti altri, ma Jones è fra i pochissimi a osservare il mondo, come direbbe Carlo Izzo, dalla parte delle cuciture. Questo lo porta a una spietatezza che è facile, appunto, prendere per crudeltà. Laddove Avery delegava allo scatenamento del­ la più pura follìa - ma con un “method in madness” degno di Amleto - il compito di dar forma a ciò che più d’ogni altra cosa lo caratteriz­ zava, Jones crea personaggi che all’apparenza non appartengono al mondo balzano della quinta dimensione (e per di più, come ha affer­ mato lui stesso nella sua dichiarazione di principi, ama ciò di cui fa la caricatura), ma che lo frequentano quando la temperatura della situa­ zione incomincia a farsi incandescente. E allora che una normale caccia al coniglio diventa un’apocalisse di imprevedibili trovate: dal momen-

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to che secondo Jones “non si può fare il regista appoggiandosi a quello che già si sa”, è evidente che in quella occasionale quinta dimensione può davvero accadere di tutto. Basta che metodo e follìa si scambino le parti.

Riferimenti bibliografici

Le affermazioni di Chuck Jones e le notizie sulle sue preferenze let­ terarie vengono da Chuck Jones, Chuck Amuck, Avon Books, New York, 1989; la notizia sui tall tales collezionati da Lowell Thomas è in Roger L. Welsch, Catfish at the Pump. Humor and the Frontier, Uni­ versity of Nebraska Press, Lincoln and London, 1986; la frase sulla psi­ cologia infantile e il riconoscimento della propria identità da parte del soggetto è in Richard Tapper, “Animality, Humanity, Morality, So­ ciety”, in What Is an Animal?, ed. by Tim Ingold, Unwin Hyman, Lon­ don, 1988; la notazione sulla “disnification” è di Steve Baker, Picturing the Beast. Animals' Identity and Representation, Manchester UP, Man­ chester, 1993.

Capitolo 7

La metafisica bassa di Monte Hellman

L’irraggiungibile non è mai alto. Marina Cvetaeva

Monte Hellman, parlando del suo Iguana (id., 1988) ha detto te­ stualmente: “Paragonati a questo, tutti i miei film precedenti sembrano pellicole di Walt Disney”. Davvero è bene non lasciar spazio al giudizio autoriale (quello, per esempio, secondo cui Santuario, come dice Faulkner, è un romanzo scritto per far soldi), dettato da tutto tranne che da un nitido, consapevole occhio critico. Two-Lane Blacktop (1971) è infatti un capolavoro irripetibile, e La sparatoria (The Shoo­ ting, 1966) e Le colline blu (Ride in the Whirlwind, 1965) restano ope­ re di alto livello non solo nel panorama americano ma in quello mon­ diale. Aggiungiamoci pure Cockfighter (1974), che Hellman ama poco a causa di forti contrasti produttivi con Roger Corman, ma che quanto a rigore non ha nulla da invidiare agli altri. E poi che cosa resta? Non certo le sue prime prove cormaniane, né l’irrisolto, confuso, affastella­ to Better Watch Out! (1989). Coppola ci aveva abituato alla figura dell’auteur americano che fa film (belli) da cassetta per poter tirar su il denaro necessario a girare quelli (straordinari) a cui tiene. Così, davanti a Hellman viene da chie­ dersi: perché La sparatoria sì e China 9 Liberty 37 no? È possibile che la risposta sia nel carattere di Hellman, è possibile cioè che egli, ottimo uomo di cinema, non ami il cinema abbastanza da sacrificarlo a se stes­ so. Hellman ha affermato a più riprese che per lui qualunque discorso d’avanguardia, di forma, di innovazione è secondario rispetto alla psi­ cologia, allo studio dei personaggi, insomma al lato “umano “ del rac­ conto. Ma poi non gira un solo film in cui la psicologia dei personaggi appaia non solo centrale ma addirittura plausibile. Charles Tatum ha sottolineato charamente questa sua vera e propria abitudine, che del

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resto è probabilmente uno dei suoi maggiori motivi di fascino, nel sen­ so che il regista sfrutta magnificamente questa programmatica trascu­ ratezza conferendo al film - a quei film - un’aria che proprio Tatum ha definito “esistenzialista”. In opere più deboli, meno personali e pensate come Amore, piombo e furore (China 9 Liberty 37, 1978) tale assenza è sgradevole (perché diavolo all’inizio Matthew cambia così improvvi­ samente atteggiamento nei confronti di Clayton?); in film, invece, so­ stenuti da una sceneggiatura eccezionale e da una concezione narrativa che verrebbe da definire rivoluzionaria come Two-Lane Blacktop l’as­ senza di psicologia proietta il film su un versante che lo pone fra i primi esempi di iperrealismo cinematografico americano. Nulla vi è indicato e dunque tutto vi può succedere, in qualunque momento. Le variazioni sono minimali, naturalmente, ma libere come una combinazione calei­ doscopica. Pitture vere e proprie, i personaggi del miglior Hellman non hanno carica e impulso nemmeno per arrabbiarsi, e anzi, come in Cockfighter, lasciano che siano gli altri (i galli) farlo per loro. La metafora della lot­ ta, che necessariamente non è loro estranea, viene presa alla lettera e condotta con partecipazione emotiva, sì, ma esterna. Insomma, i per­ sonaggi di Hellman si guardano vivere; persino in momenti non poco drammatici come quelli vissuti dal gruppo di Le colline blu. Nei loro gesti non c’è scandalo, rassegnazione, protesta, rivolta, no, essi vivono la loro parte, per strana e ingiusta che possa essere. Essendo casual­ mente scambiati per fuorilegge, si comportano come tali. Non so quanto di “storico”, come vorrebbe Paolo Vecchi, vi sia in questa scelta (se di scelta si tratta). Di sicuro c’è ben poca mitologia, a causa della sua contraddittorietà nei confronti della realtà. Ma quale realtà? Quel­ la della supposta storia del West o quella che è tipica di una dimensione interiore? La grandezza di Hellman è proprio nella sua capacità di rendere ta­ le dimensione interiore attraverso un’osservazione distaccata della su­ perficie. I particolari bressoniani di dettaglio di cui parla Vecchi a pro­ posito dei due western del 1966 non sono semplici testimonianze di un modo di far cinema di genere aderente alla Storia, ma modi, inusuali finché si vuole, di comunicazione di realtà insondate. È davvero la stes­ sa tecnica di codificazione della pittura: dietro l’immagine, il gesto, il quadro sta un brulicare di pensieri, impulsi, intenzioni che il pubblico è chiamato a percepire nell’impercettibile. Hellman è in questo senso un vero maestro che non a caso ha alle sue spalle un passato di teatran­ te. Solo la concentrazione del teatro poteva permettere tanta economia in un cineasta tutto sommato senza robuste e prolungate esperienze dietro la macchina da presa, o quanto meno di sceneggiatore. Naturalmente le sue esperienze teatrali, nella loro specificità (Bec-

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ken, eccetera), inarcano anche l’atmosfera e per così dire i contenuti stessi del suo cinema. Su questo - in particolare per quel che riguarda i due antiwestern - la critica si è spesso intranenuta, e soprassediamo. Ma perché non leggere una componente kafkiana anche in una pelli­ cola apparentemente ben lontana come Two-Lane Blacktop) Non, s’in­ tende, nel senso di un problema esistenziale di rapporto fra colpa e tempo, ma in quanto esemplificazione ed esercitazione di un’assenza (incertezza, se si preferisce) d’identità. Non a caso, del resto, la sceneg­ giatura è firmata da Rudolph Wurlitzer, uno dei massimi narratori in­ novativi americani fra gli anni Sessanta e i Settanta, campione fra i maggiori di quel “Kafkan mode” che, a sentire Helen Weinberg, per­ corre il romanzo americano già con Bellow, Malamud, Salinger, Mai­ ler, eccetera e che, aggiungiamo noi, si svilupperà in termini vieppiù sofisticati di lì a non molto nella Sontag, in Pynchon e persino in Doctorow. Ma sarà bene ricordare, comunque, che il cinema di Hellman è fat­ to continuamente di percorsi. Tralasciamo pure le sue prime prove, nelle quali è certo possibile che la sua autorialità, le sue ossessioni, i suoi interessi, fossero schiacciati dalla prepotenza della commissione (che peraltro avrebbe segnato l’intera sua vita professionale: vedi i casi di Cockfighter e Iguana)', ma se osserviamo le sue cose più riuscite ne emergerà un inconfondibile modello di viaggio, di cammino, di per­ corso, appunto, la cui portata metaforica è fuor di dubbio, ma che so­ prattutto stabilisce, per così dire, il tono dell’opera. Un tono - e questo è un punto importante - squisitamente mitologico, nel senso di itera­ tivo, così come iterativa è l’immagine mitologica, che tanto affascina Hellman, del Sisifo camusiano:

Quello che mi interessa è il mito dell’azione (...) È in questo ritorno, in questa pausa, che Sisifo mi interessa. Un volto che fatica così vicino alle pietre è già pietra a sua volta.

Non l’azione, dunque, ma il mito dell’azione; non ciò che avviene, ma la rappresentatività stessa della nudità del suo farsi. Il percorso, allora, perde la sua connotazione di curiosità per di­ ventare destino. I personaggi non “vanno” (come invece, per esempio, i giovani ribelli alla Brando degli anni Cinquanta o gli stessi beat di Ke­ rouac) né “viaggiano” (come invece non pochi antieroi dello youth movie americano di trent’anni fa): essi, semplicemente, sono. Cioè, si identificano nel proprio destino. Ciò che sembrano cercare (ma in mo­ do tutto sommato meno appassionante rispetto a certi searchers del ci­ nema americano di qualche decennio prima) ha il loro stesso volto, co­ me nella rivelazione finale di La sparatoria, o, al contrario, non ha af­ fatto un volto, come l’emblematica assenza prematura dell’eroe in Le

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colline blu. Il diverso è l’uguale e l’uguale è il diverso. GTO non sta scherzando quando in Two-Lane Blacktop impersona caratteri sempre diversi a vantaggio dei suoi vari interlocutori. I nostri rapporti col tem­ po e con lo spazio non ci concedono alcuna pausa in quel gioco teatrale (vedi il pilota che rifiuta di ascoltare l’altro quando, verosimilmente, questi gli sta per raccontare la verità della sua vita). Altro che Zabriskie Pointl Questo è il vero film antonioniano d’oltre Atlantico. E lo è in modo assolutamente originale, nuovo, sciolto da ogni debito. Tivo-Lane Blacktop è piuttosto il corrispettivo americano di un’impostazione antonioniana del problema dei rapporti fra interno ed esterno. L’audacia con cui Hellman riesce a parlare del vuoto attra­ verso una serie di apparenti pienezze (non solo le immagini, tutto som­ mato spogliate di ogni attrattiva esteriore, turistica, dennishopperiana, ma i rumori, il debole sfondo musicale, il rombo di motori spinti in proporzione inversa all’entusiasmo di queste vite senza vista, senza lu­ ce, senza pensiero) non ha precedenti, e, quel che è peggio, non avrà epigoni nel cinema del periodo, pur così sensibile a tematiche sostan­ zialmente esistenziali (li avrà invece, com’è noto, in Wenders e in qual­ che altro europeo). Pensiamo a Fat City (id., 1972) di John Huston, a Un uomo senza scampo (I Walk the Line, 1970) di John Frankenheimer, a film molto apprezzabili ma tarati da una nostalgia, da una ma­ linconia del tutto assenti dalla pellicola di Hellman, astratta, fenome­ nica, “pura” come uno sguardo senza soggetto. C’è più vita nei motori delle auto o negli alberi e negli arbusti lun­ go la strada che non in questi personaggi fantasmatici che ti sfuggono continuamente di mano proprio quando ti sembra di avere accumulato abbastanza dati da riuscire ad ascriverli a una qualche fascia generazio­ nale. La questione non è soltanto legata al fatto che di loro non sappia­ mo nulla, che “non hanno passato”: la questione è piuttosto che per lo­ ro non sembra vi sia altro che il presente, inteso come successione di momenti. La realtà di questi personaggi è sempre e comunque quella del mito: le corse, le macchine, i motori per i protagonisti di Two-Lane Blacktop, i combattimenti di animali in Cockfighter. Non c’è altro spa­ zio di vita per costoro, tutto ciò che vivono e fanno ruota attorno al momento che ne riassume sforzi, sogni, speranze, progetti: la gara, l’incontro. Ma non si tratta di un’etica della sportività, di una conce­ zione sportiva che “metaforizza” la vita, non si tratta insomma del so­ lito Hemingway annacquato. Se metafora c’è, lo sport è allora metafo­ ra del vuoto, dell’assenza. Hellman ha il coraggio di gettare uno sguar­ do su ciò che siamo prima delle imposizioni pedagogiche, prima dei miti sociali, prima dell’emulsione stessa delle difese della psiche e del carattere. I suoi personaggi si difendono come animali da giungla, quella è l’unica risposta che sono in grado di dare di fronte a una trap-

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pota, un pericolo, un inganno. Il resto, l’eleganza del confronto irridu­ cibile e civile gli è estranea: non nemica, non repulsiva, semplicemente inesistente. Hellman riesce a introdursi nel guardaroba del teatro e a vedere gli attori nudi. Ha ragione a dire che il suo cinema è equipara­ bile a quello di Walt Disney, ma non perché Iguana superi tutto quello da lui fatto in precedenza, bensì perché, come gli irritanti animaletti di Burbank, il suo è un mondo che precede il (o consegue al) sociale. I suoi vuoti e i suoi silenzi sono la versione vera, credibile, pensosa delle smancerie di topi e scoiattoli. In realtà il suo film profondamente canonistico è quello in appa­ renza più lontano dall’eufemistico mondo di quel genere, Better Watch Out!, ma che in realtà è concepito come una enorme teoria di violenze, esattamente come in ceni short della Warner, nei quali le brutalità più inaudite si compiono senza lasciare allo spettatore una pausa che gli consenta di riprendersi dalla nonchalance con la quale animaletti ma­ gari persino simpatici continuano senza tregua a compiere terribili cru­ deltà. Opportunamente condito con la salsa del suspense che è di rigo­ re nel film orrifico, Better Watch Out! pretende di essere una summa della “filosofia” sottesa a questo genere di cinema, ma fallisce proprio perché non sa decidersi se essere horror o sua parodia. Incerto fra riso e paura, lo spettatore segue anche qui un percorso che avrebbe potuto fornirgli interessanti suggerimenti di sapore metafisico, ma paradossal­ mente proprio su un terreno tradizionalmente propizio a tale opera­ zione Hellman cade travolto da quella dicotomia che per Bill Krohn è il pregio del film e che a me sembra invece la sua tomba. Tuttavia non si può negare a Better Watch Outl una qualità hellmaniana: come a tut­ te le sue opere, si può applicare a esso quel che Frank Kermode dice della Nausea sartriana: “Sembra cominciare con un inizio e, in realtà, si inizia con una fine”. Questo è vero per La sparatoria, Le colline blu, Cockfighter, Amore, piombo e furore, per non dire poi di Two-Lane Blacktop, dove qualunque momento del film potrebbe esserne inizio oppure fine (non foss’altro che per questa ragione, si tratta di una pel­ licola straordinaria). Mi si consenta di formulare diversamente l’affermazione di Ker­ mode: l’eccezionaiità è dovunque, ciò che esce dalla norma, dalla rou­ tine, dall’uso è nella norma, nella routine, nell’uso stessi. I criminali non sono criminali, la parola viene ritrovata non nella socializzazione o nell’amore ma nella solitudine, il forte, l’invincibile ammette senza alcuna coercizione la vittoria del debole, l’altro siamo noi. E davvero così evidente, in Two-Lane Blacktop, che la posta della corsa - di qualunque corsa - è la morte? L’ineluttabile, l’eccezionale sta lì, nella tutto sommato tranquilla quotidianità del percorso, nei discor­ si tecnici, che nemmeno sentiamo, che il pilota fa al meccanico, gente

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senza identità che non sia quella relativa alla loro funzione. Essi credo­ no di percorrere uno spazio, ma in realtà il destino è già segnato, forse non questa volta, forse nemmeno quella seguente, ma la strada, il per­ corso che essi ritengono di conoscere attentamente è loro estraneo. Es­ si, semplicemente, si muovono nello spazio. La destinazione Washing­ ton scelta del tutto a caso da GTO è davvero casuale, nel senso che un nome di città vale l’altro: una predicazione, questa, tutta americana, dalle road song sessantesche come “Many A-Mile” di Buffy Sainte-Marie fino a un capolavoro semisconosciuto del romanzo postmoderno statunitense, Flats (1970) dello stesso Rudolph Wurlitzer, di cui Ihab Hassan ha scritto: Flats va ancora oltre nel rendere il linguaggio e la coscienza quasi pu­ ramente spaziali. Persone, pronomi e luoghi si scambiano i nomi. I suoni delle parole - Memphis, Omaha, Flagstaff e così via lungo tutta la nazione - significano vari stati di inutile consapevolezza, stati che tentano di coesistere nello stesso spazio mentale.

E lo spazio di Hellman è percorribile solo attraverso ausili esterni all’uomo, mezzi opportuni senza i quali la vastità non sarebbe percor­ ribile, non perché eccessiva ma perché non adeguata a lui. Come il ma­ re per la Cvetaeva, “tanto spazio, e non ci si può camminare”: il deser­ to, l’asfalto, magari una caverna dalle infinite diramazioni, magari il cielo stesso, ogni spazio in cui l’uomo si trova non è fatto per lui. Per­ sino quello domestico di Better Watch Out!, la cui familiarità viene per così dire ridotta dalla cecità della protagonista, peraltro probabilmente la meno cieca di tutti gli (anti)eroi hellmaniani. Nulla di straordinario, di fiabesco, dunque - a parte la follia cormaniana di Beast front the Haunted Cave - anzi, una normalità infini­ tamente più inquietante, poiché è in essa che i nostri gesti più regolari, meno significativi lasciano intravedere un’altra dimensione: quella di un ordine, di una norma, di un télos che non ci è dato raggiungere. È la stessa distanza che separa Storia e Mito, i quali, paralleli, non si in­ contreranno mai, condannati a osservarsi reciprocamente nel percorso senza alcuna possibilità di comunicazione, se non per l’intuizione di un gesto, la lacerazione di un rumore, la sorpresa di un grido. Come lo starnazzare di un gallo, l’antelucana e inattesa minaccia della legge, lo sfondo di un brano country, uno sparo improvviso, uno sguardo che ha gà raccontato ogni storia.

LA METAFISICA BASSA DI MONTE HELLMAN

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Riferimenti bibliografici La notazione di Charles Tatum sulla scarsa trattazione psicologica e sull’aria “esistenzialista” nei film di Hellman, nonché la citazione del­ le parole del regista sul mito dell’azione, sono nel suo saggio “Monte Hellman: il segreto meglio custodito di Hollywood”, in Bergamo Film Meeting 90, nella sezione curata da E. Martini e B. Fornata, Ed. Ber­ gamo Film Meeting, Bergamo, 1990; il riferimento alla contradditto­ rietà nei confronti della realtà da parte di Paolo Vecchi, che intende ri­ mandare alle affermazioni dello stesso Hellman riportate da Tatum nel saggio citato, sono in “I western gemelli”, ibid.; di “Kafkan mode” nel romanzo americano precedente l’ondata postmoderna parla Helen Weinberg, The New Novel in America. The Kafkan Mode in Contem­ porary Fiction, Cornell UP, Ithaca and London, 1970; l’apprezzamento della dicotomia fra horror e sua parodia in Better Watch Out! si ritrova in Bill Krohn, “Hollywood: l’ora del déjà vu”, in Bergamo Film Mee­ ting 90, cit.; la frase di Frank Kermode su La Nausea è nel suo libro II senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, Rizzoli, Milano, 1972, mentre quelle di Ihab Hassan su Flats sono nella sua rassegna critica Contemporary American Literature: 1945-1972, Ungar, New York, 1973; la frase di Marina Cvetaeva sulla grandezza del mare è invece nella raccolta epistolare firmata da lei, Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke, Il settimo sogno. Lettere 1926, Editori Riuniti, Roma, 1980.

Capitolo 8

Annie diventa Alice: il cinema cormaniano di Coppola e Scorsese

“Annie doesn’t live here anymore. It must have been your picture that she tore, She said that I would know you by the smile in your eyes, Your checkered vest, your fancy spats, your polkadot tie. You answer to that description, so I guess that you’re the guy. No, Annie doesn’t live here any more”. Joe Young e Johnny Burke, Annie Doesn't Live Here Anymore

Chiedetelo a chiunque abbia lavorato con lui: Roger Corman è un mostro di efficienza produttiva, ma quanto a ispirazione artistica non esiste. Ed è probabilmente vero, nel senso che difficilmente riusciamo a immaginarcelo mentre elargisce ai suoi protégé qualche consiglio estetico, qualche suggerimento formale, qualche perfezionamento del­ la loro ispirazione. Dovremo allora pensare che la sua funzione sia semplicemente sta­ ta quella di fornire a Coppola, Scorsese, Bogdanovich, Demme, Hell­ man, Bartel, Kagan e a tanti altri quel primo contatto materiale con il mondo del cinema, con la pratica della scrittura, del set, del montaggio che diversamente essi avrebbero avuto con più difficoltà, più tardi, o che addirittura non avrebbero avuto affatto? Ma fortunatamente non esiste solo la storia, esiste anche la critica. Esistono, cioè, l’occhio e l’impressione (meglio ancora quando corroborate dalla filologia) che ci parlano di cose di cui nessun altro - meno che mai gli interessati - sono in grado di parlare. Non si tratta di falsità, né di cattiva volontà: sem­ plicemente, essi non sono in grado di comprendere, e ancor meno di esprimere, quel che di estetico hanno potuto trarre dal contatto con l’esempio cormaniano. E dunque ancor meno quel che - ammesso vi sia stata questa “influenza” - essi hanno saputo farne in termini perso­

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nali irriducibili a un’opera comunque diversa da quella che sta a monte della loro. Angoscia dell’influenza? Sì, se si pensa che il miglior Corman è re­ gista di angosce (i film ispirati a Poe, ma nemmeno tutti). Ma forse sa­ rebbe meglio dire influenza dell’angoscia a giudicare dalla dominante tematica dei film diretti dai suoi migliori collaboratori: da Targets (1967) di Peter Bogdanovich a America 1929: sterminateli senza pietà (Boxcar Bertha, 1972) di Martin Scorsese, óa Dementia 13 (1963) di Francis F. Coppola a Anno 2000: corsa della morte (Death Race 2000, 1975) di Paul Bartel. Se è per questo, sul versante tematico va innanzi tutto citata quell’attenzione al giovane pubblico che dai campus ai rock movie il piccolo maestro ha anticipato a una intera generazione (anche a espo­ nenti non necessariamente cresciuti nella sua ombra). Forse non è ca­ suale che Scorsese abbia girato L’ultimo valzer (The Last Waltz, 1978), Friedkin Good Times (1967), Demme Stop Making Sense (1984), che Kaplan abbia fatto Night Call Nurses (1972) - il quale fra 1’altro era prodotto da Corman - Student Teachers (1973) e Over the Hedge (1979), quest’ultimo un vero punto d’arrivo (in molti sensi: anche estetico) rispetto a quei cinquanteschi Hot Rod Girl (1956) di Leslie Martinson, Runaway Daughters (1956) di Edward Cahn, Twist All Ni­ ght (1961) di William Hole jr. dell’AIP (American International Pictu­ res) che avevano fatto infuriare la Parent Teachers Association ventan­ ni prima. Di più ancora: stiamo attenti a non leggere come caratteristiche di questo o quel giovane regista tematiche e modelli ossessivi che in realtà sono facilmente rintracciabili proprio nell’originario regista-produtto­ re. Per esempio, quando Pye e la Miles affermano che a partire da De­ mentia 13 alcuni dei marchi di fabbrica di Coppola erano già evidenti. La fami­ glia nelle sue magioni gotiche è evidentemente un insieme di casi pa­ tologici. Questa psicologia di famiglia, l’ossessione dei caratteri eredi­ tari, ricorre in gran parte dei film di Coppola.

non si rendono conto che stanno evidenziando nel regista un tratto contenutistico non poco cormaniano. E allo stesso modo, quella com­ ponente onirica che giustamente gli stessi critici intrawedono nell’ancor giovanile America 1929: sterminateli senza pietà di Scorsese (e che, aggiungo, doveva vieppiù svilupparsi nella pratica cinematografica del suo autore sino alle vette di Fuori orario (After Hours], 1985 e Cape Fear [id.], 1991) è dopotutto la libera e personalissima rielaborazione che il regista aveva fatto della concezione e dell’impostazione del cine­ ma ravvisabili in parecchie opere di Corman. Personalmente ritengo

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proprio Coppola e Scorsese - ovviamente ognuno per il suo verso - i registi più cormaniani dell’intera nidiata. Coppola, poi, ha fatto di Corman (cui pure non ha mai risparmiato critiche) una sorta di modello professionale. La generosità verso i gio­ vani talenti che Pye e la Myles gli riconoscono è la stessa che marca una buona parte dell’attività di Coppola come produttore, e del resto que­ sti non è meno di Corman un “extraordinary salesman”. Ma al di là da recessi e risvolti psicologici che suggeriscano o ad­ dirittura consentano confronti e identificazioni, c’è qualcosa nel cine­ ma di questi due autori (e quanto a questo anche in quello di altri al­ lievi-collaboratori) che, pur nella più ampia e sicura autonomia e ori­ ginalità personale, non può non definirsi cormaniano. In uno dei suoi film più alti, La conversazione (The Conversation, 1974), Coppola opera una sorta di miracolo di cui non sempre la cri­ tica gli ha dato atto. Come scrive esemplarmente James Monaco:

Coppola riesce in quello che Godard diceva che voleva fare all’inizio degli anni ’70: libera il suono dalla tirannia deH’immagine. Questo è un film che in un primo momento bisogna ascoltare, poi guardare. Al di là infatti di tutto quello che si può dire sul mistero, la detec­ tion, eccetera, e al di là del riconoscimento concesso a Walter Murch, tecnico del suono, come coautore del film) La conversazione si pone come una pellicola capitale su un terreno sia teorico che pratico. Essa infatti rompe con il sistema retorico cui ci aveva abituati una vieppiù consolidata prassi del sonoro che, nel cinema commerciale americano, aveva trovato soltanto in Corman un regista non allineato. I film poeschi di Corman obbediscono a una sonorizzazione del tutto estranea al­ lo statuto usuale (verrebbe da dire: “verosimile”) del cinema cui ci ave­ va abituato Hollywood. Le sue immagini più audaci non riescono a parlare con la voce, ma solo con segni sonori che superano di gran lun­ ga l’imponenza tracotante e ingombrante di fiati, archi e timpani del horror movie che sin dagli anni Trenta corre e aumenta per giungere ai coevi prodotti inglesi della Hammer. Un soundtrack sofisticato e alluci­ nato percorre in Corman magioni e manieri dei suoi morti-viventi. Ma più ancora, si comprende bene, all’ascolto, che non è attraverso le pa­ role che le immagini si chiarificano. Al contrario, le prime vivono sem­ pre uno scarto rispetto alle seconde: quegli interni grevi, quelle segrete cupe, quegli attrezzi arrugginiti mal si sposano con la serietà compunta di una comunicazione verbale altamente stilizzata di cui giustamente l’interpretazione (soprattutto in Vincent Price, va da sé) sottolinea lo scacco. E si pensi, su un versante “comico”, a quanto lo stesso vale per le interpretazioni cormaniane di Peter Lorre, nel quale la comunicazio­ ne verbale non aggiunge nulla alla sua figura di dolente, buffo fool.

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Non sto suggerendo una possibile diretta comparazione fra Cop­ pola e Corman su questo terreno, ma soltanto un’analogia ideale nel trattamento della comunicazione verbale e più specificamente dello scarto - in modi evidentemente diversissimi nei due registi - fra parola e immagine. Del resto, non sarà male ricordare che presso Corman il regista di La conversazione aveva lavorato prima di tutto come soundman, oltre­ ché dialogista, assitente e regista della 2“ unità. Intendo dire che sotto Corman Coppola si era fatto le ossa non solo in senso largamente ci­ nematografico, ma proprio nel settore del suono. E si pensi alla stupen­ da colonna sonora di II padrino II (The Godfather II, 1974), nel quale la perfezione della ricostruzione dei più piccoli dettagli sonori è tale da produrre nello spettatore un paradossale effetto di inverosimiglianza, tanto il cinema precedente ci aveva condizionato secondo i suoi impre­ cisi modelli. E proprio in II padrino II, com’è noto, Corman compare in un cameo role come senatore, a sottolineare con questa figura pre­ minente quanto la sua ala si distenda sul film (e più largamente sul ci­ nema di Coppola). Lo stesso uso degli attori da parte di Coppola sembra non lontano dalla pratica cormaniana. Come scrive ancora Monaco: “egli spinge la loro energia a sviluppare i valori mitici della storia”. Ciò può essere detto proprio del modo in cui Corman ha impiegato, per far qualche esempio, attori che vantavano una certa personalità come il Charles Bronson di La legge del mitra (Machine-Gun Kelly, 1958), lo Steve Co­ chran di I, Mobster (1958), lo William Shatner di L’odio esplode a Dal­ las (The Intruder, 1961), il Ray Milland di Sepolto vivo (Premature Bu­ rial, 1962). il Jack Nicholson di La vergine di cera (The Terror, 1963) e così via. E evidente che si tratta di un concetto di cinema non tanto anti-divistico quanto non-divistico, nel senso che indipendentemente dall’aura personale dell’attore il regista intende piegarlo a servire gli interessi dell’opera; poco importa se si tratta di un B-movie o di una superproduzione come Apocalypse Now (id., 1979), dietro a questo impiego degli attori c’è sempre e comunque una nozione di film come ragione superiore. Si pensi al modo economico in cui Coppola ha gi­ rato Apocalypse Now in relazione all’impiego di Marion Brando, a quanto poco il regista abbia sfruttato spettacolarmente (in un film così spettacolare!) l’ormai indiscutibile miticità dell’attore, preferendo sfu­ mare la sua immagine nelle forti ombre di un volto la cui nudità è pro­ posta secondo il dettato della stilizzazione. Anche questa in fondo è una lezione di Corman: non perché nell’autore di La tomba di Ligeia (The Tomb of Ligeia, 1965) si rintracci qualcosa di figurativamente identico o anche solo simile (e tuttavia vi sono nella sua sua filmografia certi primi piani di Karloff...), ma perché sue sono l’intenzione e la

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prassi di non valorizzare in termini hollywoodiani gli interpreti, assoggetati alle esigenze di uno spettacolo che punta su di loro non più che sulla scenografìa e sul découpage. In un certo senso, l’unica eccezione nel cinema di Corman è pro­ prio lui, il suo maggiore interprete, Vincent Price. Mattatore sublime, quando entra in scena (ma solo nei film di Corman) ci rendiamo conto che il regista non ha affatto bisogno di piegarlo alle “ragioni superiori” del film: Price è il film stesso, si identifica con esso, e dunque non ha alcun bisogno di assoggettarsi alle sue esigenze. Coppola invece non ha ancora trovato il suo Price, l’attore che si identifica nel film (forse qual­ che traccia in tal senso è ravvisabile nella Kathleen Turner di Peggy Sue si è sposata [Peggy Sue Got Married], 1986). Dove Coppola si allontana in modo determinante dal mentore dell’AIP è nella concezione della struttura del film. E questo già dai tempi di Buttati, Bernardo! (You’re a Big Boy Now, 1966), nel quale si rileva, come dice Monaco, la ripetizione di uno stanco archetipo della donna o come figura materna o come pericolosa vamp, che è, aggiun­ go, rintracciabile anche in Corman. Ma soprattutto dove, come affer­ mano Pye e la Myles:

Una volta che egli ebbe dei personaggi, potè girare in fretta, in uno sti­ le che era deliberatamente concepito per permettergli di fondare il film sul suo montaggio piuttosto che sull’azione e la composizione del­ le singole riprese. È evidente che Coppola ha sentito e vissuto l’atmosfera di rinno­ vamento che stava incominciando a Hollywood alla fine degli anni Ses­ santa in termini molto più radicali di Corman, un autore dagli spiccati interessi produttivi per il quale (almeno potenzialmente) il cutting si­ gnificava una perdita di tempo. È proprio sulla concezione della struttura del film che le strade dei due divergono per ampliare la distanza a un punto tale da non consen­ tire facilmente, di primo acchito, una possibilità di positiva compara­ zione. La stessa differenza corre in questo senso fra il cinema di Corman e quello di Scorsese; ma questi vanta una fluidità di cutting che consen­ te di avvertire in misura molto minore quel che vi è di diverso fra lui e il regista-produttore dell’AIP (e tuttavia forse esagera Monaco quando, di America 1929, dice che non ha nulla di quel che sarà il cinema di Scorsese). Una differenza, d’altra parte, alla quale si oppongono non poche considerazioni d’affinità e di filiazione. Intanto, Scorsese anche più di Coppola ha in comune con Corman una spiccata simpatia per il regime notturno. Corman infatti - non foss’altro che per sfruttare al meglio il rapporto luce-ombra in una see-

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nografia altrimenti non sempre ampia e generosa - predilige, e non so­ lo ovviamente nei suoi horror, una tonalità crepuscolare e cupa (quan­ do non buia) che nell’insieme è alquanto estranea al cinema hollywo­ odiano a lui contemporaneo. Scorsese dal canto suo esprime sin dall’inizio la stessa predilezione (fra i primi lungometraggi Mean Streets [id., 1973], è un caso esempla­ re, ma anche America 1929 denuncia in qualche misura tale attrazio­ ne). Il regime notturno implica per definizione tensione, sorpresa, me­ raviglia; il suo è uno spazio in cui tutto può accadere, in cui il lecito, il regolare, l’istituzionale lasciano terreno al loro contrario. E questo non solo in relazione ai dettati dell’esperienza, ma anche perché il re­ gista notturno è visivamente predisposto all’incertezza, all’ambiguità, all’indeterminatezza. Quale migliore alleato di esso, dunque, per met­ tere in atto una delle più importanti lezioni che Scorsese ha appreso da Corman? Nelle parole di Kolker,

Se Corman ha insegnato ai suoi allievi a lavorare in fretta e spendendo poco, egli ha anche insegnato loro la necessità di trovare una situazio­ ne che fornisse più agio e più spazio per una crescita immaginativa.

Una lezione che toccherà i suoi vertici sul versante tragico in Taxi Driver (id., 1976) e su quello comico in Fuori orario, nei quali il regime notturno è lo sfondo (ma anche la sostanza) ideale per una “crescita immaginativa” che aumenta in progressione aritmetica, sì, ma che so­ prattutto consente di leggere gli eventi - ogni evento - secondo un’am­ biguità e una minaccia che ben presto, nel prosieguo della visione, si impongono come il dato caratteristico primario delle pellicole. In questo quadro Kolker ha perfettamente ragione ad affermare: C’è una spudorata coscienza di sé e un’energia cinetica nei suoi film che a volte minaccia di superare sia lo spettatore che la storia, ma che sempre fornisce un commento all’esperienza dello spettatore, impe­ dendogli di scivolare facilmente nella vicenda. Ecco, dove Scorsese ha assorbito l’esempio del cinema cormaniano è nella prima parte di quest’ultima frase. I film poeschi del regista-pro­ duttore aderiscono perfettamente a essa così come quelli dell’“allievo” Scorsese, e in sé non vi è, in questo senso, gran differenza tra I vivi e i morti (The Fall of the House of Usher, 1960) e Taxi Driver (sempre ov­ viamente salvando la fortissima personalità del regista italo-americano). Ma è nella seconda parte della frase che leggiamo con certezza i veri termini dell’autonomia scorsesiana, quel distacco, che per certi versi potremmo definire “epico”, che non opera fuori dall’immagine ma nell’immagine stessa in quanto “commentary upon their viewer’s experience”. La capacità di commentare senza didatticità è quel che fa

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grande un cineasta (per questo Corman è un regista importante, ma mai grande). Per Corman come per Scorsese si può affermare, ancora con Kolker (che però sta parlando solo del secondo):

In tutti i suoi film v’è un senso che il posto abitato dai personaggi sia strutturato dalle loro percezioni leggermente folli e dal modo in cui al­ lo spettatore sono fatte vedere e capire queste percezioni. Ma a Corman manca la possibilità di identificare il proprio lavoro in quell’ultima frase, la capacità di riuscire a trattenere lo spettatore dallo scivolare dentro la storia narrata. A Corman, per la verità, questo non interessa; anzi, la sua concezione del cinema implica a priori una partecipazione, una identificazione da parte del suo giovane, entusia­ sta, vigoroso e tanto spesso allegro pubblico. Ambedue ci parlano del Bene e del Male in termini di incertezza e terrore, secondo il miglior dettato aristotelico della Poetica. Ma mentre Corman mette in scena uno splendido teatrino di marionette le cui funzioni, i cui “caratteri” sono tutti già inventariati nel libro mastro del genere cui appartengono (che non è necessariamente lo horror movie: è una horror story quella di Faust?) e che quindi esige, per essere recepito e goduto, una assoluta partecipazione da parte del pubblico secondo l’ormai più che aurea re­ gola coleridgiana, Scorsese ci fa ragionare sulle nostre sensazioni di es­ seri non estranei all’etica, scoprendo un’importante componente della sua opera, quella che consente di definirlo un grande moralista. Non come Seneca, recipiente di una saggezza accumulata negli anni, ma co­ me Freud, esploratore di regioni nelle quali si scoprono le più incon­ fessate verità su noi stessi. Dove il rapporto con Corman si fa partico­ larmente sottile e importante è sul versante teorico del discorso cine­ matografico. Già ho tentato di accennare al superamento del realismo nel cinema di Corman sin dalle sue prime prove e al fatto che l’opera del regista dell’AIP poteva in questo senso essere inquadrata in relazio­ ne alle più definite e sviluppate pratiche dell’arte pop a lui pressoché contemporanea. In modo diverso ma su un identico terreno culturale anche il cinema del giovane Scorsese va oltre le strettoie del realismo. Come scrive Kolker, la sua opera:

mostra un grado di stilizzazione che, per la maggior parte, rifugge dal­ le convenzioni sessantesche del realismo, definito primamente dalle ri­ prese in esterni e da stili attoriali naturali.

Questo non significa che Scorsese non giri in esterni o che abbia suggerito ai suoi attori un tipo di recitazione lontana dalla verosimi­ glianza. Lo stesso Kolker chiarisce meglio la cosa quando giustamente ravvisa nel suo cinema una tensione fra due convenzioni cinematogra­

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fiche, quella documentaria e quella fictional, dove per “documentario” non dobbiamo intendere volgarmente un tipo di cinema qualificato dal suo soggetto, bensì dai modi di ripresa; vale a dire un cinema che offre, per i termini in cui presenta le sue immagini, un’illusione di obiettività. Ma d’altra parte quello di Scorsese è anche un cinema che porta alle estreme conseguenze le proprie concomitanti componenti soggettive, tanto estreme, anzi, che non è diffìcile, in talune sue opere, ravvisare un cóté addirittura espressionistico (Mean Streets, Taxi Driver, Fuori orario, per citare qualche titolo). La cosa è tanto più rimarchevole se si pensa che sia ciò che qualifica la componente documentaristica sia ciò che qualifica la componente fictional fanno indiscutibilmente parte - e anzi ne sono un importante tratto caratteristico - dell’intera produzio­ ne cinematografica dei primi anni Settanta che va sotto l’etichetta di New Hollywood. Pure, in quale film americano del periodo è rintrac­ ciabile la strana, personalissima mistura che è il trademark di Scorsese? Il rilievo tuttavia interessa qui perché, in modi certamente diver­ sissimi, esso perviene anche al cinema di Corman (soprattutto il pri­ mo). La capacità cormaniana di far di necessità virtù e di integrare ai termini del suo cinema quello che volta a volta gli si presentava come problema di budget prende corpo in una prassi che da un lato adotta proprio le forme esteriori della ripresa documentaristica (almeno di quella che si identifica nella rozzezza, nel tumulto, nell’affastellamento: mai, peraltro, nell’amatorialità) e dall’altro sacrifica tutto (a cominciare, come si diceva, dagli attori) alla/Serto», alla narrazione, in­ tesa come sirena che ammalia un pubblico che appare (ma spesso non è) non meno rozzo del tipo di cinema che Corman si ritrovava costret­ to a fare. Gli esiti, insisto, sono ovviamente diversissimi (e se è per questo, anche i modi e le forme), ma l’enunciato teorico - o per meglio dire, la poetica che se ne trae - è un poco simile, dal momento che, se non altro, proprio da Corman Scorsese ha assimilato la conoscenza di ima tradizione di “stile a grado zero” che egli è stato così intelligente non da rifiutare ma da utilizzare (è ancora Kolker) “come base su cui co­ struire, come una tradizione da riconoscere e sui cui prevalere”. Si vede dunque abbastanza chiaramente che una linea forse non di­ retta ma certo precisa connette il mentore dell’AIP con i suoi più gio­ vani collaboratori ai quali egli ha a suo tempo fornito non soltanto concrete occasioni di lavoro e di esperienza, ma soprattutto modelli da rielaborare o da superare, in modo tale che l’originale alta fine ne uscis­ se del tutto sbiadito, oscurato, sino ad apparire addirittura assente. Ma come, in fondo, dice la canzone che quasi certamente ha ispirato il film più dolce e nostalgico di Scorsese, se l’assenza è innegabile vi sono però tracce che permettono un’identificazione, anche se l’altro “non abita

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più qui”, anche se l’altro non fa più cinema (o è come se non lo faces­ se). E Annie diventa facilmente Alice (o Peggy Sue), quella che non c’è più, ma di cui nessuno potrà mai liberarsi.

Riferimenti bibliografici

Le indicazioni sullla componente gotica nel cinema di Coppola, sull’onirismo nello Scorsese di America 1929, sulla generosità coppoliana verso i giovani talenti, la definizione di Coppola come “extraor­ dinary salesman” e l’affermazione sul Coppola di Buttati, Bernardo1 . come regista interessato più al cutting che all’azione sono nel noto li­ bro di Michel Pye e Linda Myles, The Movie Brats, Holt, Reinhart & Winston, 1979; per le affermazioni sul tentativo godardiano da parte di Coppola di liberare il suono dalla tirannia delle immagini, su Walter Murch come coautore di La conversazione, sull’impiego coppoliano degli attori, sulla ripetizione dei due archetipi femminili e sulla non ri­ conoscibilità scorsesiana di un film come America 1929, si veda James Monaco, American Film Now, Signet, New York, 1979; per quelle in­ vece sulla “crescita immaginativa” degli allievi cormaniani, sull’autoconsapevolezza e sull’energia delle pellicole di Scorsese, sul luogo e la sua connessione con la follia che condiziona anche la percezione spettatoriale, sulla stilizzazione non realista, sulle componenti documenta­ ristiche e fictional e sul superamento della tradizione in Scorsese, ri­ mando a Robert Phillip Kolker, A Cinema of Loneliness, Oxford UP, New York-Oxford, 1988; infine la connessione fra arte pop anni Ses­ santa e cinema cormaniano è trattata nel mio “Prepararsi in tempo: brevi note estetiche sul primo Roger Corman”, in Letà dell’occhio. Il cinema e la cultura americana, Lindau, Torino, 1999.

Capitolo 9

“Comunque vada, siamo in trappola”: introduzione al cinema di Robert Altman

Vi sono cineasti che riassumono nella loro vicenda creativa lo svi­ luppo e il senso di un intero cinema (o addirittura del cinema nella sua interezza). Lungi dall’essere “semplicemente” autori, essi diventano molto presto sintomi di spinte, tendenze, flussi tutt’altro che evidenti e più o meno ufficiali. Guardati inizialmente come degli originali, con l’andar del tempo il disegno sotteso alla loro opera (un disegno che può non essere necessariamente del tutto chiaro nemmeno a loro) prende forma, nel senso che la sua forma acquista mano a mano una chiarezza sempre più forte, l’evidenza di un preciso legame con qual­ cosa che eccede di gran lunga l’ambito strettamente cinematografico e che invece si aggancia con uno Zeitgeist ancora in ebollizione, del qua­ le essi sono - per quel che loro concerne - esploratori e vedette. Pubblico e critica, magari anche in buona fede, fanno allora di tut­ to per leggerli e ridurli entro i confini dell’innocuità, per trascurare ciò che nelle loro opere è profondamente rivoluzionario o comunque per intenderlo in modi sostanzialmente indolori e addirittura divertenti. Il caso di MASH è lampante: da un lato la chiara allusione al con­ flitto in Vietnam sotto le spoglie di quello, ormai in qualche modo su­ perato, in Corea; dall’altro l’accoglienza al film come fosse una commediola bellica più o meno riuscita. MASH è invece una pellicola com­ plessa nella quale lo spazio privilegiato è detenuto non tanto da perso­ naggi e azioni, bensì da colonna sonora e montaggio in una combina­ zione inedita e audacissima. MASH è fra i primi prodotti della cosid­ detta New Hollywood a concepire la sequenza come un’unità aperta, vale a dire come un’azione non necessariamente parabolica e compiuta in se stessa, ma come un’epifania di piccoli o grandi eventi colti quasi occasionalmente nel loro farsi e abbandonati allo stesso modo, cioè senza che l’obiettivo ce ne abbia fornito alcun logico termine (una pra­ tica che, sia pure in modi ancor più sperimentali e secondo scansioni

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tipiche del film indipendente d’avanguardia - vale a dire senza alcun interesse per il plot - è rintracciabile in alcune opere del New Ameri­ can Cinema Group). Si può anzi dire che proprio in Altman le esperienze del film d’avanguardia antihollywoodiano trovano, opportunamente tradotte, la loro utilizzazione in ambito di cinema “commerciale” (le virgolette alludono alla discutibilità di questo aggettivo applicato all’opera del nostro regista). Basti pensare a come il suono pervada la pellicola so­ vrapponendosi non solo alle azioni dei personaggi ma al dialogo stes­ so. Bisogna tornare indietro di una decina d’anni (al Cassavetes di Om­ bre, per esempio) per ritrovare qualcosa di comparabile. Ma non possiamo limitarci a una esemplificazione così scarnamen­ te scollegata. In realtà, come si diceva, la potenza dell’innovazione altmaniana sta nella combinazione di elementi diversi, ché la tecnica del suo sonoro acquista forza dirompente proprio dalla frammentarietà che governa l’unità discreta della sequenza. L’invadenza sonora, in­ somma, diventa l’unica costante, l’unico collante di una struttura altri­ menti erratica e talvolta inafferrabile. Ciò che più meraviglia è che questa tecnica così profondamente antihollywoodiana non vanta affatto un esito “realistico”. Come dice giustamente Emanuela Martini nel suo volume su Altman, l’utilizzazio­ ne del sonoro (compresa la voce della radio) distrugge l’impressione di realtà invece di ricrearla in contrasto con le usuali pratiche hollywoo­ diane. Si tratta di un punto molto importante perché l’intero cinema del nostro regista, per quanto spesso apparentemente aderente alla re­ altà più di qualsiasi prodotto uscito dalla catena di montaggio di Hol­ lywood (ma vi sono eccezioni: Anche gli uccelli uccidono, per esem­ pio), è invece costruito per proporsi come una riflessione sulla e non un riflesso della realtà. Non vorremmo tuttavia dare l’impressione di pensare che il cine­ ma altmaniano cominci con MASH. Pagato il tributo dovuto a Hollywood con opere che il regista o di­ sconosce (The Delinquents) o che comunque afferma gli sono state rimaneggiate (Conto alla rovescia), già Quel freddo giorno nel parco può vantare non pochi tratti tipici del suo cinema a venire, soprattutto l’in­ teresse (verrebbe da dire: il morboso interesse) dell’autore per la psi­ copatologia e più largamente per la diversità, che esploderà ulterior­ mente in modo diretto di lì a qualche anno in Images, ma che ritrove­ remo, più o meno sommessamente, anche in II lungo addio, Tre donne, eccetera. Ma a parte questo, già in quella pellicola l’attenzione al per­ sonaggio denotava modi differenti da quelli della codificazione hol­ lywoodiana: l’obiettivo seguiva una Sandy Dennis che programmatica­ mente non rispettava la retorica gestuale del set californiano di quegli

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anni, i tempi apparivano dilatati, il ritmo rallentato, ciò che lo schermo mostrava non denunciava un’immediata funzionalità in relazione al proseguimento dell’azione. Insomma, fin da allora in Altman si notava che la realtà, cinematograficamente trasposta, non era più quella di prima, che l’universo verosimile proposto dal cinema continuava, sì, a essere verosimile, ma - per il momento - con una punta di contenuto anarchismo, di libertà dai percorsi obbligati, addirittura di rivolta nei confronti dei moduli già approntati da un cinema che, come quello hollywoodiano di quel decennio (gli anni Sessanta), stava facendo di tutto per rilanciarsi come riconoscibile e familiare su un mercato che da tempo ne aveva visto il crollo. Che l’opera di Altman rientri cronologicamente nell’esperienza della New Hollywood settantesca non v’è alcun dubbio. Ma bisogna stare molto attenti a non identificarla con l’operazione condotta a quel tempo da autori sicuramente di grande importanza e rispetto come Bob Rafelson, Dick Richards, eccetera. Questi infatti si muovevano su un terreno di riflessione e di indagine spesso strettamente connesso al realismo narrativo, e anzi non di rado a quel superamento del realismo attraverso il realismo che va sotto il nome di iperrealismo. La loro pro­ mozione cinematografica si incentrava sull’intenzione di liberarsi dalla mitologica e onirica concezione della realtà imposta dalla Hollywood classica e perpetuatasi anche nel periodo critico fra gli anni Cinquanta e i Sessanta. Per questo gran parte delle pellicole della New Hollywood furono girate al di fuori degli studios e secondo una cifra di quotidia­ nità a dir poco inedita nella tradizione cinematografica americana, mentre altre ancora ripresero addirittura l’iconografia e la coloristica elaborate dall’iperrealismo della pop art. L’opera di Altman nasce naturalmente dalla stessa temperie cultu­ rale e con esigenze abbastanza simili. Pure, il suo cinema di allora si di­ stacca nettamente da quello di altri registi battendo una strada incalco­ labilmente più personale, autoriale, riconoscibile. Uno dei grandi miti produttivi di Hollywood si riassume nella fra­ se: “raccontare una storia”. Non c’è posto in quella tradizione per chiunque usi il cinema a fini strettamente figurativi, avanguardistici, sperimentali, eccetera. Se a Hollywood è esistito un re, quello era il plot, o comunque il soggetto. E questo vale anche per i nomi dei gio­ vani registi di cui sopra: Marlowe poliziotto privato di Dick Richards è una magnifica versione - probabilmente la più bella - di un celebre romanzo come Addio, mia amata di Raymond Chandler. Pieno di rife­ rimenti ed elaborazioni di carattere figurativo, tanto densi da far pen­ sare a esso anche come a un’esercitazione, riuscitissima, sui rapporti vi­ suali fra pop art e cinema, il film è lontano mille miglia da un’altra ri­ duzione chandleriana come II lungo addio, girata da Altman due anni

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prima, nel 1973. Eppure non soltanto le due pellicole derivano da ope­ re dello stesso romanziere, ma soprattutto vivono di un’identica ten­ sione problematica nei confronti dei modi e delle forme in cui la realtà ci si presenta davanti. La differenza è che mentre Richards esibisce una decisa intenzione ricostruttiva nei confronti del vecchio, classico noir americano, giran­ do il suo film con uno stile che lo ricalca ma al tempo stesso mettendo sul piatto della bilancia l’alto grado di sofisticatezza cui era giunto negli anni Settanta lo state of the art (tanto che il colore acquista le risonanze sfumate e vellutatamente contrastanti di certa cartellonistica appunto di ispirazione iperrealistica), la pellicola di Altman opera invece in una direzione decostruttiva, smontando pezzo a pezzo quelle stesse com­ ponenti classiche in un modo che ce le ripresenta come fossero separa­ te, distanziate fra loro e dunque osservabili - per così dire - fuori con­ testo. Il distacco tipico di Marlowe diventa qui ironica svagatezza, se­ parazione (anche fisica: il suo appartamento sul cocuzzolo di un im­ probabile edificio) dal resto del mondo; il suo pungente sarcasmo si esercita ancora, ma affidandosi spesso al riferimento fornito dall’uni­ verso del cinema hollywoodiano (l’imitazione di Al Jolson nell’ufficio di polizia, quella di Walter Brennan alla sbarra dell’area residenziale, eccetera); la falsità delle apparenze, così centrale in Chandler e nel noir in generale, non viene soltanto messa in discussione in termini di plot, ma entra a far parte del mondo visuale del film con una serie di imma­ gini (clamorosa quella relativa alla sequenza del litigio dei coniugi Wa­ de mentre Marlowe gironzola sulla spiaggia fuori dalla casa) nelle quali trionfa la superficie delle cose come area riflettente che compromette l’integrità della scena in primo piano. Ma è soprattutto sul versante metacinematografico che in questo film prende corpo la radicale innovatività altmaniana, come viene mostrato sin dalla prima inquadratura (una riproduzione della topografia di Hollywood) fino all’ultimo mo­ mento della pellicola (la colonna sonora che riprende la vecchia ver­ sione di “Hooray for Hollywood” di Johnny Mercer inclusa a suo tem­ po in Hollywood Hotel}. Altman, insomma, lo denuncia senza ambi­ guità: il suo film è un film sulla “fabbrica dei sogni”, soppiantata da un’altra Hollywood, quella dei primi anni Settanta, nella quale Mar­ lowe appare come un sopravvissuto, addirittura un clown distaccato da ogni rapporto con la realtà (sia pure una realtà mediata dall’obiet­ tivo cinematografico). Bisogna chiarirlo subito: quando fa del cinema Altman, di qualun­ que cosa parli, parla sempre anche di cinema. Il suo impegno di cine­ asta non si appunta su specifici problemi sociali, su visioni più o meno moralmente consapevoli della nazione, su modelli già ricevuti in rela­ zione allo sfruttamento dei generi: in una parola egli non scava nella

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direzione indicata dal cinema americano classico, magari per ribaltarne i termini etici, la tradizione da esso consegnataci falsa, sì, ma chiara e compatta. Al contrario, Altman smonta l’obsoleto giocattolo rimon­ tandone i pezzi secondo il suo estro e dando così vita a personaggi, si­ tuazioni, idee, forme, figure di assoluta novità proprio perché esempla­ ri della radicale rottura operata dal regista nei confronti dei referenti hollywoodiani tipici da cui le componenti del suo cinema prendono l’abbrivio. Tuttavia, questa operazione non si affida all’istinto del momento, all’occasionalità dell’ispirazione: essa si muove secondo un’organizza­ zione e un disegno precisi. Il suo film in cui questo disegno e questa or­ ganizzazione si rivelano in modo più diretto e indiscutibile è probabil­ mente uno dei suoi (meno ricordati) capolavori, California Poker. Esperimento a mio avviso più audace della pellicola che ha dato al re­ gista maggior celebrità, Nashville (che peraltro gli è non a caso adia­ cente nel tempo), California Poker polverizza ogni precedente conce­ zione hollywoodiana di cinema. Una trama inesistente si allarga a mac­ chia d’olio nel prosieguo dell’azione. Ma attenzione: guai a prendere i nostri due protagonisti per dei perdigiorno che gettano via la loro vita inseguendo un sogno di vittoria al tavolo da gioco. Essi non sono cine­ matograficamente parenti dei biscazzieri di Runyon/Mankiewicz e nemmeno dei Cincinnati Kid, degli “spacconi” newmaniani e men che mai degli improbabili giocatori dostoevskijani col volto di Gregory Peck di non molto tempo prima. Tutti costoro potevano vantare in qualche modo un’aura di gloria strettamente connessa con la grande tradizione retorica dello schermo hollywoodiano classico. Loro invece no. Loro si muovono anonimamente su quello stesso schermo: non tanto perché sono effettivamente anonimi, quanto perché il loro per­ corso è assolutamente aleatorio e perché il gioco come filosofia di vita qui non assurge alle altezze della dannazione o del trionfo. Non c’è grandezza nella loro vicenda, ma soltanto il disegno di un sistema bi­ nario i cui termini sono indifferentemente vittoria e sconfìtta, come di­ mostra meravigliosamente il finale della pellicola: un momento da fare invidia a qualunque banale filmone mozzafiato. Ma, come si diceva, è l’intero film a presentarsi secondo una strut­ tura inusitata che non segue una linea narrativa tracciata ma che sem­ bra farsi secondo per secondo seguendo una tendenza improwisativa (l’improvvisazione essendo, com’è noto, un trademark del lavoro altmaniano) che appare come la stessa spina dorsale dell’opera. In questo film dove nulla accade, vediamo di tutto: la povertà e la ricchezza, la sconfitta e la vittoria, la casualità e il destino. Le grandi componenti del cinema americano del passato ci sono tutte o quasi, eppure che film di­ verso dagli altri! La grandezza di Altman, peraltro, non si misura qui

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“soltanto” nella concezione estetica che vi si evince, ma anche se non soprattutto nella formidabile componente etica che un occhio attento vi può leggere. È vero che, come ricorda la Martini, Altman ha sempre affermato di non essere nel “morality business”. Ma è necessario chia­ rire che il regista intende con queste parole l’utilizzazione, l’adesione ai soliti modelli morali (e moralistici) del cinema americano. Qui le co­ se stanno diversamente e in modo ben più serio e profondo la casualità del gioco vi diventa un problema di morale: non del moralismo che vuole nel gioco un demone corruttore, una forza contraria all’ordine della vita socialmente e responsabilmente intesa, ma una struttura di comportamento che ci chiama a una sfida con noi stessi e col nostro ruolo rispetto al destino. Bel film laico che rigetta ogni sistema etico esterno di confronto, California Poker rinnova, autonomizzandolo, il concetto stesso di morale: nelle parole di Deleuze, “essere all’altezza di ciò che ci accade”. Per questo il giocatore incallito abbandona nel finale quei dadi che lo porterebbero forse a sbancare la casa da gioco: a differenza dal com­ pagno egli ha compreso che identificarsi nella vittoria lo avrebbe pri­ vato della sua individualità, del suo stesso libero arbitrio. Il giocatore che gioca per vincere e alla fine vince non è più libero come lo era stato fintantoché, non vincendo, sceglieva di tentare la sorte. Molto peggio: nel momento della vittoria il protagonista si rende conto che proprio per questo il suo destino è segnato, che vincere o perdere fa comunque parte di uno stesso disegno che toglie ogni libertà all’individuo. E dun­ que soltanto nel ribaltare il proprio comportamento - nell’indifferenza e nel rifiuto al momento della vittoria dopo tante sconfitte - egli si af­ ferma anarchicamente contro ogni valore riconosciuto. Questo spiega l’espressione pensosa e quasi triste del suo viso nel momento dell’ab­ bandono: come a dire, “comunque vada, siamo in trappola”. Nashville ci dice la stessa cosa, ma nel modo corale che tanta criti­ ca ha celebrato. Ciò che di esso prima di tutto colpisce, tuttavia, è il controllo inusitato con cui il regista padroneggia la complessa coralità dei singoli racconti intrecciantisi gli uni negli altri. Una materia in se stessa informe si snoda a volute cangianti fornendo il quadro di un’in­ tera società attraverso un suo limitato spicchio che funge da sineddo­ che grazie soprattutto all’ideologia nazionalistica, patriottica e senti­ mentalmente dolciastra delle canzoni della Grand Ole Opry e del suo luogo antonomastico, la città titolare del Tennessee. Non è certo una scoperta affermare che Altman ha una sensibilità spettacolare, un penchant per la messa in scena e lo show del tutto in linea con la forte tendenza metacinematografica non solo del suo cine­ ma ma del nuovo cinema hollywoodiano in generale. Tuttavia, bisogna aggiungere che non di rado nei suoi film lo spettacolo assume una for-

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ma circense, un tono imbonitore, una natura addirittura infantile e re­ mota (remota rispetto alle sofisticatezze spettacolari dell’allora nascen­ te era degli effetti speciali): Anche gli uccelli uccidono, Nashville, Buf­ falo Bill e gli indiani, per certi versi lo stesso Pret-a-porter esibiscono tale più o meno forte componente (alcuni inscenano addirittura un ve­ ro ambiente circense), che non rimane però solo un tratto specifico ma che fornisce la cifra per comprendere lo stile stesso di tanto cinema altmaniano. Come in un circo (un circo americano, almeno), infatti, le azioni si sviluppano contemporaneamente e su diversi piani, l’occhio è chiamato a una serie di differenti e separate (nello spazio) sollecitazio­ ni che non può abbracciare tutte insieme, costretto dunque a selezio­ nare continuamente una situazione, un problema in un andirivieni che impedisce l’usuale concentrazione su un personaggio. Ma anche nelle pellicole che non presentano un’immagine circense e che non si distin­ guono per la variegatezza di personaggi e situazioni, il modello resta intatto: in California Poker - che di certo non può essere definito un’opera circense - “le continue diversioni della macchina da presa di Altman, che gioca a distrarci continuamente dalla scena centrale”, no­ tate puntualmente dalla Martini, sono l’equivalente dell’occhio errati­ co del pubblico circense, sempre in cerca di informazioni su ciò che travalica la scena in osservazione, gli stadi di un percorso che non ha tracciato se non, a posteriori, quello di una curiosità gratuita e occa­ sionale. Per questo il cinema di Altman, rispetto a quello della Hol­ lywood tradizionale, è un modo di fare realismo: non certo per la ve­ rosimiglianza delle immagini e delle situazioni, ma per la sua compren­ sione della e la sua aderenza alla curiosità dello spettatore in quanto es­ sere umano e non soltanto spettatore. Nashville è forse la pellicola altmaniana più chiaramente (de)strutturata come un circo. Nemmeno Buffalo Bill e gli indiani, che pure è in fondo anche un film sul circo, può vantare una ricchezza di piani, di aree, di “programma” comparabile a essa. La capacità sperimentativa altmaniana vi si dispiega al suo meglio, riuscendo a tramutare un po­ tenziale documentario in opera narrativa. O se si preferisce, a conferire gli attributi e le cadenze del documentario a una narrazione dramma­ tica. E non è forse quel che era riuscito a fare il già citato Cassavetes di Ombre, forse non suo esponente ufficiale ma di certo gravitante nei pa­ raggi dell’esperienza indipendente antihollywoodiana del New Ameri­ can Cinema Group? Altman tuttavia è più ambizioso: il suo film non è una semplice tranche, ma, per così dire, la torta tutta intera; e a sua volta, come si diceva, sineddoche della nazione americana nella sua globalità. In esso la decentralizzazione dello sguardo raggiunge altezze vertiginose seguendo il disegno di un quilt imprevedibile. Una decen­ tralizzazione che riesce a farsi addirittura copertura dell’obiettivo, ma­

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scheramento dello sguardo attraverso una formidabile abilità diretto­ riale incentrata da un lato sul dinamismo delle scene e dall’altro su un ulteriore mascheramento, quello della drammaticità di personaggi e si­ tuazioni. Vediamo meglio. La macchina da presa resta raramente ferma a in­ quadrare i suoi soggetti; essa si muove invece di continuo insinuandosi fra persone e gruppi negli ambienti più diversi e talvolta affollati. Il movimento tuttavia non ha alcuna componente esibizionistica, virtuo­ sistica, non è - insomma - il peraltro giustamente famoso piano se­ quenza dell’entrata nel locale notturno di Quei bravi ragazzi di Scorse­ se. Al contrario, Altman lo costruisce in modo da farlo passare quasi inosservato. Questo risultato è di norma raggiunto grazie a un’altret­ tanto ammirevole abilità nella direzione degli attori, chiamati a un compito alquanto arduo: quello di presentarsi come persone che, pur avendo investito ogni centimetro della loro zona socioesistenziale nel tentativo di sfondare come musicisti a Nashville, mantengono Vaplontb necessario a chiunque in quella sede per essere ritenuto un professionista e non un dilettante di belle speranze. Gli stessi personag­ gi che (come quello di Linnea, interpretato da Lily Tomlin) sfuggono a questa ambizione non sfuggono tuttavia a tale impostazione attoriale, concentrando nell’atteggiamento del viso, nella pensosità dello sguar­ do ogni possibile informazione in merito al loro travaglio umano, alle loro speranze, ai drammi della loro vita. Film corale, si è spesso detto. Forse sì, ma non nel senso di un’ope­ ra nella quale ogni singolo componente imposta il suo canto in modo armonico a quello degli altri. L’armonia di Nashville nasce piuttosto dalla dissonanza fra le singole partiture, che soltanto nell’insieme e, per così dire, a fine esecuzione prendono una forma armonica, tale da rendere l’immagine globale di un evento, di un luogo, di una società. In Nashville, comunque, per la prima volta prende corpo un’idea di film decentrato non soltanto nella sua struttura e nel suo andamen­ to, ma anche e soprattutto nella concezione dell’intreccio. Là dove, po­ niamo, in California Poker questo rimaneva a dir poco volatile, qui in­ vece esso batte la strada esattamente opposta: si moltiplica a dismisura, come sempre si moltiplica esponenzialmente ciò che è ormai superato, obsoleto. La lezione altmaniana sta prendendo vieppiù forma e sostan­ za, sta perfezionandosi nella direzione di un cinema lontano dalle leggi strutturali di Hollywood, cui sottostavano all’epoca non pochi giovani autori apparentemente rivoluzionari. In quegli anni ben pochi registi potevano essere in qualche misura comparati ad Altman: Bob Rafelson, per fare un nome, e naturalmente con tutti i necessari distinguo: il bellissimo II re dei giardini di Marvin vanta un andamento non del tutto dissimile da quello delle migliori opere altmaniane dei primi anni

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Settanta, anche se bisogna dire che la componente borghese, intimisti­ ca e psicologistica di quell’opera è alquanto lontana non dico da Nashville ma anche dalle pellicole altmaniane più introspettive e so­ stanzialmente psicanalitiche (o forse sarebbe meglio dire: psicopatolo­ giche) come Quel freddo giorno nel parco e Images. O ancora, viene al­ la mente un altro “capolavoro decentrato”, quel superbo Strada a dop­ pia corsia che segna lo zenith dell’intera opera di Monte Hellman: un puro esercizio di forma di un’essenzialità che verrebbe da dire bressoniana. Ma è proprio a questo punto che le strade del rinnovamento si differenziano: dalla linea Rafelson/Hellman uscirà un cinema pensoso e introverso, tutto stile e pregnanza, come quello di Paul Schrader (un cineasta la cui isolata grandezza, osservata retrospettivamente, si sta­ glia sempre di più nel tempo); da quella di Altman, invece, un cinema per taluni versi barocco, frastornato, talvolta addirittura affastellato che porterà alla catena che va dal discepolo Alan Rudolph al contem­ poraneo Paul Thomas Anderson di Magnolia. E infine - ma senza alcu­ na consequenzialità cronologica - da queste due linee audacemente so­ vrapposte nascerà un altro cinema ancora, quello che per comodità identifichiamo qui in Martin Scorsese (non Tarantino, per carità, che è stato solo un ingegnoso emulo, ma che l’operazione scorsesiana l’ha capita e assimilata solo nella sua superficie). È paradossale che a partire dal suo film che ne riassume il senso, l’importanza, l’innovazione, Robert Altman si sia incamminato verso il proprio (temporaneo) tramonto. Buffalo Bill, Tre donne, Un matrimo­ nio, Quintet sono, a diverso titolo, dei fallimenti dei quali, nel caso mi­ gliore (Tre donne) si può dire - come affermò Daniel O’Brien a propo­ sito di Terapia di gruppo - che sono dei cattivi film di Robert Altman. Altman, cioè, nel migliore dei casi ha imitato se stesso, ha fatto dei film che sono manieristici rispetto al suo cinema più grande: ha fatto insom­ ma dei film come li avrebbe fatti Robert Altman, e non dei film di Altman. Capita spesso con i grandi nomi: Fellini è un altro esempio, e in certa misura persino Antonioni. Molti dei suoi temi e delle sue compo­ nenti ormai tradizionali sono ancora lì: il gioco e le sue regole, la realtà come sistema di segni cifrato che va letto con attenzione, la Storia come un enorme carrozzone spettacolare retto e governato dal Capitale, la volatilità dei rapporti di gruppo e la gratuità del rito cerimoniale, e tan­ to altro ancora. Ma in quei film il regista ripete senza convinzione quel­ lo che ne aveva fatto la grandezza pochi, pochissimi anni prima. È a questo punto che il cinema di Altman - apparentemente giunto al massimo del suo rigoglio - sfiorisce, lasciando orfano un pubblico che nel frattempo, anche grazie a lui, aveva preso sempre più coscienza del cinema come ricerca, sperimentazione, audacia, complessità, in­ venzione nell’ambito stesso (inaudito!) dei circuiti commerciali (il rap­

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porto fra opus altmaniano e grande pubblico, i modi della sua fruizione e le ragioni del suo successo rimangono, fra l’altro, ancora tutti da stu­ diare). Forse non è un caso se di lì a non molto la filmografia altmaniana si indebiterà vieppiù con vari soggetti di origine teatrale: Come Back to the Five & Dime, Jimmy Dean, Jimmy Dean, Streamers, Secret Ho­ nor, Pazzo d’amore, Terapia di gruppo. Qualcuno più riuscito, qualcun altro meno. Nell’insieme, comunque, sembra che il regista - dopo le esperienze in certa misura ancora corali di Una coppia perfetta e so­ prattutto di Health - si trovi più a suo agio restringendo il campo d’os­ servazione, operazione che gli è evidentemente facilitata da un’azione originariamente concepita per il palcoscenico (anche se bisogna am­ mettere che quando ha voluto Altman è riuscito ad allargare conside­ revolmente anche il ristretto spazio delle quinte: Buffalo Bill era tratto dal noto testo di un cocco del nuovo teatro americano, Arthur Kopit). Non bisogna tuttavia fare l’errore di considerare questa fase del suo cinema con la condiscendenza che comunque si deve a chi è stato a suo tempo un maestro. Vi sono cose di questo periodo che denotano chiaramente non solo l’abilità del vecchio leone, ma anche e soprattut­ to la sua consapevolezza teorica, così gloriosamente evidente nella produzione che arriva alla metà degli anni Settanta. Lo ha capito bene, per esempio, Flavio De Bernardinis, che, parlando di Pazzo d’amore, parafrasa una battuta di Eddie sulla verità e la menzogna nel racconto adattandola alla funzione deH’immagine: “Un’immagine è falsa se tu credi che sia una immagine vera. Ma se sai già che è falsa, allora non è veramente falsa”. L’intero II lungo addio era incentrato su questa fon­ damentale differenziazione, che ha ovviamente le sue radici nella cele­ bre formula di Samuel Taylor Coleridge sulla “willing suspension of di­ sbelief” (volontaria sospensione di incredulità), ma che, applicata, co­ me vuole De Bernardinis, all’immagine, comporta un potenziale di ric­ chi sviluppi teorico-pratici. Che un racconto possa essere falso è per­ fettamente concepibile, ma come può un’immagine essere falsa? Certo, se ricorriamo alla tradizione e alla conoscenza, questo è possibile: se, poniamo, un quadro ci mostra Golia che abbatte Davide con una fion­ da noi abbiamo ogni diritto di ritenere falsa quell’immagine. Ma, tra­ lasciando ovviamente il caso puramente provocatorio della optical art, possiamo noi ritenere falso un qualunque quadro di Max Ernst solo per il fatto che non vi rintracciamo alcuna verosimiglianza con l’imma­ gine a noi nota di persone, animali o cose? Come si vede, il problema qui impostato è quello della verità della fantasia, del vero estetico e non della semplice riproduzione della real­ tà. E a questo punto anche il supposto quadro che inverte la storia di Davide e Golia acquista una sua verità indipendentemente dalla tradi­

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zione e dalla conoscenza. Anzi, proprio grazie a esse, ché attraverso la vera storia di Davide e Golia possiamo leggere l’intenzione dell’artista che ne ha ribaltato i termini. Come che stiano le cose, si vede bene che il cinema altmaniano (anche quello che ha meno appassionato pubblico e critica) è sempre e comunque il risultato di un fermento intellettuale e teorico di alto pro­ filo. Jimmy Dean, Jimmy Dean ne è un altro esempio, interessante stu­ dio al limite fra teatro e cinema, nel quale gli attori sono chiamati a un’interpretazione (nei limiti del possibile) a-cinematografìca e nel quale, come del resto Altman ha sempre predicato, anche il fuoricam­ po assume un’importanza irrinunciabile nell’economia della messa in scena: quasi l’azione avesse una vita propria che l’obiettivo copre per quel che gli è possibile coprire, ma che nondimeno continua indiffe­ rente all’atto e alla riuscita della ripresa. Questa volta non è più possi­ bile cavarsela con il facile gioco di parole (“teatro da camera”, nel dop­ pio senso di quest’ultimo termine): Altman sceglie un testo - di Ed Graczyck - nella miglior tradizione del teatro claustrofobico america­ no (La foresta pietrificata di Robert Sherwood, I giorni della vita di William Saroyan e via dicendo), ma rinuncia immediatamente a farne il solito teatro fotografato. La via che segue, tuttavia, è opposta a quel­ la di chiunque sino a quel momento abbia tentato di “filmicizzare” un qualunque testo teatrale (qui niente macchina da presa mobilissima, niente continui jump cut, pochi campi e controcampi di retorici primi piani, niente rifiuto del flashback, niente intrusione di improbabili sce­ ne open air, eccetera). Certo, egli non può rinunciare alla grammatica fondamentale del mestiere, ma gli attori sono chiamati a una recita senza soluzione di continuità, cui l’apparato di ripresa deve in qualche modo adeguarsi, e non il contrario. L’assenza di una soluzione di con­ tinuità è così rigida che persino nei flashback i vari soggetti appaiono nel loro aspetto attuale, un po’ come la matura Peggy Sue di Coppola che si aggirava fra liceali rockeggianti in stile anni Cinquanta della sua giovinezza. Come ha scritto Helene Keyssar nel suo peraltro inconcludente Robert Altman's America, in questa pellicola il regista “può disperdere il punto di vista della macchina da presa con facilità”. E la macchina da presa si muove effettivamente in questo ristretto spazio (come del resto anche in quello altrettanto ristretto del seguente Streamers) con la stessa scioltezza dimostrata nelle pellicole “corali”, le quali - è bene ricordare - non finiscono certo con Nashville, Un matrimonio e Heal­ th, ma troveranno una nuova apoteosi in America oggi e anche nel me­ no apprezzato ma tutt’altro che fallito Pret-a-porter. Anzi, è proprio all’insegna di una stupefacente nonchalance forma­ le che Altman rientra, per così dire, a pieno titolo nel cinema america­

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no: la famosa sequenza iniziale di I protagonisti è un tour de force quasi unico nel quadro di quella produzione. “Quasi” perché - non foss’altro - incombe storicamente e comparativamente su di essa il celeberri­ mo precedente di Einfemale Quinlan di Orson Welles. Ovviamente le differenze sono tante: per esempio l’atmosfera notturna e cupa del bianco e nero di quest’ultimo, la cui drammatizzazione viene esaltata dall’ossessività della musica, talché lo spettatore percepisce immedia­ tamente che qualcosa sta per accadere, deve accadere; o anche, sempre in Welles, un movimento di (fra) immagini che si presentano come par­ ti evidenziate, privilegiate di un quadro locale più ampio e in fondo, al­ meno apparentemente, sempre sotto controllo. Ma non c’è dubbio che in ambedue le sequenze domini un’abilità tecnica superiore, si esibisca comunque la firma di un grande autore. E grande autore Altman tor­ nerà dunque a essere agli occhi di tutti. 1 protagonisti fu soltanto un’occasione: in realtà il film cui il regista teneva davvero era quel che sarebbe poi uscito come America oggi. Boi­ cottato dalle case di produzione, il suo copione dovette lasciare il passo all’altro, che tuttavia si trasformò a sua volta in trionfo. I protagonisti si presenta come una sorta di enciclopedia, o di dizionario, della Hol­ lywood del suo tempo. Vi compaiono decine di attori e cineasti al­ quanto noti, talvolta in cameo role, talvolta interpretando se stessi. L’effetto è non poco straniarne: è norma infatti che l’apparizione sullo schermo di un personaggio celebre nelle vesti di se stesso laceri il tes­ suto fittizio del film - di qualunque film - lasciando intravedere una piccola porzione di realtà che cozza contro il castello di carte della nar­ razione filmica. Lo spettatore vaga incerto fra quel che c’è di vero e quel che è invece ancora del tutto inventato nel segmento narrativo che gli si propone. Una casa di produzione, la Paramount, si era addirittura specializzata negli anni Quaranta in questo tipo di scherzo metacine­ matografico: era quasi regolare, per esempio, che nei film della serie “La strada di...” (Tfee Road to...) con Bing Crosby e Bob Hope facesse prima o poi capolino una qualche star che si presentava come se stessa e che con la sua sola presenza mandava i due protagonisti in brodo di giuggiole, accolta con scherzi di carattere professionale, giochi allusivi e via dicendo. Altman riprende questa piccola tradizione hollywoodiana, che pe­ raltro è alquanto in linea con la forte e importante componente meta­ cinematografica dell’intera sua opera (si pensi al caso limite di II lungo addio), ma la utilizza in un contesto nel quale essa risulta più che giu­ stificata e prevedibile (dopotutto, la pellicola si svolge a Hollywood). L’effetto di straniamento, piuttosto, è dovuto alla iterata frammistione di personaggi veri e falsi, di noti attori o cineasti che interpretano qual­ cun altro e di attori o cineasti altrettanto noti che interpretano se stes-

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si: un accostamento sarebbe in fondo gestibile, ma due, tre, quattro o più accostamenti generano incertezza e confusione. Altman insomma non rinuncia mai a inventarsi altri modi di lace­ ramento del testo, di messa in crisi, in dubbio, in questione dei fonda­ menti convenzionali che lo regolano. Come scrive la Martini, I protagonisti è il primo film di Altman a ritornare arioso e corale dopo i lunghi anni claustrofobici precedenti (teatrale o meno che ne fosse stata l’ispirazione). Ed è anche il suo pri­ mo film corale a uscire di metafora e a parlare direttamente di cinema. Sì, perché non c’è dubbio che da Nashville a Pret-a-porter quel tipo di pellicole, oltre a essere un affresco allusivo della vita nel suo insieme, fossero anche un continuo, pervasivo commento al mondo dello spet­ tacolo, e dunque anche e soprattutto una sineddoche del cinema. Qui il cinema figura per davvero, la piccolezza, la miseria, la vuotezza di que) mondo si pavoneggiano in primo piano giungendo a denunciare la propria definitiva amoralità. Anzi, la pellicola in questione - forse proprio per l’immediatezza di cui si diceva - è quella che più fortemen­ te esibisce il profondo interesse morale del regista, certamente un grande tecnico e un consistente teorico, ma anche un intransigente mo­ ralista. Ma non è soltanto I protagonisti a esibire in modo chiaro e in­ controvertibile questo suo aspetto. In fondo, a ben vedere, tutta l’ulti­ ma produzione altmaniana mostra in modo più diretto la moralità dell’autore. Il lungo addio, California Poker e gli altri di quell’epoca avevano certamente un’ossatura morale di notevole spessore (e del re­ sto, abbiamo cercato di provarlo e mostrarlo anche in queste righe), ma mai comeìn questi ultimi anni Altman ha lasciato intravedere tanto chiaramente questa irTrportante^componente del suo cinema. Se si met­ te a confronto l’immagine della politica, poniamo, in Nashville e Kan­ sas City, non si potrà non leggere un più forte coinvolgimento in senso etico nella seconda pellicola: in Nashville la politica è osservata con ironia e disincanto, mentre in Kansas City essa appare con le fosche tinte della criminalità. Allo stesso modo, per quel che riguarda il mon­ do dello spettacolo, se si confronta Nashville con Prèt-à-porter, non si potrà non notare che gli arrivisti che costellano il primo film non giun­ gono mai alle bassezze di quelli che vediamo nell’altro; e questo non tanto perché oggettivamente vi sia fra loro una differenza, ma soltanto perché è il modo scelto da Altman nel descriverli che è cambiato: fa­ mosi o ignoti i musicisti di Nashville sono presentati come risibili nella loro prosopopea o nel loro orgasmo di successo, mentre stilisti e gior­ nalisti di Prèt-à-porter si abbassano a compiere atti miserabili e degra­ danti (o comunque profondamente stupidi). Altman, insomma, sembra essere invecchiato non nella direzione di una saggia superiorità ironica nei confronti della follia del mondo, ma in quella di una sempre mag­

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giore (e comprensibilissima) intolleranza verso la malafede e la gagliof­ faggine, soprattutto in un settore che si propone in termini di raffina­ tezza, eleganza e sofisticatezza. Questo non significa che il regista perda o indebolisca la sua mano comica. Anzi, viene da riflettere che nel suo insieme il cinema di Altman è in definitiva sempre e comunque (almeno parzialmente) comico. Infatti, se si escludono le pellicole di ispirazione direttamente psicana­ litica e pochissime altre del periodo “daustrofobico” (Streamers, per esempio) nelle quali le problematiche psicosociali sono accentuatissi­ me, il cinema di Altman mostra sempre, in vario grado, una compo­ nente leggera che solleva a tratti anche la situazione più drammatica: da quello che in ultima analisi è anche un film di guerra come MASH a un affresco della dissoluzione morale americana (e forse non solo ame­ ricana) come America oggi, non è necessario aspettare opere come La fortuna di Cookie per avere da Altman film che mostrino componenti di carattere comico. Lo stesso Kansas City, che mi sembra la critica non abbia piena­ mente compreso e apprezzato, pur presentandosi come un’opera cupa­ mente faulkneriana (il suo inizio mostra addirittura cadenze squisita­ mente gotiche), è cosparso - del resto proprio come non poche opere del maestro del Mississippi - di momenti leggeri. È possibile che queste frammistioni facciano parte di una tendenza generale verso la dissoluzione dei generi iniziata ancora con la New Hollywood (cioè il momento che in pratica vide l’esordio del nostro regista), ma è anche vero che esse si presentano qui con l’inequivoca­ bile firma altmaniana di una giustapposizione di momenti, scene, situa­ zioni, personaggi contrastanti nel tono e nel trattamento. A differenza, insomma, dalla pratica New Hollywood che vuole sulla scena un per­ sonaggio tragicomico, Altman costruisce situazioni di forte tensione e insieme momenti di sconsiderata leggerezza da parte di un qualche suo personaggio in modo da allentare quella tensione, sì, ma da non com­ prometterla con una contaminazione (una frammistione, se si preferi­ sce) di atmosfere. È tuttavia vero che questa prassi si rileva più fortemente nell’ulti­ ma parte della sua produzione, laddove in precedenza la svagatezza di personaggi e situazioni coinvolgeva molto di più il suo cinema. In altre parole, nella sua prima produzione vige un tono comico più deciso, mentre in questi ultimi anni, esso si alterna con quello che è probabil­ mente il risultato di un pessimismo sempre in crescita nel suo cinema. Non credo sia questa però la cifra di maggior interesse che l’evo­ luzione della sua opera offre. Altman rimane un innovatore primamente e soprattutto nella con­ cezione strutturale del film, probabilmente l’autore americano più im­

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portante nella nuova impostazione della narrazione determinata dal gi­ ro di boa del postmodernismo. In un’epoca di imperante (e breve) nuo­ vo realismo egli fece proprie e rielaborò istanze che la narrativa statu­ nitense in prosa aveva adottato e studiato nello stesso decennio del suo esordio per poi portarle negli anni Settanta a inusitate vette sperimen­ tali. Dove e come questo rapporto - o comunque questo collegamento - si sviluppò è cosa diffìcile da indicare. Un romanzo come La festa di Gerald di Robert Coover, per esempio, mostra enormi somiglianze (ovviamente nel linguaggio prosastico che gli compete) con uno qua­ lunque dei film corali di Altman: dire chi ha influenzato chi, ripetiamo, è cosa impossibile. L’osmosi fra romanzo e film in questi ultimi decenni ha preso forme e modi che rendono impervia ogni filologia. E anzi in un’epoca in cui i vecchi apocalittici tuonano contro il primato dell’im­ magine è bello pensare che fuori da un’accademia troppo spesso pol­ verosa e muschiata due forme d’arte narrativa si osservano, si studiano in totale serenità e traggono l’una dall’altra ciò che ritengono meglio loro s’addica per un sempre più intelligente e cosciente sviluppo dell’una e dell’altra. Altman ha percepito prima di ogni altro la nuova atmosfera e l’ha presentata nei termini a lui più congeniali. Egli ha avvertito la crisi dell’identità che travagliava e ancora travaglia la nostra contempora­ neità. Per questo già nei suoi primi film si moltiplicano i nomi (le varie Barbara di California Poker, per esempio), si articola un medesimo bra­ no musicale secondo gli stili più diversi e sempre adeguati alla situazio­ ne mostrata sullo schermo (la canzone titolare in II lungo addio, per esempio), si amplia a proporzioni d’affresco il quadro senza che nessun personaggio vi venga proposto come protagonista ma soltanto come tessera di un enorme mosaico (Nashville, per esempio), si organizza il tema centrale costruendovi ogni volta attorno elementi di diversione che non ne permettono la piena visione (le rapine in Gang, per esem­ pio), si monta un intero e lungo film attraverso frammenti minimi nar­ rativamente non connessi in modo da bloccare sul nascere l’identifica­ zione con i personaggi e le situazioni senza che per questo ne venga in­ firmato un giudizio morale (America oggi, per esempio). Tutto insom­ ma nella sua opera contraddice le usuali strutture costruttive e ricetti­ ve, tutto emerge come un immenso sforzo di rivedere i canoni cui ci aveva abituato un cinema che non è più e che pure noi continuavamo a pensare vivo. Altman si è preso sulle spalle il difficile compito di tra­ ghettarci verso altre dimensioni della narratività cinematografica, e c’è riuscito nonostante tutti coloro che in buona o in malafede l’hanno av­ versato. E l’ha fatto pur sapendo che “comunque vada, siamo in trappola”, pur sapendo che, indipendentemente dalla sua riuscita, il mondo non

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sarebbe cambiato: sarebbe cambiato soltanto il nostro modo di osser­ varlo e pensarlo. Che è l’obiettivo cui tende ogni vero artista, ogni vero innovatore: l’unica rivoluzione che ormai ci è concessa.

Riferimenti bibliografici La notazione sull’utilizzazione del sonoro, quella sul diniego altmaniano di essere nel “morality business”, quella sulle diversioni della macchina da presa, nonché la critica di Daniel O’Brien a Terapia di gruppo, sono in Emanuela Martini, Il lungo addio. LAmerica di Robert Altman, Lindau, Torino, 2000; la frase di Gilles Deleuze sulla morale è nel suo Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 1975; la parafrasi della battuta di Eddie in Pazzo d'amore è di Flavio De Bernardinis, Robert Altman, La Nuova Italia, Firenze, 1990; la notazione sulla dispersione del punto di vista è in Helen Keyssar, Robert Altman's America, Oxford UP, New York-Oxford, 1991.

Capitolo 10

Memorandum per la critica: ringraziare Woody Alien

Woody Alien è uno di quei cineasti che, amati dal pubblico, la cri­ tica - anche la più benevola - non è mai riuscita a prendere del tutto sul serio. Fino a lo e Annie questo poteva in fondo essere comprensi­ bile, dal momento che tutto il suo cinema precedente si prestava in fondo, nell’insieme, a essere letto come una divertente esercitazione di pretta derivazione cabarettistica americana. Era del resto da quell’area che Alien veniva, vuoi come stand-up comedian, vuoi come autore di testi per altri comici. Ma era anche vero che quella prima parte del suo lavoro non si prestava facilmente a essere confusa con quella di altri colleghi attori più direttamente e superficialmente comici di lui. Essa riposava infatti su una cerebralità di matrice alquanto originale che non permetteva paragoni né con personalità del passato ancora ope­ ranti come Jerry Lewis né con altre del presente come Mel Brooks (che peraltro divideva, e divide, con Alien una comune origine ebraica). L’ascendente primario riconosciuto dallo stesso Alien era piuttosto Groucho Marx. Su questa ascendenza, peraltro, si è favoleggiato anche troppo e studiato troppo poco. Il rapporto con Groucho si ravvisa più per il meccanismo paradossale della battuta che non per un’identica vi­ sione del mondo. La comicità dei Marx è di origine popolare, laddove, per universale ammissione, quella di Alien è intellettuale. Ancor prima di passare alla regia Alien aveva mostrato inequivoca­ bilmente la fonte della propria vocazione in una sceneggiatura come quella di Ciao, Pussycat!, la meno citata delle sue cose originali scritte appositamente per lo schermo, e invece quella in cui si legge il suo de­ stino di cineasta comico (almeno per quanto riguarda la futura “prima fase” della sua opera). Ciao, Pussycat! è un tipico calderone alleniano nel quale quelli che saranno i suoi temi preferiti nei seguenti trent’anni occupano un posto di rilievo sul suo personale palcoscenico: l’amore e la fedeltà, il disagio della psicanalisi, la letteratura come genere e for­ ma da parodiare (in questo caso la commedia sentimentale e, molto al-

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leniano, la sua stessa parodia, il vaudeville alla francese e la pochade). Ne nasce uno splendido caos che tocca vertici non distanti dalla zona surrealista, e che è probabilmente la cosa più vicina, fra quelle da lui fatte, al mondo dei Marx. Ma tutto, sempre, verniciato di un intellet­ tualismo, di letture, influenze, allusioni che con il mondo dei Marx hanno ben poco a che fare. È per questa sua componente cerebrale che i primi film di Woody Alien suscitarono in tanta critica una reazione di rigetto fortissima (“un coglione”, lo liquidò senza mezzi termini su Quaderni piacentini quel Goffredo Foli che negli stessi anni si era applicato alla rivalutazione di Totò). Era facile infatti perdonare i lazzi e i frizzi del primo venuto che scivolava ancora una volta su una buccia di banana, ma non si poteva passar facilmente sopra al fatto che Woody Alien faceva ridere ugual­ mente il pubblico più superficiale e la critica più sofisticata. Eh sì, per­ ché la critica rideva, e rideva forte. Poi se ne usciva dalla sala come se nulla fosse successo. Sempre in quegli anni Guido Fink aveva scritto molto bene che la differenza fra un grande come Buster Keaton e un comico come Woody Alien stava nel fatto che la comicità di quest’ul­ timo era raccontabile. In altre parole, Keaton era cinematografico, Al­ ien no. La cosa, bisogna dirlo, era alquanto vera. Pure, ridurre il primo Al­ ien a questi termini sarebbe operazione parziale e deviarne. Per prima cosa Alien faceva ridere “con le parole”, è vero, ma infilando nelle sue pellicole anche una visione parodistica del cinema stesso e dei suoi ge­ neri (il prison film, la fantascienza, il film-verità, il film in costume). La natura metalinguistica del cinema alleniano era davanti agli occhi di tutti, talché l’isolato cineasta nuovayorkese si stava conquistando un posto perfettamente adeguato nel periodo dominato dalla produzione New Hollywood, notoriamente alquanto incline all’autoreferenzialità e, nell’insieme, a porsi come nostalgia del passato cinematografico americano nel momento più critico di una lunga era produttiva. Ma c’è anche un’altra e anche più importante ragione. Sin dall’ini­ zio il cinema di Alien denunciava alcune componenti che si sarebbero in seguito chiaramente e ottimamente sviluppate - tanto da farne il “ca­ so” cinematografico americano più sorprendente fra gli anni Settanta e gli Ottanta - e che certo testimoniavano nella direzione non soltanto di una seria cultura cinematografica, ma anche in quella di un universo morale che attendeva soltanto di maturare per poter divenire universo autoriale. Alludo prima di tutto a quella sua mai sopita componente bergmaniana rintracciabile sin dai tempi della sequenza dell’incubo in Jl dittatore dello stato libero di Bananas, ma, più largamente, a quell’os­ sessione nei confronti di temi come l’amore e la morte che avrebbero ispirato persino un suo titolo (in Italia, purtroppo, Amore e guerra), che

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è a mio avviso la sua cosa più bella, sincera, dolente e profonda nella dichiaratamente comica produzione del primo periodo. In fondo già nel primo periodo il Woody Alien che seguirà è tutto presente: chi siamo, dove andiamo, c’è qualcuno lassù? L’unica diffe­ renza è che nel suo cinema iniziale Woody vi aggiunge di norma un “E se c’è perché fa tanto baccano?”, esorcizzando la serietà delle sue que­ stioni ma certo non eliminandola. Vi sono tre tipi di comici: quelli che ti fanno pensare, quelli che non ti fanno pensare e quelli che potrebbero farti pensare. Eppure si tratta di una distinzione discutibile: in effetti sta soltanto a noi eserci­ tare la facoltà del pensiero, non c’è Keaton e non c’è Chaplin che possa mostrarci la sua grandezza se noi non la vogliamo vedere accontentan­ doci di quella scala che, sulla spalla del protagonista, gira per un ango­ lo di 90° e sbatte sul muso di un poveretto che è dietro di lui. Lo stesso è con Alien: la tentazione di dire che si tratta di un comico del tipo che “potrebbe far pensare” (ma non lo fa) è forte, ma osserviamo le se­ quenze-verità dell’intervista con i genitori di Virgil in Prendi i soldi e scappa, osserviamo lo smarrimento di Fielding in Bananas ogni volta che si ritrova davanti la donna che lui ama dopo che ne è stato rifiuta­ to, osserviamo - splendida concezione visuale, e dunque linguistica e formale - il soldatino russo Boris di Amore e guerra sperduto nel cam­ po di battaglia sul quale si sta giocando la partita della Storia in piena era napoleonica: nessuno è tenuto a leggervi, a percepirvi una corrente di solitudine, di tristezza, di impotenza, chiunque ha il diritto di uscir fuori in una bella, grassa risata, o peggio di restarsene indifferente a quel che gli viene mostrato. Significherà questo che Woody Alien è un comico da poco (o magari non lo è affatto)? Significherà che l’elemen­ to determinante di quell’intervista sono i baffi, il naso e gli occhiali alla Groucho? Che Fielding il suo abbandono e il suo smarrimento se li è meritati perché è poco più che un povero schmuck? Che non basta un soldato sperduto come Boris Grushenko mentre attorno a lui infuria la battaglia per darci il senso dell'impotenza del singolo di fronte alla Sto­ ria e che quindi Alien ha speso un sacco di soldi per nulla nelle scene belliche di Amore e guerra? Io non credo. Io quella corrente la sento, e dunque esiste. Perché questa è la grandezza del cinema: ciò che mi comunica è vero, anche se è vero soltanto per me. Di più ancora: se la sento, un elemento di verità oggettiva vi deve albergare perché non si improvvisa un rappor­ to così stretto fra immagine e sentimento, così come del resto non si improvvisa nemmeno la più scontata sequenza di gag in una slapstick comedy. Insomma, Woody Alien non è un comico che “potrebbe far pensare”: no, è un comico che pensa. Ciò che lo caratterizza - e che a parecchi al tempo suonò come un errore, o comunque come un difetto

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- è che, una volta impostato il problema, Woody se ne sbarazza subito con una battuta-colpo-di-coda, quasi a dire: so benissimo come stanno le cose, e adesso che vi ho dato (e ho dato a critici e intellettuali) questa garanzia, vorrei farci sopra una bella risata. Aggiungendo in sordina: attenzione, però, perché dietro a tutto quello che vedrete e udrete e che può essere occasione di una bella risata c’è anche qualcos’altro, esattamente quello di cui ho fatto finta di liberarmi poco fa. Insomma, dell’amore e della morte non ci si libera mai. Ci si libera - quando e se lo si fa - di un approccio a essi. Con Io e Annie e ancor più con Manhattan Alien scopre (e/o dimostra) che può parlare di ciò che gli sta a cuore senza necessariamente contrabbandarlo passando per il sentiero della comicità. Pieni di momenti divertentissimi, i due film si pongono prima di tutto come vividi ritratti della vita nuovayorkese e il loro successo presso il pubblico di mezzo mondo ci parla non solo dell’eccezionale comicità e intelligenza di Alien, non solo del­ la sua ammirevole capacità di cambiare restando se stesso, ma anche e soprattutto di come la nostra civiltà abbia di necessità eletto quella me­ tropoli a punto di riferimento della contemporaneità. Questa componente nuovayorkese rimarrà da quel momento in­ tatta nel suo cinema, ma vieppiù arricchita dall’inquietudine culturale e morale del regista, talché pellicole come Stardust Memories, Un’altra donna, Alice, Hannah e le sue sorelle, Mariti e mogli, Crimini e misfatti e altre ancora possono essere lette, anche se soltanto in parte, in quella chiave. A partire da quel momento il cambiamento non fu soltanto una questione di dosaggio, non si trattò di controllare la componente co­ mica del suo cinema, ma di proporre una versione comica (nobilmente comica, certo) di ima visione quotidiana del mondo. In pratica, Alien, a partire da Io e Annie, ha ribaltato le sue procedure: nella prima fase un cinema dichiaratamente comico lasciava intravedere - a chi lo vo­ lesse - un mondo di pensiero abissale, vertiginoso, comunque serissi­ mo, ma sempre fortemente diluito nella dominante sostanza comica che lo caratterizzava; in seguito il regista ha ritratto un mondo proble­ matico temperato dalla costante presenza e coscienza della commedia che alligna dietro a ogni dramma, a ogni interrogativo, a ogni contrad­ dizione. In ultima analisi, la sostanza non cambia. Cambia invece il ci­ nema, cambiano i film. Alien continua le sue riflessioni sulla coppia co­ me istituzione, sui sentimenti e la fedeltà, sul tempo che passa lascian­ do segni che è bene prepararsi ad accettare in modo serenamente ras­ segnato, sul cinema stesso come coacervo di splendori e miserie. Messa così, sembrerebbe di avere di fronte un uomo di sensibilità e intelligenza che un bel giorno ha pensato di utilizzare il cinema me­ glio di quanto non avesse fatto in passato, scoprendo in esso un attrez-

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zo degno del suo pensiero e della sua coscienza. Ed è questa, taciuta o dichiarata, l’opinione della critica nei suoi confronti: dal momento che Alien ha dimostrato di non essere affatto “un coglione”, bene, allora si tratta di un intellettuale che gioca col cinema, che lo osserva, lo muove, lo manovra riuscendo sempre a rimanere all’altezza di se stesso, magari riscattando quel passato (la “prima fase”) un po’ vergognoso di buffo­ ne colto, di pagliaccio non privo d’ingegno. Solo che Alien buffone non lo è mai stato (se non occasionalmente, in specifici momenti di questo o quel suo film, quando qualche battuta e qualche gag infelice o grossolana hanno fatto capolino in un tessuto ben più solido e fon­ dato) perché la sua figura è piuttosto quella del fool shakespeariano, cioè quella di chi, unico fra tutti, ha la percezione dell’assurdità nasco­ sta all’interno dell’ordine dei valori socialmente costituiti e accettati, e decide quindi di farsene beffe sovvertendo la logica che la sostiene e parlando per metafore e altre fantasiose figure retoriche. Ha perfetta­ mente ragione Maurice Yacowar quando sostiene che i personaggi di Alien (per esser più esatti, quelli interpretati da lui) sono figure di stra­ ordinaria rettitudine morale. Più in generale, anzi, va aggiunto che il suo è un cinema moralmente impegnatissimo: si possono pensare film più eticamente coinvolti di Crimini e misfatti o La dea dell’amore? Ombre e nebbia - a mio avviso una delle pellicole più vicine alla perfezione fra tutte le sue - catalizza non tanto un problema morale quanto il tema esistenzialista del Dasein e della colpa: esistere è una continua scommessa con la responsabilità, non solo in riferimento a quello che si è fatto, ma soprattutto a ciò di cui non si è colpevoli, poi­ ché il solo essere-nel-mondo è in questo senso un rischio. È in un quadro del genere che si chiariscono un film come Zelig e il ruolo del suo protagonista. Zelig è ciò che tutti saremmo o vorrem­ mo essere se evitassimo quello che comporta l’entrare in un rapporto di relazione con gli altri. Zelig è infatti soltanto gli altri, poiché ha ri­ nunciato strutturalmente a essere se stesso. Pellicola che oltretutto in­ terpreta perfettamente l’episteme centrale dell’era postmoderna, la sua mancanza di soggetto, Zelig è la punta di diamante di un modo preciso, ampio e personalissimo di pensare il cinema da parte del suo autore. Zeligt cioè, è il film-terminale della visione del mondo alleniana, la struttura di riferimento ultima dei problemi che agitano il suo universo psicologico e morale. Zelig è quel che volentieri vorrebbero essere Alice, Marion, Sandy, Kleinman e tanti altri antieroi alleniani compresa quella Cecilia che ne inverte il modello entrando in rappor­ to con delle ombre invece di scegliere di diventare un’ombra fra per­ sone reali - se soltanto trovassero la paradossale forza di cancellare l’ultimo nesso che li collega tormentatamente alla loro personalità, quei problemi, quelle angosce, quei dubbi, quelle domande che se da

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un lato ne tribolano la soggettività, dall’altro consentono però loro di rimanere soggetti. La soggettività: in certo senso il problema è tutto lì. In Crimini e misfatti Cliff ne ha poca, Lester crede di averne tanta, e Judah è quello che ne ha davvero; ce l’ha così quantitativamente adeguata che riesce a tacitare anche la coscienza di un omicidio. La soggettività in Alien, infatti, è proprio questo: ciò che se non cade sotto il sia pur debole, im­ potente controllo del dubbio consente i peggiori crimini, i più orribili oltraggi alla morale. Ma posta la questione in tali termini Alien non ne uscirebbe diver­ samente da un letterato, da un filosofo, e naturalmente da un umorista. Quanto detto sopra ha valore - se ha valore - unicamente per sostene­ re che la sua opera non può essere presa per eccentricità, ghiribizzo o altro del genere, ma che invece denota in modo incontrovertibile un universo morale riconoscibile e complesso. Resta la questione del mo­ do in cui tale denotazione è proposta dall’autore. La distinzione strutturale e procedurale fra il primo periodo alle­ ntano e il resto della sua produzione (la quale può naturalmente essere a sua volta suddivisa in ulteriori fasi) coincide anche con quella forma­ le. Nei film strettamente drammatici (Interiors, Settembre, Un’altra donna) Alien dichiara direttamente il suo debito con Bergman: segue i personaggi a distanza ravvicinata in interni e ambienti adeguati alla lo­ ro psicobiografia, ne tallona i dialoghi giocando abilmente da un lato fra campi e controcampi e dall’altro fra tagli di diversa distanza in una bella, elegante serie di combinazioni sempre efficaci nel dinamicizzare un confronto mentale e verbale altrimenti troppo complesso o troppo distraente. Alien ha certo visto e amato molto Bergman, ma, va detto, non è difficile ravvisare in queste sue pellicole il segno di una tradizio­ ne (teatrale prima ancora che cinematografica) di stampo americano. È la tradizione giunta a Broadway attraverso la forte influenza checoviana, passata per la talvolta pesante stilizzazione di O’Neill e infine frammentatasi nelle varie versioni del dramma borghese di stampo me­ tropolitano (Arthur Miller), provincial-decadente (Tennessee Wil­ liams) e provincial-intimistico (William Inge, un uomo di teatro che un giorno varrà la pena di riconsiderare e rivalutare, anche se, francamen­ te, il più lontano dagli interessi alleniani). Non è dunque un caso che spesso e volentieri Alien abbia scelto di collaborare con attori che, pur avendo avuto esperienze cinematografiche (e talora anche di grande spessore), sono però principalmente astri di Broadway e, di norma, proprio di quella tradizione teatrale cui il suo cinema drammatico si ispira: Colleen Dewhurst, Geraldine Page, Dianne Wiest, E. G. Mar­ shall, eccetera. E in questo quadro lo stesso Pallottole su Broadway non può non essere letto come un’amabile, divertente e affettuosa critica a

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quei teatro e a quell’ambiente (gli anni Venti essendone stati probabil­ mente il vertice), oltreché, naturalmente e in modo tipicamente alte­ rnano, all’idea di arte e di artista. Naturalmente la forte componente autocritica e autoironica di Alien non gli permette altro che l’imposta­ zione del problema (di norma, come si diceva, strettamente esistenzia­ le), ma si tratta pur sempre di un problema elaborato e vissuto in seno a una civiltà che denuncia subito le sue radici democratiche, liberali, moderne. Ovviamente non è soltanto questione di contesto cronologi­ co, ma di un linguaggio che è quello della modernità medionovecente­ sca e di una fantasmatica (nonché di un sistema morale) di classe facil­ mente riconoscibile. Ciò che rende particolarmente interessante dal punto di vista cinematografico questa peraltro esigua produzione alleniana non è tanto il suo “bergmanismo” (davvero un autore può essere letto, visto, apprezzato perché ci ricorda Joyce o Antonioni? non ab­ biamo forse l’originale a nostra disposizione?) quanto il modo in cui il regista dimostra, in sede filmica, la sua totale indipendenza dalle pre­ cedenti e pur meditate esperienze sullo stesso materiale. Non v’è nulla, in quelle sue pellicole, di ciò che spesso si percepiva vistosamente in al­ tri film tributari della medesima tradizione teatrale. In questo assecon­ dato anche dal suo eccezionale umorismo, Alien conduce il gioco con grande sensibilità drammatica, sì, ma anche evitando i modelli di com­ portamento attortale cui ci aveva abituato quel teatro (e soprattutto quel cinema), tali da articolarsi come una specie di grammatica behavioristica, una volta familiarizzati con la quale lo spettatore poteva per­ sino prevedere il gesto, la parola, lo sguardo che ne sarebbero seguiti (dalla scuola mattatoriale italiana del primo Novecento all’Actors’ Stu­ dio la casistica nell’applicazione attortale di questi modelli è vastissi­ ma). Con Alien no: un guizzo improvviso, una battuta semicomica, persino un vuoto inatteso nella dinamica dell’azione, conferiscono a queste sue pellicole una patina diversa da quella che qualifica di norma la tradizione teatral-cinematografìca cui appartengono. E la dimensio­ ne memoriale che a tratti vi prende corpo narrativo concreto (per esempio, in Un'altra donna), cioè non resoconto riferito ma inattesa parte dell’azione - come del resto è da sempre costume del regista an­ che in pellicole di altro tenore, pur appartenendo di diritto alle tema­ tiche del modernismo novecentesco, si presenta spesso temperata da un umorismo che, del tutto adeguato al tono degli altri film, qui diven­ ta fattore di diversità, tecnica ironica che riscatta ogni potenziale tra­ gedia nel sorriso di carattere divino che, nel trattare i problemi e i do­ lori degli uomini, tanto piaceva a Thomas Mann. Del resto anche nei suoi film posteriori più direttamente sviluppati su un versante di comicità Alien ha dimostrato di essere in marcia verso un continuo perfezionamento formale. E anzi, si può affermare che la

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distinzione è quasi di comodo, dal momento che tecnicamente non molto distingue gli uni dagli altri. Ambedue i gruppi rientrano in un quadro di carattere teatrale, costruiti come sono di scene incentrate sul dialogo e ben poco sull’azione (con qualche occasionale eccezione di valorizzazione della seconda, naturalmente, come per esempio in Om­ bre e nebbia o Misterioso omicidio a Manhattan). In ogni caso la domi­ nante scenica è quella di un interno o di un esterno nel quale due o più personaggi confrontano le loro vedute sul loro rapporto o su qualche problema di vita. Ciò che ammalia in Alien, oltre ovviamente alla scop­ piettante scorrevolezza e al formidabile umorismo delle parole, è la cu­ ra con cui il regista si ingegna di allestire la città come messa in scena negli esterni e gli interni come fossero una città personale degli indivi­ dui che li abitano (il caso limite essendo lo straordinario appartamento della prostituta in La dea dell’amore: che cosa parla di lei più di quella scenografìa?). L’unica differenza forte fra i due gruppi di pellicole è nel montag­ gio. Da provetto comico Alien sa perfettamente che anche nel cinema è tutta questione di ritmo, e mentre nella commedia dichiarata, da Broadway Danny Rose a Una commedia sexy in una notte di mezza estate^ egli ne adotta uno vorticoso e a tratti spezzato, in opere più nar­ rativamente tranquille come Manhattan o Mariti e mogli la giustappo­ sizione di scene ed eventi (o forse sarebbe meglio dire: incontri?) man­ tiene, per così dire, una linea media di frequenza adeguata al tempo più disteso dei vari piani, mentre nei film dell’altro gruppo (quelli dichia­ ratamente drammatici, cioè) o i piani sono più lunghi, e con essi ovvia­ mente la frequenza degli stacchi, o sono più lunghi i silenzi e nel con­ tempo l’obiettivo si fa più stretto al personaggio in campo (soprattutto se protagonista) così da produrre l’impressione di una sorta di “largo” visivo, di un tempo reso lento dall’elaborazione dell’immagine e dalla (assenza di) colonna sonora. Insomma, Alien è un regista e se l’è guadagnato. Ma la critica ha sempre qualche arma in serbo. Se prima era “un coglione”, oggi non è raro sentir dire all’uscita di ogni sua pellicola: “Sì, bello, ma fa sempre lo stesso film”. Perché, non era così anche con Bergman? Come che sia, provatevi oggi a dire che la comicità - e se è per que­ sto l’intero cinema - di Woody Alien è raccontabile. La perfetta comu­ nione fra l’irresistibile verbalità del suo umorismo e il senso dello spa­ zio, dei costumi, del ritmo nella costruzione di storie e ambienti è già un fatto di grande rilevanza. Se a questo aggiungiamo l’organizzazione di un complesso universo morale, e fra i più tormentati e consapevoli, non può sfuggire l’ingenerosità di certi atteggiamenti e commenti. Woody Alien fa sempre lo stesso film? Dato e non concesso che ciò sia vero, dovremmo soltanto ringraziarlo.

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Riferimenti bibliografici La differenza fra la comicità di Groucho e quella di Alien è trattata più ampiamente nel mio L’età dell’occhio. Il cinema e la cultura ame­ ricana' Lindau, Torino, 1999, in particolare nel capitolo “Il riso, la morte e i diavoli: ancora su Woody Alien e i fratelli Marx”; l’afferma­ zione di Guido Fink sulla raccontabilità dell’umorismo allentano è nel suo classico saggio “La struttura era un albergo”, in Paragone, 274, Di­ cembre 1972; sulla rettitudine morale dei personaggi di Alien si è espresso Maurice Yacowar, Loser Take All. The Comic Art of Woody Al­ len' Ungar, New York,1979.

CAPrroto 11 Cowboy, locuste e scarafaggi: tre film hollywoodiani di John Schlesinger

Da Stroheim a Sternberg, da Lubitsch a Clair, da Renoir a Lang, da Wilder a Wyler, da Richardson a Boorman esiste tutta una tradizione di espatriati europei più o meno temporanei che andarono, bene o ma­ le, a rimpinguare la già fiorente industria hollywoodiana. Chi vi portò ironia e melodramma insieme a una ventata di Mitteleuropa ormai se­ polta, chi un forte alito di romantico esotismo e di pittoresco, chi un’essenzialità stilistica unita a uno psicologismo di gloriosa tradizio­ ne; altri vi lavorarono dall’interno fingendo di accettarne i moduli etici e nel contempo dispiegando la propria caustica vena ironica, altri sati­ reggiandone scopertamente certi miti culturali, altri ancora rivisitando metalinguisticamente i generi di quel cinema stesso. John Schlesinger, regista per molti versi squisitamente britannico, fa parte del gruppo. E quel che più importa, non vi si perde, non tra­ scolora indistintamente fra quei nomi, ma segue vie che non si presta­ no facilmente al confronto o al rimando e che in un modo o nell’altro esprimono fedelmente la sua linea autoriale. Venuto al cinema “commerciale” da esperienze documentaristiche, Schlesinger sembra per questo forse anche più adatto di altri a un cine­ ma di critica sociale, o anche semplicemente a esercitare il suo occhio critico nei confronti di una realtà - specificamente, quella americana che non è originariamente la sua e che si presta ampiamente ad analisi impietose, a sguardi d’accusa, alla denuncia, alla discussione. Eppure sbaglierebbe chi vedesse nel regista di Terminus (1961) un populista vociferante o un assertore del “cinema sociale”, o anche sem­ plicemente un fustigatore austero di una società consumistica e di mas­ sa come quella statunitense. Non va infatti dimenticato che il cinema di Schlesinger nasce, all’inizio degli anni Sessanta, cullato dai ritmi e dagli ambienti del Free Cinema britannico: la piccola borghesia più o meno tranquilla è il suo primo interesse (laddove, a dire il vero, nei re­

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gisti di quella corrente principale protagonista era stato spesso il pro­ letariato nazionale), e per certi versi il suo cinema si presenta anche co­ me psicologico, quasi intimista. Piccole storie di insoddisfazione indi­ viduale, piccole miserie della vita quotidiana sono Una maniera d’ama­ re (A Kind of Loving, 1962), che resta una delle sue cose migliori, e per taluni versi anche Billy il bugiardo (Billy Liar, 1963): storie di frustra­ zioni, di matrimoni sbagliati, di sogni di fuga mai realizzati. Insomma, un cinema provinciale, o quantomeno un cinema di ambienti periferi­ ci, suburbani, grigi come come le vite dei suoi protagonisti, nel quale è ancora avvertibile la matrice documentaristica dell’autore, l’attenzio­ ne ai personaggi, certo, ma anche alle cose, agli oggetti, al costume. Un cinema, quindi, in minore, sommesso persino nell’ironia che spesso l’accompagna. E anche quando il cinema di Schlesinger dimostra di sa­ per tenere altri ritmi, di organizzarsi secondo un respiro più vasto e arioso, il risultato è una pellicola come Via dalla pazza folla (Far from the Madding Crowd, 1967), tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Hardy, il quale tutto è tranne che cinema urbano adeguato ai tempi della grande metropoli e dell’illusione individualistica di una società massificata. A questo punto sorgerebbe più che legittima la domanda su come un regista di questo tipo possa avvicinare una realtà frenetica e travol­ gente come quella americana (o almeno di una certa America). Una prima risposta la fornisce un film che a suo tempo riscosse un notevole successo, Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy, 1969). Un uomo da marciapiede è un’opera che non a caso fu a suo tempo assimilata al nutrito gruppo di film americani vessilliferi di un nuovo clima nella cinematografia statunitense. La storia di questa apparente “rivoluzione” è nota e non è ora il caso di ripercorrerla nei particolari. Diciamo soltanto che verso la fine degli anni Sessanta Hollywood sco­ perse l’antieroe in diretta antitesi con i personaggi a tutto schermo che avevano dominato il suo cinema per decenni. Nuovi volti vennero re­ clutati sanzionando il trionfo del bom loser, dello shlemiel che orimai da alcuni anni dominavano anche nella narrativa americana. Almeno a partire da Saul Bellow e Bernard Malamud (ma la storia è lunga e risale almeno ai grossi nomi del “rinascimento americano”) per arrivare a Stanley Elkin, Thomas Berger, Bruce J. Friedman, eccetera, la scena letteraria vede la vittoria incontrastata del personaggio programmati­ camente escluso dalla vittoria, del perseguitato, della vittima, dell’im­ potente e dell’imbelle, chiara metafora non solo delle minoranze etni­ che (con particolare riguardo a quella ebraica) che di quell’immagine contemporanea furono il punto di partenza, ma dell’uomo medio ame­ ricano tout court e, se si vuole, dell’America nel suo complesso. Tra­ piantato in ambito cinematografico, il mutamento comportò fra le al­

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tre cose una revisione dei generi cinematografici classici: il bandito è un vinto, sì, ma senza il tradizionale e manicheistico moralismo carat­ teristico di quel genere di film: il cowboy è ormai figura d’altri tempi, superata dal progresso industriale, dai grandi trust, dall’anonimato mi­ naccioso di forze più grandi di lui che non possono semplicisticamente, ancorché coraggiosamente, venire eliminate in un classico duello alla pistola nella main street di un qualsiasi paesino del West; il detective raggiunge, sì, l’obiettivo della sua ricerca, ma attraverso una vera e propria Bildung esistenziale e morale che lo porterà a rivedere radical­ mente la scala di valori sulla quale i suoi giudizi e la sua visione del mondo si erano fino ad allora fondati (in questo, a dire il vero, antici­ pato da certi personaggi bogartiani degli anni Quaranta). In questo senso il Joe Buck di Schlesinger rientra, come dicevamo, a pieno diritto nella tradizione del “nuovo” cinema hollywoodiano. Lo qualifica anzi ulteriormente, sotto questo riguardo, persino la sua ori­ gina letteraria: il film fu infatti tratto dall’omonimo romanzo di James Leo Herlihy, come del resto origine letteraria hanno molti dei lungometraggi schlesingeriani. Ma il regista, assieme allo sceneggiatore Wal­ do Salt, vi ha apportato delle modifiche: in particolare, ha pressoché soppresso la prima delle due parti del libro, quella cioè relativa alla vita del protagonista nel Texas, che nel film torna di tanto in tanto nella forma di rapidi flashback dall’atmosfera alquanto vaga e incompiuta. Soprattutto non compare nella pellicola la figura di Tombaby, il ragaz­ zo indiano nel quale Leslie Fiedler ravvisa un perfetto esponente del personaggio dell’anti-Pocahontas, che, a suo avviso, investe gran parte della letteratura americana contemporanea come forma finale dell’in­ diano in quanto personaggio e tema di quella cultura. La seconda parte del romanzo, invece, è seguita quasi letteralmen­ te. In altre parole, ciò che sembra interessare Schlesinger è l’aspetto vi­ stosamente mitico, a livello di tematica culturale, del romanzo di Her­ lihy, e in particolare quel classico modello americano del movimento, del viaggio, che caratterizza la letteratura americana dai suoi esordi a oggi, si chiamino i campioni d’analisi Gordon Pym o Moby Dick, Huckleberry Finn o Look Homeward, Angel, The Reivers o The Catcher in the Rye, On the Road o The Abortion. Ma il mito del viaggio è soltanto uno fra quelli presenti nel film co­ me nel romanzo in questione. Il Fiedler, che di questa problematica si è occupato a fondo, ravviserebbe facilmente nell’amicizia fra Joe e Ri­ co un ulteriore esempio di quel rapporto omosessuale latente che già aveva, e in modo alquanto convincente, rinvenuto nei grandi classici della narrativa statunitense. E ancora si potrebbe aggiungere un altro tipico modello mitologico americano - e del resto questa volta non so­ lo americano - quel contrasto, facilmente leggibile fra le righe del libro

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e in parte anche del film, fra provincia (campagna) e città, un tema caro alla cultura americana almeno dai tempi di Washington Irving. Ecco, l’occhio di Schlesinger si appunta in prima istanza sull’arse­ nale mitologico della cultura americana, e forse non a caso la sua scelta cade sul libro di Herlihy, abbastanza moderno per piacere al grosso pubblico, ma non per questo alieno da quelle classiche costanti tema­ tiche della cultura statunitense. Di più: date per scontate le ovvie e rilevanti differenze culturali, non è insostenibile affermare che il personaggio di Joe Buck è in fondo una sorta di Billy Liar che finalmente ha trovato la forza di fuggire da quel piccolo, ristretto, mortificante mondo provinciale che per anni l’ha umiliato, frustrato, avvilito; non è insostenibile affermare che l’avventura di Joe è la sconsolata risposta, sia pure in chiave di cultura e ambiente americani, agli interrogativi che l’ipotetica fuga di Billy aveva posto. In piena linea con i miti (o gli incubi) della cultura ameri­ cana, essa non avviene con una adolescente libera e anticonformista, ma col Queequeg, col Jim di turno, ovvero con l’equivalente urbano dell’uomo di colore meridionale, del rappresentante delle minoranze emarginate e bistrattate, il figlio di due poveri immigrati italiani, spre­ gevole a occhi WASP alla stessa stregua di un uomo di colore (e non per nulla il soprannome del personaggio, che questi odia, presenta lam­ panti connotazioni dispregiative: Ratso). Anche Joe, come Billy, si crea un suo mondo ideale del quale egli è il principe incontrastato: non la potenza e la fama dell’intrepido condottiero, dell’abile statista del­ l’immaginario paese di Ambrosia, come Billy, un europeo e quindi direttamente condizionato dalla storia e dalla politica, ma il trionfo sessuale dell’uomo conteso dalle donne per la sua potenza e la sua abi­ lità erotica, viatico al denaro e al successo. Il mito di Joe è in sostanza la saldatura di due miti contestuali della vita americana: il successo ses­ suale e il successo economico. Non che l’Europa non sia affetta dalla stessa malattia, ma in essa gli stessi miti si presentano smussati da strati­ ficazioni intellettualistiche, da filtri che portano nomi austeri: “tradi­ zione”, “storia”, “cultura”, “passato”, ovvero ciò che il più autoctono dei grandi scrittori americani ottocenteschi, Mark Twain, maggior­ mente detestava dell’antica madrepatria, ciò che egli rifiutava a priori di porre a fondamento della letteratura come della cultura e della vita americane. Naturalmente il sogno di Joe rimane un sogno. L’impatto con la metropoli, con la sua vita spietata, frenetica, crudele ne travolge il bal­ danzoso, giovanile ottimismo. Ma non la speranza. Per tutto il film Joe - e Rico con lui - farnetica del momento in cui il successo sperato esploderà per loro. Rico, anzi, vive doppiamente questa speranza: da un lato come evento che cambierà la miseria della sua vita, dall’altra co­

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me sogno di vitalità e di bellezza, di amore e reintegrazione nella socie­ tà degli esseri “normali” da cui lui, storpio ed etnicamente inferiore, è escluso. Si vede bene come Schlesinger abbia sviluppato alcuni dei suggeri­ menti più o meno espliciti del libro di Herlihy: in particolare, come egli abbia elaborato in termini di melodramma quello che poteva esse­ re uno schizzo sociale. Di conseguenza, il finale lacrimevole e pietoso si imponeva nei modi esatti in cui il regista l’ha trattato: Rico muore a pochi passi dal coronamento del suo sogno di felicità e di sole (una Flo­ rida, quella agognata dall’italiano, che ha in sé tracce di retour au pays), e Joe ha compiuto la sua Bildung gettando via gli abiti del ribelle e del gaudente e scegliendo di inserirsi col lavoro in modo attivo e par­ tecipe nel contesto sociale. A questo punto nello spettatore sorge un dubbio: questo sordido melodramma di miseria e di atroce speranza, questa education di un giovane dell’Ovest a contatto con la grande città dell’Est, questa lacri­ mevole storia di un piccolo e storpio reietto italiano che vive di espe­ dienti e per interposta persona un piacere e un successo che sono solo illusione persino per il biondo e aitante americano, è davvero quello che sembra? È possibile che Schlesinger - un autore che, pur nella sua dominante asciuttezza, non è peraltro alieno da moduli melodramma­ tici (per esempio in Via dalla pazza folla, o persino nella scelta del com­ mento musicale di Domenica maledetta domenica, [Sunday, Bloody Sunday], 1971, il Mozart di Così fan tutte) - abbia semplicemente vo­ luto trattare in chiave di melodramma una “storia americana” nella sua tipica mitologia tematica? Se così fosse avrebbe senza dubbio ragione tutta quella critica - abbondantissima - che ha visto nel film, pur am­ mirevole nel taglio del montaggio, nella fotografia, nella musica, un classico prodotto di consumo, un conte moral fatto su misura per blan­ dire un pubblico avido di storie edulcorate, sia pure dietro l’apparente lineare asciuttezza della pellicola. In realtà basta rovesciare i termini del discorso e leggere Un uomo da marciapiede come la storia di cui si diceva, ma costruita come let­ tura ironica della mitologia americana. La storia “morale” di Joe Buck, allora, dall’“educazione” della classica zia twainiana (qui nonna Sally Buck) che però più realisticamente se la spassa con uomini diversi dalla mattina alla sera mentre il piccolo Joe se ne resta silenzioso, quasi jamesiano testimone, alla ribellione e al sogno di successo del ragazzo nei termini di cui si diceva più sopra, fino all’irregimentazione (e usiamo qui non a caso la parola con cui Saul Bellow chiude in tripudio il suo Dangling Man) finale diventa allora scoperta critica di alcune classiche “American attitudes”, non ultima quella della lacrima inof­ fensiva, incompromettente con cui si osserva il destino delle mino­

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ranze, dei reietti sociali, della schiuma etnica esclusa a priori dal digni­ toso e insieme dinamico decoro deWAmerican Way of Life. È un fatto che se la coppia Joe-Rico può indubbiamente reggere come allegoria dell'emarginazione urbana in America, non può altret­ tanto indubbiamente essere presa a diretta testimonianza, a documen­ to della vita miserevole di quegli stessi reietti nella metropoli spietata. Ciò è provato non solo, come si diceva, dalla scelta melodrammatica operata dal regista, ma anche dall’assenza dell’impiego cinematografi­ co del registro documentaristico (ciò che è tanto più strano se si pensa alle già citate origini documentaristiche - e di ottima qualità - del ci­ nema di Schlesinger). Il rapporto in termini visivi fra il personaggio e la città - soprattutto per quel che riguarda il vero protagonista del film, il destinatario della sua morale, Joe Buck - è pressoché costantemente risolto in termini “antropocentrici”: vale a dire, a differenza di certo cinema narrativo di superfìcie documentaria (due elementi, peraltro, di diffìcile combinazione sin dai tempi di Mutter Krausens fahrt ins Gluck di Jutzi), l’attenzione della macchina da presa non si appunta sul per­ sonaggio in rapporto all’ambiente, ma solo e sempre sul personaggio e le sue reazioni all’ambiente. L’ambiente, insomma, non vive di vita propria come elemento oggettivo e autonomo nel quale il personaggio si immette come una delle componenti dell’ambiente stesso (o anche, se vogliamo, come sua espressione sul versante umano), ma come ele­ mento funzionale alla storia psicologica e morale del personaggio, vero e proprio protagonista del film. Che un regista di chiare origini documentaristiche come Schlesin­ ger abbia operano una scelta del genere è quindi perlomeno sospetto. Ma considerando il taglio narrativo melodrammatico cui si accennava, che alimenta la tematica squisitamente americana del film, non è chi non veda come la scelta psicologica e sostanzialmente tradizionale che Schlesinger ha compiuto, nella direzione del personaggio inteso come protagonista e non come funzione e parte di un quadro di analisi so­ ciale, sia in sostanza l’unica possibile ai fini della logica interna dell’opera. L’America di Un uomo da marciapiede, dunque, è un’America iro­ nizzata nei suoi termini sovrastrutturali, una favola - solo apparente­ mente realistica - di buoni sentimenti e di integrazione, un addio all’adolescenza e una scelta verso una maturità di dubbia sostanza, una realtà che attende al varco chi vuole aprire facili parentesi di successo condannandolo a vivere come un incubo tutti i miti della sua cultura per poi instradarlo, una volta ridotte ai minimi termini tutte le velleità, nella direzione dell’onesto anonimato della produttività sociale. Stando a un’intervista concessa dal regista, ancor prima di Un uo­ mo da marciapiede Schlesinger avrebbe voluto girare un’altra riduzio­

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ne cinematografica da un romanzo americano, e questa volta di un ca­ polavoro: The Day of the Locust di Nathanael West. Una scelta che già di per sé suggerisce, unitamente a quella di Un uomo da marciapiede, un interesse non casuale da parte del regista nei confronti degli Stati Uniti. Sorsero però delle difficoltà e Schlesinger dovette temporanea­ mente abbandonare il progetto. Evidentemente le difficoltà permasero anche dopo il successo dell’altro film poiché il film che seguì fu Dome­ nica, maledetta domenica, opera straordinaria che non ha sempre rice­ vuto dalla critica l’accoglienza che meritava. Pure, ai fini del nostro di­ scorso, questo ritardo è quasi una fortuna perché, a parte qualsiasi al­ tra considerazione, ci permette di guardare al film seguente - appunto Il giorno della locusta (The Day of the Locust, 1975) - con la scorta di un parametro utilissimo. Ambedue le pellicole, infatti, sono film sulla crisi di due mondi, di due nazioni. Pure, non si potrebbero concepire opere più diverse a tutti i livelli. Ma di Domenica, maledetta domenica in rapporto all’altro film parleremo più avanti. Come Un uomo da marciapiede anche II giorno della locusta si in­ serisce in una corrente del cinema hollywoodiano di quegli anni. Allu­ do alla moda rétro, o se si preferisce, a quel cinema della nostalgia che negli anni Settanta furoreggiò in patria e all’estero. Anche questa volta non è necessaria la cronistoria di questo tipo di film, iniziato verso la fine degli anni Sessanta come momento specifico di quel più generale fenomeno di rinnovamento di cui si diceva. Gangster Story (Bonnie and Clyde, 1967) di Arthur Penn e II massacro di San Valentino (St. Va­ lentine’s Day Massacre, 1967) di Roger Corman sono fra i primi titoli indicativi del genere (se di genere si può parlare), che dovrà proseguire con opere diversissime quali America 1929: sterminateli senza pietà (Boxcar Bertha, 1972) di Martin Scorsese, Dillinger (id., 1973) di John Milius, Paper Moon (id., 1973) di Peter Bogdanovich, Chinatown (id., 1974) di Roman Polanski, Il grande Gatsby (The Great Gatsby, 1974) di Jack Clayton e, sul versante di un passato più recente ma non meno nostalgico, L’ultimo spettacolo (The Last Picture Show, 1971) di Peter Bogdanovich, Come eravamo (The Way We Were, 1973) di Sydney Pol­ lack, American Graffiti (id., 1973) di George Lucas e cento altri. D’altro canto è noto che il romanzo di West fa parte di una ricca tradizione narrativa americana che ha come oggetto Hollywood e che annovera romanzi come The Last Tycoon di Fitzgerald (Elia Kazan ne girò la versione cinematografica nel 1976), The Deer Park di Mailer, What Makes Sammy Run? di Schulberg, per non dire di Horace Mc­ Coy su su fino a Stuart Kaminsky. E non è azzardato affermare che l’opera di West - per un certo tempo sceneggiatore cinematografico egli stesso - è probabilmente la più complessa e ambiziosa fra le con­ sorelle, dal momento che, a differenza di esse, il suo bersaglio è in so­

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stanza una metafora generale dell’America, discorso su una nazione “sotto specie cinematografica”. Ma non va dimenticato almeno un altro livello di significato, que­ sta volta strettamente connesso al solo film che da quel romanzo Schlesinger - sempre con la collaborazione di Waldo Salt - ne ha tratto: l’aspetto metalinguistico, poiché II giorno della locusta è un film che parla di cinema, e come tale non può, nel momento in cui il suo atteg­ giamento si fa critico, non compromettere se stesso in quanto film. La questione, come si vede, è complessa, più ancora di quanto non lo fosse il modo in cui essa si presentava nel romanzo di West. E dicia­ mo subito che coloro i quali hanno accusato Schlesinger di scarsa ade­ renza al testo originale hanno commesso un grossolano errore teorico prima ancor che specifico. Brendan Gill, per esempio, che con un’anali­ si tanto breve quanto puntuale elenca ciò che il film ha tralasciato o mu­ tato rispetto al libro e ciò che d’altra parte vi ha aggiunto. L’errore, di­ cevamo, è grossolano: non si vede infatti la ragione per cui uno sceneg­ giatore e un regista che si apprestano a trarre materia per un film da un romanzo debbano necessariamente osservare in modo stretto, pur nei limiti concessi dalle due diverse forme espressive, l’originale. Di più: non si vede nemmeno la ragione per cui essi non possano addirittura adattare a loro piacere un testo letterario in modo tale da variarne non solo alcuni più o meno importanti particolari, ma, al limite, lo spirito stesso, se il romanzo ai loro occhi può prestarsi semplicemente come un buon soggetto per un discorso estetico, sociale, politico, psicologi­ co, eccetera del tutto diverso daH’originale secondo le intenzioni degli autori. Non si vede insomma la ragione per cui un romanzo non possa semplicemente essere un puro e semplice spunto per un film che della sostanza dell’originale non conservi assolutamente nulla, come se il te­ sto letterario presentasse una sua superiore nobiltà rispetto a forme ar­ tistiche diverse, o comunque come se una sua priorità cronologica do­ vesse in qualche modo garantirgli una qualsiasi, e presunta, fedeltà da parte di un’altra forma artistica che superficialmente vi si ispiri. La questione è annosa e non è certo questo il momento di affron­ tarla in sede teorica. In secondo luogo, la severa critica di Gill e degli altri puristi manca clamorosamente il bersaglio anche in senso specifico. Il giorno della lo­ custa è infatti film aderentissimo allo spirito, alla sostanza, se non ai particolari, del romanzo di West. L’immagine d’affresco di una Hol­ lywood attorno alla quale si snoda il caotico, folle vicolo cieco degli emarginati, dei vinti, dei miserabili westiani non poteva essere più pre­ cisa nelle sue dimensioni di vacuità, di maschera del nulla. Schlesinger ha colto perfettamente le indicazioni di West pur rinunciando, forza­ tamente, a quella che è la caratteristica più personale dello scrittore: il

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grottesco. Il grottesco di West è puro stile, è materia tangibile dei suoi libri, ma sul piano del linguaggio letterario, della frase dai ritmi anor­ mali mutuati dai fumetti, come è ben dimostrato da Randal Reid, e in genere dalle varie forme della cultura di massa negli anni Trenta al suo “boom” in America. E sarebbe ovviamente stato assurdo che un mezzo di massa come il cinema ne rifacesse le cadenze imitando ciò che lo imita (dato e non concesso che questo fosse possibile, poiché una tec­ nica artistica “tradotta” acquista aspetti e sostanza che nel modello imitato erano del tutto assenti). Schlesinger ha quindi scelto quella che probabilmente era l’unica via possibile, evitando di cadere nel ridicolo, conseguenza ineluttabile per chiunque avesse tentato di “rifare” West. Sbaglia quindi Philip French quando accomuna i nomi di West e di Schlesinger sulla base di una supposta tendenza al grottesco di quest’ultimo. Grottesco che, d’altro canto, il critico riduce in modo alquanto approssimativo ai ter­ mini di “mean” e “vulgar”, certamente non estranei, in senso critico, al cinema del regista. Allo stesso modo non c’è da sorprendersi se in Sch­ lesinger “come ne) caso del film di Jack Clayton II grande Gatsby, un’opera economica, ellittica e stimolante è stata allungata come se l’estensione conferisse profondità” (anche se ovviamente non condivi­ diamo il giudizio negativo implicito nella frase né tantomeno l’accosta­ mento al superficiale film di Clayton). E soprattutto non c’è da sorpren­ dersi se, come continua il critico, la lettura del protagonista-narratore Todd Hackett come “visionary artist” non è affatto presente nella carat­ terizzazione che ne dà William Atherton, l’attore che lo impersona. Quest’ultima osservazione, anzi, ci porta in pieno nelle intenzioni e nel senso del film. E di nuovo dobbiamo ritornare alla vexata quaestio della riduzione cinematografica di un’opera letteraria, e in particolare, si badi bene, di un’opera letteraria del passato. Fra tutti coloro che han­ no lamentato una supposta scarsa aderenza di Schlesinger al testo di West non uno ha ricordato l’anno in cui il romanzo fu pubblicato, il 1939. Ora, Il giorno della locusta è un romanzo su Hollywood, ovvero su un luogo e su un’industria a tutt’oggi vivi e vegeti. Richiedere quindi a un film girato a quasi quarantanni dalla pubblicazione del testo cui si ispira un’aderenza stretta è pura follia, oppure inutile filologia. L’operazione di Schlesinger, salvo prova contraria, non è filologica, ma critica, non è della qualità più o meno realistica che esige il documento della sua immediatezza informativa, ma narrata. I casi quindi sono due: o il regista ha mantenuto (’ambientazione temporale alla fine degli anni Trenta proprio, e paradossalmente, per aderire alla lettera del roman­ zo, o per una ragione significante, ovvero interna al senso del film. Il giorno della locusta, si diceva, è un film su una crisi. Non una crisi in­ dividuale, ma la crisi di un’intera nazione e, attraverso di essa, di un’in­

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tera civiltà. È fin quasi ovvio sottolineare quanto il film scavi sino alle radici morali di quel mondo per mostrarci la sua completa mancanza di strutture etiche, l’aridità, la crudeltà che regolano, dietro l’apparen­ te cordialità e simpatia, tutti i rapporti umani. Lo stesso Schlesinger ha affermato che i personaggi della pellicola, rispetto a quelli di West, so­ no "more pleasant and likeable”, ciò che segna in misura ancora mag­ giore la tensione morale del film. Piccoli, vili esseri in cerca di fortuna, di successo, i personaggi dell’opera inscenano di nuovo il dramma atroce della Gold Rush, della corsa a un Eldorado che non troveranno mai. La Storia sembra scorrere su un piano diverso dal loro, la loro vita è regolata sui tempi falsi del metraggio di un film, dei take iterati, dei costumi - assurdi o accurati che siano - di un qualunque polpettone storico, degli squilli di un telefono che propone un ingaggio da com­ parsa. Dopo avere assistito alla proiezioni di un film comico come Ali Baba Goes to Town, con Eddie Cantor, Faye, Tod e il cowboy escono senza nemmeno fare attenzione al documentario nel frattempo iniziato che mostra un’imponente parata nazista in una Berlino ormai in mano a Hitler; mentre gli stessi tre personaggi sono a una cena all’aperto, ospiti di un messicano, e mentre ivi si sviluppa un volgare, perverso, sguaiato gioco erotico tra Faye e l’ospite sotto gli occhi ormai imbevuti di furia animalesca degli altri due, la macchina da presa indugia un mo­ mento sul giornale in cui viene avvolta la carne appena cotta al fuoco e che riporta a grandi titoli la notizia della firma del patto a quattro; quando Homer si reca da Tod per invitarlo a cena, perpetuando incon­ sapevolmente il penoso triangolo che dovrà sempre condizionare i rap­ porti di questi con Faye, la radio, cui nessuno bada, trasmette notizie sui nazisti e sulla posizione di Chamberlain; davanti alla folla ammas­ sata alla première di The Buccaneer, all’inizio della più atroce sequenza del film, passa uno strillone con i suoi giornali annunciando importanti notizie sugli inviti di Roosevelt alla popolazione mentre nessuno gli presta attenzione, e quando esploderà la furia della folla, in uno dei tanti roghi accesi per la strada verranno lanciati nel fuoco anche gior­ nali e riviste con l’effige del presidente americano, secondo un’icono­ grafia documentaria connessa a pratiche e rituali nazisti. Si vede bene, dopo tutto questo, che l’aderenza di Schlesinger all’ambientazione cronologica del romanzo di West non può essere causale. Mentre la Storia assiste impotente a una tragedia senza prece­ denti, la fabbrica dei miti di celluloide continua imperterrita a sfornare mostri insensibili, autosuffìcienti, sirene atroci che incantano non solo coloro che hanno fatto della loro vita una vuota smorfia di se stessa, ma anche coloro che di quei miti si pascono, che religiosamente si recano ad assistere all’epifania degli dèi durante ogni première al Grauman’s Chinese Theatre e che sono pronti a mutare la loro passione mistica in

