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Italian Pages 702 [932] Year 1999
Indice
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Presentazione
I.
17 27 35 41 49
Il Medioevo
PETER D. PARTNER, Sermoneta e il Lazio meridionale nel Medioevo SANDRO CAROCCI, La signoria dei baroni romani a Sermoneta e nel Lazio nel Duecento e nel primo Trecento SUSANNA PASSIGLI, Fonti e documenti per la storia del territorio di Sermoneta . MARCO VENDITTELLI, Signori, istituzioni comunitarie e statuti
a Sermoneta tra il XIII ed il XV secolo MARIA
TERESA
CACIORGNA,
Assetti del territorio
e confini
in Marittima
77 85 95
GIULIA BARONE, Istituzioni e vita religiosa a Sermoneta nel Medio Evo LUCIA PLOYER MIONE, L’abbazia di Marmosolio in rapporto al territorio di Sermoneta JEAN coste, Strade da Roma per Sermoneta
II.
L’età moderna
109
GÉRARD DELILLE, Sermoneta e il Lazio meridionale nell'età
125
MANUEL VAQUERO PINEIRO, La signoria di Sermoneta tra i
moderna ‘Borgia e i Caetani
143 161
MARIA GRAZIA PASTURA, Linee di pontificia nel Lazio meridionale ea XVI) MIRELLA MOMBELLI CASTRACANE, | tere nel ducato di Sermoneta tra il
serieta della fiscalita Sermoneta ¢ scons XVL'orgaticuacione del ‘po1501 e il 1586
205
MICAELA
215
XVII) IRENE FOSI, I] banditismo e i Caetani nel territorio di Sermoneta
PROCACCIA,
Gli
ebrei
a Sermoneta
(secoli
XVI-
8
Indice
227
STEFANIA
NANNI, Echi della Rivoluzione:
Sermoneta
e il
territorio nel biennio giacobino (1798-1799) MASSIMO CATTANEO, Pietro Pantanelli (1710-1787), storico di Sermoneta LUIGI FIORANI, Aspetti della vita religiosa a Sermoneta nell'età moderna
253 269
III.
L'arte,
il territorio,
il castello
301
STEFANO PETROCCHI, Desiderio da Subiaco pittore della corte Caetani di Sermoneta
313
ANNA CAVALLARO, Pietro Coleberti di Priverno da Sermoneta (1422) a Roccantica
(1430)
329 343 ^ — 349 ^ 361
BRUNO TOSCANO, Un approdo veneziano per Siciolante FELICE ACCROCCA, Girolamo e Tullio Siciolante nel convento di S. Antonio abate di Cisterna ENZO BORSELLINO, Sermoneia 1603. Gli affreschi del coro di Santa'Maria Assunta ANGELA NEGRO, Giovan Domenico Fiorentini da Sermoneta. Un pittore tra " barocchetto e neoclassico 373 CARLA GHISALBERTI, La decorazione architettonica a Valvi| '' sciolo. I cantieri cistercensi e i loro riflessi sul territorio 387 conRADO BOZZONI, Insediamenti mendicanti a Sermoneta e ‘nel territorio, XIII-XV secolo
403
CALOGERO BELLANCA, La chiesa dell'Assunta a Sermoneta
421
LIA BARRELLI, La chiesa di San Michele Arcangelo moneta (cronologia a cura di Sabina Campione)
435
MARIA LETIZIA DE SANCTIS, Una fondazione cistercense nel
473
territorio di Sermoneta: l'abbazia dei Santi Pietro e Stefano di Valvisciolo MELINDA MIHÁLYI, Architettura dipinta nel territorio di Sermoneta. Il caso di Valvisciolo Laura MARCUCCI, I] Vignola, Francesco da Volterra e la
501
.
533
oo
543
|
a Ser-
committenza Caetani nella seconda metà del Cinquecento
DANIELA
ESPOSITO,
Sermoneta
. fra. tecniche costruttive DONATELLA
FIORANI,
Tecziche
e i suoi dintorni. costruttive
P
Confronti
Lazio
meri-
_. … dionale: il caso di Sermoneta 563 ‘ALESSANDRO BIANCHINI, Nota sulle fasi storiche del tessuto urbano di Sermoneta 571 ELISABETTA GIORGI, Viabilità e percorsi nell'abitato di Sermoneta, sec. XIX
585
TOMMASO
SCALESE, Rocche e fortificazioni durante il pon-
tificato di Alessandro VI (1492-1503)
599
. ANNA DI FALCO,I restauri di Gelasio Caetani al castello di Sermoneta, 1898-1913
Indice
617 625 645 665
MICHELA GOTTARDO, Il restauro di una facciata decorata a « sgraffito » nel castello Caetani di Sermoneta DANTE SANTARELLI, Carceri e iscrizioni Lao nel castello di Sermoneta WOLFGANG WITZENMANN, « Anonimo sermonetano »: a proposito del graffito musicale nel castello di Sermoneta FRIEDRICH LIPPMANN, I] musicista Hammingo Jean De Macque e i Caetani
IV. 671
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Tavola
rotonda
RICCARDO CEROCCHI, PIER GIACOMO SOTTORIVA, VITTORIO FAGLIA, CLAUDIO STRINATI, GIORGIO TORRACA, GIOVANNI CARBONARA, Il castello di Sermoneta. Quale identità, “quale conservazione, quale futuro
Presentazione
L'ampia ricognizione storico-artistica su Ninfa. compiuta. nel precedente Convegno del 1988, vede ora un seguito con questi Atti del Convegno su Sermoneta del 1993. Naturalmente, in questo caso si tratta di un centro abitato dalle caratteristiche morfologiche di tutt'altro tipo: ma identico è, in. qualche modo, il territorio, identiche l’economia e il governo feudale. So che, a differenza di Ninfa, la cittadina arroccatà.a mezza costa sui monti Lepini ha continuato la sua. ‘dura battaglia per la sopravvivenza e, pur tra alti e bassi, ha. potuto . conservare intatta la sua comunità e sostanzialmente la.su identità
urbana, i suoi monumenti principali. Sermoneta, pone allo storico d’oggi altri problemi. Abbiamo voluto vederli da vicino, senza per questo distogliere l'attenzione dal suo contesto storico-
topografico. uat E forse il Medioevo l'arco di tempo in cui las storiaa politicopatrimoniale di Sermoneta è esposta a continuismutamenti;-rivelando così quanto instabile fosse l'equilibrio. del territorio, condannato a. subire i contraccolpi delle politiche perseguite, da un lato dalla Sede apostolica, dall'altro dai monarchi-del vicino regno di Napoli. Negli interventi che compaiono -nella prima sezione gli elementi essenziali di questo conflitto.— che si complicava poi ulteriormente per la presenza della. politica. deivduchi Caetani — sono indagati in varia direzione. e con, diversa sensibilità. Anche il sondaggio sulla vita religiosa in.quei secoli mette in evidenza Vintreccio degli stimoli e delle:matrici cbe influiscono sulla popolazione sermonetana. Ma accanto a questo discorso di fondo, altri interventi puntualizzano alcuni-aspetti del territorio come i suoi confini, il sistema viariò, Vorganizza-
zione istituzionale della società sermonetana, e:infine si presenta: un.vrapido quadro delle fonti documentarie, non: certo sovrabbondanti, comunque ancora da sfruttare in pieno: La seconda parte concentra l’attenzione sulla. Ceiducnera moderna, così: come si viene delineando a partire: ‘dal Cinquecento. Inizia in quello scorcio di anni il passaggio a una Signoria moderna, anche perché, come si è messo in evidenza, i tentativi di
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Presentazione
riassetto politico e fiscale cominciano a determinare una nuova compattezza delle istituzioni sermonetane locali. La città prende cognizione della sua realtà sociale, dei suoi diritti, delle sue ra-
gioni. Aumentano ancbe i momenti di tensione tra la comunità locale e la Casata che detiene nelle sue mani le leve del potere: la giustizia, la fiscalità, il controllo del territorio. Il quale tuttavia proprio dalla sua conformazione sociale e geografica traeva alcuni problemi di grande spessore anche umano, come la desolazione di territori invasi dagli acquitrini, la presenza di frange
travagliate da condizioni di estrema povertà, il banditismo (pe: raltro non estraneo ai giochi della politica locale), l'analfabetismo. E questo stato di disagio spiega pure come Sermoneta
sembra vedere dall'alto i grandi sussulti della storia come l'espandersi della Rivoluzione francese sul territorio, mentre continua a sentire molto forte il richiamo dei valori religiosi, sia espressi
nella spontaneità emotiva, sia entro le forme della religiosità ufficiale. Non si può non avvertire, a fronte di questa realtà mossa e frastagliata, quanto più misurate siano state le manifestazioni del gusto artistico espresse sul territorio. Misurate —
cioè sorrette
da un bisogno di equilibrio —, e alte: dal Gozzoli al Siciolante alla piccola costellazione di artisti del Sei-Settecento c’è a Sermoneta
un interesse,
un gusto che rivelano
certamente
un con-
testo sociale e « culturale » molto pronunciato. La stessa conformazione urbanistica, la qualità dei suoi edifici rendono conto di questa « civiltà sermonetana », così come sono fortemente espressive le sue istituzioni ecclesiastiche, le sue confraternite,
alcuni momenti e passaggi della sua vita religiosa. Questa lunga e illustre storia non è andata perduta. Nel corso del convegno e nelle pagine che seguono si è cercato di recuperarne i passaggi più significativi, e di riproporli all’attenzione della critica, dell'opinione pubblica, delle istituzioni ufficiali. Gli interventi che chiudono il vasto giro d’orizzonte si soffermano sui problemi del restauro e della conservazione dei valori propri della città. Sembra dunque in questa traiettoria di fedeltà all'antico ma di apertura al presente e al futuro il messaggio migliore di questo convegno, come del resto non hanno mancato di segnalare ‘gli illustri interlocutori della tavola rotonda conclusiva. Può essere utile riportare qui il programma del convegno, rispetto al quale questi atti presentano qualche difficoltà, qualche opportuna aggiunta, e qualche dolorosa rinuncia (il rammarico principale è Îa scarsa attenzione che trova qui l’attività sermonetana di Benozzo Gozzoli): « Fondazione Camillo Caetani, Palazzo Caetani, Roma. Sermoneta e i Caetani. Dinamiche politiche, sociali e culturali di un territorio tra Medioevo e età moderna. Convegno di studio con la collaborazione della Fondazione Roffredo Caetani. Roma - Sermoneta 16, 17, 18, 19 giugno 1993.
Presentazione
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Mercoledi 16 giugno, Palazzo Caetani, Roma. Saluto di Giacomo Antonelli, | | Presidente della Fondazione Camillo Caetani. Il Medioevo. Presiede Girolamo Arnaldi; Peter D. Partner, Sermoneta e il a Sermoneta Lazio meridionale nel Medioevo; Sandro Carocci, I baroni romani. e in Campagna Marittima (Duecento - primo Trecento); Susanna Passigli, Fonti e documenti per la storia del territorio di Sermoneta; Marco Vendittelli, Signori,
istituzioni comunitarie e statuti a Sermoneta tra il XIII e il XV secolo; Maria
Teresa Caciorgna, Sermoneta e i centri vicini: assetti territoriali e tiflessi sulle
comunità; Giulia Barone, Istituzioni religiose a Sermoneta nel Medioevo; Paola
Pavan, La corte Caetani tra Roma, Sermoneta e Napoli (sec. XV); Lucia Mione, L'abbazia di Marmosolio in rapporto al territorio di Sermoneta; Jean Coste,
Strade da Roma per Sermoneta.
L’età moderna. Presiede Lucio Lume; Gérard Delille, Serzoneta e il Lazio meridionale nell'età moderna; Manuel Vaquero Pifieiro, Sermoneta tra i Borgia e i Caetani: inizio di una signoria moderna; Maria Grazia Pastura, Lizee di tendenza della fiscalità pontificia nel Lazio meridionale e a Sermoneta (secoli XV-XVI); Mirella Mombelli, Il sistema penale nel ducato di Sermoneta, note per una ricerca; Marina Caffiero, Gli usi civici a Sermoneta "nell'età moderna. Giovedì 17 giugno, Palazzo Caetani, Roma. Fabio Bertolo, Aldo Manuzio e i Caetani; Micaela Procaccia, Gli ebrei a Sermoneta; Irène Fosi, Il banditismo e i Caetani sul territorio di Sermoneta (XVI - XVII); Stefania Nanni, Echi della Rivoluzione: i francesi a Sermoneta alla fine del Settecento; Massimo Cattaneo, Pietro Pantanelli, storico di Sermoneta; Luigi Fiorani, Vita religiosa a Sermoneta nell'età moderna. L'arte, il territorio, il castello. Presiede Bruno Toscano; Claudio Strinati, Introduzione alla storia dell’arte del territorio; Stefano Petrocchi; Pittura nel
Quattrocento a Sermoneta e nel Castello; Stefania Pasti, Benozzo: Gozzoli a Sermoneta; Anna Cavallaro, Pietro Coleberti di Priverno (1430); e tracce della sua
influenza a Sermoneta; Bruno Toscano, Girolamo Siciolante da Sermoneta; Enzo Borsellino, Sermoneta 1603 (affreschi della Collegiata); Angela Negro, Pittori sermonetani del Settecento: Domenico Antonio Fiorentini e Antonio Cavallucci. Venerdì 18 giugno, Palazzo Caetani, Roma. Carla Ghisalberti, La. decorazione architettonica a Valvisciolo e riflessi sul territorio; Cottado Bellatica,La chiesa dell'Assunta a Sermoneta; Lia Barelli, La chiesa di San Michele. Arcangelo a Sermoneta; Letizia De Sanctis, L'Abbazia di Valvisciolo e il suo ruolo nel ter-
ritorio di Sermoneta;
Melinda Mihályi, Architettura dipinta nel territorio
di
Sermoneta: il caso di Valvisciolo, Laura Matcucci, Francesco da Volterra e la committenza Caetani a Cisterna, Ninfa e Sermoneta; Daniela Esposito, Sermoneta e dintorni: confronti fra strutture murarie; Donatella Fiorani, Tecniche costruttive nel Lazio meridionale: il caso di Sermoneta; Alessandro Bianchini, Fasi storiche del territorio urbano di Sermoneta; Elisabetta Giorgi, Viabilità e percorsi nell'abitato di Sermoneta (secolo XIX); Tommaso Scalesse,Il Castello di Sermoneta e le fortificazioni al tempo di Alessandro VI; Anna Di Falco, Lavori e restauri del Castello nell’età moderna; Michela Gottardo, Il restauro della facciata a graffito e degli stemmi araldici nel Castello; Dante, Santarelli, Le iscrizioni spontanee delle carceri e del Castello: restauro.e identificazione; Wolfgang Witzenmann, I graffiti musicali del Castello; Friedrich Lippmann, È t Il musicista fiammingo Jean De Macque e i Caetani. Tavola rotonda. II Castello di Sermoneta: quale identità, quale «conservazione,
quale futuro: Riccardo Cerocchi, Introduzione; Vittorio Faglia, Vocazioni funzionali del Castello; Giorgio Torraca, I segni del tempo sulla materia; Giovanni Carbonara, Idee per un restauro; Piergiacomo Sottoriva, Prospettive di riuso e nel territorio; Carlo Bertelli, Conclusioni ».
Peter D. Partner Sermoneta
e il Lazio meridionale |
nel Medioevo
L'espressione «il medio evo » mi fa sempre un po' paura. Ma rischio di perdermi definitivamente se entro nella storia del Lazio nei primi tre o quattro secoli del cosiddetto:stato papale, nel vero medio evo, infatti. Non c’è: dubbio che moltissime caratteristiche politiche e sociali della zona al sud di:Roma furono
più o meno determinate nel corso di questi secoli. Cercherò di trovare dei punti di riferimento che possano: servire. di collega-
mento al tardo medio evo e alla prima epoca moderna. À que-
sto scopo prerido come punto di partenza il periodo che segue i papi riformatori del sec. XI. Riferisco brevemente sugli interventi dei papi del XII sec. per imporre la dominazione. papale sui nobili di Campagna e per controllarne i punti chiave; che era un programma basato soprattutto sulle fortezze: ‘presiedute da castellani papali. Aggiungo che il regime papale in ‘Campagna non era sempre mite: Onorio II e anche Alessandro IIE (che fu consacrato papa a Ninfa) vennero in Campagna bruciando e distruggendo i castra che volevano sottomettere. La politica dei papi nel territorio Come tutti i sovrani feudali — e come hanno notato particolarmente il Toubert e il Waley — i papi del sec. XII. ifisistevano molto sugli élémenti feudali del loro potere: nelle terte della chiesa, per esémpio, sí giovavano del loro ruolo di.giudice supremo. Nel contesto locale possiamo notare il: tentátivo fatto nel 1175 da parte di Alessandro III per proteggere le terre e le pescherie dei domini e popolo di Sermoriéta-contro' le invasioni dei nobili di Acquapuzza. Qualche anno dopo; :troviamo il primo intervénto papale per sopite le infinite discordie fra Sermoneta € Sezze, città; quest'ultima sempre dominata dat signori di Ceccano. Il papato non éra più, come era divénuto alla fine del sec. XI, un potere praticamente estraneo al territorio. Eu-
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Peter D. Partner
genio III costrui un palazzo papale a Segni, e a Veroli, città sottoposta in modo speciale alla Santa Sede, la Curia papale al tempo di Alessandro III esercitava un controllo dettagliato, intervenendo negli affari del vescovo e dei cittadini, sia per mezzo del cardinale romano fatto conte di Campagna, che per mezzo del camerario papale. Cosi i papi sorvegliavano i gruppi cittadini emergenti, e molto spesso a spese di questi davano il loro sostegno ai vescovi e ai monasteri.
Dopo le grandi riconquiste di Innocenzo IIT, egli stesso un nobile della Campagna Marittima, e la cui politica nella zona era per più aspetti una politica di famiglia, i papi duecenteschi
seguivano una politica molto vicina a quella dei predecessori del
secolo passato. La Campagna Marittima fu una zona piuttosto povera, veramente importante solo sul piano strategico e politico; dunque, i papi non si sforzavano a quest'epoca di imporre un vero consolidamento del territorio basato sull’amministrazione della curia rettorale. La curia del rettore papale esisteva, esetcitava una certa influenza. Ma ai papi l’essenziale, come nel secolo precedente, era il controllo esercitato, sia dai castellani che
dai feudatari o affittuari papali, sulle fortezze ubicate nei posti
chiave: in Campagna Fumone, Paliano, Serrone, Lariano, Castro dei Volsci; nella Marittima Acquapuzza, Ariccia, Giuliano, Cori, Cisterna e Terracina che fu anche un importante centro marittimo. Di queste fortezze papali tre — Cori, Cisterna e Acquapuzza — si trovavano in zone non troppo distanti dal territorio di Setmoneta. Le loro vicende erano diverse. Nel tardo me-
dioevo Cori divenne civitas dove il baylivus era nominato dal papa. Alla fine del Trecento Cisterna e Acquapuzza erano sempre fortezze, ma soggette ad Onorato Caetani di Fondi. Nel Quattrocento Cisterna fu abbandonata e spopolata. Acquapuzza — a sua volte custodita dai Caetani, a volte ricuperata dai papi — era importante al governo papale anche alla fine del medicevo. I papi dovevano impegnarsi in un giuoco politico abbastanza complesso, in primo luogo, come ho già detto, per conservare le fortezze di demanio papale sotto un minimo di controllo diretto, ma anche per tenere in equilibrio i grandi nobili e i comuni. Molti fra i grandi feudatari svolgevano ruoli di primo piano nella politica dei comuni; per motivi politici avevano spesso giurato possessioni e clientela. Le popolazioni dei comuni sud-laziali erano distinte nell'alto medioevo nelle due classi dei milites e dei pedites. Come ha spiegato molti anni fa Giorgio Falco, i milites formavano una classe che comprendeva medi e piccoli feudatari (egli voleva forse aggiungere alla categoria gli uomini di legge). L’altra classe era quella della grande massa dei medi
e piccoli proprietari fondiari, dei liberi lavoratori di terre, di
Sermoneta
e il Lazio meridionale nel Medioevo
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industriali e commercianti (un piccolo gruppo, questo), e di artigiani. Nel Duecento, la crescita demografica doveva:provocare in alcuni comuni, come ha messo.in.rilievo Maria Teresa Caciorgna per il caso di Sezze, una ripartizione di certi.terreni: comunali fra i cittadini, pedites inclusi. Ma verso la fine del-secolo la stessa autrice ha notato importanti acquisti di terteni nel comu ne di Sezze, fatti da parte dei grandi milites; acquisti: ‘che dovevano concenttare il patrimonio agrario in un numero: più ristret-
to di proprietari. Ma i papi dovevano anche tener conto delle
pretese dominatrici del Comune di Roma, che in certi periodi si stendevano sino a Terracina. E finalmente non potevano ignorare gli interessi dei vescovi e dei grandi monasteri. © . . Esiste anche un altro fatto da certi punti di vista determinante per la storia di queste province papali. Per tutto-il tardo: medio evo la politica del regno di Napoli — politicá'estera come interna — era per certi aspetti decisiva per le condizioni politiche delle provincie papali della Marittima e della zona: al nordovest del fiume Liri. Le relazioni fra la monarchia: angioina e il papato erano sempre strettissime, e in qualche momento quasi di simbiosi, E l'avvento della monarchia angioina’ di Napoli favoriva anche lo sviluppo di potentissime dinastié feudali radicate egualmente nel regno di Napoli e nella Campagna-Marittima papale: si possono nominate in primo luogo”i Caetani, i Colonna, gli Orsini. Anche alla fine del medio evo i rapporti napoletani e angioini erano importantissimi per i Caetani della Marittima. À cavallo del Due-Trecento il pontificato di Bonifatio VIII costituisce uno stadio ulteriore del governo papale el Lazio meridionale. Servendosi della propria famiglia, come si erano serviti ai tempi loro Innocenzo III, Gregorio IX e altri papi, Bonifacio basava gran parte della sua politica locale sulla nuova, strepitosa ascesa nella provincia dei suoi parenti Caétani. Come ha scritto Jean Claude Maire-Viguer, la vastissima scala della nuova signoria Caetani, e quello che egli chiama la precoce volontà dei Caetani di fondare un vero e proprio ‘principato territofiale, rendono l'ascesa dei Caetani un caso del tutto originale nella’ storia della feudalità romana. La politica -di- Bonifacio non era Semplicemente di famiglia: egli affermava atiche l'importanza dei comuni della Campagna Marittima come collaboratori ‘della politica e della giustizia papale. Le costituzioni bonifaciane miravano ad uti assestamento dei poteri della ‘curia del rettore provinciale, che avrebbe garantito ai comuni maggiori una giurisdizione preventiva e anche l’elezione ‘del podestà. Naturalmerite, sotto Bonifacio gli stessi Caetani si trovavano come podestà di-comuni importanti. Questo periodo è il punito critico per lo sviluppo della signo-
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Peter D. Partner
ria rurale e castrense nella zona che ci interessa. Il Waley in particolare ha sottolineato l'importanza del periodo per l'impostazione da parte dei grandi signori feudali di veri e propri contratti di vassallaggio, che imponevano degli obblighi militari accanto agli altri di carattere agrario. Sui lignaggi baronali romani, sulle loro strategie e sulle loro strutture sociali, abbiamo la bella relazione di Sandro Carocci. Faccio soltanto un’osservazione, forse banale, sulla classe militare. La violenza faceva parte integrale del loro tenore di vita, ed era usata fatalmente per rivendicare i supposti diritti, anche per tirare profitto dai gua-
dagni di guerra. Cid non impedisce che il feudatario si rivolga
alla curia del dominus, cioè in molti casi alla curia del rettore
papale, per chiedere giustizia, come non esclude che la classe militare superiore sía dotata di una certa cultura giuridica. I
Caetani infatti dovevano la loro ascesa ad uno dei maggiori giu-
tisti dell'epoca. Il Maire-Viguer ha scritto acutamente che la violenza, accuratamente graduata, lungi dall'impedire il ricorso ai mezzi legali, accompagna ogni tappa della procedura. E vediamo anche alla fine del medio evo la sopravvivenza della vecchia mentalità nel trattato del 1485 fra Nicola Caetani e i Colonna,
fatta, dice testualmente, « per exaltatione nel mistiero del'arme pet honore gloria et fama per manutentione et felice augmento de tucto stato presente et futuro de li prefati ». Un enorme principato Come fu stabilita da parte di papa Bonifacio, la signoria Caetani nel Lazio meridionale formava, com’è ben noto, un enorme principato diviso in due grandi blocchi geografici: prima il blocco orientale della valle del Sacco, centrato su Anagni, e in secondo luogo i possedimenti della provincia di Marittima, fiancheggiando la via Appia e la via consolare sul versante occidentale dei monti Lepini, da Ninfa, Norma, Sermoneta con Bassiano, fino a Terracina. In questo modo i Caetani controllavano tutte le strade maggiori del Lazio meridionale, e anche la fascia costiera tra Torre Astura e Terracina. Su questo grande scacchiere Sermoneta non era che un pezzo minore, anche se essen-
ziale: delle somme importanti erano state pagate dai Caetani per
l'acquisto. E bisogna sempre tenere conto dell'importanza della
contea di Fondi, il grandissimo patrimonio di Roffredo Caetani nel regno, che si inquadrava strategicamente con il patrimonio
Caetani nello stato papale. Se consideriamo queste terre immense come un principato singolo e stabile, ci illudiamo. I possedimenti Caetani erano soggetti al medesimo principio di polverizzazione familiare di tutte
Sermoneta e il Lazio meridionale nel Medioevo
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le famiglie baronali. Non si poteva mantenere la grande condel: papa Caesortetia nello stesso stato di consistenza dei giorni tani. Vediamo già, poco più di trent'anni dopola mortedi papa
Bonifacio, la scissione e la guerra tra Niccoló: Caetanidi Sermoneta e Fondi e i Caetani palatini. Né il papa (allora. ad Avignone), né il suo-alleato Roberto d’Angid, potevano fermate una
guerra di cinque anni fra i due rami Caetani e i loro alleati, una | guerra che gettava nello scompiglio metà della provincia:di Campagna e tutta la Marittima, e costava alla Chiesa il controllo di Anagni. Dopo il pontificato di Bonifacio VIII, l’unico tentativo valido a costruire un vero principato Caetani fu quello“di Onorato I Caetani di Fondi nell’epoca del grande scisma, cioè fra il
1378 e la morte di Onorato nel 1400. Ci fu anche una nuova
base legale pet i disegni di Onorato, in quanto gli furono concesse da partedi Clemente VII la Campagna e la Marittima in feudo a terza (più tardi a quarta) generazione, col-titolo:di conte. Lo stato di Ofioratofu vastissimo; nello stato. papale'egli dominava nel primo periodo dello scisma in tutta la«Marittima, e anche nella zona di Anagni: fra le fortezze papali egli occupava Terracina, Acquapuzza, Cisterna, Fumone, Ceccano; Frosinone, Ceprano. Verso Roma, molti castelli, fra i quali Marino, erano tenuti per Onofato. Perd, Onorato doveva subire l'inimicizia
del fratello Benedetto Caetani a Ninfa e Sermoneta, e quella dei Caetani palatini. ' eno ond, Negli anni Novanta la stella di Onorato tramontava:: al tempo
della morte avvenuta nel 1400 aveva già effettivamente ‘ceduto il gioco in Campagna, Marittima e la regione romana ‘alle forze di Bonifacio IX (il papa aveva infatti lanciato una crociata con-
tro Onorato nél 1399). Però Onorato Caetani continuerà fino
alla morte a dominare a Sermoneta, Bassiano e Ninfa (tolte da
Onorato al fratello, ma a questo punto Ninfa era già quasi diruta), e a Fondi, il cuore del suo stato. Il tentativo fatto da Ono-
rato Caetani di costruire un nuovo stato segnava l’inizio.di un periodo difficilissimo per il potere temporale dei papi: Ia crisi durava dal 1378 fino alla riconciliazione di Eugenio IV con Al fonso di Aragona nel 1443. Ci fu un breve e molto importante periodo di respiro sotto Martino V, possiamo dire-che- dürava
dalla battaglia di Aquila nel 1424 fino alla morte del pontefice nel 1431. Perd la prima metà del pontificato eta”sernpre molto travagliata: per esempio, nel 1424 il papa doveva ordi-
nare al rettore della Campagna e Marittima a seguiré una poli-
tica neutrale nella. guerra fra Cristoforo Caetani di-Fondi e Il-
debrando Conti. —
e
E
Possiamo affermare che, al di fuori degli ultimi anni di Mar-
tino V, lo stato della signoria papale nell'atco di ^65 anni era
pericolante. C’é da aggiungere che in questo stesso período an-
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Peter D. Partner
che le condizioni della proprietà ecclesiastica nello stato papale
peggioravano rapidamente. Sotto i papi avignonesi le condizioni
della signoria papale nel Lazio meridionale non erano state brillanti, è vero, ma la tenace volontà dei papi di imporre un regime e una giurisdizione non cederà mai in questo periodo alle pressioni laiche. Sotto il grande cardinale Albornoz a metà Trecento c'era stato anche un disegno — in gran parte compiuto —
di abbandonare parte della legislazione papale destinata alle provincie (penso specialmente alle costituzioni bonifaciane) in quan-
to favoriva l'autonomia dei comuni, e di importe la legislazione
dello stesso Albornoz. I comuni della Campagna e Marittima reagivano in modo piuttosto violento contro la nuova legislazione, ma nel lungo termine invano. Il periodo dello scisma e anche il periodo successivo erano al contrario anni di emergenza per il papato. Per far fronte alle richieste fiscali papali le chiese
di Roma erano spesso autorizzate oppure forzate ad alienare
molte terre. Nello stesso tempo le prepotenze dei baroni face-
vano in modo che anche i vescovi e i grandi monasteri (dove il regime commendatario era un altro motivo per lo sfruttamento di possessioni) dovessero cedere abbastanza spesso alle pressioni
laiche. Il Maire-Vigueur parla di un 10% al minimo, una terza parte al massimo della proprietà ecclesiastica della regione romana come andata perduta in questo periodo.
Nel Lazio meridionale la proprietà ecclesiastica risentiva della tendenza generale a perdere terreno, non soltanto ai tempi
dello scisma, ma anche in seguito nel periodo di Eugenio. IV.
Per esempio, nel 1438 troviamo Alto Conti in possesso del ca-
strum di Acuto, che era stato proprietà della chiesa di Alatri dal XII secolo. I Conti erano stati favoriti sia da Martino V che da Eugenio IV: avevano avuto il permesso da quest’ultimo, pet esempio, a comprare il castello di Supino (un punto importante per i Caetani) confiscato dai Colonna. Nello stesso modo al nord di Roma molti villaggi e castelli erano alienati a feudatati e
condottieri, sia da parte di Martino V che da Eugenio IV: Nepi,
per esempio. Tutto il bel libro di Jean Guiraud, vecchio ormai di un secolo, documenta quest’emorragia nelle terre papali. Petó, le circostanze erano molte diverse fra le chiese e i monasteri romani più importanti, e la proprietà ecclesiastica di minor ri-
lievo situata in altte zone: Sandro Carocci ha rilevato, per esempio, la stabilità della proprietà ecclesiastica nella zona di Tivoli. Si possono avere delle riserve anche sulla natura delle prepotenze baronali esercitate sulle chiese. Abbiamo fra i baroni degli uomini di chiesa del primo rango: i cardinali Colonna, Orsini,
Conti, Farnese, Savelli, dei veri principi laici ed ecclesiastici.
Le grandi commende dei monasteri come Farfa, Subiaco, anda-
vano molto spesso ai prelati dei grandi lignaggi. Ma quando esa-
Sermoneta e il Lazio metidionale .nel Medioevo
23
miniamo attentamente gli uomini di. chiesa. di secondo. e terzo rango, troviamo pochi fra loro provenienti dalle famiglie baronali. Per esempio, alla fine del medio evo i vescovi dello stato papale non sono reclutati in genere fra le grandi famiglie baronali locali. Abbiamo i vescovi Colonna a Rieti, è vero, e troviamoun Caetani vescovo di Terracina e un Conti vescovo à Segni. per. qualche anno a metà Quattrocento. Ma gli esempi sono pochi; in genere
i vescovi laziali appartenevano ad altre categorie, forse per il motivo che le mense vescovili erano povere, forse. perché. una
precisa politica papale voleva evitare che le sedi vescovili.an-
dassero alle famiglie baronali.
s
Re agi
Nella seconda metà del Quattrocento lo stato papale: si trova
in un mondo diverso, molto più favorevole all'autorità statale.
La svolta è sconcertante: dapprima il potere temporale: dei papi sembra minacciato in modo
radicale:
poi vediamo la-forte ri-
presa di moltissimi temi centralistici, presenti. nella politica papale da molto tempo, ma per il motivo della. lunga debolezza politica dei papi, presenti nel primo Quattrocento-soltanto sullo
sfondo della politica e dell'amministrazione. Nella.seconda metà
del Quattrocento invece, anche sotto il governo di papi: che non
hanno fama di sovrani grandi o severi, la fiscalità e:l’amministrazione papale imponevano un regime ogni:anno pit efficace. È vero perd che la fiscalità pontificia non ricavava miolto dalle provincie della Campagna e della Marittima: non so.se:a motivo della povertà della zona, o per le molte esenzioni fiscali, o per
mancanze burocratiche.
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La signoria dei Caetani nel Quattrocento .
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. Finalmente vortei riferirmi ad alcuni aspetti della signoria
Caetani del Quattrocento. In primo luogo, possiamo vedere i risultati della divisione fra i diversi rami del patrimonio Caetani, che era decisiva nel Quattrocento come nel Trecento.-Onorato I aveva riunito le terre della Marittima con quelle di.Tetra di Lavoto, istituendo un grande patrimonio che possiaino: denominare un principato. Ma Giacomo II non poteva oppuré:non voleva mantenere-il patrimonio intatto. Egli lasciò la contea di Fondi e le altre terre nel regno al secondogenito Cristoforo; mentre le terre della Marittima, fra le quali Sermoneta erail pünto centrale, andavano. al nipote Giacomo, figlio del primogenitó Giaco-
bello. Dare-le terre più ricche, più importanti, alla linea del secondogenito fu un atto di prepotenza che il-£amo di Sermoneta
non riuscì mai. a perdonare. La nuova divisione del patrimonio Caetani, mentre tornava più o-meno alla divisione del tardo Trecento, prima dell'avvento di Onorato I, può essere messa~a con-
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Peter D. Partner
fronto con la grande ripartizione (più o meno sincrona) del patrimonio Colonna, fatta da Martino V nel 1427, e recentemente commentata da parte di Andreas Rehberg. Martino V riservava una parte del patrimonio per essere tenuto in comune dalla con-
sorteria. Ma le due disposizioni Caetani e Colonna andavano nella direzione del fedecommesso che divene normale nel Cin-
quecento. Ai Caetani mancava perd, una volta che fu presa la
decisione di separare le terre regnicole dalle altre, un patrimonio dalle dimensioni adeguate a costituire un vero principato. Sermoneta fu attribuita a Onorato II, che ne prese possesso nel 1442, nove anni dopo la morte del padre. Egli non possedeva le ricchezze e il peso politico della contea Caetani di Fondi: fu precisamente per far valere i suoi diritti sulla contea di Fondi che Onorato III di Sermoneta intervenne in favore del partito angioino nel 1460. Si trattò di un intervento disastroso, che fallì per la mancanza di risorse belliche ed economiche. In seguito egli lasciava il suo stato, ha scritto Paola Pavan, in condizioni economiche disastrose. Ad una piccola signoria come quella di Sermoneta, i tempi non permettevano delle avventure del genere.
Vediamo i limiti imposti su una signoria minore anche nelle
relazioni di Onorato Caetani col suo alleato nella curia romana,
il cardinale Ludovico da Treviso, detto lo Scarampi. Ludovico da Treviso era per molti anni camerlengo papale, cioè egli era effettivamente primo ministro del potere temporale papale. Credo che il Caetani, che aveva dovuto cercare protezione a motivo della sua debolezza in confronto degli altri rami della famiglia, fosse stato piuttosto il cliente di Ludovico da Treviso e non viceversa. E come mette in luce Paola Pavan Ludovico da Treviso non si dimenticava mai degli interessi temporali della chiesa. Favoriva Onorato Caetani, ma nello stesso tempo lo sorvegliava. O cosi mi sembra. Ludovico da Treviso rappresentava anche gli interessi dei gruppi commerciali.e finanziari romani, sempre pronti a cogliere le occasioni:propizie per realizzare in-
vestimenti nella Campagna Romana. Questi gruppi comprendevano anche i bovattieri. Ci fu un momento nel quale, o così si puó ipotizzare, il futuro dei baroni romani dipendeva dalle alleanze tra la curia romana e la classe dei ricchi bovattieri. Per sopravvivere i baroni dovevano entrare a far parte del mondo finanziario. di Roma. Ne abbiamo un esempio nel tardo Quattrocento. Dopo il fallimento del tentativodi Onorato III Caetani di imporre la grande politica e la sua morte, il figlio Nicola dette in sposa la sorella Tacobella a Paolo di Stefano Margani. I Margani erano stati in precedenza fra i prestatori bovattieri che avevano aiutato i Caetani a superare la crisi degli ultimi anni di Onorato.
Sermoneta e il Lazio meridionale nel Medioevo
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Una delle grandi lacune per la storia delle signorie minori italiane del tardo medio evo mi sembra risiedere nella. limitata conoscenza delle loro finanze. Penso per esempio alle difficoltà provate finora a capire le finanze dei Montefeltro.:E vero che i
grossi debiti e le ipoteche di Onorato III Caetani alla fine della
sua vita si spiegano col fallimento della sua politica: peró, ho l'impressione — forse mi sbaglio — di un'economia signorile a | Sermoneta che era povera in denaro liquido anche prima della crisi. Ma in questo caso, per quale motivo succede che anche
dopo la nuova. crisi della confisca fatta a spese-dei Caetani dai |
Borgia, nel 1521 troviamo Camillo Caetani come un prestatore importante a Roma, che si destreggia facilmente.fra banchieri, depositari e appaltatori della curia romana? E difficile, allo stato attuale delle nostre conoscenze, dare delle risposte precise. Non so se altri si sono occupati della questione. Ma sono in-ogni modo convinto che il convegno sapra fornire adeguate risposte a molti quesiti ora non risolti:
cosi potremo
arrivare ad una vi-
sione più chiara e a una comprensione più precisa di questo mondo baronale, del quale tante cose ancora ci sfuggono.
Bibliografia P. PANTANELLI, Notizie storiche della terra di Sermoneta, a cura di L. Caetani, Roma 1972; c. caETANI, Domus Caietana, 1-2, Sancasciano Val di Pesa 1927 e 1933; w., Regesta chartarum, 3, 4, 5, Sancasciano Val di Pesa 19281930; m., Epistolarium Honorati Caietani. Lettere familiari del cardinale Scarampo e corrispondenza della guerra Angioina, 1450-1467, Sancasciano 1926; w., Varia, Città del Vaticano 1936; Ninfa una città, un giardino, Atti-del-Colloquio della Fondazione Camillo Caetani, Roma, Sermoneta, Ninfa 7:9 ottobre 1988, a cura di Luigi Fiorani, Roma 1990; Italia pontificia, a:‘cuta di P.F. Kehr, 2, Berlino 1961, pp. 127-130; c. FALCO, I comuni della campagna e marit-
tima nel Medio Evo, in « Archivio della Società romana di stotia- patria», 42, 1919 e 47-49, 1924-6;
c. rALCO, Sulla formazione e la costituzione della signo-
ria dei Caetani, 1283-1303, in « Rivista storica italiana», 6, 1928; D. WALEY, La féodaThe Papal State in the Thirteenth Century, Londra 1961; n. WALEY, lité dans la région romaine dans la 2° moitié du XIIIe siècle et le début du
XIVe, in Famille et parenté dans l'Occident médiéval, Actes du'colloque de Paris (6-8 juin 1974), a cuta di G. Duby et J. Le Goff, Roma 1977; P. TOUBERT, Les structures du Latium mediéval: le Latium méridional et la Sabine du IX*
of St. Peter: siècle à la fin du XIIe siècle, Roma 1973; P. PARTNER, The Lands
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Age
(1348-1428), in « Mélanges
d'archéologie et d'histoire », 86, 1974;
S. ca
26
Peter D. Partner
rocci, Aspetti delle strutture familiari nel Lazio tardo medievale, in « Atchivio enti tina zio
della società romana di storia patria », 11, 1987; S. cAROCCI, I possessi degli ecclesiastici tiburtini all’inizio del XV secolo, in « Atti della società tibur», 55, 1982; A. CORTONESI, Colture, pratiche agrarie e allevamento nel Labassomedievale: testimonianze dalla legislazione statutaria, in « Archivio
della società romana di storia patria», 101 (1978); A. CORTONESI, Terre e si-
gnori nel Lazio medioevale, Napoli 1988; M.T. CACIORGNA, Comuni, signori, ebrei
nel Lazio meridionale, in « Società e storia », 13 (1990); M. VENDITTELLI, « Domini» e «universitas castri»
a Sermoneta nei secoli XIII e XIV:
gli statuti
castellani del 1279 con le aggiunte e le riforme del 1304 e del secolo XV, Roma 1993; A. REHBERG, Efsi prudens paterfamilias... pro pace suorum sapienter providet: le ripercussioni del Nepotismo di Martino V a Roma e nel Lazio, in Alle origini della nuova Roma: Martino V (1417-1431), Atti del Convegno, Roma 2-5 marzo 1992, Roma 1992; P. PAVAN, Ozorato III Caetani: un tentativo fallito
di espansione territoriale, in Studi sul Medioevo cristiano offerti a Raffaello Morghen, 2, Roma 1974; M. CARAVALE, La finanza pontificia nel Cinquecento: le provincie del Lazio, Napoli 1974. — —
Sandro Carocci
La signoria dei baroni romani a Sermoneta e nel Lazio nel Duecento e nel primo Trecento
Il passaggio di Sermoneta e delle aree vicine sotto il dominio di alcuni importanti lignaggi aristocratici romani è stato oggetto di recenti e ineccepibili ricerche, promosse in larga par-
te proprio dalla Fondazione Camillo Caetani! Per il periodo
che debbo trattare, inoltre, la documentazione è limitata e in
buona misura ormai nota. In queste condizioni, in occasione di un Convegno che si pone come momento di convergenza di aree scientifiche e settori specialistici diversi, mi è sembrato opportuno, piuttosto che seguire questioni particolari e di dettaglio, insistere su alcuni svolgimenti di grande respiro, su trasformazioni d'insieme fondamentali per una corretta valutazione della complessiva vicenda storica di Sermoneta. Argomento del mio contributo saranno soprattutto i muta-
menti vetificatisi nell'assetto dei poteri locali in seguito all'affermazione, in Roma potente, quella appunto cato una ricerca appena certi aspetti sviluppo le
e nel Lazio, di un'atistocrazia nuova e dei barones, ala cui storia ho dedipubblicata, della quale riprendo e per conclusioni ?.
L'ascesa delle nuove signorie
A partite dal primo
Duecento,
all’interno
dell’aristocrazia
romana emerse un tistretto gruppo di famiglie strapotenti, ricche di beni ed influenza. Erano in tutto una. dozzina appena di casati: quelli che più interessano la storia di Sermoneta e delle province di Campagna e Marittima sono Frangipane, Colonna, Orsini, Conti, Annibaldi, Savelli e Caetani*.
La vicenda di queste famiglie si inseriva in uno svolgimento
più generale. Se si evitano i diffusi orientamenti storiografici
volti a prospettare nei secoli e nello spazio una fisionomia tendenzialmente unitaria. della nobiltà, è in effetti possibile no-
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Sandro Carocci
tare come in tutta Italia avesse luogo nel XIII secolo un processo di selezione interna alle aristocrazie, che portó all'affermazione — in ogni città, in ogni area non urbanizzata — di
un limitato numero di casati eminenti. Assistiamo allora alla formazione di vaste signorie exttaurbane (dei Monferrato, dei Savoia, dei Malaspina, degli Aldobrandeschi, ecc.) e, nelle città, di schieramenti nobiliari incentrati sul preponderante potere di alcuni casati, definiti di solito con il termine di magnates *. Proprio a Roma e nel Lazio questo processo di selezione
ebbe a mio avviso particolare sviluppo. La Chiesa era riuscita ad affermare il primato romano sulle strutture ecclesiastiche della cristianità e a dare finalmente concretezza alle rivendica-
zioni temporali sul Lazio e altre regioni dell’Italia centrale.
Si accrebbero a dismisura le capacità finanziarie e il potere dei cardinali e del papa. L’aristocrazia della capitale, intimamente legata ai pontefici e alla Curia da parentele e interessi di ogni tipo, usufrui di appoggi, risorse e possibilità preziose. Nel giro di pochi decenni, la nascita dello Stato della Chiesa e il predominio papale sull’apparato ecclesiastico finirono con il mu-
tare completamente la composizione e la fisionomia del livello
superiore della nobiltà romana, scavando una sorta di fossato fra questi pochi casati strapotenti — designati dalle fonti come
barones Urbis — e le restanti componenti nobiliari della società.
I baroni assunsero stabilmente la guida del comune ca-
pitolino, consolidarono i rapporti diretti e privilegiati con il papa, la curia e le strutture statali allora in formazione, sottomisero alla propria signoria decine e decine di villaggi in ogni area della regione. Quel nesso fra costruzione statuale e nuova definizione dei ceti nobiliari evidenziato da recenti ricerche sulle monarchie europee risulta evidente, in forme peculiarissime, anche nei domini pontifici. La mediazione di pontefici e cardinali fu essenziale per assicurare ai baroni i favori dei sovrani meridionali. Carlo I d'Angiò e suo figlio concessero in feudo a molti nobili romani
numerose terre del Regno, li chiamarono a ricoprire incarichi
nell'amministrazione locale, li vollero a corte in qualità di familiari e consiglieri. I dominii regnicoli, gli obblighi militari e di corte nonché, più in generale, l’attrazione di quello che, nell’Italia del tardo Duecento, era un fondamentale centro di potere ed insieme di valorizzazione dei valori nobiliari e cavallereschi, finirono con l’allontanare alcune linee delle nostre famiglie dalla realtà romana e laziale, assimilandole gradualmente alle stirpi della nobiltà meridionale. Assieme agli Orsini di Nola, i Caetani di Fondi rappresentano i primi, celebri esempi di questo processo di “meridionalizzazione” di grandi lignaggi romani che sarebbe proseguito per secoli.
La signoria dei baroni romani a Sermoneta
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Nel Lazio, i baroni romani furono: arteficidi una formidabile espansione pattimoniale. Allorché, nel quarto decennio del Duecento,.i nostri casati si affermiátono fiéttamefite- sopra il resto della nobiltà romana, più di una cinquaritima di castelli si trovava già sotto il loro dominio; wha generazione dopo, al momento dell'elezione di Niccolò III, i castra-laziali dei baroni raggiungevário già il centinaio; nei decenni successivi, il
forte sviluppo del nepotismo pontificio determinó un'ulteriore acceleraziohe, portando in breve le dominazioni territoriali ad oltre centocinquanta abitati. GE o RS In Marittima, i maggiori protagonisti di questa espansione
furono dapprima i Frangipane, poi gli Annibaldi, € infine i Caetani, nientre un ruolo secondario venne giuotato.da Colonna
e Savelli; in. Campagna, notevole rilievo fur prin
assunto dai
possessi di Conti, Colonna e Annibaldi, poi naturalmente da quelli dei Caetani. j : = Senza seguire nei dettagli l'incremento delle: dominazioni
baronali, ne vorrei rilevare almeno tre elementi caratterizzanti.
È bene precisare, in primo luogo, che trarine casi peculiari (ad esempio Ninfa)le concessioni feudali effettuate dal papato giuòcarono un: notevole rilievo nel determinare e nell’orieritare la espansione. territoriale dell’aristocrazia solo in epoca- precoce,
fra la metà del XII secoló e il 1220 circa, o molto avanti nel tempo; a partire dal tardo Trecento. In lafsa inisüra düecen-
tesca, la formazione dei dominii baronali si realizzò.di conseguenza quasi interamente in. forma allodiale: si fondòcioè non su concessioni vassallatico-beneficiarie da parte dellà Chiesa,
ma su acquisizioni in piena proprietà. Contrartiamerité a quanto viene ancora spesso ripetuto, nel Due-Trecerito i baroni ton era-
no dunque «feudatari» del papa e della Chiesa." ^ ^ La crescita delle dominazioni baronali, in secondo luogo, ebbe
carattere di irrevérsibilità. I castelli passati ad üno dei nostri
lignaggi non tornavano più agli antichi proprietari 6 à signori
ad essi assimilabili: l'acquisto da parte del barone ráppresentava un mutamento tipologico definitivo nella titolatità della giurisdizione signorile e nel governo locale. L'esparisioné baro-
nale, quindi, ebbe fra gli altri anche l’esito di ridurre molto la precedente: varietà delle forme di dominio e di governo locale. Una tipologia di proprietari dall’indubbia omogeneità; quella
appunto baronale, si sostituì a forme di dominio estremamente
dissimili: al sostanziale autogoverno di alcune comunità rurali, al vario possesso di enti ecclesiastici di ogni tipo, al debole dominato di famiglie atistocratiche di mediocre levatura di Roma e di altre città, a consorterie locali, a condominii dalla complessa e mutevole fisionomia. | L'ultimo elemento caratterizzante dell'espansione baronale che
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Sandro Carocci
sembra ora opportuno sottolineare è il suo essersi a lungo svolta senza sovrapposizioni e interferenze fra le diverse stirpi batonali: tutte le nostre famiglie ampliarono cioè i propri dominii a danno non di altri casati baronali, ma di enti eccelsiastici, consorterie locali, aristocrazia minore, liberi comuni rurali.
Fino al XIV secolo, la sola, cospicua eccezione fu costituita proprio da Sermoneta e dalle vicine terre di Marittima. A cato prezzo (almeno 160.000 fiorini) e probabilmente solo dopo forti pressioni, nel 1297 i Caetani acquistarono Sermoneta, Bassiano e S. Donato da un ramo degli Annibaldi, con la forza e con il denaro sottrassero Ninfa ai Colonna 5. La peculiare vi-
cenda di Sermoneta e delle aree vicine sembra dipendere da più fattori. In parte derivava dall'importanza per così dire strategica della Marittima, un'atea essenziale per le comunicazioni
di Roma con il Meridione che fin dalla metà del XII secolo il papato aveva cercato di controllare favorendo l’insediamento
di una potente stirpe alleata, quella dei Frangipane, ai quali
nel Duecento si erano appunto sostituiti gli Annibaldi® In parte era la stessa configurazione del territorio, stretto fra la
montagna e la palude, a spingere tutte le forze interessate al-
l'area a contendersi i pochi e floridi abitati della zona pedemontana. Infine, il passaggio di Sermoneta e delle terre vicine ai Caetani fu per così dire imposto dalla peculiare politica territoriale di Bonifacio VIII e dei suoi parenti. In passato, infatti, si è teso frequentemente a considerare tutti i dominii baronali come tanti piccoli « stati », come aree compatte e di una certa estensione interamente sottoposte ad uno stesso si. gnote. Si tratta di una visione che tende a proiettare anacronisticamente nel Duecento e nel primo Trecento situazioni posteriori, del pieno Quattrocento e dei secoli successivi. Per l’epoca qui considerata, invece, solo in pochissimi casi sono in realtà individuabili precisi progetti territoriali, evidenti orientamenti alla costituzione di « principati ». La maggiore eccezione è per l’appunto rappresentata dai Caetani, che seguirono con successo una politica chiaramente indirizzata alla creazione, nel cuore
del Lazio meridionale, di un vero e proprio « stato », di un
dominio caratterizzato in primo luogo dalla coerenza geografica: e per questa loro politica era per l'appunto essenziale il controllo della Marittima (nel resto della regione, invece, anche i Caetani evitarono accuratamente di ingrandirsi alle spese degli altri lignaggi baronali). Forniti questi rapidi cenni sulla politica territoriale dei baroni romani, rivolgiamo adesso l’attenzione per così dire verso il basso, verso la società rurare e le campagne.
La signoria dei baroni romani a Sermoneta
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Caratteri dei nuovi regimi signorili Nel regime signorile messo in atto a Sermoneta, a Ninfa, in
Marittima e un po' in tutto il Lazio dai casati baronali vi fu un qualche elemento caratterizzante? Della signoria laziale, la storiografia fornisce valutazioni d'insieme, incuranti della ‘concreta varietà di situazioni. Invece, è possibile individuare un elemento che veramente connota il dominato deinostri lignaggi, che lo distingue da quello esercitato in altre atee-del Lazio
da proprietari ecclesiastici di ogni tipo, da consorterie locali, da famiglie di minore levatura, e che anche lo allontana dalla signoria rurale attestata, in questo stesso petiodo;
dalla docu-
mentazione di altre regioni italiane. Questo elemento è la capacità di mantenere (e se il caso di riacquistaré) il pieno possesso di tutti i “fattori costitutivi” della sigtioria, fattori che nel resto del Lazio, e più in generale d’Italia, soló"in rari casi risultano contemporaneamente nelle mani di uno stesso signore.
Nei dominii baronali, l’autorità giudiziaria ‘viene ésercitata nella sua pienezza, senza le limitazioni, così diffuse in altre regioni, determinate dalla subordinazione alla giustizia comu-
nale e senza che i diritti di appello attribuiti: dalla Chiesa ai tribunali rettorali trovino mai concreta applicazione; Non si verificano frammentazioni e alienazioni di singoli dititti signorili, diffusissime ovunque la signoria manifesti cedimenti e attestate nella stessa Sermoneta prima dell’avvento del dominio
baronale”. Le conversioni in denaro di setvizi € canoni sono
rarissime, con il vantaggio di preservare la rendita signorile da ogni svalutazione. Il controllo sulle strutture ecclesiastiche è
tendenzialmente completo: come bene dimostrano per Sermoneta i documenti tramandatici da Pietro Pantanelli, i signori
detengono lo is patronatus, nominano i rettori delle chiese castrensi, si appropriano con frequenza dei loro beni patrimoniali e delle decime ®. Un altro essenziale fattore costitutivo della
signoria che appare nelle mani dei baroni è la capacità di: im-
porre alla maggioranza dei sottoposti (milites e pedites) notevoli prestazioni militari. Infine — e soprattutto — è assente ogni
scissione fra il signore territoriale e il proprietario della terra. Mi sono àdesso espresso nella terminologia elaborata negli
ultimi decénni dagli storici del medioevo: ma parlare di identità fra signore territoriale e signore fondiario vuol dire — nella sostanza —
che il titolare della giurisdizione ‘signorile: di un
determinato castello è anche il proprietario della-totalità o almeno della grande maggioranza delle terre coltivate dagli ‘abitanti di quel medesimo
castello. E una situazione ben
nota
agli storici del Lazio moderno: già un trentennio fa Pasquale Villani si stupiva di come ancora in pieno Settecento:il barone
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Sandro Carocci
romano, nei suoi dominii, risultasse proprietario della superficie coltivata « in misura enormemente superiore ad ogni altro tipo di feudatario italiano » ?.
Eccezionale in età moderna, già nel Medioevo quest'assetto
della proprietà fondiaria appariva peculiare rispetto non solo a quanto avveniva in altre regioni, ma anche — si noti — nei confronti dei territori del Lazio stesso non ancora passati sotto
il dominio baronale. Furono proprio i baroni che, forti di ingenti mezzi finanziari, dell’appogsio della curia e delle strutture amministrative statali e grazie anche alla violenza e alla pura sopraffazione, avviarono una profonda trasformazione nel-
l’assetto della proprietà fondiaria dei castelli che entravano a far parte dei loro redditi. Quasi ovunque, eliminatono sero drasticamente i possessi dei proprietari forestieri cittadini in primo luogo, ma talora pure ecclesiastici), anche ostacoli insuperabili ad un’indesiderata crescita
o ridus(nobili e ponendo dei beni
delle chiese castrensi, sui quali peraltro i signori vantavano
spesso, come ho detto, ampie perrogative. Soprattutto, però, acquistarono in molti casi la proprietà eminente di tutti o quasi tutti i terreni che prima del loro arrivo gli abitanti possedevano in piena proptietà, a titolo allodiale, retrocedendoli in feudo agli antichi proprietari (è accertato che questo avvenne anche a Sermoneta) ”. Mutamenti
del dominato
Per tutte le ragioni sopra sommariamente richiamate, ma soprattutto sulla base di analisi dettagliate che non è qui possibile proporre, il passaggio di un castello al patrimonio di un
barone non mi sembra dunque configurarsi come un semplice
cambiamento di proprietà: rappresentava invece soprattutto un mutamento nel tipo di dominato, un passaggio ad una signoria priva di cedimenti, una signoria più stabile, spesso anche ad una signotia più dura. Sappiamo che l’espansione dei dominit baronali fu allodiale, e quindi meno soggetta nei secoli seguenti a revoche da parte del papa, che ebbe un carattere irreversibile e che si svolse prevalentemente ai danni della preesistente congetie di proprietati: possiamo allora meglio comprendere perché questa espansione si rivelò così stabile nel tempo ed esercitò una determinante influenza sulla storia della nostra regione. Le stirpi batonali perpetüárono nel tempo, dandogli nuove energie e impiantandolo ex novo nelle località dove éra assente o scomparso, un solido regime signorile: un regime che, seppure indebolito e addolcito, nei secoli successivi ha permes-
La signoria dei baroni romani a Sermoneta
. 33
so ai signori laziali di continuare ad esercitare una salda presa su uomini e terre. Se nel tardo medioevo
e in età moderna
il
Lazio risulta senza dubbio parte di quell’Italia “agraria e atre-
trata dove il possesso nobiliare di terre e comunità appare dominante è dunque innanzitutto per effetto dello sviluppo di questa nuova, potente aristocrazia. In che misuta poi la sua signoria si sia risolta in stimolo alla committenza artistica e architettonicaè questione che proprio nel nostro Convegno troverà ampia risposta* |
Note * Pubblico
senza aggiornamenti
il testo presentato
al Convegno.
1 [I riferimento & innanzitutto a M. VENDITTELLI, « Domini» e « universitas castri» a Sermoneta nei secoli XIII e XIV. Gli statuti castellani del 1271 con le aggiunte e le riforme del 1304 e del secolo XV (= Pubblicazioni della” Fondazoine Camillo:Caetani, Studi e documenti d'archivio, 3), Roma 1995. Si vedano tuttavia anche ». DELOGU, Territorio e dominii della regione Pontina nel medioevo, in Ninfa una città, un giardino, Atti del Colloquio della ‘Fondazione Camillo Caetani; Roma-Sermoneta-Ninfa 7-9 ottobre 1988, a cuta di L. Fiorani, Roma 1990, pp. 17-32, e, nello stesso volume, M.T. CACIORGNA, Ninfa prima dei Caetani ( secoli XII e XIII ), pp. 39-64. Per un inquadramento generale, tuttora valido e stimolante appare c. FALCO, I comuni della Campagna e della Marittima nel Medio Evo, in « Archivio della Società romana di storia patria », 42, 1919,
pp. 437-605; 47, 1924, pp. 117-187; 48, 1925, pp. 5-94; 49, 1926, pp. 127-302
(ora ristampato in ID., Studi sulla storia del Lazio nel "Medioevo, Roma 1988, pp. 419-690). 2 s. CAROCCI, Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi ‘aristocratici nel Duecento e nel primo Trecento (= Nuovi studi storici, 23; Collection de l'Ecole française de Rome, 181), Roma 1993. 3 Per i caratteri distintivi della nobiltà baronale, debbo rinviare al mio Una nobiltà bipartita. Rappresentazioni sociali e lignaggi preminenti a. Roma nel Duecento e nella prima metà del Trecento, in « Bullettino dell'Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio muratoriano », 95, 1989, pp. J- 122. 4 Mancano al momento studi adeguati su questa evoluzione, che @ stata evidenziata da P. CAMMAROSANO, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti ee Roma 1991, pp. 139- 140. 5 Per l'acquisto di Sermoneta e delle terre vicine, vedi da ultimo VENDITTELLI, « Domini» e « universitas castri», pp. 25-29; gli atti di alienazione sono editi in Regesta chartarum. Regesto delle pergamene dell'archivio Caetani, a cura di
G. Caetani, I, Perugia 1925, pp. 98-102, 114, 116-118, 120-121, 123-124, 126-
129 e 169-174. 6 Cfr. DELOGU, Territorio e dominii, pp. 22-28. 7 p, PANTANELLI, Notizie storiche della Terra di Sermoneta, a cura di L. Caetani, I, Roma 1909, pp. 284 (doc. del 1246) e 287-288 (a. 1247). 8° PANTANELLI, Notizie storiche, I, ad esempio pp..276-279 (per il periodo precedente alla signoria baronale) e 310. 9 p, VILLANI, Ricerche sulla proprietà e sul regime. fondiario nel Lazio, in « Annuario dell'Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea », 12, 1960, pp. 97-263, a p. 117. 10 Cfr. VENDITTELLI, « Domini» e « universitas castri », pp. 23-24.
Susanna Passigli Fonti e documenti per la storia del territorio di Sermoneta
Le brevi riflessioni che seguono scaturiscono m un lavoro. di sistematica raccolta di documenti, conservati in gran: parte ‘negli archivi romani, riguardanti l'abitato e il territorio di Sérmoneta. Il risultato sarà un repertorio di fonti che la Fondazione Caetani potrà mettere a disposizione degli studiosi. La ricerca, che si auspica essere il più completa possibile — coprendo un arco cronologico che va, secondo i fondi archivistici, finovall’età moderna — si è svolta nell'Archivio Caetani, nell’ Archivio Se-
greto Vaticano, nella Biblioteca Apostolica Vaticana; nell Ar-
chivio di Stato di Roma, in alcuni archivi comunali di- ‘centri confinanti e nell’Archivio Diocesano di Terracina. Origine e tipologia dei documenti LTÉE
olei dal punto‘ di vista della storía del territorio — P circo; stanze hanno avuto una particolare incidenza nella produzione: e conservazione delle fonti su Sermoneta: la configurazione del suo territorio e le sue vicende patrimoniali e istituzionali; soggette alla forte influenza della signoria dei Caetani. À queste si aggiunge un terzo ‘elemento costituito dalla docet gene prodotta e conservata dagli enti ecclesiastici*. Z Il territorio di Sermoneta si estende in pendenza ed è percoîso
da molti corsi d'acqua di varia ampiezza, i cui alvei attraversa
vano terreni di pertinenza delle comunità confinanti: Bassiano, Sezze, Ninfa, fino ad arrivare a Terracina. Nei periodi di piena, l’acqua facilmente stratipava, inondando e danneggiando i fondi - coltivati situati a valle. Si può riassumere con Giorgio Falco, che la-storia dei comuni della zona, intorno al XIII secolo, « non'è che «un'unica lotta interminabile per la tutela e l’acquisto di quelle ficchezze che erano la condizione della loro esistenza e la fonte
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Susanna Passigli
della loro prosperità, cioè dei boschi, dei pascoli, dei laghi, dei corsi d'acqua » ^. Per porre un limite al disordine idrico, i pro-
prietari dei terreni a valle spesso intervenivano sistemando delle ostruzioni lungo i fiumi, allo scopo di far mutare direzione al loro corso. Proprio il regolamento dell’apertura e della chiusura degli argini dei fiumi Cavata, Portatore, Falcone e Petrara fu causa di liti prolungate tra XII e XV secolo e oltre. Le questioni vedevano opporsi fra loro da un lato i sermonetani, danneggiati da queste ostruzioni che ostacolavano la navigabilità dei propri fiumi, dall’altro le comunità vicine, soprattutto
Sezze, il cui territorio era regolarmente inondato *. Queste liti hanno reso necessaria la produzione di una grande quantità di documenti, estesa nel tempo e ricca di dati descrittivi del territorio, tra cui figurano molti particolari tecnici di carattere idrologico. Attraverso queste testimonianze si può, non solo ricostruire la morfologia del territorio, ma anche valutare la percezione che i contemporanei avevano dell'assetto idrologico naturale del proprio territorio e interpretare gli interventi umani volti al tentativo di ordinare le acque *. Tale documentazione si conserva negli archivi delle due principali parti, i signori di Sermoneta e il comune di Sezze: si tratta in genere di capitoli di pace e accordi, che sanciscono un nuovo ordinamento idrografico, quasi sempre favorevole ai Caetani. Nei rari casi in cui accadeva
l'opposto, cioè che la ragione pendesse dalla parte di Sezze, copia del documento in questione è conservata tra le pergamene
di questa comunità e non nell’archivio Caetani *. Questo carattere « prepotente
» che Sermoneta assumeva in
occasione delle liti con le comunità vicine per questioni idrolo-
giche e di difesa dei confini introduce il secondo elemento determinante per la produzione e conservazione delle fonti di questo centro, cioè la sua signoria — quella dei Caetani — per la sua longevità e per la eccezionale conservazione del suo archivio familiare. À un nucleo originario costituito dalle pergamene riguardanti i trasferimenti di proprietà, si aggiunsero i documenti relativi alla gestione del territorio, gestione resa assai impegnativa dagli elementi geografici già indicati e dal martel-
lante problema della difesa dei confini. Con il secolo XVI, le carte Caetani riguardanti Sermoneta arricchirono la propria varietà di argomenti: oltre agli affitti, agli
elenchi di censi e ai registri di entrata e di uscita, figurano le
numerose lettere inviate ai duchi — spesso non residenti — dagli ufficiali responsabili, su vari aspetti della vita locale, sullo stato di conservazione delle strutture dell’abitato, sullo stato del-
la tocca, la questione delle carceri e la vita dei carcerati, la ma-
nutenzione delle mura castellane, i preparativi per le visite di
papi e re, i lavori alle strade esterne e ai corsi d’acqua *. Questa
Fonti e documenti
per la storia*del
territorio
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crescente varietà rispecchia il mutato tipo di amministrazione del feudo, più differenziato rispetto al passato, ‘avvalso ora della collaborazione di funzionari dalle più diverse fnansioni. £ La presenza dei Caetani Altri elementi, oltre all'abbondanza della documeritazione conservata grazie alla compattezza del suo archivio, si aggiungono per rendere palese il peso di questa signoria nelle fonti utili per lo studio del territorio di Sermoneta. Esso traspate, ‘per esempio, dai termini che nei documenti designano i ‘rappresentanti
del castrum: termini che pongono l’accento: più. sul-suo signore che sulla comunità o sui suoi rappresentanti, specie’ se confrontati con le analoghe espressioni riferite al comune: di: Sezze. Questo diventa ancor più evidente con l’avvento dei Caetani a Sermoneta: lé aggiunte ai precedenti statuti, sancite da Pie-
tro II Caetani nel 1304 — che implicano l'inserimento di altre
figure a rappresentare l’università e gli uomini di Sermoneta — oltre che mostrare uno sviluppo dell'organismo comunitario, come ha provato Marco Vendittelli, indicano il desiderio del nuovo signore di stringere maggiormente il des di fedeltà dei sermonetani nei suoi confronti?. La fedeltà dei sermonetani, tra l'altro, & nat dai Caetani nel corso di un arco di tempo piuttosto lüñgo con esenzioni fiscali, come è mostrato dalle testimonianze sul sale ‘e foca-
tico, ancora una. volta assai espressive riguardo al forte condizio-
namento stabilito dai Caetani sulle fonti conservate pet Sermoneta nel XV secolo. Nella prima metà del Quattrocento, Sermoneta risultava tassata per una cifra corrispondente a^40 rubbia di sale, quando per esempio Bassiano, Cisterna e Norma lo erano per 10 rubbid e Terracina e Ninfa per 50 rubbia*. Nei registri fiscali, in seguito all'indicazione di ciascuna comunità, a seconda dell'avvenuto pagamento o esenzione, figura il verbale di comparizione, sempre che la comunità fosse ancora attiva. Nel caso delle poche città allora in vita, non figura alcun verbale e lo spazio di seguito al nome di essa è lasciato bianco. To. stesso
accade anche nel caso di alcuni villaggi abbandonati; il‘cui elen-
co è riscontrabile in una lista finale stilata alla fine: di ogni anno. Essendo un castrum ancora ben vitale, come interpretare lo spazio bianco lasciato nel caso di Sermoneta?. La sua cittadinanza,
come sappiamo» dai registri pontifici e come risülta dài riscontri conservati nell’Archivio Caetani, era stata favorita sin dal 1368
con l’esenzione dal pagamento della tassa sui fuochi. Ma tale esenzione non figura nel verbale di comparizione relativo a Sermoneta:
ciò significa che nelle fonti fiscali il: feido Caetani si
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Susanna Passigli
comportava proprio come le città più importanti, esentate tanto dal pagamento quanto dall'obbligo di produrre la documentazio-
ne relativa all'esenzione *. Un'ultima riflessione a questo proposito riguarda i rapporti tra la produzione documentaria cittadina e l'archivio Caetani: manca infatti nell'archivio storico comunale di Sermoneta un
elemento caratteristico degli archivi comunali, cioè un fondo di-
plomatico, costituito da atti sciolti redatti tra comunità e privati
o tra il signore e la comunità ", Si può dire che esso sia invece
conservato tra le pergamene dell’archivio Caetani, insieme ai manoscritti che tramandano le varie redazioni dei testi statutari. Questo carattere centralistico attribuito dalla famiglia alla produzione documentatia relativa alle istituzioni cittadine si prolunga molto nel tempo: nell’archivio Caetani si trovano fino a
tutto il Settecento, libri comunali, registri di danno dato e di
istrumneti, oltre a una cronaca del 1555-56 che, registrando l’ultima congiura dei Caetani di Maenza, offre una interessante
descrizione di Sermoneta e del suo territorio !. Fonti di istituzioni ecclesiastiche
Alcune parole ancora sugli enti ecclesiastici.
Innanzitutto la collegiata di S. Maria che ha conservato, put-
troppo solo fino al XVIII secolo, una ricca messe di documenti riguardanti Sermoneta, il suo territorio e le sue chiese. Di questi, trascritti in buona parte dal Pantanelli, che ne ha costituito la principale base documentaria per la sua opera storica su Ser-
moneta, solo quattro sono confluiti nell'Archivio di Stato di Ro-
ma e cosi giunti sino a noi. Molte carte sono oggi consetvate nell'archivio della chiesa, ma si tratta di registri parrocchiali e carte sciolte di età moderna conservate senza ordine in scatole di cartone. Sermoneta dipendeva dal vescovo di Terracina, nel cui archivio diocesano sono oggi conservati i testi di alcune visite pastorali di età moderna, che forniscono notizie sulle chiese urbane e rurali e sulla consistenza demografica dell'abitato. Nonostante le ricerche svolte, né qui né in Archivio Segreto Vaticano, si é riusciti a reperire la visita cinquecentesca di Gaspare Mare, della quale fa cenno il Pantanelli. Negli archivi delle case madri di Roma si trovano infine al-
cuni documenti relativi ai priorati di S. Spirito, del S. Salvatore e di S. Antonio, le cui chiese erano situate nel territorio extra-
urbano di Sermoneta. Si segnala quest’ultimo archivio, in quanto conserva un ricco fondo relativo ai propri beni di Sermoneta, a partire dal secolo XVI. Si tratta di visite, libri di conti e di
Fonti e documenti per la storia del:itertitorio
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entrate-uscite, di:privilegi e atti notarili, infine. di un catasto di Sermoneta del 1764, composto da un inventario di beni e da
trenta fogli con piante a coloriÈ
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f
Note 1 p, PANTANELLI, Notizie storiche della Terra di Sermoneta, a cuta di 1. CAE. TANI, Roma 1972. Sulla sensibilità per le questioni territoriali nella storiografia dei secoli XVI-XIX si veda P. TOUBERT, « Città » et « contado » dans l'Italie médiévale. L'émergence d'un thème bistoriograpbique entre Renaissance et Roman-
ticisme, in «La Cultura », 22, 1984, pp. 219-248 e sull'opera del Pantanelli esi-
ste ora uno studio messo a punto da "Massimo Cattaneo, pubblicato in questi stessi atti, Questi elementi si incontrano in molte altre storie locali e coincidono con quelli enucleati da Cristina Carbonetti Vendittelli e Sandro £Larocci per procedere alla ricerca delle fonti, in un saggio dal titolo Le fonti per la storia locale: il caso di Tivoli. Produzione, conservazione e ricerca della documentazione medievale, in « Rassegna degli Archivi di Stato », 44, 1984, 1, pp. 68-148: vicende patrimoniali, enti ecclesiastici, istituzioni cittadine. © 2 a. FALCO, I Comuni della campagna e della marittima nel medio evo, in « Archivio della società romana di storia patria », 48, 1925, p. 13. 3 Sulla questione idrologica si veda principalmente G. CAETANI, Domus Caietana. Storia documentata della famiglia Caetani. I, 2, San Casciano Val di Pesa 1927, pp. 144-145 con pianta delle Paludi Pontine e N.M. NICOLAI, De bonificamenti delle terre pontine, Roma 1800, pp. 113 ss. e 121 ss. ^ Sulla problematica della percezione di questi territori da parte dell'uomo in età classica, c. TRAINA, L'immagine imperiale delle paludi pontine, in La valle pontina nell'antichità, convegno tenuto a Cori, 13-14 aprile 1985, Roma 1990 (Studi e ricerche sul "Lazio antico a cura di F. Coarelli), pp. 39-44. Per il medioevo si rimanda allo studio su Terracina in corso di preparazione da parte di Maria Teresa Caciorgna e a S. PASSIGLI, Ambiente umido e componenti umane nel territorio pontino alla vigilia dei progetti di Pio VI (secoli XIII-XV). Recupero e revisione delle problematiche per una rilettura della storia della bonifica, in Pio VI. Le Paludi Pontine. Terracina. Catalogo della mostra, Terta-
cina 25 luglio -30 settembre 1995, a cura di Rosario Rocci, Terracina 1995,
pp. 383-400. 5 M.T. CACIORGNA, Le pergamene di Sezze (1181-1347), Roma 1989 (Codice diplomatico di Roma e della regione romana, 5). $ Proprio per la varietà dei documenti riguardanti Sermoneta conservati in quest’archivio, si & scelto di ordinarli nel repertorio in corso di stampa in base a una suddivisione per soggetti: 1) acquisizioni-alienazioni, 2) territorio in generale, 3) contrasti con i comuni confinanti, 4) struttura dell'abitato, 5) struttura del palatium, 6) chiese e monasteri, 7) amministrazione politica, économica e fiscale, demografia. 7 M. VENDITTELLI, « Domini» e « Universitas Castri » a Sermoneta nei secoli XIII e XIV. Gli statuti castellani del 1271 con le aggiunte e le riforme del 1304 e del secolo XV, Roma 1993, pp. 42-45.
8 Sul funzionamento di tali liste, si veda J. COSTE, I villaggi medievali abban-
donati dell'area dei monti Lucretili, in Monti Lucretili, a cura di G. DE ANGELIS, Roma 1988, nota in appendice, nella quale si riassume la bibliografia precedente, chiarendonei limiti di interpretazione, ora in m., Scritti di topografia medievale. Problemi di metodo e ricerche sul Lazio, a cura di C. Carbonetti, S. Carocci, S. Passigli; M. Vendittelli, Roma 1996 (Istituto storico italiano per il Medioevo. Nuovi Studi storici 30), pp. 133-136. ? « De castto;Sermonete non potui exigere quod non placuit domino » dice il collettore che.nel 1473 era incaricato di riscuotere la vigesima imposta agli ebrei che risiedevano a Sermoneta. Questo esempio della: potente feudalità rap* presentata da Onorato III Caetani è portato da M.T. CACIORGNA, Comuni, si-
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Susanna Passigli
gnori, ebrei nel Lazio meridionale, in «Storia e società », 48, 1990, pp. 301336, alla p. 322. 1? Su questo, come sugli altri aspetti relativi al « paesaggio delle fonti », si veda P. CAMMAROSANO, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma 1992, in particolare sulle scritture delle città le pp. 144-174.
1 Come in gran parte degli archivi comunali della nostra regione, per il
medioevo mancano catasti, estimi e cronache cittadine. P L'archivio del Priorato degli Antoniani ha sede presso la Pontificia accademia ecclesiastica e il suo inventario è stato redatto da m. ENKING, L'archivio dell’antico ospedale di S. Antonio abbate in Roma, in « Archivio della società romana di storia patria », 90, 1967, pp. 61-69.
Marco Vendittelli
Signori, istituzioni comunitarie e statuti~ a Sermoneta tra il XIII ed il XV secolo .
Per ricostruire e comprendere le vicende storiche di Sermoneta nei secoli XIII, XIV e XV disponiamo:di unà fonte di primario interesse. Si tratta del testo (purtroppo mutilo) dei suoi statuti, emanati nel 1271, con le aggiunte e-le riforme ad esso apportate a partire dal 1304 !: si tratta di una fonte di*primario interesse, tonto per la storia di Sermoneta quanto, pit. in gene-
rale, per quella del dominatus castellano del Lazio due-trecentesco, ma stranamente la sua diffusione in ambito storiografico moderno è stata: praticamente Con cid voglio solo porre questo testo, ma non asaltarne fornire ai livelli paradigmatico
| ue. nulla’. l’attenzione sull’importanza di più del dovuto l'appofto che può e generale: ‘svatiate altre fonti
sono testimoni della realtà e delle vicende:storiche di Sermo-
neta e concorrono alla ricostruzione di un modello che puó essere fruttuosamente confrontato e inserito hel quadro dell'organizzazione territoriale e signorile del Lazio del pieno e tardo Tow Medioevo.
Diritti e giurisdizioni a Sermoneta fino alla signoria dei Caetani Gli statuti del 1271 furono concessi dal cardinale: Riccardo Annibaldi — dal 1264 signore di Sermoneta, Bassiano-e San Donato? —, ma‘in precedenza quale era statalà storia dei diritti e
delle giurisdizioni signorili esercitate sul caszrzzz di Sermoneta?
Questa vicenda è sostanzialmente oscura almeno fino:alla metà del secolo XIII e per il periodo anteriore possiamocontare so-
lamente su: generiche e sporadiche attestazioni di domini. de Sermineto, € nulla più ^. Editer cem
Siamo ifivéce meglio informati per gli anni immediatamente precedenti al passaggio di Sermoneta sotto il dominio degli Annibaldi: in quel periodo giurisdizioni e diritti signorili sul castrum Sermitieti erano esercitati da un folto gruppo di domini
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Marco Vendittelli
consortes (non meno di 35)?, ossia da una di quelle aggregazioni di cosignori, formatesi, per motivi prevalentemente ere-
ditari, dalla frammentazione di patrimoni un tempo unitari, la cui insita debolezza non necessita di molte prove e ponderate riflessioni.
Si potrebbe supporte che la signoria su Sermoneta si sia così ampiamente frammentata negli anni Trenta-Cinquanta del Duecento; nel 1222 essa sembra ancora nelle mani di soli due fra-
telli, i zobiles viri Stepbanus e Oddo figli del nobilis vir Saxo:
ad essi — e solo ad essi — è indirizzata una lettera del pon-
tefice Onorio TII del 10 giugno di tale anno con la quale si poneva fine ad una disputa che opponeva i due fratelli come domini de Sarmineto al comune di Ninfa circa lo sfruttamento di talune terre situate al confine dei rispettivi territori $.
Non possiamo appurare in modo certo se le consuetudines che a Sermoneta avevano regolato i rapporti tra questi molti cosisignori e gli abitanti del castrum, e nel contempo avevano rappresentato la base ed il limite della vita collettiva, fossero mai state codificate nella forma dell’atto scritto, come avvenne, invece, nel 1271. Al contrario, quello che mi sembra sicuro è che,
prima dell’avvento della signoria del cardinale Riccardo Annibaldi, Puniversitas castri aveva ottenuto più di un successo nei confronti dei propri domini. Ne è prova più che certa il fatto che la gestione di talune questioni relative alla vita collettiva strutturata fosse affidata ad una rappresentanza composta tanto dai domini quanto dai massarii. : Un atto del 20 giugno 1262 che castrense nel suo complesso ricorda, rum ed i consules massariorum, che rappresentati da un comune sizdicus
riguardava la popolazione infatti, i consules dominooperano in tale occasione et procurator. Potrebbe
apparire azzardato in questo caso attribuire tout court al termi-
ne consul quell’intrenseco valore semantico che in ambito cittadino fornisce al suo apparire l'indizio della nascita di un nuovo organismo comunale 5: la vicenda del dominatus signorile su Sermoneta non mi sembra, infatti, sufficientemente delineata dalle fonti perché si possa avanzare senza riserve l’ipotesi che il castrum abbia vissuto un'esperienza politico-amministrativa in qualche modo assimilabile a quella dei coevi comuni rurali. Tuttavia ritengo che la testimonianza in questione indichi con altrettanta sufficiente chiarezza che l'evoluzione della dialettica interna alla struttura sociale di Sermoneta alla metà del Duecento era stata piuttosto marcata e progredita; non credo, infatti, che i consules dell'atto sermonetano del 1262 possono essere considerati in maniera riduttiva solo ed esclusivamente come procuratori ad boc dei domini e dei massari per trattare una determinata questione; in tale atto — come si & visto — com-
Signori, istituzioni comunitatie e statuti
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pare ed agisce per loro un sindicus et procurator, vero e proprio delegato designato temporaneamente ad hoc. Anche in questo
caso-sermorietano, dunque, i consules dovevano: costituire senza dubbio i rappresentanti pro fempore, e — ripeto —non 44 boc,
prescelti secondo una logica elettiva dai domini e dagli. bomines
castri, pet tutelare i rispettivi interessi.
ZEE
Sulla base di queste ultime considerazioni tin si possa avanzare: l'ipotesi che le conquiste raggiunte dai. Sermonetani, in termini di erosione dei diritti signorili ai quali erano sottomessi, possano aver avuto come loro diretta espressione la codificazione scritta della consuetudo castri vigente, in una parola degli. statuti. Di questi, se effettivamente vi. furono, 0, icomunque, delle precedenti consuetudines il cardinale Riccardo Annibaldi; come nuovo signore di Sermoneta non poté non: tenere conto, anche se, dato il rigido carattere della signoria da lui
imposta, ‘con gli statuti che egli concesse il 27 ‘dicembre 1271
gli spazi.di manovra e la rappresentatività degli homines castri
Sermineti.appaiono assai ridimensionati e. fortemente imbrigliati.
A ‘causa della perdita di tutta la prima patte; e: dunque pure
di quella protocollare, neppure il testo degli statuti del 1271 permette di stabilire in alcun modo se esso effettivamente dipende da una precedente redazione, ossia se il cardinale Riccardo Annibaldi aveva concesso ai suoi nuovi vassalli statuti totalmente originali o se, invece, aveva confermato la validità di un testo già esistente, modificato opportunamente; così come aveva fatto nel caso di Campagnano soltanto un anno prima-e come,
nei confronti dello stesso testo degli statuti di Sermoneta, farà trent'anni dopo Pietro II Caetani. : , Come dicevo, la signoria imposta dal cardinale, Blecardo e
codificata inel testo statutario del dicembre 1271, ‘appare molto
gravosa.e tidimensionava decisamente le possibilità di-intervento nella gestione della vita pubblica da parte dell’uzivensitzas castri. Il vicecomes ed il castellanus, quali rappresentanti; ‘con funzioni diverse, del dominus, avevano in mano pieni poteri, quasi senza limiti ed obblighi nei confronti dell'uziversitas castri, eccezion fatta pet il giuramento di fedeltà agli statuti: un obbligo che nella sostanza si rivelava puramente formale...
Gli statuti del 1271 prevedevano la designazione di commis-
sioni di boni massarii, ma nella sostanza l’operatività di tali. commissioni era limitata ‘ad un mero potere consultivo-esetcitato a fianco del: vicario del dominus solo nella gestione di-alcune importanti questioni, senza avere quel carattere realmente rappresentativo che sembra avessero avuto ‘antecedentemente: i consules massariorum. Solo in un caso la designazione di una di
queste commissioni era appannaggio dei Sermonetani, in tutti gli altri era riservata alla curia o al vicatio.
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Marco Vendittelli
La signoria di Pietro IT Caetani Quando nel 1297 Pietro II Caetani subentrd agli Annibaldi nella signoria di Sermoneta? non intervenne in alcun modo a modificare quanto disposto negli statuti del 1271, ma lo fece alcuni anni dopo, nel 1304, allorquando era duramente impegnato nel conflitto scatenato contro la sua famiglia dai Colonna
e dai loro potenti alleati, all'indomani della morte di Bonifacio
VIII. In tale frangente Pietro II avvertiva la necessità impel-
lente di rafformare maggiormente il legame di fedeltà dei suoi sudditi Sermonetani, e lo fece anche attraverso concessioni di
tipo istituzionale. Vediamone un esempio particolarmente signi-
ficativo. Il capitolo de obmissis, uno dei più delicati ed importanti delle più antiche redazioni statutarie, prevedeva che ogni decisione e provvedimento da prendersi in merito a fatti e situazioni non contemplati dal testo degli statuti spettasse alla curia coadiuvata da dodici massarii, scelti dal vicario. Le riforme nel 1304 intervenivano a modificare profondamente questa disposizione stabilendo che, « non obstante illo statuto quod loquitur in obmissis », la designazione dei suddetti dodici massarii non spettava più ai vicari, bensì agli bomines Sermineti, i quali dovevano procedere ogni sei mesi a rinnovare tale commissione di consiliarii attraverso una libera elezione. Si trattava di un reale successo per le strutture comunitarie di Sermoneta: di fatto con questa disposizione si istituiva un vero consiglio permanente formato dai rappresentanti degli homines castri con il potere di deliberare. Il prologo delle stesse aggiunte e riforme concesse da Pietro II Caetani illumina sulla rappresentatività dei « duodecim massatii consiliarii gerentes vicem populi tam in consiliis quam in aliis negotiis communis ». In questo contesto si potrebbero citare due trattati di pace tra Sermoneta e Sezze del 1305 e del 1332 che dimostrano l'effettiva partecipazione alla vita pubblica di Sermoneta del sindicus universitatis et bominum Sermineti e del consiglio dei dodici massari, in relazione a questioni della massima importanza À, Nei primi decenni del Trecento fanno le loro prime e significative apparizioni le attestazioni della communitas seu universitatis castri Sermineti e del commune Sermineti: si tratta di espressioni che a mio avviso danno la misura dell'evoluzione delle strutture comunitarie di Sermoneta e che non vanno in alcun modo ridotte e confuse con quelle generiche espressioni come bomines Sermineti e populus Sermineti che si incontra-
no in periodo precedente.
Signori, Istituzioni comunitarie e statuti
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Ancora un confronto tra testo statutario del 1271 e riforma del 1304.
Come di consueto nell'ambito della signoria di-castello laziale, al dominus e per lui alla curia, allo ixidex -ed al: notarius curie, spettava l’amministrazione della giustizia: tanto criminale quante civile, l'esercizio del merum et mixtum. imperium, strumento. di controllo e fonte di sicuri redditi. Nel.caso di Sermoneta alla curia spettava per ogni giudizio:-laisomma di dodici denari, oltre alla pena prevista caso per caso dal. testo statutario; Si. poteva non ricorrere alla cría pet dirimere alcune controversie: era infatti previsto dagli statuti che una questione potesse essere risolta amicabiliter con un giudizio arbitrale, tuttavia se l'arbiter o l'arbitrátor avessero stabilito una pena per il colpevole, essa sarebbe stata incamerata anche in questo caso dalla curia. Con riferimento alla discussione delle sole cause’ civili, gli statuti del 1271 prevedevano che alla curia spettava la quarta parte dell'ammontare ‘del valore dell'oggetto
della disputa, nel caso in cui si fosse giudicato. colpevole l’ac-
cusato; iri, caso contrario alla curia sarebbe andato: solo un ventesimo; le spese di giudizio erano invece a catico délla curia stessa. Queste disposizioni venivano profondamente «e» significativamente modificate nel 1304: si affermava apertamente, infatti, che, cosi come eta stato concepito: in passato;..il capitolo relativo: alle cause in materia civile poteva spingere la curia a dimostrarsi assai più favorevole .all’accusatore «che ‘non all’accusato, per questo veniva soppressa la quartaria, esi stabiliva che, qualunque fosse. stata la. sentenzá finale, alla curia sarebbe andato un ventesimo del valore in giiidicato. Fe spese pet il giudice. ed.il.notaio: sarebbero perd gravate sulle parti. Le stesse. aggiunte e riforme tendevano a garantire maggiormente i diritti dell'accusato imponendo alla curia di fornire allo stesso, se richieste, copie. dell’accusa, della denuncia; dela inguisitio, delle eventuali deposizioni dei testimoni e dei-termini
a difesa, « sicut.iuta precipiunt atque volunt ».
:
Il confronto tra gli statuti del 1271 e le aggiunte e riforme del 1304 potrebbe continuare; queste ultime, oltre ad: emendare alcuni capitoli della precedente redazione statutatia, arricchivano Ja materia dispositiva con nuove concessioni e norme. A titolo esemplificativo si ricotda come con il primo capitolo della riforma Pietro II Caetani liberava parzialmente i Sermonetani. dalPobbligo. di miacinare le granaglie esclusivamente presso i mulini:della,c4ria, come previsto dai-précedenti statuti, mentre: con il Secondo confermava ad: essi .il-libero uso delle terre comunitative -del-.tenimentum castri Nimpbe; mantenendo quella.che.era:státa.una consuetudine in vigore prima
che egli divenisse signore anche di Ninfa.
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Marco Vendittelli
I secoli XIV e XV
Nel corso del Trecento.e del Quattrocento, come del resto nei secoli successivi, la vicenda storica e le fortune di Sermoneta si mantennero strettamente legate a quelle dei Caetani, alterne e burrascose, ma allora ancora sostanzialmente prospere. A quanto pare il castrum aveva mantenuto una popo-
lazione piuttosto numerosa, circostanza che, in un periodo di generale recessione demografica, pud star ad indicare un po-
sitivo stato delle attività produttive e delle condizioni di vita e che esso rappresentava un polo di attrazione per le popola-
zioni del territorio !,
Anche se in maniera incostante, e alle volte in modo incerto, nelle fonti documentarie l’uso del termine commune attribuito all’universitas castri si fa via via sempre più frequente, così come si infittiscono le testimonianze dell’assemblea degli bomines, del publicum parlamentum, del consilium e del
consilium speciale *.
Prima di concludere e senza entrare nel merito della questione relativa alla sua datazione, che ho già affrontato altrove, devo dare brevemente notizia della seconda reformatio del te-
sto statutario del 1271 ?. Si tratta di 24 capitoli, probabilmente stabiliti da Onorato III Caetani, quindi prima del 1478, anno della sua morte, che aggiornavano norme, disposizioni e pene, ma che in molti casi non sono paragonabili con quelle analoghe contenute nel testo originario, per la perdita di una parte di quest'ultimo. Questa reformatio, tuttavia, si dovette dimostrare insufficiente, ed il vecchio testo statutario, così come si era venuto stratificando, si dovette dimostrare ben presto inadeguato per un centro abitato ed una realtà comunitaria sviluppata. Così, quando, anche se per breve tempo, nella signoria su Sermoneta
ai Caetani subentrarono
i Borgia,
questi
ultimi per dare un volto più “moderno” ed una strutturazione pubblica più articolata ed adeguata al nuovo tuolo che doveva svolgere la cittadina, ormai centro di un ducato, commissionarono una nuova, organica ed articolata redazione statutaria, che, pur con alcuhe modifiche apportate dai Caetani quando ristabilirono il loto dominatus su Sermoneta, rimase in vigore fino a quando gli statuti municipali continuarono a regolare la vita cittadina "*. Non resta che concludere, ribadendo un punto che mi sembra essenziale, che è tratto peculiare della storia di Sermoneta e, come esempio particolare, del Lazio. Pur rimanendo sempre nella piena dipendenza e soggezione formale e sostanziale del dominatus esercitato dai suoi signori, Sermoneta, che da piccolo castrum assunse una fisionomia via via sempre più mar-
Signori, istituzioni comunitarie e statuti
catamente cittadina, tra Duecento
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e Quattrocento, in termini
di partecipazione dei suoi abitanti alla gestione degli interessi collettivi, appare sempre più assimilabile ad un comune, al pati di molti altri centri urbani del Lazio meridionale liberi
da ogni soggezione feudale.
Note | 1 L’edizione in M. VENDITTELLI, « Domini»
e « universitas castri» a Ser-
moneta nei secoli XIII e XIV. Gli statuti castellani del:1271 con le aggiunte e le riforme del 1304 e del secolo XV, Roma 1993 (Pubblicazioni ‘della Forida-
zione C. Caetani,3). In tale volume avevo già trattato ‘il-tema che mi è stato
assegnato in questo convegno: pet tal motivo in questa sede mi limito a ri proporre in maniera succinta alcuni dei risultati ai quali ero giunto allora, con
qualche aggiustamentoe taluni aggiornamenti.
|
ZEE
2 Cfr: ivi, pp. 15-16. In tempi recentissimi, contemporaneamente al mio studio su tale testo statutario, solamente Sandro Carocci lo ha analizzato per le sue ticetche sulla signoria di castello esercitata dai barones romani: S. CAROCCI, Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi aristocratici nel Duecento e primo Trecento, Roma 1993 (Nuovi studi storici, 23). 3 Per il dossier documentario relativo a tale acquisizione e la sua analisi
critica rimando al mio « Domini» e «universitas castri », pp. 22-24. Sulla figura del cardinale Riccardo Annibaldi: r. rotu, Cardinal Richard Annibaldi. First Protector of tbe Agustinian Order, 1243-1276, in « Augustiniana », 2, 1952, pp. 26-60, 108-149, 5-24; n. WALEY, Annibaldi Roma 1961, pp. 348-351; liae » cardinalizie dal 1227 pp. 141-159; M. DvkMANS,
230-247; 3, 1953, pp. 21-34, 283-313; 4, 1954, pp. Riccardo, in Dizionario biografico degli Italiani, III, A. PARAVICINI BAGLIANI, Cardinali di Curia e « famial 1254, 2 voll., Padova 1972 (Italia Sacta, 18-19), des Conti D'Innocent III à Boniface VIII. Histoire
et des Annibaldi, in «Bulletin de l’Institut historique belge de Rome»,
44,
1975, pp. 19-211, alle pp. 31-33; T. BOESPFLUG MONTECCHI, Riccardo Annibaldi, cardinal de Saint-Ange, in « Rivista di storia della Chiesa in Italia», 46, 1992, 1, pp. 30-50. Per la sua famiglia e la politica di espansione territoriale da essa esercitata nel corso del Duecento: caroccI, Baroni di Roma, pp. 327-331. 4 Prime attestazioni di non meglio specificati domini de Sermineto si incontrano in documenti dell'ultimo quarto del secolo XII: P.F. KEHR, Réges/a pontificum romanorum. Italia pontificia, Yl, Latium, Berolini, 1907 p. 129; m., Papsturkunden in Italien, III, Città del Vaticano 1977 (Acta romanorum pontificum, 3), pp. 439-440; c. CAETANI, Regesta chartarum, Regesto delle pergamene dell’archivio Caetani, 6 voll, Perugia - Sancasciano Val di Pesa 1922-1922, I, pp. 12, 17; M.T. CACIORGNA, Le pergamene di Sezze (1181-1347), 2 voll., Roma 1989 (Codice diplomatico di Roma e della regione romana, 5), doc. 1. Sembra
- che all'inizio del secolo XII, al tempo della ribellione antipapale di Sermoneta,
| Tivera e Ninfa (1116), la consorteria aristocratica dei Tuscolani riuscisse a controllate, almeno temporaneamente, Sermoneta; cfr. P. DELOGU, Territorio e dominii della regione Pontina nel Medio Evo, in Ninfa una città, un giardino, Atti del Colloquio della Fondazione Camillo Caetani, Roma-Sermoneta-Ninfa, 7-9 ottobre 1988, a cura di L. Fiorani, Roma 1990, pp. 17-32, alle pp. 21-22; per la ribellione del 1116 si vedano pure L. DUCHESNE, Le Liber Pontificalis, Sn 2 voll., Paris 1886-1892; II ed., con un terzo vol. di aggiunte e correzioni a .© cura di C. Vogel, Paris 1955-1957 (dalla quale si cita), IT, p. 303, e M.T. CACIOR'
©
“ona, Ninfa prima dei Caetani (secoli XII e XIII), in Ninfa una città, un giar-
dino, pp. 39-63, alle pp. 40-41. 5 A. THEINER,
Codex
diplomaticus
dominii
temporalis
S. Sedis.
Recueil
de
documents pour servir à l’histoire du governement temporal des étates du Saint-
48
Marco Vendittelli
Siège extraits des archives du Vatican, 3 voll, Roma 1861-1862, I, n. 297, pp. 158-159; J. GUIRAUD - S. CLÉMENCET, Les Registres d'Urbain IV (1261-1264), 4 voll Paris 1899-1958, I, nn. 782, 783, pp. 378-379. | 6 La lettera si éonserva a Roma presso l’Archivio del Capitolo della Basilica Lateranense, pergamena Q.2.A.13 (per la quale si veda pure P. PRESSUTTI, Regesta Honorii III papae, 2 voll, Roma 1888-1895, n. 4036); il documento fu trascritto da Pier Luigi Galletti nell'attuale ms. della Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 8034, ff. 80r-81Y; altra copia semplice cartacea del secolo XVII o XVIII in Roma, Archivio Caetani, Fozdo generale 146981. 7 p, PANTANELLI [1710-1787], Notizie storicbe della Terra di Sermoneta, ed. a cura di L. Caetani, 2 voll, Roma 1908-1909, pp. 301-302. 8 Per questo: J.-C. MAIRE VIGUEUR, Comuni e signorie in Umbria, Marche e Lazio, in Storia d'Italia, a cuta di G. Galasso, VIT, 2, Torino 1987, pp. 321-606, a p. 383. ? Per il complesso documentario che testimonia l'acquisizione da parte dei Caetani v. VENDITTELLI, « Domini» e « universitas castri », pp. 25-28. 10 6. CAETANI, Varia. Raccolta delle carte più antiche dell’Archivio Caetani e regesto delle pergamene del fondo pisano, Città del Vaticano 1936, pp. 21-23, 23-25; CACIORGNA, Le pergamene di Sezze, docc. 77, 78 e 132. ll Cfr. VENDITTELLI, « Domini» e « universitas castri», p. 48. 12 Cfr. ad esempio, CAETANI, Regesta chartarum, III, pp. 131-132, 134, 143, 218-219; IV, pp. 156-157.
13 VENDITTELLI, « Domini» e « universitas castri», pp. 50-51. 14 Su questo tema cfr. l'intervento di Manuel Vaquero Pifieiro in questo
stesso volume.
Maria Teresa Caciorgna .
&
Assetti del territorio e confini in Marittima
La Marittima sub-regione e frontiera
m
m
L'espressione Lazio meridionale, nella récente’ storiografia medievistica, ha completamente soppiantato il nome storicamente definito di provincia di Campagna e Marittima, ‘quasi il primo termine-avesse in sé una maggiore intelligibilità 5 i nome indica.oggi una zona ben più vasta di quella:che costituiva la provincia di Campagna e Marittima. In questa; infatti non erano comprese le diocesi di Fondi, Gaeta, Sora'e. Aquino. Tale uso ha la sua ragion d'essere nel fatto che: ‘l’espressione Lazio meridionale rappresenta un territorio facilmente: collocabile:-dal punto di vista geografico a sud di Roma, tra la catena appénninica e il corso del Liri-Garigliano, all'intétnó dei confini amministrativi di quella che oggi è la regione. costituzionale denominata Lazio. Á Relativamente: ai secoli XII e XIII m la: costruzione dello Stato della Chiesa raggiungeva un inquadramento. : ‘déstinato a durare nei secoli e le province si stabilizzavano in quella partizione che seppur con aggiustamenti & variazioni piü-o meno vaste restava valida fino al secolo scorso; & ‘possibile cogliere nel linguaggio della curia pontificia incertezza: ‘nel distinguere e qualificare la provincia stessa. Il termine più usato già da lungo tempo, quello di Campania e Matitima eta péréepito quasi come un’ ‘aggiunta alla provincia per: ‘eccellenza; anche se nel linguaggio più antico, risalente al Codex: carolinus?sla Marittima veniva considerata distinta e con'’una: sia ‘peculiarità autonoma rispetto all'altra parte. Tale distinzionedi percezione restava nell’KI e nel: XII secolo, ma: proprio ,
Una distinzione interna era nettamente chiara ed evidente
50
Maria Teresa Caciorgna
nel linguaggio papale: in esso talvolta i centri urbani erano considerati facenti parte della Campania o della Maritima ^, senza che quest'ultima abbia mai avuto una propria curia, an-
che se la disposizione geografica avrebbe di per sé giustificato
una divisione amministrativa. In effetti, le catene preappenniniche dei Lepini, Ausoni ed Ernici costituivano una delimitazione naturale significativa, le poche vallate consentivano una limitata rete di comunicazioni. Ma a questi caratteri ambien-
tali si contrapponeva l'esiguità dei centri demici con una limitata popolazione che, pertanto, non giustificava la costituzione
di una provincia autonoma. L'opera e gli sforzi della curia romana, come è noto, erano orientati a raggiungere e mantenere alcuni nodi strategici, cercando di conseguire il controllo com-
pleto dei centri posti sulle principali vie di comunicazione che
mettevano in relazione le due parti della provincia. Per tutto il XII secolo, una intensa attività era portata avanti per rivendicare e gestire in un primo momento come Roccbe Sancte Romane Ecclesie e successivamente come castra specialia, quelle fortezze e centri demici che svolgevano una funzione essenziale di controllo della rete viaria e mantenere sotto il dominio diretto le vie di comunicazione tra le due parti. Artena, Latiano, Cori,
Acquapuzza erano acquisite alla Chiesa già nel XII secolo men-
tre su altri castelli vi era un'attenta azione nei confronti dei vassalli per ottenerne il controllo e per stabilire rapporti e relazioni in modo da non contrastare la possibilità di scambi. In questo contesto è oltremodo significativo il richiamo di Onorio ITI indirizzato al comune di Priverno, che intendeva ostacolare i signori di Sonnino nell’accesso alla via pubblica. Il pontefice ricordava che la sovranità sulla strada spettava alla Chiesa, dal momento che si trattava di via regia e il comune di Priverno non doveva opporre ostacoli in quanto quella via consentiva ai signori di Sonnino e ai loro vassalli — ma anche alle popola-
zioni dell’interno — di raggiungere non solo i mulini di Fossanova ma la Marittima ,
La Marittima si componeva degli ambiti delle diocesi di Velletri e di Terracina e le sue frontiere coincidevano con i confini di esse. In effetti non esiste una preoccupazione del governo centrale nel definire le frontiere settentrionali della provincia in quanto esse andavano a identificarsi con i confini della diocesi di Velletri che, dalla parte settentrionale delineavano lo stesso limite provinciale, ma la città per quanto inclusa nella provincia aveva una situazione particolare. La vicinanza con Roma, il ruolo di diocesi subutbicaria, le unioni ripetute con Ostia, le mire
espansionistiche
del
comune
romano
si ripercuotevano
nella sua vita interna e nei suoi rapporti con il governo centrale, in una continua e altalenante politica di autonoma affer-
Assetti
del territorio e ‘confini in Marittima
51
maziotie éd espansione comunale ma risenteñdo anche delle contesé ché riel corso del Duecento contrapponevano il comune di Roma.e il Papato. Il comune di Roma, che rivendicava l’estensione del suo districtus a 40 miglia, tentava di ‘assoggettare ‘Velletri:e taggiungeva lo scopo solo nel 1312 °.-Per-la-citta si creava un doppio legame: da un lato essa era assoggettata politicamente al comune di Roma, dall'altro rientrava.nella. organizzazione provinciale -alla quale doveva obblighi «e tributi al: pari delle altre terre. AN Nella parte. meridionale tra TX e X secolo, le concessioni e i patti con i duchi di Gaeta’ avevano comportato anche il controllo da parte loro della città di Terracina e del suo territorio. Ma nel corso della seconda metà del X secolo, questi territori risultano di nuovo accorpati al Patrimonio di San Pietro e alla parte meridionale di esso 8. Al tempo di Innocenzo III, con la
i
i dell'ambito della giurisdizione statale della Chie?, pertanto.i confini meridionali del territorio: diocesano di Terracina e, all'interno, quelli della diocesi di Veroli andavano a costituire non solo i confini della Campania e della. ‘Marittima ma anche la frontiera meridionale dello Stato? Il confine meridionale di Terracina, individuato: E fiume di Sant'Anastasia, comprendeva una parte del lago. di Fondi e alle due comunità di. Fondi e Terracina, restava comune.l’üso, del bacino del: Salto. Lo sfruttamento di pascoli, boschi ed acque da parte della comunità di Terracina, basato su. consuetudini :molto antiche, probabilmente era stato regolamentato sotto: Guglielmo II,‘cofsentendo una pacifica utilizzazione delle risorse agropastorali. è dell'attività di pesca. All’inizio del XIII secolo tra le due comunità si manifestavano contrasti perché i Fondani volevano' impedire ai Terracinesi l’uso del Salto, e.le:contese avevano ün ‘andamento parallelo ai conflitti che impegnavano le due entità sovrane, Papato e Impero, sotto la :cui giurisdi: zione tientravano i due territori, Un primo momentó nel: quale, secondo gli atti giudiziari, le questioni si. intensificavano, si verificava’ intorno al 1230-1235, mentre si. faceva. ‘più intenso lo scontro tra Federico IT e Gregorio IX. Ancora durante il periodo: di-Carlo I d’Angiò, i giustizieri di Térra di Lavoro
e il castellano di S. Anastasia cercavano di estendere il loro
tertitorio-includendovi la ricca tenuta del Salto "; e in seguito i. Caetani;:signoti della contea di Fondi, con vari è più o meno riusciti tentativi, cercavano di annettere la stessa tenuta. Tali tentativi si. ‘sarebbero protratti a lungo nei secoli e incidevano nei rappoïti tra-le due popolazioni ancora. in epoca recenteP Le vicende politiche più generali dello Stato-dello-Chiesa si ripercuotevano nell'assetto territoriale della provincia con riflessi nella storia della città di Terracina: nonostante ciò.i confini
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Maria Teresa Caciorgna
delineati subivano, per l'età medioevale, aggiustamenti di lieve
entità che intaccavano solo marginalmente il quadro territoriale definito. | Ma, questa parte della provincia (e forse tutta la Marittima)
era destinata a risentire del suo ruolo di passaggio, subendo
influssi di realtà diverse che insistevano per il suo controllo, in particolar modo nei momenti di minore centralizzazione del governo pontificio. Pertanto, se essa politicamente costituiva una
frontiera dello Stato, i rapporti peculiari, gli usi locali, le relazioni stabilite e mantenute tendevano sempre più a caratterizzarla quale cerniera di due mondi a volte antitetici e contrap-
posti.
Confini tra castelli
e comuni
Prima di indagare il tipo di conflitti e l’evoluzione dei procedimenti per la definizione degli ambiti territoriali sembra op-
portuno richiamare alcune considerazioni relative ai diversi centri demici della Marittima e alle relazioni che intercorrevano tra essi. Com'è noto, la particolare conformazione geografica: un’ampia pianura per gran patte paludosa, posta tra il mare e le modeste alture dei Lepini e degli Ausoni, aveva condizionato lo stabilizzarsi dei centri demici in grossi agglomerati posti sulle propaggini montuose oppure all’incrocio delle vallate. I cen-
tri abitati potrebbero essere distinti in tre gruppi. Vi erano in
primo luogo, le città sede di diocesi e che quindi avevano una precisa funzione generale di inquadramento e un ruolo dire-
zionale sul resto della provincia, come Velletri e Terracina con
una popolazione compresa tra i 4000 e i 6000 abitanti, Sezze e Priverno tra i 3000 e i 5000 “. Inoltre castelli con una popolazione di gran lunga inferiore come Ninfa, Bassiano, Sermoneta con una popolazione alla fine del XIII secolo tra gli 800 e i 1600 abitanti 5, mentre di altri che avevano rivestito un ruolo notevole nell'inquadramento territoriale di aree più circoscritte, come Tivera e Torrecchia, il ciclo vitale sembra definito nel XIII secolo; Cisterna, invece, mostrava una certa fluttuazione
nel popolamento limitato a qualche decina di famiglie ".
La crescita della popolazione e il consolidamento delle istituzioni comunali determinavano pet i comuni l’esigenza di un ampliamento del proprio spazio. I tentativi di espansione del proprio districtus intrapresi nel XIII secolo da alcuni comuni verso i castelli vicini, come Velletri verso Lariano, Sezze contro Sermoneta, Bassiano e Trevi, infine di Terracina verso S. Felice erano destinati ad avere esiti non sempre favorevoli e semmai di breve durata. Solo Velletri riusciva ad avere ragione di Lariano
Assetti del territorio e «confini dn: Matittima
53
per pochi.anni e Terracina nel 1270 imponeva la sottomissione di San Felice ma « la conquista del contado»; che altrove caratterizzava l’evoluzione dell'istituzione- comunale-e che alcuni comuni della Campagna riuscivano a realizzare, non si verificava in Marittima". Per rintracciarne i motivi: si può far ricorso da un lato all’entità dei comuni, alle-modeste risorse economiche, alle complesse relazioni con:le famiglie signorili radicate nel territorio — a volte cives et. babitatores con diritti giurisdizionali: —, ma anche al controllo ‘pontificio: esercitato in maniera continua e determinante nel contenere; almeno per tutto il XIII secolo, le ambizioni espansionistiche delle: diverse realtà territoriali. Risulta quindi evidente come per i castra e i comüni.la definizione e la delimitazione dello spazio divenisse: l'elemento centrale della propria esistenza e affermazione: 1 Ma il processo formativo dei territori comunali:e castrensi
si svolse attraverso un lungo periodo e-coinvolse: anche supe-
riori entità politiche. Ripercorrerlo comporta “wha serie di considerazioni che mi. sembra travalichino, allora; l’ottica della contesa territoriale tra comunità vicine per giungere: ‘da uni lato a interessare diversi aspetti, quali la natura dei siti stessi, il rapporto delle popolazioni con il loro territorio e ‘anche riflessi sulla più generale configurazione della parte: ‘meridionale: dello
Stato della Chiesa, quale si presentava traXIII.e XIV :secolo.
