Economia e Territorio: L'Adriatico centrale tra tarda Antichità e alto Medioevo 9781407316659, 9781407355481

Questo volume è il risultato di quattro diversi seminari che hanno rappresentato un'occasione unica per condividere

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Indice
Premessa
The Central Adriatic in “Long Late Antiquity”
Introduzione
Introduzione (II)
Cronistoria di una piccola avventura adriatica
PARTE I: L’ADRIATICO CENTRALE TRA TARDA ANTICHITÀ E ALTO MEDIOEVO
SEZIONE 1: SINTESI REGIONALI
1.1: La Romagna tra tarda Antichità e alto Medioevo
1.2: Le Marche tra tarda Antichità e alto Medioevo
1.3: Economia e territorio nell’Adriatico centrale tra tarda Antichità e alto Medioevo (sec. IV–VIII): i contesti abruzzesi
SEZIONE 2: TEMI GENERALI E PROSPETTIVE DI RICERCA
2.1: Marmo e committenze nell’Adriatico tardoantico (V–VI secolo d.C.)
2.2: Sepolture e centri urbani in Romagna nell’alto Medioevo
PARTE III: LUOGHI E LE SCOPERTE RECENTI
SEZIONE 3: LA ROMAGNA
3.1: La corte di Ravenna e il rilancio economico della Romagna tra V e VII secolo
3.2: Navigazione in Adriatico: i materiali dall’imbarcazione tardoantica rinvenuta nel parco di Teodorico a Ravenna
3.3: Le anfore del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna
3.4: Bricks in the Wall: An Examination of Brick Procurement in Fifth-century Ravenna
3.5: Ricerche sui materiali marmorei e lapidei di età tardoantica a Ravenna
3.6: Aspetti e ruoli della scultura altomedievale di Ravenna (secoli VIII–IX): un aggiornamento
3.7: Portali tardoantichi a Ravenna: forme, materiali, produzioni e idee
3.8: I materiali lapidei dei portali tardoantichi di Ravenna: indagini diagnostiche
3.9: Rinvenimenti monetali dagli scavi dell’area portuale di Classe, Ravenna (campagne di scavo 2001–2005)
3.10: La diffusione del vetro nell’Adriatico centrale: studi tipologici e dati chimici da Classe
3.11: Tracce di un quartiere artigianale presso la Basilica Petriana a Classe
3.12: L’edificio monumentale a nord della Basilica Petriana
3.13: I materiali ceramici della Basilica Petriana a Classe: il contesto dell’abside
3.14: Ceramica dalla basilica di San Severo: rinvenimenti al di sotto della sala capitolare
3.15: La pietra ollare rinvenuta nel sito della basilica di San Severo a Classe (IV–VIII sec.)
3.16: I materiali tardoantichi dal pozzo “della cucina” della villa romana di Russi nel contesto degli insediamenti rustici dell’Emilia Romagna
3.17: The Roman road and the mansio of Ad Novas at Cà Bufalini (Cesenatico, FC)
3.18: Monete dal sito di Ad Novas Cesenatico. Dati preliminari
3.19: I reperti in vetro dal sito di Ad Novas (Cesenatico). Dati preliminari
3.20: Il settore produttivo della villa romana di Galeata: le fasi di età tardoantica
3.21: Fibule cruciformi dalla villa di Teoderico a Galeata: dati di scavo e confronti
3.22: La croce pettorale del Duomo di Berceto (PR): ipotesi di un riutilizzo
3.23: La villa di San Pietro in Cotto (Gemmano)
3.24: Complessi di scavo di età tardoantica provenienti da contesti abitativi urbani ed extraurbani della Romagna
3.25: Ruri. Forms of living in the Po Delta in the Roman age on the basis of remote sensing data
3.26: Sistemi insediativi tra V e XI secolo in Bassa Romagna. I dati delle ricognizioni di superficie
3.27: Paesaggi tardoantichi e paesaggi altomedievali: alcuni contesti romagnoli a confronto
3.28: Anfore palestinesi in Romagna: distribuzione dei rinvenimenti
SEZIONE 4: LE MARCHE
4.1: Colombarone, un sito che non conosce crisi
4.2: Alla ricerca del porto di Fano : ipotesi di identificazione delle strutture portuali di epoca tardoantica e altomedievale sulla base delle fonti storico-archeologiche
4.3: Evidenze archeologiche dal sito del monastero di San Paterniano lungo la flaminia alle porte di Fano
4.4: Gruppo di tombe altomedievali nella necropoli presso la mutatio ad octavo (Lucrezia, Cartoceto)
4.5: L’insediamento rustico di Isola del Piano: tra tarda Antichità e alto Medioevo
4.6: Cagli e il suo territorio nella tarda Antichità
4.7: Una necropoli tardoantica a Forum Sempronii
4.8: Il sepolcreto altomedievale di Pigno (Cagli)
4.9: Lo scavo nell’atrio del Palazzo Comunale di Cagli. La necropoli altomedievale
4.10: Suasa in età tardoantica: nuovi dati dalla via del Foro
4.11: Produzione e circolazione delle lucerne in area marchigiana fra Tardoantico e alto Medioevo: nuovi dati dagli scavi di Suasa
4.12: I reperti numismatici tardoantichi dallo scavo della via del Foro di Suasa
4.13: Il ruolo della colonia costiera di Potentia nell’ambito delle rotte adriatiche tra IV e VII secolo
4.14: Trasformazione della Camerinum romana tra tarda Antichità e alto Medioevo: nuovi dati dagli scavi di Piazza Mazzini
4.15: Un insediamento a Giove di Muccia dall’età romana all’epoca tardoantica e altomedievale
4.16: Cupra Maritima tra tarda Antichità e alto Medioevo: dati e problemi
4.17: Contesti funerari tardoantichi da Cupra Maritima
4.18: Lo scavo archeologico di Marino del Tronto (AP): testimonianze di continuità insediativa fra età romana e altomedievale
4.19: Novità dagli scavi dell’area urbana di Ascoli Piceno
4.20: La necropoli altomedievale di piazza Ventidio Basso ad Ascoli Piceno: prime considerazioni
SEZIONE 5: L’ABRUZZO
5.1: Le lucerne dalla catacomba di San Vittorino in Amiternum
5.2: Note preliminari sulla ceramica della catacomba di San Vittorino in Amiternum
5.3: Insediamenti tardoantichi nell’Abruzzo meridionale adriatico
5.4: Il materiale vitreo della catacomba di S. Vittorino in Amiternum
5.5: Circolazione e uso della moneta in Abruzzo tra tarda Antichità e alto Medioevo (IV–VIII secolo)
5.6: La ceramica di tradizione tardoromana nel sito di Castel Manfrino
5.7: Economia e trasformazione del paesaggio tra tarda Antichità e alto Medioevo: riflessioni preliminari su alcuni casi emblematici del’Abruzzo interno e dell’area costiera
5.8: Oggetti di corredo personale dalle catacombe abruzzesi
5.9: Pettini in osso e status sociale: alcuni esempi dall’Abruzzo
5.10: Chieti (Teate Marrucinorum) fra tarda Antichità e alto Medioevo: nuove acquisizioni dall’area della Civitella
SEZIONE 6: LA DALMAZIA E L’ILLIRIA
6.1: Economy in the Apsyrtides Archipelago through Late Antique Numismatic Finds
6.2: Transformation of Roman Agglomerations in Northwestern Croatia
6.3: Medulin Bay in Late Antiquity: The Antique and Late Antique Site of Vižula near Medulin, Croatia
6.4: L’abbandono di Burnum: analisi delle fonti storiche e archeologiche e dati sulla cultura materiale
6.5: Le importazioni africane trovate sull’isola di Brač/Brattia, Dalmazia
6.6: Some Evidence for North African Imports at Dyrrachium/Albania (mid 5th to mid 7th century)
Bibliografia
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Economia e Territorio: L'Adriatico centrale tra tarda Antichità e alto Medioevo
 9781407316659, 9781407355481

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‘This work fills a very important gap in our knowledge of the area studied, for this period. I am quite sure that the volume will very soon become a landmark in this field of study.’ Prof. Andrea Augenti, Università di Bologna

This volume is the result of four seminars that represented a unique opportunity to share the results of the most recent archaeological and topographical research conducted in the regions on the two shores of the central Adriatic Sea. The contributors include specialists who have been involved in excavations or who have researched archaeological topics in the coastal territories of Emilia-Romagna, Marche, Abruzzo, Dalmatia and Illyria. Recent research seems to indicate that different phenomena relating to the transformation of material culture and settlement choices were directly influenced by the continuous political changes and the various economic and cultural influences that characterised the areas occupied by ‘barbarians’ compared to those under Roman-Byzantine control. The papers here collected, through regional summaries and through the presentation of individual study contexts, examine the forms of settlements and aspects of the production and circulation of ceramics and other craft products during this period of crisis. Enrico Cirelli è archeologo medievista, docente e ricercatore all’Università di Bologna. Negli ultimi anni si è occupato principalmente di Ravenna e dei suoi rapporti con l’Adriatico. Enrico Giorgi è docente di Metodologia della Ricerca Archeologica e Archeologia della Città presso l’Università di Bologna. Si occupa di archeologia del paesaggio in ambito adriaticoionico, con attenzione all’evoluzione del paesaggio urbano. Dirige progetti di ricerca in Italia e all’Estero. Giuseppe Lepore è professore di Archeologia greca e romana presso l’Università di Bologna. Dirige la Missione Archeologica Italiana a Phoinike e numerose ricerche archeologiche in area adriatica e in Sicilia.

Economia e Territorio L’Adriatico centrale tra tarda Antichità e alto Medioevo a cura di

Enrico Cirelli, Enrico Giorgi e Giuseppe Lepore

B A R I N T E R NAT I O NA L S E R I E S 2 9 2 6 Economia e Territorio

Questo volume è il risultato di quattro diversi seminari che hanno rappresentato un’occasione unica per condividere i risultati degli ultimi anni di ricerche archeologiche e topografiche condotte all’interno delle regioni comprese tra le due sponde dell’Adriatico centrale. Sono stati coinvolti ricercatori che si occupano o si sono occupati di queste tematiche negli attuali territori costieri di Emilia-Romagna, Marche, Abruzzo, Dalmazia e Illiria. Le recenti ricerche sembrano indicare che diversi fenomeni di trasformazione della cultura materiale e delle scelte insediative sono influenzati direttamente dai continui cambiamenti politici e dalle diverse influenze economiche e culturali che caratterizzano le zone occupate dai barbari rispetto a quelle sotto il controllo romano-“bizantino”. Nei contributi raccolti in questa occasione vengono prese in esame, attraverso sintesi regionali e attraverso la presentazione di singoli contesti di studio, le forme degli insediamenti e gli aspetti delle produzione e della circolazione dei prodotti ceramici e di tutti i prodotti artigianali, in questo periodo di crisi.

CIRELLI, GIORGI E LEPORE (eds)

‘These proceedings present original works that tackle areas and projects whose publication will be of great benefit to the scientific community working on the wider Adriatic area and beyond.’ Peer reviewer

2019

‘This work represents a breakthrough in spatial and chronological terms. … [It] brings an abundance of new and relevant topographic information from urban, rural, sacred and economic contexts for all the regions studied.’ Prof. Dr. Igor Borzić, University of Zadar, Croatia

BAR S2926

BAR IN TERNATIONAL SE RIE S 2926

2019

Economia e Territorio L’Adriatico centrale tra tarda Antichità e alto Medioevo a cura di

Enrico Cirelli, Enrico Giorgi e Giuseppe Lepore

B A R I N T E R NAT I O NA L S E R I E S 2 9 2 6

2019

Published in 2019 by BAR Publishing, Oxford BAR International Series 2926 Economia e Territorio © The editors and contributors severally 2019 Cover Image Scena dalla Cattedra di Massimiano (metà VI sec. d.C.)/ Scene from the Throne of Maximian (Mid-6th c. AD). Photo by E.Cirelli, with the kind permission of the Archidiocesi of Ravenna-Cervia. The Authors’ moral rights under the 1988 UK Copyright, Designs and Patents Act are hereby expressly asserted. All rights reserved. No part of this work may be copied, reproduced, stored, sold, distributed, scanned, saved in any form of digital format or transmitted in any form digitally, without the written permission of the Publisher.

ISBN 9781407316659 paperback ISBN 9781407355481 e-format DOI https://doi.org/10.30861/9781407316659 A catalogue record for this book is available from the British Library

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BAR Publishing 122 Banbury Rd, Oxford, ox2 7bp, uk [email protected] +44 (0)1865 310431 +44 (0)1865 316916 www.barpublishing.com

Indice Premessa............................................................................................................................................................................ vii The Central Adriatic in “Long Late Antiquity”.............................................................................................................. 1 Miljenko Jurković Introduzione........................................................................................................................................................................ 5 Giuseppe Sassatelli Introduzione........................................................................................................................................................................ 7 Giuliano Volpe Cronistoria di una piccola avventura adriatica............................................................................................................... 9 Enrico Cirelli, Enrico Giorgi, Giuseppe Lepore PARTE I L’ADRIATICO CENTRALE TRA TARDA ANTICHITÀ E ALTO MEDIOEVO SEZIONE 1 SINTESI REGIONALI................................................................................................................................11 1.1 La Romagna tra tarda Antichità e alto Medioevo.................................................................................................... 13 Enrico Cirelli 1.2 Le Marche tra tarda Antichità e alto Medioevo....................................................................................................... 20 Enrico Giorgi 1.3 Economia e territorio nell’Adriatico centrale tra tarda Antichità e alto Medioevo (sec. IV–VIII): i contesti abruzzesi........................................................................................................................................................... 32 Sonia Antonelli SEZIONE 2 TEMI GENERALI E PROSPETTIVE DI RICERCA............................................................................ 39 2.1 Marmo e committenze nell’Adriatico tardoantico (V–VI secolo d.C.)................................................................... 41 Yuri A. Marano 2.2 Sepolture e centri urbani in Romagna nell’alto Medioevo...................................................................................... 53 Debora Ferreri PARTE II I LUOGHI E LE SCOPERTE RECENTI SEZIONE 3 LA ROMAGNA........................................................................................................................................... 61 3.1 La corte di Ravenna e il rilancio economico della Romagna tra V e VII secolo..................................................... 63 Dario Daffara 3.2 Navigazione in Adriatico: i materiali dall’imbarcazione tardoantica rinvenuta nel parco di Teodorico a Ravenna.......................................................................................................................................................................... 66 Giovanna Montevecchi, Claudio Negrelli 3.3 Le anfore del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna.............................................................................................. 77 Alice Ranzi 3.4 Bricks in the Wall: An Examination of Brick Procurement in Fifth-century Ravenna............................................ 83 J. Riley Snyder 3.5 Ricerche sui materiali marmorei e lapidei di età tardoantica a Ravenna................................................................. 90 Isabella Baldini, Paolo Baronio, Giulia Marsili, Lucia Orlandi, Debora Pellacchia, Letizia Sotira 3.6 Aspetti e ruoli della scultura altomedievale di Ravenna (secoli VIII–IX): un aggiornamento................................ 98 Paola Porta, Stefano Degli Esposti iii

Economia e Territorio 3.7 Portali tardoantichi a Ravenna: forme, materiali, produzioni e idee...................................................................... 106 Maria Cristina Carile 3.8 I materiali lapidei dei portali tardoantichi di Ravenna: indagini diagnostiche...................................................... 118 Gian Carlo Grillini 3.9 Rinvenimenti monetali dagli scavi dell’area portuale di Classe, Ravenna (campagne di scavo 2001–2005)....... 124 Elena Baldi 3.10 La diffusione del vetro nell’Adriatico centrale: studi tipologici e dati chimici da Classe................................... 131 Tania Chinni, Enrico Cirelli, Sarah Maltoni, Mariangela Vandini, Alberta Silvestri, Gianmario Molin 3.11 Tracce di un quartiere artigianale presso la Basilica Petriana a Classe................................................................ 138 Debora Ferreri 3.12 L’edificio monumentale a nord della Basilica Petriana........................................................................................ 144 Mila Bondi 3.13 I materiali ceramici della Basilica Petriana a Classe: il contesto dell’abside...................................................... 148 Mariana Simonetti 3.14 Ceramica dalla basilica di San Severo: rinvenimenti al di sotto della sala capitolare......................................... 155 Bianca Maria Mancini 3.15 La pietra ollare rinvenuta nel sito della basilica di San Severo a Classe (IV–VIII sec.)..................................... 162 Maria Teresa Gatto 3.16 I materiali tardoantichi dal pozzo “della cucina” della villa romana di Russinel contesto degli insediamenti rustici dell’Emilia Romagna................................................................................................................... 167 Giovanna Montevecchi, Claudio Negrelli 3.17 The Roman road and the mansio of Ad Novas at Cà Bufalini (Cesenatico, FC)................................................. 172 Denis Sami, Neil Christie 3.18 Monete dal sito di Ad Novas Cesenatico. Dati preliminari.................................................................................. 181 Elena Baldi 3.19 I reperti in vetro dal sito di Ad Novas (Cesenatico). Dati preliminari.................................................................. 185 Tania Chinni 3.20 Il settore produttivo della villa romana di Galeata: le fasi di età tardoantica...................................................... 193 Marco Gregori, Emanuela Gardini 3.21 Fibule cruciformi dalla villa di Teoderico a Galeata: dati di scavo e confronti................................................... 200 Ketty Iannantuono 3.22 La croce pettorale del Duomo di Berceto (PR): ipotesi di un riutilizzo............................................................... 206 Filippo Fontana 3.23 La villa di San Pietro in Cotto (Gemmano)......................................................................................................... 210 Mila Bondi 3.24 Complessi di scavo di età tardoantica provenienti da contesti abitativi urbani ed extraurbani della Romagna.. 216 Chiara Guarnieri, Giovanna Montevecchi, Claudio Negrelli, Bruno Fabbri, Sabrina Gualtieri 3.25 Ruri. Forms of living in the Po Delta in the Roman age on the basis of remote sensing data............................. 224 Antonella Coralini, Barbara Cerasetti, Cristina Cordoni, Michele Vescio 3.26 Sistemi insediativi tra V e XI secolo in Bassa Romagna. I dati delle ricognizioni di superficie......................... 240 Marco Cavalazzi 3.27 Paesaggi tardoantichi e paesaggi altomedievali: alcuni contesti romagnoli a confronto..................................... 245 Nicola Mancassola 3.28 Anfore palestinesi in Romagna: distribuzione dei rinvenimenti.......................................................................... 253 Giacomo Piazzini

iv

Indice SEZIONE 4 LE MARCHE............................................................................................................................................ 257 4.1 Colombarone, un sito che non conosce crisi.......................................................................................................... 259 Pier Luigi Dall’Aglio, Gaia Roversi, Cristian Tassinari 4.2 Alla ricerca del porto di Fano: ipotesi di identificazione delle strutture portuali di epoca tardoantica e altomedievale sulla base delle fonti storico-archeologiche.......................................................................................... 266 Giulia Spallacci 4.3 Evidenze archeologiche dal sito del monastero di San Paterniano lungo la flaminia alle porte di Fano............... 269 Gabriele Baldelli, Vanessa Lani 4.4 Gruppo di tombe altomedievali nella necropoli presso la mutatio ad octavo (Lucrezia, Cartoceto)..................... 276 Gabriele Baldelli, Vanessa Lani 4.5 L’insediamento rustico di Isola del Piano: tra tarda Antichità e alto Medioevo.................................................... 283 Giulia Bartolucci, Genny Graziani 4.6 Cagli e il suo territorio nella tarda Antichità.......................................................................................................... 290 Tommaso Gnoli 4.7 Una necropoli tardoantica a Forum Sempronii...................................................................................................... 292 Oscar Mei, Pietro Gobbi 4.8 Il sepolcreto altomedievale di Pigno (Cagli).......................................................................................................... 297 Agata Aguzzi, Anna Lia Ermeti 4.9 Lo scavo nell’atrio del Palazzo Comunale di Cagli. La necropoli altomedievale................................................. 315 Agata Aguzzi, Anna Lia Ermeti 4.10 Suasa in età tardoantica: nuovi dati dalla via del Foro........................................................................................ 329 Anna Gamberini, Sara Morsiani 4.11 Produzione e circolazione delle lucerne in area marchigiana fra Tardoantico e alto Medioevo: nuovi dati dagli scavi di Suasa............................................................................................................................................... 339 Federico Biondani 4.12 I reperti numismatici tardoantichi dallo scavo della via del Foro di Suasa......................................................... 345 Silvia Sassoli 4.13 Il ruolo della colonia costiera di Potentianell’ambito delle rotte adriatiche tra IV e VII secolo........................ 351 Francesca Carboni, Frank Vermeulen 4.14 Trasformazione della Camerinum romana tra tarda Antichità e alto Medioevo: nuovi dati dagli scavi di Piazza Mazzini............................................................................................................................................................. 359 Nicoletta Frapiccini, Viviana Antongirolami, Sonia Virgili 4.15 Un insediamento a Giove di Muccia dall’età romana all’epoca tardoantica e altomedievale............................. 371 Nicoletta Frapiccini, Laura Casadei, Marco Cruciani, Luca Millo 4.16 Cupra Maritima tra tarda Antichità e alto Medioevo: dati e problemi................................................................ 377 Elena Di Filippo Balestrazzi, Nicoletta Frapiccini, Caterina Giostra 4.17 Contesti funerari tardoantichi da Cupra Maritima.............................................................................................. 387 Nicoletta Frapiccini, Federica Galazzi, Loris Salvucci 4.18 Lo scavo archeologico di Marino del Tronto (AP): testimonianze di continuità insediativa fra età romana e altomedievale............................................................................................................................................... 393 Marco Antognozzi, Elisa Lopreite, Michele Massoni 4.19 Novità dagli scavi dell’area urbana di Ascoli Piceno........................................................................................... 399 Michele Massoni, Serena De Cesare, Marco Antognozzi 4.20 La necropoli altomedievale di piazza Ventidio Basso ad Ascoli Piceno: prime considerazioni.......................... 405 Luca Speranza, Eleonora Ferranti SEZIONE 5 L’ABRUZZO............................................................................................................................................. 419 5.1 Le lucerne dalla catacomba di San Vittorino in Amiternum.................................................................................. 421 Sonia Antonelli, Maria Dormio v

Economia e Territorio 5.2 Note preliminari sulla ceramica della catacomba di San Vittorino in Amiternum................................................. 427 Sonia Antonelli, Matteo Di Palma 5.3 Insediamenti tardoantichi nell’Abruzzo meridionale adriatico.............................................................................. 436 Davide Aquilano 5.4 Il materiale vitreo della catacomba di S. Vittorino in Amiternum.......................................................................... 444 Silvia Bucci 5.5 Circolazione e uso della moneta in Abruzzo tra tarda Antichità e alto Medioevo (IV–VIII secolo)..................... 450 Maria Cristina Mancini 5.6 La ceramica di tradizione tardoromana nel sito di Castel Manfrino...................................................................... 454 Ilaria Pallotta 5.7 Economia e trasformazione del paesaggio tra tarda Antichità e alto Medioevo: riflessioni preliminari su alcuni casi emblematici del’Abruzzo interno e dell’area costiera............................................................................... 459 Cinzia Cavallari, Emanuela Ceccaroni, Sandra Lapenna, Rosanna Tuteri 5.8 Oggetti di corredo personale dalle catacombe abruzzesi....................................................................................... 471 Carmen Tanga 5.9 Pettini in osso e status sociale: alcuni esempi dall’Abruzzo................................................................................. 479 Marzia Tornese 5.10 Chieti (Teate Marrucinorum) fra tarda Antichità e alto Medioevo: nuove acquisizioni dall’area della Civitella........................................................................................................................................................................ 483 Martina Pantaleo, Enrico Siena, Luciana Tulipani SEZIONE 6 LA DALMAZIA E L’ILLIRIA................................................................................................................. 493 6.1 Economy in the Apsyrtides Archipelago through Late Antique Numismatic Finds.............................................. 495 Zrinka Ettinger Starčić 6.2 Transformation of Roman Agglomerations in Northwestern Croatia.................................................................... 499 Ivana Peškan, Vesna Pascuttini-Juraga 6.3 Medulin Bay in Late Antiquity: The Antique and Late Antique Site of Vižula near Medulin, Croatia................. 505 Kristina Džin, Igor Miholjek 6.4 L’abbandono di Burnum: analisi delle fonti storiche e archeologiche e dati sulla cultura materiale..................... 511 Alessandro Campedelli, Bojana Gruska, Sara Morsiani 6.5 Le importazioni africane trovate sull’isola di Brač/Brattia, Dalmazia.................................................................. 525 Kristina Jelinčić Vučković 6.6 Some Evidence for North African Imports at Dyrrachium/Albania (mid 5th to mid 7th century).......................... 535 Brikena Shkodra-Rrugia Bibliografia...................................................................................................................................................................... 547

vi

Premessa Enrico Cirelli, Enrico Giorgi, Giuseppe Lepore La stabilità economica e il nuovo assetto politico e istituzionale dell’impero, determinate dalle riforme di Diocleziano, culminano in una grave crisi subito dopo la morte di Costantino il grande (337).

Tra gli indicatori archeologici più analizzati si impone sempre maggiormente la ceramica. In recenti incontri si è sottolineata anche l’importanza delle produzioni vascolari più comuni (Le forme della crisi, Spoleto 2012) oltre alle ceramiche fini da mensa e ai contenitori da trasporto che in passato era state prese in esame con più insistenza.

L’Italia, contesa dagli eredi dell’imperatore, inizia un complesso periodo di trasformazione economica e culturale che si manifesta inizialmente con una forma diffusa di recessione nelle forme di occupazione del territorio. Gli insediamenti urbani e rurali mostrano segnali di destrutturazione e di crisi. Nei decenni successivi, le ondate di popoli provenienti dall’Europa settentrionale e orientale interrompono ancora di più l’unità politica dell’Impero, solo in parte riequilibrata dopo la guerra tra Romani e Goti, al prezzo di devastazioni di molti centri urbani e di abbandoni in numerosi siti del territorio interessato dai continui scontri militari.

Archeologi e storici riconoscono ormai l’importanza di questo prodotto per ricostruire i quadri economici e sociali soprattutto in quei periodi in cui le fonti scritte sono più scarse. Necessaria è però anche l’analisi delle forme insediative e delle tecniche di costruzione che cambiano decisamente rispetto a quelle del mondo romano. L’Adriatico centrale, con i territori che si affacciano sul versante italiano che in quello croato, sono interessati da fenomeni di trasformazioni simili almeno fino all’invasione longobarda dell’Italia e dell’Istria. Le relazioni così strette tra le due sponde hanno garantito da sempre influenze culturali dirette. Le produzioni artigianali e le forme di insediamento per molti aspetti seguono linee comuni.

Questi eventi, che determinano un inevitabile indebolimento del presidio dell’uomo sul territorio, vanno a inserirsi nell’ambito di una fase di recrudescenza climatica e ambientale che in molti casi provoca la crisi o il collasso del sistema di infrastrutture territoriali antiche. In molti casi, infatti, i corsi d’acqua non più regimentati riprendono a modellare il paesaggio che in generale tende a tornare verso forme più naturali e meno organizzate. Eventi bellici, declino sociale politico e istituzionale, mancanza di un potere centrale o locale capace di governare il cambiamento, sono tutti elementi che concorrono all’evoluzione del paesaggio medio-adriatico in questa particolare circostanza storica.

In questo incontro intendiamo analizzare questi fenomeni di trasformazione nelle zone in cui la ricerca si è soffermata poco per quel che riguarda i secoli che corrono tra il IV e l’VIII. Uno degli obiettivi principali è quello di mettere a confronto il fenomeno delle nuove produzioni locali e regionali sia in Italia che in Croazia e di verificare il grado di incidenza dei prodotti di importazioni dalle province orientali e dall’Africa del nord. Se infatti sappiamo che a partire dal IV secolo la loro distribuzione è sempre più ristretta, solo in parte queste produzioni verranno sostituite da prodotti locali di imitazione o da nuove forme vascolari. Nuovi repertori si affermano soprattutto per quel che riguarda la ceramica di uso domestico. È un lungo processo che interessa il Mediterraneo in modi simili ma con forme differenti. Anche le forme e le scelte insediative cambiano parzialmente rispetto al passato e le comunità urbane e rurali si organizzano secondo modelli diversi. Sia le nuove che le vecchie aristocrazie investono in altre forme di manifestazione del loro potere e i vecchi apparati monumentali iniziano a essere abbandonati e smantellati, o rioccupati secondo nuove esigenze.

Verso la fine del VI secolo inoltre, l’arrivo dei Longobardi, divide definitivamente l’Italia in due, dando inizio a nuovi tipi di insediamento e a diverse forme di sfruttamento delle campagne e delle città sopravvissute al tracollo del sistema urbano e territoriale antico. C’è da chiedersi quanto questa frammentazione politica abbia avuto ripercussioni sul paesaggio. Nei due secoli successivi si completa questo processo di trasformazione, anche se l’archeologia fatica ancora a definire le caratteristiche della nuova cultura materiale. Le ricerche sul campo degli ultimi anni stanno riportando alla luce nuove testimonianze che consentono di tracciare un quadro più completo di questo importante periodo storico, al centro del dibattito negli ultimi decenni.

Le recenti ricerche sembrano indicare che questi fenomeni sono influenzati direttamente dalle continue trasformazioni politiche e dalle diverse influenze economiche e culturali

vii

Economia e Territorio che caratterizzano le zone occupate dai barbari rispetto a quelle sotto il controllo “romano bizantino”.

tematiche negli attuali territori costieri di Emilia-Romagna, Marche, Abruzzo, Dalmazia e Illiria.

Questo incontro ha rappresentato un’occasione per condividere i risultati degli ultimi anni di ricerche sul campo lungo le regioni adriatiche centrali comprese tra le due sponde dell’Adriatico centrale. Sono stati coinvolti ricercatori che si occupano o si sono occupati di queste

Nei contributi che seguono verranno prese in esame, attraverso sintesi regionali e attraverso la presentazione di singoli contesti di studio, le forme degli insediamenti e gli aspetti della produzione e della circolazione dei prodotti ceramici e di tutti i prodotti artigianali, in questo periodo di crisi, tra le due sponde dell’Adriatico.

viii

The Central Adriatic in “Long Late Antiquity” Miljenko Jurković University of Zagreb, IRCLAMA The Adriatic

should in the first place involve the ports,1 as vibrant focal points active in both directions, importing and exporting. The ports (as for example Classe) are indeed the departure or arrival points of the protagonists – decision makers, investors, artists – as well as of works of art, utilitarian ware, other merchandise, food and beverages, all packed in different containers. A very efficient network of port cities has thus been created.2

The idyllic picture of the Adriatic as a “sea of intimacy” promoted by P. Matvejević, or the picture of the Adriatic as a true connection between the opposite shores, an infinite number of “bridges”, connecting rather than dividing, as F. Braudel saw the whole of the Mediterranean, has become a commonplace in narratives of various sorts. Though there is no doubt that this literary figure appeals – albeit as a slightly Romantic vision – there is nonetheless the other side of the coin. One of the legends (or realities) showing this – the story of two lapicidi from the island of Rab, Marino and Leo, who, fleeing from Diocletian’s persecutions, arrived on the opposite shore and founded two settlements, one of them eventually becoming the republic of San Marino – tends to picture the event as idyllic. But, in reality, they fled in an attempt to stay alive; they probably struggled on the sea in their small boat. Is it a story of connectivity? Or just a happy ending to a much more complex problem? In mythology, the Adriatic maritime trade routes have a place of their own – the Electrides or Amber Islands give an important picture of connectivity as a starting point for trade between the Baltic and the Adriatic; the dramatic aspect of such narratives is on the other hand depicted in the destiny of the Argonauts on the Apsyrtides.

The territory the book focuses on is the central Adriatic, not the whole of it; the regions of Romagna, Marche, Abruzzo and,to a lesser extent, Dalmatia on the opposite shore. The choice of the chronological frame, the span between Late Antiquity and the early Middle Ages, is always tempting, because it is a time of crucial changes, of transformations for the Roman world. The value of the book lies, in addition to the synthesis on each of the three regions and that of the marble trade, as well as of burial practices inside and outside the walls, in the truly huge number of archaeological reports that it presents, giving varied new insights on different aspects of the economy of the territories in question. It also gives a relatively clear picture of the problems still needing to be resolved, not only in the regions concerned, but in general. The book gives not only a good state of the art, but raises more general questions that I would like at least to identify here.

The Adriatic certainly has a darker side, because of the configuration of its islands, islets, reefs, and its dangerous winds, such as the bora. Sometimes I see it as a huge graveyard of shipwrecks – but is this “graveyard” created only by the nature of the sea, by its caprices alone, or by the battles fought through its history? Are those ships battleships or merchant ships? Which are in the majority? Is the Adriatic from this point of view an intimate and friendly sea or an endless sequence of tragic fates?

Terminology is one of the existing problems. There are some terms that still need precision, because they are used in different ways, bearing different meanings. It is of course not the main focus of this book, but I feel that some precisions have to be pinpointed. If there is no question today about when Late Antiquity begins, we stand all the more perplexed when it comes to understanding its ending and the beginnings of the early Middle Ages – historians think in one way, art historians in another, with archaeologists in between. Basically, those who deal with material culture and monumental art see chronology differently than those who cherish political events in explaining the dynamics of changes. I have always asked myself what is basically new in material evidence, in style, especially in monumental art, when the Lombards came

Those merchant ships bring us to the topic of this book – the economy and territory of the central Adriatic: basically, the story of connectivity and entanglements during a predefined span of time, from Late Antiquity to the Early Middle Ages. The territory in focus is indeed tied to the Adriatic, being on its shores. Economy couldn’t be economy without the Adriatic trading routes, a sort of highway of connectivity. With a topic like this, elaborationon the different possibilities for trading through maritime routes would be expected. Connectivity – a much fancied topic today –

This topic was recently dealt with in Hortus Artium Medievalium 22, 2016, with an emphasis on the Adriatic. 2 Sabaté 2016, p. 21. 1

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Miljenko Jurković to northern Italy, or the Croats settled in Dalmatia (just to stick to the Adriatic, though the same question goes for the Visigoths in France and Spain). And I do not see it. For me, a “Long Late Antiquity” ends only with the Carolingians, in the last quarter of the 8th century, when real structural changes affect, for instance, architecture and sculpture. The question then is: should we all stick with the terminology that history as a discipline uses, or, speaking of artistic achievements, create our own terminology, and with it, chronological sequences?

words, it can be depicted as a case of everyday history versus policy-making history. The circulation of marble through the Adriatic is one such topic, and a good example to support this statement. There is no doubt that large quantities of different marbles from different quarries found their way to the Adriatic towns during Late Antiquity. Together with spoliae and other high-quality stone they embellished many edifices commissioned by members of the elites. But, in my opinion, there is a need for a slightly nuanced interpretation. The different types of marble didn’t all have the same impact –the marble trade in general is one thing, just commerce; but marble from Proconnesos is something totally different, bearing carefully thought-out meanings.

The same goes for the term ‘Byzantine’. I am well aware of the fact that the term has different chronologies in different countries, or perhaps it is better to say in different schools. So, for some scholars, Byzantine art starts with the creation of Constantinople, for others with Justinian. But, what are the real facts? First, it is a term forged very late, used first in the 16th century, and so already an unfortunate one. The problem of periodisation has been questioned for a long time now. Serious research dealing with Byzantium usually start with the 7th century,3 or iconoclasm,4 but underlining that the earlier period, especially Justinian’s time, should be taken as the basis of development. Others think differently: Grabar has called Justinian’s time “The golden age of Byzantium”; others think of it as “early Byzantine” or “Proto-Byzantine”.

Marble sculpture from Proconnessos can indeed be seen as an efficient political tool in the time of Justinian. The activities in the quarries go from the mid 2nd to the end of the 6th century.5 Most of the productions were bases, capitals and columns, worked in the quarry. It has been noticed that, in Justinian’s time, unfinished sculpture was shipped to Constantinople and then finished in the capital’s workshops. The phenomenon of mass production of expensive marble sculpture has its reasons. The newly established Justinian’s empire was very heterogeneous, consisting of regions very different in language and culture, and needing unifying ties. The wealthy and educated elites, among them Archbishop Maximian in Ravenna (formerly bishop in Pula), Bishop Euphrasius in Poreč, or Honorius in Salona, and others, were members of a network, with the centre in Constantinople. The erection of churches of specific shapes and layouts served as representations of power to local elites, showing in addition their belonging to the Empire (this being the most important), and commissioning complete sets of architectural sculpture and liturgical furnishing in the fashion of the capital only strengthened those links. The centres of power make manifest their affiliation to the Empire by building representative churches. They are the result of a campaign of restoring East Roman governance through specific artistic paradigms, seen through imports of materials, forms, iconography, and connected under the auspices of the highest-ranking circles from the centre.

Economy Not so many tools are in the hands of archaeologists when it comes to reconstructing the economy of a remote time. The best is probably the monetary evidence, money circulation. Findings of coins give a relatively good picture of trade. The problem is that the conclusions have to rely only on the findings within a settlement. We see that with each new finding the general conclusions can change, sometimes very drastically. So, basically, statistics driven out only from that momentary knowledge are changing variables. The same goes for glass, ceramics: everything depending on the finds and the number of archaeological excavations. Clearly, the general picture is given, but nuances are always missing. Anyway, the circulations of money, the containers, ceramics, glass, helpus to understand the complexity of the cosmopolitan society of the 5th and 6th centuries. Their value is of utmost importance in framing the social components and aspects. But the small objects, the arts and crafts, are part of a cultural history, not elements for stylistic identification, and neither do they reflect the context with precision. In my opinion, monumental art can give some good answers for the evaluation of economic power and social changes, being the “identity card” of the elites. The transfer of forms, functions, artists, works of art, ideas, are all part of a well thought-out concept that is somewhat outside the sphere of regular social life. In other

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Architecture can reinforce this statement. In the time of Justinian, a specific type of ecclesiastical building is created, on a central plan, with dome, constructed in a so-called “double-shell” structure. This architectural innovation was used in the most important churches in the reconquered Empire, in Constantinople, Ravenna, and Salona, for instance. If the use of shipped sculpture sculpted by the imperial workshops is not convincing enough, the architectural typology surely is. That choice was made by the aforementioned commissioners. And it was clearly a statement of

JolivetLévy 1995, pp. 266–397; Mango 1986. Zaharova, Mal’ceva 2015, pp. 176–187.

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Asgari 1995, p. 265.

The Central Adriatic in “Long Late Antiquity” belonging to Justinian’s expanded realm. Those highranking ecclesiastical officials were part of a network established during the Reconquista, strengthening the central power of Constantinople. Indeed, I do not see the spread of any artistic phenomenon as any possible general spread of “influence”, either from the creative centres to the provinces, orfrom centres of power to their subordinate places, but as the will of the commissioners and policy-makers, as the representation or exercise of power, or a firm statement, a semantic sign of belonging to a specific territorial or political entity.6

Ravenna is the focal point of the book, being the capital of the slowly collapsing Roman Empire in the 5th century, and the centre (together with Classe) of Justinian’s Reconquista in the 6th century. The monumental landscape of the city reflects the importance of its political and economic significance at different times, the arts and crafts complementing the picture – the import of amphorae from Tunisia in the first quarter of the 5th century and the partnership with Carthage being in themselves highly valuable data. The fascinating circuit wall of Ravenna provides a great deal of information on various aspects: use of manufactured or reused bricks is not only a question of the organisation of the “chantier de construction”, of investors and political decisions, of artistic evaluation; it also offers data on monumental landscape changes – destruction to obtain material, the disappearance of former buildings, economic issues (what is cheaper?), transport, and so on. The use of coloured stone form Verona is not only a question of aesthetic evaluation, or a stylistic issue, but one of commerce, entanglements, the opening of local and regional trade routes. The same goes for spoliae, which have to be dealt with very carefully. They are sometimes a tool for understanding the periods before their reuse. But spoliae are also a trade good, they could have travelled a long way, and consequently they have no value for understanding the site of their reuse.

Another significant issue is the commerce of Salonitan sarcophagi, which, by the way, needs to be re-explored. Their distribution on both sides of the Adriatic shows a lively trade among the elites. They were produced by workshops in the Dalmatian capital Salona, from the limestone quarries on the island of Brač,7 and sold on both sides of the Adriatic. New research has corrected their chronology.8 It now seems that all the exported examples are products of the 6th century, mostly from mid century onwards. This could be the final argument to support the statement that those luxurious sarcophagi replaced the trade of the ones from Constantinople. The Territory

Even if its importance is not the same, I would have wished that the same treatment had been given to the capital of Dalmatia, considering new results obtained in the last decades.

The organisation of the territory in macro and micro context inevitably changed due to political events during the considered time span. Detecting the changes in territorial organisation is the utmost challenge for archaeologists. Identifying settlement patterns in Late Antiquity and the Early Middle Ages is no doubt a goal of the greatest importance. The main political events in the regions under study are: in Italy, the transfer of the capital to Ravenna, with all its impact on the neighbouring territory; the Gothic wars, entrance into the zone of influence of the Eastern Empire, and finally the arrival of the Lombards; on the other shore,the great migration of the 5th century, pushing people to more secure places; the Gothic wars; entrance into the zone of influence of the Eastern Empire, and finally the incursion of Avars and Slavs into the Roman province of Dalmatia at the beginning of the 7th century. The next and final episode is marked by the Carolingian conquest on both sides of the Adriatic at the end of the 8th century. The most dramatic changes resulted in the cutting in two of a once unified territory: in Italy, after the Lombard incursion, the formation of two political entities – the Exarchate and the Lombard kingdom; in the former province of Dalmatia, the Avaro/Slav incursions cut off the mainland from the shores. The consequences here are dramatic. The north–south trading routes were blocked, strengthening the east–west axis, as well as trade on regional and local levels. A comparative approach to these global issues on both sides of the Adriatic is surely welcome, and should be implemented as soon as possible. 6 7 8

The impacts of the Gothic wars, the destruction, the abandonment of different kinds of settlements begin to emerge as historical evidence. Now is the time to map them, so as to see the larger picture of those impacts. It has, for instance, been done on the opposite, eastern Adriatic shore, at least for the (more than 30) castra and watchtowers built by Justinian to protect his maritime routes during the Gothic wars. On the other hand, as much as we know of the monumental art of the time, it still hasn’t been evaluated thoroughly in connection to Ostrogoth rule on both sides of the Adriatic. Transformations of the historical landscapes in the time span between the Tetrarchy and Charlemagne is a challenging topic. Fortunately, the use of different noninvasive technologies has accelerated data-gathering, even if we are still at the beginnings of the research. For understanding the settlement pattern, intensive field surveys remain the main method. The conclusions are inevitably driven by analysis of ceramics. And here, I must confess, I always have some doubts. The conclusions seem valuable to me only when the quantity of ceramics is huge enough for statistical analysis, and when it is combined with the excavation of the site. When it depends on scarce finds, especially surface finds in extensive surveys of a territory, it is not so accurate; what if we stumble on grandmother’s kitchen ware? In other words, what is the

Jurković, Krleža 2018, pp. 104–117. Fisković 1996, p. 130. Basić 2015, pp. 7–20.

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Miljenko Jurković There are other questions to be dealt with. Some of them are addressed in this book.

longevity of such ordinary ware, not to speak of the luxury variety, the imported variety, or the metalwork, jewellery especially? This remark reflects my own personal reluctance to use material collected in extensive field surveys as conclusive, although I am aware of very good results that were obtained that way.

Christianisation has effectively changed the landscapes in all of the regions considered. Still, the need of mapping the church networks, their spread and the dynamics of changes is a work that remains to be done. Linked to this, the early monasticism on the Adriatic, the islands especially, and the marches of the Po river, the Venetian Laguna, are a ‘must do’.12

The charting of settlements relies more and more on new technologies. They have enabled us to survey a territory faster than ever.9 But the methodologies developed with these new tools are not yet standardised. It seems to me that practically every research team has developed their own methods, and we still do not know which give the best results.10

The problem of castrisation in Late Antiquity has to be taken very cautiously. Generalisations are never accurate and cannot be applied everywhere. The same goes for the abandonment of villas. In my experience, it needs a case by case study. There are of course general patterns,13 but we are still far away from firm conclusions. What about secondary settlements, habitats of a different character?

The roads, just as the Adriatic Sea, are the main arteries of commerce, of settlement. Along with towns, secondary settlements, villas, mansions and stations, they have a huge economic and social impact on their surroundings. As for the roads themselves, are the Roman roads well kept, mended, repaired? Or, lacking experts, were they left to degradation, and if so, when? Have new roads been built, for new connections or new entanglements? What about local and regional roads? For a better understanding we need more case studies, like the one of Ad Novas.

These and many other questions have been opened in this book; it produces some good answers to those questions, at least on some specific points, covering the blank areas, patching the maps with new data. And that is its value.

Pursuing the problem in the chronological order, the next period is truly challenging. After the brief unification under Justinian, the disintegration proceeded in different ways. On the eastern Adriatic coast, after the Avar-Slav incursion and the fall of Salona, as well as some other important towns such as Narona, the coast was cut off from the mainland. We can see rapid ruralisation of the few island towns, and the affluence of a new population fleeing danger on the central Dalmatian islands (Brač, for example). On the other hand, the islands of the northern Adriatic were not so much affected. Certainly, the abandonment of secondary settlements has been noted (as on Rab, Cres, and Krk), but the concentration of the population in towns or other larger settlements might also be interpreted in terms of economy, and not only as they relate to political events. The century and a half of general crisis is visible on the eastern Adriatic in different ways. Things were to change again in the last quarter of the 8th century when the Adriatic became the stage for the clash of two superpowers – Byzantium, and the Carolingians helped by the Papacy.11

9 See, in my opinion, a good example: S. Turner, J. Bolòs, T. Kinnaird, Changes and continuities in a Mediterranean landscape: a new interdisciplinary approach to understanding historic character in western Catalonia, Landscape Research, 2017. https://doi.org/ 10.1080/01426397.2017.1386778 10 P. Krleža, J. Behaim, I. Kranjec, M. Jurković, Recreating Historical Landscaapes: Implementation of Digital Technologies in Archaeology: Case Study of Rab, Croatia, 9th International Conference on Intelligent Systems, 25–27 September 2018, Funchal, Madeira, in print. 11 M. Jurković, The Transformation of the Adriatic Islands from Antiquity to the Early Middle Ages, Change and resilience, The occupation of Mediterranean Islands in Late Antiquity, International conference, Brown University, Providence, 1–3–12.2017, in print.

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The topic has been dealt with in Hortus Artium Medievalium 19, 2013. See for ex. Chavarrìa Arnau 2007.

Introduzione Giuseppe Sassatelli Questo volume raccoglie i risultati di una collaborazione nazionale e internazionale che ha visto impegnate diverse strutture e realtà tra il 2013 e il 2014, sotto il coordinamento dei tre curatori, nell’ambito del Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna – Sezione di Archeologia e del Centro Studi per l’Archeologia dell’Adriatico che ha sede a Ravenna.

L’obiettivo perseguito dal progetto, di alta condivisione della ricerca sul campo con forme non convenzionali, di internazionalizzazione e di analisi scientifica dei dati, è ben rappresentato dalle varie sezioni in cui il volume è organizzato con particolare riguardo alla scansione geografica che copre un lungo tratto della costa adriatica italiana tra Romagna, Marche e Abruzzo; ma che, molto opportunamente si spinge anche a toccare l’altra sponda (Dalmazia e Istria). Meritano una menzione particolare sul piano strettamente archeologico, gli approfondimenti regionali, nei quali sono affrontati e messi a confronto con numerosi casi specifici che non sarebbero mai stati pubblicati e utilizzati per la ricerca se non ci fosse stata questa occasione. Grazie alle nuove indagini non invasive e alla felice interazione tra Università e Soprintendenza, sono tra l’altro presentati diversi scavi di emergenza, anche se in forma preliminare, i quali potranno indirizzare concretamente tutte le future operazioni finalizzate alla conoscenza, riscoperta e tutela delle varie aree archeologiche, così come la moderna gestione del territorio in cui sono inseriti.

Una convergenza di obiettivi e di disponibilità, sul piano scientifico, didattico-formativo e istituzionale, che fin dai primi incontri di Ravenna era già emersa come buon punto di partenza e come ottima premessa per proseguire le attività. Questo aspetto infatti si è poi concretizzato con gli incontri preparatori e per così itineranti, sempre in area adriatica (Senigallia, Ascoli Piceno e poi di nuovo Ravenna da dove era partita l’idea progettuale) e quindi, ora, con la pubblicazione di un libro che raccoglie i frutti di questo progetto. Le trasformazioni del paesaggio urbano e suburbano e dell’economia dell’Adriatico centrale, sulle due sponde, qui raccontate, attorno alle quali è stato strutturato questo programma di ricerca, raccolgono certamente l’eredità della scuola bolognese, che da anni è attivamente impegnata nell’organizzazione di opportunità formative internazionali di alto livello, e al contempo si distinguono per importanti novità, sia per tematica che per metodi didattici.

Mai come in questo caso il Centro Studi per l’Archeologia dell’Adriatico si si è attenuto ai principi che ne hanno determinato la costituzione che erano proprio quelli di coordinare, ma anche di promuovere e sostenere gli studi di tutta la costa adriatica, sia sul versante italiano che su quello dell’altra sponda. La presentazione dei singoli casi di studio, unitamente al lodevole tentativo di proporre delle sintesi regionali che riguardano sia gli assetti territoriali che gli aspetti produttivi e commerciali, sono il migliore modo per conoscere quello che accade tra le due sponde dell’Adriatico.

Quello dell’archeologia del paesaggio e della cultura materiale sono temi di grande attualità, in Europa e non solo in Europa. Si tratta di un tema non facile da affrontare, specialmente se si decide di farlo chiamando in causa tutti i soggetti in esso variamente coinvolti: l’ambito universitario, gli enti pubblici, i privati, il settore commerciale e professionale. A maggior ragione, poi, non è facile se la discussione viene intavolata e proiettata nella sfera internazionale, confrontando le realtà esistenti e le ricerche avviate in diversi paesi europei, che hanno storie, tradizioni ed esperienze ben diverse rispetto alle nostre, anche se legate dallo stesso rapporto con l’Adriatico.

La felice e fortunata esperienza del progetto Economia e Territorio nell’Adriatico centrale, coronata con questo volume, è la concreta dimostrazione di una nuova politica culturale nella quale la Sezione di Archeologia del Dipartimento di Storia Culture Civiltà e del Centro Studi per l’Archeologia dell’Adriatico sono ormai coinvolti da tanti anni. Una politica culturale che deriva da una convinta strategia di rinnovamento dell’archeologia nazionale, attraverso l’integrazione di metodi tradizionali e di nuove tecnologie, nella direzione di favorire sia la conoscenza e la tutela del nostro patrimonio culturale sia la pianificazione e lo sviluppo delle città e delle campagne in cui viviamo. Una politica culturale di dimensione “pan-Europea”, che vuole conoscere e vuole confrontarsi con esperienze vicine e lontane e, possibilmente, uscire rafforzata da questo confronto, anche per lo stimolo a migliorarsi.

Nonostante la complessità del tema, abbiamo voluto raccogliere la sfida e provarci. Provare ad affrontare una tematica insolita, ma che è, e verosimilmente sempre più sarà, al centro dei tempi moderni e della moderna archeologia. E lo abbiamo fatto scegliendo proprio la strada del confronto internazionale. E soprattutto di un confronto ampio e multidisciplinare, che affronta diversi tipi di materiali, dalla ceramica al vetro, dalle monete ai marmi, dall’archeologia urbana all’archeologia del paesaggio. 5

Miljenko Jurković Una tradizione e una pratica archeologica che sono concentrate sulle trasformazioni del paesaggio, con una prospettiva diacronica, con la ferma consapevolezza dell’importanza delle proprie radici, che devono essere ricercate, conosciute e tutelate, e costituire, non tanto un patrimonio da salvaguardare, ma un solido stimolo all’innovazione futura. Un obiettivo al quale le nuove tecnologie e le nuove modalità dell’archeologia moderna possono efficacemente contribuire. Si tratta indubbiamente di un ambizioso progetto nel quale la Sezione di Archeologia del Dipartimento di Storia Culture Civiltà e il Centro Studi per l’Archeologia dell’Adriatico sono da tempo impegnati, e con molta convinzione, con un progetto di ampio respiro attorno al quale speriamo di aggregare in futuro anche altre forze e altre energie. Vorrei infine sottolineare che se il Centro Studi per l’Archeologia dell’Adriatico ha dato un convinto sostegno a questa iniziativa, la sua buona riuscita si deve soltanto alla competenza scientifica e alle capacità organizzative dei colleghi E. Cirelli, E. Giorgi e G. Lepore ai quali va il mio personale ringraziamento e, credo, anche quello di tutti coloro che vi hanno partecipato.

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Introduzione Giuliano Volpe «L’Adriatico è forse la regione marittima più coerente. Da solo e per analogia, pone tutti i problemi impliciti nello studio dell’intero Mediterraneo».1

e dei territori che su esso si affacciano. Si pensi, a titolo di esempio, alle attività promosse dal Centro di Studi per l’Archeologia dell’Adriatico (Arcadria)8 e al progetto AdriAtlas, finalizzato alla creazione di un atlante adriatico tra il VI secolo a.C. e l’VIII d.C.9 Le intense ricerche in corso da parte di numerose missioni internazionali, comprese molte italiane, in Croazia, Serbia, Slovenia, Montenegro, Albania, stanno contribuendo notevolmente a sviluppare le nostre conoscenze e consentono sempre di più di stabilire comparazioni tra le due sponde. Tra questi progetti più recenti mi permetto di ricordare il Progetto Liburna, una ricerca di archeologia globale dei paesaggi costieri, che ha visto recentemente un risultato importante nel volume di Danilo Leone e Maria Turchiano.10

Così Fernand Braudel, nella sua grande opera mediterranea, fondamentale per valutare la centralità di quell’insieme di mari in alcune fasi della nostra storia,2 si riferiva all’Adriatico, a quel quasi lago, a quel «mare dell’intimità», secondo la calzante e straordinariamente efficace definizione di Pedrag Matvejević,3 utilizzata recentemente anche per il titolo di una bella mostra a Trieste.4 Non a caso nella Tabula Peutingeriana l’Adriatico è rappresentato, nella visione schiacciata e allungata propria di quella carta, che poneva al centro Roma e l’Italia, come una fascia d’acqua stretta e lunga compresa tra Aquileia e Altino da un lato e Castra Minerve e Dyrratio, sulle opposte sponde, dall’altro.

Tale risveglio di studi sta riguardando, come si è già detto, anche alcuni periodi storici finora poco indagati. Se, infatti, per l’età arcaica e in generale per l’età preromana si può contare su una significativa tradizione di studi (basti pensare ai lavori di Lorenzo Braccesi e Paul Cabanne,11 e, sul versante più propriamente archeologico, a quelli di Cecilia D’Ercole),12 le ricerche sul periodo tardoantico e, soprattutto, su quello altomedievale, possono essere considerate ancora limitate alla fase embrionale, quella della raccolta dei dati e delle prime ipotesi interpretative.

L’Adriatico ha costituito nei secoli la cerniera di una complessa rete di collegamenti diretti e indiretti e di intersezioni continue tra le due sponde e tra il Nord e il Sud, oltre a essere un canale aperto verso l’Oriente. Divenuto, suo malgrado, in particolare nel corso del Novecento, una frontiera, un muro, un confine netto tra blocchi contrapposti, è tornato a essere negli ultimi decenni uno spazio marittimo comune, «un’area di passaggio e di mediazione tra diversità», un pezzo di ‘Mediterraneo a portata di misura’, un ‘Mediterraneo in miniatura’, secondo le belle definizioni di Egidio Ivetic5 e di Sergio Anselmi.6 Un insieme complesso di numerosi sistemi regionali costieri, costituito, cioè, da diversità, eppure organico e unitario, che ha consentito una persistente, continua, relazione tra le due sponde e le popolazioni che le hanno abitate.

In riferimento all’età antica assai spesso si è opportunamente adottata l’espressione ‘koinè adriatica’ per sottolineare i caratteri omogenei, sia pur con le tante specificità locali, di questo territorio, che per la sua stessa natura ha conosciuto prevalentemente una circolazione di navi di medie-grandi dimensioni e soprattutto un’intensa attività di piccolo cabotaggio. Ebbene, una delle prime possibili domande da porsi è: persisteva una koinè adriatica anche in età tardoantica e altomedievale?

Negli ultimi decenni, nel nuovo contesto geopolitico venutosi a creare dopo la caduta dei muri, si è andato registrando un vero e proprioboom degli studi e delle riflessioni politiche, storiche, antropologiche, e quindi anche di quelle archeologiche: l’Adriatico è divenuto così uno ‘spazio storico transnazionale’, una ‘pianura liquida’,7 oggetto di un rinnovato interesse di ricerca, che non poteva non rivolgersi anche alle fasi più antiche e a quelle più ‘oscure’, perché meno note, della storia di questo mare 1 2 3 4 5 6 7

E ancora: quale fu il ruolo dell’Adriatico nel Mediterraneo tardoantico e quali furono i rapporti tra le opposte sponde? Che funzione svolse a partire dal V secolo Ravenna, in particolare in rapporto con Costantinopoli e il Mediterraneo orientale? Dopo la caduta dell’Impero romano di Occidente e in particolare dopo la guerra grecogotica e durante i primi secoli dell’alto Medioevo si verificò effettivamente un collasso dei commerci internazionali

Braudel 1976, p. 118. Braudel 1976; 1987. Matvejević 1991, p. 23. Auriemma 2017. Ivetic 2015, p. 483. Anselmi1991, pp. 13–42, 327–363. Ivetic 2015.

http://www.disci.unibo.it/It/ricerca/centriricerca/archeologia/centrodi-studi-per-larcheologiadelladriatico-arcadria. 9 Cfr. Marion, Tassaux 2015. 10 Leone, Turchiano 2017. 11 Si vedano, per es., Braccesi1979 e Cabanes 2001. 12 Si veda, per es., D’Ercole 2002. 8

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Giuliano Volpe periodo alquanto differenziato al suo interno (com’è ben noto, il IV, il V e parte del VI secolo conobbero fenomeni molto diversi da quelli che caratterizzarono il tardo VI, il VII e l’VIII secolo), con non poche diversità anche a livello territoriale. Si tratta, peraltro di secoli sui quali si dispone di livelli di conoscenza assai diversificati. Ma è proprio per questo motivo che è ancora più necessario proseguire nella preziosa attività di raccolta dei dati, nella loro edizione tempestiva e nell’azione di decodifica e di interpretazione. Con questo nuovo volume disponiamo di una nuova ingente (utilissima) massa di informazioni per la costruzione di una storia economica dei territori adriatici: dobbiamo, pertanto, essere grati ai tanti colleghi coinvolti nel progetto e a chi ha assunto il compito di coordinarlo.

con la conseguente creazione di reti regionali? Che ruolo svolsero alcuni porti e empori, come per esempio quello di Comacchio?13 Il commercio internazionale fu ancora veicolato dall’Adriatico attraverso lo sviluppo di nuove vie di comunicazione verso l’entroterra —come proposto da Chris Wickham14—anche se per commerci limitati alla sola sfera delle élite? Si vennero a costituite tre distinte macro aree (Altoadriatico; Adriatico centrale; Adriatico meridionale), come ha ipotizzato da Richard Hodges?15 Si realizzò uno spostamento del baricentro economico verso l’Europa settentrionale, come sostenuto da Michael McCormick?16 E, in tale contesto, l’Adriatico svolse effettivamente un ruolo di cerniera, in particolare grazie ad alcuni empori attivi? Queste e molte altre ancora possono essere le domande da affrontare e alle quali tentare di fornire delle risposte, possibilmente mediante grandi progetti di ricerca interdisciplinare e internazionale17 di storia e archeologia globale dei paesaggi terrestri, costieri, marittimi,18 che analizzino, con l’uso integrato di diversi sistemi di fonti e sulla lunga diacronia, le trasformazioni dei vari territori, degli insediamenti, dei contesti ambientali, degli scambi, dei contatti e delle relazioni. Questo libro, coordinato dagli amici e colleghi Enrico Cirelli, Enrico Giorgi e Giuseppe Lepore, dell’Università di Bologna, con il coinvolgimento di tanti studiosi, compresi molti giovani ricercatori, ha il merito di raccogliere molti materiali, di diversa natura (anche a rischio di un certa eterogeneità), utilissimi per costruire quadri storici sempre più fondati sull’Adriatico tardoantico e altomedievale, specificamente su una delle tre macroregioni adriatiche, quella centrale, in particolare i territori romagnolo, marchigiano e abruzzese sul versante occidentale e quello croato sul versante orientale. Materiali preziosi in particolare per la storia economica. Oltre, infatti, ad alcune sintesi regionali e ad analisi di specifiche classi di materiali e approfondimenti di alcuni temi, sono messi a disposizione della comunità scientifica moltissimi dati, frutto anche di ricerche recenti e quasi del tutto inediti: ceramiche (sia quelle a larga diffusione mediterranea sia quelle comuni, con un raggio di circolazione locale e regionale) e anfore innanzitutto, ma anche monete, vetri, marmi, pietra ollare, oggetti di abbigliamento, insieme a contributi su città, ville e altri tipi di insediamenti rurali, su edifici di culto, cimiteri e varie altre categorie di monumenti, a rapporti di scavi recenti condotti in ambito urbano e rurale a indagini puntuali su specifiche questioni. I contributi, esito di cicli di seminari tenuti a Ravenna, Ascoli Piceno e Senigallia negli anni scorsi, si riferiscono a un arco cronologico alquanto ampio, dal IV all’VIII secolo, nella consapevolezza di affrontare l’analisi di un Gelichi et al. 2012. Wickham 2005. 15 Hodges 2012. 16 McCormick 2001. 17 Si veda a tale proposito Cabanes 2001. 18 In generale Volpe, Goffredo 2014; per l’ambito subacqueo: Volpe 2016. 13 14

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Cronistoria di una piccola avventura adriatica Enrico Cirelli, Enrico Giorgi, Giuseppe Lepore Nell’autunno del 2012 a Spoleto, in occasione del convegno ‘Le forme della crisi’, in un confronto informale tra colleghi, sembrò a molti che, a fronte delle tante novità che emergevano dalle ricerche condotte su territori che potevano vantare una robusta tradizione di studi, sembrava si delineassero ancora certi vuoti di conoscenze per altre zone, ancora poco presenti o comunque non rappresentate come avrebbero meritato.1 Anche solo restando in ambito centro-italico, pareva evidente che regioni come il Lazio, la Toscana e la stessa Umbria potessero vantare una storia degli studi di archeologia medievale per molti versi alla base della disciplina stessa. Tale tradizione ha poi trovato studiosi capaci di alimentare nuovi progetti di ricerca che hanno permesso di continuare il filone di studio in maniera omogenea e ben radicata sul territorio.

l’idea di costruire un’occasione d’incontro capace di far emergere tante ricerche più o meno importanti, ma comunque spesso per gran parte inedite, in maniera da cominciare a colmare questo vuoto di conoscenze. Per inserire il progetto in un contesto geografico più ampio, si pensò di allargare riflessione anche ai territori contermini, come la Romagna a settentrione e l’Abruzzo a meridione, e all’area dalmata e illirica, sulla sponda adriatica orientale. Tuttavia l’idea principale doveva essere quella di mettere a fuoco soprattutto l’area marchigiana. Per venire incontro ai colleghi impegnati sul territorio si decise così di iniziare un percorso organizzato per tappe localizzate a nord, al centro e a sud del territorio regionale. Ciascuna di queste tappe era rappresentata da un incontro aperto nel quale potevano essere esposti i progetti e i rinvenimenti recenti o addirittura ancora in corso, in dibattiti destinati soprattutto al confronto. Non possiamo nascondere che nella scelta dei luoghi abbia giocato un ruolo anche l’esperienza personale di chi scrive, dato che a Ravenna, Senigallia e Ascoli Piceno sono in corso progetti di ricerca che ci coinvolgono direttamente. Ma una componente personale deriva anche dalla formazione di ciascuno di noi, indirizzata rispettivamente e in maniera prevalente allo studio della cultura materiale, all’archeologia del paesaggio e allo scavo archeologico.

Sul versante adriatico questa dinamica sembra altrettanto solida in aree di consolidata tradizione di studi come la Puglia, il Molise e l’Abruzzo, mentre lo è meno, per esempio, nel territorio marchigiano. Non perché in quest’area non siano presenti alcuni progetti importanti o studi specialistici di grande tradizione, spesso legati alle cattedre delle università regionali o a studi più ampi di archeologia del paesaggio medievale, ma piuttosto perché statisticamente l’archeologia di quest’area adriatica è stata indirizzata soprattutto verso altri periodi storici.2 Ovviamente queste considerazioni riguardano l’archeologia medievale e non gli studi storici e archivistici. Tuttavia tale lacuna di informazioni non è certamente collegabile a una reale mancanza di dati, dato che l’azione meritoria e solerte dei colleghi della Soprintendenza ha permesso e permette quotidianamente di recuperare tanti contesti archeologici medievali ricchi di informazioni. Basterebbe solo dare uno sguardo alle numerose scoperte di archeologia urbana o ai rinvenimenti legati all’archeologia d’emergenza a seguito delle grandi opere infrastrutturali, per rendersene conto. Quelle che sono venute a mancare sono state le occasioni per raccogliere queste scoperte e rileggerle nell’ambito di una riflessione più vasta. Si tratta, in gran parte, di un limite connaturato all’archeologia portata avanti quotidianamente e con competenza da colleghi che non possono non avere come primo obiettivo quello della tutela, spesso difeso con risorse limitate e tempi contingentati. Veniva da chiedersi, dunque, quale potesse essere il contributo di chi, invece, poteva investire tempo e risorse nella ricerca e nella divulgazione dei risultati. Attorno a queste riflessioni cominciò a maturare 1 2

Il progetto fu inaugurato il 2 maggio 2013 a Casa Traversari, la sede ravennate del Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Ateneo di Bologna. In quell’occasione il discorso prese le mosse dai cambiamenti economici che caratterizzano il passaggio tra l’Antichità e il Medioevo in area romagnola con particolare riferimento alla cultura materiale intesa in senso ampio, all’archeologia della produzione, ai problemi della circolazione monetaria e dei sistemi fiscali, facendo riferimento ad alcuni siti porticolarmente ricchi di informazioni (come per esempio Classe, Forlimpopoli, Cesenatico, Santa Reparata, San Zaccaria).3 Il 16 ottobre dello stesso anno, Preso la Biblioteca Comunale di Senigallia, si tenne il secondo incontro preparatorio. Le tematiche furono simili ma i vari problemi furono calati nel contesto delle Marche centrali, anche grazie all’intervento di numerosi colleghi che da tempo La discussione fu animata, tra gli altri, da E. Baldi, I. Baldini, N. Berdondini, G. Bolzoni, M.L. Carra, M. Cavalazzi, T. Chinni, S. Cosentino, A. De Iure, E. Fabbri, D. Ferreri, E. Gardini, M.T. Gatto, M. Gregori, E. Lo Mele, B.M. Mancini, N. Mancassola, G. Montevecchi, G. Piazzini, P. Porta, S. Quarta, A. Ranzi,V. Righini, D. Sami, M. Simonetti, E. Siena, L. Stoppioni, M. Vandini, R. Villicich. 3

Cirelli, Diosono, Patterson 2015. Giorgi, infra.

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Enrico Cirelli, Enrico Giorgi, Giuseppe Lepore A conclusione di questo percorso, che per noi è stata occasione per rinsaldare i vincoli di collaborazione e di stima reciproca, ci siamo dati l’obiettivo di pubblicare i risultati di questa ‘piccola avventura adriatica’. La genesi lo sviluppo del progetto rende forse ragione di una certa eterogeneità che talvolta emerge ma alla quale non abbiamo voluto rinunciare, interpretandola piuttosto come ricchezza di nuovi dati. In questo senso si spiega anche la volontà di pubblicare pressoché tutti i contributi offerti dai colleghi, con conseguenze non banali in termini di ampiezza del volume. Questo speriamo giustifichi almeno in parte il ritardo con cui giungiamo a pubblicare gli atti. Non sta a noi dire se i risultati hanno rispettato le attese. Certamente per noi si è trattato di un’occasione fortunata per crescere e per confrontarci.

portano avanti ricerche in questo ambito.4 Il terzo incontro, aperto dal sindaco Guido Castelli e al presidente dell’Istituto Superiore di Studi Medievali Cecco D’Ascoli Luigi Morganti, avvenne il 16 novembre 2013 presso la Sala dei Savi del Palazzo dei Capitani di Ascoli Piceno e fu l’occasione per tracciare un bilancio soprattutto sul contributo che i più recenti interventi di archeologia urbana avevano dato alla ricostruzione della storia medievale del centro piceno. La discussione risultò particolarmente fruttuosa grazie alla partecipazione di tanti colleghi impegnati sul campo in scavi in alcuni casi ancora in corso.5 Alla conclusione di ogni incontro veniva stilato un documento di sintesi sulle tematiche affrontate che poteva essere consultato quasi in tempo reale nella pagina di progetto sul sito web del nostro Dipartimento. Dopo l’ultima tappa si decise di invitare i colleghi intervenuti e tutti quelli interessati a inviare brevi testi corredati di immagini in maniera che potessero essere organizzate quattro sessioni di poster dedicate alle regioni interessate (Abruzzo, Marche, Romagna, Dalmazia). Le sessioni erano sostanzialmente virtuali, dato che i poster non erano destinati alla stampa ma alla consultazione sul web e servirono a mettere a disposizione di tutti le informazioni raccolte.

Bologna, 4 novembre 2018

Finalmente il 28 febbraio e il 1 marzo 2014, sempre a Ravenna presso Casa Traversari, si giunse al Convegno finale organizzato per la presentazione dei risultati del progetto. Anche in questo caso non si trattò di un tradizionale convegno di studi, perché non furono previsti interventi da parte degli ospiti, che erano solo invitati a partecipare alla discussione. Come organizzatori, con l’aiuto di Sonia Antonelli e Anna Gamberini, ci facemmo carico di presentare sinteticamente le novità divise in sessioni regionali con la collaborazione di alcuni importanti studiosi come Andrea Augenti, Pier Luigi Dall’Aglio e Sandro De Maria. I lavori furono aperti dal direttore del dipartimento Giuseppe Sassatelli, dal Presidente della Fondazione Flaminia Lanfranco Gualtieri e da Giannantonio Mingozzi, in quel momento vice sindaco di Ravenna. Alla discussione parteciparono numerosi colleghi provenienti dalle rispettive Soprintendenze regionali oltre che da vari centri di ricerca e università europee come Bologna, Cassino, Chieti, Ghent, Macerata, Milano, Parigi, Pisa, Urbino, Verona e Zagabria.6 4 Alla tavola rotonda senigalliese presero parte, oltre a numerosi archeologi e studiosi locali, anche E. Baldi, F. Boschi, E. Cirelli, A. Gamberini, M. Silani, R. Vico, L. Stoppioni, T. Chinni, N. Frappiccini, G. Baldelli, S. Menchelli. 5 Alla tavola rotonda di Ascoli Piceno presero parteM. Antognozzi, S. De Cesare, M. Massoni, L. Speranza, C. Delpino, G. Baldelli, S. Menchelli, S. Stoppioni. 6 La discussione fu animata, tra gli altri, da I. Baldini, P.L. Dall’Aglio, S. De Maria, P. Galetti, T. Gnoli, N. Mancassola, P. Porta e R. Villicich (Università di Bologna); F. Cantini, S. Collavini e S. Menchelli (Università di Pisa); F. Carboni e F. Vermeulen (University of Ghent); C. Corsi (Università di Cassino); C. Guarnieri (Soprintendenza per i beni archeologici dell’Emilia Romagna); T. Casci Ceccacci, C. Delpino,

F. Demma, S. Finocchi, N. Frapiccini e N. Lucentini (Soprintendenza per i beni archeologici delle Marche); L. Morganti (Presidente Istituto Superiore Studi Medievali di Ascoli Piceno); R. Perna (Università di Macerata); S. Rinaldi Tufi, O. Mei (Università di Urbino); V. La Salvia e M.C. Somma (Università di Chieti); Y.A. Marano (Institut des etudes byzantines - Collège de France, Paris); Gh. Noyé (École Nationale des Chartes); M.L. Stoppioni (Museo di Cattolica); M. Yurkovic (IRCLAMA, Zagreb).

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PARTE I L’ADRIATICO CENTRALE TRA TARDA ANTICHITÀ E ALTO MEDIOEVO SEZIONE 1 SINTESI REGIONALI

1.1 La Romagna tra tarda Antichità e alto Medioevo Enrico Cirelli Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, Dipartimento di Storia Culture Civiltà [email protected] Abstract: The region where the Imperial see was settled at the beginning of the 5th century achieved prominence as a trading centre. Commerce between east and west between the 5th and the 9th century, for instance, underwent many changes. New archaeological discoveries show the economic vitality of this territory. This trend is very different from what occurred in the Middle and North Adriatic regions. Relative percentages of productions are especially different and even the curve of claims of quantities in the period from the 4th to the 8th century seems extremely unusual. The numerous contexts so far studied, for example, show a spike in imports to the new city of Classe, the main port of Ravenna, towards the middle of the 5th century and an impressive volume of trade until the middle of the 6th century. In this period, we observe in the Adriatic sites a shift from imports from North Africa towards eastern Mediterranean products, indicating that the Justinian war was not only a military conquest but also established the supremacy of eastern merchants in western ports. This paper summarises various aspects of material culture that demonstrate this change, with marbles, glass, pottery and burial practices in the main archaeological contexts as they have been analysed until the present. Keywords: Ravenna; Romagna; Economy; Territory.

Introduzione

legati a questo spazio, giustamente definito ‘intimo’,5 tra IV e VIII d.C., come in altre epoche, sono ovviamente condizionati dalla geografia, oltre che da altri aspetti storici e culturali. Il periodo in esame è però un periodo particolare, di grande trasformazione e talvolta di vero e proprio travaglio. Questa trasformazione non innesta sempre la stessa dinamica, come si vedrà nelle altre sintesi regionali e questo è mio parere uno dei risultati più interessanti del nostro progetto di studio dell’Economia e del Territorio dell’Adriatico centrale tra la fine del mondo antico e il Medioevo.

Negli ultimi anni il lavoro sulle evidenze materiali che caratterizzano la Romagna tra la tarda Antichità e l’alto Medioevo ha fatto numerosi progressi, soprattutto per quel che riguarda la quantità, ma anche per una maggiore conoscenza della qualità delle produzioni attestate. Nuove sintesi sono state presentate in un recente convegno che si è tenuto a Spoleto,1 rivolte soprattutto a identificare le trasformazioni nelle classi più comuni, prive di rivestimento che avevano comunque ricevuto una giusta attenzione anche in passato, grazie al lavoro di Sauro Gelichi.2 Ulteriori riflessioni sono state però anche fatte sulle produzioni fini da mensa, sia per quel che riguarda il sud e il territorio di Sarsina,3 sia per il territorio di Cesena e per l’area a nord di Ravenna.4 In questa occasione cercherò di declinare quali sono i segnali delle principali trasformazioni nella cultura materiale negli insediamenti rurali e nelle città, anche attraverso i lavori presentati in questa serie di incontri che si sono succeduti a Ravenna, Senigallia e Ascoli Piceno nel 2013. Gli insediamenti che si affacciano sull’Adriatico o che sono strettamente 1 2 3 4

Ravenna e il suo territorio In Romagna, per esempio, una regione di confine con l’area nord adriatica, ci sono alcuni insediamenti urbani che paiono avulsi da un territorio di competenza, non riferibili a un baricentro territoriale preciso. Basti pensare a Ravenna, immersa prevalentemente in un paesaggio palustre e difficile da coltivare, anche se ricco di risorse legate allo sfruttamento delle Valli, delle saline e dei prodotti della pesca. Di certo, però, il suo sostentamento non poteva reggersi autonomamente senza scambi commerciali o senza rifornirsi in altri territori. Proprio dall’analisi del

Cirelli, Diosono, Patterson 2015. Gelichi 1983; 1998. Stoppioni 2015. Negrelli 2015.

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Matvejević 1991, p. 26.

Enrico Cirelli come banchine lungo i canali e il corso fluviale, fognature, ponti in muratura e in legno. Questo fervore edilizio è già rintracciabile agli inizi del V d.C. e continua con un ritmo crescente anche nel corso dell’età ostrogota, con la costruzione di nuovi imponenti edifici civili e religiosi sia ortodossi, sia ariani,10 e nei primi decenni dell’età esarcale. Non sarebbe stato possibile, come sostiene anche Dario Daffara nel suo contributo, senza uno sviluppo economico imponente, determinato probabilmente dal nuovo ruolo assunto da questo insediamento, come centro di attrazione e redistribuzione delle merci provenienti dal mercato mediterraneo. A livello materiale questa crescita è ben visibile dalle numerose attestazioni archeologiche e monumentali conservate in alzato. Lo è però anche attraverso le straordinarie quantità di ceramiche recuperate negli scavi di Classe, che consentono di specchiare questa realtà con Ravenna, obiettivo principale di questi scambi che raggiungevano la città portuale.11 La sede imperiale non era tuttavia l’unico obiettivo dell’immenso volume di merci che raggiungeva questo terminale adriatico, considerato il volume di manufatti rinvenuti, sufficiente anche per essere largamente redistribuiti in gran parte dell’Italia centrosettentrionale. Gli scambi erano anche favoriti dall’imponente rete endolagunare, rafforzata da Teoderico durante il periodo della sua felice amministrazione. Una prova della circolazione di imbarcazioni di piccole dimensioni lungo i percorsi fluviali che circondavano e attraversavano Ravenna è stata presentata anche in questo convegno grazie all’analisi dei materiali che vi erano contenuti, da parte di Giovanna Montevecchi e da Claudio Negrelli, che affrontano insieme a Chiara Guarnieri anche varie produzioni di uso domestico rinvenute in diversi insediamenti urbani e rurali della Romagna tardoantica.12 Sulla stessa linea due interventi che analizzano contesti ceramici urbani, legati alla città di Classe, con il contributo di Mariana Simonetti, che analizza un deposito archeologico ricchissimo, associato alle fasi di abbandono della città di Classe, e con Bianca Maria Mancini che ha presentato un contesto proveniente da un quartiere più meridionale dell’insediamento, anteriore alla costruzione del complesso ecclesiastico di San Severo e da questo in seguito interamente coperto. In entrambi i casi sono state rinvenute, insieme ai materiali che caratterizzano il ricchissimo commercio che raggiungeva questo territorio tra V e VI secolo, vasellame di VII e anfore globulari di VIII secolo, a dimostrazione della centralità di questo insediamento nel quadro degli scambi adriatici anche nell’alto Medioevo, come del resto sta emergendo da recenti scavi condotti con attenzione a queste tematiche, nel centro di Ravenna.13 Una tendenza simile è stata di recente sottolineata proprio dalla pubblicazione dei primi risultati dello scavo della basilica di San Severo a Classe, dove sono rappresentate le principali forme di Terra Sigillata Africana rinvenute anche a Ravenna (Tav. I) e

paesaggio dipendente dalla città, scelta come nuova sede imperiale emergono i risultati più innovativi nel quadro delle conoscenze di come si riorganizza il popolamento rurale in questo periodo di trasformazioni. Un primo discorso, dunque, è necessario in relazione alle modalità di evoluzione dei vari insediamenti e al loro territorio. Nicola Mancassola dimostra, per esempio, come in zone anche piuttosto vicine delle campagne romagnole le strutture economiche per lo sfruttamento delle risorse agrarie si trasformino in modo diverso, da zone in cui si osserva una concentrazione del popolamento, con la costituzione di nuovi centri direzionali, come nel sud di Ravenna, a settori della campagna cesenate dove invece continua a persistere una occupazione sparsa, sul modello del sistema insediativo tardoantico, anche con alcune zone a elevata densità, come quelle studiate da Marco Cavalazzi poste in prossimità della pieve di S. Pietro in Sylvis. Un altro elemento discordante è quello che riguarda le tappe della crisi. In Romagna si individuano spesso livelli di incendio riferibili al IV secolo d.C., spesso riferibili a vere e proprie distruzioni che parrebbero caratterizzare questo secolo, specialmente nella fase centrale.6 Subito dopo, agli inizi del V d.C., l’archeologia attesta che Ravenna cresce notevolmente, in controtendenza rispetto a molti altri insediamenti urbani nel mondo tardoromano, sia in estensione, sia in qualità degli investimenti delle aristocrazie, principalmente imperiali e in seguito legate all’amministrazione ostrogota, affiancate lentamente e poi interamente sostituite da quelle di matrice ecclesiastica, in primo luogo vescovile.7 La città viene munita di un ampio circuito murario, ancora in gran parte conservato in alzato, che costituisce forse più un programma ambizioso di costruzione della nuova sede imperiale, piuttosto che un vero e proprio limite geografico della sua estensione urbana.8 A questo proposito sono stati esaminati i laterizi impiegati del circuito di Ravenna da Riley Snyder, insistendo sulle implicazioni che comporta il reimpiego massiccio di laterizi in questo intervento costruttivo imponente, la cui ampia disponibilità era garantita dalla grande crisi del secolo precedente che aveva determinato l’abbandono di numerose strutture residenziali urbane e suburbane. Un altro importante indizio di reimpiego di materiali è ricordato invece da Alice Ranzi, che presenta uno studio svolto su alcuni contenitori in anfora che facevano parte della copertura del mausoleo di Galla Placidia, evidenza peraltro ancora importante dell’enorme disponibilità all’interno della città, di contenitori da trasporto prodotti in Tunisia settentrionale nel primo quarto del V secolo.9 Nella città vengono edificati nuovi luoghi per la manifestazione e per l’amministrazione del potere, come il palazzo imperiale e la sede vescovile, insieme a straordinarie basiliche, ma vengono costruite anche nuove strade, spesso lastricate, tra cui una importante Via Porticata che metteva in comunicazione gli edifici del quartiere palaziale e l’Episcopio; infrastrutture pubbliche,

Carile, Cirelli 2016. Augenti, Cirelli 2010. 12 Il progetto è presentato insieme a due ricercatori IstecCNR di Faenza, che stanno compiendo analisi sulle ceramiche: B. Fabbri e S. Gualtieri. 13 Guarnieri, Montevecchi, Negrelli 2017. 10

6 7 8 9

Manzelli 2000. Cosentino 2015. Gelichi 2000. Bonifay 2004.

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La Romagna tra tarda Antichità e alto Medioevo dove sono state individuate le principali anfore ditribuite in Romagna tra V e VIII secolo (Tav. II).14 L’importanza invece che rivestivano i percorsi fluviali e le condizioni paesaggistiche della nuova sede imperiale e del suo ricco territorio sono stati ricordati nel contributo di Antonella Coralini e dei suoi collaboratori.15

percentuali tra i contenitori da trasporto non sono sempre gli stessi, a mostrare anche una variabilità determinata da scelte di consumo difficile da valutare solo attraverso i rinvenimenti ceramici, come per esempio la predilezione di vino calabrese o siculo, rispetto a quello orientale, che sembra delinearsi nel sito di Santa Maria Padovetere. Lo indicherebbe la presenza di un numero prevalente, questa volta, di anfore Keay LII secondo quanto segnalato di recente da Carla Corti.21

Il tessuto di scambi commerciali che comincia a emergere, garantito dal restauro e dal ripristino di alcune infrastrutture legate alla distribuzione e allo stoccaggio dei prodotti, durante il regno ostrogoto, dimostra anche una matrice culturale poco segnalata in passato. Se si considera, infatti, che il principale partner economico di Ravenna e di conseguenza del vasto territorio attraversato dal Po, era costituito dalla regione di Cartagine, che si trovava in questo periodo nelle province amministrate dal re vandalo Gutamondo o dal suo successore Trasamondo, queste evidenze mostrano un chiaro rapporto privilegiato tra due territori amministrati da sovrani barbari, Goti da una parte e Vandali dall’altra. Questo tipo di partenariato, ricostruibile dalle evidenze materiali è noto anche grazie alla lettura delle fonti scritte.16 I prodotti della Tunisia centrale e settentrionale che raggiungono Classe, sono numerosi e di grande qualità. Si tratta infatti di anfore per il trasporto di olio per l’illuminazione, vino e salse di pesce, ma anche di vasellame fine da mensa, ceramiche di uso comune e lucerne, per un quantitativo stimato di oltre tremila esemplari (calcolati sulla base del NMI), solo per il periodo compreso tra la fine del V e il primo quarto del VI secolo.17 Uno dei contenitori più rappresentativi di questo commercio, rinvenuto in considerevoli quantità sia nell’area portuale, sia nei complessi ecclesiastici scavati, sia ancora nello scavo delle mura tardoantiche di Classe18 (datate ormai con sicurezza agli inizi del V secolo) e con un eccezionale distribuzione in gran parte dell’area Adriatica, è l’anfora di Gaza (LRA4), contenitore associato al trasporto del vino tra IV e VII secolo.19 Secondo una proposta presentata nell’ambito di questo progetto di ricerca20, le attestazioni di LRA4 potrebbero essere associate a proprietà ecclesiastiche, anche se è provata la sua diffusione anche all’interno di insediamenti rurali a sud di Ravenna, nell’agro decimano per esempio, dove non sono visibili particolari riferimenti a comunità religiose. Alcuni frammenti sono stati inoltre rinvenuti recentemente sulla superficie di Ceparano, un sito collinare nel territorio di Faenza, lungo la strada che conduceva verso la Toscana ‘longobarda’, forse da associare a una postazione fortificata, costruita tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo, a protezione dell’Esarcato. Da approfondire sono inoltre a questo proposito le indicazioni che vengono da altre zone del circuito endolagunare, per esempio a nord della sede imperiale, dove i rapporti

Doveva essere imponente anche il commercio e la distribuzione di ceramiche fini da mensa, in particolar modo della Terra Sigillata Africana, i cui massimi picchi di attestazione sono riferibili al V e al VI secolo, con una copertura completa del territorio fino alle vallate subappenniniche, anche se con quantitativi diversi rispetto alle città e agli insediamenti disposti lungo la costa e nelle immediate vicinanze. La distribuzione di vasellame fine da mensa importato dalla Tunisia continuò anche nella seconda metà del VI e nel VII secolo, ma con minori quantità. Se ne trovano alcuni esemplari anche nei siti costruiti al confine dell’esarcato, sulle alture che iniziano a essere occupate dalla popolazione rurale e forse su siti che potevano essere utilizzati come presidi difensivi, per esempio lungo la vallata del Lamone, sulla collina dove verrà costruito nel X secolo il castello di Rontana, del Sintria, dove nello stesso periodo nascerà il castrum Tiberiaci, e del Marzeno, dove si stanno orientando le recenti ricerche archeologiche, con il nuovo scavo nel castello di Ceparano, sulla cui superficie sono stati rinvenuti anche alcuni frammenti riferibili ad anfore LRA4. Su due di questi siti (Rontana e Monte Mauro) sono stati rinvenuti esemplari di prodotti tunisini databili tra fine VI e VII secolo,22 così come era stato evidenziato per alcuni siti fortificati dell’arco alpino,23 e così come era da tempo conosciuto per Monselice, sul confine settentrionale dell’Esarcato.24 In gran parte del territorio romagnolo si osserva anche una chiara scelta delle élites, sia di tradizione romana, sia di tradizione germanica, di creare nuove residenze alla moda con segni forti della cultura urbana, come si osserva nella sala tricora attribuita a Teoderico a Ravenna,25 alle spalle della basilica di Sant’Apollinare Nuovo, e nella domus di via d’Azeglio.26 Nonostante lo sfarzo di queste residenze urbane è necessario sottolineare come questi edifici non sfuggano alle dinamiche del cambiamento in atto nella cultura urbana di questo periodo, come si registra per esempio, proprio a via D’Azeglio, nel tratto di abitazione che invade interamente una strada pubblica pavimentata in lastre di trachite, per scopi privati (mentre nei secoli precedenti neppure un imperatore avrebbe potuto Lo studio del materiale rinvenuto in questo contesto eccezionale è stato di recente presentato in occasione del Convegno di Zadar (Febbraio 2016), Trade, transformations of the Adriatic Europe, i cui atti sono in corso di edizione. Ringrazio Carla Corti e Mauro Cesarano per avermi mostrato questo materiale, così eccezionale. 22 Cirelli, Ferreri 2018. 23 Mackensen 1987. 24 Brogiolo 2017. 25 Porta 1991; Augenti 2012. 26 Montevecchi 2004. 21

Cirelli et al. 2017. Cerasetti, Cordoni e Vescio, infra. 16 Cosentino 2016. 17 Per le produzioni fini da mensa e per i centri di produzione in Tunisia, si veda Mackensen 2004; 2006. 18 Lepore, Montevecchi 2009. 19 Pieri 2005. 20 Piazzini, infra. 14 15

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Enrico Cirelli investimenti delle aristocrazie tardoantiche, come hanno evidenziato gli scavi della villa di San Pietro in Cotto, nel territorio di Gemmano.30 È possibile che questo fenomeno sia dovuto alla nascita di nuovi grandi centri agrari che accentrano le numerose proprietà, come indicano alcuni papiri ravennati sul finire del VI secolo.31 Le evidenze di aree produttive, in particolar modo le fornaci, nell’hinterland riminese, sorgono dove si trovavano già quelle romane. Manca invece l’abitato che arriverà solo nei secoli successivi e sarà costituito da un vero e proprio centro direzionale, forse amministrato dall’autorità ecclesiastica, che si manifesta con la costruzione di pievi nelle prossimità di questi insediamenti, ma facilmente raggiungibili anche dal resto del popolamento sparso. Tali insediamenti vanno spesso a collocarsi nelle nuove direttrici viarie, che si sono formate in seguito agli importanti cambiamenti rilevati dalla geografia fisica. Vengono così sfruttati i canali intervallivi, prende piede la viabilità di crinale e su questi canali geografici si sviluppano gli insediamenti con maggiore continuità. Anche grazie alla scelta di queste posizioni si spiega la capillare diffusione delle merci mediterranee nei più remoti settori della Romagna altomedievale, come suggerito dalla presenza di anfore di produzione orientale, anche nel sito di Santa Reparata, scavato da Debora Ferreri ed Enrico Ravaioli, descritti nel contributo presentato da Elvira Lo Mele.32

appropriarsene). Si tratta di un nuovo modo di vivere lo spazio urbano, in cui si manifesta una forte tendenza a sfoggiare la cultura di tradizione classica dei proprietari. Lo si osserva nei temi delle raffigurazioni: Bellerofonte e la chimera, la danza delle stagioni, episodi del ciclo omerico.27 Nella città, inoltre, l’apporto di marmo da gran parte delle cave mediterranee attive in quel periodo è un impressionante indicatore del dinamismo economico della nuova sede imperiale, in un periodo compreso tra gli inizi del V e per tutto il VI secolo, come dimostrano i recenti lavori condotti sui reperti della basilica di San Severo a Classe.28 Si tratta di analisi archeometriche fondamentali per capire le direttrici e le tendenze dei commerci di importanti prodotti di lusso non solo verso l’Oriente, ma anche verso le cave dell’Italia settentrionale, come hanno dimostrato il lavoro di Cristina Carile e Gian Carlo Grillini, con lo studio di materiali lapidei provenienti dal veronese, su un’altra fondamentale rotta verso l’arco alpino seguendo le stesse traiettorie dei contenitori in pietra ollare, di cui il territorio ravennate sembra un importante luogo di redistribuzione verso l’area centro adriatica, come descritto da Maria Teresa Gatto, soprattutto nel corso dei secoli compresi tra VI e IX secolo. Altri importanti dati potranno inoltre arricchire la nostra conoscenza su questo materiale se l’ambizioso progetto di Isabella Baldini e delle sue collaboratrici29 potrà proseguire, come presentato all’interno dei vari seminari che hanno portato alla realizzazione di questo volume. La lavorazione di questo materiale è inoltre un indicatore essenziale anche per conoscere le trasformazioni della cultura materiale a Ravenna e nel suo territorio anche nei secoli successivi, almeno fino all’età carolingia come hanno ben evidenziato Paola Porta e Stefano Degli Espositi nel loro contributo. Questa crescita, o rinascita urbana non colpisce solo la sede imperiale. Ravenna ne costituisce infatti solo l’epicentro, ma una ripresa si osserva in gran parte delle città vicine. Stesse trasformazioni si notano a Rimini e Faenza per esempio. Varie forme di ripresa dell’economia e della produttiva si notano anche negli insediamenti rurali, con la continuità o la ricostruzione di diverse ville e con la costruzione di nuovi tipi di insediamento. Un esempio notevole di questa tendenza è quello del palazzo di Teoderico a Galeata, di cui abbiamo evidenze concrete presentate da Marco Gregori, Emanuela Gardini e Riccardo Villicich che segnalano una riconversione della produttiva da un uso prevalentemente agrario dei terreni gestiti dall’azienda agraria associata alla ricca residenza ostrogota, verso l’allevamento intensivo. Dagli stessi scavi provengono anche alcuni oggetti di abbigliamento, forse associati a sepolture, studiati e inquadrati nella loro distribuzione sulle due sponde adriatiche da Ketty Iannantuono e Filippo Fontana. Diverso è invece il caso di altri insediamenti conosciuti nella Romagna meridionale, al confine con il territorio marchigiano, dove i siti mostrano tracce di continuità insediativa e produttiva, perfino con la costituzioni di veri e propri agglomerati di officine artigianali, nel territorio di Santarcangelo, ma al momento poche evidenze di nuovi

Le trasformazioni del paesaggio Le ville, le fattorie e gli altri insediamenti agrari non sono quindi abbandonati del tutto, in questa zona della Romagna interna, ma iniziano a perdere completamente la loro consistenza quelle strutture residenziali così caratteristiche dell’otium delle élites di età antica, rendendo quasi del tutto invisibili i grandi proprietari agrari, i possessores, che si insediano invece prevalentemente all’interno delle città. Tracce di occupazione delle strutture rurali stanno emergendo anche all’interno di ville che fino a pochi anni fa erano considerate abbandonate nella media età imperiale, come la villa di Russi, i cui materiali di V e VI secolo sono stati presentati in questo convegno da Giovanna Montevecchi e Claudio Negrelli. Un ulteriore elemento che aiuta a comprendere la crescita economica che raggiunse questo territorio nel periodo compreso tra V e VI secolo, è l’importante scoperta del sito di Ad Novas, nei pressi di Cesenatico. Si tratta di un sito straordinario, sviluppato, in controtendenza con la stessa Ravenna, già nel corso del IV, ma perfettamente inquadrato nel volume di commerci che raggiunge la sede imperiale nei due secoli successivi. Come l’area dei magazzini di Classe, anche in questo sito, scavato magistralmente da Neil Christie e Denis Sami, vengono realizzate abitazioni in legno nel corso del VII secolo, ma qui i materiali indicano una scarsa frequentazione nel corso dell’VIII, quando probabilmente viene abbandonato, almeno da quanto mostrano al momento Cirelli 2014a. Marini 1805, n. CXX, CXXI (anno 591 d.C.). 32 Http://www.disci.unibo.it/it/ricerca/convegni-e-seminari/economiaterritorio-adriatico-centrale-antichita-medioevo/call-for-posters-1/ sessione-romagna/i-materiali-tra-tarda-antichita-e-alto-medioevo-dagliscavi-della-pieve-di-santa-reparata-e.-lo-mele. 30 31

27 28 29

Bertelli 2006. Tumova et al. 2016. P. Baronio, G. Marsili, L. Orlandi, D. Pellacchia, L. Sotira.

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La Romagna tra tarda Antichità e alto Medioevo le ceramiche, i vetri, presentati da Tania Chinni e persino la circolazione delle monete, nel contributo di Elena Baldi, del tutto assenti in questo, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze, dopo il VI secolo. Su questo aspetto l’autrice ha anche analizzato le monete rinvenute nell’area portuale di Classe e nella basilica di San Severo, mostrando la discesa inesorabile verso il basso dal V all’VIII secolo. Si tratta di piccole monete, legate al commercio minuto e non sorprende il calo di attestazioni evidenziato tra VI e VII, ma vorrei sottolineare anche il dimezzamento delle evidenze tra prima e seconda metà del VI secolo, quando la funzione degli edifici non è mutata. Il volume dei commerci, oltre a cambiare di traiettoria da ovest a est, come avevo altre volte indicato,33 diminuisce notevolmente nei decenni successivi alla vittoria giustinianea, soprattutto nell’ultimo quarto del VI secolo.

nell’area portuale.37 In questo caso sono state rinvenute diverse tombe con pettini in osso, legate alla nuova ritualità funeraria di tradizione longobarda, ma di certo non si tratta né di élites, né di Longobardi, così come non lo erano gli individui sepolti nell’insediamento rurale rinvenuto a pochi chilometri da Modigliana, nella Romagna interna, su alcuni dei quali sono stati recuperati oggetti simili.38 Credo che questo dimostri invece ancora con maggiore forza la larga diffusione di modelli culturali di tradizione germanica, in tutta la popolazione della penisola, sia di origine romana, sia longobarda, tanto da renderli indistinguibili ‘etnicamente’ e socialmente, almeno in questo periodo e soprattutto su queste evidenze.39 La trasformazione del paesaggio urbano è visibile anche in altri aspetti. A Ravenna e Classe sono testimoniate diverse attività produttive, all’interno del circuito murario. Lungo il canale su cui si affacciano i magazzini scavati a Classe, sono documentati molti semilavorati soprattutto pani di vetro e altre varietà di scarti, trovati in diverse zone della città. L’atelier in cui sono stati rinvenuti è a fianco dei magazzini, lungo la strada basolata. Le forme sono quelle tipiche della prima parte del V secolo, ma vi si trovano anche repertori più caratteristici del periodo altomedievale. Conosciamo infatti una officina di VII sec. d.C., rinvenuta a fianco di un’abitazione costruita con materiali misti, su base in laterizi e alzato in legno e argilla.40 La produzione di questi ateliers è stata messa in relazione al fenomeno più vasto della produzione vetraria in area altoadriatica, in un contributo di Tania Chinni e degli altri autori che hanno portato a compimento un PRIN sulla produzione vetraria, diretto da Gianmario Molin e Mariangela Vandini, di cui sono stati presentati i primi risultati e confronti con l’atelier di Aquileia.41

Nel complesso con l’instaurazione dell’Esarcato, dopo la caduta del regno ostrogoto, la cura delle strade spesso viene meno, resta affidata a iniziative estemporanee o collegabili a comunità che operano per lo più a livello locale. Anche nel migliore dei casi si perde la visione di insieme e il territorio risulta certamente più frammentato almeno fino all’età comunale, quando comunque si tratta di distretti territoriali. Nonostante questo, l’evoluzione della viabilità della Romagna tra l’età romana e quella medievale è improntata su una sostanziale continuità, nonostante i lavori su questo argomento non siano più attuali.34 Viene spesso segnalato che la crisi di questo territorio dopo la conquista giustinianea e nel periodo compreso tra la conquista longobarda nella metà dell’VIII secolo non andò comunque a scardinare l’impianto della viabilità romana. Lo osserviamo soprattutto nella progettazione urbanistica di Ravenna, dove sono conosciuti comunque interventi consistenti sulle infrastrutture durante tutto l’alto Medioevo, per opera prevalentemente dell’amministrazione arcivescovile, ma vi sono alcune testimonianze anche per l’età esarcale, agli inizi del VII secolo (Smaragdo), anche per quel che riguarda l’approvvigionamento idrico, con una epigrafe che testimonia il ripristino dell’acquedotto.35

Un altro quartiere di grande attività produttiva, sempre all’interno della città di Classe è quello identificato subito a sud della Basilica Petriana e descritto da Debora Ferreri, nel suo contributo. Si tratta di una zona produttiva associata probabilmente al cantiere per la costruzione dell’imponente edificio, commissionato dal vescovo Pietro Crisologo (426–450 d.C.). Poco più a sud si trovava un grande quartiere artigianale, con diverse fornaci, come hanno mostrato le indagini magnetometriche condotte di recente su tutta l’area in cui si trovava l’edificio. Si configura quindi ancora maggiormente un paesaggio urbano con un aspetto del tutto diverso da quello della tradizione antica, come del resto è stato già osservato per gran parte delle città mediterranee ed europee eredi della tradizione romana.42 Un paesaggio in cui fornaci e basiliche potevano essere divise da poche decine di metri, così come campi da pascolo e orti, vicino a residenze urbane e palazzi delle aristocrazie.

Importanti aspetti sulle trasformazioni della cultura materiale in Romagna sono stati affrontati da Debora Ferreri, che ha mostrato nel suo contributo l’evoluzione delle pratiche funerarie, condizionate inizialmente dal grande cambiamento topografico che le due città di Ravenna e Classe subirono tra gli inizi del V e il IX secolo. La costruzione delle nuove mura e la conseguente definizione di nuovi limiti pomeriali determinò l’inserimento di alcune aree funerarie, in origine esterne alle città, entro i recinti urbani, come è il caso delle sepolture nell’area di San Giovanni Evangelista e per le varie zone cimiteriali del paesaggio meridionale di Classe, in particolar modo il nucleo di tombe costruite intorno al mausoleo del vescovo Severo,36 ma anche nell’area abitativa che venne a costituirsi nel corso del VII secolo

37 38 33 34 35 36

Augenti et al. 2007. Alfieri 1981b, pp. 3–11. Si veda a proposito Gelichi 2000, p. 124. Ferreri 2011.

39 40 41 42

17

Ferreri 2009. Guarnieri, Montevecchi 2013. La Rocca 2004, p. 2. Augenti, Cirelli, Marino 2009. Maltoni et al. 2015. Wickham 2005.

Enrico Cirelli

Tav. I. Le principali forme in TSA rinvenute nello scavo della basilica di San Severo (Area 1–2, 2006): 1) H.50a; 2) H.50b; 3) H.50b N. 6 Late Var.; 4) H.53a; 5) H.53b; 6)H.56; 7) H.58; 8) H.59b; 10) H.61a; 11) H.61b; 12) H.67\Mackensen F.9; 13) H.75; 14) H.78; 15) H.81; 16) H.84; 17) H.91b; 18) H.91c; 19) H.91d; 20) H.99c; 21) H.104a2; 22) H.104a3; 23) H.104b; 24) H.105b; 25) H.108; 26) H.109a; 27) H.109b.

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La Romagna tra tarda Antichità e alto Medioevo

Tav. II. Le principali anfore rinvenute (Area1–2, 2006): 1) K.VIIIa; 2) Bon. 27; 3) Bon. 28; 4) K.XXXV; 5) Bon. 46; 6) Bon. 45; 7) Bon. 49; 8) Spath. 2; 9) Spath. 3; 10–14) LR1; 15) LR2; 16) LR3; 17) LR4b1; 18) LR4b2; 19) LR5; 20) LR6; 21) LR7; 22) San Lorenzo7; 23) Salonicco; 24–25) Samo’s cyst. type; 26–27); Anfora globulare di VIII sec.; 28) K.LII; 29) Anf. mediev. con ansa a nastro (IX–X sec.); 30–31) Anfora tipo Sarachane\Gunsenin I–II (X–XI sec.); 32) Anfora con decorazione a bande rosse (XI sec.).

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1.2 Le Marche tra tarda Antichità e alto Medioevo Enrico Giorgi Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Dipartimento di Storia Culture Civiltà [email protected] Abstract: The numerous contributions of recent research on the medieval archaeology of the Marche region allow us to overcome the lack of archaeological information that has limited studies in the past. Furthermore, this new data collection allows us to draw a more complete synthesis. As a result, we can highlight some phenomena that characterise the evolution of the regional landscape, in the transition between Antiquity and the Middle Ages. Urban archaeology shows how, in the continuously inhabited centres, there was ruralisation in some areas and, in others, the growth of new agglomerations affecting various sectors of ancient cities (Ascoli, Camerino, Cagli). These new urban centres are distributed in significant points, often connected with the road network that branches off into the surrounding area. Only with urban development of a fully medieval age would many urban areas once again be occupied extensively, often destroying and reusing the remains of the surviving Roman buildings. A different destiny characterises some urban centres in low valleys or valley outlets, which were abandoned according to different dynamics and at different times, dictated above all by environmental changes, with different outcomes in each valley (Fossombrone, Suasa, Ostra, Potenza, Cupra). The historical curve of the urban centres and the environmental changes also influenced the development of the rural population and the different fortunes of the monasteries and the pievi that rose in the surrounding territory. Keywords: Landscape; Urban planning; Urban Archaeology; Settlements.

…Non mi sembra azzardato concludere che il decadimento o l’abbandono dei centri abitati…Fu avviato durante la guerra gotobizantina, ma assunse carattere permanente e irreversibile nel periodo longobardo…Auspico una ricerca finalizzata e interdisciplinare per definire più fondatamenteil passaggio dall’età antica a quella medievale. (Nereo Alfieri, Le Marche e la fine del mondo antico, 1983)

dell’Università di Bologna, tracciava una sintesi degli studi sulla regione marchigiana nel passaggio tra l’Antichità e il Medioevo. In quelle pagine, per molti versi ancora esemplari, lo studioso marchigiano, piuttosto che giungere a conclusioni poco fondate, preferiva non nascondere la lacuna di informazioni e indicava la strada per auspicabili future ricerche. Nello stesso volume che accoglieva le sue riflessioni, intitolato ‘Istituzioni e società nell’alto medioevo marchigiano’, si trovano altri importanti contributi, come quelli di Paola Galetti, Massimo Montanari, Vito Fumagalli, Letizia Pani Ermini, solo per citarne alcuni. Leggendo quelle pagine, ancora oggi caratterizzate da un’apprezzabile ampiezza di argomentazioni, è possibile farsi un’idea piuttosto completa dello stato degli studi e del ruolo marginale giocato dall’archeologia. Circa venti anni dopo, un altro grande studioso delle Antichità marchigiane, Gianfranco Paci, in un volume su ‘Ascoli e le Marche tra Tardoantico e Altomedioevo’, lamenta la mancanza di novità per il tardoantico marchigiano, dovuta allo scarso contributo dell’archeologia.1 Questa lacuna trova corrispondenza

...Una rivisitazione del tardoantico marchigiano a vent’anni di distanza dal lavoro di Alfieri non è giustificato da novità sostanziali…sino ad alcuni fa si doveva lamentare una certa latitanza di studi, in particolare riguardanti il campo delle fonti archeologiche….una carenza particolarmente grave perchè la documentazione archeologica è capace di arrecare novità di conoscenza (Gianfranco Paci, Le Marche in età tardoantica, 2004) Le Marche tra tarda Antichità e alto Medioevo Nei primi anni Ottanta del secolo scorso, Nereo Alfieri, fondatore della Cattedra di Topografia dell’Italia Antica

Alfieri 1983; Galetti 1983; Fumagalli 1983; Montanari 1983; Pani Ermini 1983. 1

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Le Marche tra tarda Antichità e alto Medioevo anche nei lavori di più ampio respiro che tracciano una sintesi del quadro nazionale, come il noto volume del 1998 sulla città altomedievale italiana di Gian Pietro Brogiolo e Sauro Gelichi e il Convegno sulle città italiane tra tarda Antichità e alto Medioevo organizzato nel 2004 a Ravenna da Andrea Augenti, dove l’archeologia marchigiana è assente.2 Tuttavia lo stesso Gianfranco Paci, nelle pagine citate, nota l’affacciarsi di un’inversione di tendenza, che parrebbe autorizzare migliori aspettative. Nel medesimo volume, che contiene finalmente studi di carattere archeologico sulle città interne delle Marche settentrionali e su Ascoli stessa, Pier Luigi Dall’Aglio traccia un quadro di sintesi sull’evoluzione della rete itineraria romana nel corso del Medioevo e fornisce spunti metodologici fondamentali per rivalutare l’archeologia del paesaggio marchigiano in questa fase storica di passaggio tra l’Antichità e il Medioevo.3 Tra gli esempi che attestano un rinnovato interesse per l’archeologia tardoantica e altomedievale nelle Marche, lo stesso Gianfranco Paci cita lo scavo archeologico dell’Università di Bologna presso la Villa e la Basilica di Colombarone, lungo la via Flaminia alle porte di Pesaro. Si tratta di uno dei principali progetti di indagine sistematica e pluriennale condotto nel territorio marchigiano, inaugurato proprio sotto l’egida di Nereo Alfieri e diretto dal 1983 da Pier Luigi Dall’Aglio, ma che proprio con le ricerche dei primi anni di questo secolo ha portato i risultati più innovativi.4 Negli anni Novanta, inoltre, ebbero inizio alcuni importantissimi studi di archeologia del paesaggio, sulla base di campagne sistematiche di ricognizione sul territorio con particolare attenzione alle dinamiche che caratterizzano la fine dell’Antichità e gli albori del Medioevo nelle Marche meridionali, come quelle dell’Università di Pisa dirette da Simonetta Menchelli, dell’Università di Macerata di Umberto Moscatelli, dell’Università di Ghent di Frank Vermeulen.5 In quel ventennio, in realtà, si registrarono anche diversi scavi d’emergenza in area urbana con notevoli contesti medievali riportati in luce in molti dei principali abitati marchigiani, tuttavia le notizie vennero spesso divulgate in sedi diversificate e non sempre ebbero il risalto che meritavano, come accadeva, invece, alle ricerche sistematiche che Andrea R. Staffa conduceva nel contermine territorio abruzzese.6 Agli studi marchigiani mancò forse lo sguardo d’insieme, anche nei lavori più significativi per il rilievo del singolo contesto o più ampi per completezza di informazioni, come nei casi del Complesso Cattedrale-Battistero di Pesaro e del Palazzo

dei Capitani di Ascoli Piceno.7 Tra gli anni Ottanta e Novanta, si nota un progressivo aumento di interesse, testimoniato per esempio da alcune importanti sintesi proposte da Maria Cecilia Profumo, che hanno il merito di far emergere le tante novità archeologiche inserendole in un ampio quadro regionale.8 Negli anni a cavallo tra la fine del secolo scorso e i giorni nostri, la sensazione di un’inversione di tendenza dell’archeologia marchigiana, finalmente più attenta alle fasi successive all’Antichità, è stata effettivamente corroborata dalla scoperta di contesti notevoli in variluoghi della regione e da una progressiva crescita degli studi. In qualche caso si è assistito anche alla rivalutazione di siti notevoli le cui indagini più significative erano già state effettuate in passato. Tra questi si deve ricordare certamente la Necropoli di Castel Trosino, uno dei luoghi fondativi dell’archeologia medievale italiana. Alla metà degli anni Novanta si collocano la Mostra e il Convegno che vennero promossi in occasione del centenario della scoperta, avvenuta nel 18939. Circa dieci anni dopo, ad Ascoli Piceno, fu inaugurata una Mostra dedicata ai nuovi scavi, svolti tra il 2001 e il 2004, che porterà dopo altri dieci anni all’inaugurazione del Museo dell’Altomedioevo presso il Forte Malatesta.10 Tuttavia la storia degli studi relativa a Castel Trosino rappresenta un caso del tutto particolare, unico per risonanza internazionale, che solo marginalmente è riuscito ad attirare l’attenzione degli studiosi sul resto della regione.11 Nello stesso periodo si collocano altri due importanti Convegni che circoscrivono l’argomento alla parte meridionale della regione. Il primo, di carattere storicotopografico, fu dedicato alla Salaria in età tardoantica e altomedievale, mentre il secondo, sul Tardoantico e l’alto Medioevo tra l’Esino e il Tronto, accolse finalmente diverse novità di carattere archeologico.12 Con l’inizio del secolo si assiste finalmente anche a un’effettiva crescita di interesse, fondata anche su nuove ricerche pluriennali di ampio respiro, promosse da diverse Università in collaborazione con la Soprintendenza regionale, che si andarono ad aggiungere alle indagini già in corso. Tra il 2000 e il 2016 si sono avute le indagini archeologiche della Chiesa di Santa Maria in Portuno, nella valle del Cesano presso l’antica città romana di Suasa. Lo scavo è giunto a conclusione di un più ampio studio condotto nell’ambito di un progetto dell’Università di Bologna diretto da Giuseppe Lepore e voluto dall’allora Soprintendente Giuliano de Marinis.13 Tra i

Brogiolo, Gelichi 1998a; Augenti 2006c. Dall’Aglio 2004; Destro 2004; Giorgi 2004; Paci 2004. Si segnala anche lo studio di Roberto Bernacchia che riprende il tema dei territori longobardi e pentapolitani (Bernacchia 2004). 4 Dall’Aglio, Vergari 2001; Dall’aglio, Di Cocco, Tassinari 2004. Si veda inoltre il contributo di Dall’Aglio, Roversi, Tassinari, infra. 5 Menchelli 2004; Minguzzi, Moscatelli, Sogliani 2003; Gnesi et al. 2007; Moscatelli 2012; Vermeulen, Van Limbergen, Monsieur 2017. 6 Si veda per esempio l’ampio contributo monografico sulle città abruzzesi presentato a Ravenna nel 2004 (Staffa 2006a, con bibliografia precedente). Riguardo ad alcuni centri specifici si deva: Luni, Ermeti 1997 (mura di Urbino); Luni 1989; Dall’Aglio 1998 (Pesaro); Profumo 1992 (Fano); 1989; 1990 (Ancona); Destro 1997 (mura di Osimo). Per la situazione marchigiana si rimanda ancora a Ermeti 2003; Paci 2004, con bibliografia precedente. 2 3

Profumo 2001b; Quiri, Profumo 1987. Profumo 1985; 1997; 2001a. 9 Paroli 1995a; 1997a. 10 Staffa, Profumo 2004. 11 Il Convegno del 1995 sull’Italia centro-settentrionale in età longobarda (Paroli 1997a) solo pochi interventi furono dedicati all’archeologia marchigiana e l’unica sintesi si deve ancora una volta a Maria Cecilia Profumo (1997). 12 Si tratta di Catani, Paci 2007 e del 40° Convegno di Studi Maceratesi con alcune novità da scavi archeologici (Fabrini et al. 2007; Frapiccini et al. 2007; Profumo 2007a). 13 Lepore 2000; 2010; Giorgi, Lepore 2010. 7 8

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Enrico Giorgi note anche nel vasto panorama europeo, trovano esiti caratteristici, determinati dalle specifiche circostanze storiche e geografiche.

progetti fondati su indagini sistematiche di un sito e del suo territorio nel Medioevo, si può menzionare un altro scavo dell’Università di Bologna, diretto da chi scrive in collaborazione con Nora Lucentini, e dedicato al Borgo medievale di Acquaviva Picena e al suo territorio.14 Sulla medesima linea di ricerca si pongono le ricerche e gli scavi dell’Università di Urbino diretti da Anna Lia Ermeti presso il Castello di Monte Copiolo e più in generale nel Montefeltro.15 Infine si devono ricordare anche alcune indagini di lunghissima durata nei siti di antiche città romane abbandonate, come quelli delle Università di Urbino a Forum Sempronii, di Bologna a Suasa e Ostra o di Macerata a Urbs Salvia, che negli ultimi anni sembrano riservare importanti scoperte anche per le ultime fasi di vita di età tardonatica e altomedievale. Questo fervore di ricerche sul campo ha finalmente fattoemergere con maggior forza gli studi regionali anche in ambito nazionale. Diversi progetti rappresentativi dell’archeologia marchigiana sono finalmente presenti nel volume dedicato alle produzioni ceramiche e ai commerci nell’Italia centrale, che raccoglie gli interventi presentati nel 2012 a Spoleto e Campello sul Clitunno nel Convegno organizzato da Enrico Cirelli, Francesca Diosono e Helen Patterson.16 Tuttavia, anche in quell’occasione, le ricerche condotte nelle Marche non erano ancora quantitativamente paragonabili rispetto a quelle di altre regioni dell’Italia centrale, che possono vantare una maggiore tradizione di studi nel settore. Questa fu una delle motivazioni ispiratrici del progetto Economia e Territorio, che ci ha visti impegnati nel 2013 con i Seminari organizzati a Ravenna, Senigallia e Ascoli, e poi di nuovo a Ravenna con il Convegno del 2014. L’idea alla base di questo progetto è stata quella di fornire occasioni di confronto agli addetti ai lavori, impegnati quotidianamente nei problemi legati alla tutela e agli scavi d’emergenza, portando gli specialisti direttamente nei loro territori. Le pagine che seguiranno non vanno intese in senso esaustivo ma vogliono piuttosto proporre una sintesi di alcuni dei principali temi di ricerca emersi nell’ambito dei tanti stimolanti dibattiti che studiosi e colleghi hanno saputo mettere in campo in quelle occasioni.

Nel caso del centro storico di Ascoli Piceno, le nuove scoperte vanno a completare il quadro che già in passato si era cercato di delineare sulla città picena nel periodo di passaggio dall’Antichità al Medioevo17. Ascoli sorge nella valle del fiume Tronto, alla confluenza con il torrente Castellano, sulle pendici del Colle dell’Annunziata, in un luogo di eccezionale importanza geografica. La città crebbe nel punto di raccordo tra paesaggi ed economie differenti. All’interno il fiume guadagna il suo percorso tra le aspre dorsali dei Sibillini e di Monti della Laga, in un ambiente fortemente condizionante, dominato da boschi e pascoli. Un paesaggio naturalmente vocato all’economia dell’incolto o a una commistione che, soprattutto sugli altopiani come Pian Grande di Castelluccio di Norcia, permette anche l’agricoltura. Qui trovò ampio spazio la gestione comunitaria dei boschi e dei pascoli o la proprietà imperiale, come avvenne con il saltus dei montes Romani, il gualdus longobardo e più recentemente con le Comunità Montane. Appena a valle di Ascoli i crinali montuosi diventano pendii collinari sempre più dolci e la valle si apre in fertili pianori alluvionali progressivamente più ampi. Ai pascoli si affianca un ampio paesaggio agrario che, in età romana e dopo la rimessa a coltura medievale, poteva guadagnare anche la bassa pianura e le aree di foce.18 All’altezza della città, il Tronto e il Castellano circondano il pianoro su tre lati e scorrono entro alvei profondamente incassati. Il Colle dell’Annunziata sbarra l’unico accesso naturale da monte al pianoro ascolano e non lascia che uno stretto corridoio lungo la riva destra del Tronto, sfruttato già dalla via Salaria per il suo percorso urbano. Solo da questo lato, tanto in età antica quanto nel principio del Medioevo, furono costruite le mura difensive. Da Ascoli era possibile proseguire il cammino superando il fiume Tronto con il Ponte augusteo di Borgo Solestà, arricchito da una porta in età comunale, oppure si poteva discendere la valle verso la costa adriatica, oltrepassando il torrente Castellano sul Ponte di Cecco, anch’esso costruito in età romana e dotato di una postierla medievale che ne regolava l’accesso.19 Sulla sponda sinistra del Castellano, proprio in corrispondenza di questo ponte, verrà eretta la Fortezza voluta da Galeotto Malatestanella metà del XIV sec., che ripristinò le difese urbane quando instaurò la sua Signoria. Per ragioni strategiche tutto il pianoro, tra Porta Romana e il Ponte di Cecco, fu compreso nel sistema difensivo. Tuttavia l’impianto ortogonale della Colonia Romana di Asculum, organizzato lungo il percorso della via Salaria oggi corrispondente a Corso Mazzini, non occupò tutto lo spazio disponibile ma si sviluppò tra le pendici dell’Annunziata e la riva del Tronto, con un’urbanizzazione più rarefatta del settore orientale della

L’Archeologia urbana e le città altomedievali Il prezioso lavoro di tutela condotto quotidianamente dalla Soprintendenza Archeologia delle Marche e dai suoi collaboratori ha portato, negli ultimi anni, risultati particolarmente significativi in alcune aree a continuità di vita, come per esempio Ascoli Piceno, Camerino, Cagli e Fano. In questi luoghi è possibile rintracciare alcune dinamiche ampiamente rappresentative dell’urbanistica tardoantica e altomedievale, come per esempio: la defunzionalizzazione delle aree pubbliche della città romana; l’impianto di sepolcreti e lo sviluppo di insediamenti agglomerati attorno ai nuovi complessi religiosi; la diffusa ruralizzazione e la contrazione dell’area urbana antica. Queste tendenze generali, ben 14 15 16

Giorgi, Vecchietti 2014. Ermeti, Sacco 2006; 2007. Cirelli, Diosono, Patterson 2015.

17 18 19

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Profumo 1985; Giorgi 2004. Campagnoli, Giorgi 2001; 2004a; 2010. Campagnoli, Giorgi 2007.

Le Marche tra tarda Antichità e alto Medioevo città dove forse erano presenti anche aree funerarie. Sulla fine dell’Antichità questo limite orientale fu segnato dalla costruzione di un edificio paleocristiano e poi dallo sviluppo del complesso che accoglieva la Cattedrale, il Battistero e l’Episcopio, nell’area di Piazza Arringo, dove ancora oggi sorge il Duomo nella sua forma architettonica Cinquecentesca voluta dall’architetto Cola d’Amatrice.20

frangente storico, dunque, i diverticoli urbani della via Salaria, che collegavano Ascoli con il territorio fermano e teramano, acquisirono una rilevanza particolare, mentre il percorso dell’antica via consolare lungo la valle del Tronto si trovò a essere frammentato in domini differenti. Non si può escludere che questa dinamica possa avere avuto ripercussioni anche sullo spazio urbano e forse non è un caso che il monastero longobardo di Sant’Angelo Magno si sia arroccato sulle pendici del Colle dell’Annunziata, dove la valle del Castellano giunge in città, lungo il diverticolo per Teramo e passando per Castel Trosino.22

In base alla tradizione degli studi e al circostante panorama regionale, si ritiene che Ascoli, come altre città marchigiane, a partire dalla tarda Antichità, abbia subito una progressiva ruralizzazione e contrazione dello spazio urbano causata dalle nuove circostanze storiche e ambientali, per poi tornare a svilupparsi nel Medioevo, quando furono impiantati tanti nuovi cantieri per la costruzione di molte chiese e monasteri, attorno ai quali crebbero i vari quartieri del centro storico, come la Piazzarola e Porta Romana. Spesso questa nuova espansione edilizia avvenne impostando i nuovi edifici sui resti delle strutture romane e reimpiegando tanti materiali da costruzione prelevati dai ruderi delle murature precedenti. Questa dinamica, unita alla presunta conservazione di molte vie della città antica, spiegherebbe la parziale conservazione del reticolo urbano romano nel tessuto della città medievale. Il panorama urbano alle soglie del Medioevo, sarebbe invece quello di un abitato molto rarefatto, arroccato attorno ad alcuni agglomerati cresciuti attorno ai complessi religiosi più importanti, come la Cattedrale o il Monastero di Sant’Angelo Magno.21 Gli eventi storici che agiscono sullo sfondo mostrano in effetti un periodo complesso con frequenti episodi bellici, che portarono anche al saccheggio della città e del territorio, come accadde con le scorrerie dei Goti nel Piceno (408 a.C.) e con l’assedio portato da Alarico alla città (544 a.C.). Una tappa si colloca certamente dopo il 578 a.C., quando Ascoli fu conquistata dai Longobardi e annessa al Ducato di Spoleto. La città divenne allora una roccaforte strategica per promuovere l’espansione nel resto della valle a discapito di Castron Terentinon (Martinsicuro) e degli altri approdi fortificati, ma anche per conquistare Fermo e Teramo, nell’entroterra a nord e a sud. In questa fase di strutturazione del dominio longobardo nel Piceno le strade romane giocarono un ruolo determinante, non solo le grandi arterie come la Salaria e la Flaminia, ma anche quelle apparentemente secondarie, che permettevano la penetrazione dalle aree interne nelle vallate principali. Probabilmente è in questo scenario che si può comprendere meglio anche il ruolo strategico che ebbe Castel Trosino nelle prime fasi della conquista. Ancora oggi il sito sorge su uno sperone fortificato che domina l’alta valle del Castellano, a controllo della via che, attraverso le gole del Velino, permette di giungere fino a Teramo. In questo

Se proviamo a rintracciare le tracce archeologiche di questo periodo di cambiamento del centro abitato, notiamo che già in passato erano stati riportati in luce contesti abbastanza significativi. Tracce di consistenti spoliazioni di età tardoantica (IV–V d.C.) sono stati riscontarti negli scavi di Pazza Arringo, dove è stato riconosciuto un edificio costruito con materiale di reimpiego e con elementi lignei, poi coperto dalle frequentazioni successive. Sepolture tardoantiche e altomedievali (V–VII d.C.) sono state riportate in luce nel cuore della città attorno a Piazza del Popolo, presso il Caffè Meletti e il Palazzo dei Capitani, ma anche nella zona di piazza Arringo, presso la Cattedrale, il Battistero, la chiesa di San Biagio e lungo il torrente Castellano. Livelli di distruzione e incendio che potrebbero riferirsi alla conquista longobarda, coprono le strutture altomedievali di Caffè Meletti, della Cattedrale e il lastricato romano di via del Trivio davanti al chiostro di San Francesco, nel cuore della città.23 I recenti scavi condotti nell’area attorno al convento di San Francesco e lungo Corso Mazzini, invece, hanno riportato in luce, a circa mezzo metro di profondità dall’attuale piano d’uso attuale, una successione di terreni organici, dello spessore complessivo di alcune decine di centimetri, assimilabili alle ‘terre nere’ ben note in letteratura (dark layers). Su questi livelli, che sigillano l’abbandono degli edifici romani, si impostano le costruzioni medievali. A est e a ovest del Chiostro Maggiore del Convento di San Francesco, questo strato di terreno organico copre resti di muri e pavimenti di età medio imperiale e viene tagliato dalle fosse di fondazione delle strutture che circondavano il chiostro di età basso medievale. Lungo Corso Mazzini, presso l’incrocio con via Tito Afranio, le terre nere coprono i livelli di crollo che in età tardoantica avevano coperto il basolato romano e vengono tagliati dalle fondazioni della facciata della Chiesa medievale di Sant’Onofrio, che invade parte del ciglio stradale sul lato nord.24 L’individuazione di questi strati di terreno organico altomedievale in aree centrali della città romana rappresenta la prima concreta attestazione archeologica della ruralizzazione dell’area urbana, ricostruibile sulla base di studi di carattere storicotopografico.

20 I mosaici dell’edificio paleocristiano si datano normalmente al V– VI secolo d.C. mentre un edificio colonnato databile al IV secolo d.C. è stato riportato in luce sotto il Battistero medievale. Sappiamo che il vescovo ascolano Lucezio era presente al Concilio di Calcedonia (541 d.C.) mentre la Cattedrale è attestata per la prima volta in un documento del 996 d.C. (Profumo 2007b; Amadio, Morganti, Picciolo 2008; Pinto 2013). 21 Giorgi 2004; Amadio, Morganti, Picciolo 2008.

Giorgi 2006. Per una sintesi sui vecchi scavi si vedano Giorgi 2004; Profumo 2007a. 24 La chiesa è poi stata distrutta, ma parte della facciata è stata ricollocata sul retro dell’edificio della Cassa di Risparmio. Si veda il contributo di Massoni, De Cesare e Antognozzi, infra. 22 23

23

Enrico Giorgi Il Borgo medievale di Camerino sorge arroccato su un pianoro sommitale, su un crinale che domina le alte Valli del Chienti e del Potenza. Questa collocazione strategica rende ragione della sua importanza storica. Camerino, infatti, si pone a controllo di importanti testate di valle da cui prendono le mosse i percorsi che permettono di discendere sino alla costa adriatica. Ma appena a nord di Camerino si apre anche la Valle Sinclinale Camerte, un’area di pianura collocata nel cuore montuoso della regione, tra la dorsale appenninica umbromarchigiana e quella marchigiana. In questo settore scorre l’alta Vall’Esina, con il suo caratteristico andamento parallelo alla costa che solo successivamente asseconda il tipico orientamento a pettine delle altre valli marchigiane e trova la foce appena a nord del Massiccio del Conero. Su questo bacino agricolo interno si aprono alcuni dei più importanti valichi che mettono in comunicazione l’Umbria con l’area medio adriatica. Anche solo questa breve descrizione geografica dovrebbe chiarire a sufficienza l’importanza strategica di Camerino, ben nota anche alle fonti scritte, in alcuni momenti storici come quello dell’espansione romana ma anche della strutturazione del dominio longobardo.28

Una situazione diversa è quella riscontrata in Piazza Ventidio Basso, dove le indagini geofisiche e poi i sondaggi stratigrafici hanno permesso di ricostruire con buona approssimazione l’evoluzione del paesaggio urbano di questa zona vicina al Ponte di Borgo Solestà e all’ansa del fiume Tronto, dominata dal complesso medievale di San Pietro in Castello.25 L’area, che non mostra resti di occupazione di età romana, sembra insediataa partire almeno dall’alto Medioevo, quando si sviluppò una necropoli, con inumazioni in cassa lapidea, attorno al primo impianto della Chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio. Anche nelle epoche immediatamente successive la zona continuò a essere utilizzata come cimitero, con altre tombe a inumazione entro fosse terragne, che andarono a occultare le sepolture precedenti. Nello stesso tempo, nel corso del pieno Medioevo, si assiste alla definizione dello spazio antistante la chiesa, la cosiddetta Platea Inferior, area di mercato seconda solo a Piazza del Popolo (Platea Maior o Superior), destinata soprattutto al mercato delle stoffe. L’indagine archeologica ha permesso di riconoscere i successivi battuti di terra e materiale eterogeneo costipato che servirono per pavimentare la piazza. L’interpretazione delle anomalie geofisiche sulla base dei documenti d’archivio, ha permesso di ricostruire gli edifici medievali che occupavano il limite occidentale della piazza, prima che fossero demoliti per costruire l’attuale frontescena architettonico. Le indagini geofisiche, lo scavo stratigrafico e le immagini d’archivio permettono anche di riconoscere chiaramente la collocazione dell’Oratorio di San Rocco, costruito nel XVI sec. a nord della Chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio e demolita nel 1931.26

Sappiamo, per esempio che fu un centro dei Camerti, popolazione umbra che stipulò un trattato con Roma di grande importanza politica (309 a.C.), sino a diventare parte del sistema di popolamento incentrato sui municipi romani del Piceno (I a.C.). Il suo ruolo strategico tornerà fondamentale anche molti secoli dopo, nella strutturazione territoriale del Ducato longobardo di Spoleto (591–592 d.C.) e resterà importante nei secoli successivi, ancora al tempo della Signoria medievale dei Da Varano (XIV sec.).

Per terminare l’aggiornamento sugli scavi nell’area di Ascoli, si può segnalare anche la necropoli altomedievale (VII sec. d.C.) riportata in luce appena fuori città, presso Marino del Tronto, e impiantata sui resti di un insediamento rurale con una fornace di età romana, lungo la via Salaria.27

L’urbanistica della città romana, di cui si conservano resti significativi di edifici sia pubblici sia privati (per esempio sotto il Teatro Marchetti, lungo Corso Vittorio Emanuele, in via Colseverino e nell’area di Piazza Garibaldi), doveva necessariamente confrontarsi con la forma stretta e allungata del pianoro e con il condizionamento imposto dalla morfologia della collina. Il principale asse ordinatore dell’impianto urbano correva probabilmente in corrispondenza di Corso Vittorio Emanuele e conduceva all’area forense, normalmente localizzata tra Piazza Garibaldi e Piazza Mazzini, in posizione dominante dove sorgeva anche un edifico di culto. Sulla piazza si affacciava un portico, rinvenuto sotto il Teatro Marchetti, mentre nei pressi si estendeva un altro complesso edilizio di difficile interpretazione, con pavimentazione musiva e pitture parietali.29 Fasi edilizie tardoantiche riferibili alla parabola finale della città romana sono state individuate presso Piazza Garibaldi ma nel corso dell’alto Medioevo si assiste a un generale declino dell’antica area forense, ben visibili negli scavi di Piazza Mazzini, dove sono emersi livelli spoliazione e di crollo delle strutture antiche (III–IV d.C.), su cui si impostano alcune sepolture a inumazione in

Nel complesso, dunque, i nuovi scavi urbani ad Ascoli completano il quadro fornito dalle vecchie ricerche. Alle note dinamiche di abbandono e spoliazione delle strutture antiche, si aggiunge l’attestazione archeologica della ruralizzazione dell’area urbana (dark layers), mentre l’area compresa tra la chiesa dei San Vincenzo e Anastasio e quella di San Pietro in Castello mostra un contesto archeologico altomedievale, un altro polo del nuovo paesaggio urbano che si aggiunge a quelli ricostruiti su base storico-topografica a Sant’Angelo Magno e presso la Cattedrale. Il complesso della Cattedrale presenta anche fasi tardoantiche e si imposta in un settore periferico della città romana. Gli altri due poli, Sant’Angelo Magno e San Vincenzo e Anastasio-San Pietro in Castello parrebbero svilupparsi in età longobarda, comunque in settori marginali ma in corrispondenza di due siti strategici che dominano le vie dirette a nord verso il fermano e a sud verso il teramano.

Cagiano de Azevedo 1983. Per una descrizione più approfondita e in generale per il caso di studio di Camerino si rimanda al contributo di Frapiccini, Antongirolami e Virgili, infra. 28

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Speranza e Ferranti, infra. Giorgi 2016. Antognozzi, Lopreite e Massoni, infra.

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Le Marche tra tarda Antichità e alto Medioevo fossa terragna (IV–V d.C.). L’area parrebbe quindi subire una sostanziale defunzionalizzazione, almeno sino alla costruzione di una torre medievale.

villaggio di età romana tardoimperiale cresciuto attorno alla stazione itineraria lungo la via Flaminia. Il cimitero altomedievale impostato su un edificio pubblico romano attesta ancora una volta la ben nota dinamica di riutilizzo e defunzionalizzazione delle principali aree pubbliche delle città romane, già vista nei casi precedenti. La costruzione della chiesa di San Giuseppe potrebbe aggiungere qualche ulteriore elemento di riflessione per completare questa ricostruzione topografica. L’edificio, un tempo dedicato a Sant’Angelo, è infatti attestato per la prima volta nel 1072, nelle carte che lo mettono alle dipendenze del Monastero di Fonte Avellana. La dedica originaria e la presenza di varie attestazioni funerarie altomedievali lasciano supporre che esso possa essere collegato all’abitato longobardo (751– 774 d.C.).

Parallelamente, le indagini condotte in Piazza Cavour davanti al Duomo, sembrano mostrare come questa zona della città abbia invece acquisito un ruolo centrale nell’urbanistica di Camerino in età tardoantica e altomedievale, verosimilmente come conseguenza della costruzione della Cattedrale. In quest’area si trovava un edificio termale romano che subì varie trasformazioni nei secoli successivi (IV–V d.C.), sino alla creazione di un’area di sepolture utilizzata per un ampio lasso di tempo (V–VII d.C.), prima che l’area fosse nuovamente edificata in età medievale. All’incirca nello stesso periodo, un’altra area cimiteriale sembra essersi sviluppata attorno alla chiesa di Santa Maria in Via, all’altro capo della città, in un’area marginale del centro storico probabilmente non occupata dalla città romana.

L’occupazione di alcuni punti degli abitati romani in declino da parte di centri religiosi longobardi, prima dello sviluppo dell’urbanistica medievale rientrerebbe in dinamiche simili già viste in precedenza. A Fano, dove sorgeva la distrutta Abbazia medievale di San Paterniano, è stato riportato in luce un contesto pluristratificato con un edificio di culto tardoantico e un cimitero paleocristiano (IV–VI d.C.), impiantati su una villa romana con importanti sviluppi in epoca medio imperiale (II d.C.), ma costruita in età augustea obliterando alcune strutture produttive più antiche con fornaci di età repubblicana.31 Il sito era già noto in precedenza anche grazie al rinvenimento, nella medesima zona, di un’iscrizione con segni cristologici (metà IV d.C.). Inoltre si collega alla presenza di un sarcofago (V–VI d.C.) che servì a traslare in città le spoglie del leggendario protovescovo fanese, quando fu abbattuta l’antica Abbazia e fu costruita l’attuale chiesa Cinquecentesca. Resti di un altro edificio rurale con vani abitativi, ricoveri per animali e ambienti destinati alla produzione di olio e vino e allo stoccaggio di prodotti agricoli, databile tra IV e VI sec. d.C., è stato riportato in luce anche in località Isola del Piano, alle porte di Fano.32

Nel complesso, dunque, a Camerino si assiste tra l’età tardoantica e altomedievale a una ridefinizione dello spazio urbano. Alcune aree un tempo centrali, come quella del Foro, subiscono un declino a favore di altri nuclei che si sviluppano attorno alla Cattedrale e ad altri edifici religiosi, come la chiesa di Santa Maria in Via, collocata ai margini dell’antica area urbana in un luogo il cui valore itinerario è suggerito dallo stesso toponimo. Un complesso edilizio pluristratificato, fondato in età medievale su un’area di sepolture altomedievali (VI–VII d.C.), è stato riportato in luce anche sotto il Palazzo Comunale di Cagli, nel cuore del borgo storico alla confluenza tra il fiume Bosso e il torrente Burano.30 L’indagine stratigrafica condotta nel Palazzo Comunale ha permesso di recuperare anche numerosi frammenti ceramici di epoca romana tardo imperiale (III–IV d.C.) e di riportare in luce una grande canaletta in pietra, probabilmente riferibile a un edificio pubblico monumentale, che sarebbe suggestivo pensare parte di una più ampia area pubblica dell’abitato romano. Si tratta di una scoperta di grande importanza perché sinora non esistevano altre attestazioni riferibili al vicus ad Calem, la nota stazione di posta riportata dagli itinerari romani al 151° miglio della via Flaminia. Oltretutto i reperti ceramici sembrerebbero coevi rispetto alla tradizionale cronologia delle principali fonti itinerarie antiche. Tradizionalmente si tendeva a localizzare l’insediamento romano sul Colle dell’Avenante, dove si trovava il sito fortificato di età protostorica, mentre la città rifondata in età basso medievale da Papa Nicolò IV nel 1289 si sarebbe impostata su uno spesso livello di ghiaia fluviale che non aveva sinora restituito resti del centro romano. I nuovi scavi ci permettono di ricostruire in maniera più accurata la storia antica di Cagli, collocando presso la confluenza tra i due principali corsi d’acqua il

Le nuove scoperte a Fano confermano la vitalità dell’economia della città e del suo territorio, già ben nota per l’epoca romana, ma ancora solida in età tardoantica. Anche l’impianto della chiesa e del cimitero altomedievale e poi dell’Abbazia di San Paterniano in un’area extraurbana, dove un tempo sorgeva una villa romana, si pone nell’ambito di una dinamica già ben nota negli altri casi regionali. L’abbandono delle città romane di fondovalle e di sbocco vallivo e la genesi dei centri monastici L’abbandono di molti abitati romani sui fondovalle marchigiani, determinato dalle mutate circostanze storiche e ambientali, è ben noto e rappresenta uno degli argomenti Baldelli e Lani, infra. Bartolucci e Graziani, infra. Sull’identificazione del porto di Fano si veda anche il contributo di Spallacci, infra. 31 32

30

Aguzzi ed Ermeti, infra.

25

Enrico Giorgi infatti, che il sito fu sede vescovile e che, al tempo dell’espansione longobarda, alcuni scontri avvennero proprio lungo la valle del Metauro tra Fossombrone e Fano. Il centro di Forum Semphronii è menzionato come tappa del viaggio lungo la via Flaminia dell’esercito di Liutprando, che si muoveva verso Spoleto e che fu attaccato dai Bizantini proprio tra Fano e Fossombrone nel 742 a.C.36 In questo quadro, probabilmente, si spiega se non l’impianto almeno la ristrutturazione del sistema difensivo recentemente individuato grazie alle ricerche dell’Università di Urbino.37 Allo stato attuale delle ricerche, infatti, Forum Sempronii sarebbe l’unica tra le città romane di fondovalle di quest’area a essere dotata di un circuito di mura. I nuovi scavi aggiungono un tassello importante alla ricostruzione dalla parabola storica di questa città.38 Recentemente, infatti, è stata individuata una necropoli di cinquanta sepolture che parrebbero riferirsi a una comunità rurale di Goti sterminata da un’epidemia in un breve lasso di tempo. Si tratterebbe di un’importante attestazione archeologica dello spopolamento delle campagne marchigiane dopo le Guerre Gotiche, le cui conseguenze, in termini di pestilenze e carestie, sono ampiamente documentate dalle fonti scritte. Altri rinvenimenti recenti ci permettono di completare la ricostruzione del popolamento della valle in questa fase storica. Aree di sepolture di epoca altomedievale riferibili a probabili insediamenti rurali (VII d.C.), si segnalano presso Pigno, nella valle del Burano appena a est dell’asse della via Flaminia in territorio longobardo.39 Sempre lungo la via Flaminia è stato individuato un sepolcreto sviluppato attorno alla mutatio ad Octavo, nota all’itinerario burdigalense (333–334 d.C.) e localizzata presso Lucrezia, tra Fossombrone e Fano. Anche in questo caso sembra trattarsi di una comunità rurale e si distinguono due fasi di deposizioni databili tra V e inizi VII sec. d.C.40

di studio cari alla scuola bolognese di archeologia del paesaggio.33 Solo per richiamare brevemente i contorni di questo fenomeno, possiamo ricordare che delle ventotto città dell’interno sopravvissero diciassette diocesi tardoantiche, ridotte solo a sette in età medievale. Lievemente migliore fu la sorte delle otto città romane situate sulla costa, spesso in corrispondenza degli sbocchi vallivi, dove si stabilirono sette diocesi tardoantiche e cinque altomedievali. Certamente contò la diversa sorte dei porti e delle città della Pentapoli rispetto a quella dei territori dell’interno soggetti al dominio longobardo e incentrati su un modello economico che non favoriva lo sviluppo urbano. Tuttavia anche alcune importanti città portuali vennero abbandonate e in questo caso i cambiamenti ambientali incisero almeno quanto le circostanze storiche. In generale occorre notare che il paesaggio marchigiano è sempre stato caratterizzato dalla presenza di un diffuso popolamento rurale sparso, che non sembra favorire la genesi di grandi centri urbani. Le trentacinque città romane che in età augustea fiorivano nelle valli e sul litorale marchigiano furono promosse da Roma in territori che sostanzialmente non conoscevano la civiltà urbana e in gran parte le loro parabole storichesi esaurirono con la crisi del sistema infrastrutturale romano e il ritorno a forme più tradizionali di popolamento, con piccoli insediamenti sparsi attorno a una miriade di piccoli centri d’altura. Bisognerebbe inoltre considerare che molti dei questi centri romani di fondovalle, che pure ebbero a un certo momento il riconoscimento politico dello statuto municipale (I a.C.), si svilupparono in misure non paragonabili rispetto agli abitati coevi di altre aree peninsulari di maggiore tradizione. Gli sviluppi architettonici più significativi sono spesso tardivi e seguono schemi che non sempre rispecchiano i canoni dell’urbanistica monumentale romana. Alcuni di questi abitati, a causa della loro posizione topografica, per qualche secolo ebbero maggiore fortuna rispetto ad altri che rimasero semplici villaggi.34 In alcuni casi, con la crisi del sistema amministrativo romano e la definizione di nuove gerarchie delle infrastrutture territoriali, le sorti si invertirono, come avvenne per esempio nella media valle del fiume Cesano con il declino del Municipio romano di Suasa, e il fiorire dell’Abbazia di San Lorenzo in Campo, della Pieve di San Vito e del Monastero di Santa Maria in Portuno, strutture sorte probabilmente in corrispondenza di insediamenti rurali minori di età romana.35 Nella generale crisi del popolamento sul fondovalle, si riscontrano però dinamiche differenti e in questo senso i casi di Forum Sempronii, Suasa e Ostra possono essere esemplificativi.

Se il caso di Fossombrone si spiega anche alla luce dell’importanza itineraria del sito, le differenti dinamiche che portarono all’abbandono di altre città di fondovalle sono comprensibili soprattutto sulla base dello studio dei cambiamenti del paesaggio antico. In generale le sorti dei centri romani di fondovalle nelle Marche furono fortemente condizionati dai notevoli cambiamenti storici e ambientali che caratterizzarono l’epoca tardoantica e altomedievale. La recrudescenza climatica e la sensibile diminuzione del presidio un tempo esercitato sul territorio dai coloni romani accelerarono l’evoluzione del paesaggio verso forme più naturali, con un progressivo aumento dell’incolto e delle aree di ristagno a danno dell’agricoltura. Il drastico spopolamento della regione, causato dalle carestie che seguirono i lunghi periodi di guerra raccontati dalla stessa tradizione letteraria, portò al collasso del sistema delle infrastrutture romane e in particolare della

La città romana di Forum Sempronii si sviluppò a partire dal II sec. a.C. nella valle del Metauro, lungo la principale arteria stradale delle Marche settentrionali che collegava l’interno appenninico con la costa adriatica. L’importanza strategica di questo territorio ne determinò probabilmente la sorte sino all’età tardoantica e altomedievale. Sappiamo,

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Alfieri, Ortolani 1947; Alfieri 1977a; Dall’Aglio 1997; 2004; Destro 2004; Giorgi 2006; Campagnoli, Giorgi 2010; Giorgi, Lepore 2010. 34 Silani 2016. 35 Lepore 2000; Giorgi, Lepore 2010.

37

33

38 39 40

26

P. Dia., Hist. Langob.,VI, 56. Luni, Mei 2013. Mei e Gobbi, infra. Aguzzi ed. Ermeti, infra. Baldelli e Lani, infra.

Le Marche tra tarda Antichità e alto Medioevo viabilità e della centuriazione, il cui ruolo per la storia del paesaggio marchigiano è oggi chiaro.41

successivi si assiste al cambiamento di destinazione di alcuni edifici, come sembrano dimostrare alcune strutture interpretabili come cantine, ricavate all’interno di un’aula pubblica presso il Foro, mentre alcune decine di sepolture a inumazione, talune con pettini in osso come corredo, invadono lo spazio un tempo appartenuto alla piazza forense (VI–VII sec. d.C.). L’abbandono della città sembra dunque progressivo e comunque pare attestata un’occupazione di età altomedievale che parrebbe seguire le medesime dinamiche individuate anche nelle aree urbane a continuità di vita, dove pure gli spazi pubblici della città romana subiscono profonde trasformazioni. Allo stato attuale delle ricerche non sono noti reperti databili oltre il VII sec. L’importanza itineraria di Ostra, che come Fossombrone si trovava lungo un’importante direttrice stradale di collegamento tra interno appenninico e costa adriatica ancora strategica in età altomedievale, giocò un ruolo determinante anche nelle ultime fasi di vita della città. Inoltre le valli del Misa e del Metauro conducono rispettivamente alle città portuali di Senigallia e Fano, la cui importanza non venne meno neppure nel corso del Medioevo. Inoltre la viabilità di fondovalle, costituita dalla via Flaminia in un caso e da un suo importante diverticolo nell’altro, si imposta in posizione sufficientemente rilevata e sulla riva sinistra di fiumi che migrano con l’asta fluviale verso la sponda destra, dunque in una situazione geografica abbastanza favorevole anche in epoche di diffuso dissesto idrogeologico.43

In questa situazione, il dinamismo tipico dei fiumi marchigiani, che continuavano a modellare il paesaggio con particolare energia in età tardoantica, portò a una profonda crisi del popolamento del fondovalle. Sullo sfondo di queste note dinamiche generali, tuttavia, si pongono le storie delle singole città e dei loro territori, che ebbero tempi ed esiti diversi a seconda della geografia di ogni vallata. In questo senso è molto rischioso cercare di ricostruire modelli generali di evoluzione del popolamento a scala regionale, senza tenere conto delle caratteristiche geomorfologiche che rendono ciascun territorio un caso specifico e che producono evoluzioni differenti dei vari paesaggi o perlomeno cambiamenti analoghi sviluppati su tempi diversi. Da questo punto di vista pare esemplificativo il caso di due centri romani delle Marche interessati da tempo da indagini dell’Università di Bologna. Si tratta dei municipi di Ostra nella media Valle del Misa e di Suasa nella Valle del Cesano. Come vedremo, il precoce abbandono di Suasa si giustifica, prima ancora che per le circostanze storiche, per ragioni di carattere ambientale legate al dissesto idrogeologico della valle, dove il fiume Cesano, a differenza del Misa, riprese a depositare spessi livelli alluvionali presso l’area urbana antica già in epoca tardoantica (IV d.C.).

Apparentemente analoga sembrerebbe la vicenda della vicina città di Suasa, sorta nella media valle del Cesano nel punto in cui il percorso trasversale che collegava tutte le principali città romane di media valle incrociava la via che discendeva il fondovalle del fiume Cesano. Quest’ultima strada, che corre alla destra del fiume, ricalca un antico asse di comunicazione tra interno e costa di tradizione preromana. L’abitato romano sorse al principio del III sec. a.C. dapprima come aggregato spontaneo (conciliabulum civium Romanorum) sino ad assumere dopo pochi decenni il ruolo di Prefettura. Anche Suasa, come la vicina Ostra, divenne Municipio alla fine dell’epoca repubblicana (I sec. a.C.). Sono note alcune abitazioni e un’Area Sacra più antiche (II–I sec. a.C.), sulle quali si sviluppò l’urbanistica razionale di età imperiale imperniata sulla strada di fondovalle, basolata nel suo tragitto urbano, sulla quale si apriva da un lato la piazza del Foro circondata da portici e dall’altro alcuni edifici pubblici anche con funzioni religiose e la grande Domus dei Coiedii (II sec. d.C.). In area più marginale si trovavano il Teatro e l’Anfiteatro, mentre le Necropoli Settentrionale, Meridionale e Orientale si dispiegavano ai lati delle principali vie d’accesso alla città.44 Ancora in epoca piuttosto avanzata sono presenti importanti interventi di edilizia pubblica, con la ricostruzione e ripavimentazione delle aule di

La vallata del Misa, come tutti i principali fiumi marchigiani, costituisce una naturale via di comunicazione tra l’interno appenninico e la costa adriatica. Tuttavia la viabilità di fondovalle del Misa assunse particolare importanza nelle prime fasi della romanizzazione, perché permetteva il collegamento con la Colonia marittima di Sena Gallica, sorta nei primi decenni del III sec. a.C. alla foce del fiume. La città romana si sviluppò sulla riva sinistra, proprio lungo questa strada, prima come Prefettura (III–II sec. a.C.) e poi come Municipio (I sec. a.C.), con diversi edifici pubblici edificati in età alto e medio imperiale. I resti della città, riportati in luce in località le Muracce, comprendono il Foro, circondato da vie basolate, su sui si affacciano un Tempio, il Teatro e la Basilica, mentre un edificio termale è stato rinvenuto a breve distanza. Dopo la tarda età imperiale romana, la città subì un progressivo declino sino all’abbandono, che divenne probabilmente definitivo solo dopo il VII sec. d.C. Si ritiene, infatti, che Ostra sia divenuta sede vescovile almeno dal principio del VI sec. d.C., quando sembrerebbe attestato un vescovo Martiniano presente al Sinodo di Roma assieme a quello di Senigallia (502 d.C.).42 L’archeologia mostra alcuni significativi cambiamenti dello spazio urbano almeno dal V sec. d.C., quando compaiono in varie zone della città spogliazioni e crolli delle strutture romane. Nello stesso tempo le carreggiate stradali vengono ridotte e in parte occupate da consistenti accumuli di rifiuti. Nei secoli 41 42

Il diverticolo della via Flaminia che percorre la valle del Misa era la principale via di collegamento con la costa adriatica quando venne fondata la colonia marittima di Senigallia prima della costituzione del sistema itinerario della Flaminia. 44 De Maria, Giorgi 2013. 43

Campagnoli, Giorgi 2010; 2014. Lepore 2000; Silani 2010.

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Enrico Giorgi edifici della città romana, come nel caso della cappuccina che reimpiega una grossa epigrafe con titolatura imperiale, oppure della tomba che reimpiega la stele della liberta romana Safinia Prima o il blocco con il fregio a girali recuperato da un vicino monumento funerario (I a.C.).

culto e per riunioni affacciate sulla piazza forense e con il rialzamento del basolato della via del Foro (III a.C.). Si tratta di importanti interventi di riqualificazione dell’area centrale della città che, se non hanno il respiro delle grandi imprese pubbliche di età alto imperiale, tuttavia denotano vitalità e capacità economiche da parte dei ceti più abbienti che verosimilmente le finanziarono. Cambiamenti più evidenti dello spazio urbano si notano nel secolo successivo, quando la grande dimora dei Coiedii subì significative trasformazioni, con interventi di risarcitura dei preziosi pavimenti in mosaico e tarsie marmoree effettuati con materiali poveri (IV d.C.). Soprattutto si pone in questo periodo l’impianto della Necropoli nel Giardino della Domus. Le tombe a inumazione, prevalentemente alla cappuccina e in fossa terragna priva di corredi significativi, andranno progressivamente a intaccare le strutture termali ormai in disuso (circa IV–VI d.C.). Lo stesso Giardino verrà coperto da un livello scuro di coltivo altomedievale, sul quale si imposta un secondo livello di sepolture in cassa lapidea o laterizia e copertura piana, costruite con materiali di riutilizzo o sfruttando come limiti i ruderi stessi delle strutture antiche. Si nota quindi una tendenza alla ruralizzazione dell’ara urbana che, tuttavia, non pare riscontrabile nell’area del Foro. Questa diverrà una cava di prestito e verrà trasformata in una vera e propria fabbrica a cielo aperto, con la spogliazione della stessa pavimentazione in lastre di calcare rosa e con l’impianto di numerose calcare.45 La via basolata, che correva tra il Foro e la Dimora dei Coiedii, in un primo tempo venne mantenuta in funzione anche con rattoppi fatti con materiali poveri, ma con il passare del tempo subì consistenti danneggiamenti. Alcuni basoli vennero divelti per recuperare le sottostanti fistule plumbee, mentre parte della carreggiata venne invasa da livelli di butto e poi di crollo, che furono poi ricompattati e trasformati in un nuovo manto stradale. Tra le numerose monete rinvenute sul piancito stradale si segnalano per quantità quelle riferibili al V sec. d.C., che tuttavia ebbero una lunga circolazione successiva.46 Mentre nel resto della città non sono noti reperti ceramici posteriori al VI sec., lungo la strada che attraversava la città sono presenti tracce riferibili a frequentazioni anche di epoca successiva. In questo periodo la città era probabilmente già abbandonata, ma i suoi ruderi potevano ancora fornire ricovero occasionale per i viandanti, testimoniati anche dai numerosi bivacchi e focolari riportati in luce negli ambienti superstiti lungo la via.47

In generale, tuttavia, sembra che l’abbandono di Suasa sia stato più precoce rispetto alla vicina Ostra e questo viene in qualche modo confermato anche dalla mancata attestazione di una diocesi tardoantica. Un altro dato che potrebbe essere significativo dell’intensità della rimessa a coltura medievale, ma di conseguenza anche dell’entità del precedente dissesto che l’aveva resa necessaria, è quello del numero di monasteri noti nella valle del Cesano: ben sei contro uno solo e di incerta attribuzione lungo il Misa. Evidentemente i nuovi baricentri della valle non potevano più gravitare attorno alla città romana in abbandono e priva persino dell’autorità vescovile, ma già in una fase precoce dovettero strutturarsi con una serie di centri minori sparsi sul territorio, in posizioni geograficamente favorevoli. Dietro questa dinamica si nasconde probabilmente anche una nuova strutturazione della società, non più accentrata nei centri di servizio dell’area urbana ma affidata piuttosto all’iniziativa delle aristocrazie locali,che poterono sviluppare le proprie ricchezze fondiarie attorno ai nuovi centri monastici. In questo senso la mancanza di un centro propulsore nella valle del Cesano, ossia di una città che fosse pure sede vescovile, lasciò certamente spazio ai numerosi monasteri. La maggiore continuità di vita di Ostra, invece, determina lo sviluppo della sede vescovile all’interno dell’antica città romana, seppure in un paesaggio urbano diverso. La presenza del Vescovo e della importante diocesi di Senigallia, lasciò meno spazio ad altre iniziative di sviluppo del paesaggio rurale.48 A queste osservazioni possiamo aggiungerne un’altra che deriva dalla ricostruzione dell’appoderamento agrario romano. Infatti, mentre alcuni resti della centuriazione si possono riscontrare nella valle del Misa, le tracce della centuriazione nella valle del Cesano sono molto labili e diventano più leggibili solo più a valle, tra l’attuale abitato di San Michele al Fiume e la foce. Una spiegazione di questa differente sorte dell’agro suasano può venire dalla considerazione della geografia fisica che caratterizza la valle. Pochi chilometri a valle di Suasa, infatti, si incontra una strettoia morfologica, presso San Michele al Fiume. Si tratta di un punto nel quale l’ampiezza della valle si riduce drasticamente e il corso d’acqua è costretto a scorrereattraverso uno stretto imbuto roccioso che non è riuscito a erodere. Nei momenti storici caratterizzati da importanti recrudescenze climatiche, capaci di causare piene rovinose, si ebbero fenomeni di difficoltà di deflusso con conseguenti fenomeni di ristagno. Se si considera che nello stesso tempo le infrastrutture idrauliche romane non garantivano più il necessario drenaggio, anche a causa della diminuzione del presidio umano sul territorio, possiamo comprendere

Nella Necropoli Meridionale sono state trovate alcune tombe a inumazione che, pur essendo prive di corredo, mostrano caratteristiche che possono collocarle in un orizzonte cronologico altomedievale. Per esempio si distinguono alcune inumazioni successive di diversi individui entro casse laterizie di forma antropomorfa e alcune cappuccine o casse lapidee costruite con materiali di reimpiego che presuppone la distruzione di importanti 45 46 47

Giorgi, Lepore 2010. Sassoli, infra. Gamberini,Morsiani e di Biondani, infra.

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Silani 2010.

Le Marche tra tarda Antichità e alto Medioevo perché la centuriazione suasana non sia sopravvissuta e soprattutto possiamo ricostruire in maniera più completa la storia della valle del Cesano in questo periodo storico. Gli studi sull’evoluzione storica del paesaggio antico, fondati su un’attenta analisi geomorfologica, permettono di datare i depositi alluvionali più recenti attorno a Suasa proprio in età tardoantica (IV d.C). In questa fase il fiume Cesano aveva ripreso a depositare una coltre di sedimenti a ridosso dell’antica area urbana, mentre le stratigrafie della zona più centrale della città mostrano, subito sotto l’arativo moderno, uno spesso strato di terreno colluviale disceso dalle colline soprastanti sino a coprire i livelli più tardi di occupazione della città. In questo senso pare particolarmente interessante la villa suburbana, databile in epoca romana tardo imperiale, individuata grazie alle foto aeree poco a sud del centro urbano e indagata per mezzo di saggi stratigrafici parziali. La mappatura dell’area condotta per mezzo delle indagini geofisiche permette di notare che il complesso edilizio fu impiantato su un antico lobo di meandro del Cesano che probabilmente creava un rialzo morfologico al sicuro dalle esondazioni. Uno studio di fotogrammetria storica condotto, sulle fotografie aeree scattate negli anni Quaranta dalla Royal Air Force, ha dimostrato che l’alveo infossato del Cesano è di costituzione piuttosto recente e che ancora alla metà del secolo scorso il fiume scorreva alcune decine di metri più in alto e aveva appena iniziato a incidere i riporti alluvionali tardoantichi.49 A queste considerazioni sui cambiamenti del paesaggio, che penalizzano il sito di Suasa, si devono aggiungere alcune osservazioni di carattere itinerario. A differenza delle valli del Metauro e del Misa, alla foce del Cesano non è presente un abitato con un porto di una certa importanza. La viabilità suasana, dunque, in età tardoantica e altomedievale aveva una rilevanza locale o come collegamento tra territori limitrofi più importanti. Da questo punto di vista i percorsi transvallivi, che permettevano di attraversare il fiume per raggiungere rapidamente la vallate vicine, assumevano un’importanza fondamentale e di conseguenza la presenza di guadi o di ponti che permettessero di superare il corso d’acqua dovette incidere sulle scelte del popolamento.

probabilmente edificata dopo il Mille, quando viene citata da un documento d’archivio del 1090. La navata sinistra è stata riportata in luce quasi integralmente e presenta una pavimentazione in lastre di pietra che coprivano alcune tombe a inumazione. L’edificio faceva parte di un più ampio complesso monastico di cui sono stati rintracciati alcuni resti forse riferibili a un hospitium, sotto il giardino a sudest. La presenza di una chiesa precedente, probabilmente di età altomedievale, è confermata dal cimitero esteso verso est e appena all’esterno della zona absidale, con diverse sepolture databili almeno a partire dal attorno all’VII sec. Una di queste, vicino all’abside sinistro, presentava un chiodo di ferro serrato tra le mandibole ed è stata datata su base archeometrica al VIII–IX sec. Le stratigrafie su cui si impostano le strutture medievali hanno restituito numerosi resti di ceramica di epoca romana che copre un arco cronologico sostanzialmente coevo rispetto a Suasa (III a.C. – V d.C.) e le architetture della chiesa romanica mostrano altri significativi elementi di reimpiego, come un capitello corinzio-asiatico in marmo greco databile al V–VI sec. Non è chiaro se lo iato cronologico che, allo stato delle ricerche, si registra nel VI sec. vada riferito a un periodo di abbandono di questo settore o più in generale di rarefazione del popolamento in tutta quest’area. In ogni caso l’impianto del monastero avvenne in corrispondenza di un’area produttiva di età romana, riportata in luce sotto la navata sinistra, di cui restano almeno due fornaci. Circa 800 m più a valle, appena sotto la strada che passa anche da Madonna del Piano, è stata riportata in luce un’altra area produttiva con fornaci romane e nei pressi una cava di ghiaia lungo la riva destra del Cesano ha portato alla scoperta di una vasta area di necropoli. Si tratta per lo più di tombe a inumazione di epoca romana medio-imperiale ma era presente anche una tomba riferibile all’età del Ferro ‘picena’ e, a breve distanza, sono stati trovati i resti di un insediamento con capanne dell’età del Bronzo. Sulla scorta di tutte queste preziose informazioni, possiamo ipotizzare che nell’area di Madonna del Piano doveva sorgere un villaggio con alcune officine per la produzione di ceramica e laterizi, che possiamo immaginare parte di quel sistema di popolamento pagano-vicanico tipico del paesaggio rurale romano.51 La crisi storico e soprattutto ambientale che abbiamo già descritto a proposito del pianoro suasano, dovette creare disagi in tutto il fondovalle. Tuttavia, mentre il ruolo di Suasa venne progressivamente meno, il sito di Madonna del Piano divenne più centrale. La sua posizione leggermente rilevata lo poneva evidentemente in una situazione favorevole anche rispetto alla viabilità. Madonna del Piano, infatti, si sviluppa lungo la strada che discende la riva destra del Cesano e attraversa anche Suasa, dove è stato possibile riscontrarne stratigraficamente la sostanziale continuità archeologica dall’Antichità al Medioevo sino all’epoca moderna.52 Il sito si colloca in corrispondenza di un altro restringimento della valle, anche se meno accentuato e problematico rispetto a quello di San Michele al Fiume. Madonna del Piano occupa, inoltre, un

A circa 9 km di distanza da Suasa, poco a valle di San Michele al Fiume, sempre sulla destra del Cesano, si trova il borgo di Madonna del Piano con l’antica pieve di Santa Maria in Portuno, lungo la strada che in età medievale attraversava la valle per collegare le rocche medievali di Corinaldo e Mondavio, rispettivamente sul crinale di spartiacque meridionale e settentrionale del Cesano.50 Gli scavi archeologici hanno dimostrato che la chiesa attuale, a navata unica, sorge su un precedente edificio romanico a tre navate, con profilo esterno poligonale e interno semicircolare, dotato di una cripta che probabilmente reimpiega come architrave un blocco lapideo decorato pertinente a un edificio precedente. Questa chiesa, corrispondente a quella descritta da Vincenzo Cimarelli nel XVII sec., presenta importanti fasi di XII sec. ma fu

Silani 2016. Nella chiesa di Madonna del Piano si conserva una pietra miliare romana di incerta attribuzione (Lepore 2010). 51

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Dall’aglio, Giorgi, Silani 2013. Per una sintesi si veda: Lepore 2010.

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Enrico Giorgi foce, Cupra sorgeva sul cosiddetto pianoro della Civita, in posizione rilevata e dominante rispetto alla costa.

breve pianoro appena sotto il versante del crinale della Rocca di Corinaldo, proprio sulla sponda opposta rispetto a quella di Mondavio, l’altro importante abitato d’altura medievale sul lato opposto della valle, probabilmente in corrispondenza di un punto di attraversamento del fiume che alcuni studiosi hanno voluto collegare al significativo toponimo ‘in Portuno’. Questa circostanza geografica rende ragione della fortuna del sito specialmente in epoca medievale, quando il ruolo di Suasa entrò in crisi per le ragioni storiche e ambientali che abbiamo descritto.53

Lo studio dei reperti ceramici rinvenuti grazie alle pluriennali attività di scavo e di ricognizione dell’Università di Gent nell’area dell’antica Potentia mostrano un interessante quadro delle ultime fasi di occupazione della città costiera, particolarmente condizionata dai forti cambiamenti dell’area di foce in età tardoantica.55 Le ricognizioni nel territorio immediatamente circostante la città hanno permesso di riconoscere diversi siti ancora frequentati nel corso del VI sec., che si affiancano a quelli abbandonati dopo l’età romana. Queste diverse dinamiche di continuità e di abbandono si collocano evidentemente anche all’interno di un paesaggio interessato da importanti cambiamenti, come quelli che sappiamo aver caratterizzato molti sbocchi vallivi marchigiani e quello del fiume Potenza in particolare. Lo studio geomorfologico condotto con metodi innovativi ha permesso di chiarire i fenomeni che caratterizzarono questa fase di forte dinamismo fluviale, riconoscendo la foce e l’antico paleo alveo del Potenza che passava sotto il Ponte Romano su cui fu costruita la cosiddetta Casa dell’Arco. Interventi significativi che testimoniano il cambiamento di alcuni edifici pubblici della città sono noti nel corso del III sec. In questo periodo alcuni spazi pubblici furono trasformati in aree artigianali, un’officina si impiantò, per esempio, nell’antico macellum, mentre un edificio tardoantico venne realizzato lungo la principale via della città. Successivamente, nel IV e nel V secolo, il cuore della città, con il portico e il tempio, vennero fortemente modificati. Dapprima furono realizzati alcuni magazzini sfruttando le strutture del portico stesso e poi fu rasato l’edificio templare, mentre si instaurava la sede vescovile. In linea generale la frequentazione della città all’interno del circuito murario sembra protrarsi con una certa continuità fino alla metà del V secolo. Successivamente si notauna parziale ruralizzazione e un’occupazione per nuclei sparsi che si protrae sino almeno sino alla fine del VI secolo. Certamente la sorte di vari settori urbani dipese anche dal rapporto con il corso d’acqua, le cui variazioni determinarono l’abbandono della zona sud-est della città, che fu coperta dal deposito fluviale. Parallelamente lo studio dei reperti ceramici rivela la persistenza di un approdo ancora molto attivo per tutto il VI secolo, quando sono attestati contatti commerciali che sfruttavano le rotte ravennati. Dunque anche a scala urbana, si osservano cambiamenti significativi, con aree abbandonate e altre che restano attive più a lungo, in base a motivazioni che sono nello stesso tempo storiche e ambientali.

Se il dinamismo fluviale e la crisi dell’assetto idrogeologico tardoantico determinarono la fine di molti centri abitati di fondovalle, tale fenomeno dovette necessariamente condizionare anche la storia dei centri portuali sviluppati in prossimità delle foci dei fiumi marchigiani. Certamente il sistema economico dominato da Ravenna, fondato anche sul commercio ad ampio raggio, favoriva i centri portuali e, indirettamente, anche il loro sviluppo urbano. Tuttavia si deve anche riconoscere che la storia di una valle, specialmente nelle aree di foce, può essere determinata anche dalle variazioni fluviali prima ancora che dalle circostanze storiche. Com’è ben noto, infatti, lo sbocco vallivo è spesso uno dei punti più dinamici di un bacino idrografico. Qui il fiume depone i suoi detriti lungo la costa ma può trovare l’opposizione del Mare Adriatico, che con le sue onde normalmente spinge le foci marchigiane a migrare verso sud. In ogni caso l’opposizione tra la forza di deposizione del fiume e l’erosione marina, tende a creare l’accumulo di barre che possono ostruire la foce. Inoltre lo stesso accumulo di detriti presso la foce può determinare la creazione di dossi che ostacolano il deflusso, con variazioni di corso e aree di impaludamento. Questi fenomeni diventano particolarmente significativi in periodi con scarso presidio territoriale e con rilevanti cambiamenti climatici, come quelli che viviamo oggi e che vivevano le Marche in età tardoantica. Poiché la costa adriatica in questo settore è povera di porti naturali, la maggior parte dei centri costieri utilizza la foce del fiume come approdo. Di conseguenza il dinamismo delle aree di foce in età tardoantica condizionò profondamente il popolamento. Questa situazione incise anche sulla viabilità litoranea, perché la strada che correva lungo la costa adriatica era costretta a superare le aree di foce e, per evitare le aree di impaludamento, finì per allungare il suo percorso risalendo la valle in cerca di un punto passaggio efficiente, com’è testimoniato dagli itinerari antichi e dalle mappe storiche per esempio alla foce del fiume Esino.54 Alla luce di queste considerazioni possiamo prendere in esame i risultati delle ricerche recenti condotte in due siti litoranei dove sorgevano due città romane che in età medievale cambiarono sede, come Potentia e Cupra. In entrambi i casi si tratta di territori che rientrarono nel dominio longobardo. Tuttavia, mentre Potentia sorgeva presso la foce del fiume omonimo, che proprio in questo periodo subì una variazione dell’area di

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Le indagini condotte dall’Università di Padova nell’area dell’antica città romana di Cupra arricchiscono ulteriormente la storia di questi centri costieri marchigiani.56 Il territorio cuprense subì le devastazioni conseguenti alla ritirata dell’esercito dei Goti nell’inverno del 538–539 d.C. e fu successivamente conquistata dai Longobardi

Dall’Aglio 2010. Dall’Aglio 2004; Giorgi 2006.

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Carboni e Vermeulen, infra. Di Filippo Balestrazzi, Frapiccini e Giostra, infra.

Le Marche tra tarda Antichità e alto Medioevo che avevano preso Fermo (580 a.C.).57 Tuttavia il centro dovette sopravvivere per un certo lasso di tempo, infatti Cupra compare ancora tra le città costiere elencate nel VII secolo dall’Anonimo Ravennate, tra Firmo e Troentino. In epoca tardoantica e altomedievale la città conserva una fase paleocristiana, mentre il circuito murario fu mantenuto in funzione e potenziato in età altomedievale. Scavi recenti, che attestano continuità d’occupazione del sito fino alla tarda età longobarda, sono stati effettuati nel pianoro della Civita, presso il settore orientale occupato dal complesso basilicale romano. In questa zona sono state riscontrate le tracce della spoliazione e del crollo degli edifici romani in età tardoantica. Successivamente un cimitero si imposta su questa area in abbandono, con sepolture fatte con materiale di reimpiego e riutilizzando i ruderi delle strutture antiche. Anche questa necropoli fu abbandonata e sigillata da un livello d’uso con resti di un focolare, mentre nei pressi si trova uno strato organico con frammenti di pietra ollare e buche di palo riferibili a costruzioni con materiali deperibili. Anche questo contesto fu obliterato da livelli di interro con reperti ceramici e materiali architettonici asportati dalle strutture romane databili in età pienamente altomedievale. Questa complessa sequenza stratigrafica lascia supporre che il sito fosse occupato almeno sino all’VIII secolo. Poco sotto l’altura della Civita si trovano i resti un ninfeo appartenente a una più ampia villa residenziale. Anche in questo caso è stato rinvenuto un esteso sepolcreto, impiantato dopo l’abbandono del complesso, con varie fasi di utilizzo databili in un ampio arco cronologico compreso tra il IV e il VII secolo.58 Proviamo ora a confrontare le due vicende urbane e la diversa sorte delle due città, tenendo conto degli aspetti topografici. La variazione di corso del fiume Potenza presso la foce determinò il precoce abbandono di parte della città, mentre il resto sembra sopravvivere almeno sino al VI–VII secolo, seppure con fenomeni di spoliazione e ruralizzazione di alcune aree. Lo stesso porto mantenne un’intensa attività commerciale nello stesso periodo ma in generale non sembra che la città sopravviva molto dopo le Guerre Gotiche. Al contrario l’abitato di Cupra, arroccato sul pianoro della Civita che domina lo sbocco vallivo e il litorale sottostante, sembra trasformarsi in uno dei punti di forza del sistema difensivo del territorio e quindi la città continuò a vivere per tutta l’età longobarda, pur con le solite dinamiche di distruzione delle aree pubbliche antiche, di ruralizzazione e di strutturazione di agglomerati sparsi. Le differenti parabole storiche di questi due centri costieri del Piceno testimoniano ancora una volta la differente dinamica dell’abbandono in circostanze storiche simili ma in situazioni geografiche differenti.

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Pirani 2010. Frapiccini, Galazzi e Salvucci, infra.

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1.3 Economia e territorio nell’Adriatico centrale tra tarda Antichità e alto Medioevo (sec. IV–VIII): i contesti abruzzesi Sonia Antonelli DiSPuTer-Dipartimento di Scienze Psicologiche della Salute e del Territorio, Università di Chieti [email protected] Abstract: Archaeology has assumed a fundamental role in the evaluation of trade and production networks between Late Antiquity and the Early Middle Ages. On the basis of recent acquisitions, the Abruzzi area, between the 4th and the 8th century, may be seen to be part of a complex system of commercial and economic relations with the Adriatic and Mediterranean areas, based on imports but also on regional production. Its strategic position favours contacts with the Mediterranean area, through the Adriatic routes, but also with continental Europe, from which new cultural impulses come. The viability of the economic–commercial structures is supported by an effective settlement network, in which the minor centres play a major role, and above all by the infrastructural system that ensures a strong permeability between the coastal areas and the internal ones. Keywords: Late Antiquity; Early medieval period; Trade; Craft; Adriatic; Settlements; Pottery.

L’Abruzzo per la sua posizione mediana sulla costa adriatica occidentale costituisce un osservatorio privilegiato anche in virtù della facilità di collegamenti in senso nord-sud lungo l’asse della penisola e in senso est-ovest in direzione dell’Urbe, attraverso gli agevoli passi appenninici e i percorsi vallivi. Alcuni temi, prevalentemente legati al rapporto tra produzioni ceramiche e commerci sono stati anche recentemente oggetto di studi.3 Nelle pagine che seguono si cercherà di fornire un quadro territoriale, sulla scorta anche dei dati desumibili da altri materiali (non solo ceramici) sulla base delle nuove acquisizioni presentate nella nutrita sessione dedicata all’Abruzzo in occasione di questo volume. L’Archeologia altomedievale in Abruzzo - o meglio l’approccio archeologico alle problematiche legate al passaggio dall’Antichità al Medioevo nella regione abruzzese - è il frutto di una straordinaria stagione di ricerche, iniziata circa venticinque anni fa, che ha visto protagonisti la compianta Anna Maria Giuntella, con l’avvio degli scavi della catacomba di Castelvecchio Subequo4 e del complesso di San Pelino a Corfinio,5 e Andrea R. Staffa che nell’ambito della Soprintendenza abruzzese concepì i progetti di indagine dei siti costieri di Castrum Truentinum6 (presso l’odierna Martinsicuro) e Ostia

I temi relativi all’economia nel mondo romano sono stati ampiamente discussi, al contrario l’indagine sull’economia nella tarda Antichità si è arrestata per troppo tempo su un generico concetto di crisi derivato da un pregiudizio ideologico negativo. Molti sono peraltro gli aspetti che rendono questo tema particolarmente attuale, nella percezione della crisi del periodo tardoantico infatti le cause sono state spesso ricercate in agenti esterni, come la migrazione di popoli o la diffusione e affermazione di nuove credenze religiose, oppure in forme di collasso endogeno, come la rottura sistemica degli assetti economico-politici del mondo romano, iniziata in verità già prima del fatidico IV secolo. Il dibattito per molto tempo è stato essenzialmente appannaggio degli storici,1 tuttavia l’incremento delle ricerche archeologiche degli ultimi decenni e la maggiore evidenza dei dati hanno finalmente consentito all’Archeologia di assumere il ruolo di fonte imprescindibile per la valutazione della consistenza dei sistemi commerciali e della produzione nel passaggio tra la tarda Antichità e l’alto Medioevo,2 in un’ottica più oggettiva di cambiamento e trasformazione svincolata da preconcetti. In tali studi evidentemente il focus continua a essere sul Mediterraneo e sulle connessioni tra le due parti dell’Impero, tuttavia, va emergendo il ruolo determinante dell’Adriatico.

De Iure 2015, pp. 625–630; Odoardi 2015, pp. 617–623; Staffa 2015, pp. 593–615; Siena 2015, pp. 637–646. 4 Giuntella et al. 1991, pp. 249–321. 5 Giuntella et al. 1990, pp. 483–514. 6 Staffa 1996a, pp. 332–354; 1997a; 2006a, pp. 365–375. 3

1 Cameron 1998, pp. 9–31; Liebeschuetz 2001, pp. 233–245; Lo Cascio 2006, pp. 215–234; Traina 2010, pp. 13–38. 2 Augenti 2010.

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Economia e territorio nell’Adriatico centrale tra tarda Antichità e alto Medioevo (sec. IV–VIII): i contesti abruzzesi Crecchio,10 tuttavia, a una revisione dopo quasi venticinque anni dal rinvenimento, il contesto risulta problematico sotto il profilo interpretativo e i reperti presentano un carattere composito che ne impedisce l’attribuzione a un preciso ambito culturale e cronologico.11 La ceramica dipinta a bande, rinvenuta in grande quantità in questo contesto e quindi nota anche come “tipo Crecchio” oggi può agevolmente essere inserita in un quadro di produzioni locali, come recentemente sostenuto anche da Alessia De Iure, pur presentando evidenti contatti con materiali di importazione.12 Il quadro delle informazioni relative a questa produzione ceramica, particolarmente attestata sulla costa (sul litorale chietino fino al fiume Pescara) dove sono stati - come è noto - anche rinvenuti scarti di fornace che indicherebbero la presenza di impianti produttivi,13 sembra ampliarsi grazie ai dati relativi all’anfiteatro di Chieti,14 dove una significativa quantità di ceramica a bande è stata rinvenuta in associazione a una fornace. L’ampia diffusione di ceramica dipinta a bande nell’Abruzzo interno già messa in evidenza qualche anno addietro, per esempio a Castelvecchio Subequo15 appare riconfermata dai recenti scavi ad Alba Fucens, Civita di Bagno (l’antica Forcona), Corfinio e Amiternum.16 In particolare ad Amiternum la presenza di forme aperte (imitazioni delle forme Hayes 61A/B2 , Hayes 61B2, Hayes 99A) con decorazione in rosso confermerebbero l’ipotesi di produzioni locali che progressivamente si conformano a un nuovo gusto che sembra derivare direttamente dalle verniciate in rosso.17 In Abruzzo la ceramica dipinta a bande è attestata prevalentemente in centri urbani, tale concentrazione è determinata probabilmente da una maggiore disponibilità di dati, tuttavia potrebbe anche tradire direttrici preferenziali nella circolazione di specifiche merci verso mercati più vantaggiosi, i quali seppure con evidenti cambiamenti e trasformazioni continuano a esercitare il ruolo di capisaldi territoriali.

Aterni7 (Pescara) (Fig. 1). Da prospettive differenti (da una parte l’Abruzzo interno e dall’altra quello costiero) e con sensibilità diverse, dunque, si diede avvio a un processo di legittimazione e riconoscimento dell’Archeologia postclassica e si gettarono le prime basi per la conoscenza di un’epoca caratterizzata da una marcata complessità in una regione che, nonostante la presenza del massiccio appenninico, ha sempre beneficiato della presenza di una serie di valli fluviali disposte a pettine, ortogonalmente alla costa, che hanno continuato a favorire una significativa permeabilità tra l’area interna e quella costiera, supportata da un’adeguata rete viaria. Le acquisizioni di queste prime indagini risultarono di una tale importanza da condizionare talvolta anche i successivi indirizzi di ricerca: per esempio la tenuta delle relazioni commerciali di Ostia Aterni è stata a lungo posta in stretta relazione con la riconquista politico-militare bizantina della costa abruzzese, alla metà del VI secolo, tuttavia, alla luce di una ricalibrazione delle datazioni, fornita dall’avanzamento delle ricerche negli ultimi vent’anni, la maggior parte dei materiali attestati nel contesto pescarese sarebbe databile entro la metà del VI secolo, senza alcun incremento significativo dopo la metà dello stesso.8 In ogni caso, la presenza delle più tarde forme in Terra Sigillata Africana (Hayes 90b2, Hayes 105, Hayes 106 e Hayes 107) permette comunque di ritenere che Ostia Aterni risulti ancora ampiamente inserita nei circuiti commerciali mediterranei per tutto il VII secolo, secondo dinamiche ben note in tutto l’Adriatico, indipendentemente dalla presenza politico-militare bizantina sul territorio. A Ostia Aterni le importazioni, soprattutto dall’Africa settentrionale, appaiono rilevanti fino alla metà circa del VI secolo, in seguito - almeno sulla scorta del materiale anforico e delle sigillate orientali distribuite nell’immediato entroterra - il baricentro sembra spostarsi verso il Mediterraneo orientale,9 anche se perdurano forme di relazione con la pars occidentalis. Il carattere fortemente bizantino della fascia costiera è stato ulteriormente riproposto da Andrea R. Staffa a seguito dello scavo condotto dalla Soprintendenza abruzzese tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del secolo scorso nel sito di località Casino Vezzani–Vassarella di

Tra gli elementi che certamente influenzano e determinano il cambiamento della struttura urbanistica e territoriale, ma che al tempo stesso sono la testimonianza più evidente della conservazione del ruolo della città, va ricordato il processo di cristianizzazione e organizzazione episcopale e la fortificazione della città. Un caso sufficientemente ormai investigato è quello di Teramo, dove è stato possibile, seppure in via ipotetica definire il tracciato

Staffa 1991, pp. 201–367; 2006a, pp. 391–410. La maggior parte del materiale ceramico attribuito da Staffa “proprio alle fasi della riconquista bizantina” (Staffa 1991, p. 330), secondo Michel Bonifay sarebbe databile entro i primi decenni del VI secolo, con una presenza significativa di manufatti databili entro il V secolo, come TSA di produzione D, forma H.61b3, produzione C5 forma H.85 e il mortaio in ceramica comune Fulford 22–23, cfr. Bonifay 2004, p. 449. Anche la forma H.99, pure attestata a Pescara, è una delle più controverse e dibattute per quanto attiene la datazione: agli inizi del VI secolo, poi retrodatata da Tortorella alla seconda metà del V secolo (Tortorella 1998, p. 43). Attualmente per questa forma è unanimemente accettata la datazione al VI secolo, anche se la variante ‘a’ appare circoscritta alla metà dello stesso secolo, cfr. Bonifay 2004, p. 181. 9 Indicativa appare la presenza anche di LRA 4 e anfore del tipo Yassi Ada B1 dall’area egeoorientale, per un elenco dettagliato dei materiali rinvenuti si rimanda a Staffa 1991, pp. 313–335. Il contenitore orientale più diffuso è sicuramente l’anfora LRA 1: prodotta in Cilicia e sulle coste dell’isola di Rodi dalla fine del V fino alla metà del VI secolo, quando la produzione si sposta negli ateliers ciprioti che rimangono attivi fino al VII secolo (Pieri 2007, pp. 613–615). L’esemplare di Ostia Aterni di cui è disponibile una riproduzione grafica in Staffa 1991, fig. 563 n. 92 potrebbe appartenere al tipo LRA 1a, databile entro la fine del V secolo, cfr. Pieri 2005, pp. 70–74. 7 8

Staffa, Pellegrini 1993, pp. 30–58. Per la ceramica c.d. tipo Crecchio si veda: Staffa 1998b, pp. 452–457; 2004b, pp. 206–215. 11 L’omogeneità del contesto è fortemente messa in discussione dalla presenza, nel riempimento della cisterna in cui sono state rinvenute le note ceramiche c.d “tipo Crecchio”, di alcune staffe da cavalcatura e di alcune armi inquadrabili nell’avanzato VII secolo (La Salvia 2014, pp. 412–413). Anche La Salvia accoglie i dubbi già sollevati da Michel Bonifay sulla datazione inizialmente proposta per il materiale ceramico del contesto di Crecchio, cfr. Bonifay 2004, p. 449, soprattutto alla luce della significativa presenza di sigillate H.84 e H.61b3 di fine V - inizi VI secolo che dunque svincolerebbero l’interpretazione del contesto stesso dalla diretta relazione con la ‘riconquista’ bizantina. 12 De Iure 2015, pp. 625–630. 13 Scarti a Crecchio: Staffa, Odoardi 1996, p. 189. 14 Pantaleo, Siena e Tulipani, infra. 15 Somma, Aquilano, Cimini 2009, pp. 80–97. 16 De Iure 2015, pp. 625–630. 17 Per Amiternum si veda anche Antonelli, Di Palma, infra. 10

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Sonia Antonelli aspetto, ancora recentemente interpretato come segno dell’avvenuto abbandono dell’insediamento, appare invece da intendersi come segnale di un avvenuto cambiamento dell’ideologia funeraria e come attestazione della presenza di una popolazione residente stabile.

del castrum aprutiensis menzionato da Gregorio Magno nel 598, che sul lato ovest utilizzava le possenti strutture degli edifici per spettacolo – teatro e anfiteatro – e sul lato est comprendeva la cattedrale paleocristiana di Santa Maria Aprutiensis.18 Meno chiara e definita appare la situazione della colonia di Castrum Novum (menzionata come kastron da Giorgio Ciprio)19 e identificata per tutto il Medioevo con l’importante chiesa di San Flaviano, da cui trae il nome con il quale è menzionata nelle fonti, ovvero castrum sancti flaviani.20 Il culto di San Flaviano è particolarmente diffuso in area adriatica, anche sulla base della tradizione agiografica che narra del trasporto delle sue reliquie da Costantinopoli a Ravenna, per volere dell’imperatrice Galla Placidia: durante il tragitto la nave, forse dopo una tempesta, approdò senza equipaggio, sulla costa di Castrum Novum Piceni,21 l’odierna Giulianova, che da quel momento prese il nome di Castel San Flaviano. La leggenda sembra il chiaro indizio della veicolazione e promozione del culto da parte dei bizantini, probabilmente anche attraverso l’edificazione di un edificio di culto che urbanisticamente e ideologicamente esprime le trasformazioni e il nuovo assetto della città, e soprattutto la tradizione agiografica di uno stretto rapporto con l’area orientale che si basa sul commercio marittimo e i contatti via mare, grazie al porto che sembra rimanere attivo fino al pieno Medioevo.22

Allo stesso modo le destrutturazioni e le profonde trasformazioni del tessuto urbanistico sembrano funzionali al cambiamento di destinazione d’uso degli spazi, indicando inequivocabilmente un utilizzo degli stessi. Recenti scavi presso la città di Alba Fucens condotti dalla Università di Foggia25 e dalla Soprintendenza26 hanno apportato dati significativi in questa direzione: lo scavo di un pozzo di circa 7 m di profondità e 4 m di diametro nel piazzale del santuario di Ercole, ha restituito uno straordinario riempimento composto da frammenti architettonici e decorativi, enormi quantità di materiali ceramici, lignei e organici in ottimo stato di conservazione. Lo studio del deposito è ancora in corso27 ma sembra attestare una intensa attività e quindi vitalità dell’insediamento tra V e VII secolo. Tale vitalità sembra peraltro confermata anche in altre aree della città come quella forense,28 con una significativa circolazione di Terra Sigillata Africana (e delle sue imitazioni) fino a tutto il V secolo, che fornisce una base archeologica per l’interpretazione del discusso passo di Procopio secondo il quale ottocento cavalieri al seguito di Giovanni sarebbero stati mandati ad Alba nel Piceno a svernare.29

Le trasformazioni urbanistiche e strutturali dei centri urbani sembrano determinate dalle mutate condizioni culturali, sociali, politiche ed economiche che approdano a una diversa concezione dell’utilizzo degli spazi. Tuttavia, per l’Abruzzo tardoantico si può parlare di una sostanziale tenuta degli assetti urbani che è possibile cogliere attraverso alcuni indicatori: nel caso di Chieti, la Teatericordata anche da Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum,23 una spia della persistenza di una popolazione stabile e numericamente consistente è fornita dalla funzionalità dei sistemi di approvvigionamento idrico, oltre che negli adeguamenti dell’anfiteatro, e nella nascita di importanti poli religiosi cristiani e nell’inserimento di sepolture in urbe.24 Quest’ultimo

Nella stessa direzione anche i dati provenienti dalla città di Amiternum, dove pure recenti indagini stanno mettendo in evidenza il riuso abitativo e artigianale di spazi pubblici e le modalità di inserimento del complesso episcopale in un’area prossima all’anfiteatro,30 in quel Campo Santa Maria, in cui ormai trent’anni or sono Letizia Pani Ermini suggeriva di riconoscere la cattedrale.31 Tuttavia, è nella nascita del complesso martiriale di San Vittorino su una collina che domina a est la città che vanno riconosciuti i segni più marcati delle trasformazioni in età tardoantica.32 I dati provenienti dalle indagini condotte presso la catacomba di San Vittorino a partire dal 2000 dall’Università di Chieti, in accordo con la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, sembrano confermare quanto noto dalla tradizione agiografica circa la deposizione del martire.33 La frequentazione della catacomba a scopo funerario perdura fino a tutto il VI secolo con una probabile estensione al VII per l’ambiente, originariamente sub divo, posto immediatamente a ovest del vano che ospita la sepoltura martiriale, caratterizzato dalla presenza di tombe

Antonelli 2008, pp. 36–46. Geor. Cypr., n. 623, p. 98. 20 Savini 1910, n. 59, pp. 107–108. Si veda a riguardo anche la scheda di cui è autrice la scrivente in Somma 2013, pp. 91–93. A tal proposito mi pare significativo rilevare che recenti scavi condotti dalla Soprintendenza hanno confermato la proposta di localizzazione della scomparsa chiesa di San Flaviano (Antonelli 2008, pp. 51–52), per ribadire come la ricerca topografica, rigorosamente condotta avvalendosi della pluralità delle fonti disponibili, può rappresentare ancora un valido strumento di pianificazione. 21 La tradizione non sembra attendibile per incongruenze di carattere storico (Stiernon 1966, coll. 905–906) ma appare significativo il suo consolidamento, che tradisce la volontà di riaffermare un legame diretto tra la diffusione del culto e l’area bizantina da cui proviene. 22 Alla fine del X secolo, l’imperatore Ottone I dona alla chiesa di Forcona “[…] in comitatu Aprutii in loco qui sanctus Flavianus vocatur unum portum qui reddat centum pondera inter aurum et argentum et etiam ferrum et sal, qui portus continet infra se quinquemillia modiola inter terram et aquam intra mare […]”, cfr. DD, I, 459, pp. 623–624. 23 Pauli Diaconi, I, 20, pp. 100–101. 24 Per la ricostruzione delle labili tracce dell’assetto urbanistico altomedievale: Soria, Tornese 2008, tavv. LXIXLXX; Somma 2015, pp. 45–51. 18 19

Di Cesare, Liberatore 2017. Ceccaroni, infra. 27 Ceccaroni 2013, pp. 245–277. 28 Di Cesare, Liberatore 2017. 29 Proc., De Bello Ghotico, II 7. 30 Redi et al. 2013, pp. 267–285; 2014, pp. 171–194. 31 Per la cattedrale amiternina era già stata proposta la localizzazione nell’area identificata dal toponimo Campo Santa Maria: Pani Ermini 1987, pp. 41–43; Giuntella 2003b, pp. 769–770. 32 Quattro contributi in questo volume (Antonelli, Di Palma; Antonelli, Dormio; Tanga; Bucci) sono relativi a questo contesto. 33 Somma 2012, pp. 185–194. 25 26

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Economia e territorio nell’Adriatico centrale tra tarda Antichità e alto Medioevo (sec. IV–VIII): i contesti abruzzesi monumentali. È possibile ipotizzare una relazione tra questa fase tarda di monumentalizzazione dell’area funeraria e la presenza ad Amiternum di esponenti dell’aristocrazia ducale longobarda che detiene importanti possedimenti nell’amiternino: è attestata infatti una curtis ducale con una considerevole estensione di terra a coltura anche cerealicola, le cui decime del grano nel 763 per volere del duca Teodicio, vengono destinate al monastero di Farfa, con l’esclusione dei 12 moggi, riservati per consuetudine alla chiesa di San Vittorino.34 Suggestiva appare la presenza di un frammento di combed slipped ware databile appunto al VII secolo, di cui è noto anche un altro esemplare dagli scavi della cattedrale amiternina.35 Questa produzione è piuttosto diffusa in tutta la penisola, tuttavia recentemente è stato individuato un centro produttivo proprio in area spoletina.36 Il corpus delle lucerne della catacomba di San Vittorino sembra confermare l’esistenza di una produzione locale già ipotizzata anche sulla base dei dati provenienti dallo scavo della città.37 Dato significativo è la presenza esclusiva nel retro sanctos di catacomb lamps decorate “a perline”, la cui datazione tra V e VI secolo ben si accorderebbe con quanto noto sullo sviluppo dello spazio funerario a ridosso della tomba venerata.38 La consistente quantità di ceramica rinvenuta nella catacomba – in parte forse da ricondursi allo svolgimento dei pasti funebri ovvero del refrigerium, oltre che a elementi di corredo – attesterebbe la circolazione di merci di importazione africana, sia da cucina, sia da mensa, per tutto il VI secolo e una ridotta ma significativa presenza di ceramiche da cucina di produzione egea,39 che vanno ad affiancarsi al ben noto repertorio di ceramica di uso comune e di olle da cucina di produzione locale.

come l’elemento essenziale per la comprensione di tali dinamiche, come è ben evidente anche nei casi di Corfinio e Peltuinum, poste rispettivamente sull’antica Tiburtina– Valeria e sulla via Claudia Nova che collegava la già menzionata Amiternum alla Tiburtina–Valeria all’altezza della statio Ad Confluentes Aternum et Tirinum (od. Bussi). A Corfinio la recente ripresa delle indagini archeologiche avviate più di venti anni or sono, ha consentito di meglio comprendere le modalità di inserimento del complesso di San Pelino nell’area immediatamente suburbana della città antica e le caratteristiche dell’intenso sfruttamento funerario in età tardoantica, con modalità note solitamente in ambito martiriale, sebbene continuino a mancare elementi certi circa la reale consistenza della figura del martire.42 Le ultime indagini hanno consentito anche di ridefinire la sequenza stratigrafica di occupazione dell’area prima dello sviluppo dell’area funeraria, ricollocando in età tardoantica la fornace per ceramica, già individuata nel corso dei vecchi scavi. Sebbene pesantemente destrutturata dai successivi interventi si può cautamente avanzare l’ipotesi di un suo utilizzo per produzioni di ceramica comune e di ceramica invetriata entro la prima metà del V secolo.43 A Peltuinum, lo scavo condotto nell’area forense nel 1994 ha consentito di documentare un campione rilevante di ceramiche dipinte in rosso che si ispirano al repertorio morfologico delle produzioni africane di IV–V secolo, piatti a tesa e coppe con lisciature a stecca, che si affiancano alle importazioni di Terra Sigillata Africana.44 Sono documentate brocche e anforette con allisciature sul corpo, che trovano confronti in alcuni esemplari ritrovati ad Alba Fucens databili tra la fine del IV e il primo terzo del V secolo, e anche ad Amiternum.45 L’analisi preliminare documenta senza dubbio l’inserimento del centro di Peltuinum, tra la metà del IV e il V secolo, nel quadro delle relazioni commerciali ed economiche dell’area medioadriatica, sia sulla base delle importazioni sia sulla base delle produzioni regionali. La città pur non raggiungendo mai lo status di municipio e non rivestendo il ruolo di sede vescovile, riveste evidentemente un ruolo di centro intermedio nel complesso sistema di redistribuzione delle merci nell’ambito territoriale di pertinenza. Tale ipotesi sarebbe confermata anche dalle attestazioni nella Peltuinum tardoantica di artigianato specializzato: probabilmente già nel IV secolo, infatti, nell’ambito del riassetto urbanistico della città l’angolo nord-ovest della porticus del tempio viene riconvertito a scopi produttivi, attraverso la tamponatura degli intercolumni con materiale di reimpiego che consente di realizzare piccoli ambienti regolari. Nell’area sono stati rinvenuti “scarti di lavorazione e scorie di fusione del bronzo, dell’argento e del ferro” e una significativa quantità di frammenti di statue, iscrizioni e fregi di epoca

I vetri rinvenuti nella catacomba amiternina sono prevalentemente da illuminazione e in generale di tradizione romana, come i vetri incisi con scene cristiane, tra cui la guarigione del paralitico. Meno comune è invece la raffigurazione di un agnello, dal chiaro valore simbolico, sormontato da un pettine per la lavorazione della lana che denuncia lo stretto legame di quest’area con l’economia pastorale.40 Il corredo personale comprende aghi crinali, anelli digitali e armille molto simili a quelli già noti nella catacomba di Castelvecchio Subequo che appartengono a un repertorio piuttosto essenziale e comune.41 L’inserimento di Amiternum in circuiti commerciali su ampia scala ancora tra tarda Antichità e alto Medioevo è sicuramente agevolato dal mantenimento di assi viari in senso est-ovest che garantiscono il collegamento con gli ambiti tirrenico e adriatico. La rete viaria si configura 34 RF, II, 53, p. 57, a. 763. Si veda anche Antonelli, Tornese 2012, pp. 884–886. 35 Redi et al. 2013, p. 278; Siena 2015, pp. 645–646. 36 Carbonara, Vallelonga 2015, pp. 397–404; Diosono 2015, pp. 351– 360. 37 Tripodi 2008, pp. 439–471; Tuteri 2014a, p. 30. 38 Antonelli e Dormio, infra. 39 Assimilabile al tipo Reynolds 1993, pl. 97 n. 652 (Reynolds 1993, p. 305). Si veda Antonelli e Di Palma, infra. 40 Bucci, infra. 41 Tanga, infra.