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furore, la loro religione in cieca furia caotica, omicida e distruttrice al minimo scarto di realtà. Gli anni immediatamente precedenti lo scoppio della seconda guerra mondiale, insomma, fornivano un magnifico “ambiente” per il discorso di Schlesinger che, va da sé, supera in un certo senso quello di West, se non altro perché lo scrittore al momento della stesura del libro non aveva storicamente sperimentato l’ultimo atto dell’ascesa al potere del fascismo europeo. Ciò non toglie che West fosse comunque sensi­ bilissimo al problema, come dimostra soprattutto il suo terzo roman­ zo, A Cool Million, non solo una brillante esercitazione satirica sul mi­ to del successo in chiave positiva e ottimistica alla Horatio Alger, ma anche un indiretto studio dei fondamenti etici del fascismo americano. E chiaro quindi che l’aderenza cronologica del film al testo lettera­ rio trova la sua motivazione (o almeno quella principale) nella precisa e chiara opposizione che essa esemplificava tra l’irrazionalismo di una barbarie storica allora al suo apogeo e l’indifferenza assurda e colpevo­ le che i mezzi di massa, e in primo luogo il cinema come fabbrica di so­ gni, instillavano nell’uomo medio americano. Nel romanzo di West questa indifferenza era cecità nei confronti dei valori umani più alti, dall’amore all’amicizia, dalla dignità verso se stessi e verso gli altri alla chiara coscienza della falsità dei miti di massa. Nel film di Schlesinger il concetto si amplia e include anche l’incapacità di valutare la Storia, o quantomeno di ascoltarla. Per questo ci sembra che abbia ancora una volta torto Philip French quando afferma che “l’occasionale riferimen­ to in un cinegiornale alle minacciose attività di Hitler, alla radio a Chamberlain e a Monaco, e a Roosevelt nei titoli di giornale, stabilisce un periodo più che un contesto politico”. O meglio, French ha ragione solo a metà. È vero che i riferimenti storici del film non costruiscono un contesto politico, ma al tempo stesso non è vero che essi siano puri segnali di un periodo. L’intenzione di Schlesinger, come abbiamo det­ to, non è certamente quella di costruire un discorso politico, almeno in senso stretto, ma un discorso morale nel quale nazismo e miti di massa si equivalgono non tanto come fatti storici, ma come trionfo del­ la potenziale incapacità umana di razionalizzare la propria situazione. Il nazismo è, sì, fenomeno storico, ma solo in quanto evento atroce che scivola sulla superfìcie della massa intenta a celebrare i suoi riti non meno irrazionali, non meno bestiali, non meno distruttivi. In questo senso un’importante variazione apportata dalla sceneg­ giatura al libro riguarda proprio il personaggio centrale di Tod. Questi, nel romanzo di West, è il protagonista-narratore, colui che per la fun­ zione stessa che gli è devoluta nell’opera è, sì, parte in causa degli av­ venimenti (basti pensare al suo disperato amore per Faye), ma al tempo stesso è narratore, punto di vista del libro. Molto di più: nel romanzo

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Tod è un disegnatore in cerca di fortuna, mentre nel film ha un lavoro fìsso e di una certa importanza presso la National Films (un nome non casuale), è benvoluto dai suoi superiori e soprattutto, al momento di denunciare una criminale noncuranza dello studio che ha causato feriti e danni, si ritrae scegliendo la strada della sostanziale complicità con i colpevoli per trarne il proprio vantaggio (si veda l’importante sequen­ za dal barbiere dello studio, dove la resa alla menzogna e alla compli­ cità da parte di Tod è segnata dalla sua accettazione del taglio di capelli offertogli dal boss). La rinuncia di Schlesinger a mantenere Tod come la “voce” narran­ te del film e soprattutto l’integrazione totale del personaggio nelle compromissioni basse e criminose di quel mondo segnano senza dub­ bio una visione morale ancor più desolata e scettica di quella di West. Nel romanzo Tod, testimone innocente del male e della brutalità, im­ pazziva nelle ultime righe imitando l’urlo della sirena dell’ambulanza (e viene in mente l’urlo impotente e tragico con cui si chiude The Sound and the Fury di Faulkner) davanti all’apocalisse di Los Angeles, davanti al quadro che egli aveva sempre immaginato di dipingere e che in quel momento gli si realizzava sotto gli occhi, mentre una sorta di capro espiatorio mite e gentile, Homer, veniva fatto a pezzi da una fol­ la che dietro il culto della celluloide nascondeva le frustrazioni, la rab­ bia, la violenza di migliaia di miserevoli e anonime vite. Nel film, inve­ ce, Tod, personaggio non meno compromesso degli altri, e anzi più colpevole di loro perché capace di esercitare una visione critica della realtà e di discernere il bene dal male, e tuttavia complice della mala­ fede del potere, sembra morire nel tumulto, vittima di una forza che quasi opera una nemesi su colui che si era schierato a fianco degli “al­ tri”, di coloro il cui mestiere è quello di manipolare quella stessa forza. E la sequenza finale, completamente aggiunta rispetto al libro, che ve­ de Faye entrare nella camera affittata da Tod e ormai vuota e avvicinar­ si al fiore rosso nella crepa sul muro, il quale incomincia a sanguinare, è metafora di un’originaria speranza di purezza e bellezza travolte dalla violenza della quale ci si è fatti complici. Tutta la pellicola ruota in questo senso su una vera e propria op­ posizione. La sequenza di apertura è dominata da immagini vegetali e di acqua. Il residence di San Bernardino Arms è apparentemente un piccolo giardino dell’Eden, rigoglioso e verde. Ma quasi subito un per­ sonaggio fa allusione al terremoto del 1933 che pronostica il senso in cui il film dovrà svilupparsi: da un lato l’allusione è una metafora della crisi e della distruzione che a essa seguirà; dall’altro essa ci mostra l’im­ perfezione di quell’apparente Eden, il quale non è eterno, ma ha una storia, che per di più è una storia di morte. E le immagini di verde e di rigoglio continuano: Tod e Faye passeggiano sul viale dei divi e una

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carrellata orizzontale laterale ci mostra una coppia che gioca a tennis nel verde irrorato dall’acqua, che del resto compare persino nelle scene del cimitero. Ma non a caso il vero luogo emblematico del film è lo spiazzo sassoso davanti alla casa del messicano, con un unico albero stecchito e senza foglie, cui del resto Tod si ispirerà per il suo bozzetto della battaglia di Waterloo. Nonostante, insomma, le belle immagini di rigoglio e di vita, la vera realtà del luogo è quella di una vera waste land. E l’immagine, l’elemento che la compendia non è l’acqua, sostan­ za di un mondo che non è quello dei personaggi del film, ma il fuoco, come mostreranno senza ombra di dubbio le sequenze finali, nelle qua­ li automobili, giornali e pali telegrafici verranno dati alle fiamme (que­ sti ultimi crolleranno come grandi croci impotenti, a simboleggiare il trionfo brutale della vera religione della massa, quella della violenza); e brucerà la foto di Faye nella sua camera, e la camera stessa e gli atroci ritratti allucinanti di Tod, poiché ormai la riproduzione, l’imitazione del disegno fantastico non ha più senso né ragione di essere: la realtà della violenza e della morte è arrivata di persona. Poco importa che Schlesinger non abbia ripreso appieno il riferi­ mento di West all’ipotetico quadro di Tod, The Burning of Los Angeles. Probabilmente per lui riportare visivamente in modo fedele la compo­ sizione che Tod giorno per giorno medita avrebbe comportato un’im­ magine troppo precisa e diretta per suggerire quel senso di allucinazio­ ne e di atroce apocalisse che invece il quadro di Goya Mercoledì delle Ceneri attaccato al muro della sua camera e i volti di gesso della sua fantasia propongono nel film in modo più che sufficiente e che, come bene ha scritto Giorgio Cremonini, “è una non banale fusione di Munch e Kokoschka, composta all’interno di una stilizzazione frontale che rimanda a Ben Shahn”. D’altro canto quest’assenza è giustificata anche dal fatto che la compromissione di Tod nel film esclude, da parte del personaggio, una visione critica e morale così diretta come il pro­ getto dell’affresco avrebbe comportato. La crisi per Schlesinger investe tutti, nessuno ne è escluso, nessuno può ergersi a giudice, a critico, a osservatore esterno. In questo senso è estremamente interessante confrontare II giorno della locusta con un altro film dell’autore su una crisi storica e morale, Domenica, maledetta domenica. Come si diceva più sopra, i due film sono diversissimi, per taluni versi addirittura opposti. Mentre infatti II giorno della locusta si pre­ senta, dopo tutto, come un’opera di ampio respiro, come un affresco contrastato - persino nelle sue luci: morbide quelle relative alle se­ quenze con Estee, il capo-scenarista della National Films; spesso in pe­ nombra e artificiali quelle relative ai rapporti fra gli abitanti di San Ber­ nardino Arms; addirittura espressioniste, irreali, quelle delle apocalit­

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tiche scene finali - sulla violenza di un’intera società e del suo modo di (non) vivere la vita, Domenica, maledetta domenica è invece, come be­ nissimo affermò lo stesso regista, “a piece of chamber music”, un film apparentemente tutto psicologico, magari disinvoltamente scabroso, data la presenza di un rapporto omosessuale tutt’altro che ambiguo, un piccolo e perfetto spaccato di una certa buona borghesia inglese con­ temporanea, abbastanza anticonformista da dire parolacce, ma sostan­ zialmente ancora legata ai propri miti sentimentali, alle proprie abitu­ dini vagamente e superficialmente spregiudicate. Quel che però qui importa è il fatto che Schlesinger ha adottato i metri del film intimista per descrivere una crisi europea, anzi britanni­ ca, e quelli dell’affresco mastodontico per parlarci dell’America. La sua scelta, insomma, merita attenzione poiché evidentemente nasce da ra­ gioni tutt’altro che occasionali. Intanto, sarà bene mettere a fuoco quel­ la che ci sembra la vera ottica con cui guardare un film come Domenica, maledetta domenica. Meraviglia che un critico sensibile e acuto come Renzo Renzi abbia a suo tempo liquidato quest’opera dolente e asciutta come, appunto, un film intimista che evita i problemi invece di affron­ tarli, e che l’abbia intesa come un discorso non fatto sull’omosessualità e magari i suoi rapporti con l’invadenza della tecnologia. D’altro canto, nemmeo in patria lo sguardo è stato più felice: un ottimo critico come Thomas Elsaesser parla, del resto come Renzi, di sentimentalizzazione, di ambizioni antonionesche (ovviamente fallite), di un fato tragico su­ perficiale, definendo in sostanza il film un vero e proprio “disappoint­ ment”. In realtà, Domenica, maledetta domenica ci sembra uno dei mi­ gliori film inglesi del suo periodo, il cui formidabile fascino risiede nel modo perfetto in cui Schlesinger è riuscito, oltreché a sublimare ogget­ tivamente istanze ed esperienze del tutto personali (l’intero còté ebrai­ co della vicenda, per esempio, è autobiografico), a fondere pubblico e privato, storico e quotidiano sul registro del costume. Domenica, ma­ ledetta domenica è in sostanza un dramma a tre, ma questa volta l’eter­ no triangolo - senza contare l’immissione di un rapporto omosessuale - si eleva a paradigma della crisi di una società. Piccole anime in preda alla confusione dei loro desideri e dei loro sentimenti, i tre protagonisti del film sono il riscontro di un’intera nazione nella bufera. La radio nel­ le loro auto scandisce i termini economici e politici della crisi ed essi discutono con appassionata disinvoltura sul loro prossimo, assurdo ap­ puntamento; i giornali - non diversamente da II giorno della locusta riportano a tutta pagina le ultime notizie sul crollo gigantesco di un pa­ ese ormai avviato verso una tragica catastrofe ed essi se ne servono per coprirsi inutilmente dalla pioggia che li ha colti all’uscita da un elegante ristorante. Le strade di una Londra notturna sono invase da quelli che solo meno di una quindicina d’anni prima erano stati i Lambeth Boys

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di Karel Reisz - tutto sommato giovani simpatici, tutt’altro che alieni dal divertimento, ma anche capaci di lavorare seriamente, di dimostra­ re che la loro generazione non era quella che molti allora pensavano. Oggi i nuovi Lambeth Boys eccoli qui, a pattinare assurdamente per le strade di notte, ubriachi o in allucinante, disperata attesa, nei locali di una farmacia, che qualcuno giunga a fornir loro una ricetta per procu­ rarsi quegli stupefacenti di cui non possono fare a meno. E intanto, da­ vanti a loro, sopra di loro, scorre - a ben vedere allo stesso modo che per i personaggi di II giorno della locusta - la Storia. Il terribile, strug­ gente monologo finale del medico compendia tutto il senso centrale del film: una dichiarazione di accettazione, la testarda e insieme commo­ vente - nella sua incapacità di comprensione della realtà - affermazione della volontà di sopravvivere, la determinazione di aggrapparsi alle po­ che piccole cose che sono rimaste a chi è incapace di vivere la Storia, senza lottare, senza capire; sperando disperatamente che i propri pic­ coli problemi si possano espellere dalla mente e dal cuore (è un medico che parla, si noti) come con “un colpo di tosse”. Un film come Domenica, maledetta domenica meriterebbe ben al­ tro che questo breve spazio. Pure, esso qui ci interessa nella misura in cui può fornire un utile e chiarificante confronto con II giorno della lo­ custa. Si vede abbastanza bene come nei due film Schlesinger abbia im­ piegato registri di trattazione completamente diversi. Se Domenica, maledetta domenica è “a piece of chamber music”, Il giorno della lo­ custa è un vero e proprio “concerto grosso”: eppure gli intenti, come si diceva, sono simili, se non identici, la descrizione della crisi morale di una società alla luce e sullo sfondo di una crisi storica; anzi, in quan­ to crisi storica. Ciò che qui interessa particolarmente sono proprio le ragioni di queste opposte scelte. Prima di tutto, quelle dirette. In quan­ to film sull’America degli anni Trenta e sui suoi miti di massa, Il giorno della locusta non poteva, evidentemente, essere trattato a livello inti­ mista, come psicologico jeu de massacre fra pochi personaggi che “a porte chiuse” si dilaniano e si rincorrono in provvisorie alchimie, come Kammerspiel della mente e del cuore cui difficilmente si sarebbe potuta trovare una corrispondenza sociale al di fuori di esso (il gigantismo dell’industria hollywoodiana, del resto, escludeva a priori una possibi­ lità del genere). D’altro canto, Domenica, maledetta domenica si snoda in questo senso proprio perché film su una classe stabile e sostanzial­ mente chiusa, che per definizione non lascia irrompere nella sua vita e nelle sue abitudini eventi che non siano da lei stessa direttamente ge­ nerati e che comunque antepone miticamente le ragioni del cuore alla tragedia che la vede inconsapevole protagonista. E questo ci porta di­ rettamente alle ragioni culturali (nel senso più ampio) della diversità di

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scelte del regista. È sin troppo ovvio ricordare la qualità di overstate­ ment che caratterizza da sempre la cultura americana, l’enormità co­ stante di ciò che ne afferma il carattere, la struttura elefantiaca del suo mondo fantastico come di quello reale. Un’enorme maschera e un’enorme risata: caduta la prima, la seconda non può non trasformar­ si in omerico urlo di dolore, in universale e penetrante lamento di si­ rena che esce in modo allucinante dalla stessa voce umana in vociante e caotica apocalisse. La crisi di Domenica, maledetta domenica invece è europea, adirittura britannica, e quindi si sviluppa sul terreno dello spazio personale, l’unico nel quale - poco importa se incoscientemente o no - la crisi pubblica riesce a imporsi di riflesso, poiché là i problemi affiorano più fortemente come tali quasi sempre a livello esistenziale, come problematica concernente i rapporti personali. Cattiva coscienza borghese o tradizione filosofica che tende, dopo forti scosse storiche, a privilegiare una problematizzazione di carattere ontologico, non sta a noi dire. Sta di fatto che va ascritto a grande merito di Schlesinger avere capito a fondo questa formidabile differenza e averla conseguen­ temente tenuta ben presente nella costruzione dei suoi due film. Non va infine dimenticato che West presentava non pochi aspetti familiari a un uomo di cultura europeo. Il narratore di II giorno della locusta, infatti, è forse uno degli autori novecenteschi americani più di­ rettamente legati alla cultura e alla letteratura europea. Non solo nel modo vistosissimo in cui un The Dream Life of Bolso Snell si ispira alle esperienze del surrealismo, al romanzo confessionale dostoevskiano, ai decadentismo francese, all’agiografismo e alla filologia della più colta tradizione letteraria europea, ma anche per la sottile, affilatissima sati­ ra di swiftiana cattiveria di A Cool Million, per la grande e severa ispi­ razione cristiana - sia pure rovesciata nei suoi termini soteriologici e morali - di Miss Lonelyhearts. Ma un altro livello di lettura si presenta nel film. Quello, come di­ cevamo più sopra, di natura metalinguistica. Il giorno della locusta è un film sul cinema, e nel momento in cui si pone come lucida e spietata te­ stimonianza critica di questo coinvolge necessariamente anche se stes­ so. Se il cinema, o quantomeno il cinema hollywoodiano nella sua di­ mensione superproduttiva, è la vuota, cinica fabbrica dei miti di una so­ cietà pronta alla violenza, che solo provvisoriamente - capitalizzando­ la - esso riesce a incanalare nei suoi rituali di spettacolo (e che del resto quando esplode può facilmente venir presa per spettacolo essa stessa, o per forma delirante di tributo religioso - anch’esso nel film momento di spettacolo, sia nell’episodio di Big Sister, sia nella “lettura” che del riot finale fa lo speaker davanti al Grauman’s) allora anche II giorno del­ la locusta in quanto film - e film che si avvale di tutte le risorse della su­ perproduzione - è compromesso, è momento di illusione proprio

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quando si pone paradossalmente come momento di critica e di verità. L’antinomia è irresolubile. Ed ecco allora l’estremo messaggio di Schle­ singer porsi necessariamente in una forma diversa da quella che sem­ brava essere definitiva. Il cinema è il cinema: qualsiasi critica che si ap­ punti su di esso in quanto strumento di falsità, di distorsione, di ma­ scheramento della realtà, per quanto sincera sia deve inevitabilmente sottostare alle leggi di ciò cui il cinema stesso riconduce: il capitale. È il capitale che produce il cinema in quanto maschera della realtà, in quanto mito (e fonte di miti) produttivo; e soprattutto è al capitale che, sia pure in modo del tutto involontario, rimanda anche il cinema inte­ so come critica (di se stesso come della più immediata realtà), poiché, ormai è fin troppo noto, il capitale riesce a fare merce anche del dissen­ so. Che Schlesinger quindi si sia rivolto senza mezzi termini alla superproduzione hollywoodiana, ricostruendo, ci ricorda Andrew Meyer, a dimensioni reali il Grauman’s, l’incrocio fra Orange Drive e Hollywo­ od Boulevard, affittando Rolls-Royce nuove fiammanti del 1938 ecce­ tera, e non, poniamo, ai canali del “cinema indipendente” o comunque a basso budget (come invece ha fatto, per esempio, il Paul Morrissey di Calore [Heat], 1972) è indice di una scelta precisa per un regista che, dati i suoi trascorsi, non può certo essere tacciato di malafede. E il valo­ re e il senso di questa scelta risiedono proprio nella scelta stessa: non la volontà di fare un discorso sul cinema in termini senza dubbio meno compromettenti quali quelli offerti per definizione da un cinema indi­ pendente a distribuzione e fruizione ridotta e irregolare, ma quella di negare, di compromettere la sua opera ne) momento stesso in cui essa viene costruita, in modo da mostrare incontestabilmente il vicolo cie­ co, il circolo chiuso in cui si dibatte fatalmente la stragrande maggio­ ranza del cinema “serio” di produzione regolare. L’operazione di Schle­ singer, insomma, è in questo senso una sorta di catalizzazione della contraddizione che è a fondamento del cinema come arte e come pro­ duzione economica: un discorso inevitabile sulla mercificazione dell’arte, il discorso ultimo, definitivo che Hollywood (l’America) im­ pone al regista britannico di un cinema dolente e sofferto, sì, ma sem­ pre con caratteristica asciuttezza, dignità, ironia. La presenza hollywoodiana nel cinema di Schlesinger (e non solo il contrario) continuerà negli anni a venire e si può anzi affermare che esso finirà per configurarsi come un continuo remake. Non in senso specifico - non cioè come nuova versione dello stesso film, né come corpus di pellicole singolarmente ispirate a precedenti opere particola­ ri - ma come intelligente parodia e/o ricalco di mode, di sottogeneri, di effimere (e a volte anche interessanti) voghe create da Hollywood per un pubblico sempre più esigente sul piano della trovata e meno sensibile ai veri valori della cinematografia.

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Lo stesso II giorno della locusta riprendeva l’allora imperante voga dei film su Hollywood, Il maratoneta (Marathon Man, 1976) quella del thriller semifantapolitico a tematica nazista (un titolo cugino: I ragazzi dal Brasile), Yankees (Yanks, 1979) quella della nostalgia bellico-senti­ mentale (forse il sottogenere più anziano del mazzo, da II ponte di Wa­ terloo a Da qui all’eternità), Crazy Runners (Honky Tonky Freeway, 1981) quella del (falso) B-movie alla Cannon Ball, Il gioco del falco (The Falcon and the Snowman, 1985) quella dell’intimismo memoriale che si scontra con la contraddizione fra ideali e realtà, The Believers (id., 1987) quella del horror mistico-esotico in chiave contemporanea, e cosi via. Anche Uno sconosciuto alla porta (Pacific Heights, 1990) si inseri­ sce in una voga, questa volta tardo-ottantesca, quella della quotidianità travolta dall’assurdo e dallo spregiudicato in un confronto che ha tutti i colori dell’incubo. La voga, partita in certo modo da I vicini di casa (Neighbors, 1981) di John G. Avildsen, si sarebbe consolidata secondo un modello molto più dinamico con lo straordinario Martin Scorsese di Fuori orario (After Hours, 1985), Tutto in una notte (Into the Night, 1985) di John Landis, Qualcosa di travolgente (Something Wild, 1986) di Jonathan Demme, il più blando Appuntamento al buio (Blind Date, 1987) dell’anziano Blake Edwards, Cattive compagnie (Bad Influence, 1990) di Curtis Hanson, celebrazione dell’implacabilità della demenza, della minaccia dello sfrontato, del pericolo dell’audace nei confronti non solo del travet occhialuto e balbettante, ma anche, come qui, del giovanotto (anzi, della coppia) emancipato, smaliziato, “moderno”. Lo psicopatico Carter invade la vita dei due protagonisti piegandola per un certo tempo ai propri voleri; non contro il dettato della legge ma col consenso e l’ausilio di questa (facendo addirittura sorgere il sospet­ to di una componente di denuncia sociale filopadronale: tutelare gli in­ quilini va bene, ma chi tutelerà i piccoli proprietari degli alloggi?). II kafkismo della pellicola si denuncia come puramente formale: la vitti­ ma non viene schiacciata dalla legge, ma al contrario la legge si rifiuta, per così dire, di mettersi in moto. Insomma, la legge è chiamata in cau­ sa per difetto e non per eccesso. Ma più o meno con gli stessi risultati. Messa così, siamo di fronte a un caso psicopatologico individuale che, a contatto con la realtà quotidiana, la inquina sino all’allucinazio­ ne; e in seguito, dopo il dénouement all’albergo, alla riscossa compiuta dalla donna per se stessa e per il partner impotente (quel braccio inges­ sato!), con tanto di suspense finale. Tuttavia Schlesinger non è un entertainer. Sa “intrattenere”, certo, ma la sua natura è un’altra, è quella di un autore. Vale a dire che ha le sue ossessioni, la sua visione del mondo, il suo stile, le sue predilezioni e così via. Ha fatto un film interessante e ben girato, e ha anche fatto

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- come si diceva - una sorta di remake di un sottogenere. Ma ha fatto anche di più. Intanto, una pellicola sottilmente erotica. Questa chiave di lettura è evidente sin dall’inizio nelle due sequenze di presentazione delle coppie: Carter con la bionda a letto, trastullandosi con giochetti alla Adrian Lyne, gli altri due eccitandosi nel pieno d’un restauro d’ap* partamento. Con i primi due qualcosa vediamo, ma quanto alla coppia per bene la macchina da presa non si azzarda a mostrar niente e allarga indietro sino a farci comprendere che quel che fanno le persone a mo­ do son fatti loro. Da quel momento l’approccio di Carter allo spazio dei due è tutto uno stupro. L’uomo non sfiora nemmeno la ragazza, ma fra occhiate, mezze frasi, regalini e allusioni è come se la possedesse ogni volta. La parte sottile del gioco tuttavia riguarda la donna. Le sue risposte, formalmente ineccepibili, sono però attorialmente costruite in modo da lasciarci sempre l’ombra di un turbamento. La ragazza non annuisce, non mostra interesse, non alza sopracciglia, non allarga na­ rici, però lo spettatore è sempre sul punto di attendersi che qualcosa succeda, talché quando l’amante dell’altro le dice senza riguardo “Lei ha un debole per lui”, noi siamo testimoni che la giovane non si è mac­ chiata di alcun peccato e tuttavia non ci sentiamo di escludere secca­ mente questa possibilità (d’altro canto, perché mai la prima avrebbe dovuto dire una cosa del genere, visto che il suo personaggio non ha spazio nell’economia del film e dunque non è pianificato per giocare sul versante della gelosia?). A questo punto non è difficile leggere non solo quel braccio ingessato in termini di metaforica impotenza, ma an­ che quella macchina e quei chiodi in direzione fallica. Tutto interessante, ma non abbastanza da giustificare l’intero film. Voglio dire che questo livello erotico e sessuale - a tratti di alto spes­ sore psicologico - fornisce fascino all’opera, ma solo nella misura in cui il film riesce a trovare altre ragioni e proposte. E queste non pos­ sono non venire dal mondo schlesingeriano di sempre. L’opera del re­ gista mostra nell’insieme interessi e attenzioni precisi. Prima di tutto i suoi obiettivi, definiti dall’autore stesso “la differenza fra illusione e re­ altà, tra la fantasia e quello che essa nasconde, tra le promesse di quello che la vita potrebbe dare e il confronto con quello che dà veramente”. Nessun critico avrebbe potuto dir meglio. Uno sconosciuto alla porta si inserisce bene, da questo punto di vista, fra pellicole per altri versi molto differenti come Billy il bugiardo, Un uomo da marciapiede, Il giorno della locusta, Il gioco del falco. La storia di una piccola coppia che affronta una grossa spesa scommettendo con ottimismo sul pro­ prio futuro non è poi tanto diversa nei sentimenti da quella di Joe Buck, di Tod e Homer, di Chris e degli altri sconfitti schlesingeriani. Qui però fa capolino una componente che solo a tratti avevamo intra­ visto nel cinema dell’autore, quel fato che aveva trovato trattazione

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inequivocabile, nel suo cinema, solo nel magnifico Vìa dalla pazza folla (Far from the Madding Crowd* 1967), tratto dal libro di un romanziere che quella nozione l’aveva accarezzata tutta la vita rieditandone la ma­ trice greca in chiave di mutamento socioeconomico tardovittoriano, Thomas Hardy. Sì, qui il fato gioca un ruolo chiave: il modulo dell’aspirante inquilino viene calpestato e dimenticato, lasciando così spazio libero (è il caso di dirlo) a Carter, per poi farci scoprire che l’uo­ mo altri non era che un ufficiale di polizia (qualcuno, cioè, che di sicu­ ro non avrebbe comportato alcun problema per i nostri eroi e che anzi è preposto a tutelarne gli interessi di cittadini). Il fato incombe davvero sul Him, il pianto della ragazza dopo l’aborto ha qualcosa di biblico alla luce della serie di avvenimenti che cadono sul capo della coppia-Giobbe. Il fato sono quei mulini a vento fotografati dal basso e in controluce così da dare il senso di un’oscura minaccia, è una casetta in miniatura, che riporta a un’altra fatidica miniatura, quella del fortino e del trombettiere in Via dalla pazza folla e che trova qui riscontro nella riduzione di un’intera area abitata a modellino all’inizio del film; il fato è una mazza da baseball che scivola pigra sotto il cruscotto di un pick up truck* delle veneziane verticali che tremolano come se avvertissero l’arrivo di un pericolo. Sono tutte immagini, si noti, comprese nelle due sequenze iniziali della pellicola (la prima delle quali, anzi fa da sfondo ai titoli di testa): sono, insom­ ma, un avvertimento, un monito su quella presenza che aleggerà per tutto il film. Il fato non è logico, il fato non ha alcuna spiegazione, esso giustappone l’inconfrontabile, favorisce l’inatteso, gratifica l’impreve­ dibile. Che rapporto può avere un tizio equivoco e tatuato che sembra uscito da una gang metropolitana con uno zerbinotto beneducato in Mercedes? E comunque, che cosa ci fanno quei due chiusi nell’appar­ tamento, il rumore, le trapanazioni, i colpi, i tramestìi, quella miriade di scarafaggi, quelle alterazioni nel sistema elettrico della casa? Tutto questo nel film non trova risposta, è un mcguffin che serve a fornire suspense e problematica alla storia, un’atmosfera, un sospetto destina­ to a diventare certezza. Ma certezza di che cosa? Non lo sapremo mai, e del resto è addirittura meglio così: guai se giungessimo a saperlo, saremmo dalla parte degli “altri”, ne comprenderemmo gli impulsi e le motivazioni, i disegni e gli scopi. A noi deve bastare che vi sia qualcosa di sinistro, ambiguo, falso in Carter e soci, così da poter simpatizzare con l’iracondo eroe della storia e godere della vendetta innescata dalla ragazza. Ma quello che il film presenta e che deve essere accettato per sé può essere osservato attraverso altre filigrane che ne forniscano un modello d’ordine, d’organizzazione. Sempre sul terreno autoriale, l’appassionato non può non cogliervi elementi inequivocabili del per­ sonale mondo schlesingeriano, allusioni, frammenti, costanti, varia­

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zioni cari al regista britannico da sempre attento alla tenerezza del pas­ sato, alla dolcezza che il “come eravamo” suscita in lui e in noi. Quello zoom sulla fotografìa di Carter da ragazzo, proposto all’inizio della pellicola, non può dirci granché. Lo scimpanzé che vi figura acquista forse un senso di minaccia se osservato contrastivamente alla frase fuo­ ri campo, “Ti piacerà la mia famiglia”. E comunque già l’album di fotografìe familiari intravisto al principio della sequenza in modo non distinto introduce a una dimensione memoriale inidentifìcativa, ma forse proprio per questo più efficace, che in seguito si rivelerà addirit­ tura patologica per quel che riguarda il folle protagonista. Carter anzi è più della coppia un personaggio schlesingeriano, la sua dimensione allucinata è il quoziente temibile della sua incapacità di uscire dall’infanzia (lo stesso problema di Billy, Joe, Bob, Homer, Faye, Chris, Daulton). Solo, più degli altri caratteri del regista egli è un peri­ colo per tutti. La “differenza” come fonte di infelicità e pericolo in un sistema ordinato è un tema che affascina il nostro regista, la cui opera in questo senso è però regolarmente qualificata da un atteggiamento ambivalente: da un lato un’impietosa Lettura di tutto ciò che esempli­ fica l’inadeguatezza dei personaggi, dall’altro un senso di tristezza e comprensione (non giustificazione) per quel che essi sono condannati a essere. Schlesinger insomma non pone la questione in termini morali, non predica la forza d’animo e della volontà. Sa bene che essi soffrono an­ che più di quelli che fanno soffrire: Liz in Billy il bugiardo, sia pure de­ lusa, partirà per Londra comunque; Robert in Darling (id., 1965) riu­ scirà a superare le debolezze che ne avevano fatto la vittima di Diana; l'età e l’esperienza di Daniel e Alex in Domenica, maledetta domenica sembrano prevalere sul loro disperato affetto per Bob; Tod in II giorno della locusta riesce a trovare la forza di abbandonare quella Holly­ wood dove invece rimane Faye a soffrire e lottare evidentemente senza speranza di riuscita. Così, Schlesinger non prova per loro più disprezzo del necessario, non li teme più del danno che essi possono fare: perché sa che i veri infelici sono loro, come dimostra meglio che in ogni altra sua pellicola l’esplosione finale di rabbia e violenza da parte di Carter contro la ragazza. In essa il giovane dice tra l’altro che lei ha invaso il suo spazio. “Sei entrata nella mia stanza, hai spiato il mio mondo, avete invaso il mio territorio”. A prescindere dal folle ribaltamento di pro­ spettiva, dunque era proprio un problema di spazio. Che lo fosse, in­ tendiamoci, era chiaro. Ma in che termini? Forse di semplice possesso, o magari di privacy? Sì, certo, come sempre. Ma in questo caso anche in funzione di un accordo d’affittanza (Carter non paga la pigione, questo è ingiusto e mette in seria crisi il ménage economico della cop­ pia), quindi di onestà e fair play. Nell’universo di Schlesinger la men-

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zogna non è tanto una questione morale quanto un sintomo: essa ci parla di un equilibrio non raggiunto, di una malattia in corso, di una sofferenza della quale chi mente è la prima vittima. La società, gli altri non hanno particolare simpatia per il “malato”. Schlesinger in fondo sì, lui ce l’ha. La tenerezza di cui parlavo lo testimonia bene: basta uno zoom su un album di foto per farci sentire la sua pietà nei confronti del diverso, de) folle, del bugiardo. Ripeto, nessuna giustificazione; solo pena, frammista alla remota sensazione di come le cose potevano an­ dare e non sono andate. Schlesinger infatti si rivolge sovente al passato dei personaggi, vi allude leggermente, non insiste, non scava, non in­ daga. Ma noi sentiamo che quel che lo intenerisce se ne sta lì, celato in un mucchietto di foto, fra le righe di qualche articolo di giornale in­ giallito, nelle rivelazioni che un personaggio preposto alla conoscenza (e in genere a essa indifferente, come deve esserlo un esecutore testa­ mentario, per esempio) concede in uno scenario da incubo la cui unica ragione è quella di farci comprendere che se qualcosa non funziona non si tratta soltanto di Carter ma molto di più. Non però un’accusa sociale: se è vero che Carter viene da ricchis­ sima famiglia, questo non è altrettanto vero per Billy o Diana o Faye. Lo scontro non è fra i propri sogni e l’ordinamento della società in classi, ma fra sogni e sogni. Ognuno sogna, compreso il più spietato ca­ pitalista: i guai incominciano quando i sogni degli uni non sono ade­ guati a quelli degli altri, quando uno sta per realizzare un sogno e l’al­ tro preferisce continuare a sognarlo (Liz e Billy), quando non sono mi­ nimamente compatibili fra loro (Tod e Faye, ma anche Carter e la sua famiglia). Come dice Salizzato, il Sogno è il Cuore del “sistema” schlesingeriano. Tuttavia, a mano a mano che l’esperienza dell’autore pro­ cede, esso minaccia vieppiù di poter all’occasione prendere le forme dell’incubo (da II maratoneta a The Believers non mancano probanti esempi, compreso II gioco del falco), come del resto era stato ben chia­ ro sin dai tempi della sequenza onirica in Un uomo da marciapiede. Non a caso ormai da parecchio tempo il cinema di Schlesinger ha acquisito una luministica sempre meno calda e sempre più astratta, asettica. Dai pastelli di Via dalla pazza folla ai rossi infernali di II giorno della locusta i suoi colori d’una volta vantavano ricchezza e spessore. È almeno da II gioco del falco che il neon, l’azzurrino, una malata astra­ zione di tonalità da acquario infliggono al suo cinema la condanna cro­ matica di un incubo diverso da quello di trent’anni fa: qui esso è im­ materiale come l’asetticità dell’epoca che lo esprime (e che esso espri­ me). Quell’indugio sul finestrino della Porsche che sale con ronzio im­ percettibile ha i connotati della minaccia. Dunque, non più la necessità di una scena dantesca o di un’allucinazione fobica (il finale della Locu­ sta o la sequenza della trapanazione in II maratoneta) per renderci la

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dimensione dell’incubo. Basta una sorta di optional da show room e la sensazione di pericolo è irrefrenabile. L’incubo è dappertutto nel film. La luce solare e accogliente della casa si abbassa sempre più nel prosieguo della storia, sino a che vedia­ mo la giovane proprietaria condannata al buio di un appartamento che quasi sembra un altro rispetto a quello iniziale (non è una questione di tempo, non si tratta dell’ora tarda: nello stesso momento, in montag­ gio alternato vediamo l’appartamento dell’amico nero nel quale si è ri­ fugiato Goodman dopo la diffida, chiaro, luminoso, caldo, umano). Ma se vogliamo, un incubo è anche la casa-miniatura che si sfracella per strada, la giostra di cavallini cui sembra ormai ridotta la professio­ nalità equestre della donna, e naturalmente i riferimenti inferi agli in­ setti, gli animali impagliati e i trofei innumerevoli nello studio del cu­ ratore. Una questione di spazio, si diceva. Il vero senso di tale questione non è però prosaicamente tematico. Esso, piuttosto, si coglie in una dialettica fra ossessione tematica e insistenza formale, in una continua identificazione fra contenuto e stile. Un movimento di macchina squisitamente langhiano, nei termini indicati sia da Moullet che dalla Eisner, domina la pellicola: la ripresa di un oggetto o di un personaggio che attraverso uno spostamento la­ terale rivela la vera natura di quello che era stato in un primo tempo mostrato. Già all’inizio la ripresa della coppia a letto si rivela poi me­ diata dallo schermo della tv; e poco dopo un carrello laterale e poi in­ dietro denuncia la falsità del modellino architettonico. Lo stesso avvie­ ne, per esempio, nell’ufficio del curatore testamentario, intorbidando di una patina di follia una scena altrimenti quasi classicamente intimi­ datoria. La macchina da presa del resto non sta mai ferma, apre sempre in movimento qualunque scena, sino al parossismo di quelle riprese in carrello a 360° (quella con l’avvocato addirittura 720°!) che fanno tan­ to nouvelle vague e che invece intendono solo esprimere l’incredulità dei protagonista (Goodman col poliziotto per strada, la ragazza quan­ do l’avvocato le spiega la situazione, Carter quando è fermato dal di­ rettore dell’albergo). La figura del movimento si oppone a quella dell’immobilità che coincide con la pianificazione del futuro elaborata dalla coppia. Tutto cambia, tutto giunge diverso da quello che pensa­ vamo e volevamo, il cambiamento è la base della vita e del destino, e se questo non lo teniamo sempre ben presente siamo condannati alle più atroci sorprese, alle frustrazioni più annientanti. Gli eroi del film soprattutto l’uomo - sono persone qualunque (Goodman = Mister, come il Goodman Brown di Hawthorne) prese nel vortice di circostan­ ze inusuali. Non però alla maniera in cui il modello è stato teorizzato

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da uno Spielberg. L’inusualità delle circostanze non tocca qui il misti­ co, il soprannaturale e nemmeno lo storico. Si tratta solo di due sistemi diversi che entrano in collisione, due rotte che il Creatore non aveva mai previsto di mettere in contatto. Basta una smagliatura nella rete (quel modulo calpestato inavvertitamente) ed ecco una variazione nell’intero disegno. Il modello, direi, è se mai più hitchcockiano. Non per nulla quei mulini a vento iniziali rimandano a II prigioniero di Amsterdam (Foreign Correspondent, 1940), quella doppia panoramica a 720° ricorda il fa­ moso bacio di Notorius l’amante perduta (Notorious, 1946), quella giostrina Delitto per delitto (Strangers on a Train, 1951), la forzata immo­ bilità dell’ingessatura La finestra sul cortile (Rear Window, 1954). Ma c’è in questo senso molto di più: mentre la protagonista è interpretata da Melanie Griffith, la fidanzata di Carter è la madre di questa, Tippi Hedren (Gli uccelli [The Birds], 1963, Mamie [id.], 1964). Di più anco­ ra: fuggendo nell’ascensore la ragazza si ritrova con un tizio occasionale che altri non è se non Schlesinger stesso, secondo una pratica (quella della veloce comparsa, dico) molto cara all’altro regista britannico tra­ piantato in America. E non può essere casuale che né il nome della He­ dren né quello di Schlesinger compaiano nei titoli di coda. Semplicemente, non sono accreditati. Perché appartengono la prima a un altro cinema, il secondo a un altro mondo, non quello dell’immaginario cui vanno ascritti divi, attori, comparse e generici, bensì quello di coloro che quel mondo concepiscono, elaborano, creano. Quel giornale sotto la pioggia che la donna fuggevolmente raccoglie e del quale nemmeno riusciamo a leggere il titolo avrebbe più diritto di comparire nei credit che non Schlesinger, perché è un suo protagonista regolare (l’avevamo visto in una altrettanto veloce sequenza di Domenica, maledetta dome­ nica, per esempio), e comunque è uno dei cento referenti dell’immagi­ nario registico. Lui, Schlesinger, invece, non è il referente di nulla e nes­ suno. L’abbiamo visto in quell’ascensore forse per rendere omaggio a un vecchio maestro (ma allora, che la produzione si chiami Morgan Creek per rendere omaggio a un altro vecchio maestro? Al Preston Sturges di The Miracle ofMorgan's Creek?), forse per ricordarci che universi diffe­ renti sono destinati prima o poi a entrare in contatto, o forse perché come dice Sydney Pollack - certe parti insignificanti le interpreta meglio chi le ha ideate invece di un attore di poco conto che le prende troppo sul serio e sbaglia regolarmente mira, forse perché anche nei peggiori incubi c’è sempre una persona familiare, che però, l’avrete notato, è spesso impotente. È giusto lì a dirci che le cose vanno malissimo, sì, ma che seppure esse ci sono contro, il mondo ha ancora volti noti, individui cari, facce riconoscibili e sicure. Che poi questi non possano far granché per noi è una delle più elementari lezioni che dobbiamo imparare dalla

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vita. Così come il fatto che nemmeno un regista può fare granché con l'incubo che i suoi personaggi stanno soffrendo: al massimo può infilar­ ci dentro la testa e uscire dall’ascensore al posto del tizio che ci insegue per minacciarci. Ringraziamolo, ci ha concesso un momento di pausa: è il massimo che chi ci comprende - sia egli un amico o un artista - potrà mai darci.

Riferimenti bibliografici

Sul personaggio dell’anti-Pocahontas nella cultura e nella lettera­ tura americane si veda Leslie Fiedler, The Return of the Vanishing Ame­ rican , Picador, London, 1968 (la trad. it. è stata pubblicata da Rizzoli); la dichiarazione di Schlesinger per cui egli avrebbe voluto girare//gior­ no della locusta ancora prima di Un uomo da marciapiede è nell’inter­ vista concessa a Lina Coletti, L’Europeo, n. 17, 25 Aprile 1974; il giu­ dizio negativo di Brendan Gill su II giorno della locusta è nel suo “A Plague of Locusts”, Film Comment, 3, May/Junel975; sulla mancanza di un vincolo che debba necessariamente collegare un testo letterario e il film che se ne trae Schlesinger si è espresso nell’intervista concessa a Gene Phillips, Film Comment, 3,1975, nella quale il regista afferma anche che i suoi personaggi sono più piacevoli e amabili rispetto a quelli di West; sul rapporto fra la narrativa di West (in special modo Miss Lonelyhearts) e le tecniche dei fumetti si è intrattenuto Randal Reid nel suo bel volume critico No Redeemer, No Promised Land. The Fiction of Nathanael West, Chicago UP, Chicago, 1967; Philip French parla del supposto grottesco di Schlesinger, nonché dell’ampliamento del testo originale, del personaggio di Tod come “visionary artist” e dell’assenza, nel film, di un contesto politico nella sua recensione a The Day of the Locust, Sight and Sound, 3, Summer 1975; il riferimento di Giorgio Cremonini a Munch, Kokoschka e Ben Shahn è nella sua bella recensione al film, Cinema Nuovo, 237-38, Sett.-Dic. 1975, mentre la dura recensione di Renzo Renzi a Domenica, maledetta domenica è sulla stessa rivista, 216, Marzo-Aprile 1972, trovando riscontro, an­ corché da una diversa angolazione critica, nell’articolo di Thomas Elsaesser, “Between Style and Ideology”, Monogram, 3,1972; dell’impe­ gno superproduttivo di Schlesinger in II giorno della locusta ha dato te­ stimonianza Andrew Meyer in “The Days of the Waivers”, Sight and Sound, 1, Winter 1974-75; la differenza tra illusione e realtà come pri­ mario obiettivo del suo cinema è stata riconosciuta dallo stesso Schle­ singer in una conferenza stampa sulla quale riferisce Claver Salizzato, John Schlesinger, La Nuova Italia, Firenze, 1986, al quale si deve anche la notazione sul Sogno come Cuore dei sistema schlesingeriano; sul

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movimento di macchina langhiano (ripreso poi da Schlesinger in Uno sconosciuto alla porta) si vedano infine Luc Moullet, Fritz Lang, Seghers, Parigi, 1963, e Lotte Eisner, Fritz Lang, Mazzetta, Milano, 1978.

Capitolo 12

Joe Dante ovvero: Mr. Sandman incontra l'uomo lupo in un drive-in e mentre guarda sullo schermo “The creature from the black lagoon” confessa di sentire nostalgia degli anni 'SO a Susan Cabot che ha appena salutato i suoi genitori adottivi a Smallville dove ha rotto il fidanzamento con Buddy Holly perché si è innamorata di Batman quando l'ha visto seduto con Captain Video a un soda fountain

It's never too late to have a happy childhood Tom Robbins, Still Life with Woodpecker

Gli anni Cinquanta stendono la loro ombra lunga sull’intero mez­ zo secolo che li ha seguiti. Essi non sono finiti col tramonto di McCar­ thy nel 1954, né con la cessazione dell’attività della Commissione per le Attività Anti-Americane nel 1957, e nemmeno con l’avvio kennedyano della cosiddetta Nuova Frontiera all’esordio del decennio se­ guente, per la semplice ragione che essi non si identificano semplicemente - e come invece abbiamo spesso e volentieri creduto o predicato - in un clima politico, bensì in un clima culturale: in modi, credenze, abitudini, miti, ossessioni che hanno lasciato una traccia permanente (o comunque longeva) nella società statunitense. Sono infatti anche gli anni del boom televisivo e delle grandi serie per il piccolo schermo (i fasti di The Honeymooners, The Goldbergs, Leave It to Beaver, I Love Lucy, Dragnet, Rin Tin Tin, Ozzie & Harriet, Gunsmoke, Zorro, Father Knows Best, Amos ‘n' Andy, e tante tante al­ tre), di Ed Sullivan, Perry Como, e di Groucho Marx con la sua esila­ rante trasmissione di quiz Yom Bet Your Life. E sono gli anni di una fan­ tascienza profondamente infantile, fatta di avventure spaziali su astro­ navi dalla scenografia di cartone che mimavano risibilmente esperienze fumettistiche ormai consolidate quali quelle di Flash Gordon, Buck Kogers, Brick Bradford.

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Sono gli anni in cui il cinema americano soffre un radicale tum over di pubblico che lo porta a rivedere non solo il suo impianto finan­ ziario (investimenti della MGM nell’industria discografica e alberghie­ ra, della Warner in quella editoriale, della Paramount in quella petro­ lifera e via dicendo), ma anche i suoi modi di produzione e il tipo di film prodotti. I piccoli indipendenti come Roger Corman e William Castle capiscono molto meglio degli Zanuck e dei Selznick quel che sta accadendo e varano pellicole di poco prezzo ma di grande impatto sensazionalistico (talune di esse, almeno) sulle platee di adolescenti che ormai hanno preso il posto dei padri e dei nonni. Sembra un ritorno al cinema delle origini, un rilancio della natura baracconesca della messa in scena, cui il sonoro aggiunge ulteriori possibilità di meraviglia, di tensione, di curiosità rispetto al passato; ma, appunto, la tecnologia dell’epoca funziona da elemento di attrazione, da risorsa tesa a recu­ perare quella semplicità originaria attraverso espedienti forse anche in­ genui e puerili (si può prendere sul serio la Smell-O-Vision?) ma pur sempre sofisticati se comparati al cinema d’inizio secolo. Si tratta, in sostanza, di un importante mutamento nell’immagina­ rio nazionale. E in più sensi. Da un lato, l’avvento dell’era televisiva sta cambiando non soltanto il tipo di pubblico del cinema, ma anche il rapporto fra la rappresenta­ zione e i suoi fruitori: un cambiamento perfettamente esemplato dall’istituzione dei drive-in, primo passo verso l’invasione dello spetta­ colo entro i confini di una realtà che sino a quel momento non ne era stata sostanzialmente toccata; dall’altro, il cinema di genere si sta im­ ponendo indipendentemente da autore e cast, e paradossalmente pro­ prio quando nella critica americana è sul punto di entrare, nella ver­ sione veicolata da Andrew Sarris, la politique des auteurs di marca francese, evidente colpo di coda di un cinema che reagisce alla muta­ zione in atto tentando di consolidare, nobilitandole, strutture e prati­ che di una Hollywood al tramonto. Non è affatto un caso che, a decennio concluso, Daniel J. Boorstin pubblichi uno studio come The Image. A Guide to Pseudo-Events in America (1961), nel quale egli critica quella che chiama la Graphic Re­ volution, cioè la riduzione a immagine (e a immagine riproducibile) di eventi e atteggiamenti e comportamenti che la cultura precedente identificava con idee e concetti. Boorstin assume la posizione critica del letterato, che vede nel cinema una minaccia alla parola scritta. Egli è abbastanza intelligente da comprendere che i due ambiti sono pro­ fondamente diversi e che oggettivamente l’uno non può invadere l’al­ tro, ma teme fortemente - e con ragione - che lo spettatore possa giun­ gere a credere di trovarsi di fronte a un sostituto dell’esperienza lette­ raria e dunque a una liquidazione di quest’ultima.

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Gli anni Cinquanta, insomma, fungono da catalizzatore di un for­ midabile mutamento epistemologico e gnoseologico. Essi sono il bor­ derline fra una concezione del mondo fondata sullo sviluppo di una in­ terpretazione di esso e di un’altra fondata su una sua ricostruzione fo­ tografica. Fotografica, naturalmente, non significa “oggettiva”, ché an­ che il cinema ci offre un’interpretazione del mondo. Solo, esso ce la of­ fre all’interno del suo proprio sistema, che è poi quello della pop cul­ ture cui, certamente in America, esso appartiene. Il cinema, insomma, descrive e spiega il mondo con il cinema, e in taluni autori anche con prestiti da altre aree dello stesso universo culturale: la televisione, i fu­ metti, il rock e così via. La crisi dello star system ha comportato anche la crisi di una credenza. Per dirla con Boorstin: “La star è la definitiva verifica americana dell’£m/7e di Jean-Jacques Rousseau. La sua stessa esistenza prova la perfettibilità di qualunque uomo o donna”. Bene, anche questa “perfettibilità” sembra superata: ora è il cinema l’unica star sulla scena. Il cinema di genere destinato al pubblico giovanile de­ gli anni Cinquanta e Sessanta non si avvale dei Cooper, dei Gable, delle Davis e delle Crawford: esso stesso è l’evento. I suoi attori non sono modelli e ideali, ma icone nelle quali si identifica il genere. Barbara Ste­ ele e Vincent Price non sono un esempio ma un trademark, quello del tipico horror film cormaniano. Il cinema incomincia a parlarci di se stesso prima che dei suoi eroi. E non di rado sono eroi cupi, scuri, om­ brosi, ben lontani dalla solarità dei Jimmy Stewart, il quale peraltro proprio in quel periodo sperimenterà anch’egli il lato oscuro della psi­ che in La donna che visse due volte (Vertigo, 1958) di Hitchcock: essi sono personaggi fuori posto in un mondo cui non appartengono (o non appartengono più). Non sono soltanto i personaggi (e attori) fe­ ticcio di Corman, dopotutto protagonisti di ossessivi racconti gotici, ma anche i divi del momento, i James Dean, i Marion Brando, angeli caduti che sfiorano il versante del demoniaco pur rimanendo dei ragaz­ zi capaci di sentimento dietro i loro grugniti e le loro scrollate di spalle. Non meraviglia che proprio questi anni testimonino una riemer­ genza del mostruoso nel cinema americano. Come si sa, esso non era mancato negli anni Trenta, da King Kong (1933) di Schoedsack e Coo­ per a Notre Dame (1939) di William Dieterle, ma negli anni Cinquanta il suo ritorno assume nuove valenze: non tanto in se stesso quanto in relazione al pubblico cui si rivolge. L’alterità del mostro è ora anche un modo di dare corpo a e di interpretare i recessi della psicologia adole­ scenziale del pubblico cinematografico cinquantesco, il senso di diver­ sità e solitudine che caratterizza in genere quell’età e che in America trova particolare riscontro nell’ampia e articolata ritualità della vita so­ ciale relativa all’aggregazione giovanile e nelle disfunzioni che sorgono quando, come sovente accade, i rapporti interpersonali si mostrano

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condizionati da pregiudizi e imperfezioni (ottimo esempio essendone, nella chiave congeniale al suo autore, il romanzo di Stephen King, Car­ ne, e naturalmente il film che ne fu tratto da Brian De Palma). Ma la cosa ha radici addirittura biologiche se ascoltiamo la voce di Thomas Doherty:

Avendo migliori ragioni della maggior parte delle persone per sentire un’affinità con gli esseri umani malformati e ipertiroidei, gli adole­ scenti furono fedeli adepti e simpatetici osservatori dell’istanza di co­ loro che erano ormonalmente svantaggiati; il loro stesso stato biologi­ co deve esser sembrato ugualmente capriccioso e incontrollabile. Non è un caso che a decennio scaduto compaia uno studio socio­ logico come quello di Kenneth Keniston, The Uncommitted: Alienated Youth in American Society (1965), ancor più specifico di quello che Paul Goodman aveva dato alle stampe cinque anni prima col titolo Growing Up Absurd. Problems of Youth in the Organized System. Si stabilisce insomma una lunghezza d’onda precisa fra prodotto cinematografico e pubblico dell’epoca, non soltanto in relazione ad al­ cune tematiche e ad alcuni contenuti di evidente interesse giovanile (i film d’ambientazione scolastica, i melodrammi familiari di Nicholas Ray, i rock film tipo Rock All Night e Carnival Rock, come del resto film di produzione regolare le cui colonne sonore erano improntate al trionfante Rock ’n’ Roll, e persino improbabili pellicole dall’altrettan­ to improbabile titolo come Teenage Caveman), ma anche attraverso più sottili allusioni e metafore di quella che poteva in fondo essere letta come una non minore componente della condizione adolescenziale. Anche da questo punto di vista tutti i sistemi di riferimento cui si era abbarbicato il cinema hollywoodiano del passato paiono non vigere più, sostituiti dalla ventata di novità che nel bene e nel male l’avvento della nuova generazione postbellica si era portata dietro. A questo quadro è bene aggiungere un ulteriore e fondamentale dettaglio: il nuovo statuto che, parimenti, aveva incominciato ad as­ sumere il cartone animato. Graziosissima esercitazione - per lo più teromorfa - nel passato, dopo avere imboccato una strada di nobili­ tazione nella sua costituzione a lungometraggio sin dai tardi anni Trenta (Biancaneve di Walt Disney), esso però aveva dato segno d’avere inteso il mutamento in atto: dei cinque film prodotti da Disney negli anni Cinquanta almeno due - Alice in Wonderland e Peter Pan apparivano solo in parte proseguire nell’usuale sdolcinatezza tipica del mago di Burbank, aggiungendo ai testi un senso di inquietudine e/o di tristezza molto lontano dal sentimentalismo (quando non dal pate­ tismo: si pensi a Bambi) delle sue cose precedenti. Dall’altra parte, il genio di Tex Avery che già almeno dagli anni Quaranta stava indicando

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la via per il rinnovamento del cartoon e che nel decennio seguente (pe­ riodo MGM) sarebbe stato il maestro di qualunque serio professionista del settore, a partire da quel Chuck Jones cui si deve la migliore lettura della sua lezione. Ora, il cartone animato fra gli anni Quaranta e i Cinquanta, si di­ ceva, cambia statuto: vale a dire, esso resta solo in parte innocuo di­ vertimento infantile, poiché alcune sue derive - principalmente nell’ambito della produzione Warner - battono la strada di un umori­ smo sadico e apocalittico ben lontano dalle primitive leziosità del ge­ nere che l’avevano reso lo spettacolo principe del Kindergarten. Questo mutamento, oltre a indicare una generale situazione di disagio e forsanco di paura, può essere letto proprio in relazione all’avvento del nuovo pubblico giovanile. Il cartoon di cui stiamo parlando, cioè, pre­ senta una doppia valenza perfettamente adeguata a quella di quel pub­ blico: da un lato esso mantiene sostanzialmente la visualità, l’iconogra­ fìa, la struttura, le tecniche stesse (per non dire della tradizione teromorfa) del cartone animato del passato che avevano deliziato platee di candidi scolaretti, ma dall’altro presenta una visione del mondo, dei rapporti interpersonali, del comportamento e della violenza decisa­ mente più in tono con l’esperienza e la psicologia di un pubblico adul­ to. In altre parole, il cartoon - questo cartoon - aveva perfettamente colto le due nature, le due età, del pubblico giovanile americano domi­ nante, la sua incertezza fra due contrastanti momenti del proprio svi­ luppo da bambini a giovani adulti. Ora, è proprio su questo contrasto, su questa opposizione che si gioca gran parte non solo del cinema americano del periodo, ma addi­ rittura di quello a venire. Non è un caso se dopo la crisi degli anni Ses­ santa - un altro decennio che aveva accordato particolare attenzione a problemi, tematiche e personaggi giovanili - e dopo la breve, intensis­ sima esperienza della New Hollywood (anch’essa del resto intrisa di fi­ gure del genere, da II laureato a Easy Rider) il cinema americano rina­ scerà dalle sue ceneri sotto l’egida della meraviglia, dell’avventura, del­ la fantasia (Guerre stellari insegna). Non è un caso se i generi dominan­ ti saranno la fantascienza e l’horror, lasciando ad alcuni Autori (Altman, Coppola, Scorsese, eccetera) il compito di rappresentare la pro­ duzione destinata a un pubblico selezionato e maturo. D’altra parte, non va sottovalutata la presenza della televisione nella cultura americana cinquantesca. Il nuovo mezzo aveva, sì, distol­ to dal cinema gran parte della fascia adulta degli spettatori cinemato­ grafici, ma non per questo non si era conquistato anche il pubblico più giovane, soprattutto quello infantile. Una scorsa ai palinsesti dell’epo­ ca rivela che alcune fasce orarie (il primo mattino, parte del pomerig­ gio, sabato mattina e parte della domenica) pullulano di trasmissioni

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dedicate a quel settore di telespettatori, con programmi alcuni dei qua­ li avrebbero fatto epoca entrando nel novero dei classici del piccolo schermo. Un esempio per tutti: quel Twilight Zone, ideato da Rod Ser­ ling nel 1959, col quale si sarebbe cimentato fra gli altri proprio Joe Dante quasi un quarto di secolo dopo (1983) e che comunque aveva colpito anche la fantasia del regista probabilmente più rappresentativo di ogni altro in merito al nuovo corso di cui parliamo, Steven Spiel­ berg, il quale, oltreché coautore, fu anche produttore della pellicola che ne venne tratta. Ora, l’incontro fra l’immaginario prodotto dal grande schermo (a sua volta risultante della tradizione hollywoodiana classica e di quella cinquantesca di cui abbiamo parlato sino a ora) e quello configurato dal neonato piccolo schermo - aggiungendovi ovviamente altri ambiti primari della cultura popolare dell’epoca: fumetti, rock e via dicendo - oltre a fornire un corpus, un inventario enorme per qualunque auto­ re formatosi in quella generazione, non poteva non sortire esiti alquan­ to particolari e inediti anche sul versante qualitativo (verrebbe da dire “stilistico”). Hollywood aveva elaborato nei decenni una retorica mol­ to articolata davanti alla quale i balbettamenti televisivi apparivano ad­ dirittura risibili. Lo studio system aveva alle spalle una tradizione an­ nosa che aveva reso il cinema americano primo nel mondo, e se è vero che il cinema varato dagli indipendenti degli anni Cinquanta era ben lontano da quella tradizione di opulenza e professionalità, è però an­ che vero che esso si ispirava ai medesimi criteri di economia e funzio­ nalità, applicati peraltro in maniera così stretta da diventare elementi determinanti nel codice comunicativo dei singoli film. La televisione agiva anch’essa su un terreno di stretta economia, ma senza alcuna at­ tenzione alla coerenza del proprio universo comunicativo, senza la mi­ nima ambizione non dico estetica ma nemmeno strutturale. L’incontro fu davvero stravagante, ed è da esso - almeno in parte - che nasce il nuovo immaginario cinematografico di cui Joe Dante è eloquente esponente. Dante infatti può ben essere preso a portavoce della sua ge­ nerazione di cineasti quando esecra il mito hollywoodiano della “sto­ ria” a vantaggio dell’attenzione alla banda sonora e quando celebra la nozione di riciclaggio:

Quel che adoro è prendere delle immagini che mi piacciono e metterle in una prospettiva differente, non so se come tentativo di impedir loro di scomparire o per far nascere una nuova generazione di cose che amo.

O quando, parlando dei due Gremlins, egli riprende quel concetto di entropia così caro a un’altra generazione americana pressoché coe­ va, quella di narratori postmoderni come Thomas Pynchon, che sull’argomento ha scritto alcune memorabili pagine. E quanto a riferi­

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menti alla cultura letteraria del postmodernismo americano, non c’è dubbio che l’idea strutturale del suo leggendario Schlitz Movie Orgy partecipi della stessa utilizzazione del frammento che è alla base di tan­ ti racconti di Donald Barthelme. E tuttavia portavoce generazionale egli lo è soltanto a metà, poiché, per esempio, il suo cinema non può essere identificato in quello di Spielberg o di Lucas (probabilmente i due cineasti davvero più rappresentativi di quella generazione). E non tanto per il fatto che costoro si affrettarono subito ad adattarsi al modo di produzione hollywoodiano divenendo versioni aggiornate del clas­ sico tycoon della celluloide, ma perché, pur condividendo con Dante una buona fetta di immaginario adolescenziale, essi l’hanno trasforma­ to in un prodotto da marketing. Non è una colpa e forse nemmeno una particolare abilità (siamo convinti che Dante, se lo volesse e al di là dall’eventuale successo degli esiti, saprebbe fare lo stesso), soltanto un modo di concepire il cinema, e se è per questo il modo tradizionale e vincente. D’altra parte, Dante non è nemmeno un cineasta controcorrente, un ribelle underground, uno sperimentalista acceso, né un militante del trash. Il suo cinema vive in un limbo che non è accettazione né rifiuto, né consenso né critica. Il suo è vero cinema memoriale: come dice lui stesso, i suoi film sono reminiscenze del suo passato di spettatore con­ cepite ed elaborate in modo da tramandare all’adolescente odierno un cinema comparabile a quello ma a) tempo stesso adeguato a un’epoca che è ormai radicalmente cambiata. Se proprio è necessario dare un nome all’atteggiamento che contraddistingue sia la sua teoria che la sua pratica cinematografica, quel nome è “cultore” (cultist), se è vera la definizione di quest’ultimo formulata da Allison Graham in un suo bel saggio (“Invece di celebrare il trionfo dell’individualità sul genere, il cultist celebra il trionfo del genere sull’individualità”). Dove il com­ pito “pedagogico” si fa diffìcile è nella traduzione dei valori che aveva­ no caratterizzato il cinema degli anni Cinquanta: “A quel tempo pen­ savamo che i robot sarebbero stati nostri amici”, ricorda la regista Su­ san Seidelman, ed effettivamente, almeno a partire dal Robbie di II pia­ neta proibito (Forbidden Planet, 1956) - anche se con alcune eccezio­ ni: per esempio, Tobor, re dei robot (1954) di Lee Sholem - han pullu­ lato sugli schermi hollywoodiani creature meccaniche obbedienti e ac­ cattivanti, mitologema di una società industrializzata in pieno sviluppo che avrebbe trovato il suo coronamento (e probabilmente anche una sorta di antenato per gli androidi cinetelevisivi dei nostri anni) nel 1962 con la messa in onda dell’episodio “I Sing the Body Electric”, scritto da Ray Bradbury, sulla scorta di un suo racconto, per la serie tv The Twilight Zone. Ovviamente in questi ultimi anni le cose sono cam­ biare, il cinema robotico si è adeguato a una diversa epistemologia,

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quella che fa capo a pellicole come Atto di forza di Verhoeven e i due Terminator di Cameron (per non dire della problematica filosofica ed etica che permea il tema nell’intera serie televisiva Star Trek - The Next Generation). L’innesto fra umano e meccanico era lontano anni-luce dall’immaginario della generazione anni Cinquanta cui Joe Dante ap­ parteneva, ma non è difficile leggere quell’immaginario come il primo seme da cui sarebbe germogliata la pianta odierna del Cyber che nel frattempo Philip K. Dick aveva concimato a dovere nelle pagine di ta­ luni suoi celebri romanzi e racconti. Se una differenza d’atteggiamento è leggibile fra le due generazioni essa riguarda proprio la nozione di futuro: età di meraviglie, come af­ ferma lo stesso Dante in un’intervista, mondo che metaforizza orienta­ menti e ansie del nostro presente per le giovani generazioni contempo­ ranee. E non basta dire che in fondo nella buona SF il futuro - o per meglio dire, la fantascienza, e quella cinematografica in particolare - è sempre stato visione metaforica del presente: se è vero che dietro alla SF cinquecentesca, e specificamente a quella cinematografica, si pote­ vano leggere facilmente l’ossessione atomica, la guerra fredda eccetera, è però anche vero che dietro alla SF contemporanea non alligna nessu­ na allegoria, ma “soltanto” la trascrizione di una mutazione della no­ stra concezione del corpo, dello spazio, del tempo che, lungi dall’essere unicamente speculazione meravigliosa, appare invece come una com­ ponente già viva, attuale della nostra cultura. Diciamo, insomma, che mentre la SF cinquantesca forniva la sua versione di un quadro politico del tempo, quella odierna interpreta pienamente i fermenti di una cul­ tura che non sa dove si sta dirigendo ma che ha già da tempo incomin­ ciato a rifiutare i fondamenti e i riferimenti tradizionali che per secoli l’hanno determinata e controllata. Il cinema di Joe Dante si situa esattamente sul borderline fra queste due epoche: nutrito della cultura cinquantesca di cui si diceva, esso pe­ rò si pone sin dall’inizio come operazione di natura postmoderna, con quella sua giustapposizione di brani eterogenei (The Movie Orgy) che tuttavia non si limitano a proporsi come un patchwork, ma che molto più sbarazzinamente vengono utilizzati in relazione a una possibile connessione fra le immagini stesse in modo tale da farne sortire una di­ versa e nuova significazione (vedi l’esempio del Generale, interpretato da Morris Ankrum che, vestito sempre con la stessa divisa in diversi film, viene antologizzato così da non fare intendere che si tratta di pel­ licole differenti). Ora, se è vero che questa pratica può, come in prece­ denza abbiamo detto, far pensare alla teoria eliotiana del “furto”, è an­ che vero che qui non si tratta di un brano (un verso in poesia, un’im­ magine al cinema) qualunque, ma di qualcosa il cui look appare iden­ tico nonostante la differente sede dalla quale è stato tratto. L’operazio-

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ne insomma è ancora più complessa di quella eliotiana poiché implica non soltanto un innesto ma anche una frode. La frode tuttavia, sia ben chiaro, è qualcosa di perfettamente, tradizionalmente inerente alla pratica cinematografica, è un trucco che sta alla base del cinema come mezzo poietico: una lezione, questa, che Joe Dante (il quale certo la conosceva per conto suo) ha ritrovato in Corman negli anni di appren­ distato col Papa della serie-B. E dunque sarà bene riconoscere che l’eti­ chetta di postmodernismo affibbiata a tanto cinema contemporaneo da Nightmare di Wes Craven a Pulp Fiction di Quentin Tarantino, da Forrest Gump di Robert Zemeckis a Crash di David Cronenberg - è, sì, giusta, ma perché è il cinema tout court a essere postmoderno prima che il cinema di un certo decennio o di un certo autore. È peraltro vero che il cinema di Joe Dante presenta caratteristiche postmoderne particolarmente marcate, dal momento che - a parte la giustapposizione di elementi originariamente incongrui, di cui aveva parlato Susan Sontag nella sua definizione del Camp - lo scrambling nella sua opera acquista una eccezionale sofisticatezza proprio nel­ l’operazione di ricongiungimento di presente e passato. L’eliminazione della distanziazione storica tipica del postmodernismo, in altre parole, si sostanzia in lui, come dicevamo, in termini di adattamento e tradu­ zione delle mitologie adolescenziali del cinema cinquantesco america­ no a mentalità, costumi e immaginario quali si sono venuti conforman­ do nei nostri tempi. E anche quando ciò non avviene, nel caso in cui il film sia concepito in termini più direttamente memoriali (se non no­ stalgici), il regista non perde mai lo stretto contatto con quell’epoca, cui sa dare come pochi il colore della vita: in una delle sue pellicole più riuscite e ammirevoli, Matinée, per esempio, l’apparato sensazionalistico alla William Castle tipico degli anni Cinquanta viene smascherato da un elemento personale e aleatorio (la gelosia del teppistello) senza però che per questo lo spirito e l’atmosfera “infantile” di quegli anni, che permeano la pellicola, ne vengano infirmati. 11 regista insomma os­ serva al microscopio le vite dei teens di quegli anni riuscendone a dar­ ne un’immagine molto verosimile e quotidiana, ma non per questo aliena dalla generale oleografia cinquantesca attraverso la quale essa è arrivata sino a noi. La domanda a questo punto è: qual è il terreno in cui tale oleogra­ fia affonda le sue radici? Ovviamente quello della paura (per dirla an­ cora con la Sontag: l’immagine del disastro). A qualcuno questo potrà apparire strano, inesatto o scontato: dopotutto anche di gran parte de­ gli odierni film di fantascienza e horror si può dire la stessa cosa. L’obiezione sembrerebbe accettabile, ma con una fondamentale diffe­ renza: come scrive Andrew Tudor nel suo Monsters and Mad Scientists, "lo stile dominante del periodo è naturalistico, a volte quasi documen-

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cario”; laddove il cinema fantastico contemporaneo in America, da Men in Black a Matrix, confida su una sofisticatissima tecnologia (mor­ phing eccetera) per instillare nello spettatore un senso di paura che è primamente sollecitazione della meraviglia. Per questo il cinema di Dante, pur nei suoi momenti più sensazionalistici, non riesce a (e non vuole) suscitare terrore, nemmeno Piranha, nemmeno L’ululato, nei quali l’atteggiamento ammiccante, ironico, tongue-in-cheek è l’eviden­ te dominante. Dante ha ereditato dagli anni Cinquanta - fra le molte cose - qual­ cosa che non molti lessero in quel cinema a quel tempo e che si riassu­ me nelle parole, precise, sì, ma molto più tarde, di Mark Jancovich: Questi testi non suggeriscono che la minaccia sia puramente esterna, ma che è soltanto l’inevitabile conseguenza di sviluppi avvenuti all’in­ terno della società e della cultura americane. Non sono solo i comuni­ sti e i loro compagni di strada ad essere il problema, come suggerivano invece i cacciatori di streghe maccartisti, ma la struttura del governo, i media e la tecnologia all’interno dell’America medesima; cioè la struttura stessa della moderna società americana. Ora, Joe Dante e la nutrita compagine di esponenti della sua gene­ razione che hanno praticato e praticano la medesima idea di cinema hanno raccolto questa eredità, e a maggior ragione dopo gli attentati ai Kennedy e a Martin Luther King, dopo il Vietnam, dopo Watergate, dopo Irangate e dopo insomma che il malessere oggi indicato da Jan­ covich era diventato vera e propria malattia. Il cinema, a sua volta, lungi dall’essere ancora il make-believe degli anni d’oro, aveva acquistato troppa coscienza di se stesso in quanto ta­ le per non diventare sempre e comunque meta-cinema, per non parlare continuamente di se stesso, per non fondarsi come costante citazione, allusione, riferimento, memoria. Dante quindi condivide con gli Scor­ sese e i Carpenter la trionfante autoreferenzialità del cinema america­ no dell’ultimo quarto di secolo, ma mantenendo sempre un occhio di riguardo verso la cultura popolare della sua primissima adolescenza, la cultura - come lui stesso ci informa - di Mad Magazine e di Carl Barks: ovvero quella della satira fondata sul paradosso grottesco e quella, va­ gamente esopica, della parabola avventurosa che per una volta (in re­ altà cento, mille volte) capita fra capo e collo al più normale, prevedi­ bile e dimesso degli individui (leggi: Donald Duck). Ancora una volta era inevitabile che la sua strada si intrecciasse con quella di Spielberg, il quale per alcuni anni fu proprio il teorico di quest’ultimo modello (da Duel a Hook non poco suo cinema è fatto, come lui stesso disse, di “personaggi ordinari in circostante straordinarie”): Salto nel buio po­ trebbe tranquillamente essere un’avventura del celebre papero, così

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come ii precedente Explorers una storia fantastica come tante di quelle vissute dai suoi tre non meno famosi nipotini. E forse che nella Key West di Matinée non si respira la stessa aria di trepidazione che spazza l’esemplare Duckburg ogniqualvolta vi si verifica qualcosa che ne agita le tranquille, provinciali, sonnacchiose acque? E ancora, non sono for­ se i Gremlins degli omonimi due film funzionalmente comparabili a quelle favolose, originalissime bestiole (o piuttosto: entità) che Cari Barks ha spesso e volentieri inventato per la nostra delizia e per mette­ re in croce Uncle Scrooge, Donald e i nipotini in storie cinquantesche ormai leggendarie come The Golden Fleecing (le Larkies), Land Bene­ ath the Ground (i Terries e i Fermies), Land of the Pigmy Indians (i Peeweegahs), e così via? D’altra parte, a far da controaltare all’eccezionale armonia (anche nei suoi momenti diegetici più tempestosi) della visione barksiana del mondo, la lezione di Mad è altrettanto visibile: un black humor, quello della rivista fondata da William M. Gaines, che ancora doveva ricevere i crismi dell’ufficialità fornitigli dai maggiori nomi della fiction statu­ nitense sessantesca, anche se, come ci ha avvertito Max E Schulz an­ cora negli anni Settanta, non bisogna confondere il “sick humor” degli stand up comedians e il “gallow humor” della cultura popolare con il black humor letterario antologizzato da Bruce Jay Friedman, nel pio­ nieristico volume dallo stesso titolo, pubblicato nel 1965. In effetti, la componente goliardica della famosa rivista ha ben poco a che fare con il paraesistenzialismo del primo John Barth, con l’elegante, controllato surrealismo del primo Thomas Pynchon, con la parodia dell’allor gio­ vane Robert Coover. Si sente bene, per esempio nei segmenti girati da Dante per Donne amazzoni sulla luna, che “Roast Your Loved One”, “Bullshit or Not” o “Critics’ Corner” devono più al genio satirico di Don Martin, Mort Drucker, Sergio Aragones eccetera che alle raffinate ricerche letterarie degli allievi di Borges, Beckett e Nabokov; mentre “Reckless Youth”, pur essendo certamente, come scrive Dennis Fi­ scher, “una parodia, deliberatamente cattiva, degli exploitation film di Dwain Esper degli anni Trenta”, strizza l’occhio sia a Mel Brooks (la scenografia B&N di Frankenstein Jr.) che a Woody Alien (la lezione di igiene sessuale in Amore e guerra). In conclusione, il cinema di Joe Dante obbedisce a un’urgente istanza inventariale, un po’ come una sorta di lunga, interminabile se­ duta psicanalitica nella quale l’affresco di un’intera adolescenza passa dalla memoria del paziente all’attenzione dell’analista grazie alla me­ diazione dell’immagine: sì, perché per Dante l’immagine (insieme al dialogo, naturalmente) assolve la funzione catartica della parola che scava nel passato del soggetto. Non siamo affatto certi che il regista se ne voglia liberare, che essa gli causi un qualche blocco, una qualche

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sindrome psichica, una qualche “malattia”. Mr. Sandman, l’uomo dei sogni, non gli manda incubi che alla fin fine il regista non riesca a con­ trollare. Come il demiurgo Lawrence Woolsey di Matinée anche Dante può creare e disfare incubi a piacere, la sola differenza essendo che i suoi sono stagionati e provengono da un magazzino inaugurato in un’epoca nella quale oggi sappiamo che sognare incubi era tanto facile e tanto dolce. A quel tempo i babau erano dappertutto e coloro che continuamente mettevano l’America sui chi vive contro di essi si sareb­ bero presto rivelati loro i veri babau, proprio come in un incubo po­ stmoderno, nel quale tutto - ma davvero tutto - è possibile. Se nel mondo di Joe Dante (’Uomo Lupo incontra Susan Cabot e si mette a ululare davanti alla celebrata tristezza del suo sguardo di serie-B noi sappiamo che da qualche parte, in una terra di nessuno non molto di­ versa dal brullo, desolato e usto terreno che vediamo all’inizio di It’s a Good Life, in Ai confini della realtà (il film) (1983), giacciono i resti dell’aereo sul quale ha trovato la morte Buddy Holly con i suoi Cric­ kets, e che magari quell’aereo potrebbe essere precipitato a causa di un qualche gremlin che ne ha distrutto un’ala non diversamente da quan­ to accade nell’episodio diretto da George Miller nello stesso film. E dunque può non essere un caso se l’anno seguente Dante si occupa - e con grande successo - proprio di quelle malefiche entità in un film de­ stinato ad avere un seguito. Perché è proprio questo il punto: nella cul­ tura da cui proviene Joe Dante tutto è collegato con tutto. E ha SEM­ PRE un seguito.

Riferimenti bibliografici I riferimenti e le citazioni da Daniel J. Boorstin vengono dal suo fondamentale The Image: A Guide to Pseudo Events in America, Har­ per & Row, New York, 1961; la frase sulla biologia degli adolescenti è di Thomas Doherty, Teenagers & Teenpics. The Juvenilization of Ame­ rican Movies in the 1950s, Unwin Hyman, Boston, 1988, mentre le in­ dicazioni bibliografiche relative ai due studi sulla gioventù americana, citati subito dopo, sono: Kenneth Keniston, The Uncommitted: Aliena­ ted Youth in American Society, Harcourt, Brace and World, New York, 1965, e Paul Goodman, Growing Up Absurd. Problems of Youth in the Organized System (trad. it. La gioventù assurda, Einaudi, Torino, 1964); la nozione di riciclaggio e il concetto di entropia espressi da Joe Dante sono riportati da Dennis Fischer nel suo utile Horror Film Di­ rectors (1931-1990), Jefferson, N. Carolina and London, McFarland, 1991, nel quale si ritrova anche il riferimento agli exploitation film di Dwain Esper; la definizione di “cultist” e la citazione da Susan Seidel-

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man sui robot sono nel saggio di Allison Graham, “Journey to the Cen­ ter of the Fifties: The Cult of Banality”, in J. P. Telone (a cura), The Cult Film Experience. Beyond All Reason, Austin, University of Texas Press, 1991; il celebre scritto di Susan Sontag “Notes on Camp” è nella sua altrettanto celebre raccolta di saggi, Against Interpretation (trad. it. Contro l’interpretazione, Mondadori, Milano, 1967); la frase di An­ drew Tudor sullo stile naturalistico del cinema cinquantesco è nel suo Monsters and Mad Scientists. A Cultural History of the Horror Movie, Basii Blackwell, Oxford, 1989, mentre quella sulla minaccia insita nel­ la stessa società americana dell’epoca è in Mark Jancovich, Rational Fears. American Horror in the 1950s, Manchester UP, Manchester and New York, 1996; l’avvertimento sui vari tipi di humor e sull’importan­ za di non confonderli l’uno con l’altro è in Max E Schulz, Black Hu­ mor Fiction of the Sixties, Ohio UP, Athens, 1973.

Capitolo 13

Gus Van Sant: Sleepless in Seattle (cioè Portland)

Un tempo la cultura americana dell’Ovest era la California: San Francisco e magari Los Angeles. Oggi no. Da alcuni anni il vero centro dell’opposizione al dominio nuovayorkese si chiama Seattle, nello sta­ to di Washington. Da lì vennero a suo tempo personalità dell’impor­ tanza di Thomas Pynchon e Jimi Hendrix, e ancor oggi vive nei suoi dintorni, raccogliendo funghi e scrivendo romanzi che barbagliano co­ me fuochi d’artificio d’intelligenza, un artista del calibro di Tom Rob­ bins. Non distante, a Spokane, è cresciuto David Lynch, e di Seattle so­ no disegnatori e umoristi d’eccezione quali Gary Larson (quello di Far Side) e Matt Groening (quello di The Simpsons). Per non dire di ciò che vi è avvenuto nel campo del rock. C’è chi la chiama “New Northwest School”, e può anche darsi che scuola sia: di certo è una palestra di fermenti culturali quale in America non s’era vista da decenni. Non credo che Gus Van Sant, che viene da una città più a sud ma per molti versi partecipe dello stesso clima (sia culturale che atmosfe­ rico) come Portland, possa essere costretto nel quadro di una “scuola”, ma è sicuro che di quel fermento il regista di Belli e dannati (My Own Private Idaho, 1991) è uno dei maggiori protagonisti. Tutta presa dalla vistosità della violenza tarantiniana, la critica ha sottovalutato Van Sant. In cerca di idoli adeguati alla cultura della superfìcie che ormai impera non soltanto nel cinema, la critica ha letto con molta attenzio­ ne e talora acutezza le innovazioni tarantiniane, ma ha trascurato la straordinaria densità psicologica e morale di Van Sant. Il suo cinema, apparentemente non poco realistico, bordeggia in­ vece il territorio del sogno. A volte è un sogno indotto, magari dalla droga (Drugstore Cowboy [id.], 1989), altre volte la sua natura è clini­ ca (Belli e dannati); più spesso esso appartiene al versante della realtà, o quantomeno pertiene al modo in cui questa si presenta ai suoi per­ sonaggi. Cineasta visionario, verrebbe da dire, se la definizione non

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fosse ormai frusta e troppo spesso applicata (tanto da divenire cliché, e dunque abusata). Belli e dannati è certamente un bel film, ma solo per quello che in esso ci è già noto. Non certo la diffìcile vita dei prostituti, degli emarginati, dei mendicanti di Seattle o Portland (rispettivamente: Washington e Oregon), ma il valore che Gus Van Sant riesce ad attri­ buire a costoro non in quanto se stessi ma in quanto modelli esemplari, stili di vita letterari, emblemi mitologici desunti da una tradizione ul­ trasecolare. E sempre esecrabile sezionare freddamente un’opera così ricca, co­ sì complessa e caotica, e tuttavia è bene farlo, se non altro per chiarez­ za. Da un lato abbiamo un personaggio tormentato da un problema di carattere eminentemente psicanalitico, vale a dire da un’infanzia infe­ lice che probabilmente si riassume nella sua nascita come conseguenza di un incesto, con squilibri, sofferenza e persino continui attacchi di narcolessia (importanti: vi ritorneremo). Dall’altro abbiamo il suo mi­ gliore amico, anch’egli con un problema familiare: il rifiuto del perbe­ nismo paterno, della rappresentatività sociale, dell’ipocrisia ufficiale della politica e la conseguente reazione nella fuga da casa e nella vita dello sbandato, dello sradicato che trova addirittura un nuovo e più amato padre nella figura del drogato e alcolizzato barbone Bob, il qua­ le a sua volta si aspetta dal giovane di essere aiutato a risalire la china una volta che questi recuperi (come Bob è certo che prima o poi farà) il proprio importante posto nella società. Insomma, due “romanzi familiari”: il primo profondamente se­ gnato, radicato nell’infanzia di Mike, il secondo reazione adolescenzia­ le al mondo ordinato e ipocrita del padre. Il primo di carattere psica­ nalitico, il secondo di carattere psicologico. I due ragazzi battono la strada e si prostituiscono allo stesso modo, ma le motivazioni sono ben diverse: non a caso Mike (lo si vede nella sequenza con Scott davanti al falò) ha bisogno d’amore, mentre l’altro va con gli uomini soltanto per denaro. Messe così le cose, Belli e dannati suona come un solido film so­ ciopsicologico, una di quelle pellicole posthollywoodiane nelle quali l’attenzione all’emarginazione non ha nulla dell’ideologizzazione anni Settanta (ricordate Panico a Needle Park di Schatzberg eccetera?), ma se mai una componente postminimalista, un realismo di dettaglio che allude più a un potenziale disgusto che non a un’esortazione civile e politica. Si tratta insomma dei nipotini di Charles Bukowski: come il più anziano zio, non hanno niente da dire e si lasciano andare, senza nemmeno i motivi d’interesse che avevano attirato nelle prime comuni beat quel sociologo che subito i loro abitanti etichettarono “Margaret Mead la Scocciatrice”.

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Però non va sottovalutato un ulteriore elemento: tutta la parte cen­ trale del film non si adegua affatto a quest’immagine alquanto fredda, oggettiva delle condizioni degli emarginati del Nord-Ovest. Nell’hotel di Seattle, abbandonato e sigillato, si sviluppa una piccola corte dei mi­ racoli il cui linguaggio ha qualcosa che davvero suona miracoloso. Si ricordi la vera e propria tenzone verbale fra Scott e Bob e si frughi nella propria memoria letteraria. Non si tratta dopotutto di uno dei tanti scontri tra Falstaff e il suo principe? E su questa strada, tutta la parte finale del film non ci ricorda la grandiosità di quell’inarrivabile “ro­ manzo familiare”, il Re Lear di Shakespeare? Il fatto è che Belli e dan­ nati è uno dei più sofisticati esercizi di alta letteratura che il cinema ci abbia dato da molti anni. Non così dichiarato come Rosencranz e GuiIdenstem sono-morti di Tom Stoppard, ma proprio per questo tanto più curioso e appetibile, mimetizzato com’è sotto spoglie di ben altra natura e tradizione. Non è chi non veda in tutto questo anche un’altra lezione, quella di Orson Welles, cineasta che, se non altro e almeno si­ no a questo film, con Van Sant condivide la qualifica di “maledetto”. Di Welles tuttavia Van Sant ricorda prima ancora di quella shakespea­ riana proprio la lezione onirica, nel senso che ha rilevato dal regista di La signora di Shanghai la tendenza a proporre una resa della realtà im­ peccabile per verosimiglianza, ma spesso tarata da angolazioni, luci (e ombre), ambienti, gesti, atteggiamenti e mimica che ne distorcono i contorni tranquillizzanti (perché familiari), la vocazione al quotidiano, i riferimenti più usuali. E quello scherzo di camouflage nel parco ai danni di Bob, ma dav­ vero è verosimile? O non è piuttosto uno scherzo da romance, una di quelle legnate che ritroviamo, oltreché nell’Enrico IV, nel Sogno di una notte di mezza estate, così come del resto la fuga da casa e la ricerca del proprio padre (o madre, o della verità se è per questo) fa parte di non so quanti altri romance shakespeariani, da La Tempesta a Come vi piace? Ma la vera trovata, che è anche la chiave del film, Van Sant ce la porge sin dall’inizio: quell’evidenziazione - anche lessicografica - della narcolessia, che trova in Mike non semplicemente una vittima, un ma­ lato, un paziente, ma una sorta di sognatore che, condannato a un mondo scarno, vuoto, silenzioso, solitario, cade ogni volta in un sonno dal quale si risveglia altrove. Mike, insomma, è il fruitore di molte sce­ nografie all’interno di ciò a cui non potrà mai sfuggire, la propria vita (“Sono già stato su questa strada”). Un’idea delicatissima costruita in termini che sfiorano la teoria patologica del naturalismo. Mike potreb­ be sembrare un personaggio di Zola, e invece si inscrive in un raggio che va da Jack London ad Alice in Wonderland. E questa pellicola ap­ parentemente dura, spietata, violenta rivela quasi subito la cifra poeti­

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ca che anche la miseria, l'abiezione, il disgusto hanno in serbo per co­ loro che sanno leggere oltre le apparenze. E tutto con parole già udite, con lacrime già piante, in un film che non avevamo ancora visto. Pure, nonostante la sua singolarissima originalità, il cinema di Van Sant ha molti numi tutelari. La tematica omosessuale rimanda ovvia­ mente, fra gli altri, a Pasolini. Del quale tuttavia in Van Sant si coglie un qualche influsso soprattutto per la sperimentazione neorealistica (è cosa nota che il regista di Portland lascia non poco spazio all’improv­ visazione degli attori), ovvero per un trattamento dell’ambiente al­ quanto scarno, desolato, arido, nel quale i suoi anti-eroi si muovono quasi confondendosi con esso. E che dire, soprattutto in Drugstore Cowboy, di quel colore che lotta per renderci la sensazione di uno stile visuale in bianco e nero (un po’ al modo di quel che una quindicina d’anni prima avevano tentato di fare taluni registi della New Hollywood, ma qui in termini di mono e non di policromia)? Sopraffatto dallo stritolante meccanismo hollywoodiano, dopo la manomissione del suo sfortunato eppure interessantissimo Cowgirl: un nuovo sesso (Even Cowgirls Get the Blues, 1994, guarda caso, pro­ prio da un bel romanzo di Tom Robbins), Van Sant ritornerà alle sue origini con Da morire (To Die For, 1995) nel senso che il tema della ra­ gazza che tenta la via del successo in televisione era già stato alla base del progetto per un mediometraggio mai realizzato, Alice in Holly­ wood, a metà degli anni Settanta. Ma la pellicola, pur tagliente e criti­ ca, non regge il confronto con la potenza onirica di certe scene nottur­ ne di Belli e dannati. Tuttavia, il cinema “maledetto” di Van Sant non sarebbe rimasto tale per sempre. Già Da morire era in fondo un annuncio che qualcosa stava per cambiare, e il film seguente, W/ Hunting-genio ribelle (Good "Will Hunting, 1997), confermò la sensazione. Giovani sottoproletari ed emarginati sono ancora al centro dell’attenzione, ma non più come schiuma del sociale, bensì come promesse di intelligenze superiori, quasi che la loro tara potesse volgersi in qualità irraggiungibile da parte di persone normali e regolari. Si badi bene, non un giro di boa da parte del regista, che conserva i suoi interessi e la sua poetica del disadattato, ma un ammorbidimento di quei temi in una direzione che verrebbe da chiamare pedagogica, in quanto studio delle potenzialità intellettuali (e in ultima analisi sociali) dei suoi soggetti un tempo irrecuperabili e net­ tamente separati dal resto del mondo. La leggenda vuole che Matt Damon e Ben Affleck avessero in serbo la sceneggiatura della pellicola dai (recenti) tempi dell’università e che d’un tratto se ne siano trovati al centro e come autori e come attori. Insomma, Will Hunting apparterrebbe soprattutto a loro. Ma non è così.

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Ancora una volta Gus Van Sant trasforma in qualcosa di personale e ri­ conoscibile quello che chiunque potrebbe aver fatto. In effetti, prova­ tevi a raccontare il soggetto della pellicola riassumendolo in poche pa­ role: potrebbe suonare come uno di quei film di cinquant’anni fa con John Garfield, appunto mezzo genio e ribelle per intero, o magari co­ me una di quelle opere post-adolescenziali che qualche anno dopo avrebbero lanciato nel mondo il mito di James Dean, anch’egli come Will chiuso a riccio nel timore di essere ferito nei sentimenti. Certo, anche qui dietro c’è una storia di child abuse, una violenza che il codice di autocensura della MPAA (Motion Picture Association of America) aveva a quel tempo prudentemente bandito dallo schermo, ma il mo­ dello è sostanzialmente lo stesso. Dunque, non un film che si pone come “espressione dei tempi”, ma al contrario come problematica senza tempo se osservato da un’an­ golazione sociopsicologica. È Van Sant a farne un film riconoscibile al di là della sua atempo­ ralità, della sua qualità mitologica. Ma attenzione: non ad aggiornarlo, bensì - se mi si passa l’espressione - ad “autorializzarlo”, a farne cioè una pellicola che, sia pure in modo più edulcorato rispetto al passato, porta la sua inequivocabile firma. La firma di Van Sant, dicevamo, si identifica tematicamente nella marginalizzazione, nell’isolamento, nel movimento, nell’omosessuali­ tà, secondo un dizionario a volte intercambiabile, sempre interagente nei suoi termini. Tale componente tematica, a sua volta, assume vesti formali adeguate e consone, o comunque tali da rendere in modi squi­ sitamente visivi la comunicazione di quei contenuti. Gli usuali eroi di Van Sant sono vagabondi, perdigiorno, talvolta addirittura delinquenti, sempre comunque eccentrici (e dunque marginalizzati). Ma qui per la prima volta il regista si sofferma sulla dif­ ferenza fra diversi. Nello stupendo, straziante e dolcissimo Belli e dan­ nati egli aveva già incominciato a indicare come non sempre la mar­ ginalizzazione è vera, pura, reale; come talora la sua area viene invasa anche da persone i cui innegabili problemi personali le portano ad assumere atteggiamenti da marginalizzati senza in realtà abbracciarne, per così dire, l’ontologia. In quel caso la solidarietà fra reietti era appa­ rente, univoca, vissuta pienamente e sinceramente soltanto da uno dei componenti la coppia, evidentemente destinato a una forte delusione quando questa verità sarebbe venuta a galla. In Belli e dannati ciò che in questo senso faceva la vera differenza era la letargia epilettica del protagonista, marchio reale e metaforico indelebile, inappellabile e sofferto della sua qualità di diverso, nel quale la messa fra parentesi della mente è il segno della lontananza del personaggio dalla norma­ lità.

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In Will Hunting la situazione è esattamente simmetrica. Anche l’eroe titolare è diverso dagli altri del suo gruppo, ma questa volta non perché falso emarginato. Al contrario, egli ha tutte le carte in regola per reclamare la sua patente di marginalizzazione, come e più dei suoi sradicati compagni. Solo, rispetto a costoro Will è stato toccato dal ge­ nio: è ingordo di letture e qualunque cosa legge la assimila e la ricorda infallibilmente; per di più ha il dono di affrontare e risolvere senza fa­ tica i più ardui problemi matematici. Insomma, egli si distacca non sol­ tanto da quelli del suo ambiente, ma anche dagli esponenti di classi più agiate e fortunate. In una parola, fa specie a sé. A differenza da qualun­ que altro giovane della sua classe, Will non ha bisogno di strategie, ap­ parenze, magari menzogne: le sue gigantesche qualità sono raccoman­ dazione e garanzia sufficiente per qualsiasi lavoro di altissima respon­ sabilità teorico-scientifica. Dunque, la pellicola non lancia messaggi confortanti e scontati su come chiunque possa farcela con intelligenza e volontà (questa è una morale che, al massimo, possiamo leggere nel personaggio dello psico­ logo Sean, anch’egli nato nel quartiere a sud come Will, certo brillante ma non un genio, al quale non a caso Will riuscirà in chiusura a “fregare la battuta”). Will non deve fare alcuno sforzo, perché per lui quei pro­ blemi matematici sono un giochetto da ragazzi. Will Hunting ha a cuo­ re altri problemi. Prima di tutto, lo si indicava più sopra, quello dell’isolamento. Ma mentre nei suoi precedenti film Van Sant aveva af­ frontato questo tema fenomenologicamente - cioè mostrandocene, e molto bene, forme ed esiti - qui egli sceglie la via più facile (e proprio per questo più diffìcile): il percorso all’indietro della terapia analitica, vale a dire un vero e proprio mitologema del cinema borghese, che in quanto tale vanta un’articolata tradizione retorica, modelli iterati e ad­ dirittura obbligati di interrelazione col terapeuta, e via dicendo. Per di­ versa che potesse essere in quel film la situazione, non c’è verso: davan­ ti alle resistenze di Will a chi non è venuto in mente Gente comune (Or­ dinary People, 1981) di Robert Redford? E del resto giustamente, ché la cultura di Will fa di lui forse non un borghese, ma certo una persona ben lontana dal proletario bostoniano medio che egli è abituato a fre­ quentare: lo si vede bene in quel paio di monologhi più o meno ufficia­ li (formidabile quello alla NSI) nei quali si lancia, molto diversi dalla pur divertente mascherata messa in scena dal suo amico che, passando per lui, si beffa della commissione durante il colloquio alla McNeill. Isolamento per Van Sant vuol dire anche questo: autocoscienza at­ traverso il recupero del rimosso. Banale? Be’, sì, se ci aspettavamo che il regista rimanesse ancorato a un versante descrittivo; no, se non iden­ tifichiamo il film nella difesa della necessità della prassi terapeutica, leggendolo piuttosto come una riflessione che l’eccezionale fa su se

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stesso al fine di distinguersi da ciò che tende ad accomunarlo a un altro e meno esaltante tipo di diversità. La terapia, insomma, serve narrati­ vamente al regista per evidenziare quello che gli sta a cuore: non il pas­ sato orribile di un bambino seviziato (cioè la ragione, la causa della di­ versità), ma il procedimento di liberazione che chiunque ha il dirittodovere di attuare: a maggior ragione chi, una volta liberato, ha davanti a sé strade che non è dato a tutti di poter battere. Il genio di Will, in­ tendo dire, è soltanto quello che nella clinica medica monitorata viene definito un “elemento di contrasto” per facilitare l’osservazione della situazione relativa all’intero sistema. Se lo si esclude dal quadro il suo personaggio non è poi così lontano dall’accattone pasoliniano, la cui grandezza sta nella confusione fra ciò che egli è e ciò che potrebbe es­ sere, fra ciò che è abituato a fare e ciò che sente (e che, finché ci riesce, finge di non sentire). Non è un caso che proprio nel momento più roz­ zamente, gratuitamente violento della pellicola - la provocazione e la zuffa con il ragazzo italiano e il suo gruppo - il pestaggio venga com­ mentato da una musica sommessa, triste e solenne (splendido nell’in­ sieme lo score di Danny Elfman, candidato all’Oscar) proprio come in taluni dei momenti più abietti dell’indimenticabile opera d’esordio pasoliniana. Anche Will sfugge all’“ange) d’inferno” grazie a quello che dal suo punto di vista è un momento di debolezza: la “lacrimetta” che finalmente egli versa sulle spalle e fra le braccia fraterne di Sean in un film che è costellato di allusioni omosessuali (la nozione di fratellanza essendo, lo si ricordi, un cardine della cultura gay). A parte i rapporti camerateschi fra i quattro amici, anzi, il film inscena una continua am­ biguità interrelazionale fra gli altri personaggi: da un lato l’evidente rapporto di sudditanza di Tom col professore di matematica (ben altro che un semplice caso di baronia accademica), dall’altro quello fra quest’ultimo e Will (dove quel “non dormo la notte” non può sfuggire a sfumature erotico-sentimentali), dall’altro ancora quello, già accen­ nato e con sapore di transfert, fra Will e Scan. Il primo, peraltro, è quello più evidente: la macchina da presa indugia almeno tre o quattro volte su Tom che osserva in disparte e in silenzio mentre il professore si infervora nella discussione con Will e che, da quando questi entra in scena, scade da allievo a ragazzo tuttofare il cui maggior compito sem­ bra quello di andare a prendere il caffè agli altri due. Sul versante ete­ rosessuale, del resto, l’unico rapporto che vediamo fra Will e Skylark nudi a letto è girato a distanza ravvicinatissima: in una serie di primi piani i due giovani si limitano a chiacchierare, finché a un certo punto la ragazza inviterà giocosamente Will a non parlare di sesso usando “metafore di altri sport”. Will Hunting, d’altra parte, è il film di Van Sant nel quale la parola sembra godere del ruolo più ampio: a parte l’ovvia importanza che es­

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sa riveste in ambito psicoterapeutico, essa riempie, come si diceva, l’unica potenziale sequenza di sesso. Più ancora: per tutta la pellicola i personaggi si narrano storie l’un l’altro. Will racconta barzellette a Sean, questi le ripete al bar e confida in cambio a Will particolari sulla sua vita con la moglie adorata e scomparsa. Il matematico ingaggia a sua volta un duello verbale con Sean ripercorrendo i tempi dell’univer­ sità, e quanto al gruppo dei quattro ragazzi tutti adorano scambiarsi storielle sporche (abitudine alla quale Skylark si adegua subito benissi­ mo). Sembra insomma che questi personaggi nascondano tutti la pro­ pria verità dietro la cortina del racconto. O forse, al contrario, che solo attraverso di essa riescano a comunicare con gli altri. In effetti, nel mo­ mento in cui Skylark si apre totalmente e vulnerabilmente a Will ella ne viene immediatamente rifiutata. In Will Hunting non c’è posto per la diretta rivelazione di se stessi, tutto passa attraverso la mediazione di una piccola messa in scena, di una minuta costruzione narrativa, l’interrelazione si attua grazie a un espediente che permette di non mettere in gioco la diretta esplicitazione della verità. Anche questo te­ stimonia una condizione comune, qualcosa di cui Will è soltanto l’em­ blema più vistoso. Del resto il film non fa mistero de) nodo irrisolto nella vita di Sean, per il quale la cura con Will risulta non meno deter­ minante, né delle frustrazioni di Lambeau, grande speranza della ma­ tematica il cui posto di insegnante al MIT è sostanzialmente l’epitome di un fallimento o quantomeno di una promessa non mantenuta. La stessa Skylark - personaggio certo meno scavato in questo senso adombra grovigli affettivi e problematici connessi alla sua condizione di orfana, anche se ella sembra più positiva e agguerrita degli altri nell’affrontarli. Il quadro approntato da Van Sant è come sempre desolato e frasta­ gliato. Esso non investe soltanto il protagonista, ma l’intera compagine che figura in scena. E la dominante di fondo è una sostanza nostalgica, anche se - ed è questa una primaria costante del cinema del nostro au­ tore - di questa nostalgia è impossibile rintracciare l’origine, la fonte. Van Sant ama seguire i suoi ombrosi eroi nelle loro piccole peregrina­ zioni urbane ed extraurbane. E almeno dai tempi di Mala Noche che la sua macchina da presa li tallona da vicino mentre costeggiano strade e luoghi di inner city decadenti, equivoche, solitarie. Ma non è tanto il mondo underground che interessa al regista. Piuttosto - e Will Hunting lo mostra in modo chiarissimo - la presenza e la percezione di una re­ altà semplice che sembra esistere unicamente per essere occasional­ mente registrata da quella che si intuisce essere una soggettiva del pro­ tagonista: più volte nel film vediamo Will vicino al finestrino del train che lo porta nel suo tugurio di periferia mentre qualche taglio di mon­ taggio alterna immagini di un paesaggio esterno in movimento, case,

GUS VAN SANT: SLEEPLESS IN SEATTLE (CIOÈ PORTLAND)

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alberi, prati, cieli al crepuscolo o all’alba. E anche qui ritorna il ricordo dell’esordio pasoliniano, l’attenzione, senza alcuna enfasi semantica, accordata a una realtà circostante tanto aleatoria quanto iterata e fami­ liare al personaggio. È in questa realtà che vivono gli eroi di Van Sant, ed è per questo che egli ci mostra spesso i loro spostamenti con riprese aeree che li schiacciano, li cancellano indistinti in una topografia nella quale essi sembrano non avere alcuna incidenza. E questo, dopotutto, il senso di un altro piccolo stilema nel quale il regista indulge (almeno due volte): il top shot di Will, seduto o sdraiato che sia, dopo che il gio­ vane si è ritirato nel suo luogo domestico. Qualcosa incombe su di lo­ ro, niente di terribile, di tragico, di violento (anche se tragedia e vio­ lenza fanno parte della loro vita), ma piuttosto una flebile sensazione di tempo perduto (non: sciupato!), impiegato in una autointerrogazio­ ne senza parole, come se l’anima si chiedesse in ogni momento di soli­ tudine con se stessa qual è il suo luogo di appartenenza, immagine che è una perfetta figura di deiezione nel senso heideggeriano del termine. Chi non appartiene alla propria origine (perché non la conosce) può diventare qualunque cosa, soprattutto se dotato del genio di Will. Ed è l’amore, l’amore che fornisce il trampolino per incominciare il viag­ gio di scoperta sulla scalcinata macchina della nostra vita, delle nostre esperienze, del nostro carattere, diretti verso lo stato-frontiera per an­ tonomasia, quella California che solo dopo essere stata esplorata può consentirci di ritornare nell’ordine e nella consolidata tradizione rap­ presentata dalla città spiritualmente più europea d’America. Solo allo­ ra saremo in grado di comunicare agli altri qualcosa che non sia già in qualche libro. Le voci lo avevano dato come possibile regista dell’am­ bizioso progetto coppoliano di On the Road, dal romanzo di Kerouac, poi cancellato; e si era parlato anche di un film su Andy Warhol (altro suo ideale mentore), nonché di una pellicola tratta dal libro che Tom Wolfe aveva scritto su Ken Kesey e i suoi Merry Pranksters. Alla fine il regista di Portland avrebbe girato invece un remake di Psycho (id., 1998) e Scoprendo Forrester (Finding Forrester, 2000), pellicola “peda­ gogica” per molti versi strettamente collegata a Will Hunting, ma più scavata rispetto a questa, non foss’altro per il fatto che l’iter spirituale e intellettuale del film non si limita al giovane protagonista, ma investe anche l’anziano mentore. In realtà, al momento attuale, la strada che più sembra attirare Van Sant è, paradossalmente, quella imboccata con Psycho, esercitazione cinefila, sì, ma anche operazione di carattere te­ orico che rimanda alle affermazioni di Welles e Bogdanovich sull’im­ possibilità di girare nuovi film. In certo senso, infatti, l’ultima prova del regista, Gerry (2002), si imparenta col cinema narrativo astratto del miglior Monte Hellman. Personaggi che hanno lo stesso nome, sce­ nografia desertica, insistenza dell’inquadratura, stile scarno, assenza di

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ogni psicologia, puro movimento senza direzione. Certo, Gerry non può essere un modello per il cinema a venire di Van Sant (o di chiunque altro, se è per questo), ma è un segno forte della altrettanto forte in­ tenzione del regista di non lasciarsi corrompere irrevocabilmente dalle tentazioni hollywoodiane. Van Sant ha comunque dimostrato di sapersi muovere in modo au­ tonomo e innovativo nel costrittivo ambito del cinema americano, e non è diffìcile leggere ciò che nel bene e nel male egli ha fatto sinora come più che una promessa. Al pari di Cassavetes, Tarantino, Scorsese e tanti altri, anche lui ha fatto la sua parte per una diversa dignità del cinema indipendente. Se Hollywood può essere qualcosa di meglio di quella fabbrica di effetti speciali che è ormai diventata, il giorno che questo accadrà Gus Van Sant sarà tra i firmatari dello storico accordo.

Seconda parte Generi e case di produzione

Capitolo 1

La commedia americana: lo specchio (rotto) dei tempi

Un titolo strano, si dirà, e tuttavia una variazione su un altro ben noto: quello di Raymond Durgnat, The Crazy Mirror, che vide la luce più di trenta anni fa. Solo che lo specchio, in un’arte che non sia programmaticamente realista (e molto spesso persino quando essa lo è), non è mai un dop­ pio, ma piuttosto una variazione sull’originale che, se riuscita, ricon­ duce a esso chiarendone linee e contorni che senza quel riflesso quasi certamente avremmo perduto. La commedia brillante americana - e suppongo con questo termi­ ne si debba intendere un tipo di commedia che esclude, che so?, i gran­ di e meno grandi comici del muto (cioè a dire la slapstick), ma anche parecchi altri loro eredi a venire nell’epoca del sonoro, da Danny Kaye a Jerry Lewis - ha una vita che non giunge al ventennio. Commedie se ne facevano prima (si pensi a Clara Bow) e se ne fecero dopo (si pensi a Doris Day), e non si può negare loro una qualche “brillantezza”. Ma tale brillantezza solo nel periodo classico fu il risultato di una congerie di componenti le più disparate: l’ambiente, il linguaggio verbale, il te­ ma sessuale e le sue maschere imposte dal codice di censura, il ritmo del montaggio e non ultima la selezione attoriale intesa come casting da un lato e abilità personali dall’altro. Per non dire, nella screwball, del più radicale abbandono della logica nell’impiego del principio di causa ed effetto (una pratica nella quale Howard Hawks sovrasta chiunque). Nonostante (o forse proprio perché) all’inizio la battaglia dei sessi nella commedia si presentasse spesso, in certa misura, anche come con­ flitto di classe, forse mai come negli anni della Depressione Hollywood mise in scena ambienti lussuosi e personaggi senza problemi di danaro. Oppure sarebbe meglio dire: personaggi senza problemi di danaro i quali a volte ne incontrano altri che invece ne hanno e che con essi scambiano favori, poiché ciascuno dà quello che ha, il denaro da un la-

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to, il buon senso concreto dall’altro: da L’impareggiabile Godfrey (My Man Godfrey, 1936) di Gregory La Cava ai più tardi - cioè praticamen­ te post-New Deal - La ragazza della Quinta Strada (Fifth Avenue Girl,1939) ancora di La Cava e il sublime La signora di mezzanotte (Midnight, 1939) di Mitchel! Leisen gli schermi della commedia ame­ ricana identificano regolarmente il denaro con l’insipienza, la debolez­ za morale, il disordine, l’impotenza, il disgregamento, mentre celebra­ no la pragmaticità, l’intelligenza, l’audacia, la sicurezza, il carattere di chi denaro non ne ha e probabilmente proprio per questo ha imparato a vivere navigando con perizia tra i flutti tempestosi originati dalla Grande Crisi. Solo che per poter ottenere questo trionfo è necessario avere la fortuna di un’opportunità (cioè l’incontro, di norma fortuito, col riccone di turno). E l’ideologia del Sogno Americano rientra in sce­ na in forma di chance. Il caso è infatti uno dei grandi protagonisti degli imminenti anni Quaranta, come sostenevo una dozzina di anni fa in uno studio sul cinema hollywoodiano. E anzi, se per qualche ragione non si era in grado di esemplificarlo plausibilmente, si era pronti a cre­ arlo artificialmente con invenzioni di sceneggiatura meccaniche e for­ zose, come nel pur divertente Ti amo ancora (I Love You Again, 1940) di W. S. Van Dyke IL Felicemente esaurita la spinta finalistica del New Deal allo scadere degli anni Trenta, quel che si preparava per la nazione era l’incertezza dell’orizzonte internazionale e, una volta entrati in guerra, quella delle sue sorti. Persino la commedia dovette subire uno strano twist intrec­ ciandosi, come in Fuggiamo insieme (Once Upon a Honeymoon, 1942) di Leo McCarey, con elementi tradizionalmente estranei al suo canone. E solo il superamento storico di quell’esperienza rese possibi­ le un ritorno alla comicità. Una comicità, peraltro, che tuttavia non potè non risentire della cesura bellica, dei suoi orrori, delle sue tristez­ ze. La commedia brillante era finita. Un film come Io ero uno sposo di guerra (I Was a Male War Bride, 1949) di Howard Hawks è certamente comico e divertente, eppure gioca su versanti troppo inquietanti, su paradossi troppo forti e insistiti e soprattutto su situazioni e ambienti troppo seri per poter essere definito brillante. Allo stesso modo, un ca­ polavoro di straordinaria invenzione comica come Scandalo intema­ zionale (A Foreign Affair, 1948) di Billy Wilder, vive in un’area troppo dolente e dispiega un cinismo troppo sfacciato per potersi fregiare di quell’etichetta. Ma sarebbe errato limitarsi all’esperienza bellica. La fine della commedia brillante, certamente connessa al conflitto mondiale, trova le sue ragioni nell’atmosfera generale che ha preparato lo scontro. Per buona parte degli anni Trenta Preston Sturges aveva sceneggiato com­ medie di ben altro tenore rispetto a quelle canoniche, e a partire dal

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1940 sarebbe passato alla regia dirigendo pellicole ormai storiche, rap­ presentative di un diverso corso del genere. Chiedo scusa di questo insoddisfacente excursus storico, ma è im­ portante limitare il campo non solo cronologicamente ma anche stori­ camente e culturalmente. Solo così sarà possibile sbarazzarsi di sospetti e dubbi che, quale che sia il discorso sui tappeto, potrebbero portare a obiezioni (e a conseguenti esemplificazioni) rilevanti. In che modo dunque la commedia brillante riflette l’immagine del­ la nazione che l’ha prodotta nel momento in cui l’ha prodotta? Ed Sikov in un suo studio sulla screwball, che incomincia stupen­ damente ma che dopo le prime pagine finisce per essere unicamente un’antologia sistematica, identifica il canale di connessione culturale nell’ufficio di Joseph Breen da una parte e dall’altra nella sfida che con­ seguentemente la commedia (e il cinema hollywoodiano nel suo insie­ me) si trovò a dover raccogliere confezionando gioielli di allusività e di metaforicità. Questo è certamente vero. Così com’è vero che nella commedia degli anni Trenta quella che chiamerò la qualità ordinaria della ricchezza (cioè a dire il dato scontato che l’America della comme­ dia cinematografica era fatta di ambienti e personaggi senza problemi di denaro in modo tale che coloro che invece ne avevano, all’interno di quell’universo, apparivano come una sorta di eccezione) può certa­ mente essere letta come l’eufemistica risposta del l’immaginario a una realtà ben diversa. Questo vale naturalmente per tutte le forme di spet­ tacolo dell’epoca, anche se è bene ricordare che negli stessi anni Trenta il musical di Broadway (per non dire poi del teatro drammatico) si compromise altrimenti, ancorché occasionalmente, col tema della De­ pressione e della politica: George S. Kaufman e Morrie Ryskind scri­ vevano, su musica di George Gershwin, Of Thee I Sing (1931) e Let ‘Em Eat Cake (1933), e in On Your Toes (1936) di Richard Rodgers e Lorenz Hart un balletto come il celebre “Slaughter on Tenth Avenue” può persino essere letto come un vago antesignano delle preoccupazio­ ni sociali del cinquantesco West Side Story. Tuttavia le puntate in direzione dell’America “depressa” che ritro­ viamo in Accadde una notte (It Happened One Night, 1934) di Frank Capra o nel citato L’impareggiabile Godfrey non sono certo la regola nella produzione comica di quegli anni se si eccettua, ovviamente, l'orientamento dichiaratamente “sociale” della Warner che informò di sé persino un genere ontologicamente alquanto lontano da certe tema­ tiche come il musical. E incominciamo dal ritmo, probabilmente la caratteristica più giu­ stamente celebrata della commedia del tempo. Notava molto bene Antonio Faeti che le testimonianze sul New Deal mostrano “come un bisogno di raccontare in modo colorito e sa­

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poroso quel periodo, quasi per distanziarlo, anche così, dagli anni bui e scuri e anonimamente disperati, che lo avevano preceduto”. Ma che succedeva durante il New Deal? Ovviamente la stampa non lesinò, e comprensibilmente, visioni drammatiche della situazione. Ma nell’am­ bito deirimmaginario le cose andarono diversamente. Il punto non è tanto quello agitato da una lettura volgare della commedia dell’epoca, secondo cui questa sarebbe semplicemente una proiezione ideale - appunto nello spazio dell’immaginario - esemplifi­ cativa di un mondo lontano da quello della Depressione; lettura che trova una sua mitologia in racconti come quello del diseredato che vende il proprio buono-pasto per potersi comprare un biglietto del ci­ nema. No, la questione è molto più seria. Come ha ben dimostrato Mi­ chael O’Malley nel suo seminale studio Keeping Watch, nei primissimi decenni del secolo ui film offrivano un modo per riorganizzare i pro­ cessi mentali secondo un modello di efficienza e controllo sul tempo, un modello di continuità e unità ottenute da una dinamicizzazione dei frammenti”. E O’Malley arriva persino a leggere la costruzione retori­ ca della politica interventista di Woodrow Wilson come analoga al pro­ cesso di costruzione della narrativa cinematografica. Ora, se questa sorta di equazione poteva avere un senso e un valore nell’universo ordinato (ancorché travagliato) degli Stati Uniti fino alla Grande Crisi, di certo le cose cambiarono con il crack di Wall Street: efficienza e controllo erano diventati un ricordo, così come il loro pre­ requisito, l’organizzazione del tempo della quale il cinema, e specificamente l’armonico e organico editing griffithiano, aveva fornito un mo­ dello tanto ammirevole. Non è un caso, intendo dire, che proprio con la Depressione nasca la screwball, ovvero un genere di commedia che si affida largamente a un montaggio di standard molto più rapido di quello che convogliava la sintassi griffithiana. Lungi tuttavia dall’essere epitome di un disordi­ ne, esso, al contrario, esibiva un ritmo del tutto estraneo alla realtà, confezionando perfettamente un mondo tanto sbalorditivo quanto inesistente. In quel tipo di commedia ogni pezzo si incastrava comba­ ciando perfettamente con l’altro non soltanto in funzione del prosegui­ mento della storia (un vero must, questo, del cinema narrativo hol­ lywoodiano), ma anche e soprattutto ai fini del gag di turno. E proprio qui è il punto centrale di differenziazione dalla costruzione del gag in tempi precedenti: in questi infatti, di norma, il gag era schiettamente visivo, oppure collegato al procedimento di montaggio, come nelle co­ miche slapstick di inseguimento, ma pur sempre fondato sutfiperbole dell’evento; nella screwball, invece, il montaggio è parte operativa del gag, evidenziando attraverso tagli diversi di inquadratura il paradosso della situazione. C’è molta iperbole nell’acrobata che aggrappato a una

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lunghissima scala piomba su un pagliaio, ne scivola giù sino ad atterra* re in un porcilaio finendo a pancia all’aria su un carrettino che intra­ prende una discesa a rotta di collo incrociando strade trafficatissime ed evitando per miracolo le macchine che potrebbero investirlo; non c’è affatto iperbole, ma appunto paradosso, in Cary Grant che, in Susanna (Bringing Up Baby, 1938) di Howard Hawks, aggrappato al predellino della sua automobile, guidata testardamente e spericolatamente da Ka­ tharine Hepburn, viene ripreso, dopo un taglio di montaggio, soltanto dal collo in su, il resto del corpo (e della macchina) nascosto da una lunga siepe che percorre, come l’auto, orizzontalmente lo schermo, mentre saluta deferentemente l’avvocato che potrebbe finanziargli una ricerca scientifica e che egli ha ardentemente sperato sino a quel mo­ mento di incontrare, il signor Peabody. Se tutto questo è vero, che conseguenze dobbiamo trarne, oltre al suggerimento di Durgnat secondo cui “le stimolanti possibilità di plot molto mobili” erano “appropriate per la mobilità caotica degli anni della Depressione”? Probabilmente che questo è il modo formale in cui la screwball riflette lo smarrimento dell’epoca: comprensibilmente ri­ fiutandosi di adeguare i suoi temi e i suoi ambienti alla Depressione do­ minante, essa abbandona l’organizzazione “classica” del montaggio griffithiano per frammentare molto di più la teoria delle immagini, rendendoci in tal modo un ritmo ovviamente “bigger than life” che è il corrispettivo del caos nel quale essa nasce, vive e opera. Nel variegato universo della canzone americana v’è un titolo del 1928 che suona non poco anticipatore: “I Can’t Give You Anything But Love, Baby”, il quale, guarda caso, sarebbe stato utilizzato dieci anni dopo in una delle screwball più gloriose d’ogni tempo, Susanna. Quasi si intuissero i tempi duri a venire, quel titolo riassume, fra le al­ tre cose, un problema di enorme momento causato dalla Depressione: la crisi matrimoniale, intesa, naturalmente, come l’impossibilità per in­ numerevoli giovani coppie di coronare la loro unione in modo istitu­ zionale, dal momento che sposarsi implica non solo una volontà e un atto formale, ma anche un impegno economico alquanto sensibile. Dal 1929 al 1932 il numero dei matrimoni in America calò di 2,27 punti su mille (e di conseguenza calarono anche le nascite). Per la stessa ra­ gione calarono, sia pure in misura minore, anche i divorzi. Ora, se una cosa caratterizza la commedia brillante di quel decen­ nio questa è proprio il matrimonio, e più largamente ruoli e problemi di coppia. In ambito melodrammatico vi furono pellicole che esempli­ ficarono perfettamente le oggettive difficoltà che l’istituzione matri­ moniale soffrì in quel periodo. E adesso, poveruomo? (Little Man, What Now?, 1934) di Frank Borzage, ancorché ambientato nella Ger­ mania pre-hitleriana, era un evidente documento in quel senso, come

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del resto, ancorché in modo più indiretto, Vicino alle stelle (Man’s Ca­ stle, 1933) ancora di Borzage e in qualche misura persino Ritornerà primavera (One More Spring, 1935) di Henry King, mentre Nostro pa­ ne quotidiano (Our Daily Bread, 1934) di King Vidor, dopo avere im­ postato il problema proponeva addirittura una soluzione in chiave rooseveltiana. Con la commedia le cose cambiano. Nel senso che in essa al pro­ blema veniva riservato un trattamento diverso e molto più obliquo. Intanto, come da più parti è stato rilevato, il matrimonio nel cine­ ma hollywoodiano è di norma un affare da ricchi, qualcosa che avviene in un fortunato iperuranio che non conosce problemi di denaro. E tant’è per l’aspetto intrattenitivo e non problematico che i duri tempi richiedevano a un genere che, bene o male, era nato per divertire. Tut­ tavia, il modello generale della commedia relativo a questo endemico tema proponeva il matrimonio (e il rapporto di coppia in genere) come un continuo, inesausto conflitto, secondo un’ideologia sentimentale ben diversa da quella che aveva dominato gli schermi nazionali sino al 1930. Perché, dunque, per dirla con Molly Haskell, nella commedia anni Trenta “la passione veniva tradotta in antagonismo fisico”? Non c’è dubbio che il potenziale di insoddisfazione repressa, chiaro frutto dei tempi, fosse alla base di questo modello. E probabilmente questo spiega anche perché, come nota sempre la Haskell, nei nuclei familiari ben raramente compaiono bambini, sostituiti - aggiungiamo noi - dal comportamento infantile degli adulti, che peraltro rientra nella casisti­ ca dei paradigmi tematici formulata, sulla scorta di Leslie Fiedler, da Robert B. Ray, il cui discorso sulla tradizione hollywoodiana come un cinema di "scelte evitate” si attaglia benissimo anche al genere che stia­ mo trattando. Ma che il matrimonio si fondi sul disaccordo quando non sull’odio è cosa che merita riflessione. In effetti, da un lato il mo­ dello tranquillizzava il giovane pubblico in relazione alla irrealizzabili­ tà del loro desiderio; e dall’altro, attraverso il ricongiungimento della coppia (e talvolta addirittura un secondo matrimonio con la stessa per­ sona: la famosa "comedy of remarriage” sulla quale si è magistralmen­ te intrattenuto Stanley Cavell), esso riassicurava il versante mitologico di quello stesso desiderio mostrando che, dopotutto, l’accordo poteva essere tentativamente raggiunto. Insomma, la commedia brillante - e la screwball in particolare fungeva, sì, da specchio dei tempi, ma, per così dire, si trattava di uno specchio rotto, nel senso che invano avremmo potuto ritrovarvi un’im­ magine fedele, nota e sostanzialmente verosimile della realtà, ma sol­ tanto una sua frammentazione, una moltiplicazione dell’immagine nel­ le sue parti costitutive, organizzata in modo da averne ima visione ca­ leidoscopica, nella quale il desiderio non si combinava soltanto con le

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forme che tradizionalmente lo connettevano al reale, ma anche con al­ tri referenti che nella realtà gli erano decisamente meno familiari. A tal fine non dimentichiamo che proprio quel ritmo di cui parla­ vamo in precedenza assolveva una funzione non secondaria. Per fare un esempio, in Ventesimo secolo (Twentieth Century, 1934) di Howard Hawks il contrasto fra Carole Lombard e John Barrymore vive non so­ lo dello straordinario dialogo di Ben Hecht e Charles MacArthur, ma anche del montaggio “a valanga” che, nel ristretto spazio di un treno, porta al parossismo lo scontro in un crescendo di angolazioni accumu­ late e combinate con il movimento a dir poco nervoso dei protagonisti (soprattutto della Lombard). Questo è vieppiù provato da un’eventuale comparazione fra quella pellicola e un’altra che, in misura anche maggiore, vede ancora una ri­ valità professionale fra gente di spettacolo, Vogliamo vivere! (To Be or Not to Be, 1942) di Ernst Lubitsch: un film, questo, dove i momenti che potrebbero ricordare una screwball si contano sulle dita di una ma­ no e comunque rispondono a una logica ferrea, lontana dalle amabili follie dei classici di quel genere. In Vogliamo vivere! le scene fra i due attori, pur vivacissime, si fondano sul caratteristico aplomb di Jack Benny e sul mondano imbarazzo della Lombard: siamo, è evidente, mille miglia lontani dalla screwball classica. D’altra parte, che la screwball anni Trenta sia strettamente connes­ sa a una specifica situazione vissuta dall’istituzione matrimoniale nel periodo è in fondo dialetticamente provato anche dalle commedie sull’argomento che non appartengono cronologicamente a quella pro­ duzione. In Ritrovarsi (The Palm Beach Story, 1942) di Preston Sturges - che pure, sotto molti riguardi, è classificabile come screwball - la coppia sposata non è affatto altolocata ma medio-borghese (e con pro­ blemi di denaro) e l’uomo (Joel McCrea) non ha nulla dell’irrequietez­ za, delia creatività e della fantasia di Cary Grant e degli altri classici protagonisti maschili che nella "commedia matrimoniale” dei pieni an­ ni Trenta avevano affascinato le loro mogli al punto che queste non riuscivano a separarsene nonostante i sentimenti d’odio nutriti verso di loro. Come ha scritto Elizabeth Kendall: "Tom Jeffers non era uno molto divertente da avere vicino - ma i mariti americani erano proprio così”. Ma quel che è peggio: anche gli altri uomini comprimari non so­ no migliori, e della “runaway bride” post-New Deal, circondata dalle attenzioni di parecchi spasimanti, si può tranquillamente dire quel che dice di Gerry (un nome maschile!) un facchino, rispondendo a Tom che gli ha chiesto se quando la donna è scesa dal treno era sola: "She alone but she don’t know”. Che difficilmente il genere possa essere letto come diretto specchio dei tempi lo si vede bene anche nella posizione che questi film assun­

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sero nei confronti dell’ideologia della liberazione femminile. Come giustamente ricorda lina Olsin Lent, la flapper degli anni Venti arriva nel decennio seguente ben poco mutata nella sostanza: decisa a essere riconosciuta come individuo e come singola personalità, sì, ma forte* mente sensibilizzata nei confronti di un consumismo che da tempo è divenuto parte del suo essere, e comunque ancora prona all’ideale ma­ trimoniale e, in fin dei conti, al rapporto subalterno con il maschio. La vera novità stava piuttosto nella sua esigenza di un nuovo ob­ bligo da parte dell’uomo, quello del divertimento (furi) come fonda­ mento dell’amore di coppia (e soprattutto di quello matrimoniale) e più specificamente la necessità di gratificazione sessuale. Nella comme­ dia dell’epoca quel primo obbligo diventò una costante, mentre la se­ conda necessità, come si diceva, almeno a partire dall’inaugurazione del codice di censura, dovette trovare strade tortuose (cioè allusive) per poter comparire. In altre parole, se da un lato Hollywood propose una nozione di coppia e matrimonio decisamente opposta a quella sostanzialmente vittoriana che aveva dominato sino ai primi anni del Novecento nella tranquilla America borghese, dall’altro contribuì a prolungare nell’im­ maginario un’ideologia di carattere sostanzialmente conservatore, so­ stenendo, come afferma Thomas Schatz, lo status quo, uno status quo che però nella quotidiana vita sociale del paese appariva molto meno incidente, vigoroso e vitale. Se cioè Hollywood osava far rispondere a un personaggio di La forza dell’amore (The Bride Walks Out, 1936) di Leigh Jason, cui era stato chiesto perché si è sposato: “Well, it was rai­ ning, and we were in Pittsburgh”, dall’altro i suoi schermi sono pieni di signore irritate e insoddisfatte sul versante di un riconoscimento del­ la loro personalità di esseri umani, che però non rinunciano a parures, cappellini, diamanti, cosmetici (in una parola, agli agi e alla ricchezza della posizione derivata loro dal matrimonio). La cosa è tanto più stra­ na se si ricorda, con Lewis Alien, che durante la Depressione il tipo corrente di giovane donna [...] poteva andare fuori e trovare un lavoro, contribuire a sostenere le responsabilità della famiglia quando il padre o il marito non aveva­ no reddito; [...] avrebbe ricordato loro, nelle sue ore di tranquillità, i bei vecchi tempi prima del boom e delle depressioni che determinava­ no tutto, dei giorni sentimentali di cui la Rinuncia stessa richiamava loro il ricordo; [...] si sarebbe mostrata, non dura, esigente, diffìcile a commuoversi profondamente, ma piccantemente graziosa, gentile, docile, rinsaldando così il loro vacillante orgoglio maschile.

Forse che la Ellie di It Happened One Night, la Drue di Accadde una volta (Red Salute, 1935) di Sidney Lanfìeld, la Susan di Susanna,

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la Irene di L'impareggiabile Godfrey, la Connie di La donna del giorno (Libeled Lady, 1936) di Jack Conway, la Cherry di Nel mondo della lu­ na (The Moon’s Our Home, 1936) di William A. Seiter, la Valentine di Pronto per due (Breakfast for Two, 1937) di Alfred Santell, la Tony di Lamore è novità (Love Is News, 1937) di Tay Garnett, la Melsa di II terzo delitto (The Mad Miss Manton, 1938) di Leigh Jason, la Ann di II signore e la signora Smith (Mr. And Mrs. Smith, 1941) di Alfred Hitchcock, la Jill di Quell’incerto sentimento (That Uncertain Feeling, 1942) di Ernst Lubitsch, forse che, dicevo, questi personaggi femminili rispondono all’indicazione di Alien? Eppure è quella “ragazza media” di cui Lewis Alien ci ha dato un verosimile ritratto che ne ha decretato il successo prima di chiunque altro. Una “ragazza media” che, per in­ ciso, risponde ben poco a quella “reazione antifemminista di moda prodotta dalla Depressione” che un po’ forzosamente Marjorie Rosen ha indicato come un tratto del periodo. Ma il punto non è nemmeno questo, ché la sottomissione all’uomo è facilmente rintracciabile anche quando questi non può vantare mezzi economici tali da permettere alla compagna una vita brillante: dal mi­ lioni della manicure (Hands Across the Table, 1935) di Mitchell Leisen e Avventura a mezzanotte (It’s Love I’m After, 1937) di Archie Mayo, ai già citati La signora di mezzanotte e Ritrovarsi è tutta una teoria di amori disinteressati che alla fin fine rifiutano le blandizie della ricchez­ za. Di più: come dice ancora Schatz, il lieto fine avviene come per ma­ gia se si pensa all’accumulo di problemi sociosentimentali esemplati dai vari film, problemi dei quali non viene mai data logica, conseguen­ te e convincente soluzione. Come si vede, lo specchio è ancora una volta spezzato e illeggibile, nel senso che l’immagine riflessa non è riconoscibile come in qualche misura rispondente alla realtà dell’organizzazione sociale e delle sue frizioni e contraddizioni nell’America del periodo. I frammenti riflessi hanno tutti le fattezze, le linee e i colori della realtà, ma non riescono (o meglio, non intendono) fornire di quella realtà un’immagine coe­ rente e compatta, che la rappresenti in modo soddisfacente, nella mi­ sura in cui un mezzo che, come il cinema, elabora mitologie rivolgen­ dosi all’immaginario potrebbe riuscire a fare.

Riferimenti bibliografici Lo studio di Raymond Durgnat si intitola The Crazy Mirror. Hol­ lywood Comedy and the American Image, Faber & Faber, London, 1969, e ivi è espressa l’idea di un non casuale riscontro tra la forte mo­ bilità delle trame comiche e la mobilità sociale tipica della Depressio­

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ne, mentre l’elegante libro di Ed Sikov, nel quale figura anche la più sotto citata introduzione di Molly Haskell, risponde al titolo di Screw­ ball. Hollywood’s Madcap Romantic Comedies, Crown, New York, 1989; la distanziazione nei resoconti sul New Deal è stata notata da Antonio Faeti nei suo ricco saggio In trappola col topo. Una lettura di Mickey Mouse, Einaudi, Torino, 1986, mentre l’interessantissima idea che il cinema abbia fornito un modello di riorganizzazione e di con­ trollo dei processi mentali anche all’ambito sociale informando di sé persino la costruzione retorica della politica interventista di Woodrow Wilson (o che comunque si possa riscontrare un’analogia in questo senso) è in Michael O’Malley, Keeping Watch. A History of American Time, Penguin Books, New York-London, 1991; le notazioni sul nu­ mero decrescente dei matrimoni fra il 1929 e il 1932, nonché il ritratto della ragazza media americana riportato più avanti, sono in Frederick Lewis Allen, Since Yesterday. The Nineteen-Thirties in America: Sept. 3, 1929 - Sept. 3, 1939, Bantam, New York, 1965; i paradigmi tematici del cinema hollywoodiano e il discorso sulle “scelte evitate” sono in Robert B. Ray, A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, 19301980, Princeton UP, Princeton, 1985; il notissimo studio di Stanley Ca­ vell si intitola Pursuits of Happiness. The Hollywood Comedy of Re­ marriage, Harvard UP, Cambridge-London, 1981 (la sua traduzione in italiano è comparsa presso Einaudi, Torino, nel 1999 con il titolo Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonió), mentre la notazione di Elizabeth Kendall sulla noia ispirata dai mariti americani è nel suo The Runaway Bride. Hollywood Romantic Comedy of the 1930s, Knopf, New York, 1990; l’accenno alla/tapper degli anni Venti e alla sua entrata nel decennio seguente, nonché l’appunto sulla nuova morale matrimoniale del “divertimento”, sono nel saggio di Ti­ na Olsin Lent, “Romantic Love and Friendship: The Redefinition of Gender Relations in Screwball Comedy”, in Classical Hollywood Co­ medy, a cura di Kristine Brunovska Karnick e Henry Jenkins, Routled­ ge, New York-London, 1995; sull’ideologia sostanzialmente conserva­ trice della coppia e del matrimonio espressa nella commedia americana classica e sul lieto fine estraneo alla risoluzione dei problemi di coppia posti dal film si è intrattenuto Thomas Schatz, Hollywood Genres. For­ mulas, Film Making and the Studio System, Temple UFJ Philadelphia, 1981; l’affermazione sul supposto antifemminismo che caratterizze­ rebbe il periodo della Depressione è in Marjorie Rosen, Popcorn Venus, Avon Books, New York, 1974.

