Dialoghi sul cinematografo
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Jean Cocteau

Dialoghi sul cinematografo

Ubulibri

© Copyright 1973 by Pierre Belfond © Copyright 1987 by Ubulibri via Rzmazzini 8, 20129 Milano

Traduzione di Stefano Mosetti A. D. Pierluigi Cerri

Jean Cocteau

Dialoghi sul cinematografo

Ubulibri

Sommario

7

Dialoghi con André Fraigneau

83

Note e integrazioni

87

Postfazione ai dialoghi

93

Dialoghi con Georges-Michel Bovay

107

Dialoghi con Jean Demarchi e Jean-Louis Laugier

Dialoghi con André Fraigneau

Jean Cocteau occupa un posto unico nella cinematografia con­ temporanea. £ infatti il primo grande poeta che si sia interes­ sato alle possibilità espressive di un mezzo come il cinema. Ne ha appreso la tecnica o piuttosto l’ha reinventata a suo uso personale. In tal modo ha creato ima poesia cinematografica che si affianca splendidamente alla poesia del teatro, del ro­ manzo, alla poesia grafica o coreografica con cui aveva già arricchito l’arte francese. Avendo fiducia nell’importanza della sua "poesia della criti­ ca” osai sperare da Jean Coctéau un’opera sul cinema, che fosse per i problemi particolari di quest’ultimo l’equivalente del "segreto professionale” per la letteratura: una raccolta di pensieri e di formule, di ricordi e di opinioni, testimonianza di valore straordinario venendo da un autore che si è dedicato al cinema ma è nato altrove. Jean Cocteau (appena ripresosi da un intervento chirurgico che gli aveva impedito di andare a presentare il suo film Orphée a New York) accettò di realizzare il mio progetto. Pose una condizione: che il libro non fosse scritto da lui ma fosse il risultato di una nostra conversazione. Affermò di preferire il calore e l’imprevisto di una discussione amichevole alla so­ litudine dello scrittore. Fu così decisa la forma di questi dia­ loghi che, stenografati dal vivo, durante un soggiorno in cam­ pagna in cui nulla veniva a distrarci dai nostri colloqui, con­ servano (per volontà di Cocteau) tutta la libertà e la freschezza dell’improvvisazione. Nel mio questionario prendevo in considerazione soltanto 9

rNnrgomciiio cinema ", ma poiché l’intelligenza di Jean Cocteau non sopporta limitazioni, la nostra intervista (o meglio le sue risposte), pur non trascurando, come speravo, i dettagli pre­ cisi, gli appassionanti segreti dell’artigiano, assunse ben presto una portata più ampia. Così i Dialoghi sul cinematografo sono ricchi di considerazioni su problemi del tutto diversi: l’arte in generale, la psicologia del pubblico, quella della critica, lo stile, la durata. E ci offrono anche la confessione ricca di pathos di un creatore in preda al proprio demone. Jean Cocteau dichiara a un certo punto di questi dialoghi (nei quali con imbarazzo interpreto così male quello che era il ruolo di Eckermann accanto a Goethe) che “ogni grande artista, anche se dipinge imposte o peonie, traccia sempre il proprio ritratto”. I Dialoghi sul cinematografo gli danno ra­ gione, tracciando senza premeditazione il ritratto fedele del poeta nel senso etimologico del termine (colui che fa); cioè di un uomo che impiega al servizio dello spirito tutte le risorse del suo genio e delle sue mani. (X.F., 1951)

Vorrei, caro Jean Cocteau, che questi col­ loqui vertessero esclusivamente sulla sua attività cinematogra­ fica. Vuole limitarsi, nelle nostre conversazioni, a questo aspet­ to particolare? andré fraigneau

È impossibile. Perché il cinematografo è per me un mezzo d’espressione come un altro. Parlarne mi porterà su strade diverse. Uso il termine cinematografo proprio per non confondere il veicolo che esso rappresenta con ciò che si è soliti chiamare cinema, sorta di musa abbastanza sospetta, nel senso che le è impossibile attendere mentre tutte le altre muse attendono e dovrebbero essere dipinte o scolpite nell’at­ teggiamento dell’attesa. Ci si lamenta sempre delle lentezze o delle lungaggini di un’opera alla quale si assiste per la prima volta. Oltre al fatto che questo è dovuto spesso a una mediocre sensibilità o a una disattenzione agli aspetti meno superficiali, si dimen­ jean cocteau

io

tica che i classici abbondano di lungaggini e lentezze ammesse solo perché si tratta di classici. Ma i classici all’origine dovet­ tero subire le stesse critiche. Il dramma del cinematografo è la necessità di un successo immediato, handicap terribile e quasi senza soluzione, determinato dai costi di un film e dall’obbligo di incassi elevati. Le ho appena detto che tutte le muse dovrebbero essere raffigurate nell’atteggiamento dell’at­ tesa. Tutte le arti possono e devono attendere. Per poter vi­ vere, spesso devono attendere la morte del loro autore. Il cinematografo può essere annoverato fra le muse? Tutte le muse sono povere, poiché hanno investito il loro denaro. La musa del cinema è troppo ricca, troppo esposta a una rovina immediata. Aggiungiamo che il cinema è un luogo di passaggio, un diver­ timento che il pubblico si è abituato, ahimè, a guardare con la coda dell’occhio, mentre questa macchina da immagini non è stata per me che un mezzo per dire certe cose nel linguaggio visivo, invece di dirle ricorrendo alla mediazione della carta e dell’inchiostro. Vorrei che precisasse la sua definizione di cinema come diverti­ mento delle folle e chiarisse, d’altra parte, che cosa intende con cinematografo come mezzo d’espressione personale. Credo che in tal modo i lettori comprenderanno meglio la distinzione, a cui lei tiene molto, fra i due termini. Ciò che comunemente chiamiamo cinema non è stato fino a oggi un’occasione per riflettere. Si entrava, si guardava (poco), si ascoltava (poco), si usciva, si dimenticava. Ora, io credo che il cinematografo sia un’arma efficace per proiettare il pensiero, anche in una folla che si rifiuta di essere attiva. Orphée attrae, incuriosisce, irrita, suscita indignazione, ma obbliga alla di­ scussione con gli altri o con se stessi. Sapevo che bisogna rileg­ gere un libro per comprendere tutti i suoi significati, ma i gestori delle sale hanno osservato che gli spettatori di Orphée tornavano più volte a vedere il film portando altre perso­ ne. Inoltre, un pubblico inerte o ostile permette a chi è at­ ti

tento di vedere il film. Senza questo pubblico i pochi scono­ sciuti ni quali mi rivolgo non potrebbero ricevere il mio mes­ saggio. E la forza di un veicolo così diffuso. Lei mi dirà che se l’opera non ha successo, il messaggio va perduto. È vero; con Orphée correvo un rischio enorme. È ormai evidente che la curiosità di vedere una cosa insolita ha prevalso sulla pi­ grizia che allontana gli spettatori dai film difficili. Ricevo ogni giorno lettere che mi dimostrano che ho avuto ragio­ ne. Chi me le scrive si lamenta in genere del pubblico con cui si è trovato a assistere alla mia opera, dimenticando che proprio questo pubblico gli ha permesso di assistere alla proie­ zione. Ritorno su un’espressione che mi ha colpito: "macchina da im­ magini". Intende dire con questo che lei si serve delle im­ magini del cinematografo come uno scrittore si serve delle immagini letterarie?

No. Il cinematografo esige una sintassi che si ottiene sol­ tanto con la concatenazione e l’urto delle immagini tra lo­ ro. Non è il caso di stupirsi se la singolarità di una sintassi che ci è propria (il nostro stile) si traduce nella lingua visiva e disorienta gli spettatori abituati alla scrittura delle traduzio­ ni raffazzonate o degli articoli del loro giornale. La meravi­ gliosa lingua di Montaigne, tradotta in immagini, risulterebbe per questi spettatori difficile da guardare così come il suo testo è per loro difficile da leggere. La mia prima preoccupazione, in un film, è impedire che le immagini scorrano, contrapporle, incastrarle, congiungerle senza nuocere al loro rilievo. Ed è proprio questo deplorevole scor­ rere delle immagini che i critici chiamano “cinema” e consi­ derano come il suo stile. Dicono generalmente che un film è forse buono, ma “non è cinema” o che un film non è bello ma è “cinema”. Questo significa imporre al cinematografo di rinunciare a essere un veicolo del pensiero per non essere altro che una distrazione,-e porta i nostri giudici a condannare in 12

due ore e in cinquanta righe un’opera che riassume vent’anni di lavoro e di esperienza.

Capisco, ora, l'interesse che ha potuto presentare a un certo momento della sua vita la scoperta del cinematografo come veicolo di un pensiero che si è tradotto in lei con tanti mezzi diversi. Ma ha trovato che questo nuovo mezzo le offriva una maggiore libertà? No. Anche se si è liberi di fare ciò che si vuole, vi sono, ahimè, troppe circostanze molto pesanti (capitali, censure, responsa* bilità nei confronti degli artisti che accettano di essere pagati dopo) per raggiungere quella che io considero la completa libertà. Non parlo di vere e proprie concessioni, ma di un senso della responsabilità che ci dirige e ci vincola senza che neppure ce ne rendiamo conto con esattezza. Sono stato totalmente libe­ ro soltanto in Le Sang d’un poète perché si trattava di una commissione privata (del visconte di Noailles, come L’Age d’or di Bunuel) e ignoravo tutto dell’arte cinematografica. La in­ ventavo per conto mio e la impiegavo come un disegnatore che per la prima volta inumidisce il dito nell’inchiostro di china e macchia un foglio. Charles de Noailles mi aveva commissio­ nato un cartone animato. Mi resi subito conto che il cartone animato esigeva una tecnica e una équipe ancora ignote in Francia. Gli proposi allora di fare un film libero come un cartone animato, scegliendo volti e luoghi corrispondenti alla libertà in cui si trova un disegnatore quando inventa un mondo esclusivamente suo. Posso anche dire che il caso, o almeno ciò che chiamiamo caso (e che tale non è mai per chi si ipno­ tizza su un lavoro), mi ha spesso aiutato. Senza dimenticare gli scherzi di cattivo genere di cui ero vittima negli studi, dove mi consideravano un pazzo. Eccone un esempio. Stavo finendo di girare Le Sang d’un poète. Fu ordinato agli addetti di pulire lo studio durante le nostre ultime riprese. Stavo per lamentar­ mene quando Périnal, il mio operatore, mi chiese di lasciar perdere. Si era reso conto che la bellezza delle immagini sareb13

be limn ilnllii luce delle lampade ad arco attraverso la polvere Nolleviiin dagli uomini delle pulizie. Un ahro esempio. Non conoscendo nessuno nell’ambiente cinematografico, scrissi per posta pneumatica a tutti gli opera­ tori, fissando un appuntamento per l’indomani mattina alle sette. Decisi di prendere il primo che si fosse presentato. Fu Périnal, grazie al quale le immagini di Le Sang d’un poète possono rivaleggiare con le più belle della nostra epoca. Sfor­ tunatamente, un tempo l’emulsione delle pellicole conteneva dei sali d’argento e la stampa si eseguiva con un ritmo oggi impossibile. Ecco perché l’arte cinematografica è tanto fragi­ le. Una copia molto vecchia di Le Sang d’un poète è brillante e in rilievo come qualsiasi film americano moderno, mentre le copie più recenti sembrano vecchie e nuocciono all’efficacia del­ l’opera. Ma si può anche sostenere il contrario. Eccone una prova. Un mio amico, di cui rispetto l’intelligenza, detestava La Belle et La Bete. Un giorno lo incontrai all’angolo tra gli ChampsElysées e la rue La Boétie. Mi chiese dove andavo e se poteva accompagnarmi. “Vado a lavorare a un sottotitolaggio della Belle et La Bete”, gli risposi, “uno spettacolo a cui non voglio proprio importi di assistere”. Decise tuttavia di venire con me, e io lo dimenticai in un angolo della saletta. Lavoravo con la montatrice su una vecchissima pellicola quasi impresen­ tabile, grigia e nera, piena di striature e di macchie. Finito il lavoro, cercai il mio amico, e lui mi disse che aveva trovato il film meraviglioso. Ne conclusi che in quel modo aveva visto il film con un distacco, come accade nei cineclub quando si proiettano copie disastrose, le sole che ci restino. Questi casi, queste misèrie e questi splendori dell’espressione cinematografica, a cui si aggiunge la difficoltà di essere com­ presi subito, cioè guardati e ascoltati attentamente nel corso di una proiezione fugace, mi sembrano complicare, ostacolare la possibilità di durata per un messaggio espresso da un film...

In effetti, il problema dell’invisibilità cui è destinata un’opera 14

che si contrappone alle abitudini che rendono le cose visibili, voglio dire dell’invisibilità in seguito a abitudini acquisite a contatto con ciò che è diventato visibile e non era tale all’ori­ gine, è un problema che diventa quasi insolubile quando si affronta il cinematografo come un’arte, come un veicolo di pensiero, senza ricorrere ai sotterfugi che rendono questo pen­ siero visibile nell’immediato pregiudicandone la possibilità di durare nel tempo. Nessun avvenire per un film, ovvero, am­ mettendo di riuscire a correggere le leggi americane in modo da evitare che una storia raccontata in un certo modo sia di­ strutta perché possa essere raccontata in un altro, un avvenire di cineclub e di pochi amatori. Un film percorrerà quindi una strada inversa a quella delle altre opere che iniziano su scala ridotta e si conquistano una diffusione più vasta quando si dimostra la loro efficacia. Il meccanismo industriale lo obbliga a iniziare su vasta scala e, forse, a meritare una scala ridotta, se i mille pericoli d’ogni tipo che minacciano un negativo, se i progressi che modificheranno le macchine da presa e la pel­ licola, se il fuoco o la trascuratezza degli uomini lo permet­ tono. Un film degno di questo nome incontra gli stessi ostacoli che incontra un quadro, che sia di Vermeer, di Van Gogh o di Cézanne. Ma lo si condanna a cominciare dal Museo dove i quadri non giungono che col tempo. Lo si getta in mezzo alla folla. In seguito viene catalogato e, invece di andare al pubblico, deve affrontare un percorso in salita e non può più contare che su pochi fedeli, paragonabili a coloro che ap­ prezzarono le tele dei pittori prima che l’occhio e lo spirito vi si abituassero. In breve, il quadro, che in origine non valeva un centesimo, varrà milioni e il film che in origine valeva milioni non sopravviverà, se potrà sopravvivere, che nella rovina. Dopo queste considerazioni generali sull’espressione cinema' tografica, vorrei che mi permettesse una domanda più perso­ nale, promettendomi di dare alla risposta tutta l’ampiezza ne15

cessarla. Potrebbe indicarmi i motivi profondi che, primo tra i poeti, l’hanno portata e in seguito, dopo una lunga pausa, riportata a questa forma che la maggior parte degli scrittori di­ sprezza, anche se, bisogna dirlo, sempre meno?

Prima di risponderle, dirò che gli scrittori sono giustificati da un fatto importante: l’arte cinematografica è un’arte da arti­ giani, un’arte manuale. Un’opera scritta da un uomo e portata sullo schermo da un altro non è che una traduzione, molto poco interessante per uno scrittore autentico (o che può interessare solo il suo portafogli). Perché l’arte cinematografica diventi degna di uno scrittore, è importante che lo scrittore diventi degno di quest’arte, cioè che non lasci interpretare un’opera scritta con disinvoltura, ma impegni tutto se stesso in que­ st’opera e costruisca un oggetto il cui stile diventi l’equivalente del suo stile letterario. È dunque naturale che un uomo che lavora con la penna si disinteressi dei film e non li prenda in considerazione neanche come un mezzo per propagandare il suo pensiero. E ora veniamo al problema personale che lei ha sollevato: 1) Io sono un disegnatore. È naturale per me vedere e sentire ciò che scrivo, dargli una forma plastica. Quando giro un film, le scene che dirigo diventano ai miei occhi disegni in movi­ mento, “mises en place” pittoriche. È impossibile andare a Venezia e vedere Tiepolo o Tintoretto senza essere colpiti dalla messa in scena dei loro quadri e dalla singolarità dei piani che arriva a far uscire una gamba dall’angolo in basso a sinistra della cornice. (Mi sembra, anche se non posso af­ fermarlo con sicurezza, che si tratti dei Sonno di Cristo sulla barca durante la tempesta di Tintoretto). Questo metodo mi obbliga a lavorare in Francia, dove ancora regnano il disordi­ ne e una certa anarchia. Il rigido sindacalismo di Hollywood e di Londra non permette di impegnarsi nel lavoro se non tramite una schiera di specialisti. In Francia si lavora in fa­ miglia e nessuno insorge quando si sconfina nel campo delle sue competenze: luci, scene, costumi, trucco, musica, ecce­ 16

tera. Tutto si trova nelle mie mani e io collaboro strettamente con coloro che mi assistono. Il film è quindi, per ammissione della mia stessa équipe, un oggetto mio, al quale essi hanno contribuito con il loro aiuto e i suggerimenti della loro scienza. 2) Il cinematografo non è il mio mestiere. Voglio dire che niente mi obbliga a fare un film dietro l’altro, a cercare gli interpreti per certi soggetti e viceversa. Questo sarebbe un grave handicap. È più facile fare un film di tanto in tanto, quando si è mossi da un desiderio imperioso, che essere ob­ bligati a una corsa ai libri, alle pièce, e a scervellarsi durante le riprese di un film per risolvere il problema del film se­ guente. 3) Mi chiedo talvolta se la mia perpetua inquietudine non na­ sca da un’incredibile indifferenza per le cose di questo mondo, se le mie opere non siano un tentativo disperato di aggrappar­ mi agli oggetti che interessano gli altri, se la mia bontà non sia uno sforzo continuo per superare la mancanza di un punto di contatto con gli altri. Io non so né leggere, né scrivere, né pensare, se non quando mi accade di essere il veicolo di una forza ignota che aiuto gof­ famente a prendere forma. Questo vuoto diventa atroce. Lo colmo come posso, così come si canta al buio. Inoltre, la mia stupidità di medium ostenta un’aria di intelligenza che fa sì che le mie goffaggini siano prese per un’estrema malizia, e il mio incedere da sonnambulo per un’agilità da acrobata. Ci sono poche speranze che un giorno questo mistero si chia­ risca e penso che dovrò soffrire, dopo la mia morte, di un malinteso analogo a quello che mi impedisce di vivere. Più faccio lavori manuali, più mi piace credere di essere par­ tecipe delle cose terrestri e maggiore è l’accanimento con cui mi ci dedico, come ci si aggrappa a un relitto. Ecco perché sono approdato al cinematografo, che comporta un lavoro continuo e mi allontana dal vuoto in cui mi perdo. Quando dichiaro di non avere idee, intendo dire che ho ab­ bozzi di idee di cui non sono padrone e che non sono in grado di intraprendere un lavoro se non quando, invece di avere 17

un’idea, un’idea mi ha, mi assilla, mi disturba, mi tormenta in modo tale che diventa per me necessario gettarla fuori, libe­ rarmene a ogni costo. Il lavoro è per me una sorta di suppli­ zio. Un altro supplizio è, dopo il lavoro, la mancanza di lavo­ ro. E il vuoto ricomincia, facendomi credere che non lavorerò mai più. L’alternarsi di questa febbre creatrice e del vuoto che la segue possono spiegare i suoi continui cambiamenti di residenza, i suoi spostamenti tra Parigi e la campagna?

Cerco di allontanarmi dalle città perché non vi conduco una vita di città e non ne ho che gli svantaggi. Ma questi svantaggi mi procurano l’illusione di una vita attiva. Lontano dalle città il vuoto si mostra nudo. Mi accade di vagare per casa senza sapere perché e di ritrovarmi sulle scale o in camera, senza motivo. Insomma, non trovo il mio equilibrio né in mezzo alla gente né nella solitudine. Mi sembra che la conversazione sia l’unico rifugio, l’unico terreno di gioco in cui riesco a illudermi correndo dietro alla palla. La conversazione mi permette di ingannarmi sulla mia solitudine. Mi illudo allora di essere ca­ pace di qualcosa senza il soccorso di una forza ignota. Mi credo libero e ne approfitto fino alla chiacchiera, come un uomo che corre sempre più veloce perché ha paura. Ma quando mi ritrovo solo vedo le cose in un’altra luce. Mi chiedo se non ho approfittato di segreti che non sono miei e meticolosa­ mente smontato meccanismi misteriosi, in breve, se non ho attirato su di me i fulmini della forza ignota di cui sono il ser­ vitore e di cui ho finto di essere il padrone. Se non mi sono comportato come Mascarillo. La vergogna che provo è una nuova fonte di angosce e timore. È sempre questo il mio stato d’animo dopo la partenza delle persone con cui mi sono tro­ vato meglio. Per lei non esiste solo il disagio del silenzio o quello del rap­ porto con gli altri. Ci sono le numerose malattie che, a quanto 18

sembra, non hanno ostacolato la sua attività. Pascal avrebbe riconosciuto che lei ne fa un "buon uso...". Molti si sono stupiti e addirittura scandalizzati perché in Le Journal de la Belle et La Bete e in La Difficulté d’etre mi di­ lungavo su certe malattie della pelle molto fastidiose. Ma biso­ gnava capire che la malattia diventava per me un’occupazione continua e suppliva all’assenza di un punto di contatto. Faceva di me un uomo sensibile invece di un fantasma insensibile. Mi umanizzava e mi permetteva uno di quegli esercizi (come la cac­ cia, per esempio) ai quali gli uomini si dedicano per distrarsi. Soffro, dunque sono. Così si spiega questa mancanza di pudore. Il secondo stadio era: sono, dunque penso. E questa prova della mia condizione umana mi obbligava a pensare, a non perdermi in una sorta di sonno indolore. Comincio a vivere intensamente soltanto nel sonno e nel sogno. I miei sogni sono minuziosi, terribilmente realistici. Mi trasportano in innumerevoli avventure, a contatto con luoghi e persone che non esistono nello stato di veglia e di cui il fenomeno del sogno mi inventa, nei minimi dettagli, gli og­ getti, gli atti, le parole. Il mattino mi sforzo di cancellare tutto, tale è il mio timore di confondere i due mondi e di aggiungere l’incomprensibile all’incomprensibile. È normale che la morte non mi spaventi e mi appaia come un rifugio. D’altra parte, non avendo il senso del tempo, confondendo le mie età e i miei punti di riferimento, attribuendo al giorno prima un avvenimento vecchio di anni, incapace di ricostruire l’ordine cronologico delle mie opere, dimenticando periodi interi della mia vita e ricordando invece con meravigliosa nitidezza dettagli che mi è impossibile far risalire a un’epoca precisa, è naturale che mi senta nel mezzo di una funesta mosca cieca, in cui in­ ciampo con gli occhi bendati e le mani che vagano nel vuoto, circondato da risa beffarde. Si dimentica l’età, che deve apportare nell’organismo, cioè nella macchina destinata a creare, alterazioni che ne rendono il funzionamento più difficile. Con l’età si acquista una tetrag­ 19

gine che viene presa per saggezza e si perde la vivacità. Le miserie che deformano il volto non si producono soltanto al­ l’esterno. Penso che il veicolo delle forze occulte che risiedono in noi (il veicolo che permette di illuminare a giorno la notte) renda queste forze sempre meno desiderose di esprimersi. Es­ se entrano profondamente in noi e, in qualche modo, sverna­ no. Il veicolo manca dei muscoli e dei nervi che rendevano ab­ bastanza morbido questo enigmatico passaggio dal pensiero al­ l’atto. L’angoscia dell’atto, di cui parla Freud e che tormenta la maggior parte dei poeti, diventa una sclerosi dell’atto e questa sclerosi si aggrava per il fatto che la nostra onestà professionale teme di non essere all’altezza delle nostre tenebre interiori, di servirle male.

Ascoltandola e vedendola vivere, ci si rende conto che il lavoro del poeta è quanto c’è di più lontano dal “tedio” romantico. Sembra che, proprio come la stupidità, la noia non sia il suo forte... Non avevo mai conosciuto la noia, mostro informe di cui scor­ gevo intorno a me le devastazioni. Mi stupivo che la gente si annoiasse, mi chiedevo come fosse possibile. E improvvisa­ mente conobbi questo volto liscio che è inutile interrogare, perché si rifiuta di rispondere. L’ho conosciuto in seguito a un’attività eccessiva, le cui pause mi precipitavano nell’inazio­ ne, mentre un tempo quest’inazione era stata il mio ritmo e si riempiva di idee e di atti. Ma la natura umana è fatta in modo tale che si intossica con grande rapidità e l’intossicazione da attività (quella di un film, per esempio) esige una disintos­ sicazione lenta e dolorosa come quella da oppio. Le mani vuote e inattive si rifiutano di reggere la penna. Scrivere sembra noio­ so a un uomo che saliva e scendeva scale, dirigeva artisti, dava ordini a schiere di macchinisti e di elettricisti. Ecco perché la mia terapia attuale consiste nel sottrarmi a questa calca che agita il vino e gli impedisce di riposare nella bottiglia. È importante tornare al segreto, ai libri che pochi leggono, 20

alle poesie che sono il limite estremo della solitudine. Muovo da uno stato all’altro attraverso contatti, conversazioni, un ginnasio in cui lo spirito si riabitua a vivere senza intermedia­ ri. Ecco perché parlo con lei trovandovi un rimedio a quel male abominevole e inammissibile: la noia e il seguito degli “a che scopo? che fare? dove andare?” che conducono diret­ tamente alla catastrofe. 4) Poiché ho parlato del sogno, è importante dire che il la­ voro di un film come Io intendo io, che comincia all’alba e si prolunga fino a notte tarda, che non lascia mai un minuto libe­ ro, perché anche quando si pranza con l’équipe si parla di que­ sto lavoro, è così compatto e ci allontana tanto dal mondo e dalle sue consuetudini da essere simile al sogno, nel senso che contano soltanto le persone e gli atti del sogno e si arriva a non vedere e a non sentire più quello che avviene aldifuori, come chi dorme è troppo occupato dalla vita del sogno per ac­ corgersi che la vita reale entra nella sua camera sotto forma di giornali, lettere, amici. Il risveglio da questo sogno è estremamente penoso e tutte le équipe conoscono il disagio degli ulti­ mi minuti di un film, quando coloro che vivevano insieme si disperdono di qua e di là. È senza dubbio il ricordo di questo sogno che ci riafferra nella solitudine e ci spinge di nuovo verso la strana confusione che apparentemente tutto il nostro essere rifiuta. È l’inverso della fatica. L’uomo affaticato vuole dor­ mire e sognare. L’uomo che si riposa ritorha al sogno attivo del cinematografo.

Penso che i film, che hanno il vantaggio di andare dapper­ tutto, l’abbiano fatta conoscere più dei libri e delle poesie, che per le tirature limitate e la lentezza delle ristampe sono quasi sempre introvabili.