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Somma 2015; Somma, Antonelli 2015. Antonelli 2015. Tulipani 2014. Antonelli e Di Palma, infra.

Sonia Antonelli spoglio.53 Un respiro internazionale caratterizza i contatti “commerciali”, ma potremmo anche dire culturali dell’area medioadriatica in età tardoantica, contatti gestiti da “agenti” che provengono sovente dell’area orientale dell’Impero. Alcuni di questi commercianti orientalisi stabiliscono nella pars occidentalis, continuando a mantenere contatti con la madrepatria e creando efficaci reti di scambio.54 Esemplificativo appare il caso di un commerciante di marmi originario di Nicomedia, noto grazie al rinvenimento di un sarcofago e alla relativa iscrizione presso Campovalano (Campli, TE),55 vicus ubicato in una strategica posizione all’incrocio di due importanti assi viari, già noto per la presenza di una importante necropoli picena.56 L’attività di questi λιθένποροιoι anche negotiatores marmorarii consisteva nell’inoltrare gli ordini di sarcofagi o altri manufatti alle officine di produzione.57 La presenza di un commerciante che svolgeva una siffatta attività in un centro minore, un vicus come Campovalano, appare potenzialmente un elemento molto rilevante. La fortuna insediativa e commerciale di questo insediamento va forse ricercata nella sua ubicazione all’incrocio di due importanti direttrici viarie: la via che collegava le città di Asculum e Interamnia Praetuttiorum e la via che collegava la parte settentrionale del territorio pretuziano – fertile e sede di importanti proprietà fondiarie – con Roma, attraverso un diverticolo della Salaria (la via Caecilia).58 Altro elemento degno di nota è la posizione privilegiata rispetto all’approdo costiero di Castrum Novum (Giulianova, TE), che a partire dalla tarda Antichità acquisisce un ruolo rilevante nell’ambito delle relazioni marittime con l’Oriente.59 Anche sul litorale chietino questa tendenza

classica recuperati nell’area sacra, in attesa di essere rifusi. Sono state rinvenute inoltre anche ossa animali con tracce di lavorazione e manufatti semilavorati e lavorati che porterebbero a ipotizzare l’esistenza di una bottega per la produzione di manufatti in osso.46 Oltre a Peltuinum, la lavorazione dell’osso in età tardoantica, risulterebbe attestata soltanto nel centro urbano di Alba Fucens, in cui è stata identificata una bottega ancora attiva nel V secolo d.C.47 Manufatti in osso, sotto forma di pettini deposti nelle sepolture, spesso come unico oggetto di corredo, sono attestati in Abruzzo in contesti dalla rilevante valenza territoriale: contesti urbani come Chieti, Corfinio e Iuvanum (Montenerodomo, AQ) e in ambiti rurali a Colle Fiorano (PE), Rosciano (PE) e Aielli (AQ).48 Tali manufatti sono stati considerati come indicatori della distinzione sociale dell’inumato e, in Abruzzo, appare piuttosto plausibile – come proposto da Marzia Tornese sulla base dei contesti di rinvenimento – che i pettini in osso divengano un segno distintivo dell’élite longobarda. A una preliminare analisi, la situazione abruzzese sembra rispondere al modello economico dei Central Places, in cui le reti viarie sono determinanti nell’organizzazione del sistema economico, basato su insediamenti che definiamo “minori” e che svolgono il ruolo di mercati locali e centri di servizio per la circolazione e lo scambio di prodotti e merci, provenienti anche da aree lontane49 e integrato però da altri centri, di maggiore consistenza urbanistica e demica (ma non urbani strictu sensu), dislocati a maglie più larghe, in cui si svolgono invece attività artigianali specializzate e/o si erogano servizi specialistici,50 che potremmo definire centri mediatori e in cui possiamo riconoscere il ruolo di Peltuinum e di Ostia Aterni.

D’Alessandro, D’Ercole, Martellone 2011, pp. 186–191. Una panoramica dei mercanti orientali e reti commerciali tra Occidente e Oriente è offerta in Pieri 2002, pp. 123–132. 55 Alla fine del Settecento nelle immediate adiacenze della chiesa paleocristiana di San Pietro a Campovalano, si rinvenne un sarcofago di età costantiniana, con scene neotestamentarie, la cui fronte anteriore recava un’iscrizione in caratteri greci con il nome del defunto che si qualifica va come Νεικομηδείς λιθένπορος. L’iscrizione, purtroppo perduta, appartenne alla raccolta privata dello storico G.B. Delfico, il quale la pubblicò nel 1812 senza alcun riferimento al sarcofago, cfr. Delfico 1812, p. 151. Essa è nota solo grazie a un disegno conservato nell’Archivio della Biblioteca Apostolica Vaticana, nel fondo dell’erudito Gaetano Marini, cfr. Cod. Vat. Lat. 9072, p. 505 n. 1 e 9102 f. 56, editi in Buonocore 2001, p. 62, figg. 4–5. Marini ebbe le informazioni direttamente da Mons. A. L. Antinori, presente al momento della scoperta del sarcofago. Fu il Ferrua alcuni decenni or sono, leggendo i manoscritti di Gaetano Marini, a ricostruire le vicende dell’importante sarcofago (Ferrua 1984, pp. 383–386). 56 Chiaramonte Trerè, D’Ercole 2003; Chiaramonte Trerè, D’Ercole, Scotti 2010. Le attestazioni relative all’insediamento sono molto limitate e constano prevalentemente di rinvenimenti di superficie che permettono di identificare l’area del vicus nella piana a nord della necropoli, dove alcuni anni fa furono condotte limitate indagini, in prossimità della chiesa di S. Pietro, nelle cui murature sono reimpiegati molteplici frammenti architettonici e epigrafici di età tardo-repubblicana e imperiale, e dove furono messe in luce alcune strutture riferibili a un ambiente decorato con intonaci policromi, di cui non è stata appurata la funzione e su cui si sono impostate le murature della chiesa, si veda in proposito Staffa 1996b, pp. 258–260. 57 La città di Nicomedia esporta sarcofagi in tutto il Mediterraneo sfruttando rotte commerciali ampiamente consolidate (Ward Perkins 1980, pp. 23–69). 58 Per la problematica identificazione della via Caecilia: Antonelli 2008, pp. 27–32. 59 Anche la prevalenza di marmi orientali, come proconnesio e breccia corallina, nel corpus di marmi di quest’area della regione (Agostini, 53 54

Per quanto concerne i centri cosiddetti “minori”, stationes o vici per esempio, le principali attestazioni si collocano tutte in stretta relazione con i principali assi viari. Ancora da comprendere appieno le funzioni di alcuni di questi insediamenti in cui si compiono importanti ristrutturazioni e riconversioni che comportano una riorganizzazione degli spazi, sovente a scopo artigianale e una precoce cristianizzazione, come nei ben noti casi di Santo Stefano in Rivo Maris a Casalbordino51 e del vicus di Interpromium52 e anche del vicus di Centurelli, dove recenti indagini che hanno permesso di identificare sepolture di epoca tardoantica che si impostano anche sull’asse stradale che attraversa l’insediamento, oltre a un’area funeraria organizzata presso un edificio a probabile carattere cultuale, con le sepolture realizzate con grossi materiali di 46 Si rimanda a Tulipani 1996, pp. 52–54. Si ipotizza anche l’esistenza di una officina lapidaria, attiva probabilmente fino al X secolo, sulla scorta di materiale lapideo di recupero dal tempio e dal vicino teatro, in parte rilavorato. 47 Ceccaroni, Borghesi 2011, p. 230, fig. 22. 48 Tornese, infra. 49 Antonelli, Somma 2015. 50 Christaller 1966. 51 Tulipani 2001, pp. 323–340. 52 Staffa 2006b, pp. 25–50.

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Economia e territorio nell’Adriatico centrale tra tarda Antichità e alto Medioevo (sec. IV–VIII): i contesti abruzzesi sembra confermata da un elevato volume di commerci, attestato prevalentemente dal materiale ceramico che sembra partecipare delle più ampie circolazioni a carattere mediterraneo. Recentemente presso l’abitato di San Salvo (CH) sempre sulla costa meridionale dell’Abruzzo, il rinvenimento di una tomba a camera di epoca tardoantica60 assimilabile per tipologia e datazione a tombe diffuse nella regione costiera balcanica, e in particolare nell’area di Durrës61 e a Hrogozhina62 sempre in Albania, pone la questione dei possibili contatti con la sponda orientale dell’Adriatico, finora rimasti a margine del dibattito storicoarcheologico abruzzese.

soprattutto di una placchetta in lega di rame con sistema “a rivetto”, assimilabile a manufatti longobardi.68 La riconversione produttiva è sicuramente determinata dalle mutate richieste del mercato, tuttavia non si può escludere che sia stata influenzata anche da uno specifico interesse per la coltura dell’olivo e per la produzione dell’olio, che emerge chiaramente dalla documentazione scritta.69 La permeabilità tra le aree costiere e quelle interne garantisce, come si è già detto, un sistema economico che consente una ampia circolazione delle merci anche in località che oggi ci appaiono “remote”, come i numerosi siti di altura che rappresentano un tratto peculiare del territorio abruzzese. Anche per questi siti un marcatore piuttosto significativo è rappresentato dalla presenza di edifici di culto nelle fasi di cristianizzazione e organizzazione ecclesiastica del territorio. Il caso più rappresentativo è quello di Castel Manfrino, insediamento fortificato con intense fasi di frequentazione dall’alto Medioevo fino all’età angioina indagato in anni recenti dall’Università di Chieti,70 in cui sono state rinvenute le tracce in fondazione di un modesto edificio di culto databile tra VI e VII secolo. La ceramica riferibile alla frequentazione del primo alto Medioevo mostra evidenti contatti con le produzioni abruzzesi adriatiche, tuttavia il rinvenimento di un vaso a listello di importazione africana databile alla prima metà del V secolo e soprattutto di una piccola coppetta con pareti molto sottili di probabile produzione tardoantica lasciano ipotizzare una frequentazione precoce del sito, confermata dalla presenza di un frammento di vetro inciso riferibile allo stesso ambito cronologico. I due reperti, seppure isolati, impongono una rilettura del contesto anche nell’ottica di una possibile frequentazione in età romana, in virtù della posizione privilegiata a controllo del territorio e di un asse viario strategico come la via Caecilia.

Le aree costiere esprimono ovviamente le maggiori capacità economiche anche legate alle colture intensive. Soprattutto nella fascia costiera settentrionale della regione si rileva una consistente concentrazione di ville: il sito meglio indagato è quello di Le Muracche, legato principalmente alla produzione vinicola.63 Un importante intervento di ristrutturazione del settore produttivo, sempre legato alla attività vinicola è attestato dopo la metà del V secolo.64 L’intervento di ristrutturazione, attuato probabilmente per ragioni economico-commerciali, appare tuttavia in relazione con il rinvenimento di alcuni manufatti che potrebbero – seppure in via d’ipotesi – essere interpretati come indizio dello stanziamento nella villa di genti alloctone e in particolare, di cultura germanicoorientale: in particolare una fibula riferibile al gruppo Bulles-Lauriacum-Sindelfingen della seconda metà del V secolo, assimilabile a manufatti rinvenuti in sepolture gepide databili tra la seconda metà del V e gli inizi del VI secolo.65 La ristrutturazione dell’impianto dunque potrebbe essere avvenuta in occasione di una “rinnovata” gestione della proprietà che riapre la questione della presenza in area medio-adriatica di possibili precoci stanziamenti di foederati al seguito di Teoderico, e anche della reale consistenza dell’istituto della tertia. A questo riguardo, ancora il sito de Le Muracche appare emblematico di un possibile avvicendamento nella gestione forse agli inizi del VII secolo, di cui si potrebbero riconoscere le tracce in una riconversione produttiva che vede l’abbandono della produzione vinicola a favore di quella olearia,66 con livelli di frequentazione caratterizzati dalla presenza di vasellame databile appunto tra fine VI e VII secolo67 e

pp. 176–177, fig. 9 n. 13a e un orlo (n. inv. 105671 Soprintendenza Archeologica per l’Abruzzo), con impasto arancio, riferibile a un’olletta con orlo verticale, assottigliato, e gola marcata, che trova confronti con olle del “gruppo A”, in Staffa, Odoardi 1996, pp. 176–177, fig. 9 n. 10a. Per questi manufatti non si esclude una circolazione nell’ambito del VII secolo, sulla scorta di una tradizione produttiva locale, che sembra caratterizzata da una continuità di forme legata alla funzionalità e all’uso comune. Con buona probabilità al pieno VII secolo è ascrivibile un’anforetta da dispensa che trova confronti stringenti con manufatti rinvenuti nel contesto della Crypta Balbi a Roma, per cui si è avanzata un’ipotesi di produzione regionale (Ricci 1998, p. 373, fig. 13.1), che nel nostro caso, in assenza di analisi, non è al momento valutabile. 68 La placchetta (n. inv. 37918 Soprintendenza Archeologica per l’Abruzzo) è caratterizzata dalla presenza di due teste zoomorfe stilizzate affrontate e probabilmente decorata al centro con un almandino, come si deduce dall’impronta lasciata sulla superficie. Di difficile interpretazione, il manufatto era probabilmente utilizzato come guarnizione di elementi in cuoio e trova un confronto piuttosto convincente con una placca in bronzo del cosiddetto “nucleo assisano”, databile al VI–VII secolo (Giostra 2003, n. 31 p. 1480 tav. II, fig. 3). 69 Nei Dialogi di Gregorio Magno appare significativo un episodio che ritrae i Longobardi, nel territorio di Norcia, impegnati nell’attività della spremitura delle olive e ben lontani dai clichès di devastatori a cui la storiografia ci ha abituati: «[…] cum in praelo Langobardi olivam premerent, ut in oleum liquari debuisset […] », cfr. Gregorii Magni Dialog., III, XXXVII, pp. 313–315. Per l’interpretazione dell’episodio si veda anche Migliario 2001, pp. 239–240. E ancora, nel territorio apruziense, in prossimità del Tronto, nella seconda metà del secolo VIII, il duca Ildebrando possiede un importante uliveto che nel 782 dona a Montecassino, cfr. CDL, IV, 1, pp. 105–109, n. 36. 70 Somma et al. 2006, pp. 1–68.

Rossi 2006, pp. 145–147), autorizzerebbe a ipotizzare l’esistenza di una direttrice commerciale mediterranea che è favorita proprio dalla presenza del porto di Giulianova. 60 Aquilano, infra. 61 Hoti 1988, pp. 223–224. 62 Amore, Bejko 2001, pp. 269–270. 63 Il settore produttivo vinicolo in età giulioclaudia mostra un consistente ampliamento, forse per la concorrenza del vino iberico (Lapenna 2006a, pp. 182–184). 64 Lapenna 1996, pp. 388–396. 65 Antonelli, Tornese 2013, pp. 382–384. 66 Lapenna 2006a, p. 185. 67 Si tratta di due frammenti di olle, di cui non è purtroppo nota l’associazione stratigrafica, che trovano un confronto molto stringente con manufatti di produzione locale, datati tra V e VI secolo, rinvenuti a Castrum Truentinum, in particolare: un orlo (n. inv. 105689 Soprintendenza Archeologica per l’Abruzzo), caratterizzato da impasto rossiccio, e attribuibile a un’olla con orlo estroflesso e gola marcata confrontabile con olle del “gruppo B”, cfr. Staffa, Odoardi 1996,

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Sonia Antonelli Nel quadro finora delineato trovano posto anche interessanti acquisizioni relative ai cantieri e ai modi del costruire, nell’ottica di un sistema economico integrato. La maggior parte delle testimonianze costruttive riferibili ai secoli IV–X derivano da indagini archeologiche e quindi beneficiano anche delle necessarie informazioni stratigrafiche. Si rileva un uso prevalente di materiale litico costituito da litotipi locali, tuttavia nella maggior parte dei casi la sommaria sbozzatura rende difficile stabilire se si tratti di materiale di primo impiego o di recupero. Sebbene la frequenza del reimpiego di materiale scultoreo, architettonico ed epigrafico consenta di ipotizzare anche nell’Abruzzo tardoantico intense e programmate attività di spogli, nei contesti urbani e nelle aree costiere è ancora utilizzato il laterizio, sovente in associazione con il materiale litico in paramenti listati, come nel caso di Alba Fucens. Significative sono anche le attestazioni di paramenti “a spina di pesce” che sembrano marcare i modi del costruire di un periodo piuttosto circoscritto, tra VI e VII secolo, con l’utilizzo di pezzame litico (Castel Manfrino) o anche ciottoli (strutture sotto la cattedrale di Teramo).71 Il quadro economico generale, infine, si delinea anche grazie alle acquisizioni numismatiche che sebbene con una certa flessione tra V e VII secolo indicherebbe una continuità di circolazione soprattutto lungo gli assi viari principali. Si può dunque ritenere che la vitalità degli assetti economico-commerciali e insediativi della regione tra tarda Antichità e alto Medioevo siano il frutto di un’efficace rete strutturale e infrastrutturale di tradizione romana rinnovata in ragione delle mutate occorrenze di un territorio che continua a dialogare con il Mediterraneo, attraverso le rotte adriatiche, ma anche con l’Europa continentale attraverso nuovi impulsi culturali.

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Angeletti 2006, p. 292.

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SEZIONE 2 TEMI GENERALI E PROSPETTIVE DI RICERCA

2.1 Marmo e committenze nell’Adriatico tardoantico (V–VI secolo d.C.) Yuri A. Marano Scuola Archeologica Italiana di Atene [email protected] Abstract: The export of marble artifacts was one of the main vehicles for spreading the artistic culture of Constantinople, reflecting at the same time the intentions and the demands of the imperial propaganda. For this reason, the distribution map of marble artifacts from Constantinople can be considered an instrument for the reconstruction of relations and interactions between the capital of the Eastern Empire and the provinces under its authority in the period until the 6th century AD, as a reflection of the interest of the Byzantine authorities in centres and regions of political, strategic and religious importance. From this point of view, the Adriatic is a privileged observatory: to the large number of sculptural materials preserved in the archaeological sites, in the museum collections and in the religious buildings of the region are added, in fact, the written sources, which allow us to place the diffusion of architectural sculpture and liturgical furnishings in marble in their historical context. The present paper aims to analyse the evidence available for the territories between Venetia and Epirus Vetus, in part touched by the Ionian Sea, but part of a single region characterised by an overall historical–cultural homogeneity. Keywords: Marble; Adriatic; Late Antiquity; Early Middle Ages.

Introduzione

Per quanto la consegna di un carico di marmi non necessitasse sempre dell’intervento di un santo, è indubbio che nell’Antichità il trasporto della pietra su lunghe distanze abbia rappresentato “an improbable phenomenon”, per riprendere le parole di J.C. Fant.2 Data la loro elevata densità, peso e volume, lo spostamento dei materiali lapidei era estremamente costoso, tanto in termini economici quanto logistici,3 risultando quasi irrazionale in una regione, come il Mediterraneo, caratterizzata da una pressoché ubiqua disponibilità di pietra da costruzione di buona qualità. Queste stesse caratteristiche fecero però sì che il marmo e le pietre colorate assurgessero a simboli di potere e di ricchezza, contribuendo alla loro diffusione nei territori dell’Impero romano.4

Racconta l’autore dei Miracula Demetrii che, alla fine del VI secolo d.C., il vescovo Cipriano di Thenai, una città della Byzacena (nel territorio dell’attuale Tunisia) cadde nelle mani di pirati slavi, che lo catturarono al largo delle coste della Tessaglia, mentre era diretto a Costantinopoli. Solo grazie al miracoloso intervento di san Demetrio il presule poté fare ritorno in patria, deciso a costruire una basilica in onore del suo salvatore. Nelle intenzioni di Cipriano, l’edificio avrebbe dovuto essere impreziosito di arredi marmorei, che lo stesso san Demetrio predisse al vescovo si sarebbero presto resi disponibili. Il giorno successivo, il vescovo fu informato dell’arrivo di una nave proveniente da Costantinopoli, su cui viaggiavano un ambone, un ciborio e alcune colonne “bene imballati nella paglia e nella stoppa”. Cipriano si precipitò dal comandante della nave, che negò però di trasportare marmi. Deluso, il vescovo ricevette l’apparizione di san Demetrio, che gli ingiunse di recarsi nuovamente dal naukleros informandolo del fatto che era stato lo stesso san Demetrio a rivelargli la vera natura del carico. Stupito, il comandante non poté allora fare a meno di consegnare i marmi a Cipriano, dopo averne abbassato considerevolmente il prezzo.1 1

Questo carattere di prestigio si accentuò nel corso della tarda Antichità, quando, parallelamente al declino dell’evergetismo privato e dell’attività edilizia, l’utilizzo del marmo divenne una prerogativa quasi esclusiva del potere imperiale e delle élites aristocratiche ed ecclesiastiche. L’esportazione di manufatti in marmo rappresentò uno Fant 1988, p. 147. Russell 2008, pp. 112–116. 4 Sul commercio del marmo e delle pietre da costruzione nel mondo romano, si vedano Pensabene 2014 e Russell 2013. 2 3

Miracula Demetrii, 313; (1979) pp. 234–241; (1981) pp. 163–169.

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Yuri A. Marano ulteriore e decisivo stimolo alla produzione di queste cave venne dalla loro vicinanza ai centri di potere e consumo dell’epoca: distante solo un centinaio di miglia nautiche da Costantinopoli, il Proconneso fornì la materia prima necessaria ai grandi progetti edilizi avviati nella capitale imperiale dai rappresentanti delle dinastie costantiniana e teodosiana,13 mentre il marmo di Thasos era inviato a Salonicco, dove era lavorato e destinato all’esportazione.14

dei principali veicoli di diffusione della cultura artistica di Costantinopoli, riflettendo nel contempo gli intenti e le istanze della propaganda imperiale.5 Per questa ragione, la carta di distribuzione dei manufatti in marmo di provenienza costantinopolitana può essere ritenuta strumento per la ricostruzione delle relazioni e interazioni tra la capitale dell’Impero d’Oriente e le province sotto la sua autorità nel periodo compreso tra il V e il VI secolo d.C., in quanto riflesso dell’interesse delle autorità bizantine per centri e regioni di rilievo politico, strategico e religioso.6 Sotto questo punto di vista, l’Adriatico costituisce un osservatorio privilegiato: al gran numero di materiali scultorei conservati nei siti archeologici, nelle collezioni museali e negli edifici di culto della regione si aggiungono, infatti, le fonti scritte, che consentono di collocare la diffusione della scultura architettonica e di arredo liturgico costantinopolitana in marmo nel suo contesto storico7 (Fig. 1). Il presente contributo si propone di analizzare l’evidenza disponibile per i territori compresi tra la Venetia e l’Epirus Vetus, in parte lambiti dal mar Ionio, ma parte di un’unica regione caratterizzata da una complessiva omogeneità storicoculturale.

Le ricerche condotte negli ultimi decenni sulle due isole hanno permesso di ricostruire le modalità di sfruttamento del marmo e di organizzazione del lavoro in cava.15 La coltivazione delle cave era effettuata da società (τέχναι) di appaltatori, cui le autorità imperiali affidavano lo sfruttamento del marmo in cambio di una quota del materiale estratto.16 Successivamente alla sua estrazione, il marmo era utilizzato per la produzione in serie di capitelli, basi e fusti di colonna, arredi liturgici, sarcofagi, vasche e recipienti, condotte idriche, tegole e sedili per edifici da spettacolo.17 I relitti di Marzamemi, affondato durante il primo venticinquennio del VI secolo d.C. al largo delle coste orientali della Sicilia,18 e di Amrit in Siria19 dimostrano che i prodotti delle cave del Proconneso fossero esportati già pronti per la messa in opera. Ciò non esclude che, come già nell’età imperiale, alla mobilità del marmo facesse riscontro anche quella delle maestranze specializzate nella sua lavorazione.20 Una prova in tal senso viene dallo scavo della basilica del Lechaion a Corinto, dove sono stati rinvenuti elementi in marmo proconnesio non rifiniti, verosimilmente scolpiti sul posto da artefici costantinopolitani.21 Altrove, gli scultori provenienti dalla capitale imperiale si avvalsero di materiali estratti localmente, come nel caso della basilica Β di Filippi, la cui decorazione fu realizzata in marmo grigio da maestranze

Il marmo nella tarda Antichità Per meglio comprendere i meccanismi di circolazione della scultura costantinopolitana nell’Adriatico del V e VI secolo d.C., è necessario soffermarsi brevemente sugli aspetti organizzativi della produzione del marmo durante la tarda Antichità. Nel III secolo d.C., il declino dell’attività edilizia, causata delle difficoltà politiche, economiche e sociali dell’Impero romano, ebbe come conseguenza il drastico ridimensionamento della domanda aggregata di materiali da costruzione.8 Ciò si tradusse in una flessione delle attività di estrazione del marmo e delle pietre colorate, che in alcune zone del Mediterraneo sembra aver determinato l’abbandono di cave in uso da secoli.9 Un esempio in proposito è offerto dalle cave di Luni, la cui produzione si affievolì progressivamente nel corso del III secolo d.C., sostituita a Roma e nelle province dai marmi bianchi non uniformi del Proconneso e di Thasos.10 Il boom produttivo di questi centri si spiega con la loro natura insulare, che permetteva il rapido ed economico trasferimento dei marmi ai porti di imbarco.11 Non è un caso che tra le 19 qualità di marmo e pietre colorate menzionate nel capitolo XXXI dell’Edictumde Pretiis di Diocleziano, il proconnesio e il tasio siano le più economiche, con un prezzo di 40 e 50 denari al piede cubo o quadrato.12 Un

Sodini 2002a, p. 129. Stefanidou-Tiveriou 2003. 15 Per un bilancio delle conoscenze in proposito, si veda Marano 2014 (con bibliografia). 16 Marano 2014, pp. 415–417. 17 Per il Proconneso: Asgari 1995; per Thasos: Koželi, Wurch Koželi 2005. 18 Il relitto di Marzamemi trasportava l’intero arredo marmoreo di una basilica. Il carico della nave, del peso complessivo di 76–77 tonnellate, comprendeva ventotto fusti di colonna, ventotto capitelli corinzi, ventotto basi, dodici plutei e dodici pilastrini appartenenti a una recinzione presbiteriale. A questi elementi, tutti in marmo proconnesio, si aggiungono una tavola d’altare in marmo microasiatico o pentelico e gli elementi in verde antico di un ambone a doppia scala (Kapitän 1980). Se il materiale e lo stile delle sculture lasciano pochi dubbi circa la provenienza costantinopolitana dell’imbarcazione, più difficile determinare il luogo di destinazione: l’ipotesi più plausibile resta quella di un porto della Tripolitania, come suggerito dalla presenza nella chiese della regione di materiali analoghi a quelli di Marzamemi (Duval 1998, pp. 184–185) e dal regime dei venti e dalla rotte di navigazione (Bohne 1998). Va tuttavia osservato come E.F. Castagnino Berlinghieri e A. Paribeni si siano pronunciati a favore di Siracusa quale porto di arrivo del relitto (Castagnino Berlinghieri, Paribeni 2011, pp. 71–72). 19 I materiali recuperati ad Amrit comprendono, venti capitelli corinzi, un fusto, sedici basi di colonna e un capitello a impostaionico, tutti in marmo proconnesio e datati al V–VI secolo d.C. (Dennert, Westphalen 2004). 20 Russo 2010. 21 Sodini 1977, pp. 424–426. 13 14

Barsanti 1989. Sulla cultura materiale quale riflesso delle relazioni tra Costantinopoli e le province dell’Impero bizantino, cfr. Mundell Mango 2003. 7 Sodini 1989; Sodini, Barsanti, Guiglia 1998; Sodini 2000. Per l’Adriatico si veda: Marano 2008; Pensabene, Barsanti 2008; Marano 2016. 8 Russell 2013, pp. 16–18. 9 Sodini 2002a, 130–133. 10 Walker 1988, pp. 190–191. 11 Il Proconneso e Thasos possono essere considerati esempi paradigmatici delle economie insulari di età antica e medievale (Horden, Purcell 2000, pp. 224–230). 12 Russell 2013, pp. 33–36. 5 6

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Marmo e committenze nell’Adriatico tardoantico (V–VI secolo d.C.) formatesi sul cantiere della Santa Sofia.22 L’applicazione delle tecniche di analisi archeometrica per la determinazione della provenienza dei marmi e delle pietre sta apportando nuovi dati sulla mobilità delle maestranze: oltre ai casi già noti dei plutei della basilica intra muros di Delfi, scolpiti in marmo tasio,23 e dei capitelli bizonali di S. Clemente a Roma, eseguiti in marmo lunense,24 studi recenti hanno permesso di stabilire l’origine locale dei materiali utilizzati per la realizzazione degli arredi della basilica episcopale di Stobi, indistinguibili dai prodotti delle officine della capitale imperiale.25

Costantinopoli e che si deve supporre giunta ad Aquileia all’indomani della Quarta Crociata.32 Merita, tuttavia, una menzione particolare un erratico capitelloimposta ionico in calcare33 (Fig. 2), appartenente a una tipologia ampiamente diffusa nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale durante il V/VI secolo d.C., ma attestata anche nell’Adriatico (infra).34 La ricezione di modelli orientali da parte delle officine aquileiesi della tarda Antichità trova ulteriore conferma in una serie di capitelli corinzi e basi decorate con foglie di acanto, che, scolpiti in calcare di Aurisina, mescolano elementi costantinopolitani con altri tipici della produzione locale di età tardorepubblicana e augustea.35

L’utilizzo di marmi costantinopolitani “siglava” le fondazioni legate, direttamente o indirettamente, all’iniziativa imperiale o a quella dei più alti funzionari civili ed ecclesiastici.26 Una situazione, questa, che trova riscontro anche nell’area adriatica, dove la circolazione dei manufatti in marmo è indicativa dell’interesse delle autorità bizantina per la regione.27 Nelle pagine che seguono si traccerà una “carta di distribuzione” della scultura costantinopolitana sulle sponde dell’Adriatico (Fig. 1), cercando di gettare luce sulle relazioni che collegavano le province occidentali dell’Impero bizantino alla sua capitale.

Un quadro molto simile è offerto anche da Grado, dove le basiliche di S. Eufemia e di S. Maria delle Grazie conservano elementi architettonici importati di età e provenienza differente, la cui attribuzione alle fasi più antiche di questi edifici è però tutt’altro che sicura.36 Allo stesso tempo, diversi elementi sono riferibili a botteghe locali, la cui produzione si caratterizza per il ricorso a motivi di origine costantinopolitana, recepiti tramite le rielaborazioni ravennati.37 Sulla terraferma, si devono segnalare le tre arcate di ciborio della chiesa parrocchiale della Natività di Maria a Lison di Portogruaro (Venezia), che un’iscrizione dedicatoria in greco attribuisce al sinator Stefano, membro delle scholae palatinae.38 Nonostante alcuni studiosi ne abbiano ipotizzato la provenienza dalla basilica della vicina Concordia Sagittaria,39 le arcate sono da ritenersi un acquisto effettuato sul mercato antiquario veneziano del XVI secolo.40 Non sussistono invece dubbi sull’antichità della pergula in marmo proconnesio del sacello di S. Prosdocimo a Padova, realizzata dal vir clarissimus et

Marmo e committenze nell’Adriatico tardoantico (V‑VI secolo d.C.) Sebbene l’auspicabile pubblicazione di materiali attualmente inediti renda il quadro suscettibile di modifica,28 i territori dell’antica Venetia sembrano essere stati interessati solo marginalmente dall’importazione di scultura costantinopolitana. Anche ad Aquileia, dove i marmi esotici avevano cominciato ad affluire già alla fine della Repubblica, gli unici elementi cui è possibile attribuire un’origine orientale sono un capitello ionico in marmo tasio, confrontabile con alcuni esemplari della fine del IV – inizi del V secolo d.C. di Roma e di Ostia,29 e un capitello di lesena ad acanto frastagliato del V/VI secolo d.C., di probabile origine microsiastica.30 Non può essere infatti considerata un’importazione in antico la lastra che, già ritenuta un dossale di cattedra episcopale,31 va ascritta alla decorazione scultorea della basilica di S. Polieucto a

Farioli 1982, pp. 325–326. Tavano 1971, pp. 99–101. Di forma tronconica, il capitello mostra su ambo le facce una croce latina a estremità patenti e da un kyma sul quale è un ovulo inquadrato da palmette tra volute spiraliformi; sul balaustro sono, invece, tre foglie lanceolate trattenute centralmente da una fascia, mentre l’astragalo è decorato da perline e fusarole. Queste caratteristiche permettono di assimilare l’esemplare aquileiese al tipo II, 2 della classificazione di V. Vemi (1989, pp. 19–21). 34 Un capitello imposta ionico proviene anche da Roccelletta di Borgia (Catanzaro), sullo Ionio (Arslan 1968). 35 Pensabene 2012, pp. 92–93. 36 In entrambe le chiese sono presenti solo fusti di colonna in marmi di buona qualità (cipollino, portasanta, granito, proconnesio, bianco e nero d’Aquitania) e capitelli teodosiani, capitelli compositi “ad acanto finemente dentellato” e a imposta (Pilutti Namer 2004; Pensabene 2006, pp. 379–383). 37 Terry 1987. 38 Bonfioli 1979. 39 Avanzata da Croce da Villa 1989, pp. 237–238 e ripresa da Cantino Wataghin 1999b, p. 34, la proposta non può essere presa in considerazione dal momento che il rinvenimento di due plutei di manifattura locale dimostra come gli arredi della basilica andarono distrutti nell’incendio che devastò l’edificio alla fine del VI secolo d.C. Allo stesso modo, la possibilità che le arcate siano state dedicate da un soldato appartenente ai distaccamenti inviati in Italia nel 579 d.C. da Tiberio II è contraddetta dalla datazione delle stesse, risalenti a un periodo compreso tra la fine del V – inizi del VI secolo d.C. (Ravegnani 2007, pp. 526–527). 40 Bonfioli 1979, p. 95. 32 33

22 Il marmo utilizzato potrebbe essere quello delle cave prossime alla città, oppure quello estratto nelle cave di Capo Fanari a Thasos (Herrmann, Barbin, Mentzos 1999, pp. 80–81). Un esempio assimilabile a quello di Filippi è offerto dalla decorazione architettonica della basilica giustinianea di S. Giovanni a Efeso, realizzata in marmo proconnesio e materiali di recupero provenienti dall’Artemision da maestranze costantinopolitane. La medesima associazione è attestata anche presso la basilica di S. Maria a Meriamlık, in Cilicia (Sodini 1989, pp. 165–166). 23 Déroche 1989, pp. 409–410. 24 Guidobaldi 1992, p. 33, n. 54. 25 Niewöhner, Prochaska 2011; Niewöhner, Audley, Prochaska 2013. 26 Sul significato simbolico del marmo nel mondo bizantino, cfr. Sodini 1994 e Paribeni 1990. 27 Pensabene, Barsanti 2008, p. 461. 28 Villa 2004, p. 616, segnala come imminente la pubblicazione di un contributo dedicato alla scultura paleocristiana della cattedrale di Aquileia. 29 Herrmann, Sodini 1977, pp. 424–425. 30 Pensabene 2012, p. 92. 31 Tavano 1974, pp. 270–271.

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Yuri A. Marano (527–547 d.C.) dotò l’edificio di plutei marmorei (Fig. 3) sulla cui faccia principale compare il monogramma dello stesso Onorio.56 Dall’area del complesso episcopale provengono anche i quattro capitelli bizonali con grifi angolari del battistero, che spiccano per l’alto livello qualitativo della loro esecuzione.57 Nella basilica suburbana di Manastirine, si registra invece la presenza di due transenne monolitiche in marmo proconnesio, lavorate a giorno e dotate ciascuna di nove e dieci colonnine con archetti a tutto sesto ornati da conchiglie. Il fatto che le transenne si adeguino perfettamente alle dimensioni del presbiterio, disassato rispetto all’asse dell’edificio, ne suggerisce una realizzazione in loco, forse con materiali di reimpiego.58

inlustris praefecto praetorio adque patricius Opilione entro il primo venticinquennio del VI secolo d.C.41 In Istria, il quadro delle importazioni è nettamente più ricco, come dimostrato dalla basilica eufrasiana di Parenzo,42 il cui arredo architettonico comprende – oltre a diciotto fusti e basi di colonna di tipo attico43 – quaranta capitelli di differente tipologia (compositi,44 bizonali,45 “a cesto”),46 tutti in marmo proconnesio e con confronti a Costantinopoli, Ravenna, Cartagine e nelle principali località del Mediterraneo protobizantino. Il lotto di materiali acquistato da Eufrasio comprendeva anche quattro portali in marmo (di cui uno destinato all’episcopio), quattro pietre d’imposta47 e i pilastrini della recinzione presbiteriale, la cui provenienza costantinopolitana è certificata da masons’ marks in lettere greche.48 Nonostante siano scolpiti in marmo proconnesio, i plutei49 e l’ambone della basilica50 sono, invece, attribuibili a maestranze locali.

Nel territorio delle attuali Marche, un numero cospicuo di capitelli corinzi, capitelli-imposta ionici, imposte e fusti di colonna di origine costantinopolitana è reimpiegato nel duomo di S. Ciriaco ad Ancona.59 Tutto lascia supporre che questi materiali siano appartenuti alla basilica paleocristiana di S. Lorenzo, i cui resti sono stati individuati sotto la fabbrica romanica.60 Una analoga provenienza può essere proposta anche per il parapetto di ambone a doppia scala (Fig. 4), che, conservato presso il Museo Diocesano, mostra una decorazione a quadrati concentrici e fiorone quadrigigliato centrale.61 I due pilastrini e un capitello con quattro foglie di acanto rinvenuti negli scavi di un’altra chiesa anconetana, S. Maria alla Piazza, sono andati purtroppo perduti, ma è probabile che essi siano appartenuti alla fase giustinianea dell’edificio, verosimilmente ricostruito all’indomani della distruzione della città da parte degli Ostrogoti nel 538 d.C. o del terremoto del 558 d.C.62 Altri materiali di origine costantinopolitana sono attestati nella chiesa di S. Salvatore, dove un pluteo costantinopolitano, decorato con una croce a braccia patenti, sigillava il sarcofago

A Pola, tre plutei a serti lemniscati facevano parte dell’arredo liturgico della cattedrale,51 mentre il capitello bizonale con colombe angolari e sottostante canestro vitineo, oggi conservato nel museo archeologico della città, apparteneva in origine al battistero.52 Due frammenti di plutei sono stati, invece, recuperati presso la basilica di S. Maria Formosa, fondata dall’arcivescovo Massimiano di Ravenna (546–554 d.C.).53 Anche in Dalmazia, dove all’indomani della riconquista bizantina si registra una intensa attività edilizia,54 l’importazione di sculture da Costantinopoli può essere ricondotta all’iniziativa vescovile. A Salona, marmi di origine metropolitana sono attestati tanto nelle chiese urbane quanto in quelle suburbane. In occasione del rifacimento del presbiterio della basilica cruciforme del complesso episcopale di Salona,55 il vescovo Onorio II 41 Questa cronologia è confermata dalla mancata menzione nell’iscrizione di dedica del consolato, carica che Opilione rivestì dopo il 524 d.C. (Sannazaro 1989, pp. 240–242). 42 Rizzardi 2000; Chevalier, Matejčić 2004. 43 Terry 1988, pp. 24, 27–28; Russo 1991, pp. 24–29. I diciotto fusti di colonna presenti nella basilica fondata da Eufrasio mettono in evidenza l’impegno e le risorse profusi dal presule nella costruzione e nella decorazione dell’edificio: il numero è infatti di poco inferiore a quello delle ventiquattro colonne in marmo proconnesio delle basiliche di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna (Penni Iacco 2004, pp. 33–34) e di Sant’Apollinare in Classe (Deichmann 1974, p. 241). 44 Russo 1991, pp. 38–39, 41, 46–47, 52–55, 60–61. 45 Russo 1991, pp. 39–45, 53–54. 46 Russo 1991, pp. 42–45, 47–50, 144–147. 47 Tutti i capitelli erano sormontati da pulvini recanti il monogramma del vescovo Eufrasio (Terry 1988, pp. 25–26 e 28; Russo 1991, pp. 17–22, 30–38, 47–51, 63–64, 92–93). 48 Terry 1988, pp. 39–43; Russo 1991, pp. 161–168. 49 Terry 1988, pp. 35–39; contra Russo 1991, p. 130, che attribuisce i plutei a scultori greco-costantinopolitani di livello non eccelso. 50 A doppia scala e con una piattaforma ottagonale sorretta da colonnine, l’ambone, che trova confronti a Grado e in Dalmazia, combina le caratteristiche degli amboni costantinopolitani con quelle di alcuni mobili rinvenuti in Grecia (Chevalier 1995). 51 Vicelja 1998, pp. 1039–1040. 52 Šeparović 2001, p. 286. 53 Ujčić 2005, p. 39. 54 Jeličić Radonić 1998; Chevalier, Mardešić 2008. 55 Chevalier, Mardešić 2008, pp. 238–239.

Metzger, Chevalier 1994, pp. 238–239; Duval, Caillet 2010, pp. 219–224. L’uso di apporre il monogramma di personaggi eminenti su plutei è attestato da Paolo Silenziario, che menziona gli esemplari della Santa Sofia siglati con il nome di Giustiniano e Teodora. A livello archeologico, il confronto più diretto per i plutei di Salona è offerto dai plutei della basilica di S. Clemente a Roma, su cui compare il monogramma di papa Giovanni II (533–535 d.C.). A questi si possono affiancare una lastra proveniente dalle Terme Occidentali di Kos, un pluteo con monogramma a legatura quadrata entro un clipeo modanato dalla basilica di S. Demetrio a Salonicco, un frammento con monogramma a legatura cruciforme già nella S. Sofia di Nicea/Iznik (Guidobaldi, Barsanti, Guiglia 1992, pp. 54, 154–55) e i plutei della Katapoliani di Paros (Mitsani 2006, pp. 80–86). 57 Nikolajević 1975, p. 92; Sodini, Barsanti, Guiglia 1998, p. 325. 58 Transenne identiche provengono dalla Basilica urbana (Metzger 1994). 59 Barsanti 1985. 60 Databile al V–VI secolo d.C., l’edificio di culto presenta una pianta a tre navate che, conclusa da un’abside semicircolare, mostra strette analogie con coevi edifici dell’area adriatica, quali basilica meridionale del complesso episcopale di Salona, la chiesa di Oborci in Bosnia Erzegovina e una delle chiese dell’Hemmaberg in Austria (Pani Ermini 2003). 61 Polverari 1993, p. 14. 62 Il primo pilastrino presenta una decorazione a bulbo appuntito, mentre il secondo è coronato dalla base di una colonnina, cui apparteneva anche il capitellino con quattro foglie di acanto (Serra 1929, pp. 102–103, 109; Barsanti 1995, pp. 190–191). 56

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Marmo e committenze nell’Adriatico tardoantico (V–VI secolo d.C.) altomedievale dei Santi Pellegrino e Flaviano.63 Nello stesso edificio si conservava anche l’urna di San Dasio, un manufatto di officine asiane del II/III secolo d.C. sottoposto a rilavorazione nel VI secolo d.C., quando sul coperchio furono scolpite le tre croci latine a braccia patenti, tra le quali corre l’iscrizione greca che ricorda la traslazione dei resti del santo, giunti ad Ancona da Durostorum (l’attuale Silistra, in Bulgaria).64

capitelli “a lira” e capitelli compositi del tipo “ad acanto finemente dentellato”, tutti in marmo proconnesio.72 Allo stesso edificio vanno attribuiti anche i frammenti di plutei (Fig. 5), che, assieme agli esemplari analoghi di Monte Sant’Angelo, S. Maria di Pulsano e Benevento, formano un gruppo omogeneo, caratterizzato dalla decorazione a meandri di svastiche.73 Come gli esemplari rinvenuti in Grecia, Israele, Giordania ed Egitto,74 anche i plutei di Siponto sono chiaramente ispirati alle raffinate transenne a giorno conservate nelle chiese di Costantinopoli (S. Sofia, SS. Sergio e Bacco) e di Ravenna (basilica Ursiana, S. Vitale, S. Michele in Africisco, S. Apollinare Nuovo).75

Al Museo Civico A. Vernarecci di Fossombrone si conserva un pilastrino di recinzione presbiteriale in pietra, fedele replica dei modelli marmorei costantinopolitani di età giustinianea.65 Una provenienza greca può essere, invece, suggerita per una parasta in marmo proconnesio, che, conservata presso il Museo Civico di Fano, mostra la raffigurazione di due pavoni ai lati di un cristogramma.66

La presenza a Siponto di materiali di origine costantinopolitana non sorprende: Siponto era, infatti, il principale porto dell’Apulia centrosettentrionale, per il quale la documentazione archeologica ed epigrafica documenta stabili e vivaci relazioni con l’Oriente mediterraneo.76 A questo proposito, una fonte particolarmente suggestiva è rappresentata dalla Vita Laurenti episcopi sipontini, pervenuta in due redazioni dell’XI secolo.77 Secondo l’anonimo autore del testo, l’imperatore d’Oriente avrebbe inviato a Siponto un proprio consanguineo, Lorenzo, per reggerne la locale diocesi dopo un periodo di vacanza. Giunto a destinazione, Lorenzo, il cui episcopato va collocato al tempo di Giustiniano,78 avrebbe fatto costruire numerosi edifici sacri, facendo giungere dall’Oriente artigiani esperti (doctissimos artifices) per provvedere alla loro decorazione.79

Nei vici costieri della Puglia, si registra un’alta concentrazione di sculture costantinopolitane.67 A Bari, la cattedrale romanica di S. Maria Assunta reimpiega numerose sculture paleocristiane, già appartenute alla basilica del V–VI secolo d.C. precedente l’edificio medievale.68 Tra questi materiali spiccano le due basi di colonna del protiro dell’ingresso meridionale della cattedrale, che, decorate da rombi concentrici con fiori quadripetali centrali, possono essere confrontate con i ventiquattro esemplari della basilica di Sant’Apollinare in Classe.69 Ugualmente degna di nota la presenza di alcune colonnine tortili e baccellate importate dall’Oriente.70 Marmi di origine costantinopolitana sono presenti anche in altre chiese (S. Nicola, S. Gregorio, S. Maria del Buonconsiglio, S. Pelagia/S. Anna). Tuttavia, in assenza di testimonianze archeologiche che consentano di attribuire un’origine paleocristiana a questi edifici, è probabile che gli elementi in questione provengano da strutture collocate nel territorio circostante la città.71

Il racconto della Vita Laurenti fornisce, dunque, una testimonianza di eccezionale interesse sulla circolazione di manufatti e maestranze costantinopolitane nell’area Bertelli 2002, pp. 346–352. Si tratta, in totale, di nove plutei, di cui due da Siponto, due da Benevento (dove furono portati nell’alto Medioevo, dopo l’accorpamento della sede episcopale locale con quella sipontina), quattro da Monte Sant’Angelo e uno dall’abbazia di S. Maria a Pulsano; a questi, si aggiunge l’esemplare oggi conservato al Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City (Stati Uniti), per il quale si può legittimamente supporre una provenienza pugliese (Barsanti 1999; 2003; Bertelli 2002, pp. 315– 319 e 341–342). 74 Sodini 1977, pp. 441–443. Alla serie va probabilmente aggiunta anche una lastra proveniente dalla basilica di S. Lorenzo a Milano. Nonostante Lusuardi Siena 1990 rifiuti ogni nesso tra questo elemento e i plutei di Siponto, la questione andrebbe riconsiderata alla luce del recente riconoscimento in S. Lorenzo di una fase “bizantina” (Fieni 2004). 75 Barsanti 2004a, pp. 505–29; sulle transenne ravennati: Rizzardi 2006b. 76 Volpe 1996, pp. 121–124; Nuzzo 2011. Di queste relazioni è testimonianza anche la Vita sanctae Artellaidis, redatta a Benevento nell’VIII secolo. La Vita narra le vicende di Artellaide, una giovane nobile che, fuggita da Costantinopoli per sottrarsi alle avances di Giustiniano, trovò rifugio presso lo zio Narsus (Narsete) a Lucera, da dove si sarebbe recata in pellegrinaggio al santuario micaelico del Gargano, donando “triginta aureos” (Bertelli 1995, pp. 538–541). 77 Campione 1992; 2004. 78 Campione 2004, pp. 71–80. 79 Acta Sanctorum, Februarii, II, pp. 57–62. La veridicità del racconto è messa in dubbio da A. Campione, che lo ritiene ispirato all’episodio della Vita di Desiderio di Montecassino (1058–1087), in cui si afferma che l’abate avrebbe inviato alcuni artigiani a Costantinopoli perché fossero istruiti nell’arte della lavorazione dei materiali; dopo un periodo di apprendistato, essi sarebbero tornati in patria portando con sé maestranze bizantine esperte e disponibili a insegnare la propria arte ai monaci (Campione 1992, p. 209). 72 73

A Siponto (Foggia) la basilica preesistente la cattedrale medievale di S. Maria Maggiore fu realizzata con arredi marmorei provenienti da Costantinopoli e dall’Oriente mediterraneo. Oltre a fusti in marmo cipollino poggianti su basi attiche del tipo non rifinito, la chiesa possedeva Pirani 1985, pp. 552–555; Barsanti 1993, p. 64. Pirani 1985, pp. 556–558; Barsanti 1993, pp. 64–65. 65 Barsanti 1993, p. 65. Il pilastrino di Fossombrone può essere confrontato con quelli provenienti dal complesso di San Calocero ad Albenga (Savona), imitazioni in marmo lunense dei pilastrini della recinzione presbiteriale di S. Clemente a Roma. Tale somiglianza suggerisce che le maestranze giunte a Roma per decorare o rifinire i marmi di S. Clemente abbiano raggiunto anche la Liguria (Guiglia 2010, p. 132). Nel caso di Albenga, è probabile che gli artigiani in questione abbiano seguito la rotta tirrenica che conduceva da Roma alla città ligure, mentre in quello di Fossombrone possiamo supporre una circolazione di modelli, se non di maestranze, lungo la via Flaminia. 66 Barsanti 1993, p. 65. 67 Bertelli 2002. 68 Bertelli 1994. 69 Gli spolia di S. Maria Assunta comprendono anche sette capitelli “a lira”, due capitelli compositi del tipo “ad acanto finemente dentellato”, un capitello “a calice” e due plutei frammentari (Bertelli 2002, pp. 97–100, 102, 103–105). 70 Sugli esempi pugliesi: Bertelli 2002, p. 70; sulle colonnine spiraliformi e sbaccellate: Flaminio 2011. 71 Bertelli 2002, pp. 109–167. 63 64

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Yuri A. Marano della costa e i centri posti lungo il tracciato della via Egnatia.88 Nell’interno della regione, l’utilizzo del marmo appare limitato a oggetti di piccole dimensioni, come le mense, i sostegni e le basi d’altare rinvenute a Byllis.89 Recinzioni presbiteriali in marmo sono state documentate, per esempio, a Phoinike90 e nella basilica extramuros di Elbasan, dove plutei in marmo nero con venature grigie erano abbinati a pilastrini in marmor Sagarium.91

apula, dove l’influsso dei modelli artistici elaborati nella capitale d’Oriente è particolarmente evidente anche a Canosa. Qui, si devono all’iniziativa del vescovo Sabino, che le fonti ricordano aver visitato Costantinopoli in più occasioni, la costruzione della cattedrale, ispirata alla basilica giustinianea di S. Giovanni a Efeso, e quella della chiesa di S. Leucio, un edificio a pianta centrale a doppio tetraconco.80 È, appunto, all’arredo di uno di queste strutture che va riferito il capitello bizonale conservato nel locale Museo Civico, che, appartenuto a un ciborio, trova confronti a Costantinopoli, Salonicco, Filippi, Cartagine (Damous-el-Karita) e Durazzo.81

In questo quadro, un’eccezione è rappresentata da Durazzo, il cui Foro Circolare (Fig. 6) può essere oggi attribuito all’iniziativa dell’imperatore Anastasio (491–518 d.C.),92 che le fonti celebrano per aver patrocinato la costruzione e il restauro di monumenti ed edifici pubblici nella sua città natale.93 Il complesso, che coniuga gli elementi tipici dei macella di età romana con quelli dei fori imperiali di Costantinopoli, era formato da una piazza circolare del diametro di 36 m, delimitata da colonne in granito della Troade alle quali erano abbinati basi e capitelli corinzi in marmo proconnesio.94

A Barletta, lo scavo della basilica paleocristiana (V/ VI secolo d.C.) individuata sotto il duomo medievale82 ha restituito un pilastrino di recinzione presbiteriale, una colonnina frammentaria pertinente a una pergula o al sostegno di una mensa d’altare e il frammento di un parapetto di ambone a doppia rampa scalare, tutti ispirati ad arredi liturgici di tipo costantinopolitano.83 Materiali analoghi sono presenti anche nella basilica di Canne della Battaglia (Barletta),84 dove si segnala la presenza di tre capitelli-imposta ionici, confrontabili con esemplari della Grecia.85

A est di Durazzo, a una distanza di circa 6 km dalla città, si trova la basilica di Arapaj, un edificio di età giustinianea i cui arredi erano per lo più in marmo proconnesio.95 A Saranda (l’antica Onchesmos), la basilica di Rruga Skenderbeu96 ha restituito una mensa d’altare con un’iscrizione greca e gli elementi in marmo proconnesio di una recinzione presbiteriale, della quale faceva parte, oltre a plutei e pilastrini, anche una serie di cimase, decorate da croci semplici e croci su disco.97

A Trani, una basilica del V/VI secolo d.C. è stata individuata sotto la cattedrale di S. Maria, che ne reimpiega alcune colonne in marmo e capitelli “ad acanto spinoso” e “ad acanto finemente dentellato”, oltre a plutei e transenne di finestra.86 Particolarmente nutrito il numero degli spolia nella cripta romanica del cattedrale di Otranto, anch’essa preceduta da un edificio di culto paleocristiano. Oltre a materiali romani provenienti dall’anfiteatro di Lecce, la struttura conserva capitelli di varia tipologia (corinzi, “a lira”, “ad acanto spinoso”, bizonali), due pilastrini di recinzione presbiteriale e sei colonnine, il cui fusto si caratterizza per l’insolita decorazione a girali con mezze palmette e foglie trilobate.87

Hobdari 2011. Alcuni di questi materiali si caratterizzano per la presenza di monogrammi, che sono stati sciolti nel nome del vescovo Praesios, che compare anche nelle iscrizioni musive delle basiliche C e D (Chevalier 2005, pp. 73–75). Da Byllis deve provenire anche la piattaforma marmorea di una ambone a doppia rampa scalare oggi conservata nella vicina Ballsh (Hobdari 2008, pp. 332–333). Bene attestate sono anche le produzioni locali di Byllis (Vanderheyde 1998), caratterizzate dall’utilizzo di calcare proveniente da cave collocate all’interno e all’esterno della cerchia muraria cittadina di età giustinianea (Koželi, Wurch Koželi 2012, pp. 624–627). 90 Un capitello a stampella e alcuni frammenti di colonna tortile in marmo provengono dalla basilica paleocristiana (Hobdari, Podini 2008, p. 162). 91 Hobdari 2011, pp. 342–345. 92 È questo quanto emerso dallo studio dei materiali ceramici raccolti recuperati negli strati sottostanti la pavimentazione del Foro (Hoti et al. 2008, pp. 394–395). 93 Haarer 2006, pp. 242–244. 94 La provenienza di questi elementi dalle cave del Proconneso è certificata dalla presenza di masons’ marks in lettere greche (ΠΑΤ e ΕΥ) su alcune basi, capitelli e fusti di colonna (Pensabene 2002b, pp. 329–330). Ai materiali del Foro Circolare si aggiungono quelli erratici, in marmo e pietra locale, oggi conservati nel giardino del Museo Archeologico di Durazzo (Hoti 1997). 95 Hidri, Hidri 2012, pp. 31–32. Le colonne della basilica erano realizzate in marmo bianco e in breccia verde (Hobdari 2011, p. 360). 96 La basilica fu ricavata tra la fine del V e gli inizi del VI secolo d.C. all’interno di una sinagoga, fondata all’incirca un secolo prima (Nallbani et al. 2011). 97 Sui marmi della basilica, che comprendevano anche capitelli, si vedano Lako 1991; Hobdari 2011, pp. 344–346; sulle cimase, Barsanti 2004b, pp. 481–486; Hobdari 2005. 88 89

Sulla sponda opposta dell’Adriatico, nel territorio dell’Epiro, la produzione scultorea va riferita soprattutto all’attività di officine locali, mentre la presenza di materiali d’importazione riguarda esclusivamente le località Sull’attività edilizia di Sabino, si veda Volpe 2014, pp. 1051–1054. Il capitello è indubbiamente l’elemento di maggior interesse di un insieme di materiali comprendente anche alcuni pilastrini di recinzione presbiteriale e una lastra a modanature complesse con fiorone quadripetalo centrale (Bertelli 2002, pp. 243, 255–256). Sul capitello di Durazzo, cfr. Anamali 1988. 82 La costruzione della basilica va attribuita a Sabino di Canosa, il cui nome compare su alcuni mattoni rinvenuti nello scavo dell’edificio (Volpe 2007, pp. 91–93). Da un punto di vista icnografico, quest’ultimo trova confronti in Puglia, mentre la presenza di un vano, forse un pastophorion, al fondo della navatella destra rimanda alla Grecia continentale e insulare (Favia, Giuliani 1997, pp. 340–342). 83 Giuliani 1999, pp. 305–306, 310. 84 Bertelli 2002, pp. 208, 224–225. 85 Bertelli 2002, pp. 211–212, 221–224. 86 Pensabene 1996; Bertelli 2002, pp. 356–366. 87 Vergara 1981, pp. 75–77, 80–82, 99–102; Falla Castelfranchi 2007, pp. 283–286; Flaminio 2011, pp. 596–597. 80 81

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Marmo e committenze nell’Adriatico tardoantico (V–VI secolo d.C.) Conclusioni

A est di Saranda, sulla collina che domina la città e il golfo sottostanti, sorge la basilica dei Quaranta Martiri, un edificio del V/VI secolo d.C. sviluppato su due livelli: una chiesa superiore, dalla pianta mononave a eptaconco preceduta da un nartece, e una cripta anulare, sulla quale si aprono dieci cappelle.98 Alla complessità architettonica della basilica fa riscontro la semplicità dell’arredo liturgico, interamente realizzato in calcare locale.99

Nel corso della tarda Antichità, la produzione e il consumo del marmo risultano indissolubilmente legati al potere imperiale. Non solo gli imperatori detenevano la proprietà delle cave, ma, parallelamente al progressivo eclissarsi dell’evergetismo privato, rimasero pressoché gli unici committenti di grandi progetti edilizi, in cui il marmo trovava largo impiego.110 Non è un caso, per esempio, che in Africa settentrionale l’importazione da Costantinopoli di sculture in marmo proconnesio sia successiva alla caduta del regno vandalo e alla riconquista giustinianea del 533 d.C.111 Anche nell’Adriatico, tale legame appare evidente fin dalle più antiche attestazioni dell’importazione di sculture da Costantinopoli: a Ravenna, le imposte della basilica di S. Giovanni Evangelista, fondata da Galla Placidia tra il 424 e il 434 d.C., e i ventiquattro fusti di colonna, capitelli e imposte della basilica Apostolorum, anch’essa di possibile fondazione imperiale, sono i primi esempi dell’importazione di setti omogenei in marmo proconnesio, un uso divenuto corrente nel prosieguo del V secolo d.C.112 È stato calcolato che, tra gli episcopati di Giovanni I (477–494 d.C.) e Pietro III (570–578 d.C.), siano giunte a Ravenna all’incirca 1.556 tonnellate di marmo: l’arrivo di questi materiali ebbe luogo nel periodo di più intensa attività costruttiva nella storia tardoantica della città, coinciso con i programmi edilizi di Teoderico (493–526 d.C.) e Giustiniano.113

L’utilizzo del calcare locale caratterizza anche la scultura architettonica e di arredo liturgico di Butrinto, dove gli elementi in marmo compongono un gruppo numericamente esiguo. Tra questi materiali si possono segnalare la recinzione presbiteriale e le imposte della Grande Basilica,100 costruita nel secondo quarto del VI secolo d.C.101 Una transenna a giorno, capitelli a stampella e colonnine di finestra, tutti in marmo, provengono dalla basilica dell’Acropoli,102 risalente alla metà del V secolo d.C.103 Un caso particolare è rappresentato dal battistero,104 i cui capitelli-imposta ionici, collocati su fusti in granito (forse della Troade), furono scolpiti utilizzando marmi di reimpiego.105 Anche nella Grecia nord-occidentale, le basiliche paleocristiane di Nikopolis possedevano arredi realizzati in pietra locale, marmi di reimpiego e marmi di importazione.106 Il rinvenimento di capitelli-imposta ionici, capitelli “a lira” e fusti di colonna in marmo proconnesio rimanda all’ambito costantinopolitano.107 Vanno annoverate tra i manufatti di importazione anche le transenne lavorate a giorno della basilica Β, che hanno un corrispettivo meno raffinato in alcune transenne dalla basilica Δ, riferibili ad artefici locali.108 Proprio dal braccio settentrionale della basilica Δ proviene un monumentale sarcofago a cassapanca con decorazione simbolica e coperchio ad acroteri angolari, scolpito in marmo proconnesio e di provenienza costantinopolitana.109

Questo afflusso di materiali ha spinto a ritenere che nella Ravenna tardoantica esistesse una struttura analoga alla statio marmorum di Roma, dove erano immagazzinati i marmi e le pietre colorate delle cave imperiali.114 Per quanto suggestiva, l’ipotesi non trova alcun riscontro nella documentazione attualmente disponibile,115 e il confronto con la statio marmorum è quantomeno fuorviante. Durante l’età romana, l’organizzazione centralizzata che gestiva l’estrazione e la distribuzione del marmo prevedeva l’esistenza, a Roma e in altre località del Mediterraneo, di depositi in cui erano ammassati i materiali destinati agli imperatori e ai membri delle classi dirigenti

98 Realizzate in laterizi e frammenti ceramici, le iscrizioni che corrono lungo le pareti del nartece e della basilica riportano i nomi dei fondatori dell’edificio (Mitchell 2004; Hodges 2006, pp. 234–237). 99 Hobdari, Podini 2008, p. 153. 100 L’edificio riutilizza anche capitelli corinzi e basi attiche di età imperiale (Hobdari, Podini 2008, pp. 151–152). 101 Bowden, Mitchell 2004, pp. 106–111. 102 Bowden, Mitchell 2004, p. 111. 103 Greenslade, Leppard, Logue 2014, pp. 56–62. 104 Risalente al V/VI secolo d.C., il battistero mostra punti di contatti con quelli San Giusto (Lucera), di Nocera Inferiore e di Salona (Bowden, Përzhita 2004, p. 199). 105 Bowden, Përzhita 2004, pp. 185–190. I capitelli del battistero possono essere confrontati con le imposte rinvenute a Hadrianopolis,che dista una sessantina di chilometri da Butrinto. Scolpite in pietra locale, le imposte mostrano una banale decorazione croci patenti e lemnischi, senza che nulla suggerisca il benché minimo rimando ad ancestrali simbologie pagane (Montali 2012). 106 Sulla scultura paleocristiana di Nikopolis, cfr. Chalkia 2006; Papadopoulou, Konstantaki 2007. 107 Chalkia 2006, pp. 285–287. 108 Chalkia 2006, pp. 282–283; Papadopoulou, Konstantaki 2007, p. 648. Nella Grecia nord-occidentale, frammenti di transenne lavorate a giorno sono stati recuperati anche presso le basiliche di Mytika, in Acarnania (Vokotopoulos 1980, p. 86), e di Krystallopigi, presso Paramythia, in Tesprozia (Basilikou 2009, pp. 203–204). 109 Delle dimensioni di 2,67 m per 0,88 m, il sarcofago è decorato sui lati lungo secondo lo schema ternario del chrismon entro serto di alloro

tra due croci patenti. Croci patenti compaiono anche sui lati brevi della cassa, mentre sul coperchio, a doppio spiovente e acroteri angolari, sono due croci su disco (Chalkia 2004). Confronti per il sarcofago della basilica Δ sono, ovviamente, rintracciabili a Costantinopoli (Flaminio 2013), a Doljani in Montenegro (Nikolajević 1965, pp. 463–468) e a Naxos nelle Cicladi (Lambertz 2007). Inoltre, un coperchio a doppio spiovente e acroteri angolari, decorato sui due lati da una croce patente, è stato rinvenuto durante lo scavo della basilica di Mytika, in Acarnania (Vokotopoulos 1980, p. 35). 110 Marano 2014, pp. 423–424. 111 Sodini 2002b. 112 Farioli 1991, p. 252. 113 Si tratta di una stima prudente, che non considera i marmi importati dal Proconneso o da altre località per i rivestimenti pavimentali e parietali, gli arredi liturgici e i sarcofagi (Harper 1997, pp. 145–147). 114 Harper 1997, pp. 134–140. 115 Harper 1997, p. 134 propone di localizzare i magazzini a nord di Ravenna, all’esterno della Porta Guarcinorum, dove un tempo sorgeva la chiesa di S. Giovanni in Marmorata. Tuttavia, il toponimo ‘Marmorata’, lo stesso con il quale in età post-classica era conosciuto a Roma il sito della statio marmorum, è di per sé poco indicativo, potendo semplicemente indicare un cumulo di macerie.

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Yuri A. Marano lecito supporre sia avvenuta su iniziativa imperiale.122 La presenza di sculture costantinopolitane e la fondazione o il restauro degli edifici di culto cittadini123 permettono di ipotizzare anche per Ancona un diretto intervento delle autorità bizantine, similmente a quanto avvenuto a Pesaro. Qui, un’iscrizione musiva consente di attribuire il restauro della locale cattedrale al vir gloriosus magister militum et ex consul provincia Mysiae natus Giovanni, cui si affianca il monogramma di un certo Narses, da identificarsi senz’ombra di dubbio con Narsete.124

provinciali cui era concesso il privilegio di utilizzarli.116 Nella tarda Antichità la marcata flessione dell’attività edilizia, la diminuzione del numero delle cave attive e la frammentazione politica del Mediterraneo devono avere, tuttavia, reso non più necessaria l’esistenza di un simile sistema. È inoltre improbabile che una struttura analoga alla statio marmorum di Roma possa essere esistita a Ravenna nel V/VI secolo d.C., periodo durante il quale la città rimase lungamente al di fuori della sfera di giurisdizione imperiale. Infine, studi recenti hanno messo in discussione l’esatta funzione dei depositi imperiali: le cave avrebbero lavorato soprattutto su commissione, rendendo così inutile e poco conveniente l’ammasso di grandi quantità dei materiali nelle stationes marmorum, dove erano più verosimilmente conservate le eccedenze dei cantieri imperiali.117

A emergere con particolare chiarezza dalla documentazione disponibile è soprattutto il ruolo dei vescovi nella circolazione nell’area adriatica dei manufatti marmorei e dei modelli artistici costantinopolitani. Molti dei casi qui esaminati sono, infatti, riconducibili all’impegno evergetico di presuli come Eufrasio di Parenzo, Onorio di Salona e Lorenzo di Siponto. È noto che i vescovi della tarda Antichità non esercitassero solo la funzione di committenti nella costruzione degli edifici di culto, ma si occupassero anche della produzione e dell’approvvigionamento dei materiali da costruzione.125 Per quanto concerne il marmo, una testimonianza significativa è offerta da un passo del Liber Pontificalis Ravennatis, in cui Agnello ricorda la sostituzione da parte dell’arcivescovo Massimiano delle antiche colonne in legno di noce della basilica di Sant’Andrea a Ravenna con fusti in marmo proconnesio.126

Alla luce di questa considerazioni, è necessario proporre un modello alternativo per la circolazione dei manufatti marmorei nell’Adriatico del V–VI secolo d.C., rinunciando all’idea dell’esistenza di un deposito dal quale i marmi giunti a Ravenna da Costantinopoli erano ridistribuiti nel resto della regione. Più probabilmente, la circolazione della scultura costantinopolitana nell’Adriatico va riferita all’iniziativa delle locali élites civili e religiose, che intrattenevano rapporti privilegiati con Costantinopoli, contribuendo alla diffusione dei modelli artistici elaborati nella capitale dell’Impero.118

L’arrivo nell’Adriatico di marmi costantinopolitani va verosimilmente collocato sullo sfondo della fitta trama di relazioni religiose, diplomatiche e personali, che univa i vescovi della regione a Costantinopoli e all’entourage imperiale. Se Massimiano fu ordinato arcivescovo di Ravenna dallo stesso Giustiniano,127 una tradizione tarda attribuisce a Lorenzo di Siponto una parentela con

In questo contesto, l’iniziativa imperiale pare avere svolto un ruolo marginale, con l’eccezione di Durazzo, dove il ricco arredo marmoreo del Foro Circolare conferma l’attribuzione del complesso all’imperatore Anastasio.119 Altrove, le autorità imperiali intervennero indirettamente, attraverso i loro rappresentanti. Questo pare essere stato il caso di Ancona, dove la tarda attribuzione della fondazione della chiesa di S. Lorenzo a Galla Placidia non trova alcun riscontro,120 ma potrebbe conservare eco dell’interesse dei Bizantini per la città, la cui importanza crebbe notevolmente durante la guerra gotica.121 All’indomani del conflitto, in tutta l’area picena si registra una notevole fioritura dell’organizzazione cristiana, che è

Profumo 2008, pp. 158–160. Oltre alla ricostruzione della basilica sottostante S. Maria alla Piazza, si data a questo periodo anche la costruzione della basilica di via Menicucci (Zanini 1998, pp. 152–153). 124 Farioli 1998. Giovanni prese parte alle operazioni condotte dai Bizantini nel Piceno tra il 548 e il 551 d.C., svolgendo un ruolo attivo nell’assedio di Ancona e nella conquista di Senigallia. Egli operò in Apulia (PCBE Italie 1999–2000, s.v. “Iohannes 35”, pp. 1083–1084). Se un’epigrafe oggi scomparsa permette di attribuire allo stesso Giovanni la fondazione di una basilica a Ravenna o a Rimini (ICVR II, 1, p. 8, n. 14), assai più incerta appare l’identificazione con il magister militum dello Iohannis il cui monogramma compare su un mattone bollato dal complesso paleocristiano di San Giusto, presso Lucera (Volpe 2003, pp. 529–530). 125 Volpe 2007, pp. 93–94; sull’importanza dell’attività edilizia nella strategia di affermazione dell’autorità episcopale, cfr. Caillet 2003. 126 LPER 76: “(…) Ecclesiam vero beati Andreae apostoli hic Ravennae cum omni diligentia non longe a regione Herculana, columnas marmoreas suffulsi, ablatasque vetustas ligneas de nucibus, proconisas decoravit”. Un altro episodio della biografia di Massimiano (LPER 73) conferma il controllo esercitato dalle gerarchie ecclesiastiche sulla produzione e distribuzione dei materiali da costruzione: secondo Agnello, l’archiergatus della Chiesa di Ravenna si sarebbe rivolto all’arcivescovo perché ponesse rimedio alla penuria di “caementum et latercula” e “lapides”, che, provocata dalla lunga permanenza dello stesso Massimiano “in partibus Constantinpolitanis”, rallentava il cantiere della basilica di S. Stefano. Il presule intervenne prontamente, fornendo nottetempo quanto necessario al prosieguo dei lavori, “calces et latercula, petras et bisales, lapides et ligna, columnas et astas, harenas et sabulos”. 127 Caillet 2003, pp. 24–29. 122 123

Russell 2013, pp. 232–234. Russell 2013, pp. 234–239. 118 La concentrazione dei marmi nelle città della costa costiere adriatiche non rispecchia solo le difficoltà logistici e gli elevati costi economici dei trasporti terrestri, ma anche e soprattutto il rilievo politico, religioso e militare di questi centri. Una situazione simile si riscontra lungo le coste del Mar Nero, in Crimea (Bortoli-Kazanski 1981) e in Abcasia-Georgia (Khroushkova 2006, pp. 135–144). 119 Sull’importanza e il ruolo della committenza imperiale nella diffusione della cultura artistica costantinopolitana, si veda Mundell Mango 2003, pp. 119–125. 120 Barsanti 1985, pp. 387–388. In età moderna, gli eruditi locali attribuirono a Galla Placidia la donazione di alcune terre alla scomparsa abbazia di S. Martino, nel territorio di Fermo (Battistelli 1985, p. 412). 121 La crescita di Ancona avvenne a discapito di Osimo, di cui era stata fino ad allora il sobborgo portuale. Conquistata da Belisario e dotata di una guarnigione, fin dalle prime fasi del conflitto Ancona assunse un ruolo decisivo come centro del controllo bizantino sull’Adriatico: qui erano immagazzinate le derrate provenienti dalla Sicilia e dalla Calabria e destinate alle truppe imperiali. Inoltre, sotto le mura della città si combatté nel 552 d.C. una battaglia terrestre e navale decisiva per le sorti del conflitto (Zanini 1998, pp. 150–153). 116 117

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Marmo e committenze nell’Adriatico tardoantico (V–VI secolo d.C.) l’imperatore d’Oriente, mentre Sabino di Canosa visitò ripetutamente Costantinopoli, a conferma del ruolo di intermediari privilegiati della Chiesa di Roma presso il mondo bizantino che i rappresentanti dell’episcopato meridionale avevano rivestito fin dal IV secolo d.C.128 Esistevano dunque le condizioni concrete per un’ampia circolazione di manufatti, maestranze129 e modelli artistici, che accompagnava probabilmente lo scambio di lettere, doni e reliquie.130 Una situazione simile a quella attestata per Roma, dove la presenza di arredi liturgici in marmo del Proconneso coincide cronologicamente con il reciproco invio di doni diplomatici tra Giustiniano e i papi Ormisda (514–523 d.C.), Giovanni I (523–535 d.C.) e Giovanni II (533–535 d.C.).131

orizzonti artistici dell’Adriatico entro più angusti ambiti regionali, ma al tempo stesso ne conferma la sostanziale omogeneità culturale.137

Queste relazioni avvenivano lungo le stesse rotte marittime132 e terrestri, prima tra tutte la via Egnatia, che univano l’Adriatico al Mediterraneo orientale. L’apertura verso Costantinopoli appare uno dei tratti distinti della koiné artistica che caratterizza lo spazio adriatico nel corso della tarda Antichità, trovando riscontro nell’ambito dell’architettura religiosa133 e nella produzione musiva.134 La diffusione lungo l’arco costiero adriatico dei capitelliimposta ionici,135 scarsamente documentato al di fuori dell’Egeo, ribadisce tale unità, destinata a sopravvivere anche all’esaurirsi della importazioni da Costantinopoli. Alla fine del VI secolo d.C., la sostituzione dei sarcofagi in marmo proconnesio con le arche in calcare dell’isola di Brač (Dalmazia)136 documenta il restringersi degli Otranto 1995, p. 864. La presenza di maestranze orientali nell’Adriatico del V/VI secolo d.C. è attestata a Pola, dove – secondo quanto riferito da una fonte cinquecentesca – sotto i mosaici dell’abside della basilica di S. Maria Formosa correva un’iscrizione greca. Inoltre, il frammento superstite della decorazione, sul quale compare una raffigurazione del Cristo tra due Apostoli o una scena di traditio legis, trova confronto, oltre che a Nikopolis (ambone della basilica Β), a Salonicco (Hosios David) e a Cipro (chiesa della Panagia Kanakariá a Lythrankomi: Tavano 1974, pp. 247–252). 130 Ricordato anche dalle fonti scritte, l’arrivo in Italia meridionale di reliquie orientali è confermato dal ritrovamento di del reliquiario in marmo proconnesio tornato in luce presso la basilica suburbana di proprietà Maldonato, presso Otranto. A forma di sarcofago con coperchio ad acroteri angolari, il reliquiario conservava al proprio interno uno scrigno d’argento, la cui decorazione a motivi geometrici e vegetali rimanda all’ambito costantinopolitano (Nuzzo 2011, pp. 195– 196). Reliquiari di questo tipo sono noti anche altrove nell’Adriatico (per esempio, a Torcello e Pola) (D’Angela 1995, pp. 280–287), ma le principali attestazioni si hanno nei Balcani, lungo le coste del Mar Nero, in Asia Minore e in Medio Oriente (Minchev 2003; Aydın 2011). 131 Guiglia 2002, p. 1490; Iacobini 2002, pp. 665–666. 132 Volpe 2003, pp. 515–517. 133 Si è già avuto modo di sottolineare le somiglianza tra gli edifici di culto di diverse località dell’Adriatico. Per quel che concerne invece l’organizzazione degli spazi liturgici, nell’area adriatica risultano particolarmente diffuse le recinzioni presbiteriali “a Π capovolto”, una soluzione di origine costantinopolitana attestata anche nei Balcani (Cuscito 1999; Favia, Giuliani 1997, p. 340). 134 Moreno Cassano 1976; De Santis 2006. 135 La presenza di capitelli-imposta ionici potrebbe essere indicativa dell’esistenza di basiliche dotate di gallerie, gli spazi in cui questi elementi erano solitamente utilizzati nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale. Allo stato attuale, questa soluzione architettonica è, tuttavia, attestata solo nella basilica di S. Vitale a Ravenna (Farioli 1991, p. 256). 136 Sui sarcofagi in pietra di Brač, si veda D’Angela 2008. Chi scrive ritiene che alla carta di distribuzione di questi manufatti vada aggiunto un sarcofago conservato nel giardino del museo archeologico di Durazzo, decorato sulla faccia principale dalla raffigurazione due croci a bracci 128 129

espansi disposte simmetricamente ai lati di una croce dello stesso racchiusa entro un clipeo, riprodotta anche sui lati brevi della cassa. Il confronto proposto da G. Koch con il sarcofago del vescovo di Grazioso di Ravenna, morto nel 788, e la conseguente datazione dell’esemplare di Durazzo a età altomedievale (Koch 1988, p. 255) risultano poco pertinenti. Per questa ragione, ci si propone di tornare sulla questione in un’altra sede. 137 Farioli 1991, p. 264.

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Fig. 1. Carta di distribuzione della scultura costantinopolitana nell’Adriatico (elaborazione dell’Autore).

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Marmo e committenze nell’Adriatico tardoantico (V–VI secolo d.C.)

Fig. 2. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale: capitelloimposta ionico (foto dell’Autore).

Fig. 4. Ancona, Museo Diocesano: parapetto di ambone (da Polverari 1993).

Fig. 3. Salona, basilica cruciforme: frammento di pluteo con monogramma del vescovo Onorio II (da Duval, Caillet 2010).

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Yuri A. Marano

Fig. 5. Siponto, Museo Archeologico: plutei (da Barsanti 1999).

Fig. 6. Durazzo, Foro Circolare (foto dell’Autore).

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2.2 Sepolture e centri urbani in Romagna nell’alto Medioevo Debora Ferreri Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Scuola di Scienze [email protected] Abstract: In this paper, we will examine funerary traditions, as affected by some processes that, while maintaining some aspects of continuity with the past, brought strong elements of novelty in the sphere of the cult of the dead and in the relationship between the world of the living and that of the dead in the Romagna territory, through archaeological sources. Keywords: Burials; Archaeology; Romagna; Late Antiquity; Early Middle Ages.

molti centri urbani italiani ed europei.3 Le prime evidenze si hanno tra fine IV e inizi V secolo. Dal VI secolo in poi si diffondono quasi ovunque. A Roma, per esempio, si inizia a seppellire dentro le mura in maniera sporadica nel V secolo, finché il fenomeno cresce a partire dalla metà del VI secolo, durante e dopo la guerra Gotica.4 A Fiesole le più antiche tombe all’interno della città si datano nel VI secolo,5 a Napoli6 e a Pesaro sono invece attestate già dal IV secolo,7 mentre a Verona sono datate tra VII e IX secolo.8 Queste sono solo alcune delle numerose città in cui si ha la testimonianza di sepolture disposte all’interno dello spazio urbano.9 In questo contributo analizzeremo come questi mutamenti interessano i centri urbani della Romagna.

I cambiamenti economici, sociali e culturali che riguardarono il mondo romano a partire dal IV secolo si riflettono su molte forme della cultura materiale, dell’organizzazione delle città e del territorio. Inoltre tale riscontro si ha nelle tradizioni funerarie, interessate da alcuni processi che, pur mantenendo alcuni aspetti in continuità con il passato, apportarono forti elementi di novità nella sfera del culto dei defunti e nella relazione tra il mondo dei vivi e quello di morti. Si tratta di mutamenti che interessarono le usanze, i riti legati al mondo dei morti e al loro passaggio nell’aldilà, ma anche alla concezione dello spazio funerario. Quest’ultimo aspetto, che indica un nuovo modo di concepire e gestire il mondo dei morti e quello dei vivi, si ritrova direttamente nell’organizzazione e nello sviluppo urbano.1

I motivi per cui i morti iniziarono a essere seppelliti in spazi urbani sono molteplici. In alcuni casi questo cambiamento è in relazione con lo sviluppo e l’influenza del cristianesimo.10 In altri casi si sostiene che gli avvenimenti bellici obbligarono i cittadini a seppellire i morti dentro le mura non solo per motivi ideologici, ma per necessità.11 Sicuramente questa pratica ci indica che la morte è vissuta diversamente. La presenza dei vivi e dei morti nello stesso spazio è un indicatore di un grande mutamento antropologico e sociale. La morte non è più marginalizzata, tenuta lontana, ma parte della quotidianità.

A partire dalla fine del IV secolo si afferma, inizialmente in modo graduale, per poi diventare prassi,l’uso di seppellire i defunti all’interno delle città. Nella società romana era infatti proibito seppellire all’interno del Pomerium che, come indica il termine, corrispondeva con lo spazio al di là del circuito murario, e gli spazi funerari si collocavano all’esterno dei limiti pomeriali, al di fuori delle mura urbane e lungo le principali direttrici viarie.2 Le modalità e le dinamiche che determinano l’ingresso delle sepolture all’interno delle città sono attestate e analizzate in

Sul tema la bibliografia di riferimento è molto ampia. Per una sintesi: Brogiolo, Gelichi 1998a, pp. 98–101; Cantino Wataghin 1999a. 4 Meneghini, Santangeli Valenzani 1993, pp. 89–112; 2004; Augenti 1996, pp. 29–37; 1998. 5 Ciampoltrini 1994, p. 622. 6 Amodio 2014. 7 Dall’Aglio 1998, p. 280. 8 La Rocca 1986, pp. 38–39. 9 Fondamentale sul tema è il volume a cura di Brogiolo, Cantino Wataghin 1998. 10 Come sostiene L. Pani Ermini (2001), è necessario distinguere la sepoltura “apud ecclesiam” o “ad sanctos” da quella isolata. 11 Tabata 2013, p. 29. 3

1 Per una sintesi si vedano i diversi articoli raccolti nel volume Brogiolo, Cantino Wataghin 1998. 2 Il primo riferimento ad una normativa sui luoghi di seppellimento si trova nella Legge delle Dodici Tavole. La legge X vietava infatti le sepolture all’interno dell’area pomeriale. Alcune reiterazioni sono rappresentate dalla Lex Ursonensis, da ammende imposte da Adriano, dalle leggi degli Antonini, scritte da Diocleziano e Massimiano, oltre che da una costituzione di Graziano, Valentiniano e Teodosio datata all’anno 381. Si veda a proposito: Von Hesberg, Zanker 1987.

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Debora Ferreri Evangelista, riferibile alla prima età imperiale. A questa segue un’area funeraria caratterizzata da strutture più monumentali, databile tra II e III secolo d.C., localizzata tra l’attuale viale Pallavicini e via Alberoni.18 Da questa zona proviene un sarcofago del tipo a cassapanca con coperchio a doppio spiovente, appartenente a Felice Vittorino, databile entro la prima metà del III secolo d.C.19 Molte di queste aree cimiteriali continuano a essere utilizzate anche nel corso del V e del VI secolo, con dinamiche interne differenti e in alcuni casi ampliando le dimensioni, per l’intensificazione dell’attività funeraria.

Le forme e le modalità di gestione della morte possono essere diverse in base al tipo di insediamento, urbano o rurale, all’organizzazione cimiteriale, piccoli nuclei o gruppi, alla presenza di edifici di culto o sepolture “illustri”. In Romagna tra il III e il IV secolo continuano a essere utilizzate alcune necropoli romane extra moenia; la maggior parte delle quali localizzate vicino alle porte di ingresso delle città o lungo gli assi viari. A Ravenna alcune di esse sono state individuate lungola Faventina e la via Reina, in direzione di Cesarea e Classe; a Rimini nei terreni a sud della via Flaminia, sulla via Aemilia nei pressi di Imola (Villa Clelia).12

Dopo la costruzione delle mura della città, agli inizi del V secolo, le necropoli romane rimasero all’esterno del perimetro urbano ma molto vicine a essa.20

Nel territorio ravennate queste aree cimiteriali erano inserite in un paesaggio caratterizzato dalla presenza di zone paludose e da una fitta rete di percorsi fluviali. La presenza dominante dell’acqua ha condizionato la città, in modo costante nel corso del tempo, sia nel suo sviluppo topografico, sia nei collegamenti con il territorio circostante.13

La necropoli rinvenuta dietro l’abside della basilica di San Giovanni Evangelista, per esempio, che si estendeva probabilmente fino all’attuale stazione ferroviaria,21 collocata su una duna sabbiosa, è in uso dal I secolo d.C. fino al VI secolo. Le sepolture più antiche, databili al I secolo d.C., sono soprattutto incinerazioni, contenute in urne di vetro e in materiale lapideo di forma rettangolare e circolare, con coperchio.22 Altre tombe databili a epoca più tarda furono rinvenute durante alcuni lavori in Piazzale Farini, nel corso del 1996, evidenziando un utilizzo della necropoli fino al IV–V secolo d.C. In questo settore sono state individuate ventisette sepolture di cui quattro in anfora, una in cassa di mattoni, due con struttura a cassone e venti in fossa terragna; le sepolture, che non avevano un orientamento regolare e neppure corredi funerari, rientravano comunque in uno spazio organizzato, attestato da modeste strutture in laterizi forse relative a piccoli monumenti funerari.23 Generalmente si tratta di tombe prive di corredi, a eccezione del nucleo funerario rinvenuto nella Darsena. All’interno di alcune sepolture provenienti da questo contesto, infatti, furono individuati diversi corredi preziosi ma di cui non si conosce la reale consistenza a causa dei furti. Tra questi, il famoso pettorale aureo noto come la “corazza di Teoderico”, di dubbia interpretazione. Purtroppo sono state identificate con certezza solamente otto sepolture, probabilmente appartenenti a due nuclei funerari separati, sebbene il numero delle tombe è stato ipotizzato maggiore. Il primo nucleo, collocato verso Nord, era costituito da quattro sepolture in cassa laterizia; il secondo, invece, era formato da una cassa in laterizi, due sepolture alla cappuccina e un mausoleo a base circolare.24

Le attestazioni funerarie più antiche sono datate tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C.; le aree cimiteriali costituivano nuclei ben distinti, spesso separati da recinti funerari o divisi gli uni dagli altri da fossi, arginature, viottoli e staccionate lignee, non in muratura.14 I rinvenimenti sepolcrali coprono un’estensione che, partendo dalla zona settentrionale nei pressi di via S. Alberto, affianca la città e prosegue verso Sud, nel territorio di Classe. Si tratta in alcuni casi di rinvenimenti casuali, o in occasione di scavi isolati, come l’area di necropoli, delimitata da un recinto funerario, identificata nella zona Nord della città, in via S. Alberto, e che ha restituito anche i resti di una stele.15 Sempre lungo questa via, ma più a Nord, a ridosso della torre dell’acquedotto, è stato rinvenuto un altro nucleo di sepolture, composto da tombe alla cappuccina e casse lignee. In prossimità di alcuni degli ingressi della città sono stati rinvenuti alcuni sarcofagi, datati tra il II e il III secolo, recuperati durante alcuni lavori presso Porta Serrata e Porta Adriana, in relazione con la via Faventina, e in via Fiume Montone Abbandonato, nel podere Berti.16 Sul versante settentrionale della città, invece, lungo via Sant’Alberto, sono state trovate due tombe a cassa in laterizi, una cassa lignea e una stele funeraria databile alla seconda metà del II secolo d. C. L’area funeraria, delimitata da un recinto, è datata tra il II secolo d.C. e i primi anni del III secolo.17

Nell’angolo sud-est della città, lungo l’asse viario che usciva da Porta Wandalaria, vi era un’altra area cimiteriale extraurbana, utilizzata dal I al V secolo. Quest’area cimiteriale era contigua ma distinta da quella localizzata

Topograficamente i cimiteri più antichi erano nelle immediate vicinanze della città. Tra le più importanti vi è la necropoli rinvenuta nella zona di San Giovanni

Montevecchi, Leoni 1998. Maioli, Montevecchi 2003. 20 Per quanto riguarda le mura della città di Ravenna e la loro datazione: Christie, Gibson 1988; Gelichi 2005; Cirelli 2008, pp. 54–67. 21 Bermond Montanari 1975, p. 64. 22 Bermond Montanari 1967. 23 Leoni, Montevecchi 1997, pp. 119–120. 24 Cirelli 2008, p. 269. 18 19

12 13 14 15 16 17

Curina et al. 1990; Negrelli 2008a. Cirelli 2015a. Berti, Ortalli 2000, p. 213. Maioli 2001a, p. 243. Manzelli 2000, p. 220. Stoppioni 1984–85, pp. 437–447.

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Sepolture e centri urbani in Romagna nell’alto Medioevo presso la Basilica di S. Lorenzo in Cesarea, dalla quale era distante circa 600 metri, e che fu costruita proprio nel V secolo su un vasto sepolcreto di età romana e utilizzata almeno fino al X secolo.25

costruito nel secondo quarto del V secolo.31 L’edificio ha un impianto cruciforme e l’interno è riccamente decorato da mosaici di chiara simbologia funeraria. Fu costruito per ospitare alcune sepolture della famiglia imperiale e all’interno vi fu forse deposto Costanzo III, mentre la tomba di Galla Placidia e quella del figlio Valentiniano III si trovano a Roma. Sul lato opposto, invece, vi era il piccolo monasterium di San Zaccaria, datato sempre al V secolo, e costruito da Singleida, nipote di Galla Placidia e moglie di Odoacre, di cui ospitò la sepoltura, ma l’edificio non è stato riportato alla luce.

Mentre una parte della popolazione continua a utilizzare questi cimiteri, antichi ed esterni all’area urbana, cominciano a verificarsi episodi di sepolture all’interno dell’abitato. Inizialmente si tratta di tombe sporadiche, con caratteristiche simboliche ma anche elitarie, gradualmente saranno organizzate in piccoli gruppi, fino a formare diverse aree cimiteriali, con un’occupazione degli spazi sistematica, a ridosso dei principali luoghi di culto urbano.

Esistono tuttavia casi di sepolture sporadiche e di aree cimiteriali urbane, non associabili a edifici religiosi, che si impostano invece su alcuni edifici romani in disuso o abbandonati. A Ravenna un gruppo di cinque sepolture è stato rinvenuto presso la domus di Largo Firenze–Via Guaccimanni,32 un nucleo più consistente in via Pier Traversari, sempre su una domus romana in disuso, localizzata in un’area utilizzata per scopi funerari dal VI secolo, che ha restituito diciannove sepolture, di individui deposti singolarmente, sia in fosse terragne che in casse in laterizi. Un’area funeraria maggiormente estesa (cinquantuno sepolture), databile in base ai materiali a partire dal VI–VII secolo, è stata individuata sui resti di due grandi domus augustee localizzata in via D’Azeglio, a pochi isolati dal Foro.

A Ravenna le prime tombe localizzate all’interno della città sono quindi quelle considerate “privilegiate”, associate a edifici ecclesiastici, luoghi della memoria in cui sono seppelliti personaggi che hanno rivestito un ruolo particolare nella storia politica locale,come il caso della basilica di S. Agata Maggiore, o le sepolture di alcuni vescovi della città, la cui presenza contribuì a diffondere il fenomeno di seppellire nei pressi delle chiese urbane.26 All’interno della Basilica Apostolorum, l’attuale San Francesco, fu sepolto per esempio il vescovo Neone,27 sebbene la datazione e l’identificazione della sepoltura siano controverse. La cronologia, seppur incerta, è comunque compresa entro la fine del V secolo. La possibilità che si tratti del vescovo Neone effettivamente non è dimostrabile, ma sicuramente si tratta di un personaggio di particolar rilievo, forse con un ruolo decisivo nella costruzione dell’edificio, e la cui tomba fu sicuramente un polo di attrazione per le sepolture successive.28 La basilica, infatti, ha accolto attorno a sé, diverse sepolture: quattro nella cripta, tre delle quali all’interno di sarcofagi (V–VII secolo), e altre, il cui numero è incerto, nell’area antistante la chiesa. Al di sotto del muro frontale della cripta, sotto il pavimento medievale, è stata rinvenuta una tomba con all’interno un corredo formato da un braccialetto aureo, noto come il “gioiello di San Francesco”, alcuni vaghi di collana in perle e una medaglia, databili tra la fine del VI e il VII.29

L’impiego di edifici residenziali romani, defunzionalizzati e in gran parte spoliati, riutilizzati per finalità funerarie si ritrova in diverse città del territorio romagnolo. A Rimini, sui resti di una domus rinvenuta in Piazza Ferrari,33 sono state portate alla luce alcune tombe databili alla seconda metà del VI e ai primi decenni del VII secolo. Le stesse dinamiche sono attestate a Faenza, dove è stato localizzato un piccolo nucleo di sepolture, datate tra la fine del VI e la prima metà del VII, sui resti di una domus con pavimentazione in mosaici di età tardoadrianea.34 Queste dinamiche sono attestate in edifici residenziali romani non solo all’interno di contesti urbani ma anche ma anche in zone suburbane e del territorio.

Una vasta area funeraria interna alle mura cittadine è stata individuata inoltre nella zona intorno a San Vitale. Il nucleo di sepolture più vasto è tuttavia quello, poco distante, associato alla chiesa di S. Croce. Le tombe, riportate alla luce nel corso dei diversi scavi effettuati, furono localizzate in varie zone dell’edificio: nei corridoi laterali, a ridosso dei portici esterni, all’esterno dell’edificio religioso. L’impianto della necropoli viene datato a un periodo posteriore all’inizio-metà del VI secolo.30

Alcune sepolture, databili tra VI e VII secolo, sono state rinvenute nella villa di Russi. L’edificio romano, ridotto nelle dimensioni e occupato in maniera più modesta rispetto agli utilizzi originari, in età altomedievale subisce numerose trasformazioni. Attività di spoliazioni, destrutturazione dell’edificio in favore di costruzione modeste, con l’impiego di materiali deperibili, sono associate a un uso cimiteriale del complesso.35

All’estremità meridionale dell’esonartece della Basilica di S. Croce, è localizzato il mausoleo commissionato da Galla Placidia, dedicato ai SS. Nazario e Celso, che fu 25 26 27 28 29 30

Numerosi edifici rurali sono destrutturati, subiscono alcune trasformazioni nella forma ma anche nelle funzioni. In

Cirelli 2008. Farioli 1989. Deichmann 1976, p. 315; Cirelli 2008. Lipinsky 1961; Baldini Lippolis 2004. Baldini Lippolis 2004. Gelichi 1990, pp. 195–208.

31 32 33 34 35

55

Deichmann 1974, pp. 63–70; Gelichi, Novara 1995. Cirelli 2008. Negrelli 2008. Guarnieri 2003. Cirelli 2014b, p. 345.

Debora Ferreri culto dei martiri. Le necropoli si trasformarono in luoghi di aggregazione, non solo individuali o familiari. Inoltre, la presenza di tombe di santi e vescovi presso questi cimiteri costituì un’ulteriore attrazione per le sepolture dei fedeli. La costruzione di questi edifici di culto all’interno dell’abitato condizionò ulteriormente la distribuzione delle sepolture anche nel tessuto urbano. Queste dinamiche e la crescente monumentalizzazione della città contribuirono notevolmente a cambiare il paesaggio urbano e quello del territorio circostante.

alcuni di essi sono attestati piccoli nuclei funerari. Nell’area del Decimano le uniche necropoli presenti sono collegabili a ville, come quella del podere Triossi. Le ricerche di superficie hanno individuato altre due aree di sepolture, una nel podere Perlini l’altra in località Montazzo. Altre tombe sono state trovate sui resti della villa rustica di Castellaccio da Massa Forese,36 databili tra VI e VII secolo, e a Palazzolo (Ravenna).37 Alla stessa cronologia sono state inoltre associate le inumazioni rinvenute a Liverano di sotto, nel territorio di Modigliana (FC), connesse a un insediamento rurale ancora non identificato.38

Nello stesso periodo sono attestati all’interno delle città italiane anche diversi casi di sepolture isolate, considerate sporadiche, perché prive apparentemente di connessioni o legami topografici con singoli edifici, e spesso di difficile interpretazione. A Ravenna sono state rinvenute nove sepolture indipendenti dai luoghi di culto in funzione, databili tra il V e il X secolo.42 Dal punto di vista tipologico si tratta sia di fosse terragne sia di sepolture in cassa. Sono, in ogni modo, tutte prive di corredo. La maggior parte è stata rinvenuta all’interno di edifici pubblici in rovina, come le tre sepolture identificate presso la Moneta Aurea, la sepoltura infantile presso il Balneum episcopale, e quelle trovate sui ruderi del palazzo di Teoderico. Le sepolture rinvenute in via Morigia e in via Mentana, invece, non sono associabili con nessun edificio.

In alcuni casi le aree cimiteriali sono associabili a zone abitative. A partire dal VII secolo la zona portuale della città di Classe è oggetto di alcune trasformazioni strutturali e topografiche. Sono state rinvenute alcune sepolture, organizzate in nuclei, in corrispondenza di strutture murarie o in zone dismesse di alcuni magazzini, dei quali sfruttano il materiale di spoglio e parte delle murature, come una tomba che utilizza una canaletta di raccolta delle acque, non più utilizzata, come cassa sepolcrale (Fig. 1). Alcune zone sono destinate a gruppi di sepolture infantili. Queste sepolture sono in relazione con alcune abitazioni individuate sia all’interno degli edifici, sia accanto a magazzini dismessi (Fig. 2). Nei pressi delle abitazioni e delle sepolture sono state individuate attività artigianali, tra cui la lavorazione del vetro e dell’osso. Il paesaggio urbano dell’area portuale alterna dunque nuclei di sepolture, zone verdi, abitazioni, aree produttive, come molte altre città italiane durante il VII secolo (Fig. 3).

Al momento i casi attestati sono pochi, cronologicamente appartenenti a momenti differenti e distribuite per tutto l’alto Medioevo, eppure lasciano aperta una questione, dal punto di vista topografico e sociale. Queste sepolture potrebbero appartenere a gruppi di cittadini esclusi dai luoghi privilegiati, che spesso sono riservati a pochi, anche per l’impegno economico che dovevano richiedere. È stato inoltre ipotizzato che si tratti di servi o famuli legati alle strutture domestiche vicine. Un’interpretazione chiara non è stata però ancora formulata e le evidenze materiali degli ultimi anni non consentono ulteriori precisazioni.

Nel corso del VII e dell’VIII secolo una piccola abitazione, costituita da un ambiente di piccole dimensioni (7x5 metri circa), a pianta rettangolare, è ricavata in uno degli ambienti del complesso, contemporaneamente all’uso funerario. L’abitazione è paragonabile a quella rinvenuta nel portico dell’edificio 2 nell’area portuale di Classe.39 La pratica di seppellire presso le abitazioni è attestata in altre città dell’Italia settentrionale,40 spesso è interpretata come un fenomeno di marginalizzazione o indicatore di uno stato sociale di basso rango. I costi di questo genere di sepoltura e di una cerimonia funebre familiare erano ridotti, ma questa pratica sembra essere soprattutto il sintomo di un nuova concezione funeraria e soprattutto di una relazione differente nei confronti dei propri defunti.41

I mutamenti che interessano l’ambito dei defunti in età tardoantica sono visibili anche nel tipo di deposizioni e soprattutto dagli oggetti presenti all’interno delle tombe. Durante la tarda Antichità continua la pratica di deporre oggetti insieme al defunto, proseguendo la tradizione romana, ma in modi differenti. Si ritrovano tombe con corredi ricchi e articolati, accessori dell’abbigliamento maschile e femminile, ma anche armi e gioielli. Molto spesso, invece, insieme al defunto vengono deposti oggetti di uso quotidiano, di scarso valore, come un pettine, una piccola brocca in ceramica, o una moneta, la cui presenza rimanda fortemente alla tradizione classica.

Seppellire all’interno delle città è un atto legato a un importante mutamento culturale (Fig. 4). Le modalità complesse di questa grande trasformazionesi ritrovano successivamente alla realizzazione delle basiliche in contesti cimiteriali romani, spesso legate al 36 37 38 39 40 41

I pettini in osso sono tra gli oggetti più diffusi, attestati a livello nazionale e in tutto il territorio romagnolo. Sono stati rinvenuti all’interno delle tombe dell’area portuale di Classe (Fig. 5), associate a sepolture di adulti e di

Maioli 2008, p. 47. Bermond Montanari 1972; Maioli 1990. Guarnieri, Montevecchi 2013. Ortalli 1991, pp. 179–181. Cantino Wataghin, Lambert 1998; Brogiolo 2005. Ferreri 2014.

42

56

Cirelli 2008.

Sepolture e centri urbani in Romagna nell’alto Medioevo bambini,43 a Villa Clelia (Imola),44 nella piccola necropoli nel territorio di Modigliana e a Santa Sofia (FO), nella vallata del Bidente.45

votivi e devozionali. La gestione dei morti passerà esclusivamente in mano all’amministrazione ecclesiastica. L’organizzazione cimiteriale, sia nei centri urbani sia nelle campagne, diventerà più gerarchizzata, controllata attraverso le pievi o i monasteri e caratteristica finalmente di un nuovo paesaggio.

A partire dalla metà del VII secolo, ma soprattutto dall’VIII secolo, la presenza di questi oggetti all’interno delle tombe tenderà a diminuire, sebbene non spariranno completamente ma diventeranno in alcuni casi oggetti

Fig. 1. Sepoltura realizzata all’interno del Magazzino n. 9, all’interno dell’area portuale di Classe (foto D. Ferreri). 43 44 45

Ferreri 2009. Curina et al. 1990. Guarnieri, Montevecchi 2013.

57

Debora Ferreri

Fig. 2. Sepoltura rinvenuta ai margini della soglia di un’abitazione realizzata sui ruderi dell’edificio 8, nell’area portuale di Classe (foto. E. Cirelli).

Fig. 3. Abitazioni e sepolture nell’area portuale della città di Classe (Ferreri 2014).

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Sepolture e centri urbani in Romagna nell’alto Medioevo

Fig. 4. Ricostruzione di un rito di sepoltura, all’interno di uno dei magazzini abbandonati nel VII secolo (dis. G. Albertini).

Fig. 5. Sepoltura con pettine nell’area portuale di Classe (foto. D. Ferreri).

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PARTE II I LUOGHI E LE SCOPERTE RECENTI SEZIONE 3 LA ROMAGNA

3.1 La corte di Ravenna e il rilancio economico della Romagna tra V e VII secolo Dario Daffara Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Scuola di Specializzazione in Archeologia [email protected] Abstract: After a period of decay during the 3rd and 4th centuries, Ravenna lived a moment of economic expansion due to the presence of the imperial court. A magnificent imperial district changed the appearance of the city and its internal routes, while suburbs and neighbouring settlements were crowded by new sumptuous residences. Imports of a large quantity of African red slip ware until 540 AD demonstrate the importance of Ravenna as a handling centre for luxury production in northern Italy. The city fell suddenly under the Eastern Empire’s sphere of influence after the Justinian conquest; African pottery was replaced by large oriental plates for common meals. The Exarchs were unable to restore the Palace; even Classe – the huge harbour of Ravenna – was slowly filled by sand and could no longer be used. The ruin of harbour and Palace represents the sad conclusion of a successful commercial season. Keywords: Ravenna; African Red Slip Ware; Imperial Palace; Harbour of Classe.

Le corti imperiali nate nel IV e nel V secolo ebbero un forte impatto sull’economia e sul territorio circostante, con ricadute evidenti in campo logistico e urbanistico. Nel IV secolo l’imperatore era un comandante militare in perenne movimento; la sua residenza aveva ancora un carattere provvisorio e non esclusivo (si pensi all’utilizzo contemporaneo di Milano, Nicomedia e Treviri). Costantino progettò la città sul Bosforo su una scala più ambiziosa rispetto alle sedi precedenti, ma la divisione dell’impero tra i figli dimostra che il frazionamento del potere e delle sedi imperiali era ancora sentito come una necessità. Solamente dopo la morte di Teodosio l’imperatore divenne una figura di rappresentanza, praticamente inscindibile dal suo palazzo. In questo modo, sulla spinta di eventi bellici ed economici, si formarono due centri di potere nel Mediterraneo, Ravenna e Costantinopoli. Tra III e IV secolo Ravenna era una città di secondo piano, nella quale gli scavi hanno documentato devastazioni e abbandoni comuni ad altri centri della Romagna.

l’edificio scavato da Gherardo Ghirardini e mai del tutto pubblicato.1 Secondo l’interpretazione corrente si tratta di una domus suburbana del I–II secolo d.C., rinnovata alla fine del IV o all’inizio del V secolo e poi acquisita da Onorio come sede provvisoria. In particolare la sala absidata a nord (L) fu ingrandita e pavimentata con un sontuoso opus sectile durante il regno di Valentiniano III, anche se l’interpretazione tradizionale come sala di ricevimento contrasta con le ridotte dimensioni (27 x 11 m). Il padiglione scavato da Ghirardini sembra avere una funzione triclinare o di rappresentanza nella parte settentrionale e una residenziale nel settore sud, dunque un complesso polifunzionale di ambienti, in linea con quanto è emerso recentemente a Milano con gli scavi di via Gorani.2 L’assetto urbano venne pesantemente modificato, in particolare per quanto riguarda i percorsi interni (si pensi alla Via Porticata per collegare il quartiere episcopale al palazzo e all’importanza assunta dalla platea maior come asse portante del quartiere orientale). La presenza della corte comportò la costruzione di sontuose domus all’interno e all’esterno della città, destinate ai più elevati funzionari. Il tessuto urbano venne rivitalizzato anche con la costruzione di monumenti celebrativi e di edifici

L’arrivo di Onorio e della corte ebbero da subito ricadute di natura logistica; la parte orientale della città venne radicalmente modificata per accogliere il quartiere palaziale, costruito riadattando strutture precedenti. In questo modo si velocizzarono i lavori e si risparmiò sui materiali; i frequenti interventi di adeguamento del complesso nel corso dei secoli potrebbero dipendere dalla fretta con cui si realizzò il primo nucleo all’epoca di Onorio. Questo settore è stato identificato con

Ghirardini 1917; Novara 2001b; Augenti 2005; Cirelli 2008, pp. 78– 89. 2 Ceresa Mori 2012. 1

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Dario Daffara Dalle ceramiche di Classe si ricava il peso degli eventi politici sulle dinamiche economiche tardoantiche. Per Ravenna il quartiere palaziale rappresentava visivamente il successo economico della città; per questo i restauri degli Esarchi non si spiegano solamente in chiave ideologica, ma suggeriscono l’importanza organizzativa del complesso per l’economia locale. Le indicazioni date dalle ceramiche vanno considerate con cautela, perché la composizione dei carichi sulle navi onerarie indica i porti toccati più che una rotta commerciale sicura. Ciò premesso, è indubbio che prima della conquista giustinianea le importazioni fossero equamente distribuite tra le due parti del Mediterraneo, mentre in seguito si fecero sempre più rilevanti i prodotti orientali, probabilmente per imposizione commerciale. Dal VII secolo l’insicurezza delle rotte marittime permise lo sviluppo di una produzione ceramica locale e l’importazione di pietra da aree limitrofe, come l’istrianodalmata, al posto del pregiato marmo proconnesio. Cessava così un periodo di grande espansione economica per la Romagna, iniziato in modo quasi fortuito con la fuga di Onorio da Milano nell’Autunno del 402 d.C.

di culto. La realizzazione di ritiri per membri della corte interessò anche i centri limitrofi della Romagna (si vedano gli esempi di Faenza, Rimini e Cesena). Altro intervento di eccezionale portata è costituito dallo sviluppo del porto di Classe, che nel giro di pochi anni divenne il principale scalo merci dell’Occidente e il polo di smistamento dell’intera pianura padana.3 Gli scavi dei magazzini portuali (Podere Chiavichetta) hanno restituito massicce quantità di ceramica fine da mensa stampigliata e verniciata in rosso, proveniente dalla Tunisia (Terra Sigillata Africana). Una delle forme maggiormente documentate è la coppa tipo Hayes 85B, prodotta (indicativamente) tra 475 e 530 d.C. nella Bizacena e poco attestata nel resto d’Italia.4 Dal V secolo alla guerra greco-gotica queste importazioni furono preponderanti (circa il 75% sul totale dei ritrovamenti), mentre le anfore vinarie e per il trasporto di cibo erano prevalentemente palestinesi o cipriote (Late Roman 4 e Late Roman 5). In seguito le importazioni africane scesero al 40% del totale, probabilmente perché la conquista giustinianea del regno vandalico aveva reso meno competitivi i prodotti tunisini, oppure per imposizione economica di Costantinopoli. Fin dal V secolo il vino e gli altri generi alimentari giungevano in gran parte da est, forse per convenienza economica, per sottomissione commerciale all’Impero d’Oriente o per il blocco delle esportazioni attuato in modo discontinuo dai Vandali. Con la sconfitta degli Ostrogoti nel VI secolo aumentò il quantitativo di ceramica fine importata dall’Oriente, in particolare da Focea; cambiarono anche le abitudini alimentari con l’uso di grandi piatti per pasti collettivi (diametro circa 45 cm). La conquista giustinianea rese più marcata la dipendenza economica con l’Oriente, mentre la crisi delle rotte commerciali dalla metà del VII secolo fece calare le importazioni ceramiche e spinse alla creazione di imitazioni locali e di nuove forme, come l’olla “tipo Classe” al posto di altri contenitori da cucina in uso precedentemente. Anche le lucerne, prima importate massicciamente dal nord Africa, furono prodotte localmente (tipo “a rosario”). Infine le infrastrutture portuali divennero troppo costose da mantenere e lo stoccaggio dei prodotti venne suddiviso in piccoli magazzini sparsi per la città, segno evidente di decadenza dei commerci. Il rallentamento delle transazioni coincise con la crisi dell’Esarcato, che non poteva più garantire la sicurezza del porto e delle vie di comunicazione verso la pianura, chiavi del successo economico di Ravenna. Gli Esarchi fecero del loro meglio per restaurare il palazzo; sono documentati rifacimenti di pavimentazioni a mosaico (ambiente I), e la realizzazione di nuove strutture come una fontana ottagonale, due basamenti per monumenti celebrativi e due corridoi di collegamento nel peristilio, costruiti con tecnica approssimativa.

3 4

Cirelli 2008, pp. 130–140. Hayes 1972, p. 133.

64

La corte di Ravenna e il rilancio economico della Romagna tra V e VII secolo

Fig. 1. Pianta di Ravenna nel VI secolo (D. Daffara).

Fig. 2. Coppa Hayes 85B, esempio di Terra Sigillata Africana importata a Ravenna (da Cirelli 2006).

Fig. 3. Scavi Gherardini del palazzo di Ravenna, in evidenza gli interventi dell’ultima fase edilizia (D. Daffara).

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3.2 Navigazione in Adriatico: i materiali dall’imbarcazione tardoantica rinvenuta nel parco di Teodorico a Ravenna Giovanna Montevecchi, Claudio Negrelli Ricercatori indipendenti [email protected]; [email protected] Abstract: The discovery of a ship in the area of the Mausoleum of Theodoric, in Ravenna, dated to the 5th century, allows us to understand some aspects of trade, as well as navigation, during Late Antiquity in the Adriatic area. The objects found in the ship and near it may have belonged to the sailors but may also have been part of its commercial load. Keywords: Nautical archaeology; African Red Slip Ware; Late Roman Amphorae; Late Roman Glass; Late Antique Mediterranean Trade.

bottiglia in vetro e un’olletta biansata in ceramica comune da cucina. Altri recipienti in ceramica comune sono stati ritrovati sotto lo scafo.

Il rinvenimento della barca nel Parco di Teodorico a Ravenna risale al 1998, quando fu individuata a 5,80 m di profondità dal piano di campagna, a seguito di una segnalazione dopo l’asportazione (fortunatamente solo parziale) dello scafo; l’intervento archeologico richiese alcuni mesi di lavoro per lo scavo delle stratificazioni che si erano depositate sull’imbarcazione, per il recupero degli oggetti che si trovavano a bordo e per la messa in luce dello scafo e la sua asportazione per il restauro (Fig. 1, 2).1

Il relitto dovrebbe essere affondato in prossimità della costa, con una conseguente dispersione del contenuto. Quanto ritrovato all’interno dello scafo potrebbe appartenere per lo più all’equipaggiamento di bordo, mentre i materiali provenienti dalle vicinanze dello scafo potrebbero alludere al carico o a ciò che rimaneva dopo il suo recupero a seguito dell’affondamento, per quanto la notevole frammentarietà che caratterizza – per esempio – le anfore, impone grande cautela interpretativa.3

Gli oggetti relativi all’imbarcazione sono stati recuperati a partire dalle stratigrafie più alte, costituite in particolare da strati formatisi per la presenza stessa della barca, che ostacolò le correnti marine provenienti da nord: si trattava di livelli di sabbia alternati a livelli torbosi fini, presenti sia nella zona della prua all’interno dello scafo, sia in parte all’esterno e sotto la barca.2

Tra i materiali rinvenuti va menzionato un servizio di tre coppette in Terra Sigillata Africana, tipiche del periodo compreso tra il pieno V secolo e il primo quarto del secolo successivo (Fig. 3). Si tratta in primo luogo di due forme Hayes 74, con tesa sottolineata esternamente da duplice solcatura.4 Entrambe recano incisioni circolari concentriche al centro del fondo interno, mentre, sulla tesa superiore, la prima vede una doppia solcatura, la seconda un decoro a rotella. La terza coppetta presenta un

La cronologia di riferimento sembra sia da ascriversi alla seconda metà del V secolo. I vari manufatti rinvenuti erano in parte dispersi nella zona nord esterna allo scafo, dove si trovavano tra l’altro alcune anfore; mentre all’interno, diversamente posizionate anche in relazione alla stratigrafia, vi erano un paio di lucerne in ceramica, alcune coppe in Terra Sigillata Africana, una ciotola in legno e molti oggetti in materiale organico, come diverse tomaie in cuoio e un bastone in legno. Inoltre vi erano una

Non si può escludere che alcuni frammenti recuperati nei pressi dello scafo siano imputabili a depositi non pertinenti al medesimo, probabilmente materiali di scarico o in giacitura secondaria nei pressi della linea costiera. 4 Si tratta di coppe (inv. 232134 e 232139) di Forma Hayes 74. Appartengono al gruppo delle C4, databili tra la fine del IV e il V secolo. Questa forma in particolare è diffusa nel terzo quarto del V secolo: Atlante I, p. 73 e Tav. XXXI,6. Cfr. Bonifay 2004, p. 165, che aggiunge al repertorio delle C5 anche questa forma, attestata in questa produzione nella seconda metà del V secolo. Il corpo ceramico dei nostri pezzi è leggermente granuloso, mentre la colorazione è arancio chiaro. La superficie di entrambe è schiarita, con ingobbio ancora più chiaro, forse per l’effetto della giacitura. 3

1 Lo scavo fu realizzato da La Fenice Archeologia e Restauro Srl di Bologna (ora Phoenix Archeologia), la direzione scientifica dell’indagine era di M.G. Maioli, Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna, della tipologia navale si è occupato Stefano Medas, già nelle fasi dello scavo. Si veda a proposito: Maioli 2001b; Medas 2001; Correggiari, Leoni, Medas 2003; Medas 2004; Maioli, Medas 2010. 2 Sulla situazione ambientale si veda Venturini 2003.

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Navigazione in Adriatico: i materiali dall’imbarcazione tardoantica rinvenuta nel parco di Teodorico a Ravenna cavetto abbastanza profondo, e un labbro con orlo bifido accentuato da solcature in esterno e superiormente. È una forma affine alla Hayes 12/110, su alto piede.5 Provengono tutte dal riempimento interno dello scafo, associate ad altri oggetti di equipaggiamento e attrezzature facenti parte della dotazione di bordo.

Type”, secondo alcuni studiosi da considerarsi come successori delle M 273 e diffuse tra VI e VII secolo. Le M 273 e affini godettero di una diffusione soprattutto adriatica, Puglia e Adriatico settentrionale (Aquileia e Trieste,10 esemplari inediti anche a Rimini). Il gruppo di riferimento per i contenitori di Ravenna sembrerebbe indicativamente quello delle Opaiţ 2004 C–I, CII–2 e CIII–1 e 2, databili a partire dal IV secolo, ma che dal V secolo assumono una forma del ventre più decisamente “a sacco”, come sembrerebbe il caso del nostro pezzo.11

Anche le ceramiche comuni devono essere ascritte allo stesso contesto di rinvenimento, come nel caso di una brocchetta con corpo ovoide in ceramica semidepurata o di una pentolina biansata in ceramica comune da cucina (Fig. 4).6 Un altro consimile vaso da cucina,7 pure biansato, è stato ritrovato all’esterno dello scafo, in prossimità della poppa. Per caratteristiche morfologiche sembra verosimilmente trattarsi di oggetti di importazione, provenienti dall’Egeo.8

Tra i frammenti più esigui va comunque segnalato un fondo di probabile provenienza vicino orientale. Il puntalino, piatto e cavo internamente, ha un riferimento morfologico con il gruppo delle M 334 prodotte nella zona di Akko, in Palestina, fino ai confini con il Libano a nord.12

Le anfore, recuperate incomplete in frammenti più o meno grandi prevalentemente al di fuori dello scafo, appartengono quasi solo a tipi del Mediterraneo orientale. A probabili produzioni egee – costa occidentale dell’Asia Minor, è ascrivibile almeno un contenitore affine alle cosiddette Agorà M 273 diffuse dal III al VI secolo9 (Fig. 5). Si tratta, come noto, di una grande ed eterogenea famiglia di anfore che mostrano caratteristiche diverse. Uno dei luoghi di produzione potrebbe essere la stessa Samo, che in seguito si segnalerà per le “Samos Cistern

Sicuramente prodotte nell’Anatolia sud-occidentale le LRA 3, qui presenti con almeno tre pezzi incompleti, ma compatibili con una cronologia di V secolo.13 Lo stesso numero di pezzi è rappresentato anche dalle anfore tipo LRA 1, da ascriversi al tipo Pieri 1998, LRA1 A (Fig. 6), cui è da attribuirsi un arco cronologico compreso tra il tardo IV e la prima metà del V secolo.14 Prodotte in diverse zone del Mediterraneo occidentale tra l’area siriana e quella della Cilicia, tra Cipro e la costa meridionale anatolica, godettero in Occidente di una diffusione straordinaria.15 Da sottolineare il fatto che in tutto il contesto è stato ritrovato un numero esiguo di pezzi di anfore africane, tra cui un puntale forse ascrivibile a un contenitore di medie dimensioni tipo Bonifay 2004 III A,16 diffuso sostanzialmente fino al IV secolo.

Inv. 232137. Il corpo ceramico è affine agli altri sopradescritti, e il rivestimento (più scuro rispetto ai precedenti) è di colore arancio rosato chiaro. Viste le piccole dimensioni e la presenza di un piede particolarmente alto, sembrerebbe una forma affine alla Hayes 12, n. 1, prodotta in D2, pur avendo analogie anche con la 12/110, prodotta sia in D2 sia in C5 (Atlante I, p. 114). La datazione, in ogni caso, circoscrive la sua circolazione principalmente nella seconda metà del V secolo - inizi di quello successivo. 6 Si tratta di un’olletta (inv. 232141) di piccole dimensioni con fondo concavo, priva di base di appoggio. Corpo globulare marrone chiaro caratterizzato dalla presenza di solcature da tornio e labbro estroflesso smussato esternamente. Le due anse, a nastro, sono di piccole dimensioni e si attaccano direttamente sotto all’orlo, per la sospensione. Esternamente compaiono bruniture da fuoco. Il corpo ceramico è finemente granulare con inclusi submillimetrici di varie colorazioni. 7 Olla di medie dimensioni (inv. 232138) morfologicamente simile alla precedente, ma con labbro smussato leggermente ‘pendente’. Corpo ceramico grigio scuro con focature e incrostazioni in esterno. Inclusioni submillimetriche di varie colorazioni. 8 A titolo puramente indicativo, vista l’abbondante bibliografia al riguardo: Olcese 1993, pp. 203–205, fig. 37.50–51, in cui la n. 50 ad Albintimilium è una produzione di importazione diffusa in tutto il Mediterraneo, soprattutto orientale, ma di incerta provenienza. Per concentrarsi in area adriatica si veda per esempio: Staffa 1998b, fig. 20.71 e pp. 467–471, di varie provenienze abruzzesi e databili tra il VI e il VII secolo; contenitori in parte di provenienza orientale – egea, in parte imitazioni locali. Fioriello et al. 2013, confronto con un’olla di importazione (egea?) da un contesto di Egnatia databile nella prima metà del V secolo. A Butrinto compaiono tipi vagamente simili, inquadrabili nelle produzioni egee della forma Fulford casserole 35: Reynolds 2004, p. 234, le quali non vanno tuttavia confuse con i tipi qui trattati. Un confronto più stringente con i materiali di Classe, dove importazioni egee di questo tipo compaiono proprio nelle fasi relative alla prima metà del V-pieno V secolo: Cavalazzi, Fabbri 2010, p. 624 e Fig. 5.1–2. 9 Il frammento (inv. 232133) mostra un corpo ceramico abbastanza depurato con rari inclusi sub millimetrici; leggermente polveroso e di colore rosato, con superficie più chiara di colore crema. La spalla è arrotondata con solcature orizzontali, le anse sono a sezione ovoide e il labbro è costituito da un ingrossamento verso l’esterno. Per confronti: Arthur 1998, pp. 167–168; Opaiţ 2004, pp. 16–18; Auriemma, Quiri 2007, pp. 42–44. 5

Tra gli altri manufatti ceramici va menzionata la presenza di un late roman unguentarium17 e di lucerne di tipo microasiatico rinvenute fra il fasciame e le ordinate, sul lato settentrionale della barca.18 Auriemma, Quiri 2007, pp. 42–44. Si deve notare che il dato stratigrafico della Bourse di Marsiglia convaliderebbe una datazione alla prima metà-pieno V secolo, provenendo esemplari simili dal Periodo 1 del medesimo scavo: Bonifay 1986, p. 284 e Fig. 9.36–39. 12 Puntale di anfora (inv. 232175) di colore marrone giallino con fitti inclusi submillimetrici bianchi e scuri, caratterizzato da un restringimento marcato verso il fondo. Si confronta in particolare con Reynolds 2005, pp. 571–572, particolarm. fig. 111, databile c. 410. Stando alle stratigrafie di Beirut le M 334 già diffuse nel IV secolo, divengono più frequenti nella prima metà del V secolo, poi più rare nella seconda metà dello stesso. Su queste produzioni si veda anche Pieri 2007. 13 Si tratta degli invv. 232136, 232158 e 232169; si veda per l’inquadramento compatibile con il V secolo: Pieri 1998, pp. 100–101. 14 Frammenti invv. 232170, 232177 e 232179. 15 La bibliografia su questi tipi è sterminata, si segnalano comunque, oltre a Pieri 2005e Reynolds 2005, anche i più recenti interventi nei vari atti LRCW. Almeno uno tra questi pezzi sembra compatibile con una produzione localizzabile in Cilicia (ex inf. Claudia Tempesta, che ringrazio); per la produzione di Elaiussa Sebaste si veda Ferrazzoli, Ricci 2010. 16 Bonifay 2004, p. 119. Inv. n. 232174. 17 Inv. 232140, caratterizzato da corpo ceramico fine, rosso – marrone e leggermente micaceo. 18 Si tratta di due lucerne. La prima (inv. 232151) presenta una forma a disco e a becco rotondo, reca una pasta marrone chiaro depurata e un decoro a tralcio vegetale sulla spalla. La seconda (inv. 232132) presenta 10 11

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Giovanna Montevecchi, Claudio Negrelli le tante analogie con gli insiemi classensi dello stesso periodo. La stessa cosa potrebbe dirsi per il supposto carico, eventualmente nell’ipotesi che il natante (adatto anche per la navigazione interna) si accingesse a incrociare una rotta lagunare o fluviale diretta verso l’interno. In ogni modo la provenienza costantinopolitana di una buona parte dei manufatti, seppure indiretta, non sembra improbabile, tenuto anche conto della funzione di smistamento che a sua volta la capitale d’Oriente sembra aver esercitato pure nei confronti di altre e lontane aree geografiche. In un certo senso l’insieme dei materiali presenti nella barca, e nei suoi pressi, sembra anticipare, precedentemente all’età gota, un trend che poi si verificherà con evidenza solo dopo la riconquista giustinianea: la prevalenza del prodotto orientale tra le merci convergenti nel porto di Classe.

Oltre alla suppellettile in cuoio, legno e ceramica, fu rinvenuta all’interno del natante anche una serie di oggetti in vetro. A contatto con lo scafo, fra la seconda e la terza ordinata di sinistra, si trovava un balsamario di vetro bianco opaco, decorato con filamenti a rilievo blu sia nel corpo (di forma ovoidale), sia sotto l’orlo della bocca imbutiforme; si tratta di una forma diffusa nel IV e nel V secolo (Fig. 7). Nella parte più interna, a contatto con il fasciame, era conservata una serie di undici recipienti vitrei, in parte integri e in parte frammentati, di medesima tipologia: orlo svasato e corpo cilindro-conico (in un caso con fondo apodo concavo, in un altro caso con fondo a tripode). Questi contenitori sono caratterizzati da due ansette verticali impostate sull’orlo a cui è agganciato, tramite anelle in bronzo, un manico mobile in vetro: in tre casi in vetro verde lavorato a tortiglione, in un caso in vetro verde scuro liscio (Figg. 8, 9). Non si conoscono confronti precisi e non sembrano direttamente identificabili con la forma Isings 134, le lampade a olio con tre ansette, così diffuse in contesti religiosi di epoca altomedievale per l’illuminazione degli ambienti;19 improbabile anche l’associazione con i balsamari con presa superiore di contenute dimensioni, datati al IV secolo.20 È stato ipotizzato un uso di questi recipienti per l’illuminazione di bordo,21 ma non va del tutto esclusa anche un’eventuale presenza nella nave a scopo commerciale.

Acknowledgements: Si ringrazia l’allora Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna per avere autorizzato lo studio del contesto di scavo della barca del parco di Teodorico a Ravenna.

In conclusione lo scafo restituisce un’immagine piuttosto complessa della circolazione dei prodotti a Ravenna nel V secolo. Prima di tutto bisogna affrontare il problema cronologico. I materiali sembrano dubitativamente indicare il pieno V secolo – terzo quarto del medesimo (se prestiamo fede soprattutto alla Sigillata Africana), e dunque riferirsi a un periodo ben precedente i Goti. Ciò che peraltro ben tornerebbe con la posizione stratigrafica del rinvenimento e la situazione ambientale di questa parte della costa a nord di Ravenna. Il secondo problema è quello della funzionalità delle associazioni. Infatti è spesso difficile discernere tra gli oggetti di dotazione dell’equipaggio e gli oggetti che invece potevano far parte plausibilmente del carico (parte delle anfore? Le lampade vitree?). Sembra comunque trattarsi quasi esclusivamente di materiali di importazione in cui risultano prevalenti i manufatti prodotti nel Mediterraneo Orientale, a parte il servizio di coppette in sigillata africana. Ragionare, in base ai dati disponibili, sulla provenienza dell’equipaggio (e a maggior ragione della nave) ci sembra comunque molto difficile. Anche se si tratta di importazioni, la dotazione della nave potrebbe ben essersi costituita semplicemente nel vicino porto di Classe (o in altro porto urbano),22 così come gli oggetti personali, viste un beccuccio allungato e mostra una pasta arancio con decoro sul disco in figura di erote. 19 Uboldi 1995. 20 Barkoćzi 1996, forme 71, 72, 73. 21 Maioli 2001b, p. 129; Beltrame 2002; Tisseyre 2014, p. 117. 22 Per il sistema portuale a nord di Ravenna in età tardoantica e medievale si veda Cirelli 2008, p. 28, dove si ricorda il ‘Porto Coriandro’ nei pressi del Mausoleo di Teoderico.

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Navigazione in Adriatico: i materiali dall’imbarcazione tardoantica rinvenuta nel parco di Teodorico a Ravenna

Fig. 1. La nave ritrovata nelle vicinanze del Mausoleo di Teoderico a Ravenna, in corrispondenza della linea di costa tardoantica. Panoramica a scavo ultimato, prima del recupero dello scafo ligneo. In primo piano la sezione che mostra la presenza di sabbie alternate a depositi di torbe.

Fig. 2. Rilievo grafico della nave del Parco di Teodorico.

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Fig. 3. Coppette in terra sigillata provenienti dall’interno dello scafo.

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Navigazione in Adriatico: i materiali dall’imbarcazione tardoantica rinvenuta nel parco di Teodorico a Ravenna

Fig. 4. Olletta in ceramica comune da cucina.

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Fig. 5. Anfora tipo Agora M 273.

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Fig. 6. Anfore LR 1 A recuperate a ridosso dell’imbarcazione.

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Fig. 7. Balsamario in vetro (V secolo).

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Navigazione in Adriatico: i materiali dall’imbarcazione tardoantica rinvenuta nel parco di Teodorico a Ravenna

Fig. 8. Lampade a sospensione (V sec.).

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Fig. 9. Particolare di un’ansa di lampada a sospensione (V sec.).

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3.3 Le anfore del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna Alice Ranzi Ricercatrice indipendente [email protected] Abstract: Research into the secondary uses of amphorae within the boundaries of VIII Regio Augustea Aemilia has underlined the importance of the discoveries made by the end of the 19th century, during the restoration of Galla Placidia’s mausoleum. This building is indeed the last remaining example of the use of a very ancient building technique adopted in the city of Ravenna during the 5th century. The rebuilding of the mausoleum structure was accomplished by Ricci starting in 1898, and highlights the inner structural frame of the dome-cover construction method, i.e. during the construction phase; tiles were laid over a layer of amphorae bound with mortar. During the restoration, the amphorae were removed and the cover was completely reconstructed. Originally, they must have been found in a large numbers, but we do not have accurate information on the number of cases that were recovered intact. Pictures from that time show only four samples. It is likely that these amphorae were the ones selected to be displayed, and were located by the sides of two sarcophagi inside the mausoleum; today we have no information about their whereabouts. There were also African amphorae of larger dimensions, widely used as containers since the 4th century. The main function of this kind of architecture was surely to insulate the vaults from humidity and water seepage by creating an interspace by means of the amphorae’s body. Moreover, the amphorae, used in this way, are a lighter material compared to bricks, but at the same time very strong and resistant. Keywords: Ravenna; Amphorae; Late Antiquity; Archaeology of Architecture.

Entrambe queste analisi è auspicabile possano venire svolte in futuro, per ridare valore a reperti per lungo tempo dimenticati anche se fanno parte della storia della città di Ravenna e di uno dei suoi edifici più simbolici.

In questo contributo sono presentati i dati più recenti emersi dall’analisi delle anfore rinvenute sotto la copertura del Mausoleo di Galla Placidia.1 Gli unici esemplari che sicuramente provengono dal tetto dell’edificio sono stati esaminati e identificati con certezza, permettendo in questo modo di confermare anche i dati riguardanti la costruzione del Mausoleo e la sua cronologia.

L’impiego di anfore nella costruzione di volte Come è risaputo, nel mondo romano e durante la tarda Antichità l’anfora costituiva un contenitore avente vastissima diffusione e una vita relativamente breve poiché il suo costo di produzione bassissimo rendeva più pratico creare nuove anfore piuttosto che riutilizzarle. La grande diversità di forme permetteva però di reimpiegarle con scopi completamente differenti da quelli che avevano portato alla loro produzione. In età romana e tardoromana l’anfora si ritrova impiegata nelle opere di bonifica e nel drenaggio di terreni paludosi, nell’edilizia sacra e privata, e in moltissime necropoli, con varie funzioni. Il suo corpo ampio e cavo la rendeva un ottimo materiale isolante e, se adeguatamente adattata, un perfetto contenitore per i corpi dei defunti; inoltre la robustezza e la capacità di sopportare carichi elevati fecero sì che venisse scelta come vero e

Molte altre anfore della stessa tipologia sono tutt’ora conservate nel magazzino del Museo Nazionale. Pur non conoscendone l’edificio di provenienza è possibile ipotizzare ragionevolmente che anch’esse facessero parte della copertura rimossa durante i lavori di restauro voluti da Corrado Ricci. Alcuni esemplari presentano chiari residui di malta che potrebbero essere analizzati e confrontati con quella ancora presente in situ nel Mausoleo, inoltre uno studio degli impasti potrebbe confermare la somiglianza di questo gruppo di contenitori con i due presi in esame. 1 Attualmente conservate negli uffici della Soprintendenza di Ravenna e nei magazzini del Museo Nazionale della città.

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Alice Ranzi

La tecnica che vede l’utilizzo di anfore nella costruzione di volte risale a tempi molto antichi.

Ravenna. In queste costruzioni la tecnica con cui sono state impiegate le anfore è diversa: rispetto agli esempi più antichi risulta molto più importante l’aspetto delle stesse come materiale da costruzione leggero, ma allo stesso tempo robusto e in grado di sostenere pesi considerevoli.

I primi casi di uso secondario nelle cupole risalgono, per quanto riguarda il territorio italico, all’età adrianea. Si tratta dei Magazzini Traianei a Ostia e della cosiddetta Villa “delle Vignacce”, che si trova al quarto miglio della via Latina fuori Roma. In entrambi i casi le anfore reimpiegate erano del tipo Dressel 20, inserite intere e capovolte in vari punti della struttura.

Il caso più importante e meglio documentato è quello del Mausoleo di Galla Placidia. I lavori di restauro dell’intera struttura, compiuti da Corrado Ricci a partire dal 1898, hanno messo in luce il telaio strutturale interno della copertura della cupola: al momento della costruzione le tegole erano state messe in opera al di sopra di uno strato di anfore legate con malta.

Soprattutto il caso della Villa delle Vignacce, dove i contenitori sono stati usati sia negli ambienti con copertura a volta sia nelle strutture murarie, suggerisce che essi non avessero nessuna particolare utilità nell’alleggerire la struttura: l’interpretazione più plausibile è che siano stati impiegati come materiale sostitutivo, in modo da sveltire i lavori di costruzione.

Dell’intero deposito sono sopravvissute solo due anfore, attualmente conservate negli uffici della Soprintendenza di Ravenna: quella di dimensioni minori è del tipo Spatheion 1, mentre l’altra è un’anfora Keay XXV. Dallo studio è emerso che entrambe sono state prodotte a Nabeul, in Tunisia, entro la metà del V secolo d.C.

proprio materiale da costruzione, inserito all’interno delle murature e delle coperture di edifici voltati.

Inoltre, nel magazzino del Museo Nazionale di Ravenna, è conservato un gruppo di anfore del tipo Spatheion 1 di cui non si conosce la provenienza. È ipotizzabile che possano provenire dal mausoleo, ma questo dato per ora non è in alcun modo verificabile a causa della mancanza di documentazione e di analisi sugli impasti ceramici.

All’interno dei muri, comunque, le anfore fungevano sicuramente anche da intercapedini di ventilazione, utili per la salubrità delle pareti stesse. A parte queste due testimonianze nel II secolo d.C., le anfore non compaiono nuovamente negli edifici prima della fine del III secolo d.C. La costruzione che ha restituito il maggior numero di anfore è il circo di Massenzio, che faceva parte del complesso imperiale fatto costruire sulla via Appia e ancora in buona parte conservato. Le gradinate del circo, sulle quali potevano trovare posto oltre diecimila spettatori, presentano nel nucleo cementizio delle volte di sostegno anfore del tipo Dressel 20 e Dressel 23.2

La stessa tecnica è attestata al Battistero degli Ariani a Ravenna: la copertura attuale è il risultato di lavori eseguiti dal sacerdote Antonio Tarlazzi nel 1838, per evitare ulteriori danni ai mosaici della cupola che rischiavano di cadere a causa dell’umidità percolante dal tetto. Nella sua relazione del 1852, Tarlazzi scrive riguardo alla copertura : “E rese meraviglia il vedere che niuna benché minima porzione di legname serviva a sostenere l’intero descritto piano, e che in sua vece era posta una immensa quantità di vasi di terra cotta della forma di un fiasco di diverse grandezze, e questi riempivano tutto il vano della volta reale del catino, o cupola disposti confusamente, ma in modo che servivan di letto al coperto. […] La rottura di alcuni aveva prodotto un avvallamento nel coperto, dal quale penetravano le acque piovane; raccolti i pezzi, ed assestati riuscirono di figura sferoidale con l’orifizio stretto ancor cosperso di materia simile allo stucco, ed alcune lettere greche di color nero tradotte ʽVin di Sciroʼ ”.4

È stato più volte affermato che questo tipo di utilizzo dovesse servire ad alleggerire la volta: nel caso in cui la tecnica fosse stata identica in ogni parte del circo i costruttori avrebbero potuto ottenere risultati molto migliori impiegando materiale differente, come per esempio il tufo, ma se consideriamo l’edificio come formato da diverse fabbriche, allora i vuoti creati dalle anfore potrebbero aver effettivamente alleggerito la volta a sostegno delle gradinate. Nel IV secolo d.C., l’esempio più conosciuto si trova nuovamente a Roma, nella copertura a volta del mausoleo di S. Elena, conosciuto già nel XVI secolo come “Tor Pignattara” appunto per le anfore chiaramente visibili nei resti dell’edificio. Nella muratura della cupola erano inserite due file sovrapposte di anfore Dressel 20, posizionate al di sopra della nicchia esterna del tamburo, mentre nel livello ancora superiore ve ne era una sola fila.3

Le anfore furono poi collocate nell’antico Museo Comunale, ma già dai primi del 900’ non se ne ha più alcuna notizia. Il riferimento più recente è quello riportato dal Gerola, che nella relazione dei suoi restauri al battistero riferisce di aver ritrovato tracce delle antiche anfore.5 Questi sono gli unici dati rimasti al riguardo, perciò il fatto che le anfore potessero essere dello stesso tipo o simili e disposte allo

Di poco successivi sono gli esempi dell’Emilia Romagna: si tratta di soli tre edifici, tutti concentrati nella città di 2 3

Lancaster 2005, pp. 75–76. Vendittelli 2011, p. 37.

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Tarlazzi 1852, p. 303, n. b, pp. 303–304. Gerola 1923, p. 117.

Le anfore del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna stesso modo che nel tetto del Mausoleo di Galla Placidia rimane solamente un’ipotesi, anche se molto probabile.

esemplari di dimensioni minori erano inseriti negli spazi tra quelli più voluminosi (Fig. 2).

Al di fuori della Regio VIII l’uso di anfore nelle coperture e nei rinfianchi delle volte è attestato a Milano, nelle cappelle di Sant’Ippolito, Sant’Aquilino e nella volta del Sacello di S. Simpliciano, e inoltre al Battistero di Albenga.

Le anfore erano legate con malta e costituivano il telaio strutturale interno per la messa in opera delle tegole del tetto. Gli esemplari che presentiamo in questo contributo sono due (Figg. 4, 6). Un’anfora è del tipo spatheion 1: orlo espanso, alto collo cilindrico sul quale si impostano anse a orecchia, corpo fusiforme che termina in un lungo puntale pieno. L’altra, di dimensioni maggiori, è del tipo Keay XXV: orlo a corolla, collo cilindrico, anse a nastro con profilo a orecchia o a maniglia, corpo cilindrico e allungato che termina in un puntale pieno. Entrambe sono state prodotte a Nabeul, in Tunisia, entro la metà del V secolo d.C. ed erano usate per contenere vino o salsa di pesce.

La funzione principale di questo tipo di architettura era sicuramente quella di isolare le volte dall’umidità, creando un’intercapedine con i corpi delle anfore, e dalle infiltrazioni d’acqua provenienti dall’esterno. Lo conferma anche la notizia, riportata dal Tarlazzi, che la rottura di alcune anfore nella copertura del Battistero aveva causato infiltrazioni e danni ai mosaici che decoravano internamente la cupola. Inoltre le anfore, utilizzate in questo modo, sono un materiale più leggero rispetto ai mattoni, ma contemporaneamente molto solido e resistente.

In origine la anfore asportate integre dovevano però essere molte di più. Nelle fotografie dell’epoca i contenitori sono almeno quattro (Fig. 5); queste anfore erano probabilmente quelle selezionate per l’esposizione, vennero infatti sistemate ai lati di due dei sarcofagi all’interno del mausoleo, ma non se ne ha più notizia.

Il terzo edificio ravennate che presenta l’uso di anfore nella sua costruzione è la basilica di S. Vitale: la grande cupola è stata realizzata con l’impiego di tubi fittili, largamente utilizzati nelle volte e nelle absidi degli edifici della città. Le anfore, in questo particolare caso, non costituiscono materiale da costruzione per la struttura vera e propria della cupola, ma si trovano disposte, in pochi esemplari, verticalmente negli estradossi della stessa. La tipologia anforaria è forse assimilabile a quella dell’anfora nordegea Robinson Agorà M273,6 ma con una particolare ansa “a tortiglione” che al momento sembra non avere alcun confronto.

Osservando la fotografia del momento del restauro e l’illustrazione di Azzaroni (Figg. 2–3), si può notare però che le anfore non sembrano tutte ascrivibili ai tipi sopra citati: ne è presente almeno un’altra tipologia, di dimensioni maggiori e forma diversa dalla Keay XXV. Si trattava forse di anfore africane di grandi dimensioni, contenitori largamente attestati a Classe e Ravenna, fin dall’Antichità, ma con un notevole incremento nella loro importazione agli inizi del V secolo. Corrado Ricci ricorda che alcuni degli esemplari erano chiusi da “tappi di stucco”, che Portavano incisi dei simboli.7 Ritrovare queste evidenze sarebbe eccezionale ed estremamente utile per aggiungere altri tasselli alla conoscenza delle importanti relazioni commerciali della nuova sede imperiale con il resto del Mediterraneo, in un periodo di grandi trasformazioni dell’economia e di tutte le strutture del mondo antico.

Il mausoleo di Galla Placidia Il mausoleo apparteneva al complesso di Santa Croce, edificato da Galla Placidia forse tra il 417 e il 421 d.C. (Fig. 1). L’edificio era a pianta cruciforme, ma venne interamente ridimensionato e ricostruito nel XIV secolo e trasformato in una piccola chiesa absidata. Alle due estremità opposte si trovavano due sacelli a uso funerario, che risalgono però alla seconda fase costruttiva del complesso. Furono infatti realizzati successivamente alla costruzione dell’ardica anteriore. L’attuale sistemazione risale al 1602, quando l’ardica fu demolita e la chiesa separata dai due sacelli. È interessante notare che durante gli scavi per lo studio di S. Croce sono stati ritrovati tubi fittili, che attestano quindi la presenza di volte costruite con questa tecnica all’interno del complesso.

Acknowledgements: Ringrazio cordialmente i professori E. Cirelli, E. Giorgi e G. Lepore, che mi hanno dato la possibilità di partecipare a questo progetto. Il contributo è tratto dal lavoro da me svolto per la tesi di Laurea Magistrale, sotto la guida del prof. M. David e del prof. E. Cirelli, dal titolo “Il problema dell’uso secondario delle anfore in ambito romano e tardoromano. Il caso della Regio VIII (Aemilia)”. Le ricerche hanno permesso di raccogliere numerose testimonianze all’interno del territorio dell’Emilia Romagna e in particolare, soprattutto per quanto riguarda il reimpiego in campo architettonico, nella città di Ravenna.

Durante il restauro compiuto dal Ricci le anfore sono state asportate, e la copertura completamente ricostruita. Del momento del rinvenimento rimangono fotografie e bellissimi acquerelli di A. Azzaroni, dai quali si può comprendere la disposizione dei contenitori: questi erano sistemati sembra in un unico strato e non sovrapposti, le anfore presenti appartenevano a diverse tipologie e gli

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Opait 2004, p. 18.

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Ricci 1914b, p. 59.

Alice Ranzi

Fig. 1. Pianta del complesso di S. Croce (Rizzardi 1996, p. 142).

Fig. 2. Alessandro Azzaroni: il ritrovamento delle anfore nella copertura del mausoleo, china nera e acquarello su carta.

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Le anfore del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna

Fig. 3. Il mausoleo di Galla Placidia in una foto scattata durante i restauri del 1898 (Ricci 1914, p. 54).

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Alice Ranzi

Fig. 4. Le anfore dal tetto del mausoleo, conservate negli uffici della Soprintendenza a Ravenna: Spatheion 1; Keay XXV, disegni di Enrico Cirelli. Fig. 5. Fotografia storica scattata da L. Ricci e datata Giugno 1900: le quattro anfore erano state probabilmente selezionate per l’esposizione.

Fig. 6. Gli unici due esemplari di provenienza certa, conservati negli uffici della Soprintendenza di Ravenna.

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3.4 Bricks in the Wall: An Examination of Brick Procurement in Fifth-century Ravenna J. Riley Snyder Visiting Researcher, University of Edinburgh (work undertaken while an Early Career Research Fellow at Istituto di Studi Avanzati, University of Bologna, 2014) [email protected] Abstract: Brick was the most used construction material in late antique Ravenna due to the lack of immediate sources of suitable stone and abundance of quality clay found in the Po Valley. With the boom in construction to meet the infrastructure needs of the new western capital, the supply of the required materials must have been strained, especially since the production of brick had likely ceased in the centuries preceding the fifth century. Scholars have postulated that the use of salvaged bricks from dilapidated structures in Ravenna’s hinterland would be a practical solution to meet these needs but the full economic impact has yet to be fully considered. This paper investigates this impact through a comparison of labour requirements of reclaiming and manufacturing bricks using the expansion of Ravenna’s circuit wall as a case study. The results indicate that reclaiming brick only provided an economic benefit under strict conditions related to site proximity and transportation methods. Keywords: Ravenna; Bricks; Circuit Wall; Material Reuse; Construction; Logistics; Manpower; Labour.

Introduction

Arguably the largest urban infrastructural project of this period was the expansion of the city’s circuit wall, which serves as a prime example of large-scale construction associated with the city’s newfound status.

On a much smaller scale, Ravenna in the fifth century faced many of the same challenges as the founding of Constantinople. The central issue at hand was developing an infrastructure that had never existed – or at least not on the scale that was now needed – to accommodate the needs of an administrative capital. However, in hindsight, the archaeological and architectural heritage of Ravenna and Constantinople indicate that these requirements were satisfied in a relatively quick span on time. A major difficulty in our understanding of these booming courses of building projects tends to be addressed through monetary stress when in fact, the evidence for construction project organisation is even more illusive.

The aim of this paper is to examine the logistical implications of sourcing and supplying constructions materials in quantities large enough to sustain the building projects of fifth-century Ravenna. Specifically, what obstacles did such a large and sudden building programme present when using almost exclusively brick masonry?2 The particular case study used in this paper is the major fifth-century extension of Ravenna’s circuit wall, which was one of the most demanding projects from a material and labour standpoint. Through a combination of material volumetric analysis and manpower comparisons, some important questions will be addressed about how bricks were sourced for the wall and how this would have influenced other large-scale construction projects in Ravenna.

After Ravenna became the new western capital of the Roman Empire in the early fifth century, many construction projects were undertaken to meet its social and political needs. Structures such as churches, a palace, housing, a mint, administrative buildings, and quite possibly a circus were constructed, turning what was previously no more than a village1 into a functioning administrative capital.

See Deichmann (1969; 1974) for a detailed examination of Ravenna’s buildings. See Cirelli (2008) for a comprehensive discussion of the excavations carried out in recent decades. 2

Cirelli (2010, p. 240) compares the original size of Ravenna to townfortresses along the limes. 1

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J. Riley Snyder The fifth-century wall

The only clear evidence for battlements is found in the southeast corner (atop the older wall) but this does not discount the possibility that they were also used in the rest of the newly built circuit wall.12 No towers are attributed to the expansion of the wall in late antiquity despite being used in the original oppidum wall and later medieval modifications. This is quite unique for city fortifications of the time especially when considering there were at least 30 posterns and gates along the entire circuit.13

In antiquity, Ravenna was situated in a naturally defensive position surrounded by swamps, marshland and lagoons.3 Ravenna’s environment was perfectly suited for defence against siege warfare yet circuit wall fortifications were a part of the city’s history as far back as the republican period. The initial wall encompassed a rectangular oppidum covering 33 hectares.4 Typically associated with Emperor Honorius (393–423) or Valentinian III (425–455), Ravenna’s new wall (Fig. 1) marked the great expansion of the city to the north and east of the original oppidum, covering an area of 166 hectares.5 This much larger wall is generally thought to have been undertaken as a single construction project sometime in the mid-fifth century.6 Like many projects in antiquity, multiple groups of labourers could have worked simultaneously to build faster and more efficiently. Evidence of defined junctions between these sections indicates that simultaneous construction did indeed take place in the building of Ravenna’s expanded circuit wall.7

All phases of Ravenna’s circuit wall were built of solid brick masonry (Fig. 2) with instances of Verona marble spolia incorporated into posterns and gates.14 The use of brick was less of a choice and more a necessity due to the lack of local stone resources and an abundance of clay deposits. However, the sizes of the bricks in the wall’s facing has led to the long-standing debate about whether all of the bricks were reused from older structures or if any of these bricks were manufactured specifically for the construction of the wall.15 The question of brick reuse or manufacture is not at all limited to Ravenna’s circuit wall. The massive building, rebuilding, and alterations of the Aurelian Walls of Rome have seen much of the same discussion in the scholarly community with many differing opinions as to the origin of the materials used.16 Most arguments supporting reused bricks over manufacture rely upon the dimensions of the bricks and brickstamp evidence.17

GIS analysis carried out for this project has produced a total length of 4.8 kilometres.8 However, this distance can be looked at as two distinct but joined sections. The first length of 1.3 kilometres comprises the portion of the earlier wall that was used as the southwest corner of the fifth century expansion. This section of wall is comprised of multiple construction phases, one in particular attributed to the late antique expansion that was built atop of the original oppidum wall.9 The second length of 3.5 kilometres is the new construction that was used to enclose the new and much larger urban space. The final height of both sections of the wall is thought to be around 9 meters10. The thickness of the wall varies between 2.5 and 3 meters over its distance.11

As brick dimensions vary in most structures erected in Ravenna between the late fourth and early sixth centuries,18 not to mention a lack of archaeological evidence for brick production sites in this period, this has led to the conclusion that nearly all construction in this period utilised reused bricks from ruined structures of pre-capital settlements of Ravenna and Classe. The first assumption is that a lack of evidence for brick production during this period meant local or regional brick production was not possible until the sixth century.19 The second assumption is

3 Christie, Gibson 1988, p. 184; Cirelli 2008, p. 63; see Teatini et al.(2005) for a discussion of changes in landscape over time. 4 Christie, Gibson 1988, p. 158; Cirelli 2008, p. 54 5 Christie, Gibson 1988, p. 158; Gelichi 2005, p. 839; Cirelli 2008, p. 54. 6 Christie, Gibson (1988, p. 194) dismiss the suggestion that there were two phases of construction postulated by Mazzotti (1970a, pp. 288–92), TestiRasponi (1924, pp. 117–118), Savini (1905, pp. 41–42) and Ricci (1885, pp.5–6). Gelichi (2005, p. 838) and Cirelli (2008, p. 55) both agree that this was one construction phase from the fifth century. 7 Gelichi (2005, p. 837) gives the example of the regular junction of two simultaneously built construction units found between Porta Wandalaria and Porta San Lorenzo in the southeast section of the wall. 8 It is widely cited that the late antique city wall of Ravenna is 4.5 kilometres in length(Christie, Gibson 1988; Gelichi, 2005; Cirelli 2008). During this research, GIS data showed a 300meter increase to 4.8km. However, this 6% addition has little bearing on the resulting discussion of brick sourcing or even a significant impact on the material. 9 See detailed examination of building phases in Christie, Gibson (1988). 10 Cirelli 2008, p. 56; Christie, Gibson (1988, p. 184) suggest that wooden piles could have been driven into marshy soil to support the wall. See Righini (1991, p. 203) for discussion of building construction using wooden piles in Ravenna. 11 Cirelli 2008, pp. 56 and 63.

Cirelli 2008, p. 66. Cirelli 2008, p. 63. Many of the openings in the wall recorded by Savini (1905) are no longer observable. 14 Christie, Gibson, 1988, p. 183; Cirelli 2008, p. 55. 15 Christi, Gibson (1988, p. 183) claim that brick types are ‘regularly consistent’, which indicated manufacture specifically for the wall. Gelichi (2005, p. 837) argues that this conclusion is impossible to make based on the inability to measure all dimensions of bricks. Ortalli (1991, pp. 171–172) indicates that the irregular brick sizes is evidence of the use of broken bricks, thus the wall is made exclusively recovered bricks. 16 See Dey (2011, pp. 93–94, FN 66) for a discussion of scholarship associated with brick reuse and manufacture from the Aurelian Walls of Rome. 17 See Pfeiffer, Van Buren, Armstrong (1905) for a comprehensive analysis of brickstamps from the Aurelian Wall of Rome; See Montanari (1973) for brickstamps from Ravenna and Classe. 18 Gelichi (2005, p. 836) mentions that bricks used in Mausoleo di Galla Placidia and the church of San Giovanni Evangelista (both from the first half of the fifth century) do not share the same type of bricks used in the wall. 19 See Bloch (1941, pp. 7–8) for a general discussion of brick production in late-antique Italy. Christie, Gibson (1988, p. 182) suggest that there would have been a brick industry in the fifth century because of the many churches that were built at the time. Deliyannis (2010, p. 19) points out 12 13

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Bricks in the Wall: An Examination of Brick Procurement in Fifth-century Ravenna that there were enough structures in the immediate vicinity that could be ‘quarried’ to supply the massive quantities of required brick.20 The final and most interesting assumption is that it was economically advantageous to reuse brick compared to manufacture.21

centimetres,24 while horizontal and vertical mortar joints were measured at an average of 2.8 centimetres. In total, the ratio of brick to mortar was close to 2:1.25 Applying this ratio to the total structural volume of 104,000 cubic meters equates to roughly 70,500 cubic meters of brick and 33,500 cubic meters of mortar. While the role of mortar is of the utmost importance for the success and longevity of any masonry structure, this paper will not explore its manufacture or raw material origins.26

These assumptions will be investigated below using a quantitative approach to the materials, manpower, and logistics of constructing the late-antique city wall in Ravenna. This investigation offers a new perspective on construction material procurement in relation to its economic investment, specifically relating to the workforce and time necessary to manufacture new bricks versus reclaiming bricks. The resulting data on the wall will be used to offer some preliminary thoughts on the building programme in fifth-century Ravenna.

The final step in quantifying the total materials used is to break down the total brick volume figure into individual units. The total number of bricks is calculated based on bricks being whole and of uniform average size. Obtaining all three measurements for a large number of bricks would be impossible in situ, however, the assumption of the use of stretchers and headers has allowed for the estimation of the additional measurement based on comparison. Length of measured bricks ranged from 29 to 50 centimetres with an average of 36 centimetres, width from 13.5 to 44 centimetres with an average of 26 centimetres, and thickness between 5 and 7.5 centimetres with an average discussed earlier or 6.8 centimetres. This results in a volume for a single brick of average size at 0.006 cubic meters. Applying this to the total volume of brick indicates that roughly 11.6 million bricks averaging 36 x 26 x 6.8 centimetres were necessary to complete the late antique phase of the water supply.

Material volume quantification The estimation of materials used in the construction of the late-antique circuit wall of Ravenna begins with calculating the total overall structural volume. As mentioned earlier, the wall is broken down into two sections: the newly built wall that stretches 3.5 kilometres and the 1.3 kilometres long section of original oppidum wall that was incorporated into the southwest corner of the new wall. The structural volume was first calculated as a solid volume, which does not factor in the many gates or posterns. The first section was estimated to have a solid volume of roughly 88,000 cubic meters while the second section was 18,000 cubic meters. The total solid volume of the fifth century wall was 106,000 cubic meters.

Brick supply The total number of bricks required brings us to the most important element of this study: an investigation of the brick acquisition and supply. No matter how it was done, the sheer quantity of required bricks would have been a great organisational challenge. As was briefly mentioned above, there is little doubt that recovered bricks were used in the construction of many of Ravenna’s buildings, including the late antique city wall. However, the organisation and magnitude of brick reuse is unknown. This section will discuss the manpower associated with obtaining and supplying enough brick to complete the project based on two hypothetical scenarios: solely manufactured or solely reused.

To find out the total structural volume meant estimating the total volume of openings along the extent of the entire wall. Christi and Gibson postulated that most of the openings are attributed to the late antique addition,22 which totalled around 2000 cubic meters. This resulted in a total structural volume for the fifth-century circuit wall of Ravenna of roughly 104,000 cubic meters of solid mass. With this structural volume estimate, we can break this figure down into individual construction materials: bricks and mortar.23 To estimate the total proportion of brick to mortar, it is necessary to find suitable average figures for brick and mortar joint thicknesses. Despite a wide variety of thicknesses ranging from 5 to 7.25 centimetres, the average thickness of bricks in the wall was 6.8 that most scholarship suggests that these churches were also built of reused bricks. 20 See Deliyannis (2010, p. 61), Righini (1991), and Deichmann (1969; 1974) for discussion of material reuse in Ravenna 21 Righini 1991, p. 194; Gelichi 2005, p. 837; Deliyannis (2010, p. 19) mentions that reusing bricks could have been a form of symbolic spolia that showed a triumph over paganism or the power to control previous construction, in addition to being economically beneficial. 22 See Christie, Gibson (1988) for a discussion of openings in the wall including Savini’s (1905) survey of posterns and ports that no longer exist. 23 The instances of marble elements have not been included in the following material volumes due to their negligible volume.

Brick thickness and 5-module height was measured at various locations along portions of the wall associated with the fifth century phase of construction. These measurements were in the same range presented by Christie, Gibson (1988). 25 This was calculated using the horizontal mortar bed thickness compared with brick thickness as well as the average length of headers and stretcher bricks (dimensions discussed below) and the width of the vertical mortar joints averaging at 2.8 centimetres. 26 Brick inclusions have been found in sections of the wall. While this could significantly add to the total estimated volume of brick material, this paper considers structural bricks since crushed additives would have little bearing on the discussion of salvage or manufacture. 24

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J. Riley Snyder After a cooling time of up to four days, the bricks would have to be unloaded from the kiln and stacked in the brickyard or on transport (boat or cart), which would require around 0.065 man-days per one cubic meter.

Scenario 1: manufactured brick27 In this hypothetical scenario, all of the bricks used to construct the wall were manufactured for the construction of the wall. This process would have included numerous steps, many of which would have required skilled or experienced labour.28

Scenario 2: salvaged brick This hypothetical scenario proposes that every brick used to construct the wall was recovered from older structures. Similar to the manufacturing process, the multiple steps used to acquire viable bricks would have required a combination of skilled and unskilled labour. One of the difficulties of this examination is that the archaeological evidence is obviously non-existent for structures from which bricks were recovered. This means there is no exact evidence for the conditions faced by the demolition crew at each site.

The first step in producing bricks is obtaining the clay. As Ravenna was well situated in an area rich in clay, the clay quarry site(s) would have been in close proximity to the city.29 The rate of quarrying clay is 0.151 man-days per one cubic meter.30 Like all other quarried materials, clay had to be transported from the quarry location to the processing area and then to the kiln. Assuming that the average distance clay was moved was around 25 meters, it would take an estimated 0.634 man-days to transport one cubic meter of clay from the quarry site to preparation site and ultimately to the brick kiln.

The first step to recover bricks is to dismantle the structure. Here, it is assumed that the structure is made of solid brick masonry. While it was common to build walls with a concrete core and faced with brick masonry, the structures found around Ravenna, including the all phases of the circuit wall, were constructed of solid brick masonry. In this case, it would take an estimated 0.0034 man-days to dismantle a single brick from the structure.35

Raw clay required preparations before it was ready to be fired. Puddling was used to remove larger stones and organic materials by churning the clay in a pit filled with water. Next, temper was mixed into the refined clay and then compacted to remove as much excess water as possible. Finally, clay was placed in rectangular wooden forms and left to air dry for up to 28 days.31 This entire process required an estimated 1.118 man-days per one cubic meter,32 requiring skilled workmen to ensure the proper consistency of the clay and uniform brick dimensions.

Another assumption made in this scenario is that all ruined structures from which bricks were removed had previously collapsed to a remaining height of three meters or less. Due to the fact that these are completely hypothetical structures, the nature of the demolition process is unknown. It was very likely that scaffolding or ladders were needed to remove bricks from a height, which would significantly increase the manpower associated with the entire process. However, since we do not have data for this, the most conservative value has been applied to this scenario: 0.294 man-days per one cubic meter of solid wall.36

After the bricks were dried, they would have been carefully loaded into the kiln. Pre-fired bricks would have been brittle and easily broken if not stacked properly. Thus, loading the kiln would have required a combination of skilled and unskilled labourers. The figure for loading a kiln has been estimated to be 0.118 man-days per one cubic meter.33 Firing a brick kiln would have required constant attention by skilled and unskilled labourers to ensure a constant temperature over a two-day period. Per cubic meter of clay, an estimated 0.108 man-days of manpower was required.34

One of the most important steps in obtaining bricks for reuse was cleaning off the residual mortar. This was an important process that can have a strong impact on the successful bond between mortar and the recovered brick.37 The manpower varies significantly for this process depending on the type of mortar used, the size of the brick and how thoroughly it was cleaned. Using an average of two manpower values for cleaning bricks,38 it is estimated to require 0.0018 man-days to clean a single brick.

27 See Fernandes, Lourenço, Castro (2010, pp. 30–31) for a discussion of the brick production process as well as physical and mechanical properties of bricks throughout history. 28 All rates for manpower presented in this paper include a 10% addition for supervision and combine skilled or unskilled labour. Original rates for manpower can be found in Pegoretti (1869) and any adjustments for antiquity in DeLaine (1997). One workday consists of a 12hour period. 29 The fifth-century Codex Theodosianus (9.17.4) prohibited lime burning within the walls of Constantinople and was likely the same for brick manufacture because of the smoke pollution. 30 DeLaine 1997, p. 118; the figure used is 14 man-days to quarry 93 cubic meters of clay. 31 DeLaine 1997, p. 115. 32 DeLaine 1997, p. 118; the estimate used is 104 man-days for 93 cubic meters. 33 DeLaine 1997; the man-man power rate for loading bricks is based on the average size of sesquipedales. 34 DeLaine (1997, p. 118) estimated that it would have taken around two days to fire a kiln full of bricks, requiring a total of 10 man-days.

Baker 2010, p. 138; original rate is 0.00448 per bipedalis x 2 men. This has been adjusted for the average brick size calculated for the paper. 36 Baker 2010; original rate is 0.12 per cubic meter x 2 men + 0.0275 per cubic meters for every 3 meters of height. 37 See Park (2013) for a detailed scientific examination of brick bond strength in reused bricks. 38 Jelle Koolwijk kindly shared the rate, based on his personal experience, of cleaning around 1000 Ysselstone bricks (see Smith 2001 for a discussion of Ysselstone bricks) per 8-hour workday. Baker (2010, pp. 138 and 141) gives the rate of 0.002 man-days per bipedalis and 0.00014 man-days per “standard” Roman brick. Because of the wide discrepancy, this paper uses an average of these rates, which have been converted based on the surface area of the average brick used in the construction of the wall. 35

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Bricks in the Wall: An Examination of Brick Procurement in Fifth-century Ravenna Finally, the bricks would need to be carried and stacked which is assumed to be similar to the process of unloading the kiln and stacking the bricks mentioned at the end of Scenario 1 (0.065 man-days per one cubic meter of brick).

In the third and fourth centuries, Ravenna saw a decrease in population and is attributed to a time of general urban decline, which left many structures dilapidated and unoccupied.43 However, its massive expansion in the fifth century would have required much more than a one for one replacement of the buildings from the pre-capital’s environment, even in the unlikely situation that all older buildings were demolished for materials. The expansion of the wall alone would have required a quantity of bricks that would build the great sixth-century church of San Vitale in Ravenna twelve times over.44

Comparison of total manpower Now that the manpower rates have been determined for the production of bricks in Scenario 1 and those for the acquisition and preparation of used bricks in Scenario 2, the total quantity of bricks can be applied. In Scenario 1, 11.6 million bricks would have been manufactured from raw clay, requiring a total of close to 160,000 man-days. If all of these bricks were reclaimed as indicated in Scenario 2, it would have required 90,000 man-days. Comparing the values for these two scenarios alone, the savings in manpower would be significant, with a reduction of 44% in the case of reuse. This lends credence to the long-held explanation that the use of reclaimed bricks was more economically viable. However, there are other factors at play that must be taken into consideration before this assumption is made for fifth-century Ravenna.

As Cirelli aptly indicated, under the assumption that all bricks used in the fifth century were salvaged, they would have likely come from such places as country villas or other regional urban centres to obtain the quantities required.45 It is safe to assume that to build a capital of reused bricks would necessitate that the builders go further and further away to keep up with demand.46 One might first expect that the port town of Classe, located only five kilometres south of Ravenna, would have been an obvious location to salvage bricks. However, Classe was undergoing its own growth and transformation in late antiquity due to Ravenna’s prominence.47

In the case of Scenario 1, there would be a set distance from the brickyard to the work site and in immediate proximity to water. In Scenario 2, many brick structures would be at varying distances from the urban centre of Ravenna, some of which would be out of close reach of navigable waterways. The choice of using water over land transport is an easy one.39 An oxcart with two yoked oxen and one driver could carry weight of no more than 500 kilograms over a maximum distance of 30 kilometres per day.40 This is in comparison to a large cargo vessel with a minimum of two crewmembers and a load of around 350 metric tonnes, which could travel 78 nautical miles (144 kilometres) per day.41 However, land transport was essential to some degree for both scenarios and likely more so in the case of reclaimed bricks.

Archaeological evidence alone does not afford the possibility to conclusively answer how the builders of Ravenna came by such quantities of materials. Perhaps the lack of evidence for local brick production may reflect a reliance on other ceramic manufactures in the region as was seen in sixth-century Rimini when kilns switched from producing pots to tubi fittili for vaulting.48 Perhaps new and/or reclaimed bricks were imported from throughout the Adriatic when large-scale infrastructural projects would have been met with material supply constraints. While these possibilities remain purely conjecture at this time, it is clear that, whether reused or manufactured, transport by water would have been used as much as possible if economic savings was a primary concern. As shown above, the greater distances they were required to travel to obtain bricks, especially by land transport, the less economically beneficial recovered bricks became.

In Scenario 2 (reuse), if the average trip of overland transport surpassed that used in Scenario 1 (manufacture) by only 9 kilometres, there would be no difference in required manpower for each scenario.42 As mentioned above, it is safe to assume that water transport was used whenever possible but as there is no evidence of exact locations from which bricks were taken, the process of transporting salvaged bricks can only take place as a hypothetical narrative.

This exercise in estimating manpower used to build the wall using the scenarios discussed in this paper is not meant to represent realistic interpretations of the historic Cirelli 2010, p. 240; Deliyannis 2010, pp. 35–38. The finite element model of San Vitale (Taliercio, Binda 2007) yielded a solid structural volume of around 6500 cubic meters (figure not presented in the paper but kindly shared by the authors). The calculation was made using a 1:1 ratio of bricks to mortar compared to the average brick size used in the wall. 45 Cirelli 2008, p. 67. 46 Righini (1991, p. 202) suggests that salvaged bricks used in the construction of Pomposa Abby in the second half of the eighth century came from Ravenna or Classe. Pomposa Abby is a large complex built primarily of brick masonry, located 50 kilometres away from Ravenna. 47 See Augenti, Cirelli (2012) for a discussion of the development of Classe in late antiquity; Manzelli (2001, p. 54) suggests that building materials from Ravenna were transported to Classe to build housing in the third and fourth centuries. 48 Lancaster 2009, p. 15. 43 44

Discussion and conclusion

39 See DeLaine (2001, pp. 233–234) for discussion of approximate pricing of land and water transport. 40 The Codex Theodosianus (8.5.30) restricts the maximum load of an oxcart to 1500 librae or roughly 500 kilograms; See DeLaine (1997, p. 108) for discussion of distances. 41 Casson 1951, pp. 141–143; DeLaine 1997, p. 108. 42 Calculations based on densities of bricks presented by Fernandes, Lourenço, Castro (2010, p. 35) compared with the maximum load and distance travelled per day of an oxcart.

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J. Riley Snyder events. Had brick kilns been utilised in the fifth century, the timeframe of manufacture and the fuel to keep them running have yet to be factored into the discussion. Similarly, the pressures of sourcing enough reused brick to keep up with construction needs would have required an impressive logistical fete of planning that would not necessary have been faced by local manufacture. Together,

however, these scenarios indicate that the new western capital of Ravenna committed to remarkable expenses in labour in material acquisition alone. Whether this commitment only involved reused bricks or an investment in brick manufacture, the logistical framework of keeping up with demand is no less impressive.

Fig. 1. The line of the city walls of Ravenna. The line of the oppidum wall to the northeast, which no longer survives, is based on the work of Christie and Gibson (1988).

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Bricks in the Wall: An Examination of Brick Procurement in Fifth-century Ravenna

Fig. 2. Brick masonry from the southwestern section of Ravenna’s circuit wall. Notice the difference in brick size from the lower, middle, and upper portions of the wall, as well as the use of headers and stretchers in the middle section.

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3.5 Ricerche sui materiali marmorei e lapidei di età tardoantica a Ravenna Isabella Baldini, Paolo Baronio, Giulia Marsili, Lucia Orlandi, Debora Pellacchia, Letizia Sotira Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Dipartimento di Storia Culture Civiltà [email protected] Abstract: Between the end of the 5th and the end of the 6th centuries, over 1500 tonnes of marble were brought from Constantinople to Ravenna for the construction of its churches: if we consider that by this calculation all the elements of liturgical furniture (ambos, parapets, fences, wall and floor covering sheets) and the large number of sarcophagi are excluded, this figure corresponds to in scale to a very considerable trade. According to a tradition of studies already rooted in the Department of History and Cultures of the University of Bologna, in 2013 a multidisciplinary and comprehensive review of the sculptures of Ravenna between the 4th and the 7th centuries was undertaken in a Mediterranean perspective. Keywords: Marble; Ravenna; Late Antiquity.

Premessa

possa essere analizzato lungo un arco di tempo prolungato, per poter creare una base di conoscenza adeguata da mettere in relazione con quella di altri siti. In questo senso Ravenna, pur con le difficoltà che possono derivare dalla lettura diacronica dei suoi edifici e con le ben note lacune della documentazione, rappresenta indubbiamente uno dei casi di studio più completi e interessanti. Non è ancora possibile fare una stima completa degli elementi di importazione rispetto a quelli in altro materiale, ma è senza dubbio indicativo che delle 146 colonne analizzate nei corpora delle chiese di Ravenna da F.W. Deichmann,3 in ben 120 casi il litotipo sia individuato nel marmo proconnesio. Non mancano tuttavia intere serie di manufatti di reimpiego, importazioni di materiale dalla costa istriana e dalla zona subalpina; sono segnalati marchi orientali di officina, ma a volte il trattamento denuncia l’attività di scultori locali. Il confronto tra la documentazione offerta dal contesto ravennate e quella proveniente da altri territori dell’impero consente anche di indagare l’esistenza di atelier marmorari attivi per i principali cantieri architettonici del tempo, e di valutare il ruolo svolto da Ravenna nella raccolta e ridistribuzione del marmo per le esigenze della Pars Occidentalis. Il confronto tra tali evidenze archeologiche e le fonti scritte arricchisce ulteriormente il quadro, per esempio in merito all’attività in loco di maestranze specializzate provenienti dall’esterno. Nel’ambito dell’indagine sui materiali litici,

Tra la fine del V e la fine del VI secolo oltre 1500 tonnellate di marmo vennero trasportate da Costantinopoli a Ravenna per la realizzazione dei suoi edifici di culto: se consideriamo che da questo calcolo, ipotizzato da J. Harper1 oltre un quindicennio fa, sono esclusi tutti gli elementi di arredo liturgico (amboni, plutei, transenne, altari, lastre di rivestimento parietale e pavimentale) e la cospicua serie dei sarcofagi (Fig. 1), è evidente come il dato corrisponda alle dimensioni di un commercio davvero considerevole.2 Non si tratta solo di quantità: la scelta del materiale, infatti, sebbene in parte condizionata dalla proprietà delle cave, dalla relativa facilità di reperimento e trasporto di manufatti, presenta anche aspetti legati al prestigio della sede di provenienza e alle scelte della committenza. La difficoltà principale, nell’ambito di un fenomeno ampio come quello del commercio del marmo e della pietra, è quella di individuare situazioni omogenee in cui, per esempio, il trasporto di tale materiale dall’Oriente Harper 1997. Sulla scultura ravennate esiste una bibliografia ampissima. Oltre allo storico Corpus della scultura ravennate (Angiolini Martinelli 1968; Valenti Zucchini, Bucci 1968; Farioli 1969a) si possono ricordare, per esempio, De Francovich 1958; Mazzotti 1960; Farioli 1963; 1969b; Russo 1971; Farioli 1972; 1975; Russo 1974; Farioli 1977; Kollwitz, Herderjürgen 1979; Farioli 19–80; 1982; 1983;1984–1985; 1991; 1992a; 1992b; 1994; Baldini Lippolis 1997; Harper 1997; Rizzardi 1999; Farioli 2000; Baldini Lippolis 2003; Russo 2003a; Budriesi 2005; Farioli 2005a; 2005b; 2005c; Vernia 2005; Rizzardi 2006a; Zanotto 2007; Barsanti 2008; Rizzardi 2009; Novara, Gardini 2011; Sotira 2013. 1 2

3

90

Deichmann 1974; 1976; 1982.

Ricerche sui materiali marmorei e lapidei di età tardoantica a Ravenna è opportuno ricordare che essi, se da un lato sono messi in opera prevalentemente nell’ambito della scultura architettonica e di arredo liturgico, dall’altro trovano impiego anche nei rivestimenti e nel mosaico, preminente strumento espressivo nell’edilizia civile e religiosa di Ravenna, con un importante ruolo sociale e culturale. Le analisi condotte sulle superfici musive, principalmente in occasione dei restauri effettuati negli ultimi decenni, hanno fatto emergere una complessa combinazione di materiali, sia artificiali che naturali, con caratteristiche ottiche e cromatiche diverse.4 Si tratta, in sostanza, di un fenomeno artigianale estremamente complesso, il cui sviluppo può essere in parte seguito anche attraverso la documentazione letteraria e monumentale. In continuità con una tradizione di studi già radicata nel Dipartimento di Storia, Culture Civiltà dell’Università di Bologna, è stato dunque intrapreso nel 2013 un riesame complessivo del materiale lapideo lavorato di Ravenna tra il IV e il VII secolo (Fig. 2).5 Le finalità del lavoro sono legate alla necessità di una recensione critica dei documenti nel contesto dei complessi architettonici di pertinenza, per cercare di tracciare una storia dell’uso e del commercio del materiale lapideo a Ravenna in una prospettiva ampia, estesa all’intero Mediterraneo. Viene quindi tentato un approccio integrato, che partendo dalla registrazione dei dati e dalla loro elaborazione in forma grafica e di catalogo tende a una comprensione generale dei fenomeni legati alla realizzazione, al commercio, alla messa in opera dei manufatti, al loro significato cultuale e sociale: emergono così problematiche interconnesse, come quella dell’organizzazione del cantiere tardoantico, del rapporto con il pregresso monumentale, delle differenze artigianali, dei repertori iconografici e delle scelte tipologiche, dei testi epigrafici, dell’utilizzo liturgico degli elementi e della loro percezione fisica nello spazio architettonico.

valutare l’eventuale utilizzo di unità di misura differenti nella produzione dei prodotti lapidei, sia alla restituzione geometrico-proporzionale degli ordini architettonici. Un database consente inoltre il confronto tra le dimensioni degli elementi, con lo scopo di verificare l’omogeneità delle serie messe in opera nei diversi edifici e l’eventuale presenza di materiali anomali, variabili per stile, forme e dimensioni. L’incrocio tra i dati dimensionali e le analisi petrografiche permette infine di verificare ulteriormente la compatibilità tra le serie di materiali e la provenienza dei litotipi,6 fornendo inoltre dati quantitativi, utilizzabili per un’analisi del valore dei manufatti per una valutazione oggettiva dell’entità dei commerci. P.B. Il patrimonio preesistente Lo studio degli elementi marmorei di Ravenna in epoca tardoantica non può prescindere da un riesame degli spolia. Il fenomeno del reimpiego, infatti, è profondamente legato alle problematiche relative all’approvvigionamento di materiali lapidei, soprattutto in una città come Ravenna che per le caratteristiche geologiche del territorio fu impegnata fin dai tempi della sua prima monumentalizzazione nell’importazione di marmi.7 Nella maggior parte dei casi, come accade frequentemente, è difficile distinguere, alla base del fenomeno, le motivazioni di carattere puramente economico dalle istanze, per così dire, ideologiche, tanto i due aspetti sono spesso interconnessi e vicendevolmente condizionanti. Il riutilizzo di elementi di spoglio in epoca tardoantica fu una pratica complementare all’acquisto e all’importazione del materiale, come mostra per esempio il caso della chiesa di S. Apollinare Nuovo,8 nel cui presbiterio convivono spolia9 ed elementi di arredo architettonico contemporanei alla realizzazione dell’edifico, importati dalle cave di Proconneso.10

I.B. Registrazione ed elaborazione dei dati

Il fenomeno del reimpiego a Ravenna è peraltro ben documentato anche dalle fonti, come mostra la celebre lettera che Cassiodoro invia al patrizio Festo affinché faccia giungere a Ravenna i marmi asportati dalla domus Pinciana di Roma,11 oppure la missiva indirizzata ai possessores, ai defensores e ai curiales di Estunae con l’invito esplicito di far pervenire a Ravenna colonne e lapides che si trovano nel loro municipium.12

L’impiego congiunto di modalità differenti di rilievo – manuale (diretto) e digitale (fotogrammetrico e con laser scanner) – ha obbiettivi diversificati e complementari, secondo un doppio grado di analisi che, attraverso il rilievo diretto, mira alla comprensione delle tecniche impiegate per la realizzazione dell’oggetto, del suo degrado, reimpiego e restauro; l’acquisizione tridimensionale è volta non solo alla restituzione degli apparati decorativi più complessi, ma anche delle volumetrie, ponendo così le basi per indagini statistiche sulla quantità di materiale estratto e impiegato per la realizzazione del prodotto finito.

Su questi aspetti è stata iniziata una collaborazione con il Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna. 7 Mansuelli 1974, p. 213; Zanotto 2007, p. 198. 8 Sulla basilica: Penni Iacco 2004. 9 Per i reimpieghi a Ravenna, in generale: Deichmann 1974, pp. 135– 136; 1975, pp. 25–26; Von Hesberg 1980, pp. 181–182; Ward Perkins 1984, p. 216; Zanotto 1995, pp. 959–960; Novara 1998b; 1999; De Maria 2000, p. 293; Novara 2001c; 2002; Zanotto 2007, pp. 117–121; Barsanti 2008, pp. 193–196. Com’è noto, non fu solo la scultura architettonica a essere oggetto di reimpiego, ma anche i sarcofagi. 10 Barsanti 2008, p. 189. 11 Variae III, 10: Fauvinet-Ranson 2006, pp. 97–100. 12 Variae III, 9: Fauvinet-Ranson 2006, pp. 94–97. 6

La schedatura degli elementi architettonici procede parallelamente a una analisi metrologica, necessaria sia per Si veda la bibliografia raccolta in Rizzardi 2011. L’attività di ricerca si affianca alla divulgazione didattica nell’ambito di lezioni e laboratori. Lo studio sui materiali di età tardoantica si affianca a quello condotto da P. Porta sui manufatti altomedievali. 4 5

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Isabella Baldini, Paolo Baronio, Giulia Marsili, Lucia Orlandi, Debora Pellacchia, Letizia Sotira Un’ulteriore analisi degli spolia e della prassi del reimpiego nei cantieri ravennati di V–VI sec. si rende pertanto necessaria all’interno di un progetto che tenta di riesaminare l’argomento nella prospettiva di una ricostruzione del contesto commerciale, sociale ed economico della città in epoca tardoantica.

artigianale responsabile della finitura dei prodotti secondo gli stilemi artistici concordati con la committenza. Alla terza categoria appartengono infine i marchi di smontaggio e stoccaggio, relativi all’uso secondario dei prodotti marmorei e identificativi di operazioni di recupero dei materiali o di depositi temporanei dei medesimi.

D.B.

Le sigle di ambito ravennate appartengono alle prime due categorie, ovvero sigle di assemblaggio e, in particolare, sigle di officina. La presenza di segni epigrafici era stata rilevata già negli anni ’60 del secolo scorso dal Deichmann.17 Una revisione e un aggiornamento di tale documentazione, posta a confronto con le numerose attestazioni provenienti dalla Pars Orientalis dell’impero, sta offrendo dati degni di nota in merito allo svolgimento dei cantieri e all’attività delle officine coinvolte. Almeno quindici di esse tra il V e il VI secolo firmarono i propri prodotti per le fabbriche ravennati. Un aspetto rilevante per le implicazioni di tipo economico, politico e culturale è quello numerico: su circa una quarantina contesti monumentali di ambito ecclesiastico sorti tra il IV e il VI secolo, noti da fonti archeologiche e letterarie, solo sette hanno restituito manufatti contrassegnati da sigle di lavorazione.18 Esse compaiono infatti su fusti di colonna, basi, imposte e capitelli corinzi a lira provenienti dalle basiliche di S. Francesco, S. Maria Maggiore, S. Teodoro a vultu, S. Apollinare Nuovo, S. Agata, S. Vitale, S. Apollinare in Classe. Pur dovendosi valutare con cautela, poiché condizionato da ragioni di tipo conservativo, quest’indice si rivela interessante in quanto focalizza l’attenzione su un nucleo di contesti circoscritti a un preciso arco cronologico. Quattro dei sette casi menzionati possono infatti essere messi in relazione con committenze di età teodericiana, legate alla sede imperiale (S. Apollinare Nuovo, S. Teodoro a vultu) o a quella episcopale.19 All’attività del presule Ecclesio possono infatti essere ricondotti, almeno nella fase di fondazione iniziale, i cantieri di S. Maria Maggiore e S. Vitale. La possibilità di ricorrere all’ausilio di maestranze qualificate afferenti gli opifici dell’isola di Marmara, ingaggiate per i principali cantieri del tempo, legati prevalentemente a committenze di ambito palatino, connota in senso distintivo tali operazioni edilizie sia da un punto di vista economico sia politico.

Il cantiere Nell’ambito della riflessione sul patrimonio architettonico ravennate, un aspetto importante riguarda lo studio dei processi formativi e delle fasi progettuali dell’esperienza costruttiva. L’indagine sui cantieri coinvolge molteplici piani di ricerca, dalle prerogative della committenza alla qualità della manodopera, dall’individuazione del contesto topografico alla scelta dei modelli tipologici, senza tralasciare la valutazione delle materie prime impiegate e della modalità di reperimento, lavorazione e messa in opera delle medesime.13 Lo studio dei manufatti marmorei fornisce significative informazioni circa le procedure artigianali, le figure professionali e le unità operative coinvolte nelle operazioni di sgrossatura e rifinitura dei prodotti. Dati degni di nota sono offerti, oltre che dall’analisi stilistica, dallo studio del corredo epigrafico talvolta supportato dai marmi stessi. Segni di varia natura venivano infatti tracciati dalle maestranze attive in cava, in bottega o sul cantiere stesso, al fine di comunicare informazioni in merito alla prassi operativa da adottare.14 Da un punto di vista morfologico, i marchi dei marmorari (Fig. 3) si presentano come singole lettere o sigle più estese, composte da due a cinque caratteri alfabetici. Più lettere potevano essere disposte in legatura o in forma di monogramma. In linea generale, a ciascuna sigla corrispondeva un nome personale, anche se in alcuni casi uno o più caratteri potevano assumere un valore numerico. In età protobizantina, le principali tipologie di sigle di lavorazione, realizzate in momenti diversi del processo produttivoartigianale e contraddistinte da differenti funzioni e significati, sono tre.15 La prima è quella delle sigle di cava, incise dalle officine addette all’estrazione e prima lavorazione dei prodotti nei pressi dei giacimenti. Esse potevano fornire indicazioni di controllo (marchi relativi alla verifica di qualità dei manufatti), ordine (marchi di destinazione o committenza), messa in opera (marchi di assemblaggio e posizionamento).16 La seconda categoria consiste nelle sigle di officina, identificative dell’unità

G.M. Uso delle fonti e liturgia Alcune delle fonti tradizionalmente usate per la storia di Ravenna (Cassiodoro, Variae; Iordanes, Historia Getarum; i Papiri Ravennati) contengono elementi utili alla ricostruzione dei fenomeni artigianali e alle pratiche evergetiche legate all’uso dei manufatti. Meno evidenti,

13 Sulla metodologia adottata per lo studio dei cantieri antichi si rimanda a Camporeale 2014, pp. 171–179, con bibliografia precedente. 14 Tra le opere più significative per il periodo in esame si segnalano Forchheimer, Strzygowski 1893, pp. 247–258; Wulzinger 1913, pp. 459– 473; Sodini 1987, pp. 503–510; Barsanti 1989, pp. 91–220; Russo 1991; Asgari, DrewBear 2002, pp. 1–19; Paribeni 2004, pp. 651–736; Bardill 2008, pp. 181–210; Biernacki 2009, pp. 119–131; Paribeni 2010; 2013. 15 G. Marsili, Per un’archeologia del lavoro in età protobizantina. Organizzazione e committenza del cantiere edilizio attraverso i marchi dei marmorari, Tesi di Dottorato, Bologna 2014. 16 Marsili 2014, pp. 181–189.

Deichmann 1969, pp. 63–92; Deichmann 1976, pp. 206–230; Deichmann 1989, pp. 273–296, 321–346. 18 La stima è realizzata sulla base degli edifici schedati in Cirelli 2008. 19 Sulla decorazione marmorea dei monumenti di età teodericiana a Ravenna si veda Barsanti 2008, pp. 185–202, con bibliografia precedente. 17

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Ricerche sui materiali marmorei e lapidei di età tardoantica a Ravenna invece, sono le indicazioni sulla funzione liturgica di tali elementi. Tuttavia, la ricostruzione delle modalità di utilizzo e della contestualizzazione, motivandone le scelte simboliche e decorative, costituisce da un lato un apporto essenziale alle fonti storico-documentarie per lo studio dell’uso liturgico tipico di una comunità, dall’altro, viene potenzialmente illuminata proprio dai documenti scritti. Fra il III e il V secolo, alcuni testi (Didascalia Apostolorum, Constitutiones Apostolicae, Testamentum Domini) mostrano l’esistenza di una tradizione di pratiche condivisa da entrambe le sponde del Mediterraneo, pur con variazioni regionali. I libri liturgici, in particolare gli ordines, rispecchiano i valori e gli ideali dell’élite religiosa in merito alla liturgia.20

di ricerca ulteriore potrebbe allora venire dallo studio congiunto della documentazione liturgica e archeologica relativa ai centri che più hanno influenzato Ravenna sul piano politico, culturale e religioso nei secoli del tardo impero e del primo medioevo, seppure in momenti diversi: Milano,25 Roma e Costantinopoli.26 L.O. Manufatti, liturgia e percezione del contesto architettonico Un aspetto connesso alla messa in opera degli elementi marmorei all’interno degli edifici di culto riguarda l’effetto comunicativo da essi rivestito, considerando anche le caratteristiche acustiche dello spazio e la distribuzione della luce al suo interno. Occorre, dunque, analizzare le fonti relative alla liturgia antica, ovviamente riservando una particolare attenzione a quella ravennate, non solo per quanto concerne l’espressione della voce (canto, salmodia, parlato), ma valutando anche ogni documento che contribuisca a comprendere secondo quali modalità la luce artificiale era organizzata e distribuita all’interno degli spazi.27 Se infatti è possibile studiare le modalità di illuminazione naturale diurna all’interno di questi luoghi,28 risulta più complesso cercare di ricostruirne le modalità di illuminazione artificiale. Al fine di indagare tali rapporti, una volta terminata la ricerca documentale su ciascuno degli aspetti menzionati, è possibile impiegare strumenti informatici – disponibili già nell’ambito della progettazione architettonica moderna – per ricreare in ambienti virtuali le condizioni di fruizione di ciascun edificio. I modelli previsionali elaborati per l’acustica29 – che sappiamo essere direttamente influenzata dalla conformazione planimetrica, dalle caratteristiche dei materiali costruttivi, e anche, in misura differente, dalla disposizione degli elementi architettonici (quali colonne o amboni) – e i modelli che analizzano la distribuzione

Il contesto ravennate, a differenza di quello romano e di altre chiese, pone il problema non indifferente della mancanza di fonti liturgiche “proprie”, relative agli usi locali, siano esse sacramentaria o lectionaria, o istruzioni per la celebrazione eucaristica. Lo studio della storia della pratica cultuale a Ravenna ha tratto alimento dalle notazioni sparse in altre fonti storicodocumentarie e da quelle monumentali, sia locali che esterne. Il Canon Missae di provenienza romana e alcuni passi del De Sacramentiis di Ambrogio,21 relativi al sacrificio eucaristico, sono stati per esempio messi in relazione con il ciclo musivo di S. Vitale che raffigura i sacrifici di Abele, Melchisedec e Abramo.22 Uno dei pochi documenti direttamente legati a un contesto liturgico è il corpus dei Sermones del vescovo Pier Crisologo, giunti a noi nella compilazione successiva del presule Felice (708–723),23 i quali danno conto della catechesi battesimale a Ravenna nella prima metà del V secolo, e si raccordano alle testimonianze architettoniche degli edifici battesimali tuttora esistenti. Il Liber Pontificalis di Andrea Agnello costituisce una miniera di dati, abbondantemente utilizzata nella tradizione degli studi archeologici, per quanto riguarda i luoghi della liturgia (localizzazione di chiese e basiliche, ma anche più particolarmente pastophoria, secretaria e sacraria), e le istituzioni religiose coinvolte (biblioteche, tesori, lipsanoteche); spesso si ritrovano testimonianze circa la decorazione musiva e parietale dei luoghi di culto e l’utilizzo della suppellettile preziosa durante le celebrazioni. Un po’ più difficile è trarre informazioni strettamente attinenti all’uso dell’arredo liturgico, nonostante alcuni elementi (amboni, altari) compaiano nell’ambientazione di molte notizie ed episodi delle biografie vescovili.24 Una linea

44); tale indicazione potrebbe forse rimandare a un più ravvicinato collegamento con l’uso liturgico romano (peraltro in quei secoli ancora in via di codifica), in un’epoca in cui Ravenna si avviava a diventare o era già diventata metropoli religiosa. 25 La Milano di Ambrogio ha lasciato un segno nella liturgia ravennate: si veda per esempio l’abitudine, condivisa con le chiese orientali, per il ministro del culto di rivolgersi a Oriente durante la celebrazione eucaristica. Ulteriore punto di distanza rispetto alla sede petrina, e di vicinanza alla pratica ambrosiana, è la lavanda dei piedi compresa all’interno del rito battesimale: a tale rituale fa riferimento l’iscrizione musiva di nord-est all’interno del Battistero Neoniano (CIL II, n. 257): Montanari 1992, p. 250. 26 Farioli 1991. 27 Fobelli 2005. Per un’ampia ricerca sui sistemi di illuminazione antichi cfr. Bouras, Parani 2008. 28 Sono utili anche alcuni aspetti della cultura materiale, come per esempio i vetri da finestra, poiché dalla loro osservazione si possono trarre informazioni sulla loro interazione con le onde luminose, in ragione delle caratteristiche chimicofisiche del materiale vetroso: spessore, grado di opacità, presenza di pigmenti o colorazioni. Cfr.: I. Durvilli, La modellazione 3D per la qualità acustica ed illuminotecnica della Basilica di San Vitale a Ravenna: ricostruzione archeologica-musicale del canto liturgico in epoca bizantina, Tesi di Dottorato di Ricerca in Ingegneria Energetica, Nucleare e del Controllo Ambientale, Ciclo XXI, Università di Bologna, 2009, pp. 124–127. Cfr. anche Gagliardi 1945. 29 Spagnolo 2008, pp. 835 e ss.

20 Un caso esemplare di studio della relazione fra architettura e liturgia cristiane è quello condotto sul contesto di Roma tardoantica e medievale (De Blauuw 1994). Sul rapporto tra architettura e liturgia si vedano anche Doig 2008; Bartolomei 2011, pp. 37–70. 21 Ambroise de Milan, De sacrements; Des mystères; Explication du symbole, texte établi, traduit et annoté par B. Botte, SC 25bis, Paris 1961 IV, 27; cfr. Montanari 1992, p. 255. 22 Montanari 1992, p. 255. 23 Collectio sermonum a Felice episcopo parata sermonibus extravagantibus adiectis santi Petri Chrysologi, cura et studio Alesandri Olivar, Corpus Christianorum SL XXIV B, Turnhout 1982. 24 Alcuni accenni fugaci forniscono materiale su cui riflettere: tale è il caso del vescovo Giovanni I (vissuto ai tempi di Galla Placidia e Valentiniano III), che “(…) cantava una messa solenne nella basilica di S. Agata, svolgendo tutto secondo il rito dei santi pontefici (…)” (LP,

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Isabella Baldini, Paolo Baronio, Giulia Marsili, Lucia Orlandi, Debora Pellacchia, Letizia Sotira al sacrificio di Cristo compiuto sull’altare attraverso il rito dell’Eucarestia; e ancora le palme dattilifere, di frequente negli spazi di risulta, e gli agnelli affrontati alla croce, motivo caro all’iconografia paleocristiana, presente anche in altre categorie di sculture.

delle fonti luminose, hanno la finalità di ottenere mappe di distribuzione di tali fattori nello spazio. I risultati ottenuti possono essere pertanto confrontati e messi in relazione con quanto già noto in merito agli apparati decorativi e alle particolari funzioni di ciascun ambiente.

L.S.

F.F. Un esempio tipologico: gli altari Considerando la scultura di arredo liturgico, oltre ad amboni, plutei, transenne, pilastrini e cibori, spiccano sia per quantità, sia per qualità gli altari ancora esistenti a Ravenna e nel territorio circostante, punti focali della celebrazione liturgica e, talvolta, luoghi protetti per le deposizione di sacre reliquie (Fig. 4): la concentrazione di esemplari integri tuttora in opera all’interno degli edifici di culto urbani è davvero eccezionale e non ha pari in altri centri della tarda Antichità d’Occidente e d’Oriente;30 a questi si aggiungono diversi manufatti erratici, avulsi dal contesto originario31 e conservati nei Musei della città (Nazionale e Arcivescovile), quelli ubicati nelle pievi del territorio circostante (pieve di S. Pietro in Sylvis a Bagnacavallo, pieve di S. Giorgio ad Argenta, pieve di S. Pietro in Trento) e quelli di verosimile provenienza ravennate, situati all’estero o comunque al di fuori del contesto strettamente locale (Museum of Art di Cleveland, Museo Diocesano di Parma, Abbazia di Pomposa). La notevole rilevanza della classe scultorea degli altari ravennati ha destato, dai primi decenni del Novecento, l’interesse di diversi studiosi, in primis di J. Braun, autore di una monumentale opera sull’altare cristiano,32 sulla scia del quale si sono posti, tra gli altri, M. Mazzotti,33 F.W. Deichmann,34 G. Bovini,35 P. Angiolini Martinelli nel primo volume del Corpus,36 R. Farioli Campanati in diversi contributi,37 ed E. Russo.38 Un aggiornamento degli studi relativi a tale argomento è stato pubblicato nel 2013.39 A Ravenna sono documentate tre tipologie di altari: in minima parte a mensa e, in prevalenza, a cippo e a cassa. Frequente è la presenza, sulle fronti dei manufatti ravennati, della fenestella confessionis, inquadrata da un arco a tutto sesto sostenuto da colonnine in rilievo nel caso degli altari a cippo, al centro della nota partitura mistilinea, presente anche sulle fronti di diversi sarcofagi, nel caso degli altari a cassa. Dal punto di vista iconografico, nonostante una certa eterogeneità, si riscontrano costantemente alcuni motivi significativi dal punto di vista simbolico: la conchiglia che, inserita nell’arco che orna la fenestella confessionis, forma con essa la ianua Caeli; la croce a estremità patenti, talvolta innestata su un globo, alludente 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39

Brogiolo, Chavarría Arnau, Marano 2005, pp. 50–52. Rizzardi 1999. Braun 1924. Mazzotti 1960. Deichmann 1974; 1976; 1989. Bovini 1969a; 1969b; 1970. Angiolini Martinelli 1968. Farioli 1983; 1985; 2005. Russo 1997. Sotira 2013.