Capitolo 2

Strictly USA: il musical americano e l’ideologia nazionale

Vorrei sgombrare immediatamente il campo da possibili malintesi: il termine “ideologia” che riluce nel titolo non va inteso nella sua usua­ le - e peraltro inesatta - accezione politica. Nel caso specifico esso al­ lude a tutto ciò che individua e caratterizza l’americanità della cultura americana, ovviamente, trattandosi di un ambito che è diretto a un pubblico di massa, di una cultura di carattere popolare. Dunque, non è mia intenzione esemplificare e studiare, che so?, musical del periodo bellico che, comprensibilmente mossi da inten­ zioni patriottiche, erano programmaticamente destinati a sollevare il morale delle truppe, e ancor meno musical (ma di questo tipo non ce ne sono tanti) che, come La bella di Mosca (Silk Stockings, 1957) di Rouben Mamoulian, dispiegano - a modo loro, naturalmente - una comparazione fra sistemi politico-economici diametralmente opposti. Ciò che invece risponde all'accezione di “ideologia” per come la indicavo più sopra è la visione che gli Stati Uniti danno (o quantomeno l'idea che essi hanno) di se stessi in questi film senza che tale visione sia necessariamente l’obiettivo primario dell’opera, ma senza cui l’opera risulterebbe svuotata di ciò che maggiormente la qualifica al di là del valore intrattenitivo delle sue componenti (musica, danza, canto, ecce­ tera). Di più: di interesse ancor maggiore, ove possibile e senza appe­ santire e protrarre il discorso, sarebbe rintracciare nella forma di quel­ le stesse componenti intrattenitive un’indicazione, una traccia, un se­ gno che le colleghino o addirittura le identifichino con quella che ho chiamato “ideologia”. Quale che sia la classificazione che vogliamo adottare per una si­ stematizzazione del genere musicale - magari quella di Rick Altman nel suo fondamentale The American Film Musical: “fairy tale”, “show”, “folk” - emergeranno comunque, dal punto di vista ideologico, un cer­ to numero di costanti, parte delle quali caratterizzano volta a volta un

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periodo storico più o meno lungo e talvolta addirittura la politica pro­ duttiva di questo o quello studio. Non v’è dubbio, per esempio, che negli anni Quaranta la maggior parte della produzione musicale americana abbia fortemente insistito sul tema (magari secondario rispetto a quelli trattati nel film, ma sem­ pre presente) della casa, della famiglia, del belonging. Da quel fatidico “There’s no place like home!”, che chiude II mago di Oz (The Wizard of Oz, 1939) di Victor Fleming, in avanti, il musical americano ha ce­ lebrato spesso e volentieri il senso dell’intimità, della famiglia e più lar­ gamente dell’appartenenza a una specifica, ristretta comunità. Ovvia­ mente non si può certo affermare che tale senso sia un valore strettamente americano, ma l’insistenza su di esso in quel decennio non ha ri­ scontro in alcuna altra cinematografìa coeva. E d’altra parte, altrettan­ to spesso e altrettanto volentieri, non si tratta soltanto di una generica e comune celebrazione del nucleo familiare quanto dell’elaborazione di un piccolo sistema di valori che vede la famiglia al centro e attorno a essa lo spazio del vicinato (neighborhood), se l’ambiente è comunita­ rio, o delia terra se esso è rurale: per intenderci, Ragazzi attori (Babes in Arms, 1939) di Busby Berkeley e, appunto, Il mago di Oz. L’esempio della casa e della famiglia mi sembra particolarmente utile per comprendere quanto detto più sopra sull’accezione del termi­ ne “ideologia”: non tanto un tema tipicamente americano (componen­ te che peraltro incontriamo sovente) quanto un modo squisitamente nazionale di trattarlo. Non è un caso che tale tema, rintracciabile in pa­ recchie cinematografie, soprattutto in nazioni economicamente poco sviluppate dal punto di vista industriale, emerga invece così insistente - sia pure per un periodo delimitato - nel musical di una nazione all’avanguardia dell’economia mondiale. Esso torna, si noti, non solo nell’America della ripresa che seguì la Depressione e il New Deal, so­ prattutto in vista dello sforzo richiesto all’industria americana in rela­ zione all’entrata in guerra, ma anche nel genere del musical, vale a dire in un formato che per sua natura escludeva una reale problematizza­ zione di quel tema. In altre parole, alla qualità realistica e problematica nei confronti del tema familiare in, che so?, La terra trema, l’America risponde elaborando una visione mitologica dello stesso tema. Ma, sia ben chiaro, visione mitologica non significa qui mistificazione, bensì elaborazione di un modello ideale attraverso i suoi problemi e le sue contraddizioni, sempre del resto correlato ad alcuni principi formativi della cultura nazionale nei non lunghi anni della sua storia. Dietro La terra trema c’è, sì, la storia di una regione, ma è una storia che si è fatta nell’assenza di un’idea nazionale, di un coefficiente di cementazione culturale che non fosse quello della tradizione popolare locale; laddo­ ve dietro all’esempio americano si sente la teorizzazione di Jefferson

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sul valore della terra e persino sull’economia agraria a conduzione fa­ miliare, che peraltro ritorna persino in film ambientati in comunità più larghe come principio ispiratore e direttivo di un modo di essere e di agire che implica e sottende un comune denominatore nazionale. In quest’ambito, del resto, il musical non fa altro che ribadire, nei termini che gli sono congeniali, un modello che ha percorso il cinema americano per molti anni. Da film come praticamente tutti quelli con Will Rogers (e ve ne sono diretti da John Ford) al Frank Capra di Mr. Smith va a Washington (Mr. Smith Goes to Washington, 1939) la cele­ brazione della farm, della campagna, della provincia stessa come cen­ tro dei valori familiari, e più largamente di un buon senso, di un’onestà e di una semplicità à'antan - che presto avrebbe lasciato un certo spa­ zio anche ad altri luoghi rappresentativi (la nascente istituzione dei su­ burbs, per esempio) - appare forse come la conseguenza della decisa politica di rilancio rurale della presidenza Roosevelt durante la De­ pressione, ma è anche una costante non diffìcilmente rintracciabile nel­ la cultura americana nel suo insieme. La famosa frase della piccola Do­ rothy è citatissima, ma si pensi anche a pellicole come quella con mu­ sica e testi di Rodgers e Hammerstein, Festa d’amore (State Fair, 1945) di Walter Lang e al suo brutto remake (ma vi era stato un primo film non musicale di quella storia, Montagne russe [State Fair, 1933], di Henry King), Alla fiera per un marito (State Fair, 1962) di José Ferrer, nel quale Tom Ewell gorgheggia in duetto con un maiale, ciò che ne fa, come vuole Leonard Maltin, un “third-rate Americana”; e si pensi an­ che a L’allegra fattoria (Summer Stock, 1950) di Charles Walters e ai non pochi esempi, appunto, di “Americana” fornitici da Hollywood: il sublime Incontriamoci a St. Louis (Meet Me in St. Louis, 1944) di Vin­ cente Minnelli, Summer Holiday (1948) di Rouben Mamoulian - da non confondersi con l’omonimo film diretto da Peter Yates una quin­ dicina d’anni dopo - o anche il più tardo e graziosissimo, quanto poco noto, The Music Man (id., 1962) di Morton da Costa, eccetera. Quanto tutto questo possa aspirare all’etichetta di “ideologico” ce lo dice anche il fatto che gli Stati Uniti si sono inventati se non un ge­ nere certo una classificazione che non ha riscontro in alcun altro paese: quella, appunto, che va sotto il nome di “Americana”, vale a dire un racconto le cui linee portanti riposano su una tenera, nostalgica visione della vecchia America, osservando in primo piano abitudini, costumi, valori di un’epoca che fu, i quali, pur superati dal tempo che è passato, vengono, quantomeno indirettamente, percepiti come fondamenti del modo di essere americano indipendentemente da qualunque cambia­ mento il progresso abbia di necessità comportato. E proprio a questi film che Hollywood ha primamente affidato il suo semplice messaggio ideologico. In Facciamo il tifo insieme (Take

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Me Out to the Ball Game, 1949) di Busby Berkeley protagonisti e en­ semble cantano danzando un numero stupendo - “Strictly USA”, che non a caso ho scelto come titolo di queste pagine - nei quale viene gio­ iosamente celebrato tutto ciò che è americano in termini storico-popo­ lari, dal tacchino il giorno del Ringraziamento alla torta di mele, dal gran ballo il giorno delle elezioni a un hot dog ricoperto di senape, dal 4 Luglio allo short-cake di fragole, da Casey Jones il fuochista alla li­ monata estiva, dalla parata che precede il circo in città ai Mr. Tambo e Mr. Bones di quei minstrel shows che furono all’origine del musical americano, non dimenticando Abraham Lincoln e Unde Sam. Lungi dall’essere un esempio isolato, il bel numero conta precedenti illustri e visivamente anche più impegnativi ed eloquenti. È infatti almeno dai tempi degli spettacoli di George M. Cohan, considerato il padre del musical americano inteso come genere teatra­ le, che le scene statunitensi erano aduse a questo tipo di celebrazione: il suo Little Johnny Jones (1904) vantava un titolo come “Yankee Do­ odle Dandy”, nella commedia The Yankee Prince (1908) figurava una canzone come “The ABC’s of USA”, mentre George Washington Jr. (1906) ruotava attorno a una canzone come “You’re a Grand Old Flag” ed esibiva una scenografia che comprendeva en vivant sia Uncle Sam che la Statua della Libertà (componenti che ritroveremo in seguito regolarmente persino nella forma teatrale più cochonne del teatro leg­ gero americano, il burlesque). La bandiera fu anzi il cavallo di battaglia di Cohan: in The Little Millionaire (1911) brillava un titolo come “Any Place the Old Flag Flies”. Si racconta addirittura che un produttore chiedesse un giorno a Cohan se sarebbe stato in grado di metter su uno spettacolo senza la bandiera americana e si racconta anche che un’as­ sociazione patriottica insorse contro il titolo originale del celebre bra­ no - “You’re a Grand Old Rag” - imponendo quello col quale passò alla storia. D’altra parte, se Cohan era stato il patriottico saltimbanco che fu a Broadway e che poi Hollywood avrebbe celebrato in un biopic di Michael Curtiz, Ribalta di gloria (Yankee Doodle Dandy), pellicola che non a caso, visto il tema che stiamo trattando, è datata al 1942, non bisogna dimenticare che da tempo il musical hollywoodiano aveva elaborato forme ed esempi di ideologia americana. Chi non ricorda l’eccezionale sequenza “The Forgotten Man” in La danza delle luci (Gold Diggers of 1933, 1933) di Mervyn LeRoy, ma il cui credito va tutto al suo coreografo, Busby Berkeley? O anche, nello stesso film, quella di apertura, altrettanto celebrata, “We’re in the Money”, che sembra stata scritta da Roosevelt in persona in occasione dell’ufficializzazione delle misure economiche, prese dal Congresso nel medesimo anno, che vanno sotto il nome di New Deal.

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Berkeley, ormai è chiaro, fu probabilmente il maggior cantore dell’ideologia americana nel musical cinematografico. Non è dunque affatto un caso che il suo nome sia stato quello più citato sino a ora in queste pagine. Ma Berkeley, pur nella sua militaresca concezione della coreografia, era un sentimentale (tutt’altro che alieno, per di più, da clamorose scivolate nel Kitsch, come del resto non pochi grandi autori di musical). Ma come dicevo in apertura, vi sono altri modi di proporre l’ideo­ logia nazionale nel cinema americano in generale e nel musical in par­ ticolare. In un un filmetto di poco conto come Tutti in coperta (Hit the Deck, 1955) di Roy Rowland - usuale variazione sul tema della licenza di sbarco - la scenografia (soprattutto nel numero titolare) indulge in un’esibizione di armamenti pesanti (i cannoni della nave da guerra) os­ servati da angolazioni basse i quali, oltre a convogliare un evidente simbolismo fallico, non possono non essere intesi come una celebra­ zione dell’apparato di difesa statunitense, soprattutto in un momento di notevole tensione politica internazionale quale quello che segnò gli anni Cinquanta. E che dire della propaganda interventista di un film mai giunto in Italia come For Me andMy Gal (1942) di Busby Berkeley (ancora lui!) dove l’irresponsabile Gene Kelly subisce, grazie alla stri­ gliata della donna che ama (Judy Garland), una metamorfosi morale che lo porterà a diventare una sorta di eroe di guerra? Del resto sin dai primi anni Trenta il musical è servito ottimamente da veicolo di propaganda ideologica nazionale, come ha dimostrato Mark Roth in un articolo anche troppo citato nel quale il critico rin­ traccia una perfetta metafora di Roosevelt e dell’America contempora­ nea in crisi nelle vicende del regista e della troupe di Quarantaduesima strada (42nd Street, 1933), ancora di Berkeley. Non è necessario tuttavia rivolgersi a esempi tanto massicci ed elo­ quenti per avvalorare l’esistenza di uno stretto rapporto fra il genere musicale e l’ideologia americana. In un film apparentemente “neutro” come Un americano a Parigi (An American in Paris, 1951) di Vincente Minnelli osserviamo uno strano triangolo: Lise, la diciannovenne figlia orfana del patriota Jac­ ques Bouvier (il cui nome, al femminile, di lì a dieci anni sarà uno dei massimi simboli di americanità per il mondo intero, coincidendo con quello della legittima moglie di John Fitgerald Kennedy), ha passato l'adolescenza presso Henri Baurei (Georges Guetary), famoso cantante parigino, e i due si sono innamorati una volta che la ragazza è uscita di casa dopo aver raggiunto la maggiore età (di pochissimo, a quel che sembra). Casualmente Lise conosce Jerry Mulligan (Gene Kelly), un giovane pittore americano (più giovane del cantante di cui sopra, an­ che se in realtà Gene Kelly è nato nei 1912 e Georges Guetary nel

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1915), e la faccenda si complica. Ce ne sarebbe già abbastanza per in­ cominciare ad azzardare un’interpretazione nella chiave che ci interes­ sa, ma a questo punto inserirei una parentesi richiamando l’attenzione nei confronti di un altro musical di poco posteriore - e certo meno bel­ lo, nonostante la sua notorietà -Papà Gambalunga (Daddy Long Legs, 1955) di Jean Negulesco, nel quale la stessa attrice (la graziosissima Le­ slie Caron) interpreta la parte di un’orfanella francese mantenuta e cresciuta a distanza da un ricchissimo ex militare americano (Fred Astaire), per il quale ella coltiva un amore edipico e che alla fine, dopo che i due si sono finalmente visti e conosciuti, sposerà. Ora, tralasciando il fatto che negli anni Cinquanta la povera Ca­ ron sembra regolarmente destinata a uno status di orfana (lo è anche nel mieloso Lili, [id., 1953], di Charles Walters), quel che più conta è che nei due film citati tale status è riscattato da un ricco americano nel film di Negulesco e da un artista americano emergente nel film di Min­ nelli. Quel che voglio dire è che non è poi diffìcile leggere nella figura della Caron una metafora della Francia (e più largamente dell’Europa post-bellica) e in quella dei due americani l’importante metafora di un’America che da un lato è all’origine della ricostruzione post-bellica (Astaire) e dall’altra è fonte salvifica e viva di un forte rilancio culturale (Kelly). Non a caso Henri, il cantante francese di successo molto più attempato di Jerry (le basette di Guetary sono state addirittura imbian­ cate per farlo sembrare più agé di quanto effettivamente non sia) esibi­ sce uno stile canoro lontanissimo da quello dell’americano: quando ac­ cenna alcuni versi di “Nice Work If You Can Get It” lo fa da chanson­ nier più che da sincopato performer e, guarda caso, l’unica canzone che egli canta per intero è il simpatico, commovente omaggio gershwiniano alla grande stagione mittel-europea del valzer viennese, “By Strauss”, dopo aver fatto capire a Gene Kelly e Oscar Levant che lui “doesn’t like jazz” e che invece è “a three-quarter man” (vale fra l’altro la pena notare che Gene Kelly danza la canzone insieme a un’anziana fioraia, evidente rappresentante di un tempo e di un mondo che non sono più). Henri è insomma l’epitome della vecchia Europa dalla quale Lise (la Francia) si affrancherà - e dolorosamente, se è per questo grazie alla presenza, alla comprensione e in fondo anche alla guida di Jerry, cioè l’artista americano che, venuto a Parigi per studiare la pittu­ ra e la tradizione dei grandi maestri francesi, saprà poi assimilarle e su­ perarle nella creazione di un’arte nuova, giovane, moderna. E non è forse, questa, ideologia nazionale? Ma c’è un altro modello di quell’ideologia del quale il musical americano si è spesso e volentieri fatto veicolo. Si tratta di una costante squisitamente americana che vede contrapposta la Cultura e la cultura: ovvero, la cultura classica e seria di contro alla cultura popolare nella

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sua forma moderna, cioè di massa. Si tratta di un argomento partico­ larmente affascinante che per ovvie ragioni restringeremo all’ambito del musical, ma che percorre l’intera storia del cinema americano (e non solo del cinema). Lo ritroviamo dibattuto già mezzo secolo fa nei saggi di Richard Hofstadter e Dwight Macdonald, e a mano a mano che - ovviamente grazie al preponderante ruolo che via via assumono i media nel mondo moderno - si sviluppano l’interesse e il successo della cultura popolare, emergono sempre più studi sulle differenziazio­ ni culturali nazionali che culminano nel cosiddetto “trashing of taste” contemporaneo, al quale James B. Twitchell ha dedicato nei primi anni Novanta un importante volume, Carnival Culture. In pratica, il musical americano è sempre stato l’arengo di un con­ fronto netto e talvolta addirittura impietoso fra le “due culture”. In Spettacolo di varietà (The Band Wagon, 1953) di Vincente Min­ nelli, per esempio, lo straordinario personaggio di Jack Cordova (Jack Buchanan) afferma davanti allo sbalordito Tony Hunter (Fred Astaire) che ogni entertainment ha eguali diritti di esistenza e che anzi tutto è spettacolo, non essendovi differenza fra il “magico ritmo dei piedi di Bill Robinson” (Gene Kelly, nella versione italiana) e il “magico ritmo dei versi di Shakespeare”. Ne segue un numero eccezionale - “That’s Entertainment”, appunto - nel quale si dice cantando, fra le altre cose, che “it could be Oedipus Rex when a chap kills his father and causes a lot of bother” (“Potrebbe essere l’Edipo Re quando un tizio ammazza suo padre e causa un sacco di guai”). Il riassunto dell’Edipo re in questi semplici termini presenta in modo perfetto gli estremi del problema in questione. Certo che la famosa tragedia di Sofocle è la storia di un tizio che ammazza suo padre e causa così un sacco di noie; ma è altrettanto certo che la sua importanza nella storia della cultura riposa su ben altro che sulla messa in scena di un parricidio e le sue conseguenze. La sbri­ gativa formula riassuntiva di Cordova diventa persino simpatica e di­ vertente per chi conosce bene le implicazioni e i risvolti dell’Edipo re. La cultura popolare insomma - specificamente nella forma che essa ha assunto dal momento in cui è diventata di massa - semplificherebbe la grande complessità di quella classica, seria, ufficiale, accademica ecce­ tera. Non solo, ma, stando a Spettacolo di varietà, quest’ultima do­ vrebbe saper stare al suo posto - del resto esattamente come l’altra in modo che ognuna possa operare nel linguaggio, nel genere e nei confronti del pubblico che le compete. Intendiamoci, il film di Minnel­ li, oltre a essere molto bello e divertente, non esclude la possibilità di un rapporto fra le due culture: non a caso Tony Hunter, dopo lo scacco della versione intellettualistica della rivista voluta e diretta da Cordo­ va, riesce a rifinanziare lo spettacolo, concepito in termini adeguati al genere leggero cui appartiene, attraverso la vendita di alcuni quadri di

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pittori impressionisti francesi di sua proprietà. Come a dire: il valore della cultura ufficiale può sovvenzionare la realizzazione di specifici prodotti della cultura popolare. Questa, almeno, sembra essere la valenza metaforica dell’atto di Tony, il quale, peraltro e dopotutto, rimane solo e soltanto un gesto di mecenatismo e di cameratismo nei confronti dei colleghi senza lavoro. Ma è pur vero che nel prendere la sua decisione Tony afferma senza possibilità di fraintendimento che gli autori dei quadri di sua proprietà “amavano l’arte”, lasciando in sostanza intendere che essi, al suo po­ sto, avrebbero fatto altrettanto. È un punto importante, perché Tony viene qui a sostenere la stessa tesi di Cordova, ma con una differenza: che pur credendo anch’egli alla “totalità” dello spettacolo, cioè a dire all’eguale diritto e nobiltà di esistenza delle più diverse forme di enter­ tainment, Tony ha ben chiaro il senso del decorum, o se si preferisce sa mettere a fuoco molto meglio di Cordova lo stile e il tono che compete al genere teatrale leggero. Forse nessun musical è mai stato così esplicito in merito al proble­ ma dei rapporti fra le “due culture”. Tuttavia, più o meno implicita­ mente, tale problema aveva già fatto capolino in questo genere cine­ matografico: in uno dei famosi veicoli della coppia Astaire/Rogers, Gi­ randola {Carefree, 1938) di Mark Sandrich, il tema della psicanalisi, ormai incombente a Hollywood a cavallo fra gli anni Trenta e i Qua­ ranta, getta una luce contrastiva fra la leggerezza tipica del genere e il dispositivo che fa scattare il nodo narrativo della pellicola, presentan­ do fra l’altro un Fred Astaire analista, che nella realtà verrebbe imme­ diatamente radiato dall’albo professionale. In certa misura lo stesso si può dire di un film fascinoso e sottova­ lutato come Schiave della città {Lady in the Dark, 1944) di Mitchell Leisen, con musiche di Kurt Weill e testi di Ira Gershwin, dove strana­ mente la psicanalizzata è ancora Ginger Rogers. Ma - e guarda caso an­ che qui è in scena di nuovo la Rogers - è in I Barkley di Broadway {The Barkleys of Broadway, 1949) di Charles Walters che il problema torna ad assumere dimensioni più facilmente leggibili nella storia di una ar­ tista di varietà in perenne competizione col suo marito/partner, la qua­ le sceglie la via dell’Arte con la A maiuscola, optando per la scena drammatica (nientemeno che una pièce sulla giovinezza di Sarah Ber­ nhardt). Anche qui il detentore dei sacri misteri dell’Arte ufficiale - va­ le a dire l’autore della pièce e il mentore della protagonista femminile - non è un americano bensì un francese (dunque, un europeo), desti­ nato a perdere una partita che, si noti, è tanto professionale quanto personale (l’uomo sembrerebbe amare la sua attrice). Ma quel che an­ cor più conta è che, ai momento delle prove, i suggerimenti per una sempre migliore interpretazione del personaggio di Sarah vengono alla

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Rogers da suo marito, il quale, fìngendo al telefono di essere il dram­ maturgo, le fornisce precise e intelligenti indicazioni attoriali. Ora, non è chi non veda che la prova di finezza registica del marito ballerino e cantante leggero testimonia delle sue capacità anche in un’arte che egli non pratica, dunque, non per impreparazione, ma per­ ché l’arte che gli appartiene e nella quale si identifica (e identifica an­ che la moglie) è quella del teatro leggero. E ancor di più, quell’intelli­ genza registica ci dice, di conseguenza, che, almeno dal punto di vista americano, il teatro musicale leggero rappresenta un’assimilazione e un ideale superamento del tradizionale teatro drammatico. Del resto, questa lettura è avvalorata da un confronto fra i numeri musicali e la scena dell’esame di Sarah per entrare al Conservatoire Francis. Nella straordinaria sequenza della prova di ballo della coppia Astaire/Rogers - nella, quale, per inciso, i due fingono di ballare in mo­ do noncurante, con l’impegno allentato che i veri professionisti, adusi a questo tipo di routine, possono permettersi: un vero capolavoro di studio, intelligenza e abilità - noi vediamo una leggerezza, un diverti­ mento, un professionismo che a mio avviso raggiunge vette siderali; laddove nella sequenza dell’ammissione di Sarah l’attrice dà certo tutta se stessa, ma attraverso una retorica che istituzionalizza, ufficializza e in ultima istanza appesantisce la scena, e paradossalmente proprio nel momento in cui Sarah intende gettare alle ortiche tutti gli insegnamen­ ti accademici ufficiali optando per un’assoluta spontaneità attoriale. Le conclusioni che immancabilmente se ne traggono sono ovvie: non è forse, questa, ideologia nazionale? Che l’opposizione che siamo andati delineando strutturi, ben al di là del musical, praticamente l’intero cinema americano è cosa facil­ mente leggibile nel corso della sua storia: si pensi soltanto, negli anni Trenta, a quanto il film orrifico abbia addirittura abusato del modello. Se mi è consentito citarmi, in uno studio generale di una quindicina d’anni fa evidenziavo proprio questo aspetto di quel genere in quell’epoca, talché si può ben affermare che un attore come Bela Lu­ gosi abbia avuto spazio a Hollywood anche per quel suo accento stra­ niero che tranquillizzava il pubblico in merito alla possibilità che vam­ piri e altri mostri potessero avere origine autoctona. Ma l’opposizione non è necessariamente fra nazionale e straniero. La storia della cultura americana abbonda di un altro modello dai ter­ mini strettamente nazionali, nel quale sono in gioco due contrastanti concezioni di vita, usi, costumi, abitudini, mentalità. Si tratta, in breve c semplificando, dell’opposizione città/campagna (su un versante sto­ rico-teorico diremmo: Hamilton/Jefferson) che non di rado ritorna an­ che nel musical. Un esempio, e famosissimo, per tutti: Sette spose per sette fratelli (Seven Brides for Seven Brothers, 1954) di Stanley Donen,

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nel quale i rudi tagliaboschi della montagna - concretamente ma anche simbolicamente isolati dalla comunità del villaggio a valle - si scontra­ no in una celebre tenzone coreografica con altrettanti azzimati (almeno in confronto a loro) rappresentanti di una vita sociale vissuta in comu­ nità e in termini più civilizzati. Che il film assegni la palma ai primi la dice lunga sul modello nel quale l’America ama e ha sempre amato identificarsi ispirandosi alle sue origini storiche e pionieristiche: affer­ mazione e apologia di una rozzezza che, lungi dall’essere soltanto inci­ viltà e maleducazione, si presenta come (e si vanta di essere) fonda­ mentale e in ultima analisi inalienabile tratto fondante il carattere ame­ ricano. Come scrive giustamente nel suo Classics and Trash una studio­ sa shakespeariana non poco interessata ai rapporti fra cultura ufficiale e cultura popolare, Harriett Hawkins, questa risoluzione: [...Jsembra fatta per riassicurare certi uomini nel pubblico che per at­ trarre le più belle donne immaginabili essi non hanno bisogno di cul­ tura libresca o di buone maniere o di qualsiasi altra cosa tranne che della loro mascolinità roboante, tutta americana e data loro da Dio. Non a caso l’agiografia storica della nazione ha sempre propagan­ dato gli aspetti più modesti, quotidiani, comuni dei suoi eroi: dalla moneta di Washington lanciata oltre il Potomac alle arguzie del giova­ ne Lincoln, dall’avvocatesca intelligenza contadina di Daniel Webster che la fa al diavolo in persona a Davy Crockett che si presenta deputa­ to al Congresso vestito da cacciatore coi berretto di tasso, dall’impe­ tuosità del tutto informale di Stonewall Jackson a quella di Dolly Ma­ dison. Questa modestia e questa quotidianità sono il corrispettivo e in­ sieme la sostanza della cultura popolare che, lo abbiamo visto, così spesso il musical celebra come quintessenza dello spirito, dell’arte, del­ la creatività americani, obbedendo a un modello sedimentato, a partire dai primordi della storia coloniale, come nerbo sul quale si inseriscono tutte le forme sviluppate da quella cultura nel prosieguo del tempo: ideologia nazionale a tutti gli effetti.

Riferimenti bibliografici La distinzione sui vari tipi di film musicale è nell’ottimo studio di Rick Altman, The American Film Musical, Indiana UP, Bloomington & Indianapolis, 1989, mentre la spietata definizione del film di José Fer­ rer si trova nello sbrigativo ma pur sempre utile compendio di Leonard Maltin, Movie and Video Guide 1996, Signet, New York, 1996; gli aneddoti e le curiosità su George M. Cohan si rintracciano in Stanley

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Green, The World ofMusical Comedy, Barnes & Co., New York, 1968, mentre la lettura di 42.a strada in chiave direttamente rooseveltiana è di Mark Roth, “Some Warner Musicals and the Spirit of the New De­ al”, The Velvet Light Trap, 15, Spring 1977; 1‘ottimo volume di James B. Twitchell sulla cultura trash si intitola Carnival Culture. The Trashing of Taste in America, Columbia UP, New York, 1992; sulla fun­ zione dello straniero europeo nel film orrifico anni Trenta si veda Fran­ co La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Bari, Laterza, 1987 e la versione aggiornata e ampliata dello stesso testo, Il cinema hollywoodiano. Una storia culturale, in preparazione presso Bononia University Press, Bologna; la frase sull’anti-intellettualismo di tanto cinema popolare americano è di Harriett Hawkins, Classics and Trash. Traditions and Taboos in High Literature and Popular Modem Genres, Toronto-Buffalo, University of Toronto Press, 1990, la quale nella prospettiva del nostro discorso ha del resto pagine molto acute anche sulla figura del villain e sul contrasto città/campagna (il capitolo in questione si intitola “The Un-American Villain and the All-American Man’s Man”).

Capitolo 3

Il musical MGM: la bellezza del reale

Lo sanno tutti: fra gli anni Quaranta e Cinquanta la MGM si im­ pose come la casa produttrice di musical più importante di Holly­ wood. Ma importante perché? Per la quantità dei titoli? Per la consi­ stenza del budget? Per la grande attrattiva dei cast? Certamente, ma an­ che per qualcos'altro. Da tempo si parla dei “modi di produzione” delle major americane e, per quanto riguarda la MGM, il musical di quel periodo è il miglior terreno di comprensione di quanto si possa sviluppare uno stile che non può essere letto e spiegato solo su basi di gusto registico e sceno­ grafico individuale (peraltro fondamentale in relazione a una “teoria autoriale” troppo spesso negata in tempi recenti da un’improvvida cri­ tica), ma che si presenta come una sorta di minimo comun denomina­ tore nella produzione di quel genere cinematografico. In breve: perché un musical MGM è riconoscibile come un musical MGM? Naturalmente vi sono fattori di immediato riconoscimento, primo fra tutti quello degli attori: Judy Garland, Gene Kelly, Howard Keel, Kathryn Grayson, Esther Williams e cento altri erano sotto con­ tratto con la Casa e dunque era ed è semplice riconoscerne attraverso di loro la presenza. Ma non necessariamente il trademark. Il punto anzi è proprio questo: che cosa attori tanto diversi fra loro come questi hanno in comune oltre a un contratto con la Casa? Che cosa apportano al film (e al genere) che altri apprezzabilissimi attori della Columbia o della Fox non apportavano (o apportavano in termini rimarcabilmente diversi)? Osservate Gene Kelly in Fascino (Cover Girl, 1944) di Char­ les Vidor: ha niente a che fare col giovanotto che quattro anni dopo comparirà in II pirata (The Pirate, 1948) di Vincente Minnelli? Non è solo una questione di ruolo - stavo per scrivere - ma invece no: è an­ che una questione di ruolo. In ambedue i film Kelly è un innamorato respinto (sia pure per ragioni diverse), ma quale tristezza, quale malin­ conia di carattere nel primo e invece quale grinta, quale dinamismo nel

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secondo! Non è un caso che quando nei musical MGM la storia butta sul riflessivo, sul caso pietoso, là in platea noi ci si senta un po’ traditi: sì, il film ci piace, va bene, ma la sofferenza della famiglia del capitano in Show Boat (id., qualunque versione) è troppo verosimile perché il divertimento del sogno prosegua. Oppure in Amami o lasciami (Love Me or Leave Me, 1955) di Charles Vidor - peraltro un musical soltanto perché biografia della cantante Ruth Ettig - l’intero impianto è una la­ mentazione su quanto male assortita è la coppia principale e su come tuttavia alle pene d’amore non si sfugge (come diceva Truffaut: né con te, né senza di te). Non è questo il musical MGM, non è questo che per noi si identifica nel leone ruggente - a colori! - non è questo che lo di­ stingue dalle ammucchiate delle canteens della Columbia o dalla ari­ stocratica ambientazione Paramount di qualche tempo prima. Fino agli anni Quaranta il musical, dal punto di vista sociale, non aveva conosciuto una via di mezzo: o gli ambienti proletari coreografati da Busby Berkeley o quelli, diversamente elevati e di differente timbro, ma pur sempre sostanzialmente eleganti, della Paramount e della RKO. 1 primi oniricizzavano i concreti, durissimi problemi della Depressione e del primo dopoguerra, i secondi rinviavano a un mondo che dopotutto apparteneva ancora ai ruggenti anni Venti, a un’epoca finita da qualche anno, ma in verità lontana anni luce nei costumi e nel­ la coscienza. La MGM fu la prima ad avere in grande stile la grande idea: un mu­ sical per la classe media. Non fraintendete: la classe media poteva go­ dersi tranquillamente anche i musical del decennio precedente; la dif­ ferenza era che i valori agitati in quelle opere non erano i suoi. Si par­ lava di problemi proletari o si ironizzava su quelli dei conti russi in esi­ lio a Parigi, ma dov’era l’americano medio, quello che lavorava come un mulo per poter mandare i figli al college, quello che quando si spo­ sava credeva davvero che sarebbe durata per tutta la vita, quello che si levava il cappello nell’udire l’inno nazionale, quello del barbecue nel giardinetto durante il weekend, quello che mandava i ragazzini al cam­ peggio estivo, quello che non perdeva in TV una puntata di The Ho­ neymooners (i figli, invece, Leave It to Beaver) e che sarebbe spesso sta­ to così ben descritto proprio da una serie televisiva, The Twilight Zone? Pochi musical MGM sono su di lui, ma tutti si rivolgono alla sua mentalità, ai suoi costumi, alle sue credenze, ai suoi sogni. Quando ne­ gli anni Quaranta esplode l’esotismo sudamericano - sulla scorta delle nuove aperture della politica estera statunitense - la Fox lancia sullo schermo Carmen Miranda fingendo che tutta la frutta che l’irresistibile nanerottola brasiliana si porta sulla testa sia vera; la MGM invece si in­ venta una storia fascinosa e sognante (e divertente!) come II pirata, pe­ raltro traendola da una precedente commedia tedesca.

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L’intera congerie di musical MGM di questo periodo è un inno al divertimento sano, ai miti deWAnterican way of life, al baseball (Fac­ ciamo il tifo insieme, [Take Me Out to the Ball Game], 1949, di Busby Berkeley), all’igiene del nuoto (l’intera serie con Esther Williams), al piacere dell’esser giovani, allegri e curiosi (da Good News, 1947, di Charles Walters a Un giorno a New York, (On the Town], 1949, di Ge­ ne Kelly e Stanley Donen), ai valori legati all’idea di unità familiare (Meet Me in St. Louis, 1944, di Vincente Minnelli) e a quelli di chia­ rezza e onestà morale (Un americano a Parigi, An American in Paris, 1951, ancora di Minnelli), per non dire delle buone intenzioni e della disponibilità verso gli altri (Susanna agenzia squillo, [Bells Are Ban­ ging], 1960, anch’esso di Minnelli), dell’intraprendenza creativa (Ral­ legra fattoria [Summer Stock], 1950, di Charles Walters). A volte sono i titoli stessi a parlare in modo inequivocabile della vocazione domesti­ ca dalla Casa: non è tutto un programma, per esempio, Small Town Girl (in italiano Musica indiavolata) girato nel 1953 da Leslie Kardos su coreografìe di Busby Berkeley? Un capitolo a sé meriterebbe il tema - saccheggiatissimo dalla MGM - dell’ambiente artistico, soprattutto relativo alla canzone e al teatro leggero (dall’ultimo, splendido film della coppia Astaire-Rogers, riunita dopo dieci anni - I Barkley di Broadway [id.], 1949, di Charles Walters - al classico dei classici sull’argomento, Spettacolo di varietà [The Band Wa^on], 1953, di Vin­ cente Minnelli). Lo meriterebbe perché, oltre ad aver dato alcuni dei migliori musical della Casa, esso è la proiezione nell’ambito dello spet­ tacolo di una vera e propria teoria della vita e dell’arte che si sta av­ viando vieppiù, in quegli anni, nella direzione di una smaccata esalta­ zione della cultura popolare di massa. È in questi film infatti che la classe media ritrova, adeguatamente formulata, la sua riscossa nei con­ fronti di una cultura high-brow dalla quale si è sempre sentita trattata in modo scostante (cfr. il celebre paragone fra “il magico ritmo dei ver­ si di Shakespeare e il magico ritmo dei piedi di Bill Robinson” nel ci­ tato Spettacolo di varietà). Ed è d’altra parte sintomatico che quando la MGM trae da Shakespeare ispirazione per un musical si rivolga al te­ sto più vicino a un sanguigno gusto popolare fra quelli del Bardo, La bisbetica domata, opera che rivendica simpaticamente i tradizionali ruoli sessuali adottati anche da quella classe media cui da sempre la Ca­ sa si rivolge, coniugandoli con un altro suo tradizionale cavallo di bat­ taglia, la vita degli artisti di teatro e la messa in scena di uno spettacolo: Baciami, Kate (Kiss Me, Kate, 1953, di George Sidney). Su questo ter­ reno, anzi, e più largamente, è bene sottolineare che tutte le ispirazioni letterarie della MGM - e non solo in ambito di musical - sottostanno di norma a questo principio, da Piccole donne a Quo Vadis?, e che, per quanto riguarda il nostro genere cinematografico, altrettanto indicati­

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vo in questo senso è anche un titolo come Sette spose per sette fratelli (Seven Brides for Seven Brothers, 1954, di Stanley Donen), che si rifà a uno dei più popolari racconti di Stephen Vincent Benét, o anche!/ ma­ go di Oz (The Wizard ofOz, 1939, di Victor Fleming), dal libro omo­ nimo di L. Frank Baum, quasi certamente lo scrittore “domestico” più popolare in America al volgere del secolo. Nell’ambito del musical, anzi, la MGM ingaggiò una vera e pro­ pria garbata battaglia per la fondazione (o il riconoscimento, se si pre­ ferisce) di una cultura nazionale di carattere mid-brow. Si pensi non so­ lo alla quantità ma soprattutto al tono delle sue celebrazioni relative ai più eminenti personaggi dello spettacolo americano. Personalità come Jerome Kern o Sigmund Romberg - rispettivamente in film quali Nu­ vole passeggere (Till the Clouds Roll By, 1946, di Richard Whorf) e Co­ st parla il cuore (Deep in my Heart, 1954, di Stanley Donen) - vennero proposte secondo una linea agiografica non lontana da quell’“epica del quotidiano” che è stata uno dei primari obiettivi del realismo più colto e sofisticato sin dai tempi di Henry Fielding. In essa la curiosità per l’aneddoto gustoso e intimo si sposava alla volontà di configurare un’immagine d’artista creativo e tormentato alla stessa stregua di un Beethoven o di un Liszt, un uomo con un messaggio da dare a un mon­ do che raramente ne comprendeva l’urgenza e l’importanza. In breve, il tipico modello romantico dell’artista come essere isolato e incompre­ so veniva trapiantato sui nomi e sulle vicende di compositori (ché di norma di compositori si trattava) giunti da Tin Pan Alley a Broadway, e magari - di solito brevemente - a Hollywood. Si è spesso sottolineato l’apporto fondamentale - soprattutto per la definizione di uno stile MGM - dato dall’art director Cedric Gib­ bons ai musical della Casa. Ed è vero. Gibbons aveva sviluppato un preciso e articolato senso dell’arredamento che molto spesso la critica ha individuato nella sua lavishness (prodigalità, esuberanza). In realtà l’uso di questo termine mi sembra francamente restrittivo: è vero che Gibbons ha regolarmente dimostrato una forte sensibilità nei confronti di interni lussuosi ed eleganti (e se è per questo non soltanto nei musi­ cal), ma solo quando si trattava di creare - appunto - interni lussuosi ed eleganti. Il punto è un altro: la vera abilità di Gibbons è stata - so­ prattutto dopo l’avvento incontrastato del Technicolor e della consu­ lenza Kalmus - quella di ammantare gli ambienti più comuni e retrivi di un’aura di luminosità e gradevolezza, lasciando ai personaggi il com­ pito di esprimere la loro eventuale appartenenza a un mondo di limi­ tazioni e difficoltà economiche e sociali. Nei musical MGM, intendo dire, l’ascrivibilità socioeconomica è leggibile più nel loro modo di parlare e di agire che non nell’ambiente in cui essi vivono. Non certo perché essi vivano al di sopra dei propri mezzi, ma perché Gibbons riu­

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sci a trovare una sorta di minimo comun denominatore scenografico che riassumesse la modestia di certi ambienti senza che esso colpisse vi­ sivamente l’occhio e la sensibilità spettatoriali: splendida riprova dell’eufemismo middle-class tipico della MGM. Si pensi a come riluce il rozzo, sgraziato mondo boscaiolo della capanna di Sette spose per sette fratelli, a come vengono concepiti ed esaltati i colori di un nor­ malissimo bistrò in Un americano a Parigi, a come i docks di II pesca­ tore della Louisiana (The Toast of New Orleans, 1950, di Norman Taurog) rifulgano di colori che nulla hanno a che vedere col marcio e il sal­ mastro che presumibilmente essi dovrebbero lasciar trasparire. E forse non è un caso - ma è solo un esempio fra i tanti possibili - che i desolati e tristi appartamenti in comune della Russia sovietica anni Cinquanta in La bella di Mosca (Silk Stockings, 1957, di Rouben Mamoulian) non godano di tali lucori dal momento che Vari direction del film fu curata da altri. Oppure, al contrario, in un biopic come Tre piccole parole (Three Little Words, 1950, di Richard Thorpe) non sarebbe affatto facile leg­ gere la differenza di conto in banca di almeno uno dei due protagonisti maschili prima e dopo il loro successo come canzonettisti (nella fattis­ pecie Red Skelton che impersona il musicista Harry Ruby, un grande della musica leggera americana, soprattutto dagli anni Venti ai Qua­ ranta). La legge suprema della MGM era, appunto, l’eufemismo. Nulla doveva turbare la buona coscienza dello spettatore, nulla doveva ricor­ dargli come la vita poteva essere ed era: soprattutto in un musical, il genere delegato a tradurre in immagini e storie l’attività onirica di una nazione che troppo spesso nella vita reale stava vivendo degli incubi. Per questo, credo, oltre ai soliti - e bravi - registi di routine, a te­ nere alta la bandiera della Casa dovevano finire persone come Vincen­ te Minnelli, Stanley Donen e Charles Walters. Il primo, oltreché ecce­ zionale scenografo, profondamente ossessionato dall’opposizione fra sogno e realtà, gli altri due straordinari coreografi che portarono nella conduzione della macchina da presa la loro energia e la loro eleganza di movimento, riuscendo in tal modo a rendere vieppiù credibile il tes­ suto rigorosamente onirico di cui erano fatti i loro film, anche quelli apparentemente più legati a una realtà quotidiana (si pensi a Un giorno a New York) che invece era pura illusione. La MGM fu anzi la Casa che per prima introdusse massicciamente la quotidianità domestica nell’ambiente normalmente raffinato ed elegante del musical; o, se si preferisce, la prima a parlare di realtà senza compromettersi con temi e problemi quali quelli agitati da un Busby Berkeley ai tempi della sua collaborazione con la Warner negli anni Trenta. Una realtà però smus­ sata in ogni suo angolo, levigata al punto da riuscire a farci credere, an-

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cora una volta, in quegli anni che il mondo era dopotutto molto più bello dentro una sala cinematografica, perché era lì che si rifletteva per davvero non un paradigma di sogni - come invece era stato per il mu­ sical anni Trenta in stile Astaire/Rogers - ma la bellezza del reale: pro­ prio quella che, una volta usciti dalla sala, non si riusciva mai a incon­ trare né in una strada tormentata da scrosci di pioggia, né in una son­ nolenta vecchia fattoria, né tantomeno in una metropoli nella quale tutti sono estranei e spesso ostili. In questo senso la MGM dei musical più classici è stata la nostra famiglia, il centro dell’affetto al quale pun­ tualmente ogni fine settimana ritornavamo, memori della battuta cele­ bre di una delle sue più gloriose esponenti: “There is no place like ho­ me!”. Solo che la piccola Dorothy, quella battuta la pronunciava alla fi­ ne del film di cui era protagonista. Noi, invece, ce la accarezzavamo mentalmente, seduti là in quella sala, proprio nel momento in cui lo spettacolo incominciava.

Capitolo 4

Tra il sonoro e occhio-di-falco: i musical Paramount negli anni Trenta

Non è casuale che il primo film musicale Paramount, Per Parigi can­ to (Innocents of Paris, 1929) di Richard Wallace abbia per interprete Maurice Chevalier e abbia a suo sfondo la Parigi dei piccoli venditori di strada e quella del music-hall. O comunque, è alquanto emblemati­ co. Sarà proprio Parigi, infatti, e più largamente una scenografia euro­ pea, a dominare e a caratterizzare la produzione della casa di Lasky e Zukor negli anni Trenta. Non dimentichiamo che la Russia zarista, la Vienna del 1914, al­ berghi europei dalla clientela militare altalenante (di cui si ricorderà probabilmente il Billy Wilder di I cinque segreti del deserto [Five Gra­ ves to Cairo], 1943), la Parigi di Luigi XV o quella, più moderna, alla Lubitsch, o magari reami immaginari dai nomi che Hollywood e la Pa­ ramount ultrasfrutteranno, come Sylvania (si pensi al Lubitsch di II principe consorte [The Love Parade], 1929, e qualche anno dopo ai fra­ telli Marx di La guerra lampo dei fratelli Marx [Duck Soup], 1933, sot­ to la direzione di Leo McCarey), sono una sorta di piccola tradizione di questa Casa negli anni del muto immediatamente precedenti l’av­ vento del sonoro in film, rispettivamente, come The Woman from Mo­ scow di Ludwig Berger, The Patriot di Ernst Lubitsch, Marcia nuziale (The Wedding March) di Erich von Stroheim, Hotel Imperial di Mauritz Stiller, Madame Pompadour di Herbert Wilcox, The Grand Duchess and the Waiter di Malcolm St. Clair, The Crown of Lies di Dimitri Buchowetzki (che a sentir Pola Negri era secondo solo a Lubitsch). La Pa­ ramount, insomma, non farà che inaugurare il nuovo genere nato con il sonoro seguendo una traccia, un orientamento che le erano alquanto congeniali. In realtà la ragione principale di questa scelta è meno elettiva e più pratica. Anche se Richard Wallace è di certo un regista autoctono, sa­ ranno perlopiù autori di origine europea a battere la strada del musical

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nel senso di cui si diceva. I titoli e i nomi sono scontati, e su tutti natu­ ralmente troneggia quello di Lubitsch con II principe consorte, Monte Carlo (id., 1930), L’allegro tenente (The Smiling Lieutenant, 1931), Un’ora d’amore (One Hour with You, 1932), insieme a Mamoulian (Amami stanotte [Love Me Tonight], 1932) e ad altri ancora. E fermiamoci pure qui. Del resto la cosa è più che ovvia se si ricorda che proprio Lubitsch per un certo tempo negli anni Trenta avrebbe ricoperto un posto di prestigio e responsabilità nell’ufficio Produzione della Paramount. Na­ turalmente il musical Paramount non si esaurisce in quest’ambito: dal­ la miriade di pellicole con Bing Crosby a quelle che intendevano sem­ plicemente esibire un impressionante numero di artisti in una galleria che ricorda le future Hollywood Canteen di altre Case e che qui ave­ vano scelto la dizione “Big Broadcast of” (in linea con la politica “mul­ timediale” di Zukor il cui obiettivo era una sorta di fusione tra cinema e radio), la Paramount cercò di muoversi su diversi terreni. Resta il fat­ to che le sue acquisizioni migliori si identificano per unanime consenso critico nel musical “europeo” di cui si diceva. Dagli esperimenti con il sonoro di Mamoulian nel già citato Ama­ mi stanotte e nel precedente Appiause (1929) - che peraltro difficil­ mente può essere definito un musical - allo sbarazzino ammiccamento dei composti eroi lubitschiani, il musical “europeo” divenne, caso o in­ tenzione, il laboratorio più sofisticato della Casa, quello entro il quale non solo chi aveva coraggio e inventiva poteva giocare con le possibi­ lità offerte dalla tecnologia del tempo, ma chi aveva abbastanza intel­ ligenza poteva farne occasione per l’esercizio d’un erotismo sottile che ariette, sfarzosi costumi d’altra epoca, mobilio in stile, impettiti digni­ tari o anche soltanto allegri personaggi che canticchiavano sulla riva si­ nistra delta Senna non riuscivano a eludere e a soffocare. È probabile che questo discorso rientri in quello più ampio relativo ai modi in cui la Casa era solita presentare l’Europa al pubblico ameri­ cano. Ed è altresì probabile che, su questa linea, si sia generato un in­ teressante feedback tra l’idea hollywoodiana (e specificamente paramountiana) d’Europa e ciò che l’Europa aveva suggerito di se stessa (magari attraverso l’esperienza degli europei espatriati a Hollywood, appunto). In fondo, poniamo, da questo punto di vista squisitamente socioculturale - e solo da questo - vi sono affinità tra Un’ora d’amore di Lubitsch e una deliziosa commedia come La signora di mezzanotte (Midnight, 1939) di Mitchell Leisen, forse non a caso cosceneggiata dal miglior allievo del maestro europeo, Billy Wilder. La differenza impor­ tante è invece che il numero di film tematicamente “europei” alla Pa­ ramount (e a Hollywood in generale) è molto maggiore qualche anno prima, in piena Depressione.

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È, questo, il punto che va maggiormente considerato e che una ri­ flessione attenta può rivelare cruciale per una comprensione di quella produzione in quegli anni. A differenza da una Warner Bros., celebre per la sua politica ag­ gressiva, diretta, addirittura brutale nell’affrontare temi e periodi scot­ tanti della realtà americana contemporanea, la Paramount tentò in mo­ do ben più evidente di perseguire una politica dell’entertainment come diversivo dai grandi problemi del momento. La scena europea si pre­ stava bene, quindi, a questa radicale deviazione nella direzione dell’im­ maginario. Prorprio per questo, anzi, le realizzazioni della Casa (e non solo nel campo del musical) su questo terreno denotano quelle “meta­ morfosi”, quelle “trasfigurazioni”, e in ultima analisi quell’inverosimi­ glianza, che Leonardo Gandini rileva in un suo studio sull’Europa di Lubitsch e Sternberg. Al modo in cui era da secoli consueto alla cultura anglosassone, non solo nei drammi, ma qui anche nelle commedie, lo sfondo di un lontano paese europeo era funzionale alla costruzione di storie invero­ simili e proprio per questo affascinanti per la fantasia dello spettatore. Quanto l’Europa storica avesse influenzato e condizionato questa visione e, d’altra parte, quanto essa fosse frutto di un felice arbitrio cre­ ativo (poco importa se dovuto alla produzione, alla sceneggiatura o al­ la regia), è difficile a stabilirsi. Come dicevo, probabilmente si tratta di un feedback, di reciproca interazione. È un fatto che questa produzio­ ne rimane incomparabile rispetto a quella, tutto sommato più routi­ nière, del musical Paramount di ambiente americano, che pure la Casa produsse a vele spiegate negli anni Trenta. Si pensi solo all’oceanica produzione di musical incentrati sul per­ sonaggio di Bing Crosby. Qualche titolo scelto fra i moltissimi: The Big Broadcast (1932) di Frank Tuttle, College Humor (1933) di Wesley Ruggles, Too Much Harmony (1933) di Edward Sutherland, La granduchessa e il cameriere (Here Is My Heart, 1934) ancora di Tuttle, We’re Not Dressing (1934) di Norman Taurog, Rhythm on the Range (1936) ancora di Taurog. In realtà questi film sposavano una trama ro­ mantica e poco impegnativa all’esecuzione di alcune canzoni, vera oc­ casione per la produzione di queste pellicole. In esse la malizia di Lu­ bitsch e la geniale curiositas di Mamoulian non figuravano certo, ma solo l’esibizione di un prevedibile buon senso e di protagonisti all’ac­ qua e sapone. Confortato in questo modo sulle proprie qualità nazionali, il pub­ blico americano poteva quindi rivolgersi anche alle ciniche e divertite infedeltà di Un’ora d’amore o alle improbabili Sylvanie, evidenti epi­ gone della Ruritania di II prigioniero di Zenda, già nota, anzi popola­ rissima, fra il pubblico del cinema muto americano. L’obiettivo escapi-

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stico di questa produzione si evidenzia contrastivamente anche osser­ vando la produzione di qualche anno dopo. Solo nel 1939 infatti la Pa­ ramount sfornerà il suo primo biopic musicale, The Great Victor Her­ bert di Andrew L. Stone, su un autore di operette molto attivo fra il 1890 e il 1920: un genere, l’operetta, che Hollywood stava recuperan­ do proprio in quel periodo attraverso opportune variazioni d’ambiente e d’epoca, come, nella Paramount, a ridosso della via aperta dalla MGM, in Rose of the Rancho (1936) di Marion Gering o Give Us This Night (1936) di Alexander Hall. Sin dal 1935, infatti, l’operetta vec­ chio stile aveva mostrato la corda come nell’ignorato (da pubblico e critica) AH the King’s Horses di Frank Tuttle che pure vantava la coppia principe del genere, Jeannette MacDonald e Nelson Eddy. L’attenzione rivolta ai biopic - che sarebbe continuata con Made­ moiselle Zazà (Zaza, 1939) nel sonoro firmato da George Cukor o The Star Maker (1939) di Roy Del Ruth, sia pure senza vistosi sviluppi del futuro - testimonia bene di un rivolgimento nell’orientamento produt­ tivo del genere: non più le tenere sciocchezze inventate dai puliti per­ sonaggi di Bing Crosby, ma un riferimento, magari romanzato, a per­ sonaggi della cronaca e della storia dello spettacolo americano (nell’ormai tardo 1945 si vedrà persino una biografia adulterata della leggen­ daria Texas Guinan firmata da Gorge Marshall, Bionda incendiaria [In­ cendiary Blonde]). Alla fine della Depressione l’Europa poteva lasciare il passo alla rinnovata fiducia che il paese si era riconquistata nei con­ fronti di se stesso, non essendogli più necessario fingere e inventare, via-Crosby, l’ottimismo rooseveltiano necessario alla ripresa dalla crisi. Presto Crosby stesso, con Bob Hope, aprirà la strada a ben altro esoti­ smo - peraltro non meno fasullo - con la famosa serie Road to (Singa­ pore, Rio, Bali, Utopia, eccetera). Nel frattempo àB’entertainment avevano cooperato anche quei film musicali del tutto estemporanei che ammassavano i molti fiori all’occhiello della Casa in una kermesse senza struttura né obiettivo, come i vari “Big Broadcast” di cui si diceva, ma anche qualche pellicola isolata affidata al richiamo esercitato dall’interprete (o dagli interpreti) come il piacevole Sitting Pretty, 1933 di Harry Joe Brown, con Jack Oakie, Jack Haley e - ma soprattutto e a posteriori, poiché all’epoca non era ancora famosa - Ginger Rogers, Every Night at Eight (1935) di Raoul Walsh, con George Raft e Alice Faye (per l’occasione prestata cortesemente dalla Fox), Anything Goes (1936) di Lewis Milestone, con Bing Crosby che corteggia Ida Lupino, ma in realtà dominata dalla traboccante personalità di Ethel Merman e dal vero nume tutelare del­ la pellicola, le bellissime canzoni di Cole Porter, fra cui quella titolare. Sono prove isolate che non appartengono ad alcun orientamento produttivo (il prestito Fox della Faye è in questo senso rivelatore).

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Naturalmente non ascrivo all’ambito del musical nemmeno i film dei fratelli Marx (che negli anni Trenta dettero notoriamente le loro cose migliori) né quelli di Mae West (che negli anni Trenta notoria­ mente salvò la Paramount dalla bancarotta): non perché le canzoni ap­ piccicate alle loro storie non bastino a “musicalizzarle” quanto quelle appiccicate ai meno interessanti film con Bing Crosby, ma perché la personalità degli interpreti e la loro rappresentatività - i primi nell’area del comico e la seconda in quella che si identifica col suo stes­ so personaggio - consentono di superare le normali classificazioni. Al volgere del decennio è più che evidente che il musical Para­ mount sta prendendo altre strade: il 1940 inaugura un musical ancora simpatico e persino sbarazzino, ma con una venatura pensosa che quasi sarebbe sembrata una stonatura se non fosse stato che l’atmosfera cre­ ata dalla seconda guerra mondiale non consentiva certo di meravigliar­ si di cose del genere: il film è Follie di jazz (Second Chorus) di H. C. Potter, e un Fred Astaire alquanto sbiadito come quello che mostra gli è alquanto congeniale. Esso aprirà la strada ad altre prove consimili co­ me La taverna dell’allegria (Holiday Inn, 1942) e Cieli azzurri (Blue Skies, 1946) ambedue di Mark Sandrich. Il tramonto del brio di Astaire era la miglior prova che il genere non solo stava mutando ma che, al di fuori dall’entusiasmante dinamismo MGM, era anche in crisi. Nonostante uno dei primi musical di franchigia del periodo, La fortezza s’arrende (The Fleet’s In, 1942) di Victor Schertzinger, ma ter­ minato da Hal Walker a causa della morte del regista durante le riprese - peraltro, come tutti, debitore al celebre Seguendo la flotta (Follow the Fleet, 1936) della RKO - la Paramount denunciò in molti sensi la crisi di cui si diceva. Da un lato obbedendo al patriottismo e alla pro­ paganda d’obbligo con film come Signorine, non guardate i marinai (Starspangled Rhythm, 1942) di George Marshall e Priorities on Parade (1942) di Albert Rogell, che certo non potevano vantare alcunché sul versante estetico, dall’altro con occasionali opere di qualità come il sottovalutato Schiave della città (Lady in the Dark, 1944) di Mitchell Leisen, che però portò nel genere una ventata di vero e proprio turba­ mento con la sua storia di insoddisfazioni sentimentali così incisive da richiedere un’analisi psicopatologica dell’eroina, vittima di sogni fasci­ nosi e terribili che non a caso non godevano del commento musicale di un Porter o di un Berlin, ma nientemeno che di Kurt Weill, autore che con gli incubi andava tradizionalmente a nozze (il tema della psi­ canalisi, del resto, diverrà un marchio, e non a caso, in non pochi film di questi anni: persino nel western). L’Europa, dunque, e la presenza dell’immigrato Weill lo conferma, poteva diventare ben altro dall’ag­ graziato sogno stilè di Lubitsch, e un dittatore nazista poteva trasfor­ mare in incubo persino la vita sentimentale e onirica di una dream girl

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dello spessore, della personalità e del look di Ginger Rogers (due anni prima in una pellicola RKO di Leo McCarey, Fuggiamo insieme [Once Upon a Honeymoon], la Rogers figurava addirittura sposata a una spia nazista), sovvertendo i modelli a un punto tale che persino un prete pieno di problemi poteva mettersi a cantare, garantito da un'identità come quella di Bing Crosby. Sotterrata ufficialmente in seguito a quella parodia di una parodia che fu II valzer dell’imperatore (The Emperor’s Waltz, 1947) di Billy Wilder - nel quale si saldavano conclusivamente in un’aurea contami­ nazione i due musical tipici della Paramount, quello alla Lubitsch e quello con Bing Crosby - e l’anno seguente da una delle commedie “europee” più tristi della storia del cinema, Scandalo internazionale (A Foreign Affair, 1948) ancora di Wilder, l’Europa del sogno se n’era an­ data e quella vera aveva fatto irruzione non solo sul set, ma sulla scena della Storia e della cronaca. Il musicai, di qualunque Casa, di questa ir­ ruzione non si era direttamente fatto carico, ma quello di marca Para­ mount denunciava indirettamente tale presenza, se non altro salutando per sempre un continente da operetta o da commedia boulevardière quale quello che per tanti anni aveva piacevolmente contrabbandato. Per poterla rivedere ancora in piena luce, quell’Europa, nemmeno il potentissimo riflettore del vecchio Occhio-di-falco (Hawkeye), tec­ nico delle luci di DeMille in Viale del tramonto (Sunset Boulevard, 1950) sarebbe bastato. Come Norma Desmond, anche quell’Europa avrebbe stretto le palpebre facendosi scudo con la mano al volto per ri­ pararsi da una luce troppo forte, troppo impietosa: la luce di un’altra epoca, che non era la sua, e nella quale per lei non c’era più posto.

Riferimenti bibliografici Di metamorfosi e trasfigurazioni della Paramount in quegli anni parla Leonardo Gandini nel saggio “L’Europa esotica di Lubitsch e Sternberg”, in II più grande spettacolo del mondo: Cecil B. DeMille, la Paramount e la formazione di Hollywood, a cura di P Spila e V. Zagarrio, Di Giacomo Ed ., Roma, 1989.

Capitolo 5

“È questo quel che volete?**: i musical della Columbia

La Columbia - insieme alla Universa! notoriamente una delle due majors secondarie della Hollywood classica - non ha mai brillato nel genere musicale. Nel tentativo di attribuirle un qualche merito in quest’ambito è stato detto che attorno al 1934 essa aperse la strada all’operetta che la MGM avrebbe di lì a poco portato al trionfo con la coppia Nelson Eddy e Jeannette MacDonald, ma non è vero: già nel 1930 la First National aveva prodotto Bride of the Regiment di J. E Dillon. E del resto data al medesimo anno, per la Warner, Golden Dawn di Ray Enright, con le coreografìe di Eduardo Cansino, il padre della maggior star a venire della Columbia, Rita Hayworth. In realtà, la Columbia non ha mai elaborato una precisa politica produttiva nell’ambito del musical, e di conseguenza non ebbe mai in questo senso degli straordinari successi estetici o anche solo spettaco­ lari. Piuttosto, qualche occasionale idea che in seguito sarebbe stata elaborata da altri, come diremo. La tradizionale mancanza di originalità e la monotonia della Casa sono facilmente leggibili lungo tutta la sua storia, e in particolare dalla decade che va dalla metà degli anni Trenta alla metà degli anni Qua­ ranta, quando cioè il musical come genere si era ormai assestato dopo i formidabili exploit della Warner e della RKO (e in parte della stessa Paramount). La tendenza della Columbia è immediatamente rilevabile: quella di scegliere la via più facile, di appiccicare insieme con qualche alibi numeri non sempre fra loro omogenei (l’usuale modello the show must go on, il tema della raccolta di fondi per la guerra, la propaganda a favore delle iscrizioni all’università eccetera) con titoli tanto anonimi quanto eloquenti: Sweetheart on the Campus (1941), Time Out for Rhythm (1941), What’s Buzzin’ Cousin? (1943), Cowboy Canteen (1944), Hey Rookie (1944), Jam Session (1944), Stars on Parade (1944), Carolina Blues (1944). La Columbia doveva inoltre accordarsi all’allora imperante moda latino-americana, nata negli anni Trenta ed

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esplosa nei Quaranta, con filmetti come Blondie Goes Latin (1941) di Frank Strayer, ottavo della serie tratta dalla strip di Gig Young o Non sei mai stata così bella (You Were Never Lovelier, 1942) di William A. Seiter; ma qualche garanzia di latinità compare occasionalmente anche in altri tipi di film, come {’insuccesso di Mae West, The Heat’s On (1943) di Gregory Ratoff. Sempre negli stessi anni la Casa tentò anche produzioni musicali giocate su elementi tematici più o meno inusitati, come Pennies from Heaven (1936) di Norman Z. McLeod, nel quale Bing Crosby fa l’ex carcerato che per una solenne promessa si prende cura di una bambina e di suo nonno e che istituzionalizzerà una pratica destinata a godere il favore di tutte le case di produzione, ma in particolare quella di Har­ ry Cohn, ospitando una celebrità come Louis Armstrong; come Aman­ ti di domani (When You’re in Love, 1937) di Robert Riskin, nel quale rintracciamo un altro modello narrativo americano classico, quello della straniera che si sposa per poter ottenere il visto d’entrata negli Stati Uniti (in questo caso dal Messico, ma allo stesso modo dall’Euro­ pa, come quattro anni dopo la MGM avrebbe fatto con Hedy Lamarr in Vieni a vivere con me [Come Live with Me], 1941, di Clarence Brown), e nel quale inoltre si giustappongono audacemente - attraver­ so la cristallina voce di Grace Moore (un’operettista tutta da rivaluta­ re, e comunque superiore alla troppo celebrata Jeannette MacDonald) - Schubert e Gounod da un lato e “Minnie the Moocher” dall’altro, come in quello che in un certo modo è il negativo di quest’ultima pel­ licola, Music in My Heart (1940) di Joseph Santley, dove questa volta è un uomo (Tony Martin) che intende evitare di essere rispedito in pa­ tria; o come in coniugazioni di western e musical quali gli anonimi Go West, Young Lady (1941) e Swing in the Saddle (1944). E ancora: un tipico saccheggio hollywoodiano cui i film della Columbia fecero vo­ lentieri ricorso fu il tema in qualche misura metaspettacolare della so­ stituzione, vale a dire dell’attore (cantante, ballerino eccetera) sostitui­ to da un altro, usualmente ignoto e riluttante, come del resto avevamo visto agli albori del genere in uno dei migliori prodotto della Warner, 42.a strada (42nd Street, 1933) di Lloyd Bacon; Something to Shout About (1943) di Gregory Ratoff, il cui unico merito è di contare fra le ballerine una certa Lily Norwood (all’anagrafe Tuia Finklea), che pas­ serà l’anno dopo alla MGM divenendo in poco tempo Cyd Charisse, fino ad arrivare al colpo d’amnesia e al cambiamento di personalità (anche questo, tutto sommato, un caso-limite non infrequente: si pen­ si, in ambito di commedia a 77 amo ancora [/ Love You Again], 1940, di W S. Van Dyke II) di a I Love a Bandleader (1945) di Del Lord. Insomma, una produzione musicale ben poco originale. E tuttavia, si diceva, con momenti, idee, trovate, spunti che, opportunamente rie­

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laborati, avrebbero dato (o potuto dare) esiti interessanti. Si pensi a quel Beautiful but Broke (1944) che per certi versi anticipa una delle idee portanti di A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot, 1960) di Bil­ ly Wilder, con l’orchestra femminile che improvvisa in treno non di­ versamente da quella di Susy e le sue “dame del ritmo”; si pensi a Sta­ notte e ogni notte (Tonight and Every Night, 1945) di Victor Saville, dove per una volta l’eroina decide di non sposarsi e di continuare lo spettacolo, ma dove soprattutto assistiamo a una grande trovata visiva e teorica: alcuni personaggi di un cinegiornale “escono” dallo schermo ed entrano nel numero musicale titolare non diversamente da quel che circa quarant’anni dopo avrebbero fatto quelli di Woody Alien e di Herbert Ross; si pensi all’idea della doppia vita di una ragazza inap­ puntabile studiosa che ogni notte diventa regina del burlesque in Eadie Was a Lady (1945); e anche a Meet Me on Broadway (1946), in cui il personaggio del regista arrogante e saccente che deve poi addivenire a più miti consigli anticipa lo straordinario ruolo di Jack Buchanan in Spettacolo di varietà (The Band Wagon, 1953), di Vincente Minnelli poco meno di dieci anni dopo. E infine si pensi all’intelligenza e al grande anticipo con cui l’esordiente Sid Ceasar parodizza il war movie in Tars and Spars (1946), pellicola che per il resto cola a picco mentre emerge il romanzetto fra Janet Blair e Alfred Drake. A questo punto è di rigore menzionare il musical Columbia che più d’ogni altro ha anti­ cipato momenti, idee, stilemi che in seguito avrebbero fatto la fama delle migliori cose prodotte in casa MGM, Fascino (Cover Girl, 1944) di Charles Vidor. Non è ora il momento per un’analisi comparativa, condotta con rigidi criteri, fra questa pellicola e quelle che, seguendola di lì a qualche anno, ne avvertirono i non pochi innovativi suggerimen­ ti. Limitiamoci a sottolineare la rivista-parata di mannequin per la co­ pertina della pubblicazione, che ritroveremo vistosamente in Cantan­ do sotto la pioggia (Singin’ in the Rain, 1952) di Gene Kelly e Stanley Donen, e anche, nell’insieme, in Vincente Minnelli, un regista che ha sempre evidenziato la propria passione per la gestualità, l’iconografìa e il ritmo dei défilés (basti solo ricordare la sontuosa parata in Uno stra­ niero fra gli angeli (Kismet, 1955) o la stilizzatissima sequenza finale di Gigi (id., 1958); il richiamo al vecchio vaudeville americano nel nume­ ro “Poor Girl”, che si ritrova anche in Cantando sotto la pioggia; il per­ sonaggio secondario dell’amico pianista estroso e fedele, che diventerà una delle componenti più simpatiche di Un americano a Parigi (An American in Paris, 1951), ma anche di Cantando sotto la pioggia; il bal­ lo con il manichino, idea che avrà un futuro glorioso a partire da Fred Astaire, che arriva ad abbracciare scope e attaccapanni in Sua altezza reale (Royal Wedding, 1951), di Stanley Donen, fino a ritornare allo stesso Gene Kelly; quella tipica entrata/uscita degli artisti che sembra

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quasi in seguito prestata a Spettacolo di varietà; la danza imbastita nel­ la strada urbana, sia questa ricostruita come in Cantando sotto la piog­ gia sia quella più libera e dinamica, “realistica” come in Un giorno a New York {On the Town, 1949), di Kelly e Donen. Ci sono persino i ragazzini che circondano chiassosi Gene Kelly, il quale solo più tardi, in Un americano a Parigi, capirà che per tenerli buoni bisogna cantare e ballare, magari fìngendo di masticare un po’ di francese. Naturalmente in Fascino vi sono cose che mai Arthur Freed o qua­ lunque altro produttore musicale dalla MGM si sarebbe sognato di fa­ re: la coreografia dei boys che celebrano la Hayworth nella parte finale del numero titolare rimanda ai brutti chorus pseudoveneziani (ma in realtà in stile latino-americano) di Cappello a cilindro {Top Hat, 1935) di Mark Sandrich, i quali però riuscivano a salvarsi grazie a un timido, vago riferimento agli esiti figurativi del top shot di Busby Berkeley, nel ben noto numero del “Piccolino”. A prescindere dall’enorme differen­ za che già da solo il colore contribuisce a creare, la cura coreografica MGM rimane insuperata anche in dettagli come quello di cui stiamo parlando. Gli stessi contrasti di colore nel numero “Cover Girl” sono troppo forti per avere un qualche rapporto con la ricchezza e la grada­ zione della gamma cromatica tipica della MGM. Proprio il défilé di cui parlavamo in precedenza è un ottimo banco di prova: in Fascino il to­ no dominante è una sorta di sbiadito giallo-arancione per nulla ravvi­ vato dalle apliques fissate sul muro, le quali anzi contribuiscono alla sensazione di un’atmosfera di sapore quasi funereo, laddove in Can­ tando sotto la pioggia - nella sequenza che termina col vestito nuziale - la varietà e gli accostamenti dei colori sono impressionanti, e sempre e comunque l’immagine è illuminata in modo ben più potente da fonti di cui è impossibile stabilire la provenienza (il modo migliore, eviden­ temente, per suggerire la naturalità, o quantomeno la non-artificialità, della luce). L’azzurro che fa da sfondo ai primi piani delle ragazze in Fascino contrasta fortemente e sgradevolmente con i lineamenti e i co­ lori dei loro volti; nel défilé di Cantando sotto la pioggia la regia evita in modo rigoroso ogni tentativo di rendere ariosa l’immagine attraver­ so la retorica codificata del colore (l’azzurro di Fascino era in questo senso sin troppo prevedibile), e proprio per questo l’isolamento di ogni figura in termini di schizzo da fashion designer viene superato dall’icasticità dell’immagine stessa che diventa essa creatrice di spazio e non suo oggetto. Come si diceva, non è intendimento di queste righe stabilire un confronto rigoroso di carattere filologico tra Fascino e i musical che la MGM mise in cantiere qualche anno dopo, ma non è possibile non ri­ cordare che Stanley Donen aveva lavorato spesso presso la Casa di Cohn (anche se non specificamente sul set di Fascino) e che, soprattut-

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to, nel film di Charles Vidor il protagonista è Gene Kelly, un artista che avrebbe lasciato un profondo segno sulla MGM nel suo complesso. Non è azzardato supporre che le molte analogie fra la pellicola in que­ stione e i musical MGM siano in sostanza dovute all’influenza di Kelly non tanto coreografo quanto regista, anche se l’ipotesi rimane difficile da dimostrare. In ogni caso, viene spontaneo pensare che Fascino sia più un film MGM che Columbia, nel senso che le sue connotazioni in quella dire­ zione sono tante e tali da strapparlo all’aleatorietà che ha sempre con­ traddistinto i musical della Casa di Cohn. Alcatorietà ma non necessariamente fallimento. E paradossalmen­ te proprio nel periodo di tramonto del musical (e se è per questo, del cinema hollywoodiano nel suo insieme), la Columbia, nella sua ansiosa ricerca di attarre il pubblico con un genere un tempo molto amato e seguito, si torvò in momenti economici sfavorevoli a tentare cose au­ daci come Porgy and Bess (id., 1959) di Otto Preminger (ma con la zampino di Samuel Goldwyn) sino ad arrivare al disastroso periodo degli anni Sessanta e dare con Ciao, Birdie (Bye Bye, Birdie, 1963) di George Sidney un’opera intelligente che fa mostra di aver compreso come stavano ormai le cose nel campo dello spettacolo e l’importanza della televisione. E quando la Columbia, con o senza Harry Cohn, si lasciava andare alla fantasia (cosa alquanto rara), ecco subito gioiellini senza preceden­ ti come Le cinquemila dita del Dottor T. (The Five Thousand Fingers of Dr. T, 1953) di Roy Rowland e Good Times (1967) di William Friedkin, con una Cher che sarebbe ritornata al cinema in pompa magna quindici anni dopo. Certo, è sintomatico che nel momento dei grandi musical del tra­ monto, alla metà degli anni Cinquanta, la Columbia si sia messa a fare remakes come Mia sorella Evelina (My Sister Eileen, 1955), per la regia di Richard Quine e con la mano di Blake Edwards, Mia moglie preferi­ sce suo marito (Three for the Show, 1955) di H. C. Potter, che scomoda W. S. Maugham, George Gershwin e, in ultima istanza, Betty Grable per una storia che non sta in piedi, e Autostop (You Can’t Run Away from It, 1956), in cui Dick Powell presume di poter riproporre (figu­ rarsi poi in chiave musicale) Accade una notte con June Allyson e Jack Lemmon al posto di Claudette Colbert e Clark Gable a una platea fre­ sca di James Dean e Marion Brando. Allo stesso modo, è sintomatico che più o meno nello stesso mo­ mento la Casa tenti di battere le strade del biopic con il pesante e infe­ lice Incantesimo (The Eddie Duchin Story, 1956) di George Sidney o, peggio, di riproporre modelli narrativi e strutturali stantii o addirittura occasionali come, rispettivamente, Quando una ragazza è bella (Bring

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Your Smile Along, 1955) di Blake Edwards e Cha-Cha-Cha Boom (1956). In un certo senso l’unico vero musical della Columbia lo girerà la Warner (e guarda caso, con un’altra interprete di appartenenza MGM, Kathryn Grayson): Sogno di Bohème (So This Is Love, 1953) di Gor­ don Douglas, biografia della maggior stella musicale - a parte Rita Hayworth - della Casa, Grace Moore. Estemporanea come la produ­ zione musicale della Columbia, la fama della Moore durò poco: il suo nome è legato a non più di cinque film, quelli girati fra il 1934 e il 1937, il migliore rimanendo certamente Desiderio di re (The King Steps Out, 1936) di Joseph von Sternberg. In quel breve periodo la Moore aveva riconciliato opera lirica e pubblico di massa, ma al prezzo, ap­ punto, di fare dell’opera un’operetta e comunque di rinunciare a un obiettivo estetico che solo negli anni Quaranta la MGM avrà l’intelli­ genza e gli uomini per raggiungere: la creazione del musical come vero e proprio genere, e il conseguente abbandono, o superamento, dell’operetta, della commedia musicale, della rivista eccetera. Nella sua corsa verso il pubblico la Columbia aveva un po’ fatto come più tardi, sia pure per altre ragioni e con altre intenzioni, avrebbe fatto Gene Kelly con Rita Hayworth nel musical più importante mai prodotto dalla Casa. Presentando la Hayworth alla platea delirante, Kelly chiede: “È questo quel che volete?”. Sili, urla il pubblico in visi­ bilio. Ma Kelly non si rende conto che in quel modo egli dà in pasto ai leoni un volto e un corpo (cioè un cliché), non uno spettacolo né tan­ tomeno un’opera d’arte.

Capitolo 6

B-movie: i vantaggi del cucù

L’avete notato? Qualunque persona vi parli del B-movie, prima o poi si soffermerà sul proprio passato di spettatore bambino e adole­ scente. Questo potrebbe essere spia del fatto che si tratta di un fenomeno ormai storicamente esaurito. Ma mi pare più probante l’ipotesi che il B-movie sia rappresentativo di un tipo di cinema che può spesso essere molto carente sia sul versante della riuscita artistica che su quello della credibilità, ma che rimane comunque fascinoso su quello della fantasia. L’affermazione potrebbe sembrare quantomeno azzardata per una produzione caratterizzata da un budget ridottissimo. Ma naturalmente qui non si tratta delle sollecitazioni fantastiche proposte dall’eccesso della messa in scena (trucchi, effetti speciali eccetera), bensì proprio da ciò che il difetto della messa in scena attiva nella fantasia dello spetta­ tore. In un bell’articolo Clive T. Miller va molto vicino al punto centrale della questione quando scrive che la recitazione e l’azione sono due importanti componenti del B-movie “poste entro la cornice di una sto­ ria familiare e di una caratterizzazione familiare” e che

nel medesimo tempo, la stessa familiarità delle cose conferisce al film delle qualità mitiche, fintantoché la suspense e la realizzazione degli obiettivi della pellicola dipendono dalla nostra costante sorpresa da parte di ciò che è prevedibile. Il continuo gioco fra prevedibilità e sorpresa, peraltro, è ciò che regge l’intera impalcatura non soltanto del B-movie ma, dopotutto, dell’arte stessa. Se questo è vero, il meccanismo di fruizione del B-movie è presso­ ché identico a quello che presiede alla fruizione di qualsiasi forma arti­ stica. Solo, nel primo caso i dati forniti dall’opera non pretendono di as­ surgere allo statuto di arte, ma di semplice, piacevole intrattenimento.

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In questo modo, il B-movie diventa il luogo in cui lo spettatore colto, cosciente, preparato rilassa, per così dire, la propria attenzione, eserci­ tando i meccanismi deirapprendimento estetico su un terreno di pura gratuità, di simpatico allenamento, di prova, di oliatura degli stessi. Tutto molto tranquillizzante. Ma ogni tanto salta fuori un critico che, rivedendo l’opera del tale o del talaltro regista di serie B urla al miracolo, alla rivalutazione e in ultima analisi alla gloria. Per esempio, Andrew Sarris affermò a suo tempo di ritenere Edgar Ulmer un regista “too prominent” per essere incluso in un articolo sul cinema di serie B, iniziativa che, indipendentemente dal suo interesse, non può essere né accettata né rifiutata. In altre parole, chi mai potrà dirci con certezza se il cinema di Ulmer - rivalutato alcuni anni fa anche in Italia - o an­ che un suo solo film può davvero vantare la qualifica di capolavoro alla stregua di una pellicola di Kubrick (magari anche solo del primo Ku­ brick) o di Losey. In genere, coloro che affrontano questo problema con intenzioni rivalutative si affrettano a proporre un classico argo­ mento: che cose grandi avrebbe fatto il tal regista se avesse avuto più denaro, dal momento che è riuscito a governare ed economizzare così bene il proprio lavoro sostenuto da un budget pressoché irrisorio. Ora, a parte il non meno classico assioma secondo cui la storia non si fa con i se, rimane l’empirica, oggettiva prova che non pochi registi abituati a budget irrisori, una volta che si sono trovati alle prese con una produ­ zione faraonica sono crollati miseramente sul terreno estetico (e spesso anche commerciale). E del resto, ancora, chi mai potrà dirci con sicurezza quale davvero sia un successo estetico? Restiamo dunque su territori meno incerti e pericolosi. Per esempio, quello delle radici storiche del B-movie, le quali potranno dirci su di esso qualcosa di più. Com’è noto, la classificazione B viene semplicemente dalla secon­ da posizione occupata dal tipo di film in questione nel doppio pro­ gramma in cartellone nei teatri americani a partire dal suo battesimo attorno al 1932. Era un ovvio modo di richiamare al cinema un pub­ blico frustrato dalla crisi e dalla Depressione. Nel 1935 la pratica era regolare nell’85 per cento dei cinema statunitensi. Disprezzati dalle cinque majors, abituate a puntare su introiti verti­ ginosi, i B-movie divennero la specialità di case produttrici a volte al­ quanto avventurose come la Republic e la Monogram (le maggiori fra le minori), ma anche la Victory, la Puritan, la Ambassador. Tutti sanno, credo, come queste case lavoravano, l’importanza del cosiddetto stock footage che in pratica permetteva di evitare qualsiasi ripresa in esterni, l’abitudine (per non dire: la necessità imposta) di girare in una sola ri­ presa le singole scene (one-take), il continuo riutilizzo del materiale di scena in vari film anche di diverso genere cinematografico e via dicendo.

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Ma curiosa è anche la classificazione che la Republic aveva fatto dei propri film degli anni Quaranta e Cinquanta, della quale ci danno conto Flynn e McCarthy: “Jubilee”, quasi sempre western, girati in set­ te giorni (ricordiamo che la media hollywoodiana delle majors è di set­ te settimane), per un budget di 50.000 dollari; “Anniversary”, girati in due settimane con budget dai 175.000 ai 200.000 dollari; “DeLuxe”, girati in ventidue giorni per circa 500.000 dollari; “Première”, gli unici destinati a competere con i prodotti delle majors, sfornati in numero di due o tre all’anno, girati fra i trenta e i quaranta giorni per un budget molto variabile che andava da 600.000 a 1.200.000 dollari. In quest’ultima categoria figuravano opere come Macbeth (id., 1948) di Orson Welles, Iwo Jima deserto di fuoco (Sands of Iwo Jima, 1949) di Allan Dwan, R/o Bravo (Rio Grande, 1950) di John Ford. Questi dati possono fungere da introduzione a un’indicazione di ciò che, secondo Flynn, caratterizza il B-movie in termini esteriori: basso budget, intenzione commerciale, struttura fissa tipica del prodot­ to standard di genere. Ora, è evidente che il problema autoriale, già di difficile soluzione nella produzione hollywoodiana delle major, trova in questo tipo di film difficoltà ancor più insormontabili. Se Howard Hawks o John Ford potevano con fatica lasciare un’impronta nelle pellicole da loro girate per la Columbia, la Fox o la Warner con una dovizia di mezzi spesso invdiabile, che dire dei filmetti fatti con quattro lire in una set­ timana da Phil Karlson, Erle C. Kenton, Wallace Fox, Edward Bernds, Edwin L. Marin, Arthur Lubin, Joseph Newman, William Beaudine, Joseph H. Lewis e tutti gli altri per case di produzione dal programma semi-improvvisato? Ma la restrizione produttiva divenne presto una sfida per i non molti autori di serie B degni di questo nome. Personale o meno che sia il segno lasciato da questo o dal quel regista in questo o quel film, è in­ negabile che, poniamo, un Ulmer abbia affrontato i problemi posti dal basso budget non in modo da condurre comunque a termine il film, ma così da trasformare gli impedimenti in occasioni per costruire l’opera nel momento stesso in cui essi venivano superati. Se il set non poteva essere organizzato in modo da rendere soddisfacente e accettabile la scenografia di questa o quella sequenza ecco che un’asettica nebbia eli­ minava il problema, ma al tempo stesso conferiva a quel brano narra­ tivo una sfumatura metaforica aggiuntiva (stava naturalmente all’intel­ ligenza del regista capire se tale sfumatura era adeguata e operante). Se l’illuminazione non poteva essere sontuosa quanto quelle che erano so­ lite permettersi case dotate di finanziamenti maggiori, ecco che la le­ zione espressionista poteva - nelle mani adatte, naturalmente - nobili­ tare gli altrimenti scialbi, deludenti, addirittura patetici chiaroscuri e

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penombra, divenendo componente portante di denotazioni relative al­ la complessità spirituale e morale dei personaggi nello specifico fran­ gente. Probabilmente non è un caso che, nell'insieme, i prodotti migliori dei B-movie appartengano a un ambito di genere che può approssima­ tivamente classificarsi come “melodrammatico”. Intendo dire che qua­ lunque film ascrivibile a un genere cinematografico che poteva svilup­ parne le eventuali componenti melodrammatiche aveva, per sua natu­ ra, migliori possibilità di riuscita all’interno di un ambito produttivo economicamente limitato. In effetti, per fare degli esempi, né la fanta­ scienza né il western, intesi nelle loro accezioni connesse ai tratti este­ riori che li caratterizzano come generi, sono di regola in grado di ren­ dere il meglio delle loro potenzialità spettacolari se non godendo di larghe prospettive finanziarie. La partenza del razzo in Mondi senza fi­ ne (World Without End, 1956) di Edward Bernds è a dir poco risibile, con quelle gocce di carburante che colano dal propulsore rivelando platealmente e con effetto di inverosimiglianza la natura minuscola del modellino in scala e causando così nello spettatore il crollo della ne­ cessaria “sospensione di incredulità”. E allo stesso modo, un western a basso costo non potrà non essere altro che un film continuamente identico a se stesso, dove soltanto una forte spesa produttiva potrà in­ serire elementi di variazione alle quattro o cinque sequenze base di cui esso è composto, come del resto dimostrano bene tutti i film del genere girati, per esempio, con John Wayne per buona parte degli anni Trenta (cioè a dire, sino a Ombre rosse [Stagecoach], 1939). Nel melodramma, invece, e nei film di genere che più a esso si ap­ parentano, come per esempio il noir, la situazione è completamente di­ versa. Essi giocano non tanto sull’ampiezza o sulla perfezione della messa in scena, quanto sull’interiorità dei personaggi e sulla sostanza dei problemi che essi esprimono o nascondono. Usualmente, anzi, si instaura fra questi e l’ambiente un sottile rapporto osmotico, o meglio addirittura identificativo, che in gran parte il cinema hollywoodiano ha mutuato a suo tempo dall’esperienza degli espatriati europei, da Siodmak a Ulmer, da Lang a Mieterle. In tal modo, se da un lato - e come sempre - l’ampiezza della messa in scena, anche solo di interni, può as­ sumere interessanti ruoli spettacolari, come sapeva bene [’art director della MGM, Cedric Gibbons, dall’altro è altrettanto possibile costruire prodotti cinematografici con le migliori credenziali senza che per que­ sto sia necessario un forte impegno produttivo. Opere come Vangelo nero (Black Angel,1946) di Roy William Neill, Schiavo della furia (Raw Deal, 1948) di Anthony Mann, Due ore ancora (D.O.A., 1949) di Ru­ dolph Maté, Il kimono scarlatto (The Crimson Kimono, 1959) di Sam Fuller - tutte, si noti, in qualche modo ascrivibili all’ambito del B-mo-

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vie e tutte prodotte, peraltro, da case di primo piano (United, Colum­ bia eccetera) - vivono letteralmente dello strettissimo, continuo rap­ porto fra personaggi e ambiente, dell’atmosfera che la scenografia crea attraverso il modo in cui i primi vi si pongono e muovono in un pro­ cesso che è insieme identificativo e modificativo, sempre e comunque espressione di stati d’animo proiettati, per così dire, nell’organizzazio­ ne del set. E che dire di uno dei più grandi e celebri B-movie mai girati, Johnny Guitar (id., 1954) di Nicholas Ray? Che dire di questo pseu­ dowestern che è quanto di più vicino a un’opera lirica il cinema ame­ ricano ci abbia mai dato? Che dire dell’irrinunciabile funzione che vi esplicano lo spazio e i colori che lo qualificano, in tal modo contri­ buendo a definire, nella loro indirimibile complessità, i personaggi di questo vero e proprio melodramma, se mai ne è esistito uno? È proprio il B-movie a incarnare meglio di qualunque altro il tipo di opera che si ispira alla ed esemplifica meglio la natura stessa del ci­ nema. Si pensi a come Roger Corman, vero maestro del campo, è riu­ scito a sfruttare ogni metaforica goccia del tutt’altro che succoso frutto volta a volta offerto dalla produzione dell’American International Pic­ tures di Samuel Z. Arkoff e James H. Nicholson a partire dal 1955. Una suppellettile, un fondale, un rumore, un gioco d’ombre, tutto era potenziale veicolo di racconto e di tensione nei suoi horror (e non solo in quelli). La natura intrattenitiva del cinema emerge prorompente nel­ le sue pellicole, ma non nel senso di realizzazioni destinate a compia­ cere il pubblico, bensì come strategia di creazione e confezione, come soluzione di problemi scenografici e narrativi posti da veri e propri ul­ timatum economici. Una celebre battuta di Orson Welles in un suo film recita più o me­ no: “La Svizzera ha avuto secoli di pace e tutto quello che è riuscita a darci sono gli orologi a cucù”. La “guerra” della produzione in rappor­ to alle esigenze della messa in scena ci ha invece dato La tomba di Ligeia (The Tomb of Ligeia, 1965) di Corman, Detour (1946) di Ulmer e quasi tutti i piccoli capolavori firmati da Sam Fuller. Proprio a propo­ sito di Fuller è Manny Farber a ricordarci che Il basso budget sembra economizzare l’intelligenza di un regista, co­ stringendolo a un bell’equilibrio fra ciò che si vede e il linguaggio. Con più denaro e più attori di fama, i film episodici, spasticamente lenti e veloci, di Sam Fuller si dissolverebbero probabilmente in enfatica ar­ roganza, mentre i personaggi starebbero continuamente a fare preci­ sazioni e a scusarsi per la distinzione in classi che ossessiona Fuller, seppellendo con le parole lo scetticismo e l’energia che egli pone nelle sue produzioni a basso budget dal 1949 al 1952.

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E dopotutto, se riflettiamo un momento, non saremmo autorizzati a pensare come di serie B anche alcuni film - probabilmente i migliori - di Roberto Rossellini? Un’idea peregrina? Non è di chi scrive, ma di un critico americano alquanto controcorrente, il già citato Manny Far­ ber, il quale afferma:

Nel 1943 William Castle, il regista del melodramma Monogram When Strangers Marry, potè fare un esperimento con una coppia di dilettanti (Robert Mitchum e Kim Hunter), tentando l’idea, allora nuova per Hollywood, di girare senza le luci di studio nel tipo di stanza in affitto off-Broadway dove il tempo sembra essersi fermato e dove gli unici ru­ mori urbani giungono attraverso la fessura della buca per la posta sulla tromba delle scale. Il film fu un successo presso i cinefili dal palato fi­ ne, fece buoni profitti, e preparò il pubblico a due nuove star e ad un cinema ancora non visto che in seguito fu reso famoso da Roma città aperta. Naturalmente se definiamo il B-movie in relazione al sistema pro­ duttivo (e magari anche a quello distributivo) americano il rapporto non può non cadere. Ma se lo pensiamo in termini di pratica cinema­ tografica, be’, il riferimento di Farber non è poi tanto balordo. E anzi, quando Andrew Sarris definisce il B-movie “faceto e senza humour” è proprio il cinema di Rossellini (o almeno qualche suo film) che viene in mente come modello perfettamente adattabile all’affermazione. Naturalmente il cinema di Rossellini (e quanto a questo, qualun­ que cinema d’arte girato in estrema economia di mezzi) non rientra nella definizione citata da Charles Flynn e Todd McCarthy secondo cui “un B-movie è un film nel quale il set traballa quando un attore sbatte la porta”, né tantomeno di Roma città aperta o Paisà si potrebbe mai dire quel che esclamò William Beaudine quando, nel 1938, sollecitato da qualcuno a finire in fretta il suo ultimo e anonimo western, se ne uscì con l’incredula frase: “Vuoi dire che là fuori qualcuno sta davvero aspettando di vedere questa roba?”. Ma la comune matrice dei due tipi di spettacolo può dopotutto essere a buon diritto sostenuta. D’altra parte, non ha tutti i torti nemmeno Miller quando azzarda un’analogia fra il B-movie e il cinema pornografico:

I film ci ricollegano al momento della pubertà, o mai più [...] mentre ci rimpinziamo succhiando ghiaccioli con la cioccolata che ci si scio­ glie in mano, pezzi di noce di cocco fra le dita, popcorn fra i denti, il burro sciolto che ci cola senza tregua giù per il mento. All’inferno gli sbaciucchiamenti! E non badiamo ai resoconti particolareggiati delle nostre sconfitte amorose. Le proporzioni mitiche delle storie cinema­ tografiche hollywoodiane, specie nelle loro forme più attive, i gangster

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film e i musical (tutti tipicamente americani) - quelle configurazioni umane dei nostri informi desideri nascosti - hanno Io stesso tipo di ec­ citazione e anticipazione illecite che sono della pornografia. Se questo è vero, il B-movie copre un arco di esperienza cinemato­ grafica non indifferente. Da Rossellini alla pornografia: chi può dire che questo tipo di film non si identifica con, non interpreta, non esem­ plifica qualunque tipo di pratica cinematografica, dalle più alte alle più basse, cogliendo - unico forse nell’ampio mazzo della produzione mondiale - le radici e l’essenza stessa del cinema, la sua natura pulsionale brutalmente scopica unitamente a ciò che in esso può essere fonte di riscatto nell’estetica, cioè nel tentativo di fare del cinema un’ordina­ ta - poco importa quanto ricca o quanto povera - visione del mondo? D’altra parte bisogna stare attenti a non alimentare inopportune contraddizioni, foriere più di confusione che di chiarezza. Per esem­ pio, il B-movie da un lato sarebbe un genere particolarmente popolare che riflette la realtà del paese come nessun film di serie A ha mai fatto, e dall’altro sarebbe un prodotto cinematografico che per la sua povertà sollecita la fantasia spettatoriale attraverso trucchi e tecniche da prati­ ca bassa; e le due cose, se non si specifica il modo in cui si può e si deve leggere la prima attraverso e nonostante la seconda, sono in contrad­ dizione. Certo è che il B-movie si regge in modo antonomastico sullo studio system nel quale spesso e volentieri identifichiamo invece il ci­ nema di grande impegno produttivo. Il prodotto in serie, i fondali nemmeno smontati, l’inventarialità del prop, dept., lo stesso stock foo­ tage, be’, in fondo fanno parte di una nozione quantomeno implicita­ mente seriale di cinema che non dico Via col vento (Gone with the Wind, 1939) di Fleming, ma nemmeno La figlia del vento (Jezebel, 1938) di Wyler sembra condividere. E qui sorge un’interessante considerazione. Nulla può provarci che i detti film, e altri non ascrivibili all’ambito del B-movie (non foss’altro che per alto impegno produttivo) non abbiano adottato una pratica scenografica, e in taluni casi anche costumistica, di tipo B; che, insom­ ma, non abbiano utilizzato poltrone, divani, fondali eccetera che già in qualche altro film della casa cui rispettivamente appartengono non fos­ sero in passato già stati impiegati. Voglio dire che se un tratto caratte­ rizzante del B-movie è l’economia dei mezzi, non è detto che questa non possa esserlo anche per il film di serie A. E non tanto per la ridicola micragnosità che sul set dell’ormai vacillante Cleopatra (id., 1963) di Mankiewicz spinse la produzione a imporre a Stephen Boyd di portare i calzari troppo stretti di un attore che l’aveva preceduto nella parte e aveva poi abbandonato le riprese, quanto perché è del tutto logico che anche la più sontuosa produzione utilizzi materiali che ha già a dispo­

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sizione. Direi piuttosto che la questione investe, come in un importan­ te problema metafìsico, considerazioni di spazio e di tempo, ambiti ri­ spettivamente relativi alla sfera estetica e a quella spettacolare. Il Bmovie può anche osare affrontare un soggetto di carattere storico, e dunque costumisticamente e scenograficamente impegnativo, ma la re­ sa spettacolare risulterà inequivocabilmente di tipo B (Adventure Girl, 1934, di H. Raymaker, per dire un titolo). Le ragioni sono del tipo più convincente: si leggono sullo schermo. La fotografia è rozza, le riprese evitano campi lunghi in studio e dolly, gli attori non rifulgono di quell’aura che, volenti o nolenti, si coglie immediatamente nel divo; per di più, la filologia non è minimamente osservata, talché ne può ri­ sultare una frammistione di stili relativi a epoche e/o a latitudini diver­ se (ma questo, a dire il vero, anche in produzioni più consistenti). La cosa più strana è che se è vero che in quest’ultimo caso soltanto un oc­ chio esperto può distinguere l’invenzione dalla verità, è anche vero che proprio il cinema corretto, attento e preciso di serie A ha abituato il nostro occhio a cogliere immediatamente lo scarto senza particolari letture ed esperienze extracinematografìche in materia. La vocazione del B-movie, insomma, è leggibile di primo acchito nella confezione, sì, ma anche nelle rifiniture dell’opera che la messa in scena propone immediatamente. Dunque, non si tratta di una pratica economica, il prop. dept, è uguale per tutti. Piuttosto, di un difetto di accuratezza, di una omologazione dello storico (naturalmente quando si tratta di film in costume) sulla base di un’ideale periodizzazione che riduce a uno stesso vago comun denominatore aspetti (linee, stili, fogge, oggetti, co­ lori, quadri, gusto eccetera) i cui contorni soltanto una proiezione nel passato può sbiadire a un punto tale da far sì che essi si confondano con altri d’altra epoca passata. In questo senso gioca un’importante funzione anche la personalità del regista: se infatti non si tratta solo di impegno economico della produzione, è evidente che il director fungerà da elemento determi­ nante nello sviluppo formale del film in termini di B-movie. Dimentichiamo l’esempio limite del film storico e volgiamoci a qualcosa di diverso, che so?, una pellicola non particolarmente sotto­ costo come il lieve musical II bacio di Venere (One Touch of Venus, 1948) di William A. Seiter. Tratto da un hit di Broadway che trovò suc­ cesso grazie anche alle musiche di un gigante come Kurt Weill e a li­ brettisti del calibro di Ogden Nash e S. J. Perelman, il film intende pro­ porsi come una produzione media, tutto sommato alquanto estranea al tipo di film Universal del periodo. Ora, senza essere necessariamente “un insulto ai suoi autori”, come vuole Hirschhorn, esso è certo un’opera sottotono, mutilata di non poche canzoni originali, sì, ma so­ prattutto impostata dal regista in termini di B-movie. Data l’origine

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teatrale, era inevitabile che il taglio della sceneggiatura battesse una strada spazialmente limitata, ristretta. Ma non è la ridotta varietà d’in­ terni a rendere il film un’opera B, bensì il modo in cui lo spazio viene usato. Seiter non sa costruire volume attraverso gli angoli e il montag­ gio: mostra la coppia principale a figura intera o in piano americano per poi passare a primi piani composti e inappuntabili quanto a campi e controcampi. È questa la miglior maniera di far naufragare un film che è a priori condannato all’immobilità che è caratteristica dell’origi­ ne teatrale di uno script’, ben che vada, si dirà che è un’opera anonima. Naturalmente con professionisti d’eccezionale mobilità, capacità mi­ miche o anche solo magnetismo attoriale si può tentare, ma Robert Walker non è Robert Redford né la pur bellissima e allora giovanissima Ava Gardner può sostenere un paragone professionale con Ellen Bur­ styn (pensavo, rispettivamente, a pellicole teatrali come A piedi nudi nel parco e Lo stesso giorno, il prossimo anno). Dove Seiter salva stu­ pendamente la situazione è in un’unica sequenza, non a caso impostata sul versante della stilizzazione: Venere e il protagonista scoprono il lo­ ro reciproco amore, e come loro l’amico e la fidanzata di quest’ultimo. Soprattutto la seconda coppia intuisce la cosa attraverso gesti semplici, occasionali, quotidiani, mentre l’uno sta cantando all’altra la canzone­ guida del film (sublime: è la celebre “Speak Low”). Solo qui, quando la verosimiglianza della messa in scena dà forfait a favore della supe­ riore convenzionalità del cantato (e del gesto che diventa movimento coreografico) lo spazio ristretto del teatro non conta più, la scena si squarcia trasportando il film e noi nell’altrove che è la dimensione cre­ ata dal sentimento proposto e interpretato da canto e movenze. Il resto è impaccio, sensazione che la scena sia troppo piccola per contenere la storia, denuncia involontaria (e perciò stesso imperdonabile) della fin­ zione che presiede all’operazione. Il peggior lato del B-movie è appun­ to questo: l’ingenuità e la rozzezza di non sapere in che modo masche­ rare la finzione. E in una produzione che a priori priva il cinema di questa possibilità, l’unica chance rimasta è quella di adottare la con­ venzionalità della finzione stessa come elemento normale, regolare, addirittura caratterizzante del film. Un gioiello del B-movie, il già cita­ to Detour di Ulmer, celebra senza alcun ritegno il trionfo del traspa­ rente. La cosa strana è che, per citare un nome, Hitchcock, come molti altri, stava facendo in quegli anni la stessa cosa. Ma a nessuno verrebbe in mente di definire le sue pellicole come serie B. Perché? Da un lato per la qualità degli attori, certo, ma dall’altro per il gusto elegante di una scenografia ariosa e aristocratica, per il respiro spesso internazio­ nale delle storie, ma soprattutto per la sua chiara intenzione di rendere plausibili le proprie scenografie da studio. Nemmeno I prigionieri dell’oceano (Lifeboat, 1944), fra i suoi film quello che probabilmente

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più di ogni altro poteva soccombere a un tono e a un’impostazione da B-movie, mostra alcuna debolezza su questo versante: la macchina da presa si muove destramente da un primo piano all’altro in un vortice di angoli scelti e sostenuti con mano ferma, originale, sicurissima; la fotografìa mostra un nitore che nessun B-movie potrebbe mai vantare in quegli anni, una luministica che evidentemente non è stata lasciata all’improvvisazione ma che ha calcolato ogni minimo settore dell’in­ quadratura, ogni piano verticale relativo a persone e oggetti in funzio­ ne di luce e ombra. Ecco come si dimostra quanto il B-movie non sia una questione semplicemente economica, ma un vero e proprio modo di fare cinema. Non è la povertà della situazione, del soggetto a deter­ minare il tono minore nella conduzione di un film. Del resto, in mano ad Alfred E. Green anche una pellicola dello smalto di Notorius avreb­ be avuto un tono da B-movie. Insisto: non si tratta tanto di gioielli, di sontuosità, di ricchezza nel dettaglio. È la personalità dell’autore che determina l’attribuibilità dell’opera al primo o al secondo rango. In specie, la capacità o meno di saper drammatizzare, dinamicizzare una storia, uno script che il più delle volte non è in se stesso né bello né brutto, ma solo il veicolo di un’idea mancando la quale non c’è barba di soluzione tecnica che pos­ sa salvarlo. Da questo punto di vista gli anni Trenta e gli anni Quaranta furono non per nulla anni molto fecondi del B-movie: diretta eredità dello stu­ dio system in vigore già dal muto, i modi di produzione standardizzati erano l’unica possibilità di rispondere alle forti richieste di un pubblico stanco di depressione e miseria, che nel double bill trovava incoraggia­ mento alla visione. A questo punto è però inevitabile l’obiezione: se dunque il B-mo­ vie è una questione (di carenza) di personalità registica come si spiega, per esempio, l’attribuzione di un Fuller a quell’area, o per meglio dire, come si spiega la presenza in esso di autori per generale consenso rite­ nuti di livello estetico superiore? Naturalmente in termini economici il cinema di Fuller (come di altri autori comparabili) è certo ascrivibile all’ambito del B-movie. Ma il punto è che lo è anche la sua pratica ci­ nematografica. Fuller - che, ripeto, è qui trattato soltanto come rappresentativo di un consistente numero di autori B dotati di eccezionali qualità - ha sempre dimostrato una non comune abilità iconografica sfruttando al massimo il poco che il basso budget gli permetteva (la sequenza della statua in Corea in fiamme [The Steel Helmet], 1951, per esempio), un alto quoziente simbolico nell’impiego delle immagini e delle scenogra­ fie più povere e scarne (per esempio, le ossessioni nazionali incarnate dai folli di II corridoio della paura [Shock Corridor], 1963) e un’allusi­

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vità metaforica che riusciva a fare dei gesti più semplici una provoca­ zione insospettata e soprattutto una chiave di presentazione dei perso­ naggi (per esempio, la sequenza iniziale con doppio senso erotico nella metropolitana in Mano pericolosa [Pickup on South Street], 1953). Questa particolare economia, in se stessa tipica di qualunque film di un qualunque valore estetico, unita all’evidente scarsità di mezzi (dalla scenografia alla fotografia non è difficile leggere nei B-movie un’aura che non ha nulla a che vedere con quella più rutilante e sontuosa del film regolare) non determina affatto un salto qualitativo dell’opera in una direzione che trascenda l’area B, ma anzi ne rafforza le radici po­ vere, come se l’economia nell’uso delle immagini (grande principio estetico di sempre) vi fungesse da conseguenza del ridotto impegno produttivo. Insomma, esistono, per così dire, due tipi di B-movie: quello d’autore e quello routinier. A questo punto, un’altra possibile obiezione: perché mai, allora, sprecare il tempo a parlare di registi B che non rientrano nella categoria degli autori? Intanto perché dallo studio e dalla discussione potrebbe anche saltar fuori che il tale o il ta­ laltro sono stati in passato ingiustamente trascurati mentre invece me­ ritano una qualificazione autoriale. Ma soprattutto perché, anche se non dovessero meritarla, nel prosieguo della sua storia il B-movie ha imposto al panorama cinematografico le tecniche - fors’anco semplici­ stiche, fors’anco primitive - che lo caratterizzano, in modo da sugge­ rire un vero e proprio sistema di riferimento; tanto leggibile e artico­ lato che non è raro ritrovare in talune pellicole di serie A soluzioni che, volutamente o meno, rimandano a pratiche cinematografiche basse, a un cinema povero, elementare, di ridotta spettacolarità scenografica ma di notevole quoziente intrattenitivo, identificabile in un piccolo in­ ventario le cui “voci” furono volta a volta pensate per risolvere nel mo­ do più facile problemi di ripresa che diversamente avrebbero richiesto un più forte intervento produttivo. E dunque alla trasandatezza, alla scarsa inventività personale va aggiunta (o alternata) come caratteristi­ ca del B director una sbrigatività che non è necessariamente défaillance ma piuttosto escamotage. Non intendo dire che qualunque B director è un inventore di linguaggio, ma solo che sceglie di (o è costretto a) usare il linguaggio nella maniera più spoglia possibile anche quando il tono richiederebbe una particolare ricerca retorica. In tal modo il re­ gista B punta verso l’obiettivo della scena dimactica senza adottare un climax, operando in certo modo come un cantastorie che con la sua bacchetta indica le fasi, le tappe dell’avventura dei suoi eroi senza po­ tersi permettere la fluidità dei momenti di raccordo tipica di una nar­ rativa elaborata e sofisticata; e ancor meno un’organizzazione scenica complessa nella quale gli elementi componenti si propongono con ar­ ticolati e diversificati livelli di significazione. Nel B-movie tutto con­

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corre in direzione delle scene dimactiche, nel senso che qualunque al* tra resa iconologica (cioè di significazione) è trascurata; laddove in tali scene l’iconografia è concepita unicamente in funzione del punto di convergenza interno (la scoperta della spia, l’apparizione del vampiro, lo scontro fra eroe e cattivo eccetera). Solo l’autore B sfugge a questa impostazione, perseguendo nell’assenza (o forse è meglio dire: riduzio­ ne) della spettacolarità quella fluidità che gli permette di proporre la sua pellicola come un’opera e non come un insieme di “fughe verso il centro”.

Riferimenti bibliografici Tutti i riferimenti, tranne l’ultimo, si riportano all’interessantissi­ mo volume curato da T. McCarthy e C. Flynn, Kings of the B’s. An An­ thology of Film History and Criticism, Dutton & Co., New York, 1975. Le osservazioni di Clive T. Miller sulla familiarità e sulla miticità del B-movie, nonché sull’accostamento col cinema pornografico, si ri­ trovano nel suo articolo “What’s So Hot About Going to the Mo­ vies?”; l’affermazione di Andrew Sarris su Ulmer come regista “too prominent” per essere incluso in un articolo sul B-movie, nonché quel­ la secondo cui il B-movie sarebbe “faceto e senza humour”, sono nel saggio “Beatitudes of B Pictures”; le notizie sulla classificazione dei film da parte della Republic e la definizione di B-movie sono fornite da C. Flynn e T. McCarthy nel loro “The Economie Imperative: Why Was the B Movie Necessary?”; le caratteristiche del B-movie in termini pro­ duttivi sono enumerate da C. Flynn in “The Schlock/Kitsch/Hack Mo­ vies”; i due brani di Manny Farber su Fuller e su Castle e Rossellini si rintracciano nel saggio “Blame the Audience”; al di fuori del suddetto volume di saggi sul B-movie, la sdegnata affermazione di Clive Hirschhorn su II bacio di Venere è nel suo volume Universal Story, CELIV, Hong Kong, 1985.

Capitolo 7

La RKO fra A minus e B plus

Su una cosa la critica è concorde: la RKO fu Tunica major a non proporsi con una fisionomia riconoscibile, a non vantare una specializ­ zazione che la identificasse. E forse non poteva essere diversamente per una Casa che nasceva dal connubio fra il cinematografo e un circuito di teatri vaudeville. Scrivono Richard B. Jewell e Vernon Harbin: La RKO visse in un perpetuo stato di transizione: da un regime ad un altro, da un ordine di politiche produttive a quello seguente, da un gruppo di registi ad un altro gruppo completamente differente. Essen­ do uno Studio meno stabile dei suoi famosi concorrenti, la compagnia non si “sistemò” mai, non scoperse mai la sua vera identità. Non riuscì a sviluppare una specifica filosofìa di governo né una continuità di di­ rigenza per un qualche lungo periodo. Come risultato, i film della RKO tendevano a riflettere la personalità dell’individuo che era a capo dello studio in quel dato momento - e poiché questo momento era sempre breve, un numero vertiginoso di individui diversi fu coinvolto nelle questioni operative della RKO lungo gli anni, e i film non svilup­ parono uno stile generale che fosse tipico dello Studio.

Non c’erano registi RKO, è vero, ma nemmeno star vere e proprie, se si eccettuano attori che, per quanto molto popolari, non raggiunse­ ro mai l’olimpo dei grandi (una delle poche fu forse Ginger Rogers), purtroppo però impiegata - oltre che nella serie con Fred Astaire - in commedie a volte graziose ma in genere senza ambizione). Un esempio tipico in questo senso è la coppia comica Wheeler e Woolsey, garanzia di incasso minimo, ma destinati all’oblio. Questa condizione fluttuante si rileva in fondo anche nella produ­ zione degli inizi, per esempio in quei melodrammi conditi di mystery, e nella programmata contaminazione di generi diversi nel tentativo di attrarre pubblici di sensibilità e interessi differenti. A volte l’esperì-

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mento riusciva, come nel caso del western musicale a carattere esotico Rio Rita (1929) di L. Reed, che segnò un successo straordinario per la giovane Casa, ma che dopotutto assurse ai fasti del box-offìce per la sua spettacolarità, non certo per la sua doppia valenza. Una spettaco­ larità che, non dimentichiamolo, doveva non poco alla precedente esperienza della produzione teatrale di Broadway e, più precisamente, allo stile Ziegfeld. D’altra parte, è anche vero che, come del resto in molto di quello che sapeva di Ziegfeld, vi si coglieva già il prossimo ar­ rivo della meteora Busby Berkeley. Insomma, la RKO mescolava tradi­ zione sperimentata a forti idee di spettacolo, la sordina dell’intrattenimento seriale alla meraviglia del versante megaproduttivo. Questa, si dirà, è stata in fondo la politica usuale di non poche Ca­ se hollywoodiane. Sì, ma con due differenze: a) la RKO non disdegnò, in quel primo decennio, di praticare simili connubi più a livello del sin­ golo film che a quello di una generale impostazione produttiva; b) non poche volte a un forte impegno produttivo corrispondeva un preoccu­ pante insuccesso commerciale. Insomma, una Casa contraddittoria. Certo, la contraddizione era anche nei fatti, ma non di rado essa segnò le direzioni generali della produzione nonostante segnali in senso opposto dal mercato e dalle esperienze stesse della Casa. La storia di questo decennio (ma anche di quello seguente) alla RKO è fonte di continue sorprese. Film costati un’inezia che raggiun­ sero le vette della gloria artistica e del ritorno finanziario come II tra­ ditore (The Informer, 1931) di John Ford; film di indiscutibile livello estetico, ma anche molto attenti all’intrattenimento, costati un patri­ monio e risultati un fallimento come Schiavo d’amore (Of Human Bondage, 1934) di John Cromwell; film di un fascino inedito e inno­ vativo che però, come II diavolo è femmina (Sylvia Scarlett, 1935) di George Cukor, fecero perdere addirittura 363.000 dollari; film che ri­ cevettero le migliori lodi dalla critica e addirittura prestigiosi premi, ma che si ritrovarono in perdita, come Sotto i ponti di New York (Win­ terset, 1936) di Alfred Santell; persino incursioni felici e originali - ma ancora una volta senza rientro - in ambiti tradizionalmente appannag­ gio di altri, come il notevole horror The Monkey’s Paw (1933) di We­ sley Ruggles. Oggi nessuno ci crederebbe, ma Susanna (Bringing Up Ba­ by, 1938) di Howard Hawks segnò un clamoroso fiasco commerciale. E questo apre un importante discorso relativo agli attori. È cosa nota che la RKO noleggiava in genere i nomi di richiamo dei suoi film da altre Case: la MGM, la Paramount, la Warner, non c’è grande Studio che non le abbia a più riprese prestato qualche star. La politica della Casa era piuttosto quella di puntare su giovani promesse, secondo una pratica che coniugava risparmio e meritevole

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audacia. Ma anche in questo campo le sorprese non mancano. Dopo che la giovane Katharine Hepburn, al suo terzo film (ma in pratica il secondo come protagonista) si era portata a casa un Oscar sotto la sua bandiera con La gloria del mattino (Morning Glory, 1933) di Lowell Sherman, spopolando inoltre come Jo March nello stesso anno in Pic­ cole donne (Little Women) di George Cukor, nel 1934 Argento vivo (Spitfire) di John Cromwell inizia le serie perdente dell’attrice, inter­ rotta solo da Primo amore (Alice Adams, 1935) di George Stevens e co­ sì tenace che quando un’impegnativa produzione come Palcoscenico (Stagedoor, 1937) di Gregory La Cava, nella quale la Hepburn ripren­ de il personaggio che le aveva dato l’Oscar in La gloria del mattino, non porta il rientro sperato, ci sarà chi biasima ingiustamente la sua in­ terpretazione. Il suo capolavoro, Susanna, segnerà l’anno dopo la sua rottura con la Casa (l’attrice si sarebbe immediatamente rifatta con Co­ lumbia e MGM). Ora, senza necessariamente prendere come paradigmatico il caso limite della Hepburn (non sono tanti i ventiseienni che vincono la sta­ tuetta a un anno dall’esordio), si pensi al caso meno noto di Bobby Bre­ en, chiaramente ritagliato sulla falsariga degli enfant prodige alla Fred­ die Bartholomew e alla Shirley Temple, o Tom Keene, anonimo portagonista di altrettanto anonimi western; o Helen Twelvestreees, pervi­ cacemente spinta avanti in pellicole men che trascurabili come Millie (1931) di J. E Dillon, A Woman of Experience (1931) di H. J. Brown, Is My Face Red? (1932) e Young Bride (1932), ambedue di William Seiter e altri ancora. I nomi sono davvero tanti e per uno che emergeva meritatamente come il Fred Astaire che rubava la scena nell’altrimenti insulso Carioca (Flying Down to Rio, 1932) di Thornton Freeland cen­ to sono quelli che altrettanto meritatamente finirono nel dimentica­ toio. E in fondo una politica da Studio medio, corroborata da una delle pratiche di tipo B, quella di puntare sui caratteristi leggeri, di farne una costante, una presenza di squadra. Ma d’altra parte la RKO non aveva, in quest’ambito, la forza di creare un vero e proprio universo articola­ to e sopraffino come soltanto una Casa di primaria importanza poteva permettersi (la MGM, per esempio). Così un James Gleason - caratte­ rista davvero straordinario - divenne un volto noto e caratterizzante la RKO, ma a spese della propria riconoscibilità. È infatti il tipico mecca­ nismo della policy di serie B: quella di trovare identificabilità annullan­ do l’identità dei propri attori di contorno. Che la Casa del resto fosse continuamente alla ricerca di volti nuo­ vi è testimoniato dal titolo stesso di un film come New Faces of 1937 (1937) di Leigh Jason, che oggi si ricorda solo per avere impiegato per primo al cinema il classico tòpos, ben noto a Broadway, dell’impresario

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che produce un fiasco al fine di liberarsi di tutti gli obblighi finanziari cui non può e non intende far fronte (ricordate la pellicola d’esordio di Mel Brooks, Per favore non toccate le vecchiette [The Producers], 1968). Il vero fiasco però fu il film di Jason che Panno dopo non vide un seguito, mentre dei suoi talenti - veri o supposti - soltanto l’esor­ diente Ann Miller avrebbe, di lì a un decennio, avuto un futuro. Sul versante delle idee la RKO inoltre dimostrò subito una versati­ lità vertiginosa: The Silver Horde (1930) di George Archainbaud era una specie di western sulla pesca e il commercio dei salmoni nello Yukon; L’uccello del paradiso (Bird of Paradise, 1932) di King Vidor una storia esotica di non poco erotismo; Little Orphan Annie (1932) di J. Robertson uno dei primi esempi di film tratti da una strip di fama; La crociera delle ragazze (Melody Cruise, 1933) di Mark Sandrich un musical senza precedenti, pieno di virtuosismi tecnici di ripresa che soltanto in epoca tarda il genere avrebbe - e con ben altro spirito - esi­ bito (esso lanciò fra l’altro il suo regista, sino ad allora estraneo ai lun­ gometraggi e da quel momento director ufficiale della coppia Astaire/ Rogers); Before Daum (1933) di Irving Pichel fornì al pubblico il brivi­ do di una storia che costeggia il soprannaturale scritta per lo schermo nientemeno che da Edgar Wallace e realizzata con una tensione che so­ lo una decina d’anni dopo si sarebbe ritrovata nel Fritz Lang americano di II prigioniero del terrore (Ministry of Fear, 1944); Deluge (1933) an­ ticipò i film catastrofici di circa 40 anni, ma anche, con meno ambizio­ ni, l’uso degli effetti speciali che, ben superiori, avrebbero portato cre­ dito nel 1937 al John Ford di Uragano (Hurricane); Adventure Girl (1934) di H. Raymaker fu una pellicola marinara e caraibica ante litteram, per di più con una donna al posto di Douglas Fairbanks; La fiera delle vanità (Becky Sharp, 1935) di Rouben Mamoulian il celebre ten­ tativo coloristico che tutti sappiamo; Gli ultimi giorni di Pompei (The Last Days of Pompei 1935) di Ernest Beaumont Schoedsack una ripre­ sa del kolossal alla DeMille proprio un anno dopo che il maestro aveva chiuso con il genere antico (ripreso solo nei tardi anni Quaranta), pe­ raltro di poco successo commerciale; Il pirata ballerino (The Dancing Pirate, 1936) di Lloyd Corrigan un’audace distribuzione di una produ­ zione Pioneer a colori, giocata su una contaminazione di generi la cui musica era firmata nientemeno che da Richard Rodgers; La tragedia del Silver Queen (Five Came Back, 1939) di John Farrow, cosceneggia­ to addirittura da Dalton Trumbo e Nathanael West, anticipò le pellico­ le sui disastri aerei la cui voga incominciò trent’anni dopo. Ma non si può qui tacere di un’altra audacia, quella del cosiddetto Big White Screen che segnerà le migliori cose musicali della Casa, quei film con Astaire e la Rogers ormai entrati nell’olimpo del cinema ame­ ricano. Molto semplicemente, la RKO riuscì a usare i fondali bianchi

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senza che il loro riflesso compromettesse il valore luministico della pel­ licola, e anzi sfruttando il contrasto fra questi e i toni scuri dei vestiti, dei capelli, della pelle stessa degli attori. Un esempio divenuto ormai classico è Carioca con le sue sequenze giocate sul contrasto non solo fra gli attori e il fondale, ma fra gli attori stessi quando Dolores Del Rio si ritrova in mezzo a bellezze bionde o, nella scena del carioca, quando la danza è ballata alternativamente da una compagnia di bianchi e da una di colore. Mentre in passato la scenografìa ricorreva all’espediente di impiegare fondali rosa o verde pastello, la RKO si era specializzata in quel tempo nell’uso del bianco senza effetti sgradevoli. Non avendo una politica precisa e costante nei confronti di generi specifici, o comunque tipi di spettacolo identificabili, e non essendosi costruita un pubblico di fascia sociale altrettanto individuabile, la RKO si trovò sempre nella tanto felice quanto incerta condizione di battere le strade più diverse, tentative, fantasiose, e paradossalmente proprio quando i suoi modelli produttivi si adeguavano a quelli canonicamente hollywoodiani essa si ritrovò a dover fare i conti con risultati fallimen­ tari. Poco più sopra ho sottolineato l’incredibile (se visto col senno di poi, naturalmente) esito commerciale di Susanna. Ma il film di Hawks dopotutto aveva alcune carte che francamente non erano perfettamen­ te in regola con la tradizione hollywoodiana della screwball (un’iden­ tificazione, questa, che, per quanto immancabilmente indicata da chiunque abbia parlato di quel film, in realtà è valida solo ove si ag­ giunga che Susanna segnava una tappa nel suo sviluppo). Se infatti, co­ me film inaugurale della screwball si intende, come regolarmente suc­ cede, Accadde una notte (It Happened One Night, 1934) di Frank Ca­ pra, allora Susanna, verrebbe quasi da dire, appartiene a un altro ge­ nere. In effetti l’improbabilità a volte surreale delle sue trovate e, nel contempo, la fluidità, la naturalezza con cui esse sono messe in scena, la rendono una pellicola senza precedenti che con la pur bellissima ca­ postipite ha in comune soltanto il fatto di adottare un ritmo persona­ lissimo e di mantenerlo (quando non di aumentarlo) sino alla fine. E dunque il caso del fallimento economico di Susanna deve mera­ vigliare molto meno di quello di pellicole come I conquistatori (The Conquerors, 1932) di William Wellman, retoricamente efficace ammo­ nimento anti-depressione in quella chiave ferberiana che con il model­ lo originale - da Show Boat a II gigante - trovò sempre esiti commer­ ciali soddisfacenti. Fra gli insuccessi imprevedibili vanno annoverati anche Labbra proibite (Rockabye, 1932) di George Fitzmaurice, e in parte di Cukor, che alla fine sortì come una specie di “Mulligan stew”: da Selznick a Fitzmaurice, da Cukor a McCrea, e Lukas e Pidgeon e la Bennett (Con-

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stance), i grossi nomi coinvolti sono tanti (persino Gloria Swanson, che deteneva i diritti della storia); The Fountain (1934) di John Farrow, gran produzione tratta da un romanzo di Charles Morgan, del quale era anche più noioso; La donna eterna (She, 1935) di Irving Pichel, ter­ za versione, dopo quelle del 1917 e del 1926, del famoso romanzo di Rider Haggard, che si era sempre dimostrato magnetico nei confronti del pubblico e che invece questa volta, nonostante il dispiegamento di forze produttive in chiave esotica ma anche effettistica (la scena della valanga di ghiaccio: la storia non si svolge più in Africa ma nell’Artide), fece fiasco trascinandosi dietro Helen Gahagan, esordiente che cessò ipso facto la sua carriera (ma che per consolazione sposò Melvyn Dou­ glas); Baratro e le stelle (The Plough and the Stars, 1937) di John Ford, ultimo dei tre film firmati dal regista per la Casa, peraltro disconosciuto dall’autore, indignato per i rimaneggiamenti operati a sua insaputa, ma comunque più hollywoodianamente romantico e retorico dell’origina­ le lavoro teatrale di Sean O’Casey per l’Abbey Theatre. Con Baratro e le stelle, come ci ricordano Jewell e Harbin, finiro­ no alla RKO le produzioni di prestigio della presidenza Leo Spitz. Vi furono altri insuccessi di cassetta, certo, ma con opere lontane da inte­ ressi culturali connesse alla tradizione spettacolare hollywoodiana. Too Many Wives (1937) di B. Holmes fu di certo un fiasco, ma non in­ tendeva essere altro che una commediola; Una magnifica avventura (A Damsel in Distress, 1937) di George Stevens, pur con l’ormai grande Astaire e con l’apporto della penna di R G. Wodehouse, era in fondo soltanto un musical trascurabile quasi quanto la giovane attrice che vi appariva e, impreparata, osava accennare qualche passo di danza, Joan Fontaine; e un musical sbagliato - ma questa volta senza nemmeno il beneficio di Astaire - fu anche La gioia d'amare (Joy of Loving, 1938) di Tay Garnett; Servizio in camera (Room Service, 1938) di William Seiter, una farsa dei Marx girata con un tono da serie B in parte dovuto all’imperante influenza della sua origine teatrale; e aggiungiamo pure lo sfortunato esordio americano di Anatole Litvak, Adorazione (The Woman I Love, 1937) e lo scioglimento in minore della coppia Astaire/ Rogers con La storia di Vemon e Irene Castle (The Story ofVemon and Irene Castle, 1939) di H. C. Potter, il cui finale è in certo senso un su­ blime esempio di serie B. Avviandosi verso gli anni Quaranta la RKO aveva vieppiù trascurato le messe in scena ambiziose, la considerazione per la critica, la competitività con l’impegno sociale della Warner (con poche eccezioni: We Who Are About to Die, 1937, di C. Cabanne e Condannate [Condemned Women], 1938, di Lew Landers), con l’ele­ ganza europeizzante delle scenografie Paramount, con la perfezione costumistica della MGM. Tutto era di qualità, certo, ma non c’era l’esi­ bizione che aveva fatto grande Hollywood e in parte la stessa RKO

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qualche anno prima. Insomma, non si trattava di serie B (per impegno, per progetti, per investimenti, per ambizioni commerciali), ma nem­ meno di serie A (per economia di spettacolo più che di mezzi, per mo­ destia di quadri e di stelle sotto contratto più che per qualità professio­ nali, per sbrigatività progettuale nell’organizzazione delle produzioni minori più che per incapacità di sfornare dignitosi filmetti di genere: e il western fu certamente il suo terreno di minor pregio). Ma anche qui, colpo di scena. In quale ambito la Casa si segnala nel decennio? Proprio in quello nel quale le sue cose più ambiziose o anche soltanto più spettacolari o anche soltanto più organizzate e cu­ rate spesso fallivano, se non altro sul versante del box-office: la serie B. In effetti proprio al livello della produzione di modesta portata la RKO darà nel decennio più d’un B movie di un qualche interesse e, senza spendere le alte somme impiegate per altre pellicole in seguito ri­ velatesi commercialmente deludenti, di soddisfacente entrata: Headli­ ne Shooter (1933) di O. Brower col suo sapiente uso di materiale do­ cumentario a carattere catastrofico per una storia banalmente incentra­ ta sull’eterno triangolo; L’incontentabile (Walking on Air, 1936) di Jo­ seph Santley, una piccola delizia che combinava commedia e musica concentrando l’azione in modo da mantenere un giusto equilibrio fra scene cantate e sviluppo della storia; Behind the Headlines (1937) di R. Rosson giocava ancora una volta sul tema del giornalismo (radiofoni­ co) confezionando un vivace racconto drammatico di competizione fra innamorati con tanto di salvataggio finale; Maid’s Night Out (1938) di B. Holmes, divertente commediola piena di equivoci. Non intendo sostenere che la RKO abbia dato nel suo primo de­ cennio i migliori frutti in area B. Solo, per una Casa che puntava in pri­ ma istanza sulla propria produzione di serie A è abbastanza strano che non poche sue pellicole di prestigio abbiano avuto un’accoglienza fred­ da o indifferente, laddove altre di minor conto sono riuscite a entrare sul mercato con una patente di credibilità e di consistenza professiona­ le non sempre rintracciabile a quel livello di impegno produttivo. Ma un altro particolare va aggiunto alla catasta di contraddizioni e di sorprese che segna l’attività della RKO, ed è forse quello che per primo avrebbe dovuto essere citato dal momento che è strettamente connesso al nome stesso della compagnia: Radio-Keith-Orpheum. Non interessa ora occuparsi degli aspetti storici della nota sigla. Desi­ dero solo sottolineare che il primo termine deriva dall’apporto di ca­ pitali della RCA, la quale alla fine degli anni Venti controllava la NBC. Questa componente fu sempre presente nella politica produttiva dello Studio, e anzi essa è probabilmente l’unica costante rintracciabile nell’attività di persone così diverse come Brown e Schnitzer, David Sarnoff, William LeBaron, David O. Selznick, Merian C. Cooper, Pan-

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dro S. Berman, Sam Briskin, Charles R. Rogers, George J. Schaefer, per dirne solo alcuni. Infatti, un po’ come la Columbia, la RKO vedeva nel­ la radio un medium potenzialmente utile al cinema, col quale era bene venire a buoni termini piuttosto che ritrovarselo antagonista. Sin dall’inizio del decennio, non a caso, nei listini RKO figura una serie di opere quasi sempre secondarie legate a doppio filo con la produzione radiofonica dell’epoca: Check and Double Check (1930) di M. Brown, che presentò con sucesso la coppia radiofonica nera Amos ’n’ Andy, i quali si rivelarono però subito, nei sondaggi, non sfruttabili per un se­ condo film; Professional Sweetheart (1933) di William Seiter, splendi­ da satira sui programmi radio dal vivo sostenuti dalla pubblicità, in cui Ginger Rogers mostra già la sua esemplare stoffa di comedienne’, il più debole Strictly Dynamite (1934) di Elliot Nugent, su un attore comico radiofonico e alcune complicazioni sentimentali dei suoi collaboratori; la commediola quasi fantascientifica Vìvendo volando (Riding on Air, 1937) di Edward Sedgwick con la sua storia di un raggio radio e di un anonimo giornalista che intende sgominare attraverso di esso una ban­ da di contrabbandieri dell’aria; l’insuccesso costosissimo Radio City Rebels (1938) di B. Stoloff, con personalità come Milton Berle e Jack Oakie che rubano le canzoni a un prolifico autore quando questi dor­ me (un’idea ripresa in seguito da Frank Tashlin e Jerry Lewis). E forse non è un caso che proprio la RKO abbia dato spazio, all’ini­ zio del nuovo decennio, a un artista che aveva incominciato a farsi co­ noscere per via etere qualche anno prima, l’Orson Welles di Quarto potere (Citizen Kane, 1941), un altro grande film della Casa - e questa volta davvero clamoroso - che alla fine si rivelò in perdita. Consideriamo Le catene della colpa (Out of the Past, 1947) di Jac­ ques Tourneur o II tesoro di Vera Cruz (The Big Steal, 1949) di Don Sie­ gel, pellicole di minimo ingombro organizzativo, tutte costruite sul fa­ scino della loro fotografia chiaroscurale o meridionalmente bruciata, piene di falle soggettistiche eppure così perfettamente ritmate da non consentire al più arcigno spettatore il tempo di riflettervi. No, per le belle, importanti, solide produzioni RKO non ha mai tirato aria buona, nemmeno in quegli anni Quaranta che videro opere memorabili come I magnifici Amberson (The Magnificent Ambersons, 1942) di Orson Welles o Mamma ti ricordo! (I Remember Marna, 1948) di George Ste­ vens, tutte in perdita. Mentre invece ecco anche in quel decennio i pro­ fitti di una pellicola certo non di serie B, ma innegabilmente di ambi­ zioni più ridotte come La scala a chiocciola (The Spiral Staircase, 1946) di Robert Siodmak, o di quegli esempi insuperati di B d’autore che furono film come II bacio della pantera (Cat People, 1943) di Jac­ ques Tourneur e II giardino delle streghe (Curse of the Cat People, 1944) di Robert Wise, e in parte di Gunther von Frisch.

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Tesa fra i gloriosi obiettivi estetici e spettacolari delle produzioni di grande qualità e i guadagni discreti (e a volte sorprendentemente al­ ti) di opere attente e dignitose, e in non poche occasioni addirittura in­ novative e cinematograficamente tanto abili da sfruttare a proprio van­ taggio specifiche debolezze, così da giungere addirittura a nobilitarsi entrando in un reame a metà strada fra il cielo e l’inferno, la RKO non fu tanto la regina di quel “prodotto medio” sul quale la critica ha a lun­ go favoleggiato: essa fu soprattutto l’artefice di un cinema meno robo­ ante delle altre majors, meno rutilante, meno sensazionale. Non per­ ché l’avesse desiderato e perseguito, ma perché fu il pubblico stesso a comprenderne la qualità artigianale, le sue migliori possibilità di riu­ scita su quel terreno che così spesso non caratterizzò le altre Case. Al tourbillon dei suoi capi nel giro di pochi anni non poteva non corri­ sponderne un altro identico nella politica produttiva e nei suoi singoli esiti. Questo spiega le a volte profonde differenze che segnano fra loro parecchi film della Casa, e più specificamente il fatto che non è facile distinguere di primo acchito una pellicola RKO così come lo è invece un’opera della Warner o della MGM. La RKO è stata un po’ come quel medium che ha in parte ispirato il suo nome: formidabile se operante nella consapevolezza del proprio livello di comunicazione (un livello, peraltro, capace di esaltare anche il programma più povero, una volta impiegato con abilità), debole se ambiziosamente elaborato in modo da trascurare il tipo di calibro ade­ guato a raggiungere il bersaglio scelto, o quantomeno il proprio globa­ le volume di fuoco. In realtà non furono sempre errori, o per meglio dire, quello che poteva essere un errore in un certo momento poteva anche dimostrarsi un successo in seguito (il caso di Susanna è proba­ bilmente quello più lampante di tutti); a volte il fallimento doveva es­ sere messo in conto all’innovatività, alla creatività, all’audacia. Questo è necessario ricordarlo sempre. Soltanto così suonerà puramente reto­ rica una domanda altrimenti di diffìcile risposta: che cosa sarebbe stato il cinema hollywoodiano senza la RKO?

Riferimenti bibliografici La citazione iniziale e l’affermazione sulla fine delle produzioni di prestigio di Spitz con Baratro e le stelle vengono da Richard B. Jewell e Vernon Harbin, The RKO Story, Octopus, London, 1982.

Capitolo 8

Sulla nozione di crimine nel cinema hollywoodiano dagli anni Trenta ai Settanta

Non c’è alcun dubbio che la nozione di crimine nel cinema holly­ woodiano segue e si adegua a quella stabilita dalla legge, ma d’altra par­ te è altrettanto vero che nell’ambito dell’immaginario cinematografico questa nozione rivela, nella sua pratica, importanti e significative diffe­ renze a seconda del periodo storico cui ogni singolo film appartiene. Gli anni Trenta elaborarono un’idea di crimine che, se da un lato rifletteva quella del decennio precedente (cioè a dire, quella della gran­ de criminalità urbana durante il Proibizionismo), dall’altro elaborò perfettamente un’immagine del fuorilegge che soltanto un’epoca che non aveva vissuto quel tipo di esperienza poteva presentare in quel modo. Voglio dire: se è innegabile che il gangster film degli anni Trenta aveva di norma messo in scena eventi, situazioni e personaggi che la nazione aveva visto e conosciuto prima della Depressione, fedele all’aurea regola hollywoodiana secondo la quale non è bene occuparsi di delicati problemi contemporanei (vedi per esempio il trattamento ri­ servato da Hollywood alla seconda guerra mondiale o a quella del Vietnam), è anche vero che l’immagine del fuorilegge in quei film fu consacrata da un’aura tragica, molto ben rilevata e discussa da Robert Warshow nel suo famoso saggio The Gangster as Tragic Hero, resa pos­ sibile dalla risoluzione di quello stesso problema in quanto questione sociale, ponendolo in un’area che potremmo facilmente definire “mi­ tologica”. Di più: Hollywood vide nel gangster un’immagine che poteva rias­ sumere una riflessione su un’etica nazionale, quella del self-made man, dell’individualista che cerca e trova la sua strada verso il successo in una società che aveva sempre glorificato l’iniziativa e la determinazio­ ne del singolo. Ma non dobbiamo dimenticare un’ulteriore notazione: i grandi eroi negativi del gangster film anni Trenta appartengono di norma a

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una cultura molto diversa dalla prevalente cultura WASP. Sono di ori­ gini italiane (Rico in Piccolo Cesare [Little Caesar], 1930, di Mervyn LeRoy), Tony in Scarface [id.J, 1932, di Howard Hawks) oppure irlan­ desi (Tom in II nemico pubblico n. 1 [The Public Enemy], 1931, di Wil­ liam Wellman), e comunque sono cattolici, cioè a dire rappresentativi di una tradizione minoritaria. In un certo senso, è un po’ come con la tragedia elisabettiana, dove i più odiosi vizi, difetti e peccati potevano essere mostrati sul palcosce­ nico, a patto che lo fossero nei luoghi tradizionali del peccato e della crudeltà della cultura antagonista: nelle corti italiane e spagnole, e co­ munque al di fuori dai confini nazionali. Vale la pena di ricordare, al proposito, che il produttore Howard Hughes parlò, in relazione a Scarface, dei “Borgia di Chicago** e che di conseguenza non c’è da meravigliarsi se nella sceneggiatura si ritrova la forte allusione a una passione incestuosa fra il protagonista e sua so­ rella. Il riferimento elisabettiano non dovrebbe suonare strano se pensia­ mo che il gangster film dei primi anni Trenta è concepito un po’ come le storie inglesi di Shakespeare secondo Jan Kott: il destino del gang­ ster non è altro che la ripetizione del destino di coloro che sono venuti prima di lui; dunque la storia si ripete in modo ciclico con l’ascesa e la caduta del protagonista, proprio come accade, stando a Kott, con i re britannici della tradizione shakespeariana. Ora, dal momento che era impossibile mostrare un fenomeno so­ ciale quale il gangsterismo come se appartenesse a un’altra nazione, il suo background non poteva che essere l’America urbana, anche se i suoi protagonisti appartenevano a gruppi etnici diversi da quello del Padri Fondatori. Non era difficile, quindi, leggere in questi personaggi la mimesi dell’etica americana del successo, ovviamente abbracciata nel modo sbagliato, dal momento che per questi “dead end kids” non vi era a di­ sposizione altro mezzo per arrivare in alto. Andrew Bergman ha ragio­ ne quando nel suo studio We’re in the Money sostiene che essi seguono certosinamente la formula del successo suggerita da Andrew Carnegie, e allo stesso modo hanno ragione Peter Roffman e Jim Purdy quando nel loro Hollywood Social Problem Film scrivono che Rico: [...] parte dal fondo e con testardaggine si costruisce la strada del suc­ cesso, astenendosi per tutto il tempo da distrazioni come il sesso e l’al­ col e studiando sodo per imparare i meccanismi della sua organizza­ zione. Rico esemplifica il businessman puritano che lavora duramente, con la differenza che la corporazione è stata sostituita dalla gang[...]