Nell'ambito del lavoro una particolare attenzione sarà rivolta al territorio di Sermoneta, l'evoluzione «del quale presenta situazioni interessanti, che evidenziano problemi: più generali. La prima menzione del castrum Sermineti;tisaleral 1116, quando si era ribellata alla Chiesa romana-insieme sai. castelli di Tivera ‘e Ninfa ?. Tuttavia
solo nell'Inventario del- 1169
dei beni della.chiesa di Santa Maria di. Sermoneta è possibile individuare il tenimentum del castrum” yi ‘confini. del quale cominciano ad acquistare una loro linearità in seguito ai contrasti con i vicini, che si svilupparono. a: partite: dagli anni settanta del XII secolo. In un primo: "momento. t domini di Sermoneta” e quelli di Acquapuzza. “giungevano alla -spartizione di due contrade di ampie proporzioni come Ogiale e Piedinolfo.?, : Successivamente gli stessi domini contendevano a ‘comune di Sezze il possesso di Campolazzato^, ‘razziavano. ixtaccolti nelle terre della chiesa di Santa Maria di. Tre! Ponti? b avevano controversie-con la vicina Ninfa * E Questa: serie di azioni era volta all estensiohe dello spazio politico ed economico e corrisponde ad un’ampia:.casistica presente in ‘altri contesti. Essa evidenzia quella crisi dell'economia castrense — individuata :da Pierre Toubert? —,. che induceva
54
Maria Teresa Caciorgna
signori, vassalli, comuni
a cercare nuove
terre coltivabili non
solo con il disboscamento, ma anche con una definizione dei propri territori sui quali sia il signore che i vicini potessero esercitare una giurisdizione completa. Il fenomeno era sentito precocemente nelle piccole realtà castrensi, quale quella di Sermoneta, ma la necessità del controllo e dell’estensione del proprio spazio diveniva pressante nel corso del XIII secolo e le controversie assumevano un. andamento ciclico, interessando non solo i signori di castelli ma anche le realtà comunali. Que-
ste in fase demografica positiva, non riuscendo, come già detto, ad attuare anche una politica territoriale espansiva, concentta-
vano i loro interessi nella definizione degli spazi con le popola-
zioni vicine. | Da queste considerazioni emerge come la Marittima si presenti quasi un osservatorio privilegiato per analizzare la varietà delle situazioni verificatesi tra comunità vicine in tempi e momenti storici diversi. Ci troviamo, infatti, in un territorio
che, per le sue caratteristiche morfologiche, andava soggetto a continue inondazioni che vanificavano tentativi di soluzioni permanenti. Inoltre, le delimitazioni, anche nei pochi casi. attestati
dalla documentazione rimasta, lasciavano ampi margini indefiniti oppure i teximenta erano compresi entro confini delineati a partire da elementi naturali o iz loco, senza porre il problema degli-usi comuni con i vicini, che invece risultano consolidati e si fondavano su diritti consuetudinari molto antichi, dei quali abbiamo notizia nel momento in cui venivano confermati o se
ne rivedeva lo sfruttamento *, Infine, ai margini o negli stessi tenimenta, insistevano beni e proprietà di enti ecclesiastici romani”, che solo con il primo tentativo di ricomposizione territoriale degli Annibaldi # cominciavano ad essere ridimensionati e poi assorbiti nella successiva signoria dei Caetani. Per comprendere a pieno il fenomeno, mi sembra opportuno soffermarmi sulle diverse questioni che nella regione si ponevano tra vicini tra la fine del XII e il XIII secolo, per analizzare metodi e sistemi utilizzati nella chiarificazione dei confini castrensi e comunali e nella razionalizzazione dei diritti d'uso sulle aree periferiche. DE: Mentre, di solito, lamentiamo una scarsità di fónti per lo studio di numerosi aspetti della storia del Lazio, riguardo ai problemi che qui.affrontiamo è conservata invece una discreta documentazione. Essa ci presenta in rapporto tra loro dialettico comuni
monasteti
vicini, comuni
ed enti ecclesiastici —
soprattutto
—, signori e comuni, raccordati il più delle volte
dall'autorità pontificia. Infatti, in virtà di quel rapporto singolare già evidente nei secoli précedenti, il governo centrale in-
terveniva in questa sub-regione in maniera capillare per risol-
Assetti del territorio :e confini in Marittima
55
vere-i-conflitti.-Si trattava di una partecipazione attiva orientata-noni«solo-verso la protezione degli ‘interessidi istituzioni ' ecclesiastiche? ma anche nel dirimere le questioni.tra comuni.
L'intervento pontificio si concretizzava nel.promuoverelo scavo di fossati: prendendo come riferimento corsi: d'acqua già esistenti e; qualora: si reputasse necessario ad indirizzarne-proficuamente il:corso;:a promuovere lo scavo di nuove vie d'acqua: esso, quin-
‘di;:poneva in-essere una serie di provvedimenti volti ad indivi‘duare preesistenti segni certi ma anche ad.approritare soluzioni che inarcassero in maniera permanente lo: spazio, in modo da
renderlo. sempre più un territorio vissuto e controllabile ®.
-«Nel:lungo “elenco dei conflitti tra vicini. e nelle- risoluzioni delleïquestioni per i confini, seguendo l'andamento ‘nord:sud | troviamo attivi, nel 1221, i domini de Sermineto. in contrasto coni Ninfesini per alcune pertinenze poste nella zona più bassa
che-degrada versola ‘palude. La contesa riguardava una striscia di tetta nei-pressi della chiesa di San Romano. Le parti. erano stateascoltate ‘ad: Alatri e ivi Stefano di Fossanova, cardinale
prete del titolo dei. XII Apostoli, aveva-confermato: le divisiofi stabilite-ad operadi alcuni periti e delimitato i ‘territori in ^ maniérasmolto. netta, assegnando precise. aree di competenza e giurisdizione sénza lasciare usi comuni*.In una successiva vertenza tra:gli stessi contendenti per lo sfruttamento: della: selva di Frasseto, questa veniva assegnata ai Ninfesini dal:legato. pontificio Bartolomeo, ma era consentito ai domi di Sermoneta
e.ai loto-vassalli l'uso di pascolo dietro un corrispettivo: annua-
le in denato?.
^
..
ZR
compo
ioni
: Dal lato opposto della regione, nella zona delle Paludi. ponti-
ne in. sériso: proprio; numerose questioni sorgevano per-il- controllo ambientale del territorio, la distinzione degli usi comuni tra istituzioni di natura diversa tra loro confinanti o. coesistenti nello stesso ambito territoriale per avervi dei beni:: if comune
di Priverno: e-l'abbazia di Fossanova ?, questi: stessi attori e il castello di.Sonnino *, i comuni
di Sezze e Terracina”, infine
Priverno e Terracina. Si trattava di contese e conflitti che si riproponevano:pet molti anni con un percorso risolutivo lento e complicato: per difficoltà di operare in un ‘ambiente-di per sé ostile; ma: che-costituiscono, proprio per questo; una: valida té-
stimonianza «delle progressive fasi d’intervento: sul territorio.
- Al céntto: dei conflitti erano, per lo più, gli interessi del mo-
nastero cistercense.di. Santo Stefano di Fossaniova.. L'abbazia situata. allo: sbocco. della valle dell’Amaseno: in':posizione 'strategica tra le:dué parti della provincia: di: Campagna e*Marittima, ayeva ün:-fuol6: di-cerniera. tra realtà ambientali diverse e una
precisa: funzione: di inquadramento del territorio portino. L'attività cistercense: aveva dato impulso:alla conquista agraria, ‘bo-
56
Maria Teresa Caciorgna
nificando terreni paludosi, operando disboscamenti e promuovendo un assetto insediativo sparso *. Ma il patrimonio monastico era compreso nello stesso territorio comunale di Priverno per cui la suddivisione dei diritti e degli usi comuni e la realizzazione di una rete di canali per drenare le zone acquitrinose divenivano l'oggetto delle diverse contese e delle sentenze porr tificie. Il comune di Priverno rivendicava, al pari dei signori di Sonnino e più tardi anche del comune di Terracina, la partecipazione allo sfruttamento dei boschi e delle acque e alla messa a coltura di appezzamenti sottratti all’incolto. Le questioni erano risolte con l’intervento di legati pontifici o di rettori, che dopo aver ascoltato le parti, emanavano la loro sentenza.
Con
una certa continuità agivano
tra queste
comunità cardinali di origine locale quale Stefano di Fossanova,
delegato a risolvere molte vertenze, e diveniva pertanto uno
dei referenti principali per le parti e per il governo centrale ”.
Per loro impulso erano intrapresi lavori per lo scavo di canali, fossati, vie d’acqua, i quali, accanto allo scopo di costituire un
termine lineare evidente e permanente, assolvevano alla funzione di convogliare le acque dei suoli paludosi in alvei che consentissero di far loro raggiungere più facilmente il mare. Per la definizione del tracciato dei canali e delle altre ope-
razioni connesse ci si avvaleva della competenza di esperti pro-
fessionalmente definiti, inizialmente carpentieri, periti senza ulterioti specificazioni e periti artis fossarie, che, nel 1233, presenziavano allo scavo del canale tra Priverno e Terracina, ne stabilivano le misure in profondità, lunghezza e larghezza proporzionalmente alla quantità di acque da convogliare e alla di-
stanza dal bacino di raccolta per lo più costituito dal fiume
Ufente , Oltre allo scolo delle acque anche trava nell’assetto territoriale che si già dal 1193 si prevedeva lo scavo di la quale i Pipernesi e gli abitanti del
sero raggiungere il fiume Ufente *.
la viabilità fluviale rienintendeva raggiungere, e una Sandalaria attraverso castello di Sonnino potes-
Le opere di canalizzazione segnavano in maniera così profonda il territorio da incidere in esso come delle vere e proprie strutture che lo caratterizzavano in maniera permanente. Le spese per i lavori di scavo erano di solito a carico della parte che aveva interrotto la « pace », anche se erano previsti i con-
tributi degli altri contendenti e vicini in causa”.
Le contese ripetute, le interruzioni di scavi e i conseguenti inviti e ordini di portare a termine lavori già iniziati *, riflet-
tono da un lato la difficoltà di operare in condizioni ambientali
disagiate, dall'altro l'esigenza dei comuni di difendere ogni tratto del loro territorio: ciò non solo quando questo poteva essere
Assetti del territorio e confini in Matittima
57
coltivato, ma anche quando era lasciato ad uso di iilo: e di pesca. In questo, oltre a un'articolazione della produzione e
una sería preoccüpazione per l'approvvigionamento, ‘va riscontrata una forma di: pércezione della realtà territoriale: come ele:
mento costitutivo della identità giuridico-politica comunale; che segna quindi una certa evoluzione rispetto ad una 'concezione puramente economico- -patrimoniale. ibi Per il XIII secolo, tuttavia, le relazioni tra i comuni conitinuavano ad essere improntate al criterio di mantenere. tina condivisione dei diritti e degli usi comuni sulle terre: ‘periferiche. Sia i confini tra Sezze e Terracina che quelli trà Sexe e Prinuti per uso comune alle popolazioni di Sez eadi ‘Srivemno erano tutti i pascoli che si trovavano tra le porte delle due citta”; tra Tertacina ei Sezze nel 1201 ci si accordava- per una spartizione e razionalizzazione degli usi comuni, lasciando inalterata la compartecipazione allo sfruttamento delle: aree di confine e si disponeva di limitare le aree destinate: a; nuovi dissodamenti *; inoltre, ancora alla fine del XIII secolo il ‘pontefice Bonifacio VIII si preoccupava di mantenere comuni tra Piperno e Terracina boschi e pascoli*. Ancora contese si verificavano dopo l’insediamentà degli Annibaldi a Sermoneta, Bassiano e San Donato e qualche anno più tardi nella parte settentrionale della Marittima ‘pet ‘territori posti al di fuori della fascia paludosa tra Cori e Ninfa e Norma e Collemezzo. Le delimitazioni tra Cori e Ninfa (1289) e quelle fra Norma e Collemezzo (1291) hanno, seppur in maniera diversa, interesse perché, a differenza dei casi indicati in precedenza, i punti di riferimento presi per segnalare i confini erano costituiti da elementi naturali (colli, alture, fossati), o iz loco già da molto tempo (columella marmorea) e,a differenza di quanto attestato per: le definizioni di terre tra comuni, non erano lasciate porzioni.di terra da mantenere ad uso comune, secondo. una procedura già rilevata quando si trattava di stabilire confini tra i territori di castelli e quelli dei comuni * |j . La distinzione delle pertinenze tra Terracina e i figli di Trasmondo:Annibaldi, Riccardo, Pietro e Annibaldo, tiguardo a San Donato riveste un significato del tutto particolare. in quanto, per la prima. volta, San Donato compare percepito ‘come il
terzo elemento:com Sermoneta e Bassiano di un.'eomprensorio
che sarebbe restato a lungo unitario. i Il suo territorio, a forma di quadrilatero, sii Estefideva nella zona litoranea, comprendeva una ampia porzione «di costa, il lago di Caprolace e parte di quello di Fogliano: Al suo. possesso erano annessi i diritti sul mare fino a 30. ‘miglia, 4 | diritti di
58
Maria Teresa Caciorgna
pesca sui corsi d'acqua vicini e di pascolo nei boschi della Matittima. Tra i confini erano nominate strutture insediative (ca-
stellione) e centri di culto. Il primo dei punti di confine era indicato nella chiesa di Santa Maria de Pareti, ma non risulta
abitato ^. All’inizio del XII secolo ne aveva giurisdizioneil vescovo di Albano ‘. Successivamente il locus qui dicitur S. Donati era stato concesso da Eugenio III al monastero di S. Ana-
stasio alle Acque salvie, al quale lo aveva confermato nel 1255 papa Alessandro IV, secondo quanto già avevano fatto i suoi predecessori f, e quindi i nipoti del cardinale Riccardo erano
riusciti ad acquistarlo oppure acquisirlo dallo stesso monastero probabilmente intorno agli anni '60 o ’70 del XIII secolo. Allo
stesso periodo risale anche, come è stato accertato, l'acquisto del castello di Sermoneta ?, la fertile tenuta di San Donato con-
solidava le fortune patrimoniali della famiglia Annibaldi nella Marittima”. La « concordia » del 1279 tra gli Annibaldi e il comune di Terracina concerneva la definizione dell'uso di « tert(e), prat(a),
camp(i), pascu(a), nemor(a) et silv(e) » situati tra il rio Martino presso « acqua vivola », e il « rivo de Nucula », entro il terri-
torio di Terracina, sulle quali Pietro Annibaldi, che trattava
anche per i fratelli, pretendeva avere diritti per S. Donato. Da una iniziale pretesa su tutto il complesso di terre, egli riconosceva poi che i luoghi spettavano a San Donato per diritto di proprietà, possesso e dominio ma accordava ai Terracinesi il diritto di pascolo senza alcun corrispettivo; inoltre consentiva
« facere cesas et seminare in locis predictis sine solutione aliqua facienda... », nel frattempo gli stessi Terracinesi potevano
usare i boschi per la caccia”.
|
. La definizione degli usi comuni evidenzia come da un lato,
|
in questa fascia tra le paludi e il mare fosse presente un fitto manto boschivo ma anche dall'altro che vi erano gia previsti e
avviati lavori di disboscamento per nuove terre da mettere a coltura, che giungevano a interessare campi lontani dal centro abitato con un paesaggio complesso. NE Nel corso del Trecento nella definizione dei confini comunali si-assiste ad una evoluzione dei rapporti tra vicini con una
progressiva chiarificazione delle aree di pertinenza. Sia le sen:
tenze dei confini tra Sezze e Priverno del 1369 e del 1396, e tra Sezze e Terracina del 1370, registrano una situazione diversa rispetto agli accordi precedenti, i quali avevano lasciato ad uso comune le terre limitanee. i S ll Un confine lineate seguito attraverso l'andamento dei corsi
d'acqua veniva ora a delimitare per lunghi tratti il territorio di Sezze rispetto a quello di Privetno ?, mentre tra Sezzee
Terracina la sentenza del 1370 prevedeva una situazione arti-
Assetti del territorio e confini in Marittima
29
ME
-.. Golata, con. alcune. fasce nelle quali permanevano usi comuni. in
~
linea con la sentenza del 1201, mentre, per altre in buona. parte
j paludose;; si’ procedeva a segnare in manieta .definita-le pertinenze ‘apponendo croci. sugli alberi esistenti, e (Po l'ap2. posizione in loco di termini i alti et murati™. © ©. +
I Caetani e.db nuovo assetto del territorio
- Come'& stato | Hole, [iisecinnietiay dei aetahi dads. minava nella regione. uno sconvolgimento: degli ‘assetti «prece deriti e introduceva elementi destinati a durare: nel: tempo: po: . néva ‘la- Campagna e la Marittima in una relazione..molto ‘più stretta ‘proprio per l'estensione della signoria ‘su ‘entrambe le
^ parti; i castra fei quali erano insediati insistevano in quadri
diocesani diversi; Inoltre, con i matrimoni di Roffredo Caetani dapprima con Giovanna. dell'Aquila e poi con Caterina della Ratta, veniva addirittura superata la frontiera dello Stato: della Chiesa; generando una situazione di complessità e: diversità di rapporti con. le ‘due entità sovrane entro le quali si estendeva la’signotia#, Questa, limitandoci ai patrimoni della Campagna é della ‘Marittima, andava a costituire un blocco pressoché com: patto; posto a cerniera del confine meridionale dello Stato. della
Chiesa, all'interno del quale restavano varie isole che; nel cor: so del "Trecento, i Caetani cercavano in vari modi di includetè nel. manifest e reiterato tentativo di giungere alla costituzione
del dna n;dello Scisma d'Occidente o i tentativi successivi sem: biavane preparare e preludere alla realizzazione del progetto» : La ricostruzione delle vicende patrimoniali di lungo peifodo é ampiamente" nota, e ciò ci consente di concentrare ‘qui l’atten: zioné sui rapporti dei signori con i comuni vicini, di indagare süll'andamento ‘auovo che assumevano le relazioni: tray confihariti, di-mettere in relazione i conflitti che opponevano le: ipopolazioni vicine. con: i disegni di un progetto egemoñico che si snoda atttaverso mutamenti politici e cambiamenti. dettati dalla
evoluzione dell’andamento economico. La politica della’ famiglia tendeva via via’ ad inquadrare. ed includere comuni e terre con rilevanti funzioni: non solo reconomiche ma ‘anche: strategiche, giungerido ad unificáre:quella:£rammientazione di proprietà e di diritti in un unico: ‘ambito coerente e coeso e mirando, seppure senza duraturo successo; ad. inglobare comuni come Terracina e Sezze. c. E
60
Maria Teresa Caciorgna
Problemi di confine portavano subito in rapporto Pietro Cae-
tani con il vicino territorio del comune di Sezze. Era proprio la indistinzione dei territori tra Sermoneta e Sezze ad essere assunta, nel 1299, come motivazione essenziale
pet le liti che si erano avute tra le due comunità. La divisione era operata in un momento in cui la ricomposizione territoriale della provincia sotto la signoria dei Caetani era nella fase culminante, lo stesso comune di Sezze, da qualche anno, era controllato dagli ingombranti vicini e, forse, podesta del comune era lo stesso Pietro Caetani”. Questi motivi spiegano a sufficienza perché, al momento di definire i confini, gli ufficiali del comune di Sezze avessero accettato che la linea di demarcazione messa in atto portasse ad una separazione netta dei territori includendo, nell'ambito della nuova signoria, notevoli proprietà comunali e private sia di laici sia di enti ecclesiastici setini”. Ecco allora che, solo qualche anno più tardi,
in un momento sfavorevole per Pietro Caetani, i Setini rivendicavano parte dei territori entrati nel dominio dei signori e raggiungevano un accordo per alcuni sfioratoi sulla Cavata e per un ponte che doveva essere ripristinato sullo stesso canale *. Ma solo una trentina di anni pià tardi i Caetani avanzavano nuove pretese su alcune località vicine, come Campo Lazzaro e poi Zenneto, entrambi del territorio setino, e per la rocca di Acquapuzza, già funzionale al complesso sistema difensivo della Chiesa. La questione se Campo Lazzato, un vasto appezzamento di terre coltivabili ma sfruttate essenzialmente per i pascoli, spettasse a Sezze o a Sermoneta risaliva alla seconda metà del XII secolo. Essa era molto sentita nell'immaginario collettivo al punto che era sorta una leggenda secondo la quale la pertinenza del luogo a Sezze sarebbe stata decisa con un particolare sistema che esulava dalla volontà umana. Alla morte di s. Lidano,
monaco benedettino che aveva operato nei pressi del luogo conteso e vi aveva fondato il monastero di Santa Cecilia, la salma eta stata posta su un carto trainato da due buoi e, lasciati gli animali liberi di muoversi, questi avrebbero preso la strada per Sezze assegnando quindi la località al comune, del quale
il santo in seguito sarebbe diventato patrono *. Più tealisticamente invece, era stata la sentenza del legato pontificio Gregorio, confermata da Lucio III nel 1181, che aveva assegnato la località ai Setini® e, nonostante scorrerie e tazzie dei domini di Sermoneta, nel corso del XIII secolo l'appartenenza al fenimentum setinum non era stata più messa in discussione. Però, la sua posizione periferica rispetto al tertitorio setino, la vicinanza ad Acquapuzza, oltre che a Zenneto, il controllo che permetteva di esercitare sul corso della Cavata,
Assetti
del territorio e confini in..Marittima
61
erano ragioni essenziali per l’interessamento dei. Caetani. Per conseguirne il possesso sarebbero sorti conflitti; duráti per molti anni, con numerosi scontri armati e cattura di prigioniefi finché, nel 1340, la fertile tenuta era riconosciuta condominio tra i Caetani e il cofnune di Sezze: ma agli uomini di Sezze:era vietata la semina. ela. fienagione e potevano solo pascolarvi.i loro armenti %. I Setini avrebbero contestato anche «questa suddivisione, in base-alla quale avevano perso la disponibilità completa di una delle zone più fertili del loro territorio, éd. ai Caetani il possesso di Campo Lazzaro sarebbe stato confermato solo nel 1427 %.
|
ie
lm
- Come già detto, per i Caetani o per il comune non si trat-
tava solo di acquisite più. ampie porzioni di terre: le rivendicazioni, infatti, s'intrecciavano
con
esigenze
di lavori idraulici
quali scavare fosse, chiudere bocche aperte nel canale principale
della Cavata, evitare qualsiasi impedimento lungo.ilcorso dei
fiumi per la circolazione di persone e cose pet-inezzo-di sandali e scafe. Ma, coihe à noto, qualsiasi opera di: intervento. aveva dei limiti oggettivi
per l'impossibilità
di realizzare ino. sboc-
co diretto a. mate. che poteva avvenire solo: dopo. aver superato
la duna quaternaria, impresa resa possibile dalle moderne tecnologie. Mentre: anche per l'economia dei. Caetani: si: rivelava sempre più fruttuoso lo sfruttamento intensivo delle peschiere,
al punto da costituire uno dei cespiti trainanti.delle loro: entrate;
diveniva, perciò,
sempre
più
importante -trattenere
le
acque in tutta la vasta area pontina per permettere uia solida e proficua attività piscatoria ©. PLE | Considerando:le: successive acquisizioni dei :Caetani.e le concessioni accordate dai pontefici, si comprende facilmente come
le località, sulle quali avanzavano pretese, rappresentassero punti nodali nella costruzione di un assetto territoriale funzionale a
dinamiché economiche e politiche in evoluzione. 5° Le mira dei Caetani si orientavano verso Zenneto; una’ tenuta
di notevole estensione, confinante con Campo: Lazzato;:in posi-
sia sulla Cavata che sulla strada ché portava zione di controllo alle peschiere.
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d
| L'importanza ‘del locus qui dicitur Sennitus (Zennéto, Zannitto), iurisdictionis et territorii setini, secondo::la: definizione
contenuta in un-atto del 1268, era stata già individuata da’ An-
nibaldo
da Ceccano, che in quell’anno ne aveva: ottenuto
concessioneiz precario
dal comune di
Sèzze, forse’ per
la con-
trollare e-bilanciare l'insediamento degli Annibaldi-lungo la via pedemontana. Probabilmente vi era.stato costruito non solo
un reductuin pro bestiis *, secondo la richiesta-avanzatada An-
nibaldo, ma unà' torre con. altre strutture insediative e, per quanto non risultiun addensamento di popolazione, in fonti
62
Maria Teresa Caciorgna
poco più tarde, viene designato castrum oppure casale 9. Anche le terre circostanti erano state conquistate da tempo ad un progressivo sfruttamento agricolo $, una rivitalizzazione del sito e un miglioramento di tutto l’assetto vicino erano quindi comin-
ciati nel XIII secolo.
|
A Zenneto e nelle sue vicinanze aveva concentrato i propri acquisti Giordano di Guido, uno dei condomini che aveva ven-
duto il castello di Norma ai Caetani, apportando dei miglioramenti alla circolazione viaria e alle strutture del territorio *. Nel XIV secolo a Zenneto coesistevano diversi proprietari:
il comune di Sezze che possedeva diverse terre comuni, Giordano di Norma e poi i suoi eredi, infine il capitolo di San Cesareo di Terracina, proprietario di terre che gestiva con con-
tratti di affitto a lunga scadenza stipulati con gli stessi eredi
di Giordano di Norma. Vi era stabilito un assetto agrario che privilegiava la coltivazione del grano, ma ampi spazi erano
riservati ai pascoli mentre, nella zona paludosa, la presenza di peschiere permetteva anche una buona attività di pesca. Sia il
comune di Sezze che la famiglia Normisini tenevano nella torre un piccolo corpo di guardia per controllare e difendere il territorio. Non risultano assalti armati dei Caetani per ottenere il controllo della località, ma il castrum Zenneti risulta tra i castelli concessi in feudo da Giovanni XXIII a Giacomo II Caetani insieme a Trevi, S. Felice e metà di Sonnino 9. Nel 1411 Giacomo II era nominato anche vicario di Acquapuzza e quindi i Caetani riuscivano ad ottenere il controllo di questa rocca”. Si trattava di una rocca della Chiesa, situata in un nodo strategico della via pedemontana e all’incrocio del cotso dei canali utilizzati per la circolazione fluviale tra la zona lepina e la piana pontina. Il dominio del castello di Acquapuzza rientrava nel progetto di riorganizzazione territoriale e del controllo della viabilità perseguito e via via attuato dalla Chiesa romana nel XII secolo. Nel 1158 riusciva nell'intento Adriano IV, che fiaccava la resistenza di Adinolfo, dominus Aqueputride, e imponeva pesan-
ti condizioni per l’entrata nel vassallaggio della Chiesa”. Successivamente erano stati difesi con grande attenzione i confini
del territorio del castrum contro i domini di Sermoneta, ai quali ho già fatto riferimento. Con Innocenzo III la riorganizzazione delle terre della Chiesa aveva comportato per il castello di
Acquapuzza una evoluzione nel sistema territoriale che si andava
strutturando, probabilmente agli inizi del Duecento risale l’istituzione del passo e i relativi pedaggi. All’inizio del XIII secolo ne era castellano Massimo, « magister hostiarius domini pape », dello stesso gruppo familiare del signore-vassallo ?, Nel 1234 era
Assetti
del territorio e confini in Marittima
63
compreso nel lungo elenco dei castra specialia della Chiesa, esclusi da qualsiasi forma di alienazione e direttamente con-
trollati dal governo centrale?
Per quanto la documentazione sia molto pure si può ritenere che nel XIII e XIV secolo l’organizzazione castellana avesse garantito e assolto quelle funzioni precipue per le quali era stata creata: il controllo della strada e il servizio militare. Proprio per rafforzare il nucleo armato dell’esercito dello Stato
della Chiesa e per tutelare la Rocca di Acquapuzza, Alessandro
IV, nel 1255, aveva donato parte delle terre pertinenti allo stesso castrum ai nipoti di Giordano Perunti, cardinale e notaio papale, rettore ‘della provincia " Intorno al castellano viveva una piccola comunità, della quale non abbiamo però elementi per stabilire l'entità numerica?
dedita all’agricoltura e alla pesca oltre che al trasporto di merci
e persone lungo il corso della Cavata. Il castellano di Acquapuzza, dutante il XIV secolo, esercitava funzioni di governo interveniva nel tegolare le questioni che sorgevano tra i Caetani e il comune di Sezze ^ e comminava pene e multe a quanti non
pagavano i pedaggi del passo dovuti alla Camera apostolica ”
Nella seconda metà del Trecento il comune di Sezze aveva compiuto assalti armati contro il castellano, ma il controllo era stato ripristinato con l'intervento del rettore ^? Con il 1411 non finivano i conflitti tra i Caetani e i Setini perché questi rivendicavano il possesso di quelle terre che ritenevano ingiustamente sottratte e un sito o l’altro entravano nel gioco politico più vasto che, nel corso del secolo XV, opponeva i rami della famiglia Caetani e l’autorità pontificia ? I tre siti vicini e confinanti di Campo Lazzaro, Zenneto e Acquapuzza significavano per i Caetani il collegamento con gli altri possessi litoranei e i laghi costieri passando per la zona paludosa, che si caratterizzava sempre più per lo sfruttamento intensivo di peschiere. Infatti I acquisizione dei diritti di pesca, iniziata nel Trecento nei fiumi vicini e nel lago di Fogliano, era intensificata da Giacomo IV e poi da Onorato III che, con
una serie di acquisti, concentravano nelle loro mani peschiere e potzioni di esse, fino ad allora in possesso di cittadini romani o di enti monastici *. San Donato era parte integrante del dominio signorile, Zenneto veniva a saldare la contiguità con questi, il possesso di Acquapuzza permetteva uno sgravio notevole delle spese per il trasporto sia del pesce che dei prodotti agricoli tratti dalle aree coltivate. La famiglia Caetani realizzava nel contempo il controllo della viabilità pontina: la via pedemontana, la via Marittima e la via dei pescatori, questa da un lato si ricongiungeva con l'Appia e dall'altro giungeva al porto di Badino o a Terracina, si configurava, quindi, come la più
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Maria Teresa Caciorgna
importante via di comunicazione tra le peschiere e la via che portava a Roma. Nel frattempo il processo di delimitazione delle pertinenze investiva anche le aree collinari e montuose: nel 1443 si definivano i confini tra Bassiano e il comune di Sezze, apponendo in alcuni casi cippi di pietra oppure segnalando con croci gli alberi che si trovavano sul tracciato stabilito come confine. Questa opera di chiarificazione proseguiva con gli altri confinanti Cori e Ninfa, utilizzando sempre pià strumenti e termini fissi e visibili e apponendo croci sugli alberi ?'.
Le questioni tra Sezze e Sermoneta che, come già notava
Gelasio Caetani, hanno lasciato una copiosissima documentazione *, continuarono fino al XVIII secolo, caratterizzate da
una difficile e lenta erosione di porzioni modeste di territorio
con una lunga serie di guerre e guerriglie. Queste avevano come momento scatenante la rottura, da parte dell'uno o del-
l’altro dei contendenti, degli argini di canali o fiumiciattoli o lo sbarramento dei medesimi con ripercussioni notevoli sul-
l'impaludamento delle aree coltivabili, sul libero transito lungo la Cavata e sugli altri canali navigabili 9, Era così messo in pericolo il difficile equilibrio delle strutture del territorio. Anche se l’evoluzione del quadro istituzionale dello Stato della Chiesa dal XIII al XV secolo aveva avuto riflessi in altri contesti, non sembra inutile sottolineare che le esigenze di una signoria territoriale coerente avevano alterato la disposizione preesistente, dando una configurazione del tutto diversa alla organizzazione territoriale di questa regione perseguita dai pontefici del XIII secolo. La ricomposizione di buona parte della Marittima sotto la signoria dei Caetani era pressoché completa
ed erano rimaste piccole isole costituite dai comuni di Terraci-
na, Priverno e Sezze non incluse ditettamente nella signoria ma in rapporto antitetico e dipendenti da essa. Inoltre erano recuperate ad una precisa funzione economica le zone paludose, sfruttando le peculiarità dell'eco-sistema con una razionalizzazione delle attività di pesca e incrementando l'allevamento del bestiame e il pascolo, attività già in precedenza preminenti nella piana pontina ma che venivano intensificate nel corso del Quattrocento secondo una tendenza generalizzata che investiva le proprietà fondiarie su scala più vasta *. La pratica dei confini L’analisi delle definizioni dei confini tra i centri demici della
Marittima suggerisce alcune riflessioni su aspetti della storia del territorio e del suo controllo. Si è cercato, quindi, di ricostrui-
Assetti del territorio e confini in Marittima
65
re i rapporti tra vicini, l'adeguamento del quádio: ‘ambientale alla strutturazione fuñzionale per lo sfruttamento delle risorse locali secondo le congiuntüre e le esigenze economiche di più vasto réspito; si constata, inoltre, un mutamento nei modi di
segnalare i confini. Un filievo particolare riveste 1a difesa dei
confini del propïio territorio da parte della popolázione-
Nel comporre le controversie frequente erà l'intervent
legati e, più tardi, degli ufficiali pontifici; attenti. non solo a
preservare i dititti di un ente monastico, “quale T'abbázia di Santo Stefano. diFossanova, e contemperaré- lè istanze -dei comuni in relazione alla costruzione di più vasti ambiti signorili, ma anche nél -coordinare e promuovere iniziative volte ad incidere profondámente sul terfitorio. —' — i «7v
Quanto ai rapporti tra comuni vicini, si Velia un fnuta-
mento: mentre pet tutto il XIII secolo laso-delle terre periferiche è improntato per lo più allo sfruttaménto comune per pascolo, caccia, pesca, lasciando ampi spazi non "definiti; hella seconda metà del XIV secolo si giunge alla demarcazione nétta delle pertinenze e alla chiarificazione dei confini determinando a volte la soluzione dei diritti di uso promiscuo ' SÈ da intravedere in questa azione lo svolgimento degli Organismi comunali organizzati dal'punto fiscale e amministrativo con, P esigenza di stabilire precise aree di giurisdizione e possesso. L' acquisizione dei diritti sulle aree periferiche poteva, infatti, garantire delle entrate tramite l'affitto concesso alla popolazione, come già si verificava per altri beni comuni*, ma' atché per evitare apptopriazioni di parti più o meno’ vaste di zoné “in condominio * Si può, inoltre osservate che la chiarificazione dei: confini comportava uma: verifica delle iscrizioni- nei ‘régistri ‘catastali dei diversi :‘appezzamenti di terreno e permetteva una più veridica imposizione di tasse. Nelle sentenze quattrocentesche sui confini tra Priverno e Sezze nella zona montana ein quelli tra Sezze è Roccagorga, sempre in zona montana ‘alla definizione sono accompagnate testimonianze scritte oppure ‘orali: ‘sull’appatteneñza da parté dei proprietari di pd Us alluno o all'altro comune.. . i B processo di chiarificazione dei confint, omesabbia visto, si svolge in un lungo periodo e le modalità. di ‘accèftamento subiscorto significativi mutamenti nella catatterizzazioné del paesaggio. Negli atti più antichi si fa ricorso ad ‘elementi. haturali (colle; fiume; fossato, alberi isolati) nel caso di aree mon: tagnose o' incolte, invece in zone sottoposte ad uno sfrüttaménto agricolo intensivo è frequente l'uso" di 'onotnastici per indi” care gli appezzamenti (perie) che, in serie continua, erano assunti Corne-termini del territorio s . Questa forma di individuazioné dello spazio’ suggeriscé due considerizioiià di natura tra
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Maria Teresa Caciorgna
loro diversa: l'una di carattere descrittivo, in quanto permette
di percepire la natura dei luoghi nei quali si operava, cioè in
un paesaggio ampiamente conquistato dall'uomo; l'altro per evidenziare come la percezione dello spazio rifuggisse da qualsiasi astrazione essendo il territorio conosciuto e individuato attraverso la persona che lo possedeva e lo lavorava. L'individuazione dell’elemento naturale assunto come termine, inizialmente ampiamente utilizzata ma non meglio definita, in un momento
successivo veniva rafforzata con una mat-
catura evidente e tangibile e il confine era tracciato seguendolo in tutta la sua estensione. Da qui l'obbligo di importe in taluni casi nelle zone collinari la piantagione di alberi e la loto incisione con segni a forma di croce e, come ulteriore elemento
distintivo della divisione, il ricorso all'impianto di termini di
pietra con la funzione di accertare e garantire il territorio. La determinazione dei confini aveva particolare risonanza
nella vita comunitaria, al punto da costituite un momento di solidarietà interna della comunità: vi era sempre larga partecipazione, si facevano processioni, cortei fino ai luoghi contesi con le insegne del comune, accompagnati dal clero del capitolo o della chiesa principale e dai rappresentanti o dai comestabili dei quartieri cittadini. Come la difesa di una porzione più o meno vasta di territorio comunale aveva comportato un dispie-
gamento di forze e rappresentato un momento di coesione interna tra le opposte fazioni”, così al momento dell’apposizione
dei confini si rafforzava la partecipazione della popolazione. Allo stesso modo nei primi accordi si percepisce tra i comuni la importanza e quasi la « sacralità » dell’atto che si compiva: le adunanze avvenivano nella chiesa matrice o nella piazza princi- . pale, alla presenza del clero sempre testimone e garante dell’importanza dell’atto che si compiva”. L’accertamento dei diritti sul territorio, anche quando poteva fondarsi su un privilegio pontificio o di altra autorità sovrana, era pero sempre sottoposto alla testimonianza dei boni homines delle comunità in disputa e su quella dei boni bomines vicine contrate, che con la memoria degli usi consuetudinari da essi in comune esercitati garantivano i nuovi assetti del territorio. La loro memoria costituiva un supporto fondamentale per assegnare limiti che configuravano un diverso rapporto tra la comunità e lo spazio nel quale aveva agito e operato. Nelle demarcazioni trecentesche è sempre più frequente il ricorso alla memoria scritta, i documenti sui confini già stabiliti, ma il precedente giuridico non esimeva il drappello costituito da funzionari pontifici, amministratori locali e un certo numero di abitanti dalla perlustrazione dei luoghi e dall'apporto della memoria consuetudinaria dei vecchi saggi (ancora bomi bomines)
Assetti del territorio e corifini in. Matittima
67.
e solo-dopo- accurate verifiche si procedeva a: stabilire i siti nei dali apporre i términi permanenti ?, — Ancora ‘leune. considerazioni sono suggerite | dalla concezione stessa del confine: non elemento di separazione o distacco, ma.esso Continuava ad avere una permeabilità che. consentiva la comunicazione tra territori, non serviva.a dividere, piuttosto ad assegnare precisi spazi nei quali era: * possibile la vita e la frequentazione anche là dove la ‘palude. creava notevoli barriere; Ma risulta chiaro che erano le-condizioni di vita a rendere vivibili, o meno, determinate località: Mentre lo spopolamento delle campagne aveva comportato. Pabbandono di al-
cuni centri e villaggi e la concentrazione degli abitanti nei siti collinati (sécondo:un processo ampiamente studiato in altri contesti); aleune. scelte.economiche — quali-la pesca‘e-l’allevamento dél pesce — pottayano invece a frequeritare luoghi, ‘che già nel XII -secolo erano ricordati completamente. disabitati: ‘ad -esem-
pio, la zona di Santa Maria di Tre ponti (contigua a ‘Campo Laz-
zaro) che alla fine del XII secolo era individuata come inabitata
e fuori dal contesto degli uomini, secondo l’espressione. del ve scovo di Velletri alla fine del XII secolo, ritotna GE e popelata, nel corso. del Quattrocento ^.Sa 7
in: "eed i ma UR. costituiva di per sé unai unc di presenza: e al di là delle contese che pur sempre restarono..si verificava proprio tra gli abitanti di confine uno scambio. e una
matualità che non sí manifestava nelle altre parti. deli territorio. ES
Note Sigle: an
:
ASL
Me
— Archivio di Stato di Latina
ASV
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—
Archivio Segteto Vaticano
A.c.Sezze ‘= Archivio comunale di Sezze Arch. Bas. Lat. =, Archivio della Basilica Lateranense | BAV
ASRSP
-
=
i
im È
Biblioteca Apostolica Vaticana
“i ‘
= Archivio della Società romana di storia patria
4 Sul-problema dell'inquadramento regionale dello: Stato’ Pontificio. una messa a punto della problematica in m. voLpi, Le regioni: introvabili.: iCentralizza-
zione..e regionalizzazione dello . Stato pontificio, Bologna -1983+-Unar riflessione
68
Maria Teresa Caciorgna
sull'uso della dizione Lazio meridionale e sui limiti della Campagna e Marittima
in P. TOUBERT, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IX* siècle à la fin du XIIe siècle, Rome 1973, p. 956ss.; per un
inquadramento $eografico della provincia v. P.A. FRUTAZ, Le carte del Lazio, Roma
1974.
2 Cfr. A THEINER, Codex dominii temporalis Sanctae Sedis, Roma
1861, I,
n. 3, p. 3; v. anchec. FALCO, L’amministrazione papale nella Campagna e nella Marittima dalla caduta della dominazione bisantina al sorgere dei comuni, ora in m., Studi sulla storia del Lazio nel Medio Evo, Roma 1988 (Miscellanea della Società Romana di storia patria XXIV, 2), pp. 397-417. 3 voLPI, Le regioni, pp. 62-63.
4 Nella vita di Pasquale II è manifesta l'articolazione interna della Cámpa-
gna e Marittima e sono nominati alcuni dei castra che ne facevano parte, cfr.
Liber pontificalis, a c. di L. DUCHESNE, Paris 1886-1892 (rist. con correzioni e aggiunte Paris 1955-1957), II, p. 305. 5 Il 24 marzo 1222, il pontefice ricorda che ñonostante gli accordi stabiliti
tra i signori di Sonnino e il comune di Priverno ad opera di Romano, cardinale di Sant'Angelo e rettore della provincia di Campagna e Marittima: « hominibus
tamen eiusdem castri ne ad molendina Fosse nove accedant seu versus Maritimam vel ad alias partes per stratam publicam transeant presumitis inhibere. Cum igitur strate publice sint regie et ad nos pattinere noscantur et huiusmodi inhibitio tantum nostro redundet contemptum...» (ASV, Reg. Vat. 11, n. 328, f. 227, v. anche P. PRESSUTTI, Regesia Honorii papae III, Romae 1888, II, n.
3888, p. 57).
6 c. FALCO, Il comune di Velletri nel Medio Evo (sec. XI-XIV), in m., Stu di, p. 34ss. 7 FALCO, L’amministrazione, p. 411 ss. 8 Ibid., p. 412; P. TOUBERT, I/ Patrimonio di San Pietro fino alla metà del sec. XI, in Comuni e signorie nell'Italia nord-orientale e centrale, in Storia d’Italia diretta da c. GALASSO, VII/2, Torino 1987, pp. 158-165. 9 La più recente messa a punto sull'opera di ricostruzione di Innocenzo IIT in C. LACKNER, Studien zur Verwaltung des Kirchenstaates unter Papst Inno-
cenz III, in « Rómische Historische Mitteilungen », 29, 1987, pp. 127-216. 10 I confini della città di Tetracina sono indicati nella bolla di Silvestro. IT
dell'anno 1000 (ed. 1. Glorci, Document Terracinesi, in « Bullettino dell'Istituto storico italiano », 16, 1895, pp. 64-65), mentre per quelli della diocesi dobbiamo rifarci alla bolla del 1221 di conferma dell'unione alla diocesi di Terracina di quelle di Priverno e Sezze, il contenuto della quale risale sicuramente a molto tempo prima, v. D.A. CONTATORE, De bistoria Terracinensi libri quinque, Romae 1706, pp. 202-203. Questa bolla non delinea il confine diocesano ma
elenca i diversi patrimoni antichi e i territori delle due piccole diocesi sop-
presse di Sezze e Privetno con le dipendenze ma senza alcuna distinzione. 11 Per le vicende della controversia tra Fondi e Terracina, v. G. BATTELLI, Una supplica e una minuta di Niccolò III, in « Quellen u. Forsch. aus ital. Arch, u. Bibl. », 22, 1942, pp. 33-50, anche in c. BATTELLI, Scritti scelti, Roma 1975; sui documenti di Terracina v. c. ANCIDEI, Documenti Terracinesi nella Biblioteca Vaticana, in ASRSP, 98, 1975, pp. 221-235. Sul ruolo e la funzione dei beni comuni v. J.-C. MAIRE VIGUEUR, Comuni e signorie in Umbria, Marche e Lazio, in Storia d’Italia, VII, 2, pp. 332-337. 12 BATTELLI, Una supplica, p. 39; CONTATORE, De bistoria Terracinensi, p. 201. 13 Le rivendicazioni dei Caetani cominciano intorno al 1320 e si snodano per un lungo periodo fino all'età moderna. Un sunto della questione in 6. CURIS, Usi civici, proprietà collettive e latifondi nell'Italia centrale e nell'Emilia con riferimento ai Demanii comunali del Mezzogiorno. Dottrina, legislazione e giurisprudenza. Studio storico-giuridico, Napoli 1917; sulla produttività del bacino del Salto v. R.L. DE PALMA, Allevamento ed economia signorile nel Quattrocento: domini di Onorato II Caetani d’Aragona (Regno di Napoli-Stato della Chiesa), in « Rivista storica del Lazio», 1, 1993, pp. 41-64. Sui diritti é sull’uso della tenuta del Salto è mia intenzione tornare in un prossimo lavoro sul territorio di Terracina. M Indagini approfondite sull’andamento demografico non sono state ancora condotte, pur nella consapevolezza che ogni accertamento demografico presenta numerose incertezze; mi sembra di poter dare almeno degli ordini di grandezza:
Assetti del territorio ‘e confini ih Marittima
69
nel 1279, Sezze contava nel centro urbano circa 996 casé” the ‘porterebbero ad Oripotizzare una ‘popolazione di circa quattromila abitanti (MT. CACIORGNA, CA ganizzazione del territorio e classi sociali a Sezze, in ASRSP, 104, 1982, pp. 7980; quella di Tertacina nel XIII secolo potrebbe aggirarsi intorno ai. 7.000 abitanti, v. A. BIANCHINI, Storia di Terracina, Tertacina 1952, p. 200;-méntre per Velletri e Priverno i "dati indiziari possono essere desunti. ‘Solo ‘per. uin periodo molto più tardo: dai prelievi di sale del secolo XV: quindi ‘sicuramente in-
feriori alla popolazione del secolo XIII —, risulta 'che- Velletri levava ‘207 libbre, Cori 135, Priverno 120, Sezze 165, che porterebbero ad ipotizzare una
popolazione rispettivamente di 4200, 2400 e 3300 abitanti (c. BAUER, Studi per la storia delle finanze papali durante il pontificato “di "Sisto IV, in: "ASRSP, 50, 1927, pp. 518-400, in patticolare p. 354). Per i calcoli ele ipprossimazioni V. S. CAROCCI, Tivoli nel Basso Medioevo, Roma 1988, pp. 188:190.: 15 T dati molto approssimativi sono desunti dall’ elencó- dei Vassalli dei tre castelli che avevano giurato fedeltà a Pietro Caètani: 400 persone ‘a Sermoneta, 250 a Bassiano, poco meno di 200 a Ninfa, v. c. FALCO, Sulla’ formazione e la costituzione della signoria dei Caetani (1283-1303), in « Rivista storica italiana », XLV, 1928, pp. 225-278; v. anche MAIRE VIGUEUR, Cou? signorie, p. 328. 16 Sia Tivera che Cisterna sono riconosciute come centri di:raccolta dei pro-
dotti agricoli nel 1116, v. M.T. CACIORGNA, Ninfa prima dei
Caetani (secc. XII-
XIII), in Ninfa, una città un giardino, Roma 1990 (Atti de ) Fondazione Camillo Caetani, Roma, Sermoneta, Niñfa, 7-9 ottobre -1988), p. 41. 17 Tn un inventario dei documenti di Sezze del. 1295 Sono ricordati « sesdecim instrumenta loquentia de facto territoriorum commufis. Setie et ‘castri Trebarum; ... unum instrumentum quod loquitur super facto Sarminéti et castri Sancti Petri in Fotmis... unum privilegium sigillatum 'super- remissione penarum super facto Bassiani»; bisogna anche ricordare che nel 1248: al papa si tivolgeva agli altri comuni e signori della Marittima per difendere i signori di Trevi
(Le pergamene di Sezze [1181-1347]), a cura di mer: cACIORGNA, Roma (Codice diplomatico di Roma
e della regione romana 5),:bp.
136- 441;
1989
TH
Codex diplomaticus, I, n. 230, p. 125). In effetti il comutie di Sezze riusciva ad acquistare le diverse quote del castello di Trevi solo alla: fine del Quattrocento, quando eta complétamente distrutto e inabitato (Le perg mené. p. 450); per i comuni della Carnpagna v. MAIRE VIGUEUR, Comiini e Signorie, pp. 444-445.
18 Le Liber pontificalis, II, p. 303. Sulla sediziótie di Sermoneta; Ninfa e Tivera v. P. DELOGU, Térritorio e dominii della regione “porno nel Medio Evo,
in Ninfa una città, p. 21 ss. 19 p, PANTANELLI, Notizie istoriche della terra di Sermoneta; a: ‘cura.ai w Caetani, Roma 1908- 1909 (ed. anast. 1975), I, p. 169 ss: Te 20 Sul castello di Sermoneta v. ora M. VENDITTELLI; & Din ÿ e «universitas castri» a Sermoneta nei secoli XIII e XIV, Roma 1995 Pubblicazioni della Fondazione Camillo Caetani, 5). È astello avevano © 21] signori di Sermoneta che in condominio deteneva indirizzato al papa Alessandro III una lamentela contro;
che indebitamente avevano incluso tra i ‘loro’ possessi
e Piedinolfo, il pontefice assegnava ai signori di” Sérmorieta Je due tete rc che queste erano state concesse al suo ostiario Forturiáto,v. Ek. KEHR; Papsturkunden in Italien; III, (1901-1902), Città del Vaticano. 1977 (Actá ‘potitificum romanorutn, 3), n. 10, p. 465. Ma. cp ic“Signori di Acquapuzza non
( lolina di: Adenolfo di
LEA
p. 17.
22 Le pergamene di Sezze, doc. 1.
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date
È
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23. Gtegorio IX; nel. 1227, ricordava che i signori. di ‘Sermoneta, ‘al -tempo di Lucio IIT; « ecclesiati sanctae Mariae Triuripontium; in Nimphano : territorio constitutam,
et 'possessiones
ipsius
invasere
presutnpserunt-et
‘sub. sua potestate
redegerunt (PANTANELLI,, Notizie, pp. 270-271; Les registres de “Grégoire IX, ed. L. AUVRAY, T CAROLUS-BARRE, Paris 1896-1955, I, n. 2747) 24 Le questioni di confine tra i due vicini riguardavano ‘sia fetré" seminative che il bosco: in ün primo momento vengono suddivise le pertinenze nella zona
70
Maria Teresa Caciorgna
coltivata;
v. Arch. Bas. Later.
Q.2
4.13,
copia in BAV,
Vat.
Lat. 8034, f.
80 ss.; cfr. CACIORGNA, Ninfa prima dei Caetani, pp. 48-49 e 60-61; v. più avan:
ti. Successivamente per lo sfruttamento della selva di Frasseto, PANTANELLI, Notizie, p. 273. L'identità dei signori di Sermoneta non & ben conosciuta, ma il ristretto numero di condomini (forse solo il padre Sassone e i suoi figli) che agivano nel XII secolo e all'inizio del XIII era poi aumentato in maniera consistente (VENDITTELLI, Domini, p. 22); laumento del numero dei condomini potrebbe essere connesso a difficoltà di gestione del castrum, forse dovute alla politica espansiva che i domini avevano tentato. Risulta infatti che avevano veduto alcune tenute ai signori di Acquapuzza, ma ne avevano acquistate altre, con tutta probabilità seminative ai confini del territorio di Ninfa.
25 rouBERT, Les structures, p. 955. Le contese pet i confini tra castelli e
comuni nella provincia di Campagna e Marittima sono assunte come indicatori del crescente aumento demografico in un recente lavoro di A. coRTONESI, Uomini e terre nel Lazio del Duecento: sulle tracce del trend demografico, in Demografia e società nell’Italia medioevale, a cura di R. COMBA e I. NASO, Cuneo
1994, pp. 313-326.
26 1 confini del feximentum sono noti per Terracina, Priverno e Velletri (per Terracina la bolla di Silvestro II citata alla n. 10); il territorio di Piperno era
confermato ai cives da Alessandro III nel 1175. Il privilegio finora sconosciuto,
è inserto in una sentenza di Silviano Mollica giudice delegato da Onorato Caetani a stabilite i confini tra Priverno e Sezze nel 1396; ASL, Pergamene di Sezze, 47 D; la conferma del territorio ai Velletrani risale al 1089 ad opera di Urbano II (A. sorGIA, Istoria della chiesa e città di Velletri, Nocera 1723, p. 204). 21 Una indagine sistematica dei beni degli ecclesiastici romani nel territorio pontino non è stata ancora condotta, mi riferisco qui ad alcune significative testimonianze: i laghi di Fogliano e Caprolace sono ricordati nel privilegio di Gregorio VII all'abbazia di San Paolo fuori le mura (B. TRIFONE, Le carte del monastero di S. Paolo fuori le mura, in « ASRSP », 31, 1908; 32, 1909, doc. 1, pp. 29-106; inoltre diritti di pesca venivano confermati al monastero di Grottaferrata da Pasquale II (l'edizione del documento in Documenti per la storia ecclesiastica e civile di Roma, in « Documenti di storia e diritto », 7, 1886, pp. 105-109), e San Donato con le sue pertinenze veniva concesso da Eugenio III
al monasteto di S. Anastasio alle Acque Salvie poi confermato da Alessandro IV, RUOTOLO, L'abbazia delle Tre Fontane, Roma 1972, pp. 139-142. Altri patri-
moni si trovavano nella zona collinare: nel 1254 i minori di Santa Maria in Campidoglio vendevano il castrum Bolotti, situato tra Cori e Ninfa, ridotto allo stato di casale a due cittadini di Cori, Regesta, V, pp. 106-107; v. inoltre DELOGU, Territorio, pp. 18-19, M. VENDITTELLI, La pesca nelle acque interne del territorio ninfesino, in Ninfa, una città, pp. 123-125. 28 VENDITTELLI, Domini, pp. 22-25; s. cARoCCI, Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi aristocratici nel Duecento e nel primo Trecento, Roma
1993, pp. 311-319.
29 Una lettera di Onorio III contenente la spartizione dei diritti tra Fossanova e Priverno inizia con questi termini: « Commodis et profectibus religiosorum locorum propensioni studio nos. decet intendere et eorum maximeque infra patrimonium beati Petri consistunt... », ASV, Reg. Vat., 12, n. 216, f. 145; PRESSUTTI, Regesta, n. 4711. 30 Diversi toponimi come #urzi e turricella (« turticella », « turris Falconeti », «iuxta edificium communi» oltre ai mulini con le loto pertinenze risultano sparsi nei territori di Priverno e Fossanova, inoltre nel 1173 il pontefice concedeva ai monaci di «firmare locum qui dicitur capumala sub [...] et septa et muro cum eis placuerit... », ASV, Reg. Vat., 11, ff, 119-120, allo stesso documento si riferiscono anche i precedenti riferimenti.
1 V. il primo documento citato alla nota 24. 32 REHR, Papsturkunden, pp. 440-441, cfr. CACIORGNA, Ninfa, pp. 49 e 61.
33 Le prime definizioni di ambiti e diritti tra l'abbazia di Fossanova e Priverno risalgono al secolo XII, uno dei primi atti è la conferma ai Privernesi del proprio territorio da parte di Alessandro III, come aveva già fatto Callisto II (v. documento citato alla nota 26), ma i rapporti tra il comune e il monastero dovevano essere già molto tesi in quanto la «litterae memoriales » del 30 set-
tembre 1173 prevedeva una di.tinzione molto netta tra le pertinenze dei beni
Assetti del territorio e confini in Marittima
71
monastici e il tertitorio comunale; stabilendo anche il risarcimento per danni arrecati in « cesis militum » di Priverno e nei mulini di Fossanova (Inserto nella lettera di Onorio III che confermava il tenore della disposizione del giudice, ASV, Reg. Vat., 11, n. 597, ff. 118-119. PRESSUTTI, Regesta, II, n. 3336); ma in una successiva controversia del 1193 e riproposta nel 1222 per il possesso della selva Recaduti e della selva tra la Fontana del Grecilli e lo stesso Recaduti erano mantenuti usi comuni anche se il possesso era riconosciuto al monastero e nessuno doveva operarvi disboscamenti (Les Registres de Gregoire IX, I, pp. 26-27). Le questioni continuano durante il pontificato di Innocenzo III che
interveniva per stabilite pertinenze e modalità di scavo di canali e fosse che
non danneggiassero i territori dei signori di Sonnino (rispettivamente Patrologiae cursus completus, series secunda (latina), a cura di J.P. MIGNE, Parisiis 1844-1857, 215, II, n. 154 e nn. 149, 154, 203, coll. 928-983). Sulla conserva-
zione di questi boschi v. anche A. coRTONESI, La silva contesa. Uomini e boschi
nel Lazio del Duecento, in Il bosco nel Medioevo, a cuta di 8. ANDREOLI e M. MONTANARI, Bologna 1988, pp. 305-319, in particolare pp. 306-307. Gli interventi pontifici a favore del monastero subivano una drastica flessione nella seconda metà del Duecento, tra le altre motivazioni è da includere anche l'attegAM seguito dagli abati durante il periodo angioino (v. FALCO, I comuni, p. 483). 34 Su] castello di Sonnino e i suoi signori brevi notizie in G. SILVESTRELLI, Citta, castelli e terre della regione romana, Roma 1940, I, p. 155.
35 I Tertacinesi e i Setini, sotto l'arbitrato dei bowi viri del comune di Pri-
verno, pili che per una divisione dei territori, si accordavano per l'utilizzazione delle terre comuni, per questo documento v. ora Le pergamene, nn. 2 e 3. 36 Non è stato ancora delineato l'apporto di Fossanova alla costruzione di un paesaggio « antropizzato » nella regione pontina. Già alla metà del XII se-
colo sono attestate grange. Nel 1171 papa Alessandro III confermava al mona-
stero di Fossanova la donazione della chiesa rurale della Trinità in territorio setino, operata dal vescovo di Terracina, Berardo, su invito di Adriano IV e ricordava che « predecessor noster grangiam construxistis, et usum pascendi in montibus, ubi sita est prefata ecclesia et ipsi grangie circumadiacentibus » (KEHR,
Papsturkunden in Italien (1900-1901), pp. 220-221). Inoltre Onorio III «in-
dulg(et) ut liceat silvam vestram de Laureto excolere et ad excolendum aliis dare» (Reg. Vat., 12, ff. 144-145) e la stessa «silva» in seguito è chiamata
grangia
de Laureto.
Sull'impulso
all'insediamento sparso
delle grange
cister-
censi e sulla estensione del termine grangia anche a realtà preesistenti v. R. COMBA, Le origini medievali dell'assetto insediativo moderno nelle campagne italiane, in Insediamenti e territorio, Annali 8, Torino 1985, pp. 368-404, in parti
colare pp. 373-375. Sull’attività del monastero di Fossanova v. TOUBERT,
Les
structures, pp. 234, 235, 354, 650; Monasticon Italiae, 1, Roma e Lazio, Cesena
1981, n. 168. :
37 A. PARAVICINI BAGLIANI, I testamenti dei cardinali del Duecento, Roma 1980 (Miscellanea della Società Romana di storia patria, XXV), pp. 117-118. 38 Per lo scavo di un canale che doveva dividere il territorio di Piperno da quello di Sonnino senza arrecare danno alle coltivazioni di Fossanova, e ini. ziato a scavare dai Pipernesi su mandato del legato pontificio si stabiliva una misura di otto passi di larghezza e un passo e mezzo di profondità (THEINER, Codex diplomaticus, Y, n. 142, p. 84); mentre un fosso che determinava il confine tra Terracina e Priverno doveva essere di sei passi e mezzo di larghezza e uno e mezzo di profondità, BAV, Cod. Vat. 12632, ff. 197-199. Sui vati tentativi di bonifica delle Paludi pontine, v. N.M. NICOLAI, De’ bonificamenti delle terre pontine, Roma 1800, che perd molto parzialmente accenna a questa documentazione. 7 39 Les registres de Gregorio IX, I, n. 35, pp. 26-27. La Sandalaria, era una via d'acqua nella quale potevano scortere i sandali, cioè quelle imbarcazioni dalla
chiglia piatta che costituivanoil mezzo di trasporto di persone e cose più usato nella zona palustre. Nel territorio pontino la rete idrografica permetteva ad ogni
insediamento di raggiungere i bacini fluviali maggiori quali la Cavata e il fiume
Ufente e la documentazione attesta pit volte il toponimo Sanalara (Le pergamene, n. 33, pp. 92-93).
« Via sandalara»
o
40 Il comune id Piperno, risulta il più attivo nel difendere i propri interessi nei confronti dei vicini e Ia sua intraprendenza veniva punita con il carico
72
Maria
Teresa Caciorgna
maggiore delle spese. Per il canale iniziato a scavare nel 1195 i lavori erano a carico dei Privernesi e i Sonninesi avrebbero contribuito con « mille operas in eadem cavata continue ac successive » (opera ha il significato di giornata lavorativa), THEINER, Codex diplomaticus, I, n. 142 p. 84.
^! V. ]a sentenza nominata nella nota precedente. 4 In un atto di pace del 1275 si stabiliva che dovevano essere comuni tutti i pascoli che sí estendevano tra le porte di Sezze e quelle di Priverno, Le pergamene, doc. 24, v. anche CACIORGNA, Organizzazione del territorio, p. 57. 43 Le pergamene, docc. 2 e 3. Gli usi comuni tra Terracina e Priverno sono ricordati e confermati nella
lettera di Bonifacio VIII del 1295, nella quale rimproverava il comune di Ter-
tacina che aveva alienato i diritti a favore di Giovanni da Ceccano, CONTATORE, De bistoria Terracinesi, p. 86. 55 Per i due documenti l'uno del 1289 e l’altro del 1291, v. Regesta chartarum, Y, pp. 59 e 6. Bisogna segnalare che l'anno del secondo documento 1202 è chiaramente errato, non concorda con gli altri elementi della datazione (« pontificatus pape Nicolai quarti anno quarto indictione quarta ») invece tra loro corrispondenti e che rimandano pertanto all'anno 1291, forse l'errore & dovuto ad una svista del notaio che ha eseguito la copia nel secolo XIV. 4 I confini di San Donato sono così delineati: «ecclesiam Sanctae Mariae locumque qui S. Donatus dicitut.. A primo latere ipsius loci est ecclesia S. Mariae de Pareti et rivus de Vito, Follianus et foce eiusdem Folliani. A secundo latere est littus maris triginta milliaria infra mare et lacus qui dicitur Caprulaci.
À tertio latere est rivus de Nocla et vadit per pedem de campo Meruli et vadit
in Castellionem. À quarto latere predictus Castello et vadit per caput de Piscina Sicca et revertitur in predictum Pareti qui est terminus iam dicti loci S. Donati. Piscationes etiam de Janaci Facceberla; bucca de rivo tignoso et traverso...» (RUOTOLO, L’abbazia, pp. 137-141). Alcuni toponimi sono individua-
bili nella carta dell'Istituto geografico militare, Carta d'Italia, f. 159 (rileva-
zione del 1878) Paretti, castellione. Lo stesso toponimo castellione indica la struttura di una castrum abbandonato, per il quale l'incastellamento potrebbe essere stato favorito dalla Chiesa che in effetti era proprietaria di tutta la vasta zona litoranea. Di fatto già al tempo di Eugenio III risulta inabitato né compaiono suoi abitanti tra quanti giurarono fedeltà a Pietro Caetani nel 1297 (VENDITTELLI, Domini, p. 27). 47 Le Liber Censuum de l'Église Romaine, a c. di P. FABRE e L. DUCHESNE,
Paris 1889-1952, I, p. 10a.
^9 Doc. citato alla nota 40. 49 VENDITTELLI, Domini, pp. 22-24. 50 Sull'insediamento degli Annibaldi in Marittima, v. pELOGU, Territorio, pp. 26-27; CAROCCI, Baroni, pp. 312-319.
3| BAV, Vat. Lat., 12632, f£. 213-214. Quanto sembra di poter ascrivere alla
condiscendenza di Pietro verso il comune di Terracina derivava dalla penetrazione che gli Annibaldi tentavano da vari anni nella città. Per le vicende cittadine di questo periodo v. FALCO, I comuni, pp. 544-550.
3 Per la sentenza del 1569 che registra un primo ridimensionamento degli
usi sui pascoli (A.c.S., Pergamene B/64, Valtra del 1396, ASL, Pergamene di Sezze, 47/D). 53 CONTATORE, De bistoria, pp. 295-299. % Per gli inizi della signoria dei Caetani resta fondamentale la penetrante analisi di c. FALCO. Sulla formazione e la costituzione della signoria dei Caetani (1283-1303), in « Rivista storica italiana », XLV, 1928, pp. 225-278; la più tecente messa a punto sulle acquisizioni e la signoria dei Caetani in cAROcCI, Baroni, pp. 120-125, 327-331. 55 L. ERMINI, Ozorato I Caetani e lo Scisma d'Occidente, Roma 1942; P. PAVAN, Onorato III Caetani: un tentativo fallito di espansione territoriale, in Studi sul Medioevo cristiano offerti a Raffaello Morghen per il 90 anniversario dell'Istituto Storico Italiano (1883-1973), Roma 1974, II, pp. 627-667. % Sicuramente era podestà nel 1298 e nel 1301 (Le pergamene, p. 588). » Regesta cbartarum, Y, pp. 163-164, v. anche Le pergamene, doc. 69, pp 206-210. 33 Le pergamene, doc. 78, pp. 240-248. 39 Sul culto di san Lidano, v. M.T. CACIORGNA, Tra campagna e città: la
Assetti
del territorio e- confini iri Marittima
73
« legenda » e il cilto di San Lidano a Sezze, in Culto dei-santi e. TS . in età preindustriale;-a cura di s. BOESCH GAJANO, L. SEBASTIANI, émet Aquila
1984, pp. 199-226. 9 pr, KEHR, Regesta pontificum romanorum. Italia pontificis I Latium, Berolini 1907, pp. 128-129 e Le pergamene, doc.1 E 61 La ripresa ‘delle ostilità con il comune di p è -süccessivamehte con Terracina cortisponde al ‘periodo di Nicola Caetani; conte -d di e signore di Sermoneta e Bassiáno, che in unione con i fratelli e successivamente da so cercava di dominate corüpletamente iin Marittima. Egli riuscì ‘a prevaleke a Tetracina e si affermd come l'esponente più vigoroso del casato: Per tutta la sua azione v. da ultimo-». suPINO, Caetani Nicola, in Dizionario biografico degli Italiani, 16 (Roma 1973), pp. 193- 195; per questi avvenimenti; FALCO, I comuni, pp. 604- 609; l'edizione completa delle fonti in Le pergamene, nine 144,. 150 e 157. 6 Le pergamene, n. 157. "n 6 Sulla pesca in territorio pontino: VENDITTELLI, La pesca; UND: CACIORGNA, Acque e pesca nel territorio pontino, in « ASRSP », 116, 1993, ' p. 121-151;
PAVAN,
Onorato III, pp.
635-636.
Estremamente
indicativa: della dicotomia
che si verificava. tta; l'ésigenza del mantenimento delle paludi 4per Ja pesca e la bonifica che si-tentava all’inizio del Cinquecento è la rassicurazione: contenuta in due brevi del ponteficé Leone X a Guglielmo Caetani. In questi per superare l'opposizione al progetto di bonifica il papa prometteva ‘che ;i lavori non avrebbero recato alcun: danno alle peschiere di Fogliano, squalora’ si fosse verificato il contrario il conte sarebbe stato risarcito (Regesta chartarum; VI, pp. 288 e 316, v. anche VENDITTELLI, La pesca, pp. 121 e 132). ^| +: 6 Le pergamene, nn. 17 e 18, pp. 47-51. 65 L’appellativo. di custrum si trova soprattutto nelle: REA ‘pontificie, ma il più delle volte. come uso estensivo dei castra nominati subito prima, ma è soprattutto ricordato come casale. 6 Nel 1291 tra i beni comuni di Sezze sono nominati: «diversi ‘appezzamenti in Zenneto lottizzati tra cittadini di Sezze (risultano almeno 22. appezzamenti ciascuno dei quali: era concesso ad una o a più pere ad REC cfr. Le pergamene, docc. 47-49. 4 Le pergamene, nn. 48; 66, 67, 68, 70. TRE 68 Il 7 gennaio 1368 i canonici di San Cesareo affittaÿano, « inperpetuum » a Dano lacobi Iordani e Ciccho lobannis lacobi di Sezze,.« omnes ‘et singulas terras... pro infrascripto pretio 14 salmas grani» da co£tispondete-il per il primo: aniio, invece per gli anni successivi il canone: era «rido salme di grano. annuali (ASV, Instr. misc., 4297). Nel:-1368,-i confini - del casale quod wocatür Zennetum positum in provincia Maritime: ‘sono così deli-
neati:
«iuxta. territorium Nimphe, iuxta Drogam,
iuxta portum
Andree
et
Nalli Tacconis iuxta rigum Iohannis de Francho et iuxta: alios: suo ‘fines »; nel 1268 i confini erano così definiti: «a primo latere rigum. lohanni de Franco, a II rigum Martinum, a III rigum Droge, a ITII latere inarginem » (confine cón Sermoneta). Come si puo notare non esistono différehze-sostanziali nelle due delimitazioni, quindi si può ipotizzare che il casale. fosse passato alla chiesa matrice di Terracina al momento della devoluzione dei beni ‘dei Ceccanesi ‘alla fine del XIII secolo. s € Regesta: chartarum, III, pp. 216-219. Nello stesso decor A sane oe, anche il castello di Trevi, situato sul monte prospiciente-Sezze-e erso il quale il comune-di.Sezze aveva. tentato nel XIII secolo una «politica ‘espansionistica (v. nota 17), successivamente un quarto di esso era stato bligato, al comune di Sezze::da: ‘Francesco. di Trevi (Le pergamene, doc. 131; po451 Quattrocento. il‘comune ‘di Sezze sarebbe riuscito ad acquista le altre quote, sottraendolo così - eri Caetani (G. SILVESTRELLI, Citta, «castelli e terre, I, p. 127). et & nn ee e È 70 Regesta- si III, pp. 208- 212. 7! Le liber censuum; n. 169, p. 427, sulla portata. dell'infeudazione di Ade nolfo di: Acquapuzza; vi 'TOUBERT, Les structures, pp. 1042, 1078; 1130. 72 Non si hanno notizie precise del momento. nel.qüále. ‘era’ stato istituito il “castellano: è continua | passo e il pagamento dei pedaggi, ma la presenza. di” ' dall'inizio del XIII secolo. Un inventario del passo: di, Acquapuzza; copiato nella seconda metà del XIV secolo, fornisce l'elenco dei beni: mobili e. immobili com-
74
Maria Teresa Caciorgna
:
presi nel castello, € le somme percepite per tutte le merci, gli uomini e gli animali che attraversavano il passo (c. CAETANI, Domus Caietana. Storia documentata della famiglia Caetani, San Casciano Val di Pesa 1927-1933, I, p. 62). 73 Les registres de Grégoire IX, n, 1715, col. 945. : 74 La concessione di terre a Pietro, Giovanni e Paolo Perunti, nipoti del cardinale Giordano Pironti, cittadini di Terracina, è motivata dall'esigenza di garantire la custodia della rocca e la difesa della strada, infatti per il godimento delle terre «iidem virum balistarium armis necessariis decenter munitum castellano ipsius roccae servitio..», Les registres d'Alexaudre IV (1254-1261), a cura di C. BOUREL DE LA RONCIÈRE, J. DE LOYE, P. HELLOUIN, A. COULON, Paris 1895-1959, nn. 897 e 898. Uno dei due documenti & indirizzato al castellano ma non ne sappiamo il nome e neppure a chi ne spettava la nomina in questo petiodo. Nel XIV secolo certamiente la custodia delle rocche e la nomina del castellano spettavano al tettore della provincia. Ad esempio nel 1309 e nel 1321
gli atti di nomina dei rettori della provincia di Campagna e Marittima contem-
plavano anche la custodia di questa e di altre rocche della Chiesa (rispettivamente ASV, Instr. misc. 700 e 701). Sul cardinale Giordano v. PARAVICINI BAGLIANI, I testamenti, pp. 17-18 e 125-126). 75 Gregorio X, nel 1272, si rivolgeva agli uomini di Ácquapuzza, come ai vicini comuni di Sezze, Priverno e Terracina, per difenderli dalle richieste di sudditanza del comune di Roma (Le pergamene, nn. 21, 22). Oltre alla popolazione non si può stabilire neppure la durata del popolamento del casirum che nel 1450 risulta « derutum »; CAETANI, Domus Caietana, I, 2, p. 63. 76 Le pergamene, n. 144.
T1 Il 18 dicembre 1367, il castellano di Acquapuzza, zobilis vir Guilielmus
Raymundi assolveva tre terracinesi sorpresi mentre frodavano i diritti del passo, dopo aver pagato una pena che prevedeva una multa di 30 fiorini e la consegna di una imbarcazione («sandalum »), BAV, Pergamene di Terracina, I, n. 32. 78 AcS., Pergamena del 13 gennaio 1363. 79 I censi stabiliti erano regolarmente pagati negli anni 1423, 1428, 1431 (Regesta chartarum, XV, pp. 30, 95, 117). Ma successivamente venne tolta e restituita nel 1449 (ibid., p. 333) e nel 1482 il papa Sisto IV concedeva Acquapuzza ai Setini: ASV, Ar#. 39, 15, p. 157, ma successivamente tornava ai Caetani, v. anche CAETANI, Domus Caietana, I, 2, p. 56.
8 Nel 1423 Giacomo II Caetani acquistava da Giovanna e Andreozzo Pon-
ziani di Roma una métà delle peschiere Papatesco e Canne (Regesta cbartarum, IV, pp. 29-30). L'acquisto fu completato da Onorato III nel 1443 con l’altra metà acquistata dalle monache di S. Eufemia (ibid., pp. 229-230). Un elenco com-
pleto degli acquisti dei Caetani e delle iniziative intraprese per migliorare le peschiere in VENDITTELLI, La pesca, pp. 119-121 e note relative. 81 Regesta chartarum, V, pp. 106-108. 82 CAETANI, Domus Caietana, I, p. 144. 83 Regesta chartarum, III, pp. 300-301; IV, pp. 174-176. 84 PAVAN, Ozorato III, p. 650; c. KLAPISCH, J. DAY, Villages desertés et bistoire économique, XI-XVIIT, Paris 1965. | ° 85 CONTATORE, De historia, pp. 295-299. 8 Un esempio molto eloquente dei redditi tratti dai beni comuni in M. VALLERANI, Le comunaglie di Perugia, in « Quaderni storici », pet questo territorio V. M.T. CACIORGNA, Beni comuni e istituzioni comunali a Sezze: problemi di ge-
stione, in Il Lazio meridionale tra papato e impero al tempo
di Enrico VI,
Roma 1991, pp. 185-202. ZEN 87 Un caso singolare di abuso si era verificato tra Sezze e Tertacina, infatti nel 1340 il comune di Sezze, per corrispondere ad una pesante multa inflitta dal rettore della provincia aveva venduto una zona paludosa ai confini, chiamata la peschiera Filotium (Le pergamene, nn. 152-153, pp. 530-551), che invece dagli accertamenti successivi risultava inclusa nel territorio di Terracina, per cui
nel 1370 nella chiarificazione di tutti i confini tra i due comuni, la peschiera
era confermata a colui che l'aveva acquistata e ai suoi eredi e dichiarato esente dagli obblighi fiscali del comune di Terracina, ma il comune di Sezze eta costretto a risarcire quello di Terracina (CONTATORE, De bistoria, p. 298). 88 AcS., Libro dei confini, ff. 47-57. 89 Vedi doc. citato alla nota 24.
Assetti del territorio e confini in Marittima
75
9) Per alcuni esempi di guerre per la difesa del territorio, v. Le pergamene, nn. 148-149, pp. 519-522 (si riferisce alla difesa di Campo Lazzaro del 1336); oppure Regesta chartarum, IV, pp. 300-301 (« commune et homines Setie ... populariter et manu armata cum vexillo eorum communis explicato... »). 9% Le pergamene, n. 3, pp. 10-11. 9 Mi limito a segnalate il lungo documento sui confini tra Sezze e Tertacina, articolato in diverse patti, scritte in luoghi e giorni diversi come attestano le diverse datazioni, CONTATORE, De bistoria, p. 296 ss. 93 T] vescovo di Velletri ricorda che la chiesa di Santa Maria di Treponti «ruralis et extra hominum habitationem esse dignoscitur et longo tempore di-
vinis odsequiis defraudata », v. PANTANELLI, Notizie, pp. 270-271.
Giulia Barone
Istituzioni e vita religiosa | à Sermoneta nel Medio Evo”
Il fine di questo ;bieve contributoè la ficostruzione, ' aà statidi linee, di uni primo abbozzo della storia religiosa ‘di ‘Sermoneta
in età medievale, cercatido, soprattutto, di collocarla nel conite-
sto geógrafico circostante, per cogliere eventuali punti di contatto od-elémenti di evidente contrasto ! | di cui ci periodo ‘nel giuridicamente, appartiene Sermoneta occuperemo,
tra XIII
e XV
secolo, al Vescovato di. Terracina,
cui — già ai tempi di Alessandro II — erano state annesse le diocesi di Sezze e Priverno, a causa della scarsità della popola-
zione residente. Bisogria' Comunque sottolinèare che’ di questa decisione è coriservata solo la conferma da parte di: Onotio III nel 12177.7
La primazia di Sermoneta Il panorama. téligiôso del castrum di Setmoneta è ‘dominato,
all’inizio: del. "200; dalla collegiata di Santa Mariae. dalla chiesa di S. Pietro in Corte. Alla prima viene riconosciuta; in següito ad un lungo e complesso procedimierito’ gitidiziatio- di frotite al vescovo di Terracina, la primazia, dopo che ne era tata provata la maggiore antichità: e ricchezza, la maggiore-estensione della giurisdizione ecclesiastica e, soprattutto; il vicedominatus, cioè la funzione di Xáppresentanza del troppo dontano vescovó. di Terracina?. Per più di vent’anni,-perd, gran: parte delle ‘cerimonie più significative; dalla benedizione del cero pasquale alla distribuzione dell'olio santo; fino all'arinuale celebrazione: battesitna-
le, avevano avutò luogo: nella chiesa di S. Pietro. Ciò era av-
venuto però = come itiuscìa dimostrare l'arciprete: di^ solo a causa delle cattive.condizioni in cui si era: trovata le -
légiata, collocata in posizione più esposta.e ‘perciò gravemente danneggiata nel 1181, nel corso di un:.conflitto::tra.Sermoneta
e i signori di Ceccario; ma, come tisulta dal processo, sempre per disposizione dell'arciprete di S. Maria‘.
78
Giulia Barone
Per quanto non sia facilmente dimostrabile, data la scarsità dei documenti, si ha la sensazione che, almeno presso la collegiata di S. Maria, si sia mantenuta in questa fase, pur tra molte difficoltà, quella vita comune del clero che era stata uno dei grandi obiettivi della riforma gregorianae che, in tante parti di Italia, era già stata abbandonata nel corso del XII secolo 5. Le non floridissime condizioni economiche dell'istituzione dovevano però indurre Gregorio IX nel 1227 a fissare ad un massimo di dodici i canonici, cui si doveva naturalmente aggiungere quale tredicesimo l’arciprete; più tardi, nel 1240, il vescovo di Terra-
cina confermò il provvedimento. Inoltre, a quanti non avessero avuto gli ordini maggiori sarebbe stata negata in futuro la pos-
sibilità di godere di proventi della collegiata. Al contempo, però, era previsto che, in assenza di un congruo numero di candidati,
il totale di dodici canonici avrebbe potuto essere raggiunto anche mediante l’invio di « esterni » a Sermoneta. Si voleva insomma garantire un’adeguata « cura animarum », che solo dei sacerdoti in numero sufficiente avrebbero potuto assicurare; nel contem-
po si volevano escludere dai benefici quei chierici, provvisti solo degli ordini minori, che avrebbero potuto rivelarsi, sia dal punto
di vista spirituale che economico, inutiles *. Il provvedimento
apriva però anche la strada al conferimento di benefici ad esterni
non residenti; è quanto pare sia successo alla fine del XITI se-
colo, quando anche S. Maria sembra essere rientrata nel « citcuito beneficiale » a favore dei chierici legati alla Curia”.
L’arciprete di Sermoneta svolgerà del resto anche alcuni delicati compiti al servizio della Curia romana: ai tempi di Bonifacio VIII è incaricato, insieme all’atciprete di Terracina, di trasferire i beni di un medico terracinese, partigiano dei Colonna, ad un miles anagnino, familiaris di Papa Caetani *, mentre, ai
tempi di Giovanni XXII, viene assegnato quale judex conserva.
tor alla comunità monastica di Marmosolio, nella diocesi di Vel-
letri ?.
|
Nei secoli del Medio Evo centrale Sermoneta sembra partecipare a pieno titolo alle correnti spirituali del tempo; soprattutto è forte la presenza cisterciense, che irradia fino al castrum dalle non lontane Casamari e Fossanova. i Quando, nel 1248, per iniziativa congiunta di molti benefattori venne dotata l'abbazia dei SS. Stefano e Pietro a Valvisciolo, dipendente da Fossanova, la comunità di Sermoneta figurd quale parte attiva — aëcanto ad esponenti dell’aristocrazia locale — donando alla recente fondazione denaro, bestiame e beni mobili ed immobili ?, Del resto — ma questo tema verrà sviluppato da altri in questo stesso volume — S. Maria di Sermoneta verrà restaurata da maestranze cisterciensi !!. Dalla collegiata dipendono anche le chiese. di Bassiano (S. Ni-
Istituzioni e vita religiosa a Sermoneta nel. Medio: Evo.
79:
côla'e:$. Rene) e S. Leonardo in Silice; S. Giovanni iinn Pedemonte, compreso-nel territorio di Sermoneta, conoscerà alterne ‘vicende; donato prima, ai tempi di Gregorio. 1X, all'abbazia flo-
^. sense di. S; Maria di Gloria ad Anagni e-tornato. poi sotto il con«trollo. della chièsa.di Sermoneta”
: A patrocinii. delle chiese appena citate Hani, iby si.sarà nok ditor caratteri. di. stande antichità e tradizionalismo:
S. Maria,
3S. Pietro; S.Giovanni, S. Leonardo, S. Angelo, S.-Nicola; S..Lo-
“renzo; anche: l’arrivo dei Cisterciensi non muta-il. quadro, visto. "che aggiungono un patrocinio altrettanto tradizionale quale quel^. “Jodi S. Stefano; I « santi nuovi », a Sermengtà; pare non ab-
Jbiáno, avuto alcun successo. L’impressione di una società fortemente ais sul piano 1re ligioso; ai-valori tradizionali, è ancora rafforzata dall’ analisi della presenza mendicante. nella zona. Il Lazio meridionale: ha aperto le sue porte ai muovi Ordini già nella prima. metà. del XIII. secolo grazie anche alla presenza, fra la nobiltà della: regione, dei
Conti, parenti di Innocenzo III e soprattutto; di Gregorio IX,
il grande. protettore dei Francescani ?. Infine, la.presenza in questa zona..di, una.delle residenze estive dei Papi, Anagni; ha fatto sì che anche i Domenicani si installassero molto: “precocemente. in Campagna; ad Anagni essi celebrano un capitolo, probingiale già nel 1252. . | | Ordini religiosi, strutture ecclesiastiche e pietà popolare . Gli: studi del padre Matiano d'Alatri Dante cé riats la presenza nella provincia di Campagna di antiche e numerose. fon-
dazioni francescane: ad Anagni, Alatri, Ferentino; Valmontone,
Piglio e: ‘Zagarolo, mentre a Palestrina sorgerà, verso il.1270-80, una comunità femminile sotto influenza francescani ‘intorno a Margherita Colônna“ e Questa nuova realtà religiosa non è certo ignorata a| Sermobüisce legati pro anima a tutte le fondazioni mendicant allora esistenti nel Lazio meridionale: ai Minori di Terracina, di Priverno, di Sezze, di Ninfa, di Velletri e di Albano, ai-Predicatori
e ai Minori di Anagni, nonché ai grandi conventi romani’ dei nuovi Ordini, alla francescana comunità « de Campitolio »:(l’Ata- celi) e ai Domenicani
« de Urbe », allora a S. Sabina ^; Nella
prima metà del Trecento verranno fondativaltri: due ‘conventi ‘dei Predicatori:
a Terracina, il cui insediamento,5," testimoni
‘dal 1313, diventa convento nel 13 18, ea Priverno; citato come «locus » nel 1332 e diventato convento-nel 1343, cui si ag-
giunse, almeno dal 1370, quello di Fondi,:pér quanto, già nel
80
Giulia Barone
corso del XIV secolo, si lamentasse una riduzione dei frati della
Provincia Romana . Sermoneta resta comunque, in questa fase, del tutto estranea al movimento mendicante. Scatsissimi sono anche i documenti del Duecento relativi ad altre tipiche manifestazioni della pietà basso-medievale: nel già citato testamento del canonico di S. Maria si parla di un donativo pro fraternitate, ma non & chiaro se si tratti di una delle tante confraternite clericali allora ésistenti o di una laicale (ed opinerei per la prima ipotesi). Di questa confraternita si ritro-
vano tracce solo nel 1363; viene definita allora fraternitas San-
ctae Mariae de Sarmineto è pare svolgere le tipiche funzioni funerarie di queste associazioni in quanto riceve un cospicuo la-
scito in occasione della celebrazione di un funerale P. Presso S. Giovanni Pedemonte sorgeva poi un hospitale, ma il termine generico e la scarsità dei documenti non ci consentono di formulare alcuna ipotesi sulle sue funzioni; vista la sua collocazione lungo una grande via di traffico dovrebbe aver svolto soprattutto compiti di accoglienza ?. L'idea, comunque, che le fondazioni ospedaliere andassero sostenute ed incoraggiaté non era estranea agli abitanti del luogo; anche in questo caso, perd, ci si rivolge ad un'istituzione di grande prestigio e celeberrima, ma anche molto lontana; alcuni testamenti contengono infatti donazioni in favore dell'ospedale romano di S. Spirito in Sassia; dall'inizio del XV secolo esisterà inoltre a Sermoneta una chiesa, intitolata allo Spirito Santo, e dipendente dall'ospedale ro-
mano ”, Le grandi campagne di predicazione hanno certamente toccato anche Sermoneta; alcuni testatori ricordano infatti, in punto di morte, di aver preso la croce e « riscattano » il voto non compiuto con donazioni in denaro. Uno di questi « crociati man-
cati» dimostra di avere una buona conoscenza della geografia
del pellegrinaggio, forse per conoscenza diretta, visto che si ricorda, nelle sue ultime volontà, dell'ospizio di Altopascio e persino di quello di Roncisvalle ?. Né si puó dite che i Papi abbiano dimenticato Sermoneta
nella loro distribuzione di indulgenze: ne vengono concesse da Niccold IV (e si tratta di üna delle tante concesse da questo Papa francescano, devotissimo alla Vergine, a chiese di intitolazione mariana in occasione delle feste della madre del Signore) e da Bonifacio VIII À. Ma una profonda trasformazione della regione doveva por-
tare anche a mutamenti nelle strutture ecclesiastiche. Il progressivo spopolamento della zona, a causa di guerre ed epidemie, portó all'abbandono quasi contemporaneo di Norma e Ninfa. Gli abitanti superstiti vennero accolti a Sermoneta, il che
spiega — come notava molti anni or sono Paola Pavan — il
Istituzioni e vita religiosa a Sermoneta nel Medio Evo
81
relativo e parzialmente fittizio fiorire del castrum di Sermoneta”, L'antica comunità minoritica di Ninfa seguì gli ‘abitanti,
trovando uni primo punto d’appoggio in S. Lorenzo e, più tatdi,
quando — nel 1406 — le parrocchie di S. Angelo e S. Nicola ®
furono unite e concesse al patroco di S. Angelo, nella ormai va-
cante chiesa di S. Nicola ?.
hoo A
eva più ancora monachesimo tradizionale. Quest'atteggiamento-av
forti ragion d'éssere-in realtà, come quella di Sermoneta, dove il signore del lüogo controllava da sempre la chiesa. locale, ed i suoi redditi, La stessa rubrica sulle feste religiose da:rispet-
tare a Sermoneta, che Giacomo II Caetani volle fosse ‘inserita negli Statuti del 1412, è una riprova di quanto affermiamo: giorni festivi, nella-terra di Sermoneta,
avrebbero dovuto
es-
sere solo le domeniche, le grandi feste di Cristo e della Ver-
gine, S. Giovanni Battista e i dies natales degli. Apostoli: nessuna concessione, come si vede, alla « religiosità moderna», né
a santi locali; anche l'arrivo dei Francescani in quelle terre non del 4 ottobre nel ciclo delle grandi-feste^. portò all’inserimento Nel corso del secolo; comunque, la vita religiosa si ando animando: è testimoniata l'esistenza di una confraternita .dell'An-
nunziata,. che gestisce un: ospedale e di un’altra pia-associazione, probabilmente ‘añch’essa ospedaliera, legata alla chiesa di
uno. dei grandi « santi protettori.» conS. Antonio di Vienne, tro la peste, retaggio entrambe, quasi certamente, delle «grandi pestilenze che avevano falcidiato la popolazione della regione ^.
. La storia.religiosa di Sermoneta sembra dunque. seguire. uno sviluppo sostarizialmerite analogo a quello delle zone circostan-
nel XITI ti: alcuni caratteri, quali la forte presenza cisterciense
secolo e.la fioritura confraternale ed ospedaliera nel XIV sosecolo la immettono senza alcuri dubbio nella sel XV tto prattu corrente della storia. Per quanto riguarda invece la.scarsa pre-
senza dei Mendicanti;:mi-pare indubbio un ruolo-frenante da parte dei signori del-liogo, che sembrano decisamente preferire le antiche formedi religiosità.
82
Giulia Barone
Note 1 Un analogo tentativo è stato compiuto, alcuni anni or sono, da Réginald Grégoire a proposito di Ninfa, cfr. R. GRÉGOIRE, Presenze religiose e monastiche a Ninfa uel Medioevo, in Niufa una città, un giardino, Atti del colloquio della Fondazione Camillo Caetani, Roma-Sermoneta-Ninfa, 7-9 ottobre 1988, a cura di L. Fiorani, Roma 1990, pp. 153-166. . 2 p, PANTANELLI, Notizie storiche della Terra di Sermoneta, a cura di L. Caetani, I, Roma 1908-09, pp. 258-259.
3 Ivi, pp. 175-185. 4 Ivi
C.D.
5 Un bilancio della diffusione e degli esiti del FONSECA, Medioevo canonicale, Milano 1970.
6 Sul concetto
dell’« inutilità»
dei non
chierici
movimento
anche
canonicale
all'interno
in
di un
ordine religioso si ricordino le efficacissime pagine di SALIMBENE DE ADAM, Cronica, ed. G. Scalia, Bari 1966, pp. 141-146. Sui provvedimenti di Gregorio IX e del vescovo di Terracina si veda PANTANELLI, Nofizie, pp. 267-268 e 281-282. 7 Jean XXII. Lettres communes, a cara di G. Mollat, VI, Paris 1916, nr. 27129. 8 Les Registres de Boniface VIII, ed. R. Fawtier, IV, Paris 1939, nr. 5516. 9 Jean XXII. Lettres communes, XII, Paris 1932, nr. 61401. 10 Sulle comunità cisterciensi prossime a Sermoneta, la cui storia presenta non poche oscurità, si veda Mozasticon Italiae. Roma e Lazio, a cura di F. Caraffa, Cesena 1981, nr. 86, p. 135 (S. Maria in Marmosolio) e nr. 202, pp. 167168 (SS. Pietro e Stefano a Valvisciolo). Sulla dotazione dell’abbazia PANTANELLI, Notizie, pp. 289-293. Sul complesso problema si veda anche C. CIAMMARUCONI,
Da Marmosolio a Valvisciolo: una rilettura della storiografia per un'ipotesi orga-
nica di identificazione, in « Benedictina » 40, 1993, pp. 297-344. ll M. RIGHETTI TOSTI CROCE, La chiesa di S. Maria Maggiore di Lanciano: un problema dell’architettura italiana del Duecento, in I Cisterciensi e il Lazio (Roma, 17-21 maggio 1977), Roma 1978, pp. 209-210, n. 30; sulla tipologia delle chiese laziali influenzate dall’architettura cisterciense vedi A. cApEI, Dalla chiesa abbaziale alla città, ivi, p. 286.
12 Su tali vicende si veda PANTANELLI, Notizie, pp. 275-280. PB Sul ruolo svolto dal cardinale Ugolino, poi Papa Gregorio IX, nello svi-
luppo del Francescanesimo,
si veda L. ZARNCKE, Der Anieil des Kardinals Ugo-
ES an der Ausbildung der drei Orden des Heiligen Franz, Hildesheim 19722, ed. anast. 14 MARIANO D’ALATRI, I più antichi insediamenti dei mendicanti nella provincia civile di Campagna, in Les ordres Mendiants et la ville en Italie cen-
trale (v. 1220-v. 1350), estratto da « Mélanges de l’Ecole Francaise de Rome. Moyen Age - Temps modernes », 89, 1977, 2, pp. 575-585. Sulla fondazione di Palestrina si veda G. BARONE, Margherita Colonna e le clarisse di S. Silvestro in Capite, in Roma. Anno 1300, Roma 1983, pp. 799-805. D PANTANELLI, Notizie, p. 306: brevi cenni sulla storia della presenza men: dicante a Roma nel Duecento in c. BARONE, I Francescani a Roma, in « Storia
della città », 9, pp. 33-35. “ 16 Dati sugli insediamenti domenicani sono reperibili negli Acta capitulorum
generalium Ordinis Fratrum Praedicatorum, Y e II, ed. B.M. Reichert, in Monumenta ordinis Fratrum Praedicatorum. Historica, III e IV, Romae-Stuttgardiae 1898 e ivi 1899 e in Acta capitulorum provincialium provinciae romanae (1243-1344), edd. Th. Kaeppeli-A. Dondaine, in Monumenta ordinis Fratrum Praedicatorum. Historica, XX, Romae 1941. 17 PANTANELLI, Notizie, pp. 305 e 378. Nel testamento non si dice esptessamente che i 100 soldi siano per le esequie ma la donazione è inserita in una lista di legati a questo scopo: pro tummatico et testamento... pro vigiliis... pro catafalchis... pro exequiis sibi faciendis post obitum suum... fraternitati Sanctae
eae Solo dopo un'altra donazione a S. Giovanni iniziano i legati a parenti ed amici. 18 Su questo ospedale si veda PANTANELLI, Notizie, pp. 277 e 280; sulla
diffusione delle strutture «ospedaliere» si veda Esperienze religiose e opere assistenziali nei secoli XI e XII, a cura di G.G. Merlo, Torino 1988.
Istituzioni e vita religiosa a Sermoneta nel Medio Evo 19 PANTANELLI,
83
Nofizie, pp. 409 e 422.
20 Sull'importanza del pellegrinaggio nell'Italia basso-medievale, si veda la - breve ZE
sintesi di A. VAUCHEZ, Reliquie santi e santuari, spazi. sacri e vagabond on nel Medioevo, in i Storia” "dell'Italia religiosa, I, a cuta di A.
Sting », 30, 1970, pp. 185-198. ° 21 Les Registres de Nicolas IV, a cura di E. Langlois, II, Paris
1905, nr.
5930. Sulla pietà mariana del primo Papa francescano, cfr. 6. BARONE, Niccolò IV ^. e à Colonna, in Niccolò IV: un pontificato tra Oriente ‘ed Occidente, a cura * di E. Menestò, Spoleto 1991, p. 88. Per quanto riguarda Vindulgenza bonifa.; ciana si veda PANTANELLI, Noiizie, pp. 341-342. n +: : 2 p, PAVAN, Onórato III Caetani: uri tentativo fallito di espansione
terri-
© foriale, in Studi sul Medioevo cristiano offerti a Raffaello Morghen, II, Roma ~ ‘1974, pp. 636-638. 7 23 Sull’insediamento dei Minori a Sermoneta si vedano PANTANELLI, Notizie,
pp. 410-412. Va notato che nell'elenco dei conventi divisi per custodie del Provinciale vetustissimum (inizio del XIV secolo), figura ancora é' soltanto la
fondazione di Ninfa, - L. PELLEGRINI, Insediamenti francescani nell'Italia del Duecento, Roma 1984, 304. Sulle chiese di S. Angelo e S. Nicola si veda
M. ARCIDIACONO, Due “bios? francescane in Sermoneta, in « Bollettino dell’Istituto di storia e di arte del Lazio meridionale », VIII, 1975, pp. 57-74. 24 M. VENDITTELLI, « Domini» e «universitas castri» a Sermoneta nei se-. coli XIII e XIV. Gli statuti castellani del 1271 con le aggiunte e le riforme del 1304 e del secolo XV, Roma 1993, p. 73. Comunque, gli uomini del castrum satebbero stati «esonerati» dall 'obbligo del riposo festivo al momento del raccolto e della vendemmia. Anche questa rubrica potrebbe essete interpretata-come un segno della forte pressione signorile esercitata dal baronaggio romano, su cui si veda S. CAROCCI, Baroni di Roma. Dominion si-
mitanza con le pestilenze della fine del Medio Evo, quando un buoni ‘numero » di santi, considerati particolarmente efficaci nella cura di: | particolati malattie, vennero invocati quali patroni contro la peste; su questo tema.si. ‘veda: H. DORMEIER, I] culto dei Santi a Milano in balia della peste, in Modelli di Santità «e modelli di comportamento, a cura di G. Barone, M. Caffiero, F. Scorza, Barcellona, Torino 1994, pp. 233-242.
Lucia Ployer Mione...
L'abbazia di Marmosolio ^
|
in rapporto al territorio di Sermoneta t
Per coloro che si avvicinano all’agro pontino, risulta ‘istintivo
contrapporre i Comuni sorti negli anni Trenta a quelli. che, in un arco temporale lunghissimo, erano venuti invece ‘afferman-
dosi sulle propaggini dei monti Lepini, in uria Marittima. popo-
a Circei su un lata anche ad itnmediato ridosso del mare: vuoi . di Kamenio ville le per come — vuoi roccioso, promontorio
e Domiziano — su una pianura attrezzata con la via Severiana.
‘Ne deriva sovente un interrogativo sulle mattici «territoriali
la cui segmentazione ha prodotto quei centri urbani, borghi e poderi che oggi caratterizzano un paesaggio: tanto. disponibile
all'uomo del XX secolo, quanto sottratto.allo.scomparso mondo
"2. °° del bracciatitato’ transumante. . È peraltro naturale concludere che da consimili:frazionamenti avevano tratto origine — dopo il crollo di Roma + «castelli »
medievali, talora coincidenti con gli oppida, castra, vici, villae
della civitas roimana ‘; e tuttavia la porzionedi Marittima che oggi ci interessa attende ancora la definizione dél' rapporto civitas/casirum che venne instaurandosi tra.i centri: collinari me-
no antichi e quelli di più consolidata tradizione; man mano che rdi si avanzavano concrete minacce alla soe- saraceni da longoba pravvivenza. Solo il Toubert — affrontando peráltro il proble-
ma delle diocesi (rectius ecclesiarum)? di Sezze, Priverno e Terracina — collega i castra di Sermorieta, Acquapuzza e Bassiano ^ Mel a Sezze?. ‘Va detto a questo punto come, parallelamente: all’accentuatsi
del distacco ‘tra: civitas e centri derivati, 'gli-antichi custodi dei
imparò che e: castra venivano trásformandosi in una classe feudal
prestoa rivendicare: sempre maggior tetritotio «nei confronti del più antico: insediamento*, ogni volta chela gestione della. zona
risultava a6duisita:da' personaggi di rilevante ‘spessofe.’ Inoltre,
dal mare Tirquando i Caétani ‘instaurarono il loro dominato reno all’entroterra della Campagna, con 1a loto azione avrebbero
impresso alla nostra Marittima un assetto territoriale perdurante
86
Lucia Ployer Mione
fino all'età napoleonica: ed anche qui la nuova figura del Comune, sovrapposta alla Comunità feudale, avrebbe postulato il
riconoscimento esclusivo del proprio tetritorio nei confronti cosi del Duca come degli altri innovati Comuni. È facile infatti verificare?, tanto per l'epoca dello Stato di Sermoneta quanto per quella del crollo del vincolo feudale, co-
me le comunità di Bassiano e Sermoneta — avvezze all'uso promiscuo del territorio — avrebbero insistito nel rivendicare dapprima l'esercizio dei propri diritti di pascolo, legnatico, ecc. ...,
e, successivamente, la piena titolarità del territorio. Eminente oggetto del contenzioso risultava il territorio della abbandonata Ninfa, che « nel 1593 [...] godette ancora di una certa notorietà grazie al fastoso matrimonio di Pietro Caetani, che offrì i secoli di storia della sua casata a Felice-Maria Or-
sini » 5, ad avvenuto superamento della confisca operata da Ales-
sandro VI e della contestuale gestione che, unitamente a Sermoneta, Bassiano, Norma, Tivera, Cisterna, S. Felice e S. Donato, ne aveva curato Lucrezia Borgia, previo pagamento di 80.000
ducati d'oro *. Quanto alle origini di Ninfa, nulla è certo: il Kehr ne ricorda
la tradizionale donazione operata da Costantino V in favore di papa Zaccaria, come pure il giuramento di fedeltà prestato nel 1110 a Pasquale II e l'infeudazione a Cencio Frangipane ed ai
suoi nipoti (perfezionata dal cistercense Eugenio III), cui sarebbe seguita la riconquista di Innocenzo III. Retta quindi dai consoli e presto devastata da un incendio, già nel 1235 era pri-
va dei documenti relativi ai confini del suo territorio *. Sarà sufficiente, in questa sede, accennare che nel periodo
1297-1303 si sarebbe ultimato il trasferimento di Ninfa a Pietro Caetani?, e che la « Pompei del Medioevo », nel suggestivo spettacolo offerto oggi ai visitatori, mostra pressoché nulla di case, chiese e molini sulla cui esistenza Gelasio Caetani ha in-
vece testimoniato con i sei volumi dei Regesta chartarum. Problemi di storia del territorio
E dunque l’occasione di questo Convegno è sembrata propizia per riflettere su alcuni insoluti problemi della storia del territorio pontino. Nel 1990 sottolineavo che a S. Stefano si erano collegate — dal X al XII secolo — diverse entità religiose di
quella regione: S. Stefano iuxtz Terracinam, documentato nel
955, S. Stefano di Fossanova (documentato nel 1089) e S. Stefano de Nucleto, infine, documentato nel 1154; al riguardo mi chiedevo se dovessimo pensare ad antiche affermazioni dell'orien-
te cristiano ",
L'abbazia di Marmosolio
87
I dati dei quali disponiamo non evidenziano che un elemento costante: il comune collegamento alla regola di Benedetto mediante trasferimento a Montecassino (S. Stefano iuxta Terracinam) ovvero tramite assoggettamento ai cistercensi.
Per l'abbazia di Fossanova ! sara sufficiente sottolineare come il passaggio all'obbedienza cistercense avvenga nell'epoca della
lotta condotta da Impero, Bernardo di Chiaravalle e Innocenzo II contro il filonormanno Analecto II ed i suoi sostenitori: ipotizzerei pertanto come successiva al 1138 — anno della morte
di papa Pierleoni — l'attivazione della nuova regola nel monaste-
ro quod S. Stepbani dicitur, cui viene annessa anche la chiesa di
S. Matia di Fossanova e pertinenze. L'epoca cui ci riferiamo sarebbe risultata in evidente collegamento con l'affermazione tanto dei Frangipane quanto dei cistercensi, avviati a presenziare nella Marittima accanto ai criptoferratensi, sublacensi e cassinesi: infatti ad Eugenio III, che aveva già concesso ai cistercensi il monastero setino di S. Bar-
tolomeo ”, seguiva Anastasio IV il quale nel 1153 affidava invece all'abbazia di Grottaferrata il castro di Tivera (poi rovitie presso Cisterna).
Nell’anno successivo, pochi giorni prima di morire, questo pontefice avrebbe inoltre confermato l'istituzione (e la correla-
|
tiva concessione di beni e diritti) del monastero di S. Maria de
Marmossole ?, fondato appunto « ex consilio domini Anastasii Papae quarti Cardinalium et totius Ordinis Cistercensis » da due seguaci della regola di Bernardo: il vescovo di Ostia e Velletri,
Ugo, e il padte abate di Fossanova.
Il.cistercense Ugo — che oggi definiremmo competente per territorio — sembra aver proceduto peraltro, nel primo anno di pontificato di Adriano IV (se il documento è autentico) *, alla reiterazione di un atto già sanzionato, il 25 novembre 1154, da Anastasio IV, il quale aveva cosi posto sotto la sua prote-
zione l'abbazia cistercense fondata da Ugo e dall'abate di Fossanova. : | Da questo atto costitutivo, del quale sottolineo la singolarità, sarebbe anche scaturito — ma per altri motivi — l'enigma del monastero del monte di S. Maria del Marmosolio ^: vedremo
insieme perché questa abbazia si identifichi sin dall'origine con quella sermonetana di Valvisciolo posta, come sappiamo, ai piedi del monte Carbolino ed in una località dove nel XVIII secolo si vedevano ancora « gli avanzi di due sepolcri gentileschi,
un dè quali » con.« intere due gran stanze a volta, ma in parte ripiene », dalle quali Pietro Pantanelli riteneva « tolta una bella cassa sepolcrale di marmo » abbandonata « nel pomario di detto monastero » ! (fig. 1).
.
.
Ma torniamo all’atto costitutivo del Marmosolio, quale do-
88
Luica Ployer Mione .
cumentato nell'edizione 1959 del Mastrojanni: all'abate de Monte Sanctae Mariae de Marmosole viene donato, concesso e « confermato » (unitamente ai connessi privilegi) l'antico complesso immobiliare appartenente alla cappella derelicta di S. Stefano de Nicoleto, dalle cui pertinenze si detraggono peró le chiese di S. Maria di Norma, di S. Maria di Eticonia (con orto, vigna e tetre adiacenti), di S. Clemente (con vigna, terre e case adia-
centi) " e — in osservanza delle norme cistercensi — i molini
(di Ninfa), del migliore dei quali si consente tuttavia l'uso per
un giorno ed una notte alla settimana. Dunque alla « Cappella » di S. Stefano fanno riferimento alcuni molini posti dentro Ninfa e tre chiese variamente dotate di orto, vigna, tetra e case: siamo in presenza di un'istituzione caratterizzata da una consistente valenza economica, e titolare della più antica chiesa di Norma. In cambio dei beni cosi stralciati, il nostro vescovo dona co-
munque l'altra cappella derelicta di S. Romano (anche questa
dotata di beni immobili) e — da ultimo — il solitario monastero abbandonato di S. Eleuterio con le sue terre, selve, fiumi, pascoli, vigne ed oliveti. I suoi molini invece restano acquisiti alla mensa vescovile di Velletri, in ragione dell'annuo canone di due soldi papiensi che la sua chiesa versava annualmente nella ricorrenza di S. Clemente: all'esonero del nuovo monastero da ogni esazione, il fondatore fa infatti eccezione per questo canone di due soldi papiensi, che resta da corrispondere in perpetuo al vescovo di Velletri (fig. 2).
Prosegue poi: « Caeterum praesentibus et futuris notum esse volumus, quod locus praedictus agrestis est et aspera solitudo »; questa indicazione che anche sintatticamente si collega alla realtà di S. Eleuterio, fino ad ora (complice la tradizionale trascrizione del documento, intervenuta con una punteggiatura talora astratta dal testo) è stata tuttavia riferita alla sede del —
con-
testualmente fondato — monastero « del Monte », intorno alla cui ubicazione si sono pertanto ventilate numerose ed anche fantasiose ipotesi, dimentiche della consuetudine cistercense di costruite le proprie abbazie. La fondazione del Marmosolio Ho già accennato al titolo di S. Stefano come ricorrente nella tradizione monastica pontina: anche per la fondazione del Marmosolio abbiamo infatti identificato un antico e ricco S. Stefano de Nicoleto; e lo si descrive abbandonato, al pari di S. Romano. Come per S. Stefano di Fossanova è naturale chiedersi
se ed a quale regola facessero riferimento le cappelle donate alla
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3. S. Eleuterio (Cisterna). Sezione di un muro
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1992.