In un certo senso sì e in un certo senso no. Essere celebri non significa essere conosciuti. Essere celebri e sconosciuti permet­ te di essere scoperti. Pubblici lontani che conoscono solo il mio nome e qualche diceria sul mio conto vanno a vedere un film che è in qualche modo un esperanto, malgrado i testi e 21

a causa dello stile visivo di cui le ho parlato, lo stile delle immagini. Tempo fa lessi in un catalogo di scherzi per nozze e banchetti: “Oggetto difficile da raccogliere”. Ignoro quale sia questo og­ getto e come si presenti, ma mi fa piacere sapere che esiste e immaginarmelo. Un’opera deve essere un “oggetto difficile da raccogliere”, de­ ve difendersi dai contatti volgari, dai maneggiamenti che la of­ fuscano e la deformano. Non si deve sapere da che parte pren­ derla, cosa che infastidisce i critici, li irrita, li spinge all’insul­ to, ma preserva la sua freschezza. Meno è compresa, più tardi sboccia e più tardi appassisce. Un’opera deve stabilire un con­ tatto, sia pure grazie a un malinteso, e tenere celate le sue ricchezze che solo col tempo, a poco a poco, si renderanno accessibili. Un’opera che non custodisce i suoi segreti e si offre troppo presto, corre il rischio di spegnersi non lasciando di sé che uno stelo morto. Il teatro di Voltaire è l’esempio tipico di questi trionfi dell’im­ mediato, di questi fiori sbocciati nello splendore che appassi­ scono il giorno dopo. La signorina Clairon, che sembra essere uno spirito lucido, parla con piacere dei suoi ruoli di Racine, ma si entusiasma solo per i suoi ruoli di Voltaire. Si continua a rappresentare Racine. Non si rappresenta più Voltaire. Nietzsche scrive (nella Gaia Scienza, se non sbaglio): “Tra la gloria e gli onori, bisogna scegliere: se vuoi la gloria, lascia gli onori”. Questo perché l’onore e gli onori mirano al visibile, mentre la bellezza è quasi invisibile, si chiude in sé, si preserva. Un film impone la nostra presenza, direi quasi il nostro marchio di fabbrica, senza avvilire la nostra opera cui viene a aggiun­ gersi come un commento, e ci impedisce di perdere del tutto i contatti con chi può comprenderci. Lo sconosciuto che io sono si rallegra di essere tale e non ne soffre che nei momenti lamentevoli in cui l’uomo prova il bisogno di un contatto più stretto con gli altri, di calore. È il nostro fango che si esprime. Quando l’anima ritrova il suo 22

equilibrio è felice di avere buone cantine dove il vino ripo­ sa. Nei momenti peggiori sogna orge in cui il vino scorre e inebria tutti. In questi momenti, essa non ignora che la maggior parte degli uomini non vive che di presente, sensibile solo a questo, e ciò accresce la sua solitudine. Una gradevole serata di polvere negli occhi sarà sempre preferita a una serata che ob­ bliga alla meditazione, a rientrare in se stessi. Sono stato molto contento di sentire che tanti spettatori tor­ navano a vedere Orphée (fino a cinque o sei volte), con grande stupore dei gestori. È un segno positivo, visto che il “cinema” è considerato un luogo di passaggio in cui si entra per distrar­ si, come per bere una birra. Ecco perché il ruolo dei cineclub che giudicano in appello è considerevole, ed è importante aiutarli con tutte le nostre for­ ze. È questa la ragione per cui ho accettato di diventare pre­ sidente della Federazione dei cineclub. Purtroppo gli stessi cineclub non riescono a recuperare vecchie pellicole, perché la vertigine industriale le elimina per lasciar spazio alle nuo­ ve. Si pensava che grandi attrici come Greta Garbo avrebbero goduto di un privilegio di cui non godettero Rachel e Sarah Bernhardt. Ma non è stato così. Oggi è impossibile mostrare Greta Garbo nella Margherita Gauthier ai giovani che non poterono vedere il film. Le pellicole sono state accuratamente distrutte. Margherita Gauthier deve essere girata con nuove dive e con procedimenti che seguano il cammino del progresso (a colori, in rilievo, eccetera). È un disastro. La signora B., direttrice della cineteca di New York, si trova di fronte alle stesse difficoltà incontrate da Langlois alla cineteca francese quando vuole salvare una pellicola dall’oblio: le viene rifiu­ tata. Chaplin sfugge a questa terribile legge di distruzione, perché è egli stesso il suo produttore, e non potrebbe essere vittima di questo meccanismo. Rimane il fatto, tuttavia, che si esigono somme favolose per proiettare di nuovo uno dei suoi film, e i più vecchi vengono ancora presentati solo perché all’epoca non esisteva questa legislazione distruttiva. Ecco per­ ché René Clair chiede che si voti il deposito legale. 23

Veniamo ora. u* è d'accordo, alla storia dettagliata della sua attività cinematografica e cerchiamo di seguirla nel suo svol­ gimento cronologico. Cominciamo da Le Sang d’un poète. Il fatto che io abbia lasciato passare vent’anni tra il mio primo film e gli altri dimostra che Io consideravo come un disegno o come una poesia. Poesia o disegno così dispendioso, che mi era impossibile progettarne altri. Bisogna tener presente che è già difficile trovare un mecenate disposto a offrire a un poeta la possibilità di esprimersi visivamente. Ma il milione speso dal mecenate a questo scopo corrisponderebbe a cen­ to milioni di oggi. Ci si inganna quando si parla del rapporto fra i prezzi. Uno resta uno e cento resta cento... Nessuno darà cento milioni a un giovane perché si esprima come vuole. È accaduto solo a Bunuel e a me, e nutriamo entrambi una pro­ fonda gratitudine per il visconte di Noailles. Questa gratitu­ dine ha indotto Bunuel a proibire che ci si serva del negativo del suo film L’Age d'or, che causò, con il mio, terribili scan­ dali nell’ambiente del nostro mecenate. Tutto questo è ben lontano! Le Sang d’un poète è stato definito un film surreali­ sta, mentre si contrapponeva ai film di questo movimento (che era stato appena denominato) e Bunuel mi diceva l’altroieri che all’estero accade che attribuiscano a lui Le Sang d’un poète e a me Un Chien andalou-, i nostri stili, all’epoca così opposti, dopo tanti anni vengono associati al punto da essere confusi. Si af­ ferma spesso nei libri dedicati alla settima arte che io sono stato influenzato da Bunuel. È assurdo, poiché giravamo L’Age d’or e Le Sang d’un poète a grande distanza e nello stesso pe­ riodo, e solo quando in seguito diventammo amici Bunuel mi fece vedere Un Chien andalou, che non conoscevo. A questo punto del nostro dialogo (che si sta trasformando in un mo­ nologo) è importante ricordare che un cinema di New York proietta da quindici anni Le Sang d’un poète. È la più lunga esclusiva che si conosca. Ovunque, all’estero, si continua a dare Le Sang d’un poète, Un Chien andalou e credo che si darebbe anche L’Age d’or se non fosse per la delicatezza di 24

Bunuel. Ciò non toglie che qualsiasi produttore giudicherebbe oggi troppo rischioso fare film di questo genere, come dimostra il fatto che essi restano casi isolati; e tuttavia nessuno dei film che questi abili produttori chiamano “commerciali” può rag­ giungere un simile numero di proiezioni. Ma ci risponderan­ no sempre che si tratta di casi eccezionali e non immagina­ no che è possibile che questi casi si ripresentino in un’altra forma. E il caso di Orphée?

Posso dire che già Orphée (che orchestra vent’anni dopo il tema che Le Sang d’un poète suonava goffamente con un dito solo) ha fatto affermare a un celebre produttore, stupito dagli incassi: “Di questi tempi basta camminare a testa in giù per guadagnare; non è difficile!”. Ebbene, che lo faccia! Conte è stato possibile realizzare Orphée malgrado questa op­ posizione di principio?

Le risponderò più tardi, ma sappia che conoscevo i miei rischi c quelli che facevo correre ai miei attori, e che è stato possi­ bile fare il film solo grazie alla generosità con cui essi accetta­ rono una lontana percentuale sugli incassi. Io mi ero assunto il carico delle spese extra che non potei evitare durante le ri­ prese nelle rovine di Saint-Cyr, riprese notturne che esigevano l’impiego di gruppi elettrogeni. Un film come Orphée può diventare, per miracolo, un buon affare, ma non lo è all’inizio e non ha nulla a che vedere con i meccanismi abituali dell’in­ dustria cinematografica. Il visconte di Noailles fece dono di Le Sang d’un poète a Georges Auric e a me, ma Orphée deve rimborsare i milioni che il Credito nazionale e il distributore ci hanno anticipato. Ci vorrà del tempo prima che ne ricaviamo qualcosa. Le parlerò più dettagliatamente del film quando ce ne occuperemo, ma mi sembra necessario informare il pubblico degli innumerevoli ostacoli che bisogna superare prima del primo giro di manovella, anche quando la situazione in cui ci troviamo sembra ispirare fiducia. 25

Veniamo quindi al primo giro di manovella. Ma a questo pro­ posito la sorprenderò con la mia memoria. Mi ricordo, poiché sono ormai vent’anni che ho il piacere di conoscerla, del suo primo tentativo cinematografico. Si era impegnato con grande fervore, e aveva intrapreso questo esperimento, che precedeva di molto Le Sang d’un poète, basandosi unicamente sui suoi mezzi; da solo, come una fantasia d’amatore. Ne abbiamo riso molto insieme. Quante avventure! E soprattutto, quante di­ savventure! Il soggetto era così buffo che lei decise, se mai la pellicola fosse stata proiettata, di intitolarla: Jean Cocteau fait du cinema, nello stile dei titoli di Chariot dell’epoca: Chariot pattina, eccetera. Lo studio soprattutto era inverosi­ mile, lo “Studio delle Cicogne”, diretto da una signora. Ricor­ do anche che, già alla ricerca dello stile che doveva essere quello di Le Sang d’un poète, lei aveva deciso di abbigliare gli attori con drappi bagnati; i drappi erano inzuppati nell’acqua calda e i poveri attori, nelle pause fra una ripresa e l’altra, presero tutti la bronchite; le luci troppo forti la resero cieco per tre giorni, e mi fermo qui. Che ne è stato di questa pellicola che non è mai stata proiettata, neanche per gli amici? So che Pierre Braunberger ha fatto delle ricerche e non posso risponderle, perché l’onda che investe tutto ciò che possiedo ha investito anche questo film. Non ne resta alcuna trac­ cia. D’altronde, che ne sarà stato della direttrice dello “Studio delle Cicogne”, una donna molto singolare. Un giorno che mancava l’elettricità le domandai che cosa succedesse e lei mi rispose: “Ho abbassato le leve... aspettiamo che arrivi l’elet­ tricità!. Ritorniamo al titolo: Jean Cocteau fait du cinéma, ispirato a Chariot. Nutriva dunque, fin da allora, una grande ammirazio­ ne per Chaplin? Ammiravo i film di Chaplin, quelli di Buster Keaton introva­ bili (uno in particolare, dove ci sono dei cinesi) e i film di Harry Langdon che ha rovinato tutti i suoi produttori perché 26

gli americani trovavano lugubre la sua comicità. Resta solo qualche pellicola in 16 millimetri che appartiene a Henri Filippachi, con cui ho girato io stesso, l’anno scorso, un film in 16 millimetri che rischia di restare sconosciuto come quello delle “Cicogne”: Cartolano.

Ma perché sconosciuto? Perché l’abbiamo girato in campagna, in due settimane, con le persone presenti. Io vi recito accanto a Jean Marais, a Josette Day e a un manichino, trovato nel magazzino di uno studio, attorno al quale il film si organizza. ,\row vedo perché un cast di questo genere dovrebbe impedire al film di essere proiettato... Ecco. Filippachi, al quale appartenevano le cineprese e i proiet­ tori, è un maniaco delle macchine e della pesca. Credo che conservi questo spaventoso documento come un tesoro e lo mostri col contagocce. Rossellini l’ha visto e lo trova molto hello. S’intitola Coriolano perché io mi presento come un vecchio cacciatore di aquile, sulla musica del Coriolano. Ho anche il sospetto che Filippachi tema che si attribuisca a que­ sto divertimento domenicale un’importanza esagerata. Sareb­ be spiacevole se questo giocattolo tragico diventasse un prete­ sto per battaglie di cineclub. Inutile dirle che il mistero di cui è circondato lo rende più affascinante e che me lo chiedono a qualsiasi prezzo in tutti i paesi del mondo. Perché dovrei ac­ cettare? È un grande lusso, nella nostra epoca, possedere un'opera invisibile che potrebbe un giorno diventare molto interessante.

(..osi, dal film delle "Cicogne" al suo film più recente, "Vanta­ tore" non si smentisce, poiché il 16 millimetri è un formato da amatore. Che cosa pensa dei vantaggi che possono trarre dal 16 millimetri i giovani, non potendo più contare sul so­ stegno di mecenati? l a mia risposta non è la stessa che le avrei dato qualche mese 27

fa. Perché ho constatato che il 16 millimetri è molto caro, proporzionalmente più caro di un vero film, dovendo funzio­ nare senza alcun aiuto esterno. Inoltre, ciò che io chiamo 16 millimetri è piuttosto “lo spirito del 16 millimetri”. Ho fatto il film dei Parents terribles nello spirito del 16 millimetri. Al­ cuni miei giovani amici, che avevano cominciato un film in 16 millimetri, hanno rifatto ciò che avevano girato e conti­ nuato il film in 35 millimetri. Si sono resi conto che non c’era una grandissima differenza e che la rovina è provo­ cata dallo studio, dai divi, dalle scene, tutte cose evitabili con qualsiasi pellicola, se si possiede una cantina e qualche lam­ pada. Quello che mi rattrista è che gli innumerevoli film in 16 millimetri che ho visto si ispirano a film commerciali o si impegnano in ricerche che per noi furono legittime, ma che non sono più di moda. D’altra parte, molti giovani americani usano il 16 millimetri. Vi si confessano, come dallo psichia­ tra. Ne risultano pellicole molto curiose, che ci inducono a pensare che se tutti si confidassero in questo modo la macchi­ na da presa diventerebbe appassionante come la scrittura nel­ la solitudine. Approfitto dell’occasione per supplicare pii in­ numerevoli amatori di non tendere verso la tecnica, di non sforzarsi di essere veri cineasti, di non temere né l’audacia né la follia. Altrimenti i loro schermi non ci presenteranno che un cinematografo minore che non ha ancora trovato il suo re­ gistro. Sono più liberi di noi. Ne approfittino!

Anche qui, lei indica loro il cammino da seguire con Coriolano. Mi perdoni se insisto su questo film. Conciano è stato pre­ parato prima? Niente affatto. Lo inventavamo sul momento, secondo le cir­ costanze che ci si offrivano. I titoli di testa, in cui si presen­ tano i produttori, il finanziatore, l’operatore, il fotografo e gli artisti, sono più lunghi del film. Del resto, il fotografo non è il fotografo. È Georges Hugnet, che si trovava là con noi. Il finanziatore non è il finanziatore. È il proprietario del ristorante “Le Catalan”, e così via. Filippachi e io siamo ri­ 28

presi mentre consultiamo un gran numero di volumi con i quali, inutile dirlo, il film non ha alcun rapporto. Avevo cominciato (perché nulla mi interessa più del sincronismo ac­ cidentale di cui le parlerò a lungo in seguito) prendendo i testi di un documentario sulla fabbricazione dei panieri e metten­ doli sotto le nostre immagini. Ma non la finiremo più con Coriolano\ ... Lei dirà che sono scherzi domenicali che stupiscono alla mia età. Le risponderò con una battuta di Picasso. A un tale che gli rimproverava di essere un mistificatore egli disse che tutti i grandi pittori erano stati dei mistificatori, intendendo che i grandi pittori danno risposte molto tempo prima che le do­ mande siano poste e mistificano quindi la loro epoca. Non si devono temere gli scherzi. Essi testimoniano una distensione dello spirito in cui le singolarità si producono quasi da sole e senz’ombra di ricercatezza. È il caso del linguaggio infantile e delle risposte dei bambini ai test americani, che date da un adulto a mente fredda sarebbero geniali. Alain Fournier chiede a una bambina della scuola primaria in cui insegnava di descrivere una mucca. Risposta: “La mucca è un grande animale con quattro zampe che scendono fino a terra”. Test americani: si chiede a una bambina di descrivere l’inver­ no: “D’inverno la foresta è di legno”. A un’altra: “Quali so­ no gli organi della circolazione?”. Risposta: “I piedi”. A un’al­ tra: “Chi è Penelope?”. Risposta: “Penelope è l’ultima prova che Ulisse ha dovuto subire alla fine del suo viaggio”. Potrei citarne un’infinità dalla vena di The Young Visitors, dove la piccola Daisy Ashford descrive così la regina d’Inghil­ terra: “La Regina portava sul capo una corona piccola e costo­ sa”. Si potrebbe dir meglio? Non dimentichiamo che avendo Daisy Ashford sentito parlare del Crystal Palace, il Crystal Palace diventò per lei una strana meraviglia, paragonabile ai luoghi in cui si giudica il protagonista del Processo di Kafka e ai paesaggi di Lewis Carroll.

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Da quanto mi ha rivelalo di sé e dal suo interesse per il lin­ guaggio infantile capisco che la questione dell’età la preoccu­ pa. La preoccupa in un modo molto disinteressato poiché si tratta per lei di continuare a essere efficiente. La coscienza del­ la sclerosi dell’atto la ostacola nel suo lavoro?

Spesso e molto più dei rifiuti che mi vengono opposti, com­ prensibili se si pensa che la Francia è in qualche modo la “mia famiglia” e che si è sempre rimproverati dalla propria fami­ glia. Arrivo a non parlare mai dei miei successi all’estero con questa famiglia, perché la Francia mi risponderebbe con le parole della madre in Les Parents terribler: “Fuori ti adulano, ti incensano, e quando io ti dico le cose come stanno...”. Questo è dovuto alla difficoltà di avere una visione chiara del complesso della sua opera. Ma crede che, tutto sommato, si possa parlare di ingiustizia?

Non si tratta di ingiustizia, né di un odio o di una cabala. Esi­ ste piuttosto una cospirazione del rumore, analoga a una cospi­ razione del silenzio. Si direbbe che la difficoltà della mia opera irriti i critici spingendoli a gridare. Il grido è diventato come un riflesso, si è sostituito allo studio. Ci si ritrae davanti allo studio. Si sceglie una scorciatoia e si emette un grido. Que­ sto grido sembra ingiurioso o beffardo, ma non mi offende mai, perché mi evoca il riso con cui il pubblico esprime la sua sorpresa, anche se solo di ordine drammatico, non avendo per esprimersi che il riso e le lacrime. È raro che io apra un giornale senza che ne esca un grido di collera o di scherno nei miei confronti. Immagino che rinunciare a questo ritmo rappresenterebbe uno sforzo analogo a quello per interrom­ pere una crisi di singhiozzo, per esempio, sforzo che sarebbe folle esigere da persone che pensano e scrivono troppo in fretta, su un angolo di tavolino in un caffè o sulle ginocchia, a teatro. So che esistono, nell’ombra, giovani infastiditi da questo singhiozzo che mi studiano seriamente. Se ne vedran­ no più tardi gli effetti; quando, passato il singhiozzo, la stan­ iti

chezza farà della cospirazione del rumore una cospirazione del silenzio. Essi potranno allora prendere la parola. Inoltre, si è schiaffeggiatoti o schiaffeggiati dalla nascita. Esistono persone di cui si dirà sempre che hanno ricevuto uno schiaffo quando lo hanno dato e altre di cui si dirà sempre che hanno dato uno schiaffo quando lo hanno ricevuto. Io ap­ partengo al primo tipo, lo sono schiaffeggiato dalla nascita e gli impostori hanno buon, gioco perché sono pigro quando si tratta di mettere in chiaro le cose, e sapendolo ne approfitta­ no. Se sono derubato, lascio correre, preferendo il ladro alla polizia. Dopotutto, è colpa mia. Dovevo solo evitare di la­ sciarmi sedurre dal ladro, di aprirgli la porta, di lasciarlo solo nella mia camera. Nella cospirazione del rumore che mi cir­ conda, vi è anche cospirazione del silenzio. Questa cospira­ zione nasce dagli amici che non parlano mai di noi quando il nostro nome si impone e potrebbe esserci utile, e affermare la nostra presenza in un modo più vivo, più caldo che me­ diante la cospirazione del rumore. La radio ce ne dà una pro­ va. Quelli che vi parlano non pensano che possiamo ascoltarli e ne approfittano per dimenticarci, mentre i loro discorsi do­ vrebbero portarli a nominarci, a riferirsi alla nostra opera. // rumore è una delle calamità della nostra epoca, e non soltanto per lei. È estremamente sgradevole per tutti. La radio, per esempio, si aggiunge al fracasso generale e viola la solitu­ dine più intima...

È esatto. Un tempo l’artista si trovava di fronte al silenzio; oggi il silenzio fa un rumore terribile. Tutti si interessano di lutto. È colpa degli Enciclopedisti che si lamentavano di esse­ re giudicati da dei pasticcieri. Lo osserva Diderot. È curioso, perché sono stati loro a sopprimere l’élite e a reclamare il diritto di pensare per tutti. Ne risulta, nel 1951, che perfino la stupidità pensa. Questo non si era mai visto. A Parigi il pubblico di una sala giudica che potrebbe far meglio dell’auto­ re e recitare meglio degli artisti. Non esiste più pubblico, esistono solo giudici. Una folla individualista, inadatta all’ipno­ M

si collettiva senza la quale uno spettacolo non ha più alcuna ragione d’essere. Questo irrigidimento contro un’opera cessa non appena arriva il grande pubblico, che ha pagato e vuole godersi lo spettacolo. Non metto quindi sotto accusa il grande pubblico, ma la falsa élite che si è posta fra il grande pubblico e noi. Non vivendo che di mode, la falsa élite, quando uno spettacolo si contrappone a ciò che essa crede sia la moda, decide che questo spettacolo è fuori moda. Diamine! È fuori moda come tutto ciò che conta e si rifiuta di obbedire ai ver­ detti della stupidità. La differenza è che nel 1930 questo pubblico si scandalizza­ va. Nel 1951 disprezza. È diventato più forte. £ il giurato del tribunale. Che ne sarebbe di noi se non vi fosse il tribunale d’appello del grande pubblico e dei paesi stranieri, dove le nostre piccole dispute non giungono che col tempo?

In questo rumore generale penso che lei riservi un posto alle voci discordanti dei critici. Tuttavia, cerchiamo di essere giu­ sti. Conosce un critico cinematografico migliore degli altri?

Ci sarebbe Léautaud. Ma non vede i film. A teatro, quando una pièce gli piaceva, ne parlava. Quando non gli piaceva, parlava dei suoi gatti. Aveva ragione.

Le piace Léautaud? Sì. Marie Laurencin sostiene che è “blu cielo”. È vero. È blu cielo. Malgrado la sua cappellina, il suo berretto floscio, la sua canna, la sua sciarpa di lana, assomiglia a un pastello di Liotard. È un uomo del XVTII secolo. Un Enciclopedista, ma di sogno (si direbbe Mallarmé). Un Enciclopedista fiabesco. Pec­ cato che non diventi uno dei nostri giudici. Lei non ama molto la razza dei giudici?

Sa cosa diceva Jean Genet di Gide: “È dalla parte dei giudici e si china amorosamente verso gli accusati”. Si rifiutava di conoscerlo, diceva: “La sua immoralità mi sembra molto so­ spetta”. 32

Che cosa pensa dell’opera di Genet? Ammiro in lui un favolista. Fa parlare gli animali, cioè gli uomini che non hanno un linguaggio, i cui sentimenti sono troppo complessi perché possano esprimersi. E il suo essere ladro?

Colette afferma che io non sono un vero pigro. Jean Genet non è un vero ladro. Il furto è il suo passatempo preferi­ to. Sartre e io sosteniamo che è questo a renderlo di moda. La nostra epoca adora i truffatori, i ladri. È la ragione per cui Maurice Sachs ha successo. Vuole parlarmi di Sachs?

No, non ne penso che bene e non ne direi che male. Passia­ mo a altri esercizi. Ancora una parola su Jean Genet. Non ha appena fatto un film?

Sì. Un film molto bello in cui parla con grande naturalezza il linguaggio visivo. Ma è molto difficile riuscire a vederlo. Torniamo a lei. Dopo quanto ha detto dei giudici, vorrei sa­ pere se le è possibile porsi di fronte alle sue opere in posi­ zione di critico.

Scrivere un’opera non è leggerla. Montare uno spettacolo non è vederlo. Questo ci rende indulgenti nei confronti dei nostri giudici. Come potrebbero assimilare in due ore uno spettacolo che noi elaboriamo per tanto tempo? Quando un’opera si stacca da noi comincia a vivere secondo i lettori o gli spet­ tatori che la deformano adattandola alla loro sensibilità. Lo stesso vale per noi, che ci trasformiamo e diventiamo lettori e spettatori di un’opera che in quel momento non sapremmo rifare. Vista con un distacco, essa ci stupisce. Ne diven­ tiamo i critici. Arriva il momento in cui ci è impossibile cam­ biare alcunché in un testo di cui vediamo gli errori. Il fatto 33

è che gli errori, come le invenzioni più brillanti, fanno parte del tessuto dell’opera e i fili sono intrecciati in modo tale che tirandoli rischieremmo di distruggere tutto. La bellezza nasce da questo amalgama. Una pulizia eccessiva può distrug­ gere i microbi e le impurità da cui nasce la vita. Abbiamo co­ nosciuto delle donne americane che sono morte a forza di purificarsi gli organi. Espellevano il principio stesso della vita che dipende dai parassiti, per quanto sgradevole possa esserne la constatazione. Del resto le mie opere non sono mai state studiate seriamente né giudicate tenendo conto del rapporto che le lega tra loro. Sono assalito in un certo punto del mio percorso e accusato di leggerezza. Leggerezza, certo! e me ne vanto. Ma non quella che si crede. La leggerezza consiste nel giudicare leggermente un’opera, senza prenderne in considera­ zione le radici. Ogni opera ha i suoi nascondigli e ci si chiede se sia meglio scoprirli o lasciare che conservino i loro segreti. Rim­ baud è divorato dai pidocchi. Lo si denuda per potergliene ag­ giungere altri. Solo gli spiritisti interrogano il tavolo. Mai un ebanista che tocchi il tavolo e lo giudichi in quanto tavo­ lo. L’ideale è essere celebri, sconosciuti e scoperti. E molto curioso pensare che se seguissimo i consigli dei criti­ ci, dei giornalisti e, tutto sommato, dei nostri con temporanei, questi contemporanei distoglierebbero da noi i loro sguardi e non ci attribuirebbero neanche quel pizzico di importanza che li spinge a occuparsi della nostra persona. Non ce l’attribui­ scono che per la forza segreta di ciò che rifiutano e a cui ci ingiungono continuamente di rinunciare. Questa forza afferma la nostra presenza, che essi constatano, ma di cui sono incapaci di analizzare le ragioni. Pensano che sia dovuta a un errore, al caso, e che, grazie ai loro consigli, l’errore sparirebbe, il caso diventerebbe una posizione solida e legittima, e noi ci mette­ remmo sulla buona strada abbandonando quella cattiva.

Resta il fatto che esponendo qualcosa, ci si espone a lutto. Cre­ do che sia impossibile per un creatore reclamare i privilegi del­ l’anonimato e il conforto della solitudine... 34

Non mi riferisco solo ai film. Non si scrive per sé. Sarebbe ri­ dicolo, perché basterebbe pensare e anche pensare sarebbe già troppo. Basterebbe essere un capolavoro in silenzio. Si scrive per un lettore inesistente e capace di comprenderci me­ glio di noi stessi. Coloro che ci apprezzano assomigliano un po’ a questo lettore, ma come un abbozzo, molto da lontano: una vaghissima rassomiglianza di famiglia.

E qualche volta riscontra questa rassomiglianza di famiglia? In moltissime lettere. Un film considerato difficile (che passa per difficile agli occhi dell’ambiente cinematografico) e anti­ commerciale, se riassume un uomo che le sue altre opere non hanno fatto conoscere a fondo, corrisponde alla tiratura enor­ me di un libro di poesie. £ naturale che questo libro passi per molte mani. Ma moltiplica le nostre probabilità di incontrare le persone sensibili, che un artista non incontrava un tempo, o non incontrava che a poco a poco e qualche volta dopo la sua morte. Le lettere di cui le ho parlato me lo dimostra­ no. Non corrispondono mai agli articoli affrettati dei nostri giudici e non se ne preoccupano affatto. Non dimentichiamo il nostro grande privilegio. Esso deriva dal meccanismo del cambio. Se un franco corrisponde a mille franchi, una persona corrisponde a mille. Tenga presente che la scala resta la stessa e che, se le dodici persone che assiste­ vano a una conferenza di Baudelaire a Bruxelles sono diventate dodicimila, la comprensione non è per questo più grande. Ma c’è una quantità maggiore di tutto. Ho avuto il tempo di vede­ re l’evoluzione di questo fenomeno. Quando ero molto gio­ vane, i fornitori erano pochissimi e non ci si rivolgeva che a due o tre negozi. Il periodico “Je sais tout” fu un avvenimen­ to, come il giornale “Excelsior”. C’erano poche belle donne, di cui si conosceva il nome, e pochi ristoranti dove le si poteva incontrare. Pochi teatri. L’uscita di un nuovo libro faceva sensazione. Se ne trovavano pile dai librai. Un articolo era suf­ ficiente a lanciare o a distruggere qualcuno, e così via. Resi­ stere è diventato molto difficile nella moltitudine. Ora, il solo 35

problema in Francia (e altrove) è resistere. Sono ormai qua­ rantanni che resisto. Ammetterà che se la mia opera fosse ciò che dicono i critici non resisterei. L’incontro con Picasso nel 1916 è stato la mia grande scuola. Egli ha dato a tutti noi l’esempio della continuità nascosta, l’unica di cui non ci si stanca e che si scorge solo a distanza e da un certo angolo vi­ suale. Come il teschio di Holbein che presenta soltanto mac­ chie a chi lo guardi da lontano e di traverso. Il disegno di certe pavimentazioni a piastrelle si presenta in un modo, fino a quando improvvisamente l’occhio lo percepisce in un al­ tro. £ allora molto difficile tornare alla prima visione. Dob­ biamo attendere con pazienza il nuovo colpo d’occhio. Come si può pretendere, stando così le cose, che ci si accontenti del film, che il progresso tecnico farà presto sparire, e non lo si utilizzi semplicemente per una propaganda personale e pro­ fonda? D’altra parte, è naturale che il cinema, così come viene generalmente considerato, rappresenti l’arte della nostra epo­ ca, poiché quest’epoca ha l’ingenuità di credersi senza domani e di giudicare vecchia l’Europa, mentre deve essere molto giovane, e la Terra stessa, in rapporto all’età di un uomo, deve avere circa diciassette anni, l’età delle zuffe... Se capisco bene, lei è uno di quelli che hanno fiducia nella durata delle cose su questo pianeta.

Di rado, tuttavia, dimentico che ci troviamo su una sfera che gira a tutta velocità e perdo di vista l’insieme di questa mac­ china immersa in un plasma che ha una spiacevole tendenza a espandersi. E questo punto di vista... cosmico non la rende pessimista, non la disturba nel suo lavoro? Non la spinge verso l’“a che scopo”? Al contrario. Il nostro piccolo mondo diventa per me più prezioso. E questo grande mistero mi rende più modesto e in­ cline ai lavori senza importanza.

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Troppo modesto... No. Shakespeare stesso faceva lavori senza importanza se li si compara al meccanismo dei mondi. La nostra sfera esplode­ rà, si ghiaccerà, che so io? Allora, perché sentirsi feriti da una critica?