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Molto presto le cose dovevano subire un radicale mutamento dal momento che le grandi corporazioni stesse avrebbero preso il posto della gang. Ma di questo fra poco. Peraltro il boom del gangster film giunge solo fino al 1933, e di conseguenza quel che abbiamo velocemente tracciato più sopra non copre finterò decennio degli anni Trenta. Da quel momento in avanti, infatti, il New Deal di Roosevelt aggiungerà al quadro un elemento di inchiesta sociale in merito al perché e al come tale fenomeno si era svi­ luppato, aprendo la strada a un tipo di gangster film inteso non solo come problema di ordine pubblico, ma anche e soprattutto come pro­ blema sociale. Questo spiega perché solo nel 1936 incontriamo una pellicola co­ me Le belve della città {Bullets or Ballots) di William Keighley, che non avremmo mai avuto quattro o cinque anni prima, nella quale un poli­ ziotto distrugge una gang il cui capo è un banchiere. Da quel momento in avanti, infatti, il confronto non sarà più fra la legge spesso impoten­ te e qualche criminale che sembra avere abbracciato l’ideologia dell’in­ dividualismo sociale, ma fra un individuo e un’intera rete di potere che minaccia la libertà e la libera iniziativa. In altre parole, nel cinema hollywolodiano del New Deal il crimine prende vieppiù la forma di un’or­ ganizzazione finanziaria, e conseguentemente non è difficile leggere in questo modello un punto di vista alquanto radicale che certamente non è lontano dall’ideologia rooseveltiana. Forse non è un caso che proprio in quel periodo la MGM si impossessi di quel tema, che era invece così tipico degli interessi sociali della Warner Bros., traducendolo nella ver­ sione addolcita di film come Simpatica canaglia {The Devil Is a Sissy, 1936) di W S. Van Dyke o Boys of the Street (1937) di William Nigh, dove i “duri” Dead End Kids di qualche anno prima si mutano in un branco di Tom Sawyer le cui discutibili azioni criminali saranno rego­ larmente mosse dalle più commendevoli intenzioni. Il gangsterismo post-proibizionista si sviluppò in una direzione “ri­ spettabile” e mutò i suoi capi in businessmen e l’attività criminale in un’industria che non era diversa da qualunque altra nel paese: stando al rapporto Kefauver, il cui titolo era Crime in America, negli anni Quaranta tutti sapevano delle connivenze tra il gangtser Joe Adonis e la Ford Motor Company, tra Frank Costello e un certo numero di uo­ mini politici sia repubblicani che democratici di New York, tra la We­ stern Union e le scommesse illegali sulle corse. Di conseguenza, l’immagine del crimine e del criminale doveva cambiare anche sullo schermo. Non a caso il decennio precedente si era chiuso con una pellicola come I ruggenti anni ’20 (The Roaring 20’s, 1939) di Raoul Walsh, il cui tono elegiaco suonava come una tre­ nodia al gangster film di alcuni anni prima.

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Gli anni Quaranta, come’è noto, aprono la strada a quello che la critica francese ha battezzato film noir, un genere fondato sull’investi­ gazione più che sulle malefatte di un criminale e che porta in primo piano quello stesso ambiente urbano che era stato il background del gangster film. Una comparazione culturale fra i due tipi di film rivela gli enormi cambiamenti che in poco tempo avevano mutato non solo il volto del genere, ma anche la nozione hollywoodiana di crimine. Mentre nel primo venivano mostrate l’ascesa e la caduta del criminale come una sorta di inintenzionale (o intenzionale) esemplificazione dell’etica del successo alla Horatio Alger, nel secondo era spesso il mondo rispettabile a essere mostrato nella sua apparenza ordinata, che, tuttavia, nascondeva un complesso modello di illegalità, di conni­ venze, di corruzione. E persino quando questo modello non compare, come per esempio in una pellicola celebre come II mistero del falco (The Maltese Falcon, 1941) di John Huston, i personaggi, o almeno al­ cuni di loro, appaiono molto diversi da quel che scopriremo essi vera­ mente sono. In altre parole, la vecchia tradizionale opposizione - così cara alla letteratura e alla cultura occidentali dai tempi di Shakespeare - fra essere e sembrare, fra realtà e apparenza, in questi film divenne il centro morale, molto diversamente dai gangster film anni Trenta, in cui il protagonista e le persone attorno a lui venivano sin dall’inizio mo­ strate come erano. Come ha scritto Carlos Clarens nel suo Crime Mo­ vies: “Hollywood era passata dalle certezze oggettive degli anni Trenta alle ambiguità private del periodo post-bellico”. Nel romanzo di W R. Burnett da cui fu tratto Una pallottola per Roy (High Sierra, 1940) di Raoul Walsh il fuorilegge dice senza mezzi termini: “In questo paese nessuno è onesto”. La frase fu eliminata dal film, ma è pur sempre molto eloquente del sentimento generale che non permetteva di tracciare la linea usuale fra gangster e persone ri­ spettabili. Dopo tutto, questo è esattamente quella confusione di con­ fini che il film criminale degli anni Quaranta mostra a seguito dell’in­ dicazione fornita da Dashiell Hammett e soprattutto da Raymond Chandler. Le ragioni di questo cambiamento, tuttavia, non possono es­ sere rintracciate soltanto nella nuova patente di rispettabilità inaugu­ rata dal crimine organizzato sin dagli anni Trenta. Come ci ricorda Cla­ rens, il New York Times recensì l’apertura di Roger Touhy, Gangster (1944) di Robert Florey in questo modo: “La legge e gli assassini! della gang sembrano indietro di mezzo secolo paragonati agli eventi inter­ nazionali del giorno d’oggi”. In altre parole, nei primi anni Quaranta, come afferma uno dei personaggi di Chandler, non è il mondo della malavita a essere sporco, ma il mondo intero. Nessuna meraviglia al­ lora che II bacio della morte (Kiss of Death, 1947) di Henry Hathaway mostri un mondo dove i criminali sono dappertutto. In fondo, questi

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sono gli anni del dopoguerra e del maccartismo: il sospetto che persino il crimine vero e proprio possa trovarsi dappertutto non suona affatto strano. In altre parole, il crimine divenne la metafora di quello che la censura maccartista aveva indicato come un altro crimine, e, ai suoi oc­ chi, il peggiore di tutti. Ecco perché le potenzialità psicotiche del cri­ minale (e perciò una spiegazione psicologica del crimine) trovò alla fi­ ne un trattamento adeguato da questo momento in avanti, tanto da di­ ventare quasi un marchio di fabbrica degli anni Cinquanta, un decen­ nio che aveva identificato i supremi valori dell’americanità nell’ordine, nella pulizia morale e nella chiarezza, anche se ne aveva fatto un mito più che una pratica. La tendenza schizoide che abbiamo osservato nel Tony Camonte di Scarface diventa nel già gitato 11 bacio della morte, in Schiavo della furia (Raw Deal, 1948) di Anthony Mann e anche più in La furia umana (White Heat, 1949) di Raoul Walsh e II grande caldo (The Big Heat, 1953) di Fritz Lang, una sintomatologia da testo di stu­ dio, spesso corredato di un’eziologia connessa a morbose perversioni parentali. Incidentalmente, negli anni Cinquanta la critica dell’istituzione fa­ miliare caratterizza l’opera di tutti i registi americani di primo piano, da Nicholas Ray a Elia Kazan, da Vincent Minnelli a Douglas Sirk (ma anche Max Ophuls), e a suo modo anche il crime movie segue questa linea: si pensi a quel piccolo e quasi dimenticato capolavoro di Mi­ tchell Leisen, Non voglio perderti (No Man of Her Own, 1950), tratto da un romanzo di Cornell Woolrich. Gli anni Cinquanta segnano un momento chiave nel trattamento del crimine da parte del cinema americano. Come si è detto, il crimine, inizialmente ristretto alle aree depresse della città per tutto il gangster film degli anni Trenta, si sviluppò sempre di più mutandosi in qualcosa che infettava gli ambienti più diversi e spesso rispettabili e insospetta­ bili della società americana. Questa tendenza si spinse fino a coinvol­ gere gli stessi rappresentanti non soltanto delle istituzioni ma della stessa polizia, in un primo tempo in modo relativamente leggero (Pietà per i giusti [Detective Story], 1951, di William Wyler, nel quale il bia­ simevole comportamento del poliziotto veniva spiegato con motiva­ zioni di carattere psicanalitico), quindi elaborando e presentando per­ sonaggi chiaramente riprovevoli che non avevano alcuna scusante se non il loro istinto professionale, come nel celebre caso dell’eroe titola­ re di L’infernale Quinlan (Touch of Evil, 1958) di Orson Welles. Un passo ancora e avremo l’usuale parabola hitchcockiana di un uomo comune coinvolto a sua insaputa in un mondo corrotto di spio­ naggio, rapimenti, uccisioni, sparatorie, accoltellamenti e via dicendo. Lo stesso La finestra sul cortile (Rear Window, 1954) è meno la sto­ ria della testimonianza oculare di un delitto che quella di una perversa

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fascinazione davanti a esso. Nel film Thelma Ritter - il personaggio femminile più ordinario dell’intero cinema americano - continua a fantasticare con risolini di piacere le più orribili immagini di macelleria e di morte; e quanto a Jimmy Stewart, la sua curiosità mostra vieppiù, nella sua progressione, che c’è qualcosa che non va in lui e che egli è meno interessato nel compiere il suo dovere di cittadino che nel trova­ re carburante alle sue fantasie, sfortunatamente vere. Hitchcock fu tanto intelligente nel capire tali sintomi da ribaltare l’usuale modello: in Mamie (id., 1964) il vero psicopatico non è tanto la giovane e bella ladra quanto il rispettabilissimo riccone morbosa­ mente affascinato meno dalla bellezza che dalla malattia della donna. Come abbiamo visto, sin dall’inizio del sonoro Hollywood aveva collegato il crimine alla malattia mentale (Tony Camonte essendo un perfetto esempio in questo senso), ma solo quando Hollywood entrò nella più grande crisi della sua storia e tentò di uscirne attraverso quel­ lo che è noto come Nuovo Cinema Hollywoodiano (New Hollywood) degli anni Settanta questo modello mostrò sempre più non solo il cri­ mine in quanto collegato con quello che c’era di sbagliato nella società, ma come un’epitome di ciò che potremmo chiamare la malattia men­ tale della società, da Gangster Story (Bonnie and Clyde, 1967) di Ar­ thur Penn a II clan dei Barker (Bloody Mama, 1970) di Roger Corman, da Grissom Gang (id., 1971) di Robert Aldrich a Chinatown (id., 1974) di Roman Polanski. Il tempo era davvero fuori di sesto, e questo condizionò non solo il genere di cui stiamo parlando, ma l’intero uni­ verso cinematografico del periodo, dagli studi psicopatologici di Ro­ bert Altman come Quel freddo giorno nel parco (That Cold Day in the Park, 1969) e Images (id., 1972) a Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest, 1975) di Milos Forman, da Chi è Harry Kellerman e perché parla male di me? (Who’s Harry Kellerman and Why Is He Saying Those Terribile Things About Me?, 1971) di Ulu Grosbard a La guerra privata del cittadino Joe (Joe, 1970) di John G. Avildsen, da Comma 22 (Catch 22, 1970) di Mike Nichols a Taxi Dri­ ver (id., 1976) di Martin Scorsese. In un certo senso, il crime movie aveva invaso ogni aspetto del mondo, facendo di ognuno di noi un criminale, e cambiando così la nozione stessa di crimine, la nostra struttura di riferimento in merito a ciò che è legale e a ciò che non lo è, aprendo la strada a una immagine contaminata dell’eroe, più vicina a quella del nemico che a quella della nostra ormai frusta nozione di legalità. In una parola, il crimine è di­ ventato postmoderno, e la legge no. Un gap epistemologico nel quale stiamo ancora vivendo.

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'Riferimenti bibliografici

Sul gangster come eroe tragico ha scritto Robert Warshow nel suo saggio dallo stesso titolo, edito in Italia sulla rivista Calibano, 2,1978; le due citazioni sull’identità dell’idea di successo per il gangster come per il businessman sono in Andrew Bergman, We’re in the Money. De­ pression America and Its Films, Harper & Row, New York, 1972, e Pe­ ter Roffman e Jim Purdy, Hollywood Social Problem Film, Indiana UP, Bloomington, 1981; le parole di Carlos Clarens sul cambiamento del film criminale dagli anni Trenta ai Quaranta e quelle relative alla recen­ sione del film di Florey sul New York Times vengono dal suo studio Crime Movie, nell’edizione italiana Giungle americane, Ed. Arsenale, Venezia, 1982.

Capitolo 9

Il signor Jean Giraud uno e due: la doppia influenza di Moebius sul cinema di fantascienza americano

Se si prescinde dai cartoni animati (che peraltro hanno spesso ispi­ rato dei fumetti oltreché esserne stati ispirati) il quadro del rapporto fra cinema e fumetto fino agli anni Settanta si sviluppa su un terreno eminentemente tecnico, vale a dire una mimesi di angolazione, inqua­ dratura, tipologia dei piani eccetera. Elementi, insomma, che non di rado il fumetto aveva mutuato dal cinema (caso alquanto raro al di fuori dal fumetto realistico, quello di un maestro appena scomparso come Carl Barks). Sul versante cinematografico invece, a parte un am­ pio numero di film che, ancora in epoca di muto, mettevano in scena in carne e ossa (si fa per dire) celebri personaggi di fumetti (Little Or­ phan Annie, Joe Palooka, Blondie, Gasoline Alley, Li’l Abner, per esempio), l’arte dei comics non sembrava avere avuto particolare im­ patto se non come fabbrica fornitrice di soggetti abbastanza cari al grande pubblico da poterglieli riproporre in termini cinematografici. Solo a partire dagli anni Settanta una valanga di Superman, di Po­ peye, di Little Orphan Annie, di Dick Tracy, di Batman fino al recente X-Men si abbatte sugli schermi, ma - punto importante - non più co­ me fiacca imitazione sonora degli originali, bensì come prodotto che verrebbe da definire “traduttivo”, versione, cioè, sofisticatamente spet­ tacolare (grazie ovviamente al sempre maggiore perfezionamento degli effetti speciali) del loro magari ammirevole ma, a paragone col film, pur sempre modesto originale. D’altra parte, identificare le ragioni della rinascita cinematografica dei fumetti nell’alto grado di effettistica raggiunto dagli odierni maghi dell’elettronica non ci darebbe il minimo conto di quanto il fenomeno sia culturalmente connesso al grande mutamento che negli ultimi de­ cenni ha investito il nostro sapere e le nostre forme di immaginario in particolare.

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Dalla narrativa al cinema al fumetto abbiamo assistito allo sgreto­ lamento delle strutture tradizionali del racconto, a un’operazione a volte metalinguistica che ci ha convinto dell’impossibilità di tutte le certezze che la cultura precedente, di marca sostanzialmente ottocen­ tesca, ci aveva consegnato. La dimensione temporale è crollata senza nemmeno attendere quel che la fantascienza aveva da dirci al proposito, l’universo si moltiplica­ va in esemplari sempre più diversi gli uni dagli altri: insomma, il trion­ fo della fisica relativistica. Va da sé che in questo quadro anche il corpo tradizionalmente in­ teso risultasse inadatto, impacciato, inadeguato. Va da sé che l’idea di forma dovesse necessariamente subire importanti trasformazioni, pre­ sentandosi ben più fantasiosa e inafferrabile che nel passato. E va da sé che l’universo stesso dei generi (così come stava avve­ nendo nel cinema) non godesse più delle nette distinzioni che nel pas­ sato l’avevano caratterizzato, giocando invece con contaminazioni e sovrapposizioni di notevole fertilità creativa. Tutto questo identifica abbastanza bene non solo il fumetto dell’ul­ timo quarto di secolo, ma quello di Moebius (Jean Giraud all’anagrafe) in particolare. Ma non solo: esso identifica anche il cinema (soprattut­ to) americano più o meno dello stesso periodo. L’equazione è dunque scontata, anche se sarà bene cercare di veri­ ficarla con qualche dettaglio esemplificativo. La connessione fra Moebius e il cinema, per prima cosa, ha due facce: una diretta e una indiretta. La prima concerne quel che Moebius ha fatto in ambito cinemato­ grafico, la seconda quello che nella sua opera riporta a componenti che di lì a non molto avremmo ritrovato nelle produzioni più aggiornate di carattere fantasioso e fantascientifico. Nel primo ambito le cose sono abbastanza note: autore di più di 3000 bozzetti mai utilizzati per lo storyboard di Dune (id., 1984) di David Lynch, designer di II quinto elemento di Luc Besson, codesigner di Irò» (id., 1982) di Steven Lisberger, autore dei bozzetti e cosceneggiatore per Les Maftres du temps, consulente figurativo (il termine cor­ retto è “concept artist”) per Alien (id., 1979) di Ridley Scott, Abyss (id., 1989) di James Cameron, I dominatori dell’universo (Masters of the Universe, 1987) di Gary Goddard, Willow (id., 1988) di Ron Howard, soggettista di Piccolo Nemo - Avventure nel mondo dei sogni (Little Nemo - Adventures in Slumberland, 1990), poi sviluppato da Ray Bradbury e diretto da Misami Hata e William T. Hurtz, disegna­ tore non accreditato dei costumi di Blade Runner (id., 1982) di Ridley Scott, coregista dell’ormai introvabile Starwatcher e anche attore in un paio di pellicole.

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Ma non mi sembra siano queste collaborazioni a darci il senso pro­ fondo, forte della sua influenza sul cinema. Con l’eccezione di II quinto elemento, un film il cui più vero motivo di interesse è la sua qualità citazionista nei confronti del fumetto fantascientifico francese, le altre iniziative cui ha preso parte, riuscite o meno in se stesse, non fornisco­ no particolari ragioni di leggere queste sue partecipazioni in termini di memorabilità. Ben più interessante mi sembra quel che Moebius ci offre nell’am­ bito della sue creazioni fumettistiche. Quegli spazi astrali dalla luce inusitata e inverosimile li avremmo presto ritrovati nel cinema fanta­ scientifico dagli anni Ottanta in avanti; la contaminazione dei generi (fantascienza e woir, per esempio) come in “The Long Tomorrow”, del­ le cui angolazioni verticali metropolitane si ricorderà lo stesso il quinto elemento) arriva pari pari nello stesso momento in cui il fenomeno si dispiega a Hollywood; la proposta di metamorfosi orribili, talora asso­ ciate a forme e situazioni originarie di forte erotismo, è leggibile, ben prima di Alien e La cosa (guarda caso, nello stesso anno in cui un film come L’uomo che cadde sulla Terra le suggerisce senza peraltro mo­ strarle chiaramente); la contaminazione fra tecnologia futuribile e ar­ cheologia industriale (penso alla giustapposizione del misterioso cabla­ tore e dei blindati con mitragliatore in torretta nel “Garage ermetico di Jerry Cornelius”) che sarebbe arrivata alcuni anni più tardi con Du­ ne e in seguito ^esercito delle 12 scimmie; il gigantismo titanico e de­ solato dei luoghi megalopolitani (per esempio in “Rock City” del 1980) la cui voga cinematografica sarebbe stata aperta solo due anni dopo da Blade Runner; il senso dello spazio e del deserto in una chiave estranea all’esotismo dei Lean e degli Ivory, densa di vuoto, di sospen­ sione, di estraneità; la claustrofobia e il potenziale labirintismo di “Doppia evasione”, dei quali porterà qualche traccia Brazil alcuni an­ no dopo; il gigantismo e l’antropomorfismo di forme entomologiche (per esempio, ancora nel “Garage”) che ritornano nel più recente Men in Black, probabilmente la pellicola più moebiusiana per ironia e iper­ bole. Ma al di là da questi suggerimenti e da queste tracce in se stessi, ri­ troviamo nel cinema fantascientifico adiacente a Moebius la medesima impronta epistemica che avevamo letto poco tempo prima nelle sue strisce. In particolare, in ambedue leggiamo una concezione dello spazio che viene dritta dall’avvento del virtuale, un’idea di territorio che ha abbandonato ogni istanza descrittiva e che si è fatto luogo in divenire della tecnica in atto, tecnica che a sua volta non si presenta secondo ca­ ratterizzazioni omologhe ma spazia, come si diceva, fra l’archeologico e il futuribile.

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L’insistenza di Moebius sullo spazio deserto, che il cinema di fan­ tascienza americano riprenderà così spesso non ha nulla, come si dice­ va, di esotico e turistico, come invece vediamo anche nella migliore fu­ mettistica dei nostri anni (si pensi a Hugo Pratt): essa è la conseguenza di uno spaesamento nei confronti del quotidiano che va oltre la sem­ plice invenzione fantastica, diventa spazio aperto e vuoto dello spirito o della mente. Non a caso in quello spazio le leggi di causa ed effetto non hanno sempre gioco e non caso il paesaggio stesso sembra subire di quadro in quadro leggere (o anche pesanti) metamorfosi che in pas­ sato avevamo visto - e in termini grafici ovviamente molto diversi - so­ lo nella fantasia surrealista di George Herriman. Questo perché, in piena linea con le tesi contestualmente sviluppa­ te dalla cultura cibernetico-virtuale, lungi dall’essere un accadimento da far rientrare in qualche modo nel quadro della norma, l’evento è ciò che pone in questione l’ordine costituito delle cose. Ecco perché in Moebius tanto spesso singole unità “discrete” della storia (spesso coin­ cidenti con una sola tavola) appaiono tanto impreviste e gratuite con­ tribuendo a imprimere alla narrazione fortissimi mutamenti di rotta in direzioni che sembrano illogiche. In realtà, secondo le indicazioni deleuziane, Moebius non fa altro che farci varcare continuamente lo specchio di Alice. Ora, in un cinema che, come quello americano (ma in realtà uni­ versale), è strettamente ancorato al modello di causa ed effetto (persi­ no in film che pur sacrificano il principio di verosimiglianza) si com­ prende bene che la lezione di Moebius non poteva che essere recepita in ambito di art direction, di scenografia, di visualità, mentre la sua fondamentale componente strutturale è destinata - almeno per parec­ chio tempo ancora - a rimanere lettera morta. A Hollywood interessa il bozzettista, il disegnatore, l’originale inventore di scenari e forme, mentre le conseguenze in sede narrativa della smaterializzazione del territorio vengono solo sfiorate dal film. Forse perché a suo modo il ci­ nema è già in se stesso una “smaterializzazione del territorio” e opera praticamente da sempre nella direzione di una velocità di informazio­ ne che scardina il tempo reale. Ma con una differenza: che il cinema fa di tutto per farci credere che, ciononostante, siamo ancora nei modelli spazio-temporali tradizionali. Quando Hollywood, o qualunque altro posto in cui si fa del cine­ ma, avrà abbandonato questo inganno (un vero e proprio segreto di Pulcinella), allora quel che Moebius avrà dato al cinema non sarà più una questione di intuito e filologia, ma un’influenza di tale portata da permetterci di parlare di una nuova episteme del mezzo. E a quel pun­ to sarà il momento di affrontare il secondo e più importante problema: l’influenza di Philip K. Dick sul cinema e più largamente sulla nostra

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cultura. Non è un caso se un racconto esemplare come We Can Re­ member It for You Wholesale viene trasformato da Hollywood in Atto di forza (Total Recall, 1990) di Paul Verhoeven, pellicola intelligente e gradevole, nella quale tuttavia si perde quasi completamente il tema centrale, cioè Tobbedienza del quotidiano a un dispositivo burocratico tanto pervasivo da essersi insinuato e insediato addirittura nella nostra memoria, nella nostra più gelosa e intima biografìa personale. Hol­ lywood, come sempre, adatta ai suoi modi qualunque suggerimento anche il più rivoluzionario - svuotandolo del suo senso originario. Il giorno, dicevo, in cui Hollywood sarà pronta a riprendere direttamen­ te e senza addomesticamenti la lezione dickiana, quel giorno ritorne­ remo una volta ancora sull’opera di Moebius come ineludibile momen­ to e ganglio attraverso cui passa quella lezione.

Capitolo 10

Philip K. Dick a Hollywood, ovvero: la quadratura del cerchio

È una cosa abbastanza strana, visto quanto si è parlato di Dick ne* gli ultimi vent’anni, ma le riduzioni filmiche di sue opere quasi si con­ tano sulle dita di una mano: Blade Runner (id., 1982) di Ridley Scott, Atto di forza (Total Recali, 1990) di Paul Verhoeven, Confessions d‘un barjo (1992) di Jerome Bolvin (film ovviamente francese), Screamers (id., 1995) di Christian Duguay, Eimpostore (The Imposter, 2002) di Gary Fleder, Minority Report (id., 2002) di Steven Spielberg e, ancor più stranamente, un pionieristico telefilm italiano, Impostore (1982) di Andrea e Antonio Frazzi, che nessuno ricorda. Dal momento che Dick è celebrato come autore di fantascienza, tralascerò il supposto film autobiografico di targa francese e tralascerò anche il telefilm italiano, che è poco circolato e che comunque obbe­ disce a un linguaggio che, per quanto parente di quello cinematografi­ co, non può confondersi con esso. Del resto, non si tratta soltanto di una questione di linguaggio, ma anche di un oggetto che, proprio per­ ché semisconosciuto ai più, richiederebbe un discorso a sé alquanto dettagliato. Blade Runner, dunque? No, nemmeno questo, ché di Blade Run­ ner si è parlato anche troppo: le belle pagine di Vivian Sobchack nel suo Screening Space, di Scott Bukatman nel fondamentale Terminal Identity, di Giuliana Bruno nel reading curato da Annette Kuhn, Alien Zone, e in Italia la recente monografia di Roy Menarmi (per citare i più interessanti). Del resto, un confronto fra il testo originale e la sua ver­ sione cinematografica risulterebbe a questo punto obsoleto. Soprattut­ to dopo che, con la competenza e l’intelligenza consuete, Carlo Pagetti, nell’introduzione alla traduzione italiana del romanzo del 1986 (Cacciatore di androidi) ha già provveduto da par suo alla bisogna. Qualunque mia aggiunta a quel breve, intensissimo saggio sarebbe ple­ onastica (ma permettetemi di ricordare anche il capitolo dedicato alla

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riduzione cinematografica da Brooks Landon nel suo The Aesthetics of Ambivalence). La nostra attenzione andrà dunque di primo acchito a Atto di forza e Screamers, opere, si noti, tratte da due racconti abbastanza brevi e dunque a priori passibili di revisioni e ampliamenti da parte della scrit­ tura hollywoodiana. Perché naturalmente di Hollywood si tratta. Cioè a dire di un cinema dedito anima e corpo alla spettacolarità. Mentre Wé Can Remember It for You Wholesale (1966) si presen­ tava come una sofisticata, introversa e speculativa avventura mentale, Atto di forza ne impiega il principio (il trapianto di memoria, o per dir­ la con Alison Landsberg, la “prosthetic memory”) come base per co­ struire un’avventura (largamente) politica. Dico “largamente” perché ovviamente non v’è traccia di costruzione ideologica nel film (di ideo­ logia sì, naturalmente), ma solo l’usuale contrapposizione di tirannici cattivi e di buoni repressi, talché Marte diviene il teatro di una riscossa sociale e politica da parte di un’umanità (si fa per dire) tiranneggiata e schiavizzata. Per dirla ancora, e in modo ben più elegante, con la Lan­ dsberg: “cosa abbastanza sorprendente, i ricordi non servono tanto ad autenticare il passato, quanto a generare possibili linee d’azione nel presente”. Tiranneggiata e schiavizzata, si noti, grazie a un sistema so­ stanzialmente antiecologico: cosicché combattere i tiranni diventa an­ che una riscossa di carattere naturale, un ristabilimento dell’ordine na­ turale. La novità e la felice riuscita della pellicola stanno nel fatto che il modello usuale è complicato - e anzi, come si diceva: si fonda - sul gioco di specchi mnemonico inventato da Dick. Il quale trova a sua volta supporto in una serie di invenzioni visive dovute a un brillante impiego degli effetti speciali (la donna che si decostruisce modular­ mente rivelando il corpo del protagonista è un piccolo capolavoro e potrebbe esser presa a epitome della grande e trasversale crisi del sog­ getto che da alcuni lustri sta attraversando il cinema americano: un ar­ gomento, questo, cui farò cenno più avanti). Quel che mi sembra più importante è che mentre Dick era un pre­ cursore, Verhoeven (ma cito il nome del regista come sineddoche di sceneggiatori, produttori eccetera) è un uomo del suo tempo. Intendo dire che la crisi della nozione di individuo e di soggetto ha nel tempo preso diverse forme. Negli anni Cinquanta (e in parte anche negli anni Sessanta) - cioè al tempo in cui risalgono le opere di Dick oggetto del mio discorso - tale crisi non poteva essere sentita ma solo presentita. L’attenzione ossessiva di Dick per la robotica in una chiave ben più dubbiosa e incerta di quella asimoviana è una delle ragioni della sua grandezza: [parlando di robot] Queste costruzioni non imitano gli umani: per molti aspetti fondamentali esse in realtà sono già umane.

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Di questi tempi, il maggiore mutamento in atto nel mondo è pro­ babilmente la tendenza del vivente alla reificazione e, allo stesso tempo, la reciproca compenetrazione di animato e meccanico. Non disponiamo più di una definizione pura del vivente in quanto contrapposto al non-vivente. Forse siamo noi umani le vere macchine. Un pensiero del genere negli anni Cinquanta e Sessanta non pote­ va che essere confinato alla fantascienza. E vero che le frasi che ho ci­ tato figurano in due saggi del 1972 e 1976 (anni, vi prego di notare, comunque prematuri: nel 1972 dominava gli schermi americani la fan­ tascienza ecologica, da 2000: la fine dell’uomo (No Blade of Grass, 1970) di Cornel Wilde al bellissimo 2022: i sopravvissuti (Soylent Gre­ en, 1973) di Richard Fleischer, mentre nel 1976 Lucas imponeva la re­ vanche medievalistica e irrazionalistica di Star Wars), ma è anche vero che, come a volte succede, la critica teorica di Dick è già tutta rintrac­ ciabile nelle sue opere narrative di dieci e quindici anni prima, come dirò fra poco. Dick aveva insomma presentito il grande mutamento che, nel cinema, esploderà alla fine degli anni Settanta (e mi piace pen­ sare - anche se so che non è così - che questo sia avvenuto come re­ pentina, immediata reazione alla fantascienza dei buoni sentimenti di Lucas e Spielberg, la quale del resto continua ancor oggi: si pensi a Contact (id., 1997) di Robert Zemeckis, nel quale lo schmaltz origina­ rio del testo letterario d’ispirazione - peraltro scientificamente molto accurato e intelligente - si spinge ai limiti del grottesco). Dick aveva presentito che il nostro corpo non ci appartiene più, che è territorio di mutamenti biologici imprevedibili e talvolta atroci, che di conseguenza è la struttura della macchina a garantirgli paradossalmente maggiore identità e defìnibilità. Già Cartesio aveva proposto questa equazione, ma senza che l’idea di identità fosse preliminarmente messa in crisi: an­ zi, esaltando dell’uomo la qualità soggettiva. Ma in un’epoca in cui la biologia sembra essere in grado di ribal­ tare la scala di valori sulla quale abbiamo fondato per secoli il nostro pensiero sociale ed etico Dick non può che apparire come un precur­ sore e un ispiratore, non solo di chi ne avrebbe tratto materia per i suoi film, ma anche per registi che, a rigore, con la sua opera non hanno in­ trattenuto alcun diretto rapporto: Cronenberg, per esempio, che pe­ raltro, come sappiamo, ha letto il miglior Ballard. Verhoeven, uomo intelligente a acutissimo, è invece un regista dei nostri anni. Conosce film seminali come Alien e Blade Runner, ma non si limita a imitarli. Mentre in Alien il corpo viene trattato, sì, in modo aggiornato, ma seguendo i dettami di un realismo esasperante e addi-

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pittura orrifico, in Atto di forza noi leggiamo un’ironia che non è di Dick. Non si può negare che il racconto originario ne dispieghi (a par­ tire dal titolo, come è di prammatica nella fantascienza), ma l’ironia di Dick si concentra nella perplessità di funzionari e agenti davanti a una situazione che sfugge di mano, a eventi psichici imprevisti che minano la burocraticità di un iter interiore trattato come fosse una pratica d’uf­ ficio. In Verhoeven invece l’ironia è in gran parte nelle immagini e più precisamente nelle trovate messe in atto dagli effetti speciali, talmente eccessivi da risultare divertenti; oppure nell’introduzione di personag­ gi assenti in Dick - ma pur sempre inventati seguendo il suo spirito come l’ineffabile tassista-robot. L’ironia è una caratteristica di Verhoe­ ven quando questi si accosta alla fantascienza: il suo Starship Troopers, pellicola poco capita in patria e all’estero, ne è ulteriore dimostrazione. Perfetta parodia delle innegabili tendenze fasciste di Heinlein, stigma­ tizzate anche dall’autore di Chicago in un suo scritto del 1966, il film di Verhoeven a Dick sarebbe piaciuto parecchio. Chissà, forse il nostro presente non è così moderno e aggiornato come pensiamo. O quanto­ meno, la sua critica cinematografica. Secondo Patricia Warrick, nel suo The Cybernetic Imagination in Science Fiction, alcuni dei racconti “most powerful” di Dick furono scritti negli anni Cinquanta: specificamente, The Imposter, Second Va­ riety, The Defenders e Autofac. È infatti in opere come queste che leg­ giamo facilmente quello che una ventina d’anni dopo Dick avrebbe te­ orizzato in discorsi e saggi pubblicati in antologie. Non a caso Second Variety è l’altro testo dickiano che ha incontra­ to l’interesse di Hollywood assumendo il titolo di Screamers. Screamers non è un bel film. Il suo andamento è lento e, tratto com’è da un racconto alquanto breve, la sceneggiatura deve affidarsi alle suggestioni della scenografia, la quale peraltro è abbastanza spoglia e desolata (come nel testo originale). Per di più, si intuisce bene che il budget produttivo ha sofferto restrizioni: non vediamo infatti mai gli screamer in azione, ma, e soltanto una volta, i risultati delle loro orri­ bili operazioni. La produzione ha fatto tesoro di un’indicazione dickiana, quella secondo cui le mortali sfere emergono all’improvviso dalla superfìcie terrestre, densa di ceneri e altri rifiuti, per attaccare ogni es­ sere umano non dotato di un sistema magnetico che ne blocca l’azione. Nel film infatti si è scelto di mostrare le sfere solo quando a fior di ter­ reno si lanciano verso la preda, ragione per cui tutto il problema di cre­ are l’immagine delle sfere che si librano nell’aria lanciandosi sul nemi­ co, come sono descritte nel racconto, è stato superato in economia. Il film ha anzi scelto una via risolutiva tipica del cinematografo, o almeno di quello più intelligente. Sydney Pollack, in un’intervista con­ cessa nel 1978 a chi scrive, disse che in un suo film di gangster d’am­

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biente giapponese, Yakuza (id. 1975), le scene di violenza erano con* cepite e orchestrate in modo che allo spettatore sembrasse di vedere tutto, mentre in realtà egli vedeva soltanto attimi, barbagli di disordine e infine i risultati della violenza. La scelta di Pollack era evidentemente dettata da un eufemismo tipico del suo personale stile di regìa, laddove quella di Screamers è altrettanto ovviamente dettata da ragioni di eco­ nomia produttiva. È bene inoltre sottolineare come nel testo originale razione si svol­ ga sulla Terra (dalle parti della Normandia, o di quel che ne resta, se ben ricordo), mentre nel film siamo su Sirius 6B e per di più la guerra in corso viene attribuita a una rivolta di minatori. Probabilmente l’ori­ ginaria opposizione fra Russia e Stati Uniti, più che comprensibile negli anni Cinquanta, sarebbe suonata obsoleta e superata in un film girato alcuni anni dopo la caduta del muro di Berlino. Ma i cambiamenti sono anche altri. Mentre la giovane protagoni­ sta del racconto si scopriva essere il robot identificabile con la sigla M2 (secondo di una serie, sempre più perfetta, di quattro prototipi), nel film essa diventa il tipo più perfezionato, ingaggiando una lotta senza quartiere con altri esemplari identici a lei, cosicché il protagonista può imbarcarsi sul razzo che lo porterà su Base Luna (la Terra è evidente­ mente fuori questione), anche se l’orsacchiotto di David - che non si comprende come vi sia arrivato - occhieggia e si agita sul cruscotto, fo­ riero di ulteriori invasioni. Nel racconto di Dick, invece, si ricorderà che la ragazza riusciva ad avere la meglio sul protagonista e ne prende­ va il posto sul razzo, seguita dalla silenziosa risata dell’uomo, che ri­ fletteva su come sarebbero finiti dei robot che si distruggevano fra loro (così come la donna aveva fatto con una bomba speciale che aveva di­ strutto il Modello 4). Il problema del film di Duguay è sostanzialmente quello più sopra accennato: il bellissimo testo di Dick non offre spazio per un lungome­ traggio (e d’altro canto sarebbe troppo costoso per un corto), e dunque la sceneggiatura e la regìa si sono ritrovate a indugiare, a tergiversare, ad allargare quello che non ne aveva alcun bisogno. Tuttavia, non si può negare che lo spirito di Dick sia stato rispettato: vi sono momenti - come quello dell’esercito di David che esce senza tregua dall’enorme saracinesca dell’edificio di comando - di fortissimo impatto visuale ed emotivo, del tutto in linea con quelle che intuiamo essere le intenzioni dello scrittore. In questo senso, tuttavia, non si può non fare una notazione nega­ tiva: la variazione del finale, alquanto radicale, è sicuramente la cosa meno dickiana del film. Ammorbidita nel suo discostarsi dall’originale dal particolare più sopra citato dell’orsacchiotto potenzialmente mi­ naccioso, essa contrasta con tutto ciò che conosciamo sia del pensiero

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che dell’opera di Dick. Il problema, tuttavia, è più largo e riguarda la tradizione stessa del cinema hollywoodiano. In Blade Runner l’attribu­ zione di Rick all’ordine degli androidi è completamente tralasciata a favore di un finale aperto e tutto sommato debolmente ottimista. Del resto, lo stesso director's cut mostrava Rick e Rachael entrare nell’ascensore troncando a quel punto l’azione, e dunque evitando allo stesso modo l’aderenza al testo di Dick, anche se è vero che, come af­ ferma la Landsberg, “il director’s cut rifiuta di tracciare per noi una di­ stinzione netta fra replicante e umano, fra memoria reale e prostetica”. Il fatto è che nella tradizione hollywoodiana un robot è un robot, vale a dire esso è concepito in modo asimoviano: non è pensabile che un androide la vinca in modo chiaro e diretto su un essere umano. Dal punto di vista narrativo a Hollywood è il protagonista umano che si­ gilla l’avventura. Si tratta naturalmente della tradizione del lieto fine, una tradizione che, almeno a partire dagli anni Settanta, ha subito sem­ pre più eccezioni. Ma una cosa è sacrificare il protagonista alle neces­ sità del caso, della Storia, della stessa etica; un’altra è cancellare la sua umanità in favore di una pur perfezionatissima macchina. Dalla leg­ genda del Golem e dalla creazione di Frankenstein in avanti, sullo schermo le macchine, si sa, sono destinate a perdere. La loro funzione è quella di ammonire coloro che non intendono rimanere entro i limiti della creazione divina, e anche quella di porre una serie di problemi re­ lativi al valore della scienza e della morale. Per questo Rick rimane un uomo e Hendrickson non resta a morire su Sirius 6B. Il cinema fantascientifico americano contemporaneo, così rivelato­ re in merito a quel che sta scuotendo il nostro universo epistemico, non può contravvenire alle regole stabilite della propria retorica: men­ tre da un lato esso si presenta come il maggior veicolo del disagio do­ vuto ai mutamenti in corso nel nostro pensiero del soggetto e del cor­ po, dall’altro esso finge, deve fingere, che tutto proceda secondo le re­ gole. Eufemismo hollywoodiano: a Dick non sarebbe piaciuto. Come di certo non gli sarebbe piaciuto il chiacchieratissimo Minority Report di Steven Spielberg. Chiunque abbia letto il racconto di Dick da cui la pellicola è tratta sa bene che questo film ha a che fare con esso soltanto per quel che ri­ guarda l’idea di fondo dalla quale parte il racconto: la possibilità di an­ ticipare un crimine attraverso sensitivi e di punire il (non ancora) col­ pevole. Punto. Le due ore che restano non hanno nulla a che vedere con il testo di Dick. E personalmente non lo trovo un motivo di lamentela. I motivi peraltro ci sono. Aiderton ha un problema: gli hanno rapito il figlioletto. E da quel giorno la sua vita è cambiata.

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Abbandona la famiglia (o ne è abbandonato, poco importa), si in­ cupisce, si irrigidisce nel suo lavoro di poliziotto e, in ultima analisi, lo porta avanti con la segreta speranza di mettere le mani sul rapitore e forse persino di ritrovare, dopo anni, suo figlio. Già a questo punto tutto è chiaro: Spielberg se ne infischia del pro­ blema etico-sociale relativo alla preveggenza e all’evitabilità dei crimi­ ni. Se ne infischia di quel che nel racconto originario afferma un per­ sonaggio secondo cui agire in base alla preveggenza è una contraddi­ zione in termini. No, a lui interessano i romanzi familiari, i bambini, gli struggimenti e via dicendo. Ci siamo coltivati in seno un regista mèlo e non ce ne eravamo del tutto accorti. Perché ormai Spielberg è questo: la versione ipertecnologica, superkolossal, grandeffettistica di un regista melodrammatico minore. Dico “minore” perché se comparato - mi si scusi l’owietà - con un Sirk, la sua capacità di impregnare spazi, oggetti e personaggi stessi di valori metaforici è ridicola. Spielberg è un regista del movimento, Sirk della stasi. Spielberg è formidabile nelle scene d’azione, Sirk in quelle di riflessione. Lo so, il melodramma sirkiano ruota attorno a problematiche estranee a quelle del whiz kid, ma, vivaddio, tutti e due al momento opportuno devono pur costruire un’inquadratura, riempirla e signifi­ carla, Gli è che la significazione spieiberghiana è unicamente spettaco­ lare: gli “ergastolani” che sorgono prigionieri delle loro teche costitu­ iscono un momento di straordinario impatto visivo. Ma che cosa c’è dietro a essi? A che cosa allude quell’immagine? Quali corde fa vibrare in chi osserva? Basta una scala o una finestra di Sirk per farci sentire il senso di una vita vissuta nell’incapacità di uscire fuori dal proprio cieco guscio e di guardare la vita. Dalle scale di Spielberg scendono soltanto ragazzini che accorrono verso la finestra da cui sta per entrare un alie­ no che sembra fatto apposta per essere prodotto come pupazzo in se­ rie. Sì, ormai è chiaro: Spielberg, che del resto decanta da sempre l’in­ fluenza di David Lean (cineasta peraltro forse non molto più espressivo e complesso, ma di certo più finemente sensibile di lui), viene dritto dalla linea DeMille, dalla pur grande tradizione americana della messa in scena intesa come scenografia. Ormai quasi un secolo fa Herbert George Wells e Henry James si scambiarono un ammirevole carteggio (che li portò alla rottura della loro amicizia) incentrato sui concetti di “saturazione” e “selettività” in narrativa, molto ben riportato e commentato da Sergio Perosa nel suo Vie della narrativa americana (1980). L’uno se ne infischiava dell’este­ tica e riteneva che il romanzo fosse direttamente e unicamente debito­ re all’enorme marea della vita, un contenitore nel quale includere tutta

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l’esperienza del mondo; l’altro parlava invece della necessità di un cen* tro d’interesse e di un primato dell’arte sulla vita. Con tutte le differenze del caso, visto che il pubblico e i meccani­ smi comunicativi del cinema oggi più che mai non sono quelli del ro­ manzo, il cinema fantastico americano nel suo insieme sembra proprio avere abbracciato la tesi wellsiana. Ma non è questo che irrita, bensì il modo in cui non poca critica è incline a fare di Spielberg un campione di selettività, a farne insomma un autore di spessore molto maggiore di quanto egli non sia davvero. La profezia heideggeriana sull’epoca della tecnica trova in lui la sua prova più lampante: un grande tecnico passa per un grande autore, e solo perché è la tecnica che viene oggi identificata con l’immagine del mondo. Una volta fatto questo, Spielberg può parlare di qualunque co­ sa, affastellare idee buone e meno buone e poi accantonarle per passare ad altre trovate: ci sarà sempre chi gli attribuirà sottili, complesse, in­ tricate e geniali intenzioni. Del resto, lui stesso ne approfitta e tira in ballo la guerra preliminare di Bush. Ma di che diavolo parla? Che cosa c’entra mai un dramma del genere con la sua storiella familiare? Come si fa a mescolare una simile tragedia con la fantasia di chi si inventa l’abietta trovata della pur falsa pedofilia che a un certo punto fa capo­ lino nella sua farraginosa storiella, il cui involucro mezzo SF e mezzo poliziesco tenta di coprire la sostanza mèlo dell’insieme? Eppure in fondo, nonostante queste volgarità, non è colpa sua, ma di una critica e più largamente di una cultura che, davanti alle sempre maggiori conquiste della tecnica, vanno in cerca di adeguate strutture di riferimento, cadendo regolarmente nella vecchia trappola dell’iden­ tità fra medium e messaggio. Ad aggiungere confusione si mette anche una grancassa mediatica che in vista del lancio del film strombazza il nome di Dick a destra e a manca, proponendo dunque un’ulteriore identificazione, quella fra te­ sto letterario e film. Dick si è certo meritato questa attenzione. Piaccia o non piaccia, è il suo pensiero che sta dietro l’episteme dei nostri anni. Ma, per favore, non comportiamoci come se si potesse dire lo stesso di Spielberg. An­ ch’egli è certo un segno dei tempi, ma non delle loro istanze più auda­ ci, della loro spinta verso zone inesplorate, della loro riflessione sui rapporti fra uomo e macchina, del loro dubbio in merito al concetto tradizionale dominante di temporalità e via dicendo. Spielberg è un imbonitore che sa vendere stupendamente i suoi dulcamara. Ce ne so­ no stati altri nel cinema americano, ed è bene che ci siano stati (riusci­ reste a vivere in un mondo nelle cui sale cinematografiche si proietta solo Godard?). Ma, via, diamo a Cesare, eccetera eccetera.

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Ma al di là da fedeltà o meno alla sua opera e al suo spirito, credo che l’influenza del nostro autore sul cinema americano sia stata ben più che non aver fornito soggetti per qualche film. In un certo senso il pun­ to è che finterò cinema americano (e certamente quello di fantascien­ za) degli ultimi ventanni è dickiano in quanto obbedisce ad alcune componenti fondamentali dell’universo di Dick: a) Anche quando la razza umana è trattata come destinata alla vitto­ ria (come abbiamo visto, una sorta di obbligo a Hollywood) vi si percepiscono elementi di incertezza e di dubbio che in passato avevamo notato solo nei tre o quattro film “di sinistra” evidenzia­ ti da Peter Biskind nel suo Seeing Is Believing.

b) Per la prima volta nel cinema di fantascienza il robot non viene trattato come semplice fonte di sorriso (Il pianeta proibito [For­ bidden Planet], 1956) di Fred McLeod Wilcox o di paura (Tobor re dei robot [Tobor the Great], 1954) di Lee Sholem, ma come qualcosa (o meglio: qualcuno) che mostra una personalità e tal­ volta addirittura una volontà propria (Terminator 2 [id.], 1991) di James Cameron e in ogni caso una vocazione a interrogativi pro­ blematici, soprattutto se connessi alla propria identità parzial­ mente umana (RoboCop [id.] 1987) di Paul Verhoeven o non an­ cora umana (il Data della seconda serie di Star TreÀ).

c) L’integrità del soggetto non è più una questione direttamente ide­ ologica (sinistra, destra eccetera) e non coinvolge immediatamen­ te una visione morale del mondo, ma si presenta incerta a causa della propria difficile collocazione nel tempo inteso come Storia (ne abbiamo già tracce in 2001: Odissea nello spazio [2001: A Space Odyssey], 1967) di Kubrick. d) Di conseguenza la fantascienza cinematografica sembra avere su­ perato nettamente il vecchio problema sul quale si era sostanzial­ mente fondata: a quali impensabili sorprese, belle e brutte, ci por­ terà lo sviluppo della scienza? Nel cinema di fantascienza odierno la meraviglia viene accettata senza discussione e il problema che si pone ha due facce: la prima correlata allo sfruttamento della vec­ chia opposizione fra bene e male, fra libertà e repressione, fra buoni e cattivi, ed è il tributo da pagare al modello hollywoodia­ no tradizionale; la seconda - ben più importante - mostra come in questo mondo di meraviglie potrebbe anche verificarsi la neces­ sità di rivedere il nostro vecchio concetto di corpo, di soggetto, di identità, allargandolo all’area della macchina, del costrutto. In questo senso va letto il ricorrente mitologema dell’innesto fra uo­ mo e macchina, fra umano e cibernetico, fra organico e inorgani­

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STILI AMERICANI

co (potentissimo esempio, il caso dei Borg a partire dalla seconda serie di Star Trek).

e) In passato il tema del viaggio nel tempo era stato trattato dal cine­ ma in modo alquanto ingenuo. Dall’archetipo ideale di La mac­ china del tempo (The Time Machine, 1960) di George Pai a Mondi senza fine (World without End, 1956) di Edward Bernds, i nostri eroi venivano a trovarsi in un mondo passato o futuro che poneva soltanto questioni di adattamento, rivelando così il cronocentrismo della cultura che l’aveva prodotto. Il cinema di fantascienza contemporaneo mostra invece un atteggiamento diversissimo, in perfetta linea con le più esemplari istanze della narrativa dickiana: vale a dire una sovrapposizione di spazio e tempo così da elimina­ re ogni comparazione storicistica fra, diciamo così, la dimensione d’appartenenza e quella di arrivo (si veda il caso lampante di Ma­ trix [id.], 2000, dei fratelli Wachowski).

Si noterà che tutti i film che ho citato non sono tratti da opere di Dick (taluni, anzi, da altri autori di fantascienza, come Arthur C. Clarke), ma, come dicevo, è un fatto che alcune idee portanti della nar­ rativa dickiana sono in esse facilmente rintracciabili. Il fatto è che Dick più d’ogni altro autore del genere ha avvertito - e con grande anticipo - il mutamento che già stava fermentando alla metà del secolo, il prossimo avvento della crisi dell’antropocentrismo (così perfettamente osservato, teorizzato e anche narrativamente de­ scritto da Alain Robbe-Grillet proprio negli anni in cui Dick si affac­ ciava alla scrittura), la nuova episteme della frammentazione che, a partire dall’action painting e da alcuni esponenti della pop art (da Rau­ schenberg a Warhol) doveva arrivare ad alcuni narratori postmoderni come per esempio Donald Barthelme (le cui affermazioni sul frammen­ to sono ben note), la nuova poetica dell’innesto fra organico e inorga­ nico e le conseguenti, inevitabili considerazioni in ambito filosofico ed etico. Insomma (e vi prego di notare che i titoli che seguono non sono quelli di film di fantascienza), quando il protagonista di Ricomincio da capo (Groundhog Day, 1993) di Harold Ramis si ritrova a vivere con­ tinuamente lo stesso modello di giornata, quando Jim Carrey esibisce le sue smorfie, sia pure con l’ausilio di ottimi effetti speciali in The Mask (id., 1994) di Charles Russell, quando il protagonista di Mi strop­ pio in quattro (Multiplicity, 1996) di Harold Ramis si moltiplica in quattro immagini di se stesso, e persino quando vediamo sullo scher­ mo un essere umano in carne e ossa che interagisce con un coniglio in Chi ha incastrato Roger Rabbit? (Who Framed Roger Rabbit?, 1988) di Robert Zemeckis siamo davanti a qualcosa che è in debito con Dick.

LA QUADRATURA DEL CERCHIO

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Forse non come idea, come soggetto, come materiale da rielaborare, ma come esemplare di una rivoluzione epistemica che ha in Dick un formidabile precursore. E non soltanto per quel che riguarda il cinema americano.

Riferimenti bibliografici Su Blade Runner si possono vedere le pagine dedicategli da Vivian Sobchack, Screening Space: The American Science Fiction Film, 2.a ed., Ungar, New York, 1987 (trad. it. Spazio e tempo nel cinema di fanta­ scienza, BUP, Bologna, 2002), Scott Bukatman, Terminal Identity: The Virtual Subject in Postmodern Science Fiction, Duke UP, Durham and London, 1993, Giuliana Bruno, “Ramble City: Postmodernism and Blade Runner”, in Annette Kuhn, Alien Zone: Cultural Theory and Contemporary Science Fiction Cinema, Verso, London-New York, 1990, Roy Menarini, Blade Runner, Lindau, Torino, 2000; il confron­ to, esemplarmente condotto, fra il testo di Dick e il film di Ridley Scott figura in Carlo Pagetti, “Introduzione a Cacciatore di androidi”, in Gianfranco Viviani e Carlo Pagetti, Philip K. Dick: Il sogno dei simula­ cri, Editrice Nord, Milano, 1989, e anche in Brooks Landon, The Ae­ sthetics of Ambivalence: Rethinking Science Fiction Film in the Age of Electronic Reproduction, Greenwood Press, Westport-London, 1992; la definizione di “prosthetic memory” è di Alison Landsberg, “Prosthe­ tic Memory: Total Recall and Blade Runner”, in Mike Featherstone and Roger Burrows, Cyberspace, Cyberbodies, Cyberpunk. Cultures of Technological Embodiment, SAGE, London, 1995, cui si deve anche la notazione sul rifiuto di Scott, nel director’s cut del film, di stabilire una differenza fra umano e replicante; le varie affermazioni di Dick si rin­ tracciano nell’interessante raccolta Philip K. Dick, Mutazioni: scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari (a cura di Lawrence Sutin), Feltrinelli, Milano, 1997; la tesi che i migliori racconti di Dick siano stati scritti negli anni Cinquanta è di Patricia S. Warrick, The Cyberne­ tic Imagination in Science Fiction, MIT Press, Cambridge and London, 1980.

Capitolo 11

L’alieno e l’ideologia: dalla padella nella brace

C’è, nell’andamento dei generi cinematografici, un tracciato che un buon navigatore può addirittura riuscire ad anticipare con un mini­ mo di approssimazione, e comunque talmente marcato da permettere di escludere talune tendenze e taluni esiti. L’uscita di Independence Day ribalta tuttavia ogni aspettativa e previsione, rimettendo in gioco una serie di componenti che apparivano ormai escluse dal quadro ge­ nerale e costringendo - indipendentemente dalla qualità del prodotto - a riflettere su di esso e soprattutto sul valore metaforico da attribuir­ gliDa almeno una ventina d’anni il modello, ancora cinquantesco, dell’alieno invasore era profondamente cambiato. Prima, come si sa, dominava la paranoia maccartista, alla quale peraltro dobbiamo una serie di piccoli grandi film (da alcuni di Jack Arnold al classico L’inva­ sione degli ultracorpi) e una serie di pellicole grottesche, deliranti e ri­ dicole (si pensi a The Next Voice You Hear di William Wellman e a Red Planet Mars di Harry Horner: nel primo Dio parla alla radio contro il pericolo comunista, nel secondo Dio abita su Marte e combatte nazisti e comunisti); poi il genere dimenticò il tema della supposta invasione volgendosi a problemi più concreti, facilmente rintracciabili nel mon­ do contemporaneo: l’incognita post-atomica, la questione ecologica, le stesse insidie tecniche del volo spaziale, peraltro già accennate dal ci­ nema almeno a partire da Uomini sulla Luna in avanti. Dopo questa sorta di interregno degnamente concluso dallo stori­ co e francamente irrazionalistico 2001: Odissea nello spazio e dopo il quasi totale silenzio della New Hollywood settantesca, sarebbe stato Spielberg a cambiare radicalmente la nostra nozione di Alieno, prima con la straordinaria esercitazione di Incontri ravvicinati del terzo tipo, poi con l’esplosione del fenomeno E.T. A chi negli anni Cinquanta sa­ rebbe mai venuto in mente di far giocare delle sbarazzine sfere lumi­ nose (non poco somiglianti al folletto aiutante di Peter Pan) lungo le hi-

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ghway notturne dell’indiana sotto gli occhi incantati e fanatici di mil­ lenaristi in stile yankee? Spielberg ebbe l’accortezza di non indugiare sull’immagine dell’alieno, mostrato sempre brevemente e con le fat­ tezze in ombra, ma soprattutto di allontanarsi dalla comoda pratica che lo voleva spesso fisicamente simile agli umani: i suoi visitatori spa­ ziali sono un incrocio fra dei pupazzi e delle piante, sempre benevolen­ ti e animati da intenzioni pacifiche, fraterne, serene. E.T., poi, era il vero eroe del film omonimo, e in un certo senso erano gli umani (adulti) a diventare gli alieni - vale a dire i malinten­ zionati - della storia. L’innovazione di Spielberg era gravida di conseguenze. Sulla sua scia Joe Dante, Chris Columbus e altri ancora intasarono negli anni Ottanta il cinema fantascientifico con navigatori ed esploratori spaziali dal moccio al naso e con alieni brutti e simpatici, nonché altrettanto mucillaginosi. Gli alieni insomma erano diventati dei compagni di gio­ co, l’incarnazione di una buona coscienza per anni sepolta dai detriti massicci della guerra fredda e dall’incalzante timore di quel che l’era atomica poteva portarsi dietro. Dunque un idillio galattico fra razze diversissime dopo lustri di mi­ naccia, paranoia, mistero e (a volte) catastrofica violenza? Per un po’ è sembrato andasse proprio così, tanto che dallo spazio, a disintegrare i poveri terrestri inconsapevoli e addirittura divertiti, sarebbero giunti soltanto dei pagliacci, provvisti del loro usuale armamentario circense (Killer clown dallo spazio di Stephen Chiodo, giustamente diventato un cult, e visto da pochissimi nonostante la sua programmazione tele­ visiva). In realtà le cose non erano tanto cambiate, ché tutta una cor­ rente nient’affatto sotterranea aveva ripreso vigore a partire proprio da poco tempo dopo il battesimo della new wave spielberghiana, e con una pellicola certo non secondaria: Alien di Ridley Scott, seguita da un altro importante classico moderno del genere, La cosa di John Carpen­ ter. L’alieno, esse predicavano, è sempre l’essere pericoloso che ci ave­ va insegnato la SF anni Cinquanta; la differenza è che questi film ce lo presentavano come un pericolo in qualche modo circoscritto: sul pon­ te di comando di un’astronave, in una base artica, magari persino in una metropoli come Los Angeles (cfr. il più recente, modestissimo Spe­ cies - specie mortale di Roger Donaldson), e sempre come prodromo di un’invasione, come seme che minacciava temibili frutti senza che mai però il processo giungesse a completa maturazione. In un certo senso queste pellicole sono state l’antefatto di Independence Day, la prova generale dell’invasione che vediamo nel film di Emmerich e alla quale mai avremmo pensato di assistere ancora. Perché? Perché aveva­ mo identificato quel tema, quel filone con un preciso momento della storia mondiale, perché ci eravamo abituati a pensare che l’invasione

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richiedesse un potenziale invasore e che il cinema americano, in quan­ to espressione della cultura (e dunque anche dei timori, delle ansie, delle ossessioni) di quel paese, avesse proiettato in quel luogo psichico che è l’immaginario hollywoodiano le forme mostruose - o comunque temibili - in cui a quel tempo quella cultura dava corpo al nemico. Ma il nemico era sempre stato lì, assumendo non tanto forme quanto si­ gnificati diversi. L'alieno di Scott non era certo metafora dei comunisti, ma - a voler essere cavillosi - molto probabilmente di un femminismo che, avendo nel personaggio di Ripley il suo volto forte e pulito, iden­ tificava invece nell’orrendo deuteragonista il suo lato oscuro, violento, aggressivo. Allo stesso modo l’essere di Carpenter rappresentava, o co­ munque alludeva a, ben altro che il solito sovietico cinquantesco; esso scaturiva anzi proprio dagli anni Ottanta, dalla loro assenza di valori, di riferimenti, di modelli, di forme, in breve da quell’amalgama di in­ congruità giustapposte che passa sotto il nome di postmoderno e la cui caratteristica precipua è la metamorfosi, ovvero l’assenza di forma. Mezza fantascienza cinematografica dell’ultimo quindicennio (l’altra metà, nei modi che le sono adeguati, copre il terreno del horror film) è una continua lotta con Proteo, cioè con un nemico inafferrabile, che non a caso giunge in punta di piedi, si nasconde fra tubature e intersti­ zi, e impone una guerriglia subdola che ha fatto pensare qualcuno a una metafora ossessiva nata dall’esperienza americana del Vietnam (e a maggior ragione questo è evidente in Aliens di James Cameron, una vera e propria pellicola bellica, o meglio di guerriglia: cfr. William J. Palmer, The Films of the Eighties: A Social History, Southern Illinois UP, Carbondale and Edwardsville, 1993). L’obiezione più ovvia è: il tema della metamorfosi si riscontra an­ che in più d’una pellicola cinquantesca di genere, come, soprattutto, il classico Einvasione degli ultracorpi di Don Siegei. La risposta è tuttavia altrettanto ovvia: mentre là il processo era univoco e preciso (anzi, ad­ dirittura anagrafico), nei nostri anni l’alieno assume mille forme e vol­ ti, persino quello, particolarmente orribile, di un ragno con la testa umana (La cosa). Il nemico, dunque, non è più identificabile: esso è dentro di noi, è parte del nostro mondo, lo vediamo e viviamo ogni giorno, non nell’orrore esteriore che pellicole del genere esibiscono, ma nell’assenza di ciò che ci fondava intellettualmente, razionalmente, moralmente fornendo le coordinate che ci permettevano di pensare in termini di certezza relativamente a noi stessi e al nostro mondo. Senza dubbio anche il medico di Santa Mira nel film di Siegei si ri­ trovava a fronteggiare un incubo atroce, ma pur sempre organizzato sui modelli del mondo a lui noto (e anzi proprio per questo orribile). Oltreché nel remake omonimo firmato da Phil Kaufman nel 1978, qualcosa del genere avviene nel recente II terrore della sesta luna, che

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Stuart Orme ha diretto in modo anonimo traendolo dal celebre ro­ manzo di Heinlein. Con Independence Day siamo invece chiamati a fronteggiare qualcosa di déjà révé, non un incubo orrifico, ma un timo­ re che non sembra avere le motivazioni attivate quasi mezzo secolo fa dalla paranoia cinquantesca. La differenza è che dal momento che l’alieno incarna il nemico, non essendovene oggi uno (anche se gli Stati Uniti se ne stanno rapidamente costruendo un paio), l’accento viene posto sulla potenza della difesa, e il presidente stesso si tira su le ma­ niche e s’imbarca nell’impresa. Molti hanno lamentato quest’ultima americanata, ma dopotutto essa non è tanto diversa dallo spirito che animava i film cinquanteschi d’invasione. Essa lo è, invero, nella trovata (anche se in fondo dopo aver sentito alla radio la voce di Dio non dovrebbe poi meravigliare tanto un capo di stato che pilota un aereo in missione), ma riposa do­ potutto su un concetto iperdemocratico - e quindi ridicolo - di auto­ rità. Alberto Crespi notava giustamente su L’Unità (27 Settembre 1996) che, pur ispirandosi ai film “poveri” della SF cinematografica cinquan­ tesca, Independence Day “somiglia più a un kolossal bellico o catastro­ fico” e ricordava sacrosantamente la sindrome Godzilla così cara ai nipponici (non a caso, lo scrive in altra parte lo stesso Crespi, i domi­ natori finanziari della Hollywood contemporanea). D’altro canto, Emmerich ha ricalcato in modo spudorato la lezione di Lucas: tutta la parte finale è un plagio preciso delle sequenze d’attacco in Guerre stel­ lari. Insomma, più che un ritorno alla SF cinquantesca Independence Day propone una stimma dell’ultimo mezzo secolo del genere; il tutto però in una chiave certamente distante dalle tendenze che lo stesso ge­ nere aveva maturato in anni e anni di sviluppo. Cosa curiosa, anche un altro recente film d’invasione - e questa volta un remake vero e proprio (laddove Independence Day è il remake non di una pellicola ma di un’intera tradizione) - ricalca moduli cinquanteschi, Il villaggio dei dannati di John Carpenter, nel quale la sofisticatezza dell’effettistica odierna - ormai la vera protagonista dei film che ne fanno uso - non riesce a tenere banco, relegata a una parte secondaria, nel senso di ap­ parentemente più rozza di quanto in effetti non sia. È, questa, un’altra componente comune alle due pellicole, strettamente legate dal tema dell’invasione aggressiva e bellicosa. Ma II villaggio dei dannati può aiutarci a comprendere il senso ultimo di questa tendenza (dato e non concesso che essa sia tale). Fabrizio Liberti (Cineforum, 347, Settem­ bre 1995) evidenziava il vero peccato degli invasori: la loro incapacità d’emozione e d’umanità, l’omologazione del sociale “ad imperativi culturali ed emozionali che non prevedono più il reale confronto e la tolleranza”. Il genio fantasioso di Tim Burton, dal canto suo, ribalta il

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modello attraverso l’iperbole ironica: il confronto e la tolleranza nel suo Mars Attacks! non solo non esistono affatto, ma vengono impiegati come astuzie di una discutibile diplomazia: da un lato - quello dei ter­ restri - esse sono parole usate per far risplendere un look politico ge­ nerato dal cinismo e dall’insipienza; dall’altro - quello degli invasori esse sono specchietti per allodole tanto stupide da cadere continuamente nella trappola, anche quando ormai la situazione di pericolo è tanto chiara quanto le reali intenzioni dei marziani. La frequentazione fra i terrestri e questi ultimi nel film di Burton è sostanzialmente la stes­ sa che c’è fra gli eroi titolari di quell’impagabile commedia di Max Frisch, Omobono e gli incendiari, nella quale la cattiva coscienza delle vittime trova continuamente e testardamente nei carnefici assurde ra­ gioni di amicizia e simpatia. La cosa è tanto più evidente in quanto l’iconografia burtoniana dell’alieno, mutuata da alcune famose figurine d’altri tempi, non concede alcun margine a malintesi; ma lo fa rinun­ ciando a un’iconografia aggiornata e adottando quella, più ingenua e scontata, certo, di un tempo in cui l’alieno non godeva di alcuna po­ tenziale simpatia proprio perché metafora diretta di una serie di timori che la distensione prima e la caduta del muro di Berlino in seguito ave­ vano esorcizzato e cancellato. Pura violenza e malvagità, gli alieni di Burton non sono segno di nulla se non di quel che rimane nel genere dopo che la sua naturale evoluzione lo ha portato o su una strada filo­ sofica o su quella del puro intrattenimento. Burton tuttavia, non ab­ bracciando né l’una né l’altra, ne approfitta per lanciare un’omerica ri­ sata non tanto sulla cattiveria dell’ignoto quanto sulla stupidaggine e l’infigardaggine di quello che conosciamo. E anche su questa strada l’alieno diventa l’occasione per un discorso su noi stessi. Independence Day, in modo certamente più sbrigativo, propone una matrice identica dell’alieno: ne mutua forma e metamorfosi (la se­ quenza dell’autopsia) dalla lezione gigeriana del film di Scott, contami­ nandola leggermente con l’iconografia aliena del vecchio Cittadino del­ lo spazio (altro riferimento cinquantesco). Della più recente tradizione “negativa”, poi, riprende un’altra tipica ossessione: quella della ripro­ duzione. A partire da Alien tutta la fantascienza cinematografica d’in­ vasione (e non solo quella) ha continuamente inscenato il tema della na­ scita. Si tratta di una fantasia che trova il suo terreno di coltura nell’esplosione della corporeità che a vario titolo ha dominato gli anni Ottanta. Essendo la SF, ben più del horror, l’ambito d’operazione dell’ignoto e del possibile, non meraviglia lo scavo non solo dell’icono­ grafia ma anche delle modalità d’apparizione del corpo nuovo, diverso. Cronenberg è stato ed è un maestro in questo settore, riuscendo a in­ scenare non soltanto la mutazione, ma anche la differenza sessuale co­ me terreno dell’indagine. Addirittura grossolana al suo confronto, la SF

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si è rivolta al mitologema del parto (diretto o metaforico, dal primo Alien a Species) persino in alcuni prodotti un tempo radicalmente estra* nei a tanta audacia (ricordate la serie televisiva Visitors?). Fedele re­ make, Il villaggio dei dannati si è limitato alla fecondazione astratta del primo film, mentre Independence Day - pur non avendone alcun biso­ gno in relazione allo svolgimento della trama - non ha resistito alla ten­ tazione di obbedire alla pratica corrente nella sequenza dell’autopsia di cui si diceva più sopra. Il parto come minaccia è evidentemente una fan­ tasia che nasce da un’incertezza nei confronti dell’idea di natura, esat­ tamente come lo è il più largo tema dell’invasione aliena, dalla quale lo differenzia, caratterizzandolo, il timore nei confronti della sessualità. Si tratta comunque di una curiosità verso la carne la quale è originata, co­ me si diceva, dall’emergere del corpo sulla scena dell’immaginario. Independence Day non è una pellicola che fa di tutto ciò una sua bandiera, ma un film che nella sua natura crestomatica antologizza an­ che questo elemento, modernizzando, per così dire, in tal modo il suo impianto. Che è un impianto sostanzialmente arcaico, wellsiano (i ci­ nefili prestino attenzione: manca una “e”!) non solo nella concezione dell’alieno ma anche - e questa volta intenzionalmente - nella sceno­ grafia tecnologica dell’astronave che riecheggia la freddezza meccani­ ca, astratta, disumana del tutto estranea ad alcuna intenzione estetica (dunque: umano = estetico) del veicolo spaziale Borg nella saga tele­ visiva di Star Trek - The Next Generation. Ecco dunque un altro ele­ mento interessante: non la prestigiosa scenografia astronautica che di norma si attribuisce a una razza altamente evoluta dal punto di vista tecnologico (lo aveva fatto, per esempio, anche Lucas con il suo minac­ ciosissimo Impero), ma una bruttura tanto efficiente quanto pesante, greve, sinistra che intende essere il volto esteriore di una qualità mora­ le detestabile e temibile. Indipendence Day rifiuta persino la meccanica biologica trasudante repellenti umori inaugurata da Alien e sceglie una strada meno gotica, meno irrazionalistica. Pur assomigliando fìsicamente in qualche modo all’alieno di Scott, gli invasori di Emmerich si misurano con i terrestri al loro livello: essi hanno tutto ciò che serve per essere quel che le loro vittime vorrebbero, dovrebbero e potrebbe­ ro essere - tolleranti, amichevoli, intelligenti, benevolenti - ma rinun­ ciano a priori a questa funzione esemplare e ammonitrice (la stessa che aveva caratterizzato l’alieno in un altro classico cinquantesco, Ultima­ tum alla Terra) scegliendo la via dell’aggressione. È una scelta impor­ tante perché comunica una verità a lungo negata da un’ideologia della scienza in chiave sostanzialmente positivistica: a un sofisticatissimo grado di conoscenza scientifica non corrisponde necessariamente uno sviluppo altrettanto alto del pensiero morale, delle coordinate etiche della cultura che l’ha raggiunta.

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Si può sempre obiettare che se le coordinate etiche sono quelle in­ carnate e predicate dal Presidente USA nel film, dalla padella di un’ideologia si cade nella brace di un’altra. Vero. Con la differenza, ri­ spetto al passato, che mentre quello di allora era un prodotto di pura propaganda, Independence Day è una sorta di warming up, un allena­ mento in vista del momento in cui l’alieno di turno sarà metafora pre­ cisa di un terrorista islamico o magari di un autonomista del Texas o deH’Oklahoma armato fino ai denti. È in fondo questo che, asserraglia­ ti nella loro Alamo grande come un continente, e in barba al postmo­ derno, alla corporeità e al mitologema del parto inaugurato da Alien, gli americani di Emmerich urlano oltre la palizzata del fortino agli spietati messicani di un Santa Ana spaziale: “Chiunque voi siate là fuo­ ri, fatevi avanti: vi stiamo aspettando”.

Riferimenti bibliografici La definizione di Aliens come film di guerriglia è in William J. Pal­ mer, The Films of the Eighties: A Social History, Southern Illinois UP, Carbondale and Edwardsville, 1993, p. 186; su Independence Day co­ me film a metà fra il povero e il kolossal riferisce Alberto Crespi in un suo articolo su L’Unità, T7 Settembre 1996, nel quale egli rintraccia an­ che la sindrome Godzilla dei nipponici alla base della pellicola di Emmerich; sul peccato degli invasori come mancanza d’emozione e umanità in II villaggio dei dannati di Carpenter si veda la recensione di Fabrizio Liberti, Cinefonim, 347, Settembre 1995.

Capitolo 12

Spazio: (pen)ultima frontiera

Lo spazio in SF: ecco un bel tema. Come se la nostra cultura e la nostra sensibilità non si fossero evolute nel tempo, elaborando, fra le altre cose, e comunque più o meno implicitamente, un’idea di spazio sempre in progress. Si pensi per esempio a che cosa era lo spazio per l’immaginario fantascientifico cinquantesco e a quali cambiamenti quella nozione abbia subito nell’era della virtualità mezzo secolo dopo. Ma è proprio dai cambiamenti che una critica seria può e deve trarre spunto per analizzare non solo, fenomenologicamente, lo svi­ luppo di una cultura, ma anche e soprattutto le ragioni che a quei mu­ tamenti hanno portato, ciò che questi svelano a chi intenda davvero vedere oltre la superficie dello schermo. Incominciamo dunque rilevando che l’idea di spazio che il cinema americano ha coltivato negli anni eroici della SF cinematografica è di carattere sostanzialmente (o quantomeno potenzialmente) ostile, lad­ dove in anni più recenti tale ostilità ha vieppiù trovato un contrappeso equilibratore in quelli che Gaston Bachelard chiama “espaces louangés” attribuendo loro un “valeur de protection” (caso lampante e ad­ dirittura archetipo: Incontri ravvicinati del terzo tipo [Close Encoun­ ters of the Third Kind], 1977, di Steven Spielberg). La storia della guer­ ra fredda come origine ideologica del primo caso è stranota e non sta­ remo a ripeterla. E tuttavia molto interessante e indicativo che proprio negli anni in cui gli USA si apprestavano a fare i primi passi verso l’esplorazione dello spazio tale impresa venisse presentata filmicamen­ te come un azzardo pieno di incognite e pericoli, e non come un ten­ tativo di ampliare, insieme alle nostre conoscenze scientifiche e tecno­ logiche, anche quelle umane e morali. A me pare evidente che questo tipo di atteggiamento non possa trovare spiegazione unicamente nella guerra fredda in corso all’epoca e che invece esso affondi le sue radici nel modello storico della colonizzazione del continente nord-america­ no. Già William Dean Howells aveva sostenuto nella seconda metà

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dell’ottocento che la narrativa utopistica era arrivata tardi in America perché la frontiera ne aveva smussato il potenziale innovativo. Inoltre, risale al 1941 la definizione di “space opera” dovuta a Wilson Tucker e coniata sul modello della “horse opera” western, che avrebbe trovato nel 1953 la definitiva verifica pratica da parte di Guy Archette, che in un numero di Amazing Stories trasformò un romanzo western in SF cambiando solo poche parole chiave. Nello stesso periodo un saggio di Horace Gregory teorizzava in modo alquanto argomentato l’idea che la SF spaziale ripropone il modello di fondo tipico del western, essen­ done sostanzialmente una rilettura in chiave futuribile: il pianeta sco­ nosciuto pieno di mortali pericoli non è altro che la wilderness di sette e ottocentesca memoria, l’alieno infido è il pellerossa e lo spazio pro­ fondo nel suo insieme è un potenziale Eden dal quale è imperativo eli­ minare il serpente. Ma, come ci ricorda il classico II pianeta proibito (Forbidden Planet, 1956) di Herbert Wilcox, il serpente in ultima ana­ lisi siamo noi, le nostre pulsioni più profonde, oscure, irrazionali. È molto interessante, su questa strada, comparare SF e western, so­ prattutto tenendo a mente le parole di Paul A. Carter sull’omonimo personaggio di Edgar Rice Burroughs: “L’impressione iniziale di John Carter - che Marte sia un posto non molto diverso dall’Arizona - ha influenzato in modo decisivo tutta la successiva fiction interplanetaria. Quando gli Americani sbarcano su un altro mondo, si aspettano che as­ somigli all’Ovest americano”. E tuttavia non si tratta solo della que­ stione ideologica dell’espansionismo colonialistico, ma anche di un problema socioculturale di enorme momento. Specificamente, la que­ stione della Legge. Il western è stato molto esplicito in questo senso: una pellicola co­ me Luomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Va­ lance, 1962) di John Ford è un vero manifesto riassuntivo nel quale l’eroe negativo titolare impersona il Mostro che ossessiona la wilder­ ness e le impedisce di diventare il giardino terrestre che l’immaginario nazionale vorrebbe. Tom Doniphone è un Adamo forte, capace e one­ sto, ma soltanto l’arrivo dell’avvocato (cioè della Legge) permetterà all’Ovest quel salto di qualità che gli consentirà di entrare nel consor­ zio sociale, ovverosia lo stato federale. Abbiamo corrispettivi di tutto questo nel cinema di SF? A parte il vecchio film di Wilcox, sembra proprio di no. O meglio, sì, se includia­ mo nel quadro una serie tv anomala come Star Trek, che non a caso ci fornisce una, magari discutibile, definizione dello spazio come “ultima frontiera”. Nell’insieme tuttavia il cinema di SF non sembra porre la questione della Legge, probabilmente perché esso presume che lo spa­ zio profondo abbia già, nella potenzialmente infinita varietà delle sue razze, una serie di leggi, spesso ignote, barbare, assurde, ma pur sem-

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pre leggi. E dunque il confronto non potrà avvenire che in termini di valori: nei modi spesso pacifici e tolleranti che proprio Star Trek ci ha esemplificato, o in quelli del conflitto fra differenti e addirittura oppo­ ste civiltà e tecnologie spesso votate all’assimilazione e/o alla distruzio­ ne dell’altro. In questo senso, come si diceva, la SF cinematografica ha mante­ nuto una sua aderenza alle radici storiche della nazione. Ma al tempo stesso ha incominciato a considerare lo spazio anche come qualcosa di diverso da un oscuro nido di mostri, bestiacce, serpenti, insettoni e tentacoli (valga per tutti l’ironicissimo e poco capito Starship Troopers, [id.], 1999, di Paul Verhoeven, critica alquanto intelligente di questo superato modello). Per far questo essa si è rivolta alla mitologia inter­ rogando - letteralmente - il cielo. Sumeri e babilonesi erano famosi per le loro cabale stellari, e del resto è opinione comune che in cielo risieda l’essere supremo con o senza la corte che qualche religione ha creduto bene di appiccicargli. “Padre nostro che sei nei cieli” recita la più celebre preghiera occidentale: c’è da meravigliarsi se da quegli stes­ si cieli scendono alieni intelligentissimi e buonissimi sullo sfondo di una musica ieratica? Non saranno Dio, però ci si avvicinano. E comun­ que più di noi. Resta il problema che il libro più letto e meno verificato del mondo afferma che Dio ha fatto gli uomini (vale a dire, nell’ambito che qui ci compete: i terrestri) a sua immagine e somiglianza, laddove quegli esserini striminziti e anoressici non sembrano avere con Lui nul­ la a che fare, tranne il fatto di essergli alquanto vicini in bontà, amore, intelligenza. La doppia natura dello spazio ormai è chiara: come a ogni ignoto, possiamo attribuirgli i valori che vogliamo: esso esiste e opera non se­ condo le leggi della scienza, ma dell’immaginario. Se togliamo alla “seconda natura” che ho appena indicato la com­ ponente irrazionalistica, sacrale, misticheggiante, si vedrà bene come non solo “lo spazio ha perso il suo collegamento con la conquista e il potere”, secondo quanto afferma Jodi Dean, ma anche che esso “è sta­ to collegato alla passività e alle cose mondane”. In altre parole, se gli anni Cinquanta e Sessanta vissero l’esaltazione dell’avventura e, per dirla con un titolo di Wright Morris che richiama alla mente ancora una volta l’Ovest e la frontiera, del “territory ahead”, gli anni Novanta quello spazio l’hanno rimpicciolito in molti sensi, soprattutto con l’ac­ quisizione di una mitologia del Virtuale. La domanda, ovviamente, non è tanto come, ma perché. La dialettica dell’infìnitamente grande e dell’infìnitamente piccolo - così ben individuata da Martin Heidegger - che percorre l’intera cul­ tura americana riassumendo ogni sua forma nella figura del?iperbole si presenta come la radice dell’operazione. Come ci ricorda ancora Jodi

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Dean, negli anni Sessanta “i media popolari e giornalistici utilizzavano le immagini dello spazio come simboli di progresso e di conquista”. Ma col tempo la precisione scientifica, l’enorme progresso tecnologico raggiunto dagli USA in questo campo smorzarono ogni tentazione di immaginario rendendo lo spazio e la sua esplorazione soltanto una questione di tempo, talché le visioni fredde e grandiose del paesaggio lunare o quelle calde e altrettanto grandiose di quello marziano diven­ tarono un po’ come gli elementi mancanti nella tavola di Mendelejev: non ne era stata verificata empiricamente l’esistenza, ma si sapeva bene che da qualche parte erano, che un giorno si sarebbero potuti toccare con mano e che essi erano comunque già perfettamente descrivibili nelle loro caratteristiche. Lo spazio profondo, insomma, era già cosa nota. Persino l’immaginario sembrava avere operato in questo senso esemplificando le sorprese che attendevano i futuri astronauti, ma fa­ cendolo, tuttavia, in modo estremamente “economico”, dal momento che la stragrande maggioranza dei film di SF di quel periodo non mo­ stra gli aggressivi e pericolosissimi alieni nel loro habitat, bensì nel no­ stro: alimentata dalla guerra fredda, la SF d’invasione dominava il campo. L’economia della scelta è evidente: il forte quoziente di sorpre­ sa e paura veniva raddoppiato dal fatto che l’aggressività non si dispie­ gava nei confronti di un’ardita pattuglia di esploratori sperduta in qualche angolo della galassia, bensì ai danni di un intero pianeta e della sua razza dominante: gli umani. Il quoziente apocalittico del modello è altrettanto evidente ed è anch’esso una costante della cultura ameri­ cana, come si può leggere negli studi di Ketterer, di May e di tanti altri critici, retaggio di una religiosità vetero-testamentaria notoriamente non poco coltivata dai Padri Fondatori del primo periodo coloniale e trasmessa, in forme opportune e adeguate, all’intero arco della lettera­ tura americana, da Mark Twain a Thomas Pynchon. Ma, come si diceva, quello spazio, tutto sommato inesplorato dal cinema cinquantesco, doveva presto divenire abitudine attraverso l’in­ formazione di massa, appendice ai singoli passi compiuti nel tempo dalla tecnologia spaziale, instillando sorpresa e raccapriccio soltanto in occasione dei rari incidenti mortali come quello del Challenger, così ben studiato e interpretato, nella sua aura popolare, dalla Constance Penley di NASA/lrek. E davvero pionieristico in questo senso fu John Fitzgerald Kennedy quando nel 1961 affermò: “Andiamo nello spazio perché tutto quello che l’umanità deve intraprendere, gli uomini liberi debbono condividerlo totalmente.”, rifiutando da un lato la molla del­ la curiosità scientifica che è alla base di ogni ricerca (achievement) e dall’altro le fin troppo ovvie motivazioni di carattere politico che a quel tempo stavano dietro la corsa allo spazio (power). Gli anni Sessanta tuttavia elaborarono un’idea di spazio che li di­

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stinse in modo netto dal decennio precedente. I mezzi di massa, infatti, e la televisione in primo luogo, stabilirono un’equazione fra spazio do­ mestico e spazio profondo. Come ricorda Lynn Spigel in un suo illu­ minante articolo, si tratta di una connessione spesso sostenuta e pub­ blicizzata dai grandi rotocalchi (soprattutto Life) e dal piccolo scher­ mo, che inondò il paese di quelle che la studiosa chiama fantastic fa­ mily sit-com. Secondo questa vera e propria ideologia lo spazio pro­ fondo era una sorta di diritto della famiglia media americana, il suo de­ stino in un cronologicamente non meglio precisato futuro, persino nel­ la voce dei contestatori di quel tempo, come Don MacLean, nella cui “American Pie” egli canta di “a generation lost in space”, ammiccando ovviamente a una tipica fantastic family sit-com pressoché coeva dallo stesso titolo. Le immagini delle mogli degli astronauti nel loro habitat quotidiano divennero frequenti quanto e più di quelle dei loro ardi­ mentosi consorti sulle pagine degli ebdomadari. Del resto, era stato nientemeno che Wernher von Braun ad affermare nel 1958 che “co­ struire missili è come arredare l’interno di una casa”. E spiegava poi lo scienziato: “Una volta che si decide di risistemare il soggiorno, si va a fare spese. Ma quando si mette insieme il tutto, può capitare che si ve­ da in un lampo che è un errore - le tende non vanno d’accordo con il copridivano. Lo stesso vale per i missili.”. E aggiungeva undici anni do­ po l’ingegnere della NASA John C. Houbolt: “un rendez-vous attorno alla luna è come essere in un salotto”. Se ricordiamo che a cavallo fra gli anni Cinquanta e i Sessanta il governo americano pubblicizzò non poco la questione dell’armamento spaziale onde distogliere l’attenzione del paese dalle avventure colonialiste armate che sarebbero presto sfociate nel disastro del Vietnam, il quadro dell’idea di spazio vigente in quegli anni che ci si presenta è molto chiaro nella sua pesante ideologizzazione. D’altra parte, non dimentichiamo che proprio con la fine degli an­ ni Sessanta il cinema di SF americano sembra imboccare strade alquan­ to diverse da quelle “spaziali” tradizionali. Forte di una nascente sen­ sibilità “verde” nell’intera nazione davanti alle catastrofi causate dal sempre più imponente sfruttamento delle più azzardate fonti naturali d’energia, la componente apocalittica della cultura statunitense pren­ derà infatti il sopravvento portando Hollywood a confezionare storie di ammonimento ecologico fondate sul pericolo dell’energia atomica combinata alle ragioni della politica: da 1975: occhi bianchi sul piane­ ta terra di Boris Sagal a 2022: i sopravvissuti di Richard Fleischer, il ci­ nema americano degli anni Settanta sembra avere dimenticato lo spa­ zio profondo a vantaggio di problematiche alquanto concrete strettamente legate alla nostra permanenza su un pianeta ormai contaminato da fonti d’energia che sono sfuggite di mano all’apprendista stregone,

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oppure connesse a problemi tutt’altro che fantascientifici come quello della realisticamente non lontana carenza di cibo per finterò pianeta. Quali le ragioni di tale oscuramento della tematica spaziale? Certo quelle di cui si diceva più sopra, corroborate in quel periodo da un'im­ portante evidenza: quella dell’accettata superiorità americana rispetto alla ricerca sovietica. Un film particolarmente eloquente del profondo mutamento avvenuto in quest’ambito è Capricorn One (id., 1978) di Peter Hyams, ovvero la storia della simulazione di una conquista spa­ ziale. Simulazione che se da un lato poteva intendersi quale estremo espediente americano per rassicurare l’opinione pubblica in merito alla superiorità spaziale statunitense, dall’altro testimoniava bene del gra­ do di secondarietà raggiunto dagli originari obiettivi del progetto NASA. Non è un caso che proprio in quegli anni l’America, e con essa il mondo, assista all’endemica esplosione della scienza elettronica attra­ verso la diffusione del computer, primo passo verso una diversa nozio­ ne dominante di spazio che da tempo definiamo virtuale. Ma prima di arrivarvi un ulteriore stadio attendeva lo sviluppo di questo genere cinematografico. Fu un po’ come se la SF spaziale desse un colpo di coda prima di lasciare il passo a forme nuove di immagi­ nario. Anzi, all’epoca sembrò addirittura che il cinema di SF riprendes­ se il posto a suo tempo occupato e poi perduto, e lo riprendesse con tutti i crismi: non più modellini sciagurati e simulazioni dilettantesche, ma una tecnologia che permise un effetto di realtà mai visto sullo schermo sino ad allora. In Guerre stellari (Star Wars, 1976) George Lu­ cas fu il primo a utilizzare la tecnologia digitale per rilanciare un gene­ re - quello della SF spaziale - che sembrava ormai obsoleto, e così fa­ cendo pose le basi per la retorica iconografica e aurate della SF che ne sarebbe seguita. Sarà Lucas, tanto per dirne una, a infrangere fantasio­ samente una inoppugnabile verità scientifica, quella secondo cui nello spazio profondo il suono non si propaga. E sarà Lucas a stabilire la ta­ cita convenzione per cui un’astronave è tanto più spettacolare quanto più “trapassa” lo schermo in direzione normale a esso (cioè perpendi­ colarmente o, quantomeno, obliquamente). Lo spazio degli anni Cin­ quanta era asettico e minacciosamente cupo; quello degli anni di Lucas non è soltanto, come vuole Paul Nathanson, “un deserto aperto, vuo­ to, senza tracce, che aspetta di essere esplorato e colonizzato” (l’equa­ zione fra Old West e Outer Space, dopotutto, funzionava anche nella SF degli anni Cinquanta), ma assomiglia anche a un’autostrada senza limiti laterali nella quale gli stuntmen dell’universo si producono in prodezze da ritiro della patente. In altre parole lo spazio profondo sta­ va diventando alquanto stretto, alla stessa stregua di quello che stava succedendo al corpo nel cinema fantastico e dell’orrore.

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Non è affatto un caso che in anni recentissimi io spazio profondo sia divenuto, nel cinema, teatro di esercitazioni invasive che sfiorano il grottesco e che certamente battono il versante dell'ironia. Film come Men in Black (id., 1999) ed Evolution (id., 2001) di Ivan Reitman vol­ gono in commedia l’originaria tragedia fantascientifica, ripetendo cer­ tosinamente il modello dell’invasione, ma, appunto, facendone poco più di una barzelletta. In fondo lo stesso si può dire di Mars Attacks1. (id., 1999) di Tim Burton, con la differenza che l’intelligenza del regi­ sta riesce a fare della pellicola una critica radicale a istituzioni politiche e agli stessi modelli tradizionali della SF d’invasione rilanciati poco pri­ ma dall’inutile Independence Day (id., 1999) di Roland Emmerich. Qualcosa doveva cambiare nel gigantesco vicolo cieco in cui il ci­ nema (e con esso la nostra intera cultura) si era infilato, e fu allora che spazio e corpo divennero virtuali. Il che significa: si ricominciò dacca­ po un percorso di conoscenza nei confronti di un oggetto ignoto. Osserviamo un qualunque film incentrato su questo tipo di spazio, da Tron (id., 1982) di Steven Lisberger a Strange Days (id., 1999) di Ka­ thryn Bigelow: le linee formali hanno la sostanza del disegno, ogni ma­ terialità scompare, e quand’anche luci e colori contribuiscano a rende­ re ai luoghi una qualche concretezza la sensazione del percipiente bor­ deggia i confini dell’onirico. Ma, più importante ancora, è soprattutto l’organizzazione dello spazio che mostra enormi differenze rispetto al modello usuale. Il visitatore (ché sempre lo spazio virtuale esiste in quanto potenziale luogo di esplorazione) lo percorre e lo osserva come farebbe con i volumi di un relitto in fondo al mare: esso non è violato o comunque occupato - come tante volte abbiamo visto in una magio­ ne da horror film. Vale a dire, lo spazio virtuale di norma non nasconde trappole mortali, orrori sorprendenti che attendono il visitatore: die­ tro quella porta non si cela un mostro, girato quell’angolo nessun fan­ tasma è pronto a spaventare l’incauto avventuroso. E tuttavia, l’atmo­ sfera che si respira (o meglio, che respira lo spettatore) è altamente te­ sa, la suspense molto forte. Perché mai? Se nulla è là in serbo per il pro­ tagonista - e per noi - tale da spaventarci, impressionarci, minacciarci, perché tanta tensione? Viene in mente Aristotele, che nella sua Poetica identifica la tragedia con la trepidazione che si prova nell’imminenza di una catastrofe (ma anche, bisogna aggiungere, con la “pietà”, che non può andare disgiunta da essa, nei confronti del protagonista tragico). Se il luogo non nasconde nulla che possa sorprenderci, da dove nasce dunque quella strana e forte sensazione di incertezza? Credo che la risposta sia nelle immagini stesse, nel modo in cui il film - qualunque film - costruisce per noi lo spazio virtuale. Normal­ mente in soggettiva, il protagonista si muove in questo spazio altro, non troppo lento e non troppo veloce, stanza dopo stanza, parete dopo

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parete nell’evanescenza delle loro linee di contorno; a ogni svolta un nuovo non-spazio, nuove organizzazioni geometriche dello spazio da percorrere. È a quel punto che la mente dello spettatore si chiede in un lampo: qual è la planimetria dello spazio già percorso? In effetti l’eva­ nescenza dei luoghi virtuali non può che lasciare nella memoria solo una debolissima traccia del percorso, comunque molto più debole di quella che riteniamo in mente nel visitare un luogo reale. In altre pa­ role, l’esperienza dello spazio virtuale esiste unicamente nel momento in cui la facciamo, è un presente assoluto che nella nostra mente non ha un prima né un poi. E allora domandiamoci: quale altro luogo partecipa di questa ca­ ratteristica? La risposta è una sola: il labirinto. Dunque, lo spazio vir­ tuale è labirintico. E le conseguenze di questa sua natura sono alla base della nostra risposta emotiva a esso. In effetti, se teniamo a mente il valore simbolico del labirinto, tale risposta emotiva è del tutto comprensibile: il labirinto, ci dice Karoly Kerény sulla scorta del Kristensen, è il mondo degli inferi. E “la diffi­ coltà del ritorno è una caratteristica del mondo dei morti”. Questo spiegherebbe bene perché, come dicevo, mano a mano che il protago­ nista si addentra nello spazio virtuale, cresce in noi una sensazione di trepidazione e timore indipendentemente dal fatto che noi sappiamo egli non vi incontrerà nulla di pauroso o di pericoloso (con l’eccezione del mito archetipo del labirinto cretese, il minotauro). La paura e il pe­ ricolo, infatti, non sono attributi di qualcosa che può essere nello spa­ zio labirintico: essi lo sono dello spazio stesso in quanto simbolo del più grande oggetto di timore possibile, la morte. Il simbolismo religioso di questa lettura non deve meravigliare. Come riferisce Nathanson, J. B. Jackson sostiene che “nella misura in cui tutto ciò che è associato con l’infinito è sacro, la frontiera era spa­ zio sacro”. E che cosa è più “ associato con l’infinito” dello spazio pro­ fondo, il quale, come sappiamo bene, è a sua volta, molto trekkianamente, “l’ultima frontera”? Labirintico o meno, l’entrata in scena dello spazio virtuale com­ porta un’ulteriore riflessione, relativa alla ragione per cui, proprio alla vigilia della conquista dello spazio profondo la nostra cultura si è in­ troflessa al punto da creare uno spazio fittizio e alternativo con cui fo­ raggiare l’immaginario cinematografico (e anche letterario). Lo spazio stava diventando troppo stretto, dicevo più sopra. Certo, ma solo per­ ché, ancora una volta abbiamo preso l’immaginario per realtà. Come dice la Spigel, è vero che le nostre conoscenze dello spazio furono (e sono) unicamente affidate alla volgarizzazione televisiva; è vero, cioè, che in realtà dello spazio e di quanto si sta facendo per la sua conquista noi non sappiamo nulla e non siamo in grado di saperne nulla. Ma è

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altresì vero che, davanti a questa impossibilità, la carta dello spazio vir­ tuale ci permette di eludere il problema creandone uno falso che assor­ be pressoché l’intera attività del nostro immaginario fantascientifico. Soprattutto se la virtualità opera in modi ben noti ai modelli magici che presiedettero a una gnoseologia prescientifìca. In altre parole, è ben difficile sopprimere il fascino di credenze ancestrali che la nostra scienza ha reso obsolete, ma che per tanto tempo hanno fondato la no­ stra fantasia e i nostri stessi modi di conoscenza. L’esempio più eviden­ te e probante è nel Holodeck inaugurato dalla seconda serie televisiva di Star Trek, un luogo dove è possibile ricreare virtualmente gli ambien­ ti e i personaggi più diversi e anche veri e propri modelli narrativi con i quali interagire. Insomma, un gigantesco e pressoché illimitato iper­ testo le cui potenzialità, spaziali e non, sono incalcolabili. Particolar­ mente interessante, in questo senso, è la qualità masturbatoria dell’in­ venzione: sul ponte ologrammi i singoli membri dell’equipaggio si re­ cano per rilassarsi e distrarsi, soprattutto in momenti di particolare stress o turbolenza emotiva. In alcuni casi tale qualità masturbatoria cessa di essere simbolica e diventa pressoché letterale, come nel caso dell’ingegnere capo della sala macchine, Geordie, che sul ponte olo­ grammi ricrea un’immagine di un ingegnere donna, al momento in vi­ sita sull’Enterprise, molto più adeguata ai suoi appassionati sentimenti verso di lei, che fino a quel momento si è rivelata polemica e scostante. Mi sembra alquanto interessante che le estreme propaggini della scienza e della tecnologia (tanto estreme da acquisire il proclitico FAN­ TA) ci riconducano ai modelli magici e sostanzialmente mitologici di un’epistemologia arcaica. Non è la prima volta, come sappiamo e co­ me da anni leggiamo, tanto per fare un nome, in Fritjof Capra. In fon­ do anche in una pellicola come Matrix (id., 2000) dei fratelli Wachowski, il cui spazio, a rigore, non coincide con quello della virtualità, la caduta delle barriere fra spazio e tempo grazie ancora una volta alla tecnologia elettronica, e che ricordano non poco le conclusioni dell’ipotesi einsteiniana, sono leggibili come una variante delle mera­ viglie spazio-temporali tramandateci da una ricchissima tradizione mi­ tologica. Che lo spazio della fantascienza, viene da chiedersi, non sia altro che una vecchia storia (o una vecchia percezione) raccontata (o descritta) in forme nuove? Questo, fra l’altro, inficierebbe la tesi di Mark Poster e di altri, secondo cui il cyberspazio gioca un ruolo fon­ damentale nella costruzione di nuove narrazioni. Come che sia, mi sembra evidente la componente di marca calvinista sottesa a questa vi­ sione nella stretta relazione che essa instaura fra l’estremamente gran­ de e l’estremamente piccolo (quei due formidabili poli ricordati da Heidegger entro i quali si muove da sempre la cultura americana), un “universo domestico”, per dirla con Claudio Gorlier, che riflette Firn-

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mensità dell’incommensurabile in un microchip entrando nel quale, dopotutto, gli unici a doversi considerare alieni siamo noi.

Riferimenti bibliografici La definizione degli “espaces louangés” con valore di protezione è in Gaston Bachelard, La poétique de l’espace, PU.E, Paris, 1974, men­ tre la sostanziale coincidenza di western e fantascienza fu rilevata da Horace Gregory, “Guns of the Roaring West”, in Avon Book ofModem Writing n. 2, Avon, New York, 1954; l’idea di spazio slegata da quella di conquista e di potere e invece espressione di passività e mondanità si ritrova in Jodi Dean, Aliens in America. Conspiracy Cultures from Outerspace to Cyberspace, Cornel) UP, Ithaca-London, 1998; i risvolti del volo spaziale connessi alla differenza sessuale sono stati indicati da Constance Penley, NASA/Trek: Popular Science and Sex in America, Verso, London, 1997; l’equazione fra spazio domestico e spazio pro­ fondo è circostanziata da Lynn Spigel, “From Domestic Space to Outer Space: The 1960s Fantastic Family Sit-Com”, in C. Penley, E. Lyon, L. Spigel and J. Bergstrom (eds.), Close Encounters. Film, Feminism and Science Fiction, University of Minnesota Press, Minneapolis-Oxford, 1991, che riporta anche le frasi di von Braun e Houbolt e che più avan­ ti sostiene che le nostre conoscenze dello spazio siano dovute unica­ mente alla volgarizzazione televisiva; la frase sullo spazio come deserto da colonizzare è di Paul Nathanson, Over the Rainbow. “The Wizard of Oz as a Secular Myth of America”, State University of New York Press, Albany, 1991, il quale riporta anche la frase di J. B. Jackson sulla frontiera come spazio sacro; il labirinto come simbolo del mondo dei morti è al centro degli interessi di Karoly Kerény, Nel labirinto, Boringhieri, Torino, 1983; infine il cyberspazio come veicolo per un nuovo tipo di narrazioni è una tesi sostenuta da Mark Poster, “Postmodern Virtualities”, in A. Asa Berger, The Postmodern Presence. Readings on Postmodernism in American Culture and Society, AltaMira Press, Wal­ nut Creek-London-New Dehli, 1998.

Capitolo 13

Uno (anzi due) Star Trek di meno

Quanti modi ci sono di mettere in scena Shakespeare? Alla doman­ da ha da tempo risposto Carmelo Bene col suo Un Amleto di meno', so­ no infiniti e ognuno di essi è un altro che possiamo accantonare. Ma che cosa significa “mettere in scena”? Fino a che punto è richiesta la ce­ lebrata fedeltà al testo originale? Quale numero di eliminazioni e quale di inserimenti è concesso perché legittimamente (e da parte di chi poi?) se ne possa decantare la presenza? Una cosa è certa: Shakespeare è dappertutto e non importa che un film parli di un anziano signore tradito dalle figlie o di un giovanotto che intende vendicare la morte del padre probabilmente eliminato dal­ lo zio perché vengano evocati i titoli di Re Lear e dell’Am/eto. Lo af­ ferma in modo molto chiaro David Reinheimer, il quale specifica viep­ più che si può alludere a Shakespeare “in due tipi d’azione, quella on­ tologica e quella etica”. In particolare, continua il critico,

Ontologicamente, Shakespeare fornisce una fondamentale definizione della natura umana ed infonde anche un’ambivalenza teatralmente au­ toriflessiva fra realtà e illusione. Eticamente, il modo di sentire shake­ speariano fornisce modelli d’azione. Molto interessante, soprattutto se si va a verificare di quali eredi o imitatori, se si preferisce - Reinheimer sta parlando: le prime due se­ rie di Star Trek, quella originale e La nuova generazione. Nel suo breve e intenso saggio - a dire il vero completamente de­ dicato alla seconda serie - Reinheimer dimostra puntualmente quanto affermato più sopra. A noi tuttavia il suo discorso interessa soltanto per indicare come persino una critica accademica avveduta ha letto in Star Trek una componente shakespeariana che non può essere negata o sottovalutata. La messa in scena di Shakespeare, insomma, passa anche per Star Trek. Che passasse per la fantascienza lo sapevamo almeno dai tempi

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di II pianeta proibito (Forbidden Planet, 1956) di Wilcox; e dunque perché non anche per lo spettacolo principe deella fantascienza con­ temporanea? I migliori autori del genere si sono cimentati nella prima serie alla fine degli anni Sessanta, e del resto è nota la sofisticatezza letteraria sia di questa che di La nuova generazione. Non si tratta, attenzione, di semplici citazioni, ma di modelli che più d’una volta Star Trek ha de­ sunto dall’opera del Bardo. Nella prima serie si possono annoverare con certezza gli episodi “Il gatto nero”, “La magnificaneza del re”, “Requiem per Matusalemme” e “Elena di Troia”, rispettivamente ri­ conducibili a Macbeth, Amleto, La tempesta e La bisbetica domata (di La nuova generazione vedremo in seguito). Non è mia intenzione entrare nel dettaglio di questi episodi, ma semplicemente tentare una configurazione del modo in cui è in essi rin­ venibile una presenza shakespeariana al di là della pura e semplice ci­ tazione. D’altra parte, è bene non dimenticare che se ogni epoca ha letto Shakespeare a modo proprio (si pensi soltanto alle assurde rivisitazioni di Nahum Tate, esemplate in una bella antologia sull’imitazione lette­ raria di Fink e Almansi, e a quanto, più in generale, lo Schucking ha scritto sull’argomento nel suo Sociologia del gusto letterario) anche gli anni Sessanta, e in particolare un loro prodotto ben riconoscibile come la prima serie ideata da Gene Roddenberry, hanno diritto a una loro “interpretazione”. Forse nessun autore come Shakespeare ha innescato in modo tanto forte la polemica fra arte popolare e arte d’élite, e mi sembra chiaro che sia la prima che la seconda serie trekkiana hanno esemplato un’idea del Bardo che è quella coltivata dalla cultura di massa nei con­ fronti dell’Arte con la A maiuscola, lasciandosi sfuggire la forte com­ ponente popolare dell’opera shakespeariana. È quel che sostiene Emily Hegarty, e non senza ragione, ma prendendo spunto da questo per al­ largare vieppiù la distanza che, a suo avviso, in La nuova generazione è leggibile fra i due prodotti. In realtà il punto non è che Star Trek si propone come uno spetta­ colo popolare mentre l’opera shakespeariana può vantare almeno due livelli culturali (elitario e di massa, appunto). Il punto è invece che, fra le altre cose, l’uso che Star Trek ha fatto di Shakespeare è spia di una valenza culturale della serie molto più alta di quanto in genere non si creda. Ne “Il gatto nero” la lotta per il potere che deriva dritta dal model­ lo fornito da Macbeth si identifica in una lotta per la conoscenza e si arricchisce di simbologie sessuali degne della letteratura più sofisticata (il possesso della fallica bacchetta magica che la perfida Sylvia tenta di

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afferrare» per esempio). Del resto, forse non è un caso che la sceneggia­ tura dell’episodio sia dovuta alla penna provetta di Robert Bloch. La critica femminista americana si è sbizzarrita a leggere la presenza shakespeariana in Star Trek dall’angolazione che le è congeniale, giun­ gendo alla prevedibile conclusione che sia la serie sia il Bardo denuncia­ no lo stesso granitico maschilismo, lo stesso “fundamental sexism”, co­ me lo definisce Mary Buhl Dutta. Conclusione certo condivisibile, che però non ci porta avanti di un passo nella conoscenza e nella valutazio­ ne del rapporto fra l’opera di Shakespeare e la serie in questione. Il pro­ blema è sempre lo stesso che la nostra cultura sta dibattendo ormai da decenni: se continuiamo a insistere sulla componente fascista dell’ope­ ra di Céline continueremo a trascurare quello che essa ha da darci al di là dei suoi limiti strettamente ideologici. Allo stesso modo, nel bellissi­ mo “La magnificenza del re” (ma il titolo originale diceva: la coscienza del re, alludendo ovviamente al famoso verso deU’Am/eto), il tratta­ mento del personaggio di Lenore può essere certo il frutto di una visio­ ne e di una concezione sessiste del mondo, ma questo non rende mini­ mamente conto dell’enorme tragedia che l’episodio sottende, quella re­ lativa a un’insopportabile colpa storica che un individuo deve portarsi dietro per tutta la vita, scegliendo non a caso da quel momento in poi la professione dell’attore per mascherarsi davanti agli uomini, sì, ma an­ che davanti a se stesso e all’enormità del crimine che egli ha commesso. Ecco dove Shakespeare entra legittimamente in scena: non tanto per­ ché il momento della verità giunge quando Karidian e Lenore stanno recitando Amleto, quanto perché qui il testo trekkiano ha trovato la metafora giusta per rendere l’idea della mostruosità del crimine e del senso di colpa che ne è derivato per chi l’ha commesso. Chiunque abbia letto non tanto Amleto quanto Macbeth (con una scena del quale si apre non a caso l’episodio) sa di che cosa sto parlando. Sul versante della commedia le cose non vanno diversamente. An­ zi, in un certo senso i riferimenti a Shakespeare appaiono più diretti, più letterali. “Requiem per Matusalemme” è senza dubbio una versio­ ne riconoscibile di La tempesta. Ma complicata dal fatto che il rappor­ to fra il Prospero e la Miranda di turno non è semplicemente quello fra un padre e una figlia: Rayna è infatti una androide, e se fra lei e Flint vige un rapporto di “creazione”, quest’ultimo nutre per lei anche una passione d’altro tipo che non può venire soddisfatta dal momento che la ragazza è incapace di provare sentimenti (si noti, fra l’altro, che tale complicazione immette nel testo, sia pure in modo molto indiretto, un classico tema del teatro elisabettiano e giacomiano come quello dell’in­ cesto). È il personaggio di Kirk-Ferdinand a innescare in lei questa pos­ sibilità, incoraggiato dallo stesso Flint che a quel punto spera di poter finalmente essere amato dalla sua creatura, la quale invece morirà pro-

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prio per esser giunta a questa nuova, insopportabile scoperta. “Re­ quiem per Matusalemme” è agli antipodi degli altri episodi sopra cita­ ti: in questi la presenza di Shakespeare era leggibile nello spessore dei problemi agitati e nelle soluzioni retoriche adottate per esemplificarli; nell’altro il modello narrativo è desunto da un’opera shakespeariana, ma il problema proposto, pur vantando una densità definibile come shakespeariana, deriva chiaramente da una tematica che nasce su un terreno fantascientifico. Altrettanto “fedele” è l’ultimo episodio che abbiamo citato, “Elena di Troia”, storia dell’educazione alla civiltà di una riottosa regina ga­ lattica da parte di Kirk. La Bildung non è motivata da un matrimonio fra i due, ma dalla ragion di stato: il matrimonio infatti c’è (o meglio, ci sarà), ma fra la donna e il capo di un pianeta rivale. Già l’intreccio fra vita privata e sentimenti individuali da un lato e diplomazia e poli­ tica dall’altro ha un sapore alquanto shakespeariano (dalle cosiddette Storie Inglesi a Antonio e Cleopatra l’opera del Bardo ne abbonda), ma non v’è dubbio che l’episodio sia in gran parte un calco della famosa commedia: Ellan che scaglia oggetti per tutta la stanza è un calco di Ca­ terina e non molto diverso da Ferruccio è Kirk che con la fermezza del militare abituato al comando le impartisce una lezione cosi efficace da fare innamorare la donna di lui. Il tema dello scontro fra i due sessi - un vero e proprio ristorante per l’affamata critica femminista - è una costante dell’intero teatro eli­ sabettiano, e forse non è difficile trovare nell’episodio in questione (so­ prattutto verso la fine) tracce di altri autori e testi (Una donna uccisa con la dolcezza di Thomas Heywood per esempio). Shakespeare - o meglio, alcune sue opere - funge da sottotesto in questi ultimi due episodi che si propongono in fondo come remake. Nell’insieme, in conclusione, la prima serie di Star Trek asseconda e conferma un dato culturale e strutturale che mi sembra sia a fonda­ mento della produzione fantascientifica: la messa in scena del passato. In altre parole, i modelli narrativi e ideologici della fantascienza sono dopotutto un riciclaggio, su uno sfondo tecnologicamente avanzatissi­ mo, di quelli forniti dalla tradizione culturale, e la fantascienza non fa che reinscenare il passato aggiornandolo a un futuro immaginario. Nei suoi prodotti migliori questo passato ripropone problematiche che la fantasia morale degli autori tenta di risolvere allo stesso modo in cui, su piani evidentemente differenti, farebbero un sociologo, uno psico­ logo, un politologo eccetera. Come autore principe di problematiche profondamente umane, Shakespeare fornisce anche a Star Trek mate­ riale per riconsiderarle i forma interrogativa e per rispondere alle esi­ genze che esse pongono.

UNO (ANZI DUE) STAR TREK DI MENO

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È vero, d’altra parte, che la serie originale utilizza il materiale shakespeariano in una chiave e in un contesto adeguati alia dominante culturale dell’epoca. Star Trek, intendo dire, è una serie chiaramente radicata in quegli anni Sessanta che ne videro la nascita, e di quel periodo si porta dietro, per esempio, una concezione della società e dei rapporti umani di chiaro stampo patriarcale. Per questa ragione è facile rilevarvi - come tanta critica femminista americana ha fatto - una pre­ cisa riproduzione dell’organizzazione dei ruoli in termini (anche, ma non soltanto) sessuali, del resto in linea, a parte qualche leggera modi­ fica, con l’organizzazione del mondo e della società ai tempi dello stes­ so Shakespeare. In La nuova generazione l’angolazione si sposta sensibilmente. In­ tanto, non vi si rintraccia facilmente un qualche calco dell’opera shake­ speariana. L’unico episodio che in qualche modo può rientrare in que­ sta casistica è il bellissimo “La misura di un uomo”, che a me sembra un’evidente parafrasi di II mercante di Venezia. Costretto a lottare giu­ ridicamente per non essere smembrato da un ingegnere della Federa­ zione che intende creare una vera e propria razza di androidi simili a lui, Data (e con lui il suo avvocato difensore, Picard) perora la propria causa di individuo in modo non dissimile dal famoso monologo di Shylock. Per il resto Shakespeare non manca certo all’appello lanciato dalla seconda serie, ma in modo diverso dalla prima. Opere del Bardo vengono recitate in più d’un episodio (l’Enrico V nella sequenza che precede i titoli di “Il traditore”, per esempio), ma soprattutto Shake­ speare viene preso a riferimento di una concezione dell’uomo di carat­ tere prettamente umanistico, una sorta di bocca della verità relativa­ mente a ciò che va onorato, tesaurizzato, preservato e difeso di quella che intendiamo come umanità. In II ritorno di Q assistiamo forse all’episodio più rivelatore in questo senso: davanti alle reiterate avances di Q, il quale tenta satanicamente vari ufficiali dell’astronave con l’offerta di superpoteri, Picard risponde citando VAmleto, ma ribaltan­ do il valore originario dei versi. In particolare, quando il principe af­ ferma “Che capolavoro è l’uomo!” egli tinge chiaramente d’ironia il suo discorso, lasciando fra l’altro intravedere l’inizio della crisi degli ideali umanistici rinascimentali. Picard invece prende le sue parole alla lettera e le usa per gettare in faccia a Q il suo disprezzo e il suo rifiuto di abiurare a ciò che rende umano l’essere umano. Si comprende bene perché Picard ha come livre de chevet le opere di Shakespeare e perché non si contano gli episodi in cui egli cita il poeta non solo delle opere teatrali ma anche dei sonetti. Shakespeare diventa in La nuova generazione il referente primario di quello che è il vero sottotesto della serie: la ricerca e la difesa dell’umanità dell’individuo.

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Come si vede, siamo alquanto lontani dal canale shakespeariano che aveva alimentato gli episodi della prima serie più sopra citati. Il mondo di La nuova generazione è un mondo che risente in modo drammatico della crisi del soggetto che da tempo scuoteva l’ambito del postmoderno. In un contesto fatto delle illusioni create dal holodeck, della minaccia rappresentata da quell’incrocio fra organico e inorgani­ co che sono i Borg, dalla potenza semidivina dell’onnipresente e peri­ colosissimo Q, ma anche - se non soprattutto - dall’agitata, dramma­ tica, problematica personalità dei singoli personaggi del ponte di co­ mando, non meraviglia che Picard identifichi in Shakespeare (cioè in un grandissimo autore che ha esplorato come nessun altro gli abissi dello spirito e il duolo della condizione umana) la “struttura di riferi­ mento” del suo credo umanistico, poco importa se messo in serio dub­ bio da Shakespeare stesso. La lettura che La nuova generazione fa di lui è la testimonianza di un’idea ottantesca del Bardo che si configura co­ me eredità di una cultura umana, di un’idea dell’uomo come individuo pensante e senziente. Shakespeare, insomma, vi personifica ciò che per Star Trek il passato deve consegnare al futuro perché il problema di Da­ ta non si ribalti e la vecchia favola di Pinocchio - l’iter da oggetto a sog­ getto - non diventi la cupa predizione di quello che da tempo sta acca­ dendo sotto i nostri occhi: la dissoluzione del soggetto in un oggetto e dell’oggetto in illusione.

Riferimenti bibliografici Le rivisitazioni di Shakespeare operate da Nahum Tate, insieme a quelle di altri autori fra i Sei e il Settecento, si ritrovano nella classica antologia curata da Guido Almansi e Guido Fink, Quasi come, Bom­ piani, Milano, 1976, mentre le informazioni sulla diversa recezione dell’opera shakespeariana nello stesso periodo si rintracciano in Ri­ chard Schucking, Sociologia del gusto letterario, Rizzoli, Milano, 1977; tutte le altre notazioni e citazioni vengono da un esemplare nu­ mero dalla rivista Extrapolation, 36, I, Spring 1995, dedicata a Star Trek e Shakespeare: in particolare, il discorso sulla visione ontologica ed etica di Shakespeare è trattato nel saggio di David Reinheimer, “On­ tological and Ethical Allusions: Shakespeare in The Next Generation”, quello sull’opera di Shakespeare dal punto di vista della cultura di mas­ sa e di quella popolare è invece di Emily Hegarty in “Some Suspect of III: Shakespeare’s Sonnets and ‘The Perfect Mate’”, e infine quello di Mary Buhl Dutta sul “fundamental sexism” del Bardo e di Star Trek in “Very Bad Poetry, Captain: Shakespeare in Star Trek”.

Capitolo 14

Consummatum west, ovvero: sulla traslazione retorica di un mito cinematografico americano

In coincidenza con la grande crisi che aveva investito Hollywood dopo l’avvento della televisione, ma anche con la nuova piega che l’espansionismo politico americano stava prendendo a ridosso della se­ conda guerra mondiale e soprattutto della guerra di Corea, la produ­ zione di western cinematografici lungo l’intero arco degli anni Cin­ quanta subì un’importante sterzata in relazione ai modi, alle strutture, all’iconografia, ai valori stessi che avevano vitalizzato il genere sino a quel momento. Pellicole come Winchester ’73 (id., 1950), L’uomo di Laramie (The Man from Laramie, 1955), Dove la terra scotta (Man of the West, 1958) di Anthony Mann o Decisione al tramonto (Decision at Sun­ down, 1957), Il cavaliere solitario (Buchanan Rides Alone, 1958), La valle dei Mohicani (Comanche Station, 1960) di Budd Boetticher, pur mantenendo alcuni dei riferimenti che erano stati a fondamento del western americano, sembrano mostrare il genere come qualcosa che non è più identificabile nell’usuale formula che aveva reso grandi regi­ sti tra loro diversissimi come Hawks e Ford. Del resto, lo stesso Ford di lì a poco, nello splendido L’uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, 1962), e anche prima lo stesso Hawks, nel celebre Un dollaro d’onore (Rio Bravo, 1959), avrebbero lasciato intravedere quanto il mutamento in atto stava investendo anche vecchi maestri del loro calibro. Se poi pensiamo alle avvisaglie che già si erano avute in questo sen­ so sin dagli anni Quaranta con opere come II mio corpo ti scalderà (The Outlaw, 1943) di Howard Hughes, Duello al sole (Duel in the Sun, 1945) di King Vidor e Notte senza fine (Pursued, 1947) di Raoul Walsh, non possiamo non concludere che lo sviluppo - e anche la de­ cadenza - del western era cosa ormai scritta nel suo non lontano desti­ no.

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Questo sviluppo e questa decadenza prendono ovviamente diverse forme, spesso connesse a singole personalità autoriali, e dunque non si prestano facilmente a una sicura ed esauriente classificazione. Tuttavia, non credo sia azzardato affermare che la tendenza generale è quella di “riformare” il genere proprio in relazione a ciò che maggiormente l’aveva caratterizzato: lo spazio. Quale che sia il regista che intendiamo osservare non v’è dubbio che la sua idea e il suo uso dello spazio appa­ iono ben lontani da quelli che avevano informato le grandi opere nor­ mative del genere. Anthony Mann impiega ancora il paesaggio, ma lo piega, come ha giustamente segnalato Jim Kitses in Horizons West, nel­ la direzione di una funzione psicologica connessa al dramma dei suoi personaggi. In lui sono ormai lontane le praterie sconfinate, i deserti aridi e pittoreschi. Frastagliato e ruvido, il suo paesaggio si denota per le linee scoscese, ripide, trasversali e nell’insieme per una qualità mon­ tana che parla della necessità di un’ascesa verso vette di una purezza non diversa da quella che cercano drammaticamente i suoi protagoni­ sti inseguiti spesso da un passato di vergogna ed errore. Quando addi­ rittura anche Mann non passi al western da camera, come in Dove la terra scotta, pellicola nella quale la maggior parte dell’azione dramma­ tica si sviluppa fra le mura di una baracca di legno. Boetticher resta invece ancorato alla pianura, ma non siamo più nel paesaggio fordiano, arido, sì, però pronto a essere soggiogato dal lavoro indefesso dei pionieri, dal loro messaggio concreto di civiltà del lavoro e della produzione. Il deserto di Boetticher, come ha scritto be­ ne ancora Kitses, è “nudo e ostile, un paesaggio crudele e vuoto, per­ manente e senza mutamenti, che rimpicciolisce le figure che vi si muo­ vono per un certo tempo”. Un luogo insomma, come afferma uno dei suoi personaggi, per attraversare il quale è necessario avere un motivo, una ragione. Il punto è proprio questo. Mentre in passato quel luogo era stato at­ traversato per una ragione “storica” (l’avanzata verso Ovest e la sua co­ lonizzazione), in parecchio western cinquantesco la motivazione è un’altra, e di norma legata alla vendetta, dal Mann di Winchester '73 e Duomo di Laramie ai Boetticher di 1 sette assassini (Seven Men from Now, 1956) e Decisione al tramonto. In altre parole, l’Ovest, la pianura, la prateria, il deserto smettono di essere una scoperta e diventano un te­ atro, un luogo cioè che funge da spazio ove si dipana un dramma intimo, personale, familiare. L’epica se n’è andata, è di scena il melodramma, vale a dire quell’enorme supergenere che dominò gli anni Cinquanta a Hollywood e che in taluni film riuscì persino a rasentare la fonte storica originaria della sua stessa esistenza, l’opera lirica (come definire altri­ menti un western quale Johnny Guitar [id.l, 1954, di Nicholas Ray? o per taluni versi anche Rancho Notorious [id.], 1952, di Fritz Lang?).

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Il grande protagonista scenografico e ideologico del western clas­ sico, lo spazio, dunque, si restringe, o quantomeno vede ridursi il pro­ prio senso, il proprio valore, il proprio destino. Siamo nel decennio in cui Einstein pubblica Cinquantanni di relatività e l’America sta cor­ rendo a perdifiato nella sfida astronautica con l’Unione Sovietica, lo spazio, la prateria, il deserto sono diventati altri, stanno in un luogo diverso e obbediscono a leggi che più che di una pergamena hanno bi­ sogno di una lavagna per essere stabilite ed elencate. E soprattutto si stringe (cioè si evidenzia) vieppiù il rapporto funzionale fra lo spazio e il tempo: Sam Peckinpah entra sulla scena western. La morte cavalca a Rio Bravo (The Deadly Companions, 1961) e Sfida nelLAlta Sierra (Ride the High Country, 1961) saranno le prove generali della rivoluzione che Peckinpah farà esplodere alla fine del de­ cennio seguente con II mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969). In essi tuttavia non si intravede molto più che un senso del tempo meno teso e dinamico di quanto non fosse nel western classico. I suoi eroi at­ tempati avrebbero certo aperto la strada ai vari Will Penny e Monte Walsh delle pellicole omonime (Tom Gries, 1968, e William Fraker, 1970), ma ancora siamo lontani dalla radicale revisione dell’epopea western compiuta con II mucchio selvaggio. Pure, non dimentichiamo che già in La morte cavalca a Rio Bravo il paesaggio si presenta con caratteristiche infernali, adeguato cioè all’odissea spirituale dei suoi eroi (Kitses). Siamo insomma lontani dalla bellezza pagana e in qualche modo oggettiva della Monument Valley fordiana, dall’imponenza in­ differente di rocce, canyon, monti, picchi e praterie. Un po’ come in Anthony Mann, ma senza il fascino della natura che l’autore di Là dove scende il fiume (Bend of the River, 1952) sente e ci trasmette, sin dall’inizio gli eroi di Peckinpah si ritrovano in un ambiente che si me­ ritano, adeguato alle loro colpe o, nel migliore dei casi, al percorso morale che sono chiamati a coprire. Il mucchio selvaggio segue nel tempo il western leoniano e in certa misura risente della sua esperienza, e dunque non rientra nella mia trattazione. Tuttavia non posso non rilevare come Peckinpah abbia in quel film (e in altri suoi posteriori) portato alle estreme conseguenze qualcosa che proprio in Leone rintracciamo in modo sicuro e inequi­ vocabile: una diversa concezione del tempo. Ai fini dello sviluppo e del proseguimento dell’azione (prima e au­ rea regola del film hollywoodiano) talune scene western potrebbero apparire sacrificabili. Esse si incentrano sul paesaggio, sull’avanzare delle mandrie, sulla visione delle umili condizioni di vita negli agglo­ merati del West, su tutto quello che nella narrativa romantica, ponia­ mo, di un Walter Scott (non a caso maestro riconosciuto del primo grande autore western americano, James F. Cooper) veniva indicato

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come “descrittivo” (o “descrizione naturale”). Eppure, potremmo dav­ vero fare a meno dei campi lunghissimi che Ford ci ha dato della Mo­ nument Valley o della celebre partenza delle mandrie - citata direttamente da Peter Bogdanovich in L’ultimo spettacolo (The Last Picture Show, 1971) e indirettamente da Dick Richards in Fango, sudore e pol­ vere da sparo (The Culpepper Cattle Company, 1972) - in II fiume ros­ so (Red River, 1948) di Howard Hawks? Naturalmente no. Oltre al va­ lore spettacolare (un altro inalienabile comandamento hollywoodiano) che scene del genere possono vantare, la grandezza di questi maestri ha fatto sì che anch’esse divenissero parte integrante e significante del film, talché la famosa sequenza del ballo sociale davanti alla chiesa in costruzione in Sfida infernale (My Darling Clementine, 1946) si pre­ senta non solo come la ricostruzione di un momento leggero e rinfran­ cante della vita quotidiana nel Far West, ma anche come la registrazio­ ne metaforica di un ulteriore scalino dell’avanzata della civiltà bianca (compreso il suo senso religioso) in quelle plaghe. A prescindere da tutto questo, peraltro, il western classico aveva sempre mostrato un uso sapiente ed economico nel ritmo dell’azione, sfruttata ai suoi minimi termini in funzione dello showdown, dello scontro del momento culminante della resa dei conti. In II mucchio selvaggio già a partire dai titoli di testa ci rendiamo conto che qualcosa è cambiato nella concezione del tempo. A ogni sin­ golo credit corrisponde un freeze-frame che vira dal colore a una sorta di bianco e nero seppiato nel momento, appunto, dell’immobilità. Ma attenzione, non è semplice formalismo estetizzante: come ha ben scritto Richard Slotkin nel miglior studio americano sul mito delia frontiera,

I volti in questi freeze-frame appaiono più sinistri e simili a teschi dei loro originali colorati, suggerendo la visione di una sottostruttura fa­ tale e mortale del mondo normale.

Ovviamente, su questo terreno, è d’obbligo citare il tipico ralenti peckinpachiano: una tecnica che, come dice acutamente Stephen Prin­ ce, “offre uno sguardo privilegiato sui misteri metafisici della morte violenta”, ma soltanto attraverso la dialettica che essa instaura con il tempo regolare mantenuto dalla colonna sonora e con un montaggio che alterna i brani in ralenti con quelli di passo normale. Che una diversa concezione del tempo entri nel western negli anni Sessanta non è cosa che possa meravigliare. Già all’inizio di quel de­ cennio Danno scorso a Marienbad e Otto e mezzo avevano portato su­ gli schermi europei la loro “rivoluzione”. La concezione del tempo che vi si evinceva, tuttavia, era filosofica e non strumentale, teorica e non pragmatica. Nel cinema americano - e nel genere che “per eccellenza”,

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a dirla con Rieupeyrout, lo rappresenta - le cose non potevano andare se non nel senso in cui andarono. La frammentazione del tempo - que­ sta grande costante del modernismo - vi trovò luogo non in termini di elaborazione intellettuale, ma di tecnica narrativa, di artifìcio suggesti­ vo e talora mirabolante che distruggeva la celebrata funzionalità eco­ nomica della retorica narrativa tipica del genere. Ovviamente anche quella tecnica era funzionale, ma si denunciava subito lontana dalla struttura usuale della fiction cinematografica di carattere western. E l’impatto è fonte di non poco shock, come del resto avviene quando un qualunque genere popolare (letterario o cinematografico che sia) adot­ ta tecniche sperimentate dalle più alte e sofisticate forme narrative isti­ tuzionali. Nel 1929 e nel 1930, rispettivamente, William Faulkner pubblica The Sound and the Fury e As I Lay Dying; più di vent’anni do­ po, Theodore Sturgeon presenta ai lettori di fantascienza Dreaming Jewels e More Than Human, probabilmente le sue cose più vicine al magistero faulkneriano, e ancora oggi c’è chi concorda con Stanislaw Lem il quale lo definì “produttore di proliferante mistificazione”. Ma II mucchio selvaggio viene dopo la trilogia leoniana, e non so quanta critica ha scritto del debito che il western americano, dalla fine degli anni Sessanta in avanti, ha nei confronti dell’autore di Per un pu­ gno di dollari. E Peckinpah prima degli altri. Naturalmente in questo c’è del vero. Ma non dimentichiamo che se ciò che omologa l’impostazione leoniana e quella di Peckinpah è la preponderante costante della violenza, d’altra parte i modi della loro messa in scena nei due autori sono diversissimi. L’Ovest di Leone è un luogo della mente: non ha connotazioni sto­ rico-geografiche definite e precise e, ciò che più importa, come ha det­ to benissimo Lee Clark Mitchell nel più ammirevole studio critico a tutt’oggi mai scritto sul western, Leone smitizza “una tradizione che ri­ sale sino a Cooper, quella della wilderness americana come teatro di ri­ generazione morale”. Le sue cittadine sono fantasmatiche, non vi si re­ spira vita né sviluppo (Ferrini), e in ultima analisi si presentano come immagini della morte. Leone ha compreso bene la mutazione che il ge­ nere western aveva subito negli anni Cinquanta, aveva compreso bene la sua nuova direzione operistica (o comunque melodrammatica) di cui si diceva più sopra e l’ha portata alle estreme conseguenze. I suoi tempi dilatati sono appunto quelli del teatro lirico, i suoi interminabili primi e primissimi piani (“feticismo del close-up”, ha definito Robert C. Cumbow questa sua pratica) equivalgono a degli assolo, nei quali pa­ radossalmente la drammaticità è espressa in termini di immobilità, di fissità, intesa peraltro come preludio all’azione. Ma l’azione stessa, do­ potutto, è espressa in termini statici: essa non è più il culmine al quale ha portato ogni linea di forza del film, bensì la figura concreta, tangi­

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bile della morte che aleggia sul luogo dell’evento (o del non-evento), breve, veloce, ripetuta com’è lungo l’arco del film. Non insisterò sulle differenze fra Leone e Peckinpah, che Mitchell coglie così perfettamente (per esempio nelle sue considerazioni sulla fondamentale funzione narrativa della musica nel regista italiano), poi­ ché mi interessa invece portare ancora oltre la lettura della scenografia e della drammaturgìa leoniana onde tentare di dimostrare la difficoltà di una comparazione con il western americano che pure il suo cinema ha contribuito a cambiare. La totale indenotabilità della scena western leoniana, quella sua apparenza da arido, scosceso, roccioso deserto senza alcuna traccia di vita (a differenza da quello americano, notoriamente un living desert, un “deserto che vive”) lo suggerisce, come si diceva, più in termini di scena della mente che non dello spazio. E i “caratteri” di questo teatro vi si muovono di conseguenza (dato e non concesso che vi si muova­ no). Non credo si tratti di illazione intellettualistica intendere l’intero impianto come la versione popolare di un dramma metafisico beckettiano. Scrive Mitchell: [...] la macchina da presa segue i volti non per sondare una psicologia ma semplicemente per registrare l’impossibilità di una conoscenza del personaggio maggiore di quella che se ne ha ad una prima occhiata come se il nostro interesse nella maschera di un volto sia semplicemen­ te nel riconoscerlo come maschera, rendendoci conto di quanto poco rivelatrice essa sia, di quanto poco sentimento possa avere un essere che si presume animato. Un paesaggio senza connotati, un’immobilità diffusa, volti che so­ no maschere, assenza di psicologia: non è forse quanto ritroviamo in un dramma di Beckett? Il modernismo di Leone, tuttavia, si esercita operando su un canovaccio fornito da una gloriosa tradizione cultura­ le, da una mitologia che non è lui a creare ex novo, ma che è lui a ri­ maneggiare in quei termini aggiornati. Non può meravigliare che il western di Leone abbia abbandonato completamente i valori che avevano caratterizzato il genere nel passa­ to. Non può meravigliare l’assenza di ogni riferimento morale, di ogni volontà di riscatto, di qualunque “regeneration through violence”, per dirla nella formula felice coniata da Richard Slotkin per il suo monu­ mentale studio sulla mitologia della frontiera americana. “Demigods in a diminished landscape”, definisce Mitchell i personaggi della saga le­ oniana (altrove aveva addirittura sostituito la parola “landscape” con “facescape”, alludendo all’insistenza del regista per i primi piani): ciò che certamente non si può dire dei personaggi di Peckinpah, “demi­ gods”, sì, ma in un paesaggio tutt’altro che ridotto. Non si tratta tanto

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di una scelta scenografica e tutto sommato nemmeno strettamente drammaturgica. Si tratta invece dell’usuale abitudine americana (e del western in particolare) all’utilizzazione del paesaggio in funzione mo­ rale, una sorta di pathetic fallacy nella miglior tradizione letteraria ro­ mantica. E non solo letteraria se si ricorda che l’idea negativa che gli Stati Uniti ebbero del paesaggio dell’Ovest lungo gran parte dell’Ottocento mutò al volgere del secolo in una visione radicalmente opposta, cosicché l’ex ministro metodista George Wharton James poteva predi­ care nel suo The Wonders of the Colorado Desert (1906) la bellezza del paesaggio desertico, “strano, magnifico e bellissimo” e pieno di “cose sconosciute alle città”, e anche “un’inesausta fonte di deliziosa sorpre­ sa”. E evidente: all’inizio de) secolo, ormai in pieno processo di urba­ nizzazione, l’America poteva permettersi di scoprire e apprezzare la wilderness, e di lì a poco il neonato cinematografo - riprendendo la tradizione letteraria “bassa” dei dime novels ottocenteschi - avrebbe ufficialmente legato a questa naturale bellezza un’idea di virtù, di ono­ re, di abilità, di integrità che doveva divenire la primaria caratteristica dei suoi abitatori western (cowboy, sceriffi, pionieri e via dicendo). Pe­ ckinpah è l’ultimo, e non poco critico, erede di questa tradizione, del tutto estranea all’opera di Leone. I suoi eroi onorano ancora la parola data (“Quando stai con un uomo devi rimanere vicino a lui, altrimenti sei peggio di un animale”, dice Pike in II mucchio selvaggio), e si me­ ravigliano davanti a chi non si fida del loro impegno (Cable che trasale vedendosi rifiutare un prestito dalla banca in La ballata di Cable Ho­ gue [The Ballad of Cable Hogue], 1970). Ancora una volta è Mitchell ad avere stabilito chiaramente le differenze fra i due registi: il realismo della messa in scena, il codice morale tradizionale del genere e il valore della violenza. E a lui necessariamente rimando. Quel che vorrei invece evidenziare in conclusione è come l’Ovest cinematografico, teatro metaforico della grande avventura pionieristi­ ca e imperialistica americana, magnete e interprete dell’idea di spazio che aveva alimentato tale avventura, ha con gli anni Quaranta visto i suoi ultimi aedi e con gli anni Cinquanta la trasformazione del genere in direzione melodrammatica, lasciando quindi il posto a una produ­ zione che avrebbe, sì, ancora cantato l’Ovest, ma soltanto quello già tradotto in mito dal grande schermo. In altre parole, dagli anni Sessan­ ta in avanti (soprattutto a partire dalla cosiddetta New Hollywood) le pellicole western non sono più interessate a renderci una versione, cer­ to mitologica e storicamente inattendibile, dell’epopea del West, ma una riflessione - volta a volta diversa nei singoli autori, ovviamente sui modi, sui codici retorici, sui valori stabiliti da Hollywood lungo cir­ ca mezzo secolo di storia del genere. Fedele, insomma, alla sterzata me­ tacinematografica che dagli anni Settanta ha investito la produzione

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hollywoodiana, il western si è ripensato e rielaborato. E lo ha fatto a un punto tale da accogliere nel suo alveo di influenza anche l’opera di un autore straniero la cui storia nazionale ben poco aveva a che fare con la tradizione storica della conquista dell’Ovest, ma che fu tra i pri­ mi ad abbracciare la nuova linea metawestern, fornendo a quel cinema ulteriore materiale e ulteriore riflessione perché quel mito non si limi­ tasse a rileggere la storia, ma diventasse rappresentazione critica di se stesso.