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L'abbazia di Marmosolio
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nuova fondazione cistercense, ovvero: è consentito escludere che anche qui. l’assoggettamento alla regola di Cistercio fosse la risultante del nuovo equilibrio politico Impero-Papato;'e quindi della nuova forza a quest'ultimo conferita da Bernardo? Lo stesso valga per S. Eleuterio, una disponibilità economica che il vescovo Ugo non vuole dispersa: « hac itaque-compulsi necessitate, ut locus ille utcumque non pereat »; lo affida pertanto all'ordine di S. Bernardo (che abbiamo visto essere il
suo)", in pati tempo delineando l'organizzazione del nuovo
monastero che, con i beni assegnati, non ritiene possa sostenere più di trenta monaci e dieci professi.
I documenti disponibili potranno testimoniare ampiamente del legame che collega ininterrottamente prima il Marmosolio, poi l'abbazia dei SS. Pietro e Stefano in Sermoneta a S. Eleuterio ";
e la contigua Tiveta, che Anastasio IV — si è visto— aveva concesso a Grottaferrata nel 1153, veniva successivamente infeudata da Alessandro III ai fratelli Giovanni, Pietro.e Leone
Frangipane, detentori anche di Ninfa. Nell’occasione, anzi, il pontefice — già consacrato a Ninfa — rassicurava labate del Marmosolio che la concessione di Tivera ai figli di Cencio Frangipane non avrebbe influito sui diritti del monastero, come nean-
che sulla chiesa, posta nel tenimento di quel castro ? (fig. 3). Se la celebrata sede cistercense dell’abbazia di Fossanova ve-
niva conclusa — nel 1208 — a circa 70 anni dalla sua fondazione, sembra ragionevole affermare che anche la sede cistercense dell'abbazia del Marmosolio abbia richiesto i tempi. necessari alla sua costruzione: ne deriva che mentre la comunità .monastica avvia la sua attività nella solitudine agreste ‘di S. Eleuterio, la sede del monastero del Monte di S. Maria del Marmo-
solio viene realizzandosi attorno alla preesistente cappella derelicta di S. Stefano de Nicoleto in distretto di Ninfa, territo-
rio soggetto al vescovo di Velletri ma confinante-con Sermoneta. Infatti negli anni 1169-1170 l’Archipresbiter Pietro, annotando i beni della chiesa di S; Maria de Sermineto (di cui si
dichiara minister) vi inserisce — in località Colli— un vineale confinante con il rivus descendens-aS. Stephano. Come ha. intuito il Mastrojanni, dunque, quel rivus ‘avrebbe successivamente preso il nome di « fosso della badia », ed il monastero del Marmosolio pud coincidere ab origine con quello di Valÿisciolo ?: resta soltanto da sottolineare che il nome del rivus — 5iaino a sedici anni dalla fondazione del Marmosolio — rion-può
non collegarsi: a quella ficca cappella di S. Stefano, i cui. beni
erano destinati, nella volontà del vescovo Ugo, a fare del.tiuovo
Monastero un vero e proprio successore della preesistente: istituzione religiosa: « Fines antiqui determinant cum Cappella de-
telicta S. Stephani de Nicoleto cum suis pertinentis ». Difficile
90
Lucia Ployer Mione
dunque
sostenere la tradizionale
distruzione
dell'abbazia
del
Monte di S. Maria ad opera del Barbarossa; più verosimile & da
ritenersi l'ipotesi di un'alacre attività dei monaci architetti, se è vero che nel 1206 l’abate chiede, tramite i colleghi di Casamati ? e Fossanova, di trasferire il monastero del Marmosolio *.
Così, se per realizzare la sede di Fossanova i Cistercensi ave-
vano impiegato 65-70 anni, non è improbabile che per costruire accanto a S. Stefano di Nicoleto quella più modesta del Marmosolio/Valvisciolo ne abbiano impiegati 52; del resto, ancora ai primi del XX secolo se ne scriveva che
Al lato sud-est del monastero, ove attualmente trovasi l'orto, si vedono [...] avanzi di antichissime costruzioni, che appaiono evidentemente di fattura più rozza del resto dell’edificio e di data anteriore al medesimo. L'antica costruzione
consisteva in un vano di 36 metri di lunghezza per 13 di larghezza e l'altezza interna di circa metri 7 [...] vi si vedono tuttora alcune finestre a sesto pressoché acuto e dei pilastri simmetrici su cui poggiava la volta ^.
È pressoché naturale identificarvi S. Stefano de Nicoleto, e d’altro canto a chiunque osservi oggi il prospetto dell’abbazia di Valvisciolo non sfugge l’evidente affiancarsi dei diversi momenti costruttivi. Il Marmosolio e la diocesi di Velletri
Quanti hanno finora ritenuto di distinguere il Marmosolio dal complesso dei SS. Pietro e Stefano di Valvisciolo (privando il primo di ogni testimonianza architettonica ed il secondo di origini storiche, ed omettendo comunque ogni indagine sulla sintomatica continuità del rapporto con S. Eleuterio), fondavano il loro convincimento anche sul diverso contesto ecclesiastico nel quale risultavano muoversi: il Marmosolio appare infatti ascritto alla diocesi di Velletri, Valvisciolo sermonetano — quando compare — a quella di Terracina (fig. 4).
Ed effettivamente il Marmosolio fino al 1494 risulta ancora inquadrato nella diocesi di Velletri; se nel 1488 Norma era collocata
« in diocesi velletrana,
iuxta tenimentum
Serminete,
Bassiani, abbatie Marmisorii [...] Nymphe, Core » ?, nel novembre 1523 invece si satebbe scritto del monastero dei SS. Pietro e Stefano de Malvisciolo O.S.B. Terracinensis dioec. *, I documenti consultati consentono di affermare che: ~ — il Marmosolio è dalla fondazione collegato all’ecclesia di Velletri, il cui Vescovo non si limita a dotarlo di beni per i quali dovrà corrispondergli un canone annuo, ma dichiara altresi che essi coincidono in linea principale con quelli di una « Cappella » titolare anche della chiesa di S. Maria di Norma
Velletri fino al XX secolo);
(in diocesi di
L'abbazia di Matmosolio
91
— nel 1369 il Marmossolio si descrive sito «in provintia maritime inter castra Sermineti, Normarum et Nimphe » ? . — nel 1382 Onorato di Fondi — insieme a Sermoneta, Bassiano e Sezze — viene condannato per la distruzione della rocca
e di altri edifici di Ninfa *; |
—
a tutto il 1418 si sanano situazioni instauratesi in occasio-
ne dello scisma seguito alla morte di Gregotio XI, durante il quale Ninfa veniva occupata « per gentes Britonum et Basconum, inimicas tunc cutie civitatis Velletris* . — nel 1429 Paolo Gaetani, abate del Marmissolio, concede in enfiteusi a Giacomo — signore di Sermoneta — una vigna in Norma posta « dietro il Monastero » *; — nel 1477 Ninfa è ormai un castro diruto, come viene definita nel testamento di Onorato Gaetani #, sconfitto: evidente-
mente nei ripetuti tentativi di rivitalizzatla impiantandovi ferriete e fabbriche di panni* Resta soltanto da rilevare, per completare l'analisi cóndotta,
che l’attributo Marmosolio sostituisce ben presto l’intitolazione del monastero del Monte di S. Maria; e questo ininterrottamente fino al 1442, quando compare per la prima volta il nome S. Szephani de Marmiseolo o. Marmissolo $. Da questo anno fino al 1488 * l'uso del titolo « S. Stefano » si afferma in. alternanza con l'altro, che appare sempre più deformato in Marmissolio, Marmasolio, Marmossolio, Malvisciolo, Malvisciole, Marmisorii. Abbiamo dunque visto come Ninfa, una volta estesa-dal monte Carbolino a Foce Verde ed a Caprolace, e titolare di siurisdizione sul mare fino a 100 miglia”, perdesse tra XV e XVI secolo la propria identità; il suo territorio, gestito dai ‘Caetani, sarebbe stato percorso dagli uomini di Sermoneta, Bassiano e Cisterna che ne avrebbero fatto oggetto di lunghe contese, rivendicandone l’uso anche contro i signoti di Sermoneta. Quanto
alla nostra abbazia
dei SS. Pietro
e Stefano
o del
Marmosolio, abbiamo invece visto come potesse transitare, dopo
essere stata localizzata extra muros Sermonetae, nel territorio di questo centro e quindi nella competente diocesi di Terracina; nel 1864, infine, per i Cistercensi di Casamari si provvedeva non
solo alla consegna della « badia », ma anche a quella dell’annes-
sa proptietà della selva di S. Eleuterio *: lo. stesso rapporto instaurato nel 1154 all'inizio di questa vicenda?.
92
Luica Ployer Mione
Note 1 Cfr. L. PLOYER MIONE, Castra e monaci benedettini nella valle dell Amaseno, in Benedettini ed insediamenti castrali nel Lazio meridionale, Patrica 1990, p. 38. sur 2 Ancora oggi si ricorre ad un uso improprio del termine amministrativo « diocesi », affermato in realtà presso il papato solo ad inoltrato secolo XIII: quando nel 1217 Onorio III definisce la competenza e i beni delle Ecclesiae riunite di Piperno, Sezze e Terracina, li conferma infatti al vescovo Simeone ed alla sua Chiesa (Zibi et Ecclesiae tuae... confirmamus) non alla sua «dio
cesi ». 3 Cfr. P. TOUBERT, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional
et la Sabine du IX¢ à la fin du XII* siècle, Rome 1973, p. 801. Al riguardo rinvio a PLOYER MIONE, Castra, dove è pubblicata la restituzione grafica del territorium di Piperno, permessa dal ritrovamento presso l'Archivio di Stato di Latina (d'ora in poi ASLT) di due transunti quattrocenteschi di un privilegio di Alessandro III, relativo appunto al riconoscimento di quel territorio nel 15 marzo 1175 (ASLT, Archivio notarile di Sezze, Pergamene, nn. provvisori 47D-47E). Dal documento, le località di Roccagorga, Maenza, Roccasecca dei Volsci e Sonnino emergono chiaramente come castra di Priverno, accanto alle rocche di Asprano e Monte Acuto. Dell’eminente studioso non si condivide peraltro l’assunto che la riunione delle Ecclesiae di Piperno e Sezze a quella di Terracina si motivi con la modestia dei territori rispettivamente gestiti: cfr. La valle dell’Amaseno e i suoi castelli, Latina, 1986, pp. 17-20, 29-31 ed il citato PLOYER MIONE, Caséra, pp. 40-48. 4 Per Sermoneta e Bassiano, la citata serie dell’archivio notarile setino offre nutrite testimonianze circa le lotte — poi vincenti — per sottrarre a Sezze ulteriori terre (e pantani, lucrosi cespiti d’entrata) e fortezze (è il caso della Roccha aque putride).
5 Cfr. in Bassiano, Archivio comunale, bb. 102-104, 106, ora in ASLT.
6 s. COGGIATTI, Viaggio nel Lazio verde, Novara 1983, p. 95. 7 G. CAETANI, Varia, Città del Vaticano 1936, pp. 310-311, 313-314. 8 P.F. KEHR, Italia pontificia, 2, Berolini 1907, p. 109; per una prima analisi del problema vedi il mio Contrade e toponimi. La «Gloria» in Latina, in Scritti in memoria di Giuseppe Marchetti Longhi, 2, Anagni 1990. Utile, per la questione dei confini, conoscere la soluzione adottata nel 1289 dagli arbitri nominati da Cori e Ninfa, pubblicata da c. CAETANI in Regesta chartarum, 1,
Perugia 1925, p. 59.
.
9 CAETANI, Regesta, pp. 99-232. 10 Tra spirituale e temporale. Documenti per il monastero a cura dell’Archivio di Stato di Latina, Latina 1990, p. 5.
di Fossanova,
ll Rinvio ancora al citato PLOYER MIONE, Castra, pp. 38-48.
12 Così G. SILVESTRELLI, Città, castelli e terre della regione romana, 1, Città di Castello 1914, p. 124. 5 KEHR, Italia, p. 111. 14 Il documento emesso dal vescovo di Ostia e Velletri è datato Azzo vero incarnationis dominicae MCLIIII pontificatus Adriani IV papae anno primo; cfr. F. MASTROJANNI, Precisazioni sulle tre abbazie Cistercensi di Marmosolio, Valvisciolo sermonetano e Valvisciolo carpinetano in « Analecta sacri ordinis cisterciensis », XV, 1959, 3-4. Manca dunque l’indicazione del mese (dicembre) ma soprattutto del giorno; inoltre — come si è visto — l'atto riferisce sul consilio Domini Anastasii papae quarti, che pertanto dovrebbe presumersi vivo. Il problema sorge in quanto la conferma di Anastasio IV (25 novembre 1154) sembra precedere l’atto di fondazione. Ulteriore elemento sospetto, infine, potrebbe identificarsi nell'uso del termine dioecesis, in pieno XII secolo, da parte del vescovo di Velletri. 5 Per la prima bibliografia sull'argomento si rinvia al Moxasticon Italiae, 1, Cesena 1981, pp. 135-136. ae P. PANTANELLI, Notizie storiche della terra di Sermoneta, 1, Roma 1972,
p.
21.
17 Circa queste due ultime chiese non sono in grado di proporre ubicazione alcuna, nonostante quella di S. Clemente risulti evidentemente inserita in un
L'abbazia di Marmosolio
93
contesto urbano: cus... domibus iuxta se positis. Solo il c. TOMASSETTI, La campagna romana antica, medioevale e moderna, 2, Roma 1910-1926, pp. 354355, nel proporre l'enfiteusi del 946 — concessa dal vescovo veliterno Leone a Demetrio console e dux — per oltre 30 fondi, rileva l'esistenza « di una chiesa
campestre dedicata a S. Clemente ». Lo stesso dicasi per la cappella di S. Ro-
mano, nome che sembrerebbe scomparso dalla toponomastica locale dopo il 1448,
anno nel quale il clero di S. Maria di Ninfa vende un terreno in contrada « Forca
di S. Romano », posto in Ninfa vicino i beni di Marmosolio: CAETANI, Varia, p. 132. 135 Alla morte del cistercense papa Eugenio III (luglio 1153) Ag lo aveva commemorato con il panegirico pubblicato dall’ Ughelli (Italia Sacra, 1, Venezia 1717, col. 65). Nel documento il monastero di Fossanova è definito Domus Novae Fossae. P Cfr. in ASLT, UTE, 89, 1. Nel 1870 Pabbazia $à ancora titolare di circa 106 ettari di terreno in Cisterna, in vocabolo S. Eleuterio/Boschetto.
20 xEHR, Ifalia, pp. 108, 112. In realtà, ancora nel 1393 Pabate del Marmo-
solio, Giovanni -de Sclavis (« piaggia degli Schiavi » & il nome settecentesco della zona dove sorge Vabbazia di Valvisciolo, come testimoniato in PANTANELLI, Notizie), deve ricorrere al giudice per difendere i beni abbaziali di S. Eleuterio e S. Romano da Pétruccio Frangipane: CAETANI, Regesta chartarum, 3, Sancasciano Val di Pesa 1928, pp. 134-141. Dallo stesso documetito emerge la com-
petenza dei vescovi di Terracina e di Anagni, come pure dell'arcipresbitero di
S. Maria di Sermoneta, a-dirimere i giudizi necessari per il rispetto dei diritti del monastero Marmassolii. È infatti presente il testo del provvedimento del 21 marzo 1333 di Giovanni XXII. 21 PANTANELLI, Notizie, p. 246. 2 Cfr. in MASTROJANNI, Precisazioni, p. 254. Per il rapporto tra i nomi Marmosolio-Valvisciolo è sufficiente ricordare l’esistenza del non lontano monastero di « Valvisciolo » in Carpineto, affidato nel 1246 ai Cistercensi e presto abbandonato: vedi Monasticon Italiae, p. 129. 23 L’abbazia di Casamari era stata anch'essa affidata ai Cistercensi nel 1151,
come testimonia KEHR, Italia, p. 167. Tra le abbazie affidate all'ordine, S. Stefano di Fossanova e Casamari pagano la loro fedeltà ad Anacleto I anche S. Bartolomeo di Trisulti aveva pagato la partigianeria per il papa. : Pierleoni: Innocenzo II infatti la ritenne ad manum suam, fino a che nel 1208: Innocenzo ITI non l'affidava ai Certosini (vi, pp. 152-155).
2 Monasticon Italiae, p. 135.
25 26 27 28 7 30 31 32 33
M. RAYMONDI, La badia di Valvisciolo, Velletri 1905, p. 21. . CAETANI, Regesta chartarum, 5, Sancasciano Val di Pesa 1930, p. 196. ip., 6, Sancasciano Val di Pesa 1932, p. 129. MASTROJANNI, Precisazioni, D. 29. CAETANI, Regestd chartarum, 2 , Sancasciano Val di Pesa 1927, pp. 292-295. Ivi, 3, pp. 82-83. Ivi, p. 261. Ivi, 4, Sancasciano Val di Pesa 1929, pp. 96-97. CAETANI, Varia, pp. 236-239.
35 Ivi, pp. 188-189; ‘218-220. Si segnala al riguardo che l'affittuiitio dello stato di Sermoneta, , Bernardino Maffei — con atto del notaio’ setinò Aurelio Piletta rogato 4 Cisterna il 19 dicembre 1603 — avrebbe sublocáto ad. Alessan-
dro Americo «de Americis; accanto agli altri beni, anche una « valca de- panni »
e «la ferriera et concia de Ninfa ». ASLT, Ai chivio notarile Sezze, prot. n. 110/
379, ff. 47-48; 51-56.:
35 MASTROJANNI, D» en p. 17. 36 CAETANI, Regesta chartarum, 6, Pp. 37 Ivi, 1, pp. 145-146. .
129- 150;
| 38 ASLT, Archivio notarile Sezze, prot. n. ‘1009, ff. 576-595,
.
39 Trascrivo qui l’atto di donaziorie del vescovo di Ostia e Velletri; nel testo edito dal Mastrojanni: « HUGO DEI GRATIA HOSTIEN ET VELITERNEN. EPISCOPUS. Haimoni abbati de Monte Sanctae Mariae de Marmosole totique Capitulo omnibusque Ordinis Cisterciensis professis, eorumque successoribus Regulare substi
nentes imperium. Cum
ex
debito
episcopali
cathedrae
universarum
ecclesiarum
quae
in no-
94
Lucia Ployer Mione
stra dioecesi sitae sunt debitores simus, eos ampliori diligentia confovere debe-
mus, quos religione fervore non dubitamus. Quapropter dilecte in Domino fili Haimon
. nos dictum
. Monasterium
de
Monte Sanctae Mariae de Marmosole donamus, concedimus, et confirmamus, cum omnibus suis pertinentiis, videlicet terris cultis, et incultis, silvis, pascuis, rivis, stagnis, vineis, privilegiis. Fines antiqui determinant cum Cappella dere-
licta S. Stephani de Nicoleto cum suis pertinentiis. Excipimus autem Ecclesiam
S. Mariae de Norma, et Ecclesiam S. Mariae de Eticonia cum horto et vinea, et terris juxta se positis, et ecclesiam Sancti Clementis cum vinea, et terris, et
domibus iuxta se positis, et exceptis molendinis, quae in Nimpha sunt, quae
omnia secundum Ordinis nostri institutionem retinere non deberetis; in quorum
meliore, unum diem cum nocte ad molendinum singulis septimanis vobis concedimus. Addimus etiam ad substentationem fratrum Cappellam derelictamS. Romani cum omnibus suis pertinentiis, scilicet Terris, Silvis, Pascuis, Rivis et Vineis, praeterea Monasterium S. Eleuterii quod nec per me, nec per antedecessores meos a XL annis ordinari potuit, imo inter manus Praedecessorum nostrorum reductum est in solitudinem, possessiones dirutae, molendina diruta, ita quod nec etiam personam invenire poterimus, ut ibi habitaret; hac itaque
compulsi necessitate, ut locus ille utcumque non pereat vestrae prudenter utili-
tati praedictum vobis contulimus Monasterium et donamus, cum omnibus pertinentiis, terris, cultis et incultis, Silvis, Rivis, Pascuis, Vineis, Olivetis exceptis molendinis, quae ad mensam episcopi retinemus pro annuo censu duorum solidorum Papiensium, quae in festivitate S. Clementis praefata Ecclesia solvebat. Volumus etiam, ut tu, tui Successores et Monasterium tuum cum omnibus quae ei contulimus et quae iterum in posterum acquirere poterunt, immune sit ab omni exactione omnium personarum, excepto annuo censu duorum solidorum papiensium monetae, quos persolvit antiquitus idem Monasterium. Et volumus, ut nobis nostrisque successoribus canonice intrantibus persolvat in perpetuum. Caeterum praesentibus et futuris notum esse volumus, quod locus praedictus
agrestis est, et aspera solitudo, sub certo numero XL personarum religiosarum
dicto tibi servientium instituimus, quia major Conventus ibi de facili substentari non posset. Ven. Fr. Haimon, tibi tuisque successoribus liceat usque ad triginta monachos, et decem Conversos professos habere, non amplius. Quod si tu vel tui successores constitutum a nobis, et Patre Abbate Fossae novae, pro conservanda religione ex consilio Domini Anastasii Papae Quarti, Cardinalium
et totius Ordinis Cisterciensis, praetergrederis, auctoritate praedicta Anathemate
ferimus. Volumus etiam, ut benedictionem a me ac meis successoribus tui successores accipiant Monachique ordinationes. Quodsi episcopatus vacaverit, vel ultra annum in legatione episcopi moram fecerint ordinandi Monachi ordinen-
tur a quolibet maluerint Episcopo, et si catholici Episcopi loci illius te vel tuos
successores ad Synodum vocaverint, vel alia honesta de causa eis obediatis, utque haec nostrae sanctionis pagina robur inviolatum acquirat, sigilli nostri impressione, et canonicorum nostrorum sancti Clementis assensu, et subscriptione firmiter communimus. Si quae vero Ecclesiastica saecularisque Persona hanc nostrae confirmationis paginam munitam ausu temerario violare, infringere seu perturbare praesumpserit, et canonice monita, nisi satisfecerit, Anathemati subiacet. Amen Amen Amen. Ego Hugo Hostien. et Veliternen. Episcopus; Oddo Archipres. S. Clementis; Amatus Pr. et Primicerius; Nicolaus Presbyter; Gregorius Primicerius; Joannes Camerarius et Levita; Tit. Diaconus; Cic. Diaconus; Joannes Levita; Greg. Diaconus; Spatianus Diaconus; Bernardus Subdiaconus S.R.E.; Petrus Subdiaconus; Nicolaus Subdiaconus. Scriptum per manus Benedicti Prioris Sancti Anastasii. Anno veto Incatnationis Dominicae MCLIIII. Pontificatus Adriani IV Papae anno primo ».
Ringrazio il dr. Massimo Alvisi,. che ba messo a disposizione le proprie foto
relative a S. Eleuterio comunicando 1992.
che i ruderi sono stati rimossi nell'agosto
Jean Coste Strade da Roma per Sermoneta
Vorrei tentare di rispondere ad una domanda precisa:
dal
l'antichità all'epoca moderna quali tracciati viari hanno per messo ai romani di arrivate al territorio dell'attuale Sermoneta?
I. Prima dell' Appia Parlando della viabilità nel Lazio meridionale, si evoca facil-
mente la strada preromana che univa le città volsche di Veli-
trae, Cora, Norba, Setia, Privernum. In realtà vi furono nella
zona almeno due tracciati anteriori all'Appia:
l'uno, a mezza
costa dei Lepini, che univa le città suddette, e un altro propriamente pedemontano, alle estreme pendici di questi monti !. Quello che c'interessa direttamente è il secondo, del quale vi sono vatie attestazioni per questo periodo antico: numerose cisterne e soprattutto le terme sotto la torre dell’Acquapuzza, al confine tra i territori di Sermoneta e Sezze. Prima della na-
scita della Regina Viarum vi era dunque la possibilità di acce-
dere facilmente al territorio che ci occupa, anche se rimangono
incerti i punti estremi uniti da questa strada. II. L'Appia Antica
Creata nel 312 a.C. dal console Appio Claudio, questa celebre strada formava, con patte del suo rettilineo, il confine sud ovest del territorio di Sermoneta, a sei chilometri dal colle sul quale sorge oggi il centro abitato. Essa rimase in funzione pet
almeno dieci secoli. Il suo abbandono, almeno per quanto concerne il tratto pontino, è messo generalmente in relazione con la scomparsa della sede vescovile di Tres Taberne, il cui ultimo
vescovo firma nell'Saó2?. In realtà la parte corrispondente alVantico decennovium rimase in servizio almeno fino al sec. XIII.
96
Jean Coste
Su questo tratto troviamo infatti non meno di cinque chiese: quelle di S. Maria di Caposelce?, della Trinità di Mesa, di S.
Giacomo‘, di S. Leonardo de Silice?, di S. Maria Treponti *.
Il caso più interessante è quello di Mesa, che possiede all’inizio del sec. XII una chiesa della Santissima Trinità e nel secolo seguente anche un Pospitalis?, il che attesta che il luogo era situato allora su un itinerario frequentato. A quell'epoca il tracciato dell'Appia serve anche a designare una contrada (Silex) sull’uso della quale disputano gli uomini di Sezze e Terracina’. Sembra dunque che nel sec. XIII sia ancora in attività il tratto dell’Appia tra Terracina e il territorio di Sezze.
Per quanto concerne il territorio che più direttamente ci in-
teressa, l'abbandono ebbe luogo un po’ prima. S. Maria di Treponti, per esempio, che i signori di Sermoneta occupano con prepotenza alla fine del sec. XII, si trova, cinquant’anni dopo, in rovina ed extra bominum babitationem ". Sempre nel territorio di Sermoneta viene nominato, nel 1169, un mercatulum vetulum supra silicem ", menzione che testimonia l'abbandono di un centro di scambi commerciali, diventato semplice punto di riferimento topografico. Non devono far illusione le varie torri che compaiono nel-
l'ottima carta dell'Appia antica del Parasacchi nel 1637. Se ne trovano infatti su tutte le carte contemporanee dell'Agro Romano. In ambedue i casi si tratta di torri di protezione di piccoli abitati rurali e sarebbe del tutto errato vedere in loro i
capisaldi di qualche strategia di difesa di un grande asse viario, strategia di cui non si trova alcun riscontro nei documenti medievali. Quel che non può non colpire, in ogni caso, è l'assenza totale lungo questo tratto e non soltanto sull'Appia stessa, ma anche
tra essa e il mare, dei due tipi più consistenti di insediamento
medievale: i castra e i monasteri. Perfino San Donato, spesso trattato alla stregua di un castrum, & chiaramente designato dagli atti contemporanei come una « torre con case » ! senza che sia nominata una chiesa. Senza dubbio, gente risiedeva lì
come in altri punti della pianura pontina, ma l'assenza di ogni vero villaggio e di ogni insediamento monastico tra Terracina
e Cisterna dice abbastanza lo stato di pratico abbandono della zona ed esclude che questo tratto dell'Appia sia stato una vera via di collegamento. Ill. Creazione o riattivazione di un itinerario pedemontano
Lo stesso esame degli abitati, se lo si estende pià a nord-est, rivela invece, alla prima occhiata, che la vita, e dunque la cir-
Strade da Roma per Sermoneta
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colazione, si sono spostate verso i monti. All'Appia, ormai impaludata, si & preferito un itinerario pedemontano, in parte almeno cotrispondente a quello antico di cui abbiamo parlato. Il suo percorso risulta con chiarezza dalla semplice carta de-
gli abitati. Oltre le città, per qualche tempo vescovili, di Piper-
no e Sezze, troviamo successivamente, ben attestati dall'inizio
del sec. XII, il castello di Trevi che sorveglia dall'alto la strada ?, quello di Acquapuzza, che la domina da vicino ", quello di Sermoneta sul quale torneremo fra poco e, pià avanti, Ninfa 5, Tiberia
e, infine, Cisterna”.
Da sola, questa carta dei castra sarebbe già indicativa. Quella
degli insediamenti monastici conferma lo stesso andamento, con la differenza che i monasteri, per lo più, non sono situati sulla strada, ma nelle sue vicinanze. Almeno dall’XI secolo abbiamo i monasteri di Fossanova, Valvisciolo e S. Eleuterio ? e, mentre il terzo all'inizio del sec. XII sarà abbandonato e ir desertis positum ?, i due altri invece riceveranno allora un nuovo impulso con il loro affidamento ai Cistercensi. All'inizio del sec.
XIII si aggiungerà quello di S. Angelo in Ninfa dato ai Florensi ?, Più a sud, tra la pedemontana e la via antica che collega Sezze all'Appia, S. Lidano aveva fondato, a metà del sec. XI, il monastero di S. Cecilia, il quale perd non vivrà oltre i primi decenni del sec. XII”.
La conferma del fatto che il percorso delineato da questi
vati insediamenti era veramente quello di una grande strada di comunicazione, la troviamo nei documenti che li collegano tra di loro. Nel 1073, tre lettere di Gregorio VII ce lo mo-
strano sul percorso Terracina, Piperno, Sezze, Roma”. Venti-
sette anni pià tardi, per ottenere la sua elezione a sommo pon-
tefice, quello che sta per diventare Pasquale II promette a Tolomeo di Tuscolo Ariccia, Tiberia e Ninfa ^; lo stesso papa nel 1106 va da Roma a Gaeta passando per Ninfa ^; nel 1110
egli prescrive ai Ninfesini di portare i loro prodotti a Tiberia
o Cisterna ^; lo stesso nel 1112, per andare da Roma a Benevento, passa da Tiberia e Piperno 5; più noto ancora è l'itineratio di Alessandro III nel 1159: eletto a Roma, egli lascia subito, passa a Cisterna, viene incoronato a Ninfa e prosegue per Terracina ”. Ma non passano sulla strada soltanto i papi; la utilizza anche il traffico commerciale; il monastero di S. Angelo di Ninfa, per esempio, rivendica, per le persone e le cose, il libero pas-
saggio ad Acquapuzza e a Terracina. Anche i pellegrini di Compostella l’utilizzano ?, e affreschi raffiguranti S. Giacomo
a Piperno
e Bassiano #, confermano che siamo su un itine-
rario di pellegrini. Non vi è dunque dubbio. Paralelamente alla strada interna (quella della valle del Liri) questa via pedemon-
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Jean Coste
tana è uno dei due grandi itinerari verso sud, come aveva già mostrato lo Sterpos nel suo eccellente studio sulla Roma-
Capua ?.
Dopo queste indicazioni generali sulla strada, veniamo al caso di Sermoneta. Se lo consideriamo a parte non è soltanto perché costituisce l'oggetto particolare di questo studio, ma anche perché i dati concernenti questo castrum sono tra i più interessanti di quelli che riguardano la pedemontana. Da una lettera di Gregorio IX del 20 marzo 1238, apprendiamo che era officiata dai monaci di S. Maria della Gloria Pecclesia sancti Iohannis in pede montis Castri Sermoneti; visto
però che essi si trovavano impediti dai Signori di Sermoneta, il papa, in compenso, li libera dal pagamento di un censo *. Il 12 settembre 1246, un certo Tolomeo riconosce di aver dato a sua figlia limaram de pedemonte iuxta viam Neapolis *. Infine, nel 1290 è segnalato l’inventario dei beni ecclesie et
hospitalis sancti Iohannis de Pedemonte castri Sermoneti *. Da questi testi, appare chiaramente che la via pedemontana pet Napoli passava ai piedi del monte di Sermoneta, nel luogo ancora detto oggi Pedemonte, ove un parco pubblico ha sostituito di recente il cimitero comunale. Questo aveva dovuto succedere, come spesso avviene, ad una pieve cimiteriale, nel caso la chiesa di S. Giovanni, il cui titolo suggerisce peraltro l’antichità, e che i nostri testi mostrano in piena attività nel sec. XIII. Ad essa era unita un ospizio per pellegrini e non vi è dunque alcun dubbio sull’importanza di Sermoneta come tappa
su uno dei grandi itinerari verso la Campania. Segnaliamo
infine che tra i pellegrini che nel tredicesimo
secolo intraprendono il viaggio di Compostella si trova, qualche anno prima del 1235, un sacerdote di Sermoneta *. IV. Nuovo
itinerario (secc. XIII-XIV)
Nella sezione precedente abbiamo potuto seguire la via pedemontana medievale da Cisterna a Terracina. Ma come perveniva a Cisterna il viaggiatore diretto da Roma a Sermoneta? La risposta è semplice: egli seguiva l’Appia antica, rimasta in uso fino al tredicesimo secolo come dimostra lo sviluppo, lungo questo tratto, sia dell'incastellamento che delle chiese e degli hospitales. Rimandando, per la prova dettagliata di quanto af-
fermerò adesso a quanto abbiamo avuto occasione di scrivere in altra sede”, crediamo di dover insistere invece sulla formazione, prima della metà del sec. XIII, di un nuovo
itinerario
Roma-Cisterna, il quale sarà poi riutilizzato nella strada postale dei secc. XVI-XVII.
Strade da Roma
per Sermoneia
99
Per capite le ragioni di questo cambiamento, è. indispensa
bile dire due parole su un fenomeno di notevole importanza, che non è stato ancora abbastanza studiato: quello dell’incastellamento duecentesco del Lazio. Per ragioni cronologiche, esso non è stato preso in considerazione dalla tesi del Toubert. D'altra parte, nella loro stragrande maggioranza, .i.castelli fon-
dati allora non sono sopravvissuti e hanno dunque «attirato di meno l’interesse. Quando invece si sono affermati e sono tuttora dei comuni, subentra il timore di fargli totto in qualche modo, attribuendo loro una nascita relativamente bassa.Di qui la tendenza, riscontrabile anche nel grande Tomassetti,:di risalire più in alto, tramite testi dubbi o mere ipotesi. Adesso, con i progressi degli studi topografici e dell’archeologia. medievale, la fragilità di certe tesi « tradizionali » appare piü chiaramente e si esita di meno a datate un castrum al Duecento quando tipologia: e documentazione puntano in questo senso. Tra i castelli che in qualche modo interessano il nostro argomento, appartengono a questa seconda ondata tutti i seguenti: Borghetto * e Molara® sulla via Latina; San Gennaro sull’Appia” e Civita Lavinia non lontano da essa“; Palaverta #, Castelluzza # e Castel Savello “ sulla Nettunense; Marino e Malaf-
fitto sul nuovo percorso di cui stiamo per parlare; infine, all’inizio del Trecento,
esattamente nel 1302, appare
Capo
di
Bove al quale Susanna Passigli ha dedicato un'ottima tesi ". Il luogo era senz'altro occupato e fortificato in precedenza, e i Caetani, a quella data, lo acquisirono con le sue munitiones et fortellitia, ma essi soltanto fanno di esso un castrum, dandogli la sua cinta regolare, con torrette sporgenti, tipica dell'incastellamento tardo.
Uno sguardo su questa nuova carta dei castelli rivela subito
che l'Appia ha perso molta della sua importanza. Altre diret:
trici prevalgono. Cerchiamo di riflettere su questo fatto, evitando di ragionare da uomini moderni per i-qualiun cambiamento di strada è necessariamente prodotto da ‘ün’autorità sovrana. Nel Basso Medio Evo, nessuna autorità è veramente capace di programare una rete viaria. Per lo più, quel che si può dire è che, per certi motivi non sempre chiari; il traffico ha scelto un altro andamento “. Nel nostro caso, tra vatiselementi che hanno
re due.
potuto
giocare,
ci sembra
di doverne
ar
sottolinea-
EE
Uno riguarda Velletri: la crescita demografica e lo: sviluppo
economico di questa città le impongono, a partire dalla meta del sec. XIII, dei contatti sempre più frequenti con Roma, mentre, d'altra parte, essa cessa di essere lo sttumento della politica della Chiesa per entrare nell'orbita del comune romano^", Collegamenti più diretti con Roma sono ormai una ne-
100
Jean Coste
cessità. Altro fatto importante è l'importanza crescente di Marino. Questo castrum, di cui nulla ci invita a supporre l'esi-
stenza prima del Duecento *, appare nel 1230 nelle mani dei Frangipani, che sembra lo abbiamo fondato da poco”. Nel 1266 esso passa agli Orsini ?.e diventa rapidamente il caposaldo
di un ramo della famiglia. Tra Marino e Velletri esiste, già dalla metà del sec. XII, il castello della Faiola? e gli Annibaldi
fondano nel sec. XIII quello di Malafitto ?. Tra Marino e Roma
si trova, almeno dall'inizio del sec. XIII, Castel de’ Paoli, crea-
to dall’abbazia di Grottaferrata. Viene a delinearsi così una
nuova direttrice Roma-Marino-Velletri, lungo la quale una via
esiste certamente alla fine del sec. XIII, senza per questo sostituirsi ancora all’Appia. Preziose sono da questo punto di vista le indicazioni rela-
tive al movimento pontificato di Bonifacio VIII. Nel 1295 il papa, recandosi ad Anagni, passa ad Albano e poi a Velletri *, prima attestazione di un viaggio su questo tratto, e non possiamo non osservare che laddove il raccordo per Velletri si stacca dall’Appia, è stato fondato da poco il magnifico castello di S. Gennaro. Nel maggio 1297 il tesoro pontificio portato da Anagni a Roma viene rubato da Stefano Colonna sull’Appia a
due miglia dall'Utbe. Questo aiuta a capire perché i Caetani
penseranno, cinque anni dopo, ad acquistare il sito di Capo di Bove e a farvi un castello a cavallo della strada. Nel 1299, ritornando da Anagni a Roma, Bonifacio VIII si ferma a Norma e Valvisciolo. Egli è dunque sulla pedemontana. Da lì per raggiungere Roma passa per Velletri e Albano ?, adoperando probabilmente una via Cisterna-Velletri, di cui avremo ora la prima attestazione e poi passando da Velletri sull'Appia. Nel 1302,
per il viaggio di andata ad Anagni, Bonifacio prende la via Latina Ÿ e lo stesso per il ritorno, con questa differenza che, tra Grottaferrata e Roma, egli devia sull'Appia per passare a Capo di Bove che i suoi stanno edificando ". Si ignora invece per dove Bonifacio sia passato l'anno seguente, nel suo ultimo ritorno da Anagni a Roma dopo l'attentato. Indicazioni a questo proposito sarebbero preziose per conoscere l'itinerario più rapido, in quanto il pontefice, ormai vinto, che morrà tre settimane dopo, non avrà certamente indugiato nel viaggio. Da queste indicazioni dell'epoca bonifaciana possiamo acqui-
sire almeno due cose: l'una & la varietà dei percorsi utilizzati
e la seconda che Velletri costituisce ormai una tappa normale per chi viene dalla Pedemontana o dalla Latina, il che non sembra essersi verificato nei secoli precedenti.
E con il sec. XIV che si afferma in modo decisivo la strada
che collegherà Roma a Cisterna attraverso Marino e Velletri. Nel 1328 Ludovico il Bavaro, dopo aver incendiato Cisterna,
Strade da Roma per Sermoneta
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cerca invano di ripiegare su Velletri che rifiuta di riceverlo *. Nel 1332 appare la prima menzione della via publica que ducit ad castrum Mareni ? e due anni più tardi le importanti istruzioni del cardinale Napoleone Orsini al suo vicario in Roma testimoniano
un'intensa circolazione
di persone
e beni tra Marino
e
l’Urbe ®. Quando, salito al Campidoglio nel 1347, Cola di.Rienzo vuole colpire i baroni che gli resistono, i castra ch'egli assedia sono Matino sulla nuova strada e Castelluzza sulla Nettunense ©. Nel 1379 è ancora a Marino che ha luogo la famosa vittotía delle milizie italiane al servizio di UrbanoVI contro quelle del suo rivale francese ©, Chiaramente il potere non è
più sull’Appia e probabilmente neppure più il grande traffico.
All'alba del sec. XV, in ogni caso, il taccuino di viaggio del mercante Rinaldo degli Albizzi ci mostra in pacifico uso tra Terracina e Roma la combinazione della pedemontana; fino a Cisterna e del nuovo itinerario fino a Roma. Le tappe intermedie sono infatti Acquapuzza, Sermoneta, Ninfa, Velletri. Siamo nel 1406. Quindici anni dopo, egli ripete lo stesso viaggio, con le soste seguenti: Sezze, Sermoneta, Velletri, Marino, Roma 9. Vediamo.che, in ambedue i casi, Sermoneta figura come tappa importante, ma non sappiamo purtroppo se il ricco ‘mercante sarà salito fino al centro abitato o si sarà accontentato di pernottare a. Pedemonte, per riprendere l'indomani il suo. viaggio.
In ogni caso il nuovo itinerario è collaudato, finché nuove esi-
genze non porteranno a nuovi cambiamenti. V. La strada postale dei secoli XVI-XVII
Uno sguardo sulla carta basta a rendere evidente che, anche l'itinerario per Marino e Velletri era ben lungi dal rappresentare il più breve percorso tra Roma
e Sermoneta.
Il passaggio
per Cisterna comportava un notevole allungamento, e perché
andare ancora a Ninfa, da tempo decaduta e abbandonata? Al-
Valba dell'epoca moderna, al più tardi nel Seicento, appare un nuovo itinerario, dominato da preoccupazioni di celerità e di
rendimeñto. Sarà quello della via consolare o postale Roma-
Napoli, già delineato nella mappa del catasto Alessandrino “
e attestata poi sia dalle carte successive, che dalle guide e racconti dei viaggiatori. Essa non ha più come funzione principale di collegare degli abitati, ma si basa, come indicail suo nome,
su stazioni postali, i cui nomi sono ben noti: “Tor di Mezza Via
di Marino, Marino, Mezzaposta, Velletri, Casáfondata, ostetie di: Sermonetà e Case nuove, Piperno, Maruti, Terracina ©, Essa
portava così, nel più breve tempo possibile, l’impaziente viaggiatore fino a Terracina. | |
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Jean Coste
Molte di queste poste o altre tracce della vecchia postale
sono ancora identificabili oggi sul terreno, anche dopo che il tipristino dell'Appia antica voluto da papa Pio VI venne a rendere obsoleto questo percorso. Per il lettore che non teme le lunghe camminate e vuole procuratsi la soddisfazione di ripercorrere un itinerario cosl carico di storia, diamo qui alcune segnalazioni. Detta via si stacca dall'attuale Appia Nuova sulla sinistra a circa nove chilometri da Porta San Giovanni nei pressi di
una baraccopoli e comincia a seguire quel che era nell'antichità la via Castrimoeniense , passando sopra un antico ponte di essa, poi imboccando
dei sentieri ancora percorribili, prima di
arrivare alla prima posta della Tor di Mezza Via di Marino o Posticciola di Marino, edificio adibito ad uso privato, situato
dietro l'ippodromo delle Capannelle. Poi, a nord di Ciampino
un tratto conservato è tuttora designato dalla targa « Via Ro-
mana vecchia rare la strada i ruderi della va il « Casale
». Da lì per raggiungere Marino bisogna adopeattuale. Tra Marino e Velletri si trovano nel bosco Mezzaposta ”. Ritornando sulla strada 217, si trodei Corsi » %, che ospitava guarnigioni con l'inca-
rico di vigilare sulla sicurezza della famigerata macchia della Faiola. La strada in seguito scendeva fortemente verso Velletri, passando accanto ad una fornace ancora conservata ?. Dopo Velletri raggiungeva Castel Ginetti e continuava a scendere, passando accanto all’attuale fattoria di Torrevecchia nuova, ta-
gliando l’attuale via Cisterna-Cori e iniziando un lungo rettili-
neo. Sulla destra di esso si trovava la posta di Casa fondata, grosso fabbricato ora adibito a fattoria. Raggiungeva infine Sermoneta, la cui « Vecchia Posta » di Pedemonte offre ancora ri-
stoto ai viaggiatori. | Oltre essa, tuttavia, dobbiamo seguire la nostra strada nel territorio di Sermoneta. Al confine con quello di Sezze, si trovava il celebre pedaggio risalente all'epoca nella quale la Chiesa intratteneva, nel castello di Acquapuzza, un castellano e ven-
ticinque soldati per tener la strada sicura ". Tra la rupe a picco
e le sorgenti dell'Acquapuzza, esiste infatti un passaggio molto stretto, estremamente conveniente per la riscossione di un pedaggio. Nel 1404, Rinaldo degli Albizzi vi paga un « carlino per il passo » *. Comprato da Velletri nel 1463, il diritto di pedaggio fu ricuperato dalla Chiesa e da essa concesso ai duchi di Sermoneta. Nel 1700 almeno esiste un grosso portone con ca-
tena per sbarrare il passaggio ”, il cui ricordo rimane nel vicino « Ristorante della Catena ». | Termineremo con due scene ‘avvenute in questo luogo. L'una
risale al 1751, quando il vescovo di Terracina venuto a Sermo-
neta in visita pastorale, viene fermato prima e ricevuto poi dai
Strade da Roma per Sermoneta
103
Sermonetani precisamente al portone simbolo della loro giuti-
sdizione ?, L'altra è estratta dalle Lettres critiques et bistoriques sur l'Italie del famoso presidente De Brosses, il quale recandosi a Napoli, scrive a proposito del tratto Velletri-Terracina
della nostra strada: Non trovai niente, in tutto questo tratto degno d'esservi presentato, tranne una catena di ferro presso Sermoneta, che la gente del duca Caetani tende abitualmente attraverso la strada, in una Piccola strettoia a scatpata, esigendo, per abbassarla un contributo dei passanti, i quali fanno più presto a pagare, che non a perder tempo a pestarli a colpi di bastone. Da questo ésempio potete farvi un’idea della vigilanza sulle grandi strade74
Avendo cosi rinunciato ai suoi progetti violenti, il nostro brontolone presidente passa il portone e continua in direzione
di Sezze. Non lo seguitemo in questo nuovo tetritorio, contenti di aver accompagnato. fino a Sermoneta l'ultimo dei personaggi
illustri che abbiano adoperato la nostra strada postale prima del suo declino.
Note 1 p, BRANDIZZI VITTUCCI, Cora, Roma
1968, pp. 19, 29-50.
2 0. BERTOLINI, La ricomparsa della sede delle Tres Taberne, in « Archivio della Società romana di storia patria», 75, 1962, p. 106. i 3 Per l’ubicazione, cfr. Carta del Parasacchi del 1637 (da qui: :PARASACCHI), in A.P. FRUTAZ, Le carte del Lazio, II, Roma 1972, tav. 85; per la documentazione, D.A. CONTATORE, De bistoria Terracinensi libri quingue,. Roma 1706,
330-331.
PP, Ubicata in PARASACCHI, tav. 84. La zona dove sorgeva reca tuttora il nome di « Riserva S. Giacomo » (IGM, f. 159 III NO, coordinate 3888). ? 3 p, PANTANELLI, Notizie storiche della terra di Sermoneta, I,: Roma 1972, pp. 255-256, 296 297, 309-310, 332-333. La tenuta di S. Leonardo è collocata nella zona del futuro Borgo Faiti nella carta del territorio di Ninfa. del. 25 giu-
gno 1823 consetvata nell’Archivio vescovile di Velletri, fondo dell'Archivio capitolare, col. Mappe e disegni. In PARASACCHI, (tav. 84) figuta, in! Meets zona, una « Torre Lionarda ». 6 PANTANELLI, Notizie, I, pp. 248 e 270-271. PARASACCHI (tv. 84) segna « Treponti » con il simbolo di torre. 7 Atto del 3 novembre 1126 in BAV, Var. Lat. 12632, f. 386. 8 N.M. NICOLAI, De’ bonificamenti delle Terre Pontine, Roma 1800, p. 100 (sentenza del 1233); GONTATORE, De historia, pp. 341-342. 9 Le pergamene di Sezze (1181- 1347), a cura di M.T. CACIORGNA (— Codice
diplomatico di Roma
e della regione Romana, 5), Roma
doc. 3, p. 10 e.;passim. 10 PANTANELLI, Notizie, I, pp.
il Ivi, T, p. 247.
270-272.
12 6. CAETANI, Regesia chartarum,
Y, Perugia
1989, doc. 2x p^ 9; uL)
n
1922, pp. 114, 117, 199, 120,
126 ecc. Vedi anche PANTANELLI, Notizie, I, p. 606.
n
13 Su questo castello vedi Le pergamene, p. 37, nota 2 e L. ZACCHEO; Sezze che scompare, Sezze 1974, :pp. 88-90, figg. 49-53. 14 c, CAETANI, Domus Caetana I, 2, Sancasciano Val di Pesa 1927, pp. 59-63.
15 Su questa cittadina vedi Ninja una città, un giardino, Atti del Colloquio
della Fondazione
Camillo
cuta di Luigi Fiorani (=
Caetani, Roma-Sermoneta-Ninfa,. 7-9: ottobre
Studi e documenti d'archivio, 2), Roma
1988,
1990.
a
104
Jean Coste
16 I principali documenti su Tivera sono indicati in c. TOMASSETTI, La cam-
pagna romana antica medioevale e moderna, nuova edizione a cura di L. Chiumenti e F. Bilancia, II, Roma 1975, p. 443, nota b. Sul sito, oggi detto « Castellone » vedi BRANDIZZI VITTUCCI, Cora, p. 121, n. 76.
17 Su Cisterna medievale il migliore studio rimane quello di A. GALIETI, Le origini medievali di Cisterna Neronis, in « Archivio della Società romana di storia patria », 71, 1948, pp. 89-108. 18 Per ciascuno di loro vedi sintesi e bibliografia in Monasticon Roma e Lazio, Cesena 1981, pp. 135, 159-160, 167-168.
Italie,
I,
19 Vedi il diploma di Ugolino di Ostia del 1259 in BoRGIA, Istoria della Chiesa e Città di Velletri, Nocera 1723, pp. 232-233. Sul sito, BRANDIZZI VITTucci, Cora, n. 76. 20 Monasticon Italie, I, p. 136.
|
21 Ivi, I, p. 168. 22 Rispettivamente
ai 2, 4, 7 e 17 settembre
delle pagine del registro in p. sTERPOS,
1073. Reg. Var. 2. Fotografia
Comunicazioni stradali attraverso
1:
tempi: Roma-Capua, Roma 1966, p. 98. 2 Chronografia Sigiberti Gemblacensis, in Monumenia Germaniae Historica, Scriptores, V1, pp. 368-369. 2! pH, JAFFÉ, S. LOEWENFELD, Regesta Romanorum Pontificum, Y, Berlin
1885, nn. 6067-6070. 25 p, FABRE, L. DUCHESNE, Le Liber censuum de l'Eglise Romaine, I, Paris 1910, pp. 407-408. 26 Su questi due ultimi itinerari, vedi JAFFE, LOEWENFELD, Regesta, nn. 6331-
6334 e 6523-6529, pp. 747-748 e 763.
27 Ivi, pp. 146-147. ?8 Concessioni di Pietro Frangipani del 15 marzo 1221 (Arch. di S. Scolastica di Subiaco XXXVI, 1A (ed. in PANTANELLI, Notizie, I, p. 262) e di Gregorio IX del 25 maggio 1236, ed. in M. cassont, La badia ninfana di S. Angelo o del Monte Mirteto nei Volsci, in « Rivista benedettina », XVI, 1923, p. 181. 2 Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 12632, f. 373%, n. 29; PANTANELLI, Notizie, I, p. 176. 30 Nella chiesa di S. Benedetto. Riproduzione in E. ANGELINI, Priverno, patrimonio artistico XII-XIX secolo, Priverno 1988, p. 77. 31 Nell’oratorio del SS. Crocifisso di Selva Scura. Non ne conosciamo riproduzioni pubblicate. 3 Vedi nota 22. 33 CONTATORE, De bistoria, pp. 404-405. 34 PANTANELLI, Nofizie, I, p. 285.
35 Ivi, I, p. 328. 36 Ivi, I, p. 176.
37 y, coste, La via Appia nel Medio Evo e Vincastellamento, in « Quaderni del centro di studio per l'atcheologia etrusco-italica », 18, 1990, pp. 127-137, soprattutto pp. 130-135. 38 Prima attestazione certa, sotto il nome di Burgus Montis Frenelli, nella divisione tra Annibaldi del 2 maggio 1296 (Archivio Segreto Vaticano, Instru. | N menta miscellanea, 270). 39 Prima attestazione certa il 2 marzo 1247 in A. TAGLIENTI, I] monastero di Trisulti e il castello di Collepardo, Roma 1984, p. 471, doc. 27.
40 Prima attestazione il 4 agosto 1270 in e. FALCO, Studi sulla storia del Lazio
nel Medio
Evo,
I, Roma
1988, p. 73.
41 Attestato sotto il nome di Civifatis Novine nel privilegio di Innocenzo IV a S. Lorenzo fuori le mura del 5 maggio 1244. Cfr. « Archivio romana di storia patria », 42, 1919, pp. 261-262.
della Società
, 9? Su questo castello mancano tuttora documenti anteriori al sec. XVI. Per gli elementi di datazione archeologica, vedi G.M. DE ROSSI, Torri e castelli medie vali della campagna romana, Roma 1969, pp. 33-34. 4 Attestato per la prima volta come castrum il 21 ottobre 1286. Cfr. D. DE FRANCESCO, La Castelluccia di Marino dall'età romana al casale bassomedievale in « Archivio della Società romana di storia patria», 113, 1990, pp. 151-167. # Prima attestazione certa nel testamento del futuro Onorio IV del 24 febbraio 1279, Cfr. p. DE FRANCESCO, Insediamenti a Monte Savello presso Albano
in «Studi Romani», 39, 1991, pp. 217-225.
Strade da Roma per Sermoneta
105
5 s. passIGLI, Capo di Bove: dal castrum al casale, Università di Roma « La Sapienza », tesi di archeologia e topografia medievale. Relatore prof.ssa L. Er-
mini Pani, a.a. 1983-84.
46 Cfr. r. IMBERDIS, Les routes médiévales coïncident-elles avec les voies romaines?, in «Bulletin philologique et historique des travaux historiques et scientifiques », 1910-1911, pp. 95-96. 41 Cfr. c. FALCO, Il comune di Velletri nel Medio Evo (secc. XI-XIV), in « Studi sulla storia del Lazio nel Medio Evo », I, Roma 1988, pp. 1-66.
48 Il supposto testo del 1090 sul Castrum Mareni è destituito di ogni attendibilità, come già riconosciuto dal Tomassetti, e la lettura « Marino » in quello del 16 maggio 1114 citato dallo stesso autore non resiste all'esame della perga-
mena
con la lampada
Cfr.
di Wood.
1976), p. 184. 4 Atto del 26 aprile 1230
tomASssETTI,
in «Archivio
La campagna,
della Società romana
patria », 28, 1905, pp. 215-217. 50 Atti del 28 novembre e 16 dicembre in CAETANI, 51 Prima attestazione come tocca il 9 luglio 1155 in A. maticus temporalis Sancte Sedis, I, Roma 1861, n. XX, 52 Prima attestazione in un atto del 5 settembre 1277 in Roma, Archivio Santacroce, b. 533.
IV
(22 ed.
di storia
|
Regesta, I, pp. 39-42. THEINER, Codex diplop. 16. dell'Archivio di Stato
53 La bolla di Innocenzo III all'abate di Grottaferrata del settembre-ottobre 1201 è data ir ecclesia castri quod Pauli dicitur (A. PoTtTHAST, Regesta Roma
norum Pontificum, I, Berlino 1874, n. 1480). 54 A. PARAVICINI BAGLIANI, La mobilità della Curia Romana nel sec. XIII, in Società e istituzioni dell’Italia comunale: l'esempio di Perugia (sec. XIIXIV), Perugia 1988, p. 243. 55 Cronica urbevetana in Rerum italicarum scriptores, 22 ed., XIV, V, I, p. 291.
56 *. SCHMIDT, Libri rationum Camere Bonifatii pape VIII, Città del Vati-
cano
1984, p. 69, n. 1235 e pp. LIILLIV.
57 Ivi, nn.
2187,
2207,
2233,
2237.
38 G. VILLANI, Cronica, X, 76.
59 Atto del 8 agosto 1332 in Archivio di San Pietro in Vincoli, Perg. 601. 6 Atto del 20 maggio 1334 in CAETANI, Regesta, II, pp. 87-93. 61 ANONIMO ROMANO, Cronica, a cura di G. Porta, Roma 1981, pp. 141-144. @ 1. FIUMI, Notizie ufficiali sulla battaglia di Marino dell’anno 1379, in « Studi e documenti di storia e diritto », 7, 1886, pp. 3-11. 6 Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, II, Firenze 1866, pp. 107, 325, 362. 6 Mappa di Francesco Contini del 1659, Archivio di Stato in Roma, Catasto Alessandrino, 429, n. 23. Edita in A.P. FRUTAZ, Le carte del Lazio, tavv. 103108. 65 La lista di queste poste ci & data, tra l'altro, dal ben informato PANTANELLI, Notizie, I, p. 47). 6 Su questa via vedi TH. ASHBY, Classical Topography of tbe Roman Campagna, III, in «Papers of the British School at Rome», V, 1908, pp. 81-85 et 147-153. 67 IGM f. 150 IT SO, coordinate 101228. 6 IGM f. 150 II SO, coordinate 104225.
69 IGM f. 150 II SO, coordinate 124196. 70 pANTANELLI, Notizie, 71 Tvi, nota 402.
72 Ivi, I, p. 25. 73 Ivi, If, p. 216.
I, pp.
25-26.
74 CH. DE BROSSES, Lettres bistoriques et critiques sur l'Italie, YI, Paris an.
VII (1799), p. 113.
Gérard Delille
Sermoneta e il Lazio meridionale : nell'età moderna
Si pud forse considerare come inizio simbolico di una nuova era caratterizzata da un diverso rapporto tra comunità locali, feudatari e potere centrale, non solo per Sermoneta ie il Lazio meridionale ma forse per l'insieme dello Stato della Chiesa, il matrimonio celebrato nel 1560 tra Onorato Caetani e Agnesina
Colonna‘. L'unione che rientra apparentemente nel gioco tradizionale del confronto spesso violento, ma alternato»a periodi di riavvicinamento, tra le due casate, segna in realtà una svolta profonda nelle guerre private tra i Colonna e gli Orsini — i Caetani essendo tradizionalmente « alleati » di questi ultimi —,
che avevano insanguinato la fine del Medio Evo, coinvolgendo
profondamente il Papato. Senza risalire più indietro nel tempo,
basta ricordare come la spoliazione da parte di Alessandro VI
dei domini dei Caetani, spoliazione che si inseriva in un progetto più generale che mirava a indebolire l'insieme della nobiltà romana, aveva avuto come primo effetto di riaccendere
la faida tra i Colonna e gli Orsini e di respingere i Caetani nello schieramento degli Orsini presso i quali avevano trovato rifugio ?, La lotta continua sotto i pontificati seguenti, sullo sfondo del confronto più ampio tra grandi potenze é conferisce ai
Caetani « guardiani », insieme al ramo napoletano. della fami-
glia, della strada che porta da Roma a Napoli, un ruolo strategico fondamentale. Alla motte di Paolo III, i Colonna, spanofili, recuperarono militarmente i feudi che erano stati loro confiscati, ma il francofilo Paolo IV confisca di nuovo, nel 1556, i feudi dei Colonna e fulmina la scomunica contro la famiglia.Se la pace intercorsa tra le due casate nel 1558 sembrava
ancora precatia, il quadro generale delle relazioni e delle definizioni dei ruoli tra Stato, signori e comunità stava però rapida-
mente mutando, subordinando le lotti di fazioni e gli interessi particolari delle grandi famiglie a meccanismi di gestione più
generali di cui la ripresa dei temi centralistici a partire dalla
fine del Quattrocento e il rafforzamento effettivo della centra-
110
Gérard Delille
lizzazione che sfocerà nelle grandi riforme di Sisto V, sono solo un aspetto. Queste nuove relazioni e nuove definizioni dei ruoli andranno rafforzandosi nel corso del XVII-XVIII secolo, non prive, tuttavia, come vedremo, di ambiguità. In un libro recente, Bandino Giacomo Zenobi ha mostrato come, nel quadro dei domini pontifici, il Lazio meridionale rimane, per tutto il pe-
riodo moderno, una delle poche zone dove la nobiltà feudale
conserva una forte presenza. In Umbria, nella Marca anconitana, in Romagna..., con le devoluzioni nel corso del Cinque-primo Seicento dei ducati di Camerino, di Ferrara, di Urbino e di Castro, cadono gli ultimi grandi baluardi del potere feudale, e in tutte le grandi città si impongono, dal Quattrocento in poi,
dei patriziati utbani spesso fortemente chiusi ma che fondono insieme famiglie di origine diverse (vecchia nobiltà feudale, aristocrazie cittadine, esponenti del « popolo grasso ») e si im-
porranno come gli unici interlocutori locali del potere centrale *. Nel Lazio meridionale, invece, il dominio dei Colonna, degli
Orsini, dei Caetani, anche se registra mutamenti importanti, rimane però effettivo fino all'abolizione definitiva della feudalità;
la regione appare, da questo punto di vista, molto più simile al vicino Regno di Napoli che all'Umbria o alla Romagna. La dinamica del potete continua a scaturire da un rapporto di tipo triangolare, papato-feudatari-comunità locali; da questa realtà deT spesso queste « ambiguità » che cercheremo di mettere
in luce.
Il monopolio della violenza legale Il problema del brigantaggio e della sua repressione e, al
di là, il problema più generale dell’amministrazione della giustizia, studiati in modo preciso da I. Polverini Fosi, appaiono esemplari sia delle travagliate situazioni locali ancora frequenti a metà Cinquecento, sia del mutamento di clima in atto. Già all’inizio del Cinquecento le pene per omicidio, finora relativamente miti (600 libbre d'ammenda e un anno d'esilio) erano
state accresciute, non essendo più riconosciuta l’attenuante di
« vendetta privata » e nei suoi feudi, Guglielmo Caetani impo-
ne la decapitazione. Anche i responsabili dei « delitti d'onore » diventano punibili ^. L’editto del 1585 contro gli « omicidi, ladroni, facinorosi, banditi, complici, ricettatori », per la cui attuazione, Sisto V chiede l’intervento diretto delle comunità
e
dei baroni, rientra in realtà in questo contesto più generale delle faide locali che sono alla base del fenomeno banditesco e del-
la loro repressione già fortemente accentuata sotto il pontificato
di Pio V. La condanna si abbatte non solo sul « bandito » le
Sermoneta e il Lazio metidionale nell'età moderna
111
cui case vengono tase al suolo e i beni confiscati ma anche, se il condannato non eta ritrovato, su tutta la sua famiglia; sulla moglie, i figli e i parenti che venivano imprigionati’ ‘Questi ‘ultimi si trovavano cos} costretti alla fuga e alla macchia, ma si trovavano anche costretti a vendicare i torti subiti dalle donne, il che, da un lato, alimentava il numero dei briganti e rilanciava la violenza, ma dall'altro, tagliava i fuorusciti dalle loro basi nei villaggi. Ma la spietata repressione di Sisto Von impedi che le teste e i lembi di corpi esposti sulle piazze pubbli-
che di molti villaggi fossero spesso ripresi di notte dai parenti
per dar loro una sepoltura. Il papa, d'altra patte, non: ignorava che i baroni e le comunità a cui chiedeva aiuto erátio essi stessi profondamente implicati nel banditismo di cui eranó spesso gli
organizzatori e i capi (valgono, per tutti, gli esempi di Alfonso
Piccolomini, di Antonio e di Pietro Caetani) o che comunque cercavano di utilizzare per i loro fini particolari: sappiamo che durante le spedizioni di Marco Sciarra contro Norma e poi contro i feudi dei Colonna, « alcuni paesi ne approfittarono per ribellarsi e farsi repubbliche » ?. Basta scorrere l'elenco dei processi criminali del Tribunale del Governatote di Roma, dal 1556 al 1599, elenco molto incompleto poiché molti processi minori contro i banditi continuarono, fino alla fine del: Giñquecento, come precisa il Pantanelli, ad essere istruiti nelle corti locali — Cisterna, Bassiano e Sermoneta, per quanto riguarda il Lazio meridionale — , ma anche perché molti processi contro i no-
bili vennero m"
quando questi ultimi tiusciròno. ad otte-
nere un indulto papale, per rendersi conto del coinvolgimento delle comunità e dei baroni con i briganti locali". A: più riprese, le comunità vennero costrette a mobilitare e ad armare le loro
milizie locali per rinforzare le truppe mandate dal’pontefice. Non bisogna poi meravigliarsi se malgrado il loto potere nobiliare, la repressione si abbatté anche sui nobili =
rion solo i
suddetti Piccolomini e Caetani, ma anche, sotto il pontificato
di Clemente VIII, i Cenci, gli Orsini, i Santactoce; i Massimo... — di cui alcuni esponenti vennero decapitati‘sulla piazza pubblica. Una politica che le altre monarchie ‘centralizzate del continente condurranno anche loro con fermezza: basta’ pénsare
alla Francia di Richelieu. Andrebbe, a questo proposito, apptofondito quello che ci sembra essere ‘un problema | di fondo, non considerato finora con sufficiente attenzione. Il breve: elenco dei nomi precedentemente citati ai quali si potrebbero aggiun-
gere quelli dei Conti (1556, 1592 e 1596), degli Odescalchi (1587), dei Malatesta (1587), dei Lancillotto (1592) e dei Savelli (1594), sono rappresentativi, per lo più della vecchia no-
biltà feudale romana, quella che aveva già dato alti: prelati alla cristianità e dominava, incontrastata, la scena a Roma
e nelle
112
Gérard Delille
campagne laziali. Tra i perseguiti dai tribunali nella seconda metà del Cinquecento per collusione coi banditi, non figurano invece nessuno dei nuovi nomi, delle nuove famiglie, i Bor-
ghese, i Barberini, i Pamphili.., famiglie in piena ascesa eco-
nomica e politica che si riveleranno presto in grado di imporre,
contro la vecchia nobiltà, i propri candidati alla Cattedra di
S. Pietro. Una domanda, allora, va posta: non fu anche, la lotta contro il banditismo, un mezzo usato dai « nuovi nobili »
per lottare contto vecchie famiglie, profondamente invischiate, per tradizioni culturali e familiari nelle lotte di potere locale,
abituate a regolare i loro conflitti per mezzo degli eserciti privati ormai definiti « banditi » e, più generalmente ancora, abituate a utilizzare la giustizia come un mezzo di dominio? Sarebbe forse utile confrontare, a questo livello, un eventuale diverso modo di esercitare i diritti di giustizia, da parte di questi vecchi e di questi nuovi nobili, nei loto rispettivi feudi.
Andrebbero anche paragonate le diverse situazioni giudiziarie di questi baroni:
il moltiplicarsi di processi da parte dei vas-
salli contro i Caetani nei primi
decenni
del Seicento
(« tante
furono le liti che a questi convenne intraprendere per difendersi le cose sue — il Duca Francesco Caetani — [...] che
causa orrore il riportarle a memoria solamente »)? non fu anche causato dall’atteggiamento di un potere centrale ormai lontano,
se non
ostile
nei
confronti
della
vecchia
aristocrazia?
Questi nobili « nuovi » sono spesso originari delle province e
di quei patriziati urbani tradizionalmente ostili al vecchio potere feudale. È facile notare come, dalla fine del Cinquecento alla fine del Settecento, e per limitarci soltanto ai grandi pontificati, ai papi Buoncompagni, Peretti, Albani, Lambertini, Braschi, si possono contrapporre soltanto i romani Paolo V (Borghese) e Innocenzo X (Pamphili)?. Cosa potevano attendersi i romani Caetani, i Colonna o gli Orsini... da un papa Albani o Lambertini o da un papa Barberini o Borghese. Questi potevano solo trarre vantaggi dalle loro difficoltà, levando, per esempio, i fedecommessi che proteggevano i loro beni dai
creditori e permettendo poi, come fece il Borghese, ai nipoti
di impadronirsene? Certo, la contrapposizione non è frontale e matrimoni con membri della famiglia pontificia vengono an-
cora celebrati durante la prima metà del Seicento: nel 1619,
Camilla Orsini sposa Marcantonio Borghese, nipote di Paolo V, mentre Anna Colonna, figlia di Filippo sposa Taddeo Barbe-
rini, nipote di Urbano VIII e Flavio Orsini sposa Ippolita Lo-
dovisi, vedova di Giorgio Aldobrandini e nipote di Gregorio XV. Per quanto riguarda i Caetani, dopo la triste parentesi di Filippo II, esiliato per delitti e di Gaetano-Francesco allontanato a Vienna per essersi schierato con gli austriaci contro
Sermoneta e il Lazio meridionale nell'età moderna
115
il papa e gli spagnoli e poi scartato, nel 1711, dal'governo dei suoi feudi perché « effeminato e protettore! di gente: cattiva, onde i suoi stati eran divenuti una sentina d'omicidi,e rifugio di mali uomini » ?, bisognerà aspettare il 1732, con l’elezione
al pontificato di Clemente XII Corsini, parente.per via. fem-
minile dei Caetani (in seguito, Francesco
V' Gaetani «sposerà,
nel 1757, Teresa Corsini) perché la famiglia ristabilisse un
legame organico col potere centrale. ] Se nel caso del Lazio meridionale, la situazione di frontiera che comporta il passaggio frequente di truppe.e.ripetuti interventi politici o militari statali alimentava ulteriormente l’insicurezza generale, risulta tuttavia chiaro, come è stato mostrato anche per l'Italia del Nord,
che il banditismo non va
interpretato come un fenomeno di rivolta sociale, ma pet parafrasare Clausewitz, come una continuazione delle guerre private con altri mezzi o come un esito — che durerà a lungo — di tali guerre. Non a caso, i processi più importanti contro i banditi della regione non si sono svolti nelle corti locali di Cisterna, Bassiano e Sermoneta, ma significativamente a Roma stessa.
mte
:
Progressivamente si stabilizza un equilibrio, per molti versi relativo e ambiguo, tra volontà « repressiva » ma non esente da spirito di parte, del potere centrale e i baroni:che spesso continuano, nei loro feudi, ad avvalersi del mero e mixtum impe-
rium o del privilegio gladii ez sanguinis attivati in nome del
Pontefice, ma che conferisce loro un forte potere sui vassalli. I
Caetani esercitano anch'essi i diritti di giustizia nei loro feudi
e il tribunale di Sermoneta funzionerà, per tutto.il periodo moderno come tribunale di prima e seconda istanza e se nella pratica, le pene piü sanguinarie tenderanno a decadere nel corso del Sei-Settecento, non furono perd.mai emanate nuove norme in proposito e, di fatto, per tutto il periodo, la volontà del barone continuerà ad assumere valore di legge. Cid non significa peró che il potere giurisdizionale effettivo dei baroni rimase intatto e se a Sermoneta come altrove; l’avva-
lersi progressivo dell'esercizio della giustizia da parte dello Stato
seguì soloin parte via legislative e riformatrici, l'affermarsi'di nuove « pratiche » portò, poco a poco, ad allontanate lesercizio della giustizia dalle mani dei baroni. Tre furono le vie
principali:
1) venne incentivato in modo notevole; dalla‘seconda meta
del Cinquecento in poi (studi recenti del Carocci hanno mostrao to come il fenomeno degli appelli era poco sviluppat nel ‘TreQuattrocento) la possibilità di appellarsi. ai tribunali romani e dunque di trasferire i processi nella capitale, sottraendoli alla volontà del feudatario. Il fenomeno, riscontrabile in: tutti gli
114
Gérard Delille
Stati italiani del periodo, si sovrappone a quello dell'intreccio sempre stiche, regione quisiti
più complesso e inestricabile tra giurisdizioni ecclesiabaronali e statali — particolarmente evidente in questa del Lazio meridionale — che spesso permette agli indi passare dall'uno all'altro a seconda delle possibilità
di essere giudicati in modo più favorevole. 2) l'estendersi,
in
relazione
alla
Controriforma
cattolica,
delle procedure inquisitoriali ebbe anche per conseguenza di trasferire
a Roma molti processi e soprattutto di trattare casi
importanti e delicati aggirando le norme, talvolta ancora fortemente garantiste delle leggi comuni.
3) la terza via rimane infine quella tradizionale, praticata dai baroni stessi, della commutazione delle condanne in pene pecuniarie. Bastava, ancora nel Cinque-Seicento, poter pagare, per poter sottrarsi all'esecuzione della sentenza. Come nei feudi dell’Italia centrale e settentrionale dove i baroni conservavano diritti di giustizia, il fortissimo aumento, nel corso del Cinque-
cento, delle entrate finanziarie degli uffici giurisdizionali controllati dai Caetani, stanno a testimoniare dell'ampiezza del fe-
nomeno. Nell'archivio Caetani, l'ampia documentazione tuttora conservata, riguardante la Corte di Sermoneta, registra la pena inflitta e in corrispondenza, la commutazione in danaro, spesso accompagnata, su domanda degli interessati da una grazia e da
una riduzione del pagamento da effettuare. Anche se era diffusa
la convinzione che bastava poter pagare per poter sottrarsi alla
condanna, manca perd uno studio sulle condizioni, le situazioni, sui livelli di gravità dei reati, sulla natura delle reti di potere
implicate, sulle situazioni nelle quali il feudatario poteva eventualmente rifiutare la transazione finanziaria. Questo meccani-
smo di monetarizzazione della giustizia non toglie ovviamente
nessun potere effettivo al feudatario, ma sembra avere limitato pesantemente la sua capacità d'intervento sulla società locale, nel corso del Cinque-Seicento, in quanto la fascia della popolazione in grado di pagare sembra essersi considerevolmente allargata. In conseguenza forse dell'inflazione cinquecentesca, le
tariffe di commutazione sembrano essere aumentate forse piü
lentamente; ma anche su questo punto importante, le ricerche
precise mancano.
Le comunità tra baroni e potere centrale Lo slittamento progressivo dei processi verso Roma e la minore capacità d'intervento dei feudatari che diventerà manifesta nel Settecento, hanno anche favorito l'emergere di quel nuovo rapporto tra comunità e baroni al quale abbiamo già accen-
Sermoneta e il Lazio meridionale nell'età moderna
115
nato, e una maggiore aggressività delle prime rispetto ai secon-
di. Alla fine del Quattrocento e nella prima metà del Cinque-
cento ancora, la soluzione delle numerosissime liti tra comunità veniva ancora spesso affidata alle armi e agli interventi dei tispettivi feudatari; così, nel 1562, la contestazione tra Sermo-
neta e Sezze sfocia nella violenta invasione di quest’ultima da parte di Bonifacio Caetani. In seguito, queste soluzioni militari lasceranno il posto a quelle di tipo giurisdizionale, togliendo ai nobili un altro mezzo di controllo e di pressione sulle ;comunità. Difatti, le numerosissime liti tra i Caetani e i loro vassalli e più specificatamente con le comunità, riportate dal Pantanelli,
prendono nel corso del Sei-Settecento, forme di confronto sem-
pre più furiose e traducono sostanzialmente una sempre -maggio-
re richiesta di autonomia da parte delle comunità. À Sermoneta,
gli Statuti del 1504-05 riconoscevano al Duca il diritto di scegliere e di nominare, con regolari patenti — che verranno emes-
se dal feudatario fino agli inizi dell'Ottocento —, i Priori della
comunità tra i Probiviri designati dai Consiglieri uscenti". A questo si aggiungeva la presenza nei Consigli, del Luogotenente del Duca... Dopo contestazioni di ogni tipo, la comunità ottiene, nel 1653, un decreto della Camera Apostolica che le riconosce
lo Jus di eleggere l'Archivista e il Secretario comunale, cioè di gestire in proprio la sua memoria scritta. Nel 1735, Sermoneta, come la vicina Cisterna, denuncia l'elezione dei Priori da parte del feudatario ".
Quello che ci preme sottolineare è come, a livello locale, nella pratica quotidiana dell’esercizio della giustizia, si è passato
progressivamente, dalla fine del Quattrocento alla fine del Settecento, da una situazione di quasi monopolio da parte del feu-
datario e di utilizzazione della giustizia come strumento di impo-
sizione di un al feudatario gono — o è to i tribunali lizzato dalle
dominio, a una situazione « éclatée » dove, accanto che conserva diritti di giustizia notevoli, intervenpossibile appellarsi — in modo sempre più marcacentrali, in cui l’esercizio della giustizia viene utiparti sociali come strumento di ridefinizione e di
evoluzione dei rapporti sociali, economici e politici.
La ristrutturazione di tali rapporti era resa anche necessaria
dalla sostanziale modifica, sia dal punto di vista qualitativo, sia dal punto di vista quantitativo, dei meccanismi di prelievo fi-
scale da parte dello Stato. Il forte aumento della pressione fiscale nel corso del Cinquecento e del primo Seicento è un dato
noto di cui basta qui ricordare alcune tappe fondamentali:
la
trasformazione in tassa perpetua del sussidio di 300.000 scudi imposto da Paolo III, l'estensione, da parte di Paolo IV, nel 1556, della tassa del quattrino a libbra alle-comunità baronali, il trasferimento, nel 1588, della gabella del quattrino a fogliet-
116
Gérard
Delille
za alle comunità da Sisto V, l'aumento generalizzato di tutte le
tasse sotto lo stesso Sisto V, l'imposizione della nuova gabella sul sale alle comunità da Urbano VIII nel 1626, la creazione della gabella sopra la carta, nel 1741... A livello locale, la massa contributiva veniva ripartita tra le comunità secondo la popolazione e le superfici coltivate. Le imposte straordinarie erano ripartite sulla base della sola popolazione. All'interno della comunità, le imposte venivano poi date in appalto e ripartite sulla base delle proprietà e del possesso di bestiame. Nel caso di Ser-
moneta, redditi notevoli provenivano anche dalla vendita delle
erbe del quarto, cioè delle terre comunali e delle terre a riposo, cid che permetteva di limitare il ricorso alle tasse indirette, in particolare alla tassa sul macinato. Nel 1703, su 1420 scudi di entrate comunali, 1000 provenivano dalla vendita del quarto delle erbe. Se come in quasi tutti gli Stati italiani, l'aumento della pressione fiscale si tradusse per le comunità in un aumento del loro indebitamento che, in certi periodi, divenne vertiginoso e incontrollato (i debiti dell'Università di Sermoneta che ammontavano a 1000 scudi nel 1642, balzarono a 6000 scudi nel 1651), va notato che, a differenza di altre situazioni, e in patticolare di quella del vicino Regno di Napoli, quest'evoluzione non sfoció nell'usurpazione generalizzata, da parte dei Baroni, delle entrate comunali 5. Nel 1636, su 1543 scudi di entrate del-
la comunità di Sermoneta, 779 erano destinati al pagamento dei pesi Camerali, e nel 1703 le cifre erano rispettivamente di 1151
e 725 scudi ". Merito del potere centrale che aumenta la pressione fiscale ma ne mantiene la riscossione diretta? Abbiamo visto come, in molti casi, nel corso del Sei-Settecento, la Camera Apostolica si oppose ai tentativi del Barone di fare man bas-
sa su qualche entrata comunale e il Pantanelli riporta, da questo
punto di vista, molti episodi significativi. La stessa Camera appoggia alcune rivendicazioni comunali contro i baroni: a Bassiano e a Sermoneta, il Barone dovette cedere diritti di pascolo gratuito sulle sue terre, per essere esentato di tasse. Una tale evoluzione caratterizzata da una forte crescita della massa monetaria in movimento e da un collegamento diretto tra comunità e potere centrale ha favorito notevolmente lo sviluppo, a livello locale di una classe di amministratori, di appaltatori, di speculatori relativamente indipendenti dal potere baronale e disposti anche a intraprendere nuove strade sul piano economico. Questo ceto di appaltatori viene favorito da un'altro mutamento di fondo importante, cioè dal passaggio, nella seconda metà del Cinquecento dalla gestione diretta dei feudi al sistema dell'affitto che moltiplica la presenza di amministratori non più
dipendenti interamente dal barone il cui unico obbligo à il rispetto delle clausole contrattuali e il versamento delle somme
Sermoneta e il Lazio meridionale nell'età moderna
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concordate col feudatario. Per il resto, le possibilità di accordi economici o finanziari con altri appaltatori locali, si allargano considerevolmente. Nel 1584, l'insieme delle rendite :dello Stato di Sermoneta (escluse le giurisdizioni civile e criminale) vennero affittate per 26.000 scudi annui, per un'periodo di 9 anni. Questo meccanismo rimarrà in vigore, in inodo praticamente inalterato, fino alla fine del Settecento: nel 1748 ancora, lo Stato era affittato per 9 anni a 25.000 scudi annui, cid che denota
anche una stasi — e una diminuzione in terminidi valore rea-
le — nella lunga durata delle rendite baronali. L’affitto si ac-
compagno, a sua volta, da censuazioni di una parte. dei territori feudali a vantaggio del nuovo gruppo dirigente emergente ^.
Così, le rivendicazioni di autonomia delle comunità,si possono anche ricollegare all'affermarsi progressivo, tra Sei-Settecen-
to di un nuovo ceto sociale e di un nuovo rapporto. économico
e politico col feudatario. Nel Cinque-Seicento, accanto ad una agricoltura di sussistenza praticata intorno ai paesi, l'essenziale dell'attività economica ruotava intorno alla pastorizia esercitata nelle zone a paludi e nelle montagne (la lana grezza. era venduta, in parte, alle manifatture vicine del Valle Liri, nel Regno La coltura di Napoli) e, secondariamente, alla coltura degli olivi.
del grano veniva strettamente controllata dai servizi del'Anno-
na di Roma, per assicurare l'approvvigionamento della: città:
ancora nel 1703, il Prefetto dell’Annona si oppose duramente al tentativo del governatore feudale di Sermoneta :diiimporre
una tassa sulle uscite di grano. Il contratto a soccida per una
durata di 6 anni era la forma più diffusa di-conduzione del be-
stiame a pascolo. La classe dirigente locale era costituita, per la maggior parte, dalle famiglie di grossi proprietari di greggi, j Razza, i Tuzi, i Quattrassi...,
a Sermoneta, i Lanni,i Razza an-
cora, i Simeoni, i Belardini, i Gniessi..., a Bassiano, i.cui interessi erano talvolta antagonisti, ma più spesso ancora concordavano con quelli del feudatario, anche lui proprietario di grandi greggi. Tutta la vita locale, civile e religiosa, era fortemente condiziohata da queste famiglie che controllavano l'apparato del
potere locale, i monti di pietà, i monti di maritaggi, i monti fru-
mentari, le confraternite, le cappelle con jus di patronato e jus a di notnina. Ora, già nel Seicento, e più ancora nel Settecento, si rinnova ptofondamenté questa classe dirigente con la sostituzione: dei proprietari di. bestiame a pascolo con proprietari fondiari più
interessati ad :un'agricoltura intensiva, in particolare.a quella degli olivi. Questi nuovi agricoltori ottengono, nel Settecento, la concessione di vasti terreni della montagna per trasformarli in oliveti e questo, in aperta concorrenza con i Gaetani che ave-
vano tentato di impadronirsi dei terreni della‘montagna per pian-
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tatvi olivi ed avevano fallito a causa dell'opposizione del Buon Governo. Nel 1725, lo stesso Buon Governo aveva risposto positivamente ad un'istanza dei bovattieri « accid venga ordinato che li pascoli assegnati alli bovi aratotj siano inviolabilmente ri-
guardati in modo che non vi si possa introdurre altri bestiami » ^. Ma la decisione « fu causa di tali scissure tra i cittadini per malignità di qualche perduto uomo, che si puó ascrivere a miracolo di non essere seguito gran male » ". Cioè essa scatenò l'opposizione degli allevatori. I nuovi proprietari/agricoltori introducono una nuova specie di oliva pià produttiva e redditizia: « presentemente queste due specie più non s'innestano (l'oliva piccola e l'oliva bislonga), ma bensi olive grosse e tonde, appellate da noi “ciceroni”, da’ quali veramente si ricava mag-
gior frutto con minor fastidio » *. Vengono costruiti nuovi molini ad olio la cui gestione sfugge, grazie all'esito positivo di azioni giudiziarie e all'intervento del potere centrale, ad ogni controllo da parte del barone: « non essendovi impedimento camerale o privativa a favore d'alcuno, come lo ha sperimentato giuridicamente Carpineto e Sonnino et altri luoghi, inclinando sempre la providenza del principe supremo all’utile de’ suoi sudditi et all’abbondanza dello Stato » ?. Nel 1733, i nuovi proprietari protestano contro i danni inferti alle colture dagli animali selvatici e chiedono l'abolizione della privativa di caccia in favore del feudatario; in realtà & tutto il sistema economico delle paludi, dominato dal barone, che viene attaccato... Molto significative dell'evoluzione in corso, erano state, a metà Seicento,
le modificazioni apportate al sistema di rotazione delle colture:
« per soddisfare la Camera Apostolica e anche per proseguire l'opera de' muti castellani e riparare le campagne dalle inondazioni [...] pensó (la nostra comunità) [...] dividere porzione dei
nostri campi seminatorj in quattro quarti, cioè in maggesi, colti, biscolti, e di riposo, il pascolo del quale potesse venderselo annualmente la comunità »”. La decisione, votata nel 1636, fu attuata soltanto verso il 1650 e incontrò l’opposizione di alcune famiglie facoltose che non potevano più disporre libera-
mente dei pascoli:
« E cosa innegabile che un tal ordine di
campagna è di grande utilità all’agricoltuta, benché ai padroni de’ terreni di molto pregiudizio, perché l’erbe non sono più proprie »*, Su un problema così importante che rimetteva parzialmente in discussione l’assetto politico-sociale della comunità,
si erano scatenate le lotte delle « diaboliche fazioni » che anco-
ra nella seconda metà del Settecento, « vanno appestando l’in-
nocente ma cieca nostra patria » 2, Ma la progressiva scomparsa delle antiche e facoltose famiglie non era dovuto soltanto ai cambiamenti di natura economica. Era legata, anche, e più semplicemente alla scomparsa fi-
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sica delle suddette famiglie. Non tanto a causa delle ricorrenti
carestie o epidemie che, ancora, colpivano regolarmente le co-
munità (la « crudelissima carestia » del 1590, la peste del 1656
che fece strage in tutto il Lazio meridionale e fu seguita, come & stato costatato in altre zone, da un moltiplicarsi di matrimoni,
di cui molti consanguinei:
« papa Alessandro, acció si ripopo-
lassero con prestezza — le comunità —, dicono che dispensó terzo e quarto grado di consanguinità » *, l'influenza letale del 1741 che fece 200 morti in Sermoneta...), ma piuttosto, come in molte tegioni d'Italia, a causa dei meccanismi stessi della pri-
mogenitura che tali famiglie avevano applicati, in modo sistematico, a partire dalla fine del Cinquecento. Basta la sterilità
di una moglie o la morte in giovane età di tutti i figli perché il primogenito sposato rimanga senza discendenza. Cosi si estinsero, a Sermoneta, i Santori, i Pellegrini, i Papainni, i Giusti, i Martelli, i Cifra, i Mancini «et altre molte », mentre si ti-
trovarono ín condizioni economiche precarie gli Annibalis, i Cancellieri, i Giardinelli, i de Angelis, i Pantanelli, i Tuzi... Al tempo del Pantanelli, solo tra le antiche famiglie sembrano avere consetvato un posto di rilievo gli Impaccianti e i Monti. Lo stesso pericolo incombeva sulle famiglie baronali e il duca Michelangelo riuscirà, all'età di 53 anni, a scongiurare l'estinzione del suo lignaggio soltanto grazie alla sua terza moglie che gli darà, nel 1738, un erede maschio. La società ambigua Niente
traduce meglio l’ambiguita delle relazioni tra Stato,
baroni e speculatori economici di ogni tipo, come le iniziative collegate al problema della bonifica delle paludi, nel CinqueSettecento. L'abbandono e l’otturamento della complessa e gran-
diosa rete di drenaggio delle acque costruita dai romani porto al ritorno progressivo, nel corso del Medio Evo, delle paludi su un’ampia fascia costiera (circa 70.000 ettari), da Terracina all'at-
tuale Latina. Con le paludi, ritornò la malaria e con essa il totale abbandono dei villaggi e delle cittadine costieri. Ninfa era « sito assai più proprio per sepoltura di morti che pet abitazione de’ viventi»” e nessun abitante riusciva a superare i qua-
rant’anni. Soltanto nel 1626, su iniziativa del duca Francesco
Caetani il sito di San Felice Circeo cominciò ad essere riabilitato
da alcuni marinai provenienti da Ischia. Ma la palude permetteva anche uno sfruttamento economico certo poco produttivo,
ma assai vantaggioso pet i feudatari: pastorizia estensiva, dirit-
ti di caccia, diritti di pesca nel lago di Paola — collegato con
canali ad altri stagni — concessi contro canone dai monaci di
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Gérard Delille .
Grottaferrata ai Caetani, decima del pesce per la pesca in mare possibile soltanto, data la desertificazione del litorale, dai porticcioli controllati dal feudatario. Per quest'ultimo, un'eventuale bonifica generale avrebbe anche comportato l'attivazione di diversi e ben più complessi meccanismi di controllo del territorio. Data la configurazione geografica della zona, le acque provenienti dalla montagna dovevano essere evacuate attraverso
canali con pendenze regolari dell’ 1960 spurgati regolarmente
con strumenti trainati da bufali, gli animali più adatti per questo tipo di lavoro. Tutto questo implicava un investimento iniziale e delle spese di mantenimento, in seguito, considerevoli e dunque, in ultima istanza un coordinamento centrale dei lavori e l’intervento del governo pontificio. Senza risalire più indietro nel tempo, il primo progetto di bonifica serio e che portò a qualche risultato, anche se limitato al territorio di Terracina, fu quello di Leone X, nel 1514: « bonificò papa Leone le paludi Pontine in quel di Terracina; ma del terreno bonificato ne fece perpetua e solenne donazione a Giuliano de’ Medici nel 1514, colla sola annua ricognizione di cinque libre di cera nella vigilia di San Pietro; nell’anno di poi 1517 a’ 13 di gennaio concedè detto terreno cole medesime condizioni, a Lorenzo de’ Medici suo nipote, il quale principiò l’opera ne’ siti più bassi e vicini al mare e purgd anche la tenuta de’ Marruti, appartenente a’ signori Cavotti » *. Risulta evidente la coinciden-
za — del tutto « normale » in quel periodo —, tra pubblico e privato, una confusione che persisterà sotto forme diverse, ma
con la stessa conseguenza di inghiottire il danaro pubblico in
opere mai compiute o mai portate a termine, per tutto il SeiSettecento e forse ancora oltre. Unica parentesi, quella del pontificato di Sisto V che, col suo solito decisionismo, abbozzd misure e piani di bonifiche radicali che non ebbe peró il tempo di portare a termine. Per prima cosa, e per poter agire liberamente sul tertitorio, tolse ai Medici il loro dominio sulle paludi, lasciando loro solo la parte che era stata bonificata da Lorenzo de’ Medici; fece poi intraprendere « lo scavo degli antichi alvei fatti in tempo di Appio Claudio, d'Augusto, di Nerone e di
Traiano » *. Sopratutto « fece dar principio allo scavo d'un tre-
mendo fosso vicino alla Torre di Levola; e tirando verso il no-
stro territorio (Sermoneta), s'accosta alla Torre Taccona, al fiu-
me antico e alla tenuta S. Donato. Scrivono che avesse in pen-
siero di farlo giungere fino al fiume Ninfa; ma perché è fama che volesse renderlo navigabile fino a Roma, e facendo fare così largo e profondo il suo alveo, non è improbabile che volesse eseguire la grande idea di Giulio Cesare. Mentre si lavorava queso gran fosso, i Sormonetani, forse per ordine di papa Sisto,
fecero un nuovo letto al torrente della Badia » ”. Il testo, scrit-
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to nella seconda metà del Settecento è anche un'apologia dell'opera di Sisto V. Dopo di lui infatti, i progetti elaborati per lo più da ingegneri olandesi e i « soliti » principi di generale
bonificamento (quello di Nicold Vanderpelleus nel 1659 e sopratutto quello di Ottone Meyer, nel 1692, accompagnato, quest'ultimo dalla concessione di un privilegio sulla tratta dei grani prodotti nelle terre bonificate e dalla creazione di una speciale Congregazione sopra le paludi), i lavori iniziati sotto i pontifi-
cato di Pio VI, « benché ingannato da’ ministri»
®, le con-
tinue liti tra le comunità per quanto riguarda il HE il mantenimento o l’eventuale deviazione dei cotsi dei torrenti (dal 1644 in poi, tra Sezze e Sermoneta a proposito del torrente Teppia; nel 1692 tra Velletri e molte altre comunità vicine per il
mantenimento dei ponti...), non portarono a niente di concreto,
« onde si può credere al parere di taluni, che avendo diviso tan-
ta somma d'oro in tre parti, vogliono che una. parte sia stata impiegata in edificj; un’altra ne’ scavi miserabili per condurre
l'acqua nel Mediterraneo; la terza divisa tra quelli per le mani
de’ quali è passata, per servirsene a proptio comodo ».”. Frase di denuncia che conclude allo stesso tempo le osservaziorii pessimistiche, le critiche latenti ma continue sul malgoverno e tutta l'opera del Pantanelli. La corruzione era un male profondo, che veniva da lontano e che non era certo esclusiva dello Stato pon-
tificio: J.C. Wacquet ha mostrato l'importanza:e i molteplici
risvolti del fenomeno in seno ad un’amministrazioné apparentemente piü efficiente e più policée, come quella toscana, nel
Sei-Settecento?, E possibile che i numerosi. processi: "condotti iin Toscana contro corrotti e corruttori — processi apparentemente quasi inesistenti nel caso degli Stati pontifici —, siano ‘prova della repressione più efficace, da parte dei Granduchi, contro il fenomeno; il problema resta da studiare in modo più preciso. La corruzione con le sue pesanti conseguenze sul piano. economico particolarmente evidenti nel quadto di un problema come
quello della bonifica delle Pontine, data l’ampiezza delle somme di danaro mobilitate, sta a testimoniare di quell'ambiguità
profonda che continua a caratterizzare i rapporti tra.l’amministrazione in generale e i privati. Ma essa è anche prova: del primato del politico in senso lato, del peso della costituzione delle reti di potete e di clientele su iniziativa delle quali da bonifica delle paludi, le trasformazioni del paesaggio agrario, -T'intensificarsi dell'agricoltura vengono avviate; un primato che persisterà a lungo e che ancora oggi si PEA come ‘uno dei tratti ‘caratteristici delle economie mediterranee ?
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Gérard Delille
Note 1 G. CAETANI, Caietanorum Genealogia, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa,
1920, p. 122
e tav. (cfr. tav. A. XXXIX).
Dal
matrimonio
di Sveva
Caetani con Lorenzo Colonna nella prima metà del Quattrocento, non vi era più stata, fino a quel 1560, nessun alleanza matrimoniale tra il ramo di Sermoneta dei Caetani e i Colonna. Nello stesso periodo, i matrimoni con gli Orsini sono stati ripetuti praticamente ad ogni generazione (Giacomo IV Caetani con Giovannella Orsini nel 1418, poi con Angela Orsini in seconde nozze, Onorato III con Caterina Orsini nel 1437, Nicola II con Eleonora Orsini prima del 1478, Ersilia con Giovan Francesco Orsini nel 1513 o 1514, Giovanna con Virginio Orsini prima del 1567, Pietro IIT infine con Felice Maria Orsini nel 1593. Dopo quest'ultimo matrimonio, non vi sarà più, a conferma dei profondi cambiamenti intervenuti, alcuna alleanza con gli Orsini. 2 c. CAETANI, Domus Caietana. Storia documentata della famiglia Caetani, Sancasciano Val di Pesa, Stabilimento tipografico Fratelli Stianti, 1933, 2 vol. 3 BG. ZENOBI, Le « Ben regolate città». Modelli politici nel governo delle periferie pontificie in età moderna, Roma, Bulzoni editore, 1994, 267 p. 4 Queste decisioni vanno inserite nel lungo e difficile processo che porta, sul piano locale, alla distinzione tra diritto privato e diritto pubblico, e a collocare il diritto di vendetta e l’esercizio della violenza legale nell’ambito esclusivo
di quest'ultimo. I primi statuti di Sermoneta redatti tra il 1272 e il 1297 non
facevano nessuna distinzione, né formale, né sostanziale, tra diritto pubblico e privato, né tra diritto civile e penale. Una prima, timida limitazione al diritto di vendetta privata fu introdotta nel 1427: se l’offensore fuggiva, l’offeso o un suo consanguineo non poteva allora trarre vendetta su un parente del fuoruscito per minimo di tre giorni... Cfr. 1. POLVERINI FOSI, La società violenta. Il bandi-
tismo nello Stato pontificio nella seconda metà del Cinquemento, Roma 1985.
5 POLVERINI FOSI, La società violenta. 6 p, PANTANELLI, Notizie istoriche appartenenti alla terra di Sormoneta in distretto di Roma, edite da Leone Caetani, Roma, Tipografia del Senato, 1911, 2 vol. (il Pantanelli scrisse la sua opera negli anni ’60 del Settecento). 7 Per limitarci ai Caetani e alla nostra regione, basta ricordare che nel 1571, l'illustrissimo Cristoforo Caetani fu accusato di ricettazione di banditi; nel 1583, Cesate Caetani, già assolto dal papa una prima volta nel 1570, fu decapitato e i suoi feudi incorporati alla Camera Apostolica, per aver preso parte, alla testa dei compagni formati dai suoi vassalli e da ricercati provenienti da zone limitrofe, a numerose azioni criminali. Nel 1592, i suoi figli, Antonio e Scipione Caetani, volendo vendicarsi «di coloto che avevano cooperato alla condanna del loro padre Cesate », furono processati per eccessi e solo Scipione fu graziato nel 1596 e reintegrato nei suoi feudi; nel frattempo, l’altro ramo dei Caetani si trovava implicato, nelle persone di Pietro e Prospero Caetani, nel 1591, nell'omicidio di certo Bartolo Mannino, e nel 1593 di connivenza coi malfattori... Per quanto riguarda le comunità, quelle di Sezze e di Carpineto erano implicate, generalmente o nelle persone di alcuni dei loro ufficiali, nel 1586, di ricetto e
di negligenza sui banditi; nel 1591, la comunità di Sermoneta fu accusata per
la fuga di alcuni banditi, mentre nel 1593, 1596 e 1597, alcuni particolari della stessa Sermoneta furono giudicati per pratica o ricetto di banditi. Cfr. PorvERINI FOSI, La società violenta. Yl collegamento tra famiglie del patriziato urbano e banditismo appare molto chiaro, in un contesto come quello del teramano nel Cinque-Seicento, nella Cronaca teramana dei banditi, trascritta da Gio. Francesco Nardi, con prefazione e note di Francesco Savini, in « Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti », XXVII, sett. 1912, pp. 453-468; XXVII, dic. 1912, pp. 631-647; a. XXVIII, apr. 1913, pp. 196-206; XXVIII, magg. 1913, pp. 249-261. 8 PANTANELLI, Notizie, II, p. 35. 9 ZENOBI, Le « Ben regolate. 10 PANTANELLI, Notizie, II, p. 117. H Nel 1304, i Caetani impegnati nella guerra contro i Colonnesi, avevano
concesso, per assicurarsi la fedeltà dei vassalli, l'allargamento del Consiglio co-
munale, con l'elezione di un gruppo di 12 massari consiglieri.
12 pANTANELLI, Notizie. Non sappiamo molte cose sul governo interno della
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comunità di Sermoneta e sulla sua evoluzione nel corso del Cinque-Settecento. Era probabilmente molto simile a quello di Sezze e degli altri comuni della regione dove gli statuti accordavano una rappresentazione equilibrata tra « nobili » e « popolari » (i zzlites e pedites del XIII secolo), ma dove, nello stesso petiodo, «la consuetudine operò rapidamente assicurando ai nobili una quota deter-
minata e politicamente preminente nella composizione degli uffici» (ZENOBI, Le
« Ben regolate », pp. 159-160). Per Sezze e il Lazio meridionale, si veda: c.A. BERTINI FRASSONI, La zobiltà nello Stato pontificio, Roma, s.d., ma 1934; M.T. CA-
CIORGNA, Organizzazione del territorio e classi sociali a Sezze (1254-1348), in
« Archivio della Società romana di storia patria» (104), 1981, pp. 51-95; j.c. MARIE-VIGUEUR, Comuni e signorie in Umbria, Marche e Lazio, (Storia d'Italia diretta da G. Galasso), Torino 1988; r.s. TUCCIMEI, I] patriziato setino. Studio storico-araldico sull’origine e sviluppo della nobiltà decurionale in Sezze, in « Rivista araldica », 1941, pp. 49-65. 13 E, GALATERI DI GENOLA E SUNIGLIA, Signoria feudale ed evoluzione della proprietà terriera nel Ducato di Sermoneta, tesi di laurea, Roma 1971-72, p. 177. 14 4. CORVAIA, Il feudo di Sermoneta nel XVI e XVII secolo, tesi di laurea, Roma 1972-73, p. 183. 15 GALATERI Sigroria. 16 PANTANELLI, Notizie, II, pp. 134-135.
17 Ivi, p. 135. 18 Ivi, p. 210.
19 Tvi, p. 210. 20 Ivi, p. 54. 21 Ivi, p. 56.
2 Tvi, p. 58. 2 Ivi, p. 73. ?* Ivi, p. 47. 25 Ivi, I, pp. 551-552.
26 Ivi, II, p. 19.
27 Ivi, pp. 18-19.
28 Ivi, I, p. 245. 2 Ivi, II, p. 245.
30 r.c, WAQUET, De la corruption: morale et pouvoir à Florence aux XVIIe et XVIIIe siècles, Paris, Fayard, 1984, 261 p. 31 J, BOISSEVAIN, Friends of Friends. Networks, Manipulations and Coalitions, Oxford, Blackwell 1974; E. GELLNER, J. WATERBURY (edited by), Patrons and clients in. Mediterranean Societies, London, Duckworth 1977.
Manuel Vaquero Piñeiro La signoria di Sermoneta | tra i Borgia e i Caetani
I fatti che ad un certo momento legarono le.vicende delle famiglie Borgia! e Caetani di Sermoneta? hanno contribuito notevolmente a forgiare ed atricchire di contenuti la « leggenda nera » che ruota intorno ai discussi componenti della casata spa-
gnola. Nella dedica a Michelangelo Caetani che apre la sua, otmai classica, opera sulla vita di Lucrezia Borgia ?, il Gregorovius ci fornisce gli elementi necessari alla conoscenza degli avveni-
menti: papa Alessandro VI spoglia di tutti.i beni e diritti i Caetani, provoca la morte violenta di alcuni di loro, .costringe
all'esilio gli altri, ed alla fine si impossessa della Signoria di Sermoneta che affida a sua figlia Lucrezia verso la quale lo storico prussiano mostra clemenza e perdono pet la sua condizione di « donna sventurata ».
Seppure circoscritta all’interno di un quadro politico altale-
nante e suscettibile di radicali modifiche, la relazione tra le due famiglie conobbe comunque anche momenti di proficua e intensa collaborazione. Il conflitto tra i Caetani e i Borgia Durante i primi anni del pontificato di Alessandro VI, i Caetani servirono fedelmente la causa del papato. Prima: Nicola, e più tardi anche lo stesso Guglielmo, diedero il loro deciso con-
tributo all'esercizio pontificio nella guerra. contro Carlo :VIII
di Francia rifornendolo di uomini e mezzi, ma anche consentendogli di avvalersi di Sermoneta — strategicamente posizionata tra il Regno di Napoli e lo Stato della Chiesa — come preziosa piazzaforte per approvvigionare e proteggere le truppe inello spostamento attraverso le Paludi Pontine *. Sermoneta era, inoltre, piacevole soggiorno per coloro che dal Regno di Napoli, si recavano in viaggio alla Corte papale come dimostra l’assiduo cat-
teggio della Cancelleria pontificia, in.cui Alessandro VI ringra-
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Manuel Vaquero Pifieiro
zia sinceramente i Caetani per il trattamento e l'accoglienza riservata agli ospiti in transito. E che dire del breve del 10 gennaio 1498 nel quale Alessandro VI sollecita al protonotaio Giacomo Caetani l'invio di piante ed alberi da frutto per ricostruire il suo giardino privato distrutto dai francesi? ?. Tutte testimonianze di un rapporto costante e, a giudicare dalle richieste, fondato su una cordiale ami-
cizia che si interruppe peró il 22 settembre del 1499 quando
Alessandro VI, utilizzando come scusa uno dei tanti scontri atmati tra le comunità di Sermoneta e Sezze e accusando i Caetani di istigazione alla ribellione ed invasione delle terre dello
Stato della Chiesa, scomunica Guglielmo e Giacomo Caetani confiscando loro proprietà e feudi e spogliandoli di diritti e privilegi
di ogni tipo’. A partire da questo istante, il destino dei due
fratelli Caetani prende una piega tragica. Giacomo accetta la richiesta del Papa di recarsi a Roma per avere un giusto proces-
so, ma verrà frettolosamente condannato e condotto all'ergastolo, morendo, poco dopo, a quanto pare avvelenato nella sua
cella di Castel Sant'Angelo; Guglielmo organizza una disperata quanto vana difesa del castello di Sermoneta contro le truppe pontificie * per essere poi costretto a fuggire e rifugiarsi alla Cor-
te dei Gonzaga a Mantova sotto la cui protezione rimarrà fino al ritorno a Sermoneta nel 1503. Espugnata Sermoneta con le forze delle armi e schiacciata la famiglia rivale, Alessandro VI, il 12 febbraio del 1500 procede all’alienazione dell’antico stato dei Caetani in favore di sua figlia
Lucrezia che si premura di versare alla Camera Apostolica la somma di 80.000 ducati d'oro, ma non passa molto tempo prima che altre importanti dinastie baronali romane subiscano la stessa avversa sorte dei Caetani. Con la caduta del Regno di Napoli e l’alleanza tra il Papa e il Re di Francia Luigi XII”, i Colonna ed i Savelli — tradizionali alleati degli aragonesi del Regno di Napoli e nemici capitali dei Borgia — si vedono sconfitti sul campo di battaglia e privati anch’essi dei loro feudi
laziali ". Una volta eliminata la resistenza politico-militare dei
gruppi ostili, Alessandro VI si trova davanti alla necessità di conferire un nuovo assetto giuridico-istituzionale all’insieme dei territori confiscati “, cosa che fa il 17 settembre del 1501 con la creazione dei ducati di Nepi e, quello che più ci interessa, di Sermoneta ”. In ragione dei diritti già acquisiti come signora di Sermoneta, la titolarità dell'omonimo ducato sarebbe dovuta andare a Lucrezia Borgia P, ma questa, in procinto di contrarre matrimonio con Alfonso d’Este, rinunciò a tale privilegio e così, del titolo di primo duca di Sermoneta venne investito suo figlio Rodrigo Borgia d'Aragona ". Tuttavia, essendo questo un bam-
La signoria di Sermoneta tra i Borgia e i Caetani
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bino di pochi anni, la tesponsabilità effettiva della conduzione amministrativa del ducato ricadde sul cardinale di Santa Cecilia, nonché arcivescovo di Cosenza, Francesco Borgia P, ai
cui compiti erano estranee solo le questioni militari che dipendevano direttamente dalla Camera Apostolica '$. ' Se una certa storiografia vede in questa appropriazione una delle prove. più evidenti del nepotismo e dell’arroganza dei pa-
renti del Papa valenziano che non badavano ai mezzi pur di vedere soddisfatta la loro incontenibile avidità di potere e il loro
palese desiderio di creare uno stato personale ", una riflessione meno moralista e più accorta nei confronti della complessa situazione politico-territoriale della Penisola Italica sullo scorcio del "400 permette di osservare questo episodio comela logica conseguenza di una turbolenza generalizzata dalla quale, soprattutto le forze più deboli ed isolate del sistema, non potevano certo uscire indenni. La calata francese del 1492 aveva portato con sé la rottura
dei precari equilibri raggiunti a fatica nella pace di Lodi del 1454 e aveva costretto tutti i protagonisti del mosaico italiano
a schierarsi e prendere partito per uno dei due grandi contendenti:
Spagna o Francia P. Si era avviata così una stagione di
alleanze contingenti e altelenanti che portava con sé il rischio
di rimanere schiacciati ed essere travolti prima di avviare la ben-
ché minima reazione. In un certo senso, si potrebbe dire chie tra l’ultimo scorcio del XV secolo e le prime decadi del XVI, nello scacchiere italiano il gioco politico si fece pesante e la stessa integrità dello Stato Pontificio venne messa in pericolo. La sua sopravvivenza si ottenne, infatti, solo attraverso una permanente,
ricerca di alleanze ed appoggi politici, ma soprattutto, ed-è un dato da più parti sottolineato, potenziando decisamente la po-
litica centralista iniziata sin dalla metà del '400 ?. In entrambe
le direzioni (esterna ed interna), i Borgia si mossero con deter-
minazione ed un amplissimo spiegamento di forze tanto che, seb-
bene con leggere differenze di valutazione circa gli-obiettivi raggiunti, tutti gli autori che si sono dedicati allo-studio dello Stato
della Chiesa
durante
il primo
Rinascimento ?- con-
cordano sulla fermezza della politica intrapresa dai Borgia. In estrema sintesi, il rafforzamento del centralismo -papale comportó. l'eliminazione del pericolo che veniva da dae opposte direzioni: le ambizioni autonomiste delle’ città della - Romagna e delle Marche, e la sottomissione delle grandi famiglie bato-
nali della campagna
laziale. Per fare fronte ad entrambe
le
questioni, Alessandro VI si affidò ai suoi familiari più stretti,
gli unici che gli potevano garantire fedeltà e massimo impegno
nel compito da svolgere". La scelta familiare apparve, quindi, ad Alessandro VI come l’unica strada percorribile per ottenere
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Manuel Vaquero Pifieiro
l'effettivo controllo delle zone dello Stato più esposte alle forze centrifughe. La creazione di signorie legate alla Santa Sede da solidi vincoli familiari si mostró — e Sermoneta ne à la prova —
una necessità imperante per garantire durata e stabilità
ai progetti politici; l'opzione familiare infatti rappresentd la base dei risultati ottenuti da Alessandro VI, anche se di per sé tale politica appariva fragile e impossibile da protrarsi una volta morto il Papa ?. Non erano passate, infatti, due settimane dalla sua scomparsa che Guglielmo Caetani si affrettó a rientrare a Sermoneta ed i suoi sudditi e vassalli, incuranti delle minacce di ritor-
sione e castigo ?, gli resero omaggio giurandogli fedeltà come
unico e vero signore. E con la bolla De Romani Pontificis Pro-
videntia di Giulio II del 24 gennaio 1504 ^ tale ripristino di-
venne ufficiale.