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Ricerche sui materiali marmorei e lapidei di età tardoantica a Ravenna

Fig. 1. Ravenna, Quadrarco di Braccioforte, Sarcofago Pignatta, lato con l’Annunciazione, particolare (foto I. Baldini).

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Isabella Baldini, Paolo Baronio, Giulia Marsili, Lucia Orlandi, Debora Pellacchia, Letizia Sotira

Fig. 2. Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo, capitello “a lira” (foto I. Baldini).

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Ricerche sui materiali marmorei e lapidei di età tardoantica a Ravenna

Fig. 3. A sinistra: scheda-tipo per lo studio e la catalogazione delle sigle di lavorazione; a destra: un marchio dalla basilica di S. Apollinare Nuovo (G. Marsili).

Fig. 4. Ravenna, basilica di S. Giovanni Evangelista, presbiterio: altare a cassa, secondo quarto del V secolo (foto L. Sotira).

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3.6 Aspetti e ruoli della scultura altomedievale di Ravenna (secoli VIII–IX): un aggiornamento Paola Porta, Stefano Degli Esposti Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Dipartimento di Storia Culture Civiltà [email protected]; [email protected] Abstract: In Ravenna (Musei Nazionale and Arcivescovile and some ancient churches) a large amount of architectonical and funerary sculpture of the Early Middle Ages is preserved. These pieces are listed in a three-volume Corpus, edited by G. Bovini, published between 1968 and 1969, i.e. around 50 years ago. Since they are missing a proper summary conforming with the direction and the results of current research, this essay raises some issues that characterise the appearance of Ravenna in that time; it also proposes exemplary proofs integrated with a summary of the most important literary sources and bibliography. Keywords: Sculpture; Ravenna; Early Middle Ages; Studies; Historiography.

Introduzione

diverse: il fenomeno della subsidenza, che coinvolge direttamente Ravenna, e l’inserimento in età romanica di cripte sotto il presbiterio per adeguare edifici sacri di V e VI secolo a nuove direttive liturgiche e architettoniche che si impongono nel nord della penisola e dell’Europa occidentale provocando lo stravolgimento degli impianti precedenti. Vanno considerati anche la documentazione archeologica spesso inesistente o poco illuminante, la distruzione o un riutilizzo improprio di molti elementi, infine le spoliazioni avvenute in epoche diverse, per esempio i marmi asportati intorno alla metà del XV secolo da Sigismondo Malatesta, signore di Rimini, per ornare il celebre Tempio Malatestiano.

Il contributo riassume nei punti salienti una revisione in corso sulla plastica ravennate di età altomedievale focalizzata, in questa sede, sulle raccolte nei Musei e nelle chiese di Ravenna, che in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica dell’Emilia-Romagna si estenderà in seguito al territorio.1 In questo periodo (VIII–IX secolo) a Ravenna, non più cerniera tra il mondo occidentale, latino, e orientale, greco, si succedono i Longobardi per una breve parentesi, poi i Carolingi. Poiché gli studi hanno finora privilegiato la produzione lapidea tardoantica,2 di maggior livello e numericamente più consistente, sembra opportuno a quarantacinque anni dalla pubblicazione del Corpus diretto da G. Bovini3 una rilettura aggiornata in linea con gli orientamenti della critica attuale e con le più recenti segnalazioni.4

Né si può escludere l’eventualità che parte degli arredi fosse realizzata in materiali deperibili quali lo stucco o il legno, come osservato in altri contesti.5 P.P., S.D.E.

La vistosa discrepanza rilevata – su 389 manufatti, solo 83 sono altomedievali (Fig. 1) – risente di cause

Tra Corpus e fonti scritte: l’importanza del sacro a Ravenna

1 Ai fini di un approfondimento verrà utilizzato come strumento di lavoro e per la divulgazione dei risultati un database fruibile principalmente per un pubblico scientifico: Porta, Degli Esposti 2015, pp. 195–251. 2 De Francovich 1957, pp. 17–46; Angiolini Martinelli 1968; Valenti Zucchini, Bucci 1968; Deichmann 1969; Farioli 1969b; Deichmann 1974; Kollwitz, Herderjürgen 1979; Deichmann 1989; Farioli 2005a, p. 13. 3 Angiolini Martinelli 1968; Valenti Zucchini, Bucci 1968; Farioli 1969a. 4 Romanelli 2011, che prende in esame alcuni elementi di arredo architettonico provenienti da campanili ravennati non schedati in precedenza.

Gli ottantatré materiali altomedievali censiti nel Corpus provengono da quasi trenta edifici della città e del territorio e abbracciano un arco cronologico che va dall’VIII al

LP, cc. 66, pp. 235–237. L’Agnello parla di un ciborio “ligneo vetusto” nella Cattedrale Ursiana in seguito sostituito dal vescovo Vittore e dell’impiego di stucchi ancora visibili per esempio nel battistero neoniano. 5

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Aspetti e ruoli della scultura altomedievale di Ravenna (secoli VIII–IX): un aggiornamento IX secolo (Fig. 2). A quanto appena detto è necessario aggiungere una breve riflessione sulla modalità di formazione delle collezioni cittadine ravennati. Nei musei della città infatti, i frammenti altomedievali provenienti dal territorium sono solo otto: da Castel Bolognese di cui si parlerà in seguito; dalla pieve di S. Cassiano in Decimo a Campiano attesta per la prima volta nel 896,6 dalla pieve di S. Zaccaria a sud di Ravenna, dall’abbazia di S. Pietro in Vincoli da cui provengono sette frammenti presenti nel Corpus (e datati tra il VII e il IX secolo)7 ma la cui fondazione va collocata nella prima metà dell’XI secolo infine dal monastero di S. Alberto attestato nello stesso periodo.

antichi che, dopo più di due secoli, mantenevano ancora il loro valore simbolico e regale. Il Papa compiva, pertanto, un gesto che risultava doppiamente favorevole in quanto privava la seconda città del suo territorium di parte delle ricchezze e le donava al suo alleato principale, il re dei Franchi, investendolo di un ruolo imperiale cui Carlo non era ancora formalmente pervenuto. Gli edifici religiosi cittadini citati per la prima volta nell’alto Medioevo risultano essere cinque nel VII secolo,12 il doppio tra VIII–IX secolo (di cui sette citati nel Liber Pontificalis,13 i restanti in miscellanee di fonti).14 Nel X secolo aumentano gli atti privati conservati negli archivi ecclesiastici della città, la maggior parte dei quali provenienti dall’archivio arcivescovile.15 Le attestazioni di chiese sono più di venti16 ma assai scarse sono le relative testimonianze scultoree.

Tale constatazione mostra un tipo di acquisizione del patrimonio artistico casuale e frutto di fenomeni isolati (spesso donazioni di privati generosi).8 Uno degli aspetti che complica di molto la possibilità di datazione di questi materiali è il loro carattere erratico. In trentaquattro casi non se ne conosce nemmeno la provenienza e in alcuni non è possibile risalire alla funzione originaria.

In età altomedievale le fonti menzionano più di 50 edifici sacri, numero di molto inferiore rispetto alle presenze in epoca tardoantica. È significativo che nei più importanti edifici di V e VI secolo sia stato rinvenuto almeno un frammento di arredo liturgico o architettonico altomedievale, indice di un intervento di riqualificazione edilizia e di rinnovamento degli spazi interni. Infine nell’XI secolo aumentano ulteriormente le menzioni e i luoghi di culto superano il numero di 130, giustificando così l’affermazione di un cronista milanese dell’XI secolo che definisce Ravenna una città «qui abundat in ecclesiis».17

Potenzialmente utili per ricostruire la topografia del sacro ravennate risultano le fonti scritte di età altomedievale, talora precoci rispetto alle località limitrofe. Si annoverano circa 200 unità archivistiche tra VI e IX secolo con una crescita evidente a partire dal successivo (356 unità archivistiche).9 La fonte storica di principale riferimento è il Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis scritto da Andrea Agnello all’epoca del vescovo Pertinace (818–837) nella prima metà del IX secolo, attualmente pervenutoci in copia del XV secolo, che delinea in maniera evidente la crisi del mondo ravennate dopo la fine dell’età esarcale e la dissoluzione del mondo carolingio di cui l’autore è testimone.10 Il testo è una fonte notevole di informazioni anche sull’organizzazione dello spazio sacro cittadino che permette di aggiornare le notizie raccolte sui monumenti urbani.

S.D.E. I materiali Lo scenario della plastica ravennate, si compone prevalentemente di “disiecta membra, molti dei quali fissati alle pareti dei Musei e difficili da ricondurre all’unità originaria. Pertanto anche una notizia generica è un valido indizio, perché prospetta fasi architettoniche quasi sconosciute e talora scomparse, e una qualificazione degli spazi interni trascurata dalle fonti scritte, ma analoga a procedimenti in atto in quest’epoca in edifici eretti ex novo o ristrutturati. Acquistano così maggior spessore anche il quadro produttivo, gli orientamenti di gusto, e

Oltre al testo agnelliano, l’importanza della cultura materiale ravennate emerge in una significativa lettera papale in cui Adriano I alla fine dell’VIII secolo menziona un dono fatto a Carlo re dei Franchi di «musiva atque marmorea» del palazzo imperiale ravennate «tam in stratos quamque in parietibus sita».11 Il documento fa riferimento diretto al reimpiego di frammenti di arredo

LPR, S. Andrea apostolo cc. 121, p. 293; S. Apollinare in veclo cc.115, p. 286; Ecclesia Gothorum cc.121, p. 293; S. Paolo Apostolo cc. 119, p. 291; S. Teodoro diacono cc. 119, p. 290. 13 LPR, S. Andrea Ierocomio cc. 148, p. 326; S. Donato in Monterione. cc. 162, p. 339; S. Eufemia ad Arietem cc 168, p. 349; S. Eufemia in S. Calinico cc. 163, p. 341; Ss. Giovanni e Paolo cc. 174, p. 356; S. Giovanni e S. Stefano di Classe cc. 131, p. 306; S. Severino cc. 129, p. 305. 14 S. Stefano fundamenta regis in una lettera papale, Marini 1805, n. 11, pp. 12–14; S. Maria ad Cereseo e S. Maria ad Matronas in documenti privati da archivi ravennati, in Fantuzzi 1801–1805, vol. I, n. 2, pp. 85– 88, n. 6, pp. 94–95. 15 Gran parte dei documenti sono stati di recente editi da R. Benericetti (2006); e nei tre volumi di carte del X secolo in Benericetti 1999–2002. 16 Cirelli 2008, pp. 154–159. 17 Historia mediolanensis, p. 82. 12

Benericetti 2006, doc. n. 54, pp. 141–148. Novara 1998c, p. 229. 8 Nell’Inventario Vecchio del Museo Nazionale di Ravenna molti pezzi risultano donati al Museo dal Conte Rasponi, si veda Novara 1998c, pp. 229–234; il c. d. paliotto proveniente da Castel Bolognese è donato al Museo da C. Ricci (Porta 2011). 9 Novara 2008, pp. 14–29. 10 LPR, pp. 24 ss. Nell’introduzione alla recente edizione del testo l’autrice affronta in maniera approfondita e con ricca e aggiornata bibliografia le principali questioni storiche legate alla fonte ravennate. 11 Codex Carolinus, doc. 81, p. 614. 6 7

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Paola Porta, Stefano Degli Esposti si conserva una lastra spezzata a una delle estremità,21 che proviene dalla non lontana località di S. Pietro in Vincoli22 (Fig. 3).

l’impegno congiunto di committenza e maestranze nelle scelte iconografiche e simboliche. Il repertorio decorativo si adegua a stilemi convenzionali, comuni alla scultura coeva dell’Occidente europeo: stilizzate composizioni geometrico-vegetali, nastri viminei bisolcati, che rappresentano l’icona della plastica altomedievale, pervasivo horror vacui e scarse presenze zoomorfe, in cui si inseriscono temi ornamentali propri della produzione aulica dei centri più qualificati norditalici tra metà e avanzato VIII secolo. Frequenti sono i richiami a temi del filone bizantino-ravennate tardoantico, nel solco dell’antica e vivace tradizione locale, evidenti soprattutto nell’impaginato e nel simbolismo come nel caso dell’immagine della croce dominante che con leggeri distingui è particolarmente apprezzata nella plastica. Un eterogeneo scenario, quindi, in cui è difficile distinguere con sicurezza prodotti di VIII secolo da opere carolinge (fine VIII–IX secolo), per una riscontrata continuità formale e tipologica.

Il pezzo, segnato in verticale da un incasso ricavato posteriormente, è ornato da quattro cerchi su doppio registro, profilati da vimini bisolcati, che accolgono motivi ornamentali diversi tra cui clipei con girandole ruotanti intorno a un bottone centrale. Fatti salvi stile e decorazione tipicamente altomedievali, si rileva che questo motivo è riscontrabile al momento a Ravenna solo in due frammenti del Museo Arcivescovile;23 nell’entroterra ritorna in un’arcata di ciborio della pieve di S. Maria Annunziata a Montesorbo (diocesi di Sarsina) e sul sarcofago di Voghenza (FE), di caratura inferiore.24 Per contro è frequente in ricercate opere norditaliche legate alla corte longobarda, improntate al linguaggio raffinato del periodo della c. d. rinascenza liutprandea (VIII secolo). La lastra non rientra nell’Inventario Vecchio del Museo tra marmi donati dal Rasponi25 ma, considerata la data di fondazione del complesso e i possibili interventi che interessarono l’abbazia regia nei secoli, potrebbe trattarsi di un elemento erratico recuperato in epoca imprecisabile da Ravenna o da zone limitrofe e reimpiegato forse impropriamente, una sorta di “riciclo” circoscritto a un medesimo circuito ravennate.

Per limiti di spazio e in prospettiva di studi esaustivi, in questa sede si toccherà solo una campionatura di marmi scelti per qualità e funzione. Di conseguenza i confronti con altre aree geografiche saranno limitati a pochi casi. Anche se i rilievi si legano all’arredo liturgico di edifici sacri, l’allestimento degli spazi interni è in genere solo ipotizzabile per mancanza di elementi certi e per lo stato di frammentarietà.

Nel Museo Nazionale si impone per monumentalità una lastra considerata paliotto d’altare (Fig. 4)26 che probabilmente fu trasferita dall’abbazia benedettina di S. Pietro in Sala di Laderchio nella valle del Senio (comune di Riolo Terme, diocesi di Imola), ormai ridotta a pochi resti, menzionata per la prima volta del 1037, ma forse precedente.27

Lastre La zona presbiteriale fin dall’Antichità era separata dallo spazio per i fedeli da una recinzione costituita nella forma più semplice da lastre collegate a pilastrini, di cui a Ravenna restano parecchi esemplari.

La grande crux gemmata con bracci desinenti a ricciolo e percorsi da un intreccio vimineo che domina in verticale la composizione, richiama di nuovo più classi di manufatti, mentre in ambito regionale il confronto più calzante è al momento una lastra funeraria della succitata pieve di Montesorbo.28 Giusta l’appartenenza all’abbazia di Sala, sarebbe la prova di una fase architettonica precedente il Mille e di una monumentalizzazione ispirata a modelli della più qualificata produzione scultorea norditalica tra metà VIII e primi decenni del IX secolo. La presenza di tematiche esotiche pone interrogativi sulle botteghe

Altre lastre delimitavano la passerella sopraelevata (solea) che si protendeva verso la navata, e altre ancora il bema, rialzato sul pavimento e spesso di proporzioni notevoli, come nelle basiliche classicane di S. Apollinare e della Cà Bianca.18 Se l’età paleocristiana ha testimonianze letterarie e monumentali (marmi teodericiani in S. Apollinare Nuovo e transenne già nella cattedrale Ursiana),19 la produzione posteriore dispone di poche, generiche notizie. Due Trattati di XIII secolo20 parlano di marmi che ornavano S. Giovanni Evangelista, in particolare un ciborio di marmo con quattro colonne d’argento e transenne marmoree nella recinzione presbiteriale, ma si ignora se le sculture fossero tardoantiche o rifacimenti posteriori. Nel Museo Nazionale

Angiolini Martinelli 1968, pp. 66–67, n. 110, Inv. n. 747. (largh. m 1, 35 x h m 0,78 x m 0, 113 sp.). 22 Novara 1998c, pp. 229 ss. 23 Angiolini Martinelli 1968, pp. 84–85, nn. 147–148. Un frammento proviene dalla chiesa urbana dello Spirito Santo, l’altro dalla pieve di Campiano (Ravenna). 24 Porta 2012, pp. 249–251, n. 41 (anche per la diffusione del motivo). 25 Angiolini Martinelli 1968, pp. 62–63, n. 96 (VII secolo); pp. 67–68, n. 113. 26 Angiolini Martinelli 1968, p. 22, n. 15, Inv. 766; Porta 2011, pp. 180– 183; Sotira 2013, pp. 78–79, n. 17. 27 Porta 2011, pp. 169 ss. In altra sede si parlerà di diversi utilizzi del pezzo e della provenienza. 28 Porta 2011; 2014, pp. 224–228, n. 19. 21

Mazzotti 1954, p. 218; Deichmann 1976, pp. 318–321. Angiolini Martinelli 1968, pp. 55–58, 75–76, nn. 77, 131–133; pp. 72–75, nn. 120–130, utilizzate per un certo tempo come lastre del pavimento settecentesco della chiesa medesima. Altre, attribuite al S. Vitale e ritenute di importazione costantinopolitana, si trovano al Museo Nazionale: Deichmann 1976, p. 115. 20 In dedicazione Ecclesiae, pp. 567–574. 18 19

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Aspetti e ruoli della scultura altomedievale di Ravenna (secoli VIII–IX): un aggiornamento lapicide, se nel nostro territorio circolassero maestranze itineranti norditaliche, oppure cartoni/campionario, un problema da affrontare dopo il completamento della catalogazione.

Giovanni juniore, Giovanni VI (778–785),33 che rimase nella chiesa fino al IX secolo, quando venne rubato; fu sostituito dall’arcivescovo Domenico Ublatella (889–898) con uno nuovo che ricordava il precedente.34 In questo caso le fonti ne descrivono la pianta quadrata, le quattro colonne di marmo rivestite da lamine d’argento come le arcate, forse con lumeggiature o inserti in oro, stando almeno al Fabri”.35

Sono attestate anche lastre traforate, meno numerose perché più fragili e quindi più facilmente deteriorabili, superstiti in tre frammenti del Museo Nazionale,29 il maggiore dei quali mostra una combinazione di cerchi e losanghe comune nei secoli indicati e ripreso anche nel ciborio classicano di S. Eleucadio che vedremo in seguito.

Prima del Mille un secondo ciborio copriva il piccolo altare in mezzo alla chiesa dedicato alla Vergine, fatto erigere ai tempi dell’Ublatella dall’abate Ursus.36 In fondo alla navata settentrionale la medesima basilica conserva il ciborio proveniente da un’altra scomparsa chiesa classicana, dedicata a S. Eleucadio, terzo vescovo di Ravenna, qui ricomposto in posizione non rispondente all’originaria, come si evince dai due archivolti nord ed est che hanno il lato decorato verso l’interno per mostrare l’ornato (Fig. 5).37

La divisione presbiteriale era data anche da un più complesso sistema in alzato, la pergula, con colonnine e capitelli raccordati da un’architrave e con arcate o archi cuspidati sopra l’accesso principale e gli ingressi laterali. Fonti ravennati del XII secolo accennano a una pergola della chiesa di S. Giovanni Evangelista che, se ancora paleocristiana, sarebbe la più antica del territorio.

Come recita l’epigrafe, il committente fu Petrus presbiter al tempo del vescovo Valerio (789–810), lo stesso che fece erigere il ciborio della Basilica Probi.38 Il trasferimento avvenne forse poco dopo il Mille, quando la chiesa cadde in rovina, perché la Vita Probi lo dice ancora in opera e funzionante. Il monaco Vitale Acquedotti lo vide in S. Apollinare dalla fine del XV secolo.39

La continuità nell’alto Medioevo è testimoniata da due archetti cuspidati, uno nel chiostro del Museo Nazionale (Inv. 762), l’altro nella basilica di S. Apollinare in Classe,30 decorati con croce tra intrecci geometrici e il morivo a “cani correnti” (o “a onde ricorrenti”), non molto diffuso nel Centritalia, ma frequente nelle regioni altoadriatiche e alpine, di norma sulla cimasa delle trabeazioni o lungo la fascia sommitale negli archivolti di cibori o di pergulae.31

Quanto alla decorazione degli archivolti, gli elementi ornamentali riprendono la triplice partizione spaziale delle arcate di cibori dell’epoca, in una successione di elementi astratto-geometrici uniti a iconografie simboliche tardoantiche (croci tra colombe e pavoni affrontati al cantaro).

Non è verificabile se la parte postica sia liscia o decorata, tuttavia sembra condivisibile l’ipotesi di riconoscere la parte centrale di pergulae, suggerita dalle dimensioni e dalla forma a cuspide tipica dell’età carolingia, come attestato in una vastissima area geografica, dal Trentino al Friuli, a entrambe le sponde adriatiche e ai paesi d’Oltralpe.

Nel Museo Nazionale restano frammenti di altri archivolti: due di una medesima unità (Inv. nn. 763–764)40 conservano poche lettere del testo commemorativo: […] SVB TEMPO[…] e […] VM OPVS […] (Fig. 6), altri cinque provenienti dalla chiesa dello Spirito Santo, già Anastasis Gothorum, riferiti a tre arcate diverse di uno stesso ciborio.41

Cibori La presenza sopra l’altare del ciborio, un baldacchino lapideo formato da quattro archivolti su colonnette chiusi da copertura generalmente piramidale, ha riscontri fin dall’Antichità, come nel caso menzionato della basilica Ursiana. Testimonianze di varia natura fanno riferimento alla loro presenza nell’alto Medioevo, ma non entrano nei dettagli.

Sempre nel Museo Nazionale è murato un frammento ornato con cani correnti e girandole floreali (Inv. 755)

Nella scomparsa Basilica Beati Probi a Classe, per esempio, l’arcivescovo Valerio nei primi anni del IX secolo fece porre sull’altare un ciborio ornato “diversis p…coloribus” finiture policrome.32

LPR, cc. 161–163. Mazzotti 1954, pp. 85–88; Lavers 1971, pp. 179–182, n. 12. 35 Fabri 1644, p. 94 “…aram maximam ex argento atque auro testudine piramidi instar ornavit”. 36 Anche per le vicende delle colonne: Mazzotti 1954, pp. 89, 94, 102; Lavers 1971, pp. 211–213, n. 20. 37 Angiolini Martinelli 1968, pp. 36–37, n. 34; Porta 2012, p. 180. 38 Nonostante nel Liber Pontificalis non sia conservata la vita di Valerio, la sua esistenza è attestata in due passi. Non vi è, inoltre, traccia del vescovo Giovanni (VII) che compare solo in cronache posteriori. 39 Mazzotti 1954, p. 217 (in appendice il manoscritto della Biblioteca Classense di Ravenna dell’Acquedotti: Liber de Aedificatione et mitabilibus aedis divi apostoli Apollinaris in civitate olim classensi). 40 Angiolini Martinelli 1968, p. 36, nn. 32–33. Lavers (1971, p. 192) li attribuisce a due diversi archivolti perché nota una resa leggermente diversa nei vimini dell’intreccio. 41 Angiolini Martinelli 1968, p. 35, nn. 30–31; p. 66, n. 109; Lavers 1971, pp. 197–200, n. 18. 33 34

L’altare di S. Apollinare in Classe nell’VIII secolo aveva un ciborio in lamina d’argento, dono dell’arcivescovo 29 Angiolini Martinelli 1968, pp. 76–77, nn. 134–136; Novara 1998, p. 229. 30 Angiolini Martinelli 1968, pp. 37–38, n. 35; p. 38, n. 36; Lavers 1971, pp. 182–186, n. 13, e nota 143 a p. 184. 31 Per confronti coevi in diverse aree geografiche: Porta 2013, pp. 40, 55–58. 32 Vita Probi, pp. 554–557.

101

Paola Porta, Stefano Degli Esposti A pergulae si relazionano almeno quattro dei cinquepilastrini del Nazionale (Inv. 757, 759, 758, 760),51 – uno proveniente da S. Pietro in Vincoli – che recano sulla faccia a vista decori declinati in tipologie diverse di intrecci. Un quinto elemento (Inv. 761), in questo caso di recinzione, reca sulla faccia a vista un motivo a stuoia con sferule a rilievo tra le maglie.

(avanzato VIII-prima metà IX secolo), relazionabile non a un pluteo,42 ma al coronamento di un’arcata di ciborio, come suggeriscono la lavorazione su un solo lato e la presenza di un incasso sul fianco e di un foro con residui di piombo nella parte superiore che ospitava in origine grappe in metallo per il fissaggio ad altri elementi.43 Ambone

Sarcofagi

L’ambone, finalizzato alla lettura dei testi sacri e alla predicazione, in età paleocristiana stava sull’asse della navata centrale al termine della solea.44 Il quadro informativo ravennate al momento è poco illuminato per le trasformazioni edilizie anzidette e per mancanza di documentazione archeologica e letteraria, essendo le fonti posteriori al XV–XVI secolo.

Il contenuto numero di sarcofagi, legati a personaggi/ committenti laici ed ecclesiastici, risulta in gran parte da reimpieghi di numerose arche antiche disponibili, riflesso di una ridotta attività di botteghe condizionata da mutamenti socio-economici. Tre arche, che sembrano decorate ex novo, si allineano formalmente alla produzione veneto-lagunare e dalmata tra VIII e IX secolo; due di queste hanno subito alterazioni conseguenti a reimpieghi impropri.52

Nel Museo Nazionale si segnalano due tardi frammenti propositivamente assegnati ad amboni, uno da Casa Pirotti nei pressi del duomo, l’altro dal duomo stesso, che formalmente ricordano noti amboni ravennati di tardo VI secolo45 come quello del vescovo Agnello (557–570), caratterizzati da formelle includenti presenze zoomorfe affrontate. Nel primo manufatto (Inv. 768), contraddistinto quasi al centro da un vistoso foro circolare, la datazione, indicata senza motivazione al VII secolo potrebbe postdatarsi all’VIII, come l’altro più modesto frammento (Inv. 767) con croce fiorita tra presenze zoomorfe e una testina umana.

L’adozione di nuovi stilemi nella plastica funeraria si coglie sulla fronte del sarcofago del vescovo Ecclesio (morto nel 532) in S. Vitale,53 uno degli ultimi del VI secolo, dove alla tradizionale coppia di animali affrontati se ne aggiunge qui una seconda. Insoliti anche il frutto centrale a pigna tra i rami di palma e la fascia perimetrale geometrico-vegetale in sostituzione delle consuete cornici modanate. L’appiattimento delle figure zoomorfe, ripreso con minore eleganza nell’ambone di Agnello anticipa nuovi orizzonti culturali.

Anche la classe della ‘scultura architettonica’ riunisce un cospicuo repertorio la cui alta percentuale di età tardoantica non esclude una continuazione d’uso nell’alto Medioevo.46

Si distinguono le sepolture degli arcivescovi Giovanni e Grazioso (Fig. 9),54 ricavate da casse pagane, per l’articolazione spaziale in riquadri simmetrici e speculari al centro che ricorda sarcofagi della sponda dalmata. In particolare la decorazione mediante sottile incisione del tergo dell’urna di Grazioso, morto nel 788, rivela un riutilizzo precedente la fine dell’VIII secolo nella tecnica analogamente impiegata in una serie di lastre della prima età longobarda, per esempio due plutei del duomo di Monza.

Sicuramente tardo èun capitellino cubico di tipo corinzio, in blocco unico con la colonnina, del campanile della chiesa di S. Francesco (Fig. 7),47 che rientra in una tipologia diffusa particolarmente in età carolingia (ma con ricorsi fino al X), sia nel nord e nel centro Italia (Sirmione e Bobbio), sia in area alpina e transalpina, in Istria e in svariati siti della Croazia. Un analogo capitellino corinziesco (Inv. 698),48 trasferito da S. Pietro in Vincoli e datato tra VII e VIII secolo (Fig. 8), e tre altri (Inv. 696, 693,780) verosimilmente con funzione analoga, assegnati tra i secoli VI e VII,49 ricordano nella forma allungata e nel linguaggio elementi analoghi del S. Salvatore a Brescia di VIII secolo.50

P.P.

Angiolini Martinelli 1968, pp. 65–66, n. 108. Lavers 1971, pp. 186–188, n. 14. 44 Deichmann 1974, p. 10 ss. 45 Angiolini Martinelli 1968, pp. 28–30, nn. 24,26. 46 Lavers 1971, pp. 154 ss. 47 Farioli 1969a, p. 52, n. 96; Romanelli 2011, n. 32, p. 88 che propende per una datazione al IX secolo. 48 Farioli 1969a, p. 51, n. 93. 49 Farioli 1969a, pp. 51–52, nn. 91–92, 94. 50 Ibsen 2014, p. 303, b. 9. 42 43

Farioli 1969a, pp. 66–68, nn. 126–130. Valenti Zucchini, Bucci 1968, p. 60, nn. 65–67. Alla cassa con decoro a girandole floreali n. 67 furono scalpellate le due croci alle estremità quando fu adibita a truogolo, evidente nel foro in basso. 53 Valenti Zucchini, Bucci 1969, pp. 50–51, n. 40; Kollwitz–Herdejürgen 1979, pp. 79–81, kat. B33, tav. 84,3. 54 Valenti Zucchini, Bucci 1968, pp. 59, 56–59, nn. 58–60, 62; Russo 1974, pp. 25 ss. 51 52

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Aspetti e ruoli della scultura altomedievale di Ravenna (secoli VIII–IX): un aggiornamento

306 Manufatti tardo antichi

83 Manufatti alto medievali

Fig. 1. Confronto numerico tra rilievi tardoantichi e altomedievali. (grafico S. Degli Esposti).

36% 30 25 20

5 0

24%

VIII-IX secolo

IX secolo

12%

15 10

25%

1%

VI-VII secolo

1%

VII secolo

VII-VIII secolo

VIII secolo

Fig. 2. Arco cronologico delle testimonianze scultoree secondo il Corpus (grafico S. Degli Esposti).

Figg. 3–4. Ravenna, Museo Nazionale, lastra da S. Pietro in Vincoli; c.d. paliotto da Castel Bolognese (foto S. Degli Esposti).

103

Paola Porta, Stefano Degli Esposti

Fig. 7. Ravenna, campanile della Basilica di S. Francesco.

Fig. 5. Basilica di S. Apollinare in Classe, ciborio di S. Eleucadio (da Angiolini Martinelli 1968).

Fig. 8. Ravenna, Museo Nazionale, capitellino da S. Pietro in Vincoli (da Farioli 1969a).

Fig. 6. Ravenna, Museo Nazionale, frammenti di archivolto (foto S. Degli Esposti).

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Aspetti e ruoli della scultura altomedievale di Ravenna (secoli VIII–IX): un aggiornamento

Fig. 10. Ravenna, Museo Nazionale, sarcofago a girandole floreali (da Valenti Zucchini, Bucci 1968).

Fig. 9. a, b – Basilica di S. Apollinare in Classe, sarcofago dell’arcivescovo Grazioso.

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3.7 Portali tardoantichi a Ravenna: forme, materiali, produzioni e idee Maria Cristina Carile Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Dipartimento di Beni Culturali [email protected] Abstract: This paper presents new arguments abouts the portals of some famous buildings of Ravenna built between the 5th and 6th centuries. They are often made up of reused elements, used in doorframes such as the portal lintel of the so-called mausoleum of Galla Placidia, the north portal at the apse in the chapel of S. Andrea in the bishop’s palace, the jambs of the north access to the crypt in the basilica of St. Apollinaris in Classe, some framing fragments near the south portal in the façade of the Basilica of S. Agatha Maggiore and an architrave in correspondence with the ancient north access in the façade in the same basilica, and the frames reassembled into the central portal in the façade of the Basilica of S. Maria in Porto. The original portals are those of the Theoderic mausoleum, the north-east portal and the portals of the pastophoria of the Basilica of S. Vitale, the central portal and the south portal of the basilica of St. Apollinaris in Classe and the central portal in the façade of the Basilica of S. Agatha. Keywords: Portals; Ravenna; Late Antiquity; Early Middle Ages.

elementi con il contesto architettonico che li ospitava.3 Le analisi di laboratorio condotte da Gian Carlo Grillini sulle pietre di alcuni portali consentono nuove riflessioni che riguardano tanto i portali stessi, quanto aspetti della storia e dell’architettura di Ravenna fra il V e il VI secolo.

«Se la forma scompare la sua radice è eterna.» Mario Merz Introduzione Solo pochi dei portali originali sono ancora presenti nelle chiese tardoantiche di Ravenna e, nella maggior parte dei casi, hanno subito riadattamenti, cambiamenti di posizione e funzione, che ne hanno mutato la forma e le dimensioni.1 Nel caso di Ravenna non è dunque possibile seguire la metodologia applicata nei più recenti studi sui portali tardoantichi e bizantini, che si concentrano sulla tecnologia e sulle dimensioni delle aperture e delle cornici.2 A causa della semplicità degli elementi architettonici, i portali non hanno finora suscitato sufficiente attenzione negli studi sulla scultura tardoantica, ma in questa sede si osserverà come una ricerca congiunta che si basi sui materiali e sull’analisi comparativa della decorazione può far luce sui modi e sui luoghi di produzione, come sulla relazione degli

I portali in esame comprendono elementi di reimpiego utilizzati nelle cornici delle porte come l’architrave portale del mausoleo cosiddetto di Galla Placidia, il portale nord presso l’abside nella cappella di S. Andrea nell’episcopio, gli stipiti dell’accesso nord alla cripta nella basilica di S. Apollinare in Classe, alcuni frammenti di cornice presso il portale sud in facciata della basilica di S. Agata Maggiore e un architrave in corrispondenza dell’antico accesso nord in facciata nella stessa basilica, le cornici riassemblate nel portale centrale in facciata della basilica di S. Maria in Porto. Portali originali sono quelli del mausoleo di Teoderico, il portale nord-est e i portali dei pastophoria della basilica di S. Vitale, il portale centrale e quello sud nella basilica di S. Apollinare in Classe e il portale centrale in facciata della basilica di S. Agata.4

1 La periodica elevazione dei pavimenti degli edifici tardoantichi di Ravenna ha determinato un cambiamento di quota dei portali e, spesso, anche della struttura stessa delle cornici o addirittura la chiusura delle aperture presso le quali si trovavano. Per i restauri del XIX–XX secolo che hanno comportato anche una ricollocazione di alcuni elementi, si veda: Carile, Grillini 2006. 2 Per una discussione sullo studio dei portali bizantini che lamenta l’approccio storico-artistico proponendo una nuova metodologia, si veda Mamaloukos 2012. Si ringrazia l’autore per aver reso disponibili alcuni contributi ancora in corso di stampa.

Precedenti riflessioni sulla scultura dei portali di Ravenna si limitano a: Deichmann 1976, pp. 112–113, 241, 244, 286–287; Russo 1984; 1991, pp. 18–20, 197, 249 n. 54. 4 Per tutti i portali qui in esame si vedano le fotografie con riferimenti metrici in Carile, Grillini 2006. A questi elementi si deve aggiungere una soglia riutilizzata nel portale sud-est della basilica di S. Vitale, due soglie in corrispondenza degli antichi accessi al centro delle navate laterali di S. 3

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Portali tardoantichi a Ravenna: forme, materiali, produzioni e idee ambienti interni dell’episcopio,11 posto in opera durante la costruzione del sacello al tempo di Pietro II (494–519) in corrispondenza del pilastro nord dell’abside.12

Dall’analisi macroscopica dei materiali lapidei, erano stati identificati tre litotipi ricorrenti:5 Il marmo del Proconneso, la pietra di Aurisina,6 il rosso ammonitico veronese, presente però in diverse colorazioni. Grazie alle analisi di laboratorio si è stabilita la natura delle pietre bianche e scoperto che la pietra veronese utilizzata nei portali tardoantichi di Ravenna è di una sola qualità.7 Essa sembrerebbe provenire tutta dalla medesima cava, sebbene da due diversi banchi geologici. Le alterazioni del colore dei portali in rosso veronese non devono perciò essere attribuite alle diverse condizioni ambientali: il portale centrale della basilica di S. Agata,8 più scuro rispetto agli altri, è stato ricavato dalla stessa pietra con cui sono stati costruiti il portale nord-est di S. Vitale e quello sud in facciata della basilica di S. Apollinare in Classe. Questo dato è tanto rilevante in quanto conduce a diverse riflessioni sia sulla produzione dei portali sia sull’importazione del rosso ammonitico veronese a Ravenna.

La cornice ora in opera come stipite presso l’antico accesso sud sulla facciata di S. Agata è in marmo proconnesio, appartiene però a un reimpiego successivo al VI secolo: in base al motivo decorativo lineare a calici trifidi analogo a quella dell’ambone della chiesa,13 appartiene alla fase di VI secolo della basilica e fu riutilizzata in tale posizione durante uno dei moltissimi cambiamenti che subì l’acceso sud, più volte rimpicciolito e infine murato.14 L’architrave dal 1913–1918 in opera presso l’accesso nord è invece un unicum:15 non solo l’analisi della scultura ma i materiali – il marmo proconnesio – lo qualificano come un elemento di portale romano forse di I–II secolo. Il portale centrale della basilica di S. Maria in Porto presenta una simile struttura e decorazione, ma più sviluppata, realizzata su una serie di cornici tagliate e giustapposte forse per adattarsi all’apertura (Fig. 1).16 Il portale è attribuito all’antica chiesa di S. Lorenzo in Cesarea, costruita da Onorio presso il suo palazzo a sud di Ravenna, come molti altri elementi architettonici qui riutilizzati – e, nel caso delle colonne in cipollino accanto al portale, anche riadattati con nuove forme e dimensioni. Il susseguirsi delle modanature sugli elementi prevede un alternarsi di spazi piatti, leggermente digradanti verso l’interno; al contrario, alle estremità, una serie di strette modanature digrada verso l’esterno favorendo il rifrangersi della luce sulla muratura circostante. Come vedremo, i portali di VI secolo di Ravenna sottintendono opposte concezioni e modi scultorei. Dunque, il portale sembra inserirsi nella tradizione dei portali romani, ma costituirne un esempio forse risalente al IV–V secolo.

Considerazioni sui portali in pietra di colore bianco Le analisi di laboratorio hanno permesso di determinare la natura dei litoidi di colore bianco, confermando che anche per le cornici dei portali degli edifici ecclesiastici tardoantichi si utilizzavano le pietre maggiormente diffuse a Ravenna fin dai primi secoli: il calcare di Aurisina e il marmo proconnesio.9 Fra i reimpieghi di elementi decorativi di I–II secolo compaiono il “bassorilievo di Bacco”, un soffitto di architrave in proconnesio utilizzato ruotato di 90° sopra la porta principale del cosiddetto mausoleo di Galla Placidia (425–450),10 e le cornici in pietra di Aurisina del piccolo andito di servizio che anticamente collegava la cappella di S. Andrea e gli Apollinare in Classe e una soglia erratica oggi nel sito della basilica di S. Severo a Classe. Tali soglie sono tutte in rosso ammonitico veronese. 5 Lo studio macroscopico delle pietre aveva sollevato dubbi in merito a una comune provenienza del rosso di Verona impiegato in diversi portali e sulla caratterizzazione delle pietre bianche (Carile, Grillini 2006). 6 La pietra di Aurisina è usata a Ravenna nella costruzione del mausoleo di Teoderico che, nella sua forma attuale, è probabilmente soltanto lo scheletro di ciò che avrebbe dovuto essere. I numerosi studi sul monumento infatti non ne hanno ancora chiarito la singolarissima architettura, né hanno potuto determinare una definitiva ipotesi ricostruttiva (per un compendio della bibliografia al riguardo: Jaggi 2013a, pp. 202–216). I litotipi impiegati nella struttura originaria dovevano essere molteplici, come indica un frammento di cornice sicuramente in marmo proconnesio ancora presente in corrispondenza della congiunzione di due arcate (settore nord-est del piano superiore) e un lacerto dell’originaria pavimentazione a lastre multicolore della cella superiore (visibile sulla destra per chi entra) (Pavan 1977, p. 243; 1980, p. 56). Per il materiale lapideo dei portali del mausoleo, che non verranno discussi in questa sede in quanto si distanziano per stile da tutti gli altri,si vedano le analisi mineralogiche e petrografiche di Grillini in Piazza 1999, pp. 108–109. 7 La determinazione a livello macroscopico delle pietre bianche è notoriamente difficile: Pensabene 2002a, pp. 203–221, Lazzarini, Turi 2007, pp. 585–586. 8 Dal 1918 questo portale è protetto da un protiro proveniente dalla vicina chiesa di S. Nicolò (Mazzotti 1967, p.240). 9 Mansuelli 1979, p. 79. 10 L’elemento architettonico fu ricollocato nella posizione originale da Corrado Ricci, che trovò frammenti dell’architrave all’interno della muratura (Ricci 1914b, p. 67; Iannucci 1996 per i restauri al monumento). Per una riflessione sull’iconografia dell’elemento e sul significato del reimpiego: Zanotto 1995, pp. 956–957; Zanotto 2007, pp. 113–116; Franzoni 1996, pp. 209–210.

La cornice è decorata da un’ampia fascia frontale su cui si sviluppa un tralcio di edera e, sul lato nascosto dalle lastre dell’abside, da una fascia di alloro e bacche, un nastro con elementi vegetali e corsi di astragali e perline. Per la cornice, forse proveniente dalla porta Salustra: Ricci 1914a, p. 49; 1934, p. 31; Gerola 1934, p. 109; Gerola 1931, p. 109; Mazzotti 1970b, pp. 300; Deichmann 1974, p. 202. Per una riflessione sul reimpiego: Zanotto 2007, pp. 61–62, 141–142. 12 In una rientranza a L all’interno del vano, nel 2000 si notava ancora l’antica muratura costituita da mattoni di dimensioni piuttosto grandi, giallognoli e rossi, alcuni dei quali frammentari, e da malte composte da sabbia e ghiaino medio-grosso. Lo stesso tipo di malta legava la muratura agli elementi della cornice e gli elementi fra loro ed è conforme a quella degli altri edifici di età teodericiana a Ravenna: il reimpiego sembra quindi pertinente alla fase di costruzione della cappella, agli inizi del VI secolo (per le murature antiche a Ravenna: Righini 1991; Novara 1998a). 13 Angiolini Martinelli 1968, pp. 25–26, fig. 17. 14 Durante le indagini fu trovata anche una soglia in «rozzo veronese» più volte rimpicciolita, sulla quale poggiava l’elemento (Gerola 1934, pp. 90–92). 15 L’architrave fu collocato in questa posizione dopo il suo ritrovamento sotto il portale centrale pochi anni prima (Deichmann 1976, p. 287; Gerola 1934, 89–90). I fori per i ganci delle tende potrebbero essere stati realizzati anche in un momento successivo – forse in concomitanza con il riuso dell’elemento in un contesto ecclesiastico dove le tende avevano una funzione liturgica (Ripoll 2004, pp. 170–173; Mathews 1971, pp. 162–171). 16 In questo caso il materiale è identificabile in base all’analisi macroscopica. Per la basilica, costruita dopo il 1553 e ultimata solo nel XVIII secolo, e il reimpiego senza però fare menzione del portale: Mazzotti 1953; Novara, Cicognani 1994; Jaggi 2013b, pp. 315–320. 11

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Maria Cristina Carile sugli stipiti.21 Nei portali in opera a S. Apollinare in Classe, invece, sia negli elementi in rosso ammonitico sia in quelli in marmo proconnesio, l’architrave è composto da due blocchi sovrapposti e il blocco inferiore riproduce le stesse modanature degli stipiti. Questa caratteristica si riscontra anche sui portali dei pastophoria di S. Vitale, tutti in marmo proconnesio.

Riflessioni sui portali ravennati in rosso ammonitico nel contesto della scultura di VI secolo Manufatti di ingenti dimensioni come i portali possono essere ottenuti solo da una pietra che assicuri necessari requisiti di durezza e da cui si possano ricavare enormi blocchi unici per i diversi elementi del portale.17 Tutti i blocchi dei portali in rosso ammonitico sono stati estratti dalla cava seguendo la stratificazione orizzontale della roccia, non tanto per motivazioni estetiche ma strutturali: il taglio della roccia in un senso o nell’altro determina caratteristiche di durezza e resistenza differenti nell’elemento scolpito.18 In questo caso un taglio orizzontale ha sicuramente contribuito ad aumentare la stabilità dell’elemento architettonico, il cui materiale è risultato più resistente e capace quindi di sostenere grandi pesi, come quello degli architravi e della muratura sovrastante. Non a caso in tutti i portali ravennati in rosso veronese si nota una congiunzione orizzontale fra stipiti e architrave. Una congiunzione a ugnatura, che è tuttavia presente nei portali in marmo proconnesio,19 probabilmente non sarebbe stata appropriata al materiale stesso, una roccia che per la sua struttura e composizione è maggiormente soggetta a disgregazioni e esfoliazioni (Fig. 2).20

Considerate la notevole complessità dei portali dei pastophoria che li distanzia da tutti gli altri portali ravennati e la loro somiglianza con il portale sul lato sud del nartece di S. Giovanni a Efeso,22 questi rappresentano esempi di importazione a Ravenna, probabilmente trasportati con altri elementi architettonici provenienti dalle cave del mar di Marmara, come le basi e i capitelli della zona superiore del presbiterio, di sicura fattura orientale (Fig. 3). Nonostante le analogie strutturali con i portali dei pastophoria di S. Vitale, non si può però pensare che il portale sud in facciata di S. Apollinare in Classe sia stato importato, in quanto costituito da rosso ammonitico veronese, quindi è più probabile che sia stato scolpito in loco a imitazione di un portale di importazione oppure da artigiani del Mediterraneo orientale. Confrontando le modanature dei portali ravennati esaminati si delineano analogie negli schemi compositivi. Sul portale nord-est di S. Vitale, all’esterno sugli stipiti e sulla parte inferiore dell’architrave, si susseguono due modanature piuttosto ampie, una fascia, un toro e una serie di listelli più stretti, digradanti in altezza, che frantumano la luce riflessa e la dirigono verso l’interno. Un’analoga concezione è riscontrabile nel portale centrale di S. Agata: sugli stipiti la fascia laterale è seguita da una gola diritta e da due listelli di profondità maggiore. In tal caso, rispetto allo schema presente sul portale di S. Vitale, si assiste a una semplificazione nel numero delle modanature sugli stipiti, ma sull’elemento lapideo la luce incontra sempre una superficie piatta, uno spazio pieno e una serie di “vuoti” che la scompongono e la rifrangono verso l’interno. La stessa concezione nella scomposizione della luce sulla superficie si ritrova anche sulla parte interna del portale della prothesis di S. Vitale, in marmo proconnesio. Esso riproduce esattamente lo schema della parte interna del

Benché in questa sede non ci si possa soffermare estesamente sullo stile dei portali, alcune considerazioni al riguardo sono necessarie per comprendere se i blocchi in rosso ammonitico siano stati scolpiti in cava e poi importati a Ravenna o se invece siano stati scolpiti in loco. I tre portali in rosso ammonitico presentano caratteristiche strutturali e stilistiche differenti, nonostante ciò il susseguirsi delle modanature sugli elementi architettonici rivela una medesima concezione di scomposizione della luce che trova confronti negli altri portali ravennati e, nel Mediterraneo, soltanto in ambito romano-orientale. Nei portali in rosso ammonitico di S. Vitale e di S. Agata l’architrave è realizzato in un medesimo blocco litico, sul quale si distinguono una cornice superiore e una cornice inferiore in cui continuano le stesse modanature presenti

17 Tutti gli elementi dei portali in rosso veronese (stipiti, architravi e soglie) sono realizzati da blocchi monolitici, sui quali sono state scolpite sia le cornici esterne che quelle interne; unica eccezione è la soglia del portale centrale della basilica di S. Agata, in calcare bianco, che fu collocata nella posizione attuale dopo i restauri del 1892–1893 (Deichmann 1976, p. 287; Gerola 1934, pp. 89–90). In tutti i portali tardoantichi di Ravenna gli stipiti poggiano sulla soglia e non la inglobano mai al loro interno, seguendo una tradizione romanobizantina (Mamaloukos 2012, fig. 10a), pertanto gli incassi presenti sugli stipiti del portale centraledi S. Agata probabilmente ospitarono la soglia dopo uno dei tanti rialzamenti del pavimento della chiesa. 18 Rockwell 1989, pp. 169–170. Per osservazioni in merito alle proprietà litiche e all’impiego storico del rosso ammonitico veronese: Buonopane 1987, 189–192. 19 Si pensi per esempio ai portali dei pastophoria di S. Vitale e al portale centrale in facciata nella basilica di S. Apollinare in Classe. 20 Tale caratteristica tecnica dunque non è una cifra dei portali realizzati da maestranze locali (contra Deichmann 1976, pp. 112–113), ma corrisponde a necessità strutturali.

Sulla parte esterna del portale sud in facciata di S. Apollinare in Classe è quasi impossibile riconoscere le originali decorazioni; sulla parte interna le modanature degli stipiti continuano sull’architrave inferiore, come sugli altri portali ravennati. 22 Il portali dei pastophoria di S. Vitale presentano sul lato sul deambulatorio modanature che creano vuoti e pieni, per terminare in due listelli verso l’interno e riprendere con una serie di modanature in negativo nell’intradosso. Con un rilievo si è potuto verificare che sul portale sud del nartece di S. Giovanni a Efeso si ritrova esattamente la stessa successione di modanature presenti sul lato esterno del portale della prothesisdi S. Vitale. Per il portale di Efeso si vedano: Soteriou 1922, pp. 95 e 146, Hörmann, Miltner, Keil 1951, p. 36, fig. 3; Orlandos 1954, p. 406 fig. 365/5. Inoltre, come nei portali dei pastophoria di S. Vitale, anche in alcuni portali di S. Irene a Costantinopoli, le modanature continuano negli intradossi, con cavetti o scozie o dentelli in negativo (per gli schizzi: George 1908, tavv. 14 e15, in particolare gli intradossi dei portali sotto il synthronon). Il confronto fra i portali dei pastophoria e questi ultimi esempi indicano la sicura fattura romano-orientale per tutti gli elementi. 21

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Portali tardoantichi a Ravenna: forme, materiali, produzioni e idee portale centrale nella basilica eufrasiana di Parenzo,23 di fattura constantinopolitana, e su alcuni portali della fase giustinianea della basilica di S. Irene a Costantinopoli.24 Lo stesso schema, ma ancor più semplificato con fascia piatta laterale, gola diritta e un listello si ritrova sulle cornici interne di vari portali ravennati: a S. Vitale nello stesso portale nord-est, a S. Apollinare in Classe nel portale centrale e in quello sud in facciata.25 Tale schema più semplificato è presente anche a S. Sofia a Costantinopoli, sulla parte interna dei portali accanto alla porta major o porta regia. In sintesi, i portali ravennati, come quelli di ambito costantinopolitano, presentano tutti una stessa concezione di scomposizione e di rifrazione della luce verso l’interno dell’elemento architettonico: dimostrano anche l’attività una stessa scuola scultorea che lavorava tanto a Costantinopoli quanto a Ravenna e a Parenzo, sia su marmi di importazione sia sul rosso veronese, oppure di artigiani locali capaci di realizzare portali in pietra veronese con modi scultorei tipicamente orientali26. La croce al centro della parte superiore all’esterno del portale di S. Vitale è perfettamente in linea per fattura e posizione con esempi che si trovano a Costantinopoli,27 confermando una produzione orientale eseguita però in loco. Al contrario, la croce sul portale centrale di S. Apollinare in Classe è stranamente posta sull’architrave inferiore e è piccola e grossolana: dunque, questo portale sembra scolpito da un artigiano orientale ma poco esperto nella scultura delle croci.

Nonostante gli architravi del portale nord-est di S. Vitale e di quello centrale di S. Agata siano ricavati da un medesimo blocco marmoreo – caratteristica locale – presentano una netta divisione fra le zone inferiore, in cui continuano le modanature degli stipiti, e superiore, sempre dominata da una gola. All’esterno sul portale nord-est di S. Vitale la zona superiore dell’architrave è composta da una fascia e da una profonda gola diritta seguita da due listelli.28 All’interno gli architravi dei pastophoria hanno un solo listello sotto la gola.29 Il medesimo modello si ritrova anche su tutti gli architravi superiori a S. Apollinare in Classe. Sul portale centrale di S. Agata invece avviene una ulteriore semplificazione e il listello sotto la gola scompare in modo che non vi sia nessun elemento di passaggio fra le modanature della zona superiore e quelle della zona inferiore. A Ravenna lo schema compositivo degli architravi superiori sembra essere una semplificazione della scultura dei portali di ambito costantinopolitano, tutti in marmo proconnesio: sui portali di S. Sofia e di S. Irene a Costantinopoli questo schema compositivo viene arricchito moltiplicando le gole e i listelli, fenomeno visibile anche sull’architrave del portale nord di S. Demetrio a Salonicco e sui portali di S. Giovanni a Efeso.30 La semplificazione delle modanature nei portali di Ravenna è forse dovuta anche al materiale: il rosso veronese è sicuramente più fragile e soggetto a esfoliazioni, mentre il marmo proconnesio di durezza maggiore è più adatto a essere scolpito con molteplici modanature digradanti verso l’interno.

23 Russo 1991, fig. 2. Per una discussione sui portali di Parenzo in relazione a quelli di Ravenna e sulle maestranze costantinopolitane che li eseguirono in loco, in contrasto con le tesi di Deichmann e Terry, si veda: Russo 1991, pp. 18–22. 24 In particolare nella chiesa di S. Irene si ricordano la cornice interna del portale nord fra atrio e nartece e la cornice esterna del portale all’estremità orientale della navata nord. A Costantinopoli altri confronti si trovano nei portali della chiesa di S. Giovanni di Studios (c. 463) e delle chiese giustinianee di S. Irene e di S. Sofia. Mentre a S. Giovanni di Studios lo schema appare semplificato e le modanature meno profonde, invece a S. Irene, nei portali del nartece, come a S. Sofia sui portali dell’esonartece e dell’endonartece (sulla cornice esterna del terzo portale fra endonartece e navata sud e sulla cornice interna del portale centrale fra esonartece ed endonartece), lo schema incontrato a Ravenna è più sviluppato, portato alle estreme conseguenze su elementi architettonici di dimensioni maggiori, in modo che verso l’interno e nell’intradosso le modanature più strette, qui in maggior numero, aumentino l’effetto della scomposizione della luce. Per i profili dei portali, si vedano: Van Millingen 1912, p. 60 fig. 18, 61 fig. 19 e Orlandos 1954, p. 406 fig. 365/3 (per S. Giovanni di Studios); George 1908, tav. 15 e Orlandos 1954, p. 406, fig. 365/6 (per S. Irene); Antoniadis 1907, p. 91 (per S. Sofia). 25 A S. Vitale questo schema trova una variante nel portale del diaconicon, in cui compare anche un dentello sull’intradosso. 26 Sulla parte esterna del portale centrale di S. Apollinare in Classe il susseguirsi delle modanature riflette una più complessa concezione della scomposizione della luce: dopo la fascia laterale piatta, si incontrano una modanatura rotondeggiante ma non molto aggettante, un listello, e solo in seguito una scozia e due listelli stretti e profondi che dirigono la luce verso l’interno. Si potrebbe dire che in tal caso, nel processo di scomposizione della luce, i passaggi sono più lievi, ma di fatto hanno ancora lo scopo di scomporre i raggi luminosi e rifrangerli verso l’interno. La decorazione quasi identica nei portali centrali di S. Apollinare in Classe e della basilica eufrasiana di Parenzo (Russo 1991, 17–20), ma anche del portale centrale dell’esonartece di S. Sofia a Costantinopoli, confermerebbe una concezione e una produzione da parte di artigiani orientali per i tre portali. 27 Per esempio a S. Giovanni di Studios: Van Millingen 1912, p. 6,1 fig. 19.

Il portale centrale della basilica di S. Agata è legato agli altri portali ravennati da una medesima concezione scultorea che si esprime nelle caratteristiche strutturali e nella lavorazione delle superfici, ma presenta una tipologia estremamente differente da qualsiasi altro esempio ravennate.31 L’architrave aggetta notevolmente ed è decorato da tre grandi croci greche a estremità patenti ed espanse, che creano un considerevole effetto coloristico sull’architrave (Figg. 2, 4). Tali croci non trovano confronti sui portali ravennati, ma sono molto simili la croce greca a estremità patenti ed espanse su un pulvino all’interno della chiesa, probabilmente ascrivibile alla fase di VI secolo della basilica.32 Le croci sono simili ed equilibrate fra loro, solo la croce sull’estremità sud sembrerebbe più goffa e squadrata, come se non fosse ultimata. Anche la parte interna del portale non è finita, ma rimane ancora a un grossolano stato di sbozzo. Nel portale centrale di S. Agata, la semplificazione degli schemi compositivi e la Una simile successione di modanature si ritrova sul lato interno del portale del diaconicon di S. Vitale, in marmo proconnesio. 29 Tale listello nella parte interna del portale nord-est di S. Vitale è sostituito da una modanatura a dente. 30 Per S. Sofia, si veda: Antoniades 1907, p. 91; per S. Irene, George 1908, tav. 15; per S. Demetrio a Salonicco, Soteriou 1952, tav. VI; per S. Giovanni a Efeso, Soteriou 1922, p. 95, fig. 21, 146. 31 Deichmann ritiene invece che il portale centrale in facciata di S. Agata assomigli molto a quello nord-est di S. Vitale per la strettezza degli stipiti e il materiale litico (Deichmann 1976, p. 287). 32 Si tratta del pulvino sulla terza colonna del colonnato nord procedendo dalla facciata verso l’abside: Farioli 1969a, p. 84, n. 185, fig. 21. 28

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Maria Cristina Carile endolagunari.38 L’uso del rosso di Verona è già attestato nel I e II secolo in Aemilia e nei territori fino al mare, dove da Ravenna veniva trasportato a Rimini con una navigazione di cabotaggio.39 In seguito, a Ravenna il litoide è documentato in quantità solo nei monumenti di VI secolo: negli edifici di V secolo sembra rarissimo.40 Prima del VI secolo, il rosso di Verona era utilizzato nell’area di Ravenna per rivestimenti pavimentali e per le soglie in epoca romana, in grossi blocchi per le posterule delle mura di V secolo, ma non viene attestato in elementi decorativi complessi come gli elementi modanati dei portali.41

particolarità dell’architrave aggettante sui lati, potrebbe far pensare a una datazione più tarda dell’elemento, scolpito sicuramente a Ravenna in quanto in marmo veronese. In conclusione confrontando i portali in rosso ammonitico con gli altri portali tardoantichi, accanto a elementi di importazione in proconnesio complessi come i portali dei pastophoria di S. Vitale, a Ravenna erano presenti mamorari capaci di riprodurre elementi architettonici in rosso veronese su modello degli originali constantinopolitani (in proconnesio), maestranze orientali, che lavoravano a contatto con quelle locali.

Da un’analisi macroscopica su altri monumenti tardoantichi ravennati, la medesima varietà di rosso ammonitico dei portali in esame sembra essere stata utilizzata nel complesso ariano, di età teodericiana.42 La diffusionedella pietra veronese nei monumenti teodericiani favorisce l’ipotesi che il litotipo fosse tornato in uso nelle costruzioni ecclesiastiche ravennati nell’età di Teoderico, i cui rapporti con Verona sono ben noti.43 Probabilmente i grossi blocchi di rosso di Verona dei portali furono cavati nello stesso momento o in un periodo prossimo, quindi trasportati forse in una stazione di stoccaggio o rivendita di materiale lapideo fra l’Adige e Ravenna e infine utilizzati nella costruzione delle grandi basiliche ravennati durante gli anni quaranta del VI secolo.44

La basilica di S. Vitale (costruita fra 530 e 547/548) e quella di S. Apollinare in Classe (540–549) appartengono al medesimo contesto di produzione architettonica, che vide come principali promotori la chiesa di Ravenna e – secondo la tradizione storiografica – la figura dell’argentario Giuliano,33 dunque le somiglianze fra i portali in rosso ammonitico presenti nelle due chiese non stupiscono, ma sembrano indicare la mano di stesse maestranze impiegate nelle grandi basiliche del VI secolo.34 La basilica di S. Agata ebbe diverse fasi costruzione: la prima può essere collocata nell’ultimo quarto del V secolo, mentre la seconda deve essere attribuita all’episcopato di Agnello (556–569) e più probabilmente dopo al 565.35 Alla seconda fase potrebbe verosimilmente risalire la costruzione del portale centrale, che venne tuttavia rimaneggiato nei secoli, a causa dei lavori per il rialzamento del pavimento della chiesa.36 Dal momento che i blocchi di rosso ammonitico da cui sono stati realizzati i tre portali sono omogenei, si può ipotizzare che il materiale lapideo sia stato cavato in tempi prossimi, se non addirittura allo stesso momento, e che in seguito sia stato spedito a Ravenna.

Sebbene la guerra gotica investì solo limitatamente i territori fra l’Isonzo e Ravenna, l’entroterra della Venetia Per la navigazione interna fra Ravenna, Altino e Aquileia: Uggeri 1978, pp. 48, 68–79; Bosio 1987, pp. 88–92; Uggeri 1987, pp. 322–323, 339–347; Uggeri 1990, pp. 180–182; Dorigo 1994, pp. 50–55; Patitucci Uggeri 2005, pp. 267–272, 278–279, 280–287. 39 Mansuelli 1973; Calzolari 1999; 2003, pp.172 e174–177. 40 I riferimenti a un’antica soglia in rosso di Verona in opera presso l’entrata del mausoleo di Galla Placidia (Lanciani 1871, 10–11), inducono a pensare che si trattasse di un elemento di riuso, come il cosiddetto bassorilievo di Bacco. Inoltre la somiglianza fra il rosso veronese e il “fior di pesco” mette in guardia sull’identificazione di questi litotipi. L’uso di lastroni in rosso di Verona è poi ricordato in contesti romani o di cronologia incerta o, ancora, come elemento di reimpiego in epoca più tarda (Manzelli 2000, pp. 104–105, 108–110, 152–153, 189–190, 194, 196). 41 In epoca romana a Ravenna l’impiego del rosso di Verona sembra limitato in confronto alla pietra di Aurisina o ai marmi orientali (Mansuelli 1971, p. 79), ma è testimoniato per le soglie per esempio nella villa romana di Russi nelle fasi di I–II secolo (Cirelli 2014b, p. 338 con bibliografia precedente). Per le posterule di V secolo con elementi in pietra veronese: Cirelli 2008, pp. 229, 230, 267 n. 129, 135, 360, 362 con bibliografia precedente. 42 Nel portico rinascimentale della chiesa dello Spirito Santo le basi delle due colonnette sull’accesso nord, la base a sud dell’accesso centrale e la soglia della porta sul lato sud, affiancata da due ulteriori blocchi di rosso veronese, possono essere identificate con la stessa varietà della pietra veronese, elementi probabilmente trovati in loco e riutilizzati nel portico della chiesa (Ricci 1914a, pp. 15–16; Mazzotti 1957, p. 38). Per le strade del centro storico è ancora possibile scorgere elementi in pietra veronese, testimonianza del diffuso uso della pietra veronese nel corso dei secoli a Ravenna. 43 Vasina 1995, con discussione bibliografica. Per lo sviluppo di Verona e il suo ruolo in età teodericiana: Brogiolo 2007 e Brogiolo 2011b. 44 Per l’ipotesi di magazzini di stoccaggio a Ravenna: Harper 1997, p. 146 e Marano 2008, pp. 163–166. Si ringrazia l’autore per la disponibilità e le preziose conversazioni sull’argomento. Oltre agli elementi discussi, bisogna considerate anche altri portali in rosso di Verona di cui sono rimaste solo le soglie, in corrispondenza dell’accesso sud-est a S. Vitale e degli antichi accessi al centro delle navate laterali a S. Apollinare in Classe. 38

Il rosso ammonitico dalla Valpolicella avrebbe raggiunto Ravenna per via fluviale,37 seguendo un percorso che attraverso l’Adige continuava nel Po e nei suoi rami meridionali, per proseguire attraverso le rotte

33 Deichmann 1976, pp. 31, 48, 234. Per una discussione su Giuliano e sul ruolo degli argentarii nella città tardoantica: Cosentino 2006. 34 A questo proposito è stata ampiamente dimostrata la presenza di maestranze orientali, che lavorano nelle basiliche di VI secolo a Ravenna (Russo 2003b, passim: con bibliografia precedente), contro la tesi che prevedeva solo la circolazione dei manufatti ma non delle maestranze dalle officine orientali nel Mediterraneo (Deichmann 1976, pp. 112–113, 241, 244 e 286–287 in relazione ai portali; Deichmann 1989, p. 243– 263). 35 Si veda una prima attestazione della chiesa nella vita del vescovo Giovanni (LP, 44). La fase di V secolo è dimostrata anche dall’analisi archeologica (Mazzotti 1967, pp. 234–235, 250; Russo 1989, pp. 2318– 2320). Per la seconda fase della chiesa in relazione al Liber Pontificalis, si veda Mazzotti 1967, pp. 234, 250–251; con riferimento alle tecniche costruttive impiegate nell’abside, Russo 2003a, p. 128 e n. 521. 36 Per i cambiamenti di quota della pavimentazione: Deichmann 1976, pp. 286–287; Russo 1989, p. 2326). 37 A partire dal I secolo d.C. il litoide fu sicuramente esportato, in Aemilia e fino a Ravenna, sfruttando la navigazione fluviale: Mansuelli 1973, pp. 83–85; Uggeri 1975, p. 134; Buonopane 1987, pp. 191, 208– 210; Franzoni 1987, pp. 91–92; Uggeri 1987, pp. 316–317, 322–331, 338; Uggeri 1990, pp. 176–177; Calzolari 1999; Sanesi Mastrocinque 1999, p. 94; Calzolari 2003, pp. 170–171, 174–177.

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Portali tardoantichi a Ravenna: forme, materiali, produzioni e idee dell’edificio, mentre per il piccolo portale secondario della cappella di S. Andrea si riutilizzano cornici decorative romane. Le grandi basiliche di VI secolo inaugurano una nuova stagione architettonica, in cui i portali ricevono particolare attenzione. In quell’epoca, accanto a elementi di importazione dall’oriente mediterraneo – come i portali in proconnesio dei pastophoria di S. Vitale – compaiono elementi creati ad hoc in rosso di Verona, secondo una tradizione locale che utilizzava tale materiale per gli accessi o, almeno, per le soglie.Nei portali in rosso di Verona la tecnologia cambia a causa delle caratteristiche della pietra,50 ma lo stile è perfettamente in linea con modi scultorei di matrice romano orientale, attenti ai giochi di luce su materiali riflettenti come il marmo. Dopo la metà del VI secolo, i portali in rosso di Verona sembrano diffondersi nell’architettura ecclesiastica di Ravenna, come dimostrano il portale centrale di S. Agata e almeno un portale della basilica di S. Severo a Classe (costruita fra il 570 e il 595; Fig. 5).

et Histria rivestì un ruolo importante nella guerra come territorio con alta concentrazione gotica.45 Verona rimase in mano ai Goti – e in seguito ai Franchi – per tutta la durata della guerra, fino al 561–562,46 di conseguenza è difficile pensare che i commerci di pietra veronese continuassero in quel periodo e che, anche dopo la conquista giustinianea di Ravenna nel 540, si fosse potuto trasportare la pietra dall’entroterra della Venetia a Ravenna.47 I trasporti di materiali di grandi dimensioni, come i blocchi litici per i portali, per cui erano sicuramente necessarie navi più grandi,48 tempi più lunghi e un maggior numero di operai, non possono essere avvenuti in un periodo di forte tensione e instabilità. Il rosso ammonitico dei portali di S. Vitale e S. Apollinare in Classe potrebbe essere stato importato a Ravenna in età teodericiana o nel precedente alla guerra greco-gotica, in seguito scolpito in loco per la realizzazione degli elementi architettonici, da maestranze orientali o ben istruite ai modi scultorei orienttali. Il materiale per il portale di S. Agata forse giunse in seguito, realizzato per la seconda fase della basilica, con uno stile che da una parte riprende la frammentazione della luce verso l’interno del portale, ma dall’altro supera questa concezione per assumere forme più monumentali, con un architrave espanso oltre la cornice verticale e coperto di grandi croci a sottolineare l’orientamento cristiano delle chiese di Ravenna, come si addice al periodo della “restaurazione” agnelliana.49

L’utilizzo della pietra veronese accanto al proconnesio per le basiliche di metà del VI secolo non sembra dettato da necessità – non sarebbe stato difficile importare i portali in proconnesio assieme a tutti gli altri elementi architettonici delle chiese – quanto piuttosto da scelte precise. Nella basilica di S. Vitale, una soglia in rosso di Verona riutilizzata nel portale rinascimentale sul lato sudest dell’edificio e frammenti di un altro portale in «marmo greco» in corrispondenza dell’accesso sud dimostrano che, su almeno tre dei cinque accessi dell’ambulacro, si seguiva un preciso schema alternando cornici in rosso veronese e in proconnesio, dunque creando un effetto coloristico sulle facciate.51 Lo stesso effetto doveva comparire almeno sulla facciata della basilica di S. Apollinare in Classe dove, per analogia con il portale sud, si può ipotizzare la presenza di un simmetrico portale in rosso di Verona sull’accesso nord (Fig. 6). L’alternanza di portali rossi e bianchi sulle facciate delle due maggiori basiliche di VI secolo a Ravenna induce a considerare l’esistenza di effetti coloristici all’esterno degli edifici – ma anche negli interni in corrispondenza con le porte – che riflettono concezioni teologiche sottese alla costruzione. Se nella cultura tardoantica e bizantina il bianco era il colore della purezza e della santità, il rosso – in particolare, il color porpora – del sacrificio e del sangue di Cristo, associato anche all’imperatore secondo una concezione cristomimetica della regalità.52

Conclusioni Come risulta dall’analisi congiunta di materiali, tecnologia e stile, sembra che per le cornici delle porte nel V secolo a Ravenna si prediligessero elementi di reimpiego. Durante l’età di Teoderico (493–526) ci fu un momento di transizione: per la tomba del re vengono realizzati nuovi portali in pietra di Aurisina, in uno stile unico e singolarissimo conformemente al resto 45 Per questa affermazione e per un’estesa analisi dei risvolti politici, sociali ed economici della guerra gotica nei territori della Venetia et Histria, fino a Ravenna, si veda: Carile A. 1978a, pp. 147–193; 1978b, pp. 136–138. 46 Carile A. 1978a, pp. 176–177. 47 Cassiodoro in una lettera datata 533–537 – e probabilmente attribuibile al periodo precedente alla guerra – aveva celebrato la bontà del vino veronese che giungeva a Ravenna in quantità ed era destinato alla corte, confermando la vitalità dei rapporti commerciali fra queste zone (Var.XII4). Successivamente, in una lettera del 537–538, lo stesso Cassiodoro richiede esplicitamente di fare pervenire vino, olio, frumento dall’Histria a Ravenna ai tribuni maritimorumdell’Istria (Var.XII 24). Sull’Istria negli scritti di Cassiodoro: Carile A. 1978b, pp. 156–159; per una riflessione su questo passo in relazione all’approvvigionamento annonario a Ravenna: Cosentino 2006, p. 428. Il fatto che pochi anni dopo Cassiodoro richiedesse l’approvvigionamento del vino dall’Istria, e non più dal territorio veronese, fa pensare all’interrompersi dei rapporti commerciali fra Ravenna e il Veronese durante le prime fasi della guerra. Attorno al 572 sembra che le vie d’acqua fra Verona e Ravenna, fossero di nuovo navigabili, quando il prefetto Longino inviò una nave in aiuto di Rosmunda ed Elmechi (Paul. Diac., Hist. Lang. II 29). 48 Sulle navi per il trasporto di merci pesanti, con riferimento al relitto di S. Basilio, proveniente dalle cave del territorio veronese, e a quello di Corte Cavanella: Uggeri 1990, p. 188; Sanesi Mastrocinque 1999, p. 92. 49 Il vescovo Agnello era particolarmente legato alla basilica di S. Agata, dove aveva esercitato come diacono prima di diventare vescovo (Lib. Pont. 54).

Il taglio a ugnatura fra stipiti e architrave inferiore è sostituito da un taglio orizzontale in tutti i portali in rosso di Verona; l’architrave superiore si fonde con l’architrave inferiore in un unico blocco, nel portale sud-est di S. Vitale e nel portale centrale di S. Agata. Il fatto che ciò non avvenga nel portale sud di S. Apollinare in Classe potrebbe tradire l’opera di artigiani greci, che riproducono la stessa tecnologia utilizzata in elementi marmorei anche scolpendo la pietra veronese. 51 Durante i restauri del 1899, in corrispondenza dell’apertura sul lato sud furono ritrovati parte della soglia e degli stipiti in proconnesio, si vedano le carte manoscritte di Corrado Ricci conservate presso la Biblioteca Classense di Ravenna e, in particolare, gli appunti di un taccuino con data 29 luglio 1899 (Fondo Ricci, vol. 23, S. Vitale) e una lettera di I. Bocci a Ricci datata 3 settembre 1899 (Carteggio Ricci Monumenti, anno 1899, doc. no. 71). 52 Tale simbologia dei colori è confermata per Ravenna negli scritti di Pietro Crisologo (433–450) (Ser. LX; CLXXIII 2; Om. I). Si noti che 50

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Maria Cristina Carile Non è un caso che a S. Vitale fossero in proconnesio gli accessi dei pastophoria, che incorniciavano il luogo più sacro del tempio, l’abside, e si aprivano su spazi riservati al clero, così come a S. Apollinare in Classe la porta regia, che era accessibile solo al clero secondo la liturgia tardoantica.53 Al contrario, i fedeli che si recavano in chiesa per il sacrificio eucaristico attraversavano gli altri portali, in rosso ammonitico. La presenza sul portale centrale di S. Apollinare in Classe di ganci per le tende a forma di indice non solo ricollega il portale alla chiesa di S. Sofia a Costantinopoli, dove gli stessi ganci compaiono sulla porta regia, ma chiarisce l’idea sottesa all’elemento architettonico: come gli oranti aprono le mani al cielo pregando, così chi entrava nella chiesa si apprestava a elevare le proprie preghiere a Dio. La porta limite dello spazio sacro e, al contempo, accesso verso l’elevazione, così riproduceva determinate concezioni attraverso dettagli come i ganci delle tende o i colori dei materiali. Sfortunatamente i tanti cambiamenti che hanno interessato gli accessi di S. Agata e i pochi dati sulle porte di S. Severo non permettono di continuare questa riflessione sulla creazione di cromatismi sulle facciate attraverso portali in pietre diverse, né sul loro significato nel contesto dell’architettura ecclesiastica a Ravenna. Tuttavia, nonostante la frammentarietà dei dati e la scarsità degli elementi a disposizione, uno studio congiunto dei materiali, della tecnologia e dello stile può far luce non solo sull’importanza di questi elementi nel contesto dell’architettura tardoantica, ma anche su aspetti della storia della produzione e dei commerci di Ravenna finora poco noti. In breve, se la forma scompare – come è scomparsa quella di alcuni portali, ormai ridotti al nudo tessuto geologico interno54 – la storia e l’originale necessità che ha prodotto il manufatto possono ancora essere comprese e ricostruite. Acknowledgements: Questa ricerca, iniziata con uno studio affidatomi dal Prof. Eugenio Russo per la tesi di laurea presso l’Università di Bologna, è continuata con l’aiuto di Gian Carlo Grillini, grazie agli incentivi ricevuti dalla Fondazione Giovanni dalle Fabbriche di Faenza in collaborazione con la Cassa Rurale e Imolese di Ravenna e Cervia e al sostegno della Curia Arcivescovile di Ravenna e Cervia e della locale Soprintendenza ai Beni Architettonici, che hanno concesso i permessi per eseguire i rilievi e le analisi microscopiche sui materiali lapidei. In questa sede si ringraziano vivamente queste istituzioni per la fiducia e il supporto dimostrati negli anni.

a Bisanzio il porfido è il materiale lapideo per eccellenza legato alla regalità sacra. A causa delle sue caratteristiche di durezza e costo elevato non avrebbe potuto essere utilizzato per i portali. Sembra dunque che in questo caso l’importanza della simbologia dei colori abbia favorito la scelta di un materiale più reperibile e meno costoso, come il rosso veronese. A Ravenna, in corrispondenza degli accessi principali delle chiese venivano però utilizzate rotae in porfido, conformemente alla tradizione romano-orientale (Picard 1988, pp. 149–153, 187–188). 53 Mathews 1971, pp. 22, 48, 111–112, 139–142; per la liturgia a Ravenna: Montanari 1992. 54 Si pensi al portale sud in facciata nella basilica di S. Apollinare in Classe, completamente percorso da fratture che ne hanno distaccato la superficie, lasciando visibile l’anima interna della pietra che continua a disgregarsi e sgretolarsi.

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Portali tardoantichi a Ravenna: forme, materiali, produzioni e idee

Fig. 1. Ravenna, chiesa di Santa Maria in Porto, portale centrale in facciata.

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Maria Cristina Carile

Fig. 2. Ravenna, chiesa di Sant’Agata Maggiore, portale centrale in facciata: architrave.

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Portali tardoantichi a Ravenna: forme, materiali, produzioni e idee

Fig. 3. Modanature dei portali di VI secolo a Ravenna.

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Maria Cristina Carile

Fig. 4. croci sugli architravi delle grandi basiliche di VI secolo a Ravenna.

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Portali tardoantichi a Ravenna: forme, materiali, produzioni e idee

Fig. 5. Classe, basilica di San Severo, soglia erratica in rosso di Verona.

Fig. 6. Piante con indicazione della posizione dei portali in proconnesio e in rosso di Verona.

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3.8 I materiali lapidei dei portali tardoantichi di Ravenna: indagini diagnostiche Gian Carlo Grillini Specialist Geologist – Geomaterials and Diagnostics Cultural Heritage, Adjunct professor University of Bologna and Ferrara [email protected] Abstract: The present paper provides and discusses the results of a mineralogical and petrographic investigation carried out on portals of the Late Antique churches of Ravenna. The aim of this research is the in-depth characterisation of the materials belonging to the different portals, defining the geographical and geological areas of supply, enhancing the knowledge concerning their architectural aspects and the construction technology used and evaluating their state of conservation. The importance of these artworks was scarcely acknowledged in the past, but today they are greatly appreciated and therefore restored and preserved. In order to achieve the aforementioned objectives, several cross-correlated analyses have been performed on selected samples: in particular, Polarised Light Microscopy (PLM) of thin sections and X-Ray Diffraction (XRD) investigations. Keywords: Paleochristian portals; Architectural heritage; Stone conservation; Thin sections; Polarised light microscopy; Xray diffraction.

Premessa

le pietre bianche di diversi portali e i corsi di estrazione del Rosso Ammonitico Veronese, le cui caratteristiche petrografiche accomunano tanto la cosiddetta Pietra di Prun, meglio conosciuta come Scaglia Rossa Veneta, quanto il Rosso Ammonitico della Gola del Furlo.

Tra le numerose indagini preliminari alla stesura di un progetto di ricerca storico-archeologico vanno incluse, come è noto, le analisi di laboratorio di tipo archeometrico finalizzate a una approfondita conoscenza della storia materiale dell’opera d’arte permettendo, talora, di rivedere affermazioni errate venute a consolidarsi nel tempo.

L’utilizzo del materiale lapideo La varietà dei materiali lapidei in una città è, di norma, la sintesi tra le pietre da costruzione presenti nei vicini territori e le rocce importate da lontane contrade, esse assolvono efficacemente e indifferentemente a compiti estetici e a finalità strutturali.2 Nel caso di Ravenna, alla base di tutta l’edilizia storica, si trova il cotto realizzato con argille estratte da affioramenti della pianura oppure provenienti dalle prime propaggini collinari dell’Appennino romagnolo e quindi facilmente reperibili, in armonioso rapporto con le pietre “alloctone” rosse, verdi e bianche, provenienti da altre regioni, in gran parte dell’area istriana e veronese, ma soprattutto, fin dall’epoca romano imperiale, da tutto il bacino del Mediterraneo.3

Lo studio analitico-conoscitivo, eseguito nell’ambito della ricerca sui portali delle chiese tardoantiche di Ravenna, è stato un’occasione propizia per acquisire dati sui materiali lapidei impiegati per la realizzazione dei portali, oltre allo stato di degrado: elementi necessari per un eventuale intervento conservativo. In particolare sono state studiati, dal punto di vista mineralogicopetrografico e micropaleontologico gli ornati architettonici e le modanature lapidee allo scopo di acquisire preziose informazioni sulla composizione dei materiali, sulla loro provenienza (geologica e geografica), sulle antiche tecnologie che ne hanno consentito la realizzazione e sugli interventi che le opere hanno subito nel corso dei secoli. Il presente studio completa e approfondisce la precedente ricerca sui portali antichi delle chiese di Ravenna la quale, in attesa delle necessarie autorizzazioni, aveva analizzato solo macroscopicamente i materiali lapidei.1 In particolare, le indagini diagnostiche hanno consentito di identificare

Le polverose strade o, meglio, i fiumi e i canali, hanno permesso di trasportare queste pietre dal Veneto, dalle Alpi e in particolare dalla Grecia, dalla Turchia, dall’Egitto e dal Nordafrica ai porti di Ravenna e Classe, sede di uno 2

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Carile, Grillini 2006.

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Rossi, Grillini 2007. Grillini 2011, pp. 149–156.

I materiali lapidei dei portali tardoantichi di Ravenna: indagini diagnostiche dei più importanti terminali delle rotte commerciali del Mediterraneo, in qualche caso accompagnate dagli stessi lapicidi. Questi lapidei erano materiali assai costosi e venivano impiegati unicamente nelle fabbriche con “ricchissima economia” e in importanti edifici pubblici e religiosi a suggellare un legame con tutto il mondo antico, a renderlo partecipe ai fasti architettonici dell’Impero.

dall’intradosso dello stipite destro all’interno della chiesa (campione 6); nel mausoleo di Galla Placidia un frammento dell’intradosso dell’architrave (campione 7); nella cappella di S. Andrea nell’episcopio, un campione prelevato dall’intradosso dello stipite destro all’interno dell’andito (campione 8); nella basilica di S. Apollinare in Classe, un frammento erratico distaccatosi dallo stipite destro del portale sud (campione 9), il cui materiale è sottoposto a fenomeni di disgregazione che lo stanno distruggendo.

Metodologie analitiche utilizzate Per una corretta identificazione dei materiali lapidei presenti nei portali, sono stati prelevati piccoli frammenti di pietra, significativi dei vari litotipi presenti, per l’esecuzione delle analisi scientifiche di laboratorio di tipo mineralogico-petrografico.4 Le indagini sono state condotte con le metodologie analitiche usualmente applicate nel campo della conservazione dei materiali lapidei naturali e artificiali:

Le analisi minero-petrografiche effettuate hanno reso possibile l’identificazione e la classificazione dei litotipi presenti nei portali presi in esame, stabilendone la provenienza geografica e geologica. Risultati analitici: i materiali marmorei I campioni 1,3,5 e 7 sono stati analizzati congiuntamente in quanto si tratta di marmi veri e propri (rocce metamorfiche) con una tipica struttura cristallina saccaroide, compatta, con venature di colore bluastro.

• Caratterizzazione macroscopica in situ e al microscopio stereoscopico per un’analisi qualitativa della struttura, colore, grado di coesione, porosità, tipo di fratturazione, identificazione di particolari minerali accessori; • Polverizzazione manuale, mediante mortaio d’agata, di tutte le porzioni riguardanti il corpo dei campioni precedentemente ripulite, mediante abrasione con lima diamantata, dalle patine esterne per l’esecuzione delle analisi diffrattometriche; • Analisi mineralogica per diffrattometria ai raggi X (XRD), mediante diffrattometro Philips PW 1710 (CuKa) per verificare la composizione mineralogica e la presenza di minerali non identificabili otticamente; • Inglobamento in resina dei frammenti campionati per la preparazione delle sezioni sottili; • Analisi mineralogico-petrografica in sezione sottile al microscopio polarizzatore in luce trasmessa, per definire la composizione mineralogica, la struttura e la tessitura del materiale, la presenza della microfauna fossile, per una corretta classificazione litologica.

Le determinazioni analitiche, eseguite mediante analisi diffrattometriche ai raggi X e in sezione sottile, hanno rilevato che il materiale è un “marmo calcitico” (è del tutto assente la dolomite). La tessitura è granoblastica tendenzialmente eteroblastica, a grana media (granulometria media dell’ordine di 0,50–0,70 mm) e con dimensione massima dei cristalli di calcite MGS (Maximum Grain Size) pari a 1,90–2.20 millimetri. Le variazioni granulometriche sono distribuite in modo casuale all’interno della compagine rocciosa (Fig. 1). La struttura risulta di tipo a “mortar” o a “calcestruzzo”, con i contatti fra i granuli tendenzialmente a “golfi lobati” e suturati. Quali minerali accessori sono stati individuati minerali opachi e grafite intercristallina. Unica differenza si rileva nell’architrave del portale di Galla Placidia (campione 7) il quale presenta una struttura saccaroide eteroblastica a grana mediofine con MGS (Maximum Grain Size) pari a 1,20–1.40 millimetri. (Fig. 2).

I portali in esame Sono stati analizzati esclusivamente campioni di materiale la cui definizione a livello macroscopico era incerta, in particolare: nella basilica di S. Agata Maggiore, un frammento proveniente dall’architrave in corrispondenza dell’antico accesso nord in facciata (campione 1), due frammenti degli stipiti del portale centrale (campioni 2 e 4),5 due frammenti provenienti dallo stipite dell’antico accesso sud in facciata (campioni 3 e 5),6 nella basilica di San Vitale, un campione del portale nord-est prelevato

Il campioni analizzati presentano le caratteristiche tipiche del Marmo del Proconneso. Risultati analitici: i materiali calcarei nodulari I campioni 2, 4, 6 e 9 vengono analizzati congiuntamente in quanto presentano una tipica struttura nodulare compatta con clasti biomicritici biancastri, di forma irregolare, immersi in una matrice argilloso-marnosa ematitica di colore rossastro. Si rilevano rare vene bianche di calcite di ricristallizzazione diagenetica e strutture sedimentarie di tipo stilolitico.

Grillini 2004. Il campione 2 era stato prelevato all’interno della mancanza dello stipite sinistro, là dove le originali tracce di sbozzatura erano ormai scomparse. In seguito, un frammento distaccatosi dallo stipite destro e fortuitamente trovato sul sagrato della chiesa è stato raccolto e analizzato come campione 4. 6 Al prelievo del campione 3, in corrispondenza di una mancanza sulla parte esterna dello stipite, è seguito il ritrovamento di un frammento di malta e marmo proveniente dallo stesso elemento, all’interno della chiesa (campione 5). 4 5

Le determinazioni analitiche, eseguite mediante analisi diffrattometriche ai raggi X e in sezione sottile, hanno rilevato che i materiali sono rocce sedimentarie 119

Gian Carlo Grillini carbonatiche leggermente differenti per quanto riguarda la componente dolomitica. In particolare, i campioni 2 e 4 provenienti da S. Agata Maggiore sono del tutto simili. In entrambi i casi si ratta di “calcari biomicritici nodulari” (rocce sedimentarie) le cui microfaune fossili, riconosciute in sezione sottile, sono rappresentate da organismi pelagici quali articoli di crinoidi (saccocoma) variamente orientati, globochaete, scarsi lamellibranchi a valve sottili, radiolari, tintinnidi (calpionelle) e resti di aptici. I campioni sono attraversati da lievi giunti stilolitici rossastri, in cui si sono concentrati ossidi e idrossidi di ferro e scarse mineralizzazioni di dolomite (Fig. 3).

da una fine e compatta matrice micritica. All’esame microscopico nel cemento micritico sono presenti anche chiazze di calcite limpida di ricristallizzazione diagenetica e rare piastre di echinidi. Con ogni probabilità si tratta della Pietra di Aurisina a grana fine, nella varietà “Roman Stone” o “Granitello” (Fig. 5). Conclusioni Lo studio analitico di tipo mineralogico-petrografico e micropaleontologico, eseguito sui materiali lapidei costituenti i portali tardoantichi di Ravenna, ha permesso di caratterizzare in modo inequivocabile e incontrovertibile i materiali, identificare con sicurezza la formazione geologica e il relativo livello stratigrafico di appartenenza ed eliminare così la dicitura “marmi” che in diverse pubblicazioni ha definito da sempre questi materiali. Inoltre ha fornito indicazioni sullo stato di degrado, preliminari a un eventuale intervento conservativo e di restauro, sulle antiche tecnologie che ne hanno consentito la realizzazione, sugli interventi che l’opera ha subito nel corso dei secoli.7

Il campione 6 di San Vitale è del tutto simile al campione 9 di S. Apollinare in Classe. Entrambi i campioni sono “calcari biomicritici nodulari” (rocce sedimentarie). L’analisi in sezione sottile ha rilevato una composizione essenzialmente carbonatica, con abbondante dolomite concentrata lungo i giunti stilolitici. La microfauna fossile è composta da organismi pelagici, quali scarsi lamellibranchi a valve sottili variamente orientati, scarsi radiolari, globochaete, tintinnidi (calpionelle), crinoidi e resti di aptici (Fig. 4).

I campioni prelevati dall’architrave e dallo stipite degli accessi nord e sud in facciata di S. Agata Maggiore e dall’architrave del portale esterno del Mausoleo di Galla Placidia sono marmi metamorfici a struttura cristallina eteroblastica a grana medio-grossa e risultano provenire dalla medesima isola situata nel Mar di Marmara: si tratta del Marmo del Proconneso. All’esame microscopico il marmo dell’architrave posto sopra la porta del Mausoleo di Galla Placidia presenta una struttura cristallina eteroblastica a grana medio-fine, quindi leggermente diversa dai marmi di S. Agata Maggiore. È possibile ipotizzare che sia stato prelevato da orizzonti diversi posti all’interno della stessa cava geologica o da due diverse cave nella stessa isola di Proconneso.

Il litotipo utilizzato per i due stipiti del portale centrale in facciata di S. Agata Maggiore (campione 2 e 4) è il medesimo: pertanto è possibile ipotizzare che i blocchi per i due elementi architettonici siano stati ricavati dallo stesso banco stratigrafico geologico caratterizzato dalla presenza di scarsa dolomite. Il materiale lapideo con cui sono stati scolpiti il portale nord-est della basilica di San Vitale (campione 6) e il portale sud in facciata della basilica di S. Apollinare in Classe (campione 9) è il medesimo, estratto non solo dalla medesima cava ma, con ogni probabilità, dal medesimo banco stratigrafico, fortemente dolomitizzato.

I campioni prelevati dai portali definiti dall’analisi macroscopica di Rosso di Verona – il portale centrale di S. Agata, il portale nord-est di S. Vitale e il portale sud in facciata di S. Apollinare in Classe – sono risultati provenire dalla medesima cava ma, con ogni probabilità, da due diversi banchi geologici e, visti gli elementi architettonici monolitici, è possibile ipotizzare che si tratti di materiale lapideo non di recupero, ma originale, cosa piuttosto singolare visto l’abbondanza di pietre antiche disponibili nella città di Ravenna. I banchi sono stati coltivati al tetto della formazione geologica veronese, dove è possibile liberare dei grossi blocchi del pregiato materiale, definiti Corsi dei Cimieri o Cappellaccio: si tratta dell’unità superiore della formazione geologica del Rosso Ammonitico Veronese, di età del giurassico superiorecretaceo inferiore (Kimmeridgiano-Titoniano).

La microfauna fossile presente consente di attribuire tutti questi calcari nodulari rossastri ai Corsi dei Cimieri o Cappellaccio (unità superiore della Formazione geologica del Rosso Ammonitico Veronese), di età del giurassico superiorecretaceo inferiore (Kimmeridgiano-Titoniano), sebbene da banchi differenti. In particolare, il materiale potrebbe riferirsi alla varietà definita oggi dai cavatori veronesi “Rosa corallo”. Risultati analitici: i materiali biocalcarenitici Il litotipo (campione 8) è una roccia sedimentaria compatta a struttura clastica, di colore biancastro con sfumature grigio-chiaro, scarsamente porosa e con abbondante tritume organogeno fine. Le determinazioni analitiche, eseguite mediante analisi diffrattometriche ai raggi X e in sezione sottile, hanno rilevato che il materiale è una “calcarenite organogena” (è del tutto assente la dolomite). Presenta una struttura clastica costituita da minuti frammenti conchigliari (bioclasti) di bivalvi, ostree e rari gasteropodi, cementati

Il Rosso Ammonitico potrebbe essere stato impiegato per la maggiore economicità, provenendo da cave più vicine

7

120

Carile, Grillini 2006.

I materiali lapidei dei portali tardoantichi di Ravenna: indagini diagnostiche alla città e trasportato per via fluviale ed endolagunare, piuttosto di altri marmi provenienti dal lontano bacino del Mediterraneo.

architettonici, come colonne, capitelli, trabeazioni; per elementi decorativi quali lastre di rivestimento parietale e pavimentale, per la pregevole produzione di sarcofagi, per scolpire statue ma soprattutto per crustae e tessere musive nei mosaici ravennati.11

Una seconda e del tutto personale interpretazione, potrebbe avere un carattere puramente simbolico e religioso. La pietra di colore rossastro con noduli biancastri, potrebbe richiamare il terreno dell’arena, insanguinato dal sacrificio dei martiri cristiani, oppure il terreno del Golgota intriso del sangue di Cristo.8

Rosso ammonitico veronese (“marmo di Verona”) Roccia sedimentaria carbonatica a struttura nodulare appartenente alla formazione geologica del Rosso Ammonitico Veronese di età giurassica, presenta colori variabili dal rosso mattone al rosso violaceo, dal rosa corallo al carnicino, dal giallo al bianco avorio. La denominazione deriva dal colore Rosso dominante, dalle numerose Ammoniti, anche di notevoli dimensioni, che frequentemente si rinvengono nella matrice argillosa e dalla località geografica (Verona) in cui è particolarmente presente questa formazione geologica. Sono questi i calcari che, estratti in numerose cave, forniscono ancor oggi le più note e caratteristiche pietre vari colori veronesi, chiamate commercialmente “marmi” per la loro facile lavorabilità, compattezza e lucidabilità. Nelle Formazioni geologiche del Rosso Ammonitico Veronese i cavatori distinguono tre gruppi fondamentali, da cui provengono i principali “Marmi Veronesi” con diverse tonalità cromatiche: Corsi del Nembro (unità inferiore), Corsi del Sengia (unità media) e Corsi dei Cimieri o Cappellaccio (unità superiore). Le principali cave, coltivate fin dall’epoca romana, sono localizzate in maggioranza lungo il corso del fiume Adige, dai confini con la provincia di Trento fino a Verona e nella Valpantena.12 È opportuno segnalare che la stessa formazione geologica è presente nelle Marche e precisamente nella Gola del Furlo e da questa località utilizzata, con ogni probabilità, in epoca storica nelle varie città dell’alto e medio adriatico. I litotipi più compatti sono stati impiegati, nel corso dei secoli, per costruire vere da pozzo, acquasantiere, colonne, capitelli, stipiti e incorniciature di porte e finestre, trabeazioni, balaustre e scalini d’altare e soprattutto come lastre pavimentali e parietali.13

L’analisi macroscopica non consentiva di definire specificamente il litotipo costituente le cornici del portale interno dell’andito a nord dell’abside nella Cappella di S. Andrea nell’Episcopio, ma in virtù della caratterizzazione scientifica, il litotipo si qualifica come una “calcarenite organogena” a grana fine: dunque non un marmo, come ipotizzato in un primo momento. Si tratta della Pietra di Aurisina a grana fine, nella varietà “Roman Stone” o “Granitello” estratta dagli orizzonti stratigrafici del cretaceo superiore del Carso Triestino nella Regione Friuli Venezia Giulia e nell’Istria. Note geoarcheometriche: Marmo di Proconneso (marmor proconnesium) Roccia metamorfica di colore bianco con sfumature cerulee e con venature parallele di colore blu intenso, a struttura saccaroide con cristalli medio grandi. Questo marmo è conosciuto dagli scalpellini romani, di moderna tradizione, col nome di “marmo cipollino” per il caratteristico odore acre bituminoso che emana al momento del taglio, provocato dallo sviluppo di gas solforosi (acido solfidrico e/o solfuro di tionile) rimasti imprigionati nel marmo nel corso dei processi metamorfici che hanno portato alla trasformazione degli originari calcari sedimentari. Il proconnesio è uno dei marmi bianchi più famosi e utilizzato dell’Antichità e le cave localizzate nell’isola di Proconneso – l’odierna isola di Marmara, che dà il nome alle acque circostanti tra la Grecia e la Turchia – erano attive fin dall’età arcaica. La fruizione del marmo proconnesio proseguì in epoca romana, quando le cave divennero parte del patrimonio imperiale, e perdurò fino all’età bizantina, durante la quale venne largamente impiegato per la costruzione di Costantinopoli.9 La grande diffusione geografica in tutte le province del bacino del Mediterraneo è stata senza dubbio favorita dalla dislocazione delle cave nell’isola di Marmara, che ha facilitato il trasporto per via mare del marmo, dalla estensione delle cave, dall’ organizzazione delle maestranze, tutti fattori questi che hanno permesso, di conseguenza, una diminuzione dei costi tanto da divenire uno dei marmi più economici.10 Anche in epoca medievale e postmedievale questo marmo è stato esportato in grande quantità. Venne utilizzato per elementi

Calcarenite organogena del Carso (pietra di Aurisina) Roccia sedimentaria compatta, del cretaceo superiore, di colore biancastro con sfumature grigiochiaro, scarsamente porosa e con tritume organogeno fine. Diversi litotipi della stessa formazione geologica sono stati impiegati nell’edilizia storica e tuttora in commercio con i nomi di Aurisina Fiorita, Aurisina Chiara, Aurisina Granitello, Roman Stone e Repen Classico. Il litotipo più conosciuto è l’“Aurisina Fiorita” con la tipica tessitura a grandi rudiste (Hippurites, Radiolites), macrofauna fossile di un ambiente di scogliera del Turoniano e Senoniano (Cretaceo superiore), impiegata a Ravenna per la realizzazione di moltissimi sarcofagi, ma soprattutto per la costruzione del Mausoleo di Teoderico; a Rimini nell’Arco di Augusto e

8 Per la simbologia dei colori dei materiali si veda il contributo di Carile, infra, e Carile, Grillini 2006, pp. 73–74. 9 Pensabene 2002a, pp. 203–205. 10 Yuri Marano, infra.

11 12 13

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Grillini 2012. Finotti 1981. Grillini et al. 2009.

Gian Carlo Grillini nel Ponte di Tiberio.14 La pietra di Aurisina, propriamente detta, si identifica con la varietà bianco-grigiastra chiamata dai cavatori “Granitello” e “Roman Stone” costituita da un tritume organogeno a grana omogenea e fine, cementato da una finissima matrice micritica, che gli conferisce un caratteristico aspetto “granulato”. Le cave antiche – prima tra tutte la famosa “Cava Romana” di Aurisina a ovest di Trieste – sono localizzate in orizzonti stratigrafici del Carso Triestino nella Regione Friuli Venezia Giulia e nell’Istria.15 È tra i materiali più usati nella X Regio Augustea (Venetia et Histria) per la realizzazione di importanti monumenti romani e per l’edificazione delle città dell’alto Adriatico quali Aquilea, Concordia, Trieste, Oderzo, asportata e largamente reimpiegata fino a tutto il Duecento dalle genti che popolavano le isole della laguna veneta per colonne, capitelli, paraste, lesene, modanature architettoniche e vere da pozzo. Dal secolo successivo venne sostituita dalla Pietra d’Istria (calcare micritico compatto fortemente diagenizzato) che divenne poi il materiale più usato in tutto il Rinascimento a Venezia e nei territori della Repubblica della Serenissima.16 Dopo molti secoli di abbandono la “Cava Romana di Aurisina” fu rimessa in attività nel 1845 e partecipò lungamente e con pieno successo al rinnovamento edilizio, in forma monumentale, delle grandi città dell’allora fiorente Impero Austro-Ungarico, specie a Vienna, Budapest e Trieste.

14 15 16

Bevilacqua et al. 2003. D’Ambrosi, Sonzogno 1962. Per la Pietra d’Istria: Lazzarini 2008, pp. 9–15.

122

I materiali lapidei dei portali tardoantichi di Ravenna: indagini diagnostiche

Fig. 1. Campione 1. Marmo proconnesio. Immagine della sezione sottile-Nicols X,(10x).

Fig. 4. Campione 6. Rosso Ammonitico Veronese. Immagine della sezione sottile-Nicols //,(10x).

Fig. 2. Campione 7. Marmo proconnesio. Immagine della sezione sottile-Nicols X,(10x).

Fig. 5. Campione 8. Pietra di Aurisina. Immagine della sezione sottile-Nicols //,(10x).

Fig. 3. Campione 2. Rosso Ammonitico Veronese. Immagine della sezione sottile-Nicols //,(10x).

123

3.9 Rinvenimenti monetali dagli scavi dell’area portuale di Classe, Ravenna (campagne di scavo 2001–2005) Elena Baldi Ricercatrice indipendente [email protected] Abstract: The excavations carried out at the harbour town of Classe between 2001 and 2005 brought to light 2564 coins, 695 of which are legible, providing some important information regarding the foundation, occupation and later decline of the harbour. Although Classe was founded in the early 5th century, small numbers of coins dating from the 1st to the 3rd century are recorded, and seem to be indicative of a rural economy and sparse occupation. Possibly still in circulation after the foundation of the harbour, coinage of the 4th century registers a strong increase in numbers, with the common issues of the House of Constantine and the House of Valentinian. The high numbers are often interpreted as evidence of a well-developed economy which needed small modules for everyday exchange, a likely situation in a harbour town. In contrast with the evidence of other contemporary sites in the Mediterranean, the finds from Classe include a relatively high number of numismatic finds from the 5th century, with Honorius and Valentinian III, but also highlight the continuity of settlement into the period of Ostrogothic and Byzantine control. The high number of finds from these two periods has allowed some in-depth analysis, particularly of certain specific types, the Felix Ravenna and the ½ and ¼ follis Salonian issues of Justinian I. The application of metrology and distribution patterns have suggested a new hypothesis about their possible production at the mint of Ravenna. Also important is the finding of coinage of Constantine VIII and the Lombard King Austulf; these are rare and unknown issues found only in the neighbourhoods of Classe and Ravenna, which mark the very slow decline and later abandonment of the harbour. Keywords: Classe; Coinage; Trade; Ostrogoths; Felix Ravenna; Salona; Constantine V; Lombards.

Introduzione

dei Beni Archeologici dell’Emilia Romagna e la Fondazione “Parco Archeologico di Classe”.2

Gli scavi effettuati nell’area portuale di Classe forniscono un’occasione senza precedenti, per quello che riguarda la circolazione monetale della città stessa, di Ravenna e del territorio limitrofo; tale opportunità si è finalizzata in una tesi di dottorato discussa presso l’università di Bologna nel settembre 2013. Questo articolo presenta una breve sintesi dei dati ottenuti.1

La caratteristica principale degli scavi effettuati dai ricercatori e studenti dell’Università di Bologna è di avere rivolto l’attenzione a tutta la cultura materiale, un cambiamento positivo per quello che riguarda il materiale numismatico, poiché corregge un’inclinazione volta a non raccogliere la moneta in bronzo, specialmente di piccolo taglio, privilegiando i materiali di modulo maggiore, con indice di leggibilità migliore. Un approccio simile era mantenuto per la pulizia e conservazione di materiali archeologici che risultava spesso selettiva, tralasciando i tondelli di piccole dimensioni e in condizioni di conservazione peggiore.3

L’area di studio, collocata a sud di Ravenna (Fig. 1), è stata oggetto di indagini archeologiche sin dagli anni ’60–80 del secolo scorso. Dal 2001 si è presentata l’occasione di indagare nuovamente l’area portuale di Classe, in una collaborazione fra l’Università di Bologna (ex Dipartimento di Archeologia con sede a Ravenna, ora Dipartimento di Storia, Cultura Civiltà), la Soprintendenza

Per una analisi dettagliata della fondazione e sviluppo dell’area portuale si veda: Augenti, Cirelli 2010; Augenti 2011; Cirelli 2013. 3 Curina et al. 1983, p. 204. In questo caso, nelle campagne di scavo effettuatesi a Classe tra il 1975 e il 1982, sarebbe stato rinvenuto un totale di circa cinquecento monete, ma nonostante questo sia un numero 2

1 Per una trattazione complessiva che include anche l’analisi di una parte dei reperti monetali provenienti dagli scavi della Basilica di San Severo effettuati tra il 2006 e il 2010, si veda Baldi 2015.

124

Rinvenimenti monetali dagli scavi dell’area portuale di Classe, Ravenna (campagne di scavo 2001–2005) I dati generali

territorio ancora principalmente agricolo, con alcune rare testimonianze di insediamenti abitativi.

Le indagini dell’area portuale, eseguite fra il 2001 e il 2005, hanno portato al rinvenimento di 2564 reperti appartenenti a un arco cronologico che si estende dal II sec. a.C. con una emissione dei re numidici Massinissa o Micipsa, fino all’VIII sec. d.C., con una produzione del re longobardo Astolfo. Sette di questi esemplari sono in argento, dodici in billone e nove in oricalco; il resto è stato prodotto in lega di rame. Si tratta generalmente di monete di piccolo taglio, AE3 e AE4. È stato possibile riconoscere puntualmente l’autorità emittente di 695 esemplari, mentre 1689 rimangono illeggibili (Fig. 2).

La quantità di rinvenimenti databili al IV secolo è invece piuttosto consistente nell’area portuale, nonostante si registrino solo scarse emissioni di inizio del secolo, pochi esemplari del tipo Gloria Exercitus con uno o due stendardi. Si osserva invece continua crescita di rinvenimenti con il passare degli anni; in particolare sono presenti le emissioni costantiniane di Fel Temp Reparatio del tipo Falling Horseman e le emissioni della dinastia valentiniana, del tipo Gloria Romanorum e Securitas Reipublicae. Una tale abbondanza delle produzioni monetali, comune anche in altri siti indagati in Romagna e nel resto dell’Italia settentrionale, è interpretata come un segno dell’incrementata monetizzazione della società che necessita divisionali minori per lo scambio commerciale quotidiano.5

Inizialmente, lo scopo principiale della pulizia e conservazione dei reperti numismatici di Classe era di potere procedere alla loro catalogazione, al fine di fornire un termine post quem utile per la datazione degli strati portati alla luce.

Il secolo si chiude con pochi esemplari attribuibili a Magno Massimo e Flavio Vittore del tipo Spes Romanorum coniato con quantità piuttosto abbondanti per il pagamento delle truppe impegnate nella guerra contro Valentiniano II. Queste emissioni sono state rinvenute principalmente nei territori della Pianura Padana e in Slovenia, le regioni testimoni di questo periodo di fermento.

Naturalmente, la moneta è un reperto unico del suo genere, poiché provvede un dato cronologico fissato nel tempo, ma anche informazioni ben più complesse che riguardano la produzione, distribuzione e circolazione e l’economia di un dato momento storico. L’acquisizione di questi dati ha poi posto quesiti riguardo alla distribuzione cronologica del materiale che si mostrava piuttosto divergente nei confronti dei dati provenienti dagli scavi archeologici effettuati in città e nei porti del territorio italico e del Mediterraneo.

Durante il IV secolo si osserva una forte presenza di monetazione proveniente da varie zecche dell’impero, soprattutto da Siscia, un dato che va a sottolineare nuovamente lo spostamento di truppe e delle fasi di una guerra e non è relativo invece a contatti di carattere commerciale, che avvengono ancora con le zone commerciali e produttive principalmente dell’Africa settentrionale e del Vicino Oriente (Fig. 3).6

Nonostante ora sia piuttosto chiaro che l’area portuale di Classe fu realizzata a seguito di un preciso progetto di costruzione unitario e pianificato in ogni dettaglio, databile al V secolo,4 la presenza di monetazione si attesta ben prima, sebbene con quantitativi scarsi.

Il V secolo si rivela un periodo interessantissimo dal punto di vista archeologico e numismatico; è infatti grazie allo spostamento della corte imperiale, che la città di Ravenna e il suo porto vivono un momento di forte sviluppo, evidenziato dalla costruzione di opere edilizie importanti, come le mura, il palazzo imperiale e l’area portuale con i relativi magazzini. L’abbondante numero di reperti monetali registrato in questo periodo è testimone di una fase di benessere della città, al contrario di quanto registrato negli scavi cittadini e di aree portuali in Italia e in particolar modo delle aree rurali, dove si testimonia una quasi una totale interruzione della documentazione numismatica.

L’esemplare più antico rinvenuto negli scavi del 2001– 2005 proviene dal Regno di Numidia, emesso sotto l’autorità o del re Massinissa o del figlio Micipsa, ma è stato ritrovato in un contesto databile al V–VII secolo d.C., tanto da essere considerato un rinvenimento fortuito. Le due monete databili al periodo repubblicano sono invece testimoni di una penetrazione monetale numericamente scarsa e presente nel ravennate solo con pochi esemplari. La monetazione dei primi tre secoli dell’Impero Romano fa il suo ingresso già a partire dalle emissioni di Augusto, ma è rinvenuta con quantitativi piuttosto scarsi fino alla seconda metà del III secolo, periodo in cui si regista una produzione composta quasi esclusivamente da radiati. Il nucleo monetale dell’area portuale di Classe registra principalmente emissioni degli imperatori più prolifici, Gallieno e Probo. La scarsa presenza di monetazione di I–III secolo sembrerebbe essere sintomo di un

La presenza monetale di questo periodo è piuttosto abbondante in particolare durante il regno di Onorio, con la sua produzione principale, il tipo Gloria Romanorum con imperatore e due nemici ai lati, coniato a Roma, Aquileia, e Siscia; il tipo è rinvenuto principalmente nelle aree nordorientali della Pianura Padana fino alla Slovenia. Si registra anche l’ipotesi avanzata da Grierson e Mays

piuttosto elevato di reperti, il materiale pubblicato conta solo pochi esemplari. 4 Augenti 2011, p. 26.

5 6

125

Arslan 1999, p. 358; Baldi 2014. Cirelli 2014d.

Elena Baldi di una emissione ravennate7 che potrebbe essere ora sostenuta dai numerosi rinvenimenti di Classe; tuttavia, l’abbondante distribuzione su un territorio così vasto e il fatto che Ravenna probabilmente coniava solo le emissioni in oro in questo periodo, fanno propendere in maniera negativa rispetto a tale ipotesi.8

in totale, probabilmente uno dei nuclei monetali più consistenti ritrovati a Ravenna e in generale in Italia, ma anche uno dei più numerosi fra quelli rinvenuti in contesti archeologici scavati con metodo stratigrafico. Questo quantitativo ha permesso di analizzare piuttosto dettagliatamente i reperti attraverso un’analisi pondometrica e tipologica che, unita alle ipotesi interpretative di Arslan e Metlich, ha permesso di introdurre nuovi dati a sostegno di alcune ipotesi, in particolare per quello che riguarda le emissioni del tipo Felix Ravenna, con monogramma.

Anche la monetazione di Valentiniano III è stata rinvenuta con un alto numero di esemplari di tipologia diversa, che sono importanti testimoni della situazione privilegiata delle città di Ravenna e Classe, al centro di scambi commerciali sofisticati che richiedono l’utilizzo di una moneta di piccolo taglio, necessaria per le transazioni quotidiane.

In questo caso, l’osservazione rivela più varianti rispetto a quelle indicate dal Metlich e altri prima di lui: il monogramma con o senza croce nella parte superiore. Si sono identificate tre varianti del tipo senza croce, e ne sono state rinvenute altre in pubblicazioni di carattere locale, la cui analisi sarà necessaria in futuro, al fine di potere forse ottenere nuovi elementi riguardo alla produzione e anche datazione di questa emissione.

Dopo la morte di Valentiniano III si osserva un notevole calo delle emissioni, con la documentazione di alcune produzioni di Maggiorano o Libio Severo, ma anche moneta coniata della parte orientale dell’Impero, da Leone e Zenone. La circolazione monetale di questo periodo evidenzia lo stato di difficoltà in cui versava l’Impero Romano, ben testimoniata dalla scarsa presenza di reperti a Ravenna, che però persistono più numerosi a Classe, come visibile dal confronto con i dati provenienti dal resto del Mediterraneo e della penisola italiana.

Tuttavia, una delle questioni più importanti riguardo questa emissione è pertinente all’atelier di produzione: il dibattito riguarda l’attribuzione o alla zecca di Roma o a Ravenna. L’ipotesi avanzata da Metlich di una produzione romana, a seguito dell’identificazione di due monete considerate ibride, trascura la distribuzione dei rinvenimenti archeologici, molti dei quali sono segnalati da Arslan.9 L’analisi dei nuovi dati di Classe e gli elementi rinvenuti dagli scavi archeologici del passato, mettono in evidenza la distribuzione di questo tipo in più zone del territorio italiano. Ciononostante, se il numero dei ritrovamenti romani, laziali e dell’Italia meridionale è piuttosto esiguo, al contrario le presenze del centro nord della penisola e in particolare dalla Romagna, lungo tutta la Pianura Padana fino alle coste della Dalmazia10 sono particolarmente abbondanti e fanno propendere quasi certamente per una emissione ravennate, che sarebbe tra l’altro piuttosto logica vista la legenda sul diritto: FELIX RAVENNA.

La principale zecca di produzione riferibile alla monetazione di V secolo rinvenuta a Classe è Roma (in particolar modo dopo la chiusura di Aquileia), ma si registrano anche esemplari di zecche orientali. Nuovamente, il dato numismatico non rispecchia lo scambio commerciale con i territori mediterranei suggerito invece dagli abbondanti quantitativi di anfore provenienti dalla Tunisia e dal vicino Oriente. Alcuni esemplari attribuibili a produzioni vandaliche potrebbero essere testimoni di questi scambi, apparentemente mai interrotti, nonostante gli atti di pirateria e le guerre intraprese dai Vandali nei territori dell’Impero Romano (Fig. 4). È invece certamente legato alla circolazione di fine V secolo il rinvenimento di due rari esemplari delle produzioni bronzee di Odoacre, il quale regnò sulla penisola italiana dal 476, fino al 493. Il numero degli esemplari in lega di rame emessi da Odoacre e rinvenuti nel territorio della penisola italiana è piuttosto limitato e localizzato principalmente nell’Italia centro-meridionale, tanto da fare dubitare Arslan della loro produzione ravennate. Ovviamente i dubbi dello studioso sono dettati da quanto a noi disponibile; riallacciandosi alla metodologia discussa in precedenza, è solo attraverso la raccolta sistematica e al paziente lavoro di conservazione e pulizia dei reperti che sono stati rinvenuti due esemplari rari e fondamentali per la conoscenza di un periodo di così difficile interpretazione (Fig. 5).

Unendo il dato archeologico a quello numismatico si è potuto osservare che il cambiamento della gestione politica della città, il passaggio nelle mani ostrogote da un Impero ormai decadente, si riscontra solo nella presenza monetale. Infatti, gli scambi commerciali e le aree di origine delle merci, dati evincibili dai contenitori ceramici rinvenuti presso l’area portuale, non cambiano, con contatti che continuano a privilegiare le aree dell’Africa settentrionale (Fig. 6).

Arslan 2005. Metlich non ha considerato nessuno dei materiali provenienti dai siti citati da Arslan, già molto conosciuti al momento della sua pubblicazione. Il repertorio di Arslan è stato poi aggiornato nel 2010 (http://www.ermannoarslan.eu/Repertorio/index.php), a cui si aggiungono gli ultimi dati di Asolati (2012). 10 Il confronto con gli altri scavi archeologici si basa sui reperti documentati nelle pubblicazioni a carattere locale già evidenziate, oltre a una schematizzazione dei dati a livello nazionale pubblicata in Arslan 2005 oltre che in Demo 1994, dove sono registrati i rinvenimenti dei musei di Croatia, Slovenia e Bosnia-Herzegovina. 9

La monetazione prodotta durante il Regno Ostrogoto è stata rinvenuta con un numero alto di reperti, novantatré 7 8

Grierson, Mays 1992, pp. 194–195. Asolati 2001, p. 76.

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Rinvenimenti monetali dagli scavi dell’area portuale di Classe, Ravenna (campagne di scavo 2001–2005) I decenni successivi sono caratterizzati da un alto numero di produzioni monetali, riferibili in particolar modo a produzioni di Giustiniano I, nonostante siano registrati rari esemplari di Anastasio e Giustino I.

Mediterraneo, ma evidenzia uno spostamento delle rotte commerciali verso Est, con importazioni di prodotti alimentari dal Vicino Oriente e un calo repentino di materiali ceramici, soprattutto contenitori da trasporto nordafricani.16

Le monete di Giustiniano sono presenti nei contesti di Classe con numeri abbondanti. In questo caso ci si è soffermati sull’analisi delle cosiddette emissioni giustinianee attribuite da Bellinger11 alla zecca di Salona, sebbene Hahn12 noti che lo stile di produzione sia invece molto simile a quella della zecca di Ravenna. Il rinvenimento di 53 esemplari delle emissioni di ½ follis e 11 di ¼ di follis,13 ha instillato qualche dubbio sull’effettiva provenienza saloniana, suggerendo invece una produzione ravennate. Il confronto effettuato con i dati rivenuti sulla sponda orientale dell’Adriatico ha rilevato un numero di monete piuttosto alto, ma il quantitativo è sicuramente abbondante grazie al loro rinvenimento in tesoretti monetali e non in scavi archeologici. Allo stesso tempo, i dubbi già esistenti prima della pubblicazione di questi materiali sono sostenuti dai nuovi dati qui rinvenuti a supporto di una produzione ravennate (Fig. 7).

Durante il primi anni dell’Esarcato le emissioni rinvenute sono prodotte in un numero piuttosto alto di zecche, da Cherson nel Mar Nero, a Cartagine, Salona, Ravenna e forse alcune zecche itineranti, mentre per i secoli successivi la maggior parte dei reperti è di produzione ravennate. Questo dato potrebbe suggerire che lo scambio commerciale ad alti livelli veniva effettuato in oro e argento nei luoghi di rifornimento e produzione; la moneta enea era invece utilizzata nei luoghi di smistamento e commercio minuto come a Classe, utilizzando emissioni locali. Rimanendo nell’ambito della circolazione di VIII secolo, un solo esemplare è stato rinvenuto nei nuovi contesti, un follis emesso a Ravenna,17 attribuibile alla monetazione longobarda. Si tratta di una tipologia piuttosto rara che sembra riscontrabile solo nel ravennate, dove già in passato ne erano stati individuati altri esemplari (Fig. 8).18

I dati di Classe mostrano un declino nelle produzioni monetali già a partire dal VII secolo, con produzioni esclusivamente ravennati; tale situazione è più visibile durante l’VIII secolo, in cui si registra un calo ancora più evidente con il rinvenimento di solo otto reperti attribuibili alle produzioni di questo periodo, oltre a un esemplare del re longobardo Astolfo.

Conclusioni Il nucleo di monete rinvenute presso gli scavi archeologici di Classe ci ha permesso di confermare alcuni dati sulla nascita, sviluppo e declino del porto di Classe, come già evidenziato dalla ricerca archeologica e dallo studio del materiale ceramico.

Nonostante lo scarso quantitativo, i rinvenimenti di VIII secolo sono piuttosto importanti, poiché ascrivibili a Leone III e al figlio Costantino V, dei quali sono rinvenuti esemplari rarissimi, che sono tra l’altro assenti nei repertori di maggior consultazione e finora registrati solo nelle catalogazioni di rinvenimenti nel territorio.14 Questi consentono di delineare elementi di continuità nei contatti commerciali con l’Oriente, ma ci offrono la testimonianza di un sitema di scambio che richiede ancora l’utilizzo di moneta, anche se con caratteristiche morfologiche diverse da quanto prodotto in precedenza o anche nello stesso periodo presso la zecca di Costantinopoli.

Questi nuovi dati hanno permesso di delineare la circolazione monetale sul territorio e di documentare l’insediamento, soprattutto per il periodo tardoantico, in maniera mai evidenziata precedentemente, in un’analisi che mostra la vivacità insediativa e commerciale di Ravenna, ben visibile nel periodo che va dal IV al VI secolo, un’attività che sembra invece assente in altre realtà urbane. Sono molto interessanti anche i dati che riguardano il VII–VIII secolo, che ci forniscono informazioni importanti riguardo all’insediamento nella città di Classe fino al regno di Costantino V (741–775), ma anche di Astolfo re dei Longobardi (749–756). Alla rarità di questa documentazione si aggiunge anche la possibilità di associare alla presenza monetale strati archeologici in fase, che, insieme al rinvenimento di materiali ceramici, hanno permesso di porre una particolare attenzione sulla produzione e circolazione monetale di VIII secolo e di attestare la continuità dell’insediamento nella zona, aspetto non chiaramente dimostrato in precedenza, ma ora documentato con precisione.

Nel passato la diminuita documentazione monetale è stata messa in relazione all’incremento di contatti commerciali regionalizzati, che favorivano produzioni locali invece delle importazioni dal Mediterraneo. Il peggioramento della lega di produzione, la tecnica trascurata e le riduzioni del tondello, potrebbero essere segno di alcune difficoltà politiche causate, tra l’altro, dalle continue pressioni dei Longobardi sul territorio.15 La documentazione ceramica registra invece ancora lo scambio commerciale con il Bellinger 1966. Hahn 1973; Hahn, Metlich 2000. 13 A queste monete vanno sommati almeno altri cinquanta esemplari provenienti dai contesti della Basilica di San Severo, della Basilica Petriana e dell’area portuale di Classe ancora in corso di studio. 14 Baravelli 2006; Ranieri 2006; Baravelli 2013. 15 Ercolani 1999, p. 344. 11

McCormick 2001, pp. 27–63; Wickham 2005, pp. 708–824; Cirelli 2008, pp. 135–136; Augenti, Cirelli, Marino 2009, p. 142. 17 Il reperto è confrontabile con un esemplare ricordato in Ercolani (1983), oltre a Baravelli (2013) da due collezioni private, e quattro aste (nel complesso sette monete, cui si aggiunge ora questo esemplare). 18 Cirelli 2015a.

12

16

127

Elena Baldi

Fig. 1. Collocazione geografica dell’area di Classe rispetto alla città di Ravenna e all’abitato attuale; l’area di scavo (Augenti 2011).

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Rinvenimenti monetali dagli scavi dell’area portuale di Classe, Ravenna (campagne di scavo 2001–2005) 206 176

179

93 36 3

Fig. 2. La distribuzione cronologica del materiale leggibile.

Fig. 3.

129

1

1

Elena Baldi

Fig. 4.

Fig. 7.

Fig. 5.

Fig. 8.

Fig. 6.

130

3.10 La diffusione del vetro nell’Adriatico centrale: studi tipologici e dati chimici da Classe Tania Chinni*, Enrico Cirelli*, Sarah Maltoni**, Mariangela Vandini***, Alberta Silvestri****, Gianmario Molin** Dipartimento di Storia Culture Civiltà, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna; Dipartimento di Beni Culturali, Università di Padova, ***Dipartimento di Beni Culturali, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna;****Dipartimento di Geoscienze, Università di Padova *

**

[email protected] Abstract: The aim of this study is to identify the presence of possible glass production in the ancient harbour of Classe (Ravenna, Italy), after the redevelopment of the 5th century AD. In particular, Building no. 6 (5th–8th century) has returned a considerable number of glass objects (vessels and production wastes), probably connected with the small circular kiln identified inside. Just outside of Building no. 6, the dump US 4381 (early 6th century AD) allows a typological and compositional comparison, relative to the moment of maximum attendance of the warehouse, with the possibility of identifying which forms could be produced inside. The forms identified in the two contexts are: beakers (Is. 96, 106c and variants with rounded rim), goblets (Is. 111), bowls (Is. 116/117 and variants), lamps (Is. 134 and Uboldi III.2) and production wastes (glass chunks and working debris). The chemical analyses conducted (XRF and EPMA) show the presence of three compositional groups: HIMT glass (High Iron Manganese Titanium), Série 3.2 and Levantine I. The presence of raw glass chunks and vessels of HIMT and Série 3.2 composition can be interpreted as evidence of systematic glass-working activity in Classe, though limited to these compositions. Fragments and an absence of raw chunks, referable to the chemical group Levantine I, are in fact identified in Classe, allowing us no consideration about working activities for glass of this composition. Finally, the isotopic analyses have highlighted the likely use of coastal sands typical of the Eastern Mediterranean as raw materials, and this evidence is perfectly compatible with a secondary production (recasting of raw glass chunks and recycled materials). This study was carried out within the Italian MIUR PRIN 2009 “Continuità e discontinuità nelle produzioni vetrarie altoadriatiche tra il IX sec. a.C. e il XIV sec. d.C.”. Keywords: Classe; Glass; Production; Commerce.

Introduzione

così di una vastissima quantità di prodotti, dalle derrate alimentari alle ceramiche: dai manufatti in metallo a quelli in osso lavorato, fino all’immagazzinamento di materie prime per la lavorazione artigianale del ferro e di altri prodotti. Non mancavano anche oggetti in vetro, di cui le maggiori attestazioni sono state individuate in prossimità del cosiddetto Edificio 6. Le indagini archeologiche condotte nell’area hanno permesso non soltanto il recupero di frammenti di vasellame, ma anche di pani di vetro, blocchi informi, colature e deformati che lasciano aperta l’ipotesi di una possibile produzione vetraria in situ.

L’importanza di Classe quale porto privilegiato per i commerci con il Mediterraneo è ormai ampiamente nota:1 una grande quantità di beni giungono dai principali porti del Mediterraneo sin dall’Antichità, ma dal V secolo d.C., a seguito del trasferimento della corte imperiale, aumenta in maniera considerevole il volume di prodotti provenienti dai principali porti mediterranei che si riversò su Classe con un flusso crescente fino alla metà del VI secolo. I magazzini del porto, interessato da una massiccia pianificazione urbanistica nel V secolo d.C., si riempiono 1

Cirelli 2007; Augenti 2010; Augenti, Cirelli 2010; 2012.

131

Tania Chinni, Enrico Cirelli, Sarah Maltoni, Mariangela Vandini, Alberta Silvestri, Gianmario Molin Dopo un primo studio condotto su un gruppo selezionato di reperti,2 si è deciso di ampliare il bacino di indagine confrontando i reperti dell’Edificio 6 con quelli provenienti da una discarica coeva (US 4381), collocata nelle immediate vicinanze.3

in vetro, 540 dei quali riferibili a forme caratteristiche della tarda Antichità. La categoria funzionale maggiormente attesta risulta essere quella delle suppellettili da mensa, con la netta prevalenza delle forme aperte (bicchieri, calici e coppe), rispetto a quelle chiuse (bottiglie e brocche).

Il presente studio, legato a un progetto di più ampio respiro rivolto alla comprensione delle tappe evolutive della produzione e del commercio del vetro in area altoadriatica tra il IX secolo a.C. e il XV secolo d.C., si propone dunque di combinare lo studio archeologico e i dati chimici al fine di identificare la reale presenza di una manifattura vetraria a Classe e di comprendere la sua effettiva importanza nell’economia locale e dell’intera area adriatica.

La maggior parte dei frammenti risulta infatti riferibile alle più comuni morfologie di vasi potori, databili tra il V e l’VIII secolo d.C.: si riscontrano principalmente i bicchieri apodi a orlo tagliato tipo Is. 96,7 i bicchieri troncoconici 106 (sia nella variante b a orlo arrotondato, sia nella c con orlo tagliato) e i bicchieri Is. 109, spesso caratterizzati da un corto piede ad anello. Tutti questi manufatti mostrano una qualità formale e materica piuttosto ordinaria, con imperfezioni, colorazioni poco depurate (generalmente nelle tonalità dell’azzurro e del verde) e bollosità caratteristiche di una produzione presumibilmente poco accurata. Di fattura più elaborata risultano invecei bicchieri Is. 107 e i calici Is. 111. Riconoscibili soprattutto grazie alla conservazione dei piedi e degli steli, i calici sono la seconda categoria di oggetti per numero di frammenti in questo contesto, con un leggero incremento delle attestazioni tra la fine del V e l’inizio del VI secolo.8 Le coppe risultano ben attestate in questo contesto sia nei tipi Is. 116 e 117, circolanti fino agli inizi del VI secolo d.C., sia in alcune morfologie con l’orlo arrotondato e fondo apodo, il cui cattivo stato di conservazione e l’esiguità dei frammenti conservati rendono tuttavia complessa l’identificazione tipologica. Le forme chiuse sono attestate in questo contesto dal recupero di alcuni frammenti riferibili per lo più alle morfologie Is. 120, 121, 126 e 127, tutte caratterizzate da orli più o meno imbutiformi, spesso decorati con filamenti applicati a caldo appena sotto il bordo e complete di anse costolonate.

Contesti indagati I contesti presi in esame per questo contributo provengono da due diversi magazzini dell’area portuale di Classe. Sono stati scavati in due diverse occasioni nel 2001 (edificio 6)4 e nel 2004–2005 (US 4381).5 Già in passato erano state individutate attività produttive, di varia natura, all’interno dell’area. Le evidenze principali consistono in due fornaci a pianta circolare, poste all’interno di un ampio edificio rettangolare. L’analisi del deposito ha dimostrato che le attività di produzione sono databili in un periodo compreso tra gli inizi del V e il VII–VIII secolo. L’edificio in mattoni fu costruito però sui resti di una villa suburbana, attiva per lo meno fino al III secolo, dotata di ambienti mosaicati e quindi di una parte residenziale, piuttosto estesa.6 Una delle due fornaci venne rimossa nel corso delle attività di scavo degli anni ’70, per poter indagare le fasi più antiche. In prossimità del muro perimetrale nord dell’edificio tardoantico fu individuata invece una piccola struttura circolare (2 m ca), inserita all’interno di un ambiente rettangolare. Un muro in laterizi separava la fornace da un ambiente parallelo pavimentato in malta utilizzato forse come atelier. I piani pavimentali dei due ambienti furono rialzati dopo il primo quarto del VI secolo, in seguito a un incendio che distrusse l’edificio e compromise anche il funzionamento dell’atelier. In questi ricchissimi strati di rialzamento sono stati rinvenuti i materiali in vetro e gli scarti di lavorazione presentati in questo nostro contributo. Vi erano associati numerosi reperti ceramici, soprattutto lucerne e vasellame di uso domestico, che doveva essere conservato negli ambienti attigui per essere ridistribuito nel mercato dell’Italia centro-settentrionale, grazie alla fitta rete di connessioni fluviali che connettevano Classe con Ravenna e tutti gli insediamenti urbani e protourbani distribuiti lungo il corso del Po.

Il deposito ha restituito anche alcuni frammenti riferibili a manufatti impiegati per l’illuminazione degli ambienti: orli ripiegati all’esterno con piccole anse applicate riferibili a lampade triansate tipo Is. 134 e fondi con goccia terminale e pareti decorate con pinzature associabili alle lampade coniche a sospensione tipo Uboldi III.2, diffuse tra l’inizio del V secolo e la fine del VI secolo.9 Infine, si sottolinea anche la presenza di un fondo concavo che, per forma e dimensioni, sembra compatibile con le cosiddette palmcup, piccoli recipienti per i quali è stata ipotizzata sia la funzione di lampade sospese sia di bicchieri sorretti da supporti ausiliari in legno o paglia.10 Nonostante il repertorio morfologico dell’Edificio 6 sia abbastanza variegato, la maggior parte delle testimonianze vetrose recuperate è classificabile come prodotti semilavorati o residui di una lavorazione vetraria. Sono stati infatti recuperati frammenti di vetro grezzo, blocchi informi di materiale vetroso, colature, oggetti deformati e ritagli, per un totale di 973 reperti. Le condizioni del loro

Le tipologie All’interno dell’Edificio 6 sono stati recuperati 1513 reperti

2 3 4 5 6

Tontini 2006; Cirelli 2008; Cirelli, Tontini 2010. Cirelli, Cannavicci 2014. Augenti et al. 2003; 2007. Maltoni et al. 2015. Cirelli 2013.

7 8 9 10

132

Isings 1957. Cirelli, Tontini 2010. Uboldi 1995. Falcetti 2001.

La diffusione del vetro nell’Adriatico centrale: studi tipologici e dati chimici da Classe rinvenimento – impiegati, insieme a migliaia di frammenti ceramici, come rialzamento del piano pavimentale – lasciano supporre che questo materiale vitreo, per motivi tutt’ora ignoti, sia stato considerato inadatto alla rifusione e pertanto definitivamente scartato. Tuttavia, la loro considerevole quantità e varietà documenta in maniera inequivocabile la presenza di un’attività di lavorazione a partire da vetro grezzo e rottami, e non è da escludere che il piccolo forno identificato in uno degli ambienti del magazzino stesso possa essere stato impiegato anche per occasionali rifusioni di vetro.11

Tra gli strumenti per l’illuminazione ritroviamo la forma Is. 134, testimoniata da un orlo ripiegato verso l’esterno e dall’ansa verticale, la lampada a sospensione Uboldi III.2 cui si riferiscono tre frammenti (un orlo, una parete e un fondo) riferibili a un unico individuo. Per almeno altri tre orli è possibile ipotizzare un’attribuzione a lampade coniche, mentre un solo orlo tagliato e rifinito sembrerebbe trovare un confronto molto convincente con una tipologia di lampade su stelo di area palestinese databili al V–VII secolo. Benché non sia associabile ad alcuna attività produttiva, il deposito 4381 ha restituito anche sedici reperti classificati come scarti di produzione. Si tratta per lo più di piccoli ritagli e di tre frammenti di vetro grezzo nelle tonalità del verde scuro e verde smeraldo, la cui presenza all’interno di questo contesto è da intendere in relazione con occasionali fenomeni di abbandono.

Il contesto noto come “unità stratigrafica 4381” presenta invece tutte le caratteristiche tipiche di una discarica utilizzata da un ristretto gruppo di individui.12 Al suo interno, oltre a numerose recipienti ceramici e ossa animali, sono stati recuperati 231 frammenti di vetro, 213 dei quali riferibili a vasellame. Tutto il materiale mostra una datazione perfettamente sovrapponibile al dato stratigrafico, che colloca l’impiego del deposito agli inizi del VI secolo d.C.

Le analisi14 Al fine di comprendere meglio le rotte commerciali su cui i prodotti vitrei giungevano nel porto di Classe, sono state condotte specifiche analisi chimiche e isotopiche per l’individuazione dei gruppi composizionali principali dei manufatti e dei semilavorati in vetro così da definire le possibili aree di provenienza del vetro grezzo impiegato, il rilevamento di eventuali fattori di riciclaggio di rottami di vetro e l’identificazione di connessioni tra tipologia archeologica e composizione chimica del vetro.

Bollosità, imperfezioni e le classiche colorazioni verdi e azzurre, denotano una qualità dei manufatti non elevata e, quindi, produzioni destinate a un uso prevalentemente quotidiano. Dallo studio tipologico emerge, ancora una volta, la significativa presenza dei vasi potori. La forma numericamente più consistente è quella del bicchiere apodo con orlo arrotondato tipo Is. 106b, mentre risultano molto meno numerosi rispetto al contesto precedente, i frammenti di orlo tagliato riferibili sia ai bicchieri Is. 96 sia ai 106c. Attribuibile a una coppetta Is. 96 var.b.2 è invece un fondo decorato con pinzature, la cui cronologia è estesa dalla metà del II secolo fino alla fine del IV secolo d.C.13

Dai due contesti sono stati selezionati un numero complessivo di 57 campioni (32 indicatori/scarti e 25 frammenti di vasellame scelti all’interno della categoria funzionale dei bicchieri), sottoposti a spettroscopia di fluorescenza a raggi X (XRF) e ad analisi con microsonda elettronica (EPMA) per la determinazione della composizione chimica dei reperti e a spettrometria di massa al plasma accoppiato induttivamente (MC– ICPMS). I campioni hanno evidenziato la presenza di manufatti realizzati in tutte e tre le principali composizioni diffuse nella tarda Antichità. La maggior parte di essi appartiene ai gruppi composizionali degli HIMT (High Iron Manganese Titanium)15 e dei Série 3.2,16 mentre solo pochi campioni rientrano nel gruppo dei Levantine I.17 Al gruppo degli HIMT appartengono tredici campioni di vasellame e tredici indicatori/scarti (tra cui un pane di vetro) suddivisibili in tre ulteriori sottogruppi a seconda della diversa concentrazione di ossidi di ferro e titanio. Questa tipologia composizionale, individuata per la prima volta a Cartagine,18 risulta attualmente uno dei gruppi più attestati in tutto il bacino del Mediterraneo tra il IV e l’VIII

In contrasto con il deposito dell’Edificio 6 è anche il dato relativo ai calici Is. 111, attribuzione questa proposta per un solo frammento di orlo arrotondato, mentre spicca l’assenza di steli e piedi, parti più resistente di questa morfologia. Le coppe, seppur in numero più contenuto, mostrano un decisivo incremento delle morfologie a orlo arrotondato presenti anche nell’Edificio 6, mentre solo pochi fondi possono essere ricondotti alle coppe Is. 116/117. Il repertorio delle bottiglie/brocche vede il prevalere degli orli imbutiformi per i quali sembra plausibile un’attribuzione alle piccole bottiglie cilindriche Is. 132. Un solo frammento di orlo imbutiforme con spesso filamento applicato a caldo e ansa nastriforme è invece riconducibile a una brocca Is. 126/127.

11 12 13

Una disamina completa delle indagini condotte è stata presentata in occasione dell’VIII Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana Archeometria. Si veda inoltre: Maltoni et al., 2015. 15 Freestone 1994. 16 Foy et al. 2003. 17 Freestone, Gorin-Rosen, Hughes 2000. 18 Freestone 1994. 14

Cirelli, Tontini 2010. Cirelli, Cannavicci 2014. Rütti 1991, form AR 60.3 / Is. 96b; Silvestri, Marcante 2009.

133

Tania Chinni, Enrico Cirelli, Sarah Maltoni, Mariangela Vandini, Alberta Silvestri, Gianmario Molin secolo d.C.,19 riconoscibile anche grazie alla caratteristica colorazione del vetro che varia dal giallo-verde al verde oliva molto scuro.20 Il secondo gruppo composizionale per numerosità di campioni è la Série 3.2, con 11 frammenti di vasellame e 14 indicatori/scarti, tra cui tre pani di vetro. Questa tipologia chimica è stata riscontrata in numerosi contesti mediterranei di V–VI secolo d.C. (Francia, Tunisia, Libia, Libano ed Egitto) e si presenta generalmente associata a vetri dall’aspetto più depurato, prevalentemente trasparenti, con leggere sfumature azzurre o verdi.21 I Levantine I sono invece rappresentati nei due contesti indagati da solo quattro frammenti di vasellame e due scarti. Tipico dell’area mediterranea del Vicino Oriente, e in particolare della Palestina, questo gruppo composizionale sembra caratterizzare le produzioni orientali tra il IV e il VII secolo d.C., diventando tuttavia meno dominante man a mano che ci si allontana da tale area. I Levantine I mostrano di frequente una colorazione tendente al blu chiaro, dovuto all’impiego di materie prime meglio selezionate.22

Per confermare le possibili aree di provenienza delle materie prime impiegate, un gruppo significativo di campioni per ogni tipologia chimica individuata, è stato sottoposto ad analisi isotopica. I rapporti individuati fanno propendere per un utilizzo di sabbie geologicamente compatibili con l’area del delta del Nilo, per i vetri dei gruppi HIMT e Serie 3.2 e l’area siro/palestinese per quelli Levantine I, consolidando di fatto l’ipotesi di una possibile provenienza del vetro grezzo dal Mediterraneo orientale.27 Conclusioni L’Edificio 6 si presenta come un deposito eccezionale per quantità e varietà dei reperti vitrei – lavorati e soprattutto semilavorati – in esso recuperati, che lascia aperti alcuni importanti quesiti non solo circa la commercializzazione del vetro nel porto di Classe, ma anche rispetto a una sua possibile produzione in situ. In tal senso, il confronto archeologico e chimico dei reperti provenienti dall’US 4381 ha evidenziato alcuni interessanti risultati. Per sua stessa natura infatti questo contesto (una discarica a uso di un ristretto gruppo di persone che probabilmente qui viveva e lavorava) si dimostra una valida testimonianza circa gli effettivi consumi di oggetti in vetro nell’area portuale di Classe nella tarda Antichità.

Combinando il dato chimico con il riconoscimento tipologico è stato possibile osservare che tutti i campioni prelevati da bicchieri Is. 96 si collocano all’interno del gruppo HIMT, i frammenti di calici Is. 111 presentano composizioni più tipiche della Série 3.2, sebbene sia stata individuata per questa tipologia anche pochi esemplari di composizione HIMT, mentre i comuni bicchieri troncoconici Is. 106 si distribuiscono su tutti e tre i gruppi chimici individuati.23 Il confronto tra le tipologie comuni identificate e analizzate nei siti di Classe e Aquileia,24 ossia i bicchieri Is. 96, Is. 106, Is. 109 e i calici Is. 111 evidenzia interessanti correlazioni. I bicchieri Is. 96 sia ad Aquileia che a Classe non mostrano mai una composizione Serie 3.2, i calici Is. 111, prodotti con vetro Levantine I, sono presenti solo ad Aquileia, mentre i bicchieri Is. 106 confermano la loro trasversalità composizionale in entrambi i siti considerati, sebbene in diversi rapporti quantitativi.25

Le morfologie recuperate dall’Edificio 6 e dall’unità stratigrafica 4381, perfettamente compatibili con il periodo di maggior utilizzo del magazzino stesso (fine V-metà VI secolo), mostrano una diversa composizione tipologica dei due depositi: benché in entrambi i contesti i bicchieri siano la categoria funzionale maggiormente attesta, l’Edificio 6 mostra una prevalenza di forme tradizionalmente a orlo tagliato e rifinito (Is. 96, 106c, 107 e 109), mentre nella discarica 4381 risultano più numerose le varianti a orlo arrotondato del bicchiere Is. 106b. La stessa selezione si riscontra anche tra le coppe dove alle Is. 116/117 a orlo tagliato si sostituiscono le varianti a orlo ingrossato e arrotondato. Comuni a entrambi i contesti sono invece le morfologie di lampade vitree identificate: le Is. 134 e le Uboldi III.2. La prima, corrispondente al tipo Uboldi I.1, è ritenuta tradizionalmente una forma importata dall’Oriente nel IV secolo d.C.: di ampissimo successo in tutto il bacino del Mediterraneo, se ne riscontrano numerosissime testimonianze fino almeno all’VIII secolo. Il secondo modello di lampada è altrettanto diffuso, ma la sua produzione sembra limitarsi a un arco compreso tra il V e il la fine del VI secolo d.C. Maggiore distacco tra i contesti si registra tra le bottiglie, dove l’unica tipologia comune è quella delle Is. 126/127 peraltro attestata nella discarica 4381 da un unico individuo.

Per quando concerne gli indicatori/scarti è interessante notare che la maggior parte di essi rientra tra i vetri HIMT e i Série 3.2. La presenza di due pani di vetro nel primo gruppo e tre nel secondo sembrerebbe indicare almeno l’importazione di questi semilavorati per la realizzazione in loco di beni di ampio consumo (bicchieri e calici), mentre l’assenza di tali indicatori per il gruppo Levantine I potrebbe trovare più di una spiegazione: dagli elevati costi di importazione/produzione, alle capacità tecniche specifiche delle maestranze coinvolte, fino semplice gusto degli acquirenti.26

Come già evidenziato in precedenza, la qualità della matrice vetrosa, priva di una specifica attenzione alla depurazione delle miscele vetrificabili, e la capacità di lavorazione dei manufatti, con effetti decorativi ben poco sofisticati, mostrano chiaramente che in entrambi

Mirti et al. 1993; Freestone, Ponting, Hughes 2002; Foster, Jackson 2009; Arletti et al. 2010. 20 Fiori, Vandini, Mazzotti 2004; Freestone, Wolf, Thirlwall 2005. 21 Foy et al. 2005. 22 Fiori et al. 2004. 23 Maltoni et al. 2015. 24 Gallo et al. 2014; Maltoni et al. 2016. 25 Maltoni et al. 2015; 2018. 26 Maltoni et al. 2015. 19

27

134

Maltoni et al. 2015.

La diffusione del vetro nell’Adriatico centrale: studi tipologici e dati chimici da Classe i contesti si trovavano produzioni piuttosto ordinarie, presumibilmente destinate a un mercato di largo consumo. La grande quantità degli indicatori di produzione e le analisi condotte sembrerebbero indicare la presenza di almeno una produzione secondaria di tipo occasionale localizzata forse proprio all’interno dell’Edificio 6, in cui i semilavorati, importati dall’area orientale del Mediterraneo, erano rifusi presumibilmente con rottami di vetro impiegati come agenti fondenti.

135

Tania Chinni, Enrico Cirelli, Sarah Maltoni, Mariangela Vandini, Alberta Silvestri, Gianmario Molin

b

a

d c f

e

0

1

5

g

h

l i

Tav. 1. Principali forme vitree individuate nell’Edificio 6: a – bicchiere/coppetta Isings 96; b – bicchiere apodo con orlo arrotondato Isings 106b; c – bicchiere apodo con orlo tagliato Isings 106c; d – bicchiere Isings 109; e – bicchiere Isings 107; f – calice Isings 111; g – coppa a orlo tagliato Isinsg 117; h – coppa a orlo arrotondato; i – bottiglia Isings 126/127; l – parete di lampada conica a sospensione tipo Uboldi III.2 (disegni di S. Tontini, rielaborati da T. Chinni).

136

La diffusione del vetro nell’Adriatico centrale: studi tipologici e dati chimici da Classe

a

0

5

1

b

g

c

d

e

f

Tav. 2. Principali forme vitree individuate nell’US 4381: a – bicchiere apodo Isings 106b; b – coppetta con bugnette pinzate AR60.3 (Isings 96 var. 2.b); c – calice Isings 111; d – bottiglia Isings 132; e – bottiglia con filamento applicato sotto l’orlo Isings 126/127; f – lampada a bicchiere triansato Isinsgs 134; g – lampada conica a sospensione tipo Uboldi III.2 (disegni di T. Chinni).

137

3.11 Tracce di un quartiere artigianale presso la Basilica Petriana a Classe Debora Ferreri Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Scuola di Scienze [email protected] Abstract: A new sample has recently been excavated at the site of the Basilica Petriana at Classe. This paper describes the archaeological evidence from these excavations, with a particular focus on production waste and other elements of a glass manufacturing workshop, active during Late Antiquity and possibly connected to the construction of the church. Keywords: Basilica Petriana; Classe; Glass production; Workshop; Late Antiquity.

da questo edificio, e in particolar modo dal mausoleo di Galla Placidia a esso collegato, per la cui copertura sono state utilizzate anfore tardoantiche,7 nella basilica petriana furono impiegati tubuli fittili appositamente realizzati, di cui sono stati rinvenuti migliaia di esemplari, all’interno e nei dintorni della fossa di spoliazione dell’abside.8 Sul finire del V secolo alla chiesa venne aggiunto un battistero, per volere di Pietro II che scelse questo luogo per la sua sepoltura, come ricorda ancora una volta il Liber Pontificalis, in occasione di una esplorazione delle reliquie del vescovo, ma la sua costruzione fu ultimata, almeno per quel che riguarda l’apparato decorativo, solo da Vittore (536–546 d.C.), come si poteva leggere nella decorazione musiva all’interno, con lettere dorate. L’edificio secondo questa testimonianza aveva forma quadrangolare ed era probabilmente absidato. Dall’analisi dell’immagine offerta dalle prospezioni geomagnetiche potrebbe essere identificato con un grande edificio di forma rettangolare con due absidi sul lato orientale, visibile sul lato nord della basilica a pochi metri di distanza dal muro perimetrale.9 Le prove però di questa identificazione non sono ancora solide e solo ulteriori indagini di scavo potranno confermarne l’attribuzione, soprattutto considerando che la planimetria di un edificio simile si discosta completamente dai modelli di battistero presenti in area ravennate e più in generale da quelli centro e nord adriatici.

Tra il 2008 e il 2009 il Dipartimento di Archeologia dell’Università di Bologna ha promosso alcune campagne di scavo indirizzate all’indagine di uno dei più importanti edifici di culto realizzati all’interno della città di Classe, fondato dal vescovo Pietro Crisologo (426–450): la basilica Petriana e identificato già sul finire dell’Ottocento.1 La chiesa fu completata dopo la morte del fondatore, durante l’episcopato di Neone verso la metà del V secolo. Si tratta di un edificio a tre navate, con orientamento estovest, di dimensioni notevoli: 68 metri di lunghezza (82 metri, abside inclusa), 44 metri larghezza totale, come possiamo desumere dalla pianta restituita dalle nuove indagini geognostiche condotte nel 2007.2 La chiesa è forse una delle più grandi realizzate nelle città di Classe e Ravenna, sia in ampiezza, sia in altezza come ricorda Andrea Agnello.3 La Petriana superava per dimensioni anche la basilica vescovile, costruita circa venti anni prima (407) per volere del vescovo Ursus a Ravenna (35x60).4 L’interno era caratterizzato da una ricca decorazione. Evidenze di ciò sono state trovate negli strati di macerie relativi all’abbandono della struttura, che contenevano numerose tessere di mosaico, alcune a foglia d’oro, frammenti di intonaco dipinto e lastrine di marmo riconducibili a una pavimentazione in opus sectile, simile a quello della coeva Santa Croce5 e ad altri numerosi contesti di V secolo del Mediterraneo occidentale.6 Diversamente Berti 1875. Boschi, Becker 2011. 3 LPR, par. 24. 4 Novara 1997. 5 Novara 2001a; Guidobaldi 2009, p. 410. Per quel che riguarda il complesso della basilica di Santa Croce a Ravenna si veda di recente: Cirelli 2008; David 2013. 6 Guidobaldi, Guglia Guidobaldi 1983; David 2010. 1 2

Ranzi, infra. Augenti, Boschi, Cirelli 2010. Sull’uso dei tubuli fittili nell’architettura ravennate si veda Russo 2003a, mentre per la sua ampia diffusione in Italia centrosettentrionale nella tarda Antichità si veda: Pantò, Uggé 2006. 9 Bondi, infra. 7 8

138

Tracce di un quartiere artigianale presso la Basilica Petriana a Classe Un ulteriore sondaggio è stato effettuato anche all’esterno dell’edificio ecclesiastico, sul lato meridionale (Fig. 1).10 In questa zona è stato rinvenuto un sistema di canalette in laterizi, articolato in più fasi, utilizzato molto probabilmente per lo smaltimento delle acque della basilica (Fig. 2). Associabili a queste strutture, il deposito ha fornito una quantità notevole di materiale ceramico, vetro e molte monete. Tra queste un sesterzio raffigurante Giulia Mamaea e una rappresentazione della Felicitas in piedi con caduceo e cornucopia (Fig. 3). Si tratta di un esemplare, piuttosto raro per il territorio ravennate, databile al secondo quarto del III secolo d.C.,11 ma sono invece numerose le tracce di frequentazione nel corso del III secolo, sia laterizi bollati, con il riferimento al figlio, Alessandro Severo, sia numerosi laterizi con bolli anepigrafi databili allo stesso periodo e riutilizzati in maniera massiccia nella costruzione delle mura della città di Classe, agli inizi del V secolo, e nella basilica di San Severo sul finire del secolo successivo. Sono residui che mostrano una frequentazione dell’area anteriore alla costruzione della basilica, come indicano anche altri materiali di varie categorie tra cui reperti ceramici della prima età imperiale, vetri e altri oggetti della vita quotidiana insieme ad altre testimonianze che dimostrano un dinamismo economico di questa zona suburbana, ancora nel corso del III,12 con forti segni di crisi nel IV secolo.

Non si tratta quindi di atelier legati alla realizzazione dell’imponente complesso tardoantico, come è stato ipotizzato invece per le officine collettive rinvenute per esempio a S. Vincenzo al Volturno.14 Queste evidenze sono probabilmente da interpretare con l’esistenza in questa una zona di un’area artigianale molto più ampia. Tracce di quello che potrebbe essere un quartiere artigianale è stato identificato anche da alcune indagini geognostiche effettuate in questa area.15 Alcune evidenze rilevate sono state identificate come calcare o fornaci, sulla base delle caratteristiche magnetiche del terreno (Fig. 6), come è stato documentato in altre occasioni simili in altri contesti nel Mediterraneo.16 Si può ipotizzare quindi l’esistenza di un quartiere artigianale in uno spazio compreso tra la basilica Petriana e le mura della città, localizzate verso sud. Altre zone di produzione sono state identificate all’interno dell’area portuale, sia per il vetro, sia per l’osso, sia per diverse categorie di metalli e infine per la ceramica.17 Una fornace per la produzione fittile è stata anche identificata all’interno dell’abside della basilica, direttamente sopra la pavimentazione, associata alle fasi di demolizione e spoliazione dell’edificio ecclesiastico, successivo al terremoto che ne causò la distruzione e l’abbandono, tra la seconda metà dell’VIII e il X secolo.18 Non molto distante da questa zona, in località Podere Gattamorta, sono state individuate alcune abitazioni, forse utilizzate per un lungo arco cronologico che va dalla media età imperiale alla tarda Antichità, costituite da planimetrie simili a quelle delle case a schiera, su due piani e cortile sul retro.19 Si tratta molto probabilmente di una piccola porzione del quartiere abitativo della città. Case in muratura e organizzate secondo una struttura regolare, mentre il quartiere che si sviluppò sui ruderi dei magazzini tarodantichi presentava un paesaggio di edifici in legno e terra,20 separati da orti e affiancate da piccole aree cimiteriali o da tombe sporadiche.21 Si configura quindi un paesaggio del tutto nuovo rispetto ai criteri urbanistici degli insediamenti urbani antichi, con aree artiginali alternate a grandi edifici monumentali e vicine a zone residenziali, caratteristico però delle città altomedievali.22

Poco distanti dalle canalette sono state individuate una serie di fosse, alcune piccole e circolari, associabili a un piano in malta (Fig. 4). Ai margini della pavimentazione sono state identificate varie buche di palo utilizzate probabilmente per una copertura lignea, ma non è chiaro se servissero per racchiudere con muri in materiale deperibile questo settore dell’atelier, o se si tratta invece di una zona di lavorazione esterna. L’area è caratterizzata da diverse tracce di attività artigianali, probabilmente riferibili alla produzione di vasellame in vetro, come indicano le notevoli quantità di scorie rinvenute e le numerose installazioni produttive identificate (Fig. 5). Il deposito archeologico è ricco di carbone e resti di decomposizione di materiali organici, legno e detriti spesso combusti, distintivi di area a forte caratterizzazione produttiva.13 Gli scarti e i residui di produzione, tra cui pareti di argilla concotta e piccoli pani di vetro, sono stati rinvenuti in quasi tutti i riempimenti delle fosse, associati a materiali databili entro il VI secolo, ma la funzione delle fosse, all’interno del ciclo di produzione non è stato ancora chiarito. È anche possibile che si tratti di materiali usati come inerti per colmare alcune fosse che avevano funzione diversa e all’interno di queste vi siano stati inseriti detriti provenienti dall’atelier di un vetraio, che si trovava nelle vicinanze del saggio di scavo. L’area di lavorazione è contemporanea alla basilica e non la precede, come avevamo inizialmente ipotizzato.

Mitchell et al. 2011. Per i risultati dei nuovi scavi a San Vincenzo al Volturno si veda da ultimo Marazzi 2014. 15 Becker, Boschi 2011. 16 Mertens et al. 2012, p. 88. 17 Vandini, Arletti, Cirelli 2014; Maltoni et al. 2015; Chinni et al., infra. 18 Cirelli 2015. 19 Maioli 1990; Manzelli 2000, p. 186; Augenti 2012, p. 50. 20 Augenti, Cirelli, Marino 2009. 21 Ferreri 2014. 22 Brogiolo 2011a. 14

10 Per alcune indicazioni preliminari sullo scavo si veda: Augenti, Boschi, Cirelli 2010; Ravaioli 2011. 11 Cirelli 2011. 12 Stoppioni 1983; 2015. 13 Leonardi 1992.

139

Debora Ferreri

Fig. 1. Pianta schematica della basilica petriana con localizzazione del saggio sud.

140

Tracce di un quartiere artigianale presso la Basilica Petriana a Classe

Fig. 2. Foto dall’alto del saggio. In evidenza le canalette di scolo della basilica.

Fig. 3. Fronte e retro di sesterzio in lega di rame con busto di Iulia Mamaea.

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Debora Ferreri

Fig. 4. Foto dall’alto del saggio. In evidenza le fosse associate all’atelier.

Fig. 5. Scarti di produzione del vetro, rinvenuti all’interno delle fosse.

142

Tracce di un quartiere artigianale presso la Basilica Petriana a Classe

Fig. 6. Rielaborazione dell’immagine da magnetometro dell’area archeologica della Basilica Petriana. Sul lato meridionale sono evidenziate alcune tracce circolari associate alla presenza di un complesso di fornaci.

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3.12 L’edificio monumentale a nord della Basilica Petriana Mila Bondi Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Disci [email protected] Abstract: Two samples have recently been excavated at the building located to the North of the Basilica Petriana, identified by geophysical surveys. The archaeological investigations have brought to light some difficult to interpret masonry structures that had already been dismantled in antiquity. The evidence in Sample 6 testifies to the existence of an apsidal building equipped with decorative apparatus, while in Sample 1 a prolonged occupation of the area is attested, continuing even after the dismantling of structures. Keywords: Classe; Basilica Petriana, north building.

Sanctorum Cosmae et Damiani, la cui prima sicura menzione risale alla prima metà del secolo XII,3 mentre documenti successivi lo collocano «juxta Petrianam».4 Purtroppo, dalle scarne informazioni disponibili non è possibile immaginare di che tipo di edificio si trattasse e nemmeno se fosse indipendente o un sacello annesso alla chiesa. Il monasterium compare negli elenchi delle proprietà del monastero di San Severo fino almeno alla fine del XIII secolo.5 Infine, le strutture potrebbero, ancora una volta a titolo del tutto ipotetico, essere messe in relazione all’area priva di copertura, pavimentata da un piano sconnesso in laterizi e organizzata attorno a una canaletta che portava acqua a un pozzo-cisterna, elementi individuati durante gli scavi del 1972.6 Il materiale ceramico recuperato all’interno del pozzo presenta una cronologia che spazia dall’età di Adriano fino al XVII secolo. Appare evidente che la possibilità di datare quanto messo in luce nel saggio 1 consentirebbe una più precisa contestualizzazione dei resti. In seguito, i muri furono spoliati e, dopo lo smantellamento della struttura, nell’area si susseguirono diverse fasi di abbandono, alternate a non definite (anche cronologicamente) forme di occupazione, attestando la lunga frequentazione della zona anche dopo la scomparsa della basilica.

Le due campagne di scavo, effettuate nel 2008–2009 presso il podere Mazzotti, sono state precedute da una serie di prospezioni geofisiche e dall’analisi del materiale aerofotografico. Le indagini hanno rilevato, oltre ad altre strutture, anche la presenza di un edificio posto a Nord della basilica e a essa parallelo. La planimetria proposta è di forma quadrangolare, con due absidiole alle estremità del lato orientale.1 Per verificare l’esistenza di tale struttura e comprenderne la funzione sono stati effettuati due saggi stratigrafici, il primo in corrispondenza del perimetrale meridionale (saggio 1) e il secondo presso l’abside posta a Nord (saggio 6) (Fig. 1). Nel saggio 1, a circa 1 m di profondità, sono stati messi in luce due muri angolari, in frammenti di laterizi legati con argilla e un piano pavimentale, anch’esso in laterizi e a questi esterno, forse rimasto in uso a lungo in quanto, in alcuni punti, sembrerebbe rifatto (Fig. 2). Se, in base alle caratteristiche dei muri, si può escludere che si tratti dei perimetrali dell’edificio indicato dalle prospezioni, rimane impossibile – al momento – comprendere a quale fase di occupazione e a che tipo di costruzione siano riconducibili. Ovviamente potrebbero essere contemporanei alla basilica, appartenenti a qualche struttura accessoria dell’edificio religioso; oppure, fare parte delle ristrutturazioni approntante da Astolfo in seguito al rovinoso terremoto della prima metà dell’VIII secolo.2 O ancora: potrebbero appartenere al monasterium

Nel saggio 6, invece, è stata indagata parte dell’area absidale Nord/Est dell’edificio, dalla quale è possibile

Privilegio dell’arcivescovo Gualtiero per l’abate di San Severo Divizo (1128): ACR, n. 13 rosso e n. 13bis rosso; edito in Mittarelli, Costadoni 1755–1773, III, pp. 321–327, CCXVIII. 4 Fantuzzi 1802, II, pp. 138–141. 5 Privilegio del 1286 (Mittarelli, Costadoni 1755–1773, III,324–327, CCXVIII). 6 Ravaioli 2011, p. 228. 3

Boschi, Becker 2011, pp. 231–243. 2 LPR, 151: «…Istius temporibus ecclesia Petriana cecidit terraemotu post expleta solemnia missarum die dominico»; 155:«(Astulphus rex) Ecclesiam Petrianam, quae funditus euersa est per terraemotum, sponte aedificare uoluit, et piramides per in giro erexit, columnas statuit, quae manent usque nunc, sed non cunsummauit.». 1

144

L’edificio monumentale a nord della Basilica Petriana intuire la monumentalità della costruzione. La zona era pavimentata a mosaico (individuato a più di due metri dal piano di campagna), di cui sono stati individuati alcuni lacerti (Figg. 3–4). L’edificio doveva poi essere dotato di ricchi apparati ornamentali: infatti, all’interno degli strati di macerie relativi all’abbandono, sono state raccolte numerose tessere musive in pasta di vetro multicolori (anche con foglia d’oro), frammenti di intonaco dipinto e di lastre in pietre policrome, elementi che permettono di ipotizzare la presenza di ricchi apparati decorativi. Nello specifico, lo scavo ha identificato la fase di abbandono di questo edificio, quando le murature dell’abside vennero sistematicamente spoliate oltre il piano pavimentale (Fig. 5): a tale momento possono essere ricondotte sia la trincea di spoliazione che la buca di palo individuata nella pavimentazione, forse legata alle operazioni di recupero del materiale edilizio e architettonico. In seguito, a differenza di quanto riscontrato nel saggio 1, non sembrano essere presenti ulteriori fasi di occupazione caratterizzate da costruzioni. Anche in questo caso, data la parzialità di quanto rinvenuto, risulta difficile fornire una interpretazione della struttura: le uniche informazioni relative a edifici connessi alla basilica Petriana sono fornite da Andrea Agnello, il quale riporta dell’esistenza di un battistero, già in rovina nel IX secolo.7 Al momento, appare comunque azzardato proporre una lettura in tale senso delle evidenze individuate.

Fig. 1. 7 LPR, 50. «Aedificauit hic beatissimus fontem in ciuitate Classis iuxta ecclesiam quae uocatur Petriana, quam Petrus antistes fundauit. Qui fons mirae magnitudinis, duplicibus muris et altis moenibus structis arithmeticae artis»; 67. «… Fontem uero tetragonum, quem beatissimus Petrus Chrisologus aedificauit in ciuitate Classis iuxya ecclesiam Petrianam, iste ornauit, et in medio cameris parte uirorum subtus arcum…».

145

Mila Bondi

Fig. 2.

Fig. 3.

146

L’edificio monumentale a nord della Basilica Petriana

Fig. 4.

Fig. 5.

147

3.13 I materiali ceramici della Basilica Petriana a Classe: il contesto dell’abside Mariana Simonetti Ricercatrice indipendente [email protected] Abstract: This paper analyses the pottery found during the excavations of the robbery trench of the Basilica Petriana at Classe, and over the destroyed pavement of the Late Antique church. Quantification and study of these ceramics testifies to the centrality of Ravenna and Classe in trade and redistribution of products from the whole Mediterranean Sea, between the 5th and the 8th century AD. Keywords: Pottery; Church; Late Antiquity; Early Middle Ages.

Introduzione

il monumentale sistema di fondazioni create per sopperire all’instabilità del terreno; identificare parte di un edificio a nord ed un impianto artigianale a sud; datare la fase di spoliazione a un arco cronologico che va dall’VIII secolo fino al XV.5

La Basilica Petriana, come racconta Andrea Agnello nel suo Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis del IX d.C., venne costruita nel V sec. d.C., all’interno delle mura di Classe, per volere del vescovo S. Pietro I Crisologo (432– 450 d.C.), da cui prese il nome.1

I reperti ceramici

La basilica ebbe una vita breve, nella metà dell’VIII secolo crollò a causa di un terremoto, a cui seguì un tentativo di ricostruzione voluto dal sovrano longobardo Astolfo che era entrato a Ravenna nel 751, ma ai tempi di Agnello la basilica era ormai ridotta allo stato di rudere.2

I materiali, qui presentati, provengono dall’area absidale, il settore 3000, costituito da due saggi di scavo diversi. Il primo fu aperto sulla base delle prospezioni geofisiche, ma diede esiti negativi in quanto vennero rinvenuti una serie di strati di macerie, probabilmente pertinenti il crollo della struttura dell’abside. Questo dato permise, comunque, di stabilire la posizione del secondo saggio che fu spostato più a occidente, di fatto fu scoperta la fossa di spoliazione del catino absidale,6 i resti di una pavimentazione in cocciopesto, infine una fornace costruita quando la basilica era già stata abbandonata e spoliata.7

La zona della basilica fu soggetta a sondaggi e saggi di scavo nel 1964 da parte dello studioso locale G. Cortesi a causa di alcuni resti pertinenti l’edificio venuti alla luce nell’Ottocento e nel 1972 dalla Dott.ssa M. G. Maioli e dalla Prof.ssa S. Pasi per verificare l’attendibilità delle affermazioni di Cortesi.3 A partire dal 2004 furono realizzate foto aeree e prospezioni geofisiche nell’àmbito delle ricerche svolte per la Carta del Potenziale Archeologico di Classe, le quali permisero di organizzare due campagne di scavo nel 2008 e nel 2009 (Fig. 1).4

Lo scavo dei due saggi ha riportato un totale di 9405 frammenti ceramici di varie classi, di cui solo 450 individui sono databili dal IV all’VIII secolo d.C. La classe maggiormente rappresentata è quella anforacea, che raggiunge i 234 esemplari (52%). Al suo interno

Grazie all’apertura di diversi saggi di scavo e una trincea è stato possibile stabilire la pianta e le dimensioni esatte della basilica; mettere in luce la pavimentazione originale e

Augenti, Boschi, Cirelli 2010. La maggior parte dei reperti ceramici studiati in questa sede proviene dal riempimento della fossa di spoliazione. 7 La fornace fu costruita dopo la fase di spoliazione della basilica, che iniziò probabilmente dopo il terremoto nella metà dell’VIII secolo. La produzione di acroma depurata può essere quindi probabilmente associata a un periodo subito posteriore. La classe ceramica è attestata in area adriatica tra VIII e X secolo. Si veda a proposito Cirelli 2015a. 5 6

1 Bovini 1969b, pp. 23–31; Cortesi 1980, pp. 103–109; Augenti 2006a; 2006b; 2007. 2 Bovini 1969b, pp. 23–31; Cortesi 1980, pp. 103–109. 3 Bovini 1969b, pp. 23–31; Becker et al. 2011, p. 228. 4 Becker, Boschi, Campana 2009; Augenti, Boschi, Cirelli 2010; Becker et al. 2011.

148

I materiali ceramici della Basilica Petriana a Classe: il contesto dell’abside dominano le produzioni del Mediterraneo orientale che ne costituiscono il 73,93% e sono collocabili in un arco di tempo che va dal IV fino al VII secolo, in particolare sono maggiormente attestate anfore LRA 4 dalla Palestina, ma vi sono anche numerose LRA 1, LRA 2 e LRA 3, insiema a un numero notevolmente inferiore di LRA 5 e LRA 6, LRA 7, AM 273, AM 334 e di anfore del tipo Samos cistern’s (Tav. I).8 Le anfore provenienti dal Mediterraneo occidentale, invece, rappresentano il 23,51% della classe e circolano dal V fino al VII secolo compreso (le africane Keay VIII, Keay XXXV, Keay XXXVI, Keay LVII, Keay LIX similis, Keay LXI, Keay LXII, Bonifay type 52, oltre ad altre anfore africane grandi cilindriche non identificate, Spathia, la calabro/sicula Keay LII). Sono stati identificati, inoltre, sei esemplari di anfore globulari e ovidali altomedievali (VIII d.C.) all’interno della fossa di spoliazione e in strati di una fase più tarda e quindi residuali (Tav. II).9

altre di produzione probabilmente locale (dieci) e infine probabilmente una lucerna “a ciabatta” altomedievale. Conclusioni La maggior parte di questi reperti essendo dei residui e provenendo da contesti aperti non consentono di avere una visuale completa degli oggetti che potevano essere in uso nella Basilica Petriana, ma solo di averne una ridotta e non si sa in quale misura effettiva. È probabile che solo alcuni individui fossero impiegati all’interno della basilica per le funzioni liturgiche, come una parte delle anfore per contenere il vino o il vasellame fine da mensa. La maggior parte dei reperti si presume che provenissero da contesti abitativi limitrofi, soprattutto per quanto riguarda la ceramica da cucina o di uso domestico, o dall’area del porto vista la vicinanza ai magazzini, in particolare i contenitori anforacei rinvenuti in notevoli quantità.

Le ceramiche comuni da cucina ammontano a 104 individui, di cui un numero consistente è di produzione locale con forme documentate tra V e VIII d.C. (ventisette olle, ventinove casseruole, dieci bacini, due catini, tre coperchi, due catino-coperchi).10 Sono stati riconosciuti alcuni esemplari provenienti dalla Tunisia datati al IV e V sec. (sette coperchi, due tegami, tre casseruola, una pentola);11 dall’Egeo (quindici pentole) e dal Levante (una pentola e due padelle) attestati dal IV al VII d.C. (Tav. IV).12

Lo studio di questi materiali, comunque, ha permesso di confermare dati già acquisiti dall’analisi di altri contesti di Classe, come l’aumento di produzioni provenienti dal Mediterraneo orientale a discapito di quelle africane che, gradualmente, diminuiscono, come suggeriscono le anfore esaminate.17 Inoltre reperti come i catini-coperchi e le anfore globulari medievali consentono di ipotizzare una frequentazione dell’area nell’alto Medioevo, e che l’area di Classe era ancora inserita in un circuito commerciale dinamico, in qualità di sito di consumo piuttosto che di ricezione e distribuzione come nei precedenti secoli.

Altra classe ceramica ben documentata è quella costituita dalle terre sigillate, che è rappresentata da ottantacinque esemplari di varie produzioni: italica (diciannove esemplari), focese (tre esemplari) e africana, la più numerosa (sessantatré esemplari).13 Le varie produzioni mostrano una forte preponderanza delle forme aperte, come piatti o scodelle, infatti è attestata solo una bottiglia in Sgillata Africana C, proveniente dalla Tunisia centrale (Tav. III). Sono state individuate altre classi ceramiche che sono costituite da un numero esiguo di individui: invetriata tardoantica (un esemplare),14 ceramica comune dipinta in rosso (cinque esemplari) (Tav. III), ceramica comune di uso domestico (sei brocche di produzione tunisina, una di provenienza locale);15 ceramica a vernice rossa interna tardoantica (un esemplare) (Tav. IV) e infine le lucerne Atlante X,16 alcune di produzione tunisina (due), Arthur 1990; 1998; Pieri 2005; Reynolds 2005. Keay 1984; Pacetti 1998; Bonifay 2004; Cirelli 2009. 10 Brogiolo, Gelichi 1986; Cagnana, Malaguti, Riavez 2006; Corti, Loschi Ghittoni 2007; Guarnieri, Montevecchi, Negrelli 2007a; Cavalazzi, Fabbri 2010. 11 Hayes 1972; Bonifay 2004. 12 C.A.T.H.M.A. 1991; Tréglia 2005; Cavalazzi, Fabbri 2010; Cirelli, Cannavicci 2014. 13 Hayes 1972; Atlante I; Mazzeo Saracino 1996; Bonifay 2004; Stoppioni 2008. 14 Maioli 1992b. 15 C.A.T.H.M.A. 1991; Bonifay 2004. 16 Atlante I; Bonifay 2004. 8 9

17

149

Augenti et al. 2007; Cirelli 2007; Cirelli, Cannavicci 2014.

Mariana Simonetti 120

Egeo e Asia Minore Levante

100

Egitto 80

Nord-Africa Italia

60

40

20

0

Anfore

Ceramica da cucina

Terre sigillate

Fig. 1. Quantificazione del materiale per classi e provenienza.

150

C. di uso domestico

I materiali ceramici della Basilica Petriana a Classe: il contesto dell’abside

Tav. I. Anfore egeo-orientali.

151

Mariana Simonetti

Tav. II. Anfore africane, italiane e medievali.

152

I materiali ceramici della Basilica Petriana a Classe: il contesto dell’abside

Tav. III. Terre sigillate, Comune dipinta in rosso, Invetriata tardoantica.

153

Mariana Simonetti

Tav. IV. Ceramica da cucina e di uso domestico.

154

3.14 Ceramica dalla basilica di San Severo: rinvenimenti al di sotto della sala capitolare Bianca Maria Mancini Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Dipartimento di Storia Culture Civiltà [email protected] Abstract: This paper deals with the ceramic finds, dated between the 4th and the 8th century, found inside the 23000 sector, an area located in the northeast part of the San Severo monastery in Classe (RA). Different classes and productions of pottery are examined, from eastern amphorae, for example, to local common ware, in order to help us understand the trade routes of that period. Keywords: Trade; Pottery; Late Antiquity; Monastery; Classe.

Introduzione

Questo divario è dovuto al fatto che molti frammenti residuali sono stati ritrovati all’interno di un immondezzaio. Infatti, prima del suo ampliamento, la sala capitolare si trovava all’esterno del muro perimetrale est del monastero3 (Fig. 2) ed era impiantata su una precedente villa romana, rasa al suolo per la costruzione della basilica sul finire del VI secolo.

I materiali che vengono presentati in questo contributo sono stati rinvenuti in seguito alle indagini archeologiche effettuate all’interno della Sala Capitolare del Monastero di San Severo a Classe nel corso della campagna di scavo del 2011 dirette, sin dal 2006, dal Professor Andrea Augenti e coordinate dal Professor Enrico Cirelli, Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna.1

Frammenti analizzati

Le indagini realizzate negli ultimi anni hanno avuto come intento, oltre quello di individuare la zona archeologica relativa al monastero, quello di cercare di comprendere appieno le relazioni che intercorrevano tra il complesso monastico e il tessuto urbano circostante;2 lo studio della sala capitolare si dimostra essere un tassello indispensabile a tal fine.

I frammenti presi in considerazione in questa sede, ossia quelli circoscritti al periodo compreso tra IV e VIII sec. d.C., provengono per la maggior parte da fosse di spoliazione e dall’immondezzaio precedentemente illustrato. Gli esemplari appartengono a diverse classi ceramiche quali le anfore, le ceramiche fini da mensa e quelle comuni da cucina, priva di rivestimento.

Contesto di provenienza: settore 23000

Per quanto riguarda le anfore la maggior parte (NMI quarantasei) proviene dall’Asia Minore e dal Mar Egeo, come gli esemplari per il trasporto vinario di LRA1 variante B, LRA2 variante B, LRA4 variante B1, LRA6 variante 2, AM273 (o LRA9) e Samo’s cystern type (Tav. I/PL. I).

I materiali sono stati rinvenuti all’interno del settore 23000, situato nella zona a nord-est del chiostro del monastero di S. Severo a Classe in uno spazio compreso tra l’esterno della navata meridionale della basilica, l’abside e l’esterno del muro perimetrale orientale. Si tratta di un settore che misura circa 120 mq complessivamente (Fig. 1).

Le produzioni africane, che contano un Numero Minimo degli Individui (NMI) pari a undici esemplari, sono rappresentate dalla Keay LXII e da altri contenitori grandi cilindrici non classificati in precedenza, utilizzati per il trasporto di vari tipi di derrate, soprattutto olio per l’illuminazione (Tav. I/PL. I). Concludono la classe delle anfore un esemplare di tipo Crypta Balbi di produzione italica e quattro anfore globulari di VIII secolo di

In seguito alle indagini effettuate, è stato possibile portare alla luce una vasta quantità di materiale che copre un ampio arco cronologico; dalla Vernice Nera di epoca romana alla Maiolica arcaica del tardo Medioevo.

1 2

Augenti, Cirelli 2016. Augenti, Bertelli 2007.

3

155

Augenti et al. 2007.

Bianca Maria Mancini produzione non identificata, per impasto assimilabili a gruppi di fabbricazione orientali (Tav. I/PL. I). Nella classe delle ceramiche da cucina priva di rivestimento si notano svariate forme (pentole, olle, casseruole e catini coperchi) e produzioni, sia locali rappresentati da un NMI pari a 106, sia orientali sia africane (Fulford casserol 19 e Ostia I) (Tav. II/PL. II). All’interno delle ceramiche comuni d’uso domestico sono stati ritrovati due esemplari di brocchette databili all’VIII sec. uno, e fra il V e il VII sec. l’altro (Tav. III/PL. III). Infine, nella classe delle ceramiche fini da mensa, si contano due esemplari di brocche dipinte in rosso (con vernice interamente coprente), tre di Terra Sigillata Italica Tardoantica (vassoio, ciotola e scodella), un esemplare di piatto in Terra Sigillata Focese di forma Hayes 3 (Tav. III/PL. III) e, per concludere, undici esemplari di Terra Sigillata Africana (Tav. IV/PL. IV).4 Conclusioni Riassumendo il lavoro fin qui esposto, i dati analizzati confermano gli studi precedenti secondo i quali ci fu un cambio di rotta nei commerci, che spostò l’asse delle importazioni dal Nord Africa, e quasi esclusivamente dalla Tunisia, alle regioni orientali del Mediterraneo.5 Il 53% delle produzioni anforiche rinvenute proviene dal Mediterraneo orientale (Palestina in quantità maggiore) mentre il 28% dall’area africana. Per la maggior parte si tratta di anfore vinarie, trasportata in LRA 4, prodotta a Gaza e ad Ashkalon, e questo dato sottolinea l’importanza di questa bevanda pregiata per le pratiche religiose. Per quanto riguarda la ceramica da cucina si osserva come la maggior parte degli individui sia caratterizzata da forme chiuse quali le pentole e le olle, sia di produzione orientale, sia locale; quest’ultima risulta la più attestata fra il V e il VII sec.6 Per quel che concerne la ceramica fine da mensa, si tratta per lo più di materiale proveniente in prevalenza dalla Tunisia settentrionale (Tav. III), con una sola attestazione di Terra Sigillata Focese, e pochi esemplari appartententi alle produzioni italiche tardoantiche, confermando la tendenza già segnalata in varie occasioni negli scavi di Classe.7

4 Per i confronti relativi alle anfore di produzione orientale: Arthur 1998; Pieri 2005 e Reynolds 2005 ; per il tipo Crypta Balbi: Romei 2001. Per le anfore africane: Keay 1984; per la ceramica comune da cucina: Atlante I ; Fulford, Peacock 1984; Ricci, Paroli, Romei 1997; Murialdo, Palazzi, Parodi 1998; Mazzini, Negrelli 2003; Cavalazzi, Fabbri 2010; Cirelli, Cannavicci 2014. Per la ceramica fine da mensa: Hayes 1972. 5 Cirelli 2006; Augenti, Bertelli 2007. 6 Cavalazzi, Fabbri 2010. 7 Cirelli 2015b.

156

Ceramica dalla basilica di San Severo: rinvenimenti al di sotto della sala capitolare

Fig. 1. Basilica San Severo: settore 23000.

Fig. 2. Il contesto di scavo.

157

Bianca Maria Mancini

Tav. 1. Anfore.

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Ceramica dalla basilica di San Severo: rinvenimenti al di sotto della sala capitolare

Tav. 2. Ceramica da cucina.

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Bianca Maria Mancini

Tav. 3. Ceramica fine da mensa.

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Ceramica dalla basilica di San Severo: rinvenimenti al di sotto della sala capitolare

Tav. 4. Terra Sigillata Africana.

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3.15 La pietra ollare rinvenuta nel sito della basilica di San Severo a Classe (IV–VIII sec.) Maria Teresa Gatto Ricercatrice indipendente [email protected] Abstract: In the site of San Severo (RA), many sherds of soapstone were found. In particular, forty sherds dating to the period between the 4th and 8th century were found, attributable to containers of frustoconical and cylindrical shape. According to macroscopic analysis, different types are attested from the Central Alps. The majority of the sherds were either decorated with incised grooves or completely smooth. The study of these specimens is part of a larger project that includes the economic and cultural dynamics of San Severo between the 4th and 15th century. Keywords: Pietra Ollare – Soapstone; Trade; Adriatic Sea; Classe – Ravenna.

rocce metamorfiche caratteristiche di diverse are dell’arco alpino.5 La sua diffusione nel territorio ravennate fu agevolata dal trasporto lungo il fiume Po e attraverso i suoi affluenti che ne permisero il commercio. In pianura Padana sono attestati talcoscisti (litotipo C) e cloritoscisti (litotipi F e G) provenienti rispettivamente dalle Alpi Centrali e Nord Occidentali6 (Fig. 2). Studi precedenti7 hanno messo in evidenza la mancanza di diffusione dei cloritoscisti dal VII sec. in relazione alla conquista longobarda della pianura padana. Appare poco chiaro se la cessazione di questo tipo di commercio sia subordinato al deterioramento dei rapporti tra Franchi e Longobardi nel VII sec. o se sia dovuta a una crisi della produzione nell’area valdostana. In ogni modo, credo sia fondamentale riflettere sulla carenza di questo litotipo nel sito di San Severo (almeno secondo una attenta analisi macroscopica) per il periodo che va dal IV all’VIII sec. che confermerebbe la suddetta mancanza e ne marcherebbe la completa assenza (Fig. 2).

Durante gli scavi condotti presso il sito di San Severo a Classe (RA)1 dal Dipartimento di Storia Culture Civiltà, Alma Mater Studiorum– Università di Bologna (campagne 2006–2013) è emersa un’ingente quantità di reperti in Pietra Ollare. Il periodo affrontatno dal tema di questo Volume è quello in cui risulta attestato il minor numero di esemplari. Tra IV e VIII secolo sono stati infatti rinvenuti quaranta frammenti riconducibili approssimativamente a trentuno recipienti, destinati a varie funzione, ma soprattutto alla cottura degli alimenti. Sono stati rinvenuti nelle aree limitrofe alla Basilica di San Severo (Fig. 1) costruita sul finire del VI secolo (580–582), dove in epoca romana sorgeva un edificio interpretato come villa (settori 5000, 15000, 14000, 22000 e 23000).2 L’attestazione di questi esemplari, accanto ad altro materiale datante,3 suggerisce l’individuazione di una fase di frequentazione più antica rispetto alla data di fondazione del monastero che nel X secolo verrà edificato sul lato sud della basilica. Risulta tuttavia arduo ancorare con certezza questo materiale a possibili strutture o ad ambienti ben definiti, in quanto manca il fondamentale sostegno offerto dalle fonti scritte e dalle indagini archeologiche (Fig. 1).

occidentale dell’arco alpino (Mannoni, Pfeifer, Serneels 1987). La gamma dei litotipi utilizzati per la realizzazione di questi recipienti sembra più ampia, come attestano le analisi minero-petrografiche condotte su alcuni frammenti provenienti da Jesolo (Malaguti, Zane 1999). 5 Il termine “Pietra Ollare” ha soprattutto un significato merceologico: con esso, infatti, si indicano i diversi litotipi che hanno composizione, colore e aspetto differenziati, ma che rispettano delle caratteristiche simili come la scarsissima durezza, una tessitura omogenea e la bassa porosità. 6 Antonio Alberti sostiene che la Pietra Ollare sia stata distribuita nell’area romagnola attraverso il passaggio, grazie ai suoi affluenti, dal Po al mare, e dalla costa alle città più importanti, tra cui Ravenna e Classe (Alberti 1997). Pur non escludendo il suo punto di vista, come si vede in Fig. 2, si tiene conto degli studi effettuati sulle rotte commerciali nell’area ravennate e si ipotizza un possibile approdo per via endolagunare (Cirelli 2007). 7 Bolla 1991; Alberti 1997.

Da un punto di vista mineralogico-petrografico la Pietra Ollare comprende diversi litotipi4 che derivano dalle Augenti et al. 2012. Cirelli et al.2017. 3 Cirelli, Lo Mele 2010. 4 Tiziano Mannoni e altri studiosi hanno classificato la Pietra Ollare in tre categorie principali: reperti archeologici, scarti di produzione e campioni di cava, suddivisi in undici gruppi litologicamente diversi sulla base dell’associazione quantitativa e qualitativa dei vari minerali, delle dimensioni medie dei componenti e del colore complessivo, evidenziandone la distribuzione nei giacimenti del settore centro1 2

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La pietra ollare rinvenuta nel sito della basilica di San Severo a Classe (IV–VIII sec.) Da un punto di vista tipologico8 sono attestati recipienti di piccola, media e grande dimensione, di forma prevalentemente troncoconica e pseudocilindrica, caratterizzati da una rese della parete esterna principalmente ad arco di cerchio o completamente liscia. Gli altri frammenti, in concentrazione minore, possono essere associati alle lavorazioni cosiddette “a gradino”, “a solcature interrotte”, “leggere solcature a fasce” e “solcature a margini irregolari”.

confronti provengono dalla Rocca di Manerba, con una datazione: che va dall’VIII al X/XI secolo,13 e a Piadena (CR), con una datazione incerta, compresa tra VIII e X secolo.14 Negli strati di San Severo, dove era stato rinvenuto soprattutto materiale databile al VII secolo, è stato recuperato un solo reperto (US 23056)15 riconducibile approssimativamente a un recipiente di forma troncoconica caratterizzato dalla stessa lavorazione esterna, ma con diversa ampiezza nelle scanalature, poste a una distanza regolare di 0,2 cm (Tav.1,2). La parete interna è liscia, lo spessore di 1 cm circa. Il frammento non presenta nessun tipo di traccia di fumigazione, probabilmente si tratta di un recipiente per la conservazione di cibi. Il confronto più vicino proviene dalla Rocca di Manerba, dove però è stato datato tra tardo VIII e X secolo16 e a Piadena, da contesti ancora più tardi databili cioè tra fine X e XI secolo.17

Tipologie Ad arco di cerchio regolare9 Negli strati altomedievali associati alla basilica sono stati rinvenuti frammenti riconducibili a recipienti di forma prevalentemente troncoconica e pseudocilindrica con resa della parete esterna a scanalature ad arco di cerchio regolare, soprattutto databili tra VII e VIII secolo. In tali contesti si riscontrano scanalature alte 0,6 (US 14233), 0,5 (USS 14248 e 22093) e 0,4 cm (USS 14233 e 23056 Tav.1,1) associate a materiali di VII secolo. Le pareti hanno spessore minimo di 0,4 cm e un massimo di 1,1 cm. Le pareti interne sono percorse da solcature più o meno fitte. Sulle pareti esterni di due frammenti si può scorgere la presenza di una fascia non interessata dalla fumigazione, presumibilmente riferita a una cerchiatura metallica, una di 2,9 cm e l’altra di 0,4 cm (Fig. 3). L’unico fondo associabile a questa tipologia è di forma piatta: presenta un diametro di 26 cm10 (Tav. 2,2) e pareti molto abrase per l’usura, con solcature regolari e più fitte verso il fondo sulla parete esterna. Il suo spessore medio è di 1,5 cm.

A gradino18 Appartengono a questa tipologia tre frammenti riconducibili a recipienti per la cottura e la conservazione degli alimenti approssimativamente di forma troncoconica e pseudocilindrica nei depositi di VIII secolo (US 15326). L’altezza dei gradini è di 0,5/0,4 cm (Tav 1, 3), mentre gli apici si presentano pronunciati o arrotondati per l’usura. La parete interna è interessata da fitte solcature. Gli spessori si aggirano intorno a 1 cm. Evidenti tracce di fumigazione si presentano sulla parete esterna, eccetto che per un caso. Uno dei frammenti ha margini meno rilevati, probabilmente si tratta di una variante della stessa tipologia definibile “tendenti al gradino”.

I confronti più vicini sono stati rinvenuti a Monte Barro in contesti di età altomedievale,11 a Milano, dove il tipo 9 ha una datazione che va dalla prima metà del VI secolo in poi, mentre il tipo 10 comprende tipologie con solcature alte tra 0,5 e 0,3 cm e quelle inferiori agli 0,3 cm. Questi esemplari si datano tra VIII e XI secolo).12 Ulteriori

I confronti più simili provengono nuovamente dagli scavi di Monte Barro,19 e da Santa Giulia a Brescia,20 con una datazione compresa tra tardo VIII e XI secolo. Liscia Negli strati di VII e VIII secolo sono attestati frammenti riconducibili a recipienti di forma prevalentemente pseudocilindrica e in un caso troncoconica (Tav. 1,4). Le pareti interne sono interessate da solcature più o meno fitte o completamente lisce. Gli spessori oscillano tra gli 0,8 e 0,4 cm. Tracce di fumigazione si presentano sia internamente sia esternamente. Una buona quantità di esemplari non è interessata da nessun tipo di annerimento: forse si tratta di contenitori per la conservazione degli

8 Lo studio dei reperti è stato affrontato seguendo il metodo proposto da Chiara Malaguti (Malaguti 2004): 1) Studio dei reperti sulla base di: lavorazione esterna ed interna di parete, fondo e orlo (quest’ultimo non presente tra i reperti analizzati), spessore (minimo, medio, massimo), forma, diametro (quando ricavabile), grado di annerimento (e dunque di probabile esposizione al fuoco), tracce di incrostazione carbonizzate, presenza o meno di banda metallica (altezza della banda e distanza dall’orlo) finalizzata alle sospensioni del recipiente, eventuali tracce di riparazioni, foto e restituzione grafica dei frammenti più significativi e meglio conservati (vv. tavv.); divisione in tipologie; confronti bibliografici; discussione sulla base della stratigrafia; 2) Selezione, su base macroscopica, dei reperti litologicamente più rappresentativi. Manca, al momento, la parte relativa alle analisi di laboratorio. 9 La definizione “arco di cerchio” corrisponde a una tipologia avente una lavorazione della parete esterna a scanalature che formano archi con un’ampiezza variabile (si tiene conto della distanza tra un apice e il suo successivo) a seconda dell’arco cronologico a cui appartiene il recipiente. 10 Si parla, dunque, di un recipiente di grandi dimensioni. Si considera un contenitore di dimensione piccole se presenta un diametro inferiore ai 15 cm, di medie se sotto i 25 cm e di grandi dai 25 cm in poi. Si veda a proposito Bolla 1991a). 11 In particolar modo il tipo VII, 13 (Bolla 1991b), databile alla prima età altomedievale. Si veda anche Massari 1987, tav. III, 5–6 (altomedioevo I: metà VI – tardo VIII secolo); Alberti 2001, tipo VII, tav. XLVII, 5, 6, 7, e tav. XLVIII, 1. 12 Bolla 1991a, tipo 9–10, tav CLVIII–CLXII, 48–55.

Malaguti, Zane 1999, tipo 4. Malaguti 2005. 15 Negli strati di VII secolo è stato rinvenuto un frammento con scanalature alte 0,4 cm. 16 Malaguti, Zane 1999, tipo 4. 17 Malaguti 2005. 18 La lavorazione esterna della tipologia “a gradino” è simile a quella descritta precedentemente, ne differisce solo per tipo di apici, che non sono a punta, ma, appunto, simili a un gradino. 19 Alberti 2001, tipo VIII, tav . XLVIII, 2–3. 20 Massari 1987, tav IV, 10. 13 14

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Maria Teresa Gatto alimenti. I principali confronti provengono da Milano21 e dalla Rocca di Manerba,22 con datazione compresa tra VIII e X secolo.

concentrano tra gli 0,8 cm e gli 0,5 cm. Anche in questo caso non si riscontrano confronti diretti. Fondi privi di raccordo con la parete

Solcature

Sono stati inoltre rinvenuti due esemplari (cinque frammenti, UUSS 22093, 14233), attestati in contesti di VIII secolo. Hanno spessori compresi tra 0,5 e 1,1 cm, concentrati su valori intermedi. Sono attribuibili a esemplari con fondo piatto, in un caso è associabile un diametro di 18 cm, appartenenti a contenitori per la cottura degli alimenti, come si evince dalle tracce di fumigazione all’interno e all’esterno dei frammenti. La lavorazione esterna è in un caso liscia e nell’altro interessata da solcature dovute all’azione del tornio, come all’interno.

Sotto la definizione “Solcature” si riuniscono i tipi “Solcature interrotte” e “Leggere solcature a fasce” “Solcature a margini irregolari” solitamente poco rappresentativi anche in altri contesti.23 Solcature interrotte Negli strati di VIII secolo è attestato un frammento (US 15575) riconducibile a un recipiente di forma pseudocilindrica di piccole dimensioni. Si tratta probabilmente di un bicchiere con funzione potoria, come si desume dalle dimensioni.24 La parete esterna è interamente liscia, seppur solcata da due linee di tornio parallele a una distanza di 0,5 cm (Tav. 1,5). La parete interna è interessata da fitte solcature a distanza irregolare. Lo spessore oscilla tra gli 0,4 e gli 0,5 cm. Non vi sono tracce di fumigazione. Se ne trovano confronti a Piadena (datazione: VIII?–IX secolo)25 e a Nogara associati a materiali ben datati tra 840 e 875 d.C.26

Considerazioni finali Trattandosi di uno studio preliminare non è possibile tracciare un quadro completo delle tipologie presenti nel sito di San Severo e quindi designare le variazioni che subiscono le diverse lavorazioni parietali dei reperti. Inoltre, per rispettare i termini cronologici richiesti da questo progetto, sono stati descritti e presi in considerazione solo i reperti rinvenuti negli strati datati tra IV e VIII secolo.27 Dallo studio dei quaranta frammenti realizzati in Pietra Ollare riferibili a questo arco cronologico, si evidenzia che vi è una predominanza della tipologia definita “ad arco di cerchio regolare” seguita dalla lavorazione esterna “liscia”. Le tipologie riscontrate a San Severo risultano ascrivibili all’età altomedievale, confermando in molti casi le datazioni proposte in altri contesti. Allo stesso tempo si sottolinea la presenza di casi, seppur isolati, di frammenti aventi come lavorazione esterna scanalature ad arco di cerchio regolare alte 0,2 o 0,4 cm in strati di VII secolo, per cui in altri contesti viene generalmente proposta una datazione più tarda, ma sono qui associati a materiali certamente riferibili al VII secolo. Come in altre circostanze, è difficile approfondire un discorso sulla tipologia liscia e sulle tipologie ‘a solcature’. Pertanto in assenza di risultati precisi si rimanda la discussione in altra sede, in attesa di uno studio integrale che possa soddisfare una maggiore consapevolezza dei reperti rinvenuti nel sito di San Severo, che complessivamente superano il migliaio di unità e rappresentano uno dei contesti più consistente rinvenuto fuori dai luoghi di produzione.

Leggere solcature a fasce Negli strati datati tra IV e VII secolo sono stati rinvenuti due frammenti (UUSS 5210, 23056) riconducibili a recipienti di forma troncoconica e pseudocilindrica utilizzati per la cottura degli alimenti, le cui pareti esterne sono percorse da leggere solcature di altezza variabile (1 cm ca) raggruppate in fasce e intervallate da leggere solcature più ristrette; alcune solcature appaiono più evidenti di altre (Tav. 1,6). Le pareti interne sono interessate da solcature irregolari più o meno fitte, mentre lo gli spessori si concentrano tra gli 0,8 e 0,4 cm. A questa tipologia è associabile un fondo (US 23056 – Tav.2,1), di forma concava, che presenta un diametro di 16 cm e al suo interno solcature più o meno fitte. Al momento non sono stati rinvenuti confronti da altri contesti editi. Solcature a margini irregolari Negli strati datati tra VII e VIII secolo sono stati rinvenuti due frammenti (UUSS 23056,14233) riconducibili a recipienti di forma pseudocilindrica utilizzati per la cottura degli alimenti, le cui pareti esterne sono percorse da solcature, poco accentuate, di ampiezza e margini irregolari (Tav.1,7). L’interno delle pareti è percorso da solcature irregolari più o meno fitte, mentre gli spessori si Bolla 1991a, tipo 11.2 – 11.3, tav. CLXII, 59 e CLXIII, 60–64. Malaguti, Zane 1999, tipo 1. 23 Malaguti 2011. 24 L’indicazione come bicchiere è una valutazione assolutamente arbitraria legata alla forma e alla dimensione, più che a una attestazione documentata. 25 Malaguti 2005. 26 Malaguti 2011. 21 22

Alcuni reperti ascrivibili all’VIII per tipologia secolo sono stati rinvenuti in strati più recenti (IX–X sec.), in posizione residuale. 27

164

La pietra ollare rinvenuta nel sito della basilica di San Severo a Classe (IV–VIII sec.)

