Quintus Cervidius Scaevola: Quaestionum libri XX [Bilingual ed.] 8891319988, 9788891319982, 9788891320025

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Italian, Latin Pages 352 [353] Year 2021

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Quintus Cervidius Scaevola: Quaestionum libri XX [Bilingual ed.]
 8891319988, 9788891319982, 9788891320025

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Scriptores ivris Romani, 11

Scriptores ivris Romani direzione di Aldo Schiavone

Volumi pubblicati: 1. Quintus Mucius Scaevola. Opera Jean-Louis Ferrary, Aldo Schiavone, Emanuele Stolfi (2018) 2. Iulius Paulus. Ad edictum libri I-III Giovanni Luchetti, Antonio L. de Petris, Fabiana Mattioli, Ivano Pontoriero (2018) 3. Antiquissima iuris sapientia. Saec. VI-III a.C. Anna Bottiglieri, Annamaria Manzo, Fara Nasti, Gloria Viarengo. Praefatores Valerio Marotta, Emanuele Stolfi (2019) 4. Aelius Marcianus. Institutionum libri I-V Domenico Dursi (2019) 5. Callistratus. Opera Salvatore Puliatti (2020) 6. Iulius Paulus. Decretorum libri tres. Imperialium sententiarum in cognitionibus prolatarum libri sex Massimo Brutti (2020) 7. Aemilius Macer. De officio praesidis. Ad legem XX hereditatium. De re militari. De appellationibus Sergio Alessandrì (2020) 8. Cnaeus Domitius Ulpianus. Institutiones. De censibus Jean-Louis Ferrary, Valerio Marotta, Aldo Schiavone (2021) 9. Herennius Modestinus. Libri VI excusationum Alberto Maffi, Bernard H. Stolte, Gloria Viarengo (2021) 10. Papirius Iustus. Libri XX de constitutionibus Orazio Licandro, Nicola Palazzolo (2021) 11. Q. Cervidius Scaevola. Quaestionum libri XX Alessia Spina (2021)

Scriptores ivris Romani direzione di Aldo Schiavone 11

Q. CERVIDIVS SCAEVOLA QUAESTIONVM LIBRI XX Alessia Spina

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Roma - Bristol

European Research Council Advanced Grant 2014 / 670436

Scriptores iuris Romani Principal Investigator Aldo Schiavone, Sapienza - Università di Roma Host Institution Sapienza - Università di Roma, Dipartimento di Scienze giuridiche Senior Staff / Comitato editoriale Oliviero Diliberto, Sapienza - Università di Roma Andrea Di Porto, Sapienza - Università di Roma Valerio Marotta, Università di Pavia Fara Nasti, Università della Calabria Emanuele Stolfi, Università di Siena Direzione della collana Aldo Schiavone Coordinamento editoriale e della redazione Fara Nasti Redazione del volume Iolanda Ruggiero Volume sottoposto a doppia peer review © Copyright «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER® 2021 Via Marianna Dionigi 57 00193, Roma - Italy www.lerma.it

70 Enterprise Drive, Suite 2 Bristol, Ct 06010 - USA [email protected]

Sistemi di garanzia della qualità UNI EN ISO 9001:2015 Sistemi di gestione ambientale ISO 14001:2015

Scriptores iuris Romani.11. -1(2021) Roma: «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER, 2021. -v.; 24 cm. ISBN CARTACEO: 978-88-913-1998-2 ISBN DIGITALE: 978-88-913-2002-5 ISSN: 2612-503X CDD 349.37 1. Diritto romano

INDICE

I INTRODUZIONE A QUINTO CERVIDIO SCEVOLA I. IL PROFILO BIOGRAFICO 1. Il nome 2. La partecipazione alla vita politica nell’età degli Antonini e dei Severi 3. Il valore di una testimonianza sospetta 4. La provenienza 5. Un ritratto verosimile

II. IL MONDO DI SCEVOLA 1. Tradizione giurisprudenziale e ‘ius novum’ 2. Il giurista e gli imperatori

3 3 4 7 11 14 19 19 21

II TESTIMONIA I. EPIGRAFI

35

II. TRADIZIONE MANOSCRITTA

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III QUAESTIONUM LIBRI XX INTRODUZIONE

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FRAGMENTA

64

IV COMMENTO AI TESTI LIBRO I LIBRO II LIBRO III LIBRO IV LIBRO V LIBRO VI LIBRO VIII LIBRO IX LIBRO X LIBRO XI LIBRO XII LIBRO XIII LIBRO XIV LIBRO XV LIBRO XVI LIBRO XVIII LIBRO XIX

123 137 155 171 186 199 214 233 234 239 241 250 263 265 272 275 278

APPARATI E INDICI Bibliografia Abbreviazioni Giuristi citati Fonti antiche

289 325 327 329

I INTRODUZIONE A QUINTO CERVIDIO SCEVOLA

I IL PROFILO BIOGRAFICO

1. Il nome Le notizie sulla vita del giurista Cervidio Scevola sono poche, elaborate sulla base di frammentarie testimonianze e talvolta provenienti da una tradizione testuale scarsamente attendibile1. Non del tutto incontrastata è stata in passato anche la ricostruzione del suo nome completo, Quintus Cervidius Scaevola, che si ricava da un passaggio paolino di Paul. lib. sing. de secund. tab., D. 28.6.38.32. I dubbi che avevano portato a ritenere interpolata l’indicazione del praenomen3 sono da ritenersi superati in seguito al ritrovamento della Tabula Banasitana, documento fondamentale per riflettere sulla provenienza e sul cursus honorum del giurista (e sulla quale, infatti, ci si soffermerà diffusamente tra poco), che in essa è ricordato come Quintus Cervidius Scaevola4. Circa il cognomen, Scaevola, esso risulta poco frequente, ma comunque è attestato, e non si rinvengono ragioni per metterne in dubbio l’autenticità5. In particolare, non è necessario immaginare – come, invece, è stato fatto in letteratura –, che il nostro giu-

1 Sulla figura del giurista, tra gli altri, si ricordino: Jörs 1899, 1988; Meyer 1928, 586; Orestano 1969, 685 s.; Berger 1972, 957; García Garrido 1982, 318; Giaro 2001, 132 s.; Kupisch 2002, 560; Hornblower, Spawforth 2003, 314 ss. 2 Paul. lib. sing. de secund. tab., D. 28.6.38.3: Si a patre institutus rogatusque hereditatem restituere coactus ex fideicommissario adierit, quamvis cetera, quae in eodem testamento relicta sunt, per eam aditionem confirmentur, ut legata et libertates, secundas tamen tabulas non oportere resuscitari destituto iam iure civili testamento Quintus Cervidius Scaevola noster dicebat. sed plerique in diversa sunt opinione, quia et pupillares tabulae pars sunt prioris testamenti, quo iure utimur. 3 Jörs 1899, 1988. Kunkel 1967, 217 nt. 419 ritiene che Quintus Cervidius sia probabilmente una glossa, mentre propende per l’autenticità del mero gentilizio Cervidius sulla base di D. 27.1.13.2 [T. 5]; Marcian. 2 inst., D. 40.5.50, nonché di CIL XIV.4502. 4 Si veda [T. 2]. 5 Si veda Kajanto 1956, 243.

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Alessia Spina rista si fosse fittiziamente attribuito il celebre cognome, per collegarsi idealmente ai celebri Mucii di epoca repubblicana6, secondo un’usanza che sembrerebbe, invero, tipica di medici e di artisti, ma mai testimoniata anche per i giureconsulti7. Dirimente è, poi, la constatazione che il praenomen e cognomen risultano anche da Mod. 4 excus., D. 27.1.13.2 e da diversi documenti epigrafici. 2. La partecipazione alla vita politica nell’età degli Antonini e dei Severi Tra i dati che possono ragionevolmente accogliersi come certi sulla vita del giureconsulto, vi è la sua presenza accanto all’imperatore Marco Aurelio, come suo consigliere. Due sono le fonti che ricordano Scevola attivo all’interno del consilium principis. Anzitutto, vi è un passo dell’historia Augusta (HA. Marcus 11.10) che descrive l’intensità del rapporto di collaborazione tra giurista e imperatore nell’operazione di ripristino dello ius vetus8. Si legge che l’imperatore antonino avrebbe avuto a cuore più la restaurazione del diritto antico che la creazione di un diritto nuovo, e che nel perseguire tale obiettivo normativo si fece assistere da diversi prefetti, ma soprattutto (praecipue) si avvalse della competenza di Cervidio Scevola. La fonte è significativa, perché tramanda un legame privilegiato tra l’imperatore e il giurista, cui spetterebbe un ruolo peculiare all’interno di una più ampia squadra di collaboratori che godevano della fiducia del princeps. Del rapporto tra Scevola e il potere imperiale vi è traccia, altresì, nella narrazione ulpianea versata in Ulp. 5 disp., D. 36.1.23pr. Nel libro V delle disputationes, riproducendo il passaggio scevoliano che richiama e aderisce ad un decretum imperiale, Ulpiano testimonia la presenza di Scevola nel tribunale, al fianco dell’imperatore antonino quale giudice di seconda istanza: Scaevola divum Marcum in auditorio de huiusmodi specie iudicasse refert9. Conviene ripercorrere brevemente la fattispecie esaminata. Protagonista della disputatio ulpianea è una donna che, in seconde nozze, aveva sposato un uomo poi istituito erede nel suo testamento. La donna prega il secondo marito di restituire l’eredità ai suoi due figli di primo letto, ancora in potestà del padre, dopo la morte di questi, a entrambi o a quello di loro che fosse ancora vivo. Accadde che i figli fossero stati emancipati dal loro padre e che il patrigno avesse loro restituito l’eredità; subito dopo, però, uno dei due figli era morto, quando ancora era in vita il padre. Si chiedeva se il figlio in vita potesse domandare la parte che era stata già attribuita a suo fratello, considerandola come data in anticipo. Scevola, nel decidere il caso, richiama una deci-

6 Il suggerimento in tal senso è di Kunkel 1967, 219 nt. 428, poi ripreso da Liebs 1997, 114 e nt. 2, richiamando Claud. Mam. paneg. 11.20.1, del 362 d.C., e Symm. epist. 3.23.2, del 380 d.C., che però si riferirebbero a Quinto Mucio Scevola. Bonfante 1934, 390, lo descrive come giureconsulto “non indegno di rinnovare il nome dell’antica famiglia che diede il maggior numero di giureconsulti nell’antica repubblica”. Ricorda come, diversamente dagli Scevola repubblicani, venga di solito citato con il solo cognomen, Scaevola, Arangio-Ruiz 1957, 290. 7 Solin 1995, 119 ss.; Leppin 1992, 230 8 Il termine praefecti che si trova nella testimonianza è stato interpretato da Mommsen (1899, 1121; 1887, 432 nt. 3) come indicazione della carica di prefetto del pretorio, mentre Pflaum 1960, 413 s. lo considera termine generico e ampio. Ancora Pflaum 1970, 228 ss. 9 [T. 4].

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Il profilo biografico sione simile assunta da Marco Aurelio in auditorio. La vicenda ha come protagonista un uomo spartano, di rango pretorio, di nome Brasida. La moglie, dalla quale aveva divorziato, lo aveva incaricato fedecommissariamente, per l’ipotesi in cui i figli avessero raggiunto l’autonomia dopo la sua morte. Il padre, però, aveva anticipato la piena capacità dei figli, emancipandoli. I figli, emancipati, domandavano che il fedecommesso venisse adempiuto. Scevola riferisce come l’imperatore avesse deciso a favore dei figli, concedendo loro il fedecommesso e interpretando così la voluntas della donna, che nessuna speranza nutriva nell’emancipazione dei figli, tanto da avere rinviato il fedecommesso al momento successivo alla morte del padre. Accogliendo tali argomentazioni, anche Ulpiano riteneva che il fedecommesso fosse correttamente pagato a entrambi i figli. In questa sede non si ritiene di dovere analizzare il brano da una prospettiva giuridica – connessa al tema dell’interpretazione della volontà implicita della testatrice, che consentirebbe di ritenere sottintesa la condicio emancipationis10 –, bensì di evidenziare il duplice livello di recezione della decisione imperiale. Scevola ricorda il parere di Marco Aurelio in un’opera che, anche in considerazione dell’uso che ne fa Ulpiano, potrebbe essere la raccolta di quaestiones. Ulpiano è la fonte indiretta del parere medesimo – di cui si avvale per la soluzione di un caso simile – del quale contestualizza l’emanazione ricordando come, al fianco dell’imperatore, si trovasse anche il suo fedele consigliere: come in un gioco di scatole cinesi, Ulpiano cita – verosimilmente perché ne legge l’opera – Scevola, che a sua volta ricorda il parere dell’imperatore, alla cui elaborazione – ma questo lo si intuisce solo dal cenno biografico del giurista severiano – potrebbe avere contribuito11. Meno certo, ma verosimile, è che Cervidio Scevola abbia esercitato attività respondente già sotto il regno di Antonino Pio, come si ricaverebbe da Scaev. 4 resp., D. 34.1.13.1: nel brano citato, i clienti si rivolgono al giurista per ricevere un parere in grado di ribaltare quello ricevuto dall’imperatore, che – in base al lessico utilizzato – parrebbe essere ancora in vita. Come è stato osservato, Scevola doveva rappresentare allora un personaggio di grande fama e di notevole successo, tanto da essere riconosciuto come capace e dotato di un’autorevolezza tale da poter formulare una decisione opposta a quella proveniente dall’imperatore. Il rilievo, peraltro, consentirebbe di collocare il responso negli ultimi anni del regno di Antonino Pio12, quando il giurista poteva avere superato i trent’anni di età13. La vita di Scevola, dunque, potrebbe essersi svolta, almeno nella sua prima parte, sotto il regno di Antonino Pio; in quegli anni il giurista potrebbe avere esercitato attività respon-

10 Wieling 1972, 147 s.; Di Salvo 1973, 258 ss.; Voci 1963, 903 e nt. 67; Desanti 2003, 30 s. Lovato 2003, 46 riferisce della possibilità di valutare il termine previsto nel fedecommesso intellecta matris voluntate. Sul lessico processuale ulpianeo in materia di fedecommessi, si veda Giodice Sabbatelli 2001, 195 e nt. 91. Si vedano anche Dalla 1983, 36; Desanti 2003, 31 e nt. 93. 11 Lovato 2003, 44 s. ricorda come la volontà dell’imperatore potesse essere utilizzata per estensioni oltre l’originaria previsione. Sul legame tra le decisioni di Marco Aurelio e la produzione di Scevola, si veda diffusamente Di Salvo 1973, 258 ss. e, infra, in questo volume, il saggio dedicato al pensiero del giurista. 12 Masiello 1998, 16. 13 Scrive Parma 2007, 4024 s., sulla base delle fonti citate, che “presumibilmente la sua carriera equestre ebbe inizio come procurator in qualche ufficio della cancelleria imperiale già durante il regno di Antonino Pio”. Similmente Sablayrolles 1996, 490; mentre lo esclude Karlowa 1885, 733. Cfr. anche Jörs 1899, 1988 e Fitting 1908, 66.

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Alessia Spina dente, rimanendo lontano dalla vita pubblica. Vita pubblica che, invece, avrebbe abbracciato con l’imperatore Marco Aurelio, come, oltre alle fonti del Digesto e letterarie, anche una testimonianza epigrafica confermerebbe. Si tratta del documento (CIL XIV Suppl. Ostiense, 450214) rinvenuto tra gli scarichi della via a nord della caserma dei vigili di Ostia, dalla datazione sicura e unico punto fermo nel cursus honorum di Scevola5: nel 175, ancora sotto l’egida dell’imperatore filosofo, egli avrebbe rivestito la carica di praefectus vigilum16. Peraltro, gli studi che hanno collocato tra i quaranta e i cinquant’anni l’età di assunzione delle prefetture maggiori porterebbero a credere che il nostro giurista sia nato tra il 125 e il 13517, datazione che risulterebbe coerente anche in riferimento all’attività professionale svolta sotto Antonino Pio. L’impegno di funzionario pubblico sarebbe proseguito anche sotto la dinastia dei Severi. In particolare, la tabula Banasitana18, del luglio 177, descrive Quinto Cervidio Scevola come attivo negli anni del governo di Settimio Severo e parte del suo consilium principis. È possibile supporre, sulla base dell’ordine gerarchico seguito nell’elencare i signatores della tabula, che egli a quell’epoca ricoprisse ancora la carica di praefectus vigilum19. Dopo il 177 non si hanno più testimonianze di una vita pubblica del giurista, e ciò ha portato a formulare ipotesi diverse sul suo destino. Si è pensato che egli sia caduto in disgrazia presso Commodo, sicché, allontanatosi dal palcoscenico politico, Scevola avrebbe concluso la propria esistenza dedicandosi esclusivamente all’insegnamento; secondo taluni, invece, sarebbe stato proprio Commodo ad onorare il giureconsulto dell’accesso al Senato20. Secondo talaltri, Scevola potrebbe essere morto proprio durante il regno di Commodo21, sebbene tale ultima ipotesi paia non tenere in adeguato conto gli indizi provenienti dalle fonti e relativi a un’attività respondente svolta dal giurista successivamente alla morte di Marco Aurelio22. In tale prospettiva viene citato, ad esempio, Scaev. 7 dig., D. 18.7.10, laddove si ricorda la posi-

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[T. 1]. “Senza altro dovette ricoprire importanti incarichi della carriera equestre, ma risulterebbe almeno azzardato proporre la ricostruzione di un suo probabile cursus disponendo di ben poche testimonianze”: Parma 2007, 4025 16 La carica consentirebbe di affermare che il giurista appartenne all’ordine dei cavalieri: Kunkel 1967, 217. Come meglio si illustrerà tra poco il dato risulterebbe confermato dalla Tabula Banasitana. 17 De Bonfils 1998, 216 e nt. 6. Così Masiello 1998, 15 s., rimodulando la datazione di Liebs 1997a, 114, che invece proponeva di collocarne la nascita tra il 130 e il 135, proposta cui ancora pare aderire Parma 2007, 4024 e nt. 26. 18 Volterra 1974, 407 ss.; Syme, 1980 I, 96 sintetizza: “the Tabula Banasitana is a noteworthy accession. It presents the consilium principis in July of 177; twelve names, introduced by five consulars and including Tarrutienus Paternus and Cervidius Scaevola. And a further benefitoh the side. That is, nomenclature and tribes. Scaevola carries the Arnensism which suggests Carthago as his patria”. Seston, Euzennat 1971, 468 ss; Oliver 1972, 336 ss.; Csillag 1968, 179. Giachi 2009, 71 ss.; Marotta 2009, 80 ss. 19 Scevola, infatti, verrebbe dopo il prefetto del pretorio P. Taruttienus Paternus e il prefetto dell’annona Sex. Tigidius Perennis, mentre precederebbe Q. Larcius Euripianus, come osservato e argomentato – con precisi richiami prosopografici – da Parma 2007, 4025. Sull’ufficio di prefetto dei vigili in età severiana, Reynolds 1996, 35 ss. 20 Parma 2007, 4026, osserva – richiamando Bastianini 1975, 298 ss. – che il suo nome non risulta nelle liste dei prefetti d’Egitto, dei quali sono noti i fasti dal 175 al 183. 21 È l’ipotesi avanzata da Jörs 1899, 1989 s. e Fitting 1908, 67. 22 Le osservazioni sono di Masiello 1993, 16. Scrive Talamanca 2000-2001, 492 s.: “in effetti, non sappiamo quando sia morto Scevola, ma è molto difficile che egli abbia superato la ‘Jahrundertwende’”, richiamando, altresì, la tesi di Liebs 1997, 114, che individua il termine ante quem della morte del giurista all’inizio del III secolo. 15

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Il profilo biografico zione del divus Marcus. Invero, il dato non appare del tutto pertinente, perché l’indicazione dell’imperatore defunto è formulata in una nota dell’allievo Trifonino al parere di Scevola: Claudius: divus Marcus ex lege dicta libertatis in vendendo … Ne conseguirebbe – a contrario e proprio in considerazione della mancata citazione del principe antonino da parte del suo fidato consigliere, che invece richiama la posizione del divus Hadrianus – che il passaggio dei digesta scevoliani debba intendersi come precedente alla decisione imperiale. Più significativa è la citazione di Largius Eurippianus contenuta nell’esordio di Scaev. 24 dig., D. 33.1.21.4. Si tratterebbe di Q. Larcius Q.f. Quir. Euripianus, menzionato anche nella Tabula Banasitana come personaggio di rango equestre e verosimilmente coincidente con il Larcius Eurupianus che venne condannato a morte da Commodo tra il 190 e il 19223. È possibile che i due personaggi – entrambi citati nella Tabula Banasitana – si conoscessero, e che Euripiano avesse deciso di rivolgersi al noto giureconsulto per avere un parere in materia testamentaria. D’altro lato, la fama di Euripiano era forse tale da suggerire al giurista di indicarlo nominativamente, circostanza abbastanza rara nei digesta di Scevola dove a prevalere è l’utilizzo di nomi convenzionali. Il dato farebbe ipotizzare che tra il 177 e 190-192, Scevola fosse ancora attivamente impegnato nella professione di giurista respondente. Un’altra fonte da tenere in considerazione per individuare un dies ad quem nella biografia scevoliana è Scaev. 19 dig., D. 32.38.4, in cui la protagonista della vicenda ereditaria è tale Iulia Domna: se è vero che non si può escludere una mera coincidenza onomastica24, il riferimento al testatore, zio paterno della donna, Iulius Agrippa primipilaris – nobile di origine siriaca, assai vicino all’imperatore Settimio Severo25 –, eliminerebbe qualsiasi dubbio, confermando che ad essere menzionata nel passaggio scevoliano sia proprio Giulia Domna, moglie di Settimio Severo26. Il dato confermerebbe che Scevola fosse attivo ancora nei primi anni del 180, mentre appare difficile sostenere, come da taluno ipotizzato, che il termine si possa spostare addirittura fino al 20027. 3. Il valore di una testimonianza sospetta Il nome di Iulia Domna – e con lei il legame con l’età severiana – ricorre in un’ulteriore, assai discussa testimonianza. Si tratta di un passaggio della vita di Caracalla (HA. Caracalla 8.2-328) dedicato alla figura di Papiniano, e nel quale si descrivono i legami del giurista con il maestro Scevola e con il futuro imperatore Settimio Severo. Il biografo descrive Papiniano come amicissimus del primo rappresentante della dinastia dei Severi (forse a lui legato da un vincolo di affinità proprio grazie alla sua seconda moglie, Giulia Domna29); si afferma che il giurista,

23 Così HA. Commodus 7.6. Parma 2007, 4026 sembra propendere per ritenere i due personaggi coincidenti, pur precisando “sempre che non si tratti di un omonimo figlio del cavaliere”. Cfr. Leunissen 1989, 145; Liebs 1976, 296 s. 24 Osserva Parma 2007, 4027, che “la sola e generica menzione del nome, tutt’altro che infrequente, senza nessun appellativo di rango, non può offrire al riguardo nessuna certezza di datazione o identità di personaggio”. 25 Birley 2002, 217 ss.; Levick 2007, 18 ss. 26 Zwalve 2001, 154 ss. 27 Propone una datazione avanzata Liebs 1997, 115 s., mentre più prudente è la posizione di Parma 2007, 4027. 28 [T. 7]. 29 Ghedini 1984, 10 ss. Viarengo 2017, 191 ss.

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Alessia Spina insieme a Severo, si sarebbe formato sotto la guida di Cervidio Scevola30. Si aggiunge che Papiniano sarebbe succeduto a Severo come advocatus fisci e che avrebbe contribuito a mantenere la concordia tra i due fratelli Caracalla e Geta, che gli vennero affidati. L’autenticità del passo è stata decisamente esclusa da Mommsen31, il quale, esprimendo un parere che ha indotto i filologi a espungere dalla maggior parte delle edizioni32 proprio lo stralcio di opera contenente il riferimento al magistero scevoliano33, ritiene che le righe incriminate manchino, anzitutto, della garanzia manoscritta. La critica testuale svolta sulla raccolta delle biografie dei Cesari si fonderebbe sul manoscritto vaticano Pal. 899, la copia più antica e, a parere dello studioso, la più affidabile, specialmente se confrontata con il parallelo manoscritto di Bamberga34. Le parole della vita di Caracalla ritenute non autentiche, presenti nel manoscritto vaticano al foglio 71, ma assenti nella copia bamberghese, non sarebbero attribuibili né all’intervento dello scriba, né a quella di un antico correttore, bensì apparterrebbero ad una mano diversa, di età successiva35. Tuttavia – osserva Mommsen – se la questione filologica potrebbe ritenersi conclusa con l’espunzione della parte interpolata, è compito dello storico domandarsi il motivo dell’interpolazione e la verità delle informazioni in essa versate. Mommsen ammette la possibilità che Severo abbia assunto la carica di advocatus fisci, perché il dato sarebbe confermato da altre fonti36. Al contrario, la notizia secondo cui Papiniano e Settimio Severo avrebbero insegnato diritto sotto la guida di Cervidio Scevola e quella in base alla quale Papiniano avrebbe preceduto Settimio Severo proprio nella carica di advocatus fisci troverebbero nel passaggio della vita di Caracalla la loro unica fonte, risultando di dubbia autenticità anche alla luce dei rilievi lessicali e bioprosopografici che l’autore tedesco solleva37. In particolare, Mommsen nota una mancanza di corrispondenza tra il significato del verbo profiteri e il contesto entro cui esso sembrerebbe utilizzato dal biografo. Lo Studioso osserva che il profiteri sub aliquo sarebbe da ritenersi equivalente all’espressione audire aliquem, sicché il brano descriverebbe Papiniano e Severo allievi nella scuola di Scevola. Tuttavia, nel racconto dell’autore, parrebbe trovare spazio la

30 Si tratta della lettura proposta ad esempio da Syme 1980 I, 82. Ancora, recentemente, Magnani 2008, 69 s.: “Papiniano risulterebbe inoltre essere stato compagno di studi di Severo alla scuola del giurista Scevola”. Sembrerebbe accettare la tesi, ma con prudenza, Parma 2007, 4027: “nel caso, però, ciò sarebbe avvenuto quando il futuro imperatore era ancora all’inizio della sua carriera senatoria”. 31 Mommsen 1890, 64: “die hier eingeklammerten Worten sind nichts als eine dreiste Interpolationen”. 32 È mantenuto, ad esempio, nella traduzione dell’Historia Augusta di Magh 1993, 20. 33 Si legge, ad esempio, nell’edizione di Ernestus Hohl (volumen I, 1971), Caracalla, 8.2-3: Papinianum amicissimum fuisse imperatori Severo, ut aliqui loquuntur, adfinem etiam per secundam uxorem, memoriae traditur: et huic praecipue utrum filium a Severo commendatum, atque ob hoc concordiae fratrum Antoninorum favisse; Soverini 1981, 96 s. sottolinea come nell’ambito della vasta bibliografia dedicata all’Historia Augusta, appaia poco evidente e sviluppato l’interesse “per i problemi linguistici e testuali in senso stretto, laddove non risultino in qualche modo collegati a questioni di carattere storico-antiquario”. In generale, ex multis, sul valore dell’Historia Augusta quale fonte per ricostruire soprattutto gli anni dell’Impero dal 117 al 284, si richiama Syme 1971, 1 ss. (“the Historia Augusta is without question or rival the most enigmatic work that Antiquity has trasmitted. It cannot be omitted or evaded, since for more than a century and a half of imperial history”). 34 Si veda anche Mommsen 1890 II, 281 s. 35 In particolare, Mommsen 1890 I, 64 ipotizzerebbe un intervento di età medievale. 36 Si tratterebbe di Victor Caes. 20.30 e HA. Geta 2. 37 Fluss 1923, 1939 ss.

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Il profilo biografico descrizione di una collaborazione tra il giurista ormai formatosi e i suoi allievi nell’ambito di un’attività professionale squisitamente respondente, laddove invece il verbo profiteri qualificherebbe una formazione di natura propriamente teorica. Inoltre, sotto diverso profilo, Mommsen osserva come i dati cronologici risultino scarsamente attendibili: Settimio Severo sarebbe stato più anziano di Papiniano, sicché una sua contemporanea formazione accanto a Scevola parrebbe inimmaginabile. La tesi di Mommsen in letteratura è ancora decisamente preminente38. Si è tentato di superarne i rilievi attraverso una serie di considerazioni, ragionevoli ma poco documentate. Si è detto, infatti, che il profiteri, nella fattispecie, potrebbe essere stato usato con funzione metonimica, così da risultare riferito alla complessiva preparazione scientifica, sia di formazione teorica che di esercizio pratico39. Ancora, lo iato anagrafico tra l’età di Papiniano e quella di Severo potrebbe essere superato, o ipotizzando che il cum più ablativo utilizzato non rendesse una precisa contemporaneità40, ovvero immaginando che la frequenza alla scuola scevoliana fosse avvenuta ad età diverse41. Invero, il dato evidente è che il biografo di Caracalla – o l’autore successivo che inserisce le informazioni oggetto di critica – stesse concentrando la propria attenzione sulla figura di Papiniano, rappresentato attraverso il legame con l’imperatore Settimio Severo: Papiniano è il soggetto delle proposizioni e, in particolare, è il soggetto cui grammaticalmente deve riferirsi il predicato professum esse. Il verbo profiteri allude primariamente alla dichiarazione orale e pubblica, alla confessione e alla pubblica accusa, e giunge ad assumere i significati traslati di ‘professare’, ‘esercitare una professione’ e, specificamente, ‘insegnare’42. Non si rinvengono precedenti che consentano di accogliere l’equivalenza mommseniana tra profiteri sub aliquo e audire aliquem: un rapporto di dipendenza tra Papiniano, imperatore severiano e Scevola è indiscutibilmente reso dalla preposizione sub, ma che esso si debba leggere alla stregua della consueta relazione tra allievi e maestro appare perlomeno dubbio. Quale fosse il preciso contenuto del profiteri non è dato sapere, e qualunque tentativo di spingersi oltre nella ricostruzione sembrerebbe imprudente. Si potrebbe più genericamente supporre che la notizia attenga all’esercizio pubblico di un’attività giuridica, che si sarebbe potuta sostanziare anche in un insegnamento (e si può ricordare che il verbo, absolute, è presente con tale valore nell’Enchiridion pomponiano43), svolta sotto la guida del maestro Scevola, da Papiniano e Settimio Severo (che dunque in una prima parte della sua vita si sarebbe dedicato agli studi giuridici). D’altra parte, leggere nella testimonianza un vero rapporto di scuola tra Scevola e Papiniano potrebbe apparire eccessivo,

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Esclude qualunque tipo di rilevanza della notizia Costa 1894, 11. Mommsen 1890 I, 65. Masiello 1993, 59. 40 Invero, escludere l’idea di contemporaneità nel complemento ‘cum Severo’ scelto dal biografo, sembrerebbe davvero difficile. 41 Mommsen 1890 I, 65. 42 Heumanns, Seckel 1907, s.v. profiteri, 466 s.; Forcellini III, 1965, s.v. profiteor, 893 (“item speciatim ‘profiteri scientiam, artem etc.’ est eam callere, atque adeo docere, exercere”); VIR IV.1, 1914-1926-1935, s.v. profiteor, -eri, 1209 s.; Th. Ling. Lat., X.2, s.v. profiteor, 1715 ss., in particolare 1721 ss. Il verbo trova applicazione anche nel linguaggio processualpenalistico, Fayer 2005, 279 s. 43 Ci si riferisce a Pomp. lib. sing. enchir., D. 1.2.2.35. 39

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Alessia Spina anche se confrontato con le relazioni che legano il maestro a Paolo o a Trifonino44, rispetto ad altri giuristi (quali Ulpiano e Marciano) che, secondo una certa lettura delle fonti, si sarebbero formati alla scuola neoproculiana di Cervidio Scevola. Mi riferisco alla tesi di Honorè, che valuta come complessivamente attendibili le informazioni contenute nel brano dell’historia Augusta, plausibili e coerenti con la storia successiva di quel periodo, pur ricordando i dubbi di autenticità sul testo45. Più precisamente, l’autore non esclude che il fondatore della dinastia dei Severi potesse essere stato un collega di Papiniano nella scuola di diritto guidata da Cervidio Scevola. Meglio contestualizzando, Settimio Severo, all’incirca all’età di ventiventicinque anni, tra il 165 ed il 170, proprio mentre Scevola veniva gravato da incarichi amministrativi, trascorse un periodo di tempo formandosi come giurista. Successivamente – o forse in quegli stessi anni – Marco Aurelio lo avrebbe nominato advocatus fisci, avviando una carriera poi culminata nel 193 con la proclamazione di imperatore da parte delle truppe di Pannonia, senza una preventiva approvazione del Senato46. La ricostruzione cronologica appare verosimile, avvalorata anche dalle sopra descritte relazioni personali di Scevola con personaggi vicini all’imperatore severiano, la seconda moglie Giulia Domna e suo zio Giulio Agrippa. Il dato che rimane oscuro e forse ancora poco indagato è però ancora il legame tra Scevola e Papiniano, che – lo si ripeta – non pare potersi definire, sulla base delle fonti pervenuteci dal Digesto come un autentico rapporto di scuola47. Papiniano ha certamente studiato, ad esempio, le quaestiones scevoliane, ma nei testi, come si illustrerà infra, non vi sono indizi sufficienti a qualificare il giurista severiano come allievo del nostro. Eppure un fil rouge nelle vite dei tre personaggi citati dal glossatore della vita di Caracalla dovette esistere, tanto da essere stato tramandato sin agli albori del Medioevo: non si può escludere, seguendo il suggerimento di Liebs, che fosse la verosimile origine a unire i due giuristi all’imperatore, abbracciando una tesi che, come ora si vedrà, ha suscitato ampi dibattiti che ad oggi non possono ancora ritenersi sopiti48. È stato anche ipotizzato, in considerazione del fatto che Cervidio Scevola risulti tra i firmatari della Tabula di Banasa, che egli abbia rivestito il segretariato a libellis: la tesi, che si fonda sull’analogia con le carriere svolte da Volusio Meciano e Papirio Dionisio, i quali prima di accedere alle grandi prefetture avevano guidato l’officium a libellis, risulta, però una mera congettura, che non si ritiene di potere accogliere49.

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Per ora basti citare la posizione di Wenger 1953, 511 e nt. 239. Honorè 1962, 163; Honorè 1994, 56 ss. 46 Così Honorè 1962, 163, richiamando HA. Geta 2.3, che attribuisce l’atto di nomina a advocatus fisci ad Antonino Pio, ma – commenta lo studioso – “which is almost impossible, if Severus was born in 145. Perhaps the story is an invention”. 47 La considerazione fu formulata da Dirksen 1871, 451 s. e 468 s. e poi ripresa da Costa 1894, 9 ss. 48 Liebs 1993, 1 s. e nt. 11, dove a proposito di Papiniano si specifica: “Er arbeitete spätestens seit 194 mit dem africanischen Kaiser Septimius Severus zusammen, zunächst als Sekretär für die Privatreskripte”. 49 Si tratta dell’ipotesi avanzata da Christol 2015, 1046 e confutata da Carbone 2017, 60, la quale osserva come i consilia principis, ai quali potevano prendere parte anche i direttori degli uffici imperiali, avevano una struttura variabile, a cui talvolta prendevano parte gli amici principis estranei alla direzione degli officia. Nega la ricostruzione di Christol anche Marotta 2020 a, 620 s., ritenendo che “la sua ipotesi risulta senz’altro plausibile se riferita all’intero arco temporale compreso negli anni che vanno dalla morte di Lucio Vero (169 d.C.) alla rivolta di Avidio Cassio (175 d.C.), ma non appare probabile, proprio alla luce dei rilievi dello studioso francese, che quest’eminente giurista rivestisse tale incarico tra il 161 e il 166”. 45

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Il profilo biografico 4. La provenienza Da decenni la discussione sull’origine di Cervidio Scevola divide gli studiosi. La tesi più antica, risalente a Bremer50, che riteneva Scevola un greco, si poggiava non già sulla significativa presenza di testi in lingua greca e di fattispecie di ambientazione provinciale nelle raccolte casistiche del giurista, quanto piuttosto sulla presenza di specifici grecismi che avrebbero consentito di ipotizzare un’origine greco-orientale. Si possono ricordare l’uso di Brentesium per Brundisium presente in Scaev. 28 dig., D. 45.1.122.1; l’espressione tot annos al posto di tot annorum, in Scaev. 4 resp., D. 40.5.41.10 e 16; il riferimento costante a province (provincia; praeses provinciae; procurator Caesaris) grecoloquenti; il richiamo a municipi dotati di statuti redatti in lingua greca. Da tali elementi si sarebbe potuta dedurre almeno una prolungata permanenza di Scevola nelle province greche51. In particolare, la menzione di Roma e di Berito, l’una dopo l’altra, nel già citato passaggio di D. 45.1.122pr.-1, consentirebbe di immaginare che Scevola sia stato maestro di diritto proprio a Berito; la citazione di Scaev. 17 dig., D. 32.35.1 (non Galatiae, sed Cappadociae finibus) renderebbe plausibile la provenienza da Cesarea di Cappadocia. In verità, l’onomastica e la toponomastica cui Scevola attinge, come è stato osservato, si riferiscono ad un mondo provinciale, ma non necessariamente di estrazione greco-orientale: vi sono numerose indicazioni di città italiane, galliche, spagnole, africane e dell’Asia Minore52. La Grecia prevale con evidenza nell’onomastica, soprattutto in quella degli schiavi: tuttavia, come è noto, schiavi con nomi greci erano frequentissimi a Roma, e in generale in tutta l’Italia. Inoltre, può ragionevolmente credersi che il mondo provinciale – il quale irrompe nelle sole raccolte casistiche del giurista, digesta e responsa, ma non, ad esempio, nelle quaestiones – rappresenti il mondo dei suoi clienti, e non si riferisca anche al bacino di provenienza del giurista. Non si può, inoltre, dimenticare come nel II secolo latino e greco fossero entrambe lingue diffuse, e fosse comune la conoscenza di entrambi gli idiomi, come nel caso di Scevola emerge dalla lettura di documenti della prassi53. Un’altra tesi54, originariamente sostenuta da Kalb, immaginava un’ascendenza africana di Scevola, sulla base dei frequenti ‘africismi’ riscontrabili nella sua prosa55. Le ricerche di Kalb si erano mosse nel solco di una tradizione di studi linguistici che vedevano un latino ‘dell’Urbe’, puro ed esteticamente armonioso, contrapposto a un latino provinciale, e specificamente, nel caso di Scevola, a un latino africano. Nelle opere del giurista – ma, anche sotto

50 Bremer 1868, 90; propendono per l’origine ellenica anche Kübler 1907, 174 ss. e Taubenschlag 1919-1920, 45 ss. Nega decisamente la provenienza greca Orestano 1969, 685: “è da escludere che fosse greco o avesse vissuto in Grecia”. 51 Bremer 1868, 90 s. scrive: “unzweifelhalt hat also Scaevola eine Zeit lang in einer griechisch redenden Provinz gelebt und zwar als Respondent”. 52 Come osservato da Masiello 1998, 18 s.; a poter essere ricordati sono i nomi richiamati in Scaev. 17 dig., D. 32.35.3; Scaev. 18 dig., D. 33.2.34; Scaev. 22 dig., D. 32.41.6; Scaev. 7 dig., D. 19.2.61.1; Scaev. 6 dig., D. 33.7.27.1; Scaev. 22 dig., D. 33.1.21.3. 53 Sul tema del bilinguismo dei giuristi romani e in particolare di Modestino si veda Maffi 2021, 54 ss. anche per la bibliografia ivi citata. 54 Ricorda le due più risalenti tesi basate sul dato linguistico Kunkel 1967, 217. 55 Kalb 1890, 95 ss.

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Alessia Spina questo profilo, rilevano le sole raccolte casistiche – sono stati individuati numerosi ‘africismi’, che accomunerebbero il lessico scevoliano a quello di autori di sicura provenienza africana: in primis il riferimento è a Frontone, ma anche a Floro, Apuleio, Tertulliano e Arnobio56. Talune scelte stilistiche e lessicali che il giurista adotta troverebbero puntuali corrispondenze nella prosa dei letterati citati: l’espressione minorato pretio57 si rinviene in Tertulliano, e all’apologeta cristiano rimanderebbero anche alcuni volgarismi, come advivere al posto di vivere58; l’utilizzo di quia con il modo congiuntivo59; l’avverbio ibi invece di eo60. Non un autentico africismo sarebbe invece l’espressione ‘longe longeque’61, che si riscontra non soltanto in Floro, Frontone, Apuleio, ma anche in scrittori classici e anteriori, quali Cicerone, Orazio, Ovidio e Plinio62: non potrebbe trattarsi, dunque, di un indizio probante, mentre assai più significativi sarebbero i sintagmi primum sic e deinde sic, ritenuti spie più sicure dell’adesione ad un ‘latino africano’63. Le tesi che valorizzano i dati linguistici, dunque, non paiono avere efficacia definitiva nell’individuazione della provenienza del giurista, potendosi, altresì, talune scelte stilistiche interpretare quale riflesso di quelle ‘simpatie frontoniane’ che in Scevola risultano difficilmente negabili: ci si riferisce non soltanto alle ricordate opzioni lessicali, ma anche alla scelta di espressioni rare e caratteristiche, come ‘secundum ea quae proponerentur’, ‘nihil proponi cur’ o come idcirco o super mortem odire64, nonché a coincidenze contenutistiche che si possono riscontrare nelle opere dei due intellettuali, e sulle quali ci si soffermerà diffusamente infra65. Sulla tesi dell’origine africana si ritornerà, con diverse argomentazioni, tra poco. Occorre ricordare la diversa posizione di Kunkel, che ricostruiva una provenienza gallica di Scevola66. Lo Studioso, ritenendo che i contenuti delle opere e lo stile in esse emergente – anche in considerazione della possibile operazione di epitomazione dei lavori casistici – non costituissero elemento sufficiente a dirigere la ricerca sull’origine del giurista, intese valorizzare l’elemento onomastico67. Segnalava, in particolare, la rarefatta presenza del nome Cervidius, contando solamente quattro ricorrenze note, in due epigrafi rinvenute in

56 Sulle possibili influenze della letteratura africana nell’opera di Scevola si rimanda all’introduzione al pensiero e all’opera di Scevola. 57 L’espressione appare effettivamente documentata – osserva Masiello 1998, 20 – solo da scrittori africani, in particolare Tertulliano e Agostino. 58 Scaev. 16 dig., D. 34.3.28.5; Scaev. 20 dig., D. 34.4.30pr. 59 Scaev. 18 dig., D. 44.7.61.1. 60 Paul. 2 ad Vitell., D. 33.7.18.3. Così riassume la questione Masiello 1998, 20, precisando che advivere, quia valde me bene ames, ibi, “sono da ascrivere ai clienti interroganti, non a Scevola”. 61 Scaev. 2 dig., D. 4.4.39.1. 62 La presenza dell’espressione in scrittori classici sarebbe sfuggita tanto a Kalb, quanto a Schulze 1892, 123, che ne recensisce il lavoro. 63 Masiello 1998, 20 richiama sul punto l’autorità di Wöllfin, Sittl e Schulze, come citati dallo stesso Kalb 1890, 100 ss. e da Marache 1952, 138 ss. 64 Masiello 1998, 20. 65 Champlin 1980, 188 ss. 66 Kunkel 1967, 217 ss. 67 Kunkel 1967, 218: “als einziges Kriterium für die Frage nach der Herkunkft des Juristen bleibt somit sein Name, und dieser weist, wenn nicht auf italische Herkunft, so doch jedenfalls auf eine Abstammung aus italischem Blute”.

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Il profilo biografico territorio di Roma, e in due ritrovate nei pressi di Nemausus, l’odierna Nîmes, nella Gallia Narbonense68. Ritengo opportuno illustrare sinteticamente il contenuto dei quattro documenti. La prima epigrafe, dedicata a un soldato africano dei vigili, mostra evidenti connessioni con la famiglia del giurista. In essa si ricorda A. Cervidius Repos(i) tus, proveniente dall’Africa proconsolare (Uthina), che fu miles vigilum nel 203. Secondo Kunkel, la testimonianza sarebbe pertinente, ma non proverebbe l’origine africana del nostro giurista: il soldato menzionato risulterebbe molto più giovane del giureconsulto, ed egli, insieme ai commilitoni che nell’epigrafe vengono nominati, avrebbe da poco acquisito la cittadinanza romana, essendo stato in precedenza un latino. È possibile – conclude l’Autore – che il padre del giovane avesse conosciuto Cervidio Scevola, magari prestando servizio presso la caserma dei vigili nel periodo in cui Scevola era praefectus vigilum: la scelta onomastica sarebbe giustificabile con la prassi di dare ai propri figli i nomi dei propri superiori69. La seconda fonte epigrafica proviene anch’essa da Roma, e si riferisce ad un tale Cervidius Vistinus, nel cui riferimento Kunkel scorge un’immediata connessione con tale Attia Cervidia Vistina, tanto più che l’iscrizione proviene dalla proprietà suburbana del marito di Cervidia, il senatore Fulvius Aemilianus70, sulla base di un’altra importante iscrizione71: una donna, Attia Cervidia Q.f. Vestina, clarissima femina, viene onorata a Lugdunum dal decreto di decurioni, insieme a suo marito, L. Fulvius Gavius Numisius Petronius Aemilianus, senatore patrizio ancora all’epoca di Alessandro Severo, che aveva assunto la carica di praetor tutelaris nel 169 e che era curatore e patrono della città di Lugdunum72. Nonostante l’assenza di prove certe relativamente al legame con la città di Lione, in Attia Cervidia è stata identificata la figlia del giurista, forse nata dal matrimonio di Scevola con una rappresentante della gens Attia, nome gentilizio che nelle Gallie risulterebbe testimoniato con frequenza73. La terza iscrizione non crea problemi, risolvendosi in una semplice dedica: Cn. Cervidio M.f. Tacito74. La quarta iscrizione è di assai difficile comprensione75. Il documento è lacunoso, si possiedono due frammenti, ma

68 La tesi kunkeliana della diffusione del nome gentilizio nella regione transalpina non risulterebbe confermata dalle fonti epigrafiche secondo la ricostruzione di Parma 2007, 4020, che conta solamente tre attestazioni del nomen Cervidius nella Gallia Narbonense. 69 CIL VI.220. Kunkel 1967, 219. Cfr. Syme 1980 II, 78 ss.; Parma 2007, 4020 nt. 6 segnala anche un’attestazione a Cartagine: ILA, fr. 412, 17: Cervidius Victor. 70 CIL VI.12451: si cita Cervidius Vestinus, che potrebbe essere un liberto di Attia, come ipotizza Parma 2007, 4020, nt. 6. Cfr. Buonocore 1982, 354 ss. 71 CIL XIII.1806, 1801 = ILS 1172, 1172a: [C]ervidiae Q(uinti) f(iliae) / Vestinae c(larissimae) f(eminae) Fulvi Aemiliani / ex decreto decurionum. Alla quale si può accostare anche CIL VI.1422 = ILS 1171, contenente una dedica della stessa donna al marito. 72 Kunkel 1967, 218, lo colloca sotto il regno di Alessandro Severo, ma secondo Champlin 1987, 205, lo studioso avrebbe confuso il pretore dell’iscrizione con il suo nipote, che ereditò il patronato di Lugdunum, e di cui vi è testimonianza in ILS 1173. Cfr. Schumacher 1973, 34 nt. 80 e 217, lo considera figlio dell’omonimo pretore tutelare, di cui vi è testimonianza in FV. 189. La tesi viene poi, più recentemente ripresa da Alföndy, in Addenda e corrigenda a CIL VI.1422, pars 8, fasc. 3, 2000, 4696. Per approfondimenti sul punto si rimanda a Parma 2007, 4021 e nt. 11. 73 Così Palmer 1978-1980, 111 ss.; Syme 1980 II, 79 (“the nomen, very common there, indicates native origin”). 74 CIL XII.3515. 75 CIL XII.3171a e 3171b.

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Alessia Spina non è certo neppure che essi fossero parte di un medesimo testo originario. Nel primo frammento compaiono due volte il nome “Ce]rvidio[” e la qualifica di “quae]stor”; il secondo frammento, invece, ripercorre un cursus honorum che parrebbe chiudersi con un possibile proconsolato o un consolato, e contiene una dedica alla popolazione narbonense76. Alla luce delle descritte iscrizioni, Kunkel conclude valorizzando il collegamento tra il nome gentilizio e la parte occidentale dell’Impero, l’Italia, la Gallia meridionale e l’Africa, dove le epigrafi sono state ritrovate; egli, invero, si spinge a immaginare i Cervidii come provenienti dalla Gallia Narbonense, e in particolare dal territorio di Nemausus, una colonia augustea che dovette godere di fama e prosperità proprio tra il II e il III secolo77. E anche il nostro giurista sarebbe originario di tale provincia. La posizione di Kunkel rimase isolata, ma ebbe il merito di inaugurare un percorso di indagine che, mettendo da parte l’elemento linguistico e stilistico delle opere scevoliane, si concentrava sui contenuti dei documenti epigrafici. Ed è proprio un documento epigrafico – la già citata Tabula Banasitana – che ha consentito di riproporre con nuovi e importanti argomenti a favore della tesi di una provenienza africana del giurista. L’ipotesi di una tale origine – come detto enunciata, lo ribadisco, per primo da Kalb sulla base di rilievi linguistici – è stata ripresa e riformulata, sulla scorta di un’indicazione contenuta proprio nella Tabula Banasitana, da Dietlef Liebs. Nella richiamata iscrizione, infatti, nell’elenco dei componenti del consilium principis di Settimio Severo, è menzionato anche Quinto Cervidio Scevola, qualificato come appartenente alla tribù Arnensis78: sulla base degli studi compiuti da Kupitschek, la tribù Arnensis sarebbe da localizzarsi nell’Etruria meridionale, ovvero in Africa e Mauritania79. Scevola, dunque, potrebbe vantare un’origine etrusca o africana, e tra le due opzioni la seconda apparirebbe da preferire, proprio alla luce degli indizi linguistici che, di per sé privi di una valenza probatoria autonoma, assurgono a elemento dirimente per lo scioglimento dell’alternativa80. 5. Un ritratto verosimile Più articolata e in grado di riunire e conferire un significato univoco alle diverse e all’apparenza contraddittorie testimonianze individuate per la prima volta da Kunkel, è la ricostruzione proposta, nel 1987, da Champlin, che ai richiamati indizi aggiunge l’esame di un ulteriore documento epigrafico in precedenza piuttosto sottovalutato. Lo Studioso affronta il tema in un contributo dedicato alle clausole testamentarie che recano il riferimento alla gens Faenia, attiva nel commercio dei cosmetici a Puteoli, Ischia, Roma, Bovillae e Lugdunum,

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Cfr. Burnand 1982, 419; assente ogni riferimento in Pflaum 1978, 64 s. Kunkel 1967, 219. 78 Si veda ad esempio Ferchiou 1980, 9 ss. 79 Kupitschek 1972, 137: “Arnensis (in oppidis Carthagine et Saldis eorumque viciniis erat”). Richiamando le considerazioni di Schulze 1904, 324, Parma 2007, 4024, sostiene che “non si può escludere comunque che Cervidius Scaevola possa anche provenire da una città dell’Italia centrale iscritta alla tribù Arnensis, regione da cui sembrerebbe originario il rarissimo nomen”. Già Kunkel 1967, 218: “Das Gentile Cervidius ist gut italisch … und dabei sehr selten”. 80 Alla tesi dell’africanità aderisce, seppur con prudenza, Masiello 1993, 19 s. 77

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Il profilo biografico come emergente dalle iscrizioni esaminate da D’Arms81. Una discreta parte del contributo di Champlin si concentra sulla figura di Cervidio Scevola, che egli ritiene di individuare nel personaggio citato in un’iscrizione ritrovata a Nemausus e non considerata da Kunkel: si tratta di CIL XII.4036 (Nemausus) = CLE 1112. L’iscrizione di Namausus è andata perduta, e quella proposta è una sintesi di quattro differenti manoscritti che presentano versioni differenti, ma concordanti nella divisione in linee e sul fatto che non sembrano aversi indicazioni di una rottura della pietra nella parte alta, sicché il testo sopravvissuto dovrebbe essere quello integrale. Tuttavia, il nome di un presumibile dedicator e quello di eventuali altri familiari andrebbero ricercati in tituli che non ci sono pervenuti82. Del protagonista si esaltano diversi profili: la composizione di opere, che gli valse autorevolezza in Roma; l’onore che dedicò ai parenti defunti e l’amore che conservò verso quelli in vita; la cura e la perizia non cui redasse la propria tabula testamentaria. Come è stato sottolineato, non si tratta di un epitaffio83: il soggetto dell’iscrizione sarebbe ancora vivente, e la seconda metà del testo sopravvissuto conterrebbe un richiamo al proprio testamento, che egli avrebbe compilato in maniera giuridicamente ineccepibile84. Sottolineare la perfezione formale e sostanziale di un testamento prima ancora della sua apertura appare perlomeno inusuale, tanto da far ritenere allo stesso Champlin, che ci si stia occupando di un giureconsulto85. Doveva trattarsi di un giurista noto a Roma, dove aveva acquisito la fides attraverso i suoi scritti. Si è suggerito potesse trattarsi di un oratore (secondo alcuni Cn. Domitius Afer, famoso retore di Nemausus) o, in considerazione del contenuto giuridico della testimonianza, di un avvocato86. Sembrerebbe che l’intera Gallia Narbonense abbia prodotto due soli uomini di legge rilevanti, L. Baebius Eucles (CIL XII.5900), liberto definito iur(is) studiosus e Q. Valerius Virillio, anch’egli iuris studiosus (CIL XII.3339). Eppure l’esordio dell’epigrafe vanta un tono ben più aulico di quello che potrebbe dedicarsi a un avvocato, e soprattutto contiene il riferimento a un’attività letteraria di cui non si ha notizia per i due citati causidici. L’unico personaggio – ricostruisce Champlin, riprendendo la tesi che fu anche di Kunkel87 – il quale conquistò grande autorevolezza a Roma e che ebbe legami con Nemausus fu proprio Cervidio Scevola88. Più correttamente, Champlin, ripercorrendo le argomentazioni e le ulteriori fonti che consentirebbero di rafforzare il legame tra Scevola e la provincia Narbonense, non ne sostiene la provenienza gallica89, bensì lo stretto legame, lo stesso legame che Kunkel aveva motivato attraverso l’iscrizione rinvenuta a Lugdunum (CIL XIII.1806, 1801 = ILS 1172, 1172a)

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Il richiamo è a D’Arms 1981, 167 s. Champlin 1987, 203. 83 Tale ritenuto da Buecheler, in CLE 1112. 84 Scrive Champlin 1987, 203: “contrary to the opinions of editors, this is not his epitaph”. 85 Champlin 1987, 203. 86 La formulazione di entrambe le ipotesi ha portato alla proposta di versioni alternative del testo, in cui si emenda Roma con tellus e fides con fama: Hirschfeld: extollit p]atroni famam barba[ra tellus. Hartel: auxit p]atroni famam barba[rica tellus. Buecheler: auxit p]atroni famam barbat]us alumnus. 87 Kunkel 1967, 217 ss. 88 Champlin 1987, 204. 89 “Otherwise he might have been a native Italian. In any event, there is no indication that he was Gallic by birth”. 82

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Alessia Spina e riflettendo sulla rarità della presenza del nome Cervidio, che, come si è già ricordato, compare in due iscrizioni di Roma90 e in due iscrizioni proprio di Nemausus91. La relazione tra il giurista e la città, seppur nitida, potrebbe configurarsi non come legame originario, bensì sorto della provenienza della moglie o della famiglia di sua moglie, Atta Vestina, come deducibile dalla dedica alla figlia, “a name with instant Narbonensis connotations”92. Tornando, dunque, all’iscrizione di CIL XII.4036, gli indizi raccolti consentirebbero di ritenere attendibile la proposta di individuare in Cervidio Scevola il protagonista della vicenda narrata93. D’altra parte, che Scevola spiccasse per la conoscenza del diritto delle successioni mortis causa e avesse una peculiare sensibilità nel proteggere la voluntas testantis, è evidente anche nella mole dei responsi dedicati al tema, ai contenuti delle stesse quaestiones, alla materia cui appare dedicato il liber singularis quaestionum publicae tractatae. E che l’aspetto tecnico si coniugasse a una peculiare sensibilità verso i rapporti familiari – tanto da coincidere con gli indirizzi della politica legislativa e da trasformarsi in criterio di esegesi delle clausole – è convinzione che scaturisce da diversi passaggi dell’intera opera scevoliana (lo sfavore per le diseredazioni; il favor nei confronti delle istituzioni di erede; il prudente utilizzo della querela inofficiosi testamenti; la salvaguardia della voluntas testantis; la conservazione dei vantaggi economici connessi ai legami di cognatio)94 ed evidente nella parallela scelta di dedicarvi un liber singularis de quaestione familiae, ricordato nell’Index Florentinus, ma del quale è scomparsa qualunque traccia nei Digesta Iustiniani. Nell’epigrafe discussa si riconosce tutto il più autentico Scevola. E d’altra parte, la competenza specifica in materia testamentaria emergerebbe anche dalla lettura della legge di Arcadio e Onorio, verosimilmente del 396, e versata in CTh. 4.4.3.3 [T. 8], sebbene siano stati segnalati dubbi sulla stessa genuinità proprio della menzione a Scevola95. Invero, proprio la situazione che gli imperatori prendono in esame – l’inefficacia di un testamento che nessun vantaggio produca ai beneficiari96 – viene proposta dal giurista in un passaggio dei Responsa, sopravvissuto in D. 31.88.197, brano che costituisce un argomento a favore della veridicità del riferimento contenuto nella lex. Concludendo, appare verosimile, in forza delle risultanze stilistiche e dei rilievi epigrafici, immaginare che Cervidio Scevola vantasse una provenienza africana98. Come i pochi ma sufficienti dati prosopografici consentono di ricostruire, egli visse a stretto contatto con i principi

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Si tratta di CIL VI.220 = ILS 2163 e di CIL VI.12451. CIL XII.3515; CIL XII.3171a. 92 Champlin 1987, 206. Si vedano ancora i contributi di Syme 1980 II, 79; Palmer, 1978-1980, 119-126. Sembra aderire alla lettura di Champlin, proponendo altresì uno stemma della famiglia, Parma 2007, 4022. In generale si veda anche Bauman 2001, 254 s. 93 Champlin 1987, 204. 94 Sul punto si rimanda, infra, al saggio sul pensiero del giurista. 95 Cfr. Pharr 1944, 83, nt. 17: “in an opinion that is not extant. Apparently Quintus Cervidius Scaevola is meant”. 96 Archi 1969, 420; Voci 1978, 91. 97 Sia consentito rimandare a Spina 2012, 255 ss. 98 In questa sede propongo, dunque, di superare il forse troppo cauto atteggiamento mantenuto in Spina 2012, 22, laddove si concludeva: “a parere di chi scrive – e come messo in luce da certi studiosi – non si riescono a rinvenire, entro il materiale giuntoci, elementi che consentano di ascrivere in maniera inequivoca l’origine di Cervidio Scevola ad una zona dell’impero. I dati a disposizione, complessivamente interpretati, consentono forse soltanto di ipotizzare con un certo grado di verosimiglianza, che il giurista provenisse dall’ambiente provinciale”. 91

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Il profilo biografico della dinastia antonina e severiana, mai interrompendo l’attività di giurista respondente, concentrando l’insegnamento nell’ultima parte della sua vita, negli anni del regno di Commodo, ai quali si fa risalire proprio la raccolta di quaestiones. In quei decenni Roma lo conobbe, lo apprezzò, gli rese onore. Forte è la relazione con la Gallia Narbonense, emergente dai rilievi epigrafici, ma non tale da farne supporre l’originaria provenienza: a spiegarla contribuiscono – se si presta fede a CIL XII.4036 e alla convincente lettura proposta da Champlin – i legami di sangue e la valorizzazione dei vincoli familiari che tanto spazio e tanta rilevanza assumono nella sua produzione scientifica.

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II IL MONDO DI SCEVOLA

1. Tradizione giurisprudenziale e ‘ius novum’ La figura e l’attività di Quinto Cervidio Scevola si collocano a cavaliere tra il II e il III secolo d.C., tra l’ultimo periodo antonino e l’avvento della dinastia severiana. Scevola appare rispecchiare i caratteri più tipici dell’epoca di passaggio della quale fu protagonista: intimamente legato al potere imperiale e contemporaneamente tenace difensore dell’autonomia del sapere giuridico; restauratore dell’antiquum ius e insieme garante delle nuove istanze del cosmopolitismo. Le descritte caratteristiche percorrono con diversa intensità la produzione scientifica scevoliana, costituendo, con ogni probabilità, la cifra caratteristica dell’intera cultura antonina, come anche la letteratura del tempo dimostra1. Il connubio tra antico e nuovo determina, infatti, anche l’originalità di lingua e di stile degli scrittori più espressivi dell’epoca, come Frontone, Gellio e Apuleio2, in cui si alternano arcaismi – proposti dalla nuova sofistica3 – e neologismi, volgarismi e poetismi, gusto per l’antico e ricerca della novità, ragione e soggettivismo4. Scevola, di probabile origine provinciale, partecipò alla vita politica dell’Impero che in Roma aveva il proprio vertice, pur mostrando apertura alle province dalle quali provenivano gli intellettuali influenti, i migliori educatori, gli stessi imperatori. Era un giureconsulto attivo

1 Sulla temperie culturale del II secolo, si possono ricordare i contributi di D’Elia 1960, 1995; Bowersock 1969, 43 ss.; 59 ss.; 76 ss.; 89 ss.; Dodds 1973, 133 ss.; 304 ss.; Sirago 1974, 89 ss.; 173 ss.; 233 ss.; 253 ss.; 287 ss.; 307 ss.; 331 ss.; 351 ss.; 371 ss.; 393 ss.; Baldwin 1975, 21 ss.; 95 ss.; Dillon 1977, passim; Vegetti 1978, 9 ss.; Champlin 1980, 29 ss.; Donini 1982, 36 ss.; 50 ss.; 104 ss.; 117 ss.; 133 ss.; Lana 1998, 3. 2 Spenderò brevi riflessioni sui tre letterati – esemplari di un’epoca – nel prosieguo del lavoro. Per ora basti ricordare come negli stessi insegnamenti di Frontone a Marco Aurelio emerge un’idea di retorica che deve mirare alla cura dei verba – insperata atque inopinata – scelti e della loro collocazione, nonché contemporaneamente vetusta e nova, cioè tratti da autori arcaici o arcaicizzanti, eppure proprio per tale motivo capaci di stupire il lettore o l’uditore: cfr. Cortassa 1984, 16; Fusi, Luceri, Parroni, Piras 2012, 465 e 562 ss.; Perini 1998, 61 ss. Gianotti 1998, 166 ss. 3 Individua nella seconda sofistica l’elemento decisivo e unificatore della vita culturale delle élites imperiali del II secolo Marotta 1988, 93 e nt. 1 per la bibliografia specifica ivi citata. 4 Secondo Scarano Ussani 1987, 20, nella prima metà del secolo, il retore era portavoce di un tipo di cultura che “insieme con la razionalità ufficiale e senza coglierne, almeno in apparenza il contrasto, accettava demoni e misteri, riti salvifici e sogni profetici, avvertendo distintamente l’esistenza dell’irrazionale nell’uomo, nella natura, nella storia”.

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Alessia Spina già negli anni di Antonino Pio e divenne collaboratore prediletto di Marco Aurelio; vi sono indizi significativi di un contatto stretto con i primi Severi. Fu un giurista capace di innovare sui temi più cari alla giurisprudenza precedente: utilizzò per primo il termine transactio, per disegnare una vicenda contrattuale; diede risposta al problema dell’azionabilità del modo distinguendo concettualmente tale figura dalla condicio, entro le cui maglie i giuristi precedenti avevano ritenuto di configurare il regime della coercibilità; fu giurista d’avanguardia quando tradusse le proprie scelte esegetiche in decisioni che paiono anticipare la portata innovatrice di leges imperiali di età successiva; rappresentò la posizione minoritaria nell’escludere l’applicazione pro rata fit deminutio della quarta Falcidiae. Accanto a posizioni che documentano la partecipazione di Scevola a un dibattito giurisprudenziale pregresso, le sue opere testimoniano una capacità eccezionale di fuoriuscire dalle vicende dell’Urbs, e un’attitudine a farsi traduttore delle istanze innovatrici del cosmopolitismo antonino nel mondo del diritto, attraverso una tecnica e raggiungendo dei risultati che parrebbero non avere uguali nella storia della giurisprudenza. Egli, come si dirà meglio in seguito, fu in grado di dare risposta ai bisogni di tutela di nuove fattispecie a decisa connotazione provinciale; diede pareri a numerosi clienti che operavano in ambiente greco, che scrivevano in lingua greca e proponevano casi non perfettamente inquadrabili negli schemi del diritto romano; fu chiamato a commentare capitoli di leggi municipali5; predilesse lo strumento extra ordinem del fedecommesso per tutelare il volere del testatore in ipotesi di invalidità del documento; riconobbe la figura del deposito irregolare, ben noto alla prassi ellenica, e ad esso garantì la protezione giudiziale; all’interno di un discorso conciso, talvolta ermetico, serrato e denso, che poco spazio lascia ai virtuosismi retorici e che parrebbe ispirarsi alla letteratura giuridica di età precedente (forse ad un modello celsino), introdusse grecismi e africismi, che disegnano, anche sotto tale profilo, l’immagine di un giurista espressione del mondo provinciale6. Laddove Scevola scelse di rappresentare e dare vita al ‘nuovo’, sembra averlo fatto esclusivamente nelle forme della tecnica giuridica, con una decisa indipendenza intellettuale rispetto a qualunque influenza esterna: il ‘nuovo’ è penetrato nel diritto, ancora nel II secolo, attraverso l’interpretatio, dando vita a orientamenti che il secolo successivo – e talvolta, ancora più tardi, le commissioni giustinianee – tradurrà nel linguaggio autoritativo delle costituzioni. Più precisamente, come risulterà in maniera più nitida dai trattati civilistici dei giuristi dell’età severiana, anche per Scevola il nuovo si esprime delle forme dell’antico, e ad esso fa costante riferimento, divenendo cifra stilistica, risposta a una direttiva imperiale e, prima ancora, “interiorità profonda di un sapere giuridico al suo culmine”7. Quanto alla sua formazione, seppur con prudenza, pare potersi affermare che Scevola

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Si legga Kalb 1890, 97 ss. Si veda Scaev. 1 dig., D. 50.9.6. Già nel II secolo – e in maniera eclatante poi nel III – dunque, viene meno una delle due premesse che avevano consentito al modello romano di sopravvivere. Il diritto romano, infatti, sino ad allora, era rimasto il diritto di una sola città, appoggiandosi al sistema delle autonomie e così evitando di trasformarsi “nell’ordinamento di tutto l’impero”, come osserva Schiavone 2017, 380. 7 Così Schiavone 2017, 344, riferendosi ai trattati civilistici di Paolo e Ulpiano, sebbene la valutazione si potrebbe estendere anche alla produzione di Scevola. Dagli inizi del III secolo il compromesso labeoniano stretto tra giuristi e imperatore vacilla, come anche l’alleanza tra giurisprudenza e potere imperiale di creazione giulianea: tali presupposti “si rivelavano ormai clamorosamente inadeguati di fronte alla forza invadente della nuova macchina militare-burocratica” (così ancora Schiavone 2017, 380 s.). 6

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Il mondo di Scevola abbia partecipato alle lezioni di Giuliano, se è corretta la lettura della parte finale di Scaev. liber sing. quaest. publ. tract., D. 28.6.48.1, dove, al termine di una discussione avvenuta publice sul funzionamento di clausole testamentarie contenenti istituzione di erede e sostituzioni, si legge: “hoc autem, quod sentimus, Iulianus quoque in libris suis probat”8. Scevola – lo si è visto (cfr. Il profilo biografico) – è intellettuale inserito nei ranghi imperiali, come testimonia in maniera nitidissima l’historia Augusta (Marcus 11.10, [T. 6]), secondo cui Marco Aurelio avrebbe affidato a Cervidio Scevola – unico giurista ricordato quale consiliarius9 – la restaurazione del ius vetus10. Le fonti poco tramandano circa le dinamiche di concreta interdipendenza tra potere e giurisprudenza, tra politica legislativa e interpretatio iuris, tra indirizzo filosofico imperiale e modus operandi scevoliano, per comprendere le quali occorre procedere all’esame di selezionate fonti giuridiche che si prestino a descrivere le interazioni tra diritto e potere in tale particolare congiuntura storica. L’esiguità di testi che esplicitamente descrivano tali relazioni, nonché l’evidente propensione di Scevola ad escludere dal discorso argomenti e motivi extragiuridici, rendono il lavoro di ricostruzione possibile, ma in modo parziale e frammentario. La strada da percorrere è duplice. Da un lato, il tentativo passa attraverso la lettura di quei brani in cui l’opinione del giurista si incrocia con il contenuto di un provvedimento imperiale. Dall’altro lato, esso richiede un confronto con i temi cruciali della riflessione giuridica del II secolo e della contemporanea direzione legislativa: la schiavitù, la condizione femminile, la successione a titolo personale, la rilevanza dei legami di sangue, per proporre solo alcune esemplificazioni. 2. Il giurista e gli imperatori Prima di concentrare l’attenzione sul principato di Marco Aurelio, con cui Scevola mostra una connessione prolungata e privilegiata, appare proficuo verificare l’esistenza di dati che consentano di ridisegnare il rapporto con Antonino Pio, alla luce di alcuni brani che descriverebbero l’autorevolezza acquistata dal giurista prima di assumere il ruolo di consiliarius. Sono anni – giova ricordarlo – in cui si assiste a una crescente attenzione ai temi del diritto di famiglia e del diritto ereditario, ai quali si dedicherà anche Marco Aurelio, e nei quali il nostro giurista assumerà posizioni peculiari: garanzie ai nati e ai nascituri in caso di paternità o di legittimazione dubbia; la determinazione di perimetri ben precisi all’esercizio della patria potestas; l’individuazione di obblighi morali di pietas verso i familiari; la considerazione della volontà della donna nei matrimoni; la valorizzazione della ratio legis a scapito dello scritto nelle questioni ereditarie11. Si tratta dei contenuti di provvedimenti imperiali, ascrivibili ad Antonino Pio, anticipatori di alcune tendenze che avranno successo nella produzione normativa di età successiva12. Nonostante, come noto, tra i cinque componenti del consilium principis lo scrittore dell’Historia Augusta non citi Cervidio Scevola (mentre vi compaiono Meciano e Marcello, giu-

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Già in tempi risalenti Conrad, 1755, 118 ss. Sul passo Johnston 1987, 17 ss.; Talamanca 1988, 835 ss.; Masiello 36 ss. Come nota Syme 1991, 216. Si veda sul punto il precedente profilo biografico del giurista, nonché la bibliografia ivi citata. Garzetti 1960, 475 s. Casavola 1968, 251 ss. e Casavola 1980, 157 ss.

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Alessia Spina risti che paiono avere avuto una significativa influenza nella formazione del nostro13), vi sono elementi per immaginare un ruolo attivo di Scevola nel dibattito giurisprudenziale dell’epoca. Assai significativa è la vicenda descritta in D. 34.1.13.1, brano che si è già avuto modo di illustrare (cap. I): i richiedenti, che avevano ricevuto un parere dall’imperatore14, si rivolgerebbero a Scevola per chiarire il senso della decisione secondo cui la volontà implicita della testatrice sarebbe prevalsa sui verba testamenti15. La scelta del giurista a cui i clienti formularono la richiesta non pare possa essere casuale, dovendosi immaginare una sua indiscussa autorevolezza e un prestigio tale da rivolgersi a lui per ottenere un intervento correttivo o almeno integrativo della costituzione imperiale16. Si possono citare almeno altri due passi a conferma di tale sensazione. Nel discorso ulpianeo di Ulp. 4 ad Sab., D. 28.6.10.6, l’invenzione antonina della quarta divi Pii e il parere scevoliano ad essa connesso sono presentate in un rapporto quasi dialettico: Ulpiano si domanda se al sostituto dell’arrogato impubere spettino anche i beni che l’impubere avrebbe avuto se non fosse stato arrogato, ovvero solo quelli attribuiti dall’arrogatore con testamento. Si potrebbe pensare che al sostituto non debba spettare la quarta parte di eredità riservata all’arrogato dal rescritto di Antonino Pio: Scevola, invece, nel libro X delle quaestiones, avrebbe sostenuto che all’arrogatore dovesse essere consentito individuare un sostituto anche in riferimento alla quarta, e Ulpiano, che approva tale soluzione, la ritiene dotata di ratio. Anche in questo caso il parere di Scevola viene evocato come interpretativo di una costituzione imperiale, insufficiente, nella sua formulazione originaria, a chiarire i dubbi applicativi17. Mentre nel caso di D. 34.1.13.1 si può immaginare la tendenziale contemporaneità di rescritto e responso, in D. 28.6.10.6 [F. 35] spicca la distanza temporale tra decisione imperiale e quaestio, eliminata da Ulpiano in un discorso privo – come di consueto – di profondità storica, in cui il parere giurisprudenziale funge da criterio interpretativo della lex, risultando ancillare rispetto a quest’ultima. Il confine tra oggetto dell’interpretazione e strumento della stessa è assai tenue in Scaev. 18 dig., D. 32.37.3, nella cui complessa vicenda si interseca l’efficacia probatoria di una stipulatio e di una epistula fedecommissaria: la soluzione del giurista è sancita dall’affermazione: “maxime post constitutionem divi Pii, quae hoc induxit”18. Focalizzare l’attenzione su D. 37.6.10 [F. 22] consente di verificare ulteriormente la stretta connessione tra produzione scevoliana e rescritti attribuibili ad Antonino Pio. Nel sopravvissuto stralcio del libro V delle quaestiones, Scevola ammette la bonorum collatio anche nell’ipotesi – esclusa dalla previsione edittale – in cui la bonorum possessio sia stata richiesta dal figlio emancipato e non già dal figlio in potestà. Si tratta di un orientamento che non pare avere ottenuto successo nella giurisprudenza successiva; esso, oltre a inquadrarsi in un generale clima di va-

13 Ampiamente, Morabito 1982-1983, 316 ss.; Marotta 1988, 39 ss.; Syme 1991, 201 ss., in particolare 210; Minale 2020, passim. 14 Il rescritto è conservato anche in C. 6.37.1: Imperator Antoninus. Quamvis verbis his:” ut quoad cum claudio iusto morati essetis”, alimenta vobis et vestiarium legatum sit, tamen hanc fuisse defuncti cogitationem interpretor, ut et post mortem iusti eadem vobis praestari voluerit. Ant. A. Pius Libertis Sextiae Basiliae. Sine die et consule. 15 Voci 1963, 308 e 310; Gualandi 1963 II, 140. 16 Zoz 2009, nt. 48. 17 Non bisogna, peraltro, dimenticare che, come osservato da Garzetti 1960, 476, la forma privilegiata dall’imperatore Antonino Pio per garantire il progresso del diritto e la propria personale partecipazione ad esso, è proprio quella delle costituzioni. 18 Cita il passo Gualandi 1963 I, 79.

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Il mondo di Scevola lorizzazione dei legami cognatizi, ebbe il proprio esordio sotto il predecessore di Marco Aurelio, richiama quanto lo stesso Antonino Pio avrebbe deciso in una parallela ipotesi di collatio dotis ricordata da Ulp. 40 ad ed., D. 37.7.1pr. L’imperatore, in un rescritto indirizzato a Ulpio Adriano, supera la lacuna dell’editto e concede il provvedimento pretorio anche qualora la figlia tenuta alla collazione non l’avesse domandata, limitandosi a fare valere il suo status di erede civile. Scevola, nell’attività di insegnante (e dunque, si può immaginare, già negli anni del potere di Commodo), riprende una motivazione che durante l’impero di Antonino Pio aveva avuto la forza di superare la natura squisitamente pretoria dello strumento. Si potrebbe ipotizzare che il giurista conoscesse e ricordasse il rescritto imperiale, e ne condividesse la motivazione, tanto da suggerirne ai suoi allievi, anni dopo, l’applicazione in via analogica a una diversa figura del diritto onorario. Più numerose e articolate sono le fonti che consentono di ricostruire i rapporti tra Scevola e il successore al trono, Marco Aurelio. Molteplici brani rivelano un nesso tra il singolo parere scevoliano e la singola decisione antonina; i testi giurisprudenziali paiono potersi altrettanto correttamente inquadrare e comprendere all’interno di una più ampia politica legislativa abbracciata programmaticamente dall’imperatore filosofo19. A proposito è opportuno anticipare sin d’ora una considerazione d’insieme: né l’attività normativa di Marco Aurelio – in questa sede descritta solo in maniera cursoria –, né la produzione di Scevola possono essere ritenute espressione coerente dei valori affermati dal princeps nei suoi Pensieri, i quali riflettono un’idea di uguaglianza e di benevolenza nella pratica solo latamente realizzata. Non v’è dubbio che l’attenzione del legislatore si sia concentrata su schiavi, donne e minori, ossia sulle categorie cui lo stoicismo mirava a garantire un nuovo riconoscimento; eppure, l’esito di tale aspirazione non è apparso incidere in maniera decisiva sui rapporti potestativi, in riferimento ai quali il contrasto tra ideale e reale rispecchia ancora le peculiarità del secolo20. Altrettanto complessa appare la posizione di Cervidio Scevola, come si evince dalla lettura di un brano particolarmente significativo per i modi con cui descrive i rapporti tra giurisprudenza e leges imperiali. Scaev. 7 dig., D. 18.7.10: Cum venderet Pamphilam et Stichum, venditioni inseruit pactum conventum, uti ne eadem mancipia Pamphila et Stichus, quos minorato pretio vendidit, alterius servitutem quam

19 D’altra parte, per lo stesso Marco Aurelio, tentare di individuare il punto di saldatura tra il momento filosofico e il momento propriamente politico consentirebbe di recuperare “in forma più piena la sua umanità” (Lana 1984, 9). 20 Individua, invece, una piena corrispondenza tra principi filosofici e attività legislativa di Marco Aurelio Noyen 1955, 372 ss., osservando come più della metà dei provvedimenti dell’imperatore antonino si riferissero a donne, fanciulli e schiavi. Scettico, invece, Cortassa 1984, 48. In particolare, lo studioso sottolinea l’attenzione posta alle fondazioni alimentari in favore di minori abbandonati e alla disciplina della tutela (374 ss.). Tra le fonti che chiarirebbero un simile indirizzo, si ricordano HA. Marcus 7.8 e 26.6. Lana 1998, 7 osserva come il filosofo stoico non riuscisse ad accordare la propria ricerca individuale con i suoi doveri di imperatore, sicché “il distacco fra la cultura e la vita è, anche qui, reale”; già in precedenza, Garzetti 1960, 538 s. Connette all’ ‘umanesimo’ che caratterizza la cultura non soltanto giuridica, del II secolo, anche un’attenzione alla scelta delle parole, che ricalcano lo stile di antichi maestri, Schiavone 1996, 5 ss.; Stolfi 2001, 56 s. e nt. 49 ss. Sulle difficoltà pratiche, in un impero sottoposto alla durissima tensione della spinta dei barbari, di potere realizzare riforme sociali e politiche che fossero in grado di scardinare gli assetti economico-sociali dei secoli precedenti; Stanton 1969, 570 ss.; Hendrick 1974, 254 ss.; Williams 1976, 67 ss. Sui provvedimenti emanati, Cortassa 1984, 49. Si veda poi specificamente Finkenauer 2010, 7 ss.

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Alessia Spina Seii paterentur post mortemque eius in libertate morarentur: quaesitum est, an haec mancipia, de quibus inter emptorem et venditorem convenit, post mortem emptoris iure ipso liberata sint. respondit secundum constitutionem divi Hadriani super hoc prolatam Pamphilam et Stichum, de quibus quaereretur, si manumissi non sint, liberos non esse. CLAUDIUS: Divus Marcus ex lege dicta libertatis in vendendo quamvis non manumissos fore liberos in semenstribus constituit, licet in mortis tempus emptoris distulit venditor libertatem. Vendendo Panfila e Stico, (il venditore) inserì nella vendita un patto, per cui i medesimi schiavi Panfila e Stico, che aveva venduto a prezzo ridotto, non tollerassero la schiavitù nei confronti di altri se non di Seio, e che dopo la morte di questo vivessero in libertà: si è domandato se questi schiavi, riguardo ai quali era intervenuto un accordo tra venditore e compratore, dopo la morte del compratore fossero automaticamente liberati. Rispose che, secondo la costituzione del divo Adriano emessa riguardo a ciò, Panfila e Stico, dei quali si discute, se non siano stati manomessi, non sono liberi. CLAUDIO TRIFONINO: nelle raccolte semestrali di costituzioni,21 il divo Marco Aurelio stabilì che, in base ad una clausola, che prevedeva la libertà, inserita nella vendita, sebbene non manomessi, i servi sarebbero stati liberi, nonostante il venditore abbia differito la libertà al momento della morte del compratore.

La fattispecie riguarda la sorte degli schiavi venduti con il patto di attribuire loro la libertà dopo la morte del compratore. Si domanda a Scevola se, defunto il compratore, gli schiavi diventino automaticamente liberi, ed egli, richiamando un rescritto adrianeo, lo esclude, ritenendo indispensabile la manomissione. Il parere è annotato da Trifonino, il quale, quasi a completare e correggere il discorso del maestro22, cita una costituzione il cui contenuto è noto attraverso i rescritti di Alessandro Severo, versati in C. 4.57.2 e 3, che ne attribuiscono la paternità a Marco Aurelio e a Commodo23. In essa si stabilisce che gli schiavi avrebbero acquistato la libertà anche laddove la volontà del venditore, al tempo della morte del compratore, si fosse modificata24. Scevola, dunque, decide sulla base del precedente imperiale, escludendo l’immediata attribuzione della libertà; intervenuto successivamente un rescritto antonino che avrebbe modificato gli esiti della controversia, l’allievo Trifonino ritiene necessario inserirne il richiamo. Peraltro, vi sono occorrenze testuali che consentono di ritenere

21 Puliatti 2020b, 160 e nt. 57: “in proposito più convincente appare la tesi secondo la quale le costituzioni venivano raggruppate per semestre (semenstria o semestria), come attestano cinque passi della compilazione giustinianea: la prassi in questione è attestata solo per il regno di Marco Aurelio”. 22 Scrive Sixto 1989 I che Trifonino utilizzerebbe la costituzione antonina per attualizzare il pensiero del maestro. La datazione del provvedimento sarebbe compresa tra la data di compilazione dei Digesta (per i quali l’autrice indica, richiamando Lenel, il termine post quem al 178) e la morte dell’imperatore, avvenuta nel 180. 23 Molte sarebbero le testimonianze giurisprudenziali che recherebbero notizia dell’innovazione attribuita a Marco Aurelio e Commodo. La citazione è completa anche nel brano di Callistrato di Call. 3 de cognit., D. 40.8.3: … divus Marcus cum filio suo. Per un elenco non esaustivo dei brani che la presuppongono, si veda Sixto 1989 I, 47 nt. 9 e precedentemente, tra gli altri, Gualandi 1963 II, 202 e nt. 148, che definisce la costituzione “notissima” e “ricordata in una serie veramente imponente di passi”. Ampiamente sui contenuti della disposizione Lovato 2003, 79 s. e nt. 192. 24 Per una corretta interpretazione del legame tra testo e nota, si possono leggere le considerazioni di Cerami 1988, 30, richiamando altresì il lavoro di Massei 1946, 427 e nt. 2. Buckland 1908, 629; Sampter 1927, 1906, 155; Lotmar 1912, 331; Beseler 1936, 87; Borner 1954, 367; Masiello 1999, 53.

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Il mondo di Scevola che della medesima decisione Scevola fosse poi venuto a conoscenza, e avesse integrato, con essa, la sua successiva produzione. Il brano rilevante sotto tale profilo è Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.11.1 [F. 46]. Ulpiano25 racconta che nel libro XIV delle quaestiones Scevola avrebbe commentato una costituzione di Marco Aurelio ad Aufidio Vittorino, personaggio assai vicino alla corte, console nel 183 d.C., nonché spettatore e attivo partecipe di una dolorosa e famosa vicenda successoria imperiale, nota attraverso la corrispondenza frontoniana26. Dunque, il nostro giurista, all’epoca della composizione delle quaestiones avrebbe conosciuto e commentato la costituzione di Marco Aurelio ignorata all’epoca dei digesta, e addirittura Ulpiano sembra citarne il parere – per l’ipotesi specifica in cui la compravendita con una clausola di manomissione fosse stata compiuta da un maggiore di vent’anni ma minore di venticinque – come se si trattasse di un’interpretazione autentica27. In via esemplificativa si possono citare altri casi in cui il provvedimento di Marco Aurelio e l’interpretazione di Scevola appaiono connessi, come Scaev. 9 dig., D. 22.3.29 e Scaev. 20 dig., D. 32.39pr. Nel primo brano il giurista sceglie di interpretare analogicamente il caso propostogli, riferendo alla lettera il rescritto dei divi fratres: si coglie il valore della costituzione quale precedente e il richiamo alla veritas come criterio fondante la decisione imperiale e il parere stesso. Nel secondo brano, Scevola generalizza il contenuto di un rescritto di Marco Aurelio in simili specie, leggendo i verba testatoris alla stregua di fedecommessi e accogliendo così un’interpretazione conforme all’humanitas, caro alla politica imperiale28. Più labile, ma pur sempre visibile è la connessione tra l’esiguo contenuto di Scaev. 2 quaest., D. 16.2.22 [F. 9] e il misterioso rescritto di Marco Aurelio (di cui vi è menzione in I. 4.6.30) che ammetteva la compensazione nei giudizi ‘di stretto diritto’, per il tramite di un’eccezione di dolo. Nel brano delle quaestiones Scevola ammette la possibilità di compensazione per i debiti derivanti da un’obbligazione alternativa, la quale, per l’oggetto della prestazione, dovrebbe intendersi sorta ex stipulatione o ex legato. La letteratura ha negato la genuinità del testo sostenendo che nel II secolo la compensazione sarebbe stata utilizzabile esclusivamente dei iudicia bonae fidei: la notizia giustinianea del rescritto di Marco Aurelio funge da argomento forte a sostegno della genuinità del passo, e consente di formulare ulteriori considerazioni. La scelta di Scevola di discutere – seppur in un contesto che i compilatori hanno eliminato – di un profilo innovativo nel II secolo, confermerebbe la

25 Ulpiano non è l’unico giurista a tramandarci la notizia che, con modalità diverse, viene ricordata anche da Paul. 5 quaest., D. 40.8.9; Pap. 30 quaest., D. 40.1.20pr.; Pap. 9 resp., D. 40.8.8; Mod. 12 resp., D. 1.5.22. Si veda sui modi di citazione della legge Pescani 1963, 105 e nt. 11. 26 Sull’illustre personaggio si veda Groag, Stein, 1933, 278, n. 1393. 27 La tesi della coincidenza delle costituzioni citate dai giuristi severiani con i rescritti del 222 testimonierebbe, dunque, la cronologia delle opere scevoliane proposta poc’anzi. La rassegna casistica sarebbe precedente la compilazione delle quaestiones, sicché nella prima il provvedimento non viene ricordato – e Trifonino lo inserisce nell’annotazione di D. 18.7.10 – mentre nelle seconde il giurista lo cita e lo commenta, proponendo un’esegesi sulla quale si fonda ancora la posizione ulpianea di D. 4.4.11.1. 28 Il brano è stato oggetto di discussione, in letteratura, perché la chiusa reca una formula un po’ contraddittoria, unendo i due aggettivi, noster e divus: si vedano le opinioni di Mommsen 1870, 105; Fitting 1908, 66; A. D’Ors 1943, 56; Gualandi 1963 II, 98; Spina 2012, 443 ss. Considera dell’humanitas come uno dei grandi valori del II secolo, motivo ispiratore di svariati interventi imperiali, Scarano Ussani 1987, 142 s.

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Alessia Spina coincidenza tra le due decisioni e consentirebbe addirittura di immaginare il giurista quale fonte unica di entrambe. Ritornando ora al primo nucleo tematico in esame, quello concernente la situazione dei soggetti privi della titolarità giuridica, accanto al citato favor libertatis, che trova estrinsecazione in numerose altre svariate fattispecie, la produzione di Scevola appare riflettere le difficoltà di superare il profondo iato tra realtà materiale e status giuridico dei sottoposti. Come noto, nel II secolo emerge con maggiore consapevolezza l’esistenza di un disallineamento tra diritto e realtà (problema che aveva impegnato già la giurisprudenza della prima età imperiale), tanto da scaturirne un’attenzione nuova all’elemento soggettivo, psicologico dello schiavo, evidente laddove a essere preso in considerazione sia il requisito della buona fede29. Scevola lo sviluppa ampiamente, ad esempio, in una quaestio di cui dà notizia Ulpiano, in Ulp. 18 ad Sab., D. 7.1.25.6 [F. 6] e in Ulp. 43 ad Sab., D. 41.1.23.3 [F. 6], brani dai quali emerge un’anticipazione dell’atteggiamento di età giustinianea, segno dei tempi e forse riflesso della nuova attenzione all’interiorità di epoca antonina, però sempre controbilanciata, nella riflessione di Scevola, dal rigore giuridico, e, infine, dalla riconduzione della figura del servus allo stato di res. L’effetto di tale contraddizione è quasi di straniamento. Si pensi a Scaev. 2 quaest., D. 21.2.69 [F. 7], lungo brano da cui emerge abbastanza nitidamente il favor manumissionis nell’applicabilità di una garanzia per l’evizione per il venditore che abbia dichiarato la libertà dello schiavo sub condicione. Segue, nella quaestio sopravvissuta, il paragone tra la vendita del fondo e la vendita dello schiavo, il quale viene di nuovo presentato come privo di soggettività giuridica e ricondotto nel novero delle mere res. Similmente, in un altro caso – si pensi a Scaev. 2 quaest., D. 15.1.51 [F. 11] –, quando Scevola decide in materia di peculio, mostra di riconoscere allo schiavo un significativo grado di autodeterminazione, pur tenendo fermissima l’idea che si controverta di una massa di beni di proprietà esclusiva del dominus, la cui fattiva collaborazione è necessaria perché le cose peculiari possano ricevere adeguata tutela processuale. Le decisioni del giurista possono essere ragionevolmente collocate in quell’“umanesimo” di età antonina che aveva trovato spazio in una normazione imperiale caratterizzata da un benevolo trattamento nei riguardi degli schiavi: Scevola si trova dinanzi ad una realtà che sta cambiando e che mette in crisi gli strumenti di regolamentazione dei rapporti socio-economici, e di tale trasformazione vi è traccia nella sua stessa produzione. Anche l’atteggiamento di Marco Aurelio nei riguardi delle donne è stato definito rivoluzionario30: esemplare sarebbe l’introduzione, con il senatoconsulto Orfiziano, nel 178 d.C., di una chiamata dei figli alla successione della madre, con prevalenza rispetto agli agnati31. Anche la letteratura non giuridica tramanda episodi significativi: l’imperatore avrebbe tutelato la posizione di una donna che aveva incolpevolmente ignorato l’illiceità del matrimonio32; avrebbe protetto fanciulle vittime di tutori disonesti33; si sarebbe interessato alla vicenda di

29 Sulla ‘reificazione imperfetta’ dello schiavo quale soggetto commerciale, si può leggere Stolfi 2001, 395 ss., anche per l’ampia bibliografia ivi citata. 30 Cenerini 2009 passim. 31 I. 3.4pr. e 3; Gai. libro sing. ad sen. consult. Orphit., D. 38.17.9; Tit. Ulp., 26.7. 32 Marcian. notum ad Pap. libro secundo de adult., D. 23.2.57. 33 Paul. liber sing. de adsign. libert., D. 23.2.59.

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Il mondo di Scevola una donna accusata di essere incinta dal marito separato34; avrebbe previsto che la figlia erede, rinunciando all’eredità paterna, non fosse tenuta alla collazione della dote35. Scevola, dal canto suo, si dimostra interprete di un desiderio di valorizzare la volontà della donna, anche in riferimento alla gestione e alla titolarità del patrimonio dotale. Il favor dotis (o, secondo alcuni, più genericamente il favor mulieris36, che percorre l’intera produzione del giurista non risulta, nei singoli casi concreti, l’obiettivo della soluzione proposta, né tantomeno il criterio dirimente delle scelte esegetiche compiute. Esso, come si vedrà, appare piuttosto un interesse degno di considerazione, che può indirizzare la soluzione, ma che opera quale generico orientamento, al fianco degli argomenti più strettamente giuridici che risultano prevalenti. Gli esempi sono numerosi. In un famoso passo dei digesta, Scaev. 23 dig., D. 40.4.29, Scevola descrive il caso di una donna che, divorziata dal marito mentre era incinta, espone il proprio parto. Tale circostanza appare del tutto insolita, dovendosi intendere l’expositio come facoltà del solo detentore della patria potestas. I due genitori ignorano, durante la propria esistenza, se il figlio fosse vivo, e solo dopo la morte del padre, che aveva omesso di indicare nel proprio testamento il figlio, ci si domanda se quest’ultimo possa vantare diritti sull’eredità paterna quasi legitimus. Scevola risponde in senso positivo, ammettendo il figlio alla successione. Il brano offre un interessante spaccato delle dinamiche familiari – ormai modificate rispetto al passato – del II secolo, sulle quali ci si soffermerà tra poco. Della donna si evidenzia lo stato di abbandono in cui versa, e che la induce a exponere filium: eppure la sua azione è, evidentemente, priva di una validità giuridica – e in ciò si coglie nuovamente la contraddizione –, perché inidonea a spezzare il vincolo agnatizio che lega il figlio al padre. Tale vincolo diviene, nella lettura di Scevola, lo schema argomentativo che consente, invero, di salvaguardare le ragioni economiche di chi è legato al testatore da un vincolo di sangue, che si esplica nella tutela di un favor liberorum che percorre l’intera produzione di Scevola37. D’altra parte, il problema della titolarità della dote in costanza di matrimonio dovette essere assai discusso nel II secolo, e le fonti sembrano documentare le oscillazioni della giurisprudenza, divisa tra il considerare i beni dotali di proprietà del marito e il considerare l’appartenenza della dote alla moglie38. Quest’ultima tesi viene sovente ricondotta al frammento di Trifonino in cui si legge che “Quamvis in bonis mariti dos sit, mulieris tamen est”: “sebbene la dote si trovi nel patrimonio del marito, essa è tuttavia della moglie”39. L’affermazione, proveniente da un giurista annotatore di Cervidio Scevola e probabilmente suo allievo, non sembra trovare un’altrettanto decisiva corrispondenza nella produzione del maestro40, sebbene in taluni passaggi venga individuata e protetta una vera e propria aspettativa della donna

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Ulp. 24 ad ed., D. 25.4.1pr. Tryph. 6 disp., D. 37.7.9. 36 Stepan 2018, 97 ss., in particolare 103 ss. 37 Il passo è assai studiato, tra la bibliografia, assai ampia, si possono ricordare sul brano: Lanfranchi 1940, 47 ss.; Mordechai Rabello 1979, 168 ss.; Pugliese 1985, 634 ss.; Ankum 2005, 1 ss.; Crifò 2007, 50 s. e nt. 26; Lamberti 2014, 8 e nt. 24; Lovato 2015, 242 e nt. 6. 38 Fayer 2005, 714 ss., anche per la bibliografia ivi citata. 39 Così si legge in Tryph. 6 disp., D. 23.3.75. Sul brano, ex multis, Marrone 2006, 235, nt. 74. 40 Recentemente, sul rapporto tra Scevola e Trifonino, proprio in merito alla concezione della dote, si può leggere Stepan 2018, 76 ss. 35

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Alessia Spina alla restituzione della dote. Si pensi a D. 5.3.34 [F. 3], brano delle quaestiones, in cui il giurista consente l’estensione del beneficium competentiae (ossia del beneficio riconosciuto ad alcuni debitori di essere condannati in misura limitata alle loro effettive possibilità economiche) proprio dell’actio rei uxoriae ad altre azioni che, in regime di concorso alternativo, risultano applicabili su fattispecie identiche. Ancora, in Scaev. 1 resp., D. 31.88.7 e in Scaev. 4 resp., D. 31.36.64(62), pur nella complessità dei due casi, in cui si discute sulla natura del legato o prelegato di dote (legato di debito o legato di certa res?), emergerebbe l’applicazione di un principio di favor dotis, che si traduce in un’attenzione peculiare alla posizione femminile41. Anche Scaev. 3 quaest., D. 23.4.31 [F. 13] e Scaev. 2 resp., D. 23.4.29pr. risultano significativi. In essi Scevola ammette la possibilità per marito e moglie, manente matrimonio, di concludere accordi sulla restituzione della dote. La scelta di ritenere validi i patti, nonostante la mancata partecipazione degli aventi potestà sugli sposi, appare l’esito giurisprudenziale di un dubbio ancora presente nella prima età imperiale (si pensi a D. 23.4.1, in cui Giavoleno cita un parere di Cassio), laddove si riconosce alla donna un interesse, giuridicamente tutelato, sulla dote. Lo stesso riconoscimento si può scorgere in Scaev. 8 quaest., D. 33.4.10 [F. 30], quando si decide a favore della collegataria Seia, a favore della quale il legato creato disiunctim in sostituzione della dote viene attribuito libero dalle limitazioni ex lege Falcidia. Nella valutazione di Scevola parrebbe scorgersi una sensibilità peculiare per la funzione che la dote svolge durante la vita matrimoniale e nel caso questa cessi: in presenza di determinate circostanze e in nome del principio di humanitas che trova la propria traduzione giuridica in un’aspettativa a vantaggio della donna, Scevola opta per criteri interpretativi che ne salvaguardano una forma di titolarità42. Parallelamente, in ambito criminale, si possono ricordare due passaggi in cui il giurista mostra di soppesare la responsabilità del marito che sia accusatore della moglie in un processo di adulterio: la conseguenza patrimoniale – specificamente la retentio propter mores – viene subordinata ad una concreta responsabilità criminale della donna. Laddove il marito abbia spinto la propria moglie verso un altro uomo – come descritto in Scaev. 4 reg., D. 48.5.15(14).1, ovvero abbia commesso lenocinio – come in Scaev. 19 quaest., D. 24.3.47 [F. 54] –, egli “nihil ex dote retinetur”. La valorizzazione dei legami familiari – che rappresenta uno dei motivi ispiratori della legislazione di Marco Aurelio43 – si rinviene, diversamente declinata, in numerose fattispecie della produzione scevoliana. Al diritto di famiglia, peraltro, il giurista dovette dedicare una specifica monografia, non presente nella compilazione giustinianea, che, da quanto tramanda l’Index Florentinus, avrebbe trattato de quaestione familiari; alla materia successoria è poi dedicato interamente il liber singularis quaestionum publice tractatarum; infine, se si identifica lo Scevola citato in CIL XII.4036 [T. 3] con il nostro giurista, occorre riconoscergli un’attenzione speciale agli affetti familiari e una competenza specifica nella redazione di testamenti. Talvolta, l’attenzione ai legami di sangue si traduce nella scelta di un favor liberorum che orienta il giurista nella soluzione dei casi dubbi. Si pensi a Scaev. 3 resp., D. 28.5.86(85), in

41 Il favor dotis è termine che in letteratura si è collegato a una strumentalizzazione del diritto dotale compiuta per opera delle leggi matrimoniali augustee, con finalità di politica demografica: Stagl 2009, 2 ss.; Stagl 2012, 332. 42 Cfr. Wolff 1933, 357; Maschi 1948, 87 s.; Bonfante 1963, 447; Talamanca 1990, 147; Manzo 1997, 314. 43 Renan 1994, 18 s.

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Il mondo di Scevola cui l’esistenza dei figli e l’indiscusso favor nei loro riguardi determina l’interpretazione di una sostituzione pupillare sottoposta a triplice condizione44. In maniera ancora più palese, Scevola rivela di scoraggiare le scelte negoziali e processuali che minano i valori fondanti della civitas: si può pensare alla reticenza con cui egli sembra ammettere la querella inofficiosi testamenti in Scaev. 2 quaest., D. 5.2.20 [F. 5], o alla chiarissima dichiarazione di sfavore nei riguardi delle diseredazioni, con cui si chiude il ricordo di Paolo in Paul. 1 ad Vitell., D. 28.2.19, laddove si legge: exheredationes autem non essent adiuvandae. Il favore nei riguardi dell’istituzione di erede si interseca con la tutela della volontà del testatore, ad esempio, in Scaev. 5 quaest., D. 28.3.18 [F. 21]: viene salvato il testamento in cui fosse già inserito come heres (sebbene estraneo) colui che, al momento della morte del de cuius apparteneva alla categoria dei sui in quanto arrogato. La finalità di realizzare la voluntas testantis, coniugata ad un principio di favor nei riguardi delle manomissioni disposte ex testamento, caratterizza Scevola nella soluzione di casi in cui egli nega – forse sulla scorta di un provvedimento senatorio richiamato dalla giurisprudenza severiana – l’applicazione del principio pro rata fit deminutio alla quarta Falcidiae. Gli esempi di Scaev. 4 quaest., D. 35.2.16 [F. 15] e di Ulp. 6 disp., D. 35.2.35 sono significativi in tal senso, e si riconnettono a un più generale principio di favor nei confronti dei lasciti a titolo particolare. Questi ultimi, nella riflessione casistica del giurista, appaiono la più nitida espressione della libertà testamentaria, più ‘moderni’ nell’assecondare le esigenze di distribuzione dei beni post mortem e tutelabili nelle forme più elastiche della procedura extra ordinem. Anche la dialettica erede/legatari, alla luce della disciplina della lex Falcidia, assume un significato peculiare nella riflessione di Cervidio Scevola. Se normalmente è ai lasciti particolari che il giurista pare riservare un’interpretazione favorevole, il giudizio risulta invertito in presenza di talune peculiari circostanze di fatto e laddove l’applicazione della lex Falcidia determinerebbe la lesione della volontà del testatore. È quanto accade in una delicata vicenda familiare per risolvere la quale Marco Aurelio chiede soccorso al suo maestro Frontone e, come si può dedurre dalle fonti, allo stesso Scevola. È noto come Frontone abbia intrattenuto con gli imperatori Antonini un rapporto privilegiato, intimo e frequente, esprimendo e condividendo con essi l’amore per le lettere e la retorica, nonché le tristezze e le preoccupazioni della vita quotidiana. La corrispondenza con Marco Aurelio, poi, è una testimonianza vivida e insuperabile dell’evoluzione compiuta dal futuro principe e del crescente interesse per gli studi filosofici, prima e dopo l’ascesa al potere45. Nell’epistolario trovano spazio anche le vicende personali e familiari dell’imperatore, e tra di esse la questione della successione di Matidia, che doveva avere angosciato molto il princeps46. La vicenda narrata nella corrispondenza tra Frontone e Marco Aurelio consente di ricostruire che l’Augusta aveva nominato quali propri eredi l’imperatore e la consorte Faustina, lasciando alle loro figlie in legato una preziosa collana di perle; era stato poi disposto un lascito fami-

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Sul brano, Spina 2012, 94 ss. Cortassa 1984, 19 e in particolare 21 ss. 46 Si deve a Kübler l’intuizione di accostare tre lettere frontoniane a un passo di Scevola escerto dai digesta: Kübler 1939, 353 ss. Le tre lettere sono: Fronto ep. ad amicos 1.14; ep. ad M. Caesarem et invicem 2.16; ep. (rescriptum) magistro meo 2.17. Si veda in tema Chausson 2009, 79 ss.; Demougin 2013, 25 ss. 45

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Alessia Spina liare a favore di fanciulli, tale da esaurire l’intero asse ereditario47. La collana legata, peraltro, già si trovava nella disponibilità materiale delle legatarie. Dalle lettere emerge una discordanza tra il parere di Frontone e quello di Marco Aurelio. Il retore, facendosi forse portavoce dei desideri della moglie Faustina e delle figlie, sosteneva l’invalidità del testamento per motivi formali48; diversamente, l’imperatore appariva non convinto delle argomentazioni del maestro, tanto da volere ricevere una consultatio amicorum, prima di prendere una decisione finale. È possibile che con il termine amici l’imperatore si stesse riferendo ai consiglieri temporanei, non rientranti nel consilium e non percepienti un salario49; e dal momento che Scevola risponde a un quesito su quella fattispecie in Scaev. 5 resp., D. 35.2.26, si può pensare che a lui, in qualità di amicus, l’imperatore abbia domandato un’ultima opinione. Il contenuto del responso – lo si illustrerà più accuratamente infra – risulta avvantaggiare l’erede, al quale viene riconosciuto il diritto eccezionale di ottenere la restituzione di tutto il bene legato, di ottenere, cioè, la consegna del bene legato che fosse già in mano del legatario alla morte del de cuius, nel caso in cui l’attribuzione dei lasciti a titolo particolare ledesse la quota che la lex Falcidia riservava all’erede50. Scevola avrebbe dato risposta alla volontà imperiale di evitare la distractio della collana, consentendo la retentio nel caso in cui gli fosse spettato il possesso della res legata51. Emerge un generale allineamento tra le esigenze abbracciate dal sovrano e le scelte esegetiche operate dal giurista, ma si avverte soprattutto lo sforzo di far rientrare le direttive del potere politico negli schemi di un sapere controllabile e unanimemente accettabile, difendendo la specificità della disciplina e il ruolo stesso dei giuristi52. In questo esemplare momento del dialogo tra scienza giuridica e vertice del potere, Scevola mostra di conservare a sé e alla giurisprudenza un ruolo creativo e direttivo, e non già meramente recettivo di indirizzi imperiali. L’opera di Scevola appare, dunque, muoversi cautamente tra due esigenze. Da una parte, vi è una severa difesa del ruolo del giurista quale autonomo operatore, distinto dal potere

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Cfr. anche Chausson, Buonopane 2010, 91 ss. Infatti, si evince che i legati aggiuntivi sarebbero stati disposti tagliando lo spago che aveva sigillato il testamento e, secondo la prassi, ciò sarebbe stato motivo sufficiente a negare la validità dell’intero documento: così osserva Kübler 1939, 362, richiamando la sententia di Marco Aurelio versata in Marcell. 29 dig., D. 28.4.3. Sulle disposizioni giuridiche che Frontone avrebbe preso a modello per il parere all’imperatore, Lauria 1982, 317 ss. 49 La distinzione è chiaramente descritta da Marotta 1988, 39 s. (“il termine amicus era un titolo di dignità e designava il rango che il consigliere occupava nella gerarchia aulica. I comites, invece, – compagni di viaggio del principe – durante le spedizioni formavano il suo consilium”). Invero, il giurista membro del consilium rappresentava un elemento permanente e stabile, indispensabile per l’esercizio delle prerogative legislative e giudiziarie dell’imperatore (si veda, ex multis, Homo 1996, 304). Frezza 1977, 260 precisa come, alla presenza – istituzionalizzata con Adriano – di maestri di diritto, nel consilium principis, segue con Marco Aurelio il reclutamento di giuristi stipendiati, presenti nel consilium con il titolo di consiliarii. Garzetti 1960, 539 s. lo descrive come un organo nettamente distinto dall’accolla degli amici, più amministrativo che politico. Tra i contributi più recenti sul consilium principis si possono ricordare: Christol 2015, 1035 ss. in particolare, a proposito di Cervidio Scevola, 1046; Christol 2015 b, 587 ss.; Marotta 2020, 619 ss. 50 E in un’invettiva contro la stessa legge si scaglia lo stesso Frontone nella già citata ep. ad M. Caesarem et invicem, 2.16. 51 Così Mannino 1981, 151 s. 52 Come osservato da Schiavone 2017, 358 dopo Celso e Giuliano ai giuristi, divenuti leaders intellettuali, era stata affidata la direzione del potere imperiale, un “compito storico … ma che essi si sforzarono di ricondurre nei termini di una misura universale, razionalmente accettabile e condivisibile”. 48

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Il mondo di Scevola politico, mentre sull’altro versante opera l’attualità del mondo in cui egli vive, dalla quale non può prescindere, soprattutto nella seconda fase della sua vita, verosimilmente trascorsa sotto l’impero dei primi Severi. Delle due tensioni egli sembra avvertire maggiormente il peso della prima, che lo conduce ad assecondare la politica imperiale e i valori da essa sostenuti, laddove traducibili negli schemi unanimemente riconosciuti dalla scienza giuridica e solo se consoni alle esigenze della società che si trasformava, ma senza mai coincidere con le pronunce autoritative del princeps e, anzi, rivendicando l’alterità rispetto ad esse53.

53 Scrive Schiavone 2017, 353, che nel passaggio dalla comunità aristocratica dei cives repubblicani, alla realtà dell’Impero e al nuovo rapporto suddito/princeps, la giurisprudenza “avrebbe inventato una nuova dialettica fra poteri che si respingevano e attraevano con eguale forza; reciprocamente indipendenti, ma costretti a non escludersi”.

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II TESTIMONIA

I EPIGRAFI

1 – CIL XIV, suppl. Ostiens., 4502 = ILS 2164 - - -] / coh(ors) [... Fe]lix | (centuria) Papiri / Cervid[i]o Scaevola pr(aefecto) / Ulpio Archelao s(ub)p(raefecto) / Pom[...]o Corne[l]iano tr(ibuno) / [...]o Rufi[n]o tr(ibuno) / IICVI(?) [...] Id(ibus) Aug(ustis) in [I]dus Dec(embres) / M(arcus) Antonius M(arcii f(ilius) Verna f(rumentum) p(ublicum) a(ccipit) d(ie) XXII o(stio) XXVII K( ) C / T(itus) Verutius T(iti) lib(ertus) Glycon f(rumentum) p(ublicum) a(ccipit) d(ie) IX T( ) LXXII K( ) C / M(arcus) Plenius M(arci) f(ilius) Cogitatus f(rumentum) p(ublicum) a(ccipit) d(ie) XIII o(stio) XLI SA( ) / D(ecimus) Terentius D(ecimi) l(ibertus) Genialis f(rumentum) p(ublicum) a(ccipit) d(ie) [...] o(stio) [...] / C(aius) Claudius C(ai) f(ilius) Silvinus f(rumentum) p(ublicum) a(ccipit) d(ie) I o(stio) IIII SA( ) / ded(icatus) K(alendas) Dec(embres) Pisone et Iul(iano) co(n)s(ulibus) P(ublio) Aelio Hermadio/ne opt(ione) f(rumentum) p(ublicum) a(ccipit) d(ie) XX o(stio) XXX K( ) - - -] / coorte [... Felice centuria di Papirio / a Cervidio Scevola prefetto / a Ulpio Archelao subprefetto / a Pompeo Corneliano tribuno / [...] a Rufino Tribuno / +++ dalle idi di Agosto alle Idi di Dicembre / Marco Antonio Verna, figlio di Marco, ricevette frumento pubblico, nel giorno ventidue, allo sportello ventisette, previa verifica, Tito Veruzio Glicone, liberto di Tito, ricevette frumento pubblico, nel giorno nono, al documento settantadue, previa verifica, Marco Plenio Cogitato, figlio di Marco, ricevette frumento pubblico, nel giorno ottavo, allo sportello quarantuno o a un altro /, Decimo Terenzio Geniale, liberto di Decimo, ricevette frumento pubblico, nel giorno ... allo sportello ..., Caio Claudio Silvino, figlio di Caio, ricevette frumento, nel giorno primo allo sportello quarto, o altro /, dedicato, alle Calende di Dicembre sotto il consolato di Pisone e Giuliano, da Publio Elio Ermadione soldato scelto / ricevette frumento pubblico nel giorno ventesimo, allo sportello trenta, previa verifica 2 – Tabula Banasitana (AE 1971, 534; Purpura 2012, 625-641) Exemplum epistulae Imperatorum nostrorum An[toni-] ni et Veri Augustorum ad Coi((i))edium Maximum: li((i))bellum Iuliani Zegrensis litteris tuis iunctum legimus, et 35

Alessia Spina quamquam civitas romana non nisi maximis meritis pro5 vocata ingentia principali gentilibus istis dari solita sit, tamen cum eum adfirmes et de primoribus esse popularium suorum, et nostris rebus prom

to obsequio fidissimum, nec multas familias arbitraremur aput Zegrenses paria poss((i))[e] de officis suis praedicare quamquam plurimos cupiamus ho10 nore a nobis in istam domum conlato ad aemulationem Iuliani excitari, non cunctamur et ipsi Ziddinae uxori, item liberis Iuliano, Maximo, Maximino, Diogeniano, civitatem romanam salvo iure gentis, dare. Exemplum epistulae Imperatorum Antonini et Commodi Augg(ustorum) 15 ad Vallium Maximianum: legimus libellum principis gentium Zegrensium animadvertimusq(ue) quali favore Epidi Quadrati praedecessoris tui iuvetur; proinde et illius testimonio et ipsius meritis et exemplis quae allegat permoti, uxori filiisq(ue) eius civitatem romanam, sal20 vo iure gentis, dedimus. Quod in commentarios nostros referri possit, explora quae cui((i))usq(ue) aeta((ti))s sit, et scribe nobis. Descriptum et recognitum ex commentario civitate romana donatorum divi Aug(usti) et Ti(beri) Caesaris Aug(usti), et C(aii) Caesaris, et divi Claudii, et Neronis, et Galbae, et divorum Aug(ustorum) Vespasiani et Titi et Caesaris 25 Domitiani, et divorum Aug(ustorum) Nerae et Trai((i))ani Parthici, et Trai((i))ani Hadriani, et Hadriani Antonini Pii, et Veri Germanici Medici Parthici Maximi et Imp(eratoris) Caesaris M(arci) Aurelii Antonini Aug(usti) Germanici Sarmatici, et Imp(eratoris) Caesaris L(ucii) Aureli Commodi Aug(usti) Germanici Sarmatici, quem protulit Asclepiodotus lib(ertus), id quod i(nfra) s(criptum) est. 30 Imp(eratore) Caesare L(ucio) Aurelio Commodo Aug(usto) et M(arco) Plautio Quintilio co(n)s(ulibus), p(ridie) non(as) Iul(ias), Romae. Faggura uxor Iuliani principis gentis Zegrensium ann(orum) ς. XXII, Iuliana ann(orum) ς VIII, Maxima ann(orum) ς IV, Iulianus ann(orum) ς III, Diogenianus ann(orum) ς II, liberi Iuliani s(upra) s(cripti). 35 Rog(atu) Aureli Iuliani principis Zegrensium per libellum suffragante Vallio Maximiano per epistulam, his civitatem romanam dedimus, salvo iure gentis, sine diminutione tributorum et vect galium populi et fisci. Actum eodem die, ibi, isdem co(n)s(ulibus) 40 Asclepiodotus lib(ertus), recognovi. Signaverunt: M(arcus) Gavius M(arci) f(ilius) Pob(lilia tribu) Squilla Gallicanus M(arcus) Acilius M(arci) f(ilius) Gal(eria tribu) Glabrio T(itus) Sextius T(iti) f(ilius) Vot(uria tribu) Lateranus 45 C(aius) Septimius C(aii) f(ilius) Qui(rina tribu) Severus P(ublius) Iulius C(aii) f(ilius) Ser(gia tribu) Scapula Tertullus T(itus) Varius T(iti) f(ilius) Cla(udia tribu) Clemens M(arcus) Bassaeus M(arci) f(ilius) Stel(latina tribu) Rufus 36

Testimonia. Epigrafi P(ublius) Taruttienus P(ubli) f(ilius) Pob(lilia tribu) Paternus 50 [………. Tigidius …………………………………………. Perennis] Q(uintus) Cervidius Q(uinti) f(ilius) Arn(ensi tribu) Scaevola Q(uintus) Larcius Q(uinti) f(ilius) Qui(rina tribu) Euripianus T(itus) Fl(avius) T(iti) f(ilius) Pal(atina tribu) Piso. I) Copia della lettera dei nostri imperatori, gli Augusti Antonino e Vero, a Coedio Massimo: abbiamo letto la petizione di Giuliano Zagrense allegata alla tua lettera e, benché non rientri nel costume abituale donare la cittadinanza romana a tali uomini delle tribù, a meno che dei meriti eccezionali non suscitino la benevolenza imperiale, tuttavia, dal momento che tu attesti che il richiedente è uno dei più eminenti del suo popolo, e che, uomo di assoluta fedeltà, aderisce alla nostra causa senza esitazioni, e giacché siamo del parere che non molti gruppi famigliari degli Zegrensi possono vantare meriti comparabili con i suoi – per quanto noi desideriamo che, visto l’onore concesso alla casata di Giuliano, parecchi siano incitati a imitarlo – non esitiamo a donare a lui, a sua moglie Ziddina, nonché ai loro figli Giuliano, Massimo, Massimino e Diogeniano, la cittadinanza romana, senza che ciò pregiudichi il diritto vigente per il suo popolo. II) Copia della lettera degli imperatori Antonino e Commodo Augusti a Vallio Massimiano: abbiamo letto la petizione del capo della tribù degli Zegrensi e abbiamo preso atto di quale favore egli goda da parte del tuo predecessore Epidio Quadrato; pertanto, mossi sia dalle attestazioni di stima di costui, sia dalle azioni meritevoli di quello, qui documentate dagli allegati, concediamo a sua moglie e ai suoi figli la cittadinanza romana, fatto salvo il diritto vigente per il suo popolo, ma affinché tale provvedimento possa essere inserito nei nostri registri, informati di quale sia l’età di ciascuno di loro, e scrivicelo. III) Estratto, descritto e collazionato dal registro elencante coloro che hanno ottenuto la cittadinanza romana – dal divino Augusto, da Tiberio Cesare Augusto, da Gaio Cesare, dal divino Claudio, da Nerone, da Galba, dai divini Augusti Vespasiano e Tito, da Domiziano Cesare, dai divini Augusti Nerva, Traiano Partico, Traiano Adriano, Adriano Antonino Pio e Vero Germanico Medico Partico Massimo, dall’imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto Germanico Sarmatico e dall’imperatore Cesare Lucio Aurelio Commodo Augusto Germanico Samtatico – che il liberto Asclepiodoto ha prodotto, e che viene trascritto qui di seguito. Sotto il consolato dell’imperatore Cesare Lucio Aurelio Commodo Augusto e di Marco Plauzio Quintillo, alla vigilia delle none di luglio, a Roma. Faggura, moglie di Giuliano, capo della tribù degli Zegrensi, di anni ventidue; Giuliana, di anni otto, Massima, di anni quattro, Giuliano, di anni tre, Diogeniano, di anni due, figli del suddetto Giuliano. Dietro richiesta di Aurelio Giuliano, capo degli Zegrensi, avanzata tramite domanda scritta, con l’appoggio espresso per lettera di Vallio Massimiano, noi concediamo loro la cittadinanza romana, fatto salvo il diritto vigente per il loro popolo, e senza sgravio delle tasse e dei tributi dovuti al popolo romano e al fisco imperiale. Fatto il giorno medesimo, ivi, sotto gli stessi consoli. Io, Asclepiodoto liberto, l’ho collazionato. Hanno sottoscritto: Marco Gavio Squilla Gallicano, figlio di Marco, della tribù Popillia; / Marco Acilio Glabrio, figlio di Marco, della tribù Galeria; / Tito Sestio Laterano, figlio di Tito, della tribù Voturia; 37

Alessia Spina / Gaio Settimio Severo, figlio di Gaio, della tribù Quirina; / Publio Giulio Scapula Tertullo, figlio di Gaio, della tribù Sergia; / Tito Vario Clemente, figlio di Tito, della tribù Claudia; / Marco Basseo Rufo, figlio di Marco, della tribù Stellatina; / Publio Taruttieno Paterno, figlio di Publio, della tribù Publilia; / [Sesto Tigidio Perenne, figlio di ?, della tribù ?]; / Quinto Cervidio Scevola, figlio di Quinto, della tribù Arnensis; / Quinto Larzio Euripiano, figlio di Quinto, della tribù Quirina; / Tito Flavio Pisone, figlio di Tito, della tribù Palatina. (trad. Migliario 1999, 457 ss.). 3 – CIL XII.4036 = CLE 1112 […..]atroni famam barbal[…………] / cuius Roma libris adserit [ipsam fidem.] / amissos ornat titulis, en espice, iunctos: / quos habet incolum / fovit amore pari. / ..... supremas error ne posset rumpere ceras, / arte sua cavit / clausit operta fide. / excipiet Manes, sua qui sine lite reliquit: laudabit studium, cui sua cura cavet. … ai cui libri Roma stessa riconobbe autorevolezza. /onorava i suoi cari defunti con iscrizioni, curava con pari amore i suoi congiunti in vita: / ... con la sua arte evitò che le tavole testamentarie potessero essere invalidate da errori/ sigillò i segreti con la fede. / aspetterà i Mani, lasciò i propri beni in modo che non sorgessero controversie: loderà lo studio, al quale dedicò la propria cura.

