Reencuentro. Dialoghi inediti
 8845266648, 9788845266645

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Luigi Serafini

JORGE LUTS BORGES OSVALDO FERRARI

REENCUENTRO DIALOGHI INEDITI

“IN QUESTI DIALOGHI DILUITI NEL TEMPO, TUTTI, LEGGENDOLI, SAREMO ANCHE SOLO PER UN MOMENTO BORGES.”

Osvaldo Ferrari

Negli ultimi anni della sua vita Jorge Luis Borges si dedica a indimenticabili dialoghi radiofonici con lo scrittore Osvaldo Ferrari. Queste conversazioni non nascono espressamente come interviste, ma dal piacere condiviso di trattare e discutere su temi vari, nonostante la differenza di età. I dialoghi vengono poi raccolti in tre volumi tra il 1985 e il 1987; una selezione appare nel 1992 in Argentina e in Spagna, e viene poi tradotta in Francia, Italia, Portogallo, Svizzera e Germania. Quest’ultimo volume è pubblicato per la prima volta in Argentina in occasione del centenario della nascita dell’autore e raccoglie dialoghi inediti fino a quel momento. Si tratta del libro definitivo delle “conversazioni ”, e si concentra (tranne quella iniziale, che è la prima dei tre anni di collaborazione) sui temi tipici di Borges: la letteratura fantastica, la fantascienza, il tempo, il caso, Gesù Cristo e il cinema; o sulla propria opera letteraria o quella di altri autori, come James Joyce, Oscar Wilde, Adolfo Bioy Casares e Robert Louis Stevenson.. JORGE LUIS BORGES

E nato a Buenos Aires nel 1899 ed è morto in Svizzera nel 1986: per la sua capacità di invenzione in campo narrativo, per la sua lucidità di saggista, per la perfezione del suo stile che unisce classicità e audacia innovativa, appare come uno dei grandi maestri del Novecento. OSVALDO FERRARI

Nato a Buenos Aires nel 1948, è poeta, saggista e professore universitario. Pubblica nel 1974 Poemas de vida e, nel 1981, Poemas autobiograficos. Per molti anni è stato voce della Radio Municipal di Buenos Aires, e qui nel 1984 cominciarono i suoi dialoghi con Jorge Luis Borges, raccolti in seguito in quattro volumi, e tradotti in italiano, francese, tedesco e portoghese.

1 GRANDI TASCABILI BOMPIANI www.bompiani.eu

In cope rtina : In alto © Luigi Sera fini, dal Codex Seraph inianu s, in ba ss o foto graf ia di Borge s © Ulf Andersen/Getty Ima ges. Progetto graf ico: Polystudio. Cover des ign : A+G.

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TASCABILI BOMPIANI 1167

ÌORGE LUTS BORGES REENCUENTRO

con Osvaldo Ferrari

Traduzione di Beatrice Gatti

1 GRANDI TASCABILI BOMPIANI

Titolo originale REENCUENTRO

Conversaciones de Jorge Luis Borges con Osvaldo Ferrari

Realizzazione editoriale NetPhilo Srl ISBN 978-88-452-6932-5 © 1999 Editorial Sudamericana S.A. Humberto 1531 Buenos Aires © 1999 Osvaldo Ferrari © 2011 Bompiani/RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano

I edizione Tascabili Bompiani ottobre 2011

Borges in noi, noi in Borges

Dopo quasi trentanni da quando li ho realizzati, torno a incontrarli, a sentire la voce di Borges e a mera­ vigliarmi come allora; anche più di allora: questi dialo­ ghi, due volte inediti perché non abbiamo mai discusso la maggior parte degli argomenti trattati qui e perché non erano mai apparsi prima in un libro, arrivano fino agli ultimi giorni della nostra comunicazione, nel 1985. Borges così pienamente presente in essi che rin­ contro mi risultò ineffabile; così come la congiunzio­ ne circolare della sua voce, della sua lucidità e della sua immaginazione. Mentre riprendevo familiarità con i contenuti, mi sono sentito, come dice lui nel nostro primo dialogo su Yeats, “ferito, ferito dalla bellezza.” A tutti noi spettava questo nuovo incontro, il “reencuentro” con Borges, con Γinconfondibile fluire della sua intelligenza, della sua sensibilità; con l’inestingui­ bile trama / intreccio della sua passione letteraria, del­ la sua passione etica, della sua percezione zenitale di tutte le cose. Il nuovo incontro, in questo caso, è un insieme di incontri in cui siamo finalmente arrivati a conoscerci, a riconoscerci e a prolungarci - Borges in noi, noi in Borges. Come era solito dire: “Mentre leggiamo Shake­ speare, siamo, anche solo per un momento, Shake­ speare.” In questi dialoghi diluiti nel tempo, tutti noi, leggendoli, saremo anche solo per un momento Borges. Osvaldo Ferrari

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1 Conversazione iniziale (9-3-1984)

OSVALDO FERRARI: Allora iniziamo questo ciclo di conversazioni radiofoniche, Borges, e la prima cosa che vorrei chiederle è come si sente, lei che si è formato ed espresso nel silenzio delle lettere, a esprimersi o a comu­ nicare attraverso la radio. JÖRGE LOUIS BORGES: Sono un po’ nervoso. Ma do­ potutto si passa la vita a parlare e qui stiamo parlando lei e io. La scrittura è occasionale, mentre il dialogo è continuo, no?

Si, ma sembrerebbe che per uno scrittore il dialogo è una forma naturale...

Sì, credo di sì, inoltre si attribuisce a Platone, no?, l’aver inventato il dialogo.

Certo, ma a differenza, ad esempio, dei musicisti e dei pittori...

Be’, loro hanno altre forme di espressione, natural­ mente, mentre io sono più limitato... alle parole. E dopotutto la parola scritta non è molto diversa dalla parola pronunciata. Ora, guardi come in questa epoca, in cui si pensa o in cui si parla della trasmissione uditiva o visiva come di una forma di comunicazione, se si intuisce la presenza

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di chi ascolta, nello stesso modo in cui scrivendo lei pre­ vede la presenza del lettore...

Ah, non lo so, quando scrivo lo faccio come un... come uno sfogo... mi piace scrivere. Sì, questo non vuol dire che credo nel valore di quello che scrivo, ma piuttosto che credo nel piacere di scrivere. Ossia, se fossi Robinson Crusoe, credo che scriverei nella mia isola. Capisco.

Senza pensare ai lettori. Senza pensare ai lettori. Sì, io non penso mai ai lettori, se non nella misura in cui cerco di scrivere in maniera comprensibile; è un semplice atto di cortesia, anche se verso persone del tutto immaginarie o assenti. Non credo che la confusione sia un merito. E crede che senza pensare alla comunicazione, all’im­ provviso la comunicazione, di cui si parla tanto, possa accadere?

No, non penso alla comunicazione. Inoltre quando scrivo qualcosa è perché ho ricevuto qualcosa. Questo significa che credo, molto umilmente, nell’ispirazio­ ne. Cioè credo che tutti gli scrittori siano amanuen­ si. Un amanuense di non si sa chi, di non si sa cosa. Possiamo credere, come credevano gli ebrei, al ruaj, allo spirito; o alla musa, come credevano i greci, o alla “grande memoria”, in cui credeva il poeta irlandese William Butler Yeats... lui credeva che ogni scrittore ereditasse la memoria dei suoi padri, ossia del genere umano; visto che abbiamo due genitori, quattro non­ 8

ni, e così via, questo va avanti a moltiplicarsi secondo una progressione matematica. Pensava che uno scrit­ tore potesse non avere una grande esperienza perso­ nale, ma che potesse comunque contare su un tale vasto passato... lui lo chiamava “la grande memoria”. Potremmo chiamarlo anche “la subcoscienza”, ma “la grande memoria” è più bello, non trova?, una sorgen­ te inestinguibile.

Ma sì. L’idea è la stessa, l’idea di ricevere qualcosa o di ri­ cordare qualcosa.

Lei ha parlato, giustamente, di qualcosa che si nomina sempre meno. Mi ricordo che in occasione di un premio importante ricevuto in Spagna, lei disse che se lo spirito è riuscito a trasmettere qualcosa agli altri grazie a lei, allora saprà che il suo destino si è compiuto. Sono giustificato. Poi l’unico destino possibile per me è quello letterario. Perché è evidente che un uomo che ha commesso l’imprudenza di compiere ottantaquattro anni, che in ogni momento compie ottantacinque anni, che è cieco; insomma, la maggior parte dei miei contemporanei è morta, anche se come può vedere, ci sono persone giovani intorno alla mia vec­ chiaia. Bene, io passo una parte del mio tempo da solo, quindi lo popolo di progetti. Ad esempio que­ sta mattina mi sono svegliato alle sette, e sapevo che mi avrebbero chiamato alle otto e mezza. Ho pensato, allora, di approfittare di quel tempo e ho iniziato a buttare giù, mentalmente, sia chiaro, un sonetto; che tra alcuni giorni sarà un vero e proprio sonetto. Ora è solo un mero abbozzo. Ciò significa che passo buona parte del mio tempo da solo, e devo popolarlo di pro­ getti, di fantasmi, possiamo dire, solo che sono un po’ 9

pauroso, impressionante, no? Inoltre non mi sento per nulla perseguitato dai fantasmi, anzi gli sono grato.

Capisco, ma questa idea che lei offre della musa, dello spirito, in un’epoca in cui la nozione di uno spirito che presieda il movimento dell’arte e della letteratura sem­ bra essersi persa... No, credo di no, sa. Credo che tutti gli scrittori sen­ tano di ricevere qualcosa da qualcuno. O meglio, non possono dare senza aver ricevuto. Ora sono arrivato a un’altra conclusione, che non contraddice quello che ho appena detto; no, piuttosto la completa: ed è che conviene interferire il meno possibile con la sua opera. Soprattutto è importante che le mie opinioni non in­ terferiscano. Quindi, scrivere è un modo di sognare, e si deve cercare di sognare sinceramente. Si sa che tutto è falso, eppure si sa che per qualcuno è vero. Quindi quando io scrivo sto sognando, so che sto sognando, ma cerco di sognare sinceramente.

Capisco, però qualcosa di vero c’è; è vero che qualcosa ci viene dato, che noi lo riceviamo, come dice lei. Sì, io credo di sì, credo che riceviamo in continua­ zione. E credo inoltre, e l’ho detto molte volte, che se uno fosse davvero un poeta, e io sono sicuro di non esserlo, o di esserlo di tanto in tanto, uno sentireb­ be come se ogni istante fosse poetico, ogni momento della sua vita. L’idea che ci siano temi poetici e temi prosaici è un errore, tutto deve essere percepito come poetico. Credo che alcuni poeti, Walt Whitman, per esempio, arrivarono a provare quello che sto dicen­ do, a sentire che ogni momento della loro vita non era meno divino - forse divino è una parola molto ambi­ ziosa -, diciamo meno stupefacente, meno interessan­ te degli altri.

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Ma... Questo momento, per esempio, è abbastanza strano; lei e io stiamo conversando, e allo stesso tempo lei mi ha detto che siamo circondati da una moltitudine invisibile, presente e futura... e forse ipotetica. E piuttosto poetico, no? Quest’idea che non siamo davvero soli, che siamo circondati da un anfiteatro di persone future.

Sì, ma alcune volte ha osservato la sua concezione del­ la creazione come qualcosa che viene ricevuto da chi scri­ ve e da chi crea in generale, è un’idea in qualche modo mistica? Sì, può essere. Perché ci sarebbe un’attesa, e ci sarebbe un ricevere, e ci sarebbe un esprimersi a partire da questo. Credo di sì.

Le è mai capitato di pensare che si tratti di un processo che, sia esso del poeta o dello scrittore, sia anche quello di un mistico? Sì, insomma, e perché non essere un mistico; in ogni caso credo che sia inoffensivo essere un mistico. Glielo chiedo perché...

Sì, lo so, perchè ora si confonde la letteratura, dicia­ mo, con il giornalismo o con la storia.

Esatto.

Ma io credo di no, credo che non si tratti di ripor­ tare dei fatti, be’, non so se usare la parola verità, visto 11

che tutto è vero, ma diciamo, non si tratta di riportare cose che accadono, cose che accadono... a me... e alla mia immaginazione, direi... Giusto, a proposito della sua immaginazione e della sua memoria, c’è moltissima gente che si fa domande sulla sua immaginazione, dove sembra trovare spazio di tutto; cosa può dirci della sua immaginazione e della sua memoria?

Io credo, come il filosofo ebreo francese Bergson, che la memoria sia selettiva, e che ciascuno scelga... che la memoria scelga. Per questo accade che tendia­ mo a dimenticare le cose spiacevoli. Io so di aver pas­ sato undici giorni, e le rispettive notti, in un sanatorio, nel mese di febbraio, ero sdraiato, non potevo muo­ vermi, se mi fossi mosso avrei potuto perdere la vista. Ora, so tutto questo perché me lo hanno raccontato, ma in realtà di quegli undici giorni, e quelle undici notti di caldo intollerabile e di immobilità forzata, non è rimasto che un istante nella mia memoria; eppure devono essere stati terribili mentre li vivevo. Ma ades­ so lo racconto come se fosse accaduto a un altro. Al contrario mi piace pensare ai momenti di felicità; e forse, a volte, esagero quella stessa felicità dal momen­ to che mi piace ricordarla.

In qualche modo la memoria del suo personaggio Dahlman, nel racconto, “Il sud”, è quella di quegli un­ dici giorni?

Ah, certo... ma chiaro, sì, facevo riferimento a un’al­ tra operazione, visto che ho passato buona parte della mia vita in sanatori: ma non importa, visto che ho di­ menticato. Sì, per esempio quando feci un’operazione in un sanatorio di Palermo, una lunga operazione con una lunga convalescenza in un sanatorio di calle Brasil, 12

vicino a Constitucion. Ma li conosco in quanto fatti, non come esperienze personali. Diciamo che li cono­ sco allo stesso modo in cui so che mio nonno Borges combatte nella battaglia di Caseros e aveva diciassette anni. Quindi come qualcosa che ho sentito.

Ma quindi lei crede che si coltivi la memoria? Lei ha elaborato in qualche modo un processo tramite il quale ha potuto coltivare la sua memoria nel tempo? Perché sembrerebbe una memoria che si è sviluppata nel tempo. Credo che la cecità possa avermi aiutato.

Ah, capisco. È ovvio che se recuperassi la vista, non uscirei da questa casa, leggerei tutti i libri che ci circondano, che sono insieme così vicini e così lontani, ma purtroppo la lettura di questi libri non mi è concessa, posso solo sen­ tire quando vengono letti, e c’è una grande differenza visto che la possibilità di guardare un libro mi è negata. Qualcuno viene qui, io gli chiedo che mi legga qualco­ sa, che mi leggano in ordine; ma il fatto di poter guar­ dare un libro, di omettere, di saltare, questo mi viene negato, ovviamente, e fa parte del piacere della lettura.

Allora possiamo dire che la cecità ha contribuito in modo magnifico alla sua memoria e alla sua immagina­ zione. Anche se così non fosse, devo comunque cercare di pensarlo. Devo pensare che la cecità sia come tutto ciò che ci capita, un dono. E infatti sappiamo già che le di­ sgrazie sono un dono, visto che dalle disgrazie sono nate le tragedie, e poi forse... tutta la poesia. Non so se la fe­ licità sarebbe utile in questo senso; la felicità è un fine di per se stessa, al contrario la disgrazia non lo è. Il dovere

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di un artista, di qualunque artista - magari fossi un mu­ sicista, o un pittore, come mia sorella, ma no, io sono uno scrittore - è trasmutare le cose che succedono in qualcosa di diverso. Naturalmente nel mio caso sono limitato dalle parole, inoltre so che il mio destino è la lingua spagnola. Devo cercare di fare il possibile con questi mezzi e dentro questa tradizione, visto che ogni lingua è una tradizione. Questa mattina ho scritto una poesia e uno dei temi è che le lingue non si equivalgono, ciascuno è un nuovo modo di percepire il mondo. Attualmente sto cercando di im­ parare un po’ di giapponese, e la difficoltà non sta nel me­ morizzare le parole; ma piuttosto nel fatto che sento tutto quel mondo come qualcosa di molto distante da me, an­ che se desidero conoscerlo, considerato che ho trascorso le cinque settimane più felici della mia vita in Giappone: ogni giorno un dono, ho visitato sette città, la gente era di una cortesia straordinaria; e con Maria Kodama abbiamo visitato templi, giardini, fiumi, santuari.

Come tornerà a fare tra poco. Sì, ho parlato con monaci e monache che hanno fede in Budda e nello shintoismo. Non avrei mai pensato che fosse possibile, eppure stavo conversando con loro. Mi sembrava davvero incredibile. In quel momento l’immaginazione si confrontava con la realtà.

Sì, ero arrivato a credere che alla mia età non potes­ se succedermi nulla di nuovo, che ormai avessi esauri­ to il mio numero di esperienze, che avrei solo potuto ripeterle. Ma poi è arrivato quello splendido dono: un invito in Giappone. Ci ha invitati la Japan Foudation per quattro settimane. Quelle quattro settimane di­ ventarono cinque. Chiesi loro di non anticiparmi nulla, poiché desideravo che ogni giorno fosse una sorpresa, 14

e la sorpresa poteva essere un santuario buddista, un giardino: quei piccoli giardini giapponesi che non ven­ gono fatti per passeggiare ma per essere visti, dove la roccia e l’acqua sono più importanti della vegetazione. Poi ho avuto anche l’opportunità di parlare con alcuni scrittori e monaci, monaci buddisti e shintoisti. Sembrerebbe sia stata una specie di corrispondenza dell’immaginazione attraverso il tempo. Sì.

Ma c’è un’altra risorsa inesauribile in lei, Borges, di cui si parla a Buenos Aires come fosse unica, parlo dell’inge­ gno. La gente è abituata ad ascoltare attraverso i mezzi di comunicazione un Borges ingegnoso. No, non sono ingegnoso, o comunque non cerco di esserlo...

Parlo di ingegno letterario. No, quando faccio conversazione in realtà sto solo pensando a voce alta. Non cerco di essere ingegnoso. E non mi piacciono i giochi di parole...

Sì, ma quando l’ingegno comprende lo humor, la po­ litica. ..

Ah, questa è un’altra cosa. La società, la letteratura: allora si tratta di una visione ingegnosa del mondo. Sì, può essere. Forse nel mio caso non lo è... Forse il genio e l’ingegno si assomigliano un po’.

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“Genio” mi sembra una parola molto ambiziosa. “Ingegno” poi sembra qualcosa di vanitoso, no? Non credo di essere ingegnoso. Decidere di essere ingegnoso, in qualche modo; lei lo è senza decidere di esserlo.

Verbalmente, diciamo, no. Mentre che mi sovvenga­ no delle cose, sì. Ma sono più invenzioni che giochi di parole, che personalmente detesto. Anche se mi piac­ ciono le rime, che sono, a ben vedere, dei giochi di parole. (Ridel) Capisco. O meglio, le rime sono un gioco con le possibilità poetiche delle parole. Si dice che le rime siano sempre le stesse e che occorra cercare, piuttosto, diverse asso­ ciazioni, e uno sa già che dopo l’ombra, si sgombra, no?

Certo, ora per questa prima volta doppiamo salutare i nostri ascoltatori... Davvero? Che peccato.

Ma li ritroveremo venerdì prossimo. Ma se abbiamo parlato solo tre minuti...

Sicuro, sembra che siano passati solo tre minuti, ma è finito il tempo. Bene, grazie. Grazie a lei.

No, grazie a lei, grazie.

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2 Il libro del cielo e dell’inferno, Stevenson, Bunyan

Osvaldo Ferrari: Borges, nel libro che scrisse con Bioy Casares, Libro del cielo e dell’inferno, ho trovato un frammento di Stevenson che si intitola “Contro il cielo”. JÖRGE LOUIS BORGES:

Sì.

E inizia cosi: “La gioia, eterna o temporanea, non è la ricompensa che cerca l’uomo...”

Anche Bernard Shaw dice una cosa simile nel Mag­ giore Barbara·. “Mi sono liberato della corruzione del cielo”. Quindi la stessa idea, no? Giusto, la stessa. Ma può significare anche un’altra cosa, può signi­ ficare che la gioia non basta, che è necessario... uno sforzo. Perché c’è una poesia di Tennyson in cui parla dell’anima, e dice che questa non desidera riposare in un cielo d’oro, quanto piuttosto “the work of going on and not to die” (il lavoro di andare avanti e non morire). Quello che vuole l’anima è il permesso di continuare a vivere e non morire, quello che vuole l’anima è l’attività in sé, il lavoro suppongo, no?

Certo, un modo per essere eterna. Sì, ma eterna in maniera non oziosa, eterna sforzan­ dosi e lavorando.

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Poi Stevenson aggiunge: "Non lo dirò a voce alta, per­ ché una convinzione prediletta dell’uomo è il suo attacca­ mento alla felicità che tanto disdegna; per questo gli con­ viene credere a una felicità ulteriore: non deve fermarsi a provarla; può consegnarsi all’aspro e amaro compito che tanto rallegra il suo cuore; eppure può incantarsi con quel racconto di onde di un’eterna riunione sociale e godere della fantasia che lui è, allo stesso tempo, se stesso e un altro, e che si riunirà con i suoi amici, tutti stirati e castrati eppure amabili.. (Ridel) Sì, ricordo quest’ultima frase. Be’, suppongo che la conversazione in quella riunione sociale a cui fa riferimento Stevenson sarà un lungo dialogo senza di­ scussioni, no? Una specie di vaga armonia: una riunione sociale infinita. Cioè non era questo che incantava Ste­ venson, ma lo soddisfaceva la speranza; questa speranza, non la sua concretizzazione, o il compimento del desi­ derio; poiché l’importante era il desiderio in sé. Ora, il titolo (Contro il cielo) non è senz’altro quello, deve averlo inventato Bioy Casares, perché dovevamo metterci un ti­ tolo, e quello era un frammento di un saggio molto lungo. Corrisponde alle lettere di Stevenson? Ah, certo. Mđ anche l’ultima frase è molto interessante; termina così: “Come se l’amore non si nutrisse dei difetti della per­ sona amata.”

Esatto, e questo appartiene al suo epistolario. L’epi­ stolario del 1886. Borges, sembra che nel corso del tempo le lettere di Stevenson siano state trasmesse da lei ad altri di Buenos Aires, come sappiamo. 18

Sì, e credo di averle raccontato che uno dei fatti più piacevoli della mia vita - che mi è successo poco tempo fa - è avvenuto quando ho incrociato un ragazzo per strada, che mi ha detto: “Devo ringraziarla, signor Bor­ ges”. “Perché?” gli ho chiesto io, e lui mi ha risposto: “Lei mi ha fatto conoscere Robert Louis Stevenson”. E ho pensato: in questo caso, mi sento giustificato. Non so come si chiama, non so nulla di lui in realtà; quell’incontro è stato così perfetto che non era neces­ sario aggiungere nomi propri. Basta la testimonianza.

Basta la testimonianza, e basta il nome di Stevenson che pure è perfetto, perché se lui mi avesse detto: “Lei mi ha fatto conoscere Milton o Shakespeare” la frase non avrebbe avuto alcuna forza, no? Nessuna efficacia. L’importante è aver fatto riferimento a uno scrittore così amabile come Stevenson.

Mi ha detto anche che forse in alcuni paesi, compre­ so il nostro, Stevenson non viene apprezzato in tutta la sua grandezza perché viene associato ai libri per ragazzi; come accade anche ad altri scrittori. Sì, è pericoloso per uno scrittore scrivere per i bam­ bini, perché si finisce per credere che tutto quello che ha scritto sia stato per i bambini. Così, per esempio, non aiuta la fama di Kipling aver scritto Just so stories (Solo storie) o 11 libro della giungla, perché è per questi che viene giudicato. Poi ci sono altri casi, come quello di Lewis Carroll, per cui si crede che i due volumi di Alice nel paese delle meraviglie siano per bambini. Insomma, sono per bambini, ma sono anche per grandi, e ciò non importa, si insiste sono nell’aspetto infantile di questi libri.

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Nel caso di Stevenson, lo si identifica irrimediabil­ mente con L’isola del tesoro. Sì, forse a Silvina Ocampo non conviene aver scrit­ to un libro bellissimo: Liarancia meravigliosa, perché chiunque labbia letto la giudicherà per quello e pen­ serà che anche gli altri suoi libri siano uguali. E non sono meno belli, solo sono diversi.

Be’, lei ha la fortuna di averli scritti in una fase più avanzata della sua carriera. Diciamo che è stata cono­ sciuta prima per i racconti e le poesie. Ma non so se sia abbastanza conosciuta.

In effetti no, ha ragione.

Sono stato a... credo che si chiami Exaltacion de la Cruz, e mi hanno chiesto di nominare il miglior scrit­ tore argentino contemporaneo, e quando ho parlato di Silvina Ocampo mi sono reso conto che quel nome non diceva nulla. Rimasero ad ascoltare, poi qualcuno ha pensato che si trattasse di un errore, e che volessi dire Victoria Ocampo, solo avevo sbagliato nome. Ho dovuto spiegare di no, ma alla fine sembra che questo nome non abbia acquisito l’eco, la risonanza e il rico­ noscimento che merita. Si è verificato il solito equivoco di sempre.

Sì. Di confonderla con Victoria Ocampo. E di vederla solo in funzione di sua sorella maggio­ re, di Victoria.

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E del suo matrimonio con Bioy Casares e della sua amicizia con Borges.

Non so se si è pensato anche all’ultima cosa. Sì, chiaro, si può pensare a lei come sorella minore di Victoria e come moglie di Bioy Casares, e basta. (Ridei) Il libro a cui ho fatto riferimento, Il libro del cielo e dell’inferno, che ha scritto con Bioy Casares, venne fatto con l’idea di raccogliere una serie di testi legati al tema del cielo e dell’inferno?

Quello che cercavamo era un libro eterogeneo e pittoresco, e credo che sia entrambe le cose. Certo che lo è, ed è anche molto vario: vengono citati un gran numero di autori.

Sì, e tra loro anche mistici come Swedenborg. Sì.

Ci sono suoi testi. E i riferimenti al cielo e all’in­ ferno sono molti... ora, credo che non abbiamo inclu­ so nessuna citazione dantesca. Perché? Perché è fin troppo evidente, o perché avremmo dovuto citarlo in castigliano, e abbiamo capito che quel testo, tradotto, avrebbe perso qualcosa, visto che sembra impossibile che in un libro sul cielo e l’inferno non vengono citati Ylnferno e il Paradiso, giusto? In compenso avete citato un altro scrittore inglese, che viene strettamente collegato con il misticismo: John Bunyan.

Ah, Bunyan, credo che abbiamo ripreso l’ultima pagina del Pilgrim’s Progress, vero? 21

Sì, ed è stupenda. E quel personaggio che si chiama Coraggioso per la verità.

Esattamente, quello “il cui orcio si era infranto sulla fonte”.

Sì, e il passaggio che abbiamo citato noi venne cita­ to anche da Bernard Shaw in un articolo in cui affer­ ma che Bunyan è più drastico di Shakespeare, citan­ do appunto quello e altri passaggi. E probabile che Shaw volesse anche scandalizzare un poco, no? Visto che “più di Shakespeare” è una dichiarazione che si fa difficilmente in Inghilterra, anche se sono in molti a pensarlo; viene percepita come una lieve eresia, o comunque un’eresia accettabile.

Mi interessa sapere la sua opinione su quel libro tanto famoso nella letteratura inglese, The Pilgrims Progress. È un’allegoria, ma per poterlo apprezzare a pieno, chi lo legge deve dimenticare che si tratta di un’alle­ goria; e credo che questo valga per tutte le allegorie. Ossia, se si pensa che quei personaggi corrisponda­ no ai loro nomi - si chiamano, ad esempio, il signor ipocrita, il signor bugiardo - se si legge il libro così, quella è una lettura che rapisce. Come tradurrebbe il titolo? Credo che dovrebbe essere “Il cammino del pelle­ grino”, ma non suona bene. “Progress” reso con “pro­ gresso”, no; cammino, via... non lo so. “Il percorso del pellegrino”? Ma le parole sono così misteriose, forse la cosa più importante di ogni parola è il suo ambiente, più che la parola stessa. 22

ln America si studia questo libro all’università. È un libro di facile lettura, di felice lettura, ed è tutto basato su testi biblici. Per esempio, nell’edizio­ ne che ho io, a margine si legge: “Ecclesiaste, capitolo tale, versetto talaltro”. Quindi un libro come quello, che ha una grande vita propria, è comunque nato da una lunga serie di citazioni.

Forse ha a che vedere con il carattere mistico che viene attribuito a Bunyan. Sì, ho letto altri suoi libri, e la sua autobiografia, in cui lui si ritrae come un terribile peccatore, e i peccati che confessa non sono tanto gravi. Ma dopotutto ha sentito un profondo senso di colpa. E una delle più belle frasi, di cui abbiamo già parlato, era su suo pa­ dre, un fornaio. Dice: “My father was a baker of human bread” (Mio padre fu un panettiere di pane umano). Fa sentire bene, no?, inoltre il pane ha una tradizione che altri alimenti non hanno.

In particolare il pane si può associare alla carne. Sì, nel Padre Nostro, “dacci oggi il nostro pane quo­ tidiano”, significa alimento. E c’è non so quale setta protestante che lo traduce così: “Give of this day our supernatural bread” (Dacci il pane sovrannaturale di questo giorno), e suppongo che implica che non si sta chiedendo un dono alimentare ma un dono spirituale.

Certo.

Che strano che mi parli di questo. Stavo dando un’occhiata ai nove volumi di storia di Erodoto, dove si parla di una discussione, che pare sia avvenuta, tra pelasgi ed egizi, su quale fosse la nazione più antica. 23

Così si risolsero a fare un esperimento, che consisteva nel prendere due bambini che fossero stati cresciuti prima da un pastore, e poi da donne a cui era stata tagliata la lingua. Dopo anni i bambini parlarono, e la prima parola che dissero, ora non la ricordo, ma era una parola che in pelasgi - non in egizio - significava pane. E da quello capirono che si trattava del primo linguaggio dell’umanità.

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La casualità

Osvaldo Ferrari: Più che nella magia, più che nella rivelazione, più che nei miracoli, lei, Borges, sembra cre­ dere nella casualità, in quella legge fisica che lei estende al piano spirituale. JÖRGE LOUIS BORGES: Sì, anche quella legge è abba­ stanza misteriosa. Non si sa perché alcune cause deb­ bano produrre un determinato effetto. Eppure io credo dogmaticamente in essa, anche se non potrei spiegarla. Proprio ora che mi dice questo, mi rendo conto che si tratta di una legge arbitraria; insomma, se la magia avesse forma, sarebbe un’estensione della legge della casualità, no? E anche la superstizione, diciamo.

Aggiunge...

Sì, per esempio: se a una tavola si siedono tredici commensali, uno di loro morirà entro l’anno... De Quincey trovò una spiegazione, o pseudo-spiegazione, a questa legge - credo la condividano anche gli stoici ed è questa: se supponiamo che l’universo sia un uni­ co organismo, allora c’è una relazione necessaria tra ciascuna delle sue parti; e di conseguenza può esserci anche una relazione tra il fatto che versiamo del sale, rompiamo uno specchio, passiamo sotto una scala, ci sediamo in tredici allo stesso tavolo e un fatto qualsiasi che succede dopo... ora, credo che spesso si confonda­ no due cose; per esempio, parliamo dell’astrologia: si suppone che ci sia una relazione tra la configurazione 25

degli astri e il fatto che un uomo venga generato in uno o un altro punto di quella configurazione. Ecco la base dell’astrologia. Ma una cosa è ammettere che esiste una relazione, e l’altra è che la si possa provare e studiare. Eppure le due cose si confondono. Di cer­ to se l’universo è uno, come afferma De Quincey, le sue parti più piccole sono uno specchio segreto delle più grandi; è tutto connesso. Ma che si possa verificare tale connessione, mi sembra molto più difficile. Senza dubbio c’è una relazione tra una pagina scritta da me e il mio carattere. Se ne occupa la grafologia; ma che si possa studiare una simile relazione mi sembra dav­ vero difficile. Le due cose vengono confuse: si suppo­ ne che uno ammetta che quella relazione possa essere analizzata. Lì iniziano le difficoltà... sono pronto ad ammettere che esista un legame tra tutto ciò che acca­ de nell’universo, o in ogni caso non è illogico suppor­ lo. Ma il fatto che tale relazione si possa studiare, mi sembra molto più difficile. O ancora, cercando nuovi esempi di superstizione, di sicuro c’è un legame tra ogni individuo e i sogni che fa...

In ogni caso lei non sarebbe disposto ad accettare l’on­ nipotenza della psicologia e della sociologia.

No, credo sia molto difficile che la malattia di una persona si possa curare studiando i suoi sogni. Che esista una relazione lo posso ammettere, ma i legami tra una malattia sofferta da un uomo e i sogni, devono essere così complessi e ramificati che non so se si pos­ sano studiare. Ossia, non so se uno psichiatra possa curare un malato, anche se i sogni possono avere una connessione con la sua malattia; soprattutto se si tratta di una malattia mentale. Chiaro, si tratta di due aspetti distinti, ma, tornando alla casualità, mi pare che lei creda che non debba neces-

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sanamente essere determinata da un Dio o da un potere trascendente. No, uno potrebbe pensare a tutta la storia univer­ sale, prima o, per usare parole più ambiziose, in tutto il processo cosmico precedente; senza dubbio è tutto collegato, ma che tutto questo si possa decifrare credo vada al di là dell’intelligenza umana e forse di una ipotetica intelligenza divina.

Che l’origine si possa decifrare.

Certo, proprio così. Insomma, se esiste, perché no. Dunica cosa di cui mi sembra sicuro è l’idea di pre­ destinazione, la relazione tra la casualità e la predeter­ minazione. Il fatto che certe cause o certi effetti siano predestinati a verificarsi in un certo modo. Sì, ma che qualcuno conosca tale predestinazione, o che qualcuno la osservi, è una cosa diversa, no? So­ prattutto nel caso, per esempio, del calvinismo o del puritanesimo, che viene dal calvinismo, l’idea che una persona sia predestinata al paradiso o all’inferno - se simili istituzioni postume esistano - questo mi sem­ bra difficile. Quindi, che ci sia predestinazione sì, ma che qualcuno la conosca... ovvio che un’intelligenza infinita è per definizione capace di tutto, ma non so se la frase “intelligenza infinita” abbia alcun senso, o se sia semplicemente un abuso, o una distrazione del linguaggio. Quindi non possiamo sapere se qualcosa o qualcuno determina la casualità o la predestinazione.

Sì, e possono esistere al di là di un soggetto che le conosca. 27

A proposito delle religioni, abbiamo parlato da poco di un aspetto che mi sembra importante: si potrebbe pen­ sare che gli uomini credano in una religione o in una mitologia a seconda del clima spirituale o magico in cui sono immersi. Citavamo il caso di Platone: i greci pos­ sono averlo compreso nel loro tempo, perché nella vita greca la poesia e la filosofia si vivevano nella realtà; face­ vano parte della realtà. Sì, ma non so fino a che punto si pensasse che paro­ le come Eros corrispondessero a un essere, o fossero metafore di qualcosa. Non lo sapremo mai, e non sa­ premo se questo cambiasse tra i credenti o i non cre­ denti. Vede, in latino, per esempio, si dice: Sub Jove (sotto Giove) che significa in balia delle intemperie; ciò indica che in qualche modo Giove era associato allo spazio. Un po’ come il Deus sive natura di Spino­ za, no? Dio o la natura. Sì, ora quel clima spirituale o magico in cui le cose sono più credibili può essersi manifestato, secondo al­ cune ipotesi, tra i contemporanei di Cristo, che possono averlo visto e riconosciuto solo se avevano gli occhi pre­ disposti per vederlo. Spiritualmente predisposti, diciamo.

E forse quanto più era semplice la gente, tanto più facile era ammetterlo. Mio padre mi raccontava che il vescovo di Paranà viaggiò attraverso la provincia di Entre Rios; e quel personaggio, che era vestito di nero, che viaggiava su una carrozza importante, richiamava l’attenzione degli abitanti. Poi, quando se ne andava da un posto, o da una stanza, i gauchos discutevano tra loro chiedendosi se quello che era stato lì, tra loro, era il vescovo di Paranà o se era Dio. (Ridono entrambi} Ma, come mi disse mio padre, è possibile che per quei gauchos quelle due parole non fossero poi così diverse. Perché ora pensiamo al vescovo di Paranà come a un 28

funzionario ecclesiastico; e a Dio come al creatore del cielo e della terra, che vive nell’eternità e non nel tem­ po. Ma chi sa se questa distinzione era valida anche per i gauchos del 1880, nella provincia di Entre Rios. Forse era solo una discussione verbale, no?

Certo. Ho scelto una sua poesia, Borges, in cui credo si trovi la sua idea di predestinazione. Si tratta del Labi­ rinto, non so se si ricorda.

.. .temo di averla scritta, se la leggesse potrei iden­ tificarla, o no.

Ho intenzione di leggerla. Bene. Avremo tempo per quattordici versi?

(Ride.,) Credo di sì. Nel Labirinto si legge: “Zeus non potrebbe sciogliere le reti di pietra che mi stringono...”

Quello che parla chi è? Zeus o il Minotauro?

Avrei voluto chiederle la stessa cosa. Ah, va bene, vedremo. “Di pietra che mi stringono. Ho scordato / gli uomini che fui; seguo l’odiato / sentiero di monotone pareti / eh’è il mio destino. Dritte gallerie / che si incurvano in circoli segreti, / passati che sian gli anni...”

Chiaro, questi versi ci fanno capire quanto è vasto il labirinto, visto che la curva sembra una linea retta e non si nota visivamente la sua piega. Quindi ciò che si vede, poiché la muraglia è molto vasta, è una linea retta; ma di fatto c’è una lieve curvatura ed è parte di un circolo. 29

Poi continua: “Parapetti / in cui l’uso dei giorni ha aperto crepe. / Nella pallida polvere decifro / orme te­ mute. Paria m’ha recato / nei concavi crepuscoli un bra­ mito / o l’eco d’un bramito desolato. / Nell’ombra un Altro so, di cui la sorte / è stancare le lunghe solitudini / che intessono e disfanno questo Ade / e bramare il mio sangue, la mia morte. / Ci cerchiamo l’un l’altro. Fosse almeno / questo l’ultimo giorno dell’attesa.”

Bene, ora che siamo arrivati alla fine del sonetto, non so se si tratti di Teseo, del Minotauro o di qualcu­ no che è entrambi allo stesso tempo. Il poema sarebbe più efficace se il soggetto fosse Teseo o il Minotauro o, meglio ancora, tutti e due. Perché lì sembra sia passato molto tempo e quel tempo corrisponde di più al Mino­ tauro, abitante del labirinto, che non a Teseo, il quale dopotutto è un esploratore, no? Un ospite.

Un ospite, un esploratore, forse così la poesia sareb­ be migliore; lasciamolo nel vago. E poi perché cercare una spiegazione? Quello che direi ora non avrà più va­ lore della poesia in sé, che continuerà a essere letta, e che continuerà a ramificarsi e a diventare grande come il labirinto di cui parla. L’ho scelto come esempio della sua visione della pre­ destinazione, ma ora penso che sia una delle sue poesie più originali; non so se sia d’accordo con me.

Ora che me lo ha rivelato, mi piace davvero; mi pia­ ce soprattutto per la vaghezza che caratterizza la voce narrante.

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4 Letteratura fantastica e fantascienza

Osvaldo Ferrari ha posto a Jorge Luis Borges le se­ guenti domande, proposte dal critico italiano Lucio D’Arcangelo e dallo scrittore Angel Bonomini: OSVALDO FERRARI: Quali sono le differenze fondamentali tra la letteratura realistica e la letteratura fan­ tastica?

Jorge Louis borges: Visto che non sappiamo se l’universo appartiene al genere realistico o a quello fantastico, la differenza sta nel lettore, innanzitutto, e anche nell’intenzione dello scrittore. Ma secondo l’idealismo, tutto è fantastico o tutto è reale. Finireb­ be per essere la stessa cosa. Parlando del nostro secolo, alcuni parlano di fantasti­ co senza fantasmi, intellettuale, metafisico; e quindi di un discorso fantastico molto vicino al paradosso. Cosa ne pensa?