Fig. 1. La distribuzione della pietra ollare tra IV e VIII secolo nel sito di San Severo (RA) (E. Cirelli, M.T. Gatto).

Fig. 2. Produzione e commercializzazione della Pietra Ollare tra tarda Antichità e alto Medioevo: ipotesi di un itinerario verso Ravenna e Classe (M.T. Gatto).

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Maria Teresa Gatto

Fig. 3. Recipienti in Pietra Ollare da San Severo a Classe (RA). Tipologie dal IV all’VIII secolo (M.T. Gatto).

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3.16 I materiali tardoantichi dal pozzo “della cucina” della villa romana di Russinel contesto degli insediamenti rustici dell’Emilia Romagna Giovanna Montevecchi, Claudio Negrelli Ricercatori indipendenti [email protected]; [email protected] Abstract: The well of the so-called ‘kitchen’, in the Roman villa of Russi (Ravenna) offers an overview of daily life and works connected with taking water from the well, as they developed from the Middle Imperial Age to the Early Medieval Period. A situation, considered here, linked it to the activities of the villa over the centuries, rather than to an intentional use of objects hidden inside the well. Keywords: Late Antique rural settlement; Late Antique local pottery; Late Antique pits and villas.

Il pozzo della cucina, del diametro di circa 1 m, raggiunge la profondità di 14 m ed è l’unico dei tre scavati nell’area della villa a rappresentare anche il periodo tardoantico (Fig. 1.2). La stratigrafia depositata al suo interno conservava, a partire dal fondo della canna, i materiali più antichi (anforette e brocche in ceramica comune, chiavi e raffio in ferro, bottiglie in lamina metallica molto consunte e restaurate, pettine in legno) (Fig. 2.1), sigillati da uno strato di macerie (laterizi e travi lignee bruciate) dello spessore di sei metri, causato probabilmente da un incendio e da una conseguente distruzione di una parte dell’edificio. Al di sopra di questo consistente livello vi erano ulteriori utensili e recipienti per attingere acqua (brocche e anforette in ceramica con rivestimento rosso, un’olla in ceramica grezza, un manico in metallo di un secchio, un coltello da cucina, un’anfora). Il pozzo fu poi sigillato da argilla alluvionale che includeva scheletri di animali, anche di media taglia, e resti organici, forse trasportati dalla corrente fluviale.

Il periodo cronologico di riferimento per la fase più tarda delle attestazioni è identificabile fra il tardo V e il VII secolo. Le ceramiche a rivestimento rosso sono decisamente le più rappresentate. Tra le forme chiuse maggiormente complete si distinguono almeno tre brocche ed un’anforetta, con corpi rispettivamente ovoidi e biconico, con colli stretti e labbri estroflessi semplicemente arrotondati; in un solo caso è possibile distinguere una bocca trilobata (Fig. 2.2,3,4). I rivestimenti sono evanidi e non compaiono uniformemente su tutta l’ampiezza dei corpi ceramici, mentre le caratteristiche di lavorazione riguardano sia forme lisciate abbastanza regolarmente, sia superfici interessate da larghe solcature soprattutto all’altezza delle spalle e/o sulla parte inferiore dei corpi. Oltre alle rivestite compare un nucleo di vasi in nuda depurata (ancora forme chiuse relative a brocche) anche di grandi dimensioni. Tra queste una forma globulare priva di collo, ma dotata di fori pervi probabilmente per l’attacco di una cordicella. Questa particolarità dovrebbe essere dimostrativa del fatto che si trattava di recipienti parzialmente lacunosi, ma reimpiegati proprio per attingere acqua dal pozzo. Completano il quadro dei materiali dell’ultima fase un’anfora vinaria di tipo LRA 3, di importazione dall’Anatolia sud-occidentale (Fig. 3.1), e un grande frammento di olla di forma biconica, in ceramica da cucina decorata a tacche sulla carena (Fig. 3.2).

Lo scavo dei pozzi è stato effettuato dal Gruppo Ravennate Archeologico, la direzione scientifica era di M.G. Maioli, allora direttore dell’area archeologica di Russi, insieme a P. De Santis entrambe funzionarie della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna.

L’insieme dei materiali tardoantichi presenti nel pozzo della cucina fa riferimento a ben note associazioni regionali, evidenziate sia da scavi, sia da ricerche di superficie. La presenza di ceramiche comuni e di rivestite in rosso-bruno contraddistingue soprattutto i contesti rurali tardoantichi

Lo scavo dei pozzi nella villa romana di Russi fu realizzato fra il 1998 e il 1999: ne furono interessate l’area della cosiddetta cucina, l’area produttiva e quella termale1 (Fig. 1.1). I pozzi per la raccolta dell’acqua di falda furono realizzati con camicie in laterizi che raggiungevano profondità diverse.

1

167

Giovanna Montevecchi, Claudio Negrelli vistose tracce della sua fase tardoantica,10 nonostante i vecchi scavi non le abbiano potute evidenziare a dovere (focolari al di sopra delle pavimentazioni e necropoli nel quartiere residenziale). Rimane in ombra il periodo medioimperiale, durante il quale non possiamo tuttavia pensare che la villa fosse stata completamente abbandonata (si veda per esempio la presenza di Sigillata Medioadriatica e di monete).

e altomedievali in una fase che sembra protrarsi dal V almeno fino al VI–VII secolo. Risultano interessanti i confronti con altri insiemi dello stesso tipo, come per esempio i pozzi ritrovati a Castel San Pietro Terme (BO)2 e a Vecchiazzano (FC),3 nonché con i pozzi-deposito di area bolognese e modenese4 (Fig. 3.3). Anche in questi casi le ceramiche sono assai somiglianti a quelle proposte dal pozzo della cucina della villa di Russi, seppure può variare di molto la composizione delle associazioni con le altre categorie di oggetti e l’interpretazione dei contesti. In area modenese e bolognese occidentale è stata da tempo proposta la linea interpretativa dei pozzi-deposito,5 cioè intenzionali occultamenti di materiali (più o meno di pregio vista anche l’associazione frequente con manufatti metallici) in collegamento a momenti di crisi, in quel caso lo stato di guerra dovuto alla frontiera longobardobizantina.

Tornando ai manufatti ceramici notiamo che gli strati più recenti del pozzo della cucina hanno restituito, tra gli altri, due contenitori particolarmente esemplificativi. L’anfora LRA 3, dunque un oggetto di importazione dal Mediterraneo orientale, e un’olla in ceramica grezza di produzione locale/regionale, ben collegabile agli esempi più occidentali dei pozzi-deposito emiliani. L’anfora richiama immediatamente la vicinanza con Ravenna e il porto di Classe e dunque il collegamento con la permanenza di un modello di scambio mediterraneo, mentre l’olla richiama l’esistenza di mercati locali di piccola e media percorrenza. È la fotografia di un sistema economico tardoantico che vide una precisa riorganizzazione delle campagne11 anche in funzione dei rifornimenti alla vicina capitale imperiale e a quella rete di città che ancora nel V–VI secolo sembra essere in Romagna particolarmente vivace ed economicamente attiva.

In questo modo è stato interpretato anche il pozzo di Vecchiazzano, nel Forlivese.6 Condizioni stratigrafiche differenti sembrano invece caratterizzare uno dei pozzi di località Orto Granara (Castel San Pietro Terme – BO),7 dove la sequenza è stata suddivisa in più fasi di riempimento e di riutilizzo. Gli oggetti tardoantichi qui rinvenuti e datati tra V e VI secolo, sono stati interpretati come deposizioni accidentali derivanti da una fase d’uso, come risultato di una dispersione di recipienti impiegati sostanzialmente per attingere acqua. Il caso del pozzo della cucina di Russi sembra doversi inquadrare secondo lo stesso schema interpretativo: a una fase primo-imperiale (con deposito di oggetti caduti “accidentalmente” al suo interno), segue un riempimento di macerie, cui succede a sua volta un riutilizzo del pozzo che, come risultato stratigrafico, da la deposizione di una serie di oggetti caduti casualmente al suo interno, in parte già impiegati per attingervi acqua.

Acknowledgements: Si ringrazia la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna per avere autorizzato lo studio del contesto di scavo dei pozzi della villa di Russi.

Oltre agli aspetti interpretativi il nucleo dei materiali in esame pone un problema più generale, quello del rapporto con l’orizzonte insediativo. È evidente che la sequenza parla di una “crisi” della villa di Russi intervenuta nella media età imperiale e di una ripresa a partire dal V secolo, in apparente piena sintonia con quanto sembra avvenire nelle campagne regionali a livello più generale.8 È il cosiddetto fenomeno delle “rioccupazioni” tardoantiche,9 notato a più riprese sia in occasione di scavi sia di ricerche di superficie, secondo cui gli insediamenti rurali di origine imperiale che sopravvissero alla crisi medio imperiale subirono profondi riassetti nel contesto di una trasformazione gerarchica dell’insediamento. A ben guardare la villa di Russi conserva nella sequenza insediativa dell’abitato

Curina, Negrelli 1998; Negrelli 2006. Vannini, Molducci 2005. 4 Gelichi 1994. 5 Gelichi 1994; 2007. 6 Vannini, Molducci 2005. 7 Curina, Negrelli 1998. 8 Per il quadro locale: Montevecchi 2000; Gelichi, Negrelli 2008; Mancassola 2008b. Per il quadro regionale: Negrelli 2010. 9 Negrelli 2013. 2 3

Maioli, Montevecchi 2010, in particolare pp. 34–37 per lo scavo dei pozzi. Dal 1998 è stata allestita negli ambienti della Rocca di Russi una sezione archeologica dedicata alla villa romana. Nelle vetrine esposte al primo piano è esposta una parte dei materiali provenienti dalle indagini recenti effettuate nei pozzi della villa. 11 Negrelli 2013. 10

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I materiali tardoantichi dal pozzo “della cucina” della villa romana di Russi

Fig. 1.1. Ubicazione dei pozzi nell’insieme della villa romana di Russi. In evidenza il pozzo “della cucina”.

Fig. 1.2. Sezione stratigrafica del pozzo “della cucina”.

169

Giovanna Montevecchi, Claudio Negrelli

Fig. 2.1. Bottiglie in rame (lagynoi) dai riempimenti più antichi del pozzo della cucina (età imperiale).

Fig. 2.3. Anforetta in ceramica a rivestimento rosso.

Fig. 2.2. Brocca a bocca trilobata in ceramica a rivestimento rosso.

Fig. 2.4. Brocca in ceramica a rivestimento rosso.

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I materiali tardoantichi dal pozzo “della cucina” della villa romana di Russi

Fig 3.1. Anfora tipo LR 3, dai riempimenti più recenti del pozzo.

Fig 3.2. Olla in ceramica da cucina, dai riempimenti più recenti del pozzo.

Fig. 3.3. Ubicazione delle principali località citate nel testo.

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3.17 The Roman road and the mansio of Ad Novas at Cà Bufalini (Cesenatico, FC) Denis Sami*, Neil Christie** *

Oxford Archaeology East (Cambridge, UK), **University of Leicester (UK) [email protected]; [email protected]

Riassunto: In questo contributo sono presentati alcuni risultati preliminari degli scavi condotti nel sito di Ad Novas a Cesenatico. Si tratta di un importante insediamento posto lungo una strada di collegamento tra Rimini e Ravenna. Sono qui analizzati i reperti ceramici e in metallo che mostrano la vitalità economica del sito e la forte spinta alla crescita che tutta la regione e il territorio nei dintorni della nuova sede imperiale ricevettero agli inizi del V secolo. Keywords: Ad Novas; Mansio; Late Antiquity; Early Middle Ages.

Introduction

stations indeed are likely often to have had important roles in developing lands alongside these highways. We need therefore to examine stations, roads, landscape and economics in detail to learn more of how the cursus publicus may have changed regions. Conversely, we will learn how far the decline of the cursus may have destabilised areas.

Much has been written about the cursus publicus from the perspective of textual sources as well as archaeology.1 The Italian context has been extensively explored by Cristina Corsi2 where the author focuses on the lodging structures and highlights the variability in spatial organization across time and in different regions of the peninsula.3 But besides this work, the current literature concerning the archaeology of mansiones, stationes and mutationes remains patchy, with too little detailed regional analysis and assessment.4

In addition, given the apparent longevity of these road sites, the theme of chronology remains central in the discussion. When were these centres founded and when abandoned? In what ways were the mansiones/ stationes transformed and at what times; how far do such restructurings relate to contemporary political, social and economic transformations? A final theme that might be addressed, or at least identified, is the nature of living and working at these sites: were these ones places of security or insecurity? Did the march of armies, the noise of wheels on the road sound regularly? Was the task of maintaining and servicing these places arduous? Were the workers here slaves, freemen, and both male and female? Were families based here? And did these people feel greatly ‘connected’ to the wider world?

One core issue is the problem of distinguishing clearly between mansiones, stationes and ordinary villae – the latter often also used as rest-stations by travellers.5 Furthermore, texts as well as archaeology do not make evident the main characteristics and the differences (if any?) between mansiones and stationes. The result is a still vague understanding of the spatial organisation of these public structures and a proper appreciation of their economic and social impact on the regions in which they were set.6 Indeed, what is required is a closer study of these sites in context: we need to see mansiones or stationes not simply as road stopovers, but rather as points of attraction for local rural communities to provide services, whether food, animals, human labour, materials, etc. These

This paper explores the Archaeology of one such roadstation and addresses some of these essential questions. The study area and site

Most recently van Tilburg 2007. 2 Corsi 2001. 3 Oddly discussing the stationes of Romagna, the author does not mention the centre of Ad Novas reported in the Tabula Peutingeriana. 4 However, valuable steps have come with the published conference papers on stationes, in: Basso, Zanini 2016. 5 Basso 2010, pp. 156–157. 6 Basso 2010, pp. 156–157. 1

The territory of modern Romagna formed the eastern part of the Augustan Regio VIII Emilia and from the fourth century AD was incorporated in the Italia Annonaria (Fig. 1). The region was crossed by two main interregional roads: the Via Aemilia running from Rimini to Piacenza 172

The Roman road and the mansio of Ad Novas at Cà Bufalini (Cesenatico, FC) was uncovered; and it has been more extensively explored in our recent excavations.10

and, along the coast, the Via Popilia-Annia – this forming the northern extension of the Via Flaminia. Connected to these two viae, Corsi identified five sites that may have been related to road stations of the cursus publicus: Claterna (Imola) and Rimini – both on the via Aemilia; Riccione on the via Flaminia; Balneum (Bagno di Romagna) on the road connecting Cesena to Sarsina; and finally Brisighella along the road connecting Florence and Faenza.7 Of these sites, however, only those of Claterna, Brisighella and Balneum can be recognised with fair certainty as resthouses or stopovers, whereas for the remaining sites the association with the cursus publicus remains speculative. Common features of the roadstations in Romagna – not, however, exclusive to mansiones and stationes – are (i) the immediate proximity of an interregional road; and (ii) the presence/provision of large courtyards, storage zones as well as a thermal bathsuite.

The question that arises, however, is: which of these two roads was the Popilia-Annia? And along which of these two roads was Ad Novas sited? From the ninth-century Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis we are informed that in 568–569 the citizen body of Classe welcomed the local Bishop Petrus returning from Rome at Ad Novas.11 The same source states that in 711–713, during the rebellion of George son of John, the Exarch deported and executed by Emperor Justinian II, the citizens of Cervia were ordered to patrol Nova in order to prevent a potential landing of Imperial troops.12 Finally, in 810–814 Agnellus reports Ad Novas as a civitas dirupta.13 In terms of later references, Emphyteusis rights issued in 1068 and 1244 by bishops of Cervia to the monastery of S. Apollinare Nuovo in Ravenna as well as papal privileges granted to the Church of Cervia in 1187 and 1244 mention a tenimentum cum portu et aliis sui pertinentiis belonging to the Pieve of San Tommaso, a church most likely located fairly close to the area of Cà Bufalini.14

Our study narrows its focus to the central coastal sector of Romagna: here the Tabula Peutingeriana lists, between the cities of Ravenna and Rimini, the sites/locations of Ad Novas – indicated immediately north of the Rubicon River– and Sapis (Savio), both set alongside a major road. Although the site of Ad Novas has long been generally identified within the territory of Cesenatico, its precise location had remained uncertain until the excavations conducted from 2008 by the School of Archaeology and Ancient History of the University of Leicester (GB) at the locality of Cà Bufalini to the north west of the urban centre. This article explores this site, its organisation, its landscape context, and its economic connections.

The excavation The archaeological deposits of Cà Bufalini were first encountered in 1968 after a large pond was dug, generating a significant assemblage of Roman ceramics, glass and coins as well as a late fourth-/early fifth-century AD burial and part of a paved road.15 Unfortunately, records for this 1968 intervention are poor and partial and only general data were published, offering the tentative conclusion that the site might have been a Roman villa.16

Aerial photographs, together with former and current excavations, show how in Roman times the territory of Cesenatico was crossed by two roads connecting Rimini and Ravenna and not just by one as the Tabula Peutingeriana displays (Fig. 1). The older of these routeways seems to now be followed by the modern via San Pellegrino that runs through the district of Sala and Montaletto on a very straight WNW-ESE trajectory. This road also marks the eastern boundary of the local Roman land subdivision and this detail has been used to prove the early construction of the road.8 Furthermore, limited excavations and auguring in the proximity of this road at the localities of Ponte Rosso and Cà Turchi in the 1970s respectively uncovered the base of a milestone (unfortunately truncated, but presumed to be early imperial) and the kiln of a villa producing terracotta statues and architectural elements.9

To collect more information about the deposits in Cà Bufalini, in 2006 a pilot project opened a set of six testtrenches to provide a first systematic assessment of the chronological as well as the qualitative aspect of the remains. Although these were only small ‘windows’ into the site, the results were encouraging: elements of two late fifth-/early sixth-century wooden structures were traced over a demolished/levelled set of buildings dating from the first century BC to the fourth century AD. Good quantities of materials, some heavily fractured, showed site consumption of regional and interregional goods such as African Red Slip ware, Late Roman Amphorae 1,

Tassinari 2006; Veggiani, Roncuzzi 1969 , pp. 11–19. LP, c. 93. The translation by Deliyannis (2004) of this part is, however, misleading. The author translates Nonam as “ninth mile”, but in this case Nonam indicates Ad Novas. ‘Kal. Octubris, et reversus in pace, cum nimia alacritate cives Ravennates eum susceperunt; Classis vero occurrit ei obviam ad Nonam’. 12 LP, 140. 13 LP, 169. 14 Abati, Riva 2003; 2007. The military keep and watchtower erected to protect Cesenatico’s medieval harbour in 1302 – located 1.6 km southeast of Cà Bufalini – was built at the site of the Tumba di San Tommaso, most likely was where was erected the church. On the subject of medieval tumbae in the Po Valley see Settia 2008. 15 Veggiani, Roncuzzi 1969, pp. 16–19. 16 Farfaneti 2000, pp. 51–55. 10

A second road, today lost, ‘labelled’ via Litoranea was proposed, on the basis of aerial photographs, to run parallel to the canal Fossatone in close proximity to the coastline and set circa 3 km from the line of via San Pellegrino, but following a NWN-SES line. As detailed below, this second road was identified first in the late 1960s in the area of Cà Bufalini when a section of a well-paved or glareata road 7 8 9

11

Corsi 2001, pp. 103–104, 154–155. Giorgetti 1983. Farfaneti 2000, pp. 32; 111–145.

173

Denis Sami, Neil Christie 2 and 3, thus pointing to a larger and more socially and economically articulated settlement than anticipated.

may indicate that in Late Antiquity this area was marginal in what remained of the settlement.

From 2008 to 2014, the School of Archaeology and Ancient History of the University of Leicester led September excavation campaigns involving students from Leicester and Bologna Universities, working together with local volunteers and schools as well as Cesenatico’s Maritime Museum, as part of a community archaeological project. A total of twenty-four trenches of varied size – from testpits of 1 x 1.5m to open area trenches of 10 x 10m – were opened to investigate different areas of the site. In addition, a remote sensing survey was undertaken in both 2011 and 2012 using a magnetometer and a resistivity meter to expand knowledge of the extension of the site and these survey results directed the area and scope of the most recent excavation campaigns.

Meanwhile, underwater surveys at the bottom of the canal documented a high concentration of finds, as well as remains of a possible circa 15 m long solid stone base that may have served as quay linking site and waterway. This idea, however, must remain merely speculation until more concrete analysis of the canal is made, perhaps through underwater excavation. The site overall appears to have been deserted soon after the early seventh century AD, although, as identified above, textual sources suggest some ongoing activity until the ninth century. A thick layer of silty, clayey alluvium, signifying a substantial natural event, covered the deserted settlement and no trace of any activity is documented on the site apart from farming work, until 1945, when an Allied POW camp was installed in the area. Buttons, fasteners, badges, toothpaste tubes and bullets belonging to German prisoners are abundant objects found on the surface alongside ploughedup ancient finds.

From the data collected it appears that the settlement mainly concentrated in the space between the road and the canal Fossatone (Fig. 2). Structural remains dating to the first century BC up to the second century AD have also been uncovered west to the road, but this area was deserted in Late Antiquity. The site was most likely occupied by different buildings, one of which has been partially excavated and documented also through geophysical analysis. This structure consisted of a building, rectangular in plan, of circa 40 x 50 m, with a possible courtyard facing the road and rooms positioned on the northeastern side. Of this building only the part alongside the road has been excavated showing how the structure negotiated its space with the road and its periodic restorations. Floors were raised to adapt to the changing road level and to keep the building safe from the flooding that often troubled the site. The walls of this building were robbed to the foundation in what appears to have been a carefully planned and systematic work of redefinition (through spoliation) of the use of the site. Sporadic postholes cutting through the Roman floors and ceramic fragments point to a scattered occupation of the area of this building between the late fifth and perhaps the early seventh century. Close to this structure was a small bathhouse, of which the remains of the apsidal wall were excavated. Four floors superimposed on one another were documented in the preserved internal area of the bath, highlighting the constant concern about floods that may have been frequent.

The landscape The canal Fossatone was created most likely between the first century BC and the first century AD to increase and regulate on the one hand the water drained by the network of early Roman ditches and, on the second hand, to support the system of land communication with a waterway connecting Ad Novas with the Po Valley and the Venetian lagoon (Fig. 3).17 An idea of this wet landscape is offered by letter 24 of the Variae sent by Cassiodorus to the Tribunus Maritimorum of Istria shortly after 1st September AD 537: Cassiodorus ordered that supplies should be transported through the network of canals crossing the coast of the north Adriatic region: «marked by perpetual safety and tranquillity. For when by raging winds the sea is closed, a way is opened to you through the most charming river scenery».18 A landscape of rivers, canals and marshes thus characterised the north Adriatic coastal region extending, most probably, to the area of Ad Novas. A 1577 drawing by Masini shows a land of canals, marshes and salterns around the medieval castle and, as modern maps show, this background characterised the area until recent times.19 How the settlement at Ad Novas was influenced by this environment dominated by water is evident from some of the documented material culture. Folded lead weights used for fishnets are very common finds as well as long copper alloy nails generally used in the construction of ships/ boats.20 But the surrounding environment also played a part in the local food consumption. Cassiodorus underlines the productive food capacity of the north Adriatic region

According to the recovered finds, the bathhouse was decorated with frescoes and marbles slabs. Fragments of glass and lead frames suggest the building had glass windows, while white stone mosaic tesserae scattered around the robber trenches point to a possible mosaic floor. A second building was most likely set alongside the road as suggested by a large robber wall investigated in 2008 and 2009. Between the fifth and the sixth century, the area of this structure was `cut by large and deep pits and a burial was set within a robber trench. The presence of an inhumation and the abundant waste material filling the pits

Righini 1997, pp. 164–166. Cassiodorus, Var. XII, 24. 19 De Nicolò 1998, p. 132. 20 Copper alloy nails are frequently recorded in ship wrecks McCarthy 2005, pp. 44–48. 17 18

174

The Roman road and the mansio of Ad Novas at Cà Bufalini (Cesenatico, FC) documented in sites along the Adriatic coast.27 Noteworthy is how the large amount of cooking and table ware, as well as glass bottles and beakers, contrast with the low presence of amphorae, especially after the third century AD. This may perhaps be explained with the use of other containers such as wooden barrels for wine and oil transportation.

«The inhabitants have one notion of plenty that of gorging themselves with fish».21 Abundant shells and fish bones were collected on site indicating the importance of fish in the local diet.22 The environmental dynamism that characterises this landscape – subject to seasonal changes where floods and drier periods may have occurred frequently forced the community in coping with water related problems. As we have seen, floor levels were periodically raised and ditches cut to keep the area as dry as possible.

The large ceramic assemblage, however, cannot be only explained in terms of local consumption. Most likely Ad Novas became, from the early fourth century, a local market supplying the surrounding area and drawing even from the central hub of Ravenna. The conjunction of canal, road, coastal trade, good lands, and large urban nuclei combined to facilitate the economic development of Ad Novas.

The economy Two categories of small finds signify something of the intense economic life of the site. Some 500 coins spanning the first to the mid-fifth century have been collected together with fourteen lead seals. Such an elevated quantity of coins clearly denotes a high level of economic exchange taking place on site, as well as a high loss rate by travellers along the road.23

The Adriatic Looking to a macro-regional perspective, the Adriatic was for Ad Novas a wider world experienced through the near shore, the canal and the related activities such as fishing and trading, but the Adriatic was also a space that embodies part of the Po Valley through the network of waterways which the Fossatone canal was part of.28

For the movement and trade of goods, the ceramic context is the clearest indicator. The whole Ad Novas ceramic assemblage shows how regional production remained predominant through its lifespan, with Mediterranean imports – even if always marginal to the site’s economy – visibly increasing in the fourth and fifth centuries.

As well as physical and economic integration with cities and trade routes in north-east Italy across the third to the early fifth century, one can seemingly also recognise contacts further north, to the frontiers. Among the small finds assemblage at Ad Novas in fact are objects generally identified as late third- to early fifth-century military equipment (Fig. 5): fasteners and rivets are attested in large numbers, especially in contexts along the road. The “industrial” production of such objects meant a wide diffusion through Roman military centres spanning the Mesopotamian to the northern limes.29 Amber, multifaceted black glass and melon beads as well as a belt decoration may well point to a north-eastern provincial origin for the assemblage recovered at Cà Bufalini.30 The creation of the Italia Annonaria dioceses in the fourth century and the later transfer of the capital to Ravenna in 402 most probably favoured the movement of military personnel between the Po Valley and the Eastern frontier.31 We know of the presence of arms factories further north at sites like Concordia and Verona, for example, and these supplied both Italian mobile forces and northern troops. In the first decade of the fifth century the general Stilicho had troops from the British, Rhenish and Pannonia legions active in Italy in conflict against the Visigoths.32 Also, in 432, Aetius moved against Count Boniface with an army of Huns and most probably other Roman troops from the Pannonia region and fought a battle near Rimini.33 Later, in 476 Odoacer defeated the Roman army near Ravenna

The Sigillata Medio Adriatica (Fig. 4, 5–7) is the main documented fineware for the third to the early fifth century, in the regional common forms Brecciaroli Taborelli 6/7; 19/22 and 10/17.24 Contemporary cooking pots are represented by ollae and bowls with infold rim; these were widely produced and consumed in the Po valley zone (Fig. 4, 8–14).25 The Adriatic bottom flat amphora represents the dominant container for the first and second century AD.26 Fragments of African Red Slip Ware – in the fourthcentury Hayes forms 50, 53, 54, 58B, in the fifth-century large bowl of Hayes form 61B and late sixth-early seventhcentury Hayes form 101 and 110 (Fig. 4, 1–3) – all testify to the south Mediterranean connections. The assemblage of imported amphorae is formed by North African fourth-/fifth-century Keay XXV form, as well as early forms of Keay XXVI. From the Eastern provinces fragments of early imperial Rhodian containers and LRA 1 appeared in greatest numbers, whilst sherds of LRA 2 and LRA 3 were also present. The complete absence of amphora LRA 4 is perplexing, since this form is commonly Cassiodorus, Var. XII, 24. Horden, Purcell 2000, pp. 190–94. 23 Coins from Cà Bufalini are discussed in conference’s poster section by Elena Baldi. Lead seals collected at Cà Bufalini vary in size and shape spanning from thick subcylindrical 15 mm width, 4.5 mm thick and 4.55 g. to very thin 8.5 width, 1.5 mm thick and 0.73 g. circular forms. 24 Sami et al. 2014. 25 Brecciaroli Taborelli 1978a; Cavalazzi, Fabbri 2010. 26 Aldini 1978. 21 22

27 28 29 30 31 32 33

175

Auriemma, Quiri 2007. Fasoli 1978; Gelichi et al. 2006. James 2004. Swyft 2000, pp. 56–59; 2003. Cirelli 2008. Christie 2006, pp. 300–308. Bury 1899, vol. I, pp. 169.

Denis Sami, Neil Christie area of the medieval harbour. Excavations at the keep revealed in fact some Late Roman ceramics suggesting a possible occupation of this area.

and took the city with the help of Norican troops. The high concentration of likely military small finds may thus relate to the movement of such armies along the via PopiliaAnnia and passing through and perhaps even resupplying or at least stopping at the mansio/statio of Ad Novas.

The archaeological data we have collected from Cà Bufalini help to populate the territory beyond the major cities of Ravenna and Rimini and to chart something of the settlements and economics along some of the highways here. This was a complex and highly active Roman to Byzantine landscape; sites like Ad Novas enable a clearer image to be drawn of the coast of Romagna in the transitional period of Late Antiquity.

Such troop movement may have been a frequent and a common sight and experience for the inhabitants of Ad Novas. Moving beyond a mere materialistic approach, these objects also help us to explore the atmosphere of emotions pervading the site: the transit of an army was surely always a dramatic event;34 a sense of insecurity may have been aroused by such troops – especially if ‘foreign’; and troops could be unruly, disruptive – perhaps demanding goods, foods, favours at a station like Ad Novas. Alternatively, the soldiery may have given a sense of security – soldiers to preserve order, to counter the threat of enemies, to bring money to the community. Conclusions In summary, we can perhaps pinpoint the foundation/ emergence of Ad Novas most likely in Augustan times, quite possibly as part of an ambitious project of redevelopment of the land and water transport connections in the Po Valley through the construction of a new road (the via litoranea) and the cutting of the Canale Fossatone. Starting as a mansio/statio, the site likely rapidly developed as traffic increased, into a more articulated settlement capable of attracting and consuming not only regional products but also interregional goods. Coins are registered from the second half of the third century but increase progressively until the early decades of the fifth century and denote a vibrant economy. The late fifth century by contrast seems to have been a period of stagnation and decline of which full details are still missing. Was this decline due to social, military and economic instability? Did the site become marginalised? Did this roadway lose out to the more inland route-way? Was the site affected by climate change as several deposits of silty-clay covering floors suggest? What can be stated is that Ad Novas underwent a dramatic redefinition of its role during this phase: old buildings were pulled down and systematically robbed and large ditches were cut to collect construction material from the floors and foundations of the main buildings. Nonetheless the site was still occupied, since small timberbuilt structures replaced the large brick-built units and, if in limited amounts, local and Mediterranean products continued to meet the needs of a small community until perhaps circa AD 600. We do not know how long the road and the canal continued to be in use after the settlement was deserted; while texts might suggest an extended use at least for the road down to the early medieval period, we lack any material proof. Perhaps the inhabitants in time shifted to more secure ground – perhaps south-eastwards to where, much later was erected the fortification at the

34

Cosentino 2011.

176

The Roman road and the mansio of Ad Novas at Cà Bufalini (Cesenatico, FC)

Fig. 1. Location map for Cesenatico with (inset) the position of the excavation site of Cà Bufalini.

Fig. 2. The site structures accordingly to excavation and geophysical survey.

177

Denis Sami, Neil Christie

Fig. 3. The Canale Fossatone flanking the site.

178

The Roman road and the mansio of Ad Novas at Cà Bufalini (Cesenatico, FC)

Fig. 4. Late Antique ceramics: African Red Slip Ware, 1) Hayes 53; 2) Hayes 61b; 3) Hayes 101; 4) Hayes 110. Sigillate medioadriatiche, 5) Brec.6/7; 6) Brec.19/22; 7) Brec.10/17. Coarse ware with inward rim 8–11 and ollae 12–14.

179

Denis Sami, Neil Christie

Fig. 5. Possible “military equipment” from Cà Bufalini. 1) Amber bead; 2–4) glass beads; 5–8) copperalloy fasteners; 9) copperalloy and glass belt decoration; 10) copperalloy scabbard fastener (?); 11) iron buckle; 12) copperalloy bucklering (?); 13–14) iron spear heads.

180

3.18 Monete dal sito di Ad Novas Cesenatico. Dati preliminari Elena Baldi Ricercatrice indipendente [email protected] Abstract: The excavations of the site of Ad Novas at Cesenatico, carried out between 2006 and 2011, have brought to light about 400 coins, 223 of which came from the excavation layers and the rest from collection in the surrounding area. 68 of the 233 coins are illegible, but the remainder show evidence of circulation between the 1st century BC and the first half of the 5th century AD. A diachronic analysis of the evidence shows that the earliest issue of Augustus is followed by several Asses and Sestertii up to the first half of the 3rd century; coinage of the second half is not represented, as it is in the evidence found at the nearby harbour of Classe. The productions of the 4th century are typical of the time and show a steady increase in numismatic finds, in particular of the Fel. Temp. Reparatio of the House of Constantine and of the Gloria Romanorum and Securitas Reipublicae of the House of Valentinian. The 5th century witnesses a decrease in the number of finds; however, coinage of Honorius and Valentinian III is recorded, with similar types to those seen in the harbour area of Classe. In spite of the vicinity of the Gothic and Exarchal court in Ravenna, no finds of this period are recorded in Cesenatico, suggesting a change in the economy of the area. Keywords: Ad Novas; Roman Imperial Coinage; Trade.

Il sito

I dati generali

L’area archeologica di Ad Novas, rinvenuta già nel 1969, si colloca a ovest della moderna città di Cesenatico, ca. 30 Km a Sud di Ravenna (Fig. 1). Le indagini archeologiche iniziate nel 2006 hanno portato alla luce varie fasi di insediamento, la più antica attribuibile al I secolo a.C., con fasi successive che vedono la costruzione di una strada glareata, una mansio/statio, lo scavo del canale Fossatone (databile al I–II sec. d.C.) e il possibile sviluppo di un mercato nel III secolo d.C.1

Gli scavi effettuati tra il 2006 e il 2011 presso il sito hanno portato alla luce circa 400 monete, provenienti sia dalle stratigrafie di scavo, sia da rinvenimenti fortuiti e ricognizione nelle zone appena adiacenti. Tutti i rinvenimenti sono riferibili a emissioni in lega di rame e al momento non è stata individuata la presenza di esemplari in argento. Il lavoro di pulizia, conservazione e catalogazione dei reperti monetali si è concentrato sul materiale proveniente dalle stratigrafie di scavo, 223 reperti, databili tra il I secolo a.C. fino alla seconda metà del V secolo d.C. (Fig. 2). Da sottolineare l’assenza di monetazione del periodo ostrogoto e bizantino, seppur attestati abbondantemente nell’area circostante, in particolar modo a Classe.2 Molti reperti (sessantotto esemplari) di questo nucleo monetale sono illeggibili, ma possono essere identificati come produzioni di IV–V secolo, un dato evincibile dai valori pondometrici delle monete.

Appartiene invece alla fine del IV–V secolo una fase di ristrutturazione degli edifici scoperti lungo la strada glareata, che vengono poi intenzionalmente demoliti agli inizi del V secolo per fare posto a un insediamento costituito di capanne. I materiali vitrei e ceramici sembrano estendere la vita di questo centro fino alla fine del VI secolo, forse anche fino agli inizi del VII anche se il dato non è coadiuvato da attestazioni monetali del periodo ostrogoto e bizantino.

1

Sami 2011.

2

181

Ercolani 1978.

Elena Baldi Reperti fino al III secolo d.C.

I dati di Cesenatico mostrano, al momento, l’importante sviluppo del sito, in porticolare nelle fasi iniziali, come evidenziato dal numero di reperti databili all’alto impero. L’incremento di presenze databili registrato durante il IV secolo è indice anch’esso dell’importante fase di ristrutturazione, mentre la contrazione dei rinvenimenti di V secolo potrebbe essere legata al momento di demolizione degli edifici precedenti, come ben evidenziato dalla ricerca sul campo. Se le produzioni delle prime fasi sono caratterizzate da monete di grosso taglio, come Assi e in particolar modo serterzii, i rinvenimenti di IV e V secolo sono testimoniati da monete di piccolo taglio e scarso valore commerciale, che però mettono in evidenza una certa vivacità economica. Diversamente da quanto registrato a Classe, dove i rinvenimenti di questo secolo testimoniano che la crisi economica legata alla fine del mondo romano giunge a Ravenna e nelle zone limitrofe solamente verso la fine della seconda metà del VI secolo, ma come osservato in altri siti del Nord Italia e in altre zone del Mediterraneo, le attestazioni monetali sono concentrate soprattutto nelle ultime fasi dell’Impero romano d’Occidente.

Da una prima analisi diacronica dei reperti monetali rinvenuti, si evidenziano attestazioni costanti tra il I secolo a.C., con emissioni imperiali di Augusto, fono al III secolo d.C. (Fig. 3). La monetazione di questo periodo è presente principalmente nelle trincee 20 e 21; in particolare, alcuni esemplari dalla T21 provengono dallo strato relativo alla strada romana. Si registra invece l’assenza di monetazione della seconda parte del III secolo, in particolare di radiati di Gallieno e Probo, con dati che contrastano, per esempio, l’evidenza monetale di Classe,3 ove il materiale della seconda metà del III secolo è più abbondante. Il IV secolo Il quadro cambia a partire dal IV secolo, con l’abbondante presenza di produzioni della dinastia costantiniana, in particolar modo con emissioni iniziali del regno di Costantino e dei suoi successori. In particolare, sono stati rinvenuti diciassette esemplari (il 7,6% del totale) riconoscibili nelle emissioni di AE3Fel Temp Reparatio, con Falling Horseman, una tipologia frequente nel territorio circostante, ma abbondante anche in molte parti dell’impero (Fig. 4).

A partire dalla fine del V e nel VI secolo, invece, non sembrano registrati altri rinvenimenti monetali provenienti dagli scavi di Ad Novas nonostante la vicinanza della corte prima ostrogota e poi esarcale, un’assenza che potrebbe essere quindi legata al declino oppure all’abbandono del sito stesso.

Questi dati preliminari registrano una presenza scarsa delle produzioni della dinastia valentinianea, con solo quattro esemplari del tipo AE3 Gloria Romanorum e uno del Securitas Rei Publicae, mentre si registra una scarsa presenza di produzioni databili al 383–388 d.C., un momento storico contrassegnato dalla presa di potere degli usurpatori Magno Massimo e Flavio Vittore. I rinvenimenti di questo periodo rispecchiano i dati provenienti da zone limitrofe, in particolare a Classe e nel Cervese.4 Il V secolo Le attestazioni di V secolo non includono, al momento, produzioni di Teodosio I, mentre si contano ben sette esemplari di AE4 di Onorio, del tipo Gloria Romanorum con imperatore che schiaccia due nemici e almeno undici esemplari, che possono essere attribuiti a Valentiniano III, degli AE4 Victoria Avgg di modulo piuttosto basso (Fig. 5). Il primo tipo viene rinvenuto comunemente nel ravennate e in particolare nell’area nord-orientale della Pianura Padana, da Ravenna fino all’Istria, alla Dalmazia e alla Slovenia.5 L’area di distribuzione delle emissioni in lega di rame di Valentiniano III è invece delimitata alla zona di Ravenna-Classe, oltre a Villa Clelia e Rimini con solo tre esemplari in totale.6 Conclusioni

3 4 5 6

Baldi 2015. Ercolani 2008. Asolati 2012. Stoppioni 1992.

182

0

Fig. 2.

Fig. 3.

183 Ost-Biz

445-498

402-445

388-402

378-388

364-378

348-364

330-348

317-330

296-317

275-296

260-275

238-260

222-238

193-222

180-193

161-180

138-161

117-138

69-117

69-96

54-68

41-54

pre 41 a.C.

Monete dal sito di Ad Novas Cesenatico. Dati preliminari

Fig. 1.

25

20

15

10

5

Elena Baldi

Fig. 4.

Fig. 5.

184

3.19 I reperti in vetro dal sito di Ad Novas (Cesenatico). Dati preliminari Tania Chinni Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Dipartimento di Storia Culture Civiltà [email protected] Abstract: In April 2006, the University of Leicester (UK), in collaboration with the Museo della Marineria of Cesenatico and the Soprintendenza dei Beni Archeologici dell’EmiliaRomagna carried out a pilot project, consisting in the opening of four test pits at the site of Ca’ Bufalini, with the aim of establishing the role of Cesenatico in the Adriatic sea. This paper presents the glass finds recovered during the 2006 campaign and from Trench 20, excavated in 2011. The main forms identified date from the 4th to the 6th century AD and belong to a few typologies of beakers (such as types Isings 96, 106 and 109) and bowls (especially Isings 117 and some other typologies with rim refolded toward the outside). A few fragments are also identified as lamps, Isings 134, and only one element can be associated with the wine glass form Foy 23 (6th–7th century AD). Some fragments are also identified as a few typologies of bowls, bottles and unguentaria from the Roman period. All of the finds are characterised by a high fragmentation and the glass matrix is colourless, with light blue and green tones, and the presence of many air bubbles and lines of blowing. All of these elements can be associated with a very common production. From Ad Novas were also recovered a prismatic blue opaque bead with diamonds, a typical production from the Danube area from the Roman period to the 4th century, and a ‘trilobitenperle’, probably produced in Raetia or in Noricum between the 3rd and the 4th century AD. Keywords: Archaeology; Adriatic; Material Culture; Glass.

Ad Novas

di Cesenatico e la Soprintendenza ai Beni Archeologici dell’Emilia Romagna.

È unanimemente riconosciuto che l’insediamento romano di Ad Novas, indicato nella Tabula Peutingeriana lungo la via di collegamento tra Rimini e Ravenna, sorgesse nell’area di Cesenatico,1 ma la precisa localizzazione è stata materia di accese dispute.2 Il sito recentemente identificato dall’Università di Leicester (GB) come Ad Novas si trova a ovest dell’attuale città di Cesenatico, in zona Ca’ Bufalini, circa 30 km a sud di Ravenna (Fig. 1). L’insediamento fu individuato nel 1969 durante lo scavo di un bacino artificiale3 e interpretato come insediamento rurale.4 Dal 2006 al 2014 il sito è stato oggetto di campagne archeologiche estive condotte dall’Università di Leicester, in collaborazione con il Museo della Marineria 1 2 3 4

Gli scavi hanno intercettato una strada glareata larga circa 9 m che in epoca antica correva lungo il litorale unendo i centri di Ravenna e Rimini. Lungo la strada erano dislocati alcuni edifici eretti tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Di epoca augustea è molto probabilmente anche il vicino canale Fossatone che, assieme alla strada litoranea, contribuì allo sviluppo dell’insediamento, quale nodo economico secondario: dal II al V secolo d.C. infatti Ad Novas probabilmente fu anche un mercato subregionale, che riforniva il territorio circostante. La sequenza stratigrafica mostra, sul finire del IV secolo d.C. una fase di demolizione delle strutture di epoca primoimperiale e una generale ridefinizione degli spazi con consistenti rialzamenti dei livelli pavimentali. La quantità di reperti, soprattutto monete, evidenzia tuttavia una sostanziale continuità di vita dell’insediamento, che entrò

Farfaneti 2000. Sami et al. 2014. Veggiani, Roncuzzi 1968. Farfaneti 2000.

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Tania Chinni ambienti. Gli unici frammenti di lampade vitree recuperate sono da ricondurre al bicchiere apodo triansato tipo Isings 134 (Tav. 1.g), morfologia questa di grandissima diffusione nel Mediterraneo fino almeno al VII–VIII secolo d.C.

in una fase di declino solo dalla metà del V secolo in poi. Durante la seconda metà del V secolo infatti avvenne una radicale conversione degli spazi e della funzione del centro: gli edifici vennero sistematicamente spoliati, livellati e sostituiti da capanne.5 Nel IX secolo Ad Novas è ricordata nel Liber Ponteficalis Romanae Ecclesiae di Agnello come ‘civitas dirupta’, a dimostrazione che l’insediamento versava ormai in evidente stato di abbandono. Tuttavia, l’assenza di testimonianze archeologiche posteriori al VII secolo d.C. inducono a ritenere che tale fase di progressivo abbandono sia da collocare già in questo periodo.

Tra i reperti della campagna del 2006 un’attenzione particolare va riservata agli ornamenti personali in vetro: due armille e tre vaghi di collana. I due bracciali sono attestati ciascuno grazie al recupero di una piccola porzione (Tav 1.h, i). In entrambi i casi il vetro è opaco, privo di decorazioni e di colore talmente scuro da sembrare nero. I due monili si differenziano grazie al diverso diametro e spessore: 5/6 cm per 0,4 cm di spessore in un caso e 6/7 cm per 0,6 cm di spessore nell’altro. Diversamente dalle armille, i vaghi appartengono a tre tipologie diverse. Il primo è un piccolo cilindro a base esagonale in vetro verde chiaro (Tav. 1.l). Questa categoria di perline risulta estremamente comune nel bacino del Mediterraneo tra l’età romana e la tarda Antichità, come attestato anche dalla Foy9 per i reperti vitrei del Musée Départimental d’Arles Antique. La seconda perlina recuperata è di colore blu con una forma cubica in cui le quattro facce non forate sono state decorate da rombi (Tav. 1.m). Questa tipologia di perline si trova spesso associata alla precedente e confronti puntuali si riscontrano in tutta Europa, dall’Inghilterra all’Ungheria.10

I manufatti vitrei Campagna 2006 Durante la campagna di scavo 2006 sono stati recuperati poco più di una sessantina di reperti in vetro, di qualità piuttosto ordinaria e caratterizzati da un elevato grado di frammentazione. Per circa una quarantina è stato possibile identificarne la forma originaria. L’indagine tipologica ha evidenziato la consistente presenza di suppellettili da mensa in morfologie tipiche del IV–VI secolo d.C. I reperti provengono tutti da quattro sole unità stratigrafiche (US 3, 26, 27 e 37) della trincea 1 (Fig. 2), relative alle fasi di spoliazione degli edifici di età romana e alla costruzione (e conseguente abbandono) del nuovo abitato di capanne.

Infine, il terzo vago, in vetro nero, presenta una forma indefinita con una superficie decorata a costolature orizzontali e due fori per il passaggio del filo (Tav. 1.n). Tutti questi elementi permettono di identificarla come una “trilobitenperlen”,11 una tipologia spesso decorata con costolature orizzontali, reticoli o con maschere teatrali. Rinvenimenti di questi monili sono stati registrati in diverse aree europee e mediterranee.12 In territorio italiano si distribuiscono indistintamente da nord a sud,13 ma un gruppo sostanzioso è stato recuperato ad Aquileia.14 In Emilia Romagna, un bracciale con trilobitenperlen a maschere teatrali è stato rinvenuto in una tomba femminile a inumazione del III secolo d.C. nella necropoli dell’exZuccherificio di Cesena,15 e un esemplare, sempre decorato a maschera teatrale, è stato recuperato in località San Pietro in Campiano,16 tra Ravenna e Cervia.

Tra le forme riscontrate in tutti e quattro gli strati interessati, ritroviamo alcuni frammenti significativi dei bicchieri Isings6 96 e 109 (Tav. 1.a, b), tra i manufatti più comunemente diffusi nel bacino del Mediterraneo tra la fine del IV secolo e il V secolo d.C. Mentre i primi sono prevalentemente attestati grazie al recupero di orli tagliati o arrotondati alla fiamma, gli Isings 109 risultano riconoscibili grazie soprattutto alla conservazione dei fondi con profilo laterale a ‘S’. Per un solo orlo è stata invece possibile un’attribuzione al bicchiere a calice, in particolare nella forma 23 della catalogazione proposta da Daniéle Foy nel 19957 per i reperti vitrei di Marsiglia (Tav. 1.c). Alcuni frammenti di fondi apodi attestano anche la presenza di coppe tipo Isings 117 (Tav. 1.d), ma risultano ben presenti anche altre tipologie aventi sia orli ingrossati e arrotondati sia estroflessi e ripiegati verso l’esterno. Tra le prime, spicca in particolare un orlo riferibile a una grande coppa in vetro verde confrontabile con la forma 10c individuata dalla Foy nel 1995 e datata al V secolo d.C. (Tav. 1.e). Stessa datazione è stata proposta anche per un orlo ripiegato che mostra una certa affinità formale con le coppe tipo BI.4213.a1 della catalogazione proposta da Odile Dussart8 nel 1998 (Tav. 1.f).

Trincea 20 Indagata in maniera intensiva nel corso della campagna 2011–12, la trincea 20 mostra la presenza di un muro Foy 2010. Swift 2000a; Foy 2010. 11 Haevernick 1975, Whitehouse 2003. 12 Esemplari di trilobitenperlen si riscontrano sia in Europa continentale e balcanica (dalla Gran Bretagna all’Italia e dall’Ungheria alla Spagna) sia lungo le coste meridionali del Mediterraneo (Cipro, Turchia, Tunisia ed Egitto) (Haevenick 1975). 13 In Trentino, Veneto, Marche, Umbria, Toscana, Lazio, Campania, Sardegna e Sicilia. 14 Haevernick 1975. 15 Attualmente conservate presso il Museo Archeologico di Cesena (cfr. Fadini, Montevecchi 2001). 16 La notizia è riportata in Montevecchi, Novara 2000, p. 103. 9

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Decisamente scarne per i contesti del 2006 sono le attestazioni di recipienti dedicati all’illuminazione degli 5 6 7 8

Sami et al. 2014. Isings 1957. Foy 1995. Dussart 1998.

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I reperti in vetro dal sito di Ad Novas (Cesenatico). Dati preliminari con andamento curvo, pertinente a un edificio absidato e orientamento nord-ovest/sud-est (Fig. 3). L’area interna all’abside mostra almeno tre livelli di pavimentazione, mentre i muri presentano tracce residue di intonaco con tracce di colore rosso sia all’esterno che all’interno.

questa tipologia di manufatti è la forma 8 identificata dalla Foy negli scavi di Marsiglia,23 con datazione prevalente al V secolo d.C. Di natura residuale è invece un piccolo balsamario a corpo troncoconico tipo Isings 28b (Tav. 2.l). Comunemente chiamati “candlesticks”, questi contenitori si ritrovano frequentemente in contesti datati tra il I e il IV secolo d.C.

Dalla trincea 20 provengono circa una settantina di frammenti di vetro caratterizzati da un elevato grado di frammentazione. Anche in questo caso, il materiale si distribuisce all’interno di un arco cronologico compreso tra il IV e gli inizi del VI secolo d.C., conservando tuttavia alcune sporadiche attestazioni precedenti.

Nonostante la maggior parte dei reperti mostri caratteristiche proprie di una produzione piuttosto ordinaria, è possibile osservare la presenza di almeno un oggetto qualitativamente superiore. Si tratta di un frammento di coppa a vasca profonda, con orlo tagliato e polito, decorato a incisione con una scena figurata. Nel lacerto conservato è perfettamente distinguibile una figura alata di profilo con le braccia protese in avanti (Tav. 2.m; Fig. 4). L’assenza di ulteriori elementi non permette di capire quale sia il soggetto principale della decorazione né di distinguere se il personaggio rappresentato sia una Vittoria alata o un angelo. Conclude la decorazione una fascia con motivo vegetale. Tutto l’apparato decorativo è realizzato tramite molatura, con l’impiego di alcune piccole incisioni per sottolineare i dettagli del personaggio: dai capelli alle piume delle ali, fino alle pieghe delle maniche.

Anche nella trincea 20 la categoria di oggetti maggiormente riscontrata è quella dei bicchieri. Tra le tipologie più ricorrenti ritroviamo i già citati Isings 109, questa volta associati ai bicchieri Isings 106 (Tav. 2.a, b). Sembrano scomparire le coppe a depressioni Isings 117, in favore di morfologie a orlo ripiegato verso l’esterno o semplicemente arrotondato. Tra le prime è significaivo un frammento di orlo che trova confronto tra il materiale degli scavi di Marsiglia, in un contesto datato tra il VI e il VII secolo d.C.17 (Tav. 2.c). Si segnala inoltre il rinvenimento di un vaso di grandi dimensioni (26 cm di diametro) a orlo ingrossato e arrotondato, associabile a una tipologia di coppe riscontrata da Jennifer Price nel 1997 tra il materiale di Mola di Monte Gelato18 e datata al IV secolo d.C. (Tav. 2.d). Riferibili a coppe sono anche alcuni fondi sollevati su piccolo piede ad anello (Tav. 2.e), associabili indistintamente sia a tipologie diffuse tra la tarda Antichità e l’alto Medioevo,19 sia a modelli precedenti.20 Coppe con datazione prevalente al periodo romano sono inoltre attestate in questo contesto da alcuni frammenti di orli e fondi principalmente riconducibili alle forme Isings 85 (Tav. 2.f), coppette cilindriche di II–IV secolo, e Isings 44/45 (Tav. 2.g), coppe poco profonde anch’esse datate tra il II e il IV secolo.

Conclusioni I reperti vitrei di entrambe le trincee sono caratterizzati da un elevato grado di frammentazione, che ha reso impossibile la ricostruzione di individui integri e, in taluni casi, rendendo piuttosto difficile attribuzioni certe. Nel complesso, essi mostrano una matrice vetrosa ricca di bolle e linee di soffiature, con colorazioni tendenti al verde-giallo o all’azzurro-verde che, unitamente alle tipologie identificate, rafforzano l’ipotesi che questi oggetti rientrino a tutti gli effetti in produzioni di livello piuttosto ordinario. Le forme riscontrate delineano inoltre un quadro cronologico ben preciso che conferma la lunga vita dell’insediamento, con un picco di attestazioni morfologiche nel periodo compreso tra il IV–VI sec. d.C. e pochi oggetti appartenenti a repertori morfologici precedenti al IV secolo, per lo più riconducibili a coppe, bottiglie e unguentari.

Pochi frammenti sono invece riferibili alla categoria delle bottiglie. In particolare si riscontrano un frammento di orlo tagliato con decorazione a linee verticali molate lungo le pareti (Tav. 2.h), confrontabile con la forma Dussart BX.1113a2 (n. 28),21 recuperata in contesti di IV secolo d.C. Un orlo imbutiforme arrotondato trova invece riscontro in un modello di bottiglia recuperata dai contesti di VI–VII secolo della Crypta Balbi,22 da cui tuttavia differisce per la decorazione: a filamenti applicati nel caso romano, a linee oblique incise nel sito di Ad Novas (Tav. 2.i).

Il repertorio formale è caratterizzato prevalentemente da suppellettili tipiche della quotidianità e in particolare da vasellame da mensa (bicchieri e coppe). Le forme più attestate all’interno di queste categorie sono i bicchieri Isings 96, 106c e 109 e le coppe Isings 117, tipologie peculiari della tarda Antichità e dell’alto Medioevo. Le categorie meno significative per quantità di oggetti risultano le lampade, rappresentate dalla forma a bicchiere triansato Isings 134, e i calici, dove si riscontra un solo frammento riferibile alla forma Foy 23b di VI–VII secolo.

Un piccolo orlo ripiegato verso l’interno attesta la presenza di piccole bottiglie che potevano essere impiegate anche come balsamari. Il confronto più diretto identificato per 17 18 19 20 21 22

Bonifay et al. 1998. Price 1997. Alcuni modelli sono riportati in Sternini 1995a. Soprattutto riferibili alle forme Isings 42 e 45 di I–II secolo. Dussart 1998. Saguì 2001b.

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Foy 1995.

Tania Chinni le principali piazze commerciali limitrofe prima del suo definitivo abbandono, avvenuto agli inizi del VII secolo.

Il quadro fin qui delineato mostra dunque un commercio del vetro che, nel sito di Ad Novas, era prevalentemente volto a soddisfare i bisogni primari della popolazione e, dobbiamo immaginare, facilmente accessibile sul mercato locale. In tale ipotesi quindi risulterebbe eccezionale il recupero di alcuni oggetti in cui è possibile ravvisare una maggiore ricercatezza artistica e che raggiungono la loro massima espressione nella coppa decorata con figura alata incisa e motivo vegetale lungo il bordo. Benché non sia ancora stato identificato un confronto puntale per tale schema decorativo, appare evidente che questa coppa è frutto di maestranze completamente differenti rispetto alle altre produzioni riscontrate nell’insediamento. Estranei alla piazza commerciale di Ad Novas sono, con ogni probabilità, anche i vaghi in pasta vitrea recuperati durante le indagini archeologiche del 2006 e in particolare la perlina poliedrica in vetro blu decorata a rombi e la “trilobitenperlen”, decorata con costolature orizzontali. Secondo studi recenti,24 le prime sarebbero monili comunissimi dal periodo romano almeno fino al IV secolo e la loro area di produzione primaria sarebbe da identificare con la regione danubiana. La Rezia e il Norico sono state invece proposte come terre d’origine delle “trilobitenperlen”: da questi territori si sarebbero quindi diffuse, tra III e IV secolo, verso l’Italia centroorientale grazie alla mediazione commerciale delle città venete e, almeno fino alla calata degli Unni del 452 d.C., di Aquileia.25 Le datazioni riscontrate per entrambe le tipologie non permettono di escludere che questi oggetti circolassero in qualche modo nell’area già prima del IV secolo d.C., tuttavia da un punto di vista squisitamente economico, importare tali prodotti da territori transalpini, eventualmente con il supporto di un importante snodo commerciale come Aquileia, implicherebbe quantomeno un aumento del loro costo sul mercato. Ciò potrebbe senz’altro indicare la possibilità, da parte di qualche eminente esponente della comunità di Ad Novas, di attingere direttamente a mercati più grandi o di richiamare occasionalmente nell’area prodotti di maggior pregio, ma visto il ruolo che questo abitato svolgeva nel territorio litoraneo (mansio/statio) e la sporadicità di questi oggetti (coppa con figura alata e perline) appare certamente credibile l’ipotesi, recentemente proposta da Denis Sami e Neil Christie,26 che tali prodotti possano giungere nell’area non tramite scambi commerciali ma a seguito di altri tipi di movimenti, quali spostamenti di popoli o passaggi di truppe. Sarà dunque compito dei futuri studi cercare di comprendere meglio come questo piccolo centro si sia inserito all’interno del tessuto sociale, economico e politico della regione e quali siano stati i suoi reali rapporti con 24 25 26

Swift 2001. Fadini, Montevecchi 2001. Sami e Christie, infra.

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I reperti in vetro dal sito di Ad Novas (Cesenatico). Dati preliminari

Fig. 1. Localizzazione delle aree di scavo presso il sito di Ad Novas.

Fig. 2. Resti delle strutture individuate nella trincea 1.

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Tav. 1. Principali forme vitree identificate nella trincea 1: a, b – bicchieri Isings 96 e 109; c – calice Foy forme 23; d – coppa Isings 117; e – coppa di grandi dimensioni Foy forme 10c; f – coppa con orlo ripiegato all’esterno Dussart BI.4213.a1; g – lampada triansata tipo Isings 134; h, i – armille; l – vago cilindrico a base esagonale; m – vago cubico con decorazione a rombi; n – trilobitenperlen (disegni di T. Chinni).

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I reperti in vetro dal sito di Ad Novas (Cesenatico). Dati preliminari

Fig. 3. La trincea 20 durante le attività di scavo.

Fig. 4. Coppa con figura alata incisa.

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Tav. 2. Principali forme vitree identificate nella trincea 20: a, b – bicchieri Isings 109 e 106; c – coppa con orlo arrotondato; d – coppa di grandi dimensioni con linee orizzontali incise; e – fondo di coppa rialzato su piede ad anello; f – coppetta Isings 85b; g – coppa Isings 44/45; h – bottiglia con linee verticali tipo Dussart BX.1113a2; i – bottiglia con linee oblique incise; l – balsamario Isings 28b; m – coppa con figurata alata incisa (disegni di T. Chinni).

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3.20 Il settore produttivo della villa romana di Galeata: le fasi di età tardoantica Marco Gregori, Emanuela Gardini Ricercatori indipendenti [email protected]; [email protected] Abstract: The archaeological context of the villa of Galeata is emblematic of the crisis of the slavish villa system that distinguished the 3rd century AD. Over a period that runs from the end of 4th to the beginning of 5th century, the structures of the Roman villa gain interest with an upgrade that reshaped the building and signalled a transformation in production, from a wine/oil production to an agro-pastoral system. Structural evidence that demonstrates this transformation is distinctly visible. The mobile evidence of 4th to 5th century AD confirms a decrease in occupied spaces: more diagnostic evidence found in the filling of the tanks and in relation to the upgraded structures include African Red slip ware forms and their imitations, Medio-Adriatic forms of dishes and bowls and fragments of cooking ware. The most chronologically important forms are represented by some containers identified as Brecciaroli Taborelli 12 and 24, and Hayes 61, 67 and 92. The chronology is also confirmed by numismatic finds like Ae3 and Ae4. Keywords: Galeata; villa; African Red slip ware; Medio-Adriatic ware.

Introduzione

complesso residenziale di età gota, di fine V – inizi VI d.C. Nel corso delle ultime campagne di scavo è stato possibile ridurre questo enorme range temporale a poco più di un secolo. Incrociando dati archeologici e storici, infatti, si è potuto ipotizzare come il complesso non sia scomparso ma piuttosto cambiato in seguito all’incendio e al crollo dell’area dei magazzini.

Il sito di Galeata (FC) offre un interessante spaccato sul problema delle ville rustiche romane in area romagnola. Il lavoro di ricerca ha evidenziato chiaramente come l’impianto produttivo di una tipica villa rustica romana seguisse, nella maggior parte dei casi, le variazioni economiche connesse al territorio.1

Sappiamo a livello storico che le ville produttive di età imperiale – come quella presente a Galeata – tra la fine del II e il III secolo d.C. subirono, soprattutto in Italia, un momento di regressione. Questo portò diversi studiosi alla formulazione della “teoria della fine del sistema delle ville”,2 estesa poi in maniera acritica nel corso degli anni a tutta la penisola e alle province. Tale ipotesi appare oggi superata, dato che non trova riscontro a livello archeologico; infatti le ville rustiche in Italia e ancor di più nelle province mostrano, nella maggior parte dei casi, una frequentazione che va ben oltre il III secolo d.C.

Nel caso specifico di Galeata, la presenza di impianti produttivi legati a una villa rustica mostra chiaramente quale doveva essere il potenziale economico di questa zona già in periodo repubblicano. Tale impulso appare necessariamente connesso a un sistema stradale capillare che metteva in comunicazione le aree agricole con i centri di scambio – pensiamo alla vicina Forum Livii – e successivamente, attraverso le grandi vie consolari, con le maggiori città dell’Impero. Le evidenze archeologiche lasciate dal magazzino collassato e non più ricostruito a seguito di un incendio nel corso del III secolo d.C., avevano fatto supporre, negli anni passati, che la suddetta villa, o almeno parte di essa, fosse stata abbandonata fino all’installazione del grande

Le ricerche degli ultimi decenni mostrano come questi grandi complessi, un tempo strettamente legati alla schiavitù che in essi lavorava, mutino – e non spariscano – sia a livello strutturale3 sia a livello produttivo.

1 Lo scavo, condotto dall’équipe del Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna, sotto la direzione dei prof. Sandro De Maria e Riccardo Villicich.

Thébert 1993, pp. 157–159. In diversi siti archeologici in tutta Europa si è verificato come questi impianti mutino notevolmente nell’aspetto; la pars rustica viene spesso 2 3

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Marco Gregori, Emanuela Gardini In conclusione le uniche certezze, al momento, riguardano due aspetti: il primo è che sicuramente l’impianto originario della grande villa altomedio imperiale viene stravolto passando da un tipo di produzione oleariavinaria a una meno impegnativa – forse agro-pastorale – comune nelle ville della penisola tra IV e V secolo d.C.; il secondo invece è che la “vita” di questo nuovo complesso per motivi ignoti, non si protrae per più di un secolo. Verso gli inizi del VI secolo d.C., infatti, viene a crearsi sopra tali strutture – forse già fatiscenti – il grande complesso di rappresentanza voluto da un importante e ricco committente legato alla corte gota di Ravenna, forse lo stesso Teoderico come descritto nella Vita Hilari,6 e come mostrato a livello archeologico dalla porzione di una grande sala ottagonale mosaicata rinvenuta nel 2012.7

Nella villa galeatese (Fig. 1) è stato documentato come a seguito del grande incendio che devastò l’intera area a produzione oleario/vinicola nel corso del III d.C., già verso la fine del IV secolo d.C. il muro lungo muro limite Nord del complesso viene ripreso, integrato e allargato con una messa in opera – diversa rispetto a quella utilizzata in età alto imperiale – che sfrutta una tecnica mista con utilizzo di pezzame laterizio e ciottoli anche di notevoli dimensioni legati in malta d’argilla.4 Bisogna inoltre notare come le scelte stilistiche restino le medesime con la presenza a intervalli regolari di lesene che non sembrano avere funzione strutturale. Sembra che questo lungo muro costituisca il limite Nord di una serie di ambienti che si susseguono lungo un percorso assiale ovest-est forse gravitanti attorno a un cortile centrale. Anche l’interno dei vani, dopo un breve abbandono, appare riqualificato: le quote pavimentali vengono infatti rialzate grazie allo spianamento delle macerie della precedente struttura e all’integrazione dei vuoti con l’argilla. Il nuovo piano di calpestio viene creato mediante la realizzazione di pavimenti in cocciopesto e il riutilizzo di parte di una delle vasche di decantazione come soglia di ingresso preceduta da un piccolo gradino ricavato con materiale di scarto ricoperto da ciottoli fluviali. Per quanto riguarda gli esterni, dopo un primo spesso strato di argilla compatta, a ridosso dei muri che delimitano il vano a ovest, vengono sistemate in maniera metodica un gran numero di tegole e mattoni manubriati padani, probabilmente recuperati dai precedenti edifici dismessi. Al di sopra di questo piano è stato riscontrato un esiguo strato costituito da argilla di colore giallo quasi totalmente priva di materiale mobile, funzionale alla definitiva posa di piccole formelle quadrate in arenaria, ancora parzialmente conservate (Fig. 1). Questa resta dunque la zona che ha restituito i maggiori indicatori cronologici, rinvenuti nello spesso deposito argilloso, che hanno permesso di datare con buona precisione gli interventi occorsi alla trasformazione della precedente villa rustica di età imperiale. In particolare, cinque monete rinvenute in strati sigillati hanno consentito – insieme ai diversi frammenti ceramici – di determinare un terminus post quem di fine IV d.C.

È parimenti ipotizzabile che l’intera area a nord della sala venga lasciata come area esterna priva di strutture, sviluppando il corpo di fabbrica residenziale verso sud, determinando così la definitiva chiusura della parte produttiva della villa rustica che aveva connotato l’area nel corso dei secoli. Ulteriori dati per confermare le ipotesi proposte in questo contributo si attendono dalle campagne di scavo dei prossimi anni.8 I ritrovamenti ceramici I reperti ceramici che riconducono alla fase di fine IV/V secolo d.C. confermano l’evidente contrazione degli spazi frequentati. I materiali che risultano essere i più diagnostici per ciò che riguarda la fase tardoantica, sono quelli provenienti dagli strati di riempimento rinvenuti all’interno delle vasche, sia quella di decantazione in cocciopesto sia quella edificata in laterizio, all’interno dei dolia de fossa e dagli strati immediatamente sottostanti i rinforzi murari in tegole operati all’interno del vano 52. Lo strato di riempimento artificiale della vasca in cocciopesto, con evidenti tracce di bruciato e combustione, è da mettere in relazione con l’edificazione dello scalino posto sul lato ovest della vasca stessa al momento della ristrutturazione della villa. Oltre ad abbondante materiale di scarto, lo strato ha restituito vasellame gettato in antico quali frammenti di un piccolo dolium con orlo estroflesso a tesa e parete piuttosto bombata (Tav. I, n. 1) e soprattutto un ampio piatto piano/vassoio corrispondente, nel repertorio Medio Adriatico, alla forma Brecciaroli Taborelli 12/Maioli 12 datata a Classe alla prima metà del IV secolo ma rinvenuta anche in strati di VI (Tav. I, n. 2).9 Alle stesse caratteristiche di composizione corrisponde il riempimento del dolium de fossa rinvenuto semi integro presso il limite est del saggio 36 sul lato orientale della vasca in cocciopesto. All’interno del contenitore, evidentemente utilizzato come scarico una volta persa

La planimetria ricavata, caratterizzata da ambienti “poveri”, potrebbe far accostare questo corpo di fabbrica a un ovile o caprile, date le dimensioni e la pavimentazione degli ambienti che ben si concilia con tali edifici5 (Fig. 2). modificata o addirittura allontanata dalla parte residenziale – chiamata praetorium – che sfrutta parti in origine destinate ad altre funzioni. Le ville tardoantiche che spesso conservano la presenza e centralità del peristilio e la ricchezza decorativa, già presenti in età imperiale, mutano però nelle planimetrie che vengono ridisegnate in senso monumentale; si moltiplicano gli ambienti di rappresentanza a pianta curvilinea o geometrica rivestiti spesso di grandi mosaici policromi. Esempi sono sparsi su tutto il territorio dell’impero romano; alcuni di essi sono la villa di Torre Llauder (Spagna), la villa di San Giusto (Italia), la villa Liffole le Grand (Francia). 4 Carandini 1985, vol.I, pp. 63–65. 5 Carandini 1985, vol.I, pp. 123–124.

Vita Hilari, Acta sanctorum, capp. I–XII. Per la traduzione si veda: Zaghini 1988. 7 Villicich 2012. 8 Morigi, Villicich 2017. 9 Brecciaroli Taborelli 1978a, pp. 19–22; Maioli 1980, p. 163. Più nello specifico si veda Biondani 2005a. 6

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Il settore produttivo della villa romana di Galeata: le fasi di età tardoantica la sua funzione originaria, sono stati rinvenuti numerosi frammenti laterizi e lapidei, le pareti stesse del dolium, alcune grappe in piombo per il restauro dello stesso,10 inoltre un frammento di un tegame da cucina a impasto scuro e grossolano ricco di inclusi con orlo introflesso ingrossato e vasca troncoconica datata precedentemente all’età tardoantica (Tav. I, n. 3).11 Il riempimento della vasca in laterizio posta all’interno del vano 52 e identificata come alloggio del torchio, si presenta come un massiccio insieme di strati caratterizzati da una compatta colorazione bruno scuro con abbondanti inclusi di frammenti laterizi e lapidei ricco di ceramica datante. Gli accumuli artificiali all’interno di questa vasca sono stati prodotti poco prima della ristrutturazione della pars rustica allo scopo di colmare lo spazio vuoto sul quale poi sarà disposto un lastricato in laterizi. Da qui provengono frammenti di Sigillata Africana tra cui si sono identificati un piatto corrispondente alla forma Hayes 67 databile tra il IV e il V secolo d.C. (Tav. I, n. 4)12 e un esemplare pressoché interamente ricostruibile di ciotola con listello rivolto verso il basso Hayes 92 che reca evidente traccia della decorazione a fine feather rouletting impressa sulla parte interna del fondo e che si data tra il V e il VI d.C. (Tav. I, n. 5).13 Sono stati inoltre identificati alcuni contenitori in Sigillata Medio Adriatica riconducibili ai repertori conosciuti quali la coppa Brecciaroli Taborelli 4/Maioli 9 (Tav. I, n. 6),14 la scodella Brecciaroli Taborelli 7/Maioli 7 (Tav. I, n. 7),15 il piatto Brecciaroli Taborelli 20/Maioli 16 (Tav. I, n. 8)16 e la ciotola Brecciaroli Taborelli 24/ Maioli 3 (Tav. I, n. 9),17 datati tra la seconda metà del IV e il V secolo d.C. Le stesse forme sono presenti anche nella loro versione locale, con tecniche più scadenti. Sempre riconducibili a una produzione locale potrebbero essere considerati alcuni frammenti di un esemplare che sembra ispirarsi a una versione più svasata e meno profonda del piatto Hayes 61A reso particolarmente interessante per la presenza di una decorazione realizzata a matrice che occupa tutto il fondo interno. La scarsa conservazione dei frammenti, che si presentano molto consunti e ormai privi del rivestimento rossastro del quale rimangono esigue tracce, non permette di individuare con certezza il soggetto raffigurato. L’ipotesi più calzante è che si tratti di un scena di offerta a un idolo oppure di una processione verso un trofeo (Tav. I, n. 10).18 Cronologicamente rilevanti sono i frammenti di contenitori da cucina rinvenuti sempre nel riempimento della vasca in laterizi, si tratta di olle e casseruole con orlo a tesa estroflesso con impasti molto scuri ma soprattutto di un’olla con alloggiamento per

il coperchio datata in ambito regionale tra il IV e il V secolo (Tav. I, nn. 11–13).19 Dallo stesso riempimento proviene anche un grande frammento residuale pertinente a un’anfora di produzione romagnola (datata tra il I e il III d.C.) (Tav. II, n. 1).20 Di entità e tipologia del tutto simile sono i rinvenimenti ceramici provenienti sia dagli strati identificati come preparazioni artificiali utili alle ristrutturazione di III fase del sito, realizzate sotto gli apprestamenti di tegole poste di taglio rispetto al piano pavimentale in laterizi già citato, allo scopo di sostenerlo, sia dalla pulizia delle strutture obliterate, successivamente, dalla sala ottagonale teodericiana. Altrettanto importanti ai fini della definizione cronologica di questa importante fase del sito della villa di Galeata, sono i materiali pertinenti agli strati che delineano il passaggio intermedio tra le ristrutturazione di III fase e la successiva residenza teodericiana, si tratta quindi principalmente di livellamenti presenti su buona parte dell’area presa in considerazione concentrati in prossimità delle strutture teodericiane quali apprestamenti per la messa in opera delle stesse. Questi strati rappresentano quindi le evidenze stratigrafiche immediatamente precedenti all’edificazione della dimora di età ostrogota. Il vasellame fittile proveniente da questi livellamenti è composto principalmente da produzioni locali e tardoantiche ispirate a repertori medio adriatici e africani che coprono una cronologia piuttosto ampia ma che, nel caso in questione, si datano stratigraficamente tra il V e il VI secolo d.C. Le forme che maggiormente si ripetono in questi strati sono ispirate alle ciotole Brecciaroli Taborelli 5 e 7,21 alle ciotole e scodelle Hayes 14 e 17B22 e al piatto Hayes 61 (Tav. II, nn. 2–7).23 Le medesime caratteristiche tecniche pertinenti alle imitazioni locali precedentemente ricordate sono riscontrabili anche in diversi frammenti che ricostruiscono in buona parte una lucerna fittile proveniente da uno strato di livellamento di attribuzione non certa. Il corpo schiacciato e i cinque fori rimasti per l’alloggiamento degli stoppini fanno supporre che in realtà i canali dovessero essere di numero superiore: è possibile che la lucerna presentasse una forma semicircolare “a conchiglia” con presa su di un lato, tuttavia più probabilmente si trattava di una forma completamente circolare con appiccagnolo centrale atto alla sospensione e fori presenti su tutta la circonferenza. L’esemplare, per il quale non si è riscontrato un confronto, non presenta i canali separati bensì tutti disposti sulla linea della circonferenza (Tav. II, n. 8). Dagli stessi strati di livellamento provengono anche alcuni frammenti di olle da cucina con orlo estroflesso, parete bombata e impasto riducente, significativi dal punto di vista cronologico. Di particolare interesse sono i frammenti pertinenti a un’olla con labbro pendente e corpo tronco conico particolarmente

10 Lo studio dei materiali metallici è stato intrapreso dalla Dott.ssa Ketty Iannantuono nell’ambito della sua tesi di Laurea Magistrale. 11 Olcese 1998, p. 163, tav. LXXXIV, n. 6. 12 Hayes 1972, pp. 110–116, figg. 18–19. 13 Biondani 2005a, p. 145, fig. 26. 14 Brecciaroli Taborelli 1978a, p. 10; Maioli 1980, p. 163; Biondani 2005a. 15 Biondani 2005a, pp. 14, 162. 16 Biondani 2005a, pp. 31, 165. 17 Biondani 2005a, pp. 34–36, 161–162. 18 Hayes 1972, pp. 100–107, figg. 16–17. Per il riferimento alla decorazione in rilievo si veda: Atlante I, tav. LXXX, n. 8; tav. XCII, nn. 2–3.

Si vedano in Olcese 1993: p. 218, fig. 42, n. 103; p. 236, fig. 50, n. 145. Inoltre per l’orlo con alloggiamento per il coperchio: Negrelli 2002, p. 40, tav. 11, n. 1. 20 Maioli, Stoppioni 1989, p. 574. 21 Hayes 1972, pp. 35–37, fig. 4; Maioli 1976, p. 162; Brecciaroli Taborelli 1978a, p. 14; Gamberini, Mazzeo Saracino 2003, p. 105, n. 14. 22 Hayes 1972, pp. 39–41, fig. 6; p. 42, fig. 6. 23 Hayes 1972, pp. 100–107, figg. 16–17. 19

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Marco Gregori, Emanuela Gardini mensa che fosse più economicamente accessibile rispetto agli originali provenienti, per esempio, da Ravenna.

diffuse in ambito regionale che recano sulla parete esterna, in corrispondenza della carenatura, una decorazione “a tacche” impresse su un cordolo sporgente che sono datate nel ravennate e nel riminese tra il IV e il V secolo, ma che sembrano prolungarsi ulteriormente tra il VI e il VII soprattutto in area modenese (Tav. II, n. 9).24 A questa stessa tipologia sembra poter essere ricondotto anche un coperchio con presa decorata “a tacche” proveniente da uno strato di livellamento non certamente datato (Tav. II, n. 10). Significativo è anche il ritrovamento in questi strati di un frammento appartenente a un’olla con orlo a tesa e corpo globulare caratterizzata da una decorazione “pettinata” incisa sulla spalla e composta da una sola linea ondulata continua. Proprio questa particolarità permette di confrontare il pezzo con altri già rinvenuti in passato nella zona (definiti “ceramica gota”) e con esemplari simili provenienti da Classe (RA) dove sono datati tra il VII e l’VIII secolo (Tav. II, n. 11).25A llo stesso modo anche la presenza di una quantità piuttosto cospicua di materiale numismatico quale AE3 e AE4, inoltre un’imitazione barbarica di inizio V secolo, provenienti dalle stesse USS, rappresenta un’ulteriore convalida del dato cronologico che sembra fissarsi quindi agli inizi del V secolo d.C. Una testimonianza molto chiara poi dello iato temporale intercorso tra la fine della villa nella seconda metà del III e le ristrutturazioni di inizio V è il ritrovamento di un emissione di Probo dai livelli d’uso del vano a est del muro perpendicolare all’ex torcularium.26 Un ulteriore contributo alla cronologia è dato dal ritrovamento, durante la campagna del 2007, di numerosi frammenti prodotti localmente di imitazioni del piatto Hayes 61, provenienti dagli ambienti a ridosso di uno stradello glareato che, alla luce dei nuovi dati, è da mettere in relazione con le ristrutturazioni di età tardoantica del complesso rustico. Resta ancora da individuare e identificare il centro di produzione dal quale fossero fabbricate queste imitazioni sia di Ceramica Fine Africana sia di Sigillate Medio Adriatiche. Data l’abbondante presenza di queste imitazioni fra i ritrovamenti ceramici galeatesi si presume che in zona fosse presente un atelier specializzato proprio in questo tipo di vasellame tanto che anche qui, secondo una tendenza comune alle zone periferiche, si assiste alla proliferazione di forme ispirate ai repertori precedentemente indicati che finirono col soppiantare quelle originali. Questo tipo di vasellame ha come caratteristica costante un impasto fine ma piuttosto fragile e non compatto di colore beige aranciato e un rivestimento di consistenza labile, diluito e poco aderente che passa da un colorazione aranciata a una marrone rossastra. La produzione locale probabilmente scelse di concentrarsi su forme, quali piatti, ciotole e scodelle, particolarmente funzionali (mi riferisco in particolare al piatto Hayes 61 e alla ciotola Brecciaroli Taborelli 24) al fine di creare un tipo di vasellame ispirato a classi fini da Negrelli 2002, p. 40, tav. 11, n. 11. Mazzeo Saracino 2004, pp. 151–152, fig. 17, nn. 2–3. 26 Lo studio del materiale numismatico si deve alla Dott.ssa Silvia Sassoli, per la sua tesi di Laurea. 24 25

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Il settore produttivo della villa romana di Galeata: le fasi di età tardoantica

Fig. 1. A sinistra due esempi di murature imperiali integrate e ristrutturate nel corso del V secolo d.C. A destra la ripavimentazione esterna in formelle di arenaria.

Fig. 2. Planimetria generale della parte produttiva della villa rustica di Galeata (FC). Evidenziate in nero le strutture pertinenti alla fase agro-pastorale di inizi V secolo d.C. In alto a destra il magazzino distrutto nel corso dell’incendio che devastò l’intero complesso nel corso del III secolo d.C. e non più ricostruito.

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Tav. I.

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Marco Gregori, Emanuela Gardini

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Il settore produttivo della villa romana di Galeata: le fasi di età tardoantica

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3.21 Fibule cruciformi dalla villa di Teoderico a Galeata: dati di scavo e confronti Ketty Iannantuono Ricercatrice indipendente [email protected] Abstract: The brooches discussed in this paper were found during investigations conducted at the site of the villa of Theodoric at Galeata (FC, northern Italy). Both the artifacts are examples of cross-shaped brooches, characteristic ornaments of the female costume between the 5th/6th centuries and the 7th century, and continuing until at least the 8th century. Cross-shaped brooches are an excellent example of how early medieval elements of material culture spread on both sides of the Adriatic. Their area of distribution, in fact, is notably wide: from the Balkans to the Alpine regions, up to Emilia Romagna, Liguria and central-southern Italy. These objects, at times, may have assumed a stronger allegorical value that can be associated with aspects of Christian symbolism. Beyond these associations, however, it should be emphasised that such ornaments are also very similar to those already present in the repertoire of the brooches of the Roman imperial period. Also relevant to these issues is a particularly interesting comparison for the fibulae presented here, which comes from Berceto (PR). Keywords: Cross-shaped broches; fibulae; Material culture; Adriatic; Late Antiquity.

Le fibule presentate sono state rinvenute durante le indagini archeologiche condotte, dal 1998 a oggi, dall’équipe del Dipartimento di Archeologia di Bologna, diretta dal Prof. Sandro De Maria e coordinata sul campo dal Prof. Riccardo Villicich, nel sito della villa di Teoderico presso Galeata (FC).

strati del Vano 45, ambiente di un magazzino destinato in parte allo stoccaggio di cereali, in parte alla lavorazione e all’essiccamento delle carni, riferibile a un primo impianto produttivo, di età alto/medio imperiale; la struttura è caratterizzata da una lunga fase di vita che dura fino alla metà del III secolo d.C. quando questa venne distrutta da un incendio. Il ritrovamento della fibula è stato interpretato quale frutto del rimescolamento e della dispersione dei materiali all’interno degli strati che obliterano la fase di incendio del magazzino. La forma dei bracci di questa fibula a croce greca, i quali incorniciano una prominenza centrale a semicupola piuttosto consistente, è approssimativamente pentagonale. Di dimensioni inferiori rispetto al precedente, l’oggetto misura 3,2 x 3,2 cm, e ha un peso di 10 g; presumibilmente, anch’esso realizzato in bronzo. Sulla parte anteriore, anche in questo caso, è presente una decorazione a “occhi di dado”. Nella parte posteriore, è riconoscibile l’attacco della staffa di chiusura; si conservano, inoltre, l’ardiglione e la molla, distaccati dal corpo del manufatto.

La prima fibula è stata rinvenuta durante la campagna di scavo del 2008, nell’ambito dell’indagine del Saggio 34, ai suoi limiti occidentali, in corrispondenza di uno stradello riferibile alle fasi di risistemazione della villa nel V secolo. Si tratta di una fibula a croce greca, presumibilmente realizzata in bronzo, di 3,8 x 4,4 cm e del peso di 20 g, i cui bracci, quasi perfettamente simmetrici tra loro, sono caratterizzati da estremità espanse e arrotondate. Sulla parte anteriore, la fibula presenta una decorazione incisa cosiddetta a “occhi di dado”, con cerchi concentrici incisi a punzone, eseguiti molto regolarmente e disposti con ordine: due alle estremità di ogni braccio e cinque al centro. Sulla parte superiore è presente una colomba stilizzata rivolta a destra. Nella parte posteriore, si conservano integri il sistema di chiusura a molla e la staffa. Manca l’ardiglione di chiusura.

A livello tipologico, entrambi i manufatti sono riconducibili alle fibule cruciformi, oggetti di ornamento caratteristici del costume femminile delle popolazioni latine tra il V– VI e il VII secolo nel contesto adriatico. Al di là di poche

La seconda fibula è stata ritrovata durante la campagna di scavo del 2011, nel Saggio 35, all’interno di uno degli

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Fibule cruciformi dalla villa di Teoderico a Galeata: dati di scavo e confronti eccezioni,1 le fibule a croce erano realizzate in bronzo. Prevalentemente, dovevano essere indossate all’altezza del petto per fissare i lembi di un mantello indossato sopra la tunica. Entrambe le fibule presentano caratteristiche formali piuttosto peculiari; non sono contemplate né nella classificazione di Bierbrauer2 né in quella, più recente, di De Vingo e Fossati.3 In base alle differenze morfologiche rintracciabili tra i diversi esemplari di queste fibule, in effetti, si potrebbe dividere questa classe in una serie infinita di “sottotipi” o di tipi intermedi. Sembra, pertanto, più agevole accogliere il pensiero di Pierangelo Donati quando afferma che tutte queste fibule «si assomigliano nell’impostazione generale, ma nessuna è identica all’altra».4 Per entrambe le fibule, tuttavia, esistono confronti piuttosto puntuali.5

quanto riguarda la forma della colomba sommitale, i confronti più stringenti provengono da due fibule rinvenute durante ricognizioni di superficie in territorio romagnolo, area geograficamente molto vicina a quella galeatese, a San Pietro in Vincoli (RA).9 Infine, un raffronto puntuale per quanto riguarda la forma della croce,10 è costituito dal reliquiario rinvenuto nel duomo di Berceto (PR). Il confronto tra la fibula di Galeata e il reliquiario di Berceto, per il quale si è ipotizzato il riutilizzo di una fibula a croce defunzionalizzata, costituisce l’originale spunto di ricerca che ha dato l’avvio a questo studio nell’ambito degli insegnamenti della Scuola di Specializzazione di Beni Archeologici di Bologna.11 Per quanto riguarda la seconda fibula (G11 US 1014 95), invece, confronti più calzanti provengono dall’altra sponda dell’Adriatico e, nello specifico, da fibule croate e bosniache che presentano braccia dalla forma approssimativamente pentagonale e/o un umbone centrale piuttosto pronunciato,12 come nel caso galeatese.

Al fine di esaminare in maniera più analitica i materiali di confronto rinvenuti durante la ricerca bibliografica, è stato realizzato, da chi scrive, un database contenente dati relativi a ognuna delle fibule confrontabili a quelle qui proposte.6 In particolare, gliesemplari maggiormente corrispondenti alla prima di queste fibule (G08 US 850 334), senz’altro, sono quelli rinvenuti nel Piemonte centrosettentrionale: nella provincia di Cuneo, nella frazione di S. Lorenzo a Caraglio7 e a Belmonte, un insediamento fortificato altomedievale in provincia di Torino.8 Per

Il database, oltre che agevole strumento di archiviazione dati, si è rivelato utile per considerare in modo semplice e rapido alcune informazioni piuttosto interessanti, come quelle relative ai contesti di rinvenimento di tali manufatti. Molto spesso questi oggetti, data anche la loro cifra artistica, provengono da collezioni museali. Ciononostante, in gran parte dei casi considerati (56/84 fibule), abbiamo a disposizione dati, più o meno accurati, relativi al luogo e al momento del ritrovamento. Dall’analisi di queste notizie è stato possibile elaborare il seguente grafico che enfatizza la preponderante rilevanza dei rinvenimenti in contesti tombali.

1 La fibula cruciforme rinvenuta nella necropoli di Castel Trosino, nella tomba n. 32, per esempio, è d’argento. Per questa fibula si vedano: Mengarell 1902, pp. 216, 233; Baldassarre 1967, p. 157, n. 35; Vinski 1974, tav. XIV.6; De Marchi, Cini 1988, p. 47; Bierbrauer 1992, p. 19, tab. 3.5; Paroli 1995, pp. 312–313; 1997, p. 108, fig. 12 n. 1; 2005, p. 52, tavv. 44, 211; De Marchi 2012, pp. 158–159, fig. 9. 2 Bierbrauer 1992, pp. 1–26. 3 De Vingo, Fossati 2001, pp. 490–496. 4 Donati 1990, p. 291. 5 La notevole varietà morfologica delle fibule a croce è già stata ampliamente messa in evidenza dai vari studiosi che, nel tempo, hanno proposto diverse classificazioni tipologiche di tali manufatti. La classificazione di Bierbrauer risulta essenzialmente descrittiva e non comporta precisazioni cronologiche interne; distingue queste fibule in quattro tipi: in base alla forma dei bracci, in base alla loro disposizione rispetto alla parte centrale, in base alla presenza di appendici decorative e in base alla disposizione dei cerchi decorativi. La più recente classificazione di De Vingo e di Fossati propone, invece, le seguenti nove tipologie: tipo A: a bracci equilateri allargati; tipo B: a croce monogrammata; tipo C: con protome ornitomorfe; tipo D: a bracci equilateri a croce latina; tipo E: a bracci equilateri a croce latina con globetti angolari; tipo F: a croce gammata (o a svastica); tipo G: a croce inscritta entro cerchio; tipo H: a croce latina con apici potenziati; tipo I: in argento (semplice o con almandino). 6 I campi che compongono tale database, realizzato mediante il software Filemaker, sono: numero progressivo che identifica la singola fibula all’interno del database stesso (ID); classificazione tipologica all’interno della quale l’oggetto è inseribile (Tipologia); datazione proposta per l’oggetto (Datazione); dati relativi al luogo di rinvenimento della fibula (Stato; Regione; Località); dati relativi al luogo di conservazione dell’oggetto (Località di conservazione); descrizione delle caratteristiche fisiche del manufatto (Descrizione); note relative al contesto di rinvenimento o altre informazioni utili reperite (Note); bibliografia di riferimento per l’edizione della singola fibula (Bibliografia); immagine, fotografia o disegno della fibula (Immagine). 7 Fibula rinvenuta durante una ricognizione di superficie nel territorio della frazione di San Lorenzo, nel comune di Caraglio (CN) e datata al VII secolo d.C.; ora al Museo Civico di Cuneo. Si veda a proposito: Micheletto, Pejrani Baricco 1997, pp. 308–309, fig. 4 n. 1; De Vingo, Fossati 2001, pp. 491–492. 8 Fibula rinvenuta nel 1975, nel contesto dello scavo dell’insediamento fortificato longobardo di Belmonte, nel settore meridionale del sito. La fase di vita del castrum è datata tra V e VII secolo; nel VII pare attestata

Risulta chiaro, pertanto, come le fibule a croce siano documentate piuttosto frequentemente in contesti funerari. l’occupazione longobarda dell’insediamento, poi repentinamente abbandonato. Cfr. Scafile 1978, pp. 71–72; Micheletto, Pejrani Baricco 1997, pp. 323–324, fig. 10 n. 1; De Vingo, Fossati 2001, pp. 491–492. 9 Entrambe le fibule sono ora conservate nell’Antiquarium di San Pietro di Campiano (RA). Per la prima fibula, si veda: Cavallari 2003, pp. 632– 633, fig. 3; 2005, p. 164, n. 156; 2007, p. 253, n. 175. Per la seconda, della quale si conserva purtroppo solo una parte, si veda: Cavallari 2007, p. 254, n. 176. 10 Per quanto riguarda la forma della croce, si veda anche Cagnana 2002, pp. 445–447, ove è edita una fibula rinvenuta durante uno scavo d’emergenza condotto nel duomo di Sant’Andrea a Venzone (UD), in seguito al terremoto del 1976, in una tomba (t. 26); la fibula, ora al Museo Archeologico Nazionale di Cividale del Friuli, è stata ritrovata in associazione a una ciotola a fondo piatto con orlo leggermente rientrante e marchio a rilievo sul fondo (doppio cerchio concentrico), ed è stata datata tra VI e VII secolo d.C. 11 In particolare si ringraziano il Prof. Sandro De Maria e la Prof.ssa Mariangela Vandini, i quali, oltre a fornire interessanti spunti di ricerca, hanno permesso l’avvio di un progetto di studio archeometrico finalizzato all’indagine chimico-fisica e al confronto tra questi due manufatti, in collaborazione tra il DISCI e il DBC di Ravenna. 12 Fibula a croce greca con braccia espanse approssimativamente pentagonali, da Korita, in Bosnia Herzegovina; datata alla metà del VI secolo d.C. Si veda, Juric 1998: 1102, tav. 1, n. 10. Fibula a croce greca con braccia espanse approssimativamente pentagonali e umbone centrale, da Sisak (Siscia), nell’attuale Croazia. Si veda, Juric 1998, tav. 1, n. 6. Due fibule rinvenute in contesti tombali rinvenuti in località Greblje, a Knin in Croazia, che presentano braccia approssimativamente espanse da rendere la fibula quasi quadrata e umbone centrale molto prominente. Si vedano, Juric 1998, tav. 1, n. 9, n. 11.

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Ketty Iannantuono decisamente cospicua nel territorio alpino centroorientale, soprattutto nell’area veneto-friulana20 e nel Trentino,21 dove ne sono attestati numerosi esempi e dove, addirittura, sono state rinvenute matrici per la fusione che ne attestano la produzione.22 Una notevole concentrazione di fibule simili, inoltre, si registra, al di là dell’Adriatico, nelle regioni balcaniche.23 Mancano, invece, attestazioni consistenti nelle regioni meridionali dell’Italia e nelle isole.24

Utilizzati in modi peculiari all’interno della performance funebre, alle volte, questi oggetti, potevano assumere una più forte valenza allegorica che può essere ricondotta ad ambiti del simbolismo cristiano. La fibula, posta sulla fronte della defunta, o comunque in una posizione di rilievo,13 diventava, all’interno del rito funebre, elemento del corredo e manifestazione di fede – o, meglio, di una precisa volontà di rappresentazione – quale emblema di valore ieratico immediatamente riconoscibile.14 A prescindere da questi casi, d’altro canto, va sottolineato il forte legame che le forme di tali ornamenti hanno con motivi molto simili già presenti nel repertorio delle fibule di epoca romana imperiale.15 Molto significativa pare la somiglianza di alcuni di questi oggetti con le fibule del tipo Feugère 24c (assimilabili al tipo Ettlinger 40), datate alla seconda metà del I secolo d.C. e diffuse particolarmente tra la Francia centro-meridionale e la Svizzera occidentale, le quali, in ultima analisi, potrebbero essere considerate come i prototipi delle fibule cruciformi di epoca altomedievale.16

Collegato al problema della distribuzione è quello della produzione. La grande variabilità formale che caratterizza la tipologia delle fibule cruciformi induce a considerare una produzione frutto di piccolo artigianato, che sicuramente agiva su modelli mutuati da quelli in voga nei centri maggiori, e non piuttosto di grandi manifatture seriali, le quali avrebbero sicuramente dato luogo a una produzione più uniforme. In tal senso risulta molto interessante l’esempio del sito di produzione metallurgica scoperto presso il lago di Ledro, in Trentino.25 Tra i materiali ivi rinvenuti sono presenti forme per la fusione di fibule a croce e a disco, ottenute da frammenti di pietra ollare reimpiegati. L’insediamento di Ledro, molto probabilmente doveva costituire solo uno dei siti di

Le fibule a croce delle quali si è rinvenuta notizia bibliografica sono confluite in una piattaforma GIS per poterne agevolmente analizzare i dati relativi alla distribuzione. Le fibule cruciformi costituiscono, infatti, un ottimo esempio di manufatti altomedievali diffusi su entrambe le sponde dell’Adriatico. Pur disomogenea, l’area di diffusione di tali manufatti risulta notevolmente ampia: dalla Slovenia17 alla Liguria,18 all’Italia centromeridionale.19 La presenza di queste fibule pare

emergenza in località San Gaetano di Vada a Livorno; per quest’ultima si vedano: Ciccone Struman, Consoli 1981, pp. 253–259, tav. 1.1; Bierbrauer 1992: 7, fig. 5.4;); le Marche (ove ne sono testimoniate 4: 2 dalla necropoli di Castel Trosino, per le quali si vedano Paroli 2005, p. 37, tavv. 30 e 211; 52, tavv. 44 e 211 e due provenienti dai materiali del Museo Archeologico di Ascoli Piceno privi di contesto di riferimento, per le quali si veda De Vingo, Fossati 2001, pp. 491–492); l’Umbria (ove ne sono state ritrovate due, entrambe in tombe delle necropoli di Nocera Umbra; per una si veda, Bierbrauer 1992, p. 19, tab. 2.4; De Vingo, Fossati 2001, pp. 491–492; Rupp 2006, pp. 134–135, tav. 126 A; De Marchi 2012, pp. 156–157, fig. 6; per l’altra: Von Hessen 1978, pp. 66–67, t. 34, fig. 9 n. 2; Rupp 1996, pp. 195–196, t. 34, tav. 55 A;); l’Abruzzo (ove ne è testimoniata solo una dal territorio di Penne (PE) e dalla dubbia interpretazione – potrebbe trattarsi di un pendente – per la quale si veda, Staffa 1997b, pp. 131–132, fig. 9); il Molise (ove ne sono documentate due, una dalla necropoli di Vicenne, a Campochiaro (CB), per la quale si veda, Ceglia 1991, pp. 329–334, e l’altra dallo scavo del sepolcreto medievale nell’area forense della città romana di Saepinum, immediatamente all’esterno della t. 26, per la quale si vedano: Genito 1988, p. 57; Matteini Chiari 1988, p. 94; Staffa 2004a, p. 232; Ebanista 2011, p. 352). 20 Il Friuli Venezia Giulia è una delle aree ove le fibule a croce sono maggiormente testimoniate: ne sono state ritrovate undici, nove delle quali nel territorio udinese e due da quello di Pordenone (per le quali i riferimenti più esaustivi sono: Calligaro 1995; Cagnana 2002). Il Veneto fornisce la testimonianza di sette fibule a croce, delle quali seo nel bellunese (cinque dal sepolcreto di Voltago, per le quali si può far riferimento a Calligaro 1995, una da ricognizione di superficie nel territorio di La Valle Agordina, per la quale si veda Cagnana 2002, p. 442) e una nei recenti scavi condotti nell’area del Capitolium di Verona. Per quest’ultima si veda Bolla 2008. 21 L’area trentina, con le sedici fibule rinvenute nei territori delle province di Trento e di Bolzano, è quella maggiormente rappresentata. A riguardo si vedano i lavori di Bierbrauer (1992). 22 È il caso del ritrovamento trentino di Ledro–Volta di Besta. 23 Le regioni balcaniche ove la presenza di queste fibule è più rappresentata sono la Croazia (quindici fibule a croce) e la Bosnia (otto fibule a croce; sette delle quali rinvenute in contesti necropolari altomedievali nei pressi di Korita, nella regione di Tomislavgrad, antica Delminium). Un’altra fibula a croce, poi, proviene dall’odierno Kosovo, da Gračanica, nelle vicinanze della città romana di Ulpiana. Per questa si vedano in particolare: Vinski 1964; 1968; 1974; Juric 1998; 2005. 24 Unico esempio di fibula a croce rinvenuta in Italia meridionale è a Salerno: Peduto 1992, pp. 58–59; Ebanista 2010, p. 341. 25 Dal Rì, Piva 1987.

13 In tal proposito, molto rilevanti paiono alcuni casi di fibule rinvenute in contesti tombali. Talvolta, infatti, la posizione della fibula deposta nella tomba sembra particolarmente significativa. Per esempio, la già citata fibula rinvenuta a Castel Trosino nella tomba 32 era deposta sul petto della defunta; in tal caso la connotazione religiosa dell’oggetto è altresì chiarificata dall’iscrizione augurale “RUSTICA VIVAT” che corre sui bracci. Esempio simile è, inoltre, quello della fibula rinvenuta a Grancia (GR), nella tomba 49, posta direttamente sulla fronte della defunta con una modalità d’uso molto simile a quella documentata per le crocette longobarde. Per questa fibula si vedano, Bierbrauer 1992, p. 5, fig. 3.1; Paroli 1997b, p. 108, fig. 2; De Vingo, Fossati 2001, p. 491; con specifico riferimento all’interpretazione della fibula a croce come simbolo della fede cristiana della donna sepolta, si veda, Von Hessen 1971, pp. 59–60. Anche a Nocera Umbra una fibula cruciforme, è stata rinvenuta nella tomba di una defunta (tomba n. 113), in una posizione, accanto al gomito sinistro, ritenuta indicativa dagli studiosi. In proposito si veda, Rupp 1996, pp. 109–110. 14 Tale simbolismo risulterebbe ancora più evidente in quelle fibule che presentano forme zoomorfe, con raffigurazioni di animali propri della tradizione cristiana che sormontano la croce, come nel caso della colomba, nella quale molti studiosi hanno riconosciuto una chiara allusione biblica. Si veda per esempio: Calligaro 1995,p. 103. 15 Cagnana 2002, p. 442. 16 Il tipo di fibula Feugère 24c risulta particolarmente diffuso nei territori della Francia centrale e della Svizzera occidentale, tra il 30/40 d.C. e il 60/70 d.C. Feugère 1985, pp. 335–337. 17 Dalla Slovenia provengono due fibule: una dalla necropoli di Kranj, nella parte settentrionale della Slovenia, e l’altra da Vranje, vicino Sevnica, sulla riva sinistra della Sava. Si vedano, in particolare: Vinski 1964; 1968; 1974; Juric 1998; 2005. 18 In questa regione sono state rinvenute due fibule: una nel castrum di Sant’ Antonino di Perti a Finale Ligure (SV) e un’altra tra i materiali depositati nel Museo Archeologico Nazionale di Luni provenienti da vecchi scavi privi di contesto di rinvenimento. Per la prima si veda: De Vingo, Fossati 2001 e, per l’altra, Cini, Palumbo, Ricci 1980, pp. 37–38; Bierbrauer 1992, p. 4, fig. 2.5; De Vingo, Fossati 2001, pp. 491–492. 19 Per l’Italia centrale e centro-meridionale, le regioni che hanno restituito fibule a croce sono la Toscana (ove ne sono testimoniate due: la già citata fibula da Grancia e un’altra da un contesto di scavo di

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Fibule cruciformi dalla villa di Teoderico a Galeata: dati di scavo e confronti produzione di oggetti di metallo destinati alle popolazioni locali e limitrofe presenti nella regione e, al di fuori di essa, nel Friuli, nelle vallate alpine e in aree poste più a meridione. Per quanto riguarda la presenza di tale tipologia di fibule in Emilia-Romagna,26 e in particolare per quanto riguarda i due oggetti rinvenuti nel sito della villa di Teoderico a Galeata qui presentati, sebbene non si tratti di manufatti di eccezionale fattura o particolarmente preziosi, è possibile ipotizzare una loro diretta provenienza dalla vicina Ravenna. Acknowledgements: I wish to thank Prof. Sandro De Maria and Prof. Riccardo Villicich, scientific and field director of the archaeological investigations in Galeata’s site.

Fig. 1. Fibula a croce greca, rinvenuta nel sito della villa di Teoderico a Galeata (FC). Laboratorio del Museo Civico Mambrini di Galeata.inv. G08 US 850 334 (K. Iannantuono).

26 In Emilia Romagna, oltre alle due fibule rinvenute a Galeata nel corso delle operazioni di scavo condotte dall’Università di Bologna nel sito della villa di Teoderico, si segnalano altri quattro rinvenimenti: due fibule rinvenute durante delle raccolte di superficie nel territorio di San Pietro in Vincoli (RA), per le quali si faccia riferimento a Cavallari 2007, pp. 253–254, nn. 175–176; una fibula attualmente conservata al Museo di Rimini, per la quale si veda Cavallari 2005, p. 165, fig. 157 e Maioli 1992a, pp. 290, 294–295, tav. III 2.6.6, fig. III 2.8.2 e, infine, il reliquiario proveniente dal duomo di Berceto (PR) per il quale si suppone il riutilizzo di una fibula a croce defunzionalizzata.

203

Ketty Iannantuono

Fig. 2. Fibula a croce greca con umbone centrale, rinvenuta nel sito della villa di Teoderico a Galeata (FC). Laboratorio del Museo Civico Mambrini di Galeata. inv. G11 US 1014 95 (K. Iannantuono).

Fig. 3. Esempio di scheda del database utilizzato per schedare e confrontare le fibule (K. Iannantuono).

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Fibule cruciformi dalla villafibule di Teoderico a Galeata: dati di scavo e confronti Contesto di provenienza delle a croce 35 30 25 20 15 10 5 0 Da scavo

Da tomba

Da survey

Da collezione museale

Fig. 4. Grafico del contesto di provenienza delle fibule a croce nell’area adriatica (K. Iannantuono).

Fig. 5. Pianta di distribuzione delle fibule a croce nel contesto adriatico (K. Iannantuono).

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3.22 La croce pettorale del Duomo di Berceto (PR): ipotesi di un riutilizzo Filippo Fontana Università di Parma, DUSIC, Programma S.F.E.R.A. –Spazi e Forme dell’Emilia Romagna Antica [email protected] Abstract: The focus of this study is the pectoral cross, used as reliquary, conserved at the Museum of Berceto Cathedral (Parma, Italy); it is small, about 5 cm in diameter, and on first examination it seems to be made of bronze covered with gilded copper inserts. The type is a cross patée, with the ends of the arms convex and curved, derived from a Greek cross. The type of the cross-reliquary has no parallel among higher-level productions of similar devotional objects, and presents some issues relating to typological definition. The shape is, in fact, very similar to that of cross-shaped brooches. Moreover, in the centre there are three small appendages resembling the pin buckles used in the same cross brooches. Likewise, on the verso of the object, there is a small hollow not used to contain the relic. Several parallels to the central umbo have been observed in the brooches, where it is part of the decoration and sometimes used as a prong setting to mount coloured glass or gemstones. The discovery of cross brooches reused as funerary pectoral crosses, as signs of adherence to the Christian religion, makes it possible to assume, in the case of Berceto, the reuse of a brooch defunctionalised by removal of the pin buckle. It would be used in reference to the symbolism of the Christian cross, using the appendages to lock the little capsella that held the relics. Keywords: Berceto; Cross-shaped brooches; Pectoral crosses; Reliquary crosses; Lombards; Cisa pass; Liutprand.

studi condotti da Bierbrauer sulle attestazioni a sud delle Alpi hanno delineato un uso diffuso di questi oggetti a partire dal V fino al VII secolo.4

Osservando l’adozione di fibule a croce, documentate in misura sempre crescente a partire dal V secolo a sud delle Alpi, è possibile seguire una seriazione tipologica variamente rappresentata nei suoi sottotipi1 testimoniata fino alla fine del IX secolo in un progressivo spostamento verso nord. Da diversi autori2 è stato messo in luce il rapporto fra tali esempi di cultura materiale e il fenomeno storico dell’evangelizzazione compiuta a più riprese nelle aree centrali e settentrionali dell’Europa. Alcuni ricercatori hanno espresso in diversi contributi la documentazione in merito alla problematica del collegamento fra cultura materiale e adozione di un modello culturale. A questo riguardo gli esempi di fibule a croce rinvenuti sono stati a più riprese analizzati al fine di comprendere il rapporto fra gli elementi del rituale religioso e l’utilizzo di un sistema simbolico che testimoni questa scelta.3 In particolare gli

Un’ulteriore problematica è stata sollevata in merito al contesto di ritrovamento degli oggetti stessi; è infatti documentata, per la maggior parte degli esemplari, la provenienza da ambiti funerari non mancando, tuttavia, attestazioni in contesti d’uso.5 Questi ultimi risultano di estremo interesse in quanto concorrono a delineare, com’è stato ipotizzato,6 un uso programmatico di tali oggetti caricati di significati simbolico-rituali radicati nelle strutture sociali.7 Nell’areale italiano, per esempio, è stato sottolineato in più occasioni8 come una tale diffusione, distribuzione delle fibule a croce (Bierbrauer 2005, pp. 429–442; Mǖller Wille 2005, pp. 443–482). 4 Bierbrauer 1992. 5 Bierbrauer 1992, p. 24. 6 Bierbrauer 2005, p. 430. 7 Graslund 2005, p. 485. Gli aspetti d’uso programmatico di tali ornamenti in relazione al cambiamento delle strutture sociali e alla diffusione del cristianesimo sono stati recentemente analizzati in area scandinava (Staecker 2005, p. 469) e anglosassone (Martin 2012). 8 Golinelli 1983, p. 242.

1 De Vingo, Fossati 2001, p. 497. In merito alle problematiche relative alla varietà morfologica di questi materiali. 2 Carver 2005. 3 Il recente volume di Martin Carver (Carver 2005) raccoglie diversi spunti a proposito della possibilità di delineare, attraverso lo studio della cultura materiale e dei contesti archeologici, lo sviluppo del cristianesimo verso il Nord Europa. Particolare attenzione è dedicata al significato della

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La croce pettorale del Duomo di Berceto (PR): ipotesi di un riutilizzo in associazione alle attestazioni documentarie di sedi diocesane a partire dalla prima metà del V secolo, sia una testimonianza della precisa adesione culturale sottolineata dalla compresenza di simboli (come le fibule con protome a forma di pavone) afferenti al nuovo linguaggio religioso. Esempi di fibule cruciformi provengono, in relazione allo sviluppo degli edifici di culto in ambito rurale, da contesti italiani fra V e VIII secolo, come Invillino9 o Castel Trosino.

dalla diffusione del cristianesimo. La croce infatti presenta diverse tracce che rimandano a una fibula a croce riutilizzata come croce pettorale mantenendo, quindi, la stessa valenza simbolico-culturale. In ragione di quanto emerso l’oggetto appare contestualizzato come una testimonianza di cultura materiale valutabile all’interno del processo di diffusione e radicamento del cristianesimo. Nel territorio questo fenomeno è documentato, dal punto di vista del dato scritto, dalla fondazione regia dell’abbazia di Berceto ricordata da Palo Diacono.14 Lo studio, nato nell’ambito degli insegnamenti della Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici di Bologna, ha interessato quindi la croce pettorale porta reliquie così come conservata presso il Museo del Duomo di Berceto (PR). Di dimensioni ridotte, circa 5 cm di diametro, a un esame autoptico è parsa realizzata in bronzo ricoperto con inserti in rame dorato. Durante le analisi archeometriche è stato possibile determinare l’esatta composizione di questi inserti; le alte concentrazioni di ossidi di ferro e l’osservazione al Microscopio Elettronico a Scansione hanno permesso di identificarle come aree di forte ossidazione del metallo sottostante. La forma è del tipo patente a cerchio derivata dalla croce greca con le estremità stondate. All’incrocio dei due bracci è applicato un contenitore porta-reliquie, fissato per mezzo di due piccole cerniere bronzee. Nella parte superiore insiste, tramite una saldatura, un appiccagnolo per la sospensione. Il verso presenta invece una piccola cavità al centro, somigliante a un castone, non funzionale allo spazio usato come reliquiario.

Volendo seguire la diffusione di questi oggetti verso nord emerge che fibule a croce con simbologia cristiana nel territorio fra Mosella e Reno sono abbondantemente rappresentate alla fine del VI secolo. Nell’area percorsa dal tratto finale del fiume Elba fino alla piena Sassonia, nello stesso periodo in cui compaiono vescovati fondati sotto il regno di Carlo Magno, quali Paderborn e Amburgo, sono molteplici i rinvenimenti di fibule cruciformi ovvero di fibule a disco decorate con motivi cruciformi. La straordinaria qualità di alcuni fra questi oggetti, come gli esempi di Worms, ha indotto a ipotizzare una committenza alta per tali opere di oreficeria, forse da ricercare nell’ambito della corte imperiale.10 Allo stesso modo, la distribuzione di croci pettorali e la croce reliquiario emersa nel contesto funerario di Birka è ricondotta all’opera di evangelizzazione del vescovo di Amburgo Ansgarnella bassa Scandinavia. Proprio dalla località dove, stando alla cronaca, i missionari di Ansgar fondarono una piccola comunità fra l’829 e l’85011 provengono diversi oggetti che testimoniano l’adozione di oggetti cruciformi in osservanza al nuovo credo.12 La distribuzione di questa classe tipologica interessa anche le isole britanniche dove, oltre alle fibule a croce latina di tradizione sassone, compaiono, dalla metà dell’VIII secolo fibule a croce greca. Il problema della contestualizzazione sociale, che rimanda innanzitutto a un utilizzo prettamente femminile, e del riutilizzo di questi oggetti ha ampiamente interessato recenti studi di ambito anglosassone. In particolare gli studi di Martin sembrano aver messo in luce un aspetto ideologico di questi materiali, tale da prevaricare l’effettivo valore economico che spiega il frequente ricorso a riparazioni, rifunzionalizzazioni e riusi di questi oggetti rendendoli quasi inalienabili.13 Accanto a una valenza più prettamente riconducibile all’ambito del rituale funebre si deve considerare un altrettanto importante legame delle stesse fibule a croce con convenzioni sociali estremamente precise che vanno nella direzione di indicare una consapevole adozione di valori.

La croce è stata rinvenuta all’interno dell’urna posta in un sacello sotto l’altare maggiore, costruito per ospitare le reliquie di San Moderanno. Nello stesso spazio, conservata in un’arca plumbea portante il millesimo 145315, è collocato parte del corpo di Sant’Abbondio dedicatario dell’abbazia prima di San Moderanno. Secondo quando sostenuto dalle fonti, in particolare gli Acta Translationis S. Abundi16 i venerati resti del santo vennero in un primo momento ospitati nello spazio ricavato sotto l’altare maggiore e successivamente a una ricognizione deposte nella cassetta in piombo da dove proviene, appunto, l’enkòlpion in bronzo conservato dal 1984 nel museo del duomo. L’attestazione fornisce quindi un termine post quem che documenta antecedentemente la presenza dell’oggetto riutilizzato come croce pettorale. La condizione del ritrovamento pone quindi diversi problemi La notizia della fondazione da parte di re Liutprando del monasterium quod Bercetum dicitur situato in summa quoque Bardonis Alpe è riportata da Paolo Diacono; segnalando i principali monumenti alla memoria del sovrano menziona Berceto assieme alla costruzione di San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia. Le indagini archeologiche effettuate dall’inizio del 1985 e terminate nel 1987 sono seguite ai lavori di consolidamento dell’edificio. Delle modificazioni subite in antico rimane traccia negli Acta Translationis S. Abundi che riferiscono in merito all’allungamento dell’abside (VIII sec.); inoltre sotto l’altare maggiore venne, nello stesso momento, ricavato un sacello per ospitare il corpo del fondatore San Moderanno. Nello spazio è collocata parte del corpo di Sant’Abbondio dedicatario dell’abbazia prima di San Moderanno. 15 Bertozzi 1989, p. 23. 16 Bollande 1751, p. 270. 14

Risulta interessante, nell’ambito dello studio che ha interessato la croce-reliquiario del Duomo di Berceto, esaminare una pratica di rifunzionalizzazione di un oggetto all’interno dello stesso àmbito culturale caratterizzato

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Cagnana 2001, p. 102. Mǖller Wille 2005, p. 445. Rimberto, Vita Anskarii, in Dahlamann 1829. Graslund 2005, p. 485. Martin 2012.

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Filippo Fontana di Beni Culturali dell’Università di Bologna, condotte dalla prof.ssa Vandini, hanno permesso di acquisire dati certi riguardo la lega utilizzata con lo studio dell’oggetto tramite il SEM e le risposte all’XRF. A una prima valutazione dei dati emersi è possibile affermare che sull’oggetto sono presenti tracce di saldatura in prossimità dell’appiccagnolo applicato, quindi, in un secondo tempo per la sospensione. Inoltre è emersa la presenza di una lamina argentata, completamente ossidata e non percepibile a occhio nudo, applicata con una resina all’anima bronzea dell’oggetto. Una ulteriore analisi radiografica potrebbe evidenziare sia le saldature già visibili, come nel fissaggio dell’appiccagnolo, che altri interventi approntati al momento della defunzionalizzazione della fibula. Si mostrerebbero anche eventuali tracce di decorazione superficiale, come per esempio il motivo degli occhi di dado così attestato nelle fibule a croce, anche quando il cattivo stato di conservazione delle lamine più esterne non lo renda visibile a occhio nudo.

in relazione ai modi e ai tempi della defunzionalizzazione e al ciclo di vita dell’oggetto stesso. La forma della croce-reliquiario non trova confronti all’interno delle maggiori produzioni di oggetti devozionali di questo tipo e presenta alcune problematiche riguardo la definizione tipologica. La forma infatti ricorda molto da vicino le fibule del tipo a croce che gli autori riferiscono al costume femminile goto e longobardo fra il VI e VIII secolo. Altri particolari della “croce” sembrano fornire supporto a questa ipotesi. Al centro si notano tre piccole appendici alle quali era assicurata la capsella che rivelano stringenti somiglianze con gli agganci per l’ardiglione nelle fibule ricordate. Del pari, in quello che ora è il verso dell’oggetto, è presente una piccola cavità che non è funzionale allo spazio usato per ospitare la reliquia. Anche in questo caso sono molteplici i confronti con l’umbone centrale delle fibule a croce greca come per esempio quella di Benevento dove il piccolo umbone è parte integrante della decorazione e secondo alcune ipotesi sarebbe da interpretare come un castone per l’applicazione di pietre dure o vetri. La tipologia di questi manufatti, documentata sia in contesti abitativi che funerari è ricondotta al costume delle genti romanze a partire dal V secolo fino ad arrivare ai contesti chiusi di Castel Trosino e Nocera Umbra che datano al VI–VII secolo. Questa lunga permanenza nella cultura materiale è particolarmente documentata nelle aree alpine e transalpine di età carolingia e lascia aperto il problema della datazione precisa di questi oggetti. In contesti funerari è documentato in letteratura l’utilizzo delle fibule quali vere e proprie croci assumendo quindi un significato che si addice agli elementi del simbolismo cristiano. Si trovano infatti, soprattutto in area alpina, reimpiegate sia in corredi funerari sia come croci pettorali. Nel caso di Berceto quanto esposto rende possibile ipotizzare un riutilizzo della fibula che, defunzionalizzata dopo l’asportazione dell’ardiglione, è stata impiegata nel senso del simbolismo cristiano della croce impiegando gli agganci per incastrare la capsella reliquiario.

Acknowledgements: Un ringraziamento va all’attenzione e alla

disponibilità del Prof. Sandro De Maria e della Prof.ssa Mariangela Vandini, che ci hanno permesso di dare l’avvio al progetto di studio archeometrico della croce di Berceto finalizzato all’indagine chimicofisica del manufatto.

Oltre al confronto puntuale fornito dall’esempio proveniente da Galeata e analizzato nei paragrafi precedenti, sono stati individuati altri esempi morfologicamente attinenti alla croce di Berceto. Due fibule, appartenenti all’àmbito culturale anglosassone e datate fra la metà dell’VIII e il IX secolo, presentano la medesima forma patente a cerchio nello sviluppo dei bracci. In ambedue i casi, inoltre, la Canterbury Cross, rinvenuta alla fine del XIX secolo in St. George street, e la Trumpington Cross proveniente da uno scavo a nord di Canterbury del 201217 mostrano segni di riutilizzo e asportazione dell’ardiglione. La medesima tipologia è documentata nella croce pettorale rinvenuta durante gli scavi dei contesti funerari del villaggio di Birka; in quest’ultimo caso il confronto è relativo alla morfologia della croce mentre non sono riportati segni di riutilizzo.18 Indagini archeometriche non distruttive, in corso di valutazione presso il Dipartimento 17 18

Lucy 2012. Graslund 2005, p. 490.

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La croce pettorale del Duomo di Berceto (PR): ipotesi di un riutilizzo

Fig. 1. Croce-reliquiario dal Museo del Duomo di Berceto (F. Fontana).

Fig. 2. Pianta di distribuzione delle fibule a croce a Nord delle Alpi (F. Fontana).

Fig. 3. Recto (1) e verso (2) della croce del Duomo di Berceto (F. Fontana).

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3.23 La villa di San Pietro in Cotto (Gemmano) Mila Bondi Università di Bologna, Disci [email protected] Abstract: At the farmhouse Podere Faetani, some rooms have been discovered that can be attributed to a suburban villa dating to the 1st century AD. Although the building seems to have been abandoned during the 5th century, the area remained occupied at least until the 8th century, as is also suggested by a metalworking workshop located near the Glareata road. Keywords: San Pietro in Cotto; Villa; Rural road; Metal workshop.

a ovest del podere.1 Come già anticipato, nel settore Nord è stata messa in luce parte dell’edificio la cui esistenza era già nota per i resti presenti nelle cantine di casa Faetani. Nella prima fase, collocabile nel I sec. d. C., il complesso edilizio sembra svilupparsi su un’ampia area, estesa oltre via San Pietro, come indicato dall’abbondante materiale fittile e ceramico affiorante nei campi (Fig. 3). Purtroppo le prospezioni geomagnetiche effettuate nell’area non hanno restituito evidenze strutturali significative, forse a causa della distruzione del deposito archeologico dovuta ai lavori agricoli. A questa fase appartengono due ambienti pavimentati con laterizi di forma esagonale (uno dei quali già individuato nelle cantine). In età Antonina, il complesso edilizio venne ristretto a ovest, dove fu allestito un porticato prospiciente la strada glareata.

Presso la Piana di San Pietro in Cotto, un’ansa del fiume Conca dove il corso è facilmente guadabile, il Dipartimento di Storia Culture Civiltà (Università di Bologna), con il contributo di un consorzio di Comuni della vallata del Conca, ha effettuato una serie di indagini all’interno del podere Faetani (Gemmano, Fig. 1). Obiettivo delle ricerche era conoscere l’evoluzione dell’insediamento, dalla fitta rete di siti rurali di età romana fino al sorgere dei centri fortificati medievali. In particolare, si volevano comprendere alcune evidenze, relative a un ambiente riscaldato e genericamente attribuite al periodo romano, presenti nella cantina della casa colonica del podere. Allo scopo, sono stati indagati stratigraficamente due saggi (circa 10 x10 m), collocati a Nord e Sud dell’abitazione e le due campagne di scavo (2008–2009) hanno evidenziato la lunga occupazione del sito, dal II sec. a.C. (frequentazione testimoniata per ora dall’elevata presenza di materiale residuale) ai primi secoli dell’alto Medioevo.

Contestualmente, fu allestita una vasca mosaicata, allineata ai due ambienti di cui si è già detto, i quali vennero dotati di un sistema di riscaldamento impostato sui pavimenti in laterizi (Fig. 3). La ristrutturazione delle strutture ne affinò dunque l’aspetto residenziale, fenomeno che trova riscontro in diversi altri esempi della Cisalpina romana.2 L’elevato tenore del complesso è indicato anche dal recupero di numerosi elementi decorativi in marmo e intonaci dipinti, oltre che dal buon livello della cultura materiale (ceramica fine da mensa, anche d’importazione; numerosi oggetti di metallo sia relativi alla cura personale che di ambito domestico).3

Nel settore Sud, è stato messo in luce un breve tratto di strada glareata, di cui sono stati riconosciuti almeno cinque rifacimenti, con orientamento nord/ovest-sud/est (Fig. 2). Il manto stradale, largo grossomodo 3 m, era in ciottoli di fiume, materiale di facile reperibilità, basso costo e che facilitava la manutenzione (durante lo scavo sono stati individuati numerosi restauri del manto stradale anche in frammenti di laterizio). L’assenza di impronte carraie e di elementi laterali per il deflusso delle acque sembrano collocare la strada in un sistema di percorrenza marginale, all’interno di un contesto agricolo. Il percorso rimase in funzione dal I d.C. al VII–VIII, dunque anche dopo l’abbandono dell’edificio individuato a Sud della cascina, suggerendo così che la sua frequentazione ne fosse in parte slegata. Verosimilmente, costituiva un elemento di raccordo tra le due estremità della piana, funzione venuta meno nell’VIII sec., quando la viabilità si trasferì sul crinale

Le evidenze sono state interpretate come parte di una villa urbanorustica, cioè dotata di impianti produttivi legati allo sfruttamento agricolo e di una parte residenziale, che Cirelli 2014c, pp. 15–22; Bondi, Scozzari 2014, pp. 165 – 172. In generale, si veda Cirelli 2014a. 2 Marino, Tirincanti 2014, p. 159. 3 Chinni 2014, pp. 183–185. 1

210

La villa di San Pietro in Cotto (Gemmano) fu occupata fino al V secolo, senza presentare tracce di decadimento strutturale o cambiamenti nella qualità della cultura materiale. Solo in seguito gli ambienti del balneum sembrano collassare a causa della mancata manutenzione, indicando l’abbandono dell’edificio. Nel corso del VII–VIII secolo, parte dell’area sulla quale si era sviluppata la villa venne rioccupata con strutture più semplici, in materiale deperibile e di reimpiego, recuperato dalle strutture di età imperiale (Fig. 4). Sul lato occidentale della strada glareata è stata intercettata parte di un impianto di lavorazione dei metalli, il cui momento di maggiore attività è collocabile in questa fase. L’analisi dei resti di produzione ha consentito di stabilire che nell’atelier venivano svolte tutte le fasi di lavorazione, dalla riduzione dei minerali fino alla forgiatura, probabilmente di strumenti agricoli.4 Tutti gli elementi sembrano collocare l’occupazione in un ambito rurale. Per concludere, l’insediamento messo in luce presso il podere Faetani trova riscontro in diversi altri ritrovamenti attestati nella bassa e media valle del Conca, costituiti sia da villae che fattorie rurali, a riprova dell’intenso sfruttamento agricolo della zona (Fig. 5). In particolare, sia i rinvenimenti, sia le menzioni di autori classici attestano una vocazione vinicola, forse già sviluppata nel primo quarto del II secolo a. C.5 La crescita economica legata ala viticoltura era supportata dalla rete viaria, di cui uno degli assi principali era costituito dalla via Flaminia, che collegava l’area anche alla città di Ariminum e il suo porto. La fine della villa va forse messa in relazione alle trasformazioni subite dal’assetto rurale in età tardoantica, in particolare alla concentrazione dei patrimoni fondiari in grandi latifondi successiva alla guerra greco-gotica, che ebbe significative conseguenze anche sulle modalità di insediamento.

4 5

Begnozzi 2014, pp. 173–174. Cirelli 2014c, p. 27.

211

Mila Bondi

Fig. 1. Area di diffusione di materiale archeologico nella Piana di San Pietro in Cotto (CIrelli 2014a).

Fig. 2. Tratto di strada glareata ritrovata negli scavi di San Pietro in Cotto (Cirelli 2014a).

212

La villa di San Pietro in Cotto (Gemmano)

Fig. 3. La villa/mansio di San Pietro in Cotto (Cirelli 2014a).

213

Mila Bondi

Fig. 4. Foto dall’alto dell’area termale nella villa/mansio di San Pietro in Cotto (Cirelli 2014a).

Fig. 5. Struture altomedievali (VIII sec.) rinvenute al di sopra degli ambienti della villa di San Pietro in Cotto (Cirelli 2014a).

214

La villa di San Pietro in Cotto (Gemmano)

Fig. 6. Carta di distribuzione dei siti di età romana e tardoantica nella bassa valle del Conca (Cirelli 2014a).

215

3.24 Complessi di scavo di età tardoantica provenienti da contesti abitativi urbani ed extraurbani della Romagna Chiara Guarnieri*, Giovanna Montevecchi*, Claudio Negrelli*, Bruno Fabbri**, Sabrina Gualtieri** *Soprintendenza ABAP BO, MO, RE, FE; **ISTEC-CNR, Faenza [email protected]; [email protected]; [email protected]; [email protected]; [email protected] Abstract: The aim of this contribution is the analysis of pottery from the 4th to the 8th century, based on five Ravenna, Faenza and Rimini archaeological contexts, examining imports and local productions. General remarks are made about the reasons for the changes, continuity and discontinuity over the period studied. The archaeometric study of the common ceramics from Faenza Pasolini’s Palace showed evidence of two groups, on the basis of the presence of coarse inclusions: silicate rock fragments or spathic calcite grains. It is probable that the group with silicate inclusions is from the Po valley, while a provenance from north-eastern Italy can be hypothesised for the coarse ceramics with inclusions of spathic calcite. Keywords: Ceramics; Romagna; Late Roman period; Optical microscopy; Chemical composition.

piazza Anita Garibaldi. Il quinto contesto esaminato proviene da un butto databile tra V e VI secolo rinvenuto nella domus del Chirurgo a Rimini. La circolazione e il consumo di materiali in ambito rurale è documentato dai reperti provenienti da differenti situazioni: il pozzo della villa romana di Russi (RA) ci restituisce le associazioni di un probabile centro direzionale a continuità di frequentazione,2 il sito di Riolo Terme/Serravalle (RA) rappresenta forse un sito nuovo, sia pure collocato nei pressi di una precedente villa urbanorustica; un ulteriore sito si trova a S. Prospero di Imola3 ed è relativo a una fase di rioccupazione di un rustico romano, e si data alla metà del V secolo, a cui si aggiunge il sepolcreto rinvenuto a Castrocaro Terme – Terra del Sole, databile attorno al VI secolo.

L’intervento è una sintesi parziale di un più ampio programma di ricerca relativo alla produzione e alla circolazione della ceramica di età tardoantica nella Romagna. L’indagine, tuttora in corso, è partita innanzitutto con l’individuazione di contesti di età tardoantica stratigraficamente affidabili; inoltre, nell’ottica di fornire un panorama sufficientemente completo della circolazione ceramica nella zona in questione, sono state selezionate diverse tipologie insediative, quali gli insediamenti urbani e rurali. All’interno di questo campione statistico si è rivolta in particolare l’attenzione alle problematiche inerenti le produzioni locali e gli apporti regionali e alloctoni. La lettura è nel contempo sincronica (confronto tra le diverse tipologie produttive provenienti da diversi contesti sociali) e diacronica (continuità/discontinuità delle produzioni). I contesti urbani al momento selezionati sono cinque: due provengono da Faenza e riguardano le fasi di abbandono e di sporadica frequentazione della domus di palazzo Pasolini, databili tra il V e l’inizio del VII secolo, e i livelli di frequentazione di un edificio tardoantico rinvenuto a palazzo Grecchi.1 Due contesti sono stati restituiti da scavi a Ravenna, entrambi relativi a fasi databili al V–VI secolo, rispettivamente da via D’Azeglio e dal recente scavo di

Elementi accomunanti i diversi contesti esaminati sono la grande quantità di ceramica comune da cucina e di ceramiche a rivestimento rosso, classi che penetrano capillarmente sia nei mercati urbani sia in quelli rurali. In questa sede si esamineranno brevemente solo tre contesti urbani (Faenza, palazzo Pasolini; Ravenna, domus di via D’Azeglio; Rimini, domus del Chirurgo) e limitatamente alla ceramica priva di rivestimento a impasto grezzo.

1 Quest’ultimo contesto ha avuto una prima sintetica presentazione: Guarnieri, Montevecchi, Negrelli 2006.

2 3

216

Montevecchi e Negrelli, infra. Una breve notizia del rinvenimento si trova in Guarnieri 1994.

Complessi di scavo di età tardoantica provenienti da contesti abitativi urbani ed extraurbani della Romagna Il panorama della ceramica comune da cucina del Periodo V di palazzo Pasolini4 – per quanto riguarda le ceramiche prive di rivestimento con impasto grezzo – è abbastanza ampio e presenta una maggioranza di tipi lisciati rispetto a quelli steccati, comunque attestati. Nella fase 1 sono attestate due tipologie di olle (Tav. 1.1–2) che si trovano associate a tegami a orlo rientrante e ollette a carenatura mediana, in diverse varianti (Tav. 1.3–4); queste forme trovano confronti nei rinvenimenti dei pozzi-deposito modenese.5

prendono in considerazione due aree corrispondenti ai due settori urbani che furono separati da una strada6 (Fig. 3). Nel settore meridionale venne edificata una domus con connotazioni palaziali;7 nelle stratificazioni precedenti all’insediamento residenziale, caratterizzate da limi argillosi corrispondenti a rialzamenti, furono rinvenuti numerosi materiali ceramici, fra cui anche ceramiche grezze. In particolare si segnalano alcuni oggetti provenienti dal sottofondo pavimentale della stanza 228 e da sottostanti strati preparatori. Si segnalano olle con labbro ingrossato con incavo per il coperchio9 (Tav. 4.1), olle con orlo ingrossato (Tav. 4.2); tegami a orlo rientrante10 (Tav. 4.3–5), materiali che coprono un arco temporale che va dalla tarda età romana fino all’alto Medioevo (IV–VI secolo).

I numerosi frammenti di tegami rinvenuti rientrano tutti nel tipo a labbro introflesso o rientrante, diversificati fra loro da una diversa morfologia dell’orlo (Tav. 1.5–11); solo in un caso è stato possibile ricostruire una forma intera dal fondo sabbiato (Tav. 1.5). Un modesto quantitativo di frammenti di discrete dimensioni è pertinenti a pentole, rinvenute in due differenti varianti morfologiche (Tav. 1.12–15). Le pentole, generalmente non molto diffuse in ambito regionale, trovano anche in altri contesti scarsi confronti. In questa fase (Periodo V) sono attestati anche due tipi di coperchio (Tav. 1.16–17). Infine si segnala un frammento di orlo piatto con decorazione a pinzettatura e pareti piuttosto svasate verso l’interno (Tav. 1.18), forse interpretabile come catino o piatto-coperchio. Nella fase 2 del Periodo V sono documentate in prevalenza olle soprattutto nel tipo a labbro con gradino interno e orlo triangolare, per lo più realizzate a tornio veloce e con argilla mediamente depurata; si tratta di tipi con orlo estroflesso, alcune forse assimilabili alle olle rinvenute a Imola, Villa Clelia (Tav. 2.1–2). Accanto a queste sono documentate olle con labbro a gradino interno (Tav. 2.3–7) e con breve labbro estroflesso (Tav. 2.8–9). Attestate anche in questa fase le ollette carenate riconosciute nella fase 1; un unico frammento presenta un orlo a tesa con accentuata carenatura (Tav. 2.8); forse anche un fondo apodo e sabbiato, con pareti svasate, potrebbe essere riferibile a questo tipo di contenitore (Tav. 2.10); si segnala infine un frammento di piccola brocchetta con ansa sull’orlo, che rimane un pezzo isolato (Tav. 2.9). È forse interpretabile come catinocoperchio un contenitore a forma aperta, con pareti convergenti verso l’interno con decorazione a impressioni digitate (Tav. 2.7); sono presumibilmente pertinenti a coperchi o catini-coperchio tre frammenti (Tav. 2.12–14) che non trovano al momento un preciso confronto. Si segnalano infine due frammenti di coperchio (Tav. 2.15–16) e altre forme miscellanee quali un fondo di forma chiusa (Tav. 2.17) e due piccoli frammenti di pareti decorate di spessore piuttosto esiguo, entrambi sono ottenuti a crudo, uno con rotellatura (Tav. 2.19) l’altro con motivo tacche impresse (Tav. 2.20). In questa fase vengono invece del tutto a mancare i tegami a orlo introflesso.

Nel settore settentrionale avvengono importanti interventi edificatori che coinvolgono anche parte della strada pubblica: questo intervento è stato identificato con il primo impianto della chiesa di Sant’Eufemia. Alcuni oggetti in ceramica comune da cucina si riferiscono alle stratificazioni di rialzamento della zona della strada coinvolta nei lavori edili e a quelle del cortile interno agli edifici: si tratta soprattutto di tegami con orlo rientrante simili a quelli del settore precedente, in particolare un tegame presenta il labbro ingrossato internamente, probabilmente ancora di tradizione tardoromana11 (Tav. 4.6); infine si segnala un probabile catino-coperchio (Tav. 4.7). Le categorie esaminate appaiono piuttosto omogenee e corrispondenti al panorama regionale; le argille sono di colore scuro tendenti al nero, spesso con superfici trattate a stecca esteriormente, e talvolta lavorate al tornio lento. Del contesto di Faenza, Palazzo Pasolini, sei campioni di ceramica comune da cucina (FA 17, 18, 19, 20, 21 e 22) sono stati analizzati mediante osservazione in microscopia ottica a luce polarizzata su sezione sottile e determinazione della composizione chimica mediante fluorescenza di raggi X (XRF). I sei impasti ceramici si presentano grossolani, con uno scheletro costituito da granuli con dimensioni superiori a 300 micron e una granulometria di tipo iatale con la matrice argillosa che varia da anisotropa a semiisotropa e caratterizzata da una forte presenza micacea. Le inclusioni grossolane sono frammenti di rocce silicatiche, cioè aggregati policristallini di quarzo, grani di quarzo metamorfico, e frammenti di arenarie fini, selci e rocce micritiche. Nel campione FA 19 ci sono anche granuli Per l’inquadramento dello scavo si veda Montevecchi 2004, pp. 57– 70. 7 La domus del Periodo 3 è stata definita convenzionalmente “Domus con tappeti a cerchi e meandri”. 8 Per l’esame del pavimento musivo: Maioli, Montevecchi, Perpignani 2012. 9 Montevecchi, Negrelli 1998, pp. 202, tav. 56, 6–8; Negrelli 2008a, fig. 58, 84. 10 Negrelli 2008a, p. 76, fig. 61, 117. 11 Questo tipo ha confronti in regione a partire dal III–IV secolo (Negrelli 2008a, p. 75, fig. 61–122). 6

Ravenna dispone di una importante stratigrafia archeologica rinvenuta nello scavo di via D’Azeglio 47; si

4 5

Si rinvia a quanto detto in Montevecchi, Negrelli 1998. Gelichi, Giordani, Labate 1994, pp. 93–95.

217

Chiara Guarnieri, Giovanna Montevecchi, Claudio Negrelli, Bruno Fabbri, Sabrina Gualtieri spigolosi di calcite spatica e una componente organogena con resti di bioclasti con calcite ricristallizzata. La composizione chimica è ricca di silice (63–65%) e povera di ossido di calcio (4–8%), con il solo campione FA 19 che fa eccezione in quanto ricco di calcio (13% CaO) come conseguenza dei grossi grani di calcite spatica. Le micrografie di un campione con inclusioni silicatiche (FA  18) e del campione FA  19 sono mostrate a titolo esemplificativo in figura 5. Per quanto riguarda la produzione di questa ceramica, si può ipotizzare che per entrambe le tipologie di materiali, silicatici e carbonatici, sia stata usata la stessa materia prima argillosa a cui però furono aggiunte sabbie di diversa natura. Per quanto riguarda la provenienza di questa materia prima argillosa, la considerazione che le argille pliopleistoceniche dei dintorni di Faenza sono di tipo carbonatico e che non si hanno indicazioni sulla presenza di argille non carbonatiche comunemente usate per ceramica nel territorio faentino, porterebbe a pensare che la ceramica comune in esame possa essere di importazione, anche se non si può escludere l’utilizzo di una materia prima argillosa alluvionale locale non carbonatica. Precedenti studi su ceramica comune da cucina di epoca romana avevano mostrato che l’uso di calcite spatica è tipico dell’Italia nordorientale,12 per cui non si può neppure escludere per il campione FA 19 una possibile importazione da queste aree produttive.

12

Santoro et al. 1996.

218

Complessi di scavo di età tardoantica provenienti da contesti abitativi urbani ed extraurbani della Romagna

Tav. 1. Faenza, palazzo Pasolini. Ceramiche grezze.

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Chiara Guarnieri, Giovanna Montevecchi, Claudio Negrelli, Bruno Fabbri, Sabrina Gualtieri

Tav. 2. Faenza, palazzo Pasolini. Ceramiche grezze.

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Complessi di scavo di età tardoantica provenienti da contesti abitativi urbani ed extraurbani della Romagna

Fig. 3. Planimetria dei rinvenimenti di via d’Azeglio 47. Periodo 3.

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Chiara Guarnieri, Giovanna Montevecchi, Claudio Negrelli, Bruno Fabbri, Sabrina Gualtieri

Tav. 4. Ravenna. Via d’Azeglio 47. Ceramiche grezze.

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Complessi di scavo di età tardoantica provenienti da contesti abitativi urbani ed extraurbani della Romagna

Fig. 5. Faenza, palazzo Pasolini. Microfrafie in sezione sottile (Nx, 4x) di ceramiche grezze a scheletro silicatico (FA18) o carbonatico (FA19).

223

3.25 Ruri. Forms of living in the Po Delta in the Roman age on the basis of remote sensing data Antonella Coralini, Barbara Cerasetti, Cristina Cordoni, Michele Vescio Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Dipartimento di Storia Culture Civiltà [email protected]; [email protected]; [email protected]; [email protected]. Abstract: The aim of this study is to propose a synthetic overview of research developments on suburban population and its distribution in the lowland between the Po River and the Adriatic Sea coastline, today included in the provinces of Ravenna and Ferrara, from the Late Republican Age to Late Antiquity. The published bibliography is still mostly sporadic and widely varied, especially as regards earlier discoveries. It is necessary to undertake an organic work of synthesis, allowing researchers to analyse the functions, shapes and distribution of different types of housing. For this purpose, through the reinterpretation of the archival records, we carried out a systematic and complete survey of the available evidence, related to the persistence of ancient rural settlements, creating a database of the suburban villas and rustic buildings thst have been identified. To contextualise and interpret the suburban settlement pattern, which inextricably depends on the physical morphology of the ancient territory, the research also focused on the analysis of remote sensing images,which can provide useful information for a better definition of the geomorphological profile of the landscape. The case study is the territory of the province of Ferrara, where the interpretation of the dense river network suggests that the distribution of the population adapted itself to the morphology of the territory in a process of continuous transformation. Hydrography, in particular, strongly influenced the settlement pattern of this territory. For this reason, we focused especially on the hydrography of the area, with particular reference to the ancient course of the Po River, not only on the basis of bibliographical sources, historical maps and aerial photos, already widely used, but also through the use of satellite images. The joint analysis of these sources, handled in a Geographical Information System, aims to facilitate a better understanding of the regional settlement pattern, in the belief that human choices deeply influenced environmental transformations. Given the width of the area of interest, in the present preliminary research we analysed only a few areas, especially by using the Google EarthTM platform, thanks to its increasingly widespread use for archaeological purposes. We believe that the collection of archaeological data, especially on the basis of remote sensing imagery, should be the first step towards assessing the suburban settlement pattern in order to direct future systematic surveys and extensive excavations. Keywords: Roman villa; Regio VIII; Remote sensing; GIS.

Introduction

the theme of the Roman villae. The area corresponding to Regio VIII was selected as the first case study and feasibility testing was conducted on a homogeneous sample, consisting of the current provincial areas of Ravenna and Ferrara. The review of the data available today, published and unpublished works (if accessible), was and is the preliminary action of the census of material data and the creation of a living map ‘ruri’.

This contribution comes from a research project of the Department of History and Cultures, since 2011 under the scientific direction of Antonella Coralini, in line withthe long tradition of the archaeological school of Bologna, the best interpreters of which to this point have been G.A. Mansuelli and D. Scagliarini: the study of the ‘villa phenomenon’ in the Roman world, in the context of a more general interest in housing culture. The project aims to contribute to better understanding and enhancement of

Of central importance, especially for the dissemination phase, was collaboration with the Istituto per i Beni 224

Ruri. Forms of living in the Po Delta in the Roman age on the basis of remote sensing data Artistici Culturali e Naturali della Regione EmiliaRomagna (IBACN),1 and with the Supercomputing Centre CINECA. The first provided both its Digital Catalogue, as a tool of communication and exploitation of results, and financial resources, through the intermediary of the European Project PArSJAd –Archaeological Park of the Upper Adriatic (cross-border cooperation program ITALY–SLOVENIA 2007–2013). The second, through its VisIT Lab, developed a specific data access protocol, inspired by Open Source and Open Access logic, and based on one of today’s applications of wider dissemination, Google Earth. The project had another major boost, at least as relates to the archaeology of the landscape, thanks to the integration into the study of images from a satellite platform. As we will see later, the historical cartography of the Emilia-Romagna Region and images from aerial platforms through to the 70s were already widely used in the early stages of the project. However, the recent enrichment of data available from previous research with those obtained through the use of satellite images, from historical ones (Corona, for example) to those of the last generation (Landsat 7 2000, SRTM 2000), have made possible an interpretation of the archaeological landscape that is much more detailed, and the creation of a settlement pattern in the provinces of Ferrara and Ravenna from the Late Republican Age to Late Antiquity.

The results obtained throughthe excavation of the villa of Russi became the reference point for any model of ‘suburban villa’, characterised by the presence of residential and productive sectors. The planimetric reconstruction of the villas became a fundamental element of comparison for other similar buildings.5 During the workshop headed in Russi in 1970, dedicated to the Roman villa, the scholars understood the need to reconstruct the economic and territorial system as the fundamental starting point for the analysis of Roman villas and suburban surroundings.6 Since the 80s, the growing number of archaeological investigations, the availability of new stratigraphic data and the large amount of data that has emerged from extensive topographic surveys in suburban contexts have significantly enriched the documentary framework on suburban population, showing the need to analyse the data in a regional context.7 One of the first contributions to data collection on the suburban population from Regio VIII, and specifically on the relevant areas of the current provinces of Ferrara and Ravenna,8 is the study of D. Scagliarini on Romagna’s villas.9 She linked the development of rural settlement with the historical events aroundthe harbour of Classe and proposed a review of the suburban settlements in the territory of the province of Ravenna, through the collation and the review of the published documents. However, the published bibliography is still mostly sporadic and widely varied, especially as relates to earlier discoveries. Currently there is no organic work of synthesis which would allow analysis of the functions, shapes and distribution of this type of building, widely recurring in the region. Thanks to the analyses conducted, diverse and sporadic published documents, as well as archive data and historical maps, we have an idea of the settlement pattern and the distribution of the different settlements over the territory.

A.C., B.C. Studies of suburban housing in the Cisalpina region In the middle of the last century, many scholars found it necessary to define the characteristics of residential Roman architecture, particularly the villae of northern Italy.2 The analysis moved on from the documentation provided by the investigation of large monumental villas: on the one hand the great ‘leisure’ villas (Sirmione, Barcola, Brioni, Desenzano),3 and on the other the ‘suburban’ villas of Emilia-Romagna, in primis the villa of Russi (RA). In the following year, Mansuelli produced a monograph dedicated to the villa in the Roman world, in order to draw together a broader synthesis of the available knowledge about the typologies and economic role of these buildings, but without a specific documentation of villas in northern Italy.4 For the first time, the author suggested evaluating productive activities in order to fully understand the nature and functions of the buildings and, on the basis of these analyses, he interpreted the predominance of rural population in northern Italy. He also suggested integrating the architectural and topographical studies to better evaluate the forms and methods of the employment of the territory and the demographic distribution in rural areas.

C.C.

For an analysis of the interaction between residential and productive sectors in the structural organisation of the villa, see Scagliarini 1978, pp. 3–11; on the spread of the villa in Cisalpina Region, Righini 1979. 6 Mansuelli 1971; Susini 1971. 7 Among the broader works of this period: Chevallier 1983, pp. 161– 173, that conducted a comprehensive analysis of the system of the villa in northern Italy, which complements architectural and topographic studies. Scagliarini 1968 formulated the guidelines for interpreting traces of rural settlements with reference to the Cisalpina Region and in particular to the research in Regio VIII. For the reconstruction of the economic and demographic context of the area she emphasised the importance of survey, historical toponymy and the study of the instrumentum domesticum, outlining the need for a multidisciplinary approach. The preference for regional research is also confirmed by recent studies (De Franceschini 1998; Busana 2002). 8 Recent studies about rural settlements, with an update on Roman and Late Antique villas and rustic buildings, are: for the province of Ferrara, Carte Archeologiche: Uggeri 2002; 2006a); for the province of Ravenna, and in particular for the territory of Riolo Terme: Guarnieri 2007. For the area of Faenza, see the repertoire of proto-historic, prehistoric and Roman findings: Righini 1980; Bertoni, Gualdrini 1980, pp. 158–174. 9 Scagliarini 1968. 5

http://ibc.regione.emilia-romagna.it/istituto. Mansuelli 1957, an article dedicated to the typological characteristics of the Roman villa in Northern Italy. 3 For the villa of Barcola, see Fontana 1993; for the villa of Desenzano, see Scagliarini 1994. 4 Mansuelli 1958. 1 2

225

Antonella Coralini, Barbara Cerasetti, Cristina Cordoni, Michele Vescio Study and interpretation of archival records: methodology

maximum development. As the main example of the first housing type we cite the villa of Russi,12 which is for the entire region the most significant complex of the private housing of Regio VIII.13 The type of suburban villa prevails also in the territory of the province of Ferrara, but rarely does this type of building exhibit a particular elegance and richness, with the exception of the villas of Cassana,14 Porporana15 and Bocca delle Menate.16 The rustic building type is also frequently attested in the region: an example is offered by the structures highlighted in Castellaccio Massa Forese17 or by the building founded in Via Canapa, ex-piazza d’Armi in Ferrara.18

The methodological approach applied in this study concerns the archival and photographic collection of the records included in the published bibliography, in the reports of excavations and surveys and the analysis of sites characterised by outcrops of material attributable to suburban villas and rustic buildings. The analysis of historical and modern cartography and remote sensing data were very useful for the correct topographic classification and interpretation of suburban population in the territory. Because of modern urbanisation, it is not always possible to get an exact geographical location forthe findings, especially those coming from old excavations or random discoveries. For the present research, it was necessary to rely on historical cartography10 to identify the archaeological sites in the current territory.

During the Roman Age, the extra-urban settlement affected the immediate suburbs of the cities of Ravenna and Ferrara, the territories in the immediate vicinity of transit routes and the territories with traces of Centuriation.19 In the Ferrara province, the population was also definitely influenced by the particular morphology of the territory, which was in continuous transformation. Traces of settlements have been found on high morphological places and fluvial ridges, as well as along coastal barriers.20

In the preliminary phase of data collection, the archaeological material relating to suburban villas and rustic buildings was recorded and classified on the basis of the amount, the extent of the surveyed area, the type of building and the presence of structures for processing and storing agricultural products.11 In the second phase, the sites collected were catalogued to obtain a correct typological classification of suburban settlements in the region.

The analysis of the collected data allowed the outlining of a chronological framework for the rural settlement phenomenon. The initial stages of the settlement of the Po valley coincide with the process of Romanization and the first distribution of land to settlers (Fig. 2). However, the settlement and productive distribution of the campaigns in the region tends to consolidate later, reaching its highest prosperity between the end of the Republican era and the beginning of the Imperial Age. Around the years of the Augustan Principate the general taking of possession occurred, together with the intensive exploitation of the agricultural land of Cispadana with renewed assignments of land to settlers that also affected the more remote areas. The development of the suburban settlement of the territory of Ferrara and the Romagna plain is closely correlated with the determining events of the history of Ravenna. In the Augustan Age, with the allocation of the classis Praetoria, begins the programmatic enhancement of strategic possibilities of Ravenna.21 The increase in the maritime strength of the city involved an extensive programme of renovations and the implementation of works, such as the construction of the fossa Augusta, intended to ensure the efficiency of the sea basin through the new connection of the city and the surrounding plain with the Po and the territory of Ferrara. Ravenna acquired a crucial role in increasing the productivity of the hinterland, fitting in the trade o the entire region with the

C.C. The ancient rural settlement of the northern Adriatic Sea between Ravenna and Ferrara from Late Republican Era to the ‘Dark Ages’ (1st–7th centuries AD) The amount of data examined through the reinterpretation of archaeological data and the published literature and through the analysis of historical cartography, despite the incompleteness of archaeological remains and publications, was significant. We surveyed 192 sites, classified as suburban villae, rustic building or building sites: 142 of them are located in the territory of the province of Ravenna and 50 in the province of Ferrara (Fig. 1). The archaeological evidence shows a rather homogeneous diffusion of housing models, in which the shapes of different sectors are influenced by environmental characteristics or the preferences of the owner. The data analysis confirms that the suburban villa and rustic building types can be considered representative of the rural organisation of the region at the time of

Emiliani et al. 2006; Franceschelli, Marabini 2007, p. 194, n. 270. Mansuelli 1958; Scagliarini 1968; Mansuelli 1971; Scagliarini 1989; Grassigli 1995; Catarsi 2000. 14 Uggeri 2002, 102–104, n. 41. 15 Uggeri 2006b, 46, n. 3. 16 Berti 1997. 17 Montevecchi 2003, p, 107. 18 Uggeri 2002, pp. 144–146, n. 129. 19 Scagliarini 1997. 20 Uggeri 2002; 2006a. 21 Scagliarini 1968. 12 13

10 For this study, Cartografia Storica Preunitaria (1828–1851), Cartografia IGM di 2° impianto, Carte Tecniche Regionali (CTR) scale 5.000, Carta Topografica scale 25.000 and IGM aerial photos (1931– 1937), RAF (1943–1944), GAI (1954–1955) and from Emilia Romagna Region (1976–1978) have been examined (Vescio, infra). 11 Scagliarini 1982. In her contribution D. Scagliarini highlighted the importance of a multidisciplinary approach for the reconstruction of the economy and the demography of the villae.

226

Ruri. Forms of living in the Po Delta in the Roman age on the basis of remote sensing data Remote sensing analysis for the reconstruction of the Po Delta in the Roman Age

massive requirements of supply related to the permanent presence of a large fleet. With the beginning of the Imperial Age came a profound transformation of society and of the economy of Ferrara’s territory, which from substantially farming forms began to take a more and more commercial attitude, also favouring the capillary development of the population. The framework which emerged around the Augustan Age persisted for almost two centuries, until the crisis of the agricultural economy, which produced a recessive process that affected campaigns, causing a long season of regressive transformations and the abandonment of an increasing number of rustic buildings. Moreover, even in the fifth century, the demands of Ravenna, which had become the capital of the empire, meant that the coast maintained a good economic vitality, through continuous contact with the navigation of the Po River. This assertion would seem to be supported not only by the large quantities of imported products, suggesting that this area was still included in the lines of the international traffic, but also by the continuity of the life of some villae that, facing a general crisis between the end of the second and beginning of the third century AD, continued to persist even up to the sixth and seventh centuries AD22 (Fig. 3). A new equilibrium had been created in the country between the Middle and the Late Imperial Age, for a few centuries would ensure that the rural population of the region conserved the most typical traits of Roman organisation.

The analysis of aerial photos for the study of the Ferrara regionis a methodology widely used,23 but we can still note the lack of an atlas of the visible marks. The analysis of satellite images was never employed, at least for archaeological aims, and the present research will be the first to fill this gap, even if in a preliminary way. The Google Earth platform is an adaptable instrument for archaeological research, which is easy to use, cheap to access (and free for those using the basic version) and allowing extensive movement over the territory.24 In addition, Google Earth is extremely useful thanks to the possibility of communicating in a bi-directional sense with GIS software. For these reasons, we decided to use this platform to study homogenously the territory of Ferrara, also including the images from other satellite platforms, as well as aerial photos.25 The Ferrara territory, as much as the Po Valley, was set up by the erosive and depositional activity of the rivers, mainly the Po, and by the rising and decreasing of sea levels (eustasy).26 It is very evident that this area has always been characterised by a dense hydrographical network, which left on the ground different traces of its activity and changes over time, especially in form of fluvial ridges.27 Depressed areas and coastal barriers28 make this plain considerably articulate, as we can see on the relief map29 and the tridimensional model from Aster GDEM 2011 and SRTM 2000 images30 (Fig. 4). These images are especially useful for emphasising the presence of elevated zones, more visible when employing the Slope Shader filter, with the software Global Mapper 15. The software Geomatica 2012 helped us to highlight the ancient coastal dunes, on the basis of Landsat 7 (2000) images, simply

In conclusion, the aim of this study was to propose a synthetic overview of research developments on the form of the suburban population and their distribution in the lowlands between the Po and the Adriatic coast from the Late Republican Age to Late Antiquity, in the area now included in the provinces of Ravenna and Ferrara. The realisation of a complete and homogeneous documentation has been the necessary starting point for the correct study of the Roman agrarian population, on the basis of which the integration of the analysis of remote sensing images has provided useful information for a better definition of ancient physical geography and hydrography that has strongly influenced the development of the settlement of such territories. Through the joint analysis of the archaeological persistence of rural settlement structures and the careful interpretation of remote images, it was possible to better understand the forms of suburban settlement in this area and to contextualise their adaptation to particular environmental situations.

Balista, Bonfatti, Calzolari 2007, p. 19. A. Curci, M.C. Gatto, A. Urcia, Ricerche territoriali al tempo di Google Earth: l’esperienza AKAP (Egitto). Paper read at the workshop ‘Documentare l’archeologia 4.0. Strumenti e metodi per la costruzione di banche dati territoriali’ (Bologna, 5th May 2014). 25 The starting point for this research are the aerial photos kindly provided by I. Di Cocco and M. Sericola of Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici. We would like to thank them for making the photos available (Di Cocco, Pezzoli 2012). 26 On the formation of the Po Valley, see Pellegrini, Tellini 2000, pp. 5–13; Bondesan 2001a. 27 Fluvial ridges are extended belts, elevated with respect to the surrounding plain, due to the sedimentation of a hanging river (Castiglioni 1979, p. 145; Dall’Aglio 2000, p. 181; Marchetti 2000, pp. 144–147). 28 Like fluvial ridges, coastal barriers are elongated and elevated belts, elevated with respect to the surrounding plain. They are influenced by river depositional activity and the redistribution of materials moved by sea currents (Castiglioni 1979, pp. 354–355; Dall’Aglio 2000, p. 184). 29 Castiglioni 1997. 30 ASTER (Advanced Spaceborne Thermal Emission and Reflection Radiometer) is the name of a satellite able to take hyper-spectral images with a ground resolution from 15 m for the spectral band in the Visible and the Near Infrared to 90 m. For the Thermal Infrared see: Lillesand, Kiefer, Chipman 2004, pp. 481–483; Parcak 2009, pp. 67–70. SRTM (Shuttle Radar Topography Mission), meanwhile, is the name of the mission that for the first time mapped nearly the whole Earth in 3D, using a radar sensor (Lillesand, Kiefer, Chipman 2004, pp. 712–714; Bogdani 2009, pp. 481–482; Parcak 2009, pp. 70–72). 23 24

C.C.

22 This is the case of the villas of Agosta, Baro Zavalea, Salto del Lupo, which stood near the fossa Augusta, and of the villas of Mensa Matelica, Osteria via Lunga, San Zaccaria podere Danesi, built near the Dismano.

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Antonella Coralini, Barbara Cerasetti, Cristina Cordoni, Michele Vescio modifying brightness and contrast values and working on the histogram of bands 1, 2 and 3, corresponding to the visible part of the electromagnetic spectrum (Fig. 5).

distribution of rural villae seems to be very useful (Fig. 7). In fact, they are located along a preferential axis, probably corresponding to the Roman Po waterway.38 Another proof comes from the placement of rustic buildings with brick kilns (Fig. 8). Indeed, it is well known that they were placed where the necessary raw material for every phase of production was easily available.39 Moreover, we must not forget that the Po was a rapid way to transport bricks in the Po Valley,40 because it was navigable up to Turin.41 Obviously, not all archaeological sites are placed along this axis, but they are generally placed on the uplands.42

Written sources are indispensable for any research into the Po Delta area in the Roman Age. Polybius reports that Po river splits into two parts, Padoa and Olana, at a place called Τριγαβόλους.31 Later Strabo writes generically about different channels.32 Pomponius Mela33 and Pliny the Elder34 reveal the existence of seven mouths. In particular, the latter gives us a more detailed description of the Po Delta and provides us with a name for each mouth: beyond the fossa Augusta, they are known as Vatrenica, Caprasia, Sagis, Volane, Carbonaria, Fossiones and Philistina. On the basis of this information, several modern authors have tried to retrace the course of Po River in the Roman Age.35 We included and managed their working assumptions in a GIS system to allow a more rapid and simple consultation (Fig. 6). Observing the final elaboration, we can see how Ciabatti and Veggiani agree in considering the Po di Primaro, even if only up to Argenta, to have existed in Roman age, identifying it as Polybius’ Padoa. After Argenta, the river turned to the north-east, reaching Spina and then losing itself in the Valli di Comacchio. Olana probably coincided with the modern Volano.

On the basis of the analysis of the archaeological evidence, we agree with the cited authors about the Eridanus/Padoa waterway. Some doubts remain about the northernmost branch to the north of the Po meander, close to Voghiera, reported by Veggi and Roncuzzi and admitted even by Bondesan, which passed for Quartesana, Masi Torello to Rovereto. The archaeological map of the territory43 shows along this branch few Roman remains: a necropolis near Quartesana and some gravestones near Masi Torello, discovered in 1833. It is hard to admit the existence of this riverbed in the Roman age on the basis of these few traces. The northern branch of Po starting from Codrea is the Olana of Polybius, also called Volane by Pliny the Elder, with a toponym probably referring to the modern Volano. Differently from the modern waterway, this branch flowed to the north, as suggested by Bondesan and Calzolari, through Copparo, Berra, and Ariano Polesine up to Mesola. This assumption is supported by different Roman archaeological evidences, mainly necropoleis, found along this way.44 As regards the seven mouths of the Po River, returning to Pliny, it seems more appropriate to accept the existence of more than seven mouths. Pliny probably intended a symbolic number and not a real one.45

Veggi and Roncuzzi agree about this second identification but, according to them, Padoa moved away from Olana near Medelana or Quartesana and then flowed up to Ostellato and San Giovanni. In the end it turned up to Casone Caldirolo, reaching the sea near Bellocchio, beyond the present coastline. M. Bondesan agrees with this hypothesis, but he suggests the existence of a bifurcation flowing through Voghenza, supported in this hypothesis by some detailed investigations carried out in the area.36 Differently from the other authors, Bondesan supposes that Olana flowed to the north of the modern river, with its mouth placed to the north/north-east of Lagosanto. M. Calzolari expresses the same opinion about Olana and Padoa. However, concerning the second riverbed, he agrees only about its flowing throughout Voghenza, as does G. Uggeri. The latter also considers that Olana was not a sub-parallel branch of Padoa, but the northern mouth in the territory of Ferrara province.37 In particular, this mouth, with those of Caprasia and Sagis, would have originated with a bifurcation, called Sagis, that separated itself from Padoa near Argine delle Gallare.

Pliny also calls the Eridanus branch Spineticus, because of the proximity of the city of Spina to that mouth: this allows us to get further information about the mouth of this river, with the help of other written sources. Indeed, pseudo-Scylaces (18) in the fourth century BC states that Spina was 20 stadii from the sea, about 3.5 km, following the course of the river.46 Because of the sedimentation activity of Spineticus, the coastline moved to the east and the Spineticus branch was forced to run up to Valle Rillo and Valle Cona, as some

To reinforce these assumptions, the GIS analysis of the

The location of the villae near a river, beyond the practical reason of being sheltered by the overflowing of the river, especially when the river is hanging as in this case, finds a confirmation in a passage of Pliny the Elder (Nat. Hist., III, 54–55) about the villae placed along the Tiber. 39 Scagliarini 1978, p. 18. A similar situation is seen in Spain, along the Guadalquivir (Rico 1994). In general, on production activities in Po Delta, see Pupillo 2007, pp. 220–225. 40 Calzolari 1988, p. 33. 41 Plin., Nat. Hist., III, 123. 42 Calzolari 2000, p. 388; Ortalli 2007, p. 243. 43 Uggeri 2002. 44 Vullo 1990. 45 Uggeri 1989, p. 11; Calzolari 2007, p. 158. 46 Bondesan 2001b, p. 230. 38

Polyb., II, 16. Strabo, V, 1, 5. 33 Pomp., II, 63. 34 Plin., Nat. Hist., III, 119–121. 35 Veggi, Roncuzzi 1973; Veggiani 1985; Uggeri 1989; Ciabatti 1990; Bondesan 2001b; Calzolari 2007. 36 Bondesan, Masè 1984. 37 According to Uggeri, the modern Volano was formed in an unspecified period both after an overflow at Codrea (Uggeri 1975, p. 30) or at Codigoro and with the confluence of the Rero and the mouth of the Olana (Uggeri 1985, p. 40). 31 32

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Ruri. Forms of living in the Po Delta in the Roman age on the basis of remote sensing data Etruscan evidence testifies, unfortunately not specified in the publication.47 If this information is right, we could date a fluvial mark (44°40’0.73”N; 12° 9’51.98”E), highlighted by Google Earth, to this period, probably corresponding to the Sagis branch.48

In Quacchio, near the archaeological site of ‘Possessione Prinella’,54 we can see a dark cropmark (44°49’28.93”N; 11°39’53.86”E) on the right of the present-day Volano. The geomorphologic map55 shows in this area the presence of overflowing channels and probably these marks can be referred to one of them.

Pliny the Elder asserts that near its mouth Eridanus received the water from the Vatrenus River.49 A. Veggiani retraced the waterway of this river very well – for its final section at least – basing his hypothesis on aerial photographs taken after the reclamations in Valle del Mezzano.50 This tributary reached the Po near the Casone Caldirolo,51 after flanking Argine Agosta with wide meanders. Then it flowed in a south-east direction up to the Agosta villa, as shown by some soil marks (44°36’ 48.10”N; 12°3’ 24.87”E) visible on Google Earth, ending by flowing into the same straight section fed by the Po di Primaro in the medieval period.52

In proximity to a rural settlement near Francolino in Ferrara territory,56 channel traces are visible (44°53’42.57”N; 11°40’39.55”E). In this case, too, we can refer these marks to overflowing channels, as witness the geomorphologic map which also shows the presence of fans. In the area reclaimed since the 60s, in Valli del Mezzano, two archaeological sites were identified on the fluvial ridge of Parione. The drainage network, which is very evident on Google Earth images (44°42’6.96”N; 11°58’31.06”E), is extremely dense and already S. Cremonini realised the difficulty of interpreting them:57 they seem to be explained as ‘sistemi di marea o dalla escursione di marea comunque fortemente condizionati’. Support for this assertion maybe gleaned from a passage from Procopius, in which he writes about the intensity of sea ingression in the territory of Ravenna: ‘equal to one day’s walk’,58 a distance that would roughly coincide with Valli del Mezzano. Several doubts have been advanced about the veracity of this statement;59 on the other hand, these tracks seem quite similar to ancient river ramblings, as are also reported by the geomorphological map.

At this point, it seems appropriate to focus our attention on the marks, visible in aerial photos and satellite images, closely related to the villae known in the territory of Ferrara. The first mark is located near Bondeno city, between Porcara and Pilastri, in proximity to the acreage significantly called ‘la Motta’. Here the presence of softcoloured soil marks (44°57’19.23”N; 11°17’8.89”E) shows the existence of some buried structures. C. Cordoni highlights how in this zone, in more than one case, several Roman clay scraps and part of a brick floor were found. Without more detailed analyses, only with extreme caution do we suppose that these marks are related to a villa. It is possible to see also a crevasse splay, allowing us to theorise that there flowed an ancient river, the connection of which with the Canale Fossalta, today flowing to the north, is still to consider.

In Valle Gallare, near ‘Corte dei Signori’, we can see some fluvial marks (44°46’29.37”N; 12° 4’58.30”E) in proximity to a rural villa (Fig. 9). Probably the crop mark visible in Fig. 9a maybe referred based on its size to an ancient riverbed of the Po di Volano.60

Also in the Bondeno territory, near Gavello in ‘fondo Suora’, brick dispersion probably suggests the presence of a villa along the Gabellus fluvial ridge.53 Here we can see other soft-coloured soilmarks, unfortunately not clear enough to suggest a firm interpretation. To the north we can notice dark marks (44°55’38.12”N; 11°16’56.53”E), that could be related to the ancient Gabellus or Canale Rusco waterways, today flowing to the north.

If these are the assumptions that may be proposed with some confidence about the Po Delta in the Roman Age, others may be added as regards Late Antiquity and the Early Middle Ages. The general socio-economic frameworks of this period are widely known and the settlement patterns of Po Delta are clearer, especially thanks to the recent research of S. Gelichi and A. Augenti and their teams. The main geomorphologic process of this period is the formation of Po di Primaro, today largely straightened after the the Reno River joins it. The original course is known thanks to historical cartography, geomorphologic mapping, SRTM 2000 images (with the application of HSV Shader filter using the software Global Mapper 15)

Balista, Bonfatti, Calzolari 2007, p. 24. Veggi, Roncuzzi 1973. 49 Some authors, also because some Medieval codices present the variations Vatrenus/Vaternus/Vaterenus (Zehnacker 1998, p. 96), also mentioned by Martial (Epigr., III, 67, 1–4), suggest that this river could be identified as the Santerno river (Uggeri 1975, p. 37; 1989, p. 7; Alfieri 1989, p. 672; Bondesan 2000, p. 29). Actually, even if the hydronyms Vaternus and Santernus are basically similar, the change of the beginning consonant is hard to explain on the whole, pointing towards other solutions(Calzolari 2007, p. 163; Franceschelli, Marabini 2007, p. 127). It has also been proposed (Veggiani 1975) that this river resulted from the meeting of waters from the Santerno and Sillaro. See also Franceschelli, Marabini 2007, p. 30), where the authors add that Vaternus captured the water from other Apennine rivers as well. 50 Veggiani 1975. 51 Uggeri 1975, p. 37; Veggiani 1975, pp. 12–13. 52 Stefani 2006, p. 45. We cannot exclude that the straight section originated with a rectification in the medieval period (S. Cremonini, personal communication). 53 Uggeri 1975, pp. 176–177. 47 48

Uggeri 2002, pp. 208–209, n. 168. As reference, we used the geomorphologic map of the Po Valley, scale 1:200.000 (Castiglioni 1997). 56 Uggeri 2002, 144, n. 126. 57 Cremonini 1993, p. 149. 58 Proc., De Bellis, V, 1, 19: ἡ θάλασσα πρωῒ ποιουμένη σχῆμα ποταμοῦ ἡμέρας ὁδὸν εὐζώνῳ ἀνδρὶ ἐς γῆν ἀναβαίνει καὶ πλόϊμον αὑτὴν παρεχομένη ἐν μέσῃ ἠπείρῳ, αὖθις ἀναλύουσα τὸν πορθμὸν ἀναστρέφει ἀμφὶ δείλην ὀψίαν, καὶ ἐφ̓ αὑτὴν ξυνάγει τὸ ῥεῦμα. 59 Fabbri 1991, p. 10. 60 Bondesan 1990, 15, fig. 5. The author points it out as passing through the area in the Etruscan Age. 54 55

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Antonella Coralini, Barbara Cerasetti, Cristina Cordoni, Michele Vescio morphology of the canal. Some authors believe that the canal flowed straight towards Comacchio; others suppose the existence of some bifurcations.75

and aerial photos (Fig. 10), but the rising of this fluvial branch is chronologically uncertain. The scholarly tradition, which began with the humanist of Forlì, Flavio Biondo, states that the Po di Primaro was dug in 708 by order of the archbishop Felice who had to defend Ravenna from the imperial army.61 Modern studies seem to accept this hypothesis,62 but it is overall hard to assert that just one intervention originated such a long fluvial branch.63 The reason of the formation of the Po di Primaro probably depended on the increase in rainfall from 5th to 8th centuries and on the consequent hydrogeological instability.64 However, this process was gradual and was completed between the 7th and 8th centuries.65 Also interesting is the so-called ‘Canale di Motta della Girata’, which linked the settlement of Santa Maria in Padovetere66 with the harbour area of Comacchio.67 This canal, visible on historical aerial photos (RAF 1944) (44°40’48.97”N; 12° 8’8.17”E) and in more recent Google Earth images, presents a rectilinear profile that seems to disclose its artificial nature; unfortunately, the chronology is uncertain. Some authors think that it was dug in the Etruscan Age with some extensions in the Roman Age,68 but today the main approach is to date it to Late Antiquity,69 even if we cannot propose a more detailed dating. Some investigations conducted along the meander which the channel describes near Motta della Girata highlighted some wooden banks with surface materials dated to the 7th– to the 8th/9th centuries AD.70 Excavations near Villaggio San Francesco found similar structures dating to the same period,71 revealing the existence of the canal in that age. However, it seems to be necessary to reflect on other chronological assumptions. Diego Calaon already underlined the necessity to analyse carefully the data coming from the site of Santa Maria in Padovetere.72 Here in the early 6th century the church of Santa Maria and its baptistery, which adjoins a necropolis, were built. Along the channel of Motta della Girata a wider necropolis was built, in use from the 6th to the 7th century, and a fish farm, evident in aerial photos, with a geometrical sub-division,73 which took water from the channel.74 Thanks to a complete analysis of these structures it is now easier to clarify some unsolved problems about Canale di Motta della Girata.

The suggestion is full of consequences, because scholars have pointed out the presence of a canoe,76 discovered in one of these branches and now stored in Ferrara Archaeological Museum, which could offer dating elements. In conclusion, we must note the importance of this kind of survey based on remote sensing images to discover all the marks, useful not only to archaeological research, that the massive exploitation of the soil is causing to slowly disappear. It is difficult to date these soil and crop marks and the chronological proposals of the present paper are largely hypothetical. However, we have the presumption to consider this work as a starting point for an extensive and multi-stratified study of the same marks for the reconstruction of the ancient Po Delta. M.V.

Unfortunately the same doubts about the dating of the Canale di Motta della Girata, apply to the ancient Novara 1994, pp. 11–13. Veggi, Roncuzzi 1973, p. 19; Veggiani 1974, p. 50; 1985, pp. 58–60. 63 Franceschini 1986, p. 308. 64 Franceschini 1986, p. 311. For a proper evaluation of the hydrogeological instability phenomenon characterising Late Antiquity, see Dall’Aglio 1997. 65 Bondesan 2000, p. 29. 66 Corti 2007c; 2007d. 67 Calaon 2007. 68 Uggeri 1990, p. 183. 69 Cremonini 1993, p. 156. 70 Corti 2007d, p. 547. 71 Bucci 2007, p. 554. 72 Gelichi, Calaon 2007, pp. 404–405. 73 Valvassori (1956) and AIMA (1995) flights. 74 Gelichi, Calaon 2007, pp. 404–409. 61 62

Balista, Bonfatti, Calzolari 2007, p. 29 agree on the existence of one with a south-east orientation; Bondesan 1986, p. 18, on one with a northerly orientation; Cremonini 1993, p. 171, fig. 3, suggests hypothetically the presence of both of them; Uggeri 2006a, pp. 186–187, suggests the presence of other bifurcations with a northeast orientation. 76 Uggeri 2006a, p. 161, nr. 74. 75

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Fig. 1. Distribution of archaeological sites in the provinces of Ferrara and Ravenna (processed by C. Cordoni).

Ruri. Forms of living in the Po Delta in the Roman age on the basis of remote sensing data

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Fig. 2. First chronological phase of settlement distribution (processed by C. Cordoni).

Antonella Coralini, Barbara Cerasetti, Cristina Cordoni, Michele Vescio

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Fig. 3. Final chronological phase of settlement distribution (processed by C. Cordoni).

Ruri. Forms of living in the Po Delta in the Roman age on the basis of remote sensing data

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Antonella Coralini, Barbara Cerasetti, Cristina Cordoni, Michele Vescio

Fig. 4. Digital Elevation Model from SRTM 2000 images (with the application of Slope Shader filter; processed by M Vescio).

Fig. 5. Landsat-7 (2000) image of Valli di Comacchio with the evidence of the old coastal barriers (processed by M Vescio).

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Fig. 6. Visualisation of different assumptions about the reconstruction of the ancient Po riverbed on the basis of topographical map (1:200 000; processed by M Vescio).

Ruri. Forms of living in the Po Delta in the Roman age on the basis of remote sensing data

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Fig. 7. Distribution of Roman villae in the territory of Ferrara on the basis of topographical map (1:200 000; processed by C. Cordoni).

Antonella Coralini, Barbara Cerasetti, Cristina Cordoni, Michele Vescio

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Fig. 8. Distribution of Roman brickkilns on the basis of topographical map (1:200 000; processed by C. Cordoni).

Ruri. Forms of living in the Po Delta in the Roman age on the basis of remote sensing data

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Antonella Coralini, Barbara Cerasetti, Cristina Cordoni, Michele Vescio

Fig. 9. Ferrara, Comacchio district, Corte dei Signori: af) satellite images with evidence of soil-marks (courtesy Google EarthTM; processed by M Vescio).

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Fig. 10. SRTM 2000 (with the application of HSV Shader filter) with evidence of the fluvial ridge of the Po di Primaro. The final section of the fluvial ridge is more evident on Google EarthTM (processed by M Vescio).

Ruri. Forms of living in the Po Delta in the Roman age on the basis of remote sensing data

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3.26 Sistemi insediativi tra V e XI secolo in Bassa Romagna. I dati delle ricognizioni di superficie Marco Cavalazzi Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Dipartimento di Storia Culture Civiltà [email protected] Abstract: In this paper I present the preliminary results of the ‘Bassa Romandiola Survey Project’, a landscape archaeology project carried out by the University of Bologna from 2009 through 2016 in the plain to the east of the city of Ravenna. In particular, I highlight two case studies: the area near Lugo (Ra) and the area near Bagnacavallo (Ra), where it has been possible to document the rural settlement between the 5th and 11th century AD. Keywords: Landscape Archaeology; Po plain; Late Antiquity, Early Middle Ages.

Il progetto di archeologia dei paesaggi “Bassa Romandiola”

dall’indagine di due aree in particolare: la pianura a sud di Lugo (RA) e quella circostante la pieve di S. Pietro in Sylvis di Bagnacavallo (RA).5 Qui i livelli di età romana sono stati obliterati da strati di sedimenti alluvionali tra i 2 e i 5 m di spessore, depositatisi nel corso della tarda Antichità e del Medioevo a seguito di una forte instabilità idrogeologica, che portò anche alla nascita di aree umide e boschi.6 A sud del corso del Po di Primaro si estendevano per diversi chilometri ampi specchi vallivi, originati dallo spagliamento delle acque dei fiumi appenninici.7 Ciononostante, alcuni lacerti di paleosuoli tardoantichi e altomedievali sono sopravvissuti fino a oggi in superficie, in particolare in corrispondenza dei dossi dei corsi fluviali non più attivi; queste situazioni costituiscono delle finestre grazie alle quali è stato possibile ricostruire le forme del popolamento tardoantico e altomedievale.

Il progetto di archeologia dei paesaggi “Bassa Romandiola” è stato avviato nel 2009 dal Dipartimento di Storia, Culture Civiltà dell’Università di Bologna.1 Finora sono state effettuate quattro campagne di ricognizione archeologica, nell’ambito di una campionatura che interessa la parte nord-occidentale della provincia di Ravenna, cioè l’Unione dei Comuni della Bassa Romagna (Fig. 1); si tratta di una porzione di pianura compresa tra il corso del fiume Sillaro e quello del fiume Montone, creatasi a seguito di alluvioni anche recenti. L’assenza di dinamicità dell’area romagnola tra la tarda Antichità e l’alto Medioevo, una visione propria di gran parte della ricerca storiografica fino a tempi recenti,2 è stata da poco messa in discussione, sia a livello archeologico sia storiografico, rendendo meno categoriche le considerazioni che differenziavano, dal VI–VII secolo, le forme dell’habitat e di sfruttamento dei suoli tra la Romagna e l’Emilia.3 Tale vitalità insediativa è emersa anche dai dati raccolti nel corso delle ricognizioni di superficie del progetto “Bassa Romandiola”.4

Lugo e Bagnacavallo La prima area presa in esame, di poco piùdi 0,5 kmq, si trova nel transetto 1 della campionatura, presso la frazione di Zagonara (Lugo, Fig. 1);8 la seconda, di circa 3 kmq, si trova nel transetto 7, nei pressi della pieve di S. Pietro

In questo contributo si esporranno i dati emersi 1 Il progetto è sotto la direzione scientifica del prof. Andrea Augenti e in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna. 2 Fumagalli 1974; Castagnetti 1979, pp. 169–261; Fumagalli 1980; Andreolli, Montanari 1983, pp. 161–175; Montanari 1984. 3 Pasquali 1984, pp. 264–266; 1997; 2005; Augenti et al. 2005; Mancassola 2008a; 2008b. 4 La metodologia della ricerca ha previsto l’indagine sistematica del campione, con un’intensità di un ricognitore ogni 10 m, e la raccolta completa del materiale archeologico rinvenuto, posizionando ogni reperto tramite coordinate GPS.

Un particolare ringraziamento va agli studenti che hanno partecipato alle ricognizioni sul campo e allo studio dei materiali e a coloro che se ne sono occupati in sede di tesi di laurea (Anna Benato, 2011–2012; Michela De Felicibus 2012–2013; Michele Abballe, 2013–2014). 6 Franceschelli, Marabini 2007, fig. 53, p. 78 e pp. 178 e 192–194. 7 Per una ricostruzione dell’ambiente e della geomorfologia di queste zone tra tarda Antichità e Medioevo si veda: Gambi 1949; Veggiani 1975; Pasquali 1984; Fabbri 1993; Pasquali 1993, pp. 40–43; Veggiani 1994; Cremonini 1994; Pasquali 1995; Franceschelli, Marabini 2007. 8 Sui dati raccolti nel corso della campagna dell’anno 2009 si rimanda a Cavalazzi 2012. 5

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Sistemi insediativi tra V e XI secolo in Bassa Romagna. I dati delle ricognizioni di superficie e quindi legati allo sfruttamento agricolo del territorio.

in Sylvis (Bagnacavallo, Fig. 1).9 Il transetto 1 è stato indagato nel corso dell’anno 2009, il transetto 7 nel corso dell’anno 2012.

Nella seconda zona considerata, quella del transetto 7 (presso la pieve di S. Pietro in Sylvis di Bagnacavallo), sono stati documentati diversi siti con reperti tardoantichi (Fig. 3), con un areale compreso tra i 3000 e 15000 mq.12 Tra i reperti rinvenuti si segnalano diversi frammenti di anfore di produzione orientale, di ceramica comune da cucina e da mensa dipinta in rosso, e, infine, alcuni frammenti di pietra ollare, con una datazione compresa tra il V/VI e l’VIII/IX secolo; nessuno dei siti presentava materiale chiaramente riconducibile a un orizzonte cronologico anteriore al V secolo. Da mettere in evidenza è una maggiore densità di siti nell’area vicina alla pieve di S. Pietro in Sylvis, attestata nelle fonti a partire dal IX secolo.13

In entrambi i casi sono stati documentati dei siti con reperti tardoantichi e altomedievali. Da un punto di vista della cultura materiale per lo più si tratta di concentrazioni di scarsa appariscenza, prive di grosse quantità di materiale da costruzione associato a reperti ceramici (soprattutto ceramica comune da mensa e da cucina) e pietra ollare. In alcuni casi sono state documentate anomalie cromatiche evidenti. Visti questi elementi si ritiene di essere in presenza di insediamenti con strutture a funzione residenziale in parte in materiale deperibile. Prima di proseguire è necessario mettere in luce alcuni limiti di questi casi di studio. In primo luogo non sempre il numero di reperti diagnostici ha raggiunto un quantitativo soddisfacente: tendenzialmente si attesta al di sopra del 30–40 % del totale dei reperti raccolti; tra essi, però, quelli chiaramente riconducibili alla tarda Antichità sono numericamente limitati, e spesso forniscono archi cronologici di riferimento piuttosto ampi.10 In secondo luogo, le caratteristiche geomorfologiche del campione indagato ci obbligano ad avere a che fare con dei lacerti di paleosuoli che consentono di ricostruire dei quadri limitati per estensione, senza sapere cosa potesse avvenire in altre zone al di sotto della coltre alluvionale.

Similmente a quanto a quanto si verificò nel Lughese, anche qui gli assetti del popolamento paiono essere mutati nel corso del IX/X secolo. Tra l’età carolingia e quella ottoniana molti dei siti attestati nel periodo precedente continuarono a essere insediati, mentre al loro fianco comparvero siti di più piccola estensione (tra i 500 e i 2000 mq), molto spesso raggruppati in nuclei accentrati di cinque – sei unità.14 Tra i reperti si segnala in particolare la pietra ollare, per lo più databile tra il IX e l’XI secolo. In nessuno di questi siti di più piccole dimensioni è stato rinvenuto materiale databile oltre il XIII secolo. A livello funzionale si segnala la presenza di scorie di lavorazione nella maggior parte dei casi documentati, tanto da far pensare a una certa vicinanza tra spazi a uso residenziale e spazi a uso produttivo.

Nella prima zona considerata, quella del transetto 1 (Lugo), sono stati documentati tre siti con materiale tardoantico (Fig. 2), con un’estensione compresa tra i 1500 e i 2500 mq. Tra i reperti rinvenuti vi sono frammenti di anfore e di Sigillata Africana, di ceramica invetriata, di pietra ollare e, infine, di ceramica comune da cucina, con una datazione compresa tra il V e il VII secolo. I siti sono organizzati secondo un popolamento di tipo sparso, collocandosi all’apparenza in corrispondenza dei limiti, anche intercisivi, della centuriazione, limiti che sopravvivono tuttora nella viabilità secondaria o primaria.

In conclusione, il paesaggio e il popolamento antropico sembrano avere subito in queste aree tre grosse trasformazioni dopo l’età romana. Non è facile collocare con precisione la prima cesura, a causa della mancanza di indicatori materiali precisi, ma dovette verificarsi con tutta probabilità tra il V e il VI secolo.15 A seguito di intensi Rispetto all’estensione della maggior parte degli insediamenti con materiale tardoantico (intorno ai 2–3000 mq), il sito 1 dell’UT 458 costituisce una notevole eccezione arrivando a 15000 mq. Nonostante ciò si ritiene di non avere elementi sufficienti per qualificarlo come sito direzionale tardoantico in particolare a causa della bassa visibilità al momento della ricognizione (sui siti direzionali: Negrelli 2003, p. 291; Mancassola 2008b, p. 92). Rispetto a questo problema, di interesse è che in una vigna adiacente è stato documentato il sito archeologico di quella che in passato è stata ritenuta la chiesa di S. Maria in Lato, dipendente dal monastero S. Maria della Rotonda di Ravenna e nota dal 1063 (Pasquali 1984, pp. 70–71 e pp. 255–256; 1994; Augenti, Ficara, Ravaioli 2012, p. 63). 13 Kehr 1911, anno 881, p. 155; un’epigrafe incisa su un’arcata di ciborio conservata all’interno della chiesa la retrodaterebbe alla fine dell’VIII-­ inizi del IX secolo (Budriesi 1994, pp. 128–138; Russo 1994, pp. 70–73). 14 Insediamenti accentrati simili sono stati documentati nel territorio Decimano (i siti dell’UT 527, Mancassola 2008b, pp. 94–97) e nel cesenate presso la località di S. Giorgio (Negrelli 2008b, pp. 243–256). 15 Nelle vicinanze delle aree indagate sono stati rinvenuti due edifici rurali le cui fasi di frequentazione più tarde vennero datate al IV–V secolo in un caso (il sito della Fornace Gattelli, Lugo, Scagliarini 1968, pp. 43–44; Franceschelli, Marabini 2007, pp. 182–183) e al III–IV secolo nell’altro (il sito della Fornace Giugni-Monti, Bagnacavallo, Scagliarini 1968, pp. 45–47; Franceschelli, Marabini 2007, pp. 193–194); in entrambi i casi gli insediamenti erano a 5–6 metri di profondità dai piani di campagna attuali. Per avere una visione generale e aggiornata dello 12

Questi tre siti presentano tracce di occupazione altomedievale, nello stesso areale o nelle immediate vicinanze; nel contempo sorsero al loro fianco una serie di insediamenti con una superficie limitata (in media di poco più di 100 mq) databili tra il IX/X e l’XI secolo.11 Anche questi si dispongono nella pianura secondo un popolamento di tipo sparso, lungo i limiti della centuriazione, ma con una maglia più fitta rispetto al periodo precedente. A livello funzionale si tratta di insediamenti produttivi (vista la presenza di scorie di lavorazione), ma anche residenziali 9 Questa seconda zona si trova all’interno di una suddivisione agraria particolare, definita “centuriazione di Bagnacavallo”, con un orientamento dissimile rispetto al resto della centuriazione romagnola; di recente tale impianto è stato ritenuto post-romano (Franceschelli, Marabini 2007, pp. 156–158). 10 Si pensi alle pareti di anfora, per le quali ci si deve accontentare spesso di un riferimento a una forbice temporale di trequattro secoli. 11 Non è chiaro se questi siti di piccoli dimensioni fossero insediamenti stabili, vista la scarsa evidenza materiale che li contraddistingue; potrebbe anche essersi trattato dei ricoveri stagionali.

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Marco Cavalazzi fenomeni alluvionali, legati all’attività idrogeologica in particolare del Senio e del Santerno (in questi secoli uniti in un corso unico), i piani di campagna tardoimperiali vennero obliterati da consistenti depositi di diversi metri di spessore. Lo sfruttamento agricolo di queste zone riprese rapidamente; l’effettiva cronologia di questo fenomeno potrà essere meglio definita solo tramite lo scavo archeologico, come pure i caratteri di questi insediamenti agrari. Per il momento, l’unico elemento certo è l’attestazione nel corso del VII e VIII secolo di un popolamento di tipo sparso, con alcune zone a elevata densità, come quella posta in prossimità della pieve di S. Pietro in Sylvis. Questo quadro subì un’evoluzione nel corso del IX e X secolo, con una vera e propria proliferazione del numero di insediamenti, disposti nella campagna secondo un popolamento di tipo sparso, come nel lughese (transetto 1), o per nuclei complessi e accentrati, come nel bagnacavallese (transetto 7). La terza trasformazione, una cesura, ebbe luogo nel corso del XIII secolo, quando scomparve la maggior parte dei siti documentati, abbandonati nei processi di riorganizzazione delle campagne e di accentramento demico nei castelli e nei villaggi più vicini.16 Emerge quindi il quadro di un popolamento che, tra la fine dell’età romana e gli inizi del Medioevo pare essere stato tutt’altro che statico. In un paesaggio in cui l’incolto dovette essere una presenza dominante fino all’XI–XII secolo, le azioni di popolamento documentate a sud di Lugo e presso Bagnacavallo, ma in generale in tutta questa porzione della pianura ravennate lontana dai centri urbani, si connotarono, fin dalla tarda Antichità, come una forma di riconquista del suolo per certi versi di “frontiera”, molto mobile e resa possibile perché coinvolgeva gli enti ecclesiastici urbani, come i monasteri, i vescovi cittadini o lo stesso arcivescovo ravennate;17 operazioni di ripristino delle infrastrutture, messa a cultura di ampie zone di bosco e bonifica, infatti, potrebbero essere state al di là delle capacità dei singoli possessores senza un coordinamento generale.

stato delle conoscenze delle forme del popolamento rurale in EmiliaRomagna tra III–IV secolo e l’alto Medioevo si rimanda a Negrelli 2013. 16 Sembrerebbe infatti dai dati raccolti, che l’incastellamento, in queste aree attestato dall’XI secolo in poi, non avesse influito immediatamente sulle forme del popolamento rurale precedenti (per l’analisi del fenomeno in queste zone si veda: Pasquali 1993; 1995; 1997). 17 Pasquali 1994; 1995.

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Sistemi insediativi tra V e XI secolo in Bassa Romagna. I dati delle ricognizioni di superficie

Fig. 1. Campionatura del progetto di ricognizione “Bassa Romandiola”. In varie tonalità di grigio e delimitate da un tratto più marcato, le zone già indagate, con l’indicazione della collocazione del transetto 1 (Lugo) e del transetto 7 (Bagnacavallo); tratteggiate le aree oggetto di questo contributo.

Fig. 2. Distribuzione dei siti nella zona di Zagonara, Lugo, Transetto 1.

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Marco Cavalazzi

Fig. 3. Distribuzione dei siti nella zona della pieve di S. Pietro in Sylvis, Bagnacavallo, Transetto 7.

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3.27 Paesaggi tardoantichi e paesaggi altomedievali: alcuni contesti romagnoli a confronto Nicola Mancassola Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Dipartimento di Storia Culture Civiltà [email protected] Abstract: This contribution discusses the changes in settlement systems and forms of rural landscape in Romagna between the 4th and 9th century through the analysis of two sample areas (the plain south of Ravenna and the territory of Cesena). The perspective applied is that of surface recognition. Keywords: Late Antiquity; Early Middle Ages; Rural settlement; Landscape Archaeology.

cambiamenti rappresenta un’indagine tanto stimolante quando difficile.

In questa sede si è deciso di soffermarsi su alcuni aspetti relativi al territorio della Romagna tra IV e IX secolo, sforando leggermente l’arco cronologico del volume, in quanto i secoli VIII e IX appaiono strettamente correlati tra loro, così che risulta difficile trattarli separatamente.

L’apporto dell’archeologia di superficie in tal senso può risultare significativo a patto che si tengano presente i vari fattori in campo, primi fra tutti quelli di carattere metodologico.

Il punto di vista utilizzato sarà quello delle ricognizioni di superficie, al fine di analizzare i modelli di popolamento e i sistemi insediativi, con uno sguardo anche alle forme di organizzazione del paesaggio rurale.

Un primo elemento che vale la pena sottolineare consiste nella marcata differenza degli indicatori archeologici tra gli insediamenti tardoantichi e quelli medievali.

Per raggiungere questo obbiettivo si prenderanno in esame due aree campione: il territorio Decimano a sud di Ravenna e il Cesenate (Fig. 1), recentemente oggetto di studi approfonditi sia da parte dell’Università di Bologna, sia da quella di Venezia. Anche altre aree avrebbero potuto essere inserite all’interno di queste riflessioni,1 ma si ritiene che il campione analizzato abbia due caratteristiche fondamentali: possa delineare in maniera compiuta i vari processi in campo e risponda alle esigenze di sintesi e brevità richieste in questo contributo.

I siti tardoantichi (IV–VI secolo) appaiono perlopiù contraddistinti da affioramenti in superficie di materiale da costruzione in laterizio (mattoni, coppi, embrici) di tradizione romana associati a un numero più o meno consistente di ceramica da cucina, ceramica depurata, ceramica fine da mensa e anfore. Sia nel caso di insediamenti sorti ex novo, sia nel caso di rioccupazioni di strutture di età romana, la visibilità archeologica appare notevole, anche in virtù di una conoscenza sempre più accurata delle varie classi di materiali.

Il dato archeologico di superficie: alcune considerazioni metodologiche

Di contro, il sito altomedievale appare in superficie più labile e sfuggente (VII–IX secolo), riflesso di strutture costruite quasi interamente in materiali deperibili con una cultura materiale limitata e con indicatori cronologici non sempre del tutto chiari. Presentandosi come una chiazza di terreno antropico ben distinguibile solo in condizioni di buona umidità, caratterizzato da una modesta quantità di piccoli laterizi molto frantumati e una bassa densità di manufatti ceramici o pietra ollare, esso risulta di non facile individuazione.2

Il periodo compreso tra il IV e l’VIII secolo costituisce un momento cruciale nella storia della Penisola italiana, che segna la fine di un mondo di tradizione antica e il nascere di nuovi paesaggi di età medievale. Analizzare questi 1 In particolar modo ci si riferisce alla Bassa Romagna (Franceschelli, Marabini 2007; Cavalazzi 2012), al territorio tra Imola e Claterna (Librenti 1994; Negrelli 2003; Gelichi, Librenti, Negrelli 2005) e al territorio a nord di Bologna (Librenti 1991; Cianciosi 2011). Per un quadro generale dell’evoluzione degli insediamenti rurali tra V e VI secolo in Emilia-Romagna Negrelli 2010, tra IV e IX secolo Negrelli 2013, pp. 79–84; pp. 90–92.

Sulle caratteristiche del sito archeologico altomedievale in superficie si veda Librenti 2000; Saggioro 2003; Mancassola 2006, pp. 116–123; 2

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Nicola Mancassola tenore della cultura materiale, come testimoniano gli abbondanti ritrovamenti di anfore e ceramiche fini da mensa sia africane, sia orientali.

Queste marcate differenze del dato archeologico di superficie, devono essere tenute in debita considerazione, in quanto rischiano di influenzare in maniera diretta le informazioni raccolte sul campo, con il rischio di sottostimare un’epoca (l’alto Medioevo) rispetto a un’altra (il Tardoantico).

In altre circostanze invece si assiste a fenomeni di contrazione insediativa: le precedenti ville sono interessate da processi di degrado e ridimensionamento che non portano quasi mai all’abbandono completo dell’edificio, ma a un utilizzo parziale dello stesso probabilmente con strutture in legno o in laterizi di reimpiego, caratterizzate da una cultura materiale molto povera in cui l’accesso ai prodotti di importazione appare ridotto.

Accanto a questi problemi, si devono segnalare anche difficoltà di tipo cronologico.3 La prima consiste nel constatare come non per tutti i secoli in questioni si disponga dello stesso grado di conoscenza dei materiali, così per alcuni periodi (IV–VI secolo) possiamo disporre di indicatori cronologici molteplici e più conosciuti, per altri (VII–VIII secolo) di un minor numero di fossili guida. Inoltre la forbice cronologica copre archi temporali ancora troppo grandi, spesso di un paio di secoli, il che tende a sovrastimare fenomeni di continuità insediativa, impedendo di cogliere le fasi di cesura. Il problema è piuttosto serio e non marginale, con ricadute sia a livello sincronico, sia diacronico. L’occupazione di ville romane a partire dal IV secolo si sviluppa in continuità con le precedenti strutture o avviene dopo una fase di abbandono e degrado? I siti presenti sul territorio tra VII e VIII secolo sono tutti contemporanei tra loro? Quesiti tanto importanti quanto banali, ma che in assenza di mirati scavi stratigrafici sono destinati a rimanere senza risposta.