Il governo dei Borgia Gli anni di esilio forzato a Mantova erano stati, in realtà, pochi e Guglielmo, al suo ritorno a Sermoneta, quasi certamente, non trovò una situazione profondamente modificata”. Almeno
tale è l’impressione che si ricava dalla poca documentazione conservata per questo primo ’500. Nulla fa pensare che Guglielmo dovette cancellare o annullare bandi e normative promulgate dai Borgia *. L'unico prodotto legislativo borgiano, lo statuto, non venne però soppresso; molto pragmaticamente, Guglielmo lo corresse e lo modificò selettivamente per adeguarlo alle sue necessità e imperniarvi anche la sua gestione. Al contempo, si impe-
gnò a risolvere annosi problemi connessi alle eredità dei diversi
rami della famiglia Caetani”; restituì a Fabrizio Colonna i cannoni che Alessandro VI aveva portato da Ardea a Sermoneta e, in generale, graziò tutti quei vassalli che lo avevano offeso
giurando obbedienza al Papa Borgia. L’unico che non ricevette il perdono, ma venne condannato all'impiccagione, fu Giovanni Cifra, notaio di Bassiano e collaboratore stretto dei Caetani, incriminato per la morte di Nicola Caetani del quale era stato tesoriere e cancelliere. Fino alla sua morte, nel dicembre del
1519 #, Guglielmo rimase lontano dagli intrighi di palazzo e
relativamente in disparte rispetto al mondo artistico-culturale della corte romana, rivolse la sua attenzione al riordino e alla
crescita economica dello stato”: firmò diversi accordi con le comunità vicine per risolvere vecchie dispute *; ricostruì il bor-
go di San Felice Circeo #; avviò il prosciugamento delle Paludi Pontine ? e, a quanto pare favorito da eccellenti raccolti, promosse una intensa commercializzazione del grano. La documentazione che abbiamo per il breve periodo di do-
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minio borgiano, purtroppo, non permette di valutate se il passaggio dai Caetani ai Borgia comportó modifiche sostanziali o, piuttosto, tutto prosegul all'insegna della continuità. Alcune misure, prese da Alessandro VI immediatamente dopo la bolla di espulsione contro Guglielmo, si proponevano di guadagnate le simpatie e il consenso dei sermonetani. Tra queste possiamo ti-
cordare la riduzione del contributo sulla tassa del sale e focati8; il fatto che i benefici ecclesiastici di Sermoneta, Bassiano
e Ninfa fossero riservati ai cittadini delle rispettive comunità * e la competenza esclusiva della curia di Sermoneta per i casi penali locali ©. Allo stesso modo, la comunità di Sermoneta con Alessandro VI, almeno apparentemente, acquisì un maggiore
grado di autonomia e capacità di rappresentazione senza dover
soffrire la reiterata presenza del dominus. Se fino a quel momento nelle frequenti dispute tra Sermoneta, Bassiano e Sezze era normale che qualche componente della famiglia Caetani parlasse e decidesse in nome dei suoi eredi, sudditi e vassalli, nell’unico accordo che risale all’epoca della dominazione borgiana * in rappresentanza dell’Università di Sermoneta figura un gruppo di sei « providi et discriti viri sermonetani » che intervengono nell'atto in qualità di « sindici et procuratores respective singulorum eorum communitatum ». In testa alla lista del suddetto accordo troviamo Placentino de Sanctis di Amelia, antico procuratore e cancelliete’ di Onorato II? e influente personaggio della vita sermonetana degli inizi del ’500; figurano di seguito: Antonio de Quatrassis, notaio e
sindaco del castro di Sermoneta nel 1475, Pietro zozarii Alexandri ed Antonio de Setia, tutti, certamente, esponenti del setto-
re più influente della popolazione castrense che riusci a conser-
vare la propria posizione di privilegio prima, durante e dopo i Borgia, e che non esitó ad approfittare delle mutevoli circostanze per trarne ulteriori vantaggi. In questo senso, è molto emblematico il caso dei sopracitati Pietro ed Antonio ‘che, il 9 luglio del 1502, prendono in appalto la riscossione di « omnes et singulos fructus et IrEFOR US terre
Sermoneti necnon Bassiani et castri Normarum diruti »* con un contratto triennale in base al quale ogni anno i due appaltatori o affittuari dovevano consegnare a Francesco Borgia 3000 ducati di carlini più 1000 salme di frumento. Pietro ed Antonio erano gli unici autorizzati a riscuotere le entrate sigriorili dello stato di Sermoneta fatti salvi i proverbi « che pervenessero a
la corte per via de bancho del suo capitaneo de Sermoneta o vero de Bassiano ». Ossia i cespiti legati all'esercizio della bannalità giudiziaria rimanevano una prerogativa di esclusiva compétenza del signore. I due affittuari dovevano inoltre governare tutti i possedimenti appartenenti alla curia dominica e vigilare
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Manuel Vaquero Pifieiro
affinché i campi e i vigneti della curia fossero coltivati « ad
usanza de boni lavoratori ». Allo stesso modo, godevano del monopolio sul mulino ed erano autorizzati a commercializzare fuori della terra di Sermoneta fino a 200 salme di grano l'anno, sempreché le condizioni generali lo consentissero. Analogamente, il 27 agosto del 1502 si stipuló un nuovo rogito notarile stando al quale un certo Verenzo ed un certo Renzo, entrambi di Sermoneta, prendevano in affitto per 3 anni i macelli del castro ad un prezzo di 40 ducati l'anno ?.
Questi due accordi per la gestione delle proprietà e dei diritti
della curia di Sermoneta si iscrivono in una serie più ampia di convenzioni per mezzo delle quali il cardinale Francesco Borgia
— in qualità di tutore degli infanti Rodrigo e Giovanni — affittò le entrate signorili dei luoghi che componevano i ducati di Sermoneta e Nepi ?. Nel loro insieme, i patti conclusi dai Borgia rispecchiano le trasformazioni in atto nell’ordinamento signorile in Epoca Moderna in base alle quali i due elementi principali che si fondono nel dominatus tradizionale (autorità giurisdizionale e diritti sulla terra) * vengono scorporati per lasciare posto ad una formula mista. Da un lato, il signore trattiene per sé il merum et mixtum imperium, dal’altro, per il prelievo delle diverse rendite di origine fondiaria, si affida ad un nuovo agente economico — il grande affittuario di gabelle — con cui stipula rapporti contrattuali di indubbia proiezione capitalista ? e al quale, in ultima analisi trasferisce il compito di estrarre il surplus
del lavoro contadino.
Oltre questa documentazione, l'unico reperto archivistico che illustra in maniera compiuta i progetti che i Borgia avevano per Sermoneta è il già citato testo statutario ‘ che, mancando di una data cronica, pud essere solo collocato tra il 12 febbraio del 1500 (vendita di Sermoneta a Lucrezia Borgia) e il 18 agosto del 1503 (morte di Alessandro VI) “. Elegante e artistico nella
fattura, dettagliato e articolato nel contenuto, il codice borgiano, sin dall'indice, dimostra di essere frutto di un diligente lavoro preparatorio ed espressione di una mente organizzatrice che cerca di dare una consona cornice giuridico-istituzionale all'ambizio-
so programma di creazione del ducato di Sermoneta. I 142 capi-
toli che compongono lo statuto sí suddividono in cinque libri al cui interno si nota una buona dose di sistematicità, evidente nel
modo di disporre le singole norme che appaiono ben collegate
tra loro. Tutti questi elementi esterni gli conferiscono un'innegabile impronta urbana che lo distanzia radicalmente sia dagli statuti coevi di altre realtà castrensi della regione * che, e questo è l'aspetto più saliente, dalle precedenti compilazioni statutarie del castello di Sermoneta 5. Tra lo statuto del 1271 — con le
successive revisioni del 1304 e 1427 — e quello del 1500-1503
La signoria di Sermoneta tra i Borgia e i Caetani
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il salto è netto e radicale, e rispecchia la differenza che intercorre tra un comune rurale del '200 in grado — in certa misura — di artivare a patti con il dominus " e una signoria rinascimentale dove il principe, nella veste di unica fonte del diritto, impone i suoi criteri e le sue leggi senza trovare resistenza da parte dei propri sudditi *. Ad esempio, nella redazione del 1271, il ca-
stellano e il vicecomes dovevano giurare gli statuti vigenti; mentre simile imposizione, put formale e quasi priva di risvolti pratici per gli abitanti del castrum ^, scompare nel testo borgiano. Un'altra questione che differenzia la compilazione rinascimen-
tale da quelle medioevali, è la decisa volontà — agli inizi del '500 — di predisporre un organico e completo apparato amministrativo-butocratico. Al vertice degli ufficiali di Sermoneta troviamo il capitano”. Depositario del merum et mixtum impe-
rium*, egli si presenta come il successore del iadex medievale preposto all’amministrazione della giustizia maggiore e minore,
civile e criminale ?, Eletto personalmente dal signore doveva essete persona di buona fama, possibilmente dottore in diritto, o quanto meno buon conoscitore delle procedure penali. Dopo il capitano, che rimaneva in carica sei mesi, vi erano i soZ #ilitiis ®, nominati anche loro dal dominus e incaricati di rendere esecutive le sentenze del capitano perseguendo i colpevoli, cattu-
randoli e applicando nei loro confronti le pene previste. Venivano poi i notai; gli erarii? (con il doppio compito di tenere la contabilità delle ammende e di intervenire in quelle cause dove
fosse pertinente la presenza di procuratori della curia), e, per ultimo, il #andatario o locutenente 5 che, come erede del vicecomes del Due-Trecento, era « il detentore dei poteri vicariali concessi dal dominus » ?. | Il coinvolgimento degli abitanti della zziversizas sermonetana nella vita politica del castro e del suo territorio era sancito nel capitolo sull'elezione dei consiliari *. Citando esplicitamente le antiche consuetudini, si disponeva che i consiglieri uscenti, otto giorni prima di lasciate il loro posto, dovessero eleggere quattro « bonos et probos viros mediales de terra Sermoneti ».i quali, a loro volta, eleggevano i 12 membri del consiglio, uno per ogni
decartia?. Questi consiglieri avevano il compito di. difendere
bona et iura communis e di prodigarsi per mantenere la pace e la concordia in seno alla comunità. Pet tale compito, dovevano
procedere alla nomina di due sindaci; quattro curatores aquarum
o aquarolli; vati giudici di pace; quattro prefecti annone e dodici vicepreposti (uno per decartia), con il compito di mandare gli uomini, a richiesta dei consiglieri o dei curatores aquarum, a lavorare per opere di pubblica utilità. Molte di queste cariche, di nomina popolate, esistevano già in epoca precedente e, di fatto, i detentori intervenivano attivamente nella vita pubblica della
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communitas seu universitas castri Sermineti. Lo statuto borgia-
no quindi non sempre introduce novita assolute e il suo promotore né è consapevole tanto da fare continuo riferimento ai costumi precedenti. Il nuovo prodotto normativo mostra, in realtà, un riconoscimento pieno delle tradizioni, cui cerca di allacciarsi, però le inserisce all’interno di un corpus organico che non sembra risultare da una trattativa, ma è piuttosto l'espressione della suprema autorità del signore che, conscio dei suoi pieni poteri, limita molto attentamente l'ambito d'intervento degli abitanti del castrum. Per ragioni di spazio, non & possibile passare in rassegna tutti i capitoli e prestar loro la dovuta attenzione. Comunque va messo in evidenza un particolare interesse verso la crescita ordinata
dell'edilizia privata *, la pulizia degli spazi pubblici ^, la miglio-
tia e la manutenzione delle strade ©, la diffusione degli alberi da frutto 9, e verso una incentivazione della produzione cerealicola: ogni cittadino di Sermoneta doveva seminate annualmente almeno due finelli di grano *. Una questione che appare prima nello statuto del 1271 e più tardi nella riforma del 1304 9, ma che al contratio non viene contemplata nella normativa borgiana, e quella relativa ai servizi ed obblighi (militari o economici) dei vassalli nei confronti del dominus ©. Guglielmo Caetani, al suo ritorno dall'esilio mantovano, si trovo infatti uno stato arricchito da una intelaiatura legislativa di alto profilo. Davanti a lui si presentavano due alternative: o strappare il testo borgiano in un gesto di damnatio memoriae per ripristinare i vecchi statuti medioevali, o, con spirito più positivista, sfruttarlo introducendo le necessarie modifiche. Guglielmo optó per questa seconda possibilità e cosi — in data imprecisata — sottopose lo statuto borgiano ad una accorta revisione eliminando tutto ciò che potesse ricordare l'odiata famiglia spagnola e apportando puntuali correzioni alla parte propositiva. In questo modo, il codice borgiano divenne per Guglielmo la bozza sulla quale preparare un nuovo statuto che, molto probabilmente, cominciò a compilare poco prima della sua morte”. In questo modo Sermoneta, nell’arco di appena una decade, si trovò con due testi statutari. Soltanto uno studio che raffron-
ti il testo borgiano con quello di Guglielmo Caetani permetterà
di sapere se i cambiamenti introdotti da quest’ultimo furono formali o sostanziali e allo stesso tempo, consentirà di arrivare a soppesare gli elementi di rottura e di continuità che segnarono il passaggio della signoria dei Borgia a quella dei Caetani. Ad una prima analisi, si potrebbe affermare che le novità introdotte non intaccarono l’impianto generale del codice borgiano. Si rispettò la divisione in cinque libri e i capitoli sono in
gran parte gli stessi. Inoltre, ed è molto più significativo, le ca-
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riche rimangono, con compiti immutati. Le modifiche più frequenti si tiferiscono all'ammontare delle pene pecuniarie. In ge-
nerale, sí nota uno sforzo espositivo per inserire lo statuto nella tradizione di dominio
secolare della famiglia: Caetani su Ser-
moneta.
L'uso del territorio
Lo statuto borgiano fornisce pochi e schematici elementi pet la conoscenza del quadro socio-economico di Sermoneta tra la fine del XV secolo e gli inizi del XVI poiché capitoli dedicati
alla vendita delle derrate alimentari 9, al pascolo del bestiame ©
o alla difesa dei seminativi” sono troppo generici e l’aspetto giuridico-penale predomina su quello strettamente rivolto alla produzione; il testo di Guglielmo è maggiormente attento ad un uso
razionale
delle risorse dello
stato. Lo si vede
nell'in-
tento di regolare l'accesso alla tenuta boschiva dell'Eschieto "
e di delimitare l'area destinata a vigneto 7. Fatta eccezione per questi pochi elementi perd il materiale d'archivio disponibile non consente grandi progressi e compone un quadro documentale comunque povero di informazioni. Una menzione speciale merita, tuttavia, un lungo e particolareggiato testo del 1507 che riporta lo svolgimento di una causa legale tra Guglielmo
Caetani,
signore
di Sermoneta
e Bassiano,
e Caterina
Conti in veste di madre nonché tutrice dei figli di Raimondo Caetani di Maenza ?. Il motivo del contenzioso & l'uso che facevano i cittadini di Sermoneta del bosco della tenuta di Norma. Il volume raccoglie le deposizioni di più di 90 testimoni e
di per sé, l'inchiesta illustra un nuovo capitolo della acerrima
e antica rivalità tra Sermoneta e le comunità vicine per lo sfruttamento delle risorse naturali del territorio. Per avere un'idea chiara dell’origine della polemica e, allo stesso tempo, capire la difficoltà di trovare una soluzione che conciliasse gli interessi di entrambe le parti, bisogna ritotnare
indietro di alcuni anni. Il 16 aprile del 1468 Pietro Paolo Cae-
tani Palatino vendettead Onorato III di Sermoneta tutti i diritti e le azioni spettanti ai castra di Ninfa e Norma ^ insieme ai
loro fenimenta”. Pochi anni più tardi, il 21 febbraio del 1478,
allo scopo di mettere fine alla disputa tra i Caetani di Sermoneta e quelli di Maenza, si firma un concordato in ragione del quale il castello e il territorio di Norma venivano assegnati ai secondi ^. Ma nel 1488, Luigi Caetani di Maenza vendeva la sua quota di Norma a Nicola, Giacomo e Guglielmo Caetani di Sermoneta 7 e complicava ulteriormente questa intricata storia di passaggi e i hel 1507, di Maenza, cessioni, che spiega il tentativo dei Caetan
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Manuel Vaquero Piñeiro
di venire a capo della situazione e simultaneamente, rivedere i diritti e le prerogative che i Caetani di Sermoneta si erano arrogati fino a quel momento. In discussione non era tanto il principio dell’accesso da parte dei sermonetani al bosco di Norma, quanto l'esigenza di precisare i reali limiti che tale concessione comportava. Vale a dire, se per gli abitanti di Sermoneta, l'accesso al bosco implicava la possibilità di tagliare legna secca e verde, raccogliere frutta e fare carbone a volontà, per i vassalli dei Caetani di Maenza questo consentiva unicamente ed esclusivamente
di cogliere la cosiddetta ligna morta, come del resto succedeva in tutti gli altri boschi della zona ^. Intorno a queste due tesi contrapposte si sviluppa tutta la vertenza e ogni testimone prende partito in favore di una o dell'altra parte in funzione di quello che sa per esperienza personale o di quello che ha sentito dire. Molte delle persone interrogate alludono al fatto che tutti i castellani di Norma — compresi quelli del tempo di Alessandro VI — non potevano limitare l'uso estensivo che del bosco facevano gli uomini di Sermoneta poiché essi « hanno autorita di fare omne legname ». Con evidente chiarezza, dalle parole
dei
testimoni
di
Montelánico,
Segni,
Carpineto,
Cori,
Maenza o Roccagorga traspare un atteggiamento di ostilità verso i privilegi riservati ai sudditi del signore di Sermoneta. Tuttavia, alcuni testimoni menzionano esplicitamente l'esistenza di patti scritti, Cosi, per esempio, Andrea Pietro Cole di Montelánico che racconta un episodio accadutogli quando era guardiano della selva di Norma per incarico di Raimondo di Maenza. Alcuni uomini di Sermoneta vennero scoperti nel bosco mentre raccoglievano castagne e tagliavano legna
« viva e fresca » e furono loto confiscati gli attrezzi ed i frutti.
Questi però si recarono a Montelánico con diversi capitoli sottoscritti dai signori di Sermoneta e di Maenza secondo i quali nel bosco di Norma era loro concesso di fare tutto ciò ed ottennero la restituzione dei beni senza dovere scontate o pagare alcuna pena. Una prestigiosa conferma della linea di difesa adottata dai sermonetani proviene dal già ricordato dominus Placentibus di Sanedris di Amelia che si definisce « amicus et servitor tam dominus Sermoneta et Bassiano quam dominus Maglie » e
dichiara che proprio in ragione di questo stretto rapporto di fiducia con entrambe le parti, fu chiamato per mediare nella sti-
pula delle suddette conventiones per lo sfruttamento del bosco
di Norma. Secondo lui, l'atto notarile, sottoscritto da Onorato III e Cristoforo nella chiesa di San Martino, dava ai vassalli di Onorato la facoltà di entrare nel bosco per pascolare, coltivare, tagliare e trasportare qualsiasi tipo di legna. Viceversa, stando alla versione fornita dai vassalli dei Caetani di Maenza, durante
gli ultimi anni, gli abitanti di Sermoneta erano stati più volte
La signoria di Sermoneta tra i Borgia e i Caetani
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espulsi dal bosco di Norma per aver tagliato alberi da‘frutto ed avere fatto furtivamente una carbonaia, poiché potevano en-
trare nel bosco di Norma per tagliare la legna secca solo con la
licenza dei signori di Maenza.
m.
Alla fine, la sentenza del giudice chiamato a dirimere il con-
tenzioso dette ragione agli abitanti di Sermoneta che in questo modo potettero continuare a trarre il massimo vantaggio dal bosco. Tuttavia, il testo del 1507 non soltanto ci offre una prova
concreta della profonda conflittualità per l'uso di un patrimonio, come quello boschivo, sempre più scarso, ma dall’insieme delle dichiarazioni è possibile estrarre una serie di interessanti particolari sulla situazione socio-economica di Sermoneta tra il ‘400 ed il 500. Una città in crescita
La prima constatazione da farsi è che Sermoneta, per lo meno
dall'ultimo quarto del XV secolo, si presenta come una realtà castrense in piena crescita demografica ed urbanistica. Questo quadro è avallato dal fatto che molti dei testimoni chiamati a depotre erano originari di altre regioni della Penisola Italiana. A confessare di vivere stabilmente a Sermoneta .da almeno 15 o 20 anni sono: Agostino di Milano; i fratelli Tadei, lombardi; Salvatore Mattei di Carrara, Antonio Pietro Franci
sco di Varese, Lorenzo Donato Guastaferri del Regno;
Gio-
vanni Antonio Baptiarius di Mantova ed il già citato dominus Placentinus de Senedris di Amelia. Anzi uno di loto dimostra una grande propensione agli spostamenti dal momento che
precisa che perfino dopo essersi installato a Sermoneta era ritor-
nato molte volte al paese natale in Lombardia. Rappresentanti di un continuo movimento migratorio interregionale, questi foranei rivelano, con la loro semplice presenza, le ottime prospettive di inserimento occupazionale che offriva la Corte di Sermoneta, tta Onorato III e suo figlio Guglielmo, intervallo borgiano compreso P.
Testimonianze dirette a proposito dell'ampiamentó dello spa-
zio edificato le troviamo nelle deposizioni di Giovanni Rauti di Monte
San Giovanni
(nel 1507
commissiona la costruzione di
una casa) e del frate Benedetto Donati di Viterbo spedito nel castro come delegato alla fabbrica del convento «di San Francesco fuori le mura”. Segnali inequivocabili di un. caseggiato in via di addensamento ma se non fosse' sufficiente, di questa tendenza sono prova anche le professioni svolte dalla maggior patte degli immigrati citati nel testo del 1507: maestri mu-
ratori e falegnami incaricati della costruzione di case". Non c'è
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dubbio che ci troviamo davanti ad una mano d'opera foranea qualificata © che incontra a Sermoneta condizioni molto favorevoli per la sua piena integrazione nel seno della comunità locale. Alcune di queste maestranze confessano di aver contratto matri-
monio con donne del castro per divenire cittadini di Sermoneta ed in questo modo, poter accedere liberamente al bosco di Norma per rifornirsi del legname necessario per il loro lavoro. Il bosco di Norma, inoltre, non costituiva solo la riserva di legname privilegiata degli artigiani edili di Sermoneta, ma era, anche il luogo di rifornimento di carbone e legname per la ferriera di Ninfa. Cola Antonio Zinzi di Core dichiara di aver visto ripetute volte nel bosco i carbonari del nobile romano Paolo dei Massimi che facevano carbone e tagliavano tavole di castagno
per poi trasportarle fino alla ferriera del cui sfruttamento era
responsabile il mercante romano al quale, Onorato III nel 1471, aveva concesso la facoltà di servirsi dei castagneti di Norma e Bassiano *. Allo stesso modo, dal bosco di Norma provenivano le travi usate — verso il 1487 — per restaurare la chiesa di Sant'Angelo di Ninfa *, Così, almeno, ricorda Paolo Augustino di Montelánico, carrettiere.
In conclusione in questo frangente, il bosco di Norma si rivela un tassello chiave all'interno di quello che in un certo senso potremmo definire un sistema economico regionale nettamente squilibrato. In esso si incontrano (e si scontrano) gli interessi e le aspirazioni degli abitanti di diverse comunità dei Monti Le-
pini. Quelli di Cori, Montelanico, Segni o Carpineto che pote-
vano sfruttarlo solo come spazio di caccia o di pascolo e quelli
di Sermoneta o Bassiano che potevano anche tagliare la legna,
raccogliere frutti, produrre carbone e soprattutto, coltivare la terra. Un tema ricorrente nella quasi totalità delle deposizioni, oltre al taglio indiscriminato degli alberi da parte dei cittadini di Sermoneta,
è, infatti, il fatto che alcuni suoi abitanti avevano
appezzamenti agricoli nel bosco di Norma * verso cui si comportavano come veri proprietari. « Ipsi patroni disponebant pro eorum comodo et uso pro ut veri patroni possessionum disponere posuit sine aligue contradictione », dice Cola Giovanni di
Segni, ed Antonio Liccardi di Sermoneta aggiunge, « ba veduto
alcuni di quelle disporre come vere cose proprie faciendole lavorare ad altri et recipere e fructi ». Abbiamo, ed in questo senso le testimonianze sono tra loto concordanti, un bosco parzialmente dissodato e ridotto nelle dimensioni da un'attività agricola che, alla fine del Quattrocento ha soppiantato, o per lo meno, sottratto terreno alle tradizionali attività silvo-pastorali. Per il momento, non & possibile precisare il punto di partenza di queste modificazioni del paesaggio e tanto meno stabilite se all'epoca dell'inchiesta si trattasse di una situazione ferma nel tempo
La signoria di Sermoneta tra i Borgia e i Caetani
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o di un processo in pieno sviluppo ma, a ridosso di questo articolato rapporto tra terreno coltivato ed incolto, vengono alla
luce i risultati immediati di un effettivo processo di privatizzazione del suolo a scapito sia dello sfruttamento collettivo dello stesso, sia del potere signorile che di fatto perde il controllo sul territorio e parte dei suoi diritti su di esso. Se si pensa che giuridicamente il bosco di Norma apparteneva al feudo dei Caetani di Maenza, il fatto che gli abitanti di Sermoneta fossero riusciti a passare da semplici usufruttuari del bosco a veri proprietari starebbe ad indicare la debolezza dei primi e la capacità
di imporsi dei secondi.
|
Note 1 Tracciare un minimo di bibliografia sulla famiglia Borgia significa, per comprensibili ragioni di spazio, dare priorità ad alcuni lavori di carattere generale nei quali si pud apprezzare il vivo interesse che, ancor oggi, suscitano personaggi come Álessandro VI, Lucrezia o Cesare, tutti profondamente radicati nell'immaginario collettivo. M. MENOTTI, I Borgia. Storia e iconografia, Roma 1917; in., Documenti inediti sulla famiglia e la corte di Alessandro VI, Roma 1917. P. DE ROO, Material for a history of pope Alexander VI, Bruges 1924; G. PEPE, La politica dei Borgia, Napoli 1945; 6. soranzo, Studi intorno a papa Alessandro VI Borgia, Milano 1950; r. HAvWARD, L'enigme des. Borgia, Paris 1955; A. LATOUR, The Borgias, London 1963; c. rusERO, I Borgia, Milano 1966; ME. MALLET, The Borgias: the rise and fall of Renaissance dynasty, London 1969; m. Brion, Les Borgia. Le pape et le prince, Paris 1979; 1. CLOULAS, Les Borgia, Paris 1987; Dizionario biografico degli italiani, 12, Roma 1970, pp. 690-737. 2 G, CAETANI, Domus Caietana. Storia documentata della famiglia Caetani, Sancasciano Val di Pesa 1927-1933; c. FALCO, Sulla formazione. e costituzione
della signoria dei Caetani, in « Rivista Storica Italiana », 45, 1928, pp. 225-278;
M. VENDITTELLI, « Domini» e « universitas castri » a Sermoneta nei secoli XIII e XIV. Gli statuti castellani del 1271 con le aggiunte e le riforme del 1304 e del secolo XV, Roma 1993; Dizionario biografico degli italiani, 16, Roma 1973, pp. 111-229; Ninfa una città, un giardino, Atti del Colloquiò della Fondazione Camillo. Caetani (Roma-Sermoneta-Ninfa 7-9 ottobre 1988), a cura di L. Fiotani, Roma 1990. | 3 p, GREGOROVIUS, Lucrezia Borgia, Roma 1982 (12:ed. in tedesco del 1874). 4 G. CAETANI, Regesta chartarum. Regesto delle pergamene dell Archivio Caetani, Perugia-Sancasciano Val di Pesa, 1922-1932, VI, p. 174. .;
5 Ivi, VI, p. 192.
A OR
6 Litigiosità causata soprattutto dall'uso dei corsi d'acqua e dalla delimitazione dei confini territoriali, M.T. CACIORGNA, Organizzazione del. territorio e classi sociali.a Sezze (1254-1348), in « Archivio società romana storia patria », 104, 1981, pp. 54-59; dalla stessa auttice, Marittima medievale. Territori, società poteri, Roma 1996. 7 2. della bolla di scomunica in CAETANI, Regesta chartarum, VI, pp. 210-211. :
8 La tradizione vuole che al comando
delle truppe pontificie si trovasse
proprio Cesare Borgia, CAETANI, Domus Caietana, 1, 2, p. 230. ? 1. SALVATORELLI, Sommario della storia d'Italia, Torino 1978, 10 p, GREGOROVIUS, Storia della città di Roma nel Medio Evo, 4, p. 117; A. coppi, Memorie Colonnesi, Roma 1855, pp. 245-248; I Colonna dalle origini all’inizio del XIX secolo, Roma 1927, pp.
. pp. 292-296. Roma 1901, P. COLONNA, 103-116.
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Manuel Vaquero Pifieito
11 GREGOROVIUS, Lucrezia Borgia, pp. 165-167. Elenco dei luoghi che componevano questi due ducati in PEPE, La politica dei Borgia, pp. 294-295. 2 Edizione della bolla in A. RONCHINI, Documenti Borgiani dell’Archivio di Stato in Parma, in Atti e memorie delle rr. Deputazioni di storia patria per le provincie dell'Emilia, I, 1877, pp. 52-61. L'autore fa riferimento all'esistenza nell’Archivio di Parma di un rogito del notaio Stefano di guond. Alessandro di Narni contenenti documenti riguardanti Giovanni e Rodrigo Borgia. 13 Il fratello Cesare non considerava Lucrezia adatta alla gestione di uno stato, CAETANI, Domus caietana, 1, 2, p. 238. In realtà, Lucrezia aveva una buona esperienza nella risoluzione degli affari di palazzo: era stata nominata governatrice di Spoleto ed in più di una occasione, con grande scandalo di certi circoli romani, era rimasta in Vaticano come rappresentante del papa con il permesso di aprire le lettere, GREGOROVIUS, Lucrezia Borgia, pp. 151-152; m., Storia di Roma, pp. 103 e 117. F. MANCINI, Lucrezia Borgia governatrice di Spoleto, in « Archivio storico italiano », 414, 1957, pp. 182-187. 14 Unico figlio nato dall'unione tra Lucrezia e il duca di Bisceglie, Alfonso d'Aragona. Il ducato di Nepi passa a Giovanni Borgia, un'altro piccolo fanciullo figlio dello stesso Alessandro VI e di madre romana sconosciuta. 15 In un primo momento, Alessandro VI sceglie come curatores di Rodrigo e Giovanni quattro cardinali (Antoniotto Pallavicino, Gianantonio Sangiorgi, Ippolito d'Este e Francesco Borgia) ma i tre primi, rinunciano alle sue prerogative e affidano tutta la responsabilità a Francesco Borgia. 16 Ogni mese, la Camera Apostolica pagava il castellano della rocca e la truppa che era sotto il suo comando, ASV, Div. Cam., 53, ff. 182v; Div. Cam., 54, ff. 38v e 151v; Int. et Exitus, 532, f. 77. L’incarico venne affidato ad un certo Michaele de Fuente Rabie, di indubbia origine spagnola il quale viene menzionato anche come comestabili et prefecto ad custodiam arcis terre Sermoneta; come guarnigione, nel 1500 appaiono 100 fanti e nel 1502, 25 balestrieri. A testimoniare la grande importanza militare conferita dai Borgia a Sermoneta è la celerità con cui si realizzarono alcuni lavori di ampliamento e consolidamento nella fortezza. Sulla portata di questi interventi architettonici si veda il lavoro di T. Scalesse in questo stesso volume. Anche la rocca di Nepi fu rinforzata sotto la dominazione borgiana, Archivio Segreto Estense. Sezione Casa e Stato, a cura dell’Archivio di Stato di Modena, Roma 1953, p. 186. Per il controllo
della vicina Anagni, cfr. M. BATLLORI, Bernardino López de Carvajal. Leynolo
de Alejandro VI en Anagni 1494, in « Miscellanea Historiae Pontificine », XXI,
1959, pp. 171-188.
17 L. von PASTOR, Storia dei papi dalla fine del medio evo, III, Roma 1959, pp. 518-519, 548-549; crecorovius, Storia della città, pp. 103-104. 18 Sulla politica dei diversi stati italiani fra la fine del ’400 e l’incoronazione dell'Imperatore Carlo V a Bologna (1530) che per molti segna l’imporsi egemonico della Spagna nello scenario peninsulare, cfr. c. CIPOLLA, Storia delle signorie italiane dal 1313 al 1530, Milano 1881; c. VIVANTI, La storia politica e sociale. Dall’avvento delle signorie all’Italia spagnola, in Storia d'Italia, 2, I, Torino 1974, pp. 275-427; m., La crisi del Cinquecento: una svolta nella storia d'Italia?, in «Studi Storici», 30, 1980, 1, pp. 5-23; E. FASANO GUARINI, Gli stati dell’Italia centro-settentrionale tra Quattro e Cinquecento: continuità e trasformazioni, in « Società e storia », VI, 1983, 21, pp. 617-639; E. STUMPO, I/ sistema degli stati italiani: crollo e consolidamento (1492-1559), in La Storia. I grandi problemi dal medioevo all'età Contemporanea. L'età moderna, Torino 1986, pp. 35-54. 19 y. DELUMEAU, Les progrèse de la centralisation dans l'Etat. pontifical an XVIe siècle, in « Revue historique », CCXXVI, 1961, pp. 399-410. 2 Vanno ricordati i lavori di P. PRODI, I] sovrano pontefice, Bologna 1982;
M. CARAVALE - A. CARACCIOLO, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX,
Torino 1978; P. PARTNER, Lo Stato della Chiesa nel XV e nel XVI secolo, in Storia della società italiana. 8. I secoli del primato italiano: il Quattrocento, Milano 1988, pp. 399-435; c. soranzo, Due singolari giudizi sul governo temporale dei papi della fine del secolo XV e dei primi anni del secolo XVI, in « Studi romagnoli », 11, 1960, pp. 337-347. Per uno stato della questione, S. CAROCCI, Governo papale e città nello Stato della Chiesa. Ricerche sul Quattrocento, in Principi e città alla fine del Medioevo, S. Miniato 1996, pp. 151-224. 21 Mentre per gli stati cittadini del 300 le signorie rurali erano una minaccia
La signotia di Sermoneta
tra i Borgia e i Caetani
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da eliminare, gli stati rinascimentali le integrano e le trasformano in strumento di potere e controllo al servizio del principe che, una volta assoggettati 1 feudatari ribelli, non procede alla soppressione dell'istituto del feudo signorile, ma lo concede a personagei
sicuri e fedeli, c. cHITTOLINI,
alla fine del medioevo, in Storia d’Italia. 4. Comuni
Signorie
rurali e feudi
e signorie:
istituzioni,
società e lotte per l'egemonia, Torino 1981, pp. 640-642. 22 CARAVALE - CARACCIOLO, Lo Stato pontificio, p. 154. . 2 G. CAETANI, Varia. Raccolta delle carte più antiche dell'Archivio Caetani e regesto dellè pergamene del Fondo pisano, Città del Vaticano 1936, p. 320. 24 m., Regesta chartarum, VI, pp. 231-236. 25 Devoluzione del casale.
26 Vedi infra.
21 Ivi, pp. 236-237. 28 Il testamento è datato al 21 gennaio 1516, ivi, pp. 297-298. 29 Conventiones per la locazione delle peschiere di Foceverde nel fezizzento di Ninfa, ivi, p. 295. Allo stesso modo, il 26 giugno 1519, Guglielmo riceve dal nobile romano Giuliano Leni 3000 ducati larghi d'oro per l'affitto di alcuni
casali, Archivio Capitolino di Roma, Fondo Notarile, Sez. I, 593, 2, ff. 90r-90v.
I rapporti d'affari tra i Caetani e Giuliano Leni proseguirono anche dopo la morte di Guglielmo. Così, sappiamo che il 29 maggio: 1522, Giuliano Leni vende a Camillo Caetani i bufali che aveva nel territorio di Sermoneta; il prezzo (totale o patziale) doveva essere l'equivalente in grano, ivi, 1, ff. 501507. 30 cAETANI, Domus Caietana, 2, pp. 11. 31 pp, Regesta chartarum, VI, pp. 245-246. 32 Breve di Leone X che chiede a Guglielmo la sua collaborazione per la bonifica del territotio pontino, ivi, pp. 287-288. 33 m., Domus Caietana, 1, 2, p. 238. Identico tratto di favore fu dispensato ad Ardea e Rocca Priora con un breve del 22 agosto 1501, G. TOMASSETTI, La Campagna romana antica, medioevale e moderna, 2, Roma 1910, p. 454;
3, Roma 1913, p. 534.
34 p. PANTANELLI, Notizie storiche della Terra di Sermoneta, I-II, ed. a cura di L. Caetani, Roma 1908-1909, IT, p. 533. 35 Roma, Archivio Caetani, schedario. 36 PANTANELLI, Notizie storiche, pp. 630-633. 37 CAETANI, Regesta chartarum, VI, pp. 10-11, 39, 103. 38 Archivio di Stato di Modena, Amministrazione dei principi, 1140, f£. 1459. 150v; Roma, Archivio Caetani, Perg. s. 2302. 39 Archivio di Stato di Modena, Amministrazione dei principi, 1140, ff. 176178. Di norma, gli impianti di trasformazione (forno, macelli, mulini, frantoi) appartenevano al signore che procedeva a gestirli in regime di monopolio, A. CORTONESI, « Dominatus castri v. Ordinamento fondiario e prestazioni d'opera nel
Lazio dei secoli XIII-XIV, in Terre e signori nel Lazio medioevale. Un’econo-
mia rurale nei secoli XIII-XIV, Napoli 1988, pp. 205-208. 4 M. vAQUERO PINEIRO, Il Liber Arrendamentorum dei ducati di Nepi e Sermoneta (1501-1503), in « Archivio della Soc. rom. di St. patria », 117 (1994), pp. 171-186. ^! CORTONESI, « Dominatus castri », pp. 183 ss. 42 p, VILLARI, Signoria rurale, feudalità, capitalismo nelle campagne, in « Quaderni storici », 19, 1972, p. 19. Su questa problematica rimane obbligatorio il riferimento a G. GIORGETTI, Contadini e proprietari nell Italia Moderna, Torino 1974. d 43 Roma, Archivio Caetani, Miscellanea, 11/32. cAgETANI, Domus Caietana, JI, pp. 17-18. 4 La data post quem potrebbe essere il 17 settembre 1501 quando come
signore di Sermoneta subentra Rodrigo Borgia una volta che sua madre aveva rinunciato ai suoi diritti. Nella costola finale del codice appare cancellata la firma di Luctezia Borgia, fatto che renderebbe più facile ipotizzate che lo Statuto di Sermoneta fu redatto mentre lei ancora godeva della sua Signoria; diversamente se lo statuto fosse stato redatto dopo il 17 settembre 1501, la
firma che in teoria satebbe dovuta figurare sarebbe stata quella del cardinale Francesco Borgia, curatore del piccolo Rodrigo. 45 A. ILARI, Frascati tra Medioevo e Rinascimento
con gli statuti esemplati
nel 1515 e altri documenti, Roma 1965; E. MONACI, Antichi statuti volgari del
140
Manuel Vaquero Pifieiro
castello di Nemi, in « Archivio della soc. rom. di st. patria», XIV, 1891, pp. 437-451. 46 Di recente pubblicazione a cura di VENDITTELLI, « Domini » e « universitas Castri », passim. 47 Tvi, pp. 31-37; J.C. MAIRE VIGUEUR, Comuni e signorie in Umbria, Marche e Lazio, Torino 1987, pp. 54-57. 48 La concessione ai signori del titolo di duchi o marchesi è il segno che annuncia il passaggio dalla signoria al principato. Adesso, il signore diventa principe, sovrano dei suoi domini; il popolo diventa suddito e la legislazione ritorna al vertice, G. AMBROSINI, Diritto e società, in Storia d'Italia. 1. I caratteri originali, Torino 1972, pp. 358-359. 49 VENDITTELLI, « Domini» e « universitas castri », p. 43. 50 Roma, Archivio Caetani, Miscellanea 11/32, I, cap. 2-4. 3! Il ricorso a questa formulazione per delimitare la sovranità giurisdizionale é stato considerato come una chiara proiezione della legislazione cittadina nell'assetto e nella fisionomia delle signorie del tardo medioevo, CHITTOLINI, Sigrorie rurali, pp. 634-638. 52 Se per l'epoca medioevale le figure di castellanus e capitanus castri si possono assimilare, durante la dominazione borgiana si stabill una precisa distinzione di ruoli tra le due cariche: la prima militare, la seconda giudiziale. Sul ruolo di capitano e pià in generale, sull'amministrazione della giustizia nelle signorie rurali, MARIE VIGUEUR, Comuni e signorie, pp. 23-24. Per il caso specifico di Sermoneta cfr. il contributo di M. Mombelli in questo stesso volume. 5 Roma, Archivio Caetani, Miscellanea 11/32, I, cap. 5.
54 Ivi, cap. 6-7.
355 Ivi, cap. 9. 36 Tvi, cap. 15. 57 VENDITTELLI, « Domini» e «universitas castri », p. 43. Sulle mansioni e gli obblighi del vicario quale delegato del signore, A. corTONESI, La signoria degli Orsini sul castello di Marino agli inizi del Trecento, in Terre e signori, pp. 227-230. 58 Roma, Archivio Caetani, Miscellanea 11/32, I, cap. 8. 59 Su questo punto specifico, il testo borgiano appare modificato. Dov'è indicato il numero dei consiglieri è stato scritto posteriormente XIIII, ossia duos pro quolibet decartia, ma più avanti — sempre stando alla stesura originale — si legge ex quibus duodecim bomines. Questa discrepanza avvalorerebbe l'idea che durante il periodo borgiano, il consiglio di Sermoneta continuava ad essere formato da 12 persone. Precisamente, secondo le riforme del 1304 gli abitanti di Sermoneta avevano diritto ad eleggere 12 consiglieri, VENDITTELLI, « Domini » e « universitas castri », pp. 45 e 68. 6 Roma, Archivio Caetani, Miscellanea 11/32, II, cap. 46 e 47. 61 Ivi, IV, cap. 12 e 13; V, cap. 15 e 17. 62 Ivi, III, cap. 55; IV, cap. 11 e 16; VI, cap. 16. 63 De plantandis vel inserendis arboribus, ivi, VI, cap. 14. Secondo questa capitolo, ogni abitante di Sermoneta proprietario di una vigna, un orto o un campo tutti gli anni doveva piantare quattro diversi alberi da frutto tra cui vengono citate le seguenti spezie: Pruna damascena, Pruna de fratri, Pira ruspida, Pira glaciola, Pira muscarolla, Precoqua de Damasco, Precoqua de Margret, Azarolla, Albergica alba, Albergica rubea; le piante dovevano venire da Napoli, Gaeta, Fondi e persino, dalla-lontana isola di Calino. 6 Viene stabilito che ogni cittadino di Sermoneta doveva seminare annualmente almeno due Zizelli di grano, Roma, Archivio Caetani, Miscellanea 11/32, V, cap. 23. Su questa problematica, L. PALERMO, Politica annonaria e normativa statutaria nei comuni laziali bassomedievali: la questione dell'offerta, in Statuti e Ricerca Storica, Atti del Convegno, Ferentino 11-13 Marzo 1988, sl. 1991 (Comune di Ferentino. Quaderni di Storia, 8), pp. 181-208. 65 VENDITTELLI, « Domini» e « universitas castri », pp. 62 e 70-71. 6 In realtà, nell'ordinamento della signoria laziale, già dal '200-300, Ia curia imponeva agli uomini del castello prestazioni e servizi poco onerosi, CORTONESI, Dominatus castri, pp. 192-195. 67 Roma, Archivio Caetani, Miscellanea 34/49. Esistono due copie delta fine del '500, ivi, Miscellanea 45/38 e 52/34. 68 Ivi, Miscellanea 11/32, IV, cap. 2-6.
La signoria di Sermoneta tra i Borgia e 1 Caetani
141
6 Tvi, V, cap. 6-10. 70 Ivi, cap. 4-5. 71 Ivi, Miscellanea 44/33, IV, cap. 22. In PANTANELLI, Notizie storiche, 2, pp. 67-69. 72 Ivi, (alla fine del libro V). 73 Roma, Archivio Caetani, Miscellanea 12/897.
74 Norma venne venduta da Giovanni Giordano da Norma al cardinale Be-
nedetto Caetani nel 1292; quest’ultimo quando fu nominato Papa (Benedetto XIII), procedette a infeudarla a favore di Pietro Caetani, G. SILVESTRELLI, Città, castelli e terre della regione romana. Ricerche di storia medioevale e moderna sino all'anno 1800. Roma 1940, p. 112. 7$ CAETANI, Regesta chartarum, V, pp. 292-293.
76 Ivi, VI, pp. 58-61.
7! Ivi, p. 129. 78 Per la legislazione statutaria laziale in matetia di sfruttamento del manto boschivo, A. CORTONESI, Colture, pratiche agrarie e allevamento nel Lazio bassomedioevale. Testimonianze dalla legislazione statutaria, in « Atchivio della soc. rom. di st. patria », 101, 1978, pp. 206-217. 79 Per l'epoca di Onorato III vedasi, P. pavan, Ninfa e i Caetani nel Quattrocento, in Ninfa, una città, pp. 144-147. 80 Il 23 luglio del 1495, Alessandro VI autorizzò di finire la costruzione « della casa con la chiesa » di S. Francesco e ne concesse l’uso e i privilegi al guardiano e ai frati dell’ordine, (Roma, Archivio Caetani, Schedario). 81 L'attività edilizia costituisce uno dei settori industriali di Roma e del Lazio dove più marcatamente si riscontra una forte presenza d’immigrati, soprattutto lombardi e toscani. A.M. CORBO, Artisti e artigiani in Roma al tempo di Martino V e di Eugenio IV, Roma 1969; E. LEE, Workmen and work in Quattrocento Rome, in Rome in the Renaissance. The city and the mytb, Binghamton 1982, pp. 141-152; A. BERTOLOTTI, Artisti lombardi a Roma nei secoli XV, XVI e XVII. Studi e ricerche negli archivi romani, Milano 1881. 82 Emblematico è il fatto che Alessandro VI affidò i lavori di ampliamento della rocca di Sermoneta a « magister Iohanni Anestasio florentino e maestro lohanello da Milano habitante in Sermoneta architecti », CAETANI, Domus caietana, 1.2, pp. 231-232. 83 « Et son d'achordo che Paulo possa liberamente a suo piacere de li castagnieti et altro legniame, che buono sia et usato a simil mestieri, ne li boschi
de la tenuta de Norma et de Bassiano, dove più chomodo li sia, far fare tutto
lo charbone necessario per la detta fabrica, chomenzando prima allo legniame morto, se buono è, et se non del vivo dove chomodamente si possa fare la charvoniera », A. ESPOSITO, Economia e società a Ninfa alla fine del Medioevo: popolamento e attività produttive, in Ninfa, una città, p. 110. 8 Potrebbe trattarsi della stessa chiesa di Sant'Angelo che è stata identificata con l'odierno edificio di S. Giovanni, c. CARBONARA, Edilizia e urbani. stica di Ninfa, in Ninfa, una città, p. 230. Se così fosse, la notizia sarebbe di un certo interesse per la storia dell’architettura religiosa a Ninfa perché correggerebbe l'idea secondo cui Santa Maria Maggiore sarebbe stata (nel 1448) l'ultima chiesa restaurata a Ninfa, PAVAN, Ninfa e i Caetani, p. 143. 85 Sin dal pieno medioevo, vi era notevole rivalità tra le comunità nel Lazio meridionale per garantitsi un più ampio sfruttamento dei boschi, A. CORTONESI, La silva contesa. Uomini e boschi nel Lazio del Duecento, in Il boscho nel Medioevo, Bologna 1988, pp. 303-320. Tuttavia, in epoca contemporanea, non mancano esempi di comunità laziali che si scontravano per il diritto di legnalico, P. SANTONI, La controversia tra anagnini e ferentinati sul diritto di legnatico
nella macchia di Anagni attraverso la documentazione dell Archivio comunale
di Ferentino, in Per la storia economica e sociale di Ferentino. Itinerari di ricerca, Ferentino 1993, pp. 85-94. 86 Tutti i testimoni dichiarano all'unanimità che questi fondi erano registrati nel catasto vecchio di Sermoneta e che i loro proprietari pagavano regolarmente alla Camera apostolica la tassa del sale.
Maria
Grazia Pastura
Linee di tendenza della fiscalità pontificia nel Lazio meridionale
e a Sermoneta
(secoli XV-XVI)
E concotde opinione degli storici che il controllo della fiscalità è — tra gli strumenti utilizzati dai formatori di. stati dell'età moderna — uno dei più importanti ed efficaci; e che il perfezionamento degli strumenti fiscali, come l'aumento progressivo della pressione sulle terre soggette, è un itinerario classico nella vicenda della formazione degli stati regionali. Lo scopo che mi prefiggo non è quello di tracciare un quadro completo della fiscalità pontificia nel Lazio meridionale tra
Quattro e Cinquecento, ma piuttosto quello di evidenziare al-
cuni momenti salienti del processo di trasformazione; momenti che, a mio parere, sono strettamente legati ad altrettanti passi
— più o meno significativi — sulla via dell'affermazione del primato della Curia romana sui particolarismi locali, di natura municipale o feudale. ' Nel faticoso percorso verso la ricostruzione e il successivo consolidamento del controllo sul territorio, i punti salienti della politica pontificia tra Quattro e Cinquecento sono, a mio parere, i seguenti:
—
a metà del Quattrocento, la riorganizzazione dell'esazio-
ne della tassa del sale sulle terre mediate e immediate subiectae
dipendenti dalla salara di Roma e il conseguente pieno recupero dell'esercizio della potestas imperii sulle terre dell’antico distretto dell'Utbe — e tra queste la Marittima — nei confronti
del Municipio romano; — a partire dalla fine del secolo XV, l'affidamento delle rendite fiscali e patrimoniali dello stato — potremmo dire l’alie-
nazione di queste rendite — alle grandi case mercantili « Romanam curiam sequentes », ed il conseguente avvio di una ‘più stretta alleanza tra Curia romana e banche internazionali; — la nascita — subito dopo il Sacco di Roma ed in conse-
guenza delle enormi necessità di credito della Curia romana — di una nuova politica fiscale, che si affianca a quella quattrocentesca e che conosce tre lustri più tardi il suo momento
di
144
Maria Grazia Pastura
definitiva affermazione con Paolo III e con l'imposizione del sussidio triennale. Per delineare questo quadro non posso tuttavia fare a meno di tipercorrere una questione nodale che investe, nel periodo tardomedievale, il sistema dell’esazione fiscale nelle province soggette al Municipio romano, e che è essenziale per la comprensione degli sviluppi della fiscalità pontificia tra Quattro e Cinquecento. Mi riferisco precisamente all’esercizio delle tradizionali regalie del sale e del focatico su queste terre: esercizio che a partire dalla seconda metà del Trecento e pet tutto
il Quattrocento sembra in diversa misura appannaggio della Curia pontificia e di quella municipale di Roma. È forse superfluo sottolineare l’importanza del problema sotto il profilo istituzionale:. le due regalie sono infatti attributo di sovranità ed il loro esercizio è di per sé indicativo di una potestas imperii sul territorio.
È però opportuno sottolineare come attraverso queste
due ‘antichissime imposizioni passò il tentativo di Clemente VII, subito dopo il Sacco, di fondare una nuova fiscalità pontificia. Purtroppo la documentazione pervenutaci è assai frammentaria e ciò rende difficile andare al di là della formulazione di ipotesi. Fiscalità del Comune di Roma e fiscalità pontificia Giuseppe Tomassetti,
com'è noto, ha dedicato uno
studio
al problema del sale e focatico prendendo le mosse da un manoscritto conservato nella biblioteca comunale di Siena, che egli data all’epoca del tribunatodi Cola di Rienzo e che un più recente contributo di Jean Coste attribuisce al periodo della nuova edizione statutaria romana, cioè al 1363 !. Tomassetti afferma che gli spazi di potere lasciati vuoti dalla Curia pontificia nel corso del secolo XIV, segnato dal periodo della cattività avignonese e poi dal Grande scisma, furono occupati con successo dal Municipio romano, che dalla metà del secolo riuscì ad attrarre nella sua orbita di dominio numerose terre della Tuscia, come della Marittima, Campagna e Sabina, esercitando per conseguenza nei loro confronti le regalie sovrane che la tradizione ricollegava alla potestas imperii dell'antica Roma e che, con il venir meno di quella potestas, erano state esercitate dal papato, naturale erede dell’impero; il Dupré Theseider, precisando questa tesi, individua nel tribunato di Cola di Rienzo
il periodo della riaffermazione del controllo del Municipio romano sulle terre del distretto ?. Più recenti e raffinate analisi non ‘hanno
sostanzialmente
smentito questa
tesi ?.
- Tra le regalie recuperate si annoverano quella del sale — cioè l’esercizio del monopolio sulle antichissime saline di Ostia, che
Linee
di tendenza
della fiscalità pontificia
145
alimentavano la dogana di Roma — e quella del focatico, che
colpiva le comunità soggette in ragione del numero delle famiglie (fuóchi) che le componevano, entrambe: passate alla tradizione con il nome di sale e focatico. Cola di:Rienzo, secondo
il racconto dell'Anonimo, si vantava di avetñe portato la red-
ditività a livelli molto pià elevati che per il pássato, certamente esagerando, come tileva anche il Tomassetti, l'entità delle somme riscosse dal Comune di Roma*. Per contro non sembra che l'attività di esazione delle ST da parte della Curia pontificia si sia arrestata nel corso di quegli stessi anni. Il Favier, che ha dedicato un ponderoso studio alla finanza pontificia durante lo Scisma, ha rilevato utia graduale diminuzione, non un arresto, nella riscossione delle entrate temporali della Curia romana, ed ha anche sottolineato come questo processo di progressivo impoverimento delle rendite fiscali della Curia pontificia abbia subito un'invetsione di tendenza a partire dai pontificati di Bonifacio IX e di Tnnocenzo VII. Dalla fine del sec. XIV, infatti, alla riscossione della tassa dei fuochi e delle rendite delle salare dello Stato — esclu-
sa, come dirò, quella di Roma — e degli altri diritti sul terri-
torio, si accompagnò l'imposizione di nuove contribuzioni, sotto forma di taglie e sussidi imposti pet far fronte a spese straordinarie, prevalentemente militari*.
Si deve quindi dedurre da quanto premesso l'esistenza di una duplicità di poteri, comunale e curiale, e di una cotiseguente
duplicazione di imposte, che vengono pagate dalle ‘medesime
comunità e terre soggette a due distinte sovranità. : È con questa situazione che si trova a fare i conti Martino V, quando torna a Roma nel 1421, unico papa, sovranodi uno
stato da rifondare. È difficie dire, per la lacunosità delle fonti,
come si sia mosso. Si possono tuttavia fare delle ESS fondandole sui dati offerti dai documenti rimasti. I libri dei conti dei tesorieri provinciali — ‘ fonzionbità della Camera apostolica incaricati, com'é noto, della riscossione dei diritti sul territorio — conservati fino 4 noi documentano, a partire dal:1420, la riscossione di più o meno pesanti imposizioni, che nella Marittima colpiscono solo le comunità i#zmediate su-
biectae e vanno sotto il tradizionale nome di focolini, mentre nella Tuscia, seguendo la tradizione instaurata dai pontefici durante lo Scisma, assumono il nome di sussidio: Entrambe consistono in una taglia imposta ai comuni per pagare gli stipendi ai funzionari della curia provinciale e alle soldatesché mercenarie” Accanto a' queste i tesorieri riscuotono, almeno fino alla meta del Quattrocento, solo poche altre entrate detivanti da censi feudali minori e affitti di beni camerali, ‘gabelle di natura particolare e, nel Patrimonio, gli introiti di alcune città (per la
146
Maria Grazia Pastura
parte amministrata dai tesorieri stessi) e della salara di Corneto. Restano escluse le entrate della salara di Roma. Dobbiamo con-
cludere che l'esercizio di questa antica regalia nel distretto della capitale sia stata abbandonata dal papa al Municipio romano?
Non vi é infatti dubbio che, nello stesso periodo, le comunità del distretto continuino a pagare al Comune di Roma l’antica regalia del sale e focatico, sia pur con tutte le resistenze e le
eccezioni che nulla tuttavia tolgono all'affermazione del princi-
pio della sovranità.
Dobbiamo
riconoscere che si tratta di una questione piü
nominale che reale. In effetti le entrate del Comune di Roma
potevano ugualmente finire — e spesso finivano, tramite il te-
soriere della Camera Urbis, creatura del papa — nelle casse della depositeria generale della Camera apostolica, come attestano le scritture contabili del periodo. Inoltre di quelle regalie comunali il papa disponeva con piena libertà, destinandone l'introito al pagamento dei debiti della Sede apostolica o concedendo sgravi ed esenzioni ai comuni tributari, come provano le stesse scritture ?. Tuttavia l'attitudine del pontefice a rispet-
tare anche solo formalmente le prerogative del Municipio romano è di per sé significativa dei rapporti tra Curia municipale e Curia pontificia. Per venire all'argomento delle nostre riflessioni di oggi, Sermoneta non paga i focolini al tesoriere del papa, come fanno i
liberi comuni della Marittima, ma & regolarmente elencata tra le comunità tributarie della tassa del sale e focatico del Comu-
ne di Roma per 40 rubbi. Bassiano, l'altro feudo dei Caetani, é tassata per 10 rubbi, mentre Norma e Ninfa sono in lista ri-
spettivamente con una tassa di 10 e 30 rubbi che non pagano,
per essere regolarmente registrate tra le terre abbandonate dai loro abitanti. Nel primo registro pervenuto fino a noi Sermoneta non paga, né questa circostanza viene in alcun modo commentata. Per Bassiano è invece annotata, in data 20 dicembre 1426, una « protestatio » compiuta da Nicolaus de Bassiano, procurator et syndicus della comunità, che esibisce una lettera di esenzione dalla tassa concessa da Martino V. Le registrazioni successive ci informano di pagamenti relativamente regolari da parte di Sermoneta fino agli anni Cinquanta, seguite da un
periodo di evasione quasi sistematica dell'obbligo ?. Da un libro dei conti relativo agli anni Sessanta del secolo, apprendiamo
che la situazione del debito della città, tenuta a pagare ogni anno in due rate 50 fiorini e 4 soldi di moneta romana, è la
seguente: contro un debito di 601 fiorini e 1 soldo per gli anni
1458-1469 ha pagato il 30 dicembre 1467 359 fiorini, 23 sol-
di e 8 denari e il 4 aprile 1470 98 fiorini e 11 soldi; Bassiano
non é contemplata nell'elenco delle comunità debitrici. Ancora,
Linee di tendenza della fiscalità pontificia
147
nel libro mastro della Camera apostolica del 1477 la situazione debitotia di Sermoneta per questa tassa ammonta a 199 ducati romani, bolognini 37 e denari 8, mentre deve pagare 24 ducati, 37 bolognini e 8 denari per l'anno in corso. Non pagherà, portando il.suo debito complessivo a 224 ducati e. 20 bolognini.
Nel 1496; secondo l'ultimo libro dei conti per il sale e focatico pervenutoci, Sermoneta paga, per il suo debito di quell'anno, meno della metà del dovuto, cioè 24, 34 fiorini di moneta ro-
mana P,
|
À fronte di una resistenza evidente di Sermoneta— praticata del resto da molte altre comunità, baronali e non, del distretto — a pagare la tassa c’è l'altrettanto evidente volontà del Municipio romano (e della Camera) di riaffermare ogni anno
il diritto all'esercizio della regalia sovrana. Che l’azione dei magistrati romani non sia sempre coronata da successo nulla toglie, secondo me, al significato politico e istituzionale dell’imposizione. | A complicare la situazione si aggiunge, a metà del sec. XV, una nuova tassa del sale, questa volta intieramente camerale:
la tassà del sale a grosso. À partire dal 1449 sono conservati
i conti di Lorenzo Altieri, doganiere generale del sale, relativi alla distribuzione coattiva alle comunità di sale prelevato. dalla salara maggiore di Campidoglio; ma notizia di questa cafica, ticoperta dallo stesso Atieri, 6 presente anche in un registro del 1447-1448 della depositeria generale della Camera apostolica e in un uno della salara minore di Campidoglio, ugualmen-
te del 1447 9. Questo funzionario gestisce per conto della Ca-
mera apostolica il monopolio del sale sulla salara di Roma ‘e distribuisce a numerosissime comunità appartenenti alla Marittima, alla Campagna e alla Sabina — e in minor misura a quelle del Patrimonio, dipendenti dalla salara di Corneto — quantitativ; di sale imposti, a fronte dei quali le comunità debbono pagare alla Camera una tassa, detta del sale a grosso ". Pochi anni più tardi, precisamente nel 1453, un libro dei conti del doganiere generale Giovanni de Capoccis ci informa di una razionalizzazione e di un accentramento nella gestione del monopolio camerale-del sale, avvenuta probabilmente con provvedimento del 4 settembre 1452, come si rileva dalle annotazioni contenute nella stessa registrazione: la salata di Corneto e quella di Roma sono state unite in un'unica dogana, pur mantenendosi ancora una distinzione formale tra di esse; distinzione che rimatrà anche quando, negli anni Novanta del secolo, la dogana del sale sarà appaltata a compagnie mercantili.
A partire dalla riforma di Nicolò V, due tasse del sale (cioè quella, di origine comunale, del sale e focatico e quella, came-
rale, del sale a grosso) colpiscono i comuni del distretto. Forse
148
Maria Grazia Pastura
— ma 6 difficile affermarlo con un margine accettabile di probabilità — la duplicazione della tassa è da far risalire addirittura agli inizi del pontificato del suo predecessore, Eugenio IV. In un libro dei conti del doganiere della salara minore di
Campidoglio relativo all'anno 1443, tenuto dal notaio per conto di Pietro Antonio di Civita Ducale e Antonio da Sarzana —
che entrambi si fregiano del nuovo titolo « generalium dohanierorum Salarie Alme Urbis ceterarumque terrarum Ecclesie per Sanctissimum dominum nostrum deputatorum » — è registrato, a partire dal 17 dicembre 1443, il versamento di sale « quod datur comunitatibus, terris et dominis ecclesie subiectis pro subsidio per eos facto et fiendo Sanctissimo domino nostro et Camere apostolicae ». Comunità e feudatari della Marittima, della Sabina e della Tuscia pagano, per questo sussidio,
per quantitativi di sale maggiori di quelli abitualmente ritirati
per la tradizionale tassa del sale e focatico. Anche Onorato Caetani è tra i contribuenti: per Sermoneta deve pagare 50 rubbi di sale. Ma traccia di una tassa camerale del sale si trova già dal 1441; essa viene ancora riscossa nel 1446, sia pure con nomi e
modalità apparentemente diversi !*, È difficile dire, per l’estrema lacunosità dei documenti e per la scarsa perspicuità delle registrazioni pervenuteci, in cosa sia consistito il sussidio chiesto da Eugenio IV ai comuni e baroni romani, e se possa legittimamente ascriversi già al suo pontificato il tentativo di riorganizzare il monopolio del sale di Roma. Unici indizi di ciò sono il nome dato alla tassa nel 1443 — quello di « sussidio », tanto comune nelle imposizioni sovrane — e la circostanza che a riscuoterlo fossero dei doga-
nieri generali del sale. Possiamo però dedurre dai dati che assai probabilmente — come spesso accade — l’imposizione straordinaria introdotta da papa Eugenio abbia trovato una sua sistematizzazione dieci anni dopo ad opera del successore; e che l’introduzione della nuova tassa non impedì alla Camera di riscuotere, attraverso il Municipio romano, l’antica regalia del sale e focatico, secondo un meccanismo che costituirà una costante nello sviluppo della fiscalità pontificia. À questo proposito è interessante notare che la tassa del sale a grosso è pagata in ragione di tre ducati d’oro a rubbio di sale, mentre quella comunale è di poco più di un fiorino (pati circa alla metà del ducato) per ciascun rubbio. Per tutto il Quat-
trocento la tassa del sale e focatico è calcolata in fiorini e riscossa in ducati, e non viene rivalutata, perdendo conseguente-
mente di significato, anche dal punto di vista economico, nei
Linee
di tendenza
della fiscalità. pontificia
149
confronti della nuova tassa camerale. Tuttavia ancora negli anni
Settanta del Quattrocento, nel primo libro mastro della Came-
ra apostolica consetvato fino a noi (che è del-1477 ma riporta
riepiloghi contabili dal 1464), l’entrata del sale:e focatico, in-
sieme con poche gabelle comunali, è ancora formalmente ascritta alla depositeria della Camera Urbis. Essa serve per pagare gli stipendi e le spese correnti del Municipio romano. À sottolineare tuttavia il sostanziale asservimento della struttura fiscale
municipale agli interessi della Camera apostolica c'é il fatto che
la depositeria comunale è gestita da Meliaduce Cicala, mercante genovese che ricopre nello stesso tempo anche la ben più
importante carica di depositario del papa ".
La rinnovata capacità impositiva della Cutia papale, in altri
termini, sembra aver definitivamente ragione delle pretese co-
munali sulle antiche province dipendenti dal Municipio romano; essa inoltre, passando
attraverso l'esercizio di‘ una regalia
accettata per tradizione inveterata da tutte le comunità. del territorio delle antiche province, giunge a colpire; organicamente anche i luoghi baronali, generalmente esentati dal pagamento delle antiche tasse camerali — che si chiamassero sussidio o | focolino. Sermoneta e Bassiano sono assotbite in questa logica. La prima è colpita da una tassa di ben 120 rubbi di sale; la.seconda, esentata dalla tassa del sale e focatico, deve pagare per quella del sale a grosso.ben 50 rubbi. A questi quantitativi di sale corrispondono rispettivamente 360 ducati per Sermoneta e 150 per Bassiano: cifre considerevoli se paragonate a quelle che le due comunità dovevano pagare per la tassa comunale. Dal primo libro di conti della nuova tassa, del 1453, si rileva che Sermoneta paga in tre rate, tra il 10 febbraio e il 4 agosto di quell’anno, una parte considerevole dell'imposizione (316 ducati) mentre Bassiano paga tutto il dovuto in-due rate; in seguito il pagamento viene effettuato con una certa difficoltà, come dimostrano le registrazioni relative: agli anni. successivi 1455-1460 %. Ancora nel 1474 e nel 1475 le. due co-
munità ritirano regolarmente l'intiera quantità di sale”. Ma
nel già citato libro mastro del 1477, Sermoneta è dichiarata debitrice per l’anno precedente di 305 ducati e 34 bolognini e, alla fine dell’anno, di 241 ducati e 34 bolognini. Bassiano, de-
bitrice all’inizio dell'esercizio di 140 ducati e 25 bolognini, aumenterà il suo debito a 283 ducati e 25 bolognini ^. Sermoneta otterrà, nel 1501, l’esenzione dal pagamento
del sale é foca-
tico e la riduzione da 120 a 80 tubbi del sale: a grosso ?. Cio-
nonostante, da un elenco dei comuni debitori del sale-a grosso nel 1511, Sermoneta risulta debitrice di 620,37: ducati e BasE 7.2 Se siano di 293 ducati”.
150
Maria Grazia Pastura
Il caso di Sermoneta e Bassiano non è isolato. Ed è difficile dire se il debito che le comunità di Marittima e Campagna ac-
cumulavano nei confronti della Camera per il pagamento delle tasse dipendesse da una scarsa incisività dell’azione degli esat-
tori — incapaci di superare la riluttanza dei comuni, baronali e non, a pagare — o da una obiettiva incapacità contributiva. L’esazione, d’altronde, non sembra migliorare dopo che la salara venne concessa in appalto, nel 1496, a Benvegnato Armellini e soci. Le vicende di questo appalto — sostenuto da un gruppo di mercanti associati, tra i quali si contano i Della Casa, i Ghinuzzi, i Lomellini, i Bulgarini e gli Altoviti — sono riassunte in una transazione del 1509. Con essa si liquidano i consistenti debiti delle case mercantili per quel contratto, che si
rivela fortemente passivo proprio a causa delle resistenze incontrate nell’esazione. Tra i comuni debitori figura Anagni con
1092 ducati”. Continua quindi, nonostante l’intervento interessato dei mercanti e il loro strenuo impegno a rendere efficiente l’esazione, la situazione di difficoltà documentata dai tesorieri e doganieri funzionari di Curia. Nel 1503 la stessa salara viene appaltata a Paolo Sauli e ad Andrea Gentili, socio ed institore di Lazzaro Grimaldi, per
prezzo da dichiarare e con l’obbligo di anticipare 10.000 ducati d’oro alla Camera; nel 1508 prende in affitto la salara Giovan Battista Piccolomini, per la somma di 31.725 ducati. Questa volta nel contratto è previsto che la tassa che non si potrà riscuotere dai luoghi baronali andrà in debito alla Camera, se ascenderà alla somma di 1500 ducati: la clausola si commenta da
sé! 2
È tuttavia importante, a mio avviso, il fatto che la nuova tassa venga regolarmente esatta, sia pure con molta difficoltà, da tutte le comunità, mediate e immediate subiectae, delle antiche province di Roma e che venga da queste riconosciuta come legittimamente imposta dalla Curia papale. Attraverso questa capacità impositiva rinnovata sia nella forma che nel raggio di azione passa, tra il terzo e il quinto decennio del secolo XVI, il tentativo, di Clemente VII prima e
di Paolo III poi, di ridisegnare la fiscalità pontificia. In quali forme esso si sia espresso è sufficientemente noto. Più difficile
è documentare il grado di successo — o l’insuccesso — della politica clementina e le difficoltà che, pur nell’innegabile suc-
cesso finale, incontrò papa Farnese nell'imporre a tutte le co-
munità dello stato il pagamento del sussidio triennale: e ciò è
dovuto alla frammentarietà delle testimonianze documentarie
pervenuteci. Frammentarietà che è dovuta non soltanto alla per-
dita fisiologica delle scritture o agli effetti distruttivi del Sacco
di Roma (cui ancora vengono tradizionalmente e spesso immeri-
Linee di tendenza della fiscalità pontificia
tatamente asctitte le lacune documentarie), ma
soprattutto —
151
anche —
direi
alla molteplicità degli strumenti utilizzati dai
pontefici per l'esazione e all'avvio del processo di alienazione delle rendite pontificie in favore delle grandi case mercantili al seguito della Curia romana. Quest'ultimo fenomeno, che prende l'avvio nello scorcio del Quattrocento
per
subire
una
brusca
accelerazione
nel secolo
successivo, incide profondamente anche sulle modalità dell'esazione — che diviene un problema quasi privato del mercante appaltatore — e della rendicontazione alla Camera apostolica, e, di conseguenza, sulla struttura degli archivi. j
I Monti camerali e le nuove imposte
Il moto convulso delle alienazioni di rendite camerali — ne
restano fuori solo quelle meno interessanti per le case mercantili — è spia dell'inadeguatezza delle antiche entrate feudali a
sostenere la politica della Curia pontificia. Ed & appunto questa conclamata necessità di denaro, che si evidenzia in tutta la sua drammaticità dopo il Sacco di Roma, a dare l'avvio, nel terzo decennio del secolo XVI, ad una svolta fondamentale della fi-
,I nanza pontificia. È ben noto che a partire dal 1526 si inaugura, con i:Monti
camerali, una nuova forma di debito pubblico che, come ha sottolineato il Bauer, & più democratica e perció stesso più generalizzata ed ampia rispetto alla vendita dei costosissimi uffici di curia. Essa è sostenuta dal lancio di una nuova modalitàdi imposizione, che non sostituisce quella medievale, ma la affianca in
un tutbinoso susseguirsi di nuove tasse ?; queste generalmente non vengono riscosse attraverso i tradizionali canali —
tesoreri
provinciali e doganieri — ma vengono vendute in blocco ai
mercanti, talvolta anche prima della loro reale istituzione". Sono poi, generalmente, i fiduciari delle grandi banche appaltatrici coloro che vengono inviati sul territorio a riscuoterle, sotto veste
di commissari camerali autorizzati da patente del camerlengo.
Delle tasse introdotte da Clemente VII due mi sembrano particolarmente significative ai fini del discorso che sto coriducen-
do: quella.del ducato a foco e quella dell’aumento del sale, poi | trasformata in sussidio triennale, delle quali dirò.
Una terza tassa, quella. del mezzo per cento, è interessante . per il progetto politico che sottendeva. Essa doveva infatti col pire, analogamente alla proprietà ecclesiastica, anche la proptie-
tà laica, introducendo un principio assolutamente innovativo: quello di un rapporto diretto tra il sovrano e i suoi sudditi,
152
Maria Grazia Pastura
che superasse il diaframma frapposto dalla fiscalità comunitativa. In realtà Clemente, nel momento stesso in cui imponeva questa nuova tassa, si rendeva conto probabilmente della sua inattuabilità, e conferiva di conseguenza ai legati il potere di concordare forfettariamente con le comunità l'importo da pagare, ricadendo con cid negli schemi tradizionali della fiscalità classica, che — nello stato ecclesiastico come altrove — aveva nei centri di potere locali, e non nei singoli sudditi, i suoi diretti referenti ©, Con la tassa del ducato a foco papa Medici recuperava l’antica regalia del focatico, estendendola a tutti i comuni, baronali e non, senza per questo sopprimere — per quanto riguardava le antiche province del distretto di Roma — l’antico sale e focatico. | I conti per la riscossione del mezzo per cento e del ducato a foco, nella loro prima applicazione, dimostrano che il gettito
dell'esazione nelle antiche province del distretto di Roma andò
quasi pet intero a rimborsare i prestiti fatti alla Camera da Bar-
tolomeo
e Alessandro
Pinelli, lacopo
Salviati, Bindo
Altoviti,
Filippo Centurioni.e Filippo Strozzi. La estrema sommarietà dei dati contabili e la genericità delle patenti di incarico dei commissari inviati a riscuotere i tributi per conto dei banchieri
non consentono di stabilire quali comunità della Marittima fu-
rono realmente costrette a pagarli; di conseguenza, non possia-
mo dire se Sermoneta e le altre terre Caetani furono raggiunte dal nuovo gravame *. Vorrei del resto osservare che lo stesso Paolo III, quando, nel 1537, seguendo la strada tracciata da papa Medici, confermò l’imposizione delle due tasse nello Stato, durò fatica a ottenerne il pagamento dalle comunità baronali della Campagna e Marittima, come dimostrano i numerosi provvedimenti di richiamo ai baroni, tra il maggio e il luglio dello stesso anno, e il provvedimento di nomina di un commissario armato per tentarne la riscossione. Solo dopo la guerra del sale, e precisamente nel 1542, egli ottenne dalle comunità il pagamento delle tas-
se del ducato a foco e del mezzo per cento 7. I conti delle ri-
scossioni di questa tassa nella Marittima dimostrano che Sermoneta e Bassiano non sono tra le comunità contribuenti 2. Nella tradizione della tassa del ducato a foco — e cioè nella
logica di uno sviluppo inusitato di forme di tassazione arcai-
che — è da inquadrare l’imposizione dell'aumento del sale. Essa sembra limitata, nella sua applicazione all’epoca clementina, alle province della Marca e dell'Umbria. La relativamente recente riorganizzazione della salara di Roma aveva portato, nelle province dipendenti, la tassa del sale a livelli di imposizione già
Linee di tendenza della fiscalità. pontifici
153
tanto incisivi da richiedere, nel 1533, una riduzione, pretesa dalle comunità della Campagna e del Patrimonio, che»si ritenevano eccessivamente gravate. Quanto a Sermoneta; :essa fu addirittura esonerata del tutto dal pagamento. del sale.a grosso, tra il 1537 e il 1539: ma è abbastanza semplice attribuire que-
sta circostanza al particolare favore del qualei Caetani: godevano
presso Paolo III, in virtù dei rapporti di parentela, piuttosto
che a reali difficoltà contributive del comune”. Tuttavia il tributo incontrò ovunque una decisa resistenza da parte delle comunità colpite, e il Medici dovette, come accadrà al suo successore, trasformarla in una imposizione: forfettaria che anche in quel caso si denominò « sussidio triennale » * Quanto detto soprattutto a proposito di «quest'ultima imposizione mi consente di sottolineare un dato:a imio avviso importante: e cioè che la politica portata a termine con:successo da Paolo III fu in realtà concepita e attuata prima di lui da papa Medici, sia pure con i limiti che gli eventi ‘politici gli imposero. Il Farnese, facendosi forte anche dei ‘successi militari riportati contro Perugia e Ascanio Colonna — che si erano ribellati all'aumento del sale — perfezionò a metà del Cinquecento una linea di imposizione fiscale che, questa volta, ebbe ragione anche dell’opposizione dei luoghi baronali.. — ^ Questa linea politica è tanto più significativa in quanto le nuove imposizioni paoline — come del resto quelle introdotte da Clemente
VII
—
erano
destinate
a finanziare
la politica
della Curia romana e a pagarne il debito a breve e lungo termine, esaltando il processo di sfruttamento delle risorse dei comuni a favoredi Roma e riducendo di conseguenza i margini di autonomia delle curie municipali o dei feudatari rispetto alla Curia centrale. È indubbio che questo processo sia assistito dalPalleanza tra la Curia romana e i capitali e l'iniziativa delle grandi case mercantili, i destini delle quali si avviavano ad essere strettamente legati ai successi di questa politica: — Emblematica mi sembra, a questo riguardo, la vicenda di due tasse: quella delle galere, ‘introdotta da papa Fatnese:nel 1542 per l'armamento della flotta pontificia e ripresa poi. «da Sisto V, e quella sugli introiti dei comuni, che: colpiva: i'proventi di un biennio e dellá quale si ha notizia da contratti di. obbligazione stipulati. ‘tra la Camera apostolica e rappresentanti delle comunità. Il gettito dei due nuovi tributi venné ‘ceduto dalla Camera, insieme con l’entrata di due decime ‘imposte. al clero, a numerose compagnie mercantili per ne compléssivamen: te ascendenti a 167.000 scudi. 13 3 Ma, alla prova dei fatti, ci si accorse che lei Stima: dei proventi delle tre imposizioni era stata eccessivamente ottimistica, fono-
stante il presumibile impegno profuso dai banchieri nella riscos-
154
Maria Grazia Pastura
sione. T conti relativi al dare e avere della Camera con tanto di quei mercanti, Benvenuto Olivieri, che aveva 75.000 scudi, ci informano che il debito dello stato, tale e interessi, ammontava a ben 18.000 scudi d'oro
uno solprestato tra capi*.
L'andamento magmatico di questa tassazione e la molteplici-
tà dei canali di esazione rendono estremamente vario e frammentato il quadro di riferimento istituzionale — e di conseguenza
documentario — ponendo in difficoltà chi voglia ricostruirne un mosaico organico e unitatio: tanto più che l'azione combinata del governo centrale e dei suoi agenti mercantili non sempre è coronata da successo, né riesce ad infrangere la logica del rapporto — diverso da caso a caso — che lega la Curia alle comunità libere e ai luoghi baronali che costituiscono la variegata
realtà del territorio soggetto. Anche il tributo più celebre — quel sussidio straordinario di 300.000 scudi imposto da Paolo III nel 1543 che diverrà stabile con il nome di sussidio triennale — non sarà riscosso ovunque, nei primi anni della sua entrata in vigore, con lo stesso successo e regolarità, anche quando a riscuoterlo saranno
inviati i fiduciari dei depositari generali, ai quali il gettito di quella tassa era stato assegnato in restituzione delle consistenti anticipazioni che essi si erano impegnati a fare alla Camera apo-
stolica ?, Dal libro dei conti di Paolo Filonardi, commissario e tesoriere di Campagna e Marittima, tra il settembre 1545 e il gennaio 1544, il gettito per questa tassa risulta ascendere a poco più di 4.845 scudi. Sermoneta e Bassiano non sono tra le comunità contribuenti ?. Bisogna però supporre che esse, forse facendosi schermo della circostanza di essere feudo di nipoti del papa regnante,
tentassero
di rinviare il pagamento
di una
tassa
comunque dovuta. Ce lo chiarisce un conto riepilogativo del debito e credito delle comunità — confezionato tra il 1560 ed
il 1561 sulla base delle registrazioni contabili degli stessi co-
muni debitori. Sermoneta è chiamata a pagare per sedici annualità della tassa, a partire dalla sua imposizione, 5.344 scu-
di d'oro, in ragione di 334 scudi l'anno. Risulta perd che nel frattempo essa aveva versato in diverse rate a missari circa 4.864 scudi, 2.338 dei quali pagati luzione per sette anni, probabilmente alla morte nese nel 1550. La comunità era ancora debitrice all'aprile 1560, ridotti a 374 nel marzo 1561,
diversi comin unica sodi papa Fardi 479 scudi come attesta
Girolamo Ciancia per ordine dei consiglieri del comune *. Molte altre comunità, anche non baronali, non sono migliori contribuenti, come
dimostra la contabilità relativa all'anno
1553.
1554, secondo la quale il riscosso per i debiti comunitativi de-
gli anni precedenti, pari a 11.147 scudi, non pareggia il riscosso
Linee di tendenza della fiscalità pontificia
155
per il corrente, che à di 15.236 scudi; il residuo del debito delle comunità, fino a tutto il 1553, ammonta a ben 16.257 scudi, pari a circa una annualità della previsione di entrata (scudi 20.347) *.
Le difficoltà e le eccezioni non sembra tolgano valore alla perentorietà della nuova regola: quella, cioè, che a pagare le tasse debba essere ogni comunità, per quanto privilegiata. Anche l'apparente privilegio di Sermoneta viene rapidamente riassorbito in questa logica, non appena cessa, con la morte di Paolo III, la ragione dell'eccezione. In effetti, nell'ultimo quarto del Cinquecento l'obiettivo sembra essere stato raggiunto anche in questa regione tradizionalmente refrattaria ad assog-
gettarsi all'autorità della Cutia papale.
Note 1 Cfr. c. TOMASSETTI, Del sale e focatico del Comune di Roma nel Medioevo, in « Archivio della Società romana di storia patria », XX, 1897, pp. 313 ss.
L'A. sostiene che la parte più antica del manoscritto, quella cioè che contiene l'elenco delle comunità tributarie del Municipio romano, & da far risalire — quanto meno nei contenuti — all'epoca del tribunato di Cola di Rienzo, mentre la seconda parte del documento, che elenca gli ufficiali del Campidoglio, è certamente ascrivibile alla metà del Quattrocento. Sostanzialmente concorde con la tesi del Tomassetti è 7. coste, I villaggi medievali abbandonati
dell’area dei Monti Lucretili, in Un parco naturale nel Lazio, Monti Lucretili, invito alla lettura del territorio, a cara di G. De Angelis, III ed., Roma 1988,
pp. 409-410, il quale sostiene che la lista pubblicata dal Tomassetti « non è altro che una trascrizione effettuata nel 1499, negli uffici della Camera Urbis » di «una lista aggiornata del 1363, non conservata come tale, ma il cui contenuto è dato dai registri che incessantemente la ricopiano », cioè dai registri del sale e focatico del Comune di Roma oggi conservati nell'Archivio di Stato di Roma (d'ora innanzi ASR), Camera Urbis, 166-174. 2 TOMASSETTI, Del sale, pp. 319, 324s.; c. DUPRE THESEMER, Roma dal Comune di popolo alla signoria pontificia, Bologna 1952, pp. 553 ss. 3 Cfr., da ultimo, 1. PALERMO, Mercato del grano a Roma tra Medioevo e Rinascimento, I, Il mercato distrettuale del grano in età comunale, Roma 1990, pp. 82-92, e la bibliografia ivi citata. ^ TOMASSETTI, Del sale, loc. cit. 3 J. FAVIER, Les finances pontificales a l’èpoque du Grand Schisme d'Occi-
dent, 1378-1409, Parigi 1966, pp. 186ss. Trattando in particolare delle salare
controllate dalla Camera in questo periodo PA. cita «les salines de la Marche d'Ancone, de Romagne, de la Massa Trabaria, de Corneto ». Di quest'ultima,
donata da Innocenzo VII al nipote Gentile Megliorato, erano tributarie le comunità
della Tuscia, che erano tenute a pagare anche la tassa del sale e foca-
pute pari di tutte le altre del distretto, dipendenti per contro dalla salara oma. 6 È quanto, in effetti, sostiene PALERMO, Mercato del grano, loc. cit., valen-
dosi di un confronto tra i dati dell'esazione del sale e focatico camerali e quelli comunali. 7 ASR, Camerale I, Tesoreria provinciale del Patrimonio, teg. 1, 1420-1422, conti di Iacopo de Balneoregio, tesoriere del Patrimonio, terre Arnolfe e Sabina: tra le entrate il sussidio per il pagamento dello stipendio al rettore « ad rationem unius floreni pro quolibet centenario florenorum subsidii » (parte I, ff. 35 ss.) e
156
Maria Grazia Pastura
l'entrata del sussidio imposto per il pagamento degli stipendi alle soldatesche al comando di Tartaglia di Lavello (parte II, ff. 2 ss., anni 1420-1423). Sono colpiti dalla tassa anche i vescovi e il clero. Ibid., reg. 3, conti di Matteo de Podio per gli anni 1430-1431, non è riprodotta la distinzione presente nel primo registro. Le comunità, il clero e i vescovi della Tuscia pagano un unico sussidio, di rilevante entità. Tra le comunità più tassate ci sono Viterbo, con 1100 fiorini, Rieti con 850, Orvieto e Narni con 750 e Terni con 650. Il conto successivo, relativo agli anni (1431-1435) (bid., reg. 4), tenuto dal tesoriere Uso Albizi, registra un forte debito delle comunità e del clero per questa tassa. Ad esempio, Viterbo ha un debito di ben 4061 fiorini; il suo vescovo, tassato per 180 fiorini, deve alla fine del periodo ben 680 fiorini alla Camera. Per questo motivo, probabilmente, si ridusse l'ammontare del sussidio, che nei conti successivi, risulta diminuito. Nei libri di Filippo del Poggio, tesoriere nel 1449 (ibid., reg. 16), Viterbo & tassata per 1000 fiorini, Rieti per 750, Orvieto per 550, Narni e Terni per 600.
8 Sull'appropriazione, da parte della Curia, delle entrate municipali cfr. PA-
LERMO, Del sale, p. 90. 9 ASR, Camera Urbis, teg. 166, ff. 97-97". Effettivamente Bassiano era stata esonerata dal pagamento agli inizi dello stesso anno, come prova il provvedimento in data 12 febbraio 1426 conservato in Archivio segreto vaticano (d'ora innanzi ASV), Cam. Ap., Div. Cam., reg. 8, f. 6. La stessa situazione si registra nel libro successivo, (ASR, Camera Urbis, reg. 167, f. 44): il 24 dicembre 1426 Bassiano torna a esibire il suo documento, mentre i rappresentanti di Sermoneta non si fanno vivi. Norma e Ninfa (ibid., reg. 167, f. 45) sono elencate tra le terre disabitate. Nei registri successivi la situazione è la seguente: il 24 luglio 1441 Sermoneta paga fiorini 25 e soldi 2 di moneta romana, pari alla prima rata dell'imposta relativa a quell’anno (ibid., reg. 168, f. 118v); per gli anni 1447-1449 risulta pagare la seconda rata del 1447 e Ia prima del 1448; per il 1449 si fa riferimento a un pagamento complessivo registrato nel libro del 1450, che però non è consetvato (ibid., reg. 169, ff. 35, 66, 104, 139); per il 1451 paga in un'unica soluzione tutto il dovuto (ibid., reg. 171, f. 39). Nel 1448 sembra posto in contestazione il privilegio di Bassiano: la comunità è infatti costretta a pagare, con riserva, 4 soldi all'anno per i sette anni precedenti; in tutto 28 soldi (ibid., reg. 170, £. 44v); nel 1451. per lo stesso motivo, deve pagare 32 soldi per otto anni (ibid., reg. 171, f. 70v). Nello stesso registro 171, a f. 108v, Norma e Ninfa sono ancora elencate tra le comunità che non pagano perché abbandonate dai loro abitanti. 10 Cfr. rispettivamente, ASR, Camera Urbis, reg. 173, f. 185 (conti per la tassa del sale e focatico — per gli anni 1462-67, con anontazioni successive —, di Piero e Giovanni de’ Medici); ibid., reg. 174, f. 2v è registrato il pagamento di Sermoneta in data 26 marzo 1496. Cfr. inoltre, ASR, Libri mastri, teg. 1, f. 92, anni 1477-1478. Sermoneta deve pagare ogni anno in due rate a maggio e settembre, secondo la tradizionale tassazione, 50 fiorini di moneta romana e 4 soldi, corrispondenti a ducati 24, bolognini 37 e denari 8. Bassiano e Norma non sono più previste tra le comunità debitrici della tassa, la prima per essere stata esentata, la seconda per essere stata abbandonata dai suoi abitanti. Ciononostante in un foglio allegato ad un registro tenuto dagli stessi Medici per la tassa del sale a grosso nell'anno 1453 (ASR, Camera Urbis, reg. 248, allegato) non datato, ma presumibilmente relativo a questo stesso periodo, il nome di Bassiano è riportato in un lungo elenco di comunità contro le quali doveva chiedersi l'esecuzione pet il pagamento del sale e focatico: « castrum Sermoneti pro secunda presentis anni rubbi 25; castrum Vassiani de Campanea pro toto anno presenti». 11 Cfr. rispettivamente, ASR, Camerale I, reg. 1755, ff. 95ss. e Camera Urbis, teg. 266. 12 ASR, Camera Urbis, reg. 178. Si tratta di un registro in cui sono tipottati i contratti stipulati da Giacomo Greci per conto di Lorenzo Altieri. Quasi tutti si riferiscono alla gestione della salara maggiore e consistono nel prelievo del sale da parte dei comuni (e nel loro impegno a pagare in tre rate 1l corrispettivo, pari a 3 scudi d'oro il rubbio) o da parte delle salare dipendenti da quella di Róma: cioè la salara minore di Roma, che distribuiva ai cittadini romani il sale a minuto, e le salate di Todi, Spoleto e Foligno. Sermoneta prende in tre soluzioni 120 rubbi di sale tra il 14 ottobre e il 18 novembre 1449 (ff. 10v, 12, 35); Bassiano, ugualmente in tre soluzioni, titira tra il 22
Linee di tendenza della fiscalità pontificia ottobre
1449
e il 27 aprile
1450, 51 rubbi
13 ASR, Camera Urbis, reg. 248, 1453:
157
(ff. 12, 82 e 84).
date e avere delle comunità per la
tassa del sale a grosso. Per ogni comunità & determinato il quantitativo di sale che deve prelevare per la tassa imposta il 7 settembre del 1452, il quantitativo di sale prelevato è il denaro pagato come corrispettivo. Sermoneta ° deve prelevare 120 rubbi l’anno e ne preleva 114 e 12 scorzi, pagando 316 ducati, contro i 360 dovuti (£. 31); Bassiano deve prelevate 50 rubbi e ne titira altrettanti in due partite, pagando i 150 ducati dovuti (ibid.). : so
V Cfr. ASR, Camera Urbis, reg. 264, £. 99v. Nello stesso registro, ‘ai ff, 53 ss.,
sono anche riportati i quantitativi di sale « quod datur terris et dominis subiectis ecclesie de veteri imposita 1441-1442 » e nel precedente régisffo della stessa serie (Zbid., reg. 263), sono registrate partite di sale dato nel 1441 à signori e comunità per. «la tassa del sale ». Se si tratta di rate, rifetité agli anni antecedenti, dello stesso sussidio, possiamo anticipare di tre anni la riforma di Eugenio IV. In entrambi i registti, per i conti relativi agli anni 1441 e 14421445, Petruccio e Onorato Caetani figurano tra i feudatari tassati, ma solo per Filettino (9 rubbi nel 1441 e 8 rubbi «pro prima imposita» nel :1442-1443) e pet Trevi (3 rubbi nel 1441). Sermoneta non compare tra le comunità tassate in questi primi anni (cfr. rispettivamente, ibid., reg. 263, f. 16, e teg. 264,
f. 53Y). Si deve inoltre aggiungere che nel registro del doganiere della salara maggiore di Campidoglio relativo al 1446 sono registrati, tra le partite di sale
assegnato «alle castella », ben 148 rubbi ritirati da Onorató Caetani per Sermoneta in due rate tra il 6 e il 12 aprile di quell’anno (ibid., reg. 265, '£. 106). Per Filettino Onorato
ritira 5 rubbi di sale.
15 ASR, Camerale I, Libri mastri, reg. 1, ff. 183, 224, 246.
16 ASR, Camera Urbis, reg. 248, conti del sale a grosso per l'anno 1453, f. 31. In un conto tiepilogativo del sale a grosso ritirato dalle comunità tra il 1456 e il 1460 (bid., reg. 191, ff. 33 e 39), Sermoneta titira ‘in diciótto partite 417 tubbi e 6 scorzi (ne ‘doveva ritirare 480) e Bassiano in ‘tredici pattite 216 rubbi e 24 scorzi (anticipando una parte del sale che’ doveva: ritirare l’anno successivo). Per lo stesso periodo, per il sale relativo alle due annua-
lità del 1455 e del 1456, Onorato, che avrebbe dovuto pagare complessivamen-
te per Bassiano e Sermoneta -1020 ducati d'oto, ottiene dal-papa Callisto TII un bonifico di 360 ducati, « per mandati del camarlengo » del 27. maggio 1455 (ibid., reg. 241, ff. 59 e 60). 17 Thid. , reg. 201, ff. 57 e 58 reg. 202, ff. 57 e 58. 18 ASR, Camerale I, Libri. mastri, reg. 1, £. 17. D ASV, Cam. Ap., Div. Cam., reg. 54, ff. 31 e 32. 20 ASV, Cam. Ap., Div. Cam., reg. 61, £. 51, 1509 novembre 14, deputazione da parte del Camerlengo di commissari a riscuotere denari da comunità debittici della tassa del sale a grosso. Assai indicativa della difficoltà di esazione della nuova tassa.é una clausola del contratto di affitto della salata di Roma stipulato il 22 novembre 1503 (ibid., reg. 62, f. 62) nel quale ‘si promette al conduttore la metà di quello che riuscirà a riscuotere dalle comufiità di San Lorenzo, di Albano dei Savelli, di Montenero e Collestátte «'del’ Sighor Vicino» Orsini, di Castel Mompeo, la Torre e Monte San Giovanni, ‘che da dieci anni non pagavano la tassa del sale a grosso. Nello stesso cohttaito, nonostante la riduzione appena ottenuta dal papa, la comunità di Sermoneta è tassata per 120 rubbi di sale. 21 Cfr. ASV, Cam. Ap., Div. Cam., reg. 62, £. 176: 1509 luglio 10: « Instrumentum super antiquis debitoribus salis». Secondo quanto -narrato nel: documento, Benvegnato Armellini aveva affittato la salata nel 1496- per fogitò- di Filippo de Pontecorvo. L'amministrazione della salara era stata condotta da Ales-
sandro de la Casa e soci, per conto dell'Armellini. Falliti gli amministratori, la
Camera fu soddisfatta per i primi due anni dell'appalto e fu ‘confeffnato il contratto ai primi anpaltatori con la malleveria di Paolo Sauli, Francesco c Giovan Battista Lomellini, Stefano Ghinuzzi, Salvo Bulgarini e Pandolfo de
la Casa per il terzo .anno “della condotta, e per gli altri due anni con ‘la mal. laveria degli stessi Ghinuzzi,'-Bulgarini, de la Casa e di Antonio Altoviti. Gli
Altoviti avevano poi rilevato’ la porzione dei Sauli con conttatto ‘del ‘gennaio 1499, sempre a rogito di Filippo Pontecorvo. Nella ripartizione finale del debito, gli Altoviti sono dichiarati debitori di 2000 ducati, gli altri consoci di 4.500 ducati. È allegato alla transazione l'elenco delle comunità debitrici.
158
Maria Grazia Pastura
22 ASV, Cam. Ap., Div. Cam., reg. 62, ff. 62 e 161. 23 Il fenomeno è stato notato da c. BAUER, Die Epochen der Papstfinanz, Ein Versuch, in « Historische Zeitschrift », 1928, pp. 457-503. L'A. pone l'accento sulla circostanza che le nuove imposizioni si aggiungono, a partire dal 1530, a quelle più antiche riscosse nei domini pontifici e sottolinea come il parallelo ricorso al debito pubblico, necessario per sostenere i costi della po-
litica interna e internazionale del papato, rinsaldi i legami tra la Curia e le case mercantili al suo seguito. La pubblicistica successiva ha ripercorso questo
itinerario logico: vedi, in proposito, M. MONACO, Le finanze pontificie al tem-
po di Clemente VII (1523-1534), in « Studi romani », 1958, pp. 278-296; m., Il primo debito pubblico pontificio: il Monte della Fede (1526), in «Studi romani », 1960, pp. 553 ss.; p., La situazione della Reverenda Camera apostolica nell’anno 1525. Ricerche d'archivio (un contributo alla storia della finanza pontificia), Roma 1960, pp. 45 ss., dove sostiene che l’imposta del ducato d’oro per ogni focolare può essere considerata la prima imposta generale per tutto lo Stato pontificio. Tra i contributi più recenti cfr. M. CARAVALE, La finanza pontificia nel Cinquecento, Le province del Lazio, [Napoli] 1974, pp. 53 ss. e 137 ss. e, da ultimo, A. carpi, La fiscalità pontificia tra Medioevo e età moderna, in « Società e Storia», 33, 1986, pp. 510ss. e 533 ss., con ampi riferimenti bibliografici. 24 Emblematico mi sembra, al riguardo, il contratto stipulato il 10 febbraio 1530 tra la Camera e Girolamo Venturi, mercante senese, con il quale viene venduto al Venturi il gettito della tassa del mezzo per cento contro un prestito di 40.000 scudi. Intervengono, come mallevadori, lo stesso camerlengo e il cardinale dei Santi Quattro, che obbligano al mercante numerosi uffici, gli emolumenti del cappello cardinalizio ed in ultima analisi si obbligano a sborsare personalmente 10.000 scudi ciascuno, se entro un anno il prestito non verrà rimborsato (ASR, Notai segretari e cancellieri della RCA, vol. 1922, f. 43). 5 In ASV, Arm. XL, n. 27, ep. 126, f. 94, è conservato il provvedimento citato, del 20 febbraio 1530. 26 ASR, Camerale I, Tesoreria provinciale della Marca, reg. 68, 1530-1534:
conti per la riscossione della tassa del ducato a foco e della tassa del mezzo per cento nelle province dello stato. I denari riscossi dai commissari vengono diret. tamente versati ai mercanti creditori della Camera, e più precisamente a Bindo Altoviti e Filippo Strozzi per un prestito di 30.000 scudi e ad Alessandro Pinelli e Filippo Centurioni per uno di 8000 scudi. Il contratto con Strozzi e tesoriere
generale, è in ASR, Notai segretari e cancellieri della RCA, vol. 1922, f. 65v. Al
contratto è allegato un motu proprio con il quale il papa si riconosce debitore del gruppo mercantile per altri 60.000 scudi. Sui complessi rapporti tra Filippo Strozzi e papa Medici cfr. M.M. BULLARD, Filippo Strozzi and the Medici, Favor and
Finance
in Sixteenth-Century
Florence
and
Rome,
Cambridge
1980.
Anche
dalle patenti del camerlengo con cui vengono incaricati della riscossione delle due tasse nel territorio di Marittima alcuni commissari non è possibile rica vare notizie dettagliate sulle comunità soggette a tassazione e sull’importo dovuto da ciascuna, perché il territorio sul quale insisteva la giurisdizione di ciascuno è solo genericamente individuato: cfr. rispettivamente, per la tassa del ducato a foco, la nomina di Vincenzo Amaduzzi come commissario di Campagna in ASV, Cam. Ap., Div. Cam., reg. 88, ff. 56 e 85 (1532 gennaio 22) e per quella del mezzo per cento la patente camerale di nomina di Francesco Barlet tano (1530 novembre 18), zbid., vol. 80, f. 509. In quest'ultimo provvedimento l'ambito di competenza del commissario è genericamente indicato con il nome delle diocesi che facevano parte della Campagna, della Marittima, del Lazio e della Sabina. 22 Cfr. ASV, Arm. XLI, n. 5, epp. 296-298, 1537 marzo 4, nomina di commissati per riscuotere il ducato a foco (Marittima e Campagna, per 20.000 fuochi, è tassata per 8.000 ducati); ibid., n. 6, ep. 318, 1537 maggio 30,
breve diretto
ad Ascanio
Colonna
perché
offra «literas
et favores oportu-
nos» al commissario incaricato di esigere il ducato a foco nelle terre a lui soggette; ep. 330: breve dello stesso tenore diretto ai baroni romani soggetti alla Chiesa, soprattutto nelle province del Patrimonio, di Marittima, Campagna, Lazio e Sabina, con minaccia di privarli dei feudi se non ottempere-
ranno all'obbligo (1537 giugno 22); ibid., n. 7, ep. 176:
Colonna
di costringere
i propri vassalli
ordine ad Ascanio
a pagare la tassa del ducato
a foco,
Linee di tendenza della fiscalità pontificia
159
sotto pena della privazione dei feudi e di una multa di 100.000 ducati (1537 luglio 7); ep. 302: nomina di un commissario armato e scortato da 100
cavalleggeri per costringere le comunità
a pagare la tassa, nella persona
di
Giovanni Quieto (1537 luglio 30). In ASR, Notai segretari e cancellieri della RCA, vol. 1, ff. 207, 208, 225, 306, sono conservati i contratti con cui le comunità già feudo di Ascanio Colonna, e molte altre che ne seguono l'esempio, si impegnano, nel marzo 1542, cioè dopo la conclusione della guerra del sale, a pagare la tassa del ducato a foco e la tassa del mezzo per cento. 28 ASR, Camerale I, Tesoreria provinciale di Campgana, Marittima, Lazio e Sabina, reg. 25, ff. 4-16. 2 ASV, Cam. Ap., Div. Cam., reg. 91, ff. 156, 160, 177: 1533 settembre 21. Fu forse in seguito alla revisione dei fuochi che Sermoneta fu sgravata nel 1537 di altrí 30 rubbi di sale; fu peró quasi certamente in grazia di un particolare favore concesso dal papa regnante ai nepoti che la comunità fu intieramente sgravata dalla tassa del sale nel 1539: cfr., rispettivamente, ASV, Cam. Ap., Div. Cam., reg. 108, c. 17, e reg. 113, f. 145. 30 Il provvediento con il quale Clemente VIT, l'11 gennaio 1530, trasformò l'aumento del sale in sussidio triennale nella Marca e nell’Umbria è conservato in ASV, Arm. XL, n. 27, ep. 13, f. 10. 31 Il provvedimento con il quale Paolo III, il 25 aprile 1542, impone un sussidio ai comuni per armare sei galere è conservato in ASV, Arm. XLI, n. 24, ep. 353. Sull'imposizione di questa tassa ancora da definire viene stipulato il 13 maggio 1542 un contratto di mutuo di 20.000 scudi con l’Olivieri (ASR, Notai segretari e cancellieri della RCA, vol. 1, f. 261v. Altri prestiti garantiti sullo stesso tributo furono stipulati con Bindo Altoviti (10.000 scudi), Tommaso Cavalcanti e Giovanni Giraldi (8.000 scudi), Alessandro Bartoli (2.000 scudi), per un totale di 40.000 scudi (ASV, Cam. Ap., Div. Cam., reg. 122, f. 82). Nello stesso periodo venne introdotta la tassa che colpiva l'entrata di un biennio dei comuni, della quale si ha notizia dai contratti stipulati tra la Camera e le
singole comunità tra il luglio 1542 e il gennaio 1543, per definire l'ammon-
tare dell'obbligo di ciascuna (ASR, Notai segretari e cancellieri della RCA, vol. 1, passim). Su quest'ultima tassa, oltre che sulle due decime imposte al clero,
vengono stipulati il 31 luglio 1542 un contratto di mutuo di 15.000 scudi con
Bindo Altoviti, uno di 55.000 con Benvenuto Olivieri e uno di 18.000 con Tobia Pallavicini (Zbid., ff. 338, 342, 344) e il 10 gennaio 1543 un altro contratto di 9.000 scudi con Silvestro de Montacuto (ibid., f. 378v). I conti di Benvenuto Olivieri per la riscossione della tassa delle galere e degli introiti comunitativi cedutigli in compenso dei due prestiti, per un totale di 75.000 scudi, sono conservati in ASR, Commissariato delle soldatesche e galere, 362. 32 (fr. a questo proposito, i contratti stipulati tra la Camera e diversi mercanti per la gestione della depositeria generale tra il 1545 e il 1562, in mic. PASTURA RUGGIERO, La Reverenda Camera apostolica e i suoi archivi, secc. XVXVII, con contributi di P. Cherubini, L. Londei, M. Morena e D. Sinisi, p. 196 ss. P 3 ASR, Camerale I, Tesoreria. provinciale di Campagna, Marittima, Lazio e Sabina, reg. 25, ff. 26-33%. 34 ASR, Camerale I, Tesoreria provinciale di Campagna, Marittima, Lazio e Sabina, reg. 33/a, f. 8. 35 [bid., reg. 33.
Mirella Mombelli
Castracane
L’organizzazione del potere nel ducato di Sermoneta ‘tra il 1501 e il 1586
Il quadro storico e la delimitazione cronologica Il 17 settembre 1501 con la bolla Coelestis Altitudinis Ales-
sandro VI conferiva alla « dilecta in Christo filia nobilis mulier
Lucretia de Borgia », duchessa di Bisceglie, della città di Nepi, il titolo di Domina delle terre di Sermoneta e Bassiano, della tenuta di Ninfa, nonché di Norma, Cisterna e altre località ricomprese nelle diocesi di Terracina e Veliterno, confermandone l'acquisto, stipulato l’anno precedente con la Réverenda Cameta Apostolica. Contestualmente, le attribuiva l'esercizio del « merum et mixtum imperium » con la «gladii potestate », nonché i diritti:sui frutti, redditi e proventi della terra « cum focatico subsidio et sale ad grossum ». Erigeva poi in perpetuo Sermoneta, in ducato, con diritti, facoltà, titoli e insegne, onori e preminenze «ad instar aliarum: civitatum et terrarum ducali dignitate fulgeritium », e insigniva del titolo di duca Rodrigo, nato dal secondo matrimonio di Lucrezia, « cum dignitate, potestate, jurisdictione,
auctoritate
et concessione
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mi meri et mixti imperii omniumque singulorum jurisdictionum regaliorum nuncupatorum » !. Il conferimento s
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7. Filettino, chiesa dei Ss. Bernardino e Sebastiano. Madonna siderio da Subiaco (attr.), Due Santi.
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8. Trevi nel Lazio, chiesa della Madonna del Riposo, cappella di S. Sebastiano. Desiderio da Subiaco, S. Sebastiano, 1486.
9. Farfa, museo dell’Abbazia. sione, 1490 c.
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10. Farfa, museo dell'Abbazia. chiostro piccolo, 1500 c.