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II TRADIZIONE MANOSCRITTA1

Cn. Domitius Ulpianus 4 – Ulp. 5 disp., D. 36.1.23pr.: Mulier, quae duobus filiis in potestate patris relictis alii nupserat, posteriorem maritum heredem instituit eumque rogavit liberis suis post mortem patris eorum hereditatem suam restituere vel ei qui eorum superesset: eisdem emancipatis a patre suo vitricus restituisse hereditatem dicebatur, mox alter ex filiis vivo patre decessisse: quaerebatur, an is, qui supererat ex filiis, partem fratri suo restitutam petere possit quasi praemature datam. Scaevola divum Marcum in auditorio de huiusmodi specie iudicasse refert: Brasidas quidam Lacedaemonius vir praetorius, cum filiis suis ab uxore divortio separata, si morte patris sui iuris fuissent effecti, fideicommissum relictum esset, eos emancipaverat: post emancipationem fideicommissum petebant. decrevisse igitur divum Marcum refert fideicommissum eis repraestandum intellecta matris voluntate, quae quia non crediderat patrem eos emancipaturum, distulerat in mortem eius fideicommissum non dilatura id in mortalitatem, si eum emancipaturum sperasset. secundum haec dicebam et in proposita quaestione decretum divi Marci esse trahendum et recte fideicommissum utrisque solutum. Una donna, la quale, lasciati i due figli sotto la potestà del padre, aveva sposato un altro, istituì erede il secondo marito, e lo pregò di restituire ai propri figli la sua eredità dopo la morte del loro padre, o a quello di loro che fosse sopravvissuto: essendo i medesimi emancipati dal loro padre, si diceva che il patrigno avesse restituito l’eredità, che subito dopo uno dei figli sia morto essendo ancora in vita il padre: si domandava se quello dei figli che era sopravvissuto possa richiedere la parte restituita a suo fratello, come se data in anticipo. Scevola riferisce che il divo Marco Aurelio, in tribunale, avesse giudicato su una fattispecie simile: Brasida,

1 I [T. 4] e [T. 5] sono fonti che rimandano al pensiero del giurista, tanto da potere essere collocati tra i fragmenta dell’opera scevoliana. In questa sede, però, si è voluto considerarle mere testimonianze sulla vita e sul ruolo di Scevola nella storia della giurisprudenza, sulla base del giudizio formulato da giuristi a lui successivi.

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Alessia Spina spartano di rango pretorio, essendo stato lasciato ai propri figli un fedecommesso dalla moglie dalla quale aveva divorziato, per l’ipotesi che questi avessero raggiunto la piena capacità a seguito della sua morte, li aveva emancipati: dopo l’emancipazione domandavano il fedecommesso. Scevola riferisce, dunque, che il divo Marco Aurelio aveva deciso che il fedecommesso dovesse essere a loro dato, intuita la volontà della madre, che, poiché non aveva creduto che il padre li avrebbe emancipati, aveva rinviato il fedecommesso dopo la sua morte, mentre non l’avrebbe rinviato dopo la morte, se avesse avuto fiducia nel fatto che li emancipasse. In base a tali argomentazioni affermavo che anche nella questione proposta occorre accettare il decreto del divo Marco Aurelio e correttamente pagare il fedecommesso a entrambi. Herennius Modestinus 5 – Modestinus 4 excus., D. 27.1.13.2: Ἕτερον δὲ ἐκεῖνο εὑρίσκομεν ἐκ τῆς Μάρκου νομοθεσίας ζητήσεως ἄξιον· τῷ γὰρ ἐν αὐτῇ τῇ πόλει ὄντι, ἐν ᾗ κεχειροτόνηται ἢ ἐντὸς ἑκατὸν μιλίων πεντήκοντα ἡμερῶν ἔδωκεν ὁ νομοθέτης προθεσμίαν. τῷ δὲ ὑπὲρ ἑκατὸν μίλια διατρίβοντι καθ’ ἑκάστην ἡμέραν δεῖν ἀριθμεῖσθαι εἴκοσι μίλια ἐκέλευσεν καὶ ἔξωθεν τούτων ἄλλας τρίακοντα ἡμέρας προσέθηκεν εἰς δικαιολογίαν. ὅθεν συμβαίνει, ἐὰν ᾖ τις ἀπὸ ἑκατὸν ἑξήκοντα μιλίων τὰς διατριβὰς ποιούμενος, τούτῳ εἶναι προθεσμίαν ὄκτω καὶ τριάκοντα ἡμερῶν, ὄκτω μὲν τῶν ἑκατὸν ἑξήκοντα μιλίων, ὡς καθ’ ἑκάστην ἡμέραν εἴκοσι μιλίων ἀριθμουμένων, τριάκοντα δὲ τὰς πρὸς τὴν δικαιολογίαν. ἔσται οὖν ἐν χείρονι τάξει ὁ πόῤῥωθεν διατρίβων τοῦ ἐντὸς ἑκατὸν μιλίων ὄντος ἢ ἐν αὐτῇ τῇ πόλει, εἴγε τούτοις μὲν ἀεὶ πεντήκοντα ἡμέραι προθεσμίας εἰσὶν, ἐκείνοις δὲ ἐλάττους. ἀλλ’ εἰ καὶ τὰ μάλιστα τὸ ῥητὸν τοῦ νόμου ταύτην ἀποτελεῖ τὴν διάνοιαν, ὅμως ἡ γνώμη τοῦ νομοθέτου ἄλλοβούλεται. οὕτως γὰρ καὶ Κερβίδιος Σκαίβολας καὶ Παῦλος καὶ Δομίτιος Οὐλπιανὸς οἱ κορυφαῖοι τῶν νομικῶν γράφουσιν, φάσκοντες οὕτως δεῖν ταῦτα παραφυλάττειν, ὡς μηδέποτέ τινι ἐλάττω δίδοσθαι τῶν πεντήκοντα ἡμερῶν προθεσμίαν, τότε δὲ μακροτέραν, ὁπόταν ἡ διαρίθμησις τῶν ἐπὶ τῇ ὁδῷ ἡμερῶν προστιθεμένη ταῖς τριάκοντα ἡμέραις, ἃς πρὸς δικαιολογίαν ὁ νόμος δίδωσιν, ὑπερβαίνει τὰς πεντήκοντα ἡμέρας, οἷον ἐάν τινα φῶμεν ἀπὸ τετρακοσίων τεσσαράκοντα μιλίων διατρίβειν· οὗτος γὰρ τῆς μὲν ὁδοῦ ἕξει ἡμέρας εἴκοσι δύο, πρὸς δικαιολογίαν δὲ ἄλλας τριάκοντα.

Troviamo anche quest’altro di notevole in una costituzione di Marco Aurelio: infatti, a chi stia nella stessa città in cui è stato nominato, o dimori nel raggio di cento miglia, il legislatore ha concesso un termine di cinquanta giorni, ma a chi risiede oltre le cento miglia ordinò di calcolare un giorno per ogni venti miglia e, oltre a questi, aggiunse altri trenta giorni per perorare la sua causa. Ne deriva che per chi abita a centosessanta miglia, il termine temporale fissato è di trentotto giorni, otto per le centosessanta miglia, quanto viene calcolando venti miglia per ogni giorno, e trenta per perorare la causa. Chi, dunque, abita più lontano si troverà in una situazione peggiore rispetto a chi si trova nel raggio di cento miglia o nella città stessa, se è vero che per questi il termine è sempre di cinquanta giorni mentre per quelli è più breve. Ma sebbene le parole della legge abbiano in effetti questo significato, l’intenzione del legislatore era altra. Così, infatti, scrivono appunto anche Cervidio Scevola, Paolo e Domizio Ulpiano, i corifei dei giuristi, sostenendo che vadano osservate le regole di modo che a nessuno debba mai essere dato un termine inferiore a cinquanta giorni, ma uno più lungo allorquando 40

Testimonia. Tradizione manoscritta la somma dei giorni di viaggio, aggiunta ai trenta giorni che la legge concede per perorare la causa, supera i cinquanta giorni, come se ci riferiamo a chi abita a quattrocentoquaranta miglia: costui, infatti, avrà ventidue giorni per il viaggio e altri trenta giorni per perorare la causa (A. Dell’Oro, R. Martini, ‘Iustiniani Augusti Digesta seu Pandectae’. Testo e traduzione. IV, 20-27, a cura di S. Schipani, Milano 2011, 426). 6 – HA. Marc. 11.10: Ius autem magis vetus restituit quam novum fecit. habuit secum praefectos, quorum et auctoritate et periculo semper iura dictavit. usus autem est Scaevola praecipue iuris perito. Egli restaurò il diritto antico piuttosto che crearne uno nuovo. Ebbe con sé dei prefetti, con la cui autorità e sotto la cui responsabilità soleva produrre diritto. Invero si avvalse soprattutto di Scevola come giureconsulto. 7 – HA. Carac. 8.2-3: Papinianum amicissimum fuisse imperatori Severo eumque cum Severo professum sub Scaevola et Severo in advocatione fisci successisse, ut aliqui loquuntur, adfinem etiam per secundam uxorem, memoriae traditur; 3. et huic praecipue utrumque filium a Severo commendatum atque ob hoc concordiae fratrum Antoninorum favisse. Si tramanda che Papiniano sia stato molto amico dell’imperatore Settimio Severo e che egli con Settimio Severo esercitò sotto la direzione di Scevola e successe a Severo come avvocato del fisco, come alcuni dicono, e fu a lui legato da vincolo di affinità attraverso la seconda moglie (dell’imperatore). 3. E a lui soprattutto furono affidati da Severo entrambi i figli, e perciò assecondò la concordia dei fratelli Antonini. (historia Augusta, Volume II, Loeb Classical Library, Cambridge-London, reprint. 1993, 20). eumque … successisse om. in P1; ins. in P corr.; placed after commendatum in Peter’s editions, after Severo by Peter, on evidence of P. in Jahrb. cxxx. (1906), p. 35; del. as interpolation by Mommsen nd Hohl; favisse Salm.; fuisse P.

Codex Theodosianus 8 – CTh. 4.4.3.3 Impp. Arcad(ius) et Honor(ius) AA. Aeternali Proc(onsuli) Asiae: Nec si quid ex munificentia morientis fuerint consecuti, infructuosum subscribentes facient testamentum, cum hoc auctorem prudentissimum iuris consultorum non sit ambiguum Scaevolam comprobasse. Dat. xii Kal. April. Arcad(io) IIII et Hono(io) III aa. conss. Impp. Arcadio e Onorio a Eternale, proconsole d’Asia. E se nulla ricaveranno dalla munificenza del morente, i sottoscrittori faranno un testamento improduttivo di effetti, non essendo ambiguo ciò che l’autorità di Scevola, il più esperto dei giureconsulti, aveva provato. Data il 21 marzo 396, sotto il consolato di Arcadio IIII e di Onorio III.

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III QUAESTIONUM LIBRI XX

INTRODUZIONE

1. L’index Florentinus attribuisce a Scevola la paternità di diverse opere: quaranta libri di digesta, sei di responsa, venti di quaestiones; un liber singularis quaestionum publice tractatarum e una monografia de quaestione familiae, che non ci è giunta; le Regulae, in quattro libri. Si è ritenuto che l’annotazione ai digesta di Giuliano e di Marcello1 fosse da collocare agli esordi della sua attività, tuttavia sembra più probabile immaginare una redazione più tarda. In realtà, se appare verosimile che l’operazione di annotazione ai digesta giulianei – databili tra il 150 e il 155 d.C. – risalga a un periodo di poco successivo, attorno al 160 d.C., i riferimenti contenuti nelle notae all’opera di Marcello consentirebbero di posticiparne la datazione. Infatti, considerando che in essi Marco Aurelio viene indicato talune volte come imperatore ancora vivente2, talaltre come divus3, la pubblicazione dell’opera sarebbe successiva al 180 d.C.4. In letteratura si è a lungo studiato il tema del rapporto tra i libri digestorum e i libri responsorum, che accolgono entrambi pareri pratici del nostro giurista, e la cui reciproca relazione appare dubbia in considerazione della presenza di un significativo numero di frammenti (diciotto) molto simili e in alcuni casi identici, sopravvissuti in entrambe le collezioni. In questa sede non intendo riprendere l’annosa questione, ritenendo chi scrive ancora valida l’idea che i responsa rappresentino una versione antologizzata e a volte riassunta dei digesta5. La raccolta di quaestiones – lo si è anticipato anche tentando di ricostruire le vicende biografiche del giurista – sembrerebbe collocarsi nel momento conclusivo della vita di Cervidio Scevola: all’insegnamento – svolto contemporaneamente a un’attività respondente – egli si

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Così Krüger 1912, 194; Honorè 1962, 204. Marcell. 39 dig., D. 28.4.3; Ulp. 23 ad Sab. D. 30.49pr.; Marcell. 15 dig., D. 35.1.48; Marcell. 9 dig., D. 37.8.3. 3 Marcell. 3 dig., D. 4.1.7; Marcell. 3 dig., D. 50.17.183. 4 Masiello 1999, 50 s. si interroga sulla pubblicazione delle due edizioni annotate: e mentre ritiene possibile che Scevola abbia curato quella dei digesta di Giuliano “per l’altissima considerazione che il giurista tardo antonino dimostra nei confronti del suo grande maestro”, escluderebbe che lo stesso sia avvenuto per l’opera di Marcello, per la “sicura antipatia scientifica” che Scevola mostrerebbe nei riguardi del giurista. 5 Rinvio a Spina 2012, 35 ss., richiamando inoltre le efficaci sintesi compiute sul tema da Lamberti 2007, 2735 ss. 2

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Alessia Spina sarebbe dedicato negli ultimi anni, scegliendo di racchiudere la propria esperienza didattica negli schemi di un genere non ignoto alla pregressa esperienza letteraria e specificamente giuridica. Una rapida scorsa a opere coeve e precedenti alla raccolta scevoliana, infatti, consente di chiarire la frequenza con cui il paradigma della quaestio era stato adottato6. Il modello, di verosimile matrice filosofica7, almeno alla luce di quanto l’antologia giustinianea permette di ipotizzare, sembrerebbe essere stato inaugurato da Fufidio, giurista operante tra l’età di Nerone e la prima età dei Flavi, negli stessi anni in cui Seneca componeva un’opera recante la medesima denominazione, le naturales quaestiones8. Del lavoro del sabiniano Fufidio si hanno pochissime notizie: secondo quanto riferisce Africano, l’opera doveva essere composta di almeno due libri, mentre nulla si può congetturare circa la struttura interna, la composizione della singola quaestio, le materie in essa trattate e il loro ordine9. Successivamente il genere delle quaestiones venne ripreso da Celso – e di esse si ha notizia solamente grazie a una citazione ulpianea10 – e poi da Africano: delle quaestiones di Africano i Digesta Iustiniani tramandano un ampio campionario11 e non si può escludere che esse abbiano rappresentato il più importante modello nella redazione delle quaestiones scevoliane. I libri quaestionum di Africano, come noto, suscitano numerosi problemi, e si è persino dubitato della corretta attribuzione a Sesto Cecilio Africano della paternità dei nove libri che li compongono12. I sospetti

6 Si possono ricordare le ‘questioni romane’ di Polibio; le quaestiones epistolicae di Varrone, citate da Gell. noct. Att. 3.9.1 e, dello stesso autore, le quaestiones Plautinae; le quaestiones confusae di Giulio Modesto; le quaestiones naturales di Seneca; le Φυσικά ζητήματα di Apuleio. Per un approfondimento sulle diverse raccolte di quaestiones si veda Masiello 1999, 61 ss., anche per un parallelo con la quaestio nel processo penale (richiamando le considerazioni di Kunkel, 1974, 171 s.), con la quaestio quale modello retorico, di ispirazione peripatetico-accademica e specificamente ermagorea (si veda, altresì, Calboli Montefusco 1984, 1 ss.; 1996, 209 ss.) e con le questioni grammaticali (Masiello 1999, 66 ss.). 7 Secondo l’intuizione di Frezza 1977, 213. Per Masiello 1999, 72 s., l’idea di quaestio comune alla retorica, alla grammatica e alla filosofia, è quella coincidente con una ricerca, generata dalla problematicità degli oggetti di riflessione. Sul punto si possono, altresì, le considerazioni di Scarano Ussani 1997, 88 ss. e 111 ss. e di Bretone 1982, 145 ss. 8 La sincronia è evidenziata da Masiello 1999, 62. Ricordano il pensiero di Fufidio, Gai. 1 de manumiss., D. 40.2.25: Si tutoris habendi causa pupillus manumittat, probationi esse causam Fufidius ait. Nerva filius contra sentit, quod verius est: namque perabsurdum est in eligendo tutore firmum videri esse iudicium pupilli, cuius in omnibus rebus ut infirmum iudicium tutore auctore regitur; Gai. 2.154: … quamquam apud Fufidium Sabino placeat eximendum eum esse ignominia, quia non suo vitio, sed necessitate iuris bonorum venditionem pateretur …; Paul. 5 ad leg. Iul. et Pap., D. 42.5.29: Fufidius refert statuas in publico positas bonis distractis eius, cuius in honorem positae sunt, non esse emptoris bonorum eius, sed aut publicas, si ornandi municipii causa positae sint, aut eius, cuius in honorem positae sint: et nullo modo eas detrahi posse. 9 Afr. 2 quaest., D. 34.2.5: Apud Fufidium quaestionum libro secundo ita scriptum est: si mulier mandaverit tibi, ut sibi uniones usus sui causa emeres, si tu post mortem eius, cum putares eam vivere, emeris, Atilicinus negat esse legatos ei, cui mulier ita legaverit: “ornamenta, quae mea causa parata sunt eruntve”: non enim eius causa videri parata esse, quae iam mortua ea empta fuerint. 10 Ulp. 26 ad ed., D. 12.1.1.1: Quoniam igitur multa ad contractus varios pertinentia iura sub hoc titulo praetor inseruit, ideo rerum creditarum titulum praemisit: omnes enim contractus, quos alienam fidem secuti instituimus, complectitur: nam, ut libro primo quaestionum Celsus ait, credendi generalis appellatio est: ideo sub hoc titulo praetor et de commodato et de pignore edixit. nam cuicumque rei adsentiamur alienam fidem secuti mox recepturi quid, ex hoc contractu credere dicimur. rei quoque verbum ut generale praetor elegit. 11 Lenel 1889 I, 2 ss. raccoglie centoventidue frammenti di Africano provenienti dalle quaestiones. 12 Appare prudente la posizione di A. d’Ors 1997, 17, quando afferma che “evidentemente, no se trata de una obra post-clásica con materiales clásico, pero tampoco las interpolaciones compilatorias han desfigurado mucho el tenor auténtico”.

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Quaestionum libri XX. Introduzione sono determinati anche dalla particolare natura dei casi trattati – che a volte mostrano la struttura di una vera trattazione scolastica, e a volte, invece, rappresenterebbero risposte a casi concreti –, nonché dall’ordine in essi seguito. In particolare – e soprattutto per i pareri introdotti dai verbi ait o respondit – si è immaginata una paternità giulianea, anche in considerazione della stretta connessione tematica e stilistica con i digesta del maestro Giuliano13. Successivamente anche Paolo, Papiniano, Callistrato e Tertulliano elaborarono raccolte di quaestiones: è probabile, alla luce dei frammenti superstiti, che i primi due abbiano seguito, nella composizione, l’ordine edittale inaugurato da Scevola – e che meglio si descriverà nel prosieguo –, mentre risulta impossibile qualunque tentativo di ricostruzione della struttura delle opere degli altri due giuristi, essendo troppo esiguo il numero degli escerti sopravvissuti. Il genere delle quaestiones verrà ripreso in età severiana con sensibili differenze. Delle quaestiones di Paolo14, in venticinque libri, sopravvivono 154 escerti leneliani, da cui emerge una struttura della quaestio articolata15 e con una genesi più spiccatamente casistica rispetto a quanto si ipotizzerà per la raccolta scevoliana16. Anche le quaestiones di Papiniano, che si snodano in trentasette libri, alternano l’esame di casi pratici alla trattazione di esempi teorici, riproponendo lo schema dei digesta di Scevola17. 2. Sulla datazione delle Quaestiones si è articolata un’ampia discussione, svoltasi tutta attorno all’interpretazione di Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.11.1 [F. 46], già riportato. Dovrebbe, dunque, ipotizzarsi una datazione dell’opera compresa tra il 180 e il 192 d.C.18: Scevola si sarebbe dedicato

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Si veda Schulz 1968, 414 s.; Lenel 1889 II, nt. 1; Masiello 1999, 79 e 84 s. A. d’Ors 1997, 15 e poi 236 ss. Si veda ampliamente Orestano 1965(a), 362 s.; Schimdt-Ott 1993, 1 ss., e la recensione di Talamanca 1993,

866. 15 Basti pensare ai lunghi brani di Paul. 3 quaest., D. 45.1.126.1-3 (Lenel 1889 I, 1187 s., fr. 1296); Paul. 3 quaest., D. 22.3.25 (Lenel 1889 I, 1188 s., fr. 1302); Paul. 5 quaest. D. 19.5.5pr.-1 (Lenel 1889 I, 1194, fr. 1322); Paul. 5 quaest., D. 19.1.43 (Lenel 1889 I, 1196 s., fr. 1327); Paul. 9 quaest., D. 28.6.43 (Lenel 1889 I, 1204, fr. 1356); Paul. 15 quaest., D. 46.3.98 (Lenel 1889 I, 1214 s., fr. 1398). 16 Basti ricordare alcuni esordi: Paul. 1 quaest., D. 3.5.33 (Lenel 1889 I, 1182, fr. 1274): Nesellius Apollinaris Iulio Paulo salutem; Paul. 1 quaest., D. 21.1.56 (Lenel 1889 I, 1183, fr. 1278): Latinus Largus quaero; Paul. 3 quaest., D. 20.3.3 (Lenel 1889 I, 1182, fr. 1307): Aristo Neratio Prisco scripsit; Paul. 3 quaest., D. 20.4.16 (Lenel 1889 I, 1190, fr. 1308): Claudius Felix eundem fundum tribus obligaverat, Eutychianae primum, deinde Turboni, tertio loco creditori …; Paul. 4 quaest., D. 46.1.71pr. (Lenel 1889 I, 1193, fr. 1317): Granius Antoninus pro Iulio Pollione et Iulio Rufo …; Paul. 5 quaest., D. 40.8.9 (Lenel 1889 I, 1196, fr. 1326): Latinus Largus …; Paul. 7 quaest., D. 27.1.32 (Lenel 1889 I, 1201, fr. 1343): Nesennius Apollinaris Iulio Paulo; Paul. 9 quaest., D. 28.5.82 (Lenel 1889 I, 1203, fr. 1355): Clemens Patronus testamento …; Paul. 61 quaest., D. 33.2.26 (Lenel 1889 I, 1206, fr. 1361): Sempronius Attalus …; Paul. 11 quaest., D. 31.83 (Lenel 1889 I, 1208, fr. 1372): Latinus Largus; Paul. 12 quaest., D. 40.13.4 (Lenel 1889 I, 1209, fr. 1382); Paul. 14 quaest., D. 42.1.41 (Lenel 1889 I, 1212, fr. 1391): Nesennius Apollinaris; Paul. 17 quaest., D. 35.2.22 (Lenel 1889 I, 1216, fr. 1404): Nesennius Apollinaris Iulio Paulo; Paul. 21 quaest., D. 35.1.81 (Lenel 1889 I, 1218, fr. 1411): Iulius Paulus Nymphidio. 17 Schulz 1949, 254 ss.; Schulz 1953, 381 ss.; Orestano 1965b, 364 ss. (“le Quaestiones furono composte sul piano dei Digesta classici, raccogliendo materiale anche dalle opere di giuristi precedenti … Anche i Responsa seguono il piano dei Digesta e non differiscono gran che dalle Quaestiones, se non forse per una prevalenza dei casi pratici su quelli teorici, che però non mancano”); Wieacker 1975, 333 ss.; Babusiaux 2009, 156 ss.; Babusiaux 2011, 1 ss.; Harke 2013, 1 ss. 18 Lenel 1889 II, 271 nt. 1.

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Alessia Spina all’attività didattica negli anni successivi all’impegno negli apparati statali, mentre continuava verosimilmente a fornire pareri per i clienti che a lui si rivolgevano. La differenza di pubblico e di finalità del lavoro giustifica la complessità di una raccolta descritta come ardua e a tratti oscura sin dai tempi di Cuiacio19. Collocata da Schulz nella letteratura problematica, l’opera raccoglie testi definiti ‘imbarazzanti’ per la difficoltà dei casi trattati, ritraendo un insegnamento lontano da una didattica elementare, destinato ad un pubblico di ‘iniziati’ e, pertanto, ‘esoterico’20. 3. Dell’intera opera è sopravvissuta oggi solo un’esigua parte, corrispondente a circa sessanta frammenti dei digesta di Giustiniano, da ritenersi materiale autenticamente scevoliano, pur essendo essi stati oggetto di significativi tagli da parte dei commissari giustinianei21. Talvolta della quaestio viene conservato un ampio stralcio, trasmettendo intatto un segmento articolato della più ampia lezione22; talaltra, invece, il pensiero di Scevola viene ridotto a poche righe, non di rado introdotte da formule quali ‘si quis’ o ‘si’, a volte ripetute, corrispondenti a singole, isolate ipotesi utilizzate nell’argomentazione casistica: esso diviene mera ‘massima’, come alcune collocazioni all’interno dei titoli D. 50.16 e D. 50.17 testimoniano23. Un’eccezione importante è rappresentata da D. 28.2.29, proveniente dal libro VI, che trasmette un’intera lezione di Cervidio Scevola in materia di postumi: il brano costituisce un esempio unico del metodo applicato dal maestro, delle modalità di svolgimento della lezione e della concezione del diritto sottintesa alle scelte esegetiche. Si avrà cura di illustrare più avanti i passaggi più significativi del lungo frammento; per ora basti segnalare come esso consenta di immaginare l’originaria articolazione delle quaestiones, così valutando il lavoro di scarnificazione del pensiero scevoliano compiuto dai commissari giustinianei sui passi che oggi appaiono maggiormente ridotti. Il problema dell’autorialità delle quaestiones ha da sempre diviso la letteratura, e appare strettamente connesso ai dubbi relativi alla cd. ‘postclassicità’ dell’opera, in parte alimentati dal dibattito – più complesso e articolato – circa la genesi e la datazione delle raccolte casistiche di Scevola. La lettura e l’esegesi dei brani sopravvissuti ha consentito di escludere che vi siano argomenti talmente forti da far dubitare che Scevola stesso sia l’autore materiale delle quaestiones. Perplessità sorgono per la presenza del nome di Scevola nel corpo di tre quaestiones24 e il rilievo ha portato a ipotizzare che l’originaria stesura dell’opera fosse stata affidata a un allievo. Invero, l’anomala indicazione nominativa del maestro è presente in brani in cui il pensiero di Scevola si contrappone a quello di altri giuristi: la posizione dialettica è evidente in D. 3.5.8 [F. 2], rispetto al pensiero di Pomponio, nonché in D. 47.6.6 [F.

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Cuiacius 1618, 36. Liebs 2008, 72 ss. 21 Saranno discusse in riferimento ai singoli passi le ipotesi di intervento postclassico e giustinianeo suggerite da Lenel 1889 II, 271 ss. In particolare, non appare condivisibile l’idea che glosse postclassiche siano state inserite in occasione di una riedizione epiclassica dell’opera, come sostenuto dallo stesso Lenel. 22 Si pensi a Scaev. 8 quaest., D. 29.7.14pr. [F. 29]. 23 Si pensi a Scaev. 11 quaest., D. 50.16.26 [F. 36]; Scaev. 5 quaest., D. 50.17.88 [F. 25]. 24 Scaev. 1 quaest., D. 3.5.8 [F. 2]; Scaev. 4 quaest., D. 47.6.6 [F. 19]; Scaev. 5 quaest., D. 37.6.10 [F. 22]. 20

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Quaestionum libri XX. Introduzione 19], in riferimento a Labeone, ma è comunque ricostruibile anche per D. 37.6.10, in cui l’opinione di Scevola è introdotta da ‘sed magis’, avverbio da riferirsi alla posizione di Giuliano precedentemente espressa, come la contestualizzazione del passo consente di ipotizzare. Si potrebbe, dunque, pensare che la presenza del nome ‘Scaevola’ rappresenti l’espediente tecnico, quasi ‘grafico’, che nel II secolo avrebbe permesso di distinguere facilmente il pensiero del nostro giurista rispetto a quello di altri ricordati nella quaestio. Rimane aperto il problema su chi abbia inserito tale segnalazione, se lo stesso Scevola o un lettore successivo: non vi sono argomenti per sciogliere il dilemma, anche se l’esiguità dei casi segnalati fa propendere chi scrive a ritenere che sia stato un editore di poco successivo al giurista ad inserire nei testi il suo nome. 4. Quello descritto non risulterebbe l’unico aspetto di incertezza circa la composizione dell’opera e la sua diffusione. Anche il titolo della raccolta ha suscitato perplessità. L’index Florentinus – lo si è detto – ricorda l’opera come libri quaestionum, denominazione che ricorre anche nelle rubriche giustinianee e nelle citazioni indirette che ne compie Ulpiano25. Dubbi sulla correttezza di tale denominazione sorgono sulla base dell’inscriptio di Marcian. liber sing. de form. hypoth., D. 20.3.1.2 [F. 12]: nel brano marcianeo l’opera attribuita a Scevola è definita variae quaestiones, suscitando l’interrogativo se si tratti della medesima raccolta di quaestiones altrove richiamata, o di una raccolta diversa. È noto che sia Ulpiano che Marciano si rivelano attenti e precisi nel contestualizzare il pensiero altrui, tanto che sembrerebbe potersi escludere un errore di citazione da parte di uno di loro. Sebbene con cautela, è stata avanzata un’altra tesi, secondo la quale quaestiones e quaestiones variae potrebbero essere i distinti titoli di due raccolte destinate a circolare rispettivamente nella parte occidentale e nella parte orientale dell’Impero26. Più argomentata appare, invece, la teoria secondo la quale le due opere, in origine distinte, si sarebbero “fuse in un’unica individualità letteraria”, similmente a quanto è stato ricostruito per l’opera di epistulae et variae lectiones di Pomponio (raccolta spesso unitariamente ricordata come epistulae) nata, secondo una certa ricostruzione, dalla fusione, sul finire del III secolo, proprio delle epitomi di variae lectiones e di epistulae27. Vi è stato anche chi, valorizzando la già ricordata cura con cui soprattutto Marciano suole citare giuristi a lui precedenti, ha ritenuto che l’aggettivo variae fosse presente nel titolo originario e completo dell’opera, e si fosse poi perso. Ammettendo come verosimile tale ricostruzione, occorre interrogarsi sul significato da attribuire alla richiamata varietas. L’aggettivo variae, infatti, potrebbe alludere all’ordine della trattazione, secondo il valore che al termine attribuisce, ad

25 Honorè 2002, 139: “Cervidius Scaevola cannot be accounted a major source but Ulpian cities him seven times by books and twice with inquit. All the explicit references are to Scaevola’s Questions (Quaestiones). In all he mentions Scevola 31 times. It is not clear that Ulpian used any other works of the Antonine lawyer who taught Paul and Tryphoninus. He refers to him in his major commentaries and four times in his Disputations, which correspond to Scaevola’s Questions”. 26 Masiello 1999, 87 s. 27 Enunciata da Lenel 1889 II, Pomp. 52, nt. 1, poi ripresa da Schulz 1931 e poi ancora Bretone 1982, 218 s. Si sarebbe in tal modo verificato una vicenda contraria a quella che, secondo una certa letteratura, avrebbe caratterizzato le sorti delle due opere casistiche, digesta e responsa, originate da un modello comune, come poc’anzi ricordato. Si dimostra meno convinto Wieacker 1975, 218 s.

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Alessia Spina esempio, Gellio, quando afferma che varietas è ordo rerum fortuitus28: tuttavia, come si avrà cura di illustrare tra poco, un ordine, seppur meramente tendenziale, nell’opera è individuabile, tanto da potersi escludere una trattazione casuale delle materie. Si è, poi, sostenuto che l’aggettivo presente nel titolo abbia potuto alludere alla diversità delle occasioni che avrebbero dato origine alla trattazione dei problemi29: anche sotto tale profilo, però, l’indagine ha condotto a ipotizzare una matrice comune ai passi sopravvissuti, i cui problemi sarebbero costantemente scaturiti dalla lettura della giurisprudenza precedente svolta in una comunità scolastica. Si potrebbe, inoltre, congetturare che l’aggettivo variae sia stato inserito (forse non da Scevola, ma in un momento intermedio tra la redazione del testo e la circolazione dello stesso in età severiana) per distinguere la raccolta pluritematica dalle altre due opere, pure denominate quaestiones, dedicate a un unico argomento: i nove brani del liber singularis quaestionum publice tractatarum sono tutti dedicati alla materia delle successioni mortis causa ed è stata già ricordata l’attribuzione a Scevola – testimoniata dal solo index Florentinus – di un liber singularis de quaestione familiari. Ciò premesso, si dovrebbe ammettere che nel III secolo fosse comune e non fraintendibile la semplice denominazione di libri quaestionum, dal momento che Ulpiano sceglie in via esclusiva il titolo privo di aggettivazione; risulterebbe, invece, confermata la tendenza marcianea a indicare con una maggiore precisione le opere commentate. 5. Maggiori certezze sembra riservare, invece, l’esame della sistematica dell’opera: risulta in maniera sufficientemente nitida come le quaestiones seguano l’ordine dell’editto, il medesimo seguito da Scevola anche nei digesta e nei responsa, nonché, in precedenza, da Giuliano nei suoi digesta. Si tratterebbe di una disposizione simile a quella ricostruibile – nonostante gli indizi siano labili – per le quaestiones celsine30 e comunque non coincidente con quella che traspare dai frammenti delle quaestiones di Africano, per le quali sia Lenel che Schulz escludono la possibilità di individuare un ordine di trattazione delle materie comunque riconducibile a quello dell’editto31. Più specificamente, come osservato da Lenel, nella raccolta di Scevola l’ordine edittale sarebbe palese nei libri dal I al XIII, mentre nei libri dal XIV al XX il giurista si sarebbe dedicato al commento di leges e senatusconsulta32. Un elemento interessante

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Aulus Gellius noct. Att. Praef. 2. Liebs 1971, 60 s. e nt. 41, richiamando la varietas e le variae lectiones di cui vi è traccia – e ben più significativa – nella letteratura non giuridica anche del II secolo, come dimostrerebbe la già citata prefazione alle noctes Atticae di Gellio. 30 La congettura è basata sulla constatazione che l’unica citazione delle quaestiones di Celso, compiuta da Africano, porterebbe a collocare la materia de rebus creditis nella prima parte dell’opera, come accade per i commentari edittali. 31 Schulz 1968, 414; Lenel 1889 I, Afr. 3. Masiello 1999, 83 ritiene che una sistematica sia individuabile e coincida con lo schema espositivo dei grandi trattati civilistici. 32 La consistenza dei frammenti superstiti è piuttosto rarefatta, ma anche nell’opera originaria il commento a leggi imperiali e senatoconsulti dovette rappresentare una sezione meno ampia della raccolta, come farebbe pensare il confronto con l’intera produzione scevoliana. Infatti, anche dei digesta i compilatori giustinianei salvano pochissimi brani della seconda parte, e così anche dei responsa, cui lo stesso Scevola aveva dedicato un solo libro, il VI. Diversamente, nei libri regularum i commissari giustinianei conservano una porzione più consistente di frammenti dedicati al commento di provvedimenti legislativi. 29

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Quaestionum libri XX. Introduzione per ricostruire la struttura dell’opera originaria è offerto dalla particolare inscriptio di D. 39.2.45 [F. 39]: Scaevola libro 12 quaestionum: … a quo fundus petetur si rem nolit: Lenel, aggiungendovi il verbo defendere, ipotizza che la proposizione relativa coincidesse con il nome della rubrica edittale, così da potersi immaginare che i libri quaestionum recassero al loro interno una divisione in rubriche corrispondenti ai titoli edittali33. Le considerazioni svolte non sarebbero contraddette dall’identificazione di sequenze in cui l’ordine edittale appare interrotto34: nella maggior parte dei casi, come già si è osservato, delle quaestiones sono pervenuti solamente brevi escerti rispetto a una quaestio originaria che doveva essere assai più ampia; assai spesso non si possiede – e a fatica si potrebbe ricostruire – l’originaria fattispecie presa in esame dal maestro, sicché vi sarebbero brani apparentemente esorbitanti rispetto alla sistematica edittale che tali risulterebbero solamente perché privi di un’adeguata contestualizzazione. Neppure la considerazione che Scevola sembri ritornare sui medesimi temi in luoghi diversi35 appare idonea a scalfire l’idea che sia lo schema edittale a costituire l’ossatura dell’opera, potendosi trattare di un modello seguito in maniera meno rigida di quanto avvenisse, ad esempio, nei lavori specificamente dedicati al commento dell’editto. La ricostruzione palingenetica proposta da Lenel non suscita particolari perplessità, sicché se ne è conservata l’architettura, come più ampiamente descritto a commento dei singoli libri. 6. Quanto ai contenuti dell’opera – dedicati a schemi negoziali e a figure proprie del ius civile e che sembrano quasi sistematicamente evitare i problemi della prassi provinciale, che invece è presente con intensità nelle raccolte casistiche – le quaestiones consentono di ricostruire le interazioni tra Cervidio Scevola e la tradizione giurisprudenziale. Le citazioni non abbondano, ma sono presenti: vengono menzionati una sola volta Aquilio Gallo, Servio, Sabino, Cassio, Proculo, Labeone, Nerazio, Marcello, Meciano e Viviano. Due sono gli espressi riferimenti a Pomponio e quattro quelli a Giuliano. Nei testi sopravvissuti Scevola è citato cinque volte da Ulpiano e una volta da Marciano. Se nelle opere casistiche è assente qualunque richiamo a giuristi delle epoche precedenti, nella letteratura didattica il passato è espressamente invocato. Vi sono tracce di una giurisprudenza di età repubblicana: la riproduzione testuale della clausola aquiliana contenuta nel lungo escerto di Scaev. 6 quaest., D. 28.2.29 [F. 26] consente di ipotizzare un’attenzione alla tradizione più risalente. Aquilio Gallo è il più antico giurista citato nelle quaestiones e, seppur non direttamente, è una presenza richiamata anche in D. 28.2.19, in cui Paolo ricorda

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Si veda anche Mantovani 2018, 170. Lenel 1889 II, 272 (fr. 137); 274 (fr. 143); 279 (fr. 165); 280 (167 ss.); 281 ss. 35 Si pensi a D. 7.1.25.6 e D. 41.1.23.3, dal libro 18 del commento all’editto di Ulpiano (Lenel, fr. 137): il giurista severiano riferisce dell’opinione di Scevola circa le conseguenze di una promessa compiuta da uno schiavo che sia oggetto di usufrutto da parte di due usufruttuari. La trattazione sarebbe contenuta nel libro II delle Quaestiones. Il medesimo tema è poi ripreso dal maestro – e Ulpiano lo segnala (et in inferioribus probat) – nel libro XIII, in un brano poi versato in D. 45.3.19 [F. 45], direttamente attribuito a Scevola. Ancora, nella seconda parte dell’opera, Scevola tratterebbe della lex Aelia Sentia nel libro XV, come dimostra D. 40.9.6 [F. 51] e poi nel libro XVIII, come dimostra D. 28.5.84 [F. 52]. 34

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Alessia Spina la posizione di Scevola in materia di institutio ex re certa. Il brano è posto da Lenel in apertura del libro III dei responsa scevoliani, ma andrebbe forse più proficuamente distinto in due parti, di cui solo la prima corrispondente a un’attività propriamente respondente la cui paternità sarebbe aquilana. Il frammento sarebbe testimonianza di una pregressa e articolata disputa giurisprudenziale, di ascendenza repubblicana, in cui il contributo apportato da Aquilio Gallo si sarebbe rivelato decisivo36. I dati segnalati e alcune specifiche risultanze testuali farebbero ipotizzare che Scevola avesse una conoscenza diretta dei testi della letteratura di età repubblicana, come proverebbe anche la citazione da lui compiuta di un parere di Servio37. Anche Labeone rappresenta un punto di riferimento importante nella riflessione di Scevola. Così, ad esempio, le soluzioni di Scaev. 2 quaest., D. 15.1.51 [F. 11] e Scaev. 2 quaest., D. 24.3.43 [F. 11], entrambe in materia di peculio, sembrano rievocare l’orientamento labeoniano descritto da Ulpiano in Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.7.5. Un altro esempio appare significativo. Il giurista augusteo viene citato, in Scaev. 4 quaest., D. 47.6.6 [F. 19] come fautore di una lettura delle clausole dell’editto familiae nomine tale da superare la rigidità dei verba e dell’applicazione di un mero calcolo matematico38. Scevola, appellandosi al criterio della veritas (verius puto), elabora una soluzione che consente a ciascun erede di agire pro parte nei riguardi degli schiavi autori del furto, in maniera tale non solo da scongiurare il rischio dell’abuso del diritto (secondo l’intuizione di Labeone), ma anche da garantire un valido strumento di tutela per gli eredi. Un passaggio intermedio tra i due giuristi – o, più precisamente, l’anello di congiunzione – parrebbe segnato da Giuliano, che nel brano versato in Iul. 22 dig., D. 47.6.4, propone un’interpretazione della clausola edittale finalizzata ad assicurare al derubato – anche nella persona dei suoi eredi – una somma, a titolo di pena, che non superasse quanto dovuto nel caso in cui la condotta illecita fosse stata posta in essere da un uomo libero. 7. È evidente, ad ogni modo, che il caposaldo nel pensiero scevoliano è rappresentato proprio dalla figura di Giuliano: dal punto di vista formale a lui lo legherebbero alcune vicinanze stilistiche39 e l’attività di annotazione dei digesta, come due brani conservati dalla compilazione giustinianea testimoniano40. Che Scevola abbia seguito le lezioni del maestro adrianeo è stato già cautamente prospettato sopra dalla chiusa di Scaev. liber sing. quaest. publ. tract., D. 28.6.48.1: se ne dovrebbe dedurre che Scevola – come probabilmente anche Africano, come già accennato – abbia seguito le lezioni di Giuliano e che ve ne sia traccia nelle sue opere, come anche il richiamo a un precedente giurisprudenziale in D. 32.103.1 (“plus ego accepi”) farebbe supporre41.

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Per l’esegesi del brano rinvio a Spina 2012, 69 ss. Scaev. 2 quaest., D. 21.2.69.3 [F. 7]. 38 Viene, infatti, prevista la consunzione dell’azione nel caso ad agire fossero diversi contitolari della medesima res. 39 Così Kalb 1890, 60 s. 40 In libro 7 digestorum Iuliani Scaevola notat, D. 18.6.11 e Scaevola apud Iulianum libro 22 digestorum notat, D. 2.14.54 (Lenel 1889 I, n. 363, 379). 41 In letteratura sul brano si registrano due posizioni. Quella di chi ritiene che Scevola abbia ricordato a memoria la posizione giulianea (così Frezza 1977, 215), e quella di chi, invece, individua il precedente letterario in D. 35.2.87.7, ossia nel libro sessantunesimo dei digesta del maestro adrianeo ( Johnston 1987, 33). Masiello 1999, 40 s. contrasta quest’ultima lettura, escludendo, anche alla luce della riflessione di Voci 1963, 182 e nt. 41, che Giuliano e Scevola adottino la medesima soluzione. 37

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Quaestionum libri XX. Introduzione Il nome di Giuliano non compare nelle opere casistiche ed è evocato in quattro frammenti delle quaestiones42. Sebbene il giurista adrianeo risulti aver guidato il pensiero di Scevola in numerosi altri luoghi43. Le prove di un’ascendenza giulianea sono numerose. In D. 24.1.56 [F. 14] il discorso di Scevola appare un calco di D. 24.1.3.13 e richiama, altresì, la fattispecie di D. 24.1.4, escerti entrambi dal libro diciassettesimo dei digesta giulianei. Ancora, in Scaev. 8 quaest., D. 29.7.14 [F. 29], Scevola riprende i medesimi verba scelti da Iul. 37 dig., D. 29.7.2.2, in un passaggio che verosimilmente egli stava commentando. Si riconnette al giulianeo D. 28.6.28 anche l’escerto di Scevola in materia di lex Cornelia de captivis conservato in Scaev. 15 quaest., D. 28.6.29 [F. 50]. Non si avverte, invero, un atteggiamento totalmente adesivo del nostro giurista, né specificamente nei riguardi di Giuliano, né in generale verso la scuola sabiniana, come bene evidenzia D. 29.7.14, dal libro VIII delle quaestiones: Scevola si stacca dall’orientamento sabiniano e accoglie la verissima sententia proculiana44. L’adesione appare formulata con una certa cautela (ego autem ausim) e giustificata ricorrendo al criterio della veritas, da intendersi quale corrispondenza del diritto alla realtà: è conforme al vero, ossia al reale, considerare nullo un legato imposto con i codicilli a un soggetto che ‘in rebus humanis non est’. Anche in tale occasione, seppur non espressamente richiamata, l’influenza giulianea si può individuare nella struttura del discorso: in D. 29.7.14, infatti, la finzione codicillare richiamata da Scevola è resa attraverso la circonlocuzione “perinde … ac”, indiscutibilmente calco dell’esordio di D. 29.7.2.2, dove si legge: Codicillorum ius singulare est, ut quaecumque in his scribentur perinde haberentur, ac si in testamento scripta essententiarum. Il pensiero di Scevola appare in continuità con quello del maestro Giuliano45, sebbene se ne discosti decisamente ad esempio in materia di applicazione della lex Falcidia46. Si può ricordare come egli, in Scaev. 8 quaest., D. 35.1.80 [F. 32], rifiuti il fittizio adeguamento del modus alla condicio, che invece Giuliano aveva recepito da Labeone, come compendiato da Giavoleno in Iav. 2 ex post. Lab., D. 35.1.40.5. Ancora più significativa è la lettura di Scaev. 6 quaest., D.

42 Scaev. 5 quaest., D. 38.5.7 [F. 24]; Scaev. 6 quaest., D. 28.2.29 [F. 26]; Scaev. 11 quaest., D. 45.1.131 [F. 44]; Scaev. 16 quaest., D. 40.9.6 [F. 51]. Tra i brani delle quaestiones publice tractatae, una citazione giulianea si rinviene in Scaev. liber sing. quaest. publ. tract., D. 46.7.21. 43 Si pensi a Ulp. 40 ad ed., D. 37.8.6 o a Scaev. 4 quaest., D. 47.2.70. Il pensiero del maestro è poi citato quasi a memoria in due passaggi delle quaestiones publice tractatae. Scaev. lib. sing. quaest. publ. tract., D. 28.6.48.1 e Scaev. lib. sing. quaest. publ. tract., D. 32.103.1. 44 Scevola segnala l’esistenza di una disputa giurisprudenziale circa l’applicabilità dell’artificio della finzione codicillare, in forza della quale i codicilli si reputano pars testamenti anche quando redatti successivamente allo stesso. Sul punto, Sabino e Cassio decisero che l’aggiunta e la revoca di legati compiute nei codicilli dopo la morte degli eredi istituiti valessero come se compiute nel testamento; Proculo sosteneva la tesi dell’invalidità (Proculo dissentiente). 45 Ho avuto modo di mettere in luce la vicinanza della posizione di Scevola con quella del maestro in Spina 2012, 586 s., nell’attribuire un favor interpretativo ai parenti piuttosto che agli estranei; nell’equivalenza della vendita del chirografo alla vendita del nomen; nella soluzione di casi di impossibilità inimputabile nella realizzazione del volere del de cuius. 46 Ma anche, secondo la ricostruzione proposta da Masiello 1999, 41 ss., in riferimento a quanto si legge in Iul. 26 dig., D. 38.5.6 e Scaev. 5 quaest., D. 38.5.7 [F. 24], seppure la conclusione (“il giurista tardo antonino sviluppa le possibilità del ragionamento giulianeo, mettendone in evidenza l’aporeticità. Questo gli serve per esprimere il suo orientamento teso a privilegiare gli interessi del filius familias”).

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Alessia Spina 35.2.17 [F. 28] e Scaev. 10 quaest., D. 33.4.10 [F. 30], in cui Scevola respinge l’applicazione ai legati del criterio secondo cui pro rata fit deminutio, che invece Giuliano (secondo quanto è dato desumere da Terent. Clem. 4 ad leg. Iul. et Pap., D. 31.53pr.) – e una linea giurisprudenziale che da Atilicino sarebbe arrivata a Paolo, passando per Cassio e Gaio – aveva abbracciato. La citazione di Giuliano non sembra venire utilizzata come un mero argomento ex auctoritate: l’eredità del maestro è accolta e proposta agli allievi da Scevola con una modalità critica e dialettica, attraverso una continua verifica della perdurante attendibilità e validità della stessa47. Tale atteggiamento, che riassume la valutazione scevoliana del ruolo della tradizione e del suo valore, emerge con speciale nitore dagli ultimi paragrafi di D. 28.2.29 [F. 26]48. La soluzione giulianea si concretizza nell’interpretazione sistematica dei due capita della legge, tale da condurre, valorizzando la ratio legis, alla conservazione del testamento: Scevola, nel § 16, pare saggiare la recezione dell’interpretatio giulianea in un caso diverso, confermandone, infine, la validità (quaeremus tamen … quod magis probandum est). Tornerò fra poco sul contenuto della lex Gallus, e sulla polarità lex/interpretatio che pare animarla. Similmente, in Scaev. 15 quaest., D. 40.9.6 [F. 51] è racchiusa una vera e propria lezione di metodo del maestro antonino, che spiegherebbe agli allievi in che modo utilizzare e verificare i precedenti giurisprudenziali: la tesi di Giuliano, valida per il caso singolo e specifico, una volta modificati gli elementi di fatto, non potrebbe trovare applicazione, così da determinare un diverso esito esegetico. 8. Nelle quaestiones il dialogo tra Giuliano e Scevola emerge di frequente attraverso il pensiero dei giuristi intermedi, Africano, Marcello e Meciano. Da Africano, in particolare, Scevola mutua non soltanto il genere delle quaestiones, come già illustrato, ma anche alcuni costrutti sintattici tipici49, l’impiego di forme verbali contratte e la tecnica di argomentare per consequentiam50, poco utilizzata dai giuristi romani precedentemente a Giuliano51. Colpisce la comune topica esemplificativa che lega i due giuristi52, chiara se si confrontano Afr. 6 quaest., D. 45.1.63 e Scaev. 12 quaest., D. 45.1.129 [F. 38]; medesimi sono gli oggetti dell’indagine di Afr. 2 quaest., D. 28.6.33.1 e Scaev. 6 quaest., D. 28.2.29.2 e 13 [F. 26], a loro volta provenienti dalla casistica di età repubblicana (in particolare attribuibile ad Aquilio Gallo), forse tràdita attraverso l’opera di Giuliano, in una linea di continuità fra i tre giuristi evidente, ancora in materia di nomina di postumi, dal confronto tra Afr. 4 quaest., D. 28.2.14pr. e Scaev. 6 quaest., D. 28.3.19 [F. 27].

47 Per una riflessione sulle tecniche argomentative dei giuristi romani e sui modi di citazione, Stolfi 2016, passim e in particolare 116 ss., cui si rimanda anche per la bibliografia citata. 48 Atteggiamento messo in luce da Bretone 1987, 263. Il § 15, infatti, si chiude con la proposta interpretativa di Giuliano per risolvere un caso particolarmente difficile in materia di postumi. 49 Come la proposizione circa accompagnata dal caso accusativo. 50 Così segnala Masiello 1999, 34 s., richiamando una serie di passi che proverebbero le peculiarità stilistiche di Africano (ntt. 74-76) rinvenibili poi anche in Scevola. 51 Perelmann, Olbrechts-Tyteca 1966, 278 ss. Masiello 1999, 35 e nt. 78, sottolinea come la frequenza della figura retorica sia tanto rilevante in Giuliano e in Africano, “da farci ritenere che si tratti di una opzione tipica dell’indirizzo scientifico inaugurato dallo scolarca adrianeo”; Gokel 2014, 242 ss. individua nell’argomentazione per consequentiam un elemento caratterizzante l’inneres System di Scevola e cita un unico esempio presente nelle quaestiones, D. 21.2.69.4 [F. 7]. 52 Ancora Masiello 1999, 35 s., che parla di Africano, insieme a Giuliano, del “più autorevole referente didattico e scientifico di Scevola”.

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Quaestionum libri XX. Introduzione La presenza di Marcello nell’opera scevoliana sembra essere stata piuttosto sottovalutata in letteratura. Pur essendo stato individuato, negli scritti di entrambi i giuristi, un peculiare utilizzo del linguaggio dell’uso53, si è preferito accentuare la distanza tra gli stessi, sia per le opzioni esegetiche di cui si fanno portavoce54, sia per la scelta dei tipi letterari in cui riversarle55. Come rilevato per Africano, anche il dialogo con Marcello sembra mediato dalla presenza giulianea: il brevissimo escerto di Scaev. 4 quaest., D. 47.2.70 [F. 18] fa emergere un collegamento ideale tra Giuliano, Marcello e Scevola, scomposto e poi ricreato dai compilatori giustinianei attraverso i brani che, rispettivamente, precedono e seguono quello scevoliano56. Il mosaico finale che ne risulta appare rispecchiare l’originaria articolazione del ragionamento, se si presta fede al resoconto di Ulp. 38 ad ed., D. 47.4.1.10 e di Ulp. 16 ad ed., D. 41.3.10.2, laddove si ricorda un passaggio in cui Scevola legge e commenta un testo di Marcello. La dialettica tra Giuliano e i due allievi si fa più articolata in tema di mora debendi e di efficacia estintiva della stipulatio novatoria, poiché Scevola mostra di accogliere una tendenza contraria a quella giulianea, inaugurata proprio da Marcello57. D’altra parte, che Marcello proponesse spesso tesi divergenti rispetto a quelle del maestro affiorerebbe con nitore anche dalle notae ai digesta giulianei58. Giuliano sembrerebbe il minimo comune denominatore anche nel dialogo che Scevola intrattiene con Meciano in materia di applicazione della lex Falcidia e di stima del bene legato59. Se, in generale, come osservato, Scevola pare allontanarsi del maestro in materia di interpretazione dei legati, il principio esposto nel breve escerto di Scaev. 8 quaest., D. 35.2.19 [F. 33], troverebbe conferma nel precedente giulianeo di Iul. 61 dig., D. 35.2.87pr., poi ampiamente ripreso e sviluppato dall’allievo Meciano in Maec. 8 fideic., D. 35.1.30.1, laddove il consiliarius di Antonino Pio precisa come computare, ai fini della Falcidia, i legati con obbligo di acquisto a un prezzo inferiore o superiore a quello reale. Scevola cita ancora lo stesso Meciano in un passaggio del libro IX delle quaestiones, Scaev. 9 quaest., D. 35.2.20 [F. 34], così rivelando di avere presente non soltanto la posizione del maestro adrianeo, bensì anche – e direttamente – quella del giurista di poco antecedente, e di aderirvi. Anche Pomponio si rivela un interlocutore presente nella riflessione scevoliana, sebbene il nome del giurista compaia in due soli frammenti. Scevola, nel caso di Scaev. 1 quaest., D. 3.5.8 [F. 2] (Pomponius scribit), sostiene una tesi opposta a quella pomponiana: dal brano si evince come egli leggesse direttamente il testo del commentario all’editto del pretore di Pomponio, discostandosi dall’interpretazione proposta e giungendo, con l’ausilio di strumenti re-

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Così Kalb 1890, 88 ss. Bretone 1987, 288, a proposito della feroce critica di Marcello a Giuliano, nelle notae ai digesta. 55 Zülch 2001, 13 ss. sul liber singularis responsorum, anche per un interessante confronto con la raccolta di responsa scevoliana (30 ss.). 56 In Marcell. 8 dig., D. 47.2.69 Marcello cita espressamente Giuliano, mentre Marcell. 8 dig., D. 47.2.71 può considerarsi continuazione del primo, seppur intervallato dall’inserzione scevoliana che introduce una proposizione disgiuntiva: appare verosimile sia che i due giuristi stessero commentando il medesimo passaggio giulianeo, sia che Scevola leggesse anche il testo giulianeo per il tramite di Marcello. 57 Diversi passi sarebbero in grado di chiarirlo: si pensi a Flor. 8 inst. D. 46.3.2; Ulp. 7 disp., D. 46.2.14pr.; Ulp. 46 ad Sab., D. 45.1.29.1. 58 Si vedano Bretone 1987, 288; Rastaetter 1980, 130 ss. Masiello 1999, 32 s. parla della “dissacrante critica a Giuliano” operata dall’allievo. 59 Recentemente, sul rapporto tra Scevola e Meciano proprio nei libri quaestionum, Minale 2020, 79 ss. 54

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Alessia Spina torici, a esiti diametralmente opposti. La posizione di Scevola è, invece, adesiva a Pomponio in Scaev. 4 quaest., D. 13.1.18 [F. 17], in materia di consunzione delle condictiones esperibili per la ricezione di nummi indebiti da parte di un soggetto sciens. 9. La tradizione ricorda Scevola quale maestro dell’intera generazione di giuristi di epoca severiana, e le quaestiones parrebbero confermare la ricchezza dei legami con la giurisprudenza successiva60. I rapporti con Giulio Paolo e Claudio Trifonino emergono sia dalle annotazioni dei due giureconsulti ai digesta e ai responsa del maestro, sia dalla modalità con cui essi sono soliti richiamarlo: ‘Scaevola noster’ è, infatti, espressione ricorrente nelle opere dei due allievi e rileva, nell’uso del possessivo, un affetto e una consuetudine che si addice a un rapporto di scuola61. I passi delle quaestiones danno conferma di tali legami, e soprattutto di quello esistente con Paolo62. Ne è prova Paul. 3 quaest., D. 45.1.126.2, che sembra riproporre la regola scevoliana di Scaev. 2 quaest., D. 14.6.4-14.6.6 [F. 10], laddove si valorizza il momento della numeratio pecuniae rispetto alla successiva verborum obligatio. La posizione di Scevola in Scaev. 4 quaest., D. 38.1.44 [F. 20], con la diversa modulazione di responsabilità del garante nelle obbligazioni in dando rispetto alle obbligazioni in faciendo (ammettendosi una mora fideiussoris in caso di prestazioni in dando) parrebbe confermata da due passi paolini, Paul. 37 ad ed., D. 45.1.49.1 e Paul. 6 ad Plaut., D. 45.1.88. Ancora, della dinamica tra ius commune e ius militare evidenziata da Scevola in Scaev. 6 quaest., D. 35.2.17 [F. 28], si scorge un’eco in Paul. lib. sing. de iure codicill., D. 29.7.8.4; un espresso richiamo all’isolata posizione del maestro – invocato come ‘Scaevola noster’ – è rinvenibile in Paul. lib. sing. de secund. tab., D. 28.6.38.3, che sembra risolvere un problema simile a quello di Scaev. 8 quaest., D. 29.7.14 [F. 29]; un’evidente connessione si avverte tra Scaev. 12 quaest., D. 10.2.37 [F. 37] e Paul. 2 quaest., D. 10.2.36, concepiti dagli stessi commissari giustinianei come parti di un medesimo discorso. Trifonino annotò numerosi pareri scevoliani, rivelando un atteggiamento di autonomia e critica verso le posizioni del maestro, nei cui riguardi conservava comunque una profonda ammirazione, che emerge, ad esempio, quando egli qualifica magno ingenio il responso reso da Scevola in Scaev. 20 dig., D. 35.1.10963. La conoscenza diretta da parte di Trifonino delle quaestiones scevoliane parrebbe confermata da un passaggio di Tryph. 14 disp., D. 26.2.27pr., che riprende, anche nel lessico, il parere formulato da Scevola in Scaev. 4 quaest., D. 26.2.31 [F. 16]. Nelle quaestiones si legge che, secondo un giudizio di convenienza (commodissimum est), si sarebbero dovuti scegliere, quali tutori dativi, quelli indicati dal padre in un testamento

60 Sintetizza efficacemente Bremer 1898, 53, che indica in Scevola, allievo di Giuliano, il maestro dei più insigni giuristi dell’età severiana. L’influenza si evince, ad esempio, da Scaev. 3 resp., D. 31.88.16, in materia di salvezza degli atti di liberalità accompagnati da vincoli di disposizione dei beni ereditati per un momento successivo alla morte del destinatario. L’innovativa posizione scevoliana viene ripresa da Marciano in D. 30.114.6; Ulpiano (D. 36.1.18[17]pr.); Paolo (D. 36.1.76[74]pr.); Papiniano (D. 31.77.24). Rinvio sul punto a Spina 2012, 480 ss. 61 Ancora si possono ricordare Tryph. 8 disp., D. 20.5.12.1 e Tryph. 18 disp., D. 49.17.19pr. Sul tema Schulz 1935, 235 ss. 62 Bremer 1898, 58. 63 Scaev. 20 dig., D. 35.1.109. Sulla figura di Trifonino e sul rapporto con il maestro si possono leggere Sixto 1989 17 ss.; Nörr 1974, 120 s.; Stepan 2018, 1 ss.

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Quaestionum libri XX. Introduzione poi dichiarato nullo. Trifonino, applicando il medesimo criterio di opportunità, nelle disputationes scrive che commodius ipse, qui scriptura continetur, a praetore dabitur. La stessa soluzione, pur in assenza di una coincidenza lessicale, è accolta da Papiniano in Pap. 4 resp., D. 26.2.26.2. Una linea di continuità con Papiniano emergerebbe anche da Pap. 12 quaest., D. 47.2.81.7, che riprende l’isolata opinione espressa da Scevola in Scaev. 4 quaest., D. 13.1.18 [F. 17], a sua volta debitrice – sembrerebbe – del pensiero di Pomponio, come poc’anzi accennato. Affiora una conoscenza diretta delle quaestiones da parte di Ulpiano64, del quale i Digesta Iustiniani riportano cinque citazioni indirette dell’opera di Scevola, contenute nei commentari ad Sabinum e ad edictum. Come già si è detto, è verosimile immaginare che il giurista severiano avesse assistito all’attività didattica pubblica di Scevola, svolta in auditorio, e comunque ne commentasse un testo scritto in circolazione65. Si è già ricordato come, in taluni passaggi, Ulpiano sembri citare Scevola per ‘correggere’ o chiarire il dettato delle costituzioni imperiali66. In tale prospettiva vi è l’impressione che Ulpiano scelga di ricordare il giurista antonino – cui riconosce la capacità di generalizzare e di astrarre67 – per valorizzare le potenzialità ancora attuali della giurisprudenza, in grado di intervenire e di modificare la lettera della normazione imperiale. Ulpiano accoglie spesso le intuizioni del maestro e le ripropone, talvolta con significativi accorgimenti espositivi68. Si pensi a Scaev. 1 quaest., D. 50.1.19 [F. 1], passo che contiene una delle prime affermazioni del principio di maggioranza, il quale riemerge nella massima ulpianea di Ulp. 26 ad ed., D. 50.16.160.1, in cui però scompare il segno linguistico della fictio adoperata – volta ad equiparare la decisione della maggioranza a quella presa all’unanimità –, e la volontà della pars maior viene automaticamente riferita a quella dell’universitas69. Il giurista severiano ricorda la posizione di Scevola nelle quaestiones sempre attraverso verbi che paiono riferirsi a una consultazione del testo scritto dell’opera. La differenza è sensibile, in questa prospettiva, rispetto a quello che si può leggere nei brani delle disputationes ulpianee, dove l’autore – che pure in varie occasioni cita l’opinione del maestro antonino – non indica né l’opera né i libri di riferimento70: il dato ha portato ad ipotizzare che Ulpiano si fosse basato su una fonte di conoscenza orale, forse sul ricordo delle posizioni di Scevola71.

64 Bremer 1898, 57; Pernice 1885 459, invece, accusa Ulpiano di usare le quaestiones di Scevola in realtà senza conoscerle direttamente. Honorè 1982, 206 s. invece ritiene che il giurista severiano conoscesse l’opera ma che i riferimenti ad essa siano solo sporadici. 65 Si può notare l’insistenza con cui Ulpiano utilizza il verbo scribo in Ulp. 16 ad ed., D. 41.3.10.6 in riferimento all’attività di Scevola: “Scaevola libro undecimo scribit … Scaevola autem scribit”. Come meglio si illustrerà infra, il verbo inquit, presente nel medesimo brano, è invece da riferirsi a Marcello. Si veda, contra, Honorè 1982, 220 e nt. 123 e 124. 66 Ulp. 11 ad ed., D. 4.4.11.1 [F. 46]. 67 Ulp. 27 ad ed., D. 13.4.2.3 [F. 48]. 68 Si pensi alla riflessione ulpianea di D. 29.2.19pr., in cui si fa espresso riferimento ad un’operazione di ‘conversione’, assente in D. 31.88.16, responso scevoliano cui Ulpiano pare essersi ispirato. 69 Anche in altre occasioni Ulpiano, pur accogliendo la soluzione del maestro, risulta oscurare le tracce dell’itinerario ermeneutico dal primo compiuto, facendo sopravvivere solo l’esito esegetico raggiunto. 70 Si pensi a Ulp. 1 disp., D. 12.1.17; Ulp. 3 disp., D. 23.2.43; Ulp. 4 disp., D. 41.1.33pr.; Ulp. 5 disp., D. 36.1.22pr.; Ulp. 4 disp., D. 35.2.35; Ulp. 8 disp., D. 18.6.10.1. 71 Così ipotizza Bremer 1898, 54 (“woraus wir entnehmen dürfen, dass sie eben nicht schriftlicher, sondern auf mündlicher Mittheilung beruhten”), per poi concludere nel senso di individuare una linea di continuità tra le lezioni di Scevola dedicate a Giuliano, alle quali avrebbe partecipato lo stesso Ulpiano, il primo ad averle pubblicate, similmente a quanto sarebbe accaduto per le notae di Scevola ai digesta di Marcello. Ampiamente Lovato 2003, 3 ss.

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Alessia Spina Non è da escludersi che diverse siano state le fonti cui Ulpiano ha attinto per le due narrazioni: è noto che Scevola abbia svolto anche lezioni pubbliche, verosimilmente meno tecniche e complesse di quelle private e ‘in auditorio’ e alle quali potrebbero avere partecipato Ulpiano, Paolo (come si potrebbe dedurre dall’espressione ‘in disputando’ di D. 28.2.19) e Papiniano (perché, come già segnalato, l’uso del verbo profiteri nel discusso passo della vita di Caracalla rimanda a un insegnamento pubblico) Brutti 2020, 24. Di tale attività vi sarebbe una duplice traccia: nelle quaestiones publice tractatae dello stesso Scevola (o di un suo allievo, che potrebbe averle redatte salvando il suo autentico pensiero72) e, indirettamente (oltre che nel poc’anzi citato brano paolino di D. 28.2.19), proprio in quelle disputationes di Ulpiano che delle quaestiones rappresentano un’eredità. È rinvenibile anche un legame con Marciano, sebbene sulla base di un’unica testimonianza, D. 20.3.1.2 [F. 12]73, in cui pare potersi scorgere il riconoscimento dell’autorevolezza del maestro, pur in una ricostruzione storica – in cui compare anche Ottaveno – all’apparenza neutrale. 10. La tradizione è, dunque, elemento precipuo delle quaestiones, che pure rivivono nel racconto dei giuristi successivi, con i quali sopravvive non soltanto il fulcro del pensiero del maestro antonino, ma spesso – e soprattutto con Ulpiano – anche la forma – parole e tecnica del ragionamento – di volta in volta prescelta da Scevola. D’altra parte, se nelle raccolte di digesta e responsa è agevole rinvenire uno schema fisso del parere scevoliano, articolato in una tripartizione (narratio del caso, formulazione della quaestio e responsum vero e proprio), che rappresenta una cifra caratteristica della produzione scevoliana, nelle quaestiones, invece, non è dato scorgere una struttura esterna così spiccatamente definita, pur essendo riconoscibile una certa ripetuta ‘circolarità’ del ragionamento74. All’interno di uno schema di tal genere, in cui l’avvio della discussione parrebbe coincidere con la lettura di un brano della giurisprudenza precedente, il maestro sottopone il problema e offre la propria soluzione, sulla quale ritorna alla fine del passo75. Nel mezzo vi è la densa argomentazione, realizzata attraverso un discorso che si amplia, pur conservando la forte connotazione topica, casistica. In questo senso, Scevola mostra di articolare le lezioni attraverso continue esemplificazioni76, proposte di soluzioni alternative, ulteriori caratterizzazioni del caso principale, in una delicata alternanza fra tendenza all’astrazione e alla generalizzazione e riconduzione delle fattispecie entro i confini massimi dell’interpretazione: quella ricerca

72 In particolare, si potrebbe immaginare che le lezioni pubbliche tenute da Scevola alla presenza anche di Ulpiano, siano state poi riversate in quel misterioso liber singularis quaestionum publice tractatarum che a lungo è stato sospettato di non essere autentico, anche in considerazione della prosa, descritta come sensibilmente diversa da quella delle quaestiones. Rinvio ai lavori monografici di Johnston 1987, in particolare 79 ss. (e alla relativa recensione di Talamanca 1987, 385 ss.). 73 Bremer 1898, 67. 74 Masiello 1999, 90 ss. 75 Lo dimostrerebbe D. 3.5.8 [F. 2]; in maniera ancora più chiara D. 28.3.19 [F. 27]: nel finale del § 1 Scevola ritorna espressamente alla prima fattispecie (in prima tamen specie); D. 29.7.14 [F. 29], nel cui principium, nel finale, si legge “et in proposito igitur” espressione con cui si chiude la quaestio ritornando al problema originario. 76 Si pensi a D. 28.3.19 [F. 27]: (si ego; et si ego; et si vivat Titius, neque ego).

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Quaestionum libri XX. Introduzione dell’equilibrio che porterà Ulpiano a descrivere l’attività di Scevola con la frase “generaliter definit”77. La quaestio, come è evidente nella lex Gallus, è sovente divisa in due parti, che scandiscono i due momenti della lezione, ossia la lettura del testo giurisprudenziale e il successivo commento del maestro. In questo secondo passaggio, il corpo della quaestio presenta una struttura dialogica, espressione dell’organizzazione del tempo didattico prediletto dal giurista78: a essere rappresentato è un suggestivo e continuo colloquio tra la giurisprudenza precedente e Scevola, e tra quest’ultimo e i suoi allievi, in un intreccio all’interno del quale, a tratti, sfuggono le rispettive posizioni79. Contribuiscono a creare il descritto schema dialettico anche l’uso delle proposizioni interrogative dirette (corrispondenti a diverse variazioni e declinazioni del caso originario), nonché l’alternanza della prima persona singolare e della prima persona plurale80. 11. Lo stile di Scevola risulta aderente ai canoni letterari e stilistici della prosa del II secolo, consistenti in una prudente contemperazione di arcaismo e di sermo cottidianus, indicati da Frontone allo stesso Marco Aurelio quali principi da seguire per ottenere eleganza e chiarezza verbale81. Da un lato, dunque, la scrittura delle quaestiones appare caratterizzata da una prosa densa, difficile e a tratti involuta, veicolo di contenuti complessi e ispirata a precedenti importanti della tradizione giuridica: il modello cui Scevola parrebbe ispirarsi maggiormente è quello dei digesta di Celso. La sintassi segue il ritmo serrato dell’argomentazione didattica, con un significativo uso della perifrastica passiva, del verbo videri e di costrutti che richiamano i testi istituzionali82, la netta prevalenza della costruzione paratattica; l’ipotassi compare soprattutto attraverso le protasi di periodi ipotetici, le proposizioni relative, gli ablativi assoluti e nell’utilizzo intenso del participio perfetto83. Ai modi di una comunicazione colta, la lingua

77 Ulp. 27 ad ed., D. 13.4.2.3. [F. 48]. Martini 1966, 73 s. sull’uso di ‘generaliter definire’, che si rinverrebbe anche in Ulp. 75 ad ed., D. 44.2.7.4 (Et generaliter, ut Iulianus definit, exceptio rei iudicatae obstat …) e in Ulp. 18 ad Sab., D. 7.1.25.5 (Idem Iulianus eodem libro scripsit … et regulariter definiit): “con queste frasi si allude infatti chiaramente alla formulazione di un principio di carattere generale, ma, se si è fatto ricorso agli avverbi generaliter e regulariter, vuol dire che si è sentito il bisogno di rafforzare il concetto espresso con definire, termine che di per sé non doveva dunque appare sufficientemente idoneo ad indicare la formulazione di un principio generale”. 78 Si veda nuovamente Masiello 1999, 90 ss. 79 Non mi pare si fuoriesca dallo schema dialogico neppure nelle ipotesi in cui Masiello 1999, 90 richiama l’oratio continua: anche laddove il problema venga posto e risolto dal maestro quest’ultimo intesse un dialogo ideale con la tradizione giurisprudenziale a lui precedente, evidente nella formulazione del discorso. 80 Evidente, ad esempio, in Scaev. 6 quaest., D. 28.3.19 [F. 27]. 81 In questi termini sono le considerazioni di Masiello 1999, 16 e s., individuando una connessione tra il “naturalismo espressivo” di Scevola emergente dalle quaestiones, e l’esigenza di introdurre nel suo mondo concettuale gli echi e le istanze della prassi, come accade nelle raccolte di digesta e responsa. 82 Significativo è l’utilizzo del verbo tractari e dicere nella forma diximus (che si rinviene, ad esempio, in D. 28.2.29.14). nonché del participio sostantivato tractatus, con cui il giurista preannuncerebbe il sorgere di una vera e propria discussione, utilizzato anche da Africano in Afr. 5 quaest., D. 35.2.88pr.: Quadrato 1979, 1 ss. 83 Una esemplificazione è nel testo di D. 28.3.19 [F. 27]. Addirittura Lenel 1889 II, 273 nt. 7, congettura che Scevola non avrebbe utilizzato il discorso indiretto in formulazioni ipotattiche: i compilatori giustinianei avrebbero trasformato il testo ogni volta in cui l’attuale enunciato si presenta in forma di proposizione ipotetica. Si concorda con Masiello 1999, 98 s. quando sostiene che non sia filologicamente rilevante la presenza di costruzioni ipotattiche nelle quaestiones di Scevola, bensì proprio quella di “strutture paratattiche, oltretutto in numero cospicuo, proprio perché divergente dal modello di costruzione della frase che si assume come canonico” secondo, ad esempio, la teoria di Marouzeau 1956, 233.

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Alessia Spina delle quaestiones affianca un lessico tecnico ricco e impreziosito da espressioni rare. In particolare, si possono ricordare la presenza di hapax legomena (i verbi addubito e expavesco) e la scelta di forme verbali arcaiche (si pensi a quella del congiuntivo presente del verbo audeo, ausim84). L’avverbio perfusorie è documentato, successivamente a Scevola, solamente in Ulpiano85; il termine obitus nel significato di mors ha poche attestazioni, in Gaio, Scevola e Ulpiano86; inconsueti si rivelano anche gli usi del sostantivo sermo nel significato di clausola negoziale87, e di reprobo nel significato di disconoscere l’attività del negotiorum gestor88; l’espressione in difficili quale parametro di valutazione di un caso concreto89; la correlazione ibi-ubi90; la correlazione ante-postea91; l’uso della proposizione circa, accompagnata dal caso ablativo, nel significato di de. Dall’altro lato, si possono cogliere, in talune scelte lessicali compiute nelle quaestiones, le tracce di un presunto ‘volgarismo’ che, come in parte già rilevato, trovano corrispondenza in un preciso orientamento letterario92. Gli esempi di espressioni e usi colloquiali più vicini ai modi della comunicazione orale sono molteplici: l’insolita costruzione di quod accompagnato dal congiuntivo, che richiama il cum con il modo congiuntivo93; la scelta dell’uso della proposizione quamvis con il verbo al modo indicativo, anziché con il congiuntivo94; la costruzione del verbo teneor con ad e il gerundio, al posto del consueto verbo al modo infinito95; l’utilizzo del pronome dimostrativo ipse nel raro significato del pronome determinativo96; il costrutto dell’infinitiva con ut e il verbo al modo congiuntivo97; una generale preferenza per l’uso del verbo al modo indicativo anziché al congiuntivo – anche nei casi in cui si riporta il pensiero altrui e la sfumatura soggettiva dovrebbe prevalere –, così da rendere il discorso maggiormente colloquiale98. Alla ricercatezza del linguaggio scevoliano contribuisce la presenza della retorica. Si è scritto che egli sarebbe il primo giurista a fare un uso significativo di figure retoriche e tropi99, ed infatti nelle quaestiones si rinviene un’ampia esemplificazione: la tecnica dell’argomenta-

84 85

In Scaev. 6 quaest., D. 28.2.29.8 [F. 26]. Lo si rinviene in D. 21.2.69.5 e poi in Ulp. 70 ad ed., D. 43.24.5.1: cfr. VIR, IV/fasc. 3-4, 1985, s.v. perfusorie,

663. 86

VIR, IV/fasc. 3-4, 1985, s.v. obitus, 367. Scaev. 8 quaest., D. 29.7.14 [F. 29]. 88 Scaev. 1 quaest., D. 3.5.8 [F. 2]. 89 Scaev. 6 quaest., D. 28.2.29.15 [F. 26]. 90 Scaev. 5 quaest., D. 45.1.127 [F. 25]. 91 D. 21.2.69.5 [F. 7]. 92 Si richiama in questa sede l’accurata ricognizione proposta da Masiello 1999, 96 ss. 93 Tale costruzione, seppur ignota al latino classico, è testimoniata nella tarda latinità, nelle iscrizioni e anche nella letteratura del II secolo, come in Apuleio. Nelle Metamorfosi la si rinviene per due volte: metam. I.5 e II.3. 94 Come si legge in D. 3.5.34pr. Callebat 1968, 350. Masiello 1999, 102 s. e nt. 35 spiega l’utilizzo anomalo alla luce di una reciproca influenza che le due proposizioni concessive – quamquam e quamvis – possono avere esercitato. 95 Si riscontra questo uso ancora in D. 3.5.34, nonché in D. 11.7.46 [F. 8]. 96 In D. 3.5.8 [F. 2]. e in D. 47.6.6 [F. 19]. 97 In D. 28.2.29.1, 6 e 14 [F. 26]. 98 Così in D. 3.5.8 [F. 2], D. 28.2.29.13 [F. 26] e in D. 45.1.127 [F. 25]. 99 Kalb 1961, 16. 87

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Quaestionum libri XX. Introduzione zione per assurdo100, dell’argomentazione a contrario101, l’ellissi102, l’eufemismo103, l’iperbato104, la metafora105, la sineddoche106, l’anafora107, la prolessi108, la metonimia109. La retorica, in Scevola, parrebbe funzionale a rendere maggiormente incisivo il ragionamento con cui sta guidando i suoi allievi: è cioè, il mezzo e non già lo scopo della lezione, dovendosi escludere – almeno sulla base di quanto sopravvissuto nei Digesta Iustiniani, che oggetto di studio fosse anche la costruzione di itinerari logici-argomentativi simili a quelli con cui, nelle scuole di retorica, si insegnava a difendere l’una o l’altra delle posizioni contrapposte110. 12. Il tema consente di introdurre un altro profilo di indagine, da sempre al centro di importanti discussioni, relative alla natura – reale o fittizia – dei casi trattati. Se, da un lato, la natura topica della quaestio scevoliana parrebbe escludere si trattasse di mere finzioni letterarie111, ossia di “casi totalmente immaginari”112, dall’altro lato, la finalità scolastica dell’opera e l’andamento stesso della quaestio allontana la sensazione che siano le vicende concrete emergenti nella prassi a guidare l’intero discorso. In realtà le connessioni tra momento teorico e aspirazione pratica appaiono salde anche nella raccolta di quaestiones, seppur distinguibili in maniera più nitida rispetto a quanto avviene, ad esempio, nella raccolta di quaestiones publice tractatae dello stesso giurista. La struttura della quaestio consente di ipotizzare che l’oggetto precipuo fosse coinciso con un problema emerso nella letteratura giuridica precedente (la cui specifica matrice era invece squisitamente pratica), che Scevola affronta arricchendolo con una casistica fittizia, ma saldamente ancorata alle esigenze della prassi, così escludendo l’elaborazione di un puro caso di scuola. Basti citare nuovamente D. 28.2.29, il cui contesto originario è repubblicano, ma assume una vivace attualizzazione nella sua seconda parte, attraverso l’inserimento di riflessioni e di esemplificazioni valide nel II secolo d.C.: l’età media si era allungata, ma il tasso di mortalità rimaneva comunque elevato e frequentemente poteva verificarsi la morte di soggetti alieni iuris, che però fossero già a loro volta padri. Era, dunque, profondamente avvertita

100 D. 3.5.8 [F. 2]; D. 40.9.6 [F. 51], sul quale Gokel 2014, 282 ss., che si sofferma anche sull’uso, tipicamente scevoliano di alioquin. 101 D. 3.5.34 [F. 3] e in D. 3.5.8 [F. 2]; D. 14.6.4 [F. 10]. 102 In D. 3.5.8 viene omesso il participio passato gestorum che accompagnerebbe negotiorum; in D. 5.2.20 si richiama una Carbonianam bonorum possessionem, elidendo il riferimento all’editto; in D. 35.2.16 si parla di Falcidiam plenam e si omette il termine lex; in D. 29.7.14 il genitivo testamenti non è accompagnato dal sostantivo tempore. 103 Si può vedere tale figura ancora in D. 29.7.14: mortem obierunt. 104 Scaev. liber sing. quaest. publice tract. D. 35.2.96. 105 Sono metaforiche le espressioni contenute in D. 3.5.34.2 [F. 3] (in riferimento ai verbi venire e perire); D. 21.2.69 [F. 7] (condicionem celare e sumitur portio); in D. 11.7.46 [F. 8] (minuere usus fructus). 106 Presente in D. 45.1.133: nam sicut et ipsius et heredis caput [F. 44]. 107 Ulp. 27 ad ed., D. 13.1.8 (sed et me condicere); Scaev. 5 quaest. D. 37.6.10 [F. 22] (sed magis sentio); Scaev. 6 quaest., D. 35.2.17 (sed res ita expedietur) [F. 28]. 108 In Scaev. 1 quaest., D. 3.5.34.1 (illum autem non credimus teneri…) [F. 3]; in Scaev. 2 quaest., D. 11.7.46.2 (ei, cui vestimenta legantur, si in funus…) [F. 8]; Scaev. 13 quaest., D. 45.3.19 (ei ex cuius re adquisiit id totum ei adquirat…) [F. 45]. 109 In D. 24.3.47 [F. 54]: cum mulier viri lenocinio adulterata fuerit. 110 In questo senso non condivido quanto affermato da Masiello 1999, 94 s. 111 Si veda Citroni 1990, 53 ss.; Frezza 1977, 215; Masiello 1999, 108 s. 112 Guarino 1998, 483.

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Alessia Spina ancora in età antonina la necessità di provvedere all’eventualità di una nascita postuma di un discendente, e su tale profilo è articolata l’intera quaestio113. Un altro esempio è offerto da Scaev. 4 quaest., D. 26.2.31 [F. 16]: l’escerto sopravvissuto sembra prendere in esame una fattispecie concreta, come farebbero ipotizzare alcuni dettagli: l’indicazione di una pluralità di tutori, il riferimento ad una pupilla e la precisazione che l’esperimento della querela inofficiosi testamenti è determinato dalla nascita di un postumo. La seconda parte della quaestio di D. 35.2.17 [F. 28] presenta una forte connotazione pratica: Scevola, infatti, spiega in quale maniera, concretamente, la coesistenza dei due regimi testamentari – speciale e ordinario – renderà applicabile la lex Falcidia. Ancora, in Scaev. 8 quaest. D. 35.1.80 [F. 32], la scissione tra il momento didattico e quello pratico è evidente confrontando il passo con Scaev. 22 dig., D. 33.1.21.3: nelle quaestiones Scevola propone una netta distinzione tra modus e condicio – e tale distinzione rappresenta il fulcro della lezione – mentre i due termini sono usati atecnicamente, quali sinonimi nella soluzione proposta nei digesta. In D. 33.1.21.3, infatti, il giurista riporta letteralmente un testamento in cui la clausola modale è definita, dal richiedente il parere, condicio (“Quod si condicione supra scripta recipere legatam sibi pecuniam civitas Sebastenorum noluerit, nullo modo heredes meos obligatos ei esse volo, sed habere sibi pecuniam”)114, ed ancora egli, sintetizzando il casus sottopostogli, ripropone il medesimo vocabolo (quaesitum est, an, si res publica condicionibus testamento adscriptis postea non paruerit, legatum ad filios heredes pertineat)115, non optando, dunque, per la più precisa qualificazione della clausola come modus, ma proponendo un responso che lo presuppone. Si può rilevare l’assenza, nei libri quaestionum, di un legame diretto con l’attività respondente che invece è più facilmente rinvenibile nella raccolta di quaestiones publice tractatae: il discrimine tra le due finalità – e, dunque, tra i due generi letterari – è talvolta assai labile, come suggerisce Scaev. liber sing. quaest. publice tract., D. 28.6.48, lungo e articolato frammento in materia di sostituzioni testamentarie che contiene un’indicazione rilevante. Dopo una prima parte assai densa e di deciso andamento casistico, Scevola chiarisce le coordinate del problema, ossia quali siano i termini di quella che egli espressamente definisce come quaestio (in hac quaestione in primis quaerendum est). Successivamente il giurista descrive la vicenda concreta, compiendo un’operazione di generalizzazione e astrazione, ma tradotta in un linguaggio giuridico meno ellittico rispetto a quello consueto delle quaestiones116. Significativa è l’espressione ‘secundum haec proposita quaestio manifestetur’, che evoca immediatamente l’analoga formulazione ‘secundum ea quae proponerentur’ adottata da Scevola nelle opere casistiche quale stigma inconfondibile della natura del responso e dei limiti e della specificità dell’attività giurisprudenziale117. Similmente, nel brano paolino di Paul. 1 ad Vitell., D. 28.2.19 – per il quale ormai possono ritenersi superate le critiche sulla non autenticità del testo – dal casus singolo si passa a una riflessione teorica, tanto da potersi distinguere il momento propriamente respondente rispetto a quello di contenuto più teorico, estraneo alla consueta tecnica di responsa e digesta.

113

Lamberti 1996, 170. Di Salvo 1973, 104 nt. 40. 115 Scaev. 22 dig., D. 33.1.21.3. 116 Scaev. liber sing. quaest. publice tractat., D. 32.103 è altro passo idoneo a documentare tale diverso atteggiamento del giurista. 117 Si rimanda a Spina 2012, 580 s. 114

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Quaestionum libri XX. Introduzione Le considerazioni svolte confermerebbero come, anche nella didattica, il momento creativo riservato al maestro riveli un nesso inscindibile con l’attività respondente, che trova conferma nella vita stessa del giurista se si ammette, come supra sostenuto, che egli abbia emesso pareri autorevoli per vari decenni, ancora durante il periodo di composizione delle quaestiones. Negli anni cambia, dunque, la finalità del lavoro di Scevola e, di conseguenza, cambia il genere letterario cui egli si affida, abbandonando la forma tripartita del responso e adattando la quaestio dell’età precedente alle esigenze del nuovo periodo. Il tempo delle quaestiones è, come è stato scritto, il tempo – coincidente con i primi anni dell’impero di Commodo – in cui il giurista, ritiratosi dalla carriera pubblica, si chiuse nella scuola e nel ruolo di maestro, in una sorta di riparo rispetto alla deriva che la politica imperiale stava vivendo. Scompare il mondo provinciale, che del II e soprattutto del III secolo è e sarà protagonista incontrastato, e vengono ripresi i temi e i problemi della tradizione giurisprudenziale risalente, di cui si avverte la perdurante attualità. È il tempo della riflessione dotta, del discorso serrato, complesso, a tratti quasi concitato, in cui la formazione dell’esperto è condotta sui testi dei veteres, in un laboratorio di idee e di metodo, di cui raramente la storia giuridica antica reca traccia tanto evidente.

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FRAGMENTA1

Liber I

[Ad municipalem (E. I)].

1. D. 50.1.19 (Lenel, Scaev. 132) Quod maior pars curiae effecit, pro eo habetur, ac si omnes egerint.

[De negotiis gestis (E. 35)].

2. D. 3.5.8(9) (Lenel, Scaev. 133) Pomponius scribit, si negotium a te quamvis male gestum probavero, negotiorum tamen gestorum te mihi non teneri. videndum ergo ne in dubio hoc, an ratum habeam, actio negotiorum gestorum pendeat: nam quomodo, cum semel coeperit, nuda voluntate tolletur? sed superius ita verum se putare, si dolus malus a te absit. Scaevola: immo puto et si comprobem, adhuc negotiorum gestorum actionem esse, sed eo dictum te mihi non teneri, quod reprobare non possim semel probatum: et quemadmodum quod

1 Soluzioni grafiche: si è scelto di inserire il testo latino in tondo laddove la parte di frammento non sia dalle fonti direttamente attribuita a Scevola, ma si ritiene che sia scevoliano il pensiero espresso. La riproduzione dei frammenti è accompagnata da un apparato critico, che non pretende di essere esaustivo. Sono stati segnalati tutti i casi in cui il testo adottato differisce da quello della littera Florentina (F), e quelli i cui il testo di F è stato emendato dallo scriba stesso (Fa/Fb) o da un correttore del VI secolo (F1/F2). Sono state sistematicamente riportate le correzioni suggerite da Mommsen nella sua editio maior, integrate con quelle indicate nell’edizione Mommsen-Krüger e con quelle segnalate da Lenel.

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FRAMMENTI

Libro I

[Sulla legge municipale (E. I)].

1. D. 50.1.19 (Lenel, Scaev. 132) Ciò che la maggioranza del collegio avrà compiuto, si considera come se sia stato deciso all’unanimità. [Sulla gestione degli affari altrui (E. 35)].

2. D. 3.5.8(9) (Lenel, Scaev. 133) Pomponio scrive che, se avrò approvato un negozio sebbene da te male gestito, tuttavia tu non sarai tenuto nei miei confronti con l’azione di gestione di affari. Quindi, occorre considerare se, laddove sussista il dubbio che io abbia ratificato, non rimanga pendente l’azione di gestione di affari: infatti, in che modo, una volta che abbia iniziato ad essere esperibile un’azione, essa potrebbe essere eliminata dalla semplice volontà? Pomponio, tuttavia, ha ritenuto vero quanto sopra soltanto qualora tu non avessi agito con dolo. Scevola si è espresso in questi termini: anzi, ritengo che, se anche io approvi, ancora sussiste l’azione di gestione di affari, ma con il limite per cui tu non sarai tenuto nei miei confronti, poiché non posso disapprovare quanto una volta è stato approvato: e allo stesso modo in cui è inevitabile che dinanzi al giudice venga ritenuto come ratificato quanto sia stato vantaggiosamente gestito, così deve ritenersi per tutto ciò che sia stato approvato dallo stesso interessato. Del resto, se fosse vero che, nel momento in cui ho approvato, non vi sia azione di gestione di affari, che cosa accadrebbe, se fosse stato richiesto l’adempimento al mio debitore e io lo avessi approvato? In che modo recupererei? Ugualmente, che cosa accadrebbe se avesse venduto? Infine, se egli stesso sostenesse 65

Alessia Spina utiliter gestum est necesse est apud iudicem pro rato haberi, ita omne quod ab ipso probatum est. ceterum si ubi probavi, non est negotiorum actio: quid fiet, si a debitore meo exegerit et probaverim? quemadmodum recipiam? item si vendiderit? ipse denique si quid impendit, quemadmodum recipiet? . erit igitur et post ratihabitionem negotiorum gestorum actio. probavero tamen: negotiorum (Krüger)?; sed eo dictum: eo dumtaxat? (Mommsen in app. crit.); reprobare: reprobari F; pro rato: pro’cu’rato F; non est: non ˹est˺ F2; debitore: defitore F (em. f); exegerit: exegerim F3; post: pos F.

3. D. 3.5.34(35) (Lenel, Scaev. 134) Divortio facto negotia uxoris gessit maritus: dos non solum dotis actione, verum negotiorum gestorum servari potest. haec ita, si in negotiis gestis maritus dum gerit facere potuit: alias enim imputari non potest, quod a se non exegerit. sed et posteaquam patrimonium amiserit, plena erit negotiorum gestorum actio, quamvis si dotis actione maritus conveniatur, absolvendus est. sed hic quidam modus servandus est, ut ita querellae locus sit “quantum facere potuit, quamvis postea amiserit”, si illo tempore ei solvere potuit: non enim e vestigio in officio deliquit, si non protinus res suas distraxit ad pecuniam redigendam: praeterire denique aliquid temporis debebit, quo cessasse videatur. quod si interea priusquam officium impleat, res amissa est, perinde negotiorum gestorum non tenetur, ac si numquam facere possit. sed et si facere possit maritus, actio negotiorum gestorum inducitur, quia forte periculum est, ne posse facere desinat. 1. Illum autem non credimus teneri, qui gerit negotia debitoris, ad reddendum pignus, cum pecunia ei debeatur nec fuerit quod sibi possit exsolvere. 2. Sed nec redhibitoriae speciem venire in negotiorum gestorum actionem et per hoc sex mensibus exactis perire, si vel mancipium in rebus non invenit: vel eo invento quod accessionum nomine additum est, vel quod deterior homo factus esset, vel quod per eum esset adquisitum non ex re emptoris, nec invenit nec recepisset: nec esset in ipsis emptoris negotiis quae gerebat, unde sibi in praesenti redderet. 3. Ceterum si ex alia causa perpetuae obligationis, cum sit locuples, debeat, non est imputandum, quod non solverit, utique si neque usurarum ratio querellam movet. diversumque est in tutore debitore, quia ibi interfuit ex priore obligatione solvi, ut deberetur ex tutelae actione. non solum dotis: rei uxoriae Scaev. (Lenel in app. crit.); ita in negotiis gestis, si? (Mommsen in ed. maiore); si in negotiis gestis: gloss., delet Lenel; quantum: quantum tum? (Mommsen in ed. maiore); potest (post imputari non): potes F (em. f); plena: plaen˹a˺ Fb; quamvis si dotis: rei uxoriae Scaev. (Lenel in app. crit.); vestigio: vistigio F (em. f); officio impleat: officium ‘set’ imple’v’at F; ne facere: posse ins. (Pb) = ins. dett. (Krüger); desinat: desinet F1; sed nec: sed ˹n˺ec F2; sex: ex F, παριόντων ἓξ μηνῶν B; eo invento: eo inven‘i’to F; accessionum: autessionum F, ἢ τὰς προσθήκας B (Anon.); recepisset: re˹ce˺pisset F2; esset (post esset): ˹n˺ec F2; emptoris (ante negotiis): empro F1; praesenti: prasenti F; quod non: quo no F: οὐ χρὴ ἐγκαλεῖσθαι διὰ τί μή κατέβαλεν: BS (Steph.); quia ibi: quae sequuntur corrupta sunt (Schirmer): Krüger; tutelae: tutela˹e˺ F3.

* 4. D. 12.1.38 (Lenel, Scaev. 135) Respiciendum enim esse, an, quantum in natura hominum sit, possit scire eam debitu iri.

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Quaestionum libri XX. Fragmenta delle spese, in che modo le recupererebbe? Infatti, non si tratta senz’altro di un mandato. Pertanto, anche dopo la ratifica compete l’azione di gestione degli affari.

3. D. 3.5.34(35) (Lenel, Scaev. 134) Una volta avvenuto il divorzio, il marito ha gestito il patrimonio della moglie: la dote può essere garantita non soltanto con l’azione di dote, ma anche con l’azione di gestione di affari. Le cose stanno così, a patto che, nel periodo di attività gestoria, il marito, finché abbia gestito, abbia avuto la possibilità di restituire la dote: diversamente, infatti, non può essergli imputato ciò che a se stesso non avrebbe potuto richiedere. Tuttavia, anche dopo che abbia perso il patrimonio, si avrà una piena esperibilità dell’azione di affari altrui, sebbene, se il marito sia stato convenuto con un’azione di dote, debba essere assolto. Un certo limite deve però essere mantenuto, sicché una parte della domanda giudiziaria rechi le parole “per quanto sia riuscito a fare, sebbene poi abbia perso il patrimonio”, se nel momento dell’avvio della gestione avrebbe potuto adempiere all’obbligazione di restituzione: infatti, non ha sin dall’inizio commesso un illecito nell’esercizio del proprio ufficio, se non ha distratto subito i propri beni per incassare denaro: dovrà trascorrere almeno un po’ di tempo perché si ritenga che abbia concluso il proprio ufficio. Poiché, nondimeno, se prima di portare a compimento il proprio incarico, il patrimonio sia andato perso, non sarà tenuto con l’azione di gestione di affari, proprio come se non fosse mai stato nella possibilità di adempiere alla restituzione. Tuttavia, anche se il marito sia nella possibilità di adempiere, si esperisce l’azione di gestione di affari, poiché è possibile che vi sia il rischio che venga meno la possibilità di adempiere. 1. Invece, non riteniamo che colui che abbia gestito gli affari di un proprio debitore sia tenuto a restituire il pegno, se a lui sia dovuta una somma di denaro e non vi sia stata possibilità di soddisfarsi integralmente. 2. E neppure in caso di redibizione riteniamo che si possa ricorrere all’azione di gestione di affari, sicché la possibilità di agire (con l’azione redibitoria) si esaurisce trascorsi sei mesi, se o il venditore non trovi lo schiavo nel patrimonio, o se, pur trovandolo nel patrimonio, non abbia ritrovato né in seguito abbia ricevuto quanto sia da aggiungersi a titolo di accessorio, ovvero lo schiavo fosse stato in condizioni fisiche peggiori di quelle originarie, ovvero non avesse trovato né avesse ricevuto ciò che era stato acquistato attraverso lo schiavo e non con il patrimonio del compratore: negli stessi affari del compratore che stava gestendo non vi era, infatti, in quel momento, possibilità di restituire. 3. Del resto, se il gestore sia debitore di un’obbligazione imprescrittibile, in forza di un diverso titolo, essendo egli ricco, non deve essergli imputato il fatto di non avere pagato, e soprattutto se il calcolo degli interessi non ha suscitato lamentele. Diversa è la situazione nel caso del tutore debitore perché vi è interesse ad essere pagato in forza dell’obbligazione precedente, essendo il debito esigibile attraverso l’azione di tutela. * 4. D. 12.1.38 (Lenel, Scaev. 135) Occorre, infatti, considerare se, per quanto sia nelle naturali capacità dell’uomo, si possa sapere se (tale stipulazione) possa produrre un’obbligazione. 67

Alessia Spina

Liber II

[De inofficioso testamento (E. 52)].

5. D. 5.2.20 (Lenel, Scaev. 136) Qui de inofficioso vult dicere, licet negetur filius, Carbonianam bonorum possessionem non debet accipere (totiens enim ea indulgenda est, quotiens, si vere filius esset, heres esset aut bonorum possessor, ut interim et possideat et alatur et actionibus praeiudicium non patiatur: qui vero de inofficioso dicit, nec actiones movere debet nec aliam ullam quam hereditatis petitionem exercere nec ali), ne umquam melioris sit condicionis, quam si confitetur adversarius. nec aliam … exercere: < > glossa (Bekker) (Krüger in app. crit.)

[De Publiciana in rem actione (E. 59)]?

6. D. 7.1.25.6, Ulp. 18 ad Sab. (Lenel, Scaev. 137; Ulp. 2584) + D. 41.1.23.3, Ulp. 43 ad Sab. (Scaev. 137; Ulp. 2907) Si duos fructuarios proponas et ex alterius re servus sit stipulatus, quaeritur, utrum totum an pro parte, qua habet usum fructum, ei quaeratur. nam et in duobus bonae fidei possessoribus hoc idem est apud Scaevolam agitatum libro secundo quaestionum, et ait volgo creditum rationemque hoc facere, ut si ex re alterius stipuletur, partem ei dumtaxat quaeri, partem domino: quod si nominatim sit stipulatus, nec dubitari debere, quin adiecto nomine solidum ei quaeratur. idemque ait et si iussu eius stipuletur, quoniam iussum pro nomine accipimus. idem et in fructuariis erit dicendum, ut quo casu non totum adquiretur fructuario, proprietatis domino erit quaesitum, quoniam ex re fructuarii quaeri ei posse ostendimus. re servus: re‘s’ servus F2; rationemque: rationem˹que˺ F2; quaeri (post dumtaxat): quiri F1

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Quaestionum libri XX. Fragmenta

Libro II

[Sul testamento inofficioso (E. 52)].

5. D. 5.2.20 (Lenel, Scaev. 136) Colui che vuole fare dichiarare inofficioso un testamento, sebbene si neghi la sua qualità di figlio, non deve ricevere il possesso dei beni in base all’editto Carboniano (infatti tale possesso deve essere concesso tutte le volte in cui il richiedente, se fosse davvero figlio, sarebbe erede o possessore dei beni, sicché nelle more del giudizio di stato egli entri nel possesso dei beni ereditari, con questi si mantenga e non soffra pregiudizio per azioni processuali: invero, colui che afferma l’inofficiosità di un testamento non deve né intraprendere azioni, né prendere parte ad alcun processo, se non alla petizione di eredità, e non deve mantenersi con il patrimonio ereditario), affinché la sua condizione non sia mai migliore di quella che si verrebbe a determinare laddove l’avversario confessi.

[Sull’azione reale Publiciana (E. 59)]?

6. D. 7.1.25.6, Ulp. 18 ad Sab. (Lenel, Scaev. 137; Ulp. 2584) + D. 41.1.23.3, Ulp. 43 ad Sab. (Scaev. 137; Ulp. 2907) Se immagini due usufruttuari, e uno schiavo si sia fatto promettere con stipulazione impegnando il patrimonio di uno dei due, si domanda se dall’usufruttuario debba essere acquistato l’intero o una parte in proporzione alla quota di usufrutto che vanta. Infatti, anche nel caso di due possessori in buona fede questo stesso dubbio è stato discusso nel libro secondo delle Questioni di Scevola, ed egli dice che comunemente e ragionevolmente si ritiene ciò, che se la stipulazione sia stata conclusa impegnando il patrimonio di uno dei due, questi acquisti soltanto una parte, mentre una parte spetti al proprietario dello schiavo: che se la stipulazione è stata conclusa con l’indicazione nominativa di uno dei due possessori, non si deve dubitare che, per l’aggiunta del nome, questi acquisti l’intero. E Scevola sostiene la medesima soluzione anche nel caso in cui la stipulazione sia avvenuta su ordine dell’usufruttuario, poiché 69

Alessia Spina Si quis duobus bona fide serviat, utrique adquiret, sed singulis ex re sua. quod autem ex re alterius est, utrum pro parte ei, cui bona fide servit, pro parte domino, si servus sit, aut, si liber sit, ei cui bona fide servit, an vero ei debeat adquirere totum, ex cuius re est, videamus. quam speciem Scaevola quoque tractat libro secundo quaestionum: ait enim, si alienus servus duobus bona fide serviat et ex unius eorum re adquirat, rationem facere, ut ei dumtaxat in solidum adquirat. sed si adiciat eius nomen, ex cuius re stipulatur, nec dubitandum esse ait, quin ei soli adquiratur, quia et si ex re ipsius stipularetur alteri ex dominis, nominatim stipulando solidum ei adquiret. et in inferioribus probat, ut, quamvis non nominatim nec iussu meo, ex re tamen mea stipulatus sit, cum pluribus bona fide serviret, mihi soli adquirat. nam et illud receptum est, ut, quotiens communis servus omnibus adquirere non potest, ei soli eum adquirere, cui potest. et hoc Iulianum quoque scribere saepe rettuli eoque iure utimur. cui bona fide servit del. Mommsen in app. crit.; aut sibi, si liber sit qui bona fide servit? (Mommsen in app. crit.); rationemque hoc facere ut, si ex re alterius stipulatur, partem ei dumtaxat quaeri, partem domino: Ulp. ex Scaevola l.c. (Mommsen in app. crit.); et (ante in inferioribus): at (Fuchs)?; adquiret: adquireret Krüger (ed. minor); et (ante si ex re): it F1; solidum (ante ei): om. F1; adquiret (post ei): adeoqueret F1; probat: om. F1; meo: meum Fa; mea: ˹m˺ea F2; serviret: servire˹t˺ F2; cui (ante potest): qui F1; eoque: eoqu‘a’e F2.

[De modo agri (E. 74) et auctoritate].

7. D. 21.2.69 (Lenel, Scaev. 138) Qui libertatis causam excepit in venditione, sive iam tunc cum traderetur liber homo fuerit, sive condicione quae testamento proposita fuerit impleta ad libertatem pervenerit, non tenebitur evictionis nomine. 1. Qui autem in tradendo statuliberum dicit, intellegetur hanc speciem dumtaxat libertatis excipere, quae ex testamento impleta condicione ex praeterito possit optingere: et ideo si praesens testamento libertas data fuerit et venditor statuliberum pronuntiavit, evictionis nomine tenetur. 2. Rursus qui statuliberum tradit, si certam condicionem pronuntiaverit, sub qua dicit ei libertatem datam, deteriorem condicionem suam fecisse existimabitur, quia non omnem causam statutae libertatis, sed eam dumtaxat quam pronuntiaverit excepisse videbitur: veluti si quis hominem dixerit decem dare iussum isque post annum ad libertatem pervenerit, quia hoc modo libertas data fuerit: “Stichus post annum liber esto”, evictionis obligatione tenebitur. 3. Quid ergo, qui iussum decem dare pronuntiat viginti dare debere, nonne in condicionem mentitur? verum est hunc quoque in condicionem mentiri et ideo quidam existimaverunt hoc quoque casu evictionis stipula70

Quaestionum libri XX. Fragmenta riteniamo che l’ordine equivalga all’indicazione nominativa. E la medesima soluzione dovrà affermarsi anche nei riguardi degli usufruttuari, nel senso che all’usufruttuario non spetterà l’intero, che sarà acquistato dal titolare del diritto di proprietà, poiché abbiamo dimostrato come egli possa acquistare pur essendo stato impegnato il patrimonio dell’usufruttuario. Se qualcuno sia schiavo in buona fede di due padroni, acquisterà a ciascuno di loro, ma acquisterà per uno solo di essi se si sia fatto promettere con stipulazione impegnando il suo proprio patrimonio. Se, d’altra parte, la stipulazione avviene impegnando il patrimonio di uno, valutiamo se l’acquisto debba avvenire in parte a colui che egli serve in buona fede, e in parte al proprietario, nel caso si tratti di uno schiavo o, nel caso si tratti di un libero, a favore di colui che egli serve in buona fede, o se invece colui il cui patrimonio è impegnato debba acquistare l’intero. Di tale fattispecie si occupa anche Scevola nel libro secondo delle questioni: egli dice, infatti, che qualora lo stipulante sia uno schiavo altrui in buona fede di due soggetti e acquisti impegnando il patrimonio di uno solo di loro, è ragionevole ritenere che questi soltanto acquisti per l’intero. Ma se si aggiunge il nome di colui il cui patrimonio è stato impegnato per la stipulazione, Scevola dice che non bisogna dubitare del fatto che egli solo acquisti, poiché anche se, impegnando il patrimonio dell’uno, si sia promesso all’altro dei padroni, in forza della stipulazione nominativa egli acquista l’intero. E nei libri successivi Scevola prova che, sebbene la stipulazione non sia avvenuta nominativamente e neppure su mio ordine, e tuttavia si è avuta una promessa impegnando il mio patrimonio, laddove lo schiavo in buona fede serva più persone, l’acquisto avverrà a mio solo vantaggio. Infatti anche tale considerazione è accettata, che ogni volta in cui uno schiavo in comproprietà non può acquistare, egli acquista soltanto per colui per il quale può farlo. E anche Giuliano scrive di riferirsi spesso a tale principio e noi utilizziamo tale diritto.

[Sulla misura del fondo (E. 74) e la garanzia per l’evizione].

7. D. 21.2.69 (Lenel, Scaev. 138) Colui che al momento della vendita dichiara di non prestare garanzia nel caso di conseguimento della libertà, non sarà tenuto a titolo di evizione, sia nel caso in cui lo schiavo fosse stato libero già allora mentre lo si consegnava, sia che abbia raggiunto la libertà in forza dell’avveramento di una condizione posta all’interno di un testamento. 1. Invece, colui che abbia affermato lo statulibero nell’atto di consegnare l’uomo, si comprende come abbia inteso escludere solamente questa specie di libertà, che può avere luogo una volta avveratasi la condizione versata in precedenza in un testamento: e perciò se sia stata data immediatamente la libertà in un testamento e il venditore abbia dichiarato lo statulibero, egli è tenuto a titolo di evizione. 2. Ancora, colui che ha consegnato uno statulibero, se abbia dichiarato la specifica condizione sotto la quale afferma che a lui sarebbe stata data la libertà, si riterrà che abbia reso peggiore la propria condizione, poiché sembrerà avere escluso non qualunque causa di concessione della libertà, ma soltanto quella che abbia dichiarato: e come per esempio se qualcuno abbia affermato che allo schiavo 71

Alessia Spina tionem contrahi: sed auctoritas Servii praevaluit existimantis hoc casu ex empto actionem esse, videlicet quia putabat eum, qui pronuntiasset servum viginti dare iussum, condicionem excepisse, quae esset in dando. 4. Servus rationibus redditis liber esse iussus est: hunc heres tradidit et dixit centum dare iussum. si nulla reliqua sunt quae servus dare debeat et per hoc adita hereditate liber factus est, obligatio evictionis contrahitur, eo quod liber homo tamquam statuliber traditur. si centum in reliquis habet, potest videri heres non esse mentitus, quoniam rationes reddere iussus intellegitur summam pecuniae quae ex reliquis colligitur iussus dare: cui consequens est, ut, si minus quam centum in reliquis habuerit, veluti sola quinquaginta, ut, cum eam pecuniam dederit, ad libertatem pervenerit, de reliquis quinquaginta actio ex empto competat. 5. Sed et si quis in venditione statuliberum perfusorie dixerit, condicionem autem libertatis celaverit, empti iudicio tenebitur, si id nescierit emptor: hic enim exprimitur eum, qui dixerit statuliberum et nullam condicionem pronuntiaverit, evictionis quidem nomine non teneri, si condicione impleta servus ad libertatem pervenerit, sed empti iudicio teneri, si modo condicionem, quam sciebat praepositam esse, celavit: sicuti qui fundum tradidit et, cum sciat certam servitutem deberi, perfusorie dixerit: “itinera actus quibus sunt utique sunt, recte recipitur”, evictionis quidem nomine se liberat, sed quia decepit emptorem, empti iudicio tenetur. 6. In fundo vendito cum modus pronuntiatus deest, sumitur portio ex pretio, quod totum colligendum est ex omnibus iugeribus dictis. evictionis (post non tenebitur): auctoritatis (Lenel in app. crit.); evictionis (ante nomine tenetur): auctoritatis (Lenel in app. crit.); existimabitur: existimavitur F1; videbitur: videvitur F1; iussum (ante decem): iussus F1; quoque in condicionem: del. Mo. (Krüger in app. crit.); evictionis stipulationem: auctoritatem (Lenel in app. crit.); si centum: si cen˹tum˺ F2; ut (post quinquaginta): et (Hal.) (Krüger in app. crit.); perfusorie (post statuliberum): perfusori˹e˺ F2; celaverit: celerverit Fa; iudicio (ante teneri): iudico F; itinera … recte recipitur: αἱ δουλεῖαι οἷ (vel ὁποῖαί) εἰσιν ἔστωσαν B.

[De religiosis et sumptibus funerum (E. XVI)].