Incrociando i dati sull’insediamento con quelli sulla cultura materiale possiamo riscontrare tre diversi tipi di insediamento: siti direzionali, ovvero nuclei di grandi dimensioni (7000–10000 mq circa) con l’abbondante presenza di numerosi materiali d’importazione orientale, africana oltre a materiali tipicamente italici quali la pietra ollare; insediamenti intermedi contraddistinti da manufatti di importazione, ma in misura minore e non sempre tutti presenti, oltre a una scarsa presenza di pietra ollare; infine piccoli insediamenti con cultura materiale molto povera, limitata presenza di manufatti di importazione e quasi totale assenza di pietra ollare. Le tendenze insediative messe in luce nell’età tardoantica, trovano pieno compimento nell’alto Medioevo (Fig. 3), quando a partire dell’VIII secolo si assiste, da un lato a una certa instabilità e mobilità dei piccoli insediamenti sparsi, affiancata a una loro minor presenza generale; dall’altro si rileva una forte stabilità dei siti direzionali sorti sui resti delle precedenti ville romane, che ora però cominciano a cambiare fisionomia trasformandosi in agglomerati costituiti da alcune abitazioni, perlopiù in materiale deperibile (legno) e con un limitato reimpiego di laterizi romani. L’accentramento insediativo, con la nascita di veri e propri villaggi (nel senso archeologico del termine), sebbene non abbia portato all’abbandono degli insediamenti sparsi, rappresenta comunque la più grande novità altomedievale di questa porzione del territorio Decimano.

Il Territorio Decimano La pianura a sud di Ravenna, inserita nel così detto “Territorio Decimano”, rappresenta un’area del tutto particolare, in cui la stretta relazione con la città ne costituisce il tratto saliente.4 Qui, in età tardo antica (fine IV–VII secolo) i modelli di popolamento e i sistemi insediativi paiono muoversi attraverso una riarticolazione del precedente assetto romano che si sviluppò secondo diverse modalità (Fig. 2). Innanzi tutto, possiamo rilevare come i fenomeni di abbandono totale dei siti di età romana siano bilanciati dalla nascita di insediamenti sorti ex novo su aree prima disabitate.

Il territorio di Cesena

Se dunque la capillare occupazione del territorio rappresenta un importante elemento di questo periodo, va sottolineato come in parallelo si rilevino mutamenti che cambiarono la fisionomia complessiva dei paesaggi rurali. Ci si riferisce in particolar modo ai fenomeni di gerarchizzazione delle precedenti ville di età imperiale che seguirono due destini differenti.

Per il territorio di Cesena possiamo contare su una nutrita e numerosa serie di dati.5 Le informazioni raccolte appaiono significative e riguardano sia la pianura centuriata e non a nord della via Emilia, sia alcune porzioni di territorio a sud della città6 (Fig. 4). Per il periodo tardo antico (V–VI secolo) si nota un buon grado di tenuta del precedente assetto insediativo romano (40–50% dei siti), così come si rileva il sorgere di nuovi insediamenti su aree prive di strutture di età imperiale (I–II secolo) o tardo imperiale (III–IV secolo), dando l’idea di

In alcuni casi la funzione preminente e direzionale di questi edifici appare ancora ben marcata con una dispersione di manufatti di età tardoantica molto estesa e con un notevole Saggioro 2010, pp. 83–97. 3 Negrelli 2003, pp. 272–274 e pp. 285–286; 2009; 2011. 4 Augenti, De Brasi, Ficara 2005; Mancassola 2005; Ficara, Manzelli 2008; Mancassola 2008b; Cavalazzi, Fabbri 2014; Cavalazzi, Ficara 2015.

Negrelli 2008. Sulle caratteristiche metodologiche di questa ricerca e sulle aree campione analizzate Negrelli, Magnani 2008, pp. 79–89. 6 Negrelli 2008, pp. 248–256. 5

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Paesaggi tardoantichi e paesaggi altomedievali: alcuni contesti romagnoli a confronto un quadro generale dinamico e vitale.

dall’assenza quasi assoluta di rinvenimenti altomedievali. Le ragioni paiono riconducibili con la vicinanza alla città, da considerarsi come un vero e proprio centro direzionale con uno stretto controllo sulle zone circostanze, che si risolse in un forte accentramento insediativo all’interno del nucleo urbano e nel suo suburbio.

A fronte di queste tendenze comuni, si deve però segnalare una certa varietà territoriale, che di per sé rappresenta un interessante elemento della ricerca, indice di complessi processi storici non sempre inseribili in precise modellizzazioni.7

Situazione diversa nella pianura centuriata a nord di Cesena (S5), dove si rileva una maggiore tenuta dell’insediamento, che in alcuni casi presenta continuità con l’età tardoantica, mentre in altri risulta occupare nuove aree anche se all’interno dei medesimi fondi (Fig. 6). Il paesaggio altomedievale che qui venne a formarsi si contraddistingue per il suo carattere polinucleato, ormai profondamente diverso da quello sparso di età romana. In questo scenario spiccano due siti, dei veri e propri villaggi, uno nei pressi di quella che nel 973 le fonti scritte definiranno come curtis di San Giorgio, l’altro in relazione alla pieve di San Pietro in Cerreto.

In alcune aree (S2, S5) maggiore risulta l’indice di continuità, fenomeno che appare strettamente legato alla persistenza della centuriazione. Particolarmente interessante è la zona attorno a San Giorgio (S5, Fig. 5), dove a fronte di un intenso popolamento tardoantico di tipo sparso emergono anche alcuni poli insediativi, sia eredi di grandi insediamenti urbano rustici di età romana, sia sorti ex novo in età tardoantica, in un quadro che presenta stringenti analogie con quello rilevato nella pianura a sud di Ravenna. Non così nell’altro settore centuriato (S2), dove il modello di popolamento sembra seguire caratteri di tradizione romana, con un insediamento sparso, privo di evidenti poli di accentramento.

Conclusioni

Situazione diversa invece per gli altri settori,8 dove l’insediamento accusa un calo maggiore (S1) oppure si riarticola in maniera più netta in relazione a precisi elementi topografici, nel caso specifico la via Dismano9 (Pieve Sestina, S4) o infine subisce drastiche riduzioni probabilmente legate alla difficoltà di continuare a occupare zone soggette a rischi idrogeologici sebbene vada rilevato come non furono interessate da fenomeni di sovralluvionamento post romano (Valle del Savio, S7).

Mettendo a confronto i vari casi di studio indagati, il primo elemento che balza subito agli occhi è una grande varietà di soluzioni da zona a zona, indice di processi storici piuttosto complessi, caratterizzati da una molteplicità di fattori che combinati tra loro diedero vita a esiti differenti. Se dunque la molteplicità di situazioni riscontrate ci induce ad abbandonare l’idea di poter proporre un chiaro e univoco modello valido per tutta la Romagna, ciò nonostante non ci esime dal ricercare alcuni tratti comuni, che comunque paiono trasparire.

I secoli altomedievali (VII–IX) vedono accentuarsi queste differenze zonali, rendendo conto di situazioni diverse tra loro. Nel settore facente capo al Dismano (Pieve Sestina, S4) l’insediamento tende a rarefarsi ulteriormente rispetto al periodo tardoantico, localizzandosi nel pressi dell’asse stradale oppure in relazione alla chiesa di S. Pietro in Cistino.

In particolar modo la lenta e non traumatica transizione tardoantica portò sul lungo periodo alla formazione di paesaggi altomedievali profondamente differenti da quelli di età romana. A tal proposito spicca l’abbandono o comunque il drastico sottopopolamento di alcuni settori, in parallelo con l’emergere di poli insediativi gravitanti attorno ad alcuni elementi topografici ben definiti, quali le arterie stradali, alcune significative realtà insediative (la curtis di San Giorgio), i siti direzionali, gli edifici religiosi (siano essi pievi o cappelle rurali), non dimenticando il ruolo esercitato dalla città nelle campagne circostanti.

Più marcata appare la contrazione insediativa nei pressi di S. Mauro (S1), così come nella valle del Savio dove per questo periodo non si sono documentati che pochi sparuti rinvenimenti (S7). Vicende a parte presenta la pianura orientale soggetta a fenomeni alluvionali post romani e rioccupata capillarmente a partire dal X secolo (S6).

Nel complesso, dunque, pur con tutte le differenze illustrate, la tendenza comune all’alto Medioevo sembra quella di una polarizzazione e di un accentramento insediativo, con la selezione di aree a maggior popolamento rispetto ad altre quasi del tutto disabitate e utilizzate per usi agricoli o attività silvo-pastorali.

Poco popolata risulta essere anche la pianura centuriata subito a ridosso della città di Cesena (S2) contraddistinta 7 Non si è preso in considerazione il S3 in quanto privo di dati sufficienti e il S6 caratterizzato da fenomeni di alluvionamanto post romani. 8 Un netto calo è presente anche nel S6, tuttavia tale dato pare riflettere fenomeni alluvionali che hanno obliterato i livelli tardoantichi Negrelli 2008, p. 247 e p. 248. 9 Va osservato che l’emergere di particolari elementi topografici come fattori attivi per la distribuzione del popolamento appare anche in altri settori (per esempio S5), sebbene non paia assumere i tratti marcati evidenziati nel S4 (Negrelli 2008, pp. 243–247).

Tale polarizzazione, che è utile ribadirlo si concretizzò in forme diverse da zona a zona, non sembra però aver avuto la forza di strutturarsi in una vero e proprio accentramento nucleato, visto che gli insediamenti sparsi intercalari appaiono ancora presenti, sebbene si situino 247

Nicola Mancassola vicino ai siti di maggiori dimensioni e non si dispongano più capillarmente sull’intero territorio come in età romana. Un paesaggio dunque diverso, che nella trasformazione non traumatica, si riarticolò in forme nuove e inedite, dando conto di una realtà medievale del tutto originale rispetto al periodo romano, dove le persistenze del mondo antico assumevano ora un nuovo significato, in un processo dialettico assai complesso e articolato.

Fig. 1. Carta dell’Emilia Romagna, in grigio le aree campione analizzate in questo contributo (immagine tratta dal sito www. esploriamo.com).

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Paesaggi tardoantichi e paesaggi altomedievali: alcuni contesti romagnoli a confronto

Fig. 2. Territorio Decimano, carta di distribuzione degli insediamenti di VI–VII secolo.

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Nicola Mancassola

Fig. 3. Territorio Decimano, carta di distribuzione degli insediamenti di VIII–IX secolo.

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Paesaggi tardoantichi e paesaggi altomedievali: alcuni contesti romagnoli a confronto

Fig. 4. Territorio di Cesena: settori indagati e aree campione (Negrelli 2008).

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Nicola Mancassola

Fig. 5. Territorio di Cesena. Settore 5, affioramenti di materiali ascrivibili al V–VI secolo (Negrelli 2008).

Fig. 6. Territorio di Cesena. Settore 5, affioramenti di materiali ascrivibili al VII–VIII secolo (Negrelli 2008).

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3.28 Anfore palestinesi in Romagna: distribuzione dei rinvenimenti Giacomo Piazzini Ricercatore indipendente [email protected] Abstract: Recent excavations in Classe clearly revealed an impressive amount of imports from the Eastern Mediterranean. However, we must note that a port city serving a late Roman capital, such as Classe and Ravenna, should be considered a peculiar case and not a model for the surrounding area, especially since the role of the city as a nodal point for trade and redistribution is already well known. Given that premise, this paper was conceived to sum up the published examples of late Roman Levantine wine amphoras, in particular LRA 4, LRA 5, and Agorà M334, found in the region of modern Romagna. The role of Ravenna as a link with the Eastern Mediterranean is well acknowledged, not only in relation to trade; now the question is where all those goods were directed for consumption. Keywords: Amphorae; Levant; Ravenna; LRA 4, LRA 5, M334.

delle merci d’Oriente è stato ampiamente confermato dalle ricerche archeologiche; si pone ora il quesito sulle direzioni di questa redistribuzione. Ravenna, nuova sede della corte imperiale, fu sicuramente dall’inizio del V secolo un centro di consumo di primo piano dei vini contenuti nelle anfore palestinesi, ma in assenza di scavi all’interno del tessuto urbano non si hanno i mezzi per comprendere in quale misura questo vinum optimum fosse effettivamente destinato a rifornire la città. Con in mano i risultati delle campagne di scavo degli ultimi anni presso le due basiliche classicane (quella Petriana e quella di San Severo) è possibile affermare che anche in quei contesti le anfore palestinesi avevano un’ampia circolazione. Le anfore di Gaza, infatti, si attestano con indici largamente superiori a qualsiasi altro contenitore da trasporto (40% circa), affiancate da bassi ma stabili presenze di LRA 5 e Agorà M334. Una volta fuori dal porto di Classe, perciò, parte di queste preziose merci arrivate dalla Terra Santa trovavano ampio utilizzo nei principali complessi religiosi della città.

La circolazione lungo le coste adriatiche fra V e VII secolo di anfore di origine palestinese, essenzialmente LRA 4, LRA 5 e Agorà M334, è stata ormai confermata da vari ritrovamenti. La loro distribuzione nel territorio, tuttavia, sembra essere decisamente eterogenea.1 Se si focalizza l’attenzione alla sola area romagnola, si può constatare che anche all’interno di questo comparto territoriale la distribuzione non è diffusa in maniera capillare. La connessione privilegiata di Ravenna col Levante è già stata evidenziata in altre occasioni; fin dagli anni Settanta, infatti, gli scavi di Classe hanno restituito una consistente quantità di tutte e tre le tipologie palestinesi.2 Grazie ai dati degli ultimi scavi è stato evidenziato come a Classe la LRA 4 costituisse una parte preponderante delle importazioni. Da sola l’anfora di Gaza rappresenta almeno il 20% dei contenitori da trasporto, ma in alcuni contesti di fine V e inizio VI secolo raggiunge il 40%.3 LRA 5 e Agorà M334 si attestano invece con un indice molto più modesto (la prima intorno al 5–6% e la seconda al 2%), ma comunque decisamente superiore a qualunque altro sito dell’Adriatico, dove spesso risultano del tutto assenti.4

Se il porto non è indice dei consumi, quanto in realtà del passaggio delle merci, e le basiliche da sole non bastano a formulare un quadro completo, conviene volgere lo sguardo al resto del territorio, sicuramente influenzato dalla vicinanza con Ravenna.

Il ruolo di Classe quale porto d’arrivo e di smistamento 1 2 3 4

Osservando la situazione dei rinvenimenti in Romagna si possono evidenziare alcuni contesti nei quali la presenza sembra essere attestata in maniera decisa, altri in cui le anfore compaiono in maniera episodica, e infine alcuni siti

Auriemma, Quiri 2007. Stoppioni 1983. Cirelli 2014d, p. 543; Cirelli, Cannavicci 2014, p. 963. Cirelli 2014d; Piazzini 2015.

253

Giacomo Piazzini il prezzo decisamente oneroso. Dato il costo eccessivo di questi prodotti, è facile ipotizzare un utilizzo diffuso di altri vini d’importazione (come quelli prodotti in Anatolia, Siria e Cipro che mostrano una distribuzione più capillare) e soprattutto di vini prodotti localmente (trasportati con mezzi alternativi alle anfore).

dove l’assenza può essere altrettanto significativa. Le anfore palestinesi risultano assenti o quasi presso gli insediamenti individuati a Salto del Lupo,5 Cesenatico,6 Forlì,7 Faenza,8 Galeata9 e nel territorio di Riolo Terme.10 Questi contenitori non raggiungono quindi regolarmente contesti nei quali la circolazione di anfore africane così come di altre anfore orientali (quali le LRA 1 e le LRA 3) è comunque apprezzabile. Persino nell’Agro Decimano, la cui stretta relazione con Ravenna è data dal fatto stesso di costituire il suo immediato retroterra, le attestazioni di LRA 4 sono scarse.11 Nell’area indagata dalle ricognizioni di superficie dell’entroterra ravennate le anfore africane sono presenti in maniera capillare, anche presso i siti di piccole dimensioni, dove sono stati frequentemente rinvenuti insieme a frammenti di LRA 1 e LRA 3.

Il vino di Gaza, in sostanza, può essere considerato, e le fonti lo confermano ampiamente, un bene di consumo riservato alle élites.17 Tenendo in considerazione il recente contributo di Dominique Pieri, che nota come la penetrazione nell’entroterra francese delle LRA 4 sia circoscritto ad alcuni centri con vocazione religiosa, anche la distribuzione dei rinvenimenti in Romagna può dare qualche spunto di riflessione.

I ritrovamenti di anfore palestinesi si fanno sostanzialmente significativi a Imola presso Villa Clelia, a Cervia, presso la chiesa di S. Martino, nell’area di Comacchio,12 in particolare presso la chiesa di Santa Maria in Padovetere, e a Rimini.13

I testi (già citati dallo stesso Pieri) di Gregorio di Tours indicano chiaramente l’utilizzo liturgico del vino di Gaza, che ebbe verosimilmente un valore simbolico riguardante la sua origine geografica: la Terra Santa. Secondo la testimonianza di Gregorio di Tours sembra proprio che il vino di Gaza fosse stato da lui acquistato per la celebrazione della messa.18

Le strutture rinvenute presso Villa Clelia sono state attribuite a una chiesa dalle dimensioni considerevoli e un ricco arredo interno, forse la basilica di San Cassiano. Le anfore di origine orientale prevalgono decisamente su quelle africane e un’ampia porzione è costituita da anfore palestinesi (LRA 4, LRA 5 e Agorà M334).14

In un discorso come questo può sembrare inverosimile un rapporto diretto di dipendenza fra l’utilizzo del vino in occasione della messa e la presenza di anfore da vino presso gli edifici religiosi. Va tenuto conto, però, che per tutta la tarda Antichità (e ancora fino a gran parte dei secoli centrali del Medioevo), la distribuzione ai fedeli delle due specie consacrate (pane e vino) in occasione della messa veniva effettuata separatamente. Solo più tardi si arriverà alla “comunione per intinzione”, ossia quella che prevede la distribuzione ai fedeli del pane intinto nel vino.19 La circolazione e il consumo di questa bevanda nei luoghi religiosi dovevano perciò essere assai più consistenti di ciò che oggi ci potremmo aspettare.20

Presso la chiesa di San Martino prope litus maris a Cervia, costruita probabilmente nella prima metà del VI secolo, la percentuale di rinvenimenti più alta è relativa alle anfore cilindriche africane, cui seguono immediatamente le LRA 4.15 Riguardo alla chiesa di Santa Maria in Padovetere, costruita anch’essa nella prima metà del VI secolo, è attestata la presenza di alcune LRA 4 e di un esemplare di LRA 5.16 Il vino palestinese contenuto nelle LRA 4 era famoso in tutto il Mediterraneo per la grande qualità ma anche per

È stato messo in luce, grazie alla testimonianza di alcune fonti scritte, come il vino fosse comunemente portato in offerta ai santuari e presentato dai fedeli al clero durante il rito dell’offertorio.21

Corti 2007a. Materiale in corso di studio, comunicazione personale della dott. Luana Toniolo. 7 L’unico esemplare rinvenuto in bibliografia è una LRA 4 dal Museo Archeologico locale (non è rintracciabile la provenienza), cfr. Gardelli 2012, p. 482 e figg. 36–37; nessun rinvenimento fra materiali della Domus di Via Curte, dove l’unica anfora orientale rinvenuta sembra essere una LRA 1 (Tempesta 2013). 8 Un esemplare di LRA 4 dagli scavi della Domus di Palazzo Grecchi (Guarnieri, Montevecchi, Negrelli 2006). Nessun ritrovamento proviene invece dagli scavi della Domus di Palazzo Pasolini (Montevecchi, Negrelli 1998). 9 Materiale in corso di studio, comunicazione personale della dott.ssa Emanuela Gardini. 10 Negrelli 2007b, p. 107. 11 Augenti et al. 2005, pp. 19, 29; Ficara 2008, p. 108. 12 Gelichi et al. 2007. 13 Negrelli 2008a, pp. 77–79. 14 Curina et al. 1990. 15 Stoppioni, Novara 1996, p. 79. 16 Corti 2007b, p. 239; 2007c, pp. 575 e 579. 5 6

Ancora Gregorio di Tours riporta la testimonianza di una donna aristocratica che offriva periodicamente in dono il vino di Gaza per la celebrazione eucaristica.22 In conclusione, pur rimarcando il fatto che le anfore palestinesi trasportavano un bene genericamente Pieri 2005; Reynolds 2005. Gregorio di Tours, Liber in gloria confessorum, LXV; Pieri 2005. 19 Parenti 2007, pp. 1266–1267. 20 Va in ogni caso tenuto presente l’aspetto quantitativo di questi ritrovamenti: non si tratta di decine o centinaia di anfore ma di un numero sempre modesto di esemplari, il quale resta in ogni caso contrapposto all’assenza totale o quasi in molti altri contesti indagati. 21 Dell’Oro 2003, pp. 426–427; Tomea 2003, pp. 349–350. 22 Gregorio di Tours, Liber in gloria confessorum, LXIV. 17 18

254

Anfore palestinesi in Romagna: distribuzione dei rinvenimenti riservato alle élites, laiche e religiose, la distribuzione dei rinvenimenti (Tab. 1) può ora contribuire aggiungendo un’ulteriore dettaglio. Con l’occhio e il metodo di una moderna indagine di mercato intenta a individuare il target principale di un bene di lusso nella società, sembra che i più diffusi ambienti di consumo di vino palestinese siano stati soprattutto quelli religiosi.

Fig. 1. Anfore palestinesi da Classe: a) Agorà M334; b) LRA 5; c) LRA 4.

255

Giacomo Piazzini

Fig. 2. Distribuzione dei rinvenimenti di anfore palestinesi in Romagna.

Tab. 1. Tabella con le segnalazioni di rinvenimenti di anfore palestinesi in Romagna (aggiornata al 2014).

1

Ravenna

Alta presenza (LRA 4, LRA 5, Agorà M334)

2

Agro Decimano

Sporadico (LRA 4)

3

Cervia chiesa di S. Martino

Ben attestata (LRA 4)

4

Rimini – Piazza Ferrari

Sporadico (LRA 4)

5

Galeata

1 esemplare (LRA 4)

6

Forlì

1 esemplare (LRA 4)

7

Faenza Domus di Palazzo Grecchi 1 esemplare (LRA 4)

8

Riolo Terme

1 esemplare (LRA 4)

9

Imola – Basilica preso Villa Clelia

Ben attestate (LRA 4, LRA 5, Agorà M334)

10 Santa Maria in Padovetere

Ben attestata (LRA 4)

11 Comacchio

Sporadico (LRA 4, LRA 5)

256

SEZIONE 4 LE MARCHE

4.1 Colombarone, un sito che non conosce crisi Pier Luigi Dall’Aglio*, Gaia Roversi**, Cristian Tassinari* Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Dipartimento di Storia Culture Civiltà; ** Università di Roma, La Sapienza, Dipartimento di Scienze dell’Antichità

*

[email protected]; [email protected]; [email protected] Abstract: Archaeological research projects at Colombarone (PU), led by the University of Bologna between 1983 and 2005, have revealed evidence of a great settlement complex, first residential and later clerical, placed along the Via Flaminia between Pesaro and Rimini. The site’s chronology has a long duration, from the late Imperial period to High Middle Ages. Its long life is due to its strategic position from the point of view of the road system, and for the same reason, a good presence of imported ceramics has been recorded. These last indicate active trade with North Africa and the Eastern Mediterranean area, while other vases can be linked to regional or local production. Keywords: Via Flaminia; Villa; Basilica; Ceramics trade.

Il complesso villa-basilica tra Tardoantico e alto Medioevo

fase di sviluppo architettonico. Nel corso del VI secolo d.C., infatti, all’interno di quella che un tempo era la grande sala dedicata ai banchetti, fu impiantata la navata absidata della Basilica di San Cristoforo ad aquilam. La zona destinata ai fedeli era separata da quella riservata agli officianti mediante un muro trasversale su cui si trovava una raffinata iconostasi in marmo. Via via che le antiche stanze del palazzo romano cadevano in disuso e ospitavano al loro interno alcune sepolture, la Basilica si ampliava attraverso la costruzione di ulteriori edifici addossati alle pareti laterali.

Il sito archeologico di Colombarone sorge lungo il tratto della via Flaminia che corre tra Pesaro e Rimini, a circa un chilometro e mezzo di distanza dalla costa adriatica, presso l’incrocio con la strada che conduce da un lato verso il Castello di Gradara e dall’altro verso il porto di Vallugola. Probabilmente in quest’area si sviluppò un insediamento di epoca romana, forse un luogo di sosta, stando alla denominazione della nota Basilica di San Cristoforo Ad Aquilam che qui verrà edificata in età altomedievale.1 Tra il III e il VI secolo d.C. a Colombarone si sviluppò una grande villa, dotata di un ampio cortile, di sale per banchetti e di un quartiere termale, verosimilmente baricentro di una grande proprietà terriera circostante, alla stregua di altri analoghi complessi residenziali e produttivi tipici di quest’epoca. La continua ricerca di lusso da parte del proprietario sfociò, attorno al V secolo d. C., nella realizzazione di una nuova grandiosa sala per banchetti con un’esedra semicircolare sul fondo. Dopo una fase di degrado e di parziale abbandono, conseguente al periodo di crisi determinato dalle guerre gotiche, che vide anche l’impianto di nuclei di sepolture e la defunzionalizzazione di alcune strutture residenziali, il complesso vide una nuova importante

La Basilica di San Cristoforo Ad Aquilam è identificabile con il luogo, posto a circa 50 miglia da Ravenna e citato dal Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, prescelto nel 743 d.C. per l’incontro tra Papa Zaccaria e l’esarco Eutiche, comandante militare delle truppe bizantine, per discutere della difficile situazione politica creata dall’avanzata dei Longobardi verso Roma. Proprio in quel periodo la Basilica visse il suo periodo di massimo splendore all’interno dell’Esarcato di Ravenna. Poco dopo il complesso fu distrutto da un incendio ma venne ricostruito, seppure di minori dimensioni, e restò in uso nel pieno Medioevo quando, tra il X e il XII secolo d.C., divenne una Pieve con il relativo complesso cimiteriale. Successivamente sopravvisse nelle forme di una ‘chiesola’ rurale, ancora visibile nel 1782 quando l’erudito locale Annibale degli Abbati Olivieri Giordani la utilizzò come punto di riferimento per localizzare le strutture archeologiche riportate in luce per la prima volta dagli scavi condotti dall’arciprete di Casteldimezzo. A partire

1 L’appellativo ad aquilam sembrerebbe alludere all’effigie, appunto con la riproduzione di un’aquila, che doveva decorare l’insegna della stazione di sosta lungo al via Flaminia (Dall’Aglio, Di Cocco, Tassinari 2004). A questo insediamento si possono riferire anche le sepolture rinvenute nei pressi (Baldelli, Destro, Giorgi 2001).

259

Pier Luigi Dall’Aglio, Gaia Roversi, Cristian Tassinari dal corpo allungato e con argilla color cuoio, originaria della Turchia orientale e le cui attestazioni sulla costa romagnola sono più frequenti in contesti di IV–VI secolo, ma se ne conoscono anche esempi in contesti di pieno VII d.C.8 Dall’area mediorientale proviene un orlo di anfora dal collo atrofizzato (Fig. 2.8), avvicinabile al tipo LRA 4, tradizionalmente prodotto a Gaza e presente sia sulla costa romagnola, sia in quella marchigiana, con datazione compresa tra VI e VII sec. d.C.9 È invece originario della Palestina settentrionale un esemplare di orlo riferibile al tipo LRA 5 (Fig. 2.9), diffuso per un periodo molto ampio.10

dal 1983 il sito è stato oggetto di indagini sistematiche da parte dell’Università di Bologna.2 Il contesto archeologico riportato in luce a Colombarone rappresenta un caso privilegiato per lo studio del passaggio tra Tardoantico e alto Medioevo nelle Marche, perché permette di riscostruire fasi storiche non sempre attestate con altrettanta ricchezza nel resto della regione. Da questo punto di vista anche lo studio della ceramica restituisce un panorama prezioso e consente di ricostruire una pagina importante della storia di questo territorio. I materiali d’importazione

P.L.D, C.T.

A Colombarone, come in tutto il versante adriatico che gravita tra le Marche e la Romagna, si può osservare come la circolazione di merci provenienti dalle province dell’Impero affacciate sul Mediterraneo sia testimoniata dalla presenza di vasellame in Terra Sigillata Africana e di contenitori da trasporto tipici dell’Africa Proconsolare e del Mediterraneo orientale. Tra le sigillate africane, numericamente assai meno frequenti rispetto alle sigillate tarde di produzione italica, è presente un piatto (Fig. 1.1) del tipo Hayes 62A caratterizzato da un piccolo gradino posto in prossimità dell’attacco del fondo con la parete, la cui datazione inizia nel primo quarto del IV secolo e raggiunge il primo quarto di quello successivo. Un orlo (Fig. 1.2), caratteristico per la presenza di una scanalatura nella parte superiore, rientra nel tipo Hayes 104C, un piatto diffuso tra la seconda metà del VI e il VII sec. d.C. È inoltre presente un fondo con decorazione a stampo costituita da palmette disposte a raggiera, sormontate da un motivo geometrico circolare (Fig. 1.3). La grande maggioranza del materiale d’importazione è rappresentato dalle anfore, sia di origine africana sia di origine orientale. I contenitori di fabbricazione africana sono attestati in tre tipi differenti; un orlo (Fig. 2.1) ingrossato a fascia a sezione subrettangolare è attribuibile al tipo Tripolitana I, diffuso dall’epoca augustea fino al II d.C.,quando viene soppiantato dalla variante III, che cronologicamente raggiunge il IV d.C.3 Due frammenti (Fig. 2.2–3) rientrano nel tipo Keay LXII, un’ anfora cilindrica prodotta in diverse zone della Tunisia tra VI e VII d.C.4 Tra le forme provenienti dal Nord Africa si segnala anche un frammento di orlo svasato, ingrossato e con collo troncoconico (Fig. 2.4), pertinente a un’anfora del tipo Africana II A2, datato tra II e III sec. d.C.5 Meglio documentato è il panorama dei recipienti da trasporto di origine orientale, tra cui si distinguono orli sicuramente attribuibili al tipo LRA 1 (Fig. 2.5).6 Altrettanto ben attestato è il tipo LRA 2, un contenitore di dimensioni minori, con orlo ingrossato all’interno e spalla segnata da linee incise parallele, presente in area adriatica nell’ambito di contesti di V–VII secolo.7 Tra i contenitori di piccole dimensioni si segnala la presenza di una LRA 3 (Fig. 2.7), un’anfora

Ceramica di produzione italica Accanto ai prodotti di importazione si possono contare un buon numero di vasi in Terra Sigillata attribuibili alle produzioni tarde di area adriatica. Le forme più diffuse sono quelle del repertorio della Sigillata medioadriatica e le imitazioni di Sigillata Africana. Un tipo di ciotola poco profonda (Fig. 3.1) è attribuibile alla forma Brecciaroli Taborelli 5 già riconosciuta, in ambito regionale, a Suasa e datata nel corso del III d.C.;11 tra i piatti è presente un orlo associabile alla forma Maioli 7 (Fig. 3.2) che a Classe compare in contesti datati entro la metà del IV d.C. e che si ritrova sia a Suasa12 sia a Rimini con datazioni abbastanza simili e circoscritte all’interno del III d.C.13 Una delle forme più comuni in ambito adriatico è il piatto con l’orlo a tesa (Fig. 3.3–4), ben attestato a Suasa.14 Tra i materiali di Colombarone ne sono stati riconosciuti due tipi differenti: il primo si avvicina alla forma Brecciaroli Taborelli 10/17 (Fig. 3.3) e trova un buon confronto con un esemplare di Rimini databile tra III e IV secolo d.C.;15 un secondo frammento (Fig. 3.4), con decorazione a rosette affiancate eseguite a stampo sulla faccia superiore dell’orlo è, invece, ricollegabile al tipo Hayes 59 circoscritta cronologicamente tra IV e inizio V secolo d.C. Le imitazioni di Sigillata Africana si riducono a tre forme: piatti simili alle Hayes 61, vasi a listello simili alle Hayes 91 e una coppa riconducibile al tipo Hayes 1. Le Hayes 61 sono attestate sia nella variante A (Fig. 3.5–7) sia nella variante B: la prima, imitata nelle officine italiche già a partire dal IV d.C. e largamente diffusa in tutta la penisola per la sua versatilità e semplicità di realizzazione, è la meglio attestata e compare anche in versione acroma (Fig. 3.7):16 un ulteriore frammento (Fig. 3.8), con suddipintura bruna sul fondo interno, è avvicinabile alla variante B, della metà del V d.C. e si confronta fra le ceramiche di

8 9 10

2 3 4 5 6 7

Dall’Aglio, Vergari 2001; Dall’aglio, Di Cocco, Tassinari 2004. Bonifay 2004, fig. 55a, n. 1, p. 105. Bonifay 2004, pp. 137–140. Bonifay 2004, fig. 57.6, p. 111. Reynolds 2005, pp. 565–567. Auriemma, Quiri 2007, pp. 40–41.

11 12 13 14 15 16

260

Saguì 2001a, p. 289; Auriemma, Quiri 2007, p. 42. Auriemma, Quiri 2007, p. 46. Saguì 2001a, pp. 290–291. Biondani, Mazzeo Saracino, Nannetti 1996, fig. 2.3, p. 141, 146. Biondani, Mazzeo Saracino, Nannetti 1996, p. 141. Biondani 2005a, fig. 118, n. 10, pp. 180–181. Mazzeo Saracino 1992, p. 75. Biondani 2005a, Fig. 118, n. 18, pp. 182–184. Fontana 1998, p.84.

Colombarone, un sito che non conosce crisi Galeata.17 Meno certa è l’attribuzione allo stesso tipo di un esemplare con l’orlo concavo all’esterno (Fig. 3.9) che richiama in parte le Hayes 61 e in parte le Hayes 3 della Sigillata Focese, databile al VI d.C.;18 si confronta puntualmente con un vaso recuperato nella chiesa di S. Martino prope litus maris di probabile produzione locale.19

datati nel corso del VII d.C, così come l’esemplare (Fig. 5.3) con orlo pendente e versatoio.26 Un tipo diverso mostra il listello inclinato verso l’interno (Fig. 5.4), simile a quello riscontrabile su alcuni bacini dell’area abruzzese, databili tra il V e la metà del secolo successivo.27 Infine si segnala la presenza di un profondo bacino con orlo leggermente rientrante a sezione sub-triangolare, con vernice di colore rosso-bruno (Fig. 5.5). Tra le ceramiche da cucina vi è una buona quantità di olle “tipo Classe”, il cui repertorio mostra una certa variabilità nella forma dell’orlo, che può essere a sezione quadrangolare (Tav. 6.1), scanalato all’interno (Tav. 6.2) o arrotondato (Tav. 6.3–4). La decorazione incisa a onde che distingue questa produzione si ritrova anche su un coperchio con orlo a sezione quadrangolare (Tav. 6.5). Tra i tegami il tipo con orlo rientrante e vasca troncoconica è quello più diffuso (Tav. 6.6), ben documentato in tutta l’area adriatica in età tardoantica e nell’alto Medioevo.28

I vasi con l’orlo a listello, legati al tipo Hayes 91, sono presenti in due varianti: la prima (Fig. 3.10) con il listello pendente sembra ricollegabile al tipo C e si confronta con vasi provenienti da Faenza datati, in base al contesto, tra la fine del V d.C. e la prima metà del VII d.C.20 La seconda variante (Fig. 3.11), testimoniata da un esemplare con il listello orizzontale e decorato, sul fondo interno, da un motivo a triangolini impressi e disposti a raggiera, è del tutto sovrapponibile alla variante D prodotta, nelle fabbriche africane, a partire dalla metà del VII d.C. Tra le attestazioni della forma si contano due esemplari completamente privi di tracce di vernice (Fig. 3.12) che mostrano affinità con vasi a listello trovati a Pesaro e datati tra V e VII d.C.21 È presente poi un tipo di coppa con l’orlo verticale decorato, nella parte interna, da una suddipintura costituita da lunette racchiuse da linee orizzontali (Fig. 3.13). Il parallelo africano più simile è iltipo Hayes 1 della produzione tripolitana, che copre un arco cronologico compreso tra la seconda metà del III d.C. e il V d.C., ma si può notare una certa affinità anche con un esemplare, similmente decorato, prodotto a Classe e datato sulla base del contesto di rinvenimento, nella seconda metà del VI d.C.22 Alle produzioni di anfore di area adriatica di VII–VIII d.C. è attribuibile un orlo (Fig. 2.6) accostabile alle anfore globulari simili alle precedenti LRA 2.23

G.R.

Ceramica di uso domestico Le forme più diffuse in ceramica comune depurata sono brocche e bacini. Sono attestate brocche con l’ansa tortile sia acrome (Fig. 4.1) sia con tracce di verniciatura bruna, che potrebbero essere un’imitazione di vasi prodotti nell’area di Cartagine datati nella prima metà del VI d.C.24 Un secondo tipo di brocca (Fig. 4.2), di cui si conserva in profilo intero, mostra una decorazione costituita da suddipinture bianche associate ad ampie gocciolature di vetrina sulla parete esterna. Al periodo bassomedievale si può riferire una brocca (Fig. 4.3), con ansa inglobata nell’orlo e decorata da incisioni sulla superficie superiore, confrontabile con un esemplare di Rimini.25 I bacini, in gran parte con orlo a listello, sono attestati sia con listello orizzontale (Fig. 5.1–2) sia con listello pendente. Un esemplare, con decorazione incisa a onde e suddipinture brune, si avvicina a vasi rinvenuti nella Crypta Balbi,

17 18 19 20 21 22 23 24 25

Gamberini, Mazzeo 2003, Fig. 4.24, p. 104. Martin 1998, p. 116. Gelichi et al. 1996, fig. 32.2, p. 68. Montevecchi, Negrelli 1998, Tav. 51.4, p. 191. Ermeti 1998, Fig. 1.3, p. 612. Hayes 1972, Fig. 60.1, p. 305; Augenti et al. 2007, fig. 28, p. 274. Auriemma, Quiri 2007, p. 48. Fulford, Peacock 1984, Fig. 79.6, p. 205. Biondani 2005b, Fig. 161, n. 7, p. 256.

26 27 28

261

Ricci 1998, fig. 6, p. 363; fig. 5, nn. 7 12, p. 360. Staffa, Odoardi 1996, fig. 11, 22, p. 179. Negrelli 2007a, fig. 11.2, p. 313.

Pier Luigi Dall’Aglio, Gaia Roversi, Cristian Tassinari

Fig. 1. Materiali di importazione.

Fig. 2. Materiali di importazione.

262

Colombarone, un sito che non conosce crisi

Fig. 3. Ceramica di produzione italica.

263

Pier Luigi Dall’Aglio, Gaia Roversi, Cristian Tassinari

Fig. 4. Ceramica di uso domestico.

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Colombarone, un sito che non conosce crisi

Fig. 5. Ceramica di uso domestico.

Fig. 6. Ceramica di uso domestico.

265

4.2 Alla ricerca del porto di Fano: ipotesi di identificazione delle strutture portuali di epoca tardoantica e altomedievale sulla base delle fonti storico-archeologiche Giulia Spallacci Ricercatrice indipendente [email protected] Abstract: The coast of Fano is characterised by short and sandy beaches that made it difficult, since the earliest periods, to establish harbour structures appropriate to the maritime development of the city, which is located along the consular street called ‘Flaminia’. The historic sources always confirmed the maritime activity of the city, but they also drew attention to its difficulties in creating structures appropriate to its own maritime development. The purpose of this research is to recreate, through historical and archeological data, the several attempts of the maritime city to identify the most appropriate place for a port and, thus, the structural choices made for its realisation. Keywords: Fano; Harbour; Adriatic Sea; Maritime trade.

spostato più a nord.

Per chi percorre la via Flaminia, Fano è il primo centro urbano della costa medio adriatica, che in questo tratto, tra le foci del fiume Metauro e del torrente Arzilla, si presenta bassa e sabbiosa.

Inoltre l’Amiani afferma che nel III–IV secolo d.C. si mantennero in uso le strutture portuali romane ma, a causa delle continue guerre, fu necessario il loro restauro. Gli studiosi ritengono che si trattò di un intervento notevole, che coinvolse anche la ristrutturazione delle mura sul lato mare che finirono per inglobare anche la spiaggia. Questo cambiamento comportò una diversa dislocazione delle aree addette all’attracco delle navi, che ora si spostarono a nord e a sud del centro urbano antico.3

Secondo lo studioso marchigiano Nereo Alfieri, lungo questo tratto di litorale si possono identificare tre aree adatte all’attracco, utilizzate dall’età romana a quella medievale. La prima, nota agli autori antichi e attestata fino al XII sec., corrisponde a una concavità litoranea presso la porta di S. Giorgio, posta sull’altro lato dell’abitato rispetto all’Arco di Augusto, dove la via Flaminia entra in città.1

Secondo Amiani, l’esarco di Ravenna, nel 687, fece erigere una torre di vedetta nel lido sul mare, ed egli stesso ricorda la costruzione di una rocca nel 727, forse nella stessa posizione della successiva Rocca Malatestiana, a difesa del sottostante porto. Nell’anno 834 venne poi consacrata la chiesa di S.Maria a Mare, alla foce del torrente Arzilla, di proprietà di S.Maria in Porto di Ravenna.4 In effetti, ipotizzando la presenza di un approdo alla foce dell’Arzilla a nord di Fano, si garantirebbe un facile invio delle decime a Ravenna. In questo senso è di grande interesse la testimonianza del Codice Bavaro che segnala il trasporto via mare dei pagamenti degli enfiteuti nel territorio fanese, forse riferendosi a questo monastero

Nel 1589 1’ingegnere Guglielmo de’ Grandi, addetto alla realizzazione del nuovo porto, nei suoi disegni progettuali, individua delle vestigia del porto antico presso la foce del fiume Metauro, mentre il Nolfi e il Nigosanti, parlano di antiche strutture portuali ancora visibili nel ‘600 presso la Rocca Malatestiana, emerse durante i lavori per la costruzione della Darsena Borghese nel 1613, nell’area dell’antico alveo del torrente Arzilla.2 Il rinvenimento di una tomba databile al II secolo d.C. in via Filzi, nell’area della Darsena Borghese, dimostra però che in tale periodo l’alveo del torrente Arzilla si era 1 Amiani 1751, p. 119; Alfieri 1977b, pp. 162–163. L’autore latino Pomponio Mela (De Chorographia, 2, 64), nel I sec. d.C., descrive un luogo di attracco alla foce del fiume Metauro. 2 De’Grandi 1589; Nolfi 1636, pp. 87–89; Nigosanti 1982.

3 4

266

Amiani 1751, p. 43; Vullo 1992, pp. 402–406; Lilli 1995, pp. 7–52. Amiani 1751, pp. 72–77.

Alla ricerca del porto di Fano e al vicino approdo.5 Amiani, nell’anno 962 indica la presenza del porto all’altezza di porta Marina, (detta anche porta Gelea) costruita nel XIV secolo, presso l’angolo meridionale della città, dove si sviluppò la contrada di San Marco, centro nevralgico dei commerci veneziani a Fano nel Basso Medioevo. Infatti, nello stesso periodo Giovanni Diacono documenta i contatti con Venezia, mostrando la presenza di un porto adatto al commercio internazionale già nel X secolo.6 In questo stesso secolo, venne aperta anche Porta S. Spirito, lungo le mura sul lato a mare, realizzata a seguito dello spostamento del centro di potere cittadino dall’antico foro alla contrada di S. Giovanni figlio di Ugone, creando così un nuovo accesso alla spiaggia e all’approdo, direttamente legato al centro del futuro potere comunale cittadino.7 Solo sulla base di questa breve e preliminare disamina, sembra opportuno concludere che la città di Fano ha sempre cercato di adattare i suoi scali portuali, adeguandosi ai cambiamenti morfologici del litorale e alle necessità cittadine nei vari periodi storici. Per questo motivo, nel corso del tempo, furono realizzate strutture portuali in zone differenti e forse anche diversi approdi che rispondevano a diverse destinazioni d’uso.8

Fig. 1. Pianta prospettica della città di Fano di Jr. Blavius (1663). 5 Rabotti 1985, appendice III, n. 20, anno 1052–1072; Giardini 2009; Battistelli, Patrignani 2010, p. 352. 6 Amiani 1751, p. 119. 7 Frenquellucci 1997, pp. 71–80. 8 Spallacci 2012, pp. 149–183.

267

Giulia Spallacci

Fig. 2. Schema ipotetico della distribuzione delle strutture portuali lungo la costa fanese: porto romano (1),porto alla foce dell’Arzilla (2), porto di Porta Marina (3), porto di Porta Santo Spirito (4), Porto di Santa Maria a mare (A). La linea tratteggiata indica il percorso delle mura romane e quella continua le mura malatestiane (elaborazione da Volpe 1989, p. 41).

Fig. 3. Mappa di Mayer del 1692 con indicazione dei porti già riportati nella figura precedente con l’aggiunta del Porto alla foce del Metauro (5) e di quello presso la Rocca citata dall’Amiani (6. Elaborazione da Deli 1989, p. 235).

268

4.3 Evidenze archeologiche dal sito del monastero di San Paterniano lungo la flaminia alle porte di Fano Gabriele Baldelli,* Vanessa Lani** *

Già Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche, **Tecne s.r.l. [email protected], [email protected]

Abstract: Emergency excavations carried out in 2004–2008 offered an opportunity to study the area where, in the mid-16th century, the important St Paterniano Abbey was demolished. St Paterniano was the famed first bishop of Fano and a church in his name was meant to be built in the city. The oldest occupation of the area dates back to the Late Republican Age, whereas a suburban villa deserted during the third century dates to the Augustan Age. Contemporary with the villa is the necropolis, near the Via Flaminia in its oldest part, north-east of the residence in the 2nd–3rd century nucleus, and above and outside the rooms of the villa reinterred in the 4th–6th century. The funerary and Christian connotation of the area was already known from the recovery, in 1935, of the so-called inscription of Taurinus (second half of the 4th century) and of the stone sarcophagus of ‘St. Paternianino’ (5th–6th century). Dating to this stage of Late Antiquity is a small rectangular building with a semicircular apse (5th–6th centuries) which is similar to the ‘A’ building of St Severo at Classe. The discovery in the site of a secondary inscription (late 6th century), the text of which refers to the recovery of a lavacrum, may indicate that there was a site dedicated to Baptism already in Late Antiquity. The next most significant intervention consisted in the erection of a church, recognised as St Paterniano Abbey, proven by both the proximity to the so-called 16th-century Chapel of San Paterniano on a planimetric relationship with the recovered foundations of the cloister, begun in 1498 and never completed. These foundations emerged in the southeast part of the excavation area. What remains of the San Paterniano Abbey are stretches of masonry foundations, a row of five plinths and some paving slab fragments made of marble and white limestone. The abbey was probably built using materials taken from the previous Roman structures. Even the tombs, which were below floor level, were constructed using Roman materials. They consist of single or multiple burials in a brick box. The stratigraphy associated with the building may indicate a church fromthe beginning of the 9th century, as suggested by a decorated tile used in the original floor. In the early medieval period, more burials were built around the church. They were of the rectangular box type in masonry brick, with ossuaries and/or multiple burials, and could be equipped with a kit or not. The later burials were single and in pits, generally without a kit, recovered on the level of the abandoned abbey. Keywords: Fano; Flaminia; Suburban villa; St Paterniano Abbey; Burials.

nel corso del III secolo d.C.2

Grazie ad alcuni scavi di emergenza svolti tra il 2004 e il 2008 è stato possibile indagare l’area dove alla metà del Cinquecento, per costruire la nuova omonima chiesa in città, fu demolita l’importante Abbazia di San Paterniano, intitolata al leggendario protovescovo fanese, già monaco ed eremita, attestato da una tarda Vita probabilmente formatasi già in età precarolingia.1 L’occupazione più antica del luogo è testimoniata da fornaci e canali di età tardo-repubblicana e poi, dall’età augustea, da una villa suburbana, successivamente ampliata e infine abbandonata

Nell’area circostante alla villa è stata riportata in luce una necropoli anch’essa di età augustea, sviluppata a ridosso della Flaminia (Fig. 1). Appena a nord-est della villa di II–III secolo d.C., invece, si trova un’altra area di venti sepolture con inumazioni alla cappuccina, in cassa di tegole e, in un caso, di lastre marmoree.3 A partire dal IV secolo e fino a tutto il VI secolo d.C. si 2

1

Prete 1979; Cinalli 2003; Volpe 2010.

3

269

Baldelli, Lani 2006, pp. 587–589, figg. 1–6. Baldelli, Cesaretti, Lani 2011.

Gabriele Baldelli, Vanessa Lani del chiostro iniziato nel 1498 e poi mai più realizzato.7 I suoi restiaffiorano nella zona sud-est dello scavo, tracciata dopo il 1818 e adiacente all’attuale Via dell’Abbazia che tuttora ne cela l’altra metà. Si riconoscono tratti di fondazioni murarie, una fila di cinque plinti e alcuni lacerti di pavimentazione in lastre di pietra calcarea bianca e di marmo (Fig. 4). Queste strutture reimpiegano materiali provenienti dallo spoglio delle strutture romane già presenti sul posto, sia della villa che della necropoli. Anche le tombe al di sotto del piano pavimentale, costituite da sepolture singole o multiple, in cassone laterizio, comportano il reimpiego di strutture murarie e materiale di epoca precedente, presentando corredi databili tra Tardoantico e alto Medioevo.8 La stratigrafia associabile all’edificio, che purtroppo sopravvive in maniera frammentaria a causa della forte attività di spoglio che ha interessato l’area, sembra riferibile a una chiesa di inizi IX secolo. Così almeno sembrerebbe se può ritenersi originaria una lastra utilizzata nel pavimento, decorata con cerchi di nastri a tre vimini intrecciati tra loro e fiori di giglio stilizzati nei punti di intersezione esterni (Fig. 5).

sviluppa poi un’altra necropoli, impostata sopra i livelli di interro degli ambienti della villa, con sepolture che si estendono anche al di fuori del perimetro originario della sottostante struttura abitativa (Fig. 2). In questo caso sono presenti anche incinerazioni indirette in pozzetto e qualche enchitrismòs. In base alla distribuzione delle tombe è possibile distinguere alcuni raggruppamenti che sembrerebbero pertinenti a gruppi famigliari o comunque si notano gruppi di sepolture che sembrano privilegiare alcune zone della necropoli, secondo una dinamica che era in parte già stata notata anche per le fasi più antiche. I corredi funebri, ove presenti, sono costituiti da olpai, un poppatoio, anelli e monete. Non mancano elementi riconducibili alla religione cristiana, come un laterizio con inciso il simbolo cristologico. La connotazione funeraria e cristiana dell’area era del resto già nota dal recupero nel 1935 della cosiddetta iscrizione di Taurinus, con segni cristologici, datata alla seconda metà del IV secolo d.C., se non anche dall’antica presenza del pesante sarcofago in pietra ‘di Aurisina’ risalente al V–VI secolo d.C., usato per trasportarele riesumate spoglie di San Paterniano nella chiesa edificata in città il 10 luglio 1551.4

In età basso medievale si assiste all’addensarsi delle sepolture intorno alla chiesa. Si tratta di tombe a cassone laterizio, con ossari o sepolture multiple, sia dotate sia prive di corredo. Gli oggetti rinvenuti sono prevalentemente scodellati, fibbie di cinture, perle di rosari. Dopo la fase delle sepolture multiple entro cassone, si torna a un uso esclusivo delle inumazioni in fossa singola nelle fasi più tarde, generalmente senza corredo o al massimo con elementi del vestiario personale, quali fibbie o asole. Queste sepolture, ricavate sui livelli di abbandono dell’abbazia, vanno spesso a sovrapporsi alle tombe precedenti.

A questa fase tardoantica o a un’epoca di poco posteriore risale un piccolo edificio a pianta rettangolare dotato di un’abside semicircolare aperta al centro del lato lungo sudoccidentale (Fig. 3). Costruito in parte sulle fondazioni dei muri della villa preesistente, sull’angolo settentrionale, esso è conservato solo a livello del primo filare di elevato. La struttura muraria è costruita in pezzame di pietra appena sbozzata e presenta una risega per l’appoggio del piano pavimentale non più conservato. In base all’analisi della stratigrafia, allo studio dei reperti e al confronto con architetture simili, si suggerisce una datazione di questa struttura al V–VI secolo d.C. A tal proposito particolarmente attinente sembra il confronto con l’edificio ‘A’ di San Severo a Classe, un complesso la cui posizione topografica ed evoluzione funzionale presentano stringenti analogie con questo fanese.5 Il rinvenimento in un sito poco lontano di un’epigrafe in giacitura secondaria, databile al tardo IV sec. d.C., il cui testo accenna al restauro di un lavacrum, potrebbe indicare che sia qui esistito un luogo per il Battesimo già nel tardo antico, connotando l’edificio, nonostante le ridotte dimensioni, come edificio cultuale ufficiale piuttosto che come oratorium privato.6 L’intervento successivo più rilevante consiste nell’edificazione di una chiesa, identificabile con l’Abbazia di San Paterniano, annessa al monasterium a lui intitolato, su cui la prima notizia certa è conservata nella Aepistula XVII di Pier Damiani del 1045 (o 1046). L’identificazione di tale chiesa è comprovata sia dalla stretta contiguità con la tardocinquecentesca Cappella detta di San Paternianino, sia dal rapporto planimetrico con le ritrovate fondazioni

4 Dionigi 1591; Masetti 1875, p. 84; Profumo 1992, p. 516; 1995c, p. 1135, tav 160b; Volpe 2010, pp. 79–86. 5 Augenti 2009, pp. 253–254. 6 Lani 2007, pp. 254–255, fig. 8.

Boiani Tombari 1977; Baldelli 2004. Si tratta di piccole monete, un portaunguenti, frammenti di calici in vetro, una fiaschetta a corpo globulare in vetro blu. 7 8

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Evidenze archeologiche dal sito del monastero di San Paterniano lungo la flaminia alle porte di Fano

Fig. 1. Planimetria generale dei rinvenimenti.

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Gabriele Baldelli, Vanessa Lani

Fig. 2. Alcune tombe tardoantiche e altomedievali che tagliano le strutture della villa.

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Evidenze archeologiche dal sito del monastero di San Paterniano lungo la flaminia alle porte di Fano

Fig. 3. Edificio absidato.

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Gabriele Baldelli, Vanessa Lani

Fig. 4. Resti dell’Abbazia di S. Paterniano.

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Evidenze archeologiche dal sito del monastero di San Paterniano lungo la flaminia alle porte di Fano

Fig. 5. Pietra decorata dal pavimento dell’Abbazia.

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4.4 Gruppo di tombe altomedievali nella necropoli presso la mutatio ad octavo (Lucrezia, Cartoceto) Gabriele Baldelli,* Vanessa Lani** *

Già Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche, **Tecne s.r.l. [email protected], [email protected]

Abstract: In April 2009, an archaeological excavation was carried out at Lucrezia, along the ancient Via Flaminia between Forum Semproni and Fanum Fortunae. The investigations discovered part of a cemetery with thirty-one graves. The burials are characterised by the same funeral inhumation, even if there are obvious structural differences. From the diachronic point of view the overlap of some tombs indicates that the tombs belong to at least two successive historical moments, which, based on the materials recovered (including fragments of African Red Slip Ware and ‘Sigillata Medio Adriatica’, and numerous nummi of double standard weight) should be placed between the 5th and the early 7th century. The explored area is a part of the larger necropolis located along the Via Flaminia, as suggested by the walls found in occasional earthworks, the name ‘Il Pilone’, and the tomb discovered in 1953. Indeed, a previous use of the site of the tombs is witnessed by two channels intended for agricultural use, filled with Late Antique materials, including a follis of Constans (c. 337–340). As for the ethnicity of the deceased, the type of deposition and burial objects (armillary and bronze rings, earrings made of bronze and silver, twelve bronze coins, a bone comb, a bronze fibula, a fragment of an African lamp ora local imitation, coin AE4 Johannis 423–425 AD) says nothing. Connecting the necropolis with an unknown type of settlement, probably developed near the Mutatio ad Octavo, suggests a community that was originally Roman, influenced first by Goths, then by Lombards. Their presence is demonstrated by the abduction of citizens of Fano in the year 591–592 AD, and toponyms such as ‘Sala’, ‘castra’ Galliola/Gaiola/Caivola and ‘de Gaio’ or‘plano Gagi or Gagii’ around the 11th century. Keywords: Fano; Flaminia; Mutatio; Burials; Goths; Lombards.

con un leggero disassamento verso nord-ovest/sud-est; nove da ovest a est con leggero disassamento verso sudovest/nord-est; le altre tre sono orientate nord-ovest/sudest.

Nell’aprile del 2009 è stato effettuato uno scavo archeologico a Lucrezia di Cartoceto, lungo il tracciato dell’antica via Flaminia tra Forum Semproni e Fanum Fortunae, ma nel territorio di quest’ultima (Fig. 1). Le indagini hanno riportato in luce parte di un sepolcreto, consistente di trentuno tombe, ventiquattro delle quali scavate per intero, mentre le altre sette solo parzialmente in quanto disposte sul limite di scavo (Fig. 2).

Gli scheletri, mal conservati e spesso scomposti, sono tutti in posizione supina, senza differenze sostanziali di giacitura, a eccezione dello scheletro della tomba 25, con gli arti inferiori flessi verso destra probabilmente per ragioni di spazio. Per quanto riguarda l’età dei defunti, forte si rivela l’incidenza della mortalità infantile: infatti due inumazioni appartengono a neonati, uno dei quali deposto in piccola cappuccina e l’altro solo indiziato dal piano di fondo della piccola fossa; sette sono riferibili a bambini, due ad adolescenti e solo dieci a adulti. Solo in nove casi è stato possibile determinare il sesso di cinque maschi e quattro femmine, sia osservando le ossa sia in base agli oggetti di corredo. Non più di due le tombe femminili, da considerare ricche e probabilmente di madre

Le sepolture sono tutte inumazioni, anche se sono presenti differenze strutturali e di orientamento: sette sono in semplice fossa terragna, tre con copertura piana in tegole, una con rivestimento di tegole solo in parete, tre in cassa laterizia di tegole e infine sedici alla cappuccina. In alcune di queste ultime (tombe 6, 8, 10 e 20) le tegole della copertura a due spioventi presentano nel punto di unione un caratteristico sistema a incastro, ottenuto dentellando a scalpello il bordo superiore. Per quanto riguarda l’orientamento: diciotto risultano disposte da nord a sud 276

Gruppo di tombe altomedievali nella necropoli presso la mutatio ad octavo (Lucrezia, Cartoceto) e figlia. La tomba 1, attribuibile a un’adulta, è la più ricca e presenta un’armilla in bronzo nell’avambraccio sinistro, due anelli a fascia in bronzo nell’anulare della mano sinistra e un paio di orecchini a cestello in bronzo con pasta vitrea bianca incastonata databile agli inizi del VII secolo d.C.1 Nella tomba 2, legata alla prima per posizione, orientamento e vicinanza, è invece deposta una bambina di 5–6 anni, che indossava orecchini a cestello in argento, dello stesso tipo dei precedenti e databili tra il terzo quarto del VI e gli inizi del VII secolo d.C. Nella mano destra conservava una moneta in bronzo (un minimo illeggibile), tardo retaggio della tradizione dell’obolo di Caronte. La stessa moneta è presente in altre undici sepolture del medesimo gruppo. La tomba 5, di una bambina di circa 3–6 anni, presenta un pettine crinale in osso accanto al cranio. Questo tipo, a doppia dentatura di diversa finezza e quasi privo di decorazione, diffuso nell’arco di un lungo periodo (nel IV–VII secolo d.C. e oltre) è largamente attestato e presente in altre tombe infantili a Pesaro, Fano e Cagli.2 Nella tomba 16, dove è deposto un bambino di circa 3 anni, in prossimità del cranio è stata rinvenuta una fibula in bronzo mal conservata, forse in origine inserita sulle vesti e poi scivolata in questa posizione. La tomba a cappuccina 18, infine, appartiene a un bambino di 4–6 anni circa, che sotto il cranio cela una fibbia quadrangolare da cintura in bronzo, apparentemente fuori posto. Da segnalare anche un frammento di lucerna, variante del tipo africanocon portatori d’uva, dalla tomba 10, e una moneta AE4 di Giovanni (423–425 d.C.) dalla tomba 18. In base alla disposizione e all’orientamento, sembrano distinguibili almeno cinque gruppi famigliari, ciascuno con uno o due adulti e alcuni bambini, secondo la seguente ripartizione: tombe 6, 8, 9, 14, 21 e 22; tombe 4, 7, 12 e 20; tombe 5, 15 e 29; tombe 16, 27, 28 e, infine, tombe 10, 18 e 19 (Figg. 3–5). Dal punto di vista diacronico la sovrapposizione di alcune tombe, talora diverse anche per orientamento e struttura, anche dentro i gruppi famigliari (tombe 5–15, 10–19, 11–29), indica che le sepolture non appartengono tutte alla stessa fase, ma ad almeno due momenti cronologici successivi. In base ai materiali rinvenuti queste due sottofasi si collocano tra il V e gli inizi del VII secolo d.C.3

metà del II secolo d.C.5 Del resto una frequentazione del sito precedente alle tombe ora rinvenute è testimoniata da due canalette ravvicinate e parallele in leggera pendenza a sud-est, scavate a cielo aperto e forse destinate a uso agricolo, riempite di materiali tardoantichi, tra cui un follis di Costante (ca 337–340). Quanto, infine, alla popolazione di appartenenza degli individui sepolti nelle tombe altomedievali sopra descritte, il tipo di deposizione e gli oggetti di corredo nulla dicono; mentre il presumibile collegamento della necropoli con un ignoto aggregato demico di strada, probabilmente sviluppatosi nei pressi della Mutatio ad Octavo segnalata dall’Itinerario Gerosolimitano e da collocarsi anch’essa nelle vicinanze,6 induce a pensare a una comunità originariamente romana sulla cui composizione e cultura stavano avendo il loro effetto, dopo quelle dei Goti, le frequenti incursioni e intrusioni dei Longobardi. Di questi ultimi, del resto, la presenza in zona non è testimoniata solo dal noto rapimento di ricchi cittadini fanesi per renderli tributari nel 591–592,7 ma anche da tracce toponomastiche come il fondo Sala e i ‘castella’ o ‘castra’ Galliola/Gaiola/ Caivola e de Gaio, ma anche plano Gagi o Gagii, dei secoli attorno al Mille.8

L’area esplorata in questa occasione è solo una parte della più ampia e probabilmente anche più antica necropoli, disposta ai due lati della Flaminia, come suggeriscono sia le indiscrezioni della gente del posto, relative anche a strutture in muratura incontrate in sterri occasionali, sia il toponimo ‘Il Pilone’, forse riferibile a qualche monumento funerario romano.4 Nella medesima direzione va il rinvenimento di una tomba tardoantica, bisoma e priva di corredo, fortuitamente scoperta nel 1953, che recava sul fondo recava un’iscrizione frammentaria della Vullo 1992, p. 404. Ashby, Fell 1921, p. 133 e indipendentemente L. Baldelli, La via Flaminia da “Forum Semproni” a “Pisaurum”, tesi di laurea rel. N. Alfieri e corrrel. G. Bonora, Università di Bologna, a.a. 1979–1980, pp. 37, 71, da cui Vullo 1992, p. 386; contra Cluverius 1624, p. 618, Hortelius 1666, p. 87 e Luni 2003a, p. 120. 7 Greg., II, 46; VII, 13. 8 Bernacchia 1997, p. 14; 2002. 5 6

Possenti 1994, tipo 1. Profumo 2001, p. 102; Baldelli 2003, p. 26. 3 Tra i reperti datanti si ricordano i già menzionati frammenti di Terra Sigillata Africana e Medio Adriatica oltre ai numerosi nummi in doppia serie ponderale. 4 Uggeri 1991, p. 34; diversamente Pellegrini 1990, p. 227. 1 2

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Gabriele Baldelli, Vanessa Lani

Fig. 1. Localizzazione dei rinvenimenti con lo scavo del 2009 (1), la tomba rinvenuta nel 1953 (2) e la villa romana con mosaici (3).

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Gruppo di tombe altomedievali nella necropoli presso la mutatio ad octavo (Lucrezia, Cartoceto)

Fig. 2. Planimetria dell’area di scavo del 2009.

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Gabriele Baldelli, Vanessa Lani

Fig. 3. La Tomba 8.

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Gruppo di tombe altomedievali nella necropoli presso la mutatio ad octavo (Lucrezia, Cartoceto)

Fig. 4. Orecchini a cestello dalla Tombe 1 e 2.

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Gabriele Baldelli, Vanessa Lani

Fig. 5. Pettine in osso dalla Tomba 5.

Fig. 6. Lucerna africana o d’imitazione.

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4.5 L’insediamento rustico di Isola del Piano: tra tarda Antichità e alto Medioevo Giulia Bartolucci, Genny Graziani Ricercatrici indipendenti [email protected]; [email protected] Abstract: During the summer of 2012, new archaeological research carried out in Isola del Piano (PU) brought to light a rural settlement, which has been dated between the 4th and 6th centuries AD. The structures are mostly the remains of foundations made of local stone dug out from Monti delle Cesane. Because of the poor state of conservation of the archaeological evidence, it is not easy to determine what these different structures were for, except for the three cellae found in the area placed in the north-northeast side of the complex, which were used to store and press olives and grapes. Although work on the materials is far from complete, the findings lead us to think that the economy of the Isola del Piano settlement was mostly based on local productions, both as regards kitchen ware and table ware. The excavation yielded only a few fragments of imported pottery, such as one fragment of Late Antique Red Slip Ware (Terra Sigillata tardoantica) which presents the characteristic decorative painted patterns of the so-called Sigillata Medio Adriatica. The lack of reliable archaeological sequences makes the comparison with similar examples of productive settlements essential, such as Monte Torto di Osimo (AN) and Cesano di Senigallia (AN) in the Marche, but also Plinio il Giovane’s villa in San Giustino (PG) or Settefinestre villa (GR) in the centre of Italy. These structures were abandoned in the 6th century AD because of the gradual decrease in the commercial traffic thathad assured the development of the local economy. Keywords: Pottery; Isola del Piano; Rural site; Late Antiquity; Early Middle Ages.

nelle vicinanze di una via secondaria che, passando per i Monti delle Cesane, collegava Urvinum Mataurense alla strada consolare. Le evidenze emerse durante gli scavi archeologici inoltre, hanno permesso di collocare il sito all’interno dell’arco cronologico compreso tra il IV e il VI secolo, momento in cui si assiste all’abbandono della città romana di Forum Sempronii in favore del sito su cui sorge oggi la città di Fossombrone, naturalmente protetto e più facilmente difendibile rispetto all’insediamento vallivo.

Durante l’estate del 2012 è stata condotta un’indagine archeologica in loc. Pian de Paoli, in Comune di Isola del Piano (PU),1 piccolo abitato che sorge sul complesso collinare dei Monti delle Cesane, situato tra le vallate dei fiumi Metauro e Foglia. In età romana, la formazione di insediamenti rurali lungo le dorsali del fiume Metauro, è legata alla presenza della via consolare Flaminia, e, nel caso in questione, alla vicinanza rispetto alle realtà urbane di Urvinum Mateaurense e Forum Sempronii. Tra la fine del IV e il VI secolo, gli eventi e le mutate condizioni socio-economiche che sancirono la scomparsa della maggior parte delle città di fondovalle dell’Umbria Adriatica, come Pitinum Pisaurense, Sestinum, Pitinum Mergens, Tifernum Metaurense, Suasa, Sentinum e Ostra,2 provocarono profonde trasformazioni alla stessa viabilità e il moltiplicarsi di diverticoli intervallivi alternativi alla Flaminia, percorsa dagli eserciti visigoti. L’impianto rustico di Isola del Piano si sviluppa proprio

Le strutture Le indagini preliminari3 effettuate all’interno della proprietà, portarono all’individuazione di due aree in cui si concentravano le evidenze, distanti tra loro poche decine di metri: l’Area A, di cui si riportano in questa sede i risultati degli scavi estensivi, e l’Area B che, nonostante Nell’Estate 2008 fu eseguita la ricognizione di superficie su tutto il terreno compreso nel Piano di Lottizzazione, seguite da geoprospezioni realizzate sulle due aree di interesse archeologico individuate guidate dalla dalla Cooperativa Aion in accordo con la Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche sotto la direzione tecnico-scientifica del Dott. G. Baldelli. 3

Secondo quanto stabilito dal progetto di scavo redatto dalla Cooperativa Aion, approvato dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche sotto la direzione tecnico-scientifica del funzionario archeologo M.G. Cerquetti. 2 Alfieri 1981a, p. 233 1

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Giulia Bartolucci, Genny Graziani alla trasformazione e allo stoccaggio delle derrate: la prima (Vasca 1 – Fig. 5), conservata solo parzialmente in fondazione, è costituita da due vaschette delimitate da una canaletta in tegole e malta, rivestite internamente da uno strato di calce mista a ghiaia molto compatto, utilizzata per la decantazione dei liquidi; della seconda struttura (Vasca 2 – Fig. 6), parzialmente interrata, si conserva tutto il perimetro in muratura, costituita da blocchi lapidei di media grandezza e frammenti di laterizi, intonacata nella parte inferiore da uno strato compatto di cocciopesto (calcatorium) che continua sul fondo; quest’ultimo, presenta una leggera pendenza dai lati verso il centro, dove è stata rinvenuta una buca per l’alloggio di un contenitore fittile destinato alla raccolta del liquido (Fig. 7). Due gradini in pietra posti all’angolo sud-ovest della vasca facilitavano la discesa e la ripulitura da eventuali residui. In genere questo tipo di frantoio sembra essere funzionale alla produzione del vino7 anche se non mancano confronti con strutture similari destinate alla raccolta dell’olio a Monte Torto di Osimo8 o a Cesano di Senigallia;9 l’ultima struttura individuata (Vasca 3 – Fig. 8) è costituita da un vano interrato profondo circa 2 m, con murature in pietra, costruite a secco contro terra, e pavimentazione in cocciopesto, il quale risale per pochi centimetri sulle pareti. La funzione di stoccaggio delle derrate agricole risulta piuttosto evidente e viene rafforzata dal rinvenimento di numerosi frammenti fittili, principalmente riferibili ad anfore e dolia provenienti dal suo interro, e da confronti puntuali con i già citati siti di Monte Torto di Osimo, Cesano di Senigallia e di Settefinestre,10 e ancora con la villa di Colombara di Acqualagna,11 e quella di Plinio il Giovane a San Giustino.12

avesse restituito anomalie di maggior intensità, non venne indagata, non rientrando all’interno dell’area di progetto. Gli scavi archeologici estensivi eseguiti all’interno dell’Area A hanno evidenziato la presenza di un edificio a pianta quadrangolare, composto da dieci ambienti disposti lungo tre assi parallele con orientamento nordsud, per una superficie complessiva di circa 400 mq (Fig.  1). Al complesso insediativo si accedeva presumibilmente da est (Vano L), per mezzo di una apertura di cui si conserva la soglia; il rinvenimento di tracce di incannucciato inoltre, induce a ipotizzare la presenza di una copertura in materiale deperibile a protezione dell’ingresso. A nord dell’edificio si sviluppava un’area cortilizia, delimitata sui lati nord e ovest da strutture murarie rinvenute in fondazione, all’interno della quale sono state individuate tre strutture legate alla trasformazione e allo stoccaggio dei prodotti agricoli. Le murature, a eccezione di alcuni tratti che risultano completamente spogliati, si conservano generalmente solo in fondazione e furono realizzate unicamente con blocchi sbozzati di calcare bianco locale, proveniente dai Monti delle Cesane, messi in opera a secco. Purtroppo il carattere residuale degli alzati e dei relativi piani di calpestio all’interno degli ambienti non ha generalmente permesso la loro definizione funzionale, non senza alcune eccezioni: all’angolo sud-ovest del Vano A, è stato individuato un piano costituito da tegole in frammenti, a ridosso di una buca di forma circolare, al cui interno erano presenti un’olletta (Fig. 3) e un coperchio con presa a bottone in ceramica da cucina. Il carattere domestico del vano viene ulteriormente avvalorato dal rinvenimento di una fusaiola da telaio al centro dell’ambiente; funzioni legate allo stoccaggio delle derrate sono invece attribuibili al Vano G (Fig. 4), che, all’angolo sud-est, presenta una struttura rettangolare, rinvenuta in fondazione, costituita da un perimetro in pietre disposte di taglio che delimita un piano in tegole di grandi dimensioni perlopiù frammentate, coperto da uno strato omogeneo di argilla concotta e residui di cocciopesto, messi in opera allo scopo di isolare il pavimento rendendo il deposito adatto alla conservazione di granaglie. Alcuni confronti a riguardo provengono dal sito di Monte Torto di Osimo (AN)4 o dalla Villa di Settefinestre (GR);5 il rinvenimento, all’interno del Vano C, di un elemento circolare in piombo con foro centrale a sezione quadrata – probabile ingranaggio in cui andava a inserirsi il perno di rotazione della parte superiore della mola (catillus)6 – costituisce un importante indizio a sostegno della presenza di macine per la molitura delle granaglie, anche se non disponiamo di evidenze sufficienti per attribuire al vano stesso, o a quelli adiacenti, funzioni legate alla trasformazione del grano. Certa è, al contrario, la vocazione produttiva dell’area cortilizia situata a nord dell’edificio, dove, come già accennato in precedenza, sono state individuate e indagate tre strutture funzionali

Le caratteristiche strutturali, gli allestimenti semplici e la mancanza di distinzione netta tra gli ambienti abitativi e quelli destinati alla produzione, potrebbero essere dovuti al fatto che, l’edificio indagato sia da identificare con la pars rustica di un complesso residenziale più articolato, ipotesi che trova possibili conferme nei risultati del survey e delle geoprospezioni della vicina Area B. I dati materiali La classificazione e lo studio preliminare dei reperti ceramici provenienti da Isola del Piano risentono indubbiamente dell’assenza di sequenze stratigrafiche affidabili, dal momento in cui ci troviamo di fronte a contesti prevalentemente aperti, alterati dallo sfruttamento agricolo dell’area nel corso dei secoli. In assenza di riferimenti stratigrafici risultano indispensabili i confronti provenienti da siti romani che presentano fasi di frequentazione tarde, situati sia in territorio marchigiano che nelle regioni limitrofe.

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Pignocchi, Hägglund 2001, p. 29, fig. 13. Carandini 1985, pp. 197–198, fig. 293. Adam 1988, pp. 347–349.

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Bellini, Rea 1985, p. 119. Hägglund 2001, p. 48, fig. 38. Salvini 2003, p. 78, fig. 4. Carandini 1985. Luni, Uttoveggio 2002, p. 34, fig. 6. Braconi, Sáez 1999, pp. 21–42.

L’insediamento rustico di Isola del Piano: tra tarda Antichità e alto Medioevo Ceramica da mensa

frammenti di scarto, relativi all’impianto di un’officina che produceva ceramiche da mensa con rivestimento rossastro poco tenace e scadenti imitazioni di medio adriatica.16 Durante l’ultima fase di occupazione si assiste a una riduzione delle attestazioni di Sigillata “medio adriatica”, comunque attestata in forme tarde, datate tra IV e V sec. d.C., e a un aumento dei rinvenimenti di ceramica a vernice rossa.

Già a un primo approccio ai reperti ceramici, i dati riguardanti il vasellame da mensa inducono a supporre che tale funzione venisse principalmente svolta da vasellame comune, perlopiù privo di rivestimento. I frammenti presi in esame in questa sede rientrano all’interno di quella minoranza di contenitori da mensa che presentano un qualche tipo di trattamento delle superfici e di rivestimento.

Ceramica da cucina

Lo scavo ha restituito un solo frammento di Sigillata tarda che presenta le caratteristiche suddipinture brune della cosiddetta Sigillata medio adriatica (Fig. 9): si tratta di un frammento di piatto, rivestito da una vernice rosso-arancio con un motivo suddipinto in bruno a cerchi concentrici, proveniente dalla Vasca 3; nonostante l’unicità del reperto, esso costituisce tuttavia un elemento datante di non poco conto. Tale frammento è stato rinvenuto in associazione alle classi ceramiche da mensa in uso tra tarda Antichità e alto Medioevo nella parte settentrionale delle Marche e in Romagna, tutte attestate da poche decine di frammenti:

La classe ceramica più rappresentata tra i reperti provenienti da Isola del Piano è costituita dalla ceramica da cucina, produzione ben caratterizzata per quel che riguarda l’impasto, le forme e quando presenti, gli elementi decorativi. L’argilla è di colore nerastro, ricca di inclusi degrassanti anche superficiali che conferiscono alla superficie un aspetto poroso e irregolare al tatto. Dal punto di vista formale il repertorio appare notevolmente semplificato rispetto alle forme in uso nei secoli precedenti, frutto di un sistema produttivo che fa dell’esigenza pratica il primo criterio da soddisfare. Le forme attestate sono essenzialmente tre: le olle con orlo estroflesso, le ciotole con orlo rientrante e i coperchi con presa a bottone. Un altro aspetto di uniformità è rappresentato dalla decorazione, incisa a pettine con andamento rettilineo, rettilineo e ondulato, più raramente solo ondulato che occupa principalmente l’orlo, sia internamente che esternamente, e la parete, soprattutto nella sua parte superiore. Il sito che più di altri ha fornito confronti puntuali per questa classe ceramica resta l’insediamento rurale di Monte Torto di Osimo (AN),17 dove, con la conclusione della guerra greco-gotica, si assiste alla comparsa di elementi materiali, strutturali e culturali del tutto nuovi tra i quali una produzione di vasellame da cucina in ceramica grezza che si caratterizza per l’assoluta omogeneità di impasto, forme e decorazione, aspetti che trovano pienamente riscontro negli esemplari rinvenuti a Isola del Piano.

Sigillata tarda di produzione locale che, pur non presentando motivi suddipinti, può essere avvicinati dal punto di vista dell’impasto e del rivestimento al frammento in “Sigillata medio adriatica”. Diversa risulta invece la forma, avvicinabile alle produzioni africane (sette frr.) (Fig. 10). Ceramica comune verniciata, gruppo numeroso di frammenti (settantadue frr.) che presentano caratteristiche diverse, soprattutto per quel che riguarda l’impasto, caratterizzati tuttavia da un rivestimento rosso polveroso e poco tenace; all’interno di questo macrogruppo emerge una serie di frammenti (diciassette frr.) che presentano un impasto rossoarancio, simile dal punto di vista macroscopico a quello della ceramica comune e un rivestimento rosso steso in maniera volutamente disomogenea a formare cerchi concentrici lungo tutto il corpo del vaso.

Lucerne

In assenza di indagini archeometriche, è possibile constatare notevoli vicinanze tra la ceramica da mensa proveniente da Isola del Piano e alcuni contesti limitrofi come il complesso di Colombarone,13 in parte la stessa Forum Sempronii,14 ma soprattutto la domus dei mosaici a Tifernum Mataurense,15 sito che, a partire dalla tarda Antichità, rimane ai margini dei grandi commerci legati alla via Flaminia: qui la richiesta di vasellame da mensa veniva soddisfatta principalmente all’interno di un’ottica basata sull’autoconsumo, che subiva tuttavia il fascino e l’influenza delle merci d’importazione, prima tra tutte la cosiddetta ceramica medio adriatica. Tra IV e V sec. sono stati infatti datati i forni rinvenuti in loco assieme ad alcuni

Nonostante ci troviamo di fronte a un campione quantitativamente ridotto (solo cinque i frammenti di lucerne rinvenuti) molte sono le informazioni scaturite a un primo approccio al materiale e, con esse, anche qualche perplessità. Un rinvenimento piuttosto significativo è rappresentato da una lucerna la cui fattura tradisce l’indubbia provenienza locale, ma la cui forma rimanda a produzioni africane, in particolare all’Atlante VII, databile tra V e VI sec. (Fig. 12). Alla produzione locale fa riferimento anche la vasca di forma allungata rinvenuta pressoché integra, per la quale non sono stati per ora individuati confronti puntuali, mentre resta difficile definire se il frammento di firmalampen rinvenuto all’interno della Vasca 3 sia anch’esso da considerare un’imitazione locale o un prodotto d’importazione, data la pessima conservazione del reperto.

13 Per approfondimenti sulle ricerche condotte a Colombarone si veda: Dall’aglio, Vergari 2001. 14 Gori, Luni 1982, p. 129. 15 Per approfondimenti sull’area archeologica di Tifernum Mataurense e sui rinvenimenti materiali si veda: Tornatore 2006.

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Tornatore 2006, p.105. Pignocchi 2001c.

Giulia Bartolucci, Genny Graziani Conclusioni Gli scavi condotti hanno permesso di identificare un insediamento sorto ex novo in età tardoantica nelle immediate vicinanze di un diverticolo secondario che, percorrendo i Monti delle Cesane, univa la vallata del Foglia e Urvinum Mataurense a quella del Metauro, dove corre la Via Flaminia e sorge la città di Forum Sempronii. Lo stato di conservazione delle strutture e dei relativi piani di calpestio non ha consentito la definizione funzionale dei singoli ambienti, ma è chiaro come all’interno del complesso avessero luogo sia attività produttive che domestiche senza un’evidente distinzione netta degli spazi. Tale commistione, unita alla lettura dei risultati delle geoprospezioni effettuate all’interno dell’area immediatamente adiacente (Area B), i quali mostrano la presenza di strutture murarie consistenti con evidenti crolli, potrebbero significare la presenza di un complesso residenziale e produttivo più complesso. Inoltre, mentre i reperti ceramici dallo scavo estensivo dell’Area A indicano per le strutture indagate un arco cronologico compreso tra il IV e il VI secolo, tra il materiale proveniente dal survey presso l’Area B spicca la presenza di un frammento di anfora, forse riferibile al tipo Dressel 6.18 Se così fosse avremmo, nelle immediate vicinanze, un insediamento precedente, di prima età imperiale e resterebbe da capire se i due edifici coesistono per un certo periodo di tempo, o il complesso di età tardoantica sia sorto in seguito all’abbandono del precedente, cosa che testimonierebbe comunque un certo dinamismo nel contesto rurale della media vallata del Metauro.

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Gori 2003, p. 34.

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L’insediamento rustico di Isola del Piano: tra tarda Antichità e alto Medioevo

Fig. 1. Pianta genarale del sito di Isola del Piano – Loc. Pian ‘de Paoli.

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Giulia Bartolucci, Genny Graziani

Fig. 2. Focolare all’angolo nord-ovest dell’ambiente A. Fig. 3. Olletta proveniente dal focolare all’ambiente A.

Fig. 4. Particolare della pavimentazione all’angolo sud-est dell’ambiente G.

Fig. 5. Fondazione parzialmente conservata della Vasca 1.

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L’insediamento rustico di Isola del Piano: tra tarda Antichità e alto Medioevo

Fig. 10. Frammento di ciotola in Sigillata tarda di produzione locale.

Fig. 6. Struttura relativa alla produzione di vino o olio.

Fig. 7. Particolare della Vasca 2.

Fig. 11. Frammento di olla in ceramica comune da fuoco con decorazione incisa.

Fig. 8. Cella per lo stoccaggio dei prodotti agricoli.

Fig. 12. Lucerna di produzione locale la cui forma rimanda a produzioni africane.

Fig. 9. Frammento di piatto in Sigillata tarda dell’Italia centrosettentrionale.

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4.6 Cagli e il suo territorio nella tarda Antichità Tommaso Gnoli Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Dipartimento di Storia Culture Civiltà [email protected] Abstract: Starting from the evidence provided by the small town of Cagli (PU), a former statio on the Via Flaminia, this paper suggests that the ‘crisis’ of the 3rd century was an important factor in changing the landscape of Italy in Late Antiquity. Different opinions, focussing on ‘continuity’ instead of ‘crisis’, do not take into account the centrality of Italy when evaluating the Roman Imperial world. Keywords: Cagli; Italy; Third century; Crisis; Continuity; Late Antiquity; Chronology.

Mi sia consentito ringraziare in primo luogo i colleghi che hanno voluto invitarmi a dire qualcosa in quest’occasione, per la quale, lo confesso, mi sento in un certo imbarazzo. In qualità di storico – e di storico romano, non medievale – mi sentivo francamente fuori luogo in un contesto nel quale si presentavano tanti dati nuovi su una nutrita congerie di realtà insediative sparse in tre regioni italiane (Abruzzo, Marche, Romagna) che identificano il medio Adriatico in un periodo storico molto ampio, dal terzo al nono secolo. Sapevo inoltre di una presenza di risultati provenienti anche dall’altra sponda dell’Adriatico, dalla Croazia, regione splendida ma della quale non mi sono mai occupato direttamente.

del Furlo è piuttosto logico immaginare di trovare quello che l’archeologia ha confermato: la presenza di piccoli insediamenti, poveri, con una stratificazione sociale in grado nei casi più fortunati di creare qualche differenza nel tipo di deposizioni, ma molto difficilmente sufficiente a riempire quelle stesse tombe di corredi funerari significativi. Le piccole necropoli del Pigno, e del Palazzo Comunale di Cagli sono quali ci si poteva aspettare: semplici sepolture di povera gente. Per l’età che è al centro di questo convegno, poi – cioè la tarda Antichità e l’alto Medioevo – la malagevole situazione di Cagli è per così dire peggiorata dal fatto che, per la prima volta nella sua storia, la Flaminia si trovò a essere quasi una strata, cioè un percorso di confine, un limes tra i mondi bizantino e longobardo. È quindi ovvio che la mansio ad Cales, segnalata dai vari itinerari di età imperiale, non potesse in alcun modo svilupparsi oltre in quella situazione in cui l’instabilità politica s’aggiunse alle difficili situazioni ambientali.

M’indussero ad accettare comunque l’invito da una parte la squisita insistenza degli organizzatori, amici oltre che colleghi, dall’altra un interesse acuto verso una particolare, puntuale, realtà territoriale che cadeva proprio al centro di questa vasta area. Intendo dire Cagli e i territori sulla Flaminia che dallo spartiacque appenninico conducono fino a Fanum Fortunae.

Cagli però non è solamente un luogo della mia memoria ed esperienza personale. Cagli – e più in generale il percorso transappenninico della via Flaminia – può ritenersi un utile esempio più generale delle dinamiche economiche e insediative della tarda Antichità.

Si tratta di un interesse di natura personale e biografico verso un’area che l’opera della Soprintendenza ai Beni archeologici delle Marche, e la bravura dell’ex soprintendente Bandelli, ha fatto molto per salvaguardare. Un certo numero di interventi sono stati documentati in questa sede grazie anche all’operosità dell’archeologa cagliese Agata Aguzzi.

Piuttosto recentemente – a partire dalla metà circa degli anni ’80 – si è fatta strada nella ricerca antichistica una certa insofferenza nei confronti di una visione che potremmo definire ‘discontinuista’ dell’economia e della società italiana a partire dagli ultimi due decenni del terzo secolo. Questa visione aveva allora trovato da pochissimo una sua esposizione sistematica in quelli che io continuo a considerare capolavori della storiografia italiana del

La zona di Cagli era in antico un’area marginale, che sfuggiva alla sua marginalità grazie al tracciato di una via consolare romana, la Flaminia, ma non v’è dubbio che la vicinanza con i monti ne facesse un’area del tutto appartata. Nell’ampio tratto tra lo spartiacque appenninico e il Passo 290

Cagli e il suo territorio nella tarda Antichità secolo scorso, cioè nei volumi pubblicati dall’Istituto Gramsci a coronamento di una stagione quanto mai fertile dell’antichistica italiana, e di due seminari intitolati rispettivamente Società romana e produzione schiavistica, e Società romana e impero tardoantico, entrambi pubblicati da Andrea Giardina. Lo schema storiografico, l’ipotesi di lavoro sulla quale convergevano quegli studiosi, si esprimeva in una cronologia ‘media’ della tarda Antichità: non certo breve, da Costantino a Teodosio II su per giù, ma neanche lunghissima, nel senso per capirci, immaginato da Garth Fowden nel suo giustamente famoso From Empire to Commonwealth. Non è un caso se una ventina di anni dopo Giardina tornerà su questi temi di periodizzazione con il suo «Esplosione di Tardoantico» (1999).

Westen des römischen Reiches im 3. Jahrhundert n. Chr. (Frankfurt am M., 1999). Una mediazione consistente nella non negazione della crisi ma di una sostanziale limitazione all’ambito politico e militare è rappresentata, per esempio, dal volume di David Stone Potter, The Roman Empire at Bay, AD 180–395 (2004). Non posso soffermarmi in questa sede sui problemi che quest’altra periodizzazione pone, a mio avviso insormontabili, e vorrei concludere segnalando il fatto che il volume XII della nuova edizione della Cambridge Ancient History data The Crisis of Empire agli anni dal 193–337 d.C. (2005). A mio parere nessuno di questi lavori è riuscito a intaccare lo schema mazzariniano. Vi confesso che, dinnanzi a questo ‘furore cronologico’, mi trovo molto più a mio agio con la scelta attuata dalla recentissima Storia d’Europa e del Mediterraneo, di Salerno Editore, curata da Alessandro Barbero e Giusto Traina: la periodizzazione ‘tradizionale’ dell’impero da Augusto a Diocleziano.

Il ‘Tardoantico esploso’ contro il quale giustamente interveniva Giardina trasbordava da tutte le parti: verso il Medioevo sassone, longobardo, arabo, ma anche a monte, fino ad abbracciare tutto il III secolo. Non è mia intenzione parlare in questo contributo della fine dell’Antico, ma dell’altro estremo. I dati che ho letto nei poster che sono stati prodotti in questa sede parlano chiaramente contro un Tardoantico che inizi con Marco Aurelio.

Il nuovo paradigma ha faticato a imporsi perché non funziona. Il territorio lungo la Flaminia, da Cagli a Fano, ce lo conferma. L’unica villa lì individuata, per quanto ne so, nei pressi di Fano, venne abbandonata non casualmente proprio nella seconda metà del III secolo. Si trattò di un abbandono repentino e totale. La rioccupazione del sito in età tardoantica non rispetterà più in nulla la vecchia struttura, e anzi in larga misura la spoglierà, la riutilizzerà adattandola a una situazione sociale ed economica del tutto diversa. Poco importa che in Africa o in Betica si continui per tutto il periodo a fabbricare anfore, a esportare olio o vino. Negare l’esistenza di una crisi nel III secolo in aree non marginali come il medio Adriatico vuol dire valutare una macrostruttura come l’impero romano non sulla base di quanto accadde, appunto, in Italia o a Roma, ma, prioritariamente, con quanto accadeva a Cordova o a Utica. Non credo che sia una buona prospettiva.

Non si tratta solo di astratte periodizzazioni, ma di concreti problemi storiografici. Alla base dei volumi del Gramsci c’era la concezione – che molti dei partecipanti avevano ereditato da Santo Mazzarino – di un impero romano travolto da una crisi economica di tipo innanzi tutto finanziario che aveva innescato un processo che è stato efficacemente definito di ‘destrutturazione’. La ‘destrutturazione’ riguardò non solo l’economia, ma anche le istituzioni civili e militari, perfino le coscienze individuali: dal Principato si passò all’età tardoantica per il tramite di circa cento anni di destrutturazione: la crisi del III secolo. L’aspetto che la crisi sociale assunse nell’età tardoantica fu quella della restaurazione autoritaria, per parafrasare un grande libro di Mario Mazza (1973). Questa visione storiografica, vincente nell’Italia degli anni ’80, venne presto messa in discussione da una serie di lavori parziali che, pur senza riuscire a ‘smontare’ ideologicamente la potente struttura concettuale mazzariniana, ne decretavano il superamento di fatto. Centrale in questo discorso era la valutazione del terzo secolo e lo spostamento all’indietro di quel concetto storiograficamente recente che era la tarda Antichità. L’inclusione del III secolo all’interno del nuovo sistema tardoantico (del tardoantico ‘esploso’) comportava un giudizio sostanzialmente ‘morbido’ di quel processo di disgregazione della struttura (alto) imperiale. Si metteva cioè in dubbio l’esistenza stessa di una ‘crisi’ del III secolo. Dal punto di vista storiografico l’opera più significativa di questa tendenza è stata il bel volume di Karl Strobel ‘Das Imperium Romanumim 3. Jahrhundert: Modell einer historischen Krise? dove già il titolo tradiva la retoricità di quell’interrogativo. Sempre in Germania quell’approccio venne proseguito e incrementato da lavori come quelli di Christian Witschel, Krise – Rezession – Stagnation? Der 291

4.7 Una necropoli tardoantica a Forum Sempronii Oscar Mei,* Pietro Gobbi** Università di Urbino, *Dipartimento di Scienze della Comunicazione e Discipline Umanistiche, ** Dipartimento di Scienze della Terra, della Vita e dell’Ambiente [email protected]; [email protected] Abstract: In the central area of the Roman city of Forum Sempronii, a vast funerary area dated to the first half of the 6th century was found, above the collapse of the abandoned Roman buildings. In this paper, some preliminary anthropological data are presented that suggest a non-local origin for buried individuals. It could be, still hypothetically, a community of Goths of non-elevated social condition mainly devoted to agriculture, established at Forum Sempronii, a centre of monumental importance located in a strategic place, along the Via Flaminia and not far from the Pass of the Furlo in the Apennines. Keywords: Forum Sempronii; Burials; Goths; Early Middle Ages.

infante a enchytrismos, entro anfora di Gaza, databile tra inizi VI e fine VII secolo d.C.

Nell’area centrale della città romana di Forum Sempronii,1 fondata nel II secolo a.C. da C. Sempronio Gracco e sviluppatasi tra I e II secolo d.C., sono venute alla luce nelle ultime campagne di scavo cinquanta tombe di età tardoantica, ricavate nello spesso strato di crollo degli edifici di età romana abbandonati, a quote diverse al di sopra degli originari pavimenti.2 Si tratta di sepolture estremamente povere, disposte perlopiù con orientamento Nord-Sud, rinvenute subito a lato del cosiddetto “decumano minore” della città, immediatamente a Sud della Flaminia. È stato possibile riscontrare una differenza di accuratezza nella realizzazione delle varie tombe: quelle più vicine alla strada furono disposte regolarmente una accanto all’altra, con letto di tegole sul fondo e copertura alla cappuccina; mano a mano che si procede verso l’interno dell’insula invece le sepolture appaiono più eterogenee, senza copertura, spesso anche senza il letto di tegole ma con il defunto deposto in fossa terragna semplice. Frequentemente vennero utilizzati i muri degli edifici romani abbandonati come pareti delle tombe e si riscontrano anche delle sepolture bisome: in tre casi i corpi (sempre un uomo e una donna) sono stati accuratamente disposti l’uno accanto all’altro, mentre in uno i defunti addirittura sono deposti con orientamento cranio-caudale alternato. Tutte le sepolture sono prive di corredo, se si eccettuano alcune monete molto consunte databili tra IV e V secolo d.C.; si segnala un’unica deposizione di un

I materiali provenienti dagli strati immediatamente al di sotto e al di sopra delle sepolture sono attualmente in fase di studio e potranno dare ulteriori utili informazioni per la datazione delle tombe rinvenute, che rappresentano solo una parte di una necropoli ben più vasta, come testimoniano altre tombe simili identificate in passato dall’altra parte del decumano minore e ancora non oggetto di scavo. I dati antropologici Nello studio dei resti antropologici, ove possibile, il dimorfismo di genere è stato valutato contemporaneamente ai resti del cranio e del bacino, per accrescere la percentuale di affidabilità della diagnosi. Per il cranio sono stati valutati: il profilo dell’osso frontale, la prominenza del processo mastoideo, la morfologia dell’eminenza mentale.3 Relativamente all’eminenza mentale, e in misura minore per il profilo dell’osso mentale, occorre specificare che il dimorfismo non è così accentuato, ritenendo plausibile un aspetto piuttosto mascolino del volto delle femmine del gruppo rinvenuto. Relativamente al bacino, essendo le condizioni delle sepolture non in grado di fornire reperti comparabili, sono stati valutati caratteri assoluti e non di confronto, quali l’angolo sottopubico e la forma del forame otturatorio.4

1 Pur nella sua unitarietà questo contributo si deve a Oscar Mei per il primo paragrafo e per le conclusioni a Pietro Gobbi per il paragrafo sui dati antropologici. 2 In generale su Forum Sempronii si veda Luni, Mei 2013.

3 4

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Bass 1987; White, Folkens 1991. Phenice 1969; Sutherland, Suchey 1991.

Una necropoli tardoantica a Forum Sempronii Il computo della statura, con le approssimazioni legate alle condizioni di sepoltura,5 è stato effettuato utilizzando comuni formule di regressione sulle principali ossa lunghe rinvenute integre e misurabili nei punti antropometrici di riferimento.6

quali quelli derivanti dalla tubercolosi, lebbra e sifilide. Mancano tracce rilevabili di neoplasie ossee, così come di riparazione ossea da traumi esposti, quali quelli tipici di esiti di battaglie.12 Conclusioni

L’indice cefalico orizzontale o indice di Retzius, ovvero il rapporto tra la massima larghezza e la massima lunghezza cranica, insieme alla curvatura raccordata della regione occipitale depongono per una conformazione mesodolicocefala (cranio allungato, anche se non eccessivamente).7 Tale conformazione cranica può essere messa in relazione con un’origine nord europea della popolazione qui studiata. Accettando poi le più recenti considerazioni sulla plasticità cranica, si potrebbe pensare a un gruppo non ancora adattato all’ambiente, e quindi stabilitosi da una generazione in loco, senza incrocio geneticamente significativo con le popolazioni locali.8

Le modalità di sepoltura, via via più frettolose, superficiali e meno curate mano a mano che ci si allontana dalla linea stradale, fanno pensare a un evento epidemico letale, caratterizzato da un periodo di incubazione abbastanza ampio (nella peste sino a dodici giorni), e un periodo, tra la manifestazione clinica e il decesso, di qualche giorno. Questo ha consentito una sepoltura rituale e accurata solo dei primi deceduti. Con il passare del tempo il sensibile aumentare del ‘reclutamento’ ha determinato una conseguente crescita del numero di malati e di morti. Questo ha comportato anche una diminuzione della forza lavoro che poteva essere impegnata nella realizzazione delle sepolture e quindi una semplificazione del rituale e della tecnica edilizia. Per quanto riguarda le cause di questo fenomeno, la peste – plausibile per gli eventi storici contemporanei alle sepolture – è l’indiziato principale.13

Relativamente all’attribuzione dell’età, occorre suddividere la casistica tra i non adulti e gli adulti. Per il primo gruppo sono valse le classificazioni legate ai periodi di eruzione dentaria e il grado di mineralizzazione della cartilagine metafisaria delle ossa lunghe.9 L’età presunta della morte per gli adulti è stata valutata osservando le caratteristiche di usura delle corone dentali e per approssimazione dello strato di osso lamellare compatto nelle diafisi femorali.10 Sebbene l’usura dentaria risulti accentuata in popolazioni con alimentazione fortemente rappresentata da fibre, occorre sottolineare che lo stato medio delle dentizioni e delle ossa osservate negli scavi di Fossombrone dimostravano eccellenti condizioni di mineralizzazione dei medesimi elementi, dimostrando quindi una alimentazione corretta sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, permettendoci quindi di escludere un’alimentazione a prevalente base di fibre vegetali e quindi con situazioni di usura precoce delle corone dentali, soprattutto a carico dei premolari e molari. L’analisi dei denti ha permesso inoltre di evidenziare una scarsa incidenza di fenomeni di carie e un’estrema pulizia dello smalto, indice di ottime abitudini di vita anche in termini di igiene e di cultura della salute.

I dati antropologici sopraesposti fanno pensare a un’origine non locale degli individui sepolti a Forum Sempronii: potrebbe trattarsi, ancora ipoteticamente, di una comunità di Goti di non elevata condizione sociale dediti principalmente all’agricoltura, stabilitisi a Forum Sempronii che, pur non essendo più nel VI secolo d.C. un centro di rilevanza monumentale era pur sempre situato in un luogo strategico, lungo la via Flaminia e a poca distanza dal Passo del Furlo. Il centro di Forum Simphronii è infatti ancora menzionato nel 742 d.C. come tappa del re longobardo Liutprando in viaggio lungo la Flaminia con l’esercito contro Spoleto (Hist. Langob., VI, 56). In questa occasione i Romani attaccarono i Longobardi proprio tra Fano e Fossombrone. Comunità rurali di Goti sono testimoniate anche in altri siti della penisola italiana come per esempio a Villaro al Ticineto (AL), dove sono stati rinvenute numerose sepolture datate tra V e VI secolo d.C., del tutto prive di corredo e scavate in piena terra, o realizzate con casse in laterizi coperte alla cappuccina. Anche i dati antropologici coincidono con quelli disponibili per Forum Sempronii, evidenziando una consistente percentuale di individui maschi e soprattutto una significativa presenza di soggetti dalla statura maggiore rispetto alla media locale, caratteristica invece dell’ambiente alpino.14

L’esame dei singoli elementi ossei durante la rimozione ha permesso di evidenziare un caso di spondilite anchilosante, come unica situazione correlabile a degenerazione da ‘malattia professionale’, altro segno di abitudini di vita corrette, senza sovraccarico lavorativo. Assenti anche quadri di alterazione ossea caratteristici di patologie in grado di lasciare segni identificabili negli scheletri.11 Tra le patologie infettive risultano assenti segni

Ortner, Putschar1981. Analisi laboratoristiche verranno condotte su frammenti ossei (Microscopia Elettronica a Scansione con Spettroscopia a Dispersione di Energia) per verificare la presenza di elementi chimici compatibili con avvelenamento (Piombo, Arsenico) e analisi del DNA (in collaborazione con l’ Istituto di Microbiologia e Scienze Biomediche dell’Università Politecnica delle Marche di Ancona) del midollo osseo dei reperti per verificare la presenza di DNA compatibile con l’agente eziologico (yersinia pestis) della peste. 14 Negro Ponzi Mancini 1983; Negro Ponzi Mancini 1999, con bibliografia. 12

La media degli uomini adulti è di cm 170–180; quella delle donne adulte di cm 160–170. 6 Per esempio nel computo è stata calcolata la lunghezza del femore in cm x 2.5 + 65 e la lunghezza dell’omero in cm x 2.7 + 75; Olivier et al. 1978; Sjøvold 1990; Martin, Saller 1957. 7 Martin, Saller 1957. 8 Sergi 1908; 1911; Biasutti 1911; Holloway 2002. 9 Vallois 1960; Brothwell 1965. 10 Scott 1979; Mayhew et al. 2005. 11 Ortner, Putschar1981. 5

13

293

Oscar Mei, Pietro Gobbi

Fig. 1. Pianta della città romana di Forum Sempronii: con la freccia è indicata l’area di rinvenimento delle sepolture tardoantiche.

294

Fig. 2. Pianta di strutture scavate nel 2007 lungo la via “delle statue di bronzo dorato”, con decine di tombe ricavate nello strato di crollo sopra gli edifici antichi (dis. J. Mouraret).

Una necropoli tardoantica a Forum Sempronii

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Oscar Mei, Pietro Gobbi

Fig. 3. Veduta dall’alto dello scavo lungo la via “delle statue di bronzo dorato”, con numerose tombe ricavate nello strato di crollo degli edifici (foto O. Mei).

Fig. 4. Una delle tombe con doppia deposizione: l’uomo è posto al di sotto della donna, le teste sono incrociate, quasi a riproporre nella sepoltura il talamo nuziale.

Fig. 5. Una delle tombe realizzate con letto di tegole e copertura alla cappuccina.

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4.8 Il sepolcreto altomedievale di Pigno (Cagli) Agata Aguzzi,* Anna Lia Ermeti** *

Museo Archeologico di Cagli, **Università di Urbino “Carlo Bo” [email protected];[email protected]

Abstract: The burial area of Pigno (Cagli) is composed, for the excavated part, of ten tombs, dating to the second half of the 7th century. The type is common to the so-called ‘Lombard’ tomb stone graves, but kits, including ‘Pinguente type’ earrings, derived from Byzantine models, show a total acculturation between the two populations. Keywords: Pigno; Burials; Early Middle Ages.

Ubicazione del sepolcreto

Sembrerebbe molto facile in questo modo dividere il territorio in due parti, a ovest quello ‘bizantino’, a est quello longobardo. Nel mezzo il fiume e la Via Flaminia. Ma i dati archeologici, come da tempo si è visto, sono spesso diversi e molto più complessi di quanto gli storici hanno potuto raccontare.1

Pigno, frazione di Cagli, è oggi un gruppetto di case sulle colline sulla riva destra del torrente Burano, a 329 m s.l.m. Il piccolo nucleo abitato si trova immediatamente a est della Via Flaminia e del torrente Burano, lungo un diverticolo che porta da Smirra (altra frazione di Cagli) a Monte Martello (ove è ubicato il Santuario di S. Maria delle Stelle).

Lungo la strada che da Smirra porta a Monte Martello, nel podere di proprietà Lino Sabbatini, affioravano da tempo alcune tombe composte da grandi lastre in pietra. In particolare affioravano sulla parete della strada tre tombe, realizzate con grandi lastre di pietra ricavata da cave locali, molto probabilmente provenienti dalla zona del Furlo, distante pochi chilometri da Pigno. L’allargamento della strada ha portato all’intervento archeologico, iniziato nel 2004,2 intervento che nel complesso ha messo in luce dieci tombe in muratura, più o meno ben conservate, tutte concentrate in un’area abbastanza ristretta (Tav. A).

Nei pressi si trovano la Pieve di S. Severo in Pigno, oggi restaurata e con accanto un piccolo cimitero abbandonato, quella di S. Giovanni in Offago, in rovina, un mulino idraulico non più funzionante (Mulino delle Fucicchie) e il piccolo nucleo abitato di Cà Ventura. L´antica Pieve è dedicata a un santo ravennate (San Severo), ma si tratta di una dedica relativamente recente. La prima notizia è del 1253, quando si fa menzione di questa Pieve in un contratto di enfiteusi fatto dall´Abate del Monastero di San Geronzio di Cagli; mentre già nel 1468 la Pieve figura negli elenchi delle chiese. Invece la primitiva chiesa di riferimento per questa zona doveva essere quella di S. Giovanni in Offago, oggi in rovina.

Le tombe sono disposte a gradoni e seguono l’andamento naturale della collinetta su cui sorgono, ma sono tutte più o meno allineate in file e orientate est-ovest. Tutte, tranne una (Tomba 2), hanno subìto danni a causa dei lavori agricoli, danni non solo nella cassa, ma anche a livello degli scheletri. Si tratta in generale di sepolture di forma rettangolare, marginate da grandi pietre, ubicate a una profondità variabile fra i 60 e i 100 cm dall’attuale piano di calpestìo e caratterizzate da coperture con grandi lastre di pietra. Le casse litiche sono costituite da muretti in pietra con filari regolari di piccole pietre bianche locali nelle

In questa zona il fiume Burano e la Via Flamina sembrano fare da spartiacque tra due mondi: a ovest quello di tradizione romana, a est, dove sta Pigno, quello longobardo. Da questa parte infatti tutti i toponimi e i santi cui sono dedicate le chiese riecheggiano santi e nomi longobardi (S. Giovanni in Offago, S. Venanzio, S. Giovanni di Monte Varco, S. Angelo in Maiano, Cà Faggio), al di là del fiume e della Flaminia tutti i toponimi e le dediche delle chiese sono riferibili ai ‘Bizantini’ (S. Martino di Castel Onesto, Sant’Apollinare, S. Anastasio).

Gasparri 2005; La Rocca, Gasparri 2012. Lo scavo è iniziato nel 2004 su autorizzazione della Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche nella persona dell’allora ispettore Gabriele Baldelli, che ringrazio per la collaborazione e la disponibilità. 1 2

297

Agata Aguzzi, Anna Lia Ermeti pareti laterali, mentre i lati brevi sono delimitati (tranne la Tomba 7) da singole grandi lastre, sempre in pietra, di circa cm 10 di spessore. Il fondo è coperto da lastre di varie dimensioni. La maggior parte di queste tombe conserva un solo inumato, ma alcune sono plurime. Tutte le deposizioni sono avvenute in decubito dorsale in spazio vuoto, con inumati deposti in posizione supina con il capo rivolto a est. Nessuna di esse presenta corredo, tranne qualche piccolo oggetto di ornamento personale.

piatto, il decubito dorsale e la decomposizione è avvenuta in spazio vuoto. Accanto al cranio, sopra la spalla sinistra, viene trovato un pettine in osso lungo 14 cm circa a doppia fila di denti, spezzato in più parti, ma nel complesso ben conservato. Accanto alla tomba, a est, si trova un’area (area A) che presenta tracce di bruciato. L’area misura circa m 0,60 di larghezza e m 1,10 di lunghezza ed è ricca di carbone. Restituisce numerosi reperti malacologici e alcuni frammenti di Pietra Ollare. Forse si tratta di un’area dedicata al pasto rituale.

Tomba 1 e Tomba 2 Delle prime due tombe (Tomba 1 e Tomba 2) la Tomba 1 è quella localizzata più in basso: era già visibile da tempo sulla parete della strada di accesso ed era mancante della lastra di copertura e del muretto perimetrale del lato sud, quello appunto più esterno e posto al margine della strada. La tomba era posta a una profondità di m 1,10 circa dal piano agricolo ed erano visibili le pietre perimetrali della “cassa”, ma mancando della copertura e di un lato, risultava essere piena di terra e pietrisco.

Tomba 3 Della Tomba 3 (Fig. 3, a–b; Tav. III), coperta dalla terra, erano visibili: le due pietre poste a est e ovest e le lastre di copertura. La tomba, che misura esternamente m 2,00 x 1,10, ha le stesse caratteristiche costruttive delle altre due: le lastre di copertura e chiusura, le due grosse lastre poste dietro la testa e dopo i piedi dell’inumato e il muretto nord realizzato da più filari di pietra disposti a secco; il muretto perimetrale sud non si è conservato in quanto è stato asportato con la realizzazione della strada d’accesso alla casa. Anche in questo caso il fondo della cassa è composto da lastre di pietre di diverse dimensioni. Si tratta in questo caso di una sepoltura bisoma, con riduzione dello scheletro del primo inumato. Le ossa del primo inumato infatti, prima della completa deposizione del secondo, sono state raccolte al centro del lato sinistro della tomba. Questa prima deposizione è relativa a una donna di età matura (30–35 anni), alta circa m 1,60–1,65. Il secondo inumato si presenta in deposizione primaria e non ha subito danneggiamenti. La tomba è a fossa larga con fondo piatto, il decubito dorsale e la decomposizione è avvenuta in spazio vuoto. Si tratta di un individuo adulto (30–35 anni), alto circa m 1,70, che presenta nella parte bassa del cranio ancora infissa la punta di una sottile lancia in ferro lunga cm 9.

Lo scavo ha portato alla luce, a una quota leggermente più alta e in posizione più arretrata rispetto a questa, la Tomba 2. Questa si trovava a una profondità di m 0,85 dal piano agricolo ed era sigillata con una lastra di copertura di grandi dimensioni. La Tomba 1 (Fig. 1; Tav. II) è una sepoltura singola, in deposizione primaria, di un individuo adulto (30–35 anni), alto m 1,75–1,80, che presenta le ossa dei femori tagliate di netto. I lavori agricoli hanno causato l’asportazione delle pietre del lato sud e hanno danneggiato anche la struttura scheletrica. La fossa sepolcrale è larga e il fondo è piatto, il decubito dorsale e la decomposizione è avvenuta in spazio vuoto. La parte conservata misura m 1,86 x 1,00. La tomba è costituita da una cassa in muratura, di forma rettangolare, costituita da muretti a secco in pietra sui due lati lunghi e sul lato di fondo, mentre la parete ovest della tomba, dietro la testa dell’inumato, è costituita da una sola grande lastra in pietra. Anche il fondo della cassa è costituito da lastre in pietra, alte circa cm 5. Nessun elemento di corredo è stato rinvenuto.

Nel 2008 a seguito di nuovi lavori agricoli, sono state messe in luce altre tombe (4, 5, 6, 7, 8, 9 e 10) a quote diverse e orientate anche queste approssimativamente est-ovest. Tomba 4

La Tomba 2 (Fig. 2, a–b; Tav. II) si presenta dal punto di vista costruttivo intatta; la grossa lastra di copertura non è mai stata spostata, e ha i muretti perimetrali (lato nord e sud) intatti, realizzati con più file di pietre legata a secco, mentre i lati est e ovest sono realizzati con grosse lastre di pietra. Il fondo della “cassa” è composto da lastre di pietre di diverse dimensioni. Misura m 2,36 x 1,35. Sollevando la grande lastra di copertura e aprendo così la tomba, si nota che all’interno non vi è accumulo di terra, le ossa dello scheletro sono visibili e si presentano leggermente dislocate dalla loro posizione originaria a causa delle infiltrazioni d’acqua. Si tratta di una sepoltura singola, in deposizione primaria, di un giovane (circa 25 anni), alto m 1,70–1,75, deceduto a causa di una ferita da punta di freccia entrata nella zona lombare postero laterale sinistra. La fossa sepolcrale è larga e il fondo è

A una quota più alta e in posizione arretrata rispetto alla Tomba 3, è stata individuata la grossa lastra di testa di un’altra sepoltura: la Tomba 4 (Fig. 4; Tav.  IV). Di questa tomba non rimane altro che la lastra dietro la testa dell’inumato e alcune lastre del fondo, poiché è stata pesantemente danneggiata dai lavori agricoli. Si tratta di una sepoltura singola; la fossa è larga con fondo piatto. Da quel poco che resta dello scheletro, il cranio e parte del tronco fino allo sterno, il decubito è dorsale e la decomposizione è avvenuta in spazio vuoto. In questo caso, anche se lo scheletro ha subito un forte schiacciamento oltre all’asportazione degli arti inferiori, si tratta probabilmente di una donna. Sono stati trovati infatti, ancora in posto, due orecchini in bronzo. 298

Il sepolcreto altomedievale di Pigno (Cagli) Tomba 7 e Tomba 5

Tomba 9

Arretrando ancora su questa linea e alzandosi di quota si incontrano altre tombe: di una, tagliata a metà: la Tomba 7 (Fig. 5; Tav. VI), rimangono solo pochi filari della muratura e nulla più. Sembra però di fattura leggermente diversa dalle altre, perché non ha la grossa lastra in pietra nel lato est, dietro la testa, ma in questo caso anche questo lato è formato da grosse pietre che costituiscono un muretto come negli altri lati. Accanto a questa tomba è venuta alla luce una sepoltura con la struttura muraria parzialmente danneggiata dai lavori agricoli: la Tomba 5 (Fig. 6; Tav. IV). Di questa rimane solo parte del lato nord, lungo m 2,20, mentre manca il muro perimetrale sud e le grosse lastre poste a est e ovest. Si tratta di una sepoltura singola in deposizione primaria. La tomba è a fossa larga con fondo piatto, il decubito dorsale e la decomposizione è avvenuta in spazio vuoto.

La tomba 9 è collocata all’incirca in linea con la tomba 6, ed è in pessimo stato di conservazione. È la tomba che ha risentito maggiormente dei lavori agricoli; rimane solo la grossa lastra che delimita il lato ovest, qualche pietra appartenente ai muretti dei lati lunghi e alle lastre del fondo della cassa. Dello scheletro rimangono solo alcuni frammenti di ossa. Tomba 10 La tomba 10 (Fig. 9; Tav. VIII) è di piccole dimensioni: misura m 1,30 di lunghezza per m 0,70 circa di larghezza. Nonostante le dimensioni ridotte ha la stessa tecnica costruttiva delle altre: muretti dei lati lunghi in muratura e i due lati corti costituiti da due grosse lastre di pietra, mentre il fondo è realizzato con lastre di pietra di varie dimensioni. Anche questa tomba ha risentito dei danneggiamenti dei lavori agricoli e ha subìto anche un leggero scivolamento del muretto perimetrale nord su quello sud. La sepoltura risulta molto danneggiata, le poche ossa conservate lasciano ipotizzare che si trattasse di una sepoltura singola di un individuo in età infantile I (0–6 anni), deposto in giacitura primaria e con decubito dorsale.

Lo scheletro ha subito dei danneggiamenti durante i lavori agricoli, ma in base alla dentizione stato possibile riconoscere un uomo di età matura (40–49 anni). Doveva trattarsi di un adulto di alta statura, date le dimensioni dei femori, lunghi cm 45. Tomba 6

Analisi del corredo

La tomba 6 (Fig. 7; Tav. V) si trova a est del gruppo di sepolture precedenti. Anche questa tomba presenta le stesse tecniche costruttive delle altre: muretti dei lati lunghi in muratura e i due lati corti costituiti da due grosse lastre di pietra, mentre il fondo realizzato con lastre di pietra di varie dimensioni. La tomba è lunga, esternamente, m 1,80 e m 1,70 circa internamente. Questa tomba però ha subito non solo danneggiamenti causati dai lavori agricoli, che hanno portato via la lastra di copertura, ma ha avuto anche uno scivolamento del muretto laterale nord su quello sud, scivolamento causato molto probabilmente dalle spinte del terreno, che hanno determinato un restringimento della cassa litica. Questo scivolamento ha causato anche danni allo scheletro posizionato all’interno della tomba, scheletro del quale si conserva molto poco, e che permette di riconoscere semplicemente una sepoltura singola in giacitura primaria con decubito dorsale e una decomposizione avvenuta in spazio vuoto.

Come nello scavo del vestibolo del Palazzo Comunale di Cagli anche qui le tombe sono quasi tutte prive di corredo tranne due, che presentano oggetti di ornamento personale. Una è quella più importante (Tomba 2), dove era sepolto un individuo giovane, forse particolarmente di rilievo, che aveva sotto il capo un pettine in osso; l’altra (Tomba 4) è una tomba femminile dalla quale sono stati recuperati due orecchini a cerchio con tre piccoli anelli finali in bronzo. La Tomba 3 invece conserva una punta di freccia ancora conficcata sotto il cranio dell’inumato. Il pettine in osso (Fig. 10), lungo circa cm 14 e spezzato in più parti, è molto simile a quello rinvenuto nel sepolcreto del Palazzo Comunale di Cagli;3 è del tipo più semplice, a doppia fila, con denti di spessore diverso da un lato e dall’altro. Nella Tomba 4 invece sono stati rinvenuti ai lati del cranio due orecchini in bronzo (Fig. 11) del tipo a tre cerchi fusi: si tratta di orecchini a cerchio, larghi cm 6 (e in questo caso la lamina del cerchio è decorata a sua volta con piccoli cerchielli incisi) con tre piccoli cerchietti cui erano quasi sicuramente sospesi altrettanti pendenti di materia organica. Il tipo deriva molto probabilmente da archetipi bizantini in oro. Datati tra VI e VII secolo,4 hanno una vastissima diffusione in tutta l’Italia, da nord a sud.5 Il

Tomba 8 La tomba 8 (Fig. 8; Tav. VII) è posizionata tra la tomba 3 e la tomba 6. Ha conservato solo il muretto perimetrale sud, che si presenta realizzato per metà con blocchi sistemati in filari regolari, mentre l’altra metà è realizzata con una grossa lastra di pietra, cosi come pure il lato corto est. Mancano completamente il lato corto ovest e il lato nord. La sepoltura è bisoma; si tratta di due corpi in giacitura primaria con decubito dorsale e decomposizione in spazio vuoto. I due scheletri hanno i crani affiancati, mentre i due bacini sono sovrapposti, sembra trattarsi di un adolescente (13–19 anni) per la prima sepoltura, cioè quella sottostante, mentre per la seconda di un giovane adulto (20–29 anni), alto circa m. 1,70.

Per la discussione sul pettine si veda Aguzzi, Ermeti, Lo scavo nel Palazzo Comunale di Cagli, infra. 4 Torcellan (1986, pp. 43–44) propone una datazione alla prima metà del VII d.C. 5 Von Hessen 1983, p. 17, tav. 4, 5 e 7 con bibliografia relativa. 3

299

Agata Aguzzi, Anna Lia Ermeti L’area su cui si trova la necropoli sembra essere un’enclave di lingua germanica, se pensiamo ai toponimi e alle dediche delle chiese9 e anche queste tombe come le sepolture “longobarde” sono collocate sul versante meridionale di un rilievo collinare; come quelle si trovano in prossimità di un corso d’acqua (il fiume Bosso) e di un tracciato stradale (la Via Flaminia); probabilmente (non abbiamo dati in merito) sono anche poco distanti dall’insediamento cui si riferiscono; sono molto grandi (lunghe da m 2 a m 2,5 e larghe m 1–2) e scavate in profondità; e sono tutte orientate in senso est-ovest (più o meno precisamente), perché il defunto possa scorgere il sorgere del sole, simbolo divino proprio delle genti germaniche.

tipo è ben attestato in Istria, nella necropoli di Meìzza a Pinguente, dove sembra localizzata una produzione locale, tanto che questi orecchini vengono chiamati anche orecchini “tipo Pinguente”. La loro diffusione è particolarmente estesa proprio nelle zone direttamente influenzate dall’impero bizantino. Se la datazione generica dei manufatti fa supporre il VII secolo, dobbiamo anche ricordare che la consuetudine di deporre questo tipo di oggetti nelle sepolture è da collocare tra la fine del VI e la prima metà del VII secolo,6 quando cioè questi monili erano particolarmente diffusi nel costume femminile. La Tomba 3 presenta invece un elemento in ferro lungo cm 9, sottile e appuntito, conficcato ancora alla base del cranio del defunto (Fig. 3b). È una lunga e sottile punta di freccia (Fig. 12), che è anche stata la causa della morte dell’individuo sepolto. Si tratta di una punta di freccia per arco, lunga e affusolata, con cuspide piramidale a sezione quadrata e parte di gorbia conica. L’esemplare si presenta parzialmente deteriorato a causa delle condizioni di conservazione del suolo, ma ancora perfettamente riconoscibile. Per misure e morfologia questo esemplare è riferibile al tipo di cuspidi di freccia detto “bizantino”,7 in quanto attestato soprattutto in ambito balcanico e nei castelli tardo romani del Limes. Di fatto sono relativamente poche le attestazioni in contesti italiani, contando tuttavia confronti a Ibligo-Invillino, Castelseprio, Sant’Antonino e un solo esemplare dalla necropoli longobarda della collina di San Mauro a Cividale del Friuli. Scarsamente attestata come elemento di corredo di sepolture, risulta sinora quasi assente nelle tombe longobarde italiane. La maggioranza delle attestazioni è di VII secolo.

Rinvenimenti simili sono stati fatti in provincia di Nocera Umbra, sempre lungo tracciati stradali,10 e le tombe, anche queste quasi tutte prive di corredo, sono state considerate longobarde e datate nel VII secolo. In effetti nel territorio in esame lo stanziamento barbarico nelle campagne fa riferimento a sepolcreti di ridotte dimensioni, caratterizzati da un patrimonio di usi e costumi tardoantichi11 e in particolare gli elementi di corredo sono quasi sempre solo quelli riferibili all’ornamento personale. Il sepolcreto di Pigno presenta dunque tutte le caratteristiche per essere definito un sepolcreto barbarico. L’analisi autoptica delle ossa mostra però una profonda commistione tra elementi germanici ed elementi locali. Dal punto di vista umano queste genti facevano parte di una popolazione non più germanica, ma nemmeno bizantina e anche il corredo delle tombe denota una fase di profonda acculturazione. Nelle tombe non ci sono più elementi caratteristici di una popolazione specifica, ma materiali che testimoniano uno stretto e prolungato contatto tra la cultura longobarda e quella tardoromana. Siamo in un momento, il VII secolo, in cui anche in questa zona, a lungo bizantina, si sono recepiti modelli nuovi e si è ormai formata una nuova koiné culturale. Si continuano a riprodurre modelli tardoantichi e bizantini, portando però i manufatti a un estremo grado di semplificazione dei modelli e usando materiali più poveri.

Conclusioni Le tombe scavate a Pigno sono solo dieci, ma fanno parte di un sepolcreto molto più ampio, sicuramente legate a un insediamento del quale per ora non sono state trovate tracce. Quel che è certo è che si tratta di persone che vivevano in un clima di elevata insicurezza; la morte precoce di individui giovani e le modalità della morte dimostrano che il territorio era un’area di confine, che la vicinanza della Via Flaminia rendeva ancora più insicuro. Per quanto riguarda la cronologia delle tombe, i pochi elementi di corredo e la tipologia tombale non offrono dati cronologici precisi, ma solo una datazione generica nel VII secolo.

La povertà degli oggetti personali fa pensare a una popolazione appartenente a un ceto non molto elevato, ma che al contrario investe molto nella tipologia tombale; le tombe infatti hanno una fattura veramente accurata. Le grandi pietre usate provengono sicuramente dalla vicina cava del Furlo, ma pietre di queste dimensioni e così ben lavorate hanno avuto sicuramente un alto costo. Dunque erano genti non ricchissime, ma che profondevano molte energie nel seppellimento dei morti. Così come erano genti aperte al commercio a lungo raggio, come dimostrano i frammenti di Pietra Ollare, mentre il pettine in osso e gli orecchini forse venivano da meno lontano, sicuramente

La fattura delle tombe è però molto accurata, a pianta più o meno rettangolare, con grandi lastre a copertura e casse litiche con letto litico, formate da muretti laterali con lastre dietro sui lati corti. Questa tipologia tombale a cassa litica è presente in tombe cosiddette “longobarde” della seconda metà del VII secolo.8

Si vedano i nomi delle chiese e i toponimi citati all’inizio del lavoro. Paroli 1996, pp. 181–199. 11 La stessa situazione per esempio in Abruzzo: Staffa 2010, pp. 186 206. D’altra parte nel VII secolo è usuale per la donna longobarda l’assunzione del costume e del corredo funebre di tipo locale: cfr. Bierbrauer 1991, p. 123. 9

10

Corti 2007e, p. 75. Mannoni, Murialdo 2001, p. 538; Ahumada Silva 2010, pp. 95–105, tav. 52. 8 Ahumada Silva 2010, p. 267. 6 7

300

Il sepolcreto altomedievale di Pigno (Cagli) commercializzati attraverso la Via Flaminia. In sostanza i pochi elementi a nostra disposizione testimoniano a favore di una popolazione abbastanza ricca da mettere gran cura nella costruzione delle tombe e da importare oggetti attraverso linee commerciali ancora aperte sia dall’Italia settentrionale bizantina sia dall’altra sponda adriatica. Sono evidenti invece i contatti tra alloctoni e indigeni, per cui in tombe di fattura “longobarda” e soprattutto in un’area che definiremmo linguisticamente longobarda, si trovano inumati con corredo “bizantino”. Si tratta dunque di genti che ormai nel VII secolo si potevano presentare come una comunità con un’identità culturale nuova, frutto di osmosi tra elementi romani ed elementi barbarici. Una

mescolanza di tradizioni che aveva sviluppato pian piano un’identità “altra”. E questo non è altro che l’inizio di un “nuovo mondo”.12 Acknowledgements: Lo scavo della necropoli è stato seguito in prima persona da Agata Aguzzi, cui si deve tutta la parte descrittiva di questo scritto (Tomba 1,2,3,4,5,6,7,8,9,10) e i disegni. Tutto il resto del lavoro è di Anna Lia Ermeti. Sui resti scheletrici è stata condotta un’analisi antropometrica da parte di Pietro Gobbi (Università di Urbino). Le fotografie sono tutte di Agata Aguzzi, tranne la 10 e la 11 che sono di Luca Polidori. Numerosa la bibliografia sulle tematiche delle identità culturali e della nuova cultura frutto dell’incontro tra tradizioni varie e diverse. Tra gli ultimi studi di natura archeologica: Ebanista, Rotili 2012. 12

Fig.1. Tomba 1.

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Agata Aguzzi, Anna Lia Ermeti

Fig. 2a–2b. Tomba 2.

Fig. 3a. Tomba 3.

Fig. 3b. Particolare della Tomba 3.

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Il sepolcreto altomedievale di Pigno (Cagli)

Fig. 4. Tomba 4.

Fig. 6. Tomba 5.

Fig. 5. Tomba 7.

Fig. 7. Tomba 6.

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Agata Aguzzi, Anna Lia Ermeti

Fig. 8. Tomba 8.

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Il sepolcreto altomedievale di Pigno (Cagli)

Fig. 9. Tomba 10.

Fig. 10. Pettine in osso.

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Agata Aguzzi, Anna Lia Ermeti

Fig. 11. Orecchino in bronzo.

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Il sepolcreto altomedievale di Pigno (Cagli)

Fig. 12. Punta di freccia.

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Agata Aguzzi, Anna Lia Ermeti

Tav. I.

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Il sepolcreto altomedievale di Pigno (Cagli)

Tav. II.

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Agata Aguzzi, Anna Lia Ermeti

Tav. III.

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Il sepolcreto altomedievale di Pigno (Cagli)

Tav. IV.

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Agata Aguzzi, Anna Lia Ermeti

Tav. V.

Tav. VI.

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Il sepolcreto altomedievale di Pigno (Cagli)

Tav. VII.

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Tav. VIII.

Agata Aguzzi, Anna Lia Ermeti

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4.9 Lo scavo nell’atrio del Palazzo Comunale di Cagli. La necropoli altomedievale Agata Aguzzi,* Anna Lia Ermeti** *

Museo Archeologico di Cagli, **Università di Urbino “Carlo Bo” [email protected]; [email protected]

Abstract: The excavation of several graves under the floor of the Town Hall of Cagli, dating to the late 13th century, has brought to light an early medieval necropolis, dating to the first half of the 7th century. The necropolis is situated in an area of the city, Cale Vicus, which in the 6th to 7th centuries was an important stronghold of Byzantine Pentapolis. Keywords: Byzantine Pentapolis; Cagli; Town Hall; Early medieval burials.

Inquadramento topografico

Lo scavo del PalazzoComunale

Ben poco si conosce dell’antico insediamento romano di Cale Vicus,1 ricordato in vari itinerari antichi come luogo di sosta lungo la Via Flaminia, ottava tra le principali stazioni, al 151° miglio da Roma. Ma in questi itinerari si parla sempre di vicus ad Calem, perché in effetti il luogo di sosta si trovava “nei pressi” della città di Cale, non a Cale. E allora dove era ubicata la città? Se pur numerosi sono i rinvenimenti di epoca romana intorno al luogo dove sorge oggi la città moderna (ville rustiche soprattutto nella zona a est del fiume Bosso), la tradizione vuole l’insediamento antico ubicato sul vicino colle dell’Avenante, che conserva una potente cortina muraria, e dove sicuramente era ubicato l’insediamento protostorico. Nel piano in cui sorge oggi la città moderna invece, alla confluenza di due fiumi, il Bosso e il Burano, è da ubicare la rifondazione della città voluta da Papa Nicolò IV, in piena epoca basso medievale, nel 1289. In effetti nessun resto antico riferibile all’insediamento romano è mai stato trovato in questo luogo. E in tutti gli scavi che si sono prodotti in profondità è stato sempre rinvenuto uno strato di ghiaione alluvionale, che è il ghiaione sterile sul quale appoggiano e si fondano tutte le abitazioni del centro storico cagliese.

Nel 2005/2006 durante i lavori di restauro del vestibolo del Palazzo Comunale si è proceduto all’asportazione del piano pavimentale, composto da lastre in arenaria, del vestibolo stesso e allo scavo archeologico contestuale dell’area per una profondità massima di m 1,80. Lo scavo, che ha riguardato tutta l’area del vestibolo (Tav. 1), ha messo in luce una situazione molto complessa che ha permesso di restituire anche parte della muratura perimetrale del Palazzo Comunale della fine del XIII secolo (Palazzo Maggiore). Nella parte anteriore (nord) è stata rinvenuta, appena sotto il pavimento, la volta a botte di un sotterraneo, mentre nella parte sud (che è quella che ci interessa particolarmente) sono stati messi in luce vari strati archeologici (Tav. 2). Sotto il pavimento di grandi lastre di arenaria e il relativo allettamento è stato rinvenuto uno strato di ghiaia compatto con materiali residui (frammenti di ossa, di tegole e ceramici) dovuto ai lavori di realizzazione di un bagno pubblico nel XIX secolo. Sotto di questo, un altro strato di riempimento con materiali ceramici del ‘400. Al di sotto di questo strato quattrocentesco è stato trovato il sottopavimento in file di mattoni del pavimento del Palazzo della fine del 1200. Il pavimento del Palazzo duecentesco è allettato su un potente strato nero, di circa 80 cm, con numerosi frammenti di ceramica romana, frustuli di marmo e tegole. Su questo stesso strato nero si rinviene anche un tratto di una grande canaletta. Sul fondo dello strato nero sono state rinvenute cinque tombe, che tagliano lo strato nero stesso e si impostano sul ghiaione sterile, tombe databili in epoca altomedievale. Purtroppo i lavori per la costruzione del Palazzo Maggiore nel basso Medioevo e poi tutte le ristrutturazioni seguenti, fino a oggi, hanno seriamente

Perché questa precisazione topografica? Perché lo scavo che vogliamo prendere in considerazione è ubicato al centro di questa città medievale, nell’atrio dell’antico Palazzo Maggiore, odierno Palazzo Comunale.

1 Agnati 1999, pp. 508–519; Trevisiol 1999, pp. 189–193; Baldelli, Ermeti 2002, pp. 141–142.

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Agata Aguzzi, Anna Lia Ermeti di Nocera Umbra4 e in altre tombe del territorio, datate genericamente nel VII secolo.5 Si tratta di una tipologia di recipiente a uso personale, date le piccole dimensioni, che conobbe un’area di diffusione molto ampia in età tardoantica e altomedievale. In Italia sembra attestata solo in sepolture delle regioni centrali e meridionali,6 attribuita alla popolazione locale di tradizione romana. Questi frammenti potrebbero aver fatto parte del corredo di una o più tombe, distrutte durante i lavori per la costruzione del Palazzo bassomedievale.7 Un’ipotesi suggestiva è che la brocchetta fosse a corredo, insieme al pettine, della Tomba 2, una tomba infantile, come in alcune tombe dell’area nocerina. L’uso di deporre recipienti usati in ambito domestico per la cottura e per la conservazione degli alimenti accanto al defunto per raccogliere offerte di cibo e bevande è ben conosciuto nel IV e nel V secolo e continua anche più tardi fino al VII–VIII secolo,8 quando spesso al posto del vaso intero si trova una parte frammentaria del vaso, forse segnale di un cambiamento di abitudini. Il numero maggiore di rinvenimenti simili è databile dalla prima età longobarda fino alla metà circa del VII secolo.9

compromesso tutte le strutture antecedenti, in particolar modo le sepolture, tranne una (la Tomba 1), che sono state tutte danneggiate e in parte distrutte.Nella parte nord dell’area viene rinvenuta una lunga e grande canaletta in pietra di fattura accurata, perfettamente rettilinea, lunga m 5,40 e larga m 0,60, la cui pendenza di scarico va da ovest a est. La canaletta, profonda m 0,80 nella parte conservata, ha il fondo realizzato con grandi lastre di pietra (m 1,10 circa in lunghezza). Purtroppo è conservata integralmente solo per un breve tratto, che conserva i muretti perimetrali, costituiti da pietre sbozzate di varie dimensioni, appoggiate contro terra, e da una spalletta realizzata con parallelepipedi in pietra (forse le spallette erano intervallate alla muratura). Il muro perimetrale di sinistra ha risentito maggiormente dei danni subiti in seguito alla costruzione del sovrastante muro del Palazzo Maggiore e la sua conservazione in alzato è minima, limitandosi in alcuni punti a pochi filari. La canaletta è risultata accuratamente riempita con blocchi irregolari di pietra, che sembrano quelli divelti dalle casse delle tombe insieme a terra nera di riempimento. Nella terra nera di riempimento sono stati rinvenuti numerosi frammenti di ceramica romana, che attestano una frequentazione dell’area fin dall’età repubblicana (vernice nera, Terra Sigillata, frammenti di lucerne, tra cui firmalampen, ceramica comune, rozza terracotta) insieme a frammenti di tegole, coppi e frustuli marmorei; nella terra ancheossa, vetri e frustuli di bronzo. Proprio sul fondo della canaletta invece, sotto la massa di pietre, si sono rinvenuti alcuni frammenti di ceramica comune da cucina: alcuni frammenti di pareti caratterizzati da un impasto nero e un frammento di fondo di forma chiusa, tutti in ceramica da cucina senza rivestimento. Per quanto riguarda i frammenti scuri (Fig. 1) non è possibile risalire con precisione alla tipologia formale del recipiente, ma dalla forma delle pareti sembrerebbe trattarsi di una grossa olla. Si tratta di un manufatto caratterizzato da una parete di grosso spessore (cm 1) e da un impasto molto scuro, nero, ricco di grossi inclusi bianchi. La decorazione della parete esterna è costituita da fitte solcature verticali e oblique, irregolarmente incrociate. L’associazione più vicina è con la ceramica comune da cucina dell’Italia settentrionale, assonanze con i materiali provenienti da Osoppo, S. Martino a Rive d’Arcano, S. Daniele del Friuli e S. Martino di Ovaro,2 in particolare con le varianti 3 e 4 che presentano una cottura in atmosfera riducente e si datano nel VII secolo. Somiglianze, ma soprattutto per la cottura in atmosfera riducente, anche con la ceramica comune da cucina della fascia adriatica databile tra VI e VII secolo.3

Le tombe10 Tomba 1 Accanto alla canaletta, sul lato sud, è stata trovata una tomba (Tomba 1) di grosse dimensioni (m 2,50 x 1,30 misure esterne). Si tratta di una tomba quasi perfettamente conservata, dalla struttura in muratura, con i lati costituiti da grandi lastre in pietra e parzialmente coperta da tegole, con orientamento est-ovest. È una sepoltura multipla (sette gli inumati in giacitura primaria e riduzione dello scheletro), ed è avvenuta in uno spazio vuoto. Gli scheletri, che si presentano in buone condizioni di conservazione, sono sette, due di riduzione, sistemati negli angoli di fondo (si tratta di due donne adulte), e altri cinque sembrano sepolti tutti contemporaneamente o con poco scarto di tempo tra l’uno e l’altro. Di questi tre sono in decubito dorsale e due laterali. Dei due laterali una è una giovane donna, di circa 25 anni, l’altro un maschio, anche questo di 20–25 anni, alto circa m 1,70. I tre nel mezzo sono un maschio anziano, edentulo, l’ultimo deposto, con evidente spondiloartrosi del rachide lombare, un adolescente di circa 12 anni e un altro maschio adulto, alto circa m 1,70. Tutti presentano il cranio brachimesocefalo. Gli scheletri sono stati ripuliti, ma sono stati anche lasciati in situ e questo non ha permesso di vedere se sotto i corpi ci fosse qualche elemento di corredo. Invece, nella terra infiltrata all’interno della tomba, sono stati trovati anche qui alcuni frammenti di ceramica romana (vernice nera, Terra

Il secondo frammento è costituito da un piccolo fondo piano e parte di parete di una brocchetta, e presenta un impasto rosso, ricco anche questo di inclusi, ma molto più fine; la superficie è scabra. La somiglianza più diretta è con le piccole brocchette rinvenute in due tombe femminili

Baldassarre 1967, p. 146, n.11; p.153, n. 26. Paroli 1996, fig. 23, fig. 53, fig. 63, fig. 68, fig. 72. 6 Murialdo 1988, p. 229. 7 Dove sono ancora diffusi i reperti ceramici, questi, soprattutto vasi da fuoco, potrebbero già essere riferiti al corredo personale dei defunti, come gli elementi di abbigliamento. Cfr. Staffa 2010, p. 187 8 Buora, Cassani, Fasano 1998, p. 599. 9 Buora, Cassani, Fasano 1998, p. 601. 10 L’analisi antropometrica è ripresa da Gobbi, infra. 4 5

Gonella 2009, pp. 551–552. Gelichi 1998; per la produzione abruzzese cfr. Staffa 1998b, pp. 463– 471; 2004a, p. 216. 2 3

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Lo scavo nell’atrio del Palazzo Comunale di Cagli. La necropoli altomedievale Tomba 4 e Tomba 5

Sigillata, frammenti di lucerne, imitazione di ceramica africana e verniciata rossa), insieme a invetriata sparsa di epoca basso medievale e alcuni frustuli in bronzo (non classificabili) e resti di chiodi in ferro. All’esterno della tomba, nel lato est, è stata trovata una piccola buca nel terreno, forse da mettere in relazione con riti funebri. Tra la tomba 1 e la tomba 3, è stato trovato un foro circolare (US 36): si tratta di un foro nel terreno di piccole dimensioni (Ø 12 cm), al cui interno c’era terra di color marrone scuro molto morbida che non ha restituito alcun materiale (US 37). Forse era l’alloggiamento per un palo in legno, da interpretare come segnacolo. In età tardoantica vi era l’usanza di indicare le tombe con dei segnacoli, dei pali di legno, interpretati come fori per segnacoli, ma spesso collegati anche al rito delle pertiche descritto da Paolo Diacono.

A sud della grande tomba in muratura si trovano altre due sepolture. La prima (Tomba 4) è posta sotto l’ingresso dell’ambiente del Palazzo, la seconda (Tomba 5) è posta a ridosso del bagno pubblico costruito nel XIX secolo; anche in questo caso le sepolture sono tagliate dalle murature e dalle costruzioni successive. La prima sepoltura (Tomba 4), ha orientamento est-ovest, è singola, in deposizione primaria (m 1,70 x 55); anche in questo caso la costruzione del Palazzo Maggiore ha danneggiato non solo la cassa, ma anche parte dello scheletro, obliterandone completamente il cranio e la parte superiore fino a metà omero. La fossa sepolcrale è larga e il fondo è piatto, il decubito dorsale e la decomposizione è avvenuta in spazio vuoto. Degli arti superiori si conserva solo il lato sinistro, la mano sinistra è posta sul femore. Gli arti inferiori invece si conservano entrambi, sono distesi e presentano una leggera rotazione dei femori, le ginocchia sono aperte come pure le caviglie. Si tratta di una donna in età avanzata, alta circa m 1,60–1,65 con evidenti segni di spondiloartrosi lombare. Al momento dello scavo della tomba si sono trovati, all’incirca accanto all’omero sinistro, un ago da cucito in osso (Fig. 3) e altri piccoli frammenti di bronzo dei quali uno con una cruna assimilabile anche questo a un ago (Fig. 4). La seconda sepoltura (Tomba 5) versa ancor più in cattive condizioni di conservazione, poiché di essa si conserva solo la calotta cranica dell’inumato. Al momento della costruzione del bagno pubblico nel XIX secolo devono aver trovato la tomba e averla distrutta. Sono visibili alcune pietre che delimitavano anche la fossa, larga e con fondo piatto (m 1,30 x 0,80 circa); dalla posizione del cranio è ipotizzabile anche per questa un orientamento est-ovest; si tratta di una sepoltura singola e molto probabilmente in decubito dorsale. Sembra trattarsi di una persona di piccola statura e di età molto avanzata. Unico elemento di corredo è stato trovato un vago di collana in pasta vitrea gialla (Fig. 5).

Tomba 2 In questa zona sono state individuate altre due tombe. La prima (Tomba 2) di queste due sepolture, anche questa con orientamento est-ovest, è posta a ridosso della canaletta e ne sfrutta la muratura come limite nord della fossa, mentre il limite sud è costituito da poche lastre rimaste in situ. Si tratta in questo caso di una sepoltura singola, in deposizione primaria, che ha subìto un rimaneggiamento antropico causato dalla costruzione del Palazzo, che non solo ha asportato gran parte delle pietre della cassa litica, ma ha danneggiato anche la struttura scheletrica. La fossa sepolcrale è larga e il fondo è piatto, costituito da ghiaia di fiume, il decubito è dorsale e la decomposizione è avvenuta in spazio vuoto. Dello scheletro, di piccole dimensioni, si conservano il cranio, parte del tronco e parte degli arti inferiori sinistri. Dalla dentizione e dalla mancata saldatura della testa del femore è stato possibile riconoscere un bambino in età infantile I, cioè di età compresa emtro i 6 anni. Accanto al cranio viene trovato un pettine in osso a doppia dentatura, una più fitta e l’altra più rada, purtroppo recuperato in più parti (Fig. 2).

La tipologia delle tombe

Tomba 3

In sostanza si può osservare che per la costruzione del Palazzo Maggiore, quindi in epoca basso medievale, è stato livellato il terreno e distrutte le coperture e le spallette di quelle tombe dove andavano posizionati i muri perimetrali del Palazzo stesso. In alcuni casi la rasatura è arrivata fino a distruggere parti degli scheletri. L’unica tomba che invece è rimasta pressocchè integra è la Tomba 1, perché si trovava sotto il pavimento del Palazzo, che non necessitava di uno scavo più profondo.

La seconda sepoltura (Tomba 3) ha pietre che ne delimitano il perimetro, ha orientamento est-ovest, è bisoma in fossa terragna stretta e con fondo piatto. La deposizione è primaria; anche questa ha subito notevoli danni dalla costruzione del Palazzo, che come nella tomba precedente non solo ha asportato le pietre della cassa litica, ma ha danneggiato anche lo scheletro, lasciando solo il cranio e parte del tronco e degli arti superiori. Il decubito di entrambi gli scheletri è dorsale e la decomposizione è avvenuta in spazio vuoto; molto probabilmente sono stati sepolti insieme, ma in una fossa troppo piccola per contenerli entrambi. Si tratta dello scheletro di un bambino in età infantile II (7–12 anni) e dello scheletro di un giovane adulto (20–29 anni), una donna, forse la madre col bambino. In questa sepoltura non sono stati trovati elementi di corredo.

Nella rasatura del terreno sono stati asportati anche i muretti che delimitavano le tombe, lasciando a vista solo il primo filare all’altezza dello scheletro. Parte del materiale lapideo recuperato è stato ordinatamente gettato dentro la profonda canaletta, che si presentava nello scavo completamente ostruita dal pietrame. Forse anche parte del corredo di una o più tombe (i frammenti di olla nera e il fondo di boccalino) è finito sul fondo della canaletta.

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Agata Aguzzi, Anna Lia Ermeti quale sicuramente viaggiavano anche queste merci.15 In Italia atelier o attività artigianali che producono pettini in osso sono documentate in tutta la penisola.16 Ben poco significato assumono da un punto di vista cronologico gli aghi in osso e in bronzo della Tomba 4 (Figg. 3–4); gli aghi da cucito, in osso e in metallo,17 sono documentati in tutte le fasi storiche senza che sia possibile riscontrare significativi mutamenti della forma nel tempo. Si tratta di utensili d’uso quotidiano molto comuni attestati in diversi tipi di insediamenti.18 Più interessante il vago di collana in pasta vitrea (Fig. 5) della Tomba 5. Sicuramente il vago, in pasta vitrea gialla, è l’unico superstite di una collana, che era probabilmente presente nella tomba, sconvolta durante la costruzione del gabinetto pubblico nel XIX secolo. Le collane colorate furono particolarmente in voga tra il VI e VII secolo, soprattutto nel mondo germanico,19 tuttavia le collane in paste vitree colorate non erano assenti dal costume femminile autoctono soprattutto funerario.20 Troviamo infatti anche collane in pasta vitrea nella necropoli di Nocera Umbra.21 Ci sono poi i frammenti ceramici rinvenuti dentro la canaletta, soprattutto il fondo di boccaletto, che potrebbe testimoniare una persistenza della tradizione locale. Questi pochi materiali di corredo documentano dunque una fase cronologica che possiamo fissare genericamente tra la fine del VI e la prima metà del VII secolo, mentre documentano costumi funerari di tradizione locale (tombe con pareti in muratura, seppellimenti plurimi) e corredi che rientrano pienamente nella tradizione tardoromana.

La Tomba 1, che è perfettamente conservata, ci permette di comprendere meglio come erano fatte anche le altre: si tratta di tombe in muratura, con i lati costituiti da lastre in pietra di varia misura e probabilmente coperte da tegole romane (come la Tomba 1) o anche da lastre di pietra. Queste casse litiche non presentano invece lastre sul pavimento di deposizione, che risulta costituito dalla ghiaia alluvionale di fondo. Per quanto riguarda la forma, non sono perfettamente rettangolari, ma presentano una forma trapezoidale. Tutte le tombe sono rigidamente orientate est-ovest. Si tratta di una tipologia di tombe di tradizione tardoromana, documentata sporadicamente nei cimiteri di IV–VI secolo, ma che diviene più frequente nel corso del VII secolo.11 Le tombe sono tutte dedicate a sepolture singole, tranne due.12 Il sistematico riuso delle forme sepolcrali con deposizione successiva di un altro o altri individui, potrebbe segnalare una sostanziale assenza di quel rispetto per l’inumazione del singolo individuo che caratterizza in genere la maggior parte delle sepolture a partire dal periodo paleocristiano. Ma il sistematico riuso delle tombe (la Tomba 1 presenta addirittura sette corpi all’interno) potrebbe riflettere anche un’organizzazione familiare del sepolcreto, in cui l’elemento rilevante è, più che il rispetto per la singola inumazione, la voluta associazione nelle fosse di alcuni individui defunti in epoche diverse, forse in relazione a una comune origine familiare.13 I corredi

L’area sepolcrale

Tutte le tombe sono senza corredo. Solo tre presentano piccoli oggetti personali: la Tomba 2 (infantile), che presenta un pettine in osso; la Tomba 4, che conserva un ago da cucito in osso e un altro ago in bronzo e altri piccoli frammenti di bronzo, e la Tomba 5, in cui rimane un vago di collana in pasta vitrea gialla. Il pettine in osso (Fig. 2) rinvenuto nella Tomba 2 è del tipo più semplice a doppia fila con denti di spessore diverso da un lato e dall’altro, tenuti insieme da chiodini in ferro e listelli laterali in osso privi di decorazione. La tipologia dei pettini a doppia fila di denti è estremamente diffusa nell’arco di un lungo periodo (IV–VII secolo e oltre) e i pettini erano prodotti anche in atre aree del Mediterraneo. Sono infatti frequentemente attestati sia nelle sepolture di barbari che in quelle delle popolazioni romane14 e si trovano a corredo nelle sepolture maschili, femminili e infantili, sia in funzione apotropaica sia a ostentazione del prestigio sociale del possessore. Questo pettine è del tipo più semplice e numerosi esempi di ritrovamenti simili sono diffusi anche nelle Marche, soprattutto in relazione con la rete viaria di fondazione romana attraverso la

Nel 2007, in seguito a lavori di metanizzazione per una palazzina appena ristrutturata, un’altra tomba è stata individuata in piazza Matteotti, la piazza principale di Cagli e sulla quale si affaccia il Palazzo Comunale (Tav. III). Si trattava del rinvenimento di parte di una tomba con inumato in fossa terragna con copertura realizzata in tegole, accanto alla quale è stata individuata la porzione di un muro. Lo scavo, limitato alla piccola trincea che era stata eseguita per i lavori di allaccio dell’acqua e del gas ai nuovi appartamenti, non permetteva di distinguere altro. L’orientamento della tomba era anche questo estovest. A distanza di qualche giorno, in via Leopardi, via che costeggia il lato ovest del Palazzo Comunale, accanto a uno degli ingressi laterali del Palazzo stesso, in seguito a lavori di scavo per la realizzazione di una fognatura, è Ricordiamo l’atelier della Crypta Balbi a Roma: Ricci 1997, pp. 239– 273. 16 A Milano (Piazza Erculea 21), a Torcello, ad Altino (in età romana), con il rinvenimento di 59 esemplari di pettini a doppia dentatura e scarti di lavorazione, a Classe, a Roma (Crypta Balbi), con lavorazione oltre che dell’osso, del corno e dell’avorio, nel villaggio di Miranduolo, in Toscana (fase di VIII secolo), a Centallo Fossano e a Mombello. Cfr. De Marchi 2006, p. 189 17 Un ago integro in bronzo molto simile dalla tomba 5 di PettinaraCasale Lozzi: Paroli 1996, fig. 44. 18 Per una disquisizione approfondita su questi materiali e per i confronti si veda Murialdo, De Vingo, Fossati 2001, pp. 598–600. 19 D’Angela 1988b. 20 Aisa, Corrado, De Vingo 2003, p.745. 21 Paroli 1996, figg. 12,16, tavv.19, 21, 25. 15

Von Hessen 1971, p. 53; Martin 1991, p. 164. Il seppellimento plurimo è frequente soprattutto tra la popolazione romana, ma non per esempio tra popolazioni alloctone come i Longobardi, almeno fino a una certa epoca: Paroli 1995b, p. 202. 13 Staffa 2010, Tombe di Rosciano, p. 194 e Loreto Aprutino, p. 197. 14 Possenti 2011, pp. 67–68. 11

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Lo scavo nell’atrio del Palazzo Comunale di Cagli. La necropoli altomedievale emersa un’altra tomba realizzata con muretti in muratura a più filari di pietra, al cui interno era conservato l’inumato con orientamento est-ovest. Questi nuovi ritrovamenti sono la testimonianza che le tombe del Palazzo Comunale non sono tombe isolate, ma fanno parte di un’area sepolcrale più ampia, che occupa gran parte dell’area dell’antistante Palazzo Comunale. Una necropoli della quale non conosciamo le dimensioni, una necropoli che insisteva però su un terreno antropizzato di epoca romana, che doveva avere certa importanza vista la presenza di una canaletta di scolo cosi grande e così ben fatta (l’antico Foro?). Ma che relazione hanno queste sepolture, anzi questa vasta necropoli, databile tra fine VI e VII secolo, con il resto della città?

concilio di Rimini. E Servio,23 nella seconda metà del IV secolo d.C., la equipara a una civitas. E quando nel VI secolo la città entra a far partedi quella regione denominata “Pentapolis”, che doveva assicurare il collegamento tra la sponda adriatica e Roma, Cale diventerà un centro d’importanza strategica primaria nella distrettuazione territoriale bizantina.24 E al concetto di civitas come centro di vita civile, subentrerà piuttosto quello di città-fortezza25 e forse è proprio in questo momento che la città si “ritira” sul colle, secondo uno schema che si ripropone anche in altre città italiane.26 Nel territorio pianeggiante dove insisteva la città antica si moltiplicano invece, proprio tra VI e VII secolo, le sepolture urbane, testimonianza anch’esse di una persistenza dell’insediamento, pur in condizioni fortemente degradate e nell’ambito di una disgregazione del tessuto civile e amministrativo della città. Ora, la città medievale, la città rifondata, mostra una perfetta ortogonalità, certamente secondo gli schemi di una città di nuova fondazione basso medievale. Ma a questa ortogonalità sfugge almeno un elemento: la chiesa di S.Giuseppe, che si trova a pochi metri di distanza, proprio dietro al Palazzo Comunale (Tav. III). Non si conosce la data di fondazione di questa chiesa, ma si sa che anticamente era dedicata a S. Angelo e la prima menzione di essa si ha nel 1072, come soggetta al Monastero di Fonte Avellana. Ma la sua fondazione potrebbe essere stata precedente e la dedica a Sant’Angelo la porrebbe in relazione con la presenza longobarda e in effetti nel 751, con la partenza dall’Italia dell’ultimo esarco, scomparso l’Esarcato bizantino e con esso la struttura geopolitica bizantina della Pentapoli, anche Cale passa ai Longobardi. E tale resterà fino al 774.27 L’orientamento di questa chiesa è completamente fuori dall’ortogonalità della città basso medievale, mentre è esattamente quello delle tombe del Palazzo Comunale. Potrebbe essere una coincidenza: è canonico l’orientamento delle tombe est-ovest, così come è canonico l’orientamento est-ovest di una chiesa, di più se di antica fondazione. Ma la distanza tra le tombe e la chiesa è veramente poca e potrebbe essere abbastanza verisimile metterle in relazione fra loro. Quest’area potrebbe essere stata dunque un’area pubblica in epoca romana e come tale dismessa in epoca altomedievale a favore di un’edilizia residenziale povera e di una necropoli, sulla quale si potrebbe essere inserita, intorno all’VIII secolo, la chiesa di S. Angelo, magari inizialmente come cappella funeraria.

La città altomedievale Cagli viene rifondata in epoca bassomedievale in questa piana, tra Bosso e Burano. In particolare viene fondato il Palazzo Maggiore, sede dell’autorità cittadina, in un’area che, dopo i rinvenimenti archeologici, dobbiamo costatare che era occupata da una necropoli di VI–VII secolo. La tradizione vuole la città romana sull’altura dell’Avenante, ma non dice nulla riguardo a questa piana, dove sorge la città rifondata nel basso Medioevo, che doveva essere molto appetibile topograficamente anche in età romana perché in piano e racchiusa tra due fiumi. Mai, fino a ora, erano stati rinvenuti resti romani e, come si è detto, in tutti gli scavi che si sono prodotti in profondità è stato sempre rinvenuto uno strato sterile di ghiaione alluvionale, lo stesso sul quale poggiano le tombe di VII secolo. Lo scavo del Palazzo Comunale ha prodotto invece numerosi frammenti di epoca romana, fra cui anche frustuli marmorei, a testimonianza di una presenza romana in questa zona almeno dall’età repubblicana e fino al III– IV secolo d.C.22 Probabilmente lo scavo per la costruzione del Palazzo è andato in qualche punto in profondità e ha intaccato uno strato romano presente sopra il ghiaione alluvionale. Il rinvenimento poi di una canaletta così “monumentale” deve in qualche modo poter essere messa in relazione con un edificio importante. Poteva esserci una grande domus? O un edificio pubblico? La presenza di tombe potrebbe essere indicativa di un’area pubblica, abbandonata quando la città nell’alto Medioevo si “ruralizza” e gli spazi pubblici vengono per primi occupati da abitazioni e quindi anche dalle tombe, in linea con l’evoluzione storica di tante altre città romane.

Servii Grammatici, Qui feruntur in Vergilii carmina commentarii, II, rec. G. Thilo, Hildesheim, 1961, p. 188. 24 Baldetti 2003, p. 18. 25 Bernacchia 1995, p. 83. 26 Sul colle dell’Avenante sono stati numerosi i ritrovamenti, soprattutto metallici, di età altomedievale, ora conservati nel locale museo. Per l’Abruzzo cfr. Staffa 2010, pp. 211–220. 27 La Pentapoli, appendice meridionale dell’Esarcato, creata tra il primo e il secondo quarto del VII secolo, e sicuramente dopo la pacificazione tra Longobardi e Bizantini del 605, continuerà a esistere fino all’invasione di Liutprando del 726. Diventerà in seguito un toponimo che, perduto il suo significato originario, individuerà, fino al secolo XI, un’area compatta inglobata prima nel regno Longobardo e poi nel Sacro Romano Impero: cfr. Baldetti 2003, p. 19. 23

D’altra parte Cale è una città importante in età basso imperiale e sede vescovile già nel IV secolo: nel 359 la tradizione ricorda un vescovo Greciano presente al

22 Insieme ai frammenti ceramici anche una moneta: si tratta di un antoniano di Aureliano, datato tra 270 e 275 d.C.

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Agata Aguzzi, Anna Lia Ermeti Conclusioni Lo scavo è stato molto importante per la conoscenza del passato della città di Cagli, perché da una parte per la prima volta sono emersi i resti (anche se molto frammentari) della presenza della città romana su questa piana, dall’altra sono state messe in evidenza dinamiche insediative comuni a molti altri centri nel trapasso tra epoca romana e alto Medioevo. L’area del sepolcreto messo alla luce è troppo limitata e le tombe troppo rovinate per poter raccogliere dati sicuri. Dalla tipologia delle tombe si può dedurre che siamo in una fase ancora iniziale in cui vengono utilizzati i resti presenti in loco (resti di epoca romana) per costruire le tombe (tegole romane per la copertura, una tomba che utilizza il lato della canaletta come muro di fondo, le pietre stesse sono probabilmente di riuso). I pochi materiali ritrovati nelle tombe indicano anch’essi un momento di transizione, perché sono tutti inquadrabili tra VI e VII secolo. In questo momento Cale è bizantina, e gli elementi di corredo delle tombe sono in effetti indicativi di una cultura “romana”.28 Acknowledgements: Lo scavo è stato eseguito in prima persona da Agata Aguzzi, cui si deve la parte descrittiva del presente lavoro. Tutto il resto è di Anna Lia Ermeti. Sui resti scheletrici è stata condotta un’analisi antropometrica da parte di Pietro Gobbi (Università di Urbino). I disegni e le foto sono di Luca Polidori. La tav. III è stata assemblata da Agata Aguzzi. Desideriamo ringraziare il dott. Gabriele Baldelli, allora funzionario di zona (Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche), per la disponibilità e i consigli durante lo scavo.

28 Sul complesso tema relativo ai contatti e alle contaminazioni tra le varie popolazioni presenti nel territorio dell’antico impero romano cfr. Bayart 1996; Barbiera 2013.

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Tav. I. Pianta dello scavo sotto il Palazzo Comunale (rilievo e disegno di L.Polidori).

Lo scavo nell’atrio del Palazzo Comunale di Cagli. La necropoli altomedievale

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Tav. II. Sezioni dello scavo sotto il Palazzo Comunale (rilievo e disegno di L.Polidori).

Agata Aguzzi, Anna Lia Ermeti

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Tav.III. Piazza Matteotti e Via Leopardi a Cagli con indicazione delle tombe rinvenute nel 2007.

Lo scavo nell’atrio del Palazzo Comunale di Cagli. La necropoli altomedievale

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Fig. 1. Frammenti di ceramica nera.

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Lo scavo nell’atrio del Palazzo Comunale di Cagli. La necropoli altomedievale

Fig. 2. Pettine in osso.

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Fig. 3. Ago in osso.

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Lo scavo nell’atrio del Palazzo Comunale di Cagli. La necropoli altomedievale

Fig. 4. Ago in bronzo.

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Fig. 5. Vago di collana.

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4.10 Suasa in età tardoantica: nuovi dati dalla via del Foro Anna Gamberini,* Sara Morsiani** *Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Dipartimento di Storia Culture Civiltà, **Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Catanzaro, Cosenza e Crotone [email protected]; [email protected] Abstract: Recent fieldwork in Via del Foro (in the ancient town of Suasa, Ancona, Italy), shed new light on previously unexpected archaeological aspects of the area. During the previous twenty years, only material which can be dated between the 3rd and 2nd century BC and the 4th century AD had been found on the site. Surprisingly, the excavation in Via del Foro brought to light a paved road which can be dated to the Middle Roman Empire, most probably showing continuity of use until the 5th century AD. The vast majority of the findings span the 4th to 5th century AD, while a smaller percentage belongs to the end of the 6th–7th centuries AD. These materials consist of plain and fine wares, decorated with incised wavy motifs, a type of cooking pot with rim deflected on the interior, completely different from the numerous other cooking pots unearthed in the area, a spatheion 3, an amphora Keay LXI and, maybe, a few glass findings. The materials dated to the 4th–5th century AD are mainly coarse and cooking wares, ARS, other red slip wares produced in the Adriatic region, glass objects, lamps and amphorae. This ongoing study highlights two aspects: 1) The discovery of materials ranging from the end of the 6th to the 7th century AD (discovered for the first time in Suasa), and most probably to be associated with the phase of the abandonment of the area, rather than suggesting the continuity of use of the site even during the Early Middle Ages; 2) Despite the probable use of the road even during medieval and modern times, the dispersion of pottery or coins is not clearly documented after the 7th century AD. Keywords: Suasa; Pottery; Late Antiquity; Early Middle Ages.

Introduzione

dell’area. Si tratta in particolare dei diversi focolari accesi nell’area del quartiere abitativo e di numerose fornaci da calce individuate nell’area del Foro2. Quanto infine alle sepolture, ne sono state rinvenute diverse sia nella necropoli meridionale sia nella zona un tempo occupata dal giardino della domus3: se la loro assegnazione a un’epoca altomedievale deriva principalmente da dati stratigrafici, l’unico elemento di corredo, costituito da un’olletta in ceramica comune da cucina proveniente proprio da un sepoltura nella seconda area, trova confronti in contesti di V–VI secolo e anche posteriori.4

Nel sito di Suasa (AN), oggetto di scavi sistematici da parte dell’Università di Bologna dal 1988, sono emersi nel corso degli anni edifici di natura pubblica e privata databili fra il III–II secolo a.C. e la media età imperiale.1 Successivamente è documentata una certa vivacità edilizia ancora nel corso del III secolo, come testimoniano per esempio diversi interventi riferibili a quest’epoca nella domus dei Coiedii, mentre per il IV secolo nella stessa abitazione sono state riscontrate semplici opere di manutenzione, al quale non è possibile assegnare alcuna struttura muraria. Esistono tuttavia segni di frequentazioni tardoantiche e altomedievali nella città. Essi sono costituiti in minima parte da manufatti (vasellame e monete), cui si affiancano altre evidenze che difficilmente possono essere datate in maniera assoluta ma che, per la loro natura, sono da collocare in una lunga fase di progressivo abbandono

I materiali emersi nel corso di più di vent’anni di scavo nel sito, alcuni dei quali sono stati oggetto di uno studio a cura di Luisa Mazzeo Saracino,5 sono databili in massima Per il più recente bilancio sui dati relativi al periodo tardoantico si veda Destro 2010. 3 Potrebbero essere riferite a questa fase anche alcune sepolture della necropoli orientale in corso di studio e di datazione ancora incerta. 4 Morsiani 2010, pp. 360–362, fig. 4, n. 9. 5 Mazzeo Saracino 2014. 2

1 Per una sintesi relativa alle indagini più recenti nel sito di Suasa si vedano Giorgi, Lepore 2010 (pp. 53–425) e De Maria, Giorgi 2013.

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Anna Gamberini, Sara Morsiani sono stati trovati in un abitato nei pressi di Castelnuovo di Garfagnana8 e Poggio Gramignano;9 in entrambi i casi la cronologia si colloca fra IV e V secolo. La versione più piccola trova anch’essa confronti puntuali con esemplari di Poggio Gramignano,10 ma anche di Luni,11 Volcascio,12 Scoppieto13 e Pianello Val Tidone.14 In tutti i casi, la datazione, fornita su base stratigrafica, si colloca tra la metà del IV e la metà del V secolo.

parte entro la tarda età imperiale, essendo quelli successivi quantitativamente poco rilevanti. Il recente scavo della Via del Foro6 ha invece offerto un quadro differente per quanto riguarda la cronologia dei manufatti. Questo percorso stradale, realizzato sopra a strati databili a partire dal II secolo a.C., venne regolarizzato in una via glareata in età augustea. Il basolato messo in luce dagli scavi si data invece al pieno II secolo d.C. e restò sicuramente in uso fino al V secolo, epoca nella quale si iniziò a utilizzare una nuova strada, anch’essa sovrapposta alle precedenti, impiegata fino al pieno VI secolo.

Le casseruole della seconda variante, analoghe nel complesso alle precedenti e anch’esse già note in città,15 si distinguono per via dell’orlo rientrante con profilo più spigoloso, a formare una sezione quasi rettangolare (Tav. 1, n. 2). Trovano confronti puntuali a Luni, dove sono state rinvenute in associazione a monete del terzo venticinquennio del IV secolo,16 e nell’Alta Valle del Serchio, in un sito la cui cronologia è a cavallo tra IV e V secolo.17 La medesima cronologia è offerta dai puntuali confronti con il materiale di Poggio Gramignano.18

I materiali rinvenuti in questo scavo sono dunque compresi entro un’ampia forchetta cronologica, ma la maggior parte di essi si data al IV–V secolo: per questo motivo, e poiché le fasi più recenti sono poco rappresentate negli altri contesti suasani, ci è parso opportuno presentare i primi risultati di questo studio, al fine di aggiungere elementi utili a delineare le ultime fasi di vita della città.

La terza variante mostra orlo tendenzialmente poco rientrante, ingrossato a sezione quasi quadrangolare (Tav. 1, n. 3); in alcuni casi è presente una solcatura interna che separa l’orlo dalla vasca. Analogie si riscontrano con esemplari rinvenuti a Poggio Gramignano datati tra IV e V secolo,19 sulla base dei confronti con Luni, dove sono stati trovati in associazione a monete di tale epoca.20 Esemplari simili, ma in ceramica comune, sono stati rinvenuti in una discarica a Lucca, la cui formazione è stata datata al 370–380 d.C. per la presenza di monete di Valente e Valentiniano I.21

Relativamente al vasellame la classe più rappresentata è costituita dalle ceramiche comuni prive di rivestimento, e in particolare da quelle caratterizzate da impasto grezzo. A esse si affiancano anfore, ceramiche fini di importazione (Terra Sigillata Africana) e di produzione italica (Terra Sigillata Medioadriatica e altre Sigillate), lucerne, vetri. A.G, S.M. Ceramiche da cucina Tra le ceramiche da cucina, si è scelto di prendere in considerazione essenzialmente due forme, ritenute maggiormente indicative delle fasi tarde: le casseruole con orlo rientrante e le olle caratterizzate dalla presenza di una decorazione incisa.

Il quarto tipocomprende tegami con orlo decisamente rientrante e ingrossato, a profilo arrotondato (Tav. 1, n.4). È attestato, oltre che nei siti già citati22 e tra i materiali della domus dei Coiedii di Suasa,23 anche in vari scavi condotti a Roma24 e mostra invece cronologie più ampie, che vanno dal IV–V fino al VII secolo.

Le casseruole mostrano una notevole variabilità nelle dimensioni, con diametri che vanno da cm 16 a 40 circa; tutti invece si caratterizzano per la vasca troncoconica o appena emisferica, poco profonda (cm 5–6 al massimo), e per il fondo piatto. È stato possibile distinguere cinque varianti, sulla base della morfologia e dell’andamento, più o meno rientrante, dell’orlo. Tale variabilità morfologica non sembra sempre rispecchiare differenze dal punto di vista cronologico, in quanto le prime tre varianti trovano confronti in contesti databili omogeneamente tra il IV e il V secolo.

Ciampoltrini et al. 2010, fig. 4.2, pp. 319–320 e fig. 9.14–16, p. 321. Piraino 1999, fig. 204, n. 44, p. 291. 10 Piraino 1999, fig. 199, n. 17, p. 290. 11 Frova 1977, tav. 269.17, pp. 437 e 521. 12 Ciampoltrini et al. 2010, fig. 9.21, p. 321. 13 Bergamini et al. 2010, fig. 2.13, p. 398. 14 Grossetti, Bolzoni, Miari 2010, fig. 7.3, p. 587. 15 Assenti 2014, fig. 27, n. 9, pp. 506–509. 16 Frova 1977, tav. 269.20, pp. 431, 521. 17 Ciampoltrini et al. 2010, fig. 9.13, p. 321. 18 Piraino 1999, fig. 201, n. 25, p. 291. 19 Piraino 1999, fig. 200, n. 23, p. 291; fig. 201, n. 29, p. 291; fig. 203, nn. 35–36, p. 291. 20 Frova 1973, tav. 152.83, pp. 583–584. 21 Ciampoltrini et al. 2010, fig. 3.4, pp. 319–320. 22 A Poggio Gramignano: Piraino 1999, fig. 198, n. 14, p. 290; fig. 199, n. 16, p. 290; fig. 200, n. 20, p. 290; fig. 205, n. 48, p. 291. A Luni: Frova 1977, tav. 269.21, pp. 431 e 521. A Ferento: Patilli 2007, fig. 10.16, pp. 400–401. Nell’Alta Valle del Serchio: Ciampoltrini et al. 2010, fig. 9.19, p. 321. 23 Assenti 2014, fig. 27.4, pp. 506–509. 24 Esemplari simili sono attestati sul Celio, in un immondezzaio di V secolo nella Basilica Hilariana (Bertoldi, Pacetti 2010, fig. 6, n. 51, p. 435), sul Palatino, sia da un immondezzaio nel santuario della Magna Mater della seconda metà del V secolo (Panella, Saguì, Coletti 2010, fig. 22, pp. 64–67), sia da una serie di depositi di una domus tardoromana, 8 9

La prima variante, già nota a Suasa7, comprende casseruole con breve orlo più o meno rientrante, tendenzialmente assottigliato, che può avere un leggero ingrossamento interno; la parete è obliqua rettilinea o poco convessa. È attestata in due formati: uno più grande, con diametri tra cm 30 e 35 circa, e una più ridotta (diametri cm 15–20 circa) (Tav. 1, n. 1). Esemplari analoghi al formato maggiore 6 7

Per una sintesi dello scavo si veda Giorgi 2012a. Assenti 2014, fig. 27, nn. 5–8, pp. 506–509.

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Suasa in età tardoantica: nuovi dati dalla via del Foro Una variante leggermente posteriore sembra infine rappresentata da quelle casseruole ove l’orlo è talmente rientrante da risultare quasi piegato e spesso ribattuto superiormente (Tav. 1, nn. 5–6), che compaiono, per esempio a Classe, in contesti collocabili tra il secondo quarto e la metà del V secolo,25 e a Faenza, dove sono datati alla metà del V secolo26.

Torto (Osimo), datate alla metà del VI secolo,35 della villa di Agnuli (Foggia), la cui fase finale è riferibile alla fine del V–VI secolo,36 a Grumentum, in contesti di VII–VIII secolo,37 ma anche con materiale sloveno collocato tra la fine del V e gli inizi del VII secolo,38 e con esemplari di Durazzo (Albania), datati a partire dal VI secolo.39 A Suasa è poi documentata una variante delle suddette olle con corpo più ovoide e medesima decorazione a pettine sull’orlo interno e sulla spalla (Tav. 2, n. 11). Un confronto preciso sia dal punto di vista morfologico sia decorativo è stato riscontrato con olle trovate a Classe in un contesto databile dalla metà del VI fino all’VIII secolo,40 ma anche con esemplari di Tergeste datati al medesimo periodo41. Olle analoghe per forma sono state trovate anche in numerosi siti toscani, come Luni, Pisa e Fiesole, nei livelli di IV–V secolo.42 Olle ovoidi analoghe con la spalla decorata a pettine, anche senza motivo a onde, sono note infine a Belmonte (Torino), dove vengono confrontate con esemplari che vanno dal IV al VII secolo,43 a Torcello (Venezia), dove sono caratterizzate da una continuità cronologica dal III/IV all’VIII secolo,44 e nella Piana di San Martino (Piacenza), in un contesto definito genericamente altomedievale.45

Sono poi presenti alcune forme, prive di rivestimento, che ricordano esemplari in Terra Sigillata Africana; in particolar modo ci sono imitazioni della forma Hayes 61, nelle due varianti A e B (Tav. 1, n.7), inquadrabili cronologicamente tra il secondo quarto del IV e la metà del VI secolo, che trovano analogie con materiali di V secolo di Classe27 e di Rimini.28 Imitazioni analoghe, ma in ceramica depurata, sono inoltre attestate in Toscana e Puglia e datate nel V–VI secolo.29 Vi è anche tra il materiale suasano un esemplare, sempre privo di rivestimento, con le pareti di spessore ridotto e l’orlo poco rientrante, ingrossato ad anello, che ricorda la forma Hayes 105B30 (Tav. 1, n.8), datato tra fine VI e VII secolo. Il frammento rinvenuto a Suasa trova, inoltre, un confronto puntuale anche con alcuni esemplari rinvenuti in un deposito di inizi IV metà V secolo sulle pendici del Palatino.31 Tra le casseruole più tarde va segnalato, infine, un esemplare con breve orlo rientrante (Tav. 1, n. 9), sul quale è visibile un motivo a onda inciso; la vasca è piuttosto profonda, caratterizzata da pareti oblique rettilinee con zigrinatura esterna. Analogie sono state riscontrate con contenitori rinvenuti a Classe e Cittanova (Venezia), definito “bacile” entrambi rinvenuti in contesti di VII–VIII secolo.32

A una fase successiva, almeno dalla seconda metà del VI secolo, sembrano potersi datare due olle globulari, entrambe caratterizzate dalla presenza sulla spalla di un motivo a onde, inciso piuttosto profondamente mediante uno strumento a punta. In un caso le onde sono alte e appuntite e l’orlo è molto svasato, esternamente bifido (Tav. 2, n.12); nella seconda olla, di dimensioni maggiori, l’orlo è svasato e ribattuto all’esterno, mentre le onde, su due registri, sono basse e molto ravvicinate fra loro (Tav. 2, n.13). Per forma e motivo decorativo la prima delle due olle trova confronti precisi nell’area alpina, in contesti datati grazie al C14 alla metà del VI secolo;46 nel Veneto, con recipienti di VII–VIII secolo,47 e in Slovenia, nell’ultima fase di vita del sito di Tonovcovgrad, databile tra VIII e IX secolo.48 Il motivo inciso “a denti di lupo” compare a San Pietro in Holz già durante il V secolo e nel castello di Udine al più tardi nel VII;49 la medesima decorazione è attestata anche nel Piacentino, su olle ovoidi definite genericamente “altomedievali”.50

Per quanto riguarda le olle, dallo scavo della Via del Foro provengono innanzitutto alcune varianti riferibili al “tipo Classe”,33 con decorazione a pettine a fasce di linee orizzontali e ondulate sia sulla pancia globulare sia sull’orlo a tesa rialzata, che generalmente ha profilo squadrato, quasi ribattuto superiormente, ma può anche avere l’estremità ingrossata a sezione triangolare oppure assottigliata (Tav. 2, n.10). Si tratta di una tipologia tradizionalmente datata tra la metà del VI e l’VIII secolo. Gli esemplari suasani trovano un preciso confronto per forma e decorazione con un’olla trovata durante lo scavo delle mura tardoantiche di Tergeste, in un contesto datato alla metà del V secolo sulla base dell’associazione con anfore africane e orientali e con analisi al radiocarbonio.34 Analogie sono state riscontrate anche con olle di Monte

Pignocchi 2001b, tav. XLVI, nn. 328–329, p. 132. Volpe et al. 1998, fig. 7.6, p. 728. 37 Cirelli et al. 2013. 38 Modrijan 2010, fig. 4.1, p. 688. 39 Montana, Guiducci 2010, fig. 2.12, p. 712. 40 Cavalazzi, Fabbri 2010, fig. 4.8, p. 624; 2014, fig. 6, n. 1, p. 315. 41 Degrassi, Gaddi, Mandruzzato 2007, fig. 2.12 e 15, p. 505. 42 Menchelli 2005, tipo 1.1.1.3, pp. 109–110; Genovesi 2010, fig. 5.6, pp. 339–340. 43 Pantò 1996, fig. 6, nn. 1–5, pp. 101–105. 44 Spagnol 2007, tav. I.1, p. 111. 45 Grossetti, Bolzoni, Miari 2010, fig. 6.11, p. 586. 46 Cagnana et al. 2010, fig. 8 al centro, p. 555. 47 Spagnol 1996, tav. II, n. 22, p. 68. 48 Modrijan 2010, fig. 6.1, p. 688. 49 Cagnana et al. 2010, p. 550. 50 Grossetti, Bolzoni, Miari 2010, fig. 6.12, p. 586. 35 36

datati tra 400 e 550 d.C. (Ikäheimo 2010, fig. 4.5, p. 410), oltre che da un contesto di VII secolo nella Crypta Balbi (Ricci 1998, fig. 1.9, p. 355). 25 Cavalazzi, Fabbri 2010, fig. 1.1–2, p. 624. 26 Guarnieri, Montevecchi, Negrelli 2007, fig. 7.23, p. 526. 27 Cavalazzi, Fabbri 2010, fig. 1.4, p. 624. 28 Negrelli 2008a, fig. 61.128, p. 76. 29 Vaccaro 2014, fig. 8, n. 3, p. 16; Volpe et al. 2010, fig. 6.4, pp. 646– 647. 30 Bonifay 2004, fig. 98, p. 185. 31 Ikäheimo 2010, fig. 4.8, p. 410. 32 Spagnol 1996, tav. I, n. 6, p. 64; Cirelli 2015c. 33 Gelichi 1998, fig. 1, nn. 1–2, pp. 482–483. 34 Degrassi et al. 2010, fig. 5.24, p. 580.

331

Anna Gamberini, Sara Morsiani comprendono naturalmente anche il vaso a listello (Tav. 3, n. 23), forma diffusa a partire dal V secolo e perdurante fino all’VIII, in ceramica sia acroma sia invetriata.59 Nonostante l’esemplare qui presentato non conservi tracce di vetrina, esso è morfologicamente affine a diversi vasi invetriati da vari siti del nord-est dell’Italia e da Classe.60

Il motivo a basse onde, invece, è noto a Monte Torto di Osimo, su ceramica comune di metà IV–prima metà del VI secolo,51 e in area alpina, su forme aperte trovate in contesti datati tra la fine del VI e tutto il VII secolo.52 S.M.

Lo scavo ha restituito inoltre alcuni esemplari in ceramica dipinta riconducibile a un orizzonte di pieno VI–VII secolo (Tav. 3, n. 25),61 nonché ceramica a impasto depurato con decorazione geometrica a rilievo (Tav. 3, n. 26).

Altro vasellame Come le ceramiche da cucina, anche quelle con impasto depurato sono numericamente rilevanti: considerate assieme, queste due classi sono certamente preponderanti sulle altre. Esse comprendono forme aperte e chiuse. Fra queste ultime sono particolarmente interessanti un orlo con attacco di ansa e un frammento di spalla (Tav. 3, nn. 14, 24), entrambi caratterizzati da una decorazione impressa e da un impasto beige, nel primo caso rosato e nel secondo verdastro, essendo malcotto. L’orlo è avvicinabile per forma e dimensioni a una bottiglia rinvenuta a Fiesole, in un corredo tombale, mentre la parete è solo genericamente riferibile a questa produzione fiesolana di VI–VII secolo,53 la cui decorazione prevede però sempre, diversamente da quanto avviene nell’esemplare suasano, l’alternanza di un fascio di linee orizzontali e uno di linee ondulate. Un impasto depurato chiaro o schiarito e decorazioni simili caratterizzano anche un tipo specifico e cronologicamente circoscritto (fine VII–IX secolo) ben attestato in area laziale e romana (ma documentato anche a Rimini), dove però la decorazione è meno fitta e interessa generalmente la parte alta della parete di contenitori biansati.54

Quanto alle Sigillate Africane le forme più tarde documentate si datano al V–primi decenni del VI secolo. Si tratta del vaso a listello Hayes 91A, databile nella prima metà del V secolo (Tav. 4, n. 27), del piatto Hayes 61B, preponderante e databile lungo tutto l’arco del V secolo e nel VI secolo (Tav. 4, n. 30) e infine della coppa Hayes 85B (Tav. 4, n. 28) e della scodella Hayes 87 (Tav. 4, n. 29), databili entrambe fra la seconda metà del V secolo e il primo quarto del secolo successivo.62 Relativamente alle Sigillate di produzione italica si segnala la presenza di diverse forme in “Terra Sigillata Medioadriatica”, databili tutte tra il III e la prima metà del V secolo. Esse comprendono la scodella Br Tab 10/17 (Tav. 4, n. 31), il piatto 19/22 (Tav. 4, n. 32) e i piatti/vassoio Br Tab 12 (Tav. 4, n. 33) e 23 (Tav. 4, n. 34).63 A essi si affianca un’interessante forma chiusa con decorazione graffita (Tav. 4, n. 35) riferibile a una produzione di V– VI secolo anch’essa adriatica, come testimonierebbe un esemplare riminese che alla decorazione graffita associa la suddipintura. Essa trova confronti con esemplari rinvenuti in Italia meridionale, a Rimini, Senigallia e Ancona.64

Relativamente alle olle, molto frequentemente esse comprendono esemplari con forma (Tav. 3, n. 15)55 e/o decorazione (Tav. 3, nn. 16–17) che si riscontrano sulle ceramiche con impasto grezzo. Il rimando morfologico a forme generalmente attestate in altre classi ceramiche è riscontrabile anche per alcune forme aperte avvicinabili alle casseruole con orlo rientrante (Tav. 3, nn.18–19)56 o per una coppa simile a casseruole in ceramica da cucina africana (Tav. 3, n.20).57 Frequente è anche la decorazione a tacche incise, attestata su un coperchio infossato (Tav. 3, n.21) e su un catino (Tav. 3, n.22).58 Le ceramiche depurate

Tra i materiali in vetro si segnalano orli avvicinabili alla bottiglia AR 146.1 (Tav. 4, n. 36: tardo IIIinizi V),65 la bottiglia con ventre globulare Is 104 (Tav. 4, n. 37: seconda metà III–V secolo) presente anche nel repertorio altomedievale (forma Stiaffini B.1, di V–VI secolo),66 un fondo riferibile alla “toilet bottle” Is 105 (Tav. 4, n. 38: IV secolo) o alla lucerna Is 106d (V–VI secolo), il bicchiere Is 109/AR 70 (Tav. 4, n. 39: tardo III–IV secolo), il calice Is 111 (Tav. 4, n. 40) di V secolo, presente anche nel repertorio altomedievale e dunque databile fino al VII

Pignocchi 2001a, fig. 59, tav. XXXVII, n. 280, p. 124. Cagnana et al. 2010, fig. 13 al centro, p. 557. 53 La bottiglia fiesolana è tuttavia priva di anse. Cfr. Francovich 1984, pp. 618–619, dis. 2, Tav. II; Ciampoltrini 1998, pp. 297–298, Fig. 5,3. 54 Roma: Romei 2004, pp. 291–294; Rimini: Negrelli 2007a, p. 319, n. 140, figg. 12 e 16. 55 Esemplari morfologicamente simili in ceramica da cucina sono ampiamente attestati fra il V secolo inoltrato e il VII secolo. Si veda per esempio il gruppo 1234, da Rimini: Negrelli 2008a, pp. 70–71, fig. 59, n. 88 (con ampia bibliografia). 56 Tav. 3, n. 18 è morfologicamente simile a casseruole in ceramica da cucina attestati in diversi siti e definiti a Rimini “con labbro ripiegato all’interno e raccordato alla parete troncoconica con giunto angolare (gruppo 3132)”, generalmente datati a partire dal V secolo (Negrelli 2008a, pp. 75–76, fig. 61 nn. 126, 129, 130). 57 Morfologicamente avvicinabile alla pentola in ceramica da cucina africana tipo Sidi Jdidi 8, riferita alla seconda metà del V secolo d.C., e in particolare alla variante B (Bonifay 2004, fig. 127, nr. 4). 58 Sia la forma sia la decorazione rimandano al VI–VII secolo, come attesta per esempio un esemplare da Cignana (Agrigento), da un contesto 51 52

datato fra il VI e la prima metà secolo successivo (Rizzo, Zambito 2010, p. 295, Fig. 2, n. 4). 59 Sul vaso a listello, forse nato come sviluppo del mortarium e attestato in diverse varianti legate all’andamento dell’orlo e del listello, si veda Olcese 1993, pp. 308–319. 60 Torcello: Grandi 2007; San Candido, Sabiona: Magrini, Sbarra 2007, Tav. 1, 1–2); Classe: Augenti et al. 2007, fig. 22,3. 61 Si veda per es. Tav. 3, n. 25, la cui decorazione è forse riconducibile al motivo “M” (motivo a dente di lupo in due bande orizzontali) della ceramica dipinta a bande “tipo Crecchio” (Staffa 1998b, pp. 452–457, fig. 10; 2015). 62 Si tratta di tipi già attestati a Suasa, negli strati di interro della domus dei Coiedii (Biondani 2014a). 63 Biondani 2014b. 64 Negrelli 2007a, p. 306, fig. 8. 65 Rütti 1991, p. 123, Taf.104, 2430. 66 Stiaffini 1985, pp. 670–671, Tav. 1, 15 e Tav. 2, 16–17.

332

Suasa in età tardoantica: nuovi dati dalla via del Foro secolo.67

e moderna abbia continuato a essere percorsa, come suggerisce la presenza lungo la via di un edificio di epoca rinascimentale e la stessa viabilità moderna, che solo le esigenze di questo scavo hanno deviato dal percorso originario, fino al 2011 sovrapposto a quello antico.

Le lucerne, poco rappresentate,68 si datano tra i secoli IV e VI. Esse comprendono almeno tre esemplari di lucerne a canale Buchi Xc e diverse lucerne africane o di imitazione di tipo Atlante VIIIB e Atlante X.

A.G., S.M.

Relativamente alle anfore africane, nettamente preponderanti, si segnalano i tipi databili fra il II e gli inizi del VII secolo, con una netta maggioranza dei contenitori di IV–V secolo. Si tratta in particolare della Dressel 30 (II–IV secolo: Tav. 5, n. 41), dell’Africana IIC 2 (fine III– prima metà IV secolo: Tav. 5, n. 42), dell’Africana III A, III B (IV secolo: Tav. 5, nn. 43–44) e III C (che forse è però interpretabile come spatheion, dunque databile fra fine IV e VI secolo: Tav. 5, n. 45) e degli spatheia, databili al V–VI (Tav. 5, n. 46) e al VI–VII secolo (Tav. 5, n. 47). A esse si aggiunge poi un esemplare riferibile al tipo Keay LXI C finora mai identificato nel sito, prodotto fra fine VI e VII secolo (Tav. 5, n. 48). Quanto alle produzioni italiche è significativa la presenza di una probabile variante tarda dell’anfora tipo Spello (in base al confronto con un esemplare da Forum Novum, probabilmente residuale in un contesto di metà VI–VII secolo: Tav. 5, n. 49)69 e di un’anfora Ag. M 254 (seconda metà II–IV secolo: Tav. 5, n. 50). La loro presenza testimonia un interessante contatto con l’area dell’appennino Umbro e la Sicilia. A.G. Concludendo, si può notare come, a fronte di un nucleo piuttosto cospicuo di materiali ascrivibili al IV–V secolo (periodo al quale si data anche la maggior parte delle monete rinvenute nell’area)70 e riferibili quindi a una fase ancora insediativa di Suasa, sia stato possibile individuare alcuni manufatti databili a partire dalla fine del VI– inizi del VII secolo. Si tratta di contenitori decorati con motivo a onda, in ceramica da cucina e in ceramica di uso domestico priva di rivestimento, di un tipo di casseruola in ceramica comune da cucina, di due anfore africane, oltre forse ad alcuni reperti in vetro, la cui datazione è però resa incerta dal precario stato di conservazione. Queste attestazioni tarde, tutte provenienti da fosse di spoliazione, testimoniano dunque una frequentazione altomedievale dell’area, almeno agli inizi del VII secolo; esse, numericamente piuttosto esigue e peraltro assenti in tutte le altre aree indagate finora, non sono tuttavia sufficienti a indiziare l’esistenza di un vero e proprio insediamento suasano in tale epoca. Per quanto riguarda le epoche successive, infine, stupisce il fatto che pochissimi reperti vi si possano riferire, nonostante sia verosimile che la strada in età medievale 67 68 69 70

Calice Stiaffini A5 (Stiaffini 1985, pp. 676–677, Tav. 1, 8). Biondani, infra. Patterson et al. 2005, p. 383, fig. 11, 11. Sassoli, infra.

333

Anna Gamberini, Sara Morsiani

Tav. 1. Ceramiche da cucina: casseruole.

334

Suasa in età tardoantica: nuovi dati dalla via del Foro

Tav. 2. Ceramiche da cucina: olle.

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Anna Gamberini, Sara Morsiani

Tav. 3. Ceramiche depurate.

336

Suasa in età tardoantica: nuovi dati dalla via del Foro

Tav. 4. Terra Sigillata Africana (nn. 27–30); Terra Sigillata Medioadriatica (nn. 31–34); Ceramica a rivestimento rosso (n. 35); Vetri (nn. 36–40). ARS (nos. 27–30); Other Adriatic Sigillata (nos. 31–34); Red Glass Ware (no. 35); Glasses (nos. 36–40).

337

Anna Gamberini, Sara Morsiani

Tav. 5. Anfore. Amphoras.

338

4.11 Produzione e circolazione delle lucerne in area marchigiana fra Tardoantico e alto Medioevo: nuovi dati dagli scavi di Suasa Federico Biondani Ricercatore indipendente f.biondani@tiscali,it Abstract: Many late Roman clay lamps (4th century–late 5th century/early 6th century) were found in the excavations that have been undertaken since 1988 in the town of Suasa (Ancona) by the Department of Archaeology of Bologna University (especially in the domus of Coiedii and along the street between this domus and ancient Forum). Among these, we can distinguish: a) Firmalampen: in this group, we find many items from the workshops of Northern Italian potters and from workshops probably situated in Central Italy, which can be dated to the Early/Middle Empire; there are also many less refined examples, generally without any decoration, which were manufactured in the 4th or even in the 5th century, and archaeometric analyses suggest a regional production; b) a few late Warzenlampen (late 3rd to early 5th century); c) African lamps: Atlante VIII and especially Atlante X (5th century); d) imitations of African lamps: Atlante VIII, group Bailey Sii and especially Atlante X (5th century); e) a few lamps from the Eastern Mediterranean (5th and perhaps 6th century). The evidence of the Marche Region shows a large number of Firmalampen still in the 4th and probably in the 5th century. Many African lamps were imported in the 5th century; there are also many imitations of them. The evidence becomes very poor starting from the early 6th century: some catacomb lamps from the area of Ascoli and single examples of ‘Sicilian lamps’ and ‘Syro-Palestinian lamps’. Keywords: Marche; Suasa; Late Roman Lamps.

Le testimonianze di Suasa

dalla media età repubblicana2 e quelli della “via del Foro” che hanno restituito una ventina di esemplari.3

Un utile contributo per la ricostruzione della produzione e circolazione delle lucerne in epoca tardoantica e altomedievale nel territorio marchigiano è dato dai ritrovamenti compiuti a Suasa, città della media valle del Cesano, oggetto di una serie di campagne di scavo condotte dal Dipartimento di Archeologia dell’Università di Bologna a partire dal 1988 in varie aree del centro antico: la domus dei Coiedii, il Foro, la “via del Foro”, la Casa del primo stile, il cosiddetto edificio di Oceano a sud della domus, il Teatro e alcune zone funerarie.1 In particolare per il periodo tardoantico e altomedievale risultano interessanti i contesti della domus dei Coiedii che hanno restituito 690 esemplari di lucerne fittili databili

Lucerne a canale All’interno di questo gruppo, che a Suasa è quello di gran lunga prevalente, sono compresi esemplari piuttosto diversificati per fattura e caratteristiche tecniche. Senza entrare nei dettagli si possono distinguere: 1. Esemplari di buona o discreta qualità, la cui provenienza dalle fabbrichemadre di area padana è stata confermata dalle indagini archeometriche.4 La loro datazione fra le prima e la media età imperiale trova conferma nelle stratigrafie della domus dei Coiedii, nella quale, accanto Sulle lucerne qualche dato preliminare in: Mazzeo Saracino 1991, pp. 68–70 (contributo di L. Dall’Oglio); Biondani 2003; Biondani 2010, pp. 115–116; Biondani, Nannetti, Sabetta 2003 (ivi risultati delle analisi archeometriche). Da ultimo si veda Biondani 2014c pp. 345–384. 3 Sui materiali tardoantichi di questo scavo si veda il contributo di Gamberini e Morsiani, infra; sui reperti monetali si veda Sassoli, infra. Le lucerne sono inedite. 4 Biondani, Nannetti, Sabetta 2003, p. 30. 2

1 Per un quadro di sintesi sugli scavi di Suasa: Giorgi, Lepore 2010; per lo scavo della via del Foro cfr. Giorgi 2012a.

339

Federico Biondani 3. Esemplari di fattura piuttosto trascurata con argilla polverosa al tatto (da rossa a beige chiara), talvolta rivestiti con una “vernice” rossastra mal conservata. A questo gruppo, oltre a un esemplare Bailey tipo T (IV–V sec.), appartengono esemplari avvicinabili al tipo Loeschcke/ Buchi X-c, qualcuno dei quali conserva sul fondo dei marchi indecifrabili. Un unico esemplare presenta sul disco una decorazione (forse un quadrupede) (Fig. 1.2), che pare analoga a quella di una lucerna a canale rinvenuta a Monte Torto di Osimo in uno strato della fase IV di metà IV–metà VI secolo.11 Sicuramente la produzione di queste lucerne si data fino all’epoca tardoantica. In primo luogo va considerato che tutte provengono da strati tardoantichi/ altomedievali: se per gli esemplari della domus dei Coiedii questo può essere poco significativo, considerato l’alto grado di residualità dei contesti ‘tardi’ dello scavo, più probante è la loro presenza in strati di V–VI sec. della via del Foro, nei quali scarsissima è la presenza di materiale residuale. Una conferma viene poi dai vari contesti marchigiani in cui compaiono lucerne analoghe (cfr. infra). Riguardo ai luoghi di produzione è interessante notare che le analisi archeometriche, mentre hanno evidenziato forti differenze rispetto ai campioni dei due gruppi precedenti, viceversa hanno messo in rilievo affinità, sia mineralogiche sia chimiche, con campioni suasani di ceramica comune e di sigillata medioadriatica, un dato che rende plausibile per questo gruppo una produzione locale o regionale.

a materiali residuali, sono testimoniati anche esemplari da contesti di inizi II e di III secolo.5 2. Esemplari di fattura più o meno accurata, simili per caratteristiche tecniche a quelli del gruppo precedente, caratterizzati, in linea generale, da un disco di forma tendenzialmente circolare e da un alto anello di spalla, delimitato da una scanalatura. Sul fondo possono comparire dei bolli, impressi spesso piuttosto malamente. Quelli leggibili, diffusi quasi esclusivamente in Italia centrale (specialmente nelle Marche e in Umbria),6 sono i seguenti: Asprenas; Calocaeri; Clemens; Felicesimus; Fortuni (Fig. 1.1); Iustinus; Iustini; Luvinustini; Luvinustinus; Venustini; Vivas (impresso quest’ultimo su esemplare avvicinabile al tipo Buchi Xb). Le lucerne di questo gruppo, tutte dall’area della domus o dalle sue vicinanze, a differenza di quelle del gruppo precedente trovate anche in strati medio-imperiali, provengono soltanto da livelli di IV–VI sec. (periodo VIII) o anche successivi; questo potrebbe suggerire una datazione posteriore, ma va tenuto presente l’alto grado di residualità di questi strati. Infatti le poche determinazioni cronologiche ricavabili dagli altri contesti italici in cui compaiono questi marchi, in particolare quelle della necropoli di Gubbio, località Vittorina,7 rimandano in maniera quasi esclusiva al II sec. Qualche dubbio potrebbe venire per le lucerne bollate Asprenas. Infatti un esemplare con questo marchio è stato trovato nello scavo di Monte Torto di Osimo in un livello assegnato alla fase IV (metà IV/prima metà VI sec.), durante la quale è anche attiva una fornace per lucerne a canale, come testimonia il ritrovamento di matrici fra cui una con il bollo Ferani.8 Tuttavia gli altri contesti databili in cui compare questo bollo rimandano alla media età imperiale: oltre alla già ricordata necropoli di Gubbio, località Vittorina, dove il bollo è documentato in tombe di II sec.,9 vanno segnalate le necropoli urbinati di Bivio dei Missionari (un esemplare associato a una moneta di Adriano e uno sporadico) e di S. Donato (esemplare sporadico), il cui utilizzo non supera il III secolo.10 In base a questi dati, più che a una continuità produttiva, sembra preferibile pensare che l’esemplare di Monte Torto sia residuale o comunque che la sua vita si sia prolungata molto a lungo dopo la fabbricazione. Riguardo ai luoghi di produzione si segnala che l’esame archeometrico su campioni di Suasa ha evidenziato, pur con qualche differenza, forti affinità con i campioni del gruppo precedente (affinità che del resto si notano anche sulla base dell’esame ottico). I dati distributivi fanno però pensare all’Italia centrale, in particolare al territorio compreso fra Marche, Umbria e Toscana nord-orientale.