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Desiderio da Subiaco pittore della corte Caetani
305
gli Orsini e al fianco delle truppe colonnesi. E infatti nel centro maggiore della signoria di Antonio Caetani, Filettino, che è possibile riconoscere un altro esempio dell'intensa attività di
questo pittore. Nella chiesa di Ss. Bernardino e Sebastiano, cointitolata al primo dopo l'evento miracoloso del 19 maggio 1486, sono parzialmente conservati sulle pareti del presbiterio una serie di affreschi nei quali oggi appare sul lato destro, quasi indistinguibile, una Crocifissione cui fa riscontro la Résutrézione e la Madonna di Loreto con quattro Santi (fig. 7), mentre sulle vele della volta sono scarsamente conservati i quattro Dottori della chiesa, con cherubini posti agli angoli. La ¢citcostanza del miracolo bernardiniano, ricordato con enfasi nelle cronache di Filettino, potrebbe aver fornito il pretesto per una nuova decorazione della chiesa, che, al contrario di quanto affermato dal
Caraffa”, avrebbe potuto prevedere proprio nella terminazione absidale, la cui decorazione è scomparsa, un centrale riferimento al predicatore senese, non citato nelle scene laterali consetvate, come d'altronde anche l'altro Santo titolare, s. Sebastiano. La raffigurazione della parete di sinistra, che presenta lo stato migliore di conservazione dell'intero ciclo, alterna lé strutture monumentali e solenni dei quattro Santi, secondo le nuove fotmule antoniazzesche, a soluzioni rappresentative più esili, di memoria tardogotica, con un tratto decisamente più tozzo, come nella centrale Madonna di Loreto. Una robusta cornice decorata con racemi di acanto divide la scena superiore dove' campeggia la Resurrezione ambientata in un vasto paesaggio, in cui le figure dei soldati, poste ai piedi del sepolcro, preludono agli schemi compositivi delle figure dei Vizi del ciclo allegóricomorale espresso in una delle sale del castello sermonetano: Attività di Desiderio nel Lazio
Già la letteratura critica locale? ha individuato, a proposito di questi affreschi di Filettino, un sicuro riferimiento in un'altra impresa pittorica realizzata molto probabilmente négli stessi an-
ni e in un centro limitrofo i cui destini politici comuni con Fi-
lettino erano stati separati da soli quindici anni. A Trevi nella cappellina di S. Sebastiano annessa a quella della Madonna del Riposo, alle spalle dell'immagine votiva del Santo titolare, compare una iscrizione che recita: Desidetius sublaci pinxit 1486. I medesimi motivi di ‘caratterizzazione del volto, del leggero scorcio della testa, la tüstica e fortémente incisa costruzione lineare, l’identica tipologia della fascia decorativa, consentono di avanzare l’ipotesi che Desiderio da Su-
biaco sia da identificare con l'anonimo pittore autore degli af-
306
Stefano Petrocchi
freschi di Filettino'e successivamente attivo alla corte Caetani di Sermoneta e nelle due maggiori chiese della stessa città. La provenienza da Subiaco e l'ipotizzabile formazione legata a quel centro, che.il 2 ottobre 1467 vedeva l'improvviso aggiornamen-
to della locale tradizione pittorica, ancorata alla produzione tar-
dogotica dell'Abbazia di S. Scolastica, con la comparsa del trittico di Antoniazzo nella chiesa di S. Francesco, collega diretta-
mente Desiderio con il filone principale della cultura laziale di questi anni, all'interno del quale si mescolavano le maggiori correnti figurative, da Benozzo Gozzoli a Melozzo, e giustifica
così anche la forte mescolanza culturale già rilevata, attraverso
la quale Desiderio tentava ingenuamente di assorbire, tramite il ductus costruttivo tardogotico, i nuovi valori plastici e prospettici (fig. 8). La cappellina di S. Sebastiano, eretta a seguito dell’attigua
Madonna del Riposo, decorata alcuni anni prima da un altrimenti
ignoto Petrus, presenta una schiera di Santi e due immagini della Madonna in trono con il Bambino, sui lati principali; sulla parete
di raccordo è invece rappresentato il popolo trebano in adora-
zione dinanzi ad una raffigurazione della cappella, mentre sulla volta compaiono i quattro Profeti con lunghi cartigli, divisi da una fascia decorata con motivi di acanto che separa anche le scene dipinte sulle pareti. Rispetto alle produzioni di Filettino e Sermoneta, a conferma di una fase iniziale dell’attività di questo pittore, l'apparato figurativo, caratterizzato solitamente dall’uso di abbondanti panneggi sottolineati dalla linea incisa, è contenuto in semplici ritmi verticali; le indicazioni prospetti
che sono trascurate a favore di composizioni paratattiche; il
tratto espressivo presenta una deformazione maggiore e un disegno più conciso. La presenza di Desiderio a Trevi nel 1486, dove nell’iscrizione autografa viene ricordata la sua provenienza legata ‘al centro sublacense, potrebbe essere giustificata dalla considerazione storica che questo importante centro della valle dell'Aniene era divenuto possesso dell’Abbazia di S. Scolastica dal 1473, dopo
essere stato a lungo sotto il patronato dei Caetani. Un ipotizza-
bile legame di Desiderio con l’importante abbazia di Subiaco sembra poter essere confermato anche da altri elementi. Un'altra notevole, almeno per dimensioni, impresa pittorica da attribuire con certezza assoluta al pittore sublacense e che presenta incontestabili riferimenti alla decorazione dell’ Assunta di Sermoneta è conservata nella cappella del Santuario della Madonna dei Bisognosi, posto tra Rocca di Botte e Carsoli, in un vasto territorio tra il Lazio e l'Abruzzo di proprietà del monastero di Subiaco’. Questo cantiere, che dovette impegnare per la vastità delle dimensioni a lungo Desiderio, presenta in
Desiderio da Subiaco pittore della corte Caetani
307
un'iscrizione mutila la data del 1488 e l'identità del committente, frate Domenico Angeluccio da Pereto. Nelle Storie- della Vergine che decoratio la fascia mediana delle pareti, nelle volte che raffigurano coppie di Padri e Dottori della chiesa, cosi come nella raffigurazione della Madonna di Loreto; ricompaiono in modo identico tutti gli elementi delle pitture sermonetane e
dei centri della valle dell’Aniene, dall’espressività grottesca dei
volti; agli ampi panneggi delle vesti, alle quadrature spaziali e alle paraste decorate con identici motivi ornamentali. Ma è nella raffigurazione del Giudizio di questo santuario che: vengono ripetuti tutti gli stessi elementi iconografici, la. medesima com-
posizione e struttura gerarchica già osservati nell'omonimo affresco sermonetano, tanto da fare ipotizzare l’uso degli stessi cartoni, come è chiaramente visibile nella scena dei dannati e nelle gerarchie dei Santi fino alla figura del Cristo Giudice, che presenta alcune suggestive varianti che trovano il loro referente nell’analogo soggetto realizzato nel 1466 dal cosiddetto Terzo maestro del sec. XV nella chiesa inferiore dell’abbazia di Su-
biaco, a conferma della formazione e della dipendenza culturale di Desiderio da quel centro. Nella stessa Subiaco è conservata
la probabile presenza di Desiderio nella decorazionedi due lunette del chiostro cosmatesco dell’Abbazia. Una restauratissima Annunciazione, completamente alterata nei volti dell'Angelo e dell’Eterno posto della sommità e una corrispettiva scena rela-
tiva ad una Stotia di S. Benedetto, ormai quasi illegibile, potrebbero costituire le prove dell’attività di Desiderio nel monastero. Nello stesso centro altre tracce della ‘sua produzione
vanno ravvisate nell'Oratorio di S. Croce, nel S. Benedetto posto di fianco ad una Pietà, sulla sommità della parete absidale
e in un S. Sebastiano al lato di una ritoccata Madonna in trono con Bambino, dipinti su di una parete dello stesso edificio. Desiderio a Farfa
A Farfa, nel monastero che Sisto IV aveva unito a quello di
Subiaco nel 1473 ? e che dopo un breve periodo di separazione
Innocenzo VIII aveva nuovamente riunito nel 1486 !, l’unica fase pittorica di epoca rinascimentale, successiva al periodo otsiniano dell'abbazia — in cui è particolarmente attivo un maestro benozzesco — è quella relativa alla decorazione della cosiddetta cappella del Crocifisso presso la sacrestia della chiesa, da dove proviene un affresco staccato, il cui soggetto intitola l’ambiente originario, e oggi conservato nel Museo dell’abbazia (fig. 9). Per questo dipinto, come per una lunetta, anch'essa staccata e proveniente da un ambiente attiguo, raffigurante una
308
Stefano Petrocchi
Madonna in trono con Bambino e due Santi Vescovi ?, è facilmente ipotizzabile la mano di Desiderio da Subiaco in anni prossimi alla riunificazione dei due monasteri (1486-1490). Ancora
una volta identici i partiti decorativi delle paraste che inquadrano la scena, la stesura del paesaggio e la costruzione monumentale delle figure, sottolineata dalla ridondanza dei panneggi incisi, ma contraddetta dalla consueta grazia espressiva e deformante di origine tardogotica. In particolare, nella lunetta con la Madonna con Bambino e i due Santi Vescovi, pur nella precaria lettura imposta dal degrado, sono riscontrabili gli stessi stilemi espressionistici e il disegno rozzo delle figure del castello di Sermoneta, arricchiti dall'uso di una materia pittorica impreziosita dal riferimento a tessuti dorati e damaschi. Un terzo distinto episodio, stavolta conservato in situ, a testimonianza di una prolungata presenza di Desiderio nell'abbazia farfense, & costituito da una complessa iconografia della Vergine con Bambino affrescata sulla volta di una campata del chiostto principale del monastero (fig. 10). Se l'analisi della struttura figurativa, sia nella costruzione lineare sia nella formulazione del gesto, non sembra ammettere dubbi sulla paternità di Desiderio, il confronto con le altre produzioni espresse nello stesso monastero, e soprattutto quello con la produzione sermonetana, ancorata all'ultimo decennio del Quattrocento, conduce a ipotiz-
zare una data posteriore, probabilmente da riferire ai primissimi anni del secolo successivo. In queste ultime immagini il carattere espressionista si placa in forme tendenti alla circolarita del segno e la rudezza del tratto, che restituiva sempre gesti concitati e drammatici, si stempera in un sentimento di languido equilibrio. Quest'ultima fase della produzione di Desiderio da Subiaco è quindi da collocare in un momento successivo alla lunga e feconda parentesi sermonetana. La permanenza presso un centro segnato dalla presenza di un raffinato ambiente di corte condusse Desiderio ad alterare parzialmente i caratteri di ruvido narratore di devozioni popolari, pet le quali si era espres: so in diversi centri del Lazio e per le maggiori comunità monastiche legate all’abbazia di Subiaco. Alla cultura melozzesca, che facilmente si subordinava alle esigenze rappresentative della provincia laziale — che si riconosceva in quella cultura figurativa i cui principi formali erano fondati sulla suggestione di enfatiche eleganze, sull’effusione dei sentimenti e sulla dinamicità della rappresentazione — si doveva sostituire la diversa necessità di un nuovo linguaggio cortigiano, neofeudale nelle intenzioni ideologiche, che aveva trovato nella formulazione pinturicchiesca il suo assunto. Gli anni immediatamente succes-
sivi alla decorazione dell'Appartamento di Alessandro VI, rap-
presentano gli ultimi momenti di pacificazione tra i Caetani di
Desiderio da Subiaco pittore della corte Caetani
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Sermoneta e i Borgia. Intorno al 1495-1499, quando già da al-
cuni anni un pfobabile sicario di Cesare Borgia, il canonico lateranense Matteo da Pesaro, aveva avvelenato Nicola Caetani, la cui signoria venne ereditata dal fratello Guglielmo, subentrava una fase in cui la strategia nepotista del Pontefice stava
per far scattare la trappola che avrebbe condotto alla: scomunica dei Caetani con la bolla Sacri Apostolatus ministerio del 22 settembre 1499, emanata a seguito dell’aggressionedi Sezze, evento al quale segui la conquista della rocca di Sermoneta da
parte delle truppe del Valentino e la relativa fuga dei legittimi signori. Poco prima di questa catastrofe, Desiderio da Subiaco
si convertì per quanto le sue possibilità gli consentissero, al
decorativismo e al gusto per l'allegoria colta del Pinturicchio. Privo delle straordinarie capacità tecniche di quest’ultimo, mo-
dificò l'ingenuo formulario della sua pittura dall'enfasi meloz-
zesca verso una eleganza più effimera, che giunge in taluni brani all'arabesco lineare e ad un tentativo di aggraziare ed effondere leggerezza secondo principi dettati dall’ideologia neogotica. Mentre negli stessi anni la bottega di Antoniazzo, attraverso i suoi meno capaci esecutori, rappresentava nella fortezza degli odiati Orsini, il mito neofeudale del trionfo, con la cavalcata di Virginio Orsini, esemplata su quella più celebre espressa circa trenVanni prima da Benozzo Gozzoli per i Medici a Firenze, i Caetani evocavano la bellezza naturale dei loto territori; rappresentati poeticamente attraverso il mito delle ninfe, e, ancora, secondo schemi e ideali cari alla tradizione medievale, ammonivano se stessi all'uso della saggezza e alla probità nella raffigurazione delle virtù e dei corrispettivi Vizi, secondo lo stesso intento morale che presiede la formulazione del Giudizio Universale nella chiesa cattedrale. A seguito della crisi politica ed economica successiva alla tirannide borgiana, che probabilmente interruppe le capacità imprenditoriali del centro sermonetano, Desiderio potrebbe aver trovato un nuova e definitiva sistemazione in altri territori della zona pontina. Dopo un fugace rientro a Farfa, in cui è collo-
cabile il menzionato affresco della Madonna con Bambino. del
chiostro abbaziale, l'ultima tappa della sua nutrita produzione potrebbe essere costituita dalla decorazione della chiesa di S.
Oliva a Cori, a pochi chilometri da Sermoneta. Nell'abside di questa chiesa. & conservato un notevole affresco raffigurante PIncoronazione della Vergine accompagnata da una estesissima rappresentazione di cori angelici, Santi e ‘dagli: Apostoli, am-
bientati questi ultimi in un. vasto paesaggio roccioso. Un'iscri-
zione posta sulla base, del pilastro, ché a sinistra inquadra la rappresentazione, restituisce la datazione del 1507. Per questa
stilisticamente complessa decorazione solo Berenson tentò una
310
Stefano Petrocchi
collocazione nei suoi Indici P, ipotizzando un improbabile riferimento a Francesco da Tolentino. In realtà, questa vasta produzione corese presenta un difficile amalgama di diversi motivi linguistici che artivano a recuperare la grandiosa composizione dell'affresco melozzesco della chiesa romana dei Ss. Apostoli, realizzato più di vent'anni prima, insieme al vasto impianto scenografico della leggenda della Vera Croce, raffigurato nell'abside della chiesa di S. Croce in Gerusalemme. In quest'ultimo fondamentale cantiere, che presenta una non chiatita miscela di elementi romani, secondo la formulazione antoniazzo-melozzesca, legati con novità figurative di espressione umbro-signorelliana, si fondono tutti i dati presenti in questa provinciale celebrazione di Cori, quasi contemporanea all'esordio di Raffaello in Vaticano. L’arrotondamento delle forme e soprattutto l'evocazione di sentimenti di pacata riflessione e di languido devozionalismo, non traslitterano totalmente un linguaggio rustico, un disegno impostato su di un mezzo grafico fortemente inciso. Questi aspetti, sostenuti dal confronto delle figure che popolano numerose l'universo angelico di Cori con quelle corrispondenti del Giudizio sermonetano e della rappresentazione della Carità nella stanza delle Virtà del castello dei Caetani, conducono a proporre la paternità di Desiderio per questi affreschi di
S. Oliva in una fase corrispondente al presunto ritorno a Farfa.
" Lontano più di cinque lustri dagli esordi nell'originaria Subiaco, il cui ruolo di centro propulsore della cultura figurativa a sud di Roma era da tempo concluso, Desiderio tentó a Cori Pultimo aggiornamento di una cultura epigona che trovava qui
la sua probabile ultima espressione.
Note 1 p, PANTANELLI, Notizie istoriche della terra di Sermoneta, Y, Roma 1909, p. 55. La descrizione dello storico sermonetano si rivela estremamente interes» sante per la consueta precisione dei ricordi. La figura di Platone, ricordata dal Pantanelli, ha perso la sua originaria iscrizione identificativa e può essere soltanto riferita ad uno dei tre busti dei personaggi della volta della sala delle Ninfe, mentre quella di Solone conserva, appena leggibile, la legenda Solon ateniensis posta sulla cornice circolare che racchiude la figura.
2 GASPARE DA VERONA, De temporibus clementissimi pontificis Pauli secundi quintum volumen, in A. ANDREWS - S. FOWLER, The « Lost Fifth Book of Pope
Paul ie by Gaspar of Verona», in «Studies in the Renaissance », 17, 1970, p. 7-45. P 3 G. CAETANI, Epistolarium Honorati Caietani. Lettere familiari del cardinale Scarampo e corrispondenza della guerra angioina (1450-1467), Sancasciano Val di Pesa 1926, pp. 34-35. . 4 Si veda P. PAVAN, Ninfa e i Caetani nel Quattrocento, in Ninfa una città,
un giardino. Atti del Colloquio della Fondazione Camillo Caetani, Roma-Sermo-
Desiderio da Subiaco pittore della corte Caetani
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neta-Ninfa 7-9 ottobre Roma 1988, a cura di Luigi Fiorani, Roma 1990, p. 147; T. SCALESSE, Aspetti dell’architettura nei feudi Caetani tra Quattro e Cinquecento, ivi, p. 214; P. LONGO - F. SASSOLI, Sermoneta, Roma 1992, p. 15. 5 G. CAETANI, Domus Caietana, I, 2, Sancasciano Val di Pesa 1927.
6 L’esistenza dell'affresco della controfacciata era già nota al Pantanelli (PAN-
TANELLI, Notizie, I, p. 83) che ricordava come
dietro l'organo cadessero pezzi
d'intonaco che lasciavano intravedere parti del dipinto scialbato. Nel 1964 la Soprintendenza delle gallerie di Roma e del Lazio, realizzó un restauro diretto da Corrado Maltese, le cui brevi note di commento sono riportate sulla relativa
scheda di catalogo conservata nell'Archivio storico dell'Ufficio catalogo della soprintendenza BAS di Roma e del Lazio. 7 p, CARAFFA, Storia di Filettino, Y, Roma 1989, pp. 153-154. 8 c, ORLANDI, Desiderio da Subiaco, in « Il Sacro Speco », 90, 1986, pp. 169 181. Lo studioso ricorda in questo articolo, oltre agli affreschi di Filettino € Trevi, anche delle opere perdute di Desiderio realizzate nella chiesa di S. Andrea a Subiaco e nel castello di Ischia, senza fornire alcun riscontro documentario ? La segnalazione dell'esistenza di questo ciclo affrescato nel Santuario della Madonna dei Bisognosi mi & pervenuta dalla dott.ssa P. Nardecchia, che rin-
gtazio.
10 y, FEDERICI, I monasteri di Subiaco, II, Roma 1904, p. 274. 11 Ivi, p. 278. 12 Gli interventi critici sulla ricostruzione quattrocentesca dell'antica Abbazia di Farfa si sono occupati solo marginalmente degli affreschi attribuibili a Desiderio. La Premoli (8. preMOLI, L'Abbazia di Farfa, in « Rivista dell'Istituto di archeologia e storia dell’arte », XXI-XXII, 1974-75, p. 10) riconduce entrambi gli affreschi alla decorazione della cappella del Crocifisso, un ambiente, secondo la studiosa, creato nella ricostruzione tardoquattrocentesca sopra la sacrestia, dopo la consacrazione della basilica orsiniana, nel 1496; tale considerazione si appoggia, tuttavia, sulle ricostruzioni proposte dal Markthaler (P. MARKTHALER, Sulle recenti scoperte sull' Abbazia imperiale di Farfa, in « Rivista di archeologia cristiana », 1928, pp. 52-56) il quale, invece, affermava che «sulla parete corrispondente alla sacrestia si adattava una nicchia con un affresco della Madonna, verosimilmente della stessa mano di quello che ha dipinto la Crocifissione nella cappella superiore » (p. 56), attribuendolo agli inizi del Cinquecento, senza precisare ulteriormente la datazione né del primo affresco né del secondo; lo stesso autore, in nota, aggiunge che anche l'affresco raffigurante la Madonna con il Bambino e due Santi vescovi era in prossimità di un altare, come pure l’altro dipinto della Crocifissione. Nelle relative schede di catalogo della Soprintendenza per i beni artistici e storici di Roma, la Premoli propone di classificare i due dipinti come di scuola tedesca del sec. XV. Questa suggestiva ipotesi potrebbe trovare ulteriore fondamento con la considerazione che nell’Abbazia di Subiaco sono documentati oltre cento monaci di origine germanica intorno alla fine del Quattrocento; tra questi, vanno segnalate maestranze tedesche che realizzarono nei rispettivi chiostri principali dei due monasteri dei portali decorati di inequivocabile cultura tardogotica germanica. In mancanza di testimonianze documentarie sui legami di Desiderio con l’Abbazia di Subiaco è soltanto ipotizzabile un rapporto di dipendenza culturale del pittore, seppure i caratteri stilistici delle sue opere, segnati dall'uso fortemente rilevato del mezzo grafico, dal tratto espressionista e dalla mescolanza tra motivi tardogotici e cultura fi gurativa romana, non escludano affatto la possibilità che l’artista possa essere di origine teutonica, con un trascorso da incisore, a seguito dell’altrettanto nota bottega degli stampatori Pannartz e Schwheynheim.
B p, BERENSON, Italian Pictures of the Renaissance. Central Italian an North
Italian Schools, I, London
1968, p. 144.
Anna Cavallaro Pietro Coleberti di Priverno da Sermoneta (1422) a Roccantica (1430)
Quella di Pietro Coleberti & la singolare vicenda artistica di un pittore del primo Quattrocento originario del basso Lazio — il suo paese d’origine é Priverno come egli stesso dichiara a seguito della sua firma — che ha lasciato come unica e certa testimonianza della sua attività un ciclo di affreschi in Sabina,
nel paese di Roccantica, zona del Lazio decentrata rispetto al suo luogo di origine. Rare sono invece le tracce della sua attività nel territorio di provenienza, e tra queste la lunetta con la Madonna e il bambino tra s. Pietro e un santo vescovo e nella fascia superiore Cristo tra quattro angeli, dipinta ad affresco soprail portale d'ingresso della cattedrale di Sermoneta (figg. 1-5).
La lunetta veniva riferita al Coleberti già nel 1920, quando il pittore veniva scoperto e segnalato agli studi.da Achille Bertini Calosso nel suo ampio e prezioso studio sulla pittura laziale del Quattrocento, a tutt'oggi lavoro insuperato e punto di riferimento imprescindibile per chiunque si accinga a condurre una ricerca sul tema’. Battendo in lungo e in largo il territorio laziale il Bertini Calosso aveva scoperto la firma del Coleberti in un ciclo di affreschi nella chiesa di S. Caterina a Roccantica fino ad allora sfuggiti anche ad infaticabili studiosi e viaggiatori come il Cavalcaselle e il Guardabassi: « Petrus Coleberti de Piperno p.» (fig. 14) e la data, il 1430.
Il Bertini Calosso forniva allora le coordinate principali della cultura artistica del Coleberti — la corrente umbro-marchigiana che fa capo ad Ottaviano Nelli — e ne ricostruiva Pier artistico giudicandolo un pittore che doveva essersi trasferi to in Umbria nell’éguipe di Ottaviano Nelli attiva a palazzo Trinci a Foligno, dove aveva avuto luogo la sua formazione artistica; il Coleberti
sarebbe
entrato. in contatto
anche
con
i fratelli Salimbeni, visti, a suo avviso, nelle storie di Rozzolo
e Remo nell’anticappella di palazzo Trinci. Il pittore avrebbe
poi scelto come centro della sua attività l’alto Lazio e la Sabina,
314
Anna Cavallaro
dove il Bertini Calosso individuava altre testimonianze della sua scuola nella decorazione absidale firmata da Jacopo di Roccantica della chiesa di S. Pietro a Montebuono e nell'affresco con l'Inferno — oggi completamente perduto — della chiesa di S. Maria del Camposanto a Fianello. Lo studioso forniva inoltre un breve elenco di opere da riferire al Coleberti nel basso Lazio: la lunetta della chiesa di S. Maria Assunta a Sermoneta, una Vergine annunciata dipinta sul primo pilastro a sinistra della navata centrale nella chiesa di S. Benedetto a Priverno, un affresco frammentario con una scena di #artirio nella cripta della cattedrale di Velletri?. Al catalogo meridionale del pittore aggiungeva anche il ciclo dei Sezte Sacramenti della chiesa di S. Antonio a Priverno che vedeva peró collegato ad un seguace locale di buon livello?. In anni successivi tornava sull'argomento segnalando un altro affresco del Coleberti a Gubbio, nella chiesa di S. Francesco *. Successivi interventi critici, pur riconoscendo nella pittura del Coleberti l'indiscutibile riferimento ad Ottaviano Nelli, hanno
rifiutato l'ipotesi di un discepolato diretto presso il Nelli, veden-
do piuttosto nel pittore di Priverno una delle varianti laziali della cultura umbro-marchigiana particolarmente diffusa tra alto Lazio, Umbria meridionale, basso Lazio nei primi tre e quattro decenni del Quattrocento?. Gli studi recenti aprono invece
nuove prospettive al quesito della formazione del Coleberti indicando,
accanto
al tradizionale
collegamento
con
Ottaviano
Nelli, probabili legami con i pittori dell'area ternana e umbro-
meridionale °, Tali proposte meritano un adeguato approfondimento, considerando che il pittore di Priverno possiede una cultura e un li-
vello qualitativo lontani dalla raffinata pittura del Nelli, ma prossimi piuttosto ai pittori dell'Umbria meridionale dell'inizio del Quattrocento che in varia misura e con diversi accenti si rifan-
no alle medesime fonti culturali di Ottaviano Nelli. À margine della vicenda critica del Coleberti, lineare nelle proposte riguardanti la sua formazione, ma ancora priva. di adeguati approfondimenti, si ricordano infine le ultime aggiunte al suo catalogo e a quello dei suoi seguaci: un affresco nella chiesa di S. Maria extra-moenia ad Antrodoco ?, e l’Arnunciazione, Santi e Evangelisti dipinti sulle facce interne ed esterne del ciborio di S. Maria Maggiore a Tuscania *. In questa sede si cercherà di indagare sull’attività del pittore nei suoi. luoghi di origine, rivedendo il problema della formazione e del suo iter pittorico anche alla luce delle
testimonianze figurative e documentarie superstiti nel territorio di Sermoneta.
Pietro
Tra Sermoneta
Coleberti di
Priverno
315
e Priverno
La critica ha messo in evidenza la mancanza di dati storico-
documentari sul Coleberti; tuttavia. questa affermazione puó essere oggi in parte modificata. . ^ In un documento del 1422 citato, e solo in patte riportato, dallo storico di Sermoneta, Pietro Pantanelli, nato a Sermoneta nel 1710 e morto a Palestrina nel 1787, risulta tra i.testimoni ad un atto notarile stipulato nel coro della chiesa di S. Maria di Sermoneta un certo « magistro Petro Colae Berti pictore » *.
È indubbio che si tratti del nostro pittore. che viene qui denominato Pietro di Cola Berto e accompagnato dalla qualifica di maestto. | | AL
Un altro documento citato dal Pantanelli con la data 13 ottobre 1427 nomina invece « magistro Petro pictore de Piperno » nuovamente presente in veste di testimone ad un atto' notarile riguardante la donazione fatta da Bella Cola di Sermoneta dei
suoi beni alla collegiata di S. Maria di Sermoneta ". In questo
caso il pittore è denominato soltanto Pietro, ma viene indicata la sua provenienza dal paese di Priverno. E interessante notare che nel primo dei due documenti compare ancora il nome del
padre Cola Berto, che verrà poi sostituito dal patronimico Cole-
berti nella firma, l'unica, che il pittore lascerà nel 1430 negli
affreschi di Roccantica ".
‘ Se dunque, grazie ai documenti rintracciati dal Pantanelli nel XVIII secolo, abbiamo la certezza che il pittore si trovava nel
terzo decennio del Quattrocento a Sermoneta e già alla data del 1422 aveva la qualifica di maestro (qualifica che veniva assunta soltanto a venticinque anni compiuti), abbiamo anche qualche elemento in più per rivedere, e confermare, il suo intervento nella lunetta della cattedrale di Sermoneta (figg. 1-3) ". L'analisi stilistica rivela il carattere umbro del dipinto, già di recente avvertito in sede critica ?. Nella figura della Vergine che mostra una ben costruita volumetria, con il manto che ricade sulla fronte a piegoline fitte e sottili e nel motivo del bambino scalpitante tra le sue braccia, entrambi caratterizzati da un forte haturalismo e da una certa scioltezza di movimenti; nelle figutè totve e
accigliate:dei santi laterali dai volti fortemente chiaroscurati, e negli angiolini adoranti dipinti sulla cornice, si coglie uno stretto rapporto con il Maestro della Dorzzitiodi Terni e com i pittori suoi seguaci attivi nell’Umbria meridionale dalla fine del Trecento. all'inizio del Quattrocento “. Il confronto cof la lunetta della Madonna e i santi Nicola e Agostino dipinta sul portale
della chiesa di S. Nicolò a Spoleto e datata 1412 è significativo e rivela oltretutto la presenza della medesitna cornice ad archetti intrecciatie a tortiglioni, più semplificata nel Coleberti. A questa
316
Anna Cavallaro
cultura, che costituisce l'antefatto di Ottaviano Nelli pur senza condividerne le eleganze del gotico cortese, rimanda il piglio
espressivo delle figure, la sigla alla radice del naso che diventerà
abituale a Roccantica, e certe caratteristiche formali come le lunghe mani affusolate, gli occhi allungati, le barbe dei santi a brevi riccioli, i boccoli del bambino, i volti fortemente chiaroscurati e le fisionomie degli angiolini: si vedano ad esempio la Madonna già in collezione Ferroni, l’Incoronazione di Filadelfia, la Dormitio Virginis di Terni, la Madonna con il bambino del Museo Diocesano di Spoleto.
A] Coleberti è stata riferita anche la Vergine annunciata dipinta sul primo pilastro a sinistra della navata centrale della chiesa di S. Benedetto a Priverno (fig. 4), luogo d'origine del pittore secondo l'iscrizione di Roccantica P. La figura della Vergine affiancata da un leggìo è inserita, con un tentativo non riuscito di ricerca prospettica, in una loggia aperta con il pavimento a mattonelle e una balconata sulla parete frontale. Dell’angelo si intravede soltanto il giglio e un lembo della veste. Come è stato già notato dal Bertini Calosso, l’affresco è un’anticipazione dell’ Annunciazione di Roccantica (fig. 23) soltanto più compressa dal punto di vista spaziale e scarsamente dilatata in ampiezza. Anche la figura della Vergine, di proporzioni allungate, deriva
dal medesimo modello. In entrambi gli affreschi la Vergine indossa un mantello dai risvolti verdi e un abito a pieghe che par-
tono al di sopra della vita. Il cattivo stato di conservazione dell’affresco non consente un definitivo giudizio stilistico; si avverte tuttavia una traduzione in forme semplificate di schemi iconografici del Coleberti, specie nella figura smilza e senza peso della Vergine. Resta il dubbio di trovarsi di fronte ad una prova giovanile e ancora acerba del pittore di Priverno, oppure all’opera di un suo seguace. Vicini alla lunetta della cattedrale sono anche alcuni affreschi molto rovinati che si trovano nel corridoio della Sala delle Prigioni nel castello Caetani di Sermoneta: in un breve ambiente voltato a botte due santi a figuta intera, molti guasti ma tuttavia riconoscibili come s. Pietro e s. Paolo, sono dipinti su uno sfondo di foglie e fiori (fig. 5); al centro della volta dipinta a cielo stellato si trova il Redentore benedicente racchiuso in un cerchio iridato (fig. 6). Il fondo naturalistico a fogliame riman-
da al gusto gotico dell'Umbria meridionale del primo Quattro-
cento, ed è rintracciabile, per esempio nelle Storie di s. Antonio Abate a Cascia assegnate al Maestro della Dormitio di Terni La definizione dei volti con tratti lineari ed essenziali e le fisio-
nomie severe ed accigliate ricordano la lunetta di Sermoneta,
ma è nuova, rispetto a questa, la forma monumentale delle figure. Anche il Redentore mostra un’espressione più consapevole de-
Pietro
Coleberti
di Privetno
317
terminata da un uso ben calibrato del chiaroscuro e dei passaggi
cromatici, con effetti di più risentito plasticismo. Quésti scarni brani pittorici denotano a mio avviso una maturità plastica ed espressiva del pittore e richiedono una collocazione più avanzata nella sua produzione, vicina al ciclo di Roccantica. Se nelle sue prime opere a Sermoneta e, forse, a Priverno, il Coleberti si mostra legato alla cultura gotica dell'Umbria meridionale — una cultura che fa capo ad artisti operanti tra la Valnerina, Cascia e Spoleto, e che si presenta lontana, con le sue semplificazioni formali, dai preziosismi e dalle ricerche decorative del gusto cortese, ma già aperta a soluzioni ‘prospetticovolumetriche e chiaroscurali — nel ciclo di Sermoneta del 1430 mostra una successiva fase, più matura, nella quale si intrecciano altre e nuove influenze. Il ciclo di s. Caterina a Roccantica
Gli affreschi raffigurano le storie di s. Caterina d’Alessandria in otto riquadri che si dispongono in senso antioratio’sulle pareti laterali e sul lato corto contrapposto all’altare della piccola chiesa ad aula di S. Caterina a Roccantica "5. I quattro riquadri sulla parete di fronte all'ingresso rappresentano la Disputa di s. Caterina con i filosofi (figg. 7-10), il Matrimonio mistico di s. Caterina e la flagellazione della santa (figg. 11-13), la Conversione dell'imperatrice (figg. 14-16) e il Martirio dei filosofi (figg. 17-19); sono in discreto stato di conservazione. Invece i tre riquadri sulla parete di fondo sono ormai quasi del tutto cancellati a causa dell'umidità e dell'esposizione a-nord; ratfigurano:S. Caterina cbe rivela all'imperatore l'aiuto divino, il Martirio delle ruote (fig. 20), il Martirio dell’imperatrice e di Porfirio. Sulla parete di ingresso & l'ultima scena del ciclo, la Decapitazione e sepoltura di s. Caterina (figg. 21-22). Seguono cinque figure isolate entro arcate a sinistra dell'ingresso; di queste sono identificabili soltanto tre, S. Sebastiano, S. Antonio abate (fig. 21), il Redentore ", mentre le altre due sono ofmai praticamente illegeibili. Nello spazio triangolare del soffitto a capriate delle pareti lunghe sono raffigurate l'Auzzaciazione (fig. 23) e l’Incoronazione della Vergine (fig. 25) tra lo stemma del com-
mittente, Armelleo de’ Bastonis di Ascoli Piceno ?. Sotto ogni scena una scritta in volgare a caratteri gotici spiega il rispettivo episodio. 2
L’attribuzione al Coleberti è resa certa dalla firma apposta
dal pittore sotto la Conversione dell’imperatrice, nella parte inferiore di una delle due torri che affiancano la cella dove l’im-
peratrice & imprigionata: ^
« Petrus Coleberti de Piperno p.»
318
Anna Cavallaro
(fig. 14). La data di ultimazione degli affreschi, il 1° giugno 1430, e il nome del committente Armelleo de’ Bastonis, si leggono invece nella fascia che delimita in alto la medesima scena: « (f)ecit fier] magnific’ extimabilis do’ armelle’ de bastonis de
esculo ex maxi », « sub äno do m cccc xxx die j. junii potificat? dé nfi do martini p p. V. ano p' xiij » (fig. 14). La Disputa di s. Caterina con i filosofi (fig. 7) avviene in un ambiente chiuso e soffittato con un'articolazione a nicchie nello sfondo; all'interno si trovano i filosofi che ascoltano insieme al-
l’imperatore Massimino la difesa di s. Caterina, partecipando con espressioni torve e accigliate alla gravità del momento (figg.
8, 9, 10). L'iscrizione che spiega l'avvenimento è la seguente: « Quado btà katherina disputao colli philosofi liquali ’cuertiti foro alla fede de cristo ».
Segue il Matrimonio mistico di s. Caterina e la flagellazione
della santa (fig. 11) dove appare la figura allungata della santa con le mani legate dietro la schiena, denudata fino alla cintola e affiancata da due flagellanti (fig. 12). In una torre a lato si
vede la santa alla quale Cristo infila l'anello al dito. L'archi-
tettura ha la funzione di inquadrare schematicamente la scena e di contenere le figure, ma manca qualsiasi interesse per la
resa prospettica; anzi, si noti l'ingenuità delle figure piccole del-
l'imperatore e dell'imperatrice alla finestra (fig. 13) non giu-
stificate prospetticamente rispetto al resto della scena, e lo scarto proporzionale tra il flagellante di sinistra che esce dalla
torre dove si trovano le figure, di ridotte dimensioni, di Cristo e s. Caterina. Per la prima volta appare la decorazione musiva di tipo cosmatesco sul prospetto del carcere dove ha luogo il
matrimonio di s. Caterina. Infine in questa scena si scorge un
accentuato gusto realistico nella resa visiva delle frustate sul
torace della santa, vino le fisionomie terina atteggiato « On x sposao bta
e nella tipizzazione dei protagonisti: si esotiche dei due flagellanti e il volto di in una smorfia patetica. L'iscrizione katherina inella cacera // Quado btà
rina dalli carceraij f/// frustata ».
ossers. Cadice: kathe-
La Conversione dell'imperatrice (figg. 14-16) avviene all'interno di un edificio aperto da una grata che allude alla prigione dove sono rinchiusi l'imperatrice e Porfirio, capo delle guardie, e s. Caterina. L'esterno del carcere presenta di nuovo una decorazione di tipo cosmatesco. In primo piano è seduta una sentinella pesantemente addormentata. L'iscrizione sottostante dichia-
ra: « Quado vene la ipatrice cO porfirio alla carcera alla fede de xpo foro convertutj ». In questa scena si trova il dettaglio na-
turalistico della rondine appollaiata su un regolo dal quale proietta la sua ombra (fig. 16), espressione di quell’acuta indagine della realtà tipica del gotico. Lo stesso motivo si trova nel-
Pietro
Coleberti
di Priverno
319
l'affresco frammentario con una Scena di martirio dipinto nella cripta della cattedrale di Velletri, già dal Bertini Calosso assegnato allo stesso Coleberti, ma di recente più giustamente tolto al pittore P, E oe
Il Martirio dei filosofi (figg. 17-19) avvietie in una fornace
cilindrica dalla quale sporgono le teste dei filosofi avvolte nelle
fiamme. In alto alcuni angeli accolgono le anime dei martiri.
L’altana con la figura sporgente dell’imperatore che ordina il
martirio ripropone schemi architettonici trecenteschi (fig. 19). La sctitta sottostante dichiara: « Quado liphilosofi foro messi inella fonace liqualj lanime loto adio rendero». a Seguono le altre scene del ciclo, oggi leggibili a fatica: S. Ca-
terina rivela all'imperatore l'aiuto divino, dove si intravede soltanto il trono dell’imperatore fiancheggiato da un paggio, in abiti
di foggia contemporanea; il Martirio delle ruote (fig. 20), dove è ben visibile la figura di s. Caterina a torso nudo affiancata da due ruote sulle quali piombano dal cielo due angeli, e in alto l’imperatore che assiste stupito. Del tutto illeggibile è invece l’ultima scena della parete corta; già identificata dal Bertini Ca-
losso con il Martirio dell'imperatore e di Porfirio. Le iscrizioni sottostanti queste scene e le seguenti sono andate ‘perdute.
Nell’ultima scena situata sulla parete di ingresso, la Decapitazione e sepoltura di s. Caterina (figg. 21-22), si vede nella
parte inferiore un carnefice che inguaina la spada dopo aver de-
capitato s. Caterina; in alto tre angeli depongono il corpo in un sarcofago (fig. 22). Caratteristico è il modo di tagliare le rocce a sezioni trasversali. Schemi trecenteschi si ritrovano anche nelle due grandi scene sacre dipinte sulla zona superiore della parete: l’ Annunciazione (fig. 23) e l'Incoronazione della Vergine (fig. 25). Queste scene si rifanno con evidenza a schemi tardo-trecenteschi, che ritroviamo anche in Ottaviano Nelli. L’Annunciazione (fig. 23) ricor-
da la analoga scena dipinta da Ottaviano Nelli nel 1424 nel ciclo
di Storie mariane della cappella di palazzo Trinci a Foligno (fig. 24): l'angelo annunciante è simile all’angelo dell’Annunciazione nellesca, identico è anche il disegno delle mattonelle del pavimento e l’architettura del portico che inquadra le figure; la scena mo-
stra però una forte semplificazione formale e una maldestra interpretazione delle più elementari regole prospettiche, Nell’Ircoronazione della Vergine (fig. 25) il pittore accoglie finezze cosmopolitane di Ottaviano Nelli nei teneri colori pa-
stello, nell’eleganza dei costumi
e nell'andamento
spezzato
e
calligrafico dei bordi delle vesti: si notino i colletti arricciati degli angeli musicanti, le vesti e le sopravvesti in preziose stoffe
lavorate, gli strumenti musicali in un confronto quanto mai opportuno con: l’opera più nota di Ottaviano Nelli, la Ma-
320
donna
Anna
Cavallaro
del Belvedere
in S. Maria
Nuova
a Gubbio
(fig. 26)
databile al massimo, per la data frammentaria, al 1413 ?. Anche la tendenza a riprendere schemi iconografici del primo Trecento collega il Coleberti ad un atteggiamento diffuso nell'Umbria centro-meridionale tra Trecento e Quattrocento. I confronti con Ottaviano Nelli evidenziano una tendenza comune a inserire, e quasi comprimere, le figure in anguste prospet-
tive interne, il gusto per le composizioni a gruppi compatti di figure caratterizzate da un ansioso gesticolare e da un'intensa partecipazione emotiva; tipiche del Nelli sono poi le ambientazioni architettoniche e le cornici a finti intarsi marmorei che definiscono le scene. Da Ottaviano Nelli derivano inoltre le finezze cosmopolitane e un certo arrotondamento e addolcimento dei visi.
Accanto al Nelli va ricordato un altro protagonista della pittura umbra del primo Quattrocento, Giovanni di Corraduccio. Questo pittore di Foligno, che svolge un'attività documentata tra il 1404 e il 1428, saprà mediare all'ambiente umbro motivi della tradizione orvietana che si ritrovano anche nel Coleberti: il chiaroscuro denso e avvolgente, la cromia vivace, il gusto per cubature architettoniche semplici, le decorazioni musive a motivi cosmateschi, un certo embrionale illusionismo prospettico nelle finte mensole e nei finti lacunari che scandiscono cornici e in-
terni architettonici *. Ai contatti con Ottaviano Nelli e Giovanni
di Corraduccio rimanda anche la volumetria dei visi del Coleberti ottenuta attraverso il colorito bruno degli incarnati e l’uso sapiente del chiaroscuro. Caratteristico della pittura umbra fino al Nelli è poi il modo di rendere l'ambiente naturale con costoni di rocce tagliate a sezioni trasversali e attraversate da scanalature ver-
ticali da cui spuntano cespi fioriti. Ma le fisionomie aggrottate, i profili taglienti ed accigliati,
le espressioni patetiche e caricate del Coleberti non si spiegano facendo ricorso soltanto all’esempio del Nelli. Il carattere torvo,
accigliato e al limite del patetico dei filosofi, il caratteristico
segno calligrafico alla radice del naso fra le sopracciglia a deno-
tare sdegno o stupore, sono motivi che rimandano alla tradizione espressiva della pittura umbro-marchigiana del Trecento e del primo Quattrocento 2, Riflessi dell’espressionismo gotico di derivazione umbro-marchigiana si colgono anche nel Lazio attraverso la penetrazione dall’Abruzzo. Penso a quelle infiltrazioni di cultura abruzzese di carattere fortemente espressionistico e patetico che ha luogo nel Lazio nei primi decenni del Quattrocento nel cantiere dei monasteri di Subiaco dove è presente l’alta figura del Maestro
della cappella Caldora. In questo pittore attivo nel transetto
di S. Scolastica ritroviamo la ricerca di tipizzazione dei per-
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2. Pietro Coleberti, Madonna con il bambino tra s. Pietro e un santo vescovo, particolare. Sermoneta, cattedrale di S. Maria Assunta. Lunetta del portale principale.
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3. Pietro Coleberti, Madonna con il bambino tra s. Pietro e un santo vescovo, particolare. Sermoneta, cattedrale di S. Maria Assunta. Lunetta del portale principale.
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5. Pietro Coleberti, I santi Pietro e Paolo. tani, corridoio della Sala delle Prigioni.
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6. Pietro Coleberti, Redentore benedicente. tani, corridoio della Sala delle Prigioni.
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di fronte all'ingresso.
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11. Pietro Coleberti, Matrimonio mistico di s. Caterina e la flagellazione di s. Caterina. Chiesa di S. Caterina. Parete di fronte all'ingresso.
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12. Roccant ica, idem, part icolare
13. Roccantica, idem, particolare.
14. Pietro
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fronte all'ingresso.
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18. Roccantica, idem, particolare.
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23. Pietro Coleberti, Annunciazione. Roccantica, Chiesa di S. Caterina. Parete di fronte all'ingresso.
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24. Ottaviano Nelli, Axnunciazione.
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Pietro
Coleberti
di Priverno
321
sonaggi, i profili arguti, il gusto per fogge e copricapi esotici (fig. 28)*. Gli affreschi del transetto di S. Scolastica sono databili su base storica nel 1408, ma il maestro continuerà a lavofate nel cantiere di Subiaco, assistito da aiuti, almeno fifo al 1428 ^.
Sono i medesimi anni in cui avviene la formazione del Cole-
berti. Si puó allora ipotizzare che Subiaco, cantiere aperto alle influenze e alle culture del centro-ltalia e testa di ponte per l'irradiamento nel basso Lazio della cultura utnbro-marchigiana, sia stata una tappa nella formazione del pittore, di Priverno, che proprio qui avrebbe fatto il suo primo incòntro con
quel filone espressionistico-narrativo della pittura umbro-mar-
chigiana che alla fine del Trecento aveva valicato l'Appennino centrale per irradiarsi in Abruzzo e nel Lazio? T] Coleberti, artista provinciale ricco di molteplici componenti culturali ma non privo di una sua autentica personalità nél. gusto narrativo e nella freschezza di invenzione, rientra in conclusione nella corrente gotica di estrazione popolare: nella sua ‘prima attività a Sermoneta si dimostra aggiornato sulle corrénti dell'Umbria meridionale della fine del Trecento-inizio Quatttocento e presenta poi una tendenza all’espressionismo pateticodi matrice umbro-marchigiana. Nel ciclo di Roccantica ptevalgono il vivace realismo del racconto e il gusto del dettaglio, le éspressioni pungenti e a volte esasperate che possono sfociate fiel grottesco, l'interesse per i costumi contemporanei e pêr ‘il mondo esotico. Caratteri che sono comuni anche alle decorazioni di S. Scolastica a Subiaco del Maestro Caldora, al puntó di far sospettare un passaggio del Coleberti nel cantiere di Sübiaco, — cantiere fiorente nel corso dei primi tre decenni del Quattrocento — prima del suo trasferimento in Sabina”. Il contatto con Ottaviano Nelli in Umbria nel corso del soggiorno nell’alto Lazio per i lavori a Roccantica nel 1430 arricchisce il suo linguaggio anche di nuove eleganze cortesi. — Pitture colebertiane
nel castello Caetani di Sermoneta
Tracce della maniera del Coleberti si trovano ancora nel corso del Quattrocento a Sermoneta nel castello Caetani. Nella sala del pianterreno della torre sono dipinti motivi di carattere: ‘araldico e decorativo di chiara impronta colebertiana ma risalenti ormai
alla seconda metà del Quattrocento, epoca nella quale il pittore
doveva essere ormai morto: sulle due pareti della sala si trovano due coppie di angeli che sostengono cornici polilóbate contenenti stemmi leggibili soltanto su una delle due pareti e identificabili con lo stemma dei Caetani di Sermoneta e del cardinale Scaram-
322
Anna Cavallaro
po, a ricordo dei rapporti di amicizia intercorsi tra i Caetani e il cardinale (figg. 29-30). Lo stemma del cardinale Scarampo di Mezzarota è composto da una mezza ruota sormontata da una banda con tre stelle. I rapporti tra i Caetani e lo Scarampo tisalgono all'epoca di Onorato III Caetani signore di Sermoneta e si collocano tra il sesto e il settimo decennio del Quattrocento ?.
Questi affreschi sono stati restaurati tra la fine degli anni Ot-
tanta e l'inizio degli anni Novanta e probabilmente in parte reintegrati, e comunque
tipassati con una matcata linea nera
di contorno. E manifesto tuttavia l'attardamento culturale su formule di maniera del primo Quattrocento provenienti dal Co-
leberti: gli angiolini ad ali spiegate di vari colori, la caratteristica cifra colebertiana consistente nelle tuniche che si piegano ad angolo e cadono a piombo coprendo i piedi degli angeli, gli ornati ancora cortesi dei polsini e degli abiti, le capigliature a partiture simmetriche. Segni evidenti della vivacità di una tradizione locale di gusto gotico non del tutto estinta, queste decorazioni ne rappresentano comunque i| recupero intenzionale nella seconda metà del secolo in occasione di una cele-
brazione araldica. Si tratta tuttavia di una cultura gotica riproposta con una diversa e già rinnovata sensibilità plastico-lineare. Infine, in un altro ambiente a pianterreno del maschietto del castello Caetani, la cosidetta Sala delle prigioni, si trovano lu-
nette con una decorazione naturalistica a motivi vegetali: palmizi, cespugli fioriti e vasi di fiori sui quali vola un uccello
(figg. 31-33). Lungo le pareti alla base delle lunette corre una fascia dipinta a monocromo con foglie di acanto, candelabre e
cornucopie secondo il gusto classicheggiante diffuso a Roma nella seconda metà del Quattrocento. Al centro della prima volta della sala si trova lo stemma Caetani dentro una ghirlanda di
frutta, raccordato agli angoli da fasce decorate a ghirlande. AI di
sotto si legge la scritta ROTAT OMNE FATUM. Entro una delle vele è dipinto un agnello crucifero (fig. 33) circondato da un cerchio iridato e accompagnato dall'iscrizione HONORE DEO ET PATRIE LIBERATIONEM. Questa decorazione à databile alla seconda metà del Quattrocento per la presenza dello stemma Scarampo a fatica leggibile sulla seconda volta della sala. Si tratta di una decorazione già aperta alle formule decorative classicheggianti di moda nella Roma di metà Quattrocento — i vasi di
fiori che si affacciano dalle balaustre ricordano per esempio la
Biblioteca Graeca in Vaticano — ma per certi aspetti, per esem-
pio l'agnello nella cornice iridata, ancora in debito con le formule gotiche del primo Quattrocento, a conferma della fortuna del Coleberti in ambiente di corte ancora nella seconda metà del secolo.
Pietro
Coleberti. di Priverno
323
Note 1 A, BERTINI CALOSSO, Le origini della pittura del Quattrocento attorno &
Roma, in « Bollettino d'arte », XIV,
1920, 5,
pp. 97-110; 8, pp. 185-222.
2 BERTINI CALOSSO, Le origini, 8, pp. 185-196. Una sintesi divulgativa degli argomenti esposti nello studio del 1920 è in A. BERTINI caLosso, Pietro Coleberti da Piperno, pittore del '400, in «Il Circeo », IL, 4, 28 gennaio 1922. Tra i dipinti attribuiti dal Bertini Calosso alla scuola del Coleberti in Sabina, l'atfresco con l'Izferzo nella chiesa di S. Maria del Camposanto di Fianello, un tempo firmato da un certo Jacopo da San Polo e datato 1451, è oggi perduto,
mentre la Natività (firmata da Jacopo di Roccantica e un tempo datata 1451), la Madonna e santi e un frammentatio Giudizio Universale dipinti. nella chiesa di S. Pietro a Montebuono, risultano diversi dalla maniera del Coleberti e vicini piuttosto alla scuola dell Umbria
meridionale
dell’inizio del Quattrocento.
3 A. BERTINI CALOSSO, Chiesa di S. Antonio Abate a Piperno. Gli affreschi dei Sette Sacramenti, in « Il Circeo », II, 19, 13 maggio 1922. Gli affreschi sono
dipinti sulle quattro vele della volta sopra l’altare e raffigurano i Sette
sacra-
menti (cresima, estrema unzione, matrimonio) e la Vergine con il bambino in gloria. Catatteri distintivi sono l'attenzione ai costumi contemporanei e la ri. cerca. psicologica
dei personaggi,
segni
di un'arte
provinciale
che si aggiorna
sulle nuove correnti rinascimentali. S. ROMANO, Eclissi di Roma. Pittura murale
a Roma e nel Lazio da Bonifacio VIII a Martino V (1295-1431), Roma 1992, pp. 388 e 393 nota 50 non ritiene verosimile l'attribuzione del Bettini Calosso e collega. il ciclo di Priverno alla cultura napoletana. E. ANGELINI, Priverno, Priverno 1980, pp. 81-82, 163-167 conferma invece al Coleberti e seguaci i dia pinti privernati.
4 Si tratta dell’affresco staccato raffigurante la Traslazione della: Santa Casa
che si trova nella Sala capitolare della chiesa di S. Francesco a Gubbio (ma è proveniente dal chiostro), vedi A. BERTINI CALOSSO, Ux affresco di Pietro Cole. berti a Gubbio, in « Rivista dell'Istituto di archeologia e storia dell'arte », 1,
1952, pp. 298-316. Tuttavia questa attribuzione non è stata accolta in seguito
dalla critica che si è occupata del Coleberti.
5 v, enotI, Pittori e miniatori nell Umbria, Spoleto 1923, rist. anast. Foligno 1980, p. 228 alla voce « Ottaviano di Martino di Nello da. Gubbio » ribadisce le forti affinità di stile del Coleberti con Ottaviano Nelli, ma è il primo
a rifiutare con decisione l'ipotesi di un rapporto di discepolato tra i due pittori, a suo avviso legati piuttosto dalla comune adesione alla corrente, umbro-marchigiana nella quale vede confluire anche motivi della miniatura francese, Aggiunge nuove considerazioni su Pietro Coleberti che avrebbe ripreso dalla pittura senese, e in specie da Taddeo di Bartolo, sigle stilistiche nella trattazione dei panneggi e modi compositivi nell’ambientazione delle scene. Anche R. VAN MARLE, The development of the italian schools of painting, VIII, The Hague 1927, pp. 388-390 rifiuta il discepolato presso il Nelli e ambienta la comune cultura umbro-matchigiana in termini geografici. Delinea infatti una corrente artística di non alta qualità derivata da Ottaviano Nelli che si sviluppa dall’alto Lazio, toccando i centri di Corneto, Tuscania, Viterbo e Terni, all’Abruzzo, dove privilegia Sulmona, e arriva alla Ciociaria giungendo fino a Priverno, dove si incontra Pietro Coleberti giudicato in modo riduttivo «a little painter-decorator of no real metit ». Anche P. TOESCA alla voce Lazio, in Enciclopedia Italiana, XX, Ro-
ma 1933, p. 701 ribadisce la dipendenza del Coleberti dalla corrente umbromatchigiana e da Ottaviano Nelli, sulla scorta del Bertini Calosso. La prima sin-
tesi moderna sul Coleberti è la voce Coleberti Pietro, a cura di G. DAMIANI in Dizionario biografico degli italiani, 26, Roma 1982, pp. 717-718, dove il pittore € definito « personalità di modesta levatura, non privo di una certa freschezza ;natrativa nell’affrontare la trattazione delle storie in un linguaggio figurativo da favola popolatesca ». Anche in questa sede è riconosciuta la sua formazione umbro. marchigiana, non necessariamente vista in collegamento con un discepolato presso Ottaviano Nelli, perché comune ad un certo numero di modesti decoratori attivi
tra Umbria meridionale e alto Lazio nei primi decenni del Quattrocento. A. PINEL-
LI, La pittura del Ouaïtrocento a Roma e nel Lazio, in La pittura in Italia. Il Quattrocento, II, Milano 1987, p. 422 accoglie la tesi che vede nella pittura del
Coleberti una variante laziale della corrente umbro-senese-marchigiana individuan.
do tra i suoi caratteri più significativi la tendenza alla « trascrizione aspra e ta-
324
Anna
Cavallaro
gliente » ed un caratterismo pungente « che può sfociare nel grottesco »; nello stesso volume si veda la voce Coleberti Pietro da Piperno, a cura di A. SBRILLI,
p. 602 con bibliografia precedente. Anche la voce Lazio, a cura di S. ROLFI,
in Dizionario della pittura e dei pittori, III, Torino 1992, p. 131 si occupa del Coleberti individuando, sulla scia del Bertini Calosso, nella sua produzione pittoríca un accordo tra la cultura locale centro-appenninica, dove persistono l'apporto senese e quello assisiate, e la corrente più incisiva del tardo-gotico delPItalia centrale a cui appartengono anche, in misura diversa, pittori come Ottaviano Nelli, i Salimbeni, Arcangelo di Cola, Bartolomeo di Tommaso. 6 romano, Eclissi di Roma, p. 387. La studiosa porta ad esempio il motivo del putto a monocromo che regge lo stemma del committente su un tappeto fiorito dipinto sulla parete di ingresso nella chiesa di S. Caterina a Roccantica a conferma della vicinanza culturale del Coleberti a pittori umbri come il Maestro di Narni, il Maestro di Pietrarossa, il Maestro di Eggi. Anche Bruno Toscano (comunicazione orale in occasione del presente Convegno, giugno 1993) propende verso modelli di un gotico pià aspro di quello del Nelli e dei Salimbeni, da localizzare nell’area umbro-ternana, nella Valnerina e nelle Marche (Camerino, Fermo). In modo particolare propone confronti con il Maestro della Dormitio di Terni e con l'autore degli affreschi della chiesa di S. Agostino a Fermo. Si veda anche B. Toscano, La pittura in Umbria nel Quattrocento, in La pittura in Italia. Il Quattrocento, II, Milano 1987, pp. 355-383. 7 v. GOLZIO, G. ZANDER, L'arte in Roma nel XV secolo, Bologna 1968, p. 303. Tale attribuzione è registrata soltanto nella voce Coleberti Pietro del 1987. Dei numerosi affreschi presenti nella chiesa di S. Maria extra-moenia di Antrodoco databili tra la fine del XIV e l'inizio del XV secolo e resi noti da C. VERANI, Gli affreschi votivi del Battistero e della chiesa di S. Maria extra-moenia di Antrodoco, Rieti 1954 (che li collega alla cultura tardo-gotica abruzzese) Golzio, Zander non specificano quale sia attribuibile al Coleberti accennando genericamente ad un suo intervento nell’edificio. Tuttavia mi sembra che nessuno di questi affreschi possa essere avvicinato al Coleberti; piuttosto ai maestri omonimi dell'Umbria meridionale che condividono la medesima cultura tardo-gotica, ma su un piano di più sostenuta e sofisticata eleganza. Mi riferisco in particolare a due affreschi dipinti sul pilastro che divide la navata centrale dalla navata destra, una figura isolata di Santa con in mano una lampada accesa e le Nozze mistiche di s. Caterina d'Alessandria, ricchi di ornati di gusto tardo-gotico. 8 romano, Eclissi di Roma, p. 393 nota 46 e p. 504 giudica gli affreschi di Tuscania vicini alla maniera di Pietro Coleberti. À mio avviso la forte accentuazione monumentale delle figure e la tendenza ad uno sviluppo verticale mostrano piuttosto affinità con il Maestro di Narni del 1409, mentre vicini al Coleberti sono una certa curiosità realistica e la definizione sommaria e geome-
trizzante di arredi e sfondi architettonici.
9 P. PANTANELLI, Notizie istoriche e di Sormoneta, edite da Leone Caetani, p. 430. Il documento del 1422 redatto tratta della concessione di una carica collegiata di S. Maria Assunta a Nicola
sacre e profane appartenenti alla terra I, Roma 1909, rist. anast. Roma 1972, dal notaio Antonio Tuzi di Sermoneta rimasta vacante nella gerarchia della Cifra di Bassiano da parte dei canonici
e beneficiati della stessa collegiata (questo documento è menzionato dal Panta-
nelli nell’Indice dei nomi e delle cose notevoli: Petrus Colae Berti, pittore (1422), I, p. 430). Tuttavia il Pantanelli non riporta né il giorno, né il mese di redazione del documento. 10 PANTANELLI, Notizie istoriche, I, p. 625 (ringrazio Enzo Borsellino per la segnalazione di questo documento). Una ricerca svolta presso l'Archivio Notarile di Stato di Latina da Pasqua Ciabattoni per individuare i due documenti citati dal Pantanelli non ha fornito risultati utili. Nel fascicolo, oggi incompleto, del notaio Antonio Tuzi di Sermoneta che riunisce atti stipulati dal 1422 al 1439 non compaiono infatti i due documenti citati dal Pantanelli che sono considerati perduti dalla dott. Caciorgna che ha catalogato il fascicolo circa una ventina di anni fa. 11 Stranamente U. GNOLI, Rassegna bibliografica, in « Rassegna d'arte umbra», III, s. II, III, 1921, pp. 92-93 nella recensione all'articolo di Bertini Calosso del 1920 aveva menzionato il pittore con il nome di « Pietro di Cola di Berto da Piperno», dichiarandolo inoltre «di origine abruzzese», senza
tuttavia citare lé sue fonti di informazione.
Pietro Coleberti di Priverno
325
12 Cosi il PANTANELLI, Notizie istoriche, pp. 82-83 descriveva la lunetta nei primi del XVIII secolo: «sopra essa porta al di fuori ha una nicchia dipinta alla gotica, ma di qualche bontà, e rappresenta in mezze figure la Beata Vergine col Bambino Gesù che dà le chiavi a s. Pietro situato a sinistra; et a destra si vede un santo vescovo vestito all'antica e col pallio, e dicono essére sant'Epa-
frodito ». L'identificazione del santo a destra della Vergine con's; Epafrodito non é stata accolta dalla critica moderna Bertini Calosso, come «santo vescovo ».
che continua a citarlo, à partire dal ;
13 L'attribuzione della lunetta di Sermoneta al Coleberti è stata ‘proposta da
BERTINI CALOSSO, Le origizi, p. 195 e accettata da GNOLI, Rassegna; p. 23, VAN MARLE, The development, p. 389, coLzio, ZANDER, L'arte a Roma, p. 303, DAMIANI, voce Coleberti Pietro, p. 718, SBRILLI, voce Coleberti Pietro, p. 602,
ANGELINI, Priverno, pp. 81-82. Pur non essendo pienamente convinta dell'auto-
grafia del Coleberti, la romano, Eclissi di Roma, p. 393 nota 53 vi coglie tutta-
via una componente umbra vicina al pittore di Priverno. 4 La figura
del Maestro
della Dormitio
di Terni
(e suoi
i
seguaci)
è stata
individuata da F. ZERI, Tre argomenti umbri. 1) Una questione di tardo Trecento
tra Spoleto e Terni, in « Bollettino d'arte », XLVIII, 1963, pp. 29:36, e in seguito approfondita e discussa da B. toscano, Due problemi di storia dell'arte nel profomonastero di Sant'Anna, in La beata. Angiolina da Montegiove e il movimento del Terz’ordine regolare francescano femminile. Atti del convegno, Foligno 22-24 sett. 1983, Roma 1984, pp. 324-328, toscano, La pittura in Umbria, pp. 355-356, r. TODINI, La pittura umbra dal Duecento al primo Cinquecento, I, Milano 1989, pp. 130, 160, 166, 205, c. FRATINI, Pittori dell’area fernana tra la fine del 300 e l'inizio del ’400, in Dall’Albornoz all’età dei Borgia. Questioni di cultura figurativa nell'Umbria meridionale. Atti del convegno, Perugia 1987, Todi 1990, pp. 127-175. : 15 Attribuita al Coleberti dal BERTINI CALOSSO, Le origini, p. 194, GNOLI, Rassegna, p. 93 (che vi scorge « un tardo riflesso dell’arte del Cavallini »), VAN MARLE, The development, p. 389, GOLZIO, ZANDER, L'arte a Roma;p. 303, DAMIANI, voce Coleberti Pietro, p. 718, SBRILLI, voce Coleberti Pietro, p. 602 (che pensa al Coleberti con aiuti), ANGELINI, Priverno, pp. 81-82, ROMANO, Eclissi di Roma, p. 393 nota 50 (che la ritiene più vicina al Coleberti di quanto lo siano gli affreschi della chiesa di S. Antonio a, Priverno). L'affresco è venuto alla luce alla fine dell’Ottocento ripulendo lo strato di intonaco che Jo ricopriva. All'epoca del Bertini Calosso erano ancora visibili alcune dita della mano del’angelo. ae
16 Il ciclo di s. Caterina a Roccantica è specificatamente trattato da BERTINI
catosso, Le origini, pp. 185-194 (con ampia analisi stilistica e iconografica), da F. PALMEGIANI, Rieti e la regione sabina, Roma 1932, pp. 568-574 (con una dettagliata descrizione degli affreschi), da M. crar, L’iconografia di s. Caterina d' Alessandria negli affreschi di Pietro Coleberti da Piperno a Roccantica (1430), in « Alma Roma», XXX, 1989, 5-6, pp. 115-133, (con confronti tra le scene della vita della santa e il testo della Legenda aurea di Jacopo da Varagine, che risulta la fonte principale delle storie). La chiesa di S. Caterina è oggi di proprietà della famiglia Robbio Tacci di Roccantica, che su richiesta consente gentilmente la visita della chiesa al pubblico. 17 Questa figura è invece identificata dal VAN MARLE, The development, p. 338 nota 3 con s. Giacomo Maggiore. 18 Il BERTINI CALOSSO, Le origizi, p. 191 indirizzò la sua ricerea anche sul committente del ciclo di Roccantica, Armelleo de’ Bastonis, citato in;un riquadro
degli affreschi: uomo d’armi che ebbe da Martino V nel 1427.1a carica di castellano e governatore di Roccantica, eta imparentato con. la fainiglià Trinci di Foligno a seguito delle nozze avvenute nel 1424 tra il figlio Antonio Ricciardo
e Lucia Trinci, nipote di Corrado Trinci, ultimo esponente della >dinastia dei
Trinci di Foligno. Questa notizia, acquisita attraverso ricerche d’atchivio relative alla famiglia de’ Bastonis, ha indotto il Bertini Calosso a riconoscere in Corrado Trinci il tramite tra il Coleberti, conosciuto a Foligno nell'égzipe di Ottaviano Nelli, e il signore di Roccantica, Armelleo de’ Bastonis. : 19 Già DAMIANI, voce Coleberti Pietro, p. 718 riteneva ipotetica l'attribuzione al Coleberti per lo stato frammentario dell'affresco. L'attribuzione al Coleberti è stata rifiutata da s. Toscano, La regione artistica di Ninfa, in Ninfa, una città, un giardino. Atti del colloquio della Fondazione Camillo Caeta-
326
Anna Cavallato
ni, Roma, Sermoneta, Ninfa 7-9 otiobre 1988, a cura di L. Fiorani, Roma 1990, pp. 189-190 e dalla romano, Eclissi di Roma, p. 446, ma con differenti
proposte di datazione: per Toscano si tratta di un dipinto della fine del XIII
secolo, mentre la Romano respinge una datazione così precoce e lo colloca invece nel primo trentennio del XV secolo per la presenza di motivi marchigiani insieme ad altri di cultura spagnola: 20 x. FONTANA, Per Ottaviano Nelli, in Piero e Urbino, Piero e le corti rinascimentali, catalogo della mostra, Venezia 1992, p. 27 (con bibl. precedente). Sulla formazione di Ottaviano Nelli più di recente si veda la scheda di ¥. TODINI in Galleria nazionale dell'Umbria. Dipinti, sculture e ceramiche: studi e restauri, a cura di C. Bon Valsassina e V. Garibaldi, Firenze 1994, pp. 167-168. 21 Per Giovanni di Corraduccio si veda P. SCARPELLINI, Giovanni di Corra-
duccio, Foligno 1976, e AA.vv., Museo comunale di S. Francesco a Montefalco,
a-cura di B. Toscano, Perugia 1990, pp. 91-96 e 123-128. 22 Si vedano gli affreschi della chiesa di S. Francesco a Tolentino e quelli della chiesa di S. Francesco a Ginesio, attribuiti al Maestro di Offida da P. zAMPETTI, Pittura nelle Marche. Dalle origini al primo Rinascimento, I, Firenze 1988, tavv. 52-56. Il BERTINI CALOSSO, Le origini, p. 192 ritiene che il segno alle radici del naso negli affreschi di Roccantica sia stato « perlomeno esagerato d’assai» da un restauratore sulla traccia di modelli medievali, Del resto l’espressionismo, l’emotività e il gesticolare concitato sono aspetti del gotico cortese che convivono accanto a motivi più tradizionali come l’espressione gentile e il tono sognante ed evasivo. A questo proposito si veda L. CASTELFRANCHI VEGAS, Fortuna storica del gotico internazionale (a proposito della mostra di Verona), in « Paragone », 155, 1962, p. 67 che evidenzia il dualismo proprio del gotico internazionale nel cui ambito, insieme ad « un mondo di sentimenti squisiti, evasivi e decadenti », si configura anche talvolta un altro volto « che predilige piuttosto un’accentuazione lineare pesante, una gravezza di forme, oppure una gesticolazione appassionata, un’emotività eccitata ». Anche TOSCANO,
La pittura in Umbria, p. 355 avverte una sorta « di limitata famigliarità » con
l'ondata gotica da parte di un’estesa cultura pittorica che nel primo quarto del Quattrocento si localizza nell’area umbro-ternana (Terni, Spoleto, Trevi) allargandosi anche nella valle di Nera e nelle Marche. 233 Gli affreschi del transetto di S. Scolastica, oggi tagliati dal soffitto settecentesco, sono visibili nel sottotetto, tra la copertura della chiesa gotica e le volte del rifacimento settecentesco; raffigurano l’Ascezsione di Cristo, la Pentecoste, il Giudizio Universale e sono databili al 1408. Sono stati resi noti nel
1950 da c. GUGLIELMY, Affreschi inediti in Santa Scolastica a Subiaco, in « Bol-
lettino d’arte », XXXV, 1950, pp. 113-122, che notava l’alta qualità del colore, la finezza grafica, la tendenza alla tipizzazione e la ricerca del pittoresco e ne proponeva l’assegnazione al pittore degli affreschi della Badia di S. Spirito del Morrone di Sulmona. romano, Eclissi di Roma, p. 381 ha poi confermato la
presenza del Maestro Caldora nel ciclo del transetto di S. Scolastica dove questo artista mostra le sue prime, 2 L’iter del Maestro Caldora 379-381 colloca nel 1408, come forte debito con i Salimbeni; poi del Morrone a Sulmona (1412),
alte, qualità pittoriche. proposto dalla romano, Eclissi di Roma, pp. prima opera, il transetto di S. Scolastica, in la cappella Caldora nella Badia di S. Spirito la chiesa di S. Giovanni Battista a Celano
(1423-1424), la lunetta di S. Panfilo a Sulmona,
la cappella degli Angeli a
S. Scolastica (1426), fino alle Storie di s. Benedetto
nel Sacro Speco dove
il
maestro agisce in collaborazione con altri pittori, tra il 1408 e il 1426, interve-
nendo tuttavia in prima persona in alcune scene, tra le quali la Comunione di s. Onofrio, il Martirio di s. Placido, 1a Cena di s. Benedetto e s. Scolastica. 25 E. CARLI, Per la pittura del Quattrocento in Abruzzo, in « Rivista dell'Istituto di archeologia e storia dell'arte », IX, 1942, p. 196. Quando questo contributo era già in bozze, mi è stato segnalato da Stefano Petrocchi un breve accenno al Coleberti in c. DE MARCHI, Gentile da Fabriano. Un viaggio nella pittura italiana alla fine del gotico, Milano 1992, p. 133 nota 71 che ritiene il pittore attivo in prima persona nelle Storie di s. Benedetto nel Sacto Speco di Subiaco. Pur convenendo con l'autore per quanto riguarda le analogie tra il ciclo di Roccantica e gli affreschi di Subiaco, non mi sento di condividere l'ipotesi di una diretta partecipazione del Coleberti al ciclo sublacense per una
diversa qualità degli affreschi, ma penso piuttosto ad un passaggio del pittore
Pietro
Coleberti
di Priverno
327
per quell'importante cantiere, dal quale poté trarre nuovi spunti e sollecitazioni. 26 Tracce della maniera del Maestro Caldora si ritrovano anche a Sermoneta: nella chiesa di S. Michele Arcangelo l’affresco con S. Lucia entro un baldacchino a cupola poggiante su colonne tortili e affiancata dalla figura del committente di dimensioni ridotte. Si tratta di un’opera di alta qualità giudicata
« riflesso dell’attività del Maestro della cappella Caldora e dei suoi aiuti a Su-
biaco » e datata intorno al 1430 (si veda RoMANO, Eclissi di Roma, pp. 474-475 che avvicina inoltre l’affresco di Sermoneta al pittore del Miracolo del veleno
di Subiaco per il medesimo allungamento delle figure e per il motivo delle co-
lonnine a tortiglioni che reggono il baldacchino, di derivazione salimbenesca) 27 6. CAETANI, Domus caietana. Storia documentata della famiglia Caetani, II, Sancasciano Val di Pesa, 1927, pp. 89 e 102-105. Onotato III Caetani (1421-1477) signore di Sermoneta dal 1442, trova appoggio e protezione fin dalla sua più giovane età nel cardinale Ludovico Scarampo di Mezzarota, stringendo con lui una lunga e solida amicizia. Fin da quando rimase orfano il cardinale si occupò della sua educazione; in seguito intervenne come mediatore nei momenti più difficili della sua signotia, in specie nelle vicende della guerra angioina (1458-1464), non facendogli mai mancare il suo appoggio fino alla morte, avvenuta nel 1465. Si veda anche la voce Caetani Onorato, a cura di E.R. LABANDE in Dizionario biografico degli italiani, 16, Roma
1987, pp. 203-205.
Bruno
Un
approdo
Toscano
veneziano per Siciolante
Se affronto questo argomento è per il desiderio di occupatmene da un’angolazione particolare, che non mi sembra presenDI
te nella ormai abbastnza vasta produzione di studi, spesso di vero rilievo, su Girolamo Siciolante, coronata nel 1993 dalla monografia di John Hunter. Senza dimenticare l’interessante Vita di Vasari e quella stesa dal Baglione, le ricerche di ambito locale del Pantanelli sono state prodighe, di notizie. Un ampliamento progressivo di precisazioni, attribuzioni, osservazioni sullo stile del Siciolante e in particolare sulla sua formazione si deve alle prime e in buona parte ancora valide analisi di Adolfo
Venturi e del Voss, per giungere poi fino ai più recenti contri-
buti: da Briganti, che dedicava un breve spazio all’artista già nella prima edizione del libro sulla Maniera (1945), ad altri studiosi, con apporti decisivi come quelli di Zeri nel 1951, della Davidson e poi della Raggio, di R. Bruno, della Mortari e di Keaveney, studi ai quali chiunque si occupi dell’argomento deve continuare a riferirsi, come — ed anzi a maggior ragione trat-
tandosi del primo, diffuso lavoro monografico edito nel
1983
e dovuto
alla comune
— al volume
fatica di Hunter,
della
Pugliatti e di Fiorani, nostro principale punto di riferimento fino alla pubblicazione della monografia del solo Hunter. Le componenti formative In particolare, l’attenzione per le componenti
formative
sfociata in varie caratterizzazioni e accentuazioni, coinvolgendo
è
Leonardo da Pistoia, figura ancora non nettamente definita, e soprattutto Perino ma, visto che il lavoro di identificazione. del-
le radici culturali si è rivelato più complesso del previsto, è giusto mettere già a credito del Venturi due vere e proprie intuizioni. La prima, forse la meno sorprendente, equivale ad una
incisiva considerazione della parte avuta in questo ambito dall'esempio di Sebastiano del Piombo; la seconda, alla impecca-
330
Bruno
Toscano
bile valutazione del viaggio in Emilia, compiuto in anni ancora giovanili, non semplicemente come una tappa della sua attività « fuori casa», ma come occasione decisiva di nuovi incontti, assimilazioni, emozioni, in breve di nuovi stimoli formativi, sui quali anche oggi sembra opportuno soffermarsi. Con l'esperienza di lavoro a Bologna, Siciolante arricchisce di nuove possibilità di sviluppo la sua radice raffaellesca, che risaliva a Perino, grazie a suggestioni emiliane cresciute sullo stesso terreno. Zeri rilancerà questa intuizione di Venturi, che aveva già messo in campo il Bagnacavallo, schierando anche Giangherardo delle Catene e il Garofalo; e ponendo contemporaneamente in risalto,
com’é naturale, alcune delle pietre angolari dell'edificio formativo a Roma, a cominciare da Jacopino e da quel testo fondamentale degli anni Trenta che sono gli affreschi di San Giovan-
ni Decollato. Hunter e la Pugliatti hanno entrambi concordato sul polo settentrionale del percorso di Siciolante, ma circostanziandolo nella direzione di Lorenzo Costa e di Francesco Francia, modelli di tutto rispetto ma forse troppo « antichi » per il Sermoneta, certo più attratto, come pensava il Venturi, dalla generazione più giovane, cioè da campioni di classicismo raffaellista quali Bagnacavallo, Innocenzo da Imola, Girolamo da Treviso. Il tentativo di caratterizzare la sapiente formula del nostro
pittore è approdato ad esiti particolarmente felici nelle pagine di Federico Zeri e soprattutto di Giuliano Briganti che già nel '45 individuava le « aspre e lucidissime cristallizzazioni della forma di Perin del Vaga operate da Siciolante ». La Davidson ha sottolineato l'inadeguatezza di definizioni come « eclettico » e « manierista », riferite al nostro pittore, e ha impostato una convincente distinzione tra l'opera di Perino e di Siciolante, basata soprattutto sull'esame dei disegni. Ricco di interesse è l'esame del rapporto tra l'artista e le zone alte e influenti della società. Già negli anni giovanili egli sembra muoversi con disinvoltura negli ambienti che contano e
sa bene come trarne aiuti e vantaggi. Perno di tutto ciò è na-
turalmente la benevolenza dei Caetani, importante di per sé ma anche perché da lì si proietta una fitta raggiera di parentele che più illustri e promettenti non potrebbero essere: gli Orsini, i Farnese, i Cesi, ecco già una scala di « padroni » e benefattori non potenziali ma pronti a dare una mano, anzi spesso ad offrire l'occasione decisiva di nuovi avanzamenti. La prova che l’incontro con Pierluigi Farnese fu la conseguenza diretta di un intervento dei suoi « naturali » protettori è in una lettera di Siciolante spedita nel 1545 da Piacenza a Bonifacio Caetani, resa nota da Luigi Fiorani. La Davidson ha messo giustamente
in evidenza che l’ufficio di governatore di Parma sotto Pierluigi
Un approdo veneziano per Siciolante
331
era tenuto da Ercole Malvezzi, della stessa famiglia bolognese che finirà per scegliere Siciolante come esecutore della ‘pala per San Martino dopo aver tentato con Michelangelo e poi con Sebastiano del Piombo. A questo intreccio Girolamo: deve la possibilità di affacciarsi al nord, a Piacenza e subito dopo con ben altre conseguenze a Bologna, un centro in cui alle normali aspettative di lavoro si assommavano proprio allora quelle: autorizzate dal trasferimento ivi del Concilio tridentino. : Si tratta peraltro solo di una prima rete di relazioni, destinata ad infittirsi ben presto di nuove alleanze, amicizie, patronati,
così che sul finire degli anni Quaranta e nei primi Cinquanta Siciolante, non ancora trentenne, diventerà uno dei più richiesti pittori di Roma. L'offerta gli giunge da esponenti ‘del ceto ati-
stocratico ma anche dal più alto « terziario » diplomatico e cu-
riale sia italiano sia straniero. Nicolas Dupré, segretario di Enrico II di Francia, è probabilmente il committente degli affreschi di San Luigi dei Francesi, significativamente affidati a Jacopino del Conte, che poi si associa Tibaldi e lo stesso Siciolante. Claude d’Urfé, delegato dello stesso sovrano al Concilio e
dal 1548 ambasciatore del re presso il papa, lo incatica di dipin-
gere le tele per il castello della Bastie d’Urfé. Vedremo tra poco come, sempre alla soglia del mezzo secolo, il pittore riesca a
trovarsi un collezionista nella più influente aristocrazia veneziana. A una commissione più tarda ma di veto rilievo si lega
il nome di un altro uomo del Concilio, Galeazzo Rossi (o Rosci) da Terni, commendatore dell'Ordine gerosolimitano e vescovo di Assisi; che troviamo tra i legati di Pio IV a Trento, dove motirà a Concilio non ancora concluso. Per questo sarà solo il nipote Ludovico, cavaliere di Malta, a vedere in tutto compiuta la cappella Rosci nel duomo di Terni e « ornata di bellissimi quadri del Sermoneta famoso pittore di quei tempi », come scriveva un illustre e diretto osservatore nella prima metà del Seicento, Francesco Angeloni, quando i quadri erano ancora al
loro posto. Tornando indietro al 1550 circa e a nomi più riso-
nanti, si deve al Fugget, della grande famiglia di finanzieri tedeschi, l'iniziativa di affrescare la cappella gentilizia in Santa Maria dell’Anima. | Siciolante « fuori casa » Mi sembra utile ricordare questo largo impianto dei suc-
cessi di Siciolante, di prevalente matca romana e d'altra parte ben noto — eccetto che per i perduti dipinti di Terni —, per passare
a un
aspetto,
questo
invece
finora
sorprendentemente
trascurato, della sua fortuna « fuori casa ». Se non vedo male,
332
Bruno Toscano
il pittore di Sermoneta vi compare come interprete in un ruolo per niente secondario della vicenda, densa di contraddizioni e di alternative, dei rapporti tra la cultura veneziana e Roma, faro eterno di arte nuova e culla del Rinascimento. Accudendo all'argomento o almeno allo spazio che di esso mi si apriva, ho avuto la netta impressione di trovarmi di fronte ad una di quelle molteplici fonti di interesse cui, nella storia dell'arte, non ci capita di attingere tutti i giorni. E evidente che non alludo ad alcun superamento, che do per scontato, della contrap-
posizione schematica delle categorie di « veneziano » e « tosco-
romano ». Intendo semplicemente che i modi, gli equilibri, le sfumature che a partire dagli anni Trenta caratterizzano questi rapporti manifestano, da parte dell'ambiente veneziano, forse di attenzione e di intesa sulle quali il nostro interesse puó trovare fatti nuovi e rilevanti di cui alimentarsi. Forse perché la pur ricca letteratura su Siciolante ha preferito in genere cimentarsi su questioni di filologia degne d'ogni rispetto — come, ad esempio, rettificare il catalogo, proporre attribuzioni, sottrarre, nei disegni, Perino da Siciolante —, ha concentrato il suo interesse per le fonti antiche su Vasari e ha omesso di porsi in ascolto di altre voci contemporanee, non necessariamente di « professori », comprese quelle di timbro più intenso. Fra esse, quella di Pietro Aretino che, a guardar bene, risulta ora oltre tutto, per antichità, il numero uno nell'elenco delle fonti sul Sermoneta. Mi riferisco all'opera che, tra le sue, è senza alcun dubbio la più familiare agli storici dell'arte, cioè le Lettere, nella cui selva il nome di Siciolante si può rintracciare più d’una volta. La prima testimonianza, se non ci fossero le altre due, potrebbe essere giudicata alquanto accessoria ed esornativa. È noto che l'Aretino verso la metà del secolo indirizzó a Caterina de’ Medici, sposa di Enrico II, una breve lettera che accompagnava una serie di ternali in onore della regina. A un certo punto i versi aprono, nella gloria di Caterina, anche il capitolo delle arti
figurative esortando i grandi artisti a fare, ciascuno, la sua parte. Tiziano e Michelangelo la raffigurino con pennello arguto e vivo colore; ancora il Buonarroti e il Sansovino la scolpiscano nei marmi, e nei metalli Lione e Benvenuto (cioè Leone Leoni e
Cellini); la mettano in stampe Gian Jacopo (Caraglio) ed Enea (Vico) con la stessa acutezza discreta che usano nell’imprimere Pallade e Astrea. E a questo punto aggiunge letteralmente: « O Vasaro, o Salviati, o Sermoneta, propizia la farete a chi la vede, dipingendola in grembo al suo pianeta »; dopodiché continua sullo steso tono, coinvolgendo ogni genere di artefici, architetti,
scultori, pittori, miniatori, orafi anche non di primissima fila,
ma compresi Raffaello, Bronzino, Clovio. La citazione del no-
Un approdo veneziano per Siciolante
335
stro pittore é certo anche strumentale alle esigenze della rima ma ció non diminuisce l'interesse della sua inclüsione in un alato
contesto di cosi alta destinazione, accanto ai più grandi del Cinquecento e in seno a una triade, con Vasati e Salviati, che appare il concentrato di una specie di nouvelle vague tosco-romana. Confesso che a me già solo questa rapida menzione sembra ben
più che un indizio della posizione conquistata dal: Siciolante ini un'area ormai molto vasta: a percepirla era un'uomo come l’Aretino, che già in possesso di un composito marchio cultu-
rale era adesso illuminato dalla luce della pittura veneziana. Ma
occorre dare spazio alle altre due lettere. Quella che risale al settembre 1549 trova qui luogo solo per ipotesi. E indirizzata a messer Camillo Romano, uti pittore che, a quanto mi consta, non à mai stato identificato nonostante
che lo scrittore si dica certo che ben presto « le case e i templi
si vegghino adorni delle tele di Camillo al par di; qualsivoglia pittore ». Non si puó escludere che l’Aretino si riferisse ini real-
tà a Camillo Mantovano, di cui sono noti i rapporti con i Salviati e l'attività veneziana; ma che nel 1549 era aitista già del tutto affermato, non un giovane promettente come Pietro lo descrive. Camillo 2 comunque uno dei tanti che per attirare le lodi dell'Aretino o più semplicemente per farlo tacere gli mandano regali: i cibi più rari, i frutti migliori, e cosi via. À quanto pare anch'egli manda frutti, ma non solo. Infatti il temutissimo Pietro lo ringrazia anche per la promessa di un quadto, una testa dipinta dal « pennello eccellente del rarissimo. allievo di
Perino del Vago », tanto bella che nessun imitatore: di Raffaello
avrebbe saputo eguagliarla, anzi « unica e divina » come se fosse di mano del Sanzio. Ma non si coglie il grado di adesione dell’Aretino allo stile del misterioso allievo di Perino se non si leggono le righe seguenti: Certo che l'antica maniera è in lei sì relevata e si viva che tira a sé gli occhi altrui, qual suoi tiratgli una di quelle sembianze altere che, oltra il da se stesse imprimersi nel cuor di chi le contempla, gli infiamma il petto d'amore.
L'Aretino, dopo aver ricordato al suo corrispondente di aver chiesto il quadro al suo autore quando Camillo glielo aveva condotto in casa, assicura un generoso compenso.
l'ipotesi à evi-
dentemente che l'allievo di Perino e pittore di una testa stimata degna di Raffaello, in visita all'Aretino col suó amico Camillo Romano, possa identificatsi con il Siciolante. La breve caratterizzazione calza bene per lui, e un passaggio a Venezia in quel torno di tempo — prima del settembre 1549 — non trova ostacolo in ció che sappiamo del suo itinerario nell'Italia settentrionale. In ogni caso, le probabilità assumono una notevole consi-
334
Bruno Toscano
stenza ove la lettera del settembre 1549 sia letta sinotticamente
con quella datata al giugno dello stesso anno, che per i suoi molti motivi di interesse non posso che trascrivere per intero: Al Magnifico Messer Benedetto Cornaro | Se la Giudecca non meritasse d'essere ammirata, sì come ella è, e per Ja bellezza dei palazzi e de le chiese e del sito; solo il giardino, che verdeggia intorno a le nobili stanze vostre, la mostrarebbe a le genti maravigliosa. Imperoché gli arbori, di cui è sì fertile e copioso, producono una sorte di frutti sì cati, si preziosi e soavi, che il gran duca di Urbino (con la Eccellenza del quale ho sempre participato di quelle susine, di quei fichi e di quelle pesche, quasi ogni mattina mandatemi) giura non aver mai gustato cose migliori. Ma i vertuosi devrebbono imitar voi circa lo spendere le fatiche in cultivare le piante e non in laudare i signori. Conciosia che quelle sono più liberali dei frutti che producono, che questi avari de l'oro che posseggono; parlo d'alcuni, anzi de la maggior parte, e, s'egli è peccato, Pasquin me lo perdoni; come anco petdona-
rammi la vostra real magnificenzia se non son corso a vedere il Giudizio di
Paris, messo in colotito dissegno dal Sermoneta Girolamo, veramente mirabil pittore ed egregio. Mi dice Tiziano, nel cui stile (come ho detto altre volte) vive occulta la idea d'una nuova natura, che non & unione che aggiunga a la diligenzia estrema che comprendono in cotali figure gli occhi di ciascun uomo di giudizio. Mi paion mille anni l'ore che indugiano il mandarmi dal giovane illustre il quadro, che aspettate con ansia, solo per compiacermi di tutte due
l’opre insieme. Ma è pur bella delettazione la vostra; ella certo merita laudi
appartate da l'altre. Pare che a un gentiluomo sia quasi d'avanzo l'essere solamente nobile; né, cercando d'altra vertude adornarsi, solo al suo gran sangue si attiene. Del che non si puote imputare già voi: che non pure séte amatore di qualunque intelletto si esserciti nel mestier de le vertù che vivano in bocca a la fama, ma dispensate anco il tempo, che insta il vostro bell'animo, ai negozii de la republica, e in leggere le vigilie d’altri, e in mettere in carte le vostre; ché, se arguzia di spirito e facilità di dire fu mai in la fantasia di chi poeta
si nasce, a la vostra si dee porger la palma. Si che attendete a sì gloriosi diletti,
da che la stella che vi ha in guardia per onor suo vi ci inclina. Di giugno, in Vinezia, 1549. Post scritta. Per essere di sì stupenda bellezza i due persichi portatimi dal servitor vostro istamane, non mi posso tenere di non dire che, se il sopradetto Patis dopo il pomo dato a Venere fusse suto cortese a la coppia de l’altre dee di frutta così fatte, non è dubbio che la soavità del gustarle avria conversa la invidia de la sentenza in piacere.
Riassumendo la parte che qui più ci interessa: l'Aretino loda il giardino che circonda il palazzo di Benedetto Corner alla Giudecca, i cui frutti aveva gustato con sommo piacere anche in compagnia del duca d’Urbino. Si scusa di non esser corso ad
ammirare il Giudizio di Paride, evidentemente giunto da poco
in casa di Benedetto, opera del Siciolante. Anche Tiziano apprezza molto l’artista per quella sua estrema diligenza che basta a se stessa e non ha bisogno di essere pittoricamente accordata e fusa. L’Aretino è inoltre impaziente di vedere anche l’altro
quadro del Siciolante che lo scrittore è in procinto di ricevere
dal « giovane illustre » ma che è destinato, anch’esso, a Benedetto, che l’aspetta « con ansia ». Benedetto Corner (1516-1562) appartiene all’antica famiglia veneziana, che nel Cinquecento era ormai divisa in numerosi
rami. Figlio di Giovanni, del ramo della Piscopia, è ricordato
nelle crestomazie
veneziane
come « cospicuo
per erudizione
e
Un approdo veneziano .per Siciolante
335
viftù, celebrato dai primi letterati de’ suoi tempi » e, a quanto
sembra, fu anche senatore. Quanto al suo: mecenatismo, il Corner era finora noto, che io sappia, come collezionista idi antichità e come tale è elencato nel catalogo curato da Matino Zorzi.
Si può comprendere l’enfasi un po’ servile dell'Aretino, che
si rivolge a un patrizio dal nome illustre, facoltoso — la sua famiglia aveva beni anche a Cipro —, letterato e amante delle arti. Il testo della lettera autorizza a credere che sia stato pro-
prio l'Aretino.a procurare al Corner i quadri di Siciolante. Ciò
è detto chiaramente per il secondo quadro, di cui ignoriamo il soggetto, inviato dall’artista allo scrittore che doveva poi consegnarlo al Corner. Non risulta esplicitamente che il Giudizio di Paride abbia compiuto lo stesso percorso, ma è ugualmente probabile che anche questo quadro sia giunto all’illustre collezionista per mediazione dell'Aretino. L’ammirazione dell’Aretino per Siciolante non desta alcuna meraviglia. Quando scrive la lettera al Corner è a Venezia da
ventitre anni, ma la sua immersione nella cultura, figurativa veneziana, che ne fece un testimone così intrinseco. della gloriosa
ascesa dell’arte rinascimentale nella Lagunae in particolare della sfolgorante presenza tizianesca, non fece mai ombra sulla sua
valutazione del contributo incomparabile che Roma e Firenze
avevano dato e continuavano a dare all’arte del suo tempo. La
sua convinta adesione non andava certo solo ai pittori romani
o fomanizzati cui lo legavano comuni ricordi di gioventù, come Sodoma e Bagnacavallo. Fra i numerosi artisti citati con ammirazione nelle Lertere, la maggior parte sono fiorentini e, soprattutto, romani e tra questi prevalgono i pittori di estrazione raffaellesca. D'altra parte, il voltafaccia a Michelangelo provocato
dal Giudizio non tisale a prima del 1545, e la condanna di Se-
bastiano del Piombo è resipiscenza addirittura del '50 in. sinto-
nia, come è noto, con il giudizio del Dolce. . Il decennio '40 si era aperto con l’arrivo di un ospite illu-
stre, Giorgio. Vasati, su invito dell'Aretino. La troupe vasatiana era composta da Giambattista Cungi, Sebastiano Flori e Cristoforo Gherardi, che perd mordeva il freno perché — è Vasari a farglielo dire — a Venezia « non si tenea conto del: disegno, né i pittori di quel luogo l'usavano ». I rapporti che si intrecciano con Sansovino e con il Sammicheli aprono a Vasari le por-
te della più illustre committenza, tra cui quella di « Giovanni
Cornati, del quale era Michele amicissimo e fu cagione che in
questo [palazzo a San Benedetto *ad Albore"] dipignesse Giorgio Vasari nove quadri a olio per lo palco d'una magnifica camera tutta di legnami intagliati e messi d'oro riccamente ». Cinque anni dopo, Tiziano compie il percorso inverso e in Campidoglio & proclamato cittadino romano. E osservazione comune
336
Bruno Toscano
fin dai tempi dello Hetzer (1923) che già circa il 1544 nelle tele del soffitto di Santo Spirito in Isola (oggi alla Salute) —
quelle che avrebbe dovuto dipingere Giorgio Vasari — sia in piena evidenza il nuovo interesse con cui egli guardava alla pittura romana. Si pud qui anche ricordare come in quegli anni gli scrittori d'arte di estrazione veneziana si rivelino sensibili alla stessa tendenza:
il Pino (1548) con la sua istanza dell'« ordine
delle invenzioni »; il Dolce con il filoraffaellismo della lettera a Gaspero Ballini (1544), che anticipa argomenti del Dialogo della pittura intitolato l’Aretino (1557).
« Venezia come
nuova Roma »
Non varrebbe insistere sul delinearsi sempre più deciso di questo orientamento nella cultura veneziana vicino alla metà secolo, che costituisce da tempo una stabile acquisizione della storia dell’arte, se i suoi caratteri non fossero stati ulteriormente approfonditi ed arricchiti di nuove implicazioni nel saggio dedicato da Manfredo Tafuri a Venezia nel Rinascimento (1985). Tafuri allarga con acute osservazioni il concetto di romanismo alla sfera culturale-politica, dimostrando come il doge Andrea Gritti identificasse il classicismo sansoviniano come linguaggio ideale di una « Venezia come nuova Roma ». Alla metà del secolo alcune grandi famiglie avevano costituito un’oligarchia papalista a sostegno di un’intesa con la sede apostolica. Tafuri definisce i Foscari, i Barbaro, i Badoer, i Corner, gli Emo, i Grimani, i Pisani come un gruppo che sotto il dogato Gritti e oltre si presenta « indubbiamente differenziato al proprio interno, ma inevitabilmente antagonista [...] di coloro che nel “romanismo” vedono una dannosa lezione dell’identità veneziana ». Il manifestarsi di questo asse Venezia-Roma appare così nella intera sua complessità, che non esclude alcun aspetto della vita sociale e intellettuale. Nell'Aretino, che è al centro di questa tendenza, il romanismo sembra andare di pari passo con il profilarsi sempre più deciso di un atteggiamento critico verso quella « prestezza », verso quel fare improvviso e rapido, che caratterizzava la migliore pittura veneziana e che in anni non lontani aveva suscitato la sua ammirazione. Di questo atteggiamento, che non era sfuggito a studi ormai lontani come quelli del Coletti e del Pallucchini, si ha un riscontro nella famosa lettera indirizzata nell'ottobre 1545 al duca Cosimo I, che accompagnava il ritratto dipinto da Tiziano, anche se in questo caso il giudizio dell’Aretino sembra andare a rimorchio di una battutaccia contro
Un approdo veneziano per Siciolante
337
Tiziano: « Certo ella [la sembianza mia] respira, batte i polsi e move lo spirito nel modo ch'io mi faccio in la vita. E se più fussero stati gli scudi che gliene ho conti, invero i drappi sariano lucidi, morbidi e rigidi, come il da senno raso, il velluto e il broccato ». Non mi sembra una forzatura interpretare que-
ste righe come una dichiarazione di parziale insoddisfazione — tanto più spiegabile se si riflette che era indirizzata al -Signore
di Firenze — per una tesa a suo vedere trascurata e corriva dei panni, cioè, sostanzialmente per un difetto di diligenza. Da questo punto di vista, il 1545 sembra davvero un anno di svolta
se pochi mesi prima della lettera a Cosimo, e cioè nel febbraio, l'Aretino aveva accolto le due tele di soggetto mitologico dipinte per lui dal laudativo come « zio di tempo che nell’aprile 1548,
Tintoretto definendole in senso apertamente da voi così giovane quasi dipinte in meno spanon si mise in pensare [...] ». Tre anni dopo, l'« improvviso » tintorettesco diventa invece
motivo dell’unica, ma non lieve riserva nel contesto degli elogi rivolti al Miracolo dello Schiavo: « beato il nome vostro se riduceste la prestezza del fatto in la pazienza del fare. Benché a poco a poco a ciò provederanno gli anni; conciosia ch'essi, e non
altri, sono bastanti a raffrenare il corso de la trascuratezza, di che tanto si prevale la gioventù volenterosa e veloce ». In una lettera dello stesso mese e dello stesso anno l’Aretino adopera gli stessi argomenti nei confronti della « prestezza » di Andrea Schiavone. Qui però il tono è quasi da cattedratico e il dettato ha l’aria di una lezione di trattatistica d'arte. L'Aretino ha sempre lodato « la prestezza saputa del fare intelligente » di Andrea; ma ecco la solita riserva sulle « istorie »: « se la fretta del farle si convertisse ne la diligenzia del finirle ». Sta bene la « pratica [...] nel tirare giuso le bozze », da cui deriva l’arte dell’« in-
venzione [...] nel mettere insieme le figure » ma poi occorre giungere ad un risultato finale di « diligenzia ». Andrea è giovane, si emenderà. Si può qui ricordare che il Dialogo di pittura del Pino è edito a Venezia in quello stesso anno e che i modi « colati e fusi»
(Pallucchini)
dello Schiavone vi vengono bol-
lati come un « empiastrar ». Poco più di un anno separa queste testimonianze, così esplicite di una vera e propria svolta a proposito di disegno e colore, di « diligenzia.» e « prestezza », dalla lettera a Benedetto Cotner. Ma anche ad una prima sua lettura si sarà notato che l’Aretino non si limita a pronunciare i suoi giudizi, in perfetta coerenza con le lettere a Cosimo, a Tintoretto, a Schiavone, ma introduce nella sua area valutativa niente meno che Tiziano, riferendo il
suo pensiero sul quadro del Siciolante: « Mi dice Tiziano, nel
cui stile (come ho detto altre volte) vive occulta la idea di una nuova natura, che non è unione che aggiunga a la diligenzia
338
Bruno Toscano
estrema che comprendono in cotali figure gli occhi di ciascun uomo di giudizio ».
Prendere alla lettera l'Aretino, tanto più quando riferisce il pensiero altrui, puó naturalmente suscitare qualche problema. In questo caso, poi, l'appello all'autorità tizianesca potrebbe essere interpretato alla luce del suo interesse, nel senso più concreto del termine, a collocare il più in alto possibile l'arte dell'autore del Giudizio di Paride e dell'altro quadro che egli non aveva ancora ricevuto e che, lo sottolineiamo ancora, era destinato al Corner. Insomma, a decifrare in tutto questo un indizio di senseria non si rischia di andare troppo lontani dal vero. Tuttavia, perché escludere che Tiziano abbia espresso un giudizio positivo su un quadro del Siciolante? Il dialogo del grande artista con i modelli tosco-romani, visti nella stessa Venezia, o a Mantova, o a Roma, o studiati attraverso le incisioni, è uno
dei grandi temi affrontati dagli studiosi della pittura veneziana del Cinquecento. Una « sterzata decisamente manieristica » (Pallucchini, 1981) è stata registrata già nei perduti Ritratti dei Cesari (1537-38). Le grandi opere del decennio successivo, fino alla sua conclusione, negli anni che qui più ci interessano, sono regolarmente lette, né potrebbe essere diversamente, con un
forte coinvolgimento di fonti tosco-romane, dal Vasari al Porta,
da Giulio Romano al Salviati: certo, con le necessarie precisa-
zioni, espresse con questa o quella accentuazione, sulla potenza
d'uso —
per dir così —
delle forme della Maniera da parte
di una personalità sovrana qual’era Tiziano. È forse ancora insuperato il brano (1946) in cui Longhi illumina questa dram-
matica dialettica scegliendo ad esempio il S. Giovanni Elemosinario che, chiudendo probabilmente il quinto decennio, rievoca ancora emozioni romane: « In confronto al candore inno-
cente del San Marco che ambrato risplende nella paletta giova-
nile della Salute,
quanta
superbia
morale,
che ostinata
domi-
nazione! Firenze e Roma hanno ormai convinto Tiziano che l'umanità, persino in figura di mendico, non possa agire che per l'investitura di dignità e potenza; ma quanto più il gesto è
potenza sotvegliata (e qui di meditato contrapposto tra lettura
e beneficenza), tanto più Tiziano l’affatica e consuma
aggre-
dendo d'ogni parte con le sue sferzate d’aria e di lume carico
e strisciante, in una specie, direi, di flagellazione cromatica ».
È evidente che non è dal romanismo tizianesco degli anni
Quaranta che può desumersi una qualsiasi consonanza con la maniera di Siciolante come ci appare ad esempio, traslucida e bloccata, nella pala Malvezzi, che anche per la cronologia può essere considerata un buon punto di riferimento per i perduti quadri veneziani. Ciononostante, Tiziano potrebbe aver apprez-
zato in quella formula qualità d’ordine e di equilibrio ereditate
Un approdo veneziano per Siciolante
339
dal meglio delle tradizioni di Firenze e di Roma, verso lé quali in quel decennio l'interesse del grande Cadorino era andato vieppiù crescendo. : Sono gli anni in cui il modello romano, e in particolare raf-
faellesco, & esaltato dal Dolce, interlocutore abituale: dell’Are-
tino, per la « temperatezza, che niuna cosa vi si desiderà » e per l'armonia: dei « bei colori» con la « bellezza e perfeziorie del
disegno » (Puppi, 1990). Ma si impongono, naturalmente, alcune domande. La prima è: Tiziano avrà davvero potuto esaminare il Giudizio di Paride? Non è dubbio che l'Aretino intenda farlo credere al suo interlocutore. Ma il suo dettato resta ambiguo. Non è ‘chiaro se egli conoscesse già il quadro o se si scusasse di non essere andato a rivederlo una volta approdato in casa Corner. "Eppure
afferma di conoscere bene Siciolante « veramente mirabil pit-
tore ed egregio » e « giovane illustre ». Quando atriverà il secondo quadro, egli potrà « compiacer[si] di tutte due l'opre insieme »: cioè del fatto che due opere a lui ben note siano infine andate ad ornare la casa del collezionista? E ancora: PAretino riferisce che Tiziano ha ammirato la diligeriza «in cotali figure »; espressione, di nuovo, ambigua, perché si pud interpretare sia nel senso di « nelle figure che compongono il
Giudizio di Paride », sia nel senso di « in figure che-eccellono
per quella specifica qualità ». La prima lettura è evidentemente la sola che implica l'autopsia tizianesca del quadro Corner di Siciolante.
Certo più interessante il problema suscitato dall’affermazione teorica di valore generale che, secondo l'Aretino, Tiziano avrebbe dedotto dal caso Siciolante: « non & unione che aggiunga a la diligenzia estrema » ecc. Ho sottolineato i sostantivi, che corrispondono a due termini di uso corrente nel Cinquecento (e non solo nel Cinquecento) per designare in particolare qualità della pittura, ‘dal Pino al Vasari, dal Dolce all'Armenini. Diligenza è voce normalmente legata alla perfezione del: disegno e alla finitezza esecutiva. Più incerti i confini. dell'estensione semantica di uzioze, che tuttavia è spesso usata per designate quella particolare eccellenza del pittore che gli permette di superare ogni possibile squilibrio derivante da lumi e da colori contrastanti. È naturale pensare che nell’ambienté veneziano il termine fosse inteso piuttosto come qualità essenzialmente pittorica, nel senso, cioè, di una destrezza realizzativa, che nell'insieme riesce a introdurre un accordo e un’ armonia superiori. Viene in mente che nel 1548 il Pino nel suo Dialogo aveva sì esaltato l'« ordine delle invenzioni » ma, come sottolineò il Grassi (1978) trattando la voce « unione », aveva anche affermato che « a ridurre l'opera a fine il maestro deve usatvi una
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Bruno Toscano
diligenzia non estrema »: un anno dopo, Tiziano avrebbe dun-
que sostenuto l’esatto contrario, non solo ponendo al vertice la diligenza ma considerandola, quando é « estrema » — lo stesso aggettivo usato dal Pino —, non bisognosa di altre qualità, come, appunto, l'unione.
Non dimentichiamo che é l'ego ingordo e avvolgente dell’Aretino a rappresentarci questo Tiziano così invaghito della diligenza da ammirare senza condizione l'opera di un lubrificato rampollo della tradizione tosco-romana. Un Tiziano disposto a tinunciare all'unione e, dunque, cosi poco veneziano. Forse l'Aretino, che in tal modo
continuava coerentemente
a promuovere
l'innesto nella Laguna della maniera di Roma e di Firenze, si sentiva autorizzato-a compiere una simile forzatura considerando, anche, a ritroso la straordinaria discors concordia dell’itineratio tizianesco in quei cruciali anni Quaranta, stretti fra P« artificiosa » Incoronazione di spine del Louvre (1540) e il classico S. Giovanni Elemosinario dell'omonima chiesa veneziana (c. 1549-1550), passando attraverso quella punta di confessato romanismo che è la Pentecoste della Salute (c. 1547). Che tutto questo fosse presente — come non poteva? — alla mente dell'Aretino ci aiuta ad afferrare il senso della sua asserzione dell'«idea di una nuova natura» che viveva « occulta » nello « stile » di Tiziano. Ma
giova,
in chiusura,
tornare
al nostro
Siciolante.
Quale
aspetto avrà avuto il suo Giudizio di Paride? Il pittore, che forse quando si mise all'opera era già consapevole del grado
intellettuale del destinatario, non avrà mancato di prepararsi
accuratamente consultando precedenti svolgimenti del tema, tanto pià se appartenevano alla cultura figurativa di cui egli stesso doveva considerarsi un legittimo discendente. Avrà quindi sfogliato le stampe di Marcantonio. Non tanto la pagina più antica, conservata nel British Museum e databile al 1504-1505 (Faietti, 1988), quanto quella, assai più complessa e seducente, influenzata da rilievi romani di Villa Medici e di Villa Doria Pamphilj e composta su disegni perduti di Raffaello, oggi conservata all'Albertina di Vienna e collocata dal suo più recente studioso circa il 1513-1514 (Gnann, 1999). Sempre all’Albertina si trova un bel disegno di Francesco Francia, che nonostante la cronologia molto alta (è datato dalla Faietti a c. il 1505), possiede qualità quasi glittiche ed eleganze di ritmo del tutto adatte a colpire la fantasia del nostro pittore, se mai ebbe modo di conoscerlo. Altrettanto degno di interesse è che il rame di Marcantonio da Raffaello fu attentamente studiato da un pittore per certi versi affine a Siciolante, Innocenzo da Imola, che ne scelse alcuni particolari per riproporli in un affre-
sco della Palazzina della Viola a Bologna, dunque dopo il 1541
Un approdo veneziano per Siciolante
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(Fortunati, 1986). Ma già alcuni anni prima se ne era servito — e qui si respira sempre più aria di « famiglia » — Jacopino
del Conte, che aveva « reimpiegato » l'incisione in un soggetto sacro, oggi noto attraverso una stampa del Bonasone (Zeri, 1951).
Considerata la rarità dei soggetti mitologici nel catalogo del Siciolante vale infine la pena di ricordare che la Davidson segnalò la notizia, tratta dal Lamo (1560), di una seconda opera dipinta a Bologna, oltre la pala Malvezzi (1548), un nudo di donna « bella fra molte altre belle ». Dunque il pittore si esercitava allora anche in questo campo, e cosi la strada per il successo del Giudizio di Paride era già segnata.
Nota La trascrizione delle lettere dell’Aretino segue quella edita in Lettere sull'arte di Pietro Aretino commentate da Fidenzio Pertile e rivedute da Carlo Cordié, a cura di Ettore Camesasca, 3 voll., Milano, 1957-1960. A causa del mio stato di salute non sono in grado di corredare questo scritto con tutti i necessari riferimenti bibliografici. Ho potuto dare al testo, assai ridotto rispetto alla relazione letta durante il Convegno, una veste comunque conclusa grazie anche all’aiuto e all’incoraggiamento di Alessandro Bettagno, Enzo Borsellino, Paolo Candio, Claudia Grisanti, Luigi Fiorani, Giovanna Sapori.