8. D. 11.7.46 (Lenel, Scaev. 139) Si plura praedia quis habuit et omnium usum fructum separatim legaverit, poterit in unum inferri et electio erit heredis et gratificationi locus: sed fructuario utilem actionem in heredem dandam ad id recipiendum, quod propter eam electionem minutus est usus fructus. 1. Si heres mulieris inferat mortuam in hereditarium fundum, a marito qui debet in funus conferre pro aestimatione loci consequatur. 2. 72

Quaestionum libri XX. Fragmenta fosse stato ordinato di dare dieci ed egli abbia raggiunto la libertà dopo un anno, poiché la libertà gli era stata data con questa limitazione: “Stico diventi libero dopo un anno”, sarà tenuto con l’obbligazione di evizione. 3. Che cosa accade, dunque, nel caso in cui il venditore abbia riferito dell’ordine di dare dieci mentre lo schiavo avrebbe dovuto dare venti? Non ha forse mentito il venditore in riferimento alla condizione? È vero che anche questi abbia mentito, e perciò alcuni hanno ritenuto che anche in questo caso sia stata contratta una stipulazione di evizione. Prevalse tuttavia l’autorità di Servio, il quale pensava che in questo caso vi fosse un’azione di compera, perché evidentemente riteneva che colui il quale avesse dichiarato che al servo era stato ordinato di dare venti, aveva escluso qualunque condizione che consistesse in una dazione. 4. Si ordinò che uno schiavo fosse libero una volta fatto il rendiconto del proprio peculio: un erede lo consegnò e disse che era stato ordinato che fosse libero una volta data la somma di cento. Se non vi sono rimanenti somme che lo schiavo debba dare e perciò, una volta accettata l’eredità, sia divenuto libero, l’obbligazione di evizione è contratta, per questo motivo, perché un uomo libero è stato consegnato come se fosse statulibero. Se i cento sono tra le rimanenti somme dovute, può sembrare che l’erede non abbia mentito, poiché avere ordinato di fare il rendiconto è da intendersi come ordinare di dare la somma di denaro che si ottiene da ciò che gli rimaneva: è conseguenza di ciò che, se abbia avuto meno di cento in ciò che gli rimaneva, ad esempio se vi fosse solo una somma di cinquanta, cosicché, avendo dato quel denaro, abbia raggiunto la libertà, in riferimento ai rimanenti cinquanta compete l’azione di compera. 5. Tuttavia, anche se qualcuno durante la vendita abbia compiuto un generico riferimento allo statulibero, mentre aveva nascosto la condizione cui era sottoposta la libertà, sarà tenuto con il giudizio di compera, se il compratore non lo abbia saputo: emerge infatti che colui il quale abbia affermato lo statulibero e non abbia menzionato alcuna condizione, non è invero tenuto a titolo di evizione, se, una volta avveratasi la condizione lo schiavo abbia ottenuto la libertà, ma è tenuto con il giudizio di compera, se ha nascosto soltanto la condizione che sapeva essere stata inserita nel testamento: così come colui che abbia consegnato il fondo e, sapendo che su di esso gravava una servitù, abbia detto genericamente: “correttamente è ricevuto con le servitù di passaggio e di transito con carri, quali e come siano”, certamente si libera a titolo di evizione, ma poiché ha ingannato il compratore è tenuto con il giudizio di compera. 6. In riferimento al fondo oggetto di vendita, quando manca una quantità a quella dichiarata, si toglie una parte dal prezzo che nel suo complesso deve essere calcolato in base a tutti gli iugeri dichiarati.

[Sui luoghi religiosi e le spese funerarie (E. XVI)].

8. D. 11.7.46 (Lenel, Scaev. 139) Se qualcuno ebbe più fondi e di tutti ne abbia legato separatamente l’usufrutto, potrà essere sotterrato in uno qualunque di essi e la scelta di quale sarà dell’erede ed sul luogo graverà la liberalità: ma all’usufruttuario dovrà essere concessa un’azione ‘utile’ nei confronti dell’erede, per recuperare il decremento patrimoniale che il fondo ha subìto a causa di tale scelta. 1. Se 73

Alessia Spina Ei, cui vestimenta legantur, si in funus erogata sint, utilem actionem in heredem dandam placuit et privilegium funerarium. unum inferri: unum ‘usum fructum separatim’ inferri Fb; usus fructus: usufructus F; pro: om. F1; pro portione aestimationem Mo. (Krüger).

[De compensationibus (E. 100)].

9. D. 16.2.22 (Lenel, Scaev. 140) Si debeas decem aut hominem, utrum adversarius volet, ita compensatio huius debiti admittitur, si adversarius palam dixisset, utrum voluisset. decem aut: decem ‘milia’ aut Fb: ἢ δέκα νομίσματα B (Anon.); milia Fa.

[Quod cum eo, qui aliena potestate est, negotium gestum esse dicetur (E. 104)].

10. D. 14.6.4 + D. 14.6.6 (Lenel, Scaev. 141) Quia quod volgo dicitur filio familias credi non licere, non ad verba referendum est, sed ad numerationem. Contra etiam recte dicetur, si a patre familias stipulatus sis, credas postea filio familias facto, senatus potestatem exercendam, quia expleta est numeratione substantia obligationis. dicetur: dicitur F1

11. D. 15.1.51 + D. 24.3.43 (Lenel, Scaev. 142) Quod debetur servo ab extraneis, agenti de peculio non omnimodo dominus ad quantitatem debiti condemnandus est, cum et sumptus in petendo et eventus exsecutionis possit esse incertus et cogitanda sit mora temporis quod datur iudicatis, aut venditionis bonorum, si id magis faciendum erit. ergo si paratus sit actiones mandare, absolvetur. quod enim dicitur, si cum uno ex sociis agatur, universum peculium computandum quia sit cum socio actio, in eodem redibit, si actiones paratus sit praestare: et in omnibus, quos idcirco teneri dicimus quia habent actionem, delegatio pro iusta praestatione est. eventus: ˹e˺ventus F2; enim: del. Mommsen in app. crit.; sociis: socius F1; in eodem: in eo eodem? (Mommsen in app. crit.); redibit: redhibit F; est (post praestatione): F2, sit F1.

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Quaestionum libri XX. Fragmenta l’erede di una donna seppellisca la defunta nel fondo ereditario, si ottenga dal marito, che deve contribuire al funerale, una somma proporzionata al valore del luogo. 2. A colui al quale sono legate le vesti, se siano state spese per il funerale, è parso opportuno che dovesse concedersi un’azione adattata dal pretore contro l’erede e un privilegio funerario.

[Sulle compensazioni (E. 100)].

9. D. 16.2.22 (Lenel, Scaev. 140) Se devi dieci o uno schiavo, a seconda di quale dei due beni vorrà la controparte, così è ammessa la compensazione di questo debito, se la controparte avrà manifestamente dichiarato quale dei due beni volesse.

[Se si dica che il negozio è stato concluso con colui che è in potestà altrui (E. 104)].

10. D. 14.6.4 + D. 14.6.6 (Lenel, Scaev. 141) Poiché ciò che comunemente si dice, che non sia possibile dare a credito al figlio di famiglia, non si riferisce a obbligazioni verbali, ma al pagamento in contanti. Al contrario, correttamente si dice anche che, se tu ti sia fatto promettere con stipulazione da un padre di famiglia e, divenuto costui figlio di famiglia, tu gli abbia concesso credito, deve essere esercitato il potere del senato, poiché la sostanza dell’obbligazione si completa con il pagamento in contanti. 11. D. 15.1.51 + D. 24.3.43 (Lenel, Scaev. 142) Poiché lo schiavo vanta crediti da terzi, il padrone non deve essere condannato interamente all’ammontare dovuto a favore di colui che abbia agito nei limiti del peculio, potendo essere incerti sia le spese del giudizio sia l’esito dell’esecuzione forzata e dovendosi considerare la dilazione temporale concessa per conformarsi ai giudicati o per la vendita dei beni, e molto di più se si dovrà giungere a questa soluzione. Dunque, se il padrone sarà disposto a delegare le azioni, verrà assolto. Questo, infatti, si dice anche per il caso in cui, se si agisca contro uno tra i soci comproprietari, dovrà essere considerato l’intero peculio, poiché vi è azione contro il socio, si applicherà il medesimo regime se sia stato disposto a delegare le azioni: e per tutti 75

Alessia Spina Si maritus in id quod facere potest condemnatus sit et nomina sint ad dotis quantitatem neque amplius, necesse2 habebit mandare actiones. amplius necesse (neque F) habebit mandare actiones: sic BS (Doroth.)

Liber III

[De empto vendito (E. 111)]?

12. D. 20.3.1.2, Marcian. lib. sing. ad form. hypot. (Lenel. Scaev. 143; Marcian. 35) Eam rem, quam quis emere non potest, quia commercium eius non est, iure pignoris accipere non potest, ut divus Pius Claudio Saturnino rescripsit. quid ergo, si praedium quis litigiosum pignori acceperit, an exceptione summovendus sit? et Octavenus putabat etiam in pignoribus locum habere exceptionem: quod ait Scaevola libro tertio variarum quaestionum procedere, ut in rebus mobilibus exceptio locum habeat. variarum: variorum F

[De re uxoria (E. XX)].

13. D. 23.4.31 (Lenel, Scaev. 144) + D. 24.3.7pr. Ulp. 31 ad Sab. (Lenel, Scaev. 327; Ulp. 2755) Si inter virum et uxorem convenit, ut extremi anni matrimonii fructus nondum percepti mulieris lucro fiant, huiusmodi pactum valet.

2 L’avverbio necesse non è leggibile nel codex Florentinus, viene aggiunto da Mommsen e accolto da Lenel, sulla base di quanto si legge in B. 28.8.41: Μέχρις εὐπορίας ὁ ἀνὴρ καταδιαζόμενος καὶ χρεώστας ἔχων ἀναγκάζεται μέχρι τοῦ ποσοῦ τὰς κατ᾽αὐτῶν ἐκχωρεῖν ἀγωγάς.

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Quaestionum libri XX. Fragmenta coloro che diciamo perciò essere tenuti, poiché hanno un’azione, la cessione dell’azione vale quale giusta prestazione. Se un marito debba essere condannato nei limiti delle proprie sostanze e vi siano crediti nei limiti dell’ammontare della dote e non di più, egli necessariamente dovrà cedere le azioni.

Libro III

[Sulla compravendita (E. 111)]?

12. D. 20.3.1.2, Marcian. lib. sing. ad form. hypot. (Lenel. Scaev. 143; Marcian. 35) Il bene che non si può comprare, dal momento che non ne è consentito il commercio, non può essere ricevuto in pegno, come il divo Antonino Pio decise in un rescritto indirizzato a Claudio Saturnino. Dunque, che cosa accade se sia stato ricevuto in pegno un fondo oggetto di una lite giudiziaria; forse che si dovrà rimuovere attraverso un’eccezione? E Ottaveno riteneva che anche in riferimento a beni pignorati si applicasse l’eccezione: questo dice Scevola nel libro terzo delle ‘Questioni varie’, che si debba andare avanti in maniera tale da applicare l’eccezione in riferimento alle cose mobili.

[Sulla dote (E. XX)].

13. D. 23.4.31 (Lenel, Scaev. 144) + D. 24.3.7pr. Ulp. 31 ad Sab. (Lenel, Scaev. 327; Ulp. 2755) Se tra marito e moglie si conviene che i frutti non ancora percepiti dell’ultimo anno di matrimonio vadano a vantaggio della donna, un patto di questo tipo è valido. È chiaro che i frutti sono quelli che residuano una volta tolte le spese: e Scevola si riferisce anche alle spese del marito e della moglie. Infatti, se la moglie abbia dato in dote un fondo il giorno prima della vendemmia, e non appena compiuta la vendemmia abbia divorziato, non ritiene che a lei debbano essere restituiti solamente i frutti di undici mesi, ma anche le spese che, prima di compiere le distribuzioni dei frutti, devono essere dedotte: dunque, se anche il marito abbia compiuto spese nel medesimo anno, concorrono le spese di entrambi. Così poi, 77

Alessia Spina Fructus eos esse constat, qui deducta impensa supererunt: quod Scaevola et ad mariti et ad mulieris impensas refert. nam si mulier pridie vindemias doti dedit, mox sublatis a marito vindemiis divortit, non putat ei undecim dumtaxat mensum fructus restitui, sed et impensas, quae, antequam portiones fructuum fiant, deducendae sunt: igitur, si et maritus aliquid impendit in eundem annum, utriusque impensae concurrent. ita et, si impensarum a muliere factarum ratio habeatur, cum plurimis annis in matrimonio fuit, necesse est primi anni computari temporis quod sit ante datum praedium. 14. D. 24.1.56 (Lenel, Scaev. 145) Si quod mihi mortis causa donare vellet, ego pure uxori donare vellem, non valet quod uxori iubeo dari, quia illo convalescente condictione teneor, mortuo autem nihilo minus pauperior sum . quod: quis ins. (Hal. cf. h.t. l. 4) (Mommsen in ed. maiore); teneor: teneo˹r˺

* 15. D. 35.2.16 (Lenel, Scaev. 146) Si ex pluribus rebus legatis heres quasdam solverit, ex reliquis Falcidiam plenam per doli exceptionem retinere potest etiam pro his, quae iam data sunt. 1. Sed et si una res sit legata, cuius pars soluta sit, ex reliquo potest plena Falcidia retineri.

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Quaestionum libri XX. Fragmenta se si consideri il calcolo delle spese compiute dalla moglie nel caso in cui il matrimonio sia durato molti anni, è necessario che vengano computate anche le spese compiute nell’anno immediatamente precedente il trasferimento del fondo.

14. D. 24.1.56 (Scaev. 145) Se tu volessi donarmi qualcosa a causa di morte, e io volessi donarlo a mia moglie senza condizioni, non ha validità ciò che io ordino venga dato a mia moglie, poiché se il donante guarisce, io sono tenuto con un’azione di ripetizione, se invece quello muore, io divento nondimeno più povero.

* 15. D. 35.2.16 (Lenel, Scaev. 146) Se tra più beni legati, l’erede ne abbia adempiuti alcuni, sui rimanenti può trattenere la piena quota stabilita dalla legge Falcidia attraverso l’eccezione di dolo anche in riferimento a queste cose che sono già state trasferite. 1. Tuttavia, anche se sia stato trasferito un solo bene, una parte del quale sia stata pagata, sul medesimo può essere trattenuta l’intera quota della legge Falcidia.

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Alessia Spina

Liber IV

[De tutelis (E. XXII)].

16. D. 26.2.31 (Lenel, Scaev. 147) Si pater exheredatae filiae tutores dederit et testamentum eius ruptum dicatur nato postumo, commodissimum est eosdem tutores pupillae dari ad petendam intestati hereditatem. l. 31 om. F1

[De furtis (E. XXIII)].

17. D. 13.1.18 (Lenel, Scaev. 148) Quoniam furtum fit, cum quis indebitos nummos sciens acceperit, videndum, si procurator suos nummos solvat, an ipsi furtum fiat. et Pomponius epistularum libro octavo ipsum condicere ait ex causa furtiva: sed et me condicere, si ratum habeam quod indebitum datum sit. sed altera condictione altera tollitur.

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Quaestionum libri XX. Fragmenta

Libro IV

[Sulle tutele (E. XXII)].

16. D. 26.2.31 (Lenel, Scaev. 147) Se il padre abbia nominato tutori alla figlia diseredata e il suo testamento sia stato dichiarato invalido per la nascita di un postumo, è assolutamente conveniente che vengano nominati i medesimi tutori alla pupilla, perché venga richiesta l’eredità del padre morto senza testamento.

[Sui furti (E. XXIII)].

17. D. 13.1.18 (Lenel, Scaev. 148) Dal momento che si commette furto quando qualcuno abbia ricevuto denaro indebitamente, essendone a conoscenza, occorre vedere, qualora il procuratore paghi con proprio denaro, se sia configurabile un furto nei suoi riguardi. E Pomponio, nel libro ottavo delle sue epistole, afferma che quello stesso può agire con un’azione di intimazione basata sul furto: ma anche io posso agire con un’azione di intimazione, se ho ratificato quanto sia stato indebitamente trasferito. Tuttavia, l’esperimento di un’azione di intimazione esclude l’esperimento dell’altra.

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Alessia Spina 18. D. 47.2.70 (Lenel, Scaev. 149) + D. 47.4.1.10, Ulp. 38 ad ed. (Lenel, Scaev. 342; Ulp. 1065) aut in qua usus fructus alienus est. Haec actio locum habet non tantum in rebus, quae in bonis fuerunt testatoris, sed et si heredis interfuit dolum malum admissum non esse, quo minus ad se perveniret. et ideo Scaevola plenius tractat et si eam rem subripuisset servus, quam defunctus pignori acceperat, hanc actionem honorariam locum habere: plenius enim causam bonorum hic accipimus pro utilitate. nam si in locum deficientis furti actionis propter servitutem hanc actionem substituit praetor, verisimile est in omnibus causis eum, in quibus furti agi potuit, substituisse. et in summa probatur hanc actionem et in rebus pigneratis et in rebus alienis bona fide possessis locum habere: idem et de re commodata testatori.

19. D. 47.6.6 (Lenel, Scaev. 150) Labeo putat, si coheres meus, quod furtum familia cuius fecisset, duplum abstulisset, me non impediri, quo minus dupli agam, eoque modo fraudem edicto fieri esseque iniquum plus heredes nostros ferre, quam ferremus ipsi. 1. Idem, si defunctus minus duplo abstulit, adhuc singulos heredes recte experiri. Scaevola respondit: verius puto partes eius heredes persecuturos, sed ut cum eo, quod defunctus abstulit, uterque heres non plus duplo ferat. eoque: Scaevola respondit eo? (Mommsen in app. crit.); eoque modo fraudem edicto fieri esseque (posseque F1) iniquum: cfr. BS (Dor.); ferremus: feremus F; idem: cfr. BS (Dor.); adhuc: adhu˹n˺c F2; Scaevola: saevola F; sed ut: (sic Hal. sed et F) cum eo … ; ferat: cfr. BS (Dor.).

[De operis libertorum (E. 140)].

20. D. 38.1.44 (Lenel, Scaev. 151) Si libertus moram in operis fecerit, fideiussor tenetur: mora fideiussoris nulla est. at in homine debito fideiussor etiam ex sua mora in obligatione retinetur.

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Quaestionum libri XX. Fragmenta 18. D. 47.2.70 (Lenel, Scaev. 149) + D. 47.4.1.10, Ulp. 38 ad ed. (Lenel, Scaev. 342; Ulp. 1065) o nella quale vi sia un usufrutto altrui. Questa azione ha luogo non soltanto sulle cose che erano presenti tra i beni del testatore, ma in tutti i casi in cui l’attività illecita dello schiavo avesse avuto per oggetto un bene di cui era interesse dell’erede che non gli fosse dolosamente impedito il conseguimento. E perciò Scevola tratta piuttosto ampiamente anche del caso in cui, se lo schiavo avesse sottratto quella cosa che aveva ricevuta in pegno dal defunto, ha luogo questa azione ‘onoraria’: dunque, più ampiamente accogliamo questa definizione di beni in base a un criterio di utilità, infatti se il pretore ha sostituito questa azione in luogo dell’azione di furto che non c’è a causa della schiavitù, è verosimile che egli in tutte le cause nelle quali avrebbe potuto agire con l’azione di furto, l’abbia sostituita, e nel complesso si prova che questa azione si applica anche nei beni pignorati e nelle cose altrui possedute in buona fede: ugualmente anche riguardo alle cose date in comodato al testatore. 19. D. 47.6.6 (Lenel, Scaev. 150) Labeone ritiene che, se il mio coerede, nel caso sia stato posto in essere un furto dagli schiavi del defunto, abbia ottenuto il doppio, a me non possa essere impedito di agire quanto meno per il doppio, e che in questo modo si aggiri l’editto, e che sia iniquo che i nostri eredi ottengano di più di quanto noi stessi otterremmo. 1. Ugualmente, se il defunto ha ottenuto meno del doppio, i singoli eredi giustamente muoveranno azione per raggiungere il limite del doppio. Scevola risponde in questi termini: ritengo più conforme al vero che gli eredi perseguano giudizialmente formulando richieste parziali, ma in maniera tale che, insieme a quello che il defunto ha ottenuto, ciascun erede non superi il limite del doppio.

[De operis libertorum (E. 140)].

20. D. 38.144 (Lenel, Scaev. 151) Se il liberto ha ritardato nella prestazione delle opere, il fideiussore è tenuto: il ritardo del fideiussore è nullo. Invece, se l’oggetto della prestazione consiste nel dare uno schiavo, il fideiussore nell’obbligazione è tenuto a rispondere anche per il suo ritardo.

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Alessia Spina

Liber V

[De bonorum possessione contra tabulas (E. 142)].

21. D. 28.3.18 (Lenel, Scaev. 152) Si qui heres institutus est a testatore adrogetur, potest dici satis ei factum, quia et antequam adoptetur, institutio in extraneo locum habebat. habebat: habebit F1

[De collatione bonorum (E. 144)].

22. D. 37.6.10 (Lenel, Scaev. 153) Si filius in potestate heres institutus adeat et emancipato petente bonorum possessionem contra tabulas ipse non petat, nec conferendum est ei: et ita edictum se habet. Scaevola: sed magis sentio, ut, quemadmodum pro parte hereditatem retinet iure eo, quod bonorum possessionem petere posset, ita et conferri ei debeat, utique cum iniuriam per bonorum possessionem patiatur. adeat et: F cum B, delet Naber: possis etiam de cretione cogitare (Krüger in app. crit.); scaevola: om. F1: cf. D. 3.5.8; sentio: senti F neque em. est: cfr. BS (Doroth.).

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Quaestionum libri XX. Fragmenta

Libro V

[Sul possesso dei beni contro il testamento (E. 142)].

21. D. 28.3.18 (Lenel, Scaev. 152) Se colui che è stato istituito erede sia arrogato dal testatore, può dirsi che l’atto sia sufficiente nel suo caso, poiché anche prima che fosse adottato l’istituzione aveva luogo nei confronti di un estraneo.

[Sulla collazione dei beni (E. 144)].

22. D. 37.6.10 (Lenel, Scaev. 153) Se un figlio in potestà istituito erede accetti l’eredità e, domandando il figlio emancipato il possesso dei beni contro il contenuto delle tavole testamentarie, egli stesso non lo chieda, non deve essere conferito: e così si esprime l’editto. Scevola: ma io piuttosto sono dell’avviso che, in qualunque modo in proporzione trattenga l’eredità in base a quel diritto per il quale può chiedere il possesso dei beni, così anche occorre fare la collazione dei beni, come se patisse un danno ingiusto attraverso il possesso dei beni.

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Alessia Spina [De coniungendis cum emancipato liberis eius (E. 146)].

23. D. 37.8.6 (Lenel, Scaev. 154) Si quis filium habens in potestate extraneum in nepotis locum quasi ex eo filio natum adoptet, mox filium emancipet, non iungetur hic nepos filio emancipato, quia desiit esse emancipato ex liberis. ex eo filio: ex eo filium F; desiit esse emancipato ex liberis: F cum B (Anon.)

[Si quid in fraudem patroni factum sit (E. 151)].

24. D. 38.5.7 (Lenel, Scaev. 155) [Ergo] si senatus consultum locum non habet, cessat Faviana, cum exigi possit. non habet cessat: F

* 25. D. 45.1.127; D. 50.17.88 (Lenel, Scaev. 156) Si pupillus sine tutoris auctoritate Stichum promittat et fideiussorem dedit, servus autem post moram a pupillo factam decedat, nec fideiussor erit propter pupilli moram obligatus: nulla enim intellegitur mora ibi fieri, ubi nulla petitio est. esse autem fideiussorem obligatum ad hoc, ut vivo homine conveniatur vel ex mora sua postea. enim: ins. D. l. gem.

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Quaestionum libri XX. Fragmenta [Sui casi in cui occorre congiungere l’emancipato e i suoi figli (E. 146)].

23. D. 37.8.6 (Lenel, Scaev. 154) Se qualcuno, avendo un figlio in potestà, adotterà un estraneo in luogo del nipote, come se fosse nato da quel figlio, e subito dopo emanciperà il figlio, questo nipote non sarà legato al figlio emancipato, poiché venne meno l’appartenenza ai ‘liberi’ dell’emancipato.

[Se qualcosa sia stata compiuta in frode del patrono (E. 151)].

24. D. 38.5.7 (Lenel, Scaev. 155) [Dunque,] se il senatoconsulto non ha luogo, cessa la Faviana, potendosi esigere l’obbligazione.

* 25. D. 45.1.127, D. 50.17.88 (Lenel, Scaev. 156) Se il pupillo promette lo schiavo Stico senza autorizzazione del tutore e ha dato un fideiussore, ma lo schiavo muore dopo un ritardo imputabile al pupillo, il fideiussore neppure a causa della mora del pupillo, sarà obbligato: infatti, si ritiene che non vi sia alcun ritardo là dove non vi sia alcuna pretesa processualmente proponibile. D’altra parte il fideiussore è obbligato a ciò, ad essere convenuto quando lo schiavo è vivo, o dopo a causa del proprio ritardo.

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Alessia Spina

Liber VI

[De testamentis (E. XXVI)].

26. D. 28.2.29 (Lenel, Scaev. 157) Gallus sic posse institui postumos nepotes induxit: “Si filius meus vivo me morietur, tunc si quis mihi ex eo nepos sive quae neptis post mortem meam in decem mensibus proximis, quibus filius meus moreretur, natus nata erit, heredes sunto”. 1. Quidam recte admittendum credunt, etiamsi non exprimat de morte filii, sed simpliciter instituat, ut eo casu valeat, qui ex verbis concipi possit. 2. Idem credendum est Gallum existimasse et de pronepote, ut dicat testator: “Si me vivo nepos decedat, tunc qui ex eo pronepos” et cetera. 3. Sed et si vivo filio iam mortuo pronepote, cuius uxor praegnas esset, testamentum faceret, potest dicere: “Si me vivo filius decedat, tunc qui pronepos”. 4. Num si et filius et nepos vivat, concipere “utrisque mortuis vivo se, tunc qui pronepos nasceretur?”. quod similiter admittendum est, ita sane, si prius nepos, deinde filius decederet, ne successione testamentum rumperetur. 5. Et quid si tantum in mortis filii casum conciperet? quid enim si aquae et ignis interdictionem pateretur? quid si nepos, ex quo pronepos institueretur, ut ostendimus, emancipatus esset? hi enim casus et omnes, ex quibus suus heres post mortem scilicet avi nasceretur, non pertinent ad legem Vellaeam: sed ex sententia legis Vellaeae et haec omnia admittenda sunt, ut ad similitudinem mortis ceteri casus admittendi sint.3 6. Quid si qui filium apud hostes habebat testaretur? quare non induxere, ut, si antea quam filius ab hostibus rediret quamvis post mortem patris decederet, tunc deinde nepos vel etiam adhuc illis vivis post mortem scilicet avi nasceretur, non rumperet? nam hic casus ad legem Vellaeam non pertinet. melius ergo est, ut in eiusmodi utilitate praesertim post legem Vellaeam, quae et multos casus rumpendi abstulit, interpretatio admittatur, ut instituens nepotem, qui sibi post mortem suus nasceretur, recte instituisse videatur, quibuscumque casibus nepos post mortem natus suus esset rumperetque praeteritus: atque etiam si generaliter, “quidquid sibi liberorum natum erit post mortem” aut “quicumque natus fuerit” sit institutus, si suus nasceretur. 7. Si eius, qui filium habeat et nepotem ex eo instituat, nurus praegnas ab hostibus capta sit ibique vivo pariat, mox ille post mortem patris atque avi redeat, utrum hic casus ad legem Vellaeam respiciat an ad ius antiquum aptandus sit, possitque vel ex iure antiquo vel ex Vellaea institutus non rumpere? quod quaerendum est, si iam mortuo filio pronepotem instituat redeatque mor-

3 Mommsen-Krüger, 824, nt. 3 esclude che la parte da ‘hi enim casus’ ad ‘admittendi sunt’ sia di Scevola: ‘non sunt Scaevolae’. Ritiene si tratti di una glossa anche Lenel 1889 II, 276 nt. 4.

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Quaestionum libri XX. Fragmenta

Libro VI

[Sui testamenti (E. XXVI)].

26. D. 28.2.29 (Lenel, Scaev. 157) Gallo così stabilì che i nipoti postumi possano essere istituiti: “Se mio figlio morirà quando io sarò ancora vivo, allora se da lui mi sarà nato o nata un nipote o una nipote dopo la mia morte, nei dieci mesi successivi a quelli in cui sia morto mio figlio, costoro siano eredi”. 1. Alcuni correttamente ritengono che, nonostante non vi sia espresso riferimento alla morte del figlio, ma semplicemente un’istituzione (dei nipoti postumi), si debba ammettere che essa sia valida nel caso in cui essa possa essere desunta dalle parole. 2. Si deve credere che Gallo abbia ritenuto lo stesso anche in riferimento al pronipote, laddove il testatore dica: “Se mio nipote muoia quando io sono ancora vivo, allora il pronipote che da lui sia nato ...” e via dicendo. 3. Tuttavia anche se, essendo vivo il figlio ma essendo già morto il pronipote, la cui moglie era incinta, facesse testamento, può dire: “Se mio figlio muoia essendo io vivo, allora, colui che è pronipote …”. 4. E forse, essendo vivi sia il figlio sia il nipote, si potrà adottare una formulazione “essendo morti entrambi quand’egli era ancora vivo, allora il pronipote che nascerà …”? E ciò allo stesso modo bisogna ammetterlo, così senza dubbio, se prima muoia il nipote e poi il figlio, affinché il testamento non venga invalidato dalla successione (del nipote al genitore premorto). 5. E che cosa accade se abbia pensato soltanto al caso della morte del figlio? Che cosa accade, infatti, se (il figlio) abbia subìto l’interdizione dall’acqua e dal fuoco? Che cosa accade se il nipote, rispetto al quale il pronipote sia stato istituito erede, come abbiamo spiegato, sia stato emancipato? Infatti, questi casi e tutti quelli in cui un erede proprio nasca appunto dopo la morte dell’avo, non si riferiscono alla legge Vellea: ma in base a quanto è prescritto dalla legge Vellea, anche tutte queste ipotesi devono essere ammesse, in modo che tutti gli altri casi devono essere ammessi a similitudine della morte. 6. Che dire se abbia testato chi aveva un figlio presso i nemici? Per quale ragione non decidere che, se il figlio sia morto prima che sia tornato dai nemici, ma tuttavia dopo la morte del padre, e poi allora il nipote nasca appunto dopo la morte dell’avo, o anche mentre quelli erano (entrambi) ancora vivi, il testamento non sia invalido? Infatti, questo caso non riguarda la legge Vellea. Dunque, è meglio che si ammetta un’interpretazione nel senso di siffatta utilità, soprattutto dopo la legge Vellea, che eliminò anche molti casi di invalidità, cosicché colui che abbia istituito il nipote, il quale dopo la sua morte nascesse quale erede suo, sembri averlo istituito correttamente, in qualunque caso in cui il nipote nato dopo la sua morte fosse un suo e, se preterito, invalidasse il testamento: e anche se in termini generali 89

Alessia Spina tuo. sed cum testamentum ab eo non rumpitur, nihil refert, utrum ex iure antiquo an ex lege Vellaea excludatur. 8. Forsitan addubitet quis, an istis casibus si nepos post testamentum nascatur vivo patre suo, deinde ex eo concipiatur, isque vivo patre deinde avo nascatur, an non potuerit heres institui, quia pater ipsius non recte institutus esset. quod minime est expavescendum: hic enim suus heres nascitur et post mortem nascitur. 9. Ergo et si pronepos admittetur, qui natus erit ex nepote postea vivo filio, atque si ex eo natus esset, adoptatur. 10. In omnibus his speciebus illud servandum est, ut filius dumtaxat, qui est in potestate, ex aliqua parte sit heres institutus: nam frustra exheredabitur post mortem suam: quod non esse necessario in eo filio, qui apud hostes est, si ibi decedat et in nepote certe et pronepote, quorum si liberi heredes instituantur, institutionem numquam exigemus, quia possunt praeteriri. 11. Nunc de lege Vellaea videamus. voluit vivis nobis natos similiter non rumpere testamentum. 12. Et videtur primum caput eos spectare, qui, cum nascerentur, sui heredes futuri essent. et rogo, si filium habeas et nepotem nondum natum tantum ex eo heredem instituas, filius decedat, mox vivo te nepos nascatur? ex verbis dicendum est non rumpi testamentum, ut non solum illud primo capite notaverit, si nepos, qui eo tempore instituatur, quo filius non sit, verum et si vivo patre nascatur: quid enim necesse est tempus testamenti faciendi respici, cum satis sit observari id tempus quo nascitur? nam etsi ita verba sunt: “Qui testamentum faciet, is omnis virilis sexus, qui ei suus heres futurus erit” et cetera. 13. Etiam si vovente vivo nascantur, sequenti parte succedentes in locum liberorum non vult rumpere testamentum: et ita interpretandum est, ut, si et filium et nepotem et pronepotem habeas, mortuis utrisque pronepos institutus succedens in sui heredis locum non rumpat. et bene verba se habent “si quis ex suis heredibus suus heres esse desierit” ad omnes casus pertinentia, quos supplendos in Galli Aquili sententia diximus: nec solum, si nepos vivo patre decedat, nec succedens pronepos avo mortuo rumpat, sed et si supervixit patri ac decedat, dummodo heres institutus sit aut exheredatus. 14. Videndum, num hac posteriore parte “si quis ex suis heredibus suus heres esse desierit, liberi eius” et cetera “in locum suorum sui heredes succedunt”, possit interpretatione induci, ut, si filium apud hostes habens nepotem ex eo heredem instituas, non tantum si vivo te filius decedat, sed etiam post mortem, antequam ab hostibus reversus fuerit, succedendo non rumpet: nihil enim addidit, quo significaret tempus: nisi quod, licet audenter, possis dicere vivo patre hunc suum heredem esse desisse, licet post mortem decedat, quia nec redit nec potest redire. 15. Ille casus in difficili est, si filium habeas et nepotem nondum natum instituas isque nascatur vivo patre suo ac mox pater decedat: non enim suus heres est tempore quo nascatur nec posteriori alii succedendo prohiberi videtur rumpere quam qui iam natus erit. denique et superiore capite ut liceat institui nondum natos, qui cum nascentur sui erunt, permitti, posteriore capite non permittit institui, sed vetat rumpi neve ob eam rem minus ratum esset, quod succedit. porro procedere debet, ut utiliter sit institutus: quod nullo iure potuit qui nondum natus erat. Iuliano tamen videretur duobus quasi capitibus legis commixtis in hoc quoque inducere legem, ne rumpantur testamenta. 16. Quaeremus tamen, cum recepta est Iuliani sententia, an, si nascatur nepos vivo patre suo, deinde emancipetur, sponte adire possit hereditatem. quod magis probandum est: nam emancipatione suus heres fieri non potuit. Gallus: gal˹lus˺ F2; postumos: posteamos Fa; proximis: proximis quibus om. F1; concipi: concipi‘t’ F2; possit (post concipi): possint F; pronepote (ante ut dicat): pronepote‘m’ F2; me (ante vivo nepos): om. F1; pronepote (post iam mortuo): nepote (W)? (Mommsen in app. crit.); ita sane, si rumperetur gloss. (Amann)? (Lenel in app. crit.); concipere: conciperet? (Mommsen in app. crit.); interdictionem pateretur: interdictione pateretur F2, interdictione peteretur F1; hi enim casus … admittendi sint: non sunt Scaevolae (cf. verb. u. 13 nam hic casus seq.) (Mommsen in app. crit.); hi enim casus … admittendi sint gloss. (Lenel in app. crit.); hostes (ante habebat): ˹h˺ostes F2; antea quam: ante‘a’quam F2; antea filius quam? (Mommsen in app. crit.); decederet: decederet F1, decederat F2; vel etiam adhuc illis vivis Scaevolae non esse vidit Goveanus: adiecta sunt ab eo, qui intellegeret nepotem filii ab hostibus capti item admittendum est, si

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Quaestionum libri XX. Fragmenta (si preveda) “qualunque dei miei discendenti sia nato dopo la mia morte” o “chiunque sarà nato”, se nascesse un erede suo, risulterebbe istituito. 7. Se la nuora, di colui che abbia un figlio e che istituisca un nipote da quello nato, sia stata catturata dai nemici quando era incinta e partorisca in prigionia, essendo vivo il testatore, e poi il nato dopo la morte del padre e dell’avo torni in patria, forse che questo caso riguardi la legge Vellea o debba essere adattato al diritto antico, e l’istituito possa non determinare l’invalidità del testamento o in base al diritto antico o in base alla Vellea? Domanda che occorre porsi, se, già morto il figlio, istituisca il pronipote e questi ritorni in patria una volta morto (il nipote). Ma poiché il testamento non è da lui invalidato, non importa se lo si debba escludere in base al diritto antico o alla legge Vellea. 8. Forse qualcuno potrebbe dubitare che in codesti casi, se il nipote nasca successivamente alla redazione del testamento, essendo vivo il proprio padre, e poi da lui sia concepito (un pronipote) e questi nasca quando era in vita il padre, ma defunto l’avo, forse che non potrebbe essere istituito erede, poiché il padre di lui (il nipote del de cuius) non avrebbe potuto correttamente essere istituito erede. Cosa che non è minimamente da temere: infatti egli nasce erede proprio e nasce dopo la morte (di suo padre, ma non dell’avo, figlio del de cuius). 9. Quindi, sarà ammesso anche quel pronipote che sarà poi nato dal nipote essendo in vita il figlio, e da questi adottato come se fosse nato da lui. 10. In tutte queste fattispecie, ciò deve essere preservato, che soltanto il figlio che è in potestà sia istituito erede per una certa quota: infatti, invano verrà diseredato dopo la sua morte: ciò non deve avvenire necessariamente nei riguardi di quel figlio che sia presso i nemici, se muoia in prigionia, e certamente neppure nei riguardi del nipote e del pronipote, dei quali, se i loro discendenti siano istituiti erede, non esigeremo mai l’istituzione, poiché possono essere preteriti. 11. Ora consideriamo la legge Vellea. Essa volle che, similmente, i nati essendo noi in vita non invalidassero il testamento. 12. E il primo capitolo sembra riguardare coloro che, nascendo, diventeranno eredi propri. E domando, che cosa accada qualora tu abbia un figlio e istituisca erede soltanto un nipote non ancora da lui nato, il figlio muoia e subito dopo, essendo ancora tu vivo, nasca il nipote? In base alle parole, occorre ammettere che il testamento non sia invalidato, poiché nel primo capitolo non soltanto è indicato che il nipote sia istituito erede in quel momento nel quale il figlio non ci sia più, ma anche che nasca essendo vivo il padre: che necessità vi è, infatti, di rivolgere l’attenzione al momento della redazione del testamento, essendo sufficiente che venga osservato quel momento in cui nasce (il discendente istituito erede)? Infatti, d’altra parte, così sono le parole: “Colui che farà testamento, (dovrà indicare) tutti i discendenti di sesso maschile, che saranno suoi eredi propri”, e così proseguendo. 13. Nella parte successiva la legge non vuole che, anche se nascano quando il loro genitore è ancora vivo, i successori dei figli invalidino il testamento: e così deve essere interpretato, che, se tu abbia un figlio, e un nipote, e un pronipote, morti entrambi (i primi) il pronipote istituito, succedendo in luogo di un erede proprio, non si invalidi il testamento. E le parole “Se qualcuno degli eredi propri abbia cessato di essere erede proprio”, bene si adattano a tutti i casi che abbiamo detto debbano completare il parere di Aquilio Gallo: non si invalida il testamento non soltanto se il nipote muoia essendo vivo il padre e il pronipote gli succeda alla morte dell’avo, ma anche se il nipote sia sopravvissuto al padre e poi muoia (prima del testatore) purché sia stato istituito erede o diseredato. 14. Bisogna vedere se dalla successiva parte “se qualcuno tra gli eredi suoi abbia cessato di essere erede suo, i suoi discendenti …” e così via “in luogo dei suoi succedono come eredi propri” si possa dedurre attraverso l’interpretazione, che, se tu, avendo un figlio in prigionia, istituisca erede il nipote da lui nato, non soltanto se tuo figlio muoia essendo tu vivo, ma anche dopo la tua morte, prima di rien91

Alessia Spina natus esset non post mortem patris avique, quod posuerat Scaevola, sed utroque superstite; illis vivis] illo vivo scr. (Lenel in app. crit.); non (ante rumperet): om. F1; melius: mulius F1, et mulius F2; interpretatio: interpr‘a’etatio F2; admittatur: admittetur F; instituens: instituet F1; qui (ante sibi): que F1; ante si suus: recte ita videatur institutus ins. (Mommsen in app. crit.); si suus: sit suos F1; § 7 suo loco videtur mota esse (Amann) (Lenel in app. crit.); vivo gloss.? (Lenel in app. crit.); nurus: rugnus F1; pariat: pareat F1; mox ille … redeat: B (Tipuc.); mox ille … redeat: firmant B: ibique vivo avo pariat post mortem patris, mox ille post avi redeat (hic enim suus fit aut eo tempore quo nascitur avo vivo, ut possit institui ex Vellaea, aut eo tempore quo redit avo mortuo, ut possit institui ex iure antiquo)? (Mommsen in app. crit.); an ad ius: om. F1; Vellaea (ante institutus): vellea‘t’ F2; quod (ante quaerendum est): item ins. (Mommsen in app. crit.); quod quaerendum est …: sic intellege; quod … mortuo] non videntur huic loco haec convenire; ceterum depravatam esse lectionem facile perspicis (Lenel in app. crit.); excludatur: del. Mommsen in app. crit.; vivo patre deinde avo: vivo patre defuncto avo, deinde patre, deinde proavo? (Mommsen in app. crit.); quia (ante pater): quea F1; pater (ante ipsius): pat˹e˺r F2; ergo et seq.: B (Tipuc.): perverse sane, sed ut appareat Graecos legisse qui adoptatur, non ex nepote adoptato; adoptatur: firmant Graeci: adoptato (Francke)? (Mommsen in app. crit.); speciebus: speciebes F1; ut (ante filius): ut F1, ut et F2; quo id non esse necessario in eo F1, quod id non est necesse in eo F2; nunc: nune F1; spectare: spectare‘t’ F2; nascerentur: noscerentur F1; verum et si vivo patre nascatur: Tipucitus cum pro §§. 11.12 haec tantum habeat: Graeci videntur verba haec Cuiaciana ratione aut legisse aut emendasse; nascatur (post patre): gloss. (Lenel in app. crit.); verba (ante sunt): ver˹b˺a Fb; § 12 tota pessumdata ita fere scripta fuit: (Mommsen in app. crit.); si vovente vivo: si ‘vovente’ parente vivo Fb; etiamsi vivente te parente vivo nascantur? sed videntur haec ipsa postea adiecta esse (Mommsen in app. crit.); nascantur: F2, nascatur F1; vult: vult lex F2; intepretandum: interpr‘a’etandum F2; utrisque (ante pronepos): ut˹r˺i˹s˺que pro˹ne˺pos F2; bene: vene F1; nec solum seq.: haec puto defendi posse interpretatione tali: nec solum locum habent verba illa, si nepos vivo patre decedat, deinde pater, et pronepos, nisi succederet, avo mortuo testamentum rupturus esset, sed et si nepos supervixit patri ac decedat: dummodo pronepos heres institutus sit aut exheredatus; nec solum, si nepos … aut exheredatus (deletis verbis nec succedens … rumpat ab interprete quodam adiectis) videntur transferenda esse post verba praecedentia in sui heredis locum non rumpat (Lenel in app. crit.); institutus (post dummodo heres): institutos F1; hac: ac F; succedunt: succedunto (Hal.)? (Mommsen in app. crit.); interpretatione: interpr‘a’etatione F2; dicere (ante vivo patre): decere F1; ante nisi quod: tale quid desideratur: sed vix putaverim, cum cogitaverit omnino de eo, qui suus heres esse desiit vivo testatore (Mommsen in app. crit.); si (post in difficili est): om. F1; suus (ante heres est): suum F1; nascatur (ante nec): F1, nascitur F2; posteriori alii: posteriore capite? (Mommsen in app. crit.); posteriore (ante capite): poste‘a’riore F2; permitti: permittit et? (Mommsen in app. crit.); porro: proro F1; quaeremus: qu˹a˺eremus F2; Iuliani: iuliano Fa; nam (ante emancipatione): ex ins. Mommsen in app. crit.; nam … potuit gloss.? (Lenel in app. crit.).

27. D. 28.3.19 (Lenel, Scaev. 158) Si ego et Titius instituti simus et a nobis postumus exheredatus sit, a substitutis nostris non sit exheredatus, Titio defuncto ne ego quidem adire potero: iam enim propter instituti personam, a quo postumus exheredatus est, in cuius locum substitutus vocatur, a quo postumus exheredatus non est, ruptum est testamentum. 1. Sed si ego et Titius invicem substituti simus, quamvis in partem substitutionis exheredatus non sit, mortuo vel repudiante Titio me posse adire puto et ex asse heredem esse. 2. In prima tamen specie et si vivat Titius, neque ego sine illo neque ipse sine me adire poterit, quia incertum est, an adhuc altero omittente rumpatur testamentum: itaque simul adire possumus. et ea: et i F1; exheredatus (ante sit): exhereditus F1; neque: F2, neqoae Fa, nequae Fb.

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Quaestionum libri XX. Fragmenta trare dalla prigionia, il testamento non è invalido, in forza della successione: nulla infatti aggiunge quanto all’indicazione del momento: se non che, sebbene audacemente tu possa dire che questo abbia cessato di essere erede proprio quando era in vita il padre, nonostante sia deceduto dopo la sua morte, poiché non è tornato né può tornare. 15. Suscita difficoltà il caso in cui, se hai un figlio e istituisci un nipote non ancora nato, e questo nasca essendo vivo suo padre, e subito dopo il padre muoia: infatti non è erede suo nel momento in cui è nato e succedendo in luogo del padre sembra evitare l’invalidità quanto colui che fosse già nato. Pertanto, anche nel primo capitolo si dispone che sia lecito che siano istituiti i nipoti non ancora nati, che, nascendo, saranno eredi suoi; nel capitolo successivo non si dispone che siano istituiti, ma si vieta che il testamento sia invalidato e che per questo motivo la successione non produca i suoi effetti. D’altra parte, si deve fare in modo che venga validamente istituito chi ancora non era nato, cosa che non si sarebbe potuta ottenere in base ad alcun diritto. Tuttavia, a Giuliano sembra come se i due capitoli della legge fossero mescolati in modo tale che la legge induca a ritenere che anche in questo caso il testamento non sia invalido. 16. Tuttavia, domanderemo se, essendo stato recepito il parere di Giuliano, qualora il nipote nasca essendo vivo suo padre e venga poi emancipato, possa accettare l’eredità spontaneamente. Il che deve essere preferibilmente approvato: infatti, non è potuto diventare erede proprio a causa dell’emancipazione.

27. D. 28.3.19 (Lenel, Scaev. 158) Se io e Tizio siamo stati istituiti eredi e un postumo sia stato diseredato nei nostri confronti, mentre non sia stato diseredato nei confronti dei nostri sostituti, morto Tizio, nemmeno io potrò accettare l’eredità: infatti, a causa della persona dell’istituito, nei cui riguardi il postumo è stato diseredato, al posto del quale è stato chiamato all’eredità il sostituito, nei cui confronti il postumo non è stato diseredato, il testamento è già invalido. 1. Ma se io e Tizio siamo stati vicendevolmente sostituiti, sebbene (il postumo) non sia stato diseredato in riferimento alla sostituzione, essendo morto o rinunciante Tizio, io ritengo di potere accettare l’eredità e di essere erede per l’intero. 2. Tuttavia, nella prima fattispecie, anche se viva Tizio, neppure io senza di quello ed egli stesso senza di me potrà accettare, poiché è incerto se persino per l’omissione dell’altro il testamento sia invalido: perciò possiamo accettare assieme. 93

Alessia Spina 28. D. 35.2.17 (Lenel, Scaev. 159) Si post missionem faciat codicillos miles et intra annum decedat, ex testamento, quod in militia iure militari fecit, plena legata, ex codicillis habita Falcidiae ratione praestari debere dicitur. sed res ita expedietur: si, cum quadringenta haberet, testamento quadringenta, codicillis centum legaverit, ex quinta parte, id est octoginta, quae ad legatarium ex codicillis pervenirent, si Falcidiam non pateretur, quartam, id est viginti heres retinebit.

Liber VII

[Deest]

Liber VIII

[De legatis et fideicommissis (E. XXVII) 1.]

29. D. 29.7.14 (Lenel, Scaev. 160) Quidam referunt, quantum repeto apud Vivianum, Sabini et Cassii et Proculi expositam esse in quaestione huiusmodi controversiam: an legata, quae posteaquam instituti mortem obierunt codicillis adscripta vel adempta sunt, a substitutis debeantur, id est an perinde datio et ademptio etiam hoc tempore codicillis facta valeat ac si testamento facta esset. quod Sabinum et Cassium respondisse aiunt Proculo dissentiente. nimirum autem Sabini et Cassii collectio, quam et ipsi reddunt illa est, quod codicilli pro parte testamenti habentur observationemque et legem iuris inde traditam servent. ego autem ausim sententiam Proculi verissimam dicere. nullius enim momenti est legatum, quod datum est ei, qui tempore codicillorum in rebus humanis non est, licet testamenti fuerit: esse enim 94

Quaestionum libri XX. Fragmenta 28. D. 35.2.17 (Lenel, Scaev. 159) Se dopo il congedo un soldato rediga codicilli ed entro un anno muoia, si dice che, in forza del testamento che fece durante il servizio per diritto militare, debbano essere prestati i legati interi, mentre in base ai codicilli debbano essere prestati applicando il calcolo della Falcidia. Ma la cosa così sarà spiegata: se avendo quattrocento, con il testamento ne abbia legati quattrocento, con i codicilli cento, sulla quinta parte, cioè ottanta, che perverrebbero al legatario in base ai codicilli, se non dovesse subire il calcolo della Falcidia, l’erede tratterrà la quarta parte, cioè venti.

Libro VII

[Mancante]

Libro VIII

[Sui legati e fedecommessi (E. XXVII) 1.]

29. D. 29.7.14 (Lenel, Scaev. 160) Alcuni riferiscono, quanto ricordo di aver letto in Viviano, che in una discussione era stata esposta una contesa tra Sabino e Cassio e Proculo, di questo tenore: se siano dovuti dai sostituti i legati che, dopo che gli istituiti morirono, furono aggiunti o revocati nei codicilli, cioè se l’aggiunta e la revoca compiute in questo momento nei codicilli valga come se compiute nel testamento. Dicono che così abbiano risposto Sabino e Cassio, mentre Proculo era dell’opinione opposta. Certamente, d’altra parte, la conclusione di Sabino e di Cassio, che anche quegli stessi (giuristi) riproducono, è la seguente, che i codicilli sono considerati come parte del testamento e preserveranno il rispetto e la regola di diritto che dal testamento deriva. 95

Alessia Spina debet cui detur, deinde sic quaeri, an datum consistat, ut non ante iuris ratio quam persona quaerenda sit. et in proposito igitur quod post obitum heredis codicillis legatum vel ademptum est, nullius momenti est, quia heres, ad quem sermonem conferat, in rebus humanis non est eaque ademptio et datio nunc vana efficietur. haec in eo herede, qui ex asse institutus erit dato substituto, ita ut ab instituto codicilli confirmarentur. 1. Quod si duo instituti sint substitutis datis unusque eorum decesserit, utilia videntur legata: sed circa coheredem erit tractatus, numquid totum legatum debeat, si “quisquis mihi heres erit” legatum erit, an vero non, quia sit substitutus heres, qui partem faciat, licet ipse non debeat. idem etiam potest circa nomina expressa tractari. multoque magis solum coheredem totum debere puto, quia is adiunctus sit, qui etiam tunc cum adiungebatur in rebus humanis non erat. o˹b˺servationemque Fb; post om. F1; efficiatur Fa; institus F; conmirmarentur Fa; expr‘a’essa‘t’ F2

30. D. 33.4.10 (Lenel, Scaev. 161) Si Seiae pro dote centum fundus legatus sit idemque Maevio: quod Maevio Falcidia aufert, pro eo quasi concursus non fuerit, mulier plus vindicet, quia amplius sit in dote mulieris. fundus: quinquaginta ins. (Menge: l excidit ante legatus)

31. D. 33.8.21 (Lenel, Scaev. 161) Si Sticho manumisso peculium legatum sit et Titio servus peculiaris, quantum peculio detractum erit ob id quod domino debetur, tantum ei accedere, cui vicarius legatus est, Iulianus ait.

32. D. 35.1.80 (Lenel, Scaev. 162) Eas causas, quae protinus agentem repellunt, in fideicommissis non pro condicionalibus observari oportet: eas vero, quae habent moram cum sumptu, admittemus cautione oblata: nec enim parem dicemus eum, cui ita datum sit, si monumentum fecerit, et eum, cui datum est, ut monumentum faciat. non: non del. (dett. quidam); eas causas] non aliter videntur legisse Graeci: ἐὰν ληγατεύσω σοι ἐπὶ τῷ μνημεῖόν μοι ποιῆσαι, οὐκ ἔστιν αἱρετικόν· εἰ δὲ ληγατεύσω, ἐὰν ποιήσῃς μοι μνημεῖον, ἔστιν αἱρετικόν B (Tip.); non pro condicionalibus] FDEICK. habeas ‘non’: sed alias deest ‘non’ Accursius | habent] FDEICK, non habent C faciat] FDEICK

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Quaestionum libri XX. Fragmenta Io, però, oserei dire che il parere di Proculo è verissimo. Infatti è privo di qualunque valore il legato che sia stato dato a colui il quale, al momento della redazione dei codicilli, non si trovava più nella realtà umana, sebbene lo fosse al momento della redazione del testamento: deve infatti esserci colui al quale viene dato, e poi deve domandarsi se il bene dato esista, cosicché la ragione giuridica non debba essere cercata prima della persona. E nel caso proposto, dunque, ciò che è stato legato o revocato con codicilli dopo la morte dell’erede non ha alcun valore, poiché l’erede al quale si riferisce la clausola non è più nella dimensione umana, e quella revoca e l’aggiunta risultano ora vane. Ciò vale nei riguardi di quell’erede che sia stato istituito per l’intero essendogli stato dato un sostituto, in maniera tale che i codicilli fossero confermati a carico dell’istituito. 1. Perché, se due siano stati istituiti, essendo stati dati due sostituti, e uno solo di loro muoia, i legati sembrano efficaci: ma riguardo al coerede si discuterà se debba tutto quanto il legato, come se sia stato legato con la formula ‘chiunque sia mio erede’, o se invece non sia dovuto, poiché vi è un erede sostituito, che si assume una parte di eredità, sebbene non sia gravato in prima persona. Allo stesso modo si può discutere anche circa i nomi espressi. E tanto più ritengo che il solo coerede debba il legato intero, poiché gli è stato aggiunto colui che, anche allora, mentre veniva aggiunto, non era più nel mondo umano. 30. D. 33.4.10 (Lenel, Scaev. 161) Se a Seia sia stato legato un fondo al posto di una dote di cento e il medesimo fondo sia stato legato a Mevio, ciò che a Mevio la Falcidia porta via, come se per esso non ci fosse un concorso, la donna lo potrebbe rivendicare in più, poiché vi è di più nella dote della donna.

31. D. 33.8.21 (Lenel, Scaev. 161) Se a Stico, manomesso, sia stato legato il peculio, e a Tizio un servo peculiare, Giuliano dice che quanto verrà distratto dal peculio a cagione di ciò che sia dovuto al padrone, tanto si aggiungerà a colui al quale è stato legato lo schiavo vicario. 32. D. 35.1.80 (Lenel, Scaev. 162) Quelle clausole, che impediscono di agire immediatamente, nei fedecommessi non è necessario che vengano osservate alla stregua di condizioni: invero, quelle che possono determinare una mora e una conseguente spesa, le ammettiamo previa cauzione: infatti, non diciamo che colui al quale sia stato dato un lascito alla condizione ‘se avrà fatto un monumento’ sia in una situazione uguale a quella di colui al quale sia stato dato ‘affinché faccia un monumento’.

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Alessia Spina 33. D. 35.2.19 (Lenel, Scaev. 163) Si dignum decem fundum damnetur heres quinque vendere, sine dubio quinque erunt imputanda Falcidiae. dignu‘s’m Fb

Liber IX

[De legatis et fideicommissis (E. XXVII) 2.]

34. D. 35.2.20 (Lenel, Scaev. 164) Si a servo meo herede instituto mihi legetur et mihi adquiratur hereditas, negat Maecianus id legatum in Falcidia computari, quia non debeatur.

Liber X

[De legatis et fideicommissis (E. XXVII) 3.]?

35. D. 28.6.10.6, Ulp. 4 ad Sab. (Lenel, Scaev. 165; Ulp. 2456) In adrogato quoque impubere dicimus ad substitutum eius ab adrogatore datum non debere pertinere ea, quae haberet, si adrogatus non esset, sed ea sola, quae ipse ei dedit adrogator: nisi forte distinguimus, ut quartam quidem, quam omnimodo ex rescripto divi Pii debuit ei relinquere, substitutus habere non possit, superfluum habeat. Scaevola tamen libro decimo quaestionum putat vel hoc adrogatori permittendum, quae sententia habet rationem. ego etiam amplius puto et si quid beneficio 98

Quaestionum libri XX. Fragmenta 33. D. 35.2.19 (Lenel, Scaev. 163) Se un erede viene obbligato a vendere a cinque un fondo che vale dieci, senza dubbio cinque saranno imputati alla Falcidia.

Libro IX

[Sui legati e fedecommessi (E. XXVII) 2.]

34. D. 35.2.20 (Lenel, Scaev. 164) Se dal mio servo istituito erede mi è stato destinato un legato e mi è stata aggiunta l’eredità, Meciano nega che quel legato sia computato nella Falcidia, poiché non è dovuto.

Libro X

[Sui legati e fedecommessi (E. XXVII) 3.]?

35. D. 28.6.10.6, Ulp. 4 ad Sab. (Lenel, Scaev. 165; Ulp. 2456) Anche nei riguardi dell’arrogato impubere, diciamo che al suo sostituito, nominato dall’arrogatore, non devono spettare quelle cose che (l’impubere) avrebbe avuto se non fosse stato arrogato, ma quelle sole cose che lo stesso arrogatore gli diede; a meno che forse non facciamo una distinzione, che il sostituito non possa avere la quarta, che (l’arrogatore) avrebbe dovuto in ogni caso lasciare (all’arrogato) in forza del rescritto del divo Pio, (ma) abbia tutto 99

Alessia Spina adrogatoris adquisiit, et haec substitutum posse habere, ut puta adrogatoris amicus vel cognatus ei aliquid reliquit.

Liber XI

[De usucapione].

36. D. 41.3.10.2 + D. 50.16.26, Ulp. 16 ad ed. (Lenel, Scaev. 166; Marcell. 195; Ulp. 574) Scaevola libro undecimo quaestionum scribit Marcellum existimasse, si bos apud furem concepit vel apud furis heredem pariatque apud furis heredem, usucapi ab herede distractum iuvencum non posse: sic, inquit, quemadmodum nec ancillae partus. Scaevola autem scribit se putare usucapere posse et partum: nec enim esse partum rei furtivae partem. ceterum si esset pars, nec si apud bonae fidei emptorem peperisset, usucapi poterat.

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Quaestionum libri XX. Fragmenta il resto. Scevola, tuttavia, nel libro decimo delle questioni, ritiene che anche ciò all’arrogatore deve essere permesso, e questo parere ha un fondamento. Io sostengo ancora di più che, se abbia acquistato qualcosa anche grazie all’arrogatore, che il sostituito possa avere anche queste cose, come per esempio se un amico o un parente dell’arrogatore gli lasciò qualcosa.

Libro XI

[Sull’usucapione].

36. D. 41.3.10.2 + D. 50.16.26, Ulp. 16 ad ed. (Lenel, Scaev. 166; Marcell. 195; Ulp. 574) Scevola, nel libro XI delle questioni scrive che Marcello aveva ritenuto che, se la vacca concepì presso il ladro o presso l’erede del ladro e partorisca presso l’erede del ladro, il giovenco separato dall’erede non può essere usucapito: così – disse – allo stesso modo neppure il parto della schiava. Scevola, invece, scrive di ritenere si possa usucapire anche il parto: infatti, il parto non è parte della cosa rubata. Del resto, se fosse parte, neppure se avesse partorito presso il compratore di buona fede, avrebbe potuto essere usucapito.

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Alessia Spina

Liber XII

[De confessis et indefensis (E. 202)]?

37. D. 10.2.37 (Lenel, Scaev. 167) Qui familiae erciscundae iudicio agit, ne confitetur adversarium sibi esse coheredem. confitetur] ὁμολογεῖ τὸν ἀντίδικον αὐτοῦ συγκληρονόμον εἶναι B, non confitetur libri nostri omnino male, cum praesertim lex haec non casu, sed consilio collocata sit, post locum Pauli negantem consistere iudicium familiae erciscundae nisi inter coheredes acceptum; sic sec. Bas., non confitetur F (Lenel in app. crit. e Krüger)

38. D. 45.1.129 (Lenel, Scaev. 168) Si quis ita stipulatus fuerit: “decem aureos das, si navis venit et Titius consul factus est?” non alias dabitur, quam si utrumque factum sit. idem in contrarium: “dare spondes, si nec navis venit nec Titius consul factus sit?” exigendum erit, ut neutrum factum sit. huic similis scriptura est: “si neque navis venit neque Titius consul factus est?” at si sic: “dabis, si navis venit aut Titius consul factus sit?” sufficit unum factum. et contra: “dabis, si navis non venit aut Titius consul factus non est?” sufficit unum non factum. naves F1; naves F1 – huic similis … factus est aut delenda sunt aut corrupta (Mommsen in app. crit. ed. maioris; Lenel in app. crit.)

39. D. 39.2.45 (Lenel, Scaev. 169) a quo fundus petetur si rem nolit Aedificatum habes: ago tibi ius non esse habere: non defendis. ad me possessio transferenda est, non quidem ut protinus destruatur opus (iniquum enim est demolitionem protinus fieri), sed ut id fiat, nisi intra certum tempus egeris ius tibi esse aedificatum habere. a quo fundus petetur si rem nolit: del. Fb; ˹e˺geris Fb; post tempus: rerum actum Scaev.? (Hartmann-Ubbelohde) Lenel in app. crit.; certum tempus: Iust.? (Hartmann) (Krüger in editione min.).

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Quaestionum libri XX. Fragmenta

Libro XII

[Su coloro che hanno confessato e coloro che non si sono difesi (E. 202)]?

37. D. 10.2.37 (Lenel, Scaev. 167) Colui che agisce con il giudizio di divisione dell’eredità, riconosce che l’avversario sia il suo erede.

38. D. 45.1.129 (Lenel, Scaev. 168) Se qualcuno abbia così promesso: “dai dieci aurei, se la nave arriva e Tizio è stato eletto console?” Non altrimenti sarà dato che se non si verificano entrambi gli eventi. Lo stesso nel caso contrario: “prometti di dare, se la nave non arriva e Tizio non sia eletto console?”. Si dovrà esigere che nessuno dei due eventi si sia verificato. Simile a questa è la clausola: “se né la nave arriva né Tizio sia eletto console?” Ma se è così: “darai, se la nave arriva o Tizio sia eletto console?”, è sufficiente che si verifichi un solo evento. E, al contrario: “darai, se la nave non arriva o Tizio non è eletto console?”, è sufficiente che uno solo dei due eventi non si verifichi.

39. D. 39.2.45 (Lenel, Scaev. 169) dal quale il fondo è domandato se non voglia il bene. Hai un edificio: io agisco contro di te per impedire il diritto di averlo: tu non ti difendi. A me deve essere trasferito il possesso, non certamente perché la costruzione sia distrutta (infatti è iniquo che avvenga subito la demolizione), ma perché accada ciò, se tu entro un termine fissato non abbia agito per affermare il diritto ad avere l’edificio.

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Alessia Spina

Liber XIII

[Quod cum pupillo contractum erit … (E. 203)].

40. D. 26.9.7 (Lenel, Scaev. 170) Tutori, qui infantem defendit, succurritur, ut in pupillum iudicati actio detur.

[Cui heres non extabit (E. 207)]?

41. D. 33.5.18 (Lenel, Scaev. 171) Homine legato Neratius ait nihil agi repudiato Pamphilo itaque eum ipsum eligi posse.

[Si suus heres erit (E. 209)].

42. D. 29.2.89 (Lenel, Scaev. 172) Si pupillus se hereditate abstineat, succurrendum est et fideiussoribus ab eo datis, si ex hereditario contractu convenirentur. conveniantur F2

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Quaestionum libri XX. Fragmenta

Libro XIII

[Se sia stato concluso un contratto con un minore … (E. 203)].

40. D. 26.9.7 (Lenel, Scaev. 170) Al tutore, che difende l’infante, si viene in soccorso, così che l’azione di giudicato sia data nei riguardi del pupillo.

[Se non vi sia un erede (E. 207)]?

41. D. 33.5.18 (Lenel, Scaev. 171) Previsto il legato di uno schiavo, Nerazio dice che ripudiato Pamfilo non si compie nulla e così proprio quello stesso può essere scelto.

[Se vi sia un erede in potestà (E. 209)].

42. D. 29.2.89 (Lenel, Scaev. 172) Se il pupillo si astiene dall’eredità, occorre andare in soccorso anche dei fideiussori dati dal pupillo, se fossero convenuti con il contratto ereditario.

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Alessia Spina [De exceptione litis dividuae (E. 270)].

43. D. 46.8.4 (Lenel, Scaev. 173) Procurator quinquaginta petit: si dominus centum petat, tenebuntur fideiussores, qui de ratihabitione caverunt, in quinquaginta et quanti interfuit differri quinquaginta actionem. quinquag‘e’inta Fb; et quanti interfuit differri quinquaginta om. F1; sponsores Scaev. (Lenel in app. crit.) scil. propter exceptionem litis dividuae, quae obstitisset domino, si ratum habuisset (Lenel in app. crit.).

[De stipulationibus (E. XLV)].

44. D. 45.1.131 + D. 45.1.133 (Lenel, Scaev. 174 + 175) Iulianus scripsit, si “neque per te neque per heredem tuum Titium fieri, quo minus mihi ire liceat” stipuler, non solum Titium teneri, si prohibeat, sed etiam coheredes eius. 1. Qui fundum sibi aut Titio dari stipulatur, quamvis fundus Titio traditus sit, nihilo minus petere fundum potest, ut sibi de evictione promittatur: nam interest eius, quia mandati actione fundum recepturus sit a Titio. sed si donationis causa Titium interposuit, dicetur traditione protinus reum liberari. fieri] fieret FXMb; promittetur F1; quia] F1, qui F2

Si sic stipulatus sim: “neque per te neque per heredem tuum vim fieri spondes?” et egi, quod mihi vim feceris, recte remanere factum heredis in stipulatione. nam et ex ipsius posteriore vi potest committi stipulatio: non enim ad unam vim pertinet. nam sicut et ipsius et heredis caput, ita ipsius vis vel saepius facta complectitur, ut condemnetur quanti interest. aut si sic volumus factam esse stipulationem: “neque per te neque per heredem tuum fieri?”, ut ad unam vim primam teneat: si vim fecerit, amplius ex heredis committi non poterit: ergo si actum sit quasi ex ipsius vi, tota consumpta sit: quod non est verum. e˹g˺i F2; heredi˹s˺ F2; tuta F1; complectitur: nam sicut et ipsius et heredis capit, ita ipsius vel saepius factam complectitur (similiter Hal.)? (Mommsen in app. crit. ed. maioris); sit: erit? (Mommsen in app. crit. ed. maioris)

45. D. 45.3.19 (Lenel, Scaev. 176) Si alienus servus duobus bonae fidei serviens ex unius eorum re adquirat, ratio facit, ut ei ex cuius re adquisiit id totum ei adquirat, sive ei soli sive quasi duobus serviat: nam et in veris dominis quotiens utrique adquiritur, totiens partes adquiri: ceterum si alii non adquiratur, alium solidum habiturum. igitur eadem ratio erit et in proposito, ut hic servus alienus, qui mihi et tibi 106

Quaestionum libri XX. Fragmenta [Riguardo all’eccezione di lite divisa (E. 270)].

43. D. 46.8.4 (Lenel, Scaev. 173) Il procuratore ha domandato cinquanta: se il padrone domanda cento, i fideiussori, che garantirono della ratifica, saranno tenuti ai cinquanta e all’interesse al differimento dell’azione per (i residui) cinquanta.

[Riguardo alle stipulazioni (E. XLV)].

44. D. 45.1.131 + D. 45.1.133 (Lenel, Scaev. 174 + 175) Giuliano scrisse che, se prometterà che “né per parte tua, né per parte del tuo erede Tizio si faccia in modo di impedirmi di passare”, non soltanto è tenuto Tizio, qualora lo proibisca, ma anche i suoi coeredi. 1. Colui che ha stipulato che il fondo sia dato a sé o a Tizio, sebbene il fondo sia stato consegnato a Tizio, nondimeno può richiedere il fondo, perché gli si garantisca per l’evizione: infatti è suo interesse, poiché riceverà il fondo da Tizio con l’azione di mandato. Tuttavia, se abbia interposto Tizio a causa della donazione, si dice che con la consegna subito il promittente è liberato. Se così si è promesso: “prometti che né per parte tua, né per parte del tuo erede avverrà violenza?”. E ho agito, poiché avevi fatto violenza nei miei riguardi, correttamente il fatto dell’erede rimane nella stipulazione? Infatti la stipulazione può essere resa esecutiva dalla violenza commessa dall’erede dello stesso. Non si riferisce certamente a una sola violenza. Infatti, come è compreso sia la persona dello stipulante stesso, sia il suo erede, così è compresa la violenza dello stesso o quella compiuta più frequentemente, perché si condanni al quanto interessa. O se vogliamo che la stipulazione sia così fatta: “non accada né per parte tua, né del tuo erede” perché si applichi a un’unica iniziale violenza: se abbia fatto violenza, di più non avrebbe potuto essere compiuta dalla violenza dell’erede: dunque, se si sia agito come se dalla violenza dello stesso promittente, tutta quanta sarebbe stata consumata: ciò non è corrispondente al vero. 45. D. 45.3.19 (Lenel, Scaev. 176) Se lo schiavo altrui, che serve due di buona fede, acquisti dal patrimonio di uno solo dei due, è ragionevole che si acquisti tutto a colui impegnando il cui patrimonio acquistò, sia che serva a lui solo, sia che serva quasi a due: infatti, anche nei veri padroni quante volte si acquista a entrambi, tante si acquista per parti: peraltro, se uno non acquista, l’altro avrà l’intero. Dun107

Alessia Spina bona fide servit, mihi solidum ex re mea adquirat, quia tibi non potest adquiri, quia non sit ex re tua. re’s’ adq. F2; quia tibi seq.] τὸ γὰρ μὴ ὂν ἐξ ῥὲ σοῦα [immo τοῦα] σοὶ προσπορισθῆναι οὐ δύναται BS (Enantioph.); ei ex cuius re adquisiit del. (Mommsen in edit. Maiore); quia: quod? (Mommsen in edit. maiore) ei … adquisiit gloss. (Lenel in app. crit.); serviat: stipulatus sit similiave exciderunt (Lenel in app. crit.); sive ei … serviat vix sunt Scaevolae (Salkowski).

Liber XIV

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46. D. 4.4.11.1, Ulp. 11 ad ed. (Lenel, Scaev. 177; Ulp. 402) Quid si minor viginti quinque annis, maior viginti hac lege vendiderit, ut manumittatur? ideo proposui maiorem viginti, quoniam et Scaevola scribit libro quarto decimo quaestionum et magis est, ut sententia constitutionis divi Marci ad Aufidium Victorinum hunc, id est minorem viginti annis non complectatur. quare videndum, an maiori viginti annis subveniatur: et si quidem ante desideret, quam libertas competat, audietur: sin vero postea, non possit. item quaeri potest, si is qui emit hac lege minor sit, an restitui possit. et si quidem nondum libertas competit, erit dicendum posse ei subveniri: sin vero posteaquam dies venit, voluntas maioris venditoris libertatem imponit. minorem: maiorem (Dagenkolb)? nisi praestat delere verba id est minorem viginti annis (Mommsen in app. crit. ed. maioris) – maioris: viginti annis inseruit Mommsen in app. crit. ed. maioris; Lenel glossema – maior‘em’ (em addidit fere evanuit) F2

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Quaestionum libri XX. Fragmenta que, la ragione sarà la stessa anche nel proposto caso, che questo servo altrui, che a me e a te in buona fede serve, impegnando il mio patrimonio acquista interamente a me, poiché a te non può acquistarsi, perché non avviene impegnando il tuo patrimonio.

Libro XIV

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46. D. 4.4.11.1, Ulp. 11 ad ed. (Lenel, Scaev. 177; Ulp. 402) Che cosa dire se un minore di venticinque anni, maggiore di venti, abbia venduto con questa clausola, che sia manomesso? Perciò ho proposto il maggiore di venti, poiché anche Scevola scrive nel libro quattordicesimo delle Questioni, ed è l’opinione preferibile, che il parere della costituzione del divo Marco Aurelio ad Aufidio Vittorino non viene ad includere questo, cioè il minore di venti anni. Per la qual cosa, si deve considerare se si presti aiuto a un maggiore di venti anni: e inoltre se lo richieda (di essere reintegrato) prima che competa la libertà, sia ascoltato; se invece (lo richieda) successivamente, non possa. Ugualmente può chiedersi, qualora colui che ha comprato con questa clausola sia un minore (di venticinque anni), se possa essere reintegrato. E se inoltre la libertà non competa ancora, dovrà dirsi che si potrà prestargli soccorso: se invece dopo che sia venuto a scadenza il termine, la volontà del venditore maggiore di venti anni impone la libertà.

109

Alessia Spina

Liber XV

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47. D. 28.5.83 (Lenel, Scaev. 178) Si quis ita heres instituatur: “Si legitimus heres vindicare nolit hereditatem meam”, puto deficere condicionem testamenti illo vindicante. In inscriptione notat Mommsen: quaeʳstiʴonum F2

48. D. 13.4.2.3, Ulp. 27 ad ed. (Lenel, Scaev. 179; Ulp. 783) Scaevola libro quinto decimo quaestionum ait non utique ea, quae tacite insunt stipulationibus, semper in rei esse potestate, sed quid debeat, esse in eius arbitrio, an debeat, non esse. et ideo cum quis Stichum aut Pamphilum promittit, eligere posse quod solvat, quamdiu ambo vivunt: ceterum ubi alter decessit, extingui eius electionem, ne sit in arbitrio eius, an debeat, dum non vult vivum praestare, quem solum debet. quare et in proposito eum, qui promisit Ephesi aut Capuae, si fuerit in ipsius arbitrio, ubi ab eo petatur, conveniri non potuisse: semper enim alium locum electurum: sic evenire, ut sit in ipsius arbitrio, an debeat: quare putat posse ab eo peti altero loco et sine loci adiectione: damus igitur actori electionem petitionis. et generaliter definit Scaevola petitorem electionem habere ubi petat, reum ubi solvat, scilicet ante petitionem. proinde mixta, inquit, rerum alternatio locorum alternationi ex necessitate facit actoris electionem et in rem propter locum: alioquin tollis ei actionem, dum vis reservare reo optionem. cum quis] cum qui F; : glossa (Naber) (Krüger in app. crit.)

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Quaestionum libri XX. Fragmenta

Libro XV

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47. D. 28.5.83 (Lenel, Scaev. 178) Se qualcuno così sia istituito erede: “Se l’erede legittimo non voglia rivendicare la mia eredità”, ritengo che la condizione del testamento manchi, una volta che quello rivendica.

48. D. 13.4.2.3, Ulp. 27 ad ed. (Lenel, Scaev. 179; Ulp. 783) Scevola nel libro quindicesimo delle Questioni dice che non in ogni caso le cose che sono tacitamente comprese nelle stipulazioni sono sempre nella potestà del convenuto, ma rientra nel suo arbitrio il ‘che cosa’ sia dovuto, non il ‘se’ debba. E che perciò quando qualcuno promette Stico o Pamfilo, può scegliere con quale dei due adempiere, fino a quando entrambi siano vivi: e che, per il resto quando uno dei due sia morto, si estingue la sua scelta, affinché non sia nel suo arbitrio (decidere) se debba, mentre non vuole concedere quello, ancora vivo, che è rimasto l’unico a essere dovuto: per questo motivo anche nell’esempio proposto, colui che abbia promesso di dare a Efeso o a Capua non sarebbe potuto essere convenuto, se fosse stato nel suo arbitrio scegliere il luogo dove si doveva chiedere giudizialmente nei suoi confronti: infatti avrebbe sempre scelto l’altro luogo: così accade che sia nel suo arbitrio il ‘se’ debba: perciò ritiene che si possa chiedere giudizialmente nei suoi confronti in uno dei due luoghi e senza l’aggiunta del luogo: dunque, diamo all’attore la scelta della domanda giudiziale. E in generale Scevola precisa che chi domanda ha la scelta su dove domandare, il convenuto su dove adempiere, ovviamente prima della domanda. Di conseguenza, dice, l’alternatività delle cose, congiunta all’alternatività dei luoghi, necessariamente determina la scelta dell’attore anche verso la cosa a causa del luogo: diversamente, togli a lui l’azione, mentre vuoi riservare la scelta al convenuto.

111

Alessia Spina [Ad legem Falcidiam].

49. D. 35.2.23 (Lenel, Scaev. 180) Si fundus mihi legetur et via, in Falcidiae ratione, si tantum sit in via, quantum amplius est in Falcidia, integer fundus capietur et via perit. sed si via legetur nec solvendo sit hereditas, non debebitur. videndum etiam, si fundo et via legato minus ex utroque desideret quam sit viae pretium. potest coacta ratione dici non tantum fundum solidum capi, sed etiam, ut doli exceptio tantum sarciat, quantum deest, ne plus habeat, quam Falcidia desiderat: ut tunc solum via intercidat, quotiens plus Falcidia desiderat quam est viae pretium. ex utroque: Falcidia Mommsen inseruit; sed etiam: et uiam (Lectius)?; ne] neque heres? (Mommsen in app. crit.); sed si via … debebitur] male videntur huic loco haec convenire (Lenel in app. crit.)

[Ad legem Corneliam de captivis].

50. D. 28.6.29 (Lenel, Scaev. 181) Si pater captus sit ab hostibus, mox filius et ibi ambo decedant, quamvis prior pater decedat, lex Cornelia ad pupilli substitutionem non pertinebit, nisi reversus in civitate impubes decedat, quoniam et si ambo in civitate decessissent, veniret substitutus. mox filius] idem Graeci (u.i.): post filium? (Mommsen in app. crit.); et ibi ambo decedant gloss.? Neque enim scribere potuit Scaevola: si … ibi ambo decedant, … non pertinebit, nisi reversus … decedat (Lenel in app. crit.); probabilius cum Lenelio verba et ibi ambo decedant del. (Krüger in app. crit.)

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Quaestionum libri XX. Fragmenta [Sulla legge Falcidia].

49. D. 35.2.23 (Lenel, Scaev. 180) Se mi è legato un fondo e la servitù di passaggio, nel calcolo della Falcidia, se tanto vi sia nella servitù di passaggio, quanto vi è di più ampio nella Falcidia, sarà preso il fondo integro e la servitù di passaggio perisce. Ma se è legata la servitù di passaggio e l’eredità non sia solvente, non sarà dovuta. Occorre vedere anche se, legato il fondo e la servitù, (la Falcidia) richieda da entrambi meno di quanto sia il prezzo della servitù di passaggio. Indotto il calcolo, può dirsi che non viene preso soltanto il fondo intero, ma anche, affinché l’eccezione di dolo compensi soltanto, quanto manca, perché non abbia più di quanto la Falcidia richiede: cosicché elimini soltanto la servitù di passaggio, ogni volta che la Falcidia richieda più di quanto sia il prezzo della servitù di passaggio.

[Sulla legge Cornelia sui prigionieri].

50. D. 28.6.29 (Lenel, Scaev. 181) Se il padre sia stato catturato dai nemici, successivamente il figlio, e lì entrambi decedano, sebbene il padre muoia per primo, la legge Cornelia non si applicherà alla sostituzione del pupillo, a meno che l’impubere non muoia una volta tornato nella comunità dei cittadini, poiché anche se entrambi fossero morti nella comunità dei cittadini, verrebbe all’eredità il sostituto.

113

Alessia Spina

Liber XVI

[Ad legem Aeliam Sentiam].

51. D. 40.9.6 (Lenel, Scaev. 182) Iulianus de eo loquitur, qui in substantia nihil aliud habeat: nam si habeat, quare non dicetur unum posse manumitti? quia et uno mortuo solvendo est, et uno manumisso solvendo est, nec adventicii casus computandi sint: alioquin et qui unum incertum ex servis suis promisit, neminem manumittet. sint: sunt (edd.)?; Scaevolae item tribuunt B, at Celso in digestis BS (Dor.); aliud habeat] aliud debeat Fa; qua‘e’re Fb incertum] F2 cum BS: ὁ ἀορίστως ἐπερωτηθεὶς ἕνα τῶν ἰδίων οἰκετῶν παρέχειν τινί, et certum F1

Liber XVII

[Deest]

114

Quaestionum libri XX. Fragmenta

Libro XVI

[Sulla legge Elia Senzia].

51. D. 40.9.6 (Lenel, Scaev. 182) Giuliano parla di colui che non abbia null’altro nel suo patrimonio: infatti, qualora abbia (qualcosa), per quale motivo non si dovrebbe dire che un solo schiavo possa essere manomesso? Poiché, sia essendo morto un solo schiavo rimane solvibile, sia essendo manomesso un solo schiavo rimane solvibile, e gli eventi eccezionali non debbano venire in considerazione: peraltro, anche colui che avesse promesso uno indeterminato tra i suoi schiavi, non avrebbe dovuto manomettere nessuno.

Libro XVII

[Mancante]

115

Alessia Spina

Liber XVIII

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?

52. D. 28.5.84 (Lenel, Scaev. 183) Si non lex Aelia Sentia, sed alia lex vel senatus consultum aut etiam constitutio servi libertatem impediat, is necessarius fieri non potest, etiamsi non sit solvendo testator. 1. Temporibus divi Hadriani senatus censuit, si testator, qui cum moritur solvendo non fuit, duobus pluribusve libertatem dederit eisque hereditatem restitui iusserit et institutus heres suspectam sibi hereditatem dixerit, ut adire eam cogatur et ad libertatem perveniat qui priore loco scriptus fuerit, eique hereditas restituatur. idem servandum in his, quibus per fideicommissum libertas data fuerit. igitur si primo loco scriptus desideraret adire hereditatem, nulla difficultas erit. nam si posteriores quoque liberos se esse dicent et restitui hereditatem desiderent, an solvendo sit hereditas et omnibus liberis factis restitui deberet, apud praetorem quaereretur. absente autem primo sequens desiderans adiri hereditatem non est audiendus, quia, si primus velit sibi restitui hereditatem, praeferendus est et hic servus futurus est. adire: adiri (cf.: adiri desiderans)?; Aelia: ae˹lia˺ F2; libertatem: liuertatem F1; pluribusve: pluribus vel lib. FC

[Ad legem Furiam de sponsu]?

53. D. 46.1.57 (Lenel, Scaev. 184) Fideiussor, antequam reus debeat, conveniri non potest.

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Quaestionum libri XX. Fragmenta

Libro XVIII

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52. D. 28.5.84 (Lenel, Scaev. 183) Se non è la legge Elia Sentia, ma un’altra legge o un senatoconsulto o anche una costituzione che impedisca la libertà dello schiavo, egli non può diventare erede necessario, anche se il testatore non sia solvibile. 1. Ai tempi del divo Adriano il Senato decise che, se il testatore, che quando è morto non era solvibile, abbia dato la libertà a due o più schiavi e abbia ordinato che l’eredità fosse a loro restituita, e l’erede istituito abbia detto che l’eredità gli appare sospetta, (deliberò) che sia costretto ad adirla e che pervenga alla libertà colui (il servo) che è stato scritto in primo grado e che a lui l’eredità sia restituita. Lo stesso si deve osservare nei riguardi di questi ai quali la libertà sia stata data attraverso un fedecommesso. Pertanto se lo schiavo scritto in primo grado desiderasse adire l’eredità, non vi sarà alcuna difficoltà. Infatti, se anche coloro che siano stati scritti in gradi successivi dicano di essere liberi e desiderino che l’eredità sia restituita (loro), se l’eredità sia solvibile e debba essere restituita a tutti gli (schiavi) divenuti liberi, si dovrebbe indagare presso il pretore. Invece, essendo assente il primo, il successivo, che desideri che l’eredità sia adita, non deve essere ascoltato, poiché, se il primo voglia che l’eredità gli sia restituita, deve essere preferito e questo (successivo) rimarrà schiavo. [Sulla legge Furia in materia di garanzia]?

53. D. 46.1.57 (Lenel, Scaev. 184) Il fideiussore, prima che il reo debba, non può essere convenuto.

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Alessia Spina

Liber XIX

[Ad legem Iuliam de adulteriis].

54. D. 24.3.47 (Lenel, Scaev. 185) Cum mulier viri lenocinio adulterata fuerit, nihil ex dote retinetur: cur enim improbet maritus mores, quos ipse aut ante corrupit aut postea probavit? si tamen ex mente legis sumet quis, ut nec accusare possit, qui lenocinium uxori praebuerit, audiendus est. probavit: provabit F1

Liber XX

[Deest]

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Quaestionum libri XX. Fragmenta

Libro XIX

[Sulla legge Giulia sugli adulteri].

54. D. 24.3.47 (Lenel, Scaev. 185) Avendo la moglie commesso adulterio per il lenocinio del marito, nulla sarà trattenuto dalla dote: perché, infatti, il marito dovrebbe disapprovare i costumi che egli stesso o prima ha corrotto o dopo ha approvato? Se tuttavia, qualcuno, deducendolo dall’intento della legge, assuma che colui che abbia favoreggiato attraverso il suo lenocinio l’adulterio della moglie non possa accusare, dovrà essere ascoltato.

Libro XX

[Mancante]

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IV COMMENTO AI TESTI

QUAESTIONUM LIBRI XX

LIBRO I

Le quaestiones di Cervidio Scevola seguono, nell’esposizione degli argomenti trattati, l’ordine dei suoi digesta e, secondo la condivisibile ricostruzione di Otto Lenel, il libro I della raccolta consta di due rubriche: la prima rubrica, Ad municipalem è unica tra le tante che componevano la prima parte dell’editto nella ricostruzione leneliana e sembrerebbe rispettare il consueto ordine che poneva il tema della legge municipale e della regolamentazione delle colonie in esordio. I commissari giustinianei riportano D. 50.1.19 [F. 1] all’interno del titolo D. 50.1, dalla generica rubrica Ad municipalem et de incolis, che comprende numerosi brani provenienti in misura significativa da opere di quaestiones: in tale ultimo variegato contesto D. 50.1.19 sembrerebbe avere maggiori affinità di argomento e di tono con testi che i giustinianei hanno collocato nel titolo D. 3.4, dedicato alla legittimazione attiva delle collegialità politiche, contenente frammenti di opere di giuristi, per lo più severiani, di commento all’editto. In forza di tale considerazione, Lenel, in via alternativa, propone la collocazione all’interno del titolo edittale De cognitoribus et procuratoribus et defensoribus, ossia dedicato alla legittimazione ad agire in nome delle comunità politiche1 e in connessione con la clausola edittale § 31 Quibus municipum nomine agere2. La seconda rubrica, De iudiciis, entro cui trova spazio la trattazione della negotiorum gestio, si colloca nella parte iniziale della seconda sezione dell’editto. Se si accettasse la seconda alternativa, il brano dovrebbe essere posizionato non già in apertura del libro I, ma in chiusura, successivamente ai frammenti dedicati al tema della negotiorum gestio. La collocazione palingenetica di D. 12.1.38 [F. 4] suscita talune perplessità, perché il tenore

1 Lenel 1927, 97, che precisa come “Existenz und Inhalt des Edikts über die Legitimation zur Klage municipium nomine sind nach obigem unzweifelhalt; zweifelhaft ist dagegen sein Platz im Album”. 2 Lenel 1889 II, 271 e nt. 3, che richiama altresì Ulp. 9 ad ed., D. 3.4.3; Paul. 9 ad ed., D. 3.4.4; Paul. 9 ad ed., D. 3.4.6.1.

123

Alessia Spina letterale del brano parrebbe riferirsi ad un’ipotesi di sottoposizione negoziale a una condicio, e precisamente di quella tipologia di condicio che la lettura dogmatica del negozio giuridico suole definire condizione impropria: si tratterebbe di una fattispecie almeno apparentemente estranea alle dinamiche tipiche della negotiorum gestio, entro il cui quadro edittale Lenel colloca il passo, pur manifestando talune incertezze3. Diversamente, nessun dubbio palingenetico suscitano D. 3.5.8(9) e D. 3.5.34 [F. 2 e F. 3]. F. 1 – D. 50.1.19 Il breve escerto era verosimilmente parte di una più ampia riflessione e parrebbe riferirsi, pur nella lacunosità che lo connota, all’applicazione del principio di maggioranza all’interno della struttura assembleare municipale: quello che viene deciso e compiuto dalla maggior parte dei componenti si considera come decisione e azione dell’intero gruppo rappresentato (omnes). Il passo è stato ritenuto dai lettori medievali e moderni uno dei capisaldi del principio di maggioranza e rappresentanza nel sistema romanistico, in cui le maggioranze, semplici, assolute o qualificate, sono equiparate alla totalità4: esso pone, in riferimento al ruolo del giurista, importanti quesiti, cui l’esile trama del brano non consente di dare adeguata risposta. Quanto al contenuto, risulta difficile un’esatta contestualizzazione, ma appare ragionevole scorgere nelle esigue parole della quaestio la soluzione al dubbio circa la legittimazione della civitas a stare in giudizio, laddove una decisione sia stata assunta dal collegio a maggioranza e non all’unanimità5. In particolare, l’espressione pars maior sembra richiamare la formula pars maior videtur, con cui il magistrato romano constatava l’esito di una votazione per discessio intorno ad una singola proposta, in una procedura utilizzata nel Senato romano e poi applicata anche nelle votazioni all’interno dei massimi consessi6, sicché il brano conterrebbe la disciplina che avrebbe consentito all’ordo decurionum di deliberare a maggioranza. Parrebbe invece riduttiva ed eccessivamente specifica, nonché priva di elementi testuali fondanti, la tesi che scorge nel passo di Scevola il corollario delle norme che fissavano la minima frazione sul totale dei componenti della curia necessaria perché la votazione fosse valida, regola che, dunque, ancora all’epoca di Antonino Pio e di Marco Aurelio avrebbe avuto senso richiamare7. Il brano, invece, chiarendo che a prevalere è la decisione della maggioranza assoluta8, si presterebbe a chiudere idealmente la cornice procedimentale definita con Ulp. 3 de appell., D. 50.9.3, dove si specifica che per la validità delle deliberazioni curiali era necessario che fossero presenti almeno i due terzi dell’assemblea9, e con Ulp. 3 de off. proc.,

3

Lenel 1889 II, 272 e nt. 1. Hofmann 2007, 266 s. 5 Masiello 1999, 170 s. 6 Tanfani 1970, 267 s. aggiungendo che le leggi municipali dimostrano che la pars maior dei decurioni sia necessaria in diversi casi di amministrazione interna. Su curiae e decuriones si può rimandare alle riflessioni di Béchard 1860, 259 ss. 7 Karlowa 1885, 588. 8 Ruffini 1977, 37 s. e nt. 41. 9 Ulp. 3 de appell., D. 50.9.3: Lege autem municipali cavetur, ut ordo non aliter habeatur quam duabus partibus adhibitis. 4

124

Commento. Quaestionum libri XX D. 50.3.1.110, da cui si evince che i decurioni votavano in base all’ordine di iscrizione nell’album decurionum. Se diversi passi del Digesto, dunque, delineano la trama della procedura con cui la curia deliberava o eleggeva, richiamando disposizioni subordinate a eventuali leggi o consuetudini locali, il brano di Scevola si segnala quale prova del superamento della concezione primitiva che identificava la civitas con la somma dei cives e che faceva coincidere l’ordinamento pubblico con i reciproci rapporti giuridici dei cittadini: il giurista antonino avrebbe maturato il superamento della concezione della volontà unitaria ottenuta mediante un accordo con i membri del popolo, ovvero, come si è scritto, “mercé un compromesso tra maggioranza e minoranza”11. Il lacerto, in altri termini, segnalerebbe la soluzione che la giurisprudenza romana da Scevola in avanti avrebbe individuato per la seguente domanda: pur continuando a considerare la volontà dell’ente collettivo come volontà dei suoi singoli componenti legalmente organizzati, laddove una parte dei singoli esprima una volontà diversa, come è possibile creare la coincidenza tra volontà unica dell’ente e volontà di tutti? I giuristi romani, è stato scritto, avrebbero superato l’impasse applicando una fictio, in forza della quale veniva riconosciuto come voluto dall’unanimità quello che era voluto dalla maggioranza: tale espediente logico e giuridico risulterebbe, oltre che dal passaggio scevoliano in esame, dalla ben più nota massima ulpianea versata in D. 50.16.160.1, secondo cui “Refertur ad universos quod publice fit per maiorem partem”12. In Ulpiano l’affermazione è netta e non presuppone spiegazioni: si riferisce all’unanimità quanto, con modalità pubbliche, viene compiuto dalla maggioranza13; in Scevola della finzione vi è traccia visibile, attraverso la locuzione ac si: nello spiegare il principio, il maestro chiarisce che si tratta di un artificio14, dal quale ulteriormente emerge la faticosa individuazione del principio di maggioranza come regola generale15. Nella riflessione del giurista manca qualunque ricerca dell’opportunità politica di cui, nella percezione moderna, è intriso criterio di maggioranza: a Scevola sembra interessare solamente fornire al principio un’esatta connotazione giuridica e una spiegazione logica, senza preoccuparsi dell’esistenza e della valorizzazione del vincolo che caratterizza il rapporto tra maggioranza e minoranza16, dialettica inesistente nel II secolo. In questa operazione,

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Ulp. 3 de off. proc., D. 50.3.1.1: In sententiis quoque dicendis idem ordo spectandus est, quem in albo scribendo diximus. Ruffini 1977, 40. 12 Ulp. 26 ad ed., D. 50.16.160.1 è citato anche dalla più recente letteratura, come prova dell’estraneità, ancora ai giuristi di età severiana, di una concezione della collettività quale astratto soggetto di diritto, distinto dai singoli membri (Galgano 2014, 217 ss.). Ex multis, esclude che i Romani siano giunti al concetto di ‘persona giuridica’, Orestano 1978, 196. 13 Il richiamo alla pars maior decurionum, in assenza di qualunque cenno retorico alla fictio è presente anche in Paul. 16 ad Plaut., D. 26.5.19. Quando sono assenti coloro che possono nominare i tutori, si ordina che li nominino i decurioni, purché si trovi l’accordo della maggioranza: dove non vi è dubbio, è che possano nominare tutore uno tra di loro. 14 Sull’espressione ac si (come di altre: quasi, perinde ac, proinde ac, proinde atque, pro loco esse, velut, vice) accompagnata dalla forma verbale al modo congiuntivo, come sintomatica della finzione giuridica, Bianchi 1997, 32. 15 Thomas 2015, 56 ss. sul rapporto tra fictio e rappresentanza. 16 Ruffini 1927, 22, che aggiunge: “quella dei Romani fu la prima, forse la sola, parola decisiva che sia stata detta sul principio maggioritario. La fortuna di quella loro finzione sarà massima nel medioevo”. 11

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Alessia Spina Scevola dispone di un modello, costituito dalla tradizione del funzionamento del Senato, al quale si ispira per creare il regime di funzionamento degli stessi collegi. Infine, è evidente la connotazione pubblicistica del contenuto, che non sorprende alla luce del precario confine tra pubblico e privato presente in numerosi iudicia17; con lo strumento della finzione giuridica, Scevola parrebbe interpretare e superare quello sdoppiamento tra piano del fenomeno e dei risultati, e piano del noumeno e delle intenzioni, ricorrente nei Pensieri di Marco Aurelio e ivi risolta attraverso una visione metareligiosa18. F. 2 – D. 3.5.8(9) Il brano è inserito nella seconda rubrica del libro I delle quaestiones, dedicata alla gestione degli affari e che consta di due corposi frammenti, D. 3.5.8 in esame e D. 3.5.34, nonché di un breve e lacunoso passaggio, collocato dai giustinianei nel titolo De rebus creditis si certum petetur et de condictione, D. 12.1.38. D. 3.5.8 è un testo complesso e di difficile comprensione19, su cui in passato sono stati altresì segnalati dubbi di intervento compilatorio, superati, invero, da letture più recenti20. Nel contenuto esso si presenta come una critica alla posizione pomponiana attraverso cui si giunge, per il tramite di argomentazioni di contenuto casistico, all’emersione della ratio iuris che il giurista reputa migliore, in una struttura discorsiva quasi dialogica che, come si è avuto modo di accennare, risulta consueta e tipica nello svolgimento della quaestio. L’incipit coincide con il richiamo alla posizione di Pomponio, che Scevola mostra di conoscere e di rappresentare ai propri auditores forse attraverso un testo scritto (“Pomponius scribit”); verosimilmente la citazione è proveniente dal libro ventiseiesimo del commentario all’editto del pretore, come si può apprendere dai richiami paolino e ulpianeo presenti, rispettivamente, in D. 3.5.14 e in D. 3.5.5.821. La tesi iniziale di Pomponio si può così riassumere: l’approvazione di un negozio, quand’anche esso sia stato concluso in maniera poco vantaggiosa dal gestore, consumerebbe la legittimazione ad agire, facendo venire meno la responsabilità del gestore, nonché la sua soggezione ad un’actio negotiorum gestorum directa22. Il pensiero di Pomponio prosegue nelle parole di Scevola – la cui vocazione scolastica è evidente dall’utilizzo del verbo videri e nella forma della perifrastica passiva (videndum ergo

17 Sul discrimine tra i due processi si può leggere Pugliese 1985 I, 14 ss. e Pugliese 1985 II, 65 con specifico riferimento al processo provinciale. 18 Pesce 1959, 72 s. 19 Bertolini 1891, 34 s. ritiene il passo uno dei più difficili del Digesto. 20 Si veda Beseler 1926, 141 nt. 1; Grosso 1927, 36 ss. e 38 nt. 1, che ritiene sospetta tutta l’ultima parte del brano pur ammettendo che, con l’eliminazione della parte da superius ad absit, il passo avrebbe una propria coerenza. In particolare Grosso ritiene che la possibilità di un’efficacia ipso iure del pactum de non petendo possa spiegarsi esclusivamente con una manipolazione giustinianea. 21 Paul. 9 ad ed., D. 3.5.14: Pomponius libro vicensimo sexto in negotiis gestis initio cuiusque temporis condicionem spectandam ait. Pomponio, nel libro ventiseiesimo del commentario all’editto del pretore, afferma che nella gestione di affari altrui occorre considerare la condizione all’inizio di ciascun periodo. Ugualmente, Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.5.8: …et mihi videtur verum, quod Labeo distinguit et Pomponius libro vicensimo sexto probat … E a me sembra vera la distinzione compiuta da Labeone e approvata da Pomponio nel suo libro ventiseiesimo. 22 Sul brano si sofferma ampiamente Isola 2015, 107 ss.

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Commento. Quaestionum libri XX ne)23 – attenuando la precedente affermazione nell’ipotesi in cui sia incerto l’evento della ratifica: se risulta avvolta da incertezza la circostanza cruciale che vi sia stata o meno approvazione del negozio, l’azione di gestione degli affari deve ritenersi ancora pendente. Attraverso la formulazione di una proposizione interrogativa diretta retorica, probabilmente lo stesso Scevola, illustrando l’affermazione pomponiana, nega che l’astratta possibilità di agire giudizialmente, una volta formatasi, possa venire esclusa ad opera di una mera determinazione del singolo (nuda voluntas)24. Si precisa poco oltre che quanto scritto da Pomponio superius (avverbio che consente di immaginare un maestro che dà lettura e commenta i testi insieme ai suoi allievi)25 si dovesse limitare all’ipotesi in cui il gestore avesse agito dolosamente26. Dunque, a essere oggetto della riflessione giurisprudenziale in esame è il solo caso in cui l’attività gestoria si fosse rivelata inutile o dannosa per il gerito o, forse più frequentemente, quello in cui un’attività fosse stata condotta volutamente con scarso interesse, così da rivelarsi svantaggiosa per il dominus negotii27: solo in questa prospettiva topica troverebbe giustificazione la limitazione della responsabilità all’ipotesi di dolo, mentre normalmente si sarebbe dovuto ammettere che il gestore rispondesse anche in base a un criterio di colpa. Si tratta di un orientamento che sembra trovare riscontro in una posizione pediana, come si evidenzierebbe in un passo segnalato, tra molti, quale esempio utile a collocare Pomponio all’interno di un consolidato indirizzo interpretativo e che appare evocativo della complessità dei problemi e delle ricostruzioni dogmatiche che la giurisprudenza romana ha compiuto in materia di ratifica. Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.5.1228 conterrebbe la ricostruzione di Pedio secondo cui la ratifica del negozio sarebbe elemento idoneo a eliminare l’elemento dell’alienità proprio del negozio concluso per altri (sed ratihabitio hoc conciliat: quae res efficit, ut tuum negotium gestum videatur et a te hereditas peti possit): laddove il credito fosse esistente, ma il gestore l’avesse riscosso compiendo un errore circa la persona del creditore, e il soggetto verso cui era rivolta la contemplatio domini l’avesse ratificato, proprio da e contro questi sarebbe stata esperibile l’actio negotiorum gestorum. In altri termini, la ratihabitio funzionava, nel pensiero di Pedio riportato da Ulpiano, in maniera tale da rendere attribuibile al ratificante l’inerenza di un negozio che in origine gli era alienum e, con essa, la tutela connessa alla gestione di affari altrui.

23 Finazzi 2001, 257 e nt. 5 fa dipendere il videndum dal precedente verbo principale scribit, ritenendo si tratti ancora della riflessione pomponiana. Cfr. anche Pool 1983, 456, dove si sottolinea l’utilizzo del verbo videndum con la congiunzione nam. 24 Pur non essendoci appigli testuali, legge nel richiamo di Scevola alla nuda voluntas una contrapposizione rispetto alla ratifica realizzata con comportamenti concludenti De Filippi 2002, 43. 25 Sull’ipotesi che Scevola potesse contare, durante la propria attività, sulla consultazione diretta delle opere di Pomponio, si veda Stolfi 2001, 132, nt. 230. Espunge dal testo l’avverbio superius Sachers 1938, 325 nt. 59, che, invero, considera interpolata anche la parte di brano che lo precede, da videndum a tolletur. 26 Sul dolo quale “soglia oltre cui la disponibilità delle parti non può spingersi”, si veda Stolfi 2001, 133. Nella letteratura precedente, specificamente Sachers 1938, 338 s. 27 Finazzi 2006 II, 311. 28 Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.5.12: Idem ait, si Titii debitorem, cui te heredem putabam, cum esset Seius heres, convenero similiter et exegero, mox tu ratum habueris: esse mihi adversus te et tibi mutuam negotiorum gestorum actionem. adquin alienum negotium gestum est: sed ratihabitio hoc conciliat: quae res efficit, ut tuum negotium gestum videatur et a te hereditas peti possit. Ad esso si possono accostare anche il precedente § 11 e il successivo § 13, all’interno del medesimo frammento Ulp. 10 ad ed., D. 3.5.5.

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Alessia Spina La tesi pomponiana da cui prende le mosse la quaestio scevoliana, dunque, individua nella ratihabitio, da intendersi come approvazione definitiva e irrevocabile di una gestione da altri condotta, l’elemento idoneo a modificare la natura della fattispecie de qua, così da escludere la configurabilità di una responsabilità del gestore per avere condotto – anche male – i negozi altrui, sempre che non intervenga un comportamento doloso. A essere esclusa sarebbe l’actio negotiorum gestorum in ius, diretta a conseguire il risarcimento per il danno cagionato dalla cattiva gestione29. Scevola sostiene una diversa tesi, che da un lato valorizza la necessità di rispondere a problemi della concreta casistica, dall’altro lato preserva l’essenza dell’azione di gestione degli affari, la quale – come peraltro lo stesso giurista aveva sottolineato – non può essere scalfita da una mera espressione di volontà: il ragionamento si svolge in una prosa ellittica, a tratti all’apparenza disordinata, quasi ostica, che predilige le interrogative dirette, cui corrisponde nei contenuti una vivace alternanza di rationes dubitandi e rationes decidendi30. Come si è supposto, un simile andamento del discorso potrebbe rappresentare una cifra stilistica del giurista, forse esasperata, nei suoi esiti, da possibili tagli compilatori compiuti sul testo. L’ultima parte del frammento, introdotta dall’avverbio ceterum, ribadisce, con una argomentazione per assurdo, la necessità che l’azione sopravviva alla ratifica: si compie il richiamo – attraverso il ritmico incalzare di interrogative dirette prive del soggetto31 – a una casistica in cui il ricorso all’actio negotiorum gestorum rimane l’unica forma di tutela esperibile al gestito perché possa recuperare le somme esatte dal gestore e mai versate nel suo patrimonio: nell’ipotesi di adempimento del debito approvato dal gestore, laddove si pone un problema di recupero della somma versata; nel caso si sia conclusa una compravendita – e dunque andasse al gerito il prezzo derivante dalla conclusione del contratto –, o nel caso in cui il gestore abbia sostenuto delle spese che intenda recuperare. Si tratta di ipotesi in cui al vantaggio del gerito insito in una gestione utile, si affianca un pregiudizio patrimoniale, anche in conseguenza dell’estinzione dell’obbligazione, o anche del negozio traslativo della proprietà successivo all’emptio venditio: ferma l’impossibilità di esperire un’azione da parte del gestito che abbia approvato il negozio, l’azione di affari altrui residua nella possibilità del gestore di attivarsi per la tutela di ulteriori obbligazioni ancillari alla pretesa principale32. Dunque, l’orientamento sostenuto da Scevola appare nuovo e diretto a correggere il pensiero di Pomponio. La novità dell’approccio scevoliano sembrerebbe consistere non tanto nello slittamento del momento della produzione degli effetti in capo al gestito – dalla fase della ratifica a quella strettamente processuale –, quanto piuttosto dalla volontà di proporre una valutazione più estesa dei rapporti tra ratifica e actio. È rilevante il metodo con il quale

29 Contesta la tesi – sostenuta da Kreller 1939b, 401 (ma più in generale sulla formula dell’actio negotiorum gestorum, Kreller 1939a, 193 ss.) – che ritiene il passo si riferisca all’azione pretoria Finazzi 2006 II, 309 e nt. 434. 30 La dottrina più recente esclude che “l’andamento fortemente problematico del passo” sia tale da metterne in dubbio la genuinità: cfr. Talamanca 1971, 231 s.; Finazzi 2001, 258 ss. e nt. 18. 31 Sottolinea l’assenza del soggetto nella sequenza di proposizioni interrogative Solazzi 1924, 609, nt. 2, che conseguentemente pone in dubbio la genuinità dell’intero passo, anche in considerazione del brusco passaggio dalla seconda alla terza persona in riferimento alla persona del gestore. 32 Sarebbe da smorzarsi, dunque, l’affermazione secondo cui Scevola sarebbe “convinto … che la ratifica non escluda in alcun caso l’esperibilità dell’actio negotiorum gestorum” (Stolfi 2001, 133).

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Commento. Quaestionum libri XX si raggiunge un siffatto esito interpretativo: la ricchezza casistica è tale da ampliare il ventaglio delle situazioni e dare conto della complessità delle dinamiche economiche tra le parti33. F. 3 – D. 3.5.34 Il brano, articolato dagli editori in quattro paragrafi, dei quali il primo appare ripercorrere la primitiva quaestio, ed i successivi risultano fungere da mere esplicazioni ed esemplificazioni, è dedicato al concorso tra l’actio negotiorum gestorum e altre azioni. Si è ipotizzato un intervento di sostituzione operata dai giustinianei che avrebbero indicato l’actio dotis in luogo della menzione classica all’actio rei uxoriae34: l’emenda può essere accettata, mentre sono da escludersi ipotesi demolitive del testo, soprattutto nella sua parte centrale, come si illustrerà nel prosieguo, laddove si esaminerà analiticamente il contenuto della quaestio. Anzitutto Scevola individua i confini del problema giuridico, con una indicazione temporale collocata enfaticamente in esordio del testo (divortio facto), la quale da un lato circoscrive in maniera importante l’ambito di applicabilità delle enunciazioni successive (le riflessioni svolte, infatti, perderebbero di significato laddove vi fosse costanza del rapporto coniugale), e dall’altro lato consente la concreta emersione della quaestio, poiché se non ci fosse stato divorzio, la regolamentazione dei rapporti tra coniugi avrebbe assunto le forme di tutela della sola actio rei uxoriae. Specificamente, il tema è quello del concorso tra l’azione dotale e l’azione di gestione di affari, procedimenti che possono coesistere a tutela del patrimonio dotale. Come noto, il marito, con il divorzio, rimaneva proprietario dei beni, ma tenuto alla restituzione, o in forza dell’actio uxoriae o in forza dell’actio ex stipulatu, laddove si fosse obbligato in tal senso. Questi, nel caso di specie, in seguito al divorzio, pur non essendo più marito della donna, è rimasto proprietario dei beni e ha continuato a gestirli spontaneamente: quella posta in essere dal marito è una gestione che è stata definita ‘in bonis ipsis’, ma che la sottostante obbligazione di dare consente di tutelare alla stregua di negotia gesta35, sicché la donna, per proteggere la propria dote, dice Scevola, ha a disposizione due strumenti, l’actio rei uxoriae e l’actio negotiorum gestorum. Oltre che per un differente fondamento sostanziale che ne legittima l’esperimento, le due azioni si distinguono sotto un profilo specificamente processuale per i limiti entro i quali si esprime la condanna: il dato è importante e va chiarito subito perché su di esso si basa l’intero argomentare scevoliano, e si sostanzia nella considerazione che la condanna dell’actio rei uxoriae avveniva nei limiti dell’id quod maritus facere potest36, mentre la condanna dell’actio negotiorum gestorum avveniva in solidum.

33 Talamanca 1971, 232 e 243 nt. 44 non esclude, invero, che la ratio del ragionamento scevoliano risieda in una precedente meditazione giurisprudenziale sull’allineamento, nell’ambito dell’azione di gestione di affari, di fattispecie accomunate da una eterogeneità di fondamenti, quali la procuratio omnium bonorum e la gestione senza incarico. 34 Il rilievo è compiuto dalla dottrina unanime, anche da quanti salvano la sostanziale genuinità del brano: ex multis, Guarino 1978, 94, laddove si ricorda che Giustiniano aveva trasformato l’actio rei uxoriae in actio ex stipulatu, ricordata anche come actio de dote. 35 Finazzi 2003 II.1, 373 nt. 38. 36 Sulla formula dell’actio rei uxoriae si veda Varvaro 2006, 42 ss.

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Alessia Spina Scevola ammette la possibilità di ricorrere a un’actio negotiorum gestorum per il complessivo ammontare del patrimonio solo se durante l’attività gestoria il marito si fosse trovato nella possibilità di restituire la dote medesima. Il giurista sottolinea con espressioni quasi anaforiche (in negotiis gestis … dum gerit) il momento rilevante della vicenda: se durante la spontanea attività di gestione il gestore si fosse trovato nella situazione economicopatrimoniale idonea ad adempiere all’obbligo di restituzione della dote, allora la moglie/domina negotii avrebbe potuto agire con un’azione di gestione tale da coprire l’intero attuale patrimonio dotale. La ratio della limitazione è evidente nella proposizione successiva, in cui, con una doppia negazione (imputari non potest, quod a se non exegerit) si chiarisce che, laddove l’attività di gestione fosse stata realizzata nell’ambito di una situazione patrimoniale non idonea a garantire una restituzione integrale, a quest’ultimo non si sarebbe potuto domandare di più di quanto si potesse ottenere con l’azione ordinariamente esperibile: non si poteva, cioè, imputare al marito quanto egli non avesse riscosso da se stesso37. Scevola applica, dunque, un limite intrinseco nell’azione di dote – quello dell’id quod maritus dum gerit facere potuit perché connesso al rapporto di coniugio – anche all’azione di gestione di affari, per il tramite dell’obbligo di a semet ipso exigere “in forza del quale le peculiarità dell’azione assorbita … si trasmettono nell’azione assorbente e, nel caso di specie, ne limitano la portata”38. Il passo, sotto questo profilo, testimonierebbe dell’estensione del beneficium competentiae tipico dell’actio rei uxoriae alle altre azioni applicabili su fattispecie identiche39. Se l’avvertenza di Scevola è nel senso che l’azione di gestione non può essere diretta a pretendere anche i beni dotali che il marito non abbia riscosso – nella qualità di gestore – da se stesso (che in quanto marito è tenuto al versamento della res uxoria allo scioglimento del vincolo coniugale), essendo, durante la gestione, nell’impossibilità di adempiere (facere non potuit), la successiva ipotesi, introdotta da sed et posteaquam patrimonium amiserit, suscita perplessità nel lettore, non soltanto presupponendo un antequam patrimonium amiserit di cui non vi è traccia nel testo, ma anche perché essa, comunque interpretata, appare pleonastica rispetto alla precedente riflessione, anch’essa relativa alla mancanza di sostanze nel patrimonio. Quanto all’assenza del precedente termine di confronto (il sed et iniziale implicherebbe una situazione di cui, come detto, non vi è traccia nel testo), si può ipotizzare

37 Il problema, come emergerà infra, attiene alla teoria della taxatio in id quod facere potest, entro cui si colloca il dubbio se, il debitore beneficiario, laddove ‘nihil facere potest’, debba essere condannato al pagamento del nihil ovvero assolto: sul passo specificamente Guarino 1947, 301 s. (contra Litewski 1971, 473 s.). 38 Finazzi 2003 II.2., 64 s. Solo a latere si vuole ricordare che la dottrina, sulla scorta soprattutto di Paul. 6 ad Sab. D. 17.2.38pr. ha distinto i iudicia bonae fidei in iudicia generalia e iudicia specialia: nella prima categoria, accanto all’actio pro socio e all’actio tutelae, si rinverrebbe anche l’actio negotiorum gestorum, mentre nella seconda, in via esemplificativa, si rinverrebbero l’actio mandati, l’actio depositi e l’actio commodati. La qualifica di iudicium generale deriverebbe dalla possibilità di dedurre nello stesso giudizio più atti, diversi e separati, ma tra di loro connessi a causa della generalità della gestione (Finazzi 1999, 222 ss. e nt. 78). 39 Sul cd. beneficium competentiae in età classica e del limite del nihil facere posset evidente anche nel passo in esame, si possono vedere Guarino 1978, 110 e 142; Marrone 1981, 1313 ss.; Gildemeister 1986, 8 e nt. 29 e, recentius, Stagl 2009, 222.

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Commento. Quaestionum libri XX che il brano sia lacunoso per un taglio di età successiva, che avrebbe potuto eliminare scorci ritenuti superflui in una quaestio già di per sé complicata, ovvero si potrebbe pensare a una lacuna attribuibile al materiale compilatore delle quaestiones, che avrebbe potuto involontariamente perdere un passaggio o consapevolmente omettere una parte del discorso, il quale in ogni caso appare conservare una complessiva autonomia. Peraltro, la tesi di una mano successiva sui contenuti del brano – anche immediatamente successiva, ipotizzando, come è stato fatto, un annotatore marginale classico dell’opera40 – spiegherebbe i profili di criticità nelle risultanze grammaticali e sintattiche della parte centrale dell’escerto, in cui si segnalano utilizzi anomali della lingua latina, seppur documentabili nella prassi comune dei contemporanei. Si potrebbe ritenere che il senso del passaggio sia il seguente: quando la gestione del patrimonio lo abbia azzerato e pertanto il gestore non sia più nella condizione di fare alcunché (nihil facere potest)41, l’azione di gestione rimarrebbe esercitabile ai fini della condanna, sebbene l’azione dotale, laddove esercitata, porterebbe senz’altro all’assoluzione, dal momento che non si può condannare a restituire ciò che non c’è. A questa interpretazione si è obiettato che, se il gestore non è, in linea di principio, da ritenersi responsabile verso la moglie di quanto il marito facere non potuit, nel caso in cui, in quanto marito, nihil facere potuit, il negotiorum gestor non può essere ritenuto responsabile di nulla, sicché dovrà essere assolto42. Quella proposta appare l’interpretazione più fedele al testo e dotata della maggiore congruità43. Scevola, dunque, accosta i due rimedi, actio rei uxoriae e actio negotiorum gestorum: pur facendo emergere l’indipendenza degli esiti processuali, il maestro sottolinea il collegamento ideale esistente tra le due azioni, così come avviene nella riflessione successiva, quando inserisce un’ulteriore limitazione all’esperimento dell’azione. Se il primo fondamentale presupposto enucleato nella fattispecie è che il marito sia stato, nel corso della gestione, nella possibilità di restituire la dote, ora si circoscrive l’ipotesi e si afferma che l’azione di gestione non si configurerà come plena (ossia per il tutto)44, ma sottoposta a una qualche limitazione (quidam modus), se, nel momento in cui ha avuto inizio la gestione – e solo in quel preciso momento (illo tempore), il marito fosse stato nella possibilità di restituire la dote. In tal caso la limitazione avrebbe trovato un preciso riscontro nel testo

40 Guarino 1978, 96, che ritiene che il brano contenga un’osservazione “troppo ovvia per non essere addebitato piuttosto ad un annotatore marginale (classico o postclassico che sia) della sua opera”. 41 Più generico Finazzi 2003 II.2, 65 quando afferma che l’espressione sembrerebbe alludere non già alla restituzione della dote, ma al fatto che il marito si sarebbe ridotto nella situazione di nihil facere posse. Circa l’espressione patrimonium amittere, l’Autore (65 s. nt. 140) ritiene che si riferisca alla sopravvenuta carenza di denaro e di beni agevolmente alienabili, non già alla perdita di qualunque cespite, che annullerebbe ex toto l’utilità dell’azione di gestione. 42 Guarino 1978, 110 e 142. 43 Diversa è la lettura in forza della quale, anche quando il marito abbia lasciato il patrimonio della moglie (amiserit), adempiendo così all’obbligazione di restituzione della res uxoria, egli sarebbe ancora obbligato nei confronti di lei a rendere il conto della negotiorum gestio: l’azione dotale porterebbe alla completa assoluzione, mentre l’azione di gestione rimarrebbe esercitabile in modo pieno (Guarino 1978, 96), assumendo una finalità esclusivamente cautelare (così Masiello 2000, 178). 44 Suggerisce Finazzi 2003 II.2, 63.