Warzenlampen tarde A Warzenlampen tarde (dette anche Kugelformige Lampen o globular lamps), prodotte in officine italiche dal tardo III sec. d.C. fino agli inizi del V sec., se non fino ai decenni centrali dello stesso sec.,12 appartengono due esemplari rinvenuti nell’area della domus dei Coiedii. Lucerne africane A Suasa le lucerne di produzione africana sono attestate da una ventina di esemplari, provenienti tutti da strati tardoantichi-altomedievali, fra i quali si distinguono una lucerna Atlante VIIIB databile alla prima metà del V sec. (dalla via del Foro) e dieci lucerne Atlante X (= Hayes II): sette dalla domus dei Coiedii e tre dalla via del Foro, fra le quali un esemplare che conserva sulla spalla la rara raffigurazione dei busti degli apostoli (Fig. 1.3).13 Le lucerne Atlante X, per caratteristiche tecniche e decorative, sono avvicinabili al tipo Hayes IIA prodotto nella Tunisia centrale tra gli inizi del V sec. e il 525 ca. e caratteristico dei contesti italici peninsulari di seconda metà V–inizi VI secolo.14

Sulla fasi della domus si veda Mazzeo Saracino 2014. Sulla diffusione di questi bolli cfr. Biondani 2003; per il marchio Asprenas si veda anche esemplare forse dall’Ascolano pubblicato in Cicala 2010, p. 194, n. 146. 7 Cipollone 2001. 8 Pignocchi 2001b, pp. 139–141. 9 Cipollone 2001, p. 70, n. 179; p. 104, n. 280; p. 118, n. 312, p. 160, n. 447. 10 Mercando 1982, p. 145, n. 2; p. 230, n. 10; p. 358, n. 12. Mancano elementi di datazione per le altre attestazioni. 5 6

Pignocchi 2001b, p. 142, figg. 72–73. Cfr. da ultimo Pavolini 1998, pp. 126–127, nota 19. 13 Per gli esemplari dalla domus si veda Biondani 2014c, pp 374–376; per quelli dalla via del Foro si intende ritornare in altra sede. 14 Garcea 1994, p. 310. 11

12

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Produzione e circolazione delle lucerne in area marchigiana fra Tardoantico e alto Medioevo Imitazioni di lucerne africane

di Delo, attribuita a una produzione dell’Asia Minore di VI o VII secolo.22

Le lucerne che imitano i tipi africani sono documentate a Suasa da una ventina di frammenti, tutti da strati tardoantichi-altomedievali. Il numero è sostanzialmente equivalente a quello degli esemplari di importazione, però è probabile che esso sia sottostimato, considerando che, mentre i frammenti di lucerne africane sono chiaramente distinguibili per colore e caratteristiche tecniche, quelli di imitazione, in assenza di elementi morfologici significativi, non sono così chiaramente identificabili.15 Alla forma Atlante VIII, esportata soprattutto fra metà IV e metà V sec.,16 sono ricollegabili una lucerna trovata dall’area della Casa di primo stile17 e due lucerne identiche dalla domus dei Coiedii. Al gruppo Bailey Sii (datato dallo studioso britannico nella prima metà del V sec. d.C. e attribuito all’area centroitalica) è avvicinabile una lucerna ovoide a canale aperto18 con ampio disco decorato da un candelabro a sette bracci (Fig. 1.4). Un esemplare simile sia per la forma sia per le caratteristiche dell’argilla (la menorah presenta però nove bracci e base diversa) datato tra fine IV e prima metà V sec. è testimoniato a Roma ed è attribuito a una produzione urbanoostiense che interpreta liberamente i modelli nordafricani importati.19 Alla forma Atlante X (importata in Italia presumibilmente dal secondo quarto del V sec. e subito imitata localmente) sono riconducibili cinque esemplari. Probabilmente un’imitazione è anche una lucerna “parlante” con iscrizione bidirezionale: da un lato della presa (da destra a sinistra) si legge +AOTA?[]; dall’altro lato (da sinistra a destra) si legge +LO[-] (Fig. 1.5).

Considerazioni conclusive Sicuramente nel IV e probabilmente ancora nel V sec. a Suasa, come in tutto il territorio marchigiano, le lucerne a canale, che già predominavano nel II–III secolo,23 continuano a essere largamente impiegate; tuttavia, mentre nel periodo precedente è riscontrabile una larga importazione di prodotti nord-italici,24 in questa fase sembrano esclusive produzioni di qualità scadente, quasi sempre prive di bollo, con grande probabilità di origine regionale. Lucerne di questo tipo, oltre che a Suasa, sono documentate fra l’altro a Castelfidardo, in uno strato di crollo con materiale di IV sec.,25 nelle fasi III e IV dell’insediamento rustico di Monte Torto di Osimo, datate rispettivamente a metà III/primi decenni IV sec. e a metà IV/prima metà VI sec.26 e nella fossa-ripostiglio di Giove di Muccia (Macerata) datata al V secolo.27 Dell’esistenza nel IV e forse ancora nel V sec. di officine regionali (dove probabilmente si produceva anche la ceramica comune), oltre agli indizi che vengono dai dati distributivi, una conferma si è avuta dalle indagini archeometriche compiute sui materiali suasani e soprattutto dalla scoperta della già ricordata fornace di Monte Torto di Osimo. Minima in area marchigiana pare essere la presenza di Warzenlampen tarde: oltre ai due frammenti trovati a Suasa, si segnalano una “lucerna a perline” databile al III–IV sec. trovata nella villa di Cingoli/località Piana dei Saraceni28 e una Warzenlampe datata al III sec. da Monsampolo del Tronto.29

Lucerne orientali A fabbriche dell’Asia minore sono attribuibili alcuni frammenti con argilla molto micacea trovati nella domus dei Coiedii: si segnala in particolare un esemplare con becco espanso e spalla decorata da globetti in rilievo (Fig.1.6), avvicinabile a lucerne microasiatiche (tipo Broneer XXIX, gruppo 4), datate al V o VI sec. d.C.20 Significativi, in particolare, sono i confronti con esemplari trovati a Efeso appartenenti ai tipi III e VI della classificazione Miltner, datati al IV–V secolo.21 Dalla domus provengono inoltre due lucerne in argilla beige chiara che mostrano una decorazione analoga; quella meglio conservata presenta una croce con due cerchietti puntati negli spazi di risulta sul disco e due file di perline separate da un anello in rilievo sulla spalla. Il fondo è decorato da trattini e punti in rilievo (fig. 1.7ab). Questo esemplare per la forma e per il motivo decorativo del disco è avvicinabile a una lucerna

Nel corso del V sec. nelle Marche si diffondono sia nelle aree urbane sia in quelle rurali, soprattutto lungo la fascia costiera, le lucerne di produzione africana: fra gli esemplari identificati pochissimi sono quelli di forma Atlante VIII30 e Atlante IX,31 mentre quasi esclusiva è la forma Atlante X, la quale, oltre a essere la lucerna più attestata a Suasa e nell’ager Firmanus,32 è l’unica testimoniata a Monte Torto di Osimo.33 La produzione e la commercializzazione della lucerna Atlante X prosegue nel VI–VII sec., ma gli Bruneau 1965, p. 142, n. 4720; pl. 34. Un tipo analogo, datato al VI secolo e oltre, è documentato anche nell’Agorà di Atene: Perlzweig 1961, p. 193, n. 2839. 23 Oltre alla documentazione di Suasa cfr. per esempio quella di Urbs Salvia (Delplace 1992, pp. 182–183) e quella dell’ascolano (Cicala 2010, p. 149). 24 Per i rinvenimenti di lucerne a canale bollate nel territorio marchigiano compreso nella Regio V cfr. Cicala 2010, pp. 138–142. 25 Mercando 1979, p. 163, fig. 73b, o; fig. 74. 26 Risultano assenti invece nella prima fase di frequentazione di fine I sec. a.C.–inizio II sec. d.C.: Pignocchi 2001b, pp. 143–144. 27 Si veda il contributo di N. Frapiccini, L. Casadei e M. Cruciani, infra. 28 Percossi Serenelli 1998, p. 77. 29 Conta 1982, pp. 225–226, n. 162; fig. 130. 30 Per Suasa cfr. supra; cfr. poi Luni 2003a, p. 380, fig. 21 (probabilmente dal territorio di Fano). 31 Percossi Serenelli, Frapiccini 2002, p. 263 (Matelica); Giuliodori 2002, p. 58, n. 16 (Urbs Salvia). 32 Pasquinucci, Menchelli, Scotucci 2000, p. 356. 33 Giuliodori 2001, p. 149. 22

15 Si segnala che argille simili a questi esemplari di imitazione presentano anche dei frammenti di incerta classificazione (alcuni con piccolo disco e ampia spalla bombata), che potrebbero aver avuto come modello lucerne africane ma anche lucerne a canale o Warzenlampen. 16 Atlante I, pp. 194–198; 207. 17 Mazzeo Saracino 2010, p. 200; p. 201, fig. 15,4. 18 Cfr Bailey 1988, p. 459: Q1434 bis e ter. 19 Arena et al. 2001, p. 190, I.4.58. 20 Brooner 1930, p. 115, pl. XX, 1423; Bailey 1988, pp. 371–372. 21 Das Cömeterium 1937, pp. 101–103; in particolare Taf. IV, 536, 441 e Taf. VI, 983–984, 986, 989, 1007.

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Federico Biondani orientale al momento paiono essere presenze isolate; queste lucerne, peraltro, sembrano piuttosto rare in tutta la fascia costiera medio e altoadriatica.43 Probabilmente la loro presenza va collegata alla rivitalizzazione dei commerci con l’Oriente riscontrabile nel V sec. inoltrato e nel VI secolo, testimoniata tra l’altro dall’arrivo di Sigillata Focese.

esemplari marchigiani paiono in generale riconducibili al V sec. (tipo Hayes IIA), un dato che trova conferma in ambito regionale nell’andamento delle importazioni della Sigillata Africana, le quali verso la fine del V sec. subiscono un drastico ridimensionamento. Numerose sono anche le imitazioni di queste lucerne, sia della forma Atlante VIII sia soprattutto della forma Atlante X.34 In area marchigiana indicatori di produzione relativi a queste lucerne non sono stati trovati, tuttavia una fabbricazione in area regionale è sicuramente ipotizzabile.35

Quasi nulla nella regione pare anche la presenza delle lucerne invetriate: un esemplare ad alto piedistallo (tipo documentato nella fornace di Carlino) è segnalato a Potentia in un contesto di V secolo.44 Invece i due esemplari su piede del Museo di Fano già attribuiti al VI sec., sono stati datati recentemente intorno al X secolo.45

Riguardo al rapporto quantitativo lucerne africane/lucerne di imitazione, mancano quasi sempre dati precisi; una leggera prevalenza delle seconde, nella parte interna e settentrionale della regione,36 sembrano suggerire da un lato le testimonianze di Sentinum,37 dall’altro quelle di Colombarone38 e di Forum Sempronii;39 inoltre può essere significativo che tra le lucerne del Museo di Fano, di provenienza probabilmente locale, gli esemplari di imitazione superino quelli di produzione africana.40 In generale, tuttavia, non sembra di notare una netta prevalenza delle lucerne di importazione o delle imitazioni: una sostanziale parità, oltre che a Suasa, si riscontra anche a Monte Torto di Osimo, l’unico sito per il quale si dispongono dati quantitativi precisi (undici esemplari africani e nove d’imitazione).41 Lo stesso può dirsi per la fascia adriatica più meridionale, come l’Abruzzo costiero (contesti di VI–VII sec.), dove il rapporto tra importazioni e imitazioni risulta vario, ma comunque le imitazioni sono ben attestate.42

La documentazione licnologica riconducibile al VI–VII sec., assente (o quasi) a Suasa, si fa molto scarsa anche nel resto della regione;46 il fenomeno, che nelle Marche va di pari passo con una complessiva diminuzione della documentazione archeologica, va ricollegato a una più generale diminuzione delle lucerne di forma chiusa rispetto ai rinvenimenti ceramici,47 dovuta a un cambiamento delle fonti di illuminazione con un impiego più diffuso di recipienti aperti e di lucerne in vetro.48 Alcune catacomb lamps (Bailey tipo U), prodotte fra V e VI sec. e diffuse a Roma e nell’Italia centro-meridionale, sono testimoniate nel territorio di Ascoli,49 il quale appare così accomunato alla contigua area abruzzese, dove queste lucerne sono abbastanza documentate.50 Fra le otto catacomb lamps conservate nella collezione civica del Museo di Ascoli,51 di sicura provenienza locale sono un esemplare dal Cimitero di Colli del Tronto52 e uno da Marino del Tronto, frazione di Ascoli Piceno;53 altri esemplari sono stati trovati nel territorio dei comuni di Montalto e Montedinove,54 nel territorio di S. Egidio alla

Non essendo chiara la cronologia finale delle lucerne a canale e quante fra queste possano datarsi effettivamente al V sec., non si può dire quale fetta di mercato ricoprano le lucerne d’importazione africana e quelle d’imitazione, che in ogni caso sono presenti con numeri piuttosto limitati. Le poche lucerne che probabilmente nel V e fors’anche nel VI sec. arrivano a Suasa e in area marchigiana dal Mediterraneo

Lucerne microasiatiche sono segnalate a Classe (Berti 1983, pp. 148– 149); lucerne microasiatiche e di probabile provenienza egea di V–VI secolo sono segnalate a Rimini nello scavo di piazza Ferrari (Negrelli 2007a, p. 310); un fondo riconducibile al tipo Brooner XXIX è segnalato in area lagunare veneta (Grandi 2007, p. 134 e p. 148, tav. 11, 4). 44 Carboni, Vermeulen, infra. 45 Da ultimo cfr. Gelichi, Sbarra 2003, pp. 123–124, nota 20. 46 Il quadro qui presentato è sicuramente destinato ad arricchirsi e a meglio articolarsi con la prossima pubblicazione di importanti contesti, come quello del porto di Ancona. 47 Anselmino 1986, p. 231. 48 Anselmino 1986, p. 236. 49 Catacombs lamps sono documentate anche nel Museo Oliveriano di Pesaro, ma la loro provenienza dale Marche non è sicura: Paleani, Liverani 1984, pp. 82–85, nn. 82–87. 50 Bailey 1980, p. 392 con bibl. (catacomba di Castelvecchio Subequo e Alba Fucens). Si veda il contributo di S. Antonelli e M. Dormio, infra (catacomba di S. Vittorino in Amiternum). 51 Profumo1995a, pp. 40–43; Cicala 2010, pp. 143–144; pp. 203– 205, nn. 165–168. Per questi esemplari Cecilia Profumo propone una datazione al VI sec., Pavolini pensa che manchino dati sufficienti per ipotesi cronologiche: Pavolini 1998, pp. 130–131, n. 40. 52 Profumo 1995a, p. 40, n. 10; Cicala 2010, p. 204, n. 167. 53 Profumo 1995a, p. 40, n. 11; Cicala 2010, pp. 203–204, n. 166. Un altro esempalre proviene da Controguerra nel teramano: Profumo 1995a, pp. 40–43, n. 12; Cicala 2010, p. 203, n. 165. 54 Museo di Montalto delle Marche: Cicala 2010, p. 205, n. 169. 43

34 Inoltre alla forma Atlante XI con becco affiancato da protuberanze, la cui produzione è comunque legata a quella del tipo X, di cui riprende le principali caratteristiche morfologiche (Atlante II, p. 203), paiono accostabili due esemplari da Cone d’Arcevia con il beccuccio fiancheggiato da due “volute”: Mercando 1979, p. 97, fig. 8b, 8c. 35 Che in Italia le officine che producevano imitazioni fossero numerose con raggi di distribuzione piuttosto ristretti è suggerito dalle molte testimonianze di matrici; inoltre è indicativo che le imitazioni (soprattutto della forma Hayes II) eseguite a Napoli fra la seconda metà del IV e il VII secolo siano diffuse quasi esclusivamente nell’area cittadina e nei dintorni (Garcea 1999, p. 459). 36 Prevalenti sono le imitazioni anche nel vicino territorio riminese, dove sicuramente erano presenti delle officine: Giovagnetti 1992, pp. 311–314. 37 In questo centro, accanto a rari esemplari di lucerne africane, prevale una lucerna “con caratteri ibridi, risultanti dalla commistione tra la forma a canale aperto e quella prodotta in Tunisia, a sua volta ampiamente imitate: Brecciaroli Taborelli 1978b, pp. 44–45. 38 Vari frr. di lucerne d’imitazione (numero non indicato) a fronte di un solo fr. di lucerna africana: Colombarone 2008, p. 48. 39 Ermeti 2012, p. 374. 40 Mercando 1978, p. 42; pp. 62–67, nn. 65–79 (probabilmente di imitazione i nn. 69–79). 41 Giuliodori 2001b, p. 149. 42 Siena, Troiano, Verrocchio 1998, p. 687.

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Produzione e circolazione delle lucerne in area marchigiana fra Tardoantico e alto Medioevo Vibrata in contrada Villa Secapelo55 e a San Benedetto del Tronto in una tomba a fossa.56 Dal Piceno proviene anche l’unica testimonianza marchigiana di lucerna “siropalestinese”,57 recuperata in una “tomba a fossa” (assieme a un’olletta) presso la Salaria, nel territorio di Monsampolo del Tronto.58 L’esemplare, datato da Gioia Conta al IV–VI sec., sembra però più tardo; dalla foto, infatti, parrebbe accostabile alle lucerne “islamiche” a corpo ovale appuntito,59 in particolare a un tipo che Rosenthal e Sivan datano fra VII e VIII sec.60 e Magness all’VIII–X secolo.61 Pressoché nulla pare essere la distribuzione di lucerne “siciliane” (fine VI–VII sec.), prodotte nella Sicilia orientale ma anche in area peninsulare, dove sono ben documentate,62 e a Classe, come testimonia il ritrovamento di una matrice per lucerne tipo Proovost 10.63 L’unica attestazione marchigiana è costituita da una lucerna Provoost 10B, segnalata fra i ritrovamenti dello scavo delle Terme di Forum Sempronii.64 Si segnala infine che al VI sec. è ricondotta una lucerna trovata nella grotta dei Baffoni di Genga, di non sicura classificazione tipologica, trovata in associazione con reperti di epoca tardoromana.65 Se pochissime sono le lucerne di forma chiusa, non sembrano neppure attestate per questo periodo lucerne di forma aperta. Infatti anche la piccola coppa trovata nella tomba 37 della necropoli di Castel Trosino, già interpretata come lucerna, è stata riconosciuta recentemente come un crogiolo.66 Si segnala invece una discreta diffusione dei bicchieri-lampada in vetro Isings 106 (IV–VI sec.).67

55 Cicala 2010, p. 254: nella collezione civica di Ascoli dall’A. la lucerna non è stata reperita. 56 Cicala 2010, p. 203. 57 Lucerne siro-palestinesi in area adriatica sono testimoniate a Classe: Berti 1983, pp. 149–150. 58 Lucerna integra raccolta “nell’area circostante il casale Mercatili”: Conta 1982, p. 240, n. 204; fig. 136; la provenienza sepolcrale è indicata in Lucentini, Miritello 2012, p. 253. 59 Su tipologia e cronologia delle serie siropalestinesi cfr. fra gli altri Fraiegari 2008, pp. 226–228. 60 Tipo K, gruppo 1: Rosenthal, Sivan 1978, pp. 129–131. Non è chiaro se l’esemplare di Monsampolo avesse una presa conica (variante A) oppure a forma di lingua (variante B). 61 Forma 5: Magness 1993, p. 258. 62 Cfr. da ultimo Fraiegari 2008, pp. 7–13. 63 Cirelli 2006, p. 151. 64 Monacchi 2010, p. 202. Qualche lucerna siciliana è conservata al Museo Oliveriano di Pesaro, ma la provenienza è ignota: Paleani, Liverani 1984, pp. 80–87, nn. 80–81, 88–89. 65 Profumo 1995b, p. 138, fig. n. 72. 66 Da ultimo Paroli, Ricci 2007, p. 55, n. 6. 67 Vari esemplari trovati a Suasa (Rizzo 2014, pp. 633–634) e in altri contesti marchigiani, come quelli del criptoportico di Urbs Salvia (Cingolani, Tubaldi 2013, p. 225).

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Federico Biondani

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Fig. 1. Suasa: lucerne dalla domus dei Coiedii (nn. 1–2; 4–7) e dalla via del Foro (n. 3). 1: Lucerna a canale con bollo Fortu/ni (inv. 91/7079); 2: lucerna a canale (inv. 91/794); 3: lucerna africana Atlante X (inv. S11/115); 4: lucerna di imitazione Bailey S, ii (inv. 89/8636); 5: lucerna di imitazione Atlante X (inv. 89/3063); 6: lucerna orientale (inv. 88/5923); 7a–b: lucerna orientale (inv. 89/11104–11108).

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4.12 I reperti numismatici tardoantichi dallo scavo della via del Foro di Suasa Silvia Sassoli Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Dipartimento di Storia Culture Civiltà [email protected] Abstract: The study of the late Roman coins from the excavations carried out by the University of Bologna in the Roman town of Suasa in 2011 reveals habitual occupation of the town buildings until the 6th century AD. The stone paved road of the Imperial Age was in use until the end of the 4th century; a partial reconstruction of the road made with fragmented bricks and grit is dated by two copper coins (AE3 and AE4) from the reigns of Constans and Constantius II. Most of the coins and pottery from the fill of the trenches dug for spoliation of the buildings which flank the road shows that from the end of the 5th century these buildings were in a state of neglect. The whole site was fully abandoned during the 6th century, and then the area devolved into agriculture use. Keywords: Suasa; Coins; Late Antiquity.

Lo stato di conservazione dei reperti è nella maggior parte dei casi mediocre, e diverse monete risultano quasi del tutto illeggibili; di queste ultime pertanto si è potuta dare solamente una datazione di massima sulla base degli standard di diametro e di peso. Dalle monete parzialmente leggibili invece si è cercato di ottenere una periodizzazione più precisa basandosi, ove possibile, sui tipi di rovescio e sulle porzioni di legenda visibili (Fig. 2).

I materiali oggetto del presente contributo provengono dalla campagna di scavo condotte negli anni 2011 e 2012 dal Dipartimento di Archeologia dell’Università di Bologna nel municipio romano di Suasa.1 Nel corso della campagna è stata indagata l’area centrale dell’abitato e specificamente un settore relativo a una strada basolata, detta Via del Foro, che attraversa la città in senso nord/ ovest-sud/est e sulla quale si affacciano il complesso forense e alcuni edifici a carattere residenziale.2 (Fig. 1).

Come si può vedere dal grafico il materiale numismatico si concentra maggiormente nei secoli IV–V d.C. Tra gli esemplari leggibili si registra un picco di attestazioni nel IV secolo, con presenza di emissioni molto comuni e diffuse tra cui AE3 della serie GLORIA EXERCITVS con il tipo dello stendardo singolo (Fig. 3 n. 1), AE3 della serie FEL TEMP REPARATIO del tipo falling horseman (Fig. 3 n. 2), AE3 e AE4 con legenda VICTORIAE DD AUGGQ NN (Fig. 3 n. 3) coniati dalla dinastia costantiniana. Relativi agli imperatori della dinastia valentiniana sono invece gli AE3 tipo GLORIA ROMANORVM con al rovescio l’imperatore che trascina un prigioniero (Fig. 3 n. 4) e AE3 con il tipo SECVRITAS REIPUBLICAE (Fig. 4 inv. 148). Presenti anche AE3 della serie VOTA con corona d’alloro, di attribuzione incerta per via della scarsa leggibilità e diffusi nell’arco di tutto il IV secolo. Gli esemplari databili al V secolo invece sono per la quasi totalità illeggibili, anche a causa della scarsa qualità del metallo che ne ha favorito il rapido degrado.

Da quest’area provengono in totale 198 monete, di cui 159 relative al periodo compreso tra il III e il V secolo d.C. Non sono state rinvenute monete più tarde, a eccezione di un mezzo follis di Giustiniano dalla stratigrafia superficiale del Foro, da mettere certamente in relazione con la fase di spoliazione e di frequentazione sporadica dell’area.3 Le monete di età tardoantica provenienti dall’area di scavo sono tutte in lega di rame; trattandosi di materiale erratico, la mancanza di esemplari in argento e oro non stupisce.

1 Recentemente è stato pubblicato un volume di sintesi dedicato agli scavi di Suasa (Giorgi, Lepore 2010), che contiene i risultati delle campagne di scavo fino al 2008. Per le pubblicazioni più recenti si veda la bibliografia relativa al presente contributo. Ringrazio inoltre Francesco Pizzimenti dell’Università di Bologna per avermi fornito il suo studio sulla rete stradale di Suasa. 2 Si veda De Maria, Giorgi 2013, pp. 97–113 per una interpretazione aggiornata degli spazi pubblici di Suasa. 3 Si veda in merito Destro 2010.

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Silvia Sassoli di Roma databile al periodo di Valente-ValentinianoGraziano (Fig. 4, inv. 41)11 associato a materiale ceramico relativo al V–VI d.C.12 Dal riempimento di un’altra fossa di spoliazione del settore della Domus dei Coiedii (US 95) proviene un frammento di anfora datata tra fine VI–inizio VII d.C. Questi reperti forniscono un terminus post quem utile per individuare il momento a partire dal quale gli edifici che si affacciano sulla strada vengono, almeno in parte, abbandonati e in seguito spoliati. Contestualmente a questi rinvenimenti, è attestata nell’area abitativa la presenza di focolari e l’attività di diverse calcare nell’area del foro; sebbene non sia possibile datare con precisione queste evidenze, anch’esse sono da inserire in un contesto di precarietà e abbandono delle strutture esistenti. All’età tardoantica appartengono anche le sepolture rinvenute nell’area occupata dal giardino della stessa domus appena citata.13

La via del Foro, glareata in una prima fase poi basolata, risulta in uso con sicurezza almeno dalla prima età imperiale.4 Sopra la strada basolata, che subisce in una prima fase diversi interventi di manutenzione che ne testimoniano la continuità d’uso (III–IV d.C.), è stato rinvenuto un rialzamento successivo costituito da materiale edilizio di reimpiego frantumato e legato con calce che conteneva al suo interno otto monete, di cui le uniche due databili con una certa sicurezza sono un AE3 frammentario della zecca di Aquileia attribuibile a Costanzo II o Costante (Fig. 4, inv. 7–8)5 e un AE3 di Costanzo II da Arles (Fig. 4, inv. 5)6 datato al 347–348 d.C., che permettono quindi di ascrivere questo piano stradale almeno alla seconda metà del IV secolo d.C. Nel suo tratto settentrionale infatti la strada basolata (US 7) risulta ancora frequentata alla fine del IV–inizio del V d.C., come dimostrano le monete dell’US 47 – un sottile strato di interro accumulatosi immediatamente sopra la superficie stradale – la cui datazione oscilla tra gli ultimi decenni del III d.C.7 e i primi del V d.C.8 È possibile pertanto ipotizzare che, per un certo periodo, alcuni tratti del basolato abbiano convissuto con il nuovo rialzamento che, ricordo, copre solo parzialmente la strada di età imperiale. Un’ulteriore conferma della continuità d’uso della via del Foro in età tardoantica è il rinvenimento, nel riempimento della canaletta che si trova fra i basoli e il cordolo stradale orientale (US 105), di diverse monete anch’esse ascrivibili alla fine del IV–inizio V d.C.; l’unico esemplare databile con sicurezza è un AE3 di età teodosiana (390–400 d.C.) con tipo di rovescio Roma stante con trofeo e vittoria su globo e leggenda VRBS ROMA FELIX. I frammenti ceramici provenienti dal suddetto strato si datano all’età tardoantica fino all’alto Medioevo, sovrapponendosi parzialmente all’arco cronologico delineato dai reperti numismatici.9

La validità dell’analisi cronologica ricavata dal dato numismatico è supportata dalla coerenza, nei casi qui sopra presentati, con i dati provenienti dallo studio del materiale ceramico. A questo proposito è opportuno sottolineare che i dati cronologici relativi ai nominali divisionali in rame del IV–V d.C. vanno valutati tenendo presente che essi possono aver circolato anche molto a lungo come metallo “a peso”, nonostante le riforme e i cambi di autorità, prima di essere perduti; la differenza di datazione tra i reperti numismatici e ceramici di questa ultima fase dovrebbe quindi considerarsi attenuata alla luce di questa considerazione.14 È possibile sostenere che il materiale numismatico presente in UUSS relative a fosse di spoliazione sia di tipo residuale; in ogni caso il confronto con la ceramica ha permesso di stabilire se il materiale presente nello strato fosse da considerarsi più o meno affidabile al fine di proporre una cronologia valida. Alla luce di tali considerazioni l’analisi dei materiali conferma le ipotesi di lavoro, secondo le quali a partire dalla seconda metà del IV d.C. la Via del Foro e le strutture a essa prospicienti continuano a essere frequentate – sebbene l’occupazione di alcuni ambienti non mantenga la funzione originaria degli stessi. Contestualmente, altre porzioni delle stesse strutture vengono parzialmente spoliate. Questa fase intermedia, a cui si riferiscono le monete presenti negli strati relativi alla strada e alle fosse di spoliazione associate alla ceramica di piena età tardoantica, va a precedere di poco il totale abbandono del sito e la sua ruralizzazione.

Contestualmente alle ultime fasi di frequentazione dell’area si attesta in tutto il sito una condizione di degrado, testimoniata da numerosi crolli e spoliazioni degli edifici; al riempimento (US 127) della fossa di spoliazione dello stesso cordolo orientale della strada qui sopra citato appartengono tre monete, tra cui un AE3 di Valentiniano I da Siscia, datato al 367–375 d.C. (Fig. 4, inv. 148),10 mentre il riempimento di un’altra fossa (US 38) riferibile all’attività di recupero dei materiali da costruzione di una struttura muraria ubicata nel settore orientale della strada (USM 36) ha restituito – oltre a un sesterzio di Antonino Pio e un antoniniano di Massimiano – un AE3 della zecca

Databile al periodo 367–383 d.C. cfr. RIC IX, p. 120, n 17a. Gamberini e Morsiani, infra. 13 Le tombe del giardino della domus sono state attribuite ad una età tarda sulla base della stratigrafia, poiché prive di corredo eccetto un’olla di ceramica grezza databile a fine V – inizio VI d.C.. Si veda in merito Giorgi, Lepore 2010 pp. 335–364. 14 Questa ipotesi non è ad oggi universalmente accettata e il dibattito scientifico è ancora aperto. Si veda in merito, tra gli altri, Carlà 2007 per una accurata sintesi sul sistema monetario tardoantico e Rovelli, Saguì 1998 per un interessante contributo su residualità e continuità di circolazione in epoca tardoantica nel contesto romano della Crypta Balbi. Non si intende in questa sede prendere una posizione in merito ad una questione così spinosa, bensì formulare un’ipotesi relativa al solo contesto di riferimento dei materiali oggetto dell’analisi di questo contributo. 11

12 4 Per un approfondimento relativo ai dati provenienti dallo scavo della Via del Foro di Suasa, si vedano Bogdani, Giorgi 2012 e Giorgi 2012a. 5 RIC VIII, p. 332 n. 80–81. 6 RIC VIII, p. 209 n. 76. 7 Inv. 1076, antoniniano di Claudio II Gotico. 8 Le tre monete leggibili provenienti da questa US si datano all’età post costantiniana (337–361 d.C.) 9 I dati cronologici relativi al materiale numismatico sono stati confrontati con le cronologie dei materiali ceramici provenienti dalle medesime unità stratigrafiche. I nuovi dati sui materiali ceramici di età tardoantica da Suasa sono presentati da Gamberini e Morsiani, infra. 10 RIC IX, p. 147, n. 15a.

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I reperti numismatici tardoantichi dallo scavo della via del Foro di Suasa In conclusione, grazie alla disamina dei materiali numismatici provenienti dall’area della via del Foro di Suasa e al confronto di tale analisi con le cronologie dei materiali ceramici e con i dati stratigrafici si può ipotizzare che la città, al termine di un processo di lento ma inesorabile declino, venga definitivamente abbandonata nel corso del VII secolo d.C., probabilmente dopo gli avvenimenti della guerra greco-gotica.

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Fig. 1. Planimetria dell’area della via del Foro e degli edifici a essa adiacenti. Nell’area evidenziata in pianta e nella fotografia a destra, l’area indagata nel 2011.

Silvia Sassoli

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I reperti numismatici tardoantichi dallo scavo della via del Foro di Suasa

Fig. 2. Distribuzione diacronica delle monete leggibili e delle monete illeggibili per cui è stato possibile proporre una datazione.

Fig. 3. Tipi più diffusi nelle monete di IV secolo d.C.

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Silvia Sassoli

Fig. 4. Monete da US 18 (inv. 5/7–8), US 38 (inv. 41), US 127 (inv. 148).

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4.13 Il ruolo della colonia costiera di Potentianell’ambito delle rotte adriatiche tra IV e VII secolo Francesca Carboni,* Frank Vermeulen** *FWO PegasusMarie Curie fellow, **Ghent University, Dept. of Archaeology [email protected], [email protected] Abstract: A global topographic approach has allowed a team from Ghent University to identify and map the Roman-era course of the river Potenza in central Marche, as well as the coastline during the lifespan of the now extinct urban colony located near its mouth. At the same time the team gathered archaeological indications of the location of the ancient port, now mostly destroyed and covered by river activity and sediments. The commercial role of Potentia, mostly as the point of arrival for many goods imported from northern parts of the peninsula was also highlighted. Many imports were still arriving here in Late Antiquity via sea routes connected with the port of Ravenna, and were distributed in the immediate vicinity of the coastal centre. Keywords: Potentia; Harbour; Imports; Pottery; Adriatic routes; Late Antiquity; Early Middle Ages.

Introduzione

rurali, interpretati come ville rustiche e fattorie di età romana, nello spazio di una striscia di terra estesa per 7 km dalla linea costiera.2 Di questi, più della metà risultano frequentati fino all’epoca tardoantica, ma nessuno ha rivelato materiali databili oltre il VI secolo.3

L’approccio topografico di tipo globale, condotto dal 2000 dall’équipe dell’Università di Ghent diretta da Frank Vermeulen, nell’indagare le dinamiche insediative lungo la valle del fiume Potenza ha permesso di delineare un quadro ben definito riguardo all’evoluzione delle forme di occupazione che hanno caratterizzato nei secoli questo territorio. Notevole è stato il contributo di tali ricerche, svolte soprattutto tramite attività di remote sensing, nello studio dell’urbanistica delle città romane dislocate nella valle.

Elementi per la localizzazione di un approdo alla foce del fiume Potenza Ricerche geologiche, svolte nel quadro di un’ampia analisi geografica mirante a ricostruire il paesaggio naturale nelle diverse fasi storiche, hanno riprodotto la linea di costa di età romana, sabbiosa, rettilinea e più arretrata rispetto all’attuale e hanno anche ricostruito, in maniera dettagliata e cronologicamente definita, le successive divagazioni che interessarono il tratto terminale del fiume Flosis,4 il cui letto originale, situato in prossimità della bisettrice di valle, ha più volte cambiato corso, a cominciare da un’epoca precedente l’inizio dell’età del Bronzo, spostandosi progressivamente verso nord.

Per quanto riguarda la colonia marittima di Potentia, fondata nel 184 a.C allo sbocco della piana alluvionale, nei pressi dell’odierna Porto Recanati (MC), è stato possibile ricostruire una pianta dettagliata della città che definisce sia la zonizzazione interna al regolare reticolo racchiuso dal circuito murario, sia l’articolazione di un’ampia area suburbana, dove sono stati individuati tre distretti funerari ed è stato tracciato il sistema delle strade che collegavano il centro urbano al territorio (Fig. 1).1

Le indagini geomorfologiche svolte dall’équipe del PVS

Le ricerche topografiche intese a investigare la dislocazione degli insediamenti nell’ambito dell’hinterland cittadino e a valutare le possibili forme di sfruttamento del suolo, condotte nell’area litoranea e la bassa vallata del fiume Potenza, hanno consentito di individuare circa trenta siti 1

Percossi, Pignocchi, Vermeulen 2006; Vermeulen et al. 2014. Percossi, Verreyke 2006, pp. 280–283; Verreyke, Vermeulen 2009. 4 Le divagazioni che hanno interessato il corso del fiume Potenza, ora dettagliatamente definite, erano già state oggetto di un tentativo di ricostruzione da parte di Nereo Alfieri negli anni Sessanta del secolo scorso, in una ricerca interdisciplinare, metodologicamente all’avanguardia, svolta insieme a geologi, cfr. Alfieri, Forlani, Grimaldi 1966. 2 3

Vermeulen 2012a; 2012b, con bibliografia precedente.

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Francesca Carboni, Frank Vermeulen fine del I secolo a.C. e l’inizio del I d.C., sono costituiti da officine per la fabbricazione delle anfore.9

project hanno portato all’individuazione di due paleoalvei, definiti con certezza (Fig. 2), integrando l’interpretazione di foto aeree olique e verticali e i risultati di carotaggi e prospezioni geoelettriche condotte entro i fori di sondaggio, e cronologicamente collocati tramite analisi al carbonio 14 e OSL, eseguite sui sedimenti raccolti.5

Dati archeologici per la ricostruzione delle ultime fasi di occupazione di Potentia Importanti elementi relativi alla topografia della colonia costiera e dati stratigrafici fondamentali per la ricostruzione delle ultime fasi di vita di questa città romana abbandonata derivano dalle esplorazioni svolte sotto la direzione scientifica della Soprintendenza archeologica per le Marche, a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Esse hanno interessato la necropoli settentrionale, il quadrante nord-orientale della città e una abbastanza estesa area al centro di essa. Fra il 2007 e il 2010, l’Università di Ghent ha svolto uno scavo mirato, in corrispondenza della porta urbica occidentale. Tale indagine ha fornito dati significativi riguardo ai successivi livelli di innalzamento del decumano massimo in uscita dalla mura urbiche e alle fasi posteriori alla destrutturazione del circuito difensivo. In base alle nuove informazioni disponibili si possono avanzare alcune ipotesi sulle modificazioni dell’impianto urbano, a partire dal III secolo d.C.

In particolare, è stato identificato il letto fossile che il fiume mantenne nel periodo compreso fra il III secolo a.C. e il suo completo interramento, databile in età rinascimentale.6 Nell’area di foce di questo paleoalveo, che passava sotto il ponte romano di età imperiale i cui resti si conservano inglobati nella cosiddetta “Casa dell’Arco”,7 si ipotizza di localizzare l’approdo portuale di Potentia, delle cui strutture non è stato individuato alcun resto e che non risulta mai menzionato dalle fonti a noi pervenute. Molti sono gli indizi, forniti dalla documentazione archeologica, che, testimoniando la particolare vitalità della colonia costiera e il suo inserimento nei circuiti commerciali con l’Oriente, fin dalla sua fondazione, avvalorano la presenza di questo approdo, alla base dell’attività mercantile svolta dagli abitanti della città.

Fondamentale è stato il riesame della documentazione relativa agli scavi della necropoli settentrionale e del quartiere nord-orientale della città, svolti negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e, soprattutto, in quanto ha permesso di analizzare un campione quantitativamente rilevante e stratigraficamente attendibile, lo studio del materiale, finora in gran parte inedito, emerso in occasione delle indagini eseguite, dal 1982 al 2005, nell’area al centro della colonia, condotto in collaborazione con Edwige Percossi, allora funzionario responsabile degli scavi. Le campagne effettuate nella zona adiacente la piazza forense hanno messo in luce i resti di un tempio tardo repubblicano, circondato da un portico, e di altri edifici di età repubblicana e imperiale, nei quali sono stati riconosciuti il macellum e due ampie domus.10

Significativa è pure la scoperta che il rifacimento di età augustea del portico circondante il tempio messo in luce nell’area centrale della colonia fu realizzato con una grossa partita di mattoni prodotti nell’area di Aquileia, dalla fornace dei Trosii. La stessa figlina riforní pure la città di Cupra Marittima, posta poco più a sud. Tali prodotti, cosí come quelli provenienti da altre fornaci laterizie localizzate in Italia settentrionale, arrestandosi ai soli centri costieri, ribadiscono il loro trasporto via mare e il loro utilizzo soprattutto in prossimità degli scali portuali.8 Rilevante appare anche quanto emerso dalle ricerche condotte dall’Università di Ghent. Esse hanno individuato nei settori suburbani paracostieri alcuni siti “industriali” che, nel corso della tarda età repubblicana e della prima età imperiale, e particolarmente nella fase a cavallo tra la

Gli scavi eseguiti in questo settore hanno rivelato come l’impianto urbano di Potentia venne interessato, a partire dalla seconda metà del III secolo, da alcune delle trasformazioni che caratterizzano le città di età tardoantica, quali la conversione di spazi pubblici in aree a valenza artiginale e l’introduzione di nuove tipologie edilizie. È allora, infatti, che un’officina siderurgica si impiantò nel macellum11 e che venne realizzato ex novo, prospicente il decumano cittadino che delimita a sud l’area indagata, un complesso che presenta alcune particolarità architettoniche e planimetriche tipiche delle costruzioni tardoantiche.12 Nel corso del IV secolo, parte del portico

5 Analisi e dati tecnici sono presentati in Goethals, De Dapper, Vermeulen 2005, pp. 39–41. Per le considerazioni conclusive su questo argomento, vedi Goethals, De Dapper, Vermeulen 2009, con bibliografia precedente. 6 Le vicende relative alle successive deviazioni del fiume, eseguite artificialmente in relazione al nuovo insediamento portuale denominato Castrum Maris, fondato dagli abitanti di Recanati (e localizzato ai margini settentrionali dell’attuale Porto Recanati) sono descritte in Moroni 1983 e analiticamente ricostruite sulla base della cartografia storica in Corsi 2008 e Corsi, De Dapper, Vermeulen 2009. 7 Gli scavi nell’area centrale della città hanno rivelato la presenza di ceramica egea in contesti di età repubblicana, cosí come di sculture di bottega egea, databili fra metà II e I secolo a.C. Cfr. Percossi 2012, p. 309–310. Una pisside a vernice nera, recante l’iscrizione graffita menzionante L. Oppius, costituisce, invece, la più antica attestazione nella zona della presenza di questa famiglia di banchieri e negotiatores che si arricchirono e stabilirono i presupposti della loro ascesa politica, grazie alle proficue relazioni commerciali definite tra III e II secolo a.C. con l’Oriente. Su questo argomento, vedi Paci 2003, con bibliografia precedente dello stesso autore. 8 Sulla valutazione della capacità commerciale di Cupra Marittima: Fortini 1993; più in generale, sui contatti e gli scambi adriatici di età romana nel territorio marchigiano: Paci 2010.

Monsieur 2007; 2009. Percossi Serenelli 2001, pp. 65–69. 11 Per lo studio del materiale bronzeo rinvenuto, vedi Frapiccini 2009 dove si avvalora l’interpretazione del deposito come pertinente a un’officina mettallurgica, considerando le scorie e gli scarti di lavorazione in esso presenti e sulla base del confronto con l’attività artigianale scoperta a Brescia, presso il Capitolium. 12 Percossi, Verreyke 2006, pp. 276–278. 9

10

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Il ruolo della colonia costiera di Potentia circondante il tempio venne diviso in ambienti contigui, destinati all’immagazzinamento di derrate alimentari, mentre alla fine dello stesso secolo il tempio venne rasato fino all’altezza del podio e tutta l’area intorno subì una ristrutturazione e un livellamento. Una tale radicale modificazione, che dimostra, a prescindere dal suo significato politico e religioso, una vivace attività edilizia e quindi è sintomo di floridezza economica, è significativamente pressoché contemporanea al ruolo di sede vescovile assunto da Potentia, nello scorcio fra il IV e il V secolo.13

ambito regionale, di un buon numero di importazioni, anche per le classi ceramiche di uso comune.14 Interessanti sono i i dati riguardanti il vasellame da cucina, in particolare per l’individuazione di manufatti fabbricati in diverse regioni italiane. Questi ultimi, trasportati come carichi secondari, possono rappresentare un indicatore delle rotte di commercializzazione e dei porti di primo stoccaggio delle merci provenienti dall’Africa settentrionale e dal Mediterraneo orientale.

Lo studio dei materiali eseguito nell’ambito del PVS project ha circoscritto la definizione cronologica della più recente pavimentazione rinvenuta in questo settore, stesa a sigillare un interro deposto nella metà del VI secolo.

Sulla base dei risultati emersi dall’analisi dei contesti di scavo, sembra che i prodotti trafficati lungo il Po e la via Emilia siano stati in stretta connessione con l’area meso adriatica.

Tracce evidenti di frequentazione posteriore, costituite da fosse di alloggiamento di pali lignei da associare a strutture realizzate con materiali di spoglio, testimonianti di un diverso ma comunque persistente modo di abitare lo spazio urbano sono, allo stato attuale, databili solo in relazione a questo termine post quem.

I dati concernenti le produzioni dall’Italia del Nord hanno evidenziato un traffico ad ampio raggio di vasellame caratterizzato da un limitato livello tecnologico, creato da industrie di tipo apparentemente domestico, diversamente dislocate. Tali prodotti, trasportati lungo il Po e la via Emilia, dovevano essere diffusi dal porto di Ravenna a quello di Ancona, e da qui, verso sud, tramite tratte di cabotaggio.

Importanti, sempre per la definizione delle ultime fasi di occupazione della città, si sono rivelate le ricognizioni archeologiche di superficie svolte dal team dell’Università di Ghent.

Limitatamente al periodo che ci interessa, e solo sulla base del dato ceramico, significativa è l’accertata continuità di questi collegamenti fra il IV e la seconda metà del VI secolo.

La carta di distribuzione cronologica dei reperti raccolti nel corso di queste ricerche intensive (Fig. 3), realizzate suddividendo in lotti regolari l’area interna e subito esterna alle mura della colonia romana, oggi destinata prevalentemente a uso agricolo, sembra rivelare una sostanziale frequentazione di tutta la superficie intramuranea nel IV e nella prima metà del V secolo. Oltre questo periodo, l’occupazione si attesta a macchia di leopardo, protraendosi fino alla fine del VI / inizio VII secolo, nell’alto Medioevo.

Per le ceramiche da cucina oggetto del traffico sopra descritto ci si riferisce alle olle a orlo sagomato e decorazione incisa, di origine alpina, rinvenute in tutta la valle fino al IV secolo (Fig. 4, 1–2), ai contenitori di provenienza dal territorio modenese recanti segni di politura a stecca (Fig. 4, 3–8), che, attestati a Potentia e nei siti limitrofi nel IV e V secolo, sono completamente assenti nella media e alta valle, e, infine, alle olle “tipo Classe”, individuate in numero esiguo in strati datati alla metà del VI secolo (Fig. 4, 9–10).

L’assenza di qualsiasi evidenza archeologica nel quadrante sud-orientale della città confermerebbe la distruzione di questa zona a opera del fiume.

Oltre alle ceramiche comuni da cucina, si segnalano due manufatti che, per quanto testimonianze isolate, costituiscono un’ulteriore comprova della relazioni commerciali che legavano il porto di Ravenna a questo particolare approdo dell’Adriatico, ovvero due esemplari di ceramiche invetriate importate dall’Italia nord-orientale. Essi sono costituiti da un frammento di lucerna ad alto piedistallo, databile al IV–V secolo, del tipo documentato a Carlino (UD), eccezionale per la sporadicità degli esemplari finora rinvenuti15 al di fuori dell’area di produzione e da un altro, relativo a una forma in “ceramica

Importazioni ceramiche tra IV e VII secolo La ceramica pertinente alle fasi di occupazione di età tardoantica e altomedievale della città di Potentia e dei siti individuati nel territorio gravitante attorno a essa è stata studiata dal punto di vista morfologico e tecnico e dal punto di vista minero-petrografico. Analisi archeometriche, condotte dal Dipartimento di Geologia e Scienze della Terra dell’Università di Ghent, hanno accertato la presenza, accanto a prodotti fabbricati in

Per la descrizione, nel dettaglio, delle produzioni locali e delle importazioni di ceramica comune da cucinca di età tardoantica da Potentia: Verreyke, De Paepe 2009 e Vermeulen, Verreyke, Carboni 2015. 15 Magrini, Sbarra 2007. 14

13 Lanzoni 1927, p. 390. Faustino, vescovo di Potentia fra il 418 e il 422, fu legato di Papa Zosimo al Concilio di Cartagine.

353

Francesca Carboni, Frank Vermeulen Per quanto riguarda il periodo posteriore alla metà del V secolo, sulla base del dato desunto dalle ricerche di superficie, realizzate sia nella bassa valle che all’interno della colonia, la Sigillata Focese risulta essere la classe di ceramiche fini da mensa maggiormente documentata, con una percentuale del 56,5%, rispetto al 43,5% delle Sigillate Africane, calcolata su un insieme di 62 esemplari. Tale indice è anomalo rispetto alle quantità, normalmente minime, di attestazioni registrate nelle Marche, dove, comunque, tale ceramica appare capillarmente distribuita, sia in ambito urbano sia rurale.21

con applicazioni a squame” che, pur in assenza di dati mineralogici, parrebbe confrontabile con le brocche di tipo Classe,16 simili a esemplari rinvenuti a Santa Maria in Pado Vetere. Importazioni di vino dall’area calabrosicula sono comprovate da tre frammenti pertinenti ad anfore tipo Keay LII. I dati desunti dagli scavi e dalle ricognizioni della città costiera di Potentia e dei siti rurali dislocati nel territorio su di essa gravitante offrono, dunque, una buona panoramica delle importazioni che raggiungevano la località, mentre il confronto con i materiali raccolti nel corso delle ricerche di superficie nella media e alta valle del Potenza mostra il grado di penetrazione di tali merci nelle aree interne.

Praticamente tutti gli esemplari identificabili sono costituiti dalla forma Hayes 3, nelle varianti B, C, H, E, fatta eccezione per due frammenti di Hayes 5. Conclusioni

Per quanto riguarda le importazioni dal NordAfrica, accanto alle attestazioni di anfore17, lucerne (forme Atlante VIII e Atlante X) e ceramica comune da cucina18, le Sigillate Africane rappresentano la classe di prodotti di questa provenienza meglio quantificabile. Si nota come in tutta la valle fluviale la produzione D sia predominante, confermando il culmine degli arrivi di ceramica fine dal Nord Africa fra IV e prima metà del V secolo, accertato in generale nella regione.

Lo studio delle ceramiche rinvenute nel corso delle indagini stratigrafiche che hanno interessato la colonia romana di Potentia, unito a quello dei reperti raccolti in occasione delle ricognizioni eseguite nella zona intra muraneae in corrispondenza dei siti individuati nel territorio di pertinenza della città, hanno confermato l’arrivo di merci di importazione, protrattosi per tutto l’arco di tempo nel quale si documenta, sempre sulla base del dato materiale, la frequentazione del centro urbano. Il limite cronologico di quest’ultima sembra da ascriversi alla fine del VI / inizio VII secolo.

Ma notevole è il trend declinante, relativamente alla quantità di frammenti individuati, man mano che si procede dalla bassa all’alta valle (con attestazioni pari, rispettivamente, al 65.31, 22.45 e 12.24 % del totale).

Accanto ai prodotti provenienti dal Nord Africa, prevalenti nel periodo compreso far la fine del IV e la metà del V secolo d.C., si assiste a una crescita, attestata secondo un indice inusuale per la regione, delle merci importate dall’Egeo, in particolare della Sigillata Focese, che costituisce la ceramica fine da mensa prevalente, dalla seconda metà del V secolo.

Alcuni frammenti di TSA pertinenti al tipo più tardo del vaso a listello Hayes 91D e al piatto Hayes 105,19 databili fra fine VI e VII secolo, raccolti nel corso delle ricognizioni eseguite entro il perimetro delle mura cittadine, consentono di estendere fino a tale epoca l’ultima attività di frequentazione della colonia romana, attestandone pure il persistente inserimento nei traffici commerciali transmarini.

Analisi archeometriche hanno accertato la presenza di manufatti, per la maggior parte ceramiche comuni da cucina, importati dall’Italia nord-orientale, testimonianti un legame sicuro dell’approdo posto alla foce del fiume Flosis con rotte commerciali facenti capo al porto di Ravenna fino a tutto il VI secolo d.C.

Le merci importate dal Mediterraneo Orientale sono rappresentate da anfore, provenienti dall’Asia Minore (LRA 1), dall’Egeo (LRA 3), dalla Palestina (LRA 4), da ceramica da cucina20 e ceramica fine, di produzione egea.

Maioli, Gelichi 1992, pp. 238–253; Augenti et al. 2007, p. 270, fig. 22. Per i dati sulle anfore tardoantiche recuperate, per le quali difficile è la quantificazione e l’identificazione, a causa dello stato eccezionalmente frammentario nel quale sono state rinvenute, sia in corso di ricognizione sia di scavo, si rimanda a Verreyke, Monsieur 2005; Monsieur, Verreyke 2007; Monsieur 2007, dove sono stati considerati anche gli esemplari meglio conservati, messi in luce in occasione delle indagini interessanti la necropoli a nord di Potentia. 18 Vermeulen, Carboni, Verreyke 2015. 19 Bonifay 2004: Forma Hayes 91 D, tipo 54, pp. 178–179, fig. 95 e Forma Hayes 105, variante A, pp. 183–185, fig. 184. 20 Per le anfore e la ceramica comune di provenienza orientale si rimanda ai riferimenti citati supra, rispettivamente a nota 14 e 15. Vasellame da fuoco di produzione egea è ben rappresentato a Potentia in livelli di V secolo, nelle forme prevalentementi delle olle Albarella, Ceglia, Roberts 1 2, 3 e della padella con manico ritorto. 16 17

Biondani 2004, pp. 80–82; Fabrini et al. 2007, p. 344; Menchelli 2012, p. 88. 21

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Il ruolo della colonia costiera di Potentia

Fig. 1. Pianta schematica della città di Potentia e del suo immediato suburbio, in età imperiale.

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Francesca Carboni, Frank Vermeulen

Fig. 2. Restituzione dell’andamento del corso del fiume Flosis in età romana e pre romana.

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Il ruolo della colonia costiera di Potentia

Fig. 3. Dislocazione dei reperti rinvenuti durante le ricognizioni di superficie, distinti secondo le cronologie prevalenti.

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Francesca Carboni, Frank Vermeulen

Fig. 4. Ceramica comune da fuoco dall’Italia settentrionale (1–2: produzioni dall’area alpina; 3–8: produzioni dal territorio modenese; 9–10: olle “tipo Classe”).

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4.14 Trasformazione della Camerinum romana tra tarda Antichità e alto Medioevo: nuovi dati dagli scavi di Piazza Mazzini Nicoletta Frapiccini,* Viviana Antongirolami,** Sonia Virgili*** Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche, **Soc. Coop. ArcheoLAB, ***Soc. Coop. ArcheoLAB, Università di Udine

*

[email protected];[email protected]; [email protected] Abstract: New and significant evidence of the urban transformations of Roman Camerino, which occurred between Late Antiquity and the Early Middle Ages, emerged in recent years during a series of archaeological investigations in the historical centre of the city, during the modernisation of local infrastructure. The new discoveries, still under study, allow us to formulate hypotheses on the phases of life of some nuclei of the city, included within the late medieval wall circuit. Keywords: Camerino; Archaeology; Late Antiquity; Early Middle Ages.

Introduzione

nella zona pianeggiante ubicata tra Piazza Garibaldi e piazza Mazzini, e a questa potrebbe essere riferibile il monumentale edificio porticato, di cui è stato ipotizzato il carattere pubblico, rinvenuto al di sotto dell’attuale Teatro Marchetti. Nelle immediate vicinanze, in via Colseverino, un ambiente con pavimento a mosaico e pitture parietali, doveva appartenere a un edificio di cui si ignora se la destinazione fosse pubblica o privata, databile tra l’età tardo repubblicana e la piena età imperiale. Nei pressi di piazza Garibaldi altri ambienti con pavimenti a mosaico e pareti affrescate potrebbero essere riconducibili a edifici privati.4 Poco distante da questi rinvenimenti, in Piazza Mazzini, è stato di recente scoperto un importante luogo di culto, indagato solo parzialmente, il cui impianto appare riferibile ancora all’età repubblicana.5 Su questo tessuto urbano, in età tardoantica e altomedievale, nuove esigenze insediative hanno provocato una serie di inevitabili trasformazioni, che vanno emergendo dallo studio delle recenti indagini.

Nuovi e significativi elementi sulle trasformazioni urbane della Camerino di età romana, avvenute tra l’epoca tardoantica e altomedievale, sono emersi negli ultimi anni nel corso di una serie di indagini archeologiche nel centro storico della città, in occasione dei lavori di ammodernamento delle infrastrutture.1 Le nuove scoperte, tuttora in corso di studio, consentono – sia pur cautamente per ora – di formulare alcune ipotesi sulle fasi di vita di alcune zone nevralgiche della città, comprese all’interno del circuito murario tardomedievale.2 Posta al centro di un sistema viario di cui è ben la nota l’importanza strategica sin dall’età preromana,3 Camerino si adagia sul crinale di un colle dove restano solo tracce frammentarie dell’impianto della città romana: il cardo maximus coincideva probabilmente con le attuali Via Roma, Via Venezian e Corso Vittorio Emanuele e, forse, il decumanus maximus è da riconoscere con un asse viario che si dirige verso l’attuale piazza Mazzini, il punto più alto della città. L’area forense probabilmente si apriva

N.F. I nuovi dati dagli scavi di piazza Mazzini

Le scoperte sono avvenute tra il 2007 e il 2013, durante l’assistenza archeologica ai lavori, con la direzione scientifica di Mara Silvestrini e, successivamente, della scrivente, della Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche. Le indagini sul campo sono state condotte dalla società ArcheoLAB. Nonostante le ultime esplorazioni si siano concluse da pochi mesi, e benché lo studio dei materiali e dei contesti sia solo agli inizi, tuttavia si è ritenuto utile presentare il presente contributo, in cui si propongono spunti di riflessione che, lungi dall’essere esaustivi, indicano alcune linee di sviluppo delle future ricerche. 2 Sulla città si veda da ultimo Virgili 2014, pp. 36–38, fig. 6. 3 Dall’Aglio 2004; Giorgi 2006; Di Stefano 2012; Moscatelli 2014; Virgili 2014. 1

L’area della piazza ha restituito importanti strutture murarie, riferibili a due principali corpi di fabbrica: il primo (CF 2), che occupa la zona settentrionale, è un grande edificio rettangolare realizzato in opera quadrata, la cui datazione è suggerita dalla presenza di numerose terrecotte 4 5

359

Salvini 2002; 2005. Silvestrini et al. 2012.

Nicoletta Frapiccini, Viviana Antongirolami, Sonia Virgili tegame con orlo leggermente introflesso, ingrossato e filettato all’esterno (168/24) e una pentola con orlo a tesa orizzontale (174/2).13 Presenti anche due grandi contenitori da conserva/cucina, uno con orlo estroflesso modanato e decorato con un motivo a rilievo e bordo ondulato (169/7),14 l’altro con orlo a tesa arrotondato e presa interna (169/9).15 Tra le forme chiuse sono presenti un’olla con orlo estroflesso e spalla distinta (166/5) e una brocca con orlo dritto appuntito (166/3). L’analisi della ceramica comune ci riconduce dunque a un orizzonte cronologico che consente di datare fino ad almeno il VII secolo gli strati di accumulo individuati. Successivamente all’abbandono dell’edificio romano (CF2) e della strada adiacente, si costruisce la struttura di età medievale (CF 1, Fig.2), che si imposta sul muro meridionale di epoca precedente (CF 2), con un diverso orientamento. Si tratta di un ambiente quadrangolare, probabilmente una torre, conservato solo in fondazione e costituito da grandi blocchi sbozzati di arenaria privi di legante (Fig. 2).

architettoniche, riferibili ai secoli IV–II a.C. (Fig. 2).6 Gli si addossa, lungo il lato nord, un basolato in lastre irregolari di calcare locale, affiancato da due basamenti di colonna, pertinenti a un portico con copertura in tegole, il cui crollo in situ oblitera la strada stessa. Questo asse viario risulta perpendicolare al tratto di decumano messo in luce nella vicina piazza Garibaldi. La defunzionalizzazione di questo edificio è ben descritta da sistematiche attività di spoliazione e rasature intenzionali, che ne hanno asportato ampie porzioni dei muri perimetrali, oltre che da cospicui depositi maceriosi che hanno coperto le strutture, con funzione di livellamento dell’area. Questi strati contenevano reperti cronologicamente molto eterogenei, tra cui s’individuano frammenti di Terra Sigillata Medio Adriatica, Sigillata Africana e forme d’imitazione (Fig. 3). Per la TSMA riconosciamo due frammenti di piatto con ampio fondo piano, privo di piede e decorato con sovradipintura circolare al margine del fondo (174/1), databile tra i secoli III – V,7 e un fondo decorato con sovradipintura a cerchio e tremoli a raggiera (forma Brecciaroli Taborelli 10).8 Privi di decorazione, ma affini alle forme della Medioadriatica, i frammenti 166/2 e 169/8 sono riferibili rispettivamente alle forme Brecciaroli Taborelli 22 e 9.

La frequentazione di quest’area della città tra l’alto e il basso Medioevo è attestata altresì dai materiali che riempivano un pozzo in arenaria nell’adiacente via XX settembre (US 195, Fig.4). Tra questi si segnalano un catino con decorazione a stampiglia di tradizione longobarda sull’orlo (195/1). L’uso di queste stampiglie è documentata nell’alta valle del Chienti, nella necropoli di Nocera Umbra e in contesti di cultura longobarda dell’Italia settentrionale, con datazione compresa tra secoli VI–VIII.16 Dal medesimo contesto provengono alcuni frammenti di paiolo a cestello con orlo indistinto e cordonature a rilievo sul corpo, un’olla in ceramica comune da cucina in impasto grossolano con spalla carenata e orlo dritto e ingrossato (195/2) e un’olletta dal profilo similare (195/3).17

Attardamenti fino al secolo V sono testimoniati anche da ceramiche d’imitazione africana quali la 166/26, accostabile per il profilo dell’orlo alla forma Hayes 110 e altrove presente anche nella versione a rivestimento rosso.9 Alla stessa cronologia sembra riferibile anche una lucerna del tipo Buchi X anomalo, del tutto analoga a un esemplare rinvenuto a Giove di Muccia (III–V sec.).10 Per quello che concerne la ceramica di uso comune, le forme diagnostiche riguardano per lo più recipienti da cucina, tra i quali prevalgono senza dubbio le casseruole a orlo più o meno rientrante, alcuni certamente usati come coperchio (Fig. 4). Tra le forme aperte è presente anche un forno coperchio con presa a listello (183/3) e uno con orlo appiattito (166/9), leggermente introflesso. Nella categoria delle olle si iscrive un tipo a orlo estroflesso, privo di collo e con incavo interno per il coperchio (166/21), molto simile ad alcuni tipi provenienti da Classe e riferibili ai secoli V–VI.11

S.V. Le aree funerarie tardoantiche e altomedievali La profonda trasformazione degli spazi urbani e della loro specifica destinazione d’uso in età tardoantica e altomedievale trova un indicatore anche nel rinvenimento di piccoli nuclei di sepolture, tutte senza corredo, in

Per la classe delle ceramiche comuni con impasto più depurato (Fig. 3) si documentano una casseruola con orlo introflesso e alloggio per il coperchio (174/3),12 un bacino/

Il confronto più immediato viene da Chiusi e riguarda un contenitore da cucina con una datazione alla prima metà del sec. VII. Cavalieri 2010, p. 376, fig. 6, tipo 1. 13 Questi ultimi due recipienti trovano similitudini con materiale proveniente dalla valle del Fiastra (MC). Moscatelli 1997, fig. 2, nn. 8–12, 17. 14 Forme aperte con orlo decorato molto simili al tipo camerte si documentano a Siena per i secoli V–VI. Cantini 2004 p. 138, tav. 25. Decorazioni affini su profili diversificati sono presenti nel sito di Cartagine (Fulford, Peacock 1984, fig. 60–62, pp. 168–173) con datazione al sec. VI. 15 Fornelli in ceramica da cucina con presa interna, di diverso profilo, si rinvengono negli strati di IV fase (V–VI sec.) del sito di Montetorto di Osimo. Pignocchi 2001c, tavv. XLIII–XLIV. 16 Per la Valle del Chienti (MC) si veda Gnesi et al. 2007, p. 130, tav. IV, n 14; Per la necropoli di Nocera Umbra si veda Rupp 1996, p. 30. 17 Il catino con decorazione stampiglia è evidentemente l’elemento residuale, in una stratificazione che si data ai secoli centrali del Medioevo.

Silvestrini et al. 2012. Il pezzo è riferibile alla forma Brecciaroli Taborelli 19 ed è molto frequente nelle Marche e in Emilia Romagna: Biondani 2005a, p. 190, fig. 122, n. 32. 8 Brecciaroli Taborelli 1978a. 9 Negrelli 2007a, fig. 2n. 11. 10 Buchi 1975, p. 25, fig. 124a. Per l’esemplare rinvenuto a Giove di Muccia si veda infra. 11 Cavalazzi, Fabbri 2010, tav. 5. 12 Un recipiente con profilo dell’orlo piuttosto simile, ma in ceramica da cucina, proviene da Classe, con un orientamento cronologico compreso tra il IV e l’VIII secolo. Si veda il contributo di Simonetti, infra, tav IV. 6 7

360

Trasformazione della Camerinum romana tra tarda Antichità e alto Medioevo gran parte localizzati nel cuore della città antica (Fig. 1). L’attribuzione cronologica di tale attività funeraria poggia sul suo inserimento in sequenze stratigrafiche spesso intatte e ben databili, ovvero sulla pressoché costante presenza di livelli sedimentari tardoantichi e altomedievali negli spazi votati alla destinazione funeraria, seppur non sempre in relazione stratigrafica con le sepolture.

Toscana, Liguria e Piemonte (50/1); nell’area senese e Bologna Castel San Pietro (50/2, 50/3); in Abruzzo (50/2). Lo strato poi che costituisce il piano di deposizione per le altre due sepolture include, oltre a numerosi frammenti di pareti in ceramica comune da cucina con impasto grezzo, carenate e lisciate a stuoia, olle (129/1, 129/2) simili a esemplari da Brescia-S.Giulia (V–VII sec.) e un bacino con orlo a sezione triangolare accostabile a esemplari romani (129/3).

I due inumati di Piazza Mazzini, un adulto e un immaturo, sono entrambi localizzati nel settore NE della piazza e in parziale stato di conservazione per la probabile interferenza di precedenti lavori di sistemazione del piano strada (Fig. 2); risultano deposti in decubito dorsale e orientati con testa a ovest, l’adulto con arti superiori piegati al di sopra del bacino, l’immaturo con arti superiori allineati lungo il torace. Il piano di deposizione è localizzato al di sopra dei livelli di colmata che determinano un generale rialzamento dei piani d’uso dopo il crollo e la disattivazione del poderoso complesso monumentale che doveva rappresentare, con ogni probabilità, il perno della vita pubblica in epoca romana. Il dato stratigrafico, secondo quanto sopra descritto, permette di ricondurre le sepolture a un’epoca successiva almeno al VII secolo. Il rinvenimento di sepolture nel contesto di Piazza Mazzini sembra suggerire che in epoca altomedievale questo settore della città avesse perso la sua centralità; stessa cosa non può dirsi per quelle di Piazza Cavour, che proprio a partire da questo periodo appare conquistare il ruolo cardine che ancora oggi la connota (Fig. 5).18 La fase altomedievale è qui infatti ampiamente attestata, sia nella forma della rifunzionalizzazione di precedenti strutture romane, dove allineamenti di buche di palo sembrano suggerire una ripartizione interna degli spazi, sia in quella della costruzione ex novo di un imponente edificio nel settore SE della piazza. La presenza di inumati pertanto, dovendosi armonizzare con il dato dell’evidente vitalità insediativa e costruttiva di questo settore urbano per il periodo considerato, potrebbe essere letta non tanto come fenomeno di abbandono e declassamento, quanto come possibile indicatore del nuovo modo di vivere che prevedeva una confluenza dello spazio funerario entro la zona abitata. Non sembra infine fuori luogo segnalare che le sepolture sono localizzate nelle vicinanze dell’attuale Duomo, verosimilmente costruito al di sopra di un precedente edificio religioso, che potrebbe aver funzionato da attrattore per un originario piccolo nucleo funerario.

Un ulteriore gruppo di sei sepolture è localizzato in Largo S. Maria in Via, ai margini del centro storico e in uno spazio non segnato da attività antropiche preesistenti (Fig. 1); i rinvenimenti di epoca romana infatti si arrestano nel tratto di via Pieragostini che confluisce nello spiazzo, ove i tagli di fondazione degli edifici medievali hanno risparmiato angusti lacerti di piani musivi a tessere bianche con bordatura nera. Gli inumati, deposti entro fossa terragna semplice (solo la Tomba 8 è dotata di copertura in lastre di arenaria e fondo in tegole, Fig. 7), sono quasi tutti convenzionalmente orientati con testa a ovest; si riscontra l’utilizzo prolungato tipico del contenitore funerario, all’interno del quale avvengono riduzioni della deposizione originaria o il suo parziale accantonamento al momento della deposizione successiva (Tombe 1, 6, 8). Nelle zone immediatamente periferiche rispetto all’area funeraria sono stati rinvenuti depositi stratigrafici ricchi di manufatti ceramici eterogenei per cronologia, tra i quali peraltro sembra ben rappresentato l’orizzonte cronologico che qui interessa (Fig. 8). Si segnala un modesto gruppo di vasellame in Terra Sigillata Africana tra cui una scodella tipo Hayes 61B, databile al IV–V sec. (669/5),19 un tegame tipo Hayes 184 o affini, prodotto nel II–IV sec. (669/9),20 e un fondo di grande piatto tipo Hayes 90B, databile alla seconda metà del VI e all’inizio del VII sec. (669/4).21 La ceramica comune, poco attestata, è presente con un catino con orlo a tesa caratterizzato da due solchi nella parte superiore (669/14),22 mentre tra la ceramica da cucina vi sono olle (669/1), casseruole (687/2), coperchi (669/10) e paioli (687/7), che coprono un arco temporale che va dalla fine del IV secolo alla piena età medievale. Ben rappresentate anche le anfore, documentate nella forma Tripolitana III e IIIB inquadrabili tra fine III e fine V sec. (687/5, 669/6)23 e le anfore di VIII secolo con corpo globulare derivate dalla LRA 2 (687/10). V.A.

Le datazioni al radiocarbonio condotte su due dei tre inumati di Piazza Cavour, un subadulto (440–635 d.C.) e un adulto (665–880 d.C.) trovano riscontro nel dato materiale (Fig. 6). Il livello di obliterazione del calidarium del piccolo impianto termale romano su cui viene deposta una delle sepolture restituisce pochi ma ben riconoscibili manufatti in ceramica depurata e da cucina, accostabili a produzioni ampiamente circolanti in tutta l’Italia centrosettentrionale tra V e VII secolo, in particolare nelle Marche (Suasa e Osimo-Montetorto) e nel comprensorio

18

Conclusioni I rinvenimenti sinora descritti rappresentano un tassello fondamentale per la definizione del nuovo assetto urbano Giuliodori 2001a, p. 94. Hayes 1972, p. 202, fig. 235; pp. 203–204. 21 Hayes 1972, pp. 138–140; Bonifay 2004, p. 164. 22 Bonifay 2004, p. 272; p. 273, fig. 150, n. 35; Bertoldi, Pacetti 2010, p. 441, fig. 5, n. 40. 23 Bonifay 2004, p. 104, fig. 55a; p. 105. 19 20

Virgili, Melia 2015.

361

Nicoletta Frapiccini, Viviana Antongirolami, Sonia Virgili della Camerino di epoca tardoantica e altomedievale rispetto alla città romana, originariamente imperniata, con ogni probabilità, nell’area monumentale compresa tra Piazza Garibaldi e piazza Mazzini. In quest’ultima zona, in particolare, si legge un lento, inesorabile decadimento, iniziato già in età tardoantica. Indizio di tali trasformazioni sono principalmente il massiccio rialzamento di quota dell’area, evidentemente in seguito al suo abbandono, e la successiva rifunzionalizzazione anche come spazio funerario cui si affianca, in epoca posteriore, un’attività edilizia poco leggibile, a causa delle profonde trasformazioni urbanistiche avvenute a partire dall’età varanesca. Viceversa nell’area di Piazza Cavour, proprio a partire dall’età tardoantica e altomedievale, sembrano leggersi i segnali di un graduale ma continuo sviluppo, indiziato dalla presenza di strutture insediative che si sovrappongono immediatamente agli edifici ormai abbandonati di età romana, e di un piccolo nucleo funerario. Quest’ultimo potrebbe essere relativo a un preesistente edificio di culto cristiano, che si può ipotizzare sorgesse nel luogo dove venne successivamente eretta la Cattedrale. In tale contesto insediativo, che vede ormai la centralità della vita urbana incardinata nell’area di Piazza Cavour, la zona del Largo Santa Maria in Via, ubicata al limite opposto del crinale, laddove scarse appaiono anche le preesistenze di epoca romana, presenta i caratteri tipici di un vero e proprio nucleo cimiteriale. N.F., V.A., S.V.

362

Fig. 1. Posizionamento delle località citate nel testo all’interno del tessuto urbano di Camerino (MC).

Trasformazione della Camerinum romana tra tarda Antichità e alto Medioevo

363

Nicoletta Frapiccini, Viviana Antongirolami, Sonia Virgili

Fig. 2. Planimetria generale dei rinvenimenti di P.za Mazzini, in rosso le sepolture.

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Fig. 3. Ceramica comune e fine da mensa dagli scavi di P.za Mazzini.

Trasformazione della Camerinum romana tra tarda Antichità e alto Medioevo

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Fig. 4. Ceramica comune dagli scavi di P.za Mazzini e Via XX Settembre.

Nicoletta Frapiccini, Viviana Antongirolami, Sonia Virgili

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Trasformazione della Camerinum romana tra tarda Antichità e alto Medioevo

Fig. 5. Piazza Cavour, localizzazione delle tre sepolture.

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Nicoletta Frapiccini, Viviana Antongirolami, Sonia Virgili

Fig. 6. Piazza Cavour, selezione di manufatti ceramici associati a stratigrafie precedenti alle inumazioni.

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Trasformazione della Camerinum romana tra tarda Antichità e alto Medioevo

Fig. 7. Largo S. Maria in Via, Tomba 8.

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Nicoletta Frapiccini, Viviana Antongirolami, Sonia Virgili

Fig. 8. Largo S. Maria in Via, selezione di forme tardoantiche/altomedievali.

370

4.15 Un insediamento a Giove di Muccia dall’età romana all’epoca tardoantica e altomedievale Nicoletta Frapiccini,* Laura Casadei,** Marco Cruciani,** Luca Millo** Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche, **Kora s.r.l.

*

[email protected], [email protected] Abstract: During a series of emergency excavations, a large rural settlement was found in Giove di Muccia, in the territory of Macerata, inhabited in the first Imperial Age in the 8th to 9th century, as shown by some fragments of Glazed Ware. There were productive activities related to breeding and agriculture. Some environments were intended for the conservation of products. Keywords: Giove di Muccia; Rural site; Late Antiquity; Early Middle Ages.

da ultimo, sono emerse strutture ancora inedite di epoca romana.4

I recenti lavori per la realizzazione del nuovo asse viario “Marche-Umbria e Quadrilatero di penetrazione interna” da Pontelatrave a Foligno, condotti lungo un tracciato che attraversa l’alta valle del Chienti e il valico di Colfiorito, hanno comportato numerose scoperte archeologiche. Un rinvenimento di particolare rilievo ha avuto luogo nel corso dell’attuazione dello svincolo per Muccia (MC), in località Giove, dove è venuto alla luce un vasto insediamento che è stato possibile esplorare solo parzialmente, per una superficie di circa 1500 mq.1

Il sito di Giove di Muccia sorgeva dunque in una zona nevralgica, di cui è stata spesso sottolineata la funzione, sin da epoca remota, di importante crocevia ubicato lungo assi viari cruciali, primo tra tutti la strada di collegamento tra questa zona dell’entroterra marchigiano e l’area costiera adriatica lungo la vallata del Chienti.5 Una seconda direttrice si inoltrava a nord-est fino a Camerino, dove intercettava il diverticolo della Flaminia da Nocera Umbra ad Ancona, e verso la valle sinclinale camerte, che conduceva a Sassoferrato.6 A ovest la strada di collegamento a Plestia portava al valico di Colfiorito, da dove la via della Spina, lungo l’omonimo torrente, giungeva fino a Spoleto, mentre un altro asse viario verso sud collegava la zona con il valico delle Fornaci a Visso, da cui si raggiungeva sia la Valnerina, sia Norcia. Tale sistema di comunicazione, che vede Muccia come vero e proprio snodo, rimase sostanzialmente in uso, a giudicare dalle attestazioni di continuità di insediamenti e frequentazioni, anche in età tardoantica e altomedievale.7

L’area si trova nelle immediate vicinanze del noto sito della Maddalena di Muccia, posto sul terrazzo fluviale alla confluenza di due torrenti, il Chienti di Gelagna e il Chienti di Pievetorina, dove è attestata una straordinaria serie di insediamenti risalenti al Paleolitico, al Neolitico antico e recente, all’Età del Rame,2 all’Età del Ferro3 e dove, anche

1 Il sito è affiorato nel settembre 2010, durante l’assistenza archeologica ai lavori richiesta dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche e diretta da Mara Silvestrini. Solo successivamente, a partire dal 2013 fino alla fine di ottobre 2014, è stato sistematicamente esplorato, con la direzione della scrivente. Desidero esprimere un sentito, autentico ringraziamento a Laura Casadei e a tutti i colleghi della Kora, che con grande dedizione, rigorosa professionalità e senso di responsabilità hanno condotto le lunghe e complesse indagini archeologiche, in un contesto assai delicato. I dati che qui si presentano sono il frutto di una prima riflessione su questo articolato e pluristratificato complesso. Solo lo studio dei numerosi materiali recuperati consentirà di ricostruirne le fasi insediative, precisarne la cronologia e di proporre ipotesi sulle diverse funzioni, nelle varie fasi di vita, delle strutture rinvenute. 2 I rinvenimenti risalenti al Paleolitico, inediti, sono emersi nell’ambito degli stessi lavori della Quadrilatero, con la direzione di Mara Silvestrini, a cura della società Kora. Sugli insediamenti del Neolitico e dell’Età del Rame si vedano Conati Barbaro, Manfredini, Silvestrini 2005, pp. 81–89. 3 De Marinis et al. 2003, pp. 19–28.

L’area di nostro interesse, compresa in epoca augustea De Marinis et al. 2003, p. 10. Anche di recente, nel 2012, durante l’assistenza archeologica ai lavori per la realizzazione di un collettore fognario, è venuta alla luce parte di un imponente setto murario, appartenente a una grande struttura di età romana, lungo la sponda del fiume Chienti. 5 L’asse è convincentemente ipotizzato in Dall’Aglio 2004, p. 77. 6 Sull’importanza del tracciato lungo la sinclinale camerte, che correva parallelamente alla via Flaminia, ricalcando percorsi preromani, si vedano Dall’Aglio 2004, pp. 73–75. Sul diverticolo della Flaminia da Nuceria Cammellaria per Picenum Anconam cfr. da ultimo Virgili 2014, pp. 14–21. 7 A tale riguardo si vedano le osservazioni in Dall’Aglio 2004, pp. 65– 71; Moscatelli 2014. 4

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Nicoletta Frapiccini, Laura Casadei, Marco Cruciani, Luca Millo prima epoca imperiale, forse in relazione allo sfruttamento agricolo della zona.

nella VI Regio,dal IV secolo d.C., nella suddivisione della Diocesis Italiciana, passò alla regione Flaminia et Picenum, mentre tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, fu inclusa nel Picenum suburbicarium amministrativamente dipendente da Roma.8 Il territorio di Muccia, che non fu mai un centro autonomo, sin dall’epoca romana dovette gravitare tra i municipia di Plestia e Camerinum i quali, dal V secolo in poi, divennero sedi di Diocesi.9

In seguito, verso la fine del I secolo d.C., venne costruito un complesso edilizio che oblitera le costruzioni precedenti, articolato in una serie di vani di dimensioni omogenee di 12 x 6 metri circa (Fig. 1). Ulteriori interventi sulle strutture di questo periodo, paiono susseguirsi ancora nel corso del II e dei primi decenni del III secolo d.C. Un piccolo nucleo di interessanti reperti di età romana, purtroppo decontestualizzati, è emerso nella parte orientale dello scavo, in un’area pesantemente compromessa da lavori agricoli moderni. Tra questi sono un elemento in bronzo, probabile rivestimento della base di un letto tricliniare,15 un castone di anello in corniola finemente inciso,16 i piedi di una statuetta in bronzo di età imperiale, forse esposta in un larario, e un piccolo piede sinistro di terracotta. Nonostante l’esigua consistenza di tali ritrovamenti, la raffinatezza di questi reperti e la destinazione di alcuni di essi ad arredi rivelano l’esistenza di un’area residenziale piuttosto pregevole. Probabilmente afferibile all’impianto di età imperiale è anche la fornace per la produzione di calce, rinvenuta nel settore meridionale del sito.

Fra le vicende che scossero in modo consistente l’assetto territoriale, politico ed economico della zona menzioniamo le incursioni gote e visigote degli inizi del V secolo, la guerra greco gotica nel VI secolo e l’occupazione longobarda, con la vittoria di Ariulfo a Camerino ricordata da Paolo Diacono, alla fine del VI secolo.10 Il centro di Muccia viene menzionato per la prima volta con il nome di “Mutia” solo nel XIII secolo, insieme ad altri poderi sottoposti a una masseria.11 Alcuni documenti della prima metà del Duecento, inoltre, riferiscono le vicende del Castrum Jovis, baluardo settentrionale, nella Valle del Chienti, della potente famiglia Baschi, che estendeva i suoi possedimenti tra Umbria e Marche.12 Nel 1240 i camerinesi assaltarono Giove e il castello venne completamente distrutto; nel 1296 Bonifacio VIII rivendicò la giurisdizione della Chiesa su tutti i beni occupati dal Comune di Camerino, primo tra i quali Castrum Jovis.13 Anche nei secoli successivi il territorio di Muccia non fu mai sede di un centro urbano primario, ma rimase sempre un importante punto nodale nell’asse viario di attraversamento appenninico.14

In coincidenza del periodo di generale crisi economica, che si ripercuote anche sul sistema produttivo delle ville rustiche, nel III secolo d.C. è ipotizzabile una fase di contrazione, seguita dall’abbandono dell’insediamento e da un’intensa opera di spoliazione delle strutture.17 A partire dal IV secolo d.C., l’area venne interessata da una sistematica rioccupazione, collegata verosimilmente ad attività di tipo agricolo-pastorale. Testimonianze significative di questa fase sono numerosi focolari anche sovrapposti, localizzati prevalentemente all’interno dei due vani a nord-ovest (A e C), con piani di concotto e frammenti di tegole (Fig. 2). Dato il numero, la concentrazione e la continuità d’uso, è possibile supporre una loro destinazione a fini produttivi. L’assenza di specifici indicatori di attività metallurgiche o ceramiche fa ipotizzare che fossero funzionali alla cottura di alimenti o a processi di affumicatura per la conservazione delle carni o per la conciatura delle pelli.

Il toponimo “Col di Giove”, che indica attualmente una modesta altura alle cui pendici sorgeva il sito indagato, non ha sinora trovato oggettivi riscontri archeologici di carattere cultuale. Gli scavi hanno messo in luce una serie di ambienti e alcune aree destinate presumibilmente ad attività produttive. Il precario e lacunoso stato di conservazione delle murature – causato sia dalle continue espoliazioni, sia dai moderni lavori agricoli – nonché i limiti imposti dallo scavo di emergenza, non hanno permesso di individuare l’originaria estensione degli edifici, che dovevano certamente occupare una superficie assai più ampia. Solo sporadici rinvenimenti rivelano la fase più antica, risalente almeno all’età repubblicana, tra cui una coppa a vernice nera rinvenuta in frammenti all’interno di una buca, posizionata nella parte ovest dell’area di scavo. Un articolato sistema di canalizzazioni e fosse per il convogliamento e la raccolta delle acque, a cui si sovrappongono successive costruzioni, indizia una prima definizione dell’insediamento tra l’età repubblicana e la

Tra V e VI secolo d.C. vennero attuati interventi con lo scopo di riparare o modificare le murature di età imperiale esistenti e di rialzare i piani pavimentali con l’impiego di ghiaia, pietre e con materiali di riutilizzo tra cui laterizi, parti di dolia e di macine in leucitite. Alcune buche abbinate per pali, posti a sostegno di una copertura di forma circolare, indiziano la contestuale presenza di strutture in materiali deperibili. A questo periodo è

Alfieri 1981b, pp. 13–16. Lanzoni 1927, p. 453 e p. 489. 10 Alfieri 1981b, pp. 27–30. 11 Bittarelli 1979, pp. 168–169. 12 Feliciangeli 1913, pp. 40–45. 13 Bittarelli 1979, pp. 170–171. 14 Alcune ipotesi sulla viabilità in questa porzione dell’entroterra marchigiano tra il tardo Medioevo e l’età moderna in Di Stefano 2012, pp. 136–149. 8

L’elemento è del tutto simile alla parte superiore della base del letto tricliniare in bronzo da Modena, da via Università, riferibile al terzo quarto del I secolo a.C. (Ortalli 1989, pp. 343–357, figg. 277–278). 16 Micheli 2014. 17 Sulla dibattuta problematica della “crisi delle ville” in questo periodo si vedano per esempio: Carandini 1985, pp. 20–21; Brogiolo 1996, pp. 107–110; De Franceschini 2005, pp. 339–340, con bibliografia citata; Sfameni 2006, pp. 20–21, 165.

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Un insediamento a Giove di Muccia dall’età romana all’epoca tardoantica e altomedievale ascrivibile anche un tesoretto composto da 165 monete e due anelli in bronzo, rinvenuto sepolto al di sotto del piano pavimentale nella zona di passaggio tra i vani a A e C. Di grande interesse è la scoperta, nella zona a ovest del vano A, di una fossa di forma quadrangolare dove erano stati deposti un’anfora,18 due lucerne19 e alcuni attrezzi in ferro destinati ad attività agricole e boschive, tra cui due falci e un falcetto, una vanga frammentaria, un’ascia e una zappa20 (Fig. 3). Relativi alle fasi più tarde sono anche alcuni frammenti di tegole con la stessa iscrizione PEC, forse lacunosa della parte terminale, probabile marchio di fabbrica con caratteri epigrafici che sembrerebbero rimandare all’onciale (Fig. 4). Un’ulteriore frequentazione sporadica nel sito, successiva al VI sec. d.C., sembrerebbe attestata dal ritrovamento di alcuni materiali, tra cui si segnalano frammenti di ceramica “a vetrina pesante”. La definizione di un ambito cronologico per le ultime fasi di vita del sito, così come un’attendibile precisazione di ciascuno dei precedenti momenti della sua occupazione, potranno tuttavia scaturire solo alla luce dell’analisi dei numerosi reperti in relazione al loro contesto stratigrafico. Ciò che appare sin d’ora evidente, è l’assoluta rilevanza della scoperta di questo insediamento a Giove di Muccia, destinato a offrire un significativo contributo e ad approfondire le nostre conoscenze sulle complesse dinamiche insediative che interessarono questo cruciale snodo dell’entroterra marchigiano tra Antichità e alto Medioevo.21

18 Si tratta di uno spatheion di produzione africana, cronologicamente riferibile al V secolo d.C.: cfr. Bonifay 2004, p. 124, fig. 67, tipo 1. Si veda anche il confronto con: Volpe et al. 2007, p. 361, figg. 4 e 5 che datano le varianti pugliesi dopo la metà del V secolo. 19 Una delle due lucerne è una firmalamp di fattura piuttosto rozza, probabilmente locale, simile a esemplari rinvenuti in altri contesti marchigiani e umbri di III–V secolo d.C., assimilabile al tipo Buchi X-anomalo (Buchi 1975, p. 197, n. 1451a). Cfr. per esempio: Camerino (MC): Frapiccini et al., infra. Località Case Basse (Foligno): Ville e insediamenti 1983, pp. 141–155, tav. 23, f, l. Castelfidardo (AN): Mercando 1979, p. 164, fig. 74. Il secondo esemplare sembrerebbe un’imitazione di prototipi africani diffusi nel IV e V secolo d.C.: cfr. Atlante I 1981, pp. 194–204, forme VIII e X; cfr. Gualandi Genito 1986, p. 346. 20 Per le falci: Zagari 2005, p. 130; cfr. da S. Benedetto del Tronto: Mercando 1979, pp. 168–169, figg. 80–81, p. 178, fig. 92; da Monte Torto di Osimo: Monte Torto 2001, p. 165, tav. LVII, n. 453. Per l’ascia: Parenti 1994, p. 485, fig. 3; cfr. da Monte Torto di Osimo: Monte Torto 2001, p. 165, tav. LVII, n. 456; da Aquileia e dal Magdalensberg: Picottini 1984, tav. 10. Per la zappa: Zagari 2005, p. 117, fig. 84; Picottini 1984, tav. 13. 21 Sull’argomento: Minguzzi, Moscatelli, Sogliani 2003; Castrorao Barba 2012.

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Nicoletta Frapiccini, Laura Casadei, Marco Cruciani, Luca Millo

Fig. 1. Planimetria generale dell’area di scavo con localizzazione degli ambienti (elaborazione grafica M. Menichini).

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Un insediamento a Giove di Muccia dall’età romana all’epoca tardoantica e altomedievale

Fig. 2. Vano C con focolari di epoca tardoantica/altomedioevale.

Fig. 3. La fossa-ripostiglio nella zona ovest del vano A con particolari degli oggetti rinvenuti (elaborazione grafica A. Giuliani).

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Nicoletta Frapiccini, Laura Casadei, Marco Cruciani, Luca Millo

Fig. 4. Frammento di tegola con iscrizione.

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4.16 Cupra Maritima tra tarda Antichità e alto Medioevo: dati e problemi Elena Di Filippo Balestrazzi,* Nicoletta Frapiccini,** Caterina Giostra*** *

Università degli Studi di Padova, **Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche, *** Università Cattolica di Milano

[email protected]; [email protected], [email protected] Abstract: The main focus of this paper is the later phases of the Roman town of Cupra Maritima (4th–8th century AD), especially the processes of transformation of the urban fabric and its monuments and the timing and modes of its decline and abandonment in favour of the neighbouring hills. New archaeological data found on the site of the Roman basilica shows a continued presence at least until the 8th century. Episodes of adaptation to different uses have been documented, with reuse of the older walls, which hosted simple tombs with minimal grave goods. The impoverishment of the expressions of material culture is also relevant, demonstrated by the presence of common pottery, as well as by more unusual materials such as fragments of soapstone. The re-evaluation of excavations from the 18th century also provides evidence in support of these peculiarities, while the reuse of architectural materials and fragments of inscriptions persists until the 20th century. Perhaps from the end of the 4th century the city and its surroundings may have been characterised by the presence of Christian buildings. One of the keys to understanding the earliest period of Christianisation is linked to the figure of St Basso, bishop of Nice and martyr, transported in the early 6th century by refugees from Nice and received outside the walls of the Civita, where the church of San Basso Fora stood, which today survives in its proto-Romanesque form. At that time, however, the area of Cupra also remained within the Picenum, a region particularly rich in Gothic evidence: in fact, three different Ostrogothic bow brooches came from the rock of St Andrew, a natural defence on the south of the Civita dominating the coastal route. The site had to fulfil strategic functions, exploited by foreign groups, while a Christian dedication – widespread in the 6th century also along the coasts of Dalmatia – refers to a church nearby. The destruction of the city in 554 AD at the hands of the Frank Leutari seems the prelude to a period of more intense traumatic events, which, however, did not determine its sudden and complete abandonment. In the High Middle Ages, part of the population was concentrated in the nearby castrum Maranum. Meanwhile, churches depending on San Basso punctuated the territory; also, there were large properties belonging to important monasteries of central Italy, including Farfa. Keywords: Cupra Maritima; Abandoned towns; Late Antiquity; Early Middle Ages.

contribuito alla migliore visualizzazione e conoscenza dell’abitato nella sua estensione e articolazione (Fig. 2, in alto),2 mentre le campagne di scavo si sono incentrate in particolar modo nell’area “forense”. L’allestimento di un laboratorio integrato permette ora la gestione e la catalogazione dei materiali provenienti da vecchi e nuovi ritrovamenti del territorio cuprense; l’elaborazione di una carta archeologica digitale su piattaforma georeferenziata consente un’agile consultazione di dati e documentazione

Nell’ultimo decennio il rinnovato interesse storico­ archeologico per la città romana di Cupra Maritima ha visto due momenti di più intense ricerche sul campo e di studi grazie ai progetti Arcus 2005–2007 e 2011–2012 (Fig. 1).1 Le indagini geofisiche condotte su una vasta area comprensiva del “foro” e di estesi settori circostanti, nonché riprese aeree e zenitali da multirotore teleguidato hanno

1 Si veda a proposito: Di Filippo Balestrazzi 2013. Inoltre, in corso di preparazione: E. Di Filippo Balestrazzi, M. Balestrazzi, M. Annibaletto, N. Frapiccini, C. Giostra, M. Miritello, L. Salvucci, A. Vigoni, Cupra Marittima. Gli scavi della Civita. Campagne 2011–2013. Relazione preliminare.

Le analisi geofisiche, di tipo geoelettrico, sono state effettuate nel 2006 dalla società Terra Nova con la responsabilità di Patrizia Fortini e Stephane Vèrger. 2

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Elena Di Filippo Balestrazzi, Nicoletta Frapiccini, Caterina Giostra sequenza documentata. Dopo la costruzione di murature di rinforzo tardo romane, alcuni crolli denunciano una cesura nell’utilizzo delle monumentali strutture in epoca tardoantica; essi furono preceduti dall’asportazione delle lastre pavimentali, quasi sicuramente strappate dalla platea forense, dove elementi simili in alcuni punti ancora ne testimoniano l’antica pavimentazione, e dalla formazione di un livello d’uso. Lo strato di riporto soprastante, argilloso e ricco di ghiaie, venne tagliato da una serie di sepolture, che provano l’uso funerario dell’area (Fig. 3.1): le inumazioni, anche plurime, erano addossate ai perimetrali del complesso o ne occupavano gli spazi interni, come è stato visto anche in precedenti interventi di scavo. Esse riutilizzavano sul fondo e nella copertura delle fosse laterizi romani anche bollati; fra lo scarso materiale di corredo è stata rinvenuta un’olletta acroma, in corso di studio (Fig. 3.2). Le sepolture furono a loro volta sigillate da un livello d’uso: su questo, all’esterno del perimetrale occidentale dell’edificio, si imposta un focolare, delimitato da grosse pietre (Fig. 3.3); inoltre, uno strato nerastro organico ha restituito frammenti di pietra ollare. Nei pressi si trovavano varie buche di palo, a sostegno di coperture ‘leggere’ (Fig. 3.4). Al di sopra di tale frequentazione, un consistente strato di macerie si formò forse in seguito all’attività di spoliazione dell’area per il recupero di materiale edilizio: il deposito era ricco di frammenti di pietra ollare e ceramica acroma con incisioni a onda o a linee circolari, insieme a manufatti architettonici decorati di età romana, che denunciano la conservazione in elevato almeno parziale dell’edificio romano e la sua rioccupazione “parassitaria” fino al pieno alto Medioevo.

(Fig. 2, in basso). Anche il restauro delle strutture emergenti concorre alla salvaguardia, valorizzazione e fruizione del patrimonio archeologico cuprense. Nell’ambito di questo progetto di ricerca, prende ora avvio una riflessione mirata sulle fasi più tarde della città e del relativo territorio, comprendente anche i secoli IV–VIII.3 Ancora nel 385 l’epigrafe di Castorius consularis Siciliae e poi vicarius Africae ricorda un personaggio di alto rango sepolto a Cupra Maritima4, in un quadro politico e socio economico ancora apparentemente poco mutato rispetto alla prima età imperiale; l’abitato è citato anche nella Tabula Peutingeriana, fra il castello Firmani e il castro Truentino. Per il periodo successivo, la tradizione storiografica ha in genere ritenuto precoce la crisi e l’abbandono di Cupra, in un quadro di «semplificazione del numero delle città che ancora contavano in ambito extra-regionale» e «di restringimento della rilevanza strategica e religiosa dei centri urbani piceni».5 Tuttavia, il traffico marittimo che interessava la linea di costa doveva essere ancora assai vitale almeno in età tardoantica, anche se la rilevanza della Salaria Picena poteva essere limitata dall’importanza della più interna via Flaminia: la via litoranea connetteva il medio e alto adriatico con l’Oriente mediterraneo e assicurava i rifornimenti ai contingenti imperiali impegnati nel conflitto grecogotico, che pure ebbe effetti spesso disastrosi sulle comunità locali.6 In effetti, Cupra compare ancora tra le città costiere elencate nel VII secolo dall’Anonimo Ravennate a sud di Ravenna, tra Firmo e Troentino.7 La ricerca archeologica si prefigge di ricostruire più nel dettaglio tempi e modi delle trasformazioni insediative e socio-economiche della città e della migrazione dell’abitato fino all’incastellamento sulla vicina altura di Marano nei secoli centrali del Medioevo.

Sono stati dunque documentati episodi di defunzionalizzazione e di differente destinazione d’uso, con riutilizzo delle più antiche murature. Queste ospitarono anche semplici tombe dai corredi ridotti. Rilevante è la semplificazione delle espressioni di cultura materiale, sia edilizia sia dei manufatti d’uso in ceramica comune, accompagnata da recipienti meno consueti come quelli in pietra ollare. Anche la rilettura degli scavi del ‘700 offre elementi di conferma a tali fenomeni. Una sequenza analoga è stata riconosciuta nel saggio esplorativo praticato all’esterno della foresteria, la casa colonica che si trova poco a est dell’area del “foro” e del suo monumentale edificio orientale. All’interno di ambienti presumibilmente abitativi, infatti, in un considerevole strato di reinterro erano state predisposte alcune sepolture con corredo ridotto (una brocchetta in ceramica acroma e un vago di collana); le inumazioni erano successive ad almeno quattro fasi di utilizzo: uno strato di preparazione pavimentale, su un precedente livello d’uso con focolare, a sua volta su una possibile fornace più antica, su un crollo ricco di frammenti ceramici, lapidei e osteologici. Anche il “ninfeo” della villa rinvenuta tra il 1975 e il 1977 lungo l’antica linea di costa a sud della città – che vide una ristrutturazione nel IV secolo con impianto termale e grande mosaico, che forse la trasformò da villa rustica

Tra i temi portanti dell’archeologia medievale a Cupra, dunque, vi sono i processi di trasformazione del tessuto urbano e dei suoi riferimenti monumentali e le dinamiche di declino e abbandono, in favore delle alture limitrofe. I dati ora in nostro possesso, registrati durante i recenti scavi stratigrafici effettuati soprattutto nel settore orientale del pianoro della Civita, cioè nell’area del “foro” in corrispondenza della “basilica” romana, segnalano una continuità di occupazione fino almeno alla tarda età longobarda. Si riporta di seguito, in estrema sintesi, la 3 Sulle Marche fra tarda Antichità e alto Medioevo, indicativamente: Atti e Memorie. Deputazione di Storia Patria per le Province delle Marche LXXXVI, 1983; Alfieri, Gasperini, Paci 2000; Atti e Memorie. Deputazione di Storia Patria per le Province delle Marche CV, 2002; Menestò 2004; Studi Maceratesi 40, 2006; Catani, Paci 2007; Cirelli 2014e. Per un approccio multidisciplinare alla ricostruzione del contermine territorio del fermano fino al Tardoantico: Pasquinucci, Menchelli 2004; Pasquinucci, Ciuccarelli, Menchelli 2005. 4 C.I.L. IX 5300; Binazzi 1995, pp. 18–19, n. 8; Paci 1999, pp. 12–13. 5 Cracco Ruggini 2006, pp. 23–25, concordando nella sostanza con quanto già espresso da Nereo Alfieri in più contributi, raccolti in Alfieri, Gasperini, Paci 2000, e in part. Alfieri 1983, pp. 234–235. 6 Brogiolo, Delogu 2005. Sulle gravi conseguenze della guerra grecogotica nel Piceno si veda: Proc., De Bello Goth., II, 20: “Nel Piceno si dice che non meno di cinquantamila contadini romani morissero di fame” (a. 538–539). 7 Ravennatis Anonymi Cosmographia, V, 1.

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Cupra Maritima tra tarda Antichità e alto Medioevo: dati e problemi a pregevole villa marittima o suburbana8 – tra il VI e il VII secolo accolse tredici sepolture addossate alle pareti e nell’abside, per lo più infantili e in anfora, con vaghi di collana e brocchette inquadrabili in questo periodo.9

arenaria, calcare) parallelepipedi di grande modulo non ben riquadrati, posti alternativamente di testa e di fascia: essi si raccordano al resto della muratura con laterizi di reimpiego; almeno il perimetrale settentrionale presenta una conduttura laterizia in spessore di muro. Il paramento interno è un po’ meno curato e ordinato e doveva prevedere più piani; nei due perimetrali meglio conservati non sono presenti aperture originarie; le malte di finitura sono andate perdute. In passato “scoprendo le sostruzioni dei muri del grandioso e complicato edificio, […] fra le macerie si raccolse una testa romana di marmo di non trascurabile pregio”.12 Tra le ipotesi espresse finora – pur in mancanza di riscontri stratigrafici e archeometrici – è prevalsa quella che vi identifica un edificio tardo romano: l’originaria funzione riguarderebbe un magazzino marittimo, posto alla terminazione del bacino portuale, il porto-canale ipotizzato anche in virtù di alcune strutture viste negli anni ’50 del secolo scorso. Un più approfondito studio delle murature, supportato da analisi archeometriche delle malte e da saggi stratigrafici, potrà puntualizzare l’inquadramento cronologico del grande edificio – a una prima analisi possibilmente di origine tardoantica, più che tardomedievale – e verificarne un eventuale uso legato al controllo economico e/o militare della costa.

I dati fin qui esposti inducono a riconsiderare le ipotesi finora formulate in merito al momento di abbandono di Cupra Maritima, da rinviare almeno all’VIII secolo, seppure con modalità di occupazione ed entità della comunità da definire. Le aree pubbliche della città romana videro una rioccupazione in forme più modeste e con impiego del legno, insieme a un progressivo spoglio delle strutture monumentali e un esteso utilizzo funerario, funzione che interessò anche almeno parte della prestigiosa villa con le terme lungo la costa. Già in età tardo romana e poi gota e bizantina verosimilmente Cupra Maritima dovette essere interessata da fenomeni diffusi quali l’attenzione alla difesa e la cristianizzazione, oltre a mantenere una vocazione marittima e commerciale. L’ambito urbano era cinto da solide strutture: lungo il lato settentrionale il circuito lambiva l’area “forense” e ne costituiva il muro di sostruzione e terrazzamento, aprendosi nel tratto orientale in corrispondenza di una porta ancora in parte esistente; all’esterno, ai lati della via di uscita settentrionale, si sviluppava una delle aree funerarie romane. La muratura sembra presentare interventi tardi di restauro e ripristino della cinta muraria. Inoltre, sull’altura a sud dell’abitato romano, il Colle Morganti, sono state rilevate strutture – al momento solo parzialmente visibili – con profilo articolato, nel quale è forse possibile riconoscere torre e contrafforti e che permette di ipotizzare, pur con molta cautela, un ridotto fortificato in corrispondenza della supposta acropoli.10 Tali interventi, se confermati dallo studio appena avviato, potranno avvalorare l’ipotesi di un controllo e un interesse bizantino per i siti costieri a forte valenza strategica piuttosto prolungato, mantenutosi di fatto forse anche durante la prima età longobarda.11

Dalla tarda Antichità la città e il suo circondario dovevano essere connotate dalla presenza di edifici di culto cristiani.13 Una delle chiavi di lettura circa le più antiche fasi della cristianizzazione cuprense è legata alla figura di San Basso, vescovo di Nizza e martire durante la persecuzione di Decio (249–251), che la tradizione vuole traslato a Cupra da profughi nizzardi forse agli inizi del VI secolo.14 I suoi resti furono custoditi al di fuori della Civita, dove sorse la chiesa di San Basso, evidentemente in un momento in cui il vicino insediamento era ancora un significativo polo demico. Si trovava lungo la via meridionale di accesso alla città, in un’area nota per ritrovamenti funerari, che segnalano una delle necropoli suburbane; la distanza dal nucleo abitativo sembra presupporre un’espansione del tessuto tardo romano, che peraltro vedeva da tempo appendici nelle ville lungo la linea di costa. Oggi la chiesa si conserva in veste proto-romanica, ma già nell’XI secolo era ritenuta antichissima.15 La tradizione fissa al 723 la costituzione in loco di una comunità di monaci farfensi.16 Due frammenti scultorei in marmo attribuibili a un arredo

Poco più a nord della contrada Civita, presso il torrente Menocchia, le cosiddette mura Mignini (Fig. 4) descrivono un grande edificio quadrangolare (m. 17,80 x 9,80) conservato per un’altezza di m. 11,70 ca, del quale almeno i perimetrali settentrionale e occidentale proseguono verso est e verso sud. La muratura ha un paramento esterno (Fig. 5) in pietrame a spacco o un poco sbozzato e laterizi di reimpiego, composto in tessitura complessa ovvero privo di corsi, ma con frequenti piani di orizzontamento assai regolari e definiti da elementi allungati e laterizi. I cantonali sono dati da elementi lapidei (travertino,

Berangher 1993, pp. 224–225 e 254, (lettera del 1911 di Vincenzo Dall’Osso alla Direzione Generale del Ministero). Un rilievo della struttura è in Ciarrocchi 1993, fig. 24. 13 Una testimonianza della cristianizzazione nell’ager cuprensis è data dall’epitaffio di Paolo ed Eufimia, ritrovato nel territorio di Massignano e attualmente disperso: vi campeggia una croce latina affiancata da due piccole colombe; piccole croci sono incise anche ai lati delle prime righe (C.I.L., IX, 5347; Binazzi 1995, pp. 19–20, n. 9; Paci 1999, p. 13). Mommsen, che vide l’iscrizione murata in una casa rurale, propose di attribuirla al 463 o al 480 o al 511 o al 541 e ne suggerì la provenienza “ex ruderibus ecclesiae campestris quae ibi fuit S. Petri” (Regio V, p. 508). Si tratta di una delle rare testimoniane epigrafiche paleocristiane delle Marche. 14 Sul santo e Cupra: Mostardi 1962, pp. 115–125. 15 Catalani 1783, pp. 44–45. 16 Mostardi 1962, p. 142, che riporta la testimonianza del pievano Bartolomeo Brancadoro il quale nel 1494 trae la notizia da “antichi documenti e atti notarili”. 12

Si veda il testo di Edvige Pergossi Serenelli in De Marinis, Paci 2000. Sulle sepolture dello scavo presso la foresteria, diretto tra 2011 e 2012 dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche, e sulla revisione di quelle dello scavo del 1975–1977 nel cosiddetto Ninfeo si veda il contributo di Frapiccini, Galazzi e Salvucci, infra, con considerazioni sulle produzioni ceramiche e sulla persistenza della vocazione marittima e commerciale di Cupra. 10 Ciarrocchi 1993, fig. 9. 11 Bernacchia 1995, p. 82. 8 9

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Elena Di Filippo Balestrazzi, Nicoletta Frapiccini, Caterina Giostra fonti e temi di differente natura.

liturgico di età carolingia murati all’interno dell’edificio testimoniano una fase della chiesa di questo periodo. Il comprensorio cuprense intanto, in età gota rientra anche in quel Picenum menzionato in due lettere nelle Variae di Cassiodoro (V, XXVI e XXVII) rivolte ai guerrieri goti ivi stanziati, che testimoniano una presenza organica e radicata del gruppo; nel corso della guerra greco-gotica vi si registrano effetti disastrosi soprattutto durante la ritirata del 538. Il territorio lungo la valle del Tronto e fino a Cupra Marittima è particolarmente denso di testimonianze archeologiche gote.17 Sulla rupe di Sant’Andrea (loc. Le Cupe), castello naturale a sud della Civita dominante la via costiera, nel 1839 si rinvennero tre differenti fibule a staffa ostrogote in argento dorato e almandini (Fig. 6):18 esse testimoniano un nucleo di sepolture, verosimilmente non solo femminili. Il sito doveva assolvere a funzioni strategiche sfruttate da gruppi alloctoni. L’intitolazione cristiana – diffusa nel VI secolo anche lungo le coste della Dalmazia in relazione a fondazioni religiose – sembra rimandare a un luogo di culto nei pressi; in passato, da Sant’Andrea sono stati recuperati frammenti erratici di un pilastrino e di plutei di recinzione presbiteriale (Fig. 7) con decorazione a intreccio carolingio che ne testimonierebbero almeno una fase di quest’epoca. Le incursioni distruttive del franco Leutari in zona nel 55419 sembrano preludio a un periodo di più intensi eventi traumatici, che tuttavia non dovettero determinare il repentino e completo abbandono della Civita. Nella fase dell’incastellamento il popolamento si concentrò nel vicino castrum Maranum, ancora rappresentato nel Catasto gregoriano quale riferimento demico della zona insieme al castello di Sant’Andrea e, più a sud, a Grottammare-Le Grotte (Fig. 8).20 Intanto il territorio si costella di chiese dipendenti dalla pieve di San Basso. Estese nella diocesi di Fermo erano anche le proprietà dell’abbazia di Farfa; tra queste, lo storico Lucio Tomei identifica la curtis Sancti Angeli in villa Màina (S. Angelo in Villa Magna o S. Michele in Villa Magna), che dista da S. Basso pochi chilometri:21 sono forse i due più importanti riferimenti religiosi altomedievali cuprensi. Tante tessere di un mosaico che ci si propone di ricomporre, intrecciando Bierbrauer 1975, fig. 20, p. 210; Profumo 1995c; 2000. Bierbrauer 1975, pp. 93–94, 283–285, n. 13, tavv. XXIII–XXIV, 1–2, LXXXVII, dove sono indicate con provenienza da Grottammare (in realtà Sant’Andrea è ancora nel comprensorio di Cupra Marittima); Profumo 1995b, p. 48; 2000, pp. 391–392. Sono attualmente conservate presso il Museo Civico di Ripatransone. 19 Pacini 2000, pp. 17 e 431, con bibliografia precedente. 20 Tra i centri costieri più vicini e più estesamente indagati, castrum Truentinum alle foci del Tronto (attuale Martinsicuro, prov. Teramo) presenta analoghi fenomeni di destrutturazione urbana fino al VII secolo; inoltre, vi sono state supposte opere di fortificazione legate al Kastron Terentinon bizantino citato d Giorgio Ciprio, forse in relazione anche al Castellum Montis S. Martini più a sud, in posizione dominante sull’antico abitato; in seguito vi è il restringimento dell’abitato presso Turris ad Trunctum, mentre la pieve di S. Cipriano rimane esterna a essi (da ultimo, Staffa 2006c). 21 Sulla chiesa e la corte di S. Angelo in Villamagna, citate per la prima volta nel 939 in un elenco di beni del monastero di Farfa, si veda anche Pacini 2000, pp. 435–436, che ipotizza che la chiesa sia sorta in una corte longobarda e poi sia passata all’abbazia, forse fra i cospicui beni che nel 705 il duca di Spoleto Faroaldo II donò all’abate Tommaso. 17 18

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Cupra Maritima tra tarda Antichità e alto Medioevo: dati e problemi

Fig. 1. Aree di scavo 2011–2012 in località la “Civita” a Cupra Marittima.

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Fig. 2. In alto mappa delle anomalie geoelettriche (in verde gli edifici nell’area del “foro”); in basso mappatura georeferenziata dei ritrovamenti e localizzazione dei siti citati nel testo nell’abitato attuale di Cupra Marittima.

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Cupra Maritima tra tarda Antichità e alto Medioevo: dati e problemi

Fig. 3. Immagini dagli scavi del 2011–2012: la Tomba 2 appoggiata al perimetrale occidentale della “basilica” (1); particolare del corredo della Tomba 3 (2); focolare rinvenuto all’esterno del muro perimetrale ovest e copertura di una sepoltura rinvenuta nel livello sottostante (3); buche di palo riferibili a strutture con copertura in materiale deperibile (4).

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Fig. 4. Veduta da nord-ovest delle cosiddette Mura Mignini, a nord della “Civita” di Cupra Marittima.

Fig. 5. Particolare della tessitura muraria del perimetrale ovest delle cosiddette Mura Mignini.

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Cupra Maritima tra tarda Antichità e alto Medioevo: dati e problemi

Fig. 6. Fibula a staffa “germanico-orientale” da Sant’Andrea a Cupra Marittima (da Bierbrauer 1975).

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Fig. 7. Cupra Marittima, Sant’Andrea. Frammenti di recinzione presbiteriale di età carolingia da Sant’Andrea a Cupra Marittima.

Fig. 8. Particolare della zona di Cupra Marittima nel Catasto Gregoriano.

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4.17 Contesti funerari tardoantichi da Cupra Maritima Nicoletta Frapiccini,* Federica Galazzi,** Loris Salvucci*** *

Musei Archeologici del Polo Museale delle Marche (MiBAC), **Ricercatrice indipendente, *** Ars s.r.l.s.

[email protected], [email protected], [email protected] Abstract: New discoveries in La Civita in the old city of Cupra Maritima, dating back to Late Antiquity and the Early Middle Ages, allow us to reconsider what has been claimed up to now regarding the dating of the abandonment of the site. This paper presents a systematic examination of the thirteen tombs discovered between 1973 and 1977 in the so-called area of ‘Ninfeo’ and still unpublished. All these findings must be correlated to those of the area of La Civita, where a similar funerary context is associated with a concomitant phase of use of the site, without clear continuity with the Roman settlement. To Late Antiquity and the Early Middle Ages, in fact, are even attributable four tombs that emerged in 2004 inside the ruins of an early Christian basilica and seven graves excavated during the continuation of the investigation of the same building and in a small structure discovered just east of it. The framework just described, along with the wellknown funerary evidence from the S. Andrea site and the materials from the ninfeo and the nearby villa, suggest that in the Gothic–Byzantine age there was a reduction of the territory of the ancient town. There was also an obvious continuation of the maritime and commercial role of the city of Cupra Marittima. Keywords: Cupra Marittima; Necropolis; Villa with Ninfeo; Burials; Funeral goods; Amphorae; Infant tombs; Late Antiquity; Early Middle Ages.

città divenne municipio, iscritto alla tribù Velina (benché compaia anche nella Maecia) e successivamente costretto ad accogliere migliaia di veterani in seguito alle guerre dell’età triumvirale, all’inizio del principato di Augusto.

La città romana di Cupra Maritima sorgeva lungo l’asse viario costiero della Salaria picena, tra Castrum Firmanorum a nord e Truentum a sud (Fig. 1.1). Il sito era già popolato in epoca preromana, periodo cui risalirebbe un santuario assai frequentato dedicato alla dea Cupra, che la tradizione voleva fondato dai Tirreni1 e di cui è ancora problematica e discussa la localizzazione.2 Gli insediamenti piceni di Colle San Silvestro e della Castelletta, con la nota stipe votiva3 e le necropoli, databili tra l’VIII e il V sec. a.C., documentano la vivacità di questo emporio internazionale. Nel 268 a.C., all’indomani della sconfitta inflitta dalla potenza romana ai Piceni, passato ormai sotto il controllo di Roma, il territorio di Cupra Maritima venne annesso all’ager publicus e suddiviso con assegnazioni viritane. Fu probabilmente nel 49 a.C. che la

I resti venuti alla luce in località La Civita, dalle prime esplorazioni4 fino alle più recenti campagne di scavo, attestano la presenza di un imponente complesso monumentale, attualmente identificato come i resti del Foro dell’antica Cupra, che si estendeva anche nell’ampio versante meridionale sovrastante il sito, dove un piccolo saggio ha messo in luce una vasca e una fossa adiacente con materiali databili tra V e VI sec. d.C.5 Al pianoro, originariamente delimitato a nord e a ovest da un muro di cinta a contrafforti (Fig. 1.2, A), si accedeva da un ingresso aperto lungo il lato settentrionale (B), dove

1 Strabo, Geogr., V, 4, 2; Silio Italico, Pun., VIII, 433. Sul tempio e sulla sua fondazione si veda in particolare Colonna 1993, pp. 3–31; sull’identificazione della dea Cupra con Venere si veda Fortini 1981, pp. 27–33. Sulla probabile presenza e influenza dei Villanoviani in questo contesto, che avrebbe potuto costituire una plausibile premessa alla creazione di quest’area santuariale dai connotati fortemente transappenninici, si vedano le osservazioni di Edvige Percossi Serenelli (Percossi Serenelli, Frapiccini 2000, p. 362). 2 Percossi Serenelli, Frapiccini 2000, pp. 357–374; Frapiccini 2000. 3 Baldelli 1997; 2000.

Queste prime indagini, graficamente documentate da Serafino Murri, vennero descritte da Colucci e, più tardi, da Mostardi: Colucci 1779; 1783; 1795, pp. 3–101; Mostardi 1977. In merito alle prime campagne di scavi si veda lo studio di Catani 1993, pp. 183–211. Su alcuni manoscritti confluiti nella raccolta di Padre Clemente Benedettucci e oggi presso la Biblioteca Benedettucci di Recanati, si veda Percossi Serenelli 2000, pp. 62–87. 5 Fortini 2013, p. 56; Vérger 2013, pp. 50–52. 4

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Nicoletta Frapiccini, Federica Galazzi, Loris Salvucci riferibile a un arco cronologico inquadrabile tra il III e gli inizi del V secolo.11 Nelle tombe 1 (1975), 7 e 9 sono state rinvenute particolari anfore attribuibili con ogni probabilità a una produzione locale; questi contenitori sembrano ispirati, per quanto riguarda l’articolazione delle anse, alla LRA 1 e, per quanto concerne lo sviluppo del corpo (spalle pronunciate e forte rastremazione verso il fondo),12 alla LRA 3, la cui produzione comincerebbe presumibilmente nel V per protrarsi almeno fino al VII secolo, come attestano i contesti funerari di rinvenimento (Figg. 3.3–3.6). Dalla tomba 6 proviene un’anfora olearia di produzione tunisina, la cui lacunosità rende indefinibile la precisa attribuzione tipologica (Fig. 3.7). La tomba 2 (1975) ha restituito una Africana 3 C di grandi dimensioni, ampiamente diffusa nel Mediterraneo e databile tra il VI e l’VIII secolo13 (Fig. 3.8), mentre nella tomba 2 (1973) è stata rinvenuta una grande anfora cilindrica di produzione africana, attestata anche a Classe, dove viene datata alla fine del V – metà del VI secolo.14 Oltre alle anfore, tra i materiali ceramici provenienti dall’area cimiteriale, si segnalano due brocchette poste a corredo della tomba 3, a sepoltura multipla (Figg. 3.9 a, b–3.10 a, b).15 La tomba 11 ha restituito un corredo, riferibile a una piccola defunta, comprendente una fuseruola in osso e una preziosa collana, composta da un filo in bronzo con parte della chiusura in argento, un elemento cilindrico in bronzo e quattro grani in pasta vitrea: due cannelli cilindrici blu scuro, con filo giallo avvolto a spirale e ulteriori decorazioni applicate; un grano troncoconico blu scuro, linea bianca a zigzag; un grano sferoidale appena schiacciato blu, linea bianca a zigzag (Fig. 3.11). I vaghi cilindrici presentano un confronto piuttosto puntuale con gli elementi di una collana da Scheggia, mentre gli altri grani sono di un tipo presente nei monili goti e longobardi, ampiamente attestato nelle successive sepolture femminili di Castel Trosino.16 Di particolare interesse è, infine, il corredo della tomba 1, che comprendeva un vago di pasta vitrea celeste, una chela di granchio e un singolare elemento in madreperla, probabilmente una fibbia (Fig. 3.12 a–e).

le recenti indagini hanno anche individuato un tratto di canalizzazione per lo smaltimento delle acque (C). Al centro del lato ovest si ergeva un tempio su podio con gradinata di accesso affiancato da due archi (D), collegato da un portico, rimesso in luce lungo il lato nord (F), e antistante a un grande edificio collocato sul lato orientale, la c.d. “basilica” (E). Recenti indagini hanno evidenziato la complessità di questa struttura, della quale si sono rinvenuti nuovi setti murari, l’abside lungo il lato occidentale e alcune tombe tardoantiche.6 La necropoli di età romana si estendeva ai piedi de La Civita, come documenta la presenza di un nucleo quadrangolare in opera cementizia di monumento funerario (G), e dove si sono rinvenute tombe alla cappuccina, a fossa e in urna.7 Poco a nord di questa zona, presso i resti di un grande edificio parzialmente conservato, noto come “Mura Mignini”, si rinvennero parti di un molo e ormeggi in pietra che solo ipoteticamente vennero riferiti a un portocanale,8 al quale forse afferiva anche l’enigmatico edificio in gran parte superstite e un ambiente coperto rinvenuto lungo la SS 16 Adriatica, con all’interno dolia allineati, forse magazzini per lo stoccaggio delle merci. Altri resti della città sono emersi lungo la SS 16 Adriatica dove, proprio ai piedi de La Civita, si rinvenne nel 1973 l’area di una villa con ninfeo, oggetto di un recente riesame della documentazione d’archivio e dei materiali, riferibili alle fasi più tarde,9 che hanno rivelato un interessante legame con le ultime scoperte nell’area de La Civita. Il rapporto tra i due contesti analizzati ha consentito di ricostruire le fasi di epoca tardoantica e altomedievale e di riconsiderare le ipotesi finora formulate in merito al momento di abbandono della città. Le sepolture dall’area della villa con ninfeo Dall’analisi delle quindici sepolture, tutte rinvenute tra il 1973 e il 1977 all’interno del Ninfeo, ormai defunzionalizzato, si è potuto sinora ricostruire un contesto sepolcrale che si articola in almeno quattro momenti successivi, databili tra la fine del IV e gli inizi del VII secolo (Fig. 2). Le tombe, a inumazione e di diversa tipologia, contenevano due feti, quattro infanti (tra cui un solo maschio), quattro bambine, due donne adulte, una matura e un uomo anziano. Sette sepolture erano entro anfora, mentre otto erano entro cassa di tegole con copertura di coppi e grandi frammenti di anfore. L’ambito cronologico è definibile grazie alle anfore contenenti gli inumati e ai pochi oggetti di corredo. In particolare, tra le anfore, si segnala la presenza di un’Agora M 27310 (Fig. 3.1) dalla tomba 12, inquadrabile cronologicamente tra il IV e il V secolo. Dalla tomba 13 proviene inoltre un’anfora Africana I (Fig. 3.2) di produzione tunisina

Tale contenitore è attestato a Roma e Ostia (a riguardo si veda Panella 1973; Manacorda 1977; Bonifay 2004). L’esemplare qui presentato è caratterizzato dalla presenza di un numerale inciso prima della cottura. 12 Frammenti di LRA 1 e LRA 3 sono stati rinvenuti negli ambienti della villa, documentando la diffusione di queste forme sul sito. Gli esemplari individuati a Cupra, di presumibile produzione locale, trovano inoltre confronti puntuali con anfore attestate a Verona, per le quali non sono noti né luoghi di produzione, né la relativa cronologia (si veda Bruno 2007). 13 Quest’anfora trova attestazione in molti siti della penisola italiana (Classe, Roma, Udine), tra cui si segnala il vicino sito di Castel Trosino. Inoltre è ampiamente attestata in Grecia e in Albania (a riguardo si veda Bonifay 2004; Augenti et al. 2007; Cirelli 2007; Paroli, Ricci 2007; Augenti, Cirelli 2010). 14 Augenti et al. 2007; Cirelli 2007; Augenti, Cirelli 2010. 15 I due esemplari, che non paiono trovare confronti puntuali nell’area medioadriatica, ricordano brocchette rinvenute nella necropoli di VI– VII secolo d.C. nell’abbazia di San Giovanni in Venere Fossacesia (CH) e morfologicamente simili anche alle coeve produzioni dipinte. Si ringraziano per la gentile e amichevole segnalazione Andrea Staffa e Roberta Odoardi. 16 Frapiccini 2013, p. 62, fig. 13. Per i confronti citati si vedano Paroli 1997b (Scheggia); Paroli, Ricci 2007 (Castel Trosino). 11

Di Filippo Balestrazzi 2013. Fortini 1994, pp. 340–341; Frapiccini 2010. 8 Annibaldi 1959, pp. 978–979. 9 Percossi Serenelli 1993; Frapiccini 2013; Frapiccini et al. 2015. 10 Prodotta nel Mediterraneo orientale e ben attestata a Classe e in Puglia, (si veda in proposito Auriemma, Quiri 2007). 6 7

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Contesti funerari tardoantichi da Cupra Maritima L’area di necropoli, vista la preponderanza di tombe infantili, affiancate solo da quattro sepolture di adulti che, in due casi, sono donne sepolte rispettivamente con un bambino e un feto, sembrerebbe di carattere familiare, forse legata ai proprietari della villa che, nel corso di tre secoli, se ne servirono principalmente per i fanciulli morti prematuramente. Particolare è il caso della tomba 3, forse destinata a un piccolo nucleo familiare e utilizzata in due momenti diversi: sembra molto probabile che le prime due sepolture fossero quelle della giovane donna e del bambino di tre anni, riferibili agli inizi VI secolo, mentre dopo qualche decennio, intorno alla metà del VI, venne sepolto con loro anche l’unico defunto maschile presente in questo contesto, un uomo di età matura, forse deposto accanto alla moglie e al figlioletto morti prematuramente.

testa era una brocchetta in ceramica acroma che, insieme a un vago in pasta vitrea nera, rinvenuto sotto il capo, costituiva il modesto corredo funebre. La brocchetta, di probabile produzione locale, appare riferibile a epoca tardoantica, ispirata alle più pregiate produzioni in argento e in vetro attestate nel sito produttivo di Carlino, in provincia di Udine18 (Fig. 3.13). Il monile trova confronti con analoghi esemplari di produzione gota e longobarda, contribuendo a orientare l’attribuzione della sepoltura a un orizzonte cronologico tra il V e gli inizi VI secolo. Al di sopra della copertura della tomba era presente una olla con orlo verticale estroflesso in ceramica comune da cucina rovesciata e forse intenzionalmente defunzionalizzata (Fig. 3.14), mentre nelle immediate vicinanze la presenza di numerosi gusci di ostriche, di un cranio e di ossa di bue potrebbero indicare il consumo rituale di un pasto.

Questi rinvenimenti sono da porre in relazione a quelli occorsi nell’area de La Civita, dove un analogo contesto funerario è associato a una contemporanea fase di frequentazione, senza soluzione di continuità con l’abitato romano. Nell’area, all’interno dei resti di una basilica paleocristiana, sono state individuate nel 2004 tre tombe alla cappuccina e una in muratura, quest’ultima con deposizioni multiple. Nonostante l’assenza di corredo, il contesto stratigrafico assegna le sepolture a due diverse fasi, tra VI e VII sec. d.C. Alla fase tardoantica e altomedievale sono ascrivibili anche le quattro tombe emerse durante la prosecuzione delle indagini presso lo stesso edificio, sigillate da una fase insediativa di epoca altomedievale.17 Di queste sepolture, tre, addossate al muro perimetrale occidentale della basilica, erano di adulti, mentre una tomba di infante, in fossa terragna con una piccola lastra sotto il cranio e un frammento di laterizio con bollo nel riempimento, era situata più vicino all’abside. Le tombe addossate alla parete perimetrale presentano diverse tipologie: la tomba 4, in fossa terragna, era violata e priva di corredo; la tomba 2 era a cassa con copertura di tegole e coppi, contenente le spoglie di quattro individui senza corredo; infine la tomba 3 era a fossa terragna con copertura di tegoloni. Sopra al cranio del defunto, rivolto verso est, si è rinvenuta una piccola olla in ceramica acroma e, al di sotto dei resti, la presenza di altre ossa indicherebbe un’ulteriore deposizione non ancora indagata.

Una seconda tomba di inumato di età infantile del tipo alla cappuccina, è stata rinvenuta al di sotto della scala di accesso alla casa colonica, con il defunto supino su un letto di embrici e il capo rivolto a est. L’assenza del corredo, abbastanza usuale per gli inumati di età infantile, era forse ovviata dalla deposizione di alcuni denti di animale (probabilmente di ruminante) posti a destra del capo; anche in questo caso la presenza di un cranio di vitello trovato vicino alla tomba potrebbe essere ricondotta a un rituale funerario. I contesti funerari qui presentati denotano, in epoca goto-bizantina, le evidenti trasformazioni di alcune delle principali aree insediative della città, parzialmente defunzionalizzate e adibite ad aree cimiteriali. In questa nuova situazione sarà da leggere il pesante riverbero delle vicende della guerra gotobizantina nella realtà locale, e in paticolare della disastrosa ritirata dei Goti dell’inverno 538–539 e alla successiva caduta di Fermo (580), a cui deve probabilmente collegarsi la conquista longobarda anche di Cupra.19 Tali eventi provocarono inevitabilmente un repentino depauperamento e un nuovo assetto insediativo nel territorio cuprense, attestato sia nell’area della villa con ninfeo, sia nell’area del c.d. foro.

Anche nell’area a est del pianoro, nel corso dei lavori di ristrutturazione della casa colonica settecentesca da adibire a foresteria, sono state rinvenute due sepolture all’interno di una struttura di epoca a esse precedente. La prima, addossata a uno dei setti murari ormai in disuso, conteneva un inumato adulto, entro una cassa in muratura realizzata con materiale di reimpiego, con copertura di tegole alla cappuccina, in parte rasata superiormente nell’edificazione della casa colonica. L’inumata, probabilmente una donna, era deposta in posizione supina con il viso rivolto a est. A destra della 18 17

Di Filippo Balestrazzi 2013, pp. 70–72.

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Magrini, Sbarra 2010, p. 570. Staffa 1995, p. 105.

Nicoletta Frapiccini, Federica Galazzi, Loris Salvucci

Fig. 1. 1) Carta di distribuzione dei principali centri e viabilità nel territorio marchigiano (Dall’Aglio 2004); 2) Cupra Marittima, La Civita: muro di cinta a contrafforti (A); ingresso al pianoro sul lato nord (B); resti di canalizzazione per lo smaltimento delle acque (C); tempio su podio con gradinata di accesso affiancato da due archi (D); Basilica (E); portico (F); necropoli (G) (rielaborazione da Di Filippo Balestrazzi 2013).

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Contesti funerari tardoantichi da Cupra Maritima

Fig. 2. Cupra Marittima, area cimiteriale della “Villa con Ninfeo”. Fase II, tombe 8–10 (in alto); Fase III, tombe 3–7 (al centro); Fase IV, tombe 1–3, 1973, 1–2, 1975 (in basso).

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Nicoletta Frapiccini, Federica Galazzi, Loris Salvucci

Fig. 3. 1) Tomba 12 della “Villa con Ninfeo”; 2) Tomba 13 della “Villa con Ninfeo”; 3–4) Tomba 9 della “Villa con Ninfeo”; 5) Tomba 7 della “Villa con Ninfeo”; 6) Tomba 1 della“Villa con Ninfeo”; 7) Tomba 6 della “Villa con Ninfeo”; 8) Tomba 1, 1973, della “Villa con Ninfeo”; 9ab) Tomba 3 della “Villa con Ninfeo”; 10ab) Tomba 3 della “Villa con Ninfeo”; 11) Tomba 11 della “Villa con Ninfeo”; 12ae) Tomba 1, 1973 della “Villa con Ninfeo”; 13) Tomba 1 della “Foresteria”; 14) Tomba 1 della “Foresteria”.

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4.18 Lo scavo archeologico di Marino del Tronto (AP): testimonianze di continuità insediativa fra età romana e altomedievale Marco Antognozzi, Elisa Lopreite, Michele Massoni Ricercatori indipendenti [email protected], [email protected], [email protected] Abstract: The creation of a new gas network in Marino del Tronto (Ascoli Piceno) near an already known archeological area allowed us to identify and investigate a complex context of walls and graves arranged around a gravel road, which can be related to a cippus miliarius connected with the Roman via Salaria. We investigated the site through a series of samples. The stratigraphy revealed at least four main phases which range from the middle to late Republican period to the 9th century AD. The first period is characterised by some buildings probably related to the exploitation of the rural territory, which started from the late Republican period; some kilns testified to handcrafting activities from at least the 1st and the 2nd century AD. At the same time there was a funerary use of the area set on the borders of the glareata road (1st century BC–2nd century AD) the size of which we could not wholly investigate. The third phase shows the abandonment of the structures, although some findings maybe related to the occupation of the area during the 4th and 5th centuries AD. Finally, the area became a graveyard in the Early Middle Ages, perhaps related to a nearby plebs of which so far there is no clear evidence. Keywords: Marino del Tronto; Rural site; Burials; Early Middle Ages.

Introduzione

Le indagini archeologiche

In questa sede si vuole offrire una sintesi preliminare delle evidenze archeologiche restituite dallo scavo eseguito negli anni 2008–2010 in località Marino del Tronto (Figg. 1–5), a testimonianza del lungo periodo di frequentazione di un’area periferica, verosimilmente a vocazione agricola e produttiva, rispetto al vicino centro urbano di Asculum.1

Grazie ai lavori di posa in opera delle condutture del gas lungo il margine meridionale della Strada Statale PicenoAprutina (n.81) all’altezza del Km 4, in località Villa Mercatilli presso Marino del Tronto, è stato riportato in luce un interessante contesto archeologico localizzato alle porte di Ascoli Piceno, in un terreno di proprietà dell’Istituto Agrario adibito ad area per esercitazioni e ricerche agricole.

Questo territorio non è nuovo a ritrovamenti archeologici: da un’area limitrofa proviene un noto miliario attribuito a uno dei percorsi della via Salaria con l’indicazione del 132° miglio e poco più a ovest si trova il Ponte della Scodella, ritenuto un rimaneggiamento medievale di un’analoga struttura di epoca romana.2

Le molteplici evidenze archeologiche purtroppo, specialmente alle quote più superficiali, erano state già gravemente compromesse dai lavori agricoli: tale situazione non ha reso sempre possibile individuare connessioni o comprendere la natura di queste testimonianze. Negli strati più alti si ritrovano infatti materiali eterogenei per classe e cronologia, emblematico il caso di una tomba, priva di scheletro, la cui struttura lapidea è stata distrutta dall’aratura.

1 Si segnala che questo contributo è da ritenere una nota preliminare delle indagini archeologiche svolte. I materiali sono attualmente in corso di studio e i dati raccolti, al momento, sono in rielaborazione. Si vuole fornire quindi un inquadramento generale, volto a una prima comprensione del deposito archeologico. 2 Per le ipotesi ricostruttive del percorso della via Salaria, i miliari e le infrastrutture relative si vedano Conta 1982, pp. 201–203, n. 107; Giorgi 2014, pp. 266–267. Più in generale sulla via Salaria si vedano Campagnoli, Giorgi 2007; Catani, Paci 2000; 2007.

Tuttavia, è stato possibile identificare con certezza i resti di una strada glareata ai lati della quale si impostano varie strutture murarie riferibili a edifici distinti per funzione e per cronologia, numerose sepolture che coprono un ampio

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Marco Antognozzi, Elisa Lopreite, Michele Massoni Fase 4. Il sepolcreto altomedievale (VII–IX sec. d.C.)

arco cronologico e i residui di almeno tre fornaci destinate probabilmente alla produzione di laterizi.

Numerose sepolture a inumazione in fossa terragna, completamente prive di corredo, identificano una fase nuova (Figg. 4, 5). Le tombe tagliano le strutture murarie romane che verosimilmente erano già dismesse e abbandonate da tempo nel momento in cui l’area viene destinata a cimitero. L’area si connota da ora come spazio a destinazione esclusivamente funeraria. Le analisi radiometriche eseguite con metodo C14 hanno permesso di collocare cronologicamente le sepolture in un periodo compreso fra la seconda metà del VII e il X secolo d.C.

Le fasi individuate Fase 1. l’area della strada glareata La porzione di percorso inghiaiato emerso dallo scavo si trova sulla destra idrografica del Tronto documentando, come già ipotizzato, la presenza, lungo le sponde del fiume, di due assi viari che prolungavano il percorso della via Salaria fino alla costa. Il tratto individuato si pone come la naturale prosecuzione della strada che conduceva verso est dopo il Ponte della Scodella, riconoscendo in esso il margine meridionale (Fig. 1).3

L’area delle fornaci Circa 40 metri a ovest di quest’area edificata sono state individuate tre fornaci romane attive fra I e II sec. d.C., verosimilmente per la produzione di mattoni e forse anche di anfore Dressel 2–4 (Fig. 3).

Fase 2. Le strutture e le tombe (II sec. d.C.) Le prime fasi di frequentazione del sito si assegnano all’epoca medio-repubblicana, quando è in essere una struttura di forma rettangolare con un orientamento che non rispetta l’asse della strada, che sembra dettare invece l’ordinamento di tutti gli altri edifici (Fig. 2). Questi ultimi correvano, infatti, lungo il suo margine meridionale e di certo al periodo tardo-repubblicano risale una struttura quadrangolare su cui verrà poi a insistere una tomba alla cappuccina dei primi decenni del II sec. d.C. Probabilmente l’area ospitò una necropoli da età tardo-repubblicana fino i primi secoli dell’impero come testimonia il rinvenimento di alcuni frammenti di monumenti funerari databili ai secoli I a.C.–I d.C. nonché la più tarda tomba alla cappuccina di un incinerato.4

In sintesi, possiamo riconoscere almeno quattro tappe più importanti nella storia del sito: una prima frequentazione dell’area lungo questo tratto della via Salaria, da epoca medio-repubblicana, con edifici probabilmente legati allo sfruttamento rurale del territorio e annesse attività produttive documentate dalle fornaci, in uso almeno dal fra I e II sec. d.C.; un utilizzo funerario del settore adiacente la strada fra I sec. a.C. e II sec. d.C., di cui al momento ci sfugge totalmente la portata; una fase di abbandono delle strutture con materiali che documentano tuttavia la frequentazione durante i secoli IV–V sec. d.C.; infine, in epoca altomedievale, la destinazione dell’area a campo cimiteriale, forse collegato a una vicina pieve di cui finora non si ha notizia.

Fase 3. L’abbandono delle strutture romane e la frequentazione tardoantica (IV–V sec. d. C.) Il rimaneggiamento per opere agricole subito dagli strati più alti non permette di comprendere nel dettaglio le dinamiche di trasformazione dell’area in un momento compreso fra il II sec. d.C. e l’epoca tardoantica. Tuttavia, da alcuni reperti che questa fase ci ha restituito è possibile riconoscere un momento di frequentazione, di cui ci sfuggono totalmente contesti e funzione, che copre i secoli IV–V d. C. Fra i materiali certamente datanti troviamo un follis di Costantino, una moneta di Arcadio databile alla metà IV–inizi V sec. d.C. e infine, proveniente da un lacerto di uno dei pochissimi piani di frequentazione individuati e posto al di sopra dei resti di un edificio medio-imperiale, un piatto di forma Hayes 61B in TSA inquadrabile fra la metà del IV e la metà del V sec. d.C. (Figg. 6–8).5

3 Conta 1982, pp. 201–203, n. 107; Giorgi 2014, pp. 266–267. In generale sulla tecnica stradale utilizzata si rimanda a Quilici 2009. 4 Stortoni 2008. 5 Si tratta di un Follis di Costantino I (AE3), D/ IMP]CONSTANTINVS PF AVG busto laureato a d., R/[SOLI INVICTO] Figura maschile nuda stante da interpretarsi come Sol Invictus, ai lati [T], F, segno di zecca [A] Q?; una moneta di Arcadio (AE4), D/[DNARCA]DIVS PF AVG] busto diademato a d., R/[GLORIA ROMANORVM] figura stante a s. con insegna, 383–388 d.C.; una scodella in TSA, forma Hayes 61, produzione in D1 e D2; decorazione a cerchi concentrici dentellati Hayes, Stile A(ii) o

A(iii). Stampo n. 20 (Atlante 1981, Tav. LVI (a), nn 32, p. 125), datazi­ one: 325–450 d.C.

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Lo scavo archeologico di Marino del Tronto (AP): testimonianze di continuità insediativa fra età romana e altomedievale

Fig. 1. Resti della strada glareata, le strutture murarie e la tomba posteriore.

Fig. 2. Resti di strutture romane il margine meridionale della strada glareata.

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Marco Antognozzi, Elisa Lopreite, Michele Massoni

Fig. 3. Lo scavo delle fornaci per la produzione di mattoni.

Fig. 4. Sepolture altomedioevali.

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Lo scavo archeologico di Marino del Tronto (AP): testimonianze di continuità insediativa fra età romana e altomedievale

Fig. 5. Sepolture altomedioevali.

Fig. 6. Follis di Costantino I (307–337 d.C.).

Fig. 7. Moneta in lega di rame di Arcadio (383–388 d.C).

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Marco Antognozzi, Elisa Lopreite, Michele Massoni

Fig. 8. Scodella in TSA di produzione nord tunisina (325–450 d.C.).

Fig. 9. Rilievo dell’area di scavo.

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4.19 Novità dagli scavi dell’area urbana di Ascoli Piceno Michele Massoni, Serena De Cesare, Marco Antognozzi Ricercatori indipendenti [email protected], [email protected], [email protected] Abstract: The preliminary results of some new archaeological excavations in the historic centre of Ascoli Piceno between 2008 and 2014 are presented in this paper. These include two excavations carried out just east and west of the main cloister of the Convent of San Francesco, in the heart of the Roman city. A further site, however, is located further east, along the alleged urban stretch of the via Salaria, which helped to define the urban structure of the Roman colony, in an area certainly less central than the previous one. As we will see, despite the different topographical position, the three contexts in question reflect uninterrupted phases of attendance from the Imperial period to the Early Middle Ages. Keywords: Ascoli Piceno; Urban archaeology; Late Antiquity; Early Middle Ages.

Introduzione

2008 e il 2014, in Via D’Ancaria, in Via del Trivio e nell’area di Corso Mazzini – Via Afranio (Fig. 1). Nei primi due casi (Via D’Ancaria e Via del Trivio) si tratta di scavi effettuati appena a est e a ovest del Chiostro Maggiore del Convento di San Francesco, proprio nel cuore del centro storico ma anche nel pieno della città romana. L’ultimo caso, invece, si colloca più a est, lungo il presunto tratto urbano della via Salaria, generatore dell’impianto urbanistico della colonia romana, in un’area certamente meno centrale rispetto alla precedente. Come vedremo, nonostante la diversa posizione topografica, i tre contesti in esame conservano traccia di fasi di frequentazione, anche per l’epoca altomedievale, cronologicamente omogenee. Vale la pena sottolineare il valore assolutamente interlocutorio di quanto esposto, dato che si tratta comunque di contesti ancora in corso di studio.

La progressiva romanizzazione del territorio ascolano, ben testimoniata dall’evoluzione della cultura materiale e scandita almeno tra il III e il I secolo a.C. da alcune tappe fondamentali tramandate anche dalla tradizione storiografica,1 ha lasciato tracce ancora oggi ben visibili nel tessuto dell’attuale abitato di Ascoli Piceno e, assai spesso, sono proprio le fasi edilizie di epoca romana, specialmente di epoca alto e medio imperiale, a emergere con maggiore evidenza nella maggior parte degli interventi di archeologia d’emergenza condotti all’interno dell’antica area urbana.2 Per varie ragioni, invece, che vanno dal consumo attuato dalla continuità di vita sino alla natura più deperibile di molti materiali edilizi, la lettura delle dinamiche insediative nei secoli successivi alla romanità risulta decisamente più difficoltosa.3 Nell’ambito di questa breve sintesi intendiamo comunque presentare i risultati preliminari di alcuni sondaggi effettuati nel centro storico di Ascoli Piceno tra il

Gli scavi di via D’Ancaria Grazie alle indagini archeologiche condotte nel 2008 in via D’Ancaria, poche decine di metri a sud di Piazza del Popolo, è stata riportata in luce una porzione di un ambiente pavimentato in cocciopesto, posto circa a m 1,60 dall’attuale piano di calpestio (Figg. 2, 3.1). Al suo interno un dolio interrato e una canaletta di scolo, costruita con pezzi di tegola, lasciano ricostruire una probabile funzione produttiva o commerciale databile nell’ambito dell’epoca romana medio-imperiale. A questa fase edilizia principale fa seguito un periodo di abbandono, testimoniato da uno strato di terreno con molti frammenti della originaria copertura in tegole depositato sullo stesso pavimento in cocciopesto (Fig. 3.2). A questa medesima fase, verosimilmente riferibile all’epoca tardoantica, si riferisce

1 La prima fase della romanizzazione del Piceno è sancita dalla Lex Flamininia de Agro Gallico et Piceno viritim dividundo (232 a. C.) e progredisce ulteriormente dopo gli esiti della guerra sociale (90 a.C.), la deduzione della colonia e le distribuzioni di terre ai veterani attuate dagli imperatori Augusto e Claudio nel corso del I sec. d. C. (Giorgi 2005; Raggi 2014). 2 Per quanto riguarda la cultura materiale si veda Mazzeo Saracino, Morsiani 2014; si vedano inoltre Giorgi 2005; Profumo 2005; 2009; Giorgi 2014; Lucentini et al. 2014; Pasquinucci, Profumo 2014; Raggi 2014. Per quanto riguarda il territorio si rimanda a Campagnoli, Giorgi 2000; 2001; 2004a; 2004b; 2007; 2014. 3 Giorgi 2005.

399

Michele Massoni, Serena De Cesare, Marco Antognozzi anche la spoliazione del muro perimetrale (Fig. 3.3), e il riempimento della canaletta e del dolio, con i frammenti del collo e dell’orlo collassati al suo interno, che vennero progressivamente colmati di rifiuti e terreno organico.

asse viario del tessuto urbano romano, nonostante la differente collocazione topografica, hanno permesso di riportare in luce un contesto con stratigrafie che presentano varie analogie con i casi appena descritti presso il Chiostro del Convento di San Francesco.

Successivamente, nel corso dell’alto Medioevo, il complesso subì un oblio prolungatosi per parecchi secoli o almeno così ci suggerisce la mancanza di definiti livelli di frequentazione e lo strato di terre nere, spesso circa cm 60 e privo di materiale diagnostico (Fig. 3.4), che sigilla tutta l’area e che venne intaccato solo nel tardo Medioevo, quando avvenne l’occultamento del tesoretto, composto da circa 200 Piccioli di rame e da un Grosso agontano (1235–1410 circa. Figg. 4, 5), contenuto in un sacchetto di stoffa nascosto in una buca scavata nel terreno. Al medesimo periodo si data, all’incirca, anche la vicina fornace abbandonata (Fig. 3.5). Questa è stata rinvenuta ancora carica e ha permesso di recuperare numerosi vasi ancora integri in ceramica comune di epoca tardomedievale. Successivamente tale fornace fu intaccata dalle opere di edificazione del perimetrale est del Chiostro maggiore del Convento di San Francesco, che infatti sorse nel XIV secolo appena a est del contesto appena descritto.

All’altezza di via Afranio, sotto la pavimentazione moderna di corso Mazzini, è stato riportato in luce un ampio tratto dell’antico basolato che pavimenta ancora la via romana quasi certamente da riferire all’impianto della colonia di età triumvirale-augustea.4 La sua carreggiata sembra subire, già in età tardoimperiale, un primo restringimento lungo il margine meridionale, probabilmente dovuto all’invasione da parte di rifiuti e poi di uno strato di pezzame di tegole e altri laterizi (Fig. 8.1). Tale strato venne poi obliterato da un deposito di terreno, spesso circa 10 cm, e poi dalla successione delle di terre nere altomedievali, complessivamente di spessore variabile tra 20 e 60 cm (Fig. 8.2).5 Certamente degna di nota è la sostanziale coincidenza delle stratigrafie, specialmente per l’epoca medievale, rispetto a quelle descritte nei contesti precedenti. Anche in questo caso, infatti, dopo la frequentazione di epoca tardoantica e altomedievale, priva di fasi strutturali, si pone l’impianto del Trecentesco Convento di Sant’Onofrio, che riutilizza nelle fondazioni numerosi elementi edilizi romani e oblitera il margine settentrionale della via basolata, ormai definitivamente sotterrata.

Gli scavi di via del Trivio Poco più a ovest, sull’altro lato del Chiostro di San Francesco, lungo via del Trivio, all’interno di un altro sondaggio stratigrafico effettuato nel 2009, sono state rinvenute tre strutture murarie disposte a ‘T’, unite da un pilastro in travertino eposte a delimitare due ambienti attigui (Figg. 6, 7). L’ambiente meridionale conserva un altro pavimento in cocciopesto di età romana medio-imperiale, sul quale si impostò una sepoltura, probabilmente già in età tardoantica. Quindi la fondazione di uno dei muri perimetrali del Chiostro medievale distrusse anche questo contesto. L’ambiente settentrionale è delimitato a ovest da un muro realizzato con frammenti di tegole, legate con una malta poco tenace e molto argillosa. Tale struttura muraria sembra in fase con il relativo piano pavimentale composto da pezzi di tegole disposte in piano su un livello di preparazione che conteneva numerosi frammenti di Terra Sigillata Africana e una moneta in bronzo in cui sembrerebbe riconoscibile l’onomastica di un personaggio della famiglia Antonina (II secolo d.C.). Successivamente questo pavimento in tegole venne occultato da una sequenza di spessi livelli di terreno concottato e di cenere mista a frammenti di intonaco e tegole (Fig. 7.1). Il terreno rubefatto potrebbe essere traccia di una distruzione delle strutture avvenuta prima che, anche in questa zona, tutta l’area venisse sigillata da uno spesso strato di terre nere (Fig. 7.2). Come nel caso appena descritto di via D’Ancaria, anche qui le successive testimonianze edilizie di una certa consistenza strutturale sono ascrivibili a dopo il XIV secolo, quando avvenne l’impianto del Chiostro di San Francesco.

Conclusioni A una prima analisi del tutto preliminare, la considerazione dei contesti appena descritti e di altri già noti alla storia degli studi, mostra una profonda modificazione dell’area urbana di Asculum già a partire dall’età romana tardoimperiale (III–IV secolo d. C.), quando sembra già manifestarsi una prima contrazione demografica di portata non trascurabile. Questa fase di ruralizzazione non sembra interrompersi sino all’impianto dei complessi conventuali nel pieno Medioevo. Così sembrerebbero da interpretare gli spessi e diffusi strati di terre nere intercettati subito sopra i livelli di abbandono dei piani di epoca romanoimperiale, livelli che nonsembrano restituire materiale posteriore al IV secolo d.C. Quindi, in estrema sintesi, alla fase edilizia romanoimperiale segue un periodo di abbandono e spoliazione delle strutture da mettere in connessione, almeno in qualche punto della città come come nel caso di Via del Trivio, forse con una distruzione violenta, prima che la mancanza di una manutenzione sistematica permetta il deposito progressivo di spessi strati di terre nere che si protrarrà fino al nuovo Resti del medesimo basolato sono emersi a più riprese più a est, verso la cosiddetta Fontana dei Cani e più a ovest, all’altezza di largo Crivelli, mentre un tratto ancora più occidentale era già noto da tempo (Lucentini et al. 2014). Un ampio lacerto del basolato in questione è stato recintato e lasciato in vista. 5 Non si può escludere che in questo contesto le terre nere possano protrarsi sino al Medioevo inoltrato. 4

Gli scavi di corso Mazzini e via Afranio Anche gli scavi archeologici condotti nel 2013–2014 lungo corso Mazzini, normalmente identificato come principale 400

Novità dagli scavi dell’area urbana di Ascoli Piceno fervore edilizio della piena epoca medievale. In base a questa lettura, la città sembrerebbe ridurre e concentrare la zona abitativa altrove, mentre un’ampia porzione del pianoro urbano, prima edificato, venne adibito a coltivo o addirittura fu del tutto abbandonato. Probabilmente questo cambiamento radicale dell’aspetto urbano dovette essere già compiuto al tempo della dominazione longobarda.

città da parte dei soldati di Totila del 544 d.C. In epoca ancora successiva si ebbero le devastazioni inferte nel 578 d.C. dal duca longobardo Faroaldo, che da qui mosse alla conquista di Fermo e Martinsicuro (Castrum Truentinum).6 In questi frangenti Ascoli fu annessa al Ducato di Spoleto. Acknowledgements: Cogliamo l’occasione per ringraziare i funzionari di zona della Soprintendenza Archeologia per le Marche e in particolare Nora Lucentini per averci permesso di fornire questa notizia preliminare. Le indagini archeologiche sono state effettuate da chi scrive per conto delle società ARTE e ArcheoLogic di Ascoli Piceno.

Come sappiamo anche dalla tradizione storiografica, già all’inizio del V secolo d.C. gruppi di Goti si erano precocemente stanziati nel Piceno. Tuttavia la medesima tradizione lascia pensare che saccheggi e distruzioni si ebbero solo successivamente con l’assedio e la presa della

6

Staffa 1996a; Giorgi 2005; Campagnoli, Giorgi 2007.

Fig. 1. Localizzazione di sondaggi di via D’Ancaria (a), Via del Trivio (b) e via Mazzini (c).

Fig. 2. Il saggio di scavo di via D’Ancaria.

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Michele Massoni, Serena De Cesare, Marco Antognozzi

Fig. 3. Particolare dello scavo di via D’Ancaria.

Fig. 4. Il gruzzolo rinvenuto nello scavo di via D’Ancaria.

402

Novità dagli scavi dell’area urbana di Ascoli Piceno

Fig. 5. Il grosso agontano rinvenuto nello scavo di via D’Ancaria.

Fig. 6. Il saggio di scavo in via del Trivio.

403

Michele Massoni, Serena De Cesare, Marco Antognozzi

Fig. 7. Particolare del saggio di scavo in via del Trivio.

Fig. 8. Il saggio di scavo in via Afranio.

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4.20 La necropoli altomedievale di piazza Ventidio Basso ad Ascoli Piceno: prime considerazioni Luca Speranza,* Eleonora Ferranti ArcheoLogic.snc [email protected]

*

Abstract: The objective of this report is to bring attention to the preliminary analysis of the discoveries in the Piazza Ventidio Basso area, inside the historic centre of Ascoli Piceno. Behind the church of SS. Vincenzo e Anastasio and beside the south wall, an early medieval cemetery (7th–8th centuries) has been revealed. The necropolis is characterised by stone-lined graves, most of them reoccupied in later ages until the end of the use of the area as a burial site. All human remains have been removed by an anthropologist so that a preliminary study of this population may be completed. Keywords: Ascoli Piceno; Burials; Early Middle Ages; Anthropology.

Lo scavo archeologico

delle operazioni di verifica della stratigrafia, sebbene vada rilevata la presenza di livelli contenenti ceramica di epoca romana, in particolare vernice nera.3

Con questo breve contributo si intende porre l’attenzione sul ritrovamento di numerose tombe a cassone di epoca altomedievale avvenuto tra il mese di gennaio e febbraio 2014 durante il controllo archeologico agli scavi per i lavori di riqualificazione di Piazza Ventidio Basso, area ubicata nel settore settentrionale del terrazzo fluviale su cui si estende il centro storico di Ascoli Piceno (Fig. 1). In seguito all’individuazione delle sepolture si è proceduto a effettuare una campagna di scavo stratigrafico a campione, al momento della stesura di questo studio ancora in corso da parte dello scrivente, con i dati archeologici e antropometrici che dovranno pertanto essere sottoposti a uno studio conclusivo di raccordo al termine di tutte le attività di cantiere.

La prima parte degli interventi ha interessato il settore nord rispetto alla chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio. Qui è stato possibile riportare alla luce il complesso dell’oratorio di San Rocco, realizzato nel tardo XVI sec. rimaneggiando una preesistenza più antica e demolito nel 1931, visibile sulla cartografia storica, in particolare nella veduta prospettica della città di Ascoli Piceno realizzata da Emidio Ferretti nel 1646. Il decortico dei livelli superficiali ha difatti reso visibilile fondazioni dei muri perimetrali dell’oratorio con tanto di partizioni interne: nel settore più settentrionale è tornato alla luce un ambiente provvisto di pavimentazione in mattonelle quadrate di terracotta, accessibile da due differenti punti di cui si conservano le soglie di travertino. L’apertura di una trincea per la costruzione di un condotto fognario tra l’oratorio e la chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio, ha permesso di registrare la presenza al di sotto delle fondazioni del complesso cinquecentesco di un tratto di acciottolato pavimentale con componenti policromi di piccole dimensioni, sopra cui è stato disposto uno strato di

Per ciò che concerne lo studio preliminare dell’area oggetto dell’intervento, il materiale bibliografico e d’archivio non ha fornito un grande sostegno dal punto di vista dell’archeologia: le notizie menzionano solo ritrovamenti fortuiti di materiale romano avvenuti in aree limitrofe alla piazza nel corso di lavori per la posa di condotte interrate.1 La presenza a poca distanza del ponte augusteo ha posto interessanti spunti di riflessione sull’andamento della strada2 che non è stata peraltro intercettata nel corso

principale cardine di Asculum: Giorgi 2005, p. 220; Profumo 2009, p. 524. 3 Va ricordato che gran parte della piazza è stata sottoposta nell’estate 2013 a un’indagine preventiva effettuata con georadar da un team della Sezione di Archeologia del Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna composto da F. Boschi, E. Giorgi e M. Silani. Si tratta di un’indagine che rientra nel più ampio Progetto di Archeologia Urbana ad Ascoli dell’Università di Bologna diretto da E. Giorgi.

1 Per i ritrovamenti avvenuti nell’area si rimanda alla consultazione della monografia dell’Università di Pisa sulla città di Ascoli Piceno in epoca romana: Pasquinucci, Laffi 1975, pp. 106, 109. 2 In passato è stata formulata l’ipotesi che la strada in entrata nella città dal ponte romano avesse un andamento obliquo sotto l’attuale Via B. Cairoli per poi congiungersi con Via del Trivio, da molti ritenuto il

405

Luca Speranza, Eleonora Ferranti a cassone coperte da lastroni, blocchi romani di travertino di reimpiego, più grossi ciottoli fluviali di forma piatta,5 a circa 90 cm di profondità dal piano di calpestio moderno. Le tombe, tutte orientate est-ovest, hanno le spallette di appoggio della copertura realizzate sia in muratura sia a secco anche qui con largo impiego di materiale romano di spoglio, costituito da grossi frammenti di tegole e blocchi di travertino ben squadrati.

malta e pietrame con superficie molto compatta da leggersi come rifacimento dell’acciottolato sottostante. L’apertura del saggio est nella parte nord-orientale dell’area ha consentito di verificare come i due impianti sigillino una serie di sepolture in fossa terragna che si intersecano tra loro, le più profonde delle quali arrivano a incidere il livello limosabbioso naturale di colore giallastro che copre le ghiaie fluviali. L’esiguità dello spazio all’interno del saggio non ha peraltro permesso di scavare nessuna delle tombe in maniera completa.

Il settore esterno rispetto all’‘ambiente 1’ è stato al momento indagato e completato in seguito all’apertura della trincea poc’anzi menzionata: lo scavo ha permesso di riportare alla luce nel saggio A cinque tombe a cassone, delle quali le due posizionate più a est sono state aperte e scavate. Altre casse litiche sono visibili sulle sezioni nord e sud al di sotto di un consistente strato di terreno poco compatto contenente pietrisco e una grande quantità di ossa umane più o meno frammentate oltre a ceramica acroma di età medievale. Tale US 125, da leggersi forse come il risultato di una massiccia azione di distruzione dei corpi più antichi in funzione di un reimpiego delle tombe, è stata poi sigillata dai piani di calpestio di pochi centimetri di spessore che vanno via via a sovrapporsi fino ad arrivare a quello costituito dalla odierna massicciata stradale. Dei due cassoni esplorati, la T 16 (dimensioni m 1,95 x 0,65) ha evidenziato la presenza al proprio interno di due scheletri, non coevi, con l’infante posteriore al giovane adulto sistemato all’interno della cassa litica. La deposizione più tarda ha pertanto richiesto la rimozione della parte superiore dello scheletro più antico, a quel punto già scheletrizzato, per collocare il soggetto più giovane.6 È interessante segnalare il recupero di un blocco di travertino, decorato a volute ottenute a bassorilievo proveniente con tutta probabilità dalla spoliazione di un monumento funerario romano. Il cassone più meridionale (dimensioni m 1,90 x 0,63) privo di copertura è anch’esso stato oggetto di manomissione: sono stati infatti trovati al suo interno due scheletri sovrapposti, con il superiore che ha richiesto per la sua deposizione la distruzione quasi totale del cranio dell’individuo già presente nell’avello.7 Dal punto di vista della cronologia non è stato possibile recuperare materiale diagnostico in grado di sciogliere il dilemma né tantomeno oggetti di corredo. La presenza di tombe tarde (e manomissioni) è stata accertata anche nel settore sud rispetto alla chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio dove, sistemati a contatto con le strutture a cassone, sono state individuate almeno quattro deposizioni in fossa. Una

I fronti di scavo orientale e meridionale rispetto alla chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio, hanno riservato le sorprese maggiori (Figg. 2, 3). Nella zona absidale è dapprima tornato alla luce l’angolo sud-est di una struttura con fondazione in ciottoli, pietrame e laterizi in abbondante malta bianco-grigiastra poco consistente sopra cui si conserva un corso di piccoli conci di travertino ben squadrati pertinenti all’elevato, per un’altezza totale di m 0,80. Tale muratura presenta delle differenti tipologie realizzative, soprattutto in corrispondenza del punto in cui va in appoggio alla parete di chiusura orientale dell’edificio religioso. Quest’ultimo tratto presenta difatti una fondazione in blocchi di travertino di dimensioni sensibilmente maggiori rispetto ai componenti utilizzati nelle altre parti, con una tegola romana disposta di taglio proprio in corrispondenza del muro della chiesa. Il margine esterno della struttura ritrovata va messa in relazione con la cortina muraria di chiusura di SS. Vincenzo e Anastasio realizzata in grandi blocchi di reimpiego con la quale risulta in perfetto allineamento, mentre l’ultimo segmento della navata meridionale è stata oggetto di ampliamento nelle epoche successive4. Sebbene lo scavo in questo settore risulti essere ancora parziale e incompleto, appare tuttavia evidente che la muratura ritrovata delimiti il cosiddetto ‘ambiente 1’ con superficie interna di circa 16 mq; tale spazio, in attesa anche di uno studio approfondito sul monumento, potrebbe essere interpretato come una fase antica della chiesa o un suo annesso, forse una piccola canonica. Tra questo punto e l’inizio dell’abside poligonale è presente un’altra porzione di muratura realizzata con piccoli ciottoli, blocchetti di travertino e frammenti di tegole romane tenuti insieme da una malta bianca molto coesa, struttura parzialmente danneggiata dalla costruzione di un pozzetto per il vecchio impianto di illuminazione esterno della chiesa. Il suddetto ‘ambiente 1’ è stato attraversato da una trincea esplorativa con andamento est-ovest larga circa m 1,80 per quasi m 8 in lunghezza: tale operazione ha consentito di documentare come la fondazione del setto murario orientale sia stata impostata sopra una serie di sepolture

Per il confronto con le strutture sepolcrali trovate a Castel Trosino, in attesa di uno studio più approfondito sulla questione, si rimanda a Mengarelli 1902, pp. 15–31. Per la necropoli di Piazza Mazzini a Fossombrone e sui reimpieghi di materiali romani vedi Profumo 1997, pp. 55–60. Una panoramica dei contesti funerari coevi in ambito abruzzese in Staffa 1997b, pp. 120–150; 1998a, pp. 173–174. Tipologie sepolcrali analoghe in Bonomi Ponzi, von Hessen, Profumo 1996, pp. 177–199. 6 Per l’esame in dettaglio di tutti i resti scheletrici sottoposti a controllo e successivamente rimossi, si veda infra. 7 Lo scavo dello scheletro superiore ha consentito di recuperare alcuni frammenti sub-centimetrici del tessuto funebre che avvolgeva il corpo dell’inumato: si tratta probabilmente di lana. I brandelli di tessuto sono stati consegnati a Graziella Roselli (Università di Camerino) che sta procedendo a effettuare gli esami del caso. 5

4 Dall’analisi delle particolarità costruttive è possibile datare il primo impianto dell’edificio al sec. XI, con tutta probabilità su una preesistenza di dimensioni ridotte; ampliamenti e rifacimenti, come per esempio il conglobamento del campanile nella struttura della chiesa, arrivano fino al sec. XIV avanzato; a tal riguardo vedi Cappelli 2006, pp. 62–71. In aderenza al prospetto E dell’edificio, è presente un cassone monolitico di travertino (lunghezza m 2,02) di probabile riutilizzo con il fronte rivolto a oriente rivestito di laterizi di fattura sicuramente non romana: il manufatto al momento non è stato ancora svuotato dal riempimento.

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La necropoli altomedievale di piazza Ventidio Basso ad Ascoli Piceno: prime considerazioni di queste è andata quasi completamente distrutta nel corso delle operazioni di allargamento del saggio F, due sono state scavate con conseguente recupero dei resti umani, l’ultima è stata individuata sulla sezione nord e appare parzialmente danneggiata dalla presenza di un fognolo per la raccolta dell’acqua piovana. Nella fase di pulizia e documentazione di quest’ultima, è stata recuperata nel riempimento una moneta in lega di rame di circa cm 1,55 di diametro da identificare con un denaro o “picciolo” coniato a Rimini tra il 1250 e il 1385: tale dato fornirebbe pertanto un prezioso riferimento cronologico.8

scheletro di un individuo giovane perfettamente conservato a eccezione dei piedi. L’altezza delle spallette, una volta liberati i cassoni dal riempimento e rimossi i resti umani in essi contenuti, è stato misurato tra i cm 25 (T 46) e i cm 30 (T 24). Anche in questo settore non sono stati rinvenuti oggetti di corredo sebbene nel riempimento delle tombe siano stati recuperati dei frammenti interessanti provenienti forse dagli strati sottostanti su cui sono state tagliate le fosse: in particolare una testina di felino in bronzo pertinente a uno stilo o altro oggetto fusiforme trovato all’interno della T 18. Proprio per completare l’indagine stratigrafica ed esplorare i livelli più profondi, si è resa necessaria l’apertura di un tassello esplorativo tra la T 18 e la T 24, operazione che ha richiesto il parziale smontaggio delle casse litiche con conseguente individuazione di una sepoltura T 49 in fossa più antica della sistemazione cimiteriale a cassoni. La tomba, priva di corredo e pertinente a un soggetto di sesso femminile, è orientata est-ovest e ubicata sotto il margine sud della T 24 e quello nord della T 46. La fossa, tagliata su US 440 e US 444 che contengono solo materiale romano senza contaminazioni di ceramica più tarda, arriva a incidere i livelli sabbiosi giallastri naturali presenti al di sotto della stratigrafia storica.

La rimozione dei resti umani più tardi ha consentito di riportare alla luce numerosi cassoni sepolcrali a pianta rettangolare con dimensioni che vanno da m 2,10 a m 1,90 per ciò che concerne la lunghezza e di larghezza media di circa m 0,65. Le tombe rinvenute in questo settore sono state trovate a una quota leggermente più alta rispetto a quelle riportate alla luce a ridosso dell’abside della chiesa, ossia tra m 0,70 e m 0,60 sotto il piano di calpestio attuale, affiancate le une alle altre.9 La copertura risulta costituita in tutti i casi da blocchi di travertino squadrati di reimpiego, scaglie di pietra calcarea di grandi dimensioni e forma irregolare, ciottoloni piatti, frammenti di tegoloni. Le casse litiche appaiono sigillate da almeno due livelli interpretabili come piani di calpestio di pochi centimetri di spessore, in pietrisco e schegge di travertino quello più superficiale, in frammenti di laterizi e coppi sbriciolati quello inferiore. Complessivamente sono stati esplorati tre cassoni in questo saggio di scavo, due di questi (T 18 e T 24) realizzati senza impiego di legante per tenere insieme gli elementi della struttura, con i componenti sistemati sfruttandone la verticalità e rivestendo il taglio praticato nel suolo; la terza sepoltura è stata realizzata invece con una vera e propria opera in muratura con copertura costituita da grandi blocchi di travertino (spessore poco meno di 10 cm) più un ciottolo di grandi dimensioni appiattito in corrispondenza del cranio dell’inumato. Lo scavo della T 18, la cui cassa litica ha subito dei danneggiamenti dovuti al cedimento della spalletta nord, ha consentito di riportare alla luce i resti di un maschio adulto non alterato da manomissioni mentre la T 24, della quale non è stata trovata la copertura integra, ha restituito i frammenti di ossa umane di almeno cinque soggetti, due bambini e tre adulti, più una rilevante quantità di ossa animali. All’interno della T 46 infine è tornato alla luce lo

Altri cassoni sono stati trovati all’altezza dell’angolo sud-ovest della chiesa a una quota di affioramento ancora minore rispetto al piano di calpestio attuale, circa 40 cm, superficialità che ne ha parzialmente compromesso lo stato conservativo per via delle interferenze operate in seguito alla realizzazione di servizi interrati moderni come le linee per l’acqua potabile e il metano. Proprio il danneggiamento della copertura di uno di questi sepolcri in seguito alle lavorazioni funzionali al rifacimento della piazza, ha richiesto un allargamento per consentirne lo scavo (saggio O). Lo scheletro è stato collocato all’interno di un cassone (USM 1009) di forma rettangolare leggermente rastremato in corrispondenza dei piedi (dimensioni m 1,95 x 0,62 con altezza delle pareti di m 0,34) e orientato canonicamente est-ovest, realizzato con lastre di travertino e pochi blocchetti disposti in verticale. La struttura è chiusa sul lato corto orientale da un grosso frammento di tegola romana mentre ha caratteristiche del tutto particolari il margine ovest: in questo punto è stato praticato uno scasso nel terreno circostante rimuovendo la lastra di chiusura per collocare il corpo. La parte superiore dello scheletro e il cranio sporgono pertanto di circa cm 50 dai limiti laterali della cassa che non è stata riutilizzata sfruttando appieno lo spazio disponibile. La deposizione del corpo ha pressoché totalmente distrutto lo scheletro di quello che dovrebbe rappresentare il primo inumato, del quale restano nel settore est dell’avello soltanto i piedi in connessione e parte delle tibie/peroni; inoltre sono stati recuperati numerosi frammenti di ossa umane in tutto il riempimento asportato. In questo strato è stata inoltre individuata in più punti una sostanza che in seguito a prelievo è tuttora sottoposta ad analisi di laboratorio da parte dei ricercatori dell’Università di Camerino:10 ai

8 Per l’identificazione della moneta recuperata nel corso dello scavo vedi CNI, X, 29–32; per la circolazione dei denari o piccioli vedi Mazza 1987, pp. 45–46. Interessante dal punto di vista della cronologia anche l’iscrizione dedicata alla Vergine presente sull’archivolto del portale della chiesa su cui si legge “… ut[…] om(ne)s et hi(c) sep(u)ltos add(i) c(t)os conduca(t) s(anct)os…“ ossia “… perché accordi ai defunti qui sepolti la comunione con questi santi (Vincenzo e Anastasio n.d.s.)…”. La data incisa sul travertino nella parte inziale dell’iscrizione riporta l’anno 1306 per il rifacimento della facciata, Rodilossi 1983, p. 143: ciò significa che tra la fine del sec. XIII e l’inizio del XIV l’area circostante la chiesa aveva ancora una destinazione cimiteriale. 9 Tutte le tombe trovate appaiono orientate est-ovest a eccezione di due sepolture: la T 50 in fossa è attribuibile a un soggetto infantile o più giovane, la seconda T 48 è invece un cassone realizzato con lastre calcaree e ciottoloni piatti che per dimensioni potrebbe contenere un infante. Entrambe le tombe si sviluppano al di sotto della sezione N e non sono state pertanto indagate.

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Lavoro affidato a Graziella Roselli (Università di Camerino).

Luca Speranza, Eleonora Ferranti Per concludere una nota di carattere topografico. Emerge difatti una lampante somiglianza tra il contesto di Castel Trosino, con l’abitato localizzato sopra uno sperone roccioso a picco sul Castellano e la necropoli che si estende sulla spianata antistante in contrada Santo Stefano, e il cimitero altomedievale di Piazza Ventidio Basso sistemato di fronte al sito di San Pietro in Castello che sorge sopra una rupe in corrispondenza di un tortuoso meandro del fiume Tronto a controllo del ponte romano che permetteva l’uscita dalla città nella zona nord (Fig. 1).15 Proprio la zona di San Pietro in Castello (o in Insula secondo la dizione medievale) è stata ritenuta da molti studiosi un luogo fortificato di epoca longobarda, forse addirittura la residenza del gastaldo, donata nel sec. VIII al vescovo Auderis dal duca di Spoleto Teodicio.16 L’area in questione non è stata peraltro mai oggetto di indagini archeologiche finalizzate alla verifica della presenza nel sottosuolo di stratigrafie riconducibili a tale periodo.17 La prosecuzione delle indagini previste nelle prossime settimane, potrà senz’altro sciogliere i dubbi in relazione ai rapporti cronologici tra le varie strutture con particolare riferimento alla chiesa dei SS Vincenzo e Anastasio e la necropoli altomedievale circostante.

primi esami essa è risultata essere costituita da una mistura di polvere di lapislazzuli e oro e va con tutta probabilità letta come il residuo della pigmentazione di un supporto deterioratosi oppure asportato in seguito al riutilizzo della tomba. Sebbene in questo settore siano stati individuati altri cassoni, su esplicita richiesta dei tecnici del Comune è stato possibile indagarne soltanto uno per via della presenza dell’accesso dei mezzi al cantiere. La rimozione degli scheletri dall’interno del cassone ha permesso di individuare una tomba infantile in fossa terragna al di sotto dello spigolo nord-est, anche in questo caso relativa a una fase cimiteriale antecedente a quella più monumentale. La tipologia delle tombe a cassone e copertura lapidea rimanda a quelle di Castel Trosino scoperte e indagate sistematicamente ai primi del ‘900 dal Mengarelli. Già quel contesto, nonostante il recupero di numerosi oggetti di corredo,11 ha presentato e presenta tuttora alcune difficoltà di periodizzazione per ciò che riguarda l’utilizzo del cimitero nel tempo. Sembrerebbe riconoscibile un nucleo più antico che sembra legato alla presenza di un insediamento preesistente di tradizione romano/bizantina, nucleo da collocarsi nella zona centrale di contrada S. Stefano. Su di esso va a innestarsi tra la fine del VI secolo e l’inizio del VII la necropoli con caratteristiche più propriamente barbariche e localizzabile nelle aree più periferiche della spianata. Dalla metà del VII secolo c’è poi una rioccupazione della zona centrale con costruzione del piccolo edificio di culto e la creazione di tombe contraddistinte dalla presenza di pochi oggetti all’interno delle fosse.12

L.S. Le analisi antropologiche condotte in situ Fino a oggi nel corso dello scavo sono stati estratti dieci corpi umani, e più precisamente gli scheletri 7, 15, 16, 18, 35, 38, 42, 46, 49, 52 (Figg. 4–13). In linea generica le tombe studiate si trovano principalmente nel saggio A (T 15, T 16, T 38 e T 42), nel saggio F (T 7, T 18, T 46, T 49 e T 52) e solo una nel saggio O (T 35). In nessuna tomba è stato trovato il corredo funebre. In alcuni casi sono state riscontrate grosse difficoltà nell’estrazione delle ossa, sia per la presenza massiccia delle radici degli alberi circostanti, sia a causa dell’acqua piovana ruscellata all’interno delle tombe, che ha reso la terra fangosa e la struttura delle ossa ancora più delicata, di quanto non lo sia già in natura; inoltre, in certi casi, la posizioni di alcune parti del corpo degli scheletri, è direttamente collegata alla presenza nel terreno di pietre di diverse dimensioni.

Dall’analisi dei dati emersi nel corso dello scavo nell’area circostante la chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio, allo stato degli studi e delle ricerche, appare evidente come esistano almeno tre fasi cimiteriali ben distinte: una prima più superficiale in fossa terragna senza oggetti di corredo, collocabile nel tardo Medioevo, sigillata da piani orizzontali chiaramente identificabili come livelli di calpestio antico. Tali strati segnano una sorta di cesura per ciò che concerne la destinazione della zona visto che non sono state individuate tombe nella stratigrafia superiore (che sia la superficie della piazza medievale o Platea Inferior?).13 Alcune di queste sepolture sono collocate al di sopra di una sistemazione cimiteriale monumentale rappresentata da tombe a cassone che costituisce il periodo intermedio, riconducibile per confronto di tipologico ai secc. VII–VIII (in attesa di effettuare esami di laboratorio sulle ossa) sebbene alcuni loculi interrati sembrino essere stati riutilizzati o manomessi in epoche successive. Esiste poi una fase più antica in fossa terragna antecedente all’impianto delle casse litiche che potrebbe essere di epoca tardo romana.14

In questa sede vengono riportati i dati ottenuti durante la fase del lavoro antropologico in situ, in attesa di poter eventualmente effettuare analisi antropologiche più dettagliate e specifiche di laboratorio, a sostegno e a

Si veda a proposito Bernacchia 1995, pp. 82–83. In Bierbrauer 1994b, pp. 174–176 e Profumo 1997, p. 67 viene sollevato il problema dei siti fortificati di controllo. 16 Per il parallelismo tra Castel Trosino e l’area di S. Pietro in Castello vedi Cappelli 1997, p. 87 e note. Per ciò che concerne la questione della donazione, tra gli storici locali vedi Marcucci 1766, p. 208. 17 L’esistenza a poca distanza del cosiddetto “Palazzetto Longobardo” sebbene sia riferito a una casatorre gentilizia del XII secolo di nessuna origine germanica, potrebbe testimoniare a livello di toponomastica l’esistenza nella zona settentrionale della città di un nucleo longobardo stanziato in questo settore. Per uno studio degli edifici e delle torri ancora conservati e per la ricostruzione dell’assetto dell’area in epoca medievale, vedi il volume Sestili, Torsani 1995. 15

11 Il 50% ca delle tombe scavate nel sito non ha restituito oggetti di corredo. 12 Paroli 1995a, pp. 208–210. 13 Giorgi 2005, pp. 220. 14 Va ribadito il fatto che del periodo più antico sono state individuate due sepolture in fossa e di queste ne è stata indagata dallo scrivente soltanto una.

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La necropoli altomedievale di piazza Ventidio Basso ad Ascoli Piceno: prime considerazioni completamento dei risultati già ottenuti; allo stato attuale, i dati esposti nella presente relazione, sono già in grado di fornire preziose informazioni per la ricostruzione del profilo biologico degli individui rinvenuti.

precedentemente descritta. Infine i frammenti appartenenti allo stesso osso sono stati ricomposti (ove possibile) al fine di renderli il più possibile completi rispetto alla loro originalità, e renderli così utili ai fini delle determinazioni antropologiche.

Fase di lavoro 1 – Rilievo fotografico in situ

Fase di lavoro 5 – Completamento delle misurazioni antropometriche

Il rilievo fotografico in situ, è stato effettuato posizionando accanto al corpo un riferimento metrico, dapprima facendo una panoramica della tomba, per poi passare alla ripresa da diverse angolazioni, e di specifici dettagli di determinate parti del corpo, in particolare del bacino e del cranio e della mandibola. La documentazione è poi stata arricchita in corso d’opera, con foto delle varie fasi di lavoro, e con quelle della sepoltura completamente svuotata dai resti ossei.

Per completare la parte antropometrica è stato necessario misurare le ossa singolarmente, una volta estratte dallo scavo, laddove non presentavano parti mancanti; è stato così possibile ottenere la lunghezza fisiologica e la lunghezza massima delle ossa lunghe, e la grandezza della testa per l’omero e per il femore. Fase di lavoro 6 – Determinazione del sesso

Fase di lavoro 2 – Compilazione delle schede antropologiche di scavo (prima fase)

La determinazione del sesso è stata effettuata mediante l’applicazione del metodo di Acsadi e Némeskeri18 sul cranio, sul bacino, e sulle parti del post – cranio (scheletri 7, 15, 16, 18, 35, 38, 46, e 49), mediante l’utilizzo del metodo di Pearson19 sulle teste del femore (scheletri 7, 15, 16, 18, 35, 46, 49 e 52), e attraverso il metodo di Schutkowski20 per gli infanti (scheletro 42). Dalle analisi si è potuto stabilire che sei sono gli individui di sesso maschile (scheletri 16, 18, 35, 38, 46 e 52), e quattro di sesso femminile (scheletri 7, 15, 42 e 49). I risultati sono riportati nella tabella 1 (Tab. 1).

Nella prima fase della compilazione delle schede antropologiche, sono stati valutati: la tipologia di sepoltura; la posizione del corpo e delle sue parti; lo stato di conservazione dello scheletro; le connessioni delle parti del corpo presenti e visibili; il tipo di deposizione; l’effetto parete (ove presente); la decomposizione del corpo; il tipo di riempimento; la presenza o meno del corredo; la delimitazione lineare; la compressione delle parti del corpo (ove presente), e le varie particolarità eventualmente riscontrate.

Fase di lavoro 7 – Determinazione dell’età di morte

Fase di lavoro 3 – Prime misurazioni antropometriche

L’età di morte è stata valutata mediante il metodo di Todd21 e Nemeskeri22 sulla sinfisi pubica (scheletro 7), con il metodo di Burns23 sui corpi vertebrali (scheletri 7, 15, 35, 46, 49 e 52), attraverso lo studio del grado di ossificazione della piastra metafisaria24 (scheletri 38 e 52), con il metodo di Meindl e Lovejoy25 sulle suture ectocraniche, per la valutazione del grado di obliterazione (scheletri 15, 16, 18 e 46) e con il metodo di Burns26 per le variazioni della superficie e dei margini dell’estremità sternale delle coste (scheletri 35, 38 e 46). Per i frammenti di mandibola in cui erano presenti i denti, la valutazione dell’età di morte è stata eseguita mediante l’applicazione del metodo di Lovejoy27 e di Brothwell28 per la valutazione dell’usura dentaria (scheletri 7, 16, 18, 35, 46, 49 e 52), e con il metodo di Ubelaker29 (Tab. 2) per la valutazione del grado di eruzione dentaria (scheletro 42).

Le prime misurazioni antropometriche, effettuate sui corpi ancora in connessione, hanno previsto la valutazione della lunghezza del corpo dal bregma al calcagno (ove possibile), e la valutazione della lunghezza delle ossa lunghe in connessione (ove possibile). Fase di lavoro 4 – Estrazione graduale del corpo e pulitura delle ossa L’estrazione del corpo è avvenuta gradualmente, togliendo le ossa una alla volta, e procedendo o dalla testa verso il basso, o viceversa dai piedi verso l’alto, avendo cura di scegliere e utilizzare le strumentazioni adeguate alle diverse situazioni riscontrate ogni volta. In questa fase le ossa sono state sottoposte a una pulitura a secco mediante spatoline in legno, pennelli di diverse forme e spessori, specilli flessibili in metallo (ove utilizzabili) e spazzoline di varie grandezze e, in caso di necessità, per asportare il terreno in eccesso, è stata applicata una miscela di acqua – alcool etilico – acetone (I:I:I). Nei casi in cui i corpi sono stati trovati bagnati e coperti di fango a causa delle piogge, per prima cosa è stata fatta asciugare tutta la tomba all’aria aperta, per permettere una più sicura estrazione delle ossa e, solo successivamente, si è proceduto al prelievo dei reperti, fatti poi a loro volta asciugare all’aria aperta, lontano dalla luce diretta del sole; in questo modo è stato poi possibile pulire a secco mediante la strumentazione

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Acsadi, Némeskeri 1970. Pearson 1917–19. Schutkowski 1993. Todd 1921. Némeskeri, Harsányi, Acsádi 1960. Burns 1999. Ubelaker 1989. Meindl, Lovejoy 1985. Burns 1999. Lovejoy 1985. Brothwell 1981. Ubelaker 1989.

Luca Speranza, Eleonora Ferranti Fase di lavoro 8 – Ricostruzione della statura

Breve descrizione delle tombe e degli scheletri studiati

La ricostruzione della statura è stata effettuata mediante l’applicazione delle equazioni di regressione di Trotter e Gleser30 (Tab. 3) per il femore e per la tibia (scheletri 7, 15, 16, 18, 35, 38, 46, 49, 52).

Tomba 7 – Scheletro 7 (Fig. 4) saggio F Si tratta di una fossa terragna stretta con angoli arrotondati; la sepoltura è singola. Al momento del ritrovamento il corpo si trovava in decubito dorsale, con la testa ruotata verso sinistra, e il braccio sinistro piegato e poggiato sull’addome. La deposizione è primaria, e la decomposizione è avvenuta in spazio pieno, con riempimento progressivo. Il cranio era quasi completamente frantumato, e la mandibola era spezzata a metà. Il resto dello scheletro è stato trovato in un discreto stato di conservazione.

Fase di lavoro 9 – Studio dei denti Di seguito sono riportate le arcate mascellari e mandibolari degli scheletri, con la disposizione dei denti presenti al momento del ritrovamento. Un caso interessante è rappresentato dalla dentizione dello scheletro 18, in cui l’evidente riassorbimento e l’obliterazione degli alveoli dei due incisivi centrali, dimostrano che i denti sono stati persi in vita; in altri casi sono state osservate le arcate mandibolare e mascellare (individuo 42) che, essendo un infante, presenta ancora la dentizione decidua, ed è stata messa in evidenza la presenza del primo dente permanente in eruzione. Non sono presenti le arcate degli scheletri 15 e 38 perché, nel primo sia la mandibola sia l’arco mascellare erano completamente privi di denti, nel secondo invece, il calvario e la mandibola non sono stati trovati.

Tomba 15 – Scheletro 15 (Fig. 5) saggio A La Tomba è stata realizzata riutilizzando uno stretto cassone, sprovvisto di copertura; la sepoltura è singola. Al momento del ritrovamento il corpo si trovava in decubito dorsale, con entrambe le gambe piegate e girate verso destra. La deposizione è primaria, e la decomposizione è avvenuta in spazio pieno con riempimento differito, a causa della presenza di un sudario, di cui sono stati trovati piccoli frammenti (Fig. 6). Il cranio aveva diverse fratture, mentre la mandibola era completamente sprovvista di denti. Lo scheletro è stato trovato in un discreto stato di conservazione.

Fase di lavoro 10 – Compilazione delle schede antropologiche (seconda fase) Nella seconda fase di compilazione, sono state aggiunte alle schede antropologiche tutte le informazioni ottenute durante le varie operazioni d’estrazione delle ossa in situ, e in particolare: le posizioni e le connessioni anatomiche di tutte quelle parti che, in un primo momento, non erano state individuate a causa della sovrapposizione con altre ossa o a causa della presenza delle radici e del fango;la forma della fossa; le metodologie utilizzate per il sesso, per l’età di morte e per la statura, con i relativi risultati; le lunghezze delle ossa lunghe prese singolarmente; le misure delle teste dei femori e degli omeri, e tutte le varie particolarità eventualmente riscontrate.

Tomba 16 – Scheletro 16 eTomba 42 – Scheletro 42 (Fig. 7) saggio A Si tratta di uno stretto cassone con struttura a secco; la sepoltura è singola. Al momento del ritrovamento le ossa della parte superiore del corpo (tranne il calvario), fino al bacino escluso, si trovavano disposte in maniera confusa tra il pube e i due femori, poiché lo scheletro è stato ridotto per far spazio al corpo di un infante (Tomba 42 – Scheletro 42). Inoltre, a causa del ruscellamento dell’acqua piovana all’interno del cassone, il calvario è stato trovato nelle vicinanze del cranio dell’infante. La parte inferiore dello Scheletro 16 invece, bacino compreso, si trovava ancora nella posizione originale (in decubito dorsale), con la maggior parte delle ossa ancora in connessione anatomica tra loro. Lo scheletro 16 è stato trovato in un discreto stato di conservazione. La Tomba 42 ha quindi parzialmente rioccupato un cassone più antico. Lo scheletro è stato trovato con il cranio ancora in posizione originaria, in decubito dorsale, con le articolazioni atlante – epistrofeo, epistrofeo III cervicale, e temporo – mandibolare in stretta connessione; mentre tutte le altre parti del corpo sono state trovate nelle vicinanze del cranio, e sparse lungo tutto il cassone, a causa del ruscellamento dell’acqua piovana. La deposizione è di tipo primario, con decomposizione in spazio pieno e riempimento progressivo. Il corpo è stato trovato in un buon stato di conservazione.

Fase di lavoro 11 – Catalogazione e archiviazione Nell’ultima fase di lavoro, le singole ossa sono state sistemate in appositi sacchetti di plastica preforati, distinte per tipologia e per lato di appartenenza e, all’interno degli stessi, è stata posta un’etichetta contenuta all’interno di una bustina in plastica auto sigillante, in cui è stato riportato il nome e la lateralità del reperto, la tomba e lo scheletro di appartenenza, e il luogo di provenienza del materiale osteologico. Tutti i sacchetti sono stati poi disposti in tre cassettine di polietilene comuni da scavo per ogni inumato, e sono stati sistemati in base all’appartenenza all’apparato appendicolare superiore, all’apparato appendicolare inferiore, o allo scheletro assiale, oppure divisi per lateralità. Tutte le cassettine degli scheletri fino a ora studiati, sono state portate nei magazzini del Museo Archeologico di Ascoli Piceno.

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Tomba 18 – Scheletro 18 (Fig. 8) saggio F È costituita da uno stretto cassone con struttura a secco; la sepoltura è singola. Al momento del ritrovamento il

Trotter, Gleser 1977.

410

La necropoli altomedievale di piazza Ventidio Basso ad Ascoli Piceno: prime considerazioni corpo si trovava in decubito dorsale, con il braccio destro appoggiato sul pube, e l’altro disteso lungo il fianco. La deposizione è primaria, e la decomposizione presenta caratteristiche sia dello spazio pieno, con riempimento progressivo, sia dello spazio vuoto. Il cranio è stato trovato nella posizione originaria, e la mandibola era ancora in connessione con questo. Lo scheletro si è presentato in un buono stato di conservazione.

arrotondati; la sepoltura è singola. Al momento del ritrovamento il corpo si trovava in decubito dorsale, con il braccio sinistro piegato a 90°, e il braccio destro disteso lungo il fianco; le gambe inoltre erano distese con entrambi i piedi girati verso destra, e probabilmente sia le ginocchia che le caviglie erano state legate. La deposizione è primaria, e la decomposizione è avvenuta in spazio vuoto, con riempimento progressivo. Il cranio è stato trovato nella posizione originaria, rialzato rispetto al corpo a causa delle pietre sottostanti e ruotato a sinistra, e la mandibola era ancora in connessione con questo. Lo scheletro è stato trovato in un buono stato di conservazione.

Tomba 35 – Scheletro 35 (Fig. 9) saggio O Si tratta di una tomba realizzata mediante il riutilizzo di uno stretto cassone. È stata inoltre creata una piccola nicchia, rompendo uno dei due lati corti del cassone, per poter deporre, nella sua interezza, lo Scheletro 35; la sepoltura è singola. Al momento del ritrovamento il corpo si trovava in decubito dorsale, con entrambe le braccia piegate sull’addome, le gambe distese, e i piedi girati verso sinistra. La deposizione è primaria, e la decomposizione è avvenuta in spazio pieno, con riempimento progressivo. Il cranio è stato trovato nella posizione originaria, e la mandibola era ancora in connessione con questo. Lo scheletro era in un buono stato di conservazione.

Tomba 52 – Scheletro 52 (Fig. 13) saggio F La Tomba 52 è una stretta fossa terragna; la sepoltura è singola. Al momento del ritrovamento il corpo si trovava in decubito dorsale, con entrambe le braccia appoggiate sul pube, e il cranio ruotato verso sinistra; le gambe erano distese e, con molta probabilità, le ginocchia erano state legate. La deposizione è primaria, e la decomposizione è avvenuta in spazio pieno, con riempimento differito, per la presenza di un sudario di cui sono stati recuperati dei frammenti sub-centimetrici. Il cranio è stato trovato nella posizione originaria, con la mandibola ancora in connessione, ma si è presentato con diverse fratture a causa della vistosa presenza delle radici, che hanno compromesso anche gran parte delle costole e del bacino. Lo scheletro è stato trovato in un discreto stato di conservazione.

Tomba 38 – Scheletro 38 (Fig. 10) saggio A La Tomba 38 è uno stretto cassone privo di fondo costruito; la sepoltura è singola. Al momento del ritrovamento il corpo si trovava in decubito dorsale, con entrambe le braccia ed entrambe le gambe distese. La deposizione è primaria, e la decomposizione è avvenuta in spazio vuoto. Lo Scheletro 38 è stato trovato sprovvisto di cranio (è infatti presente solo una parte dell’osso occipitale), di mandibola, delle prime vertebre cervicali, dell’omero sinistro, di alcune costole, della clavicola sinistra e della clavicola destra; tali ossa potrebbero essere state asportate a causa di un riutilizzo della parte soprastante la tomba. Lo scheletro era in un discreto stato di conservazione.

E.F.

Tomba 46 – Scheletro 46 (Fig. 11) saggio F La Tomba 46 è costituita da uno stretto cassone con struttura costruita privo di fondo in muratura; la sepoltura è singola. Al momento del ritrovamento il corpo si trovava in decubito dorsale, con il braccio destro appoggiato sul bacino, e il braccio sinistro appoggiato sull’avambraccio di quello destro, mentre le gambe erano entrambe distese, e le ossa delle dita sparse nelle vicinanze (dislocate per cause naturali). La deposizione è primaria, e la decomposizione è avvenuta in spazio pieno, con riempimento progressivo. Il cranio è stato trovato nella posizione originaria, e la mandibola era aperta; il corpo presenta alcune incongruenze che non sono riconducibili allo spazio pieno, ma queste sono state probabilmente causate dalle radici, sparse in tutto il cassone. Lo scheletro era in un buono stato di conservazione. Tomba 49 – Scheletro 49 (Fig. 12) saggio F La Tomba 49 è una stretta fossa terragna con angoli 411

Fig. 1. Localizzazione dei siti menzionati nel testo.

Luca Speranza, Eleonora Ferranti

412

La necropoli altomedievale di piazza Ventidio Basso ad Ascoli Piceno: prime considerazioni

Fig. 2. Carta di distribuzione delle sepolture e dei saggi.

Fig. 3. Sepolture rinvenute nel saggio F.

413

Luca Speranza, Eleonora Ferranti

Fig. 4. Tomba 7, Scheletro 7.

Fig. 5. Tomba 15, Scheletro 15.

Fig. 6. Frammento del sudario trovato nella Tomba 15.

414

La necropoli altomedievale di piazza Ventidio Basso ad Ascoli Piceno: prime considerazioni

Fig.7. Tomba 16, Scheletro 16 e Tomba 42 – Scheletro 42.

Fig. 8. Tomba 18, Scheletro 18.

Fig. 9. Tomba 35, Scheletro 35.

415

Luca Speranza, Eleonora Ferranti

Fig. 10. Tomba 38, Scheletro 38.

Fig. 11. Tomba 46, Scheletro 46.