Riferimenti bibliografici Le notazioni di Jim Kitses sul paesaggio nei western di Anthony Mann e di Budd Boetticher, nonché in La morte cavalca a Rio Bravo di Peckinpah, sono nel suo fondamentale Horizons West, Thames and Hudson, London, 1969, mentre quelle di Richard Slotkin sui freezeframe dei credit iniziali di II mucchio selvaggio sono nel terzo volume del suo monumentale studio della mitologia della frontiera americana, Gunfighter Nation. The Myth of the Frontier in Twentieth-Century America, Atheneum, New York, 1992, la formula della “rigenerazione attraverso la violenza” essendo il titolo stesso del primo volume della trilogia, Regeneration Through Violence. The Mythology of the Ameri­ can Frontier, 1600-1860, Wesleyan UP, Middletown, 1973; l’osserva­ zione sul ralenti di Peckinpah come “sguardo privilegiato sui misteri metafisici della morte violenta” è di Stephen Prince, Savage Cinema. Sam Peckinpah and the Rise ofUltraviolent Movies, University of Texas Press, Austin, 1998; la celebre definizione del western da parte di JeanLouis Rieupeyrout è nel suo pionieristico studio, La grande aventure du western (1894-1964), Editions du Cerf, Paris, 1971; tutte le citazio­ ni di Lee Clark Mitchell vengono dal suo straordinario libro Westerns. Making the Man in Fiction and Film, The University of Chicago Press, Chicago & London, 1996, e Mitchell riporta anche le citazioni da Franco Ferrini e Robert C. Cumbow fornendone le fonti; le parole di George Wharton James sul deserto sono citate da Ann Farrar Hyde, An American Vision. Far Western Landscape and National Culture, 18201920, New York UP, New York and London, 1990.

Terza parte I film

Capitolo 1

Sentieri selvaggi di John Ford: romanzo familiare

The Searchers: i ricercatori. Ma chi ricerca chi e che cosa? Due donne sono state rapite dagli indiani. Una viene uccisa e l’altra diviene oggetto di ricerca da parte di due uomini inconciliabili. I due sacrifica­ no tutto a quella ricerca: amore» affetti, tempo, denaro. Perché? Il pri­ mo perché la bambina è tutto quello che resta non solo della sua fami­ glia (ammesso egli ne abbia mai avuta una), ma soprattutto dell’unico amore della sua vita, l’altro perché la bambina è davvero tutto quello che resta non tanto della sua famiglia, ma di quella che egli considera tale. Né l’uno né l’altro intendono costruirsene un’altra prima di avere assolto il loro compito: il primo non lo farà mai, il secondo solo a patto di avere ritrovato la ragazza rapita. Il paradosso, come del resto dice anche Peter Lehman nell’ottimo studio a quattro mani con "William Luhr, Authorship and Narrative in the Cinema, è che il film di Ford tutto questo ce lo dice a mezze frasi, ad allusioni, ad accenni, praticamente non giustificando in modo chia­ ro e potente le ragioni caparbie di tanto impegno. Noi, questo impe­ gno, lo assumiamo come garantito, certo, sicuro, e non ci chiediamo perché. E non ci chidiamo che cosa c’è dietro ad esso e a quelle ragioni vagamente suggerite. Questo intersecarsi di motivi trova la sua figura più intricata nelle relazioni parentelari-sentimentali della pellicola. Ethan ama la moglie del fratello Aaron e la cerca nella bambina ra­ pita; Martin si considera figlio della famiglia distrutta, ma aveva una madre bianca a suo tempo anch’essa uccisa dagli indiani; i due searcher sono idealmente zio e nipote, ma questa parentela viene subito negata dal primo. Di più: la storia iniziale si ripete, e come Ethan aveva salva­ to Martin bambino dopo un massacro indiano, così adesso egli cerca un’altra superstite, ma questa volta per ucciderla, come Martin arriva a comprendere bene. A sua volta, Debbie diverrà figlia dei Jorgensen cui si imparenterà anche Martin sposandone la figlia Laurie. I Jorgen­ son, dal canto loro, avevano perso un figlio, ucciso dagli indiani, quello

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stesso che doveva sposare Lucy, sorella di Debbie e in certo modo di Martin, rapita dagli indiani e ricercata dal giovane destinato alla morte come la sua fidanzata. A tracciare un grafico non si capirebbe più nulla. E invece la storia è lineare: tanto lineare quanto una concezione mitica del tempo: astratto, bloccato, iterato, destinato a coinvolgerle le persone nelle me­ desime azioni, nei medesimi drammi. La guerra civile si frappone tra il ritrovamento di Martin e il ritorno di Ethan. È il tentativo della Storia di farsi strada in un mondo ancora abbarbicato al Mito, alla spirale sempre uguale di eventi sempre uguali. In realtà, è soltanto la misura di affetti mai sopiti, a giudicare da come Martha accarezza la divisa confederata di Ethan. I gesti sono sempre gli stessi: Ethan solleva Debbie bambina esat­ tamente come farà anni dopo con Debbie ragazza; una porta scura si apre e si chiude Sull’Ovest e sulla figura solitaria di un uomo che non potrà mai capire la Storia (tanto da rifiutare di accettare la sconfitta del Sud), un uomo che al massimo lascerà vincere il cuore, ma che non si riunirà ad alcuna famiglia. Tutto il film sembra fondato sul desiderio della famiglia, da Martin a Look, da Laurie e Charlie, da Scar a Debbie. Come scrive ancora Lehman, è vero che in questo film così “aper­ to” ricorrono molte immagini di spazio chiuso, di cavità, di riparo. So­ no immagini che tutte riconducono alla famiglia, al bisogno di un luo­ go d’unione e di salvezza (l’intimità di casa Edwards, la serenità di casa Jorgenson, la sicurezza fornita dalle grotte). Ma il dramma si sviluppa, come forse in nessun altro film di Ford, negli spazi aperti del Texas e degli stati limitrofi. Ed è un dramma in cui rapporti fra spazio e tempo esplodono, fondandosi su una logica ir­ reale. É, dicevo, il mondo del mito, e non gli si può richiedere alcuna coerenza. L’unica coerenza che il mito è in grado di fornirci è quella dei “caratteri” per ciò che rappresentano e offrono. Forse per questo il film non impiega dissolvenze incrociate durante la quest: perché non ha possibilità di suggerirci i trapassi del tempo. Il tempo è vissuto, co­ me giustamente scrivono McBride e Wilmington, in modo diverso dai Jorgenson e dai due ricercatori: per gli uni in modo concreto, per gli altri come si trattasse di poche settimane. Perché gli uni sono portatori della Storia (il “futuro”, dicono McBride e Wilmington), gli altri (o meglio, Ethan, ché, come vedremo, per Martin il discorso è diverso) eroi di una vita e di una terra ancora senza Storia. E vero, come afferma molta critica, che questo dramma può essere letto in termini direttamente allusivi all’opposizione Deserto/Civilizzazione e ad altri termini d’opposizione di largo carattere “culturale”; ma è anche vero che tale carattere “culturale” trova espressione nella messa in scena di un unico, grande tabù: l’incesto.

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A un livello minimo esso è già presente all’inizio nel suggerimento di una tacita, platonica relazione affettiva tra i due cognati (Ethan e Martha), chiaramente indicata nel loro comportamento, nei loro sguardi, nei loro gesti. Questa relazione sorregge le ragioni della ricerca di Debbie da par­ te di Éthan. Apparentemente la ricerca riguarda il tentativo di ritrovare l’ultima persona rimasta della sfortunata famiglia. In un secondo mo­ mento ci viene fatto capire, e viene poi detto direttamente da Martin, che Ethan cerca la ragazza per eliminarla in quanto contaminata dal grande peccato americano (si pensi al ruolo che esso, per esempio, ri­ veste nella narrativa di William Faulkner), la miscegenation. La se­ quenza logico-psicologica è sintetizzabile in: Ethan ama Martha - Ethan intende salvarne la figlia Debbie Ethan odia gli indiani - Ethan intende uccidere Debbie perché egli la considera ormai indiana

Tuttavia, non va dimenticato un fattore che tutta la critica fordiana ha ampiamente messo in luce: la sostanziale identità fra Ethan e gli in­ diani (specificamente il capo Scar, un ruolo che, dicono McBride e Wil­ mington, contrariamente alle sue abitudini Ford ha questa volta asse­ gnato a un attore bianco). Da questo punto di vista Scar assolve la fun­ zione di un Es datosi a un impulso libidico incestuoso ed Ethan quella di un Super-Io che intende far giustizia dell’infrazione del tabù. Il film si presta molto bene a tale schematizzazione psicanalitica. Freud, a par­ tire dall’elaborazione della seconda topica, si è intrattenuto sul rappor­ to fra Super-Io ed Es. Egli dice anzi esattamente che il Super-Io è “im­ merso nell’Es”. Se si tiene conto dello strettissimo rapporto che inter­ corre fra Ethan e Scar, e soprattutto di quanto il primo si adegui a ciò che connota il secondo in termini culturali (la lingua, i gesti, l’osser­ vanza - sia pure in negativo, come nella scena dell’accecamento dell’indiano morto - dei costumi Comanche), la frase di Freud chiari­ sce bene il senso di tale rapporto in chiave di lettura psicanalitica. Na­ turalmente in questo quadro Martin è l’immagine dell’Ego. L’Ego, è definito da Freud come “la parte deli’Es che è stata modificata dall’in­ fluenza diretta del mondo esterno attraverso il sistema percezione-co­ scienza”. Non a caso Martin è in parte indiano (un’ascrivibilità razziale che è, per così dire, residuo deli’Es). Ma c’è di più: scrivono Laplanche e Pontalis

(...] secondo Freud, la formazione del Super-io corrisponde al declino del complesso di Edipo: il bambino, rinunciando al soddisfacimento dei suoi desideri edipici colpiti da divieto, trasforma il suo investimen­ to nei genitori in identificazione coi genitori, egli interiorizza il divieto.

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Ora, è chiaro che da questo punto di vista il film è la storia di Mar­ tin, la quale inizia con il declino del complesso di Edipo, vale a dire con la formazione del Super-Io (l’arrivo di Ethan), il quale si mostra subito con lui strettamente “rigoroso”, come Freud afferma. Questa lettura è ulteriormente avvalorata dal fatto che Martin ci viene mostrato fin dall’inizio identificarsi completamente coi “genitori” (cioè quelli che egli considera tali) e anche dal fatto che solo dopo la rivelazione che lo scalpo biondo nella tenda di Scar era quello di sua madre egli osa ri­ bellarsi apertamente a Ethan, mostrando con ciò non un assecondamento delle sue pulsioni, ma il raggiungimento della sua piena, com­ pleta autonomia. Ethan “immerso” in Scar (e nella cultura che questi rappresenta) va a punire se stesso. Giustamente McBride e Wilmington sottolineano lo acting out della distruzione familiare e della violazione di Martha com­ piuti dal comanche in vece di Ethan. Questi non è dunque un giusti­ ziere, ma è Scar stesso nel senso che il suo desiderio inconscio coincide con ciò che Scar ha concretamente operato. La ricerca di Debbie divie­ ne così la verifica dell’infrazione attraverso un viaggio nell’Es. E a que­ sto punto si spiega bene quel senso distorto del tempo di cui si diceva più sopra (una distorsione notata anche da Alan Lovell): l’Es notoria­ mente non ha tempo. Lo spazio stesso, che sembra incredibilmente contratto nelle scene finali, non ha dopotutto le stesse caratteristiche della spazialità onirica? In questo senso possiamo attenderci sin dall’inizio una risoluzione non violenta della vicenda per quel che ri­ guarda Debbie: il vero violatore, il vero colpevole è un altro, non tanto Scar quanto Ethan stesso. Si capisce bene a questo punto che lo stato mitico dell’evoluzione dell’Ovest americano va letto in termini di drammatizzazione dell’in­ frazione di un tabù. Nel momento in cui Ethan avvicina finalmente la ragazza e invece di ucciderla la solleva, egli non solo fa rivivere davanti ai nostri occhi una tenera immagine del passato, ma indica che il con­ flitto è stato risolto. La figura della risoluzione è ovviamente nell’ucci­ sione di Scar, ma non solo essa. Se lo scalpo che egli prende ci indica ulteriormente la sua totale assimilazione ai costumi indiani, a una bar­ barie che ne fa un uomo della non-civiltà (cioè del passato), del tempo dell’America come mito, dell’era in cui la civiltà non era ancora entrata nell’Ovest, è anche vero che il gesto indica un “taglio” risolutivo di ciò che collegava il Super-Io alI’Es. Non a caso noi non vediamo Scar dopo quel gesto: la sua “cicatrice” lascia il posto a un’altra cicatrice, quella che testimonia una separazione netta fra i due, della fine dell’immer­ sione (per dirla con Freud) del Super-Io nell’Es. Da questo punto di vi­ sta è estremamente importante che a uccidere Scar non sia Ethan ma Martin, il quale, come si diceva, in questo quadro funge da Ego. Al Su-

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per-Io non è concessa altro che la possibilità di staccarsi dalla cicatrice (scar) dell’incesto attraverso la nuova cicatrice. Le regole, le istanze morali di cui il Super-Io era il portatore compromesso hanno trovato piena e unica realizzazione in Martin, che non a caso è bianco, sì, ma in parte anche indiano. In questo modo, con Scar non può scomparire anche Ethan che si fa da parte, mentre Martin e Laurie gli passano vi­ cino per entrare nel “futuro” (la casa Jorgenson), attuando quel mo­ dello ierogamico che è la visione junghiana della risoluzione della vi­ cende dell’Ego. Sul piano storico Martin è l’America bianca che peraltro non rifug­ ge (né lo potrebbe) dalla componente razziale indiana nativa nella fon­ dazione della nazione; sul piano psicanalitico egli riassume le istanze controverse incarnate da Es e Super-Io, ma in termini di equilibrio, li­ berando l’Ego (se stesso) e l’America - perché dell’America si è sempre trattato - alla Storia. Venuto da desertiche regioni (che, una volta ancora, sono anche quelle della sua “immersione”) nel rifiuto della Storia (l’Es, si diceva, non ha tempo), Ethan a esse se ne torna: sono le zone di una psicologia del profondo dialetticamente tormentata, sono le zone di una terra che non è ancora nazionale, o meglio, che lo è appena diventata. In questa storia privata - che davvero è il caso di chiamare freudianamente “ro­ manzo familiare” - si snoda un’allegoria della psiche che è un’allegoria dell’America tesa fra Mito e Storia.

Riferimenti bibliografici Sull’allusività all’interno del film e sulle immagini di cavità si veda l’ottimo studio di William Luhr e Peter Lehman, Authorship and Nar­ rative. Issues in Contemporary Aethetics, Putnam, New York, 1977; sul tempo vissuto in modi diversi dai personaggi della pellicola e sull’iden­ tità fra Scar e Ethan si vedano Joseph McBride e Michael Wilmington, John Ford, Seeker & Warburg, London, 1974; le indicazioni freudiane di Laplanche e Pontalis vengono dalla loro Enciclopedia della psicana­ lisi, Laterza, Bari, 1995; la distorsione del tempo e dello spazio nel film è stata notata anche da Alan Lovell nel suo saggio “The Searchers and the Pleasure Principle”, in Screen Education, 17, Winter 1975/76, nu­ mero interamente dedicato, sia pure in funzione di metodologie didat­ tiche, alla pellicola in questione.

CAPITOLO 2

Brivido nella notte di Clint Eastwood: benvenuti in paradiso (e all’inferno)

Qualcuno fa risalire il battesimo di Clint Eastwood come autore a Honky Tank Man (id., 1982), altri addirittura a II cavaliere pallido (Outlaw Josey Wales, 1985). A mio avviso già la sua primissima prova, Brivido nella notte (Play Misty for Me, 1971) è di carattere autoriale, nel senso che vi si scorge non solo un mondo organico che, con le do­ vute variazioni, ritroveremo nei suoi film più maturi, ma anche una concezione dell’immagine, della messa in scena, dei valori metaforici in funzione della storia che testimoniano in quel senso. Brivido nella notte è certo un film legato al periodo in cui fu girato, ma non si deve intendere questa connessione nei termini restrittivi di una supposta “databilità” che non permetterebbe alla pellicola di vive­ re di vita propria anche a lunga distanza nel tempo; bensì come occa­ sione per la costruzione di un’opera che, partendo da un dato epocale, si sviluppa in senso del tutto autonomo alla stesso modo in cui, ponia­ mo, questo avviene, in relazione al New Deal, nei film di Capra o in qualunque buon film di fantascienza anni Cinquanta in relazione al maccartismo. Peraltro, non vanno trascurate altre considerazioni cronologiche. L’inizio del decennio è per Eastwood un momento capitale nella colla­ borazione con Don Siegei. Nel 1968 era uscito L’uomo dalla cravatta di cuoio (Coogan’s Bluff) e nel 1970 Gli avvoltoi hanno fame (Two Mu­ les for Sister Sara), mentre nello stesso 1971 Eastwood aveva interpre­ tato lo straordinario La notte brava del soldato Jonathan (The Begui­ led) e il celebre Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (Dirty Har­ ry). Non è dunque possibile non mettere nel conto una qualche traccia del mondo e del modo siegeliani nella confezione del film d’esordio. Siegei, anzi, com’è noto, comparirà in un cameo role di Brivido nella notte, nella parte di un barista complice dei trucchi del protagonista per rimorchiare ragazze e pronuncerà un’allusiva battuta (“Meglio il

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tuo mestiere che il mio”), che suona quasi come uno scherzoso ammo­ nimento all’amico attore diventato regista. Questa cronologia spiega certo i rapporti tematici e talvolta persi­ no formali con - soprattutto - La notte brava del soldato Jonathan, opera notoriamente misogina e inquietante, ma è pur vero che, come dice Alberto Pezzotta, Brivido nella notte si incentra più sulle colpe del maschio, sulla sua debolezza e le sue incertezze. Di più: mentre il film di Siegei ispira davvero un brivido mettendo in scena una criminale follia collettiva che non lascia mai trapelare alcun sospetto sulla sua ve­ ra natura, Brivido nella notte segue una linea più scolastica nella trat­ tazione dei caratteri e dell’intera situazione, e la segue a un grado tale da non poter non far pensare che in realtà a Eastwood non interessa tanto la suspense quanto ciò che vi vive dietro. O per meglio dire, la vera suspense del film è costruita, più che su specifiche situazioni d’alta tensione, su particolari di carattere minimale, che a ben vedere sono poi la vera chiave del film. Eastwood, intanto, incomincia a chiude la pellicola in un modo alquanto allusivo: due riprese aeree della costa a sud di Monterey (l’una in avvicinamento, l’altra al contrario) che ri­ mandano alla casa di Tobie, la fidanzata di Dave, nella quale si consu­ ma la solitudine del protagonista all’inizio così come il dramma finale. Tutto quel che avviene nel film si inscrive fra questi due momenti iden­ tici e opposti. La doppia ripresa contribuisce a creare una sensazione di isolamento dell’intera vicenda in uno spazio che forse sarebbe ecces­ sivo definire ideale, ma che certo si propone come peculiare. Lo spazio è, appunto, la costa a Sud di Monterey, una sorta di “valle dell’Eden” (non a caso abbastanza vicina alla Salinas steinbeckiana) che in quanto tale risulta particolarmente adatta a una storia di peccato e di caduta come quella del film. Non a caso la lunga sequenza, che, peraltro giu­ stamente, Pezzotta definisce “indigeribile”, relativa alla parentesi d’amore fra Dave e Tobie, ha cadenze da paradiso terrestre, inscritta com’è fra boschi e vegetazione, onde e scintillanti pozze d’acqua e ca­ scatene: quando i due si amano in tutta tranquillità l’ambiente assume valenze addirittura mitologiche. Quando invece Dave si ritrova a scon­ tare la propria debolezza per il gentil sesso, ecco che la natura si gonfia minacciosa e turbolenta come spesso avviene con le onde del Pacifico. L’uso simbolico della natura è davvero un espediente scolastico nell’or­ ganizzazione delle immagini cinematografiche, ma va riconosciuta a Eastwood la capacità di dare corpo a questa figura retorica riuscendo a convogliare un più ampio senso del luogo, quasi un omaggio all’ama­ tissima costa di Monterey, della quale, da questo punto di vista, l’intero film può essere letto come una celebrazione. Che l’auto di Dave corra per la Route 1, che l’obiettivo colga 1’infrangersi delle onde notturne o la loro tranquilla risacca durante solari pomeriggi, che i personaggi

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indugino su sentieri boschivi così pittoreschi che par di annusare le re­ sine dei maestosi redwoods, tutta la pellicola è un continuo inno alle bellezze di Carmel e dintorni. Ma è anche una celebrazione dell’intera California centrale costiera, dei suoi costumi, della sua gente. La pa­ rentesi del festival jazz di Monterey per esempio, è, sì, come afferma ancora Pezzotta, dovuta all’amore di Eastwood per la musica (e per quella jazz in particolare, aggiungerei, come testimonia il caso del più tardo Bird [id.], 1988), ma non può non essere letta anche come un omaggio all’anticonformismo della sua popolazione, alla sua gioia di vivere, al suo amore per il movimento e l’aria aperta. Allo stesso modo, è in questa chiave che vanno intesi tutti gli scambi di battute con il col­ lega alla radio, con il poliziotto e con la donna di servizio: una com­ pagine di personaggi minori troppo spiritosi per essere soltanto la par­ te “comica” del film, i quali ci dicono come dalle parti della San Fran­ cisco anni Settanta persino i piedi piatti e le cameriere erano soliti par­ lare per battute. E a proposito di personaggi secondari, come non ricordare l’appa­ rizione di J. J., il gay amico di Tobie, che trent’anni fa faceva invero tanto California? E qui veniamo a quanto si diceva all’inizio. Brivido nella notte, pur trattando in apparenza di un caso clinico, mostra bene “Pair du temps des années 70”, come afferma Michèle Weinberger, la quale continua: Il y a dans Play Misty for Me une grande sincerité de ton, un intimisme qui appartieni a cetre époque où tout devait ètte dir. Tobie est l’image parfaite de la contestation gentille des Américaines un peu paumées.

È proprio vero: quale che sia il tema del film, ciò che vi si agita sot­ to è un’atmosfera molto californiana legata al periodo del quale il fe­ stival di Monterey è soltanto l’esemplificazione più vistosa e che per­ vade l’intera vicenda, sia nel trattamento dei personaggi che nell’orga­ nizzazione di scenario e spazio. Creatività, scarsa privacy, dolce piacere di vivere, questa è la California di quegli anni, e questo è il quadro all’interno del quale l’irruzione di Evelyn porta uno shock che viene moltiplicato proprio dall’assenza di nevrosi nella vita quotidiana, co­ mune, di Dave come di chiunque altro. In questa prospettiva la osses­ sività di Evelyn si contrappone alla tolleranza e alla comprensione (per non dire: alla promiscuità) che all’epoca avevano decisamente segnato i rapporti affettivi. E persino una ragazza innamorata come Tobie rie­ sce sempre a mantenere un tono misurato, aperto e civile quando il comportamento di Dave lascia a desiderare o risulta addirittura inspiegabile e contraddittorio. È peraltro vero che questa “immagine perfetta della contestazione gentile” non emerge affatto come personaggio (per Pezzotta additimi-

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ra “non esiste”) se misurata alla luce del rapporto fra Dave ed Evelyn. Ma, appunto, mi sembra questo sia dovuto alla sua adesione a uno standard comportamentale che era di quegli anni e di quella cultura. E in fondo il classico modello oppositivo bionda/bruna - volta a volta con valenze opposte a seconda delle aree geoculturali nelle quali esso è adottato - funziona qui secondo i modi usuali: dolce, remissiva, com­ prensiva e talvolta persino scialba la prima; forte, aggressiva, maliziosa e pericolosa la seconda. Naturalmente è ben vero che l’attenzione di Eastwood si incentra pressoché completamente su quest’ultima: è Evelyn a essere il personaggio interessante, è lei a dare il via alla vicen­ da, a complicarla, a creare suspense e comunque a catturare la curiosità dello spettatore. Evelyn, si diceva, è un caso clinico, e dunque è inevi­ tabile che i riflettori siano puntati su di lei. Ma siamo proprio certi che sia lei l'unico caso clinico? Di sicuro la ragazza è quella che più d’ogni altro si comporta in modo da farlo pen­ sare. Ma se tentiamo di andare oltre le immediate apparenze, dal film emergono altri particolari che non è poi tanto difficile organizzare co­ me elementi di un discorso coerente e tutto sommato inatteso. Il film infatti mostra nel suo insieme una straordinaria attenzione al tema dell’identità, disseminando tracce del problema lungo il suo in­ tero cammino, non soltanto per quel che riguarda il personaggio di Evelyn, ma anche gli altri comprimari. Quando Tobie parla del suo malessere dice: “Diventavo antipatica, mi detestavo”, sottolineando una sorta di sdoppiamento della persona­ lità. La frase in se stessa non presenta affatto particolari significati cli­ nici e può tranquillamente essere intesa come annotazione personale di carattere addirittura banale. Ma se osserviamo che sin dall’inizio Dave ci viene presentato attraverso la sua persona e, al tempo stesso, nell’im­ magine che Tobie ha disegnato di lui e che campeggia vicino alla fine­ stra della casa della ragazza, incomincia a sorgere un sospetto. Certo, la scena ci dice che in quella casa abita qualcuno che conosce bene l’uo­ mo, che lo pensa e, per quel che ne sappiamo, forse lo ama. Ma non è forse attraverso quel ritratto che Evelyn/Annabel (e a questo punto il pensiero non può non correre a un’altra Annabel fatalmente destinata alla nevrosi e alla morte: quella di Poe) parla di Dave a Tobie? E del re­ sto, che senso dare alla scena in cui Dave, liberatosi di Evelyn che è ve­ nuta a trovarlo e che si spoglia nuda davanti all’entrata di casa, si guar­ da in silenzio davanti allo specchio? In Brivido nella notte tutti cercano un po’ se stessi: Tobie che con­ fessa a Dave di essere confusa e alla quale l’uomo risponde: “Ritrova l’orientamento e poi telefonami”; Dave che passa lunghi momenti in casa rimanendo in silenzio a guardare se stesso o a fissare il vuoto; Evelyn che soltanto nella fantasia di un amore inesistente crede (e ere­

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de soltanto) di ritrovare un senso per se stessa, senza il quale evidente­ mente rimane per lei solo violenza e distruzione. Nella società permis­ siva della California di Haight/Ashbury, Eastwood legge amore e pia­ cere, sì, ma anche follia e un pericoloso potenziale di violenza. In que­ sto senso tutto il film gioca sui due poli di un forte amore del luogo (di­ ce Tobie: “Mi è mancato questo posto”) e di un altrettanto forte timore di quello che il seme stesso dell’Eden porta in sé: ed ecco allora che un buono studio sulla fantasia affettiva, sulla creazione di aspettative e certezze da parte di chi non ha alcun diritto di averne, diventa anche una riflessione culturale su un certo modello di società e di rapporti so­ ciali. Ecco allora che la sparata di Evelyn contro Dave, che intende an­ darsene in giro quando più gli aggrada, suona come una rivendicazione di sfumatura femminista, secondo i dettami che proprio in quegli anni e proprio in California stavano prendendo sempre più forma ideologi­ ca e teorica. Ecco allora che l’esercitazione di sapore hitchcockiano e Brivido nella notte lo è davvero, con quella sequenza di Dave che se­ gue per strada la ragazza bionda, prendendola per Tobie a causa del maglione (scambio di identità), e sentendosi rispondere “Allora tu sei Dave” (shock di riconoscimento di identità), per non dire di Evelyn che brandisce il coltello e delle scene di violenza all’arma bianca diret­ tamente desunte da Psycho - diventa una dichiarazione d’amore e in­ sieme la formulazione di un dubbio, di un timore: quello che persino l’ultimo Eden americano nasconda purtroppo un destino infernale.

Riferimenti bibliografici Tutte le affermazioni di Alberto Pezzotta sopra riportate provengo­ no dalla sua monografia, Clint Eastwood, La Nuova Italia, Firenze, 1994, mentre la notazione sulla “contestazione gentile” è di Michèle Weinberger, Clint Eastwood, Rivages/Cinéma, Paris, 1989.

Capitolo 3

Il ritorno di Harry Collings di Peter Fonda

Non so se Leslie Fiedler abbia mai visto II ritorno di Harry Collings (The Hired Hand, 1971) ma non mi pare che nei suoi scritti ne parli. Sta di fatto che l’opera prima di Peter Fonda è una sorta di manifesto delle teorie fìedleriane sulla cultura nazionale americana e sulle sue os­ sessioni. Prima fra tutte la latente omosessualità del sodalizio maschile. Harry Collings è dilaniato fra l’ancoraggio al sistema familiare (etero­ sessuale) e la solidarietà co) “fratello” (omosessuale)» e il film conforta questa lettura non soltanto nella struttura del suo problema, ma anche nel bel finale dove Arch entra intuibilmente nel gruppo familiare sosti­ tuendo l’amico morto per salvarlo. Come a dire: il rapporto maschile è personale, individuale, laddove quello fra maschio e femmina non ri­ veste particolare specificità, è pura funzione. La cosa è tanto più interessante se si ricorda che proprio in quei tempi era nato in America il forte movimento femminista che avrebbe dominato la scena politica nazionale per circa un ventennio, imponen­ do - nel caso migliore - alla struttura sociale del paese una concezione dei rapporti fra sessi appunto di carattere funzionale. In altre parole, il film obbedisce perfettamente a una istanza rivoluzionaria di quegli an­ ni, alla quale tuttavia non sacrifica l’aspetto estetico-narrativo abbrac­ ciandone tout court il potenziale propagandistico di carattere ideolo­ gico, ma semplicemente inserendo tale componente nel sottotesto, amalgamandola, insomma, con il dettato diegetico. Tale dettato, peraltro, dimostra bene di potersi governare per suo conto attraverso il modo di conduzione della storia, modo che obbe­ disce pienamente (e forse anche troppo) alla stilizzazione tipica di cer­ to cinema New Hollywood dell’epoca. L’esempio in questo senso più vistoso, ovviamente, si registra nelle sequenze d’apertura della pellico­ la: una ridda di dissolvenze incrociate su inquadrature filtrate dalla ma­ gica mano di Vilmos Zsigmond (con Laszìo Kovacs, Lucien Ballard, Conrad Hall, Harry Stradling, Haskell Wexler, William Fraker e alcuni

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altri, uno dei dominatori incontrastati della cinematografia di quegli anni), che a tratti rimandano alla colorata arte informale di derivazio­ ne pop nella loro ricerca di superamento di quell’iperrealismo che in­ vece di lì a pochissimo si dimostrerà la forma-formula vincente e rap­ presentativa (anche e soprattutto perché indicazione epistemica) del nuovo cinema americano. Peter Fonda, tuttavia, soccombe in questo senso alla classica tenta­ zione dell’autore esordiente: la cura manieristica dell’immagine, la sti­ lizzazione delle forme note, la trasfigurazione dei modelli ricevuti: qualcosa che aveva fatto e stava facendo anche Sam Peckinpah, il quale però, uomo e regista maturo, aveva capito che la cifra del rinnovamen­ to si identificava non soltanto con l’immagine, ma soprattutto con il montaggio. Peckinpah, peraltro, non manca nella lista degli ispiratori del giovane Peter: quel misto sonnacchioso di bianchi e messicani su un povero sfondo di confine lo conosciamo bene nell’autore di II mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969) che peraltro - bisogna ammetterlo quanto a questo deve a sua volta qualcosa a Sergio Leone. In Harry Collings, tuttavia, Fonda tenta di mettere a frutto la lezione di Pe­ ckinpah battendo una strada che a ben vedere ha tutta l’apparenza di una scorciatoia (almeno in relazione alla pratica peckinpachiana): egli rallenta il ritmo dell’azione non attraverso un procedimento squisita­ mente tecnico (il ralenti, appunto), bensì rarefacendo i tempi della stessa. E si comprende bene che soltanto attraverso la scoperta dichia­ razione fornita da un espediente tecnico tale rallentamento può acqui­ stare una qualche significazione: diversamente, come qui, esso non può che apparire come un difetto (un rallentamento disfunzionale, ap­ punto). Certo, c’è il precedente di Leone, ma Leone giocava sulla sti­ lizzazione della postura, sull’ordinamento delle figure nello spazio, at­ tribuendo un valore aggiunto all’immobilità, laddove i protagonisti fondiani paiono più eroi stanchi e svuotati che non taciturni portatori di un enorme potenziale di violenza. Come che sia, mi pare evidente che Peter Fonda ha compreso bene quanto gran parte del genere western (almeno di quello susseguente la grande stagione dell’epopea nazionale, che arriva più o meno sino al John Ford dei pieni anni Quaranta) sia dopotutto una rielaborazione dei modelli sentimental-narrativi forniti della tradizione melodramma­ tica. Il ritorno a casa, la gelosia, il senso del dovere in conflitto con quello dell’amore: dall’odissea a Racine la letteratura occidentale ne trabocca. E su tutto domina, come tanto spesso nella produzione New Hollywood, un profondo senso di nostalgia e di crepuscolo, che è im­ possibile non leggere anche come una sensazione metacinematografìca, come la tacita cognizione che la “Great Entertainment Machine” è ormai andata fuori uso.

Capitolo 4

La leggenda di Sleepy Hollow di Tim Burton e American Beauty di Sam Mendes: le due facce della medaglia

Due linee del cinema americano odierno? Magari una fantastica e una realistica che ripropongono in qualche modo la vecchia antinomia Meliès-Lumière? Sembra proprio non si possa sfuggire al peccato ori­ ginale (o semplicemente alla maledizione) del cinema. O forse si può, se, dal momento che quell’antinomia è ineliminabile, la si legge, si, ma in termini diversi da quelli imposti da una teoria della visione. La si leg­ ge - cioè - come un’antinomia culturale. È l’impostazione che già negli anni Cinquanta Agostino Lombardo aveva individuato nell’opposizio­ ne fra Realismo e Simbolismo, due direzioni che pervadono la storia della letteratura americana non più che altri aspetti del suo immagina­ rio. Poe e Bierce da un lato, Howells e Dreiser dall’altro. Molto più complicato, tuttavia, ché vi sono autori nei quali si rintraccia una pa­ rabola che porta dal realistico al fantastico (Mark Twain, per esempio), o magari senza alcuna parabola (Henry James, per esempio), o addirit­ tura autori le cui singole opere sono un monumento ambiguo all’uno e all’altro termine dell’antinomia: quasi tutto Melville, per far giusto il nome più grande. Il mistero di Sleepy Hollow di Tim Burton e American Beauty di Sam Mendes possono, fra le pellicole recentissime, ben rappresentare questa antinomia, e paradossalmente in un modo ancor più realista del re, ché il film di Burton abbraccia il cóté fantastico molto più che non il racconto letterario di Washington Irving da cui è liberamente tratto, mentre quello di Mendes elabora i termini indiscutibilmente realistici della sua vicenda (o forse, come vedremo, sarebbe meglio dire: delle sue vicende) in modo così ravvicinato da evidenziarne il substrato grot­ tesco. Burton ha fatto un film come sempre visualmente ammirevole, ep­ pure meno centrato e convincente dei suoi precedenti (addirittura con un lieto fine: inaudito nella sua filmografìa!). Di Irving è rimasto ben

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poco, di Burton invece c’è moltissimo, ma questa volta in una congerie di non facile districamento: per gran parte della storia, infatti, pare di assistere all’inchiesta di un giallo più che a un film fantastico (il “miste­ ro” del titolo italiano del film è dunque più congruente della “leggen­ da” che compariva nel titolo del racconto originario), e quando ci si rende conto che le parti sono equamente distribuite fra i due generi, la componente orrifica si presenta come connessa, o addirittura compro­ messa, con il livello reale e pragmatico della vicenda (le forze oscure controllate e indirizzate da insospettabili personaggi “reali”). Film molto più critico di quanto non sembri (e questo del resto vale anche per i due Batman o per il suo Edward), Sleepy Hollow denuncia quelli che un tempo avremmo chiamato morale e comportamento borghesi, esattamente come il regista aveva fatto sin dai suoi albori in Beetlejui­ ce, Edward eccetera. La differenza sta altrove, specificamente nella scelta cronologica della pellicola. Siamo allo scadere del XVIII secolo, dunque in un’America appena nata come nazione (una scenografia sto­ rico-politica, peraltro, molto cara a Irving, che ne fece il baricentro del suo racconto più importante e famoso, “Rip Van Winkle”). Ichabod Crane è evidentemente il rappresentante del còté illuministico della cultura nazionale, fiducioso nella ragione e nella tecnologia, nella scienza e nel diritto. Ma mentre in Irving egli veniva messo alla berlina dai contadini locali, alimentando così la classica opposizione fra città e campagna, fra razionalità e superstizione (ciò che peraltro accade an­ che nel film nella sequenza della beffarda messa in scena perpetrata ai suoi danni dai giovanotti del villaggio), qui il Cavaliere Senza Testa esi­ ste davvero. Burton insomma fa un ideale balzo indietro di trent’anni e dallo scenario rivoluzionario in cui era sfociato ITlluminismo si rituf­ fa nel romanzo gotico di timbro soprannaturale (ricordando inoltre anche lancinanti momenti della storia del cinema americano: quegli speroni che tintinnano sull’impiantito di legno, mentre il bambino vi si nasconde sotto, testimone della strage parentale, vengono dritti drit­ ti da Notte senza fine, 1947, di Raoul Walsh). Ora, vi sono ovviamente ragioni personali e autoriali a indirizzarlo in quel senso, ma è pur vero che, al di là di ciò, in tale area Burton è, soprattutto oggi, tutt’altro che solo. Ma quel che più mi sembra importante è che nell’ambito fanta­ stico che è comunque il suo Burton questa volta ha accostato sopran­ naturale e razionalità, fantasiosità e realtà. In opere precedenti, come Beetlejuice, per esempio, questo accostamento veniva fatto a svantag­ gio del secondo termine, messo alla berlina dall’esplosione di forze tanto formidabili e incontrollabili quanto sotterranee, infere. Qui in­ vece esso non mette in ridicolo niente e nessuno, nemmeno Ichabod e le sue pur risibili certezze scientifiche, che ne escono non poco scosse, è vero, ma non beffate e umiliate. In questo senso Burton ha ragione

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quando afferma - come ha affermato - che Sleepy Hollow è il suo mo­ do di fare omaggio ai film della Hammer: non solo in esso ritroviamo vecchie conoscenze di quella gloriosa Casa come Christopher Lee e Michael Gough, non solo vi rintracciamo sequenze e comunque imma­ gini che rimandano a taluni suoi classici (si pensi soltanto a quella car­ rozza che corre nel bosco notturno all’inizio del film: un omaggio a certi Dracula di Terence Fisher se mai ve ne furono), ma soprattutto vi si legge la tipica opposizione fra razionalità scientifica della nuova bor­ ghesia post-illuminista e ragioni e forza dell’irrazionale e del sopran­ naturale delle quali la componente gotica e notturna del Romantici­ smo aveva fatto una bandiera, inaugurando - fra l’altro - un intero nuovo genere letterario che per due secoli avrebbe proceduto imper­ territo in barba a (e anzi in stretto rapporto dialettico con) l’ecceziona­ le sviluppo del pensiero scientifico fra l’Ottocento e il Novecento. Tutto questo, bisogna dirlo, non è cosa nuova. L’intero genere ci­ nematografico orrifico (o gran parte di esso) si struttura sin dai suoi ini­ zi in questi termini. Più interessante è rilevare nel film di Burton un’ul­ teriore componente a esso affiliata, che da qualche tempo ha visto un suo lento ma costante sviluppo nel cinema americano: quella fiabesca. Sleepy Hollow dispiega non di rado elementi ascrivibili a tale compo­ nente: l’antro della strega, l’albero dei morti, lo stesso incantesimo che sostanzia la storia legando il Cavaliere a un destino di inquietudine e morte sono elementi fantastici, sì, ma più particolarmente desunti da una tradizione fiabesca. Non meraviglia affatto, anzi, ritrovare a pro­ duttore di Sleepy Hollow l’autore che forse più di ogni altro si è negli ultimi vent’anni prodigato in questa direzione, Francis Ford Coppola. Da Peggy Sue a Jack il cinema di questo straordinario autore ha in vari modi battuto la strada della fiaba, come del resto mostra bene l’origi­ nale monografia dedicatagli qualche anno fa da Renzo Trotta. Si tratta tuttavia di qualcosa che eccede di gran lunga il mondo autoriale di que­ sto o quel regista: si pensi a pressoché l’intero cinema di George Lucas e ad alcune cose di Spielberg (E.T. in primo luogo, naturalmente). Che parte del cinema americano si sia rivolto al grande tesoro della narra­ tiva fiabesca è sintomatico. Prima di tutto del fatto che non solo per una buona fetta di Hollywood la tendenza “realistica” di un quarto di secolo prima si è andata esaurendo, ma che il modo più ovvio di ri­ spondere a questa dissoluzione era quello di ripescare ancora una volta nell’imponente banca dati di una tradizione senza tempo che garanti­ sce l’attenzione di un pubblico meno smaliziato e forse anche meno esigente di quello che sino a poco tempo prima (e taluni ancora oggi) aveva seguito in modo partecipe la parabola creativa dell’inventività hollywoodiana. Un’inventività che aveva dato frutti invidiabili magari usando anch’essa dei modelli fiabeschi, ma mascherandoli in modo da

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renderli irriconoscibili e anzi facendo le viste di costruire opere al­ quanto critiche del costume del tempo (Billy Wilder fu in questo senso un autore seminale: da Sabrina a Baciami, stupido - ma senza dimen­ ticare sceneggiature come il sublime La signora di mezzanotte, diretto da Mitchell Leisen - il suo cinema è in certa misura proprio una riscrit­ tura in chiave modernissima della tradizione fiabesca). Ora, il film di Burton si ispira, forse non a caso, a uno degli autori letterari americani che più hanno civettato con la tradizione fiabesca europea e che nel contempo più hanno contribuito a creare un embrio­ ne di immaginario favolistico nazionale in attesa che la incombente tra­ dizione del Sud-Ovest (Joel Chandler Harris, Davy Crockett eccetera) ne creasse e imponesse, dopo la metà dell’ottocento, uno autoctono. Del resto, quasi tutto il cinema burtoniano, da Edward ai due Batman (per non dire dell’inusitata prova di The Nightmare Before Christmas), presenta, anche se in misura minore di questa sua ultima pellicola, mo­ tivi e occasioni di fiaba. La cosa che più sorprende tuttavia è un’altra: che il cinema di Burton nel momento in cui sposa la componente fia­ besca intensifica anche quella realistica, in questo assecondata anche dal fine lavoro di mediazione della fotografìa, insistendo su dettagli im­ pressionanti e duri (l’ammasso di teste nel cavo dell’albero, per esem­ pio) da un lato e, dall’altro, configurando un ambiente e un bestiario sociale che forse sarebbe eccessivo paragonare al realismo grottesco di Hogarth, ma che di certo rimanda alla ritrattistica protosettecentesca americana ispirata alla lezione barocca di Sir Godfrey Kneller, il domi­ natore della pittura inglese del periodo. L’autoritratto di Thomas Smith, per esempio, che guarda caso è dipinto con la mano destra su un teschio, sembra una diretta fonte figurativa del personaggio del pre­ lato nel film di Burton. Questo non tanto a conferma dell’importanza di alcune influenze pittoriche sul nostro regista (ciò che peraltro ha di­ mostrato bene Maria Sole Checcoli in una tesi discussa qualche anno fa all’Università di Bologna), quanto, come si diceva, per sottolineare in lui un coté di realismo che peraltro appare spesso mediato da stilemi che battono un versante ironico (e comunque critico) più o meno pro­ nunciato. Con American Beauty siamo all’opposto. La quotidianità che ap­ pare come la sostanza del film, il suo motore e il senso del suo esistere, si sfalda vieppiù a ogni sequenza rivelando la natura magnificamente artefatta e talora persino volutamente manierata della pellicola. Sin dall’apertura riconosciamo (o dovremmo riconoscere) l’ambigua intel­ ligenza di Mendes: come in Viale del tramonto, è la voce di un morto quella che ci parla; ma a differenza dall’illustre precedente, noi quel morto non lo vediamo in scena e dunque siamo autorizzati, o quanto­ meno psicologicamente spinti, a pensare che forse quella voce sarà alla

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fine smentita. L’impostazione generale del film, anzi, anche se abilmen­ te mascherata da realismo quotidiano, è connessa alla tradizione gotica (l’illustre precedente appena citato essendo, secondo Richard Corliss, il più grande film gotico americano): la casa dell’ex marine, per esem­ pio, è una sorta di santuario dell’austerità e un sacrario dell’ombra, ma l’intera vicenda si snoda su una linea di disagio che lascia intravedere a ogni scena l’altra faccia della normalità. In questo film così celebra­ tamente realistico sul volto dell’America quotidiana non un personag­ gio è davvero quel che appare e il modo scelto dal testo per narrarci tale differenza sfiora ogni volta il grottesco senza peraltro mai farne una propria cifra. Ciò che rende paradossale la situazione è che tutti sono alla ricer­ ca di qualcosa: ma in un mondo dove non un solo aspetto di ciò che appare è quello vero, come attuare la propria ricerca? E anzi inevitabi­ le che ognuno prenda gli altri per quel che non sono intricando viep­ più le cose sino a un punto di risoluzione che non può essere altro che gordiano, cioè cruento. Ma anche nella costruzione di questo dénouement la regia si diverte a complicare la situazione: non solo il film è composto da storie che sarebbero bastate per tre o quattro film, ma procede nella direzione di una serie di possibili finali, o quantomeno di possibili colpevoli, assumendo imprevedibilmente il tono del giallo e del mystery. In questa congerie di componenti complesse, difficili, contraddit­ torie assume allora un senso ancor più grande il centro ideale della pel­ licola, quella riflessione sulla bellezza (“beauty”, che è bellezza femmi­ nile, sì, ma anche idea generale di bellezza) che Ricky confessa a Jane e che denuncia chiaramente la semplice profondità del pensiero emersoniano. Nel famoso saggio Nature (1836) Emerson menziona il pia­ cere derivato dalla “semplice percezione delle forme naturali”. Non di­ versamente Ricky coglie in fenomeni apparentemente irrilevanti il sen­ so della bellezza del mondo e la presenza del divino. Scriveva Emerson nel 1832: “Invece di conferenze Sull’Architettura, ne farò una sull’Architettura di Dio, su una delle sue belle opere...Ritrarrò un giorno d’inverno”. Poi, nove anni dopo, dava alle stampe una poesia come “The Snow-Storm”, nella quale l’arrivo di un semplice fenomeno na­ turale cambia l’intero movimento del mondo, presentandosi come qualcosa di non tanto diverso dal mulinello d’aria di Ricky. Ed è pro­ prio a Ricky che sono affidate le battute più emersoniane della pellico­ la, come quella sul brevissimo sguardo di Dio, ricambiando il quale ci capita di vedere la bellezza; o quella relativa alla convinzione che vi sia “un’intera vita dietro ogni cosa”. Se la radice emersoniana del pensiero di Ricky è vera, allora acqui­ sta importanza anche maggiore di quel che già ha la sua passione per

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le riprese cinematografiche. L'epoca oculare di cui aveva parlato Emer­ son nei suoi diari trova nel ragazzo la sua epitome e nella videocamera il mezzo elettivo per cogliere immagini del mondo sulle quali meditare in modo da riuscire a coglierne il senso e, appunto, la bellezza. Il che diventa dopotutto anche una sorta di implicita dichiarazione sullo sta­ tuto del cinema, o quantomeno della riproduzione tecnica della realtà in movimento. Ma il cinema non fa miglior figura della realtà: le ripre­ se di Ricky si prestano-a catastrofici fraintendimenti facendo precipita­ re la precaria situazione del reale. Ecco allora che la “teoria estetica” di Ricky si pone come unica alternativa (opposizione, se si preferisce) al caos dell'interrelazione: la forma semplice del mondo è quella che più d’ogni altra incarna quella bellezza che nell’universo del film ognu­ no cerca a suo modo, e regolarmente sbagliando. Come ebbe a scrivere ancora Emerson nel citato saggio: “L’Arte è una natura passata attra­ verso l'alambicco dell’uomo”. Che l’alambicco sia una penna d’oca, una videocamera o, più nobilmente, una rielaborazione operata dal pensiero è cosa di poca importanza perché in ogni caso il prodotto fi­ nale, come viene detto nel film, è “una forma benevola” e per questo non v’è alcuna ragione d’aver paura, mai (il che, fra l’altro, spiega il calmo atteggiamento che Ricky ha sempre verso il discutibile padre). American Beauty è un film importante, ma non tanto per ragioni estetiche. È un film-campione che ci dice non meno sul suo pubblico che suU’America. Osannato dai critici, il pubblico è accorso in massa e l’ha applaudito altrettanto forte. Ma a differenza da quel che quasi re­ golarmente avveniva con Kubrick, questa volta al pubblico la pellicola è piaciuta davvero. C'è tuttavia un intoppo: il pubblico non sa perché. Qualunque spettatore, interrogato, vi dirà quanto sono bravi Spacey e la Bening, ma non riuscirà a formulare un solo apprezzamento organi­ co e compiuto sul film. 11 fatto è che si tratta di un compito improbo, perché, preso alla lettera, il soggetto di American Beauty non è molto più che quello di una commedia televisiva venata di nero, di quelle che abbiamo visto troppo spesso e che francamente ci sembrano un po’ tut­ te uguali. Come al solito, la questione riguarda la realizzazione, la forma (ma anche qualcos’altro). La prima cosa che viene in mente in questo senso è l’ironia. Commedia televisiva, certo, ma quanto ironica. In realtà l’indubbia ironia del testo è il punto d’arrivo, la conquista, del film: ciò che importa è il modo in cui esso vi perviene. E qui arriviamo al punto. La tipologia cui la pellicola appartiene è quella della commedia psicologica. Solo che questo genere è tradizionalmente imbevuto di re­ alismo, cioè di verosimiglianza. Vale a dire, esso è programmaticamen­ te una fotografia della quotidianità americana. All’apparenza American Beauty fa lo stesso con quei suoi quadretti del suburb, del liceo, dell’uf­

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ficio, della casa, ma in realtà si costruisce in un modo del tutto invero­ simile, non meno delle semioniriche soggettive del protagonista info­ iato della ninfetta. Ogni interrelazione (perlomeno fra adulti) è pensa­ ta e realizzata in termini esasperati e manieristici; ogni personaggio in­ terpreta il carattere che è chiamato a incarnare non come credibile re­ plica, bensì come sua esaltazione. In altre parole il marito sottomesso è troppo sottomesso e quando diventa ribelle è troppo ribelle; la mo­ glie arrivista è smaccatamente tale e il suo modello d’agente immobi­ liare troppo marcatamente conscio di sé in quanto modello; allo stesso modo l’ex marine filonazista è troppo violentemente marine e nazista, e così via. Non è un caso che il personaggio più realisticamente con­ vincente (e di conseguenza il più commovente, anzi l’unico) sia quello della madre di Ricky: la donna infatti è, sì, anch’ella “troppo”, ma a differenza da tutti gli altri non parla mai, e dunque proietta in interio­ rità il suo eccesso comunicandoci perfettamente la frustrazione e il do­ lore di una vita sprecata (lo spreco della vita essendo ciò che accomuna tutti i personaggi adulti del film). In tempi di trionfo del fantastico, di spade laser, alieni ributtanti, mostri da incubo, il rifiuto della realtà ben raramente si presenta sotto questa subdola veste. Da un certo punto di vista sembra quasi di essere ritornati alle convenzioni della commedia americana classica, nella quale tutto avveniva fluidamente anche se tutti sapevamo che in quel modo non sarebbe mai potuto avvenire e ci deliziavamo sospendendo coleridgianamente la nostra incredulità. In realtà, a differenza di quest’ultima, American Beauty non scopre il gioco in modo altrettanto chiaro e diretto. O forse siamo noi a essere cambiati e a avere perso ogni sensibilità per renderci immediatamente conto delta serie di con­ venzioni che reggono il film. Che dietro ad American Beauty ci sia il vecchio cinema americano ce lo dice peraltro anche il suo incipit, evidentemente mutuato, si di­ ceva, da Viale del tramonto (ma ce lo dice anche la passione del prota­ gonista: un chiaro riferimento a Lolita di Kubrick, film che cominciava pur esso con un cadavere continuando con un lungo flashback): anche lì un cadavere parlava raccontando la storia che lo aveva portato a per­ dere la vita. Con la differenza che qui, oltre a essere una commedia, il film non ci mostra nessun cadavere sino alla fine, talché, come si dice­ va, mentre la vicenda prosegue o ci si dimentica di quel sinistro avviso o si è portati a pensare che qualcosa succederà perché esso non si av­ veri. Come si vede, anche qui ciò che sembra essere una cosa si rivela esserne un’altra: un esordio da un classico film noir nasconde una com­ media che finisce come un noir. American Beauty è un esercizio di ma­ scheramento, come del resto la serie di supposizioni su chi sarà l’assas­ sino nel finale.

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La componente metalinguistica, tuttavia, non è così limitata e oc­ casionale: il film è anche una fine riflessione sul cinema. Ricky e la sua videocamera sono alla base dell’epilogo drammatico della storia. La collezione di nastri che il giovane raccoglie non ha alcun senso se non quello di registrare la realtà (quelli sono il vero film realistico di Ame­ rican Beauty). Ma la realtà parla a seconda di quel che vogliamo senti­ re; o se si preferisce, può essere letta in modi diversi. Così, la più “og­ gettiva” e innocentemente asettica delle riprese appare agli occhi dell’ex marine come la prova di turpi pratiche sessuali mercenarie. Os­ sia: inutile fare cinema realistico, tanto chi lo guarda lo legge come è portato a leggerlo. E tuttavia l’oggettività ha una sua verità e una sua bellezza: il mulinello che il giovane mostra a Jane e che nelle sue parole diventa l’epitome stessa di ogni bellezza. Come abbiamo visto più so­ pra, qui non c’è esagerazione e non c’è ironia: Ricky coglie nell’orga­ nizzazione del microcosmo l’infinita complessità e bellezza universali. Non c’è dubbio, questo è Emerson. Quello stesso Emerson della cui etica della “self-reliance” il protagonista è evidente parodia. E perché non ci si può fidare della fiducia in se stessi? Ma perché la realtà non è oggettiva, bensì sempre soggetta a interpretazione, e nemmeno il mez­ zo di registrazione più fedele di cui disponiamo, il cinema, riesce a sot­ trarla a questo suo destino. Per di più, la realtà non si identifica ancora del tutto con la ripresa che ne fanno i mezzi tecnici, come dimostra be­ ne il confronto fra la sequenza - confessione iniziale di Jane che affer­ ma di voler uccidere il padre e quella identica, molto più avanti nel film, dove però sentiamo la ragazza aggiungere un tranquillizzante “Sto scherzando” dopo che Ricky ha smesso di girare. Ecco, la diffe­ renza è tutta qua: al cinema (e in televisione) si uccide, nella vita reale lo si può anche dire, ma spesso si “scherza”. La “bellezza americana”, dunque, oltre a essere il nome di una ro­ sa, è anche qualcosa che cogliamo se vogliamo coglierla rendendoci conto che essa è lì, girato l’angolo, davanti a noi. Il Sublime Americano non è soltanto quello naturale dei canyon né quello culturale dei ponti giganteschi e dei grattacieli vertiginosi. Ma di Emerson ormai può ri­ cordarsi sì e no Terrence Malick, e magari questo filmino intelligente il cui successo lascia un varco alla speranza che in America si possa an­ cora fare del cinema con la testa invece che con le macchine. American Beauty, inoltre, è un enorme Edipo che si consuma a cau­ sa di un altro Edipo. Con tutte le ragioni di ribellione delle giovani ge­ nerazioni (che arrivano addirittura a parlare di parricidio per far ces­ sare le sofferenze del genitore: e la sequenza mi sembra una parodia di Assassini nati), sarà un altro padre, ancor più contestabile, a uccidere il primo, il quale a sua volta infrange il tabù dell’incesto per interposta

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persona attraverso le sue fantasie nei confronti dell’amica della figlia, questa volta parodiando un’altra parodia: Lolita. Quel che è peggio: il padre, che pure appare come una voce diver­ sa, pulita, rinnovata nel contesto angusto, falso e ottuso del film, non è differente dagli altri nemmeno quando decide di esserlo. Cade nella trappola della falsa ninfetta, ricatta i corrotti superiori, coltiva un’idea superficiale di corpo, e in ultima analisi, non diversamente da più d’un classico eroe negativo americano (si pensi al Gatsby di Fitzgerald), si getta a capofitto in quella che R.W B. Lewis chiama “the legend of the second chance”. In lui, oltre alla tipica tensione fra i due “partiti” ame­ ricani teorizzati da Emerson - quello della Speranza e quello della Me­ moria - si legge perfettamente il terzo partito di cui parla Lewis, quello dell’ironia. In bilico fra il sogno americano del futuro perfetto e la tara del peccato sociale incancellabile predicata dal calvinismo nazionale, l’uomo diventa espressione di una lacerazione irrimediabile, destinato - proprio come Gatsby - a essere ucciso da un nevrotico geloso per una colpa che non ha commesso. Insomma, dietro la apparente obiettività fotografica di American Beauty sta un intero mondo simbolico che si rivela non soltanto per i suoi contenuti “altri” rispetto a questa apparenza, ma anche attraverso i modi a dir poco ambigui della narrazione. Realismo e Simbolismo, nell’accezione lombardiana, dunque, per­ meano questi due film così diversi, ma legati insieme da un’indistricabile tessitura di opposti: l’uno fantastico, sì, ma con imprevedibili ma­ terialità e concretezza, l’altro spaccato sociale denso di rimandi simbo­ lici e soprattutto organizzato su un terreno espressivo che di realistico ha ben poco. Se una linea del cinema americano odierno va individuata attraverso l’esemplificazione da essi fornita, questa è proprio nell’im­ possibilità - una volta ancora - di dividere nettamente ed esclusivamente ciò che è reale (o realistico) da ciò che non lo è. Ovvero nel ri­ badimento che, soprattutto in America, Lumière e Meliès continuano a essere due facce della stessa medaglia.

Riferimenti bibliografici Sull’opposizione fra Realismo e Simbolismo nella letteratura ame­ ricana si veda il classico studio di Agostino Lombardo, Realismo e Sim­ bolismo. Saggi di letteratura americana contemporanea, Ed. di Storia e Letteratura, Roma, 1957; sull’importanza della fiaba nel cinema di Coppola si possono trovare riferimenti in Renzo Trotta, Francis Ford Coppola, Le Mani, Genova, 1996; la tesi di Maria Sole Checcoli, Il go­ tico di Tim Burton, è stata discussa, relatore chi scrive, nella Facoltà di

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Lingue e Letterature Straniere Moderne nella sessione estiva dell’AA. 1996-97; il riferimento alla “legend of the second chance” e quello al terzo partito americano da aggiungere ai due teorizzati da Emerson so­ no in R. W B. Lewis, The American Adam. Innocence, Tragedy, and Tra­ dition in the Nineteenth Century, The University of Chicago Press, Chicago and London, 1971.

Capitolo 5

Fanteria dello spazio di Paul Verhoeven

Quando alla fine degli anni Cinquanta uscì il romanzo omonimo di Robert Heinlein l’universo della SF entrò in subbuglio: ma come? proprio nella nicchia che quel decennio aveva riservato al libero pen­ siero, proprio in quella SF che era stata il rifugio e la palestra degli spi­ riti più aperti e democratici in un momento di buio intellettuale e po­ litico, proprio lì si doveva vedere una celebrazione del militarismo fa­ scista? Non è nostro compito seminare incertezza sulla granitica lettu­ ra ideologica di quest’opera sfornata da tanta critica negli ultimi 40 an­ ni. Ci pertiene invece di più chiarire la natura dell’operazione di Ve­ rhoeven, al quale - è importante ricordarlo - non dobbiamo soltanto qualche discutibile pellicola (di cassetta o meno), ma anche un paio fra i migliori film di SF contemporanei. Purtroppo buona parte della critica funziona sulla base di un prin­ cipio del mondo selvaggio ben noto agli etnologi sin dai tempi di Fra­ zer, quello analogico. Ovvero: dal momento che il romanzo di Hein­ lein era filofascista, allora lo è anche la sua trasposizione cinematogra­ fica. Cosa che ha fatto giustamente imbestialire il sanguigno regista olandese, i cui intenti erano esattamente opposti, ciò che del resto si evince, come si suol dire, ad apertura di pagina: il film incomincia con un’impagabile serie di brevi flash documentaristici sullo stato di guerra che affligge la terra, impegnata contro l’invasione di insetti giganteschi su vari pianeti. Lo stile è un po’ quello della produzione Why We Fight?, ma con un tono chiaramente ironico che lascia intendere bene quale sarà la dominante del film. E allora? E allora, come spesso accade, bisogna stare attenti a non lasciarsi irretire dalla superficie e da ciò che questa risveglia in noi. Nel caso particolare, la tradizione cinematografica SF degli anni Cinquan­ ta, cui certamente Fanteria dello spazio è connessa con quei suoi insettoni schifosi e giganteschi che minacciano l’umanità. Tarantole, formi­ che e altra entomologia, ne abbiamo visti tanti, e tutti esprimevano un

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terrore evidentemente collegato con l’era atomica allora appena inizia­ ta, in un contesto sostanzialmente paranoico che la questione della guerra fredda alimentava giorno dopo giorno. Oggi le cose stanno di­ versamente. Oggi un insetto è un insetto (o al massimo suggerisce che qualcosa non funziona non solo nella nostra mente, ma anche nella no­ stra idea di corpo: cfr. La mosca di Cronenberg), la straordinarietà del­ le sue dimensioni non è conseguenza di un’imprudenza umana, ma una questione di evoluzione biologica. Molto di più: la sua aggressività è qui giustificata da una mossa falsa di carattere colonialistico da parte di gruppi terrestri (i mormoni: interessante e sottile allusione all’inte­ gralismo religioso come fonte di problemi politico-diplomatici e in ul­ tima analisi di guerra; il pensiero, peraltro, non può non correre agli odierni insediamenti dei coloni israeliani in terra palestinese). Come sovente accade, il torto iniziale non viene riconosciuto e la storia della situazione parte dal suo secondo atto, pretendendo peraltro che si tratti del primo: l’attacco dei nemici è prova non della loro rivolta a un’in­ giustizia, ma della loro volontà imperialistica e distruttrice, un po’ in­ somma come era successo col Vietnam. E con il Vietnam (o meglio con la Corea) il romanzo di Heinlein era in fondo imparentato: più che bat­ taglie spaziali, soprattutto striscianti marce d’avvicinamento nel fango come nella più snervante guerra di posizione. Verhoeven preme anche il pedale della guerra spaziale (e con ottimi effetti speciali), ma in lui è leggibile in modo inequivocabile una traccia dell’esperienza vietnami­ ta: non tanto nell’eventuale immagine del conflitto come guerriglia (questo nel film non avviene mai), quanto nello spirito che informa non il suo film ma la sua critica. Perché di critica infatti si tratta. Sin dall’inizio veniamo informati su un mondo che ha visto la “cri­ si della democrazia” e che per questo incentra ogni sua azione sulla teoria e l’apologià della violenza a partire dalla distinzione fra “citta­ dini” e “civili”, precisa esemplificazione di un’idea fascista di società. Tali principi vengono insegnati nelle scuole in un modo non dissimile da quello in cui i professori infiammavano di patriottismo i loro giova­ ni pupilli in All’Ovest niente di nuovo. Solo che Johnny, Carmen e Diz non assomigliano tanto al Paul di Milestone-Remarque quanto piutto­ sto ai Curt e Steve di American Graffiti: alla fine del ciclo scolastico non hanno la minima idea di ciò che vogliono e regolano le loro scelte di vita futura in base a motivazioni esterne e immature. Nessuno di lo­ ro - magari anche solo erroneamente - è chiamato da una voce inter­ na, da una retorica inculcata ma dopotutto anche assimilata. No, John­ ny segue stoltamente Carmen su una strada che necessariamente non potrà essere la stessa (e la partenza della ragazza esprime stupenda­ mente questa possibilità: il convoglio l’allontana d’improvviso da Johnny a una velocità spaventosa), e Diz cade in un errore simile (con

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la differenza che il suo sentimento per il ragazzo è molto forte). Dal punto di viste delle scelte e delle vicende personali dei personaggi Fan­ teria dello spazio interessa poco in quanto film di SF e presenta invece alcuni nodi strutturali tipici del melodramma cinematografico: il modo in cui i percorsi dei tre maggiori protagonisti si intrecciano sullo sfon* do della guerra rimanda a una vera e propria tradizione di melodram­ ma bellico - da Addio alle armi a Tempo di vivere, tempo di morire - e Diz ha perfettamente ragione quando, finalmente fra le braccia di Johnny, dopo aver sorriso sollevando così la curiosità del giovane che le chiede: “Che cosa c’è di divertente?”, gli risponde: “Il modo in cui si risolvono le cose”. È una lezione che viene dritta dal Goethe del Mei­ ster e che proietta questo film “fascista” in una dimensione umanistica e razionale la quale ben poco s’adegua a quella stoltamente appiccicata etichetta. Fanteria dello spazio, peraltro, rimane sostanzialmente un film d’avventura e da questa angolazione soprattutto va osservato. La pel­ licola si muove costantemente su due piani paralleli che non si identi­ ficano necessariamente soltanto nei due moduli narrativi del documen­ tario e del film d’azione. È vero, cioè, che al primo è delegata la chiave ironica e talora addirittura satirica, laddove l’altro appare come il re­ soconto drammatico delle vicende relative alla vita dei protagonisti du­ rante il loro servizio militare in tempo di guerra. Ma è anche vero che, più sottilmente, anche il secondo piano denota occasionalmente la chiave dell’altro, e con un’incidenza resa molto più acuta proprio dall’apparenza seriosa della storia e dell’azione. Quando un capo in te­ sta, arringando i suoi uomini, afferma in tutta solennità: “Dobbiamo dimostrare che siamo più intelligenti delle cimici!” raggiunge un grado di comicità ancor maggiore di quello della voce del commentatore di telegiornale che poco prima, mostrandoci dei ragazzini che per strada calpestano alcuni scarafaggi, aveva affermato che in quella guerra “ognuno deve fare la sua parte”. Ed è un grado di comicità infinita­ mente maggiore di quello che la medesima battuta avrebbe potuto esprimere in uno dei tanti film demenziali di quest’ultimo ventennio, perché pronunciata in un contesto che non è programmaticamente co­ struito in termini di ammiccamento allo spettatore (il modo ironico, come definito da Frye) ma di regolare azione drammatica in una sorta di ascesi, sempre per dirla col Frye, dal basso all’alto-mimetico. È que­ sta la caratteristica primaria e determinante della pellicola: avendo i medesimi intenti di Mars Attacks!, è però costruita come Independence Day. In ogni caso, essa fa parte della voga cinquantesca che da qualche tempo agita la SF cinematografica hollywoodiana. Non credo però si tratti soltanto - come invece ha affermato Verhoeven - del problema, da parte degli Usa, di trovare un nuovo nemico dopo la caduta dell’im­

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pero comunista. Questo è certo vero in sé e vale per opere come Inde­ pendence Day, ma non spiega affatto la forte componente umoristica e satirica all’interno della tendenza. In fondo Fanteria dello spazio asso­ miglia, nelle strutture dell'azione, più a un war movie degli anni Cin­ quanta, il quale senza il supporto ideologico reale (giapponesi, nazisti eccetera), sostituito da... cimici, diventa dopotutto una gigantesca ope­ razione galattica di derattizzazione, la celebrata Fanteria del titolo ve­ nendo a equivalere a operatori della Rose Exterminator. Che il regista avesse in mente soprattutto il vecchio film di guerra americano è evi­ dente anche dall'armamento: mitra con proiettili e bossoli sono anti­ diluviani in un futuro come quello del film. Laddove invece è alquanto audace (e conseguentemente divertente), ai fini del raggiungimento di questa identificazione, concepire l’armata degli insetti in termini di suddivisione in vere e proprie armi: l’aviazione, la fanteria, persino dei guastatori lanciafiamme nella bellissima e spettacolare idea di quei tanker enormi che sorgono improvvisamente dal sottosuolo. Ma quan­ to a generi non va dimenticata la componente western del film: da frasi come “L’unica cimice buona è una cimice morta” a scene come quelle della trappola nel fortino sul pianeta P, la pellicola ne denuncia una forte contaminazione. La SF è dunque soltanto un involucro, che però entra a far parte del discorso critico di Verhoeven, dal momento che la sua visione del futuro non denota mutamenti importanti rispetto ai vecchi modi di conduzione della guerra (a parte forse un’asettica pro­ miscuità sessuale nella vita militare), esattamente come, del resto, non sembra che la razza umana abbia elaborato un’idea teorica di guerra più sofisticata rispetto a quella che portò alla carneficina dell’ultimo conflitto mondiale. Dove il regista si attiene strettamente alla tradizione SF è nelle sce­ ne di combattimento spaziale, vale a dire in ciò che ha fatto della space opera cinematografica il prodotto anonimo che è oggi diventata. Ma ri­ spetto al solito filmetto spaziale Verhoeven ha un’importante giustifi­ cazione: la visione delle battaglie, stellari o meno, era necessaria per rendere il senso del pericolo, della distruzione e della morte, fornendo così all’ideologia del militarismo lo spazio per potersi sviluppare e di­ chiarare, e ponendo in tal modo le premesse perché il regista fosse in grado di metterla sotto il riflettore e farne oggetto di critica. Il proble­ ma anzi è tutto qui: il modo estremamente verosimile in cui Verhoeven mostra la predicazione (e l’esempio) di Rasczak e i suoi risultati può in­ durre i meno attenti a una lettura letterale della componente militari­ sta e a scambiare il contenitore per il contenuto. Persino quelli che sembrano i difetti del film, dunque, vi allignano con la funzione di sostenerne l’intenzione satirica. Il salvataggio di Johnny e Diz, che sembrano ormai irrimediabilmente spacciati e che -

FANTERIA DELLO SPAZIO DI PAUL VERHOEVEN

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veniamo poi a sapere - sono stati salvati da Rasczak, non ci viene af­ fatto mostrato, e anzi si ha il sospetto che Fazione non goda di alcuna registrazione ufficiale (Carmen continua a ritenere Johnny caduto in battaglia, ché tale lo indicano le informazioni del comando): la banda di Rasczak, insomma, pur obbedendo agli ordini del comando strate­ gico, pare essersi ritagliata uno spazio d’azione non verificabile né con­ trollabile da parte di quest’ultimo, insomma una specie di SS, di grup­ po militare privilegiato, di corpo speciale. Dunque, la disperata situa­ zione di Johnny e degli altri durante quell’attacco è il correlativo og­ gettivo dell’eccezionaiità del loro salvataggio, che è un esempio di su­ blime economia non avere mostrato dal momento che il primario in­ teresse del regista era quello di focalizzare un’ideologia più che quello di presentarci delle azioni belliche (peraltro, come si diceva, giusta­ mente abbondanti nella pellicola). L’intelligenza di Verhoeven, tuttavia, investe l’intera concezione del film, dal momento che il regista ha compreso molto bene come qualsiasi opera di carattere politicamente estremistico ha in sé in germi della propria critica, l’occasione della propria contraddizione. Il di­ scorso antimilitarista di Verhoeven trova infatti proprio nell’articola­ tissimo filomilitarismo del romanzo originario il terreno su cui fondar­ si e germogliare, ché basta spingere il rigorismo dell’assunto alle sue estreme conseguenze per operarne la distorsione in una direzione sati­ rica inequivocabilmente critica. Per questo non si ha il diritto di croci­ figgere un uomo d’ingegno animato dalle migliori intenzioni. Chi legge le cose diversamente dovrebbe prendere in considerazione l’idea di cambiare mestiere.

Capitolo 6

Soldati e filosofi: Malick e il trascendentalismo americano

L’esperienza americana in Vietnam, con la sua “eredità di bugìe, er­ rori e impotenza” e conseguentemente “la perdita di fiducia nelle figu­ re d’autorità paterna, nelle istituzioni sociali e nelle credenze che tutti ritenevano certe” (Linda Dittmar e Gene Michaud) ha avuto alcune importanti conseguenze anche sul film bellico hollywoodiano. Secon­ do la sua usuale prassi eufemistica - incoraggiata, durante la seconda guerra mondiale, dal poeta Archibald MacLeish, capo dell’Office of War Information e convinto che la cinematografia nazionale avrebbe più facilmente aiutato lo sforzo bellico americano evitando pellicole sull’argomento e dandosi invece a film d’intrattenimento che pur allu­ dessero al conflitto in corso - Hollywood si è ben guardata dal trattare il tema cinematograficamente durante il lungo periodo del suo cotnvolgimento nazionale nel sud-est asiatico (unica eccezione essendo l’addirittura ridicolo, a tratti, I berretti verdi [The Green BeretsJ, 1968, di John Wayne), preferendo “rivisitare” la guerra del Vietnam una vol­ ta che essa giunse alla sua poco gloriosa conclusione, e di farlo - anche, se non soprattutto - con una pletora di pellicole sostanzialmente e pue­ rilmente revansciste (Rambo & Co.). Ma la conseguenza forse più im­ portante è che dopo quell’esperienza non è difficile leggere in filigrana in qualunque film bellico americano odierno quanto essa abbia pesato sulla coscienza e sull’immaginario nazionale. Non deve dunque meravigliare se a taluno La sottile linea rossa (The Thin Red Line, 1998) di Terrence Malick può essere sembrata una pellicola sul Vietnam, o comunque fortemente condizionata da, allusi­ va o addirittura metaforica di quell’esperienza. Il nemico “giallo”, le sue crudeltà, il suo diverso senso della vita e della morte, la scenografia esotica di una natura affascinante e sublime che assiste impassibile al compiersi di orrende tragedie quotidiane personali: questo e altro il fronte del Pacifico e la guerra in Vietnam avevano in comune, talché un

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qualunque racconto della seconda può ben apparire simile a uno della prima (e viceversa). Con la differenza, come si diceva, che l’esperienza vietnamita aveva insinuato nella nazione, e soprattutto nei combatten­ ti, la coscienza che gli alti comandi e più ancora i capi delle unità non fossero poi tanto degni del carisma che, magari soltanto dopo molte vi­ cissitudini e una sofferta maturazione da parte dei soldati, come in Iwo Jima deserto di fuoco (Sands ofIwo Jima, 1949) di Allan Dwan, essi eb­ bero invece durante la guerra nel PacificoQuesta somiglianza è ancor più consolidata da un ulteriore terreno comune: l’elaborazione, nell’immaginario nazionale americano, di un destino che segna a cadenza l’espansione (che di espansione si tratta) della nazione in termini di conquista della frontiera. Come ha magni­ ficamente dimostrato Richard Slotkin nel terzo volume del suo monu­ mentale trittico sulla frontiera americana, Gunfighter Nation. The Myth of the Frontier in Twentieth-Century America, ben poco differen­ zia, soprattutto sul terreno ideologico, film come Per chi suona la cam­ pana (For Whom the Bell Tolls, 1939) di Sam Wood, Bataan (id., 1943) di Tay Garnett, Obiettivo Burma (Objective Burma, 1945) di Raoul Walsh, Il massacro di Fort Apache (Fort Apache, 1948) di John Ford. La cinematografia bellica americana degli anni Quaranta (l’allusione è a una produzione che va ben oltre i limiti del singolo genere) è fatta di “Last Stands and Lost Patrols”: il primo termine riportando inevitabil­ mente al discutibile e discusso mito nazionale di George A. Custer, il secondo essendo un altro referente mitologico, questa volta più diret­ tamente cinematografico, quel La pattuglia sperduta (The Lost Patrol, 1934) di John Ford che in séguito avrebbe fornito il modello per nu­ merose variazioni sul tema, dal western Bad Lands (1939) di Lew Lan­ ders a Sahara (id., 1943) di Zoltan Korda - a sua volta alla base di un remake western, Nuvola nera (Last of the Comanches, 1952), di André de Toth - all’archetipo Bataan di Tay Garnett, già citato, sul quale ri­ torneremo. La sottile linea rossa è dunque ideologicamente una pellicola che avrebbe potuto essere girata molto tempo fa, scevra peraltro della pa­ tina propagandistica che il film bellico dei tardi anni Quaranta si por­ tava naturalmente dietro a beneficio dell’immaginario nazionale, cer­ to, ma soprattutto dei nuovi mercati europei destinatari del piano Marshall e dell’operazione di colonizzazione economico-politica ame­ ricana nel vecchio continente. Ma vi è dell’altro. Essa, com’è noto, traspone cinematograficamente l’omonimo ro­ manzo di James Jones (1962), che trova la sua fonte ispiratrice nel pre­ cedente Il nudo e il morto (1948) di Norman Mailer, libro al quale il film Malick è certamente più vicino: non certo per le notevoli variazioni operate sul testo di James Jones (la parte ben più ampia e importante

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concessa al personaggio di Witt, il prologo sull’isola felice, peraltro un momento ovvio, scontato e sostanzialmente irritante della pellicola ec­ cetera), ma piuttosto per Io spirito critico che lo pervade, per la sostan­ ziale identità ideale con alcuni dei suoi personaggi, per la comune lon­ tananza dalla tradizione del realismo documentaristico di carattere bel­ lico e dalla messa in scena di “una prospettiva soddisfacente” (Carol Shloss) relativa a ciò che avviene sul terreno di guerra (spesso, sia in Mailer che in Malick, protagonisti e lettori-spettatori non sono affatto messi nelle condizioni di comprendere la localizzazione di ciò che sta avvenendo, la topografia immediata della scena davanti ai loro occhi). Nella versione hollywoodiana di Raoul Walsh (1958) il romanzo di Mailer si allineava invece al modello fornito dall’archetipo Bataan di Tay Garnett (ma anche al già citato Obiettivo Burma dello stesso Walsh): una galleria di personaggi sfilano sullo scenario della guerra nel Pacifico, dando volto e voce a caratteri, posizioni, pensieri e ideologie catalizzate dalla situazione bellica e presentate con violenza e crudezza. Malick invece, si domanda insieme a Mailer (e in modo anche più chiaro e diretto): perché la guerra? E aggiunge: che cosa ci ha portato a essa, a perdere il senso dell’innocenza, della natura, della bellezza, della pietà? Sono domande, tuttavia, che, poste dalla voce fuori campo - espe­ diente così tipico del suo cinema - non intendono affatto ottenere ri­ sposta. E non perché una risposta non esista, ma perché il regista non ha tanto intenzione di capire le ragioni della disumanità bellica quanto di esprimere, secondo un lirismo che è un suo tratto caratteristico, un disorientamento della ragione e dello spirito. Malick insomma, a onta del suo passato di insegnante di filosofia al MIT, più che un pensatore è un moralista (nel senso migliore, s’intende): quel che gli interessa è leg­ gere nella guerra l’ampiezza dello spettro morale di cui l’uomo è capa­ ce: la bassezza e il cinismo del colonnello che, come il generale Cum­ mings di Mailer, prende le proprie decisioni strategiche e compie le proprie valutazioni tattiche solo in funzione di quanto il risultato po­ trebbe servire alla sua carriera; il cinismo benevolo e asciuttamente tor­ mentato del sergente Welsh, che gli permette di resistere agli orrori che vede e addirittura di compiere atti eroici; il travaglio morale e cristiano del capitano Staros, che paga per il proprio senso umano di responsabi­ lità nei confronti dei suoi uomini; l’innocenza dell’anima bella di Witt che, come lo Hearn di Mailer, funge per l’autore da “forma dislocata di autoriflessione” (Carol Shloss) e che figura un po’ come, per dirla con Gavin Smith, “un’avventura nella meraviglia dei sensi e dello spirito”. Tutto questo riporta, in certa misura, a una radicata tradizione in­ tellettuale e spirituale americana, quella del Trascendentalismo. Vi ri­ torneremo fra un momento.

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Per ora è necessario rilevare come la funzione centrale del com­ mento fuori campo - ripeto: una costante del cinema di Malick - con­ tribuisce a porre un formidabile problema morale, sì, ma più largamen­ te filosofico. Da un lato Witt incarna una sorta di ideale Arpa Birmana, mossa tuttavia non soltanto dalla pietà, ma anche da un sentimento di fratellanza, di comunità e d’amore verso il prossimo (egli non solo aiu­ ta e conforta i compagni, non solo si offre al sublime sacrificio finale, ma mostra compassione anche verso i prigionieri giapponesi, che a dif­ ferenza da altri suoi commilitoni non maltratta, non insulta, non feri­ sce, non uccide, giungendo addirittura a offrire - quasi ingenuamente - a uno di loro della gomma da masticare). Per questo Witt non com­ prende la guerra e ciò che ha portato degli esseri umani a combatterla, e a combatterla senza quartiere, a mutilare, squartare, torturare altri esseri umani. E tutto, si noti, sullo sfondo di una natura bella e impassi­ bile, entro la quale continuano a compiersi, incuranti del dramma, gli abituali ritmi della vita e della sua rigenerazione (la nascita dell’uccelli­ no dall’uovo). Dall’altro lato, coloro che sembrano incapaci di formu­ lare una riflessione del genere: non solo il colonnello, ma anche il ser­ gente Welsh, col quale Witt instaura un contraddittorio che va ben ol­ tre l’abusato tòpos militare dell’antipatia e dello scontro fra sottufficia­ le e soldato (un esempio del quale è dato proprio da James Jones nel suo più celebre romanzo, Da qui all’eternità). Welsh incarna - o me­ glio, sostiene - in sostanza la tesi sadiana che vuole la natura come uno stato di flusso caotico, come una follìa che afferma tutto (e quindi nul­ la) contemporaneamente. Lo scontro Rousseau-Sade (spogliato ovvia­ mente del ruolo importantissimo che in quest’ultimo riveste la sessuali­ tà) non poteva essere più chiaro. Witt è l’uomo roussoviano, felice e in­ nocente in una natura di cui egli è specchio e insieme prodotto; Welsh è il rappresentante sadiano, non “cattivo”, ma indifferente, conscio dei fatto che l’uomo non è affatto un essere privilegiato, ma - appunto un dionisiaco, ctonio bruto non diverso da un vegetale che lotta natu­ ralmente per la vita a spese di altre vite. Un’opposizione, un dualismo perfettamente espressi dal primo quando medita:

Un uomo guarda un uccello morente e vede il dolore universale. Un altro vede quello stesso uccello, e percepisce la gloria, percepisce qual­ cosa che sorride attraverso di esso. È evidente che l’innocenza roussoviana non basta davanti al qua­ dro che Welsh dipinge per Witt, per cui questi deve di necessità formu­ lare delle domande che, pur restando, come si diceva, senza risposta, lascino intravedere uno spazio morale più profondo di quello leggibile nel semplice “stato di natura”: il male è soltanto in noi o fa invece par­

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te dell’intera struttura del mondo creato? è una costruzione culturale o è qualcosa di insito nella natura stessa? Intendiamoci: l’inverosimiglianza di questa inchiesta è davanti agli occhi di tutti. Chi può credere a un soldatino che, sia pure con voce fuori campo, parla come un filosofo mistico, soprattutto se si conside­ rano le impellenti, drammatiche circostanze nelle quali tali pensieri e domande vengono formulati? I fantaccini di Malick suonano piuttosto come certi eroi della grande tragedia d’epoca moderna, dal Tamerlano di Marlowe al Goetz di Sartre. E evidente dunque che in La sottile li­ nea rossa la profondità di sensibilità e pensiero che questa aveva attri­ buito alla classe aristocratica passa dritta fra i rappresentanti del popo­ lo, secondo una prassi che ritroviamo nel Trascendentalismo america­ no ottocentesco. E anzi non è peregrino leggere nell’insistenza del regista su taluni particolari forme naturali (l’uovo che si schiude, la foglia delicatamen­ te toccata dal soldato steso sul terreno prima della ripresa del combat­ timento sulla collina, la statuaria eleganza dei variopinti pappagalli, l’intrico imponente delle foglie degli alberi che formano quasi un arco a cappella come quello osservato da Henry Fleming in II segno rosso del coraggio di Stephen Crane eccetera) un collegamento con l’estetica trascendentalista che vedeva il primato delle forme organiche negli ar­ tefatti dell’uomo, talché, come ricorda Francis O. Matthiessen, lo stes­ so Emerson ne aveva stilato un elenco a memento di quanto la natura avesse fornito alimento al prodotto dell’ingegno umano. Ha certo ragione Gavin Smith quando afferma che

[...] il “surplus” visuale di riprese relative a animali, uccelli, vita vege­ tale, di giungla, cielo, acqua, intricate tessiture, spazio e luce, impone una prospettiva metafìsica e riafferma un ordine e un’armonia nel mondo che fanno impallidire il significato della guerra. La natura, insomma, diventa davvero, secondo le parole di Emer­ son nel celebre saggio omonimo, “un’appendice dell’anima”. Quella stessa immortalità di cui parla la voce di Witt - che, dice, non l’ha mai vista e l’identifica probabilmente nella calma osservata nella madre in punto di morte - non è tanto l’oggetto primario di una legittima e an­ siosa curiosità umana. Il vero interesse di Witt (come quello di ogni tra­ scendentalista) è in un’altra domanda, perfettamente formulata pro­ prio da Emerson: “Più alta della domanda su quanto dureremo è la questione sul fatto se noi lo meritiamo”. Una mirabile messa a punto di ciò che veramente preme al giovane kentuckiano, un soldatino-filo­ sofo che finisce per confondersi con l’immagine di Emerson stesso, se ricordiamo con quali parole lo definisce un suo contemporaneo, Octa-

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vius Brooks Frothingham: “Egli è un’idea senza corpo. Quando parla o scrive, la sua potenza è quella del puro pensiero”. Ecco, Malick ha creato dei combattenti e fra di essi ha inserito un’idea senza corpo, un puro pensiero assetato di universo non meno di un altro grande artista che ebbe per il Trascendentalismo un enorme rispetto e che improntò la propria arte ai suoi principi, quel Charles Ives cui - ricorda ancora Gavin Smith - non a caso rimanda spesso la colonna musicale della pellicola, quel Charles Ives che negli Essays be­ fore a Sonata - scritti teorici relativi alla sua Concord Sonata (19091914) - afferma che nella parte che lo concerne, fra le quattro di cui l’opera è composta, Emerson è in piedi in cima a una montagna, “alle porte dell’infinito”, in un luogo cui ben pochi hanno il coraggio di ar­ rivare, mentre contempla le “eternities”. Un’immagine di estrema nobiltà, gloriosa verifica dell’ispirazione filosofico-morale che ha portato Malick a concepire questo film. Ma un’altra e non minore nobiltà la ritroviamo talora nel nemico. La sequenza dell’attacco finale alla collina (un momento che ha tutte le carte in regola per rimanere nella storia del cinema, e certamente il più alto del film) manifesta uno strazio dell’anima che riassume e supe­ ra ogni pensiero. In un quadro che nello spirito non è lontano dall’atroce visione della battaglia di Maratona nella versione dei Sepol­ cri foscoliani, l’orrore del combattimento trova il suo riscatto nei blateramenti assurdi, nella pietà religiosa, nell’orgoglio sanguinante, nella paura e nel dolore dei vinti, riassunto in modo mirabile nell’immagine di un soldato piangente che difende impotente con una risibile baio­ netta stretta in mano il compagno morente al corpo del quale fa da de­ bole scudo. Quanti altri giapponesi vediamo piangere un amico nella disfatta di quell’attacco, contrappunto morale all’estraneità e all’indif­ ferenza reciproca che serpeggiano fra i soldati americani sin dall’inizio dello sbarco. Non perché i nipponici siano migliori degli yankees, ma solo per mostrare come quella “scintilla” che Witt vede in Welsh - e che Welsh pensoso proclama spenta davanti alla tomba dell’altro - non è patrimonio di una civiltà, di una cultura, di una tradizione filosofica, ma dell’umanità intera.

Riferimenti bibliografici Le affermazioni sull’eredità della guerra in Vietnam e sulla perdita di fiducia nell’autorità, nelle istituzioni e nelle credenze comuni sono nel saggio introduttivo (“America’s Vietnam War Films. Marching toward Denial”) firmato da Linda Dittmar e Gene Michaud, curatori dell’ottimo volume collettaneo From Hanoi to Hollywood. The Viet-

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nam War in American Film, Rutgers UP, New Brunswick and London, 1990; l’identità di film bellico e di western negli anni Quaranta, su un terreno di carattere ideologico e specificamente in chiave di frontiera americana, è sostenuta convincentemente nel fondamentale studio di Richard Slotkin, Gunfighter Nation. The Myth of the Frontier in Twen­ tieth-Century America, Atheneum, New York, 1992; la lontananza del romanzo di Mailer dalla tradizione del realismo documentario e la programmatica mancanza in esso di una “prospettiva soddisfacente”, nonché la lettura del personaggio di Hearn come “forma dislocata di autoriflessione” autoriale, sono idee di Carol Shloss, Invisible Light. Photography and the American Writer:1840-1940, Oxford UP, New York - Oxford, 1987; la definizione di Witt come “un’avventura nella meraviglia dei sensi e dello spirito”, la notazione sulla “prospettiva me­ tafìsica” attribuita alla pellicola di Malick dal “surplus” di immagini naturali e il riferimento a Charles Ives sono nella recensione di Gavin Smith, “Let There Be Light”, Film Comment, 35, 1, Jan./Feb. 1999, mentre il riferimento di Francis O. Matthiessen all’elenco stilato da Emerson sul primato delle forme organiche è nel suo celebre Rinasci­ mento americano, Mondadori, Milano, 1961; la citazione da Emerson sull’importanza di meritarsi l’eternità, insieme alla definizione del filo­ sofo americano come “idea senza corpo” è in Octavius Brooks Frothin­ gham, Transcendentalism in New England. A History, Harper & Bros., New York, 1959 (ma originariamente pubblicato nel 1876 da Putnam, New York).

Capitolo 7

A Texas funeral di William Blake Hanon

Il giorno in cui si scriverà un libro su Faulkner nel cinema A Texas Funeral dovrà avere un capitolo tutto suo. Il film è infatti un compen­ dio dei maggiori temi faulkneriani: la morte e le esequie, l’osservatorio privilegiato di una mente bambina, la paura della miscegenation, il sen­ so epico della famiglia, la malattia mentale, la mitologia della gestazio­ ne e altro ancora. Il giorno in cui si scriverà un libro su Eudora Welty nel cinema A Texas Funeral (1999) dovrà avere un altro capitolo tutto suo. 11 film è infatti un compendio dei maggiori temi weltyani: il rito di passaggio dall’infanzia a uno stadio superiore, la magia che si scopre nella realtà quotidiana senza alcun sussulto, quasi fosse sua normale parte inte­ grante, il punto di vista circoscritto (di derivazione jamesiana) di un te­ stimone bambino, la qualità onirica dell’esperienza, il senso statico del tempo e altro ancora. Ecco, si potrebbe continuare così, citando allo stesso modo Carson McCullers, Thomas Wolfe, Truman Capote, William Goyen e altri scrittori meridionali americani che stanno dietro a un film del genere. Perché A Texas Funeral è un distillato del Sud statunitense, una specie di ideale manuale molto poco turistico, ma comprensibile appieno sol­ tanto a chi quella terra, quell’eloquio, quel costume lo conosce già molto bene e sa leggerli anche quando non sembrano imporsi in modo immediatamente riconoscibile allo spettatore. Per di più è bene ricordare che qui non siamo genericamente “nel Sud”, bensì in Texas, uno stato che si è meritato specifici studi di carat­ tere e di costume, appunto, quali quelli di un conterraneo alquanto il­ lustre come Larry McMurtry, narratore di storie straordinarie incen­ trate su di esso. 11 cinema americano ci ha dato spesso ritratti di quello stato, da I cavalieri del Texas (The Texas Rangers, 1936) di King Vidor a The Texan (1938) di James Hogan, da Texas (id., 1941) di George Marshall

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a Solo per te ho vissuto (So Big, 1953) di Robert Wise, da II gigante (The Giant, 1956) di George Stevens a Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956) di John Ford, non tralasciando nemmeno altri generi oltre al western, come il musical con La sirena del circo (Texas Carnival, 1951) di Charles Walters e l’horror con Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, 1974) di Tobe Hooper. Non parliamo poi di Easy Rider (id., 1969) di Dennis Hopper e lasciamo stare tutti quelli tratti dai romanzi dello stesso McMurtry. Sono ritratti codificati che, indi­ pendentemente dalla riuscita e dall’importanza estetica delle singole pellicole, hanno contribuito a una conoscenza “hollywoodiana” del Texas: vale a dire, a stabilire alcuni tratti caratteristici - o supposti tali - che hanno reso quello stato un luogo paradigmatico nell’immaginario planetario. Quando vediamo il nero William tenere per mano Miranda e poi baciarla davanti agli occhi impietriti dei familiari della donna, verso la fine della pellicola, ci corre dentro un brivido: Hollywood ci ha abitua­ ti, in casi del genere, ad aspettarci un linciaggio. E ci ha abituati anche a Stetson larghi come ombrelli, a Lama Boots che sembrano colonne doriche, a rodei e a cavalcate anche in pieno ’900: tutte cose che A Texas Funeral non ci fa vedere. Al funerale i pall-bearers portano dei cappellini stretti stretti che sembrano quello di Tom Waits, e quanto ai cavalli qui in bella mostra c’è “soltanto” un cammello (che peraltro porta il nome del comandante in capo delle forze sudiste durante la guerra civile: Robert E.). Un Texas strano, si dirà. Sì, se appunto lo misuriamo coi metro hollywoodiano. No, se tralasciamo la retorica di quest’ultimo e lo os­ serviamo per quello che è: una terra meridionale che, come ogni mez­ zogiorno al mondo, vuole esibirsi in uno spettacolo di se stesso che non corrisponde alla verità ma che è in gran parte apparenza, debolezza ammantata da princìpi come onore, virilità, dovere, cui tuttavia non sempre corrisponde un sentire sincero, una coerente adesione. In qualcosa comunque Hollywood ha detto la verità: come in tutti i gruppi sociali agricoli, nella cultura sudista sono spesso i patriarchi gli unici a incarnare e a perseguire quei principi, fornendo alle altre ge­ nerazioni un modello di pensiero e di comportamento, in quelle pla­ ghe purtroppo rovinato dal ricorso alla violenza (nella fattispecie, un mito nel mito della cultura americana: l’arma da fuoco). È sintomatico che il nonno del piccolo protagonista gli parli col tono e la saggezza dell’anziano per poi lasciargli in eredità la sua collezione di fucili. Del resto, tutto nel Texas - e nel Sud in genere - è un misto di ma­ terialità e idealità: il proprietario terriero che mostra con orgoglio al nipotino la vastità della prateria si imbarca in un’assurda impresa di cammelli. È, questo, un tocco che non solo sfiora il realismo magico

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weltyano di cui si diceva più sopra, ma che rimanda a un’altra compo­ nente specifica della cultura sudista: quella del tali tale, della panzana assurda e divertente che dalle vanterie di Davy Crockett ammaliatore di orsi col semplice sorriso arriva sino al celebre episodio faulkneriano dei cavalli pezzati. Su questo terreno, più ancora del cammello è la leg­ genda dell’orecchio irresistibile dei Whit a rappresentare tale tradizio­ ne, mescolando - appunto - la forza sanguigna dell’impulso sessuale a un’invenzione di sapore fiabesco che, non fosse per le sue esemplifica­ zioni adulte, verrebbe da definire infantile. E fiabesca è la leggera tro­ vata del bambino che non parla, condotta dal regista con una mano molto fine che fa pensare a certe favole moderne (la levità di Italo Cal­ vino, la contenuta ironia di Richard Hughes). Basterebbe questo a compromettere l’usuale, trita, prevedibile visione di un Texas fatto di uomini duri, violenti, smargiassi per renderci invece un luogo di contraddizioni, titubanze, incertezze (centrale, in questo senso, la “confes­ sione” del marito alla moglie Mary Joan) che lo rende metafora del mondo stesso.

Capitolo 8

Kansas City di Robert Altman

Si sa bene quanto abbia nociuto ad Altman avere fatto un film co­ me Nashville più di 20 anni fa: da allora ogni sua pellicola ha dovuto subire un confronto col “capolavoro”. E indipendentemente dal fatto che negli anni Ottanta Altman ha non di rado girato pellicole proprio brutte, altrettanto spesso la bontà di quelle riuscite non è stata ricono­ sciuta come forse avrebbe dovuto proprio a causa di quell’inevitabile comparazione. Il caso più lampante: il recente Pret-a-porter^ costruito a struttura corale come l’altro e per questa ragione bersaglio di tutte le insoddisfazioni di chi aveva tanto amato la pellicola di 20 anni prima. In certo modo un rischio simile lo corre anche Kansas City ma sol­ tanto se ci si intestardisce a intenderlo come un sottoprodotto della (supposta) unica opera inarrivabile del genio altmaniano. Kansas City è solo in apparenza costruito seguendo la stessa strut­ tura a macchia d’olio di Nashville (e se è per questo anche del meno straripante - e bellissimo - California Poker). Quello era un affresco nel quale ogni storia era calibrata in termini paritetici alle altre, nessu­ no vi emergeva come protagonista, lasciando alla città e al festival que­ sto metaforico ruolo. Kansas City ha invece un referente fisso: la cop­ pia di donne che peregrina per la città, coinvolta nello strano, aberran­ te festival politico che vedrà il giorno seguente le elezioni vittoriose di Roosevelt (vedremo poi di quali si tratta), conferendo alla pellicola una struttura picaresca fornita di precise costanti e varianti. È una differenza importante perché comporta, ovviamente, un ac­ centramento di interesse sulla loro vicenda, che inevitabilmente sur­ classa ed emargina i molti spunti potenzialmente concessi da tutti gli altri personaggi e luoghi del film: a un punto tale che viene istintivo la­ mentare il mancato sviluppo di un personaggio come quello di Johnny (il marito di Babe, proprietario del locale “The Ship”, interpretato da Steve Buscemi) o come quello del ragazzo nero che raccoglie Pearl alla stazione e se la porta dietro per una giornata. Il fatto è che ogni perso­

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naggio esiste in funzione della storia attivata dal rapimento della Si­ gnora Stilton. Persino coloro che ne rappresentano l’antefatto appaio­ no nel film soltanto dopo che la piccola operatrice della Western Union (la prima volta che la vediamo sul luogo di lavoro, si noti, appare die­ tro a delle sbarre) si è portata via la moglie dell’uomo politico, come si rileva chiaramente dagli intermittenti flashback che seguono la sequen­ za d’apertura. Sequenza, peraltro, di notevole tensione e organizzata con una tonalità noir degna di James Hadley Chase, nella quale però Altman si diverte a inserire un elemento gotico che ne spezza il sistema di aspettative tipico del genere per assumere un’imprevista sfumatura horror (quel tuono sinistro che sottolinea il suo momento di maggior tensione), poi subito abbandonato. Altman tuttavia persegue il suo usuale discorso sostanzialmente apocalittico anche in un contesto narrativamente più ordinato come questo. E non tanto attraverso la frammentazione cronologica in un primo tempo dovuta all’uso del flasback e in un secondo momento alla parcellizzazione della storia (delle storie), quanto perché appare subito chiaro che anche qui egli dipinge un universo impazzito. Alle apparen­ ze fornite dalla retorica del film di genere fa contraddittorio riscontro il rapporto che subito (non) si instaura fra le due donne. Non c’è una battuta fra di esse che venga immediatamente intesa dall’altra, le richieste di precisazioni, chiarimenti, ripetizione di frasi e affermazioni accompagnano ogni più semplice frase profferita dall’una o dall’altra. Come sua abitudine, Altman è abilissimo a costruire mo­ delli che nei suoi piani sono destinati a svilupparsi in modo da frustrare le attese dello spettatore. Così come all’inizio ci aveva fatto piombare in pieno noir, mano a mano che la storia si protrae ecco che le due don­ ne non parlano semplicemente due lingue diverse, ma si evidenziano come abitanti di universi che non possono entrare in contatto al punto da non riuscire a comunicarsi nemmeno l’osservazione più banale, il sintagma più essenziale. Subentra allora un altro modello d’attesa: quello dell’intesa fra donne, o per meglio dire, quello di un’“educazione” della Stilton attraverso i quadri di vita, d’ambiente e di persone che il viaggio delle due per Kansas City le sottopone. E al tempo stesso un ammorbidimento di Blondie, della cui determinazione incominciamo a pensare che in fondo è soltanto una maschera imposta dalla parte che si è scelta. Per questo guardiamo con simpatia all’inversione dei ruoli, quando è la Stilton a fungere da parrucchiera per l’altra, perfetto pen­ dant della dichiarazione di schiavitù che l’altro Johnny fa al nero Sel­ dom Seen. E tutto questo mentre sullo sfondo quella che ritenevamo la forte, tenace America rooseveltiana si dà a violenze barbare in vista delle elezioni locali del 1934 sino a giungere all’omicidio in stile gangsteristico dell’unico legalista che circola per il film: altra compo-

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nente che frustra Ie nostre esperienze (e negli anni Settanta ne abbiamo avute di innumerevoli) in fatto di cinema “politico” anni Trenta: alme­ no da America 1929: sterminateli senza pietà (Boxcar Bertha, 1972) di Scorsese i violenti e gli assassini erano per tradizione dalla parte dei pa­ droni e non del “comunista” Roosevelt. Ma attenzione: l’universo impazzito di Altman non è un’altra di­ chiarazione sulla follia del mondo. L’incapacità di intendersi e di com­ prendersi nell’universo di Kansas City ha radici e ragioni precise (ad­ dirittura un suo ordine) perché in effetti si tratta di un universo binario, persino parallelo, nel senso che in esso ogni cosa è organizzata in modo da rinviare a un suo doppio esattamente opposto e perciò stesso inat­ tingibile. Tutto ci viene presentato a coppie oppositive: bianchi e neri, certo, e naturalmente ricchi e poveri, ma anche due bar (quello nero e “The Ship”), due Johnny, due sorelle, due attrici (la Crawford e la Har­ low), due sax e due contrabbassi che dialogano e si contrappuntano. La Stilton dice addirittura di essere affascinata dal fatto che sia Blondie che la sorella sono ambedue sposate con un Johnny (la memoria corre alle varie Barbara di California Poker...). In realtà, a sua volta, la musica jazz ha qui una funzione oppositiva a questo modello: essa è infatti l'unica componente della pellicola presentata come produzione di ar­ monia, di intesa, e in definitiva di ordine. L’annunciato duello fra Le­ ster Young e Coleman Hawkins (“The Battle of Jazz”), anzi, segue im­ mediatamente quello nell’auto fra la rapitrice e la sua vittima cui ab­ biamo appena assistito: dialogo, peraltro, fondamentale, perché chia­ risce perfettamente non tanto la differenza fra le due donne quanto, come si diceva, l’impossibilità d’intesa fra di esse. L’una proclama il suo amore per Jean Harlow, l’altra la trova volgare. Non si tratta di gusti personali, qui a confrontarsi sono due universi: l’uno imbottito di cul­ tura popolare, di film, di riviste pulp (“True Detective”), di comics (“Mi chiamo Blondie: non li legge i fumetti?”), l’altra che volutamente ne ignora l’esistenza (“Non vado mai al cinema”) e che li rifiuta con di­ sgusto trovando nel laudano - un’abitudine che denuncia le radici della sua classe nel secolo precedente - ciò che può sopire le angosce e an­ nebbiare la mente. Ma delle due è la prima a essere capace d’amore (tutto il film nasce anzi da un suo istintivo, folle, pervicace atto d’amo­ re, anche se viene il dubbio che esso nasca dai modelli forniti da quel cinema che in parecchi, Altman compreso, in Kansas City sembrano disprezzare), mentre la Stilton - il cui nome, ricordiamolo, è quello di un formaggio tanto pregiato quanto marcio e maleolente - una volta posta a confronto con una simile forza e motivazione, sa rispondere soltanto che è ora di dormire. Dunque, Altman da un lato evidenzia la fragilità e la risibilità della cultura di massa e dall’altro critica quello che classisticamente le si op­

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pone; da un lato fa dire a Seldom Seen che Johnny ha visto troppi film con dei negri, i quali vi figurano sempre come dei “cacasotto”, e che i bianchi si inventano quelle “stronzate” e poi ci credono (e subito ve­ diamo sullo schermo Clark Gable e Jean Harlow in un primo piano di Hold Your Man, diretto da Sam Wood nel 1933); dall’altro ci sottopo­ ne un personaggio alto-borghese che sembra uscito dritto dalle pagine del primo Faulkner (non è la Stilton molto più aderente a un’ideale im­ magine adulta della protagonista di Santuario, Temple Drake, di quan­ to non lo fosse lo stesso personaggio nella poco riuscita sequel del 1951, Requiem per una monaca, una brutta riduzione della quale era stata girata a Hollywood dal padre di Miranda, Tony Richardson), e che del resto in perfetto stile faulkneriano si comporta quando alla fi­ ne, liberatasi d’un tratto di ogni nebbia mentale, spara fredda e decisa alla ragazza che le chiede aiuto piangendo sul corpo insanguinato di Johnny: ancora un momento che ribalta ogni attesa creata nello spet­ tatore sino a quel punto. Ma non è un aiuto quello che la donna porge alla ragazza, non è una morte pietosa. Finito il laudano, la cui boccetta cade per terra (ma qual è il rapporto di causa ed effetto?), la Stilton as­ sume un imprevedibile atteggiamento di serietà e determinazione, e quel non eliminare le impronte digitali dalla pistola scegliendo l’ultimo disprezzo di pulirsi le mani come dopo una bisogna disgustosa ma ne­ cessaria, la dice lunga sulla profondità della differenza fra i due univer­ si. La sua ultima, straordinaria battuta - “Oggi non ho votato” - è una frase chiave per intendere la formidabile metafora che regge e sostan­ zia l’intero film, storia di un mondo nel quale la variegata gamma degli avvenimenti è soltanto uno specchietto per le allodole, il modo più di­ versivo per difendere l’immutabilità della struttura: alla fine di questo complesso e doloroso dramma, mentre sullo sfondo intendiamo non a caso le note di “Solitude”, tutto continua come nulla fosse accaduto, gli Stilton ritornano alla loro casa di infelicità e Seldom Seen continua a contare i suoi soldi. Ed è qui che il jazz mostra perfettamente la sua funzione nel con­ testo del film, aristotelicamente conchiuso in 24 ore. Sì, c’è molto Faulkner in questa pellicola: Eddie, per esempio, è il perfetto corri­ spettivo del personaggio di Dilsey in L’urlo e il furore, ne ha la stessa tranquilla, rassegnata tristezza, la stessa calma, la stessa dignità davanti ai drammi dell’universo dei bianchi che la sfiorano incuranti dei suoi drammi, ma soprattutto vi si percepisce una sorta di parodia di quel Santuario che Malraux aveva definito “innesto di tragedia greca su un romanzo giallo”. Come una tragedia anche Kansas City è scandito da una serie di interventi del Coro, cioè della Band che sul podio del lo­ cale di Seen “commenta” quel che vediamo sullo schermo. Ma non è il coro attico che usava sottolineare il rapporto problematico e terribile

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fra l’uomo e il divino o fra l’uomo e la legge; e non è nemmeno quel magnifico aggiornamento, propostoci dal Woody Alien di La dea dell’amore, che rovesciava sul capo del meschino la responsabilità di eventi che soltanto una cultura dotata di un senso religioso oggi sopito poteva identificare in una volontà superiore. Il coro di Kansas City par­ la una lingua incomprensibile agli eroi di questa storia. Al più, essi ne possono cogliere qualche componente ritmica scambiandola per piace­ vole entertainment (cioè, come Johnny, possono soltanto truccarsi da neri) ma del jazz costoro non sanno nulla, e il coro commenta, sì, l'azione, ma soltanto dal punto di vista di chi da essa è culturalmente escluso e dunque non può che farlo con la sensibilità e gli strumenti del proprio tesoro espressivo. È possibile che, scorsesianamente, la dozzi­ na di brani del soundtrack sia stata scelta ad arte, cioè in specifica fun­ zione di ogni momento particolare della storia, ma quel che conta è che mano a mano che l’universo della città corre verso un’assoluta en­ tropia noi percepiamo che quel gruppo - e il jazz nel suo insieme - è, come si diceva, l’unico elemento di ordine, l’unica simbolizzazione dei contrasti, l’unico riscatto da una condizione di violenza e di contrad­ dizione. Seldom Seen parla chiaro allo stolido Johnny: “Ascolta questa musica. È Count Basie: fa parte dei motivi per cui non sei ancora mor­ to”. E poco dopo, alla fine del suo discorso sulla morte e sul ruolo che egli ha nel porre fine alla vita del giovane, ripete ancora: “Ascolta que­ sta musica”. Momento magico, rituale, quasi panico, richiamo a ciò che nella Kansas City in cui viviamo nulla - non il potere e la ricchezza, non la caducità dell’amore e della vita stessa - potrà mai darci: la pro­ fondità della perfezione nell’esprimere quello che sentiamo essere il nostro senso del mondo. Nell’universo di Kansas City che è il nostro la parola è sempre fraintendimento, oscurità, blateramento, e solo il jazz - la musica di un popolo che non si intende di capre e di conigli e che, pur essendo l’unico a sapere, non può contribuire a far luce sulla verità perché non viene nemmeno interrogato, ma i cui rappresentanti, come si legge nel finale di L’urlo e il furore, “resisteranno” - può dire tutto, può comprendere tutto.

Capitolo 9

Dr. T. e le donne di Robert Altman

Non so se e in quanti lo abbiano notato ma da sempre Robert Altman sembra avere una predilezione per lo scenario meridionale: dalla Houston di Anche gli uccelli uccidono al Mississippi di Gang, dalla Nashville del film omonimo al Texas di Jimmy Dean, dalla Florida di Health al meridione di La fortuna di Cookie e alla Dallas di Dr. T. E ag­ giungiamo pure i decentrati Non giocate con il cactus (Phoenix), Kan­ sas City (Kansas City), Follia d’amore (Mojave Desert) eccetera. Se si esclude Los Angeles, “città aperta” per eccellenza della filmo­ grafia altmaniana, raramente il regista ha scelto la grande metropoli americana a teatro dei suoi film. Altman insomma si trova a suo agio nella provincia, o comunque nelle aree che più delle megalopoli costie­ re interpretano la vera essenza degli Stati Uniti. Là vizi e difetti di quel paese emergono in modo puro, senza il fil­ tro di mode colte nel loro farsi, ma anzi ormai assestate e dunque per­ fettamente visibili nella loro alcatorietà e risibilità. Questo si rileva in Dr. T, pellicola che, cosa ben più importante, obbedisce alla tendenza altmaniana verso la coralità, la molteplicità di personaggi, voci, luoghi e vicende. Una coralità e una molteplicità che per la prima volta si dichiarano immediatamente sullo schermo in un’apertura gloriosa attraverso un piano-sequenza mirabile che in cer­ ta misura ci comunica subito il senso del film: nell’anticamera del Dr. T. decine di donne entrano e si muovono incrociandosi, salutandosi, parlandosi mentre attendono di essere ricevute e visitate dal ginecolo­ go. La sequenza tuttavia non si muove, per così dire, solo in orizzon­ tale, ma anche in verticale, nel senso che la colonna sonora - questa su­ prema protagonista del cinema altmaniano - subisce uno sviluppo in crescendo nella moltiplicazione delle voci e del loro volume, e anche in quella del ritmo sempre più marcato e percepibile della musica di ac­ compagnamento. Questo inizio può essere inteso come un’anticipazio­ ne dell’intero film non soltanto per il ruolo schiacciante della sua com-

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ponente femminile, ma anche come esemplificazione del crescendo di eventi che vedremo presto abbattersi sul protagonista titolare. E qui è in effetti il punto, ché il Dr. T appare come un personaggio alquanto singolare nel quadro della galleria altmaniana. Egli infatti non è lontano dall’essere un avatar di Giobbe, un personaggio sul cui capo si rovescia una serie di sfortune che esigeranno da lui un compor­ tamento adeguato. O se si preferisce, come del resto molto spesso per i personaggi del cinema di Altman, di essere deleuzianamente “all’al­ tezza di ciò che gli accade”. Dr. T ha una moglie bella e adorata che è ormai nelle braccia della follia e che egli deve far internare (per di più contro la volontà delle loro due figlie, superficialmente inconsapevoli della tragedia familiare che essi stanno vivendo, della quale - appunto - si accorge solo il pa­ dre); inoltre, una delle due figlie sta per sposarsi, ma l’uomo viene a sa­ pere che la ragazza è lesbica e dunque teme fortemente per il suo futu­ ro di moglie, chiedendosi se non sarebbe meglio evitare le nozze. In questo quadro alquanto preoccupante si inseriscono poi i problemi se­ condari (ma certo non sommessi) delle altre donne che girano attorno alla vita del ginecologo: la cognata alcolizzata e stupidella, le pazienti ipocondriache che fanno una tragedia di una visita mancata e che per questo la giurano al dottore, la ragazza di cui l’uomo si innamora, la quale, libera e responsabile di se stessa, non ha alcuna intenzione di le­ garsi a lui e si dà anche ad altri (fra cui un amico del dottore) senza avergli chiarito subito la natura del loro rapporto. Dr. T passa per tutte queste esperienze come nessun altro perso­ naggio di Altman è mai passato (ed è qui la vera, sorprendente novità della pellicola): con umana pazienza, con umiltà, con dolore e pena. Di personaggi del genere ne abbiamo visto più d’uno anche nel ci­ nema americano, ma mai li avevamo visti in Altman. Regista straordi­ nariamente abile, tecnico sublime, orchestratore di polifonie comples­ sissime, qui Altman si conferma tale, naturalmente, ma per la prima volta aggiunge un elemento in più: quello che Shakespeare chiama “il latte dell’umana dolcezza”. Dr. T è certo un uomo criticabile, ha im­ prontato la sua vita alla superficialità del benessere che è tipica della sua classe; divertirsi per lui è andare a sparare a piattelli e anatre, non coltivare passioni di maggior spessore. E tuttavia egli è un personaggio nel quale possiamo tranquillamente identificarci, perché è una persona buona, un essere che fa di tutto per rendere la vita più facile agli altri, che non si trincera dietro una visione sessista e classista della vita, ma che trova sempre, regolarmente una parola gentile e comprensiva per tutti. Ossessionato da donne berciami, vuote e viziate, egli afferma ca­ tegoricamente che “Le donne sono per natura delle sante” e che “Non bisogna mai dare per scontata una donna di qualità”, anche se com-

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prendiamo bene che nella sua vita una tale donna egli non la incontra da anni. Quando si trova di fronte una signora piangente in preda alla menopausa sa trovare le parole giuste per confortarla ben al di là del suo dovere clinico e vi aggiunge un tocco di signorile superiorità, che è soprattutto prova di grande intelligenza psicologica, offrendo alla donna la visita gratuita. L’abbiamo visto per decenni, il cinema di Altman, spesso ci è pia­ ciuto, qualche volta no, ma mai comunque vi avevamo letto un’uma­ nità talmente grande e profonda. Questa il regista ce l’aveva soltanto fatta intuire: eravamo certi che l’avesse, ma solo perché dentro di noi sapevamo che la sua genialità non poteva non essere accompagnata da un grande cuore. È un po’ come se, avendo letto per decenni Musil, un giorno ci ritroviamo davanti la commedia umana di Balzac: l’ammira­ zione rimane identica, ma questa volta con in più un tocco di commo­ zione. Il film, sia chiaro, non è esente da difetti: la parte centrale è proba­ bilmente un po’ insistita e debordante, ma dopotutto questo è Altman: prendere o lasciare. Possiamo anche capire chi “lascia”. Il cinema di Altman si configu­ ra con caratteristiche tali che verrebbe da dire impossibile concedersi digressioni fruitive di carattere sentimentale ed emotivo, cosicché quando questo avviene - come innegabilmente avviene in questo film - la sensazione di spaesamento o addirittura di irritazione fa parte delle possibili risposte dello spettatore, abituato a un meccanismo sofistica­ tissimo che potrebbe persino apparire guastato dalla novità della messa in scena di una diretta esperienza del dolore. Ma è proprio questa mes­ sa in scena che porta il regista a insistere sino all’eccesso nello sviluppo della storia e dei personaggi nella parte centrale: non si abbandona un personaggio amabile sacrificandolo alle esigenze di una struttura onni­ vora in espansione: questa continua il suo sviluppo, certo, ma nel con­ tempo, in quello stesso quadro, il nostro personaggio viene tallonato da vicino, analizzandone ogni minimo scarto e reazione in relazione agli avvenimenti che vive, perché è così e soltanto così che si trattano personaggi del genere. In pratica convivono in questa pellicola due registri poietici estra­ nei fra loro: quello, tipicamente altmaniano, del mondo umano come universo neutro e ironico di segni collegati (talvolta addirittura miste­ riosamente) con effetti a tratti esilaranti: per esempio la macchina da presa che inquadra l’insegna del negozio GUESS nel momento in cui uno dei personaggi si pone una domanda; e quello, sino a oggi ben po­ co altmaniano, del mondo umano come sfida alla pazienza, come croce da portare, come esperienza di delusioni e dolori. Altman ha qui cam­ biato la sua tipica distanziazione dai personaggi. Prima, a distanza di si-

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curezza, poteva permettersi enormi risate davanti alla vanità, alla pre­ sunzione, alle pretese, alle ambizioni, alle illusioni di poveri diavoli quasi sempre socialmente frustrati e comunque secondari che si arra­ battano per guadagnarsi la loro parte di Sogno Americano senza ren­ dersi conto che ormai l’America si è svegliata da un pezzo e che il tem­ po del sogno è finito; ora invece si è permesso di avvicinare uno di lo­ ro, e nemmeno il più socialmente frustrato e affamato, e osservarlo in primo piano per mostrarci come la falsa promessa del Sogno America­ no è molto più leggibile in faccia a coloro che sembra l’abbiano rag­ giunto. Richard Gere (che come attore migliora a ogni film) non in­ tende affatto inserirsi nel grande meccanismo, al contrario vorrebbe tanto uscirne. E ci prova, ci prova appassionatamente, tentando di di­ menticare il proprio passato e, almeno in parte, il proprio presente. Perché anche di questo parla Dr. Ty del fatto che, a differenza da quanto tanti credono (e certamente gli eroi altmaniani di Nashville e altri film), il Sogno Americano non implica rifiutare la propria identità e il proprio passato, ma viverli fino in fondo: diversamente, si fa la fine del maggior sognatore americano novecentesco, Jay Gatsby, ucciso per sbaglio da un altro anche più frustrato di lui. Non si insisterà mai abbastanza su quale importante ruolo abbia la malattia mentale nel quadro della filmografia altmaniana in generale e in quello del tema del Sogno Americano in particolare: da Quel freddo giorno nel parco a Images, da II lungo addio a Tre donne su su fino a Jimmy Dean, Jimmy Dean, Terapia di gruppo eccetera. E tanto più im­ portante quanto più essa si presenta in modi mascherati, come in Kan­ sas City, per esempio, dove alligna, sì, in un personaggio (la moglie ra­ pita del politico), ma solo in quanto gigantesca sineddoche di una pa­ tologia che affligge l’intera società. Pochi film altmaniani l’hanno mo­ strata così chiaramente in questi termini come Dr. T, nel quale essa è leggibile, ovviamente, nella bellissima, tenerissima figura della moglie (le sequenze iniziali nel Mail che mostrano l’ultimo scalino della sua discesa nella pazzia sono una delle poche cose realmente e direttamen­ te commoventi del cinema di Altman), ma anche in quella di sua sorel­ la, nelle due figlie e naturalmente nell’ipocondria del fiume di signore che attendono nell’anticamera del ginecologo. Da questo punto di vista Dr. T è personaggio di un dramma ben più allucinante di quanto non sembri in un primo momento. Egli infat­ ti è, a ben vedere, l’unica persona sana in un enorme manicomio, e questa opposizione è perfettamente indicata dal regista attraverso i due diversi modi di presentazione del medico da un lato e di tutti gli altri personaggi dall’altro. In effetti, mentre, secondo l’usuale costume dei suoi film polifonici, Altman introduce i vari personaggi (soprattutto femminili, ovviamente) fornendoci informazioni frammentarie la cui

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occasionatiti è esaltata dalla forma centrifuga del montaggio, con Dr. T Altman segue invece una via diversa, più lunga, distesa e soprattutto organica, evitando di assimilarlo a tutti gli altri e proponendocelo un po’ come il ricettacolo e la coscienza infelice del gruppo sociale cui ap­ partiene. Di lui noi veniamo a sapere non tanto “di più” che degli altri (altre), ma in un modo diverso, secondo un’accumulazione progressiva mirata la cui cifra caratteristica è quella della sofferenza. Fra tante “malate” del film nessuna soffre per davvero, nemmeno la moglie fol­ le, rinchiusa nel suo sogno che in fondo intuiamo indolore. Solo Dr. T intrattiene con il Fato un rapporto drammatico oggettivo ed è per que­ sto che ci è concesso di assistere alla ordinata progressione del suo do­ lore e delle sue frustrazioni. Chi ha protestato per il supposto antifemminismo della pellicola ha evidentemente alcuni problemi da risolvere con se stesso, dal mo­ mento che non si rende conto di quanto i pochi uomini del film non vi figurino affatto meglio della loro controparte femminile. Non è affatto un caso o una dimenticanza, del resto, se il film non ci ha mai mostrato il promesso sposo sino al giorno delle nozze. A chi verrebbe oggi in mente di tacciare, che so?, Donne di Cukor di antifemminismo? Dr. T è in questo senso soltanto un film-sintomo di un malessere maschile, in America anche più sviluppato che da noi, ed è inoltre una coraggiosa presa di posizione contro la pletora di luoghi comuni positivi relativi al femminile che più o meno da una trentina d’anni hanno intasato la nostra (di tutti) capacità di ragionare e distinguere. Invero, una donna esemplare nel film c’è: la golfista che ha avuto il coraggio di abbando­ nare fama e fortuna per cercare qualcosa di più e di meglio riguardo a se stessa e che ha raggiunto un grado di libertà talmente alto da per­ mettersi di intrecciare più relazioni senza coinvolgimento sentimenta­ le. Ma mettiamola a confronto con Dr. T: non tanto con la sua figura d’uomo innamorato (non essere innamorati non è una colpa, dopotut­ to), ma con la recettività di questi ai problemi dei propri cari e in fin dei conti di chiunque. Che differenza: da un lato un essere umano pie­ no di incertezze e stridori, dall’altro una macchina perfettamente olia­ ta. Chi o che cosa sceglieremmo? Se persino un personaggio del genere diviene bersaglio della critica altmaniana, non rimane più spazio per nessuno. E di questo appunto ci parla Dr. Tt dello spazio che tutti - indistintamente - ci siamo man­ giati attorno, rubando continuamente terreno all’intelligenza e al ri­ spetto di noi stessi e degli altri, mascherando il tutto attraverso ruoli e riti. È possibile (anzi no, è certo) che come uomo (anzi no, come ma­ schio) Altman abbia calcato la mano sulla donna, ma del resto storica­ mente non è forse stato appannaggio di questa l’organizzazione del ri­ to? Quel matrimonio infausto, maltrattato dal vento e celebrato da­

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vanti a una platea di pressoché sole donne, che finisce con il trionfo estremo dell’autonomia femminile, è divertente, sì, ma non è una pa­ rodia. Quando l’ex golfista spiega a Dr. T che sua figlia ha diritto di scegliere la vita che vuole, il discorso è serio e condivisibile: ciascuno si prenda le proprie responsabilità. E guai a indulgere nella conforte­ vole certezza dell’amore degli altri: la moglie del dottore finisce pazza, vittima del fantomatico complesso di Estìa, proprio perché trattata con troppa cura e adorazione. Il che non significa: trattiamole male. Sol­ tanto, trattiamole da persone e da pari. Ma come si fa a trattare da per­ sona e da pari chi si adagia ancora nei privilegi del proprio sesso, chi identifica la lotta per la parità nella possibilità di dare un nome femmi­ nile a un’autostrada? Naturalmente sarebbe errato generalizzare: Altman si occupa di Sud e di classi alte. Ma non dimentichiamo che il Sud non è una frazione degli Stati Uniti, che è un’ampia regione e che po­ liticamente e ideologicamente è il cuore della nazione (come del resto era chiarissimo in Nashville). Le cose insomma vanno male, malissimo. Ed è allora che il Texas diventa il Kansas, che la piccola Dorothy si imbarca per la terra dei Munchkins grazie a un tornado. Come ha brillantemente dimostrato Paul Nathanson, Il mago di Oz è un perfetto compendio del pensiero che l’America ha elaborato su se stessa, un’esemplificazione paradig­ matica dell’identità fra “crescere" e “tornare a casa”. E proprio come Dorothy il nostro protagonista lascia una terra di errori, contraddizio­ ni e profonda insoddisfazione per un luogo magico, diverso. Con una differenza, però: che è quel viaggio a segnare il suo ritorno a casa, che, cioè, Dr. T non appartiene al Texas, ma alla terra della fantasia. È lì che i suoi desideri di una vita più vera, libera e serena si realizzano, in mez­ zo a semplici contadini ispanici, a una natura incontaminata dalle sofisticatezze della cultura. È lì insomma che si realizza per lui il vecchio sogno americano di un paradiso western senza dolori e difficoltà, nel quale non a caso assistiamo a una nascita (o forse: rinascita) dopo l’apocalisse portata dalla tempesta. In America oggi Altman non ci ave­ va raccontato il “dopo-terremoto”, probabilmente alludendo perciò stesso alla fine irrevocabile di quella civiltà. Qui invece egli è più pos­ sibilista, ancorché in una chiave che mostra tutti i crismi della sua ben nota ironia: “È un maschio!”, grida sorpreso e soddisfatto Dr. T davan­ ti all’ultimo parto della sua carriera. Sarà bene non farci soverchie il­ lusioni: quel maschio appartiene a un’altra etnia e a un’altra civiltà, da anni in marcia verso il potere in più d’uno stato americano (soprattutto nel Sud-Ovest). Se di riscossa si potrà parlare non sarà certamente quella dei Dr. T (e ancor meno dei loro stolidi compagni di caccia): il selvaggio giardino che idealmente si identifica con l’America tutta avrà altri abitanti.

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Riferimenti bibliografici In 11 nuovo cinema americano (1967-1975), Lindau, Torino, 1996 (3° ed.), pp. 179-92, chi scrive affronta in dettaglio il rapporto fra il primo cinema di Altman e le indicazioni deleuziane; l’identità ameri­ cana come crescita e ritorno a casa si ritrova nell’interessante studio di Paul Nathanson, Over the Rainbow. uThe Wizard of Oz” as a Secular Myth ofAmerica, State University of New York Press, Albany, 1991, so­ prattutto nei due capitoli “The Land of E Pluribus Unum” e “The Swe­ et Vales of Eden”.

Capitolo 10

Cast Away di Robert Zemeckis

La cultura americana, cinema e televisione in primo luogo, ha sem­ pre mostrato grande interesse verso il tema del naufragio e delle sue conseguenze. 11 piccolo schermo in particolare ha inondato i palinsesti di serie come Gilligan's Island o Swiss Family Robinson (con la sua va­ riante fantascientifica, Lost in Space). A volte non si tratta di un nau­ fragio vero e proprio, ma di una situazione di isolamento in una terra primitiva e non sempre ospitale, come nel recente Temptation Island, o addirittura di un gioco imparentato col Grande Fratello, dove i nau­ fraghi non solo devono arrangiarsi, ma anche dimostrare di essere più bravi di altri veri e propri concorrenti nel mettere in atto le proprie ca­ pacità di sopravvivenza, come in Survivor. Non v’e’ alcun dubbio che il modello del naufragio e delle risorse necessarie a rimanere in vita si identifichi in una sorta di inconscio col­ lettivo nazionale americano, una riedizione del primitivo destino di confronto con la natura che gli Stati Uniti come nazione (anzi, prima ancora di diventare tali) hanno dovuto a suo tempo affrontare, fon­ dandosi in quel momento preciso come una terra resa unica, o quan­ tomeno molto particolare, dalle dure richieste che essa imponeva a co­ loro che intendevano viverci. Da questo punto di vista Cast Away è un ritorno indietro, una ri­ flessione sul lungo cammino percorso dalla nazione in più di tre secoli. Ma non tanto da un punto di vista culturale, quanto epistemico. In ef­ fetti, pur concedendo un certo spazio alle solitarie disavventure del protagonista sull’isola, il film è ben lontano dal riproporre un’ulteriore versione del classico defoesco: Chuck non è un altro Robinson, non è, cioè, un homo capitalisticus, il paradigmatico eroe della capacità bor­ ghese di crearsi attorno un mondo dal nulla attraverso il piccolo capi­ tale iniziale di cui dispone (gli arnesi ritrovati grazie alla marea). La lettura che lan Watt fa del testo defoesco nel suo classico La na­ scita del romanzo non gli si attaglia per nulla, e del resto non c’è alcun

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Venerdì a dargli man forte, legittimando così la puntuale metafora sul­ la “naturalità” dello schiavismo. Di più: non ci sono nemmeno pericoli naturali imprevisti (ma prevedibili dallo spettatore, che anzi si aspetta da un momento all’altro l’apparizione di un serpente, di una fiera, o magari addirittura di un bel cannibale dipinto come si deve dalla testa ai piedi). L’isola è la pura e semplice negazione della civiltà: pura e semplice perché non ha alcun bisogno di barbarie per presentarsi per ciò che è, un luogo antitetico a quello da cui proviene Chuck. Antite­ tico: che vorrà dire? Il nostro immaginario è ormai stato condizionato a un punto tale che per figurarci un luogo del genere dobbiamo popolarlo di atrocità, pericoli, trappole naturali di tutti i tipi, e magari di eventi e situazioni che neghino quelle che riteniamo le conquiste della nostra civiltà, me­ glio se attraverso la presenza di esseri umani lontanissimi dalla nostra etica e dal nostro pensiero sull’uomo. Cast Away mostra bene che tutto questo non è affatto necessario, che basta l’assenza di cibo, elettricità e tecnologia standard perché il luogo precipiti chi vi si ritrova naufrago in una situazione epistemica completamente diversa da quella vissuta dal malcapitato. È un po’ la tesi del Golding di II signore delle mosche, che peraltro portava le conse­ guenze al loro estremo, laddove Zemeckis è più interessato alle reazioni psicologiche di chi si ritrova forzato ad allentare il proprio modello di relazionamento al reale, lasciando quindi uno spiraglio a quell’irrazio­ nalità che nel libro di Golding si abbatteva sulla comunità infantile pro­ tagonista come una cataratta. Lo spiraglio del film si chiama Weldon ed è una specie, appunto, di “signore delle mosche” senza alcuna ferocia. Anzi, un’immagine amica, queir“altro” che negli anni Settanta avrebbe fatto sproloquiare parecchi sulla sua natura e sul suo significato. Pericoli naturalmente sull’isola non ne mancano, ma sono tutti squisitamente naturali, vale a dire non diversi da quelli che ci troverem­ mo a dover affrontare in una qualsiasi vacanza avventurosa, in un “trekking”, con la differenza che in questo caso il nostro equipaggia­ mento (e probabilmente anche la nostra preparazione) sarebbe adegua­ to, e che comunque il tempo di durata sarebbe limitato. Insomma, un gioco. Chuck invece non gioca affatto, non ha richiesto né cercato quella situazione, e dunque la vive come un forte scarto rispetto a se stesso e al proprio comportamento. E soprattutto, a differenza dal “trekker”, si ritrova a vivere in un tempo che non è quello della civiltà e della cul­ tura cui appartiene. E qui arriviamo al punto centrale del film. Per tutta la parte iniziale la pellicola ha insistito sulla nozione di tempo tipica della nostra civiltà, esaltandola attraverso la professione

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del protagonista, un executive della FedEx, sempre pronto ad ammo­ nire i suoi dipendenti sul rapporto fra tempo e spazio, sulla necessità di accorciarlo il più possibile. Qui, sì, Chuck è un homo capitalisticus: per lui il tempo è servizio e dunque eccellenza nel lavoro. Sempre in movimento per il mondo, Chuck vive una vita senza tempo per eccesso di attenzione al tempo (ciò che di conseguenza gli fa trascurare affetti e relazioni). Sull’isola invece il tempo sarà la sua massima occupazione: lo seguirà con certosina attenzione sino a inventare un sistema di cal­ colo per non perderne di vista il passaggio. Ma paradossalmente proprio allora il tempo continuerà a eludere l’esistenza di Chuck perché estraneo alle scansioni che ne caratterizza­ no la vita “civile”: non vi sono riti sociali, né passaggi di status profes­ sionale, né eventi spartiacque sull’isola. O per meglio dire, se anche ve ne sono essi non contribuiscono a strutturare un’idea di tempo. Al di fuori del sociale (e non di rado anche al suo interno) il tempo è un tem­ po mitico, lontano da ogni possibile trasformazione in storia. Robin­ son, homo capitalisticus, era riuscito nel miracolo, ma solo grazie alla propria natura metaforica: egli si era costruito attorno un mondo abi­ tabile, sì, ma anche produttivo nel quale, proprio grazie al processo na­ turale di produzione, il tempo mitico poteva venire riscattato, cosicché il suo orto non era soltanto una fonte di cibo, ma anche un mezzo di misurazione del tempo. Attraverso di esso forse il tempo non diveniva storia, dal momento che dopotutto la coltivazione rientrava nel pro­ cesso ciclico delle stagioni, ma di certo non si limitava all’altemarsi del giorno e della notte. Nel mondo di Chuck invece il mitico è in agguato ovunque. Anzi, ne è Chuck stesso parte richiedente, ché se sul piano psicologico la cre­ azione di Weldon può essere letta come un espediente per mantenere un equilibrio che la nuova situazione potrebbe minacciare, da quello irrazionale essa non è altro che la testimonianza della necessità di una sorta di icona, di simulacro, di totem per irregimentare forze poten­ zialmente ostili. Insomma, a quel punto Chuck è diventato un “selvagglO . Ma la componente mitica più forte la vediamo quando il protago­ nista si è già allontanato dall’isola: la seconda apparizione della balena (probabilmente la cosa più bella del film) è un grande momento pani­ co, di quelli che sarebbero piaciuti a Karl Kerény, a Thomas Mann, a John Cowper Powys. L’occhio del cetaceo guarda Chuck in silenzio, poi scompare nell’acqua, e in quell’occhio un intero universo ha scru­ tato nel protagonista qualcosa che non appartiene al proprio universo: la natura guarda in silenzio l’esponente di un sistema estraneo, e quello si sente guardato. Non c’è minaccia e in fondo nemmeno sorpresa o ti­ more: soltanto la consapevolezza reciproca di due mondi diversi che

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per un attimo entrano in contatto. Il che è esattamente il tema del film, unitamente alle conseguenze che tale contatto comporta. Chuck ha vissuto aggrappandosi al ricordo della sua ragazza: i graffiti sulla parete di roccia possono anche sembrare la prova della sua regressione ai livelli primitivi di Neanderthal o di Altamira, ma non so­ no altro che la concreta immagine di ciò che lo tiene vivo, che ne ali­ menta la speranza (qualcosa di simile avevamo già visto in un dramma­ tico momento di un film troppo maltrattato dalla critica qualche anno fa, Il paziente inglese), una speranza peraltro alquanto precaria, come verremo a sapere alla fine quando il protagonista racconta all’amico del suo tentativo di suicidio. Si tratta di un particolare di estrema im­ portanza, giustamente nascostoci dallo sviluppo della vicenda, ché in­ fatti la visione di quel cedimento da parte di Chuck ci avrebbe imme­ diatamente e implicitamente portato a pensare (o quantomeno a intu­ ire) che se proprio lui che avrebbe ogni necessità di mantenere la spe­ ranza di un salvataggio e di un ritorno non ci crede più, allora a mag­ gior ragione la sua ragazza non può averlo atteso laggiù a Memphis. E si comprende bene che anche soltanto un’intuizione del genere avreb­ be minato tutto quello che il film aveva in serbo per lo spettatore una volta che Chuck avesse avuto la fortuna di ritornare. Zemeckis insom­ ma continua a confezionare storie d’amore familiare incentrate sull’esperienza del limite: edipi fantascientifici divertenti o drammati­ ci, come in Ritorno al futuro e Contact (questa certo la sua cosa peg­ giore: una manomissione dei seri interrogativi dell’originario libro di Sagan in favore di una pesante aria da laicismo religioso in stile Comu­ nione e Liberazione), riflessioni sulla coppia e i sentimenti adeguate al­ la “political correctness” nei confronti dei portatori di handicap che da anni sta dominando gli USA (Forrest Gump), persino conferenze sulla sincerità e la chiarezza nel matrimonio esasperate da una forte compo­ nente soprannaturale ^ferità nascoste). Cast Atvay non è certo da me­ no, ma la domanda che si pone e si impone è un’altra: che cosa ha da dirci oggi questa più sobria e credibile versione del Robinson Crusoe. Che cosa ne giustifica il ripescaggio e la rispolveratura? Non dobbiamo dimenticare che Zemeckis fa da sempre parte della squadra spielberghiana, vale a dire di quel gruppo di cineasti che da un quarto di secolo ha lanciato sul mercato la carta appetita dell’irrazio­ nalismo scientifico, un cinema dietro il cui apparato fantascientifico al­ tamente tecnologico si dipana un misticismo forse poco titolato, ma certo molto attraente nei confronti di un pubblico ormai ipervezzeggiato e rimpinzato di una “gadgetry” che può metterci pochissimo a di­ ventare materia di teologia, o comunque veicolo di sacro. Il meccani­ smo è semplice: un’invenzione che ci facilita la vita è un trionfo della scienza e della tecnica, ma cento invenzioni che la vita ce la rendono

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non soltanto più facile, ma anche più divertente invadendo il nostro tempo libero, le nostre vacanze, il nostro spazio di divertimento, il no* stro immaginario, be’, quelle fan presto a diventare parte di un sistema da cui ci ritroviamo a dipendere giorno dopo giorno, un sistema che bastan pochi passi in più perché noi lo si percepisca non solo come la forma ma anche come la causa del nostro mondo. Già agli inizi del ’900 le avanguardie storiche compresero bene questo processo, talché ne ritroviamo ampie tracce in Brecht, Toller, Kandinskij, Leger eccete­ ra e specificamente nella simbiosi fra religiosità primitiva e macchini­ smo dei loro temi e delle loro immagini. In questo senso Cast Away è un film datato. Ma non va sottovalu­ tata la riflessione sul tempo che ne è alla base. Zemeckis è un autore evidentemente attratto dai paradossi temporali, ma lungi dall’essere un semplice esemplifìcatore di quel tipo di fantascienza, egli sente che alla sua base si agita un problema. Regista di spessore troppo esiguo per co­ niugare il senso del tempo e quello della colpa, Zemeckis non è Pol­ lack, e tuttavia non gli si può negare una bella percezione della dimen­ sione mitologica (quell’occhio di balena che si apre su un tempo eterno e universale, senza alcun riferimento cronologico: bellissimo!), come del resto anche in altri autori della sua compagine (lo Spielberg di In­ contri ravvicinati del terzo tipo ne è un ottimo esempio). Il giorno in cui riuscirà a trasformare il tempo mitico, che sa cogliere abbastanza bene, in tempo interiore (la scontata metafora finale del crocicchio ri­ corda solo visualmente la straordinaria minaccia esistenziale dello Hi­ tchcock di Intrigo intemazionale) si sarà liberato da quei taciti impegni di scuderia e ci darà film anche migliori.