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Alessia Spina dell’istanza, con la clausola: quantum facere potuit, quamvis postea amiserit45, che richiamerebbe, nell’opzione del pronome quamvis accompagnato dal verbo al modo congiuntivo, il tecnicismo tipico della formulistica processuale46. La spiegazione proposta da Scevola appare empirica: non si può dire che il marito abbia commesso illecito nella gestione – trovando applicazione il criterio di responsabilità massimo della culpa – se non abbia sin dall’inizio distratto i suoi beni per procurarsi liquidità: con un’affermazione piuttosto vaga nei riferimenti, ma intrisa di una valutazione pratica, Scevola afferma che occorrerà vedere trascorso aliquid temporis perché si possa ritenere che abbia concluso il proprio ufficio. Quella descritta è una sezione del passo piuttosto complessa perché soffre di verosimili tagli e, forse, di un tono del discorso che ricalca l’oralità e l’improvvisazione delle discussioni scolastiche, pur conservando la cifra dello stile e del modus operandi scevoliano, ma in cui pare evincersi come l’intento didattico si concretizzi nella fattispecie in cui, tra i due rimedi, a essere fattivamente esperibile sia solo l’azione di gestione di affari; la quaestio prosegue, come è stato osservato, con l’emersione di fattispecie in cui né l’una né l’altra azione risultano processualmente efficaci47. Il verbo amittere ritorna nella sezione finale del principium, dove la perdita patrimoniale, che, con un’elegante e ricercata variatio stilistica rispetto ai periodi precedenti, viene resa con la protasi “si … res amissa est”, si è verificata prima che l’ufficio giungesse a compimento: se ne dovrebbe dedurre, dunque, che la precedente proposizione temporale postquam patrimonium amiserit sia invece da collocarsi in un momento successivo alla cessazione della gestione, come anche i commentatori bizantini avevano ipotizzato48. Si legge che, nel caso di perdita patrimoniale durante la gestione, il marito/gestore non sarà tenuto con l’azione di gestione degli affari e, con l’artificio retorico della similitudine che, secondo un consueto stilema scevoliano, è resa con il sintagma perinde … ac si, il maestro ritiene la situazione analoga a quella che si verifica laddove il marito non sia mai stato nella situazione di restituire. La parte finale del principium, introdotta nuovamente dalla congiunzione sed, appare disorganica rispetto al discorso che la precede, ma chiude la quaestio confermando l’esperibilità dell’azione di gestione anche laddove il gestore sia nella possibilità di restituire, ossia laddove l’azione dotale risulterebbe fruttuosa, poiché esisterebbe in ogni caso il pericolo che le risorse vengano meno49: in tale ulteriore spiegazione, da molti ritenuta non genuina, potrebbe ragionevolmente scorgersi, in una forma poco raffinata perché risultante da un ragionamento di struttura casistica, la ratio – anch’essa attenta a interessi di natura pratica – della concorrenza delle due azioni50.

45 Guarino 1978, 16 solleva dubbi sulla classicità del richiamo alla querella, ritenendo si riferisca al procedimento della cognitio extra ordinem di età postclassica. Solazzi 1957 (1923a), 560 ss., ritiene che i giustinianei sarebbero intervenuti sul passo sostituendo al termine procurator il pronome indefinito relativo quamvis (560, n. 22 e 562, nt. 13): sul punto Angelini 1971, 207 osserva che, nonostante la fine esegesi di Solazzi sia impossibile raggiungere la certezza circa l’intervento compilatorio. 46 Masiello 1999, 103. 47 Finazzi 2003, II.2, 68 nt. 148. 48 Così Stefano in BS 1036/18 = sc. 1 a B. 17.1.34 = sc. 70 a B. 17.1, in Z. Suppl. 149). 49 In questo senso va inteso periculum secondo Mac Cormack 1979, 131 e nt. 9. 50 Mayer-Maly 1969, 416.

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Commento. Quaestionum libri XX Il paragrafo 1 del frammento prende in esame una fattispecie connessa alla precedente dalla circostanza che la gestione spontanea si sia innestata su un rapporto obbligatorio preesistente. Se nel complesso caso del principium il vincolo già in essere configurava il gestore quale debitore nei confronti della domina negotii, in quanto obbligato alla restituzione della dote, nel paragrafo 1 il gestore è creditore del dominus e il problema giuridico attiene al concorso tra actio negotiorum gestorum e actio pigneraticia. Cambia il punto di vista dello scrivente, e si passa dall’impersonalità del principium alla forma della prima persona plurale (credimus) e si esclude la condanna alla restituzione del pegno per il creditore pignoratizio/gestore che abbia gerito gli affari del debitore, ma non sia stato in grado di soddisfare la propria pretesa: l’esclusione opera, infatti, alla presenza di due condizioni, che l’obbligazione garantita fosse pecuniaria e che non vi sia stata per il creditore la possibilità di soddisfarsi in maniera integrale per il proprio credito51. Come è stato scritto, si tratta di un rapporto speciale di gestione, operante in ambito contrattuale, che non perde la propria individualità, ma può essere fatto valere normalmente con un’actio pigneraticia, pur non potendosi escludere, a livello concettuale, il concorso tra un’actio negotiorum gestorum contraria e un’actio pigneraticia52: anzi, il brano risulterebbe la testimonianza e contrario dell’obbligo a semet ipso exigere gravante anche sul creditore pignoratizio. In particolare, se costui avesse assunto la gestione degli affari del debitore, laddove avesse raggiunto la soddisfazione del proprio credito prelevando liquidi dal patrimonio del dominus negotii, sarebbe stato tenuto, in forza dell’azione di gestione di affari, a rendere il pegno53. Pur ammettendo che il brano possa avere subito accorciamenti, anche in considerazione della forma sintetica e quasi involuta che lo connota54, immaginando che il gestore avesse interesse a bene operare per reperire somme che potessero giovare alla soddisfazione del proprio credito, non vi sono perplessità nel ricostruire il pensiero scevoliano nel senso dell’ammettere la coesistenza dell’interesse del gestore accanto alla volontà di gestire nell’interesse altrui, e che non fosse preclusivo in alcun modo dell’esercizio dell’azione di gestione degli affari55. Non appare dubbia, invero, la provenienza genuinamente scevoliana del testo, anche alla luce di rilievi stilistici che ne caratterizzano la prosa: tipica appare la costruzione del verbo teneri seguito dal verbo al modo gerundio e preceduto dalla preposizione ad, nonché, come accuratamente osservato, la prolessi e la collocazione in posizione iniziale ed enfatica della proposizione Illum … teneri56. Con la riflessione contenuta nel paragrafo 2 si esclude l’esperibilità dell’azione di gestione di affari, specificamente in concorso o in ipotetica alternativa con l’azione redibitoria: l’azione edilizia per i vizi occulti, esercitabile nel termine breve di sei mesi, rimane l’unico rimedio valido. Scevola sembra non scartare decisamente la concorrenza tra le due azioni, bensì chiarisce come, alle circostanze illustrate, l’actio negotiorum gestorum non sia esercitabile, espri-

51 Wacke 1986, 239 s. chiarisce il principio in forza del quale il creditore, sinché non trova soddisfazione, non può rinunciare alla sua sicurezza. 52 Pacchioni 1935, 385. 53 Finazzi 2006 II.2, 78 ss. 54 Lenel 1918, 135. 55 Finazzi 2003 II.1, 196 s. e nt. 276. 56 Così osserva Masiello 1999, 103.

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Alessia Spina mendo un parere che sottende la chiara percezione dello scopo precipuo dell’azione redibitoria, sintagma con cui, come è stato sottolineato, si allude non già al fine ultimo che il compratore si pone – riavere indietro il prezzo pagato – bensì alla condizione necessaria perché tale risultato si realizzi, ovvero la restituzione da parte del compratore dello schiavo affetto da vizi57. Su questo presupposto essenziale Scevola sembra concentrarsi, citando un’ipotesi generica e poi declinando ulteriormente il caso in situazioni in cui lo schiavo oggetto della compravendita non sia stato restituito, oppure sia stato restituito in condizioni peggiori rispetto alle originarie, o in carenza di quei cespiti patrimoniali che avrebbero dovuto seguire lo schiavo quali accessori dello stesso o che sarebbero dovuti derivare dall’attività dello schiavo: la parte da vel eo a nec recepisset appare una mera esemplificazione non essenziale alla comprensione del brano, in cui spicca l’utilizzo ripetuto dell’anafora (vel eo … vel quod … vel quod …; nec … nec…) e del congiuntivo imperfetto, a segnalare come si tratti di mere formulazioni ipotetiche utilizzate dal maestro a fine didattico e con una forte intonazione retorica, quasi ad aprire una parentesi esemplificativa rispetto al ragionamento principale. La vera ratio del brano è racchiusa nel periodo finale, in cui si afferma che non vi era, in quel momento, in quegli stessi beni gestiti dal compratore, sostanze sufficienti perché egli potesse restituire la res. In altre parole, non vi erano le condizioni materiali perché il gestore potesse restituire a sé, in qualità di venditore di bene affetto da vizio. Da diversa prospettiva, il compratore che intende reagire alla vendita di uno schiavo viziato, per avere indietro il prezzo versato, non potrà avvalersi di un’azione di gestione nei confronti del venditore che abbia gestito un patrimonio che non aveva in sé le risorse per realizzare la restituzione: al compratore, trascorsi sei mesi dalla vendita, non residuerebbe alcun tipo di tutela. Il paragrafo 3 si connette ai precedenti in quanto si esclude la possibilità di agire con la negotiorum gestorum actio. Il gestore viene descritto con scrupolo: è debitore di un’obbligazione imprescrittibile, fondata su un titolo autonomo, ed è facoltoso, ossia le sue sostanze sarebbero in grado di saldare il debito su di lui gravante: se costui non adempie all’obbligazione – e, precisa Scevola, a maggior ragione se non vi sono contrasti in materia di usurae, contrasti che avrebbero potuto dare àdito ad un’azione ex stipulatu – non si potrà agire nei suoi riguardi con un’azione di gestione di affari. Tra le due obbligazioni non vi è possibilità di interazione, fondate come sono su due interessi del tutto scollegati, ma soprattutto parrebbe la natura imprescrittibile dell’obbligazione a fondare l’esenzione da responsabilità del gestore: trattandosi di obligatio perpetua, non vi sarebbero rischi di prescrizione delle relative azioni. L’argomentazione di Scevola acquista un’estrema concretezza giungendo a prendere in esame un dato storico e fattuale, generico e atecnico, laddove si fa riferimento alla ricchezza del gestore: alla luce delle riflessioni svolte nei paragrafi precedenti, e soprattutto nel principium, la circostanza è, evidentemente, priva di un significato giuridico intrinseco, ma indica come sussistente quel requisito di capacità patrimoniale che si è visto rappresentare uno degli elementi dirimenti proprio nella prospettata concorrenza con l’actio de re uxoria. La scelta di un’espressione poco tecnica ma assai efficace (cum sit locuples) si potrebbe

57 Arangio-Ruiz 1990, 369 s. Sulla riflessione giurisprudenziale circa le ipotesi di sicura prognosi di inottemperanza del compratore che intendesse esercitare l’azione redibitoria senza poter soddisfare l’onere restitutorio su di lui incombente, si veda Garofalo 2000, 49 ss.

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Commento. Quaestionum libri XX spiegare, più che con una ‘caduta di stile’ del maestro – che pure potrebbe essere giustificata da esigenze didattiche – come tipica dell’empiria di Scevola: la concretezza del ragionamento scevoliano diviene criterio di risoluzione dei dubbi tecnici. Tuttavia, la capacità del patrimonio del gestore di rispondere ad una domanda ex actione negotiorum gestorum, nel caso di specie, non è sufficiente a fondare la responsabilità e potrebbe essere stata citata, altresì, quale artificio retorico idoneo a creare il contrasto rispetto alle ipotesi precedenti. Per meglio illuminare la ratio della propria affermazione, Scevola propone un esempio e contrario, menzionando la diversa ipotesi del debitore che sia pure tutore: in tale evenienza il pagamento dell’obbligazione precedente e imprescrittibile risponderebbe a un interesse dell’incaricato e tale obbligazione verrebbe inclusa nel computo di quanto dovuto laddove fosse esercitata l’azione di tutela. F. 4 – D. 12.1.38 Il brano è senza dubbio frutto di un ritaglio compilatorio, che ha selezionato una parte di una quaestio più ampia – di cui nulla si sa – inserendola tra due passaggi papinianei entrambi escerpiti dal libro I della raccolta di definitiones del giurista severiano. In particolare, l’escerto si occuperebbe della sorte – della pendenza o meno – degli effetti del negozio a cui è stata apposta una condizione in cui la verificabilità in astratto dell’evento è ignota ai contraenti. Per chiarire la portata del pensiero di Scevola nella ricostruzione giustinianea e comprendere quale significato i compilatori giustinianei abbiano inteso attribuire al breve escerto, è necessario riportare i citati passi di Papiniano: Pap. 1 defin., D. 12.1.37: Cum ad praesens tempus condicio confertur, stipulatio non suspenditur et, si condicio vera sit, stipulatio tenet, quamvis tenere contrahentes condicionem ignorent, veluti “si rex Parthorum vivit, centum mihi dari spondes?” eadem sunt et cum in praeteritum condicio confertur. Quando la condizione si riferisce al tempo presente, la stipulazione non è sospesa e, se la condizione è vera, la stipulazione ha immediata efficacia, nonostante i contraenti non sappiano che la condizione si è avverata, come “se il re dei Parti vive, prometti di darmi cento?”. Il medesimo principio vale anche nel caso in cui la condizione si riferisca al tempo passato58.

Dunque, se l’evento versato nella presunta condizione non rappresenta un evento futuro, bensì presente o addirittura passato, non si potrà parlare di condizione in senso proprio: il negozio giuridico non è sospeso, nonostante il verificarsi dell’evento dedotto in condizione sia ignoto ai contraenti. In tale discorso i commissari giustinianei inseriscono la precisazione scevoliana, creando un effetto di maggiore articolazione rispetto all’affermazione di Papiniano, secondo il quale non rileva la concreta conoscenza dell’evento da parte dei soggetti. Scevola parrebbe sostenere che la verificabilità del fatto sia potenzialmente conoscibile dagli

58 Si segnala che, almeno terminologicamente, i giuristi romani definiscono anche le condizioni improprie quali vere e proprie condizioni, come osservato da Cosentini 1952, 2 e nt. 2.

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Alessia Spina uomini in quanto tali e la sua riflessione, invero, non sembrerebbe riguardare soltanto la collocazione dell’evento rispetto alla stipulatio – evento presente, passato o futuro –, ma anche la certezza dello stesso, da valutarsi alla stregua delle conoscenze umane. Il frammento successivo, D. 12.1.39, ha scarsa connessione con il brano di Scevola e invece conclude la riflessione papinianea: Pap. 1 defin., D. 12.1.39: Itaque tunc potestatem condicionis optinet, cum in futurum confertur. Allora, dunque, la clausola ottiene l’efficacia della condizione, quando si riferisce al futuro.

Il giurista severiano così escluderebbe che il nomen condicionis possa essere correttamente applicato a clausole che prendono in considerazione eventi presenti o passati, e D. 12.1.38 parrebbe, dunque, strumentalmente utilizzato dai commissari giustinianei per specificare il pensiero di Papiniano, che, seppur spezzato nel Digesto, mostra di avere una propria unitarietà emergente dai due escerti delle definitiones. La classificazione – che è dogmatica e moderna – in condizioni proprie e improprie è assente, come noto, nel tenore letterale delle opere giurisprudenziali romane: sia Papiniano che Scevola hanno a cuore l’efficacia delle clausole che deducono in condizione un evento non futuro, né certo, in nessun modo tentando classificazioni. Occorre spendere qualche riflessione sull’espressione in hominum natura, con cui Scevola allude alla conoscibilità umana delle circostanze dedotte in condizione – espressione che era stata, nelle parole di Celso, criterio in base al quale valutare la diligenza del depositario59 – e che si contrappone alla locuzione che accoglierà Giustiniano nelle sue Istituzioni60, laddove si precisa che le condizioni che in rerum natura sono certe – ivi comprendendovi non solo quelle che si riferiscono ad eventi presenti o passati, ma anche quelle che si riferiscono propriamente ad eventi futuri – non sospendono l’obbligazione, nonostante tali eventi apud nos incerta sint, ossia nonostante fossero incerti solamente nella mente umana. Scevola sembra introdurre un criterio che prescinde dalla collocazione temporale dell’evento, ma si fonda sulla conoscibilità dello stesso: laddove la conoscenza umana – riferendosi a una natura quasi biologica61 – sia tale da intuire la verificabilità dell’evento, sarà possibile valutare la possibilità o meno della stipulazione di fare sorgere obbligazioni62. Se il manuale istituzionale del VI secolo distingue gli eventi in sé – che sono in rerum natura – dalla possibilità di conoscenza che ne hanno gli uomini – e che determina la loro incertezza – Scevola compie un’operazione intellettuale che è indizio di una precisa opzione filosofica, perché connette la consapevolezza

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Cels. 11 dig., D. 16.3.32: … nam et si quis non ad eum modum quem hominum natura desiderat diligens

est … 60 I. 3.15.6: Condiciones, quae ad praeteritum vel ad praesens tempus referuntur, aut statim infirmant obligationem aut omnino non differunt: veluti ‘ si Titius consul fuit ’ vel ‘ si Maevius vivit, dare spondes? ’ nam si ea ita non sunt, nihil valet stipulatio: sin autem ita se habent, statim valent. quae enim per rerum naturam certa sunt non morantur obligationem, licet apud nos incerta sint. 61 Didier 1981, 235 nt. 248; parla di natura hominum nel senso di “normalidad física y moral” Camacho Evangelista 1978, 49. 62 Scialoja 1933, 112 s.

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Commento. Quaestionum libri XX umana ad una dimensione fisica, dietro alla quale vi è forse l’influsso delle riflessioni di Marco Aurelio, e dell’idea della razionalità umana che solo nell’ordine cosmico si fa visibile nella sua interezza63.

LIBRO II

Il Digesto ricorda come provenienti dal libro II delle quaestiones, direttamente o per citazione indiretta di Ulpiano, otto passi il cui minimo comune denominatore, pur nell’eterogeneità degli argomenti, può essere individuato nella trattazione di problemi relativi alla titolarità e alla concreta disponibilità di beni: vi si ritrovano discussioni di portata propriamente processuale (è il caso di D. 5.2.20 [F. 5]), controversie in materia di contitolarità di diritti reali, come accade nella citazione scevoliana riferita da Ulpiano in D. 7.1.25.6 = D. 41.1.23.3 [F. 6]. Articolate esemplificazioni di dubbi circa la compravendita dello statuliber sono descritte in D. 21.2.69 [F. 7], sul quale, invero, lo stesso Lenel solleva dubbi in riferimento alla clausola edittale. I frammenti superstiti del libro II si riferiscono, infine, alla gestione delle spese funerarie (D. 11.7.46 – [F. 8]), a un’ipotesi di compensazione (D. 16.2.22 [F. 9]) e a fattispecie di acquisti compiuti nei riguardi di soggetti sottoposti all’altrui potestà (D. 14.6.4 + D. 14.6.6 – [F. 10]; D. 15.1.51 + D. 24.3.43 – [F. 11]). Qualche precisazione merita D. 5.2.20 [F. 5], che nonostante si segnali per il riferimento alla bonorum possessio Carboniana e alle relative conseguenze, è collocato dai commissari di Giustiniano al di fuori della specifica sedes materiae, rappresentata dal titolo D. 37.10 de Carboniano edicto, valorizzando il richiamo alla querela inofficiosi testamenti con la collocazione nel titolo D. 5.2 De inofficioso testamento. Lo stesso Lenel collega il testo alla clausola edittale § 52 Quibus causis praeiudicium fieri non oportet64, ritenendo preminente l’aspetto processuale della concorrenza delle azioni e del regime di pregiudizialità, che nel caso de quo si configura nei reciproci rapporti tra querela inofficiosi testamenti65, bonorum possessio ex edicto Carboniano e azione di stato mirante a verificare la condizione di figlio del de cuius, elemento indefettibile della fattispecie che consente la richiesta della possessio bonorum ex edicto Carboniano. Quanto a D. 7.1.25.6 e D. 41.1.23.3 [F. 6], nella Palingenesi di Lenel il brano della quaestio è ricostruito sulla base di un delicato incastro di citazioni ulpianee presenti nei due passi, provenienti, rispettivamente, dal libro diciottesimo e dal libro quarantatreesimo del commento

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Pesce 1959, 46 s. Apparterrebbero alla medesima rubrica edittale brani ulpianei dal libro quattordicesimo del commento all’editto del pretore, e passi paolini dal quindicesimo e sedicesimo libro all’editto del pretore: pochi gli esempi segnalati da Lenel 1927, 140 ss., tra i quali si possono ricordare Ulp. 14 ad ed., D. 5.3.5.1 e 2; Paul. 16 ad ed., D. 5.3.8 e Paul. 15 ad ed., D. 48.1.2 65 Non si intende in questa sede riflettere sulla natura rescissoria o costitutiva della querela (cfr. Marrone 1962, 401 ss.; Marrone 1967, 670 ss.), né sulla sua origine (sulla quale, D’Ottavio 2012, 23 ss.). 64

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Alessia Spina ad Sabinum ulpianeo e collocati dai giustinianei nel titolo D. 7.1 rubricato De usu fructu et quemadmodum quis utatur fruatur e nel titolo D. 41.1 De adquirendo rerum dominio. In questa sede si è preferito riportare gli interi brani recanti la citazione scevoliana, sia allo scopo di offrire la visione più ampia delle vicende oggetto di esame, sia per meglio definire la posizione del giurista antonino rispetto a quella ulpianea. Peraltro, Lenel mostra dubbi sulla clausola edittale di riferimento, proponendo si debba riferire alla formula dell’actio Publiciana (§ 59)66. Benché non sia immediatamente rinvenibile un nesso tra le fattispecie indagate e l’azione reale a tutela della proprietà pretoria, la contestualizzazione dei passi scevoliani consente di ritenere plausibile una primitiva connessione con la clausola edittale: il tema dell’acquisto di beni di cui è discutibile l’attribuzione potrebbe rientrare nella casistica dell’actio Publiciana, sicché – soprattutto in assenza di una diversa verosimile alternativa – si ritiene di accogliere la collocazione leneliana, condividendo, altresì, con lo studioso, la cautela. Per quanto attiene alla ricostruzione palingenetica ed edittale, di D. 21.2.69 [F. 7], Lenel, sulla scorta del tema affrontato nel paragrafo 6 – escerto che rompe l’andamento consequenziale della quaestio –, collega il testo alla clausola edittale de modo agri, ossia all’azione con cui si condanna al doppio colui che abbia mentito sulla misura del fondo oggetto di trasferimento67, mentre gli altri paragrafi del frammento potrebbero riferirsi – osserva lo stesso Lenel – a fattispecie in materia di compravendita68, sicché la clausola edittale di riferimento risulterebbe quella dell’actio empti venditi69. Lenel sospetta che l’intero testo sia stato oggetto di intervento compilatorio, e propone la sostituzione del lessico connesso al verbo tradere e ai sostantivi traditio e evictio con il verbo mancipere e con i sostantivi mancipatio e auctoritas, che sarebbero gli unici idonei nel II secolo a rappresentare i problemi connessi al trasferimento della proprietà, ovvero alla tutela per l’evizione in fattispecie che coinvolgono – come nella quaestio scevoliana – res mancipi. Le proposte sostitutive sono state accolte pressoché unanimemente dalla letteratura del secolo scorso70, mentre oggi si assiste ad un parziale smussamento della rigidità di tale impostazione, prudenza che nel caso in esame appare tanto più necessaria laddove si tenti una maggiore contestualizzazione. Scevola appare poco attento al momento propriamente traslativo della proprietà e piuttosto concentrato sul momento della consegna del bene, tant’è che non pare si possa escludere che non vi sia stata una mancipatio, e lo schiavo sia stato solo consegnato –, e con la consegna vi sarebbe stato il possesso ad usucapionem: il brano, in tale prospettiva, si legherebbe, altresì, alla proposta leneliana di leggere le citazioni scevoliane di D. 7.1.25.6 e D. 41.1.23.3 come sottese alla soluzione di problemi connessi all’applicazione al servo comune dell’actio Publiciana71. Anche in questa sede si è preferito valorizzare il tema dei diritti reali, escludendo che l’origine della quaestio fosse invece relativa a ipotesi di compravendita, ed accogliendo la pur cauta ricostruzione leneliana.

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Lenel 1889 II, 272; Lenel 1927, XVIII; XX; 169; 205; 350. Lenel 1927, 194 s. 68 Lenel 1889 II, 272 nt. 5. 69 Lenel 1927, 299. 70 Ex multis si segnala la posizione di Haymann 1912, 4 ss. 71 Sostiene con fermezza l’ipotesi conservativa Masiello 1999, 186, richiamando le pagine di Arangio-Ruiz 1952, 329 ss. 67

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Commento. Quaestionum libri XX Una precisazione meritano D. 14.6.4 e D. 14.6.6 [F. 10]. I due brani, riuniti da Lenel in un unico passo delle quaestiones, si collocano, come i precedenti, in connessione alla clausola edittale che si occupa di garantire tutela ai negozi conclusi con soggetti cui manca la capacità patrimoniale essendo alieni iuris72. In particolare i due escerti configurano fattispecie in cui rileva l’applicazione del senatusconsultum Macedonianum, il provvedimento del I secolo d.C. avente la finalità di ostacolare la concessione dei mutui ai filiifamilias. La scelta leneliana di classificare i frammenti come parte di una medesima quaestio appare plausibile non soltanto in considerazione della collocazione assai prossima all’interno dell’antologia giustinianea, ma anche in considerazione delle fattispecie narrate: si può, infatti, ritenere che la vicenda di D. 14.6.4 contemplasse l’ipotesi di un filiusfamilias poi divenuto paterfamilias, specularmente a quanto si legge in D. 14.6.6, dove si fa il caso di un paterfamilias divenuto filiusfamilias. D. 15.1.51 e D. 24.3.43 [F. 11] sono ritenuti da Lenel parte di un medesimo passaggio delle quaestiones, riuniti anch’essi come i precedenti sotto la clausola edittale Quod cum eo, qui aliena potestate est, negotium gestum esse dicetur (§ 104), cui corrisponde nel Digesto, oltre al titolo dedicato al senatoconsulto Macedoniano, anche i titoli da D. 15.1 a D. 15.4, le cui rubriche rimandano all’actio de peculio, all’actio de in rem verso e all’actio quod iussu. Invero, se in D. 15.1.51 non vi sono dubbi nell’ammettere la pertinenza tematica, più complesso è il discorso per quanto attiene D. 24.3.43. Infatti, lo squarcio di quaestio pervenuta e versata nel titolo D. 24.3 Soluto matrimonio dos quemadmodum petatur, verte sull’azione di dote e di ammontare della condanna e si congiunge al brano precedente perché in entrambe le fattispecie si applicherebbe il principio della delegazione delle azioni. Il legame tra i lacerti, dunque, potrebbe apparire debole, e tuttavia, proprio l’applicazione di quel beneficium competentiae, che è sottinteso nella condemnatio presupposta in D. 15.1.51 e che rappresenta il fulcro del discorso escerto dai giustinianei in D. 24.3.4373 costituisce un argomento a favore della proposta di Lenel, che dunque si ritiene di accogliere anche in questa sede. D’altro canto, anche dal punto di vista stilistico, i due passi appaiono legati: ricorre infatti in entrambi l’espressione in quantitatem, accompagnata dal genitivo debiti in D. 15.1.51, dal genitivo dotis in D. 24.3.43. F. 5 – D. 5.2.20 Il testo di D. 5.2.20 è un brano denso e difficile, che richiama la struttura sintetica dei responsa di Cervidio Scevola piuttosto che l’ampia argomentazione delle quaestiones ed è stato sospettato dalla letteratura più risalente di essere stato oggetto di rimaneggiamenti posteriori74. La fattispecie si riferisce a un caso di possessio bonorum ex edicto Carboniano, provvedimento di data incerta ma conosciuto da Labeone, come si apprenderebbe da Ner. 6 membr., D. 37.10.9 e che, come noto, introdusse una tutela speciale per il figlio impubere di un de cuius, laddove gli venisse contestata la qualifica di filius: nel caso la sua chiamata fosse stata messa in discussione attraverso un’azione di stato, egli poteva sottrarsi al processo sino al raggiungimento

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Lenel 1927, 273 ss. Lenel 1927, 273: “das über das beneficium competentiae der gewaltenlas senen, enterben, abstinierenden Hauskinder”. 74 Niedermeyer 1930, 78 ss. ritiene non genuina la parte da quin vero ad ali; Stiegler 1972, 159 ritiene che a non essere scevoliana sia una parte più ampia, da quotiens alla fine del brano. 73

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Alessia Spina della maggiore età. Il nucleo centrale di D. 5.2.20 è articolato in due parti contrapposte: la prima parte è dedicata alla situazione del possessore ex edicto Carboniano, e specificamente ai casi in cui una tale bonorum possessio viene concessa (totiens … quotiens…), nonché alle facoltà che sono date al possessore. La seconda sezione si concentra sulla posizione di colui che richiede la nullità del testamento, indicato con la perifrasi qui vero de inofficioso dicit (espressione identica a quella scelta per l’esordio del passo), precisando i limiti all’esperibilità di azioni ulteriori. Circa il possessor ex edicto Carboniano, Scevola afferma che siffatta possessio viene concessa in tutte quelle situazioni che, una volta accertato lo status di filius, porterebbero, senza possibilità di dubbio alcuno, a qualificarlo quale erede o bonorum possessor titolato del patrimonio ereditario75: questa affermazione risulta idonea, da sola, a giustificare l’esclusione della bonorum possessio ex edicto Carboniano nel caso de quo, perché se vi è necessità di esperire la querela inofficiosi testamenti, la contestazione sulla qualifica di erede è evidente e anche qualora fosse certa la qualifica di figlio, quello di erede resterebbe contestato76. La successiva proposizione introdotta da ut con valore finale è di contenuto apparentemente descrittivo, elencando le finalità dell’editto de quo: garantire il possesso e consentire all’impubere di mantenersi, evitando l’esperimento del praeiudicium che possa derivare da altre azioni. Riferendosi invece all’attore nella querela inofficiosi testamenti, Scevola descrive la relativa posizione con una serie di proposizioni negative che escludono la possibilità di svolgere attività processuali e sostanziali: egli non deve avviare azioni giudiziarie77 e non deve partecipare a processi se non alla hereditatis petitio, che è l’unica attività processuale espressamente consentita a colui che vuole affermare l’inofficiosità del testamento. In letteratura si sono sottolineate alcune anomalie e inesattezze del discorso scevoliano, insistendo sulle asimmetrie delle descrizioni fornite: anzitutto la portata dell’affermazione actionibus praeiudicium non patiatur, che è stata letta come riferimento a un generico svantaggio di fatto78; dubbi di comprensione sono sollevati dalla scelta di scindere in due segmenti solo apparentemente sinonimici la paralisi processuale che caratterizza la posizione del querelante: nec actiones movere debet nec aliam ullam quam hereditatis petitionem exercere; infine, lo stesso riferimento alla hereditatis petitio ha sollecitato perplessità, che il testo scevoliano non sembra in grado di risolvere79. Infatti, le parole del giurista sono state utilizzate tanto dai so-

75 Stiegler 1972, 64 ss. (ma anche 92 s. e 110 ss.) sottolineava un differente impiego dell’editto a seconda che chi richiedesse la possessio fosse erede o bonorum possessor, e ritiene che nel caso de quo la possibilità fosse di ricorso a una bonorum possessio ordinaria. 76 Una simile lettura confermerebbe, altresì, che l’editto carboniano si applica ai figli preteriti o emancipati, non già ai diseredati, come d’altra parte la dottrina aveva ipotizzato. In letteratura, invero, l’individuazione della ratio della decisione in una problema di legittimazione attiva alla richiesta al pretore è stata condotta attraverso argomenti estrinseci al testo scevoliano, in primis attraverso i testi del Digesto dedicati all’editto carboniano, e, più in generale, attraverso la lettura di brani dedicati alla legittimazione a richiedere la bonorum possessio contra tabulas, in nessun modo valorizzando i verba utilizzati dal giurista in D. 5.2.20, i quali già contengono una soluzione al quesito, risultando ictu oculi evidente come non sia su tale profilo che la riflessione del maestro intenda focalizzarsi. 77 Ritiene che il termine actiones designi qui, in senso ampio, ogni mezzo o schema processuale Segnalini 2007, 161 e nt. 21, ivi richiamando bibliografia specifica. 78 Lo osserva Marrone 1955, 269 che riferisce il termine ad un ‘fatto dannoso’. 79 Voci 1963, 738, sub lett. b) e consentaneo Masiello 1999, 151 s.

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Commento. Quaestionum libri XX stenitori dell’idea che in età classica la querela inofficiosi testamenti si configurasse quale fase incidentale della hereditatis petitio, secondo la tendenza giustinianea80, quanto da coloro che individuano nel giudizio di inofficiosità una causa delle hereditatis petitio81: la verifica puntuale delle due posizioni richiederebbe un approfondimento che in questa sede non si intende svolgere, sebbene io ritenga preferibile l’idea della querela inofficiosi testamenti come momento all’interno della più ampia azione di petitio hereditatis, che, peraltro, almeno a quello che è dato leggere nelle fonti di età severiana, è azione che, per la sua autorevolezza non ammette pregiudizialità82. F. 6 – D. 7.1.25.6 + D. 41.1.23.3 I passi sollevano due problemi importanti, di cui il primo relativo alla paternità del testo, essendo necessario domandarsi fino a che punto debba ritenersi conservato il pensiero di Scevola e dove si inserisca, in quanto sopravvissuto, la riflessione ulpianea83. La seconda criticità impone di indagare una presunta contraddizione emergente dal contenuto dei frammenti, allargando, altresì, l’analisi a un altro passaggio delle quaestiones di Scevola, D. 45.3.19 [F. 45], proveniente dal libro tredicesimo ed espressamente richiamato dal giurista severiano in D. 41.1.23.3 [F. 6]. In merito alla prima questione, la versione sin qui giunta dei due frammenti ulpianei consente di ritenere veritiero il puntuale richiamo operato alle quaestiones di Scevola, e specificamente al libro secondo, all’interno del quale il tema dei diritti reali e degli acquisti compiuti da sottoposti all’altrui proprietà trova ampia trattazione. Il pensiero parrebbe scevoliano, così come alcuni lemmi presenti nella citazione e ricorrenti in entrambi i lacerti: ci si riferisce, in particolare, alle espressioni rationem facere, ei dumtaxat e all’avverbio nominatim, presenti nei brani in esame e nel già citato D. 45.3.19, di diretta attribuzione scevoliana. Il secondo quesito è di maggiore complessità e richiede di ripercorrere i passaggi del discorso ulpianeo e di valutare come in esso si insinui la quaestio ricordata. D. 7.1.25.6 verte sulla sorte dell’acquisto derivante dall’obbligazione contrattuale ex stipulatu conclusa da uno schiavo, sul quale due soggetti vantano un diritto di usufrutto ottenuto impegnando il patrimonio (ex re) di uno solo degli usufruttuari: si domanda se a quest’ultimo spetti l’intero o solamente una parte in proporzione alla percentuale di usufrutto e, per risolvere il quesito, Ulpiano cita la discussione avvenuta nella scuola scevoliana, riportando argomenti non immediatamente coincidenti con il casus proposto: la situazione di partenza è, infatti, quella di uno schiavo, posseduto da due distinti soggetti, che si era fatto promettere con stipulatio impegnando il patrimonio di uno solo dei due suoi possessori, ma il dubbio attiene ancora alla ripartizione degli acquisti, sostenendo Scevola, sulla base del senso comune (volgo creditum) e di un generale principio di ragionevolezza (rationem facere), che in parte l’acquisto sia da attribuirsi al possessore, in parte al proprietario dello schiavo. Seguono una serie di proposizioni, che potrebbero rievocare la struttura originaria della quaestio: il maestro, dopo la prima so-

80 Si tratta della percezione espressa da Renier 1942, 198, in generale seguita da Marrone 1962, 402 ss. e poi accettata, proprio in forza di D. 5.2.20, ex multis, da Gagliardi 2000, 292 nt. 463. 81 Sanguinetti 1996, 142, che ritiene la posizione di Scevola vicina a quella dello scoliaste Stefano. 82 Ulp. 14 ad ed., D. 5.3.5.2. 83 Cfr. Honorè 2002, 48, nt. 97; 52 nt. 155; 139, nt. 110; 205, nt. 140.

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Alessia Spina luzione, modifica i dati di fatto e, ipotizzando ancora una stipulatio avvenuta ex re di uno solo dei possessori, vi aggiunge un dato ulteriore, l’indicazione nominativa (nominatim), che modifica la portata dell’attribuzione patrimoniale per l’intero. Ragionando attraverso lo strumento retorico della similitudine (pro nomine … idemque… idem et), evidente, altresì, in una serie di proposizioni in cui l’uso anaforico del pronome idem convince della paternità scevoliana dell’intero paragrafo 6, Scevola estende l’acquisto in solidum anche nell’ipotesi in cui la stipulatio ex re sia stata autorizzata dal possessore. Diversamente dalla ricostruzione di Lenel84, si ritiene scevoliano anche il passaggio finale, dove gli esiti del ragionamento svolto vengono applicati all’iniziale ipotesi ulpianea, ossia al caso di una pluralità di usufruttuari (in fructuariis), decidendo nel senso di ammettere all’acquisto in parte l’usufruttuario, in parte il dominus dello schiavo: si tratterebbe di una possibilità esegetica della cui fattibilità Scevola dovette dare già prova (ostendimus) e che è risultato funzionale alla riflessione di Ulpiano, proprio perché corrispondente al dubbio in origine sottoposto. Ulpiano, dunque, avrebbe riportato, seppur in una versione sintetizzata, lo scheletro argomentativo dell’intera quaestio e non si sarebbe limitato alla semplice citazione del maestro antonino. Una struttura analoga e vicende simili a quelle di D. 7.1.25.6 si rinvengono in D. 41.1.23.3 (all’interno del titolo rubricato De adquirendo rerum dominio), laddove si ricorda il caso di uno schiavo che serva due soggetti bona fide; dunque non entrano in gioco diritti reali minori, né il possesso in senso stretto, ma la fattispecie parrebbe riferirsi a una situazione di fatto in cui un soggetto viva alle dipendenze di due diversi padroni: lo schiavo acquisterà per ciascuno dei due, ma se la stipulatio sarà stata fatta impegnando il patrimonio di uno solo di essi, si sarà acquistato esclusivamente per questo. Trattandosi di una situazione potenzialmente idonea a determinare una discrepanza tra fatto e diritto, tra apparenza e verità giuridica, Ulpiano precisa, nella parte da quod autem a videamus, che una diversa sorte subirà l’acquisto se lo schiavo sia realmente tale, rispetto al caso in cui, pur vivendo da schiavo, egli sia in verità libero. Si inserisce, dunque, la citazione di Scevola, che nel medesimo libro secondo delle Questioni, circoscrivendo la fattispecie al servus alienus che sia bona fide serviens (e dunque tralasciando il caso dell’homo liber bona fide serviens), esprimerebbe un parere in termini opposti rispetto al passaggio versato in D. 7.1.25.6 e, come si vedrà, più vicini a quelli da lui stesso esposti nel tredicesimo libro delle quaestiones, secondo quanto è dato leggere in D. 45.3.19: ivi Scevola, infatti, afferma che se lo schiavo si fa promettere su mezzi tratti dal patrimonio di uno solo dei soggetti di cui appare sottoposto, questi riceverà non già pro parte – come aveva affermato in D. 7.1.25.6 per il possessore in buona fede – bensì per l’intero85. Seguono poi una serie di ragionamenti che, in parallelo con lo svolgimento di D. 7.1.25.6, assimilano la fattispecie di chi conclude stipulatio ex re nominativamente a quella dello schiavo che agisca dietro un iussus, quest’ultimo da intendersi come “canalizzatore” degli acquisti del servus86. In assenza di tali due condizioni, anche una promessa conclusa ex re su uno specifico patrimonio sarà idonea a fondare l’acquisto per l’intero, secondo l’argomentazione svolta da Scevola (probat): quest’ultimo passaggio viene svolto – precisa Ulpiano – in inferioribus, ossia

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Lenel 1889 II, 272. Buckland 1908, 394. Di Porto 1984, 111.

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Commento. Quaestionum libri XX verosimilmente, nel segnalato passo delle quaestiones scevoliane, versato in D. 45.3.19, e proveniente dal libro tredicesimo, che descrive – e questa volta senza il tramite della citazione indiretta – il problema dell’acquisto compiuto dallo schiavo altrui che serve due possessori in buona fede. In D. 41.1.23.3, se sino alle parole mihi soli adquirat sembrerebbe scontato vedere il pensiero di Scevola, più dubbia appare la paternità della frase successiva, da nam et illud a cui potest, in cui si cita la situazione dello schiavo in comproprietà, nel caso in cui non possa acquistare, così creando un’analogia con la situazione del compossessore di uno schiavo il cui patrimonio non venga impegnato: il riferimento alla recezione di una simile linea interpretativa (receptum est) farebbe scorgere il pensiero ulpianeo, esattamente come nella parte che chiude il paragrafo, laddove si richiama la posizione consentanea di Giuliano87. Sulla segnalata contraddizione tra i due brani si sono concentrati i maggiori sforzi di interpretazione; come accennato, gli indizi lessicali sono tali da fare propendere per l’unicità del testo commentato, sicché le strade percorribili risultano poche. Se si elimina la posizione della letteratura più risalente, rappresentata ad esempio da Cuiacio, il quale ipotizza che Scevola abbia cambiato idea nel passaggio dal secondo al tredicesimo libro88, ovvero la tesi che congettura un’edizione postuma delle quaestiones – sulla suggestione delle vicende testuali verosimilmente subite dalle due raccolte di digesta e responsa89 – le alternative sono state tutte nel senso di ipotizzare un intervento giustinianeo che abbia modificato uno dei due testi – e più spesso si ritiene interpolato D. 41.1.23.390 – per rispondere alle esigenze contingenti91. F. 7 – D. 21.2.69 Il lungo brano scevoliano rappresenta il testo di una quaestio dedicata, nel suo complesso, all’esclusione della garanzia per l’evizione per il venditore che abbia dichiarato la libertà – pura o condizionata – dello schiavo oggetto del contratto. Essa, che si snoda attraverso un’ordinata e consequenziale progressione di fattispecie, si segnala per la coerenza interna del pensiero scevoliano (nonostante vi sia chi ne colga contraddizioni), per la tecnica argomentativa applicata e per la connessione con cogenti problemi della prassi, evidenti nella frequenza con cui i giuristi del II secolo avevano affrontato il tema della condizione di statuliber e, specificamente, della libertà testamentaria subordinata alla condizione di reddere rationes, di cui vi è traccia nel paragrafo 4.

87 Si domanda Grosso 1958, 230 s. se quello riportato alla fine del frammento possa ritenersi un residuo di un discorso più ampio finalizzato a giustificare la citazione scevoliana. Sulla chiusa del brano, che riassumerebbe fedelmente un principio presente a Giuliano, si sofferma Lovato 2003, 367 s., nt. 192. 88 Cuiacio 1722, 89. 89 Ex multis, sul problema: Schulz 1946, 232 s. 90 Così Grosso 1958, 158, nonché implicitamente Lenel 1889 II, 272, ricostruendo il passo nel suo complesso attraverso l’assimilazione della prima parte di D. 41.1.23.3 al testo di D. 7.1.25.6, nonché Beseler 1924, 384 s. e, recentius, Reggi 1958, 425, sostenendo la natura interpolata dell’espressione bona fide servire, nonché Bretone 1958, 78 ss., a parere del quale “il pensiero di Scevola è stato capovolto dai compilatori in un altro brano di difficilissima lettura”. Ritiene, invece, genuino D. 41.1.23.3 e spurio D. 7.1.25.6, sulla base soprattutto del richiamo formulato, con l’espressione in inferioribus, a D. 45.3.19: Berger 1922b, 304 e 398 ss. 91 Le letture che hanno colto importanti interventi compilatori sui passi sono state numerose: ex multis devono essere citati: Lenel 1889 II, 1175 nt. 1; Salkowski 1891, 246 ss.; Berger 1922b, 401 ss.; Beseler 1920, 21 e 74; Beseler 1924, 384.

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Alessia Spina Giova, per chiarezza espositiva, ripercorrere i contenuti dei singoli brani, in cui lo schema fattuale costante è rappresentato da un venditore che, al momento della consegna dello schiavo, compie una dichiarazione finalizzata a escludere la propria responsabilità per evizione. Su tale dichiarazione si concentra la riflessione del maestro al fine di verificarne l’efficacia, alla luce di una serie di variabili casistiche e della valutazione giurisprudenziale già compiuta in merito. Nella prima fattispecie la dichiarazione ha successo: se il venditore al tempo della compravendita (in venditione) afferma di non volere rispondere per l’ipotesi di causa libertatis (che secondo taluno si riferirebbe al processo di libertà, e specificamente alla vindicatio in libertatem92), sarà esonerato sia laddove il presunto schiavo fosse già libero, sia laddove lo schiavo avesse raggiunto la libertà in seguito all’avveramento della condizione contenuta nel testamento che ne prevedeva la manomissione: quest’ultima condizione viene definita dalle fonti statulibertas93, e su di essa si concentrano i successivi passaggi, in cui Scevola dirige la quaestio attraverso uno schema che simula la forma dialogica94. L’autem in seconda posizione nel paragrafo 1 anticipa una diversa soluzione per il caso in cui, invece che riferirsi genericamente a una causa libertatis, il venditore, all’atto della consegna, abbia espressamente richiamato la situazione di statuliber, e, dunque, come spiega lo stesso Scevola, una determinata species libertatis: egli sarà esonerato dall’evizione nel caso in cui la condizione versata nel testamento si avveri; quando, invece, si fuoriesca dall’ambito della fattispecie di uno statuliber– immaginando, come fa Scevola, che la libertà fosse stata concessa pure nel testamento e, dunque, con effetto immediato e non posticipato (si può cogliere la contrapposizione in praeterito … praesens) – la dichiarazione non avrà l’effetto di escludere la responsabilità per evizione95. Il § 2 inizia ribadendo, dalla prospettiva del venditore, la medesima considerazione: si legge, infatti, che la consegna di uno statulibero con la connessa dichiarazione che ne esplicita la condizione, appare svantaggiosa (Scevola parla di condicio deterior) per il venditore, che si sarà precluso la possibilità di esonero dall’evizione per tutte quante le ulteriori causae libertatis non rientranti nella condizione degli statuliberi. Scevola propone poi un’esemplificazione, introdotta dal consueto sintagma veluti si, descrivendo una vendita nell’ambito della quale il venditore abbia dichiarato l’esistenza di una condizione diversa da quella realmente versata nel testamento. Se nella dichiarazione il venditore abbia affermato – forse per compiacere il compratore medesimo96 – che l’evento dedotto in condizione fosse la corresponsione di una somma di dieci, mentre era il trascorrere di un anno, Scevola afferma che si conserva la responsabilità per evizione. Nel paragrafo 3 il tono muta, con un esordio rappresentato da una proposizione interrogativa diretta in cui Scevola si

92 Masiello 1999, 182, sebbene sia d’uopo sottolineare come le fonti, quando intendano riferirsi al cd. processo di libertà, accompagnano il sostantivo causa con l’aggettivo liberalis, non già il genitivo libertatis: cfr. Spina 2015, 257 alla luce della bibliografia ivi citata. Sembrerebbe più corretto intendere il termine come relativo al principio di specificazione di singoli istituti giuridici: Diaz Bialet 1971, 370. 93 Sarebbe lo stesso Scevola nell’esaminando D. 21.2.69.1 a proporre una definizione di statuliber, come osserva Starace 2006, 1 ss. 94 Masiello 1999, 132 ss. 95 Più diretto Giuliano, quando, in un passaggio in materia di actio Publiciana, afferma: Iul. 57 dig., D. 21.2.39.4: Qui statuliberum tradit, nisi dixerit eum statuliberum esse, evictionis nomine perpetuo obligatur. 96 Così spiega la rilevanza pratica dell’ipotesi Masiello 1999, 182.

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Commento. Quaestionum libri XX chiede se non debba essere interpretato come atteggiamento menzognero quello del venditore che abbia riferito di una condizione avente ad oggetto il pagamento di una somma di dieci anziché di venti. La risposta data da Scevola è affermativa, ed è formulata sulla base di una valutazione di aderenza tra la realtà dei fatti e la dichiarazione97, sicché risulta corrispondente ad una veritas materiale e verificabile la constatazione che anche egli, come già il venditore dell’ipotesi precedente, abbia mentito. A prevalere, infatti, sarebbe stata la posizione fondata sull’auctoritas (nell’accezione di autorevolezza e prestigio98) di Servio99, il quale aveva ritenuto esperibile l’actio empti100. Scevola fonda posizione serviana su di una valutazione di evidenza (videlicet), ritenendo che Servio avesse valorizzato il generico richiamo a una condizione avente ad oggetto una prestazione di dare, non risultando decisivo l’ammontare della somma: la correttezza sull’evento principale della condizione dedotta sarebbe sufficiente a rendere la dichiarazione idonea a esonerare dall’evizione101. Nel paragrafo 4, si modifica, invero, il contenuto della condizione: l’oggetto dell’ordine è l’attività di rendicontazione del patrimonio di fatto dello schiavo, la quale non viene correttamente menzionata dall’erede che compie la traditio, ritenendo egli di un obbligo di versare una somma di denaro: si è, evidentemente, fuori dall’ipotesi poco prima affrontata con il ricorso all’autorità di Servio. Scevola scinde il discorso in due ipotesi alternative, contemplando in primo luogo il caso in cui il rendiconto non avesse evidenziato passività, sicché lo schiavo sarebbe divenuto libero non appena accettata l’eredità e la responsabilità per evizione doveva ritenersi sussistente, dal momento che la consegna era viziata da una dichiarazione falsa; si è affermato che l’uomo consegnato fosse uno statulibero ed invece si trattava di un uomo libero a tutti gli effetti. In secondo luogo si ipotizza che nelle rimanenze peculiari fossero presenti i cento menzionati dal venditore: in questo caso potest videri heres non esse mentitus. Espressamente utilizzando un argomento per consequentiam (cui consequens)102, Scevola chiude il brano con un ulteriore quesito: se ciò che residuava fosse inferiore ai cento dedotti nella fittizia condizione dichiarata (e propone l’esempio di cinquanta), lo schiavo acquisterebbe subito la libertà, pur conservando il compratore, in riferimento ai rimanenti cinquanta, l’azione da compera. F. 8 – D. 11.7.46 Il frammento scevoliano è collocato da Lenel sotto il titolo edittale XVI De religiosis et sumptibus funerum, cui corrisponde nella Compilazione i titoli D. 11.7 e C. 3.44103.

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Miglietta 2012, 232 e bibliografia ivi citata. Gallo 1982, 435 s. e nt. 65. 99 Scrive Giaro 1994, 86 (cfr. anche Giaro 1987, 29 e nt. 89) che “Erstens wagt es nicht jeder, eine abweichende Meinung zu vertreten, wenn er kein Servius Sulpicius ist”; sull’auctoritas e sulla forza di persuasione che la connota, Levy 1965, 76 e nt. 388. 100 Lenel 1889 II, 30. Si deve a Schwarz 1951, 221 nt. 4, poi ripreso da Miglietta 2010, 413 il rilievo che anche nel testo gaiano di Gai. 3.149 si afferma il prevalere dell’auctoritas serviana con un’espressione molto simile: Servius Sulpicius cuius etiam praevaluit sententia … 101 Masiello 1999, 183 sottolinea che Servio avrebbe valorizzato la natura della condizione, che non risulterebbe lesa dalla falsa indicazione della somma. 102 Waldstein 1975, 44 e nt. 74. 103 Lenel 1927, 226 e nt. 1. 98

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Alessia Spina Il testo ruota attorno all’apertura di una successione mortis causa i cui lasciti – a titolo particolare nel principium e nel paragrafo 2, a titolo universale nel paragrafo 1 – subiscono decrementi a causa delle spese funerarie della sepoltura del cadavere104. I brani appaiono il risultato di una significativa riduzione posta in essere dai compilatori giustinianei, sicché ad oggi residuano solo tre fattispecie assai specifiche che, pur dedicate ad un medesimo tema, appaiono autonome e decontestualizzate dal tessuto argomentativo della quaestio originaria. Il regime giuridico sotteso alle vicende in esame prevede che le spese funerarie costituiscano onere dell’eredità e che l’erede sia, pertanto, legittimato passivo di qualunque azione finalizzata a ottenere un ristoro per eventuali detrimenti che, ad esempio, i legatari abbiano subìto per i funerali e per la sepoltura del defunto105. Nel principium un testatore ha lasciato in legato l’usufrutto di diversi fondi a diversi destinatari: l’attribuzione è avvenuta separatim con legati che devono presupporsi per vindicationem, e il testatore non ha indicato il luogo della propria sepoltura, sicché la scelta, che si traduce in uno svantaggio per l’usufruttuario il cui fondo è stato individuato, spetta all’erede. All’usufruttuario che ha subìto il danno, dice Scevola, spetterà un’azione ‘utile’106, ossia adattata dal pretore, da esperire nei confronti dell’erede per recuperare l’entità patrimoniale corrispondente al disvalore economico che l’electio ha determinato sul fondo. Sebbene in letteratura si sia sostenuto che l’actio modificata nella fattispecie fosse un’actio ex testamento107, si ritiene preferibile ipotizzare un adattamento dello schema edittale specificamente dedicato al recupero delle spese funerarie, come viene ricordato da Ulpiano: Ulp. 25 ad ed., D. 11.7.12.2: Praetor ait: ‘Quod funeris causa sumptus factus erit, eius reciperandi nomine in eum, ad quem ea res pertinet, iudicium dabo’. Il pretore afferma: “Per quanto riguarda le spese sostenute per il funerale, concederò azione per il loro recupero contro colui al quale spetta sostenerle”.

La clausola edittale, dunque, attribuiva l’obbligo di rifondere le spese funebri a colui che fosse direttamente tenuto a ciò (is, ad quem ea res pertinet), e non già a colui cui fossero pervenuti per successione i beni del defunto108: a fugare ogni dubbio è sufficiente il richiamo letterale al testo dell’editto che Scevola compie, indicando lo scopo dell’azione (ad recipiendum). La

104 I sepolcri appartengono alla categoria delle res religiosae, le quali, come spiega Gai. 2.4, sono beni lasciati agli dei Mani (Talamanca 1990, 380 s.). 105 Sul tema della legittimazione passiva all’actio funeraria, De Francisci 1920, 275 ss. 106 L’actio utilis è un’azione decretale, civile o onoraria, che viene data dal pretore “al di fuori dei presupposti previsti per la sua concessione, ma codesta qualifica nulla dice circa il modo in cui l’azione edittale viene adattata al caso concreto”. Essa si modella su un’azione edittale e ne segue il regime: Talamanca 1990, 318. 107 Sotty 1977, 537 s. 108 Specificamente sul punto De Francisci 1921, 295. Cenderelli 1981, 265 ss.; 1997, 75 ss. Per l’autonomia dell’actio funeraria rispetto alla negotiorum gestio, già si era espresso Lenel 1927, 229 s. (§ 94) 1927; recentius, Paricio 1985, 453 (distinguendo un’actio funeraria in bonum et aequum da un’actio negotiorum gestorum pretoria); Cenderelli 1997, 75 ss.; Finazzi 1999, 112 e nt. 51, che sottolinea la regolamentazione peculiare dell’actio funeraria in funzione dell’interesse tutelato.

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Commento. Quaestionum libri XX modifica potrebbe intervenire sull’aestimatio della somma dovuta, dovendosi parametrare il danno alla valutazione della diminuzione patrimoniale, così come si ricaverebbe, altresì, dal tenore letterale del paragrafo 1 di D. 11.7.46, dove è esplicitato il criterio da applicarsi per la quantificazione del danno: pro aestimatione loci109. Nel paragrafo 1, infatti, si ripropone il caso di una sepoltura di un cadavere in un fondo ereditario e la defunta è una donna che si deve presumere emancipata, avendo ella sia beni dotali sia beni suoi propri. Scevola parrebbe derogare alla regola poc’anzi ricordata, in forza della quale le spese funerarie gravano integralmente sull’asse ereditario, essendo richiesta una partecipazione del marito, il cui contributo dovrà essere proporzionato al valore economico del luogo dove avviene la sepoltura. Il paragrafo 2 richiama un problema giuridico simile a quello del principium: l’oggetto del legato sono i vestimenta, i quali vengono però utilizzati per i riti funebri, creando nel destinatario del lascito un danno patrimoniale che l’erede è chiamato a risarcire. Il rimedio suggerito da Scevola è duplice e appare, nelle parole del maestro, il risultato di una riflessione giurisprudenziale precedente (placuit): al legatario spetta un’actio utilis e un privilegium exigendi. Anche per tale fattispecie sembra sia da escludersi che l’azione adattata dal pretore consista in un’actio ex testamento110, optandosi invece per una modifica alla formula dell’actio funeraria, che rappresentava il rimedio accolto dai giuristi precedenti (placuit). Pare difficile ricostruire quale sia la giurisprudenza più antica cui Scevola fa riferimento. Invero, alcuni lacerti sopravvissuti nei Digesta Iustiniani consentono di immaginare che Labeone avesse svolto una significativa attività di interpretazione dell’actio funeraria111. Si confermerebbe, dunque, l’esistenza di una tradizione giurisprudenziale che dalla prima età imperiale giunge sino al III secolo, che si muove attraverso l’affinamento dell’interpretazione della clausola edittale, adattandola per un migliore contemperamento degli interessi in gioco. Sebbene non sia esplicitato nel testo in quale direzione dovesse operare la modifica alla struttura della formula, si potrebbe pensare che anche nel caso versato nel paragrafo 2, come nell’ipotesi del principium, il ricorso a un’azione utile dipendesse dalla necessità di parametrare il danno alla diminuzione che il lascito patrimoniale ha subìto, in luogo di un mero rimborso delle spese sostenute, che rappresenta l’ipotesi originaria prevista nella clausola edittale. Quanto, infine, alla natura privilegiata del credito funerario, segnalata in chiusura, essa emerge con una particolare chiarezza dal passo di Meciano che nell’antologia giustinianea precede il brano scevoliano e che assume la forma di una massima avente alla base uno ius receptum112. Si legge, infatti: Maec. 8 fideicomm., D. 11.7.45: Impensa funeris semper ex hereditate deducitur, quae etiam omne creditum solet praecedere, cum bona solvendo non sint113.

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Sotty 1977, 538. Così nuovamente Sotty 1977, 538. 111 Si pensi a Ulp. 25 ad ed., D. 11.7.8; Ulp. 25 ad ed., D. 11.7.14.12; Ulp. 25 ad ed., D. 11.7.14.13; Ulp. 25 ad ed., D. 11.7.14.15; Ulp. 25 ad ed., D. 11.7.14.16; Paul. 27 ad ed., D. 11.7.32.1. 112 Sul quale Minale 2020, 225 s. 113 Sulla natura di credito privilegiato in caso di spese sostenute per la sepoltura e i funerali, si veda Wieling 1988, 296. 110

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Alessia Spina Le spese funerarie devono essere sempre dedotte dall’eredità, anche quelle che solitamente costituiscono anche credito privilegiato rispetto a tutti gli altri crediti laddove i beni non siano sufficienti a soddisfare i creditori114.

Una riflessione può essere svolta sulla scelta di utilizzare proprio l’espressione privilegium, con cui sembra alludersi a veri e propri diritti particolari, “che in una valutazione comparativa tengono il primo posto”115: è possibile che il sintagma, in un primo tempo sorto per qualificare il credito del fisco, abbia poi assunto un’ampiezza maggiore, riconosciuta e utilizzata, altresì, da Marco Aurelio in un editto che viene ricordato da Ulpiano in più occasioni sia nel commentario edittale sia nel liber singularis de officio consularium116. Anche sotto questa prospettiva, dunque, Scevola pare collocarsi in una posizione consentanea rispetto all’elaborazione giurisprudenziale condotta sino al II secolo in materia di spese funerarie e di rimedi per tutelare i soggetti destinatari di lasciti a titolo particolare nei confronti dell’erede, secondo una tendenza – o forse un vero e proprio favor – che spicca, altresì, in alcuni passaggi delle opere casistiche117. F. 9 – D. 16.2.22 Il breve frammento è dedicato al tema della compensazione e, nell’ordine edittale, coincide si collega alla clausola De compensationibus (§ 100)118. I compilatori hanno evidentemente selezionato, dalle righe di una quaestio più articolata, un breve passaggio; nella versione a noi tramandata Scevola afferma che, sussistendo un’obbligazione alternativa avente ad oggetto una somma di dieci ovvero uno schiavo, a seconda di quale bene l’avversario scelga, su di esso si dovrà verificare la possibilità di compensare, sempre che in precedenza l’avversario medesimo abbia dichiarato quale dovesse essere l’oggetto della prestazione. Tra i tentativi di contestualizzazione, l’ipotesi di riferire il passo ai rapporti di natura obbligatoria consistenti in reciproche partite di credito e debito frequenti tra argentarii e clienti ha riscosso adesioni fin’anche in tempi recenti e appare una ricostruzione verosimile119. Sul passo sono stati segnalati importanti dubbi di autenticità. Si è osservato, anzitutto, che nel caso proposto, l’obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro o uno schiavo si sarebbe dovuta riversare in una stipulatio oppure in un legato, ossia in fattispecie che avrebbero dato luogo a giudizi stricti iuris, mentre all’epoca di Scevola la compensazione avrebbe trovato applicazione nel solo sistema dei iudicia bonae fidei120. Tale ricostruzione par-

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Wieling 1988, 296; Wieacker 1977b, 3. Orestano 1937, 125 s. 116 Si rinviene in Ulp. 17 ad ed., D. 42.3.1; in Ulp. lib. sing. de off. cons., D. 12.1.25; e in Ulp. 43 ad ed. D. 42.5.24.1, sul quale Orestano 193-1937, 269; Scarano Ussani 1992, 142 ss. in particolare nt. 6 e 146 ss. 117 Sul punto Spina 2012, 588 ss. 118 Lenel 1927, 256. 119 Così ricostruisce il brano Appleton 1895, 154: Si argentarius debet decem aut hominem, utrum adversarius volet, ita compensatio huius debiti admittitur, si adversarius in iure dixisset pecuniam velle. Accolgono la ricostruzione o collegano il contenuto del passo alla prassi tipica degli argentarii, Solazzi 1950, 64 ss.; Grosso 1966, 197 s.; Pichonnaz 2001, 200 ss. 120 Appleton 1895, 429; Biondi 1927, 129 ss.; Solazzi 1950, 147. 115

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Commento. Quaestionum libri XX rebbe da respingersi decisamente, se solo si ricordi come sia stato proprio l’imperatore Marco Aurelio, di cui Cervidio Scevola fu consigliere fidato, a introdurre, con un rescritto121, la possibilità di fare valere nei giudizi ‘di stretto diritto’, per il tramite di un’eccezione di dolo, la compensazione: I. 4.6.30: … sed et in strictis iudiciis ex rescripto divi Marci opposita doli mali exceptione compensatio inducebatur. sed nostra constitutio eas compensationes quae iure aperto nituntur latius introduxit 122. Tuttavia, un rescritto del divo Marco Aurelio inseriva una compensazione anche nei giudizi ‘di stretto diritto’, per il tramite dell’opposizione di un’eccezione di dolo. Tuttavia, una nostra costituzione introdusse con maggiore ampiezza quelle compensazioni che facevano leva su un diritto evidente123.

Dubbi ha suscitato anche la menzione dello schiavo, dovendosi escludere una compensazione tra beni infungibili; dovrebbe ammettersi che nel caso in esame la scelta del creditore/convenuto fosse dovuta ricadere sulla somma di denaro, sebbene di questo passaggio non vi sia traccia esplicita nel testo124. In una simile prospettazione, perché possa avere un senso l’inciso di esordio utrum adversarius volet, ita compensatio huius debiti, che ripropone l’electio al tempo presente, sembrerebbe da accogliersi la tesi di quella letteratura che immagina, nei rapporti tra argentarii e mercanti, la prassi di un doppio e parallelo sistema di conto, l’uno dedicato alle somme di denaro, e l’altro ai beni in natura, tra i quali spiccavano gli schiavi125, sicché “solo dopo che la scelta è stata effettuata, il banchiere potrà scegliere la compensazione del genere scelto”126. Nuovamente colpisce, in un’epoca ricordata per lo spiccato favor libertatis e per una legislazione che ne è espressione, il porre sullo stesso piano, quale oggetto di un’obbligazione uno schiavo e una somma di denaro. Infine, l’avverbio palam ha generato numerose critiche, essendosene rilevata l’estraneità in un contesto che si è presupposto processuale ed essendone stata frequentemente proposta

121 Sul rescritto di Marco Aurelio c’è buio assoluto nelle fonti. Scrive Biondi 1927, 34 s.: “incerta è la sfera di applicazione del rescritto, incerta ne è la portata, incerta è la sua connessione con il regime delle mutuae petitiones”. 122 Si riporta uno stralcio più ampio del brano delle Istituzioni: I. 4.6.30: … sed et in strictis iudiciis ex rescripto divi Marci opposita doli mali exceptione compensatio inducebatur. sed nostra constitutio eas compensationes quae iure aperto nituntur latius introduxit, ut actiones ipso iure minuant, sive in rem sive personales sive alias quascumque, excepta sola depositi actione, cui aliquid compensationis nomine opponi satis impium esse credidimus, ne sub praetextu compensationis depositarum rerum quis exactione defraudetur. 123 La costituzione giustinianea cui si riferisce il brano delle Istituzioni, ben potrebbe essere fatta coincidere con C. 4.31.14, del 1 novembre 531. 124 In particolare, per superare l’impasse rappresentata dalla menzione di un bene in natura, si è immaginato che, nella fattispecie, la scelta sia stata compiuta concentrandosi sulla somma di denaro, sicché la compensazione sarebbe divenuta una strada processuale percorribile (admittitur): Appleton 1895, 154. 125 Andreau 1997, 199 e nt. 28; Andreau 1987, 421 s.; quest’ultimo contributo ha suscitato le perplessità di Talamanca 1988, 833, soprattutto in ordine alla formula con cui si farebbe valere un’obbligazione di genere avente ad oggetto uno schiavo. 126 Così Masiello 1999, 191, che dinanzi ai problemi di contenuto che il brano pone, non esclude che Scevola sia incorso in un errore (richiamando le esemplificazioni di Fehlen giurisprudenziali evidenziati, nella produzione di Giavoleno, da Eckardt 1978 113 s.).

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Alessia Spina la sostituzione con il complemento de iure127, nonché la modifica del tempo voluisset con l’infinito presente velle: la compensazione sarebbe ammissibile laddove il debitore/convenuto dichiarasse nella fase in iure che la propria scelta era caduta sulla somma di denaro128. A questa tesi possono essere mosse contestazioni e il testo non presenta elementi tali da fare ritenere la dichiarazione avvenuta necessariamente in fase processuale129. Anzi, ammettendo che la dichiarazione fosse stata resa in un momento antecedente l’avvio della causa, si potrebbe giustificare la scelta dell’avverbio palam, nonché di una consecutio temporum che sfocia nella protasi condizionale si adversarius palam dixisset e nella completiva utrum voluisset. Scevola potrebbe, infatti, avere dinanzi a sé il caso di un attore/creditore e, contemporaneamente, debitore di un’obbligazione in origine alternativa, ma su cui la scelta era stata effettuata prima dell’esperimento dell’azione, con una modalità manifesta: è, d’altra parte, frequente, nel lessico dei giuristi130, l’accostamento tra l’avverbio palam e verbi dichiarativi. L’avverbio palam potrebbe richiamare l’espressione iure aperto che compare nelle Istituzioni giustinianee, in I. 4.6.30, per descrivere il contenuto di C. 4.31.14, del 531131, la cui lettura chiarisce come l’imperatore richiedesse, per una corretta e agevole applicazione giudiziaria delle compensazioni, che per il giudice fosse agevole la verifica132. La dichiarazione pubblica dell’oggetto dell’obbligazione, dunque, avrebbe consentito di soddisfare un eventuale onus probandi in sede processuale. Più precisamente, la scelta effettuata in sede stragiudiziale avrebbe potuto fondare, in giudizio, quella stessa eccezione di dolo che, sulla base del rescritto di Marco Aurelio avrebbe reso operante anche nei giudizi ‘di stretto diritto’ la compensazione133. F. 10 – D. 14.6.4 + D. 14.6.6 Nel primo dei due brani che si ritengono provenienti da una medesima quaestio, Scevola esclude l’applicazione del provvedimento, di età vespasianea, noto come senatusconsultum Macedonianum, qualora il filius alieni iuris abbia compiuto una promessa stipulatoria avente ad og-

127 Scrive Solazzi 1950, 64: “ridicolo è il palam”. Ad ogni modo appare generalmente ammessa l’interpolazione di palam al posto di de iure, sicché il passo si riferirebbe a un processo in corso e non già ad una scelta compiuta dal creditore prima del giudizio, “perdendo ogni valore in relazione al problema del cd. ius variandi del creditore”: così Ziliotto 2004, 66 e nt. 77, richiamando le posizioni di Ferrini 1953, 416 e nt 4; Grosso 1966, 194; Bonfante 1979, 177; Longo 1936, 90 ss. 128 Appleton 1895, 154. 129 Brutti 2017, 45 ss. 130 A titolo esemplificativo, si possono citare: Flor. 8 inst., D. 18.1.43; Ulp. 1 ad ed. aedil. curul., D. 21.1.1.1; Paul. 5 ad leg. Iul. et Pap., D. 29.7.20; Ulp. 14 ad leg. Iul. et Pap., D. 34.9.9.1. 131 C. 4.31.14.1: Ita tamen compensationes obici iubemus, si causa ex qua compensatur liquida sit et non multis ambagibus innodata, sed possit iudici facilem exitum sui praestare. 132 I. 4.6.30: … sed nostra constitutio eas compensationes quae iure aperto nituntur latius introduxit, ut actiones ipso iure minuant, sive in rem sive personales sive alias quascumque, excepta sola depositi actione, cui aliquid compensationis nomine opponi satis impium esse credidimus, ne sub praetextu compensationis depositarum rerum quis exactione defraudetur. L’espressione ‘iure aperto’ compare anche in una nota di Claudio Trifonino a Scaev. 20 dig., D. 35.1.109: Claudius. Magno ingenio de iure aperto respondit, cum potest dubitari, an in proposito condicio esset. 133 Il suggerimento è di Rozwadowski 1978, 117 s., secondo cui il brano proverebbe che la compensazione fosse ammessa anche nei giudizi di stretto diritto, per il tramite di una exceptio doli contro l’azione dell’attore che non avesse tenuto conto della compensazione

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Commento. Quaestionum libri XX getto la restituzione della somma che riceverà in prestito e laddove il denaro gli sia stato materialmente consegnato quando ormai era divenuto sui iuris: il passo è riprodotto in medias res dalla congiunzione causale quia e viene collocato dai compilatori a chiusura e a giustificazione del lungo frammento ulpianeo che lo precede, Ulp. 29 ad ed., D. 14.6.3134. Quest’ultimo frammento – che contiene, tra l’altro, una pluralità di riferimenti al libro XII dei digesta di Giuliano – si segnala perché nel § 4 è descritto un caso molto simile a quello di D. 14.6.4. Ulp. 29 ad ed., D. 14.6.3.4: Si a filio familias stipulatus sim et patri familias facto crediderim, sive capite deminutus sit sive morte patris vel alias sui iuris sine capitis deminutione fuerit effectus, debet dici cessare senatus consultum, quia mutua iam patri familias data est. Se mi sia fatto promettere con una stipulazione da un figlio di famiglia e a lui, divenuto padre di famiglia, io gli abbia fatto credito, sia che egli sia divenuto di proprio diritto perché abbia subito un peggioramento della situazione giuridica, sia che per morte del padre, sia che per un altro motivo che non sia il peggioramento della situazione giuridica, si deve dire che il senatoconsulto cessa, perché la somma a mutuo è stata data già a un padre di famiglia.

D. 14.6.3.4, infatti, descrive un filiusfamilias che abbia promesso, con stipulatio, la restituzione di una somma di denaro che gli doveva essere corrisposta135. Il filiusfamilias è divenuto paterfamilias – ma le cause che hanno determinato l’indipendenza giuridica del filius non paiono interessare il giurista severiano, che propone un elenco di natura meramente esemplificativa e non esaustiva – ed essendo egli nella condizione di sui iuris, gli viene data una somma a mutuo. Ulpiano dice che tale fattispecie si colloca al di fuori dell’ambito di applicazione del senatoconsulto macedoniano e ne spiega la ragione: quia mutua iam patri familias data est136. Dunque, la fattispecie non rientra nell’ambito di applicazione del senatoconsulto perché non ne integra i presupposti soggettivi: la somma oggetto di mutuo deve essere data ad un filius familias, mentre nel caso de quo, la datio mutui è avvenuta patri familias facto. Il dubbio sotteso e non esplicitato da Ulpiano è il seguente: si può estendere la tutela prevista dal provvedimento senatorio per il contratto di mutuo anche al contratto di stipulatio che, nel casus ulpianeo, era effettivamente avvenuto nei confronti di un filius familias? La risposta, nella scelta antologica compiuta dai giustinianei, viene affidata alle parole di Scevola, nel brano collocato successivamente, ossia nel nostro D. 14.6.4. Il parere è negativo e si fonda sulla riconduzione della fattispecie ai precisa verba senatusconsulti, contrapponendosi all’opinione comune, laica e atecnica (volgo) che parrebbe leggere nel credi non licere un generico riferimento alle obbligazioni assunte dal filius familias137. D’altra parte, il testo del provvedimento così viene riportato dallo stesso Ulpiano:

134 Sul contributo giulianeo all’interpretazione del Sc. Macedonianum si veda recentemente l’indagine di Sciandrello 2011, 433 ss. 135 Sul rapporto tra mutuum e stipulatio, e specificamente sulla causa della stipulatio, Wacke 1972, 237 s. 136 Sul passo come espressione del principio magistri nomine solvere si veda Emunds 2007, 192 s. nt. 19. 137 Evidentemente si riferirebbe ad un dictum sorto successivamente all’adozione del provvedimento, come precisa Nörr 1972, 69 e nt. 245. Sul cd. ‘volgarismo’ nel diritto romano Mayer-Maly 1960, 7 ss.; Schmidlin 1970, 111 s.

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Alessia Spina D. 14.6.1pr.: … placere, ne cui, qui filio familias mutuam pecuniam dedisset, etiam post mortem parentis eius, cuius in potestate fuisset, actio petitioque daretur … … pare bene che, a chi avesse dato denaro a mutuo a un figlio di famiglia, anche dopo la morte del suo genitore, sotto la cui potestà si fosse trovato, non si conceda un’azione e una pretesa giudiziale…

Le posizioni di Ulpiano e di Scevola sono, dunque, adesive, ma basate su due diverse rationes decidendi, che non appaiono contrastanti, ma che potrebbero celare una modificata prassi applicativa del senatoconsulto stesso, ovvero una diversa prospettiva interpretativa. Il brevissimo escerto di D. 14.6.4 non consente di comprendere se anche la fattispecie decisa da Scevola prevedesse il mutamento di status da paterfamilias a filiusfamilias, come raccontato in D. 14.6.3.4: si potrebbe ritenere che ci sia stata effettiva coincidenza di fattispecie, e che, sebbene eliminato dai compilatori giustinianei il riferimento, anche nel caso di D. 14.6.4 il filiusfamilias cui sia stata promessa la somma di denaro sia divenuto nel frattempo paterfamilias. L’ipotesi acquista forza anche alla luce del successivo D. 14.6.6, che propone un’ipotesi inversa – come ictu oculi si evince dall’avverbio di esordio contra – descrivendo la capitis deminutio minima subìta dal pater familias (filio familias facto)138. Prima di approfondire sulla fattispecie di D. 14.6.6, che sembrerebbe proporre un caso speculare rispetto a quello di D. 14.6.4, è opportuno verificare il contenuto del frammento che i compilatori hanno ritenuto di porre tra i due. D. 14.6.5 è un brano escerpito dal libro terzo delle quaestiones di Paolo, che mal si concilia con il precedente scevoliano, pur essendovi legato dalla congiunzione ergo139: Paul. 3 quaest., D. 14.6.5: Ergo hic et in solidum damnabitur, non in id quod facere potest. Dunque, questi sarà condannato anche per l’intero, non nel limite delle possibilità economiche.

Nel montaggio giustinianeo, le posizioni di Scevola e di Ulpiano sono presentate come conformi, escludendo l’applicabilità del provvedimento, mentre Paolo, ammettendo una condanna in solidum, nega che essa possa essere all’id quod facere potest: se al momento della numeratio il mutuatario è sui iuris non si applicherà il senatusconsultum Macedonianum né al debitore spetterebbe il vantaggio del beneficium competentiae140. Si potrebbe pensare che il brano paolino sia stato inserito, come aggiunta non perfettamente riuscita, per chiarire la portata della domanda e della condemnatio patrimoniale nel caso di modificazione dello status da un soggetto alieni iuris a una persona emancipata. F. 11 – D. 15.1.51 + D. 24.3.43 Su D. 15.1.51, e in particolare sulla sua prima parte, sono stati sollevati dubbi di genuinità, soprattutto per il riferimento alla exsecutio – termine ritenuto interpolato – e alle spese del

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Recentemente sulla capitis deminutio minima, D’Alessio 2014, 1 ss. Sulla fattispecie versata nel brano, si veda a Schmidt-Ott 1993, 184. Lucrezi 1992, 233; Lucrezi 1993, 115.

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Commento. Quaestionum libri XX giudizio, che sarebbero state oggetto di considerazione solo in età postclassica. Invero, entrambi gli argomenti non sembrano tanto forti da mettere in dubbio l’autenticità del brano141: in particolare, l’espressione exsecutio potrebbe genericamente alludere all’esecuzione giudiziale, ovvero all’esito della condanna conseguente all’actio de peculio142, secondo un uso che nei Digesta Iustiniani vanta diverse ricorrenze143. Sospetta sarebbe anche la rimessione allo stesso dominus (e non al giudice), della valutazione dello svantaggio patrimoniale, da compiersi sulla base di criteri di opportunità144. Il testo sopravvissuto può ritenersi scevoliano anche nella sezione centrale, da quod a praestare, pur presentando una sintassi faticosa, verosimile risultato di un accorciamento per mano di un lettore successivo a Scevola. Nonostante il rilievo sia significativo e sia ragionevole pensare all’eliminazione di una parte di maggiore impatto casistico presente nella quaestio originaria, deve ritenersi autentica anche la regola finale, coincidente la chiusura del brano, da et in omnibus a praestatione est, che segnerebbe il punto di attacco tra i due lembi. D. 15.1.51 risulta strutturato in tre parti: nella prima, il proprietario di uno schiavo si trova a essere contemporaneamente creditore nei confronti di un terzo e debitore, in forza delle obbligazioni assunte dal proprio schiavo con il peculio: il dominus – cui è richiesto una fattiva collaborazione per concretizzare le poste creditorie dello schiavo – non può essere chiamato a rispondere per l’intero ammontare del debito contratto, perché occorre considerare il detrimento economico derivante dalle spese di lite e quello indiretto che derivi dai tempi e dalle incertezze di esiti della formazione del giudicato e dell’esecuzione forzata145. Scevola prospetta la cessione, al debitore dello schiavo medesimo, delle azioni con cui il dominus potrebbe agire per i crediti dello schiavo: tale cessione garantirebbe al dominus l’assoluzione146. La seconda parte del brano afferma che il medesimo regime (in eodem redibit) si applica anche in caso di comproprietà dello schiavo, coinvolgendo l’intero patrimonio (universum peculium), poiché il comproprietario avrebbe comunque azione nei confronti del condominio: si tratterebbe di un’azione pro socio (oppure di un’actio familiae erciscundae, l’azione con cui si domanda la divisione dell’eredità) che ovvierebbe al pregiudizio arrecato al singolo147. Il brano non chiarisce se la cessione sia delle azioni relative ai crediti peculiari, o dell’azione di rivalsa nei confronti dei socii, ed entrambe le letture sono state sostenute in

141 D’Ors 1945, 756, il quale considera in parte accettabile la critica di Beseler 1911, 119; Beseler 1912, 183 (il quale ritiene il passo spurio da dominus alla fine), ma ne riconosce la matrice classica. Esclude la classicità del riferimento alla exsecutio ancora La Rosa 1963, 19 s. 142 Fuenteseca 1970, 186 s. 143 Cfr. Paul. 13 ad ed., D. 4.8.32.8; Paul. 3 ad Aeliam Sentiam, D. 45.1.66; Paul. 15 quaest., D. 45.1.132; Ulp. 41 ad Sab., 47.1.1.1; Ulp. 57 ad ed., D. 47.10.13.1. 144 Santoro 1984, 348. 145 In altre parole, dal momento che, come noto, in caso di mancato adempimento del creditore allo schiavo non era consentito agire in via autonoma, era necessario che il dominus agisse e il ricavato dell’azione sarebbe andato a fare parte del peculio, detratte le spese. Cfr. Buti 1976, 142; Aricò Anselmo 1992, 277 ss. 146 Si precisa che al dominus, che voglia “sfuggire alla condemnatio dell’actio de peculio”, sia permesso cedere al creditore dello schiavo le azioni che a lui stesso spetterebbero nei confronti del debitore dello schiavo: così Buti 1976, 170 ss. Sulla connessione tra cessio actionum e cessio iurium, Cugia 1934, 441 ss. Scevola nulla sembrerebbe precisare circa lo strumento processuale attraverso il quale si attuerebbe tale cessione, pur essendo stato ipotizzato che si possa trattare di una cautio cedendarum actionum: Giomaro 1982, 215 s.; contra Santoro 1984, 344 e 348. 147 Solazzi 1905, 211 ss.

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Alessia Spina letteratura148, con un significativo indizio nei Basilici. Infatti i lettori bizantini sciolgono la fattispecie della seconda parte di D. 15.1.51 in due ulteriori casi, corrispondenti alla cessione dei due tipi di azioni149. Nell’ambiguità del testo scevoliano, in cui manca un’espressa indicazione chiarificatrice, ben potrebbe ammettersi che il maestro abbia voluto riferirsi a entrambe le fattispecie, o anche a una sola delle due, risultando in ogni caso l’altra confermata dalla chiusa del brano, che assume una portata più generale. La terza parte, assume i caratteri di una massima, laddove Scevola afferma l’equivalenza tra delegatio e iusta praestatio (il termine appare dotato di una particolare pregnanza, comunque richiamando il praestare in senso tecnico150), che sarebbe valida in tutte le ipotesi in cui si verifica un’altra coincidenza: quella tra teneri e habere actiones151. Il sistema approntato, almeno nel suo nucleo originario rappresentato dal principio di riconduzione al peculio di tutti i rapporti attivi e passivi facenti capo allo schiavo, è confermato in passi di età severiana che segnalano la posizione labeoniana come antesignana di una impostazione destinata a giungere sino ad Ulpiano. Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.7.5: Sed et si quid furti actione servo deberetur vel alia actione, in peculium computabitur: hereditas quoque et legatum, ut Labeo ait152. Tuttavia, anche se qualcosa sia dovuto al servo per l’azione di furto o per un’altra azione, sarà computato nel peculio: anche l’eredità e il legato, come dice Labeone.

Nella riflessione scevoliana è valorizzato il peculio, strumento idoneo a rispondere alle esigenze della prassi, la quale da un lato impone l’autonomia dello schiavo e, dall’altro, richiede un controllo giuridico sul mezzo patrimoniale posto nelle mani del sottoposto e sui suoi eventuali incrementi, per la cui protezione si esigeva una fattiva attività del dominus. Nello stesso tempo, l’attribuzione al peculio di quanto il dominus avesse ricavato dalle azioni a tutela dei negozi esperiti dal servo risulta favorevole ai terzi e si configura quale strumento idoneo a valorizzare anche le ragioni del servo, cui viene riconosciuto un importante grado di autodeterminazione153. Il secondo brano, ritenuto parte della medesima quaestio, è D. 24.3.43: nell’ambito dell’actio rei uxoriae la condanna del marito è all’id quod facere potest, ossia è ispirata al principio del beneficium competentiae, applicabile al convenuto al momento della sentenza, come Scevola aveva avuto modo di enunciare già nel libro primo delle quaestiones, nel brano di D. 3.5.34 [F. 3]. Si tratta della regola in forza della quale il giudice avrebbe dovuto con-

148 A titolo esemplificativo, tra i sostenitori della prima tesi si possono ricordare Levy 1918, 242 e nt. 3; Micolier 1932, 381 e nt. 14; tra i sostenitori della seconda tesi si possono ricordare Solazzi 1905, 211 s.; Alonso 2001, 48 ss.; Zandrini 2010, 36 s. 149 B. 18.6.41. 150 Cannata 1993, 24 s. nt. 268. 151 Sulla scia, ex multis, di von Salpius 1864, 34; Gradenwitz 1887, 298 e, più recentemente di Alonso 2001, 50, Zandrino 2010, 38 ritiene che la delegatio debba essere intesa nel senso di ‘cessione processuale’. Contrario è Biondi 1956, 103. 152 Di contenuto affine anche Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.7.6. Significativi appaiono anche Ulp. 25 ad Sab., D. 33.8.8.6; Gai. 3 verb. oblig., D. 46.2.34pr.; Ulp. 37 ad ed., D. 47.2.52.26. 153 Buti 1976, 173 s.

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Commento. Quaestionum libri XX dannare al pagamento di una somma basata non su quanto il convenuto fosse effettivamente in grado di dare, bensì su quanto, “egli fosse in grado di ‘realizzare’ con una certa facilità per poter soddisfare … al massimo il creditore/attore”: in ciò si sostanzia il facere posse con cui Scevola indica il quantum parametrato nella sentenza, con parole che saranno state quelle della condemnatio. Il passo chiarisce che la condanna nei limiti delle possibilità comprende non soltanto i beni reali, da destinarsi, attraverso la vendita, al soddisfacimento del creditore, ma anche i crediti vantati dal convenuto verso altre persone154: accanto alle res corporales sono, dunque, presi in considerazione i crediti del marito, che richiederebbero un’iniziativa processuale per essere realizzati e poter concorrere alla soddisfazione dei crediti della moglie155.

LIBRO III

La ricostruzione palingenetica del libro III delle quaestiones scevoliane, di cui nei Digesta Iustiniani sono conservati quattro brani, presenta alcune criticità: se D. 23.4.31 [F. 13], Ulp. 31 ad ed., D. 24.3.7pr. [F. 13] (quest’ultimo contenente una citazione indiretta di Scevola, che si ritiene di potere inserire nella palingenesi dell’opera) e D. 24.1.56 [F. 14], dedicati alla regolamentazione del patrimonio dotale, bene si inseriscono nell’ordine edittale che la raccolta seguirebbe, lo stesso non può affermarsi per gli altri due frammenti sopravvissuti. Lo stesso Lenel mostra incertezza sulla connessione di Marcian. liber sing. de form. hypoth., D. 20.3.1.2 [F. 12] alla clausola edittale de empto vendito156. Nel passaggio, il pensiero di Scevola è ricordato solo indirettamente da Marciano: nonostante Lenel non chiarisca i motivi del dubbio, si può osservare come l’associazione alla clausola a tutela della compravendita del passo, vertendo esso sull’incommerciabilità della res litigiosa, imponga di accettare una rilevante alterazione dell’ordine edittale. In assenza di elementi che consentano l’elaborazione di una tesi alternativa, ritengo di accettare la pur dubitativa proposta leneliana, considerando, altresì, come l’utilizzo da parte di Marciano di un mero stralcio di una quaestio, possa costituire, per gli attuali lettori, un ostacolo alla ricostruzione della tematica originariamente trattata.

154 Così Guarino 1975, 80 s., precisando che l’esiguità delle fonti idonee a provare le applicazioni del facere posse così come dall’autore ricostruito, sarebbe dovuta alla loro “ovvietà”. 155 Sottolinea il riferimento alle res incorporales Litewski 1971, 482 ss. In tale prospettiva ci si è domandati se il giudice fosse tenuto a svolgere verifiche circa la capacità creditizia del terzo debitore, tali da rendere efficace la delegatio medesima: le fonti nulla dicono in merito né a tale specifico ipotizzato dovere di controllo contabile, né in generale in merito alle difficoltà pratiche di realizzazione del principio enunciato: Gildemeister 1986, 77. 156 Lenel 1889 II, 274: [De empto vendito (E 111)]?.

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Alessia Spina D. 20.3.12 solleva, inoltre, un serio dubbio sull’intitolazione della raccolta di quaestiones: è, infatti, l’unico luogo in cui l’opera viene indicata come variae quaestiones. Come si è avuto cura di evidenziare supra, la citazione di Marciano – che di Scevola sembrerebbe essere stato un allievo – stonerebbe con quanto tramandato dall’index Florentinus, che del giurista antonino ricorda la raccolta in venti libri di quaestiones e un unico libro di quaestiones publice tractatae: le ipotesi formulabili sono poche e tutte inevitabilmente circoscritte all’ambito delle mere supposizioni. Altro problema è quello sollevato da D. 35.2.16 [F. 15], per il quale Lenel mette in dubbio la provenienza dai libri quaestionum: ritenendo che la trattazione della lex Falcidia all’interno del libro III delle quaestiones spezzi l’ordine dell’editto e che il tema venga più coerentemente trattato successivamente nel libro XV157, l’autore ipotizza un errore nell’inscriptio e la possibilità di una provenienza dal libro III dei responsa158. Sebbene Lenel non chiarisca le motivazioni che suggerirebbero lo spostamento, si può sottolineare come Scaev. 3 resp., D. 31.88.5159 sollevi un dubbio di adempimento parziale di una pluralità di legati simile a quello di D. 35.2.16, risolvendolo nel senso di valorizzare la situazione di fatto e di diritto al momento dell’apertura del testamento, e non già le circostanze successivamente verificatesi, in base alla ratio della soluzione scelta nel brano delle quaestiones. Invero, la struttura di D. 35.2.16, articolato, per quanto è stato conservato, in una sequenza di proposizioni ipotetiche, sembrerebbe ricalcare il tipico modello della quaestio; dall’altro lato, mancherebbe, invece, la tipica struttura tripartita del responso scevoliano (organizzato in casus, quaestio e responsum vero e proprio), nonché l’elemento topico marcato, che nei Responsa si declina spesso, ad esempio, nell’uso di nomi propri160. In assenza degli indizi più caratterizzanti la raccolta casistica di Scevola, sembrerebbe di difficile argomentazione la tesi dell’errore nel riferimento all’opera contenuto nell’inscriptio. Inoltre, vi è un altro passo, proveniente dal libro XV dei libri quaestionum (lo stesso libro indicato da Lenel come la più idonea sedes materiae per i frammenti che ruotano intorno all’applicazione della lex Falcidia) D. 35.2.23 [F. 49], che, in riferimento a D. 35.2.16, solleva un problema analogo a quello affrontato supra per D. 7.1.25.6, D. 41.1.23.3 [F. 6] e D. 45.3.19 [F. 45]. Si tratta di una difficoltà di coordinamento tra testi che parrebbero provenire da un medesimo luogo dell’opera, occupandosi di casi assai simili, ma la cui inscriptio rimanda a libri differenti: la criticità è aggravata per D. 35.2.16 dall’evidente deviazione dell’ordine edittale, nonché dalla presenza di un altro frammento, D. 35.2.17 [F. 28], in materia di lex Falcidia, presente nel libro VI delle quaestiones – tutto dedicato alla materia testamentaria – e dai compilatori giustinianei collocato in posizione esattamente consecutiva a D. 35.2.16. Le possibili spiegazioni a tale anomalia potrebbero svolgersi in due direzioni, escludendo la tesi dell’errore sul titolo dell’opera. Si potrebbe pensare che, all’interno di una più ampia quaestio in materia di res uxoria – che è tema che bene si colloca nell’ordine edittale rinvenuto da Lenel e che si rinviene in due dei quattro brani giunti dal libro III – Scevola abbia inserito il tema della riduzione dei legati, che i compilatori del Digesto

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Dal libro XV delle Questioni il Digesto riporta un brano in materia di lex Falcidia: D. 35.2.23 [F. 49]. Lenel 1889 II, 274 nt. 3: De lege Falcidia ICtus hoc libro non egit: haud scio an inscriptio falsa sit. Si tratterebbe di Scaev. 3 resp., D. 31.88.5, sul quale rimando a Spina 2012, 348 ss. Spina 2012, 42 s.

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Commento. Quaestionum libri XX avrebbero deciso di salvare. Si potrebbe, altresì, valutare la circostanza in connessione alla tesi poc’anzi illustrata relativa alla circolazione di due raccolte di quaestiones, tesi che, però, troverebbe un suo appiglio testuale unicamente nella citazione fornita da Marciano in D. 20.3.1.2 proprio per il libro III. In assenza di elementi dirimenti si preferisce seguire la prima strada, e considerare D. 35.2.16 breve parte di una quaestio più ampia, in cui si anticipano problemi poi approfonditi in momenti successivi. D’altra parte, proprio la conservazione di D. 35.2.23 confermerebbe l’attenzione di Scevola, nelle quaestiones, alla riduzione dei lasciti a titolo particolare. F. 12 – D. 20.3.1.2 Il brano contiene la citazione indiretta di una quaestio scevoliana ed è collegato da Lenel con alcune perplessità alla clausola edittale de empto vendito. Esso è escerpito dall’opera monografica marcianea dedicata alla formula hypothecaria, espressione con cui si indica l’azione pigneraticia in rem (o actio Serviana) a tutela del pignus quale diritto reale, esperibile, dopo l’inadempimento, contro qualsiasi possessore161. Nella parte conclusiva del brano è riportato il parere di Scevola, proveniente dal libro III delle variae quaestiones: si tratta dell’unico luogo nel Digesto in cui la raccolta è preceduta dall’aggettivo variae, sicché il passo assume un particolare rilievo per lo studio della composizione e della diffusione della raccolta. La posizione di Scevola, dunque, è espressa nella parte di frammento compresa tra quod ait e locum habeat: risulta difficile sostenere che quelle riportate siano le originarie parole della quaestio, sia per l’esiguità della citazione, sia perché esse richiamano esattamente struttura e lessico adottato da Marciano anche per rendere il parere di Ottaveno: pur non essendoci motivi ostativi all’attribuzione della paternità dei contenuti a Scevola, la forma con cui essi sono resi potrebbe essere marcianea162. Si anticipa sin da ora, alla luce dei contenuti che verranno in prosieguo mostrati, che è verosimile immaginare come la quaestio vertesse sul rescritto di Antonino Pio ricordato da Marciano, nonché recasse traccia dell’opinione di Ottaveno: in altre parole, il giurista severiano potrebbe avere conosciuto l’intero contesto giurisprudenziale richiamato proprio dalla lettura scevoliana. L’ipotesi forse potrebbe giustificare l’ordine di citazione delle decisioni: Ottaveno, infatti, ricordato tra la decisione imperiale e la posizione di Scevola, è giurista attivo tra il I e il II secolo d.C., di cui nulla è pervenuto se non per il tramite di numerose citazioni indirette163. Proprio sulle parole rebus mobilibus del rimando scevoliano si è concentrata la critica testuale, la quale vi ha scorto l’operazione giustinianea di sostituzione di quello che, nell’originario testo scevoliano, doveva essere stato il riferimento alle res nec mancipi164; le perplessità sono state su-

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Talamanca 1990, 483. Sul commento marcianeo alla formula ipotecaria, Pellecchi 2015, 809 ss. Segnala Liebs 2011, 73, che Marciano cita Scevola in tre luoghi: oltre a quello in esame, in Marcian. 8 inst., D. 30.114.7 e in Marcian. 4 reg., D. 46.3.4.1. Sul significativo utilizzo da parte di Marciano di citazioni della giurisprudenza, si veda Dursi 2019, 37 ss. 163 Orestano 1965c, 295 lo descrive come un giurista “elegante nella elaborazione dei principi giuridici già acquisiti dalla tradizione”; cfr. anche Berger 1937, 1786; Kunkel 2001, 150 s. sottolinea la probabile origine italica del giurista, sulla cui personalità poco si può dire. Cfr. Lenel 1889 I, 793, “Sub Impp. Domitiano et Traiano”. 164 Così Siber 1907, 102 s. e nt. 2; Betti 1922, 329 nt 1; Messina Vitrano 1924, 6. 162

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Alessia Spina perate, invero, dalla letteratura dello scorso secolo, che ha sottolineato come la contrapposizione tra fundi e res mobiles sia presente sin da tempi antichi165 e sia caratterizzante – come si avrà modo di illustrare infra – il tenore del dibattito giurisprudenziale proprio in ordine all’applicazione dell’actio Serviana in fattispecie simili a quella analizzata da Marciano. Si ritiene, pertanto, che non vi siano motivi per escludere che il riferimento alle res sia genuinamente scevoliano – o al limite marcianeo –, così da salvare l’attendibilità dell’intero frammento. Marciano, che nel precedente paragrafo 1 di D. 20.3.1 si era occupato della carenza di legittimazione alla costituzione di un pegno166, nel paragrafo 2 si concentra sull’oggetto del pegno, ed esclude, sulla scorta di un rescritto di Antonino Pio, la possibilità di costituzione su un bene che non possa essere venduto in quanto escluso dal commercium. La regola, che assurge quasi a massima, ha un fondamento evidente: “poiché il creditore insoddisfatto può acquistare, o almeno trasmettere, la proprietà della cosa pignorata, l’oppignoramento si presenta come una potenziale causa di acquisto e in certi casi può quindi essere opportuno assoggettarlo alla stessa regolamentazione restrittiva stabilita per gli acquisti in senso stretto”167. Non vi sono elementi che consentano una precisa identificazione del rescritto citato da Marciano: il destinatario, Claudio Saturnino, fu verosimilmente legato nella Mesia inferiore sotto il regno di Antonino Pio168, che a lui si rivolge in un altro rescritto, ricordato da Marciano in un brano delle institutiones poi versato in Marcian. 12 inst., D. 50.7.5pr.169, ed è plausibile ritenerlo coincidente con il giureconsulto attivo sotto Antonino Pio e i divi fratres, ricordato come Venuleio Saturnino, Claudio Saturnino o Quinto Saturnino170. Il richiamo che Marciano compie al commercium e all’idoneità della res al traffico tra privati è stato ampiamente studiato. La distinzione, citata comunemente della manualistica, tra res in commercio e res extra commercium, è estranea alle fonti, che invece propongono una casistica in cui l’ostacolo alla negoziabilità della res dipende da limitazioni giuridiche specifiche, oggettive o soggettive171. Nell’ambito di fattispecie in cui rileva il rapporto speciale tra res e commercium – rapporto che si declina, dunque, come suscettibilità o insuscettibilità delle cose a trovarsi nella disponibilità dei privati – D. 20.3.1.2 rappresenta un testo significativo. Su di esso in letteratura si sono espressi punti di vista differenti, ritenendolo ora una testimonianza

165 De Marini Avonzo 1967, 271; Kiefner 1984, 127 nt. 31 (“rebus mobilibus zu verdächtigen sehe ich keinen Anlaß”). 166 Marcian. lib. sing. ad form. hypoth., D. 20.3.1.1: Si filius familias pro alio rem peculiarem obligaverit vel servus, dicendum est eam non teneri, licet liberam peculii sui administrationem habeant: sicut nec donare eis conceditur: non enim usquequaque habent liberam administrationem. facti tamen est quaestio, si quaeratur, quousque eis permissum videatur peculium administrare. 167 De Marini Avonzo 1967, 268 s. 168 Groag, Stein 1936, n. 1012, 244 s., non escludendo del tutto la possibilità di ritenerlo coincidente con Claudius Saturninus giureconsulto. 169 Marcian. 12 inst., D. 50.7.5pr: Sciendum est debitorem rei publicae legatione fungi non posse: et ita divus Pius Claudio Saturnino et Faustino rescripsit. De Marini Avonzo 1967, 268 ammette la possibile coincidenza di identità tra i due Saturnini citati. 170 Lenel 1889 II, 1207, nt. 1: “Venulei Saturnini, Claudii Saturnini, Q. Saturnini nomina quin ad unum eundemque spectent iuris consultum, non dubito”. 171 Sulla storia della classificazione res in commercio e res extra commercium si rimanda alle riflessioni e all’ampia bibliografia anche risalente indicata da Genovese 2007 I, 87 ss.; si vedano, altresì, Romeo 2010, 97 e n. 26; Genovese 2007 II, 2133 ss.; Milazzo 2016, 373 ss.

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Commento. Quaestionum libri XX significativa della discussa distinzione tra res in commercio e res extra commercium172, ora un esempio di inidoneità soggettiva – ossia legata alle qualità personali dei soggetti coinvolti – all’acquisto173, ora, al contrario, un caso tipico della carenza di commercium connessa a qualità specifiche della res174. Senza volere fornire risposte definitive, si può osservare come la mancanza di commercium sembri qui presentata come una condizione della res che ne rende impossibile la compravendita e, in seguito al rescritto imperiale, la costituzione di pegno175. Nel passaggio successivo di D. 20.3.1.2 il dubbio diviene pratico e processuale e coinvolge il terzo possessore: nel caso di un fondo che sia extra commercium in quanto res litigiosa, sul quale il pegno sia stato accettato, è possibile rimuovere quest’ultimo attraverso un’exceptio? Occorre immaginare una fattispecie di questo tipo: il debitore ha perduto il possesso di un fondo e lo ha rivendicato; nelle more della rei vindicatio il debitore ha costituito in pegno il bene, essendo richiesto per tale attività il mero in bonis habere (non era richiesto né il dominium né il possesso attuale176): si è, dunque, costituito pegno su una res litigiosa. Se l’obbligazione alla base del pegno fosse scaduta e rimasta inadempiuta prima che il giudizio vindicatorio fosse concluso, il creditore avrebbe potuto agire nei confronti del terzo possessore della res – ossia il convenuto della rei vindicatio pendente – attraverso l’actio Serviana177. Il terzo possessore, di nuovo convenuto, ma ora nel giudizio pigneraticio, avrebbe potuto opporre al creditore procedente la litigiosità della res, attraverso l’apposita exceptio che, sulla base di quanto dicono le fonti, potrebbe qualificarsi come exceptio rei litigiosae178. Sarebbe questo il senso del parere che Marciano attribuisce a Ottaveno. Per comprendere appieno i riferimenti casistici e giurisprudenziali svolti da Marciano, occorre ricordare che il divieto di acquisizione del fondo oggetto di lite, per la parte processuale che ne vantasse il possesso, era stato richiamato in un edictum di Augusto (datato approssimativamente tra il 23 e il 17 a.C.) di cui si ha notizia grazie al ritrovamento di un frammento anonimo del III secolo179: la compravendita di un fondo litigioso è nullius momenti e determina, altresì, la comminazione di una pena di cinquanta sesterzi a favore del fisco180. Premesse tali

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Bretone 1998, 142. De Marini Avonzo 1967, 229 e, in precedenza Scherillo 1945, 30: “… è indubbiamente la cosa gravata in concreto da un divieto di alienazione, o per cui manchi la capacità o facoltà di disporre (ad es. il fondo dotale)”. 174 Genovese 2007 I, 130. 175 Sulla compravendita di res extra commercium, Biondi 1936, 1 ss. Si tratta di un’interpretazione estensiva che accoglie – in termini positivi e senza necessità di motivarla – anche Gaio, in un brano del commento all’editto provinciale versato in Gai. 9 ad ed. prov., D. 20.1.9.1: Quod emptionem venditionemque recipit, etiam pignerationem recipere potest. Recentemente, anche per la bibliografia ivi citata, Milazzo 2016, 373 ss. 176 De Marini Avonzo 1967, 270 nt. 11. 177 Genovese 2007 I, 131 s.: attore sarebbe stato colui che aveva accettato in pegno il praedium litigiosum e convenuto il possessore del fondo medesimo. Ritiene che Ottaveno abbia espresso la sua opinione in riferimento ai fondi italici Ferrini 1887 (= 1929), 141. 178 Sulla scorta di Gai. 4.117a e di Ulp. 76 ad ed., D. 44.6.1.1. 179 Benöhr 1970, 163 e nt. 194. 180 Fragmentum de iure fisci 8 [FIRA II 2, 628]: Qui contra edictum divi Augusti rem litigiosam a non possidente comparavit, praeterquam quod emptio nullius momenti est, poenam quinquaginta sestertiorum fisco repraesentare compellitur. Res litigiosa videtur, de qua lis apud suum iudicem delata est. Sed hoc in provincialibus fundis prava usurpatione optinuit. Si omettono in questa sede le riflessioni relative alla ragione del divieto, individuata nelle condizioni della proprietà terriera in Italia alla fine delle guerre civili. 173

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Alessia Spina notizie, al fine di un’opportuna contestualizzazione del problema, è utile osservare che il tema dell’indisponibilità di taluni beni – e in particolare dei beni litigiosi – appare caro a Marciano il quale lo affronta – nella prospettiva degli interventi imperiali che ne hanno ridimensionato i confini – in altri due luoghi, ricordando che lo stesso Antonino Pio aveva escluso le donazioni aventi a oggetto beni contestati181 e che, in seguito, Settimio Severo e Caracalla avevano inserito nel divieto di alienazione le res litigiosae del fisco182. Quando, in D. 20.3.1.2 Marciano pone l’interrogativo in riferimento al praedium litigiosum, parrebbe tenere in considerazione proprio il testo dell’edictum Augusti e le normazioni imperiali che ne avevano incrementato la portata. Il dubbio sollevato, invero, è di ordine processuale e per scioglierlo Marciano si avvale della citazione di due giuristi precedenti, le cui opinioni sembrerebbero venire riportate, prive di commenti o di esplicite adesioni, alla stregua di meri tasselli di un processo interpretativo che avrebbe condotto all’estensione della configurabilità dell’eccezione quale strumento di difesa. Attraverso un ragionamento che viene omesso, Cervidio Scevola aggiunge un’ulteriore applicazione della citata exceptio. Se Ottaveno aveva sostenuto l’opponibilità dell’eccezione volta a paralizzare gli effetti in riferimento ad un fondo nell’ambito di un’actio Serviana, Scevola avrebbe proposto una lettura estensiva (procedere) ritenendo l’eccezione applicabile anche laddove la garanzia reale si fosse costituita su beni mobili183. La soluzione parrebbe fondata sulla considerazione che l’ipoteca avrebbe consentito al creditore insoddisfatto di agire in riferimento a qualunque bene costituito in pegno, e non soltanto al fondo, determinandosi una legittimazione all’actio in rem indipendentemente dall’acquisto del possesso: come è stato osservato, “una volta affermata l’opponibilità della exceptio litigiosi all’actio Serviana, era … legittimo far cadere il limite dell’applicazione dei fondi, stabilito nella sua redazione originaria”184. Se una simile ricostruzione del casus risulta accolta, seppur con lievi varianti, dalla maggioranza degli autori, la collocazione del parere di Scevola all’interno del dibattito giurisprudenziale del II e III secolo appare decisamente contrastata: taluni autori hanno valorizzato la matrice più genuina e originale dell’interpretazione scevoliana185; talaltri vi hanno scorto un’insuperabile inconciliabilità rispetto all’indirizzo interpretativo risultato preminente. Si segnalerebbero, in particolare, due passi gaiani, D 6.1.18 e Gai. 4.117a, i quali, però, a una lettura attenta, non risultano immediatamente sovrapponibili alla fattispecie decisa, e che, in ogni caso, potrebbero essere testimonianza di un momento interpretativo meno maturo rispetto a quello cristallizzato nel parere scevoliano. Gai. 7 ad ed. prov., D. 6.1.18: Si post acceptum iudicium possessor usu hominem cepit, debet eum tradere eoque nomine de dolo cavere: periculum est enim, ne eum vel pigneraverit vel manumiserit.

181 Marcian. liber sing. de delator., D. 49.14.22.2: Lites donatas se non suscipere divus Pius rescripsit, licet bona relicturum se quis profiteatur: vel partem bonorum donatam non suscipere. et adiecit et illum dignum fuisse puniri pro tam turpi tamque invidioso commento, et nisi durum esse videbatur in ultro venientem poenam statuere. 182 Si tratta, rispettivamente, del sopra riportato D. 49.14.2pr. e D. 49.14.22.2: Res, quae in controversia sunt, non debent a procuratore Caesaris distrahi, sed differenda est eorum venditio, ut divus quoque Severus et Antoninus rescripserunt... Su di essi Puliatti 1992, 201 s. e 2020, 314 ntt. 561 e 562. 183 Individua nell’eccezione il solo strumento idoneo a rendere inefficace il contratto di pegno Kaser 1976, 262 e nt. 176. 184 Così ricostruisce il ragionamento scevoliano De Marini Avonzo 1967, 271 s. 185 Ritiene l’opinione “in tutto degna di Scevola” De Marini Avonzo 1967, 271.

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Commento. Quaestionum libri XX Se dopo avere accettato un giudizio, il possessore abbia usucapito uno schiavo, deve consegnarlo, e a tale titolo deve prestare garanzia per il dolo: infatti, vi è pericolo che lo manometta o che lo dia in pegno.

In D. 6.1.18, proveniente dal libro VII del commentario all’editto del pretore provinciale, lo strumento per non incorrere nel periculum consistente nella manomissione o nell’oppignoramento di uno schiavo – che era e rimane res litigiosa pur essendo stato nel frattempo usucapito – è costituito da una stipulazione di garanzia de dolo186. Come è stato sottolineato187, nel passo non si fa menzione di alcuna exceptio: i presupposti fattuali, tuttavia, sarebbero diversi, e il rimedio sembrerebbe indicato per operare in una fase preventiva rispetto a quella dell’eventuale ricorso all’eccezione – mai, comunque, escluso – sebbene, per consentirne un’applicabilità parallela rispetto a quella di D. 20.3.1.2, occorrerebbe ammettere che il debitore fosse attore della reivindicatio e non già, come risulterebbe dal tenore di D. 6.1.18, convenuto nella stessa. Altro testo che escluderebbe il successo della tesi scevoliana e metterebbe addirittura in dubbio la veridicità del richiamo188, è Gai 4.117a189. Nella parte conclusiva del brano delle Istituzioni del II secolo Gaio ipotizza la vendita di un fondo litigioso da parte di un non possessore sottolineando il presupposto della scientia del compratore: nel corso di una vindicatio sarebbe stato possibile al possessore opporre al compratore una exceptio rei litigiosae. Invero, il passaggio delle institutiones, facendo cenno al solo caso del fundum litigiosum, parrebbe espressione di una fase di interpretazione dell’edictum Augusti precedente rispetto sia a quella di Ottaveno sia a quella di Scevola. Semmai il passo gaiano segnalerebbe l’introduzione nel sistema di un rimedio nuovo: a ben vedere tra l’edictum augusteo e la tesi di Ottaveno manca un passaggio, rappresentato dall’individuazione dell’exceptio quale rimedio, e di tale compiuto passaggio Gai. 4.117a potrebbe rappresentare una traccia. La circostanza, poi, che Gaio non citi l’estensione interpretativa compiuta da Ottaveno non sembra doversi sovraccaricare di significato, perché in un manuale didattico e in un passaggio avente scopo esemplificativo, si comprenderebbe la scelta di evitare fattispecie troppo complesse o di recente elaborazione giurisprudenziale. La tesi di una exceptio rei litigiosae dovette poi risultare poco persuasiva per la contemporanea emersione di un rimedio ritenuto più efficace: l’attività scientifica di Giuliano aveva, infatti, esteso l’applicabilità dell’exceptio rei iudicatae vel in iudicio deductae anche ad alcune categorie di terzi estranei al primo processo190. Prova ne sarebbe, altresì, Ulp. 76 ad ed., D. 44.6.1.1, dal quale emergerebbe la negazione della possibilità di esercitare un’exceptio rei litigiosae, a sostegno dell’applicabilità di un’exceptio rei iudicatae che, divenuta rimedio utilizzabile nei confronti dei terzi

186 Correttamente osserva De Marini Avonzo 1967, 272 nt. 17 che il confronto non risulterebbe probante “poiché vi si tratta di un debitore possessore, convenuto e non attore in rivendica”. 187 Gotofrey 1790, 3956, nt. 27. 188 Addirittura, la dottrina risalente (Beseler 1948, 350) ha così ricostruito la citazione marcianea in questi termini: Octavenus putabat locum habere exceptionem, quod falsum esse ait Scaevola libro tertio variarum quaestionum. 189 Gai. 4.117a: In his quoque actionibus, quae non in personam sunt, exceptiones locum habent. velut si metu me coegeris aut dolo induxeris, ut tibi rem aliquam mancipio dem, tua est; sin eam rem a me petas, datur mihi exceptio, per quam, si metus causa te fecisse uel dolo malo arguero, repelleris. item si fundum litigiosum sciens a non possidente emeris eumque a possidente petas, opponitur tibi exceptio, per quam omni modo summoveris. 190 Si tratterebbe di Marcian. 3 regul., D. 44.2.10: Surdi vel muti patris filius iussu eius manumittere potest: furiosi vero filius non potest manumittere; cfr. Longo 1902, 263 s.