Felice Accrocca
Girolamo e Tullio Siciolante nel convento di S. Antonio abate di Cisterna
Circostanze singolari ci hanno spinto ad interessarci del convento di S. Antonio abate in Cisterna di Latina, fatto edificare da Bonifacio Caetani nel 1568: abitato già dal 1572 dai
Minori Osservanti, nel 1628 passó ai Minori Riformati, che vi
rimasero fino al 1743 !. Nel corso della ricerca, & emersa una documentata presenza, con notizie inedite di notevole interesse, dell’opera di Girolamo ( 1574) e Tullio Siciolante ( 1572) all'interno del convento stesso: notizie che vanno in qualche modo ad arricchire quelle già raccolte in uno studio apparso su uno dei Quaderni della « Fondazione Camillo Caetani », nel 1983 ?. Al termine di quel saggio, l'autore dava notizia del fortunoso
ritrovamento da lui operato, in un magazzino del Palazzo Caetani
in Roma, di
|
un'opera singolare, non di Girolamo ma di Tullio Siciolante, l'ultimo figlio morto all'età di appena 20 anni. E una Madonna con bambino tra due angeli, dipinta a olio su una lunetta di ardesia (cm. 196 x 112), spezzata in tre grossi frammenti, ma complessivamente in buono stato [...] Sul lato destro & tracciata la seguente iscrizione: « Tulius Siciulantes a. D. MDLXXII hanc beate Marie
imaginem aetatis sue XX pinxit et obiit » [...] Fino al 1930 circa la lunetta si
trovava nell'appartamento di Gelasio Caetani, ma quasi sicutamente dopo la sua morte (1934) essa venne trasferita in qualche angolo di Palazzo Caetani, e da allora se ne perse il ricordo. Ignoro dove era collocata prima di finire nell'appartamento del Caetani: il soggetto e la forma inconsueta lasciano supporte, peraltro, che essa si trovasse sopra qualche altare o comunque in un logo sacro di Sermoneta o di Cisterna >. |
Quella che è « forse l'unica opera firmata di Tullio Siciolante che si conosca » * si trovava proprio nel convento di Cisterna, posta sopra l’altare maggiore, dedicato a s. Antonio abate. Storia del quadro La notizia viene da un manoscritto inedito, consetvato nell’archivio romano di S. Francesco a Ripa (ms. 13, antica segnatura 101), e contenente il secondo volume della trilogia di Ludo-
344
Felice
Accrocca
vico da Modena (1637?-1722)*, sulla fondazione dei conventi della Provincia Riformata Romana. Sul dorso, rilegato in pergamena $, si legge: « P. L. da Modena, Fondazione dei Conventi della Prov. Romana, II ». Si tratta di un manoscritto cattaceo, di 270 x 200 mm, di complessive pagine (8)-652, con un indice alle pagine (1-2). Contiene la storia di venticinque conventi, con alcune illustrazioni, a volte a colori, dei medesimi: cosi alle pagine (7) (Fonte Colombo), 27 (Greccio), 47" (Nazzano), 257 (Palestrina), 300 (Poggio Busto-
ne), tra le pagine 332-333 (Fara) e le pagine 414-415 (Montopoli in Sabina), ancora alle pagine 581" (Piglio), 602-603 (Mentana), 626" (Montefortino, Artena).
Dalla pagina 270, Ludovico da Modena si diffonde a parlare
del convento di Cisterna: dopo aver tratteggiato le origini della cittadina e accennato al passaggio di Francesco in quelle terre, dà alcune notizie di un certo interesse sulla realtà sociale e religiosa del luogo, quindi inizia a parlare della fondazione del convento, al tempo di Bonifacio Caetani: di esso, Ludovico for-
nisce un'ampia e dettagliata descrizione.
Trascriviamo il testo che qui ci interessa, dalle pp. 275-276, dove appate inequivocabilmente che l'opera rinvenuta fortuitamente al Palazzo Caetani si trovava nel detto convento. Ün'opera dove « la qualità della pittura dà ragione al giudizio del Pantanelli: “era riputato un portento” » ?. Si legge nel manoscritto
(rispettiamo grafia e punteggiatura):
In chiesa, che è assai bella, e di architettura ben intesa, sono 7 altari connumerandovi il maggiore al S. abbate Antonio dedicato, di cui vi è l’immagine dipinta in pietra, che lo rappresenta insieme con il padre e fondatore delli Romiti Pavolo Santo in piedi, fissati ambedui in rimirare la Vergine Sacrosanta dipinta nella parte superiore con il bambino in braccio. Dai lati di detta Vergine sono alcuni angeli, che riverenti l'adorano: e dai lati de prefati santi Antonio Abbate, e Pavolo eremita si riveriscono li gioviosissimi santi Francesco d'Assisi, e Antonio il Padovano ambedui genuflessi in atto di supplicanti = opera del famoso Tullio Siciolante di Sermoneta; quale a perpetua memoria il suo nome vi scrisse così: Tullius Siciolantes anno Domini [..]9 hanc Beatissimam Virginem pinxit, et postea obijt. Vieni questo nobilissimo quadro da cornici, e colonne di bellissima pietra, vagamente adornato; essendo le cornici di marmo fino, e le colonne di breccia di Francia. Ammiransi ne vani di questo Altare, e Tribuna molti, e diversi quadri rappresentanti misteriosi fatti nelle scritture sacre descritte, et anche, alcuni prodigij de sopradetti dui santi Antonio Abbate, e Pavolo eremita tutti in pietra, o in muro dipinti, secondo veniva al famoso pittore in acconcio e fu
il padre del sopraddetto Tullio detto Girolamo ciucciolante [1] 29 egli medesimo aspirando all’eternità, lasciò nella detta tribuna registrato, et hoggi così
da curiosi si legge in faccia alla finestra del coro Hieronymus moneta fecit; 15719.
Siciolantes e Ser-
Il passo si rivela importante anche per altri due motivi:
ci
informa che oltre al figlio Tullio, pure Girolamo Siciolante lavoró all'altare maggiore della chiesa del convento di S. Antonio abate !; inoltre, ci fa sapere che l'opera rinvenuta è solo la lu-
Girolamo
e Tullio
Siciolante
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netta superiore di un dipinto di considerevoli dimensioni, di cui vengono descritte con cura e precisione le parti mancanti. À que-
sto proposito, gli elementi di cui siamo in possesso: la mole (un lato è di cm 196), il materiale (l’ardesia, non troppo frequente), la descrizione datane da Ludovico da Modena, potrebbero rendere non impossibile anche il ritrovamento del pezzo mancante e così ricomporte l'opera nella sua integrità. Vi lavorarono insieme padre e figlio? Nel già citato saggio, inoltre, veniva pubblicata una lettera di Girolamo Siciolante a Bonifacio Caetani, dove il pittore discute, tra l’altro, dell’acquisto di una cornice per il quadro della Pietà, che si trovava anch’esso nella chiesa del convento. Scrive
il Siciolante: Li mando anco doi disegni in un foglio medesimo dell’ornamento del qua dro della pietà del quale qui in Roma se farria del legname d’albuccio o tiglio
che costarà da 18 a 20 scudi et poi bisognarà ‘per dipingetlo fatto finto di pietra et con qualche poco d'oro: si trova fatto qui in Roma un ornamento per un quadro d’una grandezza poco magior de questo qual io ho fatto per la chiesa da scapuccini et è di noce con colonne et cornice frontespitio et è molto bello et vale almanco cinquanta scudi: li frati non lo vogliono per esser troppo sontuoso ne fanno fare un altro con manco spesa et più abietto: perché dicono che la loro religione non recerca tanto sontuosità: questo tal ornamento l’hanno dato al falegname che si venda et sartia molto al proposito per V. S. per questa opera et startà molto bene et se ne haveria bonissimo mercato per 30
scudi la S. V. lo potrà havere io non ho voluto mancare di farglielo intendere !!.
Il predetto autore si domanda: « Era una pala del Siciolante? Nessuno dei critici che hanno citato questa lettera ha avan-
zato l'ipotesi » ©, C'è perd, in questo senso, un'esplicita affermazione del Pantanelli. Parlando della chiesa di S. Nicola in Sermoneta, egli dice che nella cappella di S. Giovanni Evangelista, sull'altare, si ha « un buon quadro [...] che rappresenta Christo, Signor nostro, deposto di croce, con molte figure intorno ». In nota Pantanelli dice: « Questo quadro & copiato da uno assai bello del nostro Girolamo Siciolante, che si venera in una cappella della chiesa di S. Antonio in Cisterna, con molti altri quadri e belle pitture a fresco del medesimo; .e bellissimo è quello dell’altare maggiore, con teste veramente ammirabili » 5. Il nostro ‘manoscritto non dice espressamente se la tela sia opera del Siciolante, ma dà di questa un'accurata descrizione, che viene a confermare la notazione del Pantanelli circa il Cristo deposto, « con molte figure intorno ». Dice infatti Ludovico da Modena: Seguendo il medesimo ordine, trovasi la 22 cappella alla madre SS:ma detta della pietà, consecrata, di cui vi è il quadro in tela, che con atte ingegnosa Cristo dalla croce schiodata ne rappresenta, insieme con Giuseppe, e Nicodemo quali sopra un lenzuolo allocarlo divotamente si studiano; la gran madre Maria, Madalina, Veronica e Gio(vanni) tutti in atto di mestitia grandissima, con gente della corte, et il calvario con le 3 croci, che una vaga lontananza finge sovra il quadro grande uno assai più piccolo se ne gode in cui il crocifisso ne si rap-
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Felice Accrocca
presenta; alli di cui lati la madre, e Giovanni in somma mestitia s'ammirano, e viene da dui Angeli sostenuto.
Nel cielo della cappella lo Spirito consolatore si adora, alla cui destra sono
tre piccoli quadri. In uno si vede Cristo orante nell'orto. Nell’altto la di lui presa. Giuda che con un finto bacio lo tradisce e Pietro che taglia al servo
Malco P'orecchio. Nel 39 quadro fu al tribunale del perfidissimo Caifas condotto,
quale scidit vestimenta sua. | Altri tre ne sono alla sinistra, e ne rappresentano il primo la flagellazione alla colonna; il 2° la dolorosa coronatione di spine, con altri scherni, e penosi obbrobrij; et il 3° il medesimo Cristo che con la pesante croce su le flagellate sue spalle se ne va al Calvario; tutti dipinti in muro, ma di non molta bontà; il quadro però maggiore, che è come si disse, in tela è stimato di molto; e ne lascia del suo fattore il desio 14.
Ancora una volta, l'accurata descrizione di Ludovico ci offre elementi interessanti in vista di una possibile identificazione. E sono elementi che sottoponiamo agli studiosi della materia, in quanto la nostra esplorazione attraverso la storia dell'arte & solo accidentale. Ci sembrano tuttavia in grado di farci desiderare
la pubblicazione dell'intera opera di Ludovico, che ha la consi-
stenza e il pregio di una vera e propria miniera di dati e di in-
formazioni da non lasciare ancora a lungo inaccessibili alle esigenze degli studiosi.
Note 1 p, sPILA, Memorie storiche della Provincia riformata romana, Y, Roma 1890, p. 128, dice che il convento fu abbandonato « per essere situato in luogo insalubre »; P. PANTANELLI, Notizie istoriche appartenenti alla terra di Sormoneta in distretto di Roma, II, Roma 1911, p. 161, afferma invece che nel « mese di novembre (del 1743), i padri riformati di san Francesco abbandonarono, dopo molte differenze col nostro duca, il convento di S. Antonio di Cisterna, nel quale immediatamente vi chiamó sei padri cappuccini, cioè tre da Velletri e tre da Sermoneta; ma indi lo fece abitare da’ padri trinitari, da’ quali presente-
mente è tenuto, benché in appresso vi tornassero li padri cappuccini». Sul
convento di Cisterna, oltre allo Spila, cfr. F. GONZAGA, De origine serapbicae religionis, Romae 1587, p. 187; c. ZUCCONI, La Provincia francescana romana, Roma 1969, pp. 50-60. Sulla chiesa del convento, cfr. c. CAETANI, Domus caietana. Storia documentata della famiglia Caetani, II, Sancasciano Val di Pesa 1933, pp. 55 e 117-118. Per quanto riguarda le vicende posteriori alla vita del convento e la trasformazione dell'edificio in mulino, cfr. A. PARISELLA, DalVantico convento al mulino dei Luiselli di Cisterna, in Industria e memoria, Latina 1991, pp. 39-49. | 2 Cfr. L. FIORANI, Lettere di Girolamo Siciolante nell’Archivio Caetani di Roma e notizia del ritrovamento di un’opera di Tullio Siciolante, in J. HUNTER -
T. PUGLIATTI-L.
FIORANI, Girolamo Siciolante da Sermoneta (1521-1574). Sto-
ria e critica (Quaderni della Fondazione Camillo Caetani, IV), Roma 1983, pp. 109-139. Riprendo qui quanto già detto in F. accrocca, L’opera di Tullio Siciolante (| 1572) nel convento di S. Antonio abate di Cisterna, in « Archivum franciscanum historicum », 86, 1993, pp. 377-380.
3 FIORANI, Lettere di Girolamo Siciolante, pp. 128-129. L’opera restaurata si
trova oggi al Castello Caetani di Sermoneta. 4 Ivi, p. 128 5 Grande lavoratore, cronologo della Provincia, ha lasciato poderosi volumi, ancora inediti, quali una Crozaca della Provincia riformata romana (1519-1718),
Girolamo
e Tullio
Siciolante
347
le Vicende della Provincia romana (1612-1722), le Vite di servi di Dio della Provincia romana, una Serie degli uomini illustri, oltre i tre volumi sulla Fozdazione dei conventi, di cui si dirà più sotto. Molte volte Ludovico sembra dipendere dai lavori di Francesco Maria Nicolini da Collamato, in modo particolare dall’Accademia serafica e dalle Vicende della Provincia riformata ro: mana: tanto per Ludovico da Modena, quanto per Francesco Maria Nicolini da Collamato, i manoscritti sono reperibili nell’Archivio romano di S. Fran-
cesco a Ripa. Sui due, cfr. sPILA, Mezzorie storiche, I, pp. 587-588 e 555-560. $ Altre notizie su questo e gli altri volumi di Ludovico da Modena e Francesco Maria Nicolini da Collamato si possono reperire nel catalogo dattiloscritto (in tre volumi) che si trova nell’Archivio di S. Francesco a Ripa, curato da
R. Sbatdella.
7 FIORANI, Letiere di Girolamo Siciolante, p. 128. 8 Spazio bianco nel manosctitto.
? E merito di Maurizio Cippitani, che qui ringrazio vivamente, l'aver attitato la mia attenzione sul passo in questione e l'avermi segnalato il saggio di L. Fiorani, sopracitato. 10 In ciò la notizia trova conferma anche da quanto dice PANTANELLI, Not: zie istoriche, I, p. 601, citato da FIORANI, Letiere di Girolamo Siciolante, p. 116 e n. 10 (a p. 137): « molte figure effigid ancora a fresco nella chiesa di S. Antonio (nelle quali dicono che lavorasse anche Tullio suo figliolo), e vi fece bellissimi quadri d'altati a olio ».
lt Ivi, p. 134.
12 Tvi, p. 121. Vedi le interessanti osservazioni alle pp. 121-125. 13 PANTANELLI, Notizie istoricbe, I, p. 414 e n. 1. 14 Ludovico da Modena, in Archivio romano di S. Francesco a Ripa, ms. 13. pp. 278-279.
Enzo Borsellino Sermoneta
1603
Gli affreschi del coro di Santa Maria Assunta
Un poco noto ciclo di affreschi con episodi della vita della Madonna fu dipinto nel 1603 sulla parte alta delle pareti del coro della collegiata di Sermoneta. Come è sintetizzato nei grafici disegnati per l'occasione (figg. 31-34), in alto entro lunette sono taffigurati, a sinistra la Presentazione al tempio (fig. 1),
e lo Sposalizio della Madonna (fig. 2), a destra l'Annunciazione
(fig. 3) e la Visitazione (fig. 4). Tutte le scene sono contornate da Profeti e Sibille. Sotto, in formato maggiore, a destra la Natività (fig. 5) e a sinistra la Dormitio Virginis (fig. 6), contorna-
te dai Padri della Chiesa e dai santi Antonio di Padova e Fran-
cesco d'Assisi (figg. 7-10). L’Assunzione della Madonna è di-
pinta in Apostoli del coro, (fig. 12).
due parti: sulla parete di fondo sono raffigurati gli davanti al sepolcro vuoto (fig. 11) mentre sul soffitto a volta a botte assai ribassata, è la Madonna Assunta Tutto l’insieme della decorazione della cappella è stu-
diato in base alla fonte luminosa proveniente dalle due finestre
che danno luce all’interno del coto (fig. 13). Questo spiega la presenza delle finte ombre disegnate dietro le spalle dei Padri della Chiesa e dei santi Francesco e Antonio di Padova e sulle
mensoline nel mezzo degli archi delle finte nicchie e; addirittura, sulla parte bassa della cornice dell’Assunta. La proiezione
delle ombre è sempre corretta, tranne quella di San Francesco, segno di una ingenua svista del pittore cui fu affidata questa parte della decorazione. Gli stalli lignei che coprono la parte bassa degli affreschi furono eseguiti nel 1611, come completamento dei lavori di rinnovamento del coro, a spese del canonico Giacomo Fascio e del duca di Sermoneta Pietro Caetani la cui famiglia aveva-il gius-
patronato del coro della collegiata di Santa Maria: è molto probabile che l'intervento del duca nel finanziamento degli stalli sia stato determinato da questa circostanza. À memoria del con-
tributo dei Caetani si scolpi il loro stemma sulla sommità degli stalli (fig. 14) '.
350
Enzo Borsellino
Genesi di una committenza
Il punto di partenza per l'analisi storica degli affreschi & costituito dalla iscrizione che campeggia tra le finestre della parete di fondo del coro (fig. 15) il cui testo cosi recita:
FLAMINIUS DE AMER:S AD COMODÜ CANONI: COR. A FÜDAMETIS EREUIT. ALEX.R AMERIC.S FILIUS PATRE DEFUCTO PICTURA EXORARI FECIT.
ANNO DNI. 1605
Si tratta quindi di un importante lavoro di rifacimento totale del coro della collegiata di Sermoneta eseguito a spese di Flaminio Americi e della relativa decorazione fatta fare nel 1603 dal figlio di Flaminio, Alessandro Americo, in memoria del padre. Le notizie su questa famiglia sono scarse, ma alcuni ritrovamenti di atti notarili e altri documenti che la riguardano per-
mettono ora di disporre di qualche nuova informazione ?. La famiglia Americi risulta stabilmente residente a Sermoneta almeno dal 1422, ma è attualmente estinta?. Gli Americi non avevano
titoli nobiliari ma risultano tra le prime famiglie di Sermoneta.
Negli atti notarili degli anni a cavallo tra Cinquecento e Seicento si trovano molte tracce di compravendite di bestiame, di immobili e di prodotti che dimostrano notevoli disponibilità
economiche dei principali membri della famiglia. Vi era anche un ramo romano degli Americi, come & attestato dalla carica di
conservatore ricoperta da Felice Americi nel 1599 *, Per tornare agli Americi di Sermoneta occorre ricordare che in questa città esiste ancora oggi l'antico palazzo della famiglia, divenuto, dopo vati passaggi di proprietà, sede dell'amministrazione co-
munale?. Flaminio Americi, padre di Alessandro, che fu cittadino romano e senatore, risulta nel 1581 agente di un cardinale di Priverno ‘. Nel 1571 Flaminio aveva partecipato alla battaglia di Lepanto al seguito delle truppe comandate dal duca Caetani ed è ipo-
tizzabile che il rifacimento del coro della Collegiata di Sermoneta rappresenti un ex voto dell’Americi per essere tornato a casa incolume”. Purtroppo al riguardo non esiste alcuna fonte
documentaria certa e comunque va detto che oltre trenta anni
tra la data dell’ipotetico inizio della ricostruzione del coro e la sua decorazione sembra un lasso di tempo troppo lungo. È possibile però che l’attuazione del progetto sia stata rallentata da cause ancora oggi sconosciute. Flaminio morì probabilmente alla fine del 1600, se il 28 settembre di quell’anno, essendo molto malato, volle fare testamento ?. La trasformazione atchitettonica della chiesa consistette nella sostituzione dell'abside originaria semicircolare o del coro — non sappiamo di qual for-
Gli affreschi del coro di Santa
Maria Assunta
351
ma — modificato dopo il 1427, a seguito di un legato. concesso in quell'anno a tal fine da una certa Bella Cola di Sermoneta *. In effetti l'esame effettuato sulle murature del coro e-delle due
cappelle laterali conferma che si tratta di una parte dell'edificio assai rimaneggiata ‘°: si vedano anche le diverse quote delle coperture (fig. 19) e la fattura del parato murario che: denuncia
epoche diverse di esecuzione ". Flaminio comunque non vide l’opera completata, in quanto, come già detto, la decorazione degli affreschi fu eseguita alla sua memoria dal figlio Alessandro Americo nel 1603. I] primo febbraio 1599 Alessandro Americo Ametici, figlio di Flaminio, prese la cittadinanza romana per sé e pet i suoi. discendenti. Egli era l'unico figlio maschio di Flaminio; e fu a stretto con-
tatto col duca Pietro Caetani di cui fu, nei primi anni del Seicento, procuratore e agente in Cisterna ?. | | La « Dormitio Virginis »
La presenza di una Dormitio Virginis con una patticolare iconografia tra le storie della Madonna nel coro della collegiata di Sermoneta (fig. 6) suscita un interesse particolare per la serie di considerazioni che se ne possono trarre. Come si pud ben vedere, in basso, ai piedi della Madonna distesa, è raffigurato un uomo barbato le cui mani, poggiate sul catafalco, sono state appena recise di-netto con la spada dall'angelo presente sulla
destra. L'episodio rappresentato deriva dai testi apocrifi riguar-
danti la morte della Madonna a partire dalle versioni dello Pseudo Melitone, dello Pseudo Girolamo, dello Pseudo Giovanni, del Transitus romanus, di Gregorio di Tours, riprese poi da Jacopo da Varagine nella Legenda Aurea e da altri autori, quasi tutti anonimi, con alcune varianti. Si tratta dell'episodio dell’ebreo principe dei sacerdoti che tentò di rovesciare il ca-
tafalco funebre della Vergine durante il suo trasporto al sepol-
cro, ma, per intervento divino, le sue mani restarono attaccate
al feretro staccandosi dal resto del corpo.
In campo figurativo è un tema scarsamente rappresentato e
più diffuso in area nordica ". Tra le più antiche raffigurazioni
si possono ricordare il rilievo d’argento nella cattedrale. orto-
dossa di Atene, il salterio di York e gli evangeliari.di Wein-
en garten e di Thatgmantchts P. . In Italia questa raffigurazione si trova solo a partite dal XIV secolo, ma compare raramente oltre il XVI. La spiegazioneè da ricercare nel fatto che dal Concilio di Trento erano venute raccomandazioni di rifiutare, anche in campo figurativo, i testi apo: crifi in favore di quelli canonici.
352
Enzo
Borsellino
In area emiliana val la pena ricordare il Transito della Ver.
gine di Lorenzo Costa, oggi nel North Carolina Museum of Art di Raleigh (già collezione Kress) ^, quello di Girolamo da Tre-
viso del 1537 nella Walters Art Gallery di Baltimora " e quello di Biagio Pupini P. In area umbro-romana, in cui è dato molto risalto alla scena dell’ebreo, sono degni di nota alcuni affreschi: a Vallo di Nera
(Terni) nella chiesa di San Giovanni Battista (1536-37); nella chiesa dell'Assunta a Trevignano, (dat. 1517) ?, dove la raffi-
gurazione segue il testo classico del Transitus Romanus (fig. 20) e nella chiesetta di S. Anna presso Farnese
(Viterbo) databile
al 1590 circa (fig. 21) ?. In area napoletana, il tema & presente in una tavola attribuita ad Angiolillo Arcuccio (1470 circa) segnalata dal Longhi al Causa nel 1950? e nelle due opere di Giovanni Filippo Criscuolo di Ausonia (S. Maria del Piano) e di Fondi (S. Maria Assunta), eseguite negli anni '30-40 del Cinquecento, ambedue con la
figura dell'ebreo con le mani ancora unite all'avambraccio (figg.
22-23)”. A Napoli, nel coro di Santa Maria La Nova, è raffigurata una Dormitio con l'ebreo a cui l'angelo ha tagliato la mano
sinistra, attribuita a Belisario Corenzio e Simone Papa”.
In Puglia una Dormitio degli inizi del XV secolo nella chiesa
di Santa Caterina di Galatina (Lecce) presenta in primo piano
l'angelo che recide le mani all'ebreo, come a Sermoneta (fig. 25)”.
In Sicilia l'analogo tema è documentato da un'opera attribuita a Tuccio di Gioffredo da Fondi, nel 1953 in collezione Barabino a Palermo e da una tavola di Salvo D'Antonio, già nel duomo di Messina, perduta ?. È quindi singolare che ancora nel 1603, stando alla data presente sugli affreschi di Sermoneta, si sia usato come fonte di ispirazione un testo considerato quasi all’indice per illustrare la Dormitio Virginis. Essendo Sermoneta un centro caratterizzato da una notevole presenza ebraica, tale iconografia si può spiegare come una testimonianza di un atteggiamento antiebrai-
co della comunità locale, documentato anche in studi recenti da
Maria Teresa Caciorgna . Da queste ricerche emerge chiara
l'evoluzione di una politica antiebraica nel Lazio meridionale e in particolare a Sermoneta nella prima età moderna. Dopo un periodo, tra Tre e Quattrocento, di sostanziale accettazione del-
la comunità ebraica, dagli inizi del Cinquecento in avanti la situazione si capovolge. Nel 1505 si ha la prima manifestazione antiebraica a Sermoneta ad opera di Guglielmo Caetani. Tra il
1542 e il 1593 si verificano numerosi atteggiamenti di ostilità verso gli ebrei da parte del papato che si conclude con il loro bando dallo Stato della Chiesa ?.
TERRE OI ND OH ZT,
1. Presentazione di Assunta, coro.
Maria
al
tempio.
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2. Sposalizio
della Madonna,
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Sermoneta,
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di
Santa
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3. Annunc lazione, ivi.
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4. Visitazione, ivi.
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5. Natività della Madonna,
6. Dormitio
Virginis, ivi.
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Sant’ Agostino,
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9. San
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10. San Gregor io e san Francesco di Ass isi, ivi.
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12. La Madonna Assunta,
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13. Veduta
d'insieme degli affreschi del coro, ivi.
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14.
Gli
stalli del coro
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lo stemma
Caetani, ivi.
16. Stemma della famiglia Americi. Sermoneta, palazzo comunale, portale d’ingresso.
17. Stemma della interno.
famiglia
Americi.
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18. Stemma
della famiglia Americi. Sermoneta, collegiata di Santa Maria Assunta,
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21. Dormitio
Virginis.
Farnese
(Viterbo),
chiesa di Sant'Anna.
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22. Giovanni Filippo del Piano.
Criscuolo,
Dormitio
Virginis.
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(Latina),
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23. Giovanni Filippo Criscuolo, Santa Maria Assunta.
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di Maria.
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(Lecce), ch iesa di Santa
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25. Cavalier
d’Arpino,
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26. Cavalier d’Arpino, La Fama. Bagnaia (Viterbo), Casino Montalto.
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28. Bernardino Cesari, Trionfo di Costantino.
Roma,
chiesa di San Giovanni
in Laterano.
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29. Cavalier
d'Arpino,
Giuditta.
Frascati,
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Aldobrandini.
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30. Cavalier
d'Arpino,
Azdromeda.
Roma,
Accademia
di San Luca.
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31. Sermoneta. Collegiata di Santa Maria Assunta, coro. Schema grafico (rapp. 1:20) della parete sinistra. Nativita della Madonna (A); Presentazione di Maria al tempio (B); Sposalizio della Madonna (C); Sant'Agostino (1); San Gregorio Magno (2).
STALLI
LIGNEI
32. Sermoneta. Collegiata di Santa Maria Assunta, coro. Schema grafico della parete destra. Annunciazione (D); Visitazione (E); Dormitio Virginis (F); San Girolamo (3); Sant'Ambrogio (4).
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LIGNEI
33. Sermoneta. Collegiata di Santa Maria Assunta, coro. Schema grafico della parete di fondo. Gli Apostoli davanti al sepolcro vuoto (G); San Francesco di Assisi (5); Sant’Antonio di Padova (6).
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| 34. Sermoneta. Collegiata di Santa Maria Assunta, coro. Schema grafico del soffitto. La Madonna assunta (H); nei tondi e nei triangoli di risulta: Profeti e Sibille,
Gli affreschi del coto di Santa Maria Assunta
353
À queste date se ne puó aggiungere ora un'altra, che coincide con quella degli affreschi in esame, relativa alla istituzione di un Monte di Pietà a Sermoneta. Nel 1603 i Caetani ottennero da Clemente VIII la concessione di istituite un Monte ?, Pro-
babilmente tale istituzione va interpretata come un tentativo di frenare la pratica dell'usura, allora tipicamente appannaggio
degli ebrei ancora presenti nel Lazio meridionale, nonostante le prescrizioni delle bolle papali. L'affresco dipinto nella. collegiata secondo quella particolarità iconografica potrebbe essere la testimonianza figurativa di una situazione .storica, volendosi ri-
badire la superiorità della fede e della pratica religiosa cristiana su quella ebraica. Inoltre si può affermare chela raffigurazione del taglio delle mani dell’ebreo potrebbe essere letta anche co-
me istigazione a punite col medesimo atto gli ebrei che praticavano l’usura, come esortd san Bernardino da Siena nel 1425 ”.
Lo stile
Le finte intelaiature architettoniche della volta, la sapiente distribuzione degli spazi creata per accogliere sibille, profeti e padri della Chiesa sembrano ispirate all'opera del Cavalier d'Arpino nella Cappella Olgiati di Santa Prassede eseguita negli anni 1593-95 (fig. 25) e a quella della cappella maggiore di San Silvestro al Quirinale di Giovanni e Cherubino Alberti. In effetti l'eco arpinesca è molto forte e da essa si deve
pattire per analizzare lo stile degli affreschi. Si pensi alla ficura della Fama (fig. 26) nella volta della sala omonima nel casino Montalto, a Bagnaia, del Cesari, che trova una assonanza stilistica con gli angeli dell'Asszzzz. Se però confrontiamo la Natività della Madonna con la scena analoga della chiesa di Santa Maria di Loreto del Cesari (fig. 27), notiamo come quest’ultima, certo più tarda di circa 30 anni, sia alquanto diversa, meno narrativa, più stilizzata e dai colori più freddi rispetto a quella di
Sermoneta. Esaminando con attenzione gli affreschi del coro si
nota una certa discrepanza stilistica tra le varie scene. Le quattro lunette (figg. 1-4) sembrano dipinte da un unico artista che possiamo definire convenzionalmente il. « Maestro delle lunette ». Gli Apostoli davanti al sepolcro vuoto (fig. 11), i profeti Giona e Geremia (figg. 1, 3), nonché i tre dottori della Chiesa (Gregorio, Ambrogio e Girolamo) e i santi Antonio di Padova e Francesco d'Assisi (figg. 8-10), tutti di chiaro accento
atpinesco, sembrano essere stati eseguiti da un pittore molto vicino al « Maestro delle lunette ». Il quarto dottore. della chiesa, sant Agostino (fig. 7), pet l'espressione del viso meno con-
354
Enzo Borsellino
venzionale, potrebbe appartenere a un diverso e più dotato artista, la cui mano perd non è riconoscibile in altre scene del ciclo.
Un altro pittore ha invece dipinto l’Assunta (fig. 12), la Dor-
mitio Virginis (fig. 6), il profeta David e la Sibilla Libica (fig. 2): si noti la somiglianza dei visi e la singolare modalità di delineare le ginocchia scoperte del David, degli angeli dell’Assunia e dell'angelo della Dormitio Virginis. Carattere a sé mostra il « Maestro della Natività della Madonna », cui spetta probabil-
mente anche la Sibilla Persica (fig. 1) e il profeta Isaia (fig. 4), tutti accomunati da una trattazione dei volti più calligrafica che mette in evidenza, mediante balenature di luce, i nasi pronunciati. I tondi delle Sibille (figg. 2-4), eccettuati quelli della Sibilla Persica e della Sibilla Libica, sembrano omogenei (anche se non tutti perfettamente conservati e leggibili) e sono da assegnare ad uno stesso pittore, anch'esso di forte impronta arpinesca, che chiameremo convenzionalmente il « Maestro delle Sibille ». Il clima artistico & quello del rinnovamento, rispetto ai ca-
noni stilistici del tardo manierismo, iniziato già negli anni '80 col ciclo dell'Oratorio del Crocifisso e poi confermato nella navata di Santa Maria Maggiore — i cui affreschi, affidati ad una
équipe di artisti furono terminati nel 1593 — e nel transetto di San Giovanni in Laterano. Il ciclo lateranense delle Szorie di Costantino e Silvestro fu diretto, come è noto, dal Cavalier d'Arpino (cui spetta certamente l'Ascezsioze) il quale si avvalse della collaborazione del fratello Bernardino e di Giovanni Baglione, Giovan Battista Ricci, Cesare Nebbia, Paris Nogari ?. Non possiamo dimenticare che il d'Arpino controllava altri cantieri a Roma e nei dintorni in cui ha ampiamente impiegato la sua bottega: oltre il già ricordato casino Montalto e le decorazioni del palazzo dei Conti di Poli dove firmò il Sar Francesco sull’altare della cappella, sappiamo che proprio nel 1603 Giuseppe Cesari affrescd la villa Aldobrandini a Frascati. Come si vede dalla Giuditta (fig. 29) di Frascati, l'intento si concentra verso una pittura « corsiva », più vicina al reale quotidiano e pervasa da una vena di classicismo feriale. Ciò è riscontrabile anche nelle Storie della Vergine di Sermoneta, ad esempio nella scena della Nazività della Madonna. Anche a Sermoneta si percepisce in alcune figure quel protoclassicismo di fine secolo e il ritorno a Raffaello? nei volti
degli apostoli accanto al feretro della Madonna o in quelli at-
torno al sepolcro vuoto, unitamente a qualche sintomo nuovo, per esempio il naturalismo del $. Agostino (fig. 7), tanto da
sembrare un ritratto, o il gioco delle ombre prodotte dai panneggi degli angeli sotto l'Asszz/2, mentre è assente il barocci-
smo proprio dei pittori « sistini ».
Gli affreschi del coro di Santa Maria Assunta
355
Questi affreschi sono stati completamente ignorati dalla critica, se si esclude una nota su una scheda della Soprintendenza alle Gallerie del Lazio firmata da Federico Zeri che, nel 1950 li assegnò senza dubbi a Giuseppe Cesari con una postilla successiva (datata 1964) di Corrado Maltese che vi individuava « due o tre mani», mentre il Rôttgen propose più tardi, ma senza strette argomentazioni, il nome di Bernardino Cesari per tutte le scene ©. Un confronto col Trionfo di Costantino del Laterano (fig. 28), certamente di Bernardino, non. soddisfa a pieno la pretesa analogia con gli affreschidi Sermoneta, anche perché questi ultimi, come già detto, si presentano stilisticamente discontinui tra loro. Forse |’ Andromeda (fig..30) dell Accademia di San Luca, replica del Cesari secondo -Róttgen, ma probabilmente di Bernardino, mostra caratteri più prossimi alVangelo della Dormitio Virginis (fig. 6). — °° Un'unica fonte antica, la storia di Sermoneta di Pietro Pantanelli, menziona gli affreschi, ed è interessante citarla perché tenta di dare anche un giudizio critico sulle decorazioni. L'autore infatti, come è stato già ricordato da Massimo Cattaneo in questo convegno, era, oltre che un erudito e uno storico
lo-
cale, anche pittore e restauratore: Le pitture sono a fresco e molto buone, ovati, a maraviglia distribuiti. Rappresentano Presentazione al tempio, l'Annunciazione, la lo sposalizio è assai bello, e l'Assunzione in è inferiore il giovinetto Davide colla testa di il quadro di mezzo, sopta la sede vescovile,
e si dividono in molti quadri ed la Natività di Matia Vergine, la Visitazione a santa: Elisabetta, ma mezzo alla volta è bellissima. Non Golia, in un peduccio d’essa volta; che rappresenta. tutti gli apostoli
che riguardano Maria Assunta in cielo; i quattro dottori e lo stemma mentovato
con morbiti (sic) puttini. Vi sono le sibille dentro alcuni tondi, con altre figure et ornamenti, benché non dello stesso carattere: è per altro il-tutto- assieme opera di valentuomo. Asseriscono esser lavoro de’ Caracci, ma non: lo mostra. Chi dice del Cavalier d’Arpino, et altri del Pomaranci; et affermané che siano stati
parecchi giovani che andavano alla volta di Napoli; e che nel titorno volevano cancellare e farle di nuovo, per le sole spese de’ colori 33.
In questa congerie di nomi e di notizie che appaiono avvolte in un’aura più di leggenda che di verità storica, non possiamo reperire prove concrete per una loro certa attribuzione. Tuttavia alcuni elementi possono essere presi in considerazione. Il riferimento ad un viaggio di pittori a Napoli è éstremamente interessante. La biografia del d’Arpino scritta da van-Mander in
effetti ricorda l'episodio della fuga a Napoli del-fratello Ber-
nardino per sfuggite ad una condanna a morte inflittagli nel 1592 #, In quel frangente fu ospitato nella Certosa di San Martino dove il fratello Giuseppe aveva iniziato-la decorazione del coro della chiesa (1589-91) e dove Bernardino affrescò la sacrestia (1592-93) durante quel soggiorno forzato.. Solo che, ap-
punto, l’episodio avvenne circa 10 anni prima della data di esecuzione del ciclo sermonetano. Se si deve prestare.fede alle no-
356
Enzo Borsellino
tizie del Pantanelli e si vuole sostenere l'attribuzione a Bernardino Cesari, occorre dunque ipotizzare un viaggio a Napoli di
Bernardino e di altri giovani artisti successivo a quello ricordato
da van Mander e finora con documentato. Certamente Sermoneta era un luogo di passaggio obbligato per coloro che si recavano da Roma a Napoli e viceversa, tro-
vandosi la città sulla strada pedemontana che permetteva di evitare il percorso pericoloso e disagevole attraverso le paludi Pontine, col rischio di contrarre la malaria. E non solo le mer-
ci, il bestiame e i vari traffici ma, evidentemente, anche gli artisti per raggiungere Napoli transitavano per la più sicura strada che si snodava tra Sermoneta, Sezze, Priverno e Fossanova. Non è poi da sottovalutare l'altro riferimento del Pantanelli ai «giovani che andavano a Napoli »: esso fornisce l'indizio che potrebbe essersi trattato non di un solo artista, come si &
rilevato dall'analisi stilistica, ma di un gruppo di pittori forse all'inizio della carriera, i quali, di passaggio per Sermoneta, ven-
nero impegnati nella decorazione del coro di Santa Maria e che, evidentemente non soddisfatti del lavoro svolto, pensarono addirittura di cancellarli e rifarli « per le sole spese dei colori ».
Abbiamo detto all'inizio dell'imperizia mostrata nel dipingere le ombre a lato di Sas Francesco: potrebbe essere stato questo il motivo della loro insoddisfazione. Che si tratti di artisti del-
la cerchia del d'Arpino, il quale era tornato a Napoli anche
nel 1596-97 per decorare la sactestia della Certosa, & assai probabile. La sua bottega fu molto attiva e funzionava in modo estremamente compatto stilisticamente, come già rilevato dal Róttgen. È quindi difficile poter avanzare un nome specifico per queste pitture da collocare tra Bernardino Cesari, Marzio Ganassini, Baldassarre Croce e Cesare Rossetti *.
Note 1 Sugli stalli del coro cfr. Sermoneta, Archivio della Collegiata di Santa Maria Ássunta, Registro A: « Adi 13 ottobre 1611. Si & congregato il Capitolo et canonici tutti in sactistia, dove il [...] Don Jacomo Fascio concanonico, ha esposto voler fate a sue spese il choro della nostra chiesa à honor d'Iddio et della Gloriosa. Vergine spendere cento scudi, con conditione, che il Capitolo l'impresta venticinque scu-
di, che tiene del Capitolo Don Vincenzo Antiocho concanonico et altri quindici
che tene Don Marco Tolorbo [?] parimente canonico et si è concluso di far detto prestito, et data autorità al detto don Jacomo, che facci detto Choro del modo che li pare, et dal Mastro che vorrà lui, et di questa volontà di detto Don Jacomo se ne facci consapevole l’Ecc.mo S. Duca Padrone, et supplicatlo voglia dare qualche cosa per magnificare detto choro dichiarando che delli quindici
scudi che se dice tener detto Don Marco per ordine, et concessione del capitolo
Gli affreschi del coro di Santa
Maria Assunta
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per bisogno di detta chiesa dieci e tre giulij che furono imprestati a don Carlo Semenza et il restante lo tiene in mano lui, quali dieci scudi et tre giulij detto Capitolo ordina che Don Carlo li impresta per la spesa di detto Choro. Io Giulio Cesare Ottaviano sacristano de mano», ivi, ff. 68tv. « Adi 9 de Agosto 1612. Coro. Concluso in Capitolo che D. Catlo Nostro concanonico pigli li cinquanta scuti li quali per l’innata benignità et cortesia del Nostro Ecc.mo Sig. Duca Pietro Caetani donati al Nostro. Capitolo per servizio della fattura del coro, et li denari saranno da pigliare dalle. mano del sig.r Podestà presente et a quello fargli la ricevuta autentica con ogni solennità. Et in fede Io Aquilo Mirto canonico sctissi et sottoscrissi da mandato di suoi propria mano », ivi, f. 71v. Roma, Archivio Caetani, Fondo generale, 22 ottobre 1611, n. 66802: Supplica dei canonici di S. María di Setmoneta di integrare le spese del coro della
Chiesa oltre la spesa di 100 scudi messi a disposizione da don Giacomo Fascio canonico della collegiata. Sul retro della lettera « L’abate vecchio vol dare cento
scudi per fare il coro. Non bastano V.E. vi metta il soprapiù », ivi, 9 novembre 1611: « pagati 60 scudi al Duca disse per volerli per fare l'offerta alli Preti di S. Maria». L'episodio è ricordato da P. PANTANELLI, Notizie istoriche appartenenti alla terra di Sormoneta, in distretto di Roma, Roma 1911, vol. I, p. 626 (ms. del 1766 c.). 2 Desidero ringraziare la direttrice dell'Archivio di Stato di. Latina, dottoressa Lucia Mione e il personale dello stesso archivio che mi hanno fattivamente assistito durante le ricerche. 3 Un « magistro Petto Americi» è menzionato in alcuni i del XV secolo citati dal PANTANELLI, Notizie, pp. 429, 381, 484. ^ Gli Americi del ramo romano compaiono tutti in un. atto notarile del 14 febbraio 1576 quando, con Alessandro, acquisiscono il giuspatronato della cappellania di S. Antonio di Padova nella collegiata di Santa; Maria Assunta (Archivio di Stato di Latina, Notarile di Sermoneta, d'ora in avanti ASL, NS, b. 106, fasc. 2, alla data). Sul ramo romano cfr. T. AMAYDEN, Lig storia delle ta. miglie romane con note e aggiunte del Comm. C. A. Bertini: Roma s.d. (1910), vol. I, p. 103, dove si ricorda un membro della famiglia Ametici, Giulio, caporione nel 1550; cfr. TACOVACCI, cit. in Amayden, e. RICCHI, Vite degli uomini illustri, cap. 20, p. 178, cit. in "Pantanelli. Il loro palazzo romano eta vicino al Monte di Pietà e recava sull'i ingresso un'iscrizione probabilmente col nome della
famiglia (cfr. PANTANELLI, Notizie, pp. 522-523). Nella chiesa della Trinità dei Pellegrini nel 1620 vi era ‘la tomba di famiglia (cfr. v. FORCELLA, Iscrizioni delle
chiese e d'altri edifici di Roma (1869-1884), vol. VII, p. 206. 5 Sulla chiave di volta del portone di ingresso (fig. 16) e sulla fronte di un puteale nel cortile interno (fig. 17) campeggiano gli stemmi scolpiti degli Americi raffiguranti un uccello non facilmente identificabile sovrastante una banda orizzontale e tre oblique da sinistra verso destra. Lo stemma Ametici dipinto nel coro di Santa Maria è invece ben analizzabile e permette di identificare l'uccello, certamente l’araba fenice (fig. 18), raffigurato sopra alcune lingue di fuoco.
Cfr. anche AMAYDEN, La storia, p. 103. 6 ASL, NS, b. 18, fasc. 2, 3-1-1581.
7 E, FINO, "Sermoneta, fesori d'arte memoria di eroi, Sermoneta 1980, pp. 61-62, senza stabilire relazioni tta i due avvenimenti, riporta che il coro costruito nel 1571.
8 ASL, NS, b. 36, fasc. 1, c. 28s.
3 PANTANELLI, Notizie, pp. 625-626, dove si dice che i beni di Bella Cola di Sermoneta « vendantur et expendantur in opete coti novi, noviter in dicta ecclesia edificandi ». Tra i testimoni presenti all'atto figura un certo « Petro pictor de Piperno » (forse da identificare con il noto Pietro Coleberti?). 10 L'edificio, di fondazione romanica, fu completamente restaurato da maestranze cistercensi nel XIII secolo, cfr. c. TAMANTI, La chiesa di S. Maria Assunta in Sermoneta, in «Bollettino dell'Istituto di storia e di arte del Lazio meridionale », VIII, 2, 1975, pp. 75-92. H Ta cappella del Sacramento (già del Rosario dal 1628 e. precedentemente di S. Pietro in Vincoli e S. Francesco di Sales), che sembra la più antica, è di forma circolare e dovrebbe risalire almeno alla fine del XIV secolo o agli inizi del XV, per la presenza, sopra l’altare, di un affresco raffigurante San Francesco
databile a quest'epoca (fig. 20). L’affresco costituisce dunque un termine post
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quem non per ledificazione di questa cappella e non è quindi possibile che sia stata costruita nel corso del XVII secolo come è stato affermato da TAMANTI, La cbiesa, p. 75. Su questo affresco fu posta nel XVII secolo una tela raffigurante la Madonna del Rosario, oggi conservata nella cappella De Marchis; successivamente le pareti e la piccola cupola furono affrescate con Storie del. l'Autico Testamento e una Annunciazione agli inizi del XVIII secolo. L'altra cappella, in precedenza detta di S. Antonio di Padova ed ex sacrestia, è dedicata oggi al Redentore ed è coperta da affreschi del XVIII secolo. 12 PANTANELLI, Notizie, I, p. 523. Alessandro Americo ebbe una sorella di nome Porzia e almeno tte figli: una, di nome Vittoria, da Bernardina Quatrassi nel 1591; un figlio di nome Pietro nel 1594 dalla sua seconda moglie Paola Quatrassi (che sembra cugina della prima); un terzo di nome Flaminio Gregorio nel 1598 (cfr. i registri dei battesimi nell’archivio della collegiata di Santa Maria Assunta, alle date). Anche i Quatrassi furono tra le famiglie più importanti di Sermoneta. Numerosi sono i documenti conservati presso l'Archivio Caetani di Roma che testimoniano i continui rapporti tra il duca Pietro e Alessandro Americo Americi (cfr. ad esempio: Fondo generale, 9 giugno 1602, n. 70743; 23 febbraio 1603 (ma 24 febbraio 1604), n. 122428; 3 settembre 1604, n. 163842; 5 settembre 1604, n. 74852; 7 settembre 1604, n. 76569; 9 settembre 1604, n. 53205; 11 settembre 1604, n. 53206; 13 settembre 1604, n. 53219; 14 settembre 1604, n. 86519; 29 settembre 1604, n. 128475). 13 Sull'iconografia della Dozzitio Virginis esiste una vasta bibliografia: tra i testi più recenti cui si rimanda per la bibliografia precedente, cfr. S. ROSSI, L’Assunzione di Maria nella storia dell'arte cristiana, Napoli 1940, dove si pubblica un affresco con la Dor#itio del Catholicon di Dionysion dell'Athos (p. 61, fig. 19) molto vicina iconograficamente alla nostra; P.A. DUNFORD, Jconografia della Dormizione e della Assunzione, in « Arte cristiana », LIII, 1975, pp. 284298; r. MANNS, La récit de la Dormition de Marie (Vatican grec 1982), contribution a l'étude des origines de Vexégéses chretienne, Jerusalem 1989. Sui testi apocrifi cfr. 1. MORALDI, Apocrifi del Nuovo Testamento, vol. I, Torino 1971. 4 Si pensi alla Dormitio del portale di Nôtre Dame a Parigi, (cfr. B. NIETO, La Asuncion de la Virgen en el arte, Madrid 1950, p. 63, fig. 46); a quelle pubblicate in s. REINACH, Répertoire des peintures du Moyen Age et de la Renaissance, 1280-1580, Paris 1905, vol. I, n. 486; vol. III, 1910, nn. 496-493; vol. IV, 1918, n. 500, o alla miniatura di Jean Fouquet del Museo Condé di Chatilly (cfr. F.A. GRUYER, Chantilly. Musée Condé. Notice des peintures, 1899, p. 223. 15 Cfr. FINO, Sermoneta, p. 68; T.S.R. BOASE, The York Psalter in the Library of the Hunterian Museum, Glasgow, London 1962, p. 13; NIETO, La Asunciôn,
p. 110, fig. 165.
16 R. LONGHI, Ampliamenti nell’Officina Ferrarese (1940), ried. Firenze 1956,
vol. V, pp. 140-141. Giustamente il Longhi
sottolined la particolarità icono-
grafica del soggetto, puntualizzando che si trattava dei Funerali della Vergine più che una Dormitio, e rinviava ad altri esempi quali l’affresco perduto di Ercole de Roberti nella cappella Garganelli a Bologna (di cui resta la copia di Giacinto Gilioli nel John and Mable Ringling Museum di Saratosa). 17 Cfr. A. SPEZIALI, Girolano da Treviso, in Pittura bolognese nel 500, a c. di V. Fortunati Pietrantonio, Bologna 1986, vol. I, pp. 149-150, dove si menziona un'altra Dormitio di Alfonso Lombardi. 18 AM. FIORAVANTI BARALDI, Biagio Pupini, ibid., p. 189. 19 Cfr. L. iNDRIO, Santa Maria Assunta a Trevignano, in Oltre Raffaello, aspetti della cultura figurativa del Cinquecento romano, cat. delle mostre, maggioluglio 1984, Roma 1984, pp. 55-60. 20 Cfr. F. ricci, La chiesa di S. Anna o S. Maria della Cavarella a Farnese: un episodio di pittura ermetica, in « Informazioni», n.s., II, 9, giu.dic. 1993, pp.
27-60.
o CAUSA, Angiolillo Arcuccio, in « Proporzioni », III, 1950, p. 110, nota 26. 22 Cfr. M.L. CASANOVA, Arte a Gaeta. Dipinti dal XII al XVIII secolo, cat. della mostra (Gaeta ag-ott. 1976), Firenze 1976, pp. 78-80. 2 p. LEONE DE CASTRIS, Pittura del Cinquecento a Napoli. 1573-1606. L'ultima maniera, p. 198, fig. p. 214.
24 Cfr. T. RESTA, La Basilica Orsiniana di Santa Caterina in Galatina, Ave-
Gli affreschi del coro di Santa Maria Assunta
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gno 1984, p. 120, dove si cita un altro affresco con analoga iconografia, ma assai rovinato, in Santa Maria delle Cerrate a Squinzano e certamente più antico.
25 Cfr. s. BOTTARI, La pittura del '400 in Sicilia, Messina-Firenze 1955, pp. 52, 71. à 26 M.T. CACIORGNA, Presenza ebraica nel Lazio medidionale: il .caso di Sermoneta, in AA.VV., Aspetti e problemi della polemica antiebraica nell'Italia centrosettentrionale (secc. XIV-XV), Atti a c. di S. Boesch Gaiano (Quad. dell’Ist. Scienze Storiche, Univ. di Roma « La Sapienza», 2), Roma 1983, pp. 129-173; ID., Comuni, signori, ebrei nel Lazio Meridionale, in «Società e storia», 48, 1990, pp. 301-336. Sull’atteggiamento antiebraico tra Quattrocento e Cinquecento e i suoi risvolti in campo iconografico, cfr. ». ERMINI, L’evoluzione dell'iconografia della Domitio Virginis e la polemica entiebraica tra Quattro e Cinquecento, tesi di laurea, Univ. di Roma «La Sapienza», fac. di Magistero, anno accademico 1992-1995.
27 Nel 1542 venne emanata la bolla di Paolo III che sollecitava al battesimo gli ebrei istituendo particolari privilegi per i convertiti. Sotto Giulio III e Paolo IV l’atteggiamento papale verso gli ebrei continuò ad essere sfavorevole. Esso si acuì ulteriormente nel 1569 con la bolla di Pio V che decretava l'espulsione degli ebrei dallo Stato pontificio, confermata nel 1593 da Clemente VIII (cfr. A. MILANO, Storia degli ebrei in Italia, Torino 1963, pp. 243-262). 28 Cfr. Roma, Archivio Caetani, Fondo generale, 1603/1, 119159. 29 Cfr. A. TOAFF, Gli Ebrei a Perugia nei sec. XV-XVI, Perugia 1975, p. 60 ss. 30 Su] Cavalier d’Arpino e la sua bottega, cfr. Il Cavalier d’Arpino, cat. della mostra, a cuta di H. ROTTGEN, Roma 1973.
31 p, p'aMICO, Appunti sulla fortuna di Raffaello nel tardo manierismo ro-
mano, in Oltre Raffaello, pp. 237-241; A. Lo BIANCO, Dalla Maniera alla natura. Il rinnovamento di fine secolo, La pittura in Italia. Il Cinquecento, Roma 1987, pp. 421-422. 32 RÔTIGEN, in I| Cavalier d’Arpino, p. 52. Anche LEONE DE CASTRIS, Pif tura, p. 182, ribadisce l'attribuzione a Bernardino senza scendere hella analisi specifica della diversità stilistica tra le varie parti della decorazione. 33 pANTANELLI, Nofizie, p. 73. Dal confronto delle due versioni manoscritte delle Notizie istoriche del Pantanelli conservate presso l’Archivio Caetani si sono
notate a questo proposito delle piccole differenze. In quella non pubblicata
il testo in questione recita come segue: « Asseriscono esser opere «de Caracci, e del Cavalier D'Arpino; altri dicono che vi sia anche il Pomaranci; ma la verità è che furono più giovani che andavano in Napoli, i quali nel ritorno volevano cancellare e farle di nuovo per le sole spese, e colori». Una traccia della tradizionale attribuzione ai Carracci si ritrova già in un inventario della col legiata del 25 aprile 1727 conservato presso l'Archivio Diocesano di Terracina. Fondo di Sezze, Curia Vescovile, b. 585, fasc. « Carte miste di Maenza, Rocca secca, Setmoneta »: « Sopra è la volta [del coro] tutta dipinta, et in mezzo l’As sunta et ai lati della medesima con le figure delli quattro Dottori cioè S. Agostino, San Gregorio, San Girolamo e Sant’Ambrogio et altri misteri graduali della SS.ma Vergine il tutto fatto per mano del fu Eccellente, e sempre rinomato Pittore Caraccio ». Cfr. ivi anche il Fondo di Sermoneta, b. 218, fasc. 1, dove
in un altro inventario della collegiata del 1856 si ripete tale attribuzione. Nel
registro dei Capitoli dei canonici della collegiata, già citato in nota 1, non vi è traccia di una menzione degli affreschi, forse perché furono gli Americi a finanziare i lavori e non i canonici. L’archivio degli Americi non & stato a tutt'oggi rintracciato. :
34 Bernardino fu graziato lanno dopo, nel 1593:
cfr. C. VAN MANDER, Het
Schilder - Boeck..., Haarlem 1604, trad. it. in M. vAES, Appunti di Carel van Mander su vari pittori italiani suoi contemporanei, in « Roma», IX, 1931, p. 195 ss.
* Ringrazio l'arcbitetto Paolo Raponi per la cortese collaborazione e per la realizzazione dei grafici pubblicati alle tavole nn. I-IV. Ringrazio inoltre Liliana Barroero, Elena Fumagalli, Maria Barbara Guerrieri Borsoi, Simonetta Prosperi
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Valenti Rodinò, Concetta Restaino, Giovanna Sapori, per i consigli e gli scambi avuti e Stefano Petrocchi e Fulvio Ricci per le fotografie gentilmente fornitemi. Il testo qui pubblicato à quello letto nel corso del convegno su Sermoneta del 1993. Non si è voluto aggiornarlo in quanto non vi sono stati nel frattempo nuovi contributi specifici sull'argomento. Rispetto alle problematiche di allora,
l’unica novità di cui si può tener conto è l’ipotesi di Claudio Strinati, recentemente comunicatami verbalmente, di riconoscere negli affreschi di Sermoneta la mano di Luigi Rodriguez. Tale attribuzione suscita alcune perplessità perché il suo stile è legato più alla maniera fiamminga di Dirk Hendricksz (Teodoro d'Errico) e al barroccismo sistino presenti a Napoli negli anni ‘90, che non alle soluzioni « storico-rappresentative » — per usare una felice espressione del Rottgen — del Cavalier d’Arpino nella Certosa di San Martino, riscontrabili anche a Sermoneta. In più la data 1603 degli affreschi sermonetani coincide con un'epoca in cui il pittore di origine siciliana, attivo a Napoli dagli anni "90, era già affermato, si era sposato e aveva una figlia. Dunque verrebbe meno l’unico riferimento storico rintracciato nelle fonti sugli autori degli affreschi di Sermoneta eseguiti, come già detto, da « parecchi giovani che andavano alla volta di Napoli ».
Angela Negro Giovan Domenico Fiorentini da Sermoneta Un pittore tra barocchetto e neoclassico
Alcuni anni or sono, nel corso di un convegno curato dalla Fondazione Camillo Gaetani su Ninfa, & stata sottolineata la
necessità di una struttura museale che raccolga i| materiale artistico di Sermoneta e della zona circostante. Il progressivo spo-
polamento del paese ha infatti portato alla cronica chiusura, e in molti casi all'abbandono, di acuni edifici ecclesiali: emblema-
tico & il caso della chiesa di S. Michele Arcangelo, con opere id grande importanza comela grande tela di Francesco da Castello, un pittole del tardo Cinquecento legato in modo ticorrente alla committenza Caetani sul territorio, come indica la sua imponente Ascensione nella chiesa di S. Erasmo a Bassiano. Gran parte del materiale artístico proveniente da questi edifici sermonetani, schedato per intero e spesso testaurato dalla Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Roma, è confluito
nella collegiata di S. Maria Assunta, dove da tempo era stato progettato l'allestimento a museo dell'oratorio dei Battenti, adiacente la chiesa. Il progetto si sta finalmente concretizzando e ci sembra opportuno darne notizia proprio in questa sede: il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, infatti ha finanziato con la legge 145/1992
l'allestimento museale che strà
curato in collaborazione dalla Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Roma e dal Centro Progetti Museali del Ministero,
con l'intervento per la bonifica delle strutture müratie della Soprintendenza ai Monumenti del Lazio. Insieme al progetto è tipreso il restauro e la messa a punto sul piano conservativo
a indelle oepre d'arte, che completerà in breev la sequenz‘di terventi compiuti negli anni passati dalla Soprintendenza ‘ai Be-
ni Artistici e Storici di Roma e a dall’Istituto Centrale per il Restauto.
.
Il materiale destinato al costituendo museo della Collegiata,
ed in particolare un dipinto con la Madonna del Rosario pro-
veniente dalla chiesa di S. Michele Arcangelo attribuito à Giovan Domenico Fiorentini da una vecchia schedatura della So-
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Angela Negro
printendenza ci ha fornito l’occasione per fare il punto su questo pittore sermonetano del Settecento per lo più ignorato dagli studi storico artistici, ma che godette di una certa rinomanza fra i contemporanei !. In un articolo del Chracas del 14 settembre 1805, infatti, dando notizia di un suo intervento di rilievo come la decorazione (perduta) della navata dei SS. Quirico e Giu-
litta a Roma, l'ignoto cronista lo annovera fra le glorie artistiche del luogo: « Ha ragione a gloriarsi Sermoneta di avere dato a Roma nel secolo decimo quinto Gerolamo Siciolante [...] nel decimo ottavo un Cavallucci e nel presente un Fiorentini che nelle sue opere fa ammirare quieta e perfettissima armonia, vaghezza priva di debolezza, forza ma senza oscurita, velocità inarriva-
bile ». Al di là di questa esaltazione un po' generica, l'inda-
gine capillare su Sermoneta e sui centri limitrofi condotta dalla schedatura del patrimonio artistico ci ha permesso di dare nuova consistenza al corpus del pittore ricostruendo così un episo-
dio non trascurabile della cultura figurativa settecentesca di Ser-
moneta e dintorni, polarizzatasi finora intorno alla figura di Antonio Cavallucci, pittore d'elezione di casa Caetani, senz'altro più colto e raffinato del nostro, ma sostanzialmente romano di formazione e oggi pressocché inesistente — quanto ad opere — sul territorio d'origine. L'indagine su Fiorentini parte da un dato certo, che è l'atto di battesimo, conservato nel «libro dei battesimi » di S. Maria Assunta a Sermoneta, da cui il pittore, figlio di Alessandro Fiorentini e di Anna Camilla Della Valle, risulta essere nato il
4 novembre 1747?. Nulla sappiamo della sua formazione che
dovette svolgersi agli inizi a Sermoneta, dove la famiglia viveva e dove il casato della madre, i Della Valle, aveva una certa rilevanza. Nella seconda metà del Settecento Sermoneta non doveva offrire un terreno promettente ad un giovane avviato alla pratica della pittura, sia per le sorti declinanti di casa Caetani (il duca Michelangelo I aveva dovuto cedere parte dei suoi beni nella piana Pontina ai Ruspoli, oltre al palazzo del Corso, nel 1712) che per la crisi progressiva del borgo, trascurato dal grande mecenatismo papale e di curia a favore dei centri della pianura vicini all'Appia, in particolare Terracina. Il pittore doveva comunque essere a Roma nel 1768, poiché cosl dichiara nell'atto di matrimonio, celebrato nel 1781, con una tale Maddalena Lanciani (Sica). Non sappiamo chi fu a livello di committenza l'elemento trainante dei suoi esordi. Ma certamente lo troviamo intorno al 1780 in un intervento romano di sicura rilevanza come la partecipazione alla decorazione del Collegio Germanico Ungarico su via della Scrofa, dove Fiorentini realizza ben sei soffitti affrescati. Quest'ala del grandioso edificio venne realizzata da Pietro Camporese e Pietro
Giovan Domenico
Fiorentini da Sermoneta
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Belli nel 1776 e una nota del Chracas del 18 settembre 1779 la dice già terminata nelle strutture murarie. Il palazzo ebbe quindi una decorazione all'interno cui partecipò anche. Giacchino Agricola, e doveva essere terminata nel 1784 quando Pio VI ne prese visione. i È È quindi nei primi anni '80 che Fiorentini realizzò i suoi
soffitti con alcune scene in cui il nobile stile all’antica del pontificato Braschi si mescola ad un mitologismo zaif in versione spiccatamente disegnativa. Due di questi interventi al primo piano sono firmati, e cioè la scena con un Carro mitologico (fig. 1) che reca sulla ruota la scritta « Dominicus Fiorentinus Sermonetanus inv. et pin. » ed un’altra con la Guerra e la Pace sul cui manto spicca evidente l’iscrizione « Fiorentini » (fig. 2). Ma nello stesso piano altre tre scene, l'una con Due ninfe in fuga (fig. 3) e un’altra con Geni delle arti rivelano senza possibilità di dubbio la cifra stilistica del nostro pittore. E.al secondo piano un soffitto con Diana circondata da putti (fig. 4) ed un'altro, parzialmente mutilo con L'Azrora sono -così simili alle scene firmate da potergli essere senz'altro attribuiti. Figurazioni ingenue ma non prive di freschezza nel loro candore programmatico e profano che ben si adeguava al palazzo destinato ad ospi-
tare il clero dei paesi germanici, rinnovati dal laicismo illumi-
nista di Giuseppe II. Stilisticamente i dipinti si dimostrano molto affini: alla tela con il Beato Tommaso da Cori nella cattedrale di Gori (fig. 5) firmata e datata 1786. Il dipinto fu realizzato ‘confptobabilità in occasione della beatificazione di Tommaso, avvenutail 13 settembre di quell’anno, e meritò l’apprezzamento: dello stesso Pio VI che — come racconta il Chracas — lo vide compiuto nel convento dell'Aracoeli in una visita del 4 ottobre 1784 *. Il Fiorentini risiedeva stabilmente a Roma come indicano gli Stati delle anime dei SS. Quirico e Giulitta? e qui lavotava, anche se, come vedremo, molto frequenti sono gli invii di opere nella sua terra d’origine. Nel dipinto ricordi molto generici del barocchetto, che Domenico avrà conosciuto a Sermoneta e dintorni attraverso i modi del Conca e della. sua scuola, si aggiungono ad aggiornamenti soprattutto in linea con: Do-
menico Corvi, dominatore incontrastato, dopo la morte del Ba-
toni, della scena romana sulla fine degli anni Sessanta: La sua maniera ben coniugava l’estrema eredità dell’accademia :marattesca con riprese sostanziali dai secentisti emiliani e con il gusto per una pittura austera, nobile ed erudita sulla scia di quanto veniva teorizzato da Mengs e ricercato a Roma, dalla committenza colta ed internazionale. E il dipinto echeggia, infatti, la tela del Corvi con la Visione di S. Lorenzo da Brindisi nella chiesa veneziana del Redentore, ed anche stilisticamente certi
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grafismi di stesura richiamano i modi del maestro viterbese.
Su queste basi, sembra possibile attribuire al Fiorentini anche una Crocefissione (fig. 6) rimasta finora senza nome nella chiesa di S. Michele Arcangelo a Sermoneta, e di cui un'iscrizione presso l’angolo destro ci fornisce la data di commissione, il 1799, e il nome del committente, un tale canonico Andrea Bozzo. Il tema classico della Maddalena inginocchiata o della Vergine riversa ai piedi della Croce ha naturalmente precedenti illustri tardo secenteschi che vengono qui ripresi in chiave di partecipazione affettuosa e waive come in una sacra rappresen-
tazione di paese. Tornano del resto quelle accentuazioni lineari dei panneggi che abbiamo già notato nel quadro di Cori, le fisionomie piene e delicate dagli occhi piccoli e pungenti, i profili sottili e molto caratterizzati (come quello del S. Giovanni) E proprio
assonanze con questo dipinto e con quel-
lo, firmato, di Cori possono giustificare l'attribuzione al Fiorentini della Madonna del Rosario (fig. 7) oggi presso la col-
legiata dell'Assunta a Sermoneta, proveniente dalla stessa chie-
sa di S. Michele Arcangelo. Il dipinto è stato purtroppo dan-
neggiato da un vecchio e maldestro restauro che ha abraso selvaggiamente la superficie pittorica, e da successivi rifacimenti, al punto che la sua leggibilità è irrimediabilmente compromessa. Impossibile, quindi, giungere a conclusioni certe sulla sua paternità: ma a ben guardare alcuni particolati più integri come il profilo capriccioso e sottile del S. Francesco, o le teste di S. Giuseppe e della S. Caterina rendono plausibile l’attribuzione a Fiorentini, proposta, come si è accennato, da Federico Zeri in una vecchia foto della Soprintendenza . Così avviene anche per il particolare dell'angelo che porge a piene mani le corone del rosario, unico elemento ingenuo in un dipinto che per il taglio d’insieme e la stesura doveva imporsi (lo testimoniano i pochi brani leggibili) per una sicura dignità formale. Fra il 1787 e il 1793 Domenico Fiorentini partecipa con una sovraporta all’ultima grande decorazione neoclassica romana del
Settecento: quella del piano nobile di Palazzo Altieri (fig. 8)”. Nella camera da letto estiva del nuovo appartamento, il cui programma
decorativo era stato studiato per Emilio Altieri dal-
l’abate Vito Mario Giovinazzi, profondo conoscitore della filo-
logia, Domenico lascia infatti una tela con Apollo e una ninfa e dimostra assai più dei suoi compagni nell’impresa Mannaioni, Leopardi e Stefano Toffanelli, autori delle altre sovraporte e
già nobilmente immersi nella cultura del « quadro storico », il nocciolo ancora arcadico-rococó della sua cultura. Nato nel 1747 il Fiorentini è infatti un pittore già anziano nella compagine di artisti militante alle soglie degli anni Novanta, e il carattere
seduttivo e disimpegnato dell’ultimo barocchetto romano che
Giovan Domenico
Fiorentini da Sermoneta
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ha la sua punta massima nella distillata pittura di Stefano Pozzi, doveva apparite alla sua natura di provinciale assai più semplice da seguire che nonil nuovo linguaggio, ancorato ai valori
morali e figurativi desunti dall'antico. E certamente gli furono
di stimolo anche le grazie raggelate dei marchigiani Ceccarini e Lapis (quest’ultimo, del resto, maestro del Cavallucci) e quanto
prodotto dal gruppo dei pittori attivi entro il 1783 in S. Cate-
rina in via Giulia e poi a Palazzo Borghese: Tommiaso Conca, Parrocel, Monosilio e, ancora, Corvi e Lapis. Tutto ciò si desume con chiarezza ancora maggiore dal bel dipinto di S. Bartolomeo all’Isola con S. Francesco che appare a s. Bonaventura da Bagnoregio firmato e datato 1796 in S. Bartolomeo all’Isola, l’unico universalmente noto del pittore * (fig. 9). La scena è costruita secondo lo schema su diagonali di estrazione ancora
tardo barocca, ma soprattutto il carattere teneramente effusivo delle figure rimanda (ad una data così tarda!) alla. cultura di
metà secolo, con qualche ricordo degli aggraziati e domestici
ammiccamenti di Francesco Mancini. La tela è senza dubbio
uno dei risultati più colti e notevoli da un punto di vista qualitativo lasciatici dal Fiorentini e si assimila bene ad-un altro
dipinto inedito conservato nella chiesa di S. Giovanni Evangelista a Giulianello presso Cori. Si tratta di una Madonna del Rosario (fig. 10) rimasta finora senza nome: anzi la costruzione tradizionale della scena secondo l’iconografia domenicana, con
i misteri del Rosario in alto e i Santi Domenico e Caterina che ricevono le corone dalla Vergine, ne ha favotito una datazione
precoce, al secolo XVII?. Ma presso l'angolo inferiore «destro
della tela è comparsa, grazie al recente restauro, la firma del pittore « Fiorentini p. » preceduta dal nome del probabile com-
mittente locale « Gio Battista Galestruzzi ». Manca. al con-
trario un'indicazione cronologica, ma le tipologie e la tratta-
zione morbida e fusa dei piani e delle ombre — sia pur in un contesto di solida base disegnativa —
fanno pensare ad una
data vicina alla sovraporta di Palazzo Altieri o al dipinto di
S. Bartolomeo (e quindi agli anni Novanta) anche se l'esecuzione è decisamente meno studiata, forse a causa della destina-
zione provinciale dell’opera. È del resto più che verosimile che il pittore ricevesse frequenti commissioni dalla sua zona d'origine, mentre, come si è detto, l’altro sermonetano Antonio Cavallucci, di cinque anni più giovane, seguiva sotto l’egida dei
Caetani un percorso diverso e privilegiato che lo avrebbe por-
tato subito all'Accademia di S. Luca, agli ateliers di Batoni e di Mengs e al giro della grande committenza aristocratica.
D'altro canto, lo stesso rarefarsi della produzione pittorica
di carattere religioso che si verifica a Roma fin dall’inizio dei torbidi rivoluzionari (e quindi dall'ultimo decennio del Sette-
366
Angela Negro
cento) spinse probabilmente il pittore alla ricerca di commissioni locali, privilegiando, naturalmente, la sua zona di provenienza. Una vicenda comune a molti artisti di gran lunga più
dotati e inseriti di lui come Corvi e Leopardi, che dovettero
sulla fine del secolo cercare commissioni e mercato in ambito provinciale. E ancora a Cori, infatti, nella chiesa di S. Pietro, è conservato un ritratto del Beato Tommaso da Cori (fig. 11) firmato e datato sul verso della tela dal nostro Fiorentini nel 1793, opera in cui la modestia qualitativa è forse da porsi in
relazione proprio con la destinazione periferica e meramente
devozionale ‘1, Nel decennio seguente, il primo del nuovo secolo, non mancano notizie sull'attività del Fiorentini, concentrata per lo più sulla produzione religiosa, anche se nessuna delle opere segnalate & giunta fino a noi. Già nel 1795 il Chracas menziona la
sua partecipazione alla decorazione dell'Oratorio di S. Franceschino alle Tre Immagini alla Suburra, con quattro quadri rea-
lizzati in soli venti giorni ?. Dipinti perduti, a quanto mi risulta, con la demolizione della chiesa avvenuta nel 1884. Nel 1803
e nel 1804 Fiorentini lavora per due « macchine » delle Quarant'ore esposte nell'oratorio del Caravita, raffiguranti l'una la
Comunione di s. Maria Egiziaca e Valtra il Buon Pastore, e di cui non ci è rimasta traccia, se non nella minuziosa descrizione
del Chracas ©. Sempre del 1804 è il restauro dei dipinti del tabernacolo del Ciborio di S. Giovanni in Laterano, riferitoci dal Moroni “, Di tutt'altro impegno, infine, dovette essere la decorazione
dell'abside della chiesa dei SS. Quirico e Giulitta, con « figure colossali » terminata l'8S settembre 1805 5. Anche di questo intervento non ci é rimasto nulla essendo state le pitture eliminate dai rifacimenti dell'interno della chiesa risalenti alla metà del secolo scorso, ma proprio i commenti entusiastici del
« Diario ordinario » ce ne permettono in qualche modo una
ricostruzione. Ci viene riferito infatti che « il celebre Fiorentini sermonetano con genio e gusto senza pari in pochissimo tempo ha tirato a perfezione non solo le figure colossali [...] ma quadri numerosi con vatie figure ». Il che farebbe pensate ad un sistema decorativo monocromo (pià oltre si parla infatti di « mezze tinte ») in cui grandi figure a mo' di finte statue si alternavano a vere e proprie scene simulanti dei rilievi, con tanta verosimiglianza che «lo spettatore resta del pari ingan-
nato e contento ».
La generale ripresa delle commissioni artistiche che coincide con il periodo della dominazione napoleonica a Roma (18091812) sarà ricca di occasioni per l'ormai anziano pittore di Sermoneta. Nel 1809, infatti, egli partecipa con tre quadri alla
Giovan
Domenico
Fiorentini da Sermoneta
367
esposizione-concorso in Campidoglio che sarà comune banco di prova degli artisti romani e francesi in previsione della deco: razione napoleonica del Quirinale 5. Dei suoi dipinti per il concotso non c'é più traccia, ma gli stessi soggetti, una Venere e
una Diana dormienti, e un «ritratto di vescovo greco » sembrano indicare come il Fiorentini non si allineasse nei contenuti al prevalente orientamento in senso eroico, dottrinario e davi-
diano della pittura di soggetto profano a Roma sul finire degli anni Novanta, orientamento che ben si prestava ai fini propa-
gandistici dei governanti francesi. Egli venne tuttavia scelto come restauratore. e decoratore dalla commissione preposta alla decorazione del Quirinale, dove figurano con ruolo determinante oltre al Canova, Gaspare Landi e Vincenzo Camuccini.
E in quest'ambito gli toccherà in sorte di intervenire, ritoccandolo, nientemeno che sul celebre fregio della Sala Regia di Agostino Tassi, Lanfranco e aiuti, e sui dipinti, altrettanto significativi, di Antonio Carracci e Gentileschi, del Tassi nelle. sale
vicine,
ribattezzate come
«anticamere
dell’imperattice ». E
ancora, con Felice Giani « caporale di una napoleonica scapigliatura » come lo definì il Longhi, Fiorentini lavord nel
« secondo salone dell'imperatore » a ribadire un legame già stabilitosi probabilmente all'epoca di Palazzo Altieri ”. La scomparsa di quasi tutte queste decorazioni, eliminate dal tristissimo assetto dato al palazzo dalla Restaurazione, e da quello falsa-
mente fastoso della fase sabauda, non ci permette di seguire
lo sviluppo del nostro pittore, e possiamo solo immaginare il suo allinearsi con il taglio generale della decorazione, che recuperava storie e valori della classicità per rendere il Quirinale la seconda reggia dell’impero. I quattro medaglioni circondati da putti che campeggiario al
centro dei fregi con paesaggi del Tassi, sono l'unica traccia ti-
masta dell’intervento al Quirinale del Fiorentini (figg. 12-13). Nei finti rilievi color bronzo, di spiccato gusto antiquariale il disegno si fa nitido e scandito: ritorna così quell’accentuazione di profili e contorni che abbiamo visto predominare soprattutto nella produzione degli esordi, ed è qui esaltata da una :sapiente illuminazione dal basso.Un intervento certamente non esteso ma che rivela insieme ad un’esperienza ormai consumata di decoratore, un deciso aggiornarsi con il gusto all’antica che fu nota comune a tutta la schiera di pittori e scultori attivi nel
palazzo, e si svolse probabilmente sotto le stringenti direttive
: della commissione imperiale. Finita la produttiva fase dei lavori del Quirinale; tutti concentrati nel 1812; Fiorentini, ormai settantenne, vede probabilmente rientrare la sua attività nei limiti di un mestiere certo sperimentato, ma non sempre ricco di consensi. Gli resta, be-
368
Angela Negro
ninteso, la consueta risorsa delle commissioni locali e in questo senso va probabilmente considerata l’ultima sua opera nota, un’Addolorata nella chiesa di S. Nicola a Bassiano (fig. 14) firmata e datata sul retro 1811: piccolo dipinto devozionale non privo di una certa catica espressionistica *. E a lui (ma in data, credo, decisamente anteriore) si deve gran patte della decorazione dell'Oratorio dei Battuti presso Santa Maria Assunta a Sermoneta, come indica la scritta « Fiorentinus » ancora leggibile presso la scena con S. Carlo Borromeo (fig. 15). A Roma il clima artistico della Restaurazione, con il deciso rinvigorirsi in senso selettivo della cultura accademica coincidente con una nuova e consistente richiesta di opere di soggetto sacro, non dovette
offrirgli prospettive significanti e in questo senso è quanto mai
eloquente una sua lettera a Melchior Missirini, Segretario del-
l'Accademia di San Luca dopo il 1813, conservata nell’Archivio Storico, in cui il pittore chiede l'ammissione all'Accademia: « Domenico Fiorentini, avendo dipinto la chiesa di S. Chierico
con comune applauso, altra mercede non desidera di avere l’alto onore di essere arrolato fra li membri dell’Accademia di San
Luca, tanto spera nella sua valevole protezione » ©. Richiesta inascoltata, poiché il nostro pittore non risulta essere stato mai ammesso nel corpo accademico, e che indica sostanzialmente come dopo quarant’anni di attività egli fosse ancora alla ricerca di conferme qualificanti per il suo ruolo professionale. E in questo senso va probabilmente inteso anche il rilascio a suo fa-
vore di una « patente di pittore figurista del Campidoglio » il
24 febbraio 1820”. Un riconoscimento guadagnato probabilmente con qualche intervento di decorazione nei palazzi capi-
tolini forse simile a quelli compiuti al Quirinale. Il documento
resta a tutt’oggi l’ultima testimonianza prima della morte (26
aprile 1820) ? nel lungo percorso del pittore di Sermoneta che
soprattutto con la conoscenza e la valorizzazione della produzione artistica sparsa sul territorio ci è stato possibile rico-
struire. Un episodio sconosciuto e significante, specie in ambito
locale, per il graduale aggiornarsi della cultura figurativa dagli ultimi esiti del barocchetto alla piena affermazione del linguaggio neoclassico.
Note 1 L'unico studio aggiornato sul Fiorentini, relativo alla sola produzione tomana ed in particolare agli interventi al Quirinale si deve a c. SICA, in I/ Pzlazzo del Quirinale. Il mondo artistico a Roma nel periodo napoleonico, a cura di M. Natoli e M.A. Scarpati, II, Roma 1989, p. 41. Della stessa autrice è la voce nel Dizionario biografico degli italiani, 48, Roma 1997, pp. 142-143. In
1. G. Domenico
Fiorentini, Carro mitologico.
Roma,
Collegio Germanico Ungarico.
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3. G. Domen i co Fiorentini, Due
4. G.
Domenico
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F iorentini, D iana. Roma,
Colleg io Germanico Ungarico.
5. G. Domenico
Fiorentini, Miracolo
del beato Tommaso
da Cori. Cori, cattedrale.
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7. G. Domenico Fiorentini (attr.), Madonna del Rosario con i santi Gius eppe, Francesco, Gerolamo, Domenico e Caterina. Sermoneta, collegiata dell’ Assunta.
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8. G. Domenico
Fiorentini, Apollo
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ninfa. Roma,
Palazzo
Altieri.
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Roma, S. Bar-
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10. G. Domenico
Giul ianello, Ch iesa di S. Giovann
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11. G. Domenico
Fiorentini, I] beato
Tommaso
da Cori.
Cori,
Chiesa
di S. Pietro.
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12 e 13. G. Domenico Fiorentini, Medaglioni con finti bassorilievi. del Quirinale, Prima Sala di Rappresentanza, fregio.
Roma,
Palazzo
14. G. Domenico
15. G .
Fiorentini, Addolorata.
Bassiano,
Domeni ico Fiorentini, Croce fissione fra i i SS. Pie tro e Paolo.
S. Nicola.
Sermoneta, Oratori 10 dei Battuti.
Giovan
Domenico
Fiotentini da Sermoneta
369
precedenza: THIEME BECKER, XI, ad vocem 1915 p. 596 (ma il pittore è creduto erroneamente secentesco); A. SCHIAVO, Palazzo Altieri, Roma 1964, pp. 130-131; S. RUDOLPH, La pittura del ‘700 a Roma, Milano 1983, pp. 260 e 765. 2 Sermoneta, Archivio della Collegiata di S. Maria Assunta, Registro dei battesimi 1735-1752, £. 64 «Anno Domini 1747 die 4 9bris Dominicus Annorum Thomas Franciscus filius Alexandri Florentini et Anne Camillae Valle de Sermoneta huius Patochiae Coniugium natus hodie, est rite baptizatus p. r.d. canonico Bucii, Matrina fuit D. Laurentia Pitij ».
3 Per il palazzo del Collegio Germanico Ungarico: A. STEINHUBER, Geschichte
des Collegium germanicum bungaricum in Kom..., Freiburg 1895, passim; R. BOSEL-J. GARMS; Die Plansammlung des Collegium Germanicum: Hungaricum in «Rômische Historische Mitteilungen», Roma-Vienna 1981, pp. 335-384; Guide rionali di Roma. Rione VIII, S. Eustachio, parte III, a cuta di Cecilia Pericoli Ridolfini, Roma 1984, pp. 48-60. La guida della Pericoli Ridolfini menziona uno degli affreschi del Fiorentini e la firma, pur ritenendo che appartenga ad un pittore secentesco. Per il resto l'intervento del nostro pittore nel palazzo é totalmente inedito. 4 Diario Ordinario, Roma, 7 ottobre 1786, pp. 14-16: «Il seguente martedì 4 del cortente ottobte ricorrendo la festa del serafico patriarca s. Francesco
d'Assisi il s. padre col servizio del semipubblico si portó a detta chiesa [S. Maria in Aracoeli]. In tale occasione il s. padre si degnó di ossetvare un qua-
dro da altate collocato in nell'appartamento del riferito p. generale rappresentante il novello b. Tommaso da Cori in atto di comunicare in tempo che celebrava il s. sagrificio della messa, fatto dipingere ad olio dal r.r.p. Luca Monti romano postulatore generale di quell'Ordine, dal sig. Domenico Fiorentini di Sermoneta, il quale in breve sarà spedito per essere collocato nella chiesa de’ padti min. osservanti di Cori. La tela à firmata “Domenicus Fiorentini Sermonetanus Pinxit 1786" ». 5 sica, in Il Palazzo del Quirinale, p. 41. Il pittore è registrato negli Stati delle anime della Parrocchia dei SS. Quirico e Giuditta, conservati nell'Archivio del Vicariato, dapprima a Tor de’ Conti alla Colonnacce e poi a « Piazza del-
la Carretta » dove vive con la moglie Maddalena Lanciani e due figlie.
6 Scheda di catalogo redatta da P. Cannata consultabile presso la Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Roma. 7 scHIavo, Palazzo Altieri, pp. 130-121; AA.vv., Palazzo Altieri, Roma 1991, p. 243 (la parte sulla decorazione neoclassica è di G. Casale). 8 Per il dipinto cfr. G.A. GUATTANI, Memorie enciclopediche romane, IV, Roma 1806, p. 142; THIEME BECKER, op. cif., p. 596; PARSI, Chiese romane, s.d., p. 53; W. BUCHOWIECKI, Handbuch der Kirchen Roms, 1, Wien 1967, p. 443; RUDOLPH, La pittura, p. 765. Dalla guidistica vengono correntemente attribuiti al Fiorentini anche i due laterali con la Stigmatizzazione e la Morte di s. Francesco. L'attribuzione sembra tuttavia decisamente da respingere sul piano stilistico, come fa il Guattani (fonte assai attendibile perché di soli dieci anni posteriore alla decorazione della cappella) che cita il solo dipinto dell’altare. Anche la Rudolph attribuisce al Fiorentini soltanto il quadro sull’altare. i 9 Scheda di catalogo redatta da P. Cannata nel 1971 consultabile presso l’Archivio della Soprintendenza ai beni artistici e storici di Roma e del Lazio. 10 Per l'attività del Cavallucci nel suo complesso si veda il bell'articolo di s. RÔTIGEN, Antonio Cavallucci, un pittore romano fra tradizione e innovazione, in « Bollettino d’arte », LXI, 1976, pp. 193-212 e Antonio Cavallucci, in Dizionario biografico degli italiani, XXIII, Roma 1979, pp. 1-5. H Il dipinto era nella casa del santo e si trova oggi nella chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Cori. Sul retro è l’iscrizione: « Dom. Fiorentini pin. Roma 1799, ex dono O. Marci Stampiglia Davanzi. Vera effigies beati Thomae a Cora, Sec. Ord. Min. Regul. Obs. S. Francisci, obiit die II ian, an. 1729 aetat. An. 74 ». Si confronti in proposito la scheda di catalogo redatta per la Soprintendenza ai
beni artistici e storici di Roma da P. Cannata nel 1971.
2 Diario ordinario, Roma 1 novembre 1795, pp. 3-4: « Metcoledi 28 dello scaduto ottobre fü riaperto solennemente e collo sparo de’ mortaretti dopo essere stata chiusa per qualche tempo la chiesa, o sia oratorio della ven. archic. -de’ Minimi di s. Francesco di Paola a’ Monti. Questa-antichissima chiesa già detta delle Tre Immagini alla Suburra avea già da gran tempo bisogno di essere tistaurata: lo che è stato finalmente eseguito con la massima proprietà e sole-
370
Angela Negro
citudine da' confratelli della sud. archiconfr. e da altri pii benefattori che vi hanno a tale effetto contribuito rispettabili somme d'elemosine. Il celebre pittore sig. Domenico Fiorentini ha inventato e dipinto in essa quattro quadri di palmi dodici l'uno, nel compendioso spazio di 20 giorni, ove ha dato saggio del suo franco pennello, e del suo dilettevole colorito con applauso generale, ed il sig. Francesco Mezzetti, uno di que’ confratelli vi ha distribuito ed effettuati tutti gli ornati a pietra naturale, e quant'altro in essa scorgesi di colorito, il tutto con approvazione comune degli intendenti ». Per le vicende dell'Oratorio, oggi distrutto, cfr. L. BARROERO, Mozzi, III, Roma 1982, pp. 56-58. 35 Diario ordinario, Roma, 16 febbraio 1803, pp. 13-15, « Essendo soliti i confratelli dell'Oratorio della ss.ma Comunione generale detta del Caravita di fare nei tre giorni di lunedì, martedì e mercoledì dopo la domenica di sessa-
gesima 14, 15 e 16 del corrente febraro la solenne esposizione del SS.mo Sagramento
in maestosa comparsa in vaga machina
rappresentante
un qualche fatto
della sagra scrittura o altro, nell'anno presente hanno prescelto quella di S. Ma-
ria egiziaca, fatto tanto celebre e rinomato nei fasti della Chiesa cattolica [...] e che dagli storici dopo esser stata descritta per una pubblica peccatrice guidata dall'incauta gioventà di Alessandria, e che poi giunta all’anno vigesimonono dell'età sua sdegando i di lei enormi disordini passò in Gerusalemme ove nel giorno della SS. Croce volendo entrare nel sagro tempio da mano invisibile fu arrestata [...] In alto vedevasi il sagramentato Signore tra immensa luce, ed abbasso presso il Giordano S. Maria egiziaca che vien comunicata dal virtuoso
Zosimo e da un lato del deserto vedesi il leone, che con le granfie fa la fossa
per seppellirvi il corpo dell'eroina della Chiesa cattolica, allorché fu fatto cadavere. Il disegno della macchina, e delle figure sono del celebre sign. Domenico Fiorentini, fratello del detto oratorio». Ivi, 11 febbraio 1804, pp. 3-4: « Essendo soliti i confratelli dell'oratorio della SS.ma Comunione generale detto del Caravita di fare ne i tre giorni di lunedi, martedi e mercoledi dopo la domenica di settuagesima 6, 7 e 8 del corrente febraro [celebrare] la solenne esposizione del SS.mo Sagramento in vaga macchina rappresentante un qualche fatto della sagra scrittura, in quest'anno prescelsero di rappresentare la parabola detta del divin Redentore cioè il «ritorno della pecorella smarrita ». Nella detta macchina si mirava al vivo espresso da mano maestra, ilare di volto, con cuore infiammato di carità l'evangelico Pastore carico le spalle di una pecorella perduta, la quale contento riconduce all'ovile per aggregarla alle altre, che in bella disposizione ivi collocate si vedeano. Sollevando poi nell'alto gli sguardi si vedeva la sagrosanta consagrata ostia esposta in mezzo a nobile illuminata gloria, ove in realtà ritrovasi ii Pastore descritto. Il disegno della macchina, e delle figure sono del celebre sign. Domenico Fiorentini fratello del detto oratorio ». 14 c, MORONI, Dizionario di erudizione storico ecclesiastica, 75, Venezia 18401879, p. 6.
5 Diario ordinario, Roma, 14 settembre 1805, pp. 9-11. « Domenica 8 corrente dalla chiesa parrocchiale de’ SS. Quirico e Giulitta si riportó processionalmente la bella immagine del SS.mo rosario al ven. monastero di SS. Domenico e Sisto. In quest'occasione & stato numerosissimo in concorso dal popolo [sic] che dopo gli atti religiosi di venerazione verso la Vergine Madre ha dato i più significanti contrassegni di ammirazione in vedere detta chiesa di S. Quirico abbellita di vaghe e spiritose pitture. Il celebre sig. Domenico Fiorentini sermonetano n'é perito artista, che con genio e gusto senza pari, in pochissimo tempo ha tirato a perfezione non solo figure colossali che ognuna di esse un quadro compone ma eziandio Quadri di composizione numerosi di varie figure. Il
suo colorito gareggia con i primi di sì arte sublime, vedendosi l'originalità in
tutte dette figure sì nei panneggiamenti che nei nudi accoppia due cose fra loro discordi forza cioè e vaghezza; e tutto per la delle più leggiadre e belle mezze tinte, che giocando fra loro mente lo sguardo di chi la rimira: restando del pari ingannato
il fervido artista strada armoniosa appagano soavee contento. Ha
ragione a gloriarsi Sermoneta di aver dati a Roma nel secolo decimo quinto un
Tullio e Girolamo Siciolante, annoverato tra i primi col titolo di Sermoneta, nel decimo ottavo un Cavallucci; nel presente un Fiorentini, che nelle sue opere fa ammirare quiete e perfettissima armonia; di vaghezza priva di debolezza; forza senza oscurità, velocità inarrivabile ». L'intervento è citato dallo stesso Fiorentini nella sua lettera a Melchior Missirini, conservata nell'Archivio sto. rico dell’Accademia di S. Luca (vol. 169, n. 9) in cui il pittore chiede l’ammis.
Giovan Domenico
Fiorentini da Sermoneta
371
sione nel corpo accademico. La decorazione fu forse compiuta in occasione dei restauri fatti nella chiesa dal parroco Gregorio Mario Terenzi nel 1806. 16 Spiegazione delle opere di pittura scultura architettura e incisione esposte nelle stanze del Campidoglio il 19 Novembre 1809, nn. 41, 42 e 43. Cfr. anche sica, in Il Palazzo del Quirinale, p. 41. 17 M. NATOLI, M.A. SCARPATI, Il Palazzo del Quirinale. ll mondo artistico a Roma nel periodo napoleonico, Y, Roma 1989, pp. 522, 525 e 307. sica, in Il Palazzo del Quirinale, II, p. 41.
18 La tela era su un altare della chiesa di S. Maria in Piazza a Cori e si
trova oggi nella chiesa di S. Nicola a Bassiano. Sul retro è l'iscrizione « Domenico Ant. Fiorentini P. 1811 ». 19 Archivio storico dell’Accademia di S. Luca, 169, n. 9.
20 Archivio Capitolino Registro di patenti, Cred. XVI, 84, £. 170. « À dì 24
d.o [febbraio 1820] fu spedita altra simil patente in persona del sig. Domenico Fiorentini p. pittore figurista del Campidoglio e C.ra Ca.p.na p. tutti li lavori che occorreranno ». 21 Archivio storico del Vicariato di Roma, SS. Quirico e Giulitta, Liber mortuorum 1820, 26 Aprile n. 746: « Dominicus G. Alexandri Fiorentini Sulmonatis [sic] in Latio diocesis Latinae huius par. e vit dum vixit Magdalenae Lanciani tom. aetatis suae annorum 73, repentino morbo correptus suscepts sactamentis poenitentiae et extreme unctionis in commendatione animae animom Deo
reddidit domo sita in Platea vulgo delle Carrette n. 3 et in hac p.ali ecclesia sepultus... ».
Carla Ghisalberti La decorazione architettonica a Valvisciolo I cantieri cistercensi e i loro riflessi sul territorio
Le origini dell’abbazia di SS. Pietro e Stefano di Valvisciolo hanno rappresentato fino ad oggi una questione molto controversa’. Che l'insediamento sia molto antico e che su di esso si siano stratificate nel corso dei secoli diverse. fasi di intervento
sembra essere dato ormai accertato. Come pure appare evidente
ad una analisi anche sommaria delle strutture che certe caratteristiche costruttive riconducano in modo diretto all'ambito cistercense ?. L'argomento del contendere verte semmai proprio su un problema di cronologia, ossia non sembra finora esserci stata sufficiente chiarezza su quelli che furono gli avvicenda-
menti dei diversi Ordini alla guida dell’abbazia, avvicendamenti che tuttavia inevitabilmente hanno lasciato un segno tangibile tra le mura di questa abbazia. Nel caso del: complesso mona-
stico di Valvisciolo le fonti documentarie ? non costituiscono, se non in minima parte, un punto di riferimento solido per la let-
tura del monumento, di conseguenza è giocoforza avvalersi solo
della testimonianza di ciò che oggi costituisce l’abbazia stessa, che quindi diventa in questo tipo di analisi monuménto-docu-
mento.
A proposito dell'abbazia di Valvisciolo furono due principal mente le questioni che contribuirono a generare confusione sulle vicende di questo insediamento. Da un lato il curioso silenzio delle fonti, in particolare proprio quelle di pertinenza cistercense, che citano una abbazia di Valvisciolo:solo a partire dal Quattrocento *, e dall'altro alcune emergenzedi tipo decorativo che parrebbero rimandare invece più direttamente all’ambito templare (si tratta di croci patenti, simbolo déll’ordine:di Malta, che ancora oggi si ripetono più volte in alcuni ambienti monastici e sulla facciata della chiesa), hanno suggerito in passato una ipotesi alternativa a quella che vede Valvisciolo fondazione cistercense a tutti gli effetti, legando l’abbazia invece ad una
committenza templare ?. Sotto il profilo storiografico e documentario, la tesi che già
374
Carla Ghisalberti
dà credito all'origine cistercense di Valvisciolo giustifica il silenzio delle fonti su una fondazione che porti questo nome, almeno fino al Quattrocento, con la coincidenza sul finire del sec.
XII dei monasteri cistercensi di Marmosolio e di Valvisciolo (a tale proposito si pud rimandare al contributo di Lidia Mione, nel quale si dimostra
anche dal punto
di vista documentario,
una sovrapposizione dei due toponimi ab origine). L'ipotesi alternativa connessa all'ambito template che vuole
la presenza dell'Ordine nell'abbazia fino ai primi anni del Trecento, si fonda per contro proprio su una lettura in negativo delle fonti (laddove si tace sull'appartenenza cistercense del complesso, viene a rafforzarsi necessariamente il credito assegnato al versante templare), nonché sulla presenza di quegli elementi
decorativi presenti qua e là nel monastero, cui si è già fatto riferimento °. Dunque anche in questo contesto ancora una volta si torna alla lettura del monumento come documento. Ma a questo punto possono sorgere spontanee due domande. Sono sufficienti gli elementi di matrice templare riscontrati nell'abbazia ad assegnare l'appartenenza all'ordine di Malta tout court? 7. E ancora: se si applica una volta di più il criterio di lettura monumento/documento, sía nelle strutture architettoniche sia, per quel che compete a questo studio in particolare, nel restante patrimonio decorativo (che se si escludono le croci patenti, si concretizza in un ampio quanto complesso panorama di capitelli, peducci, e mensole) si puó cogliere una matrice diversa da quella templare, nella fattispecie cistercense?
Pur tralasciando per quanto possibile l'aspetto architettonico
analizzato in questa stessa sede da Letizia de Sanctis, per cercare di fornire una risposta a questi quesiti occorre soffermare l'attenzione sul ricco repertorio formale e tipologico della scultura architettonica nell'abbazia. All'interno della chiesa non sussistono elementi rilevanti di
decorazione:
i pilastri non prevedono capitelli, e le volte, a
parte la fine decorazione pittorica, non presentano nessun tipo di modanatura. Al contrario il chiostro offre un ricco panorama di temi decorativi che si concretizzano principalmente nei capitelli delle colonnine binate susseguentisi sui quattro lati della corte. In realtà inserti scultorei si trovano anche nella sala capitolare (i due capitelli sulle colonne a sostegno delle volte, i piccoli capitelli sulle finestre che vi si affacciano), sul portalino dei monaci, o in quello del refettorio/cucina. Anche nell'ambiente oggi utilizzato come rimessa, un tempo sala dei monaci, esiste ancora un'importante testimonianza di decorazione architettonica: un capitello su colonna che, per dimensioni e tipologia decorativa, ricorda molto quelli della sala capitolare, ma che a differenza dei quali mostra la sua incontrovertibile autenticità.
La decorazione
architettonica a Valvisciolo
375
Il problema rappresentato dal frequente insertodi parti di re
stauro a scopo integrativo, avvenuto ai primi del Novecento per volere dell'abate White, ma anche in momenti successivi non deve essere sottovalutato.
Infatti una considerevole parte del-
l'attedo scultoreo parrebbe essere frutto di una sapiente (principalmente agli occhi di chi la realizzava) quanto pericolosa ope-
tazione di reintegro in chiave strettamente filologica con il resto
dell'ambiente da parte di maestranze moderne. À tale proposito pud essere illuminante la lettura del voluminoso carteggio tra
oli abati committenti e gli enti preposti di volta in volta al re-
stauro del monumento che si protrasse fino almeno agli anni Cinquanta-Sessanta di questo secolo *. Per quello che riguarda la scultura architettonica, in particolare, spesso ci si trova di fronte a realizzazioni di così accurata fattura, particolarmente attente
e fedeli ai loro modelli più antichi, che ad occhi men che esperti risulta impossibile distinguerle come copie. In questa prospettiva di lettura, probabilmente si rivelano non autentici (se lo
fossero la loro attuale eccessiva levigatezza superficiale sarebbe
il risultato di una pulitura mal riuscita) i capitelli della sala capitolare e alcuni di quelli che sostengono gli archetti dei lati sud e nord del chiostro (in questo caso la supetficie presenta una scabrosità troppo regolare che fa pensare all’impiego di strumenti più moderni, come la bocciarda?). Di fronte a queste presumibili copie tuttavia occorre considerare che, sebbene realizzate in epoca recente, sono fortemente condizionate dal modello che sono andate a sostituire, laddove questo-si fosse rive-
lato ancora leggibile, o da forme e tipologie di elementi architettonici analoghi ed autentici. Pur non dimenticando che si tratta di copie, questi capitelli mantengono quindi uh loro valore, al quale si può fare ricorso quanto meno per una prima lettura del motivo decorativo originario, di cui ancora sono i testimonianza.
All'interno del complesso monastico, gli elementi ‘decorativi
che più degli altri sembrano attestare una loro appartenenza al periodo più antico della costruzione si riducono sostanzialmente alle due mensole del portalino dell’antico refettorio che affaccia sulla galleria meridionale del chiostro, che presentano uno schematico motivo geometrico, appena accennato, e al grande capitello che sostiene la volta della sala dei monaci, che si contraddistingue pet un certo slancio e per il caratteristico calice di foglie lanceolate terminanti in un caulicolo, anch'esso fogliato. Tanto per le mensoline, quanto per il capitello risulta quasi
automatico un riferimento a modelli di sicura appartenenza al
repertorio decorativo cistercense. Oltre ad un più generale gusto
per la forma geometrica e per l’essenzialità delle soluzioni for-
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mali che pare accomunare questi due elementi della decorazione a Valvisciolo a modelli cistercensi, nello specifico si possono istituire interessanti confronti con soluzioni analoghe che appattengono ad altre abbazie laziali: nel primo caso l'inserto lineare geometrico a V, solo accennato e privo di ogni carattere esornativo, rimanda in modo diretto ad un esempio precoce, individuabile tanto nel refettorio quanto nella porta del calefactorium di Fossanova (fine sec. XII), in realtà tale semplice motivo
decorativo presenta una sua propria diffusione di dimensioni
ben pià ampie all'interno dell'Ordine, che sconfina dall'ambito laziale o italiano. Il grande capitello della sala dei monaci, a sua volta, ripete una tipologia più volte testimoniata nei complessi monastici cistercensi: si tratta della consueta trasfigurazione in senso lineare e geometrizzante del capitello a crochets di origine borgognona che in ambito cistercense ebbe una grande fortuna. La foglia praticamente liscia, segnata solo da una venatura quasi impercettibile che tuttavia ha la funzione di rimandare per accenni al prototipo naturalistico, termina con un crocbet piuttosto semplice a foglie di palmetta appiattite, tema questo particolarmente diffuso in ambiente cistercense laziale (Fossanova e Casamari) ", Nel capitello in questione la caratteristica soluzione bidimensionale della foglia non angolare con il crochet appiattito, nonché quella sul lato contiguo in cui l’elemento vegetale si riassume in una semplice doppia voluta sono tutte te-
stimonianze della conoscenza diretta del particolare repertorio
decorativo delle architetture cistercensi, e più in particolare di
un repertorio che contraddistingue solitamente edifici piuttosto
precoci. Un'ulteriore « sigla » della matrice cistercense può cogliersi nel motivo delle griffes che cinghiano la base della colonna, soprattutto nel confronto con quelle che decorano la maggior parte dei plinti all’interno della chiesa di Fossanova. Riguardo ai capitelli del chiostro occorre notare, prima di una qualsiasi analisi in dettaglio, il loro caratteristico ripetersi in
modo seriale (in più di un caso si è di fronte alle perniciose copie volute dall'abate White e da coloro che gli succedettero nei diversi interventi di restauro !, basato in sostanza su un'unica tipologia, nella quale compare la commistione di elementi classici — le volute del capitello del tipo ionico — e di elementi più propriamente cistercensi e gotici — le c.d. foglie d’acqua. Caratteristica pressoché costante è data dalla presenza di quat-
tro foglie lisce e carnose disposte in corrispondenza degli an-
goli e da questi divergenti in modo netto. Si tratta anche in questo caso, di una tipologia di capitello che, seppure abbia goduto di una sua fortuna autonoma anche al di fuori dell'ambito cistercense, deve ritenersi a quest'ultimo legata in modo
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architettonica
a Valvisciolo
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particolare. Infatti sí tratta anche in questo contesto di un percorso analogo a quello individuato per il capitello a crochets di origine borgognona;
il tema delle quattro foglie d'acqua che
segnano le direttrici delle linee di forza di un capitello ha una
otigine ben anteriore allo sviluppo del fenomeno cistercense, tuttavia si deve proprio ai Cistercensi l'applicazione pressoché costante e ripetuta in ambiti cronologici e geogtafici anche.molto distanti tra loro di questa soluzione decorativa che, evidentemente, più di altre corrispondeva alle loro esigenze di gusto ". Queste dovevano
essere dettate essenzialmente
da una ricerca
di forme semplici e nello stesso tempo riassumibili in griglie lineari precise che fossero in grado di sottolineare la funzione statica dell'elemento architettonico sul quale venivano applicate. In tale prospettiva, la tradizione cistercense dei capitelli a quattro foglie lisce — seppute espressasi secondo molteplici vatianti — affonda le sue radici già a partire dalle prime.abbazie della metà del XII secolo, a partire addirittura dal caso emblematico di Fontenay ?.
Anche il riferimento al tipo commisto di voluta ionica e foglie lanceolate, retaggio evidente del capitello composito a foglie lisce, non deve considerarsi estranea all’ambito cistetcetise. In questo secondo caso, emblematico al pari del primo, entra in gioco un altro fattore che distingue certa decorazione plastica
da ritenersi a tutti gli effetti caratteristica per i cantieri dell’Ordine: il riferimento alla tradizione classica. Il fenomeno ebbe naturalmente riflessi anche a livello europeo, tuttavia sembra
proprio essere l'ambito italiano, e in particolare il Lazio, quello in cui la « citazione » del motivo antico conta i suoi più signi-
ficativi riflessi. Come per l'esempio del capitello a foglie lisce, anche in questo caso si assiste a una sorta di rielaborazione in chiave geometrizzante di motivi decorativi già esistenti. Nei contesti delle abbazie cistercensi laziali il riferimento a temi presi a prestito dal repertorio classico pare assumere talvolta addirittuta un valore programmatico, suggerito con molta probabilità
da una volontà di riallacciarsi ad una tradizione locale partico-
larmente radicata. Gli esempi potrebbero essere numerosi, sin a partire dai più antichi capitelli nelle finestre del Capitolo dell’abbazia romana delle Tre Fontane P, in cui il modello del capitello è quello ionico più tradizionale, fino ad arrivare ad
altri due esempi ormai pienamente duecenteschi, nella chiesa abbaziale di S. Martino al Cimino e a Ferentino nella S. Maria
Maggiote ", in cui il tema risponde più direttamente al modello del ‘capitello composito a foglie lisce. Il tema della foglia liscia, o foglia d’acqua, a Valvisciolo, come peraltro in numerosissimi altri esempi di stretta pertinenza cistercense, si ritrova espresso secondo varianti che si diversi-
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ficano tra loro anche solo attraverso particolari quasi impercettibili. Un esempio illuminante puó essere rappresentato da un capitello nel lato orientale del chiostro in cui la variante si contraddistingue per maggiore attenzione alla resa volumetrica e
all'effetto di vera e propria foglia grassa. Un analogo risultato
formale per quanto concerne il modo di realizzare le foglie si riscontra ancora una volta nel complesso di Fossanova. Pur rappresentando evidentemente una soluzione databile ad un'epoca precedente, anche il capitello nella chiesa di Fossanova si articola secondo lo schema dell'esempio di Valvisciolo; l'unica variante é costituita dalla piccola sferula sulle foglie dell'ordine
superiore che nel primo caso & assente ?. Confronti ancora pià stringenti sono quelli che possono istituirsi con i capitelli nelle
chiese di S. Maria Maggiore e di S. Pancrazio a Ferentino ?, di documentata pertinenza cistercense:
in questo caso non si pud
non notare che le affinità arrivano a rasentare l'identità. Il fe-
nomeno rappresentato dal caso di Ferentino, in particolare, costituisce una delle pià ricche testimonianze di come l'influsso esercitato in campo artistico dai cantieri cistercensi delle vicine abbazie laziali abbia lasciato traccia indelebile nella storia delle architetture di quelle zone, a partire dai primi anni del Duecento
fino alla metà inoltrata dello stesso ?.
A Valvisciolo si conta ancora un'altra variante del tipo di capitello a foglie lisce; si tratta in realtà di una sorta di momento di passaggio tra due tipi che tra loro dovrebbero essere distinti, ovvero la tipologia a foglie lisce e quella più direttamente borgognona a doppio ordine di foglie terminanti a crochets. L'esempio in questione presenta da un lato ancora la foglia lanceolata, segnata in senso longitudinale da una leggera
netvatura, ma dall'altro nella composizione generale si dispone già su due ordini sovrapposti e tra loro sfalsati.