Il primo scrittore argentino che coltiva deliberatamente il genere fantastico è, credo, Leopoldo Lugones, con Le strane forze e, in effetti, in Isur non ci sono fantasmi; c’è la storia fantastica della scimmia che diventò pazza cercando di parlare; e quel libro, che spesso viene dimenticato, venne pubblicato nella pri­ ma decade del XX secolo, all’inizio credo. Ma certo era un libro che non faceva gioco alla prosa decorativa dei modernisti, né alla prosa deliberatamente arcaica

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di quanti imitavano gli spagnoli, quindi passò per lo più inosservato. Ed era un gran libro davvero: nella Antologia della letteratura fantastica, che curammo Silvina Ocampo, Bioy Casares ed io, non includemmo quel racconto, ma un altro, “I cavalli di Adbera”, che prendeva spunto da un sonetto di... Heredia. Come si spiega, chiedono, il rinascimento della lette­ ratura fantastica in Argentina? Non lo so, suppongo di esserne uno dei colpevoli. {Ridono entrambi?) Ma è naturale che sia colpevole, visto che una delle mie prime letture furono i raccon­ ti di Poe, e quei suoi indimenticabili incubi; i luci­ di incubi di Welles, intitolati La macchina del tempo, Lisola del dottor Moreau, I primi uomini sulla Luna, Luomo invisibile ed altri. E lì che sono tornato con i miei primi racconti fantastici.

Alcuni sostengono che nel futuro non ci sarà spazio per la letteratura fantastica. Perché? E che verrà rimpiazzata dalla fantascienza. Lo pensa anche lei?

Innanzitutto fantascienza è una traduzione sbaglia­ ta. Perché quando in inglese ci sono parole composte, la prima ha valore di aggettivo; quindi science fiction dovrebbe, secondo la grammatica, secondo la logica, essere tradotta come “finzione scientifica” e non come “fantascienza”, che è un’assurdità. Ad esempio, se si dice waterfall, non viene tradotto come “acqua caduta”, ma come “caduta d’acqua, cascata”. Non so come sia stato possibile incorrere in un simile errore; e tut­ to il mondo parla di fantascienza, una vera assurdità. 32

È finzione scientifica, neanche una parola composta. Ma qual era la domanda? Mi sono perso nelle etimo­ logie. (Ridono entrambi.)

Se lei pensa che la letteratura fantastica verrà rim­ piazzata. ..

No, perché? Personalmente sono convinto dell’in­ feriorità della finzione scientifica. Perché, ad esem­ pio, se ci dicono che se un uomo si mette un anello, come nella saga dei Nubelunghi, diventa invisibile, ci richiedono solo un atto di fede. Al contrario, se ci di­ cono che deve immergersi in un liquido speciale, che deve essere vino; che deve essere nudo affinché non si vedano i vestiti, come nel mirabile Uomo invisibile di Welles, ci chiedono più atti di fede. E ci chiedia­ mo anche perché l’autore ha inventato un simile mar­ chingegno. Nell’altro caso ci chiedono un solo atto di fede, più tradizionale, in cui c’è un oggetto magico, e noi lo accettiamo più facilmente. Quindi secondo me è plausibile che con il tempo si ritorni al sistema che prevedeva un solo oggetto magico, un solo atto di fede, e non tanti, o l’utilizzo di laboratori attrezzati. Credo sia più facile accettare un anello che non un laboratorio. Almeno secondo me, che non so nulla di scienza.

Lo capisco. Sì, ma alla fine la finzione scientifica sarebbe solo un altro genere all’interno della finzione fantastica, niente di più. Non ci si dovrebbe opporre.

In un certo senso, una letteratura potrebbe essere, se non definita, almeno delimitata dalle sue possibili tematiche. Potrebbe parlarci della tematica della lette­ ratura fantastica?

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Suppongo che con tematica intenda dire tema, ma oggi si preferiscono le parole sdrucciole, no?, le parole lunghe: metodologia invece di metodo; tematica invece di tema... comunque ritengo che siano i temi di ogni letteratura. Ad esempio, Welles, nella sua autobiogra­ fia, scrive che si sentiva molto solo, era un ragazzo gio­ vane, tubercolotico, era arrivato a Londra dal Kent ed era molto povero. Quindi, per dare un senso alla sua solitudine, scrisse Cuomo invisibile. Ma al principio lo spunto gli venne da quella stessa solitudine. Quindi l’origine della lettura fantastica è la stessa di ogni altra forma di letteratura: sono le emozioni.

Certo. E senza di esse non si può scrivere. Non so perché alla gente piaccia tanto l’idea che una macchina possa scrivere poesie. Insomma, non è impossibile che acca­ da, ma che bisogno ha una macchina di farlo: nessuna. Se io provo un’emozione, invece, posso sfogarmi con i miei mezzi, ma senza mettere in moto una serie di rotelle.

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5 James Joyce

OSVALDO FERRARI: Ci sono un libro e un autore, Bor­ ges, che nonostante la loro vasta fama restano indecifra­ bili per la maggior parte dei lettori. Parlo di James Joyce e del suo Ulisse. JÖRGE LOUIS BORGES: È probabile che sia astato scrit­ to per essere indecifrabile. Fu scritto per essere com­ mentato. Credo che venne realizzato come un espe­ rimento, destinato a restare un piuttosto segreto, o comunque a lasciare che la cosa più importante fosse il meccanismo che lo governa. Come ho letto nel libro di Stuart Gilbert, che è come una mappa dell’U/Are, e of­ fre una lettura molto più godibile di quella dell’U/Arc, che forse non si potrebbe leggere senza quella mappa. Ad esempio, in quel testo vengono indicate le figure retoriche che prevalgono in ciascun capitolo. Inoltre sembra che in ogni capitolo prevalga un colore. Dicia­ mo, il rosso. Inoltre, in ciascuno dei capitoli, degli epi­ sodi, si fa riferimento a una funzione del corpo; che, nel caso del rosso, potrebbe essere la circolazione san­ guigna. E poi c’è la figura retorica, che si verifica nel momento esatto in cui si svolge la scena, per far sì che il lettore paragoni quel capitolo, che appartiene alla mente di Stephen Dedalus, con un altro, che appartie­ ne alla mente di Leopold Bloom, e allora c’è un istante in cui i due si fissano su una nube. Si capisce che tale parallelismo è prezioso. Inoltre c’è la corrispondenza tra ciascun episodio con nuovi episodi dell’Odissea; si capisce insomma che sono vite parallele. Poi c’è la tec-

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nica che viene utilizzata, che può essere... Credo ci sia un capitolo in cui si usano tutte le forme della meta­ fora, e c’è una lista di quelle forme. Ci sono esempi di sineddoche, di metonimie, e così via. E un altro in cui, per esempio, si segue l’idea dello schema domandarisposta: il catechismo, l’interrogatorio. E poi il finale, il più famoso, che è un monologo interiore di Molly: sono trenta, quaranta pagine senza punteggiatura, che corrispondono al flusso di coscienza, anche se è stato puntualizzato che la coscienza fluisce senza parole. In sostanza una persona sente o pensa le cose, ma senza pensare alle parole corrispondenti. Quindi il flusso di coscienza dovrebbe rifiutare il linguaggio o comun­ que si potrebbero usare dei verbi, ma niente di più. Al contrario lì ci sono aggettivi, sostantivi, preposizioni, congiunzioni e, per di più, frasi.

Il che rende più difficile qualunque interpretazione. È che io non credo che quel libro... non credo che l’avesse scritto perché venisse...

Interpretato.

Sì, o perché se ne godesse. Credo che sia una sorta di reductio ad absurdum di tutta la letteratura, compre­ si i romanzi realisti. Ah, certo, credo che sia così...

Sì, credo che l’idea sia quella, di portare tutta la tra­ dizione. .. di portarla più avanti e alla fine distruggerla. Direi che YUlisse, e dopo anche La veglia di Finnegan, siano fatti, diciamo, per mettere fine alla letteratura. Suppongo che Joyce abbia pensato che dopo quello non si potesse più scrivere nulla, perché tutto quel­ lo che sarebbe stato scritto avrebbe finito per essere

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una proiezione, o una ripetizione inutile di quei libri. Insomma credo che l’autore li scrisse perché fossero i libri definitivi. Ma la gente non l’ha pensata così, anzi. Ha dei discepoli, e la letteratura va avanti; nonostante quei libri che dovevano essere le biffe della letteratura. Ora, è fuori discussione che Joyce avesse un’infinita... sì, diciamo un’infinita capacità verbale, e inoltre la lingua inglese gli permetteva, anche se in modo più difficile rispetto al tedesco, di generare parole com­ poste. Io non so in che misura Joyce abbia partecipato alla traduzione francese dell ’Ulisse, insieme a Valéry Larbaud, Stuart Gilbert e altri; visto che sapeva che buona parte della struttura del suo libro aveva la sua origine proprio nelle parole composte, e per questo intraducibile...

E poi inventava neologismi.

Sì, e senza dubbio poteva farlo anche nella versione tedesca, perché in tedesco le parole composte si usa­ no a tal punto che vengono create in continuazione anche solo parlando. Si possono creare parole in una conversazione, e nessuno ci fa caso, perché si possono comprendere subito. Al contrario, in inglese sono arti­ ficiose e in spagnolo impossibili.

Quindi James Joyce avrebbe dato forma al giudizio universale della letteratura nella Veglia di Finnegan e zze/Z’Ulisse.

Soprattutto nella Veglia di Finnegan, che però vie­ ne considerata un’estensione dell’UZzfee. Sembra che dopo non ci possa più essere letteratura. Eppure la letteratura non è finita, usando certe convenzioni. So­ prattutto il monologo interiore, che ha avuto grande diffusione. Inoltre credo ci siano due traduzioni let­ terali dell’UZzfee, ma sono abbastanza brutte perché è 37

stato tradotto il senso. E le parole spagnole sono mol­ to lunghe e uno degli effetti creati da Joyce è quello della cadenza, che in questo caso è andata persa. La traduzione letterale ha tenuto conto solo del senso, e non ha dato peso al fatto che in inglese ci sono come dei versi, o comunque ritmi molti felici all’ascolto; mentre nella traduzione non sono altro che frasi tur­ pi, come le parole composte appaiono artificiose o troppo ricercate. Anche in inglese risultano un poco artificiose, mentre in tedesco no. In tedesco si creano parole in continuazione e non dà fastidio a nessuno, non frena il lettore. In inglese sono già piuttosto stra­ ne; in castigliano, o comunque nelle lingue romanze, sono impossibili.

Allora il romanzo contemporaneo, invece che finire con Joyce, lo ha utilizzato e ne ha approfittato.

Sì. Lo ha assorbito. Sì, e non penso che lui se lo aspettasse.

O non lo voleva. Credo che lui avrebbe voluto essere l’ultimo, no?, che in fondo desiderasse la morte del romanzo.

Sì. È quello che avrebbe cercato. Prima aveva già scrit­ to splendide poesie, ma che pure erano poesie molto brevi, dal ritmo squisito, di certo non un pericolo per la poesia. Al contrario quei due romanzi, sono fatti... sono una sorta di reductio ad absurdum anche del rea­ lismo, visto che non viene risparmiato un solo istante

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delle ventiquattro ore dei due personaggi: ogni mo­ mento è registrato, anche quelli... meno memorabili, no? Gli istanti dell’unico giorno in cui accade tutto. Sì, e la cronaca di quel giorno non è riferita solo a quell’unico giorno, ma diventa in qualche modo l’Odissea. O meglio, ciò che nell’Odissea richiede molti anni, si suppone attraversi la coscienza di due personaggi, e lui sceglie un giorno qualunque, un giorno a caso; e lo ambienta a Dublino... ovvio, per­ ché Joyce visse nella nostalgia di Dublino. E non volle mai tornarci...

Sì... Forse la nostalgia è un modo per possedere le cose. E scrisse Dubliners, Gente di Dublino.

Sì, scrisse anche Gente di Dublino. Forse perché pensava che scrivere quei libri era come essere a Du­ blino; il che non richiedeva una presenza fisica. Ah, certo. E lui era già lì senza quei libri.

Di sicuro in questo modo la rievocazione letteraria è stata molto più efficace. È che per provare nostalgia occorre essere lontani. Chissà se gli ebrei avessero pensato a Gerusalemme se non fosse stato per l’esodo, e poi per... qual è la parola?

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Diaspora.

E per la diaspora, certo. Se non fosse stato per l’esodo e la diaspora non si sarebbero fatti una simi­ le immagine di Gerusalemme e non avrebbero avuto una simile nostalgia per Gerusalemme. L’esodo e la diaspora, ed ecco che oggi Israele è uno stato. Sen­ za dubbio ora Gerusalemme perderà il suo prestigio magico, che sarebbe stato impossibile, ma ora non lo è più. Una perdita per la poesia, no?, il fatto stesso che non si possa nemmeno parlare di Gerusalemme, perché uno prende un piroscafo, o un treno, e arriva. È stata una città magica, no? ma, tornando a Joyce, è evidente l’influenza della sua formazione religiosa. Si vede soprattutto nel Ritratto di un giovane artista, zzzz sembra. E poi in tutta la sua opera. Sì, perché è lì che lui ripudia la sua fede cattolica, ma in qualche modo... la parola ateo credo abbia un significato diverso in ogni religione. Insomma, se sono ateo all’interno del protestantesimo non è lo stesso che esserlo nel cattolicesimo o nell’ebraismo. Mi pare sia diverso. Perché si prescinde o si nega un dio che è essenzialmente diverso.

Ma questa influenza della formazione religiosa si tra­ duce in tutta l’opera di Joyce; una volta lei stesso ha af­ fermato che, in qualche modo segreto, per lui tutti i gior­ ni sono stati Γirrimediabile Giorno del giudizio; tutti i luoghi l’inferno o il purgatorio. E Ulisse non avrebbe senso altrimenti. Certo.

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Dico, perché scrivere VUlisse se si suppone che qualcosa è stato escluso da quel giorno, e da quel li­ bro. Si pensa che quel libro sia una specie di microco­ smo, no?, e che abbraccia l’intero mondo... anche se ovviamente è piuttosto lungo, credo che nessuno lo abbia letto. (Ridono entrambi) Molti lo hanno analiz­ zato. Mentre per quanto riguarda l’aver letto il libro da cima a fondo, non so qualcuno lo abbia fatto.

Anche se lo avesse fatto, credo sarebbe impossibile che restasse impresso, integralmente impresso, nella memo­ ria del lettore. Dovremmo presupporre una memoria infinita. For­ se molti libri si scrivono non in funzione delle loro singole pagine ma dei ricordi che lasceranno, giusto? Chiaro. E possibile che sia lo stesso caso di Don Chisciotte. Dove non pensiamo ai singoli capitoli, e meno ancora alle singole pagine, ma piuttosto a ciò che resta una volta chiuso il libro. C’è qualcosa che rimane, ed è un’immagine, e quell’immagine è ciò che si ricorda più chiaramente.

E che può prescindere dal libro. E che può prescindere dal libro, sì.

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Il libro di sabbia

OSVALDO Ferrari: Parlando dei libri che ha pubblicato negli ultimi anni, Borges, lei ripete spesso di prediligere Il libro di sabbia. JÖRGE LOUIS BORGES: Sì, credo che tra tutti i miei libri, è quello di più facile lettura, ed essere leggibile è una virtù, e ci sono grandi libri che non l’hanno e non la cercano. Ad esempio l’opera di Joyce, La guerra gaucha di Lugones... di sicuro non sono stati scritti per esse­ re letti, ma piuttosto per essere ammirati, analizzati, commentati. Ma ora cullo questa modesta ambizione: voglio essere leggibile. E anche se i miei racconti sono complessi - ma nel mondo non esiste nulla che non sia complesso - posto che il mondo è inspiegabile, cerco di fare in modo che quello che scrivo sembri sempli­ ce, e prendo una precauzione fondamentale: cerco di evitare le parole che potrebbero spingere il lettore a cercarle in un dizionario. In questo senso mi oppongo a tutte le nostre abitudini linguistiche attuali: ad esem­ pio, “metodologia” invece di “metodo”, “ricercare” invece che “cercare”, “tematica” invece di “tema”. In sostanza si cerca sempre l’uso di termini più lunghi, ma non io, io cerco di usare parole semplici, inoltre voglio raccontare la storia facendo sì che alla fine il lettore si chieda: e adesso? Per me è questo l’importante; occor­ re pensare a un testo che gli risulti, diciamo, interes­ sante. Ho riletto con mia sorella i racconti di Sherlock I lolmes, di Conan Doyle: le storie sono povere, le frasi ingegnose non lo sono troppo, ma si rimane sempre

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interessati alla storia; le soluzioni sono deboli, ma gli enigmi, i piccoli enigmi sono interessanti. A me sembra che tanto basti a un racconto. Ora, se dovessi scegliere un libro tra i miei - non lo faccio perché non ci sono li­ bri miei in questa casa - sceglierei II libro di sabbia. Ma mi hanno detto che II manoscritto di Brodie è superiore. La verità è che non so bene a quale volume corrispon­ dano esattamente i racconti, ma mi hanno detto che “Il Congresso” è il mio racconto migliore, e credo sia in II manoscritto di Brodie.

No, è nel Libro di sabbia. Allora la mia preferenza è per II libro di sabbia...

Sì, conferma.

Sì, confermo, inoltre credo che “Il libro di sabbia” è un bel racconto.

Ma lei non parla mai di quel racconto, l’ultimo del libro, e a me sembra molto importante... Non so se sia importante, perché dopo tutto “Il libro di sabbia” è “L’aleph”, “Lo zahir”, “Funes il memorioso” più o meno mascherato. Ossia, è l’idea di qualcosa che sembra prezioso ma che alla fine si rivela terribile.

Su questa linea di collegamento potrei aggiungere che il primo di racconto della raccolta, “Ilaltro”, si lega natu­ ralmente con “Borges ed io”.

Sì, ma credo che “Borges ed io” mi sia venuto me­ glio, no? Innanzitutto è più breve, ha questo merito. Mentre per quanto riguarda gli altri, non so quale sia il migliore.

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“Avelino Arredondo” è molto bello. Sì, ma “Avelino Arredondo” mi è stato donato... dalla storia della Repubblica Orientale, visto che il fatto è realmente accaduto e non si ripete. Il fatto con­ siste in questo: un terrorista assassina il Presidente; si consegna subito alla polizia e si assume tutta la re­ sponsabilità, e a difenderlo fu un mio zio, Luis Melian Lafinur, e lui avrebbe potuto raccontarmi molte cose su Avelino Arredondo, ma quando scrissi il racconto Luis Melian Lafinur era già morto. Ed era stato il suo difensore, credo gli abbiano dato due anni di carcere, visto che tutto il mondo ammirò Arredondo, non per aver assassinato Iriarte Borda ma per essersi assunto tutta la responsabilità, cosa non tanto frequente; cre­ do che oggi ci siano persone sotto accusa che pensa­ no meno a prendersi le proprie responsabilità quanto piuttosto a prendersi buoni avvocati difensori, no?, credo che questo sia il caso più frequente. Successe anche al processo di Norimberga. Allora, io, per redi­ mere in qualche modo gli accusati, inventai un nazista perfetto; un uomo che fosse convinto della necessità che fossero inflessibili nei suoi confronti come lui lo era stato con gli altri, e scrissi il racconto “Deutsche requiem”, che molti hanno interpretato come un’ade­ sione da parte mia alla causa di Hitler. Ma no, non era così: ho cercato solo di immaginare un nazista che davvero fosse tale, un nazista spietato non solo ver­ so gli altri - che è facile - ma anche verso se stesso, e che accetta la sua sorte perché giusta. Sembra che nella realtà questo non si verifichi, giusto?, sembra che le persone tendano a provare pena più per loro stessi che per gli altri. L’esempio più classico sarebbe Martin Fierro, un subdolo sentimentale, che continua a pian­ gersi addosso, mentre non fa affatto lo stesso per gli altri. Ma, di nuovo, capita spesso.

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Se per lei va bene, Borges, mi piacerebbe leggere alcuni frammenti del racconto “Avelido Arredondo” per ricor­ darlo insieme. Certo, come no, lei ha il testo? Perché in questa casa non c’è. fRide.) Sì, ce l’ho.

Allora va bene.

Ricordiamo, allora, che lui si ritira dalla vita pubblica perché, in segreto, non vuole coinvolgere gli altri nel pia­ no che sta per mettere in azione. Ho dovuto inventare tutte le circostanze, perché non so dove si nascose; è probabile che andò in campagna. Insomma, non so nulla di questi aspetti. So che smise di vedere la sua fidanzata, i suoi amici, per non com­ promettere nessuno; e non leggeva nemmeno più i gior­ nali, perché non credessero che i continui attacchi al Presidente da parte dei giornali lo avessero influenzato. Insomma, era isolato. Sì, vediamo. A un certo punto si legge: “Si trasferì in una stanza in fondo alla casa, quella che si affacciava sul cortile di terra battuta. Era una misura inutile, ma lo aiutava a inizia­ re quella reclusione che si era volontariamente imposto. Dall’angusto letto di ferro, dove pian piano riprese l’abi­ tudine della siesta, guardava con un po’ di tristezza uno scaffale vuoto. Aveva venduto tutti i suoi libri compresi quelli di introduzione al Diritto. Gli restava soltanto una Bibbia, che non aveva mai letto e non arrivò a finire. La studiò pagina per pagina, a volte con interesse e a volte con noia, e si impose il compito di imparare a memoria qualche capitolo dell’Esodo e la fine dell’Ecclesiaste. Non cercava di capire quello che leggeva. Era un libero pensatore..."

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È verosimile, tutto verosimile, mi pare.

Lo è, lei dice che lui era un libero pensatore... Sì, ai tempi si usava questa espressione, di libero pensatore. Ora non si usa più, vero? “Free thinker' in inglese; in francese è “esprit fort", che è come un omag­ gio ai liberi pensatori: spirito forte. In francese si rife­ risce, o si riferiva, a un ateo; si usava nel XVIII secolo: indicava qualcuno che non si assoggettava alle autorità. Vediamo...

“Era un libero pensatore, ma non passava sera senza che recitasse il Padre nostro, come aveva promesso a sua madre prima dipartire per Montevideo.”

Ecco, questo tratto è autobiografico: promisi a mia madre di dire sempre il Padre nostro e lo faccio tutte le sere. Quindi in quel momento sono intervenuto nel destino immaginario di Avelino Arredondo. (Ridei)

Questa è una rivelazione inattesa, Borges. fRideJ Una rivelazione modesta.

“Mancare a quella promessa filiale avrebbe potuto por­ targli sfortuna.”

Ah, certo, anche il lato superstizioso. Tutto questo lo fa più o meno concepibile per Avelino Arredondo. Certo, e ci introduce gradualmente ai fatti.

Inoltre dovevo inventare i tratti circostanziali, come è richiesto dallo stile del nostro tempo.

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Continua così: “Sapeva che la sua meta era la mattina del 25 agosto. Sapeva il numero esatto di giorni che do­ veva lasciar passare. Una volta raggiunta la meta, il tem­ po sarebbe cessato o, meglio, quello che sarebbe successo dopo non avrebbe avuto alcuna importanza.”

Succede sempre così quando qualcuno aspetta qualcosa. Ad esempio, quando sono in Europa pen­ so: “Quando torno a Buenos Aires...” E ora penso: “Quando sarò in Italia, o quando sarò in Giappone...”, come se non dovesse succedere nulla dopo. O quando si sta aspettando... quando un uomo sta aspettando una donna pensa la stessa cosa: “L’importante è che arrivi” {ridono entrambi), dopo di ciò, che importa!

“Aspettava quella data come si aspetta una gioia e una liberazione. Aveva fermato l’orologio per non stare sem­ pre a guardarlo, ma ogni notte, quando sentiva i dodici cupi ritocchi di campana, strappava un foglio dal calenda­ rio e pensava: un giorno in meno.”

Questo lo faceva un mio amico medico che viveva nella Pampa, che sapeva che doveva restare un numero determinato di giorni in un luogo; strappava le pagine dal calendario. Insomma, vuol dire che non invento niente {ride)·, mi arriva tutto dalle circostanze, ma che altro potrebbe fare un uomo?

(Ride.) Ma in questo caso le circostanze le hanno offer­ to qualcosa di molto particolare. “All’inizio.” Continuo ad ascoltare con grande curiosità, eh?, non so cosa succederà; sono passati tanti anni da quando ho scritto questo racconto...

Ci avviciniamo al momento decisivo: “All’inizio vol­ le crearsi una routine. Bere il mate, fumare le sigarette 48

di tabacco nero che arrotolava da solo, leggere e ripetere un determinato numero di pagine, cercare di conversare con Clementina quando lei gli portava da mangiare su un vassoio, ripassare e limare un certo discorso prima di spegnere la candela. Parlare con Clementina, donna or­ mai anziana, non era molto facile, perché la sua memoria era rimasta ferma alla campagna e alla vita di campagna. Aveva a disposizione anche una scacchiera, su cui giocava partite disordinate che non riuscivano mai a vedere la fine. Gli mancava una torre, che sostituiva con una pal­ lottola o con una moneta.” L’idea del proiettile funziona, perché in un certo senso prepara al colpo finale.

Chiaro.

“El vinten”, certo, colore locale uruguaiano: in Uru­ guay si parla di “vintenes”, cosa che qui non accade. Dovremo spiegarlo, Borges, dove ci avvicinava quel proiettile e a chi era diretto. Era il proiettile destinato al Presidente della Repub­ blica, che poi avrebbe assassinato.

Al Presidente della Repubblica Orientale dell’Uru­ guay.

Sì, Iriarte Borda...

Sì, Iriarte Borda. La cosa strana è che qui si ignora tutto questo, e molta gente pensa che il racconto me lo sono inventato. Eppure è un episodio che in Uruguay non ignora nessuno, tranne chi lo ha dimenticato. Non ricor­ do esattamente la data in cui è accaduto... ma deve essere stato verso la prima decade del XX secolo.

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7 Blaise Pascal

Osvaldo Ferrari: Se nel suo caso penso molte volte che la sua preoccupazione principale sia il tempo, nel caso di Pascal penso sia stata lo spazio. JÖRGE LOUIS BORGES: Sì, lui sentiva una sorta di ver­ tigine di fronte allo spazio infinito; curiosamente, se rilegge De rerum natura, di Lucrezio, Lucrezio era in­ cantato dall’idea di uno spazio infinito.

Di un universo infinito.

Di un universo infinito, sì; avvertiva un senso di vertigine, ma vertigine positiva. Alcune volte ho os­ servato che Spengler afferma che per i greci, e di con­ seguenza anche per i romani, loro discepoli, il mon­ do è costituito da una serie di volumi nello spazio, e che solo dopo arriva la cultura faustiana, che sostiene l’idea di un tempo e di uno spazio infinito. Ma Lucre­ zio, molto prima della cultura faustiana, già fantastica­ va tale idea, che avrebbe poi atterrito Pascal. Certo.

È curioso. Mi riferisco al fatto che un libro come il De rerum natura precede i Pensieri di Pascal non solo cronologicamente ma anche nella mentalità; perché ora l’idea di uno spazio o di un tempo infiniti non ci spaventa più. O comunque la nostra immaginazione lo accetta. 51

Anche le idee di Copernico e di Galileo hanno prece­ duto quelle di Pascal.

Sì, credo che già Cicerone si dilettasse con l’idea di uno spazio popolato di mondi, che sarebbero sferici come il nostro, e alcuni di loro si ripetono; credo pensi al fatto che mentre scrive i suoi versi, un altro Cicerone, su un altro pianeta, stesse scrivendo le stesse cose; il che anticipa il concetto che Nietzsche avrebbe definito mol­ to più tardi “l’eterno ritorno”, ma non solo nel tempo, anche nello spazio: uno spazio infinito con tutti i mon­ di possibili, o contemporanei. Di questo si parla... nel trattato Della natura degli dei di Cicerone, sì, il De natu­ ra deorum·, lo si legge in qualche pagina. Di certo deve arrivare da qualche greco, non credo lo abbia inventato Cicerone, no?, lo avrà letto in qualche testo greco.

Arriva tutto dai greci. Sì, credo di sì. E siccome Cicerone era un gran let­ tore dei greci... Sì, certo, la Humanitas. Ma il terrore di Pascal scaturi­ va non solo dall’immensità dello spazio, ma anche dalla nostra piccolezza. Ossia, ci vedeva come se quasi non esi­ stessimo in tanta immensità.

Sì, lui aveva le vertigini, mentre Lucrezio era convin­ to dell’idea.

Da frase di Pascal: “D infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano", che lei ha riportato nel suo saggio. Credo che questa sia stata giudicata da Valéry, per­ ché Valéry dice che per molti pensatori, anteriori, con­ temporanei e successivi a Pascal, la volta stellata non 52

ha suscitato la stessa impressione; al contrario, in essa hanno scorto un ordine, e non hanno provato terro­ re, quanto piuttosto una certa felicità osservando che quelle stelle infinite sono ordinate, e obbediscono a determinate leggi e in un certo senso sono la prova dell’esistenza di Dio. E che lo spazio è cosmico. E che lo spazio è cosmico, sì, cosmico e non caotico.

Ealtro fenomeno che sembra aver provocato una verti­ gine a Pascal, anche se più segreto, è quello dell’incarna­ zione e della crocifissione di Cristo. Lo si può apprezzare soprattutto nei suoi ultimi libri: viveva l’idea dell’incar­ nazione della divinità come uno scandalo interiore.

Gli agnostici, o una setta agnostica, predicò che Cri­ sto non era stato crocifisso, che a essere crocifisso fu un fantasma, perché una divinità non può patire, diciamo, tormenti e dolore. Che un dio non si può incarnare.

Esatto, che non si può incarnare. Si suppone, quin­ di, che Cristo fu un’apparizione: una specie di fanta­ sma divino, e quello che soffre sulla croce è proprio un fantasma. In sostanza negano che Cristo abbia avuto una forma corporea. E che l’idea stessa di un dio che mangia, digerisce, respira, tutto questo sembra così difficile... si dovrebbe supporre che già questo costi­ tuisce un sacrificio più grande di quello della crocifis­ sione: Tessersi abbassato ad avere un corpo umano. Il fatto che una divinità, che il creatore di tutto l’univer­ so si rinchiuda in un corpo umano, con le sue limita­ zioni, con le... diciamo, le piccole umiliazioni di un corpo materiale... 53

Ora, non sono sicuro, ricordo che Spinoza identifica­ va Dio con la natura.

Sì, lui afferma: Deus sive natura. Ma quella è l’idea del panteismo, l’idea che tutto è Dio.

Tutto è Dio.

Tutto è divino, ma tale divinità si potrebbe suppor­ re che nei minerali sia morta, che nelle piante dorme; che negli animali inizia a sognare, e poi c’è l’uomo; l’uomo avrebbe coscienza di tutto questo, e arrivereb­ be ad esserlo in sé, nella mente umana, e la mente umana può anche concepire il tempo, che non viene concepito dagli altri generi e dalle altre specie. Giusto, ma Pascal non è Spinoza, perché Pascal parla dell’universo, ma non come se l’universo o la natura fossero Dio.

Ah, no, s’intende, per lui sono opera di Dio. È stra­ no: Blake parlò con grande disprezzo del mondo, e lo chiamò “The vegetable world", che significa, il mondo come una specie di legume, no? E disse, in piena epo­ ca romantica, che lo spettacolo dei fenomeni naturali non lo esaltava. Poi però disse che li vedeva in un altro modo. Ad esempio, se vedeva l’aurora, lui non vedeva un disco luminoso che si alza nel cielo; no, lui vedeva quello spettacolo come una divinità cir­ condata di angeli (ride)·, i fenomeni naturali venivano visti come miti. Diciamo che quando vedeva il sole, vedeva come se fosse stato, in qualche modo, Apollo. Solo che si trattava di una divinità della sua mitologia personale. Oppure ci sarebbe stata la Grecia anche lì.

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Ci sarebbe stata anche la Grecia. Sembra che la Grecia sia sempre presente.

È ubiqua.

Ricordo un calambour di, perbacco, mi spiace am­ metterlo, di Alfonso Reyes. Ma, insomma, lui lo dice di sfuggita, e io invece lo sto mettendo troppo in evi­ denza; dice: “La puttana, piena di grazia,” e poi, una virgola o tra parentesi, “piena di Grecia”. (Rzf/c.) Glie­ lo possiamo perdonare; sono versi che scrisse senz’al­ tro con un sorriso sulle labbra.

Con un sorriso, ma in fondo lì c’è anche un compli­ mento. Sì, è anche un complimento, certo, lo si potrebbe pensare, o lo si pensa, quando si legge quel verso, che se le parole “Grecia” e “grazia” si assomigliano non è un caso, che erano predestinate, in un certo sen­ so: “Piena di grazia”, “Piena di Grecia”, e forse in un paragrafo melodioso, per una pagina melodiosa, quel verso passa e si perdona o si accetta, no? Senza dubbio.

Al contrario io, togliendola dal suo contesto, sto tradendo il mio maestro oltre che un caro amico che è morto: Alfonso Reyes. Quindi dimentichiamo quel­ la battuta, che era solo una battuta, visto che l’avrà senz’altro scritta in una pagina sorridente.

Un’ultima notazione, che lei fa nel suo saggio di Pa­ scal. .. Vorrei ricordare qual saggio; l’ho scritto talmente tanto tempo fa che ricordo solo il titolo, e credo di 55

ricordare anche il colore della copertina del libro. È triste che di un libro si ricordino solo caratteristiche fisiche come quelle, vero? In questo caso è verde.

Che resto solo la verde memoria (,ridono\ per darle il nome della rivista che pubblicava Rodolfo Wilcock, Verde memoria, sì. Mi riferivo al fatto che quella sfera, che era al centro dell’universo, e non aveva circonferenza, iniziò ad esse­ re un’idea naturale e alla fine Pascal la definì una sfera spaventosa. Intendeva dire che l’universo gli sembrava terribile, è che di fatto lo è, anche se Chesterton pensò che do­ vesse essere grato a tutte le cose, pur rendendosi conto che erano terribili. Dice che morirà, e che non avreb­ be ringraziato Dio per tutto il foraggio. Insomma, per una cosa semplice come il foraggio.

Per ogni cosa. Anche Pascal, credo, ebbe un’attitudine religiosa alla gratitudine; eppure il terrore lo accompa­ gnò fino alla fine.

Sì, è quello il ricordo che ho di Pascal.

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Il paese che imita

Osvaldo Ferrari: Negli ultimi tempi, lei ha manife­ stato una preoccupazione particolare per Γinsegnamen­ to, soprattutto nella facoltà di Lettere e Filosofia; ma so che il suo interessamento riguarda anche altre facoltà e altre università. JÖRGE LOUIS BORGES: Sì, sono stato nell’illustre Uni­ versità di Cordoba, frequentata anche dal dottor Fran­ cia, tra gli altri; e non mi ha fatto, diciamo, una buona impressione. Ho dovuto assistere, o meglio, mi hanno invitato ad assistere a una lezione; e già il nome mi ha spaventato: il nome era Psicologia dinamica. Mio padre era professore di Psicologia delle lingue vive, e la psicologia mi ha sempre interessato; credevo che fosse dedicata allo studio della coscienza umana, che fosse quello che avevano studiato, ad esempio, gli sco­ lastici, William James, Spiller; credevo si trattasse di studiare la coscienza, le abitudini o i meccanismi della coscienza, e poi cose strane come i sogni, il sonno, la memoria, la sua perdita, la volontà. Credevo che fosse questo il campo della psicologia.

Sì.

Mi sono ricordato anche di Bergson, naturalmente. Poi ho assistito a quella lezione, e forse il nome mi aveva già allarmato: Psicologia dinamica. Il professo­ re, di cui non voglio ricordare il nome, e di fatto l’ho dimenticato, iniziò a scrivere sulla lavagna con il gesso 57

la parola “Prologo lezione”, una parola composta, non troppo felice, ma che gli studenti hanno dovuto tra­ scrivere, e gli studenti erano, non so, un centinaio. La lezione è durata mezz’ora: Psicologia dinamica. E ho scoperto che non aveva niente a che vedere né con la psicologia né con la dinamica, dal momento che con­ sisteva in una serie di, diciamo, di confusioni basate sull’etimologia delle parole. A me interessa molto l’eti­ mologia, come sa, ma soprattutto perché così si può vedere che concetti molto diversi hanno la stessa radi­ ce. Ad esempio ho scoperto da poco che “cleptomane” e “clessidra” hanno la stessa origine. Non si assomi­ gliano per niente, ma nel primo caso, cleptomane, si tratta di un ladro, giusto?, ossia ruba, toglie denaro o qualsiasi altra cosa. E anche dalla clessidra si toglie ac­ qua. O altre volte abbiamo osservato che, per quanto strano, l’orrenda parola “nausea”, che nessuno scritto­ re osa utilizzare, ha la propria meravigliosa origine in “nave”. Da “nave”, forse pronunciata “naius”, proven­ gono “navale”, “nautico” e “nausea”; perché uno av­ verte la nausea quando è a bordo. Mi ha sempre diver­ tito vedere come parole molto diverse hanno la stessa radice. Ma l’argomento della psicologia dinamica era esattamente il contrario: si trattava di dimostrare che due parole erano sinonime perché avevano la stessa radice. Quindi sono state prese le parole “creare” e “credere” - non so se hanno la stessa radice - ma in ogni caso mi sembra assurdo giungere alla conclusio­ ne che sono sinonimi. L’argomentazione era che se si crede, si crea, insomma, si crede in ciò che si è crea­ to. Sarebbe una specie di inversione, di calambour, di “greguerias”. Il professore ha fatto sei o sette esempi, non meno piacevoli, ma più felicemente dimenticabili di quello che vi ho riportato, e gli studenti hanno do­ vuto appuntare tutti gli esempi. E si suppone che que­ sta sia una materia. Si studia e si fanno esami - anche se ora credo che gli esami non esistono quasi più visto 58

che è possibile accedere all’università senza un esame d’ingresso; ci sono esami collettivi in cui uno studente risponde per gli altri. Inoltre, poiché i professori sono un poco spaventati dagli alunni, è una cosa terribile che le università, invece che insegnare, si dedichino a fomentare le arbitrarietà, o scienze illusorie come la Psicologia dinamica. Spero che altrove vada meglio. E ha osservato tutto questo a Cordoba.

Sì, a Cordoba; mi è parso molto strano: ho avuto anche l’impressione che si facesse tutto così, che ci si occupasse solo... insomma, forse i professori possono mostrare certe vanità, no?, o comunque possono sor­ prendere gli alunni; ma è un peccato che non si ap­ profitti dell’università per lo studio, ma piuttosto la si sfrutti per una mera trovata economica. Credo che an­ che qui lo studio della letteratura, per esempio, sembri prescindere del tutto dal piacere dell’aspetto estetico. Lei intende qui a Buenos Aires?

Sì, e forse anche in gran parte del mondo si prescin­ de da questo e si cercano piuttosto semplici giochi. Ho temuto che la psicologia fosse stata rimpiazzata dalla psicanalisi; ma non certo da una serie di giochi di pa­ role con le etimologie. In cui è necessaria la volontà dell’alunno per accettare le risposte, diciamo così.

Sì, ma gli alunni sono talmente docili... e anche questo è difficile, intendo l’apprendere simili trivialità senza il minimo sforzo.

in ogni caso si memorizzano.

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Si memorizzano, esatto, e con un po’ di fortuna si riesce anche a dimenticarle a un certo punto (ride)·, se si ha la fortuna di dimenticare tutto quello che si è memorizzato per sostenere l’esame. Dopo averlo superato.

Sì, dopo aver superato l’esame, ci si può dimentica­ re tutto. Non si perderebbe niente, vero? Ma è molto triste perché questo paese è in declino - lo sappiamo tutti — ed è un peccato che il declino non sia solo etico ed economico, ma anche intellettuale. Una situazione che viene fomentata, forse per ragioni politiche; si ri­ mescola il criterio di comunità. A Cordoba mi hanno detto il numero di studenti che frequenta i corsi, una cifra esorbitante.

Qual era? Non ricordo, ma mi pare decine di migliaia. Non so se i professori siano sufficienti per una simile quanti­ tà. Sarà indispensabile anche ridurre il numero degli alunni che studieranno davvero. Ma al giorno d’oggi le statistiche sembrano essere molto importanti, la sta­ tistica piace. Una volta ho definito la democrazia un abuso della statistica, e se le università seguiranno la stessa strada, ossia che non è più importante che gli alunni apprendano, ma piuttosto che ce ne siano mol­ ti. .. Poi c’è la tendenza generalizzata in questo paese agli eufemismi, che possono ingigantire le cose. Ad esempio conosco cittadine universitarie, tra cui alcune negli Stati Uniti, che sono davvero cittadine universi­ tarie - non ci sono solo le aule, ma anche le residenze di studenti e professori -. Al contrario credo che qui abbiano riunito, in non so quale quartiere, due facol­ tà, e li abbiamo chiamati città universitaria; ma non si tratta di una vera città, perché lì non ci vive nessuno. Sembra che bastino le parole. 60

Sì, e si abusa anche dei significati. Sì, credo di sì, ad esempio il fatto che abbiamo pati­ to ottantadue generali... mentre sarebbe stato impor­ tante averne anche solo uno. Forse è troppo esigerne uno; al contrario, ottantadue possono essere ottantadue incapaci, o ottantadue dilettanti, o ottantadue ma­ schere: ottantadue persone in uniforme. Questo mi ricorda una sua frase riferita al paese; lei ha detto: “ïn questo paese, un militare può essere un ci­ vile con un’uniforme”

Sì, e credo che sia stato lei a dirmi che molti civili erano essenzialmente militari senza uniforme.