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Alessia Spina in seguito ad un’innovativa impostazione giulianea, avrebbe necessariamente agito in concorrenza con l’exceptio menzionata da Marciano. Si potrebbe, dunque, ipotizzare che la posizione scevoliana non sia mai stata valorizzata dalla giurisprudenza contemporanea e successiva perché in concorso con lo strumento assai più incisivo rappresentato dall’exceptio rei iudicatae. F. 13 – D. 23.4.31 + D. 24.3.7pr. Il frammento D. 23.4.31 potrebbe rappresentare la concisa selezione di una quaestio in materia di dote: sarebbe frutto di un lavoro compilatorio che ha condotto all’eliminazione della maggior parte degli elementi di fatto. Un marito e una moglie hanno concluso un pactum avente sull’attribuzione dei frutti del patrimonio dotale: i frutti non ancora percepiti nell’ultimo anno di matrimonio, una volta scioltosi il vincolo191, sarebbero andati ad arricchire la donna e Scevola afferma che un simile patto ha efficacia. Il pactum, dunque, si configura come previsione accessoria e derogatoria, incidendo sull’obbligazione principale di restituzione per quel particolare cespite coincidente con i frutti maturati nell’ultimo anno. La giurisprudenza romana aveva regolato con una certa costanza la misura della divisione e della restituzione dei frutti dotali dell’ultimo anno, prevedendo che essi spettassero al marito in proporzione alla durata del matrimonio in quell’anno e alla moglie per il residuo. Nelle fonti è spesso manifestato il dubbio se si dovesse tenere conto del periodo di percezione dei frutti ovvero del periodo di produzione degli stessi: nel testo di Scevola il dato letterale suggerirebbe che il riferimento sia compiuto alla futura percezione dei frutti (fructus … nondum percepti). Il patto avrebbe avuto ad oggetto tutti i frutti realmente percepiti e raccolti nell’ultimo anno, che avrebbero costituito la vera e propria massa da dividere192: si tratterebbe della soluzione pratica più immediata, perché concentrarsi sulla produzione dei fondi dotali – spesso dedicati a colture diverse, i cui periodi fruttiferi iniziano e terminano in epoche differenti – avrebbe richiesto di risolvere una serie di calcoli complicati193. Domandarsi per quale motivo e in quale prospettiva il passo sia stato conservato dai compilatori giustinianei impone di tentare, pur nella lacunosità del testo, di ricostruire il tessuto narrativo sottostante alla formulazione del parere sulla validità del patto194. Si è sostenuto, in primo luogo, che la quaestio vertesse sulla legittimazione alla costituzione di un simile patto: il dubbio sorgerebbe perché dall’accordo risulterebbero esclusi i soggetti concretamente interessati a richiedere la restituzione della dote e obbligati a restituirla, ossia il padre o l’agnato, rispettivamente della moglie e del marito stessi195. Il problema non era ignoto alla giurisprudenza romana di età precedente, tant’è che lo stesso titolo D. 23.4 si apre con un passo di Giavoleno che commenta Cassio:

191 Lo scioglimento del vincolo coniugale quale presupposto della vicenda è stato sottolineato anche dai maestri bizantini: B. 29.5.29. 192 Per quanto attiene i frutti della dote, le fonti ricordano che, in caso di actio rei uxoriae, il convenuto doveva restituire i frutti percetti prima della conclusione o dopo lo scioglimento del matrimonio, proporzionalmente alla durata del primo e dell’ultimo anno, mentre acquistava e tratteneva i frutti nati durante il matrimonio. I giuristi escludono che essi costituiscano dote, sicché il convenuto non sarebbe chiamato a restituirli (Lauria 1938, 64 s.). 193 Bonfante 1963, 485 ss. 194 Masiello 1999, 193 s. propone due soluzioni, senza segnalare quale delle due egli ritenga la più attendibile. 195 Su tale possibile impostazione della quaestio, Masiello 1999, 193.

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Commento. Quaestionum libri XX Iav. 4 ex Cass., D. 23.4.1: Pacisci post nuptias, etiamsi nihil ante convenerit, licet. 1. Pacta quae de reddenda dote fiunt, inter omnes fieri oportet, qui repetere dotem et a quibus repeti potest, ne ei, qui non interfuit, apud arbitrum cognoscentem pactum non prosit. È lecito, anche se non si sia convenuto nulla anteriormente, concludere patti dopo le nozze. 1. È necessario che i patti, che sono fatti in materia di restituzione della dote, siano fatti tra tutti quelli che possono ripetere e dai quali si può ripetere la dote, per evitare che, di fronte al giudice che conosce dell’azione, il patto non giovi a colui che non vi ha partecipato.

Dopo avere affermato, dunque, che i patti stipulati dopo le nozze sono leciti, Giavoleno aggiunge che i patti relativi alla restituzione della dote devono compiersi tra tutti i soggetti legittimati a chiedere la restituzione medesima e a restituirla, affinché a colui che non sia intervenuto non venga precluso il vantaggio presso l’arbitro competente a decidere196. Il dubbio, evidentemente avvertito ancora nella prima età imperiale, sarebbe scomparso in epoca antonina, come potrebbe dimostrare la lettura di un altro passo di Scevola: Scaev. 2 resp., D. 23.4.29pr.: Cum maritus, qui aestimata praedia in dotem acceperat, manente matrimonio pactus est circumscribendae mulieris gratia, ut praedia inaestimata essent, ut sine periculo suo ea deteriora faceret: quaesitum est, an secundum priores dotales tabulas praedia aestimata remanerent et periculum eorum ad maritum pertineret. respondi non idcirco pactum de quo quaereretur impediri, quod in matrimonio factum esset, si deteriore loco dos non esset: nihilo minus eo pacto admisso, si deteriora praedia faceret, eo etiam nomine dotis eum actione teneri. Quando il marito, che aveva accettato in dote terreni che erano stati stimati in denaro, in costanza di matrimonio, al fine di raggirare la moglie, ha pattuito che quei terreni fossero ritenuti non stimati, così da renderli deteriori senza proprio rischio: si è domandato se, in base ai precedenti documenti dotali, i terreni rimanessero stimati e il pericolo su di essi spettasse al marito. Ho risposto che certamente il patto del quale si discute non era impedito dal fatto che fosse stato concluso in costanza di matrimonio, se la dote non era già deteriorata: nondimeno, anche ammesso tale patto, se il marito avesse reso deteriori i terreni, anche a questo titolo sarebbe stato tenuto con l’azione di dote.

Nel brano non è presente alcun cenno al problema della legittimazione del marito a concludere, manente matrimonio, un accordo con la moglie197. Appare, dunque, difficile immaginare che nella quaestio Scevola avesse problematizzato un aspetto che, in altre opere casistiche, aveva dato invece per pacifico. Il passo dei responsa consente di precisare che, secondo Scevola, alla

196 Ampiamente sul passo e sulla partecipazione della pluralità di soggetti nella vicenda prospettata da Giavoleno, si veda Magagna 2002, 159 ss. 197 Dei passaggi che portarono al superamento della necessità che fossero patres familias e agnati a concludere accordi successivi al matrimonio non vi è traccia nelle fonti: per giustificarlo sono state proposte argomentazioni di natura extratestuale basate su valutazioni di buon senso (Magagna 2002, 161 s.), ovvero sulla valorizzazione degli elementi socio-economici (Masiello 1999, 194 legge le decisioni di Scevola come espressive di un favor pacti – a sua volta manifestazione di un più ampio favor dotis), ovvero sullo iato tra titolarità e appartenenza particolarmente evidente nel regime della dote (così Bonfante 1908, 131 s.).

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Alessia Spina condizione che la dote non fosse deteriorata, la permutatio dotis poteva ritenersi valida anche laddove la convenzione dotale si ponesse in una fase successiva a quella della sua costituzione e fosse posta in essere tra parti non coincidenti con quelle propriamente legittimate a richiederla e a restituirla (respondi non idcirco pactum de quo quaereretur impediri, quod in matrimonio factum esset, si deteriore loco dos non esset)198: la constatazione è importante perché in questa prospettiva Scevola avrebbe svolto un ruolo di «apripista» in materia di restituzione della dote199. Una seconda possibile contestualizzazione muove dal rilievo che, in un numero significativo di testimonianze, i giureconsulti si sono interrogati circa la possibile coincidenza tra patti patrimoniali – e specificamente dotali – e donazioni tra coniugi: è possibile che un patto quale quello prospettato da Scevola sia stato inteso alla stregua di una donazione, rinunciando il marito, a favore della moglie ai frutti a lui spettanti dell’ultimo anno di matrimonio. Peraltro, se il problema si declinasse in questi termini, vi sarebbe un’importante vicinanza di contenuto rispetto al frammento delle quaestiones che segue nell’ordine leneliano quello in esame, ossia D. 24.1.56 [F. 14], in cui il tema della donatio mortis causa si interseca e si confonde con quello della donatio inter virum et uxorem200. Nel caso rappresentato in D. 23.4.31, il contenuto convenzionale, prevedendo l’attribuzione lucrativa dei frutti alla moglie e la conseguente esclusione degli stessi dal patrimonio dotale, potrebbe essere letto alla stregua di una donazione: un indizio in tale senso potrebbe essere colto proprio nel dativo di vantaggio lucro. E siffatto dubbio potrebbe essere stato fugato da Scevola in forza di una semplice riflessione: il marito aveva sui frutti una mera aspettativa, non essendo essi ancora maturati né tantomeno percepiti, sicché la situazione non risulterebbe configurabile quale donazione201. Più precisamente, la soluzione scevoliana si potrebbe giocare sull’impossibilità di configurare il patto concluso tra le parti quale vera e propria donatio inter virum et uxorem, dal momento che essa sarebbe destinata a produrre i suoi effetti – riferendosi l’espressione extremus annus matrimonii proprio all’eventualità della cessazione del vincolo – a matrimonio ormai sciolto: in tale momento non si potrebbe più parlare di donazione tra coniugi sicché, esclusa la configurabilità di una fattispecie vietata, il patto sarebbe senza dubbio valido202. Quella ora illustrata rimane, invero, una mera proposta interpretativa di natura congetturale. F. 14 – D. 24.1.56 Il frammento, come il precedente, viene collocato da Lenel sotto la clausola de re uxoria203, coerentemente con il tema affrontato da Scevola in una quaestio di cui i commissari giusti-

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Burdese 1959, 162 e nt. 19. Lambertini 2016, 208. 200 Sulla quale si rimanda, anche per la letteratura sul tema, al lavoro monografico di Buongiorno 2018, passim e specificamente sul pensiero di Cervidio Scevola, 220 ss. Solo in via esemplificativa nel quadro di una bibliografia estremamente ampia sul passo in esame: Alibrandi 1892, 595; De Medio 1902, 5 ss.; Lauria 1937, 516 ss.; Aru 1938, 6 ss.; Scherillo 1940, 172 ss.; Giuffrè 1972, 4 ss.; Manzo 1991, 342 ss. Più di recente, con particolare attenzione all’eterogeneità delle posizioni dei giuristi, in difficoltà nel rispondere alle concrete esigenze e a valorizzare la vera ratio del divieto, Zanon 2013, 114 ss. 201 Masiello 1999, 194. 202 Così anche Schol. 1 ad B. 29.5.29: Σημείωσαι, ὅτι ἔρρωται δωρεὰ ἐν γάμῳ γινομένη μέλλουσα τὴν ἀρχὴν καὶ τὸ κῦρος λαμβάνειν μετὰ διάλυσιν τοῦ γάμου· καὶ ἐκ τοῦ ἐναντίου ἀνισχύρως δωροῦμαι τῆ μνηστῇ μου͵ ἐφ΄ᾧ μετὰ τὸν γάμον αὐτὴν δεσπόσαι. 203 Lenel 1889 II, 274. 199

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Commento. Quaestionum libri XX nianei hanno proposto un mero squarcio e che è possibile abbia subìto un taglio anche al proprio interno, dopo le parole iubeo dari e prima di quia illo. La lacuna risulta dal confronto con due passi giulianei – D. 24.1.3.13 e D. 24.1.4 – i quali hanno evidentemente ispirato la riflessione di Scevola e che si avrà cura di illustrare204. Anticipo che la critica, se ha salvato l’autenticità del testo in esame, ha invece reputato fortemente interpolati i citati brani di Giuliano205. L’escerto si segnala per alcune peculiarità stilistiche: l’uso della prima persona singolare enfatizzato dal pronome ego, la cui presenza nella ricostruzione della fattispecie risulta insolita nelle quaestiones, contribuendo a creare la sovrapposizione, in una sorta di finzione didattica, tra il protagonista della vicenda e il maestro che offre la soluzione; l’ablativo illo convalescente cui si contrappone, asimmetricamente, il solo ablativo verbale mortuo; il gioco di comparativi e negazioni nella parte da nihilo a sum; l’uso anaforico del verbo habeo nella parte finale (non enim habeo quod habiturus essem). Nella fattispecie entrano in gioco tre soggetti e due trasferimenti patrimoniali: il primo soggetto menzionato, terzo rispetto al rapporto coniugale, è indicato come ille, il quale ha compiuto una donatio mortis causa al marito: si tratta di una donatio, conclusa nell’imminente pericolo di morte, con l’intesa che la res oggetto di trasferimento venga restituita al donante medesimo che sopravviva, o, in caso contrario, al donatario206. Il secondo soggetto coinvolto è il marito stesso, donatario condizionato e alienante della medesima res alla moglie, attraverso un negozio espressamente qualificato come non condizionato (pure); vi è poi la moglie, la quale risulta essere destinataria finale dell’oggetto della donazione. Scevola ritiene che non abbia efficacia il secondo patto, ossia la delegazione a favore della moglie207, e di tale invalidità fornisce una motivazione concreta, basata sulle due ipotesi concretamente verificabili. Nella prima ipotesi, il donante – che aveva compiuto il negozio in situazione di infermità tale da fare presagire la morte – guarisce: non si è verificata la condizione richiesta per la donatio mortis causa e dunque quanto sia stato trasferito potrà essere ripetuto attraverso una condictio al marito stesso208. Nella seconda ipotesi, quella di morte del donante, il marito subirebbe comunque un impoverimento, nel senso di un mancato acquisto, dal momento che quanto sarebbe dovuto entrare nel proprio patrimonio verrebbe deviato a vantaggio della moglie. Invero, per giustificare l’invalidità dello iussus, occorre ipotizzare che la somma fosse entrata nel patrimonio del marito, per poi uscirne ed entrare in quello della moglie, configurandosi in tal modo una donatio inter virum et uxorem, vietata dall’ordinamento. La definizione di depauperamento per un acquisto che non è mai materialmente entrato in un patrimonio potrebbe apparire poco corretta, ma giustificabile ragionando sulla portata del verbo con cui è resa l’operazione di delegazione, ossia iubere, che usato al modo impe-

204 Sulla classicità del passo anche Di Paola 1969, 46: “di fronte a tutta una serie di testi come quelli sopra riportati, qualsiasi dubbio sulla non classicità della revoca ad arbitrio del donante è destinato a scomparire”. 205 Sollevano dubbi su D. 24.1.4, ex multis, Beseler 1925, 444; Longo 1941, 336. Contra, Lauria 1937, 530 e nt. 46. 206 Talamanca 1990, 778. 207 Sul non valere quale sanzione al divieto di donazione tra coniugi, Stolmar 1984, 39 e nt. 501. 208 Il principio secondo cui la dazione compiuta dal delegatio a scopo di donatio mortis causa deve ritenersi fatta al delegante e non già al delegatario sarebbe espressa in Paul. 17 ad Plaut., D. 50.17.180: Quod iussu alterius solvitur, pro eo est, quasi ipsi solutum esset. Cfr. anche Donatuti 1951, 121.

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Alessia Spina rativo implicherebbe già la presenza di una ‘sorta di diritto’209: in altri termini, è come se il marito fosse stato già privato, con lo strumento delegatorio, di quanto potenzialmente era stato destinato al proprio patrimonio. Nel quadro della storia giurisprudenziale dedicata al tema della donazione, il brano sembra rappresentare un momento successivo a Giuliano (che a sua volta si muoveva commentando una posizione celsina) e precedente alla rielaborazione ulpianea, come una serie di passi consente di ricostruire. La fattispecie esaminata da Scevola presenta, infatti, indubitabili elementi di coincidenza con quelle oggetto di due pareri di Giuliano210, entrambi provenienti dal libro XVII dei digesta, l’uno, D. 24.1.3.13, tramandato nel commento ulpianeo ad Sabinum, e l’altro, D. 24.1.4, in un frammento recante un’inscriptio propriamente giulianea, per i quali i compilatori hanno scelto una collocazione consequenziale, all’interno del titolo D. 24.3 De donationis inter virum et uxorem211. La soluzione giulianea di D. 24.1.3.13 (prospettata dai giustinianei come conseguente a una sostenuta da Celso212) recita: Ulp. 32 ad Sab., D. 24.1.3.13: Huic sententiae consequens est, quod Iulianus libro septimo decimo digestorum scripsit, si donaturum mihi iussero uxori meae dare: ait enim Iulianus nullius esse momenti, perinde enim habendum, atque si ego acceptam et rem meam factam uxori meae dedissem: quae sententia vera est. È conseguenza di questo parere ciò che ha scritto Giuliano nel libro diciassettesimo dei digesti, per il caso in cui io abbia ordinato a colui che mi voleva fare una donazione di dare a mia moglie: Giuliano afferma, infatti, che ciò non ha nessun valore, perché si deve considerare come se io, avendo ricevuto e fatta mia una cosa, l’avessi data a mia moglie: e questo parere è vero.

Lo iussus formulato dal marito a favore della moglie e indirizzato a colui che intendeva donargli è, dunque, da ritenersi nullo (nullius esse momenti), perché, nonostante lo strumento delegatorio, occorre considerare che è come se il marito abbia fatto entrare il bene nel proprio

209 Così Amarelli 1953, 138 s. Se al posto del verbo iubere si fosse trovato il verbo rogare, difficilmente si sarebbe potuto parlare di depauperamento, come parrebbe confermato da Pomp. 14 ad Sab., D. 24.1.31.7. 210 In particolare il passo contrasterebbe con D. 24.1.39: l’antinomia è stata risolta da Stolmar 1989, 38 ss.; negando l’intervento dei commissari giustinianei e prospettando un’evoluzione del pensiero di Giuliano, che dapprima avrebbe abbracciato la tesi di Minicio, in prosieguo, con l’affermarsi dell’actio utilis a favore del marito, avrebbe modificato posizione. Scevola avrebbe abbracciato la prospettazione a lui cronologicamente più vicina: cfr. la recensione del lavoro di Stolmar compiuta da Garbarino 1989, 519. 211 Il suggerimento è anche leneliano: Lenel 1889 II, 274, nt. 2. Si segnala solamente che, nel medesimo titolo, Giuliano compare anche in Iul. 5 ad Minic., D. 24.1.39, aderendo alla posizione di Minicio che, nella delegazione a solvere, avrebbe ritenuto il pagamento dotato di efficacia solutoria rispetto al debitore solamente ope exceptionis. Le antinomie tra i testi giulianei sono stati oggetto di riflessione da parte di Aru 1938, 103 ss. 212 In Ulp. 32 ad Sab., D. 24.1.3.12. I brani giulianei e quello di Scevola testimonierebbero che Celso avrebbe tentato di costruire un modello generale di actio utilis: cfr. Stolmar 1989, 38 ss. e la recensione di Kurylowicz 1990, 404. Per una valutazione dei rapporti tra Celso, Giuliano e Ulpiano in materia di donatio mortis causa, Misera 1974, 44 s.

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Commento. Quaestionum libri XX patrimonio e poi l’abbia trasferito alla moglie. E Ulpiano ritiene che tale parere sia vero. Si è osservato come i vocaboli perinde enim … dedisset rivelerebbero che Giuliano, per svolgere il proprio discorso, si sia dovuto avvalere di una finzione di acquisto, ritenuta in passato di possibile origine insiticia, poiché funzionale ai compilatori per concretizzare, in termini di effettivo depauperamento, il mancato acquisto213. Invero, il medesimo ragionamento scevoliano, finalizzato a giustificare non già, come si è detto, l’impoverimento, quanto piuttosto la connessione di quest’ultimo a un passaggio patrimoniale tra marito e moglie che determina l’invalidità di una donazione tra coniugi vietata dall’ordinamento, farebbe escludere anche per il testo di Giuliano un intervento bizantino. Le riflessioni appaiono ulteriormente confermate dal secondo brano214: Iul. 17 dig., D. 24.1.4: Idemque est et si mortis causa traditurum mihi iusserim uxori tradere, nec referre, convaluerit donator an mortuus sit. neque existimandum est, si dixerimus valere donationem, non fieri me pauperiorem, quia sive convaluerit donator, condictione tenebor, sive mortuus fuerit, rem, quam habiturus eram, in bonis meis desinam propter donationem habere. E lo stesso avviene anche se, a qualcuno che, in vista della propria morte, stia per consegnarmi qualcosa in dono e io abbia dato ordinato di consegnarla a mia moglie, e non deve essere considerato se il donante sia guarito oppure sia morto e neppure se avessimo detto che la donazione sia valida, si deve ritenere che io non sia diventato più povero, poiché, se il donante sarà guarito, io sarò tenuto con l’azione di ripetizione per intimazione, se sarà morto, cesserò di avere nel mio patrimonio una cosa che stavo per avere, a causa della donazione.

La medesima soluzione, che conduce alla nullità del negozio di delegazione, varrebbe, quindi, anche nell’ipotesi in cui, a colui il quale, in vista della propria morte, sia sul punto di consegnarmi qualcosa, io abbia dato ordine di consegnarlo a mia moglie, e non rileva se il donante sia guarito o sia morto215. Giuliano, nel prosieguo del parere, avvalendosi dell’artificio retorico della litote (nec existimandum … non fieri…), che in parte attenua la portata dell’affermazione, sostiene che anche ammettendo la validità della donazione, non si potrebbe negare che il marito abbia subìto un depauperamento patrimoniale: il giurista, infatti, osserva che se il donante sarà guarito, il marito dovrà rispondere nell’ambito dell’azione di ripetizione; se, invece, il donante sarà morto, la validità della donazione gli avrebbe impedito di avere nel proprio patrimonio una somma in precedenza destinatagli. Il passaggio ulteriore è sottinteso, ma potrebbe così ricostruirsi: se la donatio mortis causa è efficace, l’ordine di consegnare alla moglie avrebbe determinato un impoverimento dell’uomo e un lucro per la donna, verificandosi gli estremi di una donazione nulla, perché avvenuta tra coniugi.

213 Aru 1938, 105. Le opinioni degli studiosi sono state diverse, tese a leggere ora il riferimento a una traditio brevi manu (Bonfante 1963, 293 e nt. 2; così, recentius, Masiello 1999, 194, laddove scrive che Scevola negherebbe la validità sia della donazione che “della traditio attuativa dell’ordine del marito”), ora a un constitutum possessorium: Savigny 1889, 669 e nt. A. 214 Scrive Amelotti 1953, 155: “il caso considerato dai due frammenti è il medesimo”. 215 Sulla condizione ‘si convaluerit’, Rodríguez Díaz 2000, 126; Rüger 2011, 221 s. e nt. 4.

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Alessia Spina La vicinanza tra D. 24.1.56 e D. 24.1.4 farebbe supporre che Scevola stesse commentando ai suoi allievi proprio il parere giulianeo, e ne ripercorresse esattamente i passaggi e il ragionamento. Invero, il passo di Giuliano contiene una parte – quella compresa tra neque e pauperiorem – in cui si prospetta la validità della donazione mortis causa (si dixerimus valere donationem), presupposto dal quale valutare la validità dello iussus stesso216: tale riflessione nel testo scevoliano è assente217. Si può pensare che Scevola non abbia ritenuto di soffermarsi sulla precisazione di Giuliano e ne abbia omesso il richiamo; tuttavia, dal momento che il percorso logico seguito in D. 24.1.56 appare effettivamente lacunoso, si può immaginare che vi sia stata un’eliminazione successiva, forse ad opera di un allievo della scuola. La tesi di una mano compilatoria – sollevata in letteratura a proposito del frammento giulianeo – parrebbe indebolita proprio alla luce dei richiami interni fra i tre passi esaminati (su cui parrebbe difficile immaginare un intervento sistematico dei compilatori), tra i quali ancora va evidenziata la sopravvivenza, nella parte finale di D. 24.1.56, dell’aggettivo pauperior, che richiama letteralmente il passaggio di D. 24.1.4, con cui si argomenta l’invalidità di un impoverimento del patrimonio del marito destinato a configurarsi quale donazione a favore della moglie218. F. 15 – D. 35.2.16 Il brano verte sull’applicazione della lex Falcidia, provvedimento del 40 a.C., che limitò al dodrans, ossia ai ¾, la quota del patrimonio destinato al legatario, riservando il rimanente quadrans, ossia ¼, all’erede. Il dubbio palingenetico sollevato dallo stesso Lenel, che ipotizza che il passo debba essere stato escerto dal libri III dei responsa, non pare sufficientemente argomentato, come osservato supra, per legittimare la proposta di una diversa collocazione. Il testo è stato ritenuto interpolato sulla base del riferimento all’eccezione di dolo, che avrebbe determinato nel caso de quo un effetto diminutorio (o addirittura assolutorio) della condanna, sconosciuto ai giuristi classici219. Invero, non si vuole in questa sede, approfondire il tema della configurabilità di una simile eccezione all’epoca di Scevola (sebbene una pluralità di testi, già esaminati in riferimento a D. 16.2.22 [F. 9], consentirebbero di ammetterla), ma semmai sottolineare come l’esegesi del testo in esame non conduca necessariamente a una

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Stolmar 1989, 38 ss. Krüger 1912, 187 ipotizza che l’inciso da neque existimandum sia proprio una nota scevoliana. 218 Aru 1938, 105 ritiene propriamente classico il principio per cui, ogniqualvolta vi fosse un mancato acquisto, la donazione poteva essere vietata, “e si aveva depauperamento poiché si verificava una vera e propria ‘depositio del patrimonio”». Sul divieto di arricchimento giocato sulla comparazione pauperior – locupletior, cfr. Gade 2001, 88 ss. 219 Schwarz 1943, 357, che arriva alla conclusione secondo cui “es ergab sich somt, daß die exceptio als Mittel zur Verwirklichung des Rechtes auf die Quart höchtwahrscheinlich an allen behandelten Stellen unklassisch ist”. Contra Bonifacio 1948, 21 s. e, in precedenza Biondi 1927, 118, quando scrive che: “la pretesa del convenuto contrapposta a quella dell’attore nella forma della exceptio doli riusciva soltanto a neutralizzare la pretesa dell’attore, ed in ciò sta appunto la attenuazione alla indipendenza delle reciproche pretese, ma però a diminuirne il contenuto od a sorpassarlo. Il convenuto infatti come non poteva essere condannato pro parte, così non poteva ottenere la condanna dell’attore”; ancora Ziliotto 1999, 507 s., nt. 19: “la portata della disposizione e soprattutto il meccanismo in virtù del quale, nel processo formulare, l’exceptio doli avrebbe potuto realizzare la compensazione, sono assai discussi. Le difficoltà derivano fondamentalmente dal fatto che in tale processo l’exceptio era atta non a ridurre, ma ad escludere la condanna”. 217

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Commento. Quaestionum libri XX simile interpretazione dell’eccezione di dolo. Più precisamente, il confronto con D. 35.2.23, brano proveniente dal libro XV delle quaestiones, chiarirebbe come l’effetto della medesima exceptio doli – nel caso de quo applicata laddove la quarta fosse inferiore o superiore all’aestimatio della via – non avrebbe determinato alcuna diminuzione della pretesa dell’attore e neppure la reiezione della stessa: lo strumento pretorio avrebbe avuto l’effetto di permettere la retentio dei beni, così concretamente garantendo alla voluntas testantis di trovare attuazione220. Ritenuto, dunque, inconsistente l’argomento interpolazionistico, si può propendere per la genuinità dell’intero frammento221. Scevola afferma che, in caso di una pluralità di legati (che parrebbero avere effetto obbligatorio … quasdam solverit)222, se alcuni siano stati adempiuti senza trattenere la quarta, al legatario che agisca per l’adempimento dei rimanenti si sarebbe potuta opporre un’eccezione di dolo, la quale avrebbe consentito all’erede di trattenere l’intera quarta a lui riservata. Nel paragrafo 1 – che è stato ritenuto collegato al principium da una tecnica argomentativa analogica, di inclusione della parte nel tutto223 – vi è applicazione della medesima ratio, per l’ipotesi di adempimento parziale del legato che sia stato compiuto senza trattenere la quarta, legittimandosi l’applicazione dell’exceptio doli per ottenere l’intera riduzione224. Il dolo, in entrambe le fattispecie, si sarebbe concretizzato nella mancanza di correttezza del legatario, che non avrebbe dovuto ledere il diritto dell’erede a vedersi corrispondere la quarta Falcidiae. La soluzione risulterebbe contraria al criterio secondo cui pro rata fit deminutio, che avrebbe determinato, per ogni singolo legato, una riduzione proporzionale tale da riservare all’erede la quarta pars hereditatis sulla singola res. Si tratterebbe di un criterio adottato con costanza dalla giurisprudenza, da Atilicino, a Nerva, Sabino e Cassio, sino a giungere a Gaio225 e poi a Paolo226, come le fonti attestano. Scevola, invece, avrebbe mostrato “scarsa affezione” al principio della ‘proratorische ipsoiure-Minderung der Legate’227, tanto in D. 35.2.16, quanto nel brano del libro XV delle quaestiones versato in D. 35.2.23: in entrambi i testi si accede a un principio che privilegia il calcolo cumulativo, da applicarsi qualora più legati spettassero alla medesima persona e laddove esigenze di equità lo suggerissero228. Dinanzi all’evidente deviazione del pensiero scevoliano rispetto alla posizione più consolidata, in passato sono state tentate ricostruzioni differenti: si è ipotizzato229, come detto, che il

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Finazzi 2006 II, 176. Non si pone il problema dell’efficacia, ad esempio, Voci 1963, 785 e nt. 113. 222 Si è osservato che proprio la descrizione dei legati come per damnationem potrebbe fare sorgere dubbi applicativi, poiché, come si è osservato, “l’erede non potrebbe agire con la condictio indebiti per ripetere quanto pagato in più (in forza della nota regola di cui a Gai. II 282-283; C. 4.5.4)”: così Bonifacio 1948, 21. 223 Approfondisce l’analisi della tecnica del ragionamento Masiello 1999, 196 s., che parla di una particolare forma di analogia, ossia l’argomento a maiore ad minus. 224 Si tratta di un’exceptio doli generalis, come precisa Milone 1882, 141 s. 225 Quanto alla posizione gaiana, il principio sarebbe chiarito da Gai. 18 ad ed. prov., D. 35.2.73.5. 226 Testimonianza per la giurisprudenza più risalente è Paul. 12 ad Plaut., D. 35.2.49pr. 227 Finazzi 2006b, 175 s. 228 Così Mannino 1989, 138. 229 Masiello 1999, 144 e precedentemente Bonifacio 1948, 22: “devo al suggerimento del mio Maestro il pensare che possa trattarsi appunto dell’applicazione della compensazione per exceptionem doli di cui al famoso rescritto di Marco Aurelio”. 221

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Alessia Spina rimedio pretorio invocato da Scevola si applicasse ai casi di compensazione, sulla scia dell’intervento imperiale richiamato in I. 4.6.30 [F. 9]230; si è precisato anche che il criterio pro rata fit deminutio avrebbe potuto trovare applicazione solamente nel caso in cui vi fossero più legatari e non, come nel caso proposto nella quaestio scevoliana, di un unico legatario231. Fra tutti i tentativi ricostruttivi, mi è parsa maggiormente convincente la lettura che ha ritenuto di individuare il fondamento del parere scevoliano in un senatoconsulto richiamato da Paul. 3 fideic., D. 35.2.33 e da Ulp. 6 disp., D. 35.2.35232, testo quest’ultimo passo di speciale rilevanza perché contiene un richiamo proprio al pensiero di Cervidio Scevola. Il brano paolino reca il cenno a un senatoconsulto, di incerta datazione233: Paul. 3 fideic., D. 35.2.33: Si servus tibi legatus sit eumque rogatus sis manumittere nec praeterea capias, unde quartam, quae per Falcidiam retinetur, recipere possis, senatus censuit cessare Falcidiam. Se ti sia stato legato uno schiavo e ti sia stato chiesto di manometterlo e successivamente tu non prenda altro da cui tu possa recuperare la quarta che per la legge Falcidia è trattenuta, il Senato decise di escludere l’applicazione della Falcidia.

L’ipotesi è quella di uno schiavo legato con la preghiera di manometterlo; qualora il legatario non avesse dovuto prendere altri beni, sui quali soddisfarsi trattenendo su di essi la quarta, il Senato avrebbe deciso di escludere l’applicazione della Falcidia. La scelta senatoria è finalizzata ad evitare che il legatario, piuttosto che rimettere denaro di tasca propria, rifiutasse il lascito e la successiva concessione della libertà. Viene sospesa, dunque, l’applicabilità pro rata della Falcidia in nome di un evidente favor libertatis. Il medesimo ragionamento ritorna nel passo delle disputationes di Ulpiano, che del brano paolino parrebbe la logica continuazione, richiamando ancora la decisione senatoria e ad essa collegando un’opinione di Cervidio Scevola234: Ulp. 6 disp., D. 35.2.35: Plane si quid sit praeterea legatum ipsi servo, Falcidiae locum fore senatus declaravit. unde Scaevola ait in eo, quod praeterea servo legatum est, ita Falcidiam admittendam, ut inde et quod pro servo praestandum est sumatur. Certamente, se qualcosa oltre allo schiavo stesso sia stato legato, il Senato dichiarò che trovasse applicazione la Falcidia, sicché Scevola, in riferimento a ciò che sia stato legato oltre allo schiavo,

230 Scevola, in D. 35.2.16, si sarebbe riferito alla circostanza che la compensazione dovesse avvenire mediante il saldo da parte del convenuto e la relativa e susseguente assoluzione: Solazzi 1950, 97 ss.; in particolare, si segnala l’ampia analisi del passaggio delle Istituzioni e del legame con la normazione imperiale svolta da Rozwadowski 1978, 75 ss. 231 La specificazione è accolta in letteratura: Bonifacio 1948, 21: “nella decisione di Scevola il principio pro rata fit deminutio subisce una deviazione, ma solo apparente, in quanto questa norma vale nei rapporti dei collegatari fra di loro e non ha necessità di operare quando si tratti di più legati lasciati alla stessa persona”; consentaneo Masiello 1999, 197. Cfr. anche Wacke 1973, 243 ss. che esclude una vera controversialità tra la soluzione scevoliana e quella accolta dagli altri giuristi. 232 Svolta da Mannino 1989, 138 ss. 233 Volterra 1969, passim non richiama il passo. 234 Lenel 1889 II, 319, fr. 335, colloca il brano tra i loci incerti scevoliani.

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Commento. Quaestionum libri XX afferma che così la Falcidia debba essere ammessa, in modo tale che si assuma anche ciò che debba essere prestato a favore dello schiavo.

Il passo sarebbe la prova dell’elaborazione da parte di Scevola, che prese spunto dal provvedimento del Senato, di una modalità di calcolo della Falcidia diverso rispetto al criterio del pro rata fit deminutio: tale calcolo sarebbe stato effettuato su tutto quanto fosse stato legato alla medesima persona, sia in via diretta (ossia lo schiavo), che in via indiretta (ossia le disposizioni pro servo), verosimilmente allo scopo di non impedire l’acquisto della libertas, come avrà modo di chiarire ancora Paolo nel periodo conclusivo di: Paul. 3 fideic., D. 35.2.36.3… quartam autem utriusque ex legato retinendam, ne impediatur libertas … … invece deve essere trattenuta la quarta parte del legato, affinché non sia impedita la libertà.

Non vi sono motivi per dubitare della citazione di Scevola compiuta da Ulpiano in D. 35.2.35, e al giurista antonino parrebbero addirittura da attribuirsi gli stessi verba da in eo a sumatur; inoltre, sebbene i dati testuali siano troppo scarsi per consentire un’esatta collocazione dell’opinione all’interno della produzione scevoliana, sembra verosimile – in considerazione del riferimento al provvedimento senatorio, nonché dell’affinità di contenuto rispetto a D. 35.2.16 – che Ulpiano riferisse di un passaggio delle quaestiones: gli elementi sono, però, troppo esigui perché si possa proporre l’inserimento del passaggio nell’opera in esame. Il criterio applicato in D. 35.2.16 appare, dunque, frutto di una scelta che Scevola ripropone in diversi luoghi della sua opera, scelta che si contrapporrebbe a un consolidato indirizzo giurisprudenziale in nome, almeno inizialmente, di un più efficace favor libertatis, sulla scorta di un suggerimento del Senato – richiamato dalla giurisprudenza di età severiana – dal giurista stesso valorizzato ed esteso anche a fattispecie ulteriori rispetto a quella originaria, al fine di garantire l’effettività della voluntas testantis e l’esatta esecuzione delle disposizioni a titolo particolare235.

LIBRO IV

I Digesta Iustiniani conservano cinque frammenti provenienti dal libro quarto delle quaestiones di Cervidio Scevola. Si tratta di passi dedicati a temi diversi, dei quali i compilatori hanno scelto di salvare solo brevi stralci. La ricostruzione palingenetica di Lenel non desta particolari perplessità, perché è possibile rinvenire l’ordine edittale: un solo brano, D. 26.2.31 [F. 16], è

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In maniera analitica i passaggi del discorso sono ricordati da Mannino 1989, 139 s.

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Alessia Spina in materia di tutela [De tutelis, E XXII]; seguono tre brani in materia di furto [De furtis, E XXIII], dei quali uno D. 13.1.18 [F. 17], sembrerebbe dedicato a un problema di applicazione e di concorso della condictio ex causa furtiva; il testo di D. 13.1.18 è palingeneticamente connesso al titolo edittale de furtis e, in particolare, è dedicato all’applicazione della condictio furtiva236, come anche la collocazione all’interno dei Digesta Iustiniani conferma. Per gli altri altri due passi – D. 47.2.70 [F. 18] e D. 47.6.6 [F. 19] – si ritiene ragionevole tentare una più specifica collocazione. Infatti, l’esegesi dei due brani citati e la lettura congiunta di alcuni passi, idonei a chiarire la profondità storica del pensiero di Scevola237 consentono di ritenere che la connessione fosse alla più specifica clausola Si familia furtum fecisse dicetur (di cui Ulpiano si occupa nel libro 38 del commentario all’editto), ossia a quella clausola edittale che sanzionava il furto dei beni ereditari compiuto dallo schiavo238. Nell’eseguire tale operazione è apparso opportuno aggiungere alla palingenesi della raccolta anche un brano ulpianeo, D. 47.4.1.10 [F. 18]. Maggiori dubbi potrebbero derivare dal frammento D. 38.1.44 [F. 20], che Lenel, valorizzandone l’esordio, contenente il riferimento alle operae libertorum, e la collocazione giustinianea nel titolo ad esse dedicato, pone sotto la rubrica De operis libertorum (E 140): si ritiene di aderire alla ricostruzione leneliana, nonostante l’andamento del discorso, nel passo indicato, assuma una portata più ampia, contenendo l’enunciazione del diverso regime della mora debitoris e della mora fideiussoris a seconda dell’oggetto dell’obbligazione. Il tema delle garanzie personali e specificamente della fideiussio, si rinverrà, altresì, in un brano del libro quinto delle quaestiones, D. 45.1.127 [F. 25], a testimonianza di un’attenzione speciale del giurista nell’affrontare, a latere di un più specifico quesito giuridico, il tema del ritardo e dell’esigibilità della prestazione, sui quali la giurisprudenza di età antonina, e soprattutto Marcello, aveva svolto un ruolo rilevante, attraverso elaborazioni con portata innovatrice. F. 16 – D. 26.2.31 Nel frammento D. 26.2.31 si discute della sorte di una tutela testamentaria, nel caso in cui il testamento che la prevede sia stato dichiarato ruptum, ossia invalido per nascita di un postumo. Scevola ritiene che obbedisca a un criterio di convenienza oggettiva (commodissimum) che la pupilla, nelle more del processo, venga affidata ai medesimi tutori indicati nel testamento. Non si tratterebbe di una mera conferma dei tutori in precedenza indicati, ma di una vera e propria datio tutoris nuova (eosdem tutores … dari)239, o più precisamente di un’investitura – forse avente una mera efficacia interinale – realizzata attraverso un decreto magistratuale e finalizzata espressamente alla petitio hereditatis sui beni del defunto. Infatti, a seguito della

236 La condictio furtiva o condictio ex causa furtiva è l’azione reipersecutoria spettante soltanto al derubato che sia proprietario della cosa. Con essa si fa valere, nei confronti del ladro, l’obbligo di restituzione della cosa stessa, sussistente a indipendentemente dal fatto che il ladro ne sia ancora in possesso ed anche quando la cosa sia perita (Talamanca 1990, 624). Sull’utilizzo del sostantivo causa nel brano, Díaz Bialet 1971, 370. 237 Si tratta di Iul. 3 ad Urs. Feroc., D. 41.3.35; Ulp. 38 ad ed., D. 47.4.1.10; Ulp. 38 ad ed., D. 47.4.1.15. 238 Lenel 1927, 335. 239 Similmente a quanto propone Trifonino. Diversamente, Papiniano, per un’ipotesi simile a quella in esame, parla, invece, di conferma del tutore. Per tali considerazioni, Desanti 1995, 139 ss., sulla cui posizione è però critico Dalla 2000, 506 s.

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Commento. Quaestionum libri XX querela inofficiosi testamenti – ossia del procedimento da esperirsi, nella fattispecie, per fare valere la nullità del testamento – si sarebbe aperta una successione ab intestato. Con la coincidenza tra le due figure di tutori, sarebbero stati evitati i rischi di una sentenza di rescissione o di invalidazione del testamento che, avendo efficacia ex tunc, avrebbe posto in dubbio l’intera attività di un tutore che avrebbe agito in assenza di legittimazione processuale240. Si tratta di decisioni basate su un identico criterio di convenienza, che trova conferma nella giurisprudenza di età severiana, in particolare in un passo di Trifonino, Tryph. 14 disp., D. 26.2.27pr. e in uno di Papiniano, Pap. 4 resp., D. 26.2.26.2, sebbene in quest’ultimo la scelta dei medesimi tutori venga ricostruita non già come nuovo incarico, bensì quale conferma della precedente datio, comunque limitata alla conduzione della lite pupilli nomine (propter litem inofficiosi testamenti ordinandam)241. Pap. 4 resp., D. 26.2.26.2: Propter litem inofficiosi testamenti ordinandam exheredato filio, cui tutorem pater dedit, eundem a praetore confirmari oportet: eventus iudicatae rei declarabit, utrum ex testamento patris an ex decreto praetoris auctoritatem acceperit. Per l’instaurazione di una lite per un testamento inofficioso, con cui è stato diseredato il figlio, al quale il padre nominò un tutore, il medesimo deve essere confermato dal pretore: l’esito del giudizio renderà chiaro se abbia ricevuto la sua autorità dal testamento del padre, oppure dal decreto del pretore.

La parte finale del frammento papinianeo, in cui si legge che solo l’esito della lite chiarirà se la legittimazione del tutore sia avvenuta testamento o ex decreto praetoris, rappresenta la declinazione, nel caso specifico, della massima secondo cui tutorem habenti tutor dari non potest242, in forza della quale, non può essere assegnato un tutore a chi già ce l’ha – massima espressamente richiamata nel citato passo di Trifonino, allievo di Scevola (cfr. Introduzione)243: Tryph. 14 disp., D. 26.2.27pr.: Idem fiet, si intestatum decessisse patrem pupilli nomine defendatur falsumve testamentum nomine pupilli dicatur et si patruus exstet legitimus tutor futurus ab intestato, quia tutorem habenti tutor dari non potest. nam commodius ipse, qui scriptura continetur, a praetore dabitur, ut sine ullo litis praeiudicio iustus tutor auctor pupillo ad eam litem fiat. Lo stesso accadrà se, in nome del pupillo, si sostenga che il padre sia morto senza aver fatto testamento o, in nome del pupillo, si affermi che il testamento sia falso, anche se esista lo zio paterno il quale diventerebbe tutore legittimo ab intestato, poiché non può venir dato un tutore a chi già lo ha. Infatti, più convenientemente, quello stesso che è designato nel documento

240 Parla di un tutore che avrebbe agito alla stregua di un falsus tutor Desanti 1995, 139, sulla scorta anche delle considerazioni di Fein 1909, 425 s. 241 Si è notato (Desanti 1995, 140 e nt. 58) che Papiniano configura la conferma quale dovere in senso tecnico, utilizzando il verbo oportere (sul quale Sturm 1965, 211 ss.). Sull’utilizzo, nella chiusa del brano, del verbo declarare, si vedano Beseler 1931, 59 e Betti 1953, 457. 242 Sulla quale si può leggere Solazzi 1919, 249. 243 Incidentalmente sul passo Stephan 2018, 37.

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Alessia Spina scritto, sarà dato dal pretore, cosicché senza alcuna decisione pregiudiziale rispetto alla lite, un tutore nominato secondo il diritto interponga la sua autorizzazione al pupillo per quella lite.

Dunque, il medesimo esito – e il pronome idem, di probabile mano compilatoria, si riferisce proprio alla soluzione di Papiniano in D. 26.2.26.2 sopra riportato – si verificherà se si asserisca in nome del pupillo che il padre sia morto senza un testamento o si affermi a nome del pupillo che il testamento sia falso, anche qualora vi sia lo zio paterno, il quale sarebbe stato il tutore legittimo in caso di apertura della successione intestata, poiché non può essere dato un tutore a chi ne ha già uno. Ritiene, infatti, Trifonino che sia più vantaggioso che il medesimo tutore indicato nel documento venga dato anche dal pretore, affinché, senza alcun pregiudizio rispetto alla lite, un tutore secondo diritto possa interporre la propria auctoritas proprio per quella lite. Le assonanze rispetto al brano D. 26.2.31 di Scevola sono tali da permettere di ipotizzare che l’allievo, sulla specifica questione, si muovesse sulla stessa linea interpretativa del maestro, di cui bene conosceva i testi e di cui, probabilmente, conosceva il brano delle quaestiones. Il dato letterale più significativo è rappresentato dalla scelta di giustificare il decreto magistratuale che individua i tutori negli stessi soggetti indicati nel testamento in base a un criterio di convenienza: commodissimum est scrive Scevola, e commodius è l’avverbio che qualifica l’operazione di Trifonino244. Quest’ultimo, poi, rispetto al maestro, esplicita i due motivi che fondano la decisione: dapprima chiarisce che, da un punto di vista di stretto diritto, non sarebbe possibile incaricare il tutore legittimo, poiché sino all’esito del processo di impugnazione del testamento la datio tutoris doveva considerarsi valida; poi sottolinea che la finalità è quella di evitare effetti pregiudizievoli al corretto svolgimento processuale, ossia, precisamente, impedire una lacuna di legittimazione che avrebbe compromesso l’esito della vertenza. Se la quaestio scevoliana sembra prendere in esame una fattispecie concreta, come farebbero ipotizzare l’indicazione di una pluralità di tutori, il riferimento a una pupilla e la precisazione che l’esperimento della querela inofficiosi testamenti sia determinato dalla nascita di un postumo, Trifonino, nelle disputationes245, descrive la vicenda in termini più ampi, in un primo momento riferendosi semplicemente all’apertura della successione ab intestato (si intestatum decessisse patrem) e poi circoscrivendone la portata all’impugnazione di un testamento falso (falsumve testamentum nomine pupilli dicatur), richiamando anche terminologicamente la versione di Scevola, laddove si legge testamentum eius ruptum dicatur. In entrambi i brani si

244 Appare opportuno richiamare la riflessione di Gandolfi 1966, 370 s. sull’utilizzo della forma superlativa e comparativa dell’aggettivo (e dell’avverbio) commodus: l’autore precisa che una simile nozione di ‘convenienza’ è concepibile alla luce di una fattispecie concreta, ossia “in relazione dell’atteggiarsi delle circostanze specifiche del caso, anziché in sede di formulazione astratta di una regola”. In particolare, il termine non si riferirebbe ad una “comodità soggettiva di chi interpreta e giudica, bensì … una opportunità oggettiva, intesa come direttiva ermeneutica da adottarsi con prudente discernimento”. Il VIR segnala un utilizzo tipicamente giulianeo della costruzione del superlativo commodissimum come predicato di una proposizione infinitiva (VIR, 1, 827, s.v. commodus). Il superlativo dell’avverbio commode è attestato come significativa presenza in testii severiani, mentre il comparativo dell’avverbio è documentato anche presso i giuristi del II secolo (specificamente Giuliano e Africano). 245 Sulle disputationes quale forma letteraria, si veda Lovato 2003, 3 ss.

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Commento. Quaestionum libri XX allude alla datio del tutore (in D. 26.2.31: eosdem tutores pupillae dari; in D. 26.2.27pr.: a praetore dabitur); in entrambi i passi tale datio è finalizzata alla lite con cui si domanda l’eredità (in D. 26.2.31: ad petendam intestati hereditatem; in D. 26.2.27pr.: ad eam litem fiat) e l’efficacia risulta subordinata all’esito vittorioso del procedimento con cui si intende fare valere l’invalidità del testamento. Le osservazioni compiute consentono di sostenere che Trifonino abbia seguito lo schema del maestro, proponendo una propria personale rielaborazione nella disputatio di D. 26.2.27pr., secondo una tecnica di soluzione del casus che si rinviene, altresì, nel citato responsum papinianeo di D. 26.2.26.2. F. 17 – D. 13.1.18 La parte di quaestio scevoliana salvata dai compilatori giustinianei in D. 13.1.18246 parrebbe esordire con un’affermazione di portata generale (tanto da venire citata come testimonianza inequivocabile della responsabilità per furto dell’indebitum sciens accipiens, ossia di colui che accetta consapevolmente un pagamento indebito247), indicando la configurabilità del delitto di furto laddove vi sia stata ricezione di denaro indebito accompagnata da uno stato psicologico di consapevolezza della mancanza di legittimazione (sciens)248. Posta tale premessa generale, si domanda se, nel caso in cui un procuratore operi il trasferimento patrimoniale con denaro proprio, sia possibile ritenere che sia egli la vittima del furto. Scevola risponde al quesito citando un’opinione di Pomponio, proveniente dalla raccolta di Epistulae, secondo la quale il procuratore potrà agire con una condictio ex causa furtiva249; potrà, altresì, agire con una condictio – verosimilmente indebiti e non già ex causa furtiva250 – anche il dominus negotii, una volta che abbia ratificato l’operazione di trasferimento indebito, poiché deve ritenersi che la solutio, accompagnata dalla ratihabitio, acquisti lo stesso valore di un pagamento effettuato dal dominus dei nummi251. Il pensiero pomponiano sembrerebbe racchiuso tra le parole et Pomponius e datum sit, e accolto in maniera adesiva da Scevola. La chiusura del frammento

246 Sulla genuinità del testo non pare sia lecito sollevare dubbi, nonostante in letteratura siano stati avanzati sospetti soprattutto sulla seconda parte, quella compresa da sed et me a tollitur, poiché la concessione della condictio al dominus negotii, cui si fa cenno nel brano, è stata considerata un inserimento di mano giustinianea. Si vedano Haymann 1919, 281 e nt. 1; Beseler 1926, 141; Haymann 1956, 3 s.; Donatuti 1951, 112 s. Più cauto Voci 1952, 157 e nt. 2. Cfr. Fargnoli 2006, 43 e nt. 120; Liebs 1972, 132; Claus 1973, 297 s.; Levy 1962, 16 s. Ritiene il passo senz’altro genuino e da attribuire a Pomponio, Albanese 1956, 140 e, in precedenza la tesi conservativa del testo fu sostenuta da Levy 1918, 388 ss. Non si ritiene insiticia neppure la chiusa del brano, in cui, dopo la citazione pomponiana, tornerebbe ad essere espresso il pensiero di Scevola, con la funzione di precisare i limiti di applicazione delle azioni menzionate. Osserva Masiello 1999, 199 che la frase finale “si presta ad essere interpretata come un intervento integrativo”. 247 Così Bertolini 1891, 60; Schulz 1951, 576 e 586; Liebs 1969, 177 nt. 30; Angelini 1971, 128 e nt. 166; Huvelin 1915, 498 s. e nt. 2, ritiene che il principio fosse più antico, riconducibile ad Alfeno Varo: Alf. Var. 1 dig. a Paul. epit., D. 41.3.34: Si servus insciente domino rem peculiarem vendidisset, emptorem usucapere posse. 248 Mommsen 1907, 40 s. e nt. 1; Fargnoli 2006, 41; Cortese 2009, 142 e nt. 152. 249 Masiello 1999, 92 ritiene che nel brano la struttura dialogica possa ritenersi implicita. 250 Fargnoli 2001, 93 ss., anche per l’ampia bibliografia ivi citata, nonché cfr. infra. Sul passo anche Milazzo 2012, 187. 251 Prosegue Fargnoli 2006, 42, “con il conseguente trasferimento della legittimazione ad agire per ripetere la pecunia”.

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Alessia Spina riprenderebbe, invece, il discorso più autenticamente scevoliano, escludendo il concorso delle due azioni252: la condictio avviata dal procuratore ne preclude l’esperibilità da parte del dominus negotii e viceversa253. Il senso ultimo della quaestio e verosimilmente il motivo della sopravvivenza nell’antologia giustinianea risiederebbe proprio nella regola sulla concorrenza delle azioni contro il falso creditore in base al principio della consunzione processuale254. Nei brani delle epistulae pomponiane pervenute non pare essere stata conservata traccia del parere ricordato da Scevola255; vi è, tuttavia, nel commentario pomponiano ad Sabinum, un indizio che può considerarsi significativo, rivelando l’attenzione di Pomponio al nodo problematico della proprietà del denaro qualora nella fattispecie compaia un falsus procurator: Pomp. 19 ad Sab., D. 47.2.44pr.: Si iussu debitoris ab alio falsus procurator creditoris accepit, debitori iste tenetur furti et nummi debitoris erunt. Se per ordine del debitore il falso procuratore del creditore abbia ricevuto, egli stesso è tenuto per furto nei riguardi del debitore e le monete saranno del debitore.

Pomponio, quindi, si trova a dovere decidere su chi fosse la vittima del furto – se il solvens per indicazione del debitore o il debitore stesso che avesse delegato il pagamento – e, nella parte finale del brano, conclude che la proprietà del denaro sarebbe rimasta senza dubbio del debitore e che, di conseguenza, l’accipiens non sarebbe mai diventato proprietario dei nummi256. D. 13.1.18 è stato poi costantemente confrontato con un passaggio delle quaestiones di Papiniano257. Pap. 12 quaest., D. 47.2.81.7: Qui rem Titii agebat, eius nomine falso procuratori creditoris solvit et Titius ratum habuit: non nascitur ei furti actio, quae statim, cum pecunia soluta est, ei qui dedit nata est, cum Titii nummorum dominium non fuerit neque possessio. sed condictionem indebiti quidem Titius habebit, furtivam autem qui pecuniam dedit: quae, si negotiorum gestorum actione Titius conveniri coeperit, arbitrio iudicis ei praestabitur. Colui che gestiva il patrimonio di Tizio, pagò a nome di quello al falso procuratore del creditore, e Tizio ratificò: non sorge nei suoi riguardi l’azione di furto, che immediatamente, quando il denaro è stato pagato, è sorta nei riguardi di colui che lo diede, non essendovi stata

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Recentemente sul furto e sul concorso delle azioni Desanti 2010, 16 ss. Bonfante 1968, 245. 254 In questo senso anche Masiello 1999, 200 s. illustra il ‘concorso’ tra due azioni reipersecutorie, esperite da soggetti diversi, ossia dal dominus e dal procuratore al fine di recuperare la somma non dovuta. 255 Cfr. Lenel 1889 II, 52 ss. 256 Così Fargnoli 2006, 73 s., proponendo un confronto con l’ulpianeo Ulp. 41 ad Sab., D. 47.2.43.2. Discute i passi in riferimento alla legittimazione attiva alla condictio Pika 1988, 53 ss. 257 In passato è stata messa in dubbio l’autenticità del brano: Donatuti 1951, 112 nega che il passo illustri il regime classico, escludendo la concessione di una condictio indebiti in capo a Titius, dominus negotii e ritiene che in origine la condictio di Titius fosse stata quella ex causa furtiva. 253

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Commento. Quaestionum libri XX proprietà delle monete di Tizio, né possesso. Ma Tizio certamente avrà un’azione per la ripetizione dell’indebito, e invece spetta a colui che diede il denaro: la quale azione, se si inizierà a convenire Tizio con un’azione di gestione degli affari altrui, gli sarà ceduta per arbitrio del giudice.

Papiniano mostra di articolare il proprio discorso richiamando il ragionamento del maestro258; a rilevare è la parte finale, dove si legge che al falsus procurator sarebbe spettata la condictio furtiva, mentre al dominus sarebbe spettata la condictio indebiti, assumendo rilievo il fatto che, come in D. 13.1.18, anche in D. 47.2.81.7, l’accipiente era in mala fede259; in particolare il dominus che aveva ratificato il pagamento di chi operava per suo conto veniva identificato proprio con l’attore legittimato a condicere ex causa furtiva260. In tale prospettiva il brano scevoliano non appare più – come è stato scritto – isolato nel panorama giurisprudenziale261: semmai di nuova impostazione e di limitata applicazione si rivela il ragionamento in ordine alla proprietà dei nummi indebiti, ma certa è l’emersione di una linea di continuità tra Pomponio, Scevola e Papiniano. Il tema riprodotto in D. 13.1.18 era presente nella trattazione scolastica: epistulae e quaestiones, ancora in età antonina e severiana si rivelano i luoghi privilegiati della discussione che avesse a oggetto, intrecciati, i temi del concorso delle azioni, dell’attività dolosa di un falso rappresentante e del rilievo della condizione psicologica del terzo contraente. F. 18 – D. 47.2.70 + D. 47.4.1.10 L’esiguo escerto delle quaestiones di Cervidio Scevola versato in D. 47.2.70, consistente in una sola proposizione relativa introdotta da aut, è posizionato dai giustinianei tra due brani provenienti dal libro ottavo dei digesta di Marcello, ai quali occorre riferirsi per iniziare a comporre la fattispecie. Marcell. 8 dig., D. 47.2.69: Hereditariae rei furtum fieri Iulianus negabat, nisi forte pignori dederat defunctus aut commodaverat. Giuliano negava che si verificasse furto del patrimonio ereditario, se non che il defunto avesse dato beni a pegno o in comodato. Marcell. 8 dig., D. 47.2.71: His enim casibus putabat hereditariarum rerum fieri furtum et usucapionem impediri idcircoque heredi quoque actionem furti competere posse. Infatti, in questi casi riteneva che si configurasse furto dei beni ereditari e che l’usucapione fosse impedita e che perciò anche all’erede potesse spettare l’azione di furto.

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Secondo Donatuti 1951, 112 s. i due brani sarebbero tratti dalla medesima massa papinianea. Sul passo Fargnoli 2006, 92 ss.; Finazzi 2003, 406 ss. e in particolare n. 155. 260 Precisa Fargnoli 2001, 96 s. che, se la buona fede dell’accipiens era da ritenersi condizione necessaria per agire con la condictio indebiti, “si potrebbe credere che tale stato di inscientia rilevasse solo nel rapporto tra l’accipiens e il solvens …”. 261 Ferrini 1976, 201, assai critico sul significato da attribuire al frammento. 259

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Alessia Spina Nel primo brano la posizione giulianea è espressamente richiamata: si legge che Giuliano negava che si potesse configurare furto del patrimonio ereditario, a meno che, eventualmente, il defunto avesse dato beni in pegno262 o in comodato263; si inserisce, nel discorso dei compilatori, l’aggiunta scevoliana secondo cui si configurerebbe furto del patrimonio ereditario anche nel caso in cui sui beni fosse costituito un usufrutto264. Nel secondo brano di Marcello – nel quale la matrice giulianea, pur non essendo esplicita può ragionevolmente ritenersi presente – si legge che, infatti, in questi casi, Giuliano riteneva che si configurasse furto dei beni ereditari, e l’usucapione fosse impedita, e perciò all’erede competesse anche l’azione di furto. Nella citazione giulianea richiamata da Marcello si riafferma anzitutto la nota regola, ricordata anche da Gaio265, secondo cui la sottrazione dei beni ereditari non determinerebbe furto: dalla necessità dell’effettiva apprensione, deriva che le cose ereditarie sarebbero rimaste prive di possessore non soltanto durante il tempo di giacenza dell’eredità, ma anche durante il tempo intercorrente tra l’aditio e l’impossessamento. L’assenza di possesso rendeva possibile l’usucapio pro herede delle singole cose ereditarie, e impediva che la sottrazione delle res hereditariae prima della materiale apprensione da parte degli eredi si configurasse quale furto, dal momento che “non c’è furto senza lesione di possesso”266. Sebbene non vi siano dati testuali che lo confermino, si può ragionevolmente ammettere che anche la previsione di Scevola si fondasse su un precedente giulianeo, come farebbe pensare un passaggio del libro terzo ad Urseium Ferocem267: Iul. 3 ad Urseium Ferocem, D. 41.3.35: Si homo, cuius usus fructus legatus erat, ab herede numquam possessus subreptus fuisset, quaesitum est, quia heres furti actionem non haberet, an usucapi possit. Sabinus respondit nullam eius rei usucapionem esse, cuius nomine furti agi possit, agere autem furti eum, qui frui deberet, posse. quod si accipiendum est, ut fructuarius poterit uti frui: aliter enim homo in causa non perduceretur. sed si utenti iam et fruenti abductus homo fuerit, non solum ipse, sed etiam heres furti agere poterit. Se lo schiavo, il cui usufrutto sia stato legato, sia stato sottratto all’erede che mai lo aveva posseduto, si è domandato, poiché l’erede non avrebbe l’azione di furto, se possa usucapire. Sabino

262 In generale, ex multis, sul problema della legittimazione attiva all’actio furti: de Robertis 1949 I, 307 ss.; 1949 II, 261 ss. Sulla posizione del creditore pignoratizio, cfr. Gai. 3.204: Unde constat creditorem de pignore subrepto furti agere posse; adeo quidem, ut quamuis ipse dominus [id est ipse debitor] eam rem subripuerit, nihilo minus creditori conpetat actio furti. 263 Ulp. 29 ad Sab., D. 47.2.14.14; Paul. 5 ad Sab., D. 47.2.15.2; cfr. Pastori 1983, 243 ss. 264 Tra i passi in cui si afferma la legittimazione attiva del possessore di buona fede, si possono citare Paul. 9 ad Sab., D. 47.2.20.1; Ulp. 37 ad ed., D. 47.2.52.10; Iav. 4 epist., D. 47.2.75. 265 Gai. 2.55. 266 Così Voci 1967, 216 s.; Talamanca 1990, 692 ss. All’inesperibilità dell’actio furti corrisponde la possibilità di agire con la sola rei vindicatio ovvero con l’actio ad exhibendum. Marco Aurelio introdurrà una nuova figura di reato, il crimen (extraordinarium) expilatae hereditatis: su di esso si veda Gnoli 1984, 1 ss.; Lemosse 1998, 256 e nt. 8. 267 Propongono una ricostruzione complessiva dei passi riportati, Thomas 1968, 489 e 503 ss.; Mac Cormack 1978, 302 s. Per una storia dell’usucapio pro herede, Tomulescu 1971, 454 s. e nt. 99; Kaser 1979, 99 e nt. 32.

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Commento. Quaestionum libri XX risponde che non vi è alcuna usucapione di quel bene, in nome del quale si possa invece agire per il furto, e che invece può agire per il furto colui che dovrebbe usufruire dello schiavo268. Nel qual caso deve essere verificato che l’usufruttuario abbia potuto usufruirne: diversamente, infatti, lo schiavo in questione non sarebbe stato portato via; ma se lo schiavo sia stato sottratto a colui che già ne esercitava l’usufrutto, non soltanto l’usufruttuario, ma anche l’erede potrà agire con l’azione di furto.

Non è questa la sede per verificare se la citazione sabiniana sia espressione di un principio generale269, ovvero acquisti valore solo in riferimento al caso concreto, sebbene della regola generale essa sembri avere proprio la cadenza: sembrerebbe che il collegamento creato da Sabino tra usucapione della res furtiva ed esercizio dell’actio furti fosse comunque destinato ad essere seguito dai giuristi successivi, in opposizione rispetto ad un’interpretatio labeoniana270. Per quanto qui rileva, dal passo emerge che l’esistenza di un diritto di usufrutto sullo schiavo che sia parte del patrimonio ereditario legittimerebbe, secondo Giuliano, l’esperibilità di un’actio furti. Chiarito il precedente giurisprudenziale cui Scevola sembra collegarsi, appare opportuno verificarne la posizione in materia di possesso dell’asse ereditario, anche e soprattutto in riferimento alla posizione giulianea (a noi nota attraverso una quaestio di Africano271): trattando del servus hereditarius, il giurista aveva fittiziamente creato l’hereditas quale domina del patrimonio. A questo proposito, accogliendo il suggerimento di Lenel272, si propone la lettura Ulp. 38 ad ed., D. 47.4.1.15 in cui Ulpiano cita un parere di Scevola, all’interno di una serie di riflessioni in cui ritorna il nome e la posizione di Giuliano. Il brano, ampiamente studiato sotto il profilo del rapporto tra l’impossibilità di usucapire e la configurabilità di un delitto di furto, testimonierebbe l’adesione solo parziale di Scevola alla tesi giulianea, non accedendo il giurista antonino all’idea che l’hereditas possa possedere273: Ulp. 38 ad ed., D. 47.4.1.15: Scaevola ait possessionis furtum fieri: denique si nullus sit possessor, furtum negat fieri: idcirco autem hereditati furtum non fieri, quia possessionem hereditas non habet,

268 Il brano, insieme ad altri, quali D. 29.2.71.9 (dove si legge amovit); D. 47.2.36.3 (dove si legge subripuisset); D. 47.2.54 (dove si legge subripuerit), sarebbe testimonianza sabiniana dell’idoneità dell’actio furtiva a esprimere la materiale sottrazione della res (Albanese 1953, 160). 269 Principio generale secondo cui si deve negare che la cosa furtiva potesse essere usucapita fintantoché, per essa si potesse agire per furto: “un simile principio, ovviamente, esclude l’usucapibilità del pegno rubato dallo stesso dominus, e più in generale ogni usucapibilità degli oggetti di furtum suae rei, finché non sian tornati in potestatem eius, cui subreptum est. E quindi è in diretta opposizione alle conseguenze estreme dell’interpretatio labeoniana” (Albanese 1966, 63 s.). 270 Albanese 1966, 44 ss., sulla base di Paul. 54 ad ed., D. 41.3.4. Contra Frunzio 1996, 405 ss., che invece nega il successo della tesi sabiniana. 271 Sulla base di Afric. 8 quaest., D. 12.1.41: … Quod si sibi dari stipulatus esset, dicendum hereditati eum adquisisse: sicut enim nobismet ipsis ex re nostra per eos, qui liberi vel alieni servi bona fide serviant, adquiratur, ita hereditati quoque ex re hereditaria adquiri… Secondo Voci 1967, 528 e nt. 43: “la nozione stessa dell’hereditas domina dice che questa è continuatrice del defunto: si finge dunque che essa possieda lo schiavo come il padrone lo possedeva”. 272 Lenel 1889 II, 275 nt. 1. 273 Precisa Voci 1967, 531: “sembra dunque si debba concludere che Scevola accoglie la teoria di Giuliano, ma non fino al punto di ritenere l’hereditas capace di possesso”.

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Alessia Spina quae facti est et animi. sed nec heredis est possessio, antequam possideat, quia hereditas in eum id tantum transfundit, quod est hereditatis, non autem fuit possessio hereditatis274. Scevola dice che il furto deve riguardare il possesso: di conseguenza, se non vi sia alcun possessore, nega che si configuri un furto: pertanto, d’altra parte, non si verifica un furto dell’eredità, poiché l’eredità non può possedere, poiché il possesso richiede il fatto e la volontà. Tuttavia, il possesso non è neppure dell’erede, prima che compia la materiale apprensione, poiché l’eredità trasferisce a lui soltanto ciò che è dell’eredità stessa, mentre non vi fu possesso da parte dell’eredità275.

Occorre domandarsi quanto di genuinamente scevoliano vi sia nelle parole riportate da Ulpiano, il quale non cita né l’opera né il libro dai quali trae il pensiero di Scevola276: si potrebbe immaginare che, nello specifico frangente, il giurista severiano si stia limitando a rievocare la peculiare posizione scevoliana, con parole proprie, riassumendone il pensiero e collocandolo in una prospettiva generalizzante cui parrebbe aderire277. Ancora più funzionale alla comprensione della fattispecie versata in D. 47.2.70 risulterebbe il richiamo fatto a Scevola in un precedente passaggio del medesimo libro 38 del commento all’editto di Ulpiano: una serie di elementi inducono a ipotizzare che l’originaria provenienza del testo – che Lenel posiziona tra i loci incerti scevoliani – fosse invece la raccolta di quaestiones. D. 47.4.1.10 [F. 18] si apre con l’affermazione di un principio generale, costituente la ratio iuris dei passi precedenti e successivi278, per poi concentrarsi sull’editto pretorio che concede un’actio in factum (ossia un’azione concessa a seguito di una valutazione sul merito della fattispecie) contro il servo manomesso che nel periodo di giacenza dell’eredità abbia compiuto atti di furto, danneggiamento o distruzione delle res hereditariae279:

274 Per Beduschi 1976, 176 s. nt. 25, la regola ivi ricordata secondo cui con l’aditio hereditatis trapassano i diritti e non il possesso avrebbe “un carattere del tutto autonomo”. Si rimanda, per una ricognizione dell’ampio dibattito sorto in riferimento al passo, a Scacchetti 1994, 116 ss.; Gnoli 1984, 32 e nt. 8. 275 Il testo, in passato sospettato di essere stato sottoposto a interventi per mano giustinianea, soprattutto per il riferimento all’animus possidendi (quae facti est et animi), è oggi salvato nella sua sostanziale autenticità. L’intero brano è stato ritenuto corrotto da Scaduto 1921, 13 s.; Albanese 1956, 147 ss.; Schulz 1961, 579; ritengono che solo la seconda parte del testo abbia natura glossematica Biondi 1950, 182; Longo 1976, 73; Solazzi 1936, 549 s. Sostengono, invece, l’autenticità dell’intero escerto, Fadda 1902, 4 s. nt. 1, che lo ritiene “punto culminante” della teoria che conduce all’inammissibilità di un furtum rei hereditariae; Burdese 1965, 541 s.; Voci 1967, 554; Thomas 1968, 500 ss.; Mac Cormack 1978, 299 ss. 276 Avverte Scacchetti 1994, 121: “Ulpiano cita una affermazione di Scevola senza fornire alcun dato conoscitivo in ordine al contesto da cui la stessa è stata estrapolata, con ciò rendendo oltremodo pericoloso per l’odierno interprete il conferirle un significato più ampio, o comunque diverso, da quello desumibile dallo stesso discorso in cui la troviamo oggi inserita, chiaramente circoscritto ai bona hereditaria”. Cfr. Honorè 1982, 220, nt. 123. 277 Albanese 1956, 145 ha immaginato che nel § 15 fosse contenuta una glossa al precedente § 10: si tratterebbe di una “glossa incorporata nel testo fuori posto. Il principio in essa contenuto, lungi dall’essere una regola fondamentale in tema di furtum – era un’affrettata notazione marginale di taluno che voleva giustificare, o controbattere, l’opinione di Ulpiano allorché questi riferiva l’opinione di Scevola”. 278 Così Scacchetti 1994, 104 ss. 279 Voci 1967, 552 s. e nt. 114 s. Il pretore descrive la fattispecie nei seguenti termini: facere quominus ex bonis hereditariis ad heredem aliquid perveniat; la sanzione prevista a titolo di pena privata, era pari al doppio del valore del danno subito dall’erede.

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Commento. Quaestionum libri XX Si accenna a una ampia trattazione di Scevola (plenius tractat… plenius enim…): la scelta del verbo tractare280 e la ricostruzione del trittico pegno, comodato, possesso in buona fede, che richiama l’esito della lettura congiunta dei brani di Marcello e di Scevola (ossia il gruppo D. 47.2.69-70) consente di formulare alcune ipotesi. I testi riportati sembrerebbero ruotare attorno alla posizione giulianea, che aveva espresso un parere richiamato direttamente da Marcello (D. 47.2.69 e D. 47.2.71), ma che pure Scevola parrebbe avere come modello nel momento in cui si accinge a svolgere la quaestio della quale in D. 47.2.70 è residuato un solo minimo squarcio (così si è argomentato sulla base di D. 41.3.35). Si tratta di una mera supposizione, ma parrebbe verosimile che sia stata la medesima quaestio ad avere ispirato lo svolgimento del commentario ulpianeo nei passaggi documentati in D. 47.4.1.10 e 15281. In altre parole, non mi sembra temerario proporre un più preciso inquadramento della citazione ulpianea: vi sono indizi sufficienti per ritenere che Ulpiano avesse dinanzi a sé proprio la quaestio del libro IV ed il dato testuale è probante per quanto si legge in D. 47.4.1.10. D’altra parte, nei Digesta Iustiniani Ulpiano in tre luoghi definisce con il verbo tractare l’attività di Cervidio Scevola e in uno di essi vi è esplicito riferimento all’opera di quaestiones; in altri due luoghi, Ulpiano cita Scevola insieme a Marcello e qualifica l’attività di quest’ultimo quale tractatio. Anche il successivo richiamo presente in D. 47.4.1.15, per attrazione giustificata dal medesimo contesto, potrebbe essere ragionevolmente considerato parte di una medesima quaestio. Si potrebbe, altresì, immaginare che Scevola nel libro quarto delle quaestiones avesse individuato tutte e tre le ipotesi che costituiscono eccezione alla regola secondo cui non vi è furto di res hereditariae (pegno, comodato, usufrutto), e lo avesse fatto specificamente discutendo, come accade in D. 47.4.1.10 (e come farebbe pensare la fattispecie del frammento che Lenel colloca subito dopo nella successione palingenetica, D. 47.6.6), in riferimento all’attività del servus che compia furto del patrimonio ereditario. Il rilievo che, nella ricostruzione operata dai giustinianei, l’ipotesi dell’usufrutto non fosse ricordata da Marcello, potrebbe fare pensare che Marcello e Scevola si riferissero a testi giulianei differenti: l’accostamento operato dai compilatori potrebbe avere unito eccezioni individuate per fattispecie in origine diverse, rese dai giustinianei massime dalla portata più generale. Le fonti rivelano una linea di pensiero che corre da Sabino e arriva a Giuliano, evidentemente punto di riferimento sia per Marcello che per Scevola, e che si ripropone sino a Ulpiano: peraltro, la circostanza che sia Scevola che Ulpiano siano autori di adnotationes ai Digesta di Marcello confermerebbe la possibilità che dietro le esigue testimonianze dell’antologia giustinianea vi fosse un dibattito e posizioni più articolate di quelle ad oggi ricostruibili. F. 19 – D. 47.6.6 Il passo è inserito dai compilatori nel titolo D. 47.6, rubricato Si familia furtum fecisse dicetur, dedicato alla clausola edittale che Ulpiano, nella laudatio edicti di D. 47.6.1pr.282, definisce ri-

280 Secondo Masiello 1999, 109, si tratterebbe di un preciso modulo lessicale da cui si desumerebbe la destinazione scolastica. 281 Valorizza la duplice citazione di Scevola nei due passaggi ulpianei, in specifico riferimento a D. 47.2.70, Thomas 1968, 489 ss. e, in particolare 500 s. 282 Ulp. 38 ad ed., D. 47.6.1pr.: Utilissimum id edictum praetor proposuit, quo dominis prospiceret adversus maleficia servorum, videlicet ne, cum plures furtum admittunt, evertant domini patrimonium.

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Alessia Spina medio utilissimum e diretto a punire gli schiavi che abbiano compiuto furto del patrimonio ereditario283. Il tema, dunque, coinciderebbe con quello da cui avrebbe avuto origine anche la quaestio di D. 47.2.70 (e, come si è proposto, anche quella rievocata in D. 47.4.1.10 e 15), sicché non appare irragionevole ipotizzare che Scevola stia analizzando un caso ancora più specifico proveniente dalla medesima quaestio. Un problema testuale interessa il frammento: Mommsen propone di emendare l’eoque che segue l’ablativo modo con ‘Scaevola respondit eo’: accettando una simile soluzione, si dovrebbe ritenere che sia stato Scevola stesso a definire in termini di fraudolento abuso e di iniquità l’applicazione dell’editto, che, pur fedele al dettato letterale, si risolva in un danno per i privati. Invero, pur dovendosi ammettere che la struttura dialogica della quaestio (tale da richiamare le modalità di svolgimento già rilevate per Scaev. 1 quaest., D. 3.5.8 [F. 2]) riveli una singolare alternanza tra il pensiero di Labeone e il pensiero di Scevola, non vi sono motivi tali da fare supporre una corruzione del testo. La citazione di Labeone, nella prima parte del testo, corrispondente al principium, sembrerebbe richiamare testualmente la clausola edittale commentata (quod… fecisset) e appare verosimilmente il riassunto di un più ampio commento, come potrebbe evincersi dalle infinitive, rette dal verbo iniziale, putat. In altri termini, il parere labeoniano potrebbe essere stato riportato indirettamente attraverso le parole di Scevola e dei suoi allievi, pur conservando tracce del lessico di Labeone, come nell’aggettivo iniquum, che Ulpiano attribuisce al giurista augusteo in Ulp. 4 ad ed., D. 2.14.7.10284. In questo senso andrebbe letta la scelta del verbo alla prima persona plurale (ferremus) con cui si chiude il primo passaggio e in cui spicca l’utilizzo del dimostrativo ipsi con un valore equivalente al determinativo ei285, non inusuale in Scevola. L’attenzione sembrerebbe poi ritornare sul testo di Labeone cui sarebbe da ricondursi l’esordio della seconda parte del testo, da idem a experiri, del paragrafo 1, per la quale è doveroso chiedersi se si tratti di verba direttamente labeoniani o interpretati dalla prosa di Scevola. La scelta del pronome ipse costituisce un argomento a favore della paternità labeoniana del discorso sino a quel momento riportato, e ben si giustificherebbe il periodo successivo in cui il nome di Scevola è espressamente richiamato. Il pensiero del maestro parrebbe riprodotto da un terzo, utilizzandosi la forma della terza persona singolare (Scaevola respondit): verius in posizione enfatica potrebbe focalizzare l’attenzione sul criterio interpretativo che il giurista adotta per motivare in maniera diversa (ma adesiva a quella di Labeone e pur senza alcun tipo di deferenza nei confronti del giurista precedente286), la delicata questione287. La discussione appare concentrata sul testo edittale e sugli esiti di un’applicazione letterale delle clausole. Più precisamente, secondo Labeone, se vi è stato furtum nec manifestum di un bene

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Lenel 1927, 335. Ulp. 4 ad ed., D. 2.14.6.5: Sed si fraudandi causa pactum factum dicatur, nihil praetor adicit: sed eleganter Labeo ait hoc aut iniquum esse, aut supervacuum. Iniquum, si quod semel remisit creditor debitori suo bona fide, iterum hoc conetur destruere: supervacuum, si deceptus hoc fecerit, inest enim dolo et fraus. 285 Masiello 1999, 103 e nt. 38; simile impiego del dimostrativo, “in un inconsueto valore determinativo” si rinverrebbe in Scaev. 1 quaest., D. 3.5.8 [F. 2]. 286 In questo senso Frezza 1977, 253, che parla di una posizione di Scevola “più varia e libera”. 287 Lenel 1889 I, 515, fr. 106, attribuisce a Labeone l’intera parte, da Labeo putat a experiri. L’opera di provenienza sarebbe il commentario ad edictum praetoris. 284

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Commento. Quaestionum libri XX ereditario, compiuto dagli schiavi del defunto prima che l’eredità venga adìta, ai coeredi sarà consentito agire. Se un primo coerede agisca e ottenga il doppio del valore delle res, al secondo coerede non sarà comunque impedito di agire per richiedere, in quanto legittimato attivo, anch’egli il doppio del valore del bene: la norma edittale prevedeva che chi avesse subìto un furto non in flagranza potesse agire con l’actio furti per ottenere la condanna del ladro al doppio del valore del bene rubato, senza prevedere la consunzione dell’azione nel caso di plurime iniziative giudiziarie da parte di contitolari della medesima res. Lo stesso Labeone avrebbe valutato una simile operazione come fraudolenta (eoque modo fraudem edicto fieri)288, non tanto perché contraria alla ratio dell’editto, quanto perché idonea a realizzare un abuso del diritto stesso, ossia, come si legge, tale da determinare un risultato contrario al ius (iniquum), poiché i successori del defunto si sarebbero trovati a ottenere più di quanto il defunto stesso avrebbe potuto richiedere289. Con cautela, si potrebbe supporre che sia ancora Labeone a introdurre la seconda fattispecie: nel caso del defunto che abbia giudizialmente ottenuto meno del doppio, è consentito agli eredi agire per raggiungere il limite del doppio, secondo la previsione edittale. Occorre ricordare che la pena del doppio rappresenta un rimedio tipico delle azioni familiae nomine, finalizzato espressamente a evitare che si dovessero pagare tante pene quanti sono gli schiavi che facevano parte della banda290. La precisazione di Scevola, che nel formularla invoca il principio della veritas291, è nel senso di consentire agli eredi di agire per parti che, aggiunte a quanto il testatore aveva già ottenuto, non portino a superare il valore complessivo del doppio. Scevola, dunque, dinanzi alla palese iniquità di un’applicazione edittale che avrebbe condotto a risultati aberranti, indica una modalità che tuteli i verba edicti e, contemporaneamente, ne preservi la più genuina ratio292. In quest’operazione egli sembrerebbe porsi in un passaggio successivo rispetto all’interpretazione di Labeone, il quale, pur constatando l’antigiuridicità insita nel trasferimento dei diritti del de cuius secondo una formula meramente matematica, non avrebbe indicato un rimedio idoneo a eliminare l’abuso293. Occorre domandarsi quale strada abbia percorso la giurisprudenza romana nel periodo compreso tra l’attività di Labeone e quella di Scevola. La lettura del titolo D. 47.5 suggerisce di individuare un possibile anello di congiunzione tra i due giuristi in un passo di Giuliano: Iul. 22 dig., D. 47.5.4: Etiam heredibus eius, cui plures eiusdem familiae furtum fecerint, eadem actio competere debet, quae testatori competebat, id est ut omnes non amplius consequantur, quam consequerentur, si id furtum liber fecisset. Anche agli eredi di colui nei cui confronti è stato commesso furto, deve competere quella medesima azione che competeva al testatore, cioè che tutti conseguano non più di quanto avrebbero conseguito se il furto fosse stato compiuto da un libero.

288 Tra i brani che richiamerebbero ipotesi di applicazione fraudolenta dell’editto si possono ricordare Paul. 2 ad ed. aedil. curul., D. 21.1.44pr.; Tryph. 17 disp., D. 38.2.50.2 e Ulp. 4 disp., D. 29.2.42pr. Cfr. Behrends 1985, 75. 289 Rotondi 1911, 106 ss. 290 Così Fascione 1983, 159. Ampiamente Tilli 1977, 16 ss. 291 Masiello 1999, 204 s. 292 Masiello 1999, 205 ritiene che Scevola opponga una decisione fondata sul una “diversa organizzazione del caso”. 293 Fascione 1983, 139.

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Alessia Spina Il brano parrebbe confermare come all’epoca di Giuliano la clausola edittale de qua fosse interpretata con la finalità di garantire che la complessiva somma destinata al derubato, anche nella persona dei suoi eredi, non superasse la pena da corrispondersi per il caso in cui a commettere il furto fosse stato un uomo libero; tale obiettivo, peraltro, è richiamato dallo stesso Ulpiano nella laudatio edicti in apertura del titolo, anche in considerazione della specialità del delitto sovente compiuto da una pluralità di schiavi. Ammettendo che in età adrianea i verba edicti fossero stati già oggetto di un’interpretazione tale da focalizzarne i limiti di applicabilità, troverebbe conferma la lettura poc’anzi proposta che fa risalire a Labeone un primo commento che non soltanto avesse messo in luce l’iniquità di una pedissequa applicazione, ma ne avesse altresì indicato le modalità per una corretta. A Scevola si dovrebbe invece un ulteriore passaggio, quello descritto nella parte finale di D. 47.6.6, ossia l’indicazione, di natura eminentemente pratica, di consentire a ciascun coerede di agire pro parte, così non soltanto da scongiurare un rischio di abuso dello strumento edittale, ma altresì di realizzare un tentativo di equa distribuzione della somma da concedersi a titolo di pena. F. 20 – D. 38.1.44 Il brano è posto da Lenel in connessione alla rubrica edittale De operis libertorum294; intendo accogliere tale collocazione nonostante il discorso di Scevola paia assumere un respiro più ampio rispetto a quello connesso al rapporto di patronato, ed è forse l’occasione che consente al giurista di affrontare il diverso profilo delle garanzie personali. I dubbi di genuinità sono stati sollevati soprattutto sulla seconda parte del brano, e specificamente circa l’utilizzo del termine fideiussor. Si è ritenuto che, se nella prima fattispecie il riferimento al fideiussor fosse da accettarsi, nella seconda esso fosse da sostituirsi con il sostantivo sponsor, dovendosi ritenere la sponsio la sola forma di garanzia per un’obbligazione fungibile, laddove la prestazione consistesse, come nel caso de quo, nel dare uno schiavo: la fideiussio, quale forma accessoria di garanzia personale, avrebbe potuto accogliere anche le prestazioni di facere, mentre l’idem promesso autonomamente dallo sponsor mal si sarebbe conciliato con una prestazione personale infungibile. Il passo di Scevola sarebbe stato, dunque, modificato dai compilatori giustinianei, i quali avrebbero uniformato le due diverse fattispecie con un unico riferimento alla fideiussio295. Con maggiore prudenza, si è ritenuto che Scevola avesse svolto un discorso riferito in entrambe le ipotesi alla sponsio: il riferimento originario sarebbe stato allo sponsor296 e il brano avrebbe avuto lo scopo di escludere la mora

294 Per operae libertorum si intendono le obbligazioni aventi ad oggetto la prestazione di servizi, gravanti sul liberto nei confronti del patrono; nel caso in esame, si tratterebbe, specificamente, di operae fabriles, ossia di opere soggette ad una valutazione economica, piuttosto che di officiales, operae non valutabili sul piano economico. Per una bibliografia sul tema, ex multis, si possono ricordare, Lambert 1954, 210 ss.; Pescani 1967, 1 ss.; Masi Doria 1996, 1 ss. Sul tema della fideiussione, e specificamente sul passo, oltre ai contributi che infra si citeranno, Segrè 1934, 497 ss.; Talamanca 1968, 336 ss.; Bianchi Fossati Vanzetti, 1979; Mannino 1992, 9 ss.; Briguglio 1999, 40 ss. e nt. 78; Trisciuoglio 2009, 1 ss. 295 Flume 1932, 111 ss. (poi 1996, 115). Seppur con differenti sfumature nei diversi contributi in cui ha affrontato l’esegesi del passo, anche De Martino 1940, 166 ss. propende per un originario riferimento alla sponsio. 296 Così Pugliese 1956, 594 s., il quale da un lato ritiene che il testo, se posto in riferimento al fideiussor, risulti “inspiegabile”, dall’altro lato salva con fermezza l’autenticità dello stesso: “e quanto alla tesi che l’ultima frase sia interpolata, essa non può fondarsi su nessun appiglio formale e pare del tutto arbitraria”. Descrive un “testo …

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Commento. Quaestionum libri XX del garante di un’obbligazione da stipulatio in faciendo, ammettendosi, invece, la mora del garante rispetto ad una stipulatio in dando297. Invero, non vi è motivo né per ritenere che Scevola si stesse occupando di un ambito esclusivamente civilistico – così ammettendosi il solo richiamo alla sponsio –, né per dubitare che egli abbia inteso riferirsi proprio alla fideiussio per entrambe le fattispecie298. Premesso, infatti, che Scevola si stesse occupando specificamente di prestazioni costituite dalle operae libertorum, non si potrebbe escludere che egli stesse descrivendo un regime speciale: si afferma anzitutto che il ritardo del debitore principale rileva e che, nonostante tale ritardo, il fideiussore sia tenuto a garantire, verosimilmente perché trattasi di obbligazioni sottoposte al vincolo della perpetuatio299. Al contrario, il ritardo del fideiussore non ha alcun valore (nulla est). Inserendo poi, quasi per attrazione tematica, il confronto con la diversa disciplina delle obbligazioni di dare, si legge che, qualora l’oggetto dell’obbligazione consistesse nella dazione di uno schiavo, allora anche il ritardo del fideiussore avrebbe rilevanza. Una simile lettura troverebbe conferma in una serie di passi che descrivono la diversa modulazione di responsabilità del garante nelle obbligazioni in dando rispetto alle obbligazioni in faciendo300. Da un lato, si può pensare a Paul. 37 ad ed., D. 45.1.49.1301, in cui si nega che il fideiussor possa assumere in proprio l’obbligo in facendo già gravante sul debitore principale, garantendosi soltanto la prestazione da parte di costui. Dall’altro lato, si può ricordare Paul. 6 ad Plaut., D. 45.1.88302, laddove, in riferimento a una stipulazione in dando, si afferma la possibilità dell’offerta della cosa dovuta da parte del garante: tale offerta, se accettata dal creditore, renderebbe obiettivamente impossibile l’inadempimento; invece, se non accettata, escluderebbe la responsabilità del garante in caso di mora del debitore, risultando così confermata, a contrario, la posizione di Scevola che ammette una mora fideiussoris in caso di prestazioni in dando303. Una continuità rispetto al pensiero di Scevola, nonché un’attenzione al tema delle garanzie personali in riferimento all’oggetto della prestazione, si rinviene in un passo proveniente dal libro V delle quaestiones, D. 45.1.127 [F. 25], sul quale ci si soffermerà in prosieguo, ma del quale si può anticipare il nucleo fondamentale: si legge che il garante è obbligato per la mora del debitore principale, e che il garante è responsabile per la sua propria mora304.

abbreviato nell’età post-classica, ma non sostanzialmente corrotto “De Martino 1940, 168, ripreso anche da Riccobono 1964, 446 ss. (il testo “alquanto contratto, è stato probabilmente ripulito di tutte le argomentazioni, discussioni e citazioni, dottrinarie, con le quali il giurista … doveva svolgere il tema della mora del reo e del garante”). 297 Così Frezza 1962, 87 s. 298 Lineare è la lettura del brano proposta da Masiello 1999, 206. 299 Kaser 1980, 107 nt. 77 e 134 e, in particolare, 136. 300 Frezza 1962, 87 s., il quale sottolinea come il testo non consenta di diagnosticare se Scevola si riferisse a un solo tipo di garante (solo al fideiussore) o a entrambi (fideiussor e sponsor). 301 In particolare, si nega la possibilità di committere stipulationem del garante in una stipulazione ‘per te non fieri’: Paul. 37 ad ed., D. 45.1.49.1. Sul passo Sanguinetti 1999, 190 s. e nt. 68. 302 Paul. 6 ad Plaut., D. 45.1.88: Mora rei fideiussori quoque nocet. sed si fideiussor servum obtulit et reus moram fecit, mortuo Sticho fideiussori succurrendum est. sed si fideiussor hominem occiderit, reus liberatur, fideiussor autem ex stipulatione conveniri potest. 303 Sostiene che nel testo genuino si menzioni lo sponsor Frezza 1962, 84 s. e 89. 304 Dedica attenzione all’estesa casistica di Cervidio Scevola, Riccobono Jr. 1964, 434 ss.

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Alessia Spina

LIBRO V

Del libro V delle quaestiones sopravvivono cinque frammenti, quattro dei quali di argomento omogeneo, essendo relativi all’applicazione del rimedio pretorio della bonorum possessio contra tabulas: si tratta di D. 28.3.18 [F. 21], D. 37.6.10 [F. 22], specificamente in materia di collatio bonorum, di D. 37.8.6 [F. 23], sull’editto De coniungendis cum emancipato liberis eius e di D. 38.5.7 [F. 24] relativo allo speciale strumento dell’actio Faviana, introdotta dal pretore per revocare gli atti fraudolenti compiuti dal liberto a danno del patrono. La vicinanza tematica di questi brani è evidente e la ricostruzione palingenetica compiuta da Lenel seguendo l’ordine dell’editto appare condivisibile. Il frammento del libro V delle quaestiones versato in D. 45.1.127 (e richiamato in D. 50.17.88) [F. 25] tratta un tema diverso, occupandosi di garanzie personali e così connettendosi con il brano che – sempre nella ricostruzione leneliana qui accolta – chiude la serie dei brani sopravvissuti dal libro IV, ossia D. 38.1.44. Per questo motivo si è scelto di spostare quello che nella Palingenesia iuris civilis è il brano di chiusura del libro V (di cui Lenel stesso segnala la discontinuità tematica rispetto ai precedenti, omettendo la clausola edittale cui si sarebbe riferito) all’inizio della serie. Pur nella consapevolezza della tenuità dell’argomento – sono troppi i frammenti persi per poter ipotizzare una materiale continuità tra D. 38.1.44 e D. 45.1.127 – e a fronte di un’oggettiva difficoltà di collocazione del brano all’interno del libro V, si è ritenuto opportuno valorizzare il dato contenutistico. Non vi sono neppure indizi per supporre la connessione di D. 45.1.127 alla clausola edittale cui parrebbe legarsi D. 38.1.44, sicché, come anche aveva proposto Lenel, si è preferito evitare il riferimento a qualunque editto. F. 21 – D. 28.3.18 Lenel pone il brano in connessione con la clausola edittale dedicata alla bonorum possessio contra tabulas305. Si ritiene che, per i motivi che si avrà cura di illustrare, il testo sia genuino; in letteratura, invero, si sono levate voci che hanno indicato il brano come manipolato dai giustinianei, specificamente per la parte compresa tra potest e factum, che risulta in contrasto con quanto affermato da altri giuristi (in particolare Gaio306 e Ulpiano307) circa la sorte del testamento rispetto

305 La bonorum possessio consiste nell’immissione, su autorizzazione del pretore, di un soggetto che ne abbia fatto richiesta, nel patrimonio di un defunto. Si tratta di una “missio in bona, nel possesso dell’insieme delle res corpolares che formano il patrimonio ereditario”: così Talamanca 1990, 758, precisando (767 s.) che quella contra tabulas “poteva essere richiesta anche dai liberi istituiti nel testamento, purché vi fosse un altro discendente legittimato a chiederla”. 306 Gai. 2.138: Si quis post factum testamentum adoptauerit sibi filium aut per populum eum, qui sui iuris est, aut per praetorem eum, qui in potestate parentis fuerit, omni modo testamentum eius rumpitur quasi agnatione sui heredis; Gai. 2.140: Nec prodest, siue haec siue ille, qui adoptatus est, in eo testamento sit institutus institutaue: nam de exheredatione eius superuacuum uidetur quaerere, cum testamenti faciundi tempore suorum heredum numero non fuerint. 307 Si tratterebbe di quanto si legge in Ulp. 11 ad ed., D. 28.3.8pr.: Verum est adoptione vel adrogatione filii filiaeve testamentum rumpi, quoniam sui heredis adgnatione solet rumpi.

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Commento. Quaestionum libri XX al quale sia sopravvenuta un’adozione o un’arrogazione308, strumenti elaborati allo scopo di costituire un rapporto di discendenza legittima309. Il testamento sarebbe stato ruptum, come normalmente accadeva laddove, per fatti nuovi, fossero sopravvenuti altri sui – ossia i filiifamilias immediati del paterfamilias – al testatore310. Ancora in età antonina e severiana sarebbe stato applicato il principio in forza del quale il paterfamilias, nel momento in cui testava, avrebbe dovuto avere riguardo allo stato sui heredes in quel preciso momento: non si sarebbero potute ritenere valide posizioni sorte ex novo all’interno della famiglia, le quali avrebbero, altresì, prodotto la revoca ipso iure del testamento; l’invalidità, dunque, avrebbe colpito il testamento anche laddove quando il soggetto inserito nella famiglia tramite adrogatio o adoptio fosse stato istituito o diseredato nello stesso testamento311. In prosieguo di tempo la rigidità della regola si sarebbe attenuata, al punto che sarebbero state considerate valide le istituzioni di un erede e le diseredazioni di un soggetto estraneo al momento della redazione del testamento, ma successivamente divenuto filius adoptivus e, dunque, suus312. Sul punto la giurisprudenza segnala una modifica di orientamento, di cui il passo di Scevola potrebbe rappresentare una tra le testimonianze più risalenti e di portata più ampia313. Il giurista antonino, infatti, salva il testamento argomentando che l’istituzione di erede del soggetto poi entrato come suus all’interno della famiglia era ritualmente presente nel documento, sebbene nella forma dell’istituzione di un estraneo314. Egli mostra così di applicare quel generale principio di favor nei confronti delle istituzioni di erede che avrebbe garantito la salvezza dell’intero testamento e, dunque, della voluntas testantis. Parrebbe muoversi sulla stessa scia del maestro anche Papiniano, in una quaestio riportata in Pap. 12 quaest., D. 28.2.23pr.-1315: ci si soffermerà solamente sul contenuto del paragrafo 1. Pap. 12 quaest., D. 28.2.23: Filio, quem pater post emancipationem a se factam iterum adrogavit, exheredationem antea scriptam nocere dixi: nam in omni fere iure sic observari convenit, ut veri patris adoptivus filius numquam intellegatur, ne imagine naturae veritas adumbretur, videlicet quod non translatus, sed redditus videretur: nec multum puto referre, quod ad propositum attinet, quod loco nepotis filium exheredatum pater adrogavit. 1. Si Titius heres institutus loco nepotis adoptetur, defuncto postea filio qui pater videbatur, nepotis successione non rumpitur testamentum ab eo, qui heres invenitur316.

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La Pira 1930a, 89. Volterra 1966, 109 ss. sulla genesi e sulla finalità dei due istituti. 310 Cfr. Talamanca 1990, 758. 311 La regola si evincerebbe, altresì, da Gai. Ep. 2.3.3; da Tit. Ulp. 23.2-3, nonché da I. 2.17.1. Significativo risulterebbe anche il brano di Tryph. 20 disp., D. 28.2.28.1. 312 Voci 1963, 645: “il rigore di queste statuizioni non fu però mantenuto”; Russo Ruggeri 1990, 378. 313 Ci si discosta qui dalla ricostruzione proposta da Masiello 1999, 207. 314 Vi è stato, infatti, chi ha ritenuto il passo a tal punto compromesso dai tagli giustinianei, da non consentire la ricomposizione di un caso tanto ricco di elementi casistici da presentarsi come eccezionale rispetto alla regola generale che avrebbe sancito l’invalidità del testamento: Kuryłowic 1981, 134 ss., che collega al brano anche altri passaggi scevoliani provenienti dai libri successivi al V, in particolare Scaev. 6 quaest., D. 28.2.29.12-15. 315 Cfr. Schulz 1949, 264 ss., anche per un puntuale confronto con un parallelo testo ulpianeo; Voci 1963, 646 nt. 50 ritiene il passo papinianeo interpolato. Similmente Bergman 1972, 142 e nt. 1. Cfr. anche Wieacker 1977, 37. 316 Volterra 1976, 218 s. ricorda che il brano fu oggetto di ampi commenti sin dal XVI secolo. 309

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Alessia Spina Ho detto che al figlio, che dopo l’emancipazione, il padre ha arrogato nuovamente, nuoce la diseredazione scritta in precedenza: infatti, in quasi ogni diritto così è opportuno osservare, che un figlio non può mai essere considerato figlio adottivo del vero padre, perché la verità della natura non sia adombrata da una mera rappresentazione, evidentemente perché non sembra passato sotto la potestà del padre, bensì ritornato ad essa: e non ritengo rilevante riferire quanto attiene al caso proposto, che il padre abbia arrogato il figlio diseredato in posizione di nipote. 1. Se Tizio, istituito erede, venga adottato in posizione di nipote, defunto successivamente il figlio che era considerato padre, con la successione del nipote non viene rotto il testamento da colui che già si trovava ad essere erede317.

Occorre distinguere la fattispecie, più articolata, del principium, da quella successiva. Nel primo caso, infatti, si discute di una diseredazione, la cui efficacia viene garantita da Papiniano attraverso il richiamo al legame di cognatio tra il figlio diseredato e il padre testatore, ossia da quel vincolo naturale di cui l’emancipazione e la successiva arrogazione rappresentano mere effigi, sicché l’entrata del figlio nell’ambito della famiglia di origine si sostanzia, in realtà, in un mero ritorno, inidoneo a invalidare il testamento318. Ben più vicino al caso risolto da Scevola è il secondo parere papinianeo: non si esamina diseredazione, bensì una istituzione di erede, e l’istituito non parrebbe avere legami di sangue con il testatore. Si verifica, come nel caso precedente, un’adozione la quale rende suus un soggetto che in precedenza non lo era. Anche in questa ipotesi, complicata dalla morte del figlio del testatore, ossia del padre di colui che viene adottato in posizione di nipote, l’istituzione di erede di un generico Titius estraneo alla famiglia non rompe il testamento. La giustificazione addotta da Papiniano può essere così sintetizzata: anche se in qualità di estraneo, Titius era comunque già presente nel testamento come erede (non rumpitur testamentum ab eo, qui heres invenitur), similmente a quanto aveva deciso Scevola (institutio in extraneo locum habebat)319. Che la prima posizione di Papiniano rappresentata nelle quaestiones, con il significativo richiamo alla parentela naturale, dovesse costituire un riferimento per la giurisprudenza severiana si evince da un passaggio di Ulpiano, che potrebbe avere tenuto in considerazione il brano del giurista a lui contemporaneo poc’anzi commentato: Ulp. 40 ad ed., D. 37.4.8.7: Si quis emancipatum filium exheredaverit eumque postea adrogaverit, Papinianus libro duodecimo quaestionum ait iura naturalia in eo praevalere: idcirco exheredationem nocere. Se qualcuno abbia diseredato il figlio emancipato e poi lo abbia arrogato, Papiniano nel libro dodicesimo delle questioni dice che i diritti naturali in tal caso prevalgono: perciò la diseredazione nuocerà.

317

Vacca 1977, 184 nt. 60. Sull’emancipazione si rimanda a Dalla 1983, 1 ss. Circa l’ipotesi di adoptio (o adrogatio) in nepotis loco, cfr. Fiori 1993-1994, 494 e nt. 190. 319 Thomas 2020, 44 spiega che “il ritorno al padre tramite l’adozione fa sì che i diritti del padre non risultino spezzati, e nemmeno sospesi”. 318

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Commento. Quaestionum libri XX Per l’ipotesi in cui sia stato diseredato un figlio emancipato, e lo stesso successivamente sia stato arrogato, Ulpiano cita la posizione di Papiniano, dal dodicesimo dei libri quaestionum, secondo cui in una simile ipotesi prevalgono gli iura naturalia, e perciò la diseredazione nuocerà all’arrogato320. Dunque, il richiamo papinianeo alla veritas naturae di cui l’emancipazione sarebbe solo un’imago, viene ulteriormente giuridicizzato e generalizzato nella versione che ne propone Ulpiano, con un riferimento ai naturalia iura; egli prosegue nel proprio ragionamento richiamando la posizione di Marcello, nel paragrafo 8 del medesimo frammento: Ulp. 40 ad ed., D. 37.4.8.8: Sed in extraneo Marcelli sententiam probat, ut exheredatio ei adrogato postea non noceat321. Ma, nei confronti di un estraneo, la decisione di Marcello dimostra che la diseredazione non nuoce a colui che successivamente viene arrogato.

In altri termini, laddove la diseredazione preceda una forma di inserimento nella famiglia del testatore, occorre verificare l’esistenza di un vincolo di cognatio tra i due soggetti, vincolo che renderebbe irrilevante la sopravvenienza di un suus e salva la validità delle disposizioni testamentarie. Diversamente, laddove il diseredato sia un estraneo, non si poteva interpretare il subentro nella famiglia quale mero ritorno e, venuta meno la possibilità di una tale fictio giuridica, si sarebbe ritenuta invalida la diseredazione. Dalla posizione di Scevola e da quella di Papiniano in D. 28.2.23.1 si comprende che un favor è riservato alle sole istituzioni di erede, che vengono salvate anche laddove l’istituito sia un estraneo alla famiglia, sulla base della considerazione che egli era stato in precedenza inserito quale erede nel testamento. In questo senso, si può osservare che l’institutio heredis dei sui viene concepita quale atto meramente ricognitivo, mentre l’exheredatio è revoca di una qualifica legale, sicché l’interpretazione è necessariamente restrittiva322, come lo stesso Scevola, nel racconto di Paolo in Paul. 1 ad Vitell., D. 28.2.19, aveva avuto modo di chiarire. In questo senso il parere di Scevola in D. 28.3.18 parrebbe rappresentare uno dei primi momenti di un’apertura interpretativa alla sopravvivenza delle disposizioni che precedono un’adozione o arrogazione, in parziale dissenso con quanto Gaio aveva avuto modo di enunciare nelle Istituzioni, ma inaugurando una linea di pensiero seguita e perfezionata dalla giurisprudenza severiana, non solo dall’allievo Papiniano, ma anche da Ulpiano. D’altra parte, anche in Ulp. 11 ad Sab., D. 28.3.8pr.323, brano che in letteratura è stato accostato alla più rigida posizione gaiana, affermando che è il sopraggiunto legame di adgnatio a determinare

320 Recentemente si occupa del brano Marotta 2020b, 117 ss., osservando che “il giurista sottolinea, in effetti, che gli iura naturalia altro non sono che l’istituzione della paternità, la quale, tra i suoi differenti attributi, comporta anche il potere di diseredare il figlio”. Thomas 2020, 40 spiega che “fra il paradigma e i suoi derivati attuali, la distanza era quella fra l’origine formalizzata e il tempo dominato dalle istituzioni civili”. 321 Bergman 1972, 117. 322 Voci 1963, 646 s. 323 Sul brano, ex multis, Migliorini 2001, 244 s., nt. 78.

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Alessia Spina la rottura del testamento (quoniam sui heredis adgnatione solet rumpi), lo stesso Ulpiano conferma l’adesione alla posizione di Papiniano324. La questione, dunque, doveva avere animato il dibattito giurisprudenziale del II secolo – come si evince anche dalla citazione di Marcello presente in D. 37.4.8.8 – e verosimilmente era ancora oggetto di discussione nel III secolo, se Ulpiano ritiene di citare il contemporaneo Papiniano sintetizzandone l’originale ratio decidendi325. La lettura complessiva dei brani proposti parrebbe fare emergere uno sforzo importante e comune ai giuristi del II e III secolo, al fine di trovare un equilibrio esegetico nei casi in cui il conflitto tra adgnatio e cognatio, ossia tra parentela legale e parentela naturale, si faceva più articolato. È come se si avvertisse, specialmente nella riflessione ulpianea, il faticoso percorso verso l’accoglimento di esigenze nuove, perseguito, da un lato, attraverso la giuridicizzazione di valori, per così dire metagiuridici; dall’altro lato, attraverso la tradizione giurisprudenziale del II secolo, con il ricorso alle opinioni autorevoli dei giuristi precedenti, con cui Ulpiano tesse un rapporto quasi dialettico, nel quale il ruolo di Scevola appare assai significativo. F. 22 – D. 37.6.10 Il brano è ritenuto da Lenel connesso a quella parte dell’editto del pretore dedicata alla bonorum possessio contra tabulas e, specificamente, alla clausola relativa alla collatio bonorum326. Sia tale scelta leneliana, sia la collocazione all’interno del libro V delle quaestiones appaiono condivisibili. Nella prima parte del testo si legge che un padre muore e il figlio, ancora sotto la sua potestà, è istituito erede e accetta l’eredità. Il figlio emancipato domanda la bonorum possessio contra tabulas, mentre il figlio in potestà non formula l’istanza per entrare nel possesso dei beni: la previsione edittale esclude per una simile ipotesi la collatio bonorum. Nella seconda parte, in cui il nome del maestro rimanda alla narrazione dialogica della quaestio, non infrequente nell’opera327, Scevola propone un superamento della lettera dell’editto328 (e si noti l’eufemismo sed magis sentio329). Egli sceglie una diversa interpretazione, che consenta la collazione dei beni, implicitamente ponendo sullo stesso piano la posizione di erede civile e quella di erede pretorio e individuando un danno ingiusto (iniuria) nell’esclusione dell’erede dal possesso dei beni ereditari. Il passo solleva incertezze sotto diversi profili: dal punto di vista formale si segnalano, nella seconda parte del frammento, una sintassi e un lessico provenienti dal sermo quotidiano e in-

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Secondo quanto si può leggere in Ulp. 11 ad ed., D. 28.3.8.1. Santalucia 1965, 51 s., nt. 13 e 76 nt. 72. 326 Precisa Voci 1967, 756 che della collatio è possibile solo una definizione assai generica: “conferimento di beni da parte di un erede in favore di altri coeredi, per poter partecipare alla divisione dell’eredità. Sconosciuta allo ius civile, è introdotta dal pretore nelle due specie di collatio bonorum e collatio dotis”. Cfr. anche Voci 1963, 652 ss.; Manfredini 1991, 154 ss. Sul tenore dell’editto de collatione bonorum, Lenel 1927, 345 ss. e, con proposte modificative, Guarino 1937, 209 ss. 327 Masiello 1999, 90. 328 Che avrebbe avuto la seguente formula (Lenel 1927, 345 s.): Inter eos, quibus ita bonorum possessio data erit, ita collatione fieri iubebo, ut hi, qui in potestate morientis non fuerint, his, qui in potestate morientis fuerint, recte caveant … 329 Così Masiello 1999, 106; ritiene l’espressione sintomatica della libertà di interpretazione con cui il giurista si pone in rapporto non solo con la giurisprudenza precedente, ma anche con i testi normativi, Frezza 1977, 253. 325

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Commento. Quaestionum libri XX formale: essi che sono stati interpretati quali indici di un’aggiunta di età postclassica al testo genuino di Scevola. Dal punto di vista propriamente contenutistico, il brano sembrerebbe contrastare con la disciplina della collatio bonorum, attestata anche da giuristi successivi a Scevola. Invero, tanto i dubbi di ordine formale, quanto quelli relativi al pensiero del giurista non appaiono incompatibili con l’autenticità del testo, come in prosieguo si tenterà di precisare330. Una prima inesattezza sarebbe rappresentata dal riferimento all’adizione di eredità del suus heres, il quale invece, come noto, acquista automaticamente in base alla delazione331: l’emendazione di adeat con sit, proposta e accettata da diversi autori332, risulta ininfluente ai fini esegetici e risolve un’inesattezza del testo che potrebbe ricondursi a un errore materiale dell’allievo, il quale potrebbe avere trascritto la quaestio (come farebbe propendere la seconda parte del periodo, in cui Scevola viene indicato nominativamente). L’emendazione altererebbe l’originaria – ancorché giuridicamente imprecisa – formulazione e per tale motivo, in questa sede non si ritiene di accoglierla. Più articolati sono i rilievi di chi osserva che nel brano Scevola eluderebbe – o perlomeno suggerirebbe di eludere – i requisiti formali richiesti dalla disciplina pretoria affinché si realizzasse la collatio bonorum. Giova rammentare che l’editto ammetteva alla bonorum possessio sine tabulis e contra tabulas i figli dell’ereditando in quanto tali, ossia in quanto liberi, sia dunque i sui (che acquistavano per l’avente potestà) che gli emancipati (che acquistavano per se stessi), stabilendo che l’emancipato, per potere conseguire una quota del patrimonio paterno, dovesse conferire una quota del proprio patrimonio a vantaggio del suus333. Tra i presupposti della legittimazione attiva e passiva – oltre all’apertura di una successione ab intestato – vi era la richiesta della bonorum possessio da parte di entrambi i soggetti. Scevola mostra perplessità334, ritenendo si dovesse guardare al danno ingiusto cagionato impedendo all’emancipato di poter godere dei vantaggi pretori, laddove il suus, accontentandosi della posizione civile, non avesse chiesto il possesso dei beni ereditari335. L’opinione del giurista antonino risulterebbe diversa rispetto alle posizioni della giurisprudenza coeva e successiva; in particolare, un passo delle disputationes di Trifonino, Tryph. 19 disp., D. 37.4.20.1, testimonierebbe il permanere del presupposto per cui sia il suus che l’emancipato avrebbero dovuto fruire della bonorum possessio basata sul medesimo titolo (ossia nello stesso ordo, o contra tabulas o unde liberi)336. In verità, pur ammettendosi che il parere di Scevola non abbia avuto seguito applicativo, non si può escludere la paternità del pensiero, anche e soprattutto alla luce di un preciso dato normativo. Il richiamo è a un rescritto di Antonino Pio contenuto in: Ulp. 40 ad ed., D. 37.7.1pr.: Quamquam ita demum ad collationem dotis praetor cogat filiam, si petat bonorum possessionem, attamen etsi non petat, conferre debebit, si modo se bonis paternis misceat. et

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Masiello 1999, 210. Guarino 1937, 194. 332 Guarino 1945, 129; Masiello 1999, 208 s. 333 Voci 1967, 756 s. 334 Sui passi, Caballé Martorell 1997, 65 ss. 335 Voci 1967, 758 e nt. 10, precisando che “la quaestio è stata abbreviata dai compilatori: in diritto giustinianeo non si pongono più problemi di richiesta, o meno, della bonorum possessio”. 336 Si tratta del lungo frammento Tryph. 19 disp., D. 37.4.20.1. 331

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Alessia Spina hoc divus Pius Ulpio Adriano rescripsit etiam eam, quae non petierit bonorum possessionem, ad collationem dotis per arbitrum familiae herciscundae posse compelli. Anche se così soltanto il pretore obbliga la figlia alla collazione dei beni, qualora abbia domandato il possesso dei beni, ma anche se non l’abbia domandata, dovrà conferire, se soltanto si sia immessa nei beni paterni. E ciò il divo Antonino Pio ha affermato con un rescritto a Ulpio Adriano, in cui si decise che anche colei la quale non aveva domandato il possesso dei beni potesse essere costretta alla collazione della dote, attraverso un’azione per la divisione del patrimonio ereditario.

Dunque, la figlia sarebbe stata tenuta alla collazione della dote anche se non avesse richiesto l’intervento del pretore, limitandosi a mantenere la qualifica di erede civile337. Scevola avrebbe potuto suggerire che alla collatio bonorum fossero applicati in maniera attenuata i presupposti formali, come già era avvenuto, in seguito a un rescritto di Antonino Pio, per la collatio dotis. Il rilievo ha suscitato riflessioni sullo scopo delle quaestiones: si è scritto che esse avrebbero potuto raccogliere divagazioni scolastiche aventi – anche – lo scopo di fungere da paradigma del metodo argomentativo e creativo dell’interpretazione, ma prive di un intento concretamente applicativo. In questo senso, anche una fattispecie non perfettamente corretta dal punto di vista formale avrebbe potuto costituire spunto per un’indagine finalizzata a verificare il metodo, piuttosto che gli esiti della riflessione338. Invero, D. 37.6.10 potrebbe costituire una prova di tale ipotesi, perché Scevola avrebbe inserito nella quaestio anche gli spunti interpretativi di portata innovativa che non erano stati recepiti dalla cancelleria imperiale di cui era portavoce339, in una sorta di sistema di applicazione attenuata. L’apertura innovatrice di Scevola in riferimento alla disciplina della collazione troverebbe conferma, nel medesimo passo, in quanto si legge a proposito dell’editto. Si è già ricostruito, relativamente a D. 47.6.6 [F. 19], l’atteggiamento del giurista nei confronti del testo edittale, laddove egli lo reputi insufficiente o inadeguato a rispondere ai valori più attuali: in D. 37.6.10 come in D. 47.6.6, la struttura è la medesima, costituita dal richiamo alla lettera dell’editto e dal successivo parere del giurista, introdotto dal nome, Scaevola. D’altra parte, che la giurisprudenza si stesse muovendo nel senso di adattare le previsioni edittali ritenute eccessivamente rigide proprie in materia di bonorum possessio contra tabulas, è documentato già nell’opera di Giuliano, con uno spunto accolto e valorizzato, in termini di humanitas da Marcello340 e, almeno in un luogo, accettato anche da Ulpiano341. La rigida applicabilità dell’istituto dell’adoptio condizionava in maniera importante la concessione della bonorum possessio contra tabulas, poiché il vincolo agnatizio derivante dall’adozione era ritenuto

337 Ancora Voci 1967, 766 s. e nt. 46 conclude che “così l’ambito rigorosamente pretorio dell’istituto fu superato”. 338 Non si condivide pienamente la posizione di Masiello 1999, 211. 339 Il suggerimento è di Voci 1967, 758 e nt. 10; 766 s. e nt. 46. D’altra parte che il tema della collatio bonorum fosse oggetto dell’interesse imperiale lo dimostrerebbe un altro rescritto dei divi fratres in materia di collatio bonorum, sul quale si veda Guarino 1939-1940, passim. 340 Ulp. 35 ad ed., D. 37.4.17. 341 Ulp. 39 ad ed., D. 37.4.3.9.