Bisogna che io interrompa qui il monologo di un uomo in pre­ da al suo demone e che la riconduca rispettosamente ai piccoli fatti precisi che lei, d'altronde, ama. Il mondo del cinema, quando lo scoprì provenendo da un altro mondo, che cosa pre­ sentò di completamente nuovo per lei? La mia grande scoperta è che il cinematografo è il rifugio del­ l’artigiana to. In genere, l’artigianato è considerato come l’ari­ stocrazia del ceto operaio. Si cerca di abolirlo. In un teatro di posa l’équipe è artigianale nel senso più stretto del termine, soprattutto in Francia dove una persona piena di risorse ha ancora un ruolo importante. L’impossibile diventa possibile grazie al genio (nel senso stendhaliano del termine) dell’ope­ raio francese che si impunta e trova sempre una soluzione di fortuna. La carenza di materiale aiuta questo genio a soprav­ vivere in un’epoca pronta a farlo sparire. Insomma, un teatro di posa è l’ultimo luogo feudale in cui tutti si fanno in quat­ tro per il signore, che non si presenta come un despota, ma come un compagno (come si diceva all’epoca delle cattedrali) che lavora quanto gli altri. Tutta la differenza è qui (e in questo il termine feudale è forse inesatto). Quando giro un film, arrivo per primo, me ne vado per ultimo e non dimostro mai un attimo di stanchezza. Durante le riprese di La Belle et La Bète furono i miei operai (macchinisti e elettricisti) a rifiutarsi di lavorare, sostenendo che avrei rischiato di morire se avessi continuato a lavorare così intensamente, e a ordinar­ mi di lasciare Saint-Maurice e di farmi accompagnare all’ospe­ dale Pasteur. Se analizziamo questo atteggiamento, ci appare chiaro che essi non approfittavano della mia malattia per fare un po’ di vacanza, ma proteggevano il seguito del lavoro e mi 37

amavano e amavano l’opera intrapresa. Non conosco regista che, parlando della sua équipe, non dica: “È la migliore di tutte”. Ciò mi riporta a un’idea di famiglia che non ha nulla a che vedere con l’idea di una famiglia in cui tutti si disperdo­ no, ma si avvicina all’antica idea di famiglia (o di villaggio) le­ gata da un interesse comune e dalla cortesia che nasce dai rapporti umani, cortesia scomparsa nella società moderna dove i rapporti umani non esistono più. Ho conosciuto io stesso un esempio estremo dei rapporti uma­ ni che le sue opere sanno ricreare, a sua insaputa e quasi suo malgrado. Ho sentito un suo nemico personale recitare una sera a memoria una sua poesia che egli considerava la più bella della letteratura contemporanea, mentre la attaccava quo­ tidianamente nei suoi articoli.

Lei mi fa pensare a una corporazione superiore analoga a quel­ la degli Iniziati delle logge segrete. Mi riferisco ai rapporti profondamente amichevoli che esistono oggi tra uomini che creano opere diversissime e i cui sostenitori si immaginano che debbano odiarsi. Lei sa, per esempio, che cosa pensa Orson Welles di Orphée. È certamente uno dei suoi più pro­ fondi “supporter”, e tuttavia un giovane sostenitore di Citizen Kane crederà che gli sia vietato esserlo anche di Orphée. Lo stesso vale per la mia amicizia con Sartre e tutti gli artisti che sembrano contraddirsi ma sono uniti nell’impegno totale del loro spirito, qualunque sia la causa cui appartengono. Ecco la famosa parola! Non mi lascerò sfuggire questa occasio­ ne senza chiederle che cosa pensa della teoria ^e/Z'impegno. Sartre sa cosa ne penso. Il mio impegno consiste nel perder­ mi fino al limite più inaccessibile di me stesso. Se mi impe­ gnassi aldifuori tradirei sia le esigenze del mio impegno inter­ no. sia quelle del mio impegno esterno. Nella nostra epoca l’uomo libero passa per un vile, mentre egli non si riserva alcun posto dove i colpi non possano rag­ 38

giungerlo. È lapidato da tutte le parti, come la statua di neve di Le Sang d’un poète... I miei amici Francois Mauriac e Henri Jeanson mi diverto­ no quando dichiarano che sono comunista perché firmo ar­ ticoli su un giornale comunista. Oltre al fatto che questo partito non esita a sacrificare uno dei suoi membri e che un articolo, esterno al partito, non assicura alcuna prote­ zione a chicchessia, la mia politica è quella dell’amicizia, non della prudenza. Mi sembra piuttosto imprudente, detto fra noi. Eluard e Aragon sono ottimi amici, migliori di quelli che mi rimproverano di conoscerli. Resterò loro amico qua­ lunque cosa accada, e se mi chiedono un testo glielo darò. Mi dispiace dover dire cose tanto evidenti a uomini per i quali i doveri dell’amicizia sembrano aver perso ogni importanza. Mi accusano di leggerezza. Per me, la leggerezza consiste nel cam­ biare atteggiamento secondo le circostanze. D’altronde, Giran­ do ux mi diceva sempre: “Quando vogliono attaccarci, attac­ cano te. Tu sei il nostro parafulmine ideale”.

Ci siamo avvicinati a Le Sang d’un poète, cerchiamo di non abbandonare 1‘argomento. Come si avventurò in questo film? Non sapevo che la mia posizione fosse la solitudine. Perché a quell’epoca la politica era una politica delle lettere, delle arti, senza rapporto con la politica propriamente detta. È qui la grande differenza con l’epoca attuale. Le Sang d’un poète era per me un’espressione di questa politica e si contrappo­ neva alla politica surrealista, allora onnipotente perché ap­ pena dichiarata tale. Ciò che complica le cose è il fatto che noi ammiravamo gli stessi valori e combattevamo allo stesso livello, mentre oggi la confusione dei livelli renderebbe tutte queste battaglie incomprensibili. Le ha già rese incomprensi­ bili, poiché, come le ho detto, in America del Sud i giovani attribuiscono i miei film a Bunuel e mi attribuiscono i suoi sotto l’etichetta surrealista.

Dato ciò che si proiettava generalmente sugli schermi, penso 39

che lei abbia inteso fare con Le Sang d’un poète un'opera di protesta.

No, non credevo di fare un film. Credevo di esprimermi per mezzo di un veicolo di cui i poeti di epoche precedenti non disponevano. Tant’è vero che, senza rendermene conto, ritrae­ vo me stesso, come accade a tutti gli artisti per i quali i mo­ delli non sono che un pretesto. Freud ha ragione quando scri­ ve che in Le Sang d’un poète si osserva attraverso un buco della serratura un uomo che fa toeletta. Vi sono state innu­ merevoli esegesi di Le Sang d’un poète, che arrivano fino a pretendere che si tratti della storia del cristianesimo nei mini­ mi dettagli. Quando chiesi spiegazioni a uno dei giovani fi­ losofi del gruppo responsabile di questa esegesi, mi disse che solo una cosa lo disorientava, una delle prime frasi del film: “Mentre tuonavano in lontananza i cannoni di Fontenoy...”. “Diamine!”, aggiunse, “Fontenoy fu la sede del Con­ gresso eucaristico”. E siccome protestavo un po’, esclamò, cer­ cando una prova inconfutabile: “Non può negare che l’im­ pronta del fanciullo morto sulla neve sia quella del velo di Veronica”. E ancora: trecento ragazze di un centro di psica­ nalisi cattolica videro nella ciminiera che comincia a crollare all’inizio del film e finisce di crollare alla fine (per mostrare che il tempo dell’azione ha l’immediatezza di quello del sogno) un simbolo fallico. La metà degli esegeti considera Le Sang d’un poète un film erotico e l’altra metà un’opera glaciale, astratta, priva di ogni umanesimo. È in seguito a queste espe­ rienze che ho dichiarato: “La poesia nasce da chi non si preoc­ cupa di lei. Noi siamo ebanisti. Gli spiritisti vengono dopo ed è compito loro far parlare il tavolo”. Ma lei stesso, ebanista, ha qualche idea sul significato di Le Sang d’un poète?

I nostri pensieri una volta inscritti non sono più veramente nostri. In quanto pensieri sono già fantasmi delle nostre cre­ denze. Li inscriviamo per dar loro carne e ossa, ma solo di 40

rado riusciamo a comunicargli un fisico, un corpo che corri­ sponda con esattezza a ciò che essi sono. S’intromettono la sintassi e la mania di creare che ce ne allontanano, ci obbliga­ no a abbellirli, a renderli più singolari; in breve, a dotarli di una forza e di una vita proprie che spesso si rivolgono contro di noi.

Tuttavia, mentre girava il film, era cosciente di ciò che faceva?

Non più di un uomo che sonnecchia davanti al fuoco in uno stato di semicoscienza. Il lavoro non era altro che semplice lavoro, paragonabile al gesto di quest’uomo che nel dormive­ glia sistema i ceppi nel camino. Si può osservare che in questo film, che è diventato, involon­ tariamente e malgrado l’autore, l’archetipo del film poetico, il testo che accompagna le immagini è scarno, proprio il contra­ rio di ciò che si chiama un testo poetico... Ho voluto evitare il pleonasmo. Ho cercato di non sovrappor­ re un testo poetico a un’immagine che già disapprovo perché tale, nella misura in cui ciò che vediamo si vede, e c’è nel film un realismo dell’irreale, cioè una prova visibile che questo irreale esiste in sé, in quanto oggetto e in quanto lo mo­ stro. Credo, del resto, che il successo duraturo di questo film sia dovuto ai miei errori e alla possibilità che offro agli spet­ tatori successivi di introdursi nell’opera e di avervi un ruo­ lo. Un’opera più chiusa, come Orphée, offre meno accesso e molta più gente picchia contro la porta. La velocità degli spet­ tacoli cinematografici non lascia il tempo di provare diverse chiavi nella serratura.

Le viene spesso rimproverato di non continuare a fare Le Sang d’un poète e di aver abbandonato quella via singolare... Questo perché, fortunatamente, ho fatto Le Sang d’un poète in un’epoca in cui la singolarità si presentava sotto gli auspici della singolarità, cioè ne portava gli attributi, e in seguito (poiché ogni creazione è lo spirito di contraddizione nella sua 41

forma più alta) dovemmo contraddire la singolarità visibile con quella, invisibile, che poteva essere pericolosamente con­ fusa con una marcia indietro. È il caso di Les Parents terribles che furono, nel loro genere e per il loro tempo, un’audacia ana­ loga a quella di Le Sang d’un poète. Più audace, direi quasi, poiché meno palese e più difficile da vedere.

Attenzione! La colgo in fallo. Non cerchi di imbrogliare il mio ordine cronologico. Les Parents terribles non succedettero im­ mediatamente a Le Sang d’un poète, e per il primo film che realizzò da solo, lei scelse un soggetto, se non poetico, almeno fantastico: il racconto di fate di La Belle et La Bete.

Una delle ragioni principali per cui lo scelsi è che lo considera­ vo un racconto di fate senza fate. Ho notato che in La Belle et La Bète (come in L’Elernel Retour), i due passaggi in cui la poesia si esprimeva meglio deludevano molti spettatori. Nel primo film, le sorelle nella corte, nel secondo, il garage. Il fatto è che la gente si aspetta le fate e, in mancanza delle fate, ciò che chiama secondo una terminologia alla moda: “l’evasio­ ne”. Ora, l’evasione non ha alcun rapporto con la poesia au­ tentica. Ciò che conta è {'invasione, cioè che l’anima sia invasa da termini o oggetti che, non presentando un aspetto alato, la obblighino a immergersi in se stessa. È quindi semplicemen­ te per una frivola pigrizia che il pubblico preferisce la poesia poetica, l’incantesimo fantastico e respinge ciò che esige da lui uno sforzo personale nella percezione del fantastico o del­ l’incantesimo. Ma in La Belle et La Bète le è stato soprattutto rimproverato proprio di imporre la sua mitologia personale in una storia che non era sua. Oltre al fatto che ho scelto questa favola perché corrispondeva alla mia mitologia personale, la cosa più curiosa è che tutti gli oggetti e gli atti che vengono attribuiti a me si trovano nel testo di Leprince de Beaumont, scritto in Inghilterra, dove non si contano le storie di mostri che si nascondono nei castelli 42

di famiglia. D’altronde è quanto c’è di vero nel testo che mi ha tentato e mi ha spinto verso il realismo irreale di cui le ho parlato. Adattando questa favola, aveva previsto che esisteva a tale riguardo una richiesta inconscia, dato l’enorme successo ottenuto presso il grande pubblico?

Era difficile prevederlo. Il primo contatto con il pubblico al festival di Cannes aveva sfiorato il disastro. La terribile élite dei giudici riteneva che il film sarebbe passato aldisopra della testa dei bambini e sarebbe parso una bambinata agli adul­ ti. Lo straordinario successo del film cominciò dopo l’ostacolo di questo muro che ci viene sempre messo di fronte e che aveva sconcertato il mio direttore di produzione, al punto che egli mi supplicò di tagliare una delle scene migliori dei film, per chiedermi tre anni dopo di rimetterla.

Questa esperienza avrebbe dovuto convincerla che il pubblico si aspettava da lei qualcosa del genere. Perché in seguito ha cambiato?

Non dobbiamo obbedire al pubblico, che non sa cosa vuole, ma obbligarlo a seguirci. Se si rifiuta, bisogna giocare d’astu­ zia: immagini, divi, scene e altre lanterne magiche adatte a in­ curiosire i bambini e a fargli mandar giù lo spettacolo, che poi digeriscono. Se non lo eliminano subito, il veleno benefico en­ tra nell’organismo. A poco a poco il morbo della stupidità si attenua, arrivando, in certi casi abbastanza rari, a guarire. Vorrei ora affrontare alcune questioni di ordine tecnico, che non mi paiono prive d’interesse. Sappiamo che lo svolgimento di un film ha leggi molto rigorose, come le sequenze; non c’è la libertà di cui gode lo scrittore quando scrive un romanzo o un poema, che si dilatano o si accorciano secondo la sua volontà. Le ha creato dei problemi, iniziando a lavorare nel cinema, la durata richiesta dalle sale di proiezione?

Le confesso che nei miei film e nelle mie pièce non mi sono 43

mai preoccupato della durata. Portiamo in noi, nel ventre, come il negro delle fiere, l’orologio che ci fa risvegliare all’ora esatta, senza ricorrere alla sveglia. Mi sono state spesso oppo­ ste delle cifre e erano le cifre a rivelarsi sbagliate. Il nostro istinto è più sicuro. Aggiungo che in un film un metraggio da 2400 a 3000 metri è sconsigliabile. Troppo corto per corri­ spondere al romanzo, troppo lungo per corrispondere alla no­ vella. In tal modo i film sono esposti di continuo a insidie che non sono simili a quelle che ci tendono le altre arti. Riconosce quindi di essere talvolta vittima della tecnica?

È molto difficile parlare di tecnica per un poeta attivo, poiché tutta la sua arte è fatta di numeri che non dipendono da cifre, di equilibri che passano per mancanza di equilibrio e di un ordine giudicato disordine. Dopo Orphée, Clouzot diceva: “Questo film è la prova che non esiste tecnica, ma soltanto invenzione e che la tecnica è quella che ognuno si inventa se­ condo il lavoro che compie”.

Sempre restando sul terreno della tecnica, come se l’è cavata con collaboratori così importanti e apparentemente così capric­ ciosi come Christian Bérard o Georges Auric? Come è riuscito a lavorare con loro? Per quanto riguarda Christian Bérard, la sua pigrizia di uomo infaticabile era estrema. Era vittima di ciò che la psicanalisi chiama “angoscia dell’atto”. Lo prendevo con me quando in­ ventavo l’opera. Le sue trovate me ne ispiravano altre. Mi raccontava scene e costumi, ma quando ci si doveva mettere al lavoro, scartava come un cavallo. Conoscevo questo meto­ do. Lo tradivo subito e, senza preoccuparmi di lui, facevo eseguire bozzetti delle scene e dei costumi secondo le indica­ zioni che mi aveva dato. Non sopportando i miei errori, si precipitava a correggerli sudando abbondantemente per la di­ sperazione. Jouvet avrebbe riconosciuto più tardi i vantaggi di questo sistema, che permetteva una collaborazione meravi­ gliosa portando a un’intesa totale tra scena e regia. 44

Una collaborazione così completa mi fa pensare che lei, come Bérard, abbia adottato per La Belle et La Bete quella splen­ dida “atmosfera0 olandese che evoca Vermeer, Rembrandt, Pieter de Hoogh e che colloca in un luogo molto preciso una fiaba che non apparteneva in origine né a un paese né a un’epo­ ca definiti.

Questa idea, grazie alla quale rendiamo realistico l’indefinito e gli assegniamo una data, fu suggerita dalla casa che avevo scoperto in Turenna. Stanco di cercare ciò che chiamiamo gli “esterni”, mi apprestavo con Wakhevitch a ritornare sui miei passi, quando egli mi disse che gli avevano parlato di una piccola proprietà, proprio sotto la strada che dovevamo pren­ dere. Confesso che la stanchezza mi spingeva a rifiutare que­ st’ultima visita, ma egli insistette. Scendendo per un pendio da cui non si scorgeva né casa né giardino, udimmo la mia vo­ ce. La figlia del proprietario faceva sentire i miei dischi a suo padre. Fummo quindi accolti come un'apparizione miracolosa e, come per miracolo, trovammo, nei minimi dettagli, le ar­ chitetture e i luoghi che temevo di dover ricostruire. Questa proprietà imponeva uno stile e lo stile determinò il resto. Ma la coincidenza è ancor più sorprendente: tutte le guarnizioni in ferro della casa rappresentavano la Bestia. Poiché ha parlato di Vermeer e degli olandesi, vorrei aprire una parentesi sulla pittura nel cinematografo. L’attuale orga­ nizzazione dei programmi è disastrosa. Essa trascura compietamente la produzione di cortometraggi in cui la Francia si è segnalata per capolavori come Guernica e Van Gogh di Resnais. La pittura filmata ritrova, curiosamente, una vita intensa. I paesaggi di Van Gogh che furono considerati come i più folli, si rivelano di una concretezza tale da generare l’illusione di esterni reali. È necessario che la macchina da presa si avvicini molto perché ci si possa accorgere che il paesaggio è dipinto. E ancora: Gremillon ha filmato le tele più mediocri del Salon degli artisti francesi. Ora, poiché queste tele sono in un certo 45

senso già delle messinscene, si liberano di quanto hanno di ridicolo e diventano affascinanti. Ci si stupisce, se ne apprezza il rilievo e la “mise en place”. Si vorrebbe averle in casa. È la prova che ci offre il cinematografo dell’onestà del pittore. Ogni quadro pretenzioso per la sua materia risulta irrappresentabile sullo schermo. Degas diceva: "La grande pittura è liscia". Pensava a Ingres. A proposito di quest’ultimo e pensando alle metamorfosi di arti­ giano che la caratterizzano, mi chiedo perché si parli sempre di "violino di Ingres”1 quando si cambiano i propri strumenti di lavoro.

E perché Ingres non potrebbe essere un buon suonatore di violino? Il collo della sua Teti è un colpo d’archetto di violi­ no. Vorrei saper suonare il violino come Ingres! Torniamo ai suoi film e a Bérard... Dopo i preparativi che avevamo fatto insieme in campagna, la sua morte mi ha lasciato solo alle prese con il lavoro di Orphée. Essendo impossibile affidare a un altro questa zona, che egli, come me, voleva priva di lirismo e antidantesca, e di cui possiedo una serie di tempere che richiama le strade di sogno del mercato dei Vini (quai de Bercy), girai nelle rovine delle caserme di Saint-Cyr. In effetti, nel mio film i luoghi di morte non sono i luoghi della Morte e fui molto colpito dalle parole di un religioso secondo cui, come accade nell’istan­ taneità del sogno, questa zona precedeva la morte e rappresen­ tava i pochi secondi del coma. È sorprendente che quando Bérard si preoccupava di Orphée, la sua preoccupazione si concentrasse sempre sul personaggio che rappresenta una delle innumerevoli figure della morte. Cercava di rendere questa morte elegante (nel senso più serio del termine) e diceva ri­ dendo: “Tutto ciò che viene a contatto con la morte è costoso e io ne so qualcosa poiché mia madre era nata Borniol”. La 1 “Violon d’Ingrcs”: hobby, passatempo preferito. 46

morte di Bérard è irreparabile. Era il solo a comprendere che l’incantesimo non si accorda con l’indefinito e che il mistero esiste solo nelle cose precise. Sapeva anche che nulla è più facile del falso fantastico quando si fa un film, e lo evitava con una grazia infallibile.

Parliamo ora della musica da film e dell’importanza che le at­ tribuisce. La partitura di Georges Auric per La Belle et La Bète è molto importante. Egli è d’altronde il musicista di tutti i suoi film... Nulla mi sembra più volgare del sincronismo musicale nei film. È anch’esso qualcosa di pleonastico. Una sorta di pania dove tutto s’invischia e dove il gioco (nel senso in cui in francese si dice del legno che si imbarca) non potrebbe produr­ si. Il solo sincronismo che mi piaccia è il sincronismo acciden­ tale, la cui efficacia mi è stata provata da innumerevoli espe­ rienze. L’esempio migliore, che non riguarda il cinema, è quello del balletto Le Jeune Homme et la Mort in cui, all’ultimo mo­ mento, avevo messo la “Passacaglia” di Bach, perché le danze, regolate su musiche jazz, assumessero una sorta d’inattesa gran­ deur. Fin dalla seconda rappresentazione i danzatori “s’incli­ narono” verso la musica, il direttore d’orchestra “s’indinò” verso i danzatori e l’ordine fu ristabilito, ahimè, a tal segno che nessuno voleva credere che la coreografia non era stata re­ golata su Bach. Ma come può sperare di ottenere il sincronismo accidentale con una musica scritta appositamente per un film?

Lo provoco. Accade spesso che Auric si irriti per questo, ma in seguito mi approva sempre.

Come lo provoca? Cambio l’ordine delle musiche. Uso questo sistema fin da Le Sang d’un poète, dove spostai e invertii le musiche di tutte le sequenze. Non solo questo contrasto dava rilievo all’imma­ gine, ma le “musiche spostate” aderivano fin troppo stretta­ 47

mente alle azioni e sembravano scritte apposta. In La Belle et La Bete la musica di Georges Auric è fatta per l’immagine. Mi era dunque quasi impossibile rompere un ritmo senza man* care di rispetto al compositore. La musica era così bella che si sarebbe detto che Auric, avversario della musica espli­ cativa, si fosse servito volontariamente del metodo dei con­ trasti: cori lenti su azioni rapide, eccetera. Invece in Orphée, con cui mi riallacciavo, a vent‘anni di distanza, a Le Sang d’un poète orchestrando in certo modo il tema suonato un tempo con un dito solo (so che mi ripeto, ma non posso fare altri­ menti), mi presi nei confronti del mio collaboratore le libertà più irrispettose. Registrai la sua musica senza immagini (con il cronometro) e misi, per esempio, lo scherzo composto per la scena comica del ritorno a casa sull’inseguimento attraverso la città deserta. Meglio ancora, registrai i lamenti di Euridice, di Gluck, contando di servirmene solo per la radif dello chalet, tagliai la musica di Auric quando Heurtebise entra per la pri­ ma volta da Euridice e, accorgendomi che la prima e l’ultima nota di Gluck corrispondevano alla prima e all’ultima imma­ gine della scena, approfittai vigliaccamente di questo piccolo prodigio. Piccolo prodigio abbastanza frequente tra coloro che calcolano soltanto per istinto. Mi accadde la stessa cosa in Les Enfants terribles, quando l’andante di Bach si trovò a coincidere perfettamente con il momento in cui Paul entra nella hall notturna e il momento in cui vi si sdraia. Altra libertà irrispettosa. Registrai i tamburi dei batteristi di Katherine Dunham e li sovrapposi all’orchestra finale di Orphée spingendo talvolta l’effetto fino a tagliare l’orchestra e a non lasciare che i tamburi. Lo racconto perché ho sentito Georges Auric dichiarare alla radio che mi approvava e rico­ nosceva che questi “tagli” del regista davano alla sua musica più forza e più presenza.

Poiché La Belle et La Bète era il primo film fatto da lei, sup­ pongo che abbia scelto René Clément per affrontare con mag­ 48

giore sicurezza i problemi tecnici. Temeva che certi det­ tagli le sfuggissero? Forse inizialmente ho scelto Clément con questo timore. Ma a poco a poco egli si rese conto, e anch’io, che la sua forma­ zione cinematografica si opponeva a tutti i miei metodi. Ebbe allora la grande gentilezza di sostenere che gli insegnavo un mestiere nuovo, quando in realtà mi affidavo alla sua formazio­ ne per scandalizzarla, e questo mi aiutava nelle mie ricer­ che. La nostra collaborazione fu squisita. Egli montava, nello stesso tempo, La Bafatile du rail, e lavoravamo insieme a questi due film così diversi l’uno dall’altro. Non che io abbia avuto alcun ruolo in La Baiatile du rail, a parte i consigli che suggerisce un occhio estraneo e che l’occhio di Clément, abi­ tuato al ritmo del suo film, dava in cambio al mio. Il nostro solo dramma in La Belle et La Bete fu il terribile truc­ co di Jean Marais che durava cinque ore e da cui egli usciva come da un’operazione chirurgica. Laurence Olivier mi confes­ sò un giorno che non avrebbe mai avuto la forza di sopportare un simile supplizio. Io affermo che bisogna avere la follia del suo mestiere e l’amore che Marais ha per il suo cane per osti­ narsi a passare dall’uomo all’animale. I nostri giudici attribui­ rono il genio dell’attore a una maschera. Ma Marais non aveva una maschera, e per vivere il ruolo della Bestia attraversava nel suo camerino le terribili fasi che portano il dottor Jekyll a diventare Mr. Hyde. Pochi si sono accorti di una particolarità di Josette Day nel ruolo di Bella. Lei è stata danzatrice. Ora, l’uso del rallenta­ tore per una persona che corre pone molti problemi. Tutti i difetti di un’andatura diventano evidenti. Ecco perché le im­ magini al rallentatore di un cavallo da corsa o di un incontro di boxe sono così belle mentre quelle di una folla sono così ridicole. Mi dilungo su particolari, ma non è inutile spiegare ai lettori attenti i mille trabocchetti di un mestiere che il pub­ blico crede così semplice. Ogni momento se ne apre uno sotto i nostri piedi. È importante quindi per i piedi dar prova di 49

intelligenza. E ecco che spesso il meraviglioso operaio francese ci evita qualche guaio. Nulla è più sensibile delle ciabatte di questi uomini silenziosi che si muovono tra opere che dovreb­ bero sorprenderli e che tuttavia, di dettaglio in dettaglio, di­ ventano per loro così familiari. Vuole che parliamo ora di Ruy Bias, il film che ha seguito La Belle et La Bete? Con Ruy Bias si trattava di fare un “western”, un film di cap­ pa e spada. Non mi sono impegnato in prima persona in questo film, perché era più un gioco che una necessità interna. Per questa ragione l’ho affidato a un regista che assistevo, in qual­ che modo, e di cui mi era impossibile cambiare il ritmo. Perché un film, qualunque film, è sempre il ritratto del suo regista. In Ruy Bias, compreso molto male dalla famosa élite e molto ama­ to dal grande pubblico, si esprimono il fascino e la malizia di Billon. Billon e io fummo meravigliati, una volta di più, dalla finez­ za e dall’intelligenza dell’artigianato cinematografico. Chiede­ vamo ai decoratori di risolvere un problema quasi insolubi­ le: costruire una falsa Spagna e non perdere mai di vista il suo romanticismo. Cercavano una quantità di strani documenti che erano per la Spagna ciò che Viollet-Le-Duc è per il Me­ dioevo. Grazie a loro e a Wakhevitch, diedi corpo a uno dei miei sogni: sospendere alcune costruzioni nel vuoto e non adoperare fondali. Una carcassa spagnola si stagliava su vel­ luti neri come l’inchiostro di china dei disegni di Victor Hugo. Veniamo ai film in cui si è impegnato in prima persona: L’Aigle à deux tétes, Les Parents terribles e infine Orphée. De­ yo aggiungere Les Enfants terribles?

Les Enfants terribles sono un’avventura eccezionale. Avevo sempre rifiutato le offerte. Accettai quella di Melville perché il suo stile da franco tiratore mi sembrava adatto a comunicare al film l’improvvisazione del 16 millimetri di cui le ho par­ lato. Inoltre, la mancanza di capitali e l’assenza di divi ci »

obbligavano a girare in ambienti reali. Girammo nell’appartamento di Melville, un appartamento spaventoso che sua moglie non sopportava e che lui aveva affittato nella speranza di que­ sta impresa. Girammo in vagoni ferroviari. Girammo nell’atrio inverosimile del “Petit Journal”, la cui grandiosa laidezza non si inventa. Girammo da “Laurent”, in avenue Gabriel, e, quando Melville era malato, filmai perfino la costa d’estate, a Montmorency, sotto la neve! L’unico studio al quale ricor­ remmo, per la camera, fu il teatro Pigalle i cui dispositivi scenici impraticabili ci furono estremamente utili. Infatti, invece di sollevare la macchina da presa con gru che non esistono in Francia, abbassammo la scena mobile fino alle can­ tine. Sia detto incidentalmente, non potrò mai fare abbastan­ za elogi a questo film stroncato dalla critica. Al punto che non potrei rileggere il mio libro senza vederlo attraverso questo film e senza attribuire ai miei eroi lo stile di Nicole Stéphane e di Edouard Dermit. Faccio una riserva per quanto riguarda l’allievo Dargelos. Melville riteneva importante affidare il suo ruolo e quello di Agathe alla stessa ragazza. Ora, Dargelos è un personaggio così maschile, con un prestigio che non può appartenere che a un giovane fiero delle sue prerogative di uomo, che il talento di una interprete non poteva bastare a renderlo plausibile. Per il resto, lo ripeto, mi inchino e affermo che il film si classificherà un giorno in prima linea. Dimenticavo Johann Sebastian Bach la cui funebre allegrezza si accorda splendida­ mente con la trama. E se vuole un aneddoto piacevole, i negozi di dischi ai quali si chiedeva in seguito questo concerto per quattro pianoforti rispondevano ai clienti: “Vuole la musica degli Enjants terribles?”. Questo mi ricorda un altro aneddoto molto buffo. Abitavamo un tempo a Tolone con Georges Davis, un giovane americano che dirige oggi a New York ri­ viste con enormi tirature. A quell’epoca si dava a Tolone un film dell’attore Bach, En bordée. Davis, sempre tra le nuvole, entrò da un negoziante di dischi e gli chiese se avesse qualcosa 51

di Bach: uEn bordée?* si informò il negoziante. “No, in fughe”, rispose seriamente Davis.