E appunto questo schema compositivo che classifica un altro pià ampio gruppo di capitelli presenti a Valvisciolo: il tipo a doppio ordine di crochets (in realtà nel chiostro dell'abbazia laziale sussistono anche esempi in cui il tipo a foglie d'acqua si lega a quello a caulicoli, ma, in tale contesto questa ultetiore diversificazione può essere considerata, come già è avvenuto per
il capitello a doppio ordine di foglie lisce, una sorta di variante
della tipologia seguente). La derivazione borgognona di questo schema di capitello appare, rispetto alla precedente, ancora più diretta in quanto, se
per il tipo a foglie lisce non si può trovare un prototipo bor-
gognone in senso stretto (semmai si tratta di una rielaborazione avvenuta in ambito cistercense borgognone), per il capitello a doppio ordine di crochets necessariamente si deve risalite ad esempi tardoromanici in monumenti realizzati in Borgogna, ma
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architettonica a Valvisciolo
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in un primo momento estranei all'ambito cistercense ". Spetta tuttavia ai primi cantieri dell'Ordine il merito di aver provocato
anche al di fuori dei confini borgognoni e francesi la diffusione di questo tipo di capitello. A tal punto il loro ruolo si: dimostrato determinante che questa soluzione decorativaè diventata
essa stessa « signa » di autenticità cistercense al pati di quella
individuata a proposito del capitello a foglia liscia. È Nello specifico dell’abbazia di Valvisciolo si assiste ad un vero e proprio moltiplicarsi di varianti degli elementi decorativi che la compongono: in alcuni esemplari il caulicolo appare fortemente tondeggiante, in altri alla sferula si sostituisce una palmetta trifida, o ancora il crochet presenta un'accentuata articciolatura che rasenta la scomposizione in due spirali distinte e opposte. Per quest'ultimo caso non sembra improbabile propotre un confronto con uno dei peducci che si trovano nel refettorio di Fossanova, tenendo comunque presente che l'esempio di Valvisciolo va letto come un atteggiamento ormai pienamente gotico del modello fossanoviano. Confronti più stringenti, anche e soprattutto sotto il profilo della cronologia, si possono fare con un capitello nel chiostro di Casamari, con: uno nella S. Maria Maggiore a Ferentino o ancora con uno nel portale della chiesa di S. Nicola a Ceccano, tutti esempi di. più tarda lettura locale di un tema di importazione. di La terza componente di questa classificazione che riguarda i capitelli nel chiostro di Valvisciolo è costituita da quegli: esempi che si differenziano pet un tipo di lavotazione in cui l’impiego del traforo appare preponderante e, per questa ragione, si contraddistinguono per il loro forte effetto bidimensionale che conferisce loro una qualche somiglianza con la scultura altomedievale ?; ' | Lo schema tettonico sul quale questo particolare tipo di lavorazione a Valvisciolo ha trovato maggiore applicazione ‘consiste in una riduzione del modello classico corinzio a foglie d'acanto e a palmetta che in ambito laziale (in ptoposito & illuminante il ricco repertorio legato alla produzione delle botteghe cosmatesche) ebbe grande diffusione e che in ambito cistercense, in particolare, ha contraddistinto, ancora una volta, la plastica dei due più importanti cantieri cistercensi laziali di Fossanova:e Ca-
samari. Esempi duecenteschi di capitelli con palmette realizzate
a traforo si trovano nei chiostri delle due abbazie; nel caso di Fossanova, in particolare, anche nella sala capitolare e nel portale. ib ‘ Un ulteriore elemento che esula dal più stringente confronto tipologico tra i capitelli di Valvisciolo con esempi coevi o modelli e prototipi di certificata appartenenza cistercense, ma che
al pari di questo contribuisce a rinserrare 4 legami tra l'abbazia
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Carla Ghisalberti
in esame con la cultura dell'Ordine, consiste nella presenza di alcuni elementi che possono definirsi in un certo senso « extravagantes » rispetto alla sostanziale omogeneità del tessuto decorativo, cosi come si presenta oggi. Si tratta in concreto di brevi inserti plastici come rosette, gigli o pigne che si concretizzano in modo piuttosto sporadico e, a prima vista, senza un partico-
lare significato nelle maglie della decorazione architettonica che,
da parte sua invece, non sembra voler lasciare troppo spazio alla divagazione. E principalmente in tal senso che questi elementi possono definirsi « extravagantes ». Ma per quale ragione essi dovrebbero essere intesi come ulteriore contributo alla tesi che vuole attivo alla costruzione di Valvisciolo un cantiere a tutti gli effetti cistercense? A prescindere dai confronti diretti che si possono istituire con analoghi motivi a rosetta presenti in due capitelli di Fossanova ?, si deve tenere presente che proprio in ambito cistercense si era sviluppato un particolare gusto per
l'inserto iconico, apparentemente slegato dal contesto in cui appare inserito, ma più profondamente
connesso invece con la
sfera del quotidiano di un'abbazia, che poteva essere, a seconda
dei casi, l'universo del lavoro (nei campi, l’allevamento, la produzione artigianale) o della liturgia o ancora del sociale (inteso, quest'ultimo, come ristretta cerchia di una comunità di monaci). Per il loro apparire sporadico e decontestualizzato, spesso questi elementi non banno avuto la fortuna di essere notati ma, ad una analisi attenta, si pud verificare come la loro presenza nell'ambito della decorazione cistercense sia tutt'altro che casua-
le^: per es. si possono individuare vanghe in un capitello della chiesa di Chiaravalle di Fiastra, una mano che sorregge un pa-
storale in un altro esempio nella sala capitolare dell'abbazia francese di Le Thoronet, testine tonsurate al posto dei consueti
crochets a Noirlac, ma la casistica si rivela ogni giorno più va-
sta ^. Nello specifico di Valvisciolo questi elementi vegetali, sia-
no essi pigne, gigli o zucche, si contraddistinguono per un forte accento naturalistico che, se confrontato con il resto della decorazione piuttosto geometrizzante, assume ancora maggior vigore. Il richiamo all’attività agricola, o al tipo di vegetazione del luogo, in questa chiave espressiva piuttosto curiosa e ironica, sem-
bra ancora più evidente nel motivo che decora il fondo del calathos di un capitello nello stesso chiostro di Valvisciolo, nel
quale si volle alludere con molta probabilità alle onde del vicino
mare Tirreno. Analogia di tema si ritrova curiosamente nel portale di Fossanova ma anche nel portico della cattedrale di Priverno (anche qui si fece riferimento al mare, oppure al più vicino corso d’acqua, opera della bonifica cistercense in quelle zone di palude?). L’aver individuato, attraverso l’analisi del repertorio della
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architettonica a Valvisciolo
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decorazione architettonica del complesso abbaziale di Valviscio-
lo, un cospicuo numero di elementi che tanto dal punto di vista formale quanto da quello tecnico-stilistico paiono ricondurre univocamente ad una matrice comune cistercense, permette di trarre alcune conclusioni preliminari riguardo al quesito di par-
tenza concernente l'appartenenza di origine dell'abbazia. Seppure lungo il percorso di questa analisi si sia dovuto procedere essenzialmente atttraverso l'applicazione di un metodo di lettura del solo monumento, inteso come documento, non potendosi avvalere almeno in questa prima fase di approccio di
ulteriori strumenti di tipo documentario, ciononostante i risultati raggiunti vogliono dimostrare l'appartenenza di Valvisciolo
alla cultura cistercense e sembrano trovare una conferma anche da
altri fronti. Nella ricerca dei modelli appare plausibile individuare nel complesso di Fossanova, pii che in altri, la fonte di ispirazione principale, in particolare per quel che concerne le parti
del complesso individuate come le più antiche. Accanto a que-
sta, tuttavia, si & cercato di delineare anche una compagine molto più ampia che al suo interno comprende esperienze che solo indirettamente possono considerarsi cistercensi, cioè quegli edifici che non appartengono di fatto all’Ordine ma che con ogni probabilità sono stati realizzati sotto la direzione di cantieri cistercensi; tra questi possono annoveratsi il caso di Ceccano, di
Ferentino o di Priverno. Valvisciolo, in patticolare le parti del
chiostro, risente in una certa misura anche di questo altro tipo
di cultura che puó considerarsi a metà strada tra l'esperienza
locale e quella più aggiornata allo sviluppo artistico di respiro europeo, di cui i Cistercensi sono portatori. Entro la metà del Duecento, nel chiostro di Valvisciolo dunque fu attivo un cantiere, le cui maestranze avevano ricevuto una formazione in ambito cistercense — con molta probabilità proprio a Fossanova — ed erano quindi consapevoli del repertorio decorativo più direttamente borgognone, legato alle otigini dell'Ordine, ma anche e soprattutto si erano dimostrate
molto sensibili e permeabili di fronte ad un gusto che denunciava le proprie radici locali.
Sono proprio queste caratteristiche di una cultura più autoc-
tona che permettono di delineare una linea discriminante tra lesempio del chiostro di Valvisciolo e il monumento che in questa analisi rappresenta il versante sermonetano. Nella plastica atchitettonica della chiesa di S. Maria Assunta di Sermoneta già altri, a pattire da Enlart ^, in passato hanno individuato la presenza di componenti decorative che riconducono all'esperienza cistercense. Oggetto di una lettura in questa
chiave sono stati in particolare i quattro capitelli, rispettiva-
mente due nel portico e due all'interno della chiesa, in corri-
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Carla Ghisalberti
spondenza della prima campata della navata centrale, nonché i peducci e le mensole a tronco di piramide rovesciato che sostengono i costoloni delle coperture. La tipologia dei capitelli al-
l'interno della chiesa, a doppio ordine di crocbezs, e quelli nel
portico, simili per schema, seppure più rigidi nella resa complessiva, effettivamente richiama modelli che, come si notava anche in precedenza, si dimostrano piuttosto diffusi nell’ambiente delle abbazie cistercensi. Analoghi percorsi di confronto si potrebbero individuare per quel che attiene alle mensole. Come per i capitelli, la casistica anche di questo elemento architettonico supera di gran lunga i limitati confini laziali o italiani per assumere un respiro addirittura europeo. Nello specifico delle mensole a tronco di piramide rovesciato, esse possono essere considerate a tutto diritto una di quelle caratteristiche architettoniche così propriamente cistercense da essere assunta come vera e propria sigla di autenticità. Individuate quindi queste « presenze », che almeno per certi versi vanno al di là di un più generico gusto cistercense,
si è reso necessario
stabilire un pos-
sibile percorso che dimostrasse un legame tra una chiesa capitolare che apparentemente nulla lega all’ Ordine e il mondo cistercense stesso. In questa prospettiva sono state sostanzialmente due le ipotesi proposte in sede critica. Da un lato è stato gioco-forza chiamare in causa l’insediamento cistercense più vicino: la c.d. badia di Sermoneta, ovverossia Valvisciolo 7. Su un altro versante invece, il riferimento ad una matrice cistercense si è voluto vedere non diretto, ma piuttosto mediato at-
traverso l’esperienza florense?, che comunque per parte sua deve già moltissimo al linguaggio elaborato in campo architettonico nei cantieri dell'Ordine ?. Questa seconda ipotesi di un rapporto indiretto Sermoneta-Cistercensi, frutto di un passaggio attraverso l'esperienza florense, chiama in causa necessariamen-
te il repertorio architettonico e, per quel che riguarda questa analisi in particolare, la decorazione ad essa connessa, ma purtroppo, sia per le architetture sia ancora di più per l'aspetto
decorativo il limitato repertorio delle chiese florensi si rivela di scarso aiuto (in definitiva, curiosamente, non sembra esserlo
stato neanche per coloro i quali in passato a proposito di Sermoneta hanno voluto farvi riferimento per dimostrare un legame indiretto con il mondo cistercense). Per contro, dunque, potrebbe rivelarsi più credibile l'ipotesi di un legame diretto con i Cistercensi,
concretizzatosi
attraverso
il tramite
più vicino,
rappresentato appunto dall’abbazia di Valvisciolo. Anche in questa prospettiva di lettura, tuttavia, i punti di contatto che si sono voluti individuare si rivelano ad una analisi in dettaglio
ancora troppo generici e, più che altro, di superficie. In sostanza, gli unici elementi decorativi che si trovano ripetuti sia a
La decorazione
architettonica
a Valvisciolo
383
Valvisciolo sia nella S. Maria Assunta di Sermoneta in modo analogo si riducono ad essere le griffes alla base delle colonne. Effettivamente la rispondenza di un solo particolare decorativo
non sembra essere sufficiente per poter stabilire con un accetta-
bile grado di approssimazione un legame diretto tra i cantieri
di Valvisciolo e di Sermoneta. Rimane comunque aticora una volta la testimonianza fornita dai monumento/documento di Setmoneta, che non pud essere né ignorata, né sottovalutata nella sua portata. In definitiva, i citati elementi della. plastica architettonica continuano, dal canto loro, a essete documentazione di una ben più che generica conoscenza del repertorio. decorativo di matrice cistercense. I capitelli ripetono lo schema a crocheis su due ordini (di attestata derivazione borgognona, ma identificabile anche come espressione di una più generale compagine gotica), ma presentano nella resa formale del crochet motivi che lasciano trasparire l'avvenuta rielaborazione in chiave tipica-
mente cistercense: la terminazione della foglia appare schiacciata e resa in una prospettiva bidimensionale, il doppio fiore sboc-
ciato; anche il corpo stesso della foglia che si sviluppa lungo il calathos si distingue per quella sua caratteristica doppia nervatura a profilo angolato, c.d. a gambo di sedano. La presenza stessa di quella bellissima testina che sostituisce il consueto caulicolo del capitello del pilastro settentrionale all’interno della chiesa deve essere interpretata come sigla cistercense. Sebbene si tratti di tutti elementi che denunciano un legame con il mondo della decorazione architettonica cistercense, nessuno di essi, dal punto di vista della resa formale, riporta secondo un percorso diretto a Valvisciolo. I confronti vanno cercati altrove. Il tipo di capitello con foglie che presentano questa patticolare soluzione di nervatura, terminanti a crochets, e che appaiono disposte su doppio ordine sfalsato può far conto su una ampia casistica di esempi di pura « ortodossia » cistercense:
per esempio nelle parti di Fossanova dove appare predominante
ancora il gusto importato dall’esperienza borgognona di origine (la sala capitolare), ma soprattutto in Italia meridionale in abbazie come S. Maria di Ripalta in Puglia o S. Maria d’Arabona
in Abruzzo ?. Tanto Fossanova quanto i due esempi abruzzesi e pugliesi di Arabona e Ripalta, da parte loro, chiamano in causa un’altra componente che segnò la cultura artistica del quarto e quinto decennio del Duecento e che a ben vedere sembra avere riflessi non del tutto marginali anche nella decorazione architettonica di Sermoneta. Si intende con questo fare riferimento ad un fenomeno che in campo artistico è stato collegato alla compagine culturale legata alla corte di Federico II
in Italia meridionale?! ma anche a quanto si espresse in fatto d'arte nel ventennio immediatamente posteriore a quello fede-
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Carla Ghisalberti
riciano (sotto questo profilo, peraltro, ancora molto legato al precedente). In questa prospettiva di analisi si può seguire per esempio il percorso ideale di uno dei particolari che compongono i capitelli di Sermoneta, ovvero quello del caulicolo realizzato con
una variante appiattita di una foglia. La prima tappa potrebbe
individuarsi nella sala capitolare di Fossanova, quindi se ne possono cogliere repliche in contesti ormai del tutto federiciani come quello di Castel Lagopesole e di Castel del Monte
e da questi di rimbalzo si puó rimandare ad un altro caso ci-
stercense, ma che con la cultura gotica federiciana ha per suo conto più di un legame, ovvero la chiesa abbaziale di S. Galgano
in Toscana. Percorsi pressoché paralleli si individuano anche per altri particolari come il caratteristico gambo di sedano che com-
pone le foglie dei capitelli sia del portico sia della chiesa di
Sermoneta. Analoghi esempi si trovano nei due semicapitelli che sostengono la copertura nell'attuale ambiente di accesso alla chiesa di Ripalta, dove tra l'altro in un capitellino di una fine-
stra nel coro compare come a Sermoneta una piccola testa umana”. Per il motivo del doppio fiore sbocciato occorre invece
tornare in ambito laziale: nella sala capitolare di Fossanova in-
fatti sembra di poter coglierne un suggestivo precedente. Il fatto che il percorso a ritroso per trovare credibili modelli per i capitelli dell'Assunta di Sermoneta si sia snodato attraverso
ambiti contraddistinti da una pià approfondita quanto consape-
vole conoscenza del Gotico — conoscenza questa, che in Italia
ha certamente avuto un suo fondamentale punto di avvio nel cantiere di Fossanova e da questo ha poi influenzato l'ambiente
federiciano, nonché i primordi di quello angioino — sopperisce anche per Sermoneta un canale preferenziale con il cantiere
« francese » di Fossanova o quanto meno con un cantiere che,
al pari di quello, dimostrasse una maggiore maturità nel solco del Gotico pià puro e che di conseguenza si rivelasse meno sog-
getto e permeabile agli influssi dei lessici locali; un cantiere che si dimostra consapevole delle novità del Gotico transalpino, nel suo costante e sicuro riferirvisi. In tal senso un particolare dei
capitelli di Sermoneta puó parlare per il tutto: il vibrante slan-
cio nel gesto del collo che si tende in avanti, nonché l'estrema raffinatezza dei particolati somatici che caratterizzano la testina/
crochet, al punto da farla sembrare quasi animata.
La
decorazione
architettonica a Valvisciolo
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Note 1 F. MASTROJANNI;
Precisazioni sulle tre abbazie cistercensi di Marmosoglio,
Valvisciolo Sermonetano e Valvisciolo Carpinetano, in « Analecta Sacri Ordinis Cisterciensi », 15, 1959, pp. 220-264; M.L. DE SANCTIS, Insediamenti monastici nella regione di Ninfa, in Ninfa una città, un giardino, Atti del colloguio della Fondazione Camillo Caetani, ottobre 1988, Roma 1990, pp. 259-279. 2 DE SANCTIS, Insediamenti, p. 265. 3 M. RAYMONDI, Badia di Valvisciolo, Velletri 1905; P. PANTANELLI, Delle notizie storiche appartenenti alla terra di Sermoneta, 1, Roma 1911; F. CARAFFA, Il monachesimo nel Lazio dalle origini al secolo XX, in Monasticon Italiae, L Roma e Lazio, Cesena 1981, pp. 101-107; DE SANCTIS, Insediamenti, pp. 274. 276; C. CIAMMARUCONI, Vita di un monastero nella Marittima fra XIII e XVI secolo: l'abbazia di Valvisciolo, in « Benedictina », 40, 1993, 2, Pp. 383-414. 4 CIAMMARUCONI, Vita di un monastero, p. 385.
5 L. ANGELONI, Cenni istorici e topografici sull’abbazia di Valvisciolo, Velle-
tri 1863; PANTANELLI, Delle notizie storiche; R. FACECCHIA, La badia, di Valvisciolo nella sua storia, Latina 1966; R. WAGNER-RIEGER, Die italienische Baukunst zu Beginn der Gotik, II, Graz-Kóln, 1956, pp. 76-82; B. CAPONE, Vestigia templari in Italia, Roma 1979, pp. 99-103. 6 RAYMONDI, La Badia,p. 9. 7 G. SILVESTRELLI, Le chiese e i feudi dell'Ordine dei Templari e dell'Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme nella regione romana, in « Rendiconti della r. Accademia dei Lincei», 26, 1917, pp. 491-539; MASTROJANNI,: Precisazioni. Entrambi giudicano la presenza di questi inserti come semplici segni lapidari che si ripetono analoghi anche in altre fondazioni di accertata dipendenza cistercense. Cfr. in proposito DE SANCTIS, Izsediamenti, n. 29, p. 276. 8 Riguardo allo spoglio dei molti documenti relativi ai restauri che hanno interessato il complesso di Valvisciolo è in corso da patte di chi scrive uno studio più dettagliato che purtroppo, per esigenze editoriali, sarà successivo
a questo contributo.
9 p. ROCKWELL, Lavorare la pietra, Roma 1989. 10 A. BREDA, Locali dell'abbazia di S. Maria di Fossanova: refettorio, chiostro, sala capitolare, in I cistercensi e il Lazio, Atti delle giornate di studio dell’Istituto di Storia dell'Arte dell'Università di Roma (17-21 maggio 1977), Roma 1978, pp. 165-168; A. capri, Fossanova e Castel del Monte, in Federico II e Varte del Duecento in Italia, Atti della III settimana di studi di storia dell'arte medievale dell'Università di Roma (15-20 maggio 1978), Galatina 1980, 191-216. PP B. ROSSI, In memoria del rev.mo don Stanislao White, abate di Valvisciolo, Sora 1911; R. PEROTTI, Restauri nel Lazio meridionale. Il restauro nel chiostro di Valvisciolo, in « Palladio », II, 1961, pp. 79-85. 12 c, GHISALBERTI, s.v. Cistercensi, decorazione architettonica, in Enciclopedia dell’arte medievale, Milano 1993, III. 13 GHISALBERTI, s.v. Cistercensi. 14 A. CADET, Scultura architettonica cistercense e cantieri monastici, in I cistercensi e il Lazio, pp. 157-164. 15 AM. ROMANINI, La storia architettonica dell'abbazia delle Tre Fontane a Roma. La fondazione cistercense, in Mélanges Anselme Dimier, III, 6, Arbois 1983, pp. 653-695. 16 M. DE PAOLIS - M.C. OBERTI, L'abbazia di S. Martino al Cimino, in I cistercensi e il Lazio, pp. 169-176. 17 P. CIRILLO - D. RADEGLIA - M.P. SCHIAPPAROLI-BRIZIO, S. Maria Maggiore
e la cultura cistercense. La scultura architettonica, in «Storia della città », 5,
1980, 15-16, pp. 131-136.
18 R DE LUCA, Fossanova: alcuni aspetti della scultura architettonica, in I cistercensi e il Lazio, pp. 183-186. 19 I MOCCIA, Problemi della scultura ferentinate del Duecento, in « Storia della città », pp. 163-172.
20 a. CADEI, Dalla chiesa abbaziale alla città, in I cistercensi e il Lazio, pp.
281-288; A.M. ROMANINI, Appendice censi e il Lazio, pp. 289-292.
a «I Cistercensi
e la città », in I cister-
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Carla Ghisalberti
21 R. BRANNER, Burgundian Gothic Architecture, London 1960 (II ed. 1985). 2 A. CADEL, Immagini e segni nella scultura architettonica cistercense, in Presenza benedettina nel Piacentino 480-1980, Atti delle giornate di studio (BobbioChiaravalle della Colomba, 1981), Bobbio 1982, pp. 145-158. . 23 La casistica a proposito di rosette inserite come vera e propria punteggiatura in un discorso decorativo solitamente piuttosto limitato come quello cistercense è piuttosto ricca. Ciò ha infatti suggerito l’ipotesi secondo la quale que-
sto motivo doveva aver assunto per i cistercensi un preciso valore simbolico che
alcuni studiosi hanno voluto interpretare come legato alla figura della Vergine o trinitario, laddove compaiano tre rose allineate; cfr. in proposito F. ARENS, Die Tirsturize und Tympana über Portalen der Zisterzienser und Primonstra-
tenser, in Mélanges Anselme Dimier, III, 5, Arbois 1980, pp. 17-34.
24 La presenza di questi particolari decorativi, pur rimanendo una componente tutt’altro che frequente nella decorazione architettonica cistercense, si qualifica principalmente per il suo apparire quasi camuffato, per il suo porsi in
chiave ironica nei confronti dei consueti particolari della decorazione architettonica, laddove essa vi si sostituisca (al posto del caulicolo si trovano testine umane che, per grandi linee, ne imitano la resa formale). CADEI, Immagini e segni; GHISALBERTI, s.v. Cistercensi.
Cfr.
in proposito
25 CADEI, Immagini e segni, p. 153; GHISALBERTI, s.v. Cistercensi.
26 c. ENLART, Origines françaises de l'architecture gothique en Italie, in « Bibliothèque des Ecoles françaises d’Athens et de Rome», 66, 1894. 27 WAGNER-RIEGER, Die italienische Baukunst, p. 82. 28 G, TAMANTI, La chiesa di S. Maria Assunta in Sermoneta, in « Bollettino di storia e di arte per il Lazio meridionale », VIII, 1975, 2, pp. 75-92; A.M.
ARCIDIACONO, Due chiese francescane in Sermoneta, ivi, pp. 57-74.
2 c. p'ADAMO, L'abbazia di S. Giovanni in Fiore e Varchitettura florense in
Italia, in I cistercensi e il Lazio, pp. 91-98; A. cADEI, La chiesa figura del mondo, Atti del I Congresso internazionale di studi gioacbimiti, (19-23 settembre 1979), San Giovanni in Fiore 1980, pp. 30 c. GHISALBERTI, I legami culturali e stilistici tra la federiciana dell'Italia meridionale e il mondo cistercense,
the
Court
of Frederick
II Hobenstaufen
(Center
S. Giovanni in Fiore 301-375. scultura architettonica in Intellectual Life at
for Advanced
Study
in
Visual Arts-Symposium Papers XXIV, Studies in the History of Art, 44), Wash-
ington 1994, pp. 41-61.
31 Già la TAMANTI, La chiesa di S. Maria Assunta, nel proporte confronti tra le soluzioni decorative dell'Assunta e alcuni capitelli presenti nelle fabbriche di Bisceglie e Troia, ha aperto la strada verso un'ipotesi di rapporto tra il mondo
federiciano e quello di Sermoneta, filtrato dal tramite cistercense.
Dello stesso avviso sembra essere anche la DE SANTIS, Insediamenti, p. 272. 32 GHISALBERTI, I legami culturali e stilistici, p. 48.
Corrado Bozzoni Insediamenti mendicanti a Sermoneta
e nel territorio, XIII-XV secolo
In nomine Domini, amen. Anno eiusdem MCCLXVI, indictione 9, pontificatus
d. Clementis quarti anno primo, mense februarii, die 16, Johannes Sapiens de Sarmineto [...] condidit testamentum, in quo instituit suam haeredem: ecclesiam S. Mariae [...] Item dimisit [...] ecclesiae S. Francisci (de Terracina) .x. solidos: [...] fratribus Minoribus de Piperno .x. solidos: et monialibus .x. alios solidos: fratribus Minoribus de Setia .x. solidos: et monialibus .x. alios solidos: [...] frattibus Minoribus de Nimpha .x. solidos: [...] fratribus Minoribus de Velletto x. solidos: et monialibus .x. alios solidos: fratribus Minoribus de Albano
x. solidos:
fratribus Praedicatotibus de Urbe x. solidos:
fratribus Minoribus
de Campitolio .x. solidos: fratribus Praedicatoribus de Anagnia fratribus Minoribus .x. solidos: et monialibus .x. alios solidos.
.x. solidos:
Il testamento di questo devoto canonico della chiesa di S. Matia di Sermoneta, riportato integralmente dal Pantanelli*, offre
un quadro quasi completo degli insediamenti mendicanti nelle province di Marittima e Campagna intorno alla metà del XIII
secolo, attraverso una sistematica serie di lasciti alle diverse sedi (cui si aggiungono altre donazioni ai conventi di Roma ed a chiese o istituzioni della sua città e del territorio immediatamente circostante).
Le scelte. insediative
deducibili
da questo
elenco
appaiono conformi ai criteri consueti che caratterizzano l’espansione territoriale dei frati nel Duecento. I francescani sono diffu-
samente presenti, con ogni probabilità. sin dalla prima metà del
secolo, lungo il percorso della via Appia, o meglio della sua variante pedemontana lungo il fianco meridionale dei Lepini, praticata a causa dell’impaludamento del percorso antico dopo il 30° migliario, con insediamenti ad Albano, Velletri, Ninfa, Sezze e Priverno, ogni venticinque-trenta km circa, distanti una giornata di viaggio a piedi l’uno dall’altro, conformemente all’ipo-
tesi del Pellegrini che connette la formazione delle sedi primitive
all'originario carattere itinerante dell'otdine; inoltre i minori han-
no già stabilito i loro conventi di Terracina e di Anagni, pet cui dei sette insediamenti che in base al cosiddetto Provinciale vetustissimum di Paolino da Venezia (1320 circa) costituiscono la
custodia velletrensis, almeno sei risultano fondati nei primi de-
388
Corrado
Bozzoni
cenni del XIII secolo ?. Diverso è il caso dei domenicani, ricordati dal canonico Sapiente, nelle due province, con il solo convento di Anagni, a conferma della preferenza mostrata da questo ordine verso città vescovili e del suo più lento processo insediativo; in realtà i frati predicatori erano già presenti, fin dal 1220
circa, anche a Terracina, dove però il loro convento è formaliz-
zato soltanto nel 1318, e si insedieranno a Priverno nel 13311332 (il convento è menzionato come tale dal 1343) *.
I francescani da Ninfa a Sermoneta Nell’ottica di una politica insediativa legata giustificare l’assenza dei minori da Sermoneta gomentazioni particolari, stante la fondazione nel vicino centro di Ninfa, che nel XIII secolo
alle non di è il
percorrenze, richiede arun « locus » più grande e
popolato tra i castelli del territorio tra Cori e Sezze, dovendo presumibilmente tale sua preminenza proprio alla posizione lungo il tracciato del diverticolo dell'Appia, che dal castello di Ti-
vera raggiungeva Acquapuzza e Priverno, per ricongiungersi alla via consolare nei pressi della chiesa di S. Maria di Capo Selce. La tradizione dell'ordine, raccolta da Wadding *, colloca l'insediamento dei francescani di Ninfa nel settore nord-ovest, in cor-
rispondenza di uno spigolo della cinta mutaria, tra la rocca e la chiesa di S. Maria Maggiore che occupano il centro dei due lati contigui, e in prossimità di una porta: la posizione corrisponde alle tipologie consuete, essendo sovente attribuiti ai frati compiti di manutenzione e sorveglianza di un tratto di mura. Poco rimane delle strutture residenziali, che dovevano sviluppatsi su due piani, con volte a botte nel livello inferiore ?; la chiesa (S. Giovanni), ormai difficilmente ricostruibile nel suo aspetto ori-
ginario 5, preesisteva all'insediamento minorita, essendo uno degli edifici sacri connessi alla concessione alla città dell'« indulgenza delle sette chiese » da parte di Alessandro III (1159). I
frati perció dovettero ricevere in uso la chiesa, forse senza apportare alcuna trasformazione all'organismo esistente: la decorazione pittorica dell’abside, oggi quasi scomparsa, ma ancora sufficientemente leggibile all’inizio del Novecento, è attribuita all’ultimo terzo del XII secolo e avrebbe presentato uno schema
su cinque registri, fedele a modelli della tradizione bizantina *.
L’insediamento è definito ancora « loco minorum » nel testa-
mento di Pietro Loffredi del 1349’;
quarant’anni più tardi
(1388) i francescani lo abbandonarono, a seguito della distruzione di Ninfa da parte delle truppe di Onorato Caetani (1382) ed il conseguente spopolamento della città, o più specificamente per iniziativa e volontà di Giacobello Caetani, che li chiamò a Ser-
Insediamenti mendicanti
a Sermoneta
e nel:tertitorio
389
mioneta, dove ricevettero la chiesa di S. Nicola, di fondazione
duecentesca "^,” fino allora ed ancora per qualche anno (1400-
1406) avente funzioni di parrocchiale. . La chiesa di S. Nicola era collocata ome emen al di fuori della cinta muraria medievale, in prossimità della porta sudoccidentale della città (fig. 1); & difficile stabilire se, e in quale misura; i minori operarono adattamenti. o trasformazioni pet adeguate alle loro esigenze l'organismo originario, perché il complesso, nel XVIII secolo, venne pesantemente ristrutturato e i
recenti restauri, condotti tra la fine degli anni ’50. e i primi anni
'60, non hanno contribuito a chiarire le vicende della; fabbrica. Lavoti, anche impegnativi, vennero probabilmente compiuti, se si-deve: dar fede alla notizia di Theuli che i francescani trasferirono a, Sermoneta, da Ninfa, il portale del S. Giovanni, insieme
con una campana ed un oculo (figg. 2-3), del quale gia-ai tempi
del Pantanelli si era perso il ricordo ”; certo tali interventi non
ebbero lo scopo, né il risultato, di imporre all'edificio una decisa impronta medicante”, ma si adeguarono ai modelli locali, in un atteggiamento esclusivamente ricettivo, che denuncia un'epoca in cui il messaggio dei frati ha perso 1 ‘originale impatto innovativo
ed essi risultano ormai integrati nelle strutture ecclesiastiche ufficiali. La chiesa era a tre navate, con una totre campanaria
(demolita nel 1743) nel tratto anteriore della navatella destra, che probabilmente doveva replicate, sia pure in forme più mo-
deste, quelle del campanile della collegiata di S. Maria ?. Il coro
eta forsé a terminazione piatta, con due cappelle ái lati, quella a sinistra, dedicata alla Concezione “, che in base alla eduta di Sermoneta di J. Fusti Castriotto sembrerebbe coperta con una
calotta 5, l'altra dal lato opposto, di S. Giovanni Evangelista, ancora esistente; sulle navate laterali si aprivano altri altari, o cappelle5,. mentre a lato della chiesa, verso valle, furoño cteati, uno di fronte all'altro, un lungo locale coperto a- botte, ‘destinato alla congregazione dei Battenti (1508), e la sacrestia. Questa sommaria descrizione della chiesa deriva dalle scarne
notizie ‘offerte dal Pantanelli, che è appena più dettagliato sulle
trasformazioni dell’edificio alle quali assistette di-persona, tra il
1743 e il 1759 (demolizione del campanile, rifacimento della facciata, ricostruzione o restauro delle volte per create il nuovo dormitorio soprastante le navate) "". Oggi la chiesa, sconsacrata, conserva in parte, all'interno, l'aspetto « moderno » impostole nel restauro settecentesco (fig. 4), ma rimangono o sono state rimesse in evidenza tracce delle precedenti strutture medievali, che timandano a modelli cistercensi, interpretati. dalle stesse maestranze attive nel cantiere della collegiata di S. Maria Assunta (figg: 5:6) *. Le tre navate, di altezza uguale, sono divise in tre campate da pilastri compositi ‘allungati, ma di-forma irtegolare
390
Corrado Bozzoni
e diversi tra loro (anche a causa di evidenti rimaneggiamenti), con membrature pensili a supporto degli archi trasversali (fig. 7);
i pilastri sono ribattuti sui muri di perimetro da paraste, ma solo nella navatella di sinistra con una certa corrispondenza (fig. 8),
mentre a destra i sostegni a parete risultano fuori asse rispetto a quelli centrali. Inoltre, invece che con tre crociere a pianta rettangolate, approssimativamente uguali e corrispondenti alle campate, la navatella destra & coperta da quattro volte diverse, ed
un solo arco trasversale zoppo interrompe in diagonale la continuità di questo vano (figg. 9-10). Il motivo di tali anomalie più che nell’esigenza di conservare, nel corso del rifacimento, le antiche volte medievali, va cercato nella presenza e nella collocazione degli altari e forse nella volontà di mantenere un accesso diretto dalle navate alla sacrestia (o cappella), presente su questo lato; accesso oggi abolito con una tamponatura probabilmente recente. Il « restauro » settecentesco della chiesa, oltre il tentativo di ricondurre ad unità linguistica
l'edificio mediante l'uso di nuove cornici e di archivolti in stuc-
co, operd sull'altezza delle arcate, e forse sulla loro ampiezza, anche se è impossibile stabilire, senza ulteriori indagini, se allora, o già in precedenza, vennero alterate dimensioni e forma dei pilastri (fig. 11); comunque si dette luogo a un processo di trasformazioni che ripercorreva quello di S. Maria Assunta, con soluzioni in qualche modo mutuate direttamente dal cantiere della maggior chiesa cittadina (fig. 12). Ancora più dell’interno, la configurazione esterna dell’edificio dipende dalle trasformazioni operate nel XVIII secolo: la demolizione del campanile, che indubbiamente doveva costituire una emergenza nel panorama cittadino, potrebbe essere stata consi-
gliata dalle precatie condizioni statiche di questa torre, ma in verità il Pantanelli non accenna a dissesti o a preoccupazioni in proposito, suggerendo semplicemente che l'operazione sia stata condotta per conferire all’edificio una facciata « moderna » (fig. 13). Quest'ultima si trova ad una quota inferiore di qualche me-
tro rispetto al percorso di circonvallazione che costeggia la chiesa, e perciò rimane quasi inavvertita per un passante appena disattento. Il prospetto si eleva su tre piani, i primi due, relativi
all’ingresso e alle finestre della chiesa, posti al di sotto dell’at-
tuale livello stradale; il terzo, segnato da una cornice orizzontale che funge da marcapiano, corrisponde agli ambienti abitativi realizzati sopra la navata e si conclude con una semplice copertura a doppio spiovente, lasciando l’edificio senza alcuna connotazione di carattere religioso, se non per un campaniletto a vela (fig. 14) che, sullo sfondo, sormonta il nuovo ingresso del convento verso la strada. L’operazione di adeguamento mimetico all’edilizia civile così condotta dà luogo ad una soluzione insolita sul piano
Insediamenti
mendicanti
a Sermoneta e nel territorio
391
tipologico, d’altra parte coerente con il trasferimento della cura d'anime alla vicina chiesa di S. Angelo, operato fin dall'arrivo dei conventuali.
:
Il convento di S. Francesco
Il secondo insediamento mendicante in Sermoneta si deve agli
osservanti ©: un breve di Alessandro VI del 23 luglio 1495
affida a questi frati il convento extra muros di S. Francesco («unam
domui
cum
ecclesia
sub
invocatione
Sancti
Franci-
sci »). Il Pantanelli ? osserva che nell’atto di concessione papale si accenna esplicitamente ad una casa già esistente, strutturata « cum ecclesia, campanili humili, campana, cimiterio, dormitorio, refectorio, claustro, hortis, hortalitiis et aliis necessariis offici-
nis », e ne deduce che risulta cosi riaffermata la tradizione locale secondo la quale un insediamento religioso preesisteva all'atrivo dei francescani, sebbene aggiunga di ignorare quale ordine possa
avere promosso l’originaria fondazione del convento ^. D'altra
parte la ricostruzione delle eventuali più antiche vicende dell'insediamento presenta un interesse relativo, ai fini specifici di questa relazione, anche perché nessuna delle strutture o delle membrature edilizie oggi visibili sembra convincentemente. databile prima della metà del XV secolo, dovendosi pertanto presumere, se non una nuova edificazione, una totale ricostruzione intorno a tale periodo e successivamente. D'altra parte le perplessità del Pantanelli, relative alla formula di concessione, possono essere superate, riconoscendo nel breve papale la conferma di una fondazione già avvenuta da qualche decennio, come appare dal testamento di Onorato III Caetani (1478), che è, per ora, il più antico documento nel quale già si faccia cenno ad un « novo loco | incepto ad honorem beati Francisci » ?.
TI convento di S. Francesco sorge in posizione isolata e domi-
nante, ad est dell'abitato, dal quale dista poco più di un chilometro; pertanto l'insediamento risponde alla vocazione eremitica propria alle esperienze più rigorosamente pauperiste che caratte-
rizzano la rinascita francescana del XV secolo ?. Lo;schema del complesso (fig. 15) segue un modello che si pud definire pressoché normativo: la chiesa, ad unica navata e cappelle. solo sul
lato destro (opposto al chiostro), è approssimativamente orientata est-ovest, con il coro, volto ad oriente, quadrato ‘ed appena più stretto del corpo longitudinale*; davanti alla facciata si esten-
con altre tre arde un portichetto di tte arcate, che si prolunga il chiostro verso , cate, simili ma non perfettamente identiche
(figo. 16-17). Quest'ultimo (fig. 18) — cinque arcate per lato, con sedici tozze colonne e quattro pilastri negli angoli— è ac-
392
Corrado
Bozzoni
cessibile direttamente dall'esterno attraverso il lato ovest (ma l'ingresso occupa una posizione anomala tra due campate), mentre, sul lato opposto, una porta lo mette in comunicazione da una parte con la chiesa, dall'altra con il braccio orientale del convento; nella prosecuzione verso nord di questo braccio sono collocati il refettorio ed altri ambienti per la vita comune (fig. 19). Il complesso corrisponde ad un programma unitario ed organico, portato a termine, almeno nelle sue linee generali, entro il
volgere di alcuni decenni: la data del 1602, relativa agli affre-
schi nelle lunette delle volte del chiostro, costituisce il termine ante quem pet la chiusura dei quattro bracci del porticato. Anche le cappelle aperte sul lato destro della chiesa, la cui struttura muraria indica fasi costruttive distinte e diverse tra loro ^, dovettero comunque essere tutte previste, e almeno in parte realizzate, entro i primi anni del XVI
secolo (fig. 29), e pertanto
sono riferibili già alla programmazione iniziale dell'impianto. I completamenti e le trasformazioni successive, a parte poche evidenti aggiunte, sono operati in modo quasi mimetico e riguardano principalmente la realizzazione (assai ritardata, sebbene
forse prevista fin dall'origine) delle volte sulla navata Ÿ, oppure sistemazioni interne, arredi e decorazioni pittoriche (fig. 21).
Il tipo di chiesa con nave voltata a crociera ed una fila di cappelle, o una navatella, sul solo lato opposto alla posizione del chiostro (fig 22), insolito nel quadro dell’architettura mendican-
te italiana del Due-Trecento ”, era già stato adottato dai frati minori in un centro vicinissimo a Sermoneta, e nell’ambito della stessa custodia, con il S. Lorenzo di Priverno, il cui impianto, oggi quasi del tutto demolito, sembra riferibile agli ultimi anni del XIII secolo. Questa chiesa, nota da una descrizione e da alcuni disegni pubblicati da C. Enlart ? (fig. 23), presentava una navata poco più stretta di quella del S. Francesco sermonetano (m 6,20 circa rispetto a m 6,98), ma sensibilmente più corta, con
tre campate di forma rettangolare, più larghe che lunghe nel rapporto pressappoco di 1:1,3, separate dal coro quasi quadrato
mediante un arco acuto in terzo punto”. I quattro vani aperti sul fianco destro, che evidentemente avrebbero alterato il ritmo regolare della navata, scandito da robusti archi trasversali sot-
retti da semicolonnette addossate ai pilastri, introducendo un asimmetrico approfondimento laterale, sembrano essere stati previsti solo nel corso di un successivo ampliamento dell’impianto, tra l’altro forse rimasto incompiuto. L’analoga disposizione dei vani laterali nella chiesa di Sermoneta * (fig. 24) dà luogo co-
munque ad un esito diverso e inconfrontabile, che esclude l’ipotesi di indicarne nell’esempio sopra descritto il modello, perché qui gli archi delle cappelle sono semplicemente ritagliati sulla
parete, che così rimane una superficie piana e continua, coerente
Insediamenti mendicanti
a Sermoneta € nel territorio
393
con la copertura a. capriate. Le più tarde volte a crociera, se et. fettivamente realizzate alla fine del XVII secolo, non implicano una ristrutturazione in senso barocco del vano, né si coordinano con le cappelle, impostandosi invece su peducci triangolari del tutto svincolati dalla posizione delle aperture ‘di queste ultime, i
quali richiamano esempi quattrocenteschi* e danno l'impressione non di essere gravati dal peso delle coperture, ma di ancorare al muro queste volte tese e leggere. In definitiva se.il S. Lorenzo denuncia in modo immediato la sua pertinenza ad. un'area tematico-linguistica connessa ai rigorosi schemi geometrici dei costruttori cistercensi, solidamente radicati nella realtà locale, il S.
Francesco di Sermoneta parla un linguaggio diverso, più. ‘semplice
e più nuovo, quello della chiesa-fienile, a nave uhica coperta a tetto; ed enche attraverso le successive trasformazioni della strut-
tura ideale di semplicità, legato a questa scelta, rimane determinante, inducendo ad adottare una soluzione di gusto. tradizionale, pet così dire « retrospettivo », memore!del momento .« etoico » di affermazione e sviluppo dell'Osservanza.
|
La rispondenza dell'impianto agli schemi « funzionali» adot-
tati dagli osservanti trova riscontro nella presenza 'del.chiostro, ampio e quadrato (fig. 25), attorno al quale sono collocate le prin-
cipali « officine » (magazzini, cucina e refettorio); manca invece uno specifico ambiente destinato a sala capitolare. Il convento fu dotato di una biblioteca di una certa importanza « optimorum librorum numero referta »)®. I portici del chiostro hañno archi a sesto acuto in terzo punto con ghiere in pietra (fig. 26); l’atteggiamento dei costruttori, rivolto ancora alla tradizione medievale, quale si esprime nella scelta di queste forme, si manifesta
ulteriortente nel pittoresco accostamento di capitelli diversi
nei quattro lati del portico o addirittura sui supporti affiancati in uno stesso braccio. Per questi capitelli è possibile indicare due tipi principali, ciascuno dei quali presente in alcune varianti: il primo è caratterizzato da quattro larghe foglie angolari nerva-
te, con presenza o meno di altri elementi (elici, fioroni), o talora
di un ‘embrionale secondo giro di foglie*; il secondo tipo è un capitello con volute ioniche, ma echino liscio € separato dal fusto della colonna per mezzo di una rustica‘:modanatuta torica (figg: 27-28)*. Le proporzioni, basse e larghe, quasi ‘identiche nei due modelli; sono quelle consuete degli esempi tardomedievali e quattrocenteschi impiegati su sostegni -clindrici o ottago-
nali. Le basi sono di tipo « attico », semplici ó ‘unghiate, talora sintetizzate tozzamente o riassunte in forma di cavetto; in un caso una base attica rovesciataè usata come ‘capitello (fig. 29)
e la base cotrispondente assume una conformaziotie ‘atipica, con foglie nei quattro angoli. Al centro del chiostro, la catrucola del pozzo è sorretta da un architrave su due colonne * , una con ca-
394
Corrado
Bozzoni
pitello del tipo a foglie e l'altra con capitello ionico, simili ma
non identici ai modelli impiegati nel quadriportico. Ampiezza e varietà dei modelli Le strutture descritte si offrono a numerosi confronti entro
un quadro territoriale ampio, che valica i confini regionali del Basso Lazio, a testimoniare il riferimento degli ossetvanti a schemi progettuali propri, largamente sperimentati in tutti gli insediamenti dell'ordine: l'impianto tipologico, le dimensioni della chiesa e del chiostro, il portichetto antistante la facciata e aperto
vetso l'esterno, la disposizione dei principali ambienti conventuali, sono caratteristiche che trovano, tutte o in gran parte, riscontri ricorrenti, per esempio in Abruzzo, nei conventi di Campli (S. Bernardino, 1448) e Tocco Casauria (S. Maria del Paradiso); in Basilicata, in quelli di Atella (S. Maria degli Angioli, 1439), Pietrapertosa (S. Francesco di Assisi, 1474), Tricarico (S. Antonio da Padova, 1579), Oppido (1482); in Calabria nei tre conventi dedicati a S. Bernardino, di Morano Calabro del 1455 c.,
Amantea e Rossano, un poco più tardi. Ugualmente rimandano a soluzioni usuali nel quadto degli insediamenti francescani,
gli archi in terzo punto del chiostro ed i loro supporti, semplici cilindri di pietra chiusi all'imoscapo e al sommoscapo con tozze
armille (pertinenti in effetti ai relativi capitelli e basi): un esempio molto simle & rappresentato dal chiostro del convento di S. Francesco di Fontecchio dei padri conventuali, ma l'impiego di archi acuti si riscontra anche nel primo e nel secondo chiostro di quella che & forse la pià impegnativa iniziativa edilizia messa in opera dagli osservanti, il complesso di S. Bernardino all'Aquila (1451-1471 circa), che ribadisce l'orientamento retrospettivo prevalente, a questa data, tra i costruttori dell'ordine, già rilevato anche nel convento di Sermoneta.
L'analisi stilistica dei capitelli del chiostro sermonetano con-
ferma solo in parte quest'ultima osservazione. Definiti « di stile gotico » in alcune recenti pubblicazioni ”, questi capitelli possono essere messi a confronto, in sede locale, con quelli dell’ab-
bazia di Valvisciolo, ma le corrispondenze si limitano alla presenza, nelle due serie, di alcuni esemplari caratterizzanti dall’impie-
go di foglie larghe e liscie, solo genericamente riferibili ai modelli della scultura ‘architettonica cistercense. Nei capitelli di Sermoneta (fig. 30) le proporzioni basse, e la forma astratta e semplificata dele foglie stesse, rimandano con evidenza ad altri prototipi; per essi, come già si è accennato, è possibile indicare un riscontro nel tipo che a Roma, intorno alla metà del XV secolo, è impiegato frequentemente su pilastri ottagonali (chiostro di
Insediamenti mendicanti
a Sermoneta e nel tettitorio
395
S. Maria Nova; loggia del cortile del palazzo degli Anguillara; cancelleria vecchia), e l'ipotesi che i capitelli a foglie sermone-
tani siano una variante di questo modello, adattata: ai.supotti cilindrici, sembra trovare conferma nell'uso della medesima tipo-
logia sulle colonne del chiostro (oggi distrutto): della chiesa di
S. Maria Aracoeli. D'altra parte vari tipi di. capitelli. di proporzioni basse sono impiegati nelle chiese e nelle costruzioni francescane: in particolare può essere rilevata una certa.analogia tra alcuni esemplari di Sermoneta * e i capitelli del chiéstro del convento di S. Maria delle Grazie a Teramo (1470) ?. Ovviamente non è il caso, su questa base, di presumere qualche rapporto di-
retto tra gli uni e gli altri: rimane comunque l’evidenza dell’ade-
sione a scelte di gusto sostanzialmente vicine, nell’astrattezza geometrica delle forme, e forse un generico riferimento a modelli comuni.
.
La datazione quattrocentesca suggerita da questi accostamenti
si adatta bene anche al secondo gruppo di capitelli del chiostro sermonetano (fig. 31), quelli del lato orientale, che: presentano in quattro esemplari uguali una variante del capitello ionico, ti-
dotta in sostanza al semplice inviluppo geometrico del modello
classico: il pulvino & qui costituito da rigide volute cilindriche, che si arrotolano in una spirale appena incisa, mentre l'echino, privo di qualsiasi decorazione, occupa per intero l'altezza delle volute stesse ed è separato dal fusto della colonna mediante una profonda incisione ed una robusta modanatura torica ‘°. Pur nella semplificazione un po’ rustica delle forme, questi capitelli non sono privi di richiami al modello canonico, che indicano probabili riferimenti diretti all'ambiente romano, dove lo ionico ha goduto di una costante fortuna durante tutto il medioevo, per incontrare una nuova fioritura nel corso del XV secolo. In sintesi il convento di S. Francesco, tealizzato solo qualche
decennio dopo l'insediamento dei francescani nella chiesa di S.
Nicola, testimonia un atteggiamento mutato e diverso. Il disinte-
resse, o la rinuncia, dei conventuali ad impoïre nel panorama
urbano, mediante l’architettura, un'immagine propria ed inconfondibile, in certo senso alternativa rispetto alle strutture ecclesiastiche esistenti, si trasforma qui nella scelta di un’ubicazione extra-moenia, che da un lato si ricollega alla tradizione monastica più antica e dall'altro corrisponde alla rinnovata vocazione eremitica, nostalgica del francescanesimo delle origini, fattà propria dagli osservanti; la posizione comunque risulta dominante, a mezza costa sulla collina che soviasta le principali porte cittadine, e perciò di una certa importanza strategica *, che fa sup-
porre un interesse diretto all'insediamento da parte delle autorità cittadine e giustifica anche sotto questo aspetto il favore
dei Caetani verso il convento. La tipologia adottata corrisponde
396
Corrado Bozzoni
a schemi ampiamente diffusi; il blocco compatto definito su tre
lati dalle fabbriche residenziali e sul quarto dalla chiesa, che non
emerge visivamente rispetto alle strutture contigue, ma se ne distingue appena, segnalata quasi esclusivamente dal portichetto antistante, proiezione verso l'esterno del chiostro, replica un modello applicato un po' ovunque e destinato ad essere ripetuto senza variazioni sostanziali nei due secoli seguenti. Sul piano linguistico gli archi acuti del chiostro denunciano forse la formazione ancora gotica dei costruttori, ma le volte a crociera dei quattro bracci, come in genere gli altri elementi lessicali e decorativi, pur nella estrema semplicità e talora grossolanità della realizzazione affidata a maestranze modeste, rivelano un'ampiezza di riferimenti ed una varietà di modelli, che vanno oltre gli aspetti consueti alla cultura artistica locale, legata alla tradi-
zione cistercense. E il segno dell’approssimarsi di tempi nuovi, quando grazie all'attività promossa dalla committenza opereranno nel territorio di Sermoneta artisti presenti anni a Roma e in altri centri importanti, nell'ottica pliamento delle esperienze e di un rinnovamento del al quale anche i frati dell’Osservanza recano il loro
signorile?, negli stessi di un amlinguaggio contributo.
Note i p, PANTANELLI, Notizie storiche della Terra di Sermoneta, I, Roma 19081909 (rist. anastatica Roma 1992), pp. 304ss. Tra le istituzioni beneficate e anche la chiesa dell'ospedale di S. Spirito in Roma. 2 In aggiunta ai sei insediamenti menzionati il Provinciale vetustissimum ricorda, al sesto posto tra quelli della custodia velletrensis, il convento di Nettuno (Notoni). 3 Cfr. c. viLLETTI, L'architettura degli ordini mendicanti a Priverno nel DueTrecento, in « Palladio », VI, 1993, 11, pp. 23-36. Il convento di S. Giacomo di Anagni era « formale » già nel 1248; la chiesa, preesistente, era stata concessa ai predicatori da Onorio III. 4 Gli Annales Minorum, V, 346 e IX, 199, riferiscono la fondazione ad epo-
ca precedente il 1292, sulla base di una bolla di Nicolò IV del 13 feb. di tale anno. 5 G. CARBONARA, Edilizia e urbanistica di Ninfa, in Ninfa una città, un giardino, Atti del Colloquio della Fondazione C. Caetani, Roma, Sermoneta, Ninja, 7-9 ottobre 1988, a cura di L. Fiorani, Roma 1990, p. 235. 6 Ivi, p. 234, ritiene dubitativamente che potesse essere a nave unica, forse
con
cappelle
trasversali
e transetto
fortemente
sporgente.
L.
HADERMANN -
MISGUICH, La peinture monumentale des sanctuaires de Ninfa, in Ninfa una città, un giardino, p. 249, la definisce « une basilique à trois nefs ». Oggi rimane in piedi, in patte, l'abside e qualche frammentario tratto di parete; la piccola costruzione realizzata nella parte anteriore della navata è una fabbrica settecen-
tesca dovuta al duca Francesco Caetani.
? La prima fase dell'attività edilizia mendicante, rivolta al « restauro » delle vecchie chiese ricevute in dotazione (fase sulla quale è stata richiamata l’attenzione da A.M. ROMANINI, L'architettura degli ordini mendicanti: nuove prospet-
tive di interpretazione, in « Storia della città », III, 1978, pp. 5-15), offre indicazioni di grande interesse sulle ragioni di determinate scelte e sulla concezione
Insediamenti mendicanti a Sermoneta e nel territorio
397
dello spazio chiesastico, in rapporto al suo significato ed uso da.parte dei frati. G. CARBONARA, Gli insediamenti degli ordini mendicanti in Sabina, in Lo spazio dell’umiltà; Atti del convegno di Sabina, 3-6 novembre 1982, Fara che gli interventi, spesso ridotti dellazione del presbiterio, ritenuta all’edificio. Tuttavia nel caso di
studi sull'edilizia dell'ordine dei Minori, Fara Sabina 1984, p. 218, ha acutamente osservato al minimo, sono limitati in genere alla rimosufficiente a conferite un carattere « nuovo » Ninfa sembra che questa fondamentale parte
della chiesa non.sia stata modificata.
' S HADERMANN-MISGUICH, La peinture, p. 250. Per la descrizione dei ruderi all'inizio del nostro secolo, v. c. TOMASSETTI, La campagna romana antica, medioevale e moderna, II, Via Appia, Ardeatina ed Aurelia, Roma 1910;. nuova ed. acuta di L. Chiumenti e F. Bilancia, Firenze 1979, p. 465. ' 9 TOMASSETTI,La campagna, p. 465 nota a. | . 10-Anche la chiesa di S. Nicola è tra i beneficiati del citato testamento del canonico Sapiente e risulta ricordata in numerosi altri documenti del XIII e del
XIV secolo. Inizialmente i minori trovarono alloggio presso la chiesa di S. Lorenzo. (PANTANELLI; Notizie, I, p. 410). 11 B, THEULI - A. COCCIA, La provincia romana dei frati minori conventuali dall'origine ai. nostri giorni. (Apparato minoritico della Provincia romana, 1648), Roma 1967, pp. 484-485; PANTANELLI, Notizie, I, pp. 414-415; G. CAETANI, Domus Caietana. Storia documentata della famiglia Caetani, 3 voll.; Sancasciano Val di Pesa, 1927-33, I, 2, p. 87.
. 12.M, ARCIDIACONO, Due chiese francescane in Sermoneta, in « Bollettino del-
l’Istituto di storia e di arte del Lazio meridionale », VIII, 1975, 2, pp.'57-74, ritiene che i minori, prendendo possesso della chiesa, ne abbiano modificate le coperture; tra l’altro rialzando quelle delle navate laterali in modo da riproporre la tipologia della chiesa a sala; ma volte e arcate della chiesa sono state trasformate nel XVIII secolo, per cui allo stato attuale le strutture precedenti tale data risultano illeggibili. Anche per l’altra chiesa, esaminata nel: medesimo contributo, S. Michele (S. Angelo), l'A. ipotizza un analogo processo trasforDE sempre ad opera dei francescani, che vi sarebbero subentrati già prima el 1382.
.B Nella nota immagine di Sermoneta dipinta da Benozzo Gozzoli, si vede sulla. destra un campanile identificabile con quello dell’Assunta; l’altro campa-
nile appena più basso, sulla sinistra nel modello sorretto dalla Vergine, potrebbe rappresentate quello di S. Nicola. - ‘1 La cappella della Concezione, che dal 1580 ospitava l'omonima congtega zione, fu fatta chiudere intorno alla metà del XVIII secolo, nel corso della ristrutturazoine settecentesca dell’edificio; nell’area di questa cappella venne probabilmente tealizzata la scala di accesso al dormitorio superióre (ristrutturato dopo il 1760) ed al nuovo ingresso del convento (1778). Vedi: PANTANELLI,
Notizie, II, p. 230.
n.
15 La veduta è pubblicata, insieme ad un’altra che rappresenta la planimetria della nuova cinta muraria cinquecentesca, nel volume Della Fortificatione delle Città di M. Girolamo Maggi e del Capitan lacomo Castriotto, Ingegniero del Christianiss. Re di Francia, Libri III, Venetia 1569. Purtroppo la rappresentazione dei singoli edifici, in un disegno finalizzato alla dimostrazione delle opere fortificatorie, è imprecisa e largamente « simbolica », come risulta chiaramente da quella della collegiata, ma almeno il dato relativo alla presenza, in S. Nicola, del campanile a torre può essere titenuto sicuro; di più difficile interpretazione il.corpo della chiesa, articolato su tre « ordini» sovrapposti. La rilevanza strategica del S. Nicola è sottolineata dal fatto che nella planimetria della cinta.fortificata tale chiesa è l'unica struttura non militare che vi risulti, seppure schematicamente, raffigurata. :
16 La visita apostolica; del 1705
enumera,
oltre l'altare della Concezione,
quelli di S. Francesco, S. Gregorio, S. Sebastiano e della Pietà. Il PANTANELLI, Notizie, I, p. 413, ricorda nella nave del Vangelo, dopo la cappella della Concezione, quella di S. Antonio da Padova (che già era stata chiusa) e due altari, il primo di S. Antonio,S. Nicola e S. Francesco di Paola, il secondo dedicato al beato Andrea Conti; nella nave dell'Epistola, dove si apriva l'ingresso. dell’oratorio dei Battenti, Pantanelli non fa cenno ad altri altari, ma altrove (II, p. 230) ricorda che dopo la chiusura delle cappelle .della Concezione e della
Pietà ve ne furono eretti due.con questi stessi titoli. Oggi l’unico altare super-
398
Corrado Bozzoni
stite & quello « in isola » davanti al coro, dedicato a S. Nicola (1751), ma sulle pareti laterali, in corrispondenza della seconda campata, quasi una di fronte atl’altra, rimangono due immagini dipinte a fresco, riferibili alla originaria pre
senza di altari. Oltre le pitture nella cappella dell’Evangelista e quelle, assai
malridotte, nell'oratorio dei Battenti, un altro affresco si conserva nella cosid. detta sacrestia; nessuna di queste opere sembra anteriore al XVI secolo.
17 Vedi PANTANELLI, Notizie, II, pp. 161-162 e 230. 18 Le affinità tra queste due chiese sermonetane sono già state rilevate dalla
ARCIDIACONO, Due chiese, pp. 68-69, con specifico riferimento ai due capitelli a crochet su semicolonnine pensili, nei due pilastri prossimi al presbiterio, ed
al sistema di pilastrini pensili su mensole a forma di piramide rovesciata, pre-
senti sugli altri pilastri e sulle paraste della navata sinistra; questa soluzione, che rimanda, in forme più rozze, ad un modello cistercense adottato nel refettorio dell’abbazia di Fossanova, sembra almeno in parte frutto di un'operazione di ripristino recente. Si noti che anche le differenze riscontrabili tra i sostegni sono state visivamente accentuate dagli ultimi restauri, con i quali, tra l’altro, sono state lasciate in vista le strutture in conci, procedendo ad integrazioni e riprendendo pesantemente tutti i giunti. ? Il convento di S. Francesco venne assegnato agli osservanti con breve papale di Alessandro VI del 1495; passò ai riformati nel 1628, secondo B. SPILA, Memorie storiche della Provincia Riformata Romana, I, Roma 1890, p. 119, che. riporta il testo del documento di assegnazione, o nel 1627 data che risulta dalla relazione relativa alla soppressione innocenziana del 1650 in Archivio Segreto Vaticano (d'ora in poi ASV), S. Congr. super statu regularium - relationes,
42. Abbandonato
a seguito
della soppressione
francese, il convento
fu poi
concesso per alcuni anni ai padri della Congregazione del Preziosissimo Sangue; i tiformati vi tornarono, ma solo per pochi anni, nel 1842. Viceversa P. LONGO F. SASSOLI, Sermoneta, Roma 1992, pp. 58-63, riportano la notizia che il passaggio ai riformati sia avvenuto fin dal 1565. Le visite ad limina del 1590 e 1592 (ASV, S. Congr. Concilü, 791/B) attestano che in Sermoneta erano tre insediamenti francescani: il primo (S. Nicola) dei conventuali, il secondo /S. Francesco) degli zoccolanti (cioè degli osservanti, cfr. c. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, XXVI, Venezia 1844, p. 79), il terzo dei cappuccini; la visita del 1597 (ivi) conferma l'attribuzione del convento ai Minori «S.ti Francisci de Observantia ». Il convento dei cappuccini, fondato nel 1585 con l’annessa chiesa dedicata a S. Maria della Vittoria, si colloca oltre i limiti cronologici previsti dal presente lavoro; l’insediamento ebbe comunque vita difficile: già nel capitolo provinciale del 1636 se ne proponeva la chiusura, causa l’insalubrità dell’aria. Il convento, oggi come la chiesa in stato di rudere, fu
abbandonato definitivamente nel 1821. Nel 1912 i cappuccini tornarono a Set-
moneta, ma nel convento di Cfr. T. DE LUCA, Cronistoria Roma 1974. 20 PANTANELLI, Notizie, I, ed offre una descrizione della
S. Francesco, che comunque lasciarono nel 1916. della Provincia cappuccina di Roma, 1534-1973,
pp. 525-526, che riporta il testo del breve papale chiesa, del chiostro e di alcuni ambienti del con
vento, con altre notizie sulle vicende e sui religiosi che vi soggiornarono (ivi,
pp. 527-530). 21 Altrove lo stesso autore (ivi, p. 24) afferma che il convento fu « edificato, come si crede, ne’ tempi di san Bernardino da Siena», o più precisamente, secondo la tradizione locale (pp. 339-340), che fosse abitato dai Fraticelli, i quali ne vennero scacciati dal santo senese, per affidarlo agli osservanti; cita anche, in forma dubitativa, una « cronaca particolare della provincia romana », secondo cui, prima del XV secolo, sarebbe stato abitato da monaci cistercensi o dai templari. Tale ultima affermazione è stata ripresa nel volume di E. FINO, Serzzoneta tesori d'arte memoria di eroi, Sermoneta 1980, pp. 119-121. 22 Vedi PANTANELLI, Notizie, I, po. 23 e 502; c. cAETANI, Varia. Raccolta delle carte più antiche dell’ Archivio Caetani e regesto delle pergamene del Fondo Pisano, Città del Vaticano 1936. Onorato Caetani, figlio di Giacomo, fu signore di Sermoneta e Bassiano. La fondazione del convento intorno agli anni settanta
trova conferma nella citazione nel Regestum Observantiae relativo agli anni 1464-
1468 (« Analecta franciscana», XII, 1983, p. 22). Alcuni scrittori francescani (F. GONZAGA, De Origine Serapbicae Religionis, Roma 1587) attribuiscono invece l'insediamento degli osservanti al figlio di lui, e di Caterina Orsini, Guglielmo;
Insediamenti mendicanti
a Sermoneta e nel territorio
399
ma già il WADDING, Anzales Minorum, XV, 135 ossetva che a tale Signore va tiferíto il compimento e non la fondazione del convento. Negli stessi anni l'in-
teressamento dei signori locali è rivolto anche ai conventuali: ‘ell’Archivio gene-
ralizio di questo otdine si consetva un Regesto di notizie raccolte ‘dal p. generale Francesco Sansone, dal quale risulta che nel 1493 « Fr. Gipriatius institutus est Guardianus loci Sermonetae... ad instantiam illorum Magnificorum Dominorum » (« Miscellanea Francescana », XXIII, 1922, p. 50). > 23 Vedi per esempi che testimoniano analoghe modalita insediative L. BARTOLINI SALIMBENI, Architettura francescana in Abruzzo dal XIII al XVIII secolo, « Saggi di Opus », 2, 1993, in part. pp. 108-110. 24 La pianta che si allega non rappresenta un rilievo defiñitivo e compiuto dell’edificio, ma solo uno schema di riferimento (per l'esecüzione del quale,
come per la pianta della chiesa del S. Nicola, ringrazio dell’atuto fornitomi gli architetti C. Bellanca e Alessandro S. Curuni), reso necessatiò, di fini di questo lavoro, dalla mancanza di qualsiasi documentazione grafica precedente. Un tilievo ed uno studio approfondito del convento e della chiesa di S. Francesco è ora disponibile con la tesi di laurea di E. Bartelli e S. Campo, una sintesi della quale è in corso di pubblicazione sui « Quaderni dell'Istituto di Storia dell’architettura ». à | 25 La costruzione delle cinque cappelle ebbe inizio probabilmente da quella à partire dalla facadiacente all’arco di ingresso del coro (cappella Tuzj), quarta ciata, poi collegata verso est con la cappella Caetani. Poiché Caterina Orsini dispone nel suo testamento (1504) di essere sepolta presso ‘L'altare maggiore, anche questa cappella, per la quale assegna un lascito, doveva essere a tale data già costruita o in'costruzione. Vedi CAETANI, Varia, p. 323. La prima cappella verso la facciata, che originariamente aveva accesso dal portico, venne forse eseguita riutilizzando una struttura preesistente all'impianto della chiesa (BartelliCampo), mentre quelle intermedie sembrano essere state realizzate per ultime e comunque dopo la cappella Tuzj, petché si addossano al suo cantonale; ma in
una di esse, la cappella dei santi Anna e Gioacchino, è stato rinvenuto nel 1973
un affresco (Annunciazione), che sarebbe ancora tiferibile, su base stilistica, alla seconda metà del XV secolo. “ni.
26 Secondo il testo «Fondazione
dei Conventi del francescano Ludovico da
Modena (1637-1722), manoscritto conservato nell'Archivio di S. Francesco a Ripa (coll. 13, antica ‘101, f. 264), la chiesa manteneva ancora, alla fine del XVII secolo, l'originaria copertura a capriate. Integrazioni tardobatocche evidenti sono il campanile a torte (1763) e la cappella di S. Gregorio, con accesso esterno dal sagrato, costruita nel 1752 (PANTANELLI, Notizie, 1, p. 527); barocco è anche l’altare in legno, posto nella campata antistante il coro, che separa nettamente questo spazio, attualmente avente funzione di sacrestia, da-quello desti nato ai fedeli, secondo’una tipologia consueta nelle chiese degli osservanti e dei riformati. 26 Integrazioni evidenti, per esempio, sono il rifacimento della: cella campanatia in forme tatdo-batocche (1763) e la cappella di S. Gregorio, con accesso esterno dal sagrato, costruita nel 1752 (PANTANELLI, Notizie, I, p. 527); Paltare ligneo (XVII secolo) posto nella campata antistante il coro separa nettamente questo spazio, che ha anche funzione di sagrestia, da quello destinato ai fedeli, secondo una tipologia consueta nelle chiese degli osservanti e ‘dei ‘riformati. 21 Chiese a due navate, simmetriche o asimmetriche, sono impiegate largamente nelle costruzioni mendicanti dei territori germanici o nella Francia setten‘di successivi trionale sia in impianti progettati sin dall’otigine, che a seguito ampliamenti; per una sintesi vedi C. BOZZONI, L'edilizia degli ‘orditii mendicanti in Europa e nel bacino del Mediterraneo, tn Lo spazio dell’umilia, pp. 215-326. In Italia, tra i rari esempi riferibili a chiese francescane del XIV secolo, il S. Francesco di Montefalco presenta sul lato destro sei cappelle (poi rese intercomunicanti) aperte nel corso della costruzione protrattasi a lungo nel quattrocento; cfr. Francesco d'Assisi. Chiese e conventi, Milano 1982; pp. 104-106 (scheda a cura di F. Gualdi Sabatini). | 28 c. ENLART, Origines françaises de l’architecture gothique en Italie, Paris 1894, pp. 133-135. L’interno della chiesa, nel disegno prospettico di questo studioso non mostra lo sfondamento della parete laterale, che appare viceversa chiusa e rigata da due sottili modanature orizzontali, in corrispondenza rispettivamente della cornice d'imposta e dello zoccolo basamentale continuo. Jl ca-
400
Cortado Bozzoni
rattere plastico dei dettagli (capitelli, basi e cornici), come conferma l'esame delle strutture ancora zz situ (vedi viLLETTI, L'arcbitettura, pp. 26-27), dipende direttamente dai modelli cistercensi di Fossanova e Casamari. 29 Uso questa definizione per un arco acuto i cui centri di curvatura siano posti in corrispondenza dei punti centrali di ciascuna metà della corda. 30 Nel S. Francesco di Sermoneta, riferisce PANTANELLI, Notizie, I, p. 527, si aprivano «cinque cappelle nel corno dell'Epistola »: muovendo dall'ingresso verso l’altare la prima era dedicata a S. Elisabetta (S. Maria Maddalena), la seconda a S. Anna, la terza a S. Antonio di Padova, la quarta a S. Pasquale e la quinta alla Concezione. Attualmente queste due ultime cappelle accessibili da un solo valico sono fuse in un unico vano (Sacrario dei caduti dell'Egeo nella seconda guerra mondiale, inaugurato nel 1971). La prima cappella (che non ha accesso diretto dalla navata, per cui gli archi sulla parete sono tre, due uguali e l'altro più ampio e con ghiera in conci di pietra) é in stato di abbandono e ridotta a deposito. Ádiacente a questa, ma con ingresso esterno alla chiesa, come già si è detto (vedi nota 26), si trova un'altra cappella, fatta edificare « ad uso di cemeterio » nel 1752. 31 L’aula unica con copertura a volta è utilizzata in numerose chiese quattrocentesche dell'Osservanza e degli altri ordini mendicanti riformati, con diffusione in tutte le regioni, accanto al tipo con tetto a capriate. Cfr. c. VILLETTI, Quadro generale dell’edilizia mendicante in Italia, in Lo spazio dell’umiltà, 225-274; in particolare, per alcuni esempi, p. 247. 32 Così si esprime la citata Visita ad limina del 1597; la più ampia descrizione presente nella relazione del 1650 parla di una «libreria con alcuni pochi libri » ed enumera gli ambienti comuni e le officine, ricordando «una stanza della comunità dove si ripongono li panni dei frati », la barberia, il refettorio capace di 25 frati, « una stanza dove si fa il fuoco comune per scaldarsi li frati »
e la cucina; non vi era infermeria ed i frati malati venivano portati a Roma con un asinello.
|
3 Un capitello del lato sud, genericamente riferibile a questo modello, presenta, sulle quattro foglie di dimensioni ridotte, una sorta di centro delle facce una elementare palmetta. Anche i capitelli antistante la facciata sono simili a quelli del chiostro, ma con vate, adunche o variamente sagomate, che denunciano forse una
caulicoli ed al del portichetto foglie più incafattura diversa.
34 Questo tipo è rappresentato dai quattro capitelli del lato est del quadri-
portico, e da altri due su quello occidentale, nei quali perd le volute, che nelle facce laterali sono incise e strette al centro da un balteo, hanno origine verticalmente dal centro dell'echino; un altro capitello «ionico » (lato sud), simile a questi ultimi, è disposto con le volute, che nascono da una coppia di foglie, nelle due facce laterali. 3 Il pozzo, ora alimentato da quattro cistetne per l’acqua piovana collocate negli angoli, era certamente presente sin dall'origine, ma è stato ripristinato
nel corso del XIX secolo.
36 Limitatamente ai due lati est ed ovest. L’insediamento francescano di Fontecchio (custodia aquilana) sembra essere anteriore alla fine del XIII secolo e comunque è menzionato nel Provinciale vetustissimuzn; la datazione del chiostro, con bracci uguali due a due, in effetti è controversa, perché alcuni autori lo riferiscono al XIII e XIV secolo, sebbene ne sia documentato da un'epigrafe il rifacimento (o la ristrutturazione) nel 1488. Cfr. BARTOLINI SALIMBENI, Architettura, pp. 76-78. 3! FINO, Sermoneta, p. 125; LONGO - SASSOLI, Serzzoneta, p. 62.
38 In particolare uno. dei capitelli del braccio sud (aderente al fianco della
chiesa), pur essendo simile nel trattamento delle foglie agli altri esemplati, si caratterizza per la presenza sulle quattro facce di elici pochissimo rilevate, che ricordano gli esemplari teramani. 39 L'antico monastero benedettino di S. Angelo «delle donne» di Teramo
venne concesso agli osservanti nel 1448, ma a quanto sembra tutti gli edifici
«vecchi e non adatti» dovettero essere demoliti e rifatti intorno al 1470; tuttavia M. MORETTI, Architettura medievale in Abruzzo, Roma 1971, titiene che il chiostro conservi ancora strutture riferibili al XIII secolo, ed in particolare nei capitelli del piano inferiore, che possono essere confrontati ai nostri, sarebbero riconoscibili elementi residui della costruzione precedente, inseriti nella nuova fabbrica. Il convento è stato ancora notevolmente modificato alla fine
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2. Sermoneta, chiesa di S. Nicola, decorazione del portale, proveniente dalla chiesa di S. Giovanni di Ninfa.
3. Sermoneta, chiesa di S. Nicola, decorazione del portale, proveniente dalla chiesa di S. Giovanni di Ninfa.
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4. Sermoneta, chiesa di S. Nicola, navata centrale.
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6. Sermoneta, chiesa di S. Nicola, capitello.
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7. Sermoneta, chiesa d i S. Nicola, particolare del primo pilastro nella navata sinistra.
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9, Sermoneta, chiesa di S N icola, navata laterale destra.
10. Sermoneta, chiesa di S. Nicola, arco trasversale zoppo nella navata destra.
11. Sermoneta, chiesa di S. Nicola, altare e presbiterio; stano in falso due crociere della navata laterale.
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13. Sermoneta, chiesa di S. Nicola, facciata.
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N icola, veduta dalla strada che costeggia le mura medievali.
15. Sermoneta, convento di S. Francesco, pianta.
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17. Sermoneta, convento di S. Francesco, pottichetto.
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18. Sermoneta, convento di S. Francesco, chiostro, lato nord.
19. Sermoneta, convento di S. Francesco, chiostro.
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20. Sermoneta, convento di S. Francesco, chiostro il braccio sud, adi Jacente a. lla chiesa, un loggiato anche al p lano superiore . Sullo sfondo la cella campanaria barocca.
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22. Sermoneta, convento
di S. Francesco, la chiesa.
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23. Privetno, S. Lorenzo, disegno di C. Enlart.
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24. Sermoneta, convento di S. Francesco, navata e cappelle laterali.
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25. Sermoneta, convento di S . Francesco
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chiostro, lati ovest e nord.
26. Sermoneta , convento di S. Francesco, chi iostro, arcate del.lato ovest
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28. Sermoneta, convento di S. Francesco, chiostro, braccio nord, capitelli a foglie angolari.
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Insediamenti mendicanti
a Sermoneta e nel territorio
401
del secolo scorso e la chiesa interamente ricostruita. Cfr. BARTOLINI - SALIMBENI, Architettura, p. 126. 4 Un'altra variante del capitello ionico, presente a Sermoneta in due esemplati, ha le volute che, sulle facce principali, si dipartono dal centro dell’echino
e su quelle laterali sono serrate da un balteo. Un ulteriore tipo di capitello a volute, nel braccio meridionale, è disposto con le facce principali perpendicolari
anziché parallele ai lati del chiostro. ^! L’interesse del sito in rapporto alle esigenze di difesa della città è eviden.
ziato dalla rappresentazione del convento contenuta in un foglio della « Cartella di disegni del sec. XVII, con piante di diverse fortificazioni » (Biblioteca
Apostolica Vaticana, Barb. Lat. 9901, f. 95), già pubblicato da T. SCALESSE, Aspetti
dell’architettura
nei feudi
dei Caetani
tra Quattro
e Cinquecento,
in
Ninfa una città, un giardino, pp. 207-221. 4 Vedi P. PAVAN, Ninfa e i Caetani nel Quattrocento, ivi, in particolare p. 147; SCALESSE, Aspetti, ivi, p. 214.
Calogero Bellanca La chiesa dell’ Assunta a Sermoneta
La chiesa dell'Assunta si presenta oggi come un blocco di aggregazioni edilizie, compatto e allungato che si elevano a comporre e chiudere lo spazio sia della piazza Santa Maria che dei tracciati adiacenti del centro storico della cittadina. In assenza di una vera e propria visione frontale, il monumento si può cogliere sia attraverso i vati canali visivi esperssi dall’andamento viario del centro abitato, che come emergenza nelle vedute panoramiche dal territorio circostante dei monti Lepini e dalla pianura Pontina (figg. 1-2). L’obiettivo che si è posto è quello di chiarire i momenti significativi « del monumento nel tempo »; per far questo, si è avviato lo studio con il rilievo diretto della fabbrica esistente (fige. 3-11). Contemporaneamente si è condotta l'analisi storico-critica, con l'obiettivo di precisare i caratteri stilistico-costruttivi e figurativi presenti, e di individuare le diverse fasi costruttive, attraverso lo studio delle prime aggiunte e trasformazioni al nucleo iniziale, e successivamente dei primi interventi di « restauro » dell'età moderna (rinascimentale e barocca), fino alle azioni tese a riportare in evidenza alcuni momenti della storia del mo-
numento.
I contributi precedenti Sull'Assunta di Sermoneta sono stati prodotti vari contributi, con talora discordanti interpretazioni, sia delle fonti che dell'organismo architettonico. Cronologicamente si devono rammentare
gli scritti di Pantanelli, Marocco, Raymondi-Corniola, Enlart,
Mufioz, Terenzio, della Wagnet- Rieger, della Tamanti, della de Sanctis e infine i cenni nella pubblicazione di Longo -Sassoli,
II Pantanelli scrive: Il tempio è mediocre, ma di barbara struttura; perché essendo stato diroccato circa gli anni 1030, per le guerre civili, da Lano Maggiore [...] fu poi rifatto, come si vede, giusta l'ignoranza di que’ miseri secoli; e, quel che è peggio, si perderono tutti i suoi antichi documenti; da ciò ne proviene che il suo
404
Calogero Bellanca
archivio non ha pergamene innanzi questi tempi [...] E fatto a volta, con archi di sesto acuto, e a tre navi, ma anticamente non aveva cappelle. La nave del Vangelo non aveva comunicazione con quella di mezzo, come è chiaro da’ tronchi peducci delle volte in occasione d'aprirvi gli archi; sicché non à improbabile che servisse per le donne ne' secoli di maggior circospezione [...] Le cappelle
sono state erette in diversi tempi dalla pietà de' fedeli, e sono tutte fra loro
ineguali. Anticamente il coro era in forma di tribuna, e a mezzo cerchio !.
Il Marocco pone principalmente l'attenzione sull'antica Ara, sul dipinto di Benozzo Gozzoli, sulla cappella Caetani ed ac-
cenna ad alcune visite di Gregorio XIII, di Carlo V, e Federico III?. Raymondi e Corniola riprendono le citazioni del Pan-
tanelli e pongono l'attenzione su alcuni particolari, tra i quali il crollo della guglia del campanile, la costruzione della nuo-
va sacrestia del 1733, e sul dipinto della nicchia del campanile *, L'Enlart riprende il Pantanelli per la citazione delle fonti, e ne accetta le datazioni per la distruzione ed il conseguente stato di abbandono fino al secondo quarto del XIII secolo. Fissa la data della ripresa costruttiva intorno al 1235, riferendo l'iniziativa all'intervento di maestranze della « scuola di FossanoVa», attraverso un'attenta lettura filologica del monumento
considera più tarda la datazione del portico, anche se non la specifica, ed infine riporta la data del 1734, come l'anno di
non meglio specificate alterazioni ^.
Il Muñoz sottolinea soprattutto il momento del rinnovamento costruttivo, quando la chiesa « prese carattere gotico nei restauri che subi nel XIII secolo, ma disgraziatamente fu rimaneggiata circa nel 1734 », e descrive sinteticamente alcuni caratteri emergenti; «il transetto, la navata a quattro arcatute, le navi laterali, le volte a costoloni che ricadono su pilastri cruciformi; i pilastri delle navi minori sono invece staccati dal suo-
lo terminando in coni. I capitelli hanno due fila di foglie termi-
nanti o in gruppo di foglioline d'acanto, o in fiori, o in teste umane » ?.
Il Serafini concentra la sua attenzione sul campanile, ipotizzandone la realizzazione al tempo della prima chiesa, « al principio del secolo duodecimo »; quindi ne descrive i caratteri sti-
listici $.
Il Terenzio fornisce delle notizie sui restauri appena ultimati: già da tempo richiamava preoccupate attenzioni per lo stato assai grave di fatiscenza: notevole strapiombo sul lato ovest; un'ampia spaccatura che dal piano di base giungeva al primo ordine; rotte ed abrase le cornici [...] spezzati gli archetti delle bifore. Per rafforzare le condizioni di staticità erano stati fatti maldestri restauri: si era allungato il muro della facciata della chiesa come contrafforte al campanile, erano state murate le bifore spesso distruggendo le cornici degli archetti [...] sulla muratura era stata fatta la mostra di un orologio; l’unica porta antica d’ingresso al campanile era stata murata e l’altra era stata aperta sfondando la parete del campanile in comunicazione con la chiesa. Tra i
guasti del tempo e quelli determinati da frettolosi e rapidi restauri, il campanile
La chiesa dell'Assunta a Sermoneta
405
risultava [..] compromesso [..]. I recenti restauri dovevano, essere totalitari. [...] Si è allora proceduto a concatenate tutte le pareti; a ricucifele lesioni a sottomurare completamente l’angolo verso il portico della chiésa, a chiudere la porta arbitrariamente aperta e ad aprire l’antica [...]. Infine, il.muro fra la chiesa e il campanile non è stato tolto per necessità statiche, ma.è stato consolidato e diminuito di altezza. Si è quindi passati alla seconda’ parte del lavoro, cioè a ridare il primitivo aspetto al campanile: si è asportato l'orologio, si sono aperte le bifore tranne quelle del secondo ordine, sostituendo. colonne e capitelli mancanti o spezzati, sono state riprese le cornici divisorie [...] e le sco-
delle [...]. In tal modo si è ridato al campanile la sua ordinaria euritmia
impeccabile
tra vuoti e pieni, la sua coraggiosa
altezza, la sua ricca: decorazione
Il contributo della Wagner-Rieger tesi dell’Enlart, in quanto avvicina l'abbazia di Valvisciolo, e mette l'una alla presenza dei cavalieri Templari
si discosta in parte dalle l'Assunta alla chiesa dele l'altra in rapporto anche (1177-1183); Per i « mas-
policroma 7.
ì
sicci pilastri rettangolari » che inglobano quelli precedenti e di-
ventano il modulo della nuova chiesa, la studiosa 'austriaca propone una possibile derivazione da Vaux-de-Cernay, che si so-
vrappone a quello di Fossanova e Casamari *. la Tamanti accoglie e sviluppa le ipotesi di Camille Enlart e di Renate Wagner-Rieger, leggendovi due momenti costruttivi. Descrive lo stato attuale della chiesa, soffermandosi soprattutto sul campanile e sui lavoti condotti dalla Soprintendenza ai monumenti del Lazio nel 1963, « che hanno tolto l’intonacatura settecentesca e portato in vista la struttuta dei pilastri e degli archi ». Conclude il suo contributo, ponendo in: rapporto lAssunta di Sermoneta, con il rudere della chiesa di Santa Maria del monastero del monte Mirteto ?. La de Sanctis ribadisce sia per l'Assunta, che per il San Michele di Sermoneta una chiara presenza cistercense, e mette in luce il ruolo svolto dai cantieri di questo ordine in varie rea-
lizzazioni sul territorio. Richiamandosi agli studi di A.M. Ro-
manini legge queste esperienze soprattutto lungo l’asse che da Fossanova, attraverso Priverno e Sezze giunge fino a Sermoneta e Valvisciolo ?, Il volume di Longo-Sassoli non, va oltre una precisa descrizione della chiesa dell'Assunta, con le: sue cappelle, ma si segnala per un utile aggiornamento della letteratura perie-
getica esistente su Sermoneta !.
e»
I caratteri architettonici
. Una prima lettura dell'involucro architettonico rivela una complessa stratificazione strutturale, pur nella presenza costante di quei « caratteri di schietta semplicità e di solida continuità muraria»! tipici dell’architettura di derivazione cistercense (fig. 3-11).
Il nucleo iniziale risale ai primi anni del XII secolo; come sem-
406
Calogero Bellanca
brano confermare anche alcuni documenti; l'osservazione diretta ed il rilievo consentono di individuare una chiesa a tre navate,
con una semplice terminazione absidata, priva di transetto. L'am-
piezza dell'abside corrisponde alla navata centrale, che sta in un rapporto proporzionale di 2 a 1 con le navate laterali. L'organismo « romanico » era suddiviso da 16 pilastri quadrangolari in nove campate per ciascun lato; di questi pilastri ne rimangono allo stato attuale solo 8, inglobati nelle strutture
della fase successiva, che con l'ampliamento delle campate, ha
provocato l'abolizione di quelli mancanti. Con riferimento alla pianta si riportano le dimensioni, tutte diverse, dei pilastri originari; definendo con la lettera À, il primo pilastro di sinistra, con B il primo di destra, con C il secondo di sinistra e cosi vía: À (cm 95 x cm 62, misure massime), B (cm 87 x cm 87), C (cm 89 x cm 61), D (cm 92 x cm 84), E (cm 95 x cm 64), F (cm 95 xcm 86), G (cm 107 x cm 65) ed H (cm 95 x cm 81). Per
questo gruppo di pilastri, l'altezza dei singoli conci, posti per corsi orizzontali, eccetto alcuni posti di taglio con un'altezza massima di cm 38, varia da un minimo di cm 10 ad un massimo di cm 27. Il loro ritmo era regolare, con intercolumnio di 10 palmi romani. Lungo le pareti della navata centrale si aprivano 18 monofote, 9 per lato, alcune ancora leggibili dopo le operazioni di « scorticamento » realizzate negli anni Cinquanta e Sessanta. Altre finestre di dimensioni pià ridotte si aprivano lungo i muri esterni delle navate laterali; di queste ultime rimangono delle tracce lungo i prospetti settentrionali e meridionali. L'apparecchiatura muraria, costituita in strati orizzontali, era divisa nei due piani, delle arcate e della parete soprastante con le finestre. Per l'antica abside, sostituita nella fase cistercense dal coro, si può ipotizzare un'assonanza con quella della chiesa di San Pietro a Ninfa anche per i rapporti proporzionali assai simili, che presentano i due organismi © (fig. 11). La copertura della navata centrale era a tetto, con capriate lignee, mentre lungo le due navate laterali, di poco più basse, si trovava una semplice orditura lignea. L'edificio misurava in lunghezza m 26,45 (cor-
rispondenti a 89 piedi romani) senza tener conto dello spessore
dei muri; mentre in larghezza m 14 (47 piedi romani). Anche
per gli alzati si riscontra l'impiego di misure esatte: 10 piedi romani per la dimensione degli atchi fino all'imposta, altri 10 pie-
di dall'imposta degli archi fino alla base delle monofore, che a loro volta misurano 5 piedi (fig. 12). Relativamente a questa
fase sono visibili anche lacerti di affreschi superstiti ^, Le mu-
rature perimetrali longitudinali non presentano grandi divergenze, avvicinandosi all'area del presbiterio, ma la superficie della
facciata appare leggermente inclinata, secondo una consuetudine
La chiesa
dell’ Assunta
a Sermoneta
407
già studiata dal De Angelis, da collegarsi a motivazioni di carattere urbanistico e di presentazione del monumento o a più
sottili ragioni di psicologia della visione ^. Il rapporto prospet-
tico della navata tenderà a mutare, in maniera sostanziale, come vedremo, con l'introduzione del coro e di una graduale penden-
za della quota di calpestio nelle fasi successive della vita del monumento. L'insieme di questi caratteri mostra un linguaggio architettonico che risente con chiarezza « degli influssi dell'Italia meri-
dionale ed a loro volta non esenti da penetrazioni di gusto nordiche » %, Si vedano per l'insieme spaziale oltre alle chiese a
pilastri « benedettine della fine del XI o inizi del XII secolo, come San Liberatore alla Majella o San Pietro ad: Oratorium presso Capestrano, Santa Maria della Libera ad Aquino o San Domenico ad Isola Liri» ”, o altre fabbriche che sembrano avvicinarsi all'organismo originario, quali alcuni esempi meridionali, delle Puglie (San Giovanni di Patù presso Lecce) ^, delle Calabrie e della Campania, dove si riscontrano permanenze bizantine e altre influenze centro-europee ed ottoniane. Tra questi, caratterizzati da uno svolgimento longitudinale dello spazio che si esprire « nelle forme della basilica protoromanica a pi-
lastti », le chiese di San Ferrante (già Santa Maria di Compulteria) ad Alvignano
(VII-VIII
o inizi del IX secolo, la catte-
drale vecchia di Santa Severina (1036), il San Donato di Umbriatico (fine XI secolo) P. In ambito europeo le chiese a pilastri rappresentano un mo-
dello assai diffuso, con esempi anche molto importanti, in epoca
catolingia ed ottoniana, come i SS. Pietro e Marcellino a Seligenstadt, la basilica di Steinbach sull'Odenwald (ambedue 828840), il duomo di Colonia, nella sua facies carolingia, la cattedrale di Augusta (Augsburg, 995-1005), il St. Emmeran di
Ratisbona (Regensburg, 1020-1052) e S. Gertrude a Nivelles (1046) ?, Ma per un riferimento diretto, nelle immediate vici-
nanze di Sermoneta, si ritrovano chiari richiami stilistici e costruttivi tra l'Assunta ed il San Pietro di Ninfa (già menzionato per via documentaria, ante 1237). Le forti analogie si basano, oltre che sui caratteri strutturali, soprattutto nell'adozione degli stessi moduli metrologici e proporzionali, con uso costante del piede romano in entrambe le piante, negli intercolumni, nell’alzato degli atchi e nelle dimensioni delle monofore. Fase
« cistercense »
La seconda fase del cantiere dell'Assunta & segnata dal cambiamento della copertura lignea in quella voltata; in rapporto a
408
Calogero Bellanca
questa scelta è l'adozione dei nuovi pilastri, costruiti in aderenza a quelli preesistenti ma con una sezione cruciforme per sostenere la nuova struttura, e per « controllare » il nuovo sistema spa-
ziale distributivo. Le dimensioni principali di questi pilastri aggiunti, assimilati al parallelepipedo di inviluppo massimo a base
rettangolare sono: À (cm 97 x cm 67), B (cm 97 x cm 68), C (cm 116 x cm 78), D (cm 118 x cm 79), E (cm 116 x cm 76), F (cm 116 x cm 76), G (cm 117 x cm 75), H (cm 116 x cm 78)
(fig. 17).
La datazione di questi lavori è presumibilmente suggerita dalle fonti documentarie ", Un processo di ricostruzione risulta esplicitamente da questo testo riportato dal Pantanelli: 1235 « Dopnus Gualterius, canonicus S. Mariae, iuratus et interroga-
tus, dicit [...] quod audivit dici quod, propter guerram quam domini de Sermineto olim habebant cum domino Lando Maiore de Ceccano, et propter rehedificationem ecclesie Sancte Marie,
fuerunt dicta officia celebranda translata ad ecclesiam Sancti Petri » ?, Il nuovo gusto verso una spazialità più unitaria e continua, emerge dal cambiamento del ritmo semplice di pilastri romanici, con l’abolizione di alcuni di essi, unitamente ad un maggiore
slancio verticale della massa muraria (fig. 13). Inoltre va rilevata la configurazione di volte a crociera quadrate lungo la na-
vata sinistra, mentre sono decisamente più rettangolari quelle
poste sulla navata destra, facendo supporre un processo trasformativo dell’originario corpo romanico coperto a tetto alla nuova
fabbrica « gotica », nella sua particolare versione cistercense, che presumibilmente
fu condotto
attraverso modificazioni
di
progetto e pentimenti. Le trasformazioni dell'Assunta ? risultano comunque una specie di « prototipo » per le complesse
vicende costruttive delle altre chiese di Sermoneta, soprattutto per San Michele Arcangelo e San Nicola. Il tema della copertura duecentesca con volte della navata originariamente a tetto è comunque ricorrente nell’area in esame, in esempi quali il S. Pietro e S. Maria Maggiore a Ninfa, fino alla sistemazione « cister-
cense » di S. Maria della Libera ad Aquino (1231-1251) o al rinnovamento del duomo di Anagni (attuato intorno al 1250) *.
Particolarmente vicino alle trasformazioni dell'Assunta è il caso del San Lorenzo di Amaseno
(Frosinone), dove si possono ve-
dere almeno due fasi costruttive, con una data precisa 1291 per i lavori ultimati secondo i modi della « scuola di Fossanova » 3.
La chiesa ha un'impianto a tre navate con un coro terminale e due cappelle laterali; nella navata centrale la copertura è a crociera nell’area del presbitero, mentre rimane lignea nelle altre campate; anche le navi laterali mantengono l’orditura lignea.
Come già si è accennato la fase « gotico-cistercense », per l’As-
La chiesa
dell'Assunta. a Sermoneta
409
sunta di Sermoneta non é stata condotta univocamente, in quanto l'analisi diretta del monumento indica che il cantiere si divide
almeno in due momenti principali, ed inoltre sembra avere su-
bito una prolungata interruzione. Tale ipotesi o almeno quella di un lentissimo svolgersi del lavoro, trova conferma dalla lettuta di due testamenti: « anno 1266 [...] pontificatus domini Clementis ITIT, anno I, mense februarii, die ITIT, Johannes Sapiens de Sarmineto, sanus mente et corpore, nolens intestastus
decedere, de bonis suis nuncupatorium condidit testamentum,
in quo testamento instituit suam heredem ecclesiam S. Mariae
cujusdam institutionis: dimisit petiam majorem terrarum suatum juxta Templum, viam de Scrinatiis et heredum quondam Burganelli. Item totam quam medietatem ipsarum terrarum habet mensa comuna ipsius ecclesiae et aliarum medietatem hanc mensa clericorum et sacristia “pro reparatione ecclesie" » ?5, Il secondo testamento di un tale Ricatdus, del 13 septembre 1289 recita: « Item ecclesie S. Marie de Sarmineto [...] pro ornamentis ecclesia et edificis et luminaribus » ?, confermando a tale
data il probabile svolgimento di ulteriori completamenti. Le difficoltà del cantiere sembrano confermate dalla presenza di due soli capitelli a crochets e dall'accentuazione della partitura decorativa solamente nella parte iniziale della navata e non come consuetudine verso l’area presbiteriale, suggerendo l'ipotesi di un vero e proprio programma edilizio interrotto, un'opera avviata e rimasta incompiuta. Infatti non c’è quell'uniformità del linguaggio architettonico della navata centrale che ritroviamo a Sezze, Priverno e Fossanova; anche se è indubbia l’impronta generatrice comune ?, Gli elementi di maggiore compiutezza formale vanno individuati nella coppia di semicolonne addossate ai due primi pilastri e costituite sempre dalla stessa pietra, delimitate superiormente da un astragalo e sormontate dai capitelli a crochets (fig. 14), che appartengono chiarametite ad un momento in cui il linguaggio espressivo si avvale di dirette in-
fluenze « borgognone », riconducibili nell’ambito dell’ordine cistercense, quale si esprimono nell'opera delle maestranze della « scuola di Fossanova » ?. Si tratta di capitelli :a due ‘ordini di foglie, larghe, netvate e ricurve (crochets) ®, una delle quali termina con una testina angolare nella caratterizzazione tipica del XIII secolo (figg. 15-16). Un motivo analogo*losi ritrova in alcuni capitelli di Casamari, nelle cattedrali di Bisceglie, di Troia e a Sermoneta nella chiesa di San Nicola. Ma il motivo delle piccole testine stilizzate poste ai vertici superiori era già presente
in esempi di architettura normanna e in genere francese *. Ca-
mille. Enlart, ne rintraccia i modelli nella chiesa di Montréal nei pressi di Avallon ? Notevoli anche i basamenti delle stesse séinicolonne: In par-
410
Calogero Bellanca
ticolare quello a sinistra è costituito da un plinto cubico, sul quale è impostata una base che possiamo definire attica, con unghie o griffes angolari * come è possibile ritrovarle a Casamari, Fossanova e Valvisciolo. Appoggiati alle due semi-colonne si trovano due leoni stilofori, elementi insoliti in ambito cistercense, che ricordano quelli impiegati in esempi dell’area pugliese, quali il portale della cattedrale di Trani, nel fronte meridionale del transetto della cattedrale di Bari, quello della facciata della chiesa di Santa Maria a Siponto ed ancora nel pot-
tale delle cattedrale di Bitonto per limitarsi a pochi dei moltis-
simi esempi che si potrebbero ricordare. In base a queste analogie si può ipotizzare che i nostri leoni fossero inizialmente posti all’esterno ai lati del portale d’ingresso dell’organismo più antico (fig. 17). Nelle navate laterali, soprattutto in quella destra si riscontrano evidenti richiami ai caratteri dell’architettura locale di ispirazione cistercense del XIII e inizi del XIV secolo. Infatti si possono osservare alcuni semipilastrini pensili (demi piliers retombés), terminati in basso con una sezione tronco piramidale (figg. 19-20). I capitelli invece presentano un appena accennato cavetto e sono per lo piü lievemente incisi da larghe foglie schiacciate o spatiformi. Come per i crochets, anche il motivo del pilastro della colonnetta pensile, è di derivazione borgognona, e si ritrova in varie realizzazioni dell'ordine dell'Italia centrale, ad esempio in Santa Maria di Arabona (Manoppello); sia nel tipo a sezione circolare come in quello a sezione quadrata è impiegato anche nella vicina chiesa di S. Nicola *. Al periodo compreso tra i primi anni e la metà del XIV secolo, conclusivo del cantiere medievale, deve farsi risalire la rea-
lizzazione del corpo del coro con il suo vano quadrangolare, che conferisce l’assetto volumetrico definitivo alla gelis d'Ossat *, ha interpretato l’inclinazione all’asse della navata, presente in alcuni esempi toscana (più precisamente nella chiesa di San
chiesa. Il del coro dell’area Domenico
De Anrispetto umbroa Cor-
tona, nel San Domenico di Spoleto e nel San Fortunato di Todi), come uno specifico accorgimento visuale, finalizzato a indirizzare l’attenzione del visitatore; un effetto simile può essere riconosciuto per il coro dell'Assunta di Sermoneta, mentre vanno escluse in questi casi le interpretazioni simboliche collegate all’inclinatio capitis, o quelle connesse con la presenza di preesistenze che abbiano condizionato l’esecuzione. All’esterno, il portico è costituito « d'une seule travée » *; è ad impianto quadrato, delimitato superiormente da una volta a crociera (fig. 21). Si presenta aperto su due lati, con una
grande arcata verso occidente, mentre quella a settentrione si mostra di dimensioni più ridotte ma sempre a sesto acuto con
La chiesa
dell’ Assunta
a Sermoneta
Ail
ghiere in conci di pietra sagomati. E chiuso ad oriente dal muro che comunica attraverso il portale con l’interno della chiesa, mentre a meridione, dopo l'aggiunta della cappella dei Re Magi (intorno alla metà del XV secolo), con un lato della stessa cappella. Le semicolonne che sorreggono le arcate sono addossate a semipilastri in pietra ed al pilastro angolare; superiormente terminano con capitelli a crochets. Le basi, alcune delle quali poco decifrabili per l’alterazione della pietra, rivelano un lessico d'ispirazione classicista, nella sequenza: zoccolo con listello, gola, plinto unghiato, toro inferiore, listello, scozia e toro superiore (fig. 22). L'Enlart descrive il portico dettagliatamente: les arcades sont en tiers-point et doublées. Le bandeau supérieur, trés mince, est entaillé en cavet; il repose sur de gros piliers carrés. Le second bandeau, large et sans moulure, retombe sur des colonnes engagées. Celles de l'ouest ont des chapiteaux couvett de feuilles d'acanthe; celles du nord sont couronnées de chapiteaux à feuilles cotelées avec pointes épanouies en bouquets de fleurs 3’.
Il semplice portale rettangolate, di ridotte dimensioni, come nel vicino San Michele Arcangelo, & delimitato superiormente da una lunetta, coronata a sua volta « d'un atchivolte à moulures » (fig. 18), che poggia su « consoles à fleurs sculptées », mentre « au bas cóté répond une porte à linteau sur corbeaux
en quart de rond » *. Nella lunetta del portale centrale è un affresco, raffigurante la Vergine col Bambino, tra i santi Pietro
ed Epafrodite. Nella fascia superiore si trova un Cristo fra quattro angeli. La facciata continua ad evidenziare la sua semplice configurazione a capanna, ma si pud vedere il rialzamento creato per contenere il sistema delle volte (fig. 23); inoltre con la costruzione del portico e della cappella a destra, l'ingresso della corrispondente navatella & stato chiuso dall'esterno.
Murature
Si riassumono brevemente, per quanto riguarda le strutture
murarie, le osservazioni relative ai campioni presi in esame. Tra i materiali impiegati si distinguono due tipi di pietre: il primo & la cosiddetta « vetrola », una pietra calcarea compatta e solida, che permette di ottenere i tufelli nelle dimerisioni volute. Questo materiale denota una buona resistenza alle aggres-
sioni chimico-fisiche e presenta un colore tendente‘al bianco.
L'altra è la pietra « saponara », un’arenaria adoperata per bloc-
chi meno regolari, spugnosa e di colore tendente al giallo-bruno. Le malte impiegate risultano di due tipi, differenziati in particolare dalla qualità della pozzolana. In corrispondenza dei tufelli si ritrova una malta tenace, caratterizzata dall'uso di pozzo-
lana tossastra con una granulazione minuta e con qualche punto
412
Calogero Bellanca
nerastro, ma con una coloritura generale tendente al rosa. Il secondo tipo, ottenuto con una pozzolana piü scuta, grigiastra,
si presenta con una granulazione più grossa, con molti granelli
neri e colore grigio; è impiegata in particolare alla base del campanile.
Da una prima mappatura, sí possono distinguere almeno otto
tipi diversi di apparecchiature murarie, presenti in più parti
dell'organismo edilizio. Il campione 1 ed il 3, riguardano la base
del campanile ed evidenziano un'opera quadrata, costituita da
pietra locale in conci riquadrati e spianati; la lunghezza varia
tra i 20 cm ed i 50, l'altezza tra i 12 ed i 28 cm; la malta ha
spessore tra 1 e 2 cm e una finitura piatta. La datazione puó
essere fatta risalire al nucleo iniziale della chiesa, intorno al XII secolo. I campioni nn. 2 e 6 si trovano nel campanile e nelle cappelle più antiche, come quella dedicata a San Bartolo-
meo (terza cappella lungo la navata sinistra) (fig. 24) e quella dedicata a Maria Maddalena
(lungo la navata destra). E una
muratura costituita da blocchetti rettangolari, o tufelli, che presentano una lunghezza compresa tra i 9 ed i 25 cm, con un'altezza tra i 5 e gli 8 cm. La malta registra uno spessore compreso tra i 2 ed i 3 cm, con finitura concava. La datazione oscilla intorno alla metà del XIII secolo. I tipo nn. 4 e 8 (cappella di
San Pietro e muro di tompagnamento meridionale del portico) testimoniano una muratura definibile di transizione, per l'impiego di pietrame di dimensione pià vario, ma tendente al qua-
drato, con malta di spessore compreso tra 1 e 3 cm. La liscia-
tura è profonda. Le unità 5 e 7, classificabili invece come opera incerta, in quanto evidenziano una lavorazione più grossolana, si osservano all'esterno della cappella della Passione e della cap-
pella di San Giuseppe. La tecnica costruttiva delle murature più
recenti si presenta con un'apparecchiatura sempre più grossolana, meno regolare e rifinita; cambiano le lavorazioni che risultano miste. Le finiture sono varie, e si riscontrano unità stratigrafiche che in taluni tratti sono ricoperte da tracce di intonaco o presentano ampi rappezzi (fig. 25). Volte estradossate
Altro elemento caratteristico della costruzione basso-medievale (seconda fase costruttiva) & l'impiego di volte estradossate. In queste volte, siano esse unghiate, a crociera, a botte, a padiglione, è presente un chiaro riferimento alla tecnica costruttiva bizantina, ed a quella araba, e a esempi ampiamente diffusi tra il IX e il XIII secolo entro l'intero bacino del Mediterraneo ?. Ancora oggi le tracce di queste volte estradossate sono leggibili
La chiesa dell'Assunta
a Sermoneta
413
lungo i prospetti settentrionali e meridionali dell’Assunta, rese in particolare visibili dagli interventi effettuati dalla soprintendenza negli anni Cinquanta e Sessanta. Nei sottotetti è ancora possibile esaminare l'andamento originario delle volte e l’orditura della copertura. L'effetto spaziale doveva risultare di un’intensa plasticità, esaltando all’esterno l’articolazione dello spazio interno. I riferimenti sono molteplici, e trovano riscontri
significativi anche negli immediati dintorni. È sufficiente ricot-
dare la chiesa dell’ Abbazia di Valvisciolo che presentava questo tipo di apparecchiatura, ma gli esempi si moltiplicano scendendo verso la Marittima; a Gaeta, San Giovanni a Mare, Santa Lucia, e San Domenico; a Maranola-Formia, Santa Maria; a Minturno,
San Pietro Apostolo ?; quindi a Capri, il San Costanzo e la
cappella della Croce o di S. Michele, ad Anacapri la chiesa di Santa Maria, a Napoli il San Giovanni a Mare, ad Itri, il San Cristoforo. Il tipo è presente anche in chiese pugliesi #, ed in Sardegna, nella chiesa di San Giovanni in Sinis (Oristano), nel San Teodoro di Congius e nella parrocchiale di Monserrato a Cagliari *.
L’analisi dei materiali, condotta attraverso il prelievo di al-
cuni campioni * tratti sia dall’Assunta che dal San Pietro di Ninfa, ha evidenziato l’uso di un conglomerato compatto e duro, con componenti di breccia fine, cocciopesto e materiale tufaceo.
L’inerte è in rapporto alto rispetto al legante che risulta di buo-
na qualità (figg. 26-27).
Il campanile
Per completare la lettura delle strutture medievali è necessario esaminare il campanile, il quale originariamente (sec. XII) era isolato e vi si accedeva da un ingresso posto sul versante sud-orientale, oggi occupato dalla cappella di San Pietro, costruita tra il XIV e XV secolo (fig. 36). Il campanile, a pianta qua-
drata, presenta un’altezza di m 24 con un totale di sei piani fuo-
ri terra (figg. 28-29).
-
Il parametro murario è essenzialmente costituito da tufelli
disposti a corsi regolari. Gli spigoli sono costituiti da pietrame calcateo di dimensione maggiore. Il Pantanelli lo definisce « composto di pietre da cento » *. Il blocco basamentale mostra uno
spiccato alto circa il doppio degli altri singoli piani ed aperto
solamente da una ridotta feritoia, ampiamente strombata all'in-
terno. La fronte sud-occidentale è decorata da tre croci 9. Come già si è osservato, in tale basamento si ritrovano diversi tipi di apparecchiatura muraria, per cui put senza la piena certezza
414
Calogero Bellanca
documentatia, l’analisi dei caratteri costruttivi consente di considerare questa parte come quella superstite dell'antica chiesa o Pieve di Santa Maria di Sermoneta, databile al primo venten-
nio del XII secolo #,
Il primo piano « cieco », & anch'esso costituito dai tufelli; sul
lato nord-occidentale è posizionata in aggetto un’edicola costituita da due archi sovrapposti; uno acuto e l'altro a pieno centro con tracce di affreschi sulla muratura. L'edicola è poggiata su colonnine poste tra due mensole sporgenti. I quattto piani superiori sono traforati da bifore con colonnine marmoree bi-
nate, sostenute da un’unica base poggiante sul davanzale e delimitata superiormente da un unico capitello a stampella. L’in-
sieme della bifora è chiusa da due arcate a profilo semplice con
ghiera in mattoni. Le ghiere in laterizio che si snodano orizzontalmente assumono la funzione di una cornice d’imposta leggermente aggettante dal paramento vero e proprio. Inoltre la stesura dell'apparec-
chiatura muraria è articolata dalle cornici marcapiano poste su mensole aggettanti e formate da due riseghe con dentelli e filari
in cotto. Più in dettaglio tali cornici appoggiano su mensole,
costituite da 6 o 7 fascie di mattoni disposti alternativamente liscie oppure a denti di sega o su mensole di pietra calcare, la cui sagoma formata da un listello e da una pronunciata gola ".