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Commento. Quaestionum libri XX prevalente rispetto al vincolo di parentela naturale. Fu lento il procedimento che portò a considerare iniquum, ad esempio, che un figlio naturale al quale non fosse stato costituito un padre fittizio, fosse irrimediabilmente escluso dalla successione del padre naturale. Si tratta di un’interpretazione che, pur nella diversità della fattispecie cui è applicata, mira a rafforzare il ruolo della cognatio, e a porre su piani simili vincolo potestativo e vincolo di sangue, esattamente come mostra di fare Scevola in D. 37.6.10342, a testimoniare uno sforzo della giurisprudenza di età adrianea, antonina e severiana, nel superamento dei limiti del testo edittale, per realizzare obiettivi ispirati ai più attuali valori dell’humanitas e della pietas familiare343. Quanto alle perplessità di ordine stilistico e lessicale, il brano si segnala per una forte connessione con le modalità di scrittura di autori contemporanei a Scevola, ai quali il giurista mostra di ispirarsi. Tre sono i passaggi che suscitano le maggiori perplessità. Anzitutto l’esordio della seconda parte, ossia l’utilizzo del verbo dichiarativo sentio accompagnato dalla congiunzione completiva ut al posto del costrutto tipico delle proposizioni infinitive. Come si è osservato, però, l’inconsueta costruzione adottata da Scevola risulta ampiamente utilizzata, soprattutto da Apuleio. Nelle Metamorfosi si rinverrebbe, altresì, l’utilizzo di quod seguito dal verbo congiuntivo con significato consecutivo, struttura che, in D. 37.6.10 (iure eo, quod…), ha sollevato sin dai tempi risalenti, sospetti di alterazione344. Anche sull’espressione utique cum, ritenuta di matrice giustinianea345, possono essere indicati luoghi, anche ciceroniani, che ne testimoniano l’uso in un contesto quotidiano e familiare346. Alla luce di tali considerazioni non soltanto ritengo di escludere l’alterazione giustinianea dei brani, ma credo sia anche possibile cogliere un legame tra il giurista e l’ambiente letterario del suo tempo. F. 23 – D. 37.8.6 Lenel inserisce il brano sotto la clausola edittale de coniungendis cum emancipato liberis eius, con la quale il pretore stabilì che, laddove il paterfamilias avesse emancipato un figlio mantenendo sotto la sua potestas i nipoti, ossia i figli dell’emancipato, questi potessero partecipare alla bonorum possessio in quanto liberi dell’emancipato. All’emancipato spettava una sola quota dell’asse ereditario, a sua volta da dividersi con i nepotes del defunto, mentre se i nepotes fossero divenuti sui iuris al momento della morte dell’avo, a loro sarebbe spettata la metà della quota. L’editto in questione, introdotto da Giuliano347, risulta un’applicazione peculiare della collatio emancipati348: esso aveva lo scopo di evitare che la presenza di un figlio emancipato escludesse dalla successione i nipoti del defunto che fossero rimasti sotto la sua potestà e,

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Vacca 1977, 179 s. Cfr. Bannon 1997, 34 ss. e nt. 76. 344 Callebat 1968, 349, 340, 322. 345 Kübler 1902, 516, secondo un uso che si rinviene anche in Paul 3 ad Sab., D. 7.8.5; D. 27.9.13pr. 346 Così Masiello 1999, 209, che sottolinea, però, in riferimento all’espressione utique, che il suo uso massivo è attestato solo per la tarda latinità. 347 Sulla base di quanto si legge in Marcell. 9 dig., D. 37.8.3 e anche, seppur senza un’indicazione nominativa, in Ulp. 41 ad ed., D. 37.9.1.13. Mette in dubbio che l’autore della clausola de coniungendis sia stato Giuliano e ipotizza, seppur con prudenza, una creazione giustinianea, Cosentini 1948, 219 ss. 348 Sul tema, ex multis, si può ricordare Burillo 1965, 199 ss. 343

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Alessia Spina contemporaneamente, che la presenza del legame agnatizio dei nipoti in potestà impedisse alla parentela naturale dell’emancipato di essere considerata349. Ulpiano, nel brano di esordio del titolo che i giustinianei riservano alla clausola edittale, chiarisce che tale previsione edittale è del tutto conforme a equità (hoc edictum aequissimum est), dal momento che né il padre emancipato nuoce ai figli rimasti in potestà dell’avo, né i figli nuocciono al padre emancipato350. Nella fattispecie analizzata da Scevola il nipote è un estraneo, adottato, appunto loco nepotis: costui, dunque, non potrà accedere all’eredità suo nomine patris in forza del legame paterno (come accade quando il nipote sia figlio naturale dell’emancipato), dal momento che proprio l’emancipazione del padre avrebbe spezzato il “legame ‘fittizio” che l’adoptio aveva creato, e null’altro residua sul piano della cognatio. La conseguenza è che il nipote estraneo adottato, per domandare la bonorum possessio, avrebbe dovuto appellarsi a una clausola edittale diversa rispetto alla unde liberi351. La soluzione è basata sull’assenza della qualifica espressamente richiesta dal testo edittale che risulta la giustificazione addotta da Scevola, senza necessità di ulteriori specificazioni352. F. 24 – D. 38.5.7 Il breve escerto è collocato da Lenel sotto la rubrica edittale Si quid in fraudem patroni factum sit, vertendo specificamente sull’applicazione dell’actio Faviana (o Fabiana), rimedio con il quale il patrono avrebbe potuto revocare le alienazioni compiute dal liberto allo scopo di diminuire fraudolentemente il patrimonio ereditario, ricostituendolo nella sua integrità, così da potere effettuare il calcolo della porzione spettante al patrono stesso353. Per comprendere il contenuto del breve frammento è necessario collocarlo in relazione ai passi che, rispettivamente, lo precedono (come già fece Lenel nella Palingenesia, richiamando il testo di D. 38.5.6) e lo seguono nell’antologia giustinianea354. Si tratta di due passaggi di Giuliano: Iul. 26 dig., D. 38.5.6: Si libertus, cum fraudare patronum vellet, filio familias contra senatus consultum pecuniam crediderit, non erit inhibenda actio Faviana, quia libertus donasse magis in hunc casum intellegendus est in fraudem patroni quam contra senatus consultum credidisse. Se un liberto, volendo frodare il patrono, abbia prestato denaro al figlio di famiglia violando le previsioni del senatoconsulto, non sarà impedita l’actio Faviana, poiché deve ritenersi che, in questo caso, il liberto abbia donato per frodare il patrono, piuttosto che abbia dato a prestito in violazione del senatoconsulto.

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Vacca 1977, 175. Ulp. 40 ad ed., D. 37.8.1pr.-1. 351 Masiello 1999, 208. 352 Russo Ruggeri 1990, 387 nt. 84. 353 Sul Fabianum edictum, cfr. Lenel 1937, 352; se l’azione Faviana trovava applicazione per i casi di successione testamentaria, l’azione Calvisiana, avente il medesimo scopo, veniva esperita nei casi di successione ab intestato. Cfr. Zoz De Biasio 1978, 11 ss. e Masi Doria 1997, 180 ss. e in particolare, per i brani in esame, 206 ss., anche per la bibliografia ivi citata. 354 Propone una sintesi dei tre passaggi Zoz De Biasio 1978, 45. 350

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Commento. Quaestionum libri XX Nel frammento 8 – da leggersi in connessione al frammento 6, quale parte del medesimo discorso giulianeo – si prende in esame un’ipotesi diversa (sed): Iul. 26 dig., D. 38.5.8: Sed si minori quam viginti quinque annis natu filio familias crediderit, causa cognita ei succurri debet. Ma se il mutuo fosse fatto a un figlio di famiglia minore di venticinque anni, conosciuta la causa, a lui si deve dare soccorso.

Nella seconda fattispecie, dunque, il mutuo non è concesso genericamente a un filiusfamilias, ma si precisa che è dato a un minore di venticinque anni, sicché la tutela del patrono non è immediata e il pretore è chiamato a prendere in considerazione i fatti di causa355. A rilevare, ai nostri fini, è soprattutto il frammento 6: Giuliano pone un problema di concorrenza tra i due mezzi processuali, l’actio Faviana e i rimedi pretori previsti dal senatoconsulto Macedoniano, decidendo a favore della prima in seguito a un’indagine svolta sulle mere intenzioni del liberto e interpretando l’operazione negoziale alla stregua di una donazione fraudolenta piuttosto che di un semplice contratto di mutuo. Nel discorso costruito dai compilatori giustinianei il parere di Scevola è inserito come consequenziale a quello di Giuliano e, pur non potendosi escludere che lo stralcio della quaestio scevoliana rappresentasse un commento ai digesta giulianei, il connettivo ergo suona come un’aggiunta compilatoria utile a legare i diversi tasselli del discorso dei due giuristi356. Per attribuire un senso al passo, perlomeno nella prospettiva giustinianea, occorre ammettere che Scevola si riferisse al caso in cui, per consentire l’applicazione dell’actio Faviana in luogo del senatoconsulto macedoniano, il credere al filiusfamilias dovesse essere inteso quale donazione; se, però, sembra affermare Scevola, mancano i presupposti per l’applicazione dei rimedi ex senatusconsulto Macedoniano, allora viene meno anche l’esperibilità dell’actio Faviana: le obligationes naturales derivanti dall’avere concesso un mutuo a un minore di venticinque anni saranno dunque esigibili357. F. 25 – D. 45.1.127; D. 50.17.88 In passato il brano è stato ritenuto sospetto, alla luce di argomentazioni che, a una lettura attenta delle fonti, suggerita anche dagli studi più recenti, appaiono superabili. L’autenticità del testo è stata messa in dubbio, anzitutto, per il riferimento al fideiussor: si è sostenuto, infatti, che l’originario testo scevoliano si riferisse alla figura dello sponsor358, alla luce, in primis, di Gai. 3.119, dove viene citata un’ipotesi molto vicina a quella in esame. Si legge che lo sponsor può essere garante anche nelle ipotesi in cui il promittente non è obbligato, come per esempio quando il pupillo (o la donna) promettono senza l’assenso del tutore. Invero, come è stato sottolineato in letteratura, non mancano nei digesta passi attestanti la possibilità

355

Masi Doria 1997, 207 s. Cfr. Martini 1960, 71 s. Masiello 1999, 41 ss. e in particolare 43 s. 357 In questo senso la chiusa di D. 38.5.6 suona come una conseguenza piuttosto che una motivazione, diversamente da quanto ritiene Masi Doria 1996, 207. 358 Lenel 1889 II, 275 nt. 3. Nello stesso senso anche Pugliese 1956, 593. 356

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Alessia Spina che l’obbligazione assunta dal pupillo sine auctoritate tutoris venga garantita da un fideiussore359, sicché la genuinità del passo deve intendersi salvata. Se ormai fuor di dubbio deve ritenersi la genuinità del vocabolo petitio360, dirimente nel salvare l’autenticità dell’intero brano risulta il passaggio in cui Scevola annota un parere dei digesta di Giuliano, ancora in materia di mora del debitore: Scaev. not. ad Iul. 22 dig., D. 2.14.54: Si pactus sim, ne Stichum, qui mihi debebatur, petam: non intellegitur mora mihi fieri mortuoque Sticho puto non teneri reum, qui ante pactum moram non fecerat. Se io abbia pattuito di non chiedere giudizialmente Stico, che mi era dovuto: non si ritiene che vi sia mora nei miei confronti e credo che, una volta morto Stico, non sia tenuto il debitore, il quale prima del patto non era incorso in mora.

Il brano è rilevante – e infra ci si ritornerà – per illustrare i rapporti tra il pensiero dei due giuristi; è utile, altresì, perché Scevola utilizza un’espressione, “non intellegitur mora mihi fieri”, che richiama il periodo “nulla enim intellegitur mora ibi fieri” di D. 45.1.127 e adotta il verbo petere per definire una generica attività processuale, secondo un utilizzo che nel II secolo appare frequente361. Dubbi ha sollevato anche l’ultima parte del brano – da ad hoc a postea – perché poco elegante e poco fluida: invero, anch’essa appare spiegabile alla luce dei possibili interventi a cui il testo potrebbe essere stato sottoposto362. Verosimile è, invece, che il passo abbia subito un taglio rispetto all’originaria formulazione: un indizio in tal senso si rinverrebbe nell’infinitiva esse autem fideiussorem obligatum ad hoc, che non appare retta da alcun verbo principale. La circostanza, poi, che la frase sospetta segua una proposizione che assume i caratteri di una massima (nulla enim intellegitur mora ibi fieri, ubi nulla petitio est) parrebbe costituire un ulteriore argomento a favore di un accorciamento, finalizzato a fare emergere in chiusura un riassunto e una generalizzazione della fattispecie poc’anzi descritta. Un indizio significativo è dato dalla circostanza che la frase centrale, “nulla enim intellegitur mora ibi fieri, ubi nulla petitio est”, è riprodotta dai compilatori giustinianei in un altro luogo del Digesto, in D. 50.17.88, che, coerentemente, viene indicato come proveniente dal libro V delle quaestiones. Nel titolo D. 50.17 De diversis regulis iuris antiqui, il brano di Scevola appare collocato tra due passaggi delle quaestiones paoline in tema di eredità, senza un’evidente reciproca connessione.

359 Tra le ipotesi, approfondite da Frezza 1962, 44 ss., si possono ricordare Gai. 5 ad ed. prov., D. 4.8.35; Pomp. 18 epist., D. 12.2.42pr.; Ulp. 30 ad ed., D. 16.3.1.4. Ritiene non decisivo l’argomento che propone la sostituzione di fideiussor con sponsor, Riccobono 1964, 448 s. Cfr. anche Burdese 1955, 88 ss. 360 Dopo le indagini di Casavola 1965, passim. Proprio sul vocabolo petitio si erano concentrati altri dubbi di genuinità: invero, non vi sarebbero motivi per escludere che Scevola abbia utilizzato petitio (in connessione coi genitivi hereditatis o fideicommissi, che normalmente accompagnano il termine) quale sinonimo di actio, come altri passi, provenienti dalle opere casistiche o noti per il tramite della citazione ulpianea, parrebbero testimoniare. A titolo esemplificativo, si possono ricordare Scaev. 1 dig., D. 2.14.47; Scaev. 1 resp., D. 4.8.43; Ulp. 27 ad ed., D. 13.4.2.3 [F. 48]; Scaev. 22 dig., D. 22.1.48; Scaev. 3 resp., D. 31.88.3. 361 La scelta lessicale risulta consueta in Giuliano; cfr. ex multis, Iul. 35 dig., D. 2.14.55. 362 De Martino 1940, 172 ss. spiega le parole, che giudica stilisticamente sospette, alla luce di un abbreviamento di età tardoantica.

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Commento. Quaestionum libri XX Come supra osservato, Lenel sceglie di separare il frammento – nella sua ricostruzione l’ultimo del libro V delle quaestiones – rispetto alla rubrica edittale precedente e a quella Si quid in fraudem patroni … (E. 151), omettendo di indicare una clausola edittale di riferimento. Si propone, in questa sede, pur con le prudenze già segnalate, di discostarsi dalla scelta leneliana e di collocare D. 45.1.127 in esordio del libro V delle quaestiones, per l’attrazione tematica esercitata dal contenuto di D. 38.1.44 (che chiude, nella ricostruzione di Lenel qui accettata il libro IV), dedicato anch’esso alla mora del garante. Rimane difficile indicare, per D. 45.1.127, la clausola edittale di riferimento, dal momento che anche in quest’occasione – come si è visto per D. 38.1.44 – la trattazione delle garanzie personali e del ritardo nella prestazione sembra non costituire l’oggetto precipuo della quaestio, bensì una divagazione su un tema caro a Scevola e, più in generale, alla giurisprudenza del II secolo363. Il contenuto del brano è di natura casistica: è il caso di una promessa – avente ad oggetto la datio di uno schiavo – conclusa dal pupillo senza che fosse stata prestata auctoritas dal tutore: si tratterebbe di un’obbligazione non valida iure civili, in quanto obbligazione naturale, per la quale, si è ritenuto, si potrebbe eventualmente configurare una responsabilità del pupillo per l’arricchimento. Circa la sorte di tale obbligazione, invero, Scevola non solleva perplessità come anche in riferimento alla validità della prestazione di una garanzia personale per una stipulazione conclusa sine tutore auctore364: il giurista risulta interessato a definire i soli confini della responsabilità del garante. La fattispecie è complicata dalla morte dello schiavo oggetto di stipulatio, avvenuta durante la mora debitoris: Scevola ritiene che neppure il ritardo del debitore, che avrebbe legittimato la perpetuatio obligationis in capo al garante nel caso di impossibilità sopravvenuta, sia un fatto idoneo a obbligare il fideiussore. La ratio del parere di Scevola è la seguente, concentrata nella parte compresa tra nulla enim e petitio: dove non vi è azionabilità, nessun rilievo può avere la mora. Il principio, come detto, è generale e inserito dai compilatori tra le regulae iuris365. La seconda parte del frammento definisce, invece, in positivo, la responsabilità del fideiussore, per due ipotesi: laddove egli venga convenuto quando ancora lo schiavo sia vivo e, dunque, la prestazione esigibile, e laddove sia il garante medesimo ad essere in mora. Il giurista, dunque, esclude che vi sia mora debitoris laddove l’azione non possa essere efficacemente esperibile, ma, contemporaneamente, distingue e considera quale autonoma obbligazione quella gravante sul fideiussore in mora. Conferma della posizione scevoliana secondo cui l’opponibilità dell’exceptio escluderebbe il costituirsi della mora, si ottiene dal sopra riportato D. 2.14.54366. Si è osservato che Scevola si distanzierebbe dalla consueta linea interpretativa giulianea (a sua volta di probabile derivazione celsina367), la quale, argomentando per similitudine rispetto alla decisione assunta

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Riccobono 1964, 438 ss. Frezza 1962, 50. 365 Labruna 1962, 75. 366 Sul passo Kaser 1980, 117 e nt. 124, citando, per analogia il paolino D. 12.1.40. Si veda anche Jakobs 1974, 34. 367 Così Riccobono Jr. 1964, 322: “Giuliano, in materia di emendazione della mora, aderisce alla dottrina di Celso … Giuliano non ne allarga il contenuto, ma anzi nega decisamente efficacia estintiva ad altri fattori diversi dall’offerta regolare, quali la stipulazione novatoria o il pactum de non petendo”. 364

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Alessia Spina in Iul. 52 dig., D. 45.1.56.8, in materia di novazione condizionale, avrebbe dovuto negare qualunque effetto alla mora verificatasi prima o dopo il patto di non richiedere l’adempimento dell’obbligazione368. Sintetizzando un complesso e articolato tentativo di ricostruzione storica, si può affermare che in età adrianea la giurisprudenza era giunta a un approdo importante, laddove aveva ammesso la possibilità di eliminare la perpetuatio obligationis. Essa si era mossa sulla scia di Celso, il quale aveva saldamente ancorato il concetto di purgatio morae alle specificità del caso concreto, con un ricorso all’aequum che aveva prodotto l’effetto di fare penetrare la fattispecie nel patrimonio della scienza giuridica369. La successiva giurisprudenza di età antonina avrebbe ulteriormente arricchito e perfezionato la coerenza della materia, soprattutto per opera di Marcello, che avrebbe recepito e valorizzato un parere di Servio Sulpicio Rufo riportato in Gai. 3.179, secondo cui la stipulazione novatoria, anche laddove nulla o inefficace, sarebbe stata produttiva di effetti estintivi immediati sulla prima obbligazione. Dunque, in tale ricostruzione, Marcello si rivela figura centrale. Egli, erede di Servio in riferimento all’efficacia immediata della stipulazione novativa e di Celso per la perpetuazione, nonché di una posizione – risalente a Giuliano – che aveva equiparato alla stipulatio novativa il pactum de non petendo370, avrebbe esteso concettualmente la portata dell’idea del giurista repubblicano, attraverso una dottrina della purgatio morae destinata a rivoluzionare la stessa idea di obbligazione e della relativa responsabilità371. La nuova impostazione di Marcello muoveva dalle seguenti considerazioni: se l’offerta al creditore era in grado di sanare il ritardo, dal momento che una prestazione integrale ed esatta avrebbe eliminato il motivo di rifiuto del creditore, così una stipulazione novatoria condizionale, che fosse stata compiuta una volta verificatasi la mora, avrebbe dovuto sanarla, essendo essa idonea a mostrare l’intenzione del creditore di rinunciare agli effetti della perpetuatio obligationis, nonché di volere sostituire un nuovo vincolo al precedente. In altri termini, Marcello arriva a concludere che la stipulatio, come il pactum de non petendo, valgono in ogni caso a purgare la mora372. Nell’annotazione ai digesta giulianei, al pactum de non petendo viene attribuita un’efficacia emendativa o, rectius, impeditiva della mora: Scevola, dunque, come anticipato, parrebbe muoversi entro il solco dell’innovazione di Marcello, e l’annotazione contenuta in D. 2.14.54 segnerebbe il distacco da Giuliano. L’adesione alla posizione di Marcello emergerebbe, rielaborata in funzione della specificità casistica, anche da D. 45.1.127, che si colloca su una linea di continuità con il brano del libro IV delle quaestiones, versato in D. 38.1.44.

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Riccobono Jr. 1964, 324 s. Riccobono Jr. 1964, 286 ss. In particolare, tra i passi significativi, si possono ricordare Paul. 17 ad Plaut., D. 45.1.91.3; Ulp. 13 ad ed., D. 4.8.23pr.: si rimanda, ex multis, a Schiavone 2017, 420 ss.; Schiavone 1971, 161 ss.; Bretone 1984, 202 ss.; Stolfi 2001, 20 s. e nt. 4, anche per la bibliografia ivi citata. 370 L’attribuizione giulianea emergerebbe dal citato D. 2.14.54, e l’equiparazione è espressamente richiamata da Gai. 3.179. 371 La dottrina di Marcello emerge con chiarezza dall’esame di tre testi: Marcell. 20 dig., D. 46.3.72; Ulp. 7 disp., D. 46.2.14pr.; Ulp. 46 ad Sab., D. 45.1.29.1. 372 Così ancora Riccobono Jr. 1964, 413 s. 369

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Commento. Quaestionum libri XX

LIBRO VI

Del libro VI delle quaestiones sono conservati nei Digesta Iustiniani soli tre frammenti, posti da Lenel sotto la rubrica edittale de testamentis. Due degli escerti – D. 28.2.29 [F. 26] e D. 28.3.19 [F. 27] – sono dedicati alla categoria dei postumi e dai compilatori giustinianei sono posti, rispettivamente all’interno dei titoli D. 28.2 De liberis et postumis heredibus instituendis vel exheredandis e D. 28.3 De iniusto rupto irrito facto testamento. Un terzo brano, D. 35.2.17 [F. 28], affronta un problema di applicazione della lex Falcidia, tema che Scevola aveva avuto modo di trattare anche nei precedenti libri. La particolarità della fattispecie, che disegna un regime speciale per i lasciti contenuti nel testamento dei militari, ne potrebbe giustificare l’inserimento all’interno del libro dedicato – si può supporre – alla successione testamentaria in generale, rispetto a libri, dal VIII in avanti, in materia lasciti a titolo particolare. Non vi è, pertanto, motivo per discostarsi dalla ricostruzione palingenetica proposta da Lenel. F. 26 – D. 28.2.29 Il passo, noto anche come lex Gallus, è stato ritenuto non autentico in numerosi passaggi, e il testo attuale è stato reputato il risultato di interventi che si sarebbero succeduti nel tempo, attribuiti ora alla mano di glossatori postclassici, ora dei compilatori giustinianei. Il ricco apparato critico al frammento è indizio delle notevoli difficoltà di lettura. Lenel non sempre appare adesivo alle proposte mommseniane, ma non esclude che, in diversi passaggi, le parole versate in D. 28.2.29 non siano di esclusiva paternità scevoliana. In via esemplificativa, si può ricordare che l’espressione ‘vel etiam adhuc illis vivis’ del § 6 è stata ritenuta non pertinente con la fattispecie in esame, tanto che Mommsen ipotizza si tratti di un’aggiunta: richiamando la posizione di Goveanus, Mommsen dubita si tratti di verba scevoliani, perché essi presupporrebbero una vicenda diversa da quella prospettata nella quaestio, che si riferirebbe, invero, alla nascita di un postumo essendo morti sia il padre e sia l’avo, e non già essendo entrambi vivi, come le parole indagate farebbero supporre373. In chiusura del medesimo § 6, per poi chiarire il pensiero del giurista, Mommsen suggerisce l’inserimento di ‘recte ita videatur institutus’ (espressione ricorrente in altri tre luoghi del testo). Ancora, il tentativo di semplificazione della fattispecie che propone Mommsen – richiamando, altresì, le diverse posizioni di Krüger – per la chiusa del § 7 (ma similmente anche per il § 12374)375, appare spia di un’eccezionale complessità tanto nella ricostruzione filologica quanto nella comprensione del contenuto del lungo frammento, ‘difficilis re et fama’ già per i giuristi medievali376.

373 Mommsen-Krüger, 824, nt. 5: “Scaevolae non esse vidit Goveanus: adiecta sunt ab eo, qui intellegeret nepotem filii ab hostibus capti item admittendum est, si natus esset non post mortem patris avique, quod posuerat Scaevola, sed utroque superstite”. 374 Mommsen-Krüger, 825, nt. 4. 375 Mommsen-Krüger, 824, nt. 8. 376 Glossa accursiana ad h.l. Si vedano Eck 2020, 129 ss. e Lamberti 1996, 144.

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Alessia Spina Come anticipato, anche Lenel nella Palingenesi mette in dubbio l’autenticità di alcuni passaggi del brano, non riconoscendo in esso la tipica elegante prosa scevoliana, e suggerendo la possibilità di interventi di origine postclassica – attribuibili a un interprete o a un librario – o compilatoria377. Risulterebbero corrotte – come segnalato anche da Mommsen – il finale del § 7, da quod a mortuo378, nonché la seconda parte del § 12, da quid a nascantur379. Non mancano, poi, indizi di inserimenti glossematici, riconosciuti da Lenel nel § 4, da ita sane si a rumperetur380; nel § 5, da hi enim casus ad admittendi sint; nel corpo del § 6, da nam a non pertinet; nel § 7, nel participio vivo; nel § 12, nel verbo nascatur; alla fine del § 12, da etiam si a nascantur; a chiusura dell’intero brano, nel § 16, da nam a potuit. Nel suo complesso, dunque, il brano mostra i segni di un possibile rimaneggiamento, che avrebbe portato a snellire e semplificare la casistica in origine presente nella quaestio, perché potesse costituire materiale per le dispute delle scuole di età postclassica; non si può nemmeno escludere che i commissari giustinianei abbiano operato dei tagli, realizzando interpolazioni privative e riassunti del testo, oggi difficilmente ricostruibili381. Tuttavia, laddove l’interruzione è apparsa più netta, si è segnalato il possibile intervento (ad esempio in apertura del § 5). Si ritiene, però, che il contenuto del brano rifletta l’autentica posizione di Cervidio Scevola e proponga al lettore un esempio vivo e concreto del metodo e della tecnica utilizzata dal maestro nella sua attività scolastica, con un’immediatezza che non parrebbe avere eguali all’interno dei Digesta Iustiniani. D. 28.2.29, infatti, propone una vera e propria lezione, lunga e organica, sulle diverse figure di postumi, Aquiliani, Vellaeani, Iuliani, tanto ricca e articolata da suggerire ai compilatori di trascriverla per intero382. Sembrerebbe la descrizione fatta da un allievo della lezione, in cui, per casualità, il momento della formazione della quaestio e quello della risoluzione della stessa appaiono talmente concatenati da non potersi slegare. Semmai il dubbio è perché i compilatori abbiano deciso di inserirla così. D’altra parte non si doveva trattare di un puro caso di scuola: nel II secolo d.C., infatti, come gli studiosi hanno osservato, pur essendosi allungata l’età media, il tasso di mortalità era comunque elevato e la morte di soggetti ancora sottoposti all’altrui potestas e a loro volta padri non doveva rappresentare una vicenda eccezionale. Dovevano essere frequenti i matrimoni contratti in giovane età, sicché un sui

377 Lenel 1889 II, 276, nt. 1: “Palam est permulta in hoc fragmento abhorrere ab illa, quae Scaevolae esse solet, elegantia et perspicuitate, nec dubito quin hic tractatus partim a compilatoribus partim ab antiquore quodam librario vel interprete cum mutilatus tum ineptis additamentis depravatus sit, ita ut de restituendis ICti verbi iam videatur esse desperandum”. 378 Lenel 1889 II, 277 nt. 1: quod … mortuo] non videntur huic loco haec convenire; ceterum depravatam esse lectionem facile perspicis. 379 Lenel 1889 II, 277 nt. 4: nec solum, si nepos … aut exheredatus (deletis verbis nec succedens … rumpat ab interprete quodam adiectis) videntur transferenda esse post verba praecedentia in sui heredis locum non rumpat. 380 Masiello 1999, 118 s. esclude decisamente che si tratti di una glossa, ritenendo la parte da ita sane a rumperetur “essenziale per la comprensione del testo, in quanto specifica le modalità compatibili con il rispetto dell’ordine successorio, non esplicitate nella formula, in cui si fa generico riferimento ad un utrisque mortuis”. 381 In questo senso anche Schulz 1968, 419. 382 Frezza 1977, 217.

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Commento. Quaestionum libri XX iuris poteva trovarsi ad avere un pronipote ancora in giovane età e dunque essere nella necessità di provvedere per tempo all’eventualità di una nascita postuma di un simile discendente383. In questa prospettiva D. 28.2.29 si rivela un unicum anche proprio all’interno dei libri quaestionum così come ad oggi sopravvissuti, anzitutto perché esso contiene la riproduzione letterale di clausole testamentarie, che sono frequenti nelle opere casistiche di Cervidio Scevola, ma assenti nelle quaestiones. In secondo luogo, la tecnica narrativa è peculiare: il brano contiene una descrizione minuziosa delle possibili varianti apportabili all’istituzione o alla diseredazione di un nipote postumo o di un altro suus ex lege Vellaea, rendendo in maniera quasi plastica i termini della discussione; si esplicita la possibilità di una valutazione teleologica della lex Vellaea, con riferimento alla relativa sententia e all’ambito applicativo della medesima; si opta per una struttura logico-sintattica caratterizzata dalla complessità dei periodi, in cui abbonda le costruzioni ipotattiche. Tali ultimi elementi possono essere considerati argomenti a favore della paternità scevoliana del brano, perché (contrariamente a quanto sostiene Lenel), la prosa del giurista assume talvolta – proprio nelle quaestiones e proprio in quelle conservate in ampi stralci nella compilazione – caratterizzata da un andamento serrato, faticoso, quasi concitato, a tratti ellittico. In D. 29.2.29 abbondano gli schemi dialogici e stilemi che introducono applicazioni ulteriori della lex Gallus attraverso avverbi come ‘similiter’ e perifrastiche passive quali ‘credendum est’; sono presenti espressioni che sembrano celare i suggerimenti del maestro nel corso della discussione con il proprio uditorio: nel § 3: potest dicere; nel § 5: haec omnia admittenda sunt; nel § 6: melius est ut ... interpretatio admittatur; nel § 10: illud servandum est; nel § 12: dicendum est; nel § 13: ita interpretandum est. Come segnalato, ad esempio, per D. 3.5.8 [F. 2], una simile costruzione risulta una consapevole cifra stilistica prima ancora che il risultato di tagli al testo originario: questi ultimi, che verosimilmente ci furono, intervennero su – e forse poterono essere facilitati da – una struttura del discorso densa e di contenuto topico, in cui è serrata l’alternanza tra prospettazione del casus e soluzione. Spostandosi ora al contenuto del passo, il tema della quaestio sono i postumi, ossia coloro che nascono dopo la morte del genitore384. Nell’esordio del brano si cita Gallus, ossia Caius Aquilius Gallus, giurista del I secolo a.C., caro a Cicerone, del quale fu collega pretore nel 66 a.C., allievo di Quinto Mucio Scevola e maestro di Servio, come ricorda Pomponio nell’enchiridion385; egli dovette spiccare per la tendenza alla concettualizzazione, essendo il suo nome legato alla creazione dell’actio doli, della

383 Lamberti 2001, 170 e 1996, 143 ss. alla quale si rimanda per la puntuale esegesi del complesso brano, nonché per i riferimenti bibliografici. Le considerazioni sono poi riprese da Thomas 2007, 30 ss. 384 Cfr. Voci 1967, 402 ss.; Biondi 1943, 114; cfr. Ulp. 3 ad Sab., D. 28.3.3.1: Postumos autem dicimus eos dumtaxat, qui post mortem parentis nascuntur, sed et hi, qui post testamentum factum in vita nascuntur, ita demum per legem Vellaeam rumpere testamentum prohibentur, si nominatim sint exheredati; si veda anche l’etimologia proposta da Isid. orig. 9.5: Posthumus vocatur eo quod post humationem patris nascitur. 385 Jörs 1888, 111 ss.; Kübler 1893, 54 ss.; Klebs 1896, 327 ss.; Kunkel 1967, 21 s.; Schulz 1968, 83 ss.; Bretone 1982, 80 ss.; Bretone 1987, 160 ss.; Tellegen-Couperus 1991, 37 ss.; D’Ippolito 1995, 247 ss.; Lamberti 1996, 143 ss.; Lambrini 2010, 52 s.; Schiavone 2017, 293; Stolfi 2018, 15 e 280 ss.

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Alessia Spina stipulatio aquiliana386, oltre che, come apprendiamo proprio da D. 28.2.29, della clausola detta aquiliana, nonché per le sue capacità definitorie387. Scevola sceglie di svolgere l’intera lezione richiamando l’autorità di Gallo, che in materia di postumi dovette rappresentare il punto di riferimento imprescindibile. La clausola aquiliana, verosimilmente databile tra l’81 e il 65 a.C., consentiva l’istituzione di postumi sui. In particolare, la previsione si riferiva alla nascita di un nepos il cui padre fosse premorto all’avo388, purché la nascita avvenisse non oltre i dieci mesi successivi alla morte del figlio, termine che consentiva l’applicazione della presunzione di paternità389. Essa non dovette rappresentare una vera e propria ‘invenzione’, quanto piuttosto, come è stato efficacemente argomentato, la fissazione in una previsione specifica ed estremamente dettagliata, di un esito già raggiunto dalla giurisprudenza. Infatti, sembra accettabile la ricostruzione secondo cui già nel I secolo a.C. i nepotes postumi fossero categoria inclusa nei sui dell’ereditando, sicché se il padre del nascituro – ossia il filiusfamilias – fosse premorto al proprio paterfamilias, e quest’ultimo fosse deceduto poco dopo, il figlio nato poco dopo sarebbe ricaduto nella sua discendenza legittima, ossia gli sarebbe succeduto ab intestato. Ammessa la successione ab intestato dei postumi nepotes, questi ultimi sarebbero risultati, altresì, attratti nella regola secondo cui sui aut instituendi aut exheredandi. Un indizio in questa prospettiva potrebbe leggersi in un frammento degli horoi di Quinto Mucio Scevola390 versato in: Quint. Muc. lib. sing. horon., D. 50.17.73.1: Nemo potest tutorem dare cuiquam nisi ei, quem in suis heredibus cum moritur habuit habiturusve esset, si vixisset. Nessuno può dare un tutore a qualcuno se non a colui che ebbe, quando morì, tra i propri eredi sottoposti alla sua potestà al momento della morte, o lo avrebbe avuto se fosse vissuto.

386 Cfr. Flor. 8 inst., D. 46.4.18.1: Eius rei stipulatio, quam acceptio sequatur, a Gallo Aquilio talis exposita est: “Quidquid te mihi ex quacumque causa dare facere oportet oportebit praesens in diemve, quarumque rerum mihi tecum actio quaeque adversus te petitio vel adversus te persecutio est eritve, quodve tu meum habes tenes possides: quanti quaeque earum rerum res erit, tantam pecuniam dari stipulatus est Aulus Agerius, spopondit Numerius Negidius”. “Quod Numerius Negidius Aulo Agerio promisit spopondit, id haberet ne a se acceptum, Numerius Negidius Aulum Agerium rogavit, Aulus Agerius Numerio Negidio acceptum fecit”. 387 Lo stesso Cicerone, nel de officiis (3.14.60), lo definiva infatti “homo peritus definiendi”. 388 Robbe 1937, 66 ss. parla di D. 29.2.29 come de “il punto più scabroso delle fonti per la sua grave difficoltà alle volte di spiegarlo dal solo punto di vista grammaticale” e nega la genuinità della formula aquiliana così come sopravvissuta. In passato, la proposta di sostituire il complemento ‘post mortem meam’ con ‘post testamentum factum’ era stata formulata da Sachers 1953, 967 e da Schulz 1968, 97. Diversamente doveva accadere nel diritto grecoegizio, dal momento che nei documenti è provato il solo caso della nascita tra il testamento e la morte, come osserva Arangio-Ruiz 1906, 58 s. Sulla sufficienza del mero concepimento, si esprime la maggior parte degli studiosi: a titolo esemplificativo si possono ricordare Fadda 1900a, 155; La Pira 1930a, 73; Voci 1967, 405 s.; Lamberti 1996, 162 ss.; Finazzi 1997, 93 ss. 389 Punto di partenza del lavoro giurisprudenziale che condusse ad attribuire ad una cerchia sempre più ampia di nascituri i diritti spettanti ai già nati sarebbe proprio la norma delle XII Tavole che considera legittimo il figlio nato sino a dieci mesi dopo la morte del padre: cfr. Fadda 1900a, 153. 390 Stolfi 2018, 163 ss.

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Commento. Quaestionum libri XX La formulazione muciana sulla categoria dei sui heredes ai quali nominare un tutore è tanto ampia da potervi fare rientrare anche i nepotes postumi, nonché da lasciare intendere anche la possibilità di un’istituzione o diseredazione per tale categoria391. La previsione di Aquilio Gallo si sarebbe configurata, dunque, quale strumento, di natura squisitamente cautelare392, finalizzato a introdurre migliori garanzie di sopravvivenza per testamenti soggetti a ruptio quale conseguenza della nascita di un nepos postumus393. D’altra parte, l’attenzione di Aquilio Gallo all’interpretazione conservativa di clausole pericolose per la validità del documento è evidente in un noto brano delle regulae di Licinnio Rufo394: Licinn. Ruf. 2 regul., D. 28.5.75: Si ita quis heres institutus fuerit: “Excepto fundo, excepto usu fructu heres esto”, perinde erit iure civili atque si sine ea re heres institutus esset, idque auctoritate Galli Aquilii factum est. Se qualcuno sia stato istituito erede con queste parole: “sia erede ad eccezione che del fondo, ad eccezione che dell’usufrutto”, come se fosse stato istituito erede in base al diritto civile anche senza la menzione del bene, e ciò è stato fatto dall’autorità di Aquilio Gallo.

Dunque, in forza di una fictio (perinde … atque si), l’auctoritas di Aquilio Gallo ammise la sopravvivenza di un’institutio excepta certa re, ipotesi sulla quale lo stesso Cervidio Scevola si sofferma – come ricorda Paolo – in una celebre disputatio riversata in D. 28.2.19395. La tesi che la clausola aquiliana riportata letteralmente nel principium del brano in esame rappresentasse la recezione e la fissazione – in termini precisi e tali da evitare il sorgere di dubbi nella prassi – non appare in contrasto con quanto si legge in un’ulteriore testimonianza della medesima clausola, ricordata da Africano in un brano delle quaestiones: Afr. 2 quaest., D. 28.6.33.1: Si filius et ex eo nepos postumus ita heredes instituantur, ut Gallo Aquilio placuit, et nepoti, si is heres non erit, Titius substituatur, filio herede existente Titium omnimodo, id est etiam si nepos natus non fuerit, excludi respondit. Se il figlio e il nipote postumo da lui nato così vengano istituiti eredi, come parve bene a Gallo Aquilio, anche al nipote, se quello non sarà erede, Tizio sia sostituito, rispose che, essendo ancora in vita il figlio erede, ossia anche se nipote non fosse nato, Tizio ad ogni modo deve essere escluso.

Sulla seconda parte del brano – e sulla connessione emergente tra clausola aquiliana e sostituzione volgare – si tornerà tra breve. Per ora basti evidenziare come la previsione, nel di-

391 Sul punto si vedano le riflessioni di Lamberti 1996, 154 ss., richiamando anche un passaggio liviano (ab urbe condita 1.34.1-3), che suffragherebbe l’idea dell’anteriorità rispetto ad Aquilio della possibilità di istituire postumi nepotes. 392 Sulle figure di giuristi che, sul finire della Repubblica e l’inizio del Principato, si presentano quali inventori e depositari di formule, Bretone 1982, 107; cfr. anche Curione 1968, 281 s. 393 Lamberti 1996, 143 e, amplius, 152 ss. 394 Sanfilippo 1937, 65 ss.; Voci 1963, 145; Giuffrè 1965, 65 ss.; Lamberti 1996, 153; Spina 2012, 84 nt. 36. 395 Spina 2012, 69 ss.

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Alessia Spina scorso di Africano, appaia molto semplificata rispetto a quella recepita in D. 28.2.29. La puntualità e la precisione del brano di Scevola, il quale sembra riportare testualmente l’innovazione di Aquilio Gallo, farebbero propendere per ritenerla la versione originaria396. D’altra parte, il riferimento all’aqua et igni interdictio, certamente desueta nel II secolo, rappresenta un ulteriore elemento a favore dell’idea che il maestro stesse leggendo di prima mano l’opera del giurista repubblicano e che lo stesse commentando anche dopo avere riportato la clausola aquiliana. Il testo della quaestio, dunque, si rivelerebbe una sorta di sovrascrittura dell’opera di Aquilio Gallo, in merito dalla quale è difficile formulare qualunque tipo di ipotesi397. Nel prosieguo della quaestio, prediligendo uno stile più conciso, Scevola afferma l’applicabilità della clausola anche laddove non vi sia espressa menzione della mors filii: etiamsi non exprimat de morte filii. Nella clausola di istituzione del nepos postumus, dunque, poteva anche mancare il riferimento alla morte del figlio, sebbene la circostanza dovesse emergere chiaramente dai verba utilizzati, che dovevano essere in grado di chiarire la reale intenzione del testatore. Le previsioni successive sono dedicate a illustrare la possibilità di interpretare estensivamente la clausola Aquilii, attraverso la menzione di fattispecie specifiche, introdotte da espressioni quali ‘sed et si’, ‘num si’, ‘similiter’. In particolare, l’applicazione della lex Gallus viene estesa all’ipotesi del pronipote postumo398, laddove muoia il nipote: et de pronipote; similiter … si prius nepos, deinde filius decederet; mentre nel passaggio successivo si prevede l’ulteriore variante della morte, vivo filio, del pronipote la cui moglie fosse incinta399. Scevola mostra poi (nel § 4) di tenere in considerazione un ‘ordine successorio’ che deve essere rispettato. Si domanda se sia possibile l’istituzione di erede di un pronipote attraverso la formula ‘utrisque mortuis vivo se, tunc qui pronepos nasceretur’, laddove il figlio e il nipote del de cuius siano vivi al momento della redazione del testamento, ma siano deceduti prima che si aprisse la successione. Il giurista considera l’istituzione valida, sempre che non venga interrotto l’ordine, il quale appare rispettato quando muoia prima il nipote e poi il figlio del testatore; nell’ipotesi contraria occorre invece ritenere che il testamento sia ruptum. Come anticipato, il tema dei postumi aquiliani si lega alle vicende della sostituzione volgare nel citato passaggio di Afr. 2 quaest., D. 28.6.33.1 oltre che in un passaggio giulianeo che, pur non richiamando espressamente la figura di Aquilio, sembra riferirsi proprio alla clausola in esame400:

396 Per l’esame dei motivi pratici che farebbero propendere per una simile ricostruzione (ex multis: l’utilizzo di filius in luogo di liber, che avrebbe potuto suscitare dubbi circa la validità dell’atto), si rimanda a Lamberti 1996, 156 ss., che richiama altresì, in via esemplificativa, Ulp. 32 ad Sab., D. 26.2.5-6. 397 Lenel 1889 I, 55, fr. 3 attribuisce ad Aquilio Gallo solamente il brano corrispondente al principium di D. 28.2.29, senza, altresì, specificare a quale opera del giurista repubblicano potesse appartenere. Neppure per gli altri frammenti aquiliani superstiti – testimonianze indirette da Cicerone a Ulpiano – si ipotizza il nome o il genere dell’opera. 398 Glück 1903, 586 s., a proposito dell’applicazione della formula aquiliana ai pronipoti, nota con quanta scrupolosità si curasse che l’espressione non fosse fraintesa e non potesse essere applicata ai postumi concepiti dopo la morte del testatore. 399 La gravidanza non doveva costituire un requisito necessario, come osserva Fadda 1900a, 155. 400 Reputa quella giulianea una versione posteriore e semplificata dell’originale testo riportato da Scevola, Lamberti 1996, 165, poi ripresa da Blanch Nougues 1999, 439.

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Commento. Quaestionum libri XX Iul. 29 dig., D. 28.5.37pr.: Cum in testamento ita scribitur: “Si filius meus me vivo morietur, nepos ex eo post mortem meam natus heres esto”, duo gradus heredum sunt: nullo enim casu uterque ad hereditatem admittitur. ex quo apparet, si nepoti Titius substitutus fuerit et filius patri heres exstiterit, non posse Titium una cum filio heredem esse, quia non in primum, sed in secundum gradum substituitur. Quando in un testamento sarà scritto: “Qualora mio figlio, essendo io vivo, muoia, il nipote, da lui nato dopo la mia morte, sia mio erede”, vi sono due gradi di eredi: infatti, in nessun caso entrambi accettano l’eredità. In base a ciò sembra che, qualora Tizio sia stato sostituito al nipote e il figlio sia sopravvissuto al padre come erede, Tizio non possa essere erede insieme con il figlio, poiché è stato sostituito in primo, ma in secondo grado.

I due brani dei giuristi adrianei sono significativi perché dimostrano come la clausola Aquilii si potesse prestare a strumentalizzazioni interpretative401: infatti, la previsione della sostituzione al nipote avrebbe suggerito a Titius di infiltrarsi nella successione, poiché in effetti, non essendo il filius in potestate premorto al disponente, il nepos non sarebbe risultato erede. A tale tentativo si oppongono, però, i giureconsulti, valorizzando il contenuto della clausola aquiliana, che avrebbe, semmai, realizzato una sorta di sostituzione del nepos al filius, e non già un’istituzione di entrambi allo stesso grado. Tizio, dunque, erede di terzo grado perché sostituto del nepos, non sarebbe in alcun modo coinvolto nella successione se il figlio fosse sopravvissuto e fosse divenuto erede. L’approfondimento del tema richiederebbe l’esegesi di una pluralità di testimonianze in materia di substitutio, che in questo momento è possibile compiere. Si può, però, verificare come Scevola, in un passaggio delle quaestiones publice tractatae sostenga – inequivocabilmente per un caso di sostituzione pupillare, pur in assenza di un richiamo al problema dei postumi – l’idea che il sostituto sia erede del testatore, insistendo – come anche in D. 28.2.29.4 – per un ordo successorio che deve essere rispettato402. Scaev. lib. sing. publ. tract., D. 28.6.48.2: Si pupillus substitutum sibi servum alienaverit eumque emptor liberum heredemque instituerit, numquid iste in substitutione habeat substitutum sibi servum? Ut, si quidem pupillus ad pubertatem pervenerit, necessarius ex testamento emptoris heres exstitit, sin vero intra pubertatem decesserit, ex substitutione quidem liber et heres sit et necessarius patri pupilli, emptori autem voluntarius heres exstitit. Se il pupillo abbia alienato il servo designato come sostituito per sé, e il compratore abbia istituito quel servo sia libero che erede, forse che egli in base alla sostituzione conservi come sostituto lo schiavo? Comunque, se il pupillo sia pervenuto alla pubertà, il servo è divenuto erede necessario del compratore in base al testamento; se invece sia morto prima della pubertà, certamente per sostituzione è libero ed erede ed erede necessario del padre del pupillo, e invece diviene erede volontario rispetto al compratore403.

401

Sugli orientamenti della giurisprudenza adrianea in materia di postumi si rimanda a Lamberti 2001, 45 ss. Sul brano, letto congiuntamente a D. 28.2.29.4, sia consentito il rinvio a Spina 2012, 119 ss. e nt. 111. Cfr. Masiello 1999, 118; 2004, 67 ss. 403 Mommsen corregge l’aggettivo universum con sibi servum; l’emendazione accettata nel testo che qui si riporta era stata accolta da Finazzi 1997, 133 nt. 1 e da Masiello 2004, 70. 402

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Alessia Spina Ritornando ora al brano in esame, si può notare come, nella parte di esordio del § 5, da Et quid si tantum, compaia quasi ex abrupto all’interno del discorso il riferimento alla lex Vellaea, forse in seguito all’espunzione di ulteriori quesiti da parte di sunteggiatori postclassici o dei compilatori giustinianei. Il provvedimento legislativo rappresenta uno dei rari casi di lex rogata del primo Principato, databile tra il 26 e il 28 d.C.404, sebbene sia proprio al 26 d.C. che conducono gli studi più recenti, anche sulla base di quanto le fonti epigrafiche testimoniano405. Si è detto che la lex Vellaea realizzerebbe “un’apertura interpretativa in sede cautelare”406, poiché avrebbe consentito di salvare il testamento che non menzioni il nuovo nato tra la redazione del testamento e la morte del testatore, permettendone l’istituzione. In particolare, essa avrebbe reso possibile l’istituzione o la diseredazione dei figli nati tra il testamento e la morte del disponente, ossia di coloro che stricto iure non potevano essere qualificati come postumi; avrebbe permesso, inoltre, la nomina dei nipoti già nati al momento della confezione del testamento, nel caso in cui il genitore fosse ancora vivo, per evitare che, in caso di premorienza di quest’ultimo al testatore, essi, subentrando in locum et in ius, provocassero la ruptio del testamento. In altri termini, la legge consentiva di istituire e diseredare anche coloro che fossero divenuti sui heredes dopo la confezione del testamento, ma in un momento anteriore alla morte del disponente, per non costringere quest’ultimo a riconfezionare l’atto407. Nella quaestio scevoliana si susseguono, nella forma della proposizione interrogativa diretta, una serie di fattispecie non rientranti nella previsione letterale della lex Vellaea (non pertinent ad legem), ma che il contenuto prescrittivo della legge (sententia) ne consente l’equiparazione in base a un criterio di similitudine (ad similitudinem mortis) e per ragioni di utilitas (in eiusmodi utilitate), da intendersi quale attenzione al concreto assetto di interessi e alla loro effettiva salvaguardia408. In altri termini, si ammette l’estensione della previsione legislativa a ipotesi che, stando a una interpretazione letterale, non dovevano rientrarvi: in particolare, all’ipotesi di intervenuta morte del filius poteva essere equiparata la aqua et igni interdictio, nonché la caduta del figlio nelle mani dei nemici. Un cenno è riservato alla emancipazione del figlio, collocandosi la precisazione di Scevola all’interno di un orientamento giurisprudenziale secondo il quale nascita ed emancipatio sono fatti che intervengono post mortem dell’ereditando, integrando i necessari requisiti perché si divenga sui heres409. Scevola

404 La legge è ricordata anche in Gai. 2.134; Tit. Ulp., 22.19; Ulp. 36 ad Sab., D. 26.2.10.2; Ulp. 3 ad ed., D. 28.3.3.1; D. 28.3.3.13; Ulp. 4 ad Sab., D. 28.5.6.1; C. 2.13.2 del 422. Per un tentativo di ricostruzione della legge, si veda FIRA I7, 116; Rotondi 1966, 465 s. Cfr. anche Tellegen 1932, 310 s e nt. 332 405 Così Lamberti 2018, 175 ss., concludendo che “la data del 26 d.C. è ulteriormente significativa in quanto è possibile, sino a prova contraria, presumere che la lex Iunia Vellaea venisse fatta approvare prima del ritiro di Tiberio a Capri. … Si tratterebbe dell’ultima legge portata dinanzi ai comizi con l’imperatore ancora presente a Roma”. 406 In tale senso e assai diffusamente sulla collocazione storica, il tenore e la finalità del provvedimento, cfr. Lamberti 2001, 137 ss. 407 Così Voci 1967, 404 s., il quale parla di rimedio alla “scomodità di rifare il testamento”. 408 Sull’uso del criterio della similitudine in Scevola, si può leggere Gokel 2014, 240 ss., recensita da Spina 2016, 637 ss. 409 Il confronto con Gai. 2.141 (Filius quoque, qui ex prima secundaue mancipatione manumittitur, quia reuertitur in potestatem patriam, rumpit ante factum testamentum; nec prodest, si in eo testamento heres institutus uel exheredatus fuerit) è suggerito da Lenel 1889 II, 276, nt. 3: Cave mireris Scaevola nil exprimere de filii emancipatione: cfr. enim Gai 2,141. Sul contenuto del brano gaiano, recentemente Bianchi 2009, 96 ss.; cfr. anche De Iuliis 2017, 52 s.

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Commento. Quaestionum libri XX propone un quesito sull’emancipatio filii come se il tema fosse stato già trattato (ostendimus), mentre nel testo non ve ne è conservata alcuna traccia. Con l’operazione esegetica descritta, viene ampliata, attraverso l’analogia, la sententia di Aquilio Gallo, assimilando la premorienza ad altre ipotesi idonee a estinguere il vincolo potestativo, ossia, come già detto, l’interdictio aqua et igni e la emancipatio (§ 5)410. Una simile attività “era solidale (il nesso implicito è significativo) con lo scopo pratico della lex Vellaea” e aveva già condotto – come Scevola ricorda in chiusura del testo oggi sopravvissuto – a una lettura complessiva di verba e voluntas legis da parte di Giuliano411. Tuttavia, il riferimento alla pena dell’interdictio aqua et igni, caduta in desuetudine nel II secolo, ma sopravvissuta nel linguaggio dei giuristi sino all’età dei Severi, appartiene, verosimilmente alla scrittura aquiliana e non a quella propriamente scevoliana412. Viene poi introdotta la prima delle numerose declinazioni casistiche presenti nel ragionamento (§ 6): il primo richiamo è alla captivitas, che diviene occasione per riflettere sull’alternativa tra il fondare la salvezza delle disposizioni sull’estensione interpretativa delle potenzialità della clausola di Aquilio Gallo – realizzando, quindi, un ampliamento dello ius antiquum – oppure su un’applicazione diretta della lex Vellaea. Scevola si domanda che cosa accada qualora il testatore fosse prigioniero al momento della redazione del testamento e sostiene di non vedere motivo per evitare la pronuncia di invalidità del documento laddove, il figlio sia morto prima che sia tornato dai nemici, ma dopo la morte del padre, nel caso in cui il nipote nasca dopo la morte dell’avo, o anche mentre essendo ancora vivi entrambi gli ascendenti. Il maestro ritiene opportuno che, sebbene la fattispecie non rientri nella casistica velleiana, se ne faccia valere la ratio, consentendo la sopravvivenza dei testamenti. La seconda ipotesi presa in esame è un’ulteriore specificazione del caso precedente, e il quesito è posto da Scevola in termini ancora più netti. Si domanda che cosa accada se ad essere catturata sia la nuora di colui che ha un figlio e che istituisca erede il nipote che sia figlio di quel figlio. Il paragrafo risulta di particolare interesse perché rivela l’attenzione anche teorica, nelle dispute, a riflettere sulle scelte di tecnica interpretativa. La soluzione proposta dal giurista è nel senso di ritenere indifferente quale fosse il fondamento della salvezza del testamento, se il ius antiquum o la legge: cum testamentum ab eo non rumpitur, nihil refert, utrum ex iure antiquo an ex lege Vellaea excludatur. Si è sostenuto che siffatta posizione rifletterebbe un pensiero giustinianeo, poiché, ancora nel II secolo, in assenza di una necessaria argomentazione, il testamento rischiava la ruptio, mentre soltanto nel VI secolo, dopo le costituzioni dirette a semplificare il regime di institutio ed exheredatio di postumi e iam nati, non doveva più interessare se la validità si fondasse sul ius antiquum o sulla lex Vellaea413.

410

Per una minuziosa analisi si rimanda ancora a Lamberti 2001, 169 ss. Così Bretone 1982, 311 s. (e già in precedenza 1969, 307), richiamando altresì l’analisi di Wesel 1967, 105 ss., il quale parla di “Übernahme des Rechtsgedankens eines Gesetz in ein anderes Rechtsinstitut”. 412 Cfr. Paul. 11 ad ed., D. 4.5.5; Afr. 5 quaest., D. 37.1.13; Paul. 15 ad ed., D. 48.1.2pr.; Ulp. 1 de adult., D. 48.13.3; Ulp. 48 ad ed., D. 48.19.2.1. In letteratura, a mero titolo esemplificativo, si possono ricordare i contributi di Devilla 1950, 23 ss.; Crifò 1984, 454 ss.; Santalucia 1989, 55; Brasiello 1997, 305 ss.; McClintock 2010, 66 ss.; Ravizza 2014, 4 ss. 413 Significativa sotto tale profilo si dovette rivelare C. 6.28.4.8, del 531 d.C., che testimonia la semplificazione della disciplina della istituzione e diseredazione dei postumi. 411

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Alessia Spina Invero, si può osservare come l’affermazione di Scevola non escluda la necessità di un’argomentazione: piuttosto il maestro parrebbe segnalare all’uditorio che, nelle fattispecie prospettate, l’invalidità del documento può ritenersi esclusa, e poco rileva se il risultato esegetico sia raggiunto mediante un’interpretazione estensiva dell’antica norma o con l’applicazione diretta di un provvedimento di età imperiale. L’interpretazione è necessaria – si è lontani, dunque, da un’affermazione di validità dell’istituzione dei postumi quale emergerà dal provvedimento giustinianeo di C. 6.28.4.8 – e agli allievi viene solo prospettata la libertà di scelta degli strumenti esegetici disponibili. D’altra parte, la complessiva materia dei postumi fu disciplinata da una legge giustinianea – come si evincerebbe da I. 3.9pr. (sed et hic a nostra constitutione hodie recte heres instituitur), che non avrebbe contenuto innovativo se non nell’estensione ai postumi della possibilità di formulare lasciti a titolo particolare414. Nei passaggi successivi la discussione torna a vertere sulla formulazione della clausola Aquilii: specificamente, si approfondisce la questione dei limiti sino ai quali potesse spingersi l’interpretazione del dettato della clausola, riflettendo sulle possibilità applicative consentite dai verba. In particolare, l’introduzione della lex Vellaea, con la riconosciuta possibilità di istituire o diseredare i nipoti o pronipoti essendo ancora vivi il padre e/o l’avo, avrebbe fatto scaturire il dubbio che la regola ‘instituendi vel exheredandi’ dovesse essere anche a loro applicata, e che dovessero essere presi in considerazione nel testamento anche laddove il padre e/o l’avo fosse ancora vivo e anche laddove siffatto ‘anello anteriore’ sopravvivesse all’ereditando. I §§ 8 e 9 contengono un chiarimento della disciplina accolta, con la precisazione, al § 10, che in tutte le fattispecie descritte deve essere salvaguardato il principio per il quale soltanto il figlio che sia in potestà debba essere istituito erede per una certa quota. Nel § 11, con una formulazione di passaggio che richiama quelle dei manuali istituzionali (nunc de lege Vellaea videamus) e con un costante utilizzo del lessico scolastico (dicendum est; interpretandum est) la quaestio si sofferma sul testo della lex Vellaea, la cui ratio viene così individuata: voluit vivis nobis natos similiter non rumpere testamentum415. Viene esaminato il primo caput della legge, poi la posterior pars e, infine, viene ulteriormente sviluppata la casistica relativa al secondo caput, soffermandosi il maestro sulla successio in locum del nipote rispetto al figlio ab hostibus captus. Il primo caput del provvedimento non avrebbe preso in esame solo l’ipotesi che il nepos fosse postumo rispetto al filius premorto e all’avo disponente, bensì avrebbe considerato anche l’eventualità che il nipote fosse nato vivo avo, ma mortuo patre (§§ 12 e 13). Il giurista parrebbe sostenere una lettura meno rigida del testo: per la validità dell’istituzione di erede, bisogna guardare al momento della nascita del suus e non alla redazione del testamento, sicché si può istituire erede chi non fosse ancora nato, ma nascesse prima della morte del disponente416. La parte successiva della legge regolava la successio in ius et in locum dei filiifamilias morti tra la redazione del testamento e il decesso del disponente: la legge conteneva una disposizione che evitava la ruptio anche in caso di premorienza di un membro

414

Biondi 1943, 119. Scrive Biondi 1943, 115 s. che i postumi Velleani non sarebbero veri postumi, nascendo essi durante la vita del testatore. 416 Come sintetizza Voci 1967, 405, il primo capitolo avrebbe consentito l’istituzione di figli nati prima della morte del testatore, ma dopo il perfezionamento del testamento. 415

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Commento. Quaestionum libri XX intermedio della famiglia, ovvero in un’ipotesi che le fonti qualificano di quasi agnatio417 (§ 14). Le sequenze successive, da ille casus alla fine, sono dedicate ad illustrare l’ulteriore evoluzione interpretativa subita dalla lex Vellaea (§§ 15-16): si evince come la lettura dei verba legis abbia condotto a nuovi esiti. Il caso proposto si distingue da quelli in precedenza trattati, come si tenterà ora di spiegare anche alla luce di quanto il giureconsulto aveva sino a quel momento argomentato. Il disponente ha redatto un testamento vivo filio e a questi ha sostituito il nepos nondum natus: il nipote è nato post factum testamentum, ma ancora vivo patre e vivo avo. Il figlio è deceduto subito dopo, sicché si verifica la successio in locum et in ius di un nipote non nato al momento della redazione, ma ‘postumo’ rispetto a questa. In siffatta ipotesi non troverebbe applicazione il primo capitolo della legge, poiché esso consente di istituire e diseredare i nondum nati purché al momento della nascita essi acquistino la qualifica di sui diretti del de cuius, mentre il nepos che sia nato vivo patre e vivo avo non può vantare tale qualifica. Neppure può trovare applicazione il secondo capitolo della legge, prevedendo esso l’istituzione o la diseredazione dei liberi dei sui heredes in previsione della successio in locum et in ius degli stessi nella posizione del dante causa. Per potervi fare rientrare il caso del nipote nato post factum testamentum, occorreva, dunque, un intervento esegetico, che fu realizzato da Giuliano, attraverso un’interpretazione sistematica della legge: duobus quasi capitibus legis commixis. Il giurista adrianeo considerò che se taluno abbia istituito il nepos ai sensi del primo caput della lex Vellaea, la clausola potesse ricomprendere anche l’eventualità di nascita di un nepos, vivo patre e vivo avo, benché in origine tale fattispecie non rientrasse nelle previsioni della lex. Tale categoria di postumi verrà poi indicata dai giuristi medievali proprio come ‘postumi Iuliani’418. Nel lessico di D. 28.2.29, la pronuncia di Giuliano viene definita sententia, come quella di Aquilio Gallo § 13), esattamente come la previsione della lex Vellaea (§ 5), quasi a chiarire come, nella concezione di Scevola, le due fonti fossero dotate di un’identica efficacia. F. 27 – D. 28.3.19 Nel brano, estrapolato da una quaestio più ampia, il tema della nomina dei postumi – già oggetto precipuo di D. 28.2.29 – si interseca con la casistica in materia di sostituzioni, secondo uno schema che nella prassi, come si è avuto modo di verificare anche supra419, doveva riproporsi con particolare frequenza e suscitare importanti dubbi interpretativi. Il testo presenta le consuete caratteristiche della prosa scevoliana: una serie di brevi proposizioni che seguono il ritmo serrato del pensiero; il prevalere della costruzione ipotattica, resa soprattutto attraverso protasi di periodi ipotetici, proposizioni relative, ablativi assoluti e l’utilizzo intenso del participio perfetto; le continue esemplificazioni (si ego; et si ego; et si

417 In altre parole, la legge stabiliva che si potessero istituire i discendenti che fossero già nati al momento della redazione del testamento e di grado ulteriore al primo, ossia nipoti e pronipoti: questi ultimi potevano ottenere la qualifica di eredi necessari solamente se il loro genitore fosse premorto all’avo, ossia se fosse avvenuta una successio in locum, come spiega Voci 1967, 405. 418 Parla di una “pragmatische Lösung” Bund 1989, 109. Si riferisce a una ‘interpretazione evolutiva della lex Vellaea’ Lamberti 2001, 20 ss. Sul legame tra le quaestiones e le notae scevoliane ai digesta di Giuliano, i digesta di Scevola e le notae a quest’ultimo del suo allievo Trifonino, cfr. Reinoso-Barbero 2010, 122 s. e nt. 179. 419 Le fattispecie di D. 28.6.33.1 e di D. 28.5.37pr., nonché lo scevoliano D. 28.6.48.1-2, supra esaminate, si ritengono esaustive per configurare il problema. Sul brano in esame, si veda anche Finazzi 1997, 427 e nt. 6.

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Alessia Spina vivat Titius, neque ego), nella forma, alternata, della prima persona singolare e della prima persona plurale, in grado di ricreare il dialogo tra maestro e allievi. La fattispecie può essere così ricostruita: il testatore ha istituito due eredi e in riferimento a questi ha proceduto con la diseredazione del postumo. È stata prevista una sostituzione volgare, ma nei riguardi dei sostituti non si è proceduto alla diseredazione del postumo. Se, all’apertura della successione, Tizio, uno degli istituiti, sia morto, nemmeno l’altro sostituto (ego) potrà accettare l’eredità. Scevola spiega (iam enim) che il testamento è ruptum: morto un istituito, è subentrato il sostituto, rispetto al quale, però, non era stata formulata la necessaria diseredazione del postumo. La prima ipotesi presa in esame dal giurista risulta applicazione del principio di conservazione dell’ordo successionis, evidente nel regime della substitutio, coordinato con le regole in materia di istituzione e diseredazione necessaria dei postumi. In particolare, la soluzione obbedisce alla regola secondo cui, laddove il testamento abbia più gradi, la praeteritio del postumo non nuoce solamente al grado cui si riferisce, ma determina l’invalidità dell’intero documento420. Diversamente – ed è il secondo caso – se i due istituiti (ego e Titius) fossero stati reciprocamente nominati sostituti, anche in assenza di un’espressa diseredazione del postumo, nel caso in cui Tizio non possa (perché defunto) o non voglia (repudiante), ego potrà adire l’eredità intera (ex asse heredem esse), in forza – si può pensare – del diritto di accrescimento. Questa seconda vicenda – verosimilmente ancora discussa nel II secolo, se Scevola si pronuncia con un mero ‘puto’ – si può avvicinare a quella descritta da Africano nel libro quarto delle sue quaestiones, probabilmente richiamando il pensiero giulianeo come consente di ipotizzare la frase quo et ipso casu rectius existimari putavit ad legitimos eam pertinere (non dubbia per Mommsen), che sottintenderebbe il riferimento a Giuliano421: Afr. 4 quaest., D. 28.2.14pr.: Si postumus a primo gradu exheredatus, a secundo praeteritus sit, quamvis eo tempore nascatur, quo ad heredes primo gradu scriptos pertineat hereditas, secundum tamen gradum vitiari placet ad hoc, ut praetermittentibus institutis ipse heres existat. immo et si defuncto eo heredes instituti omiserint hereditatem, non posse substitutos adire. itaque et si a primo gradu exheredatus, a secundo praeteritus, a tertio exheredatus sit et viventibus primis et deliberantibus decedat, quaeri solet omittentibus primis aditionem utrum ad eos, qui tertio gradu scripti sint, an potius ad legitimos heredes pertineat hereditas. quo et ipso casu rectius existimari putavit ad legitimos eam pertinere: nam et cum duobus heredibus institutis et in singulorum locum facta substitutione a primis exheredatus postumus, a secundis praeteritus fuerit, si alter ex institutis omiserit, quamvis postumus excludatur, non tamen magis substitutum admitti. Se il postumo diseredato in primo grado, sia stato preterito in secondo grado, sebbene nasca nel momento in cui l’eredità spetti agli eredi scritti di primo grado, tuttavia è parso corretto ritenere che il secondo grado sia viziato, come se lo stesso erede sopravviva agli istituiti pretermessi; anzi, anche se, essendo egli defunto, gli eredi istituiti abbiano rinunciato all’eredità, i sostituti non possono accettare. Pertanto, anche se sia stato diseredato in primo grado, pretermesso in secondo, diseredato in terzo, e muoia essendo vivi e capaci di decidere i primi, suole

420 421

Così sintetizza Voci 1963, 643. Ritiene che il brano riporti il pensiero di Giuliano D’Ors 1997, 113 ss.

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Commento. Quaestionum libri XX domandarsi se, avendo i primi rinunciato all’adizione, l’eredità spetti a coloro che siano stati nominati eredi in terzo grado, ovvero agli eredi legittimi. E in questo stesso caso più correttamente ritenne di considerarla spettante ai legittimi: infatti, anche con due eredi istituiti e compiuta la sostituzione in luogo dei singoli, il postumo è diseredato rispetto ai primi, ma preterito rispetto ai secondi, se uno degli istituiti abbia rinunciato, sebbene il postumo sia escluso, tuttavia non viene ammesso il sostituto.

Si tratterebbe – è stato scritto – di un caso intermedio in cui l’eredità non spetta né al postumo né ai sostituiti422: se il postumo esclude il sostituito, non può prendere il posto dell’istituito nei cui confronti vi sia stata una regolare diseredazione. L’intera eredità sarà, dunque, attribuita all’istituito Primus. In altri termini e in linea generale, se il testamento ha più gradi, la praeteritio del postumo non nuoce solamente all’invalidità del grado cui si riferisce, ma invalida l’intero documento423. La medesima sorte non si verifica nella seconda ipotesi presa in esame in D. 28.3.19, poiché la sostituzione reciproca dei due istituiti, evitando lo slittamento al secondo grado, impedisce altresì la rottura del testamento. Nell’opposto caso del postumus che sia diseredato in primo grado e omesso in secondo grado, l’aditio degli istituiti garantirebbe la sopravvivenza del testamento, mentre la rinuncia dell’erede istituito determinerebbe il subentro del postumo, quale erede intestato, essendo le sostituzioni invalide424. Dalla prosa di Africano (ma in cui forse è riversato il pensiero di Giuliano) più fluida rispetto a quella di Scevola, si evince la presenza di un problema interpretativo a lui contemporaneo: l’espressione ‘quaeri solet’ chiarirebbe che i dubbi erano attuali e persistenti, mentre la soluzione successiva, da quo a putavit, segnala la coesistenza di differenti posizioni giurisprudenziali, tra le quali Africano/Giuliano sposa – in base ad un criterio di correttezza (rectius) – quella che favorisce gli eredi legittimi. Nella chiusa di D. 28.3.19 Scevola ritorna sulla prima fattispecie, precisando che, anche laddove non si ponga il problema della morte di Titius, comunque sembrerebbe richiesta l’accettazione congiunta di entrambi gli istituiti, poiché è incerto (incertum est) se il testamento – stante la mancata diseredazione del postumo nei riguardi dei sostituti – sia valido senza l’accettazione simultanea dei legittimati. F. 28 – D. 35.2.17 Nel frammento è rappresentata una deroga alla normale disciplina della lex Falcidia, la quale non troverebbe applicazione alle ultime volontà dei militari, tant’è che i loro lasciti non sarebbero soggetti a riduzione425. Nella vicenda descritta, a un testamento redatto in militia,

422 Finazzi 1996, 426 e 427 ss., in particolare nt. 84, laddove spiega come, nella successione testamentaria l’espressione secundus gradus designi nella maggior parte dei casi la posizione del sostituto volgare in contrapposizione a quella dei primi chiamati. 423 Voci 1963, 643 precisa che “il postumus praeteritus ab instituitis, exheredatus a substitutis nascendo rompe il primo grado, ma fa posto a sé stesso, non ai sostituti: cioè diventa erede ab intestato; così cade tutto il testamento”. 424 Ancora Voci 1963, 644, sottolineando che l’invalidità non sarebbe comunque evitata dalla morte del postumo prima della rinuncia degli istituiti. 425 Voci 1963, 756 e nt. 10; sul passo anche Leuregans 1975, 226 s. e nt. 3; Vendrand-Voyer 1982, 274 s. e ntt. 57 e 58; Scarlata Fazio, 1939, 58 ss. Non si sofferma sul problema Bonifacio 1948 3 ss.

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Alessia Spina sarebbe seguita, post missionem, la redazione di codicilli. La morte entro un anno dal congedo avrebbe consentito l’applicazione del regime speciale sopra ricordato, ma in riferimento ai soli legati contenuti nel testamento. Il brano, infatti, chiarisce come non fossero soggetti a riduzione i lasciti previsti nel testamento, diversamente da quelli previsti in codicilli integranti il volere e stipulati quando ormai il testatore non era più un militare. La posizione di Scevola troverebbe una corrispondenza in un passo gaiano, tratto dal commentario all’editto provinciale: Gai. 15 ad ed. prov., D. 29.1.17.4: Si miles testamentum in militia fecerit, codicillos post militiam et intra annum missionis moriatur, plerisque placet in codicillis iuris civilis regulam spectari debere, quia non sunt a milite facti, nec ad rem pertinere, quod testamento confirmati sunt. Ideoque in his legatis, quae testamento data sunt, legi Falcidiae locum non esse, at in his, quae codicillis scripta sunt, locum esse. Se il militare abbia fatto testamento durante il servizio e dopo il congedo abbia redatto codicilli e dopo un anno dal servizio muoia, alla maggior parte pare opportuno che nei riguardi dei codicilli si debba osservare la regola di diritto civile, poiché essi non sono redatti da un militare, né attiene a questo profilo il fatto che siano stati confermati nel testamento. Perciò, in questi legati che sono stati dati con testamento, non si fa applicazione della legge Falcidia, ma in quelli che sono stati dati con codicilli se ne fa applicazione426.

Medesimo è il casus e simili sono le opzioni lessicali dei due giuristi. Rispetto al tono del discorso scelto da Scevola, Gaio appare maggiormente prudente e presenta il problema come ancora oggetto di discussione giurisprudenziale, tanto da affermare che la posizione cui egli aderisce è quella sposata dalla maggioranza (plerisque placet). Come nella quaestio scevoliana, il termine entro il quale i negozi perfezionatisi durante la vita militare conservano un regime speciale è un anno: la lex Falcidia non verrà applicata qualora il testatore muoia entro un anno dal congedo (post missionem … decedat; intra annum missionis). La rilevanza del termine annuale verrà nuovamente confermata da Macro, in un brano tratto dall’opera de re militari, in cui la morte del testatore avviene dopo che ormai era cessato il periodo riguardante il beneficium principale427. Macr. 2 de re milit., D. 35.2.92: Si miles testamento facto partem dimidiam hereditatis suae tibi restitui iusserit, deinde post missionem factis codicillis alteram partem Titio restitui rogaverit: si quidem post annum missionis suae decesserit, et tibi et Titio heres partem quartam retinebit, quia eo tempore testator decessit, quo testamentum eius ad beneficium principale pertinere desierat: si vero intra annum missionis decesserit, solus Titius deductionem partis quartae patietur, quia eo tempore fideicommissum ei relictum est, quo testator iure militari testari non potuit. Se il soldato, dopo aver fatto testamento, abbia disposto che metà della sua eredità ti sia restituita e poi dopo il congedo, fatti dei codicilli, abbia chiesto che sia restituita l’altra parte a Tizio:

426 Spiega efficacemente Voci 1963, 91 e nt. 35: “la condizione di militare, perché si goda del privilegio relativo, deve esistere nel momento della redazione del codicillo; ivi anche 100 e nt. 7. 427 Sui frammenti de re militari di Macro e in particolare sul brano riportato, Alessandrì 2020, 48 s., anche per la traduzione accolta nel testo; Minale 2013, 23 ss.

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Commento. Quaestionum libri XX se, invero, dopo un anno dal suo congedo sarà morto, l’erede tratterrà e nei tuoi confronti e in quelli di Tizio la quarta parte, poiché il testatore morì in un tempo in cui il suo testamento aveva cessato di godere del beneficio concesso dal principe: se, invece, sarà morto entro l’anno dal congedo, solo Tizio subirà la deduzione della quarta parte, poiché il fedecommesso gli fu lasciato nel periodo in cui il testatore non potè fare testamento in base al diritto militare.

Il giurista sottolineava come il privilegio valesse solamente fino al congedo e il testamento conservasse una validità ulteriore per un anno dalla fine del servizio428. Scevola applicherà il medesimo principio, con la conseguente sottoponibilità alla Falcidia dei lasciti creati successivamente alla militia, in un breve ma chiarissimo passaggio tratto dal liber singularis quaestionum publicae tractatarum429: Scaev. lib. sing. quaest. public. tract., D. 35.2.96: Miles si, dum paganus erat, fecerit testamentum, militiae tempore codicillos, lex Falcidia in codicillis locum non habet, in testamento locum habebit. Se un soldato, mentre era un civile, abbia fatto testamento e abbia redatto codicilli durante il periodo del servizio militare, la legge Falcidia non si applicherà ai codicilli, mentre troverà applicazione per il testamento.

La tematica, dunque, dovette essere al centro di un dibattito ancora vivo nel II-III secolo. L’allievo Paolo, in un’opera dedicata ai codicilli430, ripropone il medesimo schema di soluzione del maestro, riflettendo sulla più generale applicabilità di uno ius commune rispetto allo ius militare e non citando espressamente la disciplina della lex Falcidia: Paul. lib. sing. de iure codicill., D. 29.7.8.4: Si miles testamentum quidem ante militiam, sed codicillos in militia fecerit, an iure militari valeant codicilli, quaeritur, quoniam testamentum iure communi valet, nisi si militiae tempore signavit vel quaedam adiecerit. certe codicilli militiae tempore facti non debent referri ad testamentum, sed iure militari valent. Se un soldato ha fatto testamento prima del servizio militare, ma abbia redatto codicilli durante il servizio, si domanda se i codicilli siano sottoposti al diritto militare, poiché al testamento si applica il diritto comune, a meno che vi abbia apposto i sigilli o vi abbia aggiunto qualcosa durante il servizio. Certamente i codicilli redatti durante il servizio militare non devono riferirsi al testamento, ma a loro si applica il diritto militare431.

Tornando a D. 35.2.17, si può notare come la seconda parte della quaestio pervenuta assuma una connotazione fortemente pratica: Scevola spiega in quale maniera, concretamente, la coesistenza dei due regimi – speciale e ordinario – troverebbe applicazione contabile nel caso prospettato. Il giurista ipotizza un testamento del militare che distribuisca legati per l’intero

428 429 430 431

Alessandrì 2020, 113 s. Definisce il testo “elementare” Masiello 2004, 19 e poi 86 s. Sulla genuinità dei libri singulares Cossa 2018, 15 ss. In particolare, sul de iure codicillorum, 595 ss. e nt. 729. Sul brano Voci 1963, 91 e nt. 36.

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Alessia Spina asse ereditario, pari a quattrocento. Tali lasciti, come detto, non saranno sottoposti alla riduzione ex lege Falcidia. I codicilli dispongono di cento e ad essi si applica la riduzione, che, però, non può essere calcolata sull’intero asse ereditario, bensì, dice Scevola, deve calcolarsi sulla quinta parte di esso, equivalente a ottanta. Su tale porzione ereditaria occorrerà calcolare la quarta, pari a venti, spettante all’erede.

LIBRO VIII

Dopo il libro VI, che si può supporre per ampia parte dedicato al testamento in generale e che si chiude con la descrizione del regime peculiare della lex Falcidia previsto per i militari, non sono sopravvissuti all’interno dei Digesta Iustiniani, frammenti provenienti dal libro VII delle quaestiones di Scevola. Il libro VIII, nei quattro brani superstiti, risulta dedicato al tema dei lasciti a titolo particolare e dell’applicazione della Falcidia in ipotesi problematiche: anche laddove non vi sia un espresso richiamo al provvedimento legislativo del 40 a.C., si può supporre che esso abbia rappresentato uno dei possibili profili di indagine della quaestio432. D. 29.7.14 [F. 29] è il più ampio dei testi del libro VIII salvati dai compilatori: in esso il problema dei lasciti previsti nei codicilli si intreccia con la successione di secondo grado di sostituti cosiddetti volgari, e si colloca nell’ambito di una disputa giurisprudenziale della prima età imperiale. Gli altri brani sono più brevi e decontestualizzati: D. 33.4.10 [F. 30] e D. 33.8.21 [F. 31] sono ritenuti da Lenel parte di una medesima quaestio: Scevola si sofferma in essi su fattispecie in cui un legato di credito (rispettivamente di dote e di peculio) o di beni in sostituzione del credito stesso (è il caso del primo escerto riportato, relativo a un legato pro dote433), ricomprende o coincide con beni destinati a beneficiari diversi434. Il probabile nesso tra i due casi non è da ritenersi però sufficiente per immaginarli contenuti in una medesima quaestio, pur potendoli considerare stralci di un’originaria discussione, verosimilmente assai più ampia, di cui costituiscono casi molto specifici e di non immediata comprensione, sicché è apparso più prudente tenerli distinti. D. 35.1.80 [F. 32], brano di complicata esegesi, si segnala per la sensibilità del maestro nel distinguere legati sottoposti a condizione e legati sottoposti a modo. Espressamente dedicato a una peculiare applicazione della lex Falcidia è, infine, D. 35.2.19 [F. 33], da riconnettersi – per temi e per suggestioni mecianee – all’unico frammento sopravvissuto dal libro IX, D. 35.2.20 [F. 34].

432 Secondo Lenel 1889 II, 279 e Lenel 1927, 366 s., il libro VIII delle quaestiones sarebbe dedicato al commento del titolo edittale XXVII (come anche i successivi libri IX e X), e in particolare dell’editto dell’actio certi e dell’actio incerti ex testamento. 433 Il legato pro dote consente al marito di legare alla moglie una somma al posto della dote: “esso è valido per la somma disposta, senza indagini sulla esistenza e la consistenza effettiva della dote” (così Voci 1963, 326). 434 Peraltro, come è stato osservato, dos e peculium rappresentavano il mezzo per consentire a soggetti estranei al patrimonio paterno, di partecipare alla successione: Solazzi 1899, 9.

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Commento. Quaestionum libri XX A un attento esame, si può ammettere che il filo rosso unificante le ipotesi conservate nel libro VIII sia l’applicazione di un principio generale in materia di legati. È noto, infatti, che nella successione mortis causa l’imposizione di oneri è proporzionata all’effettiva acquisizione ereditaria. Può accadere, infatti, che l’acquisto dell’erede, a carico del quale sono imposti legati, risulti minore dell’asse intero o della quota che il testatore aveva considerato. Ipotizziamo che all’erede residui, nonostante la diminuzione, una parte ex legitima o ex Falcidia, si domanda se i legati debbano essere diminuiti in proporzione alla diminuzione subita dall’acquisto ereditario. Si è osservato, infatti, “che la quantità necessaria per il pagamento integrale esiste; ma può porsi la quaestio voluntatis, se non sia da rispettare la proporzione in origine stabilita dal testatore”435. Se si eccettuano alcuni interventi edittali e imperiali che, per ipotesi specifiche, optano per la riduzione proporzionale436, la giurisprudenza appare divisa. Scevola437, seguendo Marcello, in diversi passaggi valorizza la volontà del testatore ed esclude la riduzione: gli stessi testi del libro VIII, se letti in tale prospettiva, ne confermano la convinzione. Diversamente avrebbero ritenuto Giuliano438 e, in età successiva, Papiniano439, optando per la riduzione proporzionale che verrà poi accolta anche da Giustiniano. F. 29 – D. 29.7.14 La quaestio di D. 29.7.14 trae spunto da una disputa di età precedente, che viene descritta, spiegata, verificata e poi ulteriormente problematizzata dal maestro. Il brano, in particolare, affronta, sotto diverse declinazioni, il problema dell’efficacia di codicilli confermati redatti successivamente alla morte dell’erede di primo grado, per il quale siano stati previsti dei sostituti, concludendosi con una riflessione sulla possibilità di riduzione dei legati in tali codicilli previsti440. Il contenuto è trasfuso in una forma apparsa “non impeccabile”441, che risente di alcuni tagli, come quello, congetturato e discusso da numerosi autori, relativo alla repetitio legatorum, che, però, come si avrà cura di illustrare tra poco, non risulta necessario ipotizzare per salvare la genuinità del testo442.

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Così Voci 1963, 230. Voci 1963, 230 ricorda come l’editto prevedesse che la persona excepta, la cui quota fosse diminuita in seguito alla concessione della bonorum possessio contra tabulas, si vedesse proporzionalmente ridotto l’onere dei legati. In maniera simile si era espressa una costituzione di Marco Aurelio, ricordata da Papiniano in Pap. 29 quaest., D. 35.2.11.2 e verosimilmente riferita all’avocazione da parte dello Stato per i casi di caducitas, così da parere priva di portata generale. 437 Si può ricordare, oltre ai brani in seguito esaminati, Scaev. 21 dig., D. 32.40pr.; mentre Scaev. 18 dig., D. 36.1.77pr., a parere di Voci, sarebbe ricondotto all’opinione contraria dai compilatori giustinianei. 438 Alla luce di quanto ricorda Afr. 2 quaest., D. 29.7.15.9. 439 Pap. 19 quaest., D. 29.7.11 e 13; Pap. 22 quaest., D. 29.7.12; Pap. 8 resp., D. 31.77.29. 440 Precisa che Scevola tratta di una questione agitata da Sabino, Cassio e Proculo, i quali potevano conoscere solo i codicilli confermati, Biondi 1955, 618 e nt. 1. 441 Così Bretone 2008, 803; Schulz 1961, 295, nt. 5, definisce il brano “schlimm”. Scarlata Fazio 1939, 69 ss. ritiene che il brano riveli vizi gravi di una sovrastruttura bizantina, e che fosse coerente all’intento dei compilatori giustinianei fare credere esistente una corrente classica che anticipasse i loro intenti “di costruttori ed enunciatori di teorie generali”. 442 Secondo Voci 1937, 47 ss., la difficile fattispecie di D. 29.7.14 verrebbe ulteriormente complicata da alcune aggiunte: “nullius-sit”; “idem-tractari”; “quia-fin”, però concludendo che “quest’ultima aggiunta, posto che sia stata compiuta dai Compilatori, non riesce tuttavia a mutare la sostanza del testo, così come non riescono le altre”. 436

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Alessia Spina Si tratta di un brano prezioso perché da esso emerge il processo di formazione di una memoria giurisprudenziale443. La lezione parrebbe sollecitata dal resoconto che quidam avrebbero compiuto di una discussione444 sorta tra i giuristi Sabino445, Cassio446 e Proculo447, della quale lo stesso Scevola era venuto a conoscenza leggendo Viviano448, cronologicamente collocato, dalla letteratura più recente, tra l’età dei Tiberii e quella dei Flavii449. In particolare, stando al dato letterale, i quidam si sarebbero limitati a riferire l’esposizione di una controversia di età altoimperiale versata in una quaestio, indicando le distinte posizioni dei giuristi (quod Sabinum et Cassium respondisse aiunt Proculo dissentiente). Non è chiaro chi siano i quidam citati da Scevola: l’uso del pronome indefinito per introdurre posizioni giurisprudenziali anonime è ampiamente testimoniato nel Digesto, e nello stesso nostro giurista450. Potrebbe trattarsi di giuristi che il maestro decide di non nominare, ma per i quali ritiene opportuno aggiungere l’auctoritas rappresentata dal personale ricordo di quanto aveva letto direttamente nell’opera di Viviano (o in una sua epitome451), autore che nel Digesto sovente riferisce i dibattiti giurisprudenziali senza assumere una decisa posizione, ma mostrandosi attento alle scelte proculiane452. Scevola rivelerebbe, sotto questo profilo, una particolare sensibilità al tema dell’attendibilità del materiale giurisprudenziali utilizzate e sottoposte all’attenzione dei suoi allievi. E, d’altro lato, l’utilizzo di fonti di natura e complessità differenti, in una medesima quaestio, è testimoniata, altresì, dal lungo frammento D. 29.2.29, in cui, come visto, la citazione diretta del testo di Aquilio Gallo si snoda e si articola anche attraverso il resoconto della relativa interpretatio che ‘quidam’ avrebbero compiuto.

443 Recentemente, per un’esegesi del testo, Dursi 2020, 13 ss. e 63 ss., cui si rimanda anche per un inquadramento complessivo sulla disciplina dei codicilli. 444 Bretone 2008, 772 e Palma 2016, 25, sottolineano come si tratti dell’unico caso, presente nel Digesto, in cui controversia significa ‘disputa teorica’. Con tale valenza si rinviene, invece, nella legislazione giustinianea, ad esempio in C. 6.37.23.2a e C. 3.31.12.1. Secondo Pringsheim 1921, 215 s. e Schwarz 1951, 133 o 210, il termine controversia sarebbe di matrice bizantina. 445 Lenel 1889 II, Sab. n. 133. 446 Lenel 1889 I, Cass., n. 71 447 Lenel 1889 III, Proc., n. 120 (tra i loci incerti). 448 Beseler 1913, 52 s.; 1920, 69 sostiene che ‘repeto’ sia equivalente a ‘memoria repeto’, interpunzione accolta anche da Bretone 2008, 803 nt. 12. 449 Così Russo Ruggeri 1997, 14 ss.; accetta la datazione Stolfi 2002, 492 e nt. 116, cui si rimanda per le ricche indicazioni bibliografiche relative anche all’attività del giurista. 450 La scelta del pronome quidam, accompagnato da verbi di opinione, si rinviene in numerosissimi passaggi digestuali (soprattutto di Ulpiano e Paolo), e dallo stesso Scevola è utilizzato, come già accennato, in D. 29.2.29.1, proveniente dagli stessi libri quaestionum. 451 Indagando il rapporto tra Viviano e Pomponio, Stolfi 2002, 496 e nt. 130, ricorda che, nel II secolo, il pensiero di Viviano dovette essere noto soprattutto attraverso una sua epitome, di cui sarebbe indizio Ulp. 18 ad ed., Coll. 12.7.8. È la tesi di Schulz 1968, 340 e 386 (mentre Honorè 2002, 140 si limita a ipotizzare una raccolta di materiali di epoca precedente), respinta però da Russo Ruggeri 1997, 55 ss. 452 Stolfi 2002, 492, pur ipotizzando una collocazione nell’ambito delle scholae che monopolizzavano gran parte del dibattito scientifico, ritiene che “a quella realtà non possiamo però ricondurlo con certezza, nonostante il suo impiego, relativamente frequente, di dottrine di Proculo”. Come osserva Russo Ruggeri 1997, 68 ss., non è chiaro quale fosse stata la posizione assunta dal giurista Viviano nella disputa. La Studiosa congettura, però, che Viviano si possa essere espresso a favore dell’interpretazione proculiana.

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Commento. Quaestionum libri XX Vi è stato chi ha, invece, ipotizzato che i quidam fossero gli allievi di Scevola, chiamati a riferire di quanto letto, ossia coinvolti in un esercizio scolastico – la declinatio – attraverso il quale gli studenti si addestravano a presentare un caso, prima in forma assertiva e poi articolandone i contenuti. Si potrebbe immaginare che lo strumentario didattico fosse costituito da raccolte di quaestiones e sunti di controversie di epoca precedente, realizzati da anonimi autori e destinati all’attività scolastica: una sorta di materiale d’insegnamento integrativo rispetto alla lettura diretta delle opere giurisprudenziali che veniva svolta sotto la guida del maestro a lezione. Entrambe le soluzioni appaiono suggestive e ragionevoli. La prima lettura, però, appare maggiormente persuasiva perché fondata sul dato testuale di un utilizzo del vocabolo documentato nella letteratura giuridica e specificamente in quella scevoliana. Per quanto attiene, poi, alla struttura del brano, si può pensare che il contenuto della disputa giurisprudenziale venga riprodotto sommariamente fino a a substitutis debeantur, mentre la spiegazione successiva ‘id est…’ potrebbe essere un’aggiunta di natura esplicativa inserita da Scevola, che propone una soluzione basata sulla cosiddetta finzione codicillare, attraverso la quale la giurisprudenza romana aveva risolto il problema dei lasciti contenuti in codicilli redatti quando ormai l’heres scriptus fosse morto453. Dal momento che, confermati oppure non confermati, i codicilli rappresentavano una pars testamenti e del testamento seguivano la sorte, anche i legati in essi contenuti dovevano ritenersi efficaci454. Che Scevola si richiamasse a tale ricostruzione è evidente nell’uso della circumlocuzione perinde … ac, in cui ricorrono i medesimi verba scelti da Giuliano in un passaggio che il nostro giurista parrebbe avere avuto in mente: Iul. 37 dig., D. 29.7.2.2: Codicillorum ius singulare est, ut quaecumque in his scribentur perinde haberentur, ac si in testamento scripta essent. ideoque servo, qui testamenti facti tempore testatoris fuisset, codicillorum tempore alienus, non recte libertas directa datur. et contra si, cum testamentum fiebat, alienus esset, codicillorum tempore testatoris, intellegitur alieno servo libertas data. et ideo licet directae libertates deficiunt, attamen ad fideicommissarias eundum est. È diritto singolare dei codicilli che qualunque cosa sia scritta in essi, si consideri come se fosse scritta nel testamento, e pertanto al servo, il quale fosse del testatore nel momento in cui fu redatto il testamento, ma altrui al momento della redazione dei codicilli, non viene conferita correttamente la libertà direttamente (dal testatore). E, al contrario, se fosse altrui quando il testamento veniva redatto, del testatore al momento della redazione dei codicilli, la libertà si intende data al servo altrui. E perciò, sebbene le libertà conferite direttamente vengano meno, tuttavia si deve passare a quelle fedecommissarie.

A interessarci è la prima parte del testo, dove l’artificio della finzione codicillare viene enunciato chiaramente da Giuliano, quale regola tipica da applicarsi ai codicilli (codicillorum ius singulare

453 Grosso 1962, 72 e Negri 1975, 309 ss. ricordano che alcuni frammenti – tra cui D. 29.7.14 – conterrebbero enunciazioni generiche inequivoche: Gai. ad leg. Iul. et Pap., D. 29.3.11; il sopra riportato Iul. 37 dig., D. 29.7.2.2; Iul. 39 dig., D. 29.7.3.2; Paul. 21 quaest., D. 29.7.16; I. 2.25.2. 454 Biondi 1955, 615 e nt. 2. Si veda anche Puliatti 2016, in particolare 166, nt. 657, secondo il quale “questa cosiddetta finzione codicillare importava di massima che il codicillo seguisse le sorti del testamento (c.d. accessorietà del codicillo)”.

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Alessia Spina est), per poi venire impiegata nel caso specifico delle libertà fedecommissarie455. Nel brano di Scevola è presente una mera eco dell’espediente, dal momento che non risultano indizi testuali tali da potere affermare che anche Giuliano abbia preso parte alla discussione giurisprudenziale. Tornando ora a descrivere D. 29.7.14, dopo l’inciso esplicativo, a essere riprodotto parrebbe ancora il discorso dei quidam, che distinguono le due diverse posizioni giusprudenziali corrispondenti alle due scuole: quod Sabinum et Cassium respondisse aiunt Proculo dissentiente. L’indirizzo sabiniano, dunque, avrebbe optato per l’efficacia dell’aggiunta e della revoca dei legati disposte nei codicilli redatti dopo la morte degli istituiti (essendo ormai subentrati i sostituti). Proculo avrebbe, invece, negato l’utilità di simili lasciti. La parte di testo successiva (da nimirum) sembrerebbe di paternità scevoliana, pur riprendendo le argomentazioni sabiniane e cassiane ricordate dai quidam: la conclusione cui giunsero Sabino e Cassio era nel senso che i codicilli fossero da ritenersi pars testamenti, e dunque si estendesse anche ad essi la disciplina propria del testamento. Scevola, però, si discosta da tale posizione per aderire a quella contraria e minoritaria, sostenuta da Proculo: il maestro, dunque, devia rispetto all’orientamento della scuola sabiniana in cui verosimilmente si riconosceva e, seppur con prudenza (ausim)456, ritiene che la tesi opposta sia efficacemente aderente al vero457. Nei passaggi successivi Scevola motiva la propria opinione, riflettendo sull’inefficacia dei legati laddove a essere onerati siano eredi istituiti e morti tra la redazione del testamento e la redazione dei codicilli che tali lasciti prevedevano. Egli riflette sull’inutilità di disposizioni imposte a soggetti che in rebus humanis non sunt, privi di una corrispondenza nel mondo umano, l’unico che sembrerebbe competere al diritto. In tale prospettiva indica un ordine logico – quasi naturale – da seguire nel corso della riflessione giuridica sui lasciti a titolo particolare, sicché l’interprete dovrebbe prima interrogarsi sull’esistenza dell’onerato e solo successivamente sull’esistenza del bene oggetto del legato. Nell’aggiunta ut non ante iuris ratio quam persona quaerenda sit si legge, infatti, l’invito – un atteggiamento incline al naturalismo458 – a considerare preliminare a qualunque esegesi l’indagine sulla consistenza fisica dei soggetti su cui i legati incombono e a privilegiare la persona rispetto alla ratio iuris459. Trascorrendo alla fattispecie concreta in esame, Scevola ritiene che, dunque, neppure la revoca e l’aggiunta di legati abbia effetto se l’erede testamentario cui la clausola si riferisce è defunto, precisando, nell’ultima frase del principium, che quanto affermato vale se a essere sostituito fosse stato un erede unico, istituito per l’intero e a carico del quale fossero previsti codicilli confermati. Nel paragrafo 1, il casus viene declinato diversamente, modificando il numero degli eredi: laddove gli eredi istituiti siano due e uno solo muoia tra la redazione del testamento e quella

455

Il passo viene richiamato da Negri 1975, 309 ss. insieme a D. 29.7.3.2. L’espressione “ausim dicere” si rinviene anche in Ulp. 21 ad Sab., D. 38.16.1.1. 457 Masiello 1999, 222 scrive che, per Scevola “connotare come vera una conclusione significa avere valutato la validità dell’argomentazione che la sostiene”. 458 Bretone 2008, 804 ritiene che il ragionamento scevoliano sia “piuttosto debole, e si sarebbe potuto facilmente respingerlo come viziato da eccessivo naturalismo”. 459 Secondo Masiello 1999, 221, la contrapposizione è rilevabile “piuttosto che sul piano di un’improbabile filosofia del diritto di Scevola, su quello più praticabile del suo senso retorico”. Secondo Negri 1975, 312, Scevola interpreterebbe la dilatazione del tempus facti testamenti come deroga alla ratio iuris, ossia alla regola della finzione rigorosamente intesa. Per una rassegna dei passi del Digesto contenenti il riferimento alla ratio iuris in cui compare anche il brano scevoliano, si rimanda a Stagl 2009, 325 s., nt. 69. 456

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Commento. Quaestionum libri XX dei codicilli, i legati in questi ultimi previsti devono ritenersi efficaci. Scevola dimostra che, modificando i dati di fatto, se almeno una persona destinataria dell’obbligo è in rebus humanis, l’efficacia dei legati può essere discussa. Si domanda, in particolare, se sul coerede sopravvissuto debbano gravare i legati per l’intero o pro parte, dal momento che il sostituto del coerede deceduto ha comunque acquistato una parte di eredità. Il problema si complicherebbe laddove il testatore abbia individuato l’obbligato attraverso espressioni omnicomprensive come ‘quisque mihi heres erit’460, oppure abbia designato nominatim i soggetti passivi del legato. Le due ipotesi saranno poi prese in esame congiuntamente da Paolo, per affermare che il legato a carico dell’erede poteva imporsi anche ai sostituti, sebbene pupillari: Paul. lib. sing. de forma test., D. 32.98: Si plures gradus sint heredum et scriptum sit “heres meus dato”, ad omnes gradus hic sermo pertinet, sicuti haec verba “quisquis mihi heres erit”. itaque si quis velit non omnes heredes legatorum praestatione onerare, sed aliquos ex his, nominatim damnare debet. Se vi siano eredi di gradi diversi e sia stato scritto “il mio erede dia”, quest’espressione riguarda tutti i gradi, allo stesso modo di queste parole: “chiunque sarà mio erede”. Perciò, se uno voglia onerare della prestazione di legati non ogni erede, ma solo qualcuno di questi, deve obbligarlo nominativamente.

Ad ogni modo, per entrambe tali evenienze – ossia formula generica e indicazione nominativa –, conclude Scevola, troverebbe preventiva applicazione il criterio dell’esistenza in vita dell’erede obbligato. Nel passaggio che chiude il frammento si propone un’ulteriore esemplificazione: sul coerede sopravvissuto dovrebbe gravare l’intero legato, laddove l’altro obbligato sia stato aggiunto in un momento successivo, quando ormai era già morto. La posizione di Scevola sul tema della finzione codicillare appare collocata all’interno di un dibattito giurisprudenziale vivace nel II secolo461 e destinato a proseguire. Un primo punto è stato messo in luce e merita di essere ribadito: egli non nega l’efficacia della finzione codicillare462. La riprende, anche terminologicamente, dal maestro Giuliano, e non la confuta. In un brano intessuto di suggestioni filosofiche e di artifici retorici463 e in cui la simulazione è

460 In particolare, la generica espressione ‘quisque mihi heres erit’, presente anche forme semplificate quali ‘heredes mei’ o ‘heres meus’, avrebbe reso obbligati tutti gli eredi, ciascuno in misura corrispondente alla propria quota, e anche laddove si fosse scelta l’espressione al singolare, pur in presenza di una pluralità di coeredi. Si veda Pomp. 4 ad Quint. Muc., D. 31.44pr. (sul quale si veda Stolfi 2018, 200 s., che lo inserisce tra i fragmenta muciani, a differenza di quanto censito da Lenel). 461 Mi riferisco alla posizione di Gai. 11 ad leg. Pap., D. 29.3.11. Il giurista antonino mette in correlazione i codicilli e il testamento pupillare, per illustrare gli effetti caducari della lex Iulia et Papia: si veda Negri 1975, 308. 462 Come osserva Voci 1963, 307 s.: “il dissenso non riguarda, a ben vedere, il principio della finzione: questo principio è anzi sottolineato da Scevola con insistenza”. 463 Penso alle scelte lessicali: il termine collectio; la stessa espressione ratio iuris; l’individuazione di una sfera di riferibilità umana (in rebus humanis), contrapposta quanto in rebus humanis non est. Si rinvengono, inoltre, strutture ellittiche (si pensi come l’espressione licet testamenti fuerit, dove è sottinteso l’ablativo tempore); figure metonimiche (observationemque et legem iuris: e il sostantivo observatio è utilizzato con significato simile anche in Ulp. 34 ad ed., D. 24.1.35); l’uso inconsueto del vocabolo sermo ad indicare la clausola negoziale (Masiello 1999, 105).

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Alessia Spina stata scorta persino nella rievocazione della disputa464, il nostro autore sceglie quale strumento esegetico la contrapposizione tra realtà e apparenza, tra ratio iuris e veritas, prediligendo quest’ultima come criterio di soluzione della questione. D’altra parte, il problema più generale con cui il maestro si confronta nel brano è la sorte dei lasciti a titolo particolare contenuti in codicilli confermati, una volta verificatasi una sostituzione volgare: problema differente ma parallelo è quello affrontato da Paolo in D. 28.6.38.3, dove il maestro viene indicato quale unico portavoce di un’opinione del tutto isolata. Paul. lib. sing. de secund. tab., D. 28.6.38.3: Si a patre institutus rogatusque hereditatem restituere coactus ex fidecommissario adierit, quamvis cetera, quae in eodem testamento relicta sunt, per eam aditionem confirmentur, ut legata et libertates, secundas tamen tabulas non oportere resuscitari destituto iam iure civili testamento Quintus Cervidius Scaevola noster dicebat. sed plerique in diversa sunt opinione, quia et pupillares tabulae pars sunt prioris testamenti, quo iure utimur. Se (un figlio impubere) istituito erede dal padre e richiesto di restituire l’eredità, costretto dal fedecommissario abbia accettato, sebbene le rimanenti cose che sono state lasciate nel medesimo testamento siano confermate attraverso quella accettazione, come i legati e le libertà, il nostro Quinto Cervidio Scevola diceva che, tuttavia, non si dovevano rimettere in vigore le seconde tavole, ormai svuotato di efficacia il testamento per diritto civile. Ma i più sono di diversa opinione, perché anche le tavole pupillari sono parte del primo testamento, e noi utilizziamo questo diritto.

La fattispecie è quella di un fedecommesso universale, contenuto in un testamento che prevede anche una sostituzione pupillare465. Si può supporre che la sostituzione sia stata preceduta da una diseredazione e che l’erede l’accetti solamente perché vi sia stato costretto dal magistrato, su domanda del fedecommissario e in applicazione del senatoconsulto Pegasiano466. Si richiede se, insieme ai lasciti a titolo particolare e alle libertates, sia efficace anche la sostituzione. Scevola risponde negativamente, mentre Paolo e altri anonimi giuristi la ammettono. Si tratta di un problema diverso da quello specifico di D. 29.7.14, ma che rende convincente la ricostruzione di una collocazione isolata di Scevola rispetto alla restante giurisprudenza, poiché la motivazione appare, sotto un certo profilo, simile. Cervidio Scevola accoglie un criterio di corrispondenza al reale, qui rappresentato dallo svuotamento dell’efficacia civile del testamento che rende prive di significato concreto le seconde tavole. La maggior parte dei giuristi, invece, avrebbe valorizzato la pertinenza delle seconde tavole al testamento, con un ragionamento simile a quello con cui si valuta l’efficacia dei codicilli e la loro adesione al testamento che li conferma.

464 Allude a finzioni nei digesta scevoliani Bretone 2008, 761 e nt. 10; D. 39.5.35 (Labeo); D. 48.10.24 (Proculus); D. 34.3.28.4 (Paulus) passo gemino di D. 34.3.31.2, tratto dai responsa. Sui due brani, Nörr 1978, 115 nt. 9 (= 1191 nt. 9). Specificamente sul passo, Scarlata Fazio 1939, 71. 465 Sull’opera de secundis tabulis e sulla loro collocazione nel Digesto, si vedano le considerazioni di Cossa 2018, 595 ss. e nt. 731 s., anche per la bibliografia ivi citata. 466 Così Bretone 2008, 804 s.

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Commento. Quaestionum libri XX A ogni modo si definisce una linea di pensiero giurisprudenziale che corre da Giuliano, a Scevola, a Paolo e che coinvolge, come si vedrà, anche Ulpiano. La tesi di Scevola in D. 29.7.14 è stata costantemente interpretata alla luce di un rescritto imperiale di Settimio Severo e Caracalla, ricordato in due passi ulpianei, D. 30.74 e D. 31.61.1: genericamente e fatta salva una volontà contraria espressa dal testatore, il provvedimento imperiale assume che le disposizioni a titolo particolare poste a carico degli eredi istituiti fossero dovute anche dai sostituti467. La lettura dei due passi convince del fatto che in D. 29.7.14 la peculiarità del caso e il ragionamento di Scevola prescindano dalla questione più generale. Ulp. 4 disp., D. 30.74: Licet imperator noster cum patre rescripserit videri voluntate testatoris repetita a substituto, quae ab instituto fuerant relicta, tamen hoc ita erit accipiendum, si non fuit evidens diversa voluntas: idque ex multis colligetur, an quis ab herede legatum vel fideicommissum relictum noluerit a substituto deberi. quid enim si aliam rem reliquit a substituto ei fideicommissario vel legatario, quam ab instituto non reliquerat? vel quid si certa causa fuit, cur ab instituto relinqueret, quae in substituto cessaret? Vel quid si substituit ex parte fideicommissarium, cui ab instituto reliquerat fideicommissum? In obscura igitur voluntate locum habere rescriptum dicendum est. Benché il nostro imperatore (Antonino Caracalla) e suo padre (Settimio Severo) abbiano stabilito con rescritto che le cose, che erano state lasciate a carico dell’istituito, si considerano ripetute per volontà del testatore a carico del sostituito, tuttavia, ciò così si dovrà intendere, se non è stata evidente la diversa volontà; e si potrà concludere da molti elementi, se qualcuno non abbia voluto che sia dovuto dal sostituito il legato o il fedecommesso lasciato a carico dell’erede. Che cosa accade, infatti, se abbia lasciato a carico del sostituito per quel fedecommissario o legatario un bene diverso, che non aveva lasciato a carico dell’istituito? Che cosa accade se c’è stata una causa determinata, per la quale aveva lasciato a carico dell’istituito, ma che cessava nei confronti del sostituito? Oppure che cosa accade se abbia nominato come sostituito per una quota il fedecommissario, a cui aveva lasciato un fedecommesso a carico dell’istituito? Dunque bisogna dire che il rescritto trova applicazione a fronte di una volontà oscura.

Nel secondo brano si parla di legati e di una repetitio degli stessi a carico del sostituto: Ulp. 18 ad leg. Iul. et Pap., D. 31.61.1: Iulianus quidem ait, si alter ex legitimis heredibus repudiasset portionem, cum essent ab eo fideicommissa relicta, coheredem eius non esse cogendum fideicommissa praestare: portionem enim ad coheredem sine onere pertinere. sed post rescriptum Severi, quo fideicommissa ab instituto relicta a substitutis debentur, et hic quasi substitutus cum suo onere consequetur adcrescentem portionem. Giuliano poi afferma che, se uno fra gli eredi legittimi avesse rinunciato alla propria quota, essendo stati lasciati fedecommessi a suo carico, il suo coerede non deve essere costretto a prestare i fedecommessi: infatti, la quota spetta al coerede senza pesi. Ma, dopo il rescritto di

467

Sulla legislazione processuale di Settimio Severo, Arcaria 2016, 37 ss.

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Alessia Spina (Settimio) Severo, per il quale i fedecommessi lasciati a carico dell’istituito sono dovuti dai sostituiti, anche il coerede, quasi fosse un sostituito, otterrà la quota, che gli si accresce, gravata dal suo onere.

Il problema affrontato è quello della sorte dei fedecommessi che siano imposti agli eredi legittimi. Giuliano decide che se un coerede, gravato da fedecommessi, abbia rifiutato, la quota si accresce all’altro coerede libera da pesi. Si tratta della disciplina propria dello ius antiquum, per un’ipotesi in cui la lex Papia non avrebbe potuto trovare applicazione, essendo al di fuori della successione testamentaria. Nella seconda parte del brano, Ulpiano esclude la validità della regola e ritiene che i fedecommessi siano dovuti, sulla base di un rescritto di Settimio Severo e Caracalla, che impose al sostituto che venissero pagati i legati e i fedecommessi gravanti sull’istituito: come si è osservato, “il coerede, cui si accresce la quota, è accostabile, per analogia, al sostituto”468. Si può notare come nel primo passo il riferimento sia tanto ai legati quanto ai fedecommessi, mentre nel secondo – come anche nella costituzione dioclezianea che ricorda il rescritto469 – a essere richiamati siano solo i fedecommessi, verosimilmente proprio perché “il carattere precativo e l’origine fiduciaria … vi accentuava la personalità dell’onere”470. Giuliano esclude che i pesi si trasferiscano; Ulpiano supera l’opinione giulianea secondo la quale la quota non accettata da parte dell’erede legittimo gravato da fedecommessi si accresce al coerede sine onere, proprio attraverso il riferimento al rescritto menzionato in D. 30.74 in materia di sostituzione volgare471. Il giurista severiano crea un’analogia tra la figura del coerede e quella del sostituto e citando il rescritto sostiene la generale applicazione del principio di ripetibilità dei legati e dei fedecommessi. La presenza di una repetitio legatorum, che trasferiva l’onere dei legati sui sostituti472, avrebbe escluso l’ipotesi di una istituzione nulla, ossia pro non scripta, determinata dalla morte dell’onerato all’epoca del testamento473. Il richiamo alla repetitio legatorum nel brano ulpianeo ha fatto immaginare che esso dovesse necessariamente essere presente anche nelle previsioni discusse in D. 29.7.14, e fosse poi stato omesso dai compilatori giustinianei: non è da escludersi, ma può anche supporsi che la presenza o meno della repetitio legatorum in quel contesto specifico non risultasse rilevante. Scevola parrebbe non voler affrontare il tema più ampio, come se lo ritenesse scontato laddove non intervenissero elementi tali da spezzare il legame tra primae e secundae tabulae. In questo senso, la sua posizione, sebbene minoritaria, dovette aver segnato l’interpretazione testamentaria del II secolo, e prova ne potrebbe essere il contenuto del rescritto, al quale è stata attribuita in

468 Astolfi 1996, 271 ss., secondo il quale risulterebbe abbastanza evidente che “alla loro volta Severo e Caracalla riconoscevano e accettavano il fondamento equitativo della lex Papia sul trasferimento degli oneri” (p. 273). 469 C. 6.49.4. 470 Così Grosso 1962, 166; Nasti 2010, 194 s. 471 Così Finazzi 1997, 358. 472 In questo senso Beseler 1926, 52. Aderiscono a tale interpretazione e ritengono che il passo acquisisca linearità ammettendo che il testatore abbia inserito con una repetitio legatorum che imponga al sostituto di pagare i legati che gravano sull’istituito, e una confirmatio di codicilli futuri, Voci 1963, 90 e Bretone 2008, 802 s. 473 Secondo Grosso 1962, 169, ciò “dimostrerebbe che tale repetitio non era riferita alla disposizione astrattamente presa in sé nel suo tenore formale, ma ad una valida imposizione ad un onerato esistente”. Cfr. Bretone 2008, 803 e Nasti 2010, 193 s.

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Commento. Quaestionum libri XX letteratura una portata innovativa474, assumendo come regola generale la sopravvivenza dei legati e dei fedecommessi in capo ai sostituti e superando, altresì, la differente natura delle due sostituzioni, volgare e pupillare. Come nella sostituzione pupillare si spezza l’ordo successionis, così con la morte dell’istituito si crea una fattura tra testamento e codicilli confermati e così, ancora, lo svuotamento di fatto del ruolo di erede civile mette in crisi la sopravvivenza dei lasciti (come visto in D. 28.6.38.3, di Paolo). Un’ultima osservazione. La costituzione, versata in D. 30.74 e D. 31.61.1 e ricordata anche dalla dioclezianea C. 6.49.4, del 293, rappresenta un utile indizio per individuare un termine ad quem per la datazione della raccolta di quaestiones. La loro redazione, infatti, non potrebbe immaginarsi successiva all’anno di emanazione del rescritto, in merito al quale non è possibile formulare datazioni certe, essendo piuttosto imprecise anche le fonti che lo richiamano: in D. 30.74 la paternità è attribuita a Settimio Severo e Caracalla, in D. 31.61.1 al solo Settimio Severo, mentre in C. 6.49.4 al solo Caracalla. F. 30 – D. 33.4.10 Nel caso descritto in D. 33.4.10, a Seia viene legato, per vindicationem e disiunctim, un fondo in sostituzione di una dote avente il valore di cento, e il medesimo fondo viene lasciato a un tale Mevio. Seia e Mevio sono quindi collegatari e comproprietari di uno stesso fondo, che per Seia ha la funzione di sostituire quanto le spetterebbe a titolo di dote. Si deve immaginare che il legato colpisca la quota indisponibile di eredità che spetta all’erede, sicché, a Mevio la lex Falcidia, verrebbe normalmente applicata, mentre alla donna non lo sarebbe, e la somma eccedente la quota disponibile potrebbe essere comunque da lei rivendicata. Con una sorta di inciso e attraverso l’artificio retorico della similitudine (pro eo … quasi), il maestro precisa che la parte di legato esuberante la quota disponibile (quod … Falcidia aufert) è come se non rientrasse nel concorso, intendendosi con tale espressione non già il concorso tra azioni cui il legato pro dote avrebbe potuto dare origine (concorso tra azione da legato e actio rei uxoriae, per regolare il quale era stato introdotto l’editto de ulterutro475), bensì il concorso tra collegatari, secondo la consueta valenza del termine concursus all’interno del Digesto476.

474 Si veda per tutti Finazzi 1997, 358 il quale reputa che sia D. 31.61.1 a confermare la portata innovativa del rescritto, escludendo che la giurisprudenza avesse optato già in precedenza per un’interpretazione della volontà del defunto analoga a quella accolta dalla costituzione imperiale. Grosso 1962, 166 ammette che “gli imperatori non hanno innovato su un principio contrario; hanno accordato la loro sanzione, e carattere di generalità, ad un principio interpretativo che si era andato progressivamente affermando nella giurisprudenza, e che, comunque, nella giurisprudenza dei Severi è generalmente accolto”, come dimostrerebbero D. 35.2.87.4; D. 31.77.15: D. 30.126.1; D. 31.82.1; D. 35.2.1.13, per i quali rinvio a Spina 2014, 828 ss. Grosso 1962, 166 s. e nt. 6 non ritiene, però, che l’onere implicito del sostituto possa vantare un’origine risalente alla luce di D. 29.7.14 e che “si tratta di un passo alquanto complesso, forse riassunto da varie prospettive di ipotesi, in cui convergono diverse ragioni del decidere”. 475 Tale editto avrebbe trovato applicazione per le disposizioni mortis causa rese dal marito a favore della moglie, e specificamente per il legatum pro dote, ossia per quel lascito con cui il marito intende tacitare le pretese della moglie. Palazzolo 1968, 78 ss. sostiene che l’editto de ulterutro fosse applicabile esclusivamente al legatum pro dote, e non al legatum dotis. 476 Ulp. 27 ad Sab., D. 7.2.1.3, dove si ricorda l’opinione di Giuliano; Ulp. 27 ad Sab., D. 7.2.1.4; Ulp. 27 ad Sab., D. 7.2.3; Ulp. 21 ad Sab., D. 30.1.34.10, ancora ricordando una posizione giulianea; Iul. 33 dig., D. 30.1.84.12; Cels. 35 dig., D. 32.1.80; Ulp. 3 disp., D. 20.4.7.