Les Enfants terribles ci portano ai Parents terribles...

Benché siano stati girati prima, l’ordine è questo. Devo ammet­ tere che Les Parents terribles sono, cinematograficamente par­ lando, il mio grande successo. Con essi “concludo il mio ciclo”, come diceva Barrès. Mi proponevo tre cose: 1) fissare l’inter­ pretazione di artisti ineguagliabili; 2) aggirarmi tra di loro e guardarli in viso invece di vederli da lontano, su un palcosce­ nico; 3) guardare attraverso il buco della serratura e sorpren­ dere le mie belve con il teleobiettivo. Non so se mi sbaglio, ma mi sembra che invece di dilatare l’opera, come mi era accaduto in L'Aigle à deux téles (che viene prima e di cui parleremo dopo), la raccolgo, la concentro e taglio le innume­ revoli “tradizioni” degli artisti, cioè gli ah! e gli oh!, i tic e le aggiunte inevitabili nel teatro, quando gli stessi interpreti si installano nei ruoli e li deformano come un costume. La pièce riprendeva dunque sullo schermo la forza della scrit­ tura e il nero dell’inchiostro che le luci della ribalta diluisco­ no. Pur aggirandomi tra le camere, conservavo l’atmosfera chiu­ sa della pièce. Mostravo ! corridoi burrascosi che hanno osses­ sionato la mia infanzia e che sono le strade delle famiglie che non escono mai di casa. Dovrei dilungarmi sui cinque attori, simili ai venti di Andersen che infuriano nella caverna. Credo persino che la perfezione della loro interpretazione riesca a rendere invisibile l’interpretazione stessa e a limitare le lodi che vengono loro tributate e la riconoscenza che gli devo. Yvon­ ne de Bray è entrata con decisione e senza preparativi in un mestiere che sembra così contrario al suo disordine. È incre­ dibile pensare come non ha sacrificato nulla e pochi minuti sono bastati a farle comprendere che in uno studio ci si muove seguendo linee di gesso. Posso dire che ho messo questa leonessa in gabbia e che la sua elettricità vi crepita ancor più forte. La stessa difficoltà non si presentava nel caso di Gabrielle Dorziat, la cui scienza nella tempesta è sconfinata. Chiesi a 52

Marcel André di abbandonare la cattiva abitudine del dolce far niente della Scuola cinematografica, di non moderare i suoi gesti e, se era necessario, di ostruire l’obiettivo con le mani. Josette Day, la cui bellezza costituiva un handicap agli occhi dei nostri giudici, fu perfetta per decenza e riserbo. Sem­ brava un uccello tra i cacciatori. Ho lasciato per ultimo Jean Marais perché la sua interpretazione sfugge all’analisi. Non solo è prodigiosa, ma lo è tanto più in quanto, non avendo più l’età che aveva quando interpretò per la prima volta la parte, recitò ciò che eseguiva un tempo istintivamente e triplicò la sua efficacia con una mescolanza di fuoco e di stile.

Mi sorprende, sentendola parlare dei Parents terribles, ritrova­ re la stessa preoccupazione di quando parlava di La Belle et La Bete. Sembra che continui sulla stessa linea senza rottura, men­ tre per noi c’è una rottura e la volontà di uno stile diverso... Anzitutto, Les Parents terribles non sono un film realista, poi­ ché non ho mai conosciuto una famiglia che viva in quel mo­ do. È una descrizione quanto mai immaginaria. Ho compietamente inventato questa famiglia perché desideravo, all’epoca della pièce, fare una mescolanza tragicomica e, grazie a un in­ treccio da vaudeville, mettere i miei personaggi in situazioni che Roger Lannes paragona al pigia pigia provocato da un incendio, quando la gente si schiaccia nelle porte. L’idea di realismo non si presenta alla mente dei nostri giudici che di fronte allo spettacolo delle vie e degli edifici popolari. È così che hanno battezzato “neorealismo” film in cui i nostri compagni italiani danno prova di un’immaginazione analoga a quella dei narratori arabi. Come Harun-Al-Rachid si traveste per scoprire dei segreti, essi si travestono da macchina da presa per entrare nelle case dei poveri, salire e scendere scale, se­ guire marciapiedi, in breve, per scoprire i più piccoli dettagli di avventure altrettanto bizzarre e irreali che le avventure del sogno. È una delle ragioni per cui girando Les Parents terribles ho tanto insistito perché gli episodi non perdessero lo stile teatrale per adottare lo stile di un film. Si trattava, lo ripeto, 53

di stringere, legare, raccogliere, senza cadere nel realismo di cui si rivestono tutte le opere che non sono in costume. Per me, e senza ombra di paradosso, La Belle et La Bete, L’Aigle à deux tétes e Orphée sono film realisti allo stesso titolo dei Parents terribles, per l’eccellente ragione che tutti i film sono realisti, poiché mostrano le cose invece di suggerirle mediante un testo. Ciò che vediamo, lo vediamo e pertanto diventa vero, nel senso goethiano del termine. Qual è dunque questo vero goethiano? È un vero che mi obbligherà a contraddirmi, come accade nelle conversazioni di questo genere. Goethe oppone la “veri­ tà” mediante la quale si esprime l’artista, e esprime anche le sue menzogne, alla “realtà” che ci darebbe soltanto una copia insignificante dei suoi modelli. È noto l’aneddoto in cui egli presenta un’incisione di Rubens a Eckermann e gli chiede se capisce perché la trova bella. Eckermann (come è giusto) ri­ sponde di no e questo (come è giusto) permette a Goethe di dimostrargli che l’ombra delle pecore che dovrebbe essere a sinistra è a destra e che, con questo sotterfugio, l’artista domina la natura e prova il suo valore. Ho quindi sbagliato parlandole di realismo; bisognerebbe dire “verismo”. Non si tenta di av­ vicinarsi a una verità che obiettivamente non esiste, ma che, soggettivamente, è la nostra.

A proposito di questo verismo, quale posto possiamo riserva­ re a film come Ladri di biciclette, Paisà, Domenica d’agosto che sono parsi agli spettatori come Vantitesi del suo lavoro? La cosa più importante, cui ho già accennato a proposito di Bunuel e che molti ignorano, è che tutti gli uomini di una stessa epoca, che creano a un certo livello, cioè che inventano, sono in contatto fra loro, si conoscono e si stimano, mentre i loro partigiani li considerano in lotta gli uni contro gli al­ tri. Ogni volta che Orson Welles, Rossellini, De Sica, Emmer, eccetera, per non parlare di Clouzot, Bresson e altri capifila fanno qualcosa di nuovo, me lo mostrano, come io mostro a 54

loro i miei nuovi lavori prima che chiunque altro possa occu­ parsene. Ma poiché non gridiamo ai quattro venti i nostri affari di famiglia, gli ingenui pensano che siamo molto lontani e non si rendono conto dello stile che rende affini le nostre opere, malgrado la diversità del loro modo di presentarsi. Torno a ciò che diceva Bunuel: è questo stile che è lo stile, che annulla a lungo andare gli ostacoli del presente e permette la confusio­ ne tra opere che all'origine sembrano contrapporsi. Questa confusione diventa impossibile quando lo stile è as­ sente e vi è soltanto una vaga rassomiglianza di famiglia, de­ terminata dal fatto che un artista si aggiorna e tenta di appro­ fittare di una moda di sinistra. Lo stile di cui parlo non può definirsi che per l’intensità con cui un essere tende a esprimere tutto se stesso in qualsiasi forma.

Da che cosa riconosce la differenza tra la parentela e la vaga rassomiglianza di famiglia? Alla prima occhiata. Potrei risponderle che è la voce del san­ gue, ma sarebbe inesatto. La riconosco dall’inquietudine, dal­ l’inopportunità, dallo zoppicamento e dal disagio che emana da tutte le opere fraterne. Nelle altre tutto scorre troppo ra­ pido e funziona troppo bene. È il segno del loro successo. Per­ ché non mettendo a disagio nessuno, non turbando e non sconvolgendo alcuna comodità, non procurando alcuna inquie­ tudine, autorizzano i nostri giudici a credere di trovarsi di fron­ te a qualcosa di distensivo e al compimento di un disegno. 11 film degli Enfants terribles è l’esempio tipico del disagio di cui parlo. Il Festival du film maudit di Biarritz, per il quale, ahimè, ci mancava materiale, era, nel suo spirito, una bella iniziativa. Si trattava di rimettere in corso l’oro che la cartamoneta aveva fatto nascondere in cantina; di cercare di rimettere in circola­ zione capolavori dai quali il pubblico si era allontanato alla loro prima apparizione per l’atmosfera di disagio che li circon­ dava. Ma, lo ripeto e continuerò a ripeterlo, sono possibili i nostri gravi problemi nell’ambito fugace del cinematografo? E 55

i progressi tecnici non renderanno impraticabile la proiezione di quelli che il nostro orgoglio ci designa come i grandi clas­ sici dello schermo? Parliamo un po' di questi classici. Ha qualche preferenza? I film più belli sono stati fatti dai russi. Ho rivisto ieri Seba­ stopoli (l’ammiraglio Nakhimov). È con i film di Eisenstein e lo stupefacente Tempeste sull’Asia il modello del racconto di­ ventato visivo, dove il montaggio equivale alla scrittura di un Tolstoj. Immagini quale genio occorrerebbe per descrivere in dettaglio ciò che mostra un film girato in quel modo! Il film era doppiato (cosa a cui non sono contrario) e ben doppiato. L’interpretazione dell’attore principale non perdeva nulla della sua forza espressiva. Lo stile di Dostoevskij (visivo) si immagina meno. Tutta la sua efficacia è interna. Non dimentichiamo, ora che ci ha parlato dei Parents terribles, che tra La Belle et La Bete e questo film lei ha girato L’Aigle à deux tétes, che mi appare come un ponte gettato tra il fiabesco e il lirismo umano... Nulla è più complesso da chiarire della questione Aigle à deux tétes, pièce e film. La pièce si contrapponeva al teatro di pa­ rola e al teatro di messinscena. Riportavo il pubblico senza mezzi termini al teatro d’azioni. Azioni che impediscono la noia che la maggior parte dei nostri spettatori prova di fronte alla serietà. II pubblico era stato messo a scuola. Bisognava farlo uscire. Mi dirà che gli alunni adorano la baraonda del­ l’uscita dalle classi, ma non dimentichiamo che nella scuola di cui parlo ogni alunno osservava il compagno con la coda del­ l’occhio e non voleva fare la figura dell’asino. Questa classe minacciava quindi di perpetuarsi, di prendere delle abitudini e di considerare la ricreazione come un piacere indegno di lei. Ne abbiamo avuto di recente una chiara prova con la ri­ presa del Bossu da parte di Jean-Louis Barrault. Gli spettatori “partecipavano” con interesse e non se ne vergognavano che al risveglio, cioè al guardaroba. Inoltre, il fallimento del mio %

film presso i giudici fu dovuto al fatto che avendo disapprova­ to la pièce, potevano infine lodarla per condannare il film. Ri­ conosco che il film dell’AigZe mi obbligava a parentesi e a di­ gressioni che allontanavano l’opera dal suo centro (errore che non ho commesso nei Parents terribles, dove filmo la pièce collegandola più strettamente con questo centro). Tuttavia i miei errori, perdonati a tutti gli altri film che si allontanano dal centro fino a perderlo di vista, meritavano che si facesse attenzione alle sequenze come quella della camera della regina, in cui utilizzai un sistema che mi era stato suggerito da certe passeggiate intorno alle passerelle del teatro Hébertot. Vi avevo scoperto la mia pièce da un angolo visuale diverso dall’angolo morto che offrono le poltrone di platea. Avevo capito perché i posti cattivi sono i migliori; i posti cari limitano le possibilità degli spettatori, i posti mediocri svolgono in anticipo il lavoro di una macchina da presa e presentano lo spettacolo con una singolarità che è simile a uno sguardo indiscreto attraverso un buco della serratura, un occhio di bue o uno spiraglio. Insisto sulla parola: indiscreto. La macchina da presa è l’occhio più indiscreto e più impudico. Lo è al punto da mettere in imba­ razzo certi attori e certe attrici; imbarazzo che constatai in Edwige Feuillère a teatro, quando si accorse che gli spettatori, abituati ai primi piani, se li facevano da soli con dei binoco­ li. Siamo spesso indotti in questi errori di ampliamento del tempo e dello spazio da coloro che ci finanziano e credono che gli esterni arricchiscano il film, facilitino la stupida “evasione”, alla quale si dovrebbe sostituire Vinvasione t l’ipnosi colletti­ va di un pubblico che non risvegliamo ma spingiamo a discen­ dere in se stesso. Queste evasioni non sono cost sbagliate, poiché avendo scrit­ to io stesso sull’argomento storico di Elisabetta d'Austria, alla quale è impossibile non pensare vedendo la sua regina e non sapendo dove siano stati girati gli esterni, mi sono reso conto della veridicità di scene e costumi che mi sono familiari, in 57

quanto chiunque si sia appassionato a un argomento tanto da scriverne lo considera una sua proprietà personale...

La nostra colpa, di Bérard e mia, fu di essere troppo veri, senza la più piccola verità storica. La gente non sa più nulla di una regina. Ne ha un’idea convenzionale, mentre solo il vero do­ vrebbe avere importanza. Per limitarci a un particolare, ci è stato più volte rimproverato in certi articoli il letto di rame della regina, così diverso dai letti impennacchiati di Parade d’amour, mentre questo era il letto della regina Vittoria nella sua giovinezza. Senza dubbio i pennacchi di Parade d’amour hanno ragione perché abbagliano molti spettatori e il letto vero ha torto perché commuove poche persone. Ma mi fermo qui. Non smetteremmo più di girare a vuoto intorno a questo eterno problema dell’arte che si rivolge alle folle. Tuttavia L’Aigle à deux tétes, che sembrava concepito per sod­ disfare i più raffinati, è stato soprattutto un grande successo di pubblico. Il fatto è che la folla non si preoccupa dei dettagli. Cerca sol­ tanto di seguire la storia che le viene raccontata e ci crede nella misura in cui gliene imponiamo le immagini. L’élite si infuria e insorge di fronte all’obbligo di vedere e sentire come noi. Non conosce ancora il sonno che ci abbandona a un sogno. Si piz­ zica per non dormire, dice: “Come? Si costringe il mio oc­ chio a vedere in un modo questa regina che io vedo in un altro? Mi oppongo”. Le grandi civiltà sono quelle in cui le élite più acute e più attente accettano di essere addormentate e non si sottraggono alla suggestione del teatro e della musica. Lei parla spesso di questa incomprensione dell’élite. Che cosa la obbliga dunque a darsi in pasto a queste belve che dormono con un occhio solo, in prime e ricevimenti che lei frequenta solo quando si tratta di una sua opera?

Il mio orrore per questi ricevimenti è tale che ho lasciato Pa­ rigi per Nizza alla vigilia del gala per il balletto Phèdre, al­ 58

l’Opéra. Per quanto riguarda i film le cose sono diverse. Siamo circondati da un mondo in preda alle consuetudini, che riu­ sciamo a vincere durante le riprese, ma che in seguito non abbiamo più la forza di vincere. Inoltre questo mondo, se accetta suo malgrado di seguirci su una strada che ritiene sba­ gliata, non accetterebbe di abbandonare le abitudini che gli permettono di esporre il risultato di un lavoro che disapprova, ma che potrebbe fargli onore. Questo cerimoniale legalizza in certo modo il suo aiuto, facendo scortare ciò che stima perico­ loso da un drappello di guardie municipali con le sciabole sguai­ nate. Sa in anticipo che questo primo pubblico di invitati sarà freddo, elegante e educato. Per il resto, conta soltanto su una pubblicità molto ridotta, in cui propone l'opera che disprezza come il prodotto più efficace e più meraviglioso che ci sia. Ab­ biamo poche possibilità. Non possiamo contare che sui viaggi del film, poiché lo spazio svolge la funzione del tempo e ci consente di recepire un’opera con il distacco che l’istantaneità ci impedisce di avere a casa nostra.

Mi sembra che il film L’Aigle à deux tétes sia stato proiettato prima in Inghilterra. Era presente? E qual è stata la sua im­ pressione in un paese dove la monarchia esiste ancora? Suppongo, perché parlo male la lingua, che Ronald Duncan abbia adattato la pièce in modo da rispettare certe esigenze e che questa sia la ragione del suo successo. Il film, invece, scan­ dalizzò un pubblico di principi e ambasciatori. Vi assistetti vicino alla duchessa di Kent il cui disagio, dovuto secondo quanto mi confessò a una coincidenza troppo evidente con i drammi della sua famiglia, dovette essere contagioso e comu­ nicarsi a tutta la sala. Questa riserva, che sentivo attraverso tutti i pori della mia pelle, mi colpì molto più dell’entusiasmo. Ma non riguardava la mia persona, come dimostrano i successi della Belle et La Bete e di Orphée in Inghilterra. Se andassi più a fondo, sco­ prirei forse altre ragioni di riserva nel fatto che Bérard e io evitammo l’estetismo cui molti inglesi sono ancora sensibi­ 59

li. Indubbiamente eravamo troppo sinceri per gli uni e non abbastanza per gli altri. Certi paesi sono stati attratti da questo film e, nello stesso tempo, hanno avuto timore di mostrarlo al pubblico. Sono quelli che restano fedeli al prestigio di un’im­ peratrice alla quale ci ispirammo molto da lontano e senza uti­ lizzare alcun particolare autentico. Prendemmo da lei soltanto certi aspetti superficiali del suo modo di comportarsi e era difficile non riferirvisi, poiché questa principessa fu la sola che portò anche nella vita le ricchezze che certe grandi attrici hanno mostrato sulla scena. C’è qualcosa del vecchio reperto­ rio di Sarah Bernhardt nella palestra in cui ho collocato l’unico particolare autentico (che giustamente il pubblico giudicava inesatto), quando la regina in abito lungo riceve il suo ministro della polizia appesa al trapezio. Senza dubbio fu l’obbedienza al protocollo teatrale a imporci di ricorrere al pittoresco, che Bérard e io evitavamo sempre di usare. Questo spinse qualcuno a affermare che La Belle et La Bète manca di fasto e che la zona di Orphée sarebbe dovuta essere un girone dantesco. Ogni volta che ci si affida al pittoresco, lo spettatore vi si ag­ grappa come un naufrago a un salvagente. Vede solo quel­ lo. Molti, quando parlano di Orphée e non sanno come trarsi d’impaccio, si avventano come mosche su un errore di pit­ toresco che vi ho commesso: i negativi sulla strada. Similmen­ te, nella Belle et La Bète si avventano sulla scena dei drap­ pi. Chaplin mi aveva confidato che, nella Febbre dell’oro, le mosche si posavano sulla danza dei panini. Sognava di to­ glierla dal film. È come se, dopo aver assistito al Faust di Goethe, la gente dicesse: “Mi piace il rosso del tocco che ha in testa Mefistofele”. Non si rimproverano mai a Giraudoux né a René Clair i segni che li distinguono. Ogni volta che una statua o un candelabro entrano in gioco in uno dei miei film (e nella Belle et La Bète non faccio che seguire il racconto in cui statue e candelabri sono presenti a tal punto che ho soppresso l’episo­ dio delle sorelle che si trasformano in statue), me lo si rim­ provera. Si accusa il mio vecchio repertorio. “Non manca nep­ 60

pure un bottone di ghetta”, dichiara un critico parlando degli Enfants terribles. Certo! È la mia opera. Perché dovrebbe man­ care un bottone di ghetta? È mio dovere fare in modo che vi si trovino tutti. Poiché affrontiamo di nuovo l'argomento delle critiche, qual è quella che considera più ingiusta?

Una critica degli Enfants terribles. Francois Chalais dichiarò che nel film “uccidevo allegramente i bambini”. Francois Chalais è un amico. Gli obiettai che egli uccideva allegramente i miei giovani interpreti, e questo era più grave poiché i miei bambini non esistono che in sogno mentre i miei interpreti sono bambini nella realtà. Non accuso Chalais. Sono sicuro che se si potesse veramente presentare un’opera in circostanze me­ no frettolose e caotiche di quelle a cui ci costringono le metropo­ li, tutti i critici la vedrebbero con un altro occhio, e potrebbero familiarizzarsi con essa, come chi ne ha seguito il lavoro minuto per minuto. Esempio: un film di René Clément tratto da Vicki Baum: Le Chateau de verre. La storia, nel film, è semplificata all’estremo. È quella di un giovane incapace di amore, della sua amante, che finge di lasciarlo libero e comincia a temere una ragazza di Berna. Il giovane amerà? La bernese muore in un incidente aereo. Jean Fayard confessa di non riuscire a comprendere nulla. Confessa quindi di essere incapace di se­ guire una trama molto semplice. Alla fine del film c’è una bella idea: la bernese dice al suo amante che si può manipolare il tempo come si vuole e, per gioco, sposta in avanti le lancette del suo orologio. Le ferma sull’ora in cui morirà. A questo punto il regista salta alla sequenza del marito che apprende da una telefonata che sua moglie è appena morta e che era andata a Parigi. Poi torniamo sulle lancette dell’orologio e tutto si svolge secondo l’ordine temporale. La giovane perde il treno, prende l’aereo e parte. Sappiamo che morirà. Jean Fayard vede la scena del marito al telefono “come un sogno premonitore” (sic). È un esempio di errore inaccettabile in contabilità. Trae in inganno moltissimi lettori. 61

Mi sorprende come lei sia sensibile a certe critiche e compietamente indifferente a altre...

Sono molto sensibile a qualsiasi inesattezza. Si pensa sempre che io inventi mentre in realtà racconto, e racconto solo ciò che ho visto o sentito. Mi sforzo di riferirlo con la maggior precisione possibile. Non sono d’accordo con i giornalisti che credono che un fatto riferito con esattezza non diverta il pub­ blico e lo deformano per fargli piacere. È insomma un elemento vizioso della favola. Al “piti vero del vero" (che è proprio del nostro genere di favole), contrappongono il “più falso del falso". Sarebbe interessante sapere come riesce a conciliare le due esi­ genze maggiori che convivono in lei e che sembrano contrad­ dirsi: reclamare l’esattezza immediata dei critici e garantire il respiro alla sua opera... È molto semplice. Siamo fatti tutti di fango e la pesantezza ci costringe a ricadérvi presto. Vi sono i momenti in cui vediamo chiaro in noi stessi e i momenti in cui ci piacerebbe che altri vedessero chiaro al nostro posto. Sono questi i contrasti che creano tutto il gioco dei rapporti tra la solitudine e la presen­ za, tra i tuffi nel mare umano in cui si prende freddo e l’angolo del focolare in campagna. Ammetto che tutto ciò che le sto dicendo possa creare confusione nella mente del lettore. Ma poiché il solo precetto che seguo è quello di mantenere il mio equilibrio in ogni momento, sono incapace di sopprimere il più piccolo istante del percorso. Il nostro è un tessuto di contrad­ dizioni e, benché sappia quale interesse possa avere un artista a semplificare la sua linea, a renderla meno sottile e più visi­ bile, vi rinuncio, forse per una sorta di pigrizia, forse per una morale che mi impongo e che chiamo onestà. E eccoci al film Orphée, cost importante poiché conclude tutte le sue ricerche e riassume ventanni di lavoro con un mezzo d'espressione pericoloso, in quanto immediato. Un film in cui lei contrappone, più che mai, la poesia al "poetico” e in cui 62

chi conosce bene Le Sang d’un poète ritrova qualcosa di fami­ liare. Vuole dirmi, con tutti i particolari, come ha fatto questo film? E se la sua posizione, raggiunta grazie a altri film (di cui mi ha appena dimostrato la continuità), le ha reso più facile l'esecuzione di un progetto che avrebbe presentato dif­ ficoltà insormontabili per un nuovo venuto?

Un libro non garantisce mai il successo di un altro libro. E un film, se non si copia, incontra le stesse difficoltà che preoc­ cupano un nuovo venuto. Il mio primo incontro con alcune alte personalità del Credito nazionale (per quanto riguarda Orphée) ne è una prova. Poiché si cavillava sul mio testo, ta­ gliai corto e chiesi se non potevano avere fiducia in me, visto che avevo rimborsato in brevissimo tempo tutti i precedenti prestiti del Credito nazionale: “Come può pensare che non le diamo fiducia?”, mi risposero questi signori. “Se un giovane ci avesse proposto questo decoupage, lo avremmo messo alla porta”. Queste terribili parole sono forse le sole che simbo­ leggiano i vantaggi di una personalità come la mia. Per il resto ho dovuto comportarmi come tn nuovo venuto, fondare una piccola società, cercare il denaro a destra e a manca, ridurre i preventivi, e ho finito di penare solo grazie alla delicatezza degli artisti che accettarono di condividere i miei rischi e di essere pagati con gli eventuali guadagni. È evidente che se avessi accettato le innumerevoli offerte assurde che alcune ditte mi avevano fatto, sarei un uomo ricco, e ricco “sottoban­ co”. Ma l’idea che mi faccio del cinematografo in quanto con­ trapposto al cinema mi condanna a una lotta incessante. Una sola volta, e nella speranza di pagare le spese extra di Orphée che avevo accettato di assumermi, mi risolsi a raccontare una storia a dei produttori messicani. Il risultato è che questi pro­ duttori ne girano un’altra e conservano il mio nome sui cartello­ ni senza che Maria Felix, la regista, e il resto dell’équipe ne sap­ piano nulla. Ecco un tipico esempio dei trabocchetti che si apro­ no continuamente sotto i piedi dei cineasti. Ecco perché rifiuto 63

il titolo di cineasta e ecco perché il successo del film Orphée sconcerta questa fiera della disonestà. Perché, dopo tante ricerche diverse, è tornato al mito di Orfeo che le aveva già ispirato una pièce in cui si era espresso come voleva? Perché ha ritenuto necessario trattarlo cinematografi­ camente? Io sono uno di quelli che hanno visto Orphée da Pitoéff e vorrei sapere da cosa dipendono le differenze e le analogie tra le due opere.

Poiché la mia andatura morale è quella di un uomo che zoppi­ ca, un piede nella vita e un piede nella morte, era naturale che arrivassi a un mito in cui la vita e la morte si affrontano. Inol­ tre, e gliene parlerò a lungo, un film era il mezzo migliore per rappresentare gli incidenti di frontiera che separano un mondo dall’altro. Si trattava di usare certi trucchi, in modo tale che questi trucchi fossero simili alle cifre dei poeti, non cadessero mai nel dominio del visibile (cioè in una ineleganza) e apparis­ sero come una realtà, o meglio, come una verità agli spetta­ tori. Lei capisce che questo mi obbligava a superare i vantaggi che offre il cinematografo nell’ordine del meraviglioso, a ren­ dere questo meraviglioso diretto, a non servirmi mai del labo­ ratorio e a prendere nella scatola solo quello che vedevo e vo­ levo far vedere agli altri.

Che cosa intende con meraviglioso diretto? Un meraviglioso che, per un equilibrio tra immaginazione e tecnica, per un’estrema complessità preliminare, arriva a essere così semplice come lo sarebbe, per un bambino che avesse visto sciogliersi dello zucchero nell’acqua, la sorpresa di non scio­ gliersi mentre fa il bagno. Questo equilibrio esige un’intesa stretta e continua tra l’operatore-capo e il regista. Essendo fal­ lito il nostro tentativo di ricorrere a degli specialisti della pre­ stidigitazione e del music-hall, Nicolas Hayer e io cercavamo soltanto il mezzo di mostrare sullo schermo ciò che noi stessi avevamo visto. È il metodo del poeta che si documenta e non si serve mai di questa documentazione. Fummo costretti a

rinunciare alle nostre esperienze con specchi senza foglia e vel­ luti neri a causa dell’illuminazione cinematografica, che non permetteva di impiegarli. Aggiungo che questi insuccessi ci servirono, eccitando la nostra immaginazione, obbligandola a mettersi in movimento e a risolvere il problema del trucco sen­ za l’intervento di alcun trucco. Mi sembra che già con Le Sang d’un poète, in cui debuttava come amatore, lei abbia inventato un classico del trucco cine­ matografico che non ha fatto in seguito alcun progresso. Questo è dovuto al fatto che le mie trovate in Le Sang d’un poète erano simili alle parole dei bambini, che hanno una così grande forza poetica. Io non sapevo nulla. Scoprivo il mestiere senza risparmiarmi e credevo di lavorare come tutti. È così che molti errori passano per trovate. Charlie Chaplin crede che il personaggio che si muove in “piano americano” e il cui mo­ vimento, invece di finire, ricomincia in primissimo piano, sia una trovata, mentre in realtà montavo male e mi sbagliavo. Lo stesso vale per il carrello del poeta che ha attraversato lo spec­ chio, tutta l’America si è chiesta come mai questo carrello non avesse la rigidità della rotaia. Non sapevo che esistessero le rotaie, il poeta si muoveva su una tavola munita di rotelle. In seguito ho utilizzato di nuovo questo sistema nella Belle et La Bete, quando Bella procede lungo il corridoio in cui volano le tende. Gli errori e il caso ci sono spesso utili. Alla fine dei Parents terribles, a causa del terreno accidentato e di un vec­ chio carrello la macchina da presa indietreggiava fra scossoni e tremolìi. Decisi di non rigirare questa brutta ripresa ma di fare in modo che sembrasse ben riuscita. Associai alle immagini difettose un rumore di carretta e pronunciai l’ultima frase su­ gli zingari.