Sì, in effetti.

Non è un’attitudine strategica, quanto piuttosto un’attitudine all’amore per l’arbitrarietà, per la vio­ lenza; sarebbe a dire che non saprebbero vincere una battaglia, ma arrestare un cittadino, quello sì. Quindi vedo che in lei rimane ancora oggi - visto che lo ha dichiarato circa un anno fa-la preoccupazione per quanto accade nelle nostre università. E naturale che sia così. Sono stato professore di letteratura inglese per ventanni presso la facoltà di Lettere e Filosofia. Non ho mai insegnato Letteratura inglese - che ignoro -, ma ho insegnato l’amore, non dico per tutta la letteratura, perché sarebbe assurdo, ma senz’altro per alcuni scrittori e alcuni libri. Non credo di aver mancato al mio compito.

Sicuro.

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Ecco perché mi fa male ciò che accade laggiù. È vero che sono un professore emerito e che offro con­ sulenze, ma non mi hanno mai consultato su nien­ te, e non so cosa significhi. Ho chiesto a Jorge Luis Romero - hanno nominato entrambi professori eme­ riti e consulenti -, che cosa vuol dire? E lui mi ha risposta che non ne ha la minima idea, ma suppongo che l’intenzione era delle migliori. Perché se non è un semplice regalo fonetico, cos’è? O si viene aggiunto ai docenti o gli vengono regalati quei due titoli.

E dopo aver manifestato la sua preoccupazione, han­ no continuato a non chiederle consiglio negli ultimi tempi?

No, soprattutto dopo le mie dichiarazioni (ride); non approverei nessuna delle sciocchezze che inflig­ gono, e che regalano anche, o si offrono agli studenti oziosi.

Forse una delle cose che pesa di più agli argentini di oggi è prendere coscienza e mantenerla vigile su ciò che accade. In questo senso mi sembra importante il suo at­ teggiamento, perché anche se scomodo, si rivolge alla coscienza. Il fatto è che per me non è solo scomodo, ma anche doloroso.

Per questo si chiama il dovere della coscienza. Sì, sono rimasto così scioccato da quella cosiddetta materia, di cui regalo il nome: Psicologia dinamica; che non ha nulla a che vedere con la psicologia o con la dinamica.

Presente greco. (Ride J 62

(Ride.) Sì, presente greco, è vero. Non so da dove l’abbiano preso, non credo sia un’invenzione di Cor­ doba, come la riforma universitaria, credo di no. De­ vono senz’altro insegnarla da qualche altra parte del mondo, il nostro è innanzitutto un paese che imita.

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Il libro del cielo e dell’inferno, San Tommaso e il Talmud

OSVALDO FERRARI: Di tanto in tanto mi piace tornare al libro che ha curato con Bioy Casares, e che ha un tito­ lo molto simile a quello di un libro di Blake. Parlo del Libro del Cielo e dell’Inferno.

JÖRGE LOUIS BORGES:

Certo, sì, il libro di Blake è Le

nozze... Matrimonio.

Il matrimonio del cielo e dell’Inferno, Marriage of Heaven and Hell, sì. Bene, nel Libro del Cielo e dell’Inferno lei e Bioy Casares... Ci devono essere senz’altro brani di Blake, no?

Naturalmente. Insomma, lo spero. Sì, glielo posso confermare. Ma tra tutti, uno che mi ha colpito in particolare è un passaggio di San Pommaso d’Aquino, che si intitola “Resurrezione della carne". No, non credo sia di San Tommaso, ma di Origene. No, quello che ricordo io è questo: un passaggio di Origene. Origene afferma che la sfera è la forma per-

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fetta. Perfetto significa che qualsiasi punto ... che tutti i punti della superficie sono equidistanti dal centro; quando arriverà la resurrezione della carne, la gente, noi, diciamo, saremmo risuscitati in forma sferica e sa­ remmo entrati ruotando in paradiso; o non è questo il passaggio? Forse è un altro. Non credo sia esattamente lo stesso, ma sarebbe bello se lo fosse. Ecco: “Resusciterà solo il necessario per la realtà della natura”. Questa è la prima frase: “Tutto ciò che attiene all’integrità degli uomini dopo la resurrezio­ ne deve riguardare quanto appartiene alla natura uma­ na, perché ciò che non appartiene alla verità della natura umana non verrà rigenerato negli uomini risuscitati”. Ora, cosa vuol dire tutto questo, vuol dire che le persone resusciteranno senza i loro mali; vuol dire che, per esempio, io resusciterò con la vista e non cie­ co. E che una persona, che so, un lebbroso, resusciterà con il corpo sano, o sbaglio? Lui lo spiega così...

O forse vuol dire che chi resusciterà sarà un giusto.

Possibile. No, credo di no, perché se alcuni sono condannati all’inferno... non so proprio che spiegazione trovare. Inoltre, “la realtà della natura umana”, è una frase vaga, che può significare tutto o niente. Certo. Si dice: “Altrimenti sarebbe necessario che tutti gli uomini fossero di straordinaria grandezza, se tutti gli alimenti trasformati in carne e sangue fossero stati rige­ nerati”. Anche la spiegazione è strana.

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Vuol dire che, quando una persona resuscita, re­ susciteranno anche i cibi che ha mangiato, giusto? Insomma, verrà accresciuto dal volume di tutti i bic­ chieri d’acqua che avrà bevuto, o sbaglio? Perché se sbaglio, allora non ho capito nulla. Proviamo ad andare avanti, magari si spiega.

Vediamo, vediamo, sono molto curioso, sembra che tutte le spiegazioni siano esagerate.

fRideJ Certo. “Ecco quindi che ci si occupa della verità di ciascuna natura secondo la specie; poi le parti dell’uomo che sono considerate secondo la propria specie e forma, verranno ricostituite interamente negli uomini resuscitati, come le parti organiche e le parti similari, come la carne, i nervi e tutte le cose di questo genere che vanno a formare la composizione degli organi.”

Questo significa che nessuno resusciterà pigmeo o gigante; resusciteranno tutti, non so, della stessa statu­ ra, o intende dire un’altra cosa? Andiamo avanti, forse si chiarirà.

Andiamo avanti, forse si chiarirà, o arriveremo a quello che Valéry riteneva molto difficile: un caos per­ fetto, un disordine perfetto (,ride\ vediamo, visto che ora stiamo andando a fondo. “Non tutta la materia che è stata in quelle parti nel loro stato naturale verrà ricreata, ma solo quella neces­ saria all’integrità della specie di tali parti.”

Significa che non resusciteremo con tutte le sardine che abbiamo mangiato, per esempio.

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(Ride.) Presumibilmente no, ogni volta più difficile.

Ma non so se qualcuno ha pensato a questa possi­ bilità. È stranissimo. Perché poi aggiunge: “Eppure l’uomo non cesserà di essere numericamente lo stesso nella sua integrità, anche se materialmente non resusciterà tutto ciò che è stato materialmente parte di lui. In effetti, è evi­ dente che l'uomo in questa vita è numericamente identi­ co a se stesso dall’inizio alla fine". Insomma, il mistero sta nell’avverbio “numericamente”. Cosa vuol dire numericamente? Vuol dire quantitativamente, oppure no?

Credo sia l’unica spiegazione possibile, che si riferisca alla quantità.

Una cosa che dovrebbe sapere è la seguente: il gior­ no del giudizio finale, un anziano verrà resuscitato come anziano, o no? O si resuscita sempre all’età che si ritiene sia quella perfetta, diciamo trentatré o trentacinque anni. Sono le due possibilità: trentatré è l’età in cui Cristo è stato crocifisso e Adamo è stato generato; mentre trentacinque è, come ha ricordato Dante nel suo verso più famoso, il “mezzo del cammin di nostra vita.” Quindi se la durata media della vita è di circa settanta anni, “Nel mezzo del cammin” significa tren­ tacinque. E lo spiega anche nella Vita nuova. Allora passo all’ultimo paragrafo.

Vediamo, vediamo, se arriviamo a una spiegazione o se concluderemo con quello che Milton definisce: “Confused words confounded" (confuse parole scombi­ nate). (Ride.) 68

(Ride.) “Eppure ciò che è materialmente in lui sotto la specie delle parti, non resta lo stesso, ma è soggetto a perdita o accrescimento, nello stesso modo in cui il fuoco si conserva quando si aggiunge legna, man mano che que­ sta si consuma; l’uomo è intero quando si conservano la specie e la quantità convenienti del suo genere."

Non so se lei si sente un poco perso, perché io... Credo che per la prima volta, Borges, siamo quasi tutti un po’ smarriti. Questo si è rivelato il labirinto di San Tommaso. Sì, e la cosa straordinaria è che non è stato scrit­ to con il proposito di essere labirintico, ma piuttosto esplicativo. Giusto.

Dico, tutto questo è una spiegazione; e proprio la spiegazione è il vero mistero. Ricordo un verso di Byron, che parlava di Coleridge, e diceva che Colerid­ ge sta “explaining metaphysics to the nation" (spiegando la metafìsica al popolo). E aggiunge: “Magari spiegasse anche la sua spiegazione.” Credo si possa dire la stessa cosa di San Tommaso: “Magari spiegasse la sua spie­ gazione”, dal momento che la spiegazione risulta più nebulosa di qualsiasi enigma, di qualsiasi problema. È che, a differenza di Sant’Agostino, San Tommaso, seguendo la traiettoria di Aristotele, si rivolge sempre alla ragione; e questo rende tutto più difficile, perché non possiamo più immaginare, possiamo solo ragionare.

In questo caso non sono sicuro di poter ragionare, perché ho seguito tutta l’argomentazione ma non l’ho compresa. E evidente che c’è una frase estremamen69

te misteriosa, che è: la realtà della natura o la natura della realtà. Non so quale sia delle due, o se non è nessuna delle due.

“Resusciterà solo il necessario per la realtà della na­ tura.”

Cosa significa? È confuso. Forse Chesterton, che ha realizzato un ri­ tratto di San Tommaso...

Lui ha detto che, secondo San Francesco d’Assisi, era sufficiente, diciamo, un bozzetto; ma per San Tommaso era necessaria una vera e propria pianta. Avremmo bisogno di una grande pianta per capire se ci può essere d’aiuto. Sì, nel caso di San Tommaso, non si tratta di uno schizzo, o di un disegno; si tratta di una mappa. Certo, e per tornare al ritratto fatto da Chesterton, ricorderà che fu un ritratto eccellente.

Sì, eccellente, ma non credo che si riferisca a questo passaggio; credo che leggerlo avrebbe deviato Che­ sterton. No, avrebbe inventato una spiegazione molto ingegnosa, più ingegnosa ancora del testo esplicativo, tanto ingegnosa che l’avremmo accettata. Non credo si possa spiegare tutto questo, lei è sicuro che questo passaggio appaia nel testo? Sì, c’è.

Lo avremo scelto come un pezzo da museo, senza dubbio; come puro divertimento, qualcosa per... no, non per dare fastidio, ma piuttosto per inquietare il lettore.

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Un commentatore del libro di Chesterton su San Tom­ maso dice che forse, portando tutto all’estremo, San Tom­ maso ha fatto bene ad aspettare sette secoli per rivelare il suo ritratto a Chesterton. Questo significa che il ritratto è più accettabile... della Summa teologica, e non costa nulla crederlo. (Ride) C’è un apprezzamento da parte di Huxley.

Vediamo... Dice che verso la fine della sua vita, San Tommaso sentiva che tutto quello che aveva scritto, e si riferiva letteralmente alle parole, è: “Che tutto quello che aveva scritto prima gli sembrava una montagna di paglia”, mol­ to materiale, così, quasi non trascendente; forse perché lui stesso aveva raggiunto lo stato contemplativo.

Ma il fatto che arrivasse dopo lo stato contemplati­ vo, non ci aiuta a spiegare la bozza precedente, giusto? Continua ad essere inquieto circa la resurrezione della carne, che in questo caso non si spiega.

Di certo è meno pittoresco di Origene, perché l’idea che le persone resuscitassero sotto forma di sfere... e non dico nulla sulle dimensioni delle sfere. Non so se saranno tutte uguali, oppure no. Inoltre è meglio pen­ sare che non fossero tutte uguali. E chiaro che quello di Origene è un gioco di parole: il fatto che la sfera sia una forma perfetta, non significa che una sfera sia più bel­ la da vedere di una colonna, o della statua equestre di Colleone o di Gattamelata. E solo la forma più perfetta sotto un punto di vista: che ogni punto della sua super­ ficie è equidistante dal centro; ma non per questo è la 71

più perfetta esteticamente. Se uno scultore si dedicasse esclusivamente a realizzare sfere, non credo avrebbe molto successo, giusto? E quello che succede alla strana teoria del cubismo: l’idea che tutte le forma si possano ridurre a cubi. Io non lo so se sia davvero così oppure no, diciamo anche a piramidi, coni o cilindri. Bisogne­ rebbe studiare la teoria del cubismo, se anche c’è stata una teoria del cubismo, cosa che non sapremo mai; so­ prattutto se ci dedichiamo a studiare l’argomento. Per ricompensarla, Borges, per il tentativo forse fallito che abbiamo fatto con il testo di San Tommaso.

No, chi ha fallito è San Tommaso {ridono entrambi)·, è il santo, non noi. Noi non siamo santi e non abbiamo fallito. Non abbiamo fallito. Insomma, fallito nel tentativo di capire il testo.

Ma c’è un altro brano, breve, nel Libro del Cielo e dell’Inferno... Va bene, vediamo, sperando che sia meno...

Che è più esplicito, più concreto...

Meno oscuro e misterioso del precedente. Viene dal Talmud, e parla del “paradiso per l'ebreo”: “Il giardino dell’Eden è sessanta volte più grande dell’Egit­ to; si trova nella settima sfera del firmamento”. Prima parlavamo di sfere, e ora ne abbiamo qui una concreta.

Sì.

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“Dalle sue due porte entrano sessanta miriadi di ange­ li, dai volti brillanti come il firmamento.” Sì, credo sia tutto così grande da diventare inconce­ pibile; sembra che se si parla di due angeli ci si possa credere; ma se si parla di migliaia di angeli, allora la cifra supera di gran lunga le capacità dell’immagina­ zione. Tanto più è grande, tanto più è indefinito. Eppure ora diventa più concreto.

Vediamo. “Quando il giusto arriva nell’Eden, gli angeli lo spo­ gliano, ornano il suo capo con due corone, una d’oro e l’altra di pietre preziose, mettono nelle sue mani fino a otto rami di mirto e, danzando intorno a lui, non cessa­ no mai di cantare con voce soave: 'Mangia il tuo pane e rifocillati’.”

Non so se sarà facile mangiare quel pane con in mano otto rami di mirto: è una scena difficile da im­ maginare. ('Ride.) E lei, Borges...

Fortunatamente quasi nessun pittore ci ha provato, o almeno credo; sarebbe molto difficile ritrarre quel povero uomo giusto. Rifocillandosi, o comunque man­ giando un pane che non è mai stato nominato prima. Viene fuori così, ex nihilo, dal nulla. Molte volte sono stato colpito dal fatto che in voi sem­ brano riunirsi due capacità: il modo di pensare attraverso ragionamenti scritti, come San Tommaso, e l’altro, quello agostiniano o platonico, di pensare attraverso i miti.

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Il brano che mi ha appena letto non so a quale delle due capacità appartenga. Si avvicina di più a quella che si esprime per miti, ma non è il miglior esempio possi­ bile: dà l’idea di una persona che cerca di immaginare qualcosa e alla fine fallisce. E per farlo ricorre a imma­ gini vastissime.

Mi spiace per il doppio fallimento di oggi, Borges, ma... Ma non è nostro, il fallimento, è dei mistici.

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Liberalismo e nazionalismo

OSVALDO Ferrari: Per alcuni della mia generazione è strano, quasi incomprensibile, il perpetuo dissenso tra nazionalisti e liberali per quanto riguarda la tradizione della letteratura e della cultura argentine.

JÖRGE LOUIS borges: Anche a me succede lo stesso. Certo, si parla di una ricerca di identità, ma secondo me è forse meglio non trovarla; visto che siamo, come ho avuto occasione di dire più di una volta, occidentali ed europei in esilio, in un felice esilio. Curiosamente, i nazionalisti insistono nel negare l’aspetto distintivo del paese, che consiste nella grande quantità di immigrati. Per tutta l’America, compresa quella del nord, questo è il tratto distintivo dell’Argentina; ed è quello negano i nazionalisti, che ci vogliono spagnoli e indios, come tutti gli altri paesi dell’America del Sud. Strano che neghino la nostra caratteristica più evidente; eppure, ecco cosa accade: i nazionalisti non insistono nel dire che questo è un paese meta d’immigrazione, ammet­ tono solo quella spagnola, e insistono sugli indios, che quasi non esistono più. Ma insomma, loro sono illogici per natura.

Mđ la cosa più strana sembra essere fino a che punto questo problema ha diviso le diverse generazioni del paese. Sì, suppongo che per gli uomini dell’ottanta l’idea dell’immigrazione fosse un’idea preziosa, mentre in al­ tri periodi sia stata vissuta come un pericolo. 75

intende dire come un pericolo per l’identità? Sì, credo di sì, e si pensa che tutti i nostri proble­ mi vengano dall’immigrazione, ma non è così; i nostri mali sono cominciati subito dopo la Guerra d’indi­ pendenza, poi subito dopo è venuta l’anarchia e il go­ verno dei generali; il tutto prima dell’immigrazione. Ricordo che, durante la dittatura di Peron, c’è sta­ ta gente che ha detto che era stata tutta colpa degli immigrati; mentre ho avuto chiari segnali per cui il peronismo era più forte all’interno, dove c’era meno immigrazione. Ultimamente è stato dimostrato che a Tucuman, che poi sarebbe il luogo dove è più numero­ so il tipo d’uomo che venerano tanto - l’unione tra lo spagnolo e l’indio - è proprio quello in cui accaddero conflitti.

Nella carta della letteratura è stato forse Lugones che, partendo dall’idea suggerita nel Payador (menestrello gaucho), ha dato origine alla polemica. Sì, ma non si può capire Lugones senza la letteratu­ ra francese e senza contare che lui ha anche professato il culto di Dante. Sì, ma quando ha proposto Martin Fierro...

Sì, ma quello corrisponde a un’idea, che per me è superstiziosa, per cui ogni paese deve avere un suo libro sacro. Ora, a lui è venuto in mente che quel li­ bro, quel Corano, diciamo, quella Bibbia, poteva es­ sere Martin Fierro. È strano, ma ho sentito gente che parlando, per esempio, con letterati stranieri ha citato Martin Fierro definendolo “La nostra Bibbia”. E a me sembra stranissimo. Eppure viene accettato...

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Ma questo implicava che si doveva per forza scrivere della tradizione gauchesca? Che scrivere, in Argentina, significava proseguire in quella tradizione? No, credo di no, credo solo si supponesse che fosse arrivato all’apice con Martin Fierro. Non credo pen­ sassero di dover continuare per forza quella tradi­ zione. Era un “libro sacro”, ma fino a che punto lo si poteva imitare senza scadere nella bestemmia? Non credo che gli scrittori che trattavano argomenti simili, si considerassero eredi di tale tradizione. Al contrario, quando apparve Don Segundo Sombra, patrocinato da Lugones, uscì un articolo di Jorge Alimano sulla rivi­ sta “Sur”. In quell’articolo il libro veniva elogiato e si leggeva: “Sospettavamo da sempre che Martin Fierro non corrispondesse al vero gaucho, e ora ne abbiamo la prova” (la testimonianza di Don Segundo Sombra, dove viene mostrato il gaucho come un uomo tranquillo, un uomo di pace e non necessariamente un disertore e un brigate). Ricordo che una volta Güiraldes arrivò a dirmi che Don Segundo Sombra rappresentava il tipo del gaucho meglio di Martin Fierro. Certo, visto che la maggior parte dei cittadini non erano briganti.

Sì, ma è vero che cè più di mezzo secolo da i due prototipi di gaucho. Sì, certo che sì; e non so se il genere del gaucho esistesse ancora quando Güiraldes pubblicò Don Se­ gundo Sombra, ma credo di no. Credo che Don Segun­ do Sombra si debba leggere, diciamo, dall’infanzia di Ricardo. Così come il Palermo che descrive Carriego in Anima della periferia rappresentava un anacroni­ smo quando il libro venne pubblicato, visto che io per esempio non lo ricordo... ci saranno stati casi di vio­ lenza prima, tra i banditi; ma non ricordo alcuna vio­

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lenza nel Palermo. Ma era tutto più tranquillo allora, non solo nel Palermo. Forse si scriveva sulla base di miti anteriori. Sì, credo di sì. E nel caso di Carriego, può essersi rifatto a quella tradizione del coraggio che deve essere stata molto più radicata a Entre Rios rispetto a Buenos Aires.

Anche lei ha detto che Ricardo Rojas ha offerto un’idea dell’origine della poesia gauchesca che può ge­ nerare confusione.

Certo, visto che quando parla dei poeti del genere gauchesco li definisce “payadores", ma nessuno di loro lo era, che io sappia. Forse Ascasubi, ma non sempre. No, credo di no, credo sia evidente che la poesia gau­ chesca ha le proprie origini nelle città. È stata Buenos Aires a inventare i gauchos e la pampa?

Sì, penso di sì, e sono invenzioni buone, non biso­ gna prendersela con Buenos Aires. Anzi, bisogna rin­ graziarla. Alla luce di tutto questo, credo che abbia indicato che ciò che si esprime in forme diverse negli scrittori ar­ gentini sono le inclinazioni più profonde degli uomini argentini. Ad esempio, lei ha citato versi di Banchs, in cui si percepisce una certa reticenza o di pudore proprio dell’uomo locale.

Sì, si verifica proprio quando non cerca di rendere il colore locale; in quei versi in cui si parla di usignoli e tetti “... Il sole sui tetti / e sulle finestre brilla. Gli usi­ gnoli / vogliono dirci che sono innamorati”. Ha parla-

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to di usignoli e tetti, invece che di terrazze e calandre, per esempio.

Anche se gli usignoli e i tetti sono stranieri, lo stile con cui se ne parla è tipico di qui. Certo, e questo è ancora più importante delle parole che usava. Ho Γ impressione che se si insiste nel colore locale, alla fine tutto sembra falso. Io per esempio ho scritto milonghe e ho cercato di non utilizzare parole argentine, anche se qualcuna deve esserci, ma ho man­ tenuto, diciamo, i ritmi argentini. Non li ho cercati, mi sono stati dati.

O l’hanno cercata loro, in qualche modo. Sì, certo, e scoprirà che, se si è preso la briga di leg­ gere le mie milonghe, che quasi non ci sono parole cre­ ole; alcune sono inevitabili, ma non le ho cercate io. Credo che il creolo debba restare più nelle cadenze, nella voce. E quella voce, quando il lettore legge il te­ sto, se il testo è creolo, allora lo leggerà in modo creolo.

Lo percepisce. Ora, ricapitolando, abbiamo ad esem­ pio la nota teoria di Martinez Estrada, secondo la quale qui abbiamo adottato la forza della cultura europea, una terra e un popolo che ancora non ha risolto le sue que­ stioni di cultura e civilizzazione dentro il proprio paese. Vincente Rossi è andato molto più lontano - una re­ ductio ad absurdum -. Disse che lo spagnolo era stato scelto tra altre possibili lingue. Ed è falso, di sicuro: è come sostenere che era stato possibile scegliere tra il guarani e il castigliano, o tra il castigliano e il francese; è assurdo: parlavano tutti spagnolo... ma è ancora più strano; ad esempio: c’è un racconto “Il destino è Chambon” di Arturo Cancela, in cui scrive che un compare,

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che si chiamava Lopez, era orgoglioso del suo cognome spagnolo. Ora, non credo che la gente pensasse che Lo­ pez fosse un cognome spagnolo; lo conoscevano tutti, non era necessariamente associato alla Spagna. La gen­ te, quando parlava, non pensava di parlare spagnolo; stava solo parlando, naturalmente, innocentemente. Sì, ma d’altra parte lei ha detto che la storia argentina si può definire come un lungo tentativo di allontanarsi dalla Spagna. Ah, sì, certo, ma parlavo di un allontanamento po­ litico. Per quanto riguarda la lingua, dal momento che stiamo parlando castigliano... l’uso “castigliano”; si è preferito “castigliano” invece che “spagnolo” perché “ca­ stigliano” sembrava più generico. Al contrario in Spagna si dice “spagnolo” perché “castigliano” sembra limitato a un’unica regione: la Castiglia. Ma qui che cosa ce ne facciamo delle regioni spagnole? Niente. Allora abbia­ mo preferito “castigliano” perché ci sembrava più gene­ rico. Al contrario in Spagna “castigliano” è regionale. È strano che queste due parole, “castigliano” e “spagnolo”, abbiano connotazioni distinte a seconda che si usino su una sponda o sull’altra dell’Atlantico. Ma è così, e Lugones chiamò il suo dizionario: Dizionario del castigliano comune, e c’è un libro del filologo Costa Alvarez in cui l’autore fa riferimento al castigliano, all’argentino, o una cosa del genere, ma non allo spagnolo; “spagnolo” sa­ rebbe sembrato, diciamo, un’intromissione politica. In ogni caso non sono altro che denominazioni.

Certo. Dno dei fatto che credo lei abbia considerato tra i più rappresentativi del nesso naturale tra l’Argentina e l’Eu­ ropa fu la preoccupazione con cui vennero seguiti da qui 80

gli sviluppi della Seconda guerra mondiale, e la posizione che gli uni o gli altri presero in quel momento. Sì, penso che ci rendemmo conto del nostro legame con la Spagna con la Guerra civile spagnola, perché pri­ ma nessuno si ricordava che in una data epoca eravamo stati spagnoli. Ma poi è arrivata la guerra civile e la gen­ te ha preso le parti della monarchia o della repubblica; o meglio, di Franco o della repubblica.

Ed è proseguito con la Seconda guerra mondiale e con chi parteggiava per gli alleati... Sì, o gli alleati o i tedeschi. Ho pubblicato un articolo dove sostengo che chi sosteneva i tedeschi non erano necessariamente amici della Germania, erano solo ne­ mici di Inghilterra e Francia; non erano davvero amici della Germania, anche perché spesso non ne sapevano proprio nulla.

Potremmo far risalire ad allora l’allontanamento tra nazionalisti e liberali nel paese? Sì, credo di sì, perché i nazionalisti erano, almeno se­ condo loro, filotedeschi, anche se non sapevano niente della Germania. Ma non importa, gli interessava che I litler fosse contro l’Inghilterra e la Francia; soprattut­ to contro l’Inghilterra. Sì, ho detto tutto questo in un articolo pubblicato su “El Hogar”.

Ma in questo momento come vede il dilemma per cui abbiamo o meno una nostra tradizione, una tradizione che sia o meno vincolata alla Spagna o ad altri paesi? Sem­ brerebbe che non si parli più di questa questione come se ne parlava prima.

No, ed è meglio così, se posso dirlo. 81

Possiamo supporre che sia risolta?

Più tradizioni abbiamo, meglio è; quanto più dob­ biamo ad altri paesi, senza escludere la Spagna, meglio è. Perché non accettare tutti i paesi e tutte le culture, nei limiti del possibile; perché non puntare ad essere cosmopoliti. Non c’è nessuna ragione per pensarla di­ versamente. E poi, forse, già ora si può dire che abbiamo una pic­ cola tradizione letteraria nel nostro paese. E anche nel XIX secolo, visto che, dopotutto, ci sono nomi come quello di Sarmiento o di Almafuerte; e, perché no, anche di Lopez e altri.

Lo dico perché scrittori come quelli delle ultime gene­ razioni, come Murena, hanno detto che l’atto di scrivere in questo paese è possibile a partire da Borges, Mallea, Martinez Estrada e Maréchal. Eppure, togliendo il mio nome, come hanno fatto a scrivere autori quali Martinez Estrada e Lugones sen­ za quelle condizioni privilegiate? {Ridono entrambi?)

Allora la tradizione ha avuto conseguenze anche su di loro. Sembra di sì, in ogni caso... Sì, io non lo sapevo; e non mi era mai venuto in mente di mettere il nome di Maréchal vicino a quello di Martinez Estrada.

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Emerson - Whitman

Osvaldo Ferrari: C’è qualcosa di particolare nella sua visione di Emerson; lei dice che Whitman e Poe hanno oscurato la sua storia, la storia di Emerson. JÖRGE LOUIS BORGES: Sì, e i due furono quasi sco­ nosciuti paragonati a Emerson, ed Emerson fu molto generoso con Whitman. Whitman gli mandò il primo esemplare... no, un esemplare della prima edizione di Leaves of grass (Foglie d’erba), nel 1855, l’anno in cui Longfellow pubblicò un altro grande poema america­ no, lo “Hiawatha” che è stato dimenticato, o relegato nelle scuole; che poi è la stessa cosa. Bene, nello stes­ so anno, il 1955, apparvero lo “Hiawatha”, una specie di Tabaré nordamericano, tranne che non ci figurano bianchi perché si svolge tutto tra gli indiani; e Longfel­ low prese a modello il “Kalevala”, il poema finlandese, che pure non è un metro molto stimolante; e quello stesso anno apparve la prima edizione di Leaves of grass. Ora, in qualche modo Emerson aveva profetiz­ zato l’arrivo di Whitman, perché in un suo articolo, “The American scholar”, disse che un poeta americano avrebbe dovuto rappresentare tutto, non solo le cose buone, ma anche quelle cattive; avrebbe dovuto parla­ re delle trappole, dei crimini, degli odi e della cupidi­ gia; secondo lui avrebbe dovuto dire tutto questo. Ma certo, profetizzare l’avvento di un poeta è una cosa, esserlo è un’altra.

Ah, certo.

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È completamente diverso. Allora Emerson mandò una lettera molto generosa, o molto ragionevolmente generosa, a Walt Whitman, dicendogli che era convin­ to che quel poema era quanto di maggior ingegno, di maggior sapienza, che fino a quel momento aveva arric­ chito la nostra America. Gli disse anche che lui andava poche volte a New York, ma che la volta successiva che vi ci fosse recato, non avrebbe perso l’opportunità di stringere la mano del suo benefattore, che era Whit­ man, perché aveva scritto quel libro. E Whitman, al tempo mi pare fosse caporedattore del Brooklyn Eagle, un giornale di infimo livello, ma aveva scritto un gran­ de poema. Insomma, Whitman agì in un modo che offese Emerson: pubblicò la sua lettera. Ed era chia­ ro che non era una cosa buona, perché era una lette­ ra personale che gli aveva scritto Emerson e lui non aveva il diritto di fare ciò che fece. Inoltre credo che la pubblicò nella terza edizione, dove, contro il parere di Emerson, aveva incluso i poemi erotici che ora sono tanto famosi.

Sì... E così, in un certo senso, Emerson figurò come un sostenitore di quei poemi, che scandalizzarono i poeti loro contemporanei. Mentre ora si potrebbero pubbli­ care senza alcun demerito, senza alcun pericolo.

Tutto questo tenendo conto che Emerson era, come lo vede lei, un vero cavaliere.

Ah sì, ma io non so se... non ricordo di aver letto nelle biografie di Whitman che Emerson se la prese con lui. E poi Whitman continuava a pubblicare; ogni anno, credo, appariva una nuova edizione con nuove poesie. E questo è in linea con l’opinione e con le ri­ flessioni che appaiono all’inizio del libro, secondo le 84

quali, per Whitman, quelle poesie, tanto diverse, e che trattavano argomenti lontani tra loro, in realtà erano un unico poema, una sorta di epopea, di poema epi­ co americano. E allora quel personaggio, Walt Whit­ man, sarebbe veramente una trinità, fatta dell’uomo Whitman, dal Whitman elevato dall’immaginazione dell’autore, visto che sappiamo che nacque a Long Island; mentre nel libro a volte è nato in Texas, poi ha attraversato tutto il paese, cosa che non accadde davve­ ro, e poi si descrive come un minatore della California, o ancora in Nebraska; e tutto questo nasce dall’imma­ ginazione dello stesso Whitman. E poi c’è la terza per­ sona della trinità, il lettore, che pure interviene, visto che Whitman dialoga con lui e gli rivolge molte vol­ te la parola. Oppure fa sì che il lettore si ponga delle domande e gli risponda. Insomma, un concetto molto raro. E tutto questo rispecchiava l’idea di democrazia, perché Whitman, in una strofa molto particolare, fa ri­ ferimento a quadri in cui ci sono personaggi con aure­ ole dorate; e lui dice che voleva che nel suo poema tutti i personaggi avessero aureole, visto che non si tratta del poema di un solo uomo, ma di tutti gli america­ ni, e non solo degli americani suoi contemporanei, ma anche di quelli futuri, perché lui canta anche a loro. Significa che quel personaggio di Walt Whitman è un personaggio plurale, e virtualmente infinito: il lettore è considerato parte integrante del poema, e quel lettore può comprendere anche i posteri. Insomma, possiamo essere noi, ora, che siamo stati in un certo senso prefi­ gurati da Whitman. Certo, ora, la sua stima per Emerson mi sembra molto alta, perché lei dice che, considerati alcuni aspetti, Whit­ man e Poe sono inferiori a Emerson.

Sicuro, non sono paragonabili. Non so, credo che non avrei dovuto dirlo. Non si possono paragonare. 85

Un momento di esaltazione. Sì, a Emerson Poe risultava decisamente sgradevo­ le, tanto che lo definì “the jingle man", l’uomo delle filastrocche, immagino riferendosi al suo famoso poe­ ma...

“Le campane”. “Le campane”, con il suo “Fhe bells, bells, bells" (Le campane, campane, campane); a Emerson era sembra­ to un gioco banale. E lo chiamò: “Poe, oh, yes, the jin­ gle man", l’uomo delle filastrocche. Ma in inglese suo­ na meglio, perché “jingle" è già in sé una filastrocca.

"Jingle man” è simpatico. Sì, “Poe, oh, yes, the jingle man". (Ride.) Emerson era un poeta intellettuale, ovviamente. E non un poeta appassionato. Ecco quello no, ma chi lo sa se la passio­ ne è un elemento necessario per la poesia. Ci può esse­ re questo tipo di poesia, basti pensare a Pope, a Boile­ au, che non sono poeti eccezionalmente appassionati, ma sono poeti. Oppure pensiamo a un esempio ancora più illustre, o più antico: se si pensa a Orazio, si pensa alla perfezione verbale, ma non a lui come un auto­ re appassionato. Quindi non so dire fino a che punto la passione sia necessaria. Mentre per l’emozione, sì, posso dirlo, senza emozione non si scrive poesia. Ma senza passione può essere, c’è un tipo così, di poesia fresca, intellettuale; di una poesia molto lucida; così, scritta da un uomo molto intelligente, ma non molto appassionato, non necessariamente appassionato. Fatto salvo che potremmo ipotizzare la passione in­ tellettuale.

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Ah, in questo caso sì, l’amore intellettuale di cui parlò Spinoza, certo; e a Emerson non mancava questo amore. Credo che Poe non avesse letto molto, semmai fingeva di essere un erudito; e Whitman, forse, aveva letto l’essenziale, le grandi epopee; inoltre Whitman sarebbe incomprensibile senza la bibbia, senza i Salmi di Davide. Ma lui fece una cosa diversa, e i versi di Whitman sono come un’eco dei salmi, però più lunghi, e molto più complessi. E anche lui arrivò alla stessa conclusione, in sostanza l’idea di libertà lo condusse all’idea del verso libero. Di sicuro, se lui voleva essere un poeta della democrazia, non poteva usare le forme classiche. Gli piaceva pensare che tutto quello che era venuto prima fosse una forma di feudalismo.

A Whitman. Sì, voleva inaugurare la poesia della democrazia, che ovviamente non voleva dire “Oh, democrazia”, per poi adularla con frasi retoriche. No, voleva fare qualcosa del tutto diverso. Un poema il cui eroe sono tutti gli uomini: per lui, tutti gli americani. Whitman insiste nel dire che in realtà il suo libro è una bozza, che è solo il punto di partenza per futuri poeti; e in un certo sen­ so lo è stato, ma non so se è stato superato. Credo di no.

Certo, una bozza insuperabile. Sì, credo di sì. Direi proprio questo di Whitman. Di sicuro Carl Sandburg è riuscito a maneggiare molto meglio il linguaggio colloquiale di quanto non abbia fatto Whitman. Inoltre Whitman voleva dimostrare che aveva letto molto: il suo poeta preferito era Tenny­ son, un poeta di culto. Al contrario Sandburg decise, adottò energicamente lo stile vernacolare. Potè farlo in maniera molto più facile, visto che a quel punto l’ingle­ se americano era molto più definito.

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Ogni volta che si cita Emerson, lo si associa a Carlyle; ci sono vari legami con Carlyle, o di Carlyle con Emer­ son. Immagino ricorderà quello che ha detto Groussac. Sì, e credo sia profondamente ingiusto. È molto ingiusto.

Inoltre Carlyle era un uomo davvero disgraziato, senza dubbio appassionato. Aveva una visione terri­ bile del mondo. ÀI contrario Emerson, no, lui era un uomo lucidissimo... e se si paragonano II culto degli eroi di Carlyle con domini esemplari di Emerson, è evidente che sono del tutto diversi, visto che Carlyle ammira solo gente violenta, dura; ammira i tiranni. Carlyle scrisse del dottor Francia - un articolo, a con­ ti fatti, di elogio - e ammirava Federico di Prussia. E avrebbe apprezzato anche Napoleone, se non fosse stato che era francese, mentre lui amava la Germa­ nia e, in un certo senso, odiava la Francia; anche se uno dei suoi libro migliori è la Storia della Rivoluzione francese.

Tutte le volte che citiamo Carlyle, lei ricorda quella sua frase sulla storia universale come testo sacro. Sì, la storia universale, ma lo possiamo chiamare anche il processo cosmico; afferma che la storia uni­ versale è un testo che leggiamo in continuazione, e che scriviamo in continuazione; e qui viene la parte più misteriosa: è un testo in cui veniamo scritti anche noi. La storia diventerebbe una sorta di crittografia divina, e noi siamo i segni di questa crittografia. Prese questo concetto da Swedenborg, forse: l’idea che tutto il mondo sia un crittogramma; e di conseguenza che tutte le cose abbiano un senso. Ed è chiaro che tutto questo deve essere derivato dalla Bibbia. Dall’idea che

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la Bibbia... Be’, Dante credeva che ci fossero quattro possibili piani di lettura della Bibbia. Nel Medioevo c’era questa convinzione, così come ci sono quattro piani di lettura della Divina Commedia. Sì, e ora, per provare la sua ammirazione per Emer­ son nel tempo, mi piacerebbe leggere la sua poesia dedi­ cata a lui, se crede. L’unica cosa che so è che non è degno di Emerson, e so che Ezequiel Martinez Estrada ha scritto una poe­ sia di gran lunga superiore. Ma sì, sentiamo il mio.

Sentiamo il suo: “Questo alto cavaliere americano / chiude il volume di Montaigne / ed esce in cerca di un godimento / che non vale meno / la sera che già’ esalta la pianura / verso il profondo ponente e il suo declivio / verso il confine che quel ponente indora / cammina attraverso i campi come ora / attraverso la memoria di chi questo scrive”

Insomma, non è male... Non è affatto male.

Anche se l’ho scritto io.

Si tratta, soprattutto nell’ultimo verso, della sua me­ moria. Sì. “Pensa: ho letto i libri essenziali / e altri ne ho com­ posti /che l’oscuro oblio non deve cancellare / un dio mi ha concesso / tutto quello che e’ dato sapere ai mortali / per tutto il continente si spande il mio nome / non ho vissuto / vorrei essere un altro uomo” 89

C’è una sua poesia, “Days”, in cui lui scrive lo stes­ so; in cui passano i giorni e lui li disprezza, perché ha rifiutato tutti i piaceri della vita; lui si è semplicemente limitato al piacere intellettuale, come ha detto lei. E alla fine se ne è pentito. Eppure...

Ma nonostante tutto in lui resta una sorta di serena felicità. Sì, lei afferma che era istintivamente felice. Sì, credo di sì, inoltre era un uomo così intelligente; un uomo che pensava sempre, come poteva non essere felice. Le persone stupide sono disgraziate; una perso­ na che riflette, che rinnova il passato ogni volta che lo ricorda, che sa cambiare opinione: una simile attività intellettuale deve essere una forma di benedizione. E sono certo che Emerson 1 abbia ricevuta.

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12 Lo stoicismo

Osvaldo Ferrari: Ho sempre pensato che le sue abi­ tudini fossero austere, e le associo non all’ascetismo mi­ stico ma allo stoicismo filosofico. JÖRGE LOUIS BORGES: Sì, certo; inoltre, a differenza di Manuel Mujica Lainez, ad esempio, il lusso mi sembra una cosa orribile. Non so, ci sarà qualcosa... forse la mia discendenza metodista. Il fatto è che vedo il lusso come una specie di “guarandaga”', mi sembra volgare.