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Alessia Spina Dal passo risulta chiaramente che la volontà del testatore abbia inteso creare un legatum pro dote (e non un legatum dotis477) e dunque Scevola non affronta i profili relativi all’onere della prova che Giuliano aveva segnalato (come ricorda Ulp. 5 disp., D. 33.4.2: … hoc amplius Iulianus scripsit, etsi non fuerit adiectum pro dote esse legatum, hoc tamen animo relictum, adhuc eius esse condicionis), e che Giustiniano scioglierà in C. 5.13.1.3a, laddove si stabiliva che, in mancanza di un’esplicita affermazione del testatore, il legato era da intendersi dotis e non già pro dote, sicché la donna avrebbe potuto fare valere la propria pretesa sia con un’actio ex legato, che con un’actio rei uxoriae. In chiusura del breve frammento Scevola giustifica la propria scelta affermando che nella dote della donna vi sarebbe di più. In effetti, osserva come la dote, che il legato è destinato a sostituire per espresso volere del de cuius, avrebbe una consistenza maggiore del mero fondo. Più precisamente, nel tentativo di interpretare la voluntas testatoris, il giurista potrebbe avere ritenuto che se questi avesse prima legato un fondo pro dote alla donna, e poi lo stesso fondo a Mevio, abbia voluto manifestare che il valore della dote, ossia del debito verso la donna, fosse comunque salvaguardato. Nel ragionamento di Scevola, dunque, non risulterebbero decisivi né un pur esistente ma generico favor dotis478, né l’osservazione che, nel legato creato disiunctim, Seia risulta la prima destinataria e Mevio il secondo, tant’è che sarebbe solo con la disposizione a suo favore che la quota indisponibile risulterebbe lesa479. Invero, il problema affrontato da Scevola non doveva essere sconosciuto alla giurisprudenza. Segnalo, in particolare, la riflessione di Terenzio Clemente, il quale ricorda la posizione di Giuliano: Terent. Clem. 4 ad leg. Iul. et Pap., D. 31.53pr.: Cum ab uno herede mulieri pro dote compensandi animo legatum esset eaque dotem suam ferre quam legatum maluit, utrum in omnes heredes an in eum solum, a quo legatum est, actio ei de dote dari debeat, quaeritur. Iulianus in eum primum, a quo legatum sit, actionem dandam putat: nam cum aut suo iure aut iudicio mariti contenta esse debeat, aequum esse eum, a quo ei maritus aliquid pro dote legaverat, usque ad quantitatem legati onus huius aeris alieni sustinere reliqua parte dotis ab heredibus ei praestanda. … 2. Sed de legatis et legis Falcidiae ratione belle dubitatur, utrum is, in quem solum dotis actio detur, legata integra ex persona sua debeat, perinde ac si omnes heredes dotem praestarent, an dotem totam in aere alieno computare, quia in eum solum actio eius detur: quod sane magis rationem habere videtur. Poiché è stato disposto, a carico di un solo erede, un legato in favore della moglie in luogo della dote, con l’intenzione di compensare, e poiché ella preferì prendere la propria dote piuttosto che il legato, si domanda, se le si debba dare l’azione dotale contro tutti gli eredi o soltanto contro colui a carico del quale si è posto il legato. Giuliano ritiene che si debba dare l’azione in primo luogo contro colui a carico del quale si sia legato: infatti, dovendo ella accontentarsi o del suo diritto o della decisione del marito, è equo che colui, a carico del quale

477

Per la differenza si veda Ankum 1984, 41 s. Ankum 1984, 41 s. Come indizio a contrario dell’insufficienza di una spiegazione basata esclusivamente sul principio del favor dotis, si può verificare l’assenza del passo scevoliano in esame nella rassegna di Stagl 2009, passim. 479 Masiello 1999, 224. 478

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Commento. Quaestionum libri XX il marito le aveva legato qualche cosa in luogo della dote, debba sostenere l’onere di questo debito fino all’ammontare del legato, e debba esserle prestata dagli eredi la rimanente parte della dote … 2. Ma riguardo ai legati e al calcolo della legge Falcidia, si discute con eleganza se colui, contro il quale solamente si darebbe l’azione di dote, debba per intero i legati lasciati a carico della sua persona, come se tutti gli eredi prestassero la dote, o debba imputare l’intera dote fra i debiti, perché contro di lui soltanto si dà l’azione per essa; e ciò certamente sembra avere più ragione.

Si sono riportati solamente il principium e il § 2 di D. 31.53. Nel primo rileva la spiegazione fornita da Giuliano, così come riferita da Terenzio Clemente: egli parte dalla considerazione che la moglie, cui sia stato legato un bene in sostituzione della dote, abbia scelto se avvalersi del suo proprio diritto, ovvero accontentarsi della decisione assunta dal marito480. Nell’ipotesi iniziale, a ogni modo, appare aequum che il legatario assolva al proprio obbligo in maniera completa, mentre saranno gli altri eredi a dovere coprire il rimanente debito dotale (usque ad quantitatem legati onus huius aeris alieni sustinere reliqua parte dotis ab heredibus ei praestanda). Pur nella differenza di fattispecie, in Scevola complicata dal regime di comproprietà sul fondo legato, emerge l’idea che il legato pro dote debba essere soddisfatto integralmente anche quando la donna opti per un’azione che le consenta di avere l’intero credito dotale. Ancora più significativo il § 2: Giuliano ritiene che vi sia stata un’elegante discussione proprio in merito all’applicazione della lex Falcidia e nuovamente viene prospettato come preferibile il pagamento dei legati nel loro ammontare complessivo (legata integra). Si può pensare che Scevola si muovesse su una linea alternativa a quella giulianea, preferendo la conservazione del legato nella sua interezza, piuttosto che la riduzione ex lege Falcidia. F. 31 – D. 33.8.21 Il testo, per come risulta trascritto dai compilatori giustinianei, riflette esclusivamente il pensiero giulianeo, non essendovi alcun elemento che consenta di ipotizzare un’adesione a esso di Cervidio Scevola. Neppure è chiaro il motivo per il quale ne venga ricordata la posizione; si è ritenuto in ogni caso di mantenere il brano tra i fragmenta che contribuiscono a ricostruire l’originaria composizione delle quaestiones. [F. 31] coinvolge il rapporto tra schiavi ordinari e schiavi vicari, nonché le relazioni tra i rispettivi peculi481. Con un testamento il servus ordinarius Stico è stato manomesso e a lui è stato legato il proprio peculio. All’interno di tale peculio vi era un servo vicario, il quale viene lasciato in legato a Tizio482. Dunque, un elemento del peculio di Stico viene sottratto al lascito e destinato a un soggetto diverso. Scevola cita la posizione di Giuliano, secondo il quale quanto verrà distratto dai beni del peculio del servo ordinario per soddisfare i crediti del padrone, andrà a favore del destinatario del legato del servo peculiare. Si realizzava in tal modo

480 Secondo Voci 1963, 1013 il testo presupporrebbe “che il legatum pro dote possa avere questa sua funzione anche se ad essa il testatore non accenna espressamente”. 481 Sul servus vicarius, Erman 1986, 423 s. 482 Sulla terminologia utilizzata per citare lo schiavo vicario, che nella commedia plautina era semplicemente il ‘sostituto’ dello schiavo principale si veda Reduzzi Merola 1989, 187 s.; 1990, 254 parla di un “uso eccezionale” dell’aggettivo.

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Alessia Spina un frazionamento del rischio imprenditoriale, in senso verticale: se il vertice economico era unico ed era rappresentato dal dominus e poi dal peculio-madre, affidato al servus ordinarius, si articolavano diversi peculii che venivano gestiti proprio dai servi vicarii negotiatores, nei cui riguardi il servo ordinario esercitava funzioni di direzione e di controllo483. Com’è noto, infatti, che l’ammontare del peculio, che comprendeva beni corporali, crediti e debiti, doveva essere determinato con un’operazione contabile preliminare, che accertasse i rapporti tra servus e dominus484. Il peculio, dunque, subiva una diminuzione per i debiti che lo schiavo aveva nei riguardi del padrone e tale diminuzione avveniva ipso iure e pro rata485, su tutte le cose peculiari, ossia anche sul servus vicarius486. Lo stesso Giuliano, insieme a Celso, viene ricordato come fautore del principio nel passaggio ulpianeo di Ulp. 25 ad Sab., D. 33.8.6pr.487: viene teorizzata la diminuzione pro rata dei singula corpora del peculio legato, in proporzione, appunto, del debito dello schiavo nei confronti del dominus, dei suoi figli e dei suoi compagni di schiavitù. Si è osservato che ne emergerebbe una disciplina diversa rispetto a quella, particolare, prevista laddove nel peculio siano ricompresi servi vicarii. Un utile paragone sembrerebbe fornito da D. 33.8.22pr., dai libri posteriores di Labeone epitomati da Giavoleno: in questa sede non mi soffermerò sul complesso problema dell’attribuzione all’uno o all’altro giurista del pensiero espresso nel frammento, tenendo presente, però, come sia verosimilmente ascrivibile a Giavoleno la nitida riaffermazione del limite oltre il quale non si sarebbe potuto spingere il processo di assimilazione dei rapporti tra schiavo e padrone488. Nei Digesta Iustiniani il brano segue quello in esame e descrive il caso di un servo manomesso cui viene dato in legato il peculio: qualora paghi il proprio debito verso il dominus, egli potrà conseguire le res peculiares nella loro interezza, così presupponendo che, se non paga il proprio debito verso il padrone, esso andrebbe dedotto proporzionalmente proprio dalle res peculiares489:

483 Cerami 2010, 64 ss., ricostruendo il principio dell’inerenza dei peculii dei servi vicarii al peculio del servo ordinario. Tale principio si affermò tra il I secolo a.C., con Servio, e il I secolo d.C., con Proculo e Atilicino (Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.17). Si veda anche Di Porto 1984, 258. 484 Come si legge in Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.9.2-3, il peculio doveva calcolarsi al netto di ciò che lo schiavo deve al padrone; a tale definizione Servio apportò una precisazione, nel senso che il peculio doveva calcolarsi anche al netto di quanto egli eventualmente dovesse alle persone che sono in potestate del padrone. Più precisamente, lo stesso Servio in un responso avrebbe chiarito il principio per cui “ciò che il servo ordinario deve ai suoi vicari non va dedotto dal peculio del servo ordinario, perché il peculio dei servi vicarii è compreso nel peculio dell’ordinario; mentre si deduce dai peculii dei servi vicarii, ciò che il servo ordinario deve al padrone”. Cfr. Amirante 1983, 4 ss. e in particolare 13 ss. 485 Così Voci 1963, 333 s., richiamando Ulp. 25 ad Sab., D. 33.8.6.1. 486 Il primo giurista che parrebbe essersi interessato a disegnare i rapporti tra le due categorie di servi fu verosimilmente Servio, in un’epoca in cui si andavano affermando forme di attività commerciali articolate attraverso diversi livelli di negotiationes: si vedano Schiavone 2017, 249 ss.; Reduzzi Merola 1989, 189. L’eco serviana – verosimilmente passata attraverso la lettura di Giuliano – potrebbe rinvenirsi anche nella coincidenza tra l’incipit di D. 33.8.21 con quello del già citato Alf. 2 a Paul. epitomat., D. 33.8.15. 487 Ulp. 25 ad Sab., D. 33.8.6pr.: Si peculium legetur et sit in corporibus, puta fundi vel aedes, si quidem nihil sit, quod servus domino vel conservis liberisve domini debeat, integra corpora vindicabuntur: sin vero sit, quod domino vel supra scriptis personis debeatur, deminui singula corpora pro rata debebunt. et ita et Iulianus et Celsus putant. 488 Stolfi 2009, 20, il quale richiama una forma “asimmetrica e sbilanciata”. Per la prospettazione del problema, Mantovani 1988, 271 ss. 489 Così Reduzzi Merola 1990, 255.

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Commento. Quaestionum libri XX Lab. 2 post. a Iav. epit., D. 33.8.22pr.: Dominus servum testamento manumiserat et ei peculium legaverat: is servus mille nummos domino debuerat et eos heredi solvit. respondi omnes eas res deberi orcino, si pecuniam orcinus quam debuerat solvisset. Un padrone aveva manomesso per testamento uno schiavo e gli aveva lasciato in legato il peculio; tale schiavo aveva assunto un debito di mille monete nei confronti del padrone e le pagò all’erede. Ho risposto che tutte quelle cose sono dovute al servo manomesso per testamento, se questo schiavo avesse pagato il denaro che era dovuto.

Una volta pagato il debito all’erede, il servo manomesso ha diritto a tutte le cose comprese nel peculio. Nel caso proposto da Scevola, avvenuto ciò, sul legatario del servo vicario – di cui il servo ordinario, come detto, è contitolare – incombe l’obbligo di corrispondere la parte proporzionale del debito. Ciò consentirebbe al legatario di mantenere comunque il bene nella sua interezza. Un’interpretazione alternativa, basata su un brano di Giuliano di contenuto analogo a quello in esame, merita di essere almeno menzionata. Si è ritenuto che siano stati omessi elementi della fattispecie che avrebbero potuto meglio giustificare l’opinione giulianea richiamata da Scevola. In particolare, si è detto che l’elemento omesso nella narrazione sarebbe rappresentato dalla specificità del credito vantato dal dominus, e poi dall’erede di questi, nei riguardi dello schiavo manomesso: il credito, nel caso di specie, sarebbe rappresentato dalla differenza tra quanto lo schiavo ordinario avrebbe pagato per l’acquisto del vicarius e quanto, invece, dichiarato al dominus. La somma effettivamente pagata sarebbe stata più alta rispetto a quella asserita, e la differenza di valore avrebbe costituito, appunto, un credito del padrone: essa, nel nostro caso, però, andrebbe al legatario, beneficiario ultimo490. A conferma di tale interpretazione si può leggere: Iul. 12 dig., D. 15.1.37.1: Si servo tuo permiseris vicarium emere aureis octo, ille decem emerit et tibi scripserit se octo emisse tuque ei permiseris eos octo ex tua pecunia solvere et is decem solverit, hoc nomine duos aureos tantum vindicabis, sed hi venditori praestabuntur dumtaxat de peculio servi. Se avrai permesso al tuo schiavo di comprare uno schiavo vicario per otto aurei, egli lo abbia comprato per dieci e ti abbia scritto di averlo comprato per otto e tu gli abbia consentito di pagare quegli otto dal tuo patrimonio, mentre egli abbia pagato dieci, a tale titolo rivendicherai soltanto due aurei, ma questi saranno dati al venditore soltanto dal peculio del servo.

La ratio applicata da Giuliano potrebbe coincidere con quella dallo stesso giurista utilizzata per decidere la quaestio di D. 33.8.21: la differenza di valore tra il prezzo pagato e quello dichiarato dal servo ordinario per l’acquisto del vicario va pagata ai destinatari ultimi del vicario, ossia al terzo venditore in D. 15.1.37.1 e al legatario in D. 33.8.21. Se si ammette che la prospettiva della quaestio scevoliana, del tutto eliminata dai compilatori giustinianei, fosse l’applicazione della lex Falcidia, si potrebbe proporre un ulteriore

490

Masiello 1999, 224 s.

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Alessia Spina tentativo di comprensione. Forsee Giuliano intendeva affermare che quanto detratto dal peculio dello schiavo ordinario, comproprietario del vicario, si aggiungesse al valore del servo vicario quale elemento contabile contribuendo a rappresentare la parte da sottoporre a un’eventuale riduzione ex lege Falcidia. F. 32 – D. 35.1.80 La parte iniziale del frammento è stata oggetto di un’ampia discussione, con significativi dubbi sulla tradizione del testo, sollevati già dalla letteratura tedesca più risalente491. Mommsen segnala come in alcuni manoscritti sia assente la negazione non che precede l’espressione ‘pro condicionalibus’, ma poi sceglie di inserirla nella sua edizione critica. Sulla base di tale evidenza diplomatica diversi autori hanno ricostruito il senso del passo omettendo la negazione: Scevola affermerebbe che le disposizioni che impediscono di agire immediatamente, se contenute all’interno di fedecommessi, dovrebbero essere valutate alla stregua di condizioni492. Vi è stato chi, come Lenel, elimina la negazione che precede pro condicionalibus, ma propone l’inserimento di un non prima di repellunt. Il senso dell’opinione di Scevola sarebbe, dunque, di considerare come assimilabili alle condizioni le clausole che non sospendono l’esercizio dell’azione: in tal modo risulterebbe superflua la parte centrale del brano, da eas vero a oblata, ritenuta da Lenel di origine compilatoria sulla base dei sospetti relativi al vocabolo sumptus e all’espressione admittere causas493. Riscontriamo, altresì, letture tese a salvare la genuinità del testo nel suo complesso: secondo Scheurl, ad esempio, Scevola, con l’espressione ‘quae protinus agentem repellunt’ descrive le clausole che non permettono all’onorato di agire con un’actio ex legato494. Si tratterebbe, dunque, di previsioni che sposterebbero il dies cedens, ma non trasformerebbero il lascito in condizionato495. Occorre, invero, distinguere i due profili, quello propriamente filologico, attinente alla presenza e alla collocazione di una negazione all’interno del brano, e quello relativo alla possibile origine tribonianea dell’inciso eas vero … oblata. Circa il primo profilo, preferisco accogliere la versione della littera Florentina, conservando, dunque, la dicotomia che Scevola propone – e che costituisce la novità della sua posizione – tra condizione e modo. Che tale contrapposizione rappresenti il nucleo originale della quaestio

491 Sospetti emergono dal cenno che fa al passo Savigny 1900, 305. Nello stesso senso Puchta 1849, 133 e nt. 2; Pernice 1873, 13 nt. 3; Beseler 1911, 60 (che propone l’emenda di condicionalibus al posto di condicionibus, senza che la sostituzione cambi il senso del passo); Messina Vitrano 1914, 29 ss.; Le Bras 1936, 48 nt. 182, Biondi 1943, 566 nt. 5. Salva la presenza del non, ma sostiene la natura insiticia dell’intero frammento Haymann 1905, 81 e nt. 1. 492 Una simile lettura rischierebbe, però, di svuotare di valore l’ultima parte del testo, laddove il maestro distingue la clausola propriamente condizionale, ‘si monumentum fecerit’, dalla clausola modale, ‘ut monumentum faciat’. Sul punto Di Salvo 1979, 111 s. 493 Lenel 1889 II, 279 nt. 1 (non ins) e nt. 2: eas vero, quae habent moram cum sumptu(!), admittemus (causas admittemus) cautione oblata Trib. 494 Scheurl 1854, 252 s. 495 Critico è Masiello 1999, 131, secondo cui Scheurl non avrebbe colto “il reale punto di attacco della quaestio discussa da Scevola”. Cfr. Di Salvo 1979, 110.

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Commento. Quaestionum libri XX parrebbe emergere anche dalla versione dei Basilici (B. 44.19.77): ἐὰν ληγατεύσω σοι ἐπὶ τῷ μνημεῖόν μοι ποιῆσαι, οὐκ ἔστιν αἱρετικόν· εἰ δὲ ληγατεύσω, ἐὰν ποιήσῃς μοι μνημεῖον, ἔστιν αἱρετικόν. Nel discorso del nostro giurista, invero, assume rilevanza anche la specificazione in fideicommissis: con essa l’affermazione verrebbe circoscritta alle clausole introdotte da ita ut presenti all’interno di fedecommessi. Scevola isolerebbe, all’interno della più ampia categoria delle clausole che impediscono di agire immediatamente nel processo, quelle contenute nei fedecommessi, che non richiedono di essere sovrapposte alle clausole condizionali. L’inciso in fideicommissis, infatti, chiarirebbe come la tutela fedecommissaria risulti idonea a rendere coercibile il modo, sicché non è richiesto l’impegno, di natura civilistica (oportet), e è richiesto, invece, per le condizioni vere e proprie. In questa prospettiva, la posizione di Scevola si distanzia da quella della giurisprudenza precedente, valorizzando la petitio fideicommissi come importante strumento di tutela della voluntas testantis496, come tra poco si tenterà di illustrare. Circa il secondo profilo, relativo all’ipotesi di una mano compilatoria sull’inciso centrale, non credo sia da accogliere la tesi abbracciata, tra gli altri, anche da Lenel, ritenendo, invece, sia di Scevola la specificazione per cui, laddove la disposizione preveda un termine (mora) e possa determinare una spesa, allora ritornerebbe imprescindibile lo strumento della cautio497. Gli argomenti che hanno condotto a ipotizzare un intervento giustinianeo sono molteplici. Si può ammettere che il periodo sospettato sia forse poco elegante nella forma e che l’utilizzo della prima persona plurale admittemus e del complemento oggetto causas (vocabolo raro nella designazione delle clausole testamentarie) possano sollevare dubbi di autenticità. Inoltre, un indizio nel senso dell’inserimento compilatorio potrebbe derivare dalla lettura del papinianeo D. 35.1.79pr.498, testo che precede, nell’antologia giustinianea, il brano in esame. In esso si illustra la differenza tra dies e condicio, e il termine iniziale viene indicato con il vocabolo mora, ossia lo stesso vocabolo presente nel brano scevoliano. Per un’attrazione connessa a una volontà sistematica, i compilatori del Digesto avrebbero potuto avere aggiunto una frase superflua, ma collegabile al testo precedente, mantenendo il riferimento alla cautio che nel VI secolo è ancora lo strumento fondamentale per sanzionare il modo499. Le esposte argomentazioni appaiono però prive di una forza sufficiente a fondare l’espunzione del periodo, anche in considerazione del fatto che, ammettendosene l’origine compilatoria, l’aggiunta nulla avrebbe modificato rispetto al regime classico: verrebbe riproposto il richiamo alla cautio, che nel II secolo rappresentava la modalità privilegiata di tutela delle disposizioni modali. Piuttosto, il riferimento de quo acquista significato proprio all’interno del

496 Cfr. Spina 2012, 272 ss. per il tentativo di illustrare il complesso rapporto tra legati, fedecommesso e oneri nella giurisprudenza del II secolo e soprattutto nella riflessione casistica di Scevola. Cfr. Voci 1963, 626. 497 Scrive Masiello 1999, 131, che “il modo, importando un sumptus e una mora e ammettendo una cautio, – necessaria quest’ultima, se il beneficiario del lascito che agisse per l’adempimento non voleva incorrere nell’opposizione da parte dell’erede di una exceptio doli –, è nella sua configurazione ontologica e funzionale diverso dalla condizione”. 498 Pap. 1 def., D. 35.1.79pr.: “Heres meus, cum morietur Titius, centum ei dato”. Purum legatum est, quia non condicione, sed mora suspenditur: non potest enim condicio non exsistere. 499 Di Salvo 1979, 112 e nt. 67.

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Alessia Spina discorso di Scevola, il quale, dopo avere ricordato che le clausole modali presenti nei fedecommessi conoscono un autonomo mezzo di protezione giudiziaria, segnala come, per tutti i casi in cui il modo sia escluso dalla tutela fedecommissaria, l’unica possibilità di tutela sia offerta dalla cautio. Non vi sarebbe necessità di ipotizzare un intervento additivo né meramente ricognitivo di mano giustinianea, dunque, sebbene appaia verosimile che il testo, così come a noi giunto, abbia potuto subire tagli, determinando un esito stilisticamente dubbio. D’altra parte, il problema dell’interpretazione della clausola introdotta da ‘ita ut’ e della relativa sanzione non doveva rappresentare una novità nel dibattito giurisprudenziale; basti ricordare un noto passo di Labeone compendiato da Giavoleno: Iav. 2 ex post. Lab., D. 35.1.40.5: Thermus minor quorum arbitratu monumentum sibi fieri vellet testamento scripserat, deinde ita legaverat: “Luciis Publiis Corneliis ad monumentum meum aedificandum mille heres meus dato”. Trebatius respondit pro eo habendum ac si ita legatum esset, si satisdedissent se ita id monumentum ex ea pecunia facturos. Labeo Trebatii sententiam probat, quia haec mens testantis fuisset, ut ea pecunia in monumentum consumeretur: idem et ego et Proculus probamus. Termo il giovane aveva scritto nel testamento le persone ad arbitrio delle quali voleva che fosse fatto il suo monumento, e poi così legò: “Il mio erede dia ai Lucii e ai Publii Cornelii una somma di mille, perché edifichino il mio monumento”. Trebazio risponde che si deve ritenere come se fosse legato così: se avranno garantito di fare con quel denaro il monumento in quel modo. Labeone approva il parere di Trebazio, poiché l’intenzione del testatore era stata che venisse impiegata quella somma per l’erezione del monumento: anche io e Proculo sosteniamo lo stesso.

La nuova costruzione trebaziana, che considerava il legato modale come un lascito sottoposto alla condizione di cavere, appariva in grado di risolvere il problema concreto di rendere effettiva la volontà del testatore espressa in un onere di facere500. Essa, inoltre, era ritenuta persuasiva da numerosi i giuristi anche appartenenti a scuole diverse. Non pare si possa escludere che Scevola abbia svolto una quaestio suggerita dal precedente giurisprudenziale ampiamente recepito, anche in considerazione del fatto che, proprio nel libro VIII quaestionum, altre volte egli sembra svolgere temi cari a Giavoleno (come suggerirebbe il testo di D. 33.8.21 [F. 30] sul servo vicario) e ricordare posizioni di Proculo (basti rammentare la disputa descritta in D. 29.7.14 [F. 29]). Anzi, proprio l’esemplificazione scelta dal maestro in quella che oggi risulta la chiusa di D. 35.1.80, identica a quella prescelta da Trebazio, rafforzerebbe una simile ipotesi501. Ne emergerebbe una sequenza giurisprudenziale che da Tre-

500 Sull’attribuzione a Trebazio della paternità della finzione la letteratura è univoca; ex multis, si vedano sul passo e sui rapporti tra i giuristi citati: Messina Vitrano 1914, 10; Biondi 1943, 569; Wieacker 1971, 349 nt. 42; Wieacker 1977, 343 nt. 116; Mantello 1979, 356 ss.; Honorè 1981, 242 nt. 95; Talamanca 1985, 164 s.; Bretone 1987, 265 e nt. 53; Johnston 1988, 27 s.; Mantovani 1988, 296 s., nt. 67 e 320, nt. 134; Finazzi 2006b, 21 ss.; 155; 157; 247; Spina 2012, 268 ss. In particolare se ne occupa Di Salvo 1973, 95 ss. che lo considera “testo essenziale per la conoscenza del regime dell’istituto nel I secolo d.C.”. 501 E la rafforza anche ammettendo, come si è detto, che la costruzione di un monumentum rappresenta una mera esemplificazione, che solo in via occasionale avrebbe determinato la decisione del giurista tardorepubblicano: Le Bras 1936, 48 s.

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Commento. Quaestionum libri XX bazio arriva a Scevola, passando attraverso il pensiero di Labeone, di Giavoleno e di Giuliano, il quale non viene espressamente evocato, ma sembra presente alla riflessione scevoliana. Dal precedente autorevole, però, Scevola si discosterebbe, segnando una cesura, non accettando il fittizio adeguamento del modo alla condizione e, anzi, affermando decisamente la differenza ontologica e funzionale dei due tipi di disposizione502, forse proprio nella prospettiva, comune a diversi frammenti sopravvissuti del libro VIII quaestionum, di valutare i criteri di applicazione della lex Falcidia503. Sotto altro profilo, peraltro, la riflessione si pone su un piano teorico che dovette apparire, già al maestro stesso, anticipatore di un’organizzazione della materia non ancora corrispondente alla prassi del II secolo. Basti ricordare che lo stesso Scevola, nei digesta, riporta letteralmente un testamento in cui la clausola modale è definita, dal richiedente il parere, condicio (“Quod si condicione supra scripta recipere legatam sibi pecuniam civitas Sebastenorum noluerit, nullo modo heredes meos obligatos ei esse volo, sed habere sibi pecuniam”)504, e ancora egli, sintetizzando il casus sottopostogli, sceglie di utilizzare un vocabolo che, alla luce di quanto si legge nelle quaestiones, apparirebbe per lo meno impreciso (quaesitum est, an, si res publica condicionibus testamento adscriptis postea non paruerit, legatum ad filios heredes pertineat). La stessa necessità di definire causae le disposizioni modali – con un significato che risulterebbe un hapax nei frammenti dei Digesta Iustiniani – parrebbe spia di un’irrisolta difficoltà sistematica, sconosciuta alla giurisprudenza di età tardorepubblicana e ancora a quella del I secolo, che tentarono di superarla attraverso l’assimilazione fittizia alla condicio505. F. 33 – D. 35.2.19 Il brano propone un breve stralcio di una quaestio più ampia, collocata dai commissari giustinianei nel titolo del Digesto dedicato all’applicazione della lex Falcidia. Si descrive il caso di un erede in capo al quale sia posto, con un legato per damnationem, l’obbligo di vendere a cinque un fondo il cui valore è stimato in dieci. Il dubbio sottinteso è il seguente: se il valore da considerare ai fini del calcolo della Falcidia sia cinque, ossia quanto concretamente detratto dall’eredità, oppure sia dieci, ossia la stima reale del fondo. Scevola ritiene che alla Falcidia dovranno senz’altro (sine dubio) essere imputati i cinque, corrispondenti a quanto effettivamente è stato tolto all’eredità e a quanto l’erede sia stato obbligato a vendere in forza del contenuto del legato stesso506. Il precedente giurisprudenziale cui Scevola parrebbe ispirarsi è giulianeo:

502

Di Salvo 1973, 99; Spina 2012, 584. Di Salvo 1973, 99 e nt. 24 suppone che Scevola dovesse avere illustrato già gli effetti della Falcidia sui legati condizionali. 504 Scaev. 22 dig., D. 33.1.21.3. Cfr. Di Salvo 1973, 104 nt. 40. 505 Chiarisce Voci 1963, 621, che “la cautio è un rimedio cui si ricorre quando l’adempimento non può essere immediato … Non meraviglia, pertanto, che il termine condicio sia adoperato talvolta per indicare il modo”. Tale fictio, però, è bene ricordare, non avrebbe avuto un’efficacia iure civili, poiché il diritto del legatario non sarebbe stato sospeso in attesa della prestazione della cauzione, bensì solamente reso inoperante con una denegatio actionis, ovvero con un’exceptio doli (ancora Voci 1963, 621). 506 Voci 1963, 761 e nt. 37. 503

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Alessia Spina Iul. 61 dig., D. 35.2.87pr.: Qui fundum solum in bonis centum relinquebat, si heredem suum damnaverit, ut eum quinquaginta Titio venderet, non est existimandus amplius quam quinquaginta legasse, ideoque lex Falcidia locum non habet. Colui che lasciava tra i beni un solo fondo del valore di cento, se aveva ordinato al proprio erede di venderlo a Tizio per cinquanta, non bisogna computare come legato più che cinquanta e perciò la Falcidia non ha luogo.

La versione di D. 35.2.19 appare dotata di una portata più generale e indirizzata alla mera applicazione della lex Falcidia: manca, infatti, il passaggio logico corrispondente al momento in cui Giuliano fissa il valore del legato de quo (non est existimandus amplius quam quinquaginta legasse), precisando che ai fini della Falcidia non occorre computare più della differenza che si è persa a danno dell’asse ereditario. Scevola, invece, passa subito a indicare – almeno per quanto oggi è dato leggere – il valore che si debba tenere in considerazione per il calcolo della quota disponibile (sine dubio quinque erunt imputanda Falcidiae). In D. 35.2.87, il discorso prosegue articolandosi in una pluralità di ulteriori fattispecie, che non trovano una corrispondenza nella restante produzione scevoliana, ma rafforzano l’idea che il frammento in esame rappresenti un passaggio isolato di quella che dovette essere un’assai più complessa quaestio, salvato dai compilatori forse perché dotato di una portata quasi generale e precettiva. La disciplina entro cui si collocano i frammenti di Giuliano e Scevola può essere così sintetizzata. Nel caso di legato a vendere a un prezzo inferiore al normale, il beneficio del legato consisterà nella differenza, che andrà imputata nella massa dei legati. Tuttavia, la somma di denaro effettivamente incassata andrà imputata nella quarta, perché sostituisce il valore di una res hereditaria, sebbene solo in modo parziale. Diversamente, poi, se all’erede si impone di comprare a un certo prezzo, la differenza che eccede il valore effettivo della cosa – ossia il reale detrimento dell’eredità – va imputata tra i legati, mentre la cosa acquistata va imputata tra i beni ereditari507. Si tratta di regole note e bene espresse anche da Meciano, giurista tributario del pensiero di Giuliano e di poco precedente all’età di Scevola508: in un lungo frammento conservato nel medesimo titolo Ad legem Falcidiam e proveniente dall’opera dedicata ai fedecommessi, egli distingue il caso di legato a vendere a un prezzo inferiore al normale, dal caso di legato ad acquistare a un prezzo superiore al normale e precisa come imputare le somme. Maec. 8 fideic., D. 35.2.30.1: Vendere autem vel emere iussus certo pretio fundum aliamve quampiam rem in legis Falcidiae ratione, cum quantum sit legatum requiratur, tantum eo nomine inducetur, quanto pluris minorisve sit res ea quantitate, quam quo pretio testator accipi darive iussit, sed ut ei quidem portioni, quae legatis deductis facienda erit, amplius deducetur: quippe non nostri causa capi id pretium, sed eo deducto pretium reliquum legatum esse intellectum est. Ordinato di vendere o di comprare ad un certo prezzo un fondo o un altro bene ereditario, nel calcolo della legge Falcidia, dovendosi domandare quanto sia il legato, tanto a quel titolo è

507

Voci 1963, 764. Sul giurista si vedano i contributi monografici di La Pira 1933, passim; Fanizza 1982; Ruggiero 1983; Minale 2020, 223 ss e nt. 25. 508

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Commento. Quaestionum libri XX computato, quanto in più o in meno valga il bene di quella quantità che il testatore ha ordinato che venisse ricevuta o data, ma una somma più ampia sarà dedotta a quella porzione che risulterà una volta tolti i legati, giacché si è ritenuto che ad essere stato legato è non quanto si è preso a titolo di prezzo, bensì quello che rimane una volta dedotta quella somma.

Il brano mecianeo rappresenta un momento cronologicamente intermedio tra la scrittura di Giuliano e quella di Scevola. Sebbene il maestro antonino abbia quale costante riferimento giurisprudenziale proprio Giuliano, si potrebbe pensare che, per questa particolare quaestio, sia Meciano a rappresentare la fonte diretta e privilegiata. La suggestione deriva dall’unico frammento sopravvissuto dal libro IX delle quaestiones scevoliane: in D. 35.2.20 [F. 34], dagli stessi compilatori giustinianei collocato in posizione consecutiva a quella del brano in esame, l’opinione di Meciano – riconducibile al libro VIII dell’opera de fideicommissis – in materia di applicazione della lex Falcidia, è citata da Scevola adesivamente.

LIBRO IX Del IX libro delle quaestiones di Cervidio Scevola i Digesta Iustiniani conservano un unico frammento, D. 35.2.20 [F. 34], in materia di legati e fedecommessi, come l’intero libro VIII che lo precede e che, nella sequenza palingenetica leneliana, si chiude con D. 35.2.19 [F. 33]. Si ripropone, così, la scelta dei compilatori giustinianei di mettere uno di seguito all’altro passi scevoliani provenienti dai due successivi libri. In particolare, nella ricostruzione di Lenel, il libro IX sarebbe dedicato, nell’ambito dell’editto de legatis, alla cautio fructuaria (ut usus fructus nomine caveatur509), sebbene non siano rinvenibili elementi testuali che giustifichino una simile specifica collocazione. Il richiamo a Meciano presente nel testo, rimanderebbe, invero, a un commento alla lex Falcidia510, e ciò potrebbe indurre a pensare che, nel libro IX, come nei precedenti, la trattazione fosse genericamente dedicata ai lasciti a titolo particolare e all’applicazione della loro riduzione ex lege. F. 34 – D. 35.2.20 Il brano è costituito da un nucleo di pensiero che Scevola attribuisce a Meciano, in materia di applicazione della lex Falcidia ai legati acquistati dal dominus per il tramite dei suoi schiavi. Nel caso in cui su di una stessa persona confluiscano la qualifica di erede e quella di legatario, secondo Meciano, il legato non è dovuto e non verrà conteggiato nella Falcidia511. Come suggerisce Lenel512, il passo mecianeo cui Scevola si riferisce è riprodotto dai compilatori giustinianei in D. 35.2.30.8, dall’opera de fideicommissis513:

509 510 511 512 513

Lenel 1889 II, 279; Lenel 1927, 366 e 368. Lenel 1889 I, 583, fr. 41. Masiello 1999, 226, lo definisce un brano “che ha la consistenza di una regola”. Lenel 1889 II, 279, nt. 3. Sull’identità tra il passo di Meciano e quello di Scevola, Minale 2020, 226 ss.

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Alessia Spina Maec. 8 fideicomm., D. 35.2.30.8: Cum lex Falcidia intervenit, non veniunt in contributionem, quae ipsi heredi a semetipso vel servo eius legata fideive commissa sunt. alia causa est eorum, quae in die certa dantur: nam si libertatis dies coepit cedere, ei debebuntur et in contributionem veniunt. ac ne ea quidem, quae quis servis suis inutiliter sine libertate legavit fideive commisit, in computationem eius legis cedunt. Quando interviene la legge Falcidia, non sono ricomprese nel calcolo le cose che, allo stesso erede da lui stesso o dal suo servo sono state legate o date in fedecommesso. Diversa è la causa delle cose che sono date entro un certo termine: infatti se il termine della libertà è iniziato a decorrere, a lui saranno dovute e ricadranno nel calcolo. Ma nemmeno quelle cose che qualcuno abbia legato inutilmente ai propri servi senza la libertà o abbia loro dato in fedecommesso, cadranno in compensazione della legge.

Rileva la prima parte del passo, perché richiama la fattispecie oggetto della quaestio: se all’erede sono state legate o date in fedecommesso (ma la duplice previsione è assente nel testo di Scevola) cose attribuite da lui stesso o dal suo servo (ed è quest’ultima l’ipotesi di D. 35.2.20), esse non rientrano nel computo della Falcidia. A parere di Meciano, legati così concepiti sarebbero nulli514, come si evince dal successivo paragone proposto con il caso dei legati sottoposti a termine515, la cui sorte diverge: questi ultimi, infatti, hanno una diversa causa e, al contrario dei primi, debebuntur et in contributionem veniunt516. La ratio che ispira le decisioni dei due giuristi appare evidente: se le due figure di erede e di legatario si confondono, cessa la necessità di tutelare l’erede attraverso la Falcidia. Il medesimo trattamento viene riconosciuto anche in caso di applicazione della quarta ex Pegasiano, non essendoci differenza di computo derivante dal fatto che si tratti di legati o di fedecommessi517: ed è probabile che a tale ultima ipotesi si riferisse la riflessione di Scevola.

LIBRO X

I Digesta Iustiniani conservano un solo brano riconducibile al libro X delle quaestiones: si tratta di un passaggio di D. 28.6.10.6 [F. 35], dal libro IV del commentario ad Sabinum di Ulpiano. Nella ricostruzione di Lenel, il X dei libri quaestionum, come i due precedenti, sarebbe dedicato

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Così Voci 1963, 766 nt. 57. Come osserva Grosso 1962, 354, nei legati sottoposti a termine, prima della scadenza, i frutti della cosa venivano acquistati dall’erede, sicché si verificava un acquisto ereditario da parte dell’erede e, conseguentemente, una diminuzione di valore del legato medesimo. 516 Sui passi Ferrini 1889, 487 ss.; Biondi 1955, 384 ss.; Santalucia 1975, 130 s.; Manthe 1989, 153 e nt. 106, che ricostruisce un ‘Präfideikommiß’; 165 e nt. 42. 517 Voci 1963, 766. 515

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Commento. Quaestionum libri XX alla materia de legatis et fideicommissis. In particolare, sarebbe riferibile – ma Lenel manifesta significative perplessità – alla clausola edittale legatorum servandorum causa518. Più precisamente, il richiamo di D. 28.6.10.6 all’ammissibilità della sostituzione pupillare dell’arrogato anche per la quarta si giustificherebbe in sede di trattazione dell’hereditas fideicommissaria519. In questa sede accetto la proposta leneliana e il riferimento alla cautio, sebbene la proposta non si fondi su inequivocabili dati testuali: ma individuare un’alternativa appare ben difficile. Significativo sembra un dato: Ulpiano cita Scevola nel commento alle clausole de testamentis e, specificamente, De institutione condicionali, entro cui andrebbe direttamente ricondotta la sostituzione pupillare, oggetto precipuo della riflessione ulpianea520. F. 35 – D. 28.6.10.6 Il brano rappresenta una testimonianza indiretta del pensiero di Cervidio Scevola, trasmesso da Ulpiano nel libro IV del commentario di ius civile. Lenel attribuisce a Scevola tutta la prima parte del brano, dall’esordio sino a habet rationem e ritiene, invece, ulpianea la sola chiusa da ego a reliquit521, che esclude dalla ricostruzione palingenetica. Ho ritenuto opportuno riportare l’intero passo dei Digesta Iustiniani, considerando propriamente scevoliana solo la parte da Scaevola a permittendum. Si è detto che quest’ultimo verbo ricorrerebbe con particolare frequenza nel lessico ulpianeo522: tuttavia, la non trascurabile presenza di permittere anche nelle opere di Scevola – e nelle stesse quaestiones, proprio nel riprodurre la previsione di una lex – induce a non escludere che oltre al pensiero, anche i pochi verba riportati da Ulpiano siano di paternità scevoliana523. D’altra parte, i Digesta Iustiniani testimoniano come Scevola conoscesse e fosse autorevole interprete dei provvedimenti di Antonino Pio524, e che lo stesso giurista severiano, come già notato, fosse solito commentare costituzioni del divus Pius richiamandosi all’opinione di Scevola. Contrariamente a quanto propone Lenel, quindi, preferisco, invece, attribuire a Ulpiano anche il commento secondo cui la decisione del maestro sarebbe dotata di una ratio (quae sententia habet rationem)525.

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Lenel 1889 II, 279; Lenel 1927, 366 e 369. Precisa, infatti, Lenel 1889 II, 279, nt. 4 come il giurista avrebbe aggiunto la precisazione in sede di trattazione de fideicommissaria hereditate. Appare verosimile che il dubbio precipuo sia sorto in Ulpiano circa la possibilità che la quarta divi Pii possa essere gravata di legati o fedecommessi, dal momento che la prima si acquista ope legis, i secondi ex iudicio testatoris, come si evince da Marcian. 8 inst., D. 30.114.1 e Gai. 1 fideicomm., D. 32.2 nonché più chiaramente da Ulp. 26 ad Sab., D. 1.7.22.1. 520 Lenel 1889 II, 1028, fr. 2456. In particolare, Lenel 1889 II, 1026, nt. 2 ritiene di dovere precisare: “Haec quoque ad rubricam ‘de institutione condicionali’ videntur esse referenda: de substitutione enim pupillari ex professo non hoc loco, sed libro sexto agitur, v. fr. 2468 ss.”. 521 Lenel 1889 II, 279. 522 Così De Bonfils 1998, 214 e in particolare ntt. 52 e 53. Secondo l’Autore, l’utilizzo del verbo permittere fatto dal giurista severiano “lascia l’impressione che Ulpiano senta quasi una necessità psicologica di aggiungere alle sue affermazioni la forza che deriva dall’autorità esterna”. 523 Si ritrova il verbo in Scaev. 20 dig., D. 25.4.4; Scaev. 6 quaest., D. 28.2.29.15; Scaev. 16 dig., D. 32.34.1; Scaev. 4 regul., D. 48.5.15(14).2. 524 Si possono ricordare Scaev. 18 dig., D. 32.37.5 e Scaev. 4 resp., D. 34.1.13.1. Per una ricognizione dei provvedimenti che le fonti attribuiscono ad Antonino Pio, Labruna 1962, 1 s. e in particolare nt. 3. 525 Si tratterebbe, infatti, di un’espressione tipicamente ulpianea, come dimostrano le ricorrenze raccolte da Honorè 1982, 68 e nt. 317b. 519

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Alessia Spina La citazione di Scevola si riferisce a un problema di sostituzione pupillare (e sotto tale titolo i commissari giustinianei collocano il brano): Ulpiano, commentando il pensiero di Sabino (al quale si riconduceva la creazione di un diritto alla quarta Sabiniana526), si occupa di fattispecie particolari, come prova il testo che nel Digesto precede quello in esame: Ulp. 4 ad Sab., D. 28.6.10.5: Ad substitutos pupillares pertinent et si quae postea pupillis obvenerint: neque enim suis bonis testator substituit, sed impuberis, cum et exheredato substituere quis possit: nisi mihi proponas militem esse, qui substituit heredem hac mente, ut ea sola velit ad substitutum pertinere, quae a se ad institutum pervenerunt. Ai sostituiti pupillari spettano anche le cose che ai pupilli siano toccate dopo (la morte del testatore): infatti, il testatore non sostituisce per i suoi beni, ma per quelli dell’impubere, potendo qualcuno sostituire anche per il diseredato: a meno che tu non mi raffiguri che ci sia un soldato, che sostituì l’erede con questa intenzione, che voglia spettino al sostituto quelle sole cose che da lui pervennero all’istituito.

Nel brano sarebbe riconoscibile una posizione propriamente sabiniana (corrispondente alla parte del testo da ad substitutos a obvenerint)527, cui Ulpiano aggiunge la considerazione secondo cui con la sostituzione pupillare il testatore nomina un erede per il pupillo riguardo al patrimonio di quest’ultimo, non già per i propri beni. Ribadita tale concezione, il giurista segnala un’eccezione, rappresentata dal caso del testamento militare: il testatore poteva decidere che al sostituto spettassero solamente i beni che appartenevano al testatore stesso. Una fattispecie ugualmente eccezionale (il quoque iniziale lo segnala) è quella descritta da D. 28.6.10.6, in materia di sostituzione dell’arrogato impubere528. Nella disciplina generale, i principi in tema di sostituzione pupillare si intersecavano con il regime dell’arrogazione. In caso di premorienza dell’impubere rispetto all’arrogatore, i beni acquisiti dall’arrogatore al momento dell’arrogazione andavano restituiti a coloro che li avrebbero ereditati se non vi fosse stata arrogazione; in caso, poi, di morte tanto dell’arrogatore, quanto dell’arrogato, pure i beni acquistati per mezzo dell’impubere durante il rapporto di potestà dovevano essere restituiti a coloro che li avrebbero ereditati se non vi fosse stata arrogazione529. L’arrogatore, inoltre, aveva l’obbligo di lasciare la quarta divi Pii: era una disposizione creata da Antonino Pio a favore degli impuberi, in forza della quale colui che fosse stato arrogato in età impubere,

526 La lezione di alcuni manoscritti, accolta dalle Istituzioni e poi dal Cuiacio, indicavano come Sabiniano il senatoconsulto Afiniano. Si veda anche Schulz 1906, 19. 527 Sostiene la riconducibilità a Sabino del pensiero espresso nella più ampia parte compresa tra ad substitutos a quis possit, Finazzi 1997, 118, confutando le posizioni di Astolfi 1983, 66 e Beduschi 1976, 125, i quali propendevano per ritenere l’intero passo esclusivamente ulpianeo, nonché di La Pira 1930 b, 299 e nt. 32, e Wolff 1936, 449 e nt. 62, che invece intravedevano il preponderante intervento compilatorio. 528 Zoz 1980, 259 nt. 5. Sulla fattispecie Müller-Eiselt 1982, 167. 529 Così sintetizza efficacemente Voci 1963, 56 s., ntt. 3-4. Più prudente sulla possibilità di distinguere le due evenienze è Zoz 1980, 263. Giustiniano ricorderà in I. 1.11.3: … si decedens pater eum exheredaverit vel vivus sine iusta causa eum emancipaverit, iubetur quartam partem ei suorum bonorum relinquere. Sul passo Donatuti 1961, 157, che accoglie l’individuazione operata da Ferrini 1929 (1901), 340, il quale vi riconosce un estratto delle Istituzioni di Marciano.

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Commento. Quaestionum libri XX e durante l’impubertà fosse stato emancipato senza giusta causa, aveva diritto di ricevere la quarta parte del patrimonio del paterfamilias arrogatore. Si tratta di una quota spettante nei confronti di qualsiasi erede, basata su un diritto che cessava al raggiungimento della pubertà. La narrazione solleva un dubbio sul trattamento da riservare al sostituto dell’arrogato impubere, per il quale ci si chiede se ed entro quali limiti sia ammissibile una sostituzione pupillare530. La domanda, più specificamente, nasce proprio in riferimento alla sorte della quarta divi Pii in caso di sostituzione: essa era da riservarsi al pupillo arrogato e, dunque, non poteva riguardare i beni posseduti dall’arrogato prima dell’arrogazione, come testimonia, insieme a D. 28.6.10.6, D. 1.7.22, che si riporta531. Ulp. 26 ad Sab., D. 1.7.22.1: Sed an impuberi adrogator substituere possit, quaeritur: et puto non admitti substitutionem, nisi forte ad quartam solam quam ex bonis eius consequitur, et hactenus ut ei usque ad pubertatem substituat. ceterum si fidei eius committat, ut quandoque restituat, non oportet admitti fideicommissum, quia hoc non iudicio eius ad eum pervenit, sed principali providentia. Ma si domanda se l’arrogatore possa sostituire l’impubere: e ritengo che la sostituzione non si ammetta, se non forse per la sola quarta che (l’arrogato) consegua dai beni di lui (dell’arrogatore), e solo nel caso in cui lo sostituisca fino al raggiungimento della pubertà. Del resto, se disponga per fedecommesso di restituire quando che sia, non bisogna che il fedecommesso sia ammesso, poiché (la quarta) non gli giunge (all’arrogato) per la decisione di questo (dell’arrogatore), ma per una previsione imperiale.

Ad essere esaminata sarebbe la questione relativa alla successione dell’arrogato morto ancora impubere, ossia divenuto sui iuris per pregressa morte del padre adottivo. Ulpiano sembra affermare che la sostituzione sia sostanzialmente da negarsi, e forse ammissibile solo per la quarta divi Pii, ossia per quella parte dei beni che sicuramente sarebbero giunti all’arrogato impubere per previsione legislativa: è una fattispecie distinta rispetto a quella di D. 28.6.10.6, laddove l’arrogatore ha previsto per testamento una specifica destinazione di beni all’impubere532. Se non vi è una clausola testamentaria che complica – come in D. 28.6.10.6 – la riflessione del giurista, si deve ammettere solo la corresponsione della quarta divi Pii. Quest’ultima, poi, se oggetto di una previsione fedecommissaria, da adempiersi in un momento indeterminato (quandoque)533, dovrà necessariamente ritenersi nulla, poiché già assorbita in una statuizione legislativa. A ben guardare, anche nel libro IV del commentario ad Sabinum, il tema del concorso tra la volontà del testatore e la previsione del princeps è adombrato, ma sotto un altro profilo534. Ulpiano, infatti, ricorda che al sostituto dell’arrogato in

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Seelentag 2014, 288 ss. “Con la morte dell’impubere da sui iuris, potranno essere suoi eredi o quelli nominati nel testamento, che per lui abbia fatto l’arrogatore…”: così Donatuti 1961, 167. Cfr. anche Ulp. 19 ad ed., D. 10.2.2.1; Ulp. 40 ad ed., D. 36.7.21; Paul. 10 ad leg. Iul. et Pap., D. 38.5.13, come ricorda Migliorini 2001, 189 ss. e in particolare n. 27. 532 Bene distingue le due ipotesi Zoz 1980, 261 s. 533 Si sofferma sul valore dell’avverbio Zoz 1980, 262 s., optando, infine, per un valore generico: “… è da dire che il fedecommesso di restituzione nel testo sembra essere immaginato a carico dell’avente diritto alla quarta”. 534 Müller-Eiselt 1982, 168. 531

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Alessia Spina età impubere non spettano i beni che il sostituìto avrebbe avuto se non ci fosse stata arrogazione, ma solamente i beni che l’arrogato abbia deciso di destinargli: il problema è ancora costituito dalla quarta divi Pii, che non è oggetto di specifica previsione da parte dell’arrogatore. La domanda di Ulpiano è se, ammessa l’eccezione rappresentata dalla possibilità che al sostituto non spettino cose che siano giunte al pupillo dopo la morte del testatore (secondo quanto spiega D. 28.6.10.5), ai beni previsti ex testamento si debba aggiungere la quarta prevista ex lege. Ci si interroga – testualmente – se si possa ammettere che al sostituto possa spettare sia la quarta divi Pii535, sia quanto l’arrogatore gli abbia destinato (superfluum)536. Scevola opta per la soluzione cumulativa, e tale sententia è considerata ragionevole da Ulpiano, il quale a sua volta sceglie una posizione ancora più netta, estendendo la nozione di acquisti del sostituìto anche a quello che abbia ottenuto grazie all’arrogatore, ad esempio da parenti o amici di quest’ultimo537. Non è possibile individuare quale sia stata la giustificazione offerta da Scevola. Vi è chi ha sostenuto che la possibilità della sostituzione pupillare relativamente alla quarta sia stata ammessa in considerazione del fatto che, laddove l’arrogato titolare fosse morto, sui beni che la costituivano si sarebbe aperta una successione di diritto comune: il padre adottivo, dunque, avrebbe potuto disporre della sostituzione del figlio impubere in potestate anche su quei beni538. Che dietro il pensiero di Scevola commentato da Ulpiano si possa celare una posizione giulianea potrebbe risultare da un suggerimento di Lenel sul successivo paragrafo 7 del frammento D. 28.6.10539. La fattispecie è relativa alla configurabilità di una sostituzione: a differenza del paragrafo 6 Scevola non compare, ma viene citata la posizione di Giuliano espressa nel libro XXX dei suoi digesta. La formulazione ‘si heres non erit, Stichus liber heresque esto’, esaminata nell’ultima parte di D. 28.6.10.7540, è oggetto di specifico esame anche da parte di Scevola in un lungo escerto dal liber singularis quaestionum publicae tractatarum, versato dai compilatori in D. 28.6.48.1, nel quale è esattamente richiamato il parere espresso da Giuliano “in libris suis”541.

535 La quarta divi Pii è definita da Voci 1963, 56 s. forma di “successione straordinaria”. Si veda anche Fadda 1900, 106 s. 536 Desanti 1999, 90 nt. 70 sottolinea che superfluum indicherebbe qui “i restanti beni dell’impubere adrogato, dedotta la ‘quarta divi Pii’. 537 Voci 1955, 7 individua in quelle citate “tutte persone che onorano il pupillo per causa dell’adrogans”. 538 Dunque, dalla lettura congiunta di D. 28.6.10.6 e di D. 1.7.22.1, si dovrebbe dedurre che, per Ulpiano, la sostituzione pupillare poteva avere ad oggetto solamente i beni che non erano appartenuti all’arrogato, la quarta divi Pii e le liberalità pervenute all’impubere dopo la morte del testatore, proprio in considerazione della persona dell’arrogante. Laddove, invece, l’impubere fosse diseredato, la sostituzione poteva avere a oggetto la sola quarta divi Pii: così Finazzi 1997, 120 nt. 19. 539 Lenel 1889 II, 1028, fr. 2456, nt. 1: “Haec quoque Scaevola (v. § 6) tractaverat (v. Scaev. fr. 187 § 1) etiam Iuliani adsentientis facta mentione”. 540 Ulp. 4 ad Sab., D. 28.6.10.7: ceterum si duo sint gradus, potest dici valere substitutionem, ut Iulianus libro trigesimo digestorum putat: si quidem sic sit substitutus sibi, cum haberet coheredem Titium: “si Stichus heres non erit, liber et heres esto”, non valere substitutionem: quod si ita: “si Titius heres non erit, tunc Stichus liber et heres et in eius partem esto”, duos gradus esse atque ideo repudiante Titio Stichum liberum et heredem fore. 541 Scaev. lib. sing. quaest. publ. tract., D. 28.6.48.1: ac per hoc ex his verbis: “si heres non erit, Stichus liber heresque esto”, liber et heres existet. hoc autem, quod sentimus, Iulianus quoque in libris suis probat.

238

Commento. Quaestionum libri XX

LIBRO XI

Anche del libro XI, come dei due libri precedenti, sopravvive un’unica testimonianza, corrispondente a due escerti dei Digesta Iustiniani noti attraverso la citazione ulpianea proveniente dal libro XVI del commentario all’editto. Si tratta di D. 41.3.10.2 [F. 36], dal titolo De usurpationibus et usucapionibus, la cui parte finale appare massimata nel passo gemino D. 50.16.26. Lenel colloca il brano sotto una generica rubrica De usucapione542, a commento della clausola De rei vindicatione, successiva a quello dedicata all’actio Publiciana che, come vedremo nel corso dell’esegesi del frammento, sembra rappresentare il tema sotteso alla quaestio. F. 36 – D. 41.3.10.2 + D. 50.16.26 D. 41.3.10.2 non è di diretta paternità scevoliana, ma è giunto attraverso una citazione di Ulpiano. Il giurista severiano, infatti, ricorda la posizione di Marcello543 e di Scevola circa la sorte dei nati – animali o prole – concepiti presso il ladro e nati presso questi o presso il suo erede. Il libro XI delle quaestiones rappresenta la fonte dalla quale Ulpiano, attraverso una consultazione del testo scritto (così parrebbe evincersi dal verbo scribit utilizzato per due volte), ricava non solo la posizione scevoliana, ma anche quella del giurista precedente. D’altro canto, Scevola non offre alcuna indicazione specifica circa l’opera e il libro da cui avrebbe avuto conoscenza dell’orientamento di Marcello, e forse non priva di rilevanza è la scelta del verbo inquit, sebbene sia ipotizzabile che sia stata consultata la raccolta di digesta del giurista antonino544. Marcello considerava il caso di una vacca che avesse concepito presso il ladro e partorito presso il medesimo, presso l’erede del ladro: non si sarebbe verificata l’usucapione da parte del terzo acquirente. Allo stesso modo (sic) non si sarebbe verificata l’usucapione del partus ancillae. Marcello, dunque, nega l’usucapione del figlio della serva argomentando per analogia con quanto avviene nell’usucapione dei parti degli animali545. L’accostamento dei due casi consente di escludere che i giuristi citati avessero in mente la vetus quaestio, risalente all’età repubblicana, circa la possibilità di considerare frutto il partus ancillae546: a prevalere fu l’opinione negativa, sostenuta da Bruto, come ricordato in Ulp. 17 ad Sab., D. 7.1.68pr.547 e come confermato in Ulp. 15 ad ed., D. 5.3.27pr. e, con giu-

542 Lenel 1889 II, 279, rimanda alla ricostruzione dell’editto proposta nella prima edizione di Das Edictum Perpetuum (Lenel 1883, 18 ss.), sulla quale ritornerà poi anche nella terza edizione (Lenel 1927, 25 ss.). 543 Cfr. Lenel 1889 I, 620, fr. 195, che colloca il passo all’interno del libro XVII dei digesta, sotto la rubrica de usucapione. 544 Sulle citazioni di seconda mano, cfr. Giaro 1994, 87 e nt. 138. 545 Sul passo, recentemente, Frunzio 2017a, 189, la quale immagina che Marcello si riferisca all’usucapione di un terzo acquirente, e non già dell’erede; Bianchi 2009, 330 s. In precedenza, Abramenko 1997, 424 e ss., in particolare nt. 15 e 30. 546 Il tema è stato studiato molto e in questa sede non è possibile dar conto delle diverse posizioni assunte dai singoli autori. Si rimanda ad alcuni lavori di recente pubblicazione: Di Nisio 2017, 45 ss. Frunzio 2017a, 157 ss.; Stolfi 2018, 239 s. 547 Le contrastanti posizioni di Bruto, Manilio e Scevola sono ricordate da Cic. de fin. 1.4.12.

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Alessia Spina stificazioni differenti anche da prudentes a lui antecedenti548. Non si parla di fructus nel passo ulpianeo. Il fatto che Marcello accosti i due parti consente di immaginare che l’attenzione fosse focalizzata su un problema diverso, ossia quello del considerare la prole o accessorio o res distinta rispetto alla madre. In questa prospettiva, il ragionamento acquista maggior nitore: non avrebbe senso, infatti, discutere circa l’usucapibilità di un bene generato presso un possessore di mala fede, quale è sia il ladro sia il suo erede, laddove quest’ultimo abbia proceduto alla separatio (distractum). Marcello esclude l’usucapibilità, ma senza motivare. Scevola sostiene una posizione diversa: che oltre al parto degli animali (così, infatti, si dovrebbe dedurre dalla congiunzione et che precede partum), anche il parto della schiava possa essere usucapito. Egli giustifica la propria tesi sostenendo che il parto non rappresenta una parte del bene rubato. Per il maestro antonino, dunque, il bene, venuto ad esistenza presso un soggetto diverso dal ladro – anche se comunque in mala fede – non essendo un accessorio della cosa principale, ma una realtà (materiale, giuridica, umana) distinta rispetto alla madre, ammetteva l’usucapione. Questa affermazione costituisce il cuore del ragionamento scevoliano, come conferma la massimazione di D. 50.16.26 (Partum non esse partem rei furtivae Scaevola libro undecimo quaestionum scribit), il quale segue la celeberrima definizione muciana di pars, rispetto alla quale la distanza semantica è, invero, notevole549. Nei pochi verba scevoliani si potrebbe cogliere tutta la tensione – già evidenziata in altri luoghi – tra la valutazione degli schiavi quale mere res e la valorizzazione della loro natura di uomini, che induce a considerare anche i parti dell’ancilla nella loro individualità, non già quali semplici accessori della madre. Il tratto conclusivo del frammento è di verosimile paternità ulpianea. Il giurista severiano, spostando il piano dell’argomentazione, sembra accogliere la tesi di Scevola550, sostenendo che, se il fetus o il partus fossero parti della res furtiva – dunque: se si negasse l’idea scevoliana –, l’usucapione non sarebbe stata possibile neppure se la nascita fosse avvenuta presso il compratore di buona fede. In tal caso, infatti, l’acquisto del bene separato dalla madre e considerato come res autonoma non avrebbe richiesto l’acquisto attraverso il possesso prolungato, ma sarebbe avvenuto automaticamente. In siffatta prospettiva si rispecchia una posizione destinata a rimanere, almeno nei suoi esiti, del tutto minoritaria551, mentre è possibile che la ratio ispiratrice – ossia il principio in forza del quale il nato sia una res distinta rispetto alla madre – abbia avuto successo. Ancora, mi sembra rilevante distinguere la circostanza che il concepimento avvenga presso il ladro – e solo presso il ladro – dalla circostanza in cui avvenga presso il ladro medesimo o presso il

548

Si pensi a Gai. 2 rer. cott., D. 22.1.28.1. Paul. 21 ad ed., D. 50.16.25, sul quale rinvio a Stolfi 2018, 326 s. anche per la bibliografia ivi citata. I due passi romperebbero l’ordine di Bluhme-Krüger e risulterebbero “miscellaneous cases” secondo Johnston 1997, 64 e nt. 37, il quale osserva come nei punti corrispondenti ai frammenti D. 50.16.25 e 26 i due commentari – paolino e ulpianeo – divergerebbero. 550 Peraltro, accogliendo la tesi scevoliana, Ulpiano si pone in significativo contrasto con l’orientamento paolino: cfr. Paul. 54 ad ed., D. 41.3.4.19; Paul. 7 ad Plaut., D. 41.1.48.2. Così Frunzio 2017a, 186 ss., cui si rimanda anche per l’accurato apparato bibliografico. 551 Secondo Ruggieri 1883 II, 146, Scevola avrebbe fatto un’erronea applicazione di un principio teoricamente corretto. 549

240

Commento. Quaestionum libri XX suo erede: non vi è spazio, nell’originaria fattispecie esaminata da Scevola, per il caso di un acquisto in buona fede, analizzato esclusivamente da Ulpiano552. D’altra parte, è ragionevole pensare che il giurista severiano avesse in mente il problema dell’actio Publiciana, la cui formula è commentata nel libro XVI ad edictum: accettando la tesi leneliana, il brano in esame sarebbe anticipato da: Ulp. 16 ad ed., D. 6.2.11.2: Partus ancillae furtivae, qui apud bonae fidei emptorem conceptus est, per hanc actionem petendus est, etiamsi ab eo qui emit possessus non est. sed heres furis hanc actionem non habet, quia vitiorum defuncti successor est. Il parto della schiava rubata, che sia stato concepito presso il compratore di buona fede, può essere richiesto attraverso questa azione, anche se non è stato posseduto da colui che ha comprato. Ma l’erede del ladro non ha questa azione, poiché è successore nei vizi del defunto.

Si rinvengono, infatti, nel passo di Ulpiano le premesse fattuali considerate tanto da Marcello quanto da Scevola. Il testo sembra confermare la conoscenza del pensiero di Scevola e della sua opera, utilizzati in una sorta di argomentazione a contrario della tesi ulpianea, il cui nucleo – è bene sottolinearlo – ruoterebbe attorno alla possibilità di esperire un’azione Publiciana che avesse ad oggetto il parto della schiava.

LIBRO XII

I Digesta Iustiniani conservano tre frammenti provenienti dal libro XII delle quaestiones, collocati – seppur dubitativamente – da Lenel sotto la rubrica ‘De confessis et indefensis’, riconnettendo i testi alla clausola edittale ‘Qui iudicatus prove iudicato erit’. La scelta risulta coerente con il contenuto di D. 10.2.37 [F. 37], sulla possibilità di leggere nell’esperimento di un’actio familiae erciscundae un riconoscimento (confitetur si legge nel testo) della posizione di coerede. In verità, l’esegesi del testo, nonché il confronto con due frammenti giulianei provenienti dal libro VIII (uniti in un unico luogo leneliano n. 116 sotto la rubrica ‘Familiae erciscundae’) confermano i dubbi di una collocazione non idonea a valorizzare la connessione tra brani che affrontano il tema comune della tutela dei diritti reali. In questa prospettiva, risulta poco comprensibile la scelta della sede di D. 45.1.129 [F. 38], brano che, estrapolato dal suo contesto originario, appare una breve parentesi sull’interpretazione di condizioni apposte a stipulazioni, rese attraverso congiunzioni o disgiunzioni. La riflessione (che i commissari giustinianei hanno collocato nel titolo dedicato alle verborum obligationes) a fatica sembra coordinarsi con

552 Ritiene, invece, Frunzio 2017a, 190, sulla scia di precedenti studi di Borgna 1897, 40, che Scevola avrebbe valorizzato il momento della nascita rispetto a quello del concepimento, per cui il terzo acquirente in buona avrebbe usucapito il parto: ma, lo si ripete, non sembra questa la fattispecie esaminata da Scevola.

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Alessia Spina i due brani superstiti, se non ipotizzando che Scevola si riferisse al contenuto di stipulationes praetoriae utilizzate proprio per la tutela di diritti reali. Un seppur debole indizio in questo senso è rappresentato dal riferimento di D. 39.2.45 [F. 39] – il terzo brano superstite del libro XII – in cui Scevola accenna a una cautio imposta all’indefensus. Quest’ultimo brano, dal canto proprio, crea un ulteriore problema connesso alla presenza di una inscriptio particolare: nella versione di Fb, accolta da Mommsen, si legge infatti: Scaevola libro duodecimo quaestionum a quo fundus petetur si rem nolit. Tralasciando le suggestioni che il richiamo suscita a proposito della composizione dell’opera553, esso suggerisce a Lenel di connettere il passo alla clausola edittale menzionata “a quo fundus petetur, si rem nolit defendere”554, richiamando l’esistenza di un interdetto quem fundum, a proposito del quale la letteratura ha espresso significativi dubbi555. Evitando di proporre classificazioni che rischierebbero di apparire forzate, si può dire che nel libro XII, come del resto per il libro XI, abbandonata la materia dei lasciti mortis causa a titolo particolare, si affronta il tema dei diritti reali. F. 37 – D. 10.2.37 Il breve escerto pone un significativo problema testuale: esiste, infatti, una divergenza tra la versione della littera Florentina, che fa precedere il verbo confitetur dall’avverbio non, e il testo dei Basilici, in cui, invece, la negazione scompare556. La scelta di adeguarsi al testo bizantino fu ammessa da molti commentatori – ma esclusa ad esempio da Cuiacio557 – e fu accolta da Mommsen (e poi anche da Krüger), seguito dallo stesso Lenel558 nella Palingenesia e pressoché unanimemente dagli studiosi che si sono occupati del passo559. La ratio che ha indotto Mommsen a preferire il testo dei Basilici era di ordine sistematico: un passo delle quaestiones di Paolo, che precede D. 10.2.37 nella sequenza compilatoria, porterebbe a concludere che chi agisce con l’actio familiae erciscundae ammetta la qualifica di coeredi dell’avversario. Nell’antologia giustinianea il brano paolino appare una continuazione – quasi un’appendice – del testo in esame560. Paul. 2 quaest., D. 10.2.36: Cum putarem te coheredem meum esse idque verum non esset, egi tecum familiae erciscundae iudicio et a iudice invicem adiudicationes et condemnationes factae sunt: quaero, rei veritate cognita utrum condictio invicem competat an vindicatio? et an aliud in eo qui heres est, aliud in eo qui heres non sit dicendum est? respondi: qui ex asse heres erat, si, cum putaret se Titium coheredem

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Cfr. cap. III. Lenel 1883, 381 e nt. 3 e 386 s.; Lenel 1927, 474 e nt. 3 e 481. 555 Cfr. infra [F. 39]. 556 B. 42.3.36: Ὁ κινῶν τὸ τῆς διαιρέσεως δικαστήριον, ὁμολογεῖ τὸν ἀντίδικον αὐτοῦ συγκληρονόμον εἰναι. 557 Cuiacius 1618, 36. 558 Lenel 1889 II, 280, nt. 1: sic sec. Bas., non confitetur F. 559 Si rimanda a Glück 1893, 60 ss. per l’accurata rassegna delle interpretazioni di studiosi a lui precedenti che hanno optato per l’inserimento della negazione. Si pensi a Berger 1912, 13 e nt. 4 e 82 ss.; Gaudemet 1934, 299 nt. 2. Tra gli altri, di recente, d’Orta 2005, 88 nt. 31, che non dà conto del problema testuale. Propone un’ampia e convincente argomentazione circa la preferibilità della lezione manoscritta rispetto a quella dei Basilici, Longo, 1893, ntt. K e ss. 560 Lenel 1889 I, 1185, fr. 1290, collocato sotto la rubrica edittale De iudiciis divisoriis. 554

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Commento. Quaestionum libri XX habere, acceperit cum eo familiae erciscundae iudicium et condemnationibus factis solverit pecuniam, quoniam ex causa iudicati solvit, repetere non potest. sed tu videris eo moveri, quod non est iudicium familiae erciscundae nisi inter coheredes acceptum: sed quamvis non sit iudicium, tamen sufficit ad impendiendam repetitionem, quod quis se putat condemnatum. quod si neuter eorum heres fuit, sed quasi heredes essent acceperint familiae erciscundae iudicium, de repetitione idem in utrisque dicendum est, quod diximus in altero. plane si sine iudice diviserint res, etiam condictionem earum rerum, quae ei cesserunt, quem coheredem esse putavit qui fuit heres, competere dici potest: non enim transactum inter eos intellegitur, cum ille coheredem esse putaverit. Ritenendo che tu fossi mio coerede, e ciò non era vero, ho agito contro di te con l’azione di divisione dell’eredità e vennero pronunciate dal giudice reciproche aggiudicazioni e condanne; domando, se, una volta conosciuta la verità della situazione, possa competere l’uno nei riguardi dell’altro l’azione di restituzione o la rivendica? E se bisogna dire una cosa nei confronti di colui che è erede ed una cosa diversa nei confronti di colui che erede non sia. Ho risposto: colui che era erede per l’intero, se, ritenendo di avere Tizio come suo coerede, abbia accettato il giudizio di divisione dell’eredità con lui e, pronunciate le condanne, abbia pagato una somma di denaro, poiché ha pagato in esecuzione di un giudicato, non può ripetere. Ma tu sembri muovere questa considerazione, che non vi è giudizio di divisione dell’eredità se non è stato accettato tra i coeredi; ma, sebbene vi sia un giudizio, tuttavia, è sufficiente ad impedire la ripetizione che qualcuno ritenga di essere stato condannato, che se nessuno dei due fu erede, ma abbiano accettato il giudizio di divisione dell’eredità come se fossero eredi, a proposito della ripetizione, bisogna dire nei confronti di tutti e due ciò che abbiamo detto per uno dei due. Chiaramente, se abbiano diviso le cose senza un giudice, si può dire che spetti anche l’azione di restituzione di quelle cose che passarono a colui che, chi fu erede, considerò proprio coerede; infatti, non si intende, infatti, che tra loro si sia fatta una transazione, avendo egli ritenuto che quello fosse un coerede.

È verosimile che Paolo abbia preso spunto dalla quaestio scevoliana per svolgere la propria: un dato della fattispecie è, infatti, evidentemente coincidente, ossia l’errata considerazione, da parte dell’attore in un giudizio di divisione dell’eredità, della qualità di coerede dell’altro contendente561. La domanda che un generico ‘tu’ pone a Paolo è se, venuti a conoscenza della realtà dei fatti, si possa immaginare che il vero erede agisca nei confronti del falso erede per chiedere la ripetizione di quanto versato in ossequio alla sentenza. Il giurista risponde negativamente, assumendo che la causa petendi su cui si è basato il pagamento sia il giudicato; egli precisa come si possa configurare un giudizio familiae erciscundae non soltanto laddove uno solo non sia erede, ma anche qualora entrambi i partecipanti alla lite non fossero eredi, pur credendolo. A fronte dell’affermazione paolina dell’irrilevanza – almeno una volta giunti alla pronuncia di condemnationes e adiudicationes – di quanto credettero le parti e della conseguente irripetibilità di quanto versato, appare giustificata la scelta di Mommsen di accogliere la versione dei Basilici. Scevola sosterrebbe che l’attore che esperisce un’azione divisoria compia una sorta di confessio dello status di coerede. Il dato, invero, dovrebbe fare escludere in ogni caso che si sia in presenza di una confessio in iure, non avendo essa a oggetto il diritto stesso

561

Sul passo cfr. Vinci 2004, 280 ss. e 352 ss. e Pulitanò 2012, 400 s.

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Alessia Spina preteso dall’attore, bensì fatti allegati dall’attore a sostegno della propria domanda562. Il verbo, dunque, sarebbe da intendersi con un significato atecnico, riferendosi genericamente al riconoscimento di uno status che l’actio familiae erciscundae sottintenderebbe. La riflessione conserva valore anche considerando che Paolo non nega, ad esempio, che la consapevolezza acquisita, nel corso del giudizio, prima dell’aggiudicazione, possa impedire che si giunga a sentenza. Anzi, argomentando e contrario, egli sostiene che la divisione raggiunta attraverso un accordo negoziale (transactio) e non a seguito di decisione giudiziale, consenta l’esperimento della condictio. Semmai la scelta testuale di conservare la negazione poggia su una considerazione ragionevole: che sia più ragionevole supporre che il non sia caduto nella versione bizantina piuttosto che ipotizzare un’arbitraria aggiunta nella littera Florentina563. Di conseguenza, in questa sede ipotizzo che il non presente nel manoscritto fiorentino fosse, invece, un nonne. In effetti l’avverbio introdurrebbe una proposizione interrogativa diretta con un valore retorico (secondo un utilizzo frequente nelle quaestiones), che attenderebbe una risposta affermativa564. L’opinione di Scevola rinvia al pensiero di Giuliano emergente da due passaggi del Digesto, luoghi in cui si afferma che l’attore, proponendo l’azione di divisione ereditaria, riconosce nel convenuto i diritti del coerede565. Iul. 8 dig., D. 5.4.7: Non possumus consequi per hereditatis petitionem id quod familiae erciscundae iudicio consequimur, ut a communione discedamus, cum ad officium iudicis nihil amplius pertineat, quam ut partem hereditatis pro indiviso restitui mihi iubeat. Non possiamo conseguire attraverso la petizione di eredità ciò che conseguiamo attraverso il giudizio di azione di eredità per recedere dalla comunione, dal momento che all’ufficio del giudice non spetta nulla di più che ordinare che mi sia restituita la parte di eredità indivisa.

Dal medesimo libro ottavo dei digesta è poi escerto un passaggio collocato dai compilatori all’interno del titolo D. 10.2: Iul. 8 dig., D. 10.2.51.1: Si ego a te hereditatem petere vellem, tu mecum familiae erciscundae agere, ex causa utrique nostrum mos gerendus est: nam si ego totam hereditatem possideo et te ex parte dimidia heredem esse confiteor, sed a communione discedere volo, impetrare debeo familiae erciscundae iudicium, quia aliter dividi inter nos hereditas non potest. item si tu iustam causam habes, propter quam per hereditatis petitionem potius quam familiae erciscundae iudicium negotium distrahere velis, tibi quoque permittendum erit hereditatem petere: nam quaedam veniunt in hereditatis petitionem, quae in familiae erciscundae iudicio non deducuntur: veluti si ego debitor hereditarius sim, iudicio familiae erciscundae non consequeris id quod defuncto debui, per hereditatis petitionem consequeris.

562

Di Paola 1959, 8 ss.; Fiorelli 1961, 864 ss., in particolare 865. Cfr. Longo 1893, nt. M. 564 La tesi è sostenuta, tra gli altri, da Glück 1893, 64 ss., il quale ribadisce che il genere delle quaestiones si sarebbe concentrato sulla trattazione di ius civile, sicché sarebbe stato consueto interrogarsi circa le opinioni di altri giuristi. 565 Cfr. Glück 1893, 59 s. 563

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Commento. Quaestionum libri XX Se io volessi agire contro di te con una petizione di eredità, e tu contro di me volessi agire con un’azione di divisione dell’eredità,bisogna che noi acconsentiamo alle richieste di entrambi: infatti, se io possiedo tutta quanta l’eredità e riconosco che tu sei erede per metà parte, ma voglio recedere dalla comunione, devo intentare l’azione di divisione di eredità, poiché diversamente l’eredità non può essere divisa tra di noi. Ugualmente, se tu hai una giusta causa, in forza della quale tu voglia sciogliere il rapporto attraverso la petizione di eredità piuttosto che attraverso l’azione di divisione dell’eredità, anche a te sarà permesso di domandare l’eredità: infatti, nella petizione di eredità si presentano alcune cose che non vengono dedotte nel giudizio di divisione di eredità: per esempio, qualora io sia debitore ereditario, non conseguirai con il giudizio di divisione dell’eredità ciò che dovevo al defunto, lo conseguirai attraverso la petizione di eredità.

L’esordio di D. 10.2.51.1 potrebbe aver costituito l’oggetto della riflessione poi svolta da Scevola: insieme alla dialettica actio familiae erciscundae/petitio hereditatis, sembrerebbe confermarlo proprio la scelta del verbo confiteor: nam si ego totam hereditatem possideo et te ex parte dimidia heredem esse confiteor … impetrare debeo familiae erciscundae iudicium … Il confronto con i due passi giulianei aggiungerebbe argomenti alla tesi secondo cui Scevola, al pari del maestro Giuliano, avrebbe attribuito al verbo confiteri un valore generico: chi agisce con un’azione di divisione dell’eredità implicitamente afferma che il convenuto rivesta la qualifica di coerede, sicché, una volta ottenuta una sentenza, non sarà più possibile mettere in discussione lo status. I pagamenti effettuati in ossequio alle aggiudicazioni, infatti, non potranno essere ripetuti, né sarà possibile agire con una petitio hereditatis, dal momento che il passaggio in giudicato della sentenza di divisione avrebbe consumato ogni ulteriore legittimazione processuale. F. 38 – D. 45.1.129 Il testo coglie il breve passaggio di una quaestio che, come si è avuto modo di osservare supra, poco attiene a rapporti di natura reale, in riferimento ai quali si potrebbe giustificare la sua collocazione nel libro XII solo ammettendo che si trattasse di esemplificazioni offerte dal maestro – su una materia che doveva risultargli cara566 – a proposito di stipulazioni pretorie; esso è il verosimile oggetto di riflessione nel brano che palingeneticamente segue quello in esame, ossia D. 39.2.45 [F. 39]. La parte da huic a factus est è stata ritenuta un glossema da Mommsen e da Lenel567. Invero, ritengo che il testo sia da salvare, per due motivi. Anzitutto non sembrano emergere indizi testuali che giustifichino l’espunzione. Infatti, sia il termine scriptura, che l’aggettivo similis sono ricorrenti nella prosa scevoliana568. Inoltre, se si volge lo sguardo al libro XIII

566 Numerosi passaggi delle quaestiones scevoliane trovano spazio in D. 45.1: si possono ricordare D. 45.1.122; D. 45.1.127; D. 45.1.131; D. 45.1.135. 567 Lenel 1889 II, 280, nt. 4: huic similis … factus est gloss. 568 Il termine scriptura è presente in Scaev. 2 resp., D. 19.1.48; Scaev. 18 dig., D. 32.7.5; Scaev. 33 dig., D. 32.42pr.; Scaev. 6 dig., D. 33.7.27.2; Scaev. 4 resp., D. 34.1.13.2; Scaev. 16 dig., D. 34.3.28.12; Scaev. 18 dig., D. 34.5.29pr.; Scaev. 21 dig., D. 36.1.80.10; Scaev. 18 dig., D. 44.7.61pr. Per le ricorrenze dell’aggettivo similis e dell’avverbio similiter in Scevola: Scaev. 27 dig., D. 20.4.21; Scaev. 6 quaest., D. 28.2.29.4, 5 e 11; Scaev. 3 resp., D. 31.88.14; Scaev. 20 dig., D. 32.39pr.; Scaev. 20 dig., D. 35.1.109.

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Alessia Spina delle quaestiones e in particolare a D. 45.1.131 e 133 [F. 44], si può notare come Scevola commenti passaggi giulianei in cui è presente la congiunzione negativa neque, la stessa che compare nella similis scriptura ritenuta sospetta. Un ulteriore dato farebbe supporre che anche in D. 45.1.129 la fonte della riflessione scevoliana sia Giuliano. Una rapida scorsa alle ricorrenze del giurista adrianeo, in effetti, fa emergere un peculiare utilizzo del termine scriptura accompagnato dal pronome dimostrativo, presente anche nel brano di Scevola (huic scriptura similis)569. Nel brano Scevola distingue due casi: quello in cui, per l’efficacia della stipulatio, sia richiesto l’avveramento di due eventi dedotti in condizione e quello in cui sia sufficiente il verificarsi di uno solo di essi. La prima evenienza si verifica con una condizione così formulata: “si navis venit et Titius consul factus est”, oppure, in negativo, “si neque navis venit neque Titius consul factus est”. La seconda ipotesi, invece, si sarebbe configurata con la frase: “si navis venit aut Titius consul factus sit” oppure “si navis non venit aut Titius consul factus non est”570. Scevola, dunque, si sofferma sull’interpretazione di stipulationes i cui effetti sono sottoposti a duplici condizioni. Le variationes attengono alla natura congiuntiva o disgiuntiva degli eventi dedotti e alla loro declinazione ora in forma positiva, ora in forma negativa: il maestro, avvalendosi di metodi della scienza logica di derivazione stoica571, spiega che, laddove le due condizioni siano legate da una congiunzione copulativa – sia positiva che negativa –, entrambi gli eventi dedotti debbano verificarsi perché il negozio possa produrre effetti. Diversamente, perché vi sia una congiunzione disgiuntiva, è sufficiente che si verifichi uno dei due eventi dedotti nelle condizioni, che devono intendersi, dunque, come alternative572. Infine è utile ricordare anche le raccolte casistiche di Scevola confermino l’attenzione del giurista all’interpretazione di stipulazioni che contengono doppie condizioni cumulative e negative. Un esempio fra molti è rappresentato da Scaev. 28 dig., D. 45.1.122.1, un testo decisivo per collocare il prestito marittimo nel sistema contrattuale romano, in cui si legge: si intra diem supra scriptam non reparasset merces nec enavigasset de ea civitate573.

569 Si pensi a Iul. 82 dig., D. 35.1.26pr.: Haec scriptura …; Iul. 42 dig., D. 40.4.17pr.: … haec autem scriptura …; Iul. 42 dig., D. 40.4.17.1: Hac scriptura …; Iul. 43 dig., D. 40.7.13.5: Haec scriptura … . Ampiamente sul tema Torrent 1971, 86 ss. 570 Sul passo di Scevola Pontoriero 2011, 148 s., il quale sottolinea “l’interesse di Scevola per il regime della doppia condizione”. 571 Si richiamano, specificamente, le considerazioni di Miquel 1970, 101 ss., che intravvede nella struttura di D. 45.1.129 la cd. ‘figura quadrata’ della logica stoica; Schmidlin 1976, 93; Kuryłowicz 1985, 191 e nt. 29, definisce ‘scommesse’ le condizioni cui sono sottoposte stipulationes di D. 45.1.129, proponendo altri esempi ad esse assimilabili; Giaro 1987, 13 e nt. 37. 572 Osserva Masiello 1999 230 s. che “nel testo la competenza scientifica del giurista si coniuga con una raffinata sensibilità filologica nell’indicare agli allievi il corretto orientarsi”. 573 Suggerisce l’accostamento tra i due passi Krampe 1995, 218 s. (ma già in precedenza da Huschke 1852, 1 ss.), ripreso anche da Gokel 2014, 305, la quale suggerisce (130), altresì, un confronto con D. 28.2.29.13 [F. 26], dove si legge, ad esempio, “nec solum, si nepos vivo patre decedat, nec succedens pronepos avo mortuo rumpat”. Tra i più recenti contributi sul brano, anche per la bibliografia ivi citata, Pontoriero 2011, 137 ss.; Frunzio 2017b, 271 ss.

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Commento. Quaestionum libri XX F. 39 – D. 39.2.45 Il frammento, recante una peculiare inscriptio574, rappresenta lo stralcio di una quaestio più ampia e si segnala per una inconsueta formulazione che alterna la prima e la seconda persona singolare, rendendo particolarmente evidente la dialettica tra le due parti processuali, su cui si gioca l’intera fattispecie. Il casus viene presentato in maniera sintetica. È stato costruito un edificio e si intenta un’azione sostenendo la mancanza del diritto ad averlo, ossia la violazione dell’obbligo negativo di costruire sul fondo. Nel giudizio – che avrà le forme di una vindicatio servitutis – il convenuto non si è difeso. Scevola sostiene che all’attore debba essere trasferita la possessio del fondo, ma non già per procedere subito alla demolizione dell’opera, poiché tale rimedio, nella specifica fase processuale, risulterebbe iniquum: alla demolizione si dovrà procedere solamente una volta trascorso un certum tempus che il convenuto ha a disposizione per dimostrare la fondatezza del proprio diritto575. Lenel ha ritenuto il brano una prova a favore dell’esistenza di un interdetto quam servitutem576, con il quale si sarebbero applicati alle servitù i medesimi principi dell’interdetto quem fundum577, corrispondendo al titolo edittale ‘a quo servitus petetur live ad eum pertenere negabitur, si rem nolit’. Circa il riferimento alla translatio possessionis (ad me possessio transferenda est), in passato sospettato di essere insiticio578 –, si è sostenuto che essa sarebbe stata coercitiva nel senso di mettere il convenuto originario nella necessità di intentare – entro un certo termine, come il testo di Scevola chiarisce – un nuovo processo, in cui avrebbe agito in qualità di attore e

574 Sulla peculiarità dell’inscriptio ritornano, tra gli altri, Röhle 1986, 458 e nt. 5; Reinoso Barbero 2010, 123, nt. 180; Mantovani 2018, 282 e nt. 97, che osserva: “Il s’agit d’une rubrique qui correspond à un titre de l’édit du préteur quoique mutilée du mot final (defendere)”. 575 Segrè 1934, 29 s. e in particolare nt. 1, sostiene che il trasferimento, nel passo in esame, non possa riferirsi che “alla consegna del fondo preteso dominante al proprietario del preteso fondo servente, per dargli modo di abbattere la costruzione, se l’altro non agiva colla confessoria”. 576 Lenel 1927, § 255, 481 (cfr. anche § 248). In letteratura si è messo in dubbio che l’interdetto de quo sia effettivamente esistito: le posizioni sono numerose, caratterizzate da diverso grado di scetticismo rispetto alla ricostruzione leneliana. Senza alcuna pretesa di esaustività, si può ricordare che lo difende Segrè 1934, 29; Biscardi 1938, 128 s. e nt. 1 lo ritiene “nient’altro che una manifesta filiazione dell’i. demolitorium, ma giustificata solo da ragioni d’indole esclusivamente pratica, è da considerarsi l’i. ne vis fiat aedificanti (…) volto a tutelare l’interesse di colui che, pur avendo subito la operis novi nuntiatio, abbia stipulato con nuncians l’apposita cautio destinata a consentirgli la prosecuzione dell’opera”; sembra ammetterlo anche Grosso 1969, 301. Lo escludono Karlowa 1901, 468; Solazzi 1949, 127 ss. e 1950, 215. In particolare, Segrè 1934, 29 nt. 1 sostiene sia da scegliere in caso di azioni de servitutibus. Meno netta la posizione di Bonfante 1903, 270 nt. I. Lo Studioso, in un primo momento assai dubbioso sulla configurabilità del rimedio, successivamente (1972, 121) sembra riconoscerlo, con la finalità di trasferire la posizione di possessore all’avversario. 577 Iniziato con le parole iniziali ‘Quem fundum ille a te vindicare vult’ e proseguito con la previsione: ‘si rem nolis defendere, eum illi restituas’, ricostruito da Lenel 1927, 475 sulla base di Ulp. 70 ad ed., D. 5.1.21. Il tenore complessivo dell’interdetto sarebbe confermato anche da FV. 92. Il confronto con il passo dei Vaticana Fragmenta rappresenterebbe, a parere di Mantovani 2018, 282, un prova di genuinità anche per D. 39.2.45. Sostiene la natura probatoria e non restitutoria dell’interdetto quem fundum Falcone 1995, 535 ss. 578 Parla di possessio del fundum Lenel 1927, 474 ss. e successivamente anche Segrè 1934, 29 e nt. 1. Diversamente, Solazzi 1972, 220 e nt. 21, sostiene che oggetto della controversia sia solamente l’aedificatum habere e 1949, 127 ritiene che l’originario riferimento fosse alla superficies e non già alla possessio. La tesi di Solazzi è contrastata da Grosso 1969, 184 e 300 s. e poi da Sitzia 1979, 31 s. Si veda, inoltre, Rainer 1989, 342 s. e nt. 41.99. Su questi temi recentemente, D’Amati 2016, 106 ss.

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Alessia Spina quindi con un aggravio probatorio e con il rischio di perdere il diritto sulla cosa per intervenuta usucapione579. Ricapitolando, l’indefensio di una vindicatio servitutis avrebbe avuto quale effetto l’inversione dell’onere probatorio, sicché il convenuto si sarebbe visto concedere un tempo entro il quale avrebbe dovuto agire: egli sarebbe diventato attore del giudizio successivo all’ordine interdittale e, di conseguenza, avrebbe dovuto dare la prova negativa dell’inesistenza della servitù di sopraelevazione. L’interdetto di cui parla Scevola avrebbe la funzione (parallela a quella dell’interdetto quem fundum) di spostare il possesso dell’immobile dal convenuto che non avesse assunto la defensio, all’attore580. Il brano è stato messo a confronto con un testo dalle quaestiones di Africano, in cui vengono offerte soluzioni diverse rispetto a quelle proposte da Scevola581: Afr. 9 quaest., D. 39.1.15: Si prius, quam aedificatum esset, ageretur ius vicino non esse aedes altius tollere nec res ab eo defenderetur, partes iudicis non alias futuras fuisse ait, quam ut eum, cum quo ageretur, cavere iuberet non prius se aedificaturum, quam ultro egisset ius sibi esse altius tollere. idemque e contrario, si, cum quis agere vellet ius sibi esse invito adversario altius tollere, eo non defendente similiter, inquit, officio iudicis continebitur, ut cavere adversarium iuberet nec opus novum se nuntiaturum nec aedificanti vim facturum. eaque ratione hactenus is, qui rem non defenderet, punietur, ut de iure suo probare necesse haberet: id enim esse petitoris partes sustinere. Se prima che fosse edificato, si azionasse contro il vicino il diritto di non sopraelevare e il bene non venisse da lui difeso, dice che il ruolo del giudice non sarebbe stato che quello di ordinare a colui contro il quale si agiva di prestare la garanzia, che non edificasse fino a che non avesse agito affermando il diritto di sopraelevare. Lo stesso vale nel caso contrario, se, volendo qualcuno azionare il proprio diritto di sopraelevare senza il consenso dell’avversario, similmente non difendendosi egli, dice, il compito del giudice è limitato a ordinare che l’avversario garantisca e non denunci la nuova opera né usi violenza. E per tale ragione entro questi limiti, colui il quale non difendesse il bene sarà punito, avendo necessità di provare riguardo al proprio diritto: ciò, infatti, è assumere il ruolo di attore.

Si è ritenuto, in considerazione della presenza dei due verbi – ait e inquit – con cui viene introdotto il pensiero del giurista, che il brano contenesse, in verità, l’opinione di Giuliano sul tema della indefensio nell’azione di rivendica e nell’azione negatoria di una servitù di non sopraelevare582.

579 Osserva D’Amati 2016, 110 s. e nt. 175 osserva come siffatta coercitività della translatio possessionis non risulterebbe troppo diversa da quella della missio in possessionem delle actiones in personam. 580 La considerazione è di Grosso 1969, 298 s., il quale osserva che la medesima funzione, in caso di beni mobili, era svolta dall’actio ad exhibendum. Sull’estensione della tutela possessoria o quasi possessoria alle servitù e sulle opinioni che, dal diritto comune, si sono formate, rinvio a Bonfante 1972, 453 ss. 581 Escludono la discordanza tra i testi Pugliese 1963, 217 e Biscardi 2001, 345. Ancora, sui due passi, Betancourt 1975, 91 s. e nt. 3. Sostiene si tratti di soluzioni alternative D’Amati 2016, 99 e nt. 166. 582 Sul verbo inquit nel passo, Arces 2013, 20, nt. 14; sul verbo velle De Simone 2003, 99 e nt. 32, nonché, più ampiamente, anche per la bibliografia ivi citata, 145 ss.; Cristaldi 2007, 197 e nt. 187. Per una approfondita lettura del brano si rimanda a D’Ors 1997, 439 ss.

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Commento. Quaestionum libri XX Il primo caso affrontato da Giuliano/Africano è quello di colui che, titolare di una servitus altius non tollendi, agisca contro il vicino con una vindicatio servitutis, temendo che egli intenda sopraelevare la casa gravata. Il convenuto si rifiuta di collaborare, ossia rem non defendat. Dunque, nell’ipotesi di vindicatio di servitus altius non tollendi, prima della costruzione, laddove ci fosse indefensio, il giudice costringeva colui contro il quale si agiva a garantire, attraverso una cautio, che non avrebbe costruito fino a che non avesse preso lui l’iniziativa di agire con un’actio negatoria servitutis, ossia affermando “ius sibi esse altius tollere”. Diversamente dal brano scevoliano, la richiesta di cautio all’indefensus precede la violazione dell’obbligo negativo o di tolleranza che gravava sul proprietario del fondo servente, e avrebbe bloccato l’esercizio del diritto sino a che l’avversario non si fosse assunto l’onere di iniziativa processuale con un’actio negatoria583. Il secondo caso è, quindi, esattamente speculare: colui che intende edificare agisce con la negatoria servitutis contro il vicino e quest’ultimo rem non defendat584. Il convenuto, in tale evenienza, avrebbe dovuto prestare la cautio che, sino al momento in cui non avesse agito con la vindicatio servitutis non avrebbe impedito all’altro di costruire (nec opus novum se nuntiaturum nec aedificanti vim facturum)585. Africano/Giuliano, peraltro, non menziona il trasferimento di possessio. Dal testo, dunque, si ricaverebbe che da parte del pretore (così accettando che la menzione del iudex vada sostituita a quella del magistrato586) si sarebbe potuta ottenere solamente, dinanzi all’indefensio del convenuto, al quale si contestasse, in confessoria servitutis che ‘ius ei non esse altius tollere’, l’imposizione di una cautio, dietro minaccia della concessione di un interdetto contro il suo altius tollere. Con tale cauzione, il convenuto si impegnava ad assumere, in un eventuale giudizio futuro, la posizione di attore in negatoria. Corrispettivamente, al convenuto in negatoria della medesima servitù, che pure fosse rimasto indefensus, veniva imposto di garantire di non effettuare alcuna nuntiatio, né alcuna vis contro l’attività edificatoria di controparte: in tal modo, si costringeva il convenuto ad assumere, in un eventuale futuro giudizio di merito, la posizione di attore in confessoria587. Come è stato osservato, nelle azioni in rem diverse dalla vindicatio588, la indefensio poteva avvicinarsi al trasferimento della posizione di possessore, in un’accezione che implicasse una mera posizione processuale: non si sarebbe trattato, cioè, di un possesso in senso tecnico589.

583 Ancora D’Amati 2016, 106 s. Secondo Nicosia 2013, 264 ss. tanto la formula con cui il titolare di una servitus altius non tollendi intendeva fare valere la sua pretesa che il vicino non sopraelevasse nel fondo gravato di servitù, quanto la successiva formula con cui il proprietario negava l’esistenza di una servitù di contenuto negativo gravante sul proprio fondo, si distinguevano a seconda che la costruzione fosse stata già realizzata, ovvero non lo fosse ancora stata. Sull’utilizzo dell’avverbio hactenus nel brano si vedano Cristaldi 2007, 197 nt. 187 e 202, nt. 199. 584 Cfr. sul brano, oltre che sulla struttura delle formule menzionate dal giurista, Bignardi 1992, 119 ss. 585 La ricostruzione che qui si condivide risale a Grosso 1969, 300, il quale cita analoghe cauzioni riferite da Paolo in D. 43.20.7 (= PS. 5.6.8 c). Il brano testimonierebbe come a tutela della servitus altius non tollendi sarebbe stata applicabile la operis novi nuntiatio, come ricostruisce Fasolino 1999, 55 s. e nt. 43. Cfr. anche Basile 2012, 37 e nt. 77. 586 Sul termine partes D’Ors 1997, 444. 587 Così efficacemente Burdese 1989, 360 s., criticando la ricostruzione di Rainer 1987, 196 ss. 588 A proposito della indefensio e della legittimazione passiva alla rei vindicatio, cfr. Provera 1974, 207 ss. 589 Grosso 1969, 184 indica un “possesso senza un carattere di elaborazione concettuale”. Capogrossi Colognesi 1977, 76 e nt. 11 accenna a “ellittici, anche se imprecisi, riferimenti alla possessio”.

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Alessia Spina La terminologia dei due frammenti persuade della loro comune matrice, confermata dalla coincidenza di fattispecie, che coinvolgono la violazione di una servitù di sopraelevazione, la indefensio del convenuto, la riflessione sul rimedio successivamente esperibile e sul ruolo assunto dalle parti590, in riferimento al quale – almeno a quanto le fonti sopravvissute consentono di ricostruire – i due giuristi sembrano proporre soluzioni alternative.

LIBRO XIII Del libro XIII delle quaestiones scevoliane sopravvivono sette brani, due dei quali D. 45.1.131 e D. 45.1.133 [F. 44], verosimilmente parte della medesima quaestio, come ho tentato di ricostruire, modificando la scelta di Lenel, che aveva diviso i due frammenti. Per i rimanenti testi ho accolto, invece, la ricostruzione palingenetica leneliana. Come osservato per altri libri della raccolta, risulta difficile individuare l’argomento specifico affrontato dal giurista e se fosse esattamente inquadrabile in uno schema edittale, in ossequio all’idea che l’ordine di trattazione della materia, nei libri quaestionum, ricalcasse quello dei Digesta Iustiniani. Tuttavia, uno o forse plurime linee tematiche emergono dai testi sopravvissuti del libro XIII. Propongo, di seguito, una rapida rassegna delle singole fattispecie. In D. 26.9.7 [F. 40], il breve escerto coinvolge la cautio iudicatum solvi e l’actio iudicati, applicate all’intervento processuale di un tutore. Il tema del sostituto processuale del pupillo è verosimilmente sotteso anche in D. 29.2.89 [F. 42], complicato dalla presenza di fideiussores, il quale a loro volta compaiono nella fattispecie di D. 46.8.4 [F. 43], in materia di cautio rem ratam dominum habiturum. Concentrati sul possibile contenuto delle stipulationes – richiamando precedenti giulianei – sono i già citati D. 45.1.131 e D. 45.1.133 [F. 44], mentre l’argomento di D. 45.3.19 [F. 45], apparentemente esorbitante rispetto agli altri, potrebbe essere ricondotto al tema della legittimazione processuale e dei contenuti di stipulationes pretorie, sulla base, ancora una volta, di confronti con passi di Giuliano. D. 33.5.18 [F. 41], si presenta, invece, privo di richiami tanto alle cautiones processuali, quanto alle garanzie personali: non si può escludere che la complessiva originaria quaestio da cui il testo è stato estrapolato vertesse su anch’essa su argomenti simili e che il passaggio oggi sopravvissuto – peraltro riproducente un nucleo di pensiero esclusivamente neraziano – rappresenti una digressione il cui contesto non è consentito conoscere. F. 40 – D. 26.9.7 Il brano (che Lenel riconduce alla rubrica edittale quod cum pupillo contractum erit …)591 contiene l’indicazione di un vantaggio per il tutore che abbia difeso il minore di sette anni: l’actio

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Sulla scelta del verbo sustinere in D. 39.1.15, si legga Orestano 1982, 14. Cfr. anche Wacke 1992, 420 s. Lenel 1889 II, 280, nt. 7, vi riconnette due passi ulpianei (Lenel 1889 II, 779 s., n. 1384 e 1387): Ulp. 59 ad ed., D. 42.4.3.2 e Ulp. 59 ad ed., D. 42.4.5.1. 591

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Commento. Quaestionum libri XX iudicati verrà data nei riguardi del pupillo. Si tratterebbe di una specifica applicazione della regola secondo cui la legittimazione attiva o passiva dell’actio iudicati spetta al dominus litis592: ne consegue che se qualcuno agisca alieno nomine, venendo meno la coincidenza tra il soggetto del rapporto sostanziale e il soggetto del rapporto processuale, anche la legittimazione all’actio iudicati subirebbe uno slittamento593. Come è stato osservato, ciò significa che laddove il tutore rappresentasse giudizialmente il pupillo convenuto, egli non prestava in proprio la cautio iudicatum solvi, la quale invece gravava sul rappresentato medesimo, sicché l’azione di giudicato veniva data contro il pupillo594. Anticipo come il medesimo verbo succurrere sia presente nel brano D. 29.2.89 [F. 42] proveniente dal medesimo libro tredicesimo delle quaestiones a proposito della trasmissibilità passiva dell’actio iudicati. Merita di essere letto Ulp. 9 ad ed., D. 26.7.2, perché consente di ricostruire almeno sommariamente la disciplina elaborata dalla giurisprudenza a proposito del trasferimento dell’actio iudicati in capo al tutore. Si tutor condemnavit sive ipse condemnatus est, pupillo et in pupillum potius actio iudicati datur et maxime, si non se liti optulit, sed cum non posset vel propter absentiam pupilli vel propter infantiam auctor ei esse ad accipiendum iudicium. et hoc etiam divus Pius rescripsit et exinde multis rescriptis declaratum est in pupillum dandam actionem iudicati semper tutore condemnato, nisi abstineatur: tunc enim nec in tutorem nec in pupillum. nec pignora tutoris capienda esse saepe rescriptum est. 1. Amplius Marcellus libro vicesimo primo digestorum scribit et si satisdedit tutor, mox abstinuit pupillus, fideiussoribus quoque eius debere subveniri: sed et si pupillus non abstinuit, quemadmodum ipsi, ita et fideiussoribus eius subveniri, maxime si pro absente pupillo vel pro infante satisdedit. Qualora il tutore abbia ottenuto sentenza di condanna, sia qualora egli stesso sia stato condannato, l’azione di giudicato viene data piuttosto al pupillo e contro il pupillo, e soprattutto nel caso in cui egli, se non si offrì per sostenere la lite, ma a causa dell’assenza del pupillo o a causa della sua età infantile, non poté autorizzarlo ad accettare il giudizio. E ciò anche il divo Antonino Pio stabilì in un rescritto e successivamente è stato stabilito in molti rescritti che, quando il tutore sia stato condannato, l’azione in base al giudicato deve essere sempre data contro il pupillo, a meno che si astenga: allora, infatti, (l’azione non viene concessa) né contro il tutore né contro il pupillo. Ed è stato anche spesso stabilito con rescritti che non si devono pignorare i beni del tutore. 1. Inoltre Marcello, nel libro ventunesimo dei digesti, scrive che, se il tutore abbia anche dato garanti, e poi il pupillo si astenne, anche dei fideiussori del tutore si deve venire in soccorso; ma anche se il pupillo non si astenne, così anche ai suoi fideiussori si deve venire in soccorso, soprattutto se (il tutore) diede garanti per un pupillo assente o infante.

592 Testimonianze in tal senso sarebbero Ulp. 58 ad ed., D. 42.1.4pr.-1; Paul. 9 ad ed., D. 3.4.6.3 e Gai. 4.101, oltre al brano ulpianeo D. 26.7.2pr.-1 citato nel testo. 593 Sul tema Wenger 1901, 189 ss.; Solazzi 1910, 5 ss.; Solazzi 1911, 119 ss.; Solazzi 1912, 116 ss.; Solazzi 1913, 89 ss.; La Rosa 162 ss.; Salomone 2007, 271 e nt. 61; Pasquino 2015, 453 s. 594 Così ricostruisce l’isolato frammento Masiello 1999, 228 s.

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Alessia Spina Il ragionamento di Ulpiano si rivela molto più ampio rispetto alla breve sopravvivenza scevoliana e consente di inquadrare il pensiero del giurista antonino entro una trama ricostruttiva che avrebbe avuto un momento di svolta proprio nel II secolo595. Si legge che il trasferimento – sia attivo che passivo – dell’actio iudicati dal tutore al pupillo deve essere considerato un criterio preferenziale generale (potius), che diviene più cogente (et maxime) in tre casi: quando il tutore non si sia offerto di sostenere la lite596; quando il pupillo sia assente e quando il pupillo sia un infante. Le ultime due ipotesi coincidono con quelle indicate da Scevola in D. 26.9.7 e sono accomunate dal fatto che il tutore interviene in circostanze in cui il pupillo è nell’impossibilità fisica di essere autorizzato, perché sia assente o perché non sia in grado di parlare. Significativo è che Ulpiano ricordi un primo rescritto di Antonino Pio e poi altri di suoi successori, che avrebbero deciso per il trasferimento dell’azione di giudicato contro il pupillo (dunque solamente passiva), a meno che il pupillo non si fosse astenuto dall’eredità, poiché in tal caso l’azione non sarebbe stata concessa. Nel § 1 Ulpiano ricorda l’opinione di Marcello, il quale nel libro XXI dei suoi digesta aveva sostenuto che l’assenza e l’infantia del pupillo avrebbero suggerito di andare in soccorso anche dei garanti del tutore, se fossero stati scelti da questo e il pupillo si fosse astenuto dall’eredità (Lenel, Marcell. n. 231)597: sarà opportuno ritornarvi a proposito di D. 29.2.89 [F. 42]. Nonostante le poche informazioni che il brano delle questioni fornisce, sembra ragionevole collocare l’opinione di Scevola all’interno di un dibattito giurisprudenziale che aveva reso necessari interventi imperiali e in cui la tesi di Marcello aveva costituito un precedente significativo nella ricostruzione ulpianea598. F. 41 – D. 33.5.18 D. 33.5.18 propone un brevissimo stralcio di una quaestio più ampia e racchiude un nucleo di pensiero neraziano. Non vi sono indizi utili per affermare che la posizione di Scevola coincidesse con quella del giurista traianeo. Anzi, un tentativo di lettura sistematica dei testi scevoliani presenti in D. 33.5 consente di ipotizzare una divergenza tra quanto contenuto nelle quaestiones e quanto deciso nelle opere casistiche. Il contesto in cui si inserisce la riflessione scevoliana e, all’interno di questa, la citazione di Nerazio appare di difficile certa ricostruzione599. In particolare, non è dato sapere quale

595 Sul passo Sciortino 2001, 184 e nt. 3; sulla citazione di Marcello compiuta da Ulpiano, Sperandio 2011, 375 e nt. 77. 596 Precisa Pugliese 1963, 340, che “il trasferimento avviene se il tutor non se liti obtulit. Liti se offert il tutor che, potendo far comparire in giudizio il pupillo e interporre l’auctoritas, preferisce concludere personalmente la litis contestatio”. 597 Si accolgono qui i risultati dell’indagine di La Rosa 1963, 174 ss.; Pugliese 1963, 340 ss.; Kaser 1966, 166 e nt. 77 che ritengono superata, nel II secolo, la fase storica in cui la legittimazione attiva all’actio iudicati era concessa allo stesso tutore o curatore, non conferendo alcuna rilevanza al ‘liti se offerre’ del tutore o del curatore.Cfr. Wenger 1901, 193 ss.; Solazzi 1910, 7 ss. (370 ss., in particolare 377 ss.); Betti 1922, 367 ss.; Bonini 1968, 195 s. e nt. 64. Sull’utilizzo dell’avverbio saepe in riferimento ai provvedimenti imperiali, Casavola 1976, 31 e nt. 38. Ancora Plescia 1984, 175; sulla parte finale del principium, Litewski 1974, in particolare 256 e nt. 222. Sul iudicium accipere, si legga Kaser 1967, 6 e nt. 26 e, più di recente, Lambrini 1999, 321 e nt. 41. 598 Sui temi e i passi citati nel commento, si vedano anche i contributi di Provera 1983, 611 ss.; Segrè 1952 (1934), 258; Levy 1907, passim; Levy 1918, passim; Frezza 1962, passim. 599 Per un tentativo di ricostruzione del caso, dal quale, in questa sede, ci si discosta almeno parzialmente, Masiello 1999, 229, in parte riprendendo gli studi di Ferrini 1930, 270 ss.

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Commento. Quaestionum libri XX sia stato l’oggetto precipuo della quaestio, tant’è che lo stesso Lenel esprime dubbi quando colloca il brano sotto la rubrica edittale cui heres non extabit600. L’ablativo assoluto di esordio, homine legato, sembra introdurre un legatum optionis, come si evince dal verbo eligi della proposizione successiva601. Il secondo ablativo assoluto, repudiato Pamphilo (una sineddoche, dal momento che si rigetta il legato avente ad oggetto il servus), induce a immaginare che il testatore avesse disposto un secondo lascito, a un onorato diverso, con il quale attribuiva specificamente Pamphilus. Se il legatario destinatario di Pamfilo rifiuta il legato – dice Nerazio – non si compirà nulla. Nel pensiero del giurista traianeo il rifiuto del legato avrebbe avuto l’effetto di annullare le conseguenze sulla libertà di scelta del primo legatario, sicché nihil agitur. L’espressione appare ricorrente nei giuristi traianei e adrianei (mentre non è attestata in alcun luogo scevoliano)602 e risulta coerente con la concezione tipicamente proculiana in materia di lasciti mortis causa. Basti pensare, per analogia, alla ben più nota fattispecie di legatum per praeceptionem: i seguaci di Proculo sostenevano che il bene, alla morte del testatore, divenisse res nullius e se non veniva accettato dall’onorato con un atto unilaterale, esso sarebbe stato riassorbito nel complesso ereditario603. Conseguentemente (itaque), la scelta del legatario al quale è concessa l’optio potrà concentrarsi anche su Pamfilo, rifiutato dall’onorato e, dunque, rientrante nella categoria dei servi su cui era ammessa scelta. D’altra parte, l’optio non sarebbe stata inefficace per il concorso di altre disposizioni: proprio nel caso supra ricostruito, se il destinatario del legatum optionis avesse scelto Pamfilo, il legatario di Pamfilo avrebbe acquistato adita hereditate la metà dello schiavo, restando condomino per l’altra quota604. Come notavo, l’architettura del titolo dedicato al legatum optionis vel electionis605 consente di individuare le trame dello ius controversum formatosi attorno al tema e di verificare se l’idea scevoliana circa il momento rilevante per la considerazione del legato coincidesse con quella proculiana. La risposta parrebbe negativa, almeno alla lettura di uno dei responsa con i quali i compilatori giustinianei hanno deciso di chiudere il titolo D. 33.5. Scaev. 22 dig., D. 33.5.22: Maritus uxori suae codicillis per fideicommissum dedit praedia, item lances quas elegerit quattuor: quaesitum est, an ex his lancibus, quae mortis tempore sint, eligere possit. respondit posse.

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Lenel 1889 II, 280: cfr. Lenel 1883, 334. Secondo Voci 1963, 264 si tratta di un legato che non presenta un oggetto particolare, ma gli esempi sono rappresentati in massima parte da schiavi. 602 Nihil agi è, infatti, testimoniato – per limitare in via esemplificativa l’elencazione alle fattispecie più vicine a quelle in esame – da Ulp. 7 ad Sab., D. 29.2.13.1; Ulp. 7 ad Sab., D. 29.2.21.2. Ne emerge come che la condotta del rinunciante non produca alcunché di valido. 603 Così Falchi 1981, 133 ss., in particolare 140, dove si specifica che “i Proculiani si attenevano al momento dell’acquisto da parte dell’onorato; la sua accettazione provocava la realizzazione degli effetti giuridici conseguenti all’acquisto del legato”. 604 Così ancora Voci 1963, 266 e nt. 81, sulla base di Iul. 70 dig., D. 30.99 e di Iul. 36 dig., D. 33.5.11. 605 Sul legatum optionis, Voci 1963, 265 ss. (e poi 371): si tratta di un lascito a titolo particolare ad efficacia reale, “in cui il testatore, con apposita formula, ordina una disposizione generica o alternativa, attribuendo espressamente la scelta al legatario”. 601

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Alessia Spina Un marito ha dato a sua moglie dei fondi attraverso codicilli, e inoltre quattro vassoi che avrebbe scelto: si è domandato se possa scegliere tra questi vassoi che siano presenti al momento della morte. Risponde che si può.

Nell’interpretazione del lascito proposta da Scevola, la scelta cade su beni presenti nell’asse ereditario al momento della morte del de cuius: il richiamo al tempus mortis – costante nelle soluzioni casistiche offerte dal nostro giurista – si contrappone alla prospettiva neraziana, che invece valorizzava gli accadimenti successivi alla morte del testatore. Con un simile atteggiamento Scevola si mostra aderente all’indirizzo della scuola sabiniana, la quale – come è evidente, ad esempio, nella fattispecie del legatum per praeceptionem – prediligeva una prospettiva di valorizzazione degli effetti derivanti dalle disposizioni mortis causa. Tali effetti dovevano essere possibili alla morte del testatore: nel caso di D. 33.5.18, dunque, l’opzione di Pamfilo non sarebbe stata accolta da Scevola. F. 42 – D. 29.2.89 Il passo descrive una fattispecie connessa al cd. beneficium abstinendi, come si evince dalla proposizione condizionale con cui si apre D. 29.2.89. Altro elemento fondamentale per ricostruire il caso concreto è l’espressione contractu hereditario. Essa non si rinviene in altri luoghi del Digesto e, in effetti, potrebbe indicare la stipulazione attraverso la quale il pupillo si obbligava ad accettare l’eredità; e tale obbligazione era stata garantita da fideiussori606. Il beneficio d’astensione avrebbe consentito agli heredes sui che non si fossero immischiati nell’eredità di non subire le azioni dei creditori ereditari, perché esse sarebbero state denegate dal pretore. Tuttavia, occorre chiedersi in tale circostanza quale sorte dovessero subire i garanti convenuti. Scevola escludeva una responsabilità dei fideiussori, a differenza di quanto avrebbe sostenuto, ad esempio, Gaio, per il quale la fideiussione era efficace e valida qualunque fosse la natura dell’obbligazione, civile o naturale, sicché i fideiussori dovevano ritenersi in ogni caso tenuti607. Il nostro giurista, invece, estendeva anche ai fideiussori il beneficio608: alla luce di quanto si legge in D. 26.9.7 [F. 40] è ragionevole sostenere che il beneficio consistesse nella mancata concessione di un’actio iudicati contro il pupillo e contro i fideiussori609. In questa prospettiva, riferendosi il passo a uno dei casi in cui si verifica la caduta dell’obbligazione di garanzia in conseguenza dell’inesistenza di quella principale, il rapporto di garanzia si configura come accessorio rispetto a quello principale610.