Lei ha parlato ora di carrelli. Se ne serve spesso? Mi sembra che siano, la panacea dei cineasti... A parte alcune rare circostanze, il carrello annulla il movimen­ to. Se seguiamo un cavallo da corsa, esso corre immobile. Se 65

passa venti volte davanti a una macchina da presa ferma siste­ mata con diverse angolazioni, la sua corsa diventa evidente e si moltiplica. Nei Parents terribles la macchina da presa si muo­ ve pochissimo. Ma cambio molte angolazioni. Nella camera della regina dell’AigZe à deux tétes, dove Edwige Feuillère cam­ mina continuamente in lungo e in largo, si allontana e si av­ venta sui silenzi di Jean Marais, usai questo sistema che trova il suo meccanismo definitivo soltanto al montaggio. Il montag­ gio è lo stile. Un cineasta che non monta i suoi film è tradotto in una lingua straniera; ma l’ho già detto. Ritorniamo a Orphée. Come ha potuto evitare i trucchi di la­ boratorio, che lei definisce pittoreschi e che le ripugnano. Per esempio, come entrano e escono dagli specchi i suoi perso­ naggi? Ogni volta in modo diverso. Alla base dei nostri sotterfugi c’è il fatto che nel film non sono presi in considerazione gli spec­ chi, ma il vuoto, cioè la loro cornice. Costruimmo camere ge­ melle, arredate con oggetti gemelli e se si fa attenzione è facile accorgersene, poiché tutte le immagini si invertono nello spec­ chio (che non esiste), fuorché le piccole figure delle incisioni appese alla parete e un busto su un cassettone. In questi casi non conto che sulla rapidità del gioco di destrezza. Ha mai pensato che mi era impossibile fare certe riprese di fronte a specchi che avrebbero riflesso la macchina da presa e l’équipe? Quando Maria Casarès spinge indietro le ante dello specchio a tre facce, è impossibile che l’attrice esca da una superficie piana. Esce dalla seconda stanza. Una controfigura, vestita come lei e schiena contro schiena, si allontana nella direzione opposta come se fosse il suo riflesso. Il divertente è che la Casarès cambia tre volte di abito durante questa scena (un abito nero, uno grigio, uno bianco), ma le mie finanze non mi consentivano di raddoppiare tutti questi abiti, così il riflesso della Casarès ne porta uno grigio mentre lei ne porta uno nero. Nessuno lo nota e insisto sul fatto che, terminata la ripresa, la proiezione ingannava anche me, il che conferma 66

che la verità costruita da noi è convincente, poiché il suo spet­ tacolo la prova. In questo sta tutta la forza della falsa testimo­ nianza. E ancora, quando Marais avanza verso lo specchio con i guanti di gomma e alza le mani, la macchina da presa porta­ tile (caméra-éclair) è posta sulla spalla di un macchinista che ha una giacca e guanti bagnati uguali a quelli di Marais. Posso quindi avvicinarmi alla falsa camera di fronte a me, dal fondo della quale Marais in persona si avvicina come se fosse il suo riflesso. Le mani inguantate si congiungono; taglio e cambio angolazione. Un simile trucco richiede tutta la scienza dell’ope­ ratore e di chi si occupa della messa a fuoco, poiché l’immagi­ ne vicina e l’immagine lontana devono essere entrambe niti­ de. I nuovi obiettivi americani lo permettono. I nostri, no. Tut­ to dipende, lo ripeto, dall’abilità di artigiani che riescono a ottenere i risultati resi possibili dalle tecniche più recenti solo grazie alle risorse del loro ingegno. Ho spesso facilitato il compito di Nicolas Hayer sostituendo (come nella scena del tribunale) i personaggi reali ai personaggi fittizi. Questo confonde le ricerche e presenta difficoltà puerili e autentici rompicapo. Si vede il riflesso dei giudici: sono i giudici. Ma ciò che trae in inganno è che Maria Casarès, in pri­ mo piano, di spalle, è la vera Maria Casarès. Nella scena in cui Jean Marais e Francois Périer arrivano in tribunale, Marais salta al rallentatore attraverso la cornice vuo­ ta in cui abbiamo visto, nella stessa sequenza, uno dei motoci­ clisti interpretare la parte del riflesso dell’altro (erano due fra­ telli). Taglio, riprendo Marais immobile. Seguendolo mentre indietreggia, l’obiettivo raggiunge Périer davanti a uno spec­ chio vero (che nel frattempo è stato rapidamente ricollocato sulla scena) da cui sembra essere sceso pronunciando la bat­ tuta: “Siamo fatti come topi”. Dimenticavo di spiegarle che quando Jean Marais salta, egli salta in senso inverso attraver­ so una cornice esattamente identica, poiché i veri giudici sono i falsi giudici rovesciati nel falso specchio. Tutto questo mec­ canismo che resta talora misterioso anche per chi vi partecipa si riordina durante la proiezione, alla quale la mia équipe si 67

precipitava tutte le sere, per comprendere ciò che eseguiva ogni giorno con cieca fiducia. Non pretendo di aver inventato il riflesso interpretato da un altro. Lo uso come una sintassi. È presente nel film di Delannoy e di Sartre, grazie a due sorelle gemelle. D’altronde, niente di tutto questo è nuovo. Sono le vecchie parole del dizionario. Già Méliès le impiegava, e impiegarne altre vorrebbe dire ricorrere all’enfasi, altrettanto deplorevole nel linguaggio visivo che nei testi. Del resto, i tnicchi cinematografici esistono anche quando nel film non se ne scorge l’ombra. Sono l’arsenale segreto della pittura e della poesia. Un brutto film è come un poeta incolto che si accontenta di raccontare una storia in versi (senza nulla di ciò che fa sì che un poema sia un poema).

Fra i trucchi di Orphée, speravo, come molti spettatori, di es­ sere riuscito a scoprirne qualcuno. Così nelle sabbie, dopo la scena dello chalet, credevo di aver notato un taglio del suono e una volontà di silenzio. Sarebbe stato impossibile. Perché il taglio del suono crea un vuoto che non è il silenzio. È un silenzio autentico quello che lei sente, e insisto sulla parola sentire, perché un orecchio at­ tento avvertirà i mille rumori impercettibili di cui è fatto que­ sto silenzio. Vi è una volontà di silenzio, ma è la natura dei luoghi che ci permette di ottenerlo. I luoghi però non ci servo­ no a bacchetta. Le rovine di Saint-Cyr, che per poco non pro­ vocarono la mia rovina (perché, come le ho già detto, i gruppi elettrogeni per le riprese notturne costavano una fortuna), fu­ rono per me una brutta sorpresa. Lì vicino passavano centocin­ quanta treni ogni notte. Il sottoprefetto Amade, orologio alla mano, ci annunciava gli orari e le pause del baccano. Ma ahimè, è raro che si riesca a terminare una ripresa entro un orario sta­ bilito. Ecco perché in Orphée si sentono fischi lontani e una sorta di rumore profondo di officina. Si decise di doppiare que­ ste scene. Ma durante la proiezione mi resi conto che fischi e of­ ficina aggiungevano al dialogo una base misteriosa e che non bisognava assolutamente cancellarli. 68

Si è servito dunque di un rumore accidentale come di un truc­ co. Le è capitato altre volte di manipolare il suono, come ma­ nipola le immagini? L’uso del suono mi interessa altrettanto che l’uso delle imma­ gini. In Le Sang d'un poète, poiché il sonoro e il parlato erano agli inizi, ci consumammo in esperimenti. Costruivamo muri e li abbattevamo per ottenere il rumore del crollo finale. Come ultima risorsa, scoprii che questo rumore poteva essere otte­ nuto soltanto spiegazzando insieme due giornali di carta diffe­ rente. Erano, all’epoca, “Le Temps” e “L’Intransigeant” (uno più rigido dell’altro). Nello stesso film, a parte la voce di Rachel Berendt che doppia Lee Miller, ero io a fare tutte le voci. I cicalecci del palco sono frasi pronunciate da me e me­ scolate durante il missaggio.

E in Orphée? In questo film il suono che accompagna le entrate e le uscite dallo specchio è un diapason senza il colpo. Ho conservato solo il prolungamento delle onde (per essere alla moda dovrei dire il prolungamento ondulatorio). Le ho parlato dei tamburi. Do­ po la scena girata alla rovescia e al rallentatore in cui Cégeste si rialza davanti alla principessa, avevo girato tutta la scena in primissimo piano, una volta su Maria Casarès e una volta su Dermit. Poiché le inquadrature della Casarès non erano buo­ ne, conservai soltanto l’inquadratura di Dermit. Ma preferendo la voce di Cégeste, nell’inquadratura della principessa misi le parole dell’inquadratura di spalle sull’inquadratura di fronte, facendo coincidere il movimento delle labbra. Vi sono, ahimè, troppi sotterfugi di questo genere in Orphée perché possa pas­ sarli tutti in rassegna. Ma poiché questi segreti del lavoro la interessano e ritiene che possano interessare i nostri lettori, concluderò con il muro di Saint-Cyr, all’angolo del quale Orfeo e Heurtebise si alzano in volo. È la ripresa di un trucco di Le Sang d'un poète, nel corridoio del palazzo delle Folies dramatiques. Una grande impalcatura sosteneva a mezza altezza del­ 69

lo studio una riproduzione orizzontale delle arcate di Saint* Cyr. Sul pavimento dello studio degli ingrandimenti fotogra­ fici davano l’illusione della prospettiva lontana. Noi stavamo su un vagoncino sospeso alle rotaie della graticcia, in modo tale che, quando eravamo distesi bocconi e con l’occhio attac­ cato all’obiettivo, era come se ci fossimo trovati davanti alle arcate. All’estremità sinistra di questo grande macchinario, una pa­ rete inclinata e a picco finiva in una fossa riempita di pa­ glia. Una vecchia, con la schiena appoggiata alle grate che si gettavano nel vuoto e le gambe allungate sulla scena, sembrava seduta all’interno di un’arcata e accentuava il trompe-l’oeil. Si distinguevano (troppo poco, ahimè!) due bambini addormen­ tati che, adagiati contro un’assicella davanti a uno dei falsi mar­ ciapiedi, permettevano a Orfeo e Heurtebise di scivolare tra loro e il muro. Marais e Périer dovevano quindi trascinarsi verso il pendio non lasciando mai con i piedi il falso suolo che limitava il vuoto, o lasciandolo solo con una goffaggine che, quando l’immagine fosse stata raddrizzata, avrebbe assunto la sorprendente disinvoltura dei gesti del sogno. Alla fine del per­ corso Orfeo perdeva l’equilibrio e ruzzolava lungo il pen­ dio. Heurtebise doveva seguirlo. Ora, Jean Marais è uno sca­ vezzacollo, mentre Francois Périer non è molto abituato a questo genere di esercizi. Non osavo metterlo alla prova. Ma dopo quattro riprese con una controfigura mi resi conto che bisognava imporgli questo sacrificio. Egli accettò di buon gra­ do e si storse un piede nella paglia. Le sole parole che pronun­ ciò furono per chiedermi se la ripresa era andata bene, e poiché era andata bene (così almeno gli dissi, per non costringerlo a ritentare la caduta), dichiarò che la cosa valeva bene una storta e che quest’ultima non aveva alcuna importanza. Questo è il suo carattere.

Temo di stancarla, ma tutti questi dettagli sono troppo appas­ sionanti per non sforzarci di annotarne il più possibile. Nessun autore rivela, come lei, i propri retroscena, e questa è la prova 70

migliore che lei non conta sulle sorprese e sui segreti per co­ municare la poesia. Poiché le piacciono i dettagli, eccone altri. Lo specchio in cui si immergono e da cui emergono le mani di Orfeo richie­ deva una vasca di quattrocento chili di mercurio. Ora, nien­ te è più difficile da procurarsi del mercurio, e niente è meno facile da trovare di una vasca abbastanza grande e abbastanza robusta da contenerlo. Inoltre era pericoloso lasciare in studio un simile tesoro. Dovemmo girare dal mattino alla sera e per­ demmo molto tempo, perché il mercurio veniva consegnato in bidoni che era quasi impossibile scoperchiare e si sporca­ va. Bisognava pulirlo con pelli di camoscio, come l’argen­ teria. E appena pulita, questa superficie pesante e molle si ricopriva di impurità che vi formavano come delle macchie d’olio. Credevo di poter fare a meno di Jean Marais, facendo mettere i guanti a qualsiasi operaio della sua taglia. Ma provan­ do mi resi conto che le mani sono come una persona e che era necessario l’interprete. Lo facemmo venire e girammo alle sei di sera un’inquadratura cominciata alle sette del mattino. Perché le sembrava indispensabile il mercurio, che è tanto dif­ ficile da maneggiare?

Perché così si vedeva solo il riflesso e non la parte immersa nello specchio, che sarebbe stata visibile se mi fossi servito del­ l’acqua. Le mani sparivano nel mercurio e una specie di fremi­ to accompagnava il gesto, mentre l’acqua avrebbe formato sol­ tanto increspature e cerchi di onde. Inoltre, il mercurio resi­ steva. Approfitto di queste spiegazioni per interrogarla su una ripre­ sa che mi sembra molto difficile, quando Orfeo urta contro lo specchio subito dopo l’ultimo passaggio dell’ultimo motoci­ clista.

Ha indovinato. Essendo un’unica ripresa, il motociclista non potrebbe sparire se vi fosse il vetro. Marais urtava nel vuoto e simulava il colpo. Aggiunsi più tardi il rumore. Il vetro è 71

stato collocato solo nell’inquadratura seguente, quando Marais vi si appoggia e la guancia ne viene deformata. La terza inqua­ dratura (inversa) è con uno specchio vero. La quarta (dopo la camera e nella campagna silenziosa) con uno specchio nascosto nella sabbia che appare come una pozzanghera simile a una lastra di ghiaccio. Un altro genere di trucchi cinematografici, che mi riavvicina al mio lavoro di scrittore, consiste nel creare una piccola città deserta e sconosciuta concatenando diversi quartieri di Pari­ gi. L’importante era rendere estranei certi luoghi e vuotarli del­ la loro folla. L’automobile si arresta ai piedi di una scalinata di Grenelle che nella parte alta è simile, con il suo lampione a gas e gli edifici gessosi, agli edifici gessosi e al lampione a gas dello square Bolivar delle Buttes-Chaumont dove Marais entra più tardi. Maria Casarès sparisce in un portone della via che limita la parte alta di questa piazza in pendenza. Jean Marais vi si precipita e sbuca sotto i portici della place des Vosges. Gira l’angolo della galleria e arriva a Boulogne, sulla piazza del mercato coperto dove la sequenza si conclude. L’ap­ parizione della Casarès nel mercato coperto è prodotta da una doppia ripresa e non ha richiesto un lavoro specialistico. Più che tornare su un lavoro che tutti i cineasti conoscono e sui mille aneddoti inevitabili quando una folla che bisogna na­ scondere vuole mostrarsi, mi piacerebbe parlare con lei dello spazio e del tempo. L’arte cinematografica è la sola che per­ metta di dominarli. È raro che camere comunicanti siano co­ struite sulla stessa scena ed è raro che un interno corrisponda all’esterno su cui si affaccia. È raro che si giri nell’ordine. Lo ripeto, si utilizza secondo i propri gusti un mondo in cui niente sembra permettere all’uomo di vincere i suoi limiti. Non solo questo è proprio della pittura, dove l’artista tenta di tradurre le tre dimensioni in cui si muove mediante due dimensioni, ma inoltre l’uso delle due dimensioni, nel cinematografo, ne espri­ me più di tre, poiché esso sconvolge il tempo che è una dimen­ sione, e si potrebbe dire senza tema di ridicolo che lavora nella quarta. Nella Belle et La Bete, quando Jean Marais e Michel 72

Auclair entrano nella casa del mercante dopo il tiro con l’arco in Turenna, concludono il gesto di chiudere la porta due mesi dopo a Parigi, avendo vissuto la loro esistenza durante questo intervallo inammissibile. Ho potuto riprendere Orfeo e Heur­ tebise nelle rovine di Saint-Cyr grazie alla splendida macchina da presa americana che possiede la Maison Pathé (ne esistono due o tre). Uno cammina (Marais), l’altro (Périer) è immobi­ le. Uno è in un’atmosfera morta e diffusa, l’altro è esposto al vento e riceve luci alternative. Jean Marais interpretò la sua parte a Saint-Cyr. Francois Périer interpretò la sua, molto tem­ po dopo, nello studio sulle rive della Senna. Il sistema dello specchio è celebre e di uso corrente. Ma per una scena così precisa, dove i personaggi parlano tra loro e non si acconten­ tano di attraversare dei luoghi, bisognava impiegare una mac­ china perfetta. Sarei dovuto andare oltre, mettendo nell’imma­ gine due Orfeo; uno dietro, l’altro contro la spalla di Heurte­ bise: “Perché — avrebbe chiesto a Heurtebise — siamo due? ” e Heurtebise avrebbe risposto: “Perché, sempre perché! Non fatemi più domande” e il seguito. Sfortunatamente, un film costa troppo caro per poter essere corretto e quando ci vengo­ no queste buone idee è già in giro per il mondo. Ecco ancora un esempio delle nostre vittorie sui nostri limiti e di un lavoro incomprensibile per i profani che ci fanno visita. È questa la ragione per cui i visitatori di uno studio si annoiano e non ca­ piscono nulla di quanto avviene davanti a loro, poiché in defi­ nitiva non assistono che a fenomeni di interpunzione, senza mai leggere una frase. Si potrebbe generalizzare questa riflessione e applicare la sua definizione dei visitatori di uno studio alla vita stessa, dove il tempo è un fenomeno di prospettiva, dove attendiamo senza comprendere in quale luogo ci troviamo, di che cosa facciamo parte e chi è il regista che ci dirige.

Ha ragione. Si arriva sempre alla divertente risposta di SainteBeuve (credo), quando qualcuno gli dichiara: “In fondo, tutto è in tutto” e egli replica: “E viceversa”. 73

Più lei parla, più entra nei particolari e più mi rendo conto del lavoro opprimente rappresentato da un’opera creata per di­ strarre il pubblico, che la guarda appena, parla insieme agli at­ tori, commenta la storia o gli abiti delle attrici durante lo svol­ gimento del film...

A proposito di questo tipo di pubblico, le citerò una battuta di Aurélien Scholl che ci distrarrà un po’. La signora Strauss era molto loquace a teatro. Un giorno invitò Scholl a sentire Faust nel suo palco, e lui le rispose: “Volentieri, non l’ho an­ cora mai sentita in Faust...". (...) [A questo punto il nostro dialogo fu interrotto da una telefo­ nata che annunciava a Jean Cocteau che la Royal Academy d In­ ghilterra aveva premiato dodici film, due dei quali francesi, La Beauté du diable e Orphée. Cocteau riattaccò il ricevitore e mi disse:} Orphée ha già avuto il Gran Premio internazionale della critica al Festival di Venezia, il premio della Traversata del nuovo “Normandie” e il Premio degli spettatori d’avanguardia (non si contano più i premi della Belle et La Bète). È molto, se si pensa che il mio nome è sempre stato l’ultimo della lista e a scuola non ho mai ottenuto premi. Questa telefonata la ricon­ forterà e le dimostrerà che nei suoi lunghi giri, malgrado le mie precedenti osservazioni, accade che un film insolito si im­ batta in giudici attenti.

Ora che l’ho molto tormentata a proposito di una tecnica che le è propria, vorrei chiederle ancora qual è la cosa più impor­ tante per lei prima del primo giro di manovella, poiché il suo découpage non è mai definitivo, lei non ne segue fedelmente le indicazioni e improvvisa strada facendo. Questo ritmo di lavoro può esistere solo quando vi sia un’in­ tesa che mi obbliga a scegliere la mia équipe con la massima prudenza. 74

Come si manifesta questa prudenza?

Scelgo i miei artisti, i miei tecnici, i miei operai tenendo conto del loro valore morale molto più che del loro valore artisti­ co. Questo è sottinteso, poiché esitiamo soltanto tra valori di prim’ordine. L’essenziale sarà dunque che tutti coloro che par­ tecipano all’impresa formino un solo blocco e obbediscano allo stesso amore del lavoro. Come le ho già detto, si tratta di ro­ telle di un ingranaggio che non conoscono l’insieme della mac­ china né ciò che essa produce. Solo il regista ha in sé una linea, spezzata in mille segmenti per tutti i suoi collaborato­ ri. Il valore morale che io cerco, oltre a creare un legame tra elementi che gravitano insieme, dà allo sguardo degli artisti una qualità particolare, senza la quale un film come Orphée perderebbe tutto il suo significato profondo. La bellezza dell’anima, che la macchina da presa registra come tutte le altre vibrazioni (ne è una prova la differenza tra un edi­ ficio fotografato e un edificio filmato), è ai miei occhi più im­ portante di un bel fisico. La bellezza di Francois Périer, che non è celebrata nei periodici, è per me efficace come quella di Jean Marais, che i periodici esaltano. È la bellezza dell’anima a renderli simili. Non avrei mai legato la sorte di Maria Casarès e quella di Edouard Dermit senza la certezza che il loro riser­ bo, la loro nobiltà, il loro fuoco interiore comunicassero. Assumiamoci le nostre responsabilità e ricordiamo che tutte le formule che lei ci svela cost generosamente, tutti i suoi segreti di fabbricazione sono molto rari nelle riviste o nelle confidenze di chi si occupa di cinema. Non è pericoloso alzare così il sipario sui retroscena? Un uomo deve essere abbastanza sicuro della sua opera da non temere di rivelarne i retroscena. Il segreto professionale ha po­ ca importanza se non si ha il modo di servirsene. Mi rimetto a ciò che mi diceva Picasso: “Il mestiere è ciò che non si im­ para ”. 75

In queste condizioni, come dovrebbe essere una scuoia ideale di cinematografia?

Non può essere una scuola. Bisognerebbe autorizzare gli allievi a seguire la fabbricazione di diversi film. Bisognerebbe abbat­ tere i muri che vengono loro opposti, il filo spinato di cui si circonda la tecnica. So che un teatro di posa si affolla presto e che vi è sempre troppa gente intorno a un lavoro che richiede calma e silenzio. Ci sarebbe più facile sopportare dei giovani studiosi che una folla di gente che trova sempre il modo di entrare dove è vietato l’ingresso. Quando un giovane vuole as­ sistere a un film, gli si risponde che deve averne fatti altri tre (sic). Confesso di non capire questo enigma e spero che si dissipi presto.

Fra tutti questi “cavilli” assurdi o odiosi, qual è quello che le sembra più difficile da superare per un giovane e che gli rende inaccessibile un mezzo d'espressione che dovrebbe apparte­ nergli? L’insidia peggiore è dovuta ai giovani stessi e alle mode che si impongono. Le mode non sono, ahimè, solo il privilegio di un mondo frivolo. Infieriscono tra i giovani, tra i giornalisti, tra tutti coloro che esercitano il proprio spirito. Sono le mode peg­ giori, perché credono di opporsi alle mode e non si riconosco­ no come tali. Tutto ciò che è nuovo, che si oppone cioè a que­ ste mode inconfessate, è respinto, disprezzato e considerato retrogrado da chi le subisce. Guai a chi non suona la tromba se appartiene a una generazione che suona la tromba! Guai a chi non canta in coro con gli ubriachi! Guai all estrema rapidità delle nostre piroette, alle nostre sfumature meno facili da leg­ gere dei colori! Se ci si diverte a toccare il fondo dell’ostracismo di un giovane, non si deve fare molta strada. Ci si stupisce dei suoi limiti. Al­ dilà di questi limiti, niente ha importanza. La pigrizia e la ca­ parbietà dei giovani sono straordinarie, come l’obbedienza alle parole d’ordine. Tutto è nero o bianco. Una cosa ammessa 76

non è necessariamente una cosa conosciuta. £ ammessa e basta. Una cosa che non è ammessa non merita di essere studia* ta. È il motivo iniziale di Orphée al caffè dei Poeti: sì per Cégeste, no per Orfeo. Orfeo ne soffre e cerca una via d’usci­ ta. Crede di trovarla nelle parole della Rolls. Ma queste parole sono di Cégeste. La trappola è importante; dubito che sia stata capita. (Orfeo, démodé nel senso buono del termine, ricade in una moda). Un altro dramma dei film è il fatto che il pubblico giovane si sia abituato a aspettarsi una storia e nient’altro che una sto­ ria. È colpa dei romanzi polizieschi e delle traduzioni america­ ne. Ecco perché il vocabolario dei film è così mediocre. Si pre­ tende che il film dimostri qualche cosa, si pretende un messag­ gio, ma non si pensa che il più piccolo episodio, la più piccola battuta possono dimostrare molto di più. In Orphée non si trova una sola frase, un solo gesto che non abbiano una funzio­ ne e non meritino di essere considerati con attenzione. Ma come si potrebbe stare attenti? Si parla con la vicina e si man­ giano gelati. Inoltre, il difetto di una lingua che si deforma per abbreviazioni (apostrofi, argot, eccetera) è che genera un pensiero sempre più confuso, insensibile alle proporzioni e al­ l’equilibrio. L’architettura moderna lo dimostra. E la prova visibile che gli spiriti e le anime vivono senza sin­ tassi, cioè senza una morale. La morale propriamente detta non ha nulla a che fare con la morale che ciascuno dovrebbe co­ struirsi come uno stile interno, senza il quale non può esistere alcuno stile esterno. Vi sono molti altri motivi che spiegano la distanza che separa un’opera dal pubblico. £ probabile che la luce del nostro spi­ rito sia il risultato di una decomposizione, come quella del sole e di tutto ciò che arde. Della nostra decomposizione. £ pro­ babile che questa luce impieghi molto tempo per giungere agli altri spiriti, come quella degli astri, e che talvolta giunga loro ormai allo stato di fantasma, come accade per le stelle distrutte che continuiamo a vedere. Ciò che si rende subito visibile non è luce dello spirito. Sono fuochi di paglia, fuochi d’artificio e 77

fuochi di gioia. Aggiungo che i contemporanei vivono in epoche diverse e non Io sanno, e questo non facilita le cose. Ritorniamo alle mode di cui ha parlato. Sono mode che riguar­ dano soltanto i gusti artistici o ne scopre le conseguenze anche nel lavoro e tra i giovani cineasti che la assistono?

Naturalmente. Come vi è ciò che ha importanza e ciò che non ne ha, vi sono gli ukase dei giovani cineasti. Da dove vengono questi ukase?

Dalla scuola. Mentre la gioventù dovrebbe precisamente rom­ pere con la scuola e farsi beffe degli ukase che le vengono in­ segnati. Ho sessantun anni e litigo di continuo a causa di que­ sti ukase. Quali, per esempio? Non guardare verso la macchina da presa. (Falso; senza alcuna importanza). La direzione degli sguardi. (Falso; senza alcuna importanza). Quando si esce da una parte, bisogna entrare da un’altra. (Falso; senza alcuna importanza). I 180 gradi. J 180 gradi sono tabù, sacrosanto. Quando decido di usarli, tutti si ac­ cigliano. L’assistente e l’aiuto dichiarano che non se ne assu­ mono la responsabilità. Quando la Rolls che trasporta il cada­ vere di Orfeo si ferma sulla strada, tre 180 gradi di seguito ir­ ritarono i miei giovani assistenti. Per essere giusti, riconob­ bero dopo il montaggio che avevo ragione e che lo strazio su­ scitato dalle immagini era dovuto proprio a questa eresia. Pri­ ma immagine: la Rolls si ferma, scortata dai suoi motocicli­ sti. Seconda immagine (180 gradi): in senso inverso, uno dei motociclisti si avvicina alla portiera e interroga Heurtebise. Terza immagine (180 gradi): la macchina da presa mostra Orfeo nell’altro senso, disteso sui sedili dell’automobile. Quar­ ta immagine (180 gradi): primissimo piano, ancora in senso inverso all’inquadratura precedente, sulla testa di Orfeo morto che pende dal sedile. La Rolls si allontana e la macchina da pre­ sa, passando bruscamente dal viso di Orfeo all’insieme, mostra 78

l’automobile e i motociclisti che si allontanano sulla strada. Si* miti scandali sono la grammatica di tutti i registi di valore. La scuola si ostina a bandirli. I giovani, nonostante il loro entu­ siasmo per Orson Welles, Ford o gli italiani, non osano op­ porsi. Quando si affiderà loro una cinepresa portatile obbli­ gandoli a non seguire alcuna regola, se non quelle che si inven­ tano quando scrivono e non temono gli errori di ortografia? Non che io raccomandi gli errori di ortografia, ma qualsiasi cosa piuttosto che un accademismo che si nasconde dietro la falsa novità dell’insegnamento cinematografico.

A proposito di accademismo, parliamo un po’ della mania dei simboli di cui si ricoprono le opere e contro i quali lei ba così spesso messo in guardia. Il tema di Orfeo non offriva un’occa­ sione a questa tendenza al simbolismo?