416

La necropoli altomedievale di piazza Ventidio Basso ad Ascoli Piceno: prime considerazioni

Fig. 12. Tomba 49, Scheletro 49.

Fig. 13. Tomba 52, Scheletro 52.

Tab. 1. Determinazione del sesso. Scheletri

Metodologie utilizzate

Sesso

Acsadi & Némeskeri

Metodo Pearson

SCH. 7

X

X

X

SCH. 15

X

X

X

SCH. 16

X

X

X

SCH. 18

X

X

X

SCH. 35

X

X

X

SCH. 38

X

M

F

X

SCH. 42

X

SCH. 46

X

X

SCH. 49

X

X

SCH. 52

Metodo Schutkwoski

X

X X X X

417

Luca Speranza, Eleonora Ferranti Tab. 2. Determinazione dell’età. Scheletri

Metodologie utilizzate Lovejoy e Brothwell

SCH. 7

Ubelaker

X

Età di morte Todd e Nemeskeri

Burns vertebre

X

X

SCH. 15

Grado di ossificazione della piastra metafisaria

X

SCH. 18

X

SCH. 35

X

X

SCH. 46

X

X

SCH. 49

X

X

SCH. 52

X

X

Tra 18 e 22 anni

per la tibia

M

F

150.43 ±3.72

SCH. 15

sinistro

SCH. 16

sinistro

172.318 ±3.27

SCH. 18

destro

167.796 ±3.27 sinistra

158.756 153.75 ±3.37 ±3.66

SCH. 38

sinistro

151.612 ±3.27

SCH. 46

sinistro

164.94 ±3.27

SCH. 49

destro

SCH. 52

destro

X

Tra 15 e 25 anni

X

≈ 6 anni X

X

163.03 ±3.66

sinistra

Tra 35 e 40 anni

Tra 35 e 54 anni Tra 20 e 29 anni

Equazioni di regressione di Statura Trotter e Gleser

SCH. 35

X

Tra 16 e 34 anni

X

Tab. 3. Determiniazione della statura.

SCH. 7

Tra 30 e 75 anni

X

X

per il femore

X X

X

SCH. 38 SCH. 42

Meindl e Lovejoy Tra 20 e 35 anni

X

SCH. 16

Scheletri

Burns coste

172.907 ±3.72 169.7 ±3.27

418

Tra 16 e 22 anni

SEZIONE 5 L’ABRUZZO

5.1 Le lucerne dalla catacomba di San Vittorino in Amiternum Sonia Antonelli, Maria Dormio DiSPuTer – Dipartimento di Scienze Psicologiche della Salute e del Territorio, Università di Chieti [email protected], [email protected] Abstract: This paper is dedicated to the preliminary analysis of the clay oil lamps found at the San Vittorino catacombs, in Amiternum. The three main typologies, Atlante VIII, Atlante X and the ‘Catacomb lamps’, are well documented and their various decorative motifs can be attributed to a wide period ranging from the 4th to the 6th century. Recent studies on the specific case of the ‘Catacomb lamps’ type have identified some workshops in the nearby area and in the Amiternum amphitheatre, showing the circulation of the lamps on the micro-regional scale. Keywords: Lamps; Late Antiquity; Catacomb lamps; Abruzzo; Local production; San Vittorino catacombs.

Introduzione

I motivi decorativi associati a questa forma sono riconducibili innanzitutto alle lucerne cosiddette “a doppia palmetta”, o anche “a spina”,3 di cui si conservano undici esemplari piuttosto frammentari, tre verniciati e sette privi di rivestimento. L’esemplare meglio conservato, in argilla depurata, leggermente micacea, di colore rosato (Munsell 5YR 6/6), dura, con piccoli e radi inclusi neri, frattura netta, e tracce di vernice rossa, presenta due infundibula trasversali e tracce di bruciatura sul foro d’illuminazione (Fig. 1). Il modello di probabile derivazione nordafricana, è databile tra V e VI secolo. Sempre alla forma Atlante VIII si possono ricondurre due manufatti in argilla depurata, di colore grigiastro (Munsell 2.5 YR 7/1), micacea, morbida, priva di rivestimento con piccoli e radi inclusi bianchi e neri, con decorazione a “palmetta/raggi”, di cui uno quasi completo (Fig. 2). E, infine, è attestata la decorazione “a cuppelle” o globetti con perline allungate sulla spalla (Fig. 3), di probabile produzione locale e di chiara imitazione di modelli nordafricani, di derivazione tripolitana,4 su una lucerna integra, priva di rivestimento ma con evidenti tracce di concrezione sull’intero corpo, realizzata in argilla depurata leggermente micacea, con radi inclusi bianchi e grigi, di colore marroncino chiaro (Munsell 5YR 5/4). Il motivo a globetti o “cuppelle”, oltre a comparire in forma allungata sulla spalla, costituisce la decorazione principale del disco. Un altro motivo, variante del precedente, è quello “a rametti stilizzati” con perline allungate sulla spalla attribuito a un frammento privo di rivestimento,

La catacomba di San Vittorino è uno dei principali cimiteri paleocristiani d’Abruzzo, ubicato a est della città romana di Amiternum. Il complesso, originato dalla monumentalizzazione della deposizione – all’interno di un mausoleo di età imperiale – probabilmente nel III secolo, dell’omonimo martire è costituito oggi da due chiese distinte, quella di San Michele a Sud, e la c.d. “chiesa vecchia” a Nord, dalla quale si accede alla catacomba. Le indagini archeologiche promosse dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, sotto la direzione della professoressa Anna Maria Giuntella dal 2000 al 2004, hanno permesso di identificare numerose trasformazioni, ristrutturazioni e frequentazioni nel corso dei secoli, che la rendono un contesto aperto.1 Le lucerne Tra le 108 lucerne rinvenute, per lo più frammentarie, si possono distinguere tre tipologie formali. La prima tipologia identificata corrisponde alla forma Atlante VIII: lucerne a corpo e becco a canale allungato non nettamente distinto dal corpo; l’ansa, generalmente piena, impostata verticalmente e solcata sul dorso; il disco, anch’esso allungato, può avere decorazione in rilievo a matrice; infine, il fondo, al cui centro possono trovarsi motivi decorativi o lettere incise, è leggermente concavo e ad anello poco rilevato.2

Anselmino, Pavolini 1981, tav. XCVI figg. 1,8; Paleani, Liverani 1984, p. 29, fig. 1.2; Granchelli, Croppelli, Rovida 1997, tav. 30, fig. 214; Marconi Cosentino, Ricciardi 1993, p. 138, figg. 85, 86, p. 143 fig. 89; Lombardi 2011, tav. III, fig. 3.3. 4 Joly 1974, tav. XLIV, fig. 1004. 3

1 Pani Ermini 1975; Giuntella 2002, pp. 313–342; Somma 2012, pp. 185–194. 2 Anselmino, Pavolini 1981, pp. 194–200.

421

Sonia Antonelli, Maria Dormio stilizzato,13 privi di rivestimento, in argilla depurata, piuttosto micacea, di colore rossastro (Munsell 5YR 4/2), contenente medi e piccoli inclusi bianchi e neri (Figg. 8–9). E, infine, la decorazione “a globetti e rami di palma stilizzati”14 (inv. 1079) molto simile al tipo Tripodi 4 che conta il maggior numero di individui (14 i.), di cui due integri, privi di rivestimento di colore rossastro (Munsell 5YR 6/8), in argilla depurata e micacea, polverosa al tatto, con radi inclusi bianchi e neri (Fig. 10). In particolare, uno degli esemplari “a globetti e rami di palma stilizzati” (inv. 1079), si discosta tuttavia dal tipo Tripodi 4 per la presenza sul fondo della decorazione con rametto di palma stilizzato.15 Inoltre, dalla seppur preliminare e autoptica analisi degli impasti, sono stati identificati otto tipi differenti; appare significativo che all’impasto 1, in argilla depurata di colore arancio rossastro, leggermente micacea con inclusi bianchi di medie dimensioni e grigio/ neri di piccole dimensione, sia riferibile la maggior parte delle lucerne rinvenute, comprese le Catacomb lamps. Gli altri impasti sono relativi a pochi frammenti in cui si sono riscontrati caratteristici inclusi rossicci e grigi e a pezzi unici, come per esempio nel caso del frammento con decorazione a cerchietti e chrismon.

argilla depurata di colore marroncino (Munsell 5YR 5/3), morbida, micacea, con grandi e medi inclusi bianchi e grigi (Fig. 4). La seconda tipologia è riferibile alla forma Atlante X. Essa presenta, al contrario della forma Atlante VIII, il corpo arrotondato, becco e canale allungato distinto dal corpo, ansa maggiormente sporgente dalla parte superiore del serbatoio, e disco, anch’esso rotondo, con possibile decorazione in rilievo, spalla piatta decorata e fondo ad anello rilevato.5 Tra i rinvenimenti di San Vittorino, si rilevano soltanto due esemplari di lucerne Atlante X: il primo presenta una decorazione “a cerchietti”.6 A causa della frammentarietà non è possibile definire chiaramente il soggetto rappresentato sul disco, si avanza cautamente l’ipotesi che possa trattarsi di un chrismon in rilievo a matrice, presente su un unico esemplare con tracce di vernice rossa databile tra V e VII secolo, di probabile produzione locale7 (Fig. 5). Il secondo, anch’esso molto frammentario e combusto, è decorato con un pesce in rilievo a matrice al centro del disco (Fig. 6), databile tra la fine del V e non oltre il terzo quarto del VI secolo.8

Emerge una limitatissima presenza di lucerne di importazione, mentre l’omogeneità degli impasti e dei motivi decorativi consentono, in via preliminare, di avanzare l’ipotesi di una significativa produzione locale.16 In area sabina, la produzione di queste lucerne è ben attestata grazie ai preziosi elementi forniti dallo scavo del complesso tardoantico della villa di San Lorenzo (RI), in cui sono stati rinvenuti numerosi esemplari e una matrice.17

L’ultima tipologia, che conta il maggior numero di individui, è la cosiddetta “Catacomb lamp”,9 ampiamente attestata tra V e VI secolo, ma prodotta ancora fino alla prima metà del VII secolo, caratterizzata da corpo ovoidale e carenato, la spalla piatta e molto ampia, disco allungato e contornato da una nervatura a rilievo che forma uno stretto canale che va a includere il foro d’illuminazione, l’ansa è impostata verticalmente ed è a presa forata.10 Le decorazioni sono alquanto eterogenee grazie a una consistente adozione dei modelli orientali, in particolar modo quelli siropalestinesi,11 in quanto i prototipi vengono assimilati da officine locali e riprodotti in maniera semplificata e, talvolta, originale. Nel contesto di San Vittorino sono presenti due esemplari “a perline”, privi di rivestimento con argilla depurata, di colore arancio (Munsell 2.5YR 6/8), morbida, leggermente micacea, con medi inclusi bianchi e piccoli grigi, di probabile produzione locale12 (Fig. 7) (inv. 119) assimilabile al tipo Tripodi 3 varietà 2; un esemplare integro e tre frammentari con decorazione “a cuppelle” con il fondo decorato con un rametto di palma

M.D. Conclusioni Il cimitero paleocristiano di San Vittorino appare caratterizzato da un uso funerario piuttosto prolungato, almeno fino all’inoltrato VII secolo, come dimostrerebbero le sepolture monumentali con grandi blocchi architettonici romani di riutilizzo dell’ambiente E, datate a epoca altomedievale.18 Tuttavia, le condizioni dei depositi archeologici, pesantemente compromessi dalla frequentazione devozionale del cimitero dalla tarda Antichità fino all’età moderna e da alcuni interventi di scavo e recupero dei materiali condotti in passato, non consentono una definizione cronologica della maggior

Treccani 1981, pp. 194–200. Jurlaro 1967, tav. II fig. 1; Joly 1974 tav. XL fig. 963; Bonifay 2004, p. 396, fig. 29. 7 Odoardi 1993, pp. 611–615. 8 Bonifay 2004, p. 406, fig. 51. 9 Riconducibili al tipo Bailey U, cfr. Bailey 1980. Per la bibliografia relativa a queste lucerne, si rimanda al recente e ampio contributo di Manuela Tripodi (2008, p. 445). 10 Provoost 1970; Bailey 1980; Fiocchi Nicolai, Ricciardi 2003, pp. 60–66; Tripodi 2008, pp. 441–442; Ceccarelli 2015. 11 Tripodi 2008, p. 445. 12 Fioriello 2003, p. 67, fig. 26; p. 68, fig. 28; p. 70, figg. 31, 32; p. 86 fig. 58; Tripodi 2008, p. 461, fig. 8. Tenendo presente la frammentarietà della lucerna, quest’ultimo è il confronto più stringente poiché l’ampia spalla è delimitata esternamente da un robusto bordo ed è decorata da una teoria di perline plastiche sparse, ma se ne discosta leggermente per il maggiore spazio tra l’ansa e il foro d’areazione, riempito anch’esso da perline. 5 6

Paleani, Liverani 1984, p. 83, fig. 82; Marconi Cosentino, Ricciardi 1993, p. 154, fig. 91; Bacchelli, Pasqualucci 1998, p. 349, fig. 4; Fioriello 2003, p. 114, fig. 100; Tripodi 2008, pp. 462, 463. 14 Paleani Liverani 1984, p. 83, figg. 83–84; p. 84, figg. 85–86; Marconi Cosentino, Ricciardi 1993, p. 145, fig. 91; Fiocchi Nicolai, Ricciardi 2003, p. 62, figg. 57–58; p. 65, fig. 64; Tripodi 2008, pp. 451–456. 15 Un confronto stringente è rappresentato anche da una lucerna esposta nel Museo di Cittareale (RI) proveniente dallo scavo di Falacrinae – S. Lorenzo. 16 Garcea 1999, pp. 447–461; Tripodi 2008, p. 471; Tuteri 2014a, p. 30. 17 Ceccarelli 2015. 18 Somma 2012, p. 192. 13

422

Le lucerne dalla catacomba di San Vittorino in Amiternum parte dei manufatti rinvenuti, comprese le lucerne oggetto del presente contributo. Rimangono, dunque, aperti alcuni problemi, in particolare per le cosiddette Catacomb lamps, per le quali è stata a lungo utilizzata una datazione estesa dal IV al VII secolo, che era già stata proposta agli inizi del Novecento.19 In anni più recenti, si è provveduto a una revisione della cronologia di queste lucerne, soprattutto sulla scorta di contesti romani, proponendo una iniziale diffusione nell’ambito del V secolo e una affermazione del tipo soprattutto nel secolo successivo, mentre scarse o residuali sarebbero le attestazioni databili al VII secolo.20 La datazione proposta per l’ambito romano troverebbe una stretta relazione con la frequentazione occasionale dei cimiteri ipogei e, soprattutto, delle cripte venerate,21 e assumerebbe – in tal senso – un particolare significato la concentrazione dei rinvenimenti delle catacombs lamps di San Vittorino nell’ambiente A che ospita la tomba del martire, nel contiguo retrosanctos e soprattutto negli ambienti DE dove risulta probabilmente ubicata la prima memoria.22

Foruli (presso Civitatomassa, AQ) e l’insediamento (villa o mansio?) nel territorio di Pitinum.29 Appare assolutamente plausibile quanto proposto da Rosanna Tuteri relativamente alla possibile individuazione, proprio nell’area forulana e amiternina, di officine locali.30 L’eccezionale quantitativo di Catacomb lamps proveniente dall’anfiteatro di Amiternum31 autorizzerebbe tuttavia l’ipotesi dell’ubicazione proprio nell’area dello stesso anfiteatro di una officina di produzione, anche se i rinvenimenti sono purtroppo privi di contestualizzazione stratigrafica, dal momento che i reperti sono stati recuperati nel corso degli scavi condotti negli anni Sessanta. Il campione risulterebbe statisticamente eccessivo in relazione all’uso funerario che pure è noto per il monumento, in epoca tardoantica e altomedievale.32 La varietà formale e decorativa delle Catacomb lamps provenienti dall’anfiteatro amiternino ben si accorderebbe con tale ipotesi. Un ulteriore elemento deriva anche dall’analisi di alcuni esemplari dalla catacomba di San Vittorino che pur assimilabili ai tipi provenienti dall’anfiteatro di Amiternum se ne discostano per variazioni che sembrano il risultato di commistione di schemi decorativi33 o che possono essere ricondotte all’utilizzo di matrici di diversa generazione.34

L’area sabina e centroitalica in generale, già identificata in passato come l’area di maggiore diffusione delle Catacomb lamps, risultava anche indiziata circa la possibile ubicazione di officine di produzione,23 ipotesi confermata dal rinvenimento piuttosto recente di un centro produttivo installato nell’ambito della villa di San Lorenzo a Falacrinae (RI).24

S.A.

In ambito abruzzese, si segnalano rinvenimenti ad Alba Fucens,25 una limitata attestazione anche a Castelvecchio Subequo,26 ma è soprattutto l’area amiternina che conserva il maggior numero di attestazioni, trovando un significativo confronto nella vicina catacomba di Santa Vittoria a Trebula Metuesca, dove esse risultano essere il tipo prevalentemente attestato.27 Per l’amiternino, a quelle rinvenute nella catacomba di San Vittorino si associano: il rilevante numero di esemplari pubblicato da Emanuela Tripodi (ben 47), conservato presso il Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo di Chieti, e provenienti dall’area dell’anfiteatro della città di Amiternum e dalle sue immediate vicinanze28 e le significative attestazioni dagli scavi recenti presso la chiesa di San Giovanni Battista di Dalton 1901, pp. 146–154. Secondo Pavolini a Roma queste lucerne sarebbero prodotte nel VI secolo perché assenti nei contesti del secolo precedente: Pavolini 1995, pp. 454–464. Per la disamina puntuale del problema e la relativa bibliografia di riferimento si rimanda ancora a Tripodi 2008, pp. 442– 447. 21 Già dalla metà del V secolo l’uso funerario tende a divenire piuttosto sporadico e limitato agli spazi connessi con le sepolture venerate: Fiocchi Nicolai 2001, p. 133. 22 Somma 2012, pp. 189–190. 23 Bailey 1980, p. 392; si veda anche Pavolini 1998, p. 130, n. 40. 24 Ceccarelli 2015. 25 Di Iorio 2006, pp. 229–243. 26 È possibile ricondurre a questo tipo soltanto l’esemplare n. 6.c 12 del catalogo pubblicato in Giuntella et al. 1991, pp. 294–295. 27 Fiocchi Nicolai, Ricciardi, 2003, pp. 61–63. Tuttavia, anche in questo caso la provenienza dei reperti da strati di abbandono e destrutturazione non ne consente una più puntuale collocazione cronologica e, pertanto, risultano datate “tradizionalmente” al IV–V secolo. 28 Tripodi 2008, p. 441.

Si tratta di indagini di cui viene data notizia in Tuteri 2014a, pp. 29–30 e la stessa studiosa, riferendosi alle catacomblamps ritiene che “…Simili lucerne costituisco una costante tra i rinvenimenti propri delle indagini archeologiche condotte nel comprensorio amiternino in siti frequentati in epoca tardo antica …”. 30 Tuteri 2014, p. 30. Un numero seppure inferiore di lucerne della stessa tipologia è stato rinvenuto anche presso un edificio absidato di incerta funzione, incendiato e ristrutturato forse alla metà del IV secolo, da cui proviene anche un medaglione in lamina di rame con chrismon e le lettere apocalittiche alfa e omega, cfr. Santamaria Scrinari 1976, p. 793; 1978, pp. 467–469. 31 Tripodi 2008, pp. 451–469. 32 L’utilizzo funerario dell’anfiteatro appare “sporadico e occasionale”, cfr. Tornese 2005, p. 680. 33 È il caso dell’esemplare inv. 1076 decorato con globetti entro cerchi, assimilabile al tipo Tripodi 1 varietà 3 per la parte superiore e al tipo Tripodi 1 varietà 4 per il fondo (Tripodi 2008, pp. 454–455). 34 Come nel caso dell’esemplare inv. 1078 simile al tipo 1 varietà 1 Tripodi, nel quale tuttavia i globetti appaiono di dimensioni lievemente maggiori (Tripodi 2008, pp. 454–455).

19

29

20

423

Sonia Antonelli, Maria Dormio

Fig. 1. San Vittorino, Amiternum (AQ). Lucerna Atlante VIII con decorazione a doppia palmetta.

Fig. 4. San Vittorino, Amiternum (AQ). Lucerna Atlante VIII con decorazione a rametti stilizzati e perline allungate sulla spalla.

Fig. 2. San Vittorino, Amiternum (AQ). Lucerna Atlante VIII con decorazione a palmetta o raggi. Fig. 5. San Vittorino, Amiternum (AQ). Frammento di lucerna Atlante X con motivo a cerchietti e chrismon.

Fig. 3. San Vittorino, Amiternum (AQ). Lucerna Atlante VIII con decorazione a cuppelle e globetti allungati sulla spalla.

Fig. 6. San Vittorino, Amiternum (AQ). Frammento di lucerna Atlante X con raffigurazione di pesce.

424

Le lucerne dalla catacomba di San Vittorino in Amiternum

Fig. 7. San Vittorino, Amiternum (AQ). Frammento di Catacomb lamp con decorazione a perline. Fig. 8. San Vittorino, Amiternum (AQ). Catacomb lamp con decorazione a cuppelle.

Fig. 9. San Vittorino, Amiternum (AQ). Catacomb lamp con decorazione a cuppelle sul disco e ramo di palma stilizzato sul fondo.

425

Sonia Antonelli, Maria Dormio

Fig. 10. San Vittorino, Amiternum (AQ). Catacomb lamp con decorazione a globetti e rami di palma stilizzati sul disco e ramo di palma sul fondo.

426

5.2 Note preliminari sulla ceramica della catacomba di San Vittorino in Amiternum Sonia Antonelli, Matteo Di Palma DiSPuTer – Dipartimento di Scienze Psicologiche della Salute e del Territorio, Università di Chieti [email protected], [email protected] Abstract: The research carried out on the San Vittorino catacombs in Amiternum between 2000 and 2004 show uninterrupted use of the site since Late Antiquity. This article examines the ceramic evidence coming from the 4th to 8th century stratigraphic layers. It attests to the prevalence of common ware and a significant amount of fine ware too, mostly imported from North Africa and locally imitated. Moreover, the presence of painted ware and polished ware should also be reported. Thanks to the data coming from the recent excavations at Amiternum, even for the inland site of Abruzzo, we can identify a wide-ranging trade network, characterised by specific local and regional ceramic production between Late Antiquity and the Early Medieval period. Keywords: Abruzzo; Catacomb; Late Antiquity; Pottery; African Red Slip Ware; Polished Ware.

tra la Sicilia orientale e la Calabria occidentale, tra fine IV e VIII sec. d.C.2

Le indagini condotte tra il 2000 e il 2004 nella catacomba di San Vittorino ad Amiternum, il più grande cimitero paleocristiano abruzzese e importante santuario legato alla presenza della sepoltura del martire Vittorino,1 hanno consentito il rinvenimento di un significativo numero di manufatti ceramici databili dall’età tardoantica fino all’età moderna in accordo con quanto già noto circa la frequentazione ininterrotta dell’area funeraria. In questa sede, si presentano alcune note preliminari alle ceramiche tardoantiche e altomedievali, identificate principalmente sulla base della morfologia, degli impasti e, talvolta, delle decorazioni, dal momento che risultano associati prevalentemente a strati di riporto e livellamento, connessi alle trasformazioni del complesso in epoca medievale, o a sepolture pesantemente manomesse da precedenti interventi.

Tra il vasellame di uso domestico, si segnala una significativa presenza di ceramiche africane da cucina, per la maggior parte ciotole/coperchio dette ‘a orlo annerito’, tra cui la forma Hayes 196 (Tav. I, 1–2)3 con una leggera scanalatura sia interna che esterna a scandirne l’orlo dalla parete (ᴓ 16 cm), dall’impasto depurato con sporadici inclusi calcarei (Munsell 7.5 YR 6/3, light brown), databile al IV secolo d.C. e la loro circolazione si accompagna, come è noto, alle più comuni importazioni di Sigillata Africana. A un ambito egeo è riferibile invece un’olla con orlo estroflesso e profondo incavo per il coperchio caratterizzata da un impasto duro, di colore camoscio scuro, con la superficie grigiastra finemente micacea (Munsell 7.5YR 5/1 gray e 10YR 4/2, dark grayish brown), databile tra la seconda metà del V e gli inizi del VI secolo e attestato in ambito adriatico ad Aquileia e Ravenna4 (Tav. II, 5).

I frammenti riconducibili a un arco cronologico compreso tra IV e VIII secolo d.C. sono 859 su un totale di 1.264 e costituiscono il 67,9% del campione complessivo. Dei frammenti ceramici considerati, il 72% è riconducibile a ceramiche comuni, il 21% a ceramiche da cucina, mentre le ceramiche fini da mensa ammontano al 3% e gli anforacei circa al 4%. Molto esigui risultano i frammenti riconducibili a contenitori da trasporto, è riconoscibile solo un orlo di Keay LII. La produzione di tale contenitore è ben attestata in Italia meridionale, nelle aree comprese

Per quanto concerne la ceramica da cucina di produzione locale, è ampiamente attestata l’olla nelle sue diverse forme già ben note in area abruzzese tra VI e VII secolo:5 l’olla con orlo estroflesso declinante all’interno avente come elemento caratterizzante l’incavo per coperchio e corpo globulare, con impasto di colore arancio, duro e Sulle anfore Keay LII si veda Pacetti 1998, pp. 185–208. Bonifay 2004, p. 226. 4 Assimilabile al tipo individuato da Reynolds (1993, pl. 97 n° 652). cfr. anche Reynolds 1993, p. 305. 5 Staffa 1998b, pp. 437–480. 2 3

1 Relativamente al complesso si vedano Pani Ermini 1975 e Giuntella 2002, pp. 313 342. I risultati delle ultime indagini sono sinteticamente esposti in Somma 2012, pp. 185–194.

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Sonia Antonelli, Matteo Di Palma Pescara.13 La decorazione, geometrica a graticcio o a spina di pesce, è realizzata in arancio-rossastro e talvolta in rossobruno.

ruvido al tatto con sporadici inclusi calcitici (Munsell 5YR 5/8 yellowish red), databile entro il VII secolo (Tav. II, 1); l’olla con orlo estroflesso con incavo per l’alloggiamento del coperchio con impasto di colore arancio duro con sporadica presenza di calcinelli (Munsell 5YR 6/6 reddish yellow), databile tra la fine IV e gli inizi del V secolo (Tav. II, 2);6 l’olla dall’orlo estroflesso, gola marcata e corpo globulare impasto duro ruvido al tatto, di colore grigio, superficie rossastra con sporadici inclusi calcarei e mica7 (Munsell 7.5YR 5/2 brown e 5YR 5/4 reddish brown) (Tav. II, 3).

Significativa la presenza di ceramica polita a stecca (2.5% del campione), due brocchette monoansate, con collo allungato, pancia fortemente globulare e fondo ad anello (ᴓ tra i 3,5 e i 5,5 cm) quasi del tutto sprovvisto di steccature che terminano poco oltre la metà del corpo globulare, con impasto depurato e duro di colore arancio, databili al V d.C.14 (Fig. 2). Sono stati rinvenuti anche due fondi con tracce di politura estesa fino al 70% del corpo vascolare, con piede del tutto privo di steccature. Un fondo è certamente ascrivibile a uno dei due profili ricostruibili, mentre l’altro presenta delle tracce di rilavorazione con limatura per smussarne la frattura, permettendone forse il riuso come forma aperta (Tav. III, 4).

La Sigillata Africana è attestata nelle forme Hayes 61A/B2 o Bonifay type 37, databili agli inizi-metà V secolo8 (Tav. I,3) e nelle forme Hayes 103 variante Sidi Khalifa o Bonifay type 79 (Tav. I, 4), con l’orlo leggermente introflesso a forma rettangolare con un taglio netto nell’angolo inferiore esterno, con leggera svasatura, dall’impasto duro e molto depurato (Munsell 5YR 6/6, reddish yellow), datata tra la fine del V e gli inizi del VI secolo.9

Dal punto di vista decorativo, appare peculiare un frammento di parete, attribuibile a una forma chiusa, realizzata in argilla rossastra (Munsell 5YR 5/3 reddish brown e 2.5 YR 6/6 light red), che presenta un motivo a onde continue, inciso a pettine (Fig. 3), sottolineato dalla presenza di un rivestimento chiaro, databile al pieno VII secolo.15

La ridotta ma significativa presenza di ceramiche fini da mensa, rinvenute in un contesto funerario come quello della catacomba di San Vittorino, è da ricondursi ai banchetti rituali noti anche come refrigerium,10 che venivano praticati su apposite mense o sostegni posizionate presso le sepolture. Sono ben attestate anche produzioni assimilabili morfologicamente ai tipi delle sigillate, in ceramica comune con decorazioni a bande brunerossoarancio in prossimità dell’orlo: realizzate con un impasto duro dal colore beigerosato con sporadici inclusi calcitici e micacei. Si tratta di ciotole (ᴓ dai 12 ai 28cm), riconducibili alle forme Hayes 99 A/1 (Bonifay 2004, type 55) databile tra la fine V e la metà VI secolo (7.5YR 7/4, pink), Hayes 61 A/B2 (Bonifay 2004, type 37) databile agli inizimetà V secolo) (7.5YR 7/4, pink),11 Hayes 61 B2 (Bonifay 2004, type 38 B2) databile alla prima metà del V secolo) (7.5 YR 6/4, light brown) (Tav. III, Figg. 1–2–3).

All’interno di una sepoltura femminile integra (T. 8), è stato rinvenuto come unico elemento di corredo un boccale con breve orlo inclinato verso l’esterno, corpo globulare e fondo piatto, di piccole dimensioni (Fig. 4), assimilabile morfologicamente ad alcune forme di ceramiche a pareti sottili.16 L’ansa scanalata all’esterno si imposta sulla spalla arriva fino alla metà del corpo ceramico e risulta decorato con quattro impressioni digitali equidistanti tra loro sul corpo. L’impasto è morbido di colore rossastro con sporadici inclusi calcarei e micacei (Munsell 5YR 5/6 yellowish red), molto simile alle produzioni in ceramica comune. La presenza di un rivestimento grigionerastro sul corpo ceramico consente di accostarlo alle produzioni adriatiche. Si propone una datazione non oltre il III sec. d.C.

Tali produzioni rientrano nel più vasto problema delle ceramiche da mensa decorate con vernice rossa, che si ispirano alle ceramiche verniciate africane, la cui produzione e circolazione in ambito mediterraneo si afferma a partire dal V secolo, con evoluzioni e modalità ancora in parte da chiarire.12

Singolare appare il rinvenimento di un manufatto che esula dalla categoria del vasellame: si tratta infatti di un crogiolo di ridotte dimensioni in argilla grigia con frequenti inclusi brillanti di medie dimensioni che non presenta tracce di concrezione e di uso (Fig. 5) e se ne ipotizza, per questo motivo, l’utilizzo come corredo all’interno di una sepoltura, sebbene sia stato rinvenuto in uno strato di livellamento relativo alle fasi moderne della catacomba contenente molto materiale residuale.

La ceramica dipinta (Fig. 1) è rappresentata da venticinque frammenti caratterizzati da un impasto depurato, a frattura netta, piuttosto duro, di colore beige o beige-rosato, riconducibili alle forme compiute e ben conosciute di brocche, con decorazioni anche complesse, assimilabili a quelle note da ambito costiero come ceramiche tipo Val

M.D.P.

6 Il tipo trova confronti morfologici stringenti anche con vasellame dell’Italia settentrionale, cfr. Buora, Cassani, Fasano 1998, pp. 599–606. 7 Siena, Troiano, Van Verrocchio 1998, p. 672. 8 Bonifay 2004, p. 167. 9 Bonifay 2004, pp. 203–204. 10 Giuntella 1985a, pp. 55–63; 1998, pp. 61–75. 11 Bonifay 2004, p. 168. 12 De Iure 2015.

Somma, Aquilano, Cimini 2009, pp. 80–97; Siena, Troiano, Verrocchio 1998, pp. 670–673; Staffa 1998b, pp. 457–461; 2004b, pp. 212–213. 14 Pinna 2005, p. 275. 15 Redi et al. 2013, p. 277. 16 In particolare il tipo Ricci I/117 che si diffonde ampiamente nel II secolo d.C., cfr. Ricci 1985, p. 271. 13

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Note preliminari sulla ceramica della catacomba di San Vittorino in Amiternum Conclusioni

inoltre la presenza – seppure più sporadica rispetto alle aree costieri abruzzesi – di importazioni dall’Italia meridionale in epoca tardoantica.22

La seppur preliminare analisi del materiale ceramico riferibile alla frequentazione della catacomba in epoca tardoantica e altomedievale17 permette di definire alcuni aspetti più strettamente legati allo sviluppo e all’uso funerario della stessa e di avanzare alcune considerazione di carattere più generale sulla produzione e circolazione delle ceramiche nell’Abruzzo interno.

Le importazioni dal Mediterraneo trovano conferma nelle attestazioni delle sigillate africane, con un trend osservato anche nei recenti scavi di Campo Santa Maria presso la città di Amiternum,23 tuttavia appare più significativo, nel caso di San Vittorino, il rinvenimento dell’olla egea (Tav. II, 5) considerata la minore attestazione nelle aree interne dell’Abruzzo di tali prodotti.

Secondo la Passio, Vittorino, martire probabilmente del III secolo o degli inizi del IV,18 fu deposto in un mausoleo già attribuito all’età imperiale (II–III sec.)19– le cui strutture sono ancora oggi riconoscibili – forse in relazione a un’area funeraria più vasta che dominava a est la città di Amiternum. Il rinvenimento del boccalino monoansato assimilabile alle produzioni di ceramica a pareti sottili (Fig. 1), in giacitura primaria, deposto ai piedi di una inumazione femminile (T. 8) sulla quale si impostava la sepoltura riconosciuta tradizionalmente come tomba del martire Vittorino,20 consente di avanzare, seppure cautamente, l’ipotesi che tale sepoltura (T. 8) possa essere riconosciuta come pertinente alla fase originaria di utilizzo funerario del mausoleo.

Per quanto concerne invece le produzioni locali, oltre alle olle che ripropongono tipi morfologici ben attestati in tutta l’area abruzzese (Tav. II, 1–3), si segnala la significativa presenza di ceramiche dipinte (Fig. 1), la cui ampia diffusione nell’Abruzzo interno era già stata messa in evidenza.24 Recentemente, si è sottolineata la possibile derivazione di tali produzioni dalla tradizione tardoromana,25 con probabili centri produttivi locali, identificati al momento soltanto nell’area costiera,26 ipotesi che appare confermata dal rinvenimento a San Vittorino di alcune forme eccezionalmente aperte, che imitano morfologicamente alcune tipi di Sigillate Africana, realizzate in ceramica comune con decorazione a linee parallele in arancio e bruno.

La deposizione del martire, secondo dinamiche ben note, comporta un intenso sfruttamento funerario delle aree adiacenti, alcune ipogee e scavate appositamente per l’uso funerario e altre semipogee, sistemate e organizzate a formare un esteso cimitero, utilizzato sicuramente dal IV fino al VII secolo.

All’alto Medioevo invece appare riferibile il crogiolo di ridotte dimensioni (Fig. 5) il cui impiego come elemento di corredo appare confermato dalla mancanza di tracce di uso.27 Dal punto di vista morfologico potrebbe essere affine ai tipi impiegati per la tecnica a cera persa; piuttosto suggestivo il rimando alla ben nota tomba 37 di Castel Trosino, databile tra VI e VII secolo, attribuita a un gioielliere, in cui oltre al crogiolo è presente anche la bilancia.28

Lo stato delle stratigrafie, compromesse dagli interventi susseguitisi nel tempo, dalla tarda Antichità fino all’età moderna, non consente di stabilire relazioni precise tra i manufatti ceramici – nella maggior parte residuali– e le sepolture, in termini di presenza/assenza del corredo rituale e di valutazione dello stesso. Tuttavia, il rinvenimento di ceramica fine da mensa e da cucina potrebbe ragionevolmente essere messo in relazione con l’uso della celebrazione dei banchetti rituali, confermata dall’identificazione nell’ambito della catacomba di apposite strutture, sistemazioni, sostegni e/o banchi (Fig. 6).

Allo stesso ambito cronologico, più precisamente al VII secolo, rimanda invece il rinvenimento del frammento di parete riferibile alle produzioni note come combed slipped decoration (Fig. 3) presente lungo tutto l’arco adriatico dalla Puglia29 all’area medioadriatica,30 di cui sono state recentemente identificate alcune officine in area spoletina,31 la cui diffusione anche nell’Abruzzo interno è già stata rilevata nell’ambito di recenti ricerche in area amiternina.32

Al refrigerium per i defunti o a libagioni rituali nel giorno del dies natalis del martire, appare connesso anche il rinvenimento dell’anfora vinaria Keay LII,21 che attesta

S.A. regioni che hanno un diretto legame con la nascita del cristianesimo, si veda a riguardo Pieri 2005, pp. 113–114. 22 Siena 2015. 23 Redi et al. 2013, p. 277. 24 Somma, Aquilano, Cimini 2009, pp. 80–97. 25 De Iure 2015. 26 Relativamente alla recente identificazione di un probabile impianto produttivo all’interno dell’anfiteatro di Chieti di veda il contributo Tulipani, Siena, Pantaleo in questa stessa sede. 27 Sono ormai ben note specifiche produzioni, anche di vasellame, a esclusivo uso funerario, cfr. Stasolla, Marchetti 2010, pp. 131–138. 28 Paroli 1995. 29 Scrima, Turchiano 2012, p. 602, tav.I,1. 30 Negrelli 2007a. 31 Carbonara, Vallelonga 2015. 32 Siena 2015.

Le indagini, promosse dalla Pontificia Commissione di Archeologia Cristiana, sono state dirette sul campo da chi scrive, sotto la direzione della Prof.ssa A. M. Giuntella. 18 La deposizione diVittorino a LXXXIII miglia da Roma sulla via Salaria è ricordata nel Martirologio Geronimiano al 24 luglio, che menziona anche la sua deposizione (Martirologium Hieronimianum, in Quentin 1931, p. 393), tuttavia non è possibile accettare la datazione del martirio al I secolo tramandata dalla Passio. 19 Somma 2012, p. 187. 20 Seppure quasi completamente destrutturata a causa dei successivi interventi di epoca altomedievale e medievale e, forse dell’opera dei “corpisantari”. 21 L’utilizzo rituale e cultuale del vino trova ampie conferme in ambito archeologico, evidenziando una certa predilezione, in alcuni contesti e soprattutto da parte delle gerarchie ecclesiastiche, per vini prodotti in 17

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Sonia Antonelli, Matteo Di Palma

Fig. 1. San Vittorino (AQ). Ceramica dipinta.

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Note preliminari sulla ceramica della catacomba di San Vittorino in Amiternum

Fig. 2. San Vittorino (AQ). Brocchetta polita a stecca.

Fig. 3. San Vittorino (AQ). Frammento di combed slipped decoration.

Fig. 4. San Vittorino (AQ). Boccalino assimilabile alle produzioni a pareti sottili.

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Sonia Antonelli, Matteo Di Palma

Fig. 5. San Vittorino (AQ). Crogiolo di ridotte dimensioni.

Fig. 6. San Vittorino (AQ). Veduta dell’ambiente A con strutture di appoggio per il refrigerium.

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Tav. I. San Vittorino (AQ). Vasellame di importazione africana.

Note preliminari sulla ceramica della catacomba di San Vittorino in Amiternum

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Sonia Antonelli, Matteo Di Palma

Tav. II. San Vittorino (AQ). Olle di produzione locale.

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Tav. III. San Vittorino (AQ). Forme aperte con decorazione a linee parallele in arancio e bruno.

Note preliminari sulla ceramica della catacomba di San Vittorino in Amiternum

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5.3 Insediamenti tardoantichi nell’Abruzzo meridionale adriatico Davide Aquilano Università degli studi “Gabriele D’Annunzio” di Chieti [email protected] Abstract: Studies carried out over the last two decades in the Vastese area have collected adequate data for a first assessment of both general phenomena and local and regional ones. Systematic excavations conducted in San Salvo, in the Roman Villa at Colle Polercia near Cupello and in Schiavi di Abruzzo, play a leading role among these. Other studies, although missing the systematic character of this one, nonetheless provide important information and contribute both to the formulation of new questions and to the resolution of old issues. This paper also provides an archaeological map of the late Roman and early medieval sites distributed over the territory between the Trigno and Osento rivers. Summaries of the sites enrich the archaeological map. From the analysis of the distribution of the archaeological sites, it is evident that the coast and the Trigno valley were intensely involved in the system of the late Roman Mediterranean long-haul trade: it is documented by the massive presence of North African and Phocaean pottery found in excavations and surveys. If in the 5th–6th centuries there was an increase in goods arriving by the long-haul routes, the first half of the 7th century, which was the period of the Lombard conquest of this land, would mark the end of pottery production and importation. One factor that led to the vitality of this area in the period under study was surely the shift of the Empire to the East, with obvious positive effects for regions such as the Adriatic coast of the Peninsula that are closer to the economically strongest areas and had products to be placed on the market. The circulation of soapstone remains an open question, the resolution of which must go through a more precise chronological definition, which is currently lacking. In the sites of the Vastese area these products seem to date to the period from the 9th to the 12th century. Keywords: Abruzzo; Landscape Archaeology; Survey; Pottery.

Premessa

informazioni, che non può esser colmata con i dati a disposizione, perché non si è ancora in grado di identificare, per esempio, le produzioni ceramiche di questo periodo; 2. al di sotto del suolo sono in genere presenti limi, argille, arenarie che, proseguendo verso le aree interne, lasciano talora il posto a formazioni clastiche di calcarenite, gesso e marna.

Le ricerche condotte nell’ultimo ventennio nel territorio di Vasto hanno raccolto dati sufficienti per una prima verifica sia dei fenomeni generali sia di quelli locali e regionali (Fig. 1). Tra queste assumono un ruolo di primo piano gli scavi sistematici condotti a San Salvo (siti 1–3), nella villa romana a Colle Polercia di Cupello (sito 7) e nell’Area Sacra dei Templi Italici di Schiavi di Abruzzo (sito 24), che hanno restituito una discreta quantità di dati strutturati e contestualizzati. Altri interventi, sebbene mancanti del carattere della sistematicità, forniscono informazioni pur importanti e contribuiscono sia alla formulazione di nuovi quesiti sia alla risoluzione di vecchie questioni.

Se nel primo caso l’incapacità è imputabile a chi studia questo territorio, nel secondo si è davanti a un limite invalicabile: un’impressionante instabilità e mobilità dei terreni, tant’è vero che, sulle sommità dove ci sono riferimenti reali e inconfutabili, si registra un abbassamento della quota di frequentazione per un’altezza variabile di m 1–2 rispetto agli inizi della nostra era. Questo significa che le strutture antiche e tardoantiche di carattere precario (capanne, casa di terra, edifici con murature di pietra legate con terra) sono del tutto sparite a causa dell’erosione, mentre quelle più solide si conservano nelle parti al di sotto delle quote pavimentali, come fondazioni, cisterne,

Una premessa metodologica necessaria è rilevare che alcuni fattori, allo stato attuale ineludibili, non consentono di comprendere i fenomeni storici nella loro pienezza: 1. dalla metà del VII secolo fino alla metà di quello successivo si registra un’assenza assoluta di 436

Insediamenti tardoantichi nell’Abruzzo meridionale adriatico che dovevano ospitare ognuna un defunto. Tra i materiali usati, oltre a mattoni di uso primario, sono presenti anche mattoni, bozze e lastre di marmo di riutilizzo. Gli oggetti del corredo personale recuperati nel terreno accumulatosi all’indomani della profanazione delle sepolture sono databili al VI secolo d.C. (Fig. 2BC). La tomba 71 ha sicuramente “attratto” in seguito numerose sepolture terragne altomedievali prive di corredo, mentre non è stato possibile appurare il suo rapporto cronologico con la chiesa di San Giuseppe.5 Particolarmente ricca la messe di materiale ceramico databile al V–VI secolo avanzato (Fig. 2C): Terra Sigillata Africana (TSA) (in particolare le forme Hayes 31D, 104A), Terra Sigillata Focese (TSF) (Hayes 1A, 1B, 3E) e ceramica dipinta a bande, lucerne di produzione africana e di imitazione, spatheia, anfore italiche (Keay LII). Alla fase altomedievale di IX–XI secolo sono ascrivibili i numerosi frammenti di Pietra Ollare (Fig. 3).

condotti ipogei, suspensurae, dolia defossa, ecc…; tutto quello che si trovava al di sopra della quota pavimentale è stato asportato sia dalle azioni di spoliazione sia dai normali processi erosivi, particolarmente accelerati nel secondo dopoguerra dall’utilizzo dei mezzi meccanici in agricoltura. Molto raramente, dunque, le condizioni ambientali hanno portato alla formazione di depositi in grado di coprire e conservare i resti antichi e medievali. Un’ultima considerazione può essere utile per meglio comprendere i fenomeni di cui si forniranno di seguito i dati essenziali: la presenza massiccia di materiale archeologico di uso quotidiano – in particolare la ceramica di V-metà VII secolo – può essere spiegata soltanto se la si considera come ultima testimonianza di quel mondo antico che sarebbe a mano a mano definitivamente scomparso nelle forme che lo avevano contraddistinto sino allora. Infatti, i reperti ceramici di periodi precedenti e persino di quelli che hanno lasciato importanti testimonianze monumentali come il I secolo, sono quasi introvabili nei siti a continuità di vita oppure sono ridotti a rari e minuti frammenti. Ciò significa che non si deve prendere l’evidenza (la massiccia presenza di reperti tardoantichi) come un’immagine dell’ultima stagione economica di questo territorio nel contesto dei traffici mediterranei.1 Tale immagine si è ben conservata in qualità e quantità perché preservata da secoli di scarsa attività umana, inadeguati alla messa in atto di quelle azioni di disturbo che di norma producono la sparizione o perlomeno la drastica riduzione della presenza di reperti delle fasi precedenti.

Sito 2. San Salvo, Villa Romana di via San Rocco I resti di una villa romana sono stati rinvenuti in località Sant’Antonio nel 1996 all’inizio dei lavori per la costruzione di un edificio. Il sito si trova sul margine di un’antica falesia (oggi distante ca. 3,5 km dal mare), dalla quale si domina anche la piana alluvionale di sinistra della foce del Trigno. Gli scavi sono continuati in maniera saltuaria e dal 2012 il sito ospita il Campo Scuola di Archeologia.6 Nessuna delle quote pavimentali si è conservata e l’attuale piano di campagna si trova a ca. cm 120 da quello di frequentazione dell’insediamento antico, come si evince dalla cella vinaria, l’unico ambiente riconoscibile nella sua funzione primaria. Tra i materiali rinvenuti in una vasca costruita dopo il III secolo sono presenti frammenti di TSA e ceramica dipinta a bande databile tra il V e il VI secolo. Frammenti di Pietra Ollare (Fig. 3) provengono da livelli superficiali non contestualizzabili, probabilmente riferibili alla fase altomedievale del sito, alla quale sembrano appartenere alcune sepolture e i resti di un edificio individuati nel 1996 e non ancora indagati.

Carta archeologica (Fig. 1) Sito 1. San Salvo, Parco Archeologico del Quadrilatero Le indagini condotte in diversi momenti dal 1997 al 2011 nell’area di piazza San Vitale2 hanno portato alla scoperta di un insediamento di grandi dimensioni con continuità di vita fino a oggi. I resti di maggiore evidenza sono riferibili all’epoca imperiale e a quella bassomedievale: nel primo caso l’insediamento sembra avere una funzione di carattere commerciale legata all’approdo esistente alla foce del vicino fiume Trigno; nel secondo caso, il sito diviene la sede dell’abbazia cistercense di San Vito del Trigno, che riforma una comunità benedettina attiva almeno dagli inizi dell’XI secolo.3 Tra le testimonianze in muratura si ricorda la tomba 71,4 a camera ipogea, adiacente al muro di fondo dell’odierna chiesa di San Giuseppe (Fig. 2A). In realtà doveva esserci anche una parte emergente, di cui non è possibile ricostruire le forme e le dimensioni. La tomba è divisa in due vani longitudinali voltati a botte,

Sito 3. San Salvo, Villa Romana di via Tobagi Individuata durante lo sbancamento per la realizzazione di una palazzina in località Grasceta nel 2008, i pochi resti sono stati indagati nel 2011.7 Anche in questo caso, l’unico settore identificabile è quello della cella vinaria. Tra i materiali recuperati si segnalano frammenti di TSA e spatheia.

1 La conquista longobarda del territorio a Sud del Pescara è ormai unanimemente collocata alla metà del VII secolo: Pellegrini 1990, p. 529. 2 Scavi diretti da Amalia Faustoferri e dallo scrivente. 3 Aquilano 2014, p. 36. Nella Bibliothèque Nationale de France è stata di recente individuata una pergamena del 1031, che allo stato attuale rappresenta la più antica attestazione del monastero di San Salvo: Tedeschi 2016, doc. 5, pp. 51–55. 4 Analisi e interpretazione della Tomba 71 anche alla luce di confronti con manufatti presenti in area balcanica e del contesto archeologico in Aquilano 2018.

http://www.storia-culture-civilta.unibo.it/it/ricerca/convegni-e-seminari/economia-territorio-adriatico-centrale-antichita-medioevo/call-forposters-1/poster-abruzzo/contesti-funerari-tardoantichi-nellabruzzoadriatico-meridionale-villalfonsina-e-san-salvo-d.-aquilano. 6 http://www.fastionline.org/micro_view.php?item_key=fst_cd&fst_ cd= AIAC_3067 7 Di Penta 2010. 5

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Davide Aquilano Sito 4. Cupello, Liberica

che hanno occupato lo spazio della villa si conservano soltanto quelle poste col piano di deposizione a una quota inferiore rispetto alle altre e sono tutte prive di corredo. Sono presenti anche sepolture infantili all’esterno, lungo le fondazioni, “subgrunda” o “sub stillicidio”.11 Tra i materiali, particolarmente ricca è la presenza di frammenti ceramici: TSA, ceramica dipinta a bande e spatheia.

Della struttura antica, che fu distrutta nel 1967, non è attualmente visibile nulla, se non alcuni frammenti di dolia gettati lungo la scarpata meridionale del terrazzo artificiale su cui oggi insiste una fornace di laterizi. Da questo sito, che dista poco meno di 1,5 km dal Parco Archeologico del Quadrilatero, proviene la Tabula Patronatus bronzea che contiene la trascrizione del processo verbale con cui l’assemblea dei Cluvienses Carricini nel 383 d.C. nominava Aurelius Evagrius patrono della cittadinanza. In questo luogo doveva, quindi, trovarsi una delle residenze del latifondista,8 andata distrutta nel corso dei lavori di costruzione dell’impianto industriale alla metà degli anni Sessanta. I siti 1–4 si distribuiscono lungo un percorso che dal mare penetra verso l’interno lungo un crinale e piegare a Sud-Est verso il Trigno.9

Sito 8. Vasto, Colle Pizzuto A est del rilievo, nel 1992 è affiorato del terreno fortemente antropizzato, reso visibile nel 1992 dai lavori di scasso. Particolarmente ricca la presenza di TSA, TSF e ceramica dipinta a bande. Sito 9. Vasto: centro urbano del municipium Histoniensium

Sito 5. Cupello, La Botte

La città romana si espande verso nord-est probabilmente nel IV secolo. Da quella che sembrerebbe essere la chiesa episcopale proviene un frammento di pavimento musivo databile al IV–V secolo.12 Indagini svolte nel centro storico della città non hanno ancora fornito una ricostruzione convicente, soprattutto per l’uso di fonti documentarie non interpretabili in maniera univoca.13

Il sito è all’incirca equidistante ca. 1 km dai siti l e 4. Prende il nome da una cisterna voltata a botte, che rimane l’unica testimonianza in elevato di una grande villa distrutta negli ultimi decenni per evitare intralci ai lavori agricoli. Oltre ai soliti materiali tardoromani (TSA, spatheia e ceramica dipinta a bande) nel 2000 è stata recuperata da Amalia Faustoferri una fibula a ‘omega’ con iscrizione «Lupu(s) Biba(s) in deo». Il tipo di fibula, interpretato come elemento distintivo di un reparto dell’esercito goto comandato da un certo Lupus o – più plausibilmente – come elemento di corredo personale col nome del defunto, è comunque databile nell’ambito del VI–VII secolo.

Sito 10. Monteodorisio, San Bernardino Si tratta di una fertile piattaforma sulla quale insistono almeno tre villae e dove sono state rilevate diverse presenze archeologiche minori – forse di casae – di età tardorepubblicana e primoimperiale. Nel 2010 una delle villae è stata distrutta da uno scasso che ha tirato su numerosi tronconi di muri con evidenti elementi di riutilizzo, come lastre con iscrizioni funerarie di prima età imperiale.14 Anche in questo caso, come in quello della villa di Colle Polercia (sito 7), è evidente un ampliamento della struttura tra il IV e il V secolo. Inoltre, sono stati raccolti numerosi frammenti di TSA, ceramica dipinta a bande e spatheia.

Sito 6. Cupello, Azienda d’Avalos Poche centinaia di metri a Sud della Botte, nel 1991 fu recuperata una fibula a ‘omega’ proveniente da una sepoltura terragna femminile.10 Indagini successive, limitate al luogo preciso del rinvenimento dell’oggetto di corredo personale, hanno consentito di individuare un’altra sepoltura terragna priva di corredo.

Sito 11. Monteodorisio, Castello

Sito 7. Cupello, Colle Polercia

Il fortilizio si presenta attualmente nelle forma di età aragonese con aggiunte di XIX (palazzo signorile) e XX (scuola elementare) secolo, che ne hanno profondamente trasformato l’impianto originario. Le fasi precedenti a quella di XVI secolo sono state documentate nel corso degli scavi condotti tra il 2003 e il 2008.15 Frammenti di TSA sono stati rinvenuti lungo la scarpata occidentale,

Sulla collina, che gode di un’ottima posizione panoramica, sono i resti di una grande villa di prima età imperiale ampliata attorno al IV secolo d.C. con la costruzione di una terma privata e di altri ambienti di servizio. Purtroppo i resti si sono conservati al di sotto della quota pavimentale, poiché l’erosione ha prodotto nel sito un abbassamento di cm 120 ca. della quota del piano di calpestio, come si evince in maniera precisa dall’emergere della fondazione di una cisterna. In questo caso, come in quello della villa di San Bernardino (sito 10), è evidente un ampliamento della struttura tra il IV e il V secolo. Delle sepolture

A. Crosato, All’origine dei cimiteri cristiani: chiese e sepolture nell’Italia transpadana tra IV e IX secolo, tesi di dottorato, Università di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, Dipartimento di Storia, p. 530; Nizzo 2011, p. 53. 12 Aquilano 1999, pp. 437–439. 13 Ci si riferisce in particolare a Giorgio Ciprio e alla cronaca di Santa Sofia di Benevento, usati con estrema disinvoltura e piegati a fini precostituiti in Staffa 2002, pp. 214–216. 14 Tre frammenti di lastre funerarie sono stati esposti nel Museo Archeologico del Vastese, all’interno del Castello di Monteodorisio. 15 Scavi diretti da Amalia Faustoferri e dallo scrivente. 11

La Regina 1967, p. 91. Aquilano et al. 2012. 10 Staffa 1993, p. 25, fig. 22, n. 102. Errata la data del rinvenimento. Il 1992 è la data dello scavo delle sepolture. 8 9

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Insediamenti tardoantichi nell’Abruzzo meridionale adriatico mentre particolarmente ricco di ceramica dipinta a bande altomedievale e di Pietra Ollare è il terrapieno artificiale con il quale è stata estesa la superficie utile per l’ampliamento del fortilizio verso est in un periodo compreso tra il IX e il XII secolo.16

a una produzione dedicata specificamente ai contesti funerari e, quindi, non destinata all’uso quotidiano. Sito 15. Casalbordino, Santo Stefano in Rivo Maris Da molto tempo nota per i resti di strutture antiche e medievali, l’area di Santo Stefano in Rivo Maris negli ultimi decenni è stata interessata da scavi e ricerche archeologiche condotte dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo e dalla cattedra di Archeologia Medievale dell’Università “G. D’Annunzio” di Chieti. Di estremo interesse sono i ruderi – sinora non indagati – dell’abbazia di Santo Stefano, fondata nella prima metà dell’XI secolo a opera di Trasmondo (IV), figlio del conte di Chieti Landolfo. Se i ruderi del monastero attendono ancora di essere indagati, tra il 1974 e il 1976, l’allora Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo ha svolto degli scavi archeologici nei vicini resti di una basilica paleocristiana intitolata probabilmente a Santo Stefano Protomartire. L’edificio, arricchito con pregevoli mosaici pavimentali databili alla fine del V–VI secolo, si inserisce in un’area precedentemente occupata da costruzioni di prima età imperiale, che insistevano sul margine del terrazzo marino che domina la spiaggia presso la quale sono stati rinvenuti i resti di altre strutture antiche e tardoantiche (sito 16).19 La chiesa e l’area circostante sono state utilizzate come cimitero, dalle cui sepolture provengono alcuni oggetti di corredo rituale in vetro e ceramica dipinta a bande. Il sito ha restituito anche frammenti di ceramica dipinta a bande, TSA e lucerne di produzione africana.20

Sito 12. Monteodorisio, San Pietro ad Aram Resti del margine orientale di una villa conservatisi a livello di fondazione. Sono stati individuati nel 2011 durante le indagini preliminari alla realizzazione di un impianto fotovoltaico. Le parti rimanenti devono essere ancora indagate e sembrerebbero conservatesi in condizioni migliori sotto una serie di edifici rurali moderni ormai abbandonati. La parte individuata, ma non indagata, presenta diverse sepolture lungo l’esterno delle fondazioni, un tratto di una sorta di canale curvo scavato nel terreno e alcune fosse, una delle quali è stata scavata e ha restituito frammenti di TSA e di ceramica dipinta a bande.17 Sito 13. Scerni, San Giacomo Nel 2000 è stata individuata, ma non scavata, un’area funeraria con tombe terragne e a cappuccina molto rovinate sia per l’attuale esiguità della profondità di deposizione sia dai lavori che si stavano eseguendo. Nella stessa area sono state individuate un paio di tombe a camera ipogee poiché la volta di una di esse, costruita con mattoni di tradizione romana, è crollata sotto il peso di un escavatore. All’interno del piccolo vano (ca 100 x 180 cm), le ossa dei due defunti non erano accompagnate da oggetti di corredo, ma il materiale usato, la tecnica di costruzione e un anello d’argento di bassa lega con gemma purpurea incastonata, proveniente da una delle sepolture sub divo, consentono di datare provvisoriamente l’area sepolcrale al tardoimpero, in attesa di una definizione cronologica più puntuale.

Sito 16. Casalbordino, Casette Santini Funzionalmente legato al sito 15, vi prevale la presenza di un grande edificio a pianta rettangolare (ca. 35 x 50 m), in uso tra la prima età imperiale e il VI secolo inoltrato, forse anche parte del VII,21 è stato individuato nel 1991 nel corso dei lavori di raddoppio della linea ferroviaria adriatica, a m 150 ca dall’odierna battigia. La struttura era stata tranciata nel mezzo dalla costruzione della ferrovia. I resti si trovano all’interno dell’ampia superficie del tratturo L’Aquila-Foggia (largo in media m 110 ca), vicino a un gruppo di case, le Casette Santini, note da sempre per la presenza di resti di prima età imperiale e dove di recente sono stati scoperti i resti di una terma. Il sito è stato identificato con Pallanum della Tabula Peutingeriana, una statio posta lungo la Flaminia adriatica, all’incrocio con una strada che penetrava verso l’interno fino alla più nota Pallanum dei Lucani.22 Dalle indagini svolte nell’edificio a pianta rettangolare provengono numerosi reperti di età tardoantica, probabilmente anche di VII secolo.23

Sito 14. Villalfonsina, Morandici Nell’estate del 2000 è stata indagata un’area cimiteriale di VI–metà VII secolo,18 ben organizzato, frequentato assiduamente e destinato anche alla pratica di rituali funerari, come dimostrano stoviglie frantumate, resti di pasto e di focolari. Le tegole delle sepolture a cappuccina erano state persino realizzate ad hoc. In tutte le sepolture che non sono state distrutte o danneggiate fortemente dai lavori agricoli è presente una brocchetta o un’anforetta in ceramica dipinta a bande (Fig. 4AB); tutti i defunti erano stati dotati perlomeno del corredo rituale (il piccolo recipiente) e molti vantano un corredo personale di tutto rispetto (ago crinale, reticella per capelli, orecchini, fibula, collana, anello, bracciali, sandali chiodati). Inoltre, è evidente che il vasellame di corredo, costituito esclusivamente da ceramica dipinta a bande, appartiene

Aquilano 2014, p. 59. Tulipani 2000, p. 329. 21 Per un quadro generale dei resti archeologici antichi e medievali presenti nell’area si rimanda a Staffa 2002, pp. 200–208. 22 Aquilano 2014, p. 59. 23 Staffa 2002, pp. 251–253, nn. 143–147. 19 20

16 Aquilano 2010, p. 72; p. 74, fig. 3. Per un’analisi preliminare dei reperti faunistici: De Venuto 2009. 17 Aquilano 2014. 18 Aquilano 2008.

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Davide Aquilano Sito 17. San Buono, Castellaro

in loco figurano diversi frammenti di TSA e di ceramica dipinta a bande di V–VI secolo.

Area cimiteriale da cui provengono la parte alta di una brocca in ceramica dipinta a bande e una fibula a ‘omega’ di bronzo. Da fonti orali si è appreso che una delle sepolture aveva la cassa delimitata da lastre di pietre. Se ne conserva la lastra di copertura come base di un camino nella casa moderna costruita sotto un alto spuntone di roccia.

Sito 24. Schiavi di Abruzzo, Area Sacra dei Templi Italici27 L’importante santuario sannitico sembra essere stato abitato senza soluzione di continuità fino al XIV secolo, quando una frana ha segnato la fine di qualsiasi attività stabile nel sito. In particolare, si segnala la continuità d’uso dell’altare di fronte al Tempio Minore almeno fino al IV secolo. Nell’area sono stati recuperati frammenti di ceramica dipinta a bande e di TSA, tra i quali l’orlo di un piatto simile alla forma Hayes 108, databile tra la fine del VI e la metà del VII secolo. In un’epoca non meglio precisabile, il Tempio Maggiore ha assunto la funzione di chiesa cimiteriale, mantenendola fino alla frana del XIV secolo. Difficile risulta anche la datazione della torre realizzata svuotando il materiale inerte di drenaggio alle spalle del paramento del vicino muro di sostruzione dell’area sacra e delimitando i tre lati con muri di pietrame irregolare suddivisi in almeno due livelli da una volta a botte. Tra i materiali altomedievali si segnalano frammenti di ceramica dipinta a bande e di Pietra Ollare.

Sito 18. Palmoli, Fonte La Spugna Resti di una villa individuata nella sua estensione anche grazie alle prospezioni col georadar eseguite nel 2008.24 Tra i materiali recuperati in superficie si segnalano frammenti di TSA e TSF di IV–VI secolo. Sito 19. Palmoli, Fonte Piana Non ci sono evidenze di resti murari. Nel terreno arato sono stati rinvenuti frammenti di TSA di V secolo d.C. Sito 20. Tufillo, Querce Valerio Il sito non presenza evidenti resti murari. Attorno alla metà degli anni novanta, nel terreno furono raccolti frammenti di ceramica dipinta a bande di V–VI secolo.25

Sito 25. Schiavi di Abruzzo, Piana di San Silvestro

Sito 21. Tufillo, Piana San Pietro

Il sito si estende su un terrazzo fluviale nella bassa valle del fiume Trigno. Tra il materiale recuperato nel corso di una ricognizione svolta nel 1992 figurano frammenti di TSA di IV–V secolo.

Anche in questo caso non vi sono evidenti resti murari. La presenza di TSA e di TSF, nonché della tipica ceramica dipinta a bande testimonia la vita nel sito almeno fino al VI secolo avanzato.

Conclusioni

Sito 22. Tufillo, Colle Iannello

Dall’analisi dei siti archeologici distribuiti nell’area del Vastese è evidente che la fascia costiera e la valle del Trigno erano intensamente coinvolte nel sistema dei traffici mediterranei tardoantichi di lungo raggio: ne sono testimonianza la massiccia presenza di ceramica nordafricana e miscroasiatica rivenuta nel corso degli scavi e delle ricognizioni. Se per il V–VI secolo si registra un aumento dell’arrivo delle merci tramite le rotte di lungo raggio, bisogna tener ben presente quanto sopra detto riguardo alla conservazione dei reperti di un periodo che confina cronologicamente con un’epoca in cui le produzioni ceramiche sembrerebbero del tutto assenti e le attività umane sono fortemente rarefatte.

Nel terreno sono stati recuperati frammenti di TSA e di ceramica dipinta a bande di V–VI secolo. Sito 23. Roccavivara, Santuario della Madonna del Canneto La chiesa è ciò che rimane di un monastero che dalla fine del VII secolo si è impiantato sulla pars urbana di una villa e che conserva importanti testimonianze di scultura altomedievale.26 L’impianto antico è stato oggetto nel XX secolo di diversi interventi di scavo, che non sono stati sinora editi in maniera analitica. In una sorta di piccolo antiquarium nei pressi della chiesa sono esposti al pubblico materiali provenienti sia dagli scavi di Canneto sia dal vicino sito di San Fabiano. Tra i reperti scavati

Un fattore che ha determinato la vitalità di questo territorio nel periodo preso in considerazione è stato sicuramente lo spostamento dell’asse dell’Impero a Oriente, con ovvie ricadute positive per quelle regioni come le coste adriatiche della Penisola che sono più vicine alle aree economicamente più forti e che hanno però prodotti da immettere sul mercato. Nel nostro caso, le merci da esportare sono quelle agricole, prodotte e trasformate nelle villae che punteggiano la fascia costiera e la valle

24 Archaeological Gprs Project 2008. Coordinamento tecnico, organizzativo: Parsifal Società Cooperativa di Vasto. Staff operativo: Velicia Bergstrom e John Ippolito (USDA Forest Service), Kent Schneider (coordinatore). 25 Le ricognizioni nel sito 20 e nel sito 21 sono state eseguite da Maria Rosaria Pacilli nell’ambito dell’attività di ricerca per la sua tesi di laurea in Archeologia Medievale presso l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti. 26 Di Niro 1996; Aquilano 1999, p. 441.

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Lapenna 1997; 2006c.

Insediamenti tardoantichi nell’Abruzzo meridionale adriatico del Trigno: basti pensare alle grandi cellae vinariae sicuramente attive nelle villae ancora per tutto il VI secolo, se non fino alla metà del VII secolo. Un problema aperto rimane quello della circolazione dei recipienti in Pietra Ollare, la cui risoluzione deve necessariamente passare attraverso una più puntuale definizione cronologica della stessa, che a oggi manca. Nei siti del Vastese tale produzione è databile al periodo IX–XII secolo. A ogni modo, quel che colpisce è il numero veramente consistente di siti che hanno restituito frammenti di contenitori in pietra ollare nell’Abruzzo meridionale costiero e montano (Fig. 3).

Fig. 1. Siti tardoromani nell’Abruzzo meridionale adriatico.

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Davide Aquilano

Fig. 2. San Salvo. Parco Archeologico del Quadrilatero. Tomba 71 (A). Materiali dal riempimento: armilla (B) e lucerne di imitazione Atlante X con il motivo degli ‘Esploratori di Canaan’ sul disco (C).

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Insediamenti tardoantichi nell’Abruzzo meridionale adriatico

Fig. 3. Produzione e distribuzione del vasellame in Pietra Ollare.

Fig. 4. Oggetti di corredo dall’area cimiteriale di Morandici di Villalfonsina: A) Anforetta in ceramica dipinta a bande dalla Tomba 20; B) Brocchetta in ceramica dipinta a bande dalla Tomba 21; C) Orecchino a cestello in bronzo dorato dalla Tomba 23/26.

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5.4 Il materiale vitreo della catacomba di S. Vittorino in Amiternum Silvia Bucci Ricercatrice indipendente [email protected] Abstract: All the glass finds found during the excavations conducted during the years 2000–4 at the catacombs of St. Vittorino near Amiternum are still basically unpublished. They can be dated to between the 4th and 7th centuries AD, thus confirming the stratigraphic features indicating funerary activity over the very same timespan. Together with various forms of lamps and cups, with early Christian decoration, there are also personal adornments such as glass beads. Keywords: Glass; Catacomb; Late Antiquity; Lamps.

indicatore di status socioeconomico.5

Le indagini promosse dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra e dirette dalla Prof.ssa Anna Maria Giuntella tra il 2000 e il 2004 presso la catacomba di San Vittorino in Amiternum,1 hanno consentito il rinvenimento di un’apprezzabile quantità di reperti vitrei, qualitativamente pregiati che si presentano preliminarmente in questa sede.

I reperti mostrano un generale stato di elevata frammentazione, mentre la situazione conservativa è interessata da fenomeni di degrado: iridescenza, patine di alterazione ed esfoliazione in scaglie sottilissime. La maggior parte del vetro analizzato è incolore e, in percentuale ridotta, giallo o incolore con sfumatura verde chiaro. I manufatti sono realizzati essenzialmente attraverso la tecnica della soffiatura a mano con canna metallica.6

Il santuario sorge sul colle che domina a est la città romana di Amiternum, a pochi km da L’Aquila. La sepoltura venerata determinò lo sviluppo di un vasto cimitero sotterraneo all’interno di un’area funeraria già in uso in età imperiale.2 Purtroppo, la continua e ininterrotta frequentazione della catacomba, oggetto anche di una intensa attività di recupero delle reliquie da parte dei cosiddetti “corpisantari” nel XVII secolo, ha determinato un forte rimaneggiamento delle stratigrafie e delle sepolture.

Appare opportuno sottolineare anche per l’area abruzzese la scarsità di documentazione relativamente alla suppellettile vitrea tardoantica e altomedievale, a causa della minore conservazione di questo materiale nelle stratigrafie archeologiche, dovuta agli intrinseci elementi di fragilità, ma anche alle ben note modalità di rifusione,7 alla lacunosità e disomogeneità delle ricerche e, in generale, dell’edito; pertanto, risulta più difficile inserire i manufatti rinvenuti a San Vittorino in un contesto più ampio di circolazione e diffusione.

I manufatti in vetro rinvenuti nel corso delle ultime indagini archeologiche provengono, come la stragrande maggioranza dei materiali, da strati relativi alle successive trasformazioni medievali e postmedievali del complesso,3 sotto forma di riporti e livellamenti.4 I reperti vitrei ammontano a un totale di 368 frammenti, quantitativo che – seppure percentualmente di molto inferiore ai reperti ceramici – appare piuttosto rilevante se si accetta l’interpretazione tradizionale del vetro come materiale pregiato che può, quindi, essere considerato come

Il vasellame vitreo rinvenuto è principalmente costituito da suppellettile da mensa con funzione potoria, il cui grado di frammentarietà impedisce in molti casi un’attribuzione a una specifica forma, si identificano tuttavia calici (diciassette frammenti), bicchieri (ventisei frammenti),

Giuntella 2002, pp. 313–342. Pani Ermini 1975, p. 6. 3 Somma 2012, pp.185–194. 4 La maggior parte del materiale vitreoproviene dall’ambiente B, il cosiddetto retrosanctos, uno spazio caratterizzato da una intenso sfruttamento funerario, verosimilmente prolungato nel tempo, e in particolare dall’US 236, un grosso strato di riporto successivamente livellato. 1

Si sottolinea, inoltre, come la presenza/assenza e l’articolazione del corredo in un’ottica socioeconomica sia ancora oggetto di ampie discussioni, si veda a riguardo Paroli 2007, pp. 203–210. 6 Stiaffini 1999, p. 100. 7 Nella valutazione dei quantitativi occorre evidentemente valutare l’incidenza della consuetudine del riciclo e della rifusione degli elementi vitrei, già dalla prima età imperiale, cfr. Stern 1999, p. 451.

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Il materiale vitreo della catacomba di S. Vittorino in Amiternum mentre esigua è la presenza di bottiglie (cinque frammenti). A causa delle stratigrafie compromesse e della mancanza di un’associazione diretta con gli inumati, per questi materiali è possibile soltanto ipotizzare una generica attribuzione “rituale”, considerandoli verosimilmente oggetti deposti come corredo al momento della sepoltura,8 oppure come recipienti utilizzati per il refrigerium.

rappresentato con il letto sulle spalle e la corta tunica.11 Sul secondo frammento è raffigurato invece il dorso di un agnello, dal chiaro valore simbolico, sormontato da un tipico pettine per la lavorazione della lana (Fig. 2). I vetri incisi di San Vittorino sembrano accostarsi alla produzione romana, senza tuttavia escludere la possibile esistenza di maestranze locali esperte.

Il numero più consistente è costituito da Bicchieri/ Coppette: d’aspetto solido e compatto, con orli rifiniti a fuoco semplicemente ingrossati. La diffusione di questa forma si colloca tra metà del II sec. e la fine del III sec. d.C., in particolare nelle regioni dell’Europa centrosettentrionale.9 I frammenti riconducibili a tale tipologia sono in totale ventisei, di cui ventuno frammenti di bicchiere semplice con orlo leggermente ingrossato, talvolta decorati con filamenti rilevati al di sotto del labbro, due bicchieri campaniformi e tre troncoconici. Bicchieri e Coppette incise: di particolare interesse sono i frammenti decorati a incisione, affini stilisticamente a esemplari della tradizione romana per il tipico disegno dal tratto rigido e geometrico campito spesso da abrasioni all’interno delle figure, attribuiti a un unico atelier, particolarmente prolifico e longevo, attivo dal 350 al 390 d.C.10 Tra i materiali di San Vittorino spiccano due frammenti per i quali, seppure in via ipotetica, è stato possibile pervenire a un’interessante identificazione del motivo decorativo: sul primo frammento sono visibili due figure affrontate di cui si individuano parte del vestiario e le estremità inferiori (Fig. 1). Il riempimento del panneggio, forse un individuo palliato, è realizzato con brevi tratti d’incisione netti e obliqui. Della figura di destra è visibile quasi interamente l’arto inferiore, fino al ginocchio: la gamba, nuda, è resa con il tratto di riempimento uguale alla figura di sinistra, mentre quella di contorno è netta e profonda. Si intravede solo un piccolo tratto orizzontale al di sopra del ginocchio, forse appartenente alla corta veste. Al di sotto di entrambe le figure corre orizzontalmente una decorazione geometrica a rombi incrociati, dal tratto profondo, all’interno di due linee di separazione realizzate con tratti d’incisione numerosi, ravvicinati e leggeri. La posizione dei personaggi e il tipo di vestiario richiamano il famoso gruppo iconografico della “guarigione del paralitico”. Tale rappresentazione ricorre frequentemente nel repertorio iconografico cristiano a partire dal III secolo; diversi e numerosi infatti sono gli esemplari rinvenuti nelle catacombe romane, dove il paralitico è

Per quanto concerne le decorazioni appare significativo il numero di manufatti decorati a foglia d’oro, tipica delle produzioni più raffinate e caratteristiche del IV secolo, con ventisette frammenti, più o meno riconducibili a forme note (un fondo, un’ansa, tre pareti, venti orli): tra cui si segnalano due individui riconducibili al tipo Is. 106 e venticinque frammenti riconducibili presumibilmente a forme potorie, con possibile funzione anche di illuminazione (i cosiddetti bicchieri/lampade). Un ruolo rilevante nel contesto di San Vittorino rivestono proprio i manufatti per l’illuminazione, ampiamente diffusi in tutto il Mediterraneo, soprattutto orientale dal IV secolo,12 prevalentemente in contesti liturgicocultuali e funerari di ambito cristiano, anche se spesso risulta difficile distinguere il loro specifico e primario impiego, ovvero se avessero una relazione diretta con le sepolture, sia come segnacolo che come offerta votiva, oppure se fossero utilizzati per l’illuminazione degli ambienti.13 La documentazione archeologica, letteraria e iconografica attesta l’uso, a partire dall’età tardoantica, di diversi recipienti in vetro destinati all’illuminazione, attraverso uno stoppino in fibre di lino o cotone o da altri filamenti vegetali ritorti e immersi in una sostanza oleosa sopra uno strato d’acqua. Lo stoppino si manteneva a galla naturalmente oppure era fissato a una corteccia o ad appositi dispositivi, tipo supporti in metallo o un tubo in vetro fissato al fondo. In base ai frammenti di orlo, diagnostici per l’individuazione dei tipi, si è identificato un numero minimo di trenta individui, di cui si distinguono due tipologie. La prima tipologia, il bicchiere/lampada a sospensione con anse tipo Is. 134, è particolarmente attestata con quattordici esemplari che presentano l’orlo risvoltato esternamente a formare un tubicino a sezione più o meno circolare. La forma si ritiene entrata in uso in Italia verso la fine del IV secolo, su base archeologica e iconografica,14 e risulta attestata fino all’VIII secolo. Questa tipologia costituisce una variante di produzione e diffusione centro-meridionale,

8 Alcune fonti testuali sembrano avvalorare tale ipotesi, per esempio il monaco piacentino Antonino, racconta come in Terra Santa in occasione del battesimo è consuetudine immergersi nel Giordano indossando la sindone e portando con sé oggetti che saranno conservati per la propria sepoltura, cfr. Antonino Piacentino, Itin. Ant. Plac., 567–570. Per l’area calabrese Franca Papparella ha evidenziato la possibilità che i contenitori quali bottiglie o brocchette che potrebbero essere stati impiegati nel battesimo, fossero anche utilizzati per l’aspersione del corpo del defunto, e infine deposti insieme all’inumato, cfr. Papparella 2012, p. 350. Nei riti funerari bizantini era effettivamente consuetudine aspergere i corpi dei defunti con acqua e vino, come attestano anche le descrizioni contenute nel “Trattato contra Greci” del monaco agostiniano Castronovo, si cita da Peduto1984, p. 60. 9 Uboldi 2005, p. 243, tav. IVnn. 1–16. 10 Paolucci 2002, pp. 65–77.

Harden 1988, p. 222, fig. 123. Roman, Gudea 2008. 13 Nella necropoli subdiale di Cornus, la presenza di lampade vitree appare invece chiaramente interpretabile come signaculum delle tombe, cfr. Borghetti, Stiaffini 1985, p. 89, e in qualche modo connesso con la frequentazione rituale delle sepolture per lo svolgimento del refrigerium, cfr. Giuntella 1985a, pp. 55–63; 1998, p. 67. 14 Si rammenta che nei mosaici dell’arco trionfale della chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma, datati al periodo di Sisto III (432–440) è raffigurata per ben due volte una lampada attribuibile alla tipologia Is. 134. 11

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Silvia Bucci in un’area compresa tra Puglia, per esempio Egnazia,15 e Lazio.16 Esemplari simili provengono dall’Abbazia di Farfa, dal Mitreo sotto S. Prisca a Roma, da Ostia, Napoli, Potenza e Cimitile, è difficile capire i rapporti che legano queste diverse aree. Uboldi ipotizza che per l’Italia centro– meridionale si possa parlare di “moda locale”.17

Degni di particolare menzione sono anche i vaghi da collana in pasta vitrea o vetro fuso, associati al corredo personale del defunto, con ben trentotto esemplari di diversa fattura e colore. L’utilizzo della pasta vitrea a imitazione delle gemme più preziose era in uso fin dall’Antichità e, in epoca altomedievale, è particolarmente attestato nell’ornamento personale femminile con numerosi rinvenimenti. A San Vittorino sono stati rinvenuti due vaghi decorati a sfaccettature, di cui uno blu squadrato, databile tra il II e il V secolo d.C.; due vaghi di colore bruno, lucidi, a torciglione e di diversa grandezza, databili al VII secolo d.C. e indossate sia al collo che al polso. Allo stesso ambito cronologico è possibile attribuire il vago decorato da filamenti in vetro bianco su fondo nero che, una volta distaccatisi, hanno lasciato delle leggere incisioni a festoni sulla superficie e il vago color acquamarina decorato “a spicchi”, ampiamente attestato in sepolture altomedievali di ambito italico e balcanico (Fig. 5). La datazione della suppellettile vitrea presentata in questa sede, su base tipologico-formale, è inquadrabile tra il IV e il VII secolo d.C., in accordo con quanto noto circa le modalità e le fasi di uso funerario del complesso.22

Una prima variante presente a San Vittorino è quella con anse angolate e impostate sull’orlo: con un unico ma significativo frammento (Fig. 3): si differenzia per dimensioni e materiale al tipo precedente, è costituito da un corpo a forma tronco–conica o quasi globulare con orlo ingrossato e tre o due anse fissate al di sopra dell’orlo. La seconda variante è con anse verticali fissate sul corpo e al labbro a cui appartengono quindici frammenti con orlo risvoltato esternamente a formare una fascia più o meno larga racchiudente dei tubetti a sezione schiacciata (Fig. 4). La seconda tipologia è la lampada conica tipo Is. 106:18 a questo gruppo appartengono due frammenti di orlo decorati finemente, appartenenti allo stesso esemplare, la cui decorazione è costituita da una incisione di tre linee parallele e due oblique rivestite da foglia d’oro. Attestata in Italia e in ambito mediterraneo, prevalentemente in contesti di fine IV prima metà V secolo.19 Il tipo è discusso perché ritenuto in generale un recipiente potorio dall’orlo tagliato e non rifinito, tuttavia l’uso come lampade a olio resta possibile. Se invece prendiamo per esempio la forma Isings 106d,20 grandi bicchieri dal fondo instabile, la loro destinazione come lampade è molto probabile ed è accertata specialmente in Oriente. Significativo appare il rinvenimento di tre appendici di lampade coniche dagli scavi recenti di Campo Santa Maria sempre ad Amiternum e di un esemplare dal sito d’altura di Castel Manfrino (Valle Castellana, TE) che al momento appaiono gli unici attestati in area abruzzese . Il dato appare tanto più rilevante in considerazione della omogeneità e osmosi culturale che caratterizzano l’area amiternina e teramana tra tarda Antichità e alto Medioevo. Per quanto riguarda la cronologia delle lampade, il problema maggiore consiste nel fatto che poche sono le forme integre conosciute; le variazioni formali non sembra che si possano a tutt’oggi interpretare in funzione di una periodizzazione, ma anzi sembrano sovrapporsi e convivere mantenendo ampia l’attribuzione cronologica. Si tratta di oggetti che entrano in uso in età tardoantica, rispondendo a motivazioni funzionali ed economiche che dureranno nel tempo.21 Schiavariello, Zambetta 2012, tav. II. Si veda per esempio il contesto di Veio Campetti, cfr. Lepri 2007, pp. 4–5. 17 Uboldi 1995, pp. 109–110. 18 Per un confronto relativo alla forma e alla tipologia di rinvenimento in contesti funerari dell’area calabrese si veda: Papparella 2012, pp. 343– 344. 19 Sternini 1995a, pp. 243–289. 20 Schiavariello, Zambetta 2012, tav. II.10. 21 Uboldi 1995, p. 102. In generale, per un esaustivo catalogo degli atelier e dei centri di produzione locale dall’età imperiale al periodo 15 16

paleocristiano si veda Sternini 1995b, pp. 137–200. 22 La frequentazione, probabilmente a carattere devozionale, risulta tuttavia ininterrotta come dimostrerebbe anche il rinvenimento di un significativo numero di reperti vitrei databili fino al pieno Medioevo e all’età moderna.

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Il materiale vitreo della catacomba di S. Vittorino in Amiternum

Fig. 1. Frammento decorato a incisione con rappresentazione della “guarigione del paralitico” (Foto R. D’Errico).

Fig. 2. Frammento decorato a incisione con rappresentazione di un agnello sormontato da un pettine per la lana (Foto R. D’Errico).

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Silvia Bucci

Fig. 3. Bicchiere/lampada asospensione tipo Is. 134, variante con anse angolate e impostate sull’orlo (Foto R. D’Errico).

Fig. 4. Bicchiere/lampada a sospensione tipo Is. 134, variante con anse verticali fissate sul corpo e al labbro (Foto R. D’Errico).

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Il materiale vitreo della catacomba di S. Vittorino in Amiternum

Fig. 5. Vaghi di collana (Foto R. D’Errico).

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5.5 Circolazione e uso della moneta in Abruzzo tra tarda Antichità e alto Medioevo (IV–VIII secolo) Maria Cristina Mancini DiSPUTer – Dipartimento di Scienze Psicologiche della Salute e del Territorio, Università G. d’Annunzio Chieti [email protected] Abstract: A large number of coins and other archaeological evidence has been found in late Roman settlements in Abruzzo, Central Italy, offering the possibility of reconstructing the circulation of local goods as well as trade and exchange with other areas of Italy and the Mediterranean basin during the late Roman period and Early Middle Ages. The choice of this territory is mainly due to the problematic historical picture of this area between the late Roman period and the Early Middle Ages, and, starting from a survey of late Roman coins, and complicated by the controversial evidence of the sources, which can be reinterpreted with the help of the numerous recent excavations in both urban contexts and neighbouring areas. This research records all the archaeological notes about those important finds, especially the late Roman and early medieval coins. It is important to remember the strategic location of the principal ancient cities along important Roman roads. This paper aims to examine storage sites through time and the topographical locations of the settlements and coins, hoards, and the trade, economy, and road system in Abruzzo during the late Roman period and the Early Middle Ages. Keywords: Abruzzi; Coins; Late Antiquity; Early Middle Ages.

Nel III secolo d.C. la presenza di monete imperiali subisce un notevole decremento, così come accade per i beni di importazione. La situazione cambia alla fine del secolo, quando la circolazione monetaria divenne ragguardevole e i contatti e gli scambi commerciali conobbero una nuova vitalità. I traffici si intensificarono, come le attività economiche, culturali e sociali tra le popolazioni locali e il resto dell’Impero.4 L’intero territorio degli Appennini Centrali continuò, anche dopo il V secolo, a essere interessato da consistenti traffici con il Mediterraneo e l’Europa, per soddisfare il bisogno giornaliero e le attività commerciali che sostanzialmente cambiano molto poco con l’età tardoantica.

Le principali fonti di ricerca per lo studio della circolazione monetale di questo periodo sono essenzialmente due, quella scritta e quella archeologica, ma sono abbastanza carenti per quel che concerne le problematiche legate all’uso e alla presenza di monete in Abruzzo; la prima è quasi del tutto assente a eccezione delle ultime fasi di VIII secolo, mentre la seconda rivela una notevole difficoltà per la ricostruzione della circolazione monetaria in età altomedievale e fino al IX secolo.1 Già Feller, nel suo contributo sull’Abruzzo medievale,2 lamentava una carenza nelle pubblicazioni e nella diffusione di notizie su materiale numismatico di età altomedievale, e, a eccezione di piccoli contributi per il basso Medioevo, ancora oggi non vi sono pubblicazioni scientifiche sulla presenza e rinvenimento di monete in contesti archeologici per la regione abruzzese.

Nel IV secolo d.C. si assiste, in area abruzzese, a una consistente diffusione delle emissioni e a una massiccia presenza di monete, anche rispetto ai due secoli precedenti. Diminuisce la presenza del numerario di zecca romana, a favore di altre zecche, in particolare quelle orientali (Fig. 2). I numerari sono presenti in vari e numerosi contesti, sia urbani, sia extraurbani, rivelando un notevole e continuo utilizzo della moneta

I contatti e i traffici commerciali rimasero costanti in ambito mediterraneo, anche nei secoli successivi alla caduta dell’Impero, anche se il volume d’affari diminuì.3 1 Per le problematiche legate alle fonti storiche, scritte e archeologiche del periodo qui preso in esame, si veda Rovelli 2001b, pp. 821–856. 2 Feller 1998, pp. 361–364. 3 Per un quadro generale dall’età romana all’età altomedievale dei traffici commerciali e i contatti economici in area abruzzese si vedano Mancini, Menozzi 2017 e Antonelli, Somma 2017.

4

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Mancini, Menozzi 2017.

Circolazione e uso della moneta in Abruzzo tra tarda Antichità e alto Medioevo (IV–VIII secolo) anche, e non solo, negli scambi e nelle compravendite quotidiani. In alcuni particolari contesti, come alcune aree sacre, il rinvenimento numismatico, in particolare di esemplari di IV secolo, permette di fare nuova luce su questi siti. In particolare nel Santuario di Ercole a S. Ippolito di Corfinio (AQ) e nel Santuario di Monte La Queglie di Pescosansonesco (PE) il rinvenimento di monete di IV e V secolo consente di attestare una continuità di vita di entrambe le aree di culto, almeno fino all’inizio dell’età altomedievale.5 Mentre nella Grotta del Cervo furono rinvenute 18 monete, coniate tra il 335 e il 395 d.C.,6 forse pertinenti un dono votivo in questo probabile luogo di culto. Alla grande quantità di circolante che ha contraddistinto tutto il IV secolo, si contrappone la repentina e consistente decrescita della presenza di numerario a partire già dai primi decenni del V secolo, periodo sicuramente turbolento, ma ancora pieno di vitalità economica e gestionale. Le emissioni sono composte prevalentemente da numerario di piccole dimensioni, illeggibili, ma sempre coniate.7 Sono spesso rinvenute in diversi contesti, ma a causa della loro scarsa leggibilità non vengono mai correttamente riconosciute, segnalate e pubblicate. Queste emissioni bronzee, così come quelle residuali di IV, non sono solitamente tesaurizzate e comunque sembrano non continuare a circolare dopo la metà del VI secolo d.C., soprattutto a seguito del cambiamento della vita economica quotidiana, dove sembrano non essere più utilizzate le monete nelle transazioni minime.8 Nel territorio abruzzese mancano totalmente le emissioni argentee di questo periodo; vi è una rarissima presenza di moneta gota, l’unico esemplare è di imitazione, e figura nei siti più importanti e strategici del territorio occupato,9 soprattutto mai in compresenza con il circolante bizantino. Continuano comunque a circolare monete bronzee, di secoli precedenti, residuali, prevalentemente di IV con rari esemplari di III secolo, utilizzate per il loro valore intrinseco (Fig. 1). Le monete romane in bronzo continuarono a circolare e a essere presenti nei mercati e nelle transazioni economiche, soprattutto nei livelli sociali più bassi.10 Specialmente i sesterzi di II e in particolare quelli di III secolo venivano tesaurizzati e reinseriti nella circolazione proprio nei periodi di massima penuria di numerario bronzeo, dopo essere stati, in alcuni casi, omologati alle emissioni

coeve,11 poiché continuarono ad avere un elevato potere di acquisto. Gli unici esemplari di emissioni bizantine di VI secolo, rinvenuti in Abruzzo, sono rappresentati da un tremisse e da un solido aurei di Giustiniano, rinvenuti rispettivamente a Chieti12 e a Piana San Marco (AQ),13 di zecca ravennate il primo e costantinopolitana il secondo, sono databili al periodo immediatamente successivo alla guerra grecogotica e alla riconquista bizantina (seconda metà VI).14 Il solido aureo di Piana San Marco fa parte di un piccolo ripostiglio monetale composto da altri sette nominali coevi, tra i quali si segnalano esemplari di mezza siliqua e un quarto di siliqua, emessi da Giustiniano o da Giustino II, di zecca ravennate (540–578 d.C.). La composizione di questo piccolo tesoretto è da ricondurre agli anni successivi alla guerra greco-gotica, permettendo di ricostruire gli sviluppi della riconquista bizantina del territorio abruzzese, in particolare dell’area montana più interna.15 In questo periodo si assiste a un particolare fenomeno di tesaurizzazione: i ripostigli monetali sono del tutto assenti e compaiono invece ripostigli, rinvenuti a Montepagano (TE) e Torricella Peligna (CH), composti da vari oggetti metallici bronzei, relativi a una produzione gota, la cui tesaurizzazione è da mettere in relazione con i gravi avvenimenti legati alla guerra grecogotica. La moneta bizantina è, in area abruzzese, presente in siti e contesti urbani importanti, posti lungo la viabilità principale, a gestione e controllo delle vie di comunicazioni e dei traffici commerciali, e per questo sedi privilegiate da parte dell’élite emergente e dai contingenti militari di occupazione.16 Un ulteriore importante dato numismatico è l’assenza di emissioni bizantine nei secoli successivi al VI, e fino al IX secolo non sono testimoniate monete provenienti da Costantinopoli. Anche dopo l’occupazione longobarda le monete sono scarsamente affluite in area abruzzese e, in particolar modo, non è attestato circolante di emissione longobarda in questo territorio. L’assenza e l’improvvisa riduzione di monete nelle stratigrafie archeologiche sia di esemplari aurei o argentei, sia di spicci bronzei, risultano essere dati indicativi di un andamento economico e monetario più o meno diffuso in tutta la penisola.17 Non va,

5 I dati sulla circolazione e presenza di monete dal IV secolo d.C. in poi, fin qui presentati sono del tutto inediti, e sono presi da uno studio ancora in corso da parte della scrivente sul circolante presente in territorio abruzzese in età antica. Si ringrazia il personale della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo, soprintendenti, funzionari e tecnici, che a vario titolo hanno permesso l’acquisizione di questi dati. 6 Agostini et al. 2004, pp. 28–29. 7 Arslan 1994, p. 498, n. 11. 8 Arslan 1994, p. 498. Probabilmente a questo periodo, ma non è molto chiaro dai dati pubblicati, è pertinente una moneta bronzea rinvenuta nella mansio a Bazzano (AQ), nella Tomba 379, così descritta: “una piccola moneta in bronzo inquadrabile in età altomedievale”, Martellone 2007, p. 198. Testimonia, comunque, il persistere dell’uso dell’obolo di Caronte nelle sepolture. 9 Saccocci 2013, pp. 24–25 dove precisa che la moneta gota circolava essenzialmente in ambito militare e negli insediamenti fortificati; da qui, ovviamente, entrava nei circuiti economici e di scambio “civili”. Saccocci 2010 per gli aspetti economici della moneta gota in Italia. 10 Saccocci 2013, p. 27; Sagui, Rovelli 1998, pp. 187–193.

Maurina, Mosca 2007, pp. 182–183, con bibliografia relativa. Il rinvenimento di un doppio sesterzio di Traiano Decio (249–251), durante scavi archeologici effettuati in un edificio tardoantico/altomedievale nella città di Teramo e seguiti dalla scrivente, avvalora sensibilmente questa teoria. 12 Il rinvenimento numismatico e l’esemplare non sono stati pubblicati. La moneta è esposta presso la sezione Numismatica del Museo Archeologico Nazionale Villa Frigerij di Chieti. 13 Redi, Iovenitti 2006, pp. 307–323; Redi et al. 2012, p. 599. 14 Saccocci 2013, p. 26; la presenza della moneta bizantina è dovuta principalmente alle manovre militari insediative alla fine della guerra grecogotica. 15 Redi et al. 2012, pp. 598–599. 16 Così come accade in altri ambiti territoriali coevi; cfr. Maurina, Mosca 2007, p. 187 e bibliografia relativa agli insediamenti e ai rinvenimenti monetali nell’Italia settentrionale. 17 Arslan 1994, pp. 497–519 per il periodo preso in esame; Rovelli 1994, pp. 521–537, in particolare per l’attenta analisi del periodo successivo; 11

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Maria Cristina Mancini del baratto regolato dall’adozione di misure standard devono essere comunque considerati come simboli di una buona vivacità economica, in particolare per i piccoli e medi livelli di scambio, soprattutto nei mercati locali e in quelli interregionali, gestiti ovviamente dall’iniziativa personale dei privati, che divenne col tempo consuetudine. L’Abruzzo era inserito in circuiti economici e commerciali privilegiati. Nasce, quindi, un’economia mista, basata sull’importazione di materiale ceramico e non solo, di produzione orientale e nordafricana, e sulla produzione artigianale locale,22 sull’attività e produzione agricola,23 sull’attività pastorale legata all’allevamento ovocaprino e suino e ai prodotti della pastorizia.24 Le capacità produttive resero più agevole l’inserimento nei circuiti più noti per commercializzare i propri prodotti e procurare prodotti di importazione anche di qualità elevata.

inoltre, dimenticato che l’assenza di moneta nei contesti archeologici, non è assolutamente indice di non uso della moneta. Tenendo conto di questi dati, si constata una considerevole cesura, per il territorio qui preso in esame, nel periodo compreso tra il VI e il IX secolo d.C., quando riprendono a essere quantitativamente apprezzabili e indicativi i rinvenimenti monetali, in particolare con le emissioni costantinopolitane e con i denari ottoniani, e ottonendo nuovo vigore con le emissioni enriciane.18 La costante presenza, dal IX secolo in poi, di esemplari bizantini di zecca costantinopolitana, confermano il continuo contatto economicocommerciale con l’Oriente che da sempre ha caratterizzato gli scambi commerciali delle popolazioni italiche. Il sistema economico in età longobarda era incentrato prevalentemente sul piccolo scambio, a breve raggio, con preferenza della moneta bronzea, anche se le emissioni del potere centrale si basavano unicamente sul tremisse aureo, che non era comunque utilizzabile per il commercio minuto. Bisogna, inoltre, considerare la diffusa pratica del baratto, già in età bizantina, che ormai era entrata in uso negli ambienti sociali più bassi19 e nelle contrattazioni economiche delle aree periferiche.

I siti dove sono stati effettuati questi rari rinvenimenti (Fig. 3), si trovano lungo le reti viarie principali, dove avvenivano i traffici commerciali e la transumanza, mentre sono del tutto assenti nei centri portuali della costa, che continuarono alacremente le loro attività commerciali. Evidente segno che le emissioni monetali in metallo pregiato erano esclusivamente riservate a un commercio su vasta scala e per grandi quantitativi, piuttosto che per le transazioni minute dei beni di uso quotidiano,25 alle spese militari e al pagamento dei tributi. L’alto potere d’acquisto di tale numerario e il valore del metallo limitavano indubitabilmente le perdite casuali. La scomparsa delle monete bronzee dalla circolazione e la profonda revisione delle forme e delle produzioni agrarie testimoniano nuove tipologie di sostentamento, con la nascita di un’economia basata principalmente sull’autosussistenza in prevalenza per i ceti sociali mediobassi.

Un po’ ovunque si assiste nel VII secolo a una trasformazione del quadro economico e delle attività commerciali. L’assenza del numerario circolante è un dato sicuramente significativo, in particolare per la regione abruzzese.20 Ormai la presenza dello stato è minima o del tutto assente, in particolare con la sua rete fiscale; la destrutturazione del sistema economico centrale ha permesso lo sviluppo di piccoli scambi locali e interregionali, lasciati alla libera iniziativa privata. Le merci venivano così scambiate attraverso misure standard che erano fissate dalla consuetudine e dal continuo uso delle stesse, e raramente dalla legislazione vigente.21 Alla sporadicità dei reperti numismatici corrisponde, almeno per tutto il VII secolo, una considerevole presenza di materiale ceramico, e non solo, anche di importazione, indicando comunque una forte continuità negli scambi commerciali con il Mediterraneo e, soprattutto, l’uso della moneta nelle compravendite di elevato livello e non per la circolazione quotidiana. Evidentemente le élites al potere e le più agiate possedevano monete in oro e argento, non le tesaurizzavano, ma le utilizzavano solo per acquisti consistenti e pregiati. Sono, in particolare, un fondamentale indizio del persistere delle attività economiche e degli scambi commerciali con il Mediterraneo orientale. La prevalente presenza di piccoli nominali bronzei e l’utilizzo Maurina, Mosca 2007, pp. 165–190, per il Nord Italia; Patterson, Rovelli 2004 pp. 280–281, per la Valle del Tevere; Rovelli 2000, pp. 407–422 per la Sabina e il Lazio settentrionale; Rovelli 2001a, pp. 88–91 per Roma; Saccocci 2013, pp. 21–34, per la Tuscia. 18 Rovelli 1994, p. 524, che descrive attentamente altri casi studio. 19 Sagui, Rovelli 1998, p. 186; Maurina, Mosca 2007, p. 185. 20 Si veda per un confronto con la Media Valle del Tevere Patterson, Rovelli 2004, pp. 279–281. 21 Travaini 2000, pp. 10–14.

In particolare la produzione della ormai ben nota ceramica locale tipo Crecchio e le officine artigianali per la lavorazione dell’osso. 23 Le principali produzioni agricole erano pertinenti la viticoltura e l’olivicoltura e alla produzione di vino e olio, non solo come fabbisogno e al mercato locale e regionale, ma destinato anche all’esportazione nei mercati interregionali. 24 La lana abruzzese era considerata tra le più forti e resistenti. 25 Rovelli 1994, p. 529. 22

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Circolazione e uso della moneta in Abruzzo tra tarda Antichità e alto Medioevo (IV–VIII secolo)

Fig. 1. I rinvenimenti monetali IV–VIII secolo.

Fig. 2. Le zecche di emissione.

Fig. 3. Distribuzione dei rinvenimenti nel territorio abruzzese.

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5.6 La ceramica di tradizione tardoromana nel sito di Castel Manfrino Ilaria Pallotta DiSPUTer – Dipartimento di Scienze Psicologiche della Salute e del Territorio, Università G. d’Annunzio Chieti [email protected] Abstract: The aim of this contribution is to examine the pottery found in the Castel Manfrino site, especially the plain ware certainly produced between Late Antiquity and the Early Middle Ages, but still linked to Roman tradition. The preliminary studies on the pottery fragments have permitted us to identify some morphological types prevalent in the ceramic production during the 6th to 7th centuries AD. These fragments should be linked to some widespread artefacts circulating in this region and in Central Italy in the same period. This research provides specific details from research on the phases of the site at the beginning of the Early Middle Ages, and emphasises some problems relating to the possibility of the use of the settlement during the Roman and late Roman period. Keywords: Abruzzo; Castel Manfrino; Hillfort; Late Antique and early medieval pottery; Coarse ware; Fabrics.

spazio limitrofo all’edificio di culto altomedievale, di cui rimangono esigui lacerti murari, a causa di una pesante destrutturazione, avvenuta nella metà del XI secolo. Nella campagna di scavo del 2004 nella malta di allettamento della fondazione dell’abside dell’edificio di culto, datato seppure preliminarmente a epoca altomedievale2 (VI– VII secolo), era utilizzata una parete di ceramica priva di rivestimento in argilla depurata di colore arancio (Munsell 5 YR 6/8 reddish yellow), con presenza di piccoli inclusi bianchi e neri e molta mica, che al tatto si presenta molto polveroso, utilizzato come campione di riferimento (impasto1a) per gli impasti ipoteticamente attribuibili a produzioni databili tra tarda Antichità e alto Medioevo, data l’esigua quantità di frammenti diagnostici dal punto di vista morfologico. Gli impasti individuati da un primo esame macroscopico sono nove:

Il sito archeologico di Castel Manfrino (Valle Castellana, TE) è un insediamento d’altura al confine tra le attuali regioni Marche e Abruzzo sui Monti della Laga (963 mt s.l.m), oggi conservato nelle forme di una estesa fortificazione tardomedievale.1 In questo contributo si presentano, in via preliminare, alcuni manufatti ceramici residuali nell’ambito di stratigrafie relative alla fase medievale del sito, molto frammentari e di cui si conservano esigui elementi diagnostici. Il materiale esaminato è stato rinvenuto in un area ben delimitata dello scavo che corrisponde al fianco occidentale del costone roccioso (saggio II) (Fig. 1). Il sito prima degli scavi presentava in elevato solo le tre torri, la cinta muraria e alcuni lacerti murari pertinenti a due vani distinti (ambienti 1 e 2), rilevabili tra la torre meridionale e la torre centrale. Le indagini archeologiche pertanto si sono concentrate in quest’area, divisa in due saggi: l’area interna alla torre sud e le sue immediate vicinanze (saggio I) e la zona compresa tra quest’ultima e la torre centrale (saggio II). Dal saggio II proviene una significativa percentuale di frammenti in giacitura secondaria per effetto di un forte fenomeno di scivolamento lungo le linee di pendio, soprattutto nello

• Impasto 1a: di colore arancio, depurato, con mica, piccoli inclusi bianchi e neri, molto polveroso al tatto (Munsell 5YR 6/8 yellow reddish). A questo tipo di impasto sono stati attribuiti settantanove frammenti ceramici di cui settantaquattro riferibili a olle mentre solo cinque frammenti sono risultati appartenenti a brocche (Fig. 2). • Impasto 1b: di colore marrone, molto depurato, con mica e finissimi inclusi bianchi (Munsell 7.5YR 5/4

1 Le indagini archeologiche sono state condotte tra il 2003 e il 2012, sotto la direzione scientifica di Anna Maria Giuntella prima e Maria Carla Somma poi, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica per l’Abruzzo, con fondi del Parco Nazionale Gran Sasso Monti della Laga, gestiti dal Consorzio Aprutino Storico Artistico e con fondi regionali DOCUP e CIPE, gestiti dal Comune di Valle Castellana. Si veda a proposito Somma et al. 2006, pp. 1–68.

2

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Somma et al. 2006, pp. 10–17.

La ceramica di tradizione tardoromana nel sito di Castel Manfrino brown). A questo tipo di impasto sono stati attribuiti due frammenti riferibili a olle. Impasto 2: di colore arancio, depurato, con mica, piccoli inclusi bianchi e neri poco polveroso al tatto (Munsell 5YR 5/6 yellowish red). A questo tipo di impasto sono stati attribuiti due frammenti riferibili a olle (Fig. 2). Impasto 3: di colore marrone, depurato, con piccoli inclusi bianchi poco polveroso e ruvido al tatto (Munsell 7.5YR 4/4 brown). A questo tipo di impasto sono stati attribuiti due frammenti riferibili a olle. Impasto 4: di colore grigio scuro, depurato, molto micaceo, piccoli inclusi bianchi (Munsell 2.5YR 5/1 grey). A questo tipo di impasto sono stati attribuiti due frammenti riferibili a olle. Impasto 5: di colore camoscio sulla superficie esterna e grigio scuro in quella interna con piccoli inclusi bianchi e neri (Munsell superficie esterna 7.5YR 6/6 reddish yellow: sup. interna 2.5 Y 5/1 grey). A questo tipo di impasto sono stati attribuiti due frammenti riferibili rispettivamente a un’olla e a una brocca. Impasto 6: di colore marrone, depurato, con piccoli inclusi bianchi, molta mica ruvido e poco polveroso al tatto (Munsell 7.5YR 5/6 strong brown). A questo tipo di impasto sono stati attribuiti ventitre frammenti di cui ventidue riferibili a olle e solo uno riferibile a una brocca (Fig. 2). Impasto 7: di colore marrone, non depurato, con inclusi bianchi e neri di medie dimensioni (Munsell 7.5YR 5/6 strong brown). A questo tipo di impasto è stato attribuito un solo frammento di forma non identificata. Impasto 8: di colore marrone, depurato, con piccoli inclusi bianchi e neri, ruvido al tatto (Munsell 7.5YR 5/6 strong brown). A questo tipo di impasto è stato attribuito un solo frammento riferibile a un vaso a listello.

stati individuati due tipi di decorazione: quella a pettine, presente su sessantuno frammenti, e quella a onda, nota solo su quattro frammenti. La forma maggiormente attestata è senza dubbio l’olla, di cui sono stati identificati tre tipi morfologici accomunati da un collo breve, un corpo globulare e, probabilmente, un fondo piano e generalmente di medie dimensioni, almeno sulla scorta dei diametri degli orli. Il primo tipo presenta un orlo estroflesso declinante verso l’interno (diam. 10 cm) e corpo tendente al globulare, riferibile all’impasto di tipo 3 (Tav. I.1 ), che risulta datato in altri contesti abruzzesi alla metà del VI secolo;3 il secondo tipo presenta invece un collo molto breve, orlo dritto e indistinto all’esterno e leggermente declinate all’interno, riferibile all’impasto di tipo 1a (diam. 14 cm) (Tav. I.2), che risulta attestata a Nocciano (PE) tra VI e VII secolo;4 il terzo tipo è caratterizzato da un orlo leggermente estroflesso e declinante verso l’interno con un diametro orlo di 16 cm, riferibile all’impasto di tipo 1 (Tav. I.3). Questa forma è stata riscontrata in contesti abruzzesi, di Nocciano e Pescara datati al VI–VII secolo.5

Un dato interessante è la presenza di una percentuale così elevata riferibile a un solo tipo di impasto (impasto tipo 1a), se non può essere in questa fase attribuita a una produzione locale, per l’assenza di puntuali indicatori archeologici, indicherebbe tuttavia modalità di approvvigionamento che privilegiano una specifica produzione. È opportuno, tuttavia, attendere i risultati delle analisi mineralogicopetrografiche operate su tutti gli impasti, al fine di individuare le materie prime utilizzate per l’impasto stesso e il degrassante.

Per quanto concerne le forme aperte, sono stati rinvenuti due manufatti che appaiono particolarmente significativi nell’ottica dell’origine e sviluppo dell’insediamento e consentono di riconsiderare la possibilità di una prima occupazione del sito antecedente l’alto Medioevo. Il primo contenitore è un vaso a listello del tipo 13 Bonifay 2004 variante C (Fulford Bowl 22–23 = CATHMA A1), ampiamente diffuso nel Mediterraneo occidentale nella prima metà del V (Tav. I.6) e continua a essere importato fino ad almeno la metà del VII secolo.10

Il materiale ceramico riferibile a produzioni databili entro il primo alto Medioevo ammonta a 116 frammenti, su un totale di 4034, con il 63% di pareti, il 19% di orli, l’8 % di fondi e il 6 % di anse/prese (Fig. 3). È stato possibile operare una seppur preliminare seriazione tipologica delle forme che ha consentito di rilevare la predominanza di forme chiuse, in particolare olle e brocche. Nello specifico si tratta di ceramica priva di rivestimento con impasto depurato e non refrattario, con funzioni da mensadispensa; tuttavia su venticinque frammenti ceramici sono stati rilevate tracce di annerimento superficiale, forse dovuto a un loro uso “occasionale” a contatto con il fuoco. Le superfici non presentano particolari trattamenti. Sono

Più problematico appare il rinvenimento di un orlo di coppetta con pareti molto sottili e decorazione sabbiata, orlo indistinto lievemente estroflesso e declinante verso l’interno, diametro di 8 cm e pareti con spessore di 0,3















In quantità molto minore sono attestate le brocche, presenti nel contesto solo con due esemplari: la prima, riferibile all’impasto di tipo 1a, presenta un orlo indistinto e parete esterna con carenatura (Tav.I.4), il collo appare piuttosto stretto (diam. 8 cm) e il corpo ovoide. Manufatti simili sono stati rinvenuti sia nel Lazio, sia in Abruzzo in contesti di VIinizi VII secolo,6 mentre sembra assente nei contesti del secolo successivo; la seconda brocca, riferibile all’impasto di tipo 5, presenta un orlo indistinto e a fascia (diam. 10 cm), parete leggermente svasata e una forte carenatura esterna (Tav.I.5 ). Questo tipo, attestato nella penisola italiana in contesti di VI secolo,7 è stato rinvenuto anche in area abruzzese, nel territorio chietino,8 e – sempre in area adriatica – a Nocciano (PE).9

Staffa 1998b, p. 444, fig. 4,14f. Staffa, Odoardi 1996, p. 183 fig. 32.a.; Staffa 1998b, p. 450, fig. 9, 32.a 5 Staffa, Odoardi 1996, p. 183, fig. 32.b. 6 Ciarrocchi et al. 1998, p. 393, fig. 3.1; Ricci 1998, p. 368, fig. 10; Staffa 1998b, p. 448, fig. 8f. 7 Si veda per esempio il rinvenimento di Brescia: Brogiolo et al. 1996, p. 28. 8 Odoardi 1998, p. 656, fig. 27i. 9 Staffa, Odoardi 1996, p. 183, fig. 27g. 10 Bonifay 2004, pp. 256–258, fig.139. 3 4

455

Ilaria Pallotta alta frequenza. Tali analogie lascerebbero ipotizzare per il sito di Castel Manfrino un approvvigionamento della ceramica da un centro di produzione dell’area abruzzese adriatica.14 Per quanto concerne i boccali, seppure i dati risultino quantitativamente limitati, è possibile rilevare l’affinità morfologica con tipi ampiamente diffusi anche in Italia settentrionale. In generale, le attestazioni, seppure residuali, indicano l’inserimento del sito già tra tarda Antichità e alto Medioevo in circuiti commerciali quantomeno su scala regionale.15

cm (Tav. I.7 e Fig. 4). L’impasto è di colore aranciorosato, molto depurato e compatto con piccolissimi inclusi bianchi e superficie ruvida al tatto. Il reperto, seppure isolato, impone di essere valutato alla luce di una possibile frequentazione del sito, anche se solo sporadica, già in età precoce, forse in relazione alla sua posizione privilegiata a controllo del territorio, lungo un asse viario strategico. D’altra parte, non si possono escludere possibili fenomeni di conservazione e utilizzo di recipienti e, in generale, manufatti più antichi in un’ottica “antiquaria”, in particolari contesti soprattutto funerari o cultuali.11 Dai dati emersi finora, si può osservare tra le ceramiche prive di rivestimento, una predominanza della tipologia dell’olla che ha trovato i maggiori riscontri nel territorio abruzzese. In particolar modo i materiali ceramici del sito di Nocciano (PE), databile fra fine del V e i primi decenni del VI secolo,12 consentono di stabilire i confronti più stringenti sia sotto il profilo morfologico che dell’impasto,13 nel complesso si tratta di ceramica di buona qualità, con una prevalenza di impasti di colore aranciorosato, polveroso al tatto e con inclusi brillanti ad

Fig. 1. Castel Manfrino (TE). Veduta del saggio II. Sugli impianti produttivi in area costiera adriatica si veda Staffa 2003b, pp. 117–154. 15 Per una recente disamina delle principali caratteristiche delle produzioni attestate in area costiera e nell’Abruzzo interno tra tarda Antichità e alto Medioevo si rimanda a Siena 2015. 14

11 12 13

Si veda di recente per l’area sarda Greco 2015. Staffa, Odoardi 1996, p. 173. Staffa 1998, pp. 440–441.

456

La ceramica di tradizione tardoromana nel sito di Castel Manfrino 6%

3%1%

pareti

8%

orli fondi

17%

anse/prese

65%

pareti con attacco d'ansa orli conattacco d'ansa

Fig. 3. Castel Manfrino (TE). Grafico frammenti ceramica priva di rivestimento di tradizione tardoromana.

Fig. 2. Castel Manfrino (TE). Microfotografie ingrandimento 60x di alcuni impasti.

Fig. 4. Castel Manfrino (TE). Coppetta a pareti sottili.

457

Ilaria Pallotta

Tav. I. Castel Manfrino (TE). Olle (1–3), brocche (4–5), vaso a listello (6), coppetta (7). Scala 1:2.

458

5.7 Economia e trasformazione del paesaggio tra tarda Antichità e alto Medioevo: riflessioni preliminari su alcuni casi emblematici del’Abruzzo interno e dell’area costiera Cinzia Cavallari,* Emanuela Ceccaroni,** Sandra Lapenna,** Rosanna Tuteri** Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le Province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara, **Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Abruzzo con esclusione della città dell’Aquila e dei Comuni del Cratere Chieti *

[email protected], [email protected], sandralapenna@gmail. com, [email protected] Abstract: The study of postclassical sites in Abruzzo allows us to analyse various phenomena related to the changing economic conditions of Late Antiquity and the Early Middle Ages. Particularly significant is the evolution of the Roman city (abandonment and reuse of public and private buildings of classical age in relation to the new centres of power – cathedrals and bishops’ palaces – with widespread reuse of building materials, even in ideological terms) is part of a phenomenon that is far reaching in its effect on late historic cities, especially as relates to socioeconomic transformations. Further transformations can be found in the countryside, in which a sort of residential deconstruction emerges, together with a general reuse of the now dilapidated remains of some Roman villas for productive and funerary use. Finally, the coastal area shows an extraordinary vitality from Late Antiquity to the Early Middle Ages, highlighting a scenario of intense exchange within a consolidated commercial network between the hinterland and the coast, along the main communication routes, on land and by river. Keywords: Abruzzo; Archaeology; Late Antiquity; Early Middle Ages; Commerce; Reuse.

Introduzione

dall’Antichità al Medioevo. I nuovi poli rappresentano elementi di aggregazione complessi, coincidenti con singoli focus nella trama cittadina, da un lato, e, dall’altro, con punti nodali di una rete strettamente connessa agli itinerari devozionali suggeriti dalla presenza di spoglie martiriali e dalla scansione del calendario liturgico.

L’analisi delle attestazioni postclassiche nei centri dell’Abruzzo consente di approfondire diverse tematiche, strettamente connesse alle trasformazioni edilizie e paesaggistiche in rapporto alle mutate condizioni economiche della tarda Antichità e dell’alto Medioevo. Particolarmente significativa appare l’evoluzione della città romana: la nuova pianificazione, infatti, determina una metamorfosi del paesaggio, caratterizzato dall’abbandono e dal riutilizzo di edifici pubblici e privati di età classica in relazione ai nuovi centri di potere. Il reimpiego si inserisce in un fenomeno di vasta portata, che interessa le città tardoantiche specialmente negli aspetti interrelati alle trasformazioni socioeconomiche.

In parallelo i cambiamenti delle zone rurali sono legati al problema della proprietà terriera e dei sistemi di conduzione fondiaria nella tarda Antichità. L’insediamento di tipo sparso, caratteristico delle ville e delle fattorie di età imperiale, sia pure sensibilmente ridimensionato, evidenzia una sostanziale tenuta e un potenziamento di alcune attività produttive in alcuni settori della regione.2 In generale la qualità delle strutture rurali, sia di tipo abitativo, sia di tipo produttivo, risulta assai semplificata: le ricerche condotte finora sembrano attestare la presenza di unità molto ridotte accanto a planimetrie più complesse, che a superfici propriamente residenziali, evidenziano il recupero degli spazi adiacenti con finalità di carattere

Sensibilmente incisiva nei mutamenti della città romana appare la topografia cristiana,1 che, attraverso la fondazione di nuovi edifici di culto, determina rinnovati assi generatori nell’ambito dell’articolazione urbana nel passaggio 1

Cantino Wataghin 2011.

2

459

Staffa 2000.

Cinzia Cavallari, Emanuela Ceccaroni, Sandra Lapenna, Rosanna Tuteri esclusione di uno lasciato in uso, furono tagliati allo stesso livello e obliterati da uno strato di pietrame: nuovo piano di calpestio. Venne creata una stanza tra la vasca quadrata e la parete nord della corte, erigendo una parete a est, che sfrutta due colonne del porticato e oblitera il fondo di un dolio, mentre rimase in funzione il dolio sulle cui spalle poggiano tre vaschette comunicanti.

produttivo e, talvolta, secondo esigenze di tipo funerario. In questo contesto si inserisce un nuovo modello insediativo, concentrato in alcune zone suburbane, soggette a marcate trasformazioni del paesaggio, dove assumono carattere monumentale le nuove fondazioni ecclesiastiche, profondamente incisive nell’evoluzione dell’ambiente. Infine, l’area costiera evidenzia una straordinaria vitalità nell’ambito di una consolidata rete commerciale attiva dalla tarda Antichità all’alto Medioevo.3 A titolo esemplificativo è possibile tracciare una casistica parziale, prendendo in esame alcuni centri emblematici dell’Abruzzo litoraneo e interno.

Ai fini della determinazione cronologica di questa sistemazione è fondamentale il rinvenimento all’interno del dolio obliterato di una moneta suberata di Aureliano (270–275 d.C.) e un frammento di lucerna di produzione tunisina datata tra il primo venticinquennio e la metà del V sec. d.C. L’ultimo livello d’uso in questa stanza attesta che l’impianto fu riconvertito alla produzione dell’olio, poiché sul terreno battuto poggia una lastra in terracotta, indizio del focolare i cui residui sono dei noccioli bruciati di olive,6 che in piccolo mucchio sono stati rinvenuti sul pavimento dei torchi.

C.C. La costa Tortoreto

Il rinvenimento di sepolture nella fascia compresa tra l’ala est della parte residenziale e il muro di sostruzione del terrazzo, attesta il definitivo abbandono di questa area. Potrebbe riferirsi a uno degli abitanti della villa la tomba a cappuccina, l’unica con corredo, databile alla seconda metà del V secolo, in base alla presenza di lucerna anch’essa di produzione tunisina.7

A Tortoreto, territorio afferente a Castrum Novum (attuale Giulianova), colonia romana prima, municipium poi, numerose villae rusticae sono state individuate all’interno dei lotti relativi alla divisione agraria romana, compresa tra la linea di costa e le valli fluviali del Vibrata a nord e del Salinello a sud, percorse dalle principali vie di comunicazione: Salaria, Cecilia e costiera.4

S.L.

In località Le Muracche, lungo la litoranea Adriatica, alla base della collina sulla quale si eleva il centro storico di Tortoreto alto (Fig. 1), a sinistra della prima curva della strada che sale al paese si trova la villa rustica romana (Fig. 2), riportata alla luce per mq 1675 e che nel periodo di massima espansione raggiungeva i mq 3710. La villa si compone di una parte rustica, collocata nella zona retrostante, in comunicazione col fundus e di una parte residenziale, prospiciente il mare, confortevole per esposizione al fine di favorire il soggiorno del proprietario. Sono state riconosciute quattro principali fasi costruttive: la prima risale al periodo medio repubblicano, la seconda al periodo augusteo, la terza al periodo giulioclaudio, la quarta potrebbe risalire alla fine del I sec. d.C.5 La lunga vita della villa è attestata da diverse ristrutturazioni e riparazioni, ma è risultato che nell’appartamento con il peristilio a viridarium gli strati di abbandono e di crollo degli intonaci non vanno oltre il IV sec. d. C., quando già si era verificata la spoliazione sistematica dei lapidei lavorati, quali soglie, stipiti delle porte e basi delle colonne del peristilio. Per quanto riguarda il reimpiego del materiale recuperato, si è ipotizzato l’utilizzo nella parte rustica che presenta trasformazioni e ridimensionamenti almeno fino al V sec. d.C., quando ci fu una riduzione della pars fructuaria: il torcularium rimase in funzione e messo in collegamento con una nuova vasca quadrata, quasi tutti i doli interrati nel portico ovest della corte, a 3 4 5

L’Abruzzo interno Sulmona e Amiternum L’evoluzione degli assetti urbani in epoca tardoantica è registrata dai dati archeologici sia per le città a continuità di vita, sia per gli impianti urbani che risultano oggetto di una destrutturazione.8 La città romana di Sulmo9 subisce un sistematico consumo della pianificazione originaria, documentato dalla sistemazione di strade e piazze sulle rovine delle domus e degli isolati (vico dell’Ospedale, via Stella – Chiesa di San Gaetano,10 Piazza Tommasi,11 Via Acuti, Via Corfinio). Alcuni assi viari persistono nella sede originaria (in parte Corso Ovidio, Via del Conservatorio, Via Ciofano, Via Mazara), ma è evidente nel settore settentrionale della città la diversa declinazione dell’asse principale, che si sposta verso nord in funzione della definizione della sede episcopale. Anche ad Amiternum,12 che completa in fase Pellegrini 2003, pp. 74–76. Iezzi 2006, p. 298. 8 Tuteri 2011c; Tuteri et al. 2012. 9 Tuteri 1995a; 1995b; 1996. 10 Tuteri 1993. 11 Tuteri, Carnevale, Pizzoferrato 2012. 12 Segenni 1985; 1992; Tuteri1997; 2000; Clementi 2003; Giuntella 2003a; 2007; Heinzelmann, Jordan 2007; Heinzelmann 2009; Heinzelmann, Jordan 2009; Heinzelmann, Jordan, Murer 2010; Tuteri 2011a; 2011b; 2012; Redi et al. 2013; Tuteri 2014a; 2014b; 2014c. 6 7

Staffa 2005, pp. 124–164. Lapenna 1996, pp. 387–388. Lapenna 1996; 2006a.

460

Economia e trasformazione del paesaggio tra tarda Antichità e alto Medioevo postclassica la parabola di vita cittadina, la dislocazione del centro degli interessi sociali e amministrativi, dal foro al sito più vicino alla via Caecilia, dove si edifica la prima cattedrale, rivela una diversa impostazione dell’organismo urbano che razionalizza risorse edilizie in funzione delle esigenze legate anche al nuovo culto. In effetti la storia finora nota dell’insediamento urbano di Amiternum segna profonde discontinuità tra IV e V secolo con il venir meno dell’autorità centrale e con le vicende che comportarono una diversa articolazione degli abitati tra pianura e collina in funzione dei poli religiosi.

Nella piana il riutilizzo delle rovine dell’anfiteatro come spazi coperti per povere abitazioni, forse ancora servite da allacciamenti idrici funzionanti, si rese necessario nell’ottica della nuova polarizzazione topografica, dovuta alla presenza di edifici di culto cristiani insediati nella zona.14 Viene pertanto confermata l’idea che fino al IV secolo la città fosse vissuta, pur con segni evidenti e localizzati di negligenza edilizia almeno dalla seconda metà del III secolo, rispettando la sua funzione di riferimento politico e amministrativo, con atti evergetici nei confronti degli apparati monumentali.15

Nella piena età imperiale l’insediamento sabino aveva affermato e stabilizzato la sua funzione di città di potere, sede dei servizi e degli apparati monumentali rappresentativi dell’immagine e del senso di un centro che in sede locale costituiva la potenza e l’organizzazione sociale di Roma per gli insediamenti sparsi nell’ager. Il foro con la curia, il teatro e l’anfiteatro, le terme, i numerosi templi, gli acquedotti, la vasca porticata, le fontane, le grandi domus, le strade lastricate, il ponte, gli argini e i terrazzamenti, le sepolture monumentali e le ville suburbane costituivano gli elementi di un paesaggio urbano che, in evoluzione dall’età repubblicana, ma con fasi precedenti ora documentate almeno dall’epoca arcaica, aveva registrato tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C. un forte incremento nel senso dell’articolazione interna, della monumentalizzazione e del decoro architettonico. Le indagini archeologiche documentano tra il II e il IV secolo fasi di ristrutturazioni, rifacimenti, crolli e abbandoni, documentate nell’area del teatro (Fig. 3), nella grande domus, nella domus a peristilio nei pressi dell’anfiteatro, nell’area del tempio circondato da un portico aperto sulla via Caecilia.

Dal IV secolo si registrano gli effetti di un’attività sismica che ha lasciato tracce nei depositi stratigrafici indagati nel territorio amiternino, come evidenti crolli e slittamenti significativi degli allineamenti di elementi architettonici. In alcuni contesti si registrano fasi di abbandono e una precoce attività di spoliazione delle strutture pubbliche, con immediato reimpiego del materiale edilizio in ambiti forse privati, ancora presenti e rappresentativi di una classe di abbienti gravitanti nell’area cittadina. Le strutture superstiti del teatro risultano interessate da una prolungata frequentazione a uso abitativo da parte della popolazione più povera: il lungo muro di sostruzione del terrazzo sul quale si era insediato il teatro fornisce riparo a capanne che si fondano tra il V e il VI sec. d.C. sui solidi piani pavimentali di età romana, documentando una fase di destrutturazione e ruralizzazione del comparto edilizio, interrotta da un uso funerario dell’area forse ancora ritenuta pubblica. Sembra attestarsi al VII secolo una nuova, sistematica attività di spoglio con estesi piani di calpestio alternati a zone di accumulo di detriti sistemati come rudimentali battuti che spesso definiscono la sede di viottoli diretti verso il terrazzamento su cui sorge l’edificio teatrale. Tale sistematica attività tra VII e VIII secolo attesta il reimpiego dei materiali lapidei in nuove costruzioni in un assetto urbano trasformato radicalmente. Nel settore urbano sudoccidentale le prospezioni geomagnetiche hanno reso evidente il ruolo della via lastricata come asse generatore dei moduli edilizi nei momenti di sviluppo urbanistico, ma anche la funzione di attrattore degli edifici più significativi pur nell’incoerenza dei nuovi assetti nei periodi di rarefazione della città, in cui si abbandonò il vecchio foro come riferimento e si predilesse la stretta aderenza all’asse viario. La struttura viaria finora portata in luce è stata interessata da successivi interventi di riempimento, con costipazioni di crolli e di materiale di spoglio per livellare i piani di calpestio utilizzati nelle ultime fasi della città, come documentano i reperti ceramici rinvenuti più frequentemente nella sede stradale. Tali frammenti si datano dal IV al IX secolo, a testimoniare una frequentazione di questo comparto urbano legata all’attraversamento dell’importante arteria

In epoca costantiniana il teatro continuava la sua funzione, come attesta la tabula bronzea che registra al 7 dicembre del 325 il conferimento del patronatus di Amiternum a Caius Sallius Sofronios Pompeianus, che aveva offerto due giorni di spettacoli teatrali in occasione della ricostruzione delle terme. Altre testimonianze epigrafiche illustrano in questo secolo diversi atti di evergetismo, probabilmente necessari in una città che andava destrutturandosi. Le poche, grandi residenze cittadine subiscono trasformazioni nell’articolazione interna e, nella relazione tra gli spazi costruiti, subentra la destinazione di aree maggiori a superficie coltivabile e di aree già pubbliche come luoghi di sepoltura. Ad Amiternum una soluzione della continuità abitativa appare chiara e diffusa intorno alla metà del IV secolo e la ripresa edilizia sembra limitata a rioccupazioni selettive e parassitarie, attuate attraverso il frazionamento del complesso danneggiato che disarticola la ripartizione catastale antica e attua una riconversione della destinazione d’uso a favore di attività artigianali e liturgiche.13

Pani Ermini1975; Santamaria Scrinari 1978; Santamaria Scrinari 1982; Pani Ermini 1980; Redi et al. 2013. 15 Tuteri 2014a. 14

13

Tuteri 2012.

461

Cinzia Cavallari, Emanuela Ceccaroni, Sandra Lapenna, Rosanna Tuteri Medioevo, periodo in cui è attestato il centro fortificato di Pentima.

viaria: forme tarde di TSA, ceramica con decorazioni a rotella, a onde incise e dipinte, ceramica “tipo Crecchio”, ceramica con decorazione a pettine, a fasce parallele, qualche frammento di ceramica con decorazione a stuoia. Si tratta delle classi ceramiche rinvenute più frequentemente nel territorio amiternino, anche in relazione agli insediamenti rurali.

Le indagini archeologiche17 – condotte nel 2013 e nel 201418 – hanno confermato che la cattedrale di San Pelino, ubicata nel suburbio di Corfinium, è collegata a un grandioso edificio romano in opera reticolata, noto come Campus,19 non coincidente con il centro forense del municipium di età classica. A partire dall’alto Medioevo a Corfinio (sede della diocesi valvense, toponimo esteso in età longobarda al centro gastaldale) il fulcro urbano coincide con l’ecclesia mater, coerentemente con l’evoluzione urbanistica caratteristica della tarda Antichità, sollecitata dalle nuove esigenze della topografia cristiana. L’edificio di culto, inoltre, ingloba un’area funeraria preesistente, in cui appare evidente uno sfruttamento intensivo dello spazio, caratteristico delle tombe ad sanctos delle chiese martiriali e delle cattedrali. Nella zona non è esclusa la preesistenza di un santuario italico, indiziato da lacerti di fondazioni in opera reticolata incorporati nelle strutture della cattedrale, e servito da una piccola fornace in uso fino alla tarda Antichità (riconducibile probabilmente alla diffusione dei votivi).

La fitta rete dei vici e il sistema serrato delle villae sembrano variare nel tempo in relazione a una diversa disposizione nell’ager o a un mutato utilizzo degli spazi costruiti. Nel suburbium, dove si diluisce e allenta la maglia degli edifici, gli spazi verdi della campagna amiternina appaiono caratterizzati da horti e villae, diffuse nel territorio dalla tarda età repubblicana fino all’epoca tardoantica, secondo quanto è ricostruibile dai dati archeologici e dalla documentazione epigrafica.16 Nel sistema di villae individuato a L’Aquila Coppito, organizzato lungo il fiume Aterno, la persistenza della funzione rurale è attestata almeno dal I sec. a.C. al VI secolo con fasi di vita e di ristrutturazioni alternate a soluzioni della continuità abitativa, da porre nel II e nel IV secolo. Dalla tarda Antichità i nuclei edilizi, che mantengono l’impianto ortogonale, subiscono reinterpretazioni in funzione di una concentrazione delle attività, con trasformazione di spazi e percorsi limitati ad ambiti più ristretti.

La cospicua presenza di spolia di epoca romana (epigrafi, sculture, decorazioni ed elementi architettonici) reimpiegati in tutto il complesso valvense deriva dalla destinazione funeraria della zona fin dall’Antichità: oltre alla tomba monumentalizzata nella struttura della torre, nelle immediate adiacenze sono stati individuati in passato diversi nuclei sepolcrali (ancora oggi evidenti nella sequenza dei monumenti a torre) ubicati in corrispondenza di importanti itinerari antichi, quali la via consolare Claudia Valeria. In questo contesto appare evidente il ruolo di referente spirituale delle aree funerarie assunto dall’ecclesia mater a partire dalla tarda Antichità, in cui spicca la presenza di tombe privilegiate, come il sarcofago attribuibile a un vescovo.20

R.T. Corfinium A Corfinio, sede della diocesi valvense sin dalla fine del V secolo, appare eminente il ruolo del complesso di San Pelino, identificato come cattedrale a partire dall’alto Medioevo. Modalità e sequenza diacronica delle diverse fasi edilizie sono piuttosto complesse e controverse: la cattedrale, rifondata nel 1075 dall’abate e vescovo Trasmondo, fu consacrata nel 1092 limitatamente alla parte realizzata fino a tale data (il transetto monoabsidato di S. Alessandro, Fig. 4). Questo oratorio, ad aula rettangolare, raccorda all’impianto basilicale una massiccia torre impostata su di un imponente sepolcro di età romana. Il lato lungo della struttura è caratterizzato da un’abside ampia e ribassata (Fig. 4), secondo una soluzione architettonica insolita, presumibilmente riconducibile alla monumentalizzazione dell’antica area funeraria e alla presenza di tombe privilegiate e di spoglie martiriali. Nel 1124 il vescovo Gualtiero consacrò la cattedrale dedicata al martire Pelino, caratterizzata da tre navate (orientamento NO/SE), disassata ma innestata al corpo di fabbrica preesistente dell’Oratorio di S. Alessandro.

I rinvenimenti confermano la straordinaria importanza della cattedrale valvense e concorrono alla conoscenza del cambiamento di Corfinio dall’età classica all’età moderna: abbandono e riutilizzo di edifici pubblici di età romana, lettura diacronica delle fasi edilizie del complesso episcopale, destinazione funeraria e martiriale, reimpiego Relativamente alle ricerche del 1988–89 si rinvia a Giuntella et al. 1990, pp. 483–503. Nel 2008 fu effettuato un saggio finalizzato alla musealizzazione delle sepolture all’interno dell’Oratorio di S. Alessandro (a cura di Limes Soc. Coop. Geoarcheologica, Direzione scientifica Soprintendenza BAA). 18 Le ricerche, concentrate nel 2013 nell’area della cattedrale valvense (Direttori e concessionari Maria Carla Somma, Vasco La Salvia e Direttore di cantiere Sonia Antonelli), sono state estese nel 2014 al Campus adiacente (Direttore e concessionario Sara Santoro, Direttore di cantiere Marco Moderato) e al sito di S. Ippolito (Direttori e concessionari Maria Carla Somma, Sonia Antonelli e Direttore di cantiere Sonia Antonelli). Antonelli 2015; Antonelli, Somma 2015; Cavallari 2015; La Salvia, Antonelli 2015; La Salvia, Somma 2015; Somma 2015; Somma, Antonelli 2015; Somma, Antonelli, Casolino 2015. 19 Relativamente all’interpretazione funzionale di strutture analoghe in area abruzzese si rinvia a Borlenghi 2010, pp. 6–8. 20 Giuntella 1989. 17

Il complesso valvense costituisce un elemento nodale nell’ambito della topografia urbana di Corfinium, poiché consente di documentare la continuità insediativa dell’antico centro nel passaggio dall’età classica al

16

Segenni 2005.

462

Economia e trasformazione del paesaggio tra tarda Antichità e alto Medioevo in chiave ideologica di spolia pagani, occupazione di itinerari e di punti strategici concorrono a interpretare la fondazione di questo focus religioso come il risultato di una programmazione urbanistica di ampio respiro, in cui l’evergetismo ecclesiastico si coniuga probabilmente con altre forme di potere.

dalla SBAA, sia nell’ambito di interventi programmati, sia in occasione della realizzazione di opere pubbliche.27 L’area archeologica di Alba Fucens, oltre a numerose indicazioni sulle varie fasi di vita della città, ha fornito dati significativi anche per la ricostruzione dei momenti finali, finora indiziati ma non adeguatamente supportati da riscontri stratigrafici. L’approccio multidisciplinare allo scavo archeologico ha consentito di tracciare gli sviluppi del rapporto dell’impianto urbano con il paesaggio circostante e gli eventi naturali che ne hanno in gran parte determinato l’evoluzione, con adattamenti consistenti fino al definitivo abbandono del sito. In particolare, lo scavo effettuato nel piazzale del santuario di Ercole (2011– 2013), nel settore non ancora esplorato e più prossimo al sacello, ha riportato alla luce un pozzo (Fig. 6) profondo m 7 ca e con diametro di m 4,13.28 Il crollo dell’intera copertura all’interno (vera, travi in legno di quercia e lastre relative alla pavimentazione) ha contribuito alla sigillatura degli strati accumulatisi durante l’uso, per m 2 ca, e alla successiva colmatura, effettuata soprattutto con materiali derivanti dalla distruzione del complesso sacro (laterizi, tegole, coppi, cubilia), mescolati a resti della decorazione architettonica in terracotta, porzioni di statue, ceramiche, oggetti di differente tipologia e ossi animali. La grande quantità di reperti, anche di natura lignea e organica, recuperati al di sotto del crollo della copertura, attesta l’utilizzo del pozzo almeno fino al V–VI sec. d.C., periodo al quale risalgono i contenitori attribuibili ai tipi già noti ad Alba Fucens,29 rinvenuti pressoché integri, probabilmente a seguito della loro perdita durante l’uso.

L’importanza degli itinerari devozionali si coglie anche in un’area suburbana di Corfinio, ubicata lungo un antico tracciato di collegamento tra l’importante centro peligno e il percorso pedemontano che seguiva le pendici del Monte Morrone: l’esaugurazione del tempio italico dedicato a Ercole al martire Ippolito (Fig. 5) attesta il perpetuarsi del culto delle acque in un sito di alto valore simbolico, tappa di una sorta di “via dei morti” dall’età preromana21 all’età moderna. Parte integrante del complesso cultuale è una vena d’acqua sorgiva perenne, imbrigliata in un sistema di vasche degradanti (Fig. 5), oggetto di costanti manutenzioni nel corso dei secoli (estese anche a parte delle fondazioni dell’edificio di culto pagano), coerentemente con le trasformazioni del santuario italico in edificio cristiano. L’area sembra rispondere a una precisa liturgia, suggerita da uno spazio sacro delimitato da un rettangolo molto allungato, in cui risultano disseminati cippi lapidei, interpretabili come mete di un itinerario rituale di purificazione (originato dalla fonte perenne), in uso fino ai giorni nostri.22 La frequentazione del sito in età postclassica è confermata dall’individuazione di sei sepolture databili alla tarda Antichità nel terrazzamento superiore del complesso (interpretabile ipoteticamente come struttura insediativa fortificata nel V–VI secolo),23 dalla presenza di un ossario di età postmedievale,24 realizzato in coincidenza con l’edificio di culto cristiano e dall’elevata percentuale di monete databili alla tarda Antichità e al Medioevo.25 Un ulteriore elemento distintivo dell’evoluzione di Corfinium è costituito dall’individuazione di una sepoltura isolata presso il “sacello/ninfeo” della “domus dei mosaici” di Piano S. Giacomo, complesso per il quale è stata recentemente avanzata l’ipotesi di destinazione pubblica.26

La colmatura del pozzo, posta al di sopra, risulta essere l’effetto di un momento di distruzione attestato dalla presenza di macerie nel piazzale del santuario e dalle tracce stratigrafiche della loro rimozione; l’evento sismico all’origine di tale fenomeno (Fig. 7), riconosciuto già durante le indagini geologiche svolte negli anni Novanta dello scorso secolo nella Piana del Fucino e attestato dai recenti scavi sia in città che nel territorio della Marsica, è da collocare tra il 484 e il 508 d.C.30

C.C.

L’abbandono definitivo di Alba Fucens, invece, fu determinato da fenomeni successivi al terremoto e al riempimento del pozzo, dovuti alla particolare posizione della città, posta in un piccolo bacino, naturalmente predisposto alla sedimentazione.

Alba Fucens In area marsicana la destrutturazione degli impianti urbani e del territorio circostante è attestata a partire dal VI secolo, come hanno dimostrato recenti scavi effettuati

Il confronto tra la successione stratigrafica del santuario di Ercole, che sigilla il pozzo, e quella di via del Miliario ha permesso di ricondurre le unità presenti, rinvenute al di sopra dei resti archeologici in giacitura primaria, a una stessa fase di sedimentazione naturale legata alla instabilità dei versanti del Piano della Civita, che si

21 Campanelli, Orfanelli, Riccitelli 1997; Campanelli 2008, pp. 86–93; Somma, Antonelli, Casolino 2015. 22 Pasqualini 2000. 23 Negli anni 2007 e 2008 furono scavate quattro sepolture (a cura di Limes Soc. Coop. Geoarcheologica, Direzione scientifica SBAA) e nel 2011 furono individuate le restanti due tombe: Tulipani 2014; Somma, Antonelli, Casolino 2015. 24 Tulipani 2014; Somma, Antonelli, Casolino 2015. 25 I reperti numismatici sono in corso di studio a cura della Dott.ssa M.C. Mancini, Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti. La Salvia, Mancini 2015. 26 Valenti 2012, pp. 127–129.

Ceccaroni 2012. Per una prima analisi dei risultati, presentata ancora in corso di scavo, vedi Ceccaroni 2013. 29 Redi 2001; Tulipani 2006a, p. 240. 30 Galadini 2006; Galadini, Ceccaroni, Falcucci 2010. 27 28

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Cinzia Cavallari, Emanuela Ceccaroni, Sandra Lapenna, Rosanna Tuteri residenziale, la presenza di sepolture negli spazi prima utilizzati per le attività quotidiane segna il momento di defunzionalizzazione degli stessi; nella villa in loc. Macerine di Avezzano, quattordici tombe, rinvenute lungo i muri perimetrali o nelle canalette per lo scolo delle acque indicano la progressiva dismissione dell’impianto, per la quale forniscono validi agganci cronologici i piccoli oggetti di ornamento (orecchini, bracciali e anelli di bronzo) e le brocchette in terracotta alla fine del V-inizi VI sec. d.C.37

manifestò mediante l’attivazione e la messa in posto di colate di detrito.31 L’occupazione e la frequentazione del sito urbano furono fortemente condizionate da tali fenomeni che portarono all’accumulo, nel corso di rapidi episodi deposizionali non privi di energia distruttiva, di spessori pluridecimetrici di fanghi contenenti frammenti dei materiali più svariati presi in carico dai versanti di alimentazione, pertanto non affidabili per la datazione del momento di formazione dei relativi strati.32 L’impraticabilità dei piani di calpestio originari e il conseguente e progressivo abbandono degli edifici portò, in un periodo probabilmente di breve durata, considerando l’elevato rateo di sedimentazione, alla fine della frequentazione del Piano della Civita e presumibilmente all’avvio del processo di migrazione verso siti più idonei all’insediamento, posti sulle sommità collinari,33 dove la realizzazione della chiesa di San Pietro, all’interno del tempio di Apollo, segna ancora oggi il più evidente segno di defunzionalizzazione e riutilizzo di un edificio di rappresentanza della città romana. Nonostante le difficoltà di inquadrare cronologicamente la deposizione colluviale, ben rappresentata lungo i versanti montuosi appenninici, è possibile supporre che le unità formatesi per 1’instabilità dei versanti e l’alimentazione di sedimenti che hanno interessato Alba Fucens tra Tardoantico e Altomedioevo, sono probabilmente il riflesso locale di processi che hanno agito a scala ben più ampia;34 il cambiamento c1imatico, riconoscibile attraverso altri indicatori paleoambientali che attestano una transizione da un clima prevalentemente umido a un clima tendenzialmente arido,35 interessò infatti tale periodo, generando la instabilità dei versanti e la mobilizzazione delle coperture sedimentarie. Pertanto, i dati emersi dai recenti interventi consentono di riferire a un periodo non precedente al VI secolo d.C. la fine dell’insediamento nel Piano della Civita e l’abbandono della città.36

E.C. Iuvanum Al di là della chiesa con relativo complesso monastico, sorto sull’acropoli della città,38 e dei resti dell’abitato tardoantico e della chiesa medievale individuati nella collina antistante, ai fini della conoscenza dell’evolversi di Iuvanum nel suo impianto giulioclaudio sono risultate le indagini condotte sul sito dalla SBAA e dal DSA dell’Università di Chieti.39 L’idea che già alla fine del IV secolo questo centro abitato sia stato abbandonato è stata superata dagli scavi che documentano la trasformazione degli spazi urbani con demolizioni, abbandoni, trasformazioni e riedificazioni in altri settori con edilizia povera, sovrapposta a strati di abbandono. Dopo il terremoto che nel 354 d.C. devastò la provincia del Sannio, con rinnovato fervore si assiste a ristrutturazioni e ricostruzioni, frutto di una scelta politica che continuò ad annettere valore strategico al centro urbano di Iuvanum per l’amministrazione del territorio di pertinenza, dal momento che Fabio Massimo, governatore della provincia del Samnium, promosse il restauro delle mura e la costruzione del secretarium per l’esercizio dell’attività giudiziaria.40

La cesura provocata dall’evento sismico individuato è stata riscontrata anche in vari siti gravitanti intorno al lago Fucino, come nel caso dell’anfiteatro di Marruvium San Benedetto dei Marsi e delle ville poste nell’attuale territorio di Avezzano. Nel caso degli edifici a carattere

Nel centro urbano è emersa con evidenza la riduzione degli spazi abitativi, con la scelta di edificare lungo la viabilità principale, com’è documentato lungo la via Orientale dove sono stati condotti dei saggi di scavo. All’incrocio della via del teatro le ricerche hanno evidenziato una trasformazione degli edifici antichi, sui resti dei quali si è impostata un’edilizia povera, caratterizzata da murature in pietra ed elevati lignei, con pavimenti in battuto e focolari a terra.

Galadini et al. 2012a. Non supportata da dati relativi alla formazione delle stratigrafie esaminate è invece la ricostruzione in Liberatore 2011a (p. 214) e in Liberatore 2011b (pp. 277, 279, n. 28); in questi contributi si tende ad anticipare, proprio sulla base dei materiali contenuti all’interno degli strati colluviali del piazzale del santuario di Ercole, alla fine del IV-inizi V sec. d.C. l’occorrenza dell’evento sismico distruttivo e le successive fasi di frequentazione dell’area. Il riempimento del pozzo fornisce, invece, gli orizzonti cronologici delineati in questa sede, determinati anche dalla incidenza dei fenomeni naturali sulle vicende insediative. 33 Per le vicende insediative del sito fino all’età moderna vedi Galadini et al.2016. 34 Galadini et al. 2012b. 35 Per la relativa bibliografia si rimanda a Galadini et al. 2012a, p. 199. 36 A una frequentazione tarda è da riferire il passo di Procopio (Bell. Goth. II, 10) che ricorda, nell’inverno del 537 d.C., l’invio di truppe di cavalleria, da parte di Belisario, a svernare ad Alba, nel Piceno, sotto la guida di Giovanni, nipote di Vitaliano. L’identificazione di Alba con la città in esame è ormai accettata da gran parte degli studiosi e consente di ancorare a tale avvenimento le vicende più tarde. 31 32

All’incrocio con la via di Bacco lungo la parete di un ambiente sono state rinvenute tre sepolture prive di corredo scavate nei livelli pavimentali ormai smantellati.41 Ceccaroni 2012, p. 153. Per l’inquadramento generale del sito archeologico di Iuvanum cfr. Lapenna 2006b. 39 Per la vita di Iuvanum tra tarda Antichità e Medioevo cfr. Tulipani 2006b. 40 Domenicucci 2006, p. 107. 41 Fenomeno questo riscontrato per l’epoca in molti centri abruzzesi: Staffa 1998a, pp. 174–175. 37 38

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Economia e trasformazione del paesaggio tra tarda Antichità e alto Medioevo Anche in un’altra zona della città, era stato accertato che non esisteva più distinzione tra le zone riservate ai vivi e quelle destinate ai morti, infatti negli anni 1988–1989 è stata rinvenuta nello strato di crollo di un ambiente di un edificio, che si apriva nel lato opposto sulla via orientale, una sepoltura infantile femminile con ornamento prezioso, inquadrabile tra metà del VI e inizi del VII secolo, costituito da orecchino in argento del tipo a cestello floreale, orecchino in bronzo con capocchia a poliedro, anellino in bronzo con castone romboidale, due bracciali in bronzo e una collana in vaghi di pasta vitrea.42

miniaturistico datato tra la fine del V e la fine del VI secolo, e sotto il fondo una moneta romano imperiale. S.L. Considerazioni conclusive Il quadro che emerge dall’analisi sintetica di alcuni siti dell’Abruzzo interno e dell’area costiera conferma le potenzialità commerciali di questi territori anche nella tarda Antichità e nell’alto Medioevo. A partire dal IV secolo nei siti presi in esame si assiste a una marcata alterazione del preesistente tessuto insediativo, evidenziata da crolli, abbandoni e riconversioni funzionali degli spazi pubblici, in parte attivi e in parte riutilizzati con destinazione funeraria; anche le domus subiscono sensibili contrazioni nell’articolazione architettonica a favore di un incremento di suolo da destinare alle coltivazioni. Alcuni eventi distruttivi vanno inoltre riletti alla luce delle indagini archeosismologiche e in particolare degli effetti dei terremoti attestati nel 346 d.C. e nel V–VI secolo.47

La ricognizione effettuata tramite Iuvanum Survey Projet ha confermato il popolamento nel territorio fino al VI secolo, testimoniando il ruolo strategico che mantenne Iuvanum tra la tarda Antichità e l’alto Medioevo.43 Appare evidente nel periodo preso in considerazione come la diminuzione degli spazi occupati corrisponda a un calo demografico, che non sorprende in un periodo di grave crisi economica e istituzionale. In linea con il resto dell’Abruzzo si è attribuito al conflitto tra truppe bizantine e gote, la fine del centro abitato di Iuvanum e del sistema delle ville, come è confermato dal rinvenimento in contrada Santa Lucia di Torricella Peligna di un “elmo a fasce” (VI secolo) in bronzo a testimonianza di stanziamenti militari ostrogoti.44

Ulteriori trasformazioni sono riscontrabili nelle campagne, in cui emerge una sorta di destrutturazione residenziale e un generalizzato riutilizzo dei resti ormai fatiscenti di alcune villae con una nuova destinazione d’uso (di natura produttiva e funeraria). Nell’adattamento di lacerti architettonici con funzione abitativa a nuove finalità di tipologia funeraria (sepolcreti o tombe isolate) sembrano entrare in gioco non solo obiettivi di riutilizzo parassitario ma anche valenze simboliche, alle quali potrebbe concorrere un rapporto diretto con la proprietà, non disgiunto da una sorta di sacralizzazione dei confini e dei ruderi, secondo una pratica nota dalla tarda Antichità.48 Talvolta l’indicatore funerario sembra evidenziare una rinnovata capacità di investimento e un’indubbia articolazione della società rurale ancora agli inizi del VI secolo.

Un importante contributo alla conoscenza tra tarda Antichità e alto Medioevo è fornito dagli scavi, condotti nel 2000 dalla Soprintendenza, sulla collina che a est domina il sito della città romana di Iuvanum (Montenerodomo). Su un impianto cultuale romano, identificato come tale per il rinvenimento in passato di un bronzetto raffigurante Ercole, riconoscibile nei resti di alcuni ambienti, risalenti al periodo compreso tra media età repubblicana ed età imperiale, furono edificate in epoca tardoantica strutture in pietra ed elevato ligneo.45 Nel VI sec. fu eretta una chiesa a navata unica absidata (Fig. 8), di cui si è persa la parte anteriore.

Nella rete delle villae suburbane sembra emergere un sistema di controllo del territorio, o, più semplicemente, una nuova forma di colonizzazione agraria, strettamente connessa alla viabilità e ai collegamenti marittimi e fluviali. Conclusa la funzione strategicologistica, tali siti furono abbandonati nel corso del VI secolo, probabilmente a causa dell’incapacità di mantenere una dimensione economica e una funzione di coordinamento sufficiente ad assicurare il surplus necessario alla loro esistenza.

Non è stato possibile stabilire quando il sito venne abbandonato: al momento risultano assenti reperti successivi all’inizio del VII secolo. Nella parte posteriore dell’edificio, sulla sommità dell’altura è stata scoperta un’area sepolcrale, di cui sono state scavate due sepolture: una sconvolta; l’altra contenente due individui, ascrivibile alla tipologia a “cassa in muratura e tegole” e databile tra la metà del VI e gli inizi del VII secolo, sulla base del corredo, costituito da una bottiglia in vetro e dall’ornamento personale in bronzo.46

Le trasformazioni della tarda Antichità tra IV e VI secolo rientrano in un processo diversificato e complesso che condurrà verso nuovi assetti territoriali finalizzati a ripristinare una sostanziale stabilità, in cui spiccano, quali nuovi centri di potere le cattedrali, gli episcopia e i palatia. Anche nelle campagne la riconversione delle villae e la fondazione delle chiese rurali, perfettamente

In associazione con la deposizione primaria, raccolti ai margini della tomba, sono stati trovati un vasetto Staffilani 2006, p. 109. Menozzi, Fossataro 2006, p.31. 44 Staffa 1993, p.15. 45 Tulipani 2006b. 46 Tulipani 2006b, p. 40: «una coppia di orecchini ad anello ovale con chiusura a gancio ed apice semilunato, un ago crinale con estremità a spatola e un anellino digitale a doppio avvolgente, decorato da incisioni». 42 43

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Galadini, Falcucci 2011. Cantino Wataghin 2011.

Cinzia Cavallari, Emanuela Ceccaroni, Sandra Lapenna, Rosanna Tuteri

Fig. 1. Cartografia della regione Abruzzo con posizionamento dei siti citati nel testo (elaborazione di Marina Pietrangeli, SBAA).

integrate nella rete itineraria, evidenzia il ruolo dei nuovi ceti dirigenti e anticipa le trasformazioni che condurranno ai grandi cambiamenti dell’alto Medioevo.

Bagno, Crecchio, Corfinio, Iuvanum, Nocciano, Ocriticum (Cansano), Paganica, Pianella e Schiavi d’Abruzzo evidenzia uno scenario di intensi scambi commerciali tra l’entroterra e l’area costiera, lungo le principali vie di comunicazione, terrestri e fluviali. Anche attraverso queste testimonianze l’Abruzzo sembra collocarsi nel più vasto quadro dei fenomeni di transizione tra l’età tardoantica e il Medioevo in Italia, in cui le trasformazioni del territorio andrebbero rilette non più come fenomeni di crisi ma come manifestazioni dell’affermarsi di nuovi modelli comportamentali: differenti forme d’insediamento, quali castelli e villaggi fortificati, nuove forme di gestione delle proprietà rurali (con relativo inserimento e/o integrazione di comunità alloctone), monasteri e edifici di culto in rapporto alle aristocrazie e alle comunità.50

La vitalità dell’economia e delle capacità produttive dei siti abruzzesi in età tardoantica e altomedievale emerge, inoltre, nella carta di distribuzione di alcuni manufatti, indicatori della portata degli scambi e delle capacità di assorbimento delle merci. In particolare, la diffusione della ceramica dipinta a bande “tipo Crecchio” e tipo “Val Pescara” va inserita in un contesto di tradizione locale, che sfugge a una rigida classificazione ma che presenta evidenti contatti con i reperti di importazione. La diffusione di queste tipologie, attestate (tra fine IV e VIII secolo)49 con diverse varianti, in siti quali Alba Fucens, Amiternum (L’Aquila S. Vittorino), Castelvecchio Subequo, Chieti, Civita di

C.C.

49 Staffa 1998b; Siena, Troiano, Verrocchio 1998; Somma, Aquilano, Cimini 2009; De Iure 2015; Siena 2015.

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Staffa 2005, pp. 140–172.

Economia e trasformazione del paesaggio tra tarda Antichità e alto Medioevo

Fig. 2. Tortoreto (TE), pavimentazione musiva della villa rustica in loc. Le Muracche (Archivio SBAA).

Fig. 3. Amiternum (AQ), area del teatro. Gradinata e tracce di strutture postclassiche (Archivio SBAA).

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Fig. 4. Corfinio (AQ), area archeologica di San Pelino (oratorio e torre di S. Alessandro): strutture di età tardoantica (fornace da ceramica) e altomedievale (impianti produttivi e fondazioni murarie ascrivibili alle fasi anteriori all’XI secolo) (Archivio SBAA).

Fig. 5. Corfinio, loc. Fonte S. Ippolito. Ripresa zenitale da SO dell’area sacra (foto Mauro Vitale, Archivio SBAA): terrazzamento superiore con oikos quadrangolare del santuario italico e cippi lapidei collocati a disegnare percorsi liturgici e devozionali. Al centro del ripiano inferiore sono presenti le vasche di raccolta dell’acqua sorgiva, mentre a destra sono individuabili i lacerti dell’edificio di culto cristiano (con ossario di forma rettangolare).

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Economia e trasformazione del paesaggio tra tarda Antichità e alto Medioevo

Fig. 6. Alba Fucens, Comune di Massa d’Albe (AQ). Piazzale del santuario di Ercole: riempimento del pozzo posto nell’area antistante il sacello.

Fig. 7. Alba Fucens, piazzale del santuario Ercole: muro in argilla crollato per effetto del terremoto.

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Fig. 8. Iuvanum, Comune di Montenerodomo (CH). Foto aerea dei resti dell’edificio di culto cristiano databile al VI secolo.

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5.8 Oggetti di corredo personale dalle catacombe abruzzesi Carmen Tanga DiSPuTer – Dipartimento di Scienze Psicologiche della Salute e del Territorio, Università di Chieti [email protected] Abstract: One of the most significant pieces of evidence for the spread of Christianity in Abruzzo is represented by the Catacombs of Castelvecchio Subequo (AQ) and San Vittorino in Amiternum (AQ). In both of these underground structures, the grave goods found in the investigated burials confirm its long-term use, between the 4th and 7th centuries AD. Keywords: Castelvecchio Subequo; San Vittorino; Catacombs; Grave goods.

Provengono dalla T.5 di San Vittorino,6 una sepoltura a forno costituita da due muretti laterali realizzati con materiale fittile legato da malta e da un tegolone per la chiusura, due anelli digitali di cui uno in bronzo e uno in ferro (Fig. 4). Durante le indagini la sepoltura è risultata già manomessa tanto che non è stato possibile effettuare una corretta analisi antropologica dell’individuo a cui appartenevano i due anelli. Il primo, un anello in bronzo di 2 cm di diametro, rientra nella tipologia a “verghetta” e si caratterizza per una morfologia molto semplice; sulla superficie, infatti, non è presente alcuna decorazione. La semplicità con cui è realizzato questo anellino sembra far ipotizzare che questi elementi di corredo insieme ad altri monili quali per esempio le armille siano stati realizzati direttamente per essere indossati dal defunto al momento della deposizione e non riflettano in alcun modo un legame con la quotidianità.7 Dalla stessa sepoltura proviene il frammento di un secondo anello digitale in ferro del tipo Giraud 2.a8 Baldini Lippolis 2.VII.3a;9 quest’ultimo si caratterizza morfologicamente per una fattura molto semplice (con verga a fascia leggermente bombata verso l’esterno) e per la presenza di un castone di forma ovale ottenuto ribattendo direttamente la superficie della verga. Purtroppo a causa del pessimo stato di conservazione non è stato possibile distinguere sulla superficie del castone alcun tipo di decorazione che poteva prevedere l’inserimento di intarsi in pietra o pasta di vetro colorata.10 Per tipologia, l’anello di San Vittorino è simile a un esemplare in bronzo rinvenuto nella T.12 di Castelvecchio

Con questo contributo si presentano i risultati di un lavoro di ricerca tuttora in fase di elaborazione sugli oggetti di corredo personale provenienti dai contesti funerari delle catacombe abruzzesi di Castelvecchio Subequo (AQ) e di San Vittorino in Amiternum (AQ) (Fig. 1). Situata nel versante nordovest del Colle Moro e a sudest del suburbio di Superaequum, uno dei tre municipia dei Peligni insieme a Corfinium e Sulmo,1 la catacomba di Castelvecchio (Fig. 2) insieme a quella di San Vittorino (Fig. 3), sviluppatasi nei pressi della città romana di Amiternum,2 costituisce una notevole testimonianza della prima diffusione del cristianesimo nel territorio abruzzese.3 Entrambi gli ipogei, sotto la direzione scientifica della Prof. ssa Anna Maria Giuntella e della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, sono stati oggetto di un programma di tutela e valorizzazione che ha permesso di definire con maggiore chiarezza lo stato dei monumenti, delle deposizioni e dei corredi funerari. Nell’analisi del tipo di materiale proveniente dalle sepolture di Castelvecchio Subequo4 e di San Vittorino5 è emerso che gli oggetti meglio rappresentati sono gli elementi di corredo riferibili all’abbigliamento e all’ornamento personale come le borchie per calzature, un ago crinale e piccoli monili quali anelli e armille; tra gli oggetti di corredo si annovera anche la presenza di uno strumento da toilette rinvenuto nella catacomba di San Vittorino.

Giuntella et al. 1991, pp. 250–251. Pani Ermini 1975, p. 95; Somma 2012, pp. 185–186. 3 Giuntella et al. 1991, p. 254. 4 A Castelvecchio Subequo soltanto due delle sepolture indagate (T. 54, T. 12) hanno consentito di recuperare al loro interno pochi oggetti di corredo. 5 Nella catacomba di Amiternum solo tre sepolture hanno restituito elementi di corredo (T. 3, T. 5, T. 32). 1

Le sepolture di San Vittorino a cui si farà riferimento sono ubicate nell’ambiente B che si configura come un vero e proprio retrosanctos rispetto all’ambiente in cui è deposto il martire Vittorino (ambiente A). 7 Martorelli 2000, p. 29 Tav. II, 7. 8 Giraud 1989, pp.179–181. 9 Baldini Lippolis 1999, pp. 194–196, 208–210. 10 Baldini Lippolis 1999, p. 195.

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Carmen Tanga monili al momento della deposizione o se questi fossero stati semplicemente adagiati all’interno della sepoltura a scopo rituale. Riuscire a stabilire la relazione che intercorre tra la posizione esatta dei manufatti e il corpo del defunto sarebbe utile non solo per ricavare informazioni circa le pratiche funerarie legate alla deposizione ma anche per riconoscere se si tratti di corredo personale o rituale.18

Subequo. Questo esemplare, associato a una sepoltura attribuita a un individuo di età compresa tra i 25 e i 35 anni,11 è del tipo Giraud 4.a Baldini Lippolis 2.VII.2.b12 (Fig. 5), che si differenzia morfologicamente dall’anello di San Vittorino sia per la presenza di una verga a fascia leggermente bombata all’esterno, e decorata con incisioni verticali, sia per il tipo di castone piatto, di forma circolare e ribattuto nella lamina stessa dell’anello. Il castone dell’anello di Castelvecchio è distinto in due campi separati da due incisioni orizzontali; il campo superiore è decorato un cristogramma con l’occhiello della Rho rivolto a sinistra,13 il campo inferiore invece è decorato da sette incisioni oblique.14 Per ragioni stilistiche, e sulla base del contesto di provenienza, per l’anello di Castelvecchio Subequo si può ipotizzare una datazione compresa tra la fine del IV e l’inizio del VI secolo d.C; infatti il segno del Chrismon sembra essere piuttosto diffuso, sia sui castoni metallici sia sulle gemme, in contesti funerari databili dalla prima metà del IV al VI secolo.15 È interessante notare come all’interno della stessa sepoltura (T. 12) siano stati rinvenuti all’incirca settanta chiodini in ferro in prossimità dei piedi dell’inumato. Identificati come pertinenti a un paio di calzature pesanti del tipo a suola chiodata, questi chiodini corrispondono alla tipologia con testa circolare convessa e stelo quadrangolare appuntito.16 Alcuni esemplari conservavano ancora gli elementi in legno e cuoio tipici delle calzature diffuse tra la tarda età imperiale e la fine del VII secolo.17 In entrambi i contesti funerari tra gli oggetti di corredo sono ben documentate anche le armille di cui si conservano sette esemplari riferibili a quattro tipi differenti. Nella catacomba di San Vittorino solamente la T.3, già manomessa in precedenza, ha restituito tre armille in bronzo (Fig. 6). Pur non essendo stato possibile identificare con certezza il sesso e l’età dell’inumato, la presenza e la tipologia delle armillae farebbe supporre che si tratti di una sepoltura femminile. Purtroppo, durante le indagini non è stato possibile neppure stabilire una più chiara relazione tra la posizione originaria dei bracciali e il corpo della defunta, tantomeno comprendere se l’inumata indossasse realmente questi

Delle tre armille, due si sono conservate quasi integre e una si presenta in stato molto frammentario; in ognuno degli esemplari, soprattutto nei due meglio conservati, l’assenza della porzione terminale dei capi non ha permesso di comprendere se si tratti di un tipo di bracciale rigido ad anello chiuso, di un bracciale rigido a verga aperta19 o di un’armilla provvista di un ribattino di chiusura. Le due armille meglio conservate rientrano nella tipologia Baldini Lippolis 2.VI.1.a20 che si distingue nella forma a verga circolare e a lamina piatta (a sezione rettangolare) non decorata. Il frammento del terzo bracciale rientra nel tipo Baldini Lippolis 2.VI.1.b21 che si caratterizza per una decorazione a doppia solcatura incisa al centro della verga. Le armille a verga, che si differenziano morfologicamente per la presenza o assenza di motivi decorativi,22 sono piuttosto frequenti nei contesti funerari tardoantichi databili tra il IV e il V secolo d.C., con un attardamento fino al VI–VII secolo.23 Altrettanto interessanti risultanole cinque armille in bronzo dorato rinvenute nella T. 54 di Castelvecchio Subequo (Fig. 7); quattro di queste sono state ritrovate integre e ancora infilate all’avambraccio di una giovane defunta di all’incirca venti anni, la quinta invece è stata rinvenuta poco distante. Quattro di queste armille rientrano nella tipologia Swift b1324 che si caratterizza per la presenza di una verga ad anello chiuso e sezione lenticolare; sui bordi presentano una decorazione a smerlo arricciato con una serie di forellini passanti e una solcatura incisa al centro.25 Gli esempi più significativi del tipo di armilla Swift b13 si concentrano nell’area della Raetia e della Germania;26 in Italia di recente lo stesso tipo di bracciale è stato rinvenuto tra gli oggetti di corredo personale provenienti da un’area funeraria indagata a Fossalta, località situata a Modena lungo la via Emilia.27 Per tipologia queste armille trovano una discreta diffusione

Giuntella et al. 1991, p. 283. Baldini Lippolis 1999, pp. 192–194, 204–207; Giraud distingue gli anelli in nove tipologie differenti a seconda delle loro caratteristiche morfologiche: il quarto comprende gli anelli con castone rilevato tra cui molti recano incise iscrizioni cristiane datate al IV secolo d.C., cfr. Giraud 1989, pp. 188–191. 13 Depeyrot, Feugere, Gauthier 1986, p. 129, fig. 20, 4; Sannazzaro 1990, p. 300. 14 Giuntella et al. 1991, p. 282. 15 Cavallari 2005, pp. 130–131; D’Angela 1988a, p. 156; Martorelli 1986, p.163; Sannazzaro 1990, pp. 300–301; Sena Chiesa 2014, pp. 24– 26. 16 Giuntella et al. 1991, p. 283; Giuntella 1998, p. 67. 17 De Santis, Giuliani 1998, p.229; uno dei principali rinvenimenti di elementi di corredo pertinenti a calzature è ben documentato nella necropoli tardoantica individuata nel cortile dell’Università Cattolica a Milano (Palumbo 2001, pp. 130–131). Sono altresì databili tra il V e il VII secolo le tombe con all’interno chiodini da scarpa ubicate nei siti di San Salvatore Metaponto (D’Andria 1978, pp. 159–160, tav. LXIII, 4), di Avicenna (D’Angela 1988a, p. 174, tav. LXXXVIII, 198), del complesso di San Giusto Lucera (De Sanctis, Giuliani 1998, pp. 229, fig. 295), di Belmonte Altamura (Ciminale, Favia, Giuliani 1994, p. 397, tavv. CLXVIII, CLXXI, 2) e dell’area cimiteriale di Cutrofiano località S. Giovanni Piscopìo a Lecce (Arthur et al. 2008, pp. 217–219). 11

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Giuntella 1999, pp. 66–70. Cavallari 2005, p.136, fig. 76, 9; Danesi 1989–90, pp. 47, 5.3, fig. 20. 20 Baldini Lippolis 1999, pp. 176, 182. 21 Baldini Lippolis 1999, pp. 176–178, 182. 22 Due armille in bronzo a verga non decorata per esempio provengono da una sepoltura ubicata a San Giusto (De Santis, Giuliani 1998, p. 224). 23 Budja 1979, T.4, 21, 22; D’Angela 1988a, pp. 159–160; Salvatore 1981, p. 156; cfr. con il bracciale rinvenuto all’interno di una sepoltura ubicata nel cimitero di Sant’Ippolito sulla via Tiburtina a Roma (Del Moro, Felle, Nuzzo 1994, pp. 126–128). 24 Swift 2000b, pp. 127–128, fig. 151, p. 137, fig. 165; Keller 1971, Taf. 15, 3, p. 104. 25 Giuntella et al. 1991, pp. 280–281. 26 Le armille a smerlo arricciato provenienti da Castelvecchio Subequo sono molto simili a due esemplari descritti da Keller e da D’Angela e datati tra il IV e il VII secolo (Keller 1971, Taf. 15, 3, p. 104; D’Angela 1988a, pp. 159–160); Swift 2000b, pp. 116, 128, fig. 151; Swift 2010, pp. 252–265. 27 Malnati 2011, p. 85; un’altro esempio di armilla a smerlo arricciato, del tipo Swift b13, proviene dalla necropoli di Celimarro (CS) (Roma 2001, pp. 102–103, fig. 41). 18 19

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Oggetti di corredo personale dalle catacombe abruzzesi capigliatura della defunta, gli aghi crinali probabilmente erano utilizzati per acconciare i capelli della defunta o per trattenere un velo funerario. La tipologia dell’ago crinale a testa poliedrica è molto diffusa all’interno dei contesti funerari a partire dalla metà del III secolo d.C. fino al V secolo, anche se in molti casi un loro utilizzo sembra essere ripreso per tutto il VII.34 Sempre dalla catacomba di San Vittorino provengono altri due elementi riferibili all’ornamento personale; un anellino in bronzo del tipo a “verga” senza decorazione e un frammento di castone ovoidale con inciso sulla superficie un fiore a sei petali lanceolati (Fig. 9). Purtroppo i due elementi non sono stati rinvenuti in associazione a sepolture ma in strati di riporto originati dall’attività dei “corpisantari” che manomettono gran parte delle tombe nel XVII secolo.

nei contesti funerari databili tra il IV e il V secolo d.C., con alcuni attardamenti tra il VI e il VII secolo. La quinta armilla di Castelvecchio è riferibile al tipo Swift d6;28 questa si caratterizza per la presenza sui bordi di una serie continua di tacche verticali con una doppia solcatura incisa al centro.29 Quasi del tutto assenti sono gli oggetti d’uso personale presenti all’interno delle due catacombe abruzzesi; l’unico elemento interessante proviene dalla T.32 di San Vittorino, una sepoltura femminile ricavata nell’incavo roccioso della catacomba e delimitata sul lato esterno da un muretto in laterizio legato da malta. Nonostante anche questa tomba sia stata manomessa, è stato possibile recuperare al suo interno un piccolo netta orecchie in bronzo di circa sei centimetri di lunghezza caratterizzato da un corpo spiraliforme terminante all’estremità inferiore con un piccolo cucchiaio di forma ovoidale leggermente concavo all’interno (Fig. 8). La parte superiore invece si caratterizza per la presenza di un elemento di forma romboidale che lascerebbe supporre un impiego multifunzionale. Lo stelo del nettaorecchie è inoltre dotato di un piccolo gancetto di forma circolare connesso probabilmente con un elemento di sospensione andato perduto; infatti i diversi strumenti da toeletta rinvenuti all’interno delle sepolture potevano essere sospesi o su un singolo anello cilindrico o su uno stelo orizzontale30. Nel nostro caso, considerato lo stato del rinvenimento, risulta difficile comprendere se il netta orecchie fosse sospeso a una catenella o direttamente alla cintura della defunta tantomeno se fosse associato ad altri strumenti da toilette.31 Interpretato come netta orecchie non si esclude la possibilità che il manufatto potesse servire per altri scopi; lo strumento, infatti, poteva altresì essere utilizzato a scopo medicofarmacologico sia per la preparazione e l’applicazione di unguenti sia per la rimozione di piccole schegge e il trattamento superficiale di piccole ferite.32 La particolarità del manufatto di San Vittorino risiede nella possibilità di avere un ulteriore duplice impiego; da una parte l’estremità ovale poteva essere adibita alla pulizia dei condotti uditivi, dall’altra l’elemento romboidale poteva essere usato per l’igiene orale (come stuzzicadenti) o addirittura per la pulizia delle unghie. Strumenti molto simili a questo sono stati rinvenuti in contesti funerari altomedievali in Britannia e in Germania.33 Dalla T.32 proviene un altro elemento riferibile all’ornamento personale femminile; si tratta di uno spillone in bronzo con stelo a sezione circolare e testa poliedrica (Fig. 8). Rinvenuti per lo più in prossimità della

In conclusione, i dati fin qui esaminati ci suggeriscono lo spunto per alcune riflessioni; gli oggetti di corredo rinvenuti a Castelvecchio e a San Vittorino, per tipologia e per contesto sono sicuramente tutti da riferire alla tradizione tardoromana e altomedievale il che sembrerebbe confermare la lunga frequentazione delle due catacombe. Al momento, nonostante i contesti funerari abbiano rivelato una scarsa testimonianza della presenza di oggetti di corredo personale, questo dato non può essere associato a nessun tipo di pratica funeraria: si tratta, infatti, di contesti aperti soggetti a drastici rimaneggiamenti, che non consentono di affinare l’interpretazione del dato archeologico.

28 E. Swift, Regionality in the late Roman west through the study of crossbow brooches, bracelets, beads and belt sets, Doctoral thesis, University of London 1999, pp. 9, 83, 95, 344, fig. 204; Swift 2000b, p.161. 29 Giuntella et al. 1991, pp. 281–282. 30 Eckardt, Crummy 2004, p. 7; Colani 1993, pp. 988–992; 31 Comunemente rinvenuti in sepolture femminili questi oggetti potevano essere associati a pinzette, rasoi e altri strumenti per la cura personale. La presenza di un nettaorecchie all’interno della sepoltura di San Vittorino attesta l’importanza riservata alla cura quotidiana del corpo e all’igiene personale (Swift 2011, pp. 194–204). 32 Crummy, Eckardt 2008, pp. 150–180; Shafer 2009, pp. 232–334. 33 Elser 2005, p. 98, Taf. 3, Abb. 15.

Pezzato 2005, p. 56; Roma 2001, pp. 168–169 Tav. LII, 6; Cavallari 2005, pp. 128–129 fig. 58, 1; D’Angela 1988a, p. 162 n. 86, Tav. LXXXIX; De Santis, Giuliani 1998, pp. 226–230, fig. 294, 1. 34

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Fig. 1. Carta schematica dei siti; collocazione della catacomba di Castelvecchio Subequo e San Vittorino.

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Oggetti di corredo personale dalle catacombe abruzzesi

Fig. 2. Planimetria generale della catacomba di Castelvecchio Subequo (da Giuntella et al. 1991).

Fig. 3. Planimetria generale della catacomba di San Vittorino (da Somma 2012).

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Fig. 5. T. 12 Castelvecchio Subequo; anello con cristogramma (da Giuntella et al. 1991). Fig. 4. T. 5 San Vittorino; anello digitale in bronzo e anello digitale in ferro.

Fig. 6. T. 3 San Vittorino; armillae in bronzo.

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Oggetti di corredo personale dalle catacombe abruzzesi

Fig. 7. T. 54 Castelvecchio Subequo; armillae in bronzo dorato (Giuntella et al. 1991).

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Fig. 8. T. 32 San Vittorino; netta orecchie in bronzo e ago crinale.

Fig. 9. San Vittorino, frammento di castone ovoidale decorato in superficie con un fiore a sei petali lanceolati.

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5.9 Pettini in osso e status sociale: alcuni esempi dall’Abruzzo Marzia Tornese DiSPuTer – Dipartimento di Scienze Psicologiche della Salute e del Territorio, Università di Chieti [email protected] Abstract: The bone combs frequently found in early medieval graves should be considered as indications of the status of the buried person. The production of these items did truly imply a specialised craftsmanship. Within the territory of Abruzzo, moreover, this social indicator is seemingly emphasised by the scarcity of the evidence, the typology of decoration and the contexts of their discovery. These elements, taken together, may indicate that the antler combs were mainly the personal belongings of the Lombard aristocracy settled in the region. Keywords: Combs; Graves; Abruzzo; Early Middle Ages.

in cui gli altri elementi del corredo indicano uno status sociale medioalto.3

I rinvenimenti di pettini in osso sono piuttosto frequenti sia negli insediamenti, sia nelle sepolture, e coprono un ampio arco cronologico che va dall’età tardoromana all’alto Medioevo. I pettini pur non essendo riconducibili a uno specifico gruppo etnico, si trovano spesso anche nelle necropoli barbariche,1 infatti entrano a far parte dei corredi funerari germanici per il forte valore simbolico che la capigliatura ha presso queste popolazioni, e in particolare per i Goti2 e i Longobardi. Nella nostra penisola i rinvenimenti di pettini in osso altomedievali sono particolarmente numerosi, con delle differenze tipologiche e decorative che talvolta permettono di circoscriverne l’ambito cronologico. La tipologia più diffusa è senz’altro quella a doppia dentatura, caratterizzata da un listello centrale e due file contrapposte di denti che si ritrova dalla fine dell’età imperiale fino al VII secolo. Nelle necropoli longobarde sono molto più attestati, invece, i pettini a una sola fila di denti, spesso con elementi decorativi ricercati, che ricorrono soprattutto nelle sepolture

Sebbene in Abruzzo i rinvenimenti di pettini in osso siano piuttosto esigui,4 questi sono riferibili a tre delle quattro tipologie finora note,5 sia a una, sia a due file di denti. In particolare si distinguono gli esemplari a una fila di denti provenienti da Loreto Aprutino (PE) e da Rosciano (PE), i quali sono stati definiti da Caterina Giostra «straordinari» sebbene «la pertinenza a un gruppo germanico stanziato in loco resta ancora da accertare».6 Il pettine più significativo per la sua rara tipologia proviene da Loreto Aprutino (PE) e, sebbene non sia stato rinvenuto in sepoltura, il suo ritrovamento presso l’area funeraria altomedievale di un edificio di culto in località Colle Fiorano farebbe ipotizzare che facesse parte di un corredo.7 Si tratta di un pettine in osso, a una fila di denti, decorato a incisione e con impugnatura laterale.8 Sebbene sia frammentario nella parte della dentatura, si conserva in buono stato il manico che è realizzato da una placca rettangolare decorata con due diverse tipologie di ornamento: alla base due linee parallele delimitano uno spazio quadrangolare che al centro presenta una decorazione incisa di cinque cerchi concentrici, dove il quarto è realizzato da una serie di piccoli cerchietti che inscrivono un elemento floreale

1 La lavorazione dell’osso è attestata archeologicamente presso le culture germanicoorientali, come dimostrano i rinvenimenti di due importanti atelier, uno nel sito rurale di Velikaja Snitinka nella regione di Kiev in Ucraina (cultura di Černjachov), e l’altro in Moldavia presso Bîrland–Valea Seacâ, cfr. Giostra 2007a, p. 63–64. 2 La deposizione di pettini in osso come corredo funebre nelle sepolture gote è attestata nelle necropoli dei territori occupati prima dell’arrivo in Italia; ne sono testimonianza i rinvenimenti nelle sepolture germanicoorientali, come per esempio nella cultura di Wielbank, nella zona orientale della media Vistola tra la fine del II e l’inizio del V secolo d.C. (Bierbrauer 1994a, pp. 32–33); nella cultura di Černjachov, tra III e IV secolo, nei Volinia, Ucraina e Moldavia (Bierbrauer 1994a, pp. 35–38). Infatti i rinvenimenti relativi a queste culture sono molto numerosi in tutte le sepolture di Polonia, Ucraina, Bielorussia e Romania (Bierbrauer 1994a, pp. 22–107; Bemmann 2008, pp. 124). Marco Aimone mette i risalto come la lunghezza della capigliatura e il modo di curare la barba e i baffi, fossero un segno distintivo dei Goti, tanto che lo stesso Cassiodoro per indicare gli uomini liberi li appella capillati (Cassiod., Var., IV, 49, p. 136); cfr. Aimone 2010, p. 274.

Giostra 2007a, pp. 66–67. Oltre agli esemplari presi in esame in questa sede sono noti anche cinque frammenti di pettini in osso conservati nella collezione Zecca e un frammento proveniente da Iuvanum (Montenerodomo, Ch), tuttavia si tratta di rinvenimenti del tutto decontestualizzati e troppo deteriorati per permetterne un’analisi interpretativa. 5 Giostra 2012a, pp. 277–284. 6 Giostra 2012a, pp. 275–277. 7 Brogiolo, Gelichi 1998b, pp. 70–71. 8 Brogiolo, Gelichi 1998. 3 4

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Marzia Tornese stilizzato caratterizzato da sei petali lanceolati.9 Tra la parte quadrangolare e il resto del corpo del manico corre una cornice di linee parallele che iscrivono una serie di piccoli punti incisi. La restante parte del corpo del manico è di forma rettangolare ed è decorata da quattro arcate traforate delimitate da cinque perni di bronzo. Le arcate sono decorate con motivi di linee parallele che incorniciano una fila di piccoli punti incisi, mentre nella parte sottostante corrono due file di decorazioni incise a occhi di dado. Il manufatto trova similitudini soprattutto col pettine della T.49 di Castel Trosino,10 che presenta sul manico una decorazione ad arcate che, in questo caso, risultano chiuse da una lamina di osso decorata con occhi di dado.11 Questo esemplare appartiene a una sepoltura privilegiata, datata alla metà del VII secolo, posta all’interno dell’oratorio e probabilmente riferibile al suo fondatore.12 Tuttavia al momento il confronto più stringente risulta essere un pettine proveniente dalla T.164 di Monte San Zeno nel bresciano: anche in questo caso il manico è decorato con il motivo ad arcate cave che poggiano su perni, ma realizzati in osso.13 Sebbene per il pettine di Monte San Zeno sia stato proposto un legame con la tradizione ‘bizantina’ e una datazione al VI secolo,14 questa tipologia di pettini viene generalmente datata ai primi decenni del VII secolo.15 In questo arco cronologico si inquadra anche l’esemplare di Loreto Aprutino che per le peculiarità decorative e il pregio può certamente essere messo in relazione a un individuo di ceto sociale elevato, probabilmente appartenente all’aristocrazia longobarda, come nei casi di Castel Trosino e Monte San Zeno. Ad avvalorare tale ipotesi può contribuire il contesto di rinvenimento che fornisce ulteriori elementi significativi al fine dell’interpretazione del manufatto. Infatti, il pettine è stato rinvenuto nel sito di Colle Fiorano dove è stato messo in luce un edificio di culto paleocristiano, identificato con la medievale chiesa di San Serotino16. Alla chiesa era annessa un’area funeraria altomedievale dalla quale oltre al pettine in osso proviene anche “un elemento di cintura in ferro con decorazione ageminata in argento”17. Inoltre, dalla documentazione di età franca si evince che i beni di origine fiscale di questo territorio sono gestiti da tre personaggi, il gastaldo Wido, lo sculdascio Totone e il grande proprietario Corvino, che potrebbero rappresentare l’eredità dell’amministrazione longobarda.18 Pertanto il pettine e l’elemento di cintura contribuiscono a ipotizzare la presenza longobarda nel territorio di Loreto Aprutino.19

Un altro pettine in osso di particolare pregio è stato rinvenuto in località Taverna Nuova presso Rosciano (PE) in un piccolo sepolcreto legato a una villa romana con fasi di frequentazione fino all’alto Medioevo, all’interno in una sepoltura deposta in un sarcofago di reimpiego.20 Si tratta di un pettine in osso a una fila di denti con la lamina centrale decorata,21 databile tra VI e VII secolo, che si distingue per le notevoli dimensioni (nonostante sia frammentario raggiunge 19,5 cm)22 e trova confronti con esemplari rinvenuti presso Monte San Zeno23 e con due esemplari dalla necropoli di Santo Stefano di Cividale del Friuli.24 La tipologia della sepoltura e la presenza di questo particolare pettine quale oggetto di corredo personale, suggeriscono che l’inumato appartenesse a una elevata classe sociale. Anche in questo caso il contesto di rinvenimento può contribuire all’interpretazione del manufatto, infatti nel comune di Rosciano in località significativamente nominata Piano della Fara sono state individuate due ville rustiche, una delle quali, edificata ai piedi del colle Sant’Angelo, ha restituito evidenti tracce di frequentazione di età altomedievale e tre piccoli sepolcreti localizzabili a est della villa.25 Infine, a poca distanza da questo sito, presso la località Colle della Sala (Alanno, Pe) è stato individuato un abitato che presenta tracce di frequentazione altomedievale, dal VI all’XI secolo, e nello stesso territorio si conservano toponimi come Fonte Sant’Angelo26 e le chiese di Sant’Agata e di Santa Lucia in Macerinas,27 attestate dall’XI secolo.28 Tra le tipologie di pettini in osso note ve n’è una piuttosto rara che è quella dei pettini con custodia, di cui è stato rinvenuto un esemplare in una sepoltura urbana presso materiali provenienti dalla collezione Casamarte, dove sono conservate anche una fibbia di cintura e della fibula zoomorfa di età gota, cfr. De Menna 2003, pp. 118–126. 20 Staffa 2003a, pp. 181–182;2010, p. 192, fig. 14. 21 La lamina centrale è decorata con file parallele di incisioni in orizzontale e verticale che disegnano due rozze cornici in cui corre una decorazione a treccia realizzata con occhi di dado. Questo motivo decorativo è molto frequente nei pettini in osso, cfr. Giostra 2012a, p. 283, fig. 45, 14. 22 Staffa 2010. 23 De Marchi 2007, p. 69. 24 Tt. 26 e 27, cfr. Giostra 2012a, p. 278, fig. 42,3. 25 Nel sepolcreto più grande si assiste a un particolare uso delle fosse di deposizione: sono stati rinvenuti più individui tutti in posizione secondaria, dato interpretato da Staffa come il riflesso di una organizzazione famigliare delle sepolture che pertanto, ipotizza, potrebbero essere riferibili a una fara longobarda. Inoltre, dalla località San Lorenzo–Il Bicchiere, sempre nelcomune di Rosciano, proviene un corredo funerario composto da una coppia di orecchini a poliedro pieno e un ago crinale, rinvenuto nell’ambito di una villa con tracce di frequentazione per tutto il Medioevo (Staffa 2003a, pp. 181–182; Staffa 2010, p. 192). Un rinvenimento insolito in Abruzzo soprattutto per la particolare tipologia di orecchini a poliedro pieno frequentemente rinvenuti in contesti legati alla presenza gota. 26 Dov’è localizzabile il Casale de Fiola menzionato per la prima volta alla fine del XI secolo (ChCasaur 17r.). 27 ChCasaur 126r, 105v. Il culto di Sant’Agata, com’è noto, è particolaremente caro ai Longobardi, così come Santa Lucia che sembra essere un culto venerato soprattutto dai Longobardi del Ducato di Spoleto. Cfr. M. Tornese, Presenze alloctone nell’Italia centrale: tempi, modalità e forme dell’organizzazione territoriale nell’Abruzzo altomedievale, tesi di dottorato discussa il 18 giugno 2012, Scuola di dottorato in Archeologia e antichità postclassiche XXIV ciclo Università degli Studi “La Sapienza” Roma. 28 Staffa 2003a, pp. 180–181.

Per questa tipologia decorativa cfr. Giostra 2012a, p. 283, fig. 45,18. Appartenente alla tipologia 4 della Giostra, cfr. Giostra 2012a, pp. 282–284. 11 Paroli, Ricci 2007, p. 58–59, e tav. 54. 12 Giostra 2012a, p. 284. 13 Breda 2007. 14 Breda 2007, p. 4, fig. 5; De Marchi 2007, pp. 67–71. 15 Giostra 2012a, p. 284. 16 Colecchia 2000, pp. 107–109. 17 Staffa 2003a, p. 188. Tuttavia, non è mai stata pubblicata una documentazione grafica o fotografica dell’elemento di cintura, di cui non vi è traccia neanche negli archivi della Soprintendenza Archeologica abruzzese. 18 Feller 1998, pp. 140–143 e 180–184. 19 Il territorio di Loreto Aprutino è particolarmente ricco di rinvenimenti archeologici anche per i secoli postclassici, tra i quali si ricordano i 9

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Pettini in osso e status sociale: alcuni esempi dall’Abruzzo la cattedrale valvense di San Pelino, in una sepoltura privilegiata realizzata con materiale di spoglio romano in cui il frammento di pettine era l’unico oggetto di corredo.36 Il pettine, di cui si conserva solo una parte della cornice decorata a cerchi intrecciati, era probabilmente a una fila di denti e si inquadra cronologicamente tra il VI e il VII secolo. Valva è la più antica sede di gastaldato citata dalle fonti scritte nel territorio abruzzese, infatti la prima attestazione risale al 750.37 Il toponimo Valva nel corso dell’alto Medioevo indicava il nucleo abitato che si era formato intorno alla cattedrale suburbana dell’antica Corfinium, San Pelino, che venne realizzata su un sito in cui sorgeva un grande edificio di età romana38 successivamente occupato da un’ampia area funeraria tardoantica e altomedievale.39 Come è emerso nei recenti scavi, l’area adiacente a San Pelino ha avuto un’importante fase di età altomedievale,40 presumibilmente da mettere in relazione con il gastaldato longobardo facente capo al Ducato di Spoleto, pertanto anche la sepoltura privilegiata che ha restituito il pettine potrebbe riferirsi a un esponente dell’aristocrazia longobarda.

Teate (odierna Chieti). Il manufatto proviene da una piccola area funeraria che occupa una parte dell’arena dell’anfiteatro. Le tombe, sigillate da un crollo delle strutture dell’anfiteatro avvenuto nel corso del VII secolo, erano state scavate sotto il piano di fondazione dell’edificio romano ed erano allineate secondo l’orientamento dei muri. Il pettine è l’unico oggetto di corredo rinvenuto nel piccolo sepolcreto, se si eccettua un chiodo, probabilmente con valore apotropaico, proveniente dall’unica sepoltura a enchytrismos.29 La peculiarità del pettine è nella custodia, costituita da due lamine in osso cave al centro per proteggere la dentatura: infatti si tratta di uno dei rari esemplari rinvenuti in Italia e l’unico al momento rinvenuto in Abruzzo. Il manufatto presenta una sola fila di denti e una decorazione con linee incise verticali e oblique alternate a un nastro con andamento sinuoso; le linee incorniciano uno spazio con un ornato a semicerchi incisi, contrapposti e sfalsati tra loro, alcuni dei quali presentano al centro un puntino inciso. I medesimi criteri ornamentali sono utilizzati nella decorazione del fodero, il quale funzionava anche da impugnatura ed era fissato al corpo del pettine da un piccolo perno metallico che ne permetteva la rotazione di 180° gradi.30 Oltre ai due esemplari lacunosi da Romans d’Isonzo31 datati alla seconda metà del VII secolo, il confronto più stringente risulta, al momento, un pettine con custodia dalla necropoli altomedievale in via dei Mille a Treviso (T.6).32 I pettini con custodia sono tutti riconducibili al VII secolo33 e i motivi decorativi dell’esemplare di Chieti rimandano a confronti con contesti della prima metà del VII secolo,34 come confermano anche i dati stratigrafici. La sepoltura da cui proviene il pettine è certamente privilegiata rispetto alle altre dell’area funeraria, sia perché è l’unica che presenta un oggetto di corredo, sia per la peculiarità del pettine con custodia, e non si può escludere un rapporto tra il manufatto e la presenza longobarda, il cui stanziamento ha lasciato tracce nel tessuto urbanistico e, in particolare, nella sopravvivenza di alcuni culti.35

Oltre ai pettini con una fila di denti in Abruzzo si conservano anche pettini in osso a doppia fila di denti, a questa tipologia sono riferibili infatti i sette frammenti rinvenuti presso Aielli (AQ), che appartengono almeno a due distinti esemplari. Il frammento meglio conservato presenta un listello centrale decorato con un ornato molto semplice di linee parallele e intrecciate, che trova un confronto stringente con il pettine della T.10 della necropoli della Cascina San Martino presso Trezzo sull’Adda.41 Il rinvenimento di Aielli è riferibile a un contesto funerario piuttosto particolare, consistente in quattro tombe a camera di età ellenistica riutilizzate in età altomedievale.42 Si tratta di un contesto eccezionale, soprattutto nel territorio abruzzese, sia per la quantità e la ricchezza dei reperti, databili tra la fine del VI e la prima metà del VII secolo, sia per la localizzazione del sito, sulla via Tiburtina– Valeria, in un’area, quella del Fucino, caratterizzata da una vivace continuità insediativa dall’età preromana fino a tutto il Medioevo. Tuttavia, il dato più interessante è il riutilizzo, in età longobarda, delle tombe a camera: si tratta di sepolture privilegiate, come si desume dalla presenza dei letti in osso, che dovevano essere state riconosciute

Dalla cattedrale di Valva proviene un di frammento pettine in osso purtroppo molto deteriorato, tuttavia il manufatto appare significativo soprattutto dell’importanza del contesto di rinvenimento. Il frammento di pettine è stato rinvenuto nella T.1 dell’oratorio di Sant’Alessandro presso 29 Campanelli 1999, pp. 161–162; Soria, Tornese 2008, Tavv. LXIIIb, LXIV, LXV, LXVI, LXVII, LXVIII, LIX, LXX. 30 All’estremità opposta al punto di aggancio del fodero, vi è una lama in osso sporgente, non decorata, con un foro probabilmente per la sospensione. Campanelli 1999. 31 Degrassi, Giovannini, Maselli Scotti 1989, pp. 33–34 e 65–66; tavv. I, 116, 6 e XII,113,4. 32 Rigoni, Possenti 1999, p. 79, fig. 3b; p. 84–87, figg. 2f, 3; Giostra 2007a, p. 68 in cui si riportano anche altri due esempi di questa tipologia di manufatto, uno da Bene Vagienna (CN) e l’altro da Acqui Terme (AL), oltre che la notizia di un rinvenimento di pettine con manico presso la Novalesa (TO). Anche fuori dall’Italia si trovano confronti per questa rara tipologia di pettini con custodia, come i due esemplari provenienti dalla necropoli di Zalcu in Polonia, cfr. Szymańsky 2004, p. 188, tav. II, n. 8a e 9. 33 Giostra 2007a, p. 68. 34 Corsetto 1987, p. 196, tav. LXIX; Attene Franchini 1991, p. 135; Gelichi 1995, pp. 158–159, fig. 25. 35 Soria, Tornese 2008, Tav. LXVIII; Tornese 2012.

Giuntella et al. 1990, pp. 483–514. CDL IV,1, doc. 12, pp. 30–34. Il gastaldato di Valva amministrava un ampio territorio che comprendeva parte della piana di Navelli, l’area Peligna e si estende a sud fino all’altopiano delle Cinquemiglia. 38 Giuntella et al. 1990, pp. 483–488. 39 Alla fine del XIII secolo il complesso episcopale si presentava composto, oltre che dalla cattedrale, dall’oratorio di San Alessandro, e da una torre, cfr. Giuntella et al. 1990, pp. 483–488. 40 Per i recenti scavi si rimanda al poster dal titolo “Produzione ceramica presso il complesso di San Pelino a Corfinio (AQ): una rilettura dei dati” presentato nel Convegno di Ravenna del febraio 2014. 41 Si tratta di una sepoltura che accoglieva quattro individui, tuttavia il pettine è riferibile al corredo di una bambina che era composto anche a un’armilla e a una collana in vaghi di pasta vitrea; la sepoltura è stata inquadrata cronologicamente tra la fine del VI e la prima metà del VII secolo, cfr. Giostra 2012b, pp. 163–165, fig. 10. 42 Antonelli, Tornese 2003, pp. 1637–1648. 36 37

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Marzia Tornese con più attenzione il rapporto tra queste tombe privilegiate e gli edifici culto, prendendo in considerazione l’ipotesi che si possa trattare, come nel caso di Castel Trosino,48 di sepolture riferibili ai fondatori degli stessi edifici.

come tali già nell’Antichità, a testimonianza di una consapevole volontà di distinzione sociale. Risulta difficile stabilire quante sepolture altomedievali siano state poste all’interno delle tombe in quanto lo stato del rinvenimento e l’assenza di documentazione non consentono valutazioni precise.43 I reperti altomedievali annoverano elementi di abbigliamento personale, monili, armi, ceramica, vetro. In particolare, si riscontra una notevole varietà di orecchini, databili tra VI e VII secolo, con tipi di tradizione tardoantica e ‘bizantina’. Se da un lato, la derivazione di alcuni reperti dalla tradizione tardoantica potrebbe essere il risultato di una precoce romanizzazione (che riguarda soprattutto il costume femminile almeno dalla prima metà del VII secolo), dall’altro alcuni elementi come una fibbia “a testa di cavallo”, oltre che un probabile manico di scudo, consentirebbero di ricondurre almeno una delle sepolture di Aielli alla presenza longobarda. Infatti, la fibbia “a testa di cavallo”, molto diffusa nelle necropoli longobarde della nostra penisola, trova uno stringente confronto con l’esemplare rinvenuto nella T.12 di Pettinara Casale Lozzi (Nocera Umbra), databile alla fine del VII secolo.44 I materiali riferibili alla presenza longobarda sono riconducibili a una singola sepoltura maschile, pertanto ci si potrebbe trovare di fronte o a un piccolo nucleo longobardo insediatosi nell’area fucense non oltre la metà del VII secolo, oppure a un singolo individuo di origine longobarda deposto in un’area funeraria privilegiata.