Quasi una perdita di tempo.

Per molta gente non è così, ma per me sì. Mi suc­ cede la stessa cosa con il linguaggio: mi sembra che le parole lussuose vadano evitate, lo stesso per le descri­ zioni lussuose. Certo, insomma, se cè una cosa certa è che lei non può essere barocco.

No, lo sono stato per molto tempo, ma ora non più. Quindi potrei ripetere quei versi, forse la miglior po­ esia della lingua castigliana, l’epistola dell’anonimo sivigliano, che ora viene attribuita a un certo capitano Fernandez de Andrada. Ma sarebbe meglio che la po­ esia continuasse ad essere anonima, perché è quello che lui avrebbe voluto; e i versi sono... - credo che li citi Alfonso Reyes e dice qualcosa circa la “suprema eleganza”. Se evitiamo la parte di “suprema”, che pure

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è una forma di paqueteria·. “Che io abbia una vita or­ dinaria / uno stile comune e moderato / che non noti nessuno che lo veda” Eppure non so se ho il diritto di considerarmi un buono stoico, o anche solo un sem­ plice stoico. Credo di no visto che, per quello che mi interessa davvero, e sono i libri, spendo molto. Può sembrare assurdo visto che non posso leggerli. Ossia è un acquisto illusorio. Schopenhauer diceva che si deve acquistare, con il libro, il tempo necessario per legger­ lo. Perché quello che succede è che si finisce per con­ fondere il possesso del libro con il possesso del suo contenuto, ma col tempo non si è più tanto sicuri di questo; soprattutto se si tratta di romanzi, non si è mai sicuri di averli letti oppure no. Per esempio, sera dopo sera mi piace andare all’Accademia, quindi al Palazzo Errazuriz. La parola “palazzo” mi sembra tanto, tan­ to volgare. Eppure in Italia non è così, visto che ci sono moltissimi palazzi, e di solito i palazzi sono ab­ bastanza ascetici, oltre che belli; ma qui no, qui l’idea di palazzo è legata all’ostentazione. Nel caso di Mujica Lainez, credo che lui si rendesse conto che tutto quel­ lo di cui si circondava era abbastanza volgare, ma allo stesso tempo lo divertiva. Così pure doveva sapere che il fatto di moltiplicare le cravatte e gli anelli fosse ab­ bastanza rastaquouere, giusto?, ma gli piaceva anche. A me piacevano i bastoni, ma credo di non averne più di cinque o sei; mentre credo che Munija Lainez ne avesse sessanta o settanta. Un altro che aveva molti bastoni - che variavano a seconda dell’ora del giorno e dei vestiti a cui si accompagnavano - era Henry James. Welles racconta che, ad esempio, al mattino aveva un certo bastone, che si abbinava a un certo vestito, e che poteva andare bene per una “morning cali”, una visita mattutina; al contrario, per il pomeriggio, non so, nel­ lo splendore del tramonto, sceglieva un abbigliamen­ to altrettanto splendente. Quello che non sapevo - io ero professore all’Associazione Argentina di Cultura 92

Inglese: a quel tempo pensavo, o meglio, sentivo, che uno scrittore non si sarebbe dovuto preoccupare dei vestiti - era che gli alunni, all’Associazione Argentina di Cultura inglese, provavano pena nei miei confronti, perché mi vedevano come un uomo con una giacca, un paio di pantaloni, un paio di scarpe, una cravatta e due camice; avevano fatto questo conto, mentre io non sapevo di essermi ridotto così. (Ride.) Ma la verità è che, generalmente, se si rompeva qualcosa, ne prende­ vo di nuovo. Forse allora la gente era più semplice, non so se le ho mai raccontato che una volta si è discusso, si è affermato e si è negato il fatto di aver visto Carlo Alberto Erro e Eduardo Mellea davanti a una cristal­ leria, soprattutto osservando e confrontando; ed era una cosa che mi sembrava molto strana, soprattutto per degli scrittori. Eppure no, ora credo che chiunque possa parlare di vestiti... perché no. Oscar Wilde dis­ se che era più importante una riforma della moda che una riforma etica, ma alla fine è una delle “riforme” di Wilde.

Inoltre ha detto che il primo vero passo nella vita è sapersi fare il nodo alla cravatta, credo che, riferendosi a Lugones, abbia detto che, come si addice a un poeta, fu sempre un po’ dandy.

Riferito a Lugones? Credo si riferisse a quello ripensando ai momenti che hanno preceduto il suicidio. No, mi riferivo a Francisco Lopez Merino. Ah, a Lopez Merino.

No, non a Lugones. Lui si è ucciso davanti a uno specchio.

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Lugones o Lopez Marino?

Lopez Merino, nella cantina del Jockey Club di La Piata. Ma Lugones no. Di Lugones ho l’impressione che si vestisse decorosamente; non con decorosa umil­ tà. Ma perché non dare importanza a tutto; e potremmo citare come esempio di poeta dandy lo stesso Petronio, chiamato Arbiter Elegantiarum, arbitro dell’eleganza, e questo lo ricorda Wilde. Dice che lui poteva valutare su un dettaglio di una toga o sul modo corretto di te­ nere il bastone.

Nel secolo di Wilde, o comunque vicini a Wilde, pos­ siamo ricordare Poe e Boudelaire, che tanto aveva a cuo­ re il dandismo. Di Poe non saprei.

Baudelaire parla di Poe come di un dandy, non solo nello stile ma anche nel carattere. E c’è una frase di Baudelaire che mi sembra un po’ uncanny, ossia che si avverte un certo orrore nella frase. Ma non so se è questo che lui sentisse, forse ha pensato che tutto nella vita deve essere cosciente. Baudelaire ha detto: “ Vivre et mourir devant un miroir", vivere e mori­ re davanti a uno specchio, il che è abbastanza terribile, vero? L’idea di questa continua, cristallina e silenziosa vigile presenza dello specchio.

Certo, ma ho scoperto, con il passare del tempo, altri punti di contatto tra lei e lo stoicismo. Ad esempio la sua idea di vivere questa vita in un certo modo e non preoc­ cuparsi troppo dell’altra.

Questo lo ha detto, non era certo uno stoico, anche Confucio; disse - e credo che lo fece senza malizia 94

che bisogna rispettare gli esseri sovrannaturali, ma che è meglio mantenerli a distanza. {Ridono entrambi.) Questo non significa che non credesse nella loro esi­ stenza; lui pensava che... o come lo dice lo Shintoismo: “One life at a time", una vita alla volta; sarebbe a dire: procediamo correttamente in questa vita, e non preoc­ cupiamoci di quello che faremo nella prossima. Giorni fa mi hanno raccontato un’abitudine molto strana di una tribù di pellerossa, negli Stati Uniti. Questa tribù, che non era una di quelle famose: non erano, per esem­ pio, i comanche, i sioux o i moicani; pare che in questa tribù tutte le mattine in famiglia si raccontino i loro sogni; e i padri insegnano ai figli come comportarsi nei loro sogni. Questo si presta a due interpretazioni: una, la meno interessante, fa supporre che se ci si comporta bene nei sogni, allora ci si comporterà bene anche da sveglio. L’altra, invece, è più interessante, ed è quella di supporre che i sogni non sono meno reali della veglia, o che la veglia è una forma di sogno. Sembra che in alcune società primitive si creda che quando l’uomo dorme, in realtà sta viaggiando; per questo nel sogno visita luoghi lontani e incontra creature che non vedrà più perché è andato molto lontano.

Anche questa è una bellissima ipotesi.

Una bella ipotesi, ma le possibilità sono due: una per cui se uno è corretto, lo è anche nei sogni. Ma l’altra mi piace di più: l’idea che non ci sia un limite tra sonno e veglia. E che la vita è un sogno, niente meno.

La vita è un sogno, sì. Kant disse, e lui era un idea­ lista, che la differenza - un concetto annotato e censu­ rato da Schopenhauer - è che le azioni che compiamo nei sogni non hanno un karma; ossia non producono 95

alcun effetto. Mentre quelli che compiamo nella vita reale sì. Vuol dire che se lei uccide qualcuno in sogno, la mattina dopo quella persona non è morta; o se qual­ cuno entra a casa sua, la mattina dopo scopre che non è entrato nessuno.

Chiaro. Ma questa non sarebbe una vera differenza, visto che alla lunga non sappiamo se i nostri atti hanno avu­ to conseguenze. Quindi se pensiamo a un tempo infi­ nito, quello che noi viviamo non è meno momentaneo di ciò che sogniamo; la nostra veglia non è meno mo­ mentanea del nostro sonno. Così che non saprei dire che differenza ci sia.

Bisognerebbe vedere. Per quanto riguarda la preoccu­ pazione per l’etica, si tratta di una costante per tutti gli stoici. Soprattutto Marco Aurelio; in lui si vede quasi una sublime preoccupazione per l’etica. C’è una frase molto bella di marco Aurelio, ed è nei Pensieri, e si presta a un’interpretazione; o meglio, a un’interpretazione umoristica, del tutto aliena al modo di pensare di Marco Aurelio. Ed è: “Si può vivere bene persino in un palazzo”. Questo non significa che si può vivere comodamente persino in un palazzo; significa piuttosto che si può vivere correttamente anche in un palazzo. E forse è più difficile vivere correttamente in un palazzo piuttosto che, non so, in un piccolo conven­ to, perché il palazzo offre più tentazioni. È splendido detto da lui.

Sì, certo, perché lui viveva in palazzi.

Era niente di meno che l’imperatore.

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Niente meno che l’imperatore. I palazzi erano il suo habitat naturale.

Pensi a Simone Weil, per esempio, che sottolinea sem­ pre la superiorità della cultura greca rispetto a quella romana; fa una solo eccezione, Marco Aurelio. Sì, certo, nella cultura romana cera una certa vol­ garità; la monumentalità del Colosseo, per esempio. E poi le vite degli imperatori, che sono state incredibili. Forse la decadenza della Grecia è iniziata con Ales­ sandro il macedone. Era contaminato da idee asiati­ che, orientali; l’idea stessa di un impero andava bene ai greci.

Sì, nei Pensieri a cui abbiamo fatto riferimento, quelli di Marco Aurelio, si parla della formazione di un ani­ mo resistente, diciamo, alla disgrazia, un animo adatto a compiere i propri doveri. In sostanza, l’idea stoica di esistenza.

Un poeta stoico, in questo paese, potrebbe essere Almafuerte, in certo senso. E l’unico poeta a cui inte­ ressò l’etica. Sì, esatto. E anche il pensiero. Nel caso di Lugones, per esem­ pio, quello che più di tutto gli interessava era la for­ ma. Lui ha uno stile barocco, ma non un sentimento barocco. Lugones è un uomo con idee elementari, mi sembra. Così che si viene a creare una certa disparità tra la complessità del suo stile e la sua semplicità es­ senziale.

È che lo spirito argentino ha una certa affinità con lo spirito stoico, nel migliore dei casi. 97

Certo. Ho osservato, durante la mia vita ormai trop­ po lunga, che intelligenza, bontà, giustizia si sentono immediatamente. Non tramite, ma nonostante le parole e le azioni: uno può avvertire che una persona è intelli­ gente anche se quest’ultima ha detto delle sciocchezze; una persona, al contrario, può aver detto cose intelli­ genti, ma si può comunque pensare che sia ignorante.

Quello che ha detto è molto importante.

Sì, inoltre devo aver detto più di una volta che la trasmissione di pensiero non è un fatto raro e che se ne debba parlare, accade in continuazione. Direi che acca­ de anche quando si legge un libro: si può pensare che la trama dei fatti narrati sia gestita in maniera pessima, ma allo stesso tempo si prova simpatia per l’autore, o antipatia.

In sostanza si coglie qualcosa che va al di là delle parole. Credo di sì. Stavo proprio scrivendo ieri un prologo al saggio di Attilio Momigliano sull’Orlando furioso, e lui afferma che Ariosto suscita simpatia e non venera­ zione. Senza dubbio, quando ha scritto quelle parole, stava pensando a Dante; perché Dante suscita venera­ zione, ma non simpatia. Una prova seria: se per qual­ che strano miracolo ci proponessero un dialogo con Dante, noi ne saremmo in certa misura spaventati. Al contrario sarebbe meraviglioso conversare con Ario­ sto, o con, perché no, siamo ambiziosi, perché non con Oscar Wilde.

Sarebbe magnifico, davvero.

Invece il dialogo con Dante come sarebbe? O riceve­ remmo da parte sua un’eloquente piagnisteo, o sarebbe invece una sorta di conversazione... più una catechesi. 98

Più ammirevole che amabile, diciamo. Sì, credo di sì.

Nel pessimismo e nello scetticismo propri della dottri­ na stoica scorgo sempre più una grande affinità con lei, Borges. Per esempio, se dovessi chiederle se lei crede che Dio sia giusto oppure no, ho dei seri dubbi sulla sua ri­ sposta.

A volte con me è stato molto generoso; ma a volte anche molto ingiusto: non so se merito, dopo aver tanto amato i libri, di essere analfabeta dal 1955. Credo di no. Questo si può leggere chiaramente nella sua "Poesia dei doni”.

Tutti mi dicono che non ho bisogno di vedere, per­ ché posso vedere interiormente, ma sono solo giochi di parole; è usare la parola “vedere” con due significati diversi, perché di fatto un cieco non ci vede. La sua capacità di intuire o di rendersi conto di alcune cose, non sostituisce il piacere continuo del mondo fisico. Inoltre, in una delle sue ultime poesie, in On his blindness" scrive: “Io vorrei / vedere un volto una volta.”

Sì, ma è possibile che non sia stato sincero quando l’ho scritto.

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Gesù Cristo

Osvaldo Ferrari: Abbiamo già parlato in altre occa­ sioni, anche se solo di sfuggita, del cattolicesimo e del protestantesimo, ma non abbiamo mai parlato della sua personale di visione di ciò che è att’origine di entrambi, la figura di Cristo.

Jorge luis borges: Direi, e Renan lo ha già detto me­ glio di me, che se Cristo non è l’incarnazione umana di Dio - fatto di per sé abbastanza inverosimile -, è senz’altro l’uomo più straordinario della storia. Ora, non so se ci ha fatto caso, ma Cristo è anche, tra tan­ te altre cose, uno stile letterario. Può leggere 11 Para­ diso perduto e 11 Paradiso ritrovato, di Milton e, come afferma Pope, ci sono il Padre e il Figlio che dibat­ tono come due scolastici; eppure lo stile di Cristo è uno stile straordinario. Basti pensare che per secoli gli scrittori hanno cercato metafore; più recentemente ricorderei Lugones, Gongora, ma ne potremmo men­ zionarne molti altri. Ma nessuno ha trovato immagini tanto straordinarie come quella di Cristo; immagini che dopo duemila anni continuino ad essere così stu­ pefacenti. Ad esempio: “Gettare perle ai porci”; come siamo arrivati a un’espressione simile? Nella maggior parte delle frasi fatte si pensa che siano il punto di ar­ rivo di una serie di variazioni; ma gettare perle ai porci è un’immagine che continua a mantenere la sua effi­ cacia senza però essere spiegabile o anche solo logica. Oppure, per esempio, per condannare i riti funebri, a cui le società di pompe funebri sono tanto affezionate, 101

assecondate dalla chiesa, si dice: “Lasciate che i morti sotterrino i loro morti.” Un’espressione terribile, che comporta una spiegazione fantasiosa. O ancora: “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra.” È sempre valido.

Dovrebbe giustificare quello che ha scritto il misti­ co inglese William Blake; si era sempre pensato che la salvezza fosse un processo etico, un’idea fomentata, demagogicamente, diciamo, da Cristo stesso, quando disse: “Benedetti i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli,” insistendo quindi sulla condotta. Poi è arrivato il mistico svedese Swedenborg; Swedenborg affermò che la salvezza doveva essere anche intellet­ tuale, e inventò la splendida parabola dell’uomo che vuole entrare in cielo. Allora si spoglia di tutto, vive nella Tebaide, o meglio nella sua Tebaide, rinuncia a tutti i piaceri carnali, intellettuali ed estetici; vive virtuosamente, si martirizza, e in effetti sale al cielo, perché non c’è più alcuna ragione per respingerlo. Ma quando arriva al cielo, si ritrova in un mondo molto più complesso di questo; visto che, secondo Sweden­ borg, in cielo ci sono più forme, più colori, e ovvia­ mente anche molta più intelligenza che sulla terra; e il poveruomo, che è solo un santo, deve assistere ai dialoghi tra gli angeli, che secondo il libro De coelo et inferno di Emanuel Swedenborg, discutono di teolo­ gia; non comprende proprio nulla, visto che il suo in­ telletto non è stato educato, e così si sente escluso dal cielo. Allora le autorità se ne rendono conto e si chie­ dono: “Cosa possiamo fare con lui? In cielo è smarri­ to, perché non può prender parte ai dialoghi angelici; mandarlo all’inferno, tra i demoni, sarebbe di certo ingiusto.” Allora arrivano alla triste soluzione: gli per­ mettono di proiettare, nell’altro mondo, un’immagine della sua Tebaide; ed è lì che resta l’uomo, da quel

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momento, solo a guardare quel deserto immaginario di cui ha bisogno; mortificandosi e pregando; ma mor­ tificandosi e pregando senza più speranza, perché sa di non poter più aspirare al cielo. Ah, che storia curiosa.

Un destino terribile. Poi però arriva Blake, e Blake sostiene che la salvezza dell’uomo non deve essere solo etica, come si apprende daH’insegnamento di Cristo, non deve essere solo intellettuale, come si apprende da Swedenborg; lui afferma senza mezzi termini che: “The fool shall not enter heaven be he ever so holy” (Per quanto sia santo, uno sciocco non entrerà nel regno dei cieli). E in altro passaggio del Matrimonio del cielo e dell’inferno, scrive: “Put off holyness and put on intel­ lect? ossia lasciate stare la santità e siate intelligenti. [Ridono entrambi? Secondo Blake ci arrivò anche un insegnamento estetico da parte di Cristo; e questo insegnamento era, soprattutto, letterario, trasmesso attraverso le parabole, che sono veri e propri brani let­ terari; brani che sono rimasti inimitabili. Ho pensato, nei giorni scorsi... Le confiderò questo mio progetto, forse lei lo potrà realizzare, io certamente no; sarebbe la massima aspirazione di uno scrittore - e di solito gli scrittori sono molto ambiziosi -, molto più grande che scrivere, che so, l’opera deliberatamente oscura di Gongora, o quel labirinto ingiustificabile che è Finne­ gan’s Wake [La veglia di Finnegan), di Joyce: tale am­ bizione sarebbe scrivere un quinto vangelo. Questo quinto vangelo potrebbe predicare un’etica diversa da quella degli altri. Ma la vera sfida sarebbe un’altra: la sfida sarebbe inventare nuove parabole, espresse come quelle dello stesso Cristo, ma diverse da quelle degli altri quattro vangeli. Prolungare in qualche modo...

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Forse, per non usare un’altra similitudine, conver­ rebbe ripetere alcuni degli altri vangeli, e si potreb­ bero cercare anche piccole varianti. Se uno scritto­ re riuscisse in un simile intento, sarebbe molto più straordinario di Così parlò Zaratustra di Nietzsche; visto anche quello che richiederebbe, si creerebbero opere d’arte, metafore rischiose, non meno straordi­ narie di quelle predicate in Galilea. Sarebbe un libro tale per cui il suo autore dovrebbe dedicare buona parte della sua vita alla meditazione, e poi alla reda­ zione del testo. Questo vangelo potrebbe essere lun­ go trenta pagine, e sarebbe uno dei più straordinari. Se avesse fortuna, lo stamperebbero insieme agli altri quattri vangeli del Nuovo Testamento, ed entrerebbe a far parte del canone. Ma è un progetto molto ambi­ zioso e lei, Ferrari, potrebbe essere la persona giusta al contrario io sono un uomo vecchio, e molto stanco ma intravedo una splendida prospettiva letteraria, più splendida ancora che scrivere libri con nuove me­ tafore, perché quelle metafore dovrebbero essere an­ che parabole, insegnamenti, che non sfigurerebbero a confronto con quelle già famose e immortali del Nuo­ vo Testamento.

La sua proposta coincide con quella di Kierkegaard, che afferma che essere cristiano equivale a diventare contemporaneo di Cristo. E coinciderebbe anche con il titolo del libro di Kempis, Sull’imitare Cristo.

Ah, certo.

Certo, sarebbe simile, ma sarebbe anche una bella sfida, e forse, proprio ora mentre sto parlando, qual­ cuno nel mondo ci sta provando.

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Probabile. Perché sarebbe molto difficile che a qualcuno ve­ nisse in mente qualcosa di nuovo; in ogni caso, non succederà mai: ciò che è successo a me, è già successo anche a qualcun altro; soprattutto ad altri che ho letto. Ma in questo caso no, un nuovo, quinto vangelo sareb­ be un bel compito, non dovrebbe essere distante dagli altri quattro; a volte potrebbe aderirvi, altre discorda­ re, per piacere di più, per creare ancora più sorpresa, per garantire la verosimiglianza del testo. E strano, per esempio, che la fede cattolica condanni il suicidio. Ep­ pure, se i vangeli hanno senso, la morte di Cristo è sta­ ta volontaria; perché se non fosse stata volontaria, che sacrificio sarebbe stato? Potremmo dire lo stesso della morte di Socrate. Sì, ma nel caso di Socrate non credo che dicesse di voler morire per l’umanità, ma nel caso di Cristo sì. E se è morto, è morto liberamente. C’è una poesia anglosassone del IX secolo che si intitola “Il sogno della cro­ ce”; e il sogno della croce, Cristo, che appare non come il Cristo dolente delle tele di El Greco, ma come un giovane eroe germanico, arriva volontariamente sulla croce; scala la croce, perché vuole salvare gli uomini, e quando si parla di lui, si legge: “Quel giovane eroe, che era Dio onnipotente”. C’è quindi l’idea di un sacrificio gioioso e volontario; non di una passione sofferta, di un Cristo dolente come quello delle tele di El Greco; no, il giovane eroe che si fa inchiodare alla croce o che la scala. E ho letto, in un commento a quella poesia, che ci sono illustrazioni medievali in cui si vede la croce già eretta, già in piedi, e Cristo che sale con una scala, come a voler indicare che lo fa di sua volontà. Quindi tutto il contrario dell’immagine del Golgota, delle frustate...

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Per questo le dicevo che c’è qualcosa di simile tra l’ac­ cettazione della croce da parte di Cristo e la cicuta di Socrate.

Sì, è così.

dell’atteggiamento di accettazione. Certo, sembra che siano le due morti più ricordate della storia. Forse. Ora...

La morte discorsiva di Socrate e la morte di Cristo, che è un poco stupito dal suo destino, visto che la sua parte umana grida: “Signore, Signore, perché mi hai abbandonato?” poi però si rivolge al ladrone dicendo: “Oggi sarai con me nel regno dei cieli.” E il ladrone accetta. Ho scritto una poesia, o meglio, ne ho scritte molte sulla figura di Cristo e su quella del ladrone, che dalla croce vicina accetta l’idea che Cristo è Dio.

Su Barabba e Cristo. Sì.

Mz è sempre parso di capire che per lei l’archetipo, il modello di uomo, sia l’archetipo del giusto.

Cerco di essere giusto, ma di sicuro non mi aspetto, come Spinoza, una ricompensa o un castigo.

Sicuro, ma l’archetipo del giusto è proprio l’archetipo dell’etica. Sì, ma sta di fatto che sono cresciuto ascoltando i vangeli... credo siano i libri più straordinari del mon­ 106

do, non trova? I quattro vangeli. E già l’ultimo dei quattro ha uno stile diverso, uno stile, diciamo, intel­ lettuale. Quando parla del Verbo, per esempio.

Letica di Cristo e l’etica di Socrate... per Cristo si tratta di un’etica religiosa, mentre per Socrate di un’eti­ ca profana; eppure direi che si equivalgono in un aspetto fondamentale: l’ideale dell’uomo giusto. Sì, ma non nella loro concezione del mondo. Ed è naturale che sia così, perché suppongo che Cristo fos­ se ebreo... e forse anche abbastanza ignorante; mentre Socrate visse in Grecia, in un ambiente intellettuale, forse mai più uguagliato. Pare che Socrate potè discu­ tere con Pitagora, Zenone di Elea e Platone (che se­ condo Bernard Shaw lo inventò). Al contrario, Cristo aveva i suoi discepoli. Nietzsche affermò che la religio­ ne cristiana è una religione di schiavi; e Gibbon disse, in maniera indiretta, ma forse più efficace, lo stessa cosa: “Ci deve meravigliare che Dio, che avrebbe po­ tuto rivelare la verità ai filosofi, labbia invece rivelata a pescatori ignoranti della Galilea.” Che poi è la stessa cosa, no? La stessa idea, ma detta in modo insieme più cortese e più insidioso.

“Lo spirito soffia dove vuole.” Sì, lo spirito che soffia dove vuole. In quel caso soffiò su quei poveri uomini.

In un certo senso mi sembra irreale parlare con lei del­ la figura di Cristo come di una figura storica. Credo che non ci sia alcun dubbio, perché altrimen­ ti dovremmo supporre, diciamo, che gli evangelisti fossero quattro drammaturghi, di molto superiori a tutti gli altri drammaturghi e poeti del mondo, per la

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figura che sono riusciti a trasmetterci. Shaw lo crede­ va; Bernard Shaw parlava della successione apostolica, e parlava dei tragici greci che avevano creato i miti greci; allo stesso modo gli evangelisti avevano creato la figura di Cristo; come prima Platone aveva creato la figura di Socrate. Poi, secondo lui, Boswell aveva cre­ ato Johnson e lui, Bernard Shaw, e Ibsen avrebbe poi ereditato la successione apostolica della drammatur­ gia come creatore di personaggi. Ma è solo uno degli scherzi di Shaw.

Il mondo come un teatro. Il mondo come un teatro e i drammaturghi come...

Come demiurghi. Come demiurghi o veggenti della storia universale.

Idaltra figura, che fatichiamo a vedere come storica, come succede con Cristo, è Platone; credo che più che figurarci Platone noi lo immaginiamo. Siccome Platone si è ramificato in tanti personaggi, tra cui anche Socrate, sembra che lui stesso si fosse un poco nascosto dietro le sue creature. Un altro esem­ pio, anche se minore potrebbe essere questo: non so se ci si immagina Dickens e se si immaginano i personag­ gi di Dickens. Credo che Unamuno abbia detto che Cervantes è di gran lunga meno vivo di Alonso Quijano, di Don Chisciotte. Insomma, il creatore oscurato dalla sua opera. Nel caso del mondo, forse abbiamo un’impressione più vivida del mondo che del Dio del primo capitolo della Genesi, giusto?

Certo, ma si potrebbe anche pensare che gli uomini credono in una religione o in una mitologia a seconda 108

del clima spirituale o magico da cui sono circondati. Per esempio, i greci hanno potuto accettare le idee di Plato­ ne, ai suoi tempi, perché nella loro vita la poesia era solo un’altra forma della realtà che vivevano. Le sembra che ora sia più difficile? E allo stesso modo, la suppone. Una supposizione non mia, ma di Murena; diceva che i contemporanei di Cristo avrebbero potuto vederlo e riconoscerlo solo se avessero avuto gli occhi pronti a vedere una simile realtà. Quindi dipende dal fatto che in un dato momento ci sia, tra gli uomini, un clima adatto a cogliere le cose.

Intende un clima di credulità, o meglio, di perce­ zione.

Sì, probabilmente un clima spirituale. Sì, ho l’impressione che oggi tutti vivano come se non vivessero davvero; che ci sia una sorta di... non so, come se si fossero annebbiati i sensi. Ecco ho que­ sta impressione.

Che si siano annebbiati i sensi spirituali, insomma. Sì, che non si sentano le cose; la gente vive soprat­ tutto di cose sentite dire, si ripetono le stesse formule ma senza cercare di capirle; o tantomeno di trarne del­ le conclusioni. Sembra che si viva così, ricevendo, ma ricevendo in maniera superficiale; come se quasi nes­ suno pensasse, come se il ragionamento fosse un’abitu­ dine che gli uomini perdano sempre di più.

Sì, soprattutto per quanto riguarda l’intelligenza spi­ rituale; al massimo si usa la logica, ma niente di più. E solo nel migliore dei casi. 109

Sì, proprio nel migliore dei casi, ma è comunque difficile che la gente ragioni.

Cattolici o protestanti, credenti o non credenti, credo che la figura di Cristo sia sempre istruttiva e utile. Sì, e non è stata sostituita, perché il progetto di Nietzsche di rimpiazzarlo con Zaratustra è fallito, è diventato famoso, ma ha fallito comunque. E i progetti dell’Anticristo.

Sì, anche quelli, Zaratustra è stato uno dei più am­ biziosi. Ovvio che abbia fallito, perché nessuno riesce a immaginare Zaratustra, il suo leone che ride, la sua aquila, la sua caverna; è tutto così ironico, o forse non ironico ma comunque una specie di finzione letteraria così maldestra, no? 5z, insomma, chi ha detto che “Dio è morto”, non è riuscito a prendere il suo posto.

No, sembra di no. Quella voce che ha parlato di­ cendo che Pan era morto. Sembra che non sia stato sostituito.

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14 Apologia dell’amicizia

Osvaldo Ferrari: Nessuno, almeno che io sappia, ha espresso un’apologià dell’amicizia in questo paese, nessu­ no come lo ha fatto lei nel corso del tempo. JORGE luis BORGES: Non lo sapevo, eppure è possibile. Le ho raccontato che quando ho letto il titolo del libro di Mallea, Storia di una passione argentina, ho pensa­ to: questa passione deve essere l’amicizia, visto che qui non c’è altra passione. Poi venne fuori che non era così. In ogni caso avremo parlato più di una volta sul tema dell’amicizia nella nostra breve letteratura. Non so se si è mai discusso del fatto che il vero argomento del Fau­ sto, di Stanislao del Campo, non è la parodia dell’ope­ ra; il vero argomento è l’amicizia tra i due mezzadri.

Sì, nel Fausto, lei ci dice che c’è “un allegro sentimento di amicizia.”

Ah, sì, credo di sì. E ancora l’argomento di Don Se­ gundo Sombra è lo stesso. E forse l’argomento centrale di Martin Fierro potrebbe essere la strana amicizia tra un poliziotto e un disertore, tra Cruz e Fierro.

Sapevo che l’avrebbe detto. Sì, poi c’è un libro che non ho letto, di Eduardo Gu­ tierrez: Dna amistad basta la muerte (Dn amicizia fino alla morte}·, un titolo più immediato, rispetto ad altri come Hormiga negra (Formica nera} o Los Hermanos

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Barrientos (I fratelli Barrientos), che pure sono legati al tema dell’amicizia.

Nella letteratura troviamo anche l’amicizia tra don Se­ gundo e Fabio. Sicuro. Ma si chiama Fabio? Sì, Fabio Caceres.

Esatto. Strano come accada a volte che non sappiamo di sa­ pere, vero?

Non si sa di sapere. Ma lei ha attribuito precedenti illustri a quell’amicizia. Sì, immagino di aver pensato a Huckleberry Finn e a Firn. Twain e Kipling.

Sì. Ora, non so se Giìiraldes abbia letto Mark Twain, probabilmente no, ma senza dubbio ha letto Kipling, perché quando me lo hanno presentato mi ha detto: “Mi hanno detto che lei conosce l’inglese”. In quegli anni sapere l’inglese era molto più raro che non ora. Gli risposi che sì, lo conoscevo, così lui ribattè: “Che fortuna, può leggere Kipling in lingua originale”. Sì, mi parlò di Kipling. Ma io credo di averlo letto in un’edi­ zione francese, senza dubbio.

Sospetto che Giìiraldes, nella sua vita personale, pro­ fessasse una sorta di culto dell’amicizia. Ah sì, certo. Devo averle senz’altro parlato della vol­ ta in cui vennero a casa per pranzo Ricardo e Adelina del Carril, e dopo essersi a lungo trattenuti a parlare 112

dopo aver mangiato, lui si alzò e se ne andarono; mia madre li richiamò perché lui aveva dimenticato la sua chitarra, non l’aveva portata via. Allora lui le rispose che l’aveva lasciata di proposito, visto che era in par­ tenza per l’Europa aveva voluto lasciare qualcosa di suo in casa; così aveva lasciato la chitarra. E molte per­ sone che vennero poi a casa suonarono la chitarra di Ricardo Güiraldes.

Un gesto molto bello da parte sua.

Un gesto molto bello, sì, e ricordo che mentre stava scrivendo Don Segundo Sombra andammo a trovarlo a casa sua, che si trovava vicino alla piazza del Congres­ so. Era un appartamento piuttosto strano, perché i mo­ bili erano incassati nelle pareti. Quindi si schiacciava un bottone e venivano fuori una poltrona o un letto. La casa era in Calle Solis; credo fosse Solis y Alsina, ma non sono molto sicuro. Non so se esista ancora. La comprarono poco prima di un viaggio in Europa. Era piuttosto semplice, credo sia stata l’unica volta in cui abitò al sud. Insomma, un sud modesto, diciamo, visto che era a due isolati dalla piazza del Congresso. Allora stava scrivendo il suo grande libro, il suo romanzo Don Segundo Sombra. Ma poiché era molto pigro, lasciò su­ bito il testo e si mise a parlare con noi, oppure suonava la chitarra. Così a un certo punto Adelina ci chiese di andare via, perché ogni pretesto era buono perché lui lasciasse da parte la scrittura.

Sua moglie lo aiutava a concentrarsi e a procedere nel­ la scrittura del libro. Sì, esattamente. Certo, se fossi Néstor Ibarra direi che aveva una fine sensibilità letteraria, e che voleva impe­ dirgli di scrivere Don Segundo Sombra, no? (Ride.) Ma non la penso così, lo pensa Ibarra, come me lo immagi­

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no io, non lo penso io. Sarebbe stato un vero peccato se non avesse scritto il libro. Davvero. Per quanto riguarda il valore dell’amicizia per gli argentini, lei dice che è una, forse l’unica, delle nostre virtù.

Sì, ma è una virtù pericolosa, perché ci può portare fa­ cilmente al cameratismo, che è una forma di amicizia... Obbligata?

Sì, per cui ci si sente leali non verso l’etica, o verso certe opinioni, ma verso un uomo, o un amico. Così che la bella passione si presta, diciamo, ad abusi. Capisco.

Come succede in tutte le cose, certo, e questo in qual­ che modo spiegherebbe una delle cattive abitudini della storia sudamericana: le dittature, che possono benissi­ mo essere appoggiate da amici, e forse anche da amici non sempre interessati. In certi casi non si tratta di amicizia ma di “cliente­ lismo”.

Può essere, sì. Di clientelismo pregiudiziale.

Sì, può essere clientelismo, come dice lei, è un buon modo per definirlo visto che distingue le due cose. Lei ha mai pensato, Borges, che forse il nostro isola­ mento geografico e storico può aver contribuito allo svi­ luppo del sentimento di amicizia che ci unisce?

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Sì, e anche il fatto che buona parte degli argentini, soprattutto quando questo paese viveva prevalente­ mente di allevamento, si sono abituati a vivere in soli­ tudine, o comunque solo con la compagnia dei vicini più prossimi. Perché, cosa sarebbe stata la vita in una proprietà... forse i padroni non erano poi così diversi dai braccianti o dai gauchos. Li identificava la solitudine.

Sì, credo di sì, mentre ora sembra che abbiamo per­ so la capacità di stare da soli, che senz’altro avevamo prima, e che gli inglesi hanno ancora, perché a loro piace molto la solitudine. Credo sia stato Lawrence a dire che gli inglesi hanno “a hunger for lonely places" (una fame di luoghi solitari). Me lo confermò un viag­ gio in Scozia, dove mi dissero: “We lead you to the lo­ neliest place in Scotland" (La portiamo nel luogo più solitario della Scozia). Ed era davvero un luogo molto deserto; ho pensato: che strano, a me, che provengo dal Sudamerica, parlano di luoghi deserti come fossero degni di nota o ammirevoli. Cosa che qui non succede, perché non ci si rassegna alla solitudine adesso; tutti... anche chi vive a Cordova o a Rosario, desiderano vive­ re a Buenos Aires; e noi che viviamo a Buenos Aires desideriamo vivere in Europa, così sembra che siamo sempre condannati a non stare... (Ride.)

(RideJ A non stare dove siamo. Dove siamo e dove vorremmo stare, sì.

La cosa strana è che credo che siamo capaci di amicizie individuali...

Ah sì, credo di sì.

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...ma non di quell’amicizia di gruppo che si chiama comunità, non crede?

Che è anche la più importante; per un paese è la più importante.

Naturalmente. Perché l’altra finisce per essere... prima cerano riva­ lità tra quartieri, ora questa rivalità si è riflessa anche sul calcio, stranamente.

In ogni caso tutto diventa un pretesto buono per divi­ derci.

Certo, la verità è che abbiamo abusato di quel pre­ testo, di quel motivo. Sì, non c’è spirito comunitario. Non c’è, e forse il paese non si è sviluppato come avrebbe dovuto proprio per questo. Certo, e non è altro che una forma di mancanza di etica, perché si pensa in funzione di tal dei tali, e tal dei tali non è altri che se stesso... l’etica non conta più, troppo astratta e generica com’è.

Certo, in funzione di un singolo, o del suo gruppo, o dei suoi mezzi, ma non del paese nel suo insieme. Potremmo dire che il tipo di amicizia che coltiviamo è caratteristica dell’individualismo che lei ha scorto negli argentini? Il nostro individualismo sarebbe una cosa positiva, ma non so se siamo riusciti a farne buon uso. Temo di no. Anche se la politica non lo può sfruttare, visto che per sua natura è l’esatto contrario.

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Valéry

Osvaldo Ferrari: In una sua pagina, una di quelle di cui è solito dire che le sembrano scritte da altri, si legge: “Paul Valéry è il simbolo dell’Europa e del suo delicato crepuscolo; Whitman lo è dell’alba americana.” Lei pare intravedere in questi due poeti un antagonismo estremo. JORGE LUIS BORGES: Sì, avevo dimenticato questa fra­ se, ma ora sceglierei un poeta che mi piaccia più di Valéry; soprattutto direi che paragonarlo a Whitman sia una bestemmia, no? Anche perché Whitman è in­ comparabile, mentre non penso che Valéry lo sia. Cre­ do che in “delicato crepuscolo” ci fosse forse l’idea del declino dell’Europa.

Evidentemente. E quel declino... non so se l’Europa sia declinata, ma sembrerebbe che, disgraziatamente, sia declina­ to l’interesse del mondo verso l’Europa. Questo non significa che l’Europa sia declinata in sé, ma piutto­ sto che noi ci pensiamo di meno. Prima, la nostalgia dell’Europa - in particolare la nostalgia della Fran­ cia - era una costante. Ora invece possiamo pensare ad altre terre, ad altre epoche... certo, suppongo che avessi voluto dire questo. Ora non sceglierei Valéry, an­ che se Valéry ha scritto versi splendidi; in particolare io ricordo questo: “Come il frutto si fonde in godimento / entro una bocca in cui la forma muore”. È molto bello, perché si passa da un senso all’altro. Quando uno dice

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“Le fruit” non si pensa al piacere della frutta, ma so­ prattutto alla sua forma e al suo colore. Mentre in quei versi si passa molto abilmente, in maniera ammirabile, da un senso all’altro: “il frutto si dissolve in piacere”. Il piacere del nostro palato, della nostra lingua, e non della frutta. E ancora “entro una bocca in cui la forma muore”. Penso di aver scelto uno dei migliori versi di Valéry, ma questa stessa poesia inizia con un’immagi­ ne del tutto falsa, in cui paragona il mare con un tet­ to su cui camminano le colombe; credo che se esiste qualcosa che non ha nulla a che vedere con il mare, lui labbia trovata - soprattutto se pensiamo alle colombe come una logora metafora delle vele. E molto diffìcile descrivere il mare, forse il modo migliore di farlo non sono le metafore, ma piuttosto il ritmo, un ritmo che ricordi il movimento del mare. Ora penso, inevitabil­ mente, a quel verso di Kipling: “Chi ha desiderato il mare / la vista dell’acqua salata sconfinata”. Ma qui le parole non contano. Conta il ritmo: “Who has desired the sea, / the sight of salt water unbounded? E in questa domanda, inoltre - una domanda che non credo sia logicamente corretta, ma lo è senz’altro esteticamente c’è il movimento del mare. Al contrario, paragonare il mare, anche solo il piccolo Mediterraneo, con un tetto tranquillo, ci offre un’immagine falsa.

Un poco arbitraria.