La gratuità, di cui parla Gide, è ciò che il pubblico accetta me­ no. Ha bisogno di dare un senso a ogni cosa. Soprattutto a quelle la cui bellezza consiste nel non averne. Simbolizza per un furore logico. In mancanza di senso diretto, ne inventa di indiretti e si rassicura mediante i simboli. È così che in Orphée, dove evito il simbolismo e organizzo una logica dell'illogicità, non possono fare a meno di dire che Maria Casarès rappresen­ ta la Morte, Heurtebise e i motociclisti sono angeli della Mor­ te, la Zona è un luogo infernale e i giudici sono quelli del Tri­ bunale Supremo. Tutte cose che io evito. Una domenica sera ascoltavo la radio, stavano raccontando Orphée. Fui colpito da questa frase: “Orfeo e Heurtebise discendono fra le cattedrali sotterranee degli inferi”. Cosa posso farci? Occorrono secoli perché un’opera si decanti e ritrovi la sua essenza. Ahimè! l’ho ripetuto mille volte, un film sparirà molto prima che questa giustizia sia fatta. Siamo filosofi e sopportiamo gli innumere­ voli errori che permettono agli spiriti lucidi di assistere alle nostre opere e di fraternizzare con noi. Le concedo che il simbolismo maniacale sia assurdo, ma allora 79

mi dia qualche precisazione sulla sua logica illogica e il suo punto di vista personale sui suoi eroi.

Tutto è detto nel film. La zona è “fatta del ricordo degli uma­ ni e della rovina delle loro abitudini”. Essa non usurpa alcun dogma. È una no man’s land tra la vita e la morte. L’attimo del coma, in certo modo. Heurtebise è un giovane morto al servizio di una delle innumerevoli funzionarle della Morte. orfeo Tu sei onnipotente. la principessa Ai vostri occhi. Presso di noi esistono in­ numerevoli figure della morte. Giovani, vecchie, che rice­ vono ordini. orfeo E se tu disobbedissi a questi ordini? Non possono uc­ ciderti. Sei tu che uccidi. la principessa Ciò che possono è peggio. orfeo Da dove vengono questi ordini? la principessa Se li trasmettono un’infinità di sentinelle, come il tam-tam delle vostre tribù africane, l’eco delle vo­ stre montagne, il vento che trasporta le foglie nelle vostre foreste. orfeo Arriverò fino a chi dà questi ordini. la principessa Mio povero amore... Non abita in alcun luo­ go. Alcuni credono che egli pensi a noi, altri che ci pensi. Al­ tri ancora che dorma e che noi siamo il suo sogno... il suo brutto sogno.

La cosa è chiara. Questi personaggi sono lontani dall’ignoto come noi, o quasi. E questo dimostra che i motociclisti non ne sanno più di quanto gli agenti della stradale sappiano delle decisioni ministeriali. Le azioni della principessa che animano il dramma sono decise da lei stessa e rappresentano il libero arbitrio. Una cosa deve essere. Essa è, poiché ciò che ci accade a poco a poco non forma in realtà che un solo blocco. Tutto il mistero del libero arbitrio dipende dal fatto che la cosa che è sembra poter non essere, come mostrano le stupefacenti parole del Cristo: “Dio mio, puoi allontanare da me que­ sto calice?”. II che lascerebbe intendere che questo blocco 80

del tempo cui non siamo sensibili se non in prospettiva sia fatto di volumi impensabili e di una moltitudine di possibilità congiunte. Il Cristo cerca di stornare da sé l’inevitabile. Nello stesso modo, la principessa osa sostituirsi al destino, decidere che una cosa potrebbe essere anziché essere, e ha il ruolo di una spia innamorata dell’uomo che deve sorvegliare e che sai* va perdendosi. Qual è la natura di questa perdita? A quale castigo si espone la principessa? Mi sfugge e non mi riguarda più dei riti dell’alveare o del termitaio, riti funebri di cui gli entomologi non hanno mai risolto l’enigma. Era essenziale che, nella mia logica, certi dati mancassero e aprissero delle brecce sul mondo inaccessibile che è onore dell’uomo concepire.

Tutto questo è complesso e chiaro. Ciò che lei esprime oggi con tanta precisione, Tho provato assistendo al film. Si vorreb­ be che tutti gli spettatori acconsentissero a visitare queste pro­ fondità. Sfortunatamente, l’"idea di comodità” dei più si con­ trappone al suo ideale del disagio. Preferiscono le superfici, meno inquietanti, donde il loro gusto fastidioso per il simbolo, che è in certo modo una superficie esplicativa. La profondità respira in superficie. Le superfici dicono: “Io respiro nelle profondità”. Questo assorbe sempre c provoca la nostra solitudine.

Riassumendo, e per metterla alle strette, perché scrive, pub­ blica, fa pièce, disegni e film? È probabile che sia in questo modo che il mio organismo eli­ mina. A poco a poco l’organo ha creato la funzione. Non saprei come spiegare altrimenti questa impudicizia, questa urgenza di svelare e di confidare a tutti dei segreti.

Che cosa sta preparando? Niente. Forse ho finito. Forse ho espresso tutto quello che avevo da esprimere. Forse è un momento di pausa. Bisogna at­ tendere. Potrei scrivere pièce, libri e film. Ma mi rifiuto. Le pièce, i libri e i film sono già troppi. Per mettermi al lavoro 81

bisogna che ne riceva l’ordine. L’ordine viene da me, ma da un me di cui non conosco le attitudini né i meccanismi. L’io che le parla non ne è che il veicolo. Essendo stato malato, è possibile che il veicolo non piaccia momentaneamente a questo Io ignoto. Il mio compito è di attendere le sue decisioni. Ave­ vo pensato a un’opera che consistesse soltanto nella valoriz­ zazione di un capolavoro francese: Britannicus, Presentare Ra­ cine in una luce nuova, scrostarlo di quella specie di ronzio, di patina scolastica che lo ricopre. Sono ancora indeciso. Qual­ che volta un lavoro modesto e che richiede molta fatica riesce a risvegliare la nostra officina notturna, a metterla in moto. Mi aggrappavo forse a questa speranza pensando di trarre un film dal Britannicus. Forse desideravo anche fissare lo stupendo Nerone di Marais e mostrare a tutti quest’attore nel suo ruolo migliore. Me lo chiedo. Analizzo sempre peggio i miei mo­ venti. Attende l'ispirazione? Crede in una forza che viene dal­ l'esterno?

No. Bisognerebbe dire espirazione anziché ispirazione. Le cose ci vengono dalla nostra riserva, dalla nostra notte. La nostra opera preesiste in noi. Il problema consiste nello scoprirla (invenire). Noi non ne siamo che gli archeologi. E per concludere, conte è giusto, ritornando all’inizio, quale dovrebbe essere secondo lei il titolo di questi dialoghi?

Lo stile consiste nel dire cose complicate nel modo più sempli­ ce. Noi abbiamo avuto dei dialoghi. Questi dialoghi si allonta­ nano spesso dall’argomento principale, ma come un cane da pastore che raduna i suoi animali. Dialoghi intorno, sarebbe giusto. Intorno a che cosa? Evito la parola cinema e scelgo la parola cinematografo. Dialoghi intorno al cinematografo mi sembra che definisca il nostro lavoro.

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Note e integrazioni

Dopo questi dialoghi ho avuto ancora occasione di parlare con Jean Cocteau. Ritengo che alcune cose che mi ha detto debba­ no trovar posto in questo libro.

La forza di un film è il suo verismo. Voglio dire che le cose non sono raccontate, ma mostrate. Esse esistono dunque sotto forma di fatti, anche se questi fatti appartengono al dominio dell’irreale, di ciò che il pubblico non è abituato a vedere. Mi ricordo di un cineclub dove si proiettava Panno scorso il film di Leni Riefenstahl Olimpia. Un film fortemente drammatico, in quanto i suoi protagonisti sono dei morti e il loro destino è quello di un formicaio calpestato da un piede terribile. Inoltre, il pubblico giovane era molto nervoso, in preda a reazioni di ordine politico. Ora, dopo pochi minuti, il film non agiva più se non grazie al suo verismo. Diventava un‘attualità. Il pubblico si appas­ sionava per gli atleti, per la competizione e non pensava più che questa competizione sportiva era vecchia, distrutta, dis­ solta. Ciò che si credeva, lo si vedeva. Il verismo delle imma­ gini in movimento prevaleva sul resto. La folla degli spetta­ tori ridiventava una folla da stadio e non da cineclub. £ estre­ mamente importante. Questo dimostra che il film ci autorizza a esprimere qualsiasi cosa, purché riusciamo a comunicargli un’efficacia espressiva capace di mutare i nostri fantasmi in fatti innegabili. Se le nostre cifre si indeboliscono e il nostro problema si pone senza trovare una soluzione, il pubblico non assiste più a un incidente superiore. Si accorge della tecnica, della messinsce­ 83

na e si rifiuta di credervi. Tecnica e messinscena devono spa­ rire a vantaggio di una verità che è la nostra e che deve con­ vincere l’occhio, l’orecchio e l’anima. Per esempio, nello straor­ dinario film che Melville ha tratto dai miei Enfants terribles i più piccoli gesti di Nicole Stéphane acquistavano l’efficacia spaventosa di quelli di Elettra. Sottolineato da ogni atto del­ l’interprete e dalla musica Bach-Vivaldi, il dramma della pic­ cola Elizabeth si innalzava al punto che metteva a disagio il pubblico e oltrepassava il registro del libro. Ciò che è visto è visto. Troppi festival

Il festival di Cannes (1951) era magnificamente organizza­ to. Faceva onore alla Francia. Tuttavia, un festival dà sempre fastidio, gli unici premi accettabili sono quelli attribuiti per referendum e questa corsa alle ricompense cui partecipano sia opere mediocri, sia opere che vanno ben oltre i rischi di un palmares (il film di Bunuel per esempio), mi sembra inoppor­ tuna e soggetta a errori che la stanchezza della giuria aggra­ va. Troppi festival. Troppi ricevimenti. Troppi tornei che si spiegavano un tempo, quando il premio della Biennale di Ve­ nezia aveva un senso. Si abbandonano i fatti, rimpinzati di film, confusi, l’anima piena di macchie che resteranno a lungo prima di sparire. Mi piacerebbe essere libero e rifare un film come Le Sang d’un poète ma che non piacesse come Le Sang d’un poète piace adesso. Un film che disturbasse come Le Sang d’un poète disturbava un tempo. Esiste in Francia una tradizione di anarchia (di ciò che si è convenuto di chiamare avanguardia) che è importante rispettare esattamente come ogni altra tradizione. (da una lettera del 20 aprile 1951 )

L’affaire Isou

Isidore Isou ci aveva convocati per vedere il suo film in mar­ gine al Festival, una pellicola di 9.000 metri. Ora, ne aveva 84

terminato solo il suono. Riteneva le sue idee sufficienti a di­ struggere il cinematografo indigesto. Il pubblico cominciò a agitarsi. Egli mi pregò di prendere la parola. Ecco ciò che avrei voluto dire e che non ho detto. Isou pretende, se non m’inganno, di fare pulizia utilizzando il vuoto. Tuttavia bisogna che il vuoto abbia una forza aspi­ rante sufficiente a spazzare via lo sporco. Quando mostro Le Sang d’un poète o Orphée, molti non vedono nulla sullo scher­ mo, ma è colpa loro, non mia. Isou tratta gli spettatori da im­ becilli perché non vedono ciò che egli non mostra. Potrebbe trattarli da imbecilli solo se non vedessero ciò che egli mo­ stra. (Anche se decide di mostrare una pellicola rovinata). Mi sono del resto già spiegato in Orphée. All’inizio del film la rivista del Nudismo presenta solo pagine bianche. “È ridicolo", dice Orfeo, e il signore del caffè dei Poeti ri­ sponde: “Meno ridicolo che se queste pagine fossero coperte di testi ridicoli. Nessun eccesso è ridicolo”. Ecco perché mi sono accontentato di dire al pubblico che un’atmosfera insolita è sempre viva e che bisognava saper apprezzare il singolare spettacolo proposto da Isou. (aprile 1951)

Esperanto di un film Il mio film Les Parents terribles ha meno successo all’estero degli altri miei film. Questo è dovuto al fatto che la lingua francese vi svolge il ruolo più importante. Il genio degli attori non ristabilisce l’equilibrio. In Orphée le mie idee diventano efficaci grazie allo spettacolo. È questo che mi fa esitare per Britannicus. Amleto si esprime in una lingua accessibile a molti. Lo ripeto, per raggiungere alcune persone bisogna essere visti da tutti, altrimenti il libro e il teatro sono sufficienti. Il fenomeno per cui un’opera d’arte afferma sfacciatamente una menzogna atta a convincere di una realtà più alta e più pro­ fonda, non ha la sua ragion d’essere, in un film, se non nell’uso insolito di persone, gesti, parole e luoghi che una volontà di 85

insolito nei costumi o nelle scene ridurrebbe a una maschera­ ta. Soltanto attraverso una sintassi di parole visive e comuni disposte in un certo ordine la menzogna dell’Arte può interve­ nire nel cinematografo. Caligari è il solo film che io conosca in cui la menzogna era valida e recitava attraverso le forme. La creazione artistica è soggetta al meccanismo della creazione che non cambia la sua materia e le sue apparenze che mediante un’organizzazione diversa degli stessi atomi. (Parigi, Editions André Bonne, 1951)

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Postfazione ai dialoghi

Nel film Le Testament d’Orphée Cégeste, rivolgendosi al poe­ ta, dice: “Non siete esperto in feniciologia?” e precisa: “È la scienza che permette di morire un gran numero di volte per rinascere”. In questa materia Jean Cocteau era più che esperto: era un maestro. I Dialoghi sul cinematografo lo dimostrano, riappa­ rendo dopo vent’anni di eclissi, altrettanto sorprendenti, al­ trettanto vivi, altrettanto ricchi di insegnamenti che nel 1951, anno della loro prima pubblicazione. Il fatto è che il nostro poeta, che lungo tutta la sua vita aveva inventato, lanciato tutte le mode, conosceva la loro caducità come il loro fascino e possedeva il segreto di ciò che permane nel turbine delle apparenze. Chiedendo a Cocteau di farmi l’onore di “parlare di cinema” in mia compagnia, avevo in mente il modello ideale rappresentato dal suo Secret professional (dedicato alla lette­ ratura). Speravo in un “equivalente” cinematografico. Non so­ no stato deluso, né lo è stato alcuno. All’inizio temevo un po’ la trascuratezza di una conversazione tra intimi. Questo signi­ ficava conoscere molto male lo scrupolo artigianale di Jean. E poi, una volta di più, siamo stati aiutati dai nostri errori. (Fe­ condità dell’insufficienza ha scritto il filosofo Keyserling). Né Cocteau né io sapevamo scrivere a macchina, e non avevamo un registratore. Così, seduti uno di fronte all’altro alla stessa tavola, dovemmo metterci a giocare con i pezzetti di carta, scrivere a mano tutto ciò che dicevamo, donde forse l’aria da “cucito a mano” del89

l’opera, senza tuttavia che essa perda il suo aspetto improv­ visato. Cocteau, appassionato da questo lavoro per lui nuovo (così af­ fermava), si alzava molto prima dell’ora del nostro appunta­ mento mattutino e mi attendeva già seduto al nostro “banco da lavoro”, tutto circondato dalle risposte occasionate dalle mie domande del giorno prima. Io riscrivevo sotto la sua det­ tatura ciò che egli aveva scritto in modo illeggibile su un qual­ siasi pezzetto di carta o cartoncino o pacchetto di sigarette. Pro­ poneva anche, naturalmente, domande diverse dalle mie, por­ tandomi su strade impreviste. Parlava, parlava, ma sempre come un libro, il nostro, di cui ero lo scriba maldestro (perché ho la scrittura poco veloce di un mancino indispettito). Poco prima della colazione, scendeva­ mo per passeggiare un po’ nei viali del giardino di Milly, scricchiolanti di gelo invernale. Subito dopo aver bevuto il caffè, ritornavamo ai Dialoghi fino al crepuscolo, ma non lavoravamo mai di notte. “Bisogna pure chiacchierare un po’” diceva Jean. E continuava a parlare, ma liberamente, con un ritmo ben diverso, prodigando a mio solo vantaggio tesori di arguzie, di reminiscenze, di imitazioni verbali di una “so­ miglianza” quasi medianica (Proust possedeva lo stesso do­ no). Verso mezzanotte ci separavamo, io stordito, soggiogato, sfinito, Jean scintillante e pieno di vitalità. Dopo dieci giorni il libro si era scritto, senza ima correzione. Nota importante a proposito del primo film girato da Jean Cocteau con i suoi soldi allo “Studio delle Cicogne” (cfr. pa­ gina 26) e rimasto inedito. Ricordo che per questa prova di laboratorio, Cocteau aveva scritturato un attore, Fabien Haziza, notato da lui in un film muto, Les Grands, che si svolgeva in un collegio di ragazzi. Gli alunni della classe superiore erano tutti innamorati della mo­ glie del preside. Il bravo alunno era interpretato da Max de Rieux, l’asino fatale da Fabien Haziza. Avendo visto anch’io Les Grands, in provincia, quando avevo 90

l’età dei protagonisti, mi è accaduto di parlarne a Cocteau, ma senza che ci sia mai venuto in mente, né a me né a lui, di sta­ bilire un rapporto tra l’asino del film e il futuro Dargelos. Sono oggi persuaso dell’influenza sotterranea di questa pellicola me­ diocre, senza attribuire all’incidente un’importanza eccessiva. (A.F., 1973)

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Dialoghi con Georges-Michel Bovay

Questo non è un dialogo scritto, come quelli di Platone. È stato registrato, rispettando la sua spontaneità, da GeorgesMichel Bovay a casa di Jean Cocteau, a Parigi, tra il letto e il tavolo, di fronte ai giardini del Palais-Royal. Solo la tecnica impietosa della registrazione permetteva la volontaria impre­ parazione, l’espressione grezza, la sorpresa voluta di fronte alla domanda, che autorizza a seguire meglio il cammino del pen­ siero. Ma se il registratore restituisce la voce viva, il libro non può che tradurla. georges-michel bovay

Lo stato di ipnosi collettiva in cui si trova lo spettatore cinematografico è diverso da quello degli spettatori della tragedia greca, del mistero medioevale, del teatro elisabettiano o del No giapponese? JEAN cocteau Sì, senza alcun dubbio, innanzitutto perché al cinema non vi è uno scambio di fluidi. Noi riceviamo fanta­ smi e parole fantasma, il che è completamente diverso dal ri­ cevere parole e atti diretti. È evidente che a teatro, sia nel teatro dell’antichità che nel nostro, siamo in contatto diret­ to. Mentre Io spettatore cinematografico sa che quelle che ap­ paiono davanti a lui non sono persone in carne e ossa, e gli è molto difficile dedicare a fantasmi di personaggi la stessa at­ tenzione che a personaggi reali. Lei mi parla dell’ipnosi collet­ tiva. È la cosa più difficile da ottenere in Francia, dove gli spettatori sono individualisti. È un paese di dialogo, e per questa ragione facciamo molta fatica a ottenere l’ipnosi collet­ tiva che trasforma il pubblico in una sola persona che ascolta. 95

Ma se lo spettatore cinematografico non si trova di fronte a un personaggio reale, crede che ciò possa ostacolare la sua identificazione? In altre parole, lo spettatore cinematografico, che ha davanti a sé soltanto fantasmi, non si identifica altret­ tanto bene con un fantasma che con un attore fatto di carne e di sangue?

Per riuscire a identificarsi occorre essere ottimi spettatori. Io sono un ottimo spettatore. Quando sono al cinema riesco a astrarmi completamente. Al punto che se sono malato, è come se non lo fossi più, se ho mal di testa, mi passa. Mi accade ciò che accade agli attori, che sulla scena cessano di essere malati. Sono dunque un attore passivo. Registro questi fanta­ smi come personaggi reali. Ma vedo spesso intorno a me l’esempio contrario, e me ne rammarico. Da noi il cinemato­ grafo è stato preso per il verso sbagliato. Lo si è subito con­ siderato come un’industria, quindi non lo si rispetta. Al cinema si entra e si esce durante lo spettacolo. Lo spettacolo conti­ nuato è uno scandalo, le maschere si muovono, agitano le pile elettriche, eccetera, ed è molto difficile per uno spettatore astrarsi e identificarsi con uno spettacolo quando gli si calpe­ stano i piedi, lo si fa alzare, lo si obbliga a guardare aldisopra della testa di chi gli passa davanti, gli si agitano sul viso le pile elettriche e gli si vendono cornetti gelato.

Lei esige dunque per il cinematografo lo stesso rispetto che per la messa?

Uno spettacolo è un cerimoniale. Se si perde il cerimoniale, tutto è perduto. Non amo le prove generali, perché vi assiste il cosiddetto pubblico d’élite che non è né carne né pesce, che si trova in una situazione malsicura, che arriva chiuso e va aperto come un’ostrica. E spesso non ci si riesce. È evidente che lo spettacolo cinematografico esigerebbe, come il teatro che l’ha egualmente perduta, un’atmosfera molto rispettosa e un cerimoniale. Ecco perché le prove generali, che come le di­ cevo non amo, sono quasi indispensabili. Rappresentano anco96

ra un cerimoniale, un rito. Ogni volta che sopprimiamo un ri­ to, sopprimiamo una messa. E lo spettacolo è una messa.

Assistendo alle prime proiezioni del suo film Orphée in un cinema di quartiere, quindi in mezzo a un pubblico di gente di tutti i tipi, il vero pubblico del sabato sera, osservai che du­ rante certe scene gli spettatori ridevano. Avevo la netta im­ pressione che queste risa fossero nervose, che fossero una difesa contro l’emozione, e addirittura, ben più che contro l’emozione, contro il mito che lei proponeva.

Posso citarle una frase analoga, che sarà come l’altro candela­ bro del caminetto. Quando interpretavo la parte di Heurtebise nella pièce Orphée, con i Pitoèff, queste risa mi irritavano. E la signora Pitoeff, che aveva una grande esperienza della scena, mi disse: “Non deve innervosirsi. Il pubblico non ha che due mezzi per esprimersi: il riso e le lacrime. E se non può piangere, ride”. Si trattava quindi, come lei dice, di un ri­ flesso distensivo contro l’emozione, e forse anche di un mezzo d’espressione. Il pubblico non ne ha molti. Un mezzo d’espres­ sione quasi infantile, poiché quando si ottiene l’ipnosi collettiva il pubblico diventa un bambino.

Ed è d’altronde il bambino a riconoscere più facilmente i miti e i sortilegi. Lei mi ha detto di aver visto il film in un cinema popolare. A questo proposito, non sono affatto d’accordo con ciò che si afferma generalmente del pubblico dei miei film. Si è stabilito a priori che le mie opere erano fatte per le élite. E io sono sempre stato in contrasto con le élite. Ho sempre trovato i miei spettatori tra il pubblico che paga per vedere qualche cosa e che si abbandona. Non tra il pubblico che si impunta. E questo pubblico delle sale popolari, questo pubblico che in una certa misura lei cerca di raggiungere, che cosa preten­ de dal cinema?

Credo che non pretenda nulla. Qui siamo di fronte a qualche 97

cosa cui tengo molto: la lotta del singolare contro il plura­ le. Ritengo che il singolare domini il plurale. Si dovrebbe edu­ care il pubblico anziché obbedirgli. Credo che per raggiungere molta gente sia indispensabile individualizzarsi. Se ci poniamo all’estremo di noi stessi, se non pensiamo che esiste un pub­ blico, se facciamo un’opera perché non possiamo non far­ la, raggiungeremo un gran numero di anime che, senza che lo sospettiamo, si trovano sulla nostra lunghezza d’onda. Se di­ ciamo: “Farò un’opera popolare”, falliremo il colpo. Molti, tra i quali Apollinaire, hanno temuto o segretamente sperato che il cinema fosse destinato a sostituire tutte le altre forme non soltanto di spettacolo, ma d'arte. Che cosa pensa dell'avvenire del cinematografo?

Il cinematografo ha cominciato alla rovescia. Ha cominciato subito con le alte tirature, mentre tutte le scuole hanno co­ minciato con le piccole tirature. Di un autore come Rimbaud c’erano in giro pochi libri che venivano bruciati, distrutti, men­ tre oggi se ne stampano migliaia di copie. Il cinematografo ar­ riverà forse presto alle piccole tirature, che hanno talvolta più forza propulsiva delle alte tirature. Essendo presidente della Federazione nazionale dello spettacolo e del Sindacato degli sceneggiatori, devo considerarmi come un operaio, dato che i miei operai sono miei pari nel sindacato, e forse come l’operaio modello. Ebbene, sono in sciopero. Non faccio film perché sono in sciopero. E quando mi si chiede perché sono in sciopero, rispondo: “Perché i miei padroni non si compor­ tano come dovrebbero”. Quali sono i suoi padroni? I produt­ tori, i distributori, eccetera. Il cinematografo è diventato una specie di gang, e io non voglio far parte di questa gang. Ma vedo farsi avanti a destra e a sinistra — piuttosto a sinistra che a destra — giovani che sperano in un cambiamento. E credo che a uno stato di cose nefasto stia per sostituirsi a poco a poco uno stato di cose molto migliore, poiché l’attuale or­ ganizzazione del cinema fa ormai acqua da tutte le parti. Fi­ nalmente si riconoscerà che il film “per il pubblico” non è 98

sempre un film per il pubblico, perché i grandi successi sono ottenuti generalmente da film che i produttori hanno fatto con avversione o con timore. Loro malgrado. Ma è possibile non farsi coinvolgere nella processione dei carri di Jaggernauti

Tutto questo mi ha portato a fare un piccolo scandalo amo­ roso, cioè un film da amatore. Quando ho visto che il mecca­ nismo non mi piaceva, ne sono uscito e ho fatto un 16 milli­ metri a colori. Questo film sarà quindi un oggetto, un oggetto da tenermi in tasca. E potrò utilizzarlo come mi sembrerà me­ glio. Sono stato completamente libero, e anche quando il film sarà finito, sarò completamente libero. Un uomo come me ha bisogno di una libertà assoluta. Quando ho fatto Le Sang d’un poète non sapevo che si trattasse di cinema. Lo consi­ deravo un mezzo per fare della poesia plastica, e non ho mai pensato che sarebbe stato proiettato nelle sale cinematografi­ che. Ebbene, sono diciassette anni che viene proiettato nella stessa sala di New York, in tutti i paesi e in tutte le univer­ sità. Ed è forse il mio film più celebre. Quindi i produttori si sbagliano quando credono che vi siano film per il pubblico e film inadatti al pubblico. Non si sa che cosa interessi o incuriosisca il pubblico.

Vz è oggi nel cinematografo, in conseguenza della superindustrializzazione e di un certo disordine nella produzione, la pos­ sibilità di una nuova avanguardia?

L’avanguardia è molto più difficile. Avanguardia è un termi­ ne pericoloso. I giovani che credono che l’avanguardia sia con­ trassegnata da uno stemma particolare non la riconoscono più. Per esempio, ho fatto una cosa molto più audace portan­ do sullo schermo Les Parents terribles che se avessi rifatto un altro Sang d'un poète. Sono un grande amico di Bunuel ed è probabile che faremo un film insieme in Messico. Né Bunuel né io rifaremo Un Chien andalou o Le Sang d'un poète. Faremo una cosa che senza dubbio sorprenderà e delu­ 99

derà. Perché non avrà più gli attributi eccentrici di ciò che chiamiamo avanguardia. Vi sono epoche in cui l’avanguardia fa paura, come la testa di Medusa, e epoche in cui lascia in­ differenti. Stravinskij ha scandalizzato con Le Sacre du prinlemps. Poi ha fatto opere scandalose in quanto diverse da ciò che ci si aspettava da lui, riprendendo certi motivi italiani o certi motivi del XVII secolo. In questi casi, il pubblico reagiva con il silenzio o con lo stupore invece di reagire con scalpiceli e grida bestiali. La reazione del pubblico è quindi sempre im prevedibile?

C’è una cosa molto importante da dire della nostra epoca. Un tempo c era intorno agli artisti una cospirazione del silen­ zio. Così, Manet dichiarava: “Seguo i funerali per vedere il mio nome sui giornali”. Dichiarazione assai curiosa, se si pensa che oggi il pittore più mediocre ha articoli su tutte le ri­ viste e si litiga per i suoi quadri. Credo che a questa cospira­ zione del silenzio si sia sostituita una cospirazione del rumore, del fracasso. Prima non si parlava delle cose, ora se ne parla troppo. Questo baccano finisce con il produrre lo stesso silen­ zio che regnava un tempo. Ecco perché le difficoltà che i gio­ vani incontrano non sono cambiate. Credo che viviamo in un’epoca talmente diversa dalle altre, dopo il vuoto creato dal­ l’ultima guerra, che dobbiamo considerare tutto sotto un aspet­ to nuovo. È importante dunque pensare alle novità che stanno per prodursi, alla trasformazione totale dei meccanismi di pro­ duzione e di distribuzione. Non si sa cosa stia per accadere. Non si pensa nemmeno al fatto che il numero di spettacoli che il cinematografo permette di offrire avvicina a un autore molte anime che un tempo egli poteva raggiungere solo a lungo ter­ mine, e perfino dopo la sua morte. Siamo insieme sfortunati e fortunati. Tutto si amplifica, tutto si estende, tutto si dif­ fonde. I vantaggi che si perdono sono compensati da altri. Dob­ biamo ammettere di appartenere a un’altra epoca, comprenderla con coraggio e cercare il mezzo per esprimerci in questa nuova epoca. 100

Lei ha scritto una volta: “Il cinema dovrebbe sviluppare una psicologia senza testo”. Che cosa intendeva dire?