606 Secondo Masiello 1999, 229 s., nel passo non si fa cenno a tutori che assistano il pupillo, sicché si deve immaginare che l’obbligazione assunta dal pupillo sia naturale: lo stipulante non potrebbe convenire in giudizio il pupillo e citerebbe, dunque, i fideiussori. 607 Gai. 3.119a. 608 Flume 1996, 124. Sponsio e fideipromissio accedono a negozi che abbia la struttura di una verborum obligatio, anche se inefficace. La fideipromissio è invece rivolta al rapporto obbligatorio, sicché non può essere produttiva di effetti se non accede a un’obbligazione principale. Sul punto rinvio a Briguglio 1999, 20 ss. e passim, anche per la bibliografia ivi citata. 609 Tra i contributi più recenti in materia di fideiussione si ricordano a titolo meramente esemplificativo i lavori di Cardilli 2016, 562; Longo 2017, 43 ss., ai quali si rimanda anche per la bibliografia ivi citata. 610 Secondo Mannino 1992, 106 s. e nt. 13, l’affermazione è calzante per Iul. 51 dig., D. 46.1.15pr. e Ulp. 52 ad ed., D. 36.4.1pr., nelle cui vicende è evidente si trattasse di una stipulatio sine causa. I dubbi si presenterebbero, invece, oltre che per D. 29.2.89, anche per Pap. 27 quaest., D. 46.1.49pr. e per Paul. 2 ad leg. Iul. et Pap., D. 38.1.37.8.

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Commento. Quaestionum libri XX È possibile rilevare un generale atteggiamento di favore nei riguardi dei fideiussori, come sembrerebbe confermato anche da una terminologia ricorrente, in cui l’utilizzo del verbo succurrere in materia di fideiussione appare non infrequente611: basti citare Iul. 89 dig., D. 46.1.17, il cui esordio è significativo: “Fideiussoribus succurri solet” e alluderebbe, come è stato scritto, a una prassi favorevole ai fideiussori612. Lo confermerebbe un passaggio già ricordato commentando D. 26.9.7, ossia Ulp. 9 ad ed., D. 26.7.2.1, in cui Ulpiano ricorda l’opinione di Marcello espressa nel libro XXI dei digesti. Marcello riferisce il caso di fideiussori dati dal tutore (e dunque, non dal pupillo, come nel brano in esame) e sostiene che, laddove il pupillo si astenga dall’eredità, anche ai fideiussori si deve andare in soccorso, così come, soprattutto se il pupillo non si sia astenuto, ma sia assente o infante, il favore nei confronti dei garanti deve essere confermato (Lenel, Marcell. 231). È verosimile che Scevola si sia collocato su una linea giurisprudenziale di attenzione alla figura dei garanti nel caso in cui fossero nominati da un sostituto processuale, sostenuta da Marcello, probabilmente fissata da rescritti imperiali (anche alla luce di quanto supra si è detto a proposito di D. 26.7.2) e infine accolta anche dai giuristi dell’età severiana, come il brano di Ulpiano consente di affermare613. F. 43 – D. 46.8.4 La brevità di D. 46.8.4 ha fatto ipotizzare che esso sia stato oggetto di interventi da parte dei commissari giustinianei. Invero, trattandosi di un isolato stralcio di una quaestio più ampia, esso avrebbe potuto manifestare un senso preciso solo se letto nel suo contesto originario614. D’altra parte, quanto a tutt’oggi sopravvive presenta uno stile riconducibile alla laconicità tipicamente scevoliana. Il suggerimento leneliano di sostituire il termine fideiussores con quello di sponsores è stato accolto da una parte degli studiosi, sebbene il richiamo giustinianeo ai fideiussori possa ritenersi plausibile proprio in connessione alla natura dell’obbligazione che essi sono chiamati a garantire: si tratterebbe, infatti, di garantire una ratihabitio, che costituisce un facere infungibile per il quale la fideiussione risultava perfettamente idonea615. Il brano si rivela di difficile comprensione e su di esso la glossa accursiana ricorda due diverse interpretazioni, sostenuta l’una da Ugolino, l’altra da Azone, attorno alle quali si sono

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Sulla classicità del verbo, rinvio alle considerazioni di Wesener 1968, 532, nt. 4. Voci 1985 (1969), 317 nt. 18 ricorda il presupposto, di carattere generale, “ch’è la cognitio del magistrato a decidere sull’ammissibilità della solidarietà e della cessione”. 613 La Pira, 1930 b, 299 ss. 614 Dalla Massara 2007, 1288, osserva che il passo risulterebbe scritto in maniera “assai sintetica, in qualche tratto quasi sincopata … sicché ritengo non sia affatto da escludersi qualche intervento giustinianeo, almeno in senso riassuntivo”. Del brano, oltre agli autori che in prosieguo si citeranno, si possono ricordare Donatuti 1923, 190 ss.; Beseler 1926, 141 ss. 615 L’osservazione è di Masiello 1999, 162. Contra, immaginando l’originario riferimento alla sponsio, recentemente Dalla Massara 2007, 1291; e già, in precedenza, Palermo 1956, 147; Daube 1959, Medicus 1962, 268 s. e nt. 26; Sacconi 1977, 240 e nt. 63. Per Biondi 1962, 128 merita revisione la tendenza dei “critici moderni, i quali, sulle orme del Lenel, ritengono che Giustiniano abbia costantemente sostituito fideiussio a sponsio e fideipromissio, come se queste ultime fossero le sole garenzie riconosciute dai classici, o che soltanto ad esse si riferissero le discussioni che troviamo nelle Pandette”. 612

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Alessia Spina concentrate anche le successive letture, relative allo strumento della cautio ratam rem dominum habiturum616. Come noto, la litis contestatio del procuratore non consumava l’azione, sicché venne introdotta la cautio rem ratam dominum habiturum (nota anche come cautio de rato), ossia una stipulazione pretoria con cui il procurator dell’attore garantiva che il dominus litis non avrebbe riproposto l’azione e che, in caso contrario, avrebbe risarcito il danno del convenuto617. Secondo Ugolino il procurator avrebbe agito per i cinquanta e, attraverso un pactum, si sarebbe accordato con il debitore di non domandare gli altri cinquanta, sino al termine della pretura in corso. Dunque, la cautio de rato sarebbe stata prevista in riferimento non soltanto al pagamento dei cinquanta richiesti, ma sarebbe stata allargata all’accordo di differimento del pagamento dei residui cinquanta. Azone propone una diversa interpretazione, per la quale la cautio avrebbe coperto solamente la richiesta dei cinquanta, mentre il quanti interfuit differri quinquaginta actionem si riferirebbe al danno sofferto dal convenuto, il quale, una volta pagati i cinquanta perché richiesti dal procurator, non aveva avuto la possibilità di farli fruttare nel periodo compreso tra l’azione di ratifica e la richiesta del dominus. Entrambe le interpretazioni consentono di fare luce su alcuni profili della fattispecie. Sembra potersi escludere la presenza – sostenuta da Ugolino – di un pactum, da considerarsi superfluo, perché superato nella prassi dal fatto che l’attore sarebbe stato comunque costretto a differire l’azione per il residuo, se non voleva vedersi opposta l’exceptio litis dividuae. Dal brano emerge un danno subito dal convenuto, sebbene non sia chiarito in che cosa esso consista. I glossatori, dunque, avrebbero espresso due idee differenti. Secondo Ugolino il danno del convenuto sarebbe coinciso con il danno – da mancata ratifica – derivante dall’avere pagato i cinquanta al procurator e dal non avere potuto ottenere il differimento dell’azione per gli ulteriori cinquanta, quale ulteriore conseguenza della mancata ratifica618: se fosse stata prestata una cautio, non vi sarebbe stata ancora stata ratifica e dunque, il dominus non sarebbe stato nella condizione di domandare l’intero, come in effetti sembrerebbe avere fatto, senza incorrere nella pluris petitio e cagionando un danno al convenuto619. Se, invece, il dominus avesse ratificato l’azione del procuratore per cinquanta, egli non avrebbe potuto agire intra eiusdem praeturam per ottenere gli altri cinquanta. Invece, dal momento che non vi era stata ratifica, il dominus poteva agire per l’intero ammontare del credito, e ciò avrebbe costituito un danno per il convenuto. Secondo Azone, invece, il danno comprende – per utilizzare una terminologia moderna – non soltanto il danno emergente, ma anche il lucro cessante620. Questa ultima lettura pare la più persuasiva, anche alla luce di alcuni passi del medesimo titolo D. 46.8, in cui si avverte come l’attenzione dei giureconsulti sia concentrata

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Accursius 1787, gl. ad D. 46.8.4. Talamanca 1990, 343. 618 La tesi di Ugolino sembrerebbe sposata da Lenel 1889 II, 280 nt. 9 (ritenendo sottintesa l’indicazione ‘propter exceptionem litis dividuae, quae obstitisset domino, si ratum habuisset’); Daube 1959, 314 ss.; Cantarella 1969, 112; Dalla Massara 2007, 1291 la reputa sovrabbondante. 619 Dalla Massara 2007, 1291. 620 Cantarella 1969, 112 s. ritiene che l’interpretazione di Azone non corrispondesse al genuino pensiero di Scevola, ma all’impostazione giustinianea e a un’epoca in cui il problema del minus petere sembrerebbe doversi ritenere superato (cfr. ancora Cantarella 1969, 113 e nt. 25). 617

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Commento. Quaestionum libri XX proprio sul tema di un danno scaturente dalla mancata messa a profitto a seguito di una stipulatio de rato azionata. Il dato emergerebbe, ad esempio, da un brano di Paolo, D. 46.8.13pr.: si legge che se si verifica l’azionabilità della stipulatio de rato, essa compete per gli interessi, ossia sia per quanto a me manca, sia per quanto avrei potuto guadagnare621. Dietro il passo di Paolo si può scorgere, verosimilmente, il pensiero di Pomponio, come si può evincere dal successivo § 1 del medesimo frammento, dove il nome del giurista antonino è espressamente richiamato622, nonché da Pomp. 26 ad Sab., D. 46.8.18, laddove si affronta il problema della ratifica parziale, ed entrano in gioco danni e interessi dell’attore. La letteratura più recente che si è occupata del passo di Scevola, d’altro canto, lo indica quale uno dei migliori esempi dell’esistenza e dell’applicabilità, nel processo formulare, dell’exceptio litis dividuae, rimedio concesso al debitore convenuto in giudizio per evitarne la duplicazione laddove il creditore abbia agito solo per una parte del credito. La ratio giustificatrice dell’eccezione sarebbe rappresentata dalla volontà di evitare che all’attenzione del magistrato vengano portate, per due o più volte, partes diverse di una medesima situazione giuridica unitaria623. Infatti, il minus intendere, seppur lecito, era disincentivato poiché contrario all’economia dei giudizi: era percepito come un disvalore che l’ordinamento riconnetteva alla possibilità di una moltiplicazione dei processi, con inutile aggravio sull’attività giudiziaria. Come conseguenza, la proposizione di una domanda per il residuo entro il tempo di una medesima pretura avrebbe determinato il potere del convenuto di chiedere la reiezione della domanda stessa624. Tutto ciò premesso, tuttavia, l’attenzione allo strumento processuale625 nel passo di Scevola appare ancillare rispetto al vero fulcro del ragionamento e spostato sulla figura dei fideiussori, oggetto di riflessione anche nel brano che precede palingeneticamente quello in esame (D. 29.2.89 [F. 42])626. Appare utile ripercorrere la fattispecie. Un procuratore avrebbe domandato cinquanta: la somma, alla luce di quanto si legge, rappresenta la metà del credito complessivo, pari a cento, per i quali agisce il dominus negotii, sulla base – deve intendersi – dello stesso titolo addotto dal procuratore. Dal momento che la ratifica da parte del dominus sulla richiesta dei cinquanta avrebbe avuto l’effetto di bloccare la pretesa dell’intero, il dominus avrebbe dovuto attendere il decorso annuale della pretura per potere agire per il residuo, per non vedersi opporre l’exceptio litis dividuae. Si deve presupporre che nel caso de quo il dominus

621 De Robertis 1966, 121; Kaser 1973, 187 nt. 16, in particolare per il richiamo al quanti ea res est; Knütel 1975, 148 nt. 58; Kupisch 1975, 3, nt. 17; Sanguinetti 1999, 193 s. e nt. 77. 622 Paul. 76 ad ed., D. 46.8.13.1: Stolfi 2001, 119 s. 623 Così Dalla Massara 2005, 132 ss. Rinvio, per l’ampia bibliografia sul brano e sui diversi problemi che esso suscita, al lavoro di Dalla Massara 2007, 1287 ss., ampiamente citato anche nel prosieguo. 624 Si vedano Provera 1958, 145 ss.; Cantarella 1969, 99 ss.; Dalla Massara 2005, passim; Dalla Massara 2007, 1298, precisa che “il gioco dell’exceptio litis dividuae, con la sua natura dilatoria, spinge il creditore a evitare il frazionamento della domanda”. Ancora Dalla Massara 2017, 275 ss. in particolare 278 ss. 625 Di cui vi sarebbe importante traccia anche in Gai. 29 ad ed. prov., D. 6.1.44. 626 Non si condivide l’opinione espressa da Daube 1959, 316 (ma poi seguita anche da Masiello 1999, 161 e Dalla Massara 2007, 1287, il quale però prospetta la questione come più genericamente “di natura processuale”), che ritiene l’oggetto della quaestio sia proprio l’exceptio litis dividuae. Bonifacio 1960, 1081, condivide l’idea di Lenel 1889 II, 280, nt. 9, che si tratti di “una significativa, se pur indiretta” traccia dell’eccezione.

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Alessia Spina negotii non abbia ratificato: almeno in assenza della ratifica dell’operato del procurator da parte del dominus, avverso la domanda da questi proposta non sarebbe stata opponibile la exceptio litis dividuae627. Il quesito del maestro, dunque, riguarda l’obbligazione dei fideiussori, descritti come garanti della cautio ratam rem dominum habiturum, resa nel testo dall’espressione de ratihabitione cavere628. Essi avrebbero dovuto promettere che non sarebbe stata riproposta l’azione per i cinquanta richiesti dal procuratore, oltre che per gli interessi che sarebbero maturati sino alla domanda del dominus dinanzi al nuovo magistrato. Scevola, quindi, monetizzerebbe il differimento629, nel senso che l’interesse – maturato sulla somma residua630 – sarebbe indotto dall’opportunità di evitare l’opposizione dell’exceptio, attraverso il differimento dell’azione alla scadenza della magistratura631. Per tentare di comprendere meglio il ragionamento scevoliano può essere utile la lettura di due passaggi provenienti dal medesimo titolo D. 46.8, rubricato Ratam rem haberi et de ratihabitione. Il frammento giulianeo versato in D. 46.8.22, tratto dal libro cinquantaseiesimo dei digesta consente di descrivere l’articolato rapporto tra procurator, dominus negotii e fideiussor, e a rilevare è la parte centrale del paragrafo 2: Iul. 56 dig., D. 46.8.22.2: Quod si procurator per iudicem non debitam pecuniam exegisset, dici potest, sive ratum dominus habuisset sive non habuisset, fideiussores non teneri, vel quia nulla res esset, quam dominus ratam habere possit, vel quia nihil stipulatoris interest ratum haberi: adficietur ergo iniuria is, qui procuratori solvit. magis tamen est, ut, si dominus ratum non habuerit, fideiussores teneantur. Che se un procuratore abbia reclamato denaro non dovuto attraverso un giudice, può dirsi che, sia che il padrone avesse ratificato, sia che non avesse ratificato, i fideiussori non sono tenuti, o poiché non sia presente il bene che il padrone possa avere ratificato, sia poiché lo stipulatore non abbia alcun interesse alla ratifica: dunque, è ingiustamente danneggiato colui che paga al procuratore. È piuttosto che, se il padrone non abbia ratificato, i fideiussori sono tenuti.

È forse quello riportato il precedente cui si ispira Scevola: nel passo di Giuliano si collega la mancata ratifica da parte del dominus all’obbligazione dei fideiussori: magis tamen est, ut, si dominus ratum non habuerit, fideiussores teneantur. Singolare appare, altresì, la scelta compilatoria di far seguire [F. 43] da un brano scevoliano, tratto da libri responsorum:

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Così Dalla Massara 2007, 1297 ss. Così la interpretano la maggiore parte degli studiosi: ex multis, si possono ricordare Ziebarth 1873, 400 ss.; Palermo 1956, 147; Serrao 1947, 103; Bonifacio 1960, 108; Mecke 1962, 157 ss.; Cantarella 1969, 112; Meinhardt 1976, 749 s.; Sacconi 1977, 240 (la quale, però, parla di una satisdatio ratam rem dominum habiturum); Dalla Massara 2007, 1288. 629 Medicus 1962, 269; così anche Dalla Massara 2007, 1298, sulla base di quanto si afferma in Gai. 1.122, sul quale, ancora, Dalla Massara 2017, 282 ss., anche per la bibliografia ivi citata. 630 Così Masiello 1999, 162. 631 Si tratterebbe, secondo Dalla Massara 2007, 1291 dell’interesse “facente capo al debitore, cui è già stata rivolta la prima domanda”. 628

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Commento. Quaestionum libri XX Scaev. 5 resp., D. 46.8.5: respondit non tantum verbis ratum haberi posse, sed etiam actu: denique si eam litem, quam procurator inchoasset, dominus comprobans persequeretur, non esse commissam stipulationem632. Ha risposto che non soltanto con le parole si può ratificare, ma anche con un gesto: poi se quella lite, che il procuratore abbia iniziato, la continui il padrone che la approva, non è stata violata la stipulazione.

Si tratta di un testo privo della narratio e della formulazione del quaesitum, in cui sopravvive il solo responsum in senso stretto: si potrebbe immaginare che la commissione tribonianea abbiano ritenuto di collegarlo a D. 46.8.4633. In quest’ultimo brano, infatti, la mancata ratifica giustifica il dubbio sottoposto alla platea di allievi e nel frammento 5 Scevola sostiene che la ratifica può ritenersi efficace anche se resa da un comportamento concludente. La posizione di Scevola rappresenta un tassello ulteriore rispetto a una “virtuale collaborazione” tra Giuliano e Pomponio nel ridisegnare i poteri e i limiti del procuratore634. La riflessione scevoliana, in questo contesto, sfiora il tema della rappresentanza e può, semmai, solamente segnare un momento di un dibattito giurisprudenziale in cui il nostro giurista e Pomponio sostenevano tesi a volte divergenti, come d’altra parte, risulta evidente dalla lettura di D. 3.5.8(9) [F. 2]. F. 44 – D. 45.1.131 + D. 45.1.133 Propongo la riunione in un’unica quaestio di due brani distinti nella Palingenesi leneliana e nei Digesta Iustiniani separati da un unico frammento, D. 45.1.132, tratto dal libro quindicesimo delle quaestiones di Paolo. D’altra parte, se si getta uno sguardo alla costruzione dell’ultima parte del titolo D. 45.1, in particolare la parte compresa tra il frammento 125 e il frammento 133, essa appare un mosaico di passi escerpiti, alternativamente, dalle raccolte di quaestiones di Scevola (libri quinto, dodicesimo e quindicesimo) e di Paolo (libri secondo, terzo, decimo e quindicesimo). Dinanzi a un simile evidente intento di composizione, possiamo immaginare che i commissari giustinianei abbiano spezzato una quaestio in origine unitaria. I due brani sono dedicati all’interpretazione della doppia negazione ‘neque … neque’ – sulla quale il giurista aveva riflettuto anche all’interno del libro XII635 –, concentrandosi nella clausola ‘neque per te, neque per heredem tuum’. In entrambi i testi il pensiero di Cervidio Scevola si sovrappone a quello del maestro Giuliano. In particolare, in D. 45.1.131 si apre con una considerazione espressamente giulianea: l’obbligo di non facere, contenuto in una stipulazione, grava su due soggetti, ossia sul promit-

632 Casavola 1965, 103. Sul passo anche Giglio 1994, 213 nt. 9; Bonifacio 1956, 101 e in precedenza Koschaker 1905, 42 ss.; 84 ss.; 147 e nt. 3. Citano il passo inoltre Behrends 1971, 271 e nt. 224 e Wacke 1973, 250, nt. 129; sul transferre iudicium, recentemente Turelli 2020, passim. 633 Il brano è collocato da Lenel 1889 II, 315, n. 309, a chiusura del libro V e sotto la rubrica edittale ‘Rem ratam haberi’ (E. 289). 634 Pomponio, in particolare, avrebbe affrontato secondo la propria usuale sensibilità il tema dei limiti del procuratore, con un’attenzione particolare a taluna “casistica di confine”, come il già citato Pomp. 26 ad Sab., D. 46.8.18, insieme a Pomp. 3 ex Plaut., D. 48.6.16, proverebbero: così Stolfi 2001, 118 s. e nt. 172. 635 Ampiamente sulla presenza in Scevola dell’argumentum per duplicem exceptionem e per i luoghi in cui compare, Gokel 2014, 126 ss.

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Alessia Spina tente e sul suo erede. Il contenuto dell’obbligo negativo è di impedire il passaggio: la clausola stipulatoria, dunque, riguarderebbe – come è stato scritto – una servitù di passaggio636. Se l’erede Tizio impedirà l’esercizio della servitù, dovranno essere tenuti anche i coeredi. Il § 1, invece, sembra riferire un caso di paternità scevoliana: la formulazione attraverso nomi generici potrebbe fare pensare che si tratti di un’esemplificazione proposta dal maestro a partire dalla iniziale suggestione giulianea. L’attenzione è spostata su una stipulazione che contiene l’alternativa tra il trasferimento del fondo a due persone diverse: lo stesso stipulante e Tizio. Se il fondo è stato consegnato a Tizio, tuttavia, lo stipulante potrebbe formulare la petitio del bene, perché possa essere garantito contro l’evizione637: tale operazione è svolta nell’interesse del promittente, ed è necessaria perché il rapporto fra lo stipulante e Tizio si fonda su un contratto di mandato. Diverso esito avrebbe la vicenda se l’interposizione di Tizio fosse avvenuta donationis causa: in tal caso la mera consegna avvenuta a Tizio avrebbe liberato il promittente, che non avrebbe dovuto rispondere per evizione. Passando ora all’esame del secondo brano, l’esordio di D. 45.1.133 ripropone un caso di stipulazione contenente la clausola ‘neque per te, neque per heredem tuum’, la stessa menzionata da D. 45.1.131: il dato suggerisce che i testi fossero parte di una medesima quaestio. In particolare, anche per il frammento 133, come si è visto per il frammento 131, si potrebbe pensare che la matrice sia giulianea e che la presenza dell’infinitiva remanere priva di un verbo reggente possa esserne spia. Nella fattispecie l’oggetto della promessa è che né il promittente né il suo erede compiano violenza. Il dubbio giuridico attiene, nuovamente, all’interpretazione – cumulativa o alternativa – del riferimento ai due comportamenti. Più precisamente il giurista – quindi presumiamo Giuliano – afferma che è stata mossa un’azione dallo stipulante contro il promittente che ha usato violenza. L’esperimento dell’azione ex stipulatu non consuma la possibilità di agire nei riguardi dell’erede, che continua ad essere obbligato al comportamento negativo di non violenza. Infatti – e qui si inserirebbe il pensiero propriamente scevoliano – la stipulazione rimane valida, efficace e azionabile laddove la violenza venga compiuta dall’erede. La conclusione perentoria è che una simile stipulazione non è riferibile a un unico episodio di violenza (non enim ad unam vim pertinet), precisando che essa ricomprende tanto la violenza perpetrata dal promittente o del suo erede, quanto tutti gli episodi che, nel tempo, da questi potranno essere posti in essere; la condanna sarà al quanti interest, ossia commisurata all’interesse dell’attore. Scevola inserisce, poi, un’ulteriore variante casistica: si domanda se, qualora la stipulazione contenga la clausola “neque per te neque per heredem tuum fieri?”, ossia sia priva, rispetto alla precedente, del richiamo alla violenza, si possa pensare che essa si riferisse a un solo, isolato, episodio di violenza. Il maestro dimostra come anche tale interpretazione rischierebbe di svuotare di significato la previsione negoziale, poiché la violenza posta in essere dal promittente annullerebbe la possibilità di agire in caso di violenza dell’erede: ma così sarebbe svuotata di efficacia la clausola “neque per te neque per heredem tuum”. Non avrebbe senso, cioè, immaginare che la violenza del promittente consumi il contenuto della stipulazione e, con

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Così Masiello 1999, 155 ss., in particolare 156. Secondo Lenel 1889 II, 280, nt. 10 e 11, i riferimenti alla traditio sarebbero da intendersi come originariamente compiuti alla mancipatio. 637

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Commento. Quaestionum libri XX essa, l’azionabilità di un rimedio a favore dello stipulante. Una simile soluzione – conclude Scevola nell’ultimo passaggio di D. 45.1.133 – non appare conforme a un criterio di veritas. F. 45 – D. 45.3.19 Nel frammento si ritrova un tema – quello del condominio e del compossesso dello schiavo – già affrontato dal maestro nel libro II, dal quale sono tratte le testimonianze ulpianee di D. 7.1.25.6 e D. 41.1.23.3 [F. 6]. In particolare, D. 41.1.23.3 contiene un espresso riferimento alla trattazione ‘in inferioribus’ compiuta da Scevola, che ragionevolmente si può ritenere coincidente con quella svolta nella quaestio di cui anche D. 45.3.19 è parte. Mommsen – seguito anche da Lenel638 – propone di considerare una glossa la parte da ei a adquisiit: si tratta di una porzione di testo sovrabbondante e che potrebbe espungersi senza minare il significato complessivo639. Tuttavia, essa potrebbe spiegarsi anche come una precisazione nel discorso del maestro che ha la sola funzione di richiamare la ratio della soluzione proposta, ossia l’acquisto ex re sua, criterio che, nel discorso complessivo a noi non giunto (ma che si può fare emergere da D. 7.1.25.6 e D. 41.1.23.3) si affiancherebbe a elementi ulteriori quali l’indicazione nominativa e l’emissione di un iussum640. Si sono già affrontate supra le questioni relative a una presunta contraddizione nella posizione di Scevola, che sarebbe portato a decidere diversamente a seconda che si tratti di uno schiavo posseduto da due soggetti, ovvero da uno schiavo che ‘duobus bonae fidei serviens’. La lettura dei brani proposta da Bretone è apparsa alla maggior parte della letteratura risolutiva. Secondo questo Studioso dai brani coinvolti emergerebbe il sensibile sforzo compiuto dai compilatori per adeguare la situazione del servus alienus duobus bona fide serviens al quella del servus communis641. Una simile affascinante ricostruzione impone, però, di immaginare un significativo intervento giustinianeo sul testo, tale da snaturarne, almeno in parte, la struttura. Si è già tentato, in occasione del commento ai brani del libro II, di individuare prospettive idonee a salvare la genuinità dell’escerto, nella convinzione che quanto a oggi sopravvissuto non rappresenti che un breve stralcio, collocato in un contesto più generale di cui si ignorano i contorni, e utilizzato dai compilatori del Digesto per renderlo funzionale a un discorso più ampio. In altre parole, le poche sopravvivenze scevoliane sulla vicenda de qua – almeno parzialmente filtrate dalla lettura ulpianea – non possono configurare materiale sufficiente all’elaborazione di una ricostruzione complessiva del pensiero di Scevola in materia. A ciò occorre aggiungere che il maestro aveva affrontato il medesimo tema in libri distinti, dedicandosi, dunque, a riflessioni diverse, non potendosi escludere che la finalità didattica con cui si accostava ai problemi consentisse di raggiungere esiti interpretativi diffe-

638 Lenel 1889 II, 281, nt. 1 (ma anche Salkowski 1891, 250, nt. 30). Bretone 1958, 76 e nt. 60 propone, invece, di cancellare il secondo ei e il pronome id, in parte riprendendo la ricostruzione compiuta da Berger 1922b, 404 s. Grosso 1958, 229 s. scioglie l’impasse ritenendo “non … improbabile che anche qui il giureconsulto (n.d.a.: Ulpiano), richiamando la soluzione di Scevola per i possessori di buona fede, ricordasse l’evoluzione del pensiero di Scevola in proposito”. 639 Legge nella frase ‘ei ex cuius re adquisiit id totum ei adquirat’ una prolessi, Masiello 1999, 106. 640 Chiarisce in tal senso Grosso 1958, 231, richiamandosi ai passaggi ulpianei. 641 Tali presunte contraddizioni hanno indotto autorevoli studiosi a ritenere il passo oggetto di importanti interventi da parte dei commissari giustinianei. Si rimanda alle ricostruzioni di Bretone 1958, 77.

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Alessia Spina renti. D’altra parte, le già segnalate divergenze della fattispecie potrebbero giustificare soluzioni diverse. Nel brano in esame e nella spiegazione che Scevola stesso offre, la specificità è data dall’alterità dello schiavo: si tratta di un servus alienus, diversamente, ad esempio, da quanto si legge nelle citazioni del libro II delle quaestiones. Il servus alienus è schiavo di due soggetti in buona fede. Se l’acquisto avviene dal patrimonio di uno solo dei due soggetti, Scevola ritiene sia ragionevole (ratio facit) che l’acquisto avvenga a favore del solo soggetto titolare del patrimonio. La precisazione successiva sive ei soli sive quasi duobus serviat sembrerebbe quasi tautologica rispetto all’iniziale affermazione, ma appare funzionale a descrivere lo iato tra realtà e apparenza che permea l’intera vicenda, evidente sia nell’uso dell’avverbio quasi, sia, successivamente, nella scelta dell’aggettivo verus642. Quest’ultimo termine qualifica i domini e giustifica – nell’argomentazione a contrario proposta dal maestro – l’applicazione di un regime diverso, che porterebbe a un acquisto pro parte. Nella seconda parte del brano, in cui Scevola propone una diversa fattispecie analogicamente connessa alla prima, rispetto al piano iniziale della buona fede di coloro che dal servus alienus erano serviti, il riferimento alla buona fede trascorre sul piano dell’intenzione dello schiavo: la buona fede dello schiavo altrui determinerà una regolamentazione simile a quella descritta per l’ipotesi di buona fede dei due soggetti serviti. In forza della medesima ratio, un acquisto compiuto con il mio patrimonio (significativo è l’uso dei pronomi personali ego e tu, verosimilmente traccia di un’esemplificazione didattica) avrebbe prodotto effetti sulla mia res e non già pro parte anche sull’altrui res. La motivazione è che non si può acquistare se l’operazione non è avvenuta ex re del soggetto che intende acquistare643. Si è poc’anzi sottolineata la presenza di quaestiones simili in libri differenti e topograficamente distanti della raccolta e si è tentato di fornire una spiegazione; più che immaginare una ripresa del medesimo tema in luoghi distinti, si può pensare che Scevola abbia attinto a un medesimo materiale per discutere una pluralità di questioni. Se nel libro II è il tema della contitolarità dei diritti a fungere da filo conduttore, nel libro XIII – come si è visto assai disomogeneo nei contenuti – emerge un’attenzione peculiare alla prospettiva processuale e specificamente alla rappresentanza in giudizio. Un suggerimento in tal senso può cogliersi nella chiusa del brano, nell’espressione ‘non potest’: è stato scritto che Scevola si riferirebbe a ipotesi in cui il negozio – e l’azione relativa con cui si intendesse ottenere l’adempimento – risultino inefficaci644. Più precisamente, il richiamo che Mommsen propone nell’apparato critico è a un passaggio di D. 7.1.25.3, in cui Ulpiano ricorda il pensiero di Giuliano dal libro trentacinquesimo dei suoi digesta, con un esordio che richiama la prosa scevoliana: ‘Quaestionis est, an id quod adquiri fructuario non potest proprietario adquiratur’645. Lo scolio di commento al brano giulianeo – presente nell’edizione di Heimbach, ma poi eliminato in quella di Scheltema – menziona una stipulatio data inutiliter, che avrebbe reso priva di efficacia anche la proposizione di un’actio: Giuliano sceglie, infatti, l’espressione nihil agit, la stessa utilizzata da Scevola nel riportare l’opinione neraziana

642 643 644 645

Bretone 1958, 77. Masiello 1999, 234. Così Johnston 1985, 267 e nt. 163, richiamando la riflessione di Hellmann 1914, 175. Ulp. 18 ad Sab., D. 7.1.25.3.

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Commento. Quaestionum libri XX in D. 33.5.18 [F. 41]. In questo senso si recupererebbe la dimensione processuale del brano, e il problema di D. 45.3.19 si delineerebbe quale problema di legittimazione, coerentemente agli altri brani del libro XIII, come ricostruito nell’introduzione al libro stesso646.

LIBRO XIV

Del libro XIV delle quaestiones sopravvive un’unica testimonianza indiretta proveniente dal libro XI del commentario edittale di Ulpiano e riversata dai compilatori in D. 4.4.11.1 [F. 46]. Il caso verte su una compravendita accompagnata da una clausola di manomissione. Lenel non propone una precisa rubrica edittale, escludendo che il libro fosse dedicato alla trattazione della legge Elia Sentia, oggetto precipuo del libro XVI647. Invero, l’esegesi del testo consente di ritenere verosimile il collegamento con il provvedimento legislativo, anche alla luce della rubrica di Ulp. 4 ad leg. Ael. Sent., D. 40.9.30pr., in cui viene ricordato il medesimo provvedimento di Marco Aurelio citato in D. 4.4.11.1. D’altra parte, come la struttura dei successivi libri XVI-XX potrebbe fare supporre, nell’ultima parte delle quaestiones Scevola si sarebbe occupato di commenti a provvedimenti imperiali o senatori integrativi o correttivi di leggi in senso stretto: così accadrebbe per il rescritto di Marco Aurelio citato in D. 4.4.11.1 e per la decisione senatoria citata in D. 28.5.84 [F. 52], luoghi in cui si evitano le conseguenze dell’applicazione della medesima lex Aelia Sentia. F. 46 – D. 4.4.11.1 In Ulp. 11 ad ed. D. 4.4.11.1 Ulpiano descrive Cervidio Scevola intento a commentare, nel libro XIV delle sue quaestiones un rescritto di Marco Aurelio648. Il brano si presenta particolarmente significativo per tentare la datazione della nostra raccolta e in quanto tale è stato oggetto di esame nella parte introduttiva del lavoro, alla quale si rinvia. In questa sede mi occuperò esclusivamente dei profili giuridici della quaestio. Ulpiano, nel libro undicesimo del suo commentario all’editto del pretore, pone il problema della compravendita di uno schiavo compiuta da un soggetto di età compresa tra i venti e i venticinque anni e contenente la clausola ut manumittatur. Il giurista severiano specifica di avere ricordato il caso del maggiore

646

B. ed. Heimbach, vol. II, 186 s., sch. 3) ad quod adquiri non potest]. Cfr. B. ed. Scheltema, Textus, 806 e Scholia,

964. 647 Lenel 1889 II, 281, nt. 3: “Non puto hoc fr. pertinere ad legem Aeliam Sentiam, quippe quae libro XVI tractari videatur”. 648 Del medesimo provvedimento vi è menzione in Scaev. 7 dig., D. 18.7.10; Ulp. 38 ad Sab., D. 26.4.3.2; Pap. 10 resp., D. 40.1.20; Paul. 5 ad Plaut., D. 40.8.1; Call. 3 de cognit., D. 40.8.3; Marcian. lib. sing. ad form. hypoth., D. 40.8.6; Ulp. 4 ad leg. Ael. Sent., D. 40.9.30pr., nonché nei rescritti di Alessandro Severo ricordati in C. 4.57.2, del 222 e C. 4.57.3, del 224. Citano i passi Lovato 2003, 79 s. e nt. 192; Amaya Calero 1987, 206 e 220. In generale sull’editto De minoribus XXV annis e sul significato del gestum, Albanese 1972, 198.

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Alessia Spina di venti anni sulla base di quanto deciso da Cervidio Scevola649, il quale aveva chiarito che il rescritto di Marco Aurelio ad Aufidio Vittorino non si applicasse ai minori di venti anni: e con tale opinione Ulpiano è d’accordo (et magis est). La ratio della limitazione proposta da Scevola è da rinvenirsi nelle previsioni della lex Aelia Sentia: essa impediva al minore di venti anni di superare il divieto di manomettere un proprio schiavo mediante una lex venditionis650. Il dubbio riguarda la possibilità di offrire la restitutio in integrum al soggetto maggiore di venti anni: se il rimedio a tutela del minore veniva richiesto prima che fosse scattata la manomissione, poteva essere concesso; se invece la richiesta fosse stata successiva, la restitutio non poteva essere accordata. Medesime indicazioni vengono date in riferimento al compratore: laddove il compratore fosse un minore di venticinque anni, la restitutio in integrum poteva essere concessa se richiesta entro il termine di concessione della libertà, ma scaduto tale termine sarebbe prevalsa la volontà del venditore maggiore di venti anni e sarebbe stata data la libertà allo schiavo651. L’autorità di Scevola appare invocata esclusivamente in riferimento al requisito oggettivo di avere almeno venti anni, come presupposto per una valida vendita di schiavi. Non si può ritenere, dunque, che la seconda parte del frammento rispecchi il pensiero del giurista antonino, essendo assai più probabile che si tratti del proseguimento dell’opinione di Ulpiano652. In particolare, quest’ultimo sembra utilizzare la citazione di Scevola come un vero e proprio argomento, che gli consente non solo di leggere in maniera adesiva un primo profilo del problema, ossia quello relativo al venditore, ma anche di fondare la seconda parte del parere, relativamente al compratore653. Per puntualizzare la ricostruzione del pensiero di Cervidio Scevola può essere utile il confronto con un passo dei suoi digesta, in cui il responso è corredato da una nota di Trifonino che rende più attuale la posizione del maestro coordinandola con lo stesso rescritto di Marco Aurelio654. Si tratta di Scaev. 7 dig., D. 18.7.10, sul quale ho già avuto modo di soffermarmi. A Scevola viene richiesto un parere circa l’efficacia della clausola con cui si obbliga il compratore a conferire la libertà agli schiavi oggetto di compravendita: se la libertà dovesse ritenersi ottenuta automaticamente, ovvero se dovesse comunque richiedersi la manomissione. Il giurista risponde richiamando l’autorità della costituzione di Adriano, applicata a un caso concreto i cui protagonisti sono Pamfila e Stico; in essa si statuisce che i due schiavi non siano liberi in assenza del negozio di manomissione. Trifonino annota il parere dando conto di una decisione

649 Sulla citazione dei giuristi preceduta da una tipica proposizione causale, Giaro 1994, 85 e nt. 124, il quale ricorda anche Ulp. 27 ad ed., D. 13.4.2.6, dove si legge: quia et Iulianus. 650 Masiello 1999, 55 precisa che l’unica deroga ammessa era quella di manomettere lo schiavo vindicta. Si veda anche A. d’Ors 1980, 33 e nt. 7. 651 Arcaria 1992, 129 s. e nt. 221 ricorda la possibilista posizione di Vitucci 1956, 71 e nt. 5 circa la competenza del praefectus urbi in materia di manomissioni, sulla base proprio di D. 4.4.11.1, nonché di D. 26.4.3.2, D. 40.1.20pr. e C. 4.57.2. Sulla restitutio in integrum nella cognitio extra ordinem di età classica si veda Cervenca 1990, 61 ss. e, in particolare per lo scevoliano Scaev. 2 dig., D. 4.4.39pr., 99 ss. Specificamente sulla giurisdizione del praefectus urbi, che avrebbe dato tutela civile a pretese – tra domini e servi – non azionabili con gli strumenti dell’ordo iudiciorum, Solidoro 1993, 174 ss. e in particolare 174, nt. 3. 652 Cfr. Stolfi 2001, 269 ss. e in particolare nt. 116 e 117. 653 Masiello 1999, 54 s. 654 Si può leggere Sicari 1996, 319 e nt. 45.

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Commento. Quaestionum libri XX successiva di Marco Aurelio, con una diversa soluzione del caso, a tenore della quale, in presenza di una clausola accessoria alla compravendita con cui si fosse promessa la libertà dello schiavo, questi si doveva ritenere libero nonostante il ritardo della manomissione. Ho svolto in altra sede cap. I.II riflessioni circa il ruolo attribuito dal giurista alla normazione imperiale, chiaramente emergente dal passo proveniente dai libri digestorum: Scevola decide sottomettendosi all’opinione espressa sul punto dall’imperatore, senza esprimere, invero, una valutazione di merito. L’annotazione di Trifonino, che richiama la costituzione di Marco Aurelio ispirata a uno spiccato favor libertatis, nonché la notizia fornita da Ulpiano che ricorda la posizione di Scevola come se si trattasse di un’interpretazione autentica del rescritto, consentono di ipotizzare che il giurista conoscesse il provvedimento e la sua finalità e di non escludere una suo contributo nell’elaborazione dello stesso.

LIBRO XV

Del libro XV delle quaestiones di Scevola sopravvivono quattro frammenti, di argomento eterogeneo e di difficile collocazione palingenetica. Più precisamente, due brani non risultano immediatamente connessi a provvedimenti legislativi, e lo stesso Lenel non propone una rubrica edittale di riferimento (Lenel, Scaev. 178 e 179). In particolare, solo per D. 28.5.83 [F. 47], Lenel precisa di non osare posizionare il brano sotto il titolo dedicato alla legge Papia655. Per D. 13.4.2.2 [F. 48], in cui la posizione di Scevola in tema di actio de eo quod certo loco e di obbligazioni alternative è riportata da Ulpiano, non viene proposta alcuna collocazione edittale e risulta puramente congetturale l’idea che il maestro stesse commentando problemi relativi alla lex Aelia Sentia656. I rimanenti due lacerti (D. 35.2.23 [F. 49] e D. 28.6.29 [F. 50]) sono invece facilmente collocabili sotto titoli edittali a commento, rispettivamente, alla legge Falcidia; e alla legge Cornelia de captivis. Nei relativi testi i provvedimenti normativi sono espressamente citati, sicché non emergono motivi per dubitare dell’opportunità della scelta leneliana e per aderirvi. F. 47 – D. 28.5.83 Sul breve testo, come già sottolineato, sorgono dubbi di collocazione palingenetica. Lenel, infatti, suggerisce che esso fosse parte del commento alla legge Papia: tuttavia, proprio il tentativo di contestualizzazione dell’affermazione scevoliana sembrerebbe approdare – come si vedrà tra poco – a esiti compatibili con un presunto legame alla legge di età augustea. Il brano è stato oggetto di riflessioni sporadiche da parte della letteratura, che vi ha visto un’ipotesi di sostituzione volgare nella successione legittima e, anzi, più precisamente, l’unico

655 656

Lenel 1889 II, 281, nt. 5: “Ad legem Papiam haec referre non ausim”. Gokel 2014, 294 e nt. 1317.

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Alessia Spina passo dei Digesta Iustiniani che segnalerebbe tale possibilità657. Nel caso, descritto sinteticamente, vi è un’istituzione di erede sottoposta alla condizione – sospensiva negativa – che l’erede legittimo non voglia rivendicare l’eredità: la clausola è riportata letteralmente dal maestro, come evidente sia dal tenore letterale, sia dall’inserimento di virgolette nell’edizione mommseniana658. Scevola non solleva dubbi sull’ammissibilità di una clausola così concepita (o almeno non si possiedono indizi di una discussione del maestro sul punto), con la quale si otterrebbero esiti applicativi vicini a quelli di una sostituzione volgare659: essa, come è stato notato, ingloba in sé e riconduce nelle maglie della successione testamentaria, la posizione del successore legittimo, affermando implicitamente la preminenza della voluntas testantis rispetto alla chiamata per legge660. L’attenzione del giurista sembrerebbe focalizzata sulle modalità con cui si potrebbe manifestare l’assenza di una volontà di rivendica. In altri termini, Scevola sostiene (puto) l’insufficienza di una mera espressione verbale di tale volontà661, richiedendo, un’attività precisa662, quella della rivendica (illo vindicante) da parte dell’erede legittimo che, come è stato precisato, non sarebbe potuto appartenere alla categoria degli heredes sui et necessarii, la cui successione si apre automaticamente663. La rivendica avrebbe reso inefficace l’istituzione di erede e, dunque, l’intero testamento e la preoccupazione di Scevola potrebbe essere determinata dai possibili esiti di tale situazione. Infatti, le vicende descritte avrebbero potuto mettere in pericolo la destinazione dell’asse ereditario, così incrociandosi con il regime dell’accrescimento e con la legislazione di età augustea in materia di bona vacantia e bona caduca664. Come noto, infatti, le regole dello ius adcrescendi (derivazione dell’antica massima secondo cui nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest), vennero almeno temporaneamente sovvertite dalla leggi di Augusto a favore del matrimonio e della prole: in tale prospettiva, il suggerimento leneliano di ritenere il passo posto a commento della lex Papia, seppur non dimostrabile, appare verosimile. Esiste, invero, un’altra prospettiva dalla quale interpretare il quesito posto al nostro giurista. Come è stato osservato, infatti, la costruzione giuridica che in D. 28.5.83 si fonda sulla

657 Così Talamanca 2001, 403 ss., escludendo dall’indagine Ulp. 7 ad Sab., D. 28.5.19, che invece era stato ricompreso da Biondi 1955, 507 s. e nt. 3. 658 Talamanca 2001, 406 e nt. 27. 659 Lambertini 1998, 255 ss. Talamanca 1995-1996, 628 s. e in particolare ntt. 212 ss., ricostruisce il problema come relativo a “la sostituzione volgare nell’ambito della successione ab intestato, vale a dire dell’istituzione di un erede testamentario per il caso che non fosse divenuto erede il chiamato od uno dei chiamati ex lege all’eredità”. 660 Lambertini 1998, 267 ritiene che il testo scevoliano “nella prospettiva dell’assetto negoziale degli interessi non sembra prestarsi a particolari risultati che non possano essere ottenuti dal meccanismo della sostituzione volgare”. 661 Per Talamanca 2001, 406, l’attenzione di Scevola sarebbe posta alla mancata realizzazione della delazione legittima che si fosse concretamente attuata al momento dell’apertura della successione 662 Sul tema della rilevanza delle vicende successive alla redazione del testamento, sia concesso rimandare a Spina 2012, 327 ss. Ritiene che l’avvio di una hereditatis petitio funga “sicuramente da pro herede gestio” Talamanca 2001, 412. 663 Talamanca 2001, 406 s. “e, del resto, il problema del vindicare nolle hereditatem si poteva porre soltanto per il chiamato ab intestato che fosse un extraneus”. Precisa Lambertini 1998, 259: “in teoria anche il suus, titolare dei beni ereditari al momento stesso della vocazione, astenendosi con effetti sul piano pretorio, potrebbe rinunciare a rivendicare i medesimi eventualmente non in suo possesso; qui però vindicare sta, in buona sostanza, per ‘adire’…”. 664 Assai ampia è la bibliografia sul tema; a mero titolo esemplificativo, si ricordano i contributi di Fayer 2005, 563 ss.; Astolfi 2006, 250 ss.; Spagnuolo Vigorita 2010, 277 ss.; Busacca 2012, 120 s.; Bonin 2019, 1 ss.

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Commento. Quaestionum libri XX condicio, sembrerebbe offrire al testatore il vantaggio di poter evitare una preventiva individuazione specifica di colui che, al momento della morte del de cuius sarà erede legittimo, così formulando una sorta di istituzione di persona incerta, come noto non ammessa nel diritto romano classico. È verosimile che tale perplessità sia sottesa alla riflessione di Scevola e pare ragionevole concludere, come è stato fatto, sulla base di fonti giurisprudenziali del II secolo, che peculiare sia l’effetto di potere raggiungere il primo chiamato esclusivamente riferendosi alla categoria di appartenenza e senza che rilevi la sua materiale esistenza al momento della redazione del documento665. F. 48 – D. 13.4.2.3 Il brano, tratto dal libro ventisettesimo del commentario di Ulpiano ad edictum, contiene un’ampia citazione proveniente dal libro quindicesimo delle quaestiones di Cervidio Scevola. Il tenore letterale del passo e l’utilizzo di verbi dichiarativi in esordio (ait) e in chiusura (inquit) consentono di sostenere l’integrale paternità scevoliana dei contenuti. Il brano è stato in passato sospettato di avere subito interpolazioni; in particolare, si è dubitato dell’avverbio generaliter, utilizzato nell’espressione generaliter definire per descrivere l’attitudine – che qui Ulpiano riconosce a Scevola – a costruire schemi aventi portata generale. Invero, non vi sono ragioni per sostenerne la matrice giustinianea, tanto più che, come è stato osservato, nelle fonti si incontrano altre espressioni aventi un significato assai simile666. L’oggetto della quaestio scevoliana atterrebbe al tema delle obbligazioni alternative667, che si intersecano, nel brano riportato, con la fattispecie dell’actio de eo quod certo loco, ossia con il rimedio – detto anche actio arbitraria – introdotto dal pretore in età classica, nel quale il giudice deve valutare, sulla base di una condemnatio incerta, l’interesse di entrambe le parti a che la solutio avvenga in un luogo fissato668. Ulpiano ricorda la posizione di Scevola circa le previsioni implicite nelle stipulazioni: non tutte le decisioni sono rimesse al convenuto, a quest’ultimo può essere concesso di scegliere – nelle ipotesi di obbligazioni alternative – l’oggetto della prestazione, ma non l’an della stessa. L’affermazione generale del maestro è seguita da un’esemplificazione, avente un’evidente finalità didattica (et ideo): se si promette ‘Stico o Pamfilo’, il debitore potrà scegliere con quale dei due schiavi adempiere, sino al limite segnato dalla morte di uno dei due, che produce l’effetto di concentrare l’adempimento sull’unico schiavo superstite. Scevola spiega, infatti, che la morte di uno dei due estingue la facoltà di scegliere: ammettere una soluzione diversa – prosegue il giurista con un ragionamento per assurdo – trasformerebbe la scelta sul quid debeat a una scelta sull’an debeat della prestazione, poiché nella fase in iure del procedimento

665 Ancora Lambertini 1998, 267, che ricorda come tale risultato non potrebbe essere raggiunto con una mera istituzione di erede legittimo in quanto tale. 666 Sospetti sul brano sono avanzati da Beseler 1907, 108 ss.; Schulz 1916, 100 nt. 4; Pringsheim 1921, 253 ss. in particolare 254; Behrens, 361; Biondi 1916, 48 e nt. 2; Biondi 1957, 32 nt. 2; Grosso 1966, 188 e nt. 1; Martini 1966, 73, 74 e nt. 32 preferisce ritenere glossata solamente la frase che precede “damus igitur actori electionem petitionis”, pur ritenendo nella sostanza il testo genuino; Ziliotto 2004, 15 ss. non manifesta dubbi di autenticità; si veda sul punto Pulitanò 2009, 88 ss. Salva l’avverbio Albanese 1970, 326 e nt. 46. 667 Sono definite alternative le obbligazioni che prevedono due o più prestazioni, di cui una soltanto deve essere adempiuta: Talamanca 1990, 519. 668 Così Talamanca 1990, 638 s.

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Alessia Spina il convenuto avrebbe potuto sostenere di volere consegnare proprio lo schiavo defunto. Il giurista antonino, poi, sostiene che al convenuto, al quale sia lasciata la scelta del locus solutionis, non possa essere riservata anche la scelta sul locus actionis: quest’ultima, infatti, rimarrà in capo all’attore, che potrà formulare la domanda giudiziale in uno dei due luoghi dedotti in condizione – a Efeso o a Capua – senza che sia necessario specificarlo669. Una diversa soluzione, infatti, porterebbe all’assurdo per cui, avviato il procedimento giudiziario in un luogo, il convenuto avrebbe sostenuto di volere adempiere nell’altro luogo, così, di fatto, attribuendosi una scelta sull’an della prestazione670. Ulpiano ricorda il processo di generalizzazione compiuto da Scevola, il quale aveva puntualizzato distinguendo come la scelta su dove agire giudizialmente spetti all’attore, mentre la scelta su dove adempiere – ovviamente prima che la pretesa venga azionata – spetta al convenuto. Nell’ultima parte del brano, il maestro risolve un’ulteriore questione (deinde): come si coniuga la scelta dell’attore sul locus solutionis con la scelta del convenuto sull’oggetto dell’obbligazione? Scevola attribuisce all’attore che agisce giudizialmente anche la facoltà di decidere quale oggetto domandare, perché – e si ricorre per la terza volta al ragionamento per assurdo – una diversa soluzione tramuterebbe la scelta del convenuto sul quid debeat in una sostanziale decisione sull’an dell’obbligazione671. È stato scritto che nel brano verrebbe proposta la “seria giustificazione” al problema dell’impossibilità di una delle prestazioni nelle stipulazioni alternative. Laddove, in caso di impossibilità sopravvenuta di una delle due prestazioni l’obbligazione si concentri sull’altra, traducendosi in un esito lesivo per il debitore, cui viene tolta la possibilità di scelta, occorre indicare una ratio convincente, come fa Scevola nel racconto di Ulpiano672. F. 49 – D. 35.2.23 Sul frammento in passato sono stati sollevati dubbi di legittimità, superati dalle letture più recenti del testo673; sembra, invero, doversi ipotizzare un taglio nell’originaria struttura della quaestio prima della frase sed si via legetur … debebitur, non essendo presente, nel testo sopravvissuto, nessuna affermazione contraddittoria rispetto all’enunciato introdotto dall’avversativa sed674. Il tema affrontato è relativo all’applicazione della lex Falcidia, già oggetto di discussione in D. 35.2.16 [F. 15], allorché il maestro aveva deciso che, in presenza di più legati spettanti alla medesima persona, fosse possibile compiere la riduzione ex lege Falcidia su un solo legato.

669 Non si tratterebbe, secondo Pulitanò 2009, 90 di un’obbligazione alternativa in senso stretto, perché l’alternatio è tra due luoghi o non nella prestazione, ossia cade un elemento accessorio. 670 Secondo Bonfante 1987, 308 s. e nt. 6, D. 13.4.2.3 sarebbe da far rientrare in una serie di passi in cui “è accordata al debitore (che abbia, s’intende, diritto di scelta) facoltà di liberarsi, pagando il prezzo dell’oggetto perito”. 671 Sottolinea che Scevola propone una decisione basata sull’argomento per assurdo Impallomeni 1959, 58. Sul verbo reservare si vedano le osservazioni di Liebs 1969, 176. 672 Cannata 2003, 232 s. 673 Si pensi a Levy 1922, 239, nt. 6; Maschi 1939, 310; Nardi 1947, 99 ss.; solleva dubbi anche Bonifacio 1948, 27 s. Sostengono l’autenticità del testo, tra gli altri: Wacke 1973, 239 ss.; Mannino 1989, 115 e nt. 288; Masiello 1999, 141 s.; La Rosa 2008, 247 ss. (e Zuccotti 2008, 41). 674 Già Lenel segnalava come la frase mal si collocasse nel contesto; sulla stessa linea Bonifacio 1948, 27; Masiello 1999, 142.

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Commento. Quaestionum libri XX La prima parte del brano in commento sembra applicazione di una medesima ratio: si legge, infatti, che nell’ipotesi in cui la quarta Falcidia del fondo coincidesse con il valore della servitù di passaggio (via), quest’ultima dovesse ritenersi invalida e il fondo dovesse essere dato per intero. Il secondo caso preso in considerazione da Scevola risulta complicato dal fatto che la necessità di riduzione ex lege Falcidia sia inferiore del valore della servitù di passaggio. In tale evenienza non sarebbe corretto estinguere la servitù e attribuire al legatario il fondo intero, perché il vantaggio dell’erede risulterebbe maggiore di quanto dovuto. Scevola suggerisce che, nella fase di valutazione, compiuta attraverso lo strumento dell’exceptio doli opposta dall’erede al legatario che chieda l’adempimento del legato, si attribuisca non soltanto il fondo, ma anche la servitù, ma prevedendo che il legatario corrisponda all’erede il valore eccedente la quarta, l’aestimatio Falcidiae675. Come già osservato per D. 35.2.16, anche nel frammento discusso Scevola si segnalerebbe in quanto fautore di una tesi non condivisa da altri giuristi, i quali confermerebbero la prevalenza del principio secondo cui pro rata fit deminutio, ossia che la riduzione della Falcidia debba colpire tutti i lasciti proporzionalmente e non singoli cespiti. Spia di questa lettura giurisprudenziale risulta un passo di Paolo/Plauzio, che in letteratura è stato spesso affiancato a quello scevoliano676: Paul. 12 ad Plaut., D. 35.2.49.1: Interdum evenit, ut propter rationem legis Falcidiae sequens legatum exstinguatur, veluti si fundus et ad eum via legata sit per alium fundum: nam si pars fundi remanserit in hereditate, non potest procedere viae legatum, quia per partem servitus adquiri non potest. Talvolta accade che a causa del calcolo della legge Falcidia il secondo legato si estingua, come nel caso in cui sia stato legato un fondo e una servitù di passaggio attraverso un altro fondo: infatti, se una parte del fondo sia rimasta nell’eredità, non può sopravvivere il legato della servitù di passaggio, poiché una servitù non può essere acquistata attraverso una parte.

La soluzione di Paolo sottintende una ratio diversa rispetto a quella del maestro, adottando il criterio del calcolo proporzionale della riduzione, e ottenendo, in un caso in cui non vi sia perfetta corrispondenza tra valore della servitù di passaggio e riduzione ex Falcidia, un risultato diverso, ossia l’estinzione della servitù medesima. Non sembra possibile individuare quale sia stato – e se vi sia stato – il precedente giurisprudenziale al quale Cervidio Scevola si sarebbe ispirato677. È possibile immaginare che la sua peculiare posizione sia ispirata a un generale favore per le disposizioni a titolo particolare che il giurista, nella sua attività di giurista respondente, risulta aver diffusamente applicato678, valorizzando la volontà del testatore – che, nel caso de quo, aveva voluto attribuire al legatario sia un fondo, che una servitù attiva – come criterio di soluzione delle questioni.

675

Così anche Mannino 1989, 133. Giomaro 2016, 36, nt. 44. 677 Per Bonifacio 1948, 28, non sarebbe possibile individuare l’origine della posizione scevoliana e sorprendente sarebbe la coesistenza dei due sistemi nella compilazione giustinianea. Secondo Mannino 1989, 130 ss., Scevola si ispirerebbe a un favor evidente, ad esempio, nelle manomissioni fedecommissarie. 678 Rinvio a Spina 2012, passim. 676

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Alessia Spina F. 50 – D. 28.6.29 Il testo è stato sospettato di interpolazioni: lo stesso Lenel segnala come la parte compresa tra Si pater sino a decedant non sarebbe da ascriversi a Scevola e Krüger suggerisce l’espunzione dell’espressione “et ibi ambo decedant”. Invero, sebbene la formulazione del pensiero possa apparire poco chiara e forse persino involuta, non emergono motivi decisivi che inducano a negare l’attribuzione scevoliana e immaginare un intervento giustinianeo che abbia determinato modifiche nella sostanza del testo. D’altra parte, poi, la frase incriminata da Krüger vanta una significativa corrispondenza in un testo papinianeo che sembra ispirato al precedente scevoliano e sul quale si tornerà: si tratta di Pap. 31 quaest., D. 49.15.11.1, in cui si legge: sed si ambo apud hostes et prior pater decedat …679. Si potrebbe ammettere che una mano successiva abbia accorciato la versione originaria (generando un esito di lettura poco agevole) forse anche con l’obiettivo di coordinare il testo scevoliano con il brano di Giuliano, che nella sequenza compilatoria lo precede, D. 28.6.28, che affronta in maniera più ampia il tema della lex Cornelia de captivis, estendendone gli effetti anche alle sostituzioni pupillari contenute nel testamento680. La fattispecie presa in esame da Scevola vede protagonisti un padre e un figlio che cadono in prigionia e che decedono entrambi presso i nemici, morendo prima il padre e poi il figlio il quale, come si evince dal prosieguo del frammento, era un impubere. La morte del padre precede quella del figlio, eppure l’evento non è sufficiente a garantire l’applicazione della lex Cornelia per quanto attiene alla sostituzione pupillare. La previsione normativa sarebbe stata efficace qualora, invece, l’impubere fosse morto in civitate681, giustificando (quoniam) la scelta sulla base di quanto sarebbe accaduto in caso di morte di entrambi in territorio romano. La fictio legis Corneliae equiparerebbe la morte del padre in prigionia alla morte da libero, ma non sarebbe in grado di garantire l’efficacia della sostituzione pupillare. Detto in altri termini, quest’ultima, la cui fisiologica applicazione si ha in caso di morte del padre e dell’impubere avvenute in civitate, risulta valida, in caso di morte del padre avvenuta presso i nemici, solamente se almeno il pupillo si trovi in civitate. Nel testo scevoliano sopravvissuto, la ratio della soluzione non viene esplicitata, ma è d’ausilio alla sua comprensione il già citato D. 28.6.29: è verosimile immaginare che Scevola e il suo uditorio stessero commentando proprio il libro sessantaduesimo dei digesta giulianei: Iul. 62 dig., D. 28.6.28: Lex Cornelia, quae testamenta eorum qui in hostium potestate decesserunt confirmat, non solum ad hereditatem ipsorum qui testamenta fecerunt pertinet, sed ad omnes hereditates,

679

Il brano è esaminato da Hase 1851, 231 ss., che lo legge in stretta connessione a Pap. 31 quaest., D. 49.15.11.1. Come noto, una lex Cornelia, emanata attorno all’80 a.C., sancì la validità del testamento del captivus che fosse morto in stato di schiavitù presso il nemico. Questi si sarebbe dovuto considerare morto al momento in cui veniva fatto prigioniero, ossia morto quand’era ancora in stato di libertà. La legge, dunque, introduceva una finzione – la fictio legis Corneliae – che venne poi estesa dalla giurisprudenza romana anche alla successione intestata. Dunque, se il captivus rientrava in civitatem, avrebbe goduto degli effetti del postliminium, se moriva in schiavitù, la successione si apriva sulla base della fictio legis Corneliae: così Talamanca 1990, 90 s. Ampiamente, sulla fictio legis Corneliae, Bianchi 1997, 352 ss. Sul tema del postliminio e della lex Cornelia de captivis, oltre ai contributi supra citati e a quelli che verranno nel prosieguo indicati, si possono ricordare, a titolo esemplificativo di una letteratura assai ampia, Bechmann 1872, 1 ss.; Sertorio 1915, 3 ss.; Ratti 1926, 129 ss.; 1927, 40 ss.; Maffi 1992, 3 ss.; Cursi 1996, 121 ss.; Sanna 2001, 17 ss.; D’Amati 2004, in particolare 101 e nt. 204 e 176 s. e nt. 494, per i passi che infra si esamineranno. 680

270

Commento. Quaestionum libri XX quae ad quemque ex eorum testamento pertinere potuissent, si in hostium potestatem non pervenissent. quapropter cum pater in hostium potestate decessit filio impubere relicto in civitate et is intra tempus pubertatis decesserit, hereditas ad substitutum pertinet, perinde ac si pater in hostium potestatem non pervenisset. sed si pater in civitate decessit, filius impubes apud hostes, si quidem mortuo patre filius in hostium potestatem pervenerit, non incommode dicitur hereditatem eius ex ea lege ad substitutos pertinere: si vero vivo patre filius in hostium potestatem pervenerit, non existimo legi Corneliae locum esse, quia non efficitur per eam, ut is, qui nulla bona in civitate reliquit, heredes habeat. quare etiam si pubes filius vivo patre captus fuerit, deinde mortuo in civitate patre in hostium potestate decesserit, patris hereditas ex lege duodecim tabularum, non filii ex lege Cornelia ad adgnatum proximum pertinet. La legge Cornelia, che conferma i testamenti di coloro che morirono in prigionia dei nemici, non solo riguarda l’eredità delle stesse persone che fecero testamento, ma tutte le eredità, che a qualunque di loro sarebbero potute spettare per testamento, se non fossero pervenuti in potestà dei nemici. Perciò, quando il padre morì in potestà dei nemici, lasciato il figlio impubere nella comunità dei cittadini, e questi sia morto prima della pubertà, l’eredità spetta al sostituito, come se il padre non fosse caduto in prigionia dei nemici. Ma se il padre morì mentre era fra i cittadini, e il figlio impubere presso i nemici, se invero il figlio sia pervenuto in potestà dei nemici dopo la morte del padre, non inopportunamente si dice che la sua eredità spetta ai sostituiti in base a quella legge; se invero il figlio sia caduto in potestà dei nemici mentre il padre era vivo, non ritengo che si faccia luogo alla legge Cornelia, perché in forza di questa legge non si produce l’effetto che colui il quale abbia degli eredi chi non abbia lasciato beni nella comunità dei cittadini. Perciò, anche se il figlio pubere sia stato catturato mentre il padre era vivo, e poi, morto il padre fra i cittadini, sia deceduto in prigionia dei nemici, all’agnato prossimo spetta l’eredità del padre in base alla Legge delle Dodici Tavole, non quella del figlio in base alla legge Cornelia.

La prima affermazione di Giuliano consente di contestualizzare la quaestio scevoliana, poiché chiarisce come il problema attenga all’applicazione della lex Cornelia non solo per le hereditates di cui il prigioniero era titolare, ma anche di quelle che ad quemque ex eorum testamento pertinere potuissent. Conseguenza (quapropter) è che laddove il padre sia morto in prigionia e il figlio sia morto, ancora impubere, in patria, la fictio legis Corneliae potrà avere applicazione682. Anche il più breve scevoliano riferisce un’ipotesi simile, come si evince dalle parole: nisi reversus in civitate impubes decedat, in cui la fattispecie è arricchita dal racconto di un ritorno in patria, che nella vicenda giulianea non compare. Giuliano spiega che la previsione normativa della legge Cornelia troverebbe opportuna (non incommode) applicazione, realizzando la sostituzione pupillare anche laddove il padre sia morto in civitate e il figlio impubere sia morto presso i nemici, ovvero laddove il figlio fosse morto presso i nemici dopo la morte del padre: in entrambi i casi hereditas eius ex

681 Traduce l’espressione ‘in civitate’ come ‘territorio dell’impero’, Maganzani 1993, 253, nt. 244. Cfr. Marotta 2020b, 113 ss. 682 Secondo Bianchi 1997, 354 s., nella formulazione di Giuliano, la fictio consisterebbe nella circostanza che non sia occorsa la prigionia di guerra, la quale invece si sia verificata. Diversamente, per Paolo e Ulpiano, essa si realizzerebbe “nella falsa supposizione che il captivus sia morto in civitate”; la ricostruzione è accolta anche da D’Amati 2004, 176 s. e nt. 494. La concezione giulianea emergerebbe anche da Iul. 42 dig., D. 28.2.12 e da Iul. 62 dig., D. 49.15.22pr.

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Alessia Spina ea lege ad substitutos pertinet. Invece, se il figlio fosse caduto in potestà dei nemici vivo patre – ed è la prima ipotesi presa in esame da Scevola in D. 28.6.29 – Giuliano esclude (non existimo) che l’effetto della lex Cornelia possa coinvolgere situazioni in cui il de cuius non abbia lasciato beni all’interno della comunità dei cittadini. Conseguenza ulteriore del ragionamento del maestro adrianeo è che se il figlio pubere sia stato catturato vivo patre e sia morto in prigionia – mentre il decesso del padre sia avvenuto in civitate – troverà applicazione la successione ab intestato e, ex lege duodecim tabularum, l’agnato subentrerà nel patrimonio ereditario del solo padre, non gli spetterà l’eredità del figlio, perché la fictio legis Corneliae non troverebbe applicazione.

LIBRO XVI

Del libro XVI sopravvive un unico frammento, D. 40.9.6 [F. 51], collocato da Lenel sotto la rubrica edittale Ad legem Aeliam Sentiam; la correttezza della collocazione palingenetica è confermata dal contenuto, dedicato al tema della nullità delle manomissioni. F. 51 – D. 40.9.6 In [F. 51] Scevola riprende una fattispecie giulianea, sulla quale innesta la propria riflessione. Sono stati sollevati dubbi sull’autenticità del frammento. In particolare, è stato ritenuto sospetto il termine substantia come sinonimo di bona e la presenza dell’aggettivo adventicii; è apparsa, inoltre, priva di consequenzialità logica la ripetizione quia et mortuo solvendo est et uno manumisso solvendo est683. Invero, le prime due osservazioni possono essere facilmente superate verificando la frequenza del loro utilizzo nei testi giurisprudenziali; quanto alla frase incriminata, essa, nonostante possa risultare poco elegante nella forma, esprime con efficacia il pensiero di Scevola/Giuliano, accomunando le due ipotesi dello schiavo morto e dello schiavo manomesso684. La lettura delle fonti bizantine confermerebbe la genuinità del frammento, pur ponendo un significativo dubbio di attribuzione. D. 40.9.6 e il brano che lo precede, D. 40.9.5 (escerto dal libro sessantaquattresimo dei digesta di Giuliano685), sono riassunti nei Basilici686 e, in uno

683 Il brano è stato letto in connessione con il papinianeo Pap. 28 quaest., D. 46.3.45.1, in cui il riferimento all’actio de dolo è stato reputato interpolato e, di conseguenza, anche il nostro D. 40.9.6 e Iul. 64 dig., D. 40.9.5.2, sul quale infra. Si vedano Scialoja 1898, 61 ss.; Guarneri Citati 1926, 482 s.; Schulz 1928, 235 s.; Koschaker 1929, 471 nt. 3; Metro 1961, 154; Ziliotto 2004, 41 s. Decisamente per la genuinità Impallomeni 1959, 58 ss., ma soprattutto 75 ss., e 1971, 459. 684 Salva la proposizione Impallomeni 1959, 78 s.: “la ripetizione solvendo est … sebbene oggettivamente brutta, è tuttavia espressiva e sembra bene esprimere il pensiero dello scrittore. È perciò difficile sostenere l’interpolazione del testo soltanto in base ad essa; ed anche ammettendo il rimaneggiamento, resterebbe incerto il suo carattere sostanziale”. 685 Lenel 1889 I, 471, n. 766, che Lenel fa coincidere con Gai. 3 de manum., D. 40.4.57. 686 B. 48.7.5 e B. 48.7.6 (Scheltema, 2213 s.).

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Commento. Quaestionum libri XX scolio che Heimbach attribuisce a Doroteo687, essi vengono tradotti quasi letteralmente. Riproducendo il brano di Scevola, lo si attribuisce ai digesta di Celso688, come Mommsen si limita a segnalare; Lenel ne dà rapidamente conto ricostruendo la palingenesi dei digesta di Celso: indica, infatti, dubitativamente (“ex incerto libro?”) che “Celsi digesta errore laudantur in schol. 2 ad Bas. (48.7)5”689. In letteratura si è ritenuto che l’incongruenza fosse da attribuire a una svista dello scoliaste690; alcuni autori hanno ipotizzato che lo scoliaste abbia consultato sia l’opera di Celso, sia quella di Scevola e abbia compiuto un errore materiale nell’attribuzione del brano691. Non pare potersi dubitare del fatto che l’opera tradotta nello scolio bizantino siano i libri quaestionum; che Celso abbia potuto nominare Giuliano appare possibile, ma molto difficile: si è soliti, infatti, ritenere che l’attività di Celso e la pubblicazione dei suoi digesta siano antecedenti a Giuliano, sicché sarebbe inverosimile che il primo avesse potuto citare il secondo692. L’affermazione potrebbe essere solo smorzata da alcune considerazioni sul legame tra i due giuristi e sulla loro contemporanea presenza in alcune testimonianze di età severiana. In alcuni passi Celso e Giuliano sono citati secondo un ordine cronologico che vede Celso come primo nome e Giuliano come secondo nome: Ulp. 15 ad ed., D. 5.3.16.3; Ulp. 18 ad Sab., D. 7.1.29; Ulp. 17 ad Sab., D. 7.2.1.3; Ulp. 27 ad ed., D. 13.5.18.1; Maecian. 8 fideic., D. 35.2.30.7; Ulp. 23 ad ed., D. 36.2.12.1 e 3. Coerentemente, Giuliano cita Celso in Iul. 29 dig., D. 28.2.13pr. Vi sono casi, però, in cui l’ordine risulta invertito e a essere citato per primo è Giuliano: in Ulp. 18 ad Sab., D. 7.1.13.3 (sebbene il richiamo a Celso sembri utilizzato soltanto quale conferma ulteriore del parere giulianeo); ancora si possono ricordare Ulp. 18 ad ed., D. 9.2.27pr. e Ulp. 25 ad Sab., D. 33.8.6pr. Un’altra considerazione è legata al tenore letterale dello scolio, dal quale parrebbe evincersi che Celso avrebbe riferito nei suoi digesta quanto Giuliano avrebbe detto forse in una consultazione orale; risulterebbe, pertanto, meno decisivo il rilievo della sfasatura temporale che fa leva sull’epoca di pubblicazione dei digesta giulianei693. Quelle illustrate, però, sono precisazioni non sufficienti – a parere di chi scrive – a superare l’incongruenza temporale e tali da fare accogliere la tesi di un errore nell’indicazione dello scolio, forse cagionato da una verosimile duplice circostanza: che anche Celso avrebbe trattato

687 688

Heimbach, Prolegomena Basilicorum 6.43 e 319. Schol. 2 (Scheltema) ad B. 48.7.5, 2920 s., righe 13-15: Ταῦτα εἰπόντα τὸν ᾽Ιουλιανὸν ἀναφέρει καὶ ὁ Κέλσος ἐν

τοῖς Διγέστοις αὐτοῦ καὶ λέγει, ὅτι ᾽Ιουλιανὸς περὶ ἐκείνου διαλέγεται τοῦ μηδὲν ἔχοντος ἐν ὑποστάσει εἰ μὴ μόνους τοὺς οἰκέτας. Traduzione Heimbach (715): Haec dixisse Iulianum refert etiam Celsus in suis Digestis, aitque, Iulianum de illo

loqui, qui nihil habet in bonis, nisi solos servos. 689 Lenel 1889 I, 169. 690 Guarneri Citati 1926, 510 ss. 691 Impallomeni 1959, 81 ritiene possibile che lo scoliaste possa avere consultato i digesta di Scevola (contenenti un brano gemino a quello delle quaestiones) e averli confusi con quelli di Celso. 692 Orestano 1959, 91, colloca l’esistenza di Celso tra la fine del I secolo e l’inizio del II d.C. Orestano 1961, 913 s. a proposito di Giuliano ricorda: “giureconsulto romano del II secolo d.C. … svolse la sua attività durante gli imperi di Adriano, di Antonino Pio, di Marco Aurelio e Lucio Vero”. Su Giuliano e la composizione dei digesti, Guarino 1959, 67 ss.; 1946, 364 ss. 693 D’altra parte, Orestano 1959, 91 aggiunge che “l’opera sua più importante è rappresentata dai digesta, in 39 libri … in quest’opera, posteriore alla redazione dell’editto adrianeo, egli rifuse gran parte dei suoi scritti e delle sue decisioni anteriori”.

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Alessia Spina problemi connessi alla lex Aelia Sentia e che lo stesso Scevola aveva espresso pareri in materia, nel libro trentaduesimo dei suoi digesta. Venendo al contenuto del brano, in D. 40.9.6 il tema dell’applicazione della lex Aelia Sentia si interseca con l’obbligo del debitore di conservare gli oggetti promessi alternativamente, ossia, nel caso trattato, gli schiavi. Il richiamo espresso alla posizione giulianea suggerisce di leggere la fattispecie del maestro adrianeo alla quale lo stesso Scevola sembra essersi ispirato694. Iul. 64 dig., D. 40.9.5.2: Si Titius nihil amplius in bonis quam Stichum et Pamphilum habeat eosque stipulanti Maevio ita promiserit “Stichum aut Pamphilum dare spondes?”, deinde, cum alium creditorem non haberet, Stichum manumiserit: libertas per legem Aeliam Sentiam rescinditur. quamvis enim fuit in potestate Titii, ut Pamphilum daret, tamen quamdiu eum non dederit, quia interim mori possit, non sine fraude stipulatoris Stichum manumisit. quod si solum Pamphilum dari promisisset, non dubitarem, quin Stichus ad libertatem perveniret, quamvis similiter Pamphilus mori possit: multum enim interest, contineatur ipsa stipulatione is qui manumittitur an extra obligationem sit. nam et qui ob aureos quinque Stichum et Pamphilum pignori dederit, cum uterque eorum quinum aureorum sit, neuter manumitti potest: at si Stichum solum pignori dederit, Pamphilum non videtur in fraudem creditoris manumittere. Se Tizio non ha nulla in più nel proprio patrimonio, che Stico e Pamfilo, e li abbia così promessi allo stipulante Mevio: “ Prometti di dare Stico o Pamfilo?, poi, non avendo un altro creditore, abbia manomesso Stico: la libertà è rescissa per il tramite della legge Elia Sentia. Sebbene, infatti, fosse nella potestà di Tizio, per dare Pamfilo, tuttavia fintantoche non glielo abbia trasferito, poiché nel frattempo potrebbe morire, non senza frode ha manomesso Stico. Che se avesse promesso di dare il solo Pamfilo, non dubiterei che Stico pervenisse alla libertà, sebbene similmente Pamfilo possa morire: molto infatti rileva che colui che è manomesso sia menzionato nella stessa stipulazione o sia al di fuori dell’obbligazione. Infatti, anche colui che abbia dato in pegno Stico e Pamfilo a causa di debito di cinque aurei, valendo ciascuno di loro cinque aurei, nessuno dei due può essere manomesso: ma se abbia trasferito in pegno soltanto Stico, la manomissione di Pamfilo non sembra un atto in frode al creditore.

Giuliano, dunque, si domanda se debba ritenersi fraudolenta e, dunque, nulla ex lege Aelia Sentia, la manomissione di uno dei due schiavi promessi in maniera alternativa, laddove il patrimonio del promittente sia costituito dai soli schiavi e null’altro695. Il giurista risponde in senso affermativo: entrambi gli schiavi sono ‘in obligatione’, sicché la morte di uno di essi prima della consegna al creditore renderebbe la manomissione del secondo un’operazione a danno del creditore medesimo, che risulterebbe non soddisfatto696. Per confermare la propria tesi, Giuliano propone un esempio: due schiavi, del valore di cinque aurei, sono entrambi dati come pegno per un debito di complessivi cinque aurei. Anche in questo caso, non sarà

694

Metro 1961, 153 ss. descrive un testo “molto contorto e discusso”. Nella prima parte dello scolio 2 ad Bas. 48.7.5, 2920 s., righe 1-12, si precisa che la manomissione era avvenuta testamento. 696 Impallomeni 1959, 62. 695

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Commento. Quaestionum libri XX possibile la manomissione di uno di essi, poiché, potendo l’altro morire, la garanzia potrebbe risultare vanificata. Come è stato osservato, la manomissione di Stico, dovuto in alternativa a Panfilo, nel caso non ci siano altri beni nel patrimonio, elimina il beneficio dell’alternatività in capo al creditore697. Tuttavia, qualora il trasferimento del pegno riguardi un solo schiavo, l’atto non sarà ritenuto fraudolento e la manomissione rimarrà valida698. Scevola riprende le affermazioni giulianee, precisando, in apertura di D. 40.9.6, che il presupposto di fatto su cui si fonda la decisione del maestro è la consistenza patrimoniale limitata ai due soli schiavi. Il richiamo all’opinione di Giuliano appare il punto di partenza – consolidato – dal quale svolgere ulteriori specificazioni, piuttosto che una segnalazione del valore ponderato che l’argomento ex auctoritate deve assumere nel ragionamento giuridico. Attraverso una proposizione interrogativa retorica (quare … manumitti) Scevola rafforza la ratio giulianea che avrebbe giustificato la nullità delle manomissione solamente in caso di incapienza patrimoniale: non avrebbe avuto senso, difatti, applicare la lex Aelia Sentia se il debitore avesse avuto altri beni nel proprio patrimonio oltre ai due schiavi oggetto di obbligazione alternativa. Tale elemento di fatto non è espressamente richiamato in D. 40.9.6, ma, come anticipato, deve ritenersi alla base anche della riflessione scevoliana. Se il patrimonio vantasse ulteriori attività e se l’indicazione degli schiavi fosse stata generica, l’ipotesi della morte dello schiavo (gli adventicii casus) – data l’improbabilità di estinzione di uno stesso genus – doveva ritenersi ininfluente: la manomissione, dunque, non sarebbe stata fraudolenta699. Il passo offre indicazioni circa la tecnica di lavoro seguita dal maestro antonino. Come si è rivelato in diversi passaggi delle quaestiones, i digesta di Giuliano sono oggetto della riflessione scolastica, che poi si snoda attraverso un’articolata casistica, sovente resa attraverso artifici retorici: in D. 40.9.6 si rinviene la sopra ricordata interrogativa retorica, ad esempio, per focalizzare il fondamento del ragionamento giulianeo, o l’argomentazione per assurdo in chiusura del passo, resa attraverso lo stilema alioquin, caratteristico della prosa scevoliana700.

LIBRO XVIII

I frammenti superstiti del libro diciottesimo delle Quaestiones di Cervidio Scevola sono due, D. 28.5.84 [F. 52] e D. 46.1.57 [F. 53]. Il primo è in materia di lex Aelia Sentia: Lenel, però, ritiene inverosimile che Scevola si sia occupato del medesimo provvedimento in tre libri, ossia nel sedicesimo, come si evincerebbe da D. 40.9.6, in via presuntiva nel diciassettesimo, di cui

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Ziliotto 2004, 45. La seconda fattispecie è presa in considerazione da Schulz 1928, 265 s. Schulz 1928, 265 s. 699 Impallomeni 1959, 62. Si veda anche Wacke 1999, 557 ss. 700 Ampiamente sul passo e sulla possibile esistenza di una “Systembildung durch alioquin?” Gokel 2014, 279 ss. e in particolare 295 ss. Tra i diversi studiosi che si sono occupati del tema, a titolo esemplificativo si possono ricordare: Bretone 1971, 95; Reggi 1961, 147 ss.; Wieacker 9 ss.; Parra Martín 2005, 187 ss. 698

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Alessia Spina non abbiamo frammenti superstiti e nel diciottesimo, da cui sarebbe escerpito D. 28.5.84. Egli ritiene, piuttosto – anche in considerazione del contenuto di D. 28.5.84 – che una sezione del libro XVIII potesse essere dedicata ai senatoconsulti in materia di manomissioni701. Quanto a D. 46.1.57, invece, Lenel, seppur dubitativamente, propone la collocazione sotto il titolo edittale Ad legem Furiam de sponsu, sulla base, soprattutto, di quanto si legge in Gai. 3.121: aderisco alla proposta leneliana si è ritenuto, anche alla luce del contenuto – seppur esiguo – del frammento sopravvissuto. F. 52 – D. 28.5.84 La testimonianza di D. 28.5.84 è stata ritenuta in passato manipolata dai giustinianei. I dubbi si concentravano sulla parte finale del paragrafo 1 (da igitur alla fine) che conterrebbe una mera parafrasi di quanto in precedenza affermato702. Invero, non emergono dati testuali che facciano dubitare della genuinità dell’intero brano; peraltro, la scelta retorica di Scevola potrebbe rientrare in uno schema argomentativo tipico della quaestio: dopo avere ricordato il contenuto del provvedimento senatorio in materia di manomissioni testamentarie e l’applicazione per analogia alle manomissioni fedecommissarie, Scevola torna sulla prima vicenda arricchendo e precisando la narrazione. Il principium del passo si apre con il riferimento alla lex Aelia Sentia: Scevola afferma che se il divieto di manomissione di uno schiavo non è sancito dalla legge Elia Sentia, bensì da un altro provvedimento, appartenente al trittico lex, senatusconsultum, constitutio703, lo schiavo nominato erede non potrà divenire necessarius laddove l’eredità risulti passiva704. Presenta maggiore complessità il § 1, in cui si richiama un senatoconsulto di età adrianea, sull’ipotesi di un testatore che lasciò un’eredità passiva e nel testamento manomise due schiavi facendoli destinatari di un fedecommesso universale. Qualora l’erede istituito avesse manifestato dubbi sulla capienza dell’asse ereditario, il senato decise di costringere l’erede all’adizione, garantendo la libertà allo schiavo che nel documento fosse citato per primo e attribuendo a lui la restituzione dell’eredità. Il passaggio successivo sembrerebbe da ascriversi al testo normativo705: si afferma che la medesima soluzione deve applicarsi al caso in cui la libertà venga concessa non testamento, bensì con un fedecommesso. Infatti, se il testatore istituisse un erede e disponesse la libertà, diretta o fedecommissaria, di uno o più schiavi, attribuendo a costoro un fedecommesso universale, qualora alla morte dell’erede il patrimonio si fosse trovato in uno stato di insolvenza, si sarebbe verificata la mancata accettazione dell’erede e, in forza delle previsioni della lex Aelia Sentia, la nullità delle manomissioni706. Proprio al fine di evitare siffatte conseguenze, il

701 Lenel 1889 II, 282, nt. 3: “ICtum tribus libris de lege Aelia Sentia egisse veri dissimile est. Fortasse tractabantur hoc libro SCa ad manumissiones pertinentia”. 702 Si vedano Beseler 1925, 454; 1930, 18 s.; Volterra 1969, 1073, nt. 148;. Per la genuinità del testo, si possono vedere D’Orgeval 1950, 79 s. e nt. 50 e Arcaria 1992, 283 che constata la tortuosità del brano, ma infine esclude la tesi interpolazionistica. 703 Sul quale Fanizza 1999, 81 s. e nt. 40. 704 Metro 1961, 162 s. e nt. 38. Per le presenze, nei testi giurisprudenziali, del participio suspectus, rinvio a Spina 2018, 81 s. 705 Gokel 2013, 161 ss. 706 Voci 1963, 791 sulla base della descrizione di Gai. 1.37 e 1.47.

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Commento. Quaestionum libri XX senatoconsulto avrebbe ammesso che lo schiavo menzionato per primo nel testamento potesse domandare giudizialmente che l’erede venisse costretto ad adire e a restituirgli l’eredità707. Non si può escludere che il senatoconsulto genericamente menzionato possa coincidere con i provvedimenti senatori di età adrianea in materia di manomissioni, ricordati – anche nominativamente – dai giuristi severiani in opere monografiche dedicate ai fedecommessi. Gli indizi testuali sono, invero, troppo esigui per consentire una sicura identificazione e la ricchezza della produzione senatoria in materia di libertà fedecommissaria consiglierebbe di accogliere la più prudente soluzione di mantenerli distinti708. Proseguendo nel proprio ragionamento, Scevola sostiene che non desti preoccupazione il caso in cui lo schiavo menzionato per primo volesse accettare l’eredità e che laddove anche gli altri schiavi menzionati reclamassero la libertà e l’eredità, occorrerebbe rivolgersi al pretore per l’indagine sulla capienza dell’eredità e sulle modalità di restituzione a tutti gli schiavi manomessi. Se l’eredità fosse stata capiente, gli schiavi avrebbero potuto ottenere la libertà e una parte dell’eredità; laddove, invece, non lo fosse, si sarebbe proceduto a una bonorum venditio, nella quale sarebbero rientrati anche gli schiavi non menzionati per primi709. Con un’avversativa viene, poi, introdotto il periodo finale, di natura squisitamente processuale: in caso di assenza del primo schiavo menzionato, non si sarebbe dovuto ascoltare il successivo che intendesse adire l’eredità, dal momento che il primo era stato preferito, mentre il secondo era destinato a rimanere in condizione servile. L’esito commentato da Scevola può essere considerato il risultato di una riflessione giurisprudenziale feconda nel II secolo. Numerosi sono i passi che si possono accostare a quello proveniente dal libro XVIII delle quaestiones. Ad esempio, sulla scorta di un passo di Terenzio Clemente si può pensare che la quaestio scevoliana si ispirasse a un precedente giulianeo (a sua volta – cogliendo un suggerimento di Lenel710 – di ascendenza celsina711) in materia di lex Aelia Sentia712. La vicenda si rinviene anche in un passaggio di Gaio, che riferirebbe un’ipotesi vicina a quelle affrontate da Scevola713, in cui la soluzione relativa alle manomissioni fedecommissarie fraudolente viene accolta senza menzionare invero, il provvedimento senatorio714. Ancora, un brano di Paolo, tratto dal commentario alla lex Aelia Sentia (a sua volta contenente un richiamo a Nerazio)715, affronta i medesimi problemi e dà prova di un dibattito in cui i due valori – quelli della protezione dei creditori e quello del favor libertatis – tentano

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Voci 1963, 421 s. e nt. 81. Si tratta di provvedimenti che modificarono il regime originario attraverso disposizioni a favore degli schiavi (Voci 1963, 412 ss.). Prudente è la posizione di Voci 1963, 421 sul punto: “a un senatoconsulto dei tempi di Adriano, che non si sa se sia da identificare con qualcuno di quelli ora ricordati, risale una statuizione di notevole importanza”. Li mantiene distinti Volterra 1969, 1072 ss. e, in particolare, n. 148. 709 Così Arcaria 1992, 282 s. descrive una sezione del passo che conterrebbe una “specificazione di quanto detto all’inizio del frammento, prospettandosi l’ipotesi in cui lo schiavo liberato accetti, o meno, l’eredità”. 710 Lenel 1889 I, 472, nt. 2 (Iul. n. 768), richiamando Cels. n. 240 (Lenel 1889 I, 164). 711 Cels. 29 dig., D. 28.5.61. 712 Ter. Clem. 9 ad legem Iuliam et Papiam, D. 40.9.24. 713 Voci 1963, 422 (e specificamente 115). 714 Gai. 2 fideicomm., D. 36.1.65.15. 715 Paul. 1 ad legem Aeliam Sentiam, D. 28.5.56. 708

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Alessia Spina di raggiungere un faticoso equilibrio. In questo percorso collaborano legge, senatusconsulta e giurisprudenza, in una ricca casistica di cui D. 28.5.84 rappresenta un esempio significativo e un unicum nell’antologia giustinianea. F. 53 – D. 46.1.57 Il brano si inserisce, verosimilmente, in una riflessione sui rapporti tra il contenuto del negozio obbligatorio principale e della stipulazione passivamente accessoria, che nel caso specifico è una fideiussione. Lenel ipotizza che la quaestio scevoliana possa essere nata a commento della lex Furia de sponsu, della fine del III secolo a.C., in seguito alla quale, in caso di concorrenza di più garanti, questi non erano tenuti allo stesso modo del debitore principale, ma solamente per una parte dell’oggetto della prestazione: proprio in forza del rapporto di garanzia: il creditore poteva agire contro il garante solo pro quota716. La connessione tra la previsione legislativa (e, in particolare, la divisione pro quota) e l’escerto scevoliano è meramente congetturale, come sottolineato in letteratura717. Non si può escludere che, nella trattazione dei limiti introdotti dalla legge citata, si inserisse un principio di portata più generale, idoneo ad applicarsi a tutte le garanzie personali, come anche la forma di massima di D. 46.1.57 – verosimilmente frutto di un taglio compilatorio – potrebbe fare pensare. Tuttavia, appare preferibile rinvenire nel passo di Scevola l’applicazione del limite della durior condicio tempore ai garanti718: nella quaestio si escluderebbe l’esercizio dell’azione nei riguardi del fideiussore prima che si potesse in astratto prospettare la possibilità di agire verso il reus. Più specificamente, appare convincente l’accostamento del caso di Scevola a fattispecie in cui si discute dell’estensione al garante di un termine implicito favorevole, che derivasse all’adiectio loco inserita nell’obbligazione principale719.

LIBRO XIX

Dal libro XIX delle quaestiones è sopravvissuto un unico lacerto relativo, come la rubrica leneliana segnala, a un’applicazione della lex Iulia de adulteriis. Si tratta di D. 24.3.57 [F. 54].

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Così Talamanca 1990, 574; tra i contributi più recenti, Fascione 2016, 363 ss. Talamanca 1970, 154 e nt. 75. 718 La durior condicio rappresenta uno dei due limiti che l’obbligazione dell’adpromissor non può valicare: egli non può assumersi una responsabilità più gravosa di quella che incombe sul debitore principale. Il secondo limite è quello dell’alia causa e l’adpromissor non può essere responsabile di un’obbligazione diversa da quella che deve il debitore principale: così Talamanca 1970, 119. 719 Ancora Talamanca 1970, 172 s. propone con prudenza di accostare il passo di Scevola al complesso Pap. 27 quaest., D. 46.1.49.2. 717

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Commento. Quaestionum libri XX F. 54 – D. 24.3.47 In letteratura, D. 24.3.47 è stato ritenuto rimaneggiato dai compilatori giustinianei sulla base di argomenti meramente formali, mentre non sussistono elementi sostanziali che inducano a mettere in dubbio la genuinità del frammento e la provenienza dalla raccolta di quaestiones720. Si descrive il caso di una moglie che abbia commesso adulterio perché indotta consapevolmente dal marito, che ne ha tratto un vantaggio, compiendo un lenocinio. L’uomo non potrà domandare le retentiones propter mores, dal momento che il comportamento riprovevole della moglie è stato da lui incitato o tollerato. Scevola sostiene che debba essere presa in considerazione l’opinione di chi, richiamandosi alla ratio legis Iuliae de adulteriis, ritenga che il marito non possa perlomeno assumere il ruolo di accusatore effettivo nel processo, proprio in quanto avrebbe egli stesso favorito il lenocinio della moglie. Dal tenore del brano, e in particolare dalle parole “si tamen … summit qui” sembra emergere l’esistenza di una disputa giurisprudenziale, in riferimento alla quale Scevola risulta sostenere la tesi di chi nega la possibilità di accusare a colui il quale praebuerit lenocinium uxori. Sulle espressioni scelte dal giurista conviene spendere alcune riflessioni. Il verbo accusare racchiude in sé un ampio ventaglio semantico e impone di domandarsi se con esso si intenda riferirsi all’accusa della fase cosiddetta preprocedimentale, in cui si valuta l’idoneità dell’accusatore, oppure alla successiva fase (procedimentale in senso stretto), quella dei solemnia accusationis in cui trova cristallizzazione quanto in precedenza dedotto721. Come si avrà modo di meglio chiarire tra poco, è ragionevole immaginare che il giurista alluda proprio a questo secondo momento. Quanto alla locuzione praebere lenocinio uxori, che rappresenta un unicum nella letteratura giuridica latina722, si può mettere in luce la coincidenza con l’espressione, presente nel testo della lex Iulia, praebere domum, con la quale si identificava la condotta di colui che mette a disposizione la propria casa per la commissione dell’adulterio. Scevola adotta la medesima costruzione per descrivere il caso del marito che attraverso il proprio lenocinio favorisce l’adulterio della moglie723. Di lenocinio Scevola si occupa anche in un passo dei libri regularum, dal quale si evince che il reo di favoreggiamento avrebbe subito la stessa pena prevista per l’adulterio, in forza di un’estensione delle fattispecie criminali che lo stesso Cervidio Scevola descrive in un passo dei libri regularum724. Scaev. 4 regul., D. 48.5.15(14).1: Si vir infamandae uxoris suae causa adulterum subiecerit, ut ipse deprehenderet, et vir et mulier adulterii crimine tenentur ex senatus consulto de ea re facto.

720 I sospetti sono avanzati da Gradenwitz 1887, 221; Beseler 1920, 235; Berger 1922a, 142 e nt. 2; Volterra 1929 (1991), 1 ss. (283 ss.), che ritiene giustinianea la parte compresa da si tamen a audiendus est. 721 Wlassak 1917, 213 ss.; Bianchini 1964, 279 per una sintesi, e poi più analiticamente 280 ss., laddove si distinguono solemnia accusationis e i solemnia iuris; Biscardi 1973, Naber 1995; Botta 1996, 196 ss. 722 L’espressione è in TLL VII.2, s.v. lenocinium, 1151. 723 Sulla locuzione praebere domum, con la quale si individuerebbe “il concorso nel reato, che si esplica nell’attività di colui il quale, senza partecipare alla consumazione dello stesso, ne agevola tuttavia l’esecuzione”, Rizzelli 1995, 1521 ss., cui si rimanda anche per l’esame delle fonti giurisprudenziali. 724 Sulla raccolta scevoliana di regulae, Schulz 1961, 174 s. esprime dubbi di autenticità: “only the Digest extracts survive. If the work is authentic, it seems to contain later additions. Did any classical liber regularum really contain the text of the lex Iulia maiestatis?”.

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Alessia Spina Se il marito, per infamare sua moglie, suborna l’adultero, affinché egli stesso li sorprenda, sia il marito che la moglie sono tenuti per il crimine di adulterio, in base a un senatoconsulto dedicato a questo tema725.

Il brano contiene due informazioni utili. La prima, come anticipato, riguarda l’estensione delle fattispecie di lenocinio alle ipotesi in cui il marito, allo scopo di costituirsi preventivamente una prova dell’adulterio della moglie, corrompa l’adultero726. La seconda notizia è che tale ampliamento venne realizzato attraverso un senatoconsulto; non è chiara la natura del provvedimento senatorio, se si tratti di una sentenza o di un provvedimento di interpretazione: il senato dichiara che tanto la moglie quanto il marito saranno perseguiti con la poena adulterii727. La lettura congiunta dei due passi scevoliani – D. 24.3.47 e D. 48.5.15(14).1 – porterebbe a ritenere che sia il marito che abbia favorito il lenocinio, sia la moglie adultera, sia l’adultero, soggiacessero alla medesima pena. Si solleverebbe un dubbio sulla possibilità di compensatio criminis: al marito, che accusa di adulterio, può essere opposto il favoreggiamento? Con quale strumento processuale può realizzarsi l’opposizione? Sottinteso al ragionamento di Scevola sembra esserci, infatti, il tema della praescriptio lenocinii: la commissione del lenocinio o precisamente il lenocinium uxori praebere728, avrebbe bloccato – con lo strumento tecnico della praescriptio lenocinii – la possibilità di accusare, e tale conseguenza sarebbe ispirata dalla stessa mens legis729. A questo punto occorre tenere presente due dati. Anzitutto che nel giudizio di adulterio le prescrizioni si propongono prima dei solemnia accusationis, sicché quando Scevola, in D. 24.3.47 utilizza il verbo accusare si riferirebbe proprio alla seconda fase del processo criminale, quella dedicata all’implementazione dell’accusa, come spiega Ulpiano730. Ulp. 2 de adult., D. 48.5.16.7: Praescriptiones, quae obici solent accusantibus adulterii, ante solent tractari, quam quis inter reos recipiatur: ceterum posteaquam semel receptus est, non potest praescriptionem obicere731.

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Sul passo, tra gli altri, Mc Ginn 1998, 223 ss. anche per la bibliografia ivi citata. Entrambi i brani di Scevola sarebbero prova della preoccupazione dei giuristi che in sede di causae cognitio per un processo di adulterio siano adeguatamente valutati i comportamenti dei mariti che si pongano come accusatori: Rizzelli 1997, 164 s. e nt. 150. 727 Così Volterra 1929, 288 nt. 1: “si noti che la pena dell’adulterio è la stessa del crimen lenocinii e quindi il giureconsulto con l’espressione vir et mulier adulterii crimine tenentur viene a dichiarare … che … il marito sarà punito per lenocinio, la donna per adulterio”. 728 L’espressione è in TLL, VIII, s.v. lenocinium, 1151. 729 TLL, VIII, s.v. mens, 725: “de rebus i.q. sensus, significatio, vis, notio sim.”. Oltre che in D. 24.3.37, il medesimo utilizzo si rinverrebbe in CTh. 12.1.57; D. 5.3.25.5 (senatus consulti); D. 24.1.32.16 (orationis imperatoris); D. 49.15.12.8 (contra mentem constitutionis est). Masiello 1999, 244 osserva come la metafora mens legis (di risalenza ciceroniana, come pro Cluent. 147 proverebbe) si rinvenga, significativamente, in Scevola e poi in Paolo e Trifonino, suoi allievi, oltre che nella citazione ulpianea di un senatoconsulto. 730 Contra Masiello 1999, 244 s. 731 Sottolinea che anche la praescriptio lenocinii, come tutte le praescriptiones da farsi valere in un giudizio di adulterio, deve essere proposta, da chi ne abbia interesse, prima che sia iscritto nel registro degli accusati, mentre successivamente non può essere più sollevata, Rizzelli 2001, 112. 726

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Commento. Quaestionum libri XX Le prescrizioni, che si suole sollevare agli accusatori degli adulteri sono solite essere trattate prima che qualcuno sia ammesso tra i rei: del resto, dopo che sia stato ammesso una volta, non può opporre la prescrizione.

Il secondo elemento da valutare è che Scevola sembra trattare il problema della praescriptio sollevata dall’adultero, non della praescriptio sollevata dalla moglie: vi è coincidenza, d’altra parte, con quanto si desumerebbe da un rescritto di Diocleziano e Massimiano, versato in C. 9.9.25(26), da leggere in connessione a C. 9.9.11, di Alessandro Severo: qualora l’adultero, che il marito intenda accusare, eccepisca il lenocinio del marito (che nel caso di specie si concretizzava nella retentio della moglie colta in flagranza di adulterio), il marito medesimo si vedrà privato della possibilità di proseguire nell’accusa732. Ancora, il tentativo di escludere il crimine di adulterio facendo valere l’illecita condotta dell’accusatore sarebbe il tema dell’ulpianeo D. 48.5.2.4: Ulp. 8 disp., D. 48.5.2.4: Qui hoc dicit lenocinio mariti se fecisse, relevare quidem vult crimen suum, sed non est huiusmodi compensatio admissa. ideo si maritum velit reus adulterii lenocinii reum facere, semel delatus non audietur. Colui che afferma di avere commesso ciò, con il lenocinio del marito, vuole senza dubbio attenuare il proprio crimine, ma non è ammessa una compensazione di tale natura. Perciò se il colpevole voglia incolpare il marito di lenocinio, una volta denunciato non sarà ascoltato.

La parte finale del brano, da ideo a non audietur chiarisce che la praescriptio lenocinii è sollevata dall’adultero, ottenendo il risultato di bloccare l’accusa di adulterio prima della receptio inter reos733. In altre parole, la praescriptio lenocinii avrebbe potuto determinare una sorta di compensatio criminis fattuale solamente se fosse stata sollevata dall’uomo coinvolto nell’adulterio: in caso contrario, se tale praescriptio fosse stata opposta dalla moglie, non si sarebbe determinato un arresto della procedura, come spiega ancora Ulpiano, in due passaggi provenienti, rispettivamente dal medesimo frammento dell’opera monografica de adulteriis e dalla raccolta di disputationes. Ulp. 8 disp., D. 48.5.2.5: Si publico iudicio maritus uxorem ream faciat, an lenocinii allegatio repellat maritum ab accusatione? et putem non repellere: lenocinium igitur mariti ipsum onerat, non mulierem excusat734. Se in un pubblico giudizio il marito indica come colpevole la moglie, forse che l’allegazione del lenocinio escluda il marito dall’accusa? E riterrei che non l’escluda: infatti il lenocinio del marito grava sullo stesso, non scusa la moglie.

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Bianchini 1964, 240; Rizzelli 1997, 83 nt. 53. Così Rizzelli 2001, 115 s. e ntt. 130 e 131. 734 Come osserva Rizzelli 1997, 83 e nt. 53, l’argomentare del giurista presupporrebbe che l’adultero non abbia opposto il lenocinio del marito prima che si svolgesse la receptio inter eos. Cfr. anche Lovato 2003, 233 s. e nt. 84, il quale ripercorre il contenuto dell’intero frammento. 733

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Alessia Spina Ulpiano, dunque, nell’ambito di una disputatio, sembrerebbe dar conto dell’ancora irrisolto dibattito giurisprudenziale relativo all’effetto della praescriptio lenocinii opposta dalla moglie, mostrandosi favorevole alla tesi secondo cui essa non arresterebbe il processo criminale alla fase preprocedimentale (putem). Meno dubitativa è la posizione espressa in D. 48.5.14(13).5: Ulp. 2 de adult., D. 48.5.14(13).5: Iudex adulterii ante oculos habere debet et inquirere, an maritus pudice vivens mulieri quoque bonos mores colendi auctor fuerit: periniquum enim videtur esse, ut pudicitiam vir ab uxore exigat, quam ipse non exhibeat: quae res potest et virum damnare, non rem ob compensationem mutui criminis inter utrosque communicare. Il giudice dell’adulterio deve avere dinanzi agli occhi e indagare se il marito vivendo in pudicizia sia stato di guida alla moglie nel seguire i buoni costumi: infatti, sembra essere estremamente ingiusto che il marito esiga dalla moglie una pudicizia che egli non dimostra: questo principio può far condannare anche l’uomo, e non comporre la questione tra i due per compensazione della colpa reciproca.

Il brano ulpianeo riproduce la massimazione di un rescritto imperiale, la cui paternità è genericamente attribuita ad Antoninus735; la decisione – ricordata puntualmente da Agostino indicando quale fonte il Gregoriano – è contenuta nel libro secondo del De adulterinis coniugiis736. Aug. de adult. coniug. 2.8.7: Legant quid imperator Antoninus, non utique christianus, de hac re constituerit, ubi maritus uxorem de adulterii crimine accusare non sinitur, cui moribus suis non praebuit castitatis exemplum, ita ut ambo damnarentur, si ambos pariter impudicos confictus ipse convinceret. Nam supra dicti imperatoris haec verba sunt, quae apud Gregorianum leguntur. Sane, inquit, litterae meae nulla parte causae praeiudicabunt. Neque enim, si penes te culpa fuit, ut matrimonium solveretur et secundum legem Iuliam Eupasia uxor tua nuberet, propter hoc rescripto meo adulterii damnata erit, nisi constet esse commissum. Habebunt autem ante oculos hoc inquirere, an, cum tu pudice viveres, illi quoque bonos mores colendi auctor fuisti. Periniquum enim mihi videtur esse, ut pudicitiam vir ab uxore exigat, quam ipse non exhibet. Quae res potest et virum damnare, non ob compensationem mutui criminis rem inter utrumque componere, vel causam facti tollere. Leggano quello che su questo argomento ha stabilito l’imperatore Antonino, non certamente un cristiano, eppure non permette che il marito accusi la moglie di adulterio, se non dà egli stesso esempio di castità con la propria condotta; anzi, li condanna entrambi, se il processo li dimostra entrambi ugualmente di costumi immorali. Infatti, queste sono le parole del suddetto imperatore, che si leggono in Gregoriano: “Certo, dice, il mio rescritto non pregiudicherà in nessun modo la causa. Infatti, se è stato per colpa tua che si scioglie il matrimonio e che secondo la legge Giulia tua moglie Eupasia si risposa, in base a questo mio rescritto non sarà condannata

735 Rizzelli 2001, 109 (cui si rimanda anche per la ricognizione della letteratura che si è occupata dell’identificazione dell’imperatore). 736 Recentemente Botta 2020, 18 ss., il quale nega che dai passi sia configurabile “un ‘autonomo’ giudizio inquisitorio destinato all’accertamento di qualsiasi comportamento contra bonos mores del marito (ad esclusione del lenocinio …)”.

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Commento. Quaestionum libri XX per adulterio, a meno che non risulti averlo effettivamente commesso. Si baderà d’altra parte ad appurare anche questo, se tu, vivendo onestamente, sei stato di guida a lei nel seguire i buoni costumi. Infatti, mi sembra estremamente ingiusto che l’uomo esiga dalla donna una pudicizia che egli non dimostra: questo principio può far condannare anche l’uomo, e non comporre la questione tra i due per compensazione della colpa reciproca, o cambiare la qualificazione giuridica del fatto”.

Non si conosce la domanda specifica dalla quale avrebbe avuto origine il rescritto, ma alcuni elementi della fattispecie possono ritenersi certi. Il richiedente avrebbe sciolto il matrimonio e la moglie si sarebbe unita in un nuovo vincolo coniugale; egli si sarebbe rivolto all’imperatore avendo promosso o volendo promuovere un giudizio di adulterio contro la donna. Il quesito sembra riferirsi alla possibilità, per il marito che non sia stato esempio di condotta onesta, di accusare la moglie: verrebbe messo in dubbio che egli possa procedere ai solemnia accusationis, in quanto bloccato dalla praescriptio (che si può plausibilmente ritenere lenocinii) opposta dalla moglie. Il rescritto di Antonino avrebbe anzitutto escluso la condanna della moglie se, in base alla lex Iulia de maritandis ordinibus, ella non avesse compiuto adulterio; soprattutto, però, la praescriptio lenocinii sembrerebbe potere condurre alla condanna del marito stesso, escludendo la compensazione dei due crimini ed impedendo anche che si verifichi la soppressione dell’oggetto del processo. Dunque, a differenza della fattispecie di D. 24.3.47 e di D. 48.5.14(13).4, dove la praescriptio lenocinii viene sollevata dall’adultero, nel rescritto ricordato da Agostino e ripreso anche da Ulpiano in D. 48.5.14(13).5 la praescriptio sarebbe sollevata dalla moglie e non bloccherebbe il giudizio in cui il marito è accusatore. È possibile immaginare – alla luce della disputa giurisprudenziale accennata in D. 24.3.47 (e in qualche modo emergente anche da D. 48.5.2.5), nonché del senatoconsulto citato in D. 48.5.15(14).1 – che prima della decisione imperiale e dell’intervento senatorio i regimi delle praescriptiones sollevate dall’adultero e dalla donna coincidessero. Il dibattito dei giuristi avrebbe coinvolto l’efficacia della praescriptio lenocinii di bloccare l’accusare del marito: il regime normale, che avrebbe permesso di evitare i solemnia accusationis sarebbe stato mantenuto per la praescriptio dell’adultero, mentre per la praescriptio della moglie si sarebbe affermata un disciplina diversa, con importanti conseguenze anche sul regime patrimoniale tra coniugi. Sotto quest’ultimo profilo il brano di Agostino appare significativo, facendo emergere l’esistenza di un legame tra la richiesta delle retentiones e il processo criminale737. Per la fattispecie decisa da Antonino, infatti, si potrebbe pensare che, a seguito del divorzio, il marito abbia cercato di esercitare la retentio di parte delle cose dotali, sostenendo l’adulterio della moglie, nonché che la retentio sia stata negata perché la donna avrebbe fatto valere, con un procedimento civile (forse un’actio de moribus) le condotte del marito, riprovevoli e tali da

737 Botta 2020, 27 propone una lettura alternativa, che scorge “nel plurale ‘habebunt’ del rescritto ‘agostiniano’ … il segno che la cancelleria reputasse che della littera si sarebbe potuto far uso tanto innanzi al giudice criminale quanto al civile, entrambi tenuti a valutare i mores del richiedente, mettendo al contempo sull’avviso quest’ultimo che, proprio in forza di tale necessaria valutazione, qualora scegliesse di perseguire per via criminale l’ex moglie, egli sarebbe potuto anche incorrere in una condanna, dato che innanzi al competente iudex adulterii non poteva avvenire la ‘compensatio mutui criminis’”.

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Alessia Spina compensare l’infedeltà della donna. L’uomo, dunque, compirebbe un nuovo tentativo di ottenere la dote ricorrendo al giudizio criminale, esattamente come sarebbe potuto accadere nella vicenda di D. 48.5.15(14).1738, nonché di D. 24.3.47, come si evince dalla prima parte della quaestio: al marito non sarà concessa la retentio dei beni dotali, normalmente ammessa, a favore del coniuge, qualora la donna si macchi di adulterio. Scevola giustifica l’affermazione osservando come la ratio dell’eventuale retentio risulterebbe incompatibile con il comportamento del marito. Un passaggio papinianeo, dai libri quaestionum, confermerebbe come la condotta del coniuge potesse influire sulle retentiones, realizzando una mutua pensatio di paria delicta739: Pap. 11 quaest., D. 24.3.39: Viro atque uxore mores invicem accusantibus causam repudii dedisse utrumque pronuntiatum est. id ita accipi debet, ut ea lege quam ambo contempserunt, neuter vindicetur: paria enim delicta mutua pensatione dissolvuntur. Accusandosi marito e moglie di cattivi costumi, si dà causa di ripudio l’uno nei riguardi dell’altro. Tutto ciò deve così essere inteso, perché per quella legge che entrambi hanno disprezzato, nessuno dei due è punito: infatti, pari delitti si dissolvono per reciproca compensazione.

Il brano testimonierebbe che la compensatio mutui criminis poteva essere l’esito della pronuncia del iudex privatus sulla causa repudii740. Dunque, come è stato osservato, la condanna della donna in un processo di adulterio promosso dal marito poteva avere conseguenze sui rapporti patrimoniali tra coniugi: ecco perché i giuristi – e lo stesso Scevola – avrebbero riservato attenzione al tema della cosiddetta praescriptio lenocinii. Come per il passo papinianeo, così anche per quello scevoliano oggetto del presente commento, il riferimento è a un giudizio dotale, ma è dubbio se si trattasse di un’actio rei uxoriae o di un’actio de moribus741: ne risulterebbe confermata l’idea che nei giudizi civili, se fosse accertata la responsabilità di entrambi nello scioglimento del matrimonio, si sarebbero annullate vicendevolmente le conseguenze patrimoniali degli illeciti. Dal punto di vista delle conseguenze civili dell’illecito, D. 24.3.47 propone, dunque, una soluzione destinata a confermarsi in età severiana742. Per quanto attiene al profilo del processo criminale, il passo delle quaestiones testimonia un’incertezza applicativa destinata a risolversi

738

Si tratta della ricostruzione proposta da Venturini 1990, 360 ss. Cfr. anche Rizzelli 2001, 87 s. e nt. 47. Sul brano di Papiniano, Terreni 2018, 15 e nt. 18. 740 Botta 2020, 28 osserva come la condanna ex lege de adulteriis prevista anche per il marito accusatore avrebbe avuto l’effetto di determinare la sorte dei beni dotali. D’altra parte, non si potrebbe escludere che proprio a tale scopo economico mirasse il doloso favoreggiamento del rapporto adulterino. Sul passo cfr. Mommsen 1899, 700; Lenel 1927, 310 nt. 9; Biondi 1927, 257 ss.; Solazzi 1950, 210 ss.; Söllner 1969, 118; Daube 1972, 377 ss.; Wacke 1975, 244; Wollschläger 1976, 117 s. e nt. 12 e 18, in quale utilizza l'espressione compensatio criminis; Daube 1991, 565; Stiegler 1999, 438; Giumetti 2018, 19 s. 741 Su tale misterioso giudizio si rimanda, ancora, per le riflessioni sui passi esaminati, a Botta 2020, 27 ss. 742 Rizzelli 2001, 114 ss. individua un parallelismo tra la disciplina civilistica e quella criminalistica, precisando che sino a CTh. 9.7.7 (= 9.9.32[33]), del 392, in relazione al recupero dei beni dotali, il marito può scegliere se ricorrere per primo allo strumento del giudizio privato, ovvero al procedimento pubblico. 739

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Commento. Quaestionum libri XX nei decenni successivi. L’estensione della fattispecie delittuosa e della pena prevista per l’adultera anche al marito colpevole di favoreggiamento, realizzata mediante un senatoconsulto e ricordata in D. 48.5.15(14).1, ha sollecitato la riflessione su una possibile compensatio criminis. Se sotto il profilo delle conseguenze civili risulta agevole escludere la retentio della dote per un marito reo (come afferma Scevola in D. 24.3.47 e ancora Papiniano in D. 24.3.9), nel processo criminale la discussione giurisprudenziale si scinde in due riflessioni distinte, entrambi ruotanti intorno al tema della praescriptio lenocinii, ma con esiti diversi nel caso in cui essa venga opposta dalla moglie o dall’adultero. Nel primo caso, il dubbio viene sciolto (ma un lieve tentennamento si avverte in D. 48.5.2.5) da una decisione imperiale, di età imprecisata, ma probabilmente di Caracalla743, che viene parafrasata dallo stesso Ulpiano in D. 48.5.14(13).5. Nel secondo caso, oggetto precipuo della parte di quaestio scevoliana sopravvissuta, l’opinione del maestro antonino è destinata a consolidarsi nell’età successiva, come D. 48.5.2.4 e il rescritto di età dioclezianea contenuto in C. 9.9.25(26) suggeriscono744.

743 Accogliendo una risalente e autorevole tradizione di studi che aveva così identificato l’imperatore Antoninus citato da Agostino: tra i molti, basti ricordare Liebs 1989, 60; De Cherruca 1995, 71 ss., Coriat 2000, 32 s. 744 Rizzelli 2001, 110 e ntt. 118 s., osservando come emerga uno speciale interesse della giurisprudenza preseveriana e severiana alla condotta criminosa del marito, nonché alle conseguenze in sede processuale.

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APPARATI E INDICI

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Callebat 1968 Calonge 1967 Camacho Evangelista 1978 Cannata 1993 – 2003 Cantarella 1969 Capogrossi Colognesi 1976 – 1977 – 2015 Carboni 2017 Carcaterra 1964 Cardilli 2016 – 2020 Casavola 1