Capitolo 11

Niente staccionate in paradiso: Una storia vera di David Lynch

Era da tanto tempo che non vedevamo un film sull’America. Era da tanto tempo che subivamo le aggressioni di una cinematografia talvolta orribile, talvolta ammirevole, ma sempre parziale rispetto al nerbo, al­ la sostanza, alla materia di cui è fatto quel paese. Minoranze infuriate, criminalità dilagante, squali dell’alta finanza, cinismo giornalistico: tutto vero, naturalmente, ma solo nell’ambito del microcosmo metro­ politano che a torto identifichiamo con quel paese del quale esso è, ap­ punto, soltanto una frazione. Dov’è infatti l’America rurale e basso­ provinciale, l’America dei campi di grano che si stendono a perdita d’occhio, l’America delle “strade blu”, l’America dei paesini immobili nel tempo tanto da sembrare ghost towns? Ecco che il vuoto viene ora colmato da un autore sino a oggi lontano anni luce da un qualunque diretto interesse per il cuore degli Stati Uniti, da un autore che ce ne ha proposto negli anni una serie di ossessioni, certo, ma sempre su un registro fantasioso e spesso fantastico, sempre attraverso strani e affa­ scinanti giri viziosi insinuantisi fra le pieghe di un inconscio non di­ chiarato, un mondo dove disturbanti e spesso cruenti segnali indicava­ no sintomi di una malattia dell’anima prima che del corpo. Questo autore è David Lynch, questo film è Una storia vera (Strai­ ght Story, 1999), una pellicola che, concepita ovviamente in termini di­ versissimi, supera in verità le ormai lontane prove di Malick (I giorni del cielo), Cimino (Le porte del cielo), Benton (Le stagioni del cuore), tutti film, si noti, che proiettavano tale verità americana nel passato, quasi per un pudore che impediva loro di indagare nel presente di quelle stesse plaghe. Bisogna riandare all’ondata della New Hollywood settantesca per trovare opere che hanno concesso sensibile attenzione a quell’America (L’ultimo spettacolo e così via), un’America rurale che spesso e volentieri si presenta come la versione di una pastorale nazio­ nale, dal momento che non di rado manca in essa un ideale agrario, co­

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me si evince dalla teorizzazione sul paese già elaborata da Thomas Jef­ ferson. Il suo paesaggio è, sì, costellato di piantagioni, ma il suo popolo è presentato fuori dal proprio contesto lavorativo. Al massimo, in un paio di raccordi, appare l’anonima visione di un trattore, e anche quando il veicolo si avvicina al protagonista noi osserviamo la scena da lontano, in campo lungo, senza mai distinguere neanche il viso del gui­ datore. La vera modernità, la vera contemporaneità di questo film sta proprio in tale assenza. Se negli anni Settanta le aree rurali avevano re­ gistrato, come ci ricorda Richard Lingeman, il maggior incremento ri­ spetto alle città dai tempi postrivoluzionari, già nella seconda metà de­ gli Ottanta la “rural renaissance” si era ampiamente ridimensionata la­ sciando il centro delle cittadine silenzioso e vuoto, esattamente come la Laurens fotografata dall’impassibile obiettivo di Lynch. Esso in ve­ rità non ha più nulla di agrario, ma viene colto nell’ozio di una cultura che sopravvive a se stessa. Lynch vuole invece mostrarci quel popolo nei suoi modi caratteristici di interrelazione, in quelle che proprio Jef­ ferson chiamava le sue “ways” e che erano per lui fondamentali nella definizione del carattere americano. Il cinema del passato ce ne ha dato più volte ampia testimonianza, e con una dolcezza, una tenerezza che appartengono ormai ad altri tempi (non credo siano in tanti ad avere ancora in mente una perla come Ricorda quella notte,1940, del tandem Preston Sturges/Mitchell Leisen). Bene, Lynch ha riesumato quella te­ nerezza. Lo ha fatto naturalmente avendo alle spalle tutta l’esperienza “realista” della Hollywood settantesca, il suo senso del silenzio e del gesto che riportarono il cinema in certo modo alle sue origini, alle componenti essenziali ed elementari di quel mezzo; e ci ha dato, nel farlo, una nitida lezione di forma, quasi un richiamo a una visualità che finalmente intrattenesse con la verità un rapporto indiscutibile in un (lungo) momento del cinema americano - quello odierno - che sembra invece avere accantonato ogni verità. Da tanto tempo non vedevamo un’America dove una piccola citta­ dina significava casa, un posto, per dirla con Robert Frost, dove quan­ do ci vai devono farti entrare. Il viaggio del vecchio Straight (mai nome fu più adatto) è proprio questo: un itinerario alla ricerca dell’America perduta, di quella che non si vede al cinema, un percorso picaresco che ci parla un po’ alla maniera di Mark Twain, sorridendo, sì, ma con il benefìcio di tanta verità imparata (e insegnata) lungo il cammino, lo spaccato di un mondo che è il vero cuore del paese molto più di Broo­ klyn o di Anaheim. I suoi sono i valori che contano, quelli veri, molto più di qualsiasi pelosa e quasi sempre sospetta political correctness. Forse non sono sempre i migliori possibili, forse non sono ogni volta praticati nel modo giusto, ma sono comunque ciò che ancora pervade l’anima di quella nazione.

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Il rapporto di questa pellicola con la grande tradizione letteraria americana si respira in ogni suo angolo: i pochi minuti della sequenza col cervo valgono la memorabile pagina dei cavalli pezzati faulkneriani, un esercizio di umorismo squisitamente americano perché connesso a una dimensione diversa (americana, appunto) dello spazio e alla leg­ gera componente di assurdità che aleggia su un episodio in se stesso del tutto verosimile. Una breve pagina magistrale che da sola giustifiche­ rebbe la visione de) film. Ma si pensi anche all’incontro con la famiglia che vive nei pressi del fiume Mississippi, si pensi alla serenità che ema­ na da quello scambio di informazioni fra estranei, alle gentilezze offer­ te, a quelle accettate e non accettate. C’è più America in quei tre dollari che Straight lascia davanti alla porta dell’ospite e che questi raccoglie senza alcuna protesta che non in tutto il cinema targato Hollywood dell’ultimo anno. E c’è più America nell’orizzonte a perdita d’occhio che il vecchio Straight insegue di quella che vediamo nei thriller di Michael Mann e persino negli psicodrammi etnici di Spike Lee. E non è, molto generi­ camente, solo l’America dei grandi spazi: no, è una serie di panorami straordinariamente belli in quanto espressione naturale. Straight che si ferma e, al riparo, si mette a osservare beatamente la pioggia è l’imma­ gine più calda, concreta e forte del valore di quella bellezza, che fra l’altro si sposa con il senso del tempo (lo stesso atto compiuto da bam­ bino insieme al fratello). In quel momento - come del resto a ogni pas­ so nel film - il paesaggio è bello a un punto tate che rende jeffersonianamente manifesto un ordine che vi riposa dietro. Parrà strano che il regista del disordine pauroso, inquietante e grottesco dispieghi una visione tanto serenamente e gagliardamente americana de) mondo, ma se ci stiamo attenti un film come Una storia vera ha un suo posto preciso e coerente nella filmografia di Lynch: esso è, per così dire, il suo manifesto roussoviano, la sua dichiarazione di fe­ de nell’innata bontà dell’uomo, quella che le più diverse forme del so­ ciale (il pregiudizio nei confronti del diverso in Eraserhead e Elephant Man, la sete di potere di Dune, l’autorità in Cuore selvaggio, e così via) guastano aprendo la strada alla vita vissuta come orrendo incubo. An­ che Straight e sua figlia ne hanno fatto esperienza, ma la loro vicinanza all’Eden - cioè a un’America-giardino - li ha preservati dalla Caduta. Essi in fondo abitano ancora l’Eden americano, e anche se il vecchio lo percorre su un’attempata macchinetta falciaerba, ironica versione di uno dei termini della tradizionale opposizione americana così bene espressa anche solo dal titolo (per non parlare dei saggi ivi inclusi) del­ la classica raccolta di Leo Marx, The Miachine in the Garden, non esiste altro luogo - per dirla con l’incarnazione della visione pastorale jeffersoniana, la piccola Dorothy del Mago di Oz - come casa propria. Solo

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che, molto giustamente, quella casa nel film di Lynch è a Laurens, Iowa, così come lungo tutto il sentiero dorato che porta Straight nel Wisconsin. Un buono steccato farà anche dei buoni vicini, come dice Frost, ma all’Eden americano non si possono mettere limiti.

Riferimenti bibliografici Sull’America rurale come pastorale e non agraria Jefferson ha pa­ gine chiarissime nel suo carteggio con John Adams, la cui essenza è ri­ portata e discussa da Leo Marx nel suo noto The Machine in the Gar­ den, Technology and the Pastoral Ideal in America, Oxford UP, New York, 1967; il riferimento alla “rural renaissance” negli anni Settanta e ai suo declino vero la fine degli anni Ottanta è commentato da Ri­ chard Lingeman nel suo articolo “A Consonance of Towns”, in Making America. The Society and Culture of the United States, ed. by Luther S. Luedtke, USIS Forum Series, Washington, 1988; l’idea jeffersoniana del paesaggio la cui bellezza manifesta un ordine celato è ben commen­ tata da Stephen F. Mills, The American Landscape, Keele UP, Edinbur­ gh, 1997.

Capitolo 12

Il matto in maschera: Man on the moon di Milos Forman

“Man on the moon” è un’espressione che si ritrova già al tempo di Shakespeare e indica un matto, un suonato. Anche Andy Kaufman c'era già al tempo di Shakespeare: con sfrontatezza e con una masche­ ra, fissata all’estremità di un bastone che si alzava sul viso, intratteneva la corte in un modo insolente che a chiunque altro sarebbe costata la vita, od almeno il favore del protettore. Si chiamava “fool” ed era il buffone. Solo che il termine “fool” non gli rende giustizia: intanto per­ ché ci vuole molta intelligenza per far ridere (soprattutto chi si crede superiore, e magari socialmente lo è davvero), e poi perché l’umorismo del “fool” è spesso di marca sofisticatissima, come dimostra King Lear. E come dimostra Andy Kaufman, che peraltro ne è la versione aggior­ nata ai nostri tempi senza corti e protettori (ma ne siamo sicuri?) e sen­ za alcun senso del limite. L’apertura del film di Forman non poteva essere più aderente al suo personaggio, e Jim Carrey più calato nella parte: vi sono momenti in cui l’attore assomiglia davvero a Kaufman, soprattutto quando si esibi­ sce in quei monologhi che ribaltano il “posto primario nella tradizione comica americana” che da sempre questa forma di spettacolo ha avuto (è la tesi di Constance Rourke nel suo fondamentale American Humor). Ma per parlare di Andy Kaufman è necessario dividere in due l’ar­ gomento: da un lato la sua concezione dello spettacolo di intratteni­ mento, dall’altro i suoi modi di metterla in pratica. Il maggior teorico dell’umorismo che l’America abbia mai avuto, Max Eastman, nel suo libro The Sense of Humor (1921) aveva stabilito otto “leggi” essenziali del buon umorismo, aggiungendone due ulterio­ ri in un altro suo classico studio, Enjoyment of Laughter, pubblicato quindici anni dopo: 1) Sii interessante; 2) Non metterci passione; 3) Non dare alcuna impressione di sforzo; 4) Ricorda la differenza fra sparare battute e su­

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scitare impressioni di divertimento; 5) Sii plausibile; 6) Sii improvviso; 7) Sii chiaro; 8) Tieni il tempo giusto; 9) Dài certezza di giusto appa­ gamento; 10) Riscatta le delusioni. Ora, si può discutere e meno se le prime otto siano state ottempe­ rate dal genio umoristico di Kaufman, ma mi pare indiscutibile che le ultime due non facciano parte del suo universo comico. E, si badi, proprio le due che Eastman aveva aggiunto dopo una ri­ flessione durata quindici anni. Il punto 9 allude a una verità, una concretezza, un contenuto che nobilitino l’assurdità della battuta, lasciando gli spettatori (o lettori) con la sensazione di aver goduto di una cosa divertente su un argomen­ to che in se stesso è molto serio. Il punto 10 allude alla necessaria ca­ pacità di comprendere sino a che punto lo scherzo ha inquietato il pub­ blico e di conseguenza che cosa va aggiunto perché quest’ultimo non se ne abbia a male. Ora, l’ottemperanza di questi due comandamenti non solo non la rintracciamo in Tony Clifton - l’alter ego di Andy - ma nemmeno in Andy stesso. La sua idea di spettacolo umoristico si organizza come l’esatto opposto, cioè il ribaltamento, di ogni legge àe\Ventertainment. Per questo Andy aveva tutte le ragioni di non voler apparire in Taxi, la sit-com che in buona parte lo rese famoso: nel formato televisivo cor­ rente le regole erano, e sono, troppo definite per poter essere infrante, soprattutto quando il tipo di infrazione risponde alla casistica del “so­ litary pleasure”. Persino quando Andy ha bisogno di una spalla, questi agisce dall’esterno non comparendo in scena con lui; oppure, come il wrestler sudista, si presenta alla stregua di un vero antagonista estraneo allo spettacolo e non come spalla. E proprio il wrestling è la chiave per comprendere l’operazione di Kaufman. Il wrestling, com’è noto, è uno spettacolo falsamente agonistico che segue invece un preciso rituale di svolgimento (per una riflessione molto interessante - più dettagliata di quella di Roland Barthes - su questo rituale rimando allo studio di James B. Twitchell, Carnival Cul­ ture). Per strano che possa sembrare a qualcuno, il suo mentore ideale è P. T. Barnum (del quale riparleremo) e il suo diploma professionale l’ha ottenuto con l’avvento della televisione. In taluni stati americani gli incontri sono pubblicizzati non come “sportivi”, ma come “esibizio­ ne” o addirittura come “burlesque”. Ora, se la falsità che fìnge di essere verità è una costante dello spet­ tacolo (e dell’arte, se è per questo), ciò che ne ratifica la natura è il pat­ to stretto fra il pubblico e lo spettacolo stesso: un contratto nel quale il primo accetta di credere al secondo, mentre il secondo garantisce ta­ citamente al primo di osservare una serie di implicite ed esplicite rego­ le. Il wrestling è la forma di spettacolo che, pur rispettando il contrat-

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to, più si allontana da esso, nel senso che l’impegno fìsico degli inter­ preti e la stessa scenografia sono tali da renderlo più vicino alla verità di un qualsiasi dramma teatrale: “a male soap opera with sweat” (una soap opera maschile con sudore), qualcuno l’ha definito. Non meraviglia allora che Kaufman l’abbia usato come trampolino per mettere in atto la sua enorme burla. Ma si tratta veramente di una burla? Certo, nella sua concezione dello spettacolo c’è una buona dose di épatement du bourjois, una componente provocatoria che cancella qualunque limite (tanto che persino la sua terribile malattia viene presa dalla sorella come uno scherzo), ma è singolare e significativo che mai una volta Andy esprima un giudizio sprezzante e irrisorio nei confronti del pubblico. Può anche seccarsi se questi non comprendono ciò che gli si agita in corpo e nella mente, chiedendogli a gran voce di inter­ pretare un personaggio che, questo sì, egli disprezza, come il Latita di Taxi. Ma la sua idea di spettacolo è qualcosa di enorme e onnicom­ prensivo, nel senso che l’allargamento dei limiti dell’invenzione (e dunque della falsità) tende all’infinito ingenerando così una mise en abime che se in letteratura ha trovato un terreno particolarmente fer­ tile e affascinante (al punto che Borges è considerato un maestro della nuova narrativa americana fra gli anni Sessanta e i Settanta), in show business diventa pericolosamente controproducente. Il punto anzi è proprio questo: che cosa è controproducente? O se si preferisce, sino a che punto si può spingere un comico senza diventare tale? Forse la storia di Andy Kaufman non è comprensibile se non si ri­ corda una cosa: il ruolo determinante che nella tradizione popolare americana ha avuto (ed ha ancora) il tali tale, la storia iperbolica, ec­ cessiva, la panzana, la bugia così grossa da non essere credibile, rego­ larmente raccontata con tono e modi molto tranquilli e convinti (in ob­ bedienza al comandamento 2 di Eastman e in modo da ammorbidire la non osservanza del comandamento 5). Roger Abrahams, un insigne folklorista che considera forme arti­ stiche le tradizioni popolari, ha scritto: “Perché un’opera d’arte sia ef­ ficace essa non deve solo comunicare con un pubblico, ma deve anche sollevare la sua partecipazione. Sia comunicazione che partecipazione si fondano sulla profonda matrice culturale negli individui del pubbli­ co. L’idea che sta dietro la performance è notevolmente semplice: dare l'abbrivio a ritmi e aspettative che permetteranno [...] una reazione sincronizzata del pubblico. Ciò attribuisce al performer il compito di stabilire quelle aspettative, ma in questo egli è aiutato dalle sue tradi­ zioni, in dimensioni che sono sia formali che simboliche”. Nel caso di Kaufman il rapporto fra le aspettative del pubblico e l’opera del performer salta in aria, ché Andy spiazza continuamente chi lo vede e ascolta rifiutando ogni ritmo e frustrando ogni aspettativa

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(ancora una volta la sequenza d’apertura del film è esemplare poiché riassume le due caratteristiche principali della sua comicità). Qualcuno potrebbe obiettare che l’invenzione iperbolica del tali tale non è esattamente la materia della comicità kaufmaniana. Ma si tratta di intendersi. Certo, in ciò che egli dice o fa non si legge una sfida alle leggi naturali (per fare qualche classico esempio di tali tale delle origini: Davy Crockett che ammalia gli orsi con un sorriso, Pecos Bill che prende al laccio la luna, Paul Bunyan che disbosca da solo un’intera foresta eccetera). La sfida di Andy è ad altre leggi, quelle del contratto spettacolare: è lì che la sua operazione mostra la derivazione folkloristica nazionale di cui si diceva. La sua maschera può anche essere ri­ condotta alla cultura ebraica da cui proviene, ma l’enormità sostanzial­ mente provocatoria delle posizioni che assume è invece la forma finale di un modello nazionale di comicità popolare. In questo senso non è peregrino un raffronto con R T. Barnum, un altro entertainer americano assoluto la professione dei quale coincide­ va con la sua personalità individuale. Come ha scritto Constance Rou­ rke, “Barnum non aveva un carattere personale”. E aggiungeva: “In senso stretto non aveva vita privata. Viveva in mezzo alla folla [...] Vi­ veva in pubblico”. Esattamente come Kaufman, per il quale lo spetta­ colo non era un evento circoscritto, ma pervadeva l’intero tessuto della vita. Date queste premesse, si comprende bene che è diffìcile stabilire sino a che punto si può spingere un comico - o più largamente un en­ tertainer - senza diventare controproducente. Apparentemente il problema potrebbe suonare analogo a quello di Lenny Brace. In realtà vi sono alcune fondamentali differenze. Lenny Brace era sostanzialmente un moralista. Era pur vero che, come ricor­ dano Blair e Hamlin, nel suo assalto al pubblico egli non suggeriva al­ cuna correzione e anzi sosteneva che “Esiste solo quello che esiste. Le cose come-dovrebbero-essere non sono mai esistite, ma la gente conti­ nua a tentare di vivere adeguatamente a questo credo. Esiste solo quel­ lo che esiste”. Ma Brace parlava dall’angolo oscuro degli anni Cin­ quanta e degli inizi Sessanta, disgustato da quel decennio di falsa tranquillizzazione che egli dette il suo contributo ad affossare. Kaufman opera invece fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, la sua concezione dello spettacolo non tiene minimamente in considerazione mentalità e comportamenti sociali del suo pubblico: egli viveva infatti, adeguandovisi perfettamente - e anzi in certo modo anticipandola - in epoca po­ stmoderna (un termine che uso riluttantemente, ma solo perché molto abusato, non perché mi senta “ignorante” neH’impiegarla, come qual­ cuno ha duramente sentenziato nei confronti dei vari improvvidi che la utilizzano) e ogni preoccupazione sia psicologica che morale gli è estranea. L’unico suo interesse è la ricostruzione della realtà non in ter-

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mini parodistici o ironici, ma iperreali. Solo in questo senso si può comprendere come egli abbia potuto creare scompiglio persino in un programma alternativo e anticonvenzionale come il Saturday Night Li­ ve, punta di diamante della comicità televisiva americana, ma, appun­ to, in termini parodistici e ironici. La cosa più strana è che il film di Forman sceglie proprio la strada dell’iperrealismo. Non in termini figurativi, certo, ma come imposta­ zione della ricostruzione: fa un certo effetto vedere vent’anni dopo Lorne Michaels (produttore del Saturday), Christopher Lloyd (Taxi) e tutti gli altri che interpretano se stessi. È un iperrealismo strano, come se i turisti o le casalinghe col carrello della spesa di Duane Hanson fos­ sero diventati più vecchi, stempiati o magari rugosi, come se certe se­ gretarie o maschere cinematografiche degli interni hopperiani fossero ritratte ormai al limite della pensione. Come, insomma, se anche nell’opera noi fossimo soggetti al tempo. È il problema del cinema ri­ spetto alle altre operazioni figurative, dalla pittura al fumetto. E forse non è un caso che l’unico a non essere invecchiato sia Danny De Vito, qui escluso dalla compagine di Taxi per interpretare l’agente George Shapiro. In arte per non cadere nelle maglie del tempo è sempre meglio essere qualcun altro. È questa la ragione per cui, a chi l’ha visto e am­ mirato, Andy Kaufman dà l’impressione di non essere mai scomparso.

Riferimenti bibliografici Sull’importanza del monologo nella tradizione comica americana si veda Constance Rourke, American Humor. A Study of the National Character, Harcourt, Brace & Co., New York, 1931; gli otto coman­ damenti sull’umorismo enunciati da Max Eastman sono rintracciabili nel suo The Sense of Humor, Scribner’s, New York, 1921, poi imple­ mentati di altri due in Enjoyment of Laughter, Simon & Schuster, New York, 1936; sul rituale del wrestling si veda invece James B. Twitchell, Carnival Culture. The Trashing of Taste in America, Columbia UP, New York, 1992; l’idea di Roger Abrahams relativa al folklore come intera­ zione fra artista e pubblico è sviluppata nel saggio “Folklore and Lite­ rature as Performance”, Journal of the Folklore Institute, 9, 1972; le considerazioni su P T. Barnum sono nell’interessante studio di Con­ stance Rourke, Trumpets ofJubilee, Harcourt, Brace & Co., New York, 1927, mentre quelle su Lenny Bruce sono nel volume a quattro mani di Walter Blair e Hamlin Hill, America’s Humor, Oxford UP, OxfordNew York, 1978.

Capitolo 13

American Psycho di Mary Harron

Che occasione perduta! Qualche anno fa mezzo mondo si era dato da fare per condannare sdegnato la pubblicazione del romanzo di Bret Easton Ellis, American Psycho: una vergogna, un’inciviltà, un gratuito sadismo (come se il sadismo potesse non essere gratuito), un ributtante esercizio d’orrore e via dicendo. L’han detto a suo tempo, appunto, an­ che di Sade, e poi il Novecento ha visto intellettuali come Klossowski, Bataille, Paglia eccetera scrivere sull’argomento saggi memorabili. Ea­ ston Ellis è sicuramente il più consapevole e il teoricamente più prepa­ rato nella covata dei postminimalisti americani di prima generazione (Leavitt, McInerney, Minot eccetera) e non importa essere un suo am­ miratore per capire che American Psycho era un’operazione non meno intelligente (anche se diversissima, va da sé) di quella messa a punto da Nicholas Baker nel suo II mezzanino. Questi tagliava drasticamente la distanza fra occhio e oggetti, Ellis quella fra occhio e corpo. Figlio - in­ diretto, certo - della radicalizzazione operata dalla pop art, a differen­ za da altri scrittori americani precedenti che ne subirono massiccia­ mente l’influenza, come per esempio Donald Barthelme, Ellis elimina ogni componente ironica e mediologica e avvicina il corpo a un punto tale che esso non può apparire che come carne. Sì, va bene, lo fa da non so quanto tempo anche la più volgare narrativa pornografica; ma Ellis va oltre la superfìcie dell’involucro e per di più, non essendo un por­ nografo, si disinteressa completamente della regolare fisiologia del ses­ so, la cui funzione gli è del tutto estranea. Ellis va direttamente alla car­ ne, cioè all’epitelio, ai tessuti, ai filamenti, al sangue, alle ossa stesse. Ma per arrivarci ha due vie: quella clinica e quella psicopatologica, va­ le a dire o La valigetta del dottore in edizione riveduta e aggiornata o la pulsione estrema del serial killer. O la finalità terapeutica o il desi­ derio di morte. Insomma, Ellis arriva al capolinea. Un esperimento? Sì, ma non semplice logica alchemica, non combinazione da obrador d’avanguar­

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dia: dietro, davanti, attorno a quella materia ancora pulsante e sangui­ nante c’è qualcos’altro, ed è, guarda un po’, la società in cui viviamo, i suoi desideri, le sue ambizioni, i suoi valori. È un mondo fatto di abiti firmati, di profumi di marca, di squash, palestre, e cento altri status symbols. Un mondo che non è comune a chiunque, si dirà: vero, ma che è comunque comune a tutti in quanto aspirazione e mito. In questo senso la storia di American Psycho non si limita a essere la vicenda di uno psicopatico ricchissimo e viziato, di un fortunato che non com­ prende la sua fortuna, di un malato che si rovina il piacere, ereditato, di vivere in un ambiente privilegiato e dorato, ma è invece la storia di tutti noi, magari poveri in canna, ma sintonizzati sulla sua stessa lun­ ghezza d’onda in termini di desideri e d’ambizioni. Tuttavia, una critica semplicemente socioideologica di quel roman­ zo avrebbe vita corta. Quel che in esso conta è, come si diceva, l’ulte­ riore passo compiuto dall’autore nella direzione di un territorio ine­ splorato - e tuttavia quanto blaterato! - come quello del corpo. La fi­ sicità (“Get physical!”) che caratterizza il periodo entre-deux-siècles nel quale ancora viviamo non sembra avere la minima idea di ciò che davvero significa quel termine, della sua materialità, della sua stupefa­ cente concretezza, anche se il cinema contemporaneo ce l’ha detto in mille salse. Ed ecco allora tutti - parlo del gran pubblico, non della cri­ tica, che le sue masturbazioni se le fa in altro modo - a bearsi davanti alle esercitazioni più o meno postmoderne, e comunque sempre ironi­ che, di Raimi e Craven, ma a storcere il naso davanti a uno dei pochi registi che nel corpo è entrato per davvero, David Cronenberg (“La qualità si estrinsecava in altre forme, tutti esauriti lì a sognar che non si dorme”, dice il testo del maggior poeta musicale contemporaneo ita­ liano, anch’egli destinato a essere compreso e ammirato da pochissimi, tanto che ormai se n’è andato in America a rifarsi una vita). Easton Ellis dunque ha avuto il coraggio di affrontare la carne. E l’ha fatto da gran signore, evitando con uno splendido colpo di coda di prestare il fianco alle accuse che immancabilmente gli sono comun­ que piovute addosso. Lo straordinario finale “onirico” che stravolge tutto quello che il romanzo ha raccontato sino a quel momento, ma che non va confuso col solito espedientucolo del risveglio da un sogno, riporta il protagonista (e noi con lui) alla dimensione che gli compete, quella del delirio. E a quel punto che importanza ha se ciò che ci è stato raccontato è vero oppure no? Quel che conta è che la carne e il sangue li abbiamo visti comunque e che la narrativa come genere letterario ha calato la maschera: niente di quel che racconta è verità, anche se sem­ bra esserlo. E tanto da far gridare i benpensanti allo scandalo. E dun­ que fino a che punto costoro potranno urlare che cose del genere nuoc­ ciono alle giovani generazioni, che esse forniscono modelli istiganti al

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crimine e all’efferatezza? I casi sono due: o si può parlare di ciò che non esiste oppure se ne deve tacere. Ma in questo secondo caso biso­ gna tacere sempre, anche di Heidi, di piccoli lord, di altrettante piccole donne, di Sussi e Biribissi, delle vite dei santi e quant’altro. D’accordo che si sia o meno con questa impostazione di discorso, credo in ogni caso evidente l’eccezionale spessore teorico sotteso a questo romanzo. Bene, e il film? Mary Harron, perlomeno, non è estranea alla pop art. Nel 1996 aveva firmato 1 Shot Andy Warhol, e già solo per questo si può supporre che alcune linee portanti di quell’esperienza non le siano ignote. Solo che se qualcosa è rimasto di essa nella pellicola, questa è l’ottima sce­ nografia che riflette l’astrattezza della quotidianità in modo idealmente (e solo idealmente) non dissimile dalle più vistose e ironiche operazio­ ni pop di Warhol, Rauschenberg, Oldenburg e compagni. Il resto è una devastazione. Il Bateman cinematografico e i suoi accoliti citano, sì, co­ me i loro corrispettivi letterari, Cerruti, Gaultier, Matsuda, Valentino eccetera, e se è per questo, si vestono con le loro cose, ma, trasposti sullo schermo e in viva voce, le loro idiosincrasie, i loro tic, le loro fo­ bie, i loro valori diventano materiale involontariamente comico. La se­ quenza dei biglietti da visita coglie lo spettatore come un pugno nello stomaco, quella voce fuori campo che sputa invidia e odio per l’insop­ portabile bellezza dei caratteri a stampa e dell’elegante carta dei colle­ ghi riporta alla mente un film ridicolo nella sua anche maggiore serio­ sità come Strano interludio (Strange Interlude, 1932 di Robert Z. Leo­ nard), un vero punto a favore per coloro che pensavano il cinema fosse un’arte senza parole. Ma a parte questo, è proprio nelle sequenze “carnali” che il film fallisce miseramente. In un’epoca in cui sembra che le cartilagini siano sopportabili (e anzi, auspicate e molto apprezzate) soltanto in un qua­ dro ironico la Harron non ha avuto il coraggio di spezzare il ciclo vi­ zioso e Bateman che, munito di sega elettrica, insegue la prostituta per i corridoi del condominio sembra più un fagiolo in caccia di una ma­ tricola con la pistola ad acqua. La codardia registica arriva a un punto tale che le scene violente più riuscite sono quelle in cui Bateman rinun­ cia alla sue intenzioni omicide, come quella con la segretaria. E si am­ metterà che per un’opera che ha fatto di delitti sanguinosi e orribili il suo centro, questa è una mancanza catastrofica. La coscienza impone al copione di mettere alla fine in fila in frigorifero qualche testa moz­ zata e un paio di cadaveri appesi in un ripostiglio. Bene, e che fine han­ no fatto le operazioni di spellamento dei corpi, le orrende chirurgie di cui il romanzo era pieno? C’era più audacia in un film come II silenzio degli innocenti, che aveva, sì, anch’esso operato censure, ma il cui ro­ manzo originario almeno non aveva alcun risvolto teorico.

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Niente fraintendimenti, per favore: a chi scrive non interessa un fi­ co secco la “fedeltà” cinematografica all’opera letteraria che ne doves­ se essere la fonte. Sta di fatto che l’unica ragione di interessarsi a un ro­ manzo come quello di Easton Ellis era questa: se si toglie la materialità del corpo il film, per riprendere le parole stesse del protagonista (ri­ portate anche nel finale della pellicola), rimane “senza significato né conoscenza”. Una trasposizione cinematografica da un testo letterario può fare molte variazioni, ma se rinuncia a priori a ciò che dava a quel testo l’unica ragione di essere, dalla quale discendono poi le varie ri­ flessioni di cui si è tentato in precedenza di fornire un breve riassunto, allora quel film non può essere altro che una bufala. Sottraete il corpo (nell’accezione di cui sopra) e avrete solo il ridicolo. Ma a pensarci be­ ne, anche il ridicolo è un’ottimo commentario al tipo di società che American Psycho mette in scena. Solo che la Harron non lo sa.

Capitolo 14

“No Irish Need Apply”, ovvero: un’isola di gioia

We’ll tum Manhattan into an isle of joy Ella Fitzgerald, “We’ll Have Manhattan”

Gangs of New York non è il miglior him di Scorsese: la sua linea narrativa è scontata, prevedibile, impostata com’è sul classico modello della vendetta familiare, del doppio gioco, del giuramento amletico al­ lo spettro del padre. Fra gli altri difetti annovera un Di Caprio del tutto fuori parte, una Diaz poco convincente, persino un Day-Lewis che è, sì, bravissimo, ma che non riesce a resistere alla tentazione di imitare smaccatamente De Niro (peraltro, la prima scelta di Scorsese per quel ruolo). Eppure non è una pellicola noiosa. Le sue tre orette o giù di lì passano d’un fiato e alla fine si esce dallo spettacolo con la sensazione di aver visto qualcosa di inedito, dunque di importante. Perché? Perché Scorsese è un ottimo regista, va bene, ma quanti altri ottimi registi han fallito in modo ben più clamoroso con questo o quel film? La ragione sta altrove. Forse nel fatto che il protagonista di Gangs of New York è la sua scenografia. O meglio, le sue scenografie. Per almeno due terzi dell’opera essa si identifica nella zona di Five Points (insieme a quella, più a nord, di Nanny Goat Hill, il centro del sottoproletariato irlandese nella Manhattan di metà Ottocento). Ma a sua volta la zona di Five Points si identifica, nel film, in uno spazio che non è della realtà ma della mente: esso è un vero e proprio, letterale underground, una cavità coperta scavata nella terra e strutturata come una serie di gironi infernali, ben diversa dal tunnel che storicamente connetteva davvero due zone di quell’area. Un po’ luogo di ritrovo, un po’ miniera, un po’ cantina, un po’ labirinto, essa rifulge nel tenue chiarore artificiale dei sottosuolo come un’architettura segreta e com-

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plessa, luogo organizzato di riunioni, balli, fughe, inseguimenti, risse, nascondigli. È lì che incomincia la storia, è lì che Priest Vallon si pre­ para allo scontro con i Native Americans di Butcher Poole. Ed è subito chiaro che quello spazio non esiste, esso è un luogo mi­ tico, la "casa” irlandese che garantisce unità e compattezza al gruppo, il ripostiglio ove interrare i suoi simboli, i memento di chi non vuole dimenticare. Di più: esso è uno spazio teatrale, nel senso che è la con­ centrazione di situazioni e azioni le più diverse e talora contrastanti e contraddittorie. Come possono ivi convivere e interagire tranquilla­ mente persone che si affrontano per strada con scontri all’ultimo san­ gue, con tradimenti e assassini!? Scorsese l’ha detto a più riprese nel making of della pellicola: Gangs ofNew York è concepito come un’ope­ ra lirica, tutto vi è stilizzato e nulla va preso letteralmente. Insomma, Scorsese ha costruito una Five Points mitica e operistica, e in essa ha incentrato la sua storia “storica”. “Storica” perché non c’è dubbio che la sua ricerca in quel senso sia stata accurata. Pur con alcu­ ne libertà, come lo spostamento cronologico della figura di Poole, che in realtà era morto vent’anni prima, la sostanza della Storia viene ri­ spettata: il sentimento anti-irlandese della New York di metà Ottocen­ to era proprio quello che il film mette in scena (“No Irish Need Ap­ ply”, si leggeva spesso nelle vetrine dei negozi che cercavano appren­ disti e mano d’opera). Di più: storicamente, a partire dalla grande ca­ restia del 1842 e dall’emigrazione colossale che seguì, gli irlandesi in America furono considerati inferiori agli stessi neri, se non altro per la semplice ragione che un nero era legalmente uno schiavo, lo potevi vendere e ricavarci del denaro, laddove un irlandese era uno schiavo solo di fatto e il suo valore si identificava semplicemente nella forza la­ voro che rappresentava, estraneo a qualunque valore di scambio. Negli stessi anni della vicenda scorsesiana viene fondata in Pennsylvania la setta irlandese dei Molly Mcguires (si ricordi il bel film omonimo trat­ tone da Martin Ritt) - minatori trattati come bestie che si ribellarono al padronato e alla polizia connivente - che 13 anni dopo sarebbe stata sgominata da alcuni infiltrati della agenzia Pinkerton. Non meraviglia, quindi, che durante la guerra col Messico (1842-46) non pochi soldati irlandesi dell’esercito statunitense abbiano disertato per passare nelle file dei messicani, ritrovandosi spesso a combattere in prima linea con­ tro amici e conterranei. Dunque, la violenza sanguinosa del film non va letta tanto come l’usuale iperbole scorsesiana (si pensi al Joe Pesci di Quei bravi ragazzi, Casino, ecc.), quanto come un dato di fatto storico surrogato da un pensiero xenofobo comune e facilitato dal disinteresse dell’autorità nei confronti del sottobosco metropolitano (salvo ovviamente in tempi di propaganda elettorale, come il film mostra bene).

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A questo punto si scorge facilmente il vero sottotesto dell’opera: non il ritaglio di un momento storico, ma la metafora che esso fornisce per una città e una nazione tutt’altro che confinate nel passato: Gangs of New York è un film su un argomento straordinariamente contempo­ raneo, vale a dire i concreti problemi di una società multietnica impre­ parata alla convivenza e ignara dei più elementari principi democratici (all’invito a risolvere la controversia etnica in termini democratici Bu­ tcher risponde con un’accettata a tradimento nella schiena del conten­ dente). Pure, si diceva, è su un terreno essenzialmente mitologico che lar­ ga parte della pellicola convoglia un discorso bruciante come questo. Scorsese non ci dà la Five Points di quel tempo, ma quella della sua fan­ tasia. Del resto, in Gangs of New York tutti si costruiscono dei miti, delle false verità con le quali spiegare la realtà: si pensi a Poole che, parlando del suo nemico d’un tempo, afferma solennemente, “La fede religiosa era l’unica cosa che ci divideva”; laddove la differenza di fede è solo il pretesto per sfogare il proprio odio razzista verso i miserabili nuovi arrivati. 11 livello mitologico tuttavia si affievolisce quando esplodono i di­ sordini dovuti alla coscrizione obbligatoria. Anche qui Scorsese mostra accuratezza storica: le impiccagioni di neri innocenti avvennero davve­ ro, così come è vero che fra i gruppi irlandesi non era raro trovare qualche nero, vittima comune dell’odio nazionalista dei “nativi”, an­ che se a dire il vero la rivolta irlandese, che costò 1200 morti, si ap­ puntò, in modo ancor più irrazionale, persino contro cinesi e tedeschi Ma quel che più conta è che la Manhattan del film diventa a questo punto più verosimile: in altre parole, al livello mitologico subentra quello storico e si incominciano a distinguere luoghi identificabili della città (la 3.a Avenue, per esempio). Alla Manhattan della fantasia Scor­ sese sostituisce quella della ricostruzione storica. Ed è qui che il film prende senso: l’inattesa sovrapposizione di due città - o quantomeno di due antitetici modi di pensare Manhattan (o alcuni suoi luoghi) - ci costringe a fare i conti con il mito. La sospensione di giudizio che per due terzi della storia lo spettatore attiva (anche solo inconsciamente) deve ora lasciare il posto a fatti storici precisi, a luoghi, eventi, drammi che non hanno più alcuna ambizione eroica (se pure di eroismo si può parlare per personaggi come i bruti - perché tutti sono tali - di Five Points), ma che diventano il bersaglio delle cannonate della Storia. Con quelle cannonate Scorsese ci risveglia raccontandoci una veri­ tà che cozza con la nostra mitologia: New York non è la città che ab­ biamo conosciuto attraverso il cinema, per moltissimi unico canale di informazione. Non è quella semionirica di L’orologio di Minnelli, né quella gioiosamente colorata e dinamica di Un giorno a New York di

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Kelly e Donen. Non è nemmeno quella “sociologica” del noir metro­ politano quarantesco, né quella dei melodrammi storici d’ambiente ot­ tocentesco nei quali la città sembrava abitata soltanto da ricchi espo­ nenti alto-borghesi i cui unici problemi erano d’etichetta e di nascita; né, ancora, quella più povera e forse più verosimile degli squarci im­ migratori passati e presenti, da Hester Street della Micklin Silver alle note prove di Coppola e dello stesso Scorsese. La New York di questo film è davvero inedita e ci mostra come la proverbiale democrazia ame­ ricana, ammirevole com’era ed è nei suoi principi, abbia in realtà poco attecchito nel paese al di là dalle dichiarazioni scritte e dalla retorica politica. In un bell’episodio dei Simpsons Lisa, testimone non vista di un at­ to di corruzione politica, si reca disperata davanti alla statua di Lincoln a Washington per chiedere al presidente dei presidenti che cosa deve fare, e si ritrova in mezzo a frotte di persone giunte al mausoleo per chiedere anch’esse qualcosa al presidente, spesso questioni di carattere personalissimo (come fare per comprare un’altra auto, come risolvere un problema matrimoniale e cose del genere). Insomma, ognuno ha il suo Padre Pio. Solo che in America è singolare che questo ruolo sia svolto da una persona pubblica assurta al rango di mito quando in re­ altà questi non fu altro che un uomo politico come tanti, pieno come gli altri (e anche più di loro) di belle parole ma in realtà compromesso fino al collo con gli interessi e l’economia della classe dirigente: 300 dollari per essere esentati dal servizio militare e non essere inviati al fronte erano un vero capestro per la povera gente e dicono in modo chiaro come la guerra civile fu combattuta, da parte dell’Unione, non per un ideale di fraternità e giustizia, ma per ragioni ben più materiali, coscrivendo e mandando al macello dei poveracci appena sbarcati a El­ lis Island ed estranei al dibattito politico nazionale. In questo senso Gangs of New York è un film non meno coraggioso di Kansas City di Altman, l’unica pellicola americana odierna in cui la figura di FDR, il presidente “comunista”, sia stata presentata come quella di un avven­ turiero non estraneo a metodi di violenza fascista. Scorsese insomma demitizza una metropoli, i modi con i quali essa ha attecchito nel nostro immaginario. E lo fa in larga misura avvalen­ dosi: a) di un’impostazione mitologica, fantastica (operistica, appun­ to), creando per noi una New York che in quelle forme non è mai esi­ stita; b) documentando la violenza fanatica e sanguinosa che fu alla ba­ se della nascita della moderna metropoli che è oggi centro del mondo. Per non so quanti decenni siamo andati avanti pensando a New York come a un baluardo, nel bene e nel male, della civiltà occidentale. Non ci facevamo illusioni sulla sua violenza, sapevamo - almeno dagli anni Trenta, e anche prima - che una realtà metropolitana così gigan-

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tesca non poteva non contenere in sé anche forti germi di violenza. Ma Scorsese cambia completamente la prospettiva: non ci vuole far vedere ancora una volta le frange violente della metropoli, ma la natura vio­ lenta di essa, il terreno maledetto e compromesso sul quale essa è sorta, la sua matrice storica fatta di barbarie, di collusioni politiche, della cri­ minalità del suo tessuto sottoproletario e della connivenza criminosa del potere e dell’autorità politica. Ecco allora che la scena finale del ci­ mitero e della metamorfosi dello skyline metropolitano sullo sfondo assume una doppia valenza: da un iato essa allude alla forza irresistibile del Moderno che supera e travolge le drammatiche vicende di un’epo­ ca ormai consegnata al passato; ma dall’altro essa ci parla del tessuto di barbarie e di sangue sul quale riposa addirittura fisicamente la civiltà che ci ha dato quei grattacieli e quello skyline. Come una maledizione, quella scena ci dice che tutta la violenza di quella metropoli (e in par­ ticolare del cinema scorsesiano, che ce l’ha spesso dipinta) non ha sem­ plicemente ragioni sociologiche, ma storiche, e sono ragioni che gra­ vano sulla città non permettendo di pensare a esse come a qualcosa che ha caratterizzato il suo passato, ma che al contrario caratterizza il suo presente. Insomma, il cattolico Scorsese, che ha scelto questa volta di parlare di un altro gruppo cattolico (quello irlandese), ha qui fatto il suo film meno cattolico di tutti, quello nel quale i peccati non si esau­ riscono nel soggetto, ma diventano il marchio di famiglie, etnìe, città, civiltà. Per questo Scorsese ha voluto adottare un livello mitologico di di­ scorso (al livello mitologico, fra l’altro, appartengono le armi usate nel film: una dozzina di coltelli, asce e altri oggetti d’offesa disegnati ex no­ vo per l’occasione): la stretta ricostruzione storica è sempre raccoman­ dabile e apprezzabile, ma da sola rischia di relegare i dati nel limbo sen­ za più colpe del passato. Gettare un seme nel campo del mito significa invece farlo germogliare in modo che esso invada anche il tempo a ve­ nire, investendo di sé la nostra attualità, parlandoci di quanto quel pas­ sato sia ancora presente nel presente e determini il senso stesso della città, la sua natura oltreché la sua storia. Per questa ragione, nella lettura scorsesiana, Manhattan non solo non è, ma non potrà mai essere l’“isola di gioia” che il Moderno avreb­ be voluto fosse, e per contrabbandare la cui visione esso ha approntato un arsenale mitologico che ha invaso e condizionato l’intero immagi­ nario novecentesco.

Quarta parte Questioni

Capitolo 1

Natura e cultura: l’eredità di Valentino

Il mito di Rodolfo Valentino si è esercitato attraverso una fascina­ zione composita scorporatile in almeno due livelli: quello strettamen­ te fisico-estetico, legato ai lineamenti, alla guisa, ai costumi, al volto, alle movenze, alla danza eccetera; e quello, più indiretto, e peraltro al primo collegato, relativo alla funzione che l’attore ha assolto nei confornti di un pubblico essenzialmente femminile. Questo secondo livel­ lo, in particolare, ha visto cimentarsi nella lettura del suo mito un nu­ mero altissimo di critici, soprattutto in anni recenti, alla luce del gran­ de sviluppo delle teorie femministe relative al rapporto fra cinema e gender inaugurate dal forse sin troppo citato saggio di Laura Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema (1975). A noi qui interessa avvicinare quel mito non in se stesso, bensì in rapporto a ciò che esso ha lasciato in eredità al cinema americano. Non si tratta soltanto, è ovvio, di individuare chi ha raccolto lo scettro della leggenda, chi è succeduto al trono che era stato dell’attore più amato in assoluto dal pubblico femminile (i pretendenti sono tanti: chi po­ trebbe operare una scelta e sulla base di quali elementi di giudizio?), ma di osservare ciò che del mito di Valentino è rimasto, dopo la sua prematura morte, nella galleria delio star system americano. Il compito è diffìcile, non tanto per la complessità delle differenti e numerose personalità maschili che si sono succedute sulla scena hollywoodiana, quanto perché il mito di Valentino era potuto fiorire anche grazie a una precisa congiuntura storica che vedeva, fra le altre cose, una sempre maggiore - e supposta - emancipazione femminile, tale da permettere l’esplicitazione (sia pure in termini mitologici) di una sessualità liberata e l’ascesi di una figura, quella dell’alieno che impone un inedito immaginario erotico, che sino a quel momento era stata relegata a parti secondarie e comunque moralmente discutibili (è noto che lo stesso Valentino, prima dell’esplosione del suo mito, aveva lavorato nel cinema, appunto, come personaggio d’origine straniera

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usualmente presentato in vesti riprovevoli, ombrose, ambigue). È bene infatti ricordre che nel cinema muto americano il mito del Latin lover (o deìVItalian lover) non godeva di una fondazione istituzionale, di un mito consolidato. L’amoroso c’era, naturalmente, ma veniva dritto dalla tradizione aristocratica della narrativa europea (perlopiù inglese) mescolandosi con il modello tormentato fornito dalla rivoluzione romantica. Un incontro, insomma, fra il Darcy di Jane Austen e il Wer­ ther goethiano. Un po’ tutta la cultura europea aveva contribuito alla costruzione di questo sintetico gentiluomo. Tutta, tranne l’Italia. All’inizio del ’900 l’Italia restava - un po’ come l’Irlanda e la Polonia - una fucina di poveri, e l’unica immagine campionaria che essa aveva fornito all’America era quella dell’emigrante lacero, umile, vociante o silenzioso, sempre miserabile. L’emigrante italiano non era cultura, era natura. Cioè forza-lavoro. E quei pochi che riuscirono a sfuggire a quella sorte non fecero che confermare la regola: che cosa fu Caruso per l’immaginario americano se non la fortuna di una straordinaria voce? Caruso non era un artista (cioè una persona di talento che era giunta al successo grazie a studio e disciplina), ma una forza naturale. Basta osservarne la biografìa e le varie allusioni biografiche elaborate da Hollywood (ricordate il film con Mario Lanza?) per accorgersi che egli era considerato come un freak, sia pure in positivo. Valentino fu la risposta al pregiudizio dell’immaginario americano. Il contadino meridionale non era diventato un verduraio e men che meno un piccolo delinquente di strada, ma un oggetto di desiderio per le donne e un oggetto di invidia per gli uomini del Nuovo Mondo. L’italiano era in sé un personaggio esotico, bastava ribaltarne i trat­ ti caratteristici e il gioco era fatto. La danza fu il ponte di questo pas­ saggio. Presentare Valentino come un uomo fine, sofisticato, aristocra­ tico non sarebbe stato semplice: non tanto perché esteriormente egli avrebbe difficilmente potuto impersonare quel ruolo, quanto perché ciò sarebbe stato troppo in contrasto con l’immagine dell’emigrato ita­ liano quotidianamente ben viva agli occhi degli americani. Ma un emi­ grato italiano che danza, e danza bene, quello avrebbe fuso perfetta­ mente natura e cultura. La danza, insomma, come stadio essenziale per la trasformazione di un’idea radicata dell’italiano: stilizzazione del mo­ vimento, la danza attraversa ogni barriera, esprimendo una ritualità che supera di gran lunga il folklore per divenire bisogno assoluto e uni­ versale, necessità espressiva comune a tutti. La danza inoltre è l’alibi primario dell’esotismo di Valentino. Vestito da gaucho nella pellicola che lo lanciò, egli indossa in realtà un costume di danza. Attraverso quello egli può passare per qualunque cosa, anche per un ricco genti­ luomo sudamericano. Non danzatore di professione (questo sarebbe stato più compromettente), ma per passione, un modo per vincere la

NATURA E CULTURA: L’EREDITÀ DI VALENTINO

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noia che, si sa, va di pari passo con la vita dei ricchi, e uno - anche per conquistare belle donne. Come si diceva, la danza, nella sua fun­ zione erotica, è stilizzazione, vale a dire traduzione in precisi termini gestuali della parabola di un desiderio e, idealmente, della sua realiz­ zazione. Valentino portò per primo sullo schermo la ritualità traslata della seduzione. Non generici passi di danza, ma un vero sistema di fa­ scinazione, soprattutto se si pensa che il suo primario veicolo coreo­ grafico fu il tango, vale a dire una danza di recente introduzione negli Stati Uniti, presentata come epitome di tentazione e peccato. Valentino si identificò subito con essa (“he was born a tango dancer”, avrebbe scritto John Dos Passos nel terzo volume della sua famosa trilogia USA, The Big Money, 1937), ma in un complesso gioco dialettico con la sua propria immagine, che di certo non si presentava come moralmente abominevole e comunque corruttrice. Al contrario, il suo aspetto, il suo volto giovanile, i suoi occhi maliardi, sì, ma senza ombra di mor­ bosità, conferivano al peccato - a quel peccato - un nuovo statuto, una qualità che se non era di normalità, era però certamente foriera e rap­ presentativa di una sorta di solarità del peccato. In breve, Valentino in­ carnava l’immagine dell’ufficializzazione della trasgressione. È a questo punto che i suoi silenzi pensosi, le sue mute introspe­ zioni, i pensieri indovinabili che si celavano dietro la serietà compresa del suo volto in taluni momenti, erano ben più che il segnale di un qualche lato oscuro e scostante del carattere; è a questo punto che la sua maschera lascia intendere una qualità da molti secoli fondamentale nella nostra cultura, quella di un Satana di estrazione miltoniana, di un angelo caduto ben conscio del proprio errore e del proprio destino. La scena nella quale, in II figlio dello sceicco (The Son of the Sheik, 1926) egli ripensa alla violenza imposta a Yasmin è, in questo senso, la quin­ tessenza di tale suo importante aspetto. Opposte passioni si agitano nei suoi occhi e nell’atteggiamento del suo viso. Il peccato è stato commes­ so, non c’è dubbio, ma la coscienza di esso è altrettanto viva e strazian­ te quanto l’atto compiuto. Naturalmente quello di II figlio dello sceicco è un caso limite. Non sempre i suoi personaggi agiscono in modo così dirompente e biasime­ vole. Ma sempre si tratta per essi di una scelta morale che mette in gio­ co l’intera struttura del proprio essere. Sceicco o ricco gaucho, il suo sguardo è sempre quello di chi vive interiormente una tristezza causata dalla certezza che il proprio passato, comunque stiano le cose, va ridi­ scusso nel tentativo di trovare un’armonia del mondo che sia specchio di un’armonia del proprio pensiero e del proprio essere. Ecco perché a mio avviso Rodolfo Valentino, lungi dall’essere semplicemente la ma­ schera di un amatore più o meno tenebroso, è invece qualcosa di più complesso: quella di un personaggio che rasenta aree di consistente

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profondità morale. Non certo un campione di etica, ma un oggetto­ soggetto di desiderio che riesce a proporsi come pensiero problemati­ co sui propri istinti e sulle proprie azioni. La danza è certamente la sintesi stilizzata di questi ultimi, ma il vol­ to di Valentino sta oltre questa a rivelare una coscienza che si intravede dietro dietro l’ingombrante presenza del cuore. Un amante impetuoso e appassionato sarebbe stato già abbastanza per un italiano figlio di contadini meridionali, per uno dei tanti emigrati destinati alla vana ri­ cerca di una fortuna che il Nuovo Mondo consentiva a pochi. Ma un italiano che comunica il tormento interiore che è conseguenza di una lotta irrisolta fra quella natura che egli così tradizionalmente incarna e l’imprevista coscienza di priorità e valori può ben essere motivo di me­ raviglia e di istituzionalizzazione in mito. La trasformazione è compiuta e con essa il riscatto. Da quel mo­ mento Valentino sarà di tutto, da sceicco a gaudente francese, da tore­ ro a duca, da tenente della guardia imperiale russa a rajah indiano. Incomincia così il mito dell’amante italiano, il quale, si noti, verrà tuttavia di norma tenuto ben lontano dall’interpretare personaggi vici­ ni alle sue origini: una sola volta, per l’esattezza, Valentino avrebbe in­ terpretato un italiano, ma doveva naturalmente essere un nobile, il conte Torriani, nel non felice Cobra (1925). Proprio in funzione di uno star system che appare come una mac­ china ormai avviata indipendentemente dalla marca del carburante che l’alimenta, alla morte di Valentino si scatenò la bagarre, a sua volta am­ pliata dai mezzi di comunicazione di massa: chi ne avrebbe raccolto l’eredità? In un suo volume non poco agiografico sia nei contenuti che nello stile, Jeanne de Recqueville elenca e commenta una serie di nomi che Hollywood (e non solo Hollywood) avrebbe in seguito proposto per riempire tale ruolo: Ramon Novarro, Antonio Moreno, Alberto Rabagliati, Warner Baxter, Ricardo Cortez, Anthony Dexter, Mike Marshall, Omar Sharif, Léon Zitrone, Rossano Brazzi. Alcuni di loro, in realtà, vennero presentati come eredi del mito soltanto in funzione del ruolo di (Latin) lover che furono chiamati a in­ terpretare. Ricardo Cortez non ebbe in comune con Valentino nemme­ no l’origine latina (il suo vero nome era Jake Kranz), ma soltanto la parte di un torero in una pellicola presto dimenticata. Mike Marshall, figlio di Michèle Morgan, in effetti, era giusto un bel giovanotto con qualche esperienza teatrale e cinematografica, che soltanto la miopia di Maurice Esacande, nel 1963, permetterà di definire “le nouveau Valen­ tino”. Un altro francese, Edgar Schneider, usa lo stesso termine nel 1969 per definire Omar Sharif, il quale in realtà con Valentino avrebbe avuto in comune solo il titolo francese di un film, Le droit d’aimer (la pellicola originale americana era Beyond the Rocks, 1922, con Gloria

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Swanson). Quanto a Zitrone, si trattava di una piccola star televisiva francese subito scomparsa. Un po’ più complesso è il discorso relativo agli altri nomi. Primo fra tutti quello di Novarro. Pressoché contemporaneo di Valentino, Novarro ebbe il suo primo ruolo importante nel 1923 in Scaramouche (Valentino, com’è noto, nel 1921 con The Four Horsemen of the Apo­ calypse). In altre parole, Novarro non appariva come una scoperta se­ guita a quella della scomparsa del suo rivale, ma come un attore che già godeva di un suo spazio e di un suo pubblico. Spazio e pubblico che si ampliarono all’uscita di Ben Hur (1925), un anno prima della morte di Rudy. Ma Novarro mostrava marcatamente i suoi tratti messicani, la sua pesante latinità. A differenza di Valentino, era un buon cantante, ma certo non poteva atteggiarsi a ballerino (anche se in qualche occasione lo fece). L’avvento del sonoro gli fu fatale, nel senso che se la nuova tecnica gli permise di mettere in luce una qualità che non era dell’altro, essa lo proiettò in una dimensione che a priori lo allontanava dalle co­ ordinate che avevano fatto di Valentino il mito che era. Valentino, in­ tendo dire, era riuscito a concentrare le ragioni del suo mito non solo nelle personali fattezze fisiche - decisamente diverse da quelle di No­ varro - ma anche nello sguardo, nella danza, nei costumi e in un mo­ mento (l’era del muto) in cui tutto questo assumeva un potenziale d’impatto incalcolabile che di necessità il sonoro limitò e smussò, tro­ vandosi a dover fare i conti con il nuovo status quo. La fine di Valenti­ no, per tragica che fosse, avvenne all’interno del periodo muto, talché il suo mito potè travalicare senza correre alcun rischio i confini epocali imposti dalla tecnologia. Ma le differenze erano tuttavia di ben altra portata. Valentino ave­ va inaugurato il mito del Latin lover alimentandolo di un’ambiguità sessuale che era alquanto estranea alla maschia ispanicità di Novarro. Di lineamenti morbidi e talvolta femminei, Valentino, nella famosa scena della tortura in II figlio dello sciecco - non a caso definito da Mi­ riam Hansen il suo “probably most perverse film” - può ben apparire come una sorta di San Sebastiano: ciò che mai verrebbe in mente ad al­ cuno vedendo Novarro nello stesso ruolo. E più in generale tutta l’am­ biguità di carattere sadomasochista che giustamente la Hansen ha in­ dividuato nel primo non trova riscontro nella persona del secondo, ca­ rattere decisamente virile e fisicamente ben più squadrato dell’altro. D’altra parte, qualunque cosa si possa dire di Antonio Moreno, i ruoli interpretati in pellicole come The Temptress (1926) e It (1927) lo avevano messo a confronto con personalità femminili del calibro, ri­ spettivamente, di Greta Garbo e Clara Bow, cioè a dire con due dive di quello stesso star system che aveva dato a Valentino la palma di ama-

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tore e dominatore assoluto. In altre parole, l’eredità di Valentino ri­ chiedeva, fra le altre cose, anche un casting adeguato a quello che ave­ va permesso all’interprete di Sangue e arena (Blood and Sand) di esple­ tare in modo travolgente e senza alcun ostacolo il proprio ruolo. Alberto Rabagliati aveva forse più di altri un physique du róle che poteva ricordare il mitico attore, ma il milanese non aveva dietro di sé l’esperienza dell’emigrazione, non aveva cioè il bagaglio di angoscia e povertà necessario a fornirgli la distaccata determinazione che era in­ vece nello sguardo di Valentino; e non aveva nemmeno il training di danzatore che certamente aveva consentito all’altro la sua specifica pla­ sticità, alquanto scultorea, di movimento. Rabagliati, e non solo come cantante, era un figlio dell’era dello swing, ne rappresentava la versio­ ne italiana, scanzonata, divertita, capace di proporsi in termini roman­ tici, certo, ma troppo incline al sorriso per poter aspirare alla seriosa drammaticità del suo predecessore. Forse per questo, nonostante aves­ se vinto un concorso per il miglior sosia di Valentino e dopo essersi re­ cato in America per due anni, non sarebbe riuscito a farsi affidare una parte in alcun film. Il punto è infatti proprio questo: Valentino fu l’espressione di un periodo specifico sia della società che dell’immagi­ nario americano (soprattutto femminili) e il fatto che egli sia assurto a mito non basta certo a fornire le coordinate per un suo recupero da parte di chiunque in qualunque momento. Si prenda un altro aspirante ufficiale, quel Warner Baxter che nel 1936 Jim Tully aveva definito “un Valentino senza cavallo e senza il co­ stume da sceicco”. Già queste assenze sono sospette, ma quel che più conta è che Baxter (pressoché contemporaneo di Valentino, si noti) è prima di tutto una sorta di Latin lover travestito: i capelli scuri e im­ brillantati, i baffetti orizzontali e sottili, il volto serio e impassibile so­ no tratti che appartengono più alla casistica di Novarro. Si tratta di un modello cui risposero in varia misura non pochi altri attori dell’epoca (si pensi, con tutte le differenze del caso, a Ronald Colman o allo stesso John Gilbert). Ma quel che più conta in relazione a quanto si diceva so­ pra è che non a caso Baxter sarebbe stato utilizzato nel decennio se­ guente o in commediole che necessitavano di un polo serio, da lui ben rappresentato, per potersi allegramente sviluppare, o in pellicole, ma­ gari di genere leggero, dense di repressa drammaticità come, esempio fra i più significativi, il musical 42.a strada (42nd Street* 1933), o in ve­ ri e propri film di grande potenza drammatica come II prigioniero dell’isola degli squali (The Prisoner of Shark Island* 1936). Valentino, insomma, era la cartina di tornasole del fatto che qualcosa era cambia­ to nel ruolo e nell’assetto della minoranza femminile americana, e di conseguenza in coloro - ed erano la stragrande maggioranza - che fra di esse si recavano nelle sale cinematografiche. Non è casuale che, pur

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nel cinema dal 1914, Baxter avrebbe incominciato a emergere soltanto a partire dal 1926 (guarda caso, Tanno della morte di Valentino) con la prima versione di II grande Gatsby (The Great Gatsby), quando l’at­ tore aveva già 37 anni, cioè un’età molto più consona al suo tipo e alla sua persona, alla sua maschera. Quanto ad Anthony Dexter, il primo a presentarsi per davvero nei panni del divo in un film biografico del 1951 (Valentino, appunto), di certo la somiglianza del viso era notevole, e vi sono momenti della pel­ licola in cui la sua presenza fisica ha qualcosa di convincente, ma Dex­ ter era figlio di un pastore d’origine tedesca e veniva dal Texas: nello spirito, insomma, era più adatto ai filmetti che avrebbe girato in segui­ to (senza successo) come 1 conquistatori della Virginia (Captain John Smith and Pocahontas, 1953) e Bill il bandito (The Parson and the Out­ law, 1957), ennesima versione della storia di Billy the Kid. L’italianità di Valentino, intendo dire, era una componente essenziale, sia in ter­ mini reali che ideali, alla forza del suo mito. Per questo, indipendente­ mente dalla somiglianza fìsica, un Anthony Dexter non avrebbe potuto non dico sostituirlo, ma nemmeno rappresentarlo in una pellicola bio­ grafica (oltretutto molto infedele a causa dell’ostracismo da parte delle due ex-mogli dell’attore che non consentirono a figurare nella storia). Per questo non ci sarebbe riuscito nemmeno quel Tyrone Power, pri­ mamente scelto per quella parte quando il progetto incominciò a pren­ der forma nel 1938, che per alcuni versi è quanto di idealmente più vi­ cino a Valentino il cinema hollywoodiano abbia saputo rintracciare. Power era un irlandese e si portava dietro, in termini di razza, una sto­ ria non poi tanto diversa da quella dell’italiano. Era figlio d’arte, è ve­ ro, e dunque con un background familiare diverso, ma la serietà, la pensosità, i guizzi improvvisi di Valentino gli erano naturali. Nel suo caso gli nocque esser stato lanciato in periodo di cinema sonoro: attore scadente quanto a sfumature e psicologia, il suo volto si sarebbe pre­ stato alle pose dense e scultoree che fecero la fortuna di più d’un attore drammatico del muto. La bellezza dei lineamenti di Power parlava da sola, era un discorso diverso ma non dissimile da quello che aveva ca­ ratterizzato l’eloquenza delle feature valentiniane. D’altra parte, è bene chiarirlo, non è possibile limitare le ragioni del mito di Valentino alla semplice avvenenza fisica: si rischierebbe di farne una versione maschi­ le, italiota e drammatica di Josephine Baker, vale a dire un modello più o meno dichiarato di bellezza cui è intimamente connessa (e concessa) una forte trasgressività sessuale (francamente più gioiosa ed esplosiva nella Baker). Valentino fu comunque molto di più. Il suo charme è sol­ tanto per metà legato all’apparenza immediata, al suo mito di virilità, che oltretutto, com’è noto, si mescolava a una forte componente fem­ minea; l’altra metà, probabilmente la più importante, si identifica in­

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vece con quel che stava ben celato dietro la prima, con un’innegabile capacità di superare la superfìcie dell’apparenza e di drammatizzare vi­ sibilmente questo superamento. Per la prima volta l’emigrante italiano mostrava non soltanto desiderabilità, ma anche e soprattutto pensiero e coscienza; per la prima volta era il silenzio e non la voce (cioè a dire, la cultura e non la natura) a qualificare ed esaltare ciò che di nazionale era nel personaggio italiano. La danza di Valentino, come si diceva, è la versione mediata, sofisticata, culturale della voce naturale di Caruso, e la pensosità, l’introspezione del personaggio segnano la promozione dell’emigrante da Untermensch a uomo. Tutto quel che verrà dopo sarà soltanto l’eredità di quella prima metà di novità che Valentino aveva portato alla società americana dal grande schermo. Ed è su questa che Hollywood incentrò la sua ricerca. Talora avvicinandosi al bersaglio: a guardarlo con attenzione il profilo di George Raft da giovane, così co­ me lo vediamo in Night after Night (1932) a fianco di Mae West non è poi così distante dalle fattezze dell’originale. Ma che cosa ha da offrire di problematico la sua maschera (quella interiore, dico) che possa in qualche modo gareggiare con l’altro? Persino Franco Nero (che se non altro è italiano), in un telefilm del 1975, The Legend of Valentino, può aspirare a un minimo di credibilità se ci si limita a osservarne la rico­ struzione costumistica e storica, evitando di interrogarlo sul coté pro­ blematico del personaggio che interpreta. La vera domanda, dunque, non è chi ha racolto l’eredità di Valen­ tino nel cinema americano (o europeo, se è per questo), ma che cosa Valentino ha lasciato in eredità a coloro che sono venuti in seguito. Il rapporto, per esempio, fra seduzione ed esotismo è stato prima­ mente codificato in grammatica dal testo che Valentino ha scritto con i suoi pochi film. Cinema certo molto incline alla messa in scena costu­ mistica, all’incanto e alla fascinazione di terre lontane, quello america­ no trovò nel modo in cui Valentino contribuì a dare forma il senso su­ periore fornito dal dilemma e dall’ambiguità. La linea, dunque, pur de­ cisamente esotica, che va Douglas Fairbanks a Tony Curtis gli è sicura­ mente estranea, e non solo perché nelle sue pellicole la componente esotica gioca un ruolo più forte e ampio che in quello degli altri, ma anche perché tale componente si presenta come dramma interiore, co­ me motivo di incertezza e persino di contraddizioni. Per strano che possa sembrare, è più valentiniano il relativo quoziente erotico di un Alan Ladd (cioè di un attore fisicamente lontano anni-luce dal divo del muto) in II cavaliere della valle solitaria (Shane, 1953) che non quel poco che si può percepire nei vari capitani marinari, arcieri, militari, cowboy interpretati da Errol Flynn. Paradossalmente gli attori che gli sarebbero stati meno lontani nel cinema a venire avrebbero figurato come esponenti di un gusto com-

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pletamente diverso, come rappresentanti della negazione di quell’ele­ mento spettacolare che era invece stato uno degli ingredienti inaliena­ bili del mito di Valentino: James Dean e Marion Brando. Chiamati a dar corpo a un’insoddisfazioe generazionale circoscrit­ ta a un momento abbastanza preciso della storia del costume e della so­ cietà (i primi anni Cinquanta), le loro personae - certo diverse l’una dall’altra - rimandano in qualche modo (e solo superficialmente, be­ ninteso) alla tormentosità, alla fierezza introversa all’irridenza corro­ borata di romantica tristezza che erano state di Valentino. Naturalmen­ te non v’è traccia in loro del Latin lover il cui modello egli aveva inau­ gurato, ma solo lo scavo interiore che del celebre attore era stata un ci­ fra determinante. In questo senso un tonfo fragoroso fu il tentato lancio di Rossano Brazzi come emulo del divo. Giunto in un momento nel quale la com­ ponente esotica stava vieppiù sfiorendo nel cinema hollywoodiano con una serie di colpi di coda improntati a un’artigianalità che sconfinava nella serialità, Brazzi dovette interpretare parti di azzimato e ondulato cicisbeo contemporaneo, più vicino al look di Gladstone Duck (Gasto­ ne Paperone) che non a quello di uno sceicco o di un rajah. In un certo senso, anzi, Brazzi fu l’opposto di Valentino. Questi aveva perfetta­ mente sviluppato la propria latinità in una direzione, per così dire, su­ blimata in più largo esotismo. Hollywood, insomma, capì che Valenti­ no apparteneva all’area latina, e per questo gli affidò parti di spagnolo, argentino, francese e anche di quel concentrato di mediterraneità che nella folle geografia psicologica dei produttori di Los Angeles era un indiano. Ma quanto alla sua italianità, meglio tenersi alla larga: quella era una cosa vera, e il fantasma della miseria con cui essa si identificava poteva sempre riemergere da un momento all’altro. Era quindi consi­ gliabile non andarlo a stuzzicare. L’Italia della ricostruzione e del piano Marshall poteva invece permettersi di comparire non tanto con il suo vero volto quanto con quello di un connazionale agghindato come un damerino della commedia restaurazionale britannica: lo spettro della fame e della miseria era stato esorcizzato dagli accordi, non sempre so­ lari, con i governi democristiani del dopoguerra e di Valentino era ri­ masta soltanto l’eredità di quella prima metà di novità che egli aveva portato alla società americana. Della seconda metà - quella dell’eroe pensoso e tormentato sulla quale abbiamo tanto insistito - non esisto­ no, in fondo, a tutt’oggi eredi. Il mito dei?Italian lover che egli aveva tenuto a battesimo, dopo la sua morte è rimasto monco: vive di ciò che l’ha fatto nascere, ma ignora del tutto quel che ne ha attivato la fascinazione ultima, lo sviluppo in pensiero della propria condizione. Per questo, e soltanto per questo, Valentino è rimasto un mito unico nella storia del cinema.

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Riferimenti bibliografici I due riferimenti del testo sono: Miriam Hansen, “Pleasure, Ambi­ valence, Identification: Valentino and Female Spectatorship”, in Chri­ stine Gledhill (ed.), Stardom: Industry of Desire, Routledge, London and New York, 1991; Jeanne de Recqueville, Rudolph Valentino, Edi­ tions France-Empire, Paris, 1978.

Capitolo 2

“Conosco un’anziana signora...”: riflessioni occasionali sulla serialità

The typical and the repeatable what is that but the province of the machine? Lewis Mumford, Art and Technics

In una notissima canzone popolare americana intitolata “I Know an Old Lady” si dice della anziana signora in questione solo in fun­ zione di ciò che si deve sapere al riguardo di una sua inusitata abitu­ dine, quella di ingoiare animali vivi e interi. E ogni volta la scelta cade su un animale di dimensioni più grandi: si parte da una mosca per pas­ sare a un ragno, a un gatto, a un cane, a un maiale, a una mucca, a un cavallo, lasciando intendere che ogni nuova acquisizione servirà a neu­ tralizzare (forse a metabolizzare) la precedente. A ogni animale che, sempre più grande, cala via via nel suo stomaco il coro formula un comprensibile dubbio: “perhaps she’ll die”. Sinché alla fine il solista, rimando con “horse”, conclude: “she died, of course!”. Una perfetta immagine della collezione nel senso che al termine dà Jean Baudril­ lard, secondo cui “l’uomo che colleziona è morto, ma sopravvive inde­ finitamente al di là della morte, integrando la morte stessa nella serie e nel ciclo”. Ma anche una interessante versione pre-industriale dell’idea di serialità che testimonia bene di come la catena della serie non sia necessariamente connessa alla e prodotto della civiltà della macchina. È infatti luogo comune attribuire la nascita della serialità all’epoca del macchinismo. E non v’è dubbio che a partire dall’invenzione della stampa in avanti la macchina abbia causato e sviluppato all’estremo grado la produzione in serie. Ma è pur vero che perlomeno dai tempi della poesia preomerica il fantasma della serialità aleggia sulla cultura occidentale: quei nòstoi da cui in certa misura nacque l’Odissea furono

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in fondo una produzione letteraria protoseriale. Se le cose stanno così, non è azzardato affermare allora che il concetto stesso di genere lette­ rario gode (dato e non concesso si tratti di godimento) di uno statuto seriale, che ovviamente ritornerà sul versante cinematografico - so­ prattutto hollywoodiano, date le caratteristiche dello studio system dopo l’invenzione di quell’altra grande macchina, il cinematografo. L’obiezione crociana ai generi, insomma, godrebbe di un qualche fon­ damento, ché proprio l’attribuzione a essi di una caratteristica seriale ne farebbe esattamente l’opposto di quella assoluta individualità dell’opera che Croce tanto strenuamente sosteneva. Persino l’artigianato preindustriale, in quanto forma creativa che si adeguava a singoli modelli, partecipò in fondo di questa natura. Non certo rispetto al tempo e alle modalità di creazione dell’opera, ma solo in quanto di norma anche l’artigianato operava secondo strutture for­ mali e iconografiche (cioè, appunto, modelli) di riferimento, che ovvia­ mente avevano però ben poco a che fare con la ritmica e precisa seria­ lità imposta dalla macchina, cioè con quello che Gillo Dorfles chiama “il suo carattere nettamente iterativo: ossia la sva produzione di serie", anche se in realtà, come lo stesso Dorfles chiarisce, non si esclude il parziale apporto della macchina anche in un prodotto artigianale, e an­ zi ancor prima Lewis Mumford, in Art and Technics, ci aveva avvertito che qualunque artigianato d’altri tempi non ha mai potuto fare a meno di una robusta e attenta componente tecnica. Proprio Mumford, del resto, in un suo studio sull’architettura e la civiltà americana, Sticks and Stones, aveva lamentato che l’artigianato moderno (siamo nel 1924) si era dato alla riproduzione meccanica e che, paradossalmente, le macchine dell’industria erano state organizzate in modo da ripro­ durre infiniti simulacri dell’artefatto artigianale. Insomma, il problema è la riproduzione tecnica dell’oggetto, il pro­ cedimento che esclude la soggettività estetica nel suo farsi e che la con­ cepisce e la verifica a monte del progetto (design industriale). La domanda inevitabile a questo punto è: se è vero che il design può vantare uno statuto estetico (a patto, come dice Dorfles, che sia “industrialmente prodotto, senza fine utilitario”), può un film che ten­ ta di serializzare un archetipo (industrialmente: un prototipo) assume­ re un valore estetico, rintuzzando così l’obiezione crociana di cui so­ pra? Probabilmente no, dato il carattere “utilitario” (leggi: commercia­ le) del film. In ambito letterario, tuttavia, ammettiamolo, è forte la tentazione di affermare che la tetralogia thomasmanniana di Giuseppe può defi­ nirsi seriale: romanzi distinti l’uno dall’altro e con lo stesso protagoni­ sta osservato nel tempo. Non v’è forse in questo una forte componente di serialità?

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Ma proprio questa riflessione ne comporta un’altra, e ben più im­ portante: non è forse possibile che la sostanza ultima della serializza­ zione (narrativo-visuale, s’intende), la sua condicio sine qua non, sia proprio nell’eZwsione del tempo? Un po’ come nei fumetti, nei quali gli eroi non invecchiano mai, si dà dopotutto serializzazione Ano a quan­ do è possibile perpetrare l’illusione di un tempo che per i protagonisti (cioè le costanti della formula) non passa, non è passato. A meno che non si intenda fare come Terry, quel personaggio di Jonathan Coe nel suo romanzo The House of Sleep, il quale sogna di girare un film le cui riprese durino cinquantanni, seguendo passo passo la vita di un giova­ ne sino al suo invecchiamento. Insomma, in un certo senso la serialità cinematografica si distingue dal film regolare, occasionale, estempora­ neo, “autonomo”, in quanto in essa noi siamo inevitabilmente chiama­ ti a valutare comparativamente quel che sul corpo appare, per dirla col Poeta, dei “mille consueti duoli di cui la carne è erede”. Tutti ormai troviamo oggi invecchiato Robert Redford rispetto ai giorni gloriosi di La caccia (The Chase, 1966), Butch Cassidy (Butch Cassidy and the Sundance Kid, 1969) e I tre giorni del Condor (Three Days of the Con­ dor, 1976), ma tutt’al più ne critichiamo l’operazione di casting, la scelta per cui al suo posto in quel ruolo poteva e doveva esserci qual­ cun altro più giovane di lui. In un seriale invece non ci sono opzioni, se non fra l’inadeguatezza e la cancellazione. George Lazenby o Pierce Brosnan, nessuno ci convincerà mai che James Bond può essere diverso da Sean Connery: nemmeno Roger Moore, che per tentare di farlo ha dovuto, e giustamente, inventarsi un altro Bond. Allo stesso modo, per coloro che si erano formati davanti al Tarzan di Johnny Weissmuller sin dal 1932, quello di Lex Barker e degli altri emuli doveva suonare debole e contraffatto. Chiudiamo comunque questa parentesi dall’odore di rotocalco e di fandom e ritorniamo alla riflessione di partenza: l’elusione del tempo che sembrerebbe un tratto caratteristico del seriale. Insomma, l’ogget­ to è osservabile da due angolazioni (o su due piani): una, quella per cui la serialità, seguendo le parole di J. P. Telone nel suo Replications, è fondata su “ripetizione, regolarità e risultati prevedibili” e per cui tale prevedibilità è dovuta al fano che “le sue parti erano standardizzate e [...] intercambiabili in molti modi”; l’altra, quella per cui, a differenza da un altro medium squisitamente seriale, il fumeno (inteso soprattut­ to come strip) - da cui peraltro il seriale cinematografico discende spes­ so addirittura direnamente (Flash Gordon, Buck Rogers eccetera) - i suoi personaggi tendono a eludere il tempo senza peraltro riuscirvi, cioè portandone sul corpo i segni come chiunque altro. La serialità ci­ nematografica, insomma, è un assurdo, proprio come una macchina che sottosta a un invecchiamento non dovuto, come regolarmente sue-

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cede, all’usura dei suoi pezzi, ma a un’alterazione qualitativa della loro struttura molecolare. Quella della macchina, peraltro, è un’immagine molto più concre­ ta che metaforica: come ha scritto Cecelia Tìchi nel suo Shifting Gears, nell’età della macchina il testo narrativo non contiene semplicemente “le rappresentazioni delia macchina, è esso stesso la macchina”, vale a dire è concepito, si comporta e ha come obiettivo l’efficienza della macchina. Anzi, è ben vero, come dice ancora Telone, che proprio il seriale cinematografico si è fatto a suo tempo carico di franare argo­ menti di massimo momento che il cinema regolare aveva eluso. Ma prendere ano di questo non basta. La domanda realmente importante è: perché? Se è vero, come vuole Telone, che nel seriale ritroviamo prestissi­ mo temi come la minaccia futuribile del potere femminile, il problema della giustizia organizzata al di fuori dal potere esecutivo legalmente stabilito, il pericolo della distruzione globale, il sorgere delle culture del terzo mondo e così via, dobbiamo prendere ano che il cinema ha rivoluzionato il valore politico di quel feuilleton da cui, soprattuno nella sua forma seriale, esso è derivato. Siamo infatti molto lontani dai tempi in cui, come riporta Angela Bianchini, Joseph Méry poteva dire: “Se fossi Luigi Filippo darei una rendita fissa a Dumas, a Sue, e a Soulié perché continuino sempre I moschettieri, I misteri di Parigi e Le memo­ rie del Diavolo. Così non ci sarebbero mai più le rivoluzioni”. Tunavia, l’acuta annotazione di Telone non è sufficiente a chiarire le cose, dal momento che il cinema regolare avrebbe facilmente potuto riprendere argomenti del genere. È vero, alcuni di essi potevano essere alquanto disturbanti, e noi sappiamo come Hollywood abbia regolar­ mente evitato un’assunzione di responsabilità (o per meglio dire, spe­ cifiche prese di posizione) in merito ad ambiti ideologicamente con­ troversi, preferendo una sorta di coincidenza oppositorum che sinte­ tizzasse con facile dialettica contrasti di impossibile risoluzione (si pen­ si al fine studio di Robert B. Ray in questa direzione). Ma temi come quelli indicati più sopra avrebbero permesso ben difficilmente questa scorciatoia, per cui fu più semplice relegarli nel limbo del cinema se­ riale, tradizionalmente diretto a un pubblico infantile (o meglio: infan­ tilizzato) e poco collegato al dispositivo di supposta verosimiglianza coltivato e praticato da Hollywood sin dai suoi esordi: un modo in­ somma per svuotarli del loro potenziale problematico ed esorcizzarli. Ma è un fatto che è in questi che ritroviamo - ripeto: in qualche modo ludicizzate - le forze propulsive della modernità. Telone, anzi, insiste in questo senso sonolineando che il decennio di maggiore svi­ luppo dei seriale cinematografico americano è quello che si conclude con con la New York World’s Fair (1939-40), dedicata, si noti, a “The

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World of Tomorrow” (una titolazione di cui si sarebbe ricordato Walt Disney una dozzina d’anni dopo per la sua Disneyland), la quale mo­ strava, fra le altre cose, una visione dell’America negli anni Sessanta. Ma a differenza da quel che si può pensare, e a differenza dalle Fairs che l’avevano preceduta a partire almeno dal 1876, la World’s Fair di New York privilegiò pochissimo i classici esempi di sublime tecnologi­ co americano (l’elettricità, l’industria, l’ingegneria edilizia, l’architet­ tura eccetera), preferendo l’esemplificazione di paesaggi futuribili mi­ niaturizzati e riservando la propria attenzione pressoché unicamente alla tecnologia aeronautica, che, ci assicura David Nye nel suo formi­ dabile studio sul sublime tecnologico americano, era ormai divenuta e sarebbe a lungo rimasta - “la forma più eccitante del sublime dina­ mico”, cosicché “praticamente tutti gli Americani immaginavano che l’aeroplano avrebbe trasformato la vita di tutti i giorni. I bambini erano incoraggiati ad avere il pensiero rivolto verso l’aria”. Ho una precisa ragione per insistere sulla mitizzazione dell’avia­ zione e del volo che dalla prima guerra mondiale alla World’s Fair del 1939 era stata coltivata negli Stati Uniti. In effetti, i seriali anni Trenta ispirati a eroi dello spazio non furono altro che la proiezione in termini (rozzamente, ingenuamente) fantascientifici della mitizzazione aero­ nautica. Quando infatti leggiamo parole come queste di Nye: Il volo umano rimase a lungo la forma più eccitante del sublime dina­ mico. Gli aviatori erano stati le figure più eroiche della Prima Guerra Mondiale. Si alzavano sopra il fango e le trincee, dove milioni di sol­ dati erano intrappolati dietro il filo spinato e annichiliti dalle nuove tecnologie di distruzione di massa: la mitragliatrice, i gas velenosi e il carro armato. La macchina voltante continuava ad avere un elemento di romanticismo, offrendo lo spettacolo di un combattimento uomocontro-uomo nei cieli, in netto contrasto con lo sterminio senza nome che avveniva sul terreno.

Quando, dicevo, leggiamo un brano come questo non possiamo non pensare all’eroismo intrepido e “pulito” di Flash Gordon e soci, alla loro qualità di eroi dell’aria (e poco importa che nello spazio pro­ fondo di aria non ve ne sia), e non possiamo non solo non concordare con Telone che i seriali di quel tempo mettevano - ancorché semplici­ sticamente e ingenuamente - in scena il culto della modernità, ma an­ che non rilevare che essi erano in piena linea con (e anzi, anche più avanti di) uno dei grandi dati epistemici dell’epoca, o se si preferisce, con uno dei suoi grandi miti popolari che aveva ormai conquistato l’in­ tera nazione. La stessa scelta della miniatura per l’immagine delle città americane del futuro indicava il punto di vista dell’“eroe che vola”. È alquanto interessante e curioso che il cinema - in un certo senso

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quasi un punto d’arrivo di quella che Daniel Boorstin ha chiamato Graphic Revolution (vale a dire quel formidabile mutamento che a partire da prima della metà dell’ottocento ha radicalmente cambiato, aumentandone incredibilmente il ritmo, “la nostra capacità di creare, preservare, trasmettere e disseminare immagini”, comprese quelle dei tipi a stampa) - si sia a un certo punto ritrovato a produrre anticorpi che combattessero, o quantomeno limitassero, quel Modernismo di cui esso era l’esito e la figura più rappresentativa, relegando le spinte più forti e innovative della nuova epoca nel parco dei divertimenti ri­ servato a\\'entertainment fantasioso e inoffensivo (macchinismo e fan­ tascienza, infatti, non furono certo protagonisti nel cinema hollywoo­ diano regolare degli anni Venti e Trenta). D’altro canto, questo è ciò che la morale censoria della piena epoca borghese ha sempre fatto, se si pensa a quel che è avvenuto di testi letterari “sovversivi” quali il Gargantua di Rabelais, il Don Chisciotte di Cervantes, il Robinson Crusoe di Defoe, il M.oby Dick di Melville, lo Huckleberry Finn di Twain e via dicendo. D’altra parte ancora, risponde a una logica ineccepibile il fatto che in un’epoca in cui l’originale “perde in qualche modo la sua originali­ tà” e “la copia ci è molto più familiare”, in un’epoca in cui - come ac­ cadde nel 1959 alla personale di Gauguin organizzata dal Chicago Art Institute - il pubblico protesta perché i quadri originali sono meno vi­ vaci e brillanti delle riproduzioni che conosce, temi di così grande mo­ mento vengano accantonati sullo scaffale del materiale adolescenziale. Malraux aveva certamente ragione ad affermare che molti proble­ mi dell’artista moderno derivano dai miglioramenti delle tecniche di riproduzione; ma, bisogna aggiungere, non soltanto perché la precisio­ ne ottenuta distrugge la sfida che la natura pone all’artista, bensì per­ ché la riproduzione in termini seriali da un lato permette sempre mag­ gior spazio alla frange più semplici, superficiali e trascurabili dell’arte popolare e dall’altro perché in questo spazio possono facilmente tro­ vare accantonamento (cioè atrofizzazione) problemi troppo scottanti e compromettenti per l’ordine costituito. Il problema dunque non è tanto quello, da sempre agitato, relativo alla cultura della copia come pseudocultura, una chromo-civilization (come la chiamò il direttore di The Nation, Edwin Lawrence Godkin, citato da Rob Kroes) che sarebbe sinonimo di decadenza dei migliori standard culturali, ma al contrario quello di una chromo-civilization che funge da valvola di sicurezza cosicché all’interno di quegli standard rientri soltanto ciò che non fa problema (o che semplicemente finge di farlo). In un certo senso, il cinema seriale del periodo d’oro conferma ed esalta il senso che era venuto ad avere il coevo assestamento dei generi

CONOSCO UN’ANZIANA SIGNORA...”

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nel cinema hollywoodiano: quella sorta di catena di montaggio che tanta critica ha indicato e che nel seriale trova esemplificazione molto più congrua, evidente e probante che non nel cinema regolare. Quella “prevedibilità della conclusione” di cui si parlava più sopra è sicura­ mente più facilmente leggibile nel cinema seriale che nei prodotti di ge­ nere forniti da Hollywood ed è, fra l’altro, come si diceva, un impor­ tante anello di congiunzione fra le pratiche letterarie popolari ottocen­ tesche e il campione della nuova età tecnologica, il cinematografo. Se modifichiamo l’affermazione gramsciana secondo cui per il pubblico popolare “non importa il nome e la personalità dell’autore, ma la per­ sona del protagonista” e al termine “autore” sostituiamo quello di at­ tore (o di divo), si può addirittura affermare che il cinema seriale nei suoi primi trent’anni di vita fu la versione low brow dello star system hollywoodiano, con la differenza che in esso non brillavano le stelle in­ dividuali di questo o quell’attore, ma il carattere che questo o quell’at­ tore impersonavano. In effetti, perché si dia divismo è necessaria una personalizzazione psicologica del corpo attoriale (personalizzazione che peraltro nel caso del divismo è sempre identica a se stessa, permet­ tendo così al pubblico di riconoscere una maschera le cui dimensioni sono atemporali, mitiche, estranee cioè alle coordinate che fanno di un attore un performer duttile e sfaccettato). Nel seriale persino questa elementarità psicologica monocromatica è assente perché, come nel feuilleton da cui deriva, per dirla con René Prédal, “le suspense psychologique est inexistant” e “Involution n’est que événementielle”. Per questo di regola si parla di Charlie Chan e non di Warner Oland, di Mr. Moto e non del pur celebre Peter Lorre, di Sherlock Holmes e non di Basil Rathbone. E per questo l’“anziana signora” del mio titolo non ha un nome: ella serializza il suo bizzarro modo di nutrirsi, met­ tendo in circuito persino la propria morte, pronta - come tutti gli eroi della serialità - a ricominciare daccapo l’intero ciclo, resuscitata dal prossimo performer che ne voglia cantare le strane gesta. O dal prossi­ mo film che intenda celebrare la sua saga ancora una volta.

Riferimenti bibliografici La notazione sul rapporto fra collezione e morte è in Jean Baudril­ lard, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano, 1972, mentre quelle sull’iteratività della produzione in serie e sull’assenza di utilitarietà nell’estetica del design sono di Gillo Dorfles, Introduzione al disegno industriale, Einaudi, Torino, 1972; sul rapporto fra macchine e artigia­ nato, nonché sulla qualità artigianale dello stesso prodotto meccanico si vedano gli studi di Lewis Mumford, rispettivamente: Art and Tech-

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nics, Columbia UP, New York and London, 1952 e Sticks & Stones. A Study of American Architecture and Civilization, Dover, New York, 1952; sui fondamenti e le qualità della serialità si veda invece J. P Te­ lone, Replications. A Robotic History of Science Fiction Film, (Urbana and Chicago, University of Illinois Press, 1995, al quale si deve anche la fine riflessione sul seriale come anticipatore di istanze “politiche” trascurate dal mainstream e sul loro culto della modernità; il suggeri­ mento secondo cui nell’età della macchina il testo stesso è una macchi­ na si rintraccia in Cecelia lìchi, Shifting Gears: Technology, Literature, Culture in Modernist America, University of North Carolina Press, Chapel Hill, 1987; la divertente frase di Joseph Méry è riportata da Angela Bianchini, Il romanzo d'appendice, ERI, Torino, 1969, mentre in Robert B. Ray, A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, 19301980, Princeton UP, Princeton, 1985 si legge della costante elusione, nel cinema hollywoodiano, di ogni scontro ideologico, politico e so­ ciale; le considerazioni sul volo nell’epoca della prima guerra mondiale sono nel fondamentale studio di David E. Nye, American Technologi­ cal Sublime, The MIT Press, Cambridge and London, 1996; sulla Graphic Revolution si è intrattenuto impareggiabilmente Daniel J. Boorstin nel suo classico The Image. A Guide to Pseudo-Events in Ameri­ ca, Harper & Row, New York, 1961; la notizia sulla definizione di chromo-civilization da parte di Godkin viene da Rob Kroes, If You’ve Seen One, You’ve Seen the Mall. European and American Mass Culture, University of Illinois Press, Urbana and Chicago, 1996; l’originaria af­ fermazione gramsciana su autore e protagonista è in Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino, 1966, mentre di assenza di suspense psicologica nel seriale ha parlato René Prédal, “Des serials aux séries, du cinéma à la télévision”, Cinémaction, Le remake et l’adaptation, 53, Ottobre 1989.

Capitolo 3

Il cinema e le arti popolari

The popular arts have always worried the moralist and the aesthete. Gilbert Seldes, The Great Audience (1951)

“Di tutte le arti popolari il cinema è la più strutturalmente com­ plessa”, ha scritto Jim Cullen all’inizio del capitolo dedicato al cinema nel suo esemplare studio della cultura popolare americana, The Art of Democracy (1996). E lo è certamente. Ma è davvero solo e soltanto un’arte popolare? Di sicuro in Europa da un certo tempo (perlomeno a partire dal tramonto dell’estetica idealista) non la pensiamo così. E tuttavia è pur vero che il cinema gode di una particolare qualità: quella di essere al confine fra arte popolare e Arte. Anzi, sono convinto che non solo la popolarità raggiunta dal cine­ ma in pochi decenni, ma anche il dibattito a suo tempo lungamente ar­ ticolatosi sulla sua potenziale “artisticità” abbia contribuito a rimettere in discussione l’intero ambito delle arti popolari, il loro statuto e la lo­ ro eventuale qualità estetica. Il cinema si situa cronologicamente anche su un altro crinale, quel­ lo che divide le folk art dalle popular art, le quali, secondo Panofsky, che ha studiato il loro rapporto con le componenti folkloristiche dello spettacolo, si indirizzano al gusto del largo pubblico per “il sentimen­ to, il sensazionalismo, la pornografia e il rozzo umorismo”. Le prime circoscritte e legate a specifiche aree di produzione e consumo; le se­ conde caratterizzate dalla produzione di massa, e dunque potenzial­ mente planetarie. Tralasciando l’annosa distinzione fra arte popolare e arte di massa e abbracciando la convincente e argomentata tesi di Mikel Dufrenne per il quale “Part de masse n’existe pas”, e tralasciando anche quel che, secondo Gilbert Seldes, la folk art e la popular art hanno in comune, il modello fondamentale della folk art è quello della ripetizione (magari

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anche attraverso minime variazioni), e dunque essa riposa in sostanza su un solido terreno di tradizione; il modello della popular art è invece quello della moltiplicazione. Uso quest'ultimo termine in una accezio­ ne alquanto specifica: se è vero infatti che anche le arti popolari hanno partecipato e partecipano in varia misura della parcellizzazione che ha investito le operazioni estetiche del Novecento, almeno a partire dalle avanguardie storiche (si pensi, oltre ovviamente al cinema, al caso cla­ moroso del jazz), è tuttavia non meno vero che la loro propagazione attraverso i mezzi di massa ha in certo modo indebolito, se non addi­ rittura cancellato, l’unicità del prodotto. Il discorso benjaminiano sulla mancanza dell’“aura”, insomma, non riguarda certo soltanto l’arte fi­ gurativa, ma anche, poniamo, la musica, se non altro in quanto arte di performance. E non necessariamente soltanto la musica classica ripro­ dotta su vinile o CD, ma anche quella che, fruita un tempo nel suo luo­ go di produzione insieme a costumi, usanze, rituali a essa strettamente connessi, da parecchio tempo è invece merce facilmente acquistabile, in forma, appunto, riprodotta, in qualunque negozio specializzato di qualunque parte del mondo. Quando nel 1927, rispettivamente a Bri­ stol, Tennessee e ad Asheville, North Carolina, la Carter Family e Jim­ my Rodgers incisero il loro primo disco sotto la supervisione di Ralph Peer, la folk song americana, pur rimanendo storicamente folk, era di­ ventata anche popular. O se si preferisce, folk nella sostanza, popular nei mezzi di diffusione, come radio e industria discografica. In una pa­ rola, per dirla con Harold Schechter, “laddove l’arte seria trasforma il rozzo materiale della letteratura folk, l’arte popolare si limita sempli­ cemente a trasmetterlo”. Di certo il cinema è nato come arte popolare. Anzi, a ridosso di al­ tre arti popolari. Negli ultimi anni dell’ottocento il cinetoscopio di Edison - fortemente pubblicizzato dal suo inventore alla Columbian Exposition del 1893 - mostrava in un minuto e mezzo attori di vaude­ ville, incontri di boxe, numeri da circo e così via. In certo senso, i “pro­ grammi” edisoniani erano essi stessi dei vaudeville, obbedendo al prin­ cipio di quel teatro, così popolare nell’America del tempo, che voleva giustapposti in cartellone i numeri, gli artisti, le capacità, le specialità più diversi ed eteronomi. La struttura vaudevilliana, del resto, è una sorta di costante sia nel teatro che nel cinema americano: si pensi per esempio, a soli tre anni dalla nascita di quel genere, al musical Humpty Dumpty (1868), che presentava la prima troupe americana di pattinatori a rotelle, ciclisti, numeri di circo, un panorama di Napoli, militari in parata, grotte sot­ terranee, nonché l’esplosione e l’incendio di un battello a vapore (un mito scenico, quest’ultimo, del teatro melodrammatico del secondo Ottocento, inaugurato da Dion Boucicault in Octoroon, or Life in

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Louisiana}', oppure alla sequela di “Hollywood Canteens” e simili che pullularono nel cinema degli anni Quaranta. Il cinetoscopio, insomma, si proponeva come riassunto e sintesi di un’altra e più tradizionale arte popolare del teatro leggero. Lo stesso musical cinematografico - un genere che trionfò per qualche anno con l’avvento del sonoro e che avrebbe mietuto ulteriori successi anche in futuro - denota in fondo, alle origini, una struttura non diversa. Scrive molto bene Robert C. Toll:

Come l’America stessa, la musical comedy era un miscuglio. Dalla ex­ travaganza prese i sontuosi costumi e i numeri ricercati; dal burlesque prese la satira e le chorus girls; dai drammi popolari assorbì trame me­ lodrammatiche e romantiche; dalle operette derivò bellissime melodie e fascino; e dal vaudeville prese a prestito la danza popolare, la musi­ ca, la commedia e i divi, unitamente a una vorticosa velocità di perfor­ mance. Esiste tuttavia un altro libro, forse non tanto citato quanto merite­ rebbe, Film and the Narrative Tradition (1974) di John L. Fell, che mo­ stra in modo ravvicinato e indiscutibile, quanto, per dirla con l’autore,

[...] nei film emergeva in superficie un’intera tradizione di tecnica nar­ rativa che si era andata sviluppando in modo non sistematico per un centinaio di anni. Essa appare sporadicamente non solo nei tipi di in­ trattenimento finora menzionati, ma in cose effimere tanto diverse quanto gli stereografi, i peep shows, le partiture scorrevoli di canzoni e le cartoline postali. Di quale tradizione sta parlando Fell? Ma di quella melodramma­ tica ottocentesca, naturalmente. Il termine “melodrammatico”, come sappiamo, si presta peraltro a malintesi. Da un lato esso rimanda certamente a un ambito teatrale, quando non addirittura musico-teatrale. Dall’altro, esso ci riporta a una letteratura in prosa che nella seconda metà di quel secolo dominò la scena popolare sotto il termine di feuilleton, o romanzo d’appendice. Il versante teatrale, è cosa nota, fu una sorta di miniera per il cine­ ma delle origini, che spesso si limitò a riprodurre, per quanto fedel­ mente allora possibile, spettacoli da palcoscenico. Ma la connessione fra teatro e cinema degli albori non si limita a questo luogo comune: nelle sue prime pellicole Griffith, per esempio, era solito utilizzare sul set una luministica strettamente teatrale, come - appunto - si trattasse di un palcoscenico. O anche il tòpos del salvataggio all’ultimo minuto, che, caduto in disuso nel teatro melodrammatico verso la fine dell’Ottocento e confinato a teatri frequentati da un pubblico alquanto rozzo,

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verrà presto ripreso, e con enorme successo, proprio dal cinematogra­ fo, il cui pubblico delle origini, del resto, era il medesimo. Per non par­ lare dell’espediente della messa in scena di due o più azioni drammati­ che interconnesse, che Nicholas Vardac in un suo classico studio ha in­ dicato come una tecnica che anticipa il montaggio cinematografico. Fell riporta la testimonianza di un autore teatrale melodrammati­ co, datata al 1902, che merita una citazione per intero, poiché da essa si evince non solo la natura dello stretto rapporto fra melodramma te­ atrale e cinema, ma anche l’apparire di una nuova episteme persino nell’ambito di un’arte che aveva le sue radici in un passato alquanto lontano: Uno dei primi trucchi che ho imparato era che i miei drammi doveva­ no essere scritti per un pubblico che, a causa degli enormi, rumorosi teatri senza tappeti, non riusciva a udire sempre le parole, e che, es­ sendo una larga percentuale di esso arrivata solo recentemente in America, non avrebbe potuto capirle in ogni caso. Di conseguenza io scrivevo per l’occhio più che per l’orecchio e mostravo ogni emozione in azione, affidando al dialogo solo i nobili sentimenti così cari ai pub­ blici di quella classe sociale.

Il punto centrale di questa citazione è quello relativo allo “scrivere per rocchio”: una breve, secca e splendida definizione dell’attività di sceneggiatore, dopotutto. Insomma, il melodramma nella sua accezione più popolare stava perdendo terreno nella cultura di fine Ottocento, e anzi proprio il vau­ deville si fece a suo modo carico di prenderne il testimone concentran­ do di regola il modello della sua azione in un arco di tempo molto in­ feriore (circa mezz’ora). A sua volta, il cinema - come del resto il dime novel coevo - ne risussumerà i fasti, rinnovandoli attraverso la novità della sua tecnica, la meraviglia della riproduzione. Ma il cinema, come si diceva, è mezzo fondamentalmente visuale, ed ecco che il genere dovette adattarsi a tale sua qualità, portandosi dietro, peraltro, una tradizione comunicativa che a torto il pubblico pensa sia stata tipica del solo cinema muto, quella delle didascalie: in realtà nelle non rare parti mute, mimiche del melodramma teatrale ot­ tocentesco l’impiego di cartelli, che in forma scritta spiegavano a gran­ di lettere al pubblico quel che era necessario sapere dell’azione in cor­ so, era cosa abbastanza normale. La visualità del cinema trova riscontro coevo in altre forme di arte popolare. Altri hanno già sottolineato il fatto che, quasi in concomitan­ za con la nascita del cinema, emerge il fenomeno del fumetto. Nel 1905 Winsor McCay dà alle stampe il suo “Yellow Kid”. Lungi da me l’inten­ zione di sottoporre a stretta, rigorosa comparazione i prodotti cinema-

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tografìci protonovecenteschi e le tavole di McCay (un compito, peral­ tro, quasi impossibile, dato l’affastellamento di volti e personaggi in ta­ lune di queste ultime). Tuttavia, è vero che nei decenni il rapporto sim­ biotico fra cinema e fumetto si mostrerà in tutta la sua importanza. Giu­ stamente Fell cita la stretta parentela fra i prodotti narrativi del cinema americano e storie a strisce come quelle di “Prince Valiant” (Harold Fo­ ster), “Flash Gordon” (Alex Raymond) e “Captain Easy” (Roy Crane), arrivando a rintracciare in “Terry and the Pirates” (Milton Caniff) un “uso renoiriano dei profili stagliati su sfondi a media o lunga distanza”. Personalmente aggiungerei alla lunghissima galleria di nomi che meriterebbero citazione, quello del Donald Duck di Carl Barks. Nelle tavole di Barks nel decennio che va dalla metà degli anni Quaranta alla metà degli anni Cinquanta il rapporto con le tecniche di inquadratura cinematografica è a dir poco impressionante. La casistica è ricchissima e mi limito quindi a qualche occasionale esemplificazione:

a) il cambio di angolazione quando sono in scena più personaggi in un’azione relativamente statica; b) il blurring del segno per indicare l’effetto di sostanze alteranti la percezione;

c) l’impiego di silhouette e di nebbia come correlativo oggettivo di un’attività onirica;

d) il primo piano di armi da fuoco per intensificare (anche attraverso l’usuale onomatopea) l’effetto del loro impiego sul lettore;

e) le inquadrature sghembe di sapore wellesiano per comunicare au­ torità e imposizione. E così via. Ma più d’ogni altra vorrei citare un’ulteriore costante dello stile ci­ nematografico barksiano: la grandiosità monumentale di non poche sue scene naturali, la cui origine gli esegeti sono concordi nel rintrac­ ciare sui volumi del National Geographic avidamente consultati dall’autore per costruire le scenografie delle avventure più esotiche dei suoi personaggi. Stupefacenti picchi del Grand Canyon, enormi pue­ blos scavati nella roccia del New Mexico, città arcaiche o immaginarie sommerse dalla sabbia del deserto o dalle acque dell’oceano, tutte que­ ste scenografie hanno in comune un respiro che non deriva soltanto dalla grandiosità della loro costruzione, ma anche, per così dire, dall'angolazione di ripresa. In una parola, esse appaiono come vedute aeree, come oggetti di uno sguardo che incombe da enorme altezza sul paesaggio. Tengo molto a questo esempio perché esso rimanda a un al­ tro dato epistemico di cui il cinema si è oggettivamente fatto veicolo dopo il “rodaggio” del periodo delle origini.

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Proprio con la fine di tale periodo - che in modo commovente Pe­ ter Bogdanovich ha fatto coincidere nel suo Vecchia America (Nickelo­ deon, 1976) con la première di Nascita di una nazione (Birth of a Na­ tion, 1915) di Griffith - si assiste all’insorgente popolarità di tutto ciò che concerne velivoli, volo e aviazione, probabilmente in rapporto al ruolo che la nuova arma giocò nella Grande Guerra. Tale popolarità aumentò sino a esplodere, nel 1927, nell’accoglienza a Charles Lind­ bergh dopo la sua impresa transatlantica, aprendo la strada alle cele­ brazioni dei decennio entrante, gli anni Trenta, cui fecero in questo senso da cornice la Century of Progress Exposition di Chicago nel 1933 e l’esposizione The World of Tomorrow a New York dal 1939 al 1940. In quest’ultima, secondo quanto ci riporta David E. Nye, “per mostrare ai visitatori vasti panorami del futuro venne simulata la vista da un aeroplano”. Ora, come e più di qualunque altra arte popolare, quali la fotografia e lo stesso fumetto (ricordiamo certe fughe nello spazio del Little Nemo di McCay mentre al di sotto le immagini della superficie terrestre variavano a ogni tavola mostrando campi, monti, città eccetera, come fossero modellini in scala, e giustamente Antonio Costa, proprio citando Fell, ricorda che questo tema di McCay lo si ri­ trova contestualmente in The Dreams of a Rarebit Fiend, 1906, di Ed­ win S. Porter), il cinema poteva permettersi di adottare il punto di vista di “colui che vola” (e più genericamente, di colui che sta in alto), po­ sizione riassunta emblematicamente dall’invenzione (tradizionalmente attribuita a Allan Dwan, che al tempo lavorava con Griffith) del dolly crane, ma che vedrà altre forme di attuazione ed elaborazione proprio negli anni Trenta: si pensi ai brividi, pur costruiti in studio, di Carioca (Flying Down to Rio, 1932), di Thornton Freeland o all’ormai celebre top shot nei musical di Busby Berkeley). In breve, a partire dal periodo della Grande Guerra, su su fino agli inizi del secondo conflitto mondiale, il cinema interpretò fisicamente un’episteme aviatoria che del resto si sarebbe vieppiù sviluppata sino ad arrivare ai fasti del rilancio fantascientifico incominciato verso la metà degli anni Settanta. In Carl Barks, la grandiosità di taluni campi lunghissimi nelle sue tavole più costruite ed esotiche rimanda proprio a questa costante del­ la cultura popolare del periodo, riprendendo il punto di vista superiore e onnicomprensivo che soltanto il cinema poteva permettersi, arrogan­ dosi, almeno implicitamente, lo statuto di arte del volo. Quanto tutto ciò sia connesso non solo, e genericamente, alla cul­ tura popolare, ma anche alle arti popolari è facilmente comprensibile se ricordiamo che nello stesso decennio - gli anni Trenta - spuntano come funghi fumetti “fantatecnologici” quali “Flash Gordon”, “Buck Rogers”, “Brick Bradford” e “Jet Jackson Flying Commando”, e fu­

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metti quali “Superman” e “Batman” che, pur non partecipando di que* ste caratteristiche, condividono con gli altri, e forse anche più di loro, il punto di vista di cui si parlava (per non dire di quanto il tema abbia investito la stessa Letteratura con la A maiuscola: si pensi a Soldier's Pay, 1926, e a Pylon, 1935, di William Faulkner, e sul versante europeo a Voi de nuit, 1931 e a Pilot de guerre, 1942, di Antoine de SaintExupéry). Naturalmente il rapporto tra fumetto e cinema sul versante linguistico-comunicativo presenta coincidenze, ma anche radicali diversità. Se infatti, comune ad ambedue è una teoria di inquadrature che nel pri­ mo possono talora essere intese come unità discrete tenute insieme da un procedimento di giustapposizione imparentato col montaggio, è anche vero che l’istantanea fruibilità del film poco ha a che fare con la statica sequenza di vignette del fumetto, la quale - in fondo in modo non diverso dal testo letterario tradizionale, e a differenza da quello ci­ nematografico - può essere percorsa in ogni senso in ogni momento; o, per dirla in modo più preciso e pregnante con le parole di Fell (cui rimando per una ravvicinata ed esemplare analisi comparativa fra i due linguaggi), la pagina di un fumetto “pone la dimensione del tempo su un continuum lineare visibile”. Il cinema, insomma, lo sappiamo bene, non lascia spazio a cuciture e connessioni da parte del pubblico, nem­ meno quando cuciture e connessioni sono ben presenti nel testo stesso: il jump cut nega per sua natura tale operazione. Come che sia, di tutte le arti popolari il fumetto è certamente quel­ la più vicina al cinema, o quantomeno quella che col cinema ha intrat­ tenuto più stretti rapporti. Intanto, è perlomeno dal 1919 che il fumet­ to ha fornito ispirazione al prodotto cinematografico, il quale negli an­ ni Venti e Trenta, ha sviluppato un impressionante numero di pellicole tratte dal repertorio fumettistico. D’altra parte, è altrettanto vero che in anni per il cinema maggiormente autoriflessivi - cioè a partire dagli anni Sessanta in avanti - proprio il fumetto (del resto, unitamente ad altre forme di narrativa popolare, come per esempio il giallo d’azione e il romanzo spionistico) è servito da terreno di esercitazione teorica per un cinema che aveva incominciato a interrogarsi sul proprio lin­ guaggio e la propria stessa natura: penso a Missione Alphaville (1965) di Godard e a Modesty Blaise (1966) di Losey su su fino a Popeye (id.,1980) di Altman e Dick Tracy (id., 1990) di Beatty. Ma vi sono casi in cui il rapporto fra il fumetto e il cinema esula dal preciso riferimento a un soggetto desunto direttamente da una qualsiasi fonte fumettistica e si impone in quanto elemento fondante della specifica cultura dell’autore, come in Je fatine, je faime (1969) di Resnais, non a caso formidabile appassionato e collezionista. O casi in cui è il fumetto nel suo insieme a essere messo ironicamente e paro­

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disticamente in discussione, come nel ceco Superman vuole uccidere Jessie (1967) di Vaclav Vorlicek. Ciò che peraltro accomuna una volta ancora i due ambiti è lo stes­ so problema che più arti, popolari o meno, si posero a cavallo fra i due secoli e che soltanto il cinema riuscì a risolvere: la resa dell’azione in movimento. Persino la letteratura, mezzo ovviamente non visuale, si era cimentata, a partire da Flaubert fino a Proust e Conrad, nel tenta­ tivo di cogliere i singoli, minimi dettagli di un’azione in termini che verrebbe da definire fotografici. Contestualmente non pochi pittori, a ridosso degli esperimenti fotografici di descrizione del movimento at­ traverso una sequenza di istantanee come per esempio quelli di Muy­ bridge, incominciarono a studiare questa possibilità nei loro quadri. Fell cita giustamente un’opera poco celebrata di Remington come Touchdou/n: Yale vs. Princeton (1890), alla quale, parafrasando un adagio comune, vien da dire che manca solo la pellicola. Il rapporto fra cinema e pittura (nonché fra cinema e letteratura), tuttavia, non è qui mia incombenza e sono costretto a tralasciarlo. Quel che non è possibile tralasciare in questa sede è la funzione di cerniera che, non programmaticamente ma per sua stessa natura, il ci­ nema ha avuto in rapporto ai due ambiti contrapposti di arte popolare e Arte. Nel periodo della sua nascita, a cavallo dei due secoli passati, si sta­ va sviluppando in Occidente, com’è noto, l’importante movimento che passa sotto il nome di Modernismo. Questo aveva elaborato un’idea di arte fondata sulla verticalità, la profondità, lo scandaglio di dimensioni insondate, interiori, psicologiche, rifiutando il precedente concetto e principio borghese di ordine e abbracciando invece una de­ costruzione delle forme a priori dell’esperienza - spazio e tempo - per tentare di cogliere verità che l’osservazione della superficie del sociale non aveva fino a quel momento permesso di raggiungere (Irving Howe, nel suo Literary Modernism, ha dato a suo tempo un esauriente indicazione sui tratti caratterizzanti il Modernismo, e a lui rimando). Modelli narrativi, sintassi, analisi motivazionali, tutto subì un forte scramble, una sorta di “prismatizzazione” in fondo non diversa da quella che in pittura stavano sperimentando artisti cubisti come Picas­ so e Braque (naturalmente impiego qui il termine e il concetto di Mo­ dernismo in un’accezione ben diversa da quella di Lukàcs, che collega­ va il fenomeno alquanto strettamente all’allora insorgente cultura di massa, lettura che trova ancor oggi, e forse non del tutto a torto, dei sostenitori come Miriam Brani Hansen). Sull’altro versante, l’arte popolare riposava invece su una chiarez­ za, una trasparenza, addirittura una prevedibilità in perfetta armonia con i gusti semplici e ben poco sofisticati dei suoi fruitori. In narrativa

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i campioni di quest’ambito erano per esempio i dime novel americani o i già citati feuilleton francesi; in teatro, forme e generi di grande con­ senso popolare, dal vaudeville e dal burlesque americani al Grand Gui­ gnol e alla commedia boulevardière francesi. Ma possiamo aggiungere il music-hall inglese o, perché no?, la sceneggiata napoletana, che pe­ raltro appartiene più all’ambito della folk art che a quello della popu­ lar. Per diverse che fossero tra loro tutte queste forme di arte popolare qualcosa le accomunava: i rispettivi temi e linguaggi erano sempre gli stessi e il loro impianto rifuggiva da qualunque sfumatura di ironia. La comicità, infatti, quando c’era, era pesante e rozza (come nel burle­ sque) e di regola protagonisti della scena erano grandi sentimenti, drammi a tinte fosche, gesti truci e definitivi, tutto ormai assurto a cli­ ché. Il cinematografo da un lato riprese, come dicevamo più sopra, i modelli di quest’ultimo ambito d’operazioni artistiche, e non soltanto in termini formali. Uno dei grandi temi collaterali classici che ritrovia­ mo sia ne) teatro leggero americano che nel cinema hollywoodiano è, per esempio, la ridicolizzazione dell’intellettuale. Sin dai tempi dei minstrel show (dunque a metà dell’ottocento) quel teatro era pieno di monologhi che prendevano in giro la pomposità della Cultura (C ma­ iuscola), mettendo alla berlina le istanze più serie, dall’educazione uni­ versitaria alla questione dei diritti femminili: ciò che ritroveremo spes­ sissimo - sia pure in modi adeguati ai tempi - nel cinema americano classico come riflesso di quel generale anti-intellettualismo, da sempre forte componente della società americana, così acutamente analizzato da Richard Hofstadter. Dall’altro, invece, il cinema evidenziò in maniera molto più chiara e diretta, poniamo, del testo scritto la propria natura decostruttiva, la propria qualità di frammentazione, la propria capacità di manipolazio­ ne del materiale attraverso, soprattutto, l’invenzione del montaggio e più largamente la posizione e il movimento dell’obiettivo. In altre parole, a un corpus vile e popolare il cinema applicò una sofisticatezza formale che non aveva precedenti nemmeno nelle più istituzionali e gloriose aree artistiche ricevute e collaudate. Certamente film come Hiroshima mon amour (1959) o L’anno scorso a Marienbad (1961), ambedue di Alain Resnais, sono formida­ bili esercitazioni sulle enormi possibilità del cinema come macchina di elaborazione del continuum spazio-temporale, ma lo sono in modo co­ sciente, programmatico, vale a dire con una consapevolezza completa dell'operazione intellettuale e culturale intrapresa. Il punto è che l’elaborazione del continuum spazio-temporale, an­ corché meno chiara, evidente, imponente, programmatica e sofisticata, d rintracciabile anche in un film storico italiano protonovecentesco o

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in una commedia hollywoodiana anni Trenta. Quando in un suo musi­ cal Warner del periodo d’oro Busby Berkeley compone per noi le sue costruzioni floreali dopo aver carrellato verso un qualunque dettaglio nella ripresa precedente, fa piazza pulita di quello che a teatro sarebbe l’arco di proscenio (e che peraltro è tale anche nei suoi film, spesso in­ centrati proprio su spettacoli teatrali e su alcuni loro specifici numeri), introducendoci tanto in un’altra dimensione quanto in un’altra tempo­ ralità. Il caso di Berkeley è fin troppo vistoso, è vero. E allora limitiamoci a un qualunque anonimo film e al modo in cui esso ci trasporta visiva­ mente in spazi e tempi alterni, diversi, antagonistici senza che noi si percepisca in modo stridentemente sensibile una soluzione di continui­ tà. Non dico quale romanzetto western del secondo Ottocento, ma quale grande autore europeo o americano dello stesso periodo poteva anche solo sperare di fare altrettanto? Un lungo, tortuoso, ammirevole periodo di Henry James impallidirebbe davanti al singolo take di una qualunque pellicola hollywoodiana di consumo se la misura del con­ fronto fosse semplicemente la precisione della descrizione. Fortunatamente per la letteratura, la misura del confronto non è quella (la parola è il più impreciso dei segni, ha scritto John Fowles in Daniel Martin, non può evocare il passato, ma solo risvegliarlo nella memoria e nella sensibilità altrui). Rimane il fatto che il cinema collega insieme due mondi culturali pressoché opposti, due tradizioni creative, due visioni del mondo e dell’arte della narrazione e dell’intrattenimento: quella popolare e quella ufficiale. Qualcuno potrà obiettarmi che in fondo larga parte del mio discor­ so si è incentrata sulla cultura popolare americana. Questo è certo ve­ ro, ma non senza ragione. Per motivi tanto intuibili quanto non facili da esemplificare organicamente, la nascita dell’arte popolare denuncia origini ampiamente statunitensi. Sin dai suoi albori, come osservava Constance Rourke in un testo postumo del 1942, forse troppo spesso ci si è lamentati della “mancanza di consistenti propositi estetici” nell’arte americana, la quale, non diversamente da quelle di altre na­ zioni e culture, ha avuto inizi poco ordinati e irreggimentati, e altret­ tanto non diversamente origini di carattere squisitamente popolare. Ciò che invece appare come peculiarmente americano è la coincidenza dell’idea di “modernità” con la cultura e lo stile di vita americani nel loro insieme. Per dirla con le parole, forse eccessivamente severe, di Pe­ ter Nicholls: La modernità veniva ormai immaginata come una specie di malattia i cui danni, ugualmente risentiti negli ambiti di estetica, morale e psico­

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logia, erano attribuibili a un malessere generale spesso chiamato “americanizzazione”.

La globalizzazione novecentesca del fenomeno attraverso la più larga diffusione del hardware, che ha permesso l’esportazione dei siste­ mi tecnologici alla base di questa nuova e gigantesca fase della cultura popolare, ha fatto di noi tutti, in varia misura, dei consumatori di que­ sta ben caratterizzata produzione. Ma in Europa, sempre attraverso il filtro di una precedente e radicata nostra cultura che certo popolare non era e non è mai stata da molti secoli a questa parte. Talché è forse più facile individuare nella produzione cinematografica europea autori e film che hanno dialogato piuttosto con la locale folk art che con quel­ la popolare. Pellicole come II settimo sigillo (1956) e La fontana della vergine (1959), ambedue di Ingmar Bergman, intrattengono con la tra­ dizione popolare svedese, e più generalmente nordica, un rapporto forse non altrettanto critico, ma certamente altrettanto stretto di quel­ lo che, poniamo, Un volto nella folla (A Face in the Crowd, 1957) di Elia Kazan intrattiene con il mondo della musica popolare e della tele­ visione americane. L’Europa, insomma, sembra molto più legata allo stadio folk del proprio passato che non a quello pop. Saldamente innervata nella Sto­ ria, essa vi rintraccia magnifiche occasioni visive e culturali, che l’obiet­ tivo ricrea a volte con straordinaria sensibilità nei confronti del costu­ me popolare e più largamente della Storia: da Haxan - La stregoneria attraverso i secoli (1921) di Benjamin Christensen a La kermesse eroica (La kermesse héroique, 1935) di Jacques Feyder, da L’albero degli zoc­ coli (1977) di Ermanno Olmi a Quarto comandamento (La passion Béatrice, 1989) di Bertrand Tavernier, l’interesse del cinema europeo in questo senso si appunta piuttosto su abitudini, vita, credenze, usi, costumi di altre epoche, magari sopravvissuti (anche se non nelle pel­ licole che ho indicato) in tempi più vicini ai nostri. Il cinema europeo non sembra avere particolare interesse per le arti popolari (almeno nell’accezione che indicavo in apertura) e per la mediazione che di esse hanno fatto i mezzi di massa. Non che in Europa manchino del tutto esempi comparabili a quelli americani, ma, appunto, si tratta pur sempre di modelli che il nostro continente ha spesso sussunto dall’originale esperienza statunitense. E dunque tanto vale ricorrere direttamente a quest’ultima. D’altronde quale altra tradizione cinematografica omologa fuori dagli Stati Uniti ha così pervasivamente negoziato con le arti popolari istituzionali? Quale altro cinema ha utilizzato la folk music nazionale in modo tanto capillare e significante quanto quello neo-hollywoodiano fra gli anni Sessanta e i Settanta? O ha concesso tanta massiccia attenzione critica

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ai pericolosi condizionamenti del medium popolare cugino, la televi­ sione? Non si può pensare un film come Gangster Story (Bonnie and Clyde, 1967) di Arthur Penn senza la colonna sonora in stile bluegrass che l’accompagna e che rimanda non solo alla cultura agricola di cui essa è espressione e che è teatro delle gesta della banda, ma anche e so­ prattutto alle generazioni giovanili dell’epoca - le stesse che decretaro­ no il successo della pellicola - imbevute di quella tradizione musicale che per loro era sinonimo di ribellione al grande capitale, all’urbanesi­ mo e a valori nazionali dominanti nei quali non si riconoscevano. Allo stesso modo, da Quinto potere (Network, 1976) di Sidney Lumet a The Truman Show (id., 1998) di Peter Weir, il cinema americano non ha le­ sinato sguardi alquanto impietosi al piccolo schermo. D’altra parte, quando Luchino Visconti in Senso (1954) intende ri­ creare stile e costume di un determinato momento dell’ottocento ita­ liano o europeo si rivolge, ci ricorda Miccichè, alla pittura ufficiale co­ eva, a Hayez, a Signorini, a Fattori, a Lega (un riferimento, quest’ulti­ mo, che ritorna, a sentir Bencivenni, anche in L’innocente, 1976), e suo nipote Eriprando, in La monaca di Monza (1968), per creare una con­ vincente visualità d’epoca si ispira, come diceva Francesco Arcangeli, ad vocem, all’intera pittura lombarda del Seicento; mentre per la pre­ mière a Broadway di Oklahoma! (1943) il designer Miles White, come viene riportato da Robert C. Toll, crea i suoi sgargianti costumi basan­ dosi su un documento di vita quotidiana risalente alla fine del secolo precedente, il catalogo annuale Sears, Roebuck & Co., una “consu­ mers guide” di articoli venduti per corrispondenza (il n. 110 vide an­ che una ristampa miniaturizzata dell’originale nel 1970), che è ormai diventata un simbolo della cultura popolare americana a cavallo fra l’Otto e il Novecento. La differenza è tutta qui: la cultura europea ricostruisce il passato attraverso le informazioni della Storia e dell’arte, quella americana at­ traverso il cordone ombelicale che da sempre la lega a una produzione popolare che è rimasta la spina dorsale della nazione. In questa non è soltanto l’aderenza al look originale quello che conta, ma ancor più molto di più - l’aderenza all’idea di comunità, di famiglie serene, di vecchi e solidi valori che ha addirittura creato una sorta di sottogenere più o meno leggero: quello che, appunto, va sotto il nome di “Ameri­ cana”. L’intera storia dell’arte statunitense, almeno fino a Sargent (e forse fino alle avanguardie protonovecentesche), è storia di arte popo­ lare, comprese le straordinarie sperimentazioni formali e luministiche di Thomas Cole. E dunque il cinema, in quanto arte popolare anch’esso, non potè non assestarsi subito nel luogo che fra esse gli competeva, e soprattutto non potè non imporsi come quella che tutte le riassumeva e in certo modo le perfezionava in quanto la più vicina a quella vita

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quotidiana che dell’arte popolare è sempre stata il primario soggetto. E certo vero che a partire da Nascita di una nazione di Griffith esso si ritrovò ad avere uno statuto estetico che sino a quel momento gli era stato negato, ma è altrettanto vero che, proprio a partire da quel film, è stato il dibattito europeo sulla sua potenziale artisticità che lo ha por­ tato a fungere da sentinella del confine - da cerniera, come si diceva più sopra - fra quella che sembrava la sua originaria natura e l’Arte con la A maiuscola. E dunque in un certo senso e da questo punto di vista il cinema statunitense è un’invenzione (o una scoperta, se si preferisce) europea. Ma sempre, ricordiamolo, su un terreno di arte popolare che di qua dall’Atlantico abbiamo troppo spesso trascurato, sottovalutato o minimizzato.

Riferimenti bibliografici La frase di Jim Cullen sul cinema come arte popolare è nel suo The Art of Democracy, Monthly Review Press, New York, 1996, mentre la notazione di Erwin Panofsky sul gusto dell’arte popolare è rintraccia­ bile nel suo saggio “Style and Medium in the Motion Pictures”, Awake in the Dark (ed. by David Denby), Vintage Books, New York, 1977; la fallacità della definizione di “arte di massa” è trattata molto intelligen­ temente da Mikel Dufrenne nel suo “L’art de masse esiste-t-il?”, saggio introduttivo alla Revue d’Esthétique, 3/4, Union Générale d’Editions, Paris,1974, numero dedicato, appunto, al tema “L’art de masse n’existe pas”; le componenti comuni fra folk art e popular art sono indicate da Gilbert Seldes nel suo storico volume The Great Audience, Viking Press, New York, 1951 ; la frase di Harold Schechter sulla differenza fra arte seria e arte popolare si ritrova nel suo interessante studio The Bo­ som Serpent. Folklore and Popular Art, University of Iowa Press, Iowa City, 1988; tutte le varie citazioni tratte da John L. Fell vengono dal suo importante libro, Film and the Narrative Tradition, University of Oklahoma Press, 1974; la messa in scena melodrammatica di Boucicault e di altri autori teatrali con espedienti che anticipano il montag­ gio cinematografico è la tesi, validamente argomentata, di Nicholas Vardac nel suo classico Stage to Screen. Theatrical Method from Garri­ ck to Griffith, Harvard UP, Cambridge, 1949; la notizia sulla simula­ zione della vista da un aeroplano nella mostra The World of Tomorrow di New York nel 1939-40 è riportata da David E. Nye nel suo ammi­ revole American Technological Sublime, The MIT Press, CambridgeLondon, 1996, mentre la citazione che Antonio Costa fa, citando Fell, sul rapporto fra le tavole di McCay e il film di Porter del 1906 è nel suo studio II cinema e le arti visive, Einaudi, Torino, 2002; sui tratti ca­

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ratterizzanti il Modernismo si veda Irving Howe, Literary Modernism, Fawcett, New York, 1967; in direzione non diversa dalle indicazioni di Lukàcs, anche Miriam Bratu Hansen legge il Modernismo come movi­ mento popolare “o, più precisamente^ di massa” nel suo saggio “Ame­ rica, Paris, the Alps: Kracauer (and Benjamin) on Cinema and Moder­ nity”, in Cinema and the Invention ofModem Life (ed. by Leo Charney and Vanessa R. Schwartz), University of California Press, Berkeley, 1995; Richard Hofstadter ha studiato da par suo la diffidenza storica della società americana nei confronti deWintellighentzia nazionale nel fondamentale Anti-Intellectualism in America, Random House, New York, 1966; la notazione e la confutazione di Constance Rourke sulla mancanza di proposito estetico nell’arte americana sono nella sua rac­ colta di saggi edita da Van Wyck Brooks, The Roots of American Cul­ ture, Harcourt, Brace & World, New York, 1942 (specificamente nel capitolo intitolato “American Art: A Possibile Future”); le dure parole di Peter Nicholls sulla modernità e l’americanizzazione sono nel suo Modernism: A Literary Guide, University of California Press, Berkeley, 1995; le indicazioni sui riferimenti pittorici di Visconti sono rintrac­ ciabili rispettivamente in Lino Micciché, Luchino Visconti, Marsilio, Venezia, 1996, e in Alessandro Bencivenni, Luchino Visconti, La Nuo­ va Italia, Firenze, 1982, mentre la notizia sull’ispirazione dei costumi di Oklahoma! dal catalogo di Sears, Roebuck & Co. viene da Robert C. Toll, The Entertainment Machine. American Show Business in the Twentieth Century, Oxford UP, Oxford-New York, 1982, cui si deve anche la precedente notazione sui “prestiti” della musical comedy da forme teatrali precedenti; infine, la ristampa, a dimensioni ridotte, del catalogo Sears, Roebuck & Co, Fall 1900, n. 110, a cura di Joseph J. Schroeder, Jr., è per i tipi della DBI Books, Northfield, 1970.

Capitolo 4

Film (song) of myself: l’americanità del cinema americano

In tempi di frammentazione, di microetnie, di decentralizzazione come quelli che stiamo vivendo la questione del rapporto fra cinema e identità nazionale assume un valore particolare e complesso. Da un lato, il tentativo di identificare una cinematografìa in rela­ zione ai suoi caratteri distintivi, formali o sostanziali che siano, appare come un allineamento alle tesi (e alla pratica) di coloro che marcano sempre più profondamente le linee di confine con il diverso. D’altra parte, tale tentativo può essere letto in modo meno riduttivo, come una volontà di comprendere le forme e le costanti di una tradizione, e dunque come un implicito invito a non dimenticare il valore e la fun­ zione della Storia (ciò che la nostra cultura di marca postmoderna ha da tempo pericolosamente relegato nella soffitta degli oggetti inservi­ bili). Quante volte, anche soltanto in una conversazione (anzi, soprat­ tutto in quella), abbiamo detto, poniamo, che “il cinema italiano” manca di nuovi e promettenti autori, oppure, come vuole Wim Wen­ ders, che “il cinema americano ha colonizzato il nostro inconscio”. Dobbiamo credere che così dicendo noi si intendesse alludere sempli­ cemente alla totalità della produzione di quei paesi? Dobbiamo crede­ re, quindi, che il discorso riposi su un referente di tipo puramente pro­ duttivo, cioè a dire economico? Ma quando noi diciamo cinema italiano o americano abbiamo, quantomeno inconsciamente, in testa un archetipo ideale nel quale identifichiamo la totalità di quella produzione. Eppure sappiamo bene che spazio intercorra fra, diciamo, le commedie scollacciate di Vitali e Banfi da un lato e le prove d’autore di Fellini e Antonioni dall’altro. Compito di uno studio culturale del cinema (o meglio, delle singole ci­ nematografìe) è quello di trovare un terreno comune ad ambedue. Sino a oggi quel terreno è stato, appunto, di carattere sostanzialmente pro-

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duttivo ed economico, e quand’anche certa critica abbia tentato un di­ scorso culturale di carattere nazionale essa lo ha condotto su singoli campioni (che so?, il film melodrammatico operistico italiano, per fare un esempio). Non sarà male cercare di fare un passo avanti e compren­ dere come quel rapporto sia definibile anche in altri termini e comun­ que da angolazioni più complesse. L’arte e il ciarpame sono molto distanti fra loro (anche se pure in quest’ambito negli ultimi anni le cose sembrano essere profondamente cambiate e il ciarpame si è ritrovato a rappresentare qualcosa in ambito di produzione artistica), ma ambedue nascono pur sempre da una co­ mune cultura. Stabilire gli assi di riferimento di questa cultura, al di là dei quali chiunque potrà poi prendere la direzione di studio, artistica e/o commerciale, che crede, è compito di una nuova intenzione critica, di quel fermento di studi culturali che negli scorsi lustri ha trovato ne­ gli Stati Uniti fertile terreno di teorizzazione e ricerca, sfilacciatisi poi troppo spesso in questioni di gender e di minoranze etniche. Studi an­ che questi interessanti e a volte importanti, sia chiaro, ma che andava­ no sempre più allontanandosi dal primario obiettivo del riconoscimen­ to di un’identità nazionale, scavando invece in una direzione di carat­ tere separatistico e oppositivo. Va da sé che non è possibile affidarsi in questa ricerca al puro am­ bito dei contenuti. Non certo perché in ogni cinematografia non vi siano contenuti specifici e caratterizzanti: Robert Ray, per esempio, in uno dei pochi studi teorici statunitensi veramente interessanti, ne ha indicato alcuni decisamente incontrovertibili, e a esso quindi rimando. Ma è anche vero che come abbiamo un film su Giovanna d’Arco di Victor Fleming nella Hollywood del 1948 così abbiamo una valanga di spaghetti-western a partire da quel 1964 che vide l’uscita di Per un pu­ gno di dollari di Sergio Leone. La storia e gli eroi nazionali, insomma, non fanno testo in questo senso. È invece vero, per continuare con questi esempi, che l’eroina francese entrò in quell’occasione e con quella pellicola a far parte di una tradizione cinematografica squisita­ mente americana, presentata non tanto in rigoroso omaggio ai dati storici che le erano pertinenti quanto ai modi di costruzione e narra­ zione fìlmica della storia che erano tipici della Hollywood del tempo; ed è altrettanto vero che Leone concepì e realizzò il suo (i suoi) film rielaborando in termini del tutto estranei alla tradizione americana al­ cuni dati costitutivi che erano stati del western statunitense, trattando questi ultimi in un modo, tanto formale quanto sostanziale, che era certamente più vicino alla tradizione del cinema italiano che a quella statunitense. Un modo che a sua volta si distingueva da quello del kraut-westem di cui, più o meno contestualmente, abbondò anni fa la produzione tedesca.