In verità, non so più se ho scritto questa frase, ma avrei po­ tuto scriverla. Il cinematografo è un lavoro di montaggio. Il montaggio è il compito più importante del cineasta. È il suo stile, la sua scrittura. £ il modo in cui si collegano tra loro le immagini che crea il ritmo. Credo sia possibile immaginare un meccanismo interno analogo a questo meccanismo esterno. Si potrebbe anche cercare nel cinematografo un mezzo per espri­ mersi paragonabile al montaggio. E qui può sembrare che io mi contraddica, poiché con Les Parents terribles ho in qualche modo filmato una pièce... non più attraverso un buco della serratura, ma passeggiando sotto il naso degli attori, guar­ dando i loro volti da vicino. Le angolazioni del cinematografo mi permettevano dunque di vedere cinematograficamente una pièce teatrale come lo spettatore non la vede mai, perché è troppo lontano nella sua poltrona. Ma penso che si potrebbe andare molto a fondo in queste ricerche, e si potrebbe scopri­ re un meccanismo delVanima che non sia un meccanismo di parole, un meccanismo notturno, illuminare fin nei minimi particolari ciò che è immerso nella nostra notte, nello stesso modo in cui si monta un film. Si è sostenuto che i francesi non hanno 1’" afflato* cinemato­ grafico...

Credo che il grande privilegio cinematografico della Francia sia la poesia. La Francia è un paese che detesta la poesia, ma è un paese di poeti. £ una grande contraddizione, ma la si può comprendere. In effetti un poeta non può lavorare che nella lotta e in certo modo quando è “centrato”. Da noi si è sempre “contrari”. Tuttavia, la poesia continua a esistere. Quando ammiro un pittore, mi si dice: “Sì, è molto bello, ma non è pittura”. Quando ammiro uno sportivo come Al Brown, mi si dice: “Sì, è molto bello, ma non è sport”. E quando ammiro un film, mi si dice: “Sì, è molto bello, ma non è cinema”. Allo­ 101

ra mi sono chiesto che cosa fosse. Mi hanno risposto: “Un’altra cosa”. Ho finito con lo scoprire che questa “altra cosa” era un’ottima definizione della poesia. Questa altra cosa è ciò che conta. Perché non bisogna confondere ciò che è poetico con la poesia. Esiste in Francia una poesia interna, misteriosa, che qualche volta si esprime, ahimè, poeticamente. II poetico non ha nulla a che vedere con la poesia. Ma credo che vi siano in Francia delle straordinarie fonti di poesia. Me ne sono reso conto quando ho fatto un film come La Belle et La Bète, o come Orphée, e anche come L’Eternel Retour, con Jean Delannoy. Ma è all’estero che otteniamo degli autentici trion­ fi, poiché gli spettatori riconoscono nelle nostre opere qual­ cosa che da loro manca. E mi sono chiesto se questo qualcosa non era l’“altra cosa” con cui mi si risponde qui quando dico: “Di cosa si tratta, visto che non è pittura, visto che non è boxe, visto che non è cinematografo?”. Vede, io credo che noi abbiamo in questo un privilegio misterioso e che bisogne­ rebbe forse sfruttare. È molto difficile, perché si è tratti in inganno. Facciamo un film di poesia... Subito i produttori si dicono: “Ah! Diamine, la poesia rende!...”. Fanno un film poetico e falliscono miseramente. Con poesia intende ora la poesia delle immagini o del rapporto delle immagini tra loro, e non la poesia verbale del testo, del dialogo?

Il pubblico crede che un film non sia un film di poesia se il suo linguaggio non è poetico. Mentre un poeta non deve preoccuparsi della poesia, la poesia deve scaturire da sola. Il testo deve essere molto scarno e molto semplice. La poesia deve nascere dall’organizzazione delle immagini. È sorpren­ dente che si confondano sempre l’ebanista e lo spiritista. È chiaro che non sono la stessa cosa. Io costruisco un tavolo, non devo preoccuparmi di ciò che accadrà in seguito a questo tavolo. Sono un ebanista. Più tardi vengono gli spiritisti, met­ tono le mani sul tavolo e cercano di farlo parlare. Il tavolo parla o non parla. Ma è molto difficile essere insieme ebanisti 102

e spiritisti. Sarebbe come chiedere ai fiori di leggere trattati di orticoltura. Nel poeta, deve esservi la messa in opera di un inconscio che non lo lascia troppo riflettere. Egli deve espri­ mersi in una sorta di ipnosi, di sonno, e forse ciò è tipicamente francese, anche se il pubblico francese non sa apprezzarlo. È da lontano che si vedono queste cose, fuori della Francia. La Francia è la mia famiglia. Una famiglia ci sgrida, ci rimprovera, ci mette nell’angolo. Poi lasciamo la famiglia, andiamo all’este­ ro e siamo accolti da amici. Restiamo stupiti perché l’atmosfera cambia. E quando rientriamo in famiglia, siamo di nuovo mes­ si nell’angolo. Credo anche che la distanza nello spazio abbia lo stesso effetto della distanza nel tempo. Se siamo lontani da casa, è un po’ come se fossimo morti, otteniamo una sorta di riconoscimento postumo. Siamo osservati con quell’obietti­ vità che in genere si riserva a chi non è contemporaneo. Invece di giudicare l’opera attraverso di noi, un noi inesatto, ci si giudica attraverso l’opera. Siamo visti dunque molto meglio da una certa distanza, sia spaziale che temporale. (In quanto la distanza nello spazio, lo ripeto, ha un po’ lo stesso effetto della distanza nel tempo). Non si ritiene dunque responsabile dello choc dell’immagine e della sua risonanza presso gli spettatori?

Generalmente lo spettatore francese trova questo choc as­ surdo. Reagisce irritandosi.

Credo che da una parte vi siano le persone a cui piace il pugno nello stomaco, perché le fa uscire di sé...

Attenzione! Non credo a questo termine alla moda: l’evasio­ ne. Io credo nell’invasione. Credo che invece di evadere da sé mediante un’opera, si sia invasi da essa. Come quando di­ co: “Non c’è ispirazione, ma espirazione”. Voglio dire che l’ispirazione dovrebbe arrivare dal di fuori, e non c’è un fuo­ ri. È la nostra notte che parla, certe cose che sono in noi e non conosciamo. Dunque c’è espirazione. Si sono confusi i ter­ 103

mini. L’evasione è una fandonia. Il piacere consiste nell’essere invasi, abitati, inquietati, assillati, disturbati da un’opera.

Se un senso di disagio è la prima reazione dello spettatore, è perché le opere di un autore come lei hanno su di lui l’effetto di un’iniezione che sconvolge il suo equilibrio. E non a tutti piace essere sconvolti. Ma vi sono invece persone a cui piace avere la febbre, perché la febbre suscita in loro delle immagini. In effetti il pubblico non ama che si cambino le regole de) gioco. Ora, che cos’è un poeta? È un uomo che cambia le re­ gole del gioco. £ un uomo che mette i piedi nel piatto. Il mio metodo è sempre stato quello di mettere i piedi nel piatto. Non apposta. Ma se, confinato in campagna, scrivo una pièce o un film, mi rendo conto troppo tardi di aver messo i piedi nel piatto. Sarei un vile se nascondessi quest’opera in un arma­ dio. È necessario che la mostri. I piedi nel piatto mi procura­ no delle noie, ma questo non ha alcuna importanza. Noi siamo dei morti di fronte a un’opera che abbiamo scritto, perché dopo la parola “fine” l’io che ha scritto l’opera è morto. L’ope­ ra è postuma. I colpi che riceviamo sono come colpi su una tomba. È questo d’altronde che mi obbliga a un certo rispetto per le cose che ho scritto o filmato, poiché non ho alcun ri­ spetto per l’arte. Ritengo che sia un’espressione dell’individuo, come la germinazione di un seme, e non credo che una pianta abbia stima di sé.

Insomma, il cinema le ha permesso di esprimere qualcosa di diverso da ciò che poteva esprimere con la letteratura, o il teatro, o qualsiasi altra forma di scrittura? Certamente, se no non avrei fatto del cinema. La macchina da presa mi ha permesso di esprimermi in un modo nuovo, con quella freschezza che si cerca sempre di raggiungere. Stravinskij diceva: “Ci si rigira e si cerca un po’ di fresco sul guanciale”. È evidente che se faccio un film, quest’opera non potrebbe essere una pièce o una poesia. Non potrebbe essere altro che un film. Poiché non sono un cineasta, ma sono quasi 104

un amatore, posso permettermi il lusso di attendere il momen­ to in cui un’opera mi si presenta in forma cinematografica. Il dramma dei professionisti è che devono fare un film dopo l’al­ tro e non possono attendere. (Cinema, un oeil ouvert sur le monde, Lausanne, La Guilde du Livre. Editions Clairefontaine, 1952)

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Dialoghi con Jean Demarchi e Jean-Louis Laugier

“Cache-cache terrible, Ó je souffre, seul, et Ie soir, la cantatrice morte, Cinema la dixième muse, se lève dans toutes les rues” (Poésies, 1920)

jean domarchi e jean-louis laugier

II Testament descri­ ve una sorta di itinerario, come /’Odissea o La Divina Com­ media. In quale misura ha pensato ai suoi due illustri precur­ sori? Non ci ho pensato affatto, perché ritengo che si pensi sempre troppo. Io penso molto poco, cerco di pensare il meno possibile. Come dico sempre ai tedeschi: “Man denkt immer zuviel” (Si pensa sempre troppo). Quando ho messo in bocca a Yul Brynner la frase: “Lasciate ogni speranza”, pen­ savo evidentemente a Dante, ma non sapevo che Dante aveva soggiornato nel villaggio di Les Baux e che aveva cominciato a scrivere {'Inferno proprio in questo luogo, ispirandosi al paesaggio. Le cave non esistevano ancora, si badi bene: il paesaggio era roccioso. Era un fondo marino e, come a Fontaine­ bleau, non si tratta di rocce vere e proprie, ma di accumula­ zioni di sabbia e conchiglie: enormi spugne nei cui fori si penetrava per vedere lo spettacolo delle cave, che sono re­ centi (hanno cento, centocinquant’anni). Picasso mi ha fatto osservare che tutto questo sembra l’opera di una sorta di Facteur Chevai greco o egiziano2. Ora, lei mi parlava di un itinerario... mi si faceva osservare che io cammino sempre nel

JEAN

cocteau

1 “Nascondino terribile, oh io / soffro, solo, e la sera, la cantante mor­ ta, / Cinema la decima musa, / sorge in tutte le vie”. 1 Ferdinand Chevai (detto Facteur Chevai, 1836-1924), postino e ar­ chitetto dilettante francese. Costruì da solo, dal 1879 al 1924, a Hauterives (Dróme) il “Palais idéal”, un palazzo onirico e barocco di tufo e cemento (N.d.R.). 109

Testament. Morand mi ha detto: “Come devi essere stanco al­ la fine del film!”. Non l’avevo notato, è molto curioso; si fan­ no i film mettendo insieme scene che non sono girate nell’or­ dine in cui si presentano agli spettatori, si comincia dalla fine e non mi ero reso conto di dare l’impressione di essere sempre in cammino. È probabile che sia questo a suggerire l’idea di un itinerario. Come il mio camminare era inconscio, così sup­ pongo che l’aspetto d’itinerario sia una delle false coincidenze di cui vivono i poeti. Non vi è mai coincidenza. Tutto ciò che facciamo in disordine è simile alle sforbiciate che si danno a un pezzo di carta ripie­ gato sette o otto volte e che, quando viene spiegato, forma una specie di merletto, di monotonia, di simmetria. Tutte le cose belle sono asimmetriche. Tra i gitani, per esempio, tutto è asimmetrico: il ritmo, le donne hanno una sola manica anzi­ ché due, gli uomini rimboccano una gamba dei calzoni e dan­ zano sempre su un ritmo irregolare. Mi sembra che tutta que­ sta apparenza di volontà sia involontaria, come le sforbiciate che crediamo casuali e che cessano di esserlo quando spieghia­ mo la carta ed essa presenta una sorta di simmetria terribil­ mente monotona. Credo che ciò corrisponda alla frase finale di Le Sang d’un poète-. “Noia mortale dell’immortalità”. I poeti non vivono che di accidenti. Quando d’un tratto l’acci­ dente scompare per far posto allo svolgersi di una grossa fra­ se, è la pompa, la morte. Mi sembra che non vi sia bellezza se non accidentale. Altrimenti, è il treno che parte e arriva a un’ora stabilita... l’opera è come un incidente ferroviario, che ha una quantità di conseguenze imprevedibili. Anche laide, ma imprevedibili. Si ha spesso l’impressione che Picasso abbia dipinto un quadro estremamente convenzionale, che questo quadro sia caduto per terra andando in frantumi, e che per rimediare si sia fatto come gli operai dei traslochi che rompo­ no un bicchiere e lo incollano a caso.

Eppure in Picasso tutto è molto organizzato... Sì, molto organizzato, perché egli non può non organizza­ no

re. Una volta mi disse: “Arriviamo a un momento della nostra vita in cui non possiamo più scrivere una parola né tracciare una riga che non abbia un significato”. Quando un uomo ha organizzato la sua esistenza in modo che non sia una farsa, tut­ to comincia a avere un significato non appena viene espresso. La Francia è piena di cartesiani che non hanno letto Descar­ tes: Descartes era un Rosacroce, si possono allora prendere strade inconsuete... ma evidentemente il giovane francese (an­ che il giovane tedesco, ma il giovane francese è più curioso di sapere ciò che ha pensato l’autore. I tedeschi sono incuriositi da ciò che pensano loro. Dicono: “Le spiego ciò che lei ignora del suo film e che io invece sono riuscito a capire...”), il gio­ vane francese chiede: “Perché ha fatto cosi, perché ha par­ lato di queste cose, perché questa musica, perché questo ge­ sto, perché questo fiore, perché muore, perché risuscita?... e mi è molto difficile rispondere, in quanto ho lavorato in una sorta di crepuscolo, di dormiveglia, che la gente non compren­ de, non ammette: è terribilmente sveglia... oppure dorme. L’interesse suscitato dai sogni è una cosa del tutto recente. Non si parla mai di sogni in madame de Sévigné. Non se ne parla mai nel cardinale di Retz, né in La Rochefoucauld, che Stendhal definisce: “Un duca molto sciocco che si picca di scrivere massime di cui tutti si fanno beffe”. Queste persone non so­ gnavano mai. Trafficavano, amavano. Madame de Sévigné non dice mai a sua figlia: “Ho sognato di voi”. Non si parla del sogno. Si parlava del vaso da notte, ma non del sogno. Il so­ gno era, il sogno è un escremento dello spirito, qualche volta indubbiamente magnifico; ma di questo escremento non si parlava, si parlava dell’altro. Saint-Simon non racconta mai i sogni che gli sono stati confidati. Nella Lettre aux Américains ho scritto: “Un giorno la polizia discenderà nei vostri sogni”. E la mia previsione era esatta, infatti oggi hanno il siero della verità, il pentothal: il sogno è accettato ormai come una verità profonda, perché è privo di controlli, ma il sogno è menzognero come l’uomo, e il loro pentothal... I medici non permettono ai mariti di assistere quan­ 111

do fanno il siero della verità alle loro mogli, che sotto l’effetto del pentothal mentono come nella vita reale.

Tuttavia Le Testament non potrebbe essere meno onirico. È un film molto rigoroso, molto greco.

Ma io sono un matematico, un matematico sotto mentite spo­ glie... I giovani pensano che la poesia consista nel dire certe cose in un certo modo. In Le Secret professional chiamai que­ sto genere di poesia prosa in abito da sera. Allora essi scrivono righe disuguali, dicono cose più o meno pittoresche, e ciò è detestabile, perché bisogna evitare il pittoresco. Conoscete la frase di Max Jacob: “Il viaggiatore cadde morto, colpito dal pittoresco”. Io evito tutto ciò che è poetico. Considero detestabile, nel ci­ nema, il linguaggio poetico. Quando furono presentati a Berli­ no Les Enfants terribles conoscevo abbastanza il tedesco da rendermi conto che i sottotitoli erano impeccabili. Il pubblico e i critici, invece, li giudicarono inadeguati, credendo che la traduzione avesse reso scarno un linguaggio poetico, mentre il mio linguaggio scarno era stato tradotto con un linguaggio scarno. Mi ha molto colpito l’aspetto da bravo ragazzo, dal cuore aperto... È la mia natura... Le cifre non vogliono dire che si sia calcola­ tori, machiavellici: in questo film mi lascio andare. Ho tanto lavorato nella mia vita, che assomiglio a un perfetto atleta morale. Ecco perché incasso a meraviglia. Sono sempre stato criticato, è da cinquant’anni, sessant’anni che mi si critica, ed è forse la prima volta che ricevo lodi. Incasso a meraviglia perché mi sono fatto, moralmente, i muscoli. E credo che questa preparazione atletica ci permetta molte cose che sem­ brano assolutamente impossibili al pubblico, che ci crede de­ boli, incerti, non è così? 112

Ciò che mi appassiona nel suo film è la volontà di riconciliare il mondo greco e il mondo moderno. Sì: la gente crede che quando si scompare, si vada nella morte e quando si riappare si torni dalla morte: è un errore. Fra i Greci non è la morte, poiché si può andare a cercare qualcuno negli Inferi, si beve l’acqua dell’oblio... Tuttavia i Greci hanno paura della morte... Ma sono abituati fin dall’infanzia a considerarla come una co­ sa normale, come un’amica, anche se la temono. Non c’è un vecchio con una falce...

Conosce le parole di Achille: "Avrei preferito essere un servo sulla terra piuttosto che un re negli Inferi". Hanno paura di morire senza aver fatto abbastanza. Conosce le parole di Alessandro che contempla i suoi trionfi e chiede: “Che cosa potrei avere di più?”. Gli si vorrebbe rispondere: “Una Cadillac, un orologio da polso, una radio, delle sigaret­ te”, mentre non potremmo dire una cosa del genere a Cri­ sto. Né a Giovanna d’Arco, né... Sono molto poco religio­ so. Ma in fondo ritengo che la gloria conquistata con l’infelici­ tà abbia più valore della gloria conquistata con la gloria. In certi casi il traditore fa vincere la battaglia, in altri la fa per­ dere. A Napoleone, il traditore fa perdere la battaglia. A Alessandro, il traditore fa perdere la battaglia. Ma al Cristo, un traditore fa vincere la battaglia. È Giuda, è Cauchon che fa vincere la battaglia a Giovanna d’Arco. È sempre così: chi perde vince o chi vince perde. Quasi tutti giocano a chi vince perde. Io ho sempre giocato a chi perde vince. Non l’ho fatto apposta, le critiche mi amareggiavano, ma in fondo sapevo che essere criticato era meglio che essere lodato, poiché tutti gli uomini che venero sono vissuti e morti fra le critiche. Di conseguenza, non si ha il diritto di lamentarsi. Ma siamo fat­ ti di fango umano; e d’un tratto, quando ricevo un’infinità di lettere per questo film, lettere d’amore, sono molto feli­ ce. Nessuno ama gli insuccessi. 113

Ma Les Parente terribles avevano avuto una buona accoglien­ za... Sì e no. I giovani dicevano: “È un modello. £ riuscito a fare di una pièce teatrale un film senza cambiare nulla”. In televi­ sione si è detto: “È una lezione per i registi televisivi”, ecce­ tera, ma è una cosa diversa. E Orphée? Fu accolto malissimo. Fuorché in Germania, dove il successo fu immenso. In Francia, ho visto l’altro giorno che Claude Mauriac criticava la gente del gran mondo, che a quanto pare aveva espresso giudizi molto sciocchi su Le Testament d’Orphée. Lancia una frecciata: “I gentili signori e le graziose signore dovranno rettificare il tiro”.

Lei parla volentieri di autoritratto... Ma tutti, mio caro, fanno il proprio autoritratto. Un pittore può dipingere un’acciuga con una forchetta, un paesaggio, un ritratto di donna o di zuavo, si tratta sempre del suo autori­ tratto. Non diciamo mai: “Ecco una Santa Vergine”, ma: “Ec­ co Raffaello”. Non diciamo mai: “Ecco degli anemoni”, ma: “Ecco Renoir”. Non diciamo mai: “Ecco dei pesci rossi”, ma: “Ecco Matisse”. E se una donna non ha l’occhio dove dovreb­ be averlo, non diciamo: “Ecco una donna che non ha l’occhio dove dovrebbe averlo”, diciamo: “Ecco Picasso”. Riconosciamo sempre il pittore. A meno che non sia un catti­ vo pittore. Se Mirò fa una croce, dirò: è una croce di Mirò. Se Derain fa una croce... Derain forse no, ma se Picasso fa una croce, dirò: è una croce di Picasso, se Matisse fa una croce, dirò: è una croce di Matisse. Di conseguenza la personalità si trova nella linea stessa, molto più che in ciò che la linea rap­ presenta. Ma la gente apprezza soltanto ciò che le linee rap­ presentano. Una donna dirà al marito: “Non posso tenere in casa questo Van Gogh, non mi piacciono gli zuavi...”. General­ mente si compra un quadro per il suo soggetto. D’altronde so­ 114

lo di recente il modo di dipingere ha preso il sopravvento sul soggetto. Perfino Baudelaire, che pure era qualcuno, racconta sempre il soggetto dei quadri: dice II ritorno del figliuol pro­ digo, o Un vecchio abbraccia il figlio che torna dalla guerra... Eccoci di fronte a un grande mistero. Diderot, parlando di Chardin, dice: “Solo ponendoci a grande distanza dall’opera riusciamo a capire ciò che rappresenta”. Per noi, sono lavori di un pittore della domenica molto bravo. Guardate questo quadro [ Mostra uno Chardin. Ci troviamo in casa della signora Weisweiller]: è incredibile che ci si dovesse allontanare per distinguere queste pesche; sembra fatto oggi da un pittore molto abile, da un Renoir, ma assai più preciso... Lo si direb­ be una graziosissima cosa moderna. All’epoca, era incompren­ sibile se non lo si guardava da una certa distanza. Penso anche che gli elementi si siano ingrommati, che i colori siano entrati gli uni negli altri. È possibile che Chardin abbia fatto una sorta di puntinismo... Lei diceva, a proposito de/Z'Indifférent, che oggi non possia­ mo più sapere che cosa poteva essere il quadro di Watteau...

£ impossibile. Non possiamo renderci conto neanche di cosa pensasse la gente. L’insuccesso di Carmen equivale all’insuc­ cesso dell 'Olympia di Manet: si considerava volgare il sogget­ to, non si criticava la pittura. Mentre in Rembrandt, dopo­ tutto, era la pittura a essere criticata: si credeva che i suoi personaggi avessero la lebbra, perché aveva deciso di non di­ pingere più i volti leccandoli, ma creando... l’accidente di cui parlavo poco fa, da cui nasce la bellezza nella rappresentazione di un volto e che non crea qualcosa di pleonastico, non ripro­ duce lo stesso volto e distingue l’uva che gli uccelli non posso­ no mangiare da quella che gli uccelli mangiano. Tutti i pittori che hanno cominciato a dedicare maggior atten­ zione al modo di dipingere che a ciò che il quadro rappresenta, hanno dovuto soffrire. Se oggi un giovane si mette a dipingere con esattezza ciò che vede, la sua opera sarà forse molto bella, in quanto esprimerà la sua anima, ma egli sarà criticato come 115

lo fu Van Gogh, perché la gente si è abituata al mostruoso, all’inesattezza, alla deformazione che appaiono ormai come ele­ menti assolutamente indispensabili per un quadro che meriti di essere acquistato. Un grande collezionista che voi conoscete mi ha detto: “Io, quando una tela mi piace (e senza dubbio gli piacevano le tele che avevano una grande somiglianza con i loro modelli), non la compro. Compro quelle che non mi piacciono. I miei nonni hanno riso di fronte a dei capolavori, non voglio essere altrettanto sciocco: se voglio fare fortuna devo comprare tele che non mi piacciono e rinunciare a quelle che mi piacciono”. Non si potrebbe essere più modesti. Vivia­ mo in un’epoca estremamente incerta: già da tre o quattro anni non dobbiamo più preoccuparci degli ukase e dei tribu­ nali del cubismo e del surrealismo. Un giovane ha il diritto di essere figurativo, antifigurativo, astratto, di dipingere con pun­ tini, o con pennellate come quelle di Van Gogh; può fare ciò che vuole. E può scrivere in fretta e furia...

Non si può più scandalizzare! Un cantante sentimentale scandalizzerà, se è veramente bello e veramente bravo. Insomma, ci si trova in una situazione estremamente grave, poiché i bambini — è ciò che dico nel film — i bambini e gli eroi sono dei disobbedienti. Non si può essere un eroe, non si può essere un bambino se non si disobbedisce. Giovanna d’Arco disobbedisce alla Chiesa mili­ tante, Antigone disobbedisce alle vecchie leggi di Creonte, tutti disobbediscono sempre, i bambini disobbediscono e ne pro­ vano piacere. Sento dire: “Mia figlia è un’amica per me, può star fuori a ballare tutta la notte...”. Ma la ragazza vuole rien­ trare con sua madre e scappare dalla finestra! L’impossibilità di disobbedire in cui mettiamo i giovani è una cosa terribile per loro. Arriva Radiguet, ha quattordici anni. È adorato da tutti noi, è rispettato dall’ambiente dada: e subito si rende conto che non bisogna battersi contro la tradizione, ma contro l’avanguar­ dia. Quando sono entrato all’Accademia dicendo: “Lo faccio 116

contro il conformismo anticonformista”, seguivo la lezione di Radiguet. Influenzato dal suo esempio ho scritto Thomas l’imposteur e Plain-chant in versi regolari, quando ciò era ri­ tenuto impensabile e trionfava la scrittura automatica.

Guardando Le Testament, ho avuto l’impressione che lei serbi un po’ di rancore agli scienziati perché hanno preso il posto dei poeti.

Ah, no! al contrario. Possiamo immaginare una creatura mol­ to lucida che ci osserva da un pianeta più evoluto del no­ stro. Questa creatura può ridere di Einstein, di Newton, di Burckardt-Haym, ma non può ridere di Cézanne, di Renoir, di Debussy, di Picasso, di Stravinskij, perché l’opera di questi ar­ tisti fa parte di un gioco terribile che noi abbiamo inventato e di cui trasformiamo le regole a nostro rischio e pericolo: mentre tutti giocano a bridge, si dice: “No! Adesso giochiamo alla belote”. Allora la gente s’infuria: ama le sue abitudini, ed è costretta a cambiare. È un grande gioco che ci porta a con­ traddire di continuo il gioco precedente. E credo che anche la scienza sia poesia, poiché la poesia è scienza: è una scienza esatta (ammesso che esista una scienza esatta) e forse perfino una scienza più esatta della scienza. La scienza ci suggerisce idee di poesia in quanto apre orizzonti sconosciuti: l’infinitamente grande che è una nozione corrente e l’infinitamente piccolo che non lo è. Poiché abbiamo un inizio e una fine, viviamo in mezzo a cose che hanno un inizio e una fine e che qualcuno crea, non riusciamo a immaginare di es­ sere in qualcosa di eterno, cioè che non è mai stato creato, che non avrà mai fine, che non ha mai avuto inizio, che sempli­ cemente esiste. L’altro giorno un giovane scienziato mi ha det­ to una cosa che mi ha molto colpito: “Dev’essere tutto molto più semplice di quanto si pensi. Abbiamo preso strade molto complicate, molto tortuose, ma è probabile che al Bazar dell’Hotel de Ville vi sia tutto ciò che occorre per scoprire il segreto dell’Universo”. Un mio amico, Emile Michel, si occupa di dischi volanti. Fui 117

io — e lo dichiara nel suo libro — a consigliargli di disegnare una carta delle loro apparizioni: “Ti renderai conto che non si presentano a caso né senza un ordine prestabilito, ma come un reggimento”. Infatti, se si osservano sulla carta che egli ha preparato, i diversi punti in cui sono stati avvistati dischi vo­ lanti danno l'impressione di grandi manovre. In America si preferisce non parlarne, perché la gente si butta dalla finestra appena Orson Welles racconta che arrivano i marziani e alcuni neri si suicidano quando si parla della fine del mondo. Ma il Pentagono ha prove inconfutabili di queste visite: portano via animali, piante e uomini. Molta gente è scomparsa così. Insom­ ma, caro amico, noi non sappiamo nulla. Per questa ragione, all’inizio del mio film, quando mi sparano, cado con grande naturalezza indossando un costume Luigi XV, ma mi rialzo con un gesto molto teatrale, perché esisto realmente in quel costume, come diceva Langlois, ma in realtà sono un fantasma, essendo destinato a vagare in questo universo strano e bizzar­ ro. Come sa, in questa scena, girata alla rovescia, si vede Crémieux, che non dovrebbe comparire, ma la gente non se ne accorge. Ed è spesso così nel cinema — me lo diceva l’altroieri un cineasta molto realista (uno dei giovani della cosiddetta nouvelle vague, che sostengono di rappresentare nei loro film la vita reale, ma non è vero: sono dei grandi narratori. A bout de souffle, per esempio, non rappresenta affatto la vita reale, ma è molto più profondo, molto più trasceso, direi quasi, del­ la vita). Questo ragazzo mi faceva osservare come molto spes­ so la bellezza sia dovuta a errori di montaggio, che produco­ no l’accidente di cui le parlavo e in cui consiste l’arte: un personaggio entra da qualche parte e esce con un abito diver­ so da quello che aveva entrando, o è in un luogo mentre do­ vrebbe essere altrove, o fa un gesto che non corrisponde al gesto precedente. D’un tratto, da un errore di montaggio può scaturire la bellez­ za di una scena. Ricordo che Becker aveva fatto un film con un cavallo nero. Il cavallo morì. Bisognava trovarne subito un altro: si prese un cavallo bianco e nessuno si accorse che il 118

cavallo nero era diventato bianco. La gente vede ciò che le si mostra, è la forza del cinematografo, ed è per questo che me ne sono servito. Me ne sono servito perché è il solo modo di provare l’impossibile; se racconto a qualcuno che un signore entra in uno specchio, egli fa spallucce. Ma io lo mostro. Sol­ tanto, non ricorro mai alla truca. Non ricorro mai al labora­ torio. Una volta sono stato obbligato a farlo, alla fine di La Belle et La Bete, quando Marais e Josette Day volano. Ma in genere i miei trucchi non sono trucchi più di quanto lo sia il fatto di servirsi dell’inchiostro per scrivere o di mettere l’in­ chiostro in una stilografica. Si potrebbe dire: l’occhio è un trucco. Le farò anche osservare che nei vari Tarzan, ad esem­ pio, che sono talvolta così belli, è più difficile fare un leone con uno scendiletto che uno scendiletto con un leone! Di conseguenza, nulla è più sciocco che criticare i miei truc­ chi, poiché sono solo un mezzo, assai modesto ahimè, di cui ci serviamo per rompere con le abitudini servili nei confronti dello spazio-tempo. Quando lascio Dermit-Cégeste nelle cave, egli scompare e io resto solo sull’orlo di una specie di abisso, molto dantesco, una rupe a picco. Poi, avanzo verso il pubbli­ co. AH’auditorium du Poste di Parigi si proiettava la scena alla rovescia, su un grande schermo. Ebbene, ogni volta che i macchinisti e gli elettricisti mi vedevano avvicinare a ritroso all’abisso, facevano “Oh!” per avvisarmi che rischiavo di sfra­ cellarmi. Ecco la prova che l’illusione, lo stratagemma diventa una realtà grazie a strumenti meravigliosi come la cinepresa e l’arte cinematografica: perché dovremmo privarcene? Non è tanto semplice. La gente dice: “La scena è girata alla rove­ scia”. Ma bisogna che mio figlio sappia prendere lo slancio e congiunga poi i piedi. Deve cadere assolutamente diritto nel mare, non deve piegare né a destra né a sinistra. Si vede una spe­ cie di pistillo, ma non avevo previsto che l’acqua avrebbe pro­ dotto quel ribollimento, quella specie di fiore atomico. Anche questa fu una sorpresa, ed è sempre molto bello che le apparec­ chiature, le macchine ci riservino delle sorprese. Non c’è alcun simbolo. Il fiore non è simbolico. Ho scelto l’ibi­ 119

sco perché a casa della signora Weisweiller ci sono degli ibischi e perché è facile da strappare. Inoltre, è il fiore di Caglio­ stro. Quando lo rimetto insieme le mie mani sono degli ani­ mali. Si sono staccate da me e vivono come due bestie. Ma non basta girare alla rovescia, bisogna che per tutto il tempo io reciti con le mani in modo tale che la scena non sembri girata alla rovescia. Ciò richiede lo stesso sforzo creativo di una scena interpretata dalla Réjane o da Sarah Bernhardt. Non me ne vanto: cerco solo di mostrarle quanto abbiamo dovuto la­ vorare per ottenere questi risultati.