In conclusione, oltre all’analisi dei singoli manufatti bisogna tener presente che nel territorio abruzzese gli oggetti di corredo funerario altomedievali sono scarsamente attestati, pertanto appaiono particolarmente significativi i rinvenimenti di pettini in osso, i quali sono tutti riferibili a contesti funerari e presentano frequentemente caratteristiche peculiari tali da indicare uno status sociale degli inumati medioalto o, più propriamente, alto. I pettini deposti nelle sepolture, spesso quale unico oggetto di corredo, si possono considerare simboli del potere economico e, di conseguenza, della distinzione sociale del defunto: infatti il pettine, pur essendo un oggetto di uso quotidiano, era un bene prezioso in quanto la produzione di tale manufatto richiedeva una manodopera specializzata.49 Inoltre, appare piuttosto plausibile che nell’Abruzzo altomedievale i pettini in osso fossero appannaggio dell’elite longobarda,50 per la quale il pettine aveva anche una forte valenza simbolica legata all’importanza della capigliatura, considerata la sede delle forze vitali dell’uomo.51 Come ha messo in evidenza Gasparri, la ritualità legata alla forza magica della capigliatura52 tende a scomparire con lo stanziamento dei Longobardi, tuttavia se ne ravvede un retaggio quale simbolo di status sociale: la lunga capigliatura va a indicare non solo gli individui di stirpe regia ma diventa distintiva anche dell’aristocrazia.53

Infine, il più recente rinvenimento di pettine in osso nel territorio abruzzese proviene dal territorio amiternino e in particolare da una sepoltura rinvenuta presso la chiesa di San Paolo di Barete (AQ). Anche in questo caso il pettine, a doppia fila di denti, è stato rinvenuto in una sepoltura evidentemente privilegiata (T.116), in quanto posta al centro del catino absidale dell’edificio di culto, e ancora una volta era l’unico oggetto di corredo del defunto, il quale è stato giustamente identificato come un’esponente dell’aristocrazia.45 Pertanto non è da escludere che anche in questo caso si possa trattare di un esponente dell’aristocrazia longobarda in quanto ci troviamo in un territorio, l’amiternino,46 dove tale presenza è ben attestata dalle fonti storiche.47 Come a Barete anche a Valva e, in via ipotetica a Loreto Aprutino, i pettini in osso si trovano in sepolture privilegiate poste all’interno di edifici di culto associati ad aree funerarie, pertanto sarebbe da valutare

Giostra 2012a, p. 284. Il pettine, pur essendo un oggetto di uso quotidiano, era un bene prezioso in quanto la produzione di tale manufatto richiedeva una manodopera specializzata: per questo i pettini deposti nelle sepolture si possono considerare simboli del potere economico e, di conseguenza, della distinzione sociale dell’inumato, cfr. De Marchi 2007, p. 67. 50 Che la pettinatura fosse un elemento distintivo di questo popolo è noto, come è noto il passo di Paolo Diacono in cui si fa riferimento alla capigliatura “Ibi etiam praefata regina (Teodolinda) sibi palatium condidit, in quo aliquit et de Langobardorum gestis depingi fecit. In qua pictura manifestare ostenditur, quomodo Langobardi eo tempore comam capitis tondebant vel qualis illis vestitus qualisve habitus erat. Siquidem cervicem usque ad occipitium radentes nudabat, capillos a facie usque ad os dimissos habentes, quos in utramque partem in frontis discrimine dividebant…” (Pauli Diaconi, Hist Lang, IV, 22, p. 200). Del resto, ancora dopo la caduta del regno longobardo doveva vigere l’usanza di portare i capelli lunghi, o comunque con un taglio distintivo della popolazione, se nel 776 gli aristocratici spoletini e reatini che si erano rifugiati presso papa Adriano I a Roma, si fecero tagliare i capelli “more Romanorum” (Liber Pontificalis, I, Vita di papa Adriano (772–795), 97, p. 495). 51 De Marchi 2007, p. 67; Giostra 2007a, p. 66–67. 52 I gesti legati alla capigliatura ricorrono soprattutto nell’ambito militare, come per esempio il gesto di pettinarsi prima della battaglia, o il taglio di barba e capelli come iniziazione dei giovani guerrieri. Il guerriero, infatti, era riconoscibile dalla lunga capigliatura e dalla barba in cui, secondo la credenza, aveva sede la forza del combattente; cfr. Giostra 2007b, pp. 321–322. 53 Gasparri 1983, pp. 140–151. Per i Longobardi la capigliatura assume una particolare valenza magica e religiosa soprattutto in ambito militare e sociale, tanto che la stessa legislazione prevede una serie di normative che proteggono i capelli e la barba dell’uomo libero e, di contro, prevedono come pena la declavatio soprattutto per coloro che si fossero macchiati di tradimento. La capigliatura aveva un forte valore simbolico anche per le donne, le quali quando venivano date in sposa accorciavano i capelli che avevano fatto crescere fino a quel momento, mentre le fanciulle che rimanevano in casa continuavano a portare i capelli lunghi; cfr. anche Comba 2004, pp. 164–165; Giostra 2011a, p. 23, n. 41. 48 49

43 Il rinvenimento, infatti, risale al 1936 quando in località Sant’Agostino durante i lavori per lo scavo di un pozzo, furono messe in luce le tombe a camera ellenistiche. Purtroppo la documentazione relativa al ritrovamento è andata perduta mentre i materiali, dopo una lunga giacenza nei magazzini del Museo Nazionale Romano, sono tornati in Abruzzo nel 2001, in occasione della mostra “Il Tesoro del lago. L’archeologia del Fucino e la collezione Torlonia”; Antonelli, Tornese 2001, p. 324. 44 Paroli 1996, p. 192, tav. 54a. 45 Redi 2014, p. 37; Di Pietro 2014, pp. 255–257, tav. VII. 46 L’amiternino si riferisce al territorio amministrato dalla città di Amiternum, oggi corrispondente a un’ampia area a nordovest de L’Aquila. 47 L’attestazioni più antica della presenza longobarda nel territorio amiternino è direttamente legate all’autorità ducale: infatti nel 763 è attestata una curtis ducale amiternina con una considerevole estensione di terra a coltura (RF II, doc. 53, p. 57, anno 763). Per le sintesi sul territorio amiternino in età longobarda si rimanda a Giuntella 2003b, pp. 763–799 e Antonelli, Tornese 2012, pp. 879–908.

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5.10 Chieti (Teate Marrucinorum) fra tarda Antichità e alto Medioevo: nuove acquisizioni dall’area della Civitella Martina Pantaleo, Enrico Siena, Luciana Tulipani Collaboratori esterni della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Abruzzo [email protected], [email protected], [email protected] Abstract: The municipium of Teate Marrucinorum (Chieti) stands on the top of a hill in the midAdriatic area, adjacent to Ostia-Aterni (Pescara), crossed by the via Claudia Valeria. Archaeological data dating to Late Antiquity have come from the area of the amphitheatre (Civitella), where the excavations have reported, together with cases of dispossession and collapse (ruins), a reuse of the public buildings for purposes relating to craft and burial, and have permitted us, thanks to the recovery of a fair amount of pottery, to initiate studies on commerce and manufacture. The excavation has brought to light some burials, mostly of adults. One of them had a 7th century bone comb. Next to the northern entrance of the amphitheatre, a pottery kiln was found, used for the production of painted ware. Inside a Roman cistern, 3rd- and 4th-century fineware and four 4thcentury folles have been also found. Keywords: Chieti; Amphitheatre; Late Roman kiln; Red painted ware production.

Introduzione

battuto di terra e a un focolare.3 I dati archeologici più importanti sulla fase tardoantica di Teate provengono senza dubbio dall’area dell’anfiteatro della Civitella, costruito nel I secolo d.C. nella fascia urbana periferica sudoccidentale in connessione con l’ingresso in città della Via Valeria.4 In particolare, scavi effettuati nel 1982 e nel 1994–1995, hanno documentato un riuso funerario e artigianale dell’edificio per spettacolo.5

Il municipium di Teate Marrucinorum (odierna Chieti) sorge in area medioadriatica su un sistema collinare, prossimo al porto di Ostia-Aterni (Pescara), attraversato dalla Via Claudia Valeria. L’età severiana segna un punto di svolta nella storia urbana di Teate in quanto si assiste all’esaurirsi progressivo del clima di grande fervore edilizio che aveva condotto tra I e II secolo alla riqualificazione in chiave monumentale della città.1

Le indagini archeologiche condotte nel 1982 è segnalato il ritrovamento di una sepoltura in “fossa terragna” allineata al muro del podio.6 Nel 1994–1995 furono rimesse in luce nove inumazioni, una nell’arena davanti al muro del podio, le altre allineate lungo i muri dei due accessi all’anfiteatro: rispettivamente cinque presso l’ingresso nord e tre presso

Scarse sono le fonti scritte per il periodo tardoantico: la città è menzionata nell’Itinerarium Antonini e nella Tabula Peutingeriana.2 Riguardo alle informazioni archeologiche, indagini condotte nel 1991 nel centro storico della città hanno documentato, nel principale quartiere residenziale romano, situato nei pressi dell’area forense, una continuità d’uso di una domus tardo repubblicana (attuale proprietà De Caro), caratterizzata da fasi di ristrutturazione edilizia, che coinvolgono l’adiacente via publica, che viene inglobata nella casa. Lo scavo ha rimesso in luce livelli con vasellame di produzione africana di IV–V secolo, in particolare piatti e tegami associati a resti faunistici e carboni relativi a un piano di frequentazione in semplice

Chieti. Scavo nella proprietà di Caro (29 ottobre – 15 novembre 1991). Relazione; Chieti. Scavo nella proprietà di Caro (29 ottobre – 15 novembre 1991). Giornale di scavo, elaborati di E. Marino della Fazia. La documentazione di scavo è stata visionata nel 2014 presso gli Uffici della Direzione del Museo archeologico ‘La Civitella’. Vedi Campanelli 2008, Scheda Teate Marrucinorum: origine e sviluppo della città romana, B. Casa della Palmetta (Via Romanelli), Tav. XLIXb. 4 Campanelli 2008, Scheda Teate Marrucinorum: origine e sviluppo della città romana, 16. Anfiteatro, Tav. XLIXc. 5 Si deve a Adele Campanelli l’inizio della ricerca archeologica nell’area dello stadio di calcio di Chieti che ha condotto alla scoperta dell’anfiteatro e alla riqualificazione dell’area, oggi sede del complesso archeologico dell’anfiteatro e del Museo Archeologico Nazionale “La Civitella”, inaugurato nel 2000. A Adele Campanelli desidero esprimere un sincero ringraziamento per avermi consentito di affiancarla negli allestimenti museali della Civitella di Archeologia medievale. 6 Somma 2007, p. 51, fig. 6. 3

Campanelli 2008b. Itinearium Antonini, Tabula Peutingeriana, 6, I ed. Miller 1916. Su Teate tra Tardoantico e Medioevo vedi Somma 2007, pp. 45–50, fig. 3. 1 2

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Martina Pantaleo, Enrico Siena, Luciana Tulipani L’area dell’anfiteatro nella tarda Antichità fu utilizzata anche per un’altra importante funzione documentata dagli scavi: la produzione di ceramica, testimoniata dalla presenza di alcuni scarti di lavorazione di forme chiuse e dal ritrovamento, nel 1994, di una piccola fornace posta nell’ambiente est di servizio dell’ingresso monumentale settentrionale. La camera di combustione è descritta nei diario di scavo come una “struttura di piccole dimensioni (m. 0,34 x m. 1 profonda m. 0,30) ha una forma di campana, a pianta semicircolare, era rivestita sul fondo e sulle pareti di argilla rossastra concotta; essa si allargava verso il lato prospiciente l’ingresso dell’ambiente in quello che doveva essere il praefurnium”. Nella stessa area viene segnalato il ritrovamento di un livello caratterizzato da “una grande quantità” di frammenti di ceramica a bande.13

quello sud. I defunti erano deposti in fosse terragne che, in due casi (TT. 1–2, ingresso sud), presentavano ciottoli, spezzoni di laterizio, scaglie di pietra e cubilia posti di rincalzo lungo le pareti di terra. Unica eccezione la T.5, orientata nord/ ovest-sud/est, del tipo a enchytrismòs (ingresso nord), nella quale era deposto un infante con un chiodo in ferro, un oggetto al quale, nell’Antichità, veniva attribuito un significato apotropaico.7 Presso l’ingresso nord furono rimesse in luce altre due sepolture bisome, purtroppo gravemente danneggiate. Nella prima i defunti erano deposti supini affiancati; la testa della inumazione a est era coperta da un coppo quella a ovest dal fondo di un recipiente di ceramica comune.8 Nella seconda deposizione bisoma “I due corpi sono disposti l’uno sull’altro orientati in direzioni opposte” e le mani del primo inumato presentavano le braccia incrociate dietro la schiena.9

Nel 1982, infine, nel corridoio dell’ingresso nord dell’anfiteatro, fu rimessa in luce una cisterna romana, il cui svuotamento consentì di recuperare un ingente deposito di materiali: elementi di spoglio della decorazione architettonica dell’anfiteatro (rocchi di colonne, chiodi di ferro, grappe di piombo), vasellame ceramico di varie epoche, il cui quantitativo più importante è rappresentato da forme chiuse in ceramica comune d’età tardoantica, e otto monete tra le quali quattro folles del IV secolo d.C.14

Presso l’ingresso sud furono ritrovate tre inumazioni: la T.1 maschile di adulto, deposto supino con le braccia lungo i fianchi con un interessante oggetto di corredo: un pettine in osso decorato, verosimilmente databile nella prima metà del VII secolo;10 la T.2 con “scheletro orientato est-ovest. Posizione supina. La mano destra è sul bacino; la sinistra è lungo il fianco, parzialmente nascosta dal bacino. La testa è reclinata verso destra” e, infine, la T.3 nella quale il defunto con il capo a sud “risulta deposto a pancia in giù, la mano sinistra è chiusa e distesa lungo il fianco la mano destra è aperta. Presenta un frammento di ferro di forma circolare nella zona del bacino”.11

L.T. I materiali Gli interessanti contesti fin qui descritti evidenziano le modalità di utilizzo dell’edificio da spettacolo dopo la sua defunzionalizzazione fra la tarda Antichità e l’alto Medioevo. Dal punto di vista della cultura materiale, nell’attesa di completare l’analisi del materiale rinvenuto, si può preliminarmente tracciare un quadro delle produzioni ceramiche circolanti a Chieti in epoca postclassica.

Di notevole interesse sono anche i riferimenti presenti nella documentazione (1994–1995), circa il ritrovamento di consistenti livelli caratterizzati da scaglie di lavorazione e frammenti di elementi decorativi in pietra, che attestano un’intensa attività di spoliazione e rilavorazione in loco degli apparati lapidei dell’edificio d’età classica, collocata dagli scavatori, in via ipotetica, in età altomedievale.12

Il riempimento della cisterna sopra citato induce ad alcune riflessioni riguardanti la funzione e il periodo di utilizzo della stessa. La presenza di boccali in ceramica da mensa, utilizzati prevalentemente per attingere acqua, indicherebbe, almeno dai dati finora analizzati, che la struttura mantiene la sua funzione primaria di conserva idrica per un lungo periodo. L’analisi delle tipologie formali dei contenitori, infatti, riconduce a produzioni comprese fra il III e la fine del VI secolo d.C. Quest’ultimo dato

7 Campagna di scavo Civitella 1994 marzo–luglio 1994. Ex saggio I 1991–1992. La documentazione di scavo delle campagne archeologiche 1994–1995 è stata visionata pressogli Uffici della Direzione del Museo archeologico ‘La Civitella’. 8 Chieti – Anfiteatro. Giornale degli scavi maggio–luglio 1994. 9 Campagna di scavo Civitella 1994 marzo–luglio 1994. Ex saggio I 1991–1992. Elenco UU.SS.; Giornale degli scavi Lunedì 18 aprile 1994. 10 Chieti – Civitella, Diario di scavo. Ottobre 1994–maggio 1995, Saggio VI ingresso meridionale, 15 dicembre 1994. Somma 2007, p. 50. 11 Chieti – Civitella, Diario di scavo. Ottobre 1994–maggio 1995, Saggio VI ingresso meridionale, 15 dicembre 1994; 25 gennaio 1995. 12 Annotazioni sui saggi IV e V . La maggior parte dei reperti rinvenuti in questi saggi è costituita da schegge di pietra. Tra i materiali ceramici ci sono frammenti di ceramica comune e dipinta a bande. Molte grappe d’aggancio di lastre dipiombo. Annotazione sui saggi VIII e VIII bis. Nei saggi VIII e VIII bis la maggior parte dei reperti è costituita da materiali in pietra. Sono molti frammenti di schegge di piccole e medie dimensioni, alcuni di grandi dimensioni. (…) Molto interessante è la presenza di gradini in questa zona dell’area che era la cavea (…) anche qui è avvenuta la spoliazione forse per la calcara (…); Chieti Civitella. Inventario di scavo. Campagne di scavo 1994–1995. Elenco reperti per Unità Stratigrafiche degli Scavi 1984, Scavi 1988, Scavi 1991, Scavi 1994–1995.

Relazione di sintesi sui risultati degli scavi 1994–1995 redatta nel 1997 in occasione dell’allestimento del Museo La Civitella di Chieti, a cura di E. Marino della Fazia e P. Spaziano. Vedi inoltre: Chieti – Civitella. Giornale di scavo 22–24 giugno 1994, 5 luglio 1994, Ingresso Nord, Ambiente Est. Sulla base di questo ritrovamento sarebbe di grande importanza sottoporre ad analisi di laboratorio gli scarti di fornace, fondamentali per attestare con sicurezza una produzione locale di ceramica dipinta a bande. 14 Numeri inventario 3279 – 3286, Registro Numismatica Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo. Nella cisterna sono stati ritrovati quattro folles (un asse, un dupondio e due monete illeggibili). 13

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Chieti (Teate Marrucinorum) fra tarda Antichità e alto Medioevo: nuove acquisizioni dall’area della Civitella induce quindi a ipotizzare la presenza di un insediamento abitativo nell’area circostante quantomeno fino all’alto Medioevo, come indicato anche dalla presenza delle sepolture e della piccola fornace.

produzioni dell’Abruzzo meridionale23 e del Molise24 e più in generale dell’area adriatica.25 Significativo a questo punto sottolineare come anche queste produzioni trovino confronti in area nordafricana.26

Il materiale ceramico finora analizzato, oltre che dal riempimento della cisterna, proviene dalle stratigrafie del corridoio dell’ingresso nord dell’anfiteatro. In questa sede viene presentato il materiale maggiormente indicativo dei traffici commerciali e delle influenze culturali prevalenti nella città di Chieti fra il IV e il VI secolo d.C.

Questo lavoro costituisce solo l’inizio di un progetto di ricerca sulla Chieti altomedievale e dal momento che la gran parte del materiale ceramico dei contesti fin qui descritti è ancora in fase di studio, si auspica che il progredire delle ricerche possa meglio precisare quanto sopra scritto, apportando nuovi dati utili alla conoscenza delle logiche insediative della città.

I frammenti di Terra Sigillata Africana sono riferibili a un arco cronologico piuttosto ristretto compreso fra l’inizio del IV e tutto il V secolo d.C. Si tratta unicamente di forme aperte, la gran parte delle quali è riconducibile alle numerose varianti del piatto Hayes 61 (nn. 1–6) ampiamente diffuso, in questo periodo, nella bassa valle del fiume Pescara,15 così come in tutto il bacino del Mediterraneo. La mancanza di forme chiuse confermerebbe ancora una volta la difficoltà e antieconomicità del trasporto di questi vasi, certamente più fragili e ingombranti rispetto alle impilabili forme aperte,16 sovente utilizzate come merci di accompagno ai carichi di anfore nelle grandi navi onerarie. La loro diffusione a Chieti, come negli altri contesti della bassa Val Pescara, indica che i porti di quest’area costituivano importanti terminali dei traffici con l’Africa proconsolare. La massiccia presenza di ceramica di importazione africana, inoltre, pone in risalto l’assenza di coeve produzioni di ceramiche dipinte Medio Adriatiche, ampiamente diffuse invece nell’area centrosettentrionale dell’Adriatico. Stretti contatti con l’Africa si evincono inoltre anche nelle produzioni di ceramica comune; in particolare la bottiglia n. 19 e le brocche nn. 17–18 trovano significativi confronti con produzioni nordafricane.17

E.S., M.P. Catalogo Ceramica Comune 22836: boccale monoansato, corpo biconico, orlo dal margine arrotondato leggermente estroflesso, ansa a nastro complanare all’orlo in opposizione a un beccuccio versatoio, fondo ad anello (Tav. II, n. 12). Databile agli inizi del III sec. d.C.27 59214: collo di boccale dalle pareti svasate, orlo introflesso dal margine ingrossato, ansa a nastro impostata subito sotto l’orlo (Tav. 2 n. 24). Databile agli inizi del III sec. d.C.28 59215: collo di boccale estroflesso, orlo piatto dal margine leggermente arrotondato, presenta una presa a rocchetto applicata sul bordo, ansa a torciglione (Tav. 2, n. 21). Databile al II sec. d.C.29 59217: collo di boccale estroflesso, orlo leggermente ingrossato internamente, presenta una presa a rocchetto applicata sul bordo, ansa a nastro (Tav. 2 , n.23). Databile al II–III sec. d.C.30

I frammenti di ceramica dipinta a bande rinvenuti appartengono nella totalità a forme chiuse e sono riconducibili alle principali tipologie diffuse nell’Italia peninsulare18 fra la fine del IV e il VI secolo d.C.; a un primo esame sembrano infatti assenti produzioni con decorazione dipinta ascrivibili ai secoli successivi.19 Sono presenti esemplari decorati con linee sottili20 in bruno, rosso o arancio con sintassi decorative a scaletta, a graticcio o fitomorfa riconducibili alla produzione definita tipo val Pescara21 (nn. 33–35, 37–38) e tipo Crecchio.22 Non mancano, inoltre, esemplari decorati con ampie pennellate in bruno o rosso (nn. 36–39) che trovano confronto con

59219: collo di anfora biansato, orlo dritto, ingrossato esternamente, dal margine arrotondato, anse a nastro, impostate sotto l’orlo (Tav. III, n. 40). Databile metà II metà III sec. d.C.31 Somma, Aquilano, Cimini 2009, p. 85, fig. 7, nn. 3–4. Rossi 2010, pp. 6–13. 25 Nello scavo di piazza Ferrari a Rimini esemplari con analoghe sintassi decorative (Negrelli 2008a, p. 62) provengono dagli strati di (969 e 998) databili tra la seconda metà del V secolo d.C e la prima metà del successivo (Negrelli 2008a, p. 103). In Molise, nello scavo della villa rustica di San Martino in Pensilis (CB), esemplari analoghi provengono dalle stratigrafie databili a partire dalla prima metà del V sec. d.C. (Rossi 2010, pp. 10, 20, fig. 1). 26 Fulford 1984a, p. 226, fig. 89; Bonifay 2004, p. 302, fig. 169. 27 Tirelli et al. 1990, pp. 144–148, tav. 10–11; Olcese 1993, p. 283, n. 308; De Felice 2000, p. 256, tav. 3, n. 11.1. 28 De Felice 2000, p. 256, tav. III, tipo 14.1. 29 Fiumi, Prati 1983, n. 6.21, p. 123; Cipriano, De Fabrizio 1996, p. 209, fig. 7, n. 3; Brogiolo, Gelichi 1998c, fig. 1.3, pp. 214–215. 30 Olcese 1993, p. 285, n. 313. 31 Aldini 1993: anfora tipo Forlimpopoli, Tav. 59, n.13; confrontabile con anfore analoghe prodotte nella fornace di Spoltore – S. Teresa. Lo 23 24

Siena, Terrigni 2008, p. 546. Anselmino et al. 1986, p. 51. 17 La mancanza di analisi petrografiche non permette di definire se gli esemplari in questione siano di produzione locale o di importazione. 18 Per una disamina sulle produzioni di ceramica dipinta in Abruzzo in rapporto con le altre realtà peninsulari si veda De Iure 2015. 19 Redi et al.2014, tav. 2, n. 10 20 Significativi sono i confronti con le produzioni tardoantiche definite a “tratto minuto” (gruppo II e III) dal teatro romano di Venafro datata a partire dal V sec. d.C. (Genito 1998, pp. 708–711). 21 Staffa 1998; 2004b. 22 Staffa, Pellegrini 1993, pp. 47–48. 15 16

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Martina Pantaleo, Enrico Siena, Luciana Tulipani scanalata, applicata sotto l’orlo, fondo a disco (Tav. II, n. 17). Databile al IV–V sec. d.C.38

59221: piccola bottiglia dal corpo arrotondato, alto collo cilindrico, orlo molto estroflesso dal margine arrotondato e appiattito superiormente, ansa a nastro bisolcato impostata sotto l’orlo (Tav. II, n. 19). Databile al V sec. d.C.32

59270: ciotola carenata, orlo dritto, margine arrotondato, la fascia superiore è sottolineata da scanalature, fondo ad anello. La superficie è coperta parzialmente da vernice rossa (Tav. III, n. 32). Databile al IV–prima metà V sec. d.C.39

59254: boccale mononsato, alto collo svasato e trilobato, orlo dritto dal margine leggermente assottigliato, ansa a nastro applicata appena sotto l’orlo, corpo globulare, fondo piatto (Tav. II, n. 14). Databile VII–VIII sec. d.C.33

59284: frammento di olla, orlo dritto, leggermente estroflesso, margine arrotondato, segnato internamente ed esternamente da una piccola scanalatura, pareti svasate. La superficie è percorsa da una decorazione a serie parallele di rotellature incise (Tav. III, n. 25). Databile al IV–V sec. d.C.40

59263: boccale monoansato, corpo biconico, orlo dal margine arrotondato leggermente estroflesso, ansa a nastro, scanalata, complanare all’orlo in opposizione a un beccuccio versatoio, fondo ad anello (Tav. II, n. 11). Queste tipologie di orli si affermano nell’Italia centromeridionale a partire dalla metà del VI sec.d.C. e in Abruzzo trovano ampia diffusione per tutto il VII sec. d.C.34

59292: tegame dal fondo piatto indistinto, orlo dritto, margine introflesso ingrossato superiormente (Tav. III, n. 27). Databile al IV–V sec. d.C.41

59265: boccale monoansato, orlo leggermente estroflesso, sottolineato da costolature, dal margine arrotondato, corpo biconico, ansa a nastro, scanalata, applicata appena sotto l’orlo, in opposizione a un beccuccio versatoio, fondo ad anello (Tav. II, n. 13). Per confronti e datazione vedi scheda inv. 59263.

59296–59297: casseruola frammentaria, orlo fortemente introflesso con margine a listello scanalato superiormente, becco versatoio a sezione circolare, orlo trilobato, margine arrotondato leggermente ingrossato, fondo piatto indistinto, la parete, subito sotto l’orlo, è percorsa da una decorazione incisa a onde (Tav. III, n. 26). Databile al V– VII sec. d.C.42

59266: boccale biansato, orlo leggermente estroflesso sottolineato da più costolature, margine arrotondato, corpo biconico, anse a bastoncello complanari all’orlo, fondo ad anello (Tav. II, n. 15). Databile VII–VIII sec. d.C.35

157466: frammento di orlo di catino, orlo a fascia leggermente estroflesso con margine piatto scanalato superiormente, all’esterno è presente una fascia sovrapposta decorata a impressioni digitali (Tav. III, n. 28). Databile al III sec. d.C.43

59267: boccale ansato, collo molto estroflesso, margine arrotondato, corpo biconico, ansa a nastro impostata subito sotto l’orlo, fondo a disco (Tav. II, n. 18). Databile al III–V sec. d.C.36

157467: frammento di catino troncoconico, con una leggera carenatura, orlo a tesa, margine piatto scanalato superiormente (Tav. III, n. 29). Databile al V sec. d.C.44

59268: frammento di boccale, orlo a fascia scanalata con beccuccio versatoio, margine arrotondato e ingrossato, ansa a bastoncello con presa a rocchetto applicata direttamente sull’orlo, corpo biconico, manca del fondo, presenta una decorazione incisa a onde sulla spalla (Tav. II, n. 16). Databile al VI sec. d.C.37

157468: frammento di boccale, corpo biconico, ansa a bastoncello con presa a rocchetto applicata sull’orlo mancante (Tav. II, n. 20). Databile al III sec. d.C.45

59269: boccale ansato, collo molto estroflesso, orlo sottolineato da costolature, margine ingrossato e arrotondato, corpo piriforme, ansa a bastoncello,

Blake 1977, pp. 644–645; Lavazza, Vitali 1994, pp. 27–28. Palermo 1990, p. 371 n. 42 in vernice rossa; per la forma Turchiano 2000, p. 361, tav. VI, n. 7.1. 40 Mercando 1979, fig. 137, d.1; Brogiolo, Gelichi 1986, pp. 295–296 (con una sola riga di tacche); Cortellazzo 1989, pp. 115–117, fig. 27.2; Guglielmetti et al. 1991, pp. 211, 215, tipo 15, var. 2; Staffa 1991, p. 321, n. 48; Staffa, Odoardi 1996, p. 176, n. 9f. 41 Annese 2000, p. 321, tav. XVI, tipo 1. 42 Fiumi, Prati 1983, p. 121, n. 62; La Rocca Hudson, Hudson 1987; Olcese 1993, p. 319; Lusuardi Siena 1994b, p. 61, tav. 3; Staffa, Odoardi 1996, p. 183, n. 35; Ricci 1998, p. 362, fig. 6, n. 1 (datato VII d.C.); Leone 2000, p. 418, tav. XIII, n. 6.2 (datato fra fine IV e V d.C.); Sannazaro 2004, p. 111, fig. 3a datato VI–VII d.C. 43 Giuntella 1985b, pp. 80–81; De Felice 2000, p. 254, tav. I, n .5.1 (da un contesto degli inizi del III sec. d.C.); materiali inediti dalla fornace di S. Teresa di Spoltore. 44 Annese 2000, p. 310, tav. X, n. 5.1 (bacino tipo Calle); Pianabella (Ostia) in Ciarrocchi et al. 1998, p. 397, fig. 4, n. 1. 45 De Felice 2000, p. 254, tav. I, n. 5.1 cfr materiali inediti dalla fornace di S.Teresa di Spoltore. 38 39

studio delle fornaci è stato oggetto di una tesi di laurea dal titolo: Una produzione di ceramica comune di età romana dalla provincia di Pescara, le fornaci antiche in località Santa Teresa di Spoltore, discussa da M. Terrigni (Università degli studi G.d’Annunzio Chieti, facoltà di Lettere e Filosofia A.A. 2006/07, relatore Prof. O. Menozzi correlatore dott. A.R. Staffa); per la descrizione del sito cfr. Staffa 2003b, pp. 132–135. 32 C.A.T.H.M.A. 1991, p. 31, forma A type 2, tav. 6. 33 De Benedictis 1991, pp. 353, n. f60; Puglisi, Sardella 1998, p. 781, fig. 2; Ricci 1998 p. 367, n. 9 (margine e ansa) datato VII d.C.; Varaldo 2004, p. 129, fig. 7 n. 9, datato VII–VIII d.C. 34 Redi et al. 2014, tav. 2, n. 1. 35 Staffa, Odoardi 1996, p. 189, n. 53 (margine e ansa); Puglisi, Sardella 1998, p. 781, fig. 2; Ricci 1998, p. 367 n. 9 datato VII d.C.; Varaldo 2004, p. 129, fig. 7, n. 9, datato VII–VIII d.C.. 36 Blake 1977, pp. 644–645; Pavolini 2000, p. 143, n. 46. 37 Staffa 1991, p. 339, fig. 168, n. 158, fig. 69; Lavazza, Vitali 1994, p. 42, tav. 5, nn. 8–9; Paroli, Ricci 2007 (Castel Trosino, T. 166).

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Chieti (Teate Marrucinorum) fra tarda Antichità e alto Medioevo: nuove acquisizioni dall’area della Civitella 157469: frammento di boccale biansato, orlo estroflesso, margine arrotondato, anse, a bastoncello scanalate, applicate sotto l’orlo (Tav. II, n. 22). Databile al III sec. d.C.46

evidenziato da una scanalatura, orlo indistinto sottolineato internamente da una coppia di scanalature; l’interno presenta una decorazione radiale incisa (Tav. I, n. 9). Databile al pieno IV sec. d.C.50

157470: collo di anfora biansato, orlo dritto, profilato a doppia flessione esterna, dal margine arrotondato, anse a nastro, impostate sotto l’orlo (Tav. III, n. 41). Databile metà II metà III sec. d.C.47

157500: piatto con orlo verticale a sezione triangolare leggermente allungato. Prodotto in TSA D (Tav. I, n. 5). Databile all’inizio del V sec. d.C.51 157501: piatto con fondo piano e apodo, orlo verticale a sezione triangolare la cui parte interna risulta leggermente inclinata e sottolineata da una lieve scanalatura orizzontale. Prodotto in TSA D (Tav. I, n. 3). Databile all’inizio del V sec. d.C.52

M.P. Ceramica Dipinta 157388: ansa a bastoncello frammentaria, presenta una decorazione in rosso composta da uno, o forse più cerchi in rosso che la percorrono (Tav. III, n. 31).

157502: frammento di cavetto curvo con porzione di tesa piana riferibile a un ampio piatto forse riconducibile alla forma H59. Prodotto in TSA D (Tav. I, n. 8). Databile al IV–V sec. d.C.53

157391: Frammento di catino ansato, troncoconico, orlo dritto, margine ingrossato internamente e arrotondato, la parte superiore è percorsa da una decorazione incisa a onde (Tav. III, n. 30).

157503: piatto con fondo piano e apodo sottolineato da una leggera scanalatura sia all’interno, sia all’esterno, orlo verticale a sezione triangolare leggermente allungato. Prodotto in TSA D (Tav. I, n. 4). Databile all’inizio del V sec. d.C.54

157392: frammento di parete di boccale, è coperto da una decorazione dipinta in rosso e bruno composta da una fascia in bruno che delimita una serie di linee convergenti a spina di pesce in rosso (Tav. III, n. 38).

157504: piatto con orlo verticale la cui parte esterna risulta leggermente a sbalzo. Prodotto in TSA D (Tav. I, n. 2). Databile alla metà del V sec. d.C.55

157393: frammento di olletta, corpo biconico, orlo dritto, leggermente ingrossato all’esterno, margine arrotondato. La parete è percorsa interamente da una decorazione dipinta in rosso composta una serie di archetti affiancati subito sotto l’orlo (Tav. III, n. 33). Databile al V sec. d.C.48

157505: ampio piatto con orlo indistinto e margine arrotondato. Prodotto in TSA D (Tav. I, n. 7). Databile al IV–V secolo d.C.56 157506: ciotola dal profilo troncoconico con tesa orizzontale lievemente incavata e orlo dal margine ingrossato lievemente pendulo decorato da una sequenza di tacche incise. Prodotto in TSA C3/C4 (Tav. I, n. 10). Databile al IV–V sec. d.C.57

157442: frammento di spalla di boccale, presenta una decorazione non identificabile in bruno (Tav. III, n. 36). 157443: ansa a nastro frammentaria, è percorsa da una decorazione in bruno, i margini sono sottolineati da una fascia campita da puntini irregolari (Tav. III, n. 39).

157509: piatto con orlo a sezione triangolare la cui parte esterna risulta fortemente a sbalzo, all’interno la differenziazione fra parete e orlo è sottolineata da una lieve scanalatura orizzontale. Prodotto in TSA D (Tav. I, n. 6). Databile alla metà del V sec. d.C.58

E.S. Terra Sigillata Africana

E.S.

157366: piatto con fondo piano e apodo, orlo verticale a sezione triangolare la cui parte interna risulta leggermente inclinata e sottolineata da linea orizzontale (Tav. I, n. 1). Prodotto in TSA D. Databile fra la prima metà del V sec.d.C. e con attardamenti fino al 480 d.C.49

Hayes 1972, p. 74 , fig.13; forma 52 n.17 B con datazione fra il 280/300 fino al tardo IV sec. d.C.; Atlante I, tav. LXXVI n. 5 metà IV sec. d.C. 51 Bonifay 2004, fig. 90, n. 3; forma Hayes 61A/B2. 52 Bonifay 2004, fig. 90, n. 1, forma Hayes 61A/B1. 53 Hayes 1972, p. 98, n. 20; forma 59B con datazione fra 320–420 d.C. 54 Bonifay 2004, fig. 90, n. 3; forma Hayes 61A/B2. 55 Hayes 1972, p. 103, n. 29; forma 61B con datazione fra 400–450 d.C.; Bonifay 2004, fig. 90, n. 6; forma Hayes 61A/B3, databile fra la prima metà del V d.C. e con attardamenti fino al 480 d.C. 56 Hayes 1972, p. 68 n. 60; forma 50B con datazione fra 350–400 d.C.; Atlante I, tav.XXVIII, n.12, forma Lamboglia 40 databile 300–360 d.C. 57 Hayes 1972, p. 118, fig. 20; forma 71, n.1 con datazione fra 375– 400/420 d.C. 58 Bonifay 2004, fig. 91, n. 34; forma Hayes 61B. 50

157368: ciotola dal profilo emisferico, fondo piano Turchiano 2000, p. 263, tav. VI, n. 10. Variante di anfora tipo Forlimpopoli simile a un esemplare rinvenuto ad Atri (TE): Cipriano, Carre 1989, p. 89, fig. 18. 48 Leone 2000, p. 407, tav. VI, n. 18. 49 Hayes 1972, p. 103 n. 13; forma 61A con datazione fra 325–400/420 d.C.; Bonifay 2004, fig. 90, n. 8; forma Hayes 61 A/B3. 46 47

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Martina Pantaleo, Enrico Siena, Luciana Tulipani Acknowledgements: Negli anni ’90 le indagini archeologiche presso il sito della Civitella di Chieti sono state dirette dall’allora funzionaria di zona della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo A. Campanelli; le attività tecnicoscientifiche svolte sul campo sono state curate da E. Marino della Fazia e P. Spaziano. Un doveroso ringraziamento a Adele Campanelli e S. Lapenna, che si sono avvicendate nelle cariche di funzionario di zona e direttrice del Complesso Archeologico La Civitella di Chieti, per aver sostenuto il presente lavoro.

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Chieti (Teate Marrucinorum) fra tarda Antichità e alto Medioevo: nuove acquisizioni dall’area della Civitella

Tav. I. Terra Sigillata Africana.

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Martina Pantaleo, Enrico Siena, Luciana Tulipani

Tav. II. Ceramica comune.

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Chieti (Teate Marrucinorum) fra tarda Antichità e alto Medioevo: nuove acquisizioni dall’area della Civitella

Tav. III. Ceramica dipinta e anfore.

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SEZIONE 6 LA DALMAZIA E L’ILLIRIA

6.1 Economy in the Apsyrtides Archipelago through Late Antique Numismatic Finds Zrinka Ettinger Starčić Lošinj Museum [email protected]; [email protected] Abstract: Interpretation of the numismatic findings is important for research in political and economic history. Transportation and trade are essential elements in any economy and their flow can be traced through the circulation of money. Late Antique numismatic material from the Apsyrtides islands of Cres and Lošinj reveal the economy of the islands. Keywords: Apsyrtides archipelago; Cres; Lošinj; Trade; Roman coins.

narrowing the possibilities of trade and production.

The North Adriatic as a whole and particularly the islands of Cres and Lošinj are the site of many mythological events which are seen as the main strategic points of maritime trade routes. The amber trade links them with the name Electrides or ‘Amber Islands’, while the name Apsyrtides refers to the voyage of the Argonauts and the tragic destiny of Apsyrtus, the son of the king Aietes of Kolchis. The earliest forms of the name are preserved in the Hellenic and Latin writers (Pseudo-Scylax, PseudoScymnus, Apollonius of Rhodes, Strabo, and Pliny).1

Due to economic stagnation, production was reduced to meet the needs of the market in the area of the northern Adriatic with simple and relatively safe access by sea. The residents of the Apsyrtides, as well as those of the coastal regions of western and southern Istria, had an elusive sense of prosperity because of their continuous communication with other cities and countries of the Mediterranean (Aquileia, Nicomedia, Thessalonica, and Alexandria) and the exchange of goods.

From ancient times, the islands of Cres and Lošinj with the adjacent islands and reefs have presented an unavoidable element in the navigation route through the northern Adriatic, while allows communication from Northern and Central Europe to the Mediterranean.2 The metropolis of the archipelago is Osor (Apsorus), which oversees the trade routes through the Straits of Osor.

Late Antique numismatic material from the Apsyrtides islands of Cres and Lošinj is not as abundant as one would expect. The reason for this is the lack of systematic archaeological research. There are only small bronze denominations presented. The Archaeological Collection of Osor within the Lošinj Museum contains only a few examples of Late Antique coins, while the Cres Museum keeps the eighty-three coins which are the basis of this work.

Interpretation of the numismatic findings is important for research in political and economic history. Transportation and trade are essential elements in any economy and their flow can be traced through the circulation of money.

Late Antique coins from the collection of the Cres Museum cover the period from the beginning of the reign of Emperor Diocletian (284 to 305 AD) to Arcadius (383 to 408 AD). In the turbulent times at the end of the 3rd and the 4th century, the influx of money in all parts of the Empire was uneven. Periodic changes in the amount of money in circulation are most commonly the result of the monetary policy of some Roman rulers, or of government financial policy. After the reorganisation of the Roman Empire, Emperor Diocletian carried out a sweeping monetary reform in 294 AD and introduced a silver coin, known as the Argenteus, together with the Nummus, a coin struck in bronze. In the beginning, by its dimensions and

During the Late Antique period there were no historical events recorded on the archipelago that would point to significant changes in the way of life. Owing to its position outside the impact of military conflict on the borders of the Empire, the end of Antiquity passed almost undetected but the consequences of the crisis in the Empire were definitely visible. It was most evident in the declining intensity of economic power and the disappearance of large markets, 1 2

Zaninović 2005, p. 5; Ettinger Starčić 2013, p. 18. Ettinger Starčić 2013, p. 18.

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Zrinka Ettinger Starčić most prevalent coins were produced in western mints: Siscia and Aquileia, then Roma, Arelate and Ticinium, while the eastern mints were: Cyzicus, Thessalonica and Nicomedia, represented by few examples. Precisely these examples, six coins, testify that trade links still existed, although with somewhat less intensity. Coins minted in Siscia can be taken as an indicator of terrestrial links. By comparison with the numismatic finds on the western and southern coast of Istria (Veštar near Rovinj, the Bay of Verige on Brijuni and the Vižula peninsula near Medulin), it is possible to determine that locations in this geographic area show a similar share of coins from certain mints as well as money circulation.

weight, the Nummus was similar to the Aes coinage from the first centuries of the Empire. At the beginning of the 4th century, the state of crisis was too deep to Diocletian’s reform to become established, so Constantine I (the Great) carried out monetary reforms in 307 and 312 AD, but these were unsuccessful as well. Money inexorably lost its value, size and weight. This is evidenced by a coin of Constantine the Great minted in Ticinium, depicting Sol with the reverse legend Soli invicto Comiti, and an example of the nummus of Licinius minted in the city of Arelate in Gaul, featuring the same legend. Another example of coins produced in eastern mints is a nummus of Licinius with the legend Iovi Conservatori, minted in Cyzicus, together with coins of Crispus with the legend Providentia Caess, minted in Nicomedia. The number of coins from the period of Constantine the Great is considerably larger and they belong to the western mints. The coins of Constantine II, Constans and Constantius II are represented, with their reverse side depicting two soldiers between one or two standards with the legend Gloria exercitvs. This legend and a display on the reverse symbolise the bravery and courage of soldiers in conquering the Barbarians. Emperors Constantius II and Constans tried to stop the fall in the value of money by introducing a new reform in the year 348 AD. After this reform the coins were minted showing the characteristic legend Fel(icivm) Temp(orvm) Reparatio and a fallen horseman; until the year 360 AD this type of money was the most popular over the decade. This legend and display symbolise the return of happy times. The new, heavier coin AE 2 was introduced, around 23 mm in size and 4.5 to 5.4 g weight. Already in 354 AD, this coin was replaced by a lighter one, measuring about 18 mm and weighing about 2.7 g. Emperors Magnentius, Julian II and Gratian also tried to reform the monetary system by introducing a large bronze coin (AE 1 double centenionalis, measuring about 30 mm and weighing about 5.5 g); however, the continuation of the crisis and high inflation were unavoidable. As for the coins from the second half of the 4th century, belonging to rulers Valentinian I, Valens, Gratian, Valentinian II, Theodosius and Arcadius, their mode of display and the legend on the reverse suggest rulers’ efforts to resolve the crisis and restore the Roman state, but they were still made of metal of very poor quality. Promotional series with legends include Spes Reipvblicae (Hope of the Republic), Gloria romanorvm (Glory of the Romans), Reparatio Reipvb(licae) (Restoration of the Republic) or Salvs Reipvblicae (Salvation of the Republic). From the above it can be concluded that all attempts made by the Roman monetary policy during the 4th century were unsuccessful and numerous Late Antique coins, reflecting the then high inflation, only confirm this fact. After Diocletian’s monetary reform there were twenty imperial mints. The only imperial mint in the Croatian historical territory was Siscia. Material examination has confirmed the common opinion that in some areas the most important role in the daily circulation of money was held by those mints operating in the close vicinity. The 496

Economy in the Apsyrtides Archipelago through Late Antique Numismatic Finds

Fig. 1. Constantinvs I, nummus, 20 mm, 2.8 g.

Fig. 2. Crispvs, AE3, 18 mm, 2.4 g.

Fig. 3. Constantinvs I, AE3, 17 mm, 1.3 g.

497

Zrinka Ettinger Starčić

Fig. 4. Constantivs Gallvs, AE3, 17 mm, 2.2 g.

Fig. 5. Constantivs II, AE4, 16 mm, 2 g.

Fig. 6. Map of the Roman Mints since 294 AD, Diocletian’s monetary reform (Kos 1998, p. 195).

498

6.2 Transformation of Roman Agglomerations in Northwestern Croatia Ivana Peškan, Vesna Pascuttini-Juraga Ministry of culture of the Republic of Croatia, Conservation Department of Varaždin, Croatia [email protected], [email protected] Riassunto: Nel territorio nord-occidentale della Croazia sono conosciuti numerosi siti di tradizione romana, sia con caratteristiche urbane sia rurale, che subirono diversi cambiamenti nel corso della tarda Antichità e nei primi secoli dell’alto Medioevo. Alcuni furono abbandonati, ma molti continuarono a essere occupati e ancora oggi sono abitati. In questo contributo cercheremo di sintetizzare le principali tendenze del territorio e delle città, attraverso insediamenti lontani dalle coste adriatiche ma strettamente legati alle vicende della trasformazione che investì il territorio croato nel passaggio dall’Antichità al Medioevo. Keywords: Croatia; Transformations; Late Antiquity; Early Middle Ages.

is engraved IOVIAE.2 The rectangular grid of streets that indicates the position of cardo and decumanus is located in the northeast part of the city and it is still visible today. The finding of the Roman city walls and rich archaeological material prove to us the existence of the Roman settlement of IOVIA beneath the centre of modern Ludbreg.3 The medieval town developed in the same location, over the Roman settlement. The sacred focal point of the city is the church of the Holy Trinity, located on an elevated plateau along the southern edge of the settlement’s centre. It is a well oriented medieval/baroque building.4 Archaeological research within the enclosure wall of the church in 1973 brought to light early medieval jewellery and the remains of architecture (10th–11th centuries), which indicates the continuity of this holy place since the Romanesque period.5 As the church is located near the Roman forum, it is possible that under the present building, multiple layers of the older structures are still hidden.

In the northernmost territory of Croatia, and the valleys of the rivers Drava, Mura and Bednja, there are several Roman agglomerations, on the foundations of which settlement continued through the period of the Middle Ages, continuing the tradition of the Roman agglomerations, and these settlements still exist today. The continuity of inhabitation of the same place at least from Roman times can be proved in: Ludbreg (Iovia), Varaždinske Toplice (Aquae Iasae), Sveti Martin na Muri (Halycanum) and Petrijanec (Aqua Viva). Ludbreg The area of the modern city of Ludbreg is an archaeological site with findings from Prehistory, Antiquity, Late Antiquity and the Middle Ages.1 The agglomeration has continued to exist on the same site from Roman times until the present day. Ludbreg is located about 30 km east of Varaždin, in a fertile valley along the river Bednja, beside the Roman Poetovio–Mursaroad, at a river crossing. During the 19th century, occasional finds of archaeological material in the gardens, orchards, cellars, yards and fields already pointed to a significant Roman layer in Ludbreg, but the exact location and character of the antique settlement was unknown. Of particular importance was the discovery of a stone monument in the mid 19th century that mentions IOVIA – the name of a Roman settlement on the territory of modern Ludbreg. This name was confirmed with later findings of a small stone altar in the Bednja river, on which

1

Sveti Martin na Muri In the northernmost part of Croatia, about 18 kilometres northwest of Čakovec, the village of Sveti Martin na The stone altar is kept in the Gradski Muzej Varaždin (Varaždin City Museum). 3 The Archaeological Museum of Zagreb conducted excavations of a probing nature in the wider area of the town of Ludbreg from 1968 to 1979, and recently (2008–10), new systematic excavations were conducted on the location of ‘Vrt Somođi’, in the central area of Ludbreg, by the Croatian Conservation Institute; for more on this: Vikić, Gorenc, 1981; Gorenc, Vikić 1986; Šiša Wiewegh 2004. 4 Buturac 1984. 5 Šimek 1997, p. 119, n. 355 2

Šimek 1997, p. 119, n. 354.

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Ivana Peškan, Vesna Pascuttini-Juraga of the roads, easily defensible, was certainly suitable for colonisation in the Early Middle Ages.11 The medieval agglomeration moved its centre a bit away from the destroyed Roman forum and from the unregulated thermal springs, but the general position remained the same and the agglomeration prospered, partially because of the use of the thermal springs through the Middle Ages, and it is still an important spa today. The sacred and secular focus of the city, since the Middle Ages, is the church of St Martin, which displays layers of historic styles in architecture and wall painting from the 13th century onwards. The other important religious centre dating from the Middle Ages is the church of the Holy Spirit, in the east end of the city, with a still unexplored medieval layer.

Muri is situated. Favourably positioned on an elevation near the river Mura, the site allow the development of an agglomeration in the earliest periods, as shown by Prehistoric pottery. Below today’s village are traces of a larger Roman agglomeration. Systematic and experimental studies have established the existence of a Roman settlement in an area of about three square kilometres. The quantity and value of the findings from the Roman periodare of particular importance (ancient glass, jewellery, clay oil lamps, a large number of different types of Roman brick, iron keys, as well as the base of an ancient pillar-shaped stone altar dedicated to Jupiter, and a large quantity of pottery finds). They prove that here is located a large settlement from the Roman period, Halycanum (Alicanum), which, during the reign of the Emperor Hadrian, became a municipium.6 In the centre of the modern settlement is a large square plateau, site of the medieval/baroque church of St Martin. The church can be connected with the Knights Hospitallers.7 Around the church, the remains of a Late Antique/Early Christian necropolis from the 5th–6th century were found, and above it, graves which can be dated to the 11th century.8 This confirms the continuity of this sacred space until the present day. Also, we can see the reuse of the strategically important position of this village from the Prehistoric and Roman periods into the Middle Ages.

Petrijanec Petrijanec is a small village with a rich historical layer dating  from Roman times, only partially explored. It is assumed that in the area where Petrijanec is today, the Roman mansio Aqua Viva was located. An important Roman road passed through the village, and archaeological findings – jewellery, marble sarcophagi, urns, a large number of Roman coins and architectural remains – prove that this was the location of a significant Roman settlement.12 With a slightly elevated position, sources of drinking water, a position at a safe distance from the unpredictable river Drava, and the fertile valleys nearby, there has always been an agglomeration here, of a rural character. This agglomeration continued to exist after the Roman period, through the Middle Ages. The archaeological findings from Antiquity are particularly dense in the centre of the village, where the church of St. Peter and several secular public buildings stand today. The medieval remains have been incorporated into the church walls as spolia, proving the continuation of the agglomeration, although it never developed an urban character.

Varaždinske Toplice The exceptional strategic location of Varaždinske Toplice, hidden in the hills, and also the presence of thermal springs, influenced the choice of this location for a settlement and its continuation since pre-Roman times.9 When the Romans occupied this part of Pannonia, they continued to use the thermal water, and the existing settlement was Romanised and named Aquae Iasae. The centre of the city was placed near the thermal springs, and the agglomeration spread following the configuration of the hill, therefore not using the usual rectangular basis for a Roman city. Aquae Iasae prospered from the 1st to the 4th century, as a famous spa. Its popularity initiated the creation of apublic area with high-quality urban equipment – architecture and sculpture.10 The remains of the architecture – temples, forum, and basilica – have been explored and presented, and the remains of high-quality sculptures and reliefs are displayed in a museum. This makes Varaždinske Toplice one of the most important Roman sites in continental Croatia. It is not known in what form this settlement continued to exist after the fall of the Roman Empire; however, its position at the crossing

Roman agglomerations completely abandoned during the 5th century Villae rusticae Kelemen (Šarnica), Tuhovec (Gradišće), Varaždinske Toplice (Gromače 3), Šemovec (Kupinje), Prelog (Ferenčica, Ciglišće, Varošćina).13 These agglomerations of rural character were mainly related to the historical period from the 1st to the 4th century, when they could prosper. They were located near waterways and ancient roads, outside the settlements. A change in the political and security conditions in the Late Antique period meant the end of the existence of villae rusticae, and their abandonment. The exception is in Kelemen, where a villa rustica transformed into a late Roman fortress and archaeological findings prove the structure was used until the late Middle Ages.

Vidović, Pavić 1997, p. 259, note Sveti Martin na Muri. The first written mention of the territory of the present Municipality of Sveti Martin na Muriis associated with the mention of the preceptor of the Knights Hospitallers, in Novi Dvorior/Nova Curia, from the year 1266, which was located near Sveti Martin na Muri: Dobronić 1984, p. 104, p. 159; Zaninović1993, p. 30. 8 Protective research as part of the construction of the office building northeast of the church was conducted by archaeologist Josip Vidović from the Muzej Međimurja Čakovec, 2003. 9 Nemeth-Erlich, Kušan 1997; Gorenc, Vikić 1980. 10 Gorenc, Vikić 1980. 6 7

11 12 13

500

Bekić 2006, pp. 5–67. Šimek 1995. Šimek 1997.

Transformation of Roman Agglomerations in Northwestern Croatia Late Antique settlements

Christian church in Ludbreg), as well as the use of Roman materials to construct buildings in the same positions in the Middle Ages. Also present is the use of the existing urban structure of Roman settlements in the Middle Ages (Ludbreg, some parts of Varaždinske Toplice, Petrijanec, Sveti Martin na Muri). 3. Survival of function: the use of the Roman urban structure and the continuity of urban or rural settlements in the same position (today’s cities of Varaždinske Toplice, Ludreg, and the villages of Sveti Martin na Muri and Petrijanec).

There are several Roman settlements known where complete abandonment occurred during the 5th century. One of them is located along the river Plitvica (Šarnjak) and another is a hilltop settlement twenty miles south of Varaždin (Matušini).14 Conclusions During the 5th century there were fundamental changes in lifestyle in this region. Between the 6th and 7th centuries the ethnic composition of the population changed, which altered values and the relationship towards urbanism, culture and art. Besides the Roman agglomerations of urban or rural character, the Roman road network also survived the test of time. The Romans used the existing, prehistoric roads that followed the rivers, they modernised and improved them, but they also built their own dense road network that connected important agglomerations. These roads were also used during the Middle Ages. With the fall of the Roman Empire and the arrival of new ethnic groups in this region, especially the Slavs, who permanently settled here during the 7th century, there came a change in the use of the urban space, and also the partial destruction and abandonment of Roman agglomerations. The first settlements founded by the Slavs are either near or above the Roman agglomerations and older urban structures, using the existing architecture. For example, it has been proved that there was coexistence of a Roman settlement and a Slavic settlement through the course of the 7th century at the site Stara Ves near Čakovec (the capital of Međimurje County).15 Between the 8th and 9th centuries, the older urban structures were reused and Christianity was accepted. The nucleus of Roman urban agglomerations survived as a heritage from Antiquity, but the new ethnic groups gave it a new function. Studying the transformation of Roman agglomerations in northwest Croatia, and their continuity or discontinuity fromthe turn of the Middle Ages until the present day, it has been observed that in this area there were three options: 1. Complete abandonment of Roman agglomerations during the 5th century, in the Late Antique period (settlements: Šarnjak, Matušini; villae rusticae: Kelemen – Šarnica, Tuhovec –Gradišće, Varaždinske Toplice – Gromače 3, Šemovec – Kupinje, Prelog – Ferenčica). 2. Survival of the structures of Roman agglomerations in the form of reuse of Roman urban areas in the early Middle Ages (renovation ofa Roman basilica into an early Christian church in Varaždinske Toplice, and renovation of Roman thermal baths into an early 14 15

Bekić 2006. Bekić 2006.

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Ivana Peškan, Vesna Pascuttini-Juraga

The map of northwest Croatia

Varaždinske Toplice, Aquae Iasae, archeological site; in the left corner is a fragment of a stone relief, from the museum in Varaždinske Toplice Tav. I.

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Transformation of Roman Agglomerations in Northwestern Croatia

Ludbreg, archaeological site

Petrijanec, archaeological findings - silver plate and coins Tav. II.

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Ivana Peškan, Vesna Pascuttini-Juraga

Sveti Martin na Muri, church of St. Martin - figurative consoles in the sanctuary

Sveti Martin na Muri, church of St. Martin - keystones in the sanctuary which can be connected with Knights Hospitallers. Tav. III.

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6.3 Medulin Bay in Late Antiquity: The Antique and Late Antique Site of Vižula near Medulin, Croatia Kristina Džin,* Igor Miholjek** International Research Centre for Archaeology. Brijuni – Medulin Ivo Pilar Institute, Zagreb, ** Croatian Conservation Institut, Department of Underwater Archaeology

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[email protected], [email protected] Riassunto: In questo contributo vengono presentati i recenti risultati di alcune ricerche archeologiche condotte nella baia di Medulin, Pomer e Premantura, in Istria. L’area rappresenta uno dei luoghi più strategici e importanti dal punto di vista economico per tutto il versante nord adriatico. Al suo interno, nella tarda Antichità si sviluppò, sul luogo di un precedente insediamento romano, un vasto complesso residenziale, con approdi portuali e ambienti di servizio, aree produttive e spazi palaziali, occupati anche nel corso dei primi secoli dell’alto Medioevo. Keywords: Istria; Medulin Bay; Vižula; Late Antiquity; Early Middle Ages.

and the murder of Constantine’s son Crispus in 326 AD, all exerted particular influence on Istria and marked the history and circumstances of life in Medulin Bay and at the residential maritime villa on the Vižula.

The historic, economic and urban development of Istria before Antiquity, in Antiquity and in Late Antiquity cannot be understood without a particular analysis of Medulin Bay, with its modern settlements of Medulin, Pomer and Premantura. Judging from historical sources and archaeological remains, the area in question represented one of the most important strategic and economic points in the northern Adriatic throughout history.

The archaeological excavation, documentation and partial conservation of the walls was conducted from 1995 to 2013. During annual campaigns, the foundation walls of buildings, floor mosaics, thermae and a cistern were uncovered in excavated sectors I, IIa and IIb, located on three ‘terraces’ of the western, coastal area of the peninsula, both on land and underwater. The discovered remains had been built and used in four main phases from the 1st to the 6th century AD, and in intermediate phases (Augustus, Hadrian, Constantine and Early Middle Ages). Architectural continuity was obvious in each new stratigraphic layer. It was observed that certain construction parts and layers were destroyed in Antiquity with the aim of building a monumental, maritime residential villa richly decorated in marble in the Late Antique period of the 4th century AD.

The richness of the natural environment, coastal area, fields and forests of Medulin Bay and Pomer Bay favoured agricultural production, livestock farming, the development of various workshops and particularly the flourishing of trade on a wide scale. Architectural ingenuity and practicality were reflected in residential maritime complexes with annexed production and commercial facilities, numerous rural production centres, piers and docks with warehouses, paved roads and water supply systems, which are all examples of the highest level of civilised achievements. With the stabilisation of Roman rule in Istria following Augustus’ reorganisation of the empire, the area of Medulin Bay experienced architectural activity in full swing. Archaeological evidence does not indicate a recession in the field of architecture despite an agricultural crisis and Domitian’s relevant decree prohibiting the cultivation of grapes and production of wine other than for household needs. At the end of the 3rd century AD, Emperor Valerius Diocletian’s administrative reorganisation annexed Istria to the diocese of Italy, with Milan as its seat. The reign of Emperor Constantine the Great, his struggle against the Emperors Licinius and Maxentius, the edict of tolerance of Christians in 313 AD,

Underwater investigations were conducted almost at the same time as the land investigations. The results of the underwater investigations will allow for a more precise dating of various building phases, and shed more light on the social aspect of the site. An earlier phase of construction, predating the 1st century AD, was not established by the underwater investigations. However, it is interesting that the first review of the recovered material established that it dated from the 1st 505

Kristina Džin, Igor Miholjek to the 5th century AD, while the land investigations show that life continued in this large villa to the end of the 6th century AD, and even into the beginning of the 7th century AD. Certainly, at that point this was no longer life in a luxurious villa, but life in a Late Antique settlement. Further scientific analysis should yield more reliable results.

Vesna Girardi Jurkić, Ph.D. / Kristina Džin, M.A.; underwater investigations headed by: prof. Marijan Orlić, / †Mario Jurišić, Ph.D / Igor Miholjek, archaeologist.

Probe investigations were conducted into underwater constructions. At the moment, the most interesting result is that the probes D, E and F show spoliae were used for the construction of the pier in one of its construction phases. This reused material was once part of a large building, probably a temple, which had fluted columns. In addition, probe E shows that the blocks found in the probe once formed the head of the pier, while the connection with the extension of the pier is not clear, or, more precisely, it does not exist in this section. If material from the temple was used for building the pier, then the pier was not built before the end of the 4th century AD. However, the movable material shows that there is no material dated after the 4th century AD. In any case, the investigation should continue so that this construction may also be finally dated. Also of particular interest is construction H. Further investigations on this construction could indicate a possible new function of the road and give answers to questions related to the water supply on the peninsula. The site is an extremely important and valuable Roman villa site. The complex is exposed to the destructive effects of natural forces and human actions, and it is therefore necessary to continue the protective investigations and to carry on documenting and recording the visible remains so that this valuable complex of great cultural and historical significance can be preserved and adequately presented in the future. Acknowledgements: Land investigations headed by: † prof.

Fig. 1. Aerial view of Medulin Bay.

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Medulin Bay in Late Antiquity: The Antique and Late Antique Site of Vižula near Medulin, Croatia

Fig. 2. Vižula, black and white mosaic floor in area 2, early Christian period.

Fig. 3. Vižula, late antique mosaic in area 44, by hypocaust.

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Kristina Džin, Igor Miholjek

Fig. 4. Vižula, late antique mosaic in areas 50 and 56, on third villa terrace.

Fig. 5. Vižula, late antique fireplace adaptation on mosaic in area 50.

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Medulin Bay in Late Antiquity: The Antique and Late Antique Site of Vižula near Medulin, Croatia

Fig. 6. Vižula, detail of monumental early Christian building inserted in late antique pier.

Fig. 7. Vižula, possible sunken road (costruction H, probe D) with visible pavement.

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Kristina Džin, Igor Miholjek

Fig. 8. Vižula, orthophoto image with marked constructions on land and underwater.

Fig. 9. Medulin Bay, antique and late antique villas.

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6.4 L’abbandono di Burnum: analisi delle fonti storiche e archeologiche e dati sulla cultura materiale Alessandro Campedelli,* Bojana Gruska,* Sara Morsiani** *

DiSCi – sez. di Archeologia, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, **Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per leprovince di Catanzaro Cosenza e Crotone

[email protected], [email protected], [email protected] Abstract: The ancient settlement of Burnum, a Roman fort converted into a town hall at the beginning of the 2nd century AD, stood within a geographical area of great strategic importance. The presence of one of the few points of easy fording of the river Krka (the old Titius) which flows in a deep canyon, was controlled by Rome before the strategic decision to create a place where a military contingent controlled the northern territory of Dalmatia. Then, having pacified the province, they transformed the military site into an urban centre, at a road junction of major importance along the network of links between the Adriatic coast (Senia, Iader, Scardona and Salona) and the inland Danube. The town hall reached the height of its flourishing during the 2nd and 3rd centuries AD, to which period the majority of archaeological materials have been dated. Productions and imports are heavily dependent on the economic possibilities of a community and that of Burnum does not seem to have had any problem. The economics of transit trade guaranteed benefits to the municipality and its residents, thanks to its geographical location and the historical and political context. Information on the site’s last period (4th–5th AD) is almost completely absent, as confirmed by the findings of the archaeological investigations that often struggle to trace levels and structures relating to this period. However, some of the more superficial layers have yielded a number of finds (pottery, glass and coins) that may indicate the terminus post quem for dating the abandonment of the area. Why and when exactly Burnum was affected by a severe crisis is still quite uncertain; it is likely that one cause is to be found precisely in what was the main factor of its development, namely the fundamental role that the caputviae held in communications with the interior. The routes travelled by products, commodities and consumer goods of the 1st–4th AD were now crossed by the armies of the various barbarian tribes that, from the middle of the 5th century AD, came down from the northeast. Constantly, Burnum was threatened by these events and by the intensification of flows of migration in the northern part of Dalmatia, and its safety could not be guaranteed, either by the walls or by its position, and it was abandoned in the 5th century AD. Probably the town lived on labile forms and it did not leave important traces. While some of its inhabitants may have sought refuge in the coastal cities (Scardona), others will have sought shelter in some fortified places in the vicinity (the municipality of Varvaria and Gradine of Kninisko – Mokro Polje), which could have been defended by modest constructions. With the removal of Burnum from the historical scene, the population of the upper valley of the Krka River in the 6th century AD is characterised by small scattered settlements at sites that are naturally protected, including Knin (Ninia). This site assumes the role at this stage of the strategic centre of the roads of northern Dalmatia and the Savia, and perhaps the legacy of the political– administrative part of the territory of Burnum. Keywords: Burnum, Castra; Dalmatia; Material culture; Gothic Wars.

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Alessandro Campedelli, Bojana Gruska, Sara Morsiani Il sito

romanoliburniche guidate da generali di Cesare intorno al 50 a.C, l’avanzata di Aulo Gabinio nel 48–47 a.C., le guerre Illiriche di Ottaviano del 34–33 a.C. e infine gli scontri avvenuti in seguito al Bellum Batonianum tra 6 e 9 d.C.7 Se nella fase finale di conquista dell’Illyricum/ Dalmatia l’area fu occupata probabilmente da accampamenti non permanenti,8 creati dai Romani in occasione dei tanti scontri combattuti contro i Dalmati, sconfitti definitivamente nel 9 d.C. e soprattutto in seguito all’organizzazione della provincia voluta da Tiberio, il guado fu definitivamente controllato grazie alla costruzione di un castrum stativum. Burnum divenne in questo modo una delle due sedi stabili dell’esercito romano in Dalmatia.9

L’insediamento romano di Burnum,1 castrum legionario successivamente trasformato in municipio, si sviluppò all’interno di un’area geografica di estrema importanza strategica: uno dei pochi punti di guado sul fiume Krka, l’antico Titius flumen. Confine naturale tra Dalmati e Liburni,2 la Krka costituì un limite fisico che i Romani furono costretti a superare per riuscire a estendere il proprio controllo sull’intera regione illirica.3 Per specifiche caratteristiche idrogeologiche, proprio in corrispondenza dell’area in cui si sarebbe sviluppato il sito di Burnum, la sponda sinistra del canyon in cui scorre il fiume degrada progressivamente fino a raggiungere il letto fluviale. All’opportunità di accedere in modo agevole al fiume, si aggiunge la presenza qui di un isolotto, una barriera tufacea formatasi in corrispondenza della cascata di Manojlovac, abbastanza esteso da ridurne l’ampiezza e favorirne quindi l’attraversamento (Fig. 1).

Nell’accampamento di Burnum, realizzato sulla sponda destra del fiume a ridosso del canyon, si alternarono nel corso del I secolo d.C. diverse legioni che, a vario titolo, contribuirono alla sua costruzione e al suo rinnovamento. Il nucleo originario, caratterizzato molto probabilmente da un fossato difensivo e strutture in legno con zoccolature in pietra, fu costruito dai soldati della legio XI,10 giunti in Dalmatia intorno al 10 d.C. per sostituire i reparti della legio XX Valeria Victrix che avevano partecipato al bellum Batonianum.11 Ai militari dell’undicesima legione si deve anche la costruzione, intorno al 20 d.C., dell’acquedotto, la cui fonte di approvigionamento idrico si trovava a 33 km di distanza.12

Il controllo dell’area fu garantito già in epoca preromana, come dimostrano le tracce dell’insediamento fortificato (Gradina) sorto sulla sponda sinistra del canyon. Il sito si identifica oggi nei pressi del villaggio di Puljane e in particolare sulla sommità del promontorio che, come una sorta di penisola, si allunga verso il fiume.4 Doveva essere questo uno dei centri, forse il più importante, della comunità autoctona dei Burnistae,5 tribù che Plinio annovera tra le civitates Liburnorum.6

Una significativa fase edilizia, con strutture in pietra e coperture in laterizi, si ebbe probabilmente in età claudia, in un periodo compreso tra il 42 e il 51/52 d.C, sempre a

B.G. Dal castrum alla città

Sulle guerre tra Romani e Dalmati si vedano: Wilkes 1969, pp. 29– 36; Čače 1979, pp. 43–152; Matijašić 2009, pp. 125–181. Che l’area di Burnum sia stata uno dei principali luoghi di battaglia tra Romani e Dalmati è attestato anche da Plinio: Burnum, Andetrium, Tribulium (Tilurium), nobilitata populi Romani proeliis castella (Plin., N. H., III, 142). 8 Fino a qualche tempo fa la presenza di accampamenti provvisori veniva solamente supposta. Grazie all’analisi combinata delle foto satellitari, dei risultati delle prospezioni geofisiche e della campagna di scavo del 2011, oggi è possibile confermare la loro presenza nel settore compreso tra il castrum e l’anfiteatro: Giorgi 2012b, p. 120. 9 Il secondo castrum stativum della Dalmazia fu Tilurium (oggi Gardum, nei pressi della città di Sinj, Croazia centrale), sorto in corrispondenza di un attraversamento sul fiume Cetina (Hippius). Per quanto riguarda la storia del sito si veda: Sanader, Tončinić 2010, pp. 33–53. Non ci sono dubbi sul fatto che la realizzazione di queste due postazioni militari abbia fatto parte di una strategia ben definita di controllo del territorio dalmata. Il fine strategico era quello di tagliare il territorio dei Dalmati in due settori per facilitarne il controllo, garantendo così la sicurezza delle città romane sviluppatesi sulla costa: Wilkes 1969, pp. 91–92; Šašel Kos 2005, pp. 469–470; Periša 2008, pp. 507–517. 10 Nei primi anni dell’Impero questa legione fu stanziata a Burnum (dal 10 al 69 d.C.) per poi trasferirsi in Italia (Tacit., Hist. 2, 67; 3, 50). Non avendo appoggiato, insieme alla legio VII, il tentativo di ascesa al trono imperiale organizzato dal governatore della Dalmazia, Lucio Arrunzio Scriboniano, nel 42 d.C. (Suet., Cla.,13.2; Dio. Cass., 60.15) ricevette dall’imperatore Claudio la denominazione di Claudia a l’appellativo di Pia Fidelis: Campedelli 2007, pp. 14–15; Miletić 2010, pp. 123–124. 11 Stabilitasi a Burnum subito dopo la fine della guerra, la XX legio fu trasferita a Colonia già nel 10 d.C.. La sua permanenza in provincia è testimoniata da tre iscrizioni: CIL III, 2030 (veterano) trovata a Salona; CIL III, 2911 (veterano) rinvenuta a Iader e CIL III, 2836 (militare attivo hastatus prior) scoperta proprio a Burnum: Miletić 2010, p. 120; Campedelli 2012, p. 56. 12 Ilakovac 1982, pp. 45–105; Campedelli 2012, pp. 45–48. 7

L’importanza del guado non sfuggì, dunque, neppure ai Romani che dal I secolo a.C. furono spesso costretti a spingersi nell’alta valle della Krka per ragioni militari. Tra le operazioni che portarono gli eserciti romani nella zona prima della costruzione del castrum di Burnum si possono annoverare le campagne di Gaio Cosconio tra 78 e76 a.C., gli attacchi delle forze di coalizione 1 Il sito corrisponde oggi alla località di Šuplja Crkva chiesa in rovina nei pressi di Kistanje, Croazia. 2 «Arsiae gens Liburnorum iungitur usque ad flumen Titium… Liburniae finis et initium Dalmatiae…», Plin., N.H., III, pp. 139–140. 3 Il fiume scorre per gran parte del suo corso all’interno di un ampio e profondo canyon con pareti quasi verticali che ne rendono difficoltoso l’attraversamento. Questa caratteristica avrebbe potuto costituire prima un ostacolo all’unificazione culturale dei territori che si affacciavano sulle sue rive e successivamente una barriera al collegamento tra la sponda adriatica e il bacino danubiano: Borzić 2007, pp. 163–179. 4 L’altopiano è chiuso verso sud, unico lato non difeso naturalmente, da un terrapieno lungo circa 160 m che presenta una larghezza alla base di circa 30 m e un’altezza di ca 6 m. Anche sul lato orientale dell’altopiano è stato individuato uno sbarramento artificiale, ma di più modeste dimensioni. Una grossa quantità di frammenti di ceramica preromana e romana indica che l’insediamento fortificato ebbe una lunga continuità di vita: Buttler 1933, pp. 192–193; Zaninović 1968, p. 119; Campedelli 2007, p. 60; Zaninović N. 2007, pp. 262–263. 5 Corpus Inscriptonum Latinarum (d’ora in poi abbreviato: CIL) III, 2809. 6 Plin., N.H, III, 139.

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L’abbandono di Burnum: analisi delle fonti storiche e archeologiche e dati sulla cultura materiale opera dell’XI legio, ora però insignita dell’appellativo di Claudia Pia Fidelis.13

Interventi successivi di ristrutturazione e riqualificazione delle strutture militari e un ampliamento dell’anfiteatro furono realizzati invece dai legionari della IIII Flavia Felix che stazionò a Burnum dal 69/70 d.C. all’86 d.C., dopo la partenza dell’XI CPF (Fig. 2).19

Stratigrafia, strutture e materiali individuati in occasione delle trincee realizzate nel 1972–73 dall’Istituto Archeologico di Vienna e dei saggi condotti dal Dipartimento di Storia Culture e Civiltà dell’Università di Bologna negli ultimi dieci anni, mostrano abbastanza chiaramente questa fase costruttiva. Se si considera che la produzione di laterizi, presso le fornaci militari individuate a Smrdelji,14 a opera delle legioni stazionate a Burnum è documentata proprio a partire dal 42 d.C., allora risulta evidente che il sito fu caratterizzato durante il regno di Claudio da un nuovo e programmato rinnovamento strutturale. In aggiunta, due iscrizioni attestano un importante programma edilizio realizzato sotto la direzione del governatore provinciale Publio Anteo Rufo, il quale governò la Dalmatia tra il 50 e il 54 d.C. Il primo documento15 fa riferimento alla realizzazione di lavori edili (faciundo curavit), mentre il secondo,16 molto meno conservato del precedente, termina citando proprio la LEG XI CPF. Anche in questo caso si tratta quindi di un’iscrizione commemorativa riferibile alla costruzione di un qualche edificio donato dall’imperatore ai componenti di questa legione.17

Nella sua forma definitiva il castrum si presentava dunque con una planimetria quadrangolare (m 330 x 295), caratterizzata da angoli arrotondati (coxe), e occupava una superficie complessiva di circa dieci ettari.20 Non si possiedono molti dati archeologici sulle opere difensive di questa fase, tuttavia è verosimile che il perimetro del castrum, forse precedentemente protetto da un fossato con terrapieno retrostante, sia stato ora difeso da mura in blocchi lapidei spesse m 3,5 ca.21 L’organizzazione interna, dettata dalla presenza della via principalis e dalla via quintana, mostrava la tripartizione tipica dei castra stativa dell’epoca, raetentura, principia/latera praetori e praetentura, dove l’area centrale era occupata dagli edifici del quartier generale (principia/praetorium).22 Il settore dei Principia di Burnum, uno dei pochi scavati in modo estensivo in occasione delle ricerche compiute dagli austriaci nel 1912–1913, era caratterizzato da una struttura rettangolare (m 60x40) composta da una corte centrale aperta e da una serie di ambienti, un sacellum absidato e due officia laterali, distribuiti lungo il lato corto settentrionale.23 Integrando la planimetria degli austriaci

A questa monumentalizzazione o “pietrificazione” del castrum appartiene anche la costruzione del primo impianto dell’anfiteatro, realizzato nel settore occidentale a m 500 ca dall’accampamento, e della vicina struttura interpretata come palestra (campus o palestra exercitoria) per le esercitazioni militari.18

Questa legione è testimoniata a Burnum da due iscrizioni funerarie (CIL III, 14995: aquilifer; AÉ 1999, 1238= CIL III, 00394/8: miles) e da numerose tegole bollate. I laterizi attestano una certa attività edilizia svolta dai suoi legionari nell’accampamento, anche se non è ancora possibile precisarla nel dettaglio. Sicuramente durante la sua permanenza a Burnum fu ampliato l’anfiteatro, come documenta l’iscrizione (AÉ 2009, 1032) ritrovata durante lo scavo dell’entrata meridionale. La conclusione dei lavori si data intorno al 76/77 d.C. e si trattò probabilmente di un evergetismo di Vespasiano. 20 Miletić 2010, p. 124; Campedelli 2012, pp. 57–58. 21 Nel 2013 è stato realizzato un saggio archeologico, presso il limite settentrionale del sito, con l’obiettivo di comprendere le soluzione utilizzate dai Romani per la difesa perimetrale dell’insediamento nelle diverse fasi che ne hanno caratterizzato lo sviluppo urbano. Dopo l’asportazione degli strati superficiali, all’interno dei quali erano presenti materiali che coprono un orizzonte cronologico che va dalla fine del I al IV secolo d.C., il proseguo dello scavo ha portato all’individuazione di due paramenti murari in pietra con orientamento estovest. Le due strutture contenevano un riempimento in blocchi irregolari di diverse dimensioni misti a terriccio scuro. L’asportazione del riempimento interno ha permesso di recuperare soltanto alcuni frammenti di un bicchiere a pareti sottili grigie e un frammento di lucerna forse a disco, la cui cronologia si colloca genericamente nella prima età imperiale. Al di sotto di questo riempimento è stato messo in luce un livello di frequentazione caratterizzato da frustoli carboniosi, ossa e frammenti ceramici. Poichè questo strato si imposta direttamente sul banco roccioso naturale, allora viene identificato come il piano riferibile alla prima frequentazione dell’area. Da qui provengono un frammento di terra sigillata orientale, un frammento di bicchiere in pareti sottili e un frammento di coppa tipo “Sarius” in Terra Sigillata norditalica, che si collocano generalmente in età augustea, ma con attestazioni anche nei decenni successivi del I d.C. Seppur sommari, questi dati sembrano suggerire che la costruzione del possente muro perimetrale sia potuta avvenire nella metà del I secolo d.C. 22 Cascarino 2010, pp. 55–65; 109–121. 23 Il sito fu oggetto di indagini archeologiche da parte dell’Istituto Archeologico Austriaco di Vienna in due occasioni. La prima campagna si svolse tra il 1912 e il 1913 e aveva il compito principale di fare chiarezza sulla tipologia architettonica degli archi monumentali ancora visibili in situ, mentre la seconda campagna fu condotta tra il 1973 e il 1974 al fine di revisionare i risultati della precedente: Reisch 1913, pp. 19

13 Le iscrizioni pertinenti a soldati in servizio nell’XI CPF sono: CIL III, 00394/4; 2832; 2833; 2834; 13263; 14321; 14998; 14997/1 (beneficiarius tribuni); 14999; 15004; 15005 = Inscriptiones quae in Iugoslavia inter annos MCMII et MCMLXX repertae et editae sunt (d’ora in poi abbreviato in: ILJug) 2815; ILJug 2812; ILJug 2814; ILJug 0835; ILJug 0836; ILJug 0837; ILJug 0838; ILJug 0839; ILJug 0840. Si possiede la testimonianza anche di un praefectus kastrorum della medesima legione. Si veda a proposito: L’Année épigraphique (d’ora in avanti abbreviato AÉ) 1925, 133): Kubitschek 1924, p. 216; Betz 1938, p. 69; Suić 1970, pp. 94–104. 14 Nel 1895 Lujo Marun ricorda nei suoi diari la casuale scoperta di quattro fornaci per la produzione di laterizi nel piccolo villaggio di Smrdelji, 13 km più a ovest di Burnum. La scoperta di una discreta quantità di mattoni e tegole recanti bolli militari della legio XI CPF, IV Flavia e VIII Augusta in questo sito, costituì la prova per attribuire le fornaci all’accampamento militare: Pedišić, Podrug 2007, p. 85. 15 CIL III, 14987=ILJug 2809. 16 ILJug 2810. 17 Abramić 1924, pp. 221–225; Medini 1967, p. 63; Starac 2000, p. 111; Miletić 2010, pp. 125–126; Campedelli 2012, p. 59. La riqualificazione del castrum e la realizzazione dell’anfiteatro sono una testimonianza della politica riorganizzativa di Claudio in Dalmatia e, nello specifico, un donativo ai legionari dell’XI legione per la lealtà dimostrata in occasione del tentativo di colpo di stato del 42 d.C. 18 Nel suo complesso l’anfiteatro misurava m 130 x 117 e poteva ospitare da 6000 a 10000 spettatori: Cambi et al., 2006, pp. 5–29; Campedelli 2007, pp. 18–20. Anche la realizzazione della prima fase del campus, una grande struttura quadrangolare (m 160 x 160) con portico su tre lati aperti su una vasta area libera al centro, viene fatta risalire a questo periodo. Poichè dagli strati più superficiali provengono tegole della legio VIII Augusta, è probabile che l’edificio subì modifiche o ristrutturazioni anche successivamente: Miletić 2010, p. 139.

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Alessandro Campedelli, Bojana Gruska, Sara Morsiani Oltre a costruire queste due postazioni permanenti, i Romani optarono anche per organizzare il vasto territorio circostante in modo da operarne un controllo sistematico. Guarnigioni e reparti costituiti dalle vexillationes delle legioni e dai reparti ausiliari furono disposti in castella, praesidia, burgi, turres e centenaria dislocati in diversi punti dell’alta valle della Krka. I resti archeologici e le iscrizioni di militari attivi nel I secolo d.C. trovate sulle alture settentrionali di Strmica,29 Mokropolje,30 Padjene,31 Kapitul-Knin32 e Tepljuh33 confermano la strategia romana di controllare l’alta valle della Krka e dunque il suo collegamento, attraverso la valle della Sana, con il bacino danubiano (Fig. 3). Questa documentazione permette anche di comprendere quale fosse l’estensione del territorio posto sotto l’amministrazione militare di Burnum. Prendendo in considerazione le due iscrizioni di confine di Razvođe e di Oklaj,34 i cippi terminali provenienti da Uzdolje35 e le testimonianza epigrafiche dei veterani individuate nelle aree di Mratovo36 e Roški Slap,37 è possibile ipotizzare che l’area gestita dal castrum si estendesse per circa 450 km².38 All’interno di questo vasto territorio furono individuate aree idonee alla creazione di specifiche infrastrutture/impianti come pascoli (prata), cave di pietra (lapicidinae) e fornaci per laterizi (figulinae), tutti elementi indispensabili alla vita e funzionalità dell’intero apparato militare.39 Da tutto questo territorium legionis si ricavava anche una parte dei viveri e dei beni di consumo

con i dati di scavo raccolti durante le campagne di ricerca effettuate dall’équipe dell’Università di Bologna (2008– 2009), si è compreso che l’area aperta dei Principia era circondata, in corrispondenza dei lati lunghi, da un recinto perimetrale sormontato da una balaustra lignea. L’accesso laterale alla piazza era garantito da due aperture enfatizzate dall’utilizzo di colonnette in pietra. Per quanto riguarda gli altri settori dell’accampamento, la planimetria ottenuta attraverso metodologie di indagine non invasive mostra nella praetentura strutture direttamente affacciate sulla strada principale che possono essere identificate con le abitazioni dei tribuni della legione, mentre diversi settori della raetentura erano occupatidagli alloggi, caserme/ baracche, dei soldati.24 Nel I secolo d.C., il contingente militare stazionato nell’area del guado non fu composto solamente da legionari, ma anche da diverse formazioni ausiliarie: l’Ala I Hispanorum,25 la Cohors II Cyrrhestarum sagittaria26e la Cohors I Montanorum civium Romanorum27 che si avvicendarono nel più piccolo accampamento (castellum) realizzato a est del castrum.28 89–144; Kandler 1977, pp. 39–45; Zabehlicky-Scheffenegger, Kandler 1979. 24 Dal 2005 questo sito è al centro di un progetto di ricerca internazionale, il Burnum Project, promosso da Enrico Giorgi, Giuseppe Lepore e Alessandro Campedelli, Josko Zaninović (Museo Civico di Drniš), Nenad Cambi, Zeljko Miletić e Miroslav Glavicić (Dipartimento di Archeologia, Università di Zara). Sul progetto e sulle metodologie applicate si veda: Boschi, Campedelli 2008, pp. 409–417; Giorgi 2009, pp. 226–230; Vecchietti 2012, pp. 105–125. 25 Questa unità ausiliaria è attestata a Burnum da una sola iscrizione (AÉ 1971, 0299=ILJug 0843). Esistono divergenze sulla sua datazione, soprattutto in relazione alla presenza di questa ala di cavalleria in Dalmazia. Secondo lo studio fatto da Ž. Raknić questa unità stazionò a Burnum durante l’epoca di Vespasiano. Lo studioso è del parere che il titolare del monumento (Imerix Servofr f(ilius) Batavos) sia stato reclutato nel 69 d.C., sotto Vitellio. Lo suggerirebbe il basso numero degli anni di servizio (stipendiorum VIII) e l’indicazione di Tacito (Tacit. Ann., IV, 14) che fa riferimento all’arruolamento di Batavi proprio in quel periodo. Verso l’anno 80 d.C. l’ala I Hispanorum fu spostata in Pannonia, dove, a giudicare dai monumenti epigrafici, soggiornò ad Aquincum. Raknić 1965, pp. 71–77. Altri autori invece la collocano a Burnum nel periodo compreso tra l’età di Tiberio e il 42 d.C: Spaul 1994, p. 145; Miletić 2010, pp. 130–131. 26 Sono una decina i documenti epigrafici riferibili a questa unità trovati in Dalmazia e tre provengono proprio da Burnum. ILJug 2820: Dacnas Apsaei f. (Kubitschek 1924, p. 217; Medini 1984, p. 114, g. 7, pp. 121– 122, n. 32); ILJug 0842: Heras Ennomai f. (Suić 1970, pp. 105–106); AÉ, 2009, 1034 (Marun 1998, p. 223). In generale si ritiene che l’unità rimase in Dalmazia nel periodo compreso tra il 6–9 e il 70–80 d.C.: Spaul 2000, p. 431; Matijević 2009, pp. 35–44. Secondo Alföldy, l’unità arrivò in provincia durante la guerra del 6–9 d.C. e risiedette a Burnum per tutta la prima metà del I secolo d.C., quando fu trasferita altrove: Alföldy 1987, p. 251. Questa opinione fu condivisa da Wilkes, il quale ritenne che il contingente lasciò la provincia prima del 70 d.C.: Wilkes 1969, pp. 140–141. La successiva scoperta di due iscrizioni a Dugopolje ha invece indotto Cambi ad affermare che la maggior parte di questa unità operò nella Dalmazia centrale e dunque a Tilurium: Cambi 1994, pp. 173–174. Secondo la ricostruzione di Miletić il suo arrivo a Burnum seguì la partenza dell’ Ala I Hispanorum: Miletić 2010, pp. 131–132. 27 Si presume che questo contingente ausiliario, di cui si conservano due iscrizioni (ILJug 0841: Buccus Staumi f.; CIL III, 15003=ILJug 282: Remmo Saeconis f.) abbia soggiornato a Burnum in un momento del I secolo d.C.: Suić 1970, pp. 106–108; Spaul 2000, pp. 294–295. Secondo Miletić fu a Burnum dal 70 d.C. all’86 d.C., quando si trasferì in Pannonia: Miletić 2010, pp. 132–135. 28 In questo settore del territorio di Burnum, il paesaggio piatto e spoglio della Bukovica è interrotto da accumuli di pietre e da una vegetazione che creano una forma geometrica estremamente regolare. Le dimensioni

(m 175 x 105) e la forma rettangolare con angoli arrotondati ha portato gli studiosi a ipotizzare fin da subito la presenza qui di un accampamento ausiliario. Grazie a due saggi di scavo compiuti nel 2008 dai colleghi dell’Università di Zara lungo le supposte mura perimetrali, l’ipotesi oggi viene confermata. Tra il materiale recuperato si segnalano alcuni bolli laterizi della LEG XI CPF, circostanza che dimostra come almeno una delle fasi della struttura si collochi tra il 42 e il 69 d.C. È probabile che l’accampamento abbia avuto più fasi, compresa forse una più antica, ma l’ipotesi necessita di ulteriori verifiche stratigrafiche: Miletić 2010, p. 130. 29 CIL III, 6417. 30 CIL III, 6416, 9905. 31 CIL III, 13251. 32 CIL III, 9903, 9904, 9906, 9907=14321, 9909=14321, 9911. 33 CIL III, 6419=9897; 1512. 34 CIL III 9832, 9833. 35 CIL III, 13250: [terminus posuit inte]r [p]rata leg(ionis) et ...; AÉ 1988, 923: t(erminus) pra(ti) leg(ionis) XI C.P.F. 36 CIL III, 6418=9896. 37 CIL III, 9885, 2816, 2817 e 2818. 38 Sul territorium legionis di Burnumsi sono espressi diversi autori con due teorie differenti: quella di un territorio legionario senza soluzione di continuità tra i vari settori produttivi e strategici, sostenuta da M. Zaninović (1985, pp. 63–79) e Miletić (2007, pp. 183–194); e quella che vede invece un’amministrazione territoriale caratterizzata dall’esistenza di aree distinte, non collegate e distanti tra loro promossa da Čače (1989, p. 89). In generale, sulla questione del territorium legionis si veda: Berard 1993, pp. 73–105. Per quanto riguarda le testimonianze relative ai veterani trovate a Mratovo e Roški Slap: Zaninović N. 2007, pp. 268– 271. 39 Le due iscrizioni (CIL III, 13250; AÉ, 1988, 923) rinvenute a Uzdolje, circa 12 km di distanza dal castrum, testimoniano proprio la presenza di prata legionis, aree probabilmente adibite al pascolo e sfruttate dai pecuarii dell’esercito non soltanto per il sostentamento dei cavalli da battaglia e dei buoi da traino, ma anche per l’allevamento di bovini e ovini, dal cui latte veniva ricavato burro e formaggio: Starac 2000, pp. 36–38. Cave di pietra sono state localizzate a nord-ovest dell’anfiteatro e lungo il tragitto dell’acquedotto, dunque nelle immediate vicinanze delle infrastrutture realizzate. Ilakovac 1982, p. 55. Infine, presso la località di Smrdelji, e in particolare a Rivine e Njivetine, si localizzano invece le fornaci militari: Starac 2000, p. 102.

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L’abbandono di Burnum: analisi delle fonti storiche e archeologiche e dati sulla cultura materiale necessari al sostentamento di un così abbondante numero di legionari e ausiliari, tuttavia il grosso dei rifornimenti fu organizzato attraverso lo sfruttamento dello scalo portuale di Scardona, centro sorto all’imboccatura della Krka e direttamente collegato all’Adriatico.40

collegava l’Italia all’area egea. Infine, i percorsi stradali che portavano uno alla colonia di Iader, toccando i centri più importanti della Liburnia meridionale: Alveria, Asseria e Nedinum,45 l’altro a Scardona passando vicino al municipio di Varvaria,46 garantivano il collegamento tra l’interno e due dei più importanti porti commerciali della costa orientale adriatica.

La struttura militare così organizzata garantiva il pieno controllo del territorio e soprattutto delle vie di comunicazione che, ancora prima dell’arrivo dei Romani, attraversavano la Krka in corrispondenza dei suoi naturali punti di guado: uno subito sotto alla gradina di Puljane; l’altro, sicuramente più pratico, situato nella zona di Bobodol a qualche chilometro di distanza dall’accampamento in direzione nord-est e un terzo in corrispondenza delle cascate di Roški Slap, 20 km ca più a valle. Se per la zona di Puljane e Roški Slap non si hanno ancora indizi archeologici sulle strutture di un ponte, al contrario a Bobodol la sua presenza è stata documentata dal rinvenimento di sostruzioni in pietra.41 Questo passaggio sulla Krka si inseriva sull’importantissima via ad imum montem Ditionum Ulcirum per millia passuum a Salonis LXXVIID, dunque sul percorso che dalla capitale provinciale Salona portava al monte Ilica, alle pendici occidentali della catena montuosa delle Alpi Dinariche, realizzata intorno al 20 d.C.42 Con l’età Claudia, periodo a cui si fa risalire l’inizio dei lavori per una sua prosecuzione verso nord, questo collegamento acquisì un’importanza ancor più significativa, la cui funzione principale fu quella di collegare Salona con la colonia di Siscia, e dunque di unire l’Adriatico con le regioni pannoniche.43 Oltre a questa, altre strade rendevano Burnum uno snodo fondamentale nei collegamenti della provincia dalmata. In primis la strada che, superando la catena del Velebit e l’altopiano della Lika, univa Senia a Burnum.44 Quest’ultima rappresentava un segmento della grande arteria imperiale Aquileia-Durazzo che, proseguendo lungo la Via Egnatia,

La progressiva romanizzazione dell’entroterra dalmata e le necessità di difesa dei confini orientali dell’Impero determinarono una crescente demilitarizzazione della Dalmatia con conseguente trasferimento delle sue truppe legionarie. Intorno all’86 d.C., la provincia è dunque da considerarsi inermis, ovvero difesa soltanto da unità ausiliarie. Grazie alla sua rilevanza strategica e al suo inserimento lungo le principali reti stradali, Burnum però non si svuotò completamente del suo significato militare. I documenti epigrafici attestano reparti della legio VIII Augusta,47 anche se soltanto per un brevissimo periodo tra la fine del I e la metà del II secolo d.C., di militari della Cohors III Alpinorum48 e, tra la fine del II e l’inizio del III d.C., di sezioni della Cohors I Belgarum.49 Poiché una delle due iscrizioni attestanti i prata legionis è databile ai primi anni del regno di Traiano, allora risulta chiaro come il territorio fosse, ancora dopo l’86 d.C., sotto 45 Il percorso è indicato anche nella Tabula Peutingeriana: Burno XII Aserie XII Nedino (XII Alveria) XII Iadera. 46 Miletić 2010, p. 117. 47 La presenza dell’VIII legio a Burnum è documentata dal monumento funerario (ILJug 2818) di un suo soldato attivo, Sesto Valerio Lucinio, e da numerose tegole che ne recano il bollo (LEG VIII AVG). Secondo Bojanovski, l’ottava legione, che fu in Pannonia dal 9 al 45 d.C. (TACIT. Ann. I, 23, 30) e successivamente dal 45 al 69 d.C. in Mesia, si sarebbe fermata a Burnum nel 69 d.C. per un breve periodo, circa trequattro mesi, prima di fare ritorno in Italia per partecipare alla guerra civile nella quale combattè contro Vitellio: Bojanovski 1990, pp. 699– 712. Per Wilkes invece, la legione si fermò a Burnum dopo l’86 d.C., ma non esclude la possibilità che un suo distaccamento potè essere stato inviato qui intorno alla metà del II d.C., in occasione dell’inizio della guerra contro Quadi e Marcomanni: Wilkes 1969, pp. 115–116. Miletić afferma al contrario che il momento più probabile per un suo stazionamento a Burnum sia tra la fine del I e l’inizio del II d.C. Miletić 2010, pp. 127–130. 48 Probabilmente, durante tutto il I secolo d.C. questa coorte ausiliaria ebbe la propria sede a Bigeste, nei pressi di Humac, come dimostrerebbero i monumenti sepolcrali di suoi militari. In un diploma militare trovato a Salona si afferma chiaramente che l’unità era in Dalmazia ancora nell’anno 94 d.C.: Spaul 2000, pp. 266–268; Matijević 2011, p. 190. L’arrivo in provincia verso la fine del I secolo d.C. della Cohors I Belgarum e soprattutto il suo collocamento nel campo di Bigeste, potrebbe aver comportato il suo trasferimento a Burnum. Miletić diversamente la stabilisce a Burnum tra il 60 e 70 d.C.: Miletić 2010, pp. 131–132. Nel II secolo fu trasferita ad Andetrium, mentre verso la fine del secolo andò in Pannonia dove partecipò alle guerre contro i Marcomanni. In Dalmazia vi soggiornò quindi ininterrottamente dal 9 al 185 d.C.: Starac 2000, p. 31. 49 CIL III, 14980: Herculi sa[c(rum)] / Claudius / Peregrinu[s] / dec(urio) coh(ortis) I Be[l]/garum v(otum) s(olvit) / l(ibens) m(erito). Tra gli studiosi c’è disaccordo sulla data del suo arrivo in Dalmazia. Per Spaul la sua venuta si collocherebbe nel corso dell’epoca Flavia, se non addirittura prima, durante il regno di Nerone: Spaul 2000, p. 191. Alföldy (1987, p. 248) afferma che questo si verificò probabilmente tra I e II secolo d.C. Sono 24 le iscrizioni di questa unità recuperate in diversi siti dalmati: Tilurium, Vrgorac, Narona, Salona, Burnum, Andetrium, Magnum e Doboj. È assai probabile che distaccamenti di questa unità fossero stati organizzati in molti di questi siti, così come avvenne per i reparti delle altre coorti ausiliarie presenti in Dalmazia in questo periodo (la III Alpinorum e la VIII Voluntariorum civium Romanorum): Starac 2000, p. 31; Matijević 2011, pp. 181–207.

40 Scardona, oggi Skradin, posta all’interno del fiordo in cui la Krka incontra l’Adriatico, si trovava a poca distanza dalla base legionaria di Burnum (27 km ca). Il porto fu attrezzato con banchine e magazzini, la cui gestione fu affidata, almeno fino a quando il centro non divenne municipio in età flavia, ai militari (CIL III, 6413) delle unità stazionate a Burnum: Cambi 2001, pp.146–147; Glavičić, Miletić 2011, pp. 113–150. Per quanto riguarda le importazioni di viveri per i militari di Burnum e, nello specifico, di garum dalla Hispania, si veda: Borzić 2012, pp. 65–88. 41 Che la zona intorno a Bobodol fosse frequentata in epoca romana è testimoniato da numerosi rinvenimenti archeologici. Fonti documentarie ricordano la scoperta di architravi in pietra con bassorilievi raffiguranti animali acquatici, di colonne, di capitelli e di due dediche, una a Marte o Mercurio (CIL III, 2826), la seconda a Nettuno (CIL III, 2827). L’individuazione delle strutture portanti del ponte avvenne intorno al 1950 quando, per esigenze legate alla costruzione della centrale idroelettrica di Puljane, si rese necessaria la distruzione della barriera di tufo che formava il guado naturale di Bobodol: Zaninović N. 2007, pp. 260–261. 42 CIL III 3198=10156b; Bojanovski 1974, p. 203. Il collegamento è documentato anche dalla Tabula Peutengeriana: Salona XVI Andetrio XIV Magno VIII Promona XVI Burno. 43 Sono più di una ventina i miliari ritrovati che attestano l’importanza strategica di questo prolungamento, il cui caput viae fu proprio Burnum: Bojanovski 1974, pp. 212–220. 44 Tabula Peutengeriana: Burno XIII Hadre XIII Clambetis XIV Ausancalione XV Ancus XVI Epodotio X Arypio X Avendone XX Senia... Il collegamento con la Lika era tuttavia reso possibile anche da strade alternative, come quella documentata archeologicamente che passava per Sidrona (Medvidja): Miletić 2006, pp. 129–130.

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Alessandro Campedelli, Bojana Gruska, Sara Morsiani a organizzare tutto questo settore intorno a un vero e proprio centro urbano. Il passaggio istituzionale avvenne probabilmente intorno al 118 d.C., come attesterebbe una dedica a Adriano in cui per la prima volta viene ricordato il consiglio cittadino,53 anche se non si esclude la possibilità di una sua anticipazione all’età traianea.54 L’acquisizione dello status municipale da parte della comunità autoctona dei Burnistae e degli abitanti delle canabae è documentato soprattutto dal monumento funerario di Livio Nonio Clemenziano,55 che fu decurione e edile m(unicipii) B(urnistarum) nella seconda metà del II secolo d.C. Membro del consiglio e sacerdote fu anche Turus, figlio di Longino, uomo di evidenti origini liburniche.56 Queste ultime due testimonianze danno un’idea della composizione etnica del nuovo municipio, probabilmente di diritto latino, dove le cariche amministrative sono occupate sia dagli appartenenti alla popolazione autoctona (Turus) sia da italici (L. Nonius Clementianus).57 La trasformazione giuridica condizionò naturalmente anche il territorio circostante. Dalle aree di Kapitul, Crkvina e Biskupija cominciano a essere documentate iscrizioni che attestano un popolamento non militare, con individui i cui gentilizi58 rimandano a quegli imperatori che più di altri hanno accelerato il processo di romanizzazione in quest’area della Dalmatia. Oltre alle suddette iscrizioni se ne trovano altre che, seppur frammentarie,59 sembrano attestare quei rapporti di collaborazione nella gestione, forse di proprietà terriere, tipici della cultura romana.60

l’amministrazione militare e dunque sfruttato dalle truppe presenti a Burnum.50 La presenza dell’esercito nella media e alta valle della Krka non ha cambiato questo territorio soltanto dal punto di vista strutturale e giuridico, ma anche economico. Seppur approvvigionato da beni importati e in parte da forme autarchiche di produzione, l’esercito necessitava comunque di fare acquisti e dunque ha stimolato iniziative commerciali e produzione locale. Fabbri, falegnami e artigiani poterono provvedere alla realizzazione e manutenzione di attrezzature per il fabbisogno dell’esercito, mentre piccoli commercianti, bottegai, locandieri e altri ebbero invece cura di alleggerire la durezza della disciplina militare. Nelle immediate vicinanze del castrum si svilupparono quindi, se non da subito, ma comunque molto presto nel corso del I secolo d.C., alcuni nuclei abitativi spontanei (canabae o vici) che nei decenni successivi crebbero fino a raggiungere proporzioni significative, arrivando a costituire il polo di aggregazione di un’economia civile parallela basata sulle paghe dei soldati, sui traffici e sugli appalti connessi con le esigenze dell’esercito.51 Il ridimensionamento della portata militare del castrum e la crescita delle componenti civili (l’insediamento autoctono dei Burnistae sulla gradina di Puljane e le canabae)52 portarono il potere centrale 50 CIL III, 13250: termini p)o(s(iti) a leg(ionis) et fines roboreti Fla(vii) Marc(iani) per Augustianum Bellicum proc(uratorem) Aug(usti). Nella persona di Flavio Marciano si deve forse identificare un appartenente all’aristocrazia terriera dalmata, probabilmente uno di quei principes documentati in tante iscrizioni della Dalmazia. Flavio Marciano tuttavia è privo di questo titolo, ma era talmente influente da potersi permettere di istituire un confine tra le proprietà imperiali e il bosco di sua proprietà: Zaninović 1985, p. 65; Starac 2000, pp. 36–37. 51 Con il termine canabae legionis si intende la fascia di territorio sottoposta al comando militare che circondava i castra legionari, territorio dove sorgevano gli edifici comuni, le strutture e le infrastrutture essenziali al funzionamento dell’accampamento. Questo territorio era nelle mani dell’esercito e veniva considerato formalmente come suolo pubblico (ager publicus) di proprietà dal tesoro imperiale (fiscus): Vittinghoff 1974, p. 110. La sua estensione era compresa all’interno del raggio di una leuga, una misura corrispondente a circa 2.22 km, ed è all’interno di questi limiti che si sviluppavano le canabae: Piso 1991, pp. 131–169. L’insediamento civile era molto probabilmente subordinato al legato della legione, anche se dotato di alcune forme di autogoverno, come la presenza di propri funzionari – magistri, meno frequentemente decuriones: Vittinghoff 1971, p. 301. I suoi abitanti erano costituiti dai familiari dei soldati, dai veterani e dai civili che vi svolgevano attività produttive e economiche ma che, a causa della particolare connotazione dell’area in cui vivevano, non potevano possedervi proprietà fondiarie: Piso 1991, p. 138. 52 Le canabae di Burnum non sono documentata da scavi archeologici o da iscrizioni che ne indichino la presenza, tuttavia diversi documenti epigrafici possono essere riferiti ai discendenti dei liberti di famiglie di mercanti italici (Aelonii, Anii, Caerelii, Calii, Cloedii, Folnii, Helvii, Papirii e Saenii) che vissero al loro interno: Miletić 2010, pp. 136–137. Un indizio più concreto, che necessiterà di verifiche archeologiche puntuali, deriva però dai risultati delle analisi satellitari compiute nel 2011. La costruzione di infrastrutture – strade, edifici e complessi architettonici – ha necessitato di un significativo apporto di terra per uniformare l’irregolarità del banco roccioso affiorante, mentre la continuità di vita dell’insediamento ha ulteriormente contribuito a questo fenomeno di accrescimento dei piani d’uso. Tutto questo ha determinato la formazione di un significativo substrato nelle aree antropizzate. Escludendo la superficie del castrum/municipium, si è notato che l’umidità e la vegetazione si concentrano lungo fasce che, non a caso, si sviluppano ai lati dei percorsi principali della viabilità extraurbana. Sulla base di analogie con altri siti e in particolare Carnuntum, è possibile ipotizzare che molte delle strutture delle

Se la documentazione riferibile alla fase militare del sito è tale da permettere oggi una significativa ricostruzione della fisionomia e del ruolo amministrativo svolto dal castrum sul territorio circostante, invece sulla fase municipale restano ancora diversi punti d’ombra. I dati archeologici emersi fino a questo momento confermano che il più vasto dei due complessi architettonici documentati dagli scavi austriaci sia da mettere in relazione con la creazione del municipium Burnistarum all’inizio del II d.C.61 L’orientamento dell’accampamento iniziale è stato mantenuto, come mostra la ripresa dell’asse longitudinale, ma i muri degli antichi Principia sono stati canabae di Burnum fossero localizzate ai margini di queste strade: Doneus, Gugl, Doneus 2013, p. 41. 53 CIL III, 2828=9890. 54 Miletić 2010, pp. 140–141; Campedelli 2012, pp. 60–62. 55 ILJug., 0845. 56 CIL III, 14321. 57 Starac 2000, pp. 100–101. 58 Flavius: CIL III 9923 e Aelius: CIL III 9913; 9926. 59 CIL III, 9923g: libertus; CIL III, 9924: patronus. 60 Zaninović 1974, pp. 301–316. 61 Balty 1991, pp. 256–279; Campedelli 2012, pp. 62–63. Diversa invece è la ricostruzione delle fasi costruttive elaborata da Miletić. Secondo lo studioso croato i monumentali archi ancora visibili oggi non farebbero parte della monumentalizzazione del sito avvenuta in occasione della creazione del municipio, ma sarebbero stati realizzati ancora durante la fase militare dell’insediamento. In sostanza intorno alla metà del I d.C., i principia più piccoli sarebbero stati sostituiti da un complesso più grande composto da una piazza bordata sui lati lunghi da una serie di ambienti e chiusa a nord da vani che si affiancavano al santuario militare (aedes) posto al centro. Una fila di arcate (corrispondente agli archi oggi visibili) divideva lo spazio tra la piazza e l’area antistante al santuario, che rimaneva scoperta, secondo uno schema riconosciuto anche a Carnuntum: Miletić 2010, pp. 126–127.

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L’abbandono di Burnum: analisi delle fonti storiche e archeologiche e dati sulla cultura materiale abbattuti per permettere la messa in opera del nuovo impianto monumentale (m 73 x 99 ca) composto da una piazza centrale, due file di botteghe ai lati, una basilica trasversale disposta sul lato breve della piazza e una curia, di forma absidata, destinata a contenere anche l’aedes Augusti. Il prospetto meridionale della basilica che si apriva sulla piazza del Foro (lato sud) era quello principale e doveva essere articolato in nove arcate successive. L’arco centrale, di dimensioni maggiori rispetto agli altri (come risulta ancora dai disegni del ‘700), doveva enfatizzarne l’accesso e costituiva l’asse visivo principale (nonché l’asse di simmetria) di tutto il complesso.62 Traendo vantaggio dalla pendenza naturale del terreno che in questo punto è caratterizzato da terrazze che degradano in prossimità del canyon della Krka, si assiste dunque a una strutturazione dello spazio tale da creare un impatto scenografico imponente. Grazie a una serie di punti di vista in qualche modo “obbligati” in rapporto alla viabilità principale, il nuovo municipio esalta, attraverso la spettacolare successione di piazza, basilica e curia/ sacellum, l’importanza degli edifici essenziali di una città. Fatta eccezione per la monumentalità di questi resti, per i dati raccolti durante le ultime campagne di scavo (2012– 2014), che hanno permesso di documentare le strutture di ciò che doveva costituire l’ingresso settentrionale del sito nella fase urbana63 e per l’organizzazione spaziale interna, che sembra aver mantenuto la suddivisione creata dalla viabilità precedente, nulla si conosce ancora dell’architettura urbana, pubblica e privata, che deve aver sostituito, se non sistematicamente almeno in modo significativo, le strutture militari preesistenti.64 Altrettanto sommarie sono le informazioni sugli aspetti giuridico-amministrativi ed economici che interessarono il municipio e il territorio circostante. Tuttavia iscrizioni, frammenti architettonici, sculture, bassorilievi e infine oggetti della cultura materiale sono testimoni di una certa vitalità e floridezza raggiunta dal municipio nel II e III secolo d.C. Tra gli elementi scultorei si ricorda per esempio la monumentale chiave di volta (probabilmente di una delle porte della città) decorata con il ritratto di Ercole. La produzione è locale, ma di altissima qualità e testimonia il livello artistico degli elementi ornamentali

che dovevano caratterizzare gli edifici del municipio. Lo stesso vale per il rilievo raffigurante Eroti che reggono un clipeus decorato con il volto di una Gorgone, appartenente a una struttura sicuramente di carattere pubblico. Sebbene sia di produzione locale, il monumento mostra notevoli connessioni con le decorazioni del Mausoleo di Diocleziano a Spalato. Tra gli oggetti si segnala invece una stadera in bronzo completa di peso che riproduce il ritratto di Lucilla, figlia di Marco Aurelio e moglie di Lucio Vero, o Crispina, moglie di Commodo, probabile indizio del benessere economico raggiunto dal ceto legato alla sfera commerciale.65 Dal momento che per la maggior parte i rinvenimenti scultorei sono di produzione locale, ne deriva che il municipio di Burnum non fu soltanto un centro di consumo, ma anche un importante centro produttivo. Produzione e importazione sono in stretta dipendenza con le possibilità economiche di una comunità e quella di Burnum non sembra aver avuto problemi particolari tanto che, alla fine del II secolo d.C., i Burnistae assieme ad altre due comunità territoriali della zona finanziarono la ristrutturazione del pretorio di Scardona, l’edificio nel quale il governatore provinciale si riuniva per risolvere le dispute giuridiche di quelle tribù iapodiche e liburniche che ancora non erano state integrate nel sistema amministrativo romano.66 Questa ricchezza e disponibilità economica fu mantenuta almeno fino a quando la posizione geografica e il contesto storicopolitico garantirono per il municipio e i suoi abitanti anche i vantaggi di un’economia commerciale di transito. Doveva essere questa infatti una voce importante delle risorse economiche di Burnum, dal momento che il territorio offriva più vantaggi per l’allevamento (in particolar modo degli ovini) che possibilità per uno sfruttamento agricolo. La testimonianza indiretta di questa predisposizione all’attività commerciale di transito sembrerebbe offerta dalle iscrizioni dei beneficiarii consularis – membri dello staff del governatore provinciale – documentati qui nel periodo compreso tra il II e il III secolo d.C.67 Ricoprendo funzioni amministrative, logistiche e anche Cambi 2007, pp. 23–48. CIL III, 2809: Praetoriu[m vetustate] / conlapsum [Stulpini et (?)] / Burnistae [et Lacinien (?)] / ses ex pec(unia) [publ(ica) refecer(unt)]. / Scapul[a Tertullus] /leg(atus) Aug(ustorum) p[rov(inciae) Dalmatiae] / restit[uit]. L’iscrizione si data tra il 179–181 (?) sulla base dell’incarico svolto da Scapula Tertullus come governatore provinciale: Medini 1967, p. 64; Starac 2000, p. 105. Scardona, insediamento autoctono e, come già detto importante porto militare, nel corso dell’età flavia ottenne l’autonomia municipale. Per la posizione strategica e la presenza dell’esercito fu designata non soltanto come uno dei tre conventus iuridici (Plin., N.H., III, 139), ma anche come una delle sedi del culto imperiale della Dalmazia: Glavičić 2007, pp. 251–257. 67 AÉ 1925, 0130 = ILJug 2807: I(ovi) O(ptimo) [M(aximo)] / T(itus) Aure[li]/us Pot[ens] / b(ene)f(iciarius) co(n)s(ularis) [leg(ionis)] / V Ma[ced(onicae)] / v(otum) s(olvit) l(ibens) m(erito); Kubitschek 1924, p. 216; Wilkes 1969, p. 124; Zaninović 2007, p. 182. ILJug 830: I(ovi) O(ptimo) M(aximo) / C(aius) Iulius / Victorin/us b(ene) f(iciarius) co(n) s(ularis) / v(otum) s(olvit); Suić 1970, p. 113; Zaninović 2007, p. 182. ILJug 832;: I(ovi) O(ptimo) M(aximo) / Iunoni Mi/ner(vae) P(ublius) Ael(ius) Se/cund(us), mi(les) l[eg(ionis)] / I Adi(utricis), b(ene) f(iciarius) co(n)[s(ularis)]; Suić 1970, p. 111; Škegro 1999, p. 19. I(ovi) O(ptimo) M(aximo) / Billian[u]/s Verus b(ene) [f(iciarius)] / co(n) s(ularis): Kubitschek 1924, p. 216; Alföldy 1969, pp. 67, 325; Marun 1998, p. 153. I(ovi) O(ptimo) M(aximo) / M[]C[]P / [l]eg(ionis) [] b(ene) f(iciarius) / co(n)s(ularis) v(otum) l(ibens) s(olvit): Marun 1998, p. 56. 65 66

62 Per quanto riguarda la documentazione settecentesca e ottocentesca relativa agli archi di Burnum si veda: Baratta 2005, pp. 45–62. 63 Lo studio dei materiali (e in particolare quelli provenienti dagli strati inferiori) è ancora in corso, tuttavia sulla base di confronti con altri siti, la struttura monumentale dovrebbe risalire alla fase municipale del sito. Così come documentato, l’accesso Nord si presentava difeso da due torri (larghe 4,80 m.) rettangolari con lato corto extrameniano di forma semicircolare. La distanza interna tra le due torri raggiungeva i 10 m, dunque l’intera struttura presentava un fronte complessivo di 20 m ca. La porta era caratterizzata da un doppio fornice (ciascuno largo m 4) intervallato da un massiccio piedritto centrale di 2 m ca di larghezza. 64 Le ragioni di questa lacuna non sono dovute soltanto alla limitatezza delle ricerche archeologiche, ma soprattutto al fatto che il sito è stato interessato da un’intensa attività di spoliazione. I saggi di scavo mostrano infatti che le stratigrafie relative alla fase municipale sono labili, compromesse e appena sotto l’attuale piano di campagna. Diversamente, le strutture dell’accampamento si conservano sotto un riporto di terreno decisamente più consistente. Questo spiega perchè le indagini geofisiche condotte in quasi tutto l’areale del sito hanno permesso di osservare partizioni interne e numerosi edifici che, soprattutto nella metà nord del sito, sono riconducibili a strutture di carattere militare (alloggi e baracche dei soldati): Giorgi 2012b, p. 117.

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Alessandro Campedelli, Bojana Gruska, Sara Morsiani La cultura materiale

di polizia, i beneficiari servivano da collegamento tra il governatore della provincia, la popolazione locale e l’esercito. Vista l’importanza strategica di Burnum nelle comunicazioni tra la costa adriatica e l’entroterra danubiano, la presenza di un officium dei beneficiarii si spiega anche con la necessità di un controllo costante dei traffici. Poichè uno dei beneficiari ricoprì anche la carica di protector consularis (ILJug 831), risulta probabile che egli abbia avuto l’incarico di gestire proprietà imperiali, verosimilmente pertinenti alla presenza di unità militari che ancora nella seconda metà del III d.C. risiedevano a Burnum.68 Se si prende in considerazione anche l’iscrizione, databile tra la fine del II e l’inizio del III d.C., che attesta un frumentarius della legio I Adiutrix, la cui sede era all’epoca in Pannonia, e il cui ruolo era quello di organizzare i rifornimenti alimentari per la sua legione, allora risulta chiaro che la città mantenne un ruolo di importante centro logistico per l’approvvigionamento delle legioni stazionate nell’area danubiana durante l’età medio e tardo imperiale.69 Queste ultime testimonianze sembrano chiarire ancora meglio come il ruolo strategicomilitare di Burnum abbia condizionato il destino del sito e probabilmente vincolato l’economia al monopolio del commercio di transito, fenomeno che si intesifica a seguito della crescita strategica dell’area nordorientale dell’Impero. Del resto la volontà da parte del potere centrale di tenere attivo ed efficiente l’importante passaggio sulla Krka è confermata anche dal miliario70 che ricorda il restauro del ponte e della strada (vetustate conlapsas) promosso dagli imperatori Valeriano e Gallieno tra il 256 e il 260 d.C.71

Nel corso dei secoli successivi qualcosa cambia, tanto è vero che le informazioni riferibili alla fase tardoantica (IV–V d.C.) di Burnum sono quasi completamente assenti, a conferma di quanto emerge dal dato archeologico che spesso fatica a rintracciare livelli e strutture riferibili a questo periodo. Tuttavia, alcuni strati più superficiali intercettati durante la realizzazione dei saggi di scavo presso la porta settentrionale hanno restituito una serie di reperti che potrebbero essere utilizzati per determinare un terminus post quem sull’abbandono dell’area (Fig. 4). Si tratta, innanzitutto, di tre frammenti di scodelle in Terra Sigillata Africana, tutti riferibili alla produzione D. Due di questi reperti rientrano nel tipo Hayes 58B: scodella a pareti più o meno svasate, con orlo a tesa piana, liscia o munita di scanalature; la forma, prodotta in Tunisia settentrionale, compare già alla fine del III sec. d.C. e appare ben documentata per tutto il IV. Gli esemplari di Burnum mostrano l’orlo a tesa assottigliata, priva di scanalatura, e la vasca piuttosto profonda, come nella forma Hayes 58B, n. 11.72 La terza scodella è riferibile alla forma Hayes 61, con orlo verticale a sezione quasi triangolare. Esso pare simile nello specifico al piatto Hayes 61A, che mostra un leggero gradino esterno di separazione tra orlo e parete.73 La cronologia va dal 325 al 400/420 d.C. circa, con una diffusione soprattutto nel bacino del Mediterraneo e in Italia settentrionale. A questi esemplari di Terra Sigillata, vanno poi aggiunti sei frammenti di vetro, databili anch’essi tra IV e inizi V sec. d.C. Sono specialmente i bicchieri a essere rappresentati in questo campione. Ci sono, infatti, due piedi di calici Isings 111, con bordo leggermente ingrossato e fondo quasi piatto, rialzato solo nella parte centrale a formare uno stelo vuoto, in vetro verde/grigio-azzurro semitrasparente e iridescente. Ai frammenti di piedi, si aggiungono due orli di bicchiere troncoconici, caratterizzati dal labbro che sembra “tagliato” superiormente: il primo è riferibile al tipo Isings 106 = AR 64.1, con orlo indistinto dalla parete, praticamente verticale; il secondo va invece avvicinato alla forma Isings 109 = AR 70, dal corpo slanciato di colore azzurro trasparente e orlo poco svasato, concavo internamente. Sono bicchieri che hanno origine nel periodo tardoromano (IV–V sec. d.C.) e che sopravvivono e si diffondono anche in età altomedievale.74 Un quinto esemplare è poi un piatto troncoconico del tipo Isings 46b, con pareti quasi verticali e orlo arrotondato leggermente rientrante; si tratta di una variante che non sembra essere particolarmente attestata e parrebbe piuttosto tarda, almeno della fine del IV sec. d.C.75 Questi piatti furono prodotti generalmente in vetro “naturale”, cioè incolore trasparente con riflessi verdi o verde-azzurri, come nel caso in oggetto.76 Infine, è stato trovato un frammento, in vetro verde-azzurro, di brocca tipo Isings 120 con orlo svasato e cordoncino applicato poco sotto. Il frammento trova confronti con esemplari di

A.C. 68 ILJug 831: I(ovi) O(ptimo) M(aximo) / et G(enio) loci / M(arcus) Aurel(ius) / Dalmata, protec(tor) co(n)s(ularis) / pro b(ene) f(iciario) / l(ibens) p(osuit).I protectores compaiono con l’Imperatore Gordiano (238ma p244) quali truppe d’élite in sostituzione dei precedenti equites singulares nella guardia pretoriana. In seguito formano un ordinamento distinto, un corpo di ufficiali scelti chiamati a comporre lo stato maggiore degli imperatori e destinati ad altissime carriere. Godevano di molti privilegi relativi ai tributi, dazi, annona e, dopo la honesta missio, mantenevano i privilegi e il prestigio. Il personaggio di Burnum aveva anche tutti i privilegi del beneficiario: Suić 1970, p. 109; Starac 2000, p. 37. 69 CIL III, 2823 = ILJug 2808: I(ovi) O(ptimo) M(aximo) / C(aius) Vib(ius) Iulia/nus miles le[g(ionis)] / I Adiutr(icis) fr(umentarius): Alföldy 1969, p. 137; Rankov 1990, p. 181; Miletić 2010, p. 118. Nell’esercito romano i frumentarii erano i soldati che provvedevano all’approvvigionamento delle truppe. Probabilmente erano anche controllori e responsabili dei magazzini cerealicoli che venivano costruiti nelle terre di frontiera. Dal momento che questi personaggi viaggiavano per tutto l’Impero si cominciò a servirsene anche per mansioni investigative. Nel corso dei secoli gli imperatori si affidarono solo ai frumentarii che subentrarono così agli speculatores nelle funzioni di messaggeri, spie e persino di polizia segreta. Nonostante questo, i frumentarii gestivano comunque la distribuzione del grano all’esercito. In seguito alle continue proteste fatte pervenire all’imperatore dai suoi sudditi, per l’incessante presenza dei frumentarii al fine di requisire merci e imporre multe ai contadini, Diocleziano ne decretò lo scioglimento. Sull’argomento si veda: Liberati, Silverio 2010, pp. 101–124. 70 CIL III, 14333/9. 71 Imp(eratori) [Caes(ari)] / P(ublio) Lici[n(io) Valer(iano)] / Pio F[el(ici) Aug(usto) p(ontifici) m(aximo)] / trib(unicia) p[ot(estate) co(n)s(uli) et] / Imp(eratori) [Caes(ari) P(ublio) Licin(io)] / Gal[lieno Aug(usto)] / vi[as et pontes] / [vetustate] / [conlapsas] / [restituerunt] : Patsch 1895, pp. 380–381.

Hayes 1972, fig. 14, pp. 93–94; Atlante I, tav. XXXII, n. 5, 81–82. Hayes 1972, fig. 17, n. 26, pp. 104–105; Atlante I, tav. XXXIV, n. 6, 83–84. 74 Isings 1957, pp. 126–127, 136–140. 75 Isings 1957, pp. 61–62. 76 Biaggio 1991, p. 50. 72 73

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L’abbandono di Burnum: analisi delle fonti storiche e archeologiche e dati sulla cultura materiale Locarno,77 Luni78 e Augst/Kaiseraugst79, rinvenuti in contesti di III–IV sec. d.C., in accordo alla cronologia proposta da Isings.80 L’associazione nella stessa US di questo reperto con una delle suddette scodelle Hayes 58B e con una moneta di età post-costantiniana parrebbe far scivolare la datazione almeno alla prima metà del IV sec. d.C. Sono proprio le monete tardoantiche, a completare il quadro delle ultime fasi di vita a Burnum. Si deve a questo proposito segnalare un contesto particolarmente significativo, ovvero un saggio, effettuato nel 2013, all’interno di una delle due torri absidate poste nell’area nord della città (Fig. 5). Questo saggio ha, infatti, restituito quasi una quarantina di monete, databili tra III e IV d.C. pertinenti dunque a emissioni di Costantino, di Costantino II Cesare, di Costanzo II, di Costante e di Giuliano l’Apostata. Quest’ultima risulta così essere la testimonianza monetale più tarda rinvenuta a Burnum. Il dato numismatico è convalidato anche dalla finestra temporale (I–IV d.C.) offerta dai ritrovamenti monetali compiuti nell’area forense di Burnum in occasione degli scavi di revisione condotti da Kandler nel 1973–1974. La continuità di vita dell’area del Foro, documentata da un innalzamento dell’area aperta lastricata e da modifiche strutturali che interessarono gli ambienti settentrionali del complesso, viene genericamente fatta terminare in un periodo compreso tra IV e V secolo d.C.81 Queste informazioni, unite ai reperti ceramici e vitrei sopra analizzati, mostrano cronologie che non vanno oltre la fine del IV e gli inizi del V sec. d.C.

in quest’ultima fase, ma si può ipotizzare che essa non sia rimasta impostata sulla favorevole posizione di transito, dal momento che la situazione economica generale si fa più contratta e la sfera politica decisamente più incerta. Che il clima fosse cambiato è intuibile dai dati archeologici (per quanto limitati) che emergono dallo studio del popolamento di quello che doveva essere il territorio amministrato dal municipio di Burnum. Per questa fase caratterizzata da continue invasioni, i siti archeologici di una certa importanza83 sono tutti concentrati sulle colline presenti nel settore orientale di Mokro, Kninsko e Kosovo polje,84 mentre le zone pianeggianti caratterizzate da terreno carsico tra i fiumi Krka, Zrmanja e Čikola non soltanto appaiono scarse di testimonianze, ma sembrano contraddistinte dalla scomparsa delle realtà insediative precedenti, come per esempio le ville rustiche di Orlić (II– IV d.C.) e Kijevo (III–IV d.C.) (Fig. 6).85 Lo stato delle ricerche non permette di definire a pieno se il fenomeno sia dovuto a una continuità di vita o a una nuova e più intensa occupazione di questa parte del territorio, tuttavia i motivi della loro presenza risultano chiari viste le più facili possibilità di sopravvivenza create da condizioni ambientali favorevoli sia per quanto riguarda il sostentamento (aree coltivabili), sia per la presenza di siti d’altura già naturalmente difesi da scarpate e corsi fluviali. Perché e quando esattamente Burnum fu interessato da una crisi profonda che ne comportò un progressivo e definitivo declino rimane ancora abbastanza incerto, tuttavia è probabile che una delle cause sia da ricercare proprio in quello che fu il principale fattore del suo sviluppo, ovvero il ruolo fondamentale di caput viae nelle comunicazioni con l’area danubiana. Le vie percorse da prodotti, merci e beni di consumo del I–IV d.C. sono ora attraversate dagli eserciti delle diverse tribù barbariche che, a partire dalla metà del V d.C. scendono da nord-est attratti dalle ricche città romane della costa. A tale proposito va notato come nell’opera dell’Anonimo Ravennate, redatta probabilmente nel corso del tardo VII secolo d.C., ma che utilizza fonti itinerarie più antiche, tra gli insediamenti posti lungo il percorso stradale che da Salona conduceva verso il Velebit, perfettamente coincidente con la strada segnata sulla Tabula, non compaia il centro di Burnum.86

Considerazioni conclusive È interessante constatare inoltre che, a oggi, non sono documentati materiali e testimonianze che possano attestare l’esistenza di una comunità paleocristiana a Burnum. A differenza di altri territori della Dalmazia caratterizzati dalla presenza di colonie e quindi di diocesi fin dal IV secolo d.C., come nel caso di Salona e Iader, dove sono documentati i resti di strutture paleocristiane (seconda metà del III d.C. per Salona e l’inizio IV d.C. Iader), nell’area della valle della Krka non esistono ritrovamenti così antichi di tali strutture. In questo settore della provincia dalmata, gli edifici di culto paleocristiani individuati infatti nelle sedi dei centri municipali (Scardona, Varvaria, Burnum e Municipium Magnum) sono tuttora pressoché sconosciuti. Fa eccezione soltanto il municipio di Rider oggi Danilo presso Šibenik, distante però diversi chilometri dal corso della Krka, dove sicuramente tra fine IV e inizio V d.C. si assiste a un adattamento di parte del complesso termale di una lussuosa domus in oratorio. Con la fine del IV secolo e gli inizi del V il cristianesimo fiorì e si estese dalle città anche nei territori circostanti e soprattutto nelle campagne, come attestano gli oratori sorti in corrispondenza delle ville rustiche individuate a Ivinj e a Trbounje, ma comunque ancora in aree non pertinenti al territorio di Burnum.82 Allo stesso modo non è nota la situazione economica della città 77 78 79 80 81 82

Čuker e Keglevića gradina: insediamenti fortificati d’altura; Sučevići, Vagići e Biskupjia: chiese paleocristiane. 84 L’elemento distintivo più forte che accomuna queste microregioni è dato dal valore economico e strategico del territorio che ne ha permesso un popolamento continuo, come è testimoniato dalla maggiore concentrazione di siti pertinenti a diverse epoche storiche. Per un inquadramento generale dell’area di Knin si veda: Gugo Rumštajn 2004, pp. 2–42. Nello specifico, per l’area di Mokro polje e Kosovo polje: Delonga 1984, pp. 259–283. 85 Gugo Rumštajn 2004, pp. 24–26. Per lo scavo della villa di Orlić si veda: Radić, Budimir 1992, pp. 41–50. 86 Decimin, Endetrio, Magum, Promona, Adrise, Aberie, Seriem, Crambeis, Edino. Per Čače, anche se Burnum fosse stata distrutta in occasione della conquista giustinianea della Dalmatia, controllata dai Goti, non è possibile che la città sia stata immediatamente abbandonata. Inoltre una tale spiegazione implicherebbe che l’Anonimo Ravennate descriva la situazione dopo l’occupazione da parte di Giustiniano della Dalmazia. È possibile che l’Anonimo Ravennate abbia saltato Burnum così come tutti gli itinerari saltano la vicina città romana di Varvaria, semplicemente perché la strada poteva essersi allontanata da 83

Biaggio 1991, tav. 44, n. 134.2.080, pp. 210 e 213. Frova 1973,tav. 154, n. 123, p. 590. Rütti 1991, tav. 156, nn. 4110–4111, p. 173. Isings 1957, pp. 149–150. Kandler 1977, p. 45. Uglešić 2006, pp. 61–64.

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Alessandro Campedelli, Bojana Gruska, Sara Morsiani fondamentale: sia punto di arrivo del grosso dell’esercito goto guidato da Asinario, proveniente da Nord, sia punto di partenza per la riconquista di Salona. Scardona e Burnum furono luoghi chiave nelle operazioni belliche. La successiva vittoria del generale bizantino Constanziano a Salona (540 d.C.) determinò la fine del dominio ostrogoto in Dalmatia. La notizia riportata da Procopio, sembra indirettamente sottintendere che Burnum fosse all’epoca dei fatti un centro abbandonato, dal momento che Uligisalo non ebbe alcuna difficoltà a entrare in città. L’occupazione di Burnum da parte dei Goti sembra comunque costituire un episodio occasionale e temporaneo dal momento che, fino a questo punto delle ricerche, dal sito proviene un solo oggetto riferibile a questo periodo, una fibula frammentaria decorata a punzonatura e datata al primo terzo del VI d.C.90

Costantemente minacciato dall’intensificarsi dei flussi migratori che coinvolsero la parte settentrionale della Dalmazia, Burnum, la cui sicurezza non poteva più essere garantita né dalle mura, ormai fatiscenti in molte parti, cominciò a spopolarsi già nel corso del V secolo d.C. o comunque visse in forme così labili da non lasciare tracce importanti. Invasioni, incursioni e migrazioni attraverso la Pannonia hanno creato un clima di insicurezza tale da far crescere l’importanza del ruolo difensivo dei centri urbani. Questo è uno dei fattori che ha più visibilmente influenzato la vita delle città nella fase tardoantica e dato origine a corrispondenti innovazioni urbanistiche. Il fenomeno è visibile soprattutto nelle città che costituivano i soli rifugi possibili per le popolazioni locali, come quelle costiere, ma non dunque a Burnum. Mentre alcuni dei suoi abitanti possono aver cercato rifugio nei centri costieri, altri hanno optato per un trasferimento in luoghi fortificati presenti nelle vicinanze (i municipi di Varvaria, Scardona e le gradine di Kninisko e Mokro polje), nei quali si sarebbero potuti difendere più facilmente. Le fortificazioni di Varvaria, città romana sviluppatasi su un precedente insediamento liburnico collocato tra Scardona e Burnum, furono ricostruite probabilmente durante la guerra grecogotica, verso la meta del VI secolo.87

Con l’uscita di Burnum dalla scena storica, il popolamento dell’alta e media valle della Krka nel VI d.C. appare dunque caratterizzato da piccoli insediamenti sparsi in corrispondenza di siti naturalmente protetti, tra i quali emerge per estensione e posizione geografica l’abitato di Knin (Ninia), che assume in questa fase il ruolo di centro strategico tra le vie di comunicazione tra Dalmazia settentrionale e Savia, ereditando forse il ruolo di centro politico-amministrativo di una parte del territorio di Burnum.91 L’abitato relativo al nuovo centro, di cui è stata scoperta la necropoli (220 tombe), è da identificare con le strutture del castrum tardoantico trovate sul monte Spas, successivamente abitato dalla parte più antica e più settentrionale della fortezza medievale di Knin. Lo studio dei materiali provenienti dall’importante necropoli di Knin-Groblje-Spas mostra che l’insediamento fu occupato prevalentemente da una popolazione autoctona, con sporadica presenza germanica. Si tratta dunque di dalmati romanizzati, con l’aggiunta di pochi elementi barbari, forse riconoscibili sulla base di alcuni corredi di sepolture femminili. Inoltre è visibile l’elemento germanicooccidentale, ma in pochi esempi della cultura materiale. Di fatto, gran parte della necropoli è segnata da materiali di tradizione romana databili al VI secolo d.C.92

L’ultima notizia storica riferibile a Burnum viene tramandata da Procopio nell’ambito dello svolgimento della guerra greco-gotica.88 Sulla base di questa testimonianza si apprende che nel 537 d.C. l’esercito goto sotto il comando del generale Uligisalo, nel tentativo di attraversare la Krka e di avanzare verso la capitale Salona, dopo essere stato sconfitto presso Scardona ripiegò verso la città di Burnum. Il “riparo” a Burnum fu una scelta obbligata per diversi motivi. In primo luogo perché il sito rientrava in un’area che, sulla base delle testimonianze archeologiche, era da tempo sotto il controllo dei Goti e dunque rappresentava una zona sicura,89 in secondo luogo perché strategicamente Burnum lungo una direzione che, almeno in questo periodo, non tocca insediamenti degni di nota: Čače 1993, pp. 383–386. Secondo Medini l’assenza di Burnum nell’opera del Ravennate è dovuta all’effettivo spostamento della viabilità precedente verso il centro di Knin: Medini 1980, pp. 73–74. La crescita di Knin è sicuramente relazionata alla maggiore importanza acquisita dalla via Ulcirus mons – Sarnacle – Servitium, ma purtroppo nell’Anonimo Ravennate non ci sono evidenti testimonianze di tali spostamenti e soprattutto si noti che non compare alcuna indicazione di un qualche centro di riferimento nel territorio di Knin. 87 Suić 1968, p. 230. 88 Proc., Goth., I, 16: «Dum apud Suabiam Asinarius Barbarorum exercitum conscribit, solus Uligisalus Gotthos in Liburniam ducit. Hi facto cum Romanis ad Scardonem oppidum praelio victi, urbem Burnum repetierunt: ubi collegam suum Uligisalus expectavit. Constantianus, apparatu Asinarii cognito, Salonis timens, qui omnia regionis illius castella obtinebant, accivit; muros fossa cinxit perpetua caeteraque ad obsidionem ferendam necessaria diligentissime expedivit. Asinarius, collectis Barbarorum ingentibus copiis, ad urbem Burnum pervenit. Ibi iunctis cum Uligisalo Gotthorumque exercitu viribus, Salonas sese contulit». 89 La presenza ostrogota nel territorio in questione è attestata non soltanto da ritrovamenti sporadici (Burnum, Plavno e Biskupija), ma anche da siti di una certa importanza come Čuker nella piana di Mokro Polje. Nel distretto di Knin i ritrovamenti archeologici più rappresentativi sono proprio quelli riferibili agli Ostrogoti. La necropoli di “Greblje” sul

L’invasione e la devastazione dei centri della Dalmazia da parte degli Avari nei primi decenni del VII d.C. determina un periodo di forte crisi istituzionale, politica ed economica che sembra coinvolgere anche i nuovi insediamenti dell’alta valle della Krka. Soltanto le successive ondate migratorie toccheranno nuovamente questi territori e anzi troveranno qui le condizioni ideali per insediarvi e dare vita intorno al IX d.C. a uno dei loro più importanti centri di potere. monte Spas (Knin) è il più grande sepolcreto “a file” (VI d.C.) di tutta la Dalmazia: Vinski 1972, p. 53; Delonga 1984, p. 277. 90 Si tratta di una fibula unica nel suo genere. Tipologicamente e stilisticamente può essere collegata solamente alla fibula ad arco proveniente da Ascoli Piceno, ma poiché in Italia non esistono analogie per la decorazione dell’esemplare di Supljaja, si accetta l’ipotesi di Vinski secondo la quale la fibula fu prodotta localmente, forse a Salona, una simbiosi tra le caratteristiche stilistiche ostrogote, visibili nella sua modellazione e le concezioni tardoantiche, individuabili nella decorazione: Vinski 1973, p. 210. 91 Zaninović 1974, pp. 301–316; 1992, pp. 33–40. 92 Vinski 1989, pp. 5–73.

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L’abbandono di Burnum: analisi delle fonti storiche e archeologiche e dati sulla cultura materiale

Fig. 1. Veduta aerea del canyon del fiume Krka in corrispondenza del sito di Burnum.

Fig. 2. Topografia dell’area archeologica di Burnum.

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Alessandro Campedelli, Bojana Gruska, Sara Morsiani

Fig. 3. Media e alta valle della Krka nell’antichità con indicazione dei principali siti archeologici.

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L’abbandono di Burnum: analisi delle fonti storiche e archeologiche e dati sulla cultura materiale

Fig. 4. Terra Sigillata Africana e vetri di IV–inizi V sec. d.C. da Burnum.

Fig. 5. Monete di IV sec. d.C. da Burnum.

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Alessandro Campedelli, Bojana Gruska, Sara Morsiani

Fig. 6. I siti tardoantichi lungo la valle della Krka.

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6.5 Le importazioni africane trovate sull’isola di Brač/Brattia, Dalmazia Kristina Jelinčić Vučković Institute of Archaeology, Zagreb, Croatia [email protected] Abstract: There are more than ninety Roman rural sites on the island of Brač. In eighteen of them, African imports have been identified, including amphorae, African Red Slip Ware and cooking ware. African imports to the island began in the 2nd century and lasted till the 7th century, with an increase during the 3rd and 4th centuries. Finds suggest that oil and salsamenta were dominant among the imported goods, with smaller quantities of wine. The typology of finds does not differ from that of other eastern Adriatic sites. Results obtained so far are not sufficient to make definite conclusions and there are many questions to be answered, including: what did the local economy look like before? Why does import of these goods start at all? Did the local economy collapse or was this import so aggressive that local economies were not competitive? There is also the possibility that the buyers simply had a desire for diversity on their table. The final destination of these African goods may have been other locations in inland Dalmatia and/or Pannonia that were no longer supplied with, for example, Istrian oil. Keywords: ARS; Amphorae; Dalmatia; Brattia; Trade; Olive oil; Wine.

Introduzione

Gli inizi dell’Antichità sull’isola restano ancora nell’ombra perché non si conosce bene la relazione degli isolani con gli abitanti delle altre isole specialmente quelle di Issa e Pharia: coabitavano in pace, praticavano relazioni commerciali oppure combattevano tra di loro? Reperti ben conosciuti da Vičja luka posta sulla parte occidentale dell’isola accanto alla rotta marittima che passa da Issa e Pharia in direzione di Salona e Epetion, suggeriscono l’esistenza di relazioni commerciali. Sull’isola sono state trovate numerose anfore vinarie del tipo Lamboglia 2 e Dressel 6A e quelle di transizione (sono state ritrovate in trentotto siti),3 ma mancano quelle del tipo oleario che ci fa supporre l’esistenza di oliveti e produzione dell’olio sull’isola oppure un commercio tra le isole della Dalmazia centrale, in contenitori di altro materiale, che non ha lasciato tracce archeologiche. Anche più tardi, quando l’olio istriano aveva assunto una sorta di monopolio sulla parte settentrionale dell’Adriatico, in Dalmazia i reperti di Dressel 6B, associati a questa produzione, sono finora scarsi.4 Alcuni esemplari, inediti sono stati ritrovati sull’isola di Brač, altri a Narona e Tilurim.5 Una produzione dell’olio sconosciuta ma soddisfacente per bisogni locali pertanto sembra logica.

L’isola di Brač (Brattia) si trova in Dalmazia centrale. È l’isola più grande della regione, con una superficie di 396 km² e un’altezza massima di 778 m (Fig. 1). L’economia dell’isola oggi si basa su turismo, allevamento ovino, pesca, viticoltura, olivicoltura e uso della pietra da molte cave, grazie alle caratteristiche mediterranee e naturali di Brač. Il rilievo consiste principalmente in piccole colline adatte all’olivicoltura e valli alluvionali ottime per la viticoltura. Sulla costa settentrionale si trovano numerose insenature che sin dall’Antichità offrono un ancoraggio sicuro. Dalle fonti storiche, l’isola è conosciuta soprattutto per la sua posizione geografica in relazione con le isole circostanti. Plinio il Vecchio invece parla di Brač in un altro contesto dicendo capris laudata Brattia1 – un’espressione tante volte ripetuta nella bibliografia croata che sembra nessun’altra attività abbia potuto svolgersi sull’isola nel periodo antico. Invece sono stati ritrovati più di novanta siti archeologici romani di carattere rurale2 ed è difficile immaginare che la gente che vi abitava conoscesse solamente l’allevamento delle capre. Le ville rustiche dovevano avere un’economia sostenibile e l’ovicoltura difficilmente riesce a soddisfare una struttura economica a ciclo unico.

3 1 2

Plin., N.H., III, 152. Stančič et al. 1999.

4 5

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Jelinčić 2005; Jelinčić Vučković 2014, fig. 2, T 1–2. Jurišić 2000, pp. 11, 53. Mardešić 1998, p. 104 e Topić 2004, pp. 386–387.

Kristina Jelinčić Vučković trovano anche importazioni africane e il traffico (attorno all’isola) sembra aumentare di nuovo.

I contenitori non dovevano essere in materiale ceramico: per esempio solamente negli anni recenti sull’isola la gente ha smesso di utilizzare grandi contenitori in pietra (un materiale che esiste in abbondanza sull’isola) e ha iniziato la conservazione in contenitori di acciaio. Nella mancanza di contenitori vinari, similmente pensiamo a un uso di otri in pelle o a botti di botti in legno.6

La merce importata e i contenitori da trasporto Le anfore (Fig. 3) L’importazione di prodotti africani è quindi testimoniata dal II fino al VII secolo con particolare rilievo durante i secc. III e IV. Sono molto diffuse inizialmente le anfore di tipo ‘Tripolitana II’ e III, insieme a vasellame da cucina e ceramica fine, soprattutto Terra Sigillata, per finire con le importazioni di spatheia.

Inizio delle importazioni africane Dal II secolo in poi, sull’isola si trovano anfore olearie di produzione africana come in tutto il territorio adriatico e nel retroterra in quantità considerevoli, specialmente dopo il III secolo. Ciò corrisponde con la diminuzione della produzione istriana, che diventa più locale rispetto al periodo precedente. Perciò, ci chiediamo se lo stesso fattore che ha creato un simile cambiamento per l’Istria, sia stato la causa per la nuova situazione sull’isola di Brač. Un fenomeno in grado di causare tale cambiamento è il raffreddamento determinato dall’eruzione del vulcano Taupo (la più forte eruzione sulla Terra negli ultimi 5000 anni) attorno al 200 d.C.7 L’eruzione ha forse contribuito alla fine di questa produzione creando un ambiente poco favorevole per la crescita degli ulivi. Senza scavi sistematici sull’isola, possiamo solamente supporre una produzione per i bisogni locali dell’olio prima, e una fine o diminuzione dopo questa catastrofe insieme con l’arrivo e la predominanza dell’olio africano e quello proveniente dall’Occidente. Sull’isola di Brač, come sul resto dell’Adriatico, da questo momento in avanti, l’olio e le importazioni africane dominano per un lungo periodo.

Delle anfore trovate sull’isola per il trasporto di olio sono state individuate le anfore Tripolitana III, Keay LIX e forse Keay VIII B. Le anfore Tripolitana III sono state trovate anche in altri siti sulla sponda orientale dell’Adriatico.12 Della Keay LIX sono stati trovati due esemplari sull’isola, ed è da credere che nelle prossime indagini le anfore di questo tipo saranno trovate in altri siti dell’Adriatico orientale. Sono stati inoltre rinvenuti alcuni esemplari di Keay VIII B, datata nella seconda metà del V e nella prima metà del VI secolo, sull’isola di Vis e a Pola.13 Per l’importazione di salsamenta sono state usate anche le anfore di tipo Africana IIA con gradino, un contenitore non raro in questo territorio14 e l’anfora di tipo Africana IIC,2 e IIC,3 rinvenute anche in altri siti dell’Adriatico orientale.15 Per il trasporto di vino sicuramente venivano impiegati spatheia 3C, trovati anche a Kastrum (Brijuni) e forse l’anfora di tipo Africana IIA con gradino e Africana III. Tutte e due le varianti trovano altri confronti in area croata ma la variante IIIB è certamente il contenitore più attestato rispetto alla IIIA nell’Adriatico orientale.16 In alcuni tipi di Keay XXV è stato verificato il trasporto di olive.17

Nell’Adriatico settentrionale sono ben attestate la presenza dei vivaria8 e la produzione delle “anforette da pesce”, ma le fonti storiche parlano anche della produzione di salse di pesce in Dalmazia.9 Sull’isola di Brač in particolare, è stata trovata una stele funeraria di una persona coinvolta in queste attività.10 Nell’isola sono stati anche rinvenuti alcuni contenitori per il trasporto di salsamenta, di produzione africana (Fig. 2), come in altri siti dalmatini. Senza scavi, purtroppo, non sappiamo quale sia stato il rapporto tra le salse prodotte localmente e quelle importate. Dopo il dominio delle anfore vinarie di tipo Lamboglia 2 e Dressel 6A la circolazione di questi contenitori diminuisce attorno all’isola di Brač (I e II sec.). Lo si può dedurre soprattutto dall’assenza di relitti lungo il canale di Brač, Hvar e Neretva e dallo scarso numero di rinvenimenti di anfore a fondo piatto e di Dressel 2\4, spesso trovate in quel periodo in gran parte dell’Adriatico.11 Invece, nel periodo tardoantico, dal III sec., sull’isola accanto alle anfore vinarie orientali si

Per quanto riguardi invece gli altri tipi di anfore trovate a Vis e Brijuni, in partiolar modo le Keay 62 Q e R, Keay LXII A, Keay LXII e Keay VIII B, non si sa con certezza che cosa trasportassero.18

Bonifay 2004, p. 132; Zmaić 2010, p. 235, fig. 9; Bekić 2012, p. 586; Topić 2011, T. 8: 81; Čerina 2011, p. 220. 13 Čargo 2010, p. 112, T 3:1, T 7:1; Starac 2014, fig. 2a. 14 Parker 1992, pp. 297, 306, 339–340, Map 8: 771, 797, 897; Jurišić 2006b, p. 189; Konestra 2015. 15 Jurišić 2006b, p. 189; Višnjić 2009a, p. 126, T. 2: 1–2; Mardešić, Šalov 2001, pp. 123, 138, kat. br. 85, 173. 16 Vidrih Perko, Pavletić 2000, p. 266; Marušić 1987, fig. 6: 3, Parker 1992, pp. 297, 306, 339–340, Map 8: 771, 797, 897; Jurišić 2006b, 188– 189, fig. 29; Glavičić 1995, p. 10, T. III: 1–2; Topić 1999, p. 80, T IV: 2, 4; Višnjić 2009a, p. 127, T. 3: 3–6, Petrić 1989, pp. 38–39 (B); Fadić 1999, T. 2: 5, 7; Katić 2000, p. 32; Tomasović 2006, T X: 3; Borzić 2007, 129; Zmaić 2010, p. 236, sl. 10; Bekić 2012, p. 585, T 6: 3; Višnjić, Bekić, Pleština 2010, T 8: 2–3; Bekić, Višnjić 2008, T 2: sj 13, 215; Vidrih Perko, Župančić 2005, fig. 4: 8; Babić 2008, p. 213. 17 Bonifay 2004, p. 474. 18 Čargo 2010, p. 112, T 3:1, T 7:1, Vidrih Perko, Pavletić 2000, p. 266. 12

6 Carre, Pesavento Mattioli 2003, p. 281; Mazzocchin 2003, p. 375; Vrsalović 2003, p. 212. 7 Vetters, Zabehlicky 2004. 8 Kovačić 2009, pp. 240–245. 9 Plin., N.H., XXXI, 94. 10 Škegro 2006, p. 160. 11 Jurišić 2000, p. 54.

526

Le importazioni africane trovate sull’isola di Brač/Brattia, Dalmazia Ceramica fine e ceramica da cucina (Figg. 4–5)

per il piatto Hayes 61B (prima metà del V-inizio del VI sec.).

La ceramica da cucina e la ceramica fine sono meno rappresentate quantitativamente rispetto alle anfore ma va sottolineato che si tratta di reperti provenienti da ricognizioni di superficie e sono certamente meno resistenti. Il problema delle pubblicazioni precedenti con la mancanza di illustrazioni, descrizioni e definizioni dettagliate ha reso spesso impossibile creare delle mappe di distribuzione sulla parte orientale adriatica dei tipi e delle varianti,19 quindi nelle tavole sono presentati solamente confronti sicuri. La Sigillata Africana (Fig. 4) è presente dal II fino al VI secolo con forme caratteristiche frequenti sull’Adriatico. La ceramica da cucina è presente con diversi tipi dei secoli II–IV e inizio del V, per adesso non ci sono le forme più recenti. È interessante il ritrovamento di Mid Roman Plain Ware, finora non identificato tra la ceramica dell’Adriatico orientale (Fig. 5).

La forma Hayes 91 (IV–VI sec) trova numerose varianti e analogie.27 Se ne producevano imitazioni fuori dalla Tunisia in molti luoghi. La variante qui attestata, Hayes 91C (VI sec.) trova l’analogia più affine a Kastrum e Dobrika (Brijuni) e a Pola.28 L’impasto dell’esemplare rinvenuto sull’isola di Brač sembra non essere di origine tunisina.29 È stato infine trovato il frammento del fondo di un vaso di stile A (ii)–(iii) con decorazioni 36+69.30 Una decorazione affine è stata rinvenuta a Kastrum (Brijuni) e Uvala Marić (Barbariga)31 e si data dalla fine del IV fino al terzo quarto del V secolo. Ceramica da cucina e di uso domestico (Fig. 5)

Esemplari in Terra Sigillata di produzione africana sono piuttosto frequenti nell’Adriatico orientale (Fig. 4), ma alcune forme sono più presenti di altre. Si sottolinea in primo luogo il rinvenimento della Forma Hayes 8A,20 datata dalla fine del I alla fine del II sec., conosciuta anche a Burnum, Tilurium, Narona, Kastrum (Brijuni), Baška e Pola.21 Dal III secolo a Brač sono state trovate forme Hayes 9B (Lamboglia 2b e 2c) e Hayes 8B. Sono forme ben attestate sulla costa orientale dell’Adriatico (Fig. 4).22 Si trovano inoltre alcune Hayes 15 (metà III–inizi IV sec), due esemplari sull’isola di Brač rinvenute anche a Burnum, Pola e Kastrum (Brijuni).23 Sono stati trovati inoltre due esemplari di piatti Hayes 50A (230/240–360 AD), il tipo, più frequente del resto, dal sud al nord dell’Adriatico.24 La forma Hayes 10B (III e IV sec.) sembra invce non avere altri confronti in quest’area adriatica, ma questo è dovuto probabilmente allo stato delle ricerca. Sull’isola sono stati trovati due esempi di questo tipo, così come della forma Hayes 50 B (350–400 AD) molto più freqente in Adriatico.25 Una vasta distribuzione26 è stata notata anche

Sono stati trovati coperchi di diversa tipologia di produzione africana. Il più antico Hayes 196 B (II sec.) è stato rinvenuto anche a Narona.32 Dalla fine del II e nel III secolo si data la forma precoce di Hayes 196A con analogie sulle isole di Brijuni, Makarska e Spalato33. Il terzo tipo è la forma Hayes 185B datata come il tipo precedente con qualche confronto in più34. La forma Hayes 182, datata dalla seconda metà del II alla fine del IV sec. trova confronti a Narona, Pola e Spalato35. Il coperchio Hayes 196, più recente (IV–inizio del V sec.) è stato trovato anche a Burnum e Narona.36 Tra le forme più diffuse37 della ceramica da cucina segnaliamo la Hayes 23B, datata nel III e IV sec. e la Hayes 184 (Bonifay Culinaire B, type 7) che si data invece Bekić 2012, p. 587; Višnjićet al. 2010, p. 232, T 1: 7; Kirigin 1998, pp 430, 433; Kaiser, Kirigin 1994, p. 67; Gonzenbach 1975, p. 102; Pröttel 1996, pp. 273 (30–32), 274 (33–40), 296; Mardešić, Chevalier 2004, pp. 756–757; Pešić 2014, pp. 111–112; Brusić 1988: figs. 3: 4–5); Starac 2014, fig. 2B. 27 Katić 1994, p. 200; Vidrih Perko, Pavletić 2000, p. 264; Kirigin 1998, p. 433; Pröttel 1996, p. 298; Pešić 2014, p. 113. 28 Vidrih Perko, Pavletić 2000, p. 264; Pröttel 1996, p. 275 (87–88); Starac 2014: fig. 2b. 29 Ringrazio Michel Bonifay e Claudio Capelli che ne hanno fatto un’analisi macroscopica. 30 Hayes 1972, pp. 218–219, 223–224. 31 Vidrih Perko, Pavletić 2000, p. 265; Višnjić et al. 2010, T 2: 5; Pröttel 1996. 32 Mardešić, Šalov 2001, p. 132, kat. br. 134; Topić 2004, T. 54: 256– 258. 33 Tomasović 2000, p. 176, T 1: 4; Vidrih Perko, Pavletić 2000, p. 264; Bloier 2012, p. 102; Pröttel 1996, p. 277 (127). 34 Zabehlicky-Scheffenegger 1979, T. 8: 11; Vidrih Perko, Pavletić 2000, p. 264; Bloier 2012, p. 102; Topić 2005a: 17–18, kat. br. 23; 1999, TV: 13; Konestra 2015. 35 Topić 2004, pp. 366–371; Topić 2005a, p. 17, katbr. 22; 2005b, 81, kat. br. 40; Dvoržak Schrunk 1989, T. 2: 9; Starac 2014: fig. 2.b. 36 Zabehlicky-Scheffenegger 1979, T. 8: 10; Topić 2005a, p. 18, kat. br. 24. 37 Zabehlicky-Scheffenegger 1979, T. 6:11; Vidrih Perko, Pavletić 2000, p. 264; Percan 2011, p. 74, T. 3: 2–3, T. 6: 9; T: 7: 1; T. 8: 2; Dvoržak Schrunk 1989, T. 2: 5A–5B; Gluščević 1989, 74, Sl. 2: 3; 4: 2; Pavišić 1983, p. 44, T. 1: 4; Starac 1992, pp. 187, 189, T 1: 9; Bloier 2012, p. 97; Duboé 2001, p. 218; Topić 1999, p. 82, T V:10; Ilkić, Pešić 2012, p. 644; Gonzenbach 1975, p. 101; Pröttel 1996, pp. 298–299; Mardešić, Chevalier 2004, pp. 755–756, 759; Topić 2004, pp. 355–361.

Pešić 2013, figg. 1–4. Per tipologia sono stati consultati i lavori seguenti: Hayes 1972 e Bonifay 2004. 21 Zabehlicky-Scheffenegger 1979, T. 6: 1; Vidrih Perko, Pavletić 2000, p. 264; Šimić-Kanaet 2003, T. 15: 1–2; Topić 2002, p.237, kat. br. 234– 236; Bekić, Višnjić 2008, p. 232; Pröttel 1996, p. 271 (1). 22 Zabehlicky-Scheffenegger 1979, T. 6: 3; Vidrih Perko, Pavletić 2000, p. 264, Mardešić, Šalov 2001, p. 112, kat. br. 24; Topić 2002, p. 239, kat. br. 247–248; Hayes 1998, fig. 1; Šimić-Kanaet 2003, T. 15: 5–6m; Percan 2009, p. 74, T 4: 3; Pröttel 1996, pp. 272 (6), 294. 23 Zabehlicky-Scheffenegger 1979, T. 6: 4; Vidrih Perko, Pavletić 2000, p. 264; Paić 2007, p. 33. 24 Percan 2011, p. 72, T. 4: 3; Mardešić, Šalov, 2001, p. 110, kat. br. 15–16; Topić 2002, p. 242, kat. br. 261–264; Bloier 2012, p. 98; Pavišić 1983, p. 44, TI: 5; Mardešić 1998, p. 108; 2004, p. 98, kat. br. 5. 7, Dvoržak Schrunk 1989, T. 1: 1; Jurišić 2006a, p. 309; Borzić, Jadrić 2007, p. 153, T. III: 4; Vidrih Perko, Pavletić 2000, p. 264; Maggi 2001, pp. 154–155; Pröttel 1996, p. 269 (5–8); Pešić 2014, 112; Brusić 1988, fig. 2: 7–9; Starac 2014: fig. 2b. 25 Vidrih Perko, Pavletić 2000, p. 264; Katić 2000, p. 32; Bloier 2012, p. 98; Topić 1999, p. 77, T. I: 3, 4; Višnjić et al. 2010, p. 232, T. 1: 6; Tomasović 2005, p. 215; Fisković 1994, pp. 88, 92; Pröttel 1996, pp. 270 (9–11), 294–295; Mardešić 1998, p. 102; Starac 2014, fig. 2b.. 26 Mardešić, Šalov 2001: 124, kat. br. 87; Dvoržak Schrunk 1989, T. 1: 8; Katić 2000, p. 31; Vidrih Perko, Pavletić 2000, p. 264; Bloier 2012, p. 100; Vučić 2011, pp. 114, 124, 125, Sl. 8: 9; Topić 1999, p. 77, TII: 6; 19 20

527

Kristina Jelinčić Vučković dalla fine del II alla metà del III sec. Allo stesso periodo si data infine la ciotola Mid Roman Plain Ware che finora non trova confronti sull’Adriatico orientale. Conclusioni Le caratteristiche naturali dell’isola di Brač e dell’Adriatico orientale consentirebbero lo sviluppo di diverse produzioni ceramiche in grado di soddisfare le esigenze locali. Tuttavia, dal II e specialmente dal III secolo in poi, in questa zona troviamo grandi quantità di importazioni africane. Le forme e l’ambito cronologico della ceramica e delle anfore africane rinvenute sull’isola di Brač concordano con la distribuzione dei reperti attestati nell’Adriatico orientale. Lo stato della ricerca e nuove pubblicazioni dovranno mostrare le relazioni tra le quantità delle importazioni africane rispetto alle altre produzioni locali di vino, olio e prodotti di pesce perché finora non abbiamo dati necessari per trarre conclusioni attendibili sulla distribuzione. Con dati più completi sarebbe possibile analizzare la consistenza di questo commercio e le preferenze del mercato. Sarebbe possibile inoltre comparare i dati sulle produzioni agronomiche locali con la merce prodotta in situ e quella importata. Bisogna considerare che i porti adriatici orientali specialmente quelli di Salona o Senia servivano come punti di ridistribuzione (sia marittima, sia terrestre). Da questi siti cominciano le strade verso il retroterra dove c’è un clima diverso da quello mediterraneo adatto alla coltivazione degli oliveti e vigneti. È inoltre necessario considerare che le isole e le città, le ville e i villaggi sulla costa non costituivano l’unico obiettivo né quello principale delle esportazioni africane, ma erano probabilmente solo alcuni punti di vendita casuali con lo scopo di raggiungere mercati più lontani della Dalmazia e della Pannonia. L’isola di Brač non ha un porto di grande importanza statale che serviva come centro di ridistribuzione, perciò, la merce trovata sui siti isolani può essere considerata come merce arrivata alla sua destinazione finale. Un numero così piccolo di reperti superficiali (Fig. 2) non basta sicuramente per capire le relazioni tra le produzioni, le attività locali isolane e le importazioni di merce desiderata per lusso, diversità oppure necessità. Tuttavia grazie a loro, possiamo formulare delle domande e indirizzare le nuove ricerche con lo scopo di capire meglio la vita sull’isola, che potrebbe servire anche come caso comparativo per le altre isole circostanti, così da creare un’immagine più ampia sulle questioni economiche della regione.

528

Le importazioni africane trovate sull’isola di Brač/Brattia, Dalmazia

Fig. 1. La posizione geografica dell’isola di Brač – Brattia.

529

Fig. 2. I siti archeologici dell’isola con ritrovamenti della provenienza africana.

Kristina Jelinčić Vučković

530

Le importazioni africane trovate sull’isola di Brač/Brattia, Dalmazia

Tripolitana II

CONFRONTI (parte  croata orientale  MERCE  dell'Adriatico) TRASPORTATA* PERIODO (Split),  Partizanska/kneza  Višeslava (Split),  Salona, Rt Plavac  kod Zlarina, Brijuni,  olio,  seconda metà del II ‐  1 Orud salsamenta ? IV sec. 

Tripolitana III

Orud, Sv. Ivan ‐sz  2 Rovinj?

olio 

II ‐ III sec.

Tripolitana III, tarda

2

olio

III ‐ IV sec.

Africana II A, 3 (con gradino)

Povile, Pag,  Pelješac  (Prapratna),  Duboka, Lopar,  Jurjevo, Senjska  1 vrata, Fulfinum

salsamenta,  anche vino 

metà o seconda metà  del III sec.

Africana II C, 1

2 Gradina,  Duboka

salsamenta 

metà del III fino  all'inizio del IV sec.

Africana II C, 2 

1  Duboka

salsamenta 

fine del III e prima  metà del IV sec.

Africana II C, 3

Tarsatica, Narona,   2 Duboka salsamenta 

IV sec.

Africana II D, 1—> Africana III (Keay 25.1)

1 Savudrija

salsamenta 

fine del III e inizio del  IV sec.

Africana III A, Keay 25.1 A

1 Senj, Split

vino,  salsamenta ?

IV e V sec.

TIPO DELL'ANFORA

NUMERO  TROVATO  SULL'ISOLA 

IMPASTO

Tarsatica, Gonča  sela, Gospe od  Poja, Povile, Senj,  Kastrum (Brijuni)*,  o. Saskinja, Hvar,  Split, Piruzi, Uvala  Marić (Barbariga),  4 Baška, Savudrija vino ? 

Fig. 3. Anfore romane trovate sull’isola di Brač. (Cont.)

Africana III B/Keay 25K‐V

IV sec.

531 fine del IV e prima 

Africana II D, 1—> Africana III (Keay 25.1)

1 Savudrija

Kristina Jelinčić Vučković

Africana III A, Keay 25.1 A TIPO DELL'ANFORA

salsamenta 

fine del III e inizio del  IV sec.

NUMERO  CONFRONTI (parte  TROVATO  croata orientale  vino,  MERCE  salsamenta ? IV e V sec. SULL'ISOLA  1 Senj, Split dell'Adriatico) TRASPORTATA* PERIODO (Split),  Tarsatica, Gonča  Partizanska/kneza  sela, Gospe od  Višeslava (Split),  Poja, Povile, Senj,  Salona, Rt Plavac  Kastrum (Brijuni)*,  kod Zlarina, Brijuni,  seconda metà del II ‐  o. Saskinja, Hvar,  olio,  1 Split, Piruzi, Uvala  Orud salsamenta ? IV sec. 

IMPASTO

Tripolitana II Africana III B/Keay 25K‐V

Marić (Barbariga),  4 Baška, Savudrija vino ? 

Tripolitana III

Orud, Sv. Ivan ‐sz  2 Rovinj?

olio 

Keay 59/Bonifay 37

2

olio

Tripolitana III, tarda

2

olio

Keay 62 Q i R

Povile, Pag,  1 Pelješac  Kastrum (Brijuni)*

III ‐ IV sec. ultimo terzo del V e  prima metà del VI  sec.

Africana II A, 3 (con gradino)

(Prapratna),  Duboka, Lopar,  Jurjevo, Senjska  1 vrata, Fulfinum

salsamenta,  anche vino 

metà o seconda metà  del III sec.

Keay 62 A

1

Africana II C, 1

2 Gradina,  Duboka

Keay 62 O

1 Vis

Africana II C, 2 

1  Duboka

Keay 8B

1 Vis, Pula

fine del III e prima  metà del IV sec. seconda metà del V e  inizio del VI sec. 

Africana II C, 3

Tarsatica, Narona,   2 Duboka salsamenta 

IV sec.

1 Savudrija salsamenta  2 Kastrum (Brijuni)* vino 

seconda metà del VI  fino al VII, secondo  fine del III e inizio del  Bonifay anche  IV sec. seconda metà del VII

Africana II D, 1—> Africana III (Keay 25.1) spatheion 3C/Keay 26

IV sec.

II ‐ III sec. fine del IV e prima  metà del V sec. 

fine del V e prima  metà del VI sec.

salsamenta 

salsamenta 

metà del III fino  dal secondo quarto  all'inizio del IV sec. del V fino alla metà  del VI sec.  

*Datazione e contenuto secondo: Bonifay 2004: 471‐473 vino,  salsamenta ?

Fig. 3. (Cont.) Anfore romane trovate sull’isola di Brač. Africana III A, Keay 25.1 A

1 Senj, Split

Africana III B/Keay 25K‐V

Tarsatica, Gonča  sela, Gospe od  Poja, Povile, Senj,  Kastrum (Brijuni)*,  o. Saskinja, Hvar,  Split, Piruzi, Uvala  Marić (Barbariga),  4 Baška, Savudrija vino ? 

IV e V sec.

IV sec.

532 fine del IV e prima 

Le importazioni africane trovate sull’isola di Brač/Brattia, Dalmazia

TIP0

IMPASTO

TROVATO  CONFRONTI (parte  SULL'ISOL croata orientale  A  dell'Adriatico)

PERIODO

Hayes 8 A/lamboglia 1b

Burnum, Tilurium,  Narona, Kastrum  1 (Brijuni), Baška, Pula

80./90. fino alla fine  del II sec..

Hayes 9 B/Lamboglia 2 c

Burnum, Narona,  Kastrum (Brijuni)*,  2 Palagruža

III sec.

Hayes 8 B

Tilurium, Kastrum  (Brijuni), Tarsatika,  1 Dobrika (Brijuni)

III sec.

Hayes 9 B/Lamboglia 2b

1 Kastrum (Brijuni)

III sec.

Hayes 15

Burnum, Pula, Kastrum  dalla metà del III al IV  sec.  2 (Brijuni)

Hayes 50A

Lorun, Tarsatica, Narona, Dioklecijanova palača, Dugopolje-Vučipolje, Vižula kod Medulina, Fulfinium, Kastrum (Brijuni), Poreč, Sv. Vid-Vid, Luka Veštar, 2 Polače (Mljet), Pula 230/240‐360

Hayes 10 B

2

III‐IV sec.

Hayes 50B

Kastrum (Brijuni), Val  Catena (Brijuni), Hvar,  Split, uvala Marić  (Barbariga), Bošac,  Sreser, Poreč, Sv. Vid ‐  2 Vid.

350‐400 

Hayes 61B

Narona, Dioklecijanova  palača, Kastrum  (Brijuni)*, Val Catena  (Brijuni), Hvar, Sv. Viktor‐ Telašćica, Split, Žunac  (Pula), Uvala Marić  (Barbariga), Palagruža,  Biševo, Salona, Luka  Veštar, Polače (Mljet).  Prima metà del V sec.  fino all'inizio del VI sec. 1 Pula

Hayes 91 C

1 Kastrum (Brijuni), Pula

Hayes 91

Kastrum (Brijuni), Gata,  Dioklecijanova palača,  1 Vis, Uvala Veštar IV-VI sec. ?

stil A (ii)-(iii) 36+69

Kastrum (Brijuni), Uvala  tardo IV fino al terzo  1 Marić (Barbariga) quarto del V sec.

Fig. 4. Sigillata africana (ARS) trovata sull’isola di Brač.

533

VI sec.

Kristina Jelinčić Vučković

TIPO

IMPASTO

NUMERO  TROVATO  SULL'ISOLA 

CONFRONTI (parte  croata orientale  dell'Adriatico)

PERIODO

Hayes 196 B

1 Narona

Hayes 196 A (rani)

Kastrum (Brijuni)*, Val  Catena (Brijuni)*,  1 Makarska, Split fine del II ‐ III sec.

Hayes 185B

Burnum, Narona,  Kastrum (Brijuni)*; Val  Catena (Brijuni)*,  1 Split, Fulfinum fine del II ‐ III sec.

Hayes 184 / Bonifay Culinaire B, type 7

1 Pula?

fine del II ‐ metà  del III sec.  

Mid Roman Plalin Ware 

provjeri sv. Luka  1 Supetar

II ‐ III sec.

Hayes 23B

Lorun, Burnum,  Tarsatica,  Dioklecijanova palača,  Caska, Fulfinium, Pula,  Kastrum (Brijuni), Val  Catena(Brijuni), Split,  2 Bošana, Salona III ‐ IV sec.

Hayes 182

Narona,  Dioklecijanova palača,  seconda metà del  1 Pula  II ‐ IV sec. 

Hayes 196 tardo

1 Burnum, Narona

Fig. 5. Ceramica da cucina africana trovata sull’isola di Brač.

534

II sec

IV ‐ inizio del V sec. 

6.6 Some Evidence for North African Imports at Dyrrachium/ Albania (mid 5th to mid 7th century) Brikena Shkodra-Rrugia Academy of Albanological Studies, Research Institute of Archaeology, Sheshi “Nënë Tereza” [email protected] Abstract: An important port city for shipping along the east shore of the Adriatic, Dyrrachium was also the western terminus of the via Egnatia. Recent archaeological excavations at the Roman amphitheatre and the late Roman Circular Forum unearthed valuable stratigraphic assemblages which provide important evidence for the range of fine wares, amphorae and coarse wares imported from North Africa. The identified trend of this supply for the period including the late 5th to the middle of the 6th century is very different from what occurred in the second half of the 6th and primarily the last quarter of the 6th to the mid 7th century. Substantial quantities of ARS throughout this period and different distribution mechanisms are the main distinct features. Keywords: ARS; Amphorae; ACW; Dyrrachium; Tunisia.

Introduction

in the 2nd century AD, and being persistently present to the end of the 7th century.1

This paper aims to provide a preliminary assessment of the range of ARS (African Red Slipware), African amphorae and cooking pots (ACW) supplied to Dyrrachium in the period from the middle of the 5th to the middle of the 7th century. The objective is to reveal, as far as is possible, the fluctuating pattern of this group of products, despite the limitations of the stratigraphic evidence.

Previously conducted excavations have proved that from the mid 2nd century the variety of Eastern and Italic Sigillata wares in use in the town was gradually being replaced by the supply of northern Tunisian ARS A ware.2 Further work on the site, mostly via rescue excavations but also as part of ongoing systematic research projects, have revealed that the earliest imports of northern Tunisian production centres are represented in considerable quantities,3 and that ARS, amphorae and to some extent the cooking wares are persistently present throughout the Late Antique period.4

The archaeological sequences of Dyrrachium’s long history take the form of a deep superimposed stratification, which is continuously affected by the uncontrolled development of the modern town. Archaeological excavations have shown that the town has been continuously occupied, more or less around the same core, from Antiquity to the modern day. The repeated reuse of space and remodelling of the existing layout resulted in continuous contaminations, which overlay each other. Prevented also by the previously conducted technique of horizontal excavations, valid chronological evidence is very limited.

The discussed material is mainly the result of archaeological work conducted at two of the principal public monuments, the Roman amphitheatre and the late Roman Circular Forum. Recent excavation of the system of fortifications revealed a second half of the 7th century AD context where the presence of the African amphora of type ‘Castrum Perti’ is attested: B. Shkodra-Rrugia, Late Roman Dyrrachium: Excavations at the triangular tower, in L’Illyrie meridionale et l’Epire dans l’antiquite, Actes du VIe colloque international, Tiranë, 2015, fig. 9.10. 2 Reynolds 2010, p. 22, Table 3ab; Shehi, Shkodra 2012, pp. 337–341. 3 Hoti, Metalla, Shehi 2004, pp. 488, 504, 506, 508, 510–512, 515–516; Shehi, Shkodra 2012, p. 341; Shkodra-Rrugia 2017. 4 Shkodra 2006a, pp. 431–444, 451–452; Shkodra 2008, pp. 19–23. 1

Located on the lower Adriatic, at the crossroads of the maritime routes and the western terminus of the Via Egnatia (Fig.1), Dyrrachium was favoured by easy connections with the Roman world. In the widespread network of long-distance links, North African imports, most particularly fine wares, seem to be among the most preferable imported products, beginning to appear at least,

535

Brikena Shkodra-Rrugia The assemblages

floor level.15 The occupation horizon of this floor level, a primary deposition (context III.3b), represents the third group. Overlaying this occupation is the abandonment sequence of the tabernae, context III.3c (fourth group).

Roman Amphitheatre The assemblage from this important public space was recorded during the excavation of 2007 (Context II.1).5 It is documented in the northeastern corner of the excavated zone, Area H, corresponding to the eighth radial gallery of the monument.6 The context survives north of a structure (C 655), possibly contemporary with the amphitheatre. The typological analysis of pottery from here, where the ARS sherds, Hayes 61B3 and Hayes 87A/88 coexist with a PRSW (Phocaean Red Slip ware) bowl of Hayes 3C, supported also by the evidence of the category of amphorae and cooking wares, is to be considered the main dating evidence for this context.

The fifth group (III.4a and III.4c) from the Circular Forum was recovered from above the annular colonnade of the monument. The cleaning of a standing profile, deposited over the marble paving (III.4c) produced some well dated pottery fragments, helping to relate this possible occupation layer with the last phase of use for the Circular Forum.16 Further than this, recent investigations of the material from the excavation of 1999 (III.4a),17 placed over the colonnade, reveal a considerable quantity of the latest phase of ARS and African amphora production, particularly important for the range of imported goods in Dyrrachium during the 7th century.

Late Roman Circular Forum Most of the material treated inof this paper derives from the long-term excavations of the Circular Forum, a unique late Roman structure.7 Two trial trenches excavated in summer 2004 and 2005, a re-excavation and enlargement of an earlier trench opened in 1998–98 adjacent to the north and south faces of the central Rotunda,9 were intended to obtain well stratified archaeological evidence for dating the monument. A contemporaneous assemblage, contexts III.1b, III.1c and III.1d (first chronological group),10 represent the pre and post activities of the construction trench of the central Rotunda.11 These contexts contain considerable Tunisian and East Mediterranean fine wares and amphorae which not only permit us to date the construction of this monument but also to define the range of imported wares at Dyrrachium from the second half of the 5th century to the early 6th century.12

The typology and chronology First chronological group: second half of the 5thto early 6th century (Fig. 2) This definition is primarily based on the amphitheatre assemblage (context II.1) and to some extent on the contexts adjacent the Rotunda of the Circular Forum (contexts III.1b, III.1c and III.1d). A general overview of the range of finds, despite the range of residual examples, indicates that during this time frame the town was being supplied with the main categories of African products for export, amphorae, fine and cooking wares. The fine ware group, though represented with few examples (19), reflects the formation history of the contexts18 and consequently the level of residuality. One easily recognisable trend to be noted is the exclusive supply of the northern Tunisian ARS D, by means of Hayes 61B3 and 87A/88 (Fig. 2.2, 2.3). As is typical for the middle and the end of the 5th century,19 these are the best represented forms. The residual types (13), distinctively Hayes 50B (Fig. 2.1) and Hayes 67A (Fig. 2.4), do further reflect the importance of ARS D ware.

Other assemblages from the Circular Forum, recorded in the peripheral tabernae, provide a chronological sequence of three different phases (the second to the fourth chronological groups).13 This sequence seems to have been deposited between the floor level of the structures (which relates to the construction phase) and the level of graves, which are all overlaid by the tiles of a collapsed roof.14 Group 2 (context III.3a) forms part of the same process, re-deposition for a made-up foundation to create another

The small-sized transport containers are the most distinct finds, mainly consisting of spatheion Bonifay 32A (Fig. 2.7). The squared section of the rim dates the type to the second half/end of the 5th to the first half of the 6th century.20 Though the origin of this type is as yet unclear,21 recent thin section analyses of a group of spatheia from

5 Full details of the context in: B. Shkodra-Rrugia, Researches on late Roman–early Byzantine Dyrrachium (Albania) through the vestige of stratified contexts, forthcoming.. 6 Hoti, Santoro 2009, pp. 1258–1259, fig. 2. 7 For the relevant bibliography: Hoti et al. 2008, pp. 369–371, fig. 2. 8 Hoti et al. 2008, Pl. 40. 9 Hoti et al. 2008, pp. 387–390, figg. 10, 13. 10 For stratigraphic and chronological detail on these contexts: B. Shkodra-Rrugia, Researches on late Roman–early Byzantine Dyrrachium (Albania) through the vestige of stratified contexts, forthcoming. 11 Shkodra 2006b, pp. 264–287; Hoti et al. 2008, phases V–VII, pp. 393–394, fig. 13. 12 Shkodra 2006b, pp. 285–287. 13 B. Shkodra-Rrugia, Researches on late Roman–early Byzantine Dyrrachium (Albania) through the vestige of stratified contexts, forthcoming. 14 Shkodra 2011, p.77, fig. 20.

The particular formation process of these contexts is reflected in the quantity, both, residual and intrusive elements (Fig. 3). 16 Hoti et al. 2008, pp. 379–380, fig. 6. 17 This material is in process of study by the author. 18 The contexts of the Circular Forum are cut through by the construction pit of the Rotunda which caused the mixing up of the layers pre-dating the monument. 19 Bonifay 2004, p. 171, 175, fig. 91. 33, fig. 93. 20 Bonifay 2004, p. 127, fig. 68. 5; Bonifay, Cerova 2008, p. 37, fig. 2.4. 21 Bonifay, Cerova 2008, p. 37. 15

536

Some Evidence for North African Imports at Dyrrachium/Albania (mid 5th to mid 7th century) Dyrrachium reveal the provenance from the Sidi Zahruni workshop for the majority of them.22

wide range of northern Tunisian ARS imports. Residual material too of the second half of the 5th century (Fig. 3.13) and some few from even earlier (Fig. 3.12), indicate further contaminations already in the original deposition. There is also a so far only tentative indication of the possibility of a central Tunisian ARS C ware supply in the town at this time, by means of a single large, heavy rolled rim plate of Hayes 89B (Fig. 3.10).31

The known examples of the big-sized series include one possible representative of Keay XXXV A (Fig. 2.12) originating from Nabeul.23 Other examples of spatheion Bonifay 31B (Fig. 2.6) and an Africana IIA (Fig. 2.5), included within residual finds, do further testify to the importance of Nabeul24 for the amphorae supply at Dyrrachium.

As for the other functional categories of African wares, it is worth mentioning that this phase at Dyrrachium is distinguished by the rare presence of African amphorae and the absence of cooking pots. Recorded amphorae are mainly handles and body sherds with the exception of one Keay LXII A foot (Fig. 3.14).

The ACW evidence, represented by Fulford Casserole 19 (Fig. 2.9),25 is an addition to the range of northern Tunisian ceramic types.26 The residual finds, including ACW Hayes 23 and commune Bonifay 21 (Fig. 2.10–11) enlarge the typological repertoire of the ACW.

Third chronological group: 550–600 (Fig. 5)

The central Tunisian products are represented in the form of transport containers only, as shown by the presence of Keay VIII B.27 The absence of the Vandal forms with rouletted decoration introduced in central Tunisia, ARS Hayes 84, is intriguing, given its presence at Lissos28 and Butrint.29

The third identified chronological group (III.3b), shows the same formation history as group 2, with the largest number of types to be dated mostly to the first and the second half of the 6th century. The quantitative difference reflectedin the diagram (Fig. 4) is only provisional as the respective size of groups 2 and 3 is not comparable. The variety of represented types still attests to their provenance from the Sidi Khalifa and El-Mahrine workshops.

Second chronological group: 520/560 –580/600 (Fig. 3) This chronological group (III.3a) is associated with redepositions for making up new floor levels in the tabernae of the Circular Forum. It indicates a particular increase in ARS imports and an extension of the range of represented types (Fig. 4), which is not also the case for the amphorae and the cooking wares.

What seems to be the case here is the presence of flanged bowls of Hayes 91 (four examples), represented by the classic variant C (Fig. 5.3) and accompanied by a specific variant of Hayes 87C (four examples) (Fig. 5.11) and Hayes 104B (Fig. 5.12), all significant evidence for a date not earlier than 550. However, the range of ARS which dates to the last quarter of the 6th and first half of the 7th century, including Hayes 104A3 (Fig. 5.10), Atlante XLIX,10 (Fig. 5.4), Hayes 87c/109, might give an end date for the creation of group 3 not later than c. AD 600.

The majority of the fine wares are datable to the first half of the 6th century. The most distinct Hayes 87 (eighteen examples) associated with a number of Fulford 40.4 and 50.7, El-Mahrine 31.2, Hayes 79/93v, Hayes 98A/B, Hayes 99A as well as Hayes 104A2 (Fig. 3) not only provide a provisional picture of the nature of late Vandal pottery in Dyrrachium but also indicate a sharing of supply between Sidi Khalifa and Oudna/El-Mahrine.

Echoing the supply of El-Mahrine, a variety of other forms, such as El-Mahrine 18.1, El-Mahrine 21.1, ElMahrine 24.132 and Hayes 93B (Fig. 5), are typical for this group. The supply from Sidi Khalifa can be proved at least on the basis of one large dish rim equivalent to Sidi Jdidi 833 (Fig. 5.7), the clay matrix34 of which seems comparable to ARS C/D characteristics of the Sidi Khalifa workshop.35

A smaller percentage, including Hayes 99B and Hayes 104B (Fig. 3.9), hints at a date around the third quarter of the 6th century for the re-deposition of the group. The occasional presence of ARS Hayes 87/109 (Fig. 3.7), Hayes 109A and Hayes 99C, which remain in circulation during the early decades to the first half of the 7th century, despite positioning the formation of this group around the last quarter of the 6th century (c. 580/600),30 enlarges the

Despite the importance of ARS ware, Tunisian amphorae are not a common element here. One rim example (Fig. 5.13) could well be a Tunisian product on the basis of its clay matrix components,36 as well as of its close typological

Hoti et al. 2008, p. 6. Bonifay 2004, pp. 135–136, figs. 40, 42. 24 Bonifay et al. 2010, fig. 4. 13. 25 Fulford 1984b, p. 85, fig.69. 26 Bonifay 2004, p. 242, fig. 129. 27 Keay 1998, sub-Period 4, p. 147; Bonifay 2004, p. 132, fig.71. 28 Context B-2 from the excavation of 2005 at the apsidal building: material in process of publication by G. Hoxha, B. Shkodra-Rrugia. 29 Bowden et al. 2002, p. 221 fig. 21,11–12. 30 The dating of these forms is placed in the last quarter of the 6th (H 87/109) and the end of the 6th century (Hayes 99C and Hayes 109):

Bonifay 2004, pp. 181, 189. 31 Hayes 1972, pp. 137–139. 32 Mackensen 1993, pp. 335–339, 340–341, 342, Taf. 62, 65. 33 Bonifay 2004, p. 205, fig. 109. 34 Fired light red with very common finegrained quartz, common fine red, black and white inclusions, rarely up to 1mm. 35 Thanks are due to Prof. M. Mackensen for providing comparable samples from this workshop. 36 Its coarse reddish clay matrix consists of abundant white/yellowish eruptions as well as lime and quartz inclusions. Surface is treated with whitish wash.

22 23

537

Brikena Shkodra-Rrugia relevance to Keay XXVI M.37 An unusual amphora rim (Fig. 5.14), of typical reddish Tunisian fabric, could typologically be included within the group of spatheia Bonifay 33B.38 The last examples, linked to the large-sized cylindrical containers, is equivalent to Keay LV A (Fig. 5.15), originating from Nabeul.39

type Keay LXII (Fig. 6.12, 6.14–15) accompanied by a late type of Tripolitana II (Fig. 6.13) comparable to variants of Lepcis Magna,46 a Keay VIII A (Fig. 6.11) and a Keay XXVI M (Fig. 6.10). The represented quantity testifies to an important time period of Tunisian amphorae circulation at Dyrrachium. Furthermore, the distinct presence of the doubled rim amphora type Keay LXII recalls the ongoing discussion of Simon Keay and Paul Reynolds on a late Vandal or early Byzantine date for this amphora.47

Fourth chronological group: 580/600–650 (Fig. 6) This group (context III.3c) forms part of a rubbish deposit including ARS types of the first half and the second half of the 6th century as well as of the first half of the 7th century. A smaller percentage is residuals of the second half of the 5th century. The range of types indicate that ARS is persistently an important fine ware import at Dyrrachium, despite the reduced quantity (Fig. 4), a reflection of the different size of the available contexts.

Fifth chronological group:last quarter of the 6th to first half of the 7th century (Fig. 7) Dyrrachium continued to import considerable quantities of Tunisian ARS and amphorae, as reflected in the fifth chronological group. The range of ARS reveals that the majority date to the first half of the 7th century. The repertoire includes the typical types introduced in the last phase of fine ware productions for export in northern Tunisia, types Hayes 91D, Hayes 104A3, Hayes 105A, Hayes 108, Hayes 109A (Fig. 7.3) and El-Mahrine 50.1 (Fig. 7.4).48 Given the presence of ARS Hayes 91C, Hayes 100 (Fig. 7.1), Hayes 99B, Hayes 104B (Fig. 7.5) and Pheradi Maius 57.4 (Fig. 7.2)49 the formation of group 5 must have taken place after c. 550, perhaps in the last quarter of the 6th century.

The identification of El-Mahrine 23/Hayes 107 (Fig. 6.7), Hayes 108 (Fig. 6.1) and most significantly Hayes 80B/9940 (Fig. 6.4) might be interpreted as an end date for the closing of group 4 around the middle of the 7th century,41 linked to the cleaning of rooms/shops still in function while the deposition of rubbish occurred in other parts of the monument. The majority of the fine wares are datable to the second half of the 6th century. However, the presence of the rolled rim bowl of Hayes 99B (Fig. 6.2) and Hayes 99C (Fig. 6.3), absent or intrusive in preceding groups, as well as Hayes 87/109 (Fig. 6.6),42 could indicate that the main assemblage should be narrowed down to the last quarter of the 6th century. This is confirmed by the presence of Hayes 104B (Fig. 6.9),43 only here in coexistence with Hayes 104C (Fig. 6.5).

The supply of central Tunisian ARS can also be suggested on the basis of specific details revealed by Hayes 105 examples (Fig. 7.6–7), including the granular texture with abundant very fine white inclusions and fine mica, encountered not in the same quantity as in the standard ARS D Hayes 105 variants, as well as the presence of two grooves on the outer face of the foot.50 Reynolds postulates the same origin when arguing on the latest production phase of ARS related to the introduction of Hayes 105 in central Tunisia.51

In terms of regional connections despite the provisional strong links of Dyrrachium with Carthage (Oudna/ElMahrine), supply from Sidi Zahruni can be proved by means of one dish rim equivalent to Pheradi Maius 57.3 (Fig. 6.8).44 There is also detected a possible supply with central Tunisian ARSC. The bowl rim equivalent to Hayes 80B/99 (Fig. 6.4) contains very common fine white éclats and fine mica, common shiny irregular quartz and rare red oxides: characteristics which point to central Tunisia, and more specificallyto Djilma.45

In coherence to the wide range of the latest ARS ware appears a significant variety of Tunisian amphorae of the last export oriented production, including Keay LXI C (Fig. 7.14), late variants of Keay LXII (Fig. 7.10, 7.13), Keay XXXIV B (Fig. 7.12), Bonifay 52 and the spatheia Bonifay 33C and 33D (Fig. 7.8–9, 7.11). Concluding remarks

A clear change is detected in the supply of Tunisian amphorae which seems to be resurgent here with the significant presence of a number of represented variants of

To summarise, it is particularly important to stress the limitations of the quantitative evidence from Dyrrachium and the importance of promoting a greater attempt to provide more and clearer stratigraphic material from this important site. Nevertheless, analysing the available

Keay1984, pp. 218–219, fig. 91. 11–12. Bonifay 2004, p. 129, fig. 69. 39 Bonifay 2004, p. 137, fig. 73. 40 Bonifay 2004, p. 181, fig. 96. 10. 41 Mackensen 1998, pp. 33–39. 42 Bonifay 2004, p. 189, fig. 99. 43 The chronological accertation of the typological development of type Hayes 104 (Variant B), has recently been based on numismatic evidence of the period 580–585, at the Athenian Agora: Hayes 2008, p. 81, no.1160. 44 Ben Moussa 2007, p. 172, fig. 58. 45 Macroscopic comparison to well defined samples from Djilma, kindly provided by Prof. M. Mackensen, suggests this assumption. 37 38

Bonifay, Capelli, Mucaj 2010, pp. 151–158. Reynolds 2004, p. 239. 48 Mackensen 1998, pp. 33–39; Barraud et al. 1998, p. 148; Mackensen, Schneider 2002, pp. 143–151; Bonifay 2004, pp. 484–485; Reynolds 2004, pp. 239–240. 49 Ben Moussa 2007, p. 172, fig. 58. 50 Bonifay 2004, p. 185. 51 Reynolds 2004, p. 239. 46 47

538

Some Evidence for North African Imports at Dyrrachium/Albania (mid 5th to mid 7th century) material is an important addition to the overall knowledge of the range of Tunisian supply on the Albanian shore of the eastern Adriatic. Analysing the typological range of its ARS supply, Dyrrachium seem to have received large quantities throughout the period including the second half of the 5th to the middle of the 7th century, as it is widely detected for certain important Mediterranean centres.52 For the period following the Vandal conquest of Carthage, Dyrrachium experienced a predominance of northern Tunisian ARS, a few central Tunisian as well as occasional amphora and cooking ware imports. The fact that the supply was restricted to considerable quantities of ARS (mainly in group 2 with predominant material from the late Vandal period) and only occasional amphorae suggests different mechanisms at work in Dyrrachium as opposed to the subsequent period. For the period that follows the Byzantine reconquest of North Africa, the slightly reduced quantity of ARS does not seem to reflect an overall pattern of ARS supply in Dyrrachium but rather the incomparable size of the available contexts. The range of the typological repertoire of northern Tunisian ARS D and C/D new forms significantly accompanied also by central Tunisian ARS C examples (mainly in groups 4 and 5) rather indicates a substantial presence of Tunisian fine wares at Dyrrachium. The distinct resurgence of the amphora supply from the last quarter of the 6th century onwardis also notable. The wide range of amphora types in groups 4 and 5 contrasts distinctively with the occasional presence in the late Vandal representative groups 1 and 2. It might be reasonable to suggest that this represents for Dyrrachium the mechanisms of the annona system at work, as it was reimposed following the Byzantine conquest of Africa.53 The wider Mediterranean pattern attests to a restricted North African distribution to sites with a Byzantine military and administrative presence following the Byzantine reconquest.54 Dyrrachium is most probably one of these important enclaves of the Byzantine State. Acknowledgements: I would like to thank very much Oliver Gilkes (Norwich) for improving the English version of this contribution, and for his valuable comments on it.

52 53 54

Tortorella 1998, pp. 51–54, fig. 7. Keay 1998, pp. 147–153. Bonifay 2011, pp. 20–21.

539

Brikena Shkodra-Rrugia

Fig. 1. Map showing sites mentioned in text.

540

Some Evidence for North African Imports at Dyrrachium/Albania (mid 5th to mid 7th century)

Fig. 2. 1) Hayes 50B; 2) Hayes 61B3; 3) Hayes 87A/88; 4) Hayes 67A; 5) Keay LVII; 6) spatheion Bonifay 31B; 7) spatheion Bonifay 32A; 8) Keay VIII B; 9) Fulford Casserole 19; 10) Hayes 23B; 11) commune Bonifay 21; 12) Keay XXXV(?).

541

Brikena Shkodra-Rrugia

Fig. 3. 1) Fulford 40.4; 2) Fulford 50.7; 3) Hayes 99A; 4) El-Mahrine 31.2; 5) Hayes 79/93v; 6) Hayes 87C; 7) Hayes 87/109; 8) Hayes 104A2; 9) Hayes 104B; 10) Hayes 89B; 11) Hayes 98A/B; 12) Hayes 50B; 13) Fulford 30.2; 14) Keay LXII A.

542

Some Evidence for North African Imports at Dyrrachium/Albania (mid 5th to mid 7th century) ARS

Amph

ACW

70 60 50 40 30 20 10 0

Group 1

Group 2

Group 3

Fig. 4. The quantity of represented Tunisian productions.

543

Group 4

Group 5

Brikena Shkodra-Rrugia

Fig. 5. 1) Hayes 93B; 2) Hayes 98A/B; 3) Hayes 91C; 4) Atlante XLIX, 10; 5) El-Mahrine 24.1; 6) El-Mahrine 21.1; 7) Sidi Jdidi 8; 8) El-Mahrine 18.1; 9) Fulford 50.7; 10) Hayes 104A3; 11) Hayes 87C; 12) Hayes 104B; 13) Keay XXVI M; 14) spatheion Bonifay 33B; 15) Keay LV A.

544

Some Evidence for North African Imports at Dyrrachium/Albania (mid 5th to mid 7th century)

Fig. 6. 1) Hayes 108; 2) Hayes 99B; 3) Hayes 99C?; 4) Hayes 80B/99; 5) Hayes 104C; 6) Hayes 87/109; 7) El-Mahrine 23; 8) Pheradi Maius 57.3; 9) Hayes 104B; 10) Keay XXVI M; 11) Keay VIII A; 12) Keay LXII A; 13) Tripolitaine II; 14) Keay LXII Q/Albenga 11–12; 15) Keay LXII D.

545

Brikena Shkodra-Rrugia

Fig. 7. 1) Hayes 100; 2) Pheradi Maius 57.4; 3) Hayes 109A; 4) El-Mahrine 50.1; 5) Hayes 104B; 6–7) Hayes 105A; 8) Bonifay 52; 9) spatheion Bonifay 33C; 10 Keay LXII B; 11) spatheion Bonifay 33D; 12) Keay XXXIV B; 13) Keay LXII M; 14) Keay LXI C; 15) Sidi Jdidi 1.

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