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Quali sono dunque le discriminanti per poter affrontare lo studio dell’identità nazionale nelle varie cinematografie? Ovviamente la risposta non è semplice se ricordiamo che sin dalle sue origini e lungo tutta la sua storia il cinematografo si ritrovò campo d’operazioni di scambio fra generi di diverse cinematografìe, dal kolos­ sal di marca italiana presto passato al vaglio dello studio system ame­ ricano al cosiddetto cinema dei telefoni bianchi mutuato, per la regìa di Camerini e soci, dalla gloriosa tradizione di certa commedia ameri­ cana anni Trenta. Ma proprio esempi come quelli testé citati, che i cri­ tici e gli storici del cinema conoscono molto bene, possono servirci a chiarire il problema: se un kolossal storico, al limite sul medesimo ar­ gomento, può essere messo in scena in Italia e in America ramificando­ si, per così dire, in due film abbastanza diversi; se una commedia sofi­ sticata può affidarsi, in Italia e in USA, allo stesso ambiente e magari agli stessi espedienti di malinteso, di fraintendimento nei rapporti in­ terpersonali, sentimentali o no che siano, evidentemente la discrimi­ nante della differenza deve risiedere altrove. Questo “dove”, insisto, non è facilmente identificabile in un solo elemento, una sola componente, un solo fattore. Ma è identificabile. E incominciamo dal terreno che forse è il meno facile, poiché ri­ chiede un occhio critico particolarmente attento ed esercitato: la for­ ma. Abbandonerò qui i due esempi più sopra citati, non perché un con­ fronto specifico non sia interessante, ma perché vorrei tentare di dare al discorso un respiro più ampio e generale, tale da comprendere ide­ almente l’intera tradizione cinematografica (quella americana) di cui mi occupo. Sappiamo tutti deil’enorme impegno produttivo che caratterizza i prodotti hollywoodiani (o almeno una parte di essi) e comunque sap­ piamo del primario obiettivo di quella produzione che va sotto il nome di entertainment (spettacolo di intrattenimento). In questi termini, tut­ tavia, siamo ancora entro limiti esegetici quantitativi, fondati cioè sull’impegno della produzione. Ma sappiamo anche che la quantità in­ trattiene un suo particolare rapporto con la qualità. Sappiamo, cioè, in questo caso, che l’obiettivo spettacolare richiede soluzioni formali e vi­ sive ben distinte rispetto ad altre possibili. E, questo, un terreno che differenzia neH’insieme il cinema ameri­ cano non dico da quello italiano, ma da quello europeo nel suo insie­ me. Al di là del tipo di storia raccontata, e rimanendo nel puro ambito dei numeri musicali, non v’è dubbio che il recente Dancer in the Dark (id., 1999) dell’europeo Lars von Trier abbia ben poca contiguità con qualunque routine di, poniamo, Cantando sotto la pioggia o Spettacolo di varietà. E, ripeto, non tanto per la tristezza del racconto che fa da

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sfondo e ragione ai numeri del primo, ma per il modo stesso in cui tali numeri sono messi in scena: il musical americano, nella sua storia ul­ tratrentennale, ha sempre esibito un interesse diretto per la messa in scena di qualunque numero musicale primariamente attraverso la co­ stante attenzione al suo protagonista. Tale attenzione si concretizzava in un’idea di inquadratura che oscillava fra la ripresa certosina del sin­ golo performer protagonista nella sua esibizione e quella di un movi­ mentato campo d’insieme. Mi si obietterà che, dopotutto, qualcosa del genere avviene anche nelle riprese dei numeri musicali di Dancer in the Dark. Ed è vero, ma con un’enorme differenza: sia nell’uno che nell’al­ tro caso la fluidità (verrebbe da dire - peraltro in modo inesatto - la vocazione al piano sequenza) del musical americano viene da von Trier frammentata in modo quasi nevrotico a vantaggio di un’orgia di stac­ chi di montaggio velocissimi che privilegiano le più diverse angolazio­ ni. Non so fino a che punto questo è dovuto alle coreografìe di Vincent Peterson, esperto orchestratore di videoclip musicali, e anzi credo in­ vece che all’origine di questa differenza sia la mano (e la cultura, e il gusto, e la concezione del cinema) di von Trier, autore d’impronta eu­ ropea se mai ve ne furono. Ma questa notazione in se stessa non basta. Per vera che possa es­ sere, essa ha carattere fenomenologico, descrittivo: ci spiega un tratto caratteristico, non il suo valore. Il fatto è che nella cultura europea il soggetto esiste in funzione di una problematica di carattere ontologico. Mostrare un personaggio, cioè, significa sempre e comunque relazio­ narlo a situazioni e ambienti che lo condizionano e sui quali egli non detiene alcun controllo, dal momento che ne è comunque il prodotto. Il vecchio assunto saint-beuviano del milieu e della race domina ancora la nostra cultura. Naturalmente qualcosa del genere lo ritroviamo an­ che nel cinema americano (e più in generale nella cultura di quel pae­ se), ma con una differenza: che l’assunto politico stesso sul quale si è fondata la nazione americana implica (verrebbe da dire: obbliga a) un ribaltamento di questo modello, sostenendo il primato individuale su quello dell’ambiente e della società. Ecco perché, in un numero musi­ cale hollywoodiano, la macchina da presa non abbandona mai il per­ former, e al massimo lo inquadra all’interno di un campo totale del quale è comunque lui o l’ortocentro o il punto di fuga. Generalizzando si può tradurre quanto sopra in questo modo: il ci­ nema americano è centripeto, mentre quello europeo è centrifugo. La cosa che rende ancor più interessante il primo è l’uso che, data questa sua caratteristica, esso fa dello spazio. Intendo dire che un cine­ ma centripeto dovrebbe in genere affidarsi a un uso abbastanza circo­ scritto dello spazio, o quantomeno tendere il più possibile a una con­ centrazione dell’azione. Questo in effetti avviene alquanto regolar­

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mente nel cinema americano (a maggior ragione, per ovvi motivi, nell’odierna epoca televisiva), ma senza sacrificare la straordinaria, gi­ gantesca componente spaziale che è certamente una delle caratteristi­ che più specifiche e riconoscibili del paese. Prendiamo un genere che sino all’inizio degli anni Sessanta aveva tematicamente tutte le carte in regola per essere considerato squisitamente americano: il western. Nessuno può negare che il western (o almeno gran parte di esso) si caratterizza per l’ampio spazio che gli fa da sfondo, e non c’è bisogno di arrivare al John Ford di Ombre rosse (Stagecoach, 1939) per ricono­ scere in esso la massiccia presenza di uno spazio il cui percorso sembra quasi infinito, al punto che giustamente Stephen Mills, nel suo studio sul paesaggio americano, può affermare: “U paesaggio dell’Ovest do­ veva essere visualizzato, prima che potesse essere sviluppato”. E quale migliore mezzo di visualizzazione di quello offerto dal cinema (ancor­ ché, ovviamente, in ritardo rispetto al processo di sviluppo storico dell’Ovest)? Sia detto per inciso, il trattamento dello spazio è riconoscibile in termini americani anche in altri ambiti e in altri modi, ben diversi da quello del western. Si pensi, in area comica, ai film dei fratelli Marx, ai loro straordinario sfruttamento dello spazio: non solo nella gloriosa sequenza della cabina in Una notte all’opera (A Night at the Opera, 1935) di Sam Wood, ma in genere nelle numerose scene in cui i tre in­ diavolati personaggi sembrano voler appropriarsi dei più remoti angoli di qualunque luogo sia teatro delle loro gesta. In loro la scena non è un palcoscenico, ma un elemento col quale intrattenere un rapporto im­ pari di sopraffazione (non meno che con le persone che eventualmente la abitano, come, ovviamente, l’incomparabile Margaret Dumont). E questo vale in certa misura per molti altri comici, da Chaplin e Keaton a Jerry Lewis, tutti professionisti che hanno fatto dello spazio una spe­ cie di comprimario da riempire con la propria gestualità, il proprio di­ namismo, la propria verve. Persino quando in scena è un comico emi­ nentemente verbale come Bob Hope il suo modo di rapportarsi allo spazio ne dichiara il controllo e lo sfruttamento al di là dalle sue incer­ tezze, dai suoi timori, dalla sue paure. Ma ritorniamo al punto. Lo spazio che vediamo nei western americani è dunque il riflesso dell’enorme spazio che giace fra il fiume Mississippi e le Rocky Moun­ tains. Ma è anche, e paradossalmente, un ristretto palcoscenico sul quale si dipanano storie d’amore e di morte, di viltà ed eroismo, di vo­ lontà e debolezza: tutte le più classiche opposizioni drammatiche, in­ somma, dell’epos e di tanta narrativa europea (persino dopo la radicale critica di Cervantes). Che cosa c’è dunque di americano in tutto que­ sto? Non lo spazio in se stesso (che vediamo, per esempio, anche in

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buona parte della cinematografia australiana), e nemmeno il basso di fondo (quando non il vero e proprio tema) dell’idea colonizzatrice, ma la lotta dell’individuo per guadagnarsi il posto centrate all’interno dell’inquadratura. La celebrazione del western americano non è sol­ tanto quella, di carattere storico, della colonizzazione del paese, ma anche e soprattutto quella della glorificazione di coloro che l’hanno compiuta non in quanto colonizzatori, ma in quanto individui i quali sono celebrati non come persone ma come incarnazione di un’ideolo­ gia individualistica. Questo significa che le loro azioni non valgono in se stesse, ma solo nella misura in cui essi si conformano in ultima ana­ lisi a un dettato sociale rigoroso e comune. Nelle parole di Henry De­ marest Lloyd: “L’uomo isolato è un puro rudimento di un individuo. Ma chi è diventato cittadino, vicino, amico, fratello, figlio, marito, pa­ dre, collega, contemporaneamente è diventato altrettante volte un in­ dividuo”. Il punto è proprio questo, e spiega bene perché, fra l’altro, per rimanere nel solo ambito cinematografico, abbiano assunto statuto mitologico all’interno del mito stesso relativo ai singoli generi (we­ stern, noir eccetera) personaggi come lo Shane dell’omonimo film di Stevens o il Philip Marlowe chandleriano di non so quante pellicole dagli anni Quaranta ai giorni nostri: eroi come questi contraddicono la regola primaria dell’individualismo americano, restando inafferrabi­ li e irriducibili a un recupero sociale alla stessa stregua di uno dei loro più famosi archetipi, il “bad boy” Huck Finn nella lettura magistrale e definitiva datane da Leslie Fiedler in Amore e morte nel romanzo ame­ ricano. So bene che il mio discorso sembra avere preso una piega contenu­ tistica (tant’è vero che riecheggia la distinzione del già citato Ray fra “outlaw hero” e “official hero”), ma in realtà gli stessi modi di presen­ tazione dei campioni dell’ideologia individualistica di cui sopra ci par­ lano di una retorica formale del cinema americano. Diversi come sono fra loro gli interpreti, i personaggi western incarnati da attori come John Wayne, James Stewart, Burt Lancaster e così via partecipano di un medesimo statuto formale: essi avanzano sicuri (talvolta, come ne) caso di Stewart, neanche tanto) mentre l’obiettivo li studia in modo da comunicarci non solo la loro sicurezza, ma anche la disponibilità alla disputa, allo scontro, alla lotta per la difesa di valori nei quali credono ciecamente. Il campo americano è vigile non meno del primo piano, indaga l’attenzione e la tensione del personaggio che albergano dietro la sua sicurezza. Essi insomma sanno di vivere in un mondo che richie­ de da loro un grado superiore di intelligenza. Ma - ed è qui che essi divergono dalle eccezioni di cui si diceva - sanno anche che il loro de­ stino è all’interno della comunità, e anzi talvolta il loro problema è ad­ dirittura di poterci rientrare, di esserne accolti (come a volte James

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Stewart nei western di Anthony Mann). Paragoniamo il Jimmy Stewart di Là dove scende ilfiume (Bend of the River, 1952) di Anthony Mann con 1’Alan Ladd di II cavaliere della valle solitaria (Shane, 1953) di Ge­ orge Stevens, pellicole cronologicamente contestuali. La differenza è quella che intercorre fra il segreto e il mistero: il primo è celato nella memoria del singolo (e purtroppo anche di qualcun altro), il secondo è un’aura che non rimanda ad alcun significante, è un dato ontologico del personaggio, corroborato dal colore del vestiario, dagli sfondi in cui viene spesso ripreso, dall’idealizzazione che di lui fanno due occhi infantili, daì\'aplomb quasi infastidito e comunque senza coinvolgi­ mento nel trattare con i malvagi. Il coraggioso vendicatore dell’ideolo­ gia individualista è, per coloro che difende, “uno dei nostri”, il vero in­ dividualista invece non appartiene a nessun gruppo e alla fine scompa­ re all’orizzonte e dalla vita di tutti. Ma forse è bene dimenticare le eccezioni per focalizzare il discorso su quello che ci permette una lettura omologa del cinema americano. Prendiamo allora un esempio che, a differenza dal western, non è in se stesso squisitamente nazionale: il melodramma. Come qualunque altro film del genere, anche quello americano ruota attorno ad alcune costanti: quella che Roberto Campari chiama l’impedimento amoroso, il problema dei rapporti generazionali (con particolare riferimento a quelli familiari), il contrasto fra interesse e dovere (forma aggiornata allo spirito borghese della vecchia antinomia secentesca sentimento/ onore) e ancora una volta il conflitto, interiore e/o esteriore fra indivi­ duo e gruppo sociale nel quale si suppone che egli debba inserirsi at­ traverso una maturazione psicologica, umana e sentimentale. Al di là, ancora una volta, di questioni di contenuto (per cui, che so?, le proble­ matiche esistenziali bergmaniane - con l’eccezione di un paio di film di Woody Alien, che peraltro opera a New York - ben diffìcilmente saran­ no rintracciabili nelle pellicole hollywodiane), balza chiaro agli occhi che il trattamento riservato al genere oltre Atlantico è profondamente diverso da quello europeo. La macchina da presa europea indugia sul personaggio quasi a voler scavare entro l’involucro della sua apparenza corporea, e per far questo sacrifica notevolmente la tensione della sto­ ria, della narrazione. L’impressione è che il melodramma europeo (be­ ninteso, non sto parlando di pellicole tratte da opere liriche) abbando­ ni l’orizzontalità per la verticalità, trascuri lo sviluppo della storia e il ritmo che questa richiede a vantaggio di un’inchiesta che deve farsi at­ traverso la costante attenzione ai minimi particolari che l’atteggiamen­ to del protagonista consente di cogliere (esempio perfetto: la trilogia di Antonioni). La dimensione della memoria e della riflessione domi­ nano incontrastate, lasciando talora il passo soltanto all’estenuazione quando non al disgusto esistenziale.

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Nel melodramma americano invece l’attenzione della macchina da presa è altrettanto incentrata sul personaggio, ma sempre studiando la connessione all’ambiente, al gruppo d’appartenenza, ai valori di cui questo si fa portatore (si pensi ai film di Sirk). Nel melodramma euro­ peo il successo (e la sua forma concreta: il denaro) non è un punto d’ar­ rivo, ma (quando c’è) un dato di fatto, in quello americano esso è la leva che muove l’intero corpo della storia. E l’obiettivo si adegua perfetta­ mente a questa struttura: che si tratti di Piccole volpi (The Little Foxes, 1941) di Wyler o di II gigante (The Giant, 1956) di Stevens, la saga fa­ miliare è osservata e seguita senza accentuare l’emozione attraverso il gesto o la mimica, ma caratterizzando in difetto i personaggi, imponen­ do loro, cioè, una repressione delle loro pulsioni, che peraltro diviene leggibilissima parte programmata dello sforzo attoriale. Esattamente il contrario di quel che avviene, poniamo, nei melodrammi di Matarazzo, dove lo sforzo è visibile in eccesso. E quand’anche il melodramma euro­ peo sfugga a questo eccesso - come nel caso dei grandi autori del vec­ chio continente, da Dreyer a Bergman a Visconti - questo vuoto viene subito colmato o dall’intensa icasticità dell’inquadratura (Dreyer) o dalla dilatazione del tempo di ripresa (Bergman, ma anche Jancso, Tarkovskij e tanti altri) o da una scenografia tanto accurata da diventare parte della storia e dell’azione (Visconti). Ovviamente questa omologicità del melodramma americano (e di quella cinematografia nel suo insieme) deve essere passata al vaglio del tempo, delle mode, delle scuole attoriali, dei diversi modi di produzio­ ne. Ma non è un caso che chiunque sappia riconoscere la nazionalità di un qualunque film statunitense a una occhiata immediata. In realtà, la differenza fondamentale si riassume nell’atteggiamen­ to registico nei confronti del racconto di una storia. E per raccontare una storia sappiamo tutti quale funzione fondamentale abbia il tempo. È cosa assodata che il cinema sin dai suoi esordi ha affossato - anche più del romanzo modernamente inteso - la linearità del tempo, talché, di norma, in qualunque film narrativo non possiamo pretendere che la durata della storia coincida con il tempo reale. Ma nel cinema holly­ woodiano questa intrinseca caratteristica diventa oggetto di una specie di frode, ché tutte le energie e le tecniche a disposizione si concentrano per nascondere la trasgressione (ripeto: inevitabile) nei confronti del regolare flusso temporale (e conseguentemente anche spaziale). È an­ cora Ray a darcene brillante e certosino esempio nell’analisi di due se­ quenze tratte da II mistero del falco (The Maltese Falcon, 1941) di John Huston e Casablanca (id., 1942) di Michael Curtiz, per cui non indugerò ulteriormente su questo argomento. Quel che mi sembra valga la pena di aggiungere per indicare un’altra discriminante dell’americanità del cinema americano è che l’uso dello spazio (o la sua messa in scena,

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se si preferisce) non si limita, come invece nel cinema europeo, alle usuali contrazioni rilevate da Ray, ma si manifesta anche nel loro con­ trario, vale a dire in una visione così larga ed estesa da tranquillizzarci in merito alla possibilità di mistificazione di quella componente. È an­ che vero che questa differenza si precisa subito come opposizione, anch’essa caratteristica del cinema e della cultura americani (anche se cer­ tamente non una sua esclusiva), fra due modi di vita, come esemplifi­ cazione cinematografica di una classica diatriba che risale almeno ai tempi della fondazione della repubblica: il contrasto fra campagna e città, fra piccola economia agricola ed economia su vasta scala, fra Jef­ ferson e Hamilton (un’opposizione che ritornerà, fra l’altro, anche du­ rante il New Deal della presidenza Roosevelt). È tuttavia questa componente del cinema americano a permettere (e chissà, forse a imporre) il tipico impiego spettacolare hollywoodia­ no dello spazio. Si possono avere - anche se di rado - praterie e deserti anche in altre cinematografie, ma soltanto quella americana ha rego­ larmente proposto la vastità spaziale come teatro di entertainment: gli inseguimenti, le cacce, le galoppate a perdifiato, le rapine alle carrozze postali o alle diligenze, le competizioni dei carri di coloni per appro­ priarsi dei migliori e più ampi appezzamenti di terreno, i caroselli in­ diani attorno ai carri posti in cerchio sono tutti momenti che, indipen­ dentemente dalla loro veridicità storica o meno, fanno la spettacolarità del gigantesco spazio americano. Qualcuno potrebbe obiettare che questo è vero per quel peculiare genere nazionale che è il western. Ma non è così: si pensi, nel musical, a certi incredibili tours de force spa­ ziali, a come Gene Kelly, nella prima e straordinaria sequenza musicale di II pirata (The Pirate, 1948) di Minnelli, volteggia nello spazio della cittadina caraibica, in cui la sua compagnia girovaga è appena arrivata, lungo una linea orizzontale, e a tratti verticale, assolutamente impre­ vedibile nel suo enorme, insostenibile respiro, mentre il giovanotto corteggia - velocissimamente, è ovvio - un incredibile numero di bel­ lezze locali ballando e cantando. Si pensi al grande quadro di insieme del numero “Gotta Dance” in Cantando sotto la pioggia (Singin’ in the Rain, 1952) di Donen e Kelly, una lunga e orchestrata sequenza tutta girata in studio che intende riportare il sapore degli spazi metropolita­ ni e che trova i suoi antecedenti in sequenze come la straordinaria “Lullaby of Broadway” che corona Donne di lusso (Gold Diggers of 1935, 1935) di Busby Berkeley, un regista che in fatto di ricostruzioni metropolitane in studio fu una vera autorità. Si pensi, addirittura, a un uso non dissimile dello spazio quale ritroviamo in un autore certo non sospetto di compiacenza nei confronti di Hollywood e non rappresen­ tativo del suo tipo di cinema come Orson Welles, il cui celebrato pia­

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no-sequenza iniziale in ^infernale Quinlan, al di là della sua maestria irripetibile, obbedisce a questo tipo di impiego dello spazio. Ma c’è un’altra componente fondamentale che contribuisce all’identità del cinema americano. Anch’essa ovviamente può trovare specifiche soluzioni formali, ma è già di per se stessa un elemento ca­ ratterizzante quella produzione nel suo insieme: la nostalgia, una com­ ponente nazionale che molto acutamente Michael Kammen ha messo in relazione dialettica con la tendenza americana allo spazio e al movi­ mento: “Alla passione americana per il movimento e il cambiamento corrisponde un senso, altrettanto forte, della nostalgia e dell’inerzia”. Lungi dall’essere un prodotto degli anni Settanta, la nostalgia per­ vade l’intero cinema americano. A volte essa è, in modo molto diretto, la ricostruzione di un più o meno tenero momento del passato, non so­ lo di miti e glorie nazionali (il generale Jackson di I bucanieri, il Davy Crockett di La battaglia di Alamo, la Dolley Madison di La magnifica bambola, gli avventurosi Lewis e Clark di I due capitani, e così via) ciò che trova pendant, anche se non in numero così elevato, anche nel­ le altre cinematografìe - ma anche e soprattutto di dolci momenti di un’epoca perduta, un “come eravamo” pieno di tenerezza e gioia an­ che nelle lacrime piante in quel tempo lontano. Film come Incontria­ moci a St. Louis di Minnelli, Summer Holiday di Mamoulian, Rosa di Washington di Ratoff, The Music Man di da Costa, Facciamo il tifo in­ sieme di Berkeley, il già citato Cantando sotto la pioggia (tutti musical, si noti, ovvero un genere non meno americano del western) che guar­ dano a un passato tanto bello da ripensare. Ma se allarghiamo il concetto di nostalgia, praticamente l’intero cinema hollywoodiano vi rientra: non solo film in costume che vanno da Kitty Foyle, ragazza innamorata a L'ereditiera, da Angoscia a La fi­ glia del vento, non solo saghe familiari come Delitto senza castigo, Solo per te ho vissuto, Il gigante o naturalmente Via col vento, ma anche opere apparentemente estranee a questo tipo di angolazione come Corvo rosso, non avrai il mio scalpo o II pianeta delle scimmie. Il we­ stern e la fantascienza, anzi, meriterebbero in questo senso particolare attenzione in quanto forme opposte della stessa sensibilità, l’una rivol­ ta al passato, l’altra al futuro, ma - paradossalmente - anche il contra­ rio: il western perché stabilisce e celebra un’ideologia dell’espansione, la fantascienza perché elabora i suoi modelli di utopia dall’esperienza del passato. La presenza del passato nella cultura americana, e dunque anche nel suo cinema, è una costante caratterizzante. Forse nessuna letteratu­ ra ci ha dato in modo così forte, sentito, deciso e sofferto l’anelito ver­ so di esso, la ricerca ossessiva delle proprie radici. “Così, barche con­ trocorrente, continuiamo a remare, risospinti senza posa verso il pas-

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sato”, scrive Fitzgerald alla fine di ll grande Gatsby. E gli fa eco, in mo­ do anche più lirico, il Thomas Wolfe di Angelo, guarda il passato’. “Mu­ ti rievocando cerchiamo il grande linguaggio obliato, il perduto sentie­ ro che porta alla meta, una pietra, una foglia, una porta introvata. Do­ ve? Quando? O perduto e dal vento pianto spirito, torna ancora!**. Questo, fra l’altro, spiega bene la massiccia presenza nel cinema americano (ma anche nella letteratura e nella cultura popolare) di per­ sonaggi infantili e adolescenziali, e anche l’attenzione costante nei con­ fronti dell’ambito familiare, da Mamma ti ricordo! di George Stevens a II cucciolo di Clarence Brown, da II buio in cima alle scale di Delbert Mann a Splendore nell’erba di Elia Kazan, da Vita col padre di Michael Curtiz a Dodici lo chiamano papà di Walter Lang, per non parlare della serie di Andy Hardy, durata un ventennio. Il trattamento del tema familiare, anzi, è un’altra precisa discrimi­ nante del nostro discorso. La famiglia compare ovviamente in qualun­ que cinematografìa, ma soltanto in quella americana essa mostra in modo tanto evidente la conciliazione dei due atteggiamenti archetipi che oppositivamente la qualificano: il rigore, la severità, il rispetto da un lato e l’affetto, la comprensione, l’umanità dall’altro. Anche qui, in­ somma, la sintesi irrisolta delle contraddizioni di cui parla Ray a pro­ posito del rapporto fra individuo e società appare chiara: il cinema hollywoodiano intende regolarmente mettere in scena le due facce del­ la medaglia sociale, ma non prova neanche a suggerire una soluzione qualsiasi, preferendo la strada più agevole della conciliazione, magari rovesciando sul capro espiatorio di turno la responsabilità del proble­ ma (si pensi a quella famiglia ideale che è la classe scolastica in II seme della violenza di Richard Brooks e a come il problema disciplinare agi­ tato sembra dipendere in ultima analisi da un paio di giovani delin­ quenti irriducibili). Infine (ma solo provvisoriamente, ché un tema come il nostro non può esaurirsi in qualche sporadica indicazione), un’altra costante, tan­ to ovvia da non essere mai presa in considerazione dal punto di vista dell’identificazione nazionale (peraltro, molto studiata invece dal pun­ to di vista tecnico-teorico: valgano per tutti, in Italia, gli studi di Gior­ gio Cremonini): la coppia comica. Da sempre, lo sappiamo, la coppia comica percorre il teatro leggero anche da questa parte dell’Atlantico (si pensi, da noi, ai De Rege, al duo Chiari/Campanini, Tognazzi/Vianello eccetera). Ma mai come nel cine­ ma americano questo modello ha denunciato valori così specifici e par­ ticolari in sede di cultura nazionale. Mentre infatti nella nostra tradizio­ ne la coppia comica si organizza in un individuo razionalmente normale e in uno sciocco che spesso si scambiano le parti, nella tradizione ame­ ricana questo avviene meno sovente (per esempio nella coppia Laurei

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& Hardy) e in genere il modello preferisce scavare nella psicologia del secondo, rivelandovi un essere sensibile e amabile (Jerry Lewis) oppure insistendo sui suoi difetti morali - più che mentali - e giocando su questi in verticale sino a raggiungere lo spazio del paradosso (Bob Hope). In ogni caso, lo sciocco della coppia ne emerge come la componen­ te infantile di essa, che intreccia con l’altro termine un rapporto che il Leslie Fiedler di Amore e morte nel romanzo americano non esiterebbe a definire latentemente omosessuale (o comunque di forte e addirittura morbosa dipendenza). Tale modello, del resto, non è confinato al solo cinema o al solo teatro leggero: la narrativa americana lo esibisce spes­ so e volentieri: si pensi a una coppia letteraria che è divenuta un clas­ sico imitato persino nei cartoni animati, George e Lennie in Uomini e topi (1937) di John Steinbeck. A Fiedler ovviamente rimandiamo per una comprensione delle ragioni culturali di questa costante della tradi­ zione americana (e non soltanto in ambito di commedia), ma storica­ mente sarà bene rilevare che in America questa tradizione risale perlo­ meno alla fine del 1840, quando due applauditi comici del burlesque, Brougham e Burton, si unirono sul palcoscenico del Chambers Street Theatre, come ricorda Constance Rourke nel suo fondamentale Ame­ rican Humor, per satireggiare argomenti all’ordine del giorno del di­ battito nazionale, dal libero amore ai diritti delle donne, seguiti più di mezzo secolo dopo da una coppia ancora più celebre del vaudeville americano, Gallagher & Shean, nella quale la differenziazione origina­ ria era molto meno evidente, ma la graffiarne satira - spesso in forma musicale - era forse anche maggiore e certamente proposta in modo più leggero. Riassumendo, il cinema americano riprende un modello che era stato di tanto teatro europeo. Ma mentre in questo lo sciocco, seguen­ do una tradizione radicata nel teatro che va dall’atellana alla comme­ dia dell’arte, veniva presentato come un “carattere”, cioè un personag­ gio con specifiche e immutabili peculiarità, nel cinema americano gli si attribuiscono valori umani nascosti sotto le sue più plateali caratteristi­ che comiche, così da farne un personaggio passibile di esperienza e ma­ turazione colto a uno stadio ancora primitivo, infantile, irrisolto. In (provvisoria) conclusione, credo sinceramente che quella che ho qui tentato di esemplificare, sia in termini formali sia di contenuto (in quest’ultimo caso appoggiandomi alla ricca tradizione americana dei generi), sia l’angolazione più fruttuosa dalla quale osservare non il ci­ nema americano soltanto, ma qualunque cinematografia della quale si intenda rilevare un’identità nazionale. Lo studio della cultura di un po­ polo passa per le forme di immaginario che esso ha elaborato, ed è per­ correndo a ritroso il suo cammino che è forse possibile raggiungere la fonte originaria da cui sgorga quella produzione. Credo anche che il

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metodo storico, vale a dire l’inquadramento storico di uno o più pro­ blemi riguardanti il percorso che una nazione ha compiuto, mutando nel tempo modi, usi, costumi, mentalità, politica e via dicendo (e pe­ raltro lasciando intatte altre costanti nazionali), possa fornire materia­ le altrettanto utile per una valutazione che in ultima istanza intenda re­ cuperare ciò che fa di una nazione quella nazione e non un’altra. E cre­ do soprattutto che uno studio del genere, per quanto attento a ciò che diversifica e identifica una cultura rispetto a un’altra, debba essere al servizio non dell’inalterabilità della differenza, ma della possibilità di conoscenza e comprensione di ciò che non siamo.

Riferimenti bibliografici Il testo di Robert B. Ray cui si fa riferimento è A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, 1930-1980, Princeton UP, Princeton, 1985, dove si rintraccia anche la differenziazione fra “outlaw” e “official he­ ro”; l’affermazione sulla necessità di visualizzazione del paesaggio americano è di Stephen E Mills nel suo The American Landscape, Keele UP, Edinburgh, 1997, mentre quella sull’individuo americano come somma di molte funzioni sociali è di Henry Demarest Lloyd, We­ alth Against Commonwealth, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1963; su Huck Finn come archetipo del “bad boy” americano, così come sull’omosessualità latente nella letteratura americana, si rimanda al classico di Leslie A. Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano, Longanesi, Milano, 1982; suH’“impedimento amoroso” come compo­ nente centrale del melodramma si veda Roberto Campari, Il racconto del film: generi, personaggi, immagini, Laterza, Roma-Bari, 1983; sulla contrapposizione fra movimento e inerzia nel carattere americano si legga Michael Kammen, People of Paradox, Vintage Books, New York, 1973, mentre sulla coppia comica ha scritto molto bene Giorgio Cremonini, Il comico e Taltro, Cappelli, Bologna, 1978; infine, le notizie su Brougham e Burton vengono da Constance Rourke e dal suo fonda­ mentale American Humor, Harcourt, Brace & Co., New York, 1931.

Capitolo 5

Malattie attoriali: istinto e scuola nel cinema americano degli anni Trenta

Non è il 1931 (anno della prima produzione del Group Theatre di Strasberg e dei suoi consociati, The House of Connelly), ma il 1923 a segnare l’ingresso di Stanislavski] in America. Dico Stanislavski; e non il suo Metodo perché, come hanno ben scritto, fra gli altri, Joanne La­ rue e Carole Zucker, non esiste un “metodo” in senso stretto, ma sol­ tanto una serie di riflessioni e di conseguenti esercizi di interiorizzazio­ ne in progress, dovute per di più - almeno sino al 1922, anno della morte del prediletto Vakhtangov, nominato da Stanislavski] a capo del­ lo Studio quale insegnante ufficiale del suo sistema - all'apporto di altri influenti membri del cosiddetto Primo Studio fondato dal grande teo­ rico russo. Com’è noto, infatti, nel 1923 Stanislavski] arrivò in America per una tournée e volle che a essa si unisse Richard Boleslawski, suo ex allie­ vo emigrato l'anno precedente negli Stati Uniti e destinato a esordire nell’industria cinematografica americana come regista nel 1930 con Treasure Girl, dopo avere insegnato, sempre nel 1923, al Neigh­ borhood Playhouse (in seguito diretto da Sanford Meisner) e dopo ave­ re fondato l’American Lab Theatre al quale si aggiunse anche Maria Ouspenskaya, giunta in USA con il gruppo del Maestro, e rimasta nel nuovo continente. Insomma, per importante che sia stato, il Group Theatre non fu il primo esempio di scuola staniIslavskiana in America, anche se fu il pri­ mo composto da cittadini americani. Questa distinzione, che può apparire pedante o, peggio, polemicamente antisciovinista ha invece una sua importanza storica, dal mo­ mento che ci dice che ancora durante il periodo del cinema muto negli Stati Uniti si erano verificate forti avvisaglie di mutamento nella con­ cezione stessa dell’impostazione attoriale, almeno per quel che riguar­ da il mondo del teatro.

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È certo vero che nell’articolo “Notes on Hollywood”, pubblicato sulla celebre rivista americana New Theatre a metà degli anni Trenta, Joris Ivens scriveva, fra le altre cose: Mi ero aspettato che almeno qualcosa dei metodi degli attori cinema­ tografici russi avesse raggiunto Hollywood, o che il teatro americano moderno avesse esercitato qualche influenza. E invece proprio no.

E un po’ più avanti:

Tutti quelli che vogliono elevare il cinema americano a un livello più alto devono seguire l’esempio del nuovo giovane movimento teatrale in America. In nessun altro paese, tranne l’URSS, si può vedere una crescita costante del teatro moderno come in America. E forse non a caso sembrerebbe che dei grandi maestri teatrali eu­ ropei (a parte Brecht) l’unico che in qualche modo abbia fatto - bre­ vissimamente - concreta breccia a Hollywood sia Max Reinhardt, cioè, fra tutti loro, colui che, a detta di un influente critico di New Theatre, Charmion Von Wiegand, a distanza di vent’anni e più non mostrò al­ cun cambiamento al passo con gli enormi mutamenti imposti dalla Sto­ ria, proponendo in pellicola nel 1935, insieme a William Dieterle, pra­ ticamente la stessa produzione di A Midsummer Night’s Dream messa in scena a Berlino nel 1913 e poi a New York nel 1924, che, impieto­ samente, lo stesso Von Wiegand bollava come “uno Shakespeare ridot­ to a Ziegfeld Follies”. Vorrei ora portare la vostra attenzione sul momento in cui il Me­ todo (per tradizione e per comodità continuiamo pure a chiamarlo co­ sì) entra negli Stati Uniti. 11 cinema si sta avviando a grandi passi verso il sonoro e conseguentemente verso la straordinaria rivoluzione che es­ so comportò su parecchi versanti, compreso quello attoriale. Fu, quel periodo, un momento cruciale, un incontro di concause che portarono non soltanto a una nuova idea di cinema, ma anche a una nuova idea di politica, di economia e addirittura a uno stile di vita ben lontano dai fasti dei “Roaring Twenties” contestualmente celebrati nella narrativa del primo Francis Scott Fitzgerald. Il programma di rinnovamento eco­ nomico varato da Roosevelt nel 1933, che va sotto il nome di New De­ ai, fu anche un richiamo all’unità nazionale. E non fu soltanto l’esor­ tazione a uno sforzo collettivo, ma anche un ammonimento a ritrovare individualmente una fiducia, una sicurezza e una determinazione es­ senziali per la buona riuscita di quello sforzo. Io credo che in questa chiave vada letto - al di là dalle storie e dalle ragioni individuali dei singoli membri - l’entusiasmo con cui Lee Strasberg, Harold Clurman e Cheryl Crawford accolsero e adottarono la

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lezione stanislavskiana fondando il Group Theatre. In questo senso, cioè, indipendentemente dai fondamenti del Metodo già presentati in America da Stanislavski) stesso e divulgati dall’esperienza didattica del Lab Theatre di Boleslawski, l'avventura del Group Theatre si presenta se non come necessaria, certo come estremamente adeguata ai propri tempi e alla situazione nazionale. Si considerino le parole di Strasberg in merito alla funzione della sua scuola. Egli parlava a quel tempo di uno sforzo "... per fare dei ventotto attori un ‘organismo artistico’ con il suo carattere speciale e i suoi obiettivi”. Sostituiamo alla parola “attori” quella di “cittadini” e la frase po­ trebbe essere stata pronunciata da Roosevelt stesso. E tutto, si noti, senza rinunciare a una precisa e forte idea di individuo, dal momento che il Metodo predicato da Strasberg insisteva adamantinamente sul valore e la funzione della memoria individuale. Per dirla con lo stesso Strasberg, “Ci si può avvicinare all’emozione solo indirettamente, at­ traverso i ricordi della stimolazione sensoriale codificata con essa.”. “Creare e non essere se stessi è impossibile”, aveva detto Vakhtan­ gov, infiammando il giovane Strasberg, dall’insegnamento del quale deriverà la ulteriore elaborazione kazaniana che vuole precisa chiarez­ za in merito all’obiettivo del personaggio in una scena e che in parti­ colare si domanda che cosa egli vuole e perché. Se dunque vi è notevole affinità ideale fra lo spirito del New Deal e quello che anima il metodo adottato dal Group Theatre non possia­ mo non domandarci qual è il luogo occupato dal cinema coevo davanti a questo rapporto di sintonia. O, se si preferisce, perché mai il cinema a cavallo fra gli anni Venti e Trenta non sembra, nell’insieme, mostrare alcuna sensibilità nei confronti di questa impostazione attoriale. A dire il vero, Foster Hirsch nel suo ampio affresco Acting Hol­ lywood Style crede di ritrovare un’impronta da Actors’ Studio ante-litteram in una scena interpretata dalla Garbo in Ninotchka (id., 1939) e in generale nella recitazione di Carole Lombard (senza contare che io stesso Strasberg definì Gary Cooper e Spencer Tracy attori inconsape­ volmente appartenenti al Metodo). Ma è pur vero che complessiva­ mente la recitazione cinematografica di quel periodo - di concerto con la fotografìa - mostra evidenti strascichi derivati da quella del muto (si pensi a Paul Muni in Scarface [id.], 1932), oppure pesanti debiti nei confronti della recitazione teatrale, per così dire, pre-stanislavskiana (si pensi a George Arliss in Disraeli, 1929). In ambedue i casi la ragione è semplice: da un lato Hollywood sta ancora utilizzando attori forma­ tisi col muto e ormai abituati al suo codice mimico, e dall’altro gli at­ tori che essa prende da Broadway - o addirittura da Londra, come è il caso di Arliss - sono anch’essi fortemente compromessi con un tipo di recitazione - tradizionalmente definita “delsartiana” - che è erede dei

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fasti ottocenteschi ma anche delle pesantezze di quella tradizione. Vie­ ne in mente una bella sequenza di una pellicola molto più tarda, il mu­ sical I Barkley di Broadway (The Barkleys of Broadway, 1949) di Char­ les Walters, nel quale un’attrice di varietà esordisce nel teatro dramma­ tico con una pièce biografica su Sarah Bernhardt. Nella detta sequenza osserviamo la prova d’ammissione della Bernhardt al Conservatoire Francis, quando la ragazza abbandona il monologo di Giulietta al ve­ rone e, rivolgendosi alla severa commissione giudicatrice, dice che quello è ciò che le è stato insegnato mentre lei vorrebbe recitare in mo­ do spontaneo, e attacca così il testo della Marsigliese. La performance (a prescindere dall’accento americano di Ginger Rogers che parla fran­ cese: quel francese) ha una sua potenza, ma è al tempo stesso alquanto ridicola: non agli occhi della commissione, infiammata d’amor patrio e ammirazione, ma ai nostri, che leggiamo in essa una retorica che è esattamente all’opposto della spontaneità cercata dall’attrice. La cosa più interessante e paradossale è che il marito dell’attrice - all’insaputa della donna, poiché al telefono finge di essere l’autore-regista della pièce - le dà consigli sull’interpretazione che sembrano un calco degli insegnamenti che stavano rendendo celebre Strasberg nell’allora re­ centemente fondato Actors’ Studio: dunque, qualcosa di compietamente diverso dal tipo di recitazione che vediamo in quella sequenza e che porterà al trionfo la protagonista. Questo, se non altro, a indicare quanto, ancora alla fine degli anni Quaranta, i principi ispiratori sia del Group Theatre che del posteriore Actors’ Studio venissero confusamente e fors’anco contraddittoriamente recepiti da Hollywood. Forse anche per questo poco dopo Elia Kazan - già autore di interessantissi­ me pellicole che però non sembravano portare il marchio di fabbrica della nuova impostazione attoriale - decise di entrare in pista con film come Un tram che si chiama desiderio (A Streetcar Named Desire, 1952) e forse ancor più con Fronte del porto (On the Waterfront, 1954). Insomma, la recitazione che la produzione hollywoodiana cercava in quegli anni nei più sperimentati attori di Broadway si era, alla prova dei fatti, rivelata dello stesso stampo di quella involontariamente insuf­ ficiente e ridicola esemplata dalla pellicola di Charles Walters: tecnica e dizione sperimentate e addirittura perfette, ma pochissima sponta­ neità, anche e soprattutto perché, per quanto elegante e vocalmente bene impostato ed esercitato, un attore teatrale a Hollywood doveva comunque fare i conti con una concezione e una realizzazione dell’azione drammatica che sia la frammentazione del montaggio sia le allora non sofisticate tecniche di registrazione sonora rendevano radi­ calmente diverse da quella teatrale. Si comprende dunque bene come non pochi astri di Broadway subirono umiliazione e scacco.

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E tuttavia non mancano in questo periodo attori che contribuisco­ no a dare al cinema ormai sonoro la sua diversa e specifica dimensione anche sul terreno della recitazione. James Cagney, per esempio, si por­ ta dietro non solo la sua sfrontatezza da quartiere povero metropolita­ no, come del resto dice anche Hirsch, ma un dinamismo ben diverso da quella del più energico attore del muto, Douglas Fairbanks: laddove questi era tutto in uscita, adottando un acrobatismo rutilante senza ri­ sparmio, Cagney concentra le sue potenzialità energetiche nella parla­ ta a raffica e nello scatto improvviso. La gioiosa atleticità di Fairbanks non ha nulla dell’ironico nervosismo di Cagney, e la franca risata del primo non ha nulla del ghigno sarcastico del secondo. Si potrebbe per­ sino dire che mentre il primo esprime l’esuberanza degli anni Venti, si comprende bene che il secondo ha visto la Grande Crisi ed è a suo mo­ do una risposta alla Depressione (magari nei termini illeciti che vedia­ mo in alcuni suoi famosi gangster film dell’epoca). Certo, difficilmente si potrebbe affermare che Cagney - anche solo inconsciamente - sia un attore comparabile a quelli del metodo adot­ tato dal Group Theatre. È anzi probabile che proprio la sua figura pos­ sa servire, almeno in parte, da case study per comprendere perché il Metodo - o per meglio dire: gli attori del Metodo - non abbia attec­ chito nella Hollywood della rivoluzione sonora “filoteatrale”. Cagney infatti aveva capito istintivamente che il cinema richiedeva prima di tutto una maschera, vale a dire qualcosa che fungesse da collante alla frammentazione imposta dal montaggio dei singoli take, frammenta­ zione che per sua natura rendeva difficile il lavoro di identificazione psicologica col personaggio richiesta dal Metodo. Intendo dire che si comprende bene la difficoltà, per un attore, di entrare, uscire e rientra­ re continuamente nel personaggio affidatogli ogni volta che la voce del regista grida “action” o “cut”. La qualità patologica che è in certa mi­ sura connessa al Metodo e che fece pronunciare a Laurette Taylor la celebre frase: “Why must they make acting a malady?” rischia infatti di diventare davvero psicologicamente pericolosa se il processo di identificazione viene moltiplicato sino a raggiungere il numero di takes necessari (che come si sa sono di norma molto maggiori di quelli che compongono il film). E forse non è un caso che nel cinema le cose mi­ gliori da parte del naturale erede del Group Theatre, 1’Actors’ Studio, verranno quando gli interpreti saranno guidati dalla mano registica dei loro stessi maestri (Kazan in primo luogo). E chissà, se all’inizio di quell'ormai lontano decennio Strasberg si fosse messo dietro la mac­ china da presa, forse oggi il cinema hollywoodiano sarebbe un’altra co­ sa e si presenterebbe con una storia alquanto diversa da quella che co­ nosciamo.

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Riferimenti bibliografici Sull’impossibilità di definire il “metodo” di Stanislavski) si vedano, fra gli altri, Johanne Larue e Carole Zucker, “James Dean: The Pose of Reality? East of Eden and the Method Performance”, in Carole Zuker (ed.), Making Visible the Invisible: An Anthology of Original Essays on Film Acting, The Scarecrow Press, Metuchen, N. J., 1990; le riflessioni di Joris Ivens sulla sua delusione che il metodo non avesse attecchito in America e sulla forza del giovane teatro statunitense si trovano nelle sue “Notes on Hollywood”, in Herbert Kline, Hew Theatre and Film: 1934-1937, Harcourt Brace Jovanovich, New York-London, 1985; nella stessa raccolta è antologizzata l’impietosa critica alla messa in sce­ na di Reinhardt firmata da Charmion Von Wiegand, “Reinhardt’s Dre­ am”; le parole di Strasberg sul Group Theatre come “organismo arti­ stico” sono riportate da Harold Clurman, The Fervent Years, Knopf, New York, 1945, mentre quelle relative all’emozione creata attraverso stimolazioni sensoriali sono citate da David Garfield, A Player’s Place. The Story of the Actors’ Studio, Macmillan, New York, 1980, e ancora da questo testo deriva sia la notizia della convinzione kazaniana che l’attore debba avere chiaro in mente il suo obiettivo (“che cosa vuole e perché”) sia la celebre frase di Laurette Taylor più avanti riportata; su­ gli esempi di Metodo ante litteram a Hollywood si sofferma Foster Hirsch, Acting Hollywood Style, H. N. Abrams, The AFI Press, New York, 1991, nel quale si ritrova anche la notazione su James Cagney.

Capitolo 6

Mae West e Ginger Rogers: la maschera dietro il volto

È tempo ormai che il Congresso prenda qualche provvedimento contro Mae West. William Randolph Hearst, 1936

(Ginger Rogers) sa dire battute ciniche ma è chiaramente un’idealista. Life, 1942

Le due attrici che formano l’oggetto di queste pagine non sono tanto indicativamente rappresentative di un più ampio paradiso cine­ matografico. Il segmento che le lega non include necessariamente le al­ tre di cui qui si tratta. Esse vi figurano solo come due modi limite della presenza divistica sullo schermo. E tuttavia - questo deve esser chiaro - esse vi figurano soprattutto per quel che rappresentano di se stesse, come è paradossalmente inevitabile per qualsiasi fenomeno divistico.

La Donna è immobile

Si può perdere il cuore ma non la testa... Mae West in Klondike Annie, 1936 Su Mae West si è scritto parecchio, e meraviglia che la critica più miope sia proprio stata quella proveniente dalle batterie femministe: la Mellen, la Haskell, la Rosen - diciamolo chiaramente - della West han­ no capito ben poco. C’è chi l’applaude per i suoi modi, chi la apprezza ma ne rileva i limiti, chi la confronta con la storia e il costume. Se Mae, per assurda ipotesi, avesse avuto l’occasione di lavorare regolarmente in televisione (ci provò alla radio, ma la buttarono subito fuori) le sue

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esegete non avrebbero avuto bisogno di cambiare una virgola dei loro giudizi su di lei. Insomma, Mae, nelle loro parole, non è un fenomeno cinematografico, ma solo un fenomeno. Che peraltro ebbe la ventura di presentarsi come protagonista in alcuni film. Quando si parla di lei, oltre a citarne le splendide battute, si rileva l’ammicco degli occhi e del viso, o l’ancheggiare flessuoso e provocante, esattamente come si po­ trebbe fare se la si fosse vista a teatro o in televisione. Tuttavia, Mae, pur avendo recitato effettivamente in teatro, ha lasciato il suo segno più forte comparendo complessivamente in dodici film. È probabile che se un qualche suo regista fosse stato un personaggio di fama e re­ putazione superiore le cose sarebbero andate diversamente; che, cioè, la personalità del regista e il suo prestigio avrebbero automaticamente portato certa critica a una valutazione “cinematografica” dell’attrice. Sta di fatto che nei momenti migliori ella ebbe a dirigerla Leo McCarey e Raoul Walsh: magnifici professionisti, che però riservarono le loro capacità più alte solo per alcuni dei loro film. Incominciamo da un dato quasi costante: la West interpreta un ca­ rattere fisso. In genere si tratta di una donna tanto appariscente quanto smaliziata, non esattamente volgare anche se quasi sempre si trova a frequentare luoghi volgari. La cosa che più colpisce è la difficile ascrivibilità sociale del personaggio: anche quando infrange la legge Mae non è facilmente definibile in termini di classe sociale. Possiamo intuir­ ne un’infanzia sottoproletaria, ma è il massimo che ci è concesso. A dif­ ferenza da tante sue lontane cugine (Judy Holliday, per esempio), il suo rapporto col gran mondo non è mai fondato su una diversità sociale, che peraltro esiste, quanto sul gioco dell’intelligenza e dello scandalo calcolato. Lo spettacolo americano, dalla prima Ginger Rogers di 42.a strada (42nd Street, 1933) di Lloyd Bacon alle settantesche Laverne e Shirley televisive, ha letteralmente saccheggiato il modello dell’inadeguabilità sociale. Mae, nel momento in cui vi rientra, tale modello lo rifiuta e gioca la partita a modo suo. “Superiore a molti, pari a chiun­ que”, direbbe l’autore di II gattopardo. E in effetti non è escluso che suo padre si chiamasse come quello di Angelica... La vera differenza è che Mae non è portatrice di valori “sani” an­ titetici a quelli del mondo con cui si confronta. Il mondo è quello che è, e gli unici a salvarsi sono i puri morali, anche se è ben raro che nei suoi film essi compaiano (Sister Annie in Klondike Annie, per esempio). Mae non ha quasi mai una casa, nel senso che il suo rapporto col luogo che abita si riduce a una scenografia tanto appariscente quanto elemen­ tare. Letti e divani, tavolini da toilette e poltrone riccamente foderate sono il suo mondo intimo: in pratica, le basta una stanza. E quella stan­ za è lo spazio di una promessa. Il suo famoso “Come up and see me so­ me time” (che peraltro, come nota Alexander Walzer, Mae non ha mai

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pronunciato) non vuol certo alludere a una visita di cortesia, ma a qualcosa che un paio di suppellettili bastano a soddisfare. Accanita cacciatrice di diamanti (da Night After Night, 1932, di Archie Mayo a La­ dy Lou, She Done Him Wrong, 1933, di Lowell Sherman), è probabile che, oltre a una funzione esornativa, essi le servano per un continuo miglioramento dell’alcova e dei suoi apparati. Non a caso la West è una delle dive più riprese in campo totale del cinema americano: senza il suo luogo d’elezione Mae non è più un pre­ ciso carattere, ma quel viso allusivo cui accenna tanta critica. La sua in­ telligenza si misura, fra l’altro, anche sull’estrema funzionalità nell’uso dell’obiettivo (è cosa nota che Mae influiva sulle decisioni dei registi). Il campo totale infatti assolve anche a un altro scopo, quello di mostra­ la non come viso, occhi, labbra o altro, ma come corpo. Mae esclude ogni pulsione di morte, il corpo è completo, integro, di un’abbondanza che non può non apparire eccessiva se misurata con la promessa iterata del carattere cui appartiene (forse non a caso nel vocabolario inglese è entrato a buon diritto il termine “Mae West” per indicare un sinuoso salvagente in dotazione alla marina americana). Mae inoltre ha capito che per fare dello spazio un possesso non è necessario essere aggressivi. Ella lo conquista esattamente come fa con gli uomini: il suo corpo è già un aggancio. La differenza sta nel fatto che mentre con lo spazio il dialogo è muto, con gli uomini è necessario usare anche l’intelligenza. Lo spazio non ti desidera, l’uomo sì. E dun­ que, il sesso richiede cervello: diversamente, il corpo non regola più il gioco, ma diviene semplice oggetto di desiderio. Così la regina del ses­ so è la più raziocinante delle donne, e nella forma più alta e sofisticata: lo humour e il doppio senso. Due semplici esempi di dialogo: - Lei ha uno stradinario senso dell’uomorismo. - Sì... e non solo questo. (...) - Intellettualmente noi siamo opposti. - Che cosa intende dire? - Sì, io sono intellettuale... e lei è l’opposto. (Goin’ to Town, 1935) Il doppio senso, anzi, è davvero la cifra di Mae: non tanto perché esso è la sua più importante caratteristica, quanto perché ne rivela il doppio aspetto: gioco di intelligenza sul tema sessuale. I manichini alla Martha Raye impallidiscono; Mae si muove appena e lo spazio è già tutto suo, tanto che quando deve esibirsi in movimenti inusuali e de­ notanti uno sforzo (per esempio in Lady Lou col cadavere di Rita) l’azione diviene stridore ed eccesso, ed è meglio evitarla il più possibi­

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le. Senza contare che Mae non è facilmente immaginabile mentre tocca chicchessia: la sua abilità sta nell’essersi imposta come idolo senza di­ venire astrazione di se stessa (quel che per Parker Tyler è “the screen’s first sterling brand of conscious sex camp”). Di avere, intuibilmente, un passato sociale, di essere riuscita a porsi come immagine estranea a esso e a qualsiasi altro. I diamanti non sono per lei uno status symbol, ma un sex symbol', non a caso quando in Night After Night la rivale guardandola esclama: “Dio, che bei diamanti!”, Mae risponde: “Dio non c’entra per niente con questi, cara”. Come poche altre attrici americane (Jane Russell, Marilyn Mon­ roe) Mae non potrebbe permettersi di limitarsi a un particolare, garan­ te di ciò che la sostanzia e qualifica (il viso della Garbo, le gambe della Dickinson eccetera). È una star che può essere tale solo nella sua inte­ rezza. Che, si noti, è un’interezza puramente pronunciata e mai in atto. Il suo corpo si limita al minimo di movimento indispensabile: i banali giochi della sensualità esistono anche per lei, certo, ma non sono la sua arma principale. A parte la fin troppo celebrata camminata, la sensua­ lità di Mae è sempre voce, è parola: così la diva più audace dell’intero cinema americano è in realtà la meno animale, colei che del sesso ha fatto un sottile gioco fra impulso naturale ed elaborazione culturale. Va da sé che questo rivela facilmente risvolti sociologici e di costume, che, cioè, la scelta di Mae si giustifica anche e soprattutto sulla volontà di una adeguata risposta al maschio come dominatore. Ma la West ha ca­ pito che l’esercizio dell’intelligenza sarebbe pura vittoria culturale, che, insomma, i piani su cui giocare la partita sono due. E, quel che più conta, strettamente connessi. Se infatti - come per esempio molti per­ sonaggi interpretati da una Katharine Hepburn - l’esercizio e la dimo­ strazione dell’intelligenza femminile si ponessero come estranei al ses­ so, avremmo regolarmente o la capitolazione finale davanti all’uomo come maschio (cliché classico della commedia americana) o il non me­ no classico modello della zitella acida e raziocinante (ancorché, in ul­ tima istanza, di buon cuore), come per esempio in Buongiorno, Miss Dove (GoodMorning, Miss Dove, 1955) di Henry Koster. La sessualità, insomma, per la donna è motivo di sconfitta oppure scompare nella vittoria. Mae è l’unica ad avere capito che esiste una terza via: quella ironica (in senso thomasmanniano). Il sesso c’è e va benissimo, e dal canto suo, piuttosto che subirlo, Mae sceglie la provocazione dell’in­ telligenza che si esercita sul sesso stesso (grosso errore della Mellen, al­ lora, quando parla dei “due lati di Mae West, avvocato e coquette, donna liberata e tentatrice, un personaggio non ancora abbastanza for­ te da trascendere completamente i vecchi valori”). Paradossalmente - ma non troppo - la pagina più fine sulla West l’ha scritta un uomo, Alexander Walker, il quale vede nella continua

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ambientazione tardo-ottocentesca (più esattamente, i favolosi Nine­ ties) dei film dell’attrice un chiaro riferimento alla madre. E ricorda an­ che la dedica che la West ha posto all’inizio della sua autobiografìa (“In loving memory of my MOTHER without whom I might have been so­ meone else”, ovvero “Con amore, in memoria di mia MADRE, senza la quale avrei potuto essere qualcun altro”). Il gioco di parole è splen­ dido, l’identità è perfetta. Mae si è finalmente sbarazzata degli incubi del femminile romantico, così finemente delineati da Nadia Fusini in un suo saggio del 1980. L’identificazione con la madre è per lei la via alla sessualità come godimento. Il problema è piuttosto se quel godi­ mento è reale o se è invece godimento di una promessa. Se la sua ses­ sualità ha una storia fìsica o è semplicemente una continua iterazione di intrecci fra natura e cultura, fra corpo e linguaggio. La domanda è particolarmente difficile perché la mediazione cine­ matografica ne altera i dati di partenza, la rende improbabile: dietro l’allusività di Mae c’è l’inconscio o il codice Hays? Come che sia, il per­ sonaggio Mae West nega a priori ogni drammatizzazione (cfr. quel che si diceva più sopra sulla scena col cadavere di Rita in Lady Lou). Può darsi che questo sia conseguenza delle sue origini teatrali leggere: cosa di meno dinamico delle donnine dei vaudeville o di quelle discese di scale alla Ziegfeld, cui peraltro Mae non volle mai adattarsi? No, Ziegfeld non faceva per lei perché non permetteva alcun riscatto dell’“oggetto donna”. Nelle sue pièce teatrali e nei suoi film (sia le une che gli altri quasi sempre scritti da lei) l’oggetto c’è, ma il corpo parla una voce che il maschio credeva assente o muta. E che bisogno c’è di dimenarlo più del dovuto, quel corpo, quando quella voce è ben più solida, guizzante, logica e ribalda nella sua apparente nonchalance? Quel corpo, è la voce a renderlo un mistero: si comporterà, al momen­ to opportuno, in modo adeguato non alle promesse della voce, ma all’intelligenza che vi sta dietro? Nessuno lo saprà mai. Mae ha ribal­ tato il modello del desiderio, che poteva svelare profondità inattese. Comunque vada, non c’è più possibilità di sorpresa. Mae ha già vinto. Ma la sua grandezza è nell’aver deciso di giocare un gioco in cui si sa­ peva in anticipo chi avrebbe vinto e - più importante - che col sesso la vittoria non c’entra proprio.

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The way you walk tonight Voglio peccare e soffrire, e nessuno me lo lascia fare! Ginger Rogers in Professional Sweetheart, 1933 La lobby di un albergo di lusso a Londra, una Venezia romantica e scintillantemente Kitsch, tendaggi e marmi, palladiane e veroni, frac e chiffon. Che ambiente pacchianamente fine! In poltrona siamo lì che ce lo godiamo come una sfera di vetro con la fìnta neve che cade sul Vaticano, (mando entra in scena chi ci farà pentire di tanto implicito sarcasmo. È vestita adeguatamente: pelliccia, veli e fruscii, messa in piega perfetta e trucco impeccabile, occhi di un azzurro superbo che si uniscono, pur raramente, a un sorriso da capogiro, usa le sopracciglia come fruste (un loro movimento ed è inutile continuare anche solo a prostrarsi). Ma c’è un ma: quando incede nella lussuosa sala butta avanti i piedi come fossero di qualcun altro, mentre il busto e le braccia ondeggiano come, nella parte di Calamity Jane, Doris Day, nonostante i suoi sforzi, non è riuscita a fare convincentemente in una sola sequen­ za di Now sparare, baciami (Calamity Jane, 1953) di David Butler. E entrata in campo la Contraddizione. Si chiama Ginger Rogers e per più di vent’anni riuscirà a frustrare deliziosamente ogni nostra at­ tesa. Quando pensiamo sia buona per un chorus diverrà ballerina di prim’ordine, quando riusciamo a convincerci che è una ballerina diver­ rà un’attrice comica di classe, quando saremo convinti anche di questo passerà a interpretare parti drammatiche con buoni risultati (alcuni ot­ timi). Non si tratta semplicemente di versatilità. Il fatto che le sue di­ verse prestazioni siano adiacenti nel tempo ci parla di un carattere scontento, di una vocazione spettacolare professionale ma non specia­ lizzata, curiosa più che multiforme. Se Mae era la regina del campo totale, Ginger anni Trenta lo fu del piano americano (a parte ovviamente le sequenze di danza, su cui tor­ neremo). Un modo per nascondere la rozzezza del suo incedere? E pos­ sibile, e già altrove citammo le precise parole di Harriet e Irving Deer al proposito. Ma non del tutto convincente. Naturalmente il fascino del suo volto può aver avuto un ruolo nella scelta di questo stilema; ma allora, pur nei limiti del suo uso nel cinema americano degli anni Tren­ ta, perché non il primo piano? Forse perché, come afferma Balàzs, il “silenzioso monologo” implicito nel primo piano esprime una “solitu­ dine” che mal s’accorda col personaggio? No: ben poche star america­ ne ruotano sul piedistallo di solitudine di Ginger. Le ragioni sono più sottili di una semplice considerazione di resa figurale. Ginger rappresenta da questo punto di vista uno scacco per la macchina da presa. Su un versante, l’incapacità di usare il proprio cor-

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po in relazione adeguata e armonica all’ambiente (cfr. per esempio i film con Fred Astaire) esclude il più possibile la descrizione totale della sua figura (tranne che nel ballo, intuibilmente e come vedremo); sull’altro versante, i suoi tratti facciali, pur personalmente espressivi, non bastano a giustificare l’esclusiva attenzione dell’obiettivo verso di essi. Traducendo questa formulazione in termini di interrelazione, Ginger denota tratti figurali che non riescono a intonarsi con gli am­ bienti fini dei suoi molti film degli anni Trenta, e al tempo stesso ha bi­ sogno di uno spazio sufficiente a includere un interlocutore solo in rap­ porto al quale la sua capacità mimica e arteriale acquista valore dina­ mico (cioè funzionale all’ideale drammatizazione della scena). Ginger è uno di duei casi attoriali che rendono il massimo grazie alla valoriz­ zazione che ne fa il partner. L’esempio di Astaire è particolarmente chiaro, ma questo vale anche per molti altri suoi comprimari. Pur avendo, per esempio, dato una buona performance in La magnifica bambola (The Magnificent Doll, 1946) di Frank Borzage, è fuori di­ scussione che né David Niven né Burgess Meredith riuscirono ad as­ sorbirla nel rapporto fictional della storia a un punto tale da innescare non la professionalità (quella era garantita) ma la credibilità del perso­ naggio tanto per se stessa quanto per il pubblico. Quali siano gli enzimi necessari a tale fermentazione non è dato sapere. Fra i suoi partner mi­ gliori figurano, oltre all’elegante Astaire, il solido Joel McCrea di Pic­ colo porto (Primrose Path, 1940) di Gregory La Cava, il finissimo Ro­ nald Colman di II ponte dell’amore (Lucky Partners, 1940) di Lewis Milestone, il dolce ed educato Ray Milland di Frutto proibito (The Major and the Minor, 1942) di Billy Wilder, l’ironico e scanzonato Cary Grant di Fuggiamo insieme (Once Upon a Honeymoon, 1942) di Leo McCarey e altri ancora. I suoi film con Astaire sono da questo pun­ to di vista i migliori, non perché i più belli, ma perché la potenziale ma­ ieutica del partner - così essenziale per lei - vi raggiunge una tale forza da rendere possibile il campo totale in modo del tutto fluido e naturale. L'ovvia obiezione a questa affermazione è: non è pensabile che un ballo non sia in totale. La cosa è certamente vera in termini concreti. Ma la danza della coppia Astaire/Rogers acquista anche valenze simboliche eccedenti quelle, essenziali, del corteggiamento. Essa diviene momento culminante delle possibilità di performance della Rogers, le quali, co­ me ogni culmine, entrano in una zona superiore rispetto alla codifica­ zione dell’interpretazione per divenire, appunto, forma simbolica, li­ nea, musica. Garson Kanin questo l’ha capito bene, tanto che, non avendo sottomano Astaire nel suo Tom, Dick e Harry (id., 1941), crea la forma simbolica a dispetto dell’impossibilità dell’attrice di arrogarsi questo privilegio (ma anche qui non è casuale che la migliore delle tre sequenze oniriche del film sia quella in cui ella compare a fianco di Ge­

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orge Murphy, sicuramente a lei più congeniale di Alan Marshall e Bur­ gess Meredith). E a proposito di sequenze oniriche, la Rogers, anche in questo non casualmente, interpreta spesso e volentieri pellicole con­ nesse al sogno e/o alla psicanalisi, da Schiave della città (Lady in the Dark, 1944) di Mitchell Leisen a Le donne hanno sempre ragione (Oh Meni Oh Women!, 1957) di Nunnally Johnson, per non parlare di Gi­ randola (Carefree, 1938) di Mark Sandrich, con lo stesso Astaire. Fino ad arrivare alla coincidenza totale fra sogno e film nello stupendo Frut­ to proibito, un lungo, superbo “incubo leggero”. L’insistenza sul tema onirico in più d’un film della Rogers è rivelatrice. Non nel senso vol­ gare per cui Ginger può all’occorrenza esibire qualità che ben vi si at­ tagliano (non per nulla chi sogna è quasi sempre lei, e perlopiù si tratta di sogni piacevoli), ma perché il sogno è lo spazio entro il quale il suo carattere trova l’esemplificazione dei suoi conflitti interiori. E qui veniamo al punto più importante. Il personaggio Rogers vive infatti usualmente uno scarto continuo fra sé e l’ambiente. Il che non significa necessariamente che il rapporto che intrattiene con esso è conflittuale in quanto ella non vi appartiene (più d’un film con Astaire, per esempio, prova il contrario), ma che è conflittuale perché tale è l’uso del corpo, del movimento e persino del linguaggio in relazione all’ambiente. Prendiamo due esempi intesi a chiarificare i due casi di massima. In La ragazza della Quinta strada (Fifth Avenue Girl, 1939) di Gre­ gory La Cava, Ginger è un’anonima disoccupata che si trova ingaggiata da un riccone della city (lo straordinario Walter Connolly, cui, insieme a Ginger, si deve un inizio di film a dir poco strepitoso) nel tentativo di mettere a posto la smidollata e balorda famiglia di questi. Rivestita e rifinita, Ginger nel lussuoso appartamento ci vive male: non certo perché si sente a disagio nella parte della supposta amichetta del pro­ prietario, ma perché noi vediamo che non è il suo mondo. Fare sbriga­ tivo, risposte secche e taglienti, Ginger va sempre per le spicce: la me­ diazione tipica del bel mondo le è estranea. La cosa ce la rende natu­ ralmente simpatica, ma non per questo meno idealmente disadattata. Cammina per i saloni con ammirevole nonchalance, ma noi sappiamno che quello non è il suo spazio (ve la immaginate una Gene Tierney nel­ la stessa parte?). Intelligentemente La Cava non indugia mai sulla sua presenza nel ricco palazzo: Ginger passa e va. Si ferma in campo sol­ tanto quanto basta per divenire segno di imbarazzo per tutti. In genere non ingaggia nemmeno dispute con i suoi detrattori: in quello spazio ella è solo una funzione. In Cappello a cilindro (Top Hat, 1935) di Mark Sandrich, invece, Ginger appartiene al mondo in cui si muove: ha le conoscenze giuste, batte i luoghi alla moda (sia pure come indossatrice e non come nobil-

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donna). La sua professione anzi dovrebbe renderla particolarmente “adattabile” agli spazi che frequenta. E tuttavia, come si diceva, il rap­ porto dinamico fra lei e quegli spazi è notevolmente disarmonico: le sue entrées denotano una fretta che è conseguenza dell’incapacità di dominarli nella performance, oppure un’assenza di grazia che possiamo perdonarle solo in virtù della forte personalità con cui intrattiene i suoi rapporti con chi le sta vicino al momento (prima di tutti Astaire, natu­ ralmente). Ginger inoltre denota un’insistente tendenza ad astrarsi da quei luoghi: i suoi occhi molto spesso fissano quasi sognanti un punto invisibile mentre esprime i suoi dubbi, le sue delusioni, le sue speranze. Il suo personaggio, insomma, a dispetto di qualsiasi copione, non ap­ partiene ad alcun mondo. L’opposizione fra sogno e solidità acquista in lei forme particolarmente vistose: concreta ragazza del Missouri (“le probabilità erano cento a uno contro di me... ma quelli del Missouri non mi hanno mai incensato... E adesso chi ride ultimo?”, canta Ginger sulla scia di Gershwin in Voglio danzare con te [Shall We Dance], 1937, di Mark Sandrich), la Rogers ci lascia volentieri e asetticamente intra­ vedere nelle fessure del suo Io non confessandoci specifici segreti, ma assumendo quell’aria da sogno deluso che nessuno come lei riuscirà mai più ad avere in modo così assoluto. Dalla Joan Crawford di Johnny Guitar (id., 1954) di Nicholas Ray alla Susan Hayward di Piangerò do­ mani (I'll Cry Tomorrow, 1955) di Danie) Mann, quello sguardo, nelle altre, nasconde sempre un passato burrascoso; in Ginger, invece, la de­ lusione, per quanto dura possa essere, è però sempre pulita, probabil­ mente perché la sua coscienza è del tutto a posto. Solo che a questo punto è in gioco una posta importantissima: la sua sessualità. Non per nulla - per bella che Ginger sia - non si riesce facilmente ad ascriverla ad alcun ambito di concreta sessualità. In questo senso la forma simbo­ lica della danza con Astaire acquista un’ulteriore valenza: la sessualità si concretizza in essa attraverso il sistema codificato del ballo. Vale a di­ re che non si concretizza affatto. L’onirismo di tale forma simbolica è così evidente che la sessualità che nasconde avrebbe decisamente biso­ gno di un divano da psicanalista. Ed ecco, in modo del tutto logico, l'entrée di Astaire in quella veste nel citato Girandola (cui, come si di­ ceva, di lì a non molto subentrarono altri film in quella chiave). Del resto, incertezze sul partner, matrimoni sbagliati, gelosie abis­ sali, auree volgarità, routine casalinghe siglano i soggetti intepretati da Ginger negli anni Cinquanta: non c’è spazio per una sua immagine in chiave di godimento, Ginger è una Doris Day col profumo francese al posto del sapone: non per nulla, in Primo peccato (Dreamboat, 1952) di Claude Binyon propaganda in televisione profumi come “Double Passion" e “My Five Sins”: il fantasma della sessualità è tutto quel che può esprimere.

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Ginger esercita anch’essa un dualismo senza soluzione: a buon di­ ritto immagine di glamour, le è preclusa ogni chance di tradurre il de­ siderio in atto. Parvenue del mondo che conta (quando vi perviene) si porta dietro suo malgrado il retaggio di un carattere come la Anytime Annie da lei interpretata in 42.a strada, la ragazza che “Punica volta che disse di no fu quando non aveva capito la domanda”. Col tempo, quando il suo personaggio ha finalmente imparato a distinguere fra il sì e il no, nessuno le pone più domande, o quantomeno si tratta di do­ mande sbagliate. Per questo nello stadio “drammatico” della sua para­ bola di attrice le è concesso di dominare ancor più la scena: è il com­ penso lasciato al disilluso e al nevrotico al quale non rimane altro che esercitare quella lingua tagliente e quel tono secco che è patrimonio dell’adolescenza. Da questo punto di vista Ginger è fra le attrici americane colei che più d’ogni altra ha diritto di non invecchiare, a proporsi anche fuori dal set come la solida, concreta, disperatamente sensata ragazzetta del Mis­ souri di un tempo. Anche se proprio questo rimane il suo dramma: là dove Mae West aveva sublimato il buon senso in un’arguzia maliziosa e strettamente sessuale, scegliendo così di essere la star “anomica” di cui parla Klapp, il mondo di Ginger non si ferma al boudoir e include an­ che i saloni della 5.a Avenue. Per questo può tranquillamente sposarsi un nazista senza suscitare in noi la minima meraviglia, come in Fuggia­ mo insieme: Ginger intrattiene di norma rapporti con le istituzioni e i costumi, l’ideologia, quale che sia, non la sfiora. I problemi vengono dopo. E sono problemi che nascono sia dal suo carattere individuale e dalla sua specifica educazione Mid-West, sia, più oggettivamente, da quel che istituzioni e costumi implicano, come dimostra bene anche il delizioso Una donna vivace (A Vivacious Lady, 1938) di George Ste­ vens. Ginger, insomma, non porta il vessillo della semplicità se non do­ po avere assaggiato ciò che vi si oppone. Ancora una volta, per essere se stessa ha bisogno di qualcosa che dialetticamente la aiuti a scoprirlo. La sua magia sta nel fatto che noi lo scopriamo con lei, che il suo personaggio non ci fornisce conoscenze a priori tali da permetterci un punto di vista privilegiato: la continua, iterata iniziazione di Ginger è quella di tutti noi. E quand’anche la felicità non le venga preclusa, il personaggio si allontana insieme a essa senza che noi la si possa vedere in questo suo trionfo: la scena finale di Cappello a cilindro inquadra i suoi piedi e quelli di Astaire che discendono a passo di danza da un ponticello veneziano. Per Ginger l’attuazione del desiderio esclude la presenza del corpo, così come il corpo di Mae West si dava allo sguar­ do ma non al godimento. La parola di Mae e la danza di Ginger sono i volti mascherati della difficile sessualità hollywoodiana.

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Riferimenti bibliografici I testi in chiave femminista, e dunque alquanto datati, della Mel­ len, della Haskell e della Rosen nei quali sono espressi i deludenti giu­ dizi sulla West di cui si diceva sono Joan Mellen, Women and Their Sexuality in the New Filmy Dell, New York, 1975; Molly Haskell, From Reverence to Rape, Holt, Rinehart & Winston, New York, 1976 (seconda edizione ampliata University of Chicago Press, Chicago, 1987), Marjorie Rosen, Popcorn Venus, Putnam, New York, 1973, mentre le ben più interessanti valutazioni del britannico Alexander Walker sui nesso che collega l’attrice a sua madre e ai Nineties, nonché la notizia sul fatto che Mae non abbia mai pronunciato la frase osée che l’ha resa famosa, sono nel suo Sex in the Movies, Pelican Books, Harmondsworth, 1968; Parker Tyler nel suo Sex Psyche Etcetera in the Film, Pelican Books, Harmondsworth, 1971, insiste sull’abilità di Mae nel non esser divenuta astrazione di se stessa nel momento in cui si po­ neva come idolo cinematografico; le pagine sugli incubi del femminile romantico di Nadia Fusini sono nella sua introduzione, da) titolo “L’in­ compiuto materno”, al romanzo Mathilda di Mary Shelley, Edizioni delle Donne, Milano, 1980; il riferimento alle parole di Harriet e Ir­ ving Deer sulla Rogers si ritrova nel mio Sogno e realtà nel cinema di Hollywood, Laterza, Bari, 1987; sulle idee di Balàzs in merito al primo piano si sofferma Richard Dyer nel suo noto Stars, British Film Insti­ tute, London, 1979, nel quale è riportata anche la classificazione di star “anomica” del Klapp.

Capitolo 7

Da quale parte della cerniera? Il giornalismo e il cinema americano

Gli Americani credono nel giornalismo. Ci credono a un punto ta­ le che nessuna cinematografìa al mondo ha usato tanto largamente il personaggio del reporter, spesso come protagonista, spessissimo come testimone o inquisitore. Prima di corroborare il discorso con qualche esempio settoriale, credo però sia necessaria una riflessione sulla funzione del giornalista nel cinema americano. D’accordo, di norma egli è preposto all’accer­ tamento della verità e figura quindi come un personaggio cui sono de­ mandati alcuni dei valori fondanti l’immaginario nazionale: la verità, la giustizia eccetera. Ma questo è un mito, nel senso che si tratta del modello referenziale dal quale è poi partita qualsiasi riflessione non manieristica sul ruolo e il valore della stampa nella società statunitense. C’è un abisso, evidentemente, fra Mickey Mouse giornalista e la ben nota affermazione wilderiana secondo cui la carta dei giornali serve il giorno dopo ad avvolgere il pesce, e lungo quell’abisso si situa il pen­ siero cinematografico del giornalista, la sua tipologia, le sfumature del­ la sua immagine e del suo ruolo. Intanto, nella tradizione cinematografica americana il rapporto che il giornalista intrattiene con la realtà non è fattuale, ma, appunto, mitologico. La coscienza dell’importanza della sua funzione, infatti, rende il personaggio così intento e partecipe di quello che fa da inne­ scare un meccanismo di esaltazione professionale che destina la notizia alla leggenda e, in caso di smentita, il giornalista alla polvere. Sin dai tempi del vecchio West - stando alla retorica cinematogra­ fica hollywoodiana - il giornalista ha coperto i suoi servizi sulla fron­ tiera lasciando largo margine all’invenzione o comunque alla mitologizzazione. Era inevitabile in una plaga e in una situazione la cui unica possibilità di raccontarsi, fino a poco tempo prima, era stata soltanto la canzone popolare (un po’ come quando sentiamo cantare le gesta

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dell’eroina titolare da Nat King Cole in Cat Ballou [id.], 1965, di Elliot Silverstein). Ma che succede quando si scopre che la celebrazione non ha più spazio? I dime novels avevano creato una leggenda a uso dell’ignaro e curioso pubblico dell’Est, ma se una crepa si insinua nel tessuto mitologico di quegli aedi melodrammatici la cui (troppo) for­ bita prosa ritroviamo anche negli elzeviri di non pochi quotidiani dell’epoca, ecco allora che, un po’ come il furfantello di John Millin­ gton Synge - il quale, guarda caso, è anche lui “dell’Ovest” - l’eroe si scopre essere soltanto un povero diavolo, magari addirittura un fana­ tico, un esaltato o un traditore di amici o un pazzo più o meno furioso. È quanto vediamo in Furia selvaggia (The Left-Handed Gun, 1958) di Arthur Penn, dove forse non a caso il giornalista è un incrocio di un­ tuosità, esaltazione e ingenuità destinato a fuggire inorridito davanti alla rivelazione di quella che sembra essere la vera natura del suo un tempo ammirato eroe, Billy the Kid. A qualcuno sembrerà strano questo tuffo nel West, ma non dimen­ tichiamo che una delle frasi più rappresentative (e più citate, se è per questo) del giornalismo nel cinema americano è proprio in un western, Ùuomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, 1962) di John Ford: “Quando la realtà diventa leggenda, si stampi la leggenda”: che è poi il vero e proprio motto del concetto di giornali­ smo nel cinema hollywoodiano. Per sua fortuna o sfortuna l’America vive una realtà che non ha bisogno di essere incoraggiata, vivificata, drammatizzata o addirittura inventata a benefìcio del reporter. Diffìcil­ mente un Carlo Campanini di New York o Los Angeles dovrà inven­ tarsi fattacci di cronaca nera per poter conservare il proprio posto al giornale, come invece avviene in La Primula Bianca (1947) di Carlo Ludovico Bragaglia. Al massimo si tratterà di gonfiare un caso reale, di sottolinearlo con un’abile campagna pubblicitaria, come in Nulla di sa­ cro (Nothing Sacred, 1937) di William Wellman. E proprio questo film ci consente una comparazione interessante. Il giornalista americano, infatti, lavora sulle cose, le enfatizza, le sottolinea, manipolando una realtà in se stessa inequivocabile; quello italiano le cose le inventa, parte da un evento insignificante per proiet­ tarlo in un’area mitica e sensazionalistica che originariamente non ap­ partiene al suo potenziale di shock. Non si tratta soltanto di un proble­ ma deontologico. Dietro alla prassi statunitense sta una concezione del mondo e della società che non è la stessa del suo collega di qua dall’Atlantico. Il giornalista americano è un raccontatore, cioè una persona capace di rendere appetibile e importante un fatto che non lo è, non in quanto trascurabile, ma perché l’opinione pubblica non ha modo di impadronirsene nei termini della commozione, dello sdegno, dell’in­ terrogazione che la società ha il diritto-dovere di porsi su se stessa. Il

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culto della notizia come racconto ha in America radici abbastanza an­ tiche, risalendo a quella forma archedpa di giornalismo nazionale che furono gli elzeviri dei quotidiani dell’Ovest ottocentesco (un nome rappresentativo per tutti, quello di Artemus Ward), che a loro volta ri­ mandavano alla tradizione del racconto come caposaldo di una cultura estremamente mobile, legata com’era al pionierismo da un lato e alla cura e al trasferimento del bestiame dall’altro. Insomma, l’americano coltiva la notizia, laddove l’italiano la in­ venta o quantomeno ne trasforma i dati basilari. Se dunque il primo è un raccontatore, il secondo non è molto lontano da un avventuriero, cioè una persona che non valuta la notizia ma la utilizza senza il dovuto controllo, che la strumentalizza prima ancora di (e anzi: senza) doman­ darsi il rapporto che essa intrattiene con la realtà, ma al massimo con la realtà politica del paese. Come scriveva qualcuno quasi una trentina d’anni fa parlando di Sbatti il mostro in prima pagina di Bellocchio: “I borghesi consumano la storia da spettatori, senza trarne nessuna con­ clusione sulla propria condizione”. Intendiamoci, gli avventurieri non mancano nemmeno nel cinema americano, ma là tutto è sottoposto a una dialettica che in genere supera di gran lunga il fatto specifico per presentarsi come impostazione generale di prassi giornalistica. Si pensi all’esempio glorioso di Quarto potere (Citizen Rane, 1941) di Orson Welles - che, com’è noto, adombra la storia di un magnate della stampa americana, William R. Hearst - nel quale il giornale serve direttamente per impostare una campagna politica manovrando le opinioni più che i fatti. Non a caso quando un giornalista americano opera in modo di­ scutibile di norma non si tratta tanto di corruzione quanto di delusione, di sfiducia nella politica, nella società e nella sua stessa professione, co­ me nel bellissimo Un uomo oggi (WUSA, 1970) di Stuart Rosenberg, oppure è mosso da ragioni di vendetta personale come lo Spencer Tracy di Ultime notizie (The Murder Man, 1935) di Tim Whelan. Del resto non è casuale nemmeno il fatto che il giornalista ameri­ cano configurato da Hollywood venga dipinto come una persona al­ quanto rozza, di mediocre cultura, di modi sbrigativi, obbedendo la sua immagine a un cliché popolare che si scontra invece con un altro cliché, quello del commentatore politico o culturale, persona di modi raffinati, di gusti sofisticati, di ammirevole aplomb. Ed è altrettanto eloquente il fatto che, sempre di norma, è quest’ultimo tipo di giorna­ lista, alla fine, a comprendere che la verità sta dalla parte dell’altro, co­ me succederà a Katharine Hepburn con Spencer Tracy in La donna dell'anno (Woman of the Year, 1942) di George Stevens; o addirittura a rivelarsi perverso omicida che quasi sembra imparentato con certi csteti del delitto gidiani, come Clifton Webb in Vertigine (Laura, 1944) di Otto Preminger.

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Il giornalista americano medio deriva dal modello fornito da Ring Lardner nei suoi racconti: gioca, beve, fuma, adora il baseball, scrive come parla e di solito parla come una esemplificazione vivente della stream of consciousness. Giusto nel Minnelli di La donna del destino (Designing Woman, 1957) non viene presentato come il “naturai” di­ pinto usualmente da Hollywood, anche se, ovviamente, il mondo alto­ locato e sofisticatissimo della moglie disegnatrice di moda è lontano anni luce dalla sua sensibilità e dalle sue abitudini. Insomma, spesso e volentieri il reporter americano è chiamato dal cinema nazionale a incarnare i valori democratici di vita, prima che di credo politico e di principi comportamentali, che caratterizzano l’uo­ mo americanus. È, insomma, Clark Gable in Accadde una notte (It Happend One Night, 1934) di Capra, che, senza saperlo, indica a una America viziata, capricciosa, superficiale - diretta erede degli anni Ven­ ti, là incarnata da Claudette Colbert - la via per un riconoscimento dei veri valori della vita e della società americane. Naturalmente anche questo modello ha le sue debolezze, e a volte può persino cadere vitti­ ma di chi egli è destinato a “educare”, come il Jimmy Stewart di Scan­ dalo a Filadelfia (The Philadelphia Story, 1940) di George Cukor: una tentazione comprensibile che comunque, sullo schermo, si risolve re­ golarmente nella direzione imposta dalla tradizione e dal mito. Da questo punto di vista il giornalista è complementare a un altro esemplare personaggio del cinema americano, almeno a partire dagli anni Quaranta, quello del detective: non tanto perché ambedue, in fondo, sono chiamati a svolgere una qualche indagine, perché, insom­ ma, fra reportage e inchiesta il passo è breve, quanto perché sia l’uno che l’altro sono gli unici a rappresentare dei valori nel cinema di argo­ mento non intimistico. Naturalmente le due maschere differiscono non poco fra loro: il detective è una sorta di cinica coscienza morale di una società in decadenza, laddove il giornalista - ripeto, qualche volta malgré soi - è il portatore di valori attivi, concreti, costruttivi (cioè de­ mocratici). Ma sono comuni ad ambedue l’osservazione del tessuto so­ ciale e l’avventura nella sua trama, ancorché con metodi, motivazioni e risultati diversi. A volte, poi, si tratta di una vera e propria detection: si pensi a Spionaggio intemazionale (Foreign Intrigue, 1956) di Shel­ don Reynolds, che, modellato del resto su un’altra avventura-inchiesta condotta da un giornalista (e di ben altra importanza per la storia del cinema), Rapporto confidenziale (Confidential Report, 1955) di Orson Welles, svela una turpe macchinazione politica che vede ben quattro nazioni “libere” compromesse col nazismo. Per quanto interessanti, questi esempi non sfiorano nemmeno le potenzialità “ontologiche” che l’inchiesta giornalistica e la figura del reporter offrono a chi volesse riflettere su di esse. Il fatto è che il cine­

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ma (e non solo quello americano) ha di solito puntato sull’azione, sull’intrico della trama, sull’eventuale suspense offerta dalla narrazio­ ne, tralasciando un elemento di sviluppo straordinariamente impor­ tante: il giornalista, proprio in quanto sguardo sulle cose, non ha un’identità e dunque può mescolarsi al mondo senza alcun obbligo di declinarsi, o quantomeno declinandosi come preferisce. Sono pochi i casi che rispondono e che si adeguano a questa riflessione, ma quando li incontriamo ne escono opere memorabili, come Barriera invisibile (Gentleman’s Agreement, 1947) di Elia Kazan. Presentandosi come ebreo per condurre la sua inchiesta sull’antisemitismo, Gregory Peck non solo si trova di fronte al problema in un modo certamente diverso da come l’avrebbe registrato senza quello stratagemma, ma giunge a vi­ vere una sorta di turba nella propria personalità. Le strutture psicoso­ ciali, ferreamente organizzate, lasciano alcuni spazi nelle proprie ma­ glie se la domanda loro posta viene da un soggetto estraneo al sistema. Ma a sua volta il soggetto, che per raggiungere il fine propostosi deve rinunciare alla propria identità, scopre altrettanti spazi scoperti nelle maglie di se stesso. Il caso del film di Kazan è impostato in modo da consentirci di osservare il problema agitato (anche le sue conseguenze) da un punto di vista sociopolitico. Ma un’altra pellicola, basata sullo stesso impianto, sottolinea molto di più il lato psicologico del mecca­ nismo: Il corridoio della paura (Shock Corridor, 1963) di Sam Fuller. Fingendosi pazzo per poter entrare in un manicomio dove alberga l’as­ sassino di un caso rimasto insoluto, Peter Breck riesce nell’intento ma a prezzo della sua sanità mentale. Il film di Fuller è, per comune con­ senso, un’opera di forte spessore politico (e questo suo pur importante aspetto non ci interessa in questa sede), ma è anche una soffertissima riflessione sull’allentamento della tensione soggettiva nel reporter, sulla sua disponibilità a confondersi con il mondo che egli sta investigando, sulla sua continua messa in gioco ben al di là dal desiderio di successo e di soddisfazione professionale. Naturalmente è quest’ultima la molla del suo impegno e della sua azione, ma a differenza di professioni on­ tologicamente più stagne e compatte, la sua consente deviazioni peri­ colosissime che vanno molto al di là di situazioni materialmente ri­ schiose, di reportage sulla linea del fuoco, di sparatorie nel mondo del­ la malavita eccetera. Questo, peraltro, ci porta dritti a un altro modello mitologico re­ lativo al giornalismo nel cinema: la passione, la dedizione, talvolta l’or­ gasmo con cui il protagonista concepisce e affronta il proprio lavoro. Il giornalista di II corridoio della paura è ossessionato dal desiderio smodato di vincere il Pulitzer, ma non importa giungere all’esempio psicopatologico (un vero destino, nel suo caso) esemplato dalla pelli­ cola di Fuller. Si pensi invece a un film a suo modo calmo e sereno - al

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di là degli ostacoli che in esso si trova ad affrontare Edward G. Robin­ son - come, a onta del suo titolo italiano, Messaggio tragico (Dispatch from Reuter, 1940) di William Dieterle. Tipico biopic della Warner an­ ni Quaranta, esso sceglie il tono agiografìco per narrare la vita, le idee, le speranze e i successi di Reuter, il famoso giornalista eponimo dell’al­ trettanto famosa agenzia. Ma la forza, la determinazione, la fede del personaggio non sono certo inferiori a quelle del reporter di II corrido­ io della paura. È questo anzi un tratto che percorre trasversalmente il cinema hollywoodiano, indipendentemente, cioè, dalle variazioni che nel tempo ne marcano caratteri, ambienti, atmosfera eccetera. In modi evidentemente diversissimi, Redford e Hoffman in Tutti gli uomini del Presidente (AH the President's Men, 1976) di Alan J. Pakula sono paren­ ti stretti del Reuter di Dieterle: lo vediamo nell’ardore con cui difen­ dono le loro tesi, nella frenesia con cui le sperimentano, nel coraggio con cui strada facendo ne affrontano le conseguenze. Non può meravigliare se più d’una volta nel cinema americano la figura del giornalista viene presentata in preda all’alcool: da Merrily We Go to Hell (1932) di Dorothy Arzner a Alcool (Come Fill the Cup, 1951) di Gordon Douglas, una tale tensione professionale, un tale ane­ lito alla riuscita, al successo può bene, talvolta, avere esiti disastrosi, drammatici, pietosi, può ben risultare nel crollo fisico e psichico di chi tanto ha impersonato e vissuto il Grande Mito Americano. Del resto, si diceva, l’alcool è un regolare complemento dell’uomo rude che il giornalista a contatto con la dura realtà non può non essere. Solo, esso funge un po’ da cerniera fra ciò che ne consente una più completa e dettagliata figurazione e ciò che ne indica il fallimento, la fine. Basta un bicchiere in più, basta un indugio della macchina da presa sul bancone del bar e sullo sguardo del protagonista perché subito noi si intenda “da quale pane della cerniera” il nostro eroe si trovi o stia per trovarsi. Ma è poi giusto parlare sempre al maschile? Dopotutto non esiste tradizione cinematografica così ricca di giomaliste come quella ameri­ cana. Ma proprio per la consistenza di tale presenza la giornalista, per quanto abile e sperimentata, viene presentata secondo criteri diversi da quelli del suo collega maschio. Non è affatto causale, intendo dire, che Jean Arthur in È arrivata la felicità (Mr. Deeds Goes to Town, 1936) e Barbara Stanwyck in I dominatori della metropoli (Meet John Doe, 1941), ambedue di Frank Capra, facciano parte della non lunga schiera di professionisti della stampa hollywoodiani venduti al potere. Capra, in questo modo, non intendeva certo semplicemente denunciare le complicità che talvolta sussistevano (e sussistono) fra giornalismo e grande capitale, ma prima di tutto evidenziare che, in una società ses­ sista, la donna (giornalista o altro) s’arrangia come può, magari in mo­ do moralmente discutibile, salvo poi convertirsi e riscattarsi con

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un’umanità e una sensibilità di certo meno usuali nell’uomo. E quand’anche non sia nelle dirette intenzioni della regia indicare attra­ verso questa maschera i disagi di una situazione socialmente endemica, non si può non leggere la seconda versione di Front Page, dal titolo La signora del venerdì (His Girl Friday, 1940) di Howard Hawks, in una chiave diversa da questa: Rosalind Russell non ha nulla da invidiare co­ me reporter ai suoi colleghi maschi (anzi, li supera di sicuro), ma d’altra parte la sua fluttuazione fra due modelli di vita opposti, quello della professionista capace e dinamica e quello della madre di famiglia, im­ plicano senza alcun dubbio che ancora di questo si tratta: la posizione e il ruolo della donna nel meccanismo del lavoro come alternativi a quelli elaborati nei secoli da una società che nei suoi confronti è stata sempre esclusiva. È anzi curioso vedere come l’originaria commedia di Hecht e MacArthur, riscritta dal primo insieme a Lederer, mantenga in sostanza il medesimo impianto nella versione di Hawks, con la sola (ma significativa) aggiunta di un rapporto nuziale troncato da Rosalind Russell e il direttore Cary Grant, evidentemente destinato alla parte di ex-marito, da L’orribile verità (The Awful Truth, 1937) di Leo McCarey al già citato Scandalo a Filadelfia. Non c’è verso: quando la donna adotta un qualche modello di norma praticato dall’uomo, ecco che su­ bito esso si carica di sfumature che rimandano in qualche modo al ruo­ lo da lei usualmente, tradizionalmente ricoperto nell’organizzazione sociale. E proprio attorno a questo ruota l’intera storia di Miss Prima Pagina (Front Page Woman, 1935) di Michael Curtiz, antesignano del già citato La donna dell’anno, nel quale una giornalista entra in com­ petizione col suo fidanzato - che lavora per un’altra testata - riuscendo a spuntarla, ma sempre con il piccolo scandalo implicito nel fatto di appartenere al suo sesso, sempre come simpatica eccezione a una rego­ la che solo in tempi più recenti incomincerà a sgretolarsi, a volte in opere degnissime come II cavaliere elettrico (The Electric Horseman, 1979) di Sydney Pollack, ma troppo spesso in film francamente indegni d’attenzione come Inviati molto speciali (I Love Trouble, 1994) di Charles Shyer. Ed è a suo modo motivo di meraviglia che proprio un altro film di minore importanza come Dieci in amore (Teacher’s Pet, 1957) di Ge­ orge Seaton funga da misura esemplare del problema deontologico nella contrapposizione fra i due sessi. La figlia di un Pulitzer e un re­ porter di grido si confrontano nella concezione della professione così come nell’eterna lotta fra maschio e femmina, l’una incarnando e di­ fendendo i principi di un giornalismo etico, corretto, conscio della propria funzione e della propria missione, l’altro quelli di un giornali­ smo pragmatico, efficace, di grande presa e di incontestabile abilità. Come l’uomo e la donna, così queste due antitetiche nozioni scopri­

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ranno di essere complementari, l’una necessaria all’altra, parti essen­ ziali di un tutto nel quale si identifica l’ideale realizzato della profes­ sione. Lo avesse saputo la sala stampa dei tre Front Page, lo avesse saputo Kirk Douglas in quella pellicola profetica di Billy Wilder, L’asso nella manica (The Big Carnival, 1951), il j’accuse più forte che sia mai stato sferrato al giornalismo ma anche a una concezione della notizia e dell’informazione che a grandi passi si stava avvicinando alia nostra epoca per divenire più che una caratteristica un vero e proprio dato epistemico, chissà, probabilmente le cose non sarebbero cambiate, ma almeno si sarebbe tentato in anticipo di provvedere ai gusti ormai in­ combenti e dei quali stiamo tuttora pagando il prezzo, soprattutto nel nostro paese, che a sua volta sembra diventato la cerniera fra una vec­ chia, remota, edenica idea di stampa e una prepotenza invadente e urla­ ta da parte di chi l’invadenza e l’urlo dovrebbe invece denunciarli e stigmatizzarli. Si è tanto gridato al potere suggestivo del cinema quan­ do si trattava di violenza: non è forse il caso di farlo anche davanti a una violenza meno vistosa ma ben più persuasiva? Se tanta è la capacità di penetrazione del cinema nel tessuto sociale, nei suoi costumi, nelle sue abitudini, nello stile stesso del vivere civile, allora perché non rivol­ gerci al cinema per ristabilire - nel giornalismo come altrove - qualcosa di essenziale per ritrovare la memoria di noi stessi in quanto civiltà?

Capitolo 8

La cospirazione e il cinema americano contemporaneo

Le tesi di Richard Hofstadter sul cosiddetto “paranoid style” nella politica americana sono ben note. Ed essendo la politica un enorme contenitore in cui ogni operazione culturale è concepita e formata, va da sé che anche la letteratura e il cinema sono stati e sono connessi a tale “stile” nel corso della storia americana, specialmente in tempi in cui temibili eventi hanno lasciato il loro drammatico sengo sul pensie­ ro e la vita pubblici. Tutti sanno, per esempio, che Tassassimo di John Fitzgerald Ken­ nedy (e quel che vi stava dietro, qualunque cosa fosse) nei primi anni Sessanta colpì profondamente la coscienza della nazione, a tal grado che non è azzardato affermare che da quel momento in avanti gli Stati Uniti non si sarebbero mai più riavuti da una ferita che sembrava essere la causa dei peggiori incubi della loro storia. A parte tutto quel che si potrebbe dire (e che fu detto) su quel fatto, lo stesso ambito della nar­ rativa - letteraria e cinematografica - ne fu così colpito che a scrittori e registi ci vollero almeno due decenni per metabolizzarlo. Ma non desidero incominciare da questo (relativamente) recente evento. Prendiamo invece come punto di partenza i tempi turbolenti che seguirono la seconda guerra mondiale. Quel che fu il maccartismo e quel che esso fece fra gli anni Quaranta e Cinquanta è noto a tutti. Quel che è meno noto (o discusso) è il fatto che a Hollywood Fangoscia della guerra fredda dominò la scena, sì, ma raramente occupandosi direttamente della questione. Voglio dire: abbiamo in quei tempi po­ chissimi film (a parte forse alcuni titoli sulla guerra di Corea come quelli di Sam Fuller e di altri) che trattano il tema del Pericolo Rosso chiamandolo con il suo nome. A dire il vero, il cinema americano diede il via a un genere del tutto nuovo (nuovo, almeno, a paragone con i film che aveva regolarmente prodotto sino ad allora) come veicolo del­ la sua idelogia del sospetto: la Fantascienza. È vero che, come Frederik

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Pohl aveva detto, negli anni Cinquanta le riviste di fantascienza erano l’unico luogo in cui fosse permesso esprimere liberamente il proprio pensiero (sebbene in forma “coperta”), ma è anche vero che spessissi­ mo i film di fantascienza erano gli unici luoghi in cui quel pensiero si accordava alle preoccupazioni governative nei riguardi della Cortina di Ferro e di quel che a causa sua poteva succedere al mondo occiden­ tale. Hollywood inoltre inventò una sorta di sottogenere in cui la fan­ tascienza e la politica si univano e fondevano, talvolta con interessanti conseguenze. Un titolo come Sette giorni a Maggio (Seven Days in May, 1964) di John Frankenheimer - che John Brosnan non cita neppure nel suo pur ampio studio critico sulla fantascienza, Future Tense - è un buon esempio di questa tendenza, incentrato com’è su una cospirazio­ ne da parte di alcuni alti militari americani. Che appartengano o no all’ambito della fantascienza, pellicole come Stato d’allarme (The Bed­ ford Incident, 1965) di James B. Harris e lo stesso II Dr. Stranamore (Dr. Strangelove, 1964) di Stanley Kubrick, che però è una produzione britannica, sembrano essere il prevedibile risultato di una indebolita fi­ ducia nei confronti della politica, connesso peraltro alla vieppiù sentita preoccupazione che ogni americano nutriva a quel tempo verso la mi­ naccia del potere nucleare. C’è una grande differenza tuttavia fra questi film e una classica opera basata sul più popolare timore di cospirazione di quei tempi, Va’ e uccidi (The Manchurian Candidate, 1962) di John Frankenheimer. Secondo Ray Pratt in un suo peraltro molto deludente studio su cine­ ma e cospirazione, “nessun regista di questo periodo ha contribuito al discorso della paranoia visionaria nel cinema più di John Frankenhei­ mer con la sua ’trilogia della paranoia’”. Ed è vero. Va' e uccidi è un perfetto esempio di come un tema cospirativo ap­ partenente a un particolare periodo della recente storia americana può essere trattato con uno spirito nato da un’atmosfera e da un modello cospirativi alquanto diversi. Il film, come è noto, racconta la storia di un prigioniero americano cui i Coreani, e più generalmente i comunisti, hanno fatto il lavaggio del cervello al fine di spingerlo ad assassinare un politico democratico americano così che un altro politico di destra ne prenda il posto. Ciò che rende la storia strettamente legata allo spirito degli anni Cinquan­ ta, con il suo odio e la sua isteria maccartista, è il fatto che l’agente in­ terno dell’operazione è la madre del soldato, che è sposata al cattivo (il politico di destra). Abbiamo dunque da un lato uno sfondo storico che ci riporta a die­ ci anni prima e una minaccia politica che si riferisce alla scena contem­ poranea. Un ulteriore sapore di complicazione è dato dall’anno del

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film, il 1962, il che significa che esso fu concepito e scritto prima dell’assassinio Kennedy: un segno sicuro che il cinema e l’invenzione narrativa possono essere antenne molto sensibili in relazione all’atmo­ sfera generale - lo Zeitgeist - di una nazione. Va’ e uccidi doveva servire come modello per altri film di cospira­ zione: la scena dell’uccisione verso la fine - un enorme spazio chiuso dove sta per incominciare (o è incominciata) una convention politica sarebbe stata ripresa anche, fra gli altri, da Un uomo oggi (WUSA, 1970) di Stuart Rosenberg e Perché un assassinio (The Parallax View, 1974) di Alan J. Papula, e persino in un altro film di cospirazione che si presenta come una curiosa mistura di politica, thriller e soprannatu­ rale, La zona morta (The Dead Zone, 1983) di David Cronenberg. Di certo l’assassinio Kennedy marca un confine fra quel che fu pro­ dotto a Hollywood prima e dopo quell’evento. Non c’è dubbio che, poniamo, dalla fine della guerra sino a quel momento la cospirazione era identificata nel Pericolo Rosso. Ma questo non significa che tutti i film americani di cospirazione lo presero come loro argomento. Lo stesso film noir può essere inteso come un prodotto dell’atmosfera ge­ nerale dell’epoca. Naturalmente sappiamo bene che quel genere era nato alcuni anni prima che McCarthy arrivasse sulla scena politica, ma la cupa atmosfera causata dalia minaccia della guerra nazista poteva ben esser continuata, una volta finita quella guerra, dalla peggior iste­ ria causata dalla guerra fredda. Dopotutto, nella pulp fiction del tempo un personaggio come il Mike Hammer di Spillane viene presentato non solo come un violento omicida e picchiatore di donne, ma anche come uno spietato anti-comunista, fornendo così l’anello mancante della catena fra questo genere e la paranoia cospirativa dell’epoca. Il film che mi sembra il più inquietante ed eloquente in questa di­ rezione, Due ore ancora (D.O.A., 1949) di Rudolph Maté, non tratta affatto di politica e racconta la storia di un uomo che scopre di essere stato avvelenato a morte da qualcuno, senza che se ne possa compren­ dere la ragione. Egli tenta di capire quel che sta dietro tale mortale as­ surdità e di trovare il colpevole prima di morire. Il film di Maté rende perfettamente la sensazione di una vita in cui qualunque cosa potrebbe accadere a chiunque, in cui vite del tutto regolari e comuni potrebbero essere in pericolo mortale a ogni angolo di strada e in cui c’è sempre qualcuno che segue e osserva i nostri passi da vicino. Due ore ancora è il film di cospirazione definitivo dell’era maccartista, e lo è senza biso­ gno di alcun minimo cenno agli eventi politici del momento. Naturalmente non mi metterò ora qui a citare tutti i film dell’era maccartista il cui sottotesto, come in Due ore ancora, è fatto di cospi­ razione e paranoia, ma non dobbiamo mai dimenticare che, grazie all’indiretta trattazione in essi di questo tema, questi sono di norma i

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più efficaci e tesi film di cospirazione che Hollywood fece all’epoca. Va da sé che i tipici film americani di cospirazione degli anni Ses­ santa, come Sette giorni a Maggio, originarono dalla mancanza di fidu­ cia nelle istituzioni politiche che l’assassinio Kennedy tanto contribuì a causare. Di fatto, mentre negli anni Cinquanta i più audaci e impe­ gnati registi, da Elia Kazan a Nunnally Johnson, si distinsero per opere di critica sociale, negli anni Sessanta la mano passò alla politica e l’abi­ tudine precipua, che rifletteva il modo di sentire dell’intera nazione, fu di criticare il mondo politico e i pericoli di cui poteva divenire respon­ sabile. In altre parole, mentre negli anni Cinquanta si poteva essere dei falliti a causa del sistema, negli anni Sessanta era il sistema che aveva tutte le probabilità di fallire. Come ho già detto, John Frankenheimer fu probabilmente il re del cinema paranoico del decennio. A parte Euomo di Kiev (The Fixer, 1968), un efficace e sottovalutato film di “cospirazione anti-ebraica”, quel che mi sembra il suo capolavoro nel campo, Operazione diabolica (Seconds, 1966), tralascia ogni connessione con la politica, ma emerge come un potente film politico dell’epoca nella misura in cui esso riflet­ te la cupa angoscia dell’^/tìe americana negli anni Sessanta, con la sua storia di un ricco executive che tenta di cambiare radicalmente la pro­ pria vita assumendo una nuova identità, una nuova professione e un nuovo ambiente dopo un’operazione di chirurgia plastica che gli dà an­ che una più giovane età. Ma essendo tale sentiero irreversibile, egli (o meglio, il suo corpo) viene “riciclato” quando, avendo egli cambiato opinione, reclama il diritto di ritornare alla sua vita precedente. Quel che colpisce nel film è non soltanto il problema esistenziale del prota­ gonista, ma anche la perfetta organizzazione che sta dietro la sua vita e i suoi desideri, seguendolo attentamente e segretamente lungo la sua intera vita, creando per lui persino le esperienze più intime, inclusa la sua relazione sentimentale con una amabile ragazza che si scoprirà es­ sere un’agente dell’organizzazione stessa. Proprio la nozione di Organizzazione acquista in questi anni una connotazione particolare. Da qualche tempo William H. Whyte aveva pubblicato il suo fortunato The Organization Man (1956) nel quale la razionalizzazione dell’impresa diveniva il segnale di qualcosa che supe­ rava il semplice obiettivo dell’efficienza per diventare, almeno implici­ tamente, qualcosa di ben più inquietante. Non dimentichiamo che a partire dagli anni Sessanta anche il romanzo americano - sotto l’eti­ chetta di postmoderno - se ne è occupato con notevole insistenza. L’esempio del Trystero di Thomas Pynchon in The Crying of Lot 49 (1966) è forse il caso più eloquente. Ciò che più interessa è che nei film di Hollywood l’ironia che così spesso ritroviamo nell’ambito della nar­ rativa su pagina è un ingrediente mancante dalla ricetta cinematogra­

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fica (ma vi sono naturalmente alcune eccezioni, per esempio un altro titolo sottovalutato, Dàì, muoviti [Mot/e], 1970, di Stuart Rosenberg, tratto da un romanzo di Joel Lieber). La logica conseguenza che se ne trae è che il cinema, essendo un medium visivo, sembra avere un impatto troppo grande sull’emozione dello spettatore di quanto non l’abbia la prosa narrativa sul lettore, la­ sciando dunque diffìcilmente spazio all’umorismo e all’ironia quando si affonta un tema così importante come quello della cospirazione. L’allucinazione, voglio dire, è un manicaretto troppo gustoso per sprecarlo sullo schermo. La natura visionaria del mezzo cinematogra­ fico non lascia spazio ad altri tipi d’esercizi che le parole scritte sulla pagina possono permettersi molto più di una macchina da presa, se la finalità è quella di colpire lo spettatore. In breve, quel che sulla pagina può diventare una questione di stile prosastico, sullo schermo può di­ mostrarsi una tecnica dispersiva e distraente. Comunque, come si diceva, gli anni Cinquanta in America apriro­ no la via a una pervasiva, onnicomprensiva forma di cinema paranoico nella misura in cui esso non chiamò mai il nemico col suo nome. Per­ sino i film che tentarono di raccontare la storia dell’affare Kennedy, da Azione esecutiva (Executive Action, 1973) di David Miller a JFK (id., 1991) di Oliver Stone, non osarono mai suggerire con precisione quali forze o lobbies vi erano dietro (non parliamo poi di far nomi). E questa mi sembra la più pura forma di paranoia-da-cospirazione, perfetta­ mente riassunta da una pellicola mozzafiato come il già menzionato Perché un assassinio, dove assolutamente nulla è chiaro se non il fatto che negli Stati Uniti una potente, onnipresente organizzazione stava tentando di prendere il governo del paese eliminando il suo legittimo rappresentante. Perché un assassinio ci presenta un’immagine alquanto inusitata della nazione, dove sia la grande metropoli che la pacifica campagna sono controllate da una volontà sinistra e segreta cui nessuno può dare un nome o un volto. La vecchia opposizione fra due differenti idee di stile di vita (ed economia) identificate nel tradizionale contrasto fra Jefferson e Hamilton sembra perdere la sua forza davanti alla vasta e sconosciuta cospirazione che aleggia sul paese come una ragnatela così sottile che nessuno può vederla o percepirla. Forse mai come in questo film l’idea di Organizzazione è stata così splendidamente incerta e neb­ biosa. Ma non dobbiamo dimenticare che i film di cospirazione sono identificabili non soltanto in relazione al loro contenuto: in effetti, la loro stessa forma e costruzione parla in questo senso. Un film come I cospiratori (The Molly McGuires, 1970) di Martin Ritt, che racconta la storia di un ben noto gruppo segreto di minatori irlandesi immigrati in

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America che combattono la spietata autorità attraverso forme di terro­ rismo, ha ovviamente una struttura e un passo radicalmente diversi da Fuori orario (After Hours, 1985) di Martin Scorsese, che appare come un incubo insopportabile sognato da una sorta di un aggiornato Giob­ be col colletto bianco il quale finisce inseguito dall’intero distretto di Soho lungo l’umido e solitario asfalto di una Manhattan antelucana. Fuori orario, anzi, può ben essere il definitivo film americano di cospi­ razione, dal momento che, diversamente da tutti gli altri, l’Organizzazione che esso mostra non ha particolari ragioni e intenti se non la di­ struzione del protagonista. Molto di più: la cospirazione non è mai di­ chiarata e può essere avvertita solo attraverso una strana connessione fra parecchi segni minori sparsi lungo tutto il film (bruciature di pelle, portachiavi e tatuaggi a forma di teschio eccetera). In questo senso il film di Scorsese è probabilmente, fra le opere uscite dal cinema ameri­ cano, quello che più si avvicina al romanzo di cospirazione par excel­ lence dell’ultima metà del secolo, The Crying ofLot 49 di Thomas Pyn­ chon. In ambedue la realtà non sembra avere senso se non attraverso una serie di allusioni che alla fine possono essere lette come una catena che lega i più vari pezzi di un universo assurdo teso verso (’annichila­ zione del protagonista. Solo in questo film la maschera della cospira­ zione cade e mostra quel che le sta dietro: la cancellazione dell’indivi­ dualità, della volontà, della personalità, dei sentimenti, della fiducia, della buona fede, dei diritti umani del suo bersaglio; e solo in questo film la vittima dice in modo chiaro quello che pensa e sente, tentando di sopravvivere come un pesce fuor d’acqua, come nella splendida se­ quenza con la prostituta nel nightclub. I cospiratori è un film d’azione su un esempio storico di spionaggio e tradimento, Fuori orario è un manifesto esistenziale, una riflessione sulla compatibilità della condizione umana. Una grossa differenza, in verità. E credo si possa dire che quest’ultimo è di gran lunga l’esempio più eloquente del profondo, nascosto significato dell’idea di cospira­ zione: qualcosa che sbaglieremmo a pensare semplicemente come un segreto accordo fra persone di un gruppo al fine di raggiungere uno scopo politico o sociale. La cospirazione è, anche se solo per una men­ te alterata, condizionata e paranoica, un’azione coordinata del mondo nel suo insieme per mettere alia gogna la sua vittima, mostrata nella nudità della sua compassionevole condizione, vestita solo della sua car­ ne umana. In breve, un memento mori nella forma di un’umiliazione. Se questo è vero, dobbiamo affrontare un altro passo ancora nella comprensione di come, nonostante la comune e generale struttura del­ la cospirazione, in America - o meglio, nel cinema americano - la co­ spirazione sembra assumere alcune caratteritiche alquanto particolari. L’atmosfera e la struttura kafkiana, infatti, sembrano prevalere sul re-

IA COSPIRAZIONE E IL CINEMA AMERICANO CONTEMPORANEO

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golare modello strettamente politico, anche in film che pure mostrano un indiscutibile contenuto politico. Il che significa che non solo opere come Due ore ancora e Fuori orario, ma anche Perché un assassinio sca­ vano in profondità nelle radici esistenziali di personaggi e situazioni. Sarebbe molto facile leggere tale atteggiamento in connessione con la ben nota celebrazione dell’individualismo che è sempre stata un mar­ chio di fabbrica del pensiero e della società americani. E forse sarebbe anche esatto. Ma credo che vi sia ben più di questo. Per un americano, infatti, la cospirazione è un’idea lontana da un quadro psicopatologi­ co, ammesso, tuttavia, che si abbia sempre sottomano un capro espia­ torio da biasimare e punire: come ha ben mostrato Richard Hof­ stadter, cattolici, massoni, comunisti eccetera hanno dopotutto avuto questo ruolo nel passato americano. Ma se e quando tale capro espia­ torio sembra non essere in vista, se e quando non c’è attorno nessuno cui puntar contro l’indice accusandolo di essere un nemico pubblico, allora le cose si fanno alquanto ingarbugliate, dal momento che la mec­ canica della realtà assume un passo tutt’altro che regolare, mentre dall’altra parte non v’è attorno nulla da biasimare - poco importa se a torto o a ragione - di questo. A questo punto la cospirazione si muta in qualcosa di molto più cupo e, per così dire, “incorporato”, qualcosa che non può essere spiegata soltanto in termini di politica, e che se an­ che potesse esserlo, come in Perché un assassinio, una mera spiegazione politica non renderebbe conto della spiacevole sensazione che la cospi­ razione ha steso le mani su ogni singolo aspetto della realtà, sul volto più comune della nostra vita quotidiana. Credo che questo possa essere spiegato dall’idea di politica che gli americani hanno coltivato lungo il corso della loro storia, dal momen­ to che da un punto di vista storico essi hanno contato sulla politica tan­ to quanto altri popoli hanno contato, poniamo, sulla religione. Gli Sta­ ti Uniti si sono riscattati come nazione esclusivamente grazie alla poli­ tica e alla loro volontà di combattere per la libertà. La politica, dun­ que, è per loro non solo il modo per essere socialmente organizzati e governati, ma soprattutto ciò che li ha messi nella condizione di sce­ gliere liberamente il loro destino. Questa è la ragione per cui negli Stati Uniti la politica non può essere sospettata o discussa. Questa è la ra­ gione per cui può esserlo un singolo uomo politico, ma non il sistema nel suo insieme. E questa è la ragione per cui, quando l’affare Kennedy e lo scandalo Watergate esplosero, la società americana si sentì come se fluttuasse su acque profonde come un vecchio relitto. Questa è la ra­ gione per cui, da quel momento in avanti, la cospirazione fu percepita e descritta come qualcosa che condizionava e ancora condiziona l’in­ dividuo anche più della società: perché, avendo privato gli americani del loro cemento sociale, ogni singolo cittadino non potè far altro che

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pensare a se stesso nei termini di un’incerta, se non addirittura fram­ mentata, individualità. E questo in ultima analisi spiega perché persino un presidente discutibile come Ronald Reagan può essere ricordato con simpatia e addirittura nostalgia da una larga parte del paese: per­ ché, poco importa a quali fini politici egli puntasse, si trattava comun­ que del rilancio di un’idea di politica come modo per lavorare nel e per il paese, non al di sotto e contro di esso.

Riferimenti bibliografici

Sulla paranoia cospirativa come componente costante della storia politica americana rimando al classico di Richard Hofstadter, The Pa­ ranoid Style in American Politics and Other Essays, Vintage Books, New York, 1967; sull’importanza di John Frankenheimer nel cinema americano di cospirazione anni Sessanta si veda Ray Pratt, Projecting Paranoia. Conspiratorial Visions in American Film, University Press of Kansas, Lawrence, 2001, mentre la celebre bibbia dell’organizzazione aziendale in termini di razionalità ed efficienza scritta da William H. Whyte è The Organization Man, Doubleday, New York, 1956.

Capitolo 9

L’impossibile trapianto dei fagioli e le sue conseguenze

Gli Stati Uniti sono probabilmente il paese nel quale meno stretto e incidente è da sempre il rapporto fra critica e film. La critica, cioè, vi esiste soltanto in relazione al suo consumo pubblico, alla sua funzione superficiale d’orientamento, ma non come organo di formulazione te­ orico-pratica. Perché questa situazione di fatto variasse si è dovuta fon­ dare a metà anni Cinquanta una rivista, Film Culture, e di lì a non mol­ to un movimento, il New American Cinema Group, che però sponso­ rizzarono intellettualmente un tipo di cinema rigorosamente antihol­ lywoodiano. La grande produzione, infatti, non ha mai intrattenuto con la critica rapporti costruttivi. Di conseguenza verrebbe da pensare che il generale rinnovamento rintracciabile in parecchie cinematogra­ fie fra gli anni Cinquanta e i Sessanta non abbia interessato il cinema hollywoodiano né in sede critica né in sede operativa. Certo, non si trattò della “rivoluzione” causata in Francia dalla Nouvelle Vague, ma qualcosa accadde anche in America. Prima di tutto, la valanga di opere sperimentali del NACG e dei suoi vari affiliati, conseguenza diretta o indiretta di un’elaborazione teorica che Jonas Mekas e suoi colleghi avevano (e avrebbero) promos­ so dalle pagine della loro rivista. In seconda istanza, l’introduzione ufficiale in America della politi­ que des auteurs francese a opera della mediazione di Andrew Sarris nel 1962, oltre ad avviare un vivacissimo dibattito teorico nella critica uf­ ficiale, funse da preludio alle prime avvisaglie di rinnovamento nell’ambito deUa “professionalità” hollywoodiana e del cinema che ne seguì. Per lontane che a quel tempo potessero sembrare le posizioni di Jo­ nas Mekas e della sua rivista (cui, è bene ricordare, sin dall’inizio collaborò anche Sarris) dai princìpi che per decenni avevano sostanziato la produzione hollywoodiana, alcune delle sue istanze (probabilmente - ammettiamolo - le meno radicali) si sarebbero rintracciate di lì a

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qualche anno in non pochi prodotti del maggior rinnovamento tentato da Hollywood dopo l’avvento del sonoro, quel New Hollywood Cine­ ma che, esploso alla fine degli anni Sessanta, avrebbe tenuto banco per qualche anno sino alla ripresa delle superproduzioni e di un'entente con lo sbocco dei mercato televisivo molto più cordiale che nel passa­ to. Perché, sia chiaro, il rinnovamento fu prima di tutto di carattere produttivo. Per un breve periodo sembrò infatti che il sogno di Melcas - la disintegrazione di Hollywood in piccole compagnie indipendenti - diventasse realtà, da Easy Rider alle ammirevoli cose del primo Bo­ gdanovich, sulla scorta dell’esperienza anticipatrice di un Roger Corman e di qualche altro. Se a questo si aggiunge la tendenza a evitare le tradizionali ricostruzioni di studio e a “reinventare” il cinema attraver­ so un suo impiego più artigianale rispetto al passato (si pensi solo all’uso della “camera a spalla”), non si può negare che se non la teoriz­ zazione del NACG perlomeno il suo atteggiamento esteriore nei con­ fronti della pratica cinematografica è stato in qualche misura raccolto dalla New Hollywood. Certo, come si diceva, la New Hollywood durò lo spazio di un mat­ tino, cioè quanto bastò a che i nuovi orientamenti produttivi rimpin­ guassero le casse delle majors indicando il tipo di film che un pubblico del tutto diverso da quello dei decenni precedenti (vale a dire un pub­ blico giovanile) richiedeva ed esigeva. Quello stesso pubblico, cresciuto nei drive-in degli anni Cinquanta, andava poco per il sottile quanto a sofisticatezze tecniche e compiutezza scenografica. Il mondo onirico della Hollywood del passato era (temporaneamente) finito e sullo schermo dominava una “realtà” sino ad allora inusitata nel cinema commerciale americano. La stessa (si fa per dire) che non molto tempo prima avevamo visto nel supposto “neorealismo” di The Little Fugitive (1953) di Morris Engel, in On the Bowery di Lionel Rogosin (1956) o nel primo John Cassavetes. Sarà bene chiarire, tuttavia, che la compo­ nente sopra indicata e in qualche misura ripresa dalla New Hollywood è soltanto una fra le molte anime del cinema d’avanguardia americano fra gli anni Cinquanta e i Sessanta. Non a caso l’anima più forte e di­ rompente, quella oniro-irrazionalistica, che sovverte a priori i dettami dell’aureo principio hollywoodiano di causa ed effetto, viene quasi ignorata dalla nuova cinematografia commerciale, al massimo relegan­ do quell’onirismo sullo scaffale delle esperienze allucinogene (da//ser­ pente di fuoco [The Trip], 1967, di Corman allo stesso Easy Rider). Che il pur originale realismo della Nouvelle Vague francese fosse ben lontano dagli interessi teorici proclamati da Film Culture è testi­ moniato dalla presa di posizione in merito da parte dello stesso Melcas, il quale su The Village Voice del 12 Gennaio 1961 scrive: “La nouvelle vague francese non è davvero niente di nuovo né di diverso dal resto

l.’lMPOSSIBHi TRAPIANTO DEI FAGIOLI E LE SUE CONSEGUENZE

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del cinema commerciale francese, o di qualunque altro paese. Se sono così convenzionali a vent’anni, figuratevi quel che saranno a quaran­ ta!”. Mekas, peraltro, sembra contraddirsi molto presto: sulla stessa ri­ vista, sei mesi dopo, si lancia in un’appassionata difesa di Fino all’ulti­ mo respiro di Godard (“it is cinema at its best”), atteggiamento che re­ plicherà nel 1963 nei confronti di Questa è la mia vita e nel 1965 in quelli di Alphaville. Mekas, peraltro, non è solo contraddittorio, ma anche ambiguo. Sempre nel 1961 (16 Novembre) afferma che la Nouvelle Vague si è li­ mitata a dare nuova forza al cinema francese sul piano formale, e conti­ nua sostenendo i diversi bisogni del nuovo cinema USA, i cui registi “do not have to follow the Cahiers”. E conclude molto bene: “Non si pos­ sono trapiantare degli stili da nazione a nazione, come fossero fagioli”. La questione è più complessa di quanto sembri. Persino nella sua difesa di Godard Mekas lascia intendere chiaramente che le radici mo­ rali del cineasta, ereditate dalla grande tradizione europea, sono il maggior elemento di differenza sostanziale fra il suo cinema e quello americano d’avanguardia. Mekas nega il principio morale di responsa­ bilità sostenuto da Godard in Questa è la mia vita a favore di un più neutro principio di causa ed effetto (quello stesso, fra l’altro, per cui ha continuamente posto Hollywood sotto accusa), attaccando la no­ zione di pensiero “conscio” e portando a sostegno la versione più irra­ zionalistica della psicanalisi, quella junghiana. Come dicevo, la questione è complessa, perché, al di là di una di­ scussione su problemi di rinnovamento formale, essa implica una radi­ cale differenza culturale. Il discorso è interessante, ma esula dal nostro tema e dobbiamo forzatamente abbandonarlo a questo punto, pren­ dendo atto ancora una volta delle radicali diversità che separano le va­ rie “nuove cinematografie” in quello storico momento (a questo pro­ posito, anzi, si vedano anche le parole molto dure che Mekas ha nei confronti dell’intera avanguardia britannica, identificata negli Angry Young Men). L’enorme distanza che separa la teorizzazione dell’avanguardia dal­ le pratiche del cinema hollywoodiano permette tuttavia un raffronto meno difficile e incerto di quello che si può tentare di stabilire fra quest’ultimo e la critica ufficiale. È ben arduo, infatti, in qualunque frangente e latitudine, rintracciare l’eventuale grado di incidenza della teoria critica sulla pratica di un cinema commerciale mastodontico co­ me quello di Hollywood. I mutamenti che nella seconda metà degli an­ ni Sessanta sono riscontrabili in quella produzione non possono certo essere ricondotti all’influenza di questo o quel critico, per quanto auto­ revole. Primo, perché Hollywood opera sulla base di considerazioni molto più pratiche e concrete; secondo, perché non son poi tanti i etiti-

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ci ufficiali che a quel tempo elaborarono una teoria critica connessa al vento di novità che stava soffiando su tutta la produzione cinematogra­ fica occidentale. Il nome, anzi, è uno solo: quello di Andrew Sarris, che nel 1962 si fece mediatore - proprio sulle pagine di Film Culture nell’introduzione in America della politique des auteurs francese. Sarris accolse la politique des auteurs come occasione teorica di ri­ valutazione assoluta del cinema americano nel suo insieme di fronte al­ la grandezza artistica di alcuni singoli registi stranieri. In pratica, del tutto paradossalmente, Sarris guardò al famoso “prodotto medio” americano con strumenti critici di dichiarato carattere estetico, giun­ gendo alla seguente conclusione: “...film per film, regista per regista, il cinema americano è stato considerevolmente superiore a quello del re­ sto del mondo... Di conseguenza guardo oggi alla teoria autoriale pri­ mariamente come a un mezzo critico per registrare la storia del cinema americano, l’unico cinema degno di essere esplorato in profondità sot­ to lo strato di alcuni grandi registi che vi stanno sopra”. La polemica innescata dalle sue affermazioni - che coinvolse, in posizione contra­ ria, Pauline Kael e altri colleghi - non era certo destinata a mutare la prassi del cinema hollywoodiano. Al contrario, le affermazioni di Sar­ ris legittimavano uno status quo produttivo attribuendogli una patente estetica. Il critico, in pratica, auspicava implicitamente che il cinema hollywoodiano rimanesse come era sempre stato. Questo tuttavia non impedì a Sarris di riconoscere e apprezzare quello che ai suoi occhi appariva come novità: la sua difesa di Gangster Story (Bonnie and Clyde, 1967) di Arthur Penn parla chiaro in merito alla sua capacità di cogliere ciò che nella seconda metà degli anni Ses­ santa stava avvenendo in quel cinema. Ovviamente non vi potranno mai essere prove concrete che la critica di Sarris abbia non dico causa­ to, ma anche solo incoraggiato l’avvento della New Hollywood, e anzi c’è motivo di credere che - altro paradosso - dietro il “realismo” di Easy Rider e II re dei Giardini di Marvin (The King of Marvin Gardens, 1972) di Bob Rafelson vi sia più l’influenza dell’avanguardia rappre­ sentata dall’antirealista Jonas Mekas (il quale lodava l’artificialità di Hollywood condannando le aspirazioni realiste di registi come Fred Zinnemann) che del filohollywoodiano Andrew Sarris. Ma è presumi­ bilmente vero che le giovani leve registiche che in quegli anni si stava­ no affacciando sulla scena hollywoodiana, i “movie brats” cresciuti nell’ambito della cinefilia made in USA, come George Lucas, Steven Spielberg, John Milius, Brian De Palma, Martin Scorsese eccetera ab­ biano trovato nella teorizzazione sarrisiana alimento non solo per le proprie predilezioni, ma più largamente per una sempre maggiore e orgogliosa coscienza dell’americanità del proprio fare cinema. Con i risultati che da tempo sono davanti agli occhi di tutti.

L’IMPOSSIBILE TRAPIANTO DEI FAGIOLI E LE SUE CONSEGUENZE

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Riferimenti bibliografici La storia del rapporto fra Cassavetes e il NACG è stata spesso ap­ prossimativamente trattata dalla critica affiliando, sia pure indiretta­ mente, il primo al secondo. In realtà, Cassavetes per molti versi fu mol­ to lontano dal mondo teorico di Film Culture, tanto che, appena gli fu possibile, Mekas (che pure ne aveva intuito l’importanza) non solo cri­ ticò - cosa legittima - la seconda versione di Ombre, ma formulò dubbi sulle stesse motivazioni teoriche di Cassavetes: “Ombre ha colto più vi­ ta di quanto Cassavetes stesso non si renda conto” (The Village Voice, 27 Gennaio 1960). Si possono oggi leggere le parole del critico in Jo­ nas Mekas, Movie Journal. The Rise ofa New American Cinema, 19591971, Collier Books, New York, 1972, dove si ritrovano anche i giudi­ zi severi sulla nouvelle vague francese, sui Cahiers, sull’avanguardia britannica, nonché l’opposizione junghiana di Mekas al pensiero “co­ sciente” a proposito di Questa è la mia vita di Godard e le lodi del cri­ tico all’artificialità holloywoodiana in contrasto con l’esecrato reali­ smo di un Fred Zinnemann; sulla concretezza del cinema americano e della sua stessa critica vanno ricordate le parole di Andrew Sarris nel suo The Film (1968), “La critica americana, come il cinema americano, è eminentemente pragmatica e antiteorica”. La frase è citata in Edward Murray, Nine American Film Critics, Ungar, New York, 1975, mentre l’appassionata difesa sarrisiana della teoria autoriale sopra riportata si ritrova nel noto saggio “Notes on the Auteur Theory in 1962” ed è ci­ tata da E. Murray, ibid.; a riprova di quanto detto sull’importanza che la critica di Sarris non può non aver avuto sulle giovani generazioni dei cineasti americani affacciatisi alla ribalta a partire dagli anni Settanta vale la pena riportare quanto scriveva Sarris nel suo saggio “The Fall and Rise of the Film Director”, posto a introduzione del suo volume Interviews with Film Directors (1967), “ci dovrebbe essere più diverti­ mento nell’arte, e più arte nel divertimento”. La frase è citata ancora da E. Murray, Nine American Film Critics, ibid. In questa chiave credo possa essere letta la forte componente cinefila di un De Palma che con­ feziona una serie di omaggi a Hitchcock, di Scorsese che ribalta il ruolo tradizionale di Jerry Lewis in Re per una notte o che apre Alice non abi­ ta più qui come fosse II mago di Oz, di Lucas che cosparge Guerre stel­ lari di citazioni (e non soltanto relative al cinema americano), di Bo­ gdanovich che ha fatto del remake una componente essenziale della sua poetica (il melodramma cinquantesco in liultimo spettacolo, la screw­ ball alla Hawks in Ma papà ti manda sola?, il musical fra i Trenta e i Cinquanta in Finalmente arrivò l’amore eccetera), e così via.

Capitolo 10

La critica e l’industria cinematografica americana

Ecco un argomento tanto preciso quanto generico. Da un lato non c’è il minimo dubbio: qui si tratta di valori culturali di contro a valori economico-finanziari. Ma dall’altro ci si domanda: di quale critica stia­ mo parlando? Quella americana o quella europea? Determinare se si tratta dell’una o dell’altra è cosa fondamentale» dal momento che il concetto di cinema che hanno gli Stati Uniti differisce di molto da quel­ lo che l’Europa ha nutrito sin quasi dagli albori della nuova invenzio­ ne, un secolo fa. Preferisco lasciare da parte l’Europa in questa mia trattazione (al­ meno ufficialmente), ché nel nostro paese si è parlato sin troppo dello strapotere industriale del cinema americano (in realtà avremmo forse dovuto dire: della televisione americana, come cercherò di argomenta­ re più avanti) sull’onda di una reazione francese protezionistica e a vol­ te sciovinistica, che a me sembra in ambito cinematografico nessuno in Europa si possa più permettere dopo il bilancio fallimentare di quelle che, fra gli anni Settanta e Ottanta, erano apparse come più che pro­ mettenti waves nazionali (la tedesca, la britannica eccetera). In altre parole, non desidero ricadere nel luogo comune per cui il cinema ame­ ricano è costruito su formule ed è attento unicamente al box-office di­ menticando a priori le ragioni dell’arte e della cultura: questo si può tranquillamente dire, per esempio, anche della famigerata commedia all’italiana, che peraltro, a differenza dal primo, non ha conquistato i mercati mondiali. Restringere l’obiettivo alla critica americana, invece, comporta un doppio vantaggio: da un lato può gettar luce su come gli americani hanno inteso e intendono le ragioni del cinema in quanto arte (magari anche in modo comparativo e contrastivo con l’Europa); dall’altro ci permette di parlare di un ambito che, almeno in Italia, non gode di grande notorietà, di una compagine intellettuale alcuni dei cui compo­ nenti hanno in patria un notevole seguito e che non di rado sono en-

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(rati ed entrano in concreto rapporto dialettico con l’industria del no­ stro titolo. Incominciamo dunque con una considerazione alquanto rivelatri­ ce. Come l’Europa gli Stati Uniti hanno presto avuto dei critici cine­ matografici attenti al prodotto quotidiano, ma a differenza dell’Europa non hanno una tradizione teorica annosa. Non esistono dei Balàsz, de­ gli Arnheim, dei Kracauer americani coevi. Esistono invece da sempre dei canali d’opinione che hanno guardato e guardano con attenzione a ciò che principalmente Hollywood propone via via al grande pubblico, giudicando il prodotto sulla base della sua commerciabilità. Quando insomma, poniamo negli anni Quaranta, la pubblicistica cinematogra­ fica in Italia si identificava nella rivista Cinema, negli Stati Uniti essa si identificava in Variety. Questo è un punto alquanto delicato, dal momento che ciò che concorre a tale giudizio sull’eventuale commerciabilità non si appunta semplicemente su un gusto - buono o cattivo - ormai consolidato, ma richiede anzi una capacità spettacolare e una tecnica professionale d’al­ to livello. Del resto, il fatto che il maggior premio cinematografico americano sia in realtà un premio di carattere sostanzialmente tecnico attribuito da varie categorie di tecnici a dei colleghi nell’ambito che lo­ ro compete la dice lunga sul malinteso che è alla base dell’Academy Award. E la dice lunga anche su ciò che sta principalmente a cuore allo stesso immaginario collettivo americano: l’abilità professionale. Gli Stati Uniti hanno da sempre liquidato la figura dell’intellettuale e dell’artista o come sovversivo (ricordate il Fred MacMurray di Lammutinamento del Caine [The Caine Mutiny], 1954, di Dmytryk?) o co­ me figura mitica sul cui operare non è dato poter comprendere alcun­ ché (troverai il tuo stile, continua a dire con convinzione June Allyson a Jimmy Stewart in La storia di Glenn Miller [The Glenn Miller Story], 1954, di Anthony Mann, senza spiegarci mai di che cosa si tratta, in che cosa consista questo “stile”). Talvolta qualcuno avanza audace­ mente il massimo di spessore teorico che sembra sia consentito in Ame­ rica: in Ritorno a Peyton Place (Return to Peyton Place, 1961) di José Ferrer, la giovane Carol Lynley, che adora Thomas Wolfe e vuole fare la scrittrice, si sente dire (mi pare da Jeff Chandler): se vuoi essere un romanziere osserva quello che vedi e raccontalo. Non ci bisogno di scomodare il Richard Hofstadter di Anti~Intellectualism in American Life per comprendere l’ipersemplificazione di questa posizione. E non può dunque esser motivo di meraviglia se il parossismo francese per la teoria ha alla fine fatto ampia breccia in America, paese che forse non a caso è rimasto l’unico a fare critica marxista dopo che in Europa tutti hanno smesso.