In ogni caso, non ha un forte impatto emotivo. Ma credo di non dovermi pentire troppo di quei due versi. Inoltre, c’è il “delicato crepuscolo”: certo sono due pa­ role quasi del tutto sinonime, visto che la parola ‘cre­ puscolo’ è delicata - soprattutto in spagnolo, in cui è sdrucciola - che pure è una forma di delicatezza. E a seguire, “l’alba in America” ci risveglia una vasta immagine. Ed è strano che lo abbia dimenticato del tutto, e poi abbia scritto una poesia in cui ringrazio 118

Dio per molte cose; e lo ringrazio per la “mattina del Texas” - siamo nel 1961, quando mia madre ed io ab­ biamo scoperto l’America, e abbiamo iniziato da Au­ stin, Texas. E poi anche la mattina a Montevideo, che mi ha sempre rallegrato - potevano essere le mattine della penisola, di Paso del Molino, o qualunque altro posto - ma, alla fine, ho ripetuto quello, e ho scel­ to due luoghi che amo: Montevideo - la Repubblica Orientale - e il Texas. Non so se sa che sono citta­ dino onorario di Austin e di Adrogué. Non so cosa significhi tutto questo, ma sono senz’altro simboli di amicizia, di buona volontà. E visto che forse anche noi siamo simboli di amicizia, perché non ringraziare al­ tri simboli benevoli; simboli di amicizia. Ma lei voleva parlare di questo o...

No, ho solo avuto l’impressione che lei vedesse in Valéry il mondo della mente, il mondo apollineo; a con­ fronto con quello quasi dionisiaco di Whitman. E una bella idea, ma non so fino a che punto Valéry meriti la sua fama di poeta intellettuale, visto che nelle sue poesie ci sono poche idee. Direi che per me l’arche­ tipo del poeta intellettuale sarebbe Emerson (senz’al­ tro un nome più importante di Valéry), che non era solo un intellettuale, ma pensava anche; il che è strano in un poeta intellettuale. Nel caso di Valéry sembra che lui si definisca poeta intellettuale, ma nelle sue poesie non si leggono grandi idee. In ogni caso, non credo che Valéry considerasse il pensiero un argomento poetico, o che pensasse mentre componeva. Salvo pensare alla metrica, alle immagini e alle rime. Ma questa è un’altra cosa, visto che lo fanno tutti i poeti.

Ora la citerò: lei in quel momento ha pensato, secondo le sue parole, che Valéry ha preferito i lucidi piaceri del pensiero, e le segrete avventure dell’ordine. E mi è venu119

to in mente che forse siano le avventure della letteratura: l’avventura di scrivere, in qualche modo.

Certo, ma credo che in quel mio articolo, intitolato “Valéry come simbolo”, ho pensato meno a chi fosse Valéry, e più al modo in cui Valéry è stato recepito, accettato. In sostanza lo si vede come un poeta intel­ lettuale; il fatto che lui - come disse Bioy Casares consigliasse il pensiero agli altri, però si astenesse lui stesso dal pensare... (Ridel) Forse Bioy ha esagerato un po’, ma è probabile che sia giusto esagerare in ogni af­ fermazione, o in ogni negazione, per renderle più effi­ caci; visto che il lettore si incaricherà dopo di dedurre, di limitare gli eccessi della venerazione, o gli eccessi di... diciamo... non direi di disprezzo, è troppo; direi di censura, di differenza, di non conformità. Ricordo gli ammirevoli titoli di Alfonso Reyes: un suo libro si intitola Simpatie e differenze. Ma prima di pubblicare quel libro, ne uscì un altro in Spagna il cui titolo era una parodia, un’involontaria e profetica parodia del ti­ tolo di Reyes: invece di Simpatie e differenze, un autore che non ho letto, e che si chiama Bonafù, scrisse un libro intitolato Grancasse e mazzate (ridono entrambi), che è un modo grossolano di dire Simpatie e differen­ ze. E l’essere grossolano era senza dubbio volontario e desiderato, visto che nessuno, neanche distrattamente, può scegliere un titolo brutto come Grancasse e mazza­ te. Inoltre sembra che le grancasse perdano tutta la loro efficacia quando vengono chiamate in questo modo. E anche le mazzate. Corrispondono quindi al desiderio di approvare una cosa e di condannarne un’altra. Capisco. Mi interessa il fatto che lei sottolinea come altri scrittori, contemporanei di Valéry, non avessero in fondo, come pure lui, una personalità. È vero, sì.

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Ma forse lei vede quella personalità proiettata nella sua poesia.

Inoltre, non va dimenticato che, in un periodo in cui si rifletteva soprattutto sull’irrazionalità, sul caos - basti ricordare l’avventura quasi umoristica del da­ daismo, e poi del surrealismo - lui va nella direzio­ ne opposta. Osò, perché si trattò proprio di osare, elogiare La Fontaine, quindi elogiare la logica, fatto raro nella poesia, visto che tutti preferivano essere ir­ responsabili e geniali. Ricordo un episodio secondo cui Oscar Wilde affermò: “Se non fosse per le forme classiche del verso, saremmo in balia del genio,” ed è quello che sta succedendo ora; visto che tutti si con­ siderano geniali, ossia irresponsabili. Sono venuti qui a trovarmi poeti che mi hanno letto le loro poesie, ed io gli ho chiesto che me le spiegassero; mi hanno detto di no, mi hanno detto che loro scrivono quello che gli viene in mente. Non gli passa nemmeno per la testa l’idea della responsabilità, e pubblicano le prime boz­ ze delle loro opere - e non ce ne saranno mai delle seconde. E questa pratica suscita grande ammirazio­ ne. Inoltre, sono sempre alla ricerca del verso libero, perché credono erroneamente che il verso libero sia più facile delle forme di poetare classiche, ma accade l’esatto contrario: se non si prende la precauzione di essere Walt Whitman o Carl Sandburg, quello che si chiama verso libero finisce per diventare brutta pro­ sa, solo che la si dispone graficamente come un verso. Forse, a favore di quel verso libero - che davvero è solo una prosa trascurata o comunque una prosa a cui l’autore si rassegna - si potrebbe argomentare che con­ viene stamparla come poesia perché così il lettore sa che dalla pagina si può aspettare solo emozione, e non informazione o ragionamento. Se vede le righe irrego­ lari, una sopra l’altra, sa già che sono dettate dall’emo­ zione. Al contrario, se le parole sono ordinate come in 121

prosa, potrebbe pensare che il testo è stato scritto per convincerlo di qualcosa o per raccontare qualcosa; che abbia quindi un fine narrativo o polemico. Ma se nel­ la pagina vede righe disomogenee, pensa: “Va bene, devo leggerlo come una poesia,” e noi sappiamo che i testi dipendono dal modo in cui vengono letti. Ecco l’unica giustificazione di quella forma. Oggi nessuno comincia dalle forme classiche, e quando vengono a trovarmi, e io gli dico che le forme classiche sono più facili, si stupiscono. Eppure la forma classica ha il vantaggio di offrire uno schema, anche se illusorio, di quello che si sta per fare. Ad esempio, se lei deci­ desse di scrivere un sonetto, deve avere uno schema del sonetto, che può essere formato da due terzine e due quartine, o da tre terzine e un distico. Insomma, lei ha uno schema, ed è un aiuto, anche se un sonetto non dipende davvero dagli schemi possibili, che sono sempre gli stessi.

Certo, però non possiamo non ricordare una volta di più quello che lei ha definito “un grande diamante”: “Il cimitero marino” di Valéry. Ho detto che era un grande diamante? Sì, ha definito la poesia un grande diamante.

Oggi userei questa definizione per altre opere, ad esempio... non si stupirà se dico che la userei per L’Or­ lando furioso di Ariosto. Non credo che il poema di Valéry sia così grande, e di certo non è proprio un dia­ mante, visti alcuni dei suoi versi mediocri. Strano che nessuno abbia mai confrontato “Il cimitero marino” di Valéry e l’Ode scritta in un cimitero di campagna” di Gray. Bisognerebbe farlo, anche se credo che Gray sia superiore. E credo ci sia una poesia analoga scritta da Victor Hugo... credo che dovremmo cercarla nella sua 122

opera. Sarebbe bello, davvero un bel lavoro confron­ tare le tre opere, che non si assomigliano, ma le cui sintesi sono quasi uguali. E si potrebbero individuare le ‘simpatie e differenze’ tra Gray, Hugo e Valéry. Che strano: ho scritto poesie a La Recoleta e a La Chacarita - non so come ho fatto, perché ora mi sembrano luoghi così orribili. Sono stato tempo fa a La Recoleta, davanti alla tomba di famiglia, dove riposano molti dei miei parenti, e ho pensato: “Se c’è un posto al mondo dove non ci sono mia madre e mio padre, per non an­ dare troppo lontano, è proprio questo.” Quella cripta, cosa può contenere... è come se ci fossero, non so, i capelli tagliati, la limatura delle unghie, e l’orribile corruzione. Insomma, quello che vide Cristo quando disse che i farisei erano sepolcri sbiancati, ossia belli fuori, ma pieni di corruzione dentro. Strano che abbia scritto una delle mie prime poesie, nel 1923, proprio su La Recoleta; inoltre, in un libro intitolato Quaderno di San Martin, c’è una poesia su La Chicarita, e allora per me non erano orribili. Solo ora i cimiteri mi risul­ tano terribili, e smero di essere cremato e non sotter­ rato. C’è un bellissima poema, un poema anglosassone intitolato “La sepoltura”, che parla proprio di questo: del fatto che il morto è così orribile che devono na­ sconderlo. Poi parla dei vermi che se lo spartiscono. Quindi si paragona la sepoltura a una casa... E un poema tardo, credo dell’XI secolo, quindi successivo alla conquista normanna; forse l’ultimo poema scritto in anglosassone, o perlomeno l’ultimo che ci è rimasto, e dice: “Quella casa non ha porte, ed è oscura all’in­ terno.” Poi viene detto al morto che quando sarà al suo interno sarà talmente orribile che nessun amico andrà a fargli visita. Insomma, il tema dell’atrocità del cada­ vere, è un tema che non viene trattato di solito, è come se ci fosse un certo pudore verso la morte. Sì, si evita di parlarne.

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Nemmeno nel poema di Manrique, dove si legge: “Le nostre vite sono fiumi / che vanno a gettarsi nel mare.” Ma non si parla della triste spoglia che lascia­ mo, il nostro corpo, condannato alla corruzione.

Ma parlando della morte lei ha detto che Valéry, nel “Cimitero sottomarino”, riflette sulla morte. Lui ha scrit­ to anche, se ricorda, “La giovane Parca”. La riflessione sulla morte è sempre stata associata alla poesia spagnola. Credo di sì, la poesia spagnola ha esplorato il tema della morte, mentre la prosa si è rivolta a un tema meno poetico, diciamo, che è il tema della fame.

Quello dei ladri?

Sì, ad esempio sembra sempre che i protagonisti non facciano altro che rubare formaggio. (Ride.) I romanzi picareschi sono così.

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Il racconto “L’intrusa”

OSVALDO FERRARI: Molte volte abbiamo parlato di Adrogué; e ho pensato che potremmo avvicinarci alla prossima località. JORGE LUIS BORGES: Turdera. Certo, il paese degli Iberra e di “Senza pancia”.

fRideJ Ma anche lo scenario di uno dei suoi racconti preferiti, che io sappia: “Ilintrusa”. Sì, “L’intrusa”. Quel racconto... ho iniziato da un’idea astratta, il che non fa presagire niente di buo­ no; l’idea che la passione argentina più grande è l’ami­ cizia. E quando Eduardo Mallea ha pubblicato Storia di una passione argentina, ho pensato: quale passione argentina - insomma, ce ne sono altre, come la cupi­ digia, per esempio -, ma quale passione lodevole può essere se non l’amicizia? Ma il libro di Mallea mi ha defraudato solo in quel senso, non in altri. Tanto che ho deciso di scrivere un racconto sull’argomento, in cui avrei messo in evidenza che, in generale, l’ami­ cizia per noi è più importante dell’amore. Mi sono ricordato anche del rapporto scritto da quel vecchio condottiero di Palermo, don Nicolas Paredes, per cui un uomo che pensa cinque minuti consecutivi a una donna, non è un uomo, è un... (e qui c’è una parola derivata da ermafrodita, ma che non voglio ripetere). Allora ho pensato: scriverò un racconto su questo, mostrerò due uomini che mettono la loro amicizia

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davanti all’amore per una donna. Ora, dovevo con­ frontarmi con il modo in cui il concetto di amicizia è stato contaminato dalla sodomia; e ho pensato: affin­ ché nessuno possa sospettarlo, farò sì che i due uomini siano fratelli. E cercherò gente abbastanza rude; e ho pensato che troppi dei miei racconti sono ambientati a Palermo. Cercherò un altro quartiere, dove questo genere di vita, da malviventi, è durata molto di più che a Palermo. Allora ho pensato a Turdera, e ho pensato ai fratelli Ibarra; solo dopo ho sciolto la storia dei due fratelli, i due malviventi. Gli ho dato un passato vago, da ladri di bestiame, da troperos·, forse anche da bari di sicuro guardaspalle dei caudillos. Poi è arrivata una donna che si è messa tra loro, e il maggiore dei due si rende conto che la loro amicizia è in pericolo, che po­ trebbe nascere della rivalità. Lui è l’unico personaggio che narra la storia. Allora decide di sistemare le cose. Ad esempio, lui sa che quella donna gli piace; anche suo fratello minore si è innamorato, allora una notte se ne va da casa e lo lascia solo con la donna, dicendo: la­ scio qui la tizia, se vuoi usala. E così fa il fratello, e poi continuano a dividersela. Ma lei preferisce il minore, e il maggiore comincia a essere geloso; così la vende a una casa di malaffare. Più avanti i due si trovano pro­ prio in quella casa, a Morón, aspettando il loro turno per stare con lei. Allora la comprano, e la riportano a casa, alla periferia di Turdera; ma arriva il momento in cui il maggiore dice al minore che devono trasportare degli otri (possiedono un carretto e due buoi). Visto che conoscevo già il finale, gli avevo dato un carretto e due buoi fin dall’inizio del racconto. Così arrivano in una radura, in cui lui deve dirgli - il maggiore deve dire al minore - che ha ucciso la donna. Quando sono arrivato - dettavo questo racconto a mia madre, per­ ché avevo già perso la vista -, quando sono arrivato a questo punto, dissi: tutta la fortuna del racconto di­ pende da questa frase. Lui deve dirglielo, e deve farlo 126

con poche parole, perché quelle parole devono esse­ re definitive ed efficaci. Allora ho detto a mia madre: come faccio a fare in modo che il maggiore dica al minore che è stato lui a uccidere la donna, e che deve farlo diventare suo complice perché lo aiuti a sotter­ rarla, a nascondere il cadavere, e così via. Allora mia madre mi guardò, e poi, dopo poco, mi disse - con una voce del tutto diversa: so cosa gli ha detto. “So cosa gli ha detto”, come se quel mio sogno si fosse av­ verato e lei fosse stata presente. Non mi disse: so cosa potrebbe avergli detto. No, disse: so cosa gli ha detto. In pratica, in quel momento, ha accettato la realtà di quel mio vago sogno. Bene, allora scrivilo, le ho detto. E lei lo ha scritto, così le ho chiesto di leggermelo e lei ha letto: “Al lavoro fratello, stamattina l’ho uccisa.” Una frase perfetta.

Perfetta. Primo: “Al lavoro fratello”, significa che lui è il mag­ giore e l’altro deve obbedirgli; poi dice: “Stamattina l’ho uccisa”, per non entrare in dettagli assurdi, come dire se l’ha strangolata, se l’ha pugnalata, perché? Solo “l’ho uccisa”. Allora l’altro si rassegna e i due sot­ terrano il cadavere, e così finisce il racconto. Tra i due è tutto sottinteso. Anche il crimine. Sì, era tutto sottinteso. Ma va da sé che si è salvata la cosa più preziosa: l’amicizia tra i due fratelli.

Certo.

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Oscar Wilde

Osvaldo ferrare Ci sono due autori, entrambi di ori­ gine irlandese, che hanno avuto un’influenza duratura sulla letteratura inglese innanzitutto, e in seguito anche su tutte le altre letterature, autori che lei ha citato spesso. JORGE LUIS BORGES:

Uno sarà Shaw, giusto?

Uno è Shaw, e l’altro è Oscar Wilde. Sì, mi sembra giusto, ma non dimentichiamo George Moore, non dimentichiamo Swift, non dimentichiamo William Butler Yeats...

Il fatto è che, visto il tempo che abbiamo, sarebbe dif­ ficile. ..

Una piccola isola, scarsamente popolata, sei o sette milioni di persone, e ha generato tanti uomini di ge­ nio nel mondo. E strano. Davvero.

Al contrario, lei trova estensioni vastissime che non hanno dato nulla, o quasi nessuno; e l’Irlanda, già a partire da Scoto Eriugena, un mistico panteista nel IX secolo, quando sembrava impossibile, eppure egli lo era; e andò anche alla corte di Carlo il Calvo, e riuscì a tradurre testi dal greco, quando in Francia nessuno conosceva il greco, ma i monaci irlandesi sì; 129

rirlanda ci ha donato una straordinaria quantità di persone geniali. Sembra abbia generato soprattutto critici gemali; Shaw e Wilde condividono questa caratteristica. Secondo Shaw sì, certo, lui affermava che gli ingle­ si sono sentimentali, mentre un irlandese è più facil­ mente incredulo o ironico. Entrambi avevano grande talento per gli epigrammi, per l’ingegno... Ci siamo dimenticati un altro irlandese, che Ber­ nard Shaw ricorda sempre, ed è il duca di Wellington, Arthur Wellesley, e di un altro, un autore minore, Co­ nan Doyle; nacque a Edimburgo ma da una famiglia irlandese.

Ma forse Shaw e Wilde sono quelli che hanno rivolto le loro critiche più mordaci verso gli inglesi. Sì, credo che gli inglesi apprezzino l’essere presi in giro; credo che si tratti, in un certo senso, di un omaggio che hanno rivolto all’Inghilterra. Un’altra strana caratteristica degli inglesi è che, in ogni guer­ ra, scelgono un nemico e lo considerano un eroe. Ad esempio, nella prima guerra mondiale fu il capitano di Emden; e ammirarono anche alcuni aviatori tede­ schi. Invece nella seconda guerra mondiale il loro eroe fu Rommel. Perché l’Inghilterra, se è coinvolta in un conflitto con un altro paese, ha bisogno di ammirare qualcuno di quel paese; ha un culto degli eroi tale da estendersi anche ai propri nemici. E non accade in al­ tri paesi.

Sta dicendo una cosa molto sottile. 130

No, ma la si può notare facilmente.

Certo, sì. E per esempio, Napoleone, che era senz’altro il più grande nemico dell’Inghilterra, nella stessa Inghilter­ ra aveva molti sostenitori. Quando diedero a Byron la notizia della vittoria di Waterloo, lui esclamò: “2 am damned sorry”, che significa, mi spiace molto; avrebbe preferito un trionfo di Napoleone sugli inglesi e sui tedeschi. E ricordo una lettera che pubblicò Steven­ son; fu al principio della guerra in Sudafrica, in cui affermava che l’onore dell’Inghilterra esigeva che le sue truppe si ritirassero; che avevano commesso un errore, ma che il ritiro delle truppe lo avrebbe corret­ to. Quella lettera venne pubblicata sul “Times”, e non ci furono conseguenze per Stevenson. Pensarono solo che stava dicendo quello che pensava.

Sono stranamente capaci di grande equità, all’improv­ viso. Sì, e poi cercano di agire da 'fair men, cercano di essere imparziali. Al contrario, in altri paesi, non è così, anzi, si crede che l’imparzialità sia una sorta di tradimento. Ricordo una lettera che pubblicarono, non so più se erano due militari, contro alcune mie di­ chiarazioni; sarà successo circa un anno fa. E ricordo quel curioso articolo in cui si leggeva: “Questa affer­ mazione andrebbe bene se a farla fosse un cileno, ma nel caso di Borges, che è argentino, no.” Ossia, loro stessi ammettevano di non essere imparziali, ammet­ tevano che un cileno può esprimersi su certe questioni in maniera diversa dagli argentini, e a me sembra as­ surdo. Non si cercava nemmeno l’imparzialità; si face­ va capire che un argentino deve pensarla in un modo, e un cileno in un altro.

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E vero, da noi capitano queste cose. Possiamo anche osservare che l’Inghilterra portò un certo rancore nei confronti di Wilde per le sue critiche alla società inglese, che si esplicito nel processo che lo condusse in carcere.

Sì, ma fu lui a iniziare quel processo. Lo iniziò, se­ condo Pearson, perché viveva in un mondo immagina­ rio; un mondo fatto di epigrammi, di frasi brillanti; e lui pensò che lo avrebbe potuto aprire anche agli altri. Insomma, lui sapeva che l’accusa che gli aveva mosso Queensberry era vera; ma gli venne in mente che si sa­ rebbe potuto difendere attraverso gli epigrammi, cer­ cando di essere più intelligente o più tempestivo dei giudici, e fu il suo errore. Non si sa perché lui iniziò quella campagna; si dice che a condurlo a quel punto fu Lord Alfred Douglas, il figlio, per essere precisi, di colui che lo aveva accusato di calunnia. Sì, però, Queensberry lo provocò, dal momento che non parlo solo di sodomia, ma di “atteggiamento da so­ domita”. Un gentiluomo come Wilde doveva reagire...

Ah no, ma credo che parlare di “posa da sodomita” fu astuto. Certo, perché dire “posa da sodomita” era come dire...

Lo provocò. No, lui voleva dire che non era sicuro che fosse so­ domita. Lei crede?

Io credo che sia stato un gesto molto astuto da parte sua. Se avesse detto “il sodomita”, allora Wilde avrebbe detto no, non lo sono. Ma “posa da” mostra un poco di incertezza. E allo stesso tempo l’altro era 132

del tutto sicuro perché lo aveva fatto seguire da inve­ stigatori a Parigi ed era certo. Ma finse incertezza per sminuire Wilde. Credo che si spieghi così. Inoltre non disse ‘sodomita’ ma ‘somdomité (somdomita), sbagliò anche parola, ma credo che fu tutto deliberato.

In quel processo hanno testimoniato contro Wilde al­ cuni dei suoi vecchi compagni di università, ad esempio, persone che evidentemente lo avevano odiato di nasco­ sto da molto tempo. Ma a deporre furono soprattutto i minori che aveva corrotto. Ciò che lo danneggiò di più fu proprio que­ sto; erano ragazzi con meno di diciotto anni che aveva portato a Parigi, a cui aveva regalato orologi d’oro. Lui non poteva sapere che sarebbe diventato di do­ minio pubblico, ma tutto il suo umiliante passato ri­ apparve e tanto bastò a dimostrare che le accuse non erano calunnie, ma la verità. Wilde avrebbe potuto lasciare l’Inghilterra, ebbe un mese di tempo; e gli offrirono il loro aiuto Frank Harris, Bernard Shaw e altri amici, gli consigliarono di lasciare il paese, di an­ dare a Parigi, ma lui non volle e rimase in Inghilterra. Sembra che l’ultima notte lui fosse solo, e lo si sentiva fin da sotto mentre camminava avanti e indietro nella sua stanza, e il capo della polizia mandò un detecti­ ve alla stazione, da dove partiva l’ultimo treno per Dover, ma il detective tornò tutto compunto e disse che no, Oscar Wilde non aveva preso l’ultimo treno. Caspita, disse il capo della polizia, dovremo arrestar­ lo; così andarono e lo portarono via. Lui sapeva che sarebbe successo. Solo dopo spiegò a Gide che vo­ leva conoscere “l’altro lato del giardino”. Insomma, lui aveva già conosciuto il successo, aveva conosciuto in una certa misura la gloria e la felicità (sempre che la felicità sia possibile), ma voleva conoscere anche l’infamia e il disprezzo; voleva esaurire l’elenco delle

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esperienze umane, quindi si cercò deliberatamente il suo destino. E lo fece con grande nobiltà, perché se ricorda...

Con grande nobiltà, e si fece amici tra gli altri pri­ gionieri, poi,.quando uscì di prigione, continuò a in­ teressarsi a loro ed aiutarli anche economicamente. Uscì di prigione e andò a casa di una donna, una don­ na ebrea. Quindi andò a fare un giro con un amico e naturalmente visitò una libreria; mentre stava sfo­ gliando alcuni libri sentì qualcuno, di cui non seppe mai il nome, che diceva: “Guarda, Oscar Wilde.” Al­ lora capì che se fosse rimasto a Londra sarebbe stato sempre così - in Irlanda sarebbe andata anche peg­ gio, se possibile -, così si recò a Parigi e morì pochi anni più tardi.

Che strano... di Londra ha detto, in un passaggio di Lady Windermere: “A Londra non si capisce se gli uo­ mini generano la nebbia o se è la nebbia a generare gli uomini.” È giusto. Ed è stato anche un altro modo di elogia­ re gli inglesi, parlargli della nebbia; perché loro sono molto orgogliosi della nebbia di Londra.

Lei ha affermato che si può dimostrare il fatto che Wilde avesse quasi sempre ragione, che fosse un uomo... Credo di sì, credo che pensasse a fondo; ma che, per una sorta di eleganza, voleva essere considerato frivolo. Per questo dava ai suoi giudizi la forma di un epigramma. Certo.

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Come poeta, però, è un poeta mediocre; è un Ten­ nyson minuscolo, uno Swinburne minuscolo; ma non è così come persona. E come narratore è senza dubbio eccezionale. Sì, ma ha uno stile decisamente decorativo; ad esempio, guardi il ritratto di Dorian Gray, imitato dal Jekyll e Hide di Stevenson, ma II Dottor ]ekyll e Mister Hide è molto ben scritto, Il ritratto di Dorian Gray no; è pieno di riempitivi, di capitoli messi insieme, lunghe liste di strumenti musicali; insomma, è scritto in uno stile decorativo.

Ma “La ballata del carcere di Reading” e il “De pro­ fundis”: sono entrambi suoi, di Wilde. Sì, ma “La ballata” non sono certo che sia buona. La paragoni a una ballata di Coleridge o di Kipling e non è niente, o anche con le autentiche ballate del popolo. No, si nota che è tutto così falso. Ad esempio, nei primi versi ci dice che sia il vino che il sangue sono rossi. Kipling avrebbe saputo, e anche Wilde lo doveva sapere, che un soldato inglese non beve vino: chi beveva, beveva gin. Nemmeno il whisky, a quell’epoca, ma a lui conveniva usare il vino per­ ché ha un certo prestigio letterario. La casacca che si usava, essendo di un certo reggimento in particolare, non poteva essere rossa, doveva essere verde; e qual­ che amico glielo disse: le casacche erano verdi. Bene, disse Wilde, se vi sembra che stia meglio “perché il sangue e il vino sono verdi”... {ridé) lo avrebbe cor­ retto, ma rosse erano molto più adatte. Certo, lui sa­ peva che era tutto falso. E poi ci sono altre allegorie, che sono del tutto false.

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Ma insisto sulla frase “Trasformerò in musica il mio dolore”. Credo che tanto nella “Ballata” come nel “De profundis” ottenga proprio questo. Immagino di sì, penso che sia lo scopo di ogni poeta.

Sì...

Certo, fare musica, creare ritmi. NeHOt/zkred si leg­ ge che gli dei fanno in modo di provocare la sofferen­ za degli uomini, di modo che le generazioni future ab­ biano qualcosa da cantare; ed è proprio la stessa idea. Certo.

Che tutto l’universo avrebbe una giustificazione este­ tica; anche Mallarmé lo disse, anche se in una forma più prosaica: “Finisce tutto in un libro”, ma il libro è una cosa morta; suona meglio: “Che abbiano qualcosa da cantare.”, è più vivo; Omero lo disse con più perizia di Mallarmé. E vero che Mallarmé lo disse con una buona dose di rassegnazione: “Finisce tutto in un libro”, come a dire: cosa possiamo aspettarci se finisce tutto in un libro. A meno che lui avesse il culto dei libri o entram­ be le cose, visto che Mallarmé era una persona molto complessa; è probabile che scrivesse in maniera volu­ tamente ambigua. Nel caso di Wilde credo sia fuori di dubbio che, al di là delle sue pagine, ci dà l’impressione di essere un uomo geniale e anche adorabile. Inoltre, come ho detto più di una volta, dotato di una strana innocenza, come accade anche in Verlaine. Le loro vite possono essere state infami, ma loro no. Questo mi fa venire in mente una frase di Stevenson, molto bella ol­ tre che vera: “Un uomo,” diceva Stevenson, “può essere calunniato per le sue opere, per la sua vita”, o dice “per i suoi atti”. “Un uomo può essere calunniato per i suoi atti”. Ossia, un uomo può uccidere, ma non essere dav136

vero un assassino. Sarebbe il caso di Macbeth. Si vede che Macbeth agisce come agisce perché spinto dalle parche, da sua moglie, che è più forte di lui; ma non è per sua natura un assassino. Il fatto è che molte volte una persona intelligente può agire in modo stupido; ma non deve essere giudicato per i suoi atti stupidi, ma per quello che è. Nel caso di Wilde, l’impressione che ci lascia alla fine è quella di una strana innocenza; come se tutto quello che è accaduto fosse accaduto ad un altro, o come se non avesse davvero vissuto la sua vita. Per questo è un peccato che si insista sempre sulla sua fine tragica; mi piacerebbe leggere un libro in cui non se ne parli, ma si parli solo della sua opera. Ma ora non si può, mi pare, ora dobbiamo parlare del processo, della prigione, degli anni in esilio a Parigi.

Ma anche lei sostiene che il sapore fondamentale delle sue opere è la felicità. Sì, credo di sì, devo aver ripetuto anch’io questa affermazione, ma perché non penso ci siano dubbi in merito. Inoltre, il fatto che nelle sue commedie ci siano tanti personaggi stupidi - donne frivole, dell’al­ ta società - ma che pure sono molto ingegnose. Ma nessuno ci fa caso, l’impressione che ci lasciano è di stupidità, anche se le loro battute sono molto brillanti. Ovvio, è Wilde che gli mette in bocca tali battute. Ep­ pure l’impressione che ci lasciano è di essere sciocche o frivole; mentre parlano per epigrammi, e sono epi­ grammi molto felici. Che strano. Ora che lo dice, ricordo una frase di Do­ stoevskij il quale, parlando della bellezza, afferma che la bellezza risplende all’improvviso, anche nella stupidità.

È così, è vero. Anch’io a volte, camminando per strada, sento frasi straordinarie pronunciate da perso137

ne che non si rendono nemmeno conto di dirle. Shaw diceva, visto che oggi parliamo di irlandesi, che tutte le sue frasi erano frasi sentite per strada. Che lui non aveva inventato nulla, si limitava solo a trascriverle. Ma potrebbe essere solo una boutade di Shaw, no? Un amanuense dell’ingegno degli altri, sì, lo avevamo già detto.

Non credo sia vero, inoltre è strano che nessuno sappia approfittare di tale ingegno tranne quell’ascol­ tatore casuale che si chiama o si chiamava George Bernard Shaw. Insomma, Shaw e Wilde erano amici, e Shaw diceva che avrebbe dato qualsiasi cosa per una o due ore di dialogo con Wilde, e che in quel dialogo a parlare sarebbe stato l’altro; e lui, “per una volta nella mia vita”, dice Shaw, “sarei rimasto zitto.” Al contrario, Wilde aveva detto di vedere Shaw come un uomo incapace di passione, e questo, pensava sempre Wilde, faceva sì che le sue opere non suscitassero il suo interesse: questa era per Wilde l’opera di Shaw.

E solo che la passione di Shaw era rivolta al ragiona­ mento, soprattutto.

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Il deserto e la pianura

Osvaldo Ferrari: Spesso torniamo alla pianura, ma questa volta con una nuova riflessione. Ho pensato che l’ambito in cui si potrebbe supporre che trovino l’ispi­ razione i grandi mistici doveva essere più facilmente la montagna invece che la pianura. Eppure abbiamo l’esem­ pio concreto delle grandi religioni monoteiste, i cuifonda­ tori hanno trovato ispirazione nella pianura, nel deserto. JORGE luis borges: Lei parla dell’islamismo e del cri­ stianesimo, immagino.

Sì, certo. Sì, perché non saprei quali altre possano essere. In quelle religioni la pianura, al contrario della monta­ gna, è stata la grande ispiratrice. Lei menzionava la pro­ spettiva osservata da Darwin delle mappe della pianura.

Sì, lo si può vedere nel Viaggio del Beagle di Darwin, e poi lo riprende Hudson, non so se in Un naturalista nella Plata o in Far away and long ago, ossia Panto tempo fa e molto lontano. Curiosamente, Francisco Luis Bernardez disse che quel titolo era esattamente lo stesso di Anni e leghe di non so quale scrittore spagnolo; ma non è vero, perché “anni e leghe” sembra, non so, più secco. Si parla del tempo e poi dello spazio. Al contrario in Far away and long ago, e anche nella versione tradotta Tanto tempo fa e molto lontano, c’è una sorta di caden139

za, di ritmo; come una musica che equivarrebbe... alla nostalgia, a una certa malinconia. Credo che “far away and long ago" compaia in qualche ballata. Insomma, si dice la stessa cosa ma accompagnata dalla musica. Al contrario, “anni e leghe” sembra secco, e sono solo due modi di misurare il tempo e lo spazio. Ma senza emozione. Invece in “far away and long ago”, o “tanto tempo fa e molto lontano”, c’è una cadenza che diven­ ta cifra dell’emozione. Ecco perché non sono uguali, forse lo sono concettualmente, ma a livello emozionale no; intellettualmente sono uguali ma emotivamente no. Ma, parlando emotivamente, mi diceva in un altro dia­ logo che forse il vero modo di stare in un luogo è andare lontano; quindi non stare in quel luogo: Hudson scrisse su molti luoghi da lontano, così come Giiiraldes scrisse sulla Francia. Ossia da lontano...

Sì, parzialmente. Scrisse una parte di Don Segundo Sombra a Estancia, quindi nella pianura, nella provin­ cia di Buenos Aires, a San Antonio de Areco. L’altra invece la scrisse a Buenos Aires; una parte nella casa dei genitori, in Paraguay e in Florida, e l’altra nella casa in cui abitava lui, dove gli feci visita mentre scriveva il romanzo, che era in Calle Solis y Victoria, o Solis y Alsina, non ricordo. Comunque era nel quartiere del Congresso; che è pianura, ma non è vera pianura per­ ché è edificata. In ogni caso la distanza agirebbe da ispirazione.

Sì, credo di sì. Potremmo anche portarlo all’estre­ mo, e dire che l’unico modo per essere emotivamente presente in un luogo implica non esserci fisicamente.

Sì, ma non credo sia esagerato; ci sono altri esempi, nella nostra letteratura, in cui l’opera è stata composta a 140

distanza. In particolare opere che parlano della pianura, e in epoche precedenti; nel secolo scorso.

Abbiamo il caso di Sarmiento, che scrive il Facundo in Cile.

Esatto. O il caso di Echeverria; Echeverria scrive la sua poesia, “La cautiva”, la prigioniera, nella pianura, in una proprietà del Pilar. Ma lui stava pensando meno a quella proprietà e più all’estensione della pianura che si stendeva verso la Cordigliera. Verso la Cordigliera. Inoltre veniva da viaggi in Eu­ ropa.

Anche, sì, certo, ricordiamo la chitarra di Echever­ ria a Parigi.

Allora vediamo che la pianura ci propone diverse let­ ture. Ma torno a quella che ha menzionato prima, di Dar­ win, perché lì c’è una prospettiva che mi interessa. Eei diceva che la visione della pianura dipende dall’altezza da cui la si osserva. Sì, credo che Darwin prima, e Hudson poi, parlava­ no della pianura nella pianura, che significa vedere la pianura dall’altezza di un uomo che sta in piedi, o al massimo dall’altezza di un cavallerizzo, a cavallo. E ci fanno notare che in nessun caso la vista arriva molto lontano, perché si arriva comunque in fretta alla linea dell’orizzonte. Quindi una persona che sta in mezzo alla pianura non la percepisce come infinita; a meno che sappia che è virtualmente infinita e la percepisca come più grande di come appare. Perché se no la vista non arriva troppo lontano, incontra subito l’orizzonte,

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che è circolare, e un cerchio non può arrivare trop­ po lontano. Al contrario la visione del mare è già più ampia, perché la si può avere dal ponte di una nave, e quindi arriva più lontano della prospettiva che si può avere stando in piedi o a cavallo.

Ci sono tre visioni letterarie della pianura che proba­ bilmente non sono lontane dalla realtà. Quali sono?

Quella di Sarmiento, il quale sostiene che per capi­ re l’uomo argentino è necessario conoscere l’influenza dell’ambiente naturale che lo circonda; quella di Marti­ nez Estrada, per cui la pampa entra in noi, nelle nostre città, nei nostri paesi, irrimediabilmente... Sì, c’è anche una frase di Gùiraldes in cui si legge che la campagna entra nelle case. Ah, certo.

Quindi sarebbe la stessa cosa. Certo, la stessa idea. Sì, non so, in qualche testo di El cencerro de cristal (La campana di cristallo}, dovrebbe essere lì. Oppure in una poesia successiva a Don Segundo Sombra, ma non ne ricordo il titolo. Ma in qualcuno di questi afferma che la campagna sta entrando nelle case. E c’è chi arriva anche più lontano: Carmen Gdndara, che scrive che “noi argentini siamo il deserto.”

Allora il deserto lo abbiamo già dentro. Sì, sarebbe molto triste, ma potrebbe anche essere vero. Il fatto

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che l’individuo si senta solo. La mancanza di senso del­ la comunità, che poi è una pianura condivisa. Sarem­ mo pianura, ma anche irrimediabilmente soli. In qualche modo, un isolamento come quello di cui si dice che soffriamo noi popoli solitari del sud, diciamo, alla fine del mondo. Sì, ricordo che Xul Solar mi diceva che sarebbe sta­ to meglio se le mappe fossero state stampate diversamente. Così, invece di stare in una specie di straccio penzolante, che sarebbe il cono australe, staremmo sulla cima, sulla cuspide; se si portasse in alto il sud, e non lo si lasciasse nella parte bassa della mappa. Xul proponeva di capovolgere il mappamondo o la ter­ ra stessa.

Sì, ma visto che si tratterebbe solo di uno sposta­ mento, non costerebbe nulla; il nord e il sud potrebbe­ ro diventare la destra e la sinistra, mentre ora sono la parte inferiore e la parte superiore della pagina.

Se penso agli uomini della pianura che ha descritto nei suoi racconti, mi accorgo che hanno caratteri defi­ niti, quasi definitivi. Penso a Tadeo Isidoro Cruz, pen­ so a...

Sì. È strano che il carattere delle persone possa essere determinato dalla cartografia, ma perché no? {Ridono entrambi) Ma forse no, forse è segnato soprat­ tutto dal fatto che siano abitanti della pianura o della montagna. Per quanto riguarda il gaucho, la tipologia del gaucho non è circoscritta solo alla pianura, ma an­ che agli altipiani, dove ci sono pendenze; ma non so se questo influisce sul carattere.

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In apparenza sì, ci sarebbero differenze tra la gente di pianura e la gente di montagna nello stesso paese. Ma comunque una piacevole gamma di differenze.

Groussac, nella conferenza sul gaucho che tenne a Chicago, se ricordo bene, affermò che ci sono due tipi di gaucho: uno del sud, che vive nelle pianure; e quello che vive sulle montagne, e sarebbe del nord. Al contrario, Lugones, in El payador (Limprovvisatore), insiste che il gaucho ha una sola tipologia, che si ritro­ va sia nelle regioni montuose sia a Salta, in pianura. Ma non so se sia davvero così, è facile che ci siano differenze tra i due. Certo, ma non penso solo al gaucho, penso anche a noi come uomini di pianura, visto che Buenos Aires, come abbiamo detto quando abbiamo parlato del sud, è pianu­ ra edificata. Senza dubbio, ricordo che una volta stavo parlando con... ovviamente agivo in malafede; stavo parlando con un letterato, credo francese, e lui mi disse che era stato in un hotel, non so, vicino al Congresso; mi disse che voleva vedere la pampa. Gli risposi che era­ vamo già nella pampa, perché questa è pampa. Ma (ride') era solo una trappola da parte mia, perché lui non voleva vedere la pampa edificata, voleva quella deserta, diciamo.

Ma ci fu un altro letterato francese che parlo della ver­ tigine orizzontale della pampa. Sì, fu Drieu la Rochelle, ma fu solo perché andam­ mo a camminare, e arrivammo non so se nelle vicinan­ ze di Puente Alsina o al quartiere La Paternal, o non so dove, comunque in un posto dove già si percepiva la pianura. E lui disse: “vertige horizontal” (vertigine

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orizzontale). Fu Pierre Drieu la Rochelle, in un’alba sperduta, alla periferia di Buenos Aires. E accadde con lei presente, Drieu la Rochelle era con lei in quel momento?

Eravamo Ibarra, Drieu la Rochelle e io. Non credo ci fosse qualcun altro. Eravamo usciti a camminare noi tre, ed eravamo arrivati alla periferia di Buenos Aires. Credo che uscimmo da San Juan y Bodego e arrivam­ mo a Puente Alsina, mi pare. Ma poteva anche essere il lato occidentale, ma penso di no, che fosse quello sud­ occidentale, quindi Puente Alsina. Sì perché ricordo che passò una... che vedemmo una truppa. Sì, fu Ibar­ ra a ricordarmi quel fatto, perché lo avevo dimenticato. Ed io dissi: la patria! E poi una brutta parola, che non era una brutta parola ma un eccesso di emozione.

Ma che strano, Borges, cercavamo una conclusione per questo dialogo sul deserto, la pianura, la piana... E il suicida ci ha donato quella frase.

E il suicida Drieu la Rochelle, con la vertigine orizzon­ tale, ci ha dato la giusta conclusione.

Ci ha aiutato il nostro amico, sì.

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19 Adolfo Bioy Casares

OSVALDO FERRARI: Da un punto di vista letterario, Bor­ ges, lei ha mantenuto uriamicizia di cui noi abbiamo be­ neficiato, visto che da tale amicizia sono scaturiti libri e traduzioni importanti. Parlo della sua amicizia, nel corso degli anni, con Adolfo Bioy Casares.

Jorge luis borges: Sì, ho scritto il prologo del suo primo libro, Dinvenzione di Morel. Ricordo che ave­ va scelto questo titolo per ricordare Disola del dottor Moreau di Welles, e mia sorella disegnò per la coper­ tina una specie di mappa dell’isola; ricordo quell’isola gialla nel mezzo di un mare azzurro, e la prefazione che scrissi... perché Ortega y Gasset disse che il no­ stro secolo difficilmente si sarebbe potuto interessare a qualcosa e che non si poteva inventare una nuova favola. Allora io, in una nota pubblicata nella rivista “Sur”, ho ribattuto che questo secolo abbonda di nuovi argomenti, e credo di essermi limitato all’esempio di Welles - parlai di Welles e di Chesterton, ma anche dei romanzi di Kafka ricordai questi esempi, e scrissi che il nostro secolo si caratterizzava proprio per l’in­ venzione di nuovi argomenti. Uno di essi, e non il peg­ giore, era quello al centro del romanzo di Bioy Casares. Al tempo credevo fosse impossibile scrivere in collaborazione con altri, ma una domenica andai a pranzo da Bioy, e ci trattenemmo a mangiare per un’ora; poi lui tlisse: “Scriviamo un racconto, a partire dal tema che hai suggerito, e per cui ti avevo proposto di collabora­ te.” Ed io accettai, per dimostrargli che la collabora147

zione era impossibile. Ci mettemmo a scrivere, e poco dopo fummo in balia di un personaggio che avremmo chiamato Bustos Domecq, e poi ancora Suarez Lynch; si impossessò letteralmente di noi, così cominciammo a scrivere. Non saprei dire da che lato della scrivania siano scaturite le idee - in generale direi che le idee erano mie, mentre le frasi, quelle frasi felici, erano di Bioy Casares -, ma non sono sicuro nemmeno di que­ sto, visto che alcune frasi erano mie, e alcune idee sue, ovvio. Inoltre credo che per collaborare sia necessario che i collaboratori dimentichino di essere due perso­ ne diverse, perché altrimenti insisterebbero per pura vanità a sostenere ciascuno le proprie idee, o per pura cortesia a sostenere sempre l’opinione dell’altro. Ma tutto questo va dimenticato: occorre giudicare ciò che si scrive e ciò che si inventa in maniera impersonale. Con Bioy Casares siamo riusciti a farlo. Ma alla fine ci siamo decisi a lasciar andare...

Bustos Domecq.

Bustos Domecq e Suarez Lynch, perché non ci piace molto quello che scrivono, hanno uno stile barocco che a Bioy non piace - Bioy mi ha insegnato il valore della semplicità classica - e ora non piace più nemmeno a me. Eppure, quando abbiamo cominciato a scrivere, ecco che sorge quel fantasma, un fantasma generato dal nostro dialogo, e si impossessa non solo del tema del racconto ma anche delle frasi, e tende al barocco; tende a una sorta di reductio ad absurdum di ciò che stiamo scrivendo. Comunque è da molto che non collaboriamo. E don Isidro Parodi, a volte ritorna?

Sì, scegliemmo il cognome “Parodi”, e curiosamente, incredibilmente, non pensavamo proprio a Parodi o al 148

termine “parodia”. No, pensammo che ci sono cogno­ mi italiani che non vengono percepiti come italiano, ma come creoli. Pensai che simili cognomi potevano essere, per esempio, Ferry, che non si riconosce come italiano, Molinari, che non si riconosce come italiano; Parodi, che non si riconosce come italiano.

Certo, è chiaro. Sì, inoltre ricordai la frase di un mio amico, secondo il quale tutti i vecchi creoli erano stati, a suo tempo, dei gringos, no? (Ridono entrambi.) Per lui la vecchiaia del gringo, a Buenos Aires, coincide con quella del vecchio creolo. Ed è vero.

Secondo me la vostra amicizia si distingue per essere benefica e creativa...

Ma certo; volevo dire, inoltre, che ogni volta in cui si instaura un’amicizia tra due scrittori di età molto di­ versa, si dà per scontato che il più vecchio è il maestro e il più giovane l’allievo; ma nel nostro caso non è stato così; il maestro era il più giovane, e il più vecchio, io, l’allievo. Volevo sottolinearlo perché è un fatto - non si tratta di falsa modestia, no, è quello che è accaduto - e perché Bioy, senza dubbio per un gesto di cortesia, mi smentirà, visto che si dà per scontato che il più vecchio è il maestro. Ma è anche vero, Borges, che lei ha sempre un atteggia­ mento da allievo verso tutto, e non da maestro. Ah, certo. Quando la gente mi chiama “maestro” mi guardo intorno, come quando dicono “dottore”: penso che stiano parlando con una terza persona. Dopo tutto mi chiamo Borges, e tutti mi chiamano Borges - chi non mi conosce mi chiama “Geòrgie”, ma chi mi cono149

see mi chiama sempre Borges. Ecco, tranne mia sorella che naturalmente non mi chiama per cognome.

Certo. Poiché sia lei che Bioy Casares, in alcune occa­ sioni avete detto che l’amicizia che vi lega è di un tipo che non prevede intimità, avete finito per caratterizzare uno stile di amicizia che mi sembra davvero speciale. Molto reale, ma nel mio caso ricordo un tipo simile di amicizia con Manuel Peyrou e con Manuel Mujica Lainez. Peyrou arrivò all’estremo di sposarsi e di co­ municarmi del matrimonio poco più di un anno dopo averlo celebrato. Peyrou era abbastanza strano: credet­ te di aver avvisato del suo matrimonio Silvina Ocampo, perché si parlavano tutti i giorni al telefono, e un gior­ no le disse: “Bene, ieri ho preso una decisione.” Una frase del genere si può interpretare in molti modi, ma lui era convinto che dicendo così le aveva comunicato di essersi sposato, poi venne fuori che lo aveva detto in questo modo, insieme sentenzioso ed enigmatico: “Ieri ho preso una decisione” (punto e fine), e credette di aver annunciato il suo matrimonio.

("Ride.) In ogni caso per lui era sottinteso.

Sì, era sottinteso. Anche con Mujica Lainez siamo stati molto, molto amici, e credo che ci siamo visti ogni due anni. Soprattutto, bisogna considerare che ho pas­ sato la maggior parte della mia vita nei sanatori, mi hanno fatto molte operazioni agli occhi, e ogni volta che venivo operato, ecco che Manuel Mujica Lainez era lì. Ero fuori dal paese quando è morto, così seppi del fatto solo al mio rientro a Buenos Aires. Ho notato, Borges, che lei ha molti amici che ritrova con il passare del tempo, poco tempo fa, per esempio, ha incontrato di nuovo Ricardo Costantino. 150

Certo, fu bellissimo, anche per le nostre provenien­ ze: lui di Lomas, io di Adrogué, insomma, due uomini del sud. Era molto tempo che non lo vedevo, poi mi ha chiamato e spero di rivederlo presto; è una persona eccezionale, ingiustamente dimenticata. Ma in questo paese c’è la tendenza a dimenticare tutto, vero? Persino le dittature, persino l’infamia, tutto, tutto si dimentica, o si perdona, visto che dimenticare è perdonare; il che assicura una certa impunità, o comunque abbastanza impunità. E a volte passiamo dalla smemoratezza alla confusio­ ne, non è così?

Sì, è facile. La smemoratezza in fondo è una confu­ sione.

Nel caso di Bioy Casares, a riunirvifu la rivista “Sur”? Vi riunì /’Antologia della letteratura fantastica? No, “Sur” no. Conobbi Bioy... me lo presentò Silvina Ocampo, che allora non era ancora sua moglie; era amica di mia sorella. No, non fu davvero “Sur”, inoltre il mio rapporto con “Sur” è stato molto ingi­ gantito; devo molto a Victoria Ocampo, ma alla pub­ blicazione di “Sur” no. Ho pubblicato qualche volta, e figuro nel comitato di redazione - che poi è una lista di tutte le persone presenti quando è stato redatto il comitato, comprende persone che non hanno niente a che vedere con la letteratura. Ad esempio, mi pare ci siano Alfredo Gonzalez Garano e Maria Rosa Oliver, per il semplice motivo che erano presenti. E non sono più stati contattati dopo?

No, non credo, inoltre è molto difficile contattare Waldo Frank a New York, o Ortega y Gasset a Madrid,

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o Drieu la Rochelle a Parigi; è impossibile farlo. Ma non importa, fu una sorta di saluto a Victoria Ocampo.

Un comitato tutelare, diciamo.

Sì, sì, sì, tutelare è giusto (ride)·, ancora più tutelare ora che è un fantasma. Ma credo che ormai la rivista sia stata chiusa, non sono sicuro, continua a uscire? No, credo di no. Neanche io sono sicuro, perché passava tanto tempo da un numero all’altro che... Sì, che nell’incertezza siamo arrivati alla sua scom­ parsa. Ma all’inizio non aveva un’uscita periodica, per­ ché l’idea di Victoria Ocampo era di pubblicare quat­ tro numeri all’anno, uno per ogni stagione. Ma non dava certo l’impressione di un periodico, perché una rivista che esce ogni tre mesi alla fine è come un libro.

Mi interessa parlare dell ’Antologia della letteratura fantastica curata da lei, in collaborazione con Bioy Casares e Silvina Ocampo. Credo che quello sia stato un libro benemerito, vi­ sto che la letteratura dell’America del Sud, a differenza di quella dell’America del Nord, è sempre stata una letteratura più o meno realista, diciamo, o costumbrista. Certo, Lugones pubblicò una raccolta di racconti fantastici e aprì la strada a quel genere nel continente, in America del Sud; parlo di Le forze estranee, ovvia­ mente, e l’anno era circa il 1905 - ma le mie date non sono mai certe. Insomma, quello fu il primo libro di racconti fantastici, e lui lo scrisse all’ombra di Edgar Allan Poe. Ma i libri di Poe erano alla portata di tutti, mentre non è da tutti scrivere Le forze estranee. Soprat­ tutto nessuno a scritto racconti come “Isur”, come “I

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cavalli di Abdera”, o come “La pioggia di fuoco”, che sono i migliori racconti di quel libro. Poi c’è un saggio sulla cosmogonia, che si rivela essere una variazione sul tema di “Eureka” di Poe, che pure è una cosmogo­ nia. Lugones lo intitolò - e se ci pensa è buffo, anche strano - “Cosmogonia in dieci lezioni”. Di solito non si associa l’idea di lezione a quella di cosmogonia, no? Cosmogonia suggerisce l’idea di molto antico, mentre le lezioni sono più didattiche e attuali. Questo dimo­ stra la compostezza e la sicurezza di Lugones: riuscire a insegnare la cosmogonia - che, secondo Valéry è il più enigmatico dei generi letterari -, riuscire a insegnarla, e in dieci lezioni per di più. È una sorta di trucco, che messo in pratica anch’io quando ho intitolato un mio libro Manuale di zoologia fantastica·, la zoologia fanta­ stica non esiste, e men che meno può esistere un suo manuale. Più o meno lo stesso trucco, di cui mi rendo conto discutendone ora con lei, Ferrari. Vediamo che Lugones non coltivava lo humor, ma la stravaganza sì, a volte.

Lo humor lo coltivò, ma con scarsi risultati; quando dice: “L’istitutrice, una scozzese secca, del tutto isosce­ le vicino alla suocera obesa,” l’intento era ironico, ma il risultato è piuttosto patetico, no? (Ridono entrambi.) Troppo rigoroso. “Del tutto isoscele” vuol essere divertente, ma non credo provochi davvero ilarità. Laltro aspetto del suo lavoro in collaborazione con Bioy Casares è quello delle traduzioni. Credo che com­ posizioni molto importanti siano state introdotte gra­ zie alle vostre traduzioni, penso alle poesie, soprattutto dall’ inglese.

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Ah sì, e avrà collaborato anche Silvina Ocampo, senza alcun dubbio. Anche nelle traduzioni. Sono sicuro di sì.

Come nel caso i/c/ZAntologia della letteratura fan­ tastica. Sì, nel caso à&WAntologia di sicuro. Quell’antologia l’abbiamo curata in tre, ma il prologo lo scrisse Bioy. Credo che in quel prologo citi integralmente il sonetto sulla tigre di Enrique Banchs. La tigre viene descritta a lungo, si parla dell’autunno sulle foglie... e alla fine, inaspettatamente - come in un racconto poliziesco o fantastico -, nell’ultimo verso, troviamo queste paro­ le: “Questo è il mio odio.” Non c’era alcun riferimento all’odio prima, ha solo descritto la tigre. Bioy lo cita spesso come esempio di sorpresa, e non so se Banchs era capace di odio, ma credo di no. Ma forse lo era, visto che era così riservato... È un sentimento più comprensibile per la tigre che per Banchs... E l’odio nella tigre... no, direi che è furore, piut­ tosto, ma un furore innocente; perché l’odio implica ricordo e perseveranza - credo che gli animali, come aveva osservato già Seneca, vivano nel presente, ossia: vivono nel presente e ignorano la morte. Per questo ricordo un verso molto bello del poeta irlandese Wil­ liam Butler Yeats, che recita: “Man has created death" (“L’uomo ha creato la morte”), nel senso che solo l’uo­ mo è cosciente della morte; gli animali sono immorta­ li perché vivono nel presente.

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La politica e la cultura

Osvaldo Ferrari: In altre occasioni abbiamo parlato della cultura e dell’etica. In particolare dell’importanza di mantenere un’attitudine etica nella cultura. E siccome lei è stato testimone dei diversi modi e concezioni con cui la cultura è stata gestita nel nostro paese, vorrei chie­ derle delle nuove forme di massa, come per esempio alla Fiera del libro. JORGE LUIS BORGES: Gli esempi sono molti. Come il fatto di decretare che questo è l’anno “gardeliano”; un neologismo che non è stato rifiutato con orrore, ma piuttosto ha spinto a dedicare la Fiera del libro a un personaggio lontanissimo dal concetto di libro come lo era Gardel. Sono misure demagogiche, credo, ab­ bastanza rozze, ma al contrario di ciò che pensava, per esempio, Gracian, autore di II cortigiano, non credo convenga che l’astuzia sia molto astuta. Credo anzi che sia il contrario, credo che servano stratagemmi rozzi, visto che la maggior parte delle persone è rozza. Così, per esempio, una cosa tanto clamorosa come la scelta di dedicare un anno a Gardel, è rozza, ma non impor­ ta: è efficace proprio perché è così. Credo che l’idea per cui la sottigliezza è più conveniente, sia un errore, visto che la maggior parte della gente non è così; con­ viene che i mezzi siano rozzi come i destinatari a cui sono diretti.

Ciò che è rozzo è più accessibile, diciamo?

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Credo di sì, per questo non conviene una persona molto sottile; finirebbe per essere il contrario di, di­ ciamo, Machiavelli, il contrario di Gracian: l’immagine dell’acutezza somma. Credo sia un errore. Se uno procede con inganni rozzi, ciò può ingannare più fa­ cilmente, visto che si rivolge a persone anch esse rozze. Così che tutto fa gioco, e ciò che è troppo sottile forse non funziona o forse è troppo sottile.

Lei sa che nei decenni precedenti non si sarebbe pensa­ to a una manifestazione che avrebbe riunito, per quindici giorni, un milione di persone; come accadde, per esempio, l’anno scorso alla Fiera del libro. Ah, sì.

Ma forse proprio perché si riesce a radunare un milione di persone, è importante il come viene maneggiato un così vasto pretesto culturale. Sì, direi che uno scrittore segreto debba essere una specie di ossimoro; si è soliti pensare che lo scrittore deve essere pubblico, tanto pubblico quanto lo sono i politici. (Ridei) E oggi questa pubblicità si sta ingigan­ tendo sempre di più. Senza dubbio glielo avrò raccon­ tato molte volte: siamo arrivati in Svizzera, nel 1914, e da bravi sudamericani abbiamo chiesto il nome del presidente della Confederazione svizzera. Rimasero a guardarci, perché nessuno lo sapeva; c’era un governo molto efficace, ma era comunque un governo invisibi­ le. Al contrario, ora siamo governati da persone che si espongono di continuo ai fotografi; non solo vi si espongono, ma li cercano anche. Certo, viaggiano non solo con guardie del corpo e un seguito, ma anche con numerosi fotografi. Al contrario di Plotino, lo ricorda? Credo che nei giorni scorsi abbiamo parlato del fatto che a un certo punto qualcuno voleva realizzare un 156

busto di Plotino. Ma Plotino disse che non aveva sen­ so perché lui non era altro che un’ombra: l’ombra del suo archetipo, quindi una sua immagine sarebbe stata l’ombra di un’ombra. Quest’idea l’avrebbe ritrovata se­ coli più tardi Pascal, contro la pittura: dicendo che se il mondo è imperscrutabile, lo deve essere anche una sua rappresentazione, e lo disse senza sapere che stava citando Plotino.

Questo è molto chiaro. Sì, ma oggigiorno credo che nessuno la pensi così; una persona che non si fa ritrarre come gli altri non esiste. {.Ridono entrambi) E le immagini sono più reali di ciò che rappresentano.

Della realtà? Della realtà. Ma lei affermava che gli scrittori pensavano che quan­ to meno numerosi fossero stati, tanto maggiore sarebbe stata la qualità; quello che scrivevano avrebbe avuto mag­ giore qualità.

Sì, perché c’era l’idea degli “happy few” (i pochi for­ tunati), c’era l’idea, in alcuni versi di Stefan George, che non ricordo in tedesco, ma in una traduzione di Diez Canedo, che parlando della poesia afferma: “Di rari eletti / è di rado il premio”. Questo era l’ideale di un poeta. E credo che sia una poesia il cui titolo è tratto da un racconto di Henry James: “The figure in the car­ pet” (La figura nel tappeto), che inizia con un tappeto il cui disegno, a prima vista, è un caos di colori e forme; poi l’osservatore, fissandosi su un punto, vede che c’è una discreta simmetria. Allora Stefan George ha scritto una poesia: “Il tappeto della vita”, con la stessa idea che

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tutto sembra caotico, ma che in realtà è un segreto co­ smo, un cosmo segreto. Da qui anche l’idea sull’opera d’arte: “Di rari eletti / è di rado il premio”, che è un po’ anche l’idea di Góngora e Mallarmé. Sono poeti deli­ beratamente oscuri, perché non scrivevano per il volgo.

Certo, ma quell’idea non era necessariamente legata, come spesso si crede, a quella di cultura d’élite e cultura di massa; non ha nulla a che vedere con questo. No, credo di no. Si pensava che ogni lettore doveva cercare di essere degno di una simile apparente oscu­ rità. È l’idea che la poesia trova il suo lettore, o il quadro il suo spettatore, diciamo.

Sì, inoltre non cerano glosse, che giustificavano o spiegavano il testo. Di recente è successo con James Joy­ ce. Il libro scritto da Stuart Gilbert, segretario di Joyce; o un altro che si chiama, curiosamente, Un grimaldello per Einnegans Wake, scritto da sue studenti nordameri­ cani che spesero credo cinque o sei anni vivendo a Du­ blino e cercando tutte le soluzioni alla topografia e alla storia di Dublino rinchiuse nel libro Einnegans Wake. E pensando a Joyce, anche.

Pensando a Joyce, sì. Ora, la cultura intesa come spettacolo, invece che come manifestazione spirituale silenziosa, è propria della no­ stra epoca. Sì, tendiamo a credere che tutto sia uno spettacolo. Ovviamente gli spettacoli possono essere belli; e c’è anche una bellezza dello spettacolo.

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Ma è ovvio che ci troviamo difronte a un cambiamento nella concezione culturale, nella manifestazione culturale. Ah, sì, si capisce che le cose devono essere spetta­ colari, si cercano i bagni di folla; tutti vogliono essere “The man ofthe crowd" (L’uomo della folla), dal famoso racconto di Poe. È possibile che questo corrisponda a un cambio di epo­ ca, o piuttosto all’ingresso della politica nella cultura.

Purtroppo temo che sia la seconda opzione. Il fatto è che la politica oggi sembra onnipresente. Sì... Per esempio, oggi uno scrittore viene giudicato meno per la sua arte e più per le sue posizioni politiche.

Certo.

Soprattutto per l’ultima posizione politica. Il caso più lampante è quello di Lugones; che ha professato tutte le credenze politiche, ma viene ricordato solo per l’ultimo. Viene ricordato per “L’ora della spada”, che scrisse per ultimo; non so se ricorda che prima era stato anarchico, socialista, democratico sostenitore degli al­ leati; poi salutò l’arrivo della rivoluzione russa - insom­ ma, quella rivoluzione prometteva fratellanza tra tutti gli uomini - e poi, alla fine, disilluso, credette in ciò che leggiamo in “L’ora della spada”. E lo si ricorda per quest’ultima tappa, mentre si dimentica che non pro­ fittò di nessuna di queste, diciamo, migrazioni. Non profittò di nessuna. E pensare che prima non avevano il prestigio e l’in­ fluenza che hanno ora la psicologia, la sociologia e la 159

politica, ad esempio. E parlo solo del nostro paese, in questo caso. No, la psicologia - mio padre fu professore di psico­ logia - e il tema stesso della psicologia interessavano a pochi. Ma non so se è stata la psicologia che si studia oggi-

Psicologia sociale, in molti casi.

Psicologia sociale, e poi, quando si applica all’indi­ viduo, si insiste soprattutto sull’interpretazione osce­ na delle cose: Freud, eccetera. Sembrerebbe che si pensi meno in termini di arte, let­ teratura e spirito, e più in quelli di simili discipline.

Disgraziatamente ha ragione.

Si potrebbe perfino pensare che, a volte, ciò che si vuo­ le è mettere la cultura e lo spirito al servizio di quelle discipline, che pure sono ausiliarie. Non sappiamo nemmeno se esista la psicologia o se si tratti piuttosto di una scienza immaginaria; a giu­ dicare dai risultati ottenuti, non esiste. Perché prima non si parlava di economisti, ma il paese prosperava, ora invece non si parla d’altro, e la conseguenza di tut­ ti questi esperti è stata la rovina del paese; ma non importa: si continua a parlarne, si continua a insistere su questa scienza, verosimilmente immaginaria quan­ to l’alchimia.

Certo, infatti vengono definite “scienze sociali” e for­ se non sono scienze. La sociologia inizia con Auguste Comte.

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Sì, ma fino ad ora non so se abbia prodotto qual­ cosa.

Certo, non sappiamo se siano davvero diventate scien­ ze oppure no. Ma vengono studiate con questa dicitura. Sembra che la parola “scienza” basti, che non im­ porti davvero se sia una scienza.

Allora, questa grande differenza che vediamo nel modo in cui si affronta la cultura: prima, diciamo, silen­ ziosamente. .. Ed efficacemente. Mentre ora lo facciamo in modo vano e rumoroso. Soprattutto rumoroso, che ciò che importa.

Sì, e il rumore finisce per avvolgerci del tutto. Sì, ma non solo per stordirci, ma anche per trasci­ narci... verso l’abisso, diciamo; usando una facile me­ tafora.

Ma allora questa associazione, con cui abbiamo inizia­ to, quella dell’etica nella cultura, lei riconosce che è più importante per il destino della cultura nel nostro paese, in ogni caso. Sì, ma credo che se ciascuno di noi pensasse a esse­ re un uomo etico, e cercasse anche di esserlo, avrem­ mo già fatto molto; visto che dopotutto la somma delle condotte dipende dai singoli individui.

Giusto. E a volte io mi sento responsabile delle cose. An­ che se so che non lo so in senso stretto, mi sento co­

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munque responsabile. Come vittima... o molto spesso come complice, complice per pigrizia, o per rispettare le buone maniere; ci si rassegna a tante cose. Alcuni annifa, lei era tornato dagli Stati Uniti, e disse che avvertiva, tra le cose positive qui da noi, la capacità, la possibilità di dialogare. Sì, il dialogo è un’arte che negli Stati Uniti si è per­ sa. Ricordo che un mio amico, Homero Guglielmini, che viveva a Mar de la Piata, mi disse: “È una città senza dialogo.” Pensai che doveva essere molto triste. E mi disse la stessa cosa, anche se con parole diverse, Mastronardi, quando mi parlò di Gualeguay. Quin­ di, che cosa fa una persona in una piccola città? In sostanza si riduce, come Alonso Quijano, a dialogare con il barbiere, con il parroco, con la nipote, con la go­ vernante; nel migliore dei casi con il baccelliere Sanso­ ne Carrasco; ed è chiaro quindi perché a tutto questo preferisca la follia di essere Don Chisciotte. Visto che a portargliela deve essere stata anche la noia; non solo la lettura dei libri sulla cavalleria, ma anche il fatto che non poteva continuare a vivere in un luogo della Man­ cha di cui Cervantes scelse di non ricordare il nome. La parte più intensa della vita di Alonso Quijano deve essere stata la lettura di quei romanzi cavallereschi.

Senza dubbio.

Tutto il resto, deve essere stato molto grigio. La prova è che Cervantes non ci racconta nulla di quel periodo, tranne che si innamorò per breve tempo di una contadina, Aldonza Lorenzo; e non è nemme­ no troppo sicuro: sembra che lei non lo seppe mai. Quindi la lettura era l’esperienza più intensa della sua vita. E a volte penso che anch’io sono come Alonso Quijano, visto che la lettura mi ha donato tanta felici­ 162

tà. Ora, purtroppo, sono un Alonso Quijano esiliato; visto che sono circondato da una biblioteca che mi risulta lontanissima. Sì, ma può farsi leggere i libri della biblioteca. Certo, e la ringrazio molto per quello che ha fatto.

Dicevamo, come ultima cosa, che se lei riconosce che qui per lo meno è esistita, fino a pochi annifa, la capacità di dialogare, questo... Ma forse la stiamo perdendo ora. Mđ ciò indicherebbe che abbiamo anche una certa forma di capacità culturale, che si dovrebbe gestire etica­ mente per poterla sviluppare.

Sì, ma poiché oggi viviamo nel costante stordimen­ to della televisione e della radio... non dovrei parla­ re male di questi mezzi di comunicazione visto che li stiamo usando, vero? Ma, perché no.

Una volta ha detto che dipende da come vengono usati.

Certo, un mezzo di comunicazione in sé non può essere né buono né cattivo. E come se si dicesse che la scrittura è buona o cattiva. Ma forse la stampa è stata cattiva, visto che ha facilitato la proliferazione dei libri; forse c’era già un numero sufficiente di libri. Se poi si pensa che ora qualunque libro viene subito pubblica­ to e pubblicizzato. Mentre prima, quando si facevano copie manoscritte, prima di ricopiare un testo si va­ cillava. Ora no, ora è questione di giorni e si moltipli­ cano, si centuplicano gli esemplari. Finisce per essere un pericolo pubblico. E la Biblioteca nazionale riceve tutto questo. 163

(Ride J In ogni caso, il rumore, le manifestazioni poco armoniose che percepiamo nella cultura, sarebbero ini­ ziati con la stampa?

Sì, ho letto di un bibliofilo italiano che aveva una biblioteca molto curata e che non ammise mai in essa un libro stampato. Immagino che i primi libri stampati siano di certo stati brutti. Al contrario, i manoscritti avevano la raffinatezza della calligrafia. I primi libri stampati devono essere stati molto, molto brutti, fatti in maniera grossolana.

Attraverso la calligrafia, di cui parla, era possibile av­ vertire la mano umana che l’aveva vergata. Sì.

Ma non lo strumento. Al contrario, i primi libri stampati venivano da una macchina, ed era la macchina appena inventata e piut­ tosto grezza.

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21 Bernard Shaw

OSVALDO FERRARI: Ci sono alcuni versi di Bernard Shaw in quel libro curato da lei e da Bioy Casares; parlo del Libro del cielo e dell’inferno, e credo che quei pochi versi, a differenza di altri che sono nello stesso libro, non saranno incomprensibili per noi.

Jorge luis borges: Non sapevo ci fossero versi in­ comprensibili. .. ah, certo, sì, quelli di san Tommaso. Sì, ricordo, l’ho raccontato a molte persone e non sono riusciti a credermi, gli è parso impossibile. Non so con che intenzione sia stato scritto. Sì, infatti ne abbiamo parlato, di quei versi incompren­ sibili; ma stavolta possiamo dimostrare che il libro sa es­ sere molto più chiaro.

Certo, se lo si giudica per quei versi... (Ride.) È perso. Certo, il libro è perso, e il labirinto inespugnabile.

Dice Bernard Shaw: “Mi sono liberata delle offerte corruttrici del cielo...” Lo dice Major Barbara nella commedia Mayor Bar­ bara, dell’Esercito della Salvezza. Sì, non dice “mi sono lasciata alle spalle le offerte corruttrici del cielo”; cioè, l’idea di essere premiati per le buone azioni o, allo stes165

so modo, la paura di essere puniti per i peccati. Ecco cosa significa liberarsi delle offerte corruttrici del cie­ lo; certo, perché il cielo è, di fatto, corrotto e l’inferno è una minaccia. Non so quale dei due sia più indegno di una divinità: minacciare e corrompere sembrano due azioni eticamente molto basse. Shaw prosegue: “Compiamo l’opera di Dio per se stes­ sa; l’opera per la cui realizzazione ci ha creato, perché possono realizzarla solo uomini e donne viventi. Quando morirò, che il debitore sia Dio, non io”

Il finale è splendido, vero? Splendido. “Che il debitore sia Dio, non io.” Inoltre Videa di re­ galare qualcosa alla divinità infinita è splendida di per sé. L’idea di regalare qualcosa a Dio, visto che tutto è di Dio. Eppure l’uomo può regalargli qualcosa.

Solo lui poteva concepire un’idea simile, davvero ori­ ginale. Sì, è sorprendente, ma anche più che sorprendente. Credo che ciò che nessuno vuole vedere in Shaw è la sua natura etica. Sì guarda sempre a Shaw come a uno scrittore ingegnoso, ma bisognerebbe vederlo anche come un uomo saggio, e giusto. Si tende a dimenticar­ lo, perché sembra che il suo ingegno abbia in qualche modo oscurato il resto. Lo ha eclissato. Il suo interesse per la filosofia e l’etica.

Sì, credo di sì, inoltre la sua capacità di creare per­ sonaggi. Guardi, i personaggi di Shaw sono davvero indipendenti; molti non la pensano come Shaw; molti 166

si trovano in pieno disaccordo con lui, ma si sente che li considerava come persone vive. Certo, e di quei personaggi ricordo che lei ha detto che superano qualsiasi altro personaggio scaturito dall’arte del nostro tempo.

Lei dice gli eroi; sì, perché la narrativa si è dedica­ ta soprattutto alle debolezze umane. Sto pensando ai grandi romanzieri: a Dostoevskij, per esempio; a lui in­ teressano le debolezze dell’uomo, seguiva un’ideale ro­ mantico; in Delitto e castigo l’eroe è un assassino, l’eroi­ na una prostituta. Tutto ciò sarebbe stato impossibile in Shaw: lui non aveva alcun pregiudizio romantico verso il peccato, mentre Dostoevskij sì, anche se avreb­ be respinto tale imputazione. Direi che in Dostoevskij c’è una specie di culto del male; il fatto che uno dei suoi libri si intitoli I demoni o Gli indemoniati lo dimo­ stra: gli piaceva l’idea del male. Allo stesso modo pia­ ceva. .. a Baudelaire; lo stesso Byron ne era sedotto. Ma nel caso di Shaw no, Shaw era un uomo lucido, oltre che un grande inventore di quelle moltitudini illusorie che compongono la letteratura. In generale, la visione di Shaw non è religiosa, ma eti­ ca e filosofica.

Eppure è riuscito a concepire personaggi religiosi, perché senza alcun dubbio Major Barbara in un certo senso è religiosa, e allo stesso modo Santa Giovanna, e sono personaggi credibili. È molto difficile creare eroi ed eroine facendo sì che siano virtuosi ma anche reali. Credo che quelli di Shaw furono immaginati dall’au­ tore con grande sincerità. Doveva essere un uomo con una grande anima: un’anima generosa e un dono crea­ tivo straordinario. La sua opera è... è fantastica; Cor­ niamo a Matusalemme, per esempio: una specie di sto­ 167

ria universale che parte dall’Eden, e poi fa sì che tutto torni a Dio; come nella metafìsica del suo conterraneo Scoto Eriugena: la stessa idea che tutte le cose tornino a Dio. Un’idea che ebbe anche Victor Hugo, c’è una poesia molto bella di Hugo che si intitola “Cosa dice la bocca d’ombra”, e la bocca d’ombra, con le vaste me­ tafore che ci aspettiamo e che ovviamente otteniamo nell’opera di Hugo, ci mostra una nuova cosmogonia: la creazione del mondo e poi, alla fine, tutto torna a Dio. E ci torna anche il diavolo; tornano i mostri, viene descritto tutti con vividi dettagli, e splendidi versi, da Victor Hugo. Tutto torna a Dio. Anche nell’ultimo atto di Torniamo a Matusalemme il creato torna alla divini­ tà, e non si sa cosa potrebbe accadere dopo.

Sì, abbiamo già parlato della capacità critica di alcuni irlandesi, ma in modo particolare della capacità critica che ebbero, in Inghilterra, Shaw e Wilde.

E che l’Irlanda è un paese straordinario; certo, è an­ che un paese molto povero, una piccola isola margina­ le, eppure ha generato molti uomini geniali; tutti diver­ si tra loro: che cosa hanno in comune William Butler Yeats e Shaw? Direi assolutamente nulla, tranne che sono entrambi geniali; o Oscar Wilde e George Moore; o Swift e Scoto Eriugena. Tanti uomini di genio usciti da un’isoletta sperduta. Il duca di Wellington, credo... Anche il duca di Wellington, certo. Era scettico sul­ la guerra, visto che non permise che venisse scritta la storia della battaglia di Waterloo, perché gli dava orro­ re il ricordo del campo di battaglia. Le avevo accennato prima che Wilde considerava Shaw un uomo incapace di passione. 168

No, non credo. E per questo motivo pensava che l’opera di Shaw a lui, a Wilde, sarebbe apparsa meno interessante.

I due erano amici intimi e Shaw cercò di difenderlo, ma non trovò nessuno a supportarlo; perché cercaro­ no di far firmare non so quale testo a Sara Bernhardt, mentre era a Londra, e lei disse di no, che era straniera e che non poteva intervenire. Insomma, non volle fir­ mare. Cerano due persone pronte ad aiutare Wilde, uno era un personaggio abbastanza secondario, Frank Harris, l’altro Shaw. E nessun’altro.

Lei mi diceva che la passione di Shaw era quella di pensare. Sì, in quel libro: Who is who (Chi è chi), dove le persone dovevano scrivere qual era il loro passatempo, lui mise “pensare”.

Certo, questa è una prova. Poi c’è un altro aspetto, la posizione politica di Shaw; credo che Shaw aderisse al socialismo. Fu uno dei fondatori della Società Fabiana. Pensava che si dovesse ritardare la rivoluzione, pensava che i governi sarebbero crollati da soli; che una rivoluzio­ ne non sarebbe stata necessaria. Eppure ora siamo nel 1985 e sembra che i governi non abbiano mai sofferto come adesso; non sono mai stati così oppressivi e così, diciamo, onnipresenti, incessanti. Oggi non si può fare nemmeno un passo senza il governo. Eppure nel XIX secolo si poteva pensare che non sarebbe stato così, che i governi si stavano disfacendo, stancando; ora non ci spera più nessuno.

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Nessuno. Inoltre lui sosteneva che probabilmente la rivoluzione l’avrebbero fatta i ricchi. Sì, sì, perché pensava che il capitalismo esponesse a due mali: per i poveri, com’è ovvio, la miseria; e per i ricchi la noia. E che dei due mali forse il più facile da sopportare era la miseria, non la noia. Così sarebbero stati i ricchi a potare avanti la rivoluzione. Un fatto che oggi non sembra molto plausibile, vero? Oggi il mondo è così avido. Ma forse è ingiusto giudicare i paesi dal loro governo. Ad esempio, credo che uno dei mali di quest’epoca sia il nazionalismo; ma la gente, a meno che gli venga chiesto di esprimere un’opinione, è più o meno pronta a leggere un libro a prescindere da qualsiasi paese e da qualsiasi epoca; non si chiude su se stessa. Ma i governi sì. Il loro lavoro è insistere sui limiti. La gente no, se un film ha successo a New York, ha successo anche... a Buenos Aires, e a Lon­ dra, e, se lo permettono, anche a Mosca. Sembra che i governi, paragonati ai loro paesi, corrispondano sem­ pre a epoche antiquate, o arretrate. L’esempio classico sarebbe quello che si chiamò nazismo, una invenzione di Lichte e Carlyle. Ma all’epoca non ci fu nessuna ri­ voluzione, la rivoluzione c’è in questa epoca; ci sono stati Hitler e Mussolini, che sono in un certo senso caricature degli eroi cui anelava Carlyle. Quando pen­ siamo alla storia politica, ciò che sta succedendo ora corrisponde senza dubbio a sogni che nessuno sogna più; tranne i politici. (Ridono entrambi!} Credo che il ricordo di Shaw l’abbia ispirato, Borges. Un altro aspetto meraviglioso di questo autore è che del­ le sue frasi diceva che erano frasi sentite per strada, frasi dette da altri. Sì, era una sua forma di modestia. Ma molte volte si ascoltano frasi memorabili per strada. Abbiamo già

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parlato anche di questo, del fatto che l’intelligenza, la bellezza e la felicità non sono infrequenti: ci insidia­ no continuamente. Basta solo essere sensibili al loro fascino.

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22

La critica cinematografica

OSVALDO FERRARI: Ho avuto la possibilità di leggere, su un volume pubblicato da “Sur” le sue recensioni sui film usciti a Buenos Aires tra il 1931 e il 1944.

Jorge luis borges: Ho scritto molto di più, ma il curatore, che non conosco, non ha consultato due ri­ viste; una diretta da Carlos Vega e l’altra da Sigfrido Radaelli. Lì ho pubblicato molti pezzi, mentre in “Sur” solo saltuariamente. Ma non so perché, quelle di “Sur” sono state ristampate, mentre le altre sono rimaste rele­ gate nell’oblio, anche se meritano di essere lette. Ma già lì si prova che lei aveva una conoscenza molto completa del cinema di quel momento. Ci andavo almeno due volte a settimana. Ricordo, quando iniziò il cinema sonoro, che tutti pensavamo fosse un peccato, perché i film vennero subito rimpiaz­ zati da opere e da personaggi felicemente dimenticati, come Ginette Mac Donald e Maurice Chevalier, che presero il posto dei grandi attori del periodo preceden­ te. Tutti noi pensavamo: che peccato, il cinema, che è arrivato a picchi di perfezione con Joseph Von Stern­ berg, Stroheim, King Vidor; tutto questo con l’opera si è perso. Sì, fu davvero un peccato. Lei aveva l’abitudine di parlare di più di un film nel­ le sue recensioni. Per esempio, in una sola recensione ha parlato di ^assassino Karamazov, un film tedesco,

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insieme a Le luci della città di Chaplin, e a Marocco, di Von Sternberg.

Ah, non lo sapevo, ma può essere successo. Certo, dovevo riempire un certo spazio, inoltre scrivevo que­ ste critiche il giorno dopo aver visto il film. Quando uno finisce di vedere un film, ne vuole parlare subito.

Di commentarlo, certo. Sì, e senza dubbio ne ho approfittato per scrivere di film, dopo averne discusso con amiche e amici. Non ricordo cosa posso aver detto allora, forse oggi non sa­ rei d’accordo con quello che scrissi allora. Ad esempio, scrissi una critica assai indegna per un film eccellente, che si intitolava Citizen Kane (Quarto potere) di Orson Welles. Non so perché la critica fosse negativa, forse un capriccio; poiché godevo di estrema libertà, che era molto diffusa a “Sur”, si poteva scrivere qualunque cosa... certo, Victoria Ocampo dirigeva la rivista ma non la controllava, diciamo. Così José Bianco, e prima di lui Carlos Reyes, ci lasciavano la massima libertà. In un’altra recensione parla di La strada di King Vi­ dor, ma fa anche alcuni riferimenti a film russi come Ottobre, di Eisenstein, Ivan il terribile...

Sì, mi ricordo di Ottobre, mentre di Ivan il terribile ci furono due versioni. Certo, seguivano i mutamenti della politica, così all’inizio si parlava male degli zar... la Rivoluzione; ma poi, man mano che la Rivoluzione prese forza, si confuse con il potere e con il passato della Russia; era solo il governo, allora, così ci furo­ no due film su Ivan il Terribile, una versione a favore e una contro. Curiosamente furono entrambe dirette da Eisenstein, che si prestò a questi cambiamenti della politica e fece due buoni film, ma del tutto diversi. 174

E con loro anche La corazzata Potemkin.

Sì, ma ho scritto che si trattava di una pellicola mol­ to inverosimile, vero?

Sì.

Certo, perché ricordo che l’equipaggio si ribella, butta a mare gli ufficiali, e il tutto viene raccontato come un episodio comico, visto che gli ufficiali sono resi in maniera debitamente ridicola: uno ha un mo­ nocolo, un altro ha gli occhiali, insomma, si è cercato questo effetto; poi viene bombardata la città di Odessa, ma l’unica traccia di morte è quella che si abbatte su un pilastro con una statua; non uccidono nessuno perché ovviamente si tratta di una corazzata rivoluzionaria, e non la si può mostrare mentre uccide la gente, eppu­ re il film venne salutato come una pellicola realista, e questo è falso. Inoltre un altro difetto dei film russi è che le sfumature sono proibite; per esempio: ci sono i buoni e i cattivi, e tutto il bene sta da una parte men­ tre tutto il male sta dall’altra. Sono girati per spettatori piuttosto primitivi, ma allo stesso tempo prestano mol­ ta attenzione alla fotografia, al fatto che i film siano visivamente belli. Certo, non c’era caratterizzazione dei personaggi, di nessun tipo; era tutto molto semplice. Lei si riferisce precisamente al lavoro degli attori e alla fotografia.

Sì, perché quello era l’importante. Il resto era piut­ tosto primitivo. Poteva capitare anche nei film western: il bene da una parte e il male dall’altra, ma alla fine nei film americani c’è sempre un po’ di generosità. Qui in­ vece no. Ad esempio, i film di guerra: tutto il bene è da una parte e tutto il male sta dall’altra; non c’è nessuna forma di generosità, né di imparzialità.

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Ho trovato anche critiche positive, anche se sembra in­ credibile, che lei ha rivolto a film argentini. (Ride.)

Una è quella su Luis Saslavsky, vero? In effetti sì, La fuga, di Luis Saslavsky. Credo di aver parlato dell’assenza di colore locale, perché cera una scena nella Residenza, insomma, noi la chiamavamo residenza; ma si erano risparmiati tutte le scene campestri. Soprattutto le scene spettacolari, come il dressaggio. Non cera nulla di tutto questo.

Idaltra è su Prigionieri della terra di Mario Soffici.

Certo, credo che fu diretto da Ulises Petit de Murat, no? Credo sia intervenuto...

Comunque ci ha avuto a che fare, eravamo amici e forse l’amicizia... (Ride)

(Ride.) Eppure di quest’ultimo film scrive che è supe­ riore a tutti quelli che ha generato e applaudito la nostra rassegnata Repubblica. Ah, ho scritto questo? Al tempo giocavo che gli ag­ gettivi. E che “rassegnata” è un buon epiteto per que­ sta repubblica, no? Perché se avessi detto “dimessa”... no, è meglio “rassegnata”. La rassegnazione è un tratto tipico argentino... e di tutti i governi, soprattutto, sì, il culto del potere, ma questa rassegnazione in parti­ colare si chiama “vitalità creola”. Certo, diciamo no all’esercizio di tale rassegnazione: che tizio è vivo per­ ché gli conviene agire in quel modo; ma di fatto questa potrebbe essere codardia. E nella maggioranza dei casi 176

lo è. Non so se avevo il diritto di dire certe cose, visto che quasi non avevo visto film argentini, e a quel tempo nessuno voleva vedere film nazionali. Mi dissero che in Francia, per molto tempo, la gente non voleva vedere film francesi; li si andava a vedere solo per senso del dovere, ma era opinione diffusa che quelli americani fossero più divertenti. Nel cinema si vogliono vedere altri mondi, diversi da quello in cui si vive, sicuro.

Può essere, sì.

Chi ha raccolto queste recensioni e allo stesso tempo scrive di lei e di cinema in questo volume di “Sur” si chia­ ma Edgardo Cozarinsky.

Ah, Cozarinsky, sì. Gli chiesi perché non aveva pre­ so in considerazione tutto quello che avevo pubblicato, in particolare quello che pubblicavo periodicamente sulle riviste di Radaelli e di Carlos Vega, ma lui mi dis­ se che non conosceva quelle riviste.

Cozarinsky sostiene, nell’introduzione al libro, che si intitola “Magie del racconto”... Chiaramente, questo titolo è tratto da “Magie par­ ziali del Chisciotte”, un mio articolo sulle piccole ma­ gie che si nascondono nel piccolo mondo apparente­ mente realista di Don Chisciotte. Perché ogni tanto si notano piccole magie.

Cozarinsky sostiene inoltre, nella sua introduzione, che la reale natura dei suoi saggi è quella di esercizi narrativi. Ah! Può essere, solo non me ne rendevo conto. È vero, ho scritto Storia universale dell’infamia nel ten­

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tativo di avvicinarmi con timore e cautela al mondo narrativo, al racconto, sì. Forse anche nelle recensioni cercavo di raccontare ma ancora non ne avevo il corag­ gio, visto che... a me piacevano moltissimo i racconti! Soprattutto quelli di Kipling, di Stevenson e di Che­ sterton. Mi ritenevo indegno di avvicinare quel genere - ed è stato così per molti anni - e così l’ho fatto in maniera indiretta.

Attraverso i saggi. Sì, per esempio, in Storia universale dell’infamia fin­ gevo di parlare di fatti storici, ma in realtà stavo falsi­ ficando e modificando, deformavo in continuazione... Ah, sì? Ma se ne rese conto Cozarinsky?

5z, e aggiunge...

Cosa ha fatto dopo Cozarinsky? Non lo so, ma dice che lei non discrimina le categorie narrative tra fiction e non fiction.

Certo, perché usavo la non fiction per la fiction. Esatto, e lui lo ha capito.

Sì, ma io l’ho fatto senza rendermene conto. Lui è stato più perspicace di me.

Lui usa come esempio La muraglia e i libri. La muraglia e i libri è un saggio... no, ma credo che tutto sia più o meno veritiero, anche se... chi lo sa. Si fanno molte congetture.

Ma queste congetture sono trappole, anche se trap­ pole lecite. Che strano, non conosco questo libro.

Si intitola Borges e il cinema.

Ah, non lo sapevo, ma se avesse parlato con me gli avrei detto di dimenticare “Sur”, dove ho pubblicato poco sul cinema, e di fare riferimento soprattutto a “Megafono” (un titolo orrendo) di Sigfrido Radaelli, e all’altra rivista, che era di Carlos Vega, un critico musicale, o musicologo. Portai alla casa Carlos Vega di Paredes e Paredes suonò alcune milonghe che Vega non conosceva, che portavano i nomi di... e di payadores dimenticati. Mi parve molto bello che sopravvi­ vessero in un brano musicale. Noto che quando parla di ciò che farebbe se recuperas­ se la vista, pensa subito ai libri, ma non al cinema. È che, dopotutto, credo che non ci sia nessun film paragonabile all’Enciclopedia Britannica, o a quella di Brokhaus, o all’enciclopedia europea di Garzanti, no? Non credo esistano storie paragonabili alla storia della filosofia.

Eppure lei sembra aver provato un reale interesse per il cinema. Sì, mi piaceva moltissimo, ci andavo due o tre volte a settimana. Ed è anche legato al ricordo di alcuni cari amici, come Manuel Peyrou e Haydée Lange... E Bioy Casares, per esempio.

Certo, credo che siamo andati diverse volte con Silvina Ocampo. Me ne ero dimenticato. Anche ai miei genitori piaceva molto il cinema. Ricordo che una vol179

ta ci sono andato con loro e con Carlos Mastronardi, e cerano dei pianisti al cinema - era il cinema muto, quindi cerano pianisti che cercavano di seguire l’azio­ ne. Ma siccome lo spettacolo non era ancora iniziato, suonarono “El entrerriano” (che in creolo significa tra due fiumi). Allora Mastronardi, che era “entrerriano”, guardò mio padre, entrerriano a sua volta, e disse: dot­ tore, ci hanno riconosciuti.

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Nuovo dialogo su Groussac

Osvaldo Ferrari: Quando abbiamo parlato di Paul Groussac in precedenza, le dissi che avevo la sensazione che lei lo vedesse fondamentalmente come uno stilista. JORGE LUIS BORGES: Sì, credo che il tratto più impor­ tante di Groussac sia lo stile. Ma potrei dire lo stesso anche di Alfonso Reyes. Ciò significa che al di là di quello che disse, usando il suo stile come strumento, c’è lo stile stesso; e creare uno stile non è da poco. Inol­ tre fu il maestro di tutti... mentre lui prese a modello la lingua francese. Penso, credo a ragione, che lo spagno­ lo, il castigliano, non era stato lavorato come il france­ se; o comunque era stato lavorato nel modo sbagliato. Così che egli prese il francese come punto di partenza. E pensò che se il castigliano fosse arrivato alla stessa economia, alla stessa eleganza, alla stessa sobrietà del francese, allora avrebbe fatto un grande passo avanti. E fu proprio quello che accadde, sia che gli scrittori ab­ biano letto Groussac oppure no. È fuori di dubbio che uno dei massimi movimenti della letteratura spagnola fu il modernismo; e come osserva o come fa notare Max Elenriquez Urena nel suo Breve storia del modernismo, tale movimento, che ha poi ispirato grandi poeti spa­ gnoli, proveniva da questo lato dell’Atlantico; visto che grandi nomi come Rubén Dario, che Lugones chiama­ va maestro, lo stesso Lugones e Jaimes Freyre, ma ne potremmo nominare anche molti altri scrissero tutti qui, in America, e il loro lavoro ispirò grandi poeti spa­ gnoli. Ricordo di aver conversato con uno dei più gran­

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di, Juan Ramón Jiménez, e lui mi parlò della meraviglia che avvertì quando lesse il libro Le montagne dell’oro, di Lugones, pubblicato nel 1897. E lui mostrava quel libro ai suoi amici, che pure ne rimanevano meravi­ gliati. Poi Juan Ramón Jiménez arrivò ad essere... un poeta forse migliore di Lugones; ma questo non vuol dire nulla, perché Lugones fu uno dei suoi stimoli. C’è chi dirà che il modernismo non consisteva in altro che imitare Verlaine e Hugo; ma il fatto stesso di portare la musica da una lingua all’altra è difficilissimo, e la prosa castigliana di Groussac è un’eccellente prosa francese, scritta in una lingua che non era mai stata sottomessa a un simile esperimento. Se dovessi scegliere un libro di Groussac... Ne ho scelto uno per una raccolta che sto curando: si tratta di Critica letteraria. Il libro comincia con due mirabili conferenze su Cervantes - il meglio che abbia mai letto su Cervantes. Inoltre in quel libro, in tutto il libro, si prescinde dall’iperbole, dall’affer­ mazione come regola generale; si discute di libri. Uno dei pericoli del castigliano, è che si tratta di una lingua che porta con facilità all’eccesso. Al contrario, nel caso di Groussac, non è così: per lui è uno strumento di precisione, e ci lavorò molto. Il destino di Groussac è fuori dal comune, perché lui avrebbe voluto essere uno scrittore famoso in Lrancia; ma non è ciò che accadde: era destinato a insegnare la sobrietà francese... Nel Rio de la Piata.

E in tutta l’America del Sud, visto che uno dei suoi discepoli fu Alfonso Reyes; uno dei massimi scrittori americani. E vero che allora Groussac scrisse: “Essere famoso in America del Sud non significa smettere di essere uno sconosciuto.” E quando lo disse era vero, ma ora non più, ora uno scrittore sudamericano può essere famoso, ma allora era diverso. Quindi Groussac si sentì defraudato, e non sapeva di aver intrapreso un 182

nuovo cammino, quello che lo avrebbe portato a esse­ re, per così dire, un missionario della cultura francese qui da noi. E fuori di dubbio che la cultura francese ha esercitato un’influenza benefica su di noi, e dopo aver­ la portata qui l’ha portata anche in Spagna; perché, anche se geograficamente la Spagna è più vicina alla Francia, di fatto è molto più lontana di noi dell’America del Sud. Soprattutto allora. E un peccato che lo stu­ dio della cultura francese si sia fermato. Perché si dice che il francese sia stato rimpiazzato dall’inglese, ma non è vero; il francese si studiava proprio per godere della lingua francese, mentre l’inglese non si studia per apprezzare De Quincey, o Shakespeare, o chiunque altro; si studia solo per fini commerciali. E del tutto diverso. Groussac fu anche un’eccellente storiografo, e vorrei ricordare la sua biografia di Liniers, un libro ammirevole; poi ci sono i saggi raccolti ne II viaggio intellettuale. Il titolo non è dei più felici, ma il libro sì, ed è molto più importante, e lo stesso vale per i saggi sulla storia argentina. Tutti questi scritti non sono solo di facile, ma direi piuttosto graditissima lettura, e ciò accadeva in un periodo in cui la lingua spagnola ten­ deva. .. a essere scritta in stile barocco; ossia, uno stile vanitoso. Mentre Groussac non scriveva vanitosamen­ te, ma piuttosto con precisione e anche con ironia. È possibile che quest’idea del francese come modello fu ciò che lo spinse a rifiutare la letteratura nordamerica­ na del secolo passato, per esempio?

Altrimenti non saprei come spiegarlo. Certo. Perché lui aveva un vero e proprio culto di Shake­ speare, forse un’eredità di Hugo; per lui Shakespeare era lo scrittore per eccellenza. Ricordo un suo mira­

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bile studio, sempre in Critica letteraria, su La tempe­ sta di Shakespeare; poi ce n’è un altro su Francis Ba­ con. E Groussac aveva solo parole entusiaste per loro. I suoi libri si leggono con grande piacere. Ho notato che, almeno in questo paese, il gusto per la letteratura spagnola è un gusto acquisito: a nessuno di noi pesa leggere letteratura spagnola; al contrario, per la lettera­ tura francese è diverso; sembra arrivare facilmente, e lo stesso vale per quella inglese e italiana. Ma soprattut­ to la francese. Mentre con la letteratura spagnola non facciamo fatica. Ne parlai con Alfonso Reyes, e lui mi disse che la ragione era semplice: quando uno legge un libro in francese, pensa che è un libro scritto in un’altra lingua da persone di un altro ambiente; e si aspetta che ci siano differenze. Nel caso di un libro spagnolo, poi­ ché la lingua è la stessa, le differenze si notano di più e stupiscono di più. Reyes mi disse: ciò che ci succede con la letteratura spagnola è che ci costa riconoscere ciò che ci distingue e ciò che ci unisce. Al contrario, se ci aspettiamo qualcosa di completamente diverso, per poi scoprire che non è così diverso, anzi, è molto più vicino e gradito, allora ne siamo più che felici.

Per quel libro, per il quale sta selezionando parte dell’opera di Groussac, lei ha scelto, oltre a Critica let­ teraria, anche Dal Piata al Niagara e anche II viaggio intellettuale.

Sì, quelli sono i libri.

Che lei preferisce della sua produzione.

Sì, c’è stata anche una polemica; ma fu presto spen­ ta. Era una polemica con Menéndez y Pelayo su quello che si chiama “Il falso Chisciotte”. Credo che, anche se Groussac non ebbe ragione in quella occasione, ha comunque avuto un merito. Lui attribuì al libro in que­ 184

stione un autore, che poi non risultò essere quello vero, ma la cosa più importante non è l’attribuzione, quanto tutto lo studio sul Chisciotte. E sul fatto... Groussac fu uno dei primi a segnalare, come poi fece anche Lugones, che l’aspetto meno importante del Chisciotte è lo stile. Ed è quello che si è soliti imitare. Piuttosto la cosa più importante è l’invenzione di quel meraviglioso per­ sonaggio, un personaggio ridicolo e amabile allo stesso tempo, Alonso Quijano. A farlo notare fu Groussac, e ciò colpì anche Unamuno, per il quale Don Chisciotte è un personaggio eticamente esemplare.

Certo. Ora, come abbiamo ricordato in precedenza, secondo lei Groussac era umanista, storiografo, ispanista, critico, viaggiatore e civilizzatore.

Certo, senza dubbio un civilizzatore. E deve aver esercitato la sua influenza anche su Lugones. Anche se poi Lugones non ha voluto ammetterlo. Credo che l’influenza di Groussac sia stata benefica e continua ad fare effetto. Ossia, oggi la sua influenza è così diffusa che non è più necessario aver letto Groussac. Ah, chiaro.

Perché ci è arrivata attraverso i suoi discepoli. E diffusa.

Sì, ed è quello che succede con i libri davvero im­ portanti, cioè che in qualche modo finiscono per esse­ re parte della coscienza comune. Così che non importa non averli letti.

Sì. Per ultimo dobbiamo ricordare che voi due avete in comune la Biblioteca Nazionale. Insomma, ‘avere in comune’ è un modo di dire.

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Sì, in qualche modo le nostre vite si assomigliano; in proposito ho anche scritto una poesia. Ma non sa­ pevo, quando ho scritto la poesia, che non si trattava solo di me e di Groussac; ci fu un altro direttore della Biblioteca Nazionale, anche lui cieco.

José Màrmol.

Sì, José Mârmol. E io non sapevo ci fosse questa triplice e sfortunata dinastia, di direttori ciechi della Biblioteca. Ma per me personalmente fu un vantaggio, perché non avrei potuto gestire tre personaggi in una poesia. Al contrario, con Groussac e me soltanto è sta­ to possibile; mentre se si fosse trattato di una trinità, sarebbe stato impossibile. Per ragioni letterarie, sareb­ be stata una trinità piuttosto inspiegabile. Così, fortu­ na mia, ignoravo la storia di Màrmol quando scrissi la poesia. Lei non lo sapeva.

No, e per alcuni è la mia poesia migliore: “La poe­ sia dei doni”, che ruota attorno all’idea che la cecità può, insomma, essere anche un dono. Sì...

Io la penso così e, senza dubbio, anche Groussac lo pensava, e stando nello stesso luogo. Insomma, in qualche modo, anche solo per un istante, sono stato Groussac, e devo ringraziare il destino per questo.

È “Nessuno versi lacrima o biasimo...”

Esatto, sì. Significa che per alcuni istanti io sono stato Groussac; perché ho pensato le stesse cose, e ho percepito la stessa atmosfera, ed ero senz’altro nello 186

stesso studio che era stato anche suo. Ed essere stato Groussac, anche solo in quel momento, è qualcosa per cui ringraziare, o almeno io ringrazio.

E anche Groussac è stato Borges.

Ma, non so se per lui sarebbe stato gradito. Credo di sì. Non so se lui abbia mai avuto alcuna notizia di me. Di mio nonno sì, perché lo menzionava. In un testo parla di “Borges”, e poi in una nota dice: “Borges, colonnello Francisco”. È chiaro che si riferisce a mio nonno. Così se io avessi conosciuto Gorussac, per lo meno il mio nome gli sarebbe stato familiare. Gli avrei detto “Borges” e non sarebbe stata una parola vuota; avrebbe ricordato mio nonno, che si fece uccidere nel­ la resa di Mitre, nella battaglia di La Verde, nel 1874. Come ha ricordato in un’altra occasione.

Sì, e credo che attualmente mi sento molto lontano da mio nonno, e cerco di sentirmi - e non mi costa fa­ tica - più vicino Groussac, visto che per me Groussac è una persona più vivida e meglio dettagliata di mio nonno. E può non essere un caso che abbiate ricoperto lo stes­ so ruolo nella Biblioteca Nazionale.

Non lo so, io speravo mi nominassero direttore della Biblioteca di Lomas de Zamora, ma ho fallito. (Ride.) Mi è comunque toccato essere direttore di una biblioteca del sud. Nel quartiere di Monserrat, ma non a Lomas.

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Ha fallito alla Biblioteca Antonio Mentruyt, ma non a quella Nazionale.

Ah, si chiama Antonio Mentruyt? Sì, si chiama così. Bene, io aspiravo a quel posto; e confidai la mia spe­ ranza a Victoria Ocampo, che mi disse di non essere stupido. (Ride.,) E di scegliere la Biblioteca Nazionale.

(Ride.) Sì, in effetti.

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24

Le lettere in pericolo

Osvaldo Ferrari: Su un giornale di Buenos Aires ho letto una sua lettera intitolata “La cultura in pericolo”. JORGE luis BORGES: Sì, anche se io avrei voluto cam­ biare il titolo, perché “La cultura in pericolo” non suona bene. Avevo pensato di mettere “Le lettere in pericolo”, per evitare la sinalefe, ma forse alla gente interessa di più la cultura, anche solo per come suo­ na il nome, piuttosto che le lettere, che sono un tema un po’ speciale: le lettere fanno parte della cultura, ma non viceversa. Quindi manteniamo questo titolo, un po’ cacofonico “La cultura in pericolo” - perché la parola cultura è una parola un poco antipatica, ma è l’unica che possiamo usare, giusto? -, ed è la parola adatta, al di là delle sue connotazioni grate o ingrate.

Se crede, potrei leggere la sua lettera, così ci può spie­ gare di cosa si tratta.

Ma certo. Lei scrive quanto segue: “Capita di rado che qualcuno voglia essere oggetto di scherno; ma per quanto invero­ simile è il mio caso. Mi è capitato tra le mani un mano­ scritto che parla della riforma - chiamiamola così - degli studi della Facoltà di lettere dell’üniversità di Buenos Aires. Sono dottore emerito in quel luogo.”

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Ecco, vorrei spiegare meglio le mie attività: ho inse­ gnato per vent anni - facciamo cifra tonda - non tanto la letteratura inglese o quella nordamericana, che sono infinite, ma direi l’amore per quelle letterature; o più in concreto l’amore per alcuni scrittori: è sufficiente che uno studente si innamori di un autore e compri i suoi libri perché io mi senta soddisfatto. Non so se le ho già raccontato che qualche tempo fa venni fermato per strada, in calle San Martin, da uno sconosciuto che mi disse: “Borges, devo ringraziarla.” E io ribattei: “Per cosa mi vuole ringraziare?”. Lui mi rispose: “Lei mi ha fatto conoscere Robert Louis Stevenson.” E in quel caso gli dissi che mi sentivo soddisfatto. Ero mol­ to felice perché aver fatto sì che qualcuno conoscesse Stevenson è stato come... aver aggiunto un motivo di felicità alla sua vita. Io, quindi, ho insegnato l’amore non di tutte e due le letterature nella loro interezza, perché ho fallito con molti libri di tali illustri letteratu­ re, ma di alcuni autori e libri sì, o anche solo di un au­ tore. E tanto basta per ritenere svolto il mio compito; il resto è nelle enciclopedie, nelle storie della letteratura: nomi, date... tutto ciò è secondario. Le/ aggiunge anche: “In questa occasione, come in al­ tre, non sono stato consultato.. Certo, le dirò perché ho scritto questo: nominarono José Luis Romero e me professori emeriti. Allora ho chiesto a Romero: “Cosa significa essere emeriti?”. E lui mi rispose: “Davvero non lo so, ma suppongo signi­ fichi consulente.” Ma non sono mai stato consultato, e la sua spiegazione si è così rivelata errata. Forse si trattava di un semplice titolo lusinghiero, una lusinga verbale; mi hanno regalato quella parola sdrucciola: “emerito”. E perché non godersi le sdrucciole, una delle virtù del castigliano, che molte altre lingue non hanno? Ecco, molto bene, sono un professore emerito, 190

anche se non so cosa significhi; pensavo volesse dire pensionato, ma sembra di no, sembra che abbia anche una connotazione lusinghiera, perché “pensionato” ricorda troppo “messo da parte”, mentre “emerito” sembra...

Più lodevole. Sì, più lodevole e meno malinconico. Ora, prose­ guiamo.

Allora, lei scrive: “Non sono stato consultato, ma cre­ do di avere il diritto di dire la mia”, e trascrive il testo che le hanno detto essere in circolazione. Sì, mi dissero dopo che quel testo è un testo esatto, e per quanto straordinario possa sembrare, l’argomento sarà discusso in università.

Il testo è il seguente: “Putte le letterature straniere po­ tranno essere opzionali...” Opzionali significa che si potranno lasciare da parte, giusto? La parola “opzionale” significa proprio questo. “E potranno essere sostituite, per esempio, con la Let­ teratura media e popolare...”

Qui confesso la mia ignoranza. Ma cos’è la lettera­ tura media? Più avanti mi azzardo a dire che potrebbe essere “mediocre”, ma mi hanno detto di no, che si trat­ ta dei best seller; cioè qualcosa che non sembra assomi­ gliare alla letteratura. In ogni caso esclude tutto ciò che può esserci di pedante nella parola letteratura, visto che l’espressione “letteratura media” rende ciò a cui si riferisce più accessibile ed è meno allarmante della sola “letteratura”, che potrebbe essere più solenne. 191

Continuo a leggere: “o si possono sostituire con Mezzi di comunicazione.. Quando leggo questo passaggio, mi vengo subito in mente gli omnibus, le diligenze, i tram e le ferrovie. Ma anche qui mi hanno spiegato che non è così, che si trat­ ta dei giornali, delle riviste - che finiscono per essere piccole antologie - o della radio, e persino della radio­ fonia. Mi sembra strano che la letteratura venga sostitu­ ita dalla radio, ma ormai mi sembra tutto stupefacente. Poi continua: “o si possono sostituire con Folclore let­ terario. ..”

Su questo rifletto in continuazione, ma cosa può essere il folclore se non una serie di superstizioni? E perché fomentarle? Ovvio che si fa perché si pensa al folclore regionale, e a tutto ciò che è regionale con­ trapposto al nazionale, perché ha un certo prestigio in un’epoca come la nostra; sembra che sia molto im­ portante una regione piuttosto che un’altra. Per me no, cerco di essere degno dell’antica ambizione degli stoici: essere cittadino del mondo. Non insisto in modo par­ ticolare sul fatto di essere nato nella parrocchia di San Nicolas, nella città di Buenos Aires.

Continua: “si possono sostituire con Sociologia della letteratura...”

Proprio non so cosa possa essere la sociologia della letteratura. Se fosse una scienza, potrebbe prevedere le cose, ma curiosamente questo tipo di sociologia si ap­ plica alla letteratura che è già stata scritta o che si vuole venga scritta. Il che mi ricorda una battuta di Heine, che disse: “Lo storiografo, il profeta retrospettivo”; de­ finizione che forse venne migliorata da Juan Valera, per cui “la storia è l’arte di profetizzare il passato.” Ed è la 192

verità. Inoltre non so se la sociologia della letteratura ci darà i nomi e, perché no, le date e i titoli dei grandi libri del XXI secolo. Ci dirà, più probabilmente, che quanto è successo era inevitabile, anche se non so fino a che punto il fatto estetico sia inevitabile: credo che nessuno abbia potuto prevedere che nell’anno 1855 un giorna­ lista di Brooklyn, Walt Whitman, avrebbe pubblicato Leaves of grass (Foglie d’erba), un libro che avrebbe in­ fluenzato tutta la letteratura successiva. O ancora che anni prima, in virtù dei cinque racconti che scrisse e che tutti ricordiamo (“I delitti della Rue Morgue”, “La lettera rubata”, “Lo scarafaggio d’oro” e gli altri), nes­ suno, per quanto sociologo fosse, potè prevedere che Edgar Allan Poeavrebbe creato un genere letterario: il genere poliziesco. Un genere che avrebbe avuto cul­ tori illustri come Dickens, Wilkie Collins, Chesterton, Eden Phillpotts, e molti altri; la lista è quasi intermi­ nabile, Nicholas Blake... ecco, molti autori e in tutte le parti del mondo; persino io, con Bioy Casares, ho sperimentato questo genere nei Sei problemi per don Isi­ dro Parodi. Tutto ciò non sarebbe accaduto se Poe non avesse scritto quei cinque racconti, fondativi del gene­ re, in cui si tracciano le leggi che poi sarebbero state seguite; come la scelta di fuggire ogni violenza, di far sì che un crimine venisse risolto tramite la riflessione e l’osservazione, e non come procede di solito la polizia, aspettando che qualcuno faccia una denuncia.

Arriviamo ora alle ultime due possibilità...

Quali sono? Si possono sostituire le letterature straniere con la So­ ciolinguistica e con la Psicolinguistica.

Non posso dire nulla in merito perché per me sono solo due neologismi, e non so se corrispondono ad al­ 193

trettante discipline. In ogni caso sarebbero due disci­ pline così recenti che per molti sono solo ipotetiche. Perché preferire al piacere estetico lo studio di simili discipline, il cui nome è di per sé arido? La sua lettera termina dicendo che, stando alla loro fama, noi argentini siamo ingenui. Ciò significa che è possibile che molta gente creda che questa sia una lista autentica, e che il pericolo sia autentico; quindi che la letteratura verrà rimpiazzata, così come il piacere della letteratura verrà sostituito da discipline che parlano della letteratura. Non è poi così impossibile: sono stato professore per ventanni, molti studenti mi chiedevano una bibliografia. Ma io gli dicevo di no, che non gliela avrei data, perché una bibliografia è posteriore all’opera di uno scrittore; non credo che Shakespeare avrebbe letto le vaste bibliote­ che che sono state scritte su di lui. La prima cosa da leggere è l’opera, ma ora si scrive sull’opera, sui libri, e si scrive su ciò che si scrive; e si scrive su ciò che si scrive su ciò che si scrive... quindi la gente non arriva quasi mai al testo perché è sopraffatta dalla bibliogra­ fia. E questa tendenza continuerà, visto che Samuel Butler ha affermato che, con il tempo, i cataloghi del museo britannico avrebbero colmato il mondo. (Rido­ no entrambi.) Nemmeno parlava dei libri, visto che i cataloghi sarebbero stati troppi. Insomma, siamo in­ tasati dall’erudizione, uno dei principali pericoli del nostro tempo, anche se ci sono molti ignoranti; per­ ché capita spesso che gli eruditi siano ignoranti, o che vogliano conoscere solo l’oggetto del loro studio. La visione generale no, è troppo per loro.

In questo caso vorrebbe dire che l’erudizione inibisce la creatività.

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Sì, forse uno dei vantaggi di studiare, per esempio, le origini della letteratura, è che si perdono tutte le chiacchiere: i nomi degli autori, le date, tutte cose molto importanti per i critici di oggi come il cambio di residenza... Ho letto un libro su Poe, di Harvey Al­ ien, credo, in cui non si legge quasi nulla a proposito di Poe tranne i suoi cambi di residenza. Non c’era dav­ vero molto altro, anche se si trattava di cose irrilevanti: tutti cambiano casa. L’importante è cosa uno scrittore ha sognato, e che libri ci ha lasciato. Tutto questo è stato lasciato da parte per i cambi di residenza, o - nel caso degli psicanalisti - viene sostituito da chiacchie­ re, indiscrezioni sulla vita sessuale... Inoltre si crede che ogni scrittore deve odiare suo padre e desiderare sua madre, o odiare sua madre e desiderare suo padre. Ecco cosa sta prendendo il posto della letteratura, del piacere estetico, che ormai è quasi sconosciuto. Non so se corriamo davvero il pericolo di cui abbiamo parlato, spero di no, spero di essere stato solo ingan­ nato; aspetto una dichiarazione di un qualunque rap­ presentante dell’università che dica - userò una frase che credo sia necessaria - che quel balzano elenco non esiste, e non va preso sul serio. Sarebbe molto triste, poi, che l’università - anche se spesso si sopravvaluta l’importanza delle università - decidesse di sostituire la letteratura con mera sociologia. Ma oggigiorno dob­ biamo temere tutto.

Credo che il contenuto della sua lettera sia stato spie­ gato completamente. Forse, ma credo che dovrebbero apparire più lettere come la mia, di altri scrittori, perché forse il pericolo non è immaginario, ma reale. Allora converrebbe che gli scrittori protestassero. Non voglio citare nomi e co­ gnomi, ma una sola persona legata all’università che si sentisse in obbligo di smentire basterebbe. Ma se ci

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sono altri scrittori con il desiderio di esprimere il loro timore contro un inverosimile, ma non meno possibile pericolo, sarebbe meglio. Boileau disse: “Un fatto certo può, a volte, non essere verosimile”. In questo caso può trattarsi di un fatto certo, ma comunque inverosimile come ho pensato, come cerco di pensare. O il contrario.

Sì, tutto è possibile.

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25 W. B. Yeats (I)

Osvaldo Ferrari: So che anni fa lei ha parlato di un poeta irlandese, che ammira, all’Associazione Argentina di Cultura inglese. Parlo di William Butler Yeats. JORGE LUIS BORGES: Sì, certo, ed è un argomento fe­ lice; Eliot credeva che Yeats fosse il più grande poeta di questo secolo. Aveva questa opinione, che credo di condividere, anche se a me personalmente piace di più un altro tipo di poesia: preferisco Frost, o Browning. Il tipo di poesia che scrive Yeats è, come lei sa, mi verreb­ be da dire verbale, ma tutta la poesia è verbale; nel caso di Yeats, come in quello del suo compatriota Joyce, si nota l’amore delle parole più che la passione; una sorta di sensualità delle parole. Il fatto è che i suoi versi ci im­ pressionano come oggetti verbali, per così dire; al di là di quello che vogliono comunicarci. Abbiamo un esem­ pio nel nostro paese: credo il più evidente sia Lugones, mentre nella letteratura castigliana abbiamo Quevedo e Góngora, che trasmettono questa stessa sensualità ver­ bale, questo amore per le parole. Yeats è un poeta molto più appassionato di Quevedo, ma condivide con lui la sensualità, l’emozione verbale. Ad esempio, “That dolphin-torn, that gong-tormented sea.” Se io traduco: “Quel mare scafato da delfini, quel mare tormentato di gong”, credo che non sopravviva nulla dell’originale. Siamo di fronte a un nonsense, se cerchiamo di capire cosa signi­ fichi; ma quando in inglese si legge “That dolphin-torn, that gong-tormented seal', ci si sente subito feriti, feriti dalla bellezza, e la spiegazione viene solo dopo.

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Bisogna lasciarsi guidare dal suono delle parole. Sì, e forse questo principio si può applicare a tutte le poesie: cioè, la cosa più importante è il ritmo, il suono delle parole; il senso può non esserci o essere dubbio. Mi pare sia secondario. Ho cercato un esempio estremo di Yeats e non tutte le sue poesie hanno questo tipo di espressività; ha scritto anche molte poesie mirabili, di argomenti mirabile. Curiosamente ha cominciato con “Celtic twilight” (Crepuscolo celtico). In sostanza, scri­ veva versi volutamente vaghi che volevano essere soprat­ tutto acustici, e anche visivi. Ma poi lasciò da parte que­ sto genere di poesia nostalgica, languida, e scrisse una poesia più diretta; riscrisse le sue prime poesie. Così, tut­ to quello che poteva esserci di nostalgico, di sentimen­ tale - arrivò ad aborrire il sentimentale - venne messo da parte per uno stile più diretto. Nei suoi ultimi versi, Yeats evita tutto ciò che possa essere considerato troppo deliberatamente letterario. Per esempio, in una stesura di una poesia, aveva scritto: “That star-laden sky', quel cielo carico di stelle. Il che è falso per l’emisfero set­ tentrionale, mentre è vero per quello meridionale; visto che il nostro, il cielo del nostro emisfero, è più carico di stelle. Ora, un’espressione come “star-laden' (carico di stelle) viene percepita subito come una cosa impossibile nel linguaggio orale, e altrettanto in quello scritto, per questo lui decise poi di evitarla. Ma andando sempre alla ricerca molto attenta della forza di ogni parola. Si dice che nei primi tempi, quando era molto giovane, a influenzarlo di più fossero Shelley, Spencer, e l’atmosfe­ ra preraffaellita.

Sì, ma credo che i preraffaelliti fecero di meglio che “Celtic twilight”. Ad esempio Rossetti: c’è una precisio­ ne in Rossetti... (e in Morris c’è un’altra cosa ancora), ma credo in realtà che tutta questa poesia avesse il suo 198

più palese maestro in Tennyson; anche se chi lo seguì fece meglio di lui. Credo sia un caso non così raro, che un discepolo superi il maestro. Che migliori il suo maestro.

Sì, anche, perché non supporre che ci sia una divi­ sione del lavoro? C’è un poeta che inventa una retorica, altri che la usano, e possono usarla meglio di lui. Direi che tra noi il caso classico sarebbe Ezequiel Martinez Estrada; credo che Ezequiel Martinez Estrada sia in­ comprensibile senza Lugones e Rubén Dario. Ma credo che, anche se ci dimentichiamo di questa considerazio­ ne, puramente storica, cronologica, e se prendiamo una poesia, la più bella di ciascuno dei tre, la migliore di tutte risulterebbe essere quella di Martinez Estrada, che venne dopo.

Sì, ed era eccezionale anche nella prosa.

Chi... Martinez Estrada? Sì, non so se lei la pensa così. No, io no, credo che la sua prosa sia più quella di un giornalista. Ma la poesia invece no: la sua poesia mi sembra proprio “la” poesia. Lui era d’accordo con voi, e non con me, visto che disse che la sua poesia non valeva niente. Il fatto curioso è che chi si è preoccupato di elogiare di più la poesia di Ezequiel Martinez Estrada nel nostro paese è stato lei, Borges, perché quasi tutti parlano della sua prosa.

Eppure, se pubblicava libri intitolati Radiografia de la Pampa, non possiamo aspettarci molto da tale prosa, 199

no? È vero che scrisse anche un libro di versi, che si intitolava Titeres de pies ligeros (Marionette dai piedi leggeri), un titolo che non suggerisce nulla di buono; anzi, diciamo che è una minaccia. Eppure contiene poesie splendide: una dedicata a Walt Whitman, una a Emerson, una a Poe, che definisce “i tre astri dell’or­ sa Maggiore” (questo è il titolo che egli dà alla poesia dedicata a Poe). Ma ci sono anche poesie su poeti spa­ gnoli; la sezione si chiama “Torri di Spagna”, e proprio lì, per esempio, ci sono alcune strofe in cui ripete qua­ si pedissequamente gli errori di Lugones. Ma ci siamo allontanati da Yeats.

5z, infatti volevo dirle che nel caso di Yeats c’è una costante nelle sue poesie, ed è la preoccupazione per l’Irlanda. Lei ricorderà, per esempio, l’ultima sua compo­ sizione che si intitola “Under Ben Bulben”, “Sotto Ben Bulben”, una sorta di testamento poetico rivolto all’Irlanda. E prima ancora c’era “A vision”, “Una visione”. Sì, poi ci sono altri temi, più personali. Per esempio quella torre che egli aveva, con una scala a chiocciola; c’è una sua poesia piuttosto strana, in cui lui appare nella torre, si vede una luce nella camera in cima alla torre, e poi ci sono due personaggi delle sue poesie, che si trovano ai piedi della torre; stanno parlando, e uno di loro dice che ha trovato quello che Yeats ha cercato, e che non ha mai trovato. Poi parlano di lui, guardano, e vedono che si è spenta la luce nella torre; e la poesia si chiude, e loro vanno via, perché, ovvia­ mente, in quel momento li sta creando il poeta che scrive alla luce di quella lampada, e che poi si spegne. Un argomento strano, vero?

Certo.

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Sì, molto curioso. Non ricordo come si intitola la poesia, ma ci sono molti versi di Yeats che ricordo a memoria. E poi c’è il contrasto tra lui, un uomo vec­ chio. .. e inoltre, sembra che abbia vissuto una giovi­ nezza molto casta. Ma poi, anziano, sente la nostalgia di quella gioventù turbolenta...

Che non visse. No, che non visse, ma che sente.

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W.B. Yeates (II)

OSVALDO FERRARI: Molte volte, quando parliamo dello spirito o della musa, lei ricorda un concetto di Yeats, quello della “grande memoria”. JORGE LUIS BORGES: Sì, si suppone che Yeats inventò questo concetto per giustificare la sua vita, la sua gio­ ventù tranquilla e la sua mancanza di esperienze di­ rette, diciamo, dell’amore fisico. Allora Yeats s’inventò che le esperienze immediate, le esperienze personali, non sono necessarie, perché tutti gli individui eredita­ no “la grande memoria”, che poi sarebbe la memoria della specie; o più in concreto, la memoria che si eredi­ ta di tutto quello che hanno vissuto i genitori, i nonni, i bisnonni; e così fino all’infinito, in una progressione geometrica. E lui definì tutto questo “la grande me­ moria”, una sorta di vasto deposito dei ricordi che cia­ scun individuo eredita alla nascita. Ma poi, negli anni della maturità e della vecchiaia, gli piaceva pensare alla sua memoria personale, che poi era un passato fittizio. Ma in fondo è quello che facciamo tutti con il passato; quello che immaginiamo non corrisponde esattamente a quello che abbiamo vissuto.

O anche a quello che fanno i poeti.

Sì, quello che fanno i poeti. Allora, Yeats creò una memoria di amanti del tutto ignoranti, possiamo dire; senza il loro amore e le esperienze immediate. Disse: la conoscenza è la decrepitudine corporale, la decrepi-

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tudine fisica; quando eravamo giovani, ci amavamo ed eravamo ignoranti. Ma ciò corrisponde a una sua falsa memoria, ed è uno dei temi della sua poesia. Assomiglia a una frase di Wilde, per il quale “espe­ rienza" è il nome che diamo ai nostri errori, alla cono­ scenza dei nostri errori.

Sì, ha qualche corrispondenza. Credo che Yeats so­ pravvalutò in maniera considerevole il valore di “La ballata del carcere di Reading” di Wilde. A me sembra una ballata molto imperfetta, e piena di falsità; come quando Wilde paragona le nubi a navi dalle vele d’ar­ gento. Un particolare del tutto estraneo ai pensieri di un prigioniero, sembra del tutto falso; e poi il tema principale della “Ballata del carcere di Reading” mi sembra falso: la coscienza della morte come una pre­ senza che circonda i condannati, non credo che... in ogni caso, non mi sembra verosimile. E lo stesso vale per il linguaggio: il linguaggio a volte è colto, a volte deliberatamente popolare, e la combinazione non è sempre delle più felici. Ma direi che l’opera migliore di Wilde è proprio la sua poesia, che potremmo defi­ nire decorativa, e non la ballata, che sembra sospesa a metà strada tra il realismo delle ballate di Kipling e il fantastico di altre ballate, come la famosa “Rime of the Ancient Mariner” (“La ballata del vecchio marinaio”) di Coleridge, che è puramente fantastica.

Tornando a Yeats, c’è un aspetto che forse può spie­ gare, nella sua poesia, cose che non immagineremmo fossero suo interesse, come la teosofia. Ad esempio lei ricorderà la poesia “A vision”, che probabilmente è ispi­ rata dalla teosofia occulta e al misticismo cui era dedito. No, non ricordo quella poesia.

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Ma ricorderà che frequentò il circolo di Madame Bla­ vatsky. Sì, fece parte di quella società che si chiamava “The golden dawn”, l’alba d’oro. Che qui si conosce solo per un verso di Rubén Dario: “Pero es mia el alba de ora" (“Ma è mia l’alba d’oro”); e si pensa che “l’alba d’oro” si riferisca alla giovinezza, all’adolescenza. Senz’altro usò tale espressione in questo senso, ma la prese dal nome del circolo di Madame Blavatsky, autrice del li­ bro Iside, uno dei libri che leggeva e rileggeva Ricardo Giiiraldes.

Si, c’è anche un libro di Villiers de L’Isle Adam che si intitola Iside. Credo che Iside venga menzionata anche nel Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer. Mi sembra che il testo sia preso da Plutarco. Lui parla di un’immagine di Iside, che dice: “Sono tutto ciò che è, tutto ciò che fu, tutto ciò che sarà, e nessun mortale ha mai sollevato il mio velo.” Ah, è bellissimo. E Schopenhauer lo collega a una frase, molto più bel­ la, che si trova in Jacques le fataliste (Jacques il fatalista) di Diderot: arrivano Jacques e il suo padrone, che vive­ vano in un immenso castello, e sulla facciata del castello c’è un’iscrizione del tipo: “Voi eravate qui prima di ar­ rivare, e quando ve ne andrete resterete qui.” E la stessa idea, ma espressa meglio. E Schopenhauer ci fa notare la straordinarietà del fatto che in questo racconto si tro­ vi proprio questa frase. Forse l’ha inventata Diderot, o forse l’ha letta in qualche libro antico, visto che a quel tempo si potevano fare citazioni senza metterle tra vir­ golette. Erano fatte per essere riconosciute dai lettori,

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non per ingannarli. Alfonso Reyes ha scritto una difesa delle citazioni, e anche dei plagi e delle allusioni: dice che sono una strizzata d’occhio rivolta al lettore.

Un segnale di intesa.

Sì, cioè si cita una frase non per ingannare, non per imitare un autore antico, ma perché il lettore condivida il ricordo con l’autore. Certo. Forse questa inclinazione teosofica di Yeats può spiegare perché in molte delle sue poesie troviamo miti, o leggende celtiche, per esempio.

Sì, è curioso; allo stesso modo, per citare il caso più famoso, pensiamo alla Divina Commedia in cui c’è quella che possiamo chiamare una “mitologia cristia­ na”; la troviamo insieme alla mitologia greca. Ad esem­ pio, nell’Inferno c’è il minotauro, ci sono i centauri; ovvio che questo non appartiene alla “mitologia cristia­ na”, di cui però fanno parte i santi, o le vergini, o quel che è; allo stesso modo Yeats combina mitologia celtica e mitologia greca. Forse, nel suo miglior sonetto, uno dei migliori in lingua inglese - quindi uno dei migliori del mondo - che si intitola “Leda e il cigno”. È un tema trattato molte volte, ma Yeats lo fa in maniera comple­ tamente diversa fin dal primo verso, perché sempre, sia i pittori che i poeti, hanno immaginato Leda seduta sulla riva del mare, o di un lago, e il cigno che le si avvicinava tranquillamente. Al contrario, nel caso di Yeats non è così: l’uccello, che immaginiamo enorme, il cigno, che è Zeus, cade dal cielo e la stende a terra. Leda.

Leda, sì; e c’è un momento in cui scrive: “The feath­ ered glory", la gloria alata; la stende a terra, e c’è un 206

momento in cui i due sono uno; quando il cigno, che è anche Zeus, la possiede. Allora il poeta immagina che in quel momento lei è, in un certo senso, Zeus; ossia, arriva a conoscere il passato, il presente e il fu­ turo. In quel momento, visto che Leda è la madre di Elena, in quel momento dice: “Brucia Troia”. In quel momento, prima che l’animale indifferente la lasci an­ dare, poiché l’animale è allo stesso tempo un dio, lei vede tutto: vede le mura di Troia in fiamme, e vede anche Agamennone morto. E lui si chiede se, nel mo­ mento in cui lei sentì il potere del dio, la passione del dio, lei possedette anche la conoscenza del dio, prima che la lasciasse andare indifferente. Si tratta di uno degli ultimi sonetti di Yeats, e pare che lo dettò alla sua segretaria, che venne debitamente scandalizzata dall’argomento. E curioso, ma c’è un poema di Dante Gabriel Rossetti, anteriore a quello di Yeats, con lo stesso schema, perché fa riferimento alla storia di Ele­ na; ma in quell’antico presente, che ora è passato, lui vede il futuro, che ora è pure passato. Rossetti, mentre racconta la storia di Elena, prevede un fatto... il cen­ tro della poesia è il fatto che Paride si innamorerà di lei; e in quel momento, quando Paride si innamora, Troia è ormai condannata. Troia sta bruciando, e lui dice: “L’alta Troia è in fiamme”. Ossia, si mescolano le due cose. Il mito anticipa la realtà. Sì, il mito anticipa la realtà, e senza dubbio Yeats conosceva questa poesia, imitò Rossetti e fece meglio di lui nel componimento su “Leda e il cigno”, visto che anche i simboli sono gli stessi: Elena e Troia. Tut­ to è sullo stesso piano temporale. Anche i due tempi così lontani tra loro: un presente e un futuro, anche se remoto, vengono rappresentati contemporaneamente.

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A questo punto potremmo ricordare l’affetto e la de­ dizione di Yeats per il teatro, perché in qualche modo le scene sono teatrali. Sì, sono teatrali, anche se sono descritte in un so­ netto.

5z, parlo delle scene. Sì, e infatti questo avrebbe potuto essere anche un tema teatrale; e forse, in maniera anche più efficace, se esiste qualcosa di più efficace di certi sonetti di Yeats.

Nozz credo.

Ne dubito anch’io. Significa che per Yeats entram­ be le mitologie erano egualmente vive: la mitologia celtica, che aveva appreso con lo studio, e la mitolo­ gia greca, che tutti i poeti ereditavano naturalmente; a differenza di altre mitologie, che richiedono studi particolari: quella scandinava, per esempio, o meglio, quella islandese, che Wagner studiò in Germania; ve­ niva dall’ultima Thule, dalla lontana Islanda.

Yeats si interessò anche del teatro giapponese. Sì, perché vide in quel teatro un teatro, per così dire, volontario e quasi artificiale in modo ostentato. Un teatro che in nessun momento cerca di rispecchia­ re ciò che chiamiamo realtà, quotidianità. Lui vide quel teatro e... insomma, io l’ho visto - visto, nel mio caso, è una metafora -; ma ho assistito a rappresenta­ zioni di teatro giapponese, e al principio erano quasi insopportabili: per la lentezza, per la musica che mi era quasi del tutto estranea.

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Questo in Giappone. Sì, in Giappone, quando hanno deciso che dovessi passare un’ora a teatro, ma senza volere ci siamo rima­ sti tutta la mattina e tutto il pomeriggio; fino al calar della notte siamo rimasti ad assistere. E alla fine... non potevo spiegare razionalmente cosa vedevo, ma mi catturava sempre più. E la lentezza, la curiosa len­ tezza degli attori. Per esempio, si pensa che un attore debba avvicinare il braccio al volto, per poi abbassarlo lentamente, e tutto questo può durare dieci minuti. Inoltre si esprimono con lentezza, con voci che posso­ no sembrare terribili a noi. E il pubblico segue tutto, perché la sala è illuminata, le persone hanno la par­ titura e le parole, e le seguono. Il pezzo teatrale, che sanno tutti a memoria, e seguono, e osservano come lo interpreta ciascun attore; e ci sono attori famosi.

Del tutto diverso, e innovativo. Sì, è diverso e innovativo, eppure lo sanno tutti a memoria.

Dico innovativo a confronto con il teatro occidentale. Certo. A proposito, nei giorni scorsi ho assistito a una rappresentazione di Macbeth, di Orson Welles, e ho notato come Welles omette di proposito i versi più famosi, perché sa che sono già impressi nella memoria del lettore, che il lettore se li aspetta, e che non è ne­ cessario che li reciti.

Certo. Non posso omettere un dato, che si verifica nel 1923, quando forse questa elezione era presa con mag­ gior serietà di adesso: Yeats riceve il Premio Nobel. Lo ricorderà.

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No, ricordo il ’23 per un fatto molto meno impor­ tante, un fatto infimo: la pubblicazione del mio primo libro.

Fervore di Buenos Aires. Forse nel ’23 non avevo notizia di Yeats, anzi è molto probabile. Lo avrò saputo dopo. È possibile, certo.

Sì, le cose accadono in maniera lenta e graduale, anacronisticamente, come i fatti.

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Il pensatore letterario

Osvaldo Ferrari: Mi è sembrata sbagliata la convin­ zione di chi crede che lei non è un pensatore, perché ha meno a che fare con la filosofia e più con la letteratura.

Jorge luis Borges: La filosofia, per così dire, come insieme di dubbi, di titubanze. Un professore argenti­ no, di cui non voglio ricordare il nome, faceva studiare agli alunni una specie di catechismo, e loro dovevano rispondere sempre parola per parola. Ossia, doveva­ no imparare tutto a memoria, non dovevano capirlo o pensare a variazioni sui temi. La prima domanda era questa: “Cos’è la filosofia?”; e gli si doveva rispondere esattamente così: “Una conoscenza chiara e precisa.” Non precisa e chiara. Questo è evidentemente falso: se le dico che la continuazione di Calle Perù si chia­ ma Florida, e la continuazione di Bolivar si chiama San Martin, allora si tratta di una conoscenza chiara e precisa, di scarso o nullo valore filosofico. Strano che qualcuno che redige un testo non se ne renda conto. Lo avrà fatto in gran fretta; per poi pretendere che venga ripetuto. Se gli dicevano “Una conoscenza pre­ cisa e chiara”; nossignore, non precisa e chiara, chiara e precisa, lei non ha studiato. {Ridono entrambi.) Era un professore di filosofia della facoltà di Lettere e Fi­ losofia dell’Università di Buenos Aires, e iniziava com­ mettendo un errore logico così ovvio, così scandaloso come quello. Come può la filosofia essere una cono­ scenza chiara e precisa, se è la conoscenza di una serie di dubbi e di spiegazioni contradditorie? 211

Iniziava in maniera antifilosofica. Iniziava in maniera antifilosofica, sì; come può la storia della filosofia essere una conoscenza chiara e precisa? No, si impara che ci sono stati, non so, cinque o seimila pensatori, che hanno considerato l’universo o la vita in maniera totalmente diversa. Dal momento in cui c’è una scuola filosofica, e c’è un nome che la distingue dalle altre, allora è evidente che non si trat­ ta di una conoscenza chiara e precisa. Si tratta di una serie di dubbi. Ricordo che De Quincey disse che aver scoperto un problema non è meno importante che aver scoperto una soluzione. Ed è giusto.

Molto giusto. Ma lei ha esposto quello che definirei un pensiero letterario, che ci avvicina alla verità o alla realtà in maniera diversa; la sua visione del destino, in particolare della predestinazione che è sottesa alla vita di ciascuno, contrapponendolo alla sorte, per esempio.

Sì, ma la credenza nella predestinazione non signifi­ ca che qualcuno la conosca; significa piuttosto che c’è come un meccanismo, per così dire, spietato. Quindi se ogni istante è determinato dall’istante immediatamen­ te precedente, allora c’è un meccanismo; ma questo non vuol dire che ci sia qualcuno che lo conosca o che lo preveda. Significa che c’è qualcosa che sta operando al di là di noi, o forse siamo noi stessi questa operazio­ ne. Certo, anche questa è una congettura, visto che non si può provare.

Ma è corretto così, sifanno congetture, a differenza del professore di filosofia che conosceva. Sì, certo che sì.

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Lei è solito parlare dell’ordine o del cosmo come op­ posti al caos.

Certo, visto che il cosmo è ordine e il caos sarebbe il contrario. A proposito, non so se abbiamo parlato della parola ‘cosmetica’, che ha la sua radice in cosmo, e vuol dire ‘piccolo ordine’, il piccolo cosmo che una persona impone al suo volto. La radice è la stessa, così che io, per esempio, che non uso cosmetici, sarei piuttosto un caotico, giusto? (.Ridono entrambi.) Forse la mia faccia è caotica. (Ridei) Si dice anche che la coscienza, da den­ tro, modelli il volto. Ah, che bello. Sì, e ricordo una frase che viene attribuita a Lincoln; lui aveva bisogno di un segretario, così gli portarono, non so perché, una serie di fotografìe, e lui ne vide una e disse: no. Qualcuno replicò: ma questo signore non è responsabile del suo volto. E Lincoln spiegò: compiuti trentanni, ogni uomo è responsabile del suo volto; ed è più o meno la stessa idea. Come quando si dice: il viso è lo specchio dell’anima, il concetto è ancora lo stesso, solo che viene detto in maniera meno eclatante. “Ogni uomo è responsabile del suo volto.”

Lo dicevano i greci e lo diceva Leonardo da Vinci. Il volto, sì.

Di solito lei afferma che nella nostra epoca si è persa l’idea che forse siamo guidati da qualcosa di superiore o cosmico, sembra che il nostro stile di vita consista nel vivere in qualunque modo.

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Il risultato è sotto gli occhi di tutti, inoltre credo che non ci siano dubbi in merito. Ora che ci avvici­ niamo alla fine del secolo, ho la sensazione che que­ sto sia un secolo povero in confronto al XIX seco­ lo. E forse il XIX secolo fu povero a confronto con il XVIII. Comunque so già che questa divisione in secoli è arbitraria, e so anche che ogni secolo forse dovrebbe essere giudicato da quello successivo, che è stato introdotto dal precedente. Così un argomento forte contro il XIX secolo, è che ha generato il XX secolo; e un argomento forte contro il XVIII secolo è che ha prodotto il XIX. Anche se la divisione dei se­ coli è del tutto arbitraria, però sembra che il pensiero abbia bisogno di queste convinzioni.

Questa suddivisione del tempo.

Sì, sembra sia necessario suddividere, anche se sap­ piamo che le generalizzazioni sono false; il che è a sua volta una generalizzazione. Poco fa lei diceva che una delle cose di cui dovremmo lamentare la perdita è il senso cristiano del bene e del male nella nostra epoca. Non solo cristiano, visto che il senso di bene e male è precedente al cristianesimo, l’etica... È in Platone, per esempio.

Sì, e credo che la parola “etica” fu professata da Aristotele, che non doveva certo avere una conoscen­ za profetica del cristianesimo. Credo che sia un istin­ to che abbiamo tutti, e che quando agiamo, sappiamo se agiamo nel bene o nel male; al di là delle conse­ guenze, che possono essere positive o pregiudiziali o diaboliche.

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Eppure, come potrebbe consolidarsi un’etica che non ha a che vedere con il bene e con il male? Per esempio, potrebbe esistere un’etica con il solo senso giuridico? No, inoltre, se si legge Billy Budd è chiaro il contra­ rio, visto che quel mirabile racconto di Melville parla del conflitto tra giustizia e legge. La legge è un tenta­ tivo di codificare la giustizia; ma molte volte sbaglia, com’è naturale.

Lei sembra provare un apprezzamento superiore per l’etica, nel senso che secondo me per lei potrebbe essere più importante avere un’etica invece che una religione. E avere una religione è avere un’etica; un’etica aiuta­ ta o pregiudicata da una mitologia. In questi casi pre­ ferisco prescindere dalla mitologia.

(Ride) Sì... Credo che in Giappone ci sia quest’idea, visto che, per esempio, l’imperatore e quasi tutto il popolo, tutte le persone sono shintoiste e buddiste. Anche se sono due credenze molto, molto diverse: il buddismo è una filosofia, mentre lo shintoismo implica il credo in una sorta di panteismo; perché ci sono circa otto milioni di dei che vanno da una parte all’altra, possiamo sospet­ tare che Omnia sunt piena Jovis, tutto è pieno di Gio­ ve, o piena di divino, come scriveva Virgilio. Credo ci sia stata una disputa tra gesuiti e pastori protestanti, che potevano essere evangelici o metodisti, o quel che è, sul numero di conversioni che avevano ottenuto. Poi venne fatta una statistica e si scoprì che il numero di conversioni era uguale. Quindi che le persone erano buddiste, shintoiste, cattoliche, protestanti, mormoni, a volte, insomma: si comprendeva che tutte le religioni sono espressioni della stessa verità, quindi sarebbero 215

anche espressioni diverse dell’etica. È vero però che l’etica è diversa in ciascun caso, e comunque non è del tutto uguale.

Questo sì mi sembra un pensiero molto suo, Borges: l’estensione dell’etica alla religione o la religione come parte integrante dell’etica. Una volta diceva che la cosa più importante in un dialogo è lo spirito dell’indagine. Sì, per questo l’idea, che si trova anche in Platone, perbacco, l’idea che qualcuno vinca in una discussio­ ne è un errore, perché dopotutto, cosa importa? Se si arriva a scoprire la verità, poco importa che venga da “a”, da “b”, da “c”, da “d” o da “e”, l’importante è arrivare alla verità o indagare la possibile verità. Ma in generale si guarda alla conversazione come a una po­ lemica, quindi ci si aspetta che qualcuno vinca e che qualcun altro perda, il che è un modo per distoreere la verità o comunque per renderla impossibile. La pura vanità personale di avere ragione; perché desiderare di avere ragione? L’importante è arrivare alla ragione, e se qualcuno ci aiuta, meglio.

La preoccupazione per la verità sembra essere più ti­ pica dei filosofi che degli artisti. Gli artisti sembrano più preoccupati della realtà, o di quella che Platone chiama “la reale realtà". Sì, ma non so se sia diverso. Certo.

Credo che uno scrittore debba essere etico, nel sen­ so che se racconta un sogno, se narra una favola, un racconto fantastico o di fantascienza, deve credere in quel sogno. Insomma, sa che storicamente non è rea­ le, ma deve essere qualcosa che la sua ragione accetta; 216

anche il lettore si rende conto se la sua immaginazione lo accetta oppure no, visto che il lettore scopre subito le falsità in un’opera: credo che chiunque, leggendo, si renda conto se l’autore lo ha immaginato, o se sta semplicemente giocando con le parole; se uno è un buon lettore, lo avverte immediatamente. Sono sicuro di non essere un bravo scrittore, ma credo di essere un bravo lettore (.ride), ed è anche più importante, visto che si dedica poco tempo alla scrittura e molto alla lettura. Anche se nelle mie condizioni non posso farlo direttamente. Nessuna delle due cose: devo farlo at­ traverso altri occhi e altre voci. Non sono d’accordo con lei sulla prima parte, credo che lei si equivalga in entrambi i ruoli.

Parlando di lettura, mi sono ricordato, come faccio sempre, del Chisciotte. A giudicare da quanto racconta Cervantes, l’unica cosa che accadde ad Alonso Quijano furono i suoi libri. C’è anche un vago amore per Aldonza Lorenzo, e l’eventuale amicizia con Sancho; un’amicizia molto discutibile, e non sempre facile, e sembra che don Chisciotte non abbia avuto un’infan­ zia, lo incontriamo quando ha cinquantanni e la pri­ ma cosa che sappiamo è che era un lettore. Esatto.

Sembra che i libri furono quanto di più importante gli accadde nella vita, visto che la decisione di Alonso Quijano di diventare Don Chisciotte viene da Amadigi di Gaula, da Palmerin d’Inghilterra, dai romanzi cavallereschi che aveva letto.

La fede e la mancanza di fede potrebbero essere, for­ se, due cammini personali, due modi di avvicinarsi alla verità. 217

Sì, credo di avere fede in sostanza. Ho fede nell’eti­ ca e anche fede nell’immaginazione; anche nella mia immaginazione. Ma soprattutto ho fede nell’immagi­ nazione degli altri, in quello che mi hanno insegnato a immaginare. Blake credeva che la salvezza è triplice: il primo esempio è quello di Gesù, che crede che la sal­ vezza è etica. Quindi che un uomo si salva grazie alle sue opere. Poi ci sarebbe Swedenborg, che aggiunge il concetto della salvezza intellettuale: lui immagina il paradiso come un luogo dove gli angeli discutono all’infinito di teologia. Poi c’è Blake, discepolo ribelle di Swedenborg, dello svedese, e sostiene che la salvez­ za debba essere anche estetica; afferma proprio: “The fool shall not enter into heaven, let him be ever so holy” (Lo stolto non entrerà in paradiso, per santo che sia). Pensava che la salvezza fosse anche estetica. E quan­ do pensava a Gesù, credeva che anche Gesù avesse insegnato la salvezza estetica attraverso le sue parabo­ le, poiché si esprimeva non con la ragione ma con le parabole, quelle parabole sono opere d’arte. Così so­ steneva che Cristo avesse insegnato anche la salvezza intellettuale e quella estetica. Pensava che l’uomo che si salva del tutto è colui che si salva eticamente, in­ tellettualmente ed esteticamente. Quindi ogni uomo deve essere un artista.

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Il tempo

OSVALDO FERRARI: Borges, lei si è occupato molte volte dell’idea di tempo e della concezione di tempo che ave­ vano vari pensatori. JORGE LUIS BORGES: Sì. E in una delle nostre conversazioni è arrivato a dire che il tempo è più reale di noi, o che la nostra sostanza è il tempo, che siamo fatti di tempo.

Ne sono convinto, ed è una forma di idealismo, vi­ sto che per i materialisti l’essenziale è lo spazio; l’es­ senziale sono, per così dire, gli atomi. Al contrario, per un idealista non è così: l’essenziale è quel sognarsi che chiamiamo tempo, è il processo cosmico; e non il fatto che tra le nostre molte esperienze ci siano spazio e tempo. Capisco. Sì, così che quando dico che la nostra sostanza è il tempo, intendo dire che sono un’idealista, che credo che la cosa più importante è la progressione prima, durante e dopo; questo è l’essenziale. Potremmo pen­ sare che questo sognarsi sia impersonale. Cioè nello stesso modo in cui si dice “piove”, e non c’è un sog­ getto per la pioggia; sta solo piovendo, e cade acqua, potremmo pensare a un sognarsi senza il sognatore.

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Ah, certo.

Intendo che potremmo pensare a un verbo senza un soggetto attivo. Ma è difficile per le persone, sembra loro impossibile che ciò possa accadere; eppure po­ trebbe essere. C’è una frase di Shaw che ripeto spesso, che è “God is in the making , Dio è nel farsi, Dio si sta facendo. E questo farsi del tempo sarebbe ciò che chia­ miamo processo cosmico, o più modestamente, storia universale. Tutto il processo cosmico, senza escludere la nostra conversazione di questo pomeriggio, e il fat­ to che ci siano persone che stanno sognando, vivendo altre cose: questo è il “farsi” di Dio. Una conseguenza importante della frase di Shaw sarebbe che Dio, se­ condo la frase, non è un essere che è già esistito o che sta esistendo; se Dio si sta facendo, allora è, per noi, in ogni caso, nel futuro e non nel passato. Quindi tutto il processo cosmico è rivolto a Dio. È l’idea di Rilke, certo.

Che andiamo verso Dio. Scoto Eriugena e altri an­ cora, pensarono che al principio è Dio, che poi Dio si ramifica, diciamo così, in tutte le creature: minerali, vegetali, animali; e anche umani. Ma che poi, una vol­ ta conclusa la storia universale, tutti questi tornano a Dio. C’è una bellissima poesia di Victor Hugo che si intitola - e già il titolo è una poesia - “Ce que dit la bouche d’ombre”, “Cosa dice la bocca d’ombra”; ed è una sorta di riassunto della storia universale. E, nel fi­ nale, suppone che tutte le creature tornino a Dio. Ciò sarebbe in accordo con l’idea che anche il diavolo torni a Dio; il male torna a far parte del processo cosmico. Hugo la vede a modo suo, nel suo stile visivo, Hugo vede i mostri, i leviatani, i draghi, l’angelo oscuro, l’an­ gelo nero, Satana; e tutti tornano al divino. Curiosa­ mente, senza altri riferimenti teologici, c’è un dramma,

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il Pentateuco metabiologico, Torniamo a Matusalemme, di Bernard Shaw, che si rivela essere una storia univer­ sale, perché inizia nel giardino del Paradiso terrestre con Adamo ed Èva; e nell’ultimo atto tutto torna alla divinità. Quindi Shaw, senza volerlo, sarebbe tornato a sognare il sogno dell’altro irlandese del IX secolo, Scoto Eriugena, che aveva tradotto dal greco Dionigi Aeropagita, e il cui schema sarebbe diventato quello di Shaw: tutta la creazione, tutte le creature partono da Dio; e dopo un lungo e intricato processo cosmico, tornano al divino. Che strani quei due irlandesi; e non so nemmeno se Shaw conoscesse Scoto Eriugena, forse no, ma lo schema è lo stesso. Lo schema di Back to Matusalen {Ritorno a Matusalemme} di Shaw, è lo schema del trattato di Scoto Eriugena.

Curioso.

Sì, due irlandesi e con la stessa visione del mondo: un mondo la cui sorgente è Dio, e il cui mare, per pa­ rafrasare Jorge Manrique, è sempre Dio. Vale a dire, si comincia dalla divinità; segue un processo attivo fatto molto complicato, con tante discordie e tante guerre; poi si torna alla divinità. Quindi, nel dramma di Shaw, appare Lilith, che sostiene di riuscire a vedere tutto questo ma non oltre. Così che la storia universale, che sarebbe il tema del dramma di Shaw, in cui non man­ cano certo passaggi divertenti e satirici, è il ritorno delle cose a Dio; apocatastasi, credo si dica in greco, ma il mio greco è povero. Così che accadrebbe questo, e a quel punto la nostra sostanza sarebbe il tempo o sarebbe Dio. E curioso che prima, nei suoi saggi sulla refutazione del tempo...

Quel saggio era un esercizio di logica... 221

lnsomma, un grande gioco...

Una prova di questo è il titolo, ironico, visto che si chiama: “Nuova refutazione del tempo”. Se il tempo non esiste, la refutazione non può essere nuova né tan­ tomeno antica. Così che già il titolo indica che si tratta di uno scherzo: nuova, il che implica già il tempo, e poi: refutazione del tempo; e la parola tempo non ammette non tollera l’aggettivo ‘nuova’, né quello ‘antica’, perché se il tempo non esiste niente è nuovo o recente, e niente è passato, presente o futuro, e nemmeno congetturale. Eppure risponde a uno studio molto serio fatto da lei all’epoca.

Non so se fosse molto serio, credo fosse solo un gio­ co logico. Ma lo presi sul serio, e comunque lo mandai in stampa... Mandie Molina Vedia disegnò un orolo­ gio di sabbia per la copertina, ma non venne mai mes­ so in vendita. Poi venne incluso in... In Altre inquisizioni. Sì, fu incluso in Altre inquisizioni.

Nell’introduzione lei sostiene la posizione di Juan Cri­ sòstomo Lafinur, verso quello che definisce “purificare la filosofia dalle ombre teologiche.”

Non ricordavo questa frase. Ma è un motivo in più per avvicinarmi al mio trisavolo Juan Crisòstomo La­ finur. Penso che tra i miei tanti antenati, non avrei po­ tuto conversare con nessuno di loro. Basti pensare a quanto sarebbe stato difficile parlare con il colonnel­ lo Isidoro Suarez, o con il generale Miguel Estanislao Soler; non penso ci sia qualcosa di più difficile di un dialogo con i militari. Al contrario, Juan Crisòstomo 222

Lafinur fu poeta, scrisse... una bellissima elegia per la morte di Belgrano, che contiene almeno alcuni versi ben riusciti; fu, come disse Gutierrez, il poeta classi­ co del movimento romantico, visto che venne prima di Echeverria. E suoi versi sono classici e romantici allo stesso tempo. È raro trovare versi eufonici come i suoi, scritti in questo paese nel 1820. Sembra rarissi­ mo, visto che i poeti mancavano quasi completamente d’orecchio, a giudicare da un altro mio antenato, Luis de Tejeda, che scrisse un libro con un bel titolo, anche se sembra terribile: Il pellegrino a Babilonia. Ma disgra­ ziatamente non si limitò al titolo, ma scrisse anche il poema, cacofonico e sconclusionato. Ma ci siamo al­ lontanati dal tempo, che è più importante di Juan Cri­ sòstomo Lafinur. Dicevo che, a differenza di ]uan Crisostomo Lafinur, lei, negli ultimi tempi, non smette di includere la visione religiosa o mistica nel suo pensiero, come prima abbiamo visto in Shaw e in altri.

È che davvero si ha bisogno di una religione. La par­ te difficile sono i dogmi; per questo credo che potrei essere, anche se con molte difficoltà, buddista, perché il buddismo non ha bisogno di una mitologia. Il buddi­ smo richiede fede nell’etica, forse nella trasmigrazione, ma di certo, nell’etica, e non impone nessuna mitolo­ gia. È così vero che ho avuto una discussione con il pit­ tore giapponese Kazuya Sakai, perché, sapendo che era buddista, gli parlai del fatto che il Budda fosse nato in Nepal circa cinquecento anni prima dell’era cristiana; e lui si arrabbiò molto con me perché negava la storici­ tà di Budda. Ossia, l’importante era la dottrina e non l’esistenza o meno del Budda. Al contrario il cristiane­ simo ci impone una mitologia molto difficile; intendo, supporre che Dio abbia scelto di diventare uomo, sup­ porre il sacrificio di Dio sulla croce che ci ha salvati; 223

che un uomo possa salvarsi grazie al sacrificio altrui. È tutto molto, molto difficile. Troppo antropologico?

Sì, troppo difficile. Al contrario il buddismo può ac­ cettare molti dei; in Giappone si può essere shintoisti, e credere in otto milioni di divinità, ma anche alla dot­ trina di Budda, ma l’importante è credere nella dot­ trina di Budda, mentre si può prescindere dagli dei. Il cristianesimo esige molta mitologia: soprattutto quella di un dio personificato; o peggio ancora di un dio tri­ no. Tutto ciò va oltre la mia capacità di comprendere perché è troppo grande. Se Dio è il Padre e il Figlio, vuol dire che per trentatré anni si è preso una vacanza sulla terra, no? Perché continuava ad essere Dio in cie­ lo, e allo stesso tempo era un uomo sulla terra, e cono­ sceva i piaceri e i dolori della condizione umana. Oltre poi al dolore fisico della croce. Tutto questo sembra impossibile da concepire: o almeno lo è per me.

Certo, ma in ogni caso lei sa che c’è una differenza molto grande tra ciò che offre la teologia e ciò che offre la fede.

Ah, credo di sì. C’è chi pensa che la teologia abbia che vedere con la declinazione della fede, perché si tratta di un momento in cui la fede ha bisogno di spiegarsi a se stessa. Una cosa che è stata detta, ed è stata osservata molte volte, è che in India non ci sono prove della trasmigra­ zione delle anime; perché le persone ci credono spon­ taneamente. Quella è fede.

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Al contrario credo che esistano quattro o cinque prove dell’esistenza di Dio. Il che dimostra che i te­ ologi non sono molto sicuri, visto che se si dimostra qualcosa è perché c’è bisogno di una prova. Se io dico: tre più quattro fa sette e lei non lo capisce, non fa niente. Ma se lei lo capisce, non c’è bisogno che le fac­ cia degli esempi; lei non ha bisogno la prova con, non so, pezzi degli scacchi, carte, animali, persone, libri o case; no, non è necessario. Sarebbe molto strano se di­ cessero: sono state scoperte alcune pietre sulla luna, e tre più quattro non fa sette. Ho scritto un racconto su questo, sull’esistenza di pietre che si sommano, si sot­ traggono, si moltiplicano e si dividono, e non danno mai una cifra uguale. Ma sono oggetti magici imma­ ginati per il racconto, nient’altro. Il racconto si intitola “Tigri azzurre”. Ah, sì; ma in ogni caso mi sembra importante distin­ guere teologia e fede.

Sì, perché la teologia finirebbe per essere un ragio­ namento sulla fede.

Quasi una cosa aliena alla fede.

Sì, aliena alla fede, visto che si suppone che la fede è venuta prima. Certo.

Sant’Anselmo, che inventò la prova ontologica, cre­ deva profondamente. Ma pregò Dio dicendo: “C’è gente che non crede nella tua esistenza, ed io vorrei avere la prova per convincerli; e di conseguenza per salvare le loro anime.” Non per convincere se stesso.

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No, allora Dio gli donò la prova ontologica; che però mi sembra la più fallace di tutte.

Nelle sue reputazioni sul tempo, uno degli aspetti più difficili era la dissertazione circa la realtà o meno del mondo. E lei deduceva, tra le altre cose, che se il mondo è reale, allora lei è Borges. Ah, sì, certo. Una conclusione malinconica, di sicuro. (Ride.)

(Ride.) No, non credo.

Sì, preferirei essere chiunque altro, ma se fossi chiun­ que altro, non vorrei essere quel chiunque altro; disgra­ ziatamente tutti siamo un io, o crediamo di essere un io; il che è lo stesso. Chi sia quell’io non lo sappiamo. Ho letto questo catechismo buddista: Le domande del re Milinda. Milinda è una deformazione hindu di Menandro, da cui viene Milinda. Il primo precetto, cioè la prima cosa che il sacerdote dice al re, è che l’io non esi­ ste; è il primo precetto della fede per i buddisti: l’io non esiste. Lo sostennero poi anche Hume e Schopenhauer; Macedonio Fernandez, dei nostri, sostenne la negazio­ ne dell’io. Sono arrivato anch’io a credere che l’io non esiste, il che è una contraddizione, vero? Certo. Visto che sono io ad essere arrivato a questa conclu­ sione, e non il vicino.

Inevitabilmente Borges finisce per essere Borges. Sembra di sì, mi spiace molto... (Ridono entrambi.) Ma se c’è la trasmigrazione delle anime, allora sarò un altro, ma non ricorderò di essere stato Borges nella vita

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precedente, così sarò tranquillo. Potrò smettere di leg­ gere i miei libri, che è quello che faccio ora per la mag­ gior parte del tempo.

Questa conclusione a cui è arrivato, in questa conver­ sazione sul tempo... Il tempo è un argomento infinito. O almeno è infini­ to quanto il tempo. Naturalmente. Poiché non possiamo immaginarne né l’inizio né la fine. Se dovessimo prendere il primo istante, poi ci chiederemmo, cosa è accaduto prima?

E non possiamo nemmeno concepire, come ha detto anche lei, l’eternità.

Sant’Agostino trovò una soluzione: “Non nel tempo, ma con il tempo, Dio creò la terra.” Quindi il primo istante della creazione coincide con il primo istante del tempo. Non so se questo sia altro che un raggiro verba­ le. Forse no, ma in ogni caso lui ne fu soddisfatto quan­ do lo scrisse. Quindi quando Dio crea il mondo, crea il tempo: il primo istante della creazione è anche il primo istante del tempo. Ma non so se così si risolve qualcosa. Non so se si può evitare di pensare a un istante prima del primo istante. Il che richiederebbe un altro istante, e un altro ancora, all’infinito. All’infinito. Ricordo che in un’altra occasione in cui parlavamo del tempo, arrivò alla conclusione che l’arte e la letteratura dovrebbero cercare di liberarsi del tempo.

Sì, sarebbe un modo, sarebbe un eufemismo per dire che dovrebbero cercare di essere eterne. Quindi il

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contrario della Sociologia della letteratura, con cui oggi ci minacciano. Esattamente il contrario. Senza conta­ re che la letteratura è più importante della sociologia, perché un’arte è più importante di una scienza. Soprat­ tutto di una scienza fallibile, e probabilmente inventata l’altro ieri. E anche quello che raccomanda Rilke al poeta o allo scrittore: scrivi come se fossi eterno. Credo che in qualche modo... credo di vedere in lei questa attitudine, a volte.

E che forse siamo eterni. Tutto è possibile. C’è qual­ cosa in noi che va al di là delle vicissitudini delle nostre storie. E lo si avverte quando ci capitano cose terribi­ li; a me è capitato quando una donna mi ha lasciato, ed io mi sono sentito disperato, come è giusto. Poi ho pensato: cosa mi può importare di quello che è succes­ so a uno scrittore sudamericano, chiamato Jorge Luis Borges, nel XX secolo. Ossia, in me c’è qualcosa che è alieno alle circostanze, al mio nome, alle mie avventure e disavventure. Credo che lo abbiamo provato tutti a un certo punto, credo sia un sentimento vero: viene da una radice segreta che ciascuno di noi possiede, e si trova al di là dei fatto della vita. In questo caso ci sarebbe un margine di eternità, anche se non ne siamo coscienti. No, e questa possibilità non ci sarebbe neanche in futuro, sarebbe sempre e solo in noi. Quindi essere si­ gnificherebbe essere eterni. Eeternità sarebbe contemporanea.

Sarebbe contemporanea, sì, e abbraccerebbe anche passato e futuro.

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Indice

Borges in noi, noi in Borges di Osvaldo Ferrari

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Conversazione iniziale (9-3-1984) Il libro del cielo e dell’inferno Stevenson, Buyan La casualità Letteratura fantastica e fantascienza James joyce Il libro di sabbia Blaise Pascal Il paese che imita Il Libro del cielo e dell’inferno, San Tommaso e il talmud Liberalismo e nazionalismo Emerson - Whitman Lo stoicismo Gesù Cristo Apologia dell’amicizia Valéry Il racconto “L’intrusa” Oscar Wilde Il deserto e la pianura Adolfo Bioy Casares La politica e la cultura Bernard Shaw La critica cinematografica Nuovo dialogo su Groussac Le lettere in pericolo

17 25 31 35 43 51 57 65 75 83 91 101 111 117 125 129 139 147 155 165 173 181 189 229

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W. B. Yeats (I) W.B. Yeates (II) Il pensatore letterario Il tempo

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ANNOTAZIONI

Bompiani ha raccolto l’invito della campagna “Scrittori per le foreste” promossa da Greenpeace. Questo libro è stampato su carta riciclata senza cloro e non ha comportato il taglio di un solo albero. Per maggiori informazioni: http://www.greenpeace.it/scrittori/ I GRANDI Tascabili Bompiani Periodico quindicinale anno XIX numero 1167 Registr. Tribunale di Milano n. 133 del 2/4/1976 Direttore responsabile: Elisabetta Sgarbi Ä Finito di stampare nel mese di ottobre 2011 presso «w Grafica Veneta S.p.A. - via Malcanton, 2 - Trebaseleghe (PD) Printed in Italy