La superficie esterna dei quattro piani superiori è inoltre im-
preziosita dalla presenza delle tonde maioliche colorate o scodelle, disposte a gruppi di tre. Il trattamento delle cornici mar-
capiano, traduce con uso di un materiale più modesto, il modello delle cornici classiche *; più in generale il carattere del
campanile riprende il tipo dei campanili romani della seconda
metà del XI secolo con alcuni richiami ad esempi lombardi ©. Tra i campanili romani, quelli raccolti da Giovannoni, attorno all'esempio di Santa Maria ad Pineam™, a parte la differenza del materiale costruttivo risultano i più aderenti. La sezione interna è composta da un’unica struttura, con so-
lai intermedi mobili. Allo stato attuale il campanile dell’Assun-
ta è mancante della guglia terminale distrutta da un fulmine nel 1576. Un graffito inciso sul pilastro angolare del portico ricorda l’episodio « lo trone dette al campanile » (fig. 30). Il dipinto
su tavola di Benozzo Gozzoli (1452) conservato nella prima cap-
pella della navata destra e dedicata ai santi Giuseppe e Leo-
natdo, raffigurante la Vergine Assunta con la cittadina di Ser-
moneta in grembo, mostra il campanile ancora con « la piramide di mezzo, le altre quattro picciole negli angoli » * e un timpano triangolare posto a raccordo tra l’ultimo ordine e la guglia. Il dipinto risulta di una estrema importanza storica per la ricostruzione di Sermoneta nel XV secolo, in quanto nella parte
La chiesa
dell’ Assunta
a Sermoneta
415
sinistra sembra riconoscibile la chiesa di San Michele con il suo
campanile di dimensioni ridotte, ma anch'esso cuspidato. Sintesi delle vicende costruttive nell’eta moderna
Per quanto attiene le trasformazioni postmedievali del complesso, nell'impossibilità di offrire una descrizione dettagliata
entro i limiti di questa relazione, ci si limita a produrre una sin-
tetica cronologia degli avvenimenti più importanti, in relazione alle vicende costruttive della fabbrica. Le modificazioni più rilevanti sono state rivolte, come di consueto nel periodo rinascimentale.e barocco, allo spazio interno
dell'edificio, con il rinnovamento delle superfici muratie, delle
fonti di luce e con l'apertura di numerose cappelle, mentre le facciate rimangono in gran parte inalterate, se non per l'aggiunta
di corpi di fabbrica laterali o posticci ”. Ai lavoti eseguiti in periodo barocco e tardobarocco si deve percid oggi la facies dominante dell'edificio, per quanto riguar-
da l'immagine interna, ma non si possono tralasciare le ulterioti trasformazioni ottocentesche (decorazione pittorica), nonché gli effetti dei « restauri » che, riportando in luce aspetti della fabbrica « romanica » e « gotica », incidono significativa-
mente sulla visione (fig. 31). In sintesi gli avvenimenti più si-
gnificativi possono essere, allo stato attuale degli studi, così riassunti: . metà del XV secolo: viene costruita la cappella dei Re Magi, chiudendo cosi, sia il portico a metidione che l'ingresso alla navata destra.
1452:
Benozzo Gozzoli dipinge la tavola « della Madonna
degli Angeli ». 1460: i canonici dell'Assunta concedono il terreno ai Battenti per la costruzione del loro Oratorio, già ospitati nella cappella dei Re Magi. 1495: durante il pontificato di Alessandro VI, si realizza l'oratorio dei Battenti.
1499:
costruzione della cappella dedicata a San Pietro.
1515:
viene sistemata l'edicola scultorea per l'olio santo, tra
il coro e la cappella di San Francesco di Sales, in fondo alla navata destra.
1565: un fulmine fa cadere la cuspide del campanile. 1603:
il coro viene affrescato su iniziativa della famiglia
Americi con temi raffiguranti la Natività, la Presentazione al Tempio, l'Annunciazione, la Visitazione e l'Assunzione.
416
Calogero Bellanca
1606: Paolo V, nomina cardinale Bonifazio Caetani. Si realizza la cappella De Angelis e si avviano dei lavori nella cappella San Bartolomeo. 1615: si realizza la cappella de Marchis, già intitolata ai santi Giuseppe e Leonardo. | 1626:
Urbano
VIII
nomina
cardinale Enrico
Caetani.
1628: fondazione della confraternita del Rosario da patte del duca Francesco Caetani, che si insedia nella cappella già dedicata a san Francesco di Sales e san Pietro in Vincoli. L'impianto
è circolare, delimitato superiormente da una cupola con lanternino:
1704:
costruzione della cappella del Redentore sul fondo del-
la navata sinistra. 1715: vengono affrescate le pareti della cappella del Rosario. Inoltre si realizza la nuova sacrestia con l'aggiunta di un nuovo corpo di fabbrica nella preesistente cappella dedicata a sant'Antonio verso l'antico cimitero.
1757: notizie di non meglio identificati lavori di riparazione nella navata sinistra. 1740: costruito l'altare maggiore e il baldacchino. 1760: si realizza l'altare nella cappella del Redentore. 1796: viene affrescata la cappella della madonna della Vittoria.
1829:
notizie di lavori nella navata sinistra.
1942 e 1943: restauri nel campanile e nella facciata a cura della soprintendenza ai monumenti del Lazio (Terenzio). 1954: si riscoprono frammenti di affreschi (Giudizio Universale) sulla controfacciata della chiesa. 1960: interventi di deumidificazione alla cappella del Rosario, con rifacimenti dei pavimenti, balaustre e aperture di due finestre. 1963-1965: vengono condotti vari lavori di « restauro » all'interno e sulle coperture.
Note Lo studio che qui presento sviluppa la tesi di laurea di Domenico
D’Anto-
nio sull’Assunta di Sermoneta, relatore il prof. Giovanni Carbonara, aa. 19901991
che ringrazio per aver fornito
rilievi. Ringrazio
altresì il parroco
della
chiesa di Santa Maria Assunta, per avermi agevolato durante le frequenti gior-
=
E
te.
2. Santa Maria Assunta, veduta parziale da meridione; in primo piano tempo, quali la nuova sacrestia e la cappella del Rosario.
alcuni corpi
aggiunti nel
3. Il rilievo
architettonico.
Pianta
con
le trilobazioni.
4. Il rilievo
architettonico.
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10. Sezioni trasversali.
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12. Analisi — proporzionale. Restituzione della chiesa della chiesa con riferimenti all’area abruzzese-campana.
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Maria Assunta , interno , la navata
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13. Santa
1
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centrale e il coro.
14. Santa Maria Assunta, interno, navata centrale, veduta parziale di scorcio verso sinistra con il primo pilastro, la semicolonna, il leone stiloforo ed il crochet. Si nota il cambiamento del ritmo dell'intercolumnio, mentre sono visibili le fonti di luce medievali e quelle del rinnovamento
moderno.
15. Santa Maria Assunta,
navata centrale, capitello
a crochet.
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16. Santa
Maria
Assunta,
navata
centrale, capitello
a crochet
con
la testina angolare.
17. Santa Maria. Assunta, navata centrale, particolare del leone stiloforo e della base unghiata della semicolonna.
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18. Santa Maria. Assunta, portico, particolare della lunetta che delimita il portale d chiesa.
ingresso
alla
19. Navata
destra,
particolare
dei
pilastrini
pensili,
terminati
con
la sezione tronco
piramidale.
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20. Origine dei Semipilastri pensili. (Disegni
di Giuseppe
Zander).
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21. Santa Maria Assunta, particolare, il portico, veduta patziale di scorcio da sinistra. Si può vedere in primo piano una parte del basamento del campanile e sullo sfondo una parte della facciata a campana della chiesa.
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Santa
Matia
As sunta,
particolare,
portico,
particolare
di una
base.
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23. Santa Maria Assunta, Portico e facciata, veduta parziale di fronte. Sono evidenti mento delle falde dei tetti, l'oculus e parte del contrafforte verso il campanile.
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24. Santa Maria Assunta, navata destra, cappelle, particolare di alcune murature. San Bartolomeo sono presenti i tufelli.
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25. Santa
1 apparecchiatura
muratuta esterna.
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26. Santa Maria Assunta, il sottotetto
?
part icolare della volta estradossata.
27. Ninfa, San Pietro, partico lare d i una vo lta estradossata.
28. Santa Maria Assunta,
il campanile prima
dell'intervento
del Terenzio.
29. Santa Maria Assunta,
il campanile
allo stato attuale.
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30. Santa Maria Assunta, portico, particolare del graffito del pilastro d’angolo.
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. Santa Mar ia Assunta, frammenti dell'affresco rinvenuto sulla controfacc lata e d in primo le tracce s ui p i lastri ‘romani ici’ dopo la ‘derestauration > .
piano
La
chiesa
dell'Assunta
a Sermoneta
417
nate trascorse nella chiesa collegiata di Sermoneta. Desidero ringraziare ancora i professori Corrado Bozzoni e Giovanni Carbonara per i frequenti consigli e suggerimenti ticevuti. Infine un ringraziamento va all'architetto Antonella Li.
copoli della Soprintendenza ai beni ambientali e architettonici del Lazio per le facilitazioni avute nella consultazione del materiale archivistico inerente la chiesa. 1 p. PANTANELLI, Notizie storiche della terra di Sermoneta, XII, edite da LEONE CAETANI, Roma 1972 (ed. orig. 1908-1911), soprattutto le pp. 72-73. 2 c, MAROCCO, Monumenti dello Stato pontificio e relazione topografica di ogni paese, Roma 1834, pp. 84-85.
3 M, RAYMONDI - G. CORNIOLA, Sermoneta e auticbità delle terre Pontine, Ron-
ciglione 1893, p. 71. 4 c. ENLART, Origines francaise de l'architecture gothique en Italie, Paris 1894, pp. 9, 11, 17, 138-145, 148-149, 255, 266, 269, 273, 277 e 293. 5 4. MUNOZ, Momenti d’architettura gotica nel Lazio, in « Vita d'arte », settembre 1911, n. 45, p. 101. Dalle brevi considerazioni del Muñoz, allora giovane ispettore, storico dell'arte, della Soprintendenza ai Monumenti del Lazio, si evidenzia come l'architettura barocca non trova gli stessi apprezzamenti nei restauri compiuti, rispetto agli studi di storia dell'architettura, in quanto si pre. ferisce tornare all'unità stilistica medievale. Questa riflessione sul Mufioz la puntualizza pet primo G. MIARELLI, Monumenti nel tempo, per una storia del restauro in Abruzzo e nel Molise, Roma 1979, p. 47. 6 A. SERAFINI, Torri campanarie di Roma e del Lazio nel Medioevo, Roma 1927, pp. 120-122. 7 A, TERENZIO, Sermoneta, chiesa di S. Maria della Pieve, restauri al campanile, in « Le Arti», IV, 1941-1942, pp. 299-300. Anche per l'attività di restauro condotta dal Terenzio, allora soprintendente ai Monumenti, si possono applicate le medesime considerazioni fatte su Muñoz, con la differenza. che in Terenzio prevale l'aspetto tecnicistico nell’affrontare e cercare di risolvere i singoli problemi. 8 R. WAGNER RIEGER, Die Italienische Baukunst der Gotik. II. Sud- und Mir. telitalien, Graz-Kôln 1957, p. 82. ? G. TAMANTI, La chiesa di Santa Maria Assunta im Sermoneta, in « Bollettino dell'Istituto di storia e di arte del Lazio meridionale», VIII, 1975, 2, pp. 75-92. 10 M.L. DE SANCTIS, Insediamenti monastici nella regione di Ninfa, in Ninfa una città, un giardino, Atti del colloquio della Fondazione Camillo Caetani, Roma-Sermoneta-Ninfa, 7-9 ottobre 1988, Roma 1990, pp. 271-272. ll p, LONGO - F. SASSOLI, Sermoneta, Roma 1992, pp. 23-43. 12 R. BONELLI, L'edilizia delle chiese cistercensi, in I Cistercensi e il Lazio, Atti delle giornate di studio dell’Istituto di storia dell’arte dell’Università di Roma 17-21 maggio 1977, Roma 1978, p. 37. 13 G. CARBONARA, Edilizia e urbañistica di Ninfa, in Ninfa una città, pp. 235238. 4A cura del Ministero della pubblica istruzione, Soprintendenza ai monu-
menti del Lazio, lavoti di restauro della chiesa di Santa Matia Assunta, Perizia
n. 353, del 30-5-63. La descrizione -dei lavori prevede tra l’altro: riordino deflusso delle acque, sistemazione delle coperture tra la navata di destra e le cappelle, « riordino pietra da taglio nella chiesa » (giugno 1964), firmato il Soprintendente R. Pacini. Da altri documenti conservati presso l'atchivio della Soprintendenza, in data 26 luglio 1970, si legge della volontà della tidipintura delle volte e delle pareti della chiesa, « un nuovo aspetto che metterebbe in risalto finalmente la sua semplicità architettonica nella sobrietà dello stile». 15 c. DE ANGELIS D'OSSAT, Origine e diffusione dei prospetti ad andamento obliquo nelle chiese salonitane, e 1p., Il problema delle facciate ad impianto obliquo negli edifici paleocristiani, in Realtà dell Arcbitettura. Apporti alla sua storia, 1933-1978, a cüta di L. MARCUCCI e D. IMPERI, Roma 1982, 1, pp. 395-402, 405-413. 16 CARBONARA, Edilizia, p. 236. 17 ip, Jussu Desideri, Roma 1979, pp. 100, 108, 110-111, 126-128, 141. Sul tema delle chiese a pilastto soprattutto abruzzesi si vedano anche, 1 GAVINI, Storia dell’architettura in Abruzzo, Milano-Roma s.d. (1927-1928) e M. MORETTI, Arcbitettura medioevale in Abruzzo, Roma s.d.; 1971, pp. 14-103.
418
Calogero Bellanca
18 A. PRANDI, San Giovanni di Patù e altre chiese di terra d’Otranto, in « Pal. ladio », XI, luglio-dicembre 1961, pp. 103-136. 19 c. Bozzoni, Calabria normanna, Roma 1974, pp. 169-203.
20 Ivi, e CARBONARA, Edilizia, p. 236; specifici riferimenti per Colonia in M. D'ONOFRIO, Roma e Aquisgrana, Roma 1983, pp. 90-94; per Nivelles, H.E. KUBACH - A. VERBEEK, Romanische Baukunst an Rhein und Maas, II, Berlin 1976, pp. 860-868; per altri riferimenti in chiese del Belgio (provincia di Namur), ivi, I, pp. 354-355. Si veda inoltre R. BONELLI, C. BOZZONI, V. FRANCHETTI PARDO, Storia dell’architettura medievale, Roma-Bari 1997, pp. 22, 23, 27. 22 PANTANELLI, Notizie storiche, p. 175. 23 Camille Enlart con due definizioni in linea con la cultura dominante del suo tempo in Francia verso le preesistenze monumentali, spiega questi lavori nel-
l’Assunta: « Elle a été agrandie et restaurée en style gothique, puis en style baro-
que », p. 138. 24 CARBONARA, Izssu, pp. 122, 124, 144-145. 2 ENLART, Origines, pp. 111-116. 26 Ivi, pp.139-140. ?! Ivi, p. 140. 28 Per la lettura dei caratteri generali comuni dell'architettura cistercense si ricordano gli scritti di Anselme Dimier, Camille Enlart, Marcel Aubert, Alberto Serafini, Renate Wagner Rieger, Wolfgang Kronig, Hanno Hahn, Angiola Maria Romanini, oltre a Pietro Toesca, Emilio Lavagnino ed uno degli ultimi scritti di Giuseppe Zander. | 29 ENLART, Origines, p. 142. Questo concetto è stato ampiamente ripreso nell'ambito del convegno di studi I Cistercensi e il Lazio e continuamente affrontato dagli studi di Angiola Maria Romanini e si ritrova con continui approfondimenti su « Árte medievale » e nella recente Enciclopedia dell'arte medievale. 30 Questi capitelli a foglia o fiamma rampante, definiti a crochet, in italiano si possono classificare anche come rampino, gancio, uncino, si diffusero nel XIII secolo, ma sempre di derivazione borgognona. Cfr. E. VIOLLET LE DUC, Dictionnaire raisonné de l'architecture française du XIe au XVIe siècle, IV, Paris 1859, pp. 400-418. Cfr. ENLART, Origines, p. 141. Alcune considerazioni più recenti sulla loro diffusione si trovano in P. PugLISI, Capitelli dell’ Abbazia di San Galgano, in I Cistercensi e il Lazio, p. 177; G. CARBONARA, Considerazioni su alcuni impieghi del crochet e della contre-courbe nell'Italia centrale, in Saggi in onore di Guglielmo De Angelis d’Ossat, Quaderni dell'Istituto di storia dell’architettura, 1985-1987, Roma 1987, p. 95 e in A. PERONI, voce Capitello, pp. 195-196 € C. GHISALBERTI, voce Cistercensi, in Enciclopedia dell'arte medievale, IV, Roma
1992, p. 839.
31 PERONI, Capitello, p. 196. 32 ENLART, Origines, p. 141. 33 Per questi dettagli architettonici, cfr. vIOLLET LE DUC, Dictionnaire, Paris 1863, pp. 47-52 e ENLART, Origines, pp. 279-280. # Sulle origini dei semipilastri pensili si possono rintracciare alcuni esempi nelle « colonnette pensili di cui si fregiavano talune sale delle terme di Tito, ricostruite da Traiano a Roma e nella navata della basilica di Qalb-Louzeh in Siria». Queste ultime colonnine presentano un duplice pulvino sostenute da
travature lignee e sono accoppiate su mensole cubiche a « cul-de-lampe » (sec.
VI). c.r. RIVOIRA, Le origini della architettura Lombarda, Y, Roma 1901, p. 152. Sembra significativo riportare uno schizzo di Giuseppe Zander, ritrovato tra le pagine di un'edizione del Rivoira che accetta queste origini per i pilastrini pensili. Si ringrazia la famiglia Zander per l'autorizzazione della pubblicazione del disegno (fig. 20). Sui « demi piliers retombé », cfr. ENLART, Origines, pp. 144-
, 269.
35 G. DE ANGELIS D'OSSAT, Proporzioni e accorgimenti visuali negli interni, in AA.vv., Francesco d’Assisi, chiese e conventi, Milano 1982, pp. 150-162, 36 ENLART, Origines, p. 140.
37 Ivi, p. 142.
38 ? volta della
Ivi, p. 142. In gran parte di queste realtà costruttive, c'è il netto predominio della a botte estradossata. Il procedimento seguito per il rivestimento esterno volta, formata in muratura ordinaria, ci viene descritto da Roberto Pane:
La
chiesa
dell'Assunta
a Sermoneta
419
« consiste nel disporre uno strato di 15 o 20 cm di lapillo vulcanico inzuppato nel latte di calce. Una squadra di operai pet tre giorni procede alla battitura servendosi della mazzoccola (una spatola di legno) con la faccia inferiore piana
ed i lati foggiati ad angolo acuto ». In R. PANE, Capri mura e volte, Napoli 1965,
p. 24. Si veda inoltre c. FIENGO, Gaeta, monumenti e storia urbanistica, Napoli 1971, soprattutto le pp. 59-72 e A. VENDITTI, Architettura bizantina nell'Italia
meridionale, Napoli 1967.
4 c, ZANDER, Precisazioni sulla chiesa di San Pietro di Minturno, in « Bollettino del Centro di studi per la storia dell’architettura », 24, 1976, pp. 19-27.
4 Per un primo approccio alle volte pugliesi oltre al già citato Venditti, si vedano gli Atti del IX Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura, Bari 1016 ottobre 1955, Roma 1959, soprattutto i contributi del Berucci e del Chierici e del Simoncini. | 4 Per un sintetico riferimento alle volte medievali in Sardegna si vedano gli Atti del XIII congresso di Storia dell’Architettura, Cagliari 6-12 aprile 1963.
43 L'analisi effettuata nel laboratorio di restauro attivato presso il Diparti-
mento di storia dell’architettura, restauro e conservazione dei beni architettonici dell’Università di Roma la Sapienza, si è avvalsa di riprese in luce riflessa, rapporto d'ingrandimento intorno a 12 x 4 di stampa. Si è usata la pellicola Kodak EPY 64 ASA, su microscopio stereoscopico Zeiss S.V.8, previa la preparazione dei singoli campioni di circa 1 cm levigati a secco e disposti su di un supporto elastico. 44 PANTANELLI, Notizie, p. 78. 5 SERAFINI, Torri, p. 121. 46 PANTANELLI, Notizie, p. 78.
47 G. GIOVANNONI, L'arcbitettura dei monasteri sublacensi, Roma 1904, p. 45.
4 rp, Campanili medievali romani, in « Atti del IV convegno nazionale di storia dell'architettura, Milano 18-25 giugno 1939 », p. 10 dall'estratto.
49 GIOVANNONI, L'arcbitettura, p. 49.
50 1p, Campanili, p. 11 dall'estratto. 51 PANTANELLI, NozZizie, p. 78. 52 Sul significato degli interventi sulle preesistenze prima del restauro modernamente inteso si vedano: G. DE ANGELIS D'ossAT, Restauro: architettura sulle preesistenze, diversamente valutate nel tempo, in «Palladio», XXVIII, 1978, 2, pp. 51-68; MIARELLI MARIANI, Monumenti nel tempo, soprattutto le pagine 81-108; s. BENEDETTI, L’architettura dell'epoca barocca in Abruzzo, Atti del XIX Congresso di storia dell’Architettura, L’Aquila 15-21 settembre 1975, Roma 1980, pp. 275-312; G. CARBONARA, Trasformazioni posteriori, in AA.VV. Francesco d'Assisi, chiese e conventi, Milano 1982, pp. 162-177; L. BARTOLINI SALIMBENI, Su alcuni «restauri » di antiche chiese romane, in Esperienze di storia dell’architettura e di restauro, a cura di GIANFRANCO SPAGNESI, Atti del XXI Congresso di storia dell’architettura (Roma 1983), Roma 1987, pp. 275-285. Si segnalano ancora i più recenti scritti di M.P. SETTE, Profilo storico in Trat-
tato di restauro architettonico, diretto da G. CARBONARA, Totino 1996, I, pp. 109-
299, in particolare pp. 109-144, e G. CARBONARA, Avvicinamento al restauro. Teoria, storia, monumenti, Napoli 1997, soprattutto la patte seconda, Nofe di storia del restauro.
Lia Barelli
La chiesa di San Michele Arcangelo a Sermoneta
La città di Sermoneta viene citata dalle fonti per la prima volta nel Liber Pontificalis in relazione ad un avvenimento del 1116 circa, quando insieme con Tivera e Ninfa si ribelld al pontefice
Pasquale IT !. Se si presta fede ad una notizia riportata da Pietro Pantanelli, lo storico settecentesco che scrisse una cronaca delle vicende della città, la chiesa di S. Michele Arcangelo a Sermoneta (figg. 1-2) si affaccia alla storia quasi contemporaneamente: secofido un perduto documento sarebbe stata consacrata nel 1120:dal vescovo di Terracina Gregorio ?; essa certamente già esisteva nel 1169 quando una sua proprietà viene citata come confinante di un terreno che faceva parte dei beni della chiesa collegiata di
S. Maria Assunta di Sermoneta *. Anche se la sua esistenza è dunque provata con sicurezza almeno dalla seconda metà del XII secolo, dopo questa data sono giunte fino a noi ben poche fonti testuali che la citino, e nessuna che parli in maniera esplicita delle sue vicende edilizie; precedenti al 1549, anno in cui Camillo Caetani fece intraprendere dei lavori di ampliamento e ricostruire l’altare maggiore *. Le trasformazioni dell’edificio
Quali trasformazioni abbia subito l’edificio in questo lungo intervallo di tempo può pertanto essere ricavato solo da una
attenta lettura condotta direttamente sul monumento. A-tal fine
è stato necessario eseguire un rilievo completo, strumento essenziale per comprendere l’effettiva consistenza storica e figutativa (fige. 18-24). Graziead esso, se da un lato sono state ottenute
nuove informazioni o sono stati chiariti alcuni interrogativi suscitati dagli studi precedenti?, dall'altro sono sorti nuovi problemi, coll'evidenziarsi delle tracce di numerose stratificazioni delle quali non sempre sembra facile dare una interpretazione senza eseguite saggi nelle murature. |
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Lia Barelli
Esso ha comunque consentito una migliore definizione dei momenti costruttivi medievali della chiesa attuale. Tralasciando le tracce difficilmente interpretabili di alcune preesistenze, le fasi dotate di una relativa completezza risultano due per quel che riguarda il corpo della chiesa, alle quali va aggiunta una terza re-
lativa all'inserimento del campanile. E stata infatti confermata
l'ipotesi, già precedentemente formulata$, dell'esistenza di una più antica chiesa (fig. 4), che per semplicità definiremo romanica, a tre navate divise da massicci pilastri rettangolari, poi radicalmente trasformata in un organismo caratterizzato da pilastri com-
positi che raccolgono volte a crociera e archi trasversali di sepa-
razione delle campate, entrambi a sesto acuto, di chiaro gusto gotico. Due degli originari pilastri rettangolari sopravvivono in-
fatti inglobati all'interno dei primi due pilastri compositi a partire dall’ingresso, ben individuabili grazie alla loro muratura
che si differenzia nettamente da quella delle lesene che vi furono addossate, realizzate in blocchi di pietra ben squadrata (figg. 5-6). A queste due fasi si sono accompagnati numerosi piccoli interventi di modifica ancora in epoca medievale, cui si sono poi aggiunte le trasformazioni moderne che hanno interessato in patticolare Ja zona del coro, la costruzione ex novo delle cappelle e di un portico antistante la facciata della chiesa, e la costru-
zione, l'ampliamento e le modifiche degli edifici annessi al corpo
della chiesa, dalla sacrestia alla residenza dei canonici. Per quel che riguarda la fase più antica, cioè quella della chiesa romanica, le sue parti residue, oltre i già citati pilastri, sembrano potersi individuare nella attuale facciata e nei due muri laterali delle navate, con qualche dubbio per il sinistro *. La facciata in cortispondenza delle navatelle doveva attivare in altezza fino alle prime tracce di ripresa muraria oggi visibili e probabilmente avere un profilo basilicale ?. I referenti più vicini sono della stessa città di Sermoneta, dove anche le altre due chiese medievali giunte sino a noi, S. Maria Assunta e S. Nicola, erano chiese a tre navate divise da pilastri,
peraltro successivamente trasformate in maniera analoga al S. Michele. Un altro confronto storicamente e geograficamente valido può essere fatto con S. Pietro fuori le mura e S. Maria Maggiore a Ninfa, sempre con navate separate da pilastri al posto di colonne. Queste chiese, considerate nel loro insieme, sembrano indi-
care una certa uniformità delle caratteristiche dell’architettura
religiosa della zona, che può essere messa in rapporto con la presenza di influssi artistici provenienti dall’Italia meridionale,
già del resto individuati sia nelle pitture !°, sia nell’architettura religiosa di Ninfa ‘1.
La chiesa di San Michele Arcangelo a Sermoneta
423
Il S. Michele potrebbe confermare ulteriormente questa tendenza ad una risalita delle esperienze culturali ed artistiche da sud verso nord e non solo per la presenza dei pilastri: nessuna delle chiese citate presenta infatti le sue stesse proporzioni. Mentre in esse l’ampiezza della navata centrale è molto maggiore di
quella delle laterali, nel S. Michele, al di là dell’irregolarita dell’impianto, tende ad essere uguale. Questa considerazione, unita allo scarso sviluppo in lunghezza delle navate, non può non richiamare alla mente impianti centrici di derivazione bizantina e in generale meridionale, che del resto ben si adattano all'intitolazione stessa dell’edificio, a sua volta forse in rapporto con la collocazione geografica in un sito elevato che si affaccia sulla valle sottostante P.
Si potrebbe ipotizzare o che una preesistenza con caratteristi-
che più simili ad una pianta centrale abbia influenzato le proporzioni dell’impianto romanico, oppure che ci si sia volutamente richiamati ad una tipologia diffusa per gli edifici dedicati all'Arcangelo ?. La prima ipotesi potrebbe essere avvalorata sia da alcune tracce. rilevabili nell’edificio che sembrano appartenere ad un edificio precedente quello romanico, in particolare una differenza nella parte basamentale della facciata della. muratura con la presenza di una piccola risega, sia dall’ipotesi di una
origine più antica del luogo di culto, risalente addirittura ad
epoca romana, fatta dal Pantanelli e forse avvalorata dalla presenza di alcuni ritrovamenti iz situ“. Nonostante questa ipotesi si riveli la più affascinante, anche perché può essere messa in relazione con quella di un’origine bizantina o quantomeno altomedievale della città stessa di Sermoneta ?, non si può co-
munque escludere che le attuali proporzioni dell'impianto siano derivate dalla necessità di realizzare un ambiente piuttosto am-
pio in una situazione fortemente vincolata da edifici circostanti
e dalla conformazione accidentata del terreno. Tralasciando problemi che sono destinati a rimanere insoluti
senza effettuate nuove indagini, è forse anche eccessivamente facile ipotizzare che la chiesa a pilastri possa essere quella consactata dal vescovo di Terracina nel 1120. Questa datazione potrebbe essere avvalorata anche dal confronto con le chiese di
Ninfa, se si accetta l'ipotesi cronologica che le pone. agli inizi
del XII secolo 5. Del resto è proprio questo secolo che segna per gli istituti ecclesiastici della regione pontina il periodo di maggior fioritura P. | Ipotesi sulla antica planimetria Quali fossero la planimetria completa e la terminazione di
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Lia Barelli
questa fase dell'edificio & oggi difficilmente ipotizzabile, anche perché l'irregolarità dell'impianto impedisce ipotesi ricostruttive basate su simmetria, modularità o altre leggi geometriche semplici. I riferimenti alle chiese ninfane, e in generale quelli all’architettura religiosa romanica, portano a supporre che la chiesa dovesse terminare con un’abside semicircolare. L'attuale lungo coro è il risultato di varie modifiche tra cui quelle apportate da
Camillo Caetani nel 1549, ma grazie all’analisi diretta dell’edificio e al rilievo, è stato possibile individuare le tracce di un pre-
esistente coro quadrato. Di esso sopravvivono lo spigolo destro inglobato nella muratura del campanile e il fianco sinistro (fig. 8), il cui prolungamento
& ben visibile nel sottotetto della sa-
crestia. Questo coro risulta leggermente più largo della navata centrale, particolarità che sembra indicare che esso non sia nato contemporaneamente ad essa e dunque non possa essere identificato con l'originaria terminazione della chiesa a pilastri. La sua costruzione pud forse essere messa in relazione con la pre-
senza di un certo numero di religiosi residenti o quantomeno
officianti presso la chiesa. Nel 1235 è infatti menzionato un Angelus prior sancti Angeli de Sermineto *,
Il modello quadrato potrebbe essere stato ripreso dall’architettuta cistercense, ordine ben presente nel territorio. La deri-
vazione cistercense di questo coro potrebbe forse essere anche avvalorata dalla presenza nel primo ambiente della cripta che corrisponde esattamente al sovrastante distrutto coro quadrato,
di uno strato di affresco (fig. 9), visibile per breve tratto al di sotto di quello attuale rappresentante una muratura in blocchi squadrati profilati in rosso su fondo bianco, che ricorda analoghe soluzioni presenti a Fossanova e Valvisciolo ?. Questo coro deve essere messo in rapporto con la trasforma-
zione gotica dell’edificio o deve essere collocato in una fase
intermedia? Se si ammette la prima ipotesi ne deriva un almeno apparentemente curioso risultato: poiché il campanile si sovrappone al coro quadrato, esso, di chiara impronta romanica, risulterebbe
posteriore alla fase più marcatamente gotica dell’edificio.
Questo fatto non dovrebbe però meravigliare perché sarebbe
solo il risultato di una inversione di tendenze:
ad un influsso
artistico proveniente da sud e da Fossanova, linea di risalita già individuata per il periodo precedente, tende a sovrapporsi un gusto proveniente da Roma, dai caratteri certamente differenti, ma di sviluppo contemporaneo. La seconda ipotesi, che il coro quadrato sia antecedente alla ristrutturazione gotica che oggi vediamo, da un lato presuppone una vicenda più complessa di progressive trasformazioni, dall’altra si accorderebbe meglio con una datazione non troppo pre-
La chiesa di San Michele
Arcangelo
a Sermoneta
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coce degli interventi di ristrutturazione gotici non solo nel S. Michele, ma in tutta Sermoneta”. Questi, tutti privi di riferimenti cronologici precisi, furono eseguiti nelle chiese di.S. Matia Assunta ?, S. Nicola? e S. Michele, e si rivelano tra loro molto simili, sia per il tipo stesso di ristrutturazione attuata, sia anche per i comuni caratteri figurativi. In particolare colpisce la
somiglianza tra alcuni elementi decorativi, come il peduccio a foglie piatte dell'ultima campata della navata destra della chie-
sa di S. Michele identico al capitello del pilastrino pensile di S. Maria, anch'esso situato nella navata destra, o quella dei ca-
pitelli a crochet di S. Nicola e sempre di S. Maria (fig: 10, 11).
Sappiamo dal Pantanelli che la chiesa di S. Maria Assunta, funzionante nel 1235, nel 1240 non doveva versate in buone condizioni economiche, perché il vescovo Docibile si trovò a fissare un numero limite di canonici #, nel 1266 aveva bisogno di riparazioni ^ e infine che nel 1289 Riccardo de Annibalis lasciava del denaro « pro ornamentis ecclesiae, et edificiis et luminaribus » ?. Inoltre il 1° settembre 1291 papa Nicola IV con-
cedeva un’indulgenza ai visitatori della chiesa ^. Differenze e analogie con i modelli locali
Si può pensare che i lavori in S. Maria siano stati condotti molto a lungo, anche nella seconda metà del XIII secolo, e che l'indulgenza papale sia venuta o a conclusione dei lavori stessi
o al contrario a favorire il completamento dell’edificio. Sul mo-
dello della chiesa principale della città si sarebbe intervenuti anche in S. Michele e in S. Nicola 7. Il fatto che i lavori si siano protratti per un certo tempo in tutte le chiese spiegherebbe sia le analogie sia le differenze che esistono tra di esse, ma anche tra le loto singole parti. Quando fu costruito il campanile, il coro. quadrato era o fu parzialmente distrutto, in quanto esso ne inglobalo spigolo fino ad una altezza ridotta (fig. 3). Questo presuppone che il coto sia
stato modificato ed allungato quando fu realizzato il campanile,
che del resto ‘a piano terra mostra le tracce di una grande aper-
tura che non sembra posteriore, la quale doveva affacciarsi cer© "eri tamente all’interno della chiesa. Il campanile attuale, come ha ben evidenziato il rilievo (figg. 12, 13, 14, 15), è risultato di una parziale ricostruzione dopo
un crollo di cui non è possibile precisare le cause. È petò possi-
bile ricostruirne con buona approssimazione la forma originaria, grazie alle parti superstiti. Tutto il basamento è infatti ben conservato e mostra una muratura in blocchetti di calcare disposti
in filari piuttosto regolari che ben si differenzia dalla muratura
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Lia Barelli
irregolare con blocchetti di varia pezzatura della parte ricostruita. Grazie alla diversa tecnica muraria si possono riconoscere anche le tracce delle aperture originarie. Il campanile aveva un primo piano a monofore con semplici ghiere in blocchetti di calcare, e un secondo, e forse più piani, individuato dalle tipiche
cornici romane di mattoni con denti di sega e mensoline, aperto
da bifore con ghiere in cotto poggianti su altre cornici all'altezza dell'imposta. Le bifore avevano colonnine con capitelli a stampella. | Gli anni in cui fu eretto non sono determinabili con esattez-
za ?*, come anche l'epoca in cui fu ricostruito, ma quest'ultima è certamente anteriore al 1735 quando Pietro Pantanelli riferisce che vi fu posto l'orologio vecchio di S. Maria ?. La ricostruzione deve essere avvenuta in un periodo lontano da quello della prima realizzazione perché si cercd di riprodurne i caratteri figurativi, ma senza essere più in grado di comprenderne la logica compositiva e formale. In una pala d’altare, consetvata nella cappella De Marchis in S. Maria Assunta, attribuita a Benozzo Gozzoli e datata citca 1457-58 *, è raffigurata la Vergine tra Angeli che tiene in grembo la città di Sermoneta. Qui compaiono due campanili, di cui quello sulla destra & chiaramente identificabile per la fedeltà della rappresentazione con quello dell'Assunta, di cui & ripor-
tato anche l’originario coronamento a cuspide crollato nel 1567 *.
A sinistra è dipinto un campanile molto più piccolo, con almeno due piani di bifore e terminazione sempre cuspidata, che potrebbe essere quello di S. Michele prima del crollo della parte alta ?. Dunque il campanile di S. Michele cosi ricostruito appare quasi una riduzione in scala del campanile di S. Maria Assunta, di cui presenta non solo la stessa disposizione degli elementi, sia pur semplificata, ma anche le stesse proporzioni dei piani superiori, la stessa bicromia ottenuta con l'uso del calcare e del cotto, una tecnica muraria simile anche se quella di S. Maria si rivela più raffinata, forse per l'importanza diversa dell'opera più che per una distanza cronologica. Altri riferimenti si possono trovare sempre a Ninfa, nel campanile di S. Maria Maggiore e in quello di S. Salvatore (figg. 16, 17). Pià particolare il primo per il contrasto tra la parte inferiore in tufelli e la superiore in mattoni, purtroppo poco analizzabile il secondo per il crollo quasi completo dei piani superiori, che presentavano peró sempre le caratteristiche cornici romane e anche una piccola edicola con protiro, esistente anche se con diversa monumentalità in S. Matia di Sermoneta e in chiese romane come S. Maria in Trastevere. Tutti i campanili di Ninfa e di Sermoneta sono stati aggiunti in un secondo momento alle chiese e sono tutti derivazione di modelli romani, non solo per forme, ma anche, con l’esclusione di
La chiesa di San Michele Arcangelo a Sermoneta
427
quello di S. Salvatore forse riutilizzazione di una torre preesistente, per le tecniche murarie in blocchetti di calcare o di tufo. Nonostante la difficoltà di datate i campanili romanici romani e laziali per la persistenza dei moduli formali e decorativi tra XI e XIV secolo (basti ricordare come il campanile di S. Maria Maggiore a Roma presenti ancora nel 1377
elementi frequenti
nel XII secolo come le doppie ghiere degli archi) proprio la tecnica muraria con l'eccezione del S. Salvatore, porta a collocate gli altri tre campanili ninfani e sermonetani non prima degli inizi del XIII secolo ?, il che concorda nel caso del S. Michele con:la datazione proposta in base alla sovrapposizione del
campanile al coro quadrato. In conclusione, quando già era stato introdotto il linguaggio gotico-cistercense nella regione, per i campanili di Ninfa e Sermoneta ci si rivolse a Roma. À questo proposito, da una parte va notato che l'architettura cistercense in un ptimo periodo non offrì esempi di torti campanarie per le. prescrizioni restrittive
dell'Ordine *; dall'altra che il metodo progettuale tipico dell'architettura chiesastica medievale era basato sull'uso di modelli di riferimento esistenti cui si riconosceva un pregnante signi-
ficato simbolico e religioso. Dovendosi dunque costruire dei cam-
panili, era logico rifarsi agli esempi piü prestigiosi del momento che erano senza dubbio quelli romani. Inoltre, un altro fattore che potrebbe aver condotto a tale scelta pud essere individuato in una precisa volontà politica. Il campanile infatti rappresenta sempte una forte presenza sia nel tessuto urbano, sia nel territorio. La volontà della Chiesa di Roma di affermare il proprio ruolo dominante poteva esplicitarsi anche mediante simboli tangibili come l'uso di particolari forme architettoniche, favorendo cosi la penetrazione di modelli e di un gusto romano facilmente
identificabili da tutti. Il modello importato per le chiese principali, nel caso specifico l’Assunta di Sermoneta e S. Maria Maggiore di Ninfa, potrebbe poi essere stato adottato anche negli edifici minori come il S. Michele. |
Note 1 Le Liber Pontificalis, a cura di L. Duchesne, Paris 1886-1892 (rist. con correzioni e aggiunte Paris 1955-57), II, p. 303. Per la data vedi P. DELOGU, Territorio e dominii nella regione Pontina nel Medioevo, in Ninfa una città, un giardino, Atti del Colloquio della Fondazione Caetani (Roma-Sermoneta-Ninfa, 7-9 ottobre 1988), a cura di L. -Fiorani, Roma 1990; pp. 17-32.
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Lia Barelli
2 p, PANTANELLI, Notizie istoriche, e sacre e profane, appartenenti alla terra di Sermoneta in distretto di Roma, a cura di L. Caetani, 22 ed., I, Roma 1911, pp. 62, 216-218; C. ENLART, Origines françaises de l'Arcbitecture gotique en Italie, Paris 1894, p. 143, sosteneva che dovesse trattarsi del secondo vescovo di tal nome, ponendo la consacrazione negli anni 1227-1238. La sua ipotesi si basava sul fatto che credeva la chiesa una costruzione unitaria e, poiché Ia riteneva
dipendente stilisticamente da Fossanova, era costretto a postdatarne la consa-
crazione. 3 PANTANELLI, Notizie, I, p. 241. ^ Ivi, pp. 216-218. Fu proprio in questa occasione che secondo lo storico sermonetano fu ritrovata una pergamena attestante l'avvenuta consacrazione nel 1120.
5 Oltre ai già citati PANTANELLI, Notizie, ad indicem, e ENLART, Origines, pp. 142-144, si sono occupati della chiesa A.M. ARCIDIACONO, Due chiese francescane in Sermoneta, S. Michele Arcangelo e S. Nicola, in « Bollettino dell'Istituto di storia e di arte del Lazio meridionale », VIII, 1975, 2, pp. 57-74, e F. TETRO, Sermoneta: la collegiata di S. Michele Arcangelo, in « Economia pontina», 1977, pp. 5-23. In entrambi questi ultimi due contributi è stato pubblicato un rilievo, firmato da Francesco Tetro, sul quale si basano molte delle asserzioni dei due studiosi. Rispetto ad esso il nuovo rilievo qui pubblicato, eseguito dall'arch. Sabina Campione, per la tesi di laurea in Restauro dei monumenti presso la facoltà di architettura di Roma avente come relatore il prof. Giovanni Carbonara, porta nuove informazioni non solo per i dettagli e per l’individuazione delle tracce, ma anche per quel che riguarda la configurazione planime-
trica dell'edificio che @ in realtà molto più regolare. Il fianco destro delle na-
vate per esempio è perfettamente rettilineo e ortogonale alla facciata, contrariamente all'andamento riportato nel rilievo di Tetto. Alcuni accenni alla chiesa di S. Michele sono anche in M.L. DE SANCTIS, Insediamenti monastici nella regione di Ninfa, in Ninfa, pp. 259-279. $ ARCIDIACONO, Due chiese. ? Su queste trasformazioni e sugli avvenimenti di epoca moderna e contemporanea riguardanti la chiesa, vedi di seguito la cronologia redatta da Sabina Campione. 8 PANTANELLI, Notizie, I, p. 218, sostiene che la asimmetria della navata sinistra sia dovuta al crollo di parte dell’originaria navata. ? Così sembra potersi ricavare dall’analisi dei progressivi innalzamenti della facciata. Le tracce lasciate dagli spioventi del tetto nella prima fase della chiesa a tre navate si interrompono infatti in corrispondenza dei muri della navata centrale. È anche individuabile un cambiamento dell’inclinazione della falda della navatella sinistra, probabilmente in relazione a modifiche dovute all’andamento itregolare della pianta. La chiesa avrebbe avuto una sezione simile a quella di S. Maria Assunta nella sua fase romanica (vedi in questi stessi atti 1l contributo di Calogero Bellanca), o di S. Maria Maggiore di Ninfa. Successivamente le navate laterali furono innalzate per permettere la costruzione delle volte a sesto acuto e forse in questa fase dell’edificio le coperture erano estradossate, come a Valvisciolo, Fossanova e nella stessa Sermoneta in S. Maria. Un'ulteriore modifica con la creazione dell’attuale tetto a capanna dovette avvenire nel 1866, come si ricava dalla data incisa nella muratura visibile nel sottotetto. ARCIDIACONO, Due chiese, ipotizzava, senza chiarire il ragionamento, che la chiesa romanica avesse una terminazione a capanna analoga all'attuale, ma più bassa. 10 y, HADERMANN-MISGUICH, Images de Ninfa. Peintures médiévales dans une ville ruinée du Latium, Roma 1976 (Quaderni della Fondazione Camillo Caetani, VII); m., La peinture monumentale des sanctuaires de Ninfa, in Ninfa, vp.
247-257.
11 G. CARBONARA, Edilizia e urbanistica di Ninfa, in Ninfa, pp. 223-245. 12 Santi, iconografia, in Enciclopedia universale dell’arte, sx.; pet il culto di S. Michele nella zona e in generale per la sua diffusione in Italia vedi anche DE SANCTIS, Insediamenti monastici.
13 L'uso della pianta centrale per edifici dedicati a S. Michele è testimoniato
ancora. nella seconda metà del XII secolo dalla chiesa di S. Michele Arcangelo a Pogerola (RP. BERGMAN, Byzantine Influence and Private Patronage in a Newly Discovered Medieval Church in Amalfi: S. Michele Arcangelo in Poge-
La chiesa di San Michele Arcangelo
rola, in
« Journal
of the
Society
of Architectural
a Sermoneta
429
Historians », L, «December
MN | 1991, 4, pp. 421-445. 14 PANTANELLI, Notizie, I, pp. 25; 61; 84; 130. TETRO, Sermoneta; ID., Ser-
moneta: problematiche di urbanizzazione, in « Economia pontina», 1978, pp. E _ 90-106. 15 Per queste ipotesi si vedano F. TETRO, Sermoneta: problematiche, e A. FLORIANI MARIANO, Serzzoneta, approccio alla lettura di un centro stotico, in M.
PALLOTTINO, Il territorio pontino, elementi di analisi della bonifica dalle origini alla bonifica integrale, Latina 1974, pp. 144-164.
16 CARBONARA, Edilizia. Per quanto riguarda la datazione delle fasi. romaniche
di S. Maria Assunta e S. prima subì una distruzione Ceccano (1104-1128), ma quanto di preesistente sia
Nicola non si ha nessuna fonte testualé certa. La al tempo della guerra di Sermoneta contro Lando di non è possibile precisate quanto sia stata grave o stato modificato o mantenuto nel restauto. Va co-
munque notato che singolarmente l'ampiezza della facciata di S:. Maria e quella
di S. Michele sono pressoché identiche, come anche identico è lo spessore dei pilastri romanici delle due chiese (62 cm), mentre la loro lunghezza non è confrontabile perché quelli del S. Michele sono parzialmente inglobati nella mu-
ratura.
.
i
17 c. FALCO, I comuni della Campagna e della Marittima nel Medio Evo, in « Archivio della società romana di storia patria», XLII, 1919, pp. 537-605, in i . part. p. 592. 18 PANTANELLI, Notizie, I, p. 183. In seguito è menzionato un.abbas. Non è dunque vero quanto asserisce il Pantanelli (ivi, p. 413) che S. Michele divenne collegiata solo dopo il passaggio della chiesa di S. Nicola ai francescani nel 1400 e Punione delle due partocchie. Inoltre lo stesso atto con cui Antonio vescovo di Terracina unisce le parrocchie è redatto in domibus isancti Angeli. Questo testimonia che a questa data esisteva certamente una struttura residenziale presso la chiesa. E 19 Su questo argomento vedi in questi stessi atti il contributo di Melinda
y.
20 Questa necessità era stata sentita da ARCIDIACONO, Due chiese, per S. Nicola e S. Michele stessa, anche se fondata su di una errata interpretazione dei dati storici. Essa cercava infatti di riportare la trasformazione gotica dell'edificio dall’ambito della cultura cistercense a quella mendicante in base all'uso della tipologia a sala, e di spostare la cronologia dell'edificio verso la seconda metà del XIV secolo. La studiosa credeva che la chiesa fosse passata in possesso dei francescani nel 1400, mentre essa rimase sempre collegiata. Non volendo perd arrivare a datate la trasformazione della chiesa dopo tale anno, ipotizzd del tutto gratuitamente che i frati potessero averla officiata insieme alla chiesa di S. Nicola molto prima di averne legalmente diritto. Per questi ragionamenti negava un rapporto cronologico diretto con gli interventi operati in S. Maria Assunta. In generale per una postdatazione dell'introduzione di un linguaggio gotico in Sermoneta sí pud anche considerare il fatto, abbastanza singolate, che il parallelismo tra i progressivi interventi delle chiese di Ninfa e Sermoneta sembra artestarsi all'aggiunta dei campanili, come si vedrà in seguito, e che a Ninfa non ci sono tracce di ristrutturazioni gotiche, il che potrebbe derivare
da uno scarso interesse da parte dei comuni signori, Annibaldi o Caetani, ri-
spetto a Sermoneta. 21 Su questa chiesa si vedano ENLART, Origines, pp. 138-142; a. MuNoz, Momenti di architettura gotica nel Lazio, in « Vita d'atte», VIII, 1911, pp. 75103; w., Sermoneta: chiesa di S. Maria della Pieve. Restauri al campanile, in «Le Arti», VI, 1941-42, p. 299; R. WAGNER-RIEGER, Die ifalianische Baukunst zu Beginn der Gotik, II, Graz-Koln 1957, p. 82; c. tAMANTI, La chiesa di S. Maria Assunta in Sermoneta, in « Bollettino dell’Istituto di storia e di arte del Lazio meridionale », VIII, 1975, 2, pp. 75-92.
2 Sul S. Nicola si vedano oltre alle notizie riportate dal PANTANELLI
in
Notizie, ad indicem; ©. ENLART, Origines, pp. 144-145; B. THEULI - A. COCCIA, La provincia romana dei frati minori conventuali dall'origine ai nostri giorni (apparato minoritico della Provincia Romana 1648), Roma 1967, pp. 484-488; ARCIDIACONO, Due chiese, e il contributo di Corrado Bozzoni in questi stessi atti. 23 Per questa osservazione, basata su di un documento ripottato in PANTA-
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Lia Barelli
NELLI, Notizie, I, p. 281, vedi in questi atti il contributo di Giulia Barone 24 PANTANELLI, Notizie, I, p. 304. 25 Ivi, p. 329. 2% Les registres de Nicolas IV a cura di E. Langlois, Paris 1888-93, n. 5930. 27 ARCIDIACONO, Due chiese, ipotizzava che nella chiesa di S. Nicola fossero in corso dei lavori nel 1266 perché nel testamento di Giovanni Sapiente canonico di S. Maria venivano lasciati « decem solidos ecclesiae S. Nicolai in
opere » (PANTANELLI, Notizie, I, p. 139). Ma in realtà lo stesso lascito è fatto anche alle altre chiese di Sermoneta e in particolare al S. Michele. Lasciti iz opere a tutte le chiese di Sermoneta compaiono anche nel testamento del ca-
nonico Oddone di Landulfo del 21 ottobre 1277 (PANTANELLI, Notizie, I, pp. 313-314). 28 ARCIDIACONO, Due chiese, pensava che il campanile fosse successivo alla chiesa romanica, ma sempre del XII secolo. Aveva notato l’inglobamento dello sperone murario, ma non l'aveva messo in relazione con la terminazione della chiesa. Non avendo compreso che il campanile era stato parzialmente ricostruito
parlava di «certa
rusticità della tecnica esecutiva»
e negava
così il riferi-
mento ai campanili romani, proponendo un rapporto con il campanile di Valvise e quello di S. Maria in Flumine a Ceccano della seconda metà-fine XII
secolo.
2 PANTANELLI,
Notizie,
II, p.
152.
3) A. PADOA RIZZO, Benozzo Gozzoli pittore fiorentino, Firenze 1972, pp. 51-52. 31 PANTANELLI, Notizie, I, p. 609.
Potrebbe però anche trattarsi del campanile di S. Nicola, che sappiamo
avere avuto una torre in facciata, demolita nel 1744 (PANTANELLI, Notizie, I, p. 66), o del campanile di S. Pietro in Corte, chiesa demolita per l'ampliamento del castello ad opera di Alessandro VI.
3$ Sulle tecniche murarie della regione e la loro datazione si vedano in questi torri campanarie di Roma e del Lazio, Roma 1927, sosteneva invece, ma tutta stessi atti i contributi di Daniela Esposito e Donatella Fiorani. A. SERAFINI, Le
la sua monumentale opera richiede da lungo tempo una accurata revisione, che il campanile di S. Maria Assunta appartenesse al primo ventennio del XII secolo (pp. 120-122) e quello di S. Maria Maggiore di Ninfa alla prima metà del XII secolo (ivi, p. 211). Per quest’ultimo una revisione della datazione al XIII secolo era già stata proposta in CARBONARA, Edilizia, p. 239.
** L. FRACCARO DE LONGHI, L'architettura delle chiese cistercensi italiane, con
DETTO riferimento ad un gruppo omogeneo dell’Italia settentrionale, Milano 958, p. 55. |
La chiesa di San Michele Arcangelo a Sermoneta
431
Cronologia a cura di Sabina Campione Quidi seguito sono stati riportati gli avvenimenti che riguardano la chiesa di S. Michele Arcangelo a Sermoneta. Essi sono stati rica-
vati -principalmente dalle Notizie istoriche di Pietro Pantanelli, nella
edizione più volte citata che ne fece Leone Caetani (Pantanelli). Sono stati inseriti anche dati che pur essendo relativi soprattutto ad aspetti di vita religiosa possono contribuire sia a completare il quadro sto-
tico in cui si collocano la costruzione e le trasformazioni successive
dell'edificio sia a dare una valutazione della sua importanza nei secoli. Poiché nelle fonti la chiesa & prevalentemente indicata come S. Angelo, si è lasciata tale denominazione. La sigla ADT va sciolta in
Archivio diocesano di Terracina.
i
Epoca romana. Presenza di un tempio pagano sul sito della chiesa di S. Angelo? (Pantanelli, I, pp. 25, 61, 84, 130). 1116 c. Viene citata per la prima volta la città di Sermoneta (Liber pontificalis, II, p. 303). 1120 ottobre 2. Secondo la trascrizione cinquecentesca di un petduto documento, Gregorio vescovo di Terracina avrebbe consacrato la chiesa di S. Angelo (Pantanelli, I, pp. 62, 216-218). 1169. Prima menzione certa dell’esistenza della chiesa di S. Angelo in un inventario dei beni della chiesa collegiata di S. Maria Assunta di Sermoneta (ivi, I, p. 241). 1235. Nella deposizione dei testimoni per una lite tra la collegiata di S. Maria e quella di S. Pietro in Corte viene nominato Angelus prior Sancti Angeli de Sarmineto (ivi, I, p. 183). La catica di priore sembra testimoniare la presenza di un clero stabile presso la chiesa di S. Angelo. 1266 febbraio 16. Nel testamento di Giovanni Sapiente, canonico di S. Maria, vengono lasciati X solidos ecclesiae S. Angeli in opere
(ivi, I, pp. 304-306).
1277 ottobre 21. Nel testamento del canonico Oddone di Landulfo da Sermoneta vengono lasciati S. Angelo V solidos (ivi, I, pp. 313314). 1297. La famiglia Annibaldi vende vari possessi alla famiglia Caetani, tra cui la città di Sermoneta (G. Caetani, Domus Caietana, I, Sancasciano Val di Pesa 1927, p. 122). Forse già da questo momento
i Caetani assumono il juspatronato sulla chiesa di S. Angelo. ©
1331-1333. La decima biennale che deve essere riscossa ab ecclesia S. Angeli è solidi XVIII, una cifra intermedia fra quelle versate dalle altre chiese di Sermoneta (Rationes decimarum Italiae, Latium, a cura
di G. Battelli, Città del Vaticano 1946, p. 257). 1339 ottobre 11. In un atto notarile è menzionato Andreas abbas ecclesiae Sancti Angeli de Sermineto, che svolge anche l’incarico di
432
Lia Barelli
vicarius Sergii terracinensis episcopi (G. Caetani, Regesta cbartarum, I, Perugia 1925, p. 17). 1363 agosto 23. Il testamento di Giovanni Boccalongo è sottoscritto da Andreas abbas Sancti Angeli de Sarmineto, vicarius domin: episcopi lerracenae (Pantanelli, T, pp. 377-379). Sec. XV. Bella Jobaunis Mactiae Baronis nel suo testamento chiede di essere sepolta iz ecclesia Sancti Angeli de Sermineto in cappella quondam Colae Oddonis avi sui materni (ivi, I, p. 427). 1400 febbraio 5. Un Breve di Bonifacio IX indirizzato al vescovo di Terracina stabilisce che la chiesa di S. Nicola venga data ai Frati
Minori Conventuali e la cura delle anime di quella parrocchia venga
affidata al rector ecclesiae S. Angeli (Theuli - Coccia, La provincia,
p. 485; Pantanelli, I, pp. 410-412). 1406
luglio
1.
Antonio
vescovo
di Terracina
dà applicazione
al
Breve, unendo le parrocchie di S. Nicola e di S. Angelo e affidando
la cura delle anime a Leonardo Porcelli rettore di S. Angelo (Pantanelli, I, pp. 410-412). Il documento redatto Sarmineti in domibus $. Angeli testimonia probabilmente la presenza di edifici destinati al clero annessi alla chiesa. 1457-1458.
Probabile
data di realizzazione
della pala della Ma-
donna della Cappella de Marchis nella chiesa di S. Maria Assunta di Sermoneta, attribuita a Benozzo Gozzoli con la raffigurazione della città e dei suoi edifici, tra cui forse il campanile di S. Angelo (Padoa Rizzo, Benozzo Gozzoli, pp. 51-52). 1459 aprile 19. Padre Domenico Bussi da Viterbo istituisce la confraternita del SS. Sacramento nella cappella di S. Giacomo, l'ambiente inferiore della cripta della chiesa di S. Angelo (Pantanelli, T, pp. 472-475). 1463. Nel testamento di Maria di Antonio Renzi da Sermoneta si chiede che si suonino alla sua morte le campane di S. Nicola, S. Angelo, S. Pietro e S. Maria (ivi, I, p. 492). 1472-1484. Giovanni Bucci abate di S. Angelo è nominato vescovo di Veroli da papa Sisto IV (Ivi, I, p. 495). 1485 giugno 8. Inventario dei beni della collegiata di S. Angelo redatto dall’abate prete Iannuccio in cui le abitazioni della collegiata stessa vengono chiamate « palazzi» (ivi, I, pp. 139 e 508-509). 1491. Al tempo del Pantanelli fu ritrovata un'urna in pietra sotto il pavimento del piano terra del campanile dove « parole consumate » indicavano che era stata fatta in tale anno dalla confraternita del SS. Sacramento per riporvi l'Eucarestia (ivi, I, p. 475). 1504 gennaio 9. Caterina Orsini, moglie del duca Caetani, nel suo testamento
reliquit ecclesie Sancti Angeli ducatos tres (G. Caetani,
Varia, Città del Vaticano 1936, p. 322). 1540.
E abate della chiesa Giacomo Dani (Pantanelli, I, p. 509).
1549 luglio 6.
Nel protocollo di Gaspare Mare notaio vescovile di
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1. Sermoneta.
La chiesa di S. Michele Arcangelo
2. Veduta della facciata.
vista dall'alto.
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3. Veduta del campanile.
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4. Veduta dell'interno verso l'altare.
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5. Particolare del primo pilastro del lato sinistro a partire dall'ingresso, con l'evidente accostamento delle lesene gotiche ad un nucleo preesistente.
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6. Piante e prospetti dei primi due pilastri a partire dall'ingresso
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7. Particolare del lato sinistro della facciata con tracce di progressive sopraelevazioni.
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8. L'interno del campanile con l'angolo dell'antico coro quadrato inglobato nella muratura.
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10. Il peduccio a foglie piatte della collegiata di S. Maria Assunta a Sermoneta.
11. Il peduccio
della navata
destra della chiesa di S. Michele.
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12. Particolare del campanile.
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13. Particolare del campanile.
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14. Particolare del lato est dell'ultimo piano del campanile in cui si evidenzia la differenza tra la muratura originaria e quella della ricostruzione e si notano i resti delle cornici e delle ghiere in laterizi (rilievo di Sabina Campione).
15. Ricostruzione delle principali fasi di trasformazione del campanile: da sinistra a destra, lo stato originario (il numero dei piani & ipotetico), la situazione dopo il crollo parziale, lo stato attuale (rilievo ed elaborazione grafica di Sabina Campione).
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18. Sermoneta. Pianta della chiesa di S. Michele Arcangelo: a) coro; b) navate; c) campanile; d) cappella di S. Antonio; e) cappella di S. Giacomo; f) cap. pella di S. Maria Vergine; g) portico; h) cappella di S. Giovanni; i) residenze dei canonici?; 1) sacrestia; m) accesso alla cripta (rilievo di Sabina Campione).
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La chiesa di San Michele Arcangelo a Sermoneta
435
Terracina a questa data sono ricordati i lavori di Camillo Caetani pro ampliando dicta ecclesia (sic!) faciendo altare maius (ivi, Y, pp. 217218).
1558 settembre 5. Massimo
concede
Il vescovo di Cittaducale e di Terracina Felice ad Antonio
Bucci
di costruite un altare dedicato
a S. Girolamo nella chiesa di S. Angelo a lazere sinistro in frontispitio introitus (ivi, I, pp. 593-594). 1564. Veduta prospettica della città di Sermoneta in cui è raffigurata la chiesa di S. Angelo con alto campanile ed appoggiata alle mura (G. Maggi - G. Castriotto, Della fortificazione della città, Venezia
1564).
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1567 agosto 11. Francesco Beltramini vescovo di Terracina concede a Bonifacio, Antonio e Giulio Borzi di Sermoneta di erigere una cappellania nella chiesa di S. Angelo intitolata alla Concezione di Maria Vergine, purché creino due sepolture una per la famiglia e una da donare alla chiesa (Pantanelli, I, p. 611). post 1567 / ante 1575. Viene posto nella cappella di S. Maria il quadro dell’« Incoronazione della Vergine » dipinto da Girolamo Siciolante da Sermoneta (ivi, I, p. 61; F. Zeri, Girolamo Siciolante, in « Bollettino d’arte », XXXVI, 1951, pp. 129-149).
1576 settembre 26.
Gregorio XIII concede indulgenze alla colle-
giata di S. Angelo e alla chiesa della Madonna delle Grazie di Sermoneta (Pantanelli, I, p. 617). 1580-1622. Libro dei defunti della parrocchia di S. Angelo (ivi, I, p. 603, II, p. 45). 1594 maggio 29. Il cardinale Evangelista aggrega la confraternita del SS. Sacramento di S. Angelo a quella di S. Pietro a Roma (Ivi, I, p. 58).
1595 maggio 24.
È abate Giacomo de Fascio (L. Fiorani, La vita
religiosa a Ninfa, in Ninfa, Atti, pp. 178-179). 1603. Nelle clausole del testamento di Alessaridro Pantanelli si prevede la residenza dei canonici presso la chiesa (Pantanelli, I, p. 60, 1I, p. 221). Cesare Bucci fa costruire la cappella di S. Girolamo (ivi, I, 1629.
p. 594).
1641. Il Capitolo della collegiata di S. Angelo contribuisce al completamento delle mura della città con una calcara (ivi, II, p. 58). 1643 / 1668. Libro dei defunti (ivi, I, p. 563). 1696. È abate don Francesco Antonio Galeazzi (ivi, II, p. 101). 1703 gennaio 14. II terremoto che colpisce Sermoneta non provoca danni alla città (ivi, II, pp. 107-108). . Il capitolo di S. Angelo contribuisce allo scavo del nuovo .1704. letto del fiume Ninfa (ivi, II, p. 107). 1705. Visita apostolica di mons. Felice Coucci, in cui si ordinano
434
Lia Barelli
lavori di manutenzione (Visita della diocesi di Terracina, 1705, di mons. Vittor Felice Coucci vescovo di Fondi in Archivio Segreto Vaticano, Congr. Concilii, Visita apostolica, C 113, ff. 1457-146"). 1711. Il coro della chiesa è usato come sacrestia in Archivio storico diocesano di Terracina, (ADT, Visita Conti). 1725. Unione dei capitoli di S. Maria Assunta e di S. Angelo (Pantanelli, IT, p. 134). 1729. La duchessa Ondedei, madre di Francesco Caetani dona paramenti sacri alla chiesa di Angelo (ivi, II, p. 141). 1735. L'orologio della chiesa di S. Maria Assunta viene montato sul campanile di S. Angelo dopo « essere stato risarcito et aggiuntavi la schiarana » (ivi, II, p. 152). 1743 c. Il vesco Oldo partecipa alle spese per la costruzione della nuova sacrestia, del pavimento in mattoni del presbiterio e di parte della restante chiesa, e dona un confessionale (ivi, II, pp. 160-161). 1746-1747. Una campana rotta viene rifusa e ricollocata sul campanile (ivi, I, p. 62).
1747.
E abate di S. Angelo don Angelo Mastranni (ivi, II, p. 200).
1753 gennaio 20. Un secondo terremoto città di Sermoneta (ivi, II, p. 220).
colpisce senza danni la
1753. I canonici di S. Angelo vogliono esimersi dall'obbligo della residenza perché i beni della chiesa sono infruttiferi (ivi, II, p. 221). 1766.
"Termina la cronaca del Pantanelli.
1845.
Viene estinta la confraternita del SS. Sacramento (in ADT,
Sacra visita).
1858. Bozzo
La cappella della SS. Concezione & proprietà della famiglia (ADT, Chiese e parrocchie 1783-1943, 218). 1866. Rialzamento del tetto della chiesa al livello attuale (data incisa nella muratura). 1874. Il duca Onorato Caetani, patrono della collegiata di S. Angelo, svincola tutti i beni della chiesa e assegna alla patrocchia alcuni fondi (ADT, Chiese e parrocchie 1783-1943, 218). 1876 maggio 1. Don Michelangelo Caetani elegge il chierico Ermenegildo Vacca al canonicale beneficio residenziale della chiesa di n Re M Chierici, benefici e cappellanie, S. Michele 1815-
1949 gennaio 28.
Lettera di don Antonio Reale, parroco di S. An-
gelo alla Soprintendenza ai Monumenti e alle opere d'arte del Lazio,
in cui si lamentano danni bellici (Archivio soprintendenza ai beni ambientali e architettonici per il Lazio, busta S. Michele Arcangelo).
Maria Letizia de Sanctis Una fondazione cistercense nel territorio di Sermoneta: l’abbazia
dei Santi Pietro
e Stefano
di Valvisciolo
Nonostante possa vantare una letteratura critica, che, a partire dal lavoro dell'Enlart sulle origini del gotico in Italia’, ha
registrato un numero significativo di interventi, l'abbazia dei Ss. Pietro e Stefano di Valvisciolo presso Sermoneta ha rappresentato fino a questo momento un problema aperto: l’as-
senza di riferimenti documentari dall'interpretazione univoca, l’incertezza sull'identità dei fondatori del complesso e sulla successione studi a artistici, critica e
delle diverse fasi di costruzione, la prevalenza degli carattere prettamente storico rispetto a quelli storicone hanno condizionato in modo decisivo la vicenda una coerente collocazione storico-culturale ?.
Lo scopo del presente intervento è ribadire che ci troviamo
di fronte a un complesso cistercense nato e costruito «come tale sulla metà del XII secolo, dissipando dunque tutti i dubbi accumulatisi in un secolo di studi e consentendo in definitiva — insieme agli scritti dedicati in questo stesso volume alla scultura e alla pittura del complesso? — una adeguata definizione del ruolo svolto dall’abbazia nel contesto storico e culturale del Lazio meridionale tra XII e XIV secolo. Perfettamente inserita nell'ambito locale da una parte e nella linea di filiazione di Fossanova dall'altra l'abbazia di Valvisciolo si trovó a svolgere una fondamentale funzione di diffusione di un nuovo linguaggio architettonico omogeneo e in sintonia con la tradizione edilizia locale, una funzione che é stata messa in ombra non solo a causa del misconoscimento dell'esatta collocazione storica della fondazione, ma anche per le cattive condizioni di conservazione del complesso, che hanno fortemente risentito di successivi abbandoni e ristrutturazioni, ma anche di due importanti campagne di restauto — la seconda delle quali in stile — solo parzialmente documentate*. Non erano mai state inoltre presi in considerazione, se non con estrema rapidità, gli edifici monastici, tanto che gli affreschi del-
436
Maria Letizia de Sanctis
l'auditorium, in pessimo stato di conservazione ma di alta qualita, sono passati praticamente inosservati, così come non sono mai state menzionate le tracce di ristrutturazione, probabilmente da riferire al periodo del pontificato di Bonifacio VIII, pre-
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À confermare e a completare le acquisizioni già avanzate in sede di analisi architettonica e storico-artistica giungono oggi i
risultati delle pit recenti ricerche storiche.
La confusione determinatasi nella letteratura critica, anche a
causa della scarsa disponibilità di documenti, in relazione al rapporto tra i monasteri di Marmosolio$, Valvisciolo di Carpineto’ e il nostro monastero di Valvisciolo presso Sermoneta, si direbbe infatti finalmente avviata a un chiarimento definitivo nei termini dell'acquisizione di una identità ab origine delle due fondazioni di Marmosolio® e dell'attuale Valvisciolo sermonetano — per la quale non era attestata, con questa deno-
minazione, un'appartenenza all'ordine cistercense’.
Una volta chiarita in questi termini la questione, Valvisciolo può considerarsi a pieno titolo partecipe di un progetto coerente realizzato nelle regioni della Campagna e della Marittima dai pontefici e dalle grandi famiglie locali, che avevano conquistato un’influenza determinante in Roma e sulla politica papale stessa.
La necessità di garantire la stabilità e la fedeltà di queste
regioni situate tra lo Stato della Chiesa e il Regno di Sicilia ? è probabilmente all’origine di una situazione caratterizzata da una notevole concentrazione sul tertitorio in questione di fondazioni cistercensi e in seguito florensi e templari, che andarono a sovrapporsi alla fitta rete di monasteri benedettini, i quali, affiancatisi per lo più, sull’esempio di Montecassino, all'antipapa Anacleto II durante lo scisma che lo aveva visto opporsi ad Innocenzo II, erano all’inizio del XII secolo in crisi e spesso abbandonati ". Le comunità cistercensi, che in numerosi casi ne rilevarono il possesso — e basti pensare che nel giro di pochi anni si susseguirono le fondazioni dell’abbazia di S. Stefano di Fossanova nel 1135, dei SS. Vincenzo
e Anastasio
alle
Tre Fontane e di Casamari nel 1140, di S. Maria di Marmosolio (ossia molto probabilmente l’attuale Valvisciolo) nel 1154 — erano in grado di proporre modelli spirituali ed economici più aggiornati, e di garantire più efficacemente la valorizzazione e il controllo dei territori papali. L'autorevolezza conquistata dall'ordine cistercense e la fama della competenza acquisita nel campo della tecnologia applicata alla produzione economica — che consentì radicali mutamenti nei territori loro concessi, attraverso l’introduzione di nuove e più aggiornate tecniche di coltivazione e la realizzazione di imponenti opere irrigue — con il
Una fondazione cistercense nel territorio
437.
conseguente accrescimento della possibilità di sfruttamento delle risorse agricole, imponevano dunque la scelta dei monaci bianchi per controllare un territorio di notevole importanza. strategica, la cui gestione era notevolmente complicata -dall’impaludamento e dalle continue contese patrimoniali e giurisdizionali
tra feudalità. e nascenti autonomie cittadine..——
.
—-
In questo quadro l’adozione, da parte delle maestranze a capo del cantiere di Valvisciolo, di un tipo di pianta e di strutture architettoniche e formali semplificate e vicine alla tradizione costruttiva diffusa tra il XII e il XIII secolo nella regione, evidenzia la volontà di inserirsi nel territorio per controllarlo e modificarlo. Se dunque i singoli elementi strutturali e for-
mali sono riconducibili nel complesso a episodi contemporanei del contesto territoriale, non è semplice definire le modalità dei un rapporti di interdipendenza, ciò che deve essere considetato’ prodotto della tradizione costruttiva locale e cosa di quella specificamente cistercense ", che in ogni caso era sémpre in gtado di realizzare il proprio specifico modello di «città » mona stica anche utilizzando materiali e maestranze locali ?. Se infatti copertura a volte estradossate — utilizzata in un primo. momento nella chiesa — rimanda chiaramente alla tradizione -co-
struttiva della Campania e del Lazio meridionale, l'adozione del semplice pilastro prismatico, ampiamente diffuso in tutta l'area, possiede allo stesso tempo una propria. specifica valenza nellambito dell'edilizia cistercense, e basti ricordare l'abbaziale di Eberbach in Germania e quella delle Tre Fontane a Roma. D'altra parte è ormai noto il ruolo svolto dalle maestran-
ze cistercensi nel processo
di aggiornamento della tradizio-
ne costruttiva locale su soluzioni nuove derivate dal « linguag: gio contadino delle grange divenuto il linguaggio: ufficiale di quella duecentesca Europa delle città », che è. stato. messo a fuoco dalla Romanini in numerosi-studi condotti, personalmente o sotto la sua direzione, e concentratisi in modo particolare proprio sul Lazio ^. Nelle abbazie, concepite e: realizzate come « città contadine- modello », sulla base di rivoluzionanti metodi di progettazione e costruzione, strutturate su un. #0: dulor moltiplicabile ed adattabile a diverse esigenze, furono istituti quei cantieri-scuola « destinati a realizzare e soprattutto. insegnare a realizzare il « progetto.» in qualunque situazione e
servendosi di qualunque tipo di materiale e di manovalanza lo-
cale, i cantieri-scuola cistercensi fecero in breve del « progetto » bernardino — che univa tra l’altro un massimo di facilità esecutiva e di rapidità a un minimo*di-costo —.ib-miovissimo. strumento operativo comune a tutta la più avanzata tecnologia europea del momento: rivoluzionandone in radice i nietodi ópe-
rativi e dunque i linguaggi e i sistemi di pensiero alla stregua
438
Maria Letizia de Sanctis
della introduzione dell'informatica nella storia della tecnologia
moderna » P. Si tratta nel caso di Valvisciolo di un linguaggio, per cosi dire, in sordina, che propone le novità tipiche del modello cistercense senza presentare forme eccessivamente moderne o estranee, e che rappresentó dunque un modello per le chiese minori, realizzabile più facilmente e con minore spesa, a differenza di Fossanova, che si rivolgeva invece agli edifici rappresentativi — e si possono citare in tal senso le cattedrali di Terracina, Priverno, Sezze ? — giocando quindi un ruolo fondamentale per la diffusione capillare sul territorio di un linguaggio divenuto quello ufficiale dell’edilizia pontificia ". Se dunque la struttura interpretativa applicata da Enlart, sintetizzabile con la definizione dei cistercensi come « missio-
nari del gotico » !, appare oggi decisamente superata dalle nuove acquisizioni critiche ?, conserva una propria validità l'individuazione di un’area storico-culturale omogenea, fortemente influenzata da ciò che veniva realizzato all’interno dei cantieri cistercensi, e che Enlart definisce come una delle scuole regio-
nali che utilizzarono insieme elementi provenienti dalla tradizione locale e novità d’oltralpe. Anche Wagner-Rieger considera Valvisciolo importante per l’assimilazione del gotico nella regione: dipendente da quella « Zwischenstufe der Zisterzienserarchitektur » che prevedeva l’uso della crociera nervata — rappresentata nell’architettura dell'Ordine dall'abbazia francese di
Vaux-de-Cernay " — e dunque meno complessa rispetto al sistema-Pontigny applicato a Fossanova, proponeva un modello che poteva essere accolto più facilmente nel contesto architettonico locale, mediando allo stesso tempo la penetrazione delle forme gotiche, nella particolare interpretazione cistercense, anche nell'ambito delle chiese minori ^. L'influsso della chiesa di Valvisciolo & stato infatti riconosciuto dalla studiosa in particolare in un gruppo omogeneo di chiese minori del basso Lazio databili tra la fine del XII e i primi del XIII secolo: il duomo di Sermoneta e di Sora, S. Maria in Flumine e S. Nicola a Ceccano, S. Pietro a Fondi, S. Maria del Soccorso sulla Via Appia presso Fondi e S. Maria dell'Auricola presso Amaseno, nel-
le quali ricompare il sistema di copertura con volte a crociera sostenute da pilastri quadrangolari conclusi da semplici imposte modanate À, La questione di una preesistenza E probabile, sulla base degli elementi rinvenuti nel corso dei
restauri del chiostro condotti dalla Soprintendenza nel 1956-
Una
fondazione
cistercense
nel territorio
439
1957 ?'e dell’abbaziale negli ultimi anni”, che i Cistercensi siano stati chiamati a occupare un edificio diruto e abbando-
nato — secondo una prassi molto comune al tempo, e in particolare nel Lazio meridionale ? — che l'organizzazione ecclesiastica non desiderava perdere, probabilmente per l'importante posizione occupata, una posizione avanzata per un lavoro di bonifica e valorizzazione economica di zone. paludose e allo stesso tempo in comunicazione diretta con la via pedemontana, l'asse viario più importante di questa zona nel periodo in oggetto. La scarsità, la decontestualizzazione e la inadeguata documentazione degli elementi ritrovati rendono peró difficile do-
tate l'eventuale preesistenza di una precisa connotazione cronologica e storico-culturale, nonostante le ipotesi avanzate da diversi studiosi sulla base di antiche e infondate tradizioni storiche — si & patlato, ricordiamo, di fondazione basiliana o templare * — o della lettura del documento di donazione, come nel caso della Mione, che ha proposto di identificare la preesistenza con la « cappella derelicta S. Stephani de Nicoleto » citata nel suddetto documento tra i beni assegnati al nuovo cenobio ?', Il complesso monastico
Nonostante la parte più studiata del complesso sia la chiesa, secondo una lunga e affermata tradizione critica che considera
l’edificio come maggiormente rappresentativo e aulico per la
funzione e per le forme adottate, nel corso di questo studio è stato preso in esame il complesso monastico nella sua interezza, restituendogli l'originaria caratteristica di un progetto organico e coerente. In particolare gli insediamenti cistercensi, nati come un’organica « città contadina modello », non solo prevedevano che al proprio interno ogni spazio fosse specificamente
progettato e realizzato per determinate funzioni, ma erano in
grado di modellare con criteri di razionalità tetritori agro-pastorali e insediativi di notevole estensione *. Come abbiamo già avuto modo di dire il complesso presenta allo stato attuale un impianto che, nonostante i numerosi e spesso radicali interventi subiti nel corso dei secoli, possiede inequivocabili caratteri cistercensi; lungo le quattro gallerie
del chiostro si articolano gli spazi rispettivamente, destinati a monaci e conversi e allo svolgimento delle attività di una ti-
pica comunità dell’ordine di Cîteaux (fig. 1): la chiesa sul lato settentrionale (A), apetta regolarmente sulla navatella meridio-
nale dalla porta dei monaci a E e da quella dei conversi a O; l'ala dei monaci lungo il braccio orientale con-sala capitolare (B),
440
Maria Letizia de Sanctis
sala dei monaci (C), scala di accesso al dormitorio al piano su-
periore (D); Vauditorium (E), il refettorio (F), posto longitu dinalmente, e la cucina sul lato meridionale e infine, a O, l'ala dei conversi, completamente ricostruita alla fine del secolo per volere dell'abate White e sotto la direzione dell’ing. Quaroni ?. La critica ha generalmente spiegato la presenza di alcune anomalie nella struttura e nel paramento murario dell'abbaziale con la giustapposizione di almeno due fasi costruttive, mentre per il tipo di pianta adottato (che misura mt. 44,45 x 17,70), schema basilicale, a tre navate senza transetto, con coro a ter-
minazione rettilinea affiancato da due cappelle (fig. 1) sono stati indicati possibili riscontri nelle fondazioni cistercensi spagnole di Iranzu e Rueda e nella tedesca Camp”. In realtà anche il disegno della pianta?', con la sua impostazione semplificata”, contribuisce a inserire coerentemente Valvisciolo nell'ambito della tradizione edilizia locale * e nella linea di filiazione di Fossanova, accanto a S. Maria de Ferraria*. All’esterno la chiesa, completamente stonacata, ad esclusione della parete meridionale, mostra tracce, peraltro in molti punti leggibili con difficoltà, dell’avvicendarsi di fasi costruttive e rimaneggiamenti più o meno radicali. Particolarmente complessa è risultata la classificazione cronologica delle murature pet l’assenza di studi specifici per la zona di Sermoneta e per la sostanziale uniformità nel tempo del materiale utilizzato e della tecnica di taglio e posa in opera delle murature in pietrame. L'operazione è complicata anche dall'impossibilità di utilizzare portali e finestre, che risultano diffusi in un vasto ambito geografico-temporale, come elementi precisamente datanti. Sulla facciata (fig. 2) è particolarmente evidente la netta cesura esistente tra il parametro murario corrispondente alla navatella meridionale — tutt'uno con il tratto di muro nel quale si apre il portale di accesso al chiostro (fig. 3) — e quello che comprende senza soluzione di continuità il resto della facciata (navata centrale e settentrionale). La sezione destra della
facciata (fig. 3) è in realtà costituita da due parti distinte:
quella sinistra è separata da tuttala rimanente da una linea precisa e pulita, la. destra si va invece a sovrapporre alla prima in modo irregolare. Si tratta molto probabilmente, come denuncia anche l’uso misto di pietra e laterizio che formano una
sorta di opus mixtum estremamente irregolare, di una rifode-
ratura, in cui il dislivello sia stato colmato con materiale racco-
gliticcio, probabilmente da mettere in relazione con una risistemazione di questa zona da riferire ai restauri di Pio IX *. La cesura netta rispetto alla parte settentrionale della facciata? potrebbe rappresentare un indizio della presenza in questo punto, in un momento imprecisato, di un corpo a sé stante
Una
fondazione
cistercense
nel
territorio
441
— probabilmente da mettere in relazione con il tracciato murario messo in luce dagli scavi nella prima campata della navatella meridionale (fig. 4) — un corpo, forse preesistente alla erezione della nuova facciata nel XIII secolo, che si à voluto
conservare, come farebbe pensate la presenza sul lato di giunzione tra tivamente quella che Pantanelli
le due parti della facciata di conci disposti alternadi lungo e di taglio (fig. 3), oppure una torre come compare proprio in questa posizione nel disegno di ?', | |
La sezione settentrionale della facciata (fig. 2) e il tratto
di parete esterno della navatella sinistra corrispondente alle prime due campate (fig. 5), sono invece ben caratterizzati da un'apparecchiatura lapidea che se non si puó definire un esempio di regolarità in assoluto * — i conci, sommariamente sbozzati, sono di dimensioni variabili e blocchetti disposti longitudinalmente si alternano senza uno schema preciso ad altri di
taglio — lo è senz'altro in relazione alla muratura utilizzata
nella sezione centrale della parete settentrionale della stessa navatella (fig. 6), dove al posto di file di blocchetti calcarei di di-
mensioni ridotte e abbastanza omogenee
messi in opera con
poca malta, e con una certa regolarità, si può osservare una mu-
ratura costituita da blocchi più grandi e irregolari, cementati con abbondante malta. Porte e finestre di questo tratto di parete, della tipologia con architrave monolitico, sono realizzate
con grandi blocchi di travertino che si direbbero recuperati e
riutilizzati senza essere stati prima regolarizzati, con una tecnica che se da una parte risulta perfettamente coincidente con quella utilizzata in alcune aperture delle parti più antiche del complesso monastico di Fossanova, dall’altra rappresenta una tipologia largamente diffusa in numerose strutture medievali
del territorio, a partire dalla stessa Sermoneta. La facciata (fig.
2), rinforzata agli angoli ‘della sezione che si innalza al di sopra del livello delle navate laterali da conci angolari perfettamente squadrati”, è aperta da un portale architravato con
stipiti e modanature marmorei sovrastato da una lunetta af-
frescata (fig. 7), che rappresenta una regolarizzazione
tipo ampiamente diffuso in ambito campano-laziale
di un
— si pen-
si ai più semplici portali delle chiese di S. Antonio a Priverno e a quelli di S. Silvestro ad Alatri, S. Lucia a Ferentino — e da un elegante rosone, con oculo quadrilobato da cui di-
partono dodici archetti, strettamente collegato all’esempio fossonaviano (fig. 8)" e più in generale all’ambito di cultura. locale ?. Anche le altre aperture realizzare in questo blocco -cotrispondente alla facciata (fig. 26) (solo quella a sinistra è
originale) e alle prime due campate occidentali (figg. 5, 9), sono il prodotto di una stessa tecnica — blocchi angolari, di
442
Maria Letizia de Sanctis
un travertino molto liscio e chiaro, ben tagliati e abbastanza omogenei
nelle dimensioni —
e rimandano
a tipologie quali
quella del portale con architrave monolitico leggermente a timpano su mensolette aggettanti e della finestra rettangolare a strombo con cornice modanata costituita da un unico concio sagomato nella parte superiore e da conci disposti in modo alternato a comporre i piedritti ^, ampiamente diffuse sul territorio in un vasto arco temporale. Nel caso di Valvisciolo in particolare l'accuratezza nella lavorazione dei pezzi — soprattutto nella cornice delle finestre rettangolari — e nella messa in opera, insieme alla regolarità della muratura nella quale sono inseriti, indica una collocazione cronologica già all'interno della prima metà del Duecento. La linea di separazione tra i diversi cantieri sulla parete settentrionale si pud individuare all'altezza della seconda campata
da
O,
dove
al di
sotto
dell'intonaco
emerge una giunzione irregolare (fig. 9) che potrebbe indica-
re — insieme alla presenza di contrafforti lungo tutta la parte più antica della parete e la loto assenza in quella più recente^ — che il rinnovamento fece seguito a un crollo. Con l'evento disastroso che provocó il crollo di una parte della fabbrica ^ e un probabile rialzamento del piano di calpestio ester-
no, può anche spiegarsi la presenza del portale all'altezza. del-
la
seconda
campata
a partire
da
occidente
(fig.
9),
aperto
forse in questa posizione proprio perché l'eventuale crollo avrebbe reso inservibile l'originaria porta dei morti
(fig. 6), la cui
soglia — che risultava notevolmente interrata fino ai recenti lavori di restauro — si trova infatti ad un livello inferiore rispetto a quella più recente. Si trovó forse più conveniente create un'apertura ex novo nella parte occidentale che si andava edificando piuttosto che liberare con un ampio sterro la porta originaria e l’area limitrofa, o aprirne una in rottura al. Paltezza di un’altra campata “. Sempre a una fase più aggiornata rispetto al blocco centrale dell’edificio, da porre però probabilmente in un momento anteriore rispetto alla realizzazione della facciata, appartiene il
blocco absidale (fig. 10). La parte terminale è articolata da tre monofore archiacute, di cui la centrale leggermente più alta, inserite in una muratura costituita da grossi conci squadrati di calcare grigio, che consente di rafforzare la struttura in un punto in cui sarebbe potuta risultare indebolita dall’alta concentrazione di aperture. Le monofore orientali delle due cappelle laterali sono a pieno centro. Al di sopra e al di sotto di questa fascia e sui fianchi del blocco absidale, che presenta tracce di una precedente copertura a volte estradossate, la muratura è costituita da blocchetti sbozzati in modo molto som-
mario e di dimensioni variabili legati tra loro da un letto di
Una fondazione cistercense nel territorio
443
malta anch'esso di spessore variabile ma comunque notevole rispetto alla muratura della sezione occidentale dell'edificio. Sulla parete esterna della navatella meridionale sono state rimesse in luce le originarie aperture a feritoia costituite da concetti di misura e taglio irregolari (fig. 11), che erano state parzialmente occluse con la costruzione, tra il 1619 e il 1635,
delle camerette dei Minimi di S. Francesco da Paola sulla galleria settentrionale del chiostro *. La struttura di queste finestre, peraltro molto simile ad alcune aperture di Fossanova (fig. 12), appartiene a una tipologia ampiamente diffusa e dunque difficilmente utilizzabile come elemento datante, come è invece stato fatto da chi ha proposto, sulla base della loro presenza, una priorità cronologica di questa navatella rispetto alla rimanerite struttura dell’edificio *. L’operazione condotta sulla zona occidentale e su quella absidale dell’abbaziale a partire dagli inizi del XIII secolo, determinò dunque una nuova e più raffinata qualificazione architettonica e formale, quasi a sottolineare anche l’acquisizione di un ruolo più significativo sul territorio, da patte di un edificio che aveva assunto in precedenza nel complesso un carattere modesto e rurale. La giustapposizione di diverse fasi costruttive si può notare anche relativamente all'altezza del claristorio. La presenza lun-
go la totalità del suo sviluppo dello stesso tipodi monofore a tutto sesto di fattura molto regolare, raffinata dall’inserimento di un concio di chiave dal taglio « ad incastro » (fig. 13), e realizzate con un materiale diverso rispetto a quello adoperato nelle altre aperture dell’abbaziale, farebbero pensare a una realizzazione omogenea di questa parete, ma anche in questo caso
è possibile notare una cesura all’altezza delle prime due campate occidentali, dove compare la muratura già osservata nella
parte inferiore della parete e in facciata e contemporaneamente
scompaiono il segno cuspidato dei gocciolatoi e i doccioni, che caratterizzano invece il resto del corpo dell’edificio. In origine
le volte estradossate dovevano dunque essere state lasciate a vista, probabilmente solo bitumate ? e quando furono erette le due campate occidentali doveva già essere prevista, e probabil-
mente in parte realizzata, la copertura lignea sulle volte”. Non dovette comunque passare un intervallo troppo lungo per la realizzazione della copertura a tetto, poiché l’apparecchiatura muraria: degli spazi tra le linee spioventi del claristorio non mostra sostanziali differenze rispetto a quella sottostante. Poiché è invece diversa la muratura dal culmine degli spioventi all’attuale tetto a falde anche nelle due campate occidentali, si deve suppotte che il tetto duecentesco fosse impostato a un li-
444
Maria Letizia de Sanctis
vello
inferiore
rispetto
all'attuale,
realizzato
più
tardi
dopo
aver rialzato il livello della parete. Due serie di massicci pilastri di impianto rettangolare poggianti su basi molto semplici e conclusi da un'altrettanto semplice imposta modanata, articolano lo spazio interno della chiesa abbaziale in cinque campate rettangolari, allungate in senso trasversale nella navata centrale e longitudinale nelle navatelle (fig. 1); le proporzioni del coro, costituito da una campata rettangolare più stretta di quelle della navata centrale, sono ripetute nella campata che lo precede, affiancata da due cappelle laterali di impianto quadrangolare. In seguito ai recenti scavi condotti dalla Soprintendenza per individuare il primitivo piano di calpestio, notevoli differenze sono state riscontrate nelle quote di fondazione dei pilastri rispetto al piano battuto originatio preso come punto di riferimento dalla Soprintendenza e molto probabilmente risalente alla sistemazione di White. Si
tratta di quote che presentano variazioni nel complesso abba-
stanza contenute all'interno di ogni singola fila di sostegni, ma in definitiva, anche se si è cercato di mettere in connessione i diversi dati emersi dagli scavi, fino a questo momento non si è trovata una spiegazione pienamente soddisfacente per que-
ste irregolarità *, forse conseguenza di particolari difficoltà po-
ste alle maestranze dal tipo di suolo roccioso o da problemi o situazioni contingenti che oggi è difficile immaginare in modo più preciso, e che si potrebbe supporre legati a quegli stessi cedimenti del piano di fondazione che dovettero verificarsi anche nella vicina abbaziale di Fossanova ?. Wagner-Rieger considerava i sostegni, per la tessitura a grandi blocchi simili a quelli delle mura ciclopiche della vicina Norba, come elementi
superstiti di un edificio preesistente, trovati e riutilizzati al-
l’interno della nuova costruzione dai Templati al loro arrivo *. Il materiale con cui sono realizzati alcuni di questi pilastri (fig. 14) — un travertino grigio-azzurro utilizzato effettivamente in zona anche per la costruzione di antiche murature poligonali — si ritrova anche negli stipiti e negli architravi delle aperture più antiche del complesso monastico (es. convetsi), oltre che nei blocchi angolari del perimetto interno del chiostro. Potrebbe dunque trattarsi meglio di singoli blocchi, piuttosto che dell’intera struttura dei. pilastri, recuperati da qualche antico edificio, forse anche da uno che sorgeva proprio in questo sito e riutilizzati senza un precedente lavoro di ‘regolarizzazione *. Se è vero che sostegni con questa struttufa erano ampiamente diffusi già nell’XI secolo in area campano-abruzzese, soprattutto nelle chiese legate all’influenza di Montecassino, l’utiliz-
zazione di semplici pilastri prismatici alle Tre Fontane — a proposito dei quali la Romanini ha scritto « non solo la loro
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cistercense
nel territorio
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squadrata struttura ma addirittura la tessitura muraria è la stessa dei pilastri di Fiastra, ma anche di Rievaulx, di Alvastra, di Bonmont e Hauterive, e via via..., i primi edifici cioè delle prime missioni cistercensi inviate da Bernardo in tutte le parti
dell'Europa nel giro di pochi anni di vorticosa attività » — consente piuttosto di istituire una relazione in questo senso *. La presenza a Valvisciolo di questo tipo di sostegno pud dunque essere letta a sua volta come il segno dell'incontro, verificatosi all'interno del cantiere, di tradizioni di origine diversa, qui riunite nella creazione di un organismo coerente. Al gruppo di chiese minori del Basso Lazio erette tra la fine del XII e i primi decenni del XIII secolo, che presentano questo tipo di pilastro prismatico non articolato in connessione con coperture
lignee, a crociera nervate, o con la combinazione dei due sistemi, già indicato peraltro da Wagner-Rieger
come
dipendente
dal modello di Valvisciolo, vanno aggiunte, oltre alla già citata abbaziale della Ferrara, S. Silvestro ad Alatti, di datazione incerta e le chiese ferentinati di S. Lucia, S. Ippolito e S. Pancrazio, per le quali il riferimento alle soluzioni strutturali e formali di Valvisciolo non indicherebbe « una precocità cronologica, ma... recupero arcaizzante di una soluzione più semplice e molto più adatta alle dimensioni della chiesa degli elaborati sistemi di alzato già adottati dai Cistercensi all'aprirsi del XIII
sec. nel Lazio » *. D'altra parte, semipilastri inarticolati, dalla semplice sezione quadrangolare, sovrastati da semplicissimi capitelli a piramide rovesciata, sono presenti anche nelle piccole chiese mononave florensi di S. Maria della Gloria — di cui sono documentati i rapporti, se non altro economici, con Valvisciolo — e di S. Maria di Monte Mirteto, che sorge nelle immediate vicinanze di Sermoneta ”, oltre che in numerose altre fondazioni del Lazio meridionale *. Nonostante l'apparenza di uno spazio omogeneo anche l'interno rivela la successione di diverse fasi costruttive. Esaminando in modo più analitico la struttura dei pilastri si rileva ad esempio che il materiale e le dimensioni dei blocchi non sono omogenei in tutti i sostegni: i tre pilastri orientali della fila
sinistra (fig. 14) e il primo orientale della fila destra sono i soli interamente costruiti con grossi blocchi ?, mentre gli .altri presentano una tessitura di corsi più regolari e ridotti.nelle dimensioni (fig. 15) e sono stati realizzati forse dopo un’interruzione, quando non dovevano essere più disponibili i blocchi di recupero, sostituiti con un materiale diverso, probabilmente appositamente cavato e tagliato ®. Troverebbe dunque conferma l’ipotesi, avanzata sulla base dell’analisi delle strutture esterne
dell’edificio, di una priorità della navatella settentrionale ri-
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Maria Letizia de Sanctis
spetto a quella meridionale, al contrario di quanto generalmen-
te affermato “. Sulla doppia fila di sostegni poggiano archi longitudinali acu-
ti profilati da pietre lasciate a vista nel corso dei restauri di White, che, ad esclusione delle prime due campate, che anche l'analisi del paramento esterno consente di ricondurre a un mo-
mento costruttivo posteriore, presentano un andamento fortemente irregolare (fig. 15). Si potrebbe ipotizzare che in una
prima fase non si avesse disponibilità di un numero sufficiente di maestranze adeguatamente preparate, che forse dovevano occupatsi contemporaneamente della soluzione dei numerosi altri
problemi pratici posti dalla fondazione di un nuovo monastero in una zona paludosa e malarica e su un suolo roccioso, oppure che si tratti delle conseguenze di successivi rimaneggiamenti seguiti a dissesti strutturali causati dalla natura del suolo. La
particolare curvatura di questi archi, la cui traiettoria nella
parte inferiore risulta diversa rispetto al resto dello sviluppo,
potrebbe anche far ipotizzate che i lavori abbiano subito una interruzione subito dopo l'impostazione della curvatura
archi”,
degli
La navata centrale è coperta da volte a crociera nervate separate da archi trasversi a tutto sesto che poggiano su paraste di spessore molto limitato impostate sulla cornice dei pilastri
(fig. 15), in posizione che a volte non risulta ben centrata ri-
spetto all'asse del sostegno $, e concluse da elementi di forma
simile a quella delle cornici dei pilastri (fig. 15) *. La curvatura degli archi, di andamento perfettamente regolare — come anche il materiale utilizzato e il suo taglio — contrasta notevolmente con la struttura degli archi longitudinali a partire dal-
la terza campata dalla facciata, a testimoniare che il progetto di voltare la chiesa con crociere è sopravvenuto solo in un se-
condo momento. Le campate delle navate laterali, separate tra loro da archi acuti, sono coperte da volte a crociera che poggiano lungo le pareti laterali su semplici cornici di disegno analogo a quello dei mensoloni dei pilastri, nella navatella settentrionale, e su peducci dall’aspetto evidentemente molto rimaneggiato in quella meridionale $. Nella navatella settentrionale, in particolare, si verifica poi, analogamente a quanto notato per la navata centrale, una differenza strutturale tra le volte delle due campate occidentali — che mostrano atchi trasversi con un andamento più disteso e crociere con nervature meno
marcate — e
le ri-
manenti — che dovrebbero riferirsi a una fase precedente in accordo con quanto rilevato nel corso dell’analisi dell’esterno dell’edificio — dove le curvature degli archi e delle volte sono maggiormente accentuate. Nella navatella meridionale, con
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cistercense
nel
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447
una struttura omogenea per tutta la sua lunghezza, la cutvatura degli archi trasversi risulta maggiormente distesa rispetto a quelli della navatella settentrionale, con un risultato analogo a quanto notato nelle prime due campate di quest'ultima. Considerando la struttura inarticolata dei sostegni — ri-
cordiamo che le paraste furono realizzate in un secondo mo-
mento — riteniamo che per la navata centrale doveva origina-
riamente essere stata progettata una copertura lignea, mentre la costruzione di volte sulle navatelle, posta la limitata ampiez-
za dello spazio da coprire, non dovette comportare per le maestranze particolari difficoltà tecniche. Una copertura lignea fu realizzata anche sulla navata centrale delle Tre Fontane, in seguito alla rinuncia alla progettata volta a botte acuta ‘6, nell'abbaziale di Tiglieto ”, datata agli anni quaranta-sessanta del XII secolo, sempre in accordo con i sostegni prismatici non articolati, e secondo Wagner-Rieger anche alla Ferrara * I lavori di costruzione del complesso dovettero dunque avere inizio subito a ridosso della fondazione, entro il terzo quarto del XII secolo, a partire dallo spiccato dei muri perimetrali del complesso, un procedimento che del resto costituiva la norma nelle fondazioni cistetcensi. Tenendo presente che si tratta qui solo di ipotesi, dal momento che questa zona è stata in seguito
radicalmente trasformata, sembra chiaro che si dovette poi procedere all'impostazione del capocroce e degli ambienti dell'ala dei monaci siti sull'angolo NE, in modo da rendere possibile al più presto l'inizio di una regolare vita della comunità, e solo in seguito alla costruzione della parete settentrionale fino al. l'altezza delle finestre, dei tre pilastri orientali di questa fila e del primo di quella opposta, della parte inferiore della parete meridionale dell'edificio. Subito dopo si dovette procedere a voltare la navatella settentrionale.
Solo più tardi, ormai probabilmente all'interno del primo
ventennio del Duecento, furono ripresi i lavori alla chiesa — che forse aveva subito nel frattempo danni, come il crollo del coro e di una parte della parete settentrionale, a partire proprio dalla zona del coro, in cui le soluzioni strutturali e formali adottate sono il risultato di una tecnica e di un linguaggio aggiornati sui più recenti esiti fossanoviani (fig. 15). Qui-infatti un arco trasverso acuto ricade su pilastri con nucleo quadrangolare articolato da semipilastri: a differenza di quando accade . nel corpo longitudinale i sostegni sono quindi stati progettati in partenza per ricevere la ricaduta degli archi trasversi e delle
crociere. L’illuminazione del vano absidale è determinata da
tre monofore archiacute sormontate da un oculo profilato al-
linterno in forma di edicola (fig. 10) analogamente a quello
448
Maria Letizia de Sanctis
della facciata, un’altra monofora archiacuta si apre sulla parete
settentrionale e una a tutto sesto su quella meridionale, con un
tisultato vicino al blocco absidale dell’abbaziale di Fossanova
(fig. 16).
Il muro di fondazione ritrovato nel corso degli scavi promossi dalla Soprintendenza all'altezza della coppia di pilastri all’ingresso dello spazio absidale, con sviluppo trasversale ri-
spetto al corpo longitudinale, potrebbe indicare la traccia di una primitiva terminazione absidale precedente il rinnovamento dei primi del Duecento, quando la struttura potrebbe essere stata prolungata verso E e verso O, ovvero l'indizio di una preesistenza, come il perimetro murario trovato all'inizio della navatella destra (fig. 4) 9. All’interno di questa fase si dovettero progettare e cominciate a costruire, a partire da oriente, le volte della navata centrale, che dovevano rimanere a vista, e i relativi archi trasversi,
per accogliere i quali si predisposero sui pilastri le lesene (fig. 15) ^. Questi lavori dovettero comportare spese notevoli alla comunità, che infatti, nonostante avesse ormai evidentemente superato il periodo di difficoltà di cui resta testimonianza nella richiesta di trasferimento del 1206, dovette indebitarsi con
usurai ”,
Il campanile a torre (fig. 23) a tre ordini e impianto quadrangolare, dotato di una copertura a tetto a quattro spioventi e con vano interno, nel quale sono sparite le tracce dei ripiani originari, attualmente suddiviso in due piani da un solaio ligneo, si imposta sulla cappella meridionale, in posizione
anomala, dunque, rispetto a quanto si verificava normalmente nelle fondazioni cistercensi in ossequio alla legislazione dell’Or-
dine, che, estremamente rigida in materia, non prevedeva l'erezione di campanili monumentali. Nonostante fossero numerose le deroghe alle norme, i campanili in muratura erano collocati sulla crociera e, almeno fino al XIV secolo, rimasero di dimensioni limitate, come si puó osservare nei casi di Fossanova e Casamari ”. Alcuni degli studiosi che hanno propugnato la non appartenenza della fondazione all'Ordine cistercense hanno basato le proprie ipotesi anche sulla presenza di questo elemento inconsueto: D'Onofrio e Pietrangeli, seguiti da molti altri, lo hanno ad esempio spiegato come parte di una preesistenza da identificare forse con un edificio a navata unica — l’attuale navatella meridionale — dotato di un campanile al termine ?. Serafini, che ne attribuiva la costruzione a « maestranze pregotiche del Lazio meridionale » entro la seconda metà del XII secolo, sosteneva invece che il campanile rappresentava l'ultima struttura
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abbaziale, esterno, navatella settentrionale, porta dei motti.
7 è Valv isciol oO 2 Ss. P ietro e Stefano. Chiesa abbaziale, facciata, portale.
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. I quattro tratti analizzati in dettaglio sono i. seguenti: Il primo che parte dalla porta del Pozzo e arriva fino alla Piazza del Comune, il secondo che parte dalla Piazza del Comune e artiva alla chiesa di S. Angelo, il terzo che parte dalla chiesa di S. Angelo, costeggia la parte della Valle a monte della la Collegiata si ricollega scendendo alla chiesa di S. Giuseppe.
I poli principali del percorso sono. la Loggia. dei Mercanti,
piazza S. Angelo e la Collegiata. Utilizzando questa descrizione
e.sovrapponendola sia al Catasto Gregoriano che al Catasto attuale si & potuto ricostruire precisamente il percorso della via Processionale, e si & constatato che esso costituisce ancora oggi il percorso principale di Sermoneta con minime. variazioni do-
vute a, sventramenti e.ad. altre .cause, come. ad.esempio)é avvenuto nella zona antistante alla chiesa di S. Angelo.
Nel documento viene infine svolta una attenta descrizione
sull'uso, e sulla provenienza dei materiali:
La cava del selcio si descrive quella che guarda la Pianura Pontina, e precisamente dove si ossetva poco lontano l'oliveto dei Sigg. Fratelli Scatafassi, come il migliore di ogni altra cava, che dista dall'abitato un quarto di miglio circa ed in questa parte stessa si potrà avere il letto per il selcio quadrucciato essendo terra rossa a guisa di arena. La cava pet la pozzolana devesi praticare quella, che usasi per la fabbrica di Sermoneta lontano dall'abitato miglia due e
mezzo citca. | tos Il selcio quadrucciato deve avere una lunghezza.di cent. 16.in 18 grosso in
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Elisabetta Giorgi
testa cent. 9 in 10 e la grossezza dell'arena rossa di montagna da costruirsi al disotto del detto selcio quadrucciato dovrà avere cent. 25 e sia ben battuto il selcio a pià riprese, come comunemente praticasi in tutte le vie, che si praticano in simili lavorazioni. La costruzione poi del selciato in calce deve avere la sua grossezza di once due, e mezza circa nella profondità del selciato medesimo, i cordoni poi devono avere una lung. di cent. 45 circa grossi cent. 12 in 14 atti cent. 25 e devono essere alti murati cent. 13.
.
I muri che occorrono per riparo alla via della Valle devono avere una gros-
sezza di cent. 50. La calce dev'essere bene temperata, e non possa mettersi in esecuzione se prima non viene bene temperata nel fosso almeno per giorni quindici prima
della lavorazione e distribuita per li muri una parte di calce bene impastata
come.sopra, e due parti di pozzolana della migliore cava come si è detto, e sia di quella piompina, e gagliarda, mentre rimane qualunque altra vietata. L'impasto di essa calce poi per il selciato da costruirsi con calce, sia distribuita da tre porzioni della pozzolana medesima ed una di calce. Il riempimento, che potrà occorrere al selciato della Valle ossia nella contrada d’essa che sias con calcinaccio e terra brecciosa$.
Il rilievo diretto
In parallelo con la ricerca storica e di archivioè stata svolta l’attività di documentazione sullo stato attuale delle pavimenta-
zioni stradali a Sermoneta. Si è proceduto inizialmente ad una
sistematica raccolta fotografica di tutte le pavimentazioni della via Processionale con particolare attenzione a quelli che erano i punto nodali del percorso e utilizzando come chiave di lettura la ripartizione del percorso in quattro tratti descritta dal documento del 1861. Tutto il materiale fotografico prodotto é stato successivamente organizzato su alcune schede informatizzate in cui sono state riportate una serie di descrizioni che ci hanno permesso, come vedremo, di individuare varie tipologie pavimentali. In ogni scheda è stata riportata la frazione planimetrica dal Catasto attuale, sono stati segnalati i punti di presa fotografica; poi sono stati inseriti i provini a contatto delle foto, che sono state archiviate a parte. Nelle schede la pavimentazione oggetto
di analisi è stata quindi divisa in elementi primati, elementi
secondari, altri elementi, laddove per elementi primari si intendono quelli centrali della pavimentazione, per elementi secoridari quelli di cornice o di raccordo, e per altri quelli risultanti da rifacimenti successivi o da altre cause. Per ognuno di questi elementi in ogni scheda sono state poi inserite le seguenti descrizioni: 1. tipo di materiale ‘usato; 2. forma dei singoli elementi; 3. dimensioni dei singoli elementi; 4. tipo di malta usata. In questa fase si è constatato ad esempio che i materiali usati erano’ principalmente il calcare ed il ‘basalto. La forma degli elementi è quasi sempre quadrata per la maggior parte della
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ae 6. Schemi
tipologici
delle
pavimentazioni
stradali
a Sermoneta
(elaborazione dell'autore).
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da
delle
tipologie
relative
alle
cordonate
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7. Schemi
a
Sermoneta
(elaborazione
dell'autore).
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8. Corrispondenza
tra un
risarcimento
sulla
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muratura
e una
discontinuità
a terra (particolare).
9. L'impiego
di una
pietra
di recupero
a uso
di gradino
(particolare di una cordonata).
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