IA CRITICA E L’INDUSTRIA CINEMATOGRAFICA AMERICANA

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La Francia anzi ha giocato un ruolo primario anche nella critica ci­ nematografica americana, e ormai da un certo tempo: è ben nota la me­ diazione che all’inizio degli anni Sessanta Andrew Sarris ha fatto della politique des auteurs varata dai Cahiers du cinéma una decina d’anni prima. Un’opera meritoria, che ha messo la critica americana davanti a qualcosa che le era del tutto estraneo. Ma anche un doppio shock, dal momento che se è vero che, come l’Europa, gli Stati Uniti si sono a quel punto trovati a dovere e potere leggere in termini estetici anche un pro­ dotto commerciale, è anche vero che, a differenza dall’Europa, essi non conoscevano altro cinema ufficiale e regolare che non fosse commercia­ le. Non è affatto un caso che sino a quel momento i critici cinematogra­ fici americani controcorrente fossero stati o acuti sociologi come Ro­ bert Warshow e Dwight Macdonald, o esegeti dell’underground con­ vinti che il prodotto hollywoodiano non avesse nulla a che fare con l’ar­ te come Parker Tyler, o un enfant terrible dotatissimo come Manny Far­ ber, che però talvolta vedeva l’arte anche dove non c’era, e talaltra non la vedeva dove c’era (unica eccezione essendo il genio di James Agee, che forse non per nulla era un romanziere prima che uno sceneggiatore, oltreché un critico di film). E allo stesso modo non è un caso che i critici più seguiti in America siano sempre stati quelli di quotidiani e settimanali. Mi si potrà obietta­ re che questo dopotutto vale anche per l’Italia e forse per l’intera Euro­ pa. La risposta è che mentre in Italia (e in Europa) il critico “quotidia­ no” è seguito come informatore che indirizza il pubblico alla visione, negli Stati Uniti esso viene inteso come un’autorità teorica (e del resto fa di tutto per essere ritenuto tale: si veda il caso di Pauline Kael), come il depositario non tanto di un gusto cinematografico, di una competenza nella lettura e nella valutazione dei film, ma come il referente supremo della conoscenza cinematografica assoluta. Probabilmente questo è da imputare a quell’assenza di “basic scholarly activity in film” che Richard Schickel lamentava nella sua introduzione all’edizione 1970 di The Hol­ lywood Hallucination di Parker Tyler, ammettendo peraltro (ricordia­ molo: circa 30 anni fa) che la situazione stava incominciando a cambia­ re. Schickel alludeva naturalmente all’entrata dell’insegnamento del ci­ nema nei curricula universitari americani. Ma anche qui le cose non su­ birono grandi mutamenti, ché o questi insegnamenti si svilupparono secondo la natura pragmatica della education in America ancor prima di John Dewey e della sua ben nota formula sulla “intellectual piety toward experience” - in una direzione strettamente professionale, op­ pure si dettero, in fondo in modo altrettanto pragmatico, a una minu­ ziosa ricerca di carattere storico-statistico-documentale, oppure ancora (ma siamo già in direzione anni Ottanta) a una elaborazione teorica mu­ tuata, appunto, dall’esempio francese, nella quale, come ha scritto spiri-

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tesamente David Bordwell, “i maìtres à penser si imbattono l’uno nell’altro più spesso che sul Boulevard Saint-Michel”. Bene, e l’industria dov’è finita? Il punto è proprio questo: l’indu­ stria è stata emarginata. “If you can’t win ‘em, ignore ‘em”. In realtà molto, moltissimo è stato fatto nell’accademia americana in questi ul­ timi lustri tranne che elaborare ulteriori modi di valutazione estetica del Him. Grazie alle “scuole di cinema”, in fatto di regia abbiamo avuto di tutto, da Jim Jarmusch a George Lucas; grazie a storici come Dou­ glas Gomery o Robert Sklar sappiamo un sacco di cose sulle tavole di produzione delle major in ogni momento della loro storia e sul numero di biglietti staccati ai botteghini nell’intero arco del Novecento; e gra­ zie a uno stuolo di lacametziani abbiamo anche noi percorso un “fan­ tastic voyage” all’interno di corpi di spettatori minoritari (gay, donne, neri eccetera). Ma il cinema americano è anche qualcos’altro: è un’impresa finan­ ziaria di enorme portata cui è stato dato in sorte di forgiare larga parte del nostro immaginario. Il che significa: di dare corpo fantastico a quella gigantesca e permanente metamorfosi che sono i nostri costumi, i nostri miti, i nostri desideri, le nostre divagazioni su noi stessi e su quello che vorremmo diventare e siamo diventati lungo il condiziona­ mento in questo senso operato su di noi da ambiti di pensiero spesso contrastanti fra loro come scienza, tecnologia, morale, religione ecce­ tera. Insomma, epistemologia e gnoseologia. Ho detto: il cinema ame­ ricano e non il cinema tout court perché proprio per le sue minori (o certamente meno evidenti) intenzioni estetiche esso ha da parlarci di quanto accennavo più sopra in modo più “oggettivo”, meno calcolato e finalizzato di quanto non faccia l’artistico cinema europeo. Solo che la crisi che investì quell’industria negli anni Cinquanta, a ridosso dell’avvento televisivo, portò a una rivoluzione della quale og­ gi più che mai risentiamo le conseguenze. Se in passato, seguendo le istruzioni della politique des auteurs, Hollywood aveva prodotto film di cassetta che però avevano trovato anche una loro dimensione este­ tica grazie alla personalità, all’inventiva e al mondo fantastico di sin­ gole individualità registiche, dal momento in cui Hollywood si accorse che il minaccioso nemico catodico poteva essere il più fidato alleato in quanto primo target del proprio mercato, le cose cambiarono. E non in meglio. Vincolata da fasce di audience, cronologiche e non, e dal formato del piccolo schermo, la televisione era, sì, un ottimo target, ma imponeva modi di ripresa spesso alquanto diversi da quelli cui il ci­ nema americano era abituato. Ed è qui che la critica si trovò una volta ancora impreparata, poiché continuò ad avvicinarsi al prodotto hol­ lywoodiano come aveva fatto ai tempi di Clark Gable e Bette Davis, cioè non solo evidenziando componenti e valori che peraltro le deriva­

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vano dalla tradizione della critica teatrale, ma anche nessi, congiunzio­ ni, collegamenti (e naturalmente un’iconologia, nell’accezione panofskyana) che col linguaggio televisivo avevano poco a che fare. Fino a pochi anni fa il duo Siskel & Ebert (non a caso lanciati dalla televisio­ ne, ma Siskel è stato da qualche tempo sostituito) commentava, seguitissimo, sul piccolo schermo i film in uscita nelle sale americane allo stesso modo in cui un giornalista specializzato esprime i suoi giudizi sui nuovi modelli Fiat, Lancia o Mercedes al Salone dell’Auto di Torino. Del resto, il fenomeno ha investito da molto tempo anche ambiti tra­ dizionalmente estranei al cinema e, altrettanto tradizionalmente, con­ siderati ben più seri se già all’inizio degli anni Sessanta, in un suo testo ormai classico, The Image, Daniel J. Boorstin lamentava che le riviste letterarie trattavano scrittori di fama come Hemingway e Salinger “meno nello spirito di un Dr. Samuel Johnson che in quello di una Louella Parsons”. In breve, il cinema in America ha sempre avuto uno statuto popo­ lare legato allo star system e dunque una pubblicistica adeguata a tale statuto, mentre, su un piano più scientifico, fino agli anni Cinquanta la critica, sia teorica che militante, è in pratica rimasta nelle mani dell’avanguardia (quale rivista specializzata poteva a quel tempo far concorrenza a Film Culture?). La cinefilia della politique des auteurs ri­ presa da Sarris, come si diceva, cambiò le cose dando la stura ad altri periodici seminali come The Velvet Light Trap o lo stesso Film Com­ ment, alcuni dei quali connessi con quel mondo accademico che di lì a poco avrebbe sviluppato - come del resto avvenne pressoché conte­ stualmente in tutto il mondo occidentale - un interesse istituzionale nei confronti del cinema in quanto materia di insegnamento e di stu­ dio. Non si può tuttavia non insistere sull’inevitabile iato fra il mondo industriale di Hollywood e quello della critica ai suoi prodotti. Quel cinema, anzi, come e anche più del cinema europeo, ha messo in luce la contraddizione che si portava dietro, sintomo di uno dei dati fonda­ mentali della Modernità: l’innesto, la sovrapposizione di arte e indu­ stria, di fantasia creativa e capitale. Il problema della critica del cinema hollywoodiano è tutto qui. Ovviamente la critica può tranquillamente tralasciare la seconda metà del discorso e leggere i film indipendente­ mente dalle imposizioni della loro fonte finanziaria. Dopotutto, nessu­ no ha mai biasimato Maxwell Perkins per avere ridotto drasticamente il manoscritto originale di Of Time and the River di Thomas Wolfe e quel romanzo è sempre stato letto e valutato come opera dello scrittore di Asheville. Perché dunque non farlo anche, non dico per un genio “letterario” come Orson Welles, ma anche per John Ford o Howard Hawks?

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Ma che cosa avviene se la crìtica ritiene opportuno tenere in con­ siderazione la natura industriale e finanziaria di un qualunque film? Le risposte sono almeno due, esemplificate nel volume collettaneo a cura di Paul Kerr, The Hollywood Film Industry. Una è quella di Janet Wasko, che focalizza in David Wark Griffith l’immagine di un grande artista che fu contemporaneamente “un partecipante attivo nell’evolu­ zione di un sistema cinematografico capitalistico”. Per la Wasko sussi­ ste certamente una contraddizione fra gli ambiti che definiamo artisti­ co e commerciale, ma, dice la studiosa, è anche vero che il primo di­ pende dal secondo nella misura in cui esso sa rispondere strategica­ mente alle variazioni e alle restrizioni imposte dall’altro. In altre paro­ le, l’artista fa di necessità virtù e realizza la propria forma attraverso le risposte che egli e i suoi collaboratori sanno dare a problemi concreti posti dalla pratica, sia della sceneggiatura che delle riprese, in relazione alle disponibilità finanziarie concesse dall’industria (e non a caso, nella stessa raccolta, troviamo un illuminante saggio di David Bordwell sul mutamento funzionale dei movimenti di macchina all’avvento de) so­ noro). La Wasko insomma ci dice che in America è quasi inevitabile che l’uomo di cinema sia direttamente coinvolto con il cóté industriale di quell’attività: si pensi non solo a Griffith, Fairbanks, Chaplin e Pick­ ford e alla loro United Artists, ma anche a DeMille, Borzage, Milestone e Vidor con il Directors’ Guild, a Capra, Stevens e Wyler con la Liberty Films, e più recentemente a Bogdanovich, Coppola e Friedkin con la Directors’ Company, a Pollack e Rydell con la Sanford Productions, e così via, per non dire delle one-man band come la Malpaso di Clint Eastwood, la Mirage di Pollack, la Zoetrope di Coppola eccetera. La cosa interessante in queste imprese è che la loro molla non sem­ bra essere tanto una questione economico-finanziarìa come era stata e ancora è per le case di produzione classiche e contemporanee, quanto l’intenzione di mettersi in una condizione tale da poter scegliere e fare (o far fare) i film che si vorrebbe invece di vederseli imporre dai Louis B. Mayer o dagli Harry Cohn di turno. La seconda risposta la dà il britannico Edward Buscombe, cui non sembra importare gran che della personalità autoriale del regista e per il quale la storia del cinema hollywoodiano propone esempi di control­ lo finanziario che non hanno implicato influenze o restrizioni alla cre­ atività nella confezione del prodotto (il suo case-study è la Columbia fra il 1926 e il 1941). Buscombe arriva a dimostrare molto di più, e specificamente il fatto che “l’organizzazione di un testo filmico può es­ sere in relazione con l’organizzazione di un’industria o con specifiche pratiche di lavoro”. E Kerr ha ragione a ricordare che questa formula­ zione ribalta quella di Adorno e Horkheimer secondo cui i prodotti

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dell’industria culturale portano il segno, nella loro struttura estetica, della catena di montaggio. Questo era stato sufficiente ai due studiosi tedeschi per rifiutare in blocco il prodotto hollywoodiano, mentre il rovesciamento di Buscombe, per il quale è necessario esaminare il ci* nema popolare prima di rigettarlo sulla base di un ragionamento teo­ rico, comporta un’entrata dell’industria cinematografica nel campo dei film studies a pieno titolo come vero e proprio “missing link” del rap­ porto tra film e società. È evidente: posizioni come queste potevano nascere ed essere ela­ borate soltanto in un periodo di grande sviluppo degli studi cinemato­ grafici (nel caso specifico, gli anni Settanta), soprattutto in ambito ac­ cademico. E tuttavia strano che proprio nel momento in cui le discipli­ ne storiche incominciano a prendere le distanze dalla “cultura del do­ cumento ufficiale”, prima con la cosiddetta “storia dei materiali” che fa capo alla rivista francese Annales, poi inaugurando una teoria con­ trocorrente quale quella propugnata da studiosi come Michel de Certeau e Hayden White, gli studi cinematografici in America prendano questa piega storicamente ultraortodossa. Ma non è mio compito ora esemplare le vicende relative alla metodologia degli studi storici, e mi fermo a questo punto. Più coerente col mio tema è invece tentare di comprendere se e quanto il cinema hollywoodiano sia mutato nell’ultimo quarto di seco­ lo in modo da condizionare eventualmente anche l’esercizio della cri­ tica. Ancora nel 1987 mi ponevo la domanda: sino a che punto le nuove tecnologie elettroniche e digitali stanno cambiando la nostra tradizio­ nale nozione di cinema e qual è la strada giusta perché la critica possa elaborare una teoria adeguata a questo cambiamento? Non starò a rias­ sumere le mie posizioni di allora, ma un fatto è certo: tecnologia elet­ tronica o meno, il cinema americano non è più quello della Hollywood classica. Non si tratta soltanto di uno studio system e di uno star system che non sono più gli stessi, ma anche di una radicale variazione del no­ stro gusto e del nostro stesso sistema epistemico. La critica, intendo di­ re, deve ormai da tempo fare i conti con un dato importantissimo della cosiddetta epoca postmoderna: la cancellazione del soggetto. La quale, fra i suoi molti avatar, ha anche quello della serialità. Per dirla nei ter­ mini, semplici ma efficaci, in cui la pone James B. Twitchell: “I film non sono fatti in termini di individualità, ma in termini di similarità”. L’omologazione è dunque la maggiore caratteristica della produzione odierna (una delle tante colpe che possono essere imputate alla televi­ sione), e la critica ha fatto ben poco per opporvisi: al massimo levare malinconiche lamentazioni, come Pauline Kael e Janet Maslin. Ma mai nessuno che abbia affrontato, che so?, Terminator in chiave di segnale

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culturale, come un ammonimento a vigilare sulla mutevole nozione di corpo che a quel tempo stava ormai variando radicalmente sotto i no­ stri occhi. È vero, la critica accademica americana si è prodotta spes­ sissimo in dotte elucubrazioni sul gender (anzi, ha fondato addirittura una scuola, quella del gender criticism), riuscendo persino a dare del maschilista sciovinista a Shakespeare: formidabile impresa, quella di giudicare il passato con i metri culturali e le conquiste civili del presen­ te! Ma mentre essa era tutta intenta a stabilire le differenze, la cultura contemporanea stava invece lavorando in direzione opposta, verso un blurring of boundaries che portava, appunto, a cancellarle. E ancora Twitchell, con cui peraltro raramente mi trovo d’accordo, ha ragione quando scrive:

Altre teorie moderne, adattate da Freud, Marx, Barthes, Lacan e dal femminismo, si sono dimostrate più rivelatrici dello stato dell’accade­ mia che ricche di intuizioni sulla natura del medium. Innumerevoli ar­ ticoli di rivista e saggi di convegni hanno sostenuto che i film sono co­ me i sogni, come stadi della crescita infantile, come questo o come quello, è che c’è molto da parlare di feticismo, voyeurismo, frame nar­ rativi basati sul genere.

Twitchell, peraltro, riprende una critica già formulata quattro anni prima (1988) da Noel Carroll (uno studioso la cui serietà teorica è in­ discutibilmente provata dalla sua produzione critica, a cominciare dal classico saggio sulla filosofìa dell’orrore), che aveva scritto: Negli ultimi dieci anni, i film studies in America sono stati dominati da una teoria stabilita, la teoria psicanalitico-marxista. Inoltre, questo pe­ riodo di predominio corrisponde a un’epoca in cui lo studio accade­ mico del cinema è cresciuto enormemente. La teoria dell’establish­ ment, di conseguenza, è diventata, a tutti gli effetti, la lingua franca di un nuovo campo accademico. Mette a disposizione un mezzo comune di discorso per tutta una generazione di studiosi del cinema. Il proble­ ma di questa lingua, però, è che in pratica non dice proprio niente. Ha ostacolato la ricerca e ha ridotto l’analisi del film alla ripetizione di slogan di moda e ad assunzioni mai sottoposte a disamina.

In un certo senso, a quel punto fu la critica a diventare un’industria con catene di montaggio verbali efficientissime, e l’industria del cine­ ma ne fu completamente estromessa. Rimane tuttavia la domanda posta in precedenza. Ora, se è vero che - nella linea di Bordwell e degli altri critici citati più sopra insieme a lui - è possibile leggere un rapporto fra industria (e tecnologia) e ci­ nema anche sul versante della realizzazione del film (e forse, se non al­

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tro sulla base del principio di causa/effetto, addirittura in sede esteti­ ca), è altrettanto vero che le linee di tendenza leggibili nel corpus glo­ bale del cinema hollywoodiano ricadono nell’ambito degli “studi cul­ turali”. E, si noti, non solo per quanto riguarda i semplici contenuti, ma anche in relazione alle forme della loro realizzazione. Per fare un semplice e ovvio esempio, l’abbondante presenza del morphing nel ci­ nema americano di questi anni la dice lunga su quella cancellazione del soggetto di cui parlavo più sopra. Tutt’al più si tratterà di stabilire se è nato prima l’uovo o la gallina: se cioè la tecnica del morphing è conse­ guenza dell’ampia presenza del tema della metamorfosi nel cinema americano di questi anni, oppure se tale presenza è una parziale con­ seguenza del fatto che una simile tecnica è stata finalmente messa a di­ sposizione dalla ricerca scientifica. Comunque stiano le cose, tuttavia, è evidente che il rapporto fra arte (o forse a questo stadio dovrei piut­ tosto dire: immagine) e industria è indiscutibile. Ed è qui che la critica deve intervenire. Di un film come Matrix, per esempio, si può dire che è bello o brutto, che piace o non piace, ma non si può negarne lo stretto connubio fra tecnologia e ideologia. Sul versante strettamente estetico il problema, più che di elaborare nuove e aggiornate categorie di giudizio davanti a tecniche del tutto inedite, è quello di assimilare queste ultime alle prime, affrontando an­ cora una volta la questione allo stesso modo in cui i vari Wasko, Bu­ scombe e Bordwell hanno fatto per il cinema del passato. Ma sul ver­ sante di ciò che il cinema ha da dirci su quello che siamo e che stiamo diventando, sull’aggiornamento della nostra idea di corpo, di spazio, di tempo, di realtà (in una parola, della cultura, dell’episteme di cui, volenti o nolenti, facciamo parte), su questo la critica ha il dovere di intervenire ravvisando, se ritiene sia il caso, nel film (e nel cinema) un discorso che forse sfugge alla stessa industria che gli dà corpo visibile, ma che nondimeno appartiene a essa non meno che a noi.

Riferimenti bibliografici La lagnanza di Richard Schickel sull’assenza di una tradizione cul­ turale nella critica americana è nella sua Introduzione a Parker Tyler, The Hollywood Hallucination, Simon and Schuster, New York, 1970, mentre la battuta di David Bordwell sui maitres à penser francesi è nel suo lungo, intelligente e severo saggio, “Le illusioni della storia”, Bian­ co &Hero, 1-2, Gennaio-Giugno 1997; l’accusa di Daniel J. Boorstin alla superficialità delle riviste letterarie è nel suo classico The Image. A Guide to Pseudo-Events in America, Harper & Row, New York, 1964; i due saggi citati di Janet Wasko e Edward Buscombe sui rapporti fica

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industria cinematografica e arte del film sono rispettivamente intitola­ ti, “D. W. Griffith and the banks: a case study in film financing” e “No­ tes on Columbia Pictures Corporation 1926-41”, ambedue rintraccia­ bili in Paul Kerr (ed.), The Hollywood Film Industry, Routledge & Kegan Paul, London, 1986 (nel volume si trova anche il bel saggio di Da­ vid Bordwell, “Camera movement: the coming of sound and the clas­ sical Hollywood style”); le pagine di chi scrive sul necessario aggiorna­ mento della critica dopo la rivoluzione elettronica e digitale sono in Franco La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Laterza, Bari, 1987; la formula relativa alla serialità che contraddistin­ gue il cinema americano contemporaneo, nonché la critica alla moda delle teorie moderne, si rintraccia in James B. Twitchell, Carnival Cul­ ture. The Trashing of Taste in America, Columbia UP, New York, 1992, mentre l’analoga critica di Noel Carroll è nel suo Mystifying Movies: Fads and Fallacies in Contemporary Film, Columbia UP, New York, 1988.

Capitolo 11

L’immagine ha una storia: il cinema, la narrazione e le nuove tecnologie

Non ho adeguate conoscenze scientifiche delle odierne tecniche di­ gitali computerizzate applicate alla creazione deU’immagine cinemato­ grafica e televisiva, ma credo ugualmente possibile una speculazione di carattere teorico sul cinema del futuro dopo le nuove invenzioni. Tra­ lascio naturalmente quel che le nuove tecnologie promettono dal pun­ to di vista della riproduzione, della resa deU’immagine: questo pertiene a un ambito che non ha nulla ha che fare con l’estetica, dal momen­ to che questa eventuale componente ha già trovato spazio e costruzio­ ne nell’opera filmica vera e propria indipendentemente dalla qualità della visione. Per quel che riguarda invece la concezione dell’immagine e più in generale di tutto ciò che costituisce il racconto filmato, è bene ricorda­ re che, a differenza da altri momenti innovativi nel passato (il suono, il colore eccetera), questa volta non ci troviamo di fronte a una modi­ ficazione che si presenta come miglioramento dell’esistente nella dire­ zione di una sempre maggiore verosimiglianza, ma a un modo radical­ mente diverso di creare quello che già siamo in grado di creare. Più specificamente, di evitare la ripresa di una messa in scena creando dal nulla quella stessa messa in scena. Insomma, qualcosa di affine - se non nella tecnica, nella sostanza - al cartone animato. A me sembra che, come spesso accade nella storia della scienza, an­ che l’invenzione - questa invenzione - obbedisca a un mutamento di carattere culturale, a un pensiero del mondo diverso da quello che ave­ vamo coltivato in precedenza. Cosicché, per dirla brevemente, ciò che inventiamo si mette in linea con e si adegua a ciò che pensiamo. In effetti, da una decina d’anni e forse più non si parla d’altro che di corpo. Non con il disprezzo che per esso coltivava l’etica cristiana, né con l’interesse scientifico che da Cartesio in poi (ma forse si dovreb­ be citare Leonardo) il pensiero occidentale dimostrò per esso in quan-

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to macchina. No, questa volta il corpo diventa, per così dire, soggetto in assenza (e comunque passivo), citato per poterlo manipolare, modi­ ficare, trascurare. Da Philip K. Dick al body piercing, dai Borg di Star Trek al tatuaggio, da Terminator agli snuff movies, il cammino è molto più breve di quanto i più si immaginano. Ed è un cammino che si muo­ ve sul terreno di una radicalmente diversa idea di corpo: diversa, in­ tendo dire, da quella che per secoli è stata l’idea cristiana di esso come tempio dell’anima, e da quella, settecentescamente laica, di sede della ragione. Lo scarto, lo iato, il gap fra mente e corpo non è forse mai sta­ to così enorme come di questi tempi: il nostro pensiero sembra non ab­ bia più nulla a che fare con ciò che ne è in qualche modo l’immagine concreta e sostanziale, il corrispettivo tangibile. Alla vecchia etica che richiedeva una superfìcie, un’apparenza tale da far pensare a un’inte­ riorità (mente o spirito che fosse) altrettanto linda e ordinata, oggi fa da riscontro un’esteriorità caotica e ribelle che non è necessariamente immagine del nostro pensiero, del nostro credo, di una qualche nostra ideologia, ma che soltanto intende differenziarsi e proporsi per sé, co­ stituirsi come autonoma. E naturalmente la prova migliore della sua autonomia non può essere altro che in un’apparenza radicalmente di­ versa da quella del passato. Tale autonomia è - o crede di essere - tal­ mente sviluppata da intendere il corpo come un terreno di esplorazio­ ne e di esperimento: tutta la ormai ricca tradizione robotica (o per me­ glio dire: cyborg) della recente SF cinematografica ne reca ampia testi­ monianza: Robocop, Terminator, i Borg, il D.A.R.Y.L. dell’omonimo film sono tutte figure che esemplano un innaturale innesto fra organico e inorganico. Ma la cosa non si limita a quest’ambito. Non v’è alcun dubbio che una delle figure più rappresentative dell’immaginario postmoderno sia quella della metamorfosi, vale a dire un altro modo di concepire ed esaltare il corpo come differenza, come altro da un sistema immutabi­ le. E anche qui sono dozzine i film che in varia misura se ne sono oc­ cupati, da La cosa (The Thing, 1982) di Carpenter a La mosca (The Fly, 1986) di Cronenberg a tutti quelli che spesso e volentieri si sono av­ valsi del morphing (ancora una volta un espediente tecnico che nasce proprio al momento giusto...). Quel che più importa è che tale diversa idea di corpo si è portata dietro una serie di mutamenti anche in relazione a ciò che col corpo si pone in rapporto. Prima di tutto, lo spazio. Da un punto di vista teo­ rico la nozione di virtualità è la conseguenza della diversa idea di cor­ po nutrita dalla nostra cultura. Affamata di uno spazio entro il quale muovere un corpo diverso, questa ha in realtà fatto ciò che di norma fa la fantascienza: ha adottato, indicandolo come novità, un modello già sperimentato (in questo caso il modello spaziale tridimensionale

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cui eravamo abituati). Pensate a quei corridoi - forse un po’ metafìsici, è vero - percorsi a velocità folle dal protagonista in motocicletta di Tron. Sono poi tanto diversi dalle strade di San Francisco nel famoso inseguimento di automobili in Bullitt (id., 1968) di Peter Yates? Il fatto è che, come sempre, quel che conosciamo non riusciamo a immaginar­ celo senza tirare in ballo le strutture di riferimento di cui normalmente ci serviamo, e come racconta una nota barzelletta - ma se è per questo anche un film come Al di là dei sogni - persino il mondo dei morti ce lo costruiamo a somiglianza di noi stessi e dei nostri gusti. A somiglianza, sia chiaro, perché a tutt’oggi gli esiti figurali delle nuove tecniche non possono certo competere con la qualità di ripro­ duzione della pellicola. Per questo non posso concordare con tanta giovane critica entusiasta delle nuove tecnologie senza alcuna distin­ zione. Quando, per fare un esempio, su Voci off Andrea Romeo scrive: La possibilità di dare vita a immagini tratte direttamente dalla nostra immaginazione, innesca in chi si avvicina al mezzo-cinema come crea­ tore, un forte cambio di prospettiva: non racconto ciò che ho voluto creare fuori di me, ma direttamente le cose come io le ho pensate. A cento anni dalla rivoluzione freudiana il cinema acquista il diritto all’inconscio.

mi sembra confonda medium e messaggio. Ché le immagini dovute alla computer graphics non sono affatto le cose come io le ho pensate, ma soltanto la loro traduzione in termini tecnologici aggiornati. E tuttavia nel cinema odierno vi sono morceaux alto-tecnologici di eccezionale resa fantastica. E proprio qui è il punto. Sintantoché le nuove tecnolo­ gie ci proporranno esiti di carattere fantastico, risolvendo in tal modo problemi che in passato erano stati affrontati con armi molto meno so­ fisticate, esse non potranno che essere all’avanguardia nell’impiego in termini cinematografici. Ma quando esse vengono utilizzate per ripro­ durre qualcosa (di norma la figura umana) che la pellicola sa rendere infinitamente meglio perché più adeguata - se non identica, a parte la questione della tridimensionalità - alla realtà, allora ne escono perden­ ti e fanno pensare a un’applicazione infantile, a qualcosa che non può non essere destinato a un pubblico del tutto disinteressato alla verosi­ miglianza. Personalmente non condivido nemmeno l’entusiasmo e la baldanza di Brook Landon: Non posso non credere che la realtà virtuale non fornirà presto un’esperienza fantascientifica interattiva così coinvolgente e affasci­ nante da competere direttamente con l’esperienza del film di SF tradi­ zionale (...) Mentre può ben succedere, come avverte Peter Fitting, che le nuove tecnologie come quelle della realtà virtuale non sostituiranno necessariamente i film tradizionali, è impossibile per me credere che

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molti, se non addirittura la maggior parte, degli appassionati di cine­ ma fantascientifico - una volta avutane l’opportunità - non preferiran­ no (’interattività e l’illimitata creatività dei mondi virtuali alla espe­ rienza passiva del film di SF, foss’anche il più spettacolare.

A prescindere dal fatto che l’invenzione di Gutenberg non ha fatto di tutti noi dei narratori a stampa, né quella della videocamera porta­ tile dei registi (foss’anche di documentari), il problema rimane, in più sensi, quello del soggetto. Da un lato la posizione di Landon - condi­ visa da molti - non tiene conto dell’ineludibile quoziente di attività in­ sito in ogni fruizione narrativa di carattere “passivo”, a sua volta col­ legata con la capacità di inventare e narrare una storia; dall’altro, sap­ piamo bene che il protagonismo dell’esperienza - così spesso reclamiz­ zato da spot pubblicitari di carattere turistico - vive di una dimensione mentale fondata sulla deroga. In altre parole, rendere più semplice la realizzazione di un’esperienza non significa necessariamente ampliarla al maggior numero di persone; e non soltanto per eventuali ragioni economiche, ma soprattutto perché implica un concetto di soggettività che, a essere eufemistici, è un’astrazione. Proiettarsi interattivamente all’interno di una storia postula non solo un’abilità tecnica peraltro ac­ quisibile, ma anche una cultura narrativa che, se fosse stato possibile per chiunque esserne padrone, avrebbe già dato i suoi esiti endemici in ambito di parola scritta. Landon confonde evidentemente lo sviluppo tecnologico (estre­ mo, certamente) con il “cambiamento” nell’accezione di Kermode, non rendendosi conto che il caso da lui presentato e sostenuto pertiene in realtà molto di più all’ambito del mito, dal momento che (’interatti­ vità narrativa di cui il critico americano si fa campione, concepita come entertainment, ben difficilmente tenterà di “dare un senso al mondo”: al contrario, essa sarà il prodotto acritico di quel mondo, componente che la tecnologizzazione universale della realtà contiene in se stessa all’interno di un programma, pur ricchissimo, di variabili. Come che sia, quando in Star Trek - Vira di Khan (Star Trek - The Wrath of Kahn, 1982) di Nicholas Meyer assistiamo alla nascita di Ge­ nesis le immagini di metamorfosi sono potenti e in certa misura credi­ bili, e la computer graphics dell’industria! Light & Magic si laurea tec­ nica efficace nel rendere ciò che diversamente non potremmo vedere (o non potremmo vedere con tanta gloriosa impressione di effetti). Ma quando vediamo il mondo, simpatico certo, ma freddo e artificiale di Toy Story (id., 1995) di John Lasseter non possiamo non domandarci perché mai un’industria - cioè una machine à argent - dovrebbe spen­ dere miliardi per realizzare qualcosa che, il passato ha dimostrato, può costare di meno ottenendo risultati più fluidi e gradevoli (ma c’è chi già

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adesso assicura che la computer graphics comporta un abbattimento dei costi: sarebbe bene che le fonti si mettessero d’accordo, soprattutto quando compaiono sulla medesima rivista, Voci off). D’altra parte non ha certo torto una voce insospettabile come quella di Christian Rouet, curatore degli effetti speciali di Camper (id., 1995) di Brad Silberling e Jumanji (id., 1995) di Joe Johnston per la Industrial Light & Magic, quando sostiene che [...] realizzare un attore protagonista umano, che non abbia niente di speciale che giustifichi il trucage, sarebbe privo di senso. Se una star è pagata così tanto è perché il pubblico l’ama, è questo che fa il successo del film e non potrà mai cambiare. La gente vuole vedere e toccare la star. Un attore virtuale non sarebbe ugualmente eccitante.

Ma fin qui siamo ancora nell’ambito di una concezione tradiziona­ le se non delle tecniche, certo della nozione generale di cinema. Quan­ do però un’autorità come Spielberg pronostica un futuro prossimo in cui tutti potranno vedere il proprio film nel proprio cervello (grado ul­ timo della dissociazione fra fruizione e ritualità collettiva, dissoluzione che già oggi è a uno stadio alquanto avanzato), ecco che ci si para di­ nanzi una diversa concezione di cinema. Ancor piò diversa se a essa ap­ plichiamo quella che sembra una componente inevitabile dei nuovi modi e delle nuove modalità di racconto (e non soltanto per immagini) del nostro tempo: quello che passa sotto il nome di ipertesto. O se si preferisce, l’instaurazione di un rapporto attivamente, creativamente biunivoco tra fruitore e testo. Forse questo non avverrà tanto facilmen­ te nelle grandi sale cinematografiche del futuro, ma giungerà certa­ mente sui videoterminali di casa nostra. Anche questo in fondo è cine­ ma. Ed è un fenomeno, comunque lo si giudichi, di grande interesse. Da un lato infatti questa interattività obbedisce a modi di procedimen­ to squisitamente popolari, come per esempio, nelle sagre e nelle piazze di secoli fa, la raccolta della sfida lanciata dal cantastorie al pubblico, qualche rappresentante del quale ne continuava, con grande capacità creativa e improwisativa, il racconto. Molto bene, certo. Ma qui non siamo (o non saremo) più su una piazza popolare, bensì nel nostro pri­ vato e quel che eventualmente faremo non sarà più momento nel quale una voce particolare si fa rappresentativa di una voce generale, quella del gruppo, del popolo, ma soltanto di se stessa. E da momento cultu­ rale del gruppo passeremo a gioco individuale consumato nel silenzio e nel segreto della propria privacy. Intendiamoci, non c’è nulla di male a risolvere rebus e parole incrociate, ma di certo tale attività non si configura come rappresentativa di un modo di sentire corale, né si esplica in termini collettivi; e dunque la sua funzione e la rappresenta­ tività del suo valore culturale sono infinitamente inferiori.

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A quel punto dovremo chiederci dov’è finito l'incanto dell’ascolto dell’aedo, del cantastorie, del poeta popolare, che ci ha intrattenuto per secoli e millenni nutrendo la nostra fame di mito con un immagi­ nario che è giustamente rimasto nel tesoro culturale dell’intero nostro pianeta. A quel punto ognuno sarà il piccolo Omero di se stesso, o per dirla con Thomas Gray, “il muto, inglorioso Milton” di quel povero ci­ mitero di campagna che è il nostro salottino televisivo; e nell’interattività cui sarà chiamato non farà altro che aggiungere al testo, al rac­ conto qualcosa che egli già sa, mettendo in circuito componenti che a quel circuito già appartengono; laddove la vera, grande gloria della narrativa è esattamente il contrario: immettere novità nelle nostre co­ noscenze, nei nostri modelli. Una novità che può essere di contenuto (storie e personaggi inusitati, inauditi) o di forma (linguaggio e modi di racconto mai inventati e utilizzati sino a quel momento). È dunque questo il futuro che ci aprono le nuove tecnologie? Ma quanto a linguaggio, vi è un ulteriore aspetto della questione, sul quale troppo spesso non ci si sofferma abbastanza. La critica e il pubblico di norma celebrano ogni pixel e ogni byte conquistato in più da una tecnologia che non segna mai il passo e che avanza giorno dopo giorno verso un sogno sostanzialmente frankensteiniano: la creazione della vita (o la sua illusione). In altre parole, dell’odierna tecnologia noi osanniamo la sempre maggiore capacità di riprodurre le sembianze della vita non più attraverso la sua messa in scena, ma passando per la supposta scorciatoia della sua immagine elettronica. Il traguardo è no­ to sin dall’inizio: la resa dell’impressione di verità identica a quella del­ la pellicola più realista (o forse dovrei dire: più verosimile). Ora, che questo traguardo possa o non possa essere raggiunto, a me non sembra che debba essere esso il vero obiettivo del nostro futu­ ro. Non mi sembra molto importante, voglio dire, che attraverso tec­ nologie sofisticatissime noi si possa ricreare un’impressione di realtà che dopotutto conoscevamo sin dai tempi del famoso treno dei Lu­ mière. Credo piuttosto che se non riusciremo a organizzare l’ammasso di conoscenze visive delle nuove tecnologie in linguaggio saremo con­ dannati a balbettare come bambini pieni di fantasia ai quali manca però lo strumento primario per comunicare la propria immaginazione e il proprio talento. Ci sono voluti grosso modo una ventina d’anni dalla sua nascita perché il cinema prendesse coscienza del fatto di potersi or­ ganizzare come un linguaggio. La rivoluzione che di questi tempi le nuove tecnologie promettono (o minacciano) di operare è prima di tutto quella di una tecnica che trascura la propria fondazione in lin­ guaggio e che dunque sembra voler soppiantare il cinema “tradiziona­ le” senza esibire un’adeguata e comparabile autocoscienza linguisticosintattica. Come dicevo più sopra, importa poco che le nuove tecniche

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possano giungere a dar corpo a ciò che il cinema già sapeva fare prima del loro avvento. Tutt’al più, dato e non concesso che comportino un risparmio, esse potranno risvegliare l’interesse della produzione, vale a dire un interesse squisitamente economico. Ma, nel migliore dei casi, il potenziale estetico rimarrà lo stesso del cinema tradizionale. Come già avevo sostenuto una quindicina d’anni fa, la riproducibilità in sé non esiste se non come riproducibilità attraverso un linguaggio. Le nuove tecnologie forniscono sia una riproduzione (e più raramente un ampliamento) del vecchio linguaggio, sia la possibilità di fondarne uno nuovo. In linea storico-teorica una tecnologia che fornisce tali possibi­ lità può trovare esito in tre direzioni: a) quella di chi impiega le risorse tecnologiche per perpetuare lo sta­ tus quo\ b) quella di chi a priori considera la tecnologia e i suoi prodotti un linguaggio;

c) quella di chi cerca di impiegare il prodotto tecnologico awicinandovisi con l’intenzione di trovare una sua fondazione come lin­ guaggio. Nel primo caso, per esempio, rientra gran parte della produzione in computer graphics per il cinema commerciale, che si avvale delle ri­ sorse per perpetuare esperienze sostanzialmente non diverse da quelle già proposte in passato con mezzi certo meno sofisticati; nel secondo tutti coloro che nel prodotto tecnologico vedono un formidabile mar­ chingegno di sperimentazione estetica; nel terzo coloro che concedono alla tecnologia una parte importante, sì, ma per i quali i suoi prodotti non garantiscono necessariamente e ipso facto uno statuto di linguag­ gio. A mio avviso sbaglia chi vede nella tecnologia video-elettronica contemporanea la possibilità di una ricerca d’avanguardia. I suoi sup­ porti devono prima elaborarsi, svilupparsi in linguaggio, e solo a quel punto il video (o lo schermo) fornirà gli elementi necessari sui quali una pratica d’avanguardia può intervenire e lavorare portando, com’è sua prassi, le componenti di quel linguaggio alle loro estreme conse­ guenze. Ma perché possa darsi linguaggio, in quest’ambito, è prima ne­ cessario che l’industria e il profitto stabiliscano il codice sul quale l’operazione estetica deve intervenire. Diversamente, il video diventa davvero un game, un gioco su significanti astratti, o nel migliore dei ca­ si su significanti cui si attribuiscono significati loro estranei, mutuati dal codice linguistico immediatamente precedente (quello cioè che l'invenzione tecnologica intende superare). Sarebbe insomma come se, inventata una fonica, non le si desse modo di articolarsi secondo una

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STILI AMERICANI

grammatica e una sintassi elementari, tentando immediatamente un suo impiego in termini filosofici, estetici, scientifici. Certo, l’arte nasce dal superamento e dal dissenso. Ma dissenso e superamento di che co­ sa? L’avanguardia irriducibile risponderà che attraverso il prodotto tecnologico il vecchio linguaggio (e la vecchia ideologia) può venire polverizzato, dimenticando che la vera avanguardia opera sempre sui modelli forniti dall’uso, dalla pratica, dall’ideologia. Ma quale uso, pratica e ideologia possono fornire i prodotti della tecnologia se se ne anticipa in senso sperimentale (esteticamente sperimentale, è ovvio) il loro impiego? Non si tratta infatti di scardinare i vecchi modelli - ora­ mai ampiamente esorcizzati - ma di attendere quelli che l’industria della tecnologia ci fornirà (e già ci sta fornendo). Anche l’immagine in quanto prodotto tecnologico, insomma, ha una storia, e intervenire su di essa senza che vi si sia prima condensato un significato è operazione che pertiene ad altre discipline che non la critica: alla psicanalisi, per esempio, che del significato codificato può fare a meno poiché le sue regole d’intervento non obbediscono alle categorizzazioni (in senso etimologico: messa in piazza) della critica. Non si tratta evidentemente di celebrare l’industria e il profitto, ma di non affrettare i ritmi stessi dello sviluppo culturale. L’anticipa­ zione può anche far sortire esiti geniali, ma vale la pena sacrificare la dialettica culturale per un occasionale prodotto d’eccezione? Diamo dunque alla tecnologia lo spazio per sviluppare quella koiné culturale che i mezzi di massa forniscono oggi a tempi certamente più brevi che nel passato. E a quel punto cerchiamo di scardinare i modelli in via di sclerotizzazione. Questo anche perché nuovi linguaggi - una volta che siano davve­ ro fondati - richiedono nuovi modelli critici, e la critica non si esercita solo sull’immagine ma anche sulla storia dell’immagine e sulle risultan­ ti che volta a volta essa propone. Scrivevo a quel tempo, e non ho affatto cambiato opinione:

Ecco allora che la critica è chiamata ogni volta a compiere un percorso a ritroso poiché, all’inverso di quanto si ritiene comunemente, è il pre­ sente che spiega il passato sintantoché il presente rientra nell’itinerario di una dinamica, di una storia. Non riduciamo il cinema e l’immagine a una lingua morta! Concediamo loro un presente: solo così avremo dato loro un passato, e solo così potremo dar loro un futuro.

Riferimenti bibliografici Sul rapporto fra il digitale e il “diritto all’inconscio” si veda Andrea Romeo, “I tele-figli del cinema commerciale”, Voci off, 7/8, Giugno-

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Settembre 1996; le ottimistiche affermazioni di Brook Landon sono nel suo, peraltro interessante, The Aesthetics of Ambivalence. Rethinking Science Fiction Film in the Age of Electronic (Reproduc­ tion, Greenwood Press, Westport, 1992; l’idea di “cambiamento” co­ me caratteristica della fiction e non del mito è sviluppata da Frank Kermode nel suo noto The Sense of an Ending, Oxford UP, Oxford, 1967; i dubbi di Christian Rouet sulle possibilità di riuscita di un attore vir­ tuale sono espressi nell’intervista intitolata “Alla corte di Re Lucas”, Voci off, 6, Aprile-Maggio 1996; l’affermazione di chi scrive sulla ne­ cessità di “concedere un presente” al cinema si trova in Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Laterza, Bari, 1987.

Indice dei film e delle opere citate

1975: occhi bianchi sul pianeta terra (The Omega Man, Boris Saga], 1971)253

2000: la fine dell’uomo (No Blade of Grass, Cornei Wilde, 1970) 231 2001:Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1967)237,241

2022: i sopravvissuti (Soylent Green, Richard Fleischer, 1973) 231, 253 42.a strada (42nd Street, Lloyd Bacon, 1933) 8,188,364,412

A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot, Billy Wilder, 1960) 189 Abyss (id., James Cameron, 1989) 224

Accadde una notte (It Happened One Night, Frank Capra, 1934) 155, 191,209,426

Accadde una volta (Red Salute, Sidney Lanfield, 1935) 160

Addio alle armi (A Farewell to Arms,

étrange adventure de Lemmy Caution, Jean-Luc Godard, 1965)383

Ai confini della realtà (serie televisiva) 138

albero degli zoccoli, L’ (Ermanno Olmi, 1977) 387

Alcool (Come Fill the Cup, Gordon Douglas, 1951) 428

Ali Baba Goes to Town (David Butler, 1937)110 Alice (id. Woody Allen, 1990) 94 Alice in Hollywood (progetto di mediometraggio) 144

Alice nel paese delle meraviglie (Alice in Wonderland, Walt Disney, 1951)130,143

Alien (id., Ridley Scott, 1979) 224, 225,231,242

Aliens. Scontro finale (Aliens, James Cameron, 1986) 243 All the King’s Horses (Frank Tuttle) 184

Charles Vidor, 1957)301 Addio, mia amata (romanzo di Raymond Chandler) 77

All’Ovest niente di nuovo (All Quiet on the Western Front, Lewis

Addio, Mr. Chips! (Goodbye, Mr. Chips, Sam Wood, 1939) 14 Adventure Girl (H. Raymaker, 1934)

Alla fiera per un marito (State Fair,

200,208

Agente Lemmy Caution, missione Alphaville (Alphaville, une

Milestone, 1930) 300

José Ferrer, 1962) 165

allegra fattoria, L’ (Summer Stock, Charles Walters, 1950) 165,177

allegro tenente, L’ (The Smiling Lieutenant, 1931) 182

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STILI AMERICANI

altra donna, Un‘ (Another Woman, Woody Allen, 1988) 94,96,97

Amami o lasciami (Love Me or Leave Me, Charles Vidor, 1955) 176 Amami stanotte (Love Me Tonight, 1932)182

Amanti di domani (When You’re in Love, Robert Riskin, 1937) 188 Amanti perduti (Les enfants du paradis, Marcel Carnè, 1945) 20 America 1929: sterminateli senza pietà (Boxcar Bertha, Martin Scorsese, 1972) 66,107,319

America oggi (Short Cuts, Robert Altman, 1993) 85,86,88,89, 328 American beauty (id., Sam Mendes, 1999)289 American Graffiti (id., George Lucas, 1973)107,300 American Psycho (id., Mary Harron, 2000)347 americano a Parigi, Un (An American in Paris, Vincente Minnelli, 1951) 167,177,179,189-190

americano tranquillo, Un (The Quiet American, Joseph L. Mankiewicz, 1958)43-44

ammutinamento del Caine, L’ (The Caine Mutiny, Dmytryk, 1954) 446

Amore e guerra (Love and Death, Woody Allen, 1975) 92,93,137

amore è novità, L (Love Is News, Tay Garnett, 1937) 161

Amore in otto lezioni (Gold Diggers of 1937, Lloyd Bacon, 1936) 7 Amore, piombo e furore (China 9 Liberty 37, Monte Hellman, 1978) 57,58,61 Amos ’n’Andy (serie televisiva) 127

Anche gli uccelli uccidono (Brewster McCloud, Robert Altman, 1970) 76,81,323

Anche i boia muoiono (Hangmen Also Die, Fritz Lang, 1942) 27 angelo nero, L’ (Black Angel, Roy William Neill, 1946) 196

Angoscia (Gaslight, George Cukor, 1944)400

Anno 2000: corsa della morte (Death Race 2000, Paul Bartei, 1975) 66

anno scorso a Marienbad, L’ (Alain Resnais, 1961) 268,385 Anything Goes (Lewis Milestone, 1936)184 Apocalypse Now (id., Francis Ford Coppola, 1979) 68 Applause (Rouben Mamoulian, 1929)182

Appuntamento al buio (Blind Date, Blake Edwards, 1987) 118

aratro e le stelle, L’ (The Plough and the Stars, John Ford, 1937) 210 Argento vivo (Spitfire, John Cromwell, 1934) 207

armi di Eva, Le (Fashions of1934, William Dieterle, 1934) 5

Assassini nati (Natural Bom Killers, Oliver Stone, 1994) 296

asso nella manica, U (The Big Carnival, Billy Wilder, 1951) 430

Atto di forza (Total Recall, Paul Verhoeven, 1990) 134,227, 229,230,232

Autostop (You Can’t Run Away from It, 1956) 191 Avventura a mezzanotte (It’s Love I’m After, Archie Mayo, 1937) 161

avvoltoi hanno fame, Gli (Two Mules for Sister Sara, 1970) 281 Azione esecutiva (Executive Action, David Miller, 1973) 435 Babes on Broadway (Busby Berkeley, 1941)4

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INDICE DEI FILM E DELLE OPERE CITATE

Baciami, Kate (Kiss Me, Kate, George Sidney, 1953) 177

Baciami, stupido (Kiss Me, Stupid, Billy Wilder, 1964) 292

bacio della morte, Il (Kiss of Death,

Behind the Headlines (R. Rosson, 1937)211 Believers, The (id., John Schlesinger, 1987) 118,122

bella di Mosca, La (Silk Stockings,

Henry Hathaway, 1947) 218219

Rouben Mamoulian, 1957) 163, 179

bacio della pantera, Il (Cat People,

Belli e dannati (My Own Private Idaho, Gus Van Sant, 1991) 141-

Jacques Tourneur, 1943) 212

bacio di Venere, Il (One Touch of Venus, William A. Seiter, 1948) 200

Bad Lands (Lew Landers, 1939) 306 ballata di Cable Hogue, La (The Ballad of Cable Hogue, Sam Peckinpah, 1970) 271 Bambi (id., David Hand e Walt Disney, 1942) 130

Bandito senza nome (Somewhere in the night, Joseph L Mankiewicz, 1946) 43-44

Barkley di Broadway, I (The Barkleys of Broadway, Charles Walters, 1949) 170,177,408

Barriera invisibile (Gentleman’s Agreement, Elia Kazan, 1947) 427

Bassa marea (House by the River, Fritz Lang, 1950) 28

Bataan (id., Tay Garnett, 1943) 306307

Batman (id., Leslie Martinson, 1966) 290,292

battaglia di Alamo, La (The Alamo, John Wayne, 1960) 400

Beast from Haunted Cave (Monte Hellman, 1959)62 Beautiful but Broke (Charles Barton, 1944)189

Beetlejuice - Spiritello porcello (Beetle Juice, Um Burton, 1988) 290

Before Dawn (Irving Pichel, 1933) 208

145

belve della città, Le (Bullets or Ballots, William Keighley, 1936) 217

Ben Hur (id., Fred Niblo, 1925) 363 berretti verdi, I (The Green Berets, John Wayne, 1968) 305 Better Watch Out! (Monte Hellman, 1989) 57,61 Beyond the Rocks (Sam Wood, 1922) 362

Biancaneve e i sette nani (Snow White and the Seven Dwarfs, David Hand e Walt Disney, 1937)130 Big Broadcast, The (Frank Tuttle, 1932)183

Bill il bandito {The Parson and the Out law, Oliver Drake, 1957) 365

Billy il bugiardo (Billy Liar, John Schlesinger, 1963) 102,119, 121

Bionda incendiaria (Incendiary Blonde, Gorge Mashal), 1945) 184

Bird (id., Clint Eastwood, 1988) 283 Blade Runner (id., Ridley Scott, 1982) 224,225,229,231,234

Blondie Goes Latin (Frank Strayer, 1941)188

Boys of the Street (William Nigh, 1937)217 Brazil (id., Terry Gilliam, 1985) 225

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STILI AMERICANI

Bride ofthe Regiment (J. F. Dillon,

Cape Fear (id., Martin Scorsese,

1930) 187 Brigadoon (id., Vincente Minnelli, 1954)4

Cappello a cilindro (Top Hat, Mark

Brivido nella notte (Play Misty for Me, Clint Eastwood, 1971) 281 Broadway Danny Rose (id., Woody Allen, 1984) 98

Broadway Serenade (Robert Z. Leonard, 1939) 9

bucanieri, I (The Buccaneer, Anthony Quinn, 1958) 110,440 Buffalo Bil egli indianil (Robert Altman, 1976)81,83

buio in cima alle scale, Il (The Dark at the Top ofthe Stairs, Delbert Mann, 1960)401

Bulli e pupe (Guys and Dolls, Joseph L. Mankiewicz, 1955) 43 Bullitt (id., Peter Yates, 1968) 457

Buongiorno, Miss Dove (Good Morning, Miss Dove, Henry Koster, 1955) 414

Butch Cassidy (Butch Cassidy and the Sundance Kid, 1969) 371 Buttati, Bernardo! (You're a Big Boy Now, 1966) 69 Caccia all'uomo (Man Hunt, Fritz Lang, 1941) 28

caccia, La (The Chase, Arthur Penn, 1966)371

California Poker (California Split, Robert Altman, 1974) 79,80, 81,82,87,89,317,319 Calore (Heat, Paul Morrissey, 1972) 117 Camper (id., Brad Silberling, 1995) 459 cancelli del cielo, I (Heaven’s Gate, Michael Cimino, 1980) 337

Cantando sotto la pioggia (Singin’ in the Rain, Donen e Kelly, 1952) 189,190,393,399

1991)66

Sandrich, 1935) 4,190,418 Capricorn One (id., Peter Hyams, 1978)254

Carioca (Flying Down to Rio, Thornton Freeland, 1932) 207, 209,382 Carnival Rock (Roger Corman, 1958)130 Carolina Blues (Leigh Jason, 1944) 187 Casablanca (id., Michael Curtiz, 1942)398 Cast Away (id., Robert Zemeckis, 2000)331

castello di Dragonwyck, Il (Dragonwyck, Joseph L. Mankiewicz, 1946) 43-44,47 Cat Ballou (id., Elliot Silverstein, 1965)424 Catcher in the Rye, The (romanzo di Jerome D. Salinger) 103

catene della colpa, Le (Out ofthe Past, Jacques Tourneur, 1947) 212

Cattive compagnie (Bad Influence, Curtis Hanson, 1990) 118

cavaliere della valle solitaria, Il (Shane, George Stevens, 1953) 366,397

cavaliere elettrico, II (The Electric Horseman, Sydney Pollack, 1979)429

cavaliere pallido, Il (Outlaw Josey Wales, Clint Eastwood, 1985) 281

cavaliere solitario, Il (Buchanan Rides Alone, 1958) 265 cavalieri del Texas, I (The Texas Rangers, King Vidor, 1936) 313 Cha-Cha-Cha Boom (Fred F. Sears, 1956)192

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INDICE DEI FILM E DELLE OPERE CITATE

Check and Doublé Check (M. Brown, 1930) 212

Chi è Harry Kellerman e perché parla male di me* (Who’s Harry Kellerman and Why Is He Saying Those Terribile Things About Me*, Ulu Grosbard, 1971) 220 Chi ha incastrato Roger Rabbit? (Who Framed Roger Rabbit*, Robert Zemeckis, 1988) 238 Chinatown (id., Roman Polanski, 1974) 31,107,220 Ciao, Birdie (Bye Bye, Birdie, George Sidney, 1963) 191

Ciao, Pussycat (What’s New Pussycat?, Clive Donner, 1965) 91

Cieli azzurri (Blue Skies, Mark Sandrich, 1946) 185

Cincinnati Kid (The Cincinnati Kid, Norman Jewison, 1965) 79

cinque segreti del deserto, I (Five Graves to Cairo, Billy Wilder, 1943)181

cinquemila dita del Dottor T, Le (The Five Thousand Fingers of Dr. T, Roy Rowland, 1953) 191 Cittadino dello spazio (This Island Earth, Joseph M. Newman, 1954)245

clan dei Barker, Il (Bloody Mama, Roger Corman, 1970) 220 Cleopatra (id., Joseph L. Mankiewicz, 1963) 43,46,47, 199 Cobra (Joseph Henabery, 1925) 362 Cockfighter (Monte Hellman, 1974) 57,59-60 College Humor (Wesley Ruggles, 1933)183

colline blu, Le (Ride in the Whirlwind, Monte Hellman, 1965) 57,58,59,61

Come eravamo (The Way We Were, Sydney Pollack, 1973) 107 Comma 22 (Catch 22, Mike Nichols, 1970)220

commedia sexy in una notte di mezza estate, Una (Woody Alien) 98 Condannate (Condemned Women, Lew Landers, 1938)210 Confessions d’un barjo (Jerome Boivin, 1992) 229

conquistatori della Virginia, I (Captain John Smith and Pocahontas, 1953) 365 conquistatori, I (The Conquerors, William Wellman, 1932) 209 Contact (id., Robert Zemeckis, 1997)231,334

contessa scalza, La (The Barefoot Contessa, Joseph L. Mankiewicz, 1954)41,47

Conto alla rovescia (Countdown, Robert Altman, 1967)76

conversazione, La (The Conversation, Francis F. Coppola, 1974) 67

coppia perfetta, Una (A Perfect Couple, Robert Altman, 1979) 84

Corea in fiamme (The Steel Helmet, Samuel Fuller, 1951) 202

corridoio della paura, Il (Shock Corridor, Samuel Fuller, 1963) 202,427

Corvo rosso, non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson, Sydney Pollack, 1972) 400

cosa, La (The Thing, John Carpenter, 1982)225,242,456

Così parla il cuore (Deep in my Heart, Stanley Donen, 1954) 178

cospiratori, I (The Molly McGuires, Martin Ritt, 1970) 435

470

STILI AMERICANI

covo dei contrabbandieri, Il (Moonfleet, Fritz Lang, 1955) 28 Cowboy Canteen (Lew Landers, 1944)187

Cowgirl: il nuovo sesso (Even Cowgirls Get the Blues, Gus Van Sant, 1994) 144

Crash (id., David Cronenberg, 1996) 135

Crazy Runners - Quei pazzi pazzi sulle autostrade (Honky Tonky Freeway, John Schlesinger, 1981)118

Crimini e misfatti (Crimesand Misdemeanors, Woody Allen, 1989)94-96

crociera delle ragazze, La (Melody Cruise, Mark Sandrich, 1933) 208

Crown of Lies, The (Dimitri Buchowetzki, 1926) 181 cucciolo, Il (The Yearling, Clarence Brown, 1946) 401

Cuore selvaggio (Wild at Heart, David Lynch, 1990) 339

Cuori in burrasca (Tugboat Annie, Mervyn LeRoy, 1933) 14

Da morire (To Die For, Gus Van Sant, 1995)144

Da qui all’eternità (From Here to Eternity, Fred Zinnemann, 1953)118

Dàì, muoviti (Move, Stuart Rosenberg, 1970) 435 Dancer in the Dark (id., Lars von Trier, 1999)393

danza delle luci, La (Gold Diggers of 1933, Mervyn LeRoyl933) 5, 13,166 Darling (id., John Schlesinger, 1965) 121

dea dell’amore, La (Mighty Aphrodite, Woody Allen, 1995) 95,98,321

Decisione al tramonto (Decision at Sundown, Budd Boetticher, 1957) 265-266 Deer Park The (romanzo di Norman Mailer) 107 Delinquents, The (Robert Altman, 1957)76

Delitto per delitto (Strangers on a Train, Alfred Hitchcock, 1951) 124

Deluge (Felix Feist, 1933) 208 Dementia 13 (Francis F. Coppola, 1963)66

Desiderio di re (The King Steps Out, Joseph von Sternberg, 1936) 192 Detour (Ulmer, 1946) 197,201

diavolo è femmina, Il (Sylvia Scarlett, George Cukor, 1935) 206

Dick Tracy (id., Beatty, 1990) 383 Dieci in amore (Teacher’s Pet, George Seaton, 1957) 429

Dietro la porta chiusa (The Secret Beyond the Door, 1948) 28, 29

Dillinger (id., John Milius, 1973) 107

Disraeli (Alfred E. Green, 1929) 407

dittatore dello stato libero di Bananas, Il (Bananas, Woody Allen, 1971) 92

Dodici lo chiamano papà (Cheaper by the Dozen, Walter Lang, 1950)401

dollaro d’onore, Un (Rio Bravo, Hawks, 1959) 265

Domenica, maledetta domenica (Sunday, Bloody Sunday, John Schlesinger, 1971) 105,113, 114,115,116,121

dominatori dell’universo, I (Masters of the Universe, Gary Goddard, 1987)224

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INDICE DEI FILM E DELLE OPERE CITATE

dominatori della metropoli, I (Meet John Doe, Frank Capra, 1941) 428

donna che visse due volte. La (Vertigo, Alfred Hitchcock, 1958)129

donna del destino, La (Designing Woman, Vincente Minnelli, 1957)426

donna del giorno, La (Libeled Lady, Jack Conway, 1936) 161

donna del ritratto, La (The Woman in the Window, Fritz Lang, 1944) 27

donna dell’anno, La (Woman of the Year, George Stevens, 1942) 425 donna eterna, La (She, Irving Pichel, 1935)210

Donne (The Women, Cukor, 1939) 327

Donne amazzoni sulla luna (fimazon Women on the Moon, Joe Dante, 1987)137

Donne di lusso (Gold Diggers of 1935, Busby Berkeley, 1935) 7, 399

donne hanno sempre ragione, Le (Oh Men! Oh Women!, Nunnally Johnson, 1957) 417

Dove la terra scotta (Man ofthe West, Anthony Mann, 1958) 265,266

Dr. Stranamore, Il (Dr. Strangelove, Stanley Kubrick, 1964) 432

Dr. Tele donne (Dr. T and the Women, Robert Altman, 2000) 323

Dracula (Dracula -Prince of Darkness, Terence Fisher, 1966) 291

Drugstore Cowboy (id., Gus Van Sant, 1989) 141,144 due capitani, I (Rudolph Maté, 1955)400 Due ore ancora (D.OjL, Rudolph Maté, 1949) 196,433 Duel (id., Steven Spielberg, 1971) 136 Duello al sole (Duel in the Sun, King Vidor, 1945) 265 Dune (id., David Lynch, 1984) 224, 339 E adesso, pover’uomo? (Little Man, What Now?, Frank Borzage, 1934)157

È arrivata la felicità (Mr. Deeds Goes to Town, Frank Capra, 1936) 428

È sempre bel tempo (It’s Always Fair Weather, 1955)47 E.T. l’extra-terrestre (E.T. the ExtraTerrestrial, Steven Spielberg, 1982) 241,291

Eadie Was a Lady (Arthur Dreifuss, 1945)189

Easy Rider (id., Dennis Hopper, 1969)131,314,440

Edward mani di forbice (Edward Scissorhands, Tim Burton, 1990) 290,292

Elephant Man (id., David Lynch, 1980)339 Eraserhead (id., David Lynch, 1978) 339 ereditiera, L’ (The Heiress, William Wyler, 1949) 400

esercito delle 12 scimmie, L’ (12 Monkees, Terry Gilliam, 1996) 225

Dreams ofa Rarebit Fiend, The

Eva contro Eva (fill About Eve,

(Edwin S. Porter, 1906) 382 droit d’aimer, Le (John S. Robertson, 1929)362

Joseph L. Mankiewicz, 1950) 41 Every Night at Eight (Raoul Walsh, 1935)184

472

STILI AMERICANI

Evolution (id., Ivan Reitman, 2001) 255

Explorers (id., Joe Dante, 1985) 137 F for Fake (id., 1973) 37 Facciamo il tifo insieme (Take Me Out to the Ball Game, Busby Berkeley, 1949) 10,165,177

Fango, sudore e polvere da sparo (The Culpepper Cattle Company, Dick Richards, 1972) 268

fantasma e la signora Muir, Il (The Ghost and Mrs. Muir, Joseph L. Mankiewicz, 1947) 44

Fanteria dello spazio (Starship Troopers, Paul Verhoeven, 1999) 232,251,299

Fascino (Cover Girl, Charles Vidor, 1944)175,189-191

Fat 60 Fat City (id., John Huston, 1972) 60

Father Knows Best (serie televisiva) 127

Festa d'amore (State Fair, Walter Lang, 1945)165

fiera delle vanità. La (Becky Sharp, Rouben Mamoulian, 1935) 208 figlia del vento, La (Jezebel, William Wyler, 1938) 199,400

figlio dello sceicco, Il (The Son of the Sheik, George Fitzmaurice, 1926)361,363

finestra sul cortile, La (Rear Window, Alfred Hitchcock, 1954) 124, 219

Fino all’ultimo respiro (A Bout de souffle, Jean-Luc Godard, 1960) 441

fiume rosso, Il (Red River, Howard Hawks, 1948) 268

Follia d’amore (Fool for Love, Robert Altman, 1985) 84,323

Follie di jazz (Second Chorus, H. C. Potter,) 185

fontana della vergine, La (Jungfrukal lan, Ingmar Bergman, 1959) 387

For Me and My Gal (Busby Berkeley, 1942) 167

Forrest Gump (id., Robert Zemeckis, 1994) 135,334

fortezza s’arrende, La (The Fleet’s In, Victor Schertzinger, 1942) 185

fortuna di Cookie, La (Cookie’s Fortune, Robert Altman, 1999) 88,323

forza dell’amore, La (The Bride Walks Out, Leigh Jason, 1936) 160 Fountain, The (John Farrow, 1934) 210

Four Horsemen of the Apocalypse, The (1921) 363 FrankensteinJr. (Young Frankenstein, Mel Brooks, 1974) 137

Fronte del porto (On the Waterfront, Elia Kazan, 1954) 408

Frutto proibito (The Major and the Minor, Billy Wilder, 1942) 417 Fuggiamo insieme (Once Upon a Honeymoon, Leo McCarey, 1942) 154,186,417

Fuori orario (After Hours, Martin Scorsese, 1985) 66,70,118, 436 Furia (Fury, Fritz Lang, 1936) 28,32

Furia selvaggia (The Left-Handed Gun, Arthur Penn, 1958) 424 furia umana, La (White Heat, Raoul Walsh, 1949) 219

Gang (Thieves Like Us, Robert Altman, 1974) 89,323 Gang’s All Here, The (Busby Berkeley, 1943) 10 Gangs of New York (id., Martin Scorsese, 2002) 351

Gangster Story (Bonnie and Clyde, Arthur Penn, 1967) 107,220, 388,442

473

INDICE DEI FILM E DELLE OPERE CITATE

Gardenia blu (The Blue Gardenia, Fritz Lang, 1953) 28

Gente comune (Ordinary People, Robert Redford, 1981) 146

gente mormora, La (People Will Talk, Joseph L. Mankiewicz, 1951) 42,43,47 George Washington Jr. (George M. Cohan, 1906) 166 Gerry (id., Gus Van Sant, 2002) 149

giardino delle streghe, Il (Curse of the Cat People, Robert Wise, 1944) 212

gigante, Il (The Giant, George

Go West, Young Lady (Frank R. Strayer, 1941) 188

Goldbergs, The (serie televisiva) 127 Golden Fleecing, The (Fumetto di Walt Disney) 137 Good News (Charles Walters, 1947) 177 Good Times (William Friedkin, 1967) 66,191 Gordon Pym (romanzo di Edgar Allan Poe, 1838) 103

Grand Duchess and the Waiter, The (Malcolm St. Clair, 1926) 181

grande caldo, Il (The Big Heat, Fritz Lang, 1953)23,219

Stevens, 1956) 209,314,398, 400 Gigi (id., Vincente Minnelli, 1958) 189 Gilligan’s Island (programma televisivo) 331

grande Gatsby, Il (The Great Gatsby,

gioco del falco, Il (The Falcon and the Snowman, John Schlesinger,

Great Victor Herbert, The (Andrew

1985)118,122

gioia d’amare, La (Joy ofLoving, Tay Garnett, 1938) 210

giorni del cielo, I (Pays of Heaven, Terence Malick, 1978) 337

giorno a New York, Un (On the Town, Stanley Donen, Gene Kelly, 1949) 177,179,190

giorno della locusta, Il (The Day of the Locust, Nathanael West, 1975) 107,108,109,113,114116,118,119,121,122 Girandola (Carefree, Mark Sandrich, 1938)170,417 Giulio Cesare (Julius Caesar, Joseph L. Mankiewicz, 1953) 43 Give Us This Night (Alexander Hall, 1936)184

gloria del mattino, La (JAoming Glory, Lowell Sherman, 1933) 207

Jack Clayton, 1974) 107,109, 365

granduchessa e il cameriere, La (Here Is My Heart, Frank Tuttle, 1934) 183

L. Stone, 1939) 184 Gremlins (id., Joe Dante, 1984) 132, 137 Grissom Gang (id., Robert Aldrich, 1971)220

guerra lampo dei fratelli Marx, La (Duck Soup, Leo McCarey, 1933)181

guerra privata del cittadino Joe, La (Joe, John G. Avildsen, 1970) 220

Guerre stellari (Star Wars, George Lucas, 1976) 131,231,244, 254 Gunsmoke (serie televisiva) 127

Hannah e le sue sorelle (Hannah and her Sisters, Woody Allen, 1986) 94

Haxan - La stregoneria attraverso i secoli (Haxan - Witchcraft through the Ages, Benjamin Christensen, 1921) 387

474

Headline Shooter (O. Brower, 1933) 211 Health (Robert Altman, 1979) 84, 85,323 Heat’s On, The (Gregory Ratoff, 1943)188 Hello, Dolly! (id., Gene Kelly, 1969) 4 Hey Rookie (Charles Barton, 1944) 187 Hiroshima mon amour (id., Alain Resnais, 1959) 385 Hold Your Man (Sam Wood, 1933) 320 Hollywood Hotel (id., Busby Berkeley, 1938) 78 Honeymooners, The (serie televisiva) 127,176 Honky Tonk Man (id., Clint Eastwood, 1982) 281 Hook (id., Steven Spielberg, 1991) 136

Ho sparato a Andy Warhol (I Shot Andy Warhol, Mary Marron, 1996)349 Hot Rod Girl (Leslie Martinson, 1956)66 Hotel Imperial (Mauritz Stiller, 1927)181 Huckleberry Finn (romanzo di Mark Twain, 1885) 103 I Love a Bandleader (Del Lord, 1945) 188 I Love Lucy, Dragnet (serie televisiva) 127 Iguana (id., Monte Hellman, 1988) 57,59,61 Il lungo addio (romanzo di Raymond Chandler) 84,86 Images (id., Robert Altman, 1972) 76,83,220 impareggiabile Godfrey, L’ (My Man Godfrey, Gregory La Cava, 1936) 154-155,161

STILI AMERICANI

Impero colpisce ancora, L’ (Tfee Empire Strikes Back, Irvin Kershner, 1980) 246 Impostore (Andrea e Antonio Frazzi, 1982)229 impostore, Id (The Imposter, Gary Fleder, 2002) 229

Improvvisamente l’estate scorsa (Suddenly, Last Summer, Joseph L. Mankiewicz, 1959) 42,43, 47

Incantesimo (The Eddie Duchin Story, George Sidney, 1956) 191

incontentabile, L (Walking on Air, Joseph Santley, 1936) 211

Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters ofthe Third Kind, Steven Spielberg, 1977) 241,249,335

Incontriamoci a St. Louis (Meet Me in St. Louis, Vincente Minnelli, 1944)10,165,177 Independence Day (id., Roland Emmerich, 1999) 241,242, 244,245,246,255,301,302

infernale Quinlan, Id (Touch ofEvil, Orson Welles, 1958) 37,39,46, 86,219,400 innocente, Id (Luchino Visconti, 1976)388 insospettabili, Gli (Sleuth, Joseph L. Mankiewicz, 1972) 43-44 Interiors (id., Woody Allen, 1978) 96

Intrigo intemazionale (North by Northwest, Alfred Hitchcock, 1959)335

invasione degli ultracorpi, Id (Invasion ofthe Body Snatchers, Don Siegel, 1956) 241-243

Inviati molto speciali (I Love Trouble, Charles Shyer, 1994) 429 Io e Annie (Annie Hall, Woody Allen, 1977) 91,94

475

INDICE DEI FILM E DELLE OPERE CITATE

Io ero uno sposo di guerra (I Was a Male War Bride, Howard Hawks, 1949) 154

Io sono un evaso (I Am a Fugitive from a Chain Gang, Mervyn LeRoy, 1932) 13 Is My Face Bed? (William Seiter, 1932)207

Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (Dirty Harry, Don Siegei, 1971)281 It (Clarence Badger, 1927) 363 It Happened One Night (Frank Capra, 1934) 160

Iwo Jima deserto di fuoco (Sands of Iwo Jima, Allan Dwan, 1949) 195,306 Jack (id., Francis Ford Coppola, 1996)291 Jam Session (Charles Barton, 1944) 187 Je t’aime, je t’aime (id., Resnais, 1969)383 JFK (id., Oliver Stone, 1991) 435

Jimmy Dean, Jimmy Dean (Come Back to the Five & Dime, Jimmy Dean, Jimmy Dean, Robert Altman, 1982) 84,85,87,323, 326 Johnny Guitar (id., Nicholas Ray, 1954)197,266,419 Jumanji (id., Joe Johnston, 1995) 459 Kansas City (id., Robert Altman, 1996) 87,88,321,317,354

kermesse eroica, La (La kermesse héroique, Jacques Feyder, 1935) 387

Killer Klown dallo spazio (Killer Klowns from Outer Space, Stephen Chiodo, 1988) 242

kimono scarlatto, Il (The Crimson Kimono, Samuel Fuller, 1959) 196

King Kong (id., Ernest B. Schoedsack, Merian C. Cooper, 1933) 129

Kitty Foyle, ragazza innamorata (Kitty Foyle, Sam Wood, 1940) 400

Klondike Annie (Raoul Walsh, 1936) 412

Là dove scende il fiume (Bend of the River, Anthony Mann, 1952) 267,397

Labbra proibite (Rockabye, George Fitzmaurice, 1932) 209

Lady Lou, She Done Him Wrong (Lowell Sherman, 1933) 413, 415 Land Beneath the Ground (fumetto di Walt Disney) 137 Land of the Pigmy Indians (fumetto di Walt Disney) 137 laureato, Il (The Graduate, Mike Nichols, 1967) 131 Leave It to Beaver (serie televisiva) 127,176 Legend of Valentino, The (telefilm, 1975)366

legge del mitra, La (Machine-Gun Kelly, Roger Corman, 1958) 68 Let ’Em Eat Cake (Musical di George and Ira Gershwin, 1933) 155 Lettera a tre mogli (A Letter to Three Wives, Joseph L. Mankiewicz, 1949) 43,45 Lili (id., Charles Walters, 1953) 168 Little Fugitive, The (Morris Engel, 1953)440 Little Johnny Jones (George M. Cohan, 1904) 166 Little Millionaire, The (George M. Cohan, 1911) 166 Little Orphan Annie (J. Robertson, 1932) 208 Lolita (id., Stanley Kubrick, 1962) 295,297

476

STILI AMERICANI

Look Homeward, Angel (romanzo diThomas Wolfe) 103

Lost in Space - Perduti nello spazio (Lost in Space, Stephen Hopkins, 1998) 331

lunga attesa, La (Homecoming, Mervyn LeRoy, 1948) 13,16, 18,21

lungo addio, Il (The Long Goodbye,

maniera d’amare, Una (A Kind of Loving, John Schlesinger, 1962) 102

Man on the moon (id., Milos Forman, 1999)341

Mano pericolosa (Pickup on South Street, 1953) 203 maratoneta, Il (Marathon Man, 1976)118,122

Robert Altman, 1973) 76,87, 89,326 Macbeth (id., Orson Welles, 1948) 195

Marcia nuziale (The Wedding March,

macchina del tempo, La (The Time Machine, George Pal, 1960)

Marlowe, il poliziotto privato (Farewell, My Lovely, Dick

238

Madame Pompadour (Herbert Wilcox) 181

Mademoiselle Zazà (Zaza, George Cukor, 1939) 184

magnifica avventura, Una (A Damsel in Distress, George Stevens, 1937) 210

magnifica bambola, La (The Magnificent Doll, Frank Borzage, 1946) 400,417

magnifici Amberson, I (The Magnificent Ambersons, Orson Welles, 1942) 37,212

Magnolia (id., Paul Thomas Anderson, 1999) 83

mago di Oz, Il (The Wizard of Oz, Victor Fleming, 1939) 164,178 Maid's Night Out (B. Holmes, 1938) 211 Maitres du temps, Les (René Laloux, 1982)224 Mala Noche (Gus Van Sant, 1985) 148

Erich von Stroheim) 181

Mariti e mogli (Husbands and Wives, Woody Allen, 1992)94,98

Richards, 1975) 77 Mamie (id., Alfred Hitchcock, 1964) 124,220 Mars Attacks! (id., Tim Burton, 1999)245,255,301 MASH (id., Robert Altman, 1970) 75,88 Mask, The (id., Charles Russell, 1994)238 Masquerade (The Honey Pot, Joseph L Mankiewicz, 1967) 43,47

massacro di Fort Apache, Il (Fort Apache, John Ford, 1948) 306 massacro di San Valentino, Il (St. Valentine’s Day Massacre, Roger Corman, 1967) 107 Matinée (id., Joe Dante, 1993) 135, 137 matrimonio, Un (A Wedding, Robert Altman, 1978) 83,85 Matrix (id., Wachowski, 2000) 136, 238,257

Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all’inferno (Mean Streets, Martin Scorsese, 1973) 70

Mamma ti ricordo! (I Remember Mama, George Stevens, 1948)

Meet Me on Broadway (Leigh Jason,

212,401 Manhattan (id., Woody Allen, 1979) 94,98

1946)189 Men in Black (id., Ivan Reitman, 1999)136,225,255

477

INDICE DEI FILM E DELLE OPERE CITATE

Mentre la città dorme (While the City Sleeps, 1956) 28,32 Merrily We Go to Hell (Dorothy Arzner, 1932)428

Messaggio tragico (Dispatch from Reuter, William Dieterie, 1940) 428

Mi sdoppio in quattro (Multiplicity, Harold Ramis, 1996) 238

Mia moglie preferisce suo marito (Three for the Show, H. C. Potter, 1955) 191 Mia sorella Evelina (My Sister Eileen, Richard Quine, 1955) 191

milioni della manicure, I (Hands Across the Table, Mitchell

mondo cambia, Il (The World Changes, Mervyn LeRoy, 1933) 15

Monkey’s Paw, The (Wesley Ruggles, 1933)206

Montagne russe (State Fair, Henry King, 1933) 165 Monte Carlo (id., Ernst Lubitsch, 1930)182

morte cavalca a Rio Bravo, La (The Deadly Companions, 1961)267

mosca, La (The Fly, Cronenberg, 1986)300,456 Mr. Smith va a Washington (Mr.

Smith Goes to Washington, Frank Capra, 1939) 165

Leisen, 1935) 161 Millie (J. F. Dillon, 1931) 207 Minority Report (id., Steven Spielberg, 2002) 229,234

mucchio selvaggio, Il (The Wild Bunch, 1969) 267-269,271,

mio corpo ti scalderà, Il (The Outlaw,

Music in My Heart (Joseph Santley,

Howard Hughes, 1943) 265

Miss Prima Pagina (Front Rage Woman, Michael Curtiz, 1935) 429

Missione Alphaville, vedi Agente Lemmy Caution, missione Alphaville Misterioso omicidio a Manhattan (Manhattan Murder Mystery, Woody Allen, 1973)98

mistero del falco, Il (The Maltese Falcon, John Huston, 1941) 218,398

mistero di Sleepy Hollow, Il (Sleepy Hollow, Tim Burton, 1999) 289 Moby Dick (romanzo di Herman Melville, 103

Modesty Blaise, la bellissima che uccide (Modesty Blaise, Joseph Losey, 1966) 383

Mondi senza fine (World without End, Edward Bernds, 1956) 196,238

288 1940)188

Music Man, The (id., Morton da Costa, 1962) 165

Musica indiavolata (Small Town Girl, Leslie Kardos, 1953) 177 Mutter Krausens fahrt ins Gluck (Phel Jutzi, 1929) 106

Nascita di una nazione (Birth ofa Nation, Griffith, 1915) 382, 389

Nashville (id., Robert Altman, 1975) 79,80,81,82,83,85,87,89, 317,326,328

Nel mondo della luna (TheMoon’s Our Home, William A. Seiter, 1936)161

nemico pubblico n. 1, Il (The Public Enemy, William Wellma, 1931) 216

New Faces of 1937 (Leigh Jason, 1937)207

Next Voice You Hear, The (William Wellman) 241

478

STILI AMERICANI

Night After Night (Archie Mayo, 1932) 366,413,414 Night Call Nurses (Jonathan Kaplan, 1974)66 Nightmare (Wes Craven) 135

Nightmare Before Christmas, The (Henry Selick, 1993) 292

ninfa degli antipodi, La (Million Dollar Mermaid, Mervyn LeRoy, 1952) 4,10

Ninotchka (id., Ernst Luhitsch, 1939)407

Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, Tobe Hooper, 1974) 314

Non giocate con il cactus (O.C. & Stiggs, Robert Altman, 1987) 323

Non sei mai stata così bella (You Were Never Lovelier, William A. Seiter, 1942) 188

Non si uccidono così anche i cavalli? (They Shoot Horses, Don’t They?, Sydney Pollack, 1969) 14,36

Non sparare, baciami (Calamity Jane, David Butler, 1953) 416 Non voglio perderti (No Man of Her Own, Mitchell Leisen, 1950) 219

Nostro pane quotidiano (Our Daily Bread, King Vidor, 1934) 158

Notorius Tornante perduta (Notorious, Alfred Hitchcock, 1946) 124,202 Notre Dame (William Dieterle, 1939)129 notte all’opera, Una (A Night at the Opera, Sam Wood, 1935) 395

notte brava del soldato Jonathan, La (The Beguiled, Don Siegel, 1971)281

Notte senza fine (Pursued, Raoul Walsh, 1947) 265,290

Nulla di sacro (Nothing Sacred, William Wellman, 1937) 424

Nuvola nera (Last ofthe Comanches, André de Toth, 1952)306

Nuvole passeggere (Till the Clouds Roll By, Richard Whorf, 1946) 178

Obiettivo Burma (Objective Burma, Raoul Walsh, 1945) 306,307

odio esplode a Dallas, L’ (The Intruder, Roger Corman, 1961)68

Odio implacabile (Crossfire, Edward Dmytryk, 1947) 48 OfThee I Sing (Musical di George e Ira Gershwin, 1931) 155 Ombre (Shadows, John Cassavetes, 1959)81

Ombre e nebbia (Shadows and Fog, Woody Allen, 1991)95,98 Ombre rosse (Stagecoach, John Ford, 1939)196,395 Omobono egli incendiari (testo teatrale di Max Frisch, 1958) 245 On the Bowery (Lionel Rogosin, 1956)440 On the Road (romanzo di Jack Kerouac, 1957) 103 On Your Toes (commedia musicale di Richard Rodgers e Lorenz Hart, 1936)155

Operazione Cicero (Five Fingers, Joseph L. Mankiewicz, 1952) 43,47

Operazione diabolica (Seconds, John Frankenheimer, 1966) 434

ora d’amore, Un’ (One Hour with You, Ernst Lubitsch, 1932) 182, 183

orecchio dei Whit, L (A Texas funeral, William Blake Hanon, 1999) 313

479

INDICE DEI FILM E DELLE OPERE CITATE

orribile verità, L' (The Awful Truth, Leo McCarey, 1937)429 Otto e mezzo (Federico Fellini, 1963)268 Over the Hedge (Kaplan, 1979) 66 Ozzie & Harriet (serie televisiva) 127

padrino II, Il (The Godfather II,

Per un pugno di dollari (Sergio Leone, 1964) 392

Perché un assassinio (The Parallax View, Alan J. Papula, 1974) 433 pescatore della Louisiana, Il (The Toast ofNew Orleans, Norman Taurog, 1950) 179

Francis Ford Coppola, 1974) 68 Paisà (Roberto Rossellini, 1946) 198 Palcoscenico (Stagedoor, Gregory La Cava, 1937)207

Peter Pan (Le avventure di Peter Rm] (Peter Pan, Hanilton Luske,

pallottola per Roy, Una (High Sierra,

piacere dello scandalo, Il (Fools for Scandal, Mervyn LeRoy, 1938)

Raoul Walsh, 1940) 218

Pallottole su Broadway (Bullets Over Broadway, Woody Allen, 1994) 96

Panico a Needle Park (The Panic in Needle Park, John Schatzberg, 1971)142

Papà Gambalunga (Daddy Long Legs, Jean Negulesco, 1955) 168

Paper Moon (id., Peter Bogdanovich, 1973)107

Patriot, The (Ernst Lubitsch, 1928) 181

pattuglia sperduta, La (The Lost Patrol, John Ford, 1934) 306 paziente inglese, Il (The English Patient, Anthony Minghella, 1996)334 Peggy Sue si è sposata (Peggy Sue Got Married, Francis Ford Coppola, 1986)69 Pennies from Heaven (Norman Z. McLeod, 1936) 188

Per chi suona la campana (For Whom the Bell Tolls, Sam Wood, 1939) 306

Per favore non toccate le vecchiette (The Producers, Mel Brooks, 1967)208

Per Parigi canto (Innocents ofParis, Richard Wallace, 1929) 181

Clyde Geronimik, Wilfred Jackson, Walt Disney) 130

19

pianeta delle scimmie, Il (Planet of the Apes, Franklin J. Schaffner, 1968)400

pianeta proibito, Il (Forbidden Planet, Herbert Wilcox, 1956) 133,237,250,260

Piangerò domani (I'll Cry Tomorrow, Daniel Mann, 1955)419 Piccole donne (Little Women, George Cukor, 1933) 177,207

Piccole volpi (The Little Foxes, William Wyler, 1941) 398

Piccolo Cesare (Little Caesar, Mervyn LeRoy, 1930) 13,216

Piccolo Nemo -Avventure nel mondo dei sogni (Little Nemo Adventures in Slumberland, 1990)224

Pietà per i giusti (Detective Story, William Wyler, 1951)219 Pinky la negra bianca (Pinky, Elia Kazan, 1949)48 Piranha (id., Joe Dante, 1978) 136

pirata ballerino, Il (The Dancing Pirate, Lloyd Corrigan, 1936) 208

pirata, Il (The Pirate, Vincente Minnelli, 1948) 175,176,399

ponte dell’amore, Il (Lucky Partners, Lewis Milestone, 1940) 417

480

STILI AMERICANI

ponte di Waterloo, Il (Waterloo Bridge, Mervyn LeRoy, 1940)

protagonisti, I (The Player, Robert

13,14,16,17,18,20,21,118 Popeye (id., Robert Altman, 1980) 383 Porgy and Bess (id., Otto Preminger, 1959)191

Psycho (id., Gus Van Sant, 1998)

Prendi i soldi e scappa (Take the Money and Run, Woody Allen, 1969)93

Pret-a-porter (id., Robert Altman, 1994)81,85,87,317 Prigionieri del passato (Random Harvest, Mervyn LeRoy, 1942) 13,14,16,18,19,20

prigionieri dell’oceano, I (Lifeboat, Alfred Hitchcock, 1944) 201

prigioniero del terrore, Il (Ministry of Fear, Fritz Lang, 1944) 27,208 prigioniero dell’isola degli squali, Il (The Prisoner of Shark Island, John Ford, 1936)364 Prigioniero della paura (Fear Strikes Out, Robert Mulligan, 1957) 29

prigioniero di Amsterdam, Il (Foreign Correspondent, Alfred Hitchcock, 1940) 124

Primo amore (Alice Adams, George Stevens, 1935) 207

Primo peccato (Dreamboat, Claude Binyon, 1952) 419 Primula Bianca, La (Carlo Ludovico Bragaglia, 1947) 424

principe consorte, Il (The Love Parade, Lubitsch, 1929) 181182

Priorities on Parade (Albert Rogell, 1942)185

processo, Il (The Trial (Le Proems], Orson Welles, 1963) 37 Professional Sweetheart (William Seiter, 1933) 212

Pronto perdue (Breakfast for Two, Alfred Santell, 1937) 161

Altman, 1992) 86- 87 149,285

Pulp Fiction (id., Quentin Tarantino, 1994)135 Pylon (romanzo di William Faulkner) 383

Qualcosa di travolgente (Something Wild, Jonathan Demme, 1986) 118

Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest, Milos Forman, 1975) 220 Quando una ragazza è bella (Bring "Your Smile Along, Blake Edwards, 1955) 191

Quarantaduesima strada (42nd Street, Busby Berkeley, 1933) 167

Quarto comandamento (La passion Béatrice, Bertrand Tavernier, 1989)387

Quarto potere (Citizen Kane, Orson Welles, 1941) 35,212,425

Quei bravi ragazzi (Goodfellas, Martin Scorsese, 1990) 82

Quel freddo giorno nel parco (That Cold Day in the Park, Robert Altman, 1969) 76,83, 220,326

Quell’incerto sentimento (That Uncertain Feeling, Ernst Lubitsch, 1942) 161 Quintet (id., Robert Altman, 1978) 83

quinto elemento, Il (Le Cinquième élément, Luc Besson, 1997) 224 Quinto potere (Network, Sidney Lumet, 1976) 388 Quo Vadis? (id., Mervyn LeRoy, 1951)177 Radio City Rebels (B. Stoloff, 1938) 212

481

INDICE DEI FILM E DELLE OPERE CITATE

ragazza della Quinta Strada, La (Fifth Avenue Girl, Gregory La Cava, 1939) 154,418

Ragazzi attori (Babes in Arms, Busby Berkeley, 1939) 164

Ritorno al futuro (Back to the Future, Robert Zemeckis, 1980) 334

ritorno di Harry Collings, Il (The Hired Hand, Peter Fonda, 1971) 287

ragazzi venuti dal Brasile, I (The Boys

Ritrovarsi (The Palm Beach Story,

from Brazil, Franklin J. Schaffner, 1978) 118 Rancho Notorious (id., Fritz Lang, 1952)28,29,266

Preston Sturges, 1942) 159,161 Road to 184 RoboCop (id., Paul Verhoeven, 1987)237 Rock All Night (Roger Corman, 1957) 130 Roger Touhy, Gangster! (Robert Florey, 1944) 218

Rapporto confidenziale (Confidential Report, Orson Welles, 1955) 20, 37,426

Rapporto confidenziale (Mr. Arkadin, Orson Welles, 1955) 35

re dei Giardini di Marvin, Il (The King ofMarvin Gardens, Bob Rafelson, 1972) 82,442

re eia ballerina, Il (The King and the Chorus Girl, Mervyn LeRoy, 1937)19

Red Planet Mars (Harry Homer,

Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945) 198

Rose of the Rancho (Marion Gering, 1936)184

Rosencranz e Guildenstem sono morti (Rosencranz and Guildenstern Are Dead, Tom Stoppard, 1990) 143

1952)241 Reivers, The (Marc Rydell, 1969) 103

ruggenti anni ’20,1 (The Roaring 20’s, Raoul Walsh, 1939) 217 Runaway Daughters (Edward Cahn,

Requiem per una monaca

1956)66 Sabrina (id., Billy Wilder, 1954) 292 Sahara (id., Zoltan Korda, 1943) 306 Salto nel buio (Innerspace, Joe Dante, 1987) 136

(romanzo di William Faulkner, 1951)320 Rhythm on the Range (Norman Taurog, 1936) 183

Ribalta di gloria (Yankee Doodle Dandy, Michael Curtiz, 1942) 166

Ricomincio da capo (Groundhog Day, Harold Ramis, 1993) 238 Ricorda quella notte (Remember the Night, Preston Sturges/Mitchell Leisen, 1940) 338 Rin Tin Tin (serie televisiva) 127 Rio Bravo (Rio Grande, John Ford, 1950)195 Rio Rita (L. Reed, 1929) 206

Ritornerà primavera (One More Spring, Henry King, 1935) 158

Sangue e arena (Blood and Sand, Rouben Mamoulian, 1941) 364

scala a chiocciola, La (The Spiral Staircase, Robert Siodmak, 1946)212

Scandalo a Filadelfia (The Philadelphia Story, George Cukor, 1940) 426

Scandalo intemazionale (A Foreign Affair, Billy Wilder, 1948) 154, 186

Scaramouche (id., George Sydney, 1952)363

482

STILI AMERICANI

Scarface (id., Howard Hawks, 1932) 216,219,407

Settembre (September, Woody Allen, 1987) 96

Schiave della città (Lady in the Dark,

settimo sigillo, Il (Det sjunde inseglet,

Mitchell Leisen, 1944) 170, 185,417

Ingmar Bergman, 1956) 387

Schiavo d’amore (Of Human Bondage, John Cromwell, 1934) 206

Schiavo della furia (Raw Deal, Anthony Mann, 1948) 196,219

sconosciuto alla porta, Uno (Pacific Heights, John Schlesinger, 1990) 118,119

Scoprendo Forrester (Finding Forrester, Gus Van Sant, 2000) 149

Screamers (id., Christian Duguay, 1995) 229,230,232,233 Secret Honor (Robert Altman, 1984) 84

Seguendo la flotta (Follow the Fleet, Mark Sandrich, 1936) 185

seme della violenza, Il (Blackboard Jungle, Richard Brooks, 1955) 401

Senso (Luchino Visconti, 1954) 388 Sentieri selvaggi (The Searchers, John Ford, 1956) 314

Sepolto vivo (The Premature Burial, Roger Corman, 1962) 68

serpente di fuoco, Il (The Trip, Roger Corman, 1967) 440

Servizio in camera (Room Service,

Sfida infernale (My Darling Clementine, John Ford, 1946) 268

Sfida nell’Alta Sierra (Ride the High Country, Sam Peckinpah, 1961) 267 Shining (id., Kubrick, 1980) 43 Show Boat (id., George Sidney, 1951)176,209

signora del venerdì, La (His Girl Friday, Howard Hawks, 1940) 429

signora di mezzanotte, La (Midnight, Mitchell Leisen, 1939) 154, 161,182,292

signora di Shangai, La (The Lady from Shanghai, Orson Welles, 1948)35,37,143

signore e la signora Smith, Il (Mr. And Mrs. Smith, Alfred Hitchcock, 1941)161

Signorine, non guardate i marinai (Starspangled Rhythm, George Marshall, 1942) 185

silenzio degli innocenti, Il (The Silence of the Lambs, Jonathan Demme, 1991) 349

Silver Horde, The (George Archainbaud, 1930) 208

William Seiter, 1938) 210 sette assassini, I (Seven Men from Now, 1956) 266

Simpatica canaglia (The Devil Is a Sissy, W. S. Van Dyke, 1936) 217 sirena del circo, La (Texas Carnival,

Sette giorni a Maggio (Seven Days in May, John Frankenheimer,

Charles Walters, 1951) 314 Sitting Pretty (Harry Joe Brown, 1933)184

1964)432,434

Sette spose per sette fratelli (Seven Brides for Seven Brothers, Stanley Donen, 1954) 171,178179

Sogno di Bohème (So This Is Love, Gordon Douglas, 1953) 192 Soldier’s Pay (romanzo di William Faulkner, 1926) 383

483

INDICE DEI FILM E DELLE OPERE CITATE

Solo per te ho vissuto (So Big, Robert Wise, 1953) 314,400

Something to Shout About (Gregory Ratoff, 1943) 188

Sono innocente (You Only Live Once, Fritz Lang, 1938) 25,28 sottile linea rossa, La (The Thin Red Line, Terrence Malick, 1998) 305

Sotto i ponti di New York (Winterset, Alfred Santell, 1936) 206 sparatoria, La (The Shooting, Monte Hellman, 1966) 57,59,61

Species-specie mortale (Species, Roger Donaldson, 1995) 242

Spettacolo di varietà (The Band Wagpn, Vincente Minnelli, 1953) 169,177,189,190,393

Spionaggio intemazionale (Foreign Intrigue, Sheldon Reynolds, 1956)426

Splendore nell’erba (Splendor in the Grass, Elia Kazan, 1961) 401

stagioni del cuore, Le (Places in the Heart, Robert Benton, 1984) 337

Stanotte e ogni notte (Tonight and Every Night, Victor Saville, 1945)189

Star Maker, The (Roy Del Ruth, 1939)184

Star Trek - Eira di Khan (Star Trek The Wrath of Kahn, Nicholas Meyer, 1982) 458

Star Trek - The Next Generation (serie televisiva) 134 Stardust Memories (id., Woody Allen, 1980) 94 Stars on Parade (Lew Landers, 1944) 187

Stato d’allarme (The Bed ford Incident, James B. Harris, 1965) 432

Stop Making Sense (Demme, 1984) 66

storia di Glenn Miller, La (The Glenn Miller Story, Anthony Mann, 1954)446

storia di Vernon e Irene Castle, La (The Story of Vernon and Irene Castle, H. C. Potter, 1939) 210 Storia immortale (The Immortal Story, Orson Welles, 1968) 35, 37

storia vera, Una (Straight Story, David Lynch, 1999) 337

Strada a doppia corsia (Two-Lane Blacktop, Monte Hellman, 1971)83

Strada scarlatta (Scarlet Street, Fritz Lang, 1945)29

Strange Days (id., Kathryn Bigelow, 1999)255

straniero tra gli angeli, Uno (Kismet, Vincente Minnelli, 1955)4,189

Strano interludio (Strange Interlude, Robert Z. Leonard, 1932) 349 Streamers (id., Robert Altman, 1983) 84,85 Strictly Dynamite (Elliot Nugent, 1934)212 Student Teachers (Kaplan, 1973) 66

Sua altezza reale (Royal Wedding, Stanley Donen, 1951) 189 Summer Holiday (Rouben Mamoulian, 1948) 10,165

Superman vuole uccidere Jessie (Vaclav Vorlicek, 1967) 384

Survivor (programma televisivo) 331 Susanna (Bringing Up Baby, Howard Hawks, 1938) 157,160,206, 209

Susanna agenzia squillo (Bells Are Ringing, Vincente Minnelli, 1960)177

Sweetheart on the Campus (1941) 187

484

STILI AMERICANI

Swing in the Saddle (Lew Landers, 1944)188

Time Out for Rhythm (Sidney Salkow, 1941) 187

Swiss Family Robinson (programma

Tobor re dei robot (Tobor the Great,

televisivo) 331 Targets (Peter Bogdanovich, 1967)

Lee Sholem, 1954) 133,237 Tom, Dick e Harry (Tom, Dick and Harry, Garson Karnin, 1941) 417

66 taverna dell’allegria, La (Holiday Inn, Mark Sandrich, 1942) 185 Taxi (sit-com televisiva) 345 Taxi Driver (id., Martin Scorsese, 1976) 70,220

Teenage Caveman (Roger Corman, 1958)130

Tempo di vivere, tempo di morire (A time to Live and a Time to Die, Douglas Sirk, 1958) 301 Temptation Island (programma televisivo) 331 Temptress, The (FredNiblo, 1926) 363

Terapia di gruppo (Beyond Therapy, Robert Altman, 1987) 83,84, 326 Terminator (The Terminator, James Cameron, 1984) 134 Terminator 2 (id., James Cameron, 1991)237 Terminus (John Schlesinger, 1961) 101

terrore della sesta luna, Il (The Puppet Masters, Stuart Orme, 1994)243

terzo delitto, Il (The Mad Miss Manton, Leigh Jason, 1938) 161 tesoro di Vera Cruz, Il (The Big Steal, Don Siegel, 1949) 212 Texan, The (James Hogan, 1938) 313 Texas (id., George Marshall, 1941) 313 Texas funeral, A (William Blake Herron, 1999) 313 It amo ancora (I Love You Again, W. S. Van Dyke II, 1940) 154,188

tomba di Ligeia, La (The Tomb of Ugeia, Roger Corman, 1965) 68,197

Tonight or Never (Mervyn LeRoy, 1931) 14,19 TooMany Wives (Ben Holmes, 1937) 210 Too Much Harmony (Edward Sutherland, 1933) 183 Toy Story (id., John Lasseter, 1995) 458 traditore, Il (The Informer, John Ford, 1931) 206

tragedia del Silver Queen, La (Five Came Back, John Farrow, 1939) 208

tram che si chiama desiderio, Un (A Streetcar Named Desire, Elia Kazan, 1952) 408

Tre donne (3 Women, Robert Altman, 1977)76,83,326

tre giorni del Condor, I (Three Days ofthe Condor, Sydney Pollackm, 1976) 371

Tre piccole parole (Three Little Words, Richard Thorpe, 1950) 179

Treasure Girl (Richard Boleslawski, 1930)405 Tron (id., Steven Lisberger, 1982) 224,255 Truman Show, The (id., Peter Weir, 1998)388

Tutti gli uomini del Presidente (All the President’s Men, Alan J. Pakula, 1976) 428

485

INDICE DEI FILM E DELLE OPERE CITATE

Tutti in coperta (Hit the Deck, Roy Rowland, 1955) 167

Tutto in una notte (Into the Night, John Landis, 1985) 118 Twilight Zone, The (serie televisiva) 132,133,176 Twist All Night (William Hole jr., 1961)66 Two-Lane Blacktop (Monte Hellman, 1971) 57-61 uccelli, Gli (The Birds, Alfred Hitchcock, 1963) 124

uccello del paradiso, L’ (Bird of Paradise, King Vidor, 1932) 208 Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still, Robert Wise, 1951)246

Ultime notizie (The Murder Man, Tim Whelan, 1935)425

ultiminomi di Pompei, Gli (The Last Days of Pompei, Ernest Beaumont Schoedsack 1935) 208

ultimo spettacolo, L’ (The Last Picture Show, Peter Bogdanovich, 1971) 107,268, 337

ultimo valzer, U (The Last Waltz, Martin Scorsese, 1978) 66 ululato, L (The Howling, Joe Dante, 1981) 136

Uomini e cobra (There Was a Crooked Man, Joseph L. Mankiewicz, 1970)43,44 Uomini e topi (romanzo di John Steinbeck, 1937) 402

Uomo bianco, tu vivrai (No Way Out, Joseph L. Mankiewicz, 1950) 43 uomo che cadde sulla Terra, L* (The Man Who Fell to Earth, Nicolas Roeg, 1976) 225

uomo che uccise Liberty Valance, L’ (The Man Who Shot Liberty

Valance, John Ford, 1962) 250, 265,424

uomo da marciapiede, Un (Midnight Cowboy, John Schlesinger, 1969) 102,105,106,119,122

uomo dalla cravatta di cuoio, U (Coogan’s Bluff, Don Siegei, 1968)281

uomo di Kiev, L’ (The Fixer, John Frankenheimer, 1968) 434

uomo di Laramie, L’ (The Man from Laramie, Boetticher ,1955) 265 uomo oggi, Un (WUSA, Stuart Rosenberg, 1970)425,433

uomo senza scampo, Un (I Walk the Line, John Frankenheimer, 1970)60

Uragano (Hurricane, John Ford, 1937)208

Va’ e uccidi (The Manchurian Candidate, John Frankenheimer, 1962) 432

Valentino (Lewis Alien, 1951) 365 valle dei Mohicani, La (Comanche Station, Budd Boetticher, 1960) 265

valzer dell’imperatore, Il (The Emperor’s Waltz, Billy Wilder, 1947)186

Vecchia America (Nickelodeon, Peter Bogdanovich, 1976) 382

Ventesimo secolo (Twentieth Century, Howard Hawks, 1934) 159

vergine di cera, La (The Terror, Roger Corman, 1963) 68

Verità nascoste (What Lies Beneath, Robert Zemeckis, 2000) 334

Vertigine (Laura, Otto Preminger, 1944)425

Via col vento (Gone with the Wind, Fleming, 1939) 199,400

Via dalla pazza folla (Far from the Madding Crowd, John

486

STILI AMERICANI

Schlesinger, 1967) 102,105, 120,122

Viale del tramonto (Sunset Boulevard, Billy Wilder, 1950) 186,292,295

vicini di casa, I (Neighbors, John G. Avidsen, 1981)118

Vicino alle stelle (Man’s Castle, Frank Borzage, 1933) 158

Vieni a vivere con me (Come Live with Me, Clarence Brown, 1941)188

villaggio dei dannati, Il (yìllage ofthe Damned, John Carpenter, 1960) 244,246

Vita col padre (Life with Father, Michael Curtiz, 1947) 401

vita di un gangster, la (I, Mobster, Roger Corman, 1958) 68

Viva le donne! (Footlight Parade, Lloyd Bacon, 1933) 4

Vivendo volando (Riding on Air, Edward Sedgwick, 1937) 212

vivi e i morti, I (The Fall ofthe House of Usher, Roger Corman, 1960) 70

Vogliamo vivere! (To Be or Not to Be, Ernst Lubitsch, 1942) 159

Voglio danzare con te (Shall We Dance, Mark Sandrich, 1937) 9, 419 volto nella folla, Un (A Face in the Crowd, Elia Kazan, 1957) 387

We Can Remember It for You Wholesale (racconto di Philip K. Dick, 1966) 230

We Who Are About to Die (C. Cabanne, 1937) 210

We’re Not Dressing (Norman Taurog, 1934)183

West Side Story (id., Robert Wise, Jerome Robbins, 1961) 155 What’s Buzzin’ Cousin? (Charles Barton, 1943) 187 When Strangers Marry (Clarence G. Badger, 1933) 198 Whoopee! (Thornton Freeland, 1930)5

Will Hunting-genio ribelle (Good Will Hunting, Gus Van Sant, 1997) 144,146,147,148,149

Willow (id., Ron Howard, 1988) 224 Winchester ’73 (id., Mann, 1950) 265,266

Woman from Moscow, The (Ludwig Berger) 181

Woman of Experience, A (H. J. Brown, 1931) 207 Wonder Bar (id., Lloyd Bacon, 1934) 4

Wonders of the Colorado Desert, The (testo di George Wharton James, 1906) 271 Yakuza (The Yakuza, Sydney Pollack, 1975)233 Yankee Prince, The (George M. Cohan, 1908) 166 Yankees (Yanks, John Schlesinger, 1979)118 You and Me (Fritz Lang, 1938) 28 Young Bride (William Seiter, 1932) 207 Zelig (id., Woody Allen, 1983) 95

zona morta, La (The Dead Zone, David Cronenberg, 1983) 433 Zorro (serie televisiva) 127

Indice dei nomi

Abrahams, Roger 343 Adonis, Joe 217 Affleck, Ben 144 Agel, Henri 13 Aldrich, Robert 220 Alger, Horatio 111, 218 Allen, Lewis 160,161, 246 Allen, Woody 91-99,137,189,321, 397 Allyson, June 191,446 Almansi, Guido 260 Altman, Rick 163 Altman, Robert 75-90, 131,323, 354,383 Ankrum, Morris 134 Antonioni, Michelangelo 83,97, 391, 397 Aragones, Sergio 137 Arcangeli, Francesco 388 Archainbaud, George 208 Archette, Guy 250 Arden, Robert 37 Aristotele 255 Arkoff, Samuel Z. 197 Arliss, George 407 Amheim, Rudolf 446 Arnold, Jack 241 Arzner, Dorothy 428 Astaire, Fred 168, 170,171,180, 189, 205, 207- 208,417,419 Atherton, William 109 Austen, Jane 360

Avery, Tex 52,130 Avildsen, John G. 118,220 Bachelard, Gaston 249 Bacon, Lloyd 188,412 Baker, Josephine 365 Baker, Nicholas 347 Balàzs, Bela 416,446 Ballard, Lucien 287 Balzac, Honoré de 325 Barker, Lex 371 Barks, Carl 52,136, 137, 223, 381, 382 Barnum, R T. 342,344 Barrymore, John 159 Barthelme, Donald 133,238,347 Barthes, Roland 342,452 Bartholomew, Freddie 207 Basie, Count 321 Bataille, Henri 347 Baudrillard, Jean 369 Baum, L. Frank 178 Baurel, Henri 167 Baxter, Warner 362,364, 365 Beatty, Warren 383 Beaudine, William 195,198 Beaumont Schoedsack, Ernest 208 Beckett, Samuel 137, 270 Beery, Wallace 14,15 Beethoven, Ludwig van 178 Bellow, Saul 59,102,105 Benchley, Robert 52 Bene, Carmelo 259

488

Benét, Stephen Vincent 178 Bennett, Constance 209 Bening, Annette 294 Benny, Jack 159 Benton, Robert 337 Berger, Thomas 102 Bergman, Andrew 216 Bergman, Ingmar 96,98,387,398 Berkeley, Busby 3-10,164,166, 167,176,177,179, 206, 386, 399 Berle, Milton 212 Berlin, Irving 185 Berman, Pandro S. 212 Bernds, Edward 195,196,238 Bernhardt, Sarah 170,408 Bianchini, Angela 372 Bigelow, Kathryn 255 Binh, N. T. 41 Binyon, Claude 419 Biskind, Peter 237 Blair, Anthony 344 Bloch, Robert 261 Boetticher, Budd 265, 266 Bogdanovich 26, 28, 149, 450 Bogdanovich, Peter 26, 28,66, 107, 149,268,382,450 Boleslawski, Richard 405,407 Boivin, Jerome 229 Boorman, John 101 Boorstin, Daniel 128, 129, 374 Bordman, Gerald 6 Borges, Jorge Luis 137, 343 Borzage, Frank 14,157,158,417, 450 Boucicault, Dion 378 Bow, Clara 153, 363 Bragaglia, Carlo Ludovico 424 Brando, Marlon 59,68, 191,367 Braque, Henri 384 Bratu Hansen, Miriam 384 Braudy, Leo 8 Brazzi, Rossano 362,367 Brecht, Bertolt 28,335,406

STILI AMERICANI

Breen, Bobby 207 Breen, Joseph 155 Brennan, Walter 78 Briskin, Sam 212 Bronson, Charles 68 Bronte, Charlotte 29 Brooks, Mel 91,137,208 Brooks, Richard 401 Brosnan, Pierce 371 Brougham, John 402 Brower, O- 211 Brown, Clarence 188, 211, 401 Brown, Harry Joe 184, 207 Brown, M. 212 Bruce, Lenny 344 Bruno, Giuliana 229 Buchanan, Jack 169,189 Buchowetzki, Dimitri 181 Bukatman, Scott 229 Bukowski, Charles 142 Burnett, W R. 218 Burroughs, Edgar Rice 250 Burstyn, Ellen 201 Burton, Tim 244,245, 255,289 Burton, Wiliam Evans 402 Buscemi, Steve 317 Bush, George W. 236 Butler, David 416 Cabanne, C. 210 Cagney, James 409 Cahn, Edward 66 Calvino, Italo 315 Camerini, Mario 393 Cameron, James 134, 224, 237 Campanini, Carlo 401 Campari, Roberto 397 Canham, Kingsley 15 Caniff, Milton 381 Cansino, Eduardo 187 Cantor, Eddie 110 Capote, Truman 313 Capra, Frank 3,155,165,209,426, 428,450 Capra, Fritjof 257

INDICE DEI NOMI

Carnè, Marcel 20 Carnegie, Andrew 216 Caron, Leslie 168 Carpenter, John 136,242,243,244, 456 Carrey, Jim 238,341 Carroll, Noel 452 Carter, Paul A. 250 Carter Family 378 Caruso, Renato 360, 366 Cassavetes, John 81,150 Castle, William 128, 135, 198 Cavell, Stanley 158 Céline, Louis-Ferdinand 261 Cervantes, Miguel de 374,395 Chamberlain 110, 111 Chandler, Harris Joel 52 Chandler, Raymond 77,78, 218 Chaplin, Charlie 93,395,450 Checcoli, Maria Sole 292 Chiari. Walter 401 Chiodo, Stephen 242 Christensen, Benjamin 387 Cimino, Michael 337 Clair, René 101 Clarke, Arthur C. 238 Clayton, Jack 107,109 Clurman, Harold 406 Cobos, Juan 38,40 Cochran, Steve 68 Coe, Jonathan 371 Cohan, George M. 166 Cohn, Harry 191 Colbert, Claudette 191,426 Cole, Nat King 424 Cole, Thomas 388 Coleridge, Samuel Taylor 84 Colman, Ronald 14,364,417 Colonna, Francesco 6 Columbus, Chris 242 Como, Perry 127 Connery, Sean 371 Connolly, Walter 418 Conrad, Joseph 384

489 Conway, Jack 161 Cooper, Gary 129,407 Cooper, James F. 267, 269 Cooper, Merian C. 211 Coover, Robert 89,137 Coppola, Francis F. 65-73, 85,131, 291,354,450 Corliss, Richard 44,49,293 Corman, Roger 57,65,66,67,68, 69,70, 71,72,107,128,197 Corrigan, Lloyd 208 Cortez, Ricardo 362 Costa, Antonio 382 Costello, Frank 217 Cotten, Joseph 37 Cowper Powys, John 333 Crane, Roy 381 Crane, Stephen 309 Craven, Wes 135, 348 Crawford, Cheryl 406 Crawford, Joan 129,319,419 Cremonini, Giorgio 113, 401 Crespi, Alberto 244 Croce, Benedetto 370 Crockett, Davy 172 Cromwell, John 206,207 Cronenberg, David 135,231,245, 300, 348,433 Crosby, Bing 86,182,184,186,188 Cukor, Gorge 48,184, 207, 209, 327,426 Cullen, Jim 377 Cumbow, Robert C. 269 Curtis, Tony 366 Curtiz, Michael 166,398,401,429 da Costa, Morton 165 Damon, Matt 144 Dante, Joe 127-139, 242 Davis, Bette 129 Day, Doris 153, 416 Day-Lewis, Daniel 351 De Bernardinis, Flavio 84 De Palma, Brian 130 de Recqueville, Jeanne 362

490 De Rege, fratelli 401 de Toth, André 306 De Vito, Danny 345 Dean, James 145,191,367 Dean, Jodi 252 Deer, Harriet 416 Deer, Irving 416 Del Rio, Dolores 209 Del Ruth, Roy 184 Deleuze, Gilles 80 Demarest Lloyd, Henry 396 DeMille 186,208, 235,450 Demme, Jonathan 66,118 Demonsablon, Philippe 24,29 Dennis, Sandy 76 Desmond, Norma 186 Dewhurst, Colleen 96 Dexter, Anthony 362,365 Di Caprio, Leonardo 351 Diaz, Cameron 351 Dick, Philip K. 134, 226 Dickens, Charles 28 Dieterle, William 129,406,428 Dillon, J. F. 207 Disney, Walt 130,373 Dittmar, Linda 305 Dmytryk, Edward 48,446 Doherty, Thomas 130 Donen, Stanley 47,171,177,178, 179, 189, 190,354,399 Dorfles, Gillo 370 Dos Passos, John 361 Douglas, Gordon 192,428 Dreyer, Carl Theodor 398 Drucker, Mort 137 Dufrenne, Mikel 377 Duguay, Christian 229, 233 Dumas, Alexandre 372 Dumont, Margaret 395 Durgnat, Raymond 153 Dutta, Mary Buhl 261 Dwan, Allan 306,382 Eastman, Max 341,342 Eddy, Nelson 184, 187

STILI AMERICANI

Edison, Thomas Alva 378 Edwards, Blake 118,191,192 Einstein, Albert 267 Eisner 24,25, 26,28,30,123 Elfman, Danny 147 Elkin, Stanley 102 Ellis, Easton 348,350 Elsaesser, Thomas 114 Emerson 293,296,297 Emmerich, Roland 242, 246,247, 255 Engel, Morris 440 Ernst, Max 84 Esacande, Maurice 362 Ettig, Ruth 176 Ewell, Tom 165 Faeti, Antonio 155 Fairbanks, Douglas 366,409,450 Farber, Manny 197,198,447 Farrow, John 208, 210 Fattori, Giovanni 388 Faulkner, William 88,112,269,277, 320,383 Faye, Alice 184 Fell, John L. 379,381,383 Fellini, Federico 83,391 Ferrer, José 165 Feyder, Jacques 387 Fiedler, Leslie 103, 158, 287, 396, 402 Fielding, Henry 178 Fink, Guido 92,260 Fischer, Dennis 137 Fisher, Terence 291 Fitzgerald, Scott 107, 297, 401 Fitzmaurice, George 209 Flaubert, Gustave 384 Fleder, Gary 229 Fleischer, Richard 231, 253 Fleming, Henry 199,309 Fleming, Victor 164, 178,392 Florey, Robert 218 Flynn, Charles 195,198 Flynn, Errol 366

INDICE DEI NOMI

Fofi, Goffredo 92 Fonda, Peter 287,288 Fontaine, Joan 210 Ford, John 48, 165,206,208,210, 250,265, 275,276,288,306, 314, 395,424,449 Forman, Milos 220 Foster, Harold 381 Fowles, John 386 Fox, Wallace 195 Fraker, William 287 Frankenheimer, John 60,432,434 Frazer, Robert 299 Freed, Arthur 190 Freeland, Thornton 382 Freleng, Friz 52 French, Philip 109, 111 Freud 277, 278, 452 Friedkin, William 66,191,450 Friedman, Bruce Jay 102,137 Frisch, Max 245 Frost, Robert 338 Frothingham, Octavius Brooks 310 Frye 301 Fuller, Sam 196,202 Fusini, Nadia 415 Gable, Clark 37,129,191, 320 Gahagan, Helen 210 Gaines, William M. 137 Gallagher, Edward 402 Gandini, Leonardo 183 Garbo, Grete 363,407 Gardner, Ava 201 Garfield, John 145 Garland, Judy 167,175 Garnett, Tay 161,306 Gauguin, Paul 374 Gere, Richard 326 Gering, Marion 184 Gershwin, George 155,191,419 Gibbons, Cedric 18,178 Gilbert, John 364 Gill, Brendan 108 Gleason, James 207

491

Godard, Jean-Luc 383 Goddard, Gary 224 Godkin, Edwin Lawrence 374 Goethe, Wolfgang 301 Golding, Samuel 332 Goldwyn, Samuel 191 Goodman, Paul 130 Gorlier, Claudio 257 Gough, Michael 291 Gounod, Charles 188 Gow, Gordon 42 Goya, Francisco 113 Goyen, William 313 Grable, Betty 191 Graczyck, Ed 85 Graham, Allison 133 Grant, Cary 157,159,417 Grayson, Kathryn 175 Green, Alfred E. 202 Greenberg, Joel 19 Gregory, Horace 250 Griffith, David Wark 379,382,450 Groening, Matt 141 Grosbard, Ulu 220 Guetary, Georges 167,168 Hadley Chase, James 318 Haggard, Rider 210 Haley, Jack 184 Hall, Alexander 184 Hall, Conrad 287 Hamilton, Alexander 171,399 Hammerstein, Oscar 165 Hammett, Dashiell 218 Hanon, William Blake 313 Hansen, Miriam 363 Hanson, Curtis 118 Hanson, Duane 345 Harbin, Vemon 205,210 Harbison, Robert 6 Hardy, Oliver 402 Hardy, Thomas 102,120 Harlow, Jean 319,320 Harris, James B. 432 HarroD, Mary 347, 349

492

Haskell, Molly 158,411 Hassan, Ihab 62 Hathaway, Henry 218 Hawkins, Coleman 319 Hawkins, Harriett 172 Hawks, Howard 48,153, 154,157, 159,206, 209,216,265, 268, 429,449 Hawthorne, Nathaniel 123 Hayez, Francesco 388 Hayward, Susan 419 Hayworth, Rita 187,192 Hecht, Ben 159 Heidegger, Martin 251, 257 Heinlein, Robert 232,244,299,300 Hellman, Monte 57-63, 83, 149 Hemingway, Ernest 60 Hendrix, Jimi 141 Hepburn, Katharine 157, 207, 414, 425 Herlihy, James Leo 103,105 Herriman, George 226 Heywood, Thomas 262 Higham, Charles 19 Hill, Hamlin 344 Hilton, James 14 Hirsch, Foster 407,409 Hirschhom, Clive 200 Hitchcock, Alfred 26,129,161, 201, 335 Hitler, Adolf 110, 111 Hoberman, J. 6 Hofstadter, Richard 169,385,446 Hogan, James 313 Hole, William jr. 66 Holliday, Judy 412 Holly, Buddy 138 Holmes, B. 211 Hooper, Tobe 314 Hope, Bob 86, 184,395 Hopper, Dennis 314 Horner, Harry 241 Houbolt, John C. 253 Howard, Ron 224

STILI AMERICANI

Howe, Irving 384 Howells, William Dean 249 Hughes, Howard 216,265 Hughes, Richard 315 Hunter, Kim 198 Hunter, Tony 169 Huston, John 60,218,398 Hyams, Peter 254 Inge, William 96 Irving, Washington 104, 289, 290 Ivens, Joris 406 Ives, Charles 310 Izzo, Carlo 54 Jackson, J. B. 256 Jackson, Stonewall 172 James, Henry 235, 386 Jancovich, Mark 136 Jancso, Miklòs 398 Jason, Leigh 160,161,207 Jefferson 164,171,338, 399 Jenkins, Stephen 24 Jensen, Paul M. 27,28 Jewell, Richard B. 205, 210 Johnson, Nunnally 417,434 Johnston, Joe 459 Jolson, Al 78 Jones, Chuck 51-55,131 Jones, James 306,308 Joyce, James 97 Jutzi, Phil 106 Kaminsky, Stuart 107 Kammen, Michael 400 Kandinskij, Vasili] 335 Kanin, Garson 417 Kaplan, Jonathan 66 Kardos, Leslie 177 Karlson, Phil 195 Kaufman, Andy 341,342,343,344, 345 Kaufman, George S. 155 Kaufman, Phil 243 Kaye, Danny 153 Kazan, Elia 107,219,387,401,408, 409, 427,434

INDICE DEI NOMI

Keaton, Buster 92, 93,395 Keel, Howard 175 Keene, Tom 207 Kelly, Gene 4, 167,168, 175,177, 189, 190, 191, 192,354, 399 Kendall, Elizabeth 159 Keniston, Kenneth 130 Kennedy, John Fitzgerald 136,167, 252 Kenton, Erle C. 195 Kerény, Karl 333 Kerény, Karoly 256 Kermode, Frank 61 Kern, Jerome 178 Kerouac, Jack 59,149 Kerr, Paul 450 Kesey, Ken 149 Ketterer 252 Keyssar, Helene 85 Kidd, Michael 47 King, Henry 158,165 King, Martin Luther 136 King, Stephen 130 Kitses, Jim 266m 267 Klossowski, Pierre 347 Kneller, Sir Godfrey 292 Kokoschka, Oskar 113 Kolker, Robert Philip 70, 71 Kopit, Arthur 84 Korda, Zoltan 306 Koster, Henry 414 Kott, Jan 216 Kovacs, Laszlo 287 Kracauer, Siegfried 446 Kranz, Jake 362 Kristensen, Brede 256 Kroes, Rob 374 Krohn, Bill 61 Kubrick, Stanley 43,194,237,294, 432 Kuhn, Annette 229 La Cava, Gregory 154,207,417, 418 Lacan, Jacques 452

493

Ladd, Alan 366 Lancaster, Burt 396 Landers, Lew 210,306 Landis, John 118 Landon, Brooks 230,457,458 Landsberg, Alison 234 Lanfield, Sidney 160 Lang, Fritz 23-32,, 101, 219,266 Lang, Walter 165, 401 Lantz, Walter 51 Lanza, Mario 360 Laplanche, Jean 277 Lardner, Ring 426 Larson, Gary 141 Larue, Joanne 405 Lasky, Jesse 181 Lasseter, John 458 Laurel, Stan 401 Lazenby, George 371 Lean, David 235 Leavitt, David 347 LeBaron, William 211 Lee, Christopher 291 Lee, Spike 339 Lega, Silvestro 388 Leger, Fernand 335 Lehman, Peter 276 Leisen, Mitchell 154,161,170,182, 185,219, 292,338,417 Lem, Stanislaw 269 Lemmon, Jack 191 Leonard, Robert Z. 349 Leone, Sergio 267, 269,270,271, 288,392 LeRoy, Mervyn 13-21,166, 216 Levant, Oscar 168 Lewis, Jerry 91, 153, 212, 395 Lewis, Joseph H. 195 Lewis, R. W. B. 297 Liberti, Fabrizio 244 Lincoln, Abraham 166,172 Lingeman, Richard 338 Lisberger, Steven 224, 255 Liszt, Franz 178

494

Lloyd, Christopher 345 Lombard, Carole 159,407 London, Jack 143 Lord, Del 188 Lorre, Peter 375 Losey, Joseph 194,383 Lubin, Arthur 195 Lubitsch, Ernst 101. 159,161,181, 182, 183, 185 Lucas, George 107,133, 231,244, 246, 254,291 Lukas, Paul 209 Lumière, fratelli 297 Lynch, David 141, 224,337 Mac Arthur, Charles 159 Macdonald, Dwight 169,447 MacDonald, Jeannette 9, 184, 187, 188 MacLean, Don 253 MacLeish, Archibald 305 Madison, Dolly 172 Mailer, Norman 59,107,308,307 Malamud, Bernard 59,102 Malick, Terrence 337 Malraux, André 320 Maltin, Leonard 165 Mamoulian, Rouben 10,165,179, 182, 183,208 Mankiewicz, Joseph L. 41-49, 79, 199 Mann, Anthony 196,219,265,266, 397,446 Mann, Daniel 419 Mann, Delbert 401 Mann, Michael 339 Mann, Thomas 97,333 Marin, Edwin L. 195 Marlowe, Cristopher 309 Marshall, Alan 417 Marshall, E.G. 96 Marshall, George 184, 185, 313 Marshall, Mike 362 Martin, Don 137 Martini, Emanuela 76, 80, 81, 87

STILI AMERICANI

Martinson, Leslie 66 Marx 452 Marx, Groucho 91,127 Marx, fratelli 181, 185,395 Marx, Leo 339 Mast, Gerald 4, 6, 7 Maté, Rudolph 196,433 Matthiessen, Francis O. 309 Maugham, William Somerset 191 May 252 Mayo, Archie 161,413 McArthur, Colin 23, 25, 28 McBride, Joaeph 35,36, 276,277, 278 McCarey, Leo 154,181, 186,412, 417,429 McCarthy, Todd 127,195, 198 McCay, Winsor 380 McCoy, Horace 14,107 McCrea, Joel 209 McCullers, Carson 313 McInerney, Jay 347 McLeod Wilcox, Fred 237 McLeod, Norman Z. 188 McMurtry, Larry 313,314 Mead, Margaret 142 Meisner, Sanford 405 Mekas, Jonas 442 Méliès, Georges 297 Mellen, Joan 411, 414 Melville, Herman 374 Mencken, H. L. 52 Mendes, Sam 289 Mercer, Johnny 78 Meredith, Burgess 417 Merman, Ethel 184 Méry, Joseph 372 Meyer, Andrew 117 Meyer, Nicholas 458 Miccichè, Lino 388 Michaels, Lorne 345 Michaud, Gene 305 Milestone, Lewis 184,417,450 Milius, John 107

INDICE DEI NOMI

Milland, Ray 68,417 Miller, Arthur 96 Miller, Clive T. 193 Miller, David 435 Miller, George 138 Mills, Stephen 395 Minnelli, Vincente 4,10,165,167, 168, 175, 177, 179, 189,219, 353,426 Minot, Susan 347 Mitchell, Lee Clark 269,270,271 Mitchum, Robert 198 Mizejewski, Linda 6 Moebius 224 Moix, Terenci 48 Monaco, James 67,69 Monroe, Marilyn 414 Moore, Grace 188 Mordden, Ethan 6 Moreno, Antonio 362,363 Morgan, Charles 210 Morrissey, Paul 117 Moullet, Luc 25,27,123 Mourlet, Michel 25, 26 Mozart, Wolfgang Amadeus 105 Mulvey, Laura 359 Mumford, Lewis 370 Munch, Edward 113 Muni, Paul 14,407 Murch, Walter 67 Murphy, George 417 Musil, Robert 325 Muybridge, Eadweard 384 Myles, Linda 69 Nabokov, Vladimir 137 Nash, Ogden 200 Nathanson, Paul 256, 328 Negri, Pola 181 Negulesco, Jean 168 Nero, Franco 366 Newman, Joseph 195 Nicholls, Peter 386 Nichols, Mike 220 Nicholson, Jack 68

495

Nicholson, James H. 197 Niven, David 417 Norwood, Lily 188 Novarro 363, 364 Novarro, Ramon 362 Nugent, Elliot 212 Nye, David E. 373,382 O’Brien, Daniel 83 O’Casey, Sean 210 O’Neill, Eugene 96 Oakie, Jack 184,212 Oland, Warner 375 Oldenburg, Claes 349 Olmi, Ermanno 387 Olsin Lent, Tina 160 Ophuls, Max 219 Orme, Stuart 244 Ouspenskaya, Maria 405 Page, Geraldine 96 Pagetti, Carlo 229 Paglia, Camille 347 Pakula, Alan J. 428 Pal, George 238 Palmer, William J. 243 Panofsky, Erwin 377 Papula, Alan J. 433 Pasolini, Pierpaolo 144 Peck, Gregory 79,427 Peckinpah, Sam 270, 271,288 Penley, Constance 252 Penn, Arthur 107,220,388,424, 442 Penny, Will 267 Perelman, S. J. 200 Perkins, Anthony 37 Perkins, Maxwell 449 Perosa, Sergio 235 Pesci, Joe 352 Peterson, Vincent 394 Pezzotta, Alberto 282,283 Picasso, Pablo 384 Pichel, Irving 208,210 Pickford, Mary 450 Pidgeon, Walter 209

496

Poe, Edgar Allan 284 Polanski, Roman 31,107,220 Pollack, Sydney 36,107, 124, 232, 233, 335,429,450 Pontalis, Jean-Baptiste 277 Porter, Cole 184,185 Poster, Mark 257 Potter, H. C. 185,191,210 Power, Tyrone 365 Pratt, Hugo 226 Pratt, Ray 432 Prédal, René 375 Preminger, Otto 425 Price, Vincent 129 Prince, Stephen 268 Proust, Marcel 384 Pruneda, José Antonio 38,40 Purdy, Jim 216 Pye, Michel 69 Pynchon, Thomas 132,137,141, 252 Quine, Richard van Orman 191 Rabagliati, Alberto 362, 364 Rabelais, Francois 374 Racine, Jean 288 Rafelson, Bob 77, 82,442 Raft, George 184,366 Raimi, Sam 348 Ramis, Harold 238 Rathbone, Basil 375 Ratoff, Gregory 188 Rauschenberg 238,349 Ray, Nicholas 197,219,266,419 Ray, Robert B. 158,372, 392, 396 Raymaker, H. 200,208 Raymond, Alex 381 Redford, Robert 146, 201, 371 Reed, Luther 206 Reid, Randal 109 Reilly Raine, Norman 14 Reinhardt, Max 406 Reinheimer, David 259 Reisz, Karel 115 Reitman, Ivan 255

STILI AMERICANI

Remington 384 Renoir, Jean 101 Renzi, Renzo 114 Resnais, Alain 385 Reynolds, Sheldon 426 Richards, Dick 77, 78,268 Richardson, Tony 101 Rieupeyrout, Louis 269 Risichi, Robert 188 Ritt, Martin 352,435 Robbe-Grillet, Alain 238 Robbins, Tom 141,144 Robertson, John 208 Roddenberry, Gene 260 Rodgers, Jimmy 378 Rodgers, Richard 165,208 Roffman, Peter 216 Rogell, Albert 185 Rogers, Charles R. 212 Rogers, Ginger 170,171,180,184, 186, 205,208, 408,411,412, 416,419 Rogers, Will 165 Rogosin, Lionel 440 Romberg, Sigmund 178 Roosevelt, Franklin Delano 110, 111,165, 166, 167,317,399, 406,407 Rosen, Marjorie 411 Rosenberg, Stuart 425,433,435 Ross, Herbert 189 Rossellini, Roberto 198,199 Rosson, R. 211 Roth, Mark 5, 8,167 Rourke, Constance 341,344,386 Rousseau, Jean-Jacques 129, 308 Rowland, Roy 167,191 Rubin, Martin 6 Rubio, Miguel 38,40 Ruby, Harry 179 Rudolph, Alan 83 Ruggles, Wesley 183, 206 Runyon, Damon 48, 79 Russell, Charles 238

INDICE DEI NOMI

Russell, Jane 414 Rydell, Mark 450 Ryskind, Morrie 155 Sade 308, 347 Sagal, Boris 253 Sagan, Frangoise 334 Sainte-Marie, Buffy 62 Salinger, Jerome David 59 Salt, Waldo 103,108 Sandrich, Mark 4, 170, 185,208, 417,418,419 Santell, Alfred 161, 206 Santley, Joseph 211 Sarnoff, David 211 Sarris, Andrew 42,128,194,442, 449 Sartre, Jean-Paul 309 Saville, Victor 189 Schaefer, George J. 212 Schatz, Thomas 160,161 Schatzberg, Jerry 142 Schechter, Harold 378 Schertzinger, Victor 185 Schlesinger, John 101-126 Schneider, Edgar 362 Schnitzer 211 Schoedsack, Ernest B. 129 Schrader, Paul 83 Schubert, Franz 188 Schulberg, Budd 107 Schulz, Max F. 137 Scorsese, Martin 65-73,82,83,107, 118, 131,136, 150,220,351, 353,436 Scott Fitzgerald, Francis 406 Scott, Ridley 224,229,242,243, 245,246 Scott, Walter 267 Seaton, George 429 Sedgwick, Edward 212 Seidelman, Susan 133 Seiter, William 161,201, 207,210, 212 Seldes, Gilbert 377

497 Selznick, David O. 128,209, 211 Serling, Rod 132 Sewall, Alexander 17 Shahn, Ben 113 Shakespeare, William 143,169,177, 216, 259,260, 261,262,263, 264, 324,341,406 Sharif, Omar 362 Shatter, William 68 Shaw, George Bernard 52 Shean, Al 402 Sherman, Lowell 413 Sherwood, Robert 85 Shirley 412 Shloss, Carol 307 Sholem, Lee 237 Shyer, Charles 429 Sidney, George 177,191 Siegel, Don 212,243, 282 Signorini, Telemaco 388 Sikov, Ed 155 Silberling, Brad 459 Silverstein, Elliot 424 Simsolo, Noel 23, 28 Siodmak, Robert 212 Sirk, Douglas 219,235,398 Slotkin, Richard 268,270, 306 Smith, Gavin 307,309,310 Smith, Thomas 292 Smoodin, Eric 49 Sobchack, Vivian 229 Sofocle 169 Sontag, Susan 135 Soulié, Frédéric 372 Spacey, Kevin 294 Spielberg, Steven 124, 132, 133, 229, 231,234,235, 236,242, 249, 291,335,459 Spigel, Lynn 253,256 Spitz, Leo 210 Stanislavski], Konstantin Sergeevic 405,407 Steele, Barbara 129 Steinbeck, John 402

498

Sternberg, Josef von 101,183 Stevens, George 207,210,212,314, 396, 397, 398,425, 450 Stevenson, Robert Louis 28 Stewart, James 37, 129, 396, 397, 426,446 Stiller, Mauritz 181 Stoloff, B. 212 Stone, Andrew L. 184 Stone, Oliver 435 Stothart, Herbert 14 Stradling, Harry 287 Strasberg, Lee 405,406,407, 409 Stroheim, Erich von 3,101 Sturges, Preston 154,159,338 Sue, Eugène 372 Sullivan, Ed 127 Sutherland, Edward 183 Swanson, Gloria 210,363 Tapper, Richard 53 Tarantino, Michael 135 Tarantino, Quentin 83, 135, 150 Tarkovskij, Andrej 398 Tars and Spars (1946) 189 Tashlin, Frank 212 Tate, Nahum 260 Tatum, Charles 57, 63 Taurog, Norman 179,183 Tavernier, Bertrand 387 Taylor, Laurette 409 Taylor, Robert 14 Telone, J. P. 371,372 Temple, Shirley 207 Thomas Anderson, Paul 83 Thomas, John 6 Thorpe, Richard 179 Thurber, James 52 Tichi, Cecelia 372 Tierney, Gene 418 Todorov, Tzvetan 36,40 Tognazzi, Ugo 401 Toll, Robert C. 379,388 Toller, Ernst 335 Tomlin, Lily 82

STILI AMERICANI

Totò (Antonio de Curtis) 92 Tourneur, Jacques 212 Tracy, Spencer 407, 425 Truffaut, Francois 44 Trumbo, Dalton 208 Tucker, Wilson 250 Tudor, Andrew 135 Tully, Jim 364 Turner, Kathleen 69 Tuttle, Frank 183,184 Twain, Mark 52,104,252,338,374 Twelvestreees, Helen 207 Twitchell, James B. 169,342,451, 452 Tyler, Parker 447 Ulmer, Edgar 194,197,201 Vakhtangov, Yevgeni 405,407 Valentino 349 Valentino, Rodolfo 359 Van Dyke II, W S. 154, 188 Van Sant, Gus 141-150 Vardac, Nicholas 380 Verhoeven, Paul 134,227,229,230, 231,232,237,251, 299,300 Vianello, Raimondo 401 Vidor, Charles 175, 176,191 Vidor, King 158,208,265,313,450 Visconti, Luchino 388, 398 Vitali, Alvaro 391 von Braun, Wernher 253 von Frisch, Gunther 212 von Sternberg, Joseph 192 von Stroheim, Erich 181 von Trier, Lars 393 Von Wiegand, Charmion 406 Vorlicek, Vaclav 384 Wachowski, Andy e Larry 238, 257 Waits, Tom 314 Walker, Alexander 414 Walker, Robert 201 Wallace, Edgar 208 Wallace, Richard 181 Walsh, Monte 267

INDICE DEI NOMI

Walsh, Raoul 184, 217, 218, 219, 265, 306, 307,412 Walters, Charles 165,168,170,177, 179,314,408 Walzer, Alexander 412 Warhol, Andy 149, 238, 349 Wark Griffith, David 450 Warrick, Patricia 232 Warshow, Paul 14 Warshow, Robert 215, 447 Washington, George 172 Wasko, Janet 450 Watt, Ian 331 Wayne, John 37,305,396 Webb, Clifton 425 Webster, Daniel 172 Weill, Kurt 170,185,200 Weinberg, Helen 59 Weinberger, Michèle 283 Weir, Peter 388 Weissmuller, Johnny 371 Welles, Orson 20,35-40,46, 86, 143,149,197,212, 219,425, 426,449 Wellman, William 209,216,241, 424 Wells, Herbert George 235 Welsch, Roger 52 Welty, Eudora 313 Wenders, Wim 60,391 West 108,109, 110, 111, 113,116 West, Key 137 West, Mae 185,366,411,420 West, Nathanael 107,208 Wexler, Haskell 287 Wharton James, George 271

499 Wheeler, Bert 205 Whelan, Tim 425 White, Miles 388 Whitman, Walt 26 Whorf, Richard 178 Wiest, Dianne 96 Wilcox, Herbert 181, 250, 260 Wilde, Cornel 231 Wilder, Billy 49,101,154,181,182, 186, 189,292,417,430 Williams, Esther 4,175 Williams, Tennessee 96 Wilmington, Michael 276,277,278 Wise, Robert 212 Wodehouse, P. G. 210 Wolfe, Thomas 313,401,449 Wolfe, Tom 149 Wood, Sam 14,306,395 Woolsey, Robert 205 Wurlitzer, Rudolph 62 Wyler, William 101,199,219,398, 450 Yacowar, Maurice 95 Yates, Peter 457 Young, Lester 319 Zanuck, Darryl Francis 28,128 Zemeckis, Robert 135,231,238, 331 Ziegfeld 5,7,9,206,415 Zinnemann, Fred 442 Zitrone, Léon 362,363 Zola, Emile 143 Zsigmond, Vilmos 287 Zucker, Carole 405 Zukor, Adolph 181,182

FRANCO LA POLLA

Stili americani

Di stile si parla normalmente a proposito dei grandi maestri, ma esiste anche uno stile (anzi, più stili) nei prodotti che fanno della commerciabilità, e comunque deH’intrattenimento, il loro obiettivo primario. Gli Stati Uniti, del resto, hanno imposto non solo ne) cinema ma anche in altri ambiti dello spettacolo e del modo di vita stesso un marchio di fabbrica che si identifica nel Moderno. Attraverso la lettura di registi come Berkeley, Mankiewicz, Altman, Allen, Hellman ed altri, attraverso quella di singoli film e di classici generi hollywoodiani, nonché mettendo a fuoco questioni come quelle della serialità, del divismo, della critica, questo libro affronta fargomento con occhio sempre attento alle linee portanti della cultura americana in rapporto allo spettacolo cinematografico.

Franco La Polla ha insegnato per trent’anni letteratura e cultura americane nelle università italiane e insegna oggi Storia del Cinema Nord-Americano al DAMS di Bologna. Ha scritto estesamente sul romanzo americano del Novecento e in ambito cinematografico si è occupato di cinema hollywoodiano classico e contemporaneo con numerosi volumi critici.

Università degli Studi di Bologna

CD

€ 28,00