Quello che ci ha colpito è appunto la cura straordinaria che lei dedica ai minimi dettagli. E di solito non ci si accorge: credo anzi che il successo che ho avuto presso un certo pubblico, che non è il vostro, sia deter­ minato dall’amore della gente per il disordine. Essa detesta l’ordine, e crede che il mio ordine sia un disordine. Così ap­ prezza un disordine assolutamente falso, più studiato dell’ordi­ ne stesso. Ma nulla esige più verità della finzione. Finché rispettiamo le convenzioni della realtà, la gente è disposta a tappare le falle; se facciamo degli errori, istintivamente ci passa so­ pra. Quando il tessuto della nostra opera si scuce, lo ricuce, perché non usciamo dall’ambito delle sue abitudini. Ma quan­ do le mostriamo qualcosa di estremamente lontano dalle sue abitudini, come l’irrealtà (ciò che io chiamo irrealtà, cioè una cosa cui non si è abituati), non c’è più nulla che le permetta di rimediare ai nostri errori. Essi diventano molto più evi­ denti e io posso permettermene molti meno che in un film realista.

Conoscendo la sua concezione del cinema, ci si chiede come abbia potuto rinunciare per tanto tempo a fare film. Io non sono un cineasta. Non è il mio mestiere, e questo mi facilita le cose. Infatti, si può fare un’opera singolare ogni die­ ci anni, ma farne di continuo è più difficile. Quando si deve 120

fare un film dopo l’altro, si pensa: “Ho la Morgan, ho Marais, devo trovare un soggetto, devo cercare a destra e a sini­ stra...”. Questa caccia all’aneddoto cui sono costretti i profes­ sionisti mi è estranea. Non è il mio mestiere: io gioco sul vel­ luto. Sono un poeta, uno scrittore, mi accade anche di dipinge­ re, di affrescare cappelle... * la gente non se ne rende conto, vive di etichette: “È stato uno scrittore a fare questo immenso lavoro nella cappella!”. Facendo un’altra cosa perdo l’etichet­ ta di poeta; mi trovo in una specie di no man’s land. Chi ama le cose che ho scritto mi chiede: “Perché fa del cinema? ”. Chi ama i miei film: “Perché scrive? Perché dipinge?”, ec­ cetera. Picasso — il primo amico a cui ho mostrato questo film — ha detto una cosa molto curiosa: “Be’, almeno [imita la voce di Picasso] non sono le solite frottole! Perché sono sempre frot­ tole!... Mentre qui, non sono le solite frottole!...”. E poi anco­ ra: “Si direbbe che tu srotoli un centimetro! ”. Dunque vedeva le cifre. Cifre poste una dopo l’altra su un nastro. E aggiun­ geva: “Sembra scritto in versi regolari”, alludendo senza dub­ bio alla... stavo per usare un’espressione grottesca, la perfe­ zione del linguaggio, e tuttavia posso permettermi di dire “perfezione del linguaggio”, rispetto agli altri film, scritti alla meglio in studio. Insomma, si comprende facilmente per quale ragione il linguaggio nel cinematografo si sia immiserito. Il fatto è che un film deve poter essere visto subito dappertut­ to. Si crea allora una specie di chiacchiericcio incomprensibile molto facile da tradurre. Mentre nel mio film, che piacerà si­ curamente ai tedeschi e certamente interesserà molto gli ame­ ricani, la precisione dei termini è indispensabile. C’è un mu­ ro: come abbatterlo? Ha lavorato molto al montaggio del film? 1 Cocteau allude alle decorazioni eseguite nella Chapelle Saint-Pierre di Villefranche (1956-57) e a quelle della Chapelle Saint-Blaise-des-Simples a Milly-la-Forèt e della Chapelle de la Vierge Notre-Dame-de-France a Londra (1959-60) (N.d.R.). 121

Per la prima volta, non ho montato io stesso un mio film e ho affidato il lavoro a Marie-Josèfe Yoyotte, assistendola. Ma è un film che si monta da sé. Marie-Josèfe Yoyotte mi ha detto: “Basta mettere un pezzo dopo l’altro”. Non giro mai un metro di pellicola inutile, faccio in genere due o tre ri­ prese, non di più. Ho avuto l’impressione che il suo film fosse fatto per lei molto più che per il pubblico, che fosse un memento personale, un riepilogo... Non bisogna mai fare nulla per il pubblico. Sono molto giu­ ste le parole di Goethe: “Più ci si chiude in sé, maggiore è la probabilità d’incontrare anime fraterne”. È una sciocchez­ za dire: “Facciamo un teatro popolare”. Siamo destinati a fare fiasco: la gente vuole assistere a Britannicus o a Amleto. E sono sicuro — tocco ferro [tocca ferro] — che questo film avrà successo nei quartieri popolari. £ piaciuto ai macchinisti, alle costumiste, alle truccatrici, li ha incuriositi. È un altro universo, a cui non sono abituati. La mia vecchia domestica dirà: “Io non so dove è andato a mettere i piedi il signor Jean... non lo riconosco”, e poi d’un tratto: “Be’, sì, è come la vita del signore; è come la vita del signore”.

Il suo film mi ha fatto pensare al XVII secolo. L’aspetto fia­ besco, le macchine, e poi L’Impromptu de Versailles, Psyché, Molière con i suoi attori... Anche Strindberg, che ammiro molto. Ma gli spettatori hanno le loro abitudini e le cose, ahimè, si producono spontaneamen­ te nelle loro teste. Leggevo sui giornali: “Jean Cocteau in questo film è un marchese dell’epoca di Luigi XV”. Non pos­ sono ammettere che non si sia un marchese! Io sono un si­ gnore, il signor Cocteau che si è ingannato, ha sbagliato epoca, e ho indossato un costume dell’epoca in cui mi sono trovato per non farmi notare, non ne ho altri... La nostra visione delle cose tende a invischiarsi in questa col­ 122

la, in questa gomma. C’è un antiquario al pianterreno dell’edi­ ficio in cui vivo, al Palais-Royal, che qualche volta mette una poltrona sulla strada, sotto i portici, e la poltrona diventa al­ lora veramente una poltrona, come un cane è un cane. Quando è in casa, è una poltrona, si è abituati... ma una poltrona al­ l’aperto diventa veramente una poltrona. Assume tutta la sua forza. A scuola può capitarci di essere chiamati improvvisa­ mente mentre stiamo sonnecchiando: “ Cocteau!...”. Allora sentiamo il nostro nome per la prima volta. Non l’abbiamo mai sentito, è un’abitudine, e poi d’un tratto... Che strano no­ me, eh? Coc-teau, che strano nome, eh? Si perde la propria freschezza e non si dovrebbe mai perderla. I miei macchinisti e i miei elettricisti si sarebbero annoiati da morire se non l’avessi sempre conservata. Li ho interrogati. Quando sono tornato a Saint-Maurice, mi si sono quasi buttati al collo: “Ah! Signor Cocteau, non è più come quando facevamo La Belle et La Bete, ci si annoia, sa, in tutti questi film, è come stare con le nostre mogli”. Allora si annoiano. Mentre con me si divertono, tanto più che non capi­ scono ciò che fanno! E quando li porto alla proiezione e ve­ dono che ciò che hanno fatto è una cosa per loro stupefacente, sorprendente, restano affascinati. Non mi privo mai del piacere di portare il mio personale alle proiezioni. Durante le riprese non capivano: si rompeva un vetro, si camminava al contra­ rio... D’un tratto, che cosa vedono? Vedono una donna che fa un gesto, il vetro che crolla, vedono questo personaggio che entra nello specchio, il vetro che ritorna intatto, Francois Périer che si avvicina e la sua immagine riflessa nello spec­ chio. Non riescono a capacitarsi. Hanno girato queste scene in una specie di catastrofe incomprensibile. D’altronde, la stessa cosa accade alle persone che vengono a farci visita nei teatri di posa: Aragon, molto gentilmente, non aveva voluto mandarmi un giornalista, ma un amico, che ven­ ne con le migliori intenzioni, ma trovandosi in una specie di disordinato alveare, non riuscì a capire che cosa stessimo fa­ cendo e si convinse che non lavoravamo... Scrisse una sorta di 123

bizzarra caricatura della mia conversazione che è sempre molto divergente, perché in tal modo mi è più facile tener desta l’at­ tenzione degli ascoltatori. Spesso scherzo durante le riprese: con Francois Périer organizzavamo delle burle... Era da molto che pensava al Testament?

No... Un giorno un’amica che voi conoscete mi presentò un giovane cineasta belga, autore di un film su Buffet e mi dis­ se: “Questo giovane non potrebbe fare un documentario sulla sua cappella di Villefranche?” — “No, perché se vi si instal­ lasse qualcuno i pescatori ci perderebbero quattro soldi... li co­ nosco” — “Deve solo filmare la cappella, molto rapidamente, e poi il municipio di Menton” (non avevo ancora fatto la cap­ pella di Milly, né la cappella inglese). Abbiamo cenato insie­ me, e ho proposto di girare due documentari intervallati da un film immaginario che avrei fatto io nello stile di Le Sang d’un poète. In seguito il nostro progetto è finito in nulla, non tro­ vavamo i soldi. Trovare pochi soldi è più difficile che trovarne molti. Si possono trovare miliardi, ma non si trovano sessanta milioni. E non volevo, dato che il film cui pensavo si rivolgeva a persone con le tasche quasi vuote, fare uno di quei film “di prestigio”, che costano una fortuna e devono essere proiettati agli Champs-Elysées a prezzi troppo alti per i giovani. È gra­ zie a Francois Truffaut che ho potuto girare Le Testament. Truffaut mi ha detto: “Vorrei essere io il finanziatore di un simile ciabattino. È una vergogna che un uomo come lei non riesca a trovare sessanta milioni, mentre noi ne troviamo an­ che di più. E poiché, per mia fortuna, I 400 colpi hanno suc­ cesso, voglio offrirle per realizzare il suo film ciò che guada­ gno con il mio”. Ho per lui una profonda gratitudine. È stato il mio portafortuna. Che un giovane aiuti un uomo della mia età è meraviglioso, meraviglioso. Ho rinunciato alla cappella, al municipio e mi sono detto: “Perché non fare un grande film, invece di un cortometraggio, come Le Sang d’un poète”. Le mostrerò fino a che punto le cose non fossero prestabili­ te. Per Oedipus rex di Stravinskij avevo fatto delle maschere 124

abbastanza terrificanti, utilizzando lampadine elettriche, vec­ chi vasi e le due parole che non si pronunciano mai in un teatro di posa: vecchi spaghi e vecchie corde. Mi ero servito di queste maschere una o due volte... Erano in una rimessa, dalla signora Weisweiller. Ho deciso di riutilizzarle. E a poco a poco le maschere mi hanno suggerito altre cose come il cavallo, l’uomo che ha la testa di cavallo. “Ma come, non pos­ so fare così, è ridicolo, un uomo con la testa di cavallo, bi­ sogna che sia un uomo che si toglie la sua testa di cavallo, un gitano... ecco! dovrebbe essere un gitano; i gitani, poi, sono dei piagnoni e se Minerva mi uccide devono mettersi a pian­ gere intorno al mio letto. Allora potrei forse servirmi della musica della processione di Siviglia: conosco delle persone che sono andate a registrarla e forse posso farmene dare un brano...”. Così è nato il film... £ una casualità solo apparente. In noi abi­ ta qualcuno molto migliore di noi, una notte molto più intel­ ligente del nostro giorno. Questa notte vuole uscire allo sco­ perto e esige il nostro aiuto. Io devo essere il suo domestico e ricevere i colpi al suo posto, come Leporello che, costretto da Don Giovanni a indossare il suo mantello, è picchiato al posto del padrone. A poco a poco sono diventato il domestico di questa forza che non è affatto l’ispirazione (l’ispirazione vie­ ne da non si sa quale cielo), ma l’espirazione che nasce da noi, dall’infinito notturno che portiamo nel nostro misero corpo umano. In genere per aiutare il mistero a prodursi, per ottene­ re che la nostra notte si manifesti, è necessario estrarla: con casi, circostanze, maschere e oggetti che la tirino fuori da noi. Tutta questa specie di balletto si trascende e diventa pen­ siero in atto. Perché il compito del poeta è di mettere in atto il pensiero. £ facile immaginare allora quanto ci sia utile il cinema, permettendoci di mostrare cose che appartengono al nostro mondo interiore. £ giusto che la gente racconti i propri sogni. £ necessario vivere insieme lo stesso sogno, e il cinema­ tografo lo rende possibile. Ma non è un sogno quello che ci mostra, anche se crediamo che lo sia: è un sogno fatto dor125

mendo in piedi. È il sogno dei poeti che è in sostanza una trascendenza della realtà.

Le farò una domanda indiscreta: va spesso al cinema? Esisto­ no due categorie di registi: quelli che sono sempre al cinema e quelli che non ci vanno mai. Ci vado solo un po’ più di Bresson.

Ci andava molto all’epoca del muto?

Ho assistito alla scoperta del cinematografo. Il cinema era di­ sprezzato. D’un tratto ci furono contemporaneamente due film, uno sui boulevard della riva sinistra, l’altro sui boulevard del­ la riva destra. Uno era un film di William Hart: doveva assas­ sinare un giovane, ma trovandolo troppo debole, lo curava, lo guariva, quasi se ne innamorava e alla fine non si sentiva più capace di ucciderlo. L’altro era Forfaiture: la gente andava a vederlo come se si fosse trattato di Bernstein. Era diventato di moda, ci si andava cinque o sei volte, ci si incontrava, come ai balletti russi. Era la scoperta del cinema, ma ai contrario di Pagnol, che la considerava come una nuova scoperta della stam­ pa, non pensavo ancora di fare dei film. E poi un giorno Charles de Noailles mi disse: “Senta, Jean, noi vorrem­ mo — Marie-Laure vorrebbe — presentare a casa nostra dei film, invece del vecchio quartetto. Abbiamo commissionato un film a Bunuel e ne commissioniamo un altro a lei, un cartone animato. Abbiamo dato un milione a Bunuel e diamo un mi­ lione anche a lei” (era una somma enorme all’epoca. Oggi corrisponderebbe a cento milioni. Non credo che ci sia qual­ cuno disposto a dare cento milioni a un giovane per fare ciò che gli piace. Un milione è uno, cento sono cento. Non si può sostenere che sono la stessa cosa). Ma mi resi conto che per fare un cartone animato avevo biso­ gno di due o trecento collaboratori, una fabbrica... Dissi a Charles de Noailles: “Ecco la mia proposta: un cartone ani­ mato con uomini in carne e ossa, come nei tableaux vivants delle fiere, tre persone che interpretano la passione di Gesù 126

Cristo... farò dei cartoni animati con attori veri: troverò delle persone che assomigliano ai miei disegni e poi le farò vivere co­ me se fossero personaggi di un cartone animato”. Così nacque Le Sang d’un poète-, feci la battaglia delle palle di neve con dei macchinisti e degli elettricisti di bassa statura. All'epoca non c’erano vincoli sindacali, si potevano prendere delle persone in studio, degli amici. Non sapevo neanche che Pauline Canon fosse un’attrice, non sapevo nulla! Ricordo che la ringraziai per aver accettato di recitare in un film... credevo che fosse una signora, la cugina o la zia di uno dei miei compagni, e che non recitasse. Ecco l’idea iniziale di Le Sang d’un poète: doveva essere un cartone animato in cui mi sarei servito di persone in carne e ossa invece che di personaggi disegnati. Ha avuto occasione di vedere Nosferatu di Murnau?

Sì, ho conosciuto la grande epoca. Abbiamo visto Caligari, che sta passando di moda, e i film che non sono passati di moda, come lo splendido Nosferatu: le case, gli sfondi... sono stato molto molto colpito da Nosferatu, Dracula, la grande epoca dei vampiri, i fantasmi di Dreyer, e poi anche dalla Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, dalla Falconetti. Allora mi sono reso conto che il cinematografo non era una buffonata, ma qualcosa di molto, molto nobile e quando Charles de Noailles mi ha fatto la sua offerta, ho risposto: “Perché no, dopo tutto?”. Generalmente si crede che io sia stato influenzato da Bunuel o che Bunuel sia stato influenzato da ne, ma ciascuno di noi ignorava che cosa stesse facendo l’altrc. Bunuel lavorava per conto suo e io per conto mio. £ molto curioso, Bunuel mi ha raccontato che in Messico attribuiscono i me Un Chien andalou e a lui Le Sang d’un poète. Dopo tante tempo non si riesce a distinguerli: si finirà col dire che io er< surrealista, mentre ci siamo combattuti per anni... Mi sono rconciliato da poco con Max Ernst: mi ha chiesto di finirla, ci siamo abbracciati ed è finita. Mi sono riconciliato a poco a pcco con tutti i surreali­ sti, a parte Breton che è rimasto, non è così... Trockij, quando 127

dice: “Bisogna attaccare Eluard con tutti i mezzi a nostra di­ sposizione”. Dichiarazioni da dittatura. Questo riguarda solo lui, io da parte mia non ho mai voluto appartenere a una scuola, perché le scuole cominciano in piedi e finiscono sedu­ te. Ho sempre amato i giovani, ma non perché i giovani, ec­ cetera. Amo il movimento dei giovani: anche se i giovani sba­ gliano, non sbagliano, perché si muovono. La scuola non si muove più. Le scuole si pietrificano. Si diventa vecchi surrea­ listi come si diventava vecchi simbolisti, come Napoléon Roynard o Valette seduto nel suo ufficio al “Mercure de France”. Mi piace ciò che si muove, mi piace il movimento, ma mi piace la staticità nel movimento. Mi piace il movimento che non segue linee già tracciate, ma detesto il disordine. Quando scri­ vo, scrivo, quando disegno, disegno, quando faccio un film, faccio un film, quando faccio teatro, faccio teatro, ma non con­ fondo mai le mie attività. L’Aigle à deux tétes sarà presto rial­ lestita e siccome Jean Marais non vuole più interpretarla mi sto dando da fare per trovare un giovane, ma lo cerco proprio nell'ambito della nouvelle vague cinematografica, perché han­ no tutti un talento straordinario, e evidentemente devo tro­ vare qualcuno che abbia un talento superiore, che abbia nello stesso tempo talento teatrale e cinematografico, ma... Sa, come non esistono più croste, non esistono più cattivi attori. Se la Réjane ritornasse, si meraviglierebbe, direbbe che tutti recita­ no bene come lei, — dopo quindici giorni lei reciterebbe me­ glio degli altri, ma come Pégou o Garros erano i soli a fare acrobazie che oggi fanno tutti i giovani piloti, così qualsiasi ra­ gazza esegue al pianoforte un passaggio che solo Liszt era in gra­ do di eseguire. C’è un progresso tecnico, ma ciò che mi dispiace nella nostra epoca è che le cose ci arrivano solo di riflesso. Non vi sono più pellegrinaggi. Ieri sera ho assistito a uno spettacolo superbo, a Saint-Séverin, una chiesa fatta di palme di pie­ tra. Il padre Martin dirigeva — non come un direttore d’or­ chestra ma come un prete in preda al demone della musi­ ca — la “Messa in si” di Bach, eseguita da dilettanti o quasi: era sublime. Ed era un pellegrinaggio. È vero, eravamo pre128

senti. Mentre oggi percepiamo le cose attraverso i dischi, la radio, le edizioni Skira, le riproduzioni fotografiche... la gen­ te dice: “Conosco la giovane con la cuffia azzurra di Vermeer” e in realtà non la conosce, ha visto delle riproduzioni... che possono essere ottime, ma non sono l’oggetto. Esso emana qualcosa di meraviglioso, di autentico. Anche se la riproduzio­ ne è otttima, l’oggetto possiede un fluido... È vero che Picasso ha detto di preferire le riproduzioni ai quadri?

Picasso dice molte cose... Stamattina il mio vecchio amico Braconce, che è il suo incisore e anche il mio, mi ha raccontato che un giorno Picasso scambiò per l’originale l’incisione che gli aveva portato: “Non voglio vedere l’originale, voglio ve­ dere la tua incisione!” — “Ma è la mia incisione!”. Picasso era furente, come se si fosse trattato di una banconota fal­ sa. Una riproduzione infedele, al contrario, lo rende felice. Poco tempo fa un giovane fece degli arazzi ispirandosi a Les Demoiselles d'Avignon. Tutti gli dicevano che i suoi arazzi erano orribili, mentre io ero d’accordo con lui, li trovavo molto belli, perché non erano banconote false. Ha fatto una cosa diversa; ma è un omaggio. Ha tradotto Les Demoiselles d’Avignon nel suo linguaggio, e questo mi piace molto. Vede, Picasso non è intelligente, è solo geniale! È la sua moneta spicciola, può esprimersi solo con battute di spirito. In genere dice cose che corrispondono al modo in cui egli rappre­ senta la natura. Deformate, violente, più vere del vero. Quan­ do uscivo dallo studio in cui dipingeva Guerre et paix, il pae­ saggio mi sembrava banale. La vita in casa dev’essere molto noiosa per un giovane che ha visto il mio film: i ragazzi Pitoèff, quando ho montato Orphée con loro, volevano entrare negli specchi, si picchiavano, volevano che i cani si mettessero a par­ lare, come il cavallo...

Ciò che è più difficile e più interessante da raggiungere è que­ sto realismo dell’irrealtà. 129

In fondo, il mio solo grande merito è di aver saputo smalizia­ re i generi. È Radiguet che mi ha insegnato questa formula. Diceva: “Bisogna smaliziare la banalità, smaliziare la gentilez­ za, smaliziare il cuore...”. Quando ho scritto la lettera a Maritain, volevo smaliziare Saint-Sulpice, la bontà con le ma­ ni giunte. Non sono stato capito, si è creduto che fosse una bomba, la si è messa nell’ovatta e i preti se la sono passata de­ licatamente perché non scoppiasse... Ma smaliziare un genere, è molto bello, non è vero? Ecco perché mi infastidisce sentir parlare di poesia desueta: la poesia non può essere desueta; si smalizia la poesia desueta, le si toglie quanto ha di banale e essa ritorna viva, fresca come se si rimettesse un mollusco nell’acqua.

Quali sono i rapporti fra Les Parents terribles e Le Testament d’Orphée? Mi sembra che Les Parents terribles esprimano un tentativo di rispettare il teatro pur continuando a violarlo... Les Parents terribles sono altrettanto irreali che Le Testament d’Orphée. La gente crede sempre che siano il ritratto di una famiglia che ho conosciuto: non ho mai conosciuto una fami­ glia simile. Un giorno Jean Marais mi ha detto: “Mamma è terribile”, ecco tutto. Ho scritto la pièce. Non ho mai cono­ sciuto la zia Léo, non ho mai conosciuto un padre, un figlio, una ragazza che somigliassero a quelli dei Parents terribles, mai... ho inventato questa famiglia e il pubblico ha accolto molto bene la pièce, perché credeva di riconoscervi i propri vicini. “Guarda, è come dagli Untel. Non come a casa mia, come dagli Untel. Guarda, sono la signora Untel e suo fi­ glio”. Ma lei ha riconosciuto la stessa irrealtà nei due film. Quando li facevo, pensavo che sarebbe stato elegante evitare le bizzarrie volontarie; cercavo, anzi, di renderli il più possi­ bile verosimili. Non avrei mai ripetuto, ad esempio, ciò che avevo fatto in Le Sang d’un poète, quando azionai un solleva piatti sotto l’abito di Rivero, facendo sentire il rumore dei battiti del mio cuore che avevo registrato. Ecco delle cose che non ho mai fatto nei Parents terribles, tranne una volta. Per 130

girare la scena finale mi avevano dato una gru pessima, con le ruote quasi sgonfie (volevo allontanarmi dalla famiglia, fa­ cendo vedere la camera che spariva in lontananza). In proie­ zione ci siamo accorti che era tutto da rifare, a causa dei sob­ balzi del carrello. Allora ho associato a queste immagini il ru­ more di una carretta, commentando la scena con queste paro­ le: “Gli zingari non si fermano mai”. Così, grazie a un errore, il finale è stupendo. Si tratta di un errore involontario? Que­ sto è il problema, e possiamo concludere qui il nostro collo­ quio. (“Cahiers du Cinéma”, n. 109, luglio 1960)

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Vorrei, caro Jean Cocteau, che questi col­ loqui vertessero esclusivamente sulla sua attività cinematogra­ fica. Vuole limitarsi, nelle nostre conversazioni, a questo aspet­ to particolare? andré

FRAIGNEAU

È impossibile. Perché il cinematografo è per me un mezzo d’espressione come un altro. Parlarne mi porterà su strade diverse. Uso il termine cinematografo proprio per non confondere il veicolo che esso rappresenta con ciò che si è soliti chiamare cinema, sorta di musa abbastanza sospetta, nel senso che le è impossibile attendere mentre tutte le altre muse attendono e dovrebbero essere dipinte o scolpite nell’at­ teggiamento dell’attesa. Ci si lamenta sempre delle lentezze o delle lungaggini di un’opera alla quale si assiste per la prima volta. Oltre al fatto che questo è dovuto spesso a una mediocre sensibilità o a una disattenzione agli aspetti meno superficiali, si dimen­ tica che i classici abbondano di lungaggini e lentezze ammesse solo perché si tratta di classici. Ma i classici all’origine dovet­ tero subire le stesse critiche. Il dramma del cinematografo è la necessità di un successo immediato, handicap terribile e quasi senza soluzione, determinato dai costi di un film e dall’obbligo di incassi elevati. Tutte le arti possono e devono at­ tendere. Per poter vivere, spesso devono attendere la morte del loro autore. Il cinematografo può essere annoverato fra le muse? Tutte le muse sono povere, poiché hanno investito il loro denaro. La musa del cinema è troppo ricca, troppo espo­ sta a una rovina immediata. Aggiungiamo che il cinema è un luogo di passaggio, un divertimento che il pubblico si è abi­ tuato, ahimè, a guardare con la coda dell’occhio, mentre questa macchina da immagini non è stata per me che un mezzo per dire certe cose nel linguaggio visivo, invece di dirle ricorrendo alla mediazione della carta e dell’inchiostro. jean cocteau

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CL 29-0065-3 ISBN 88-7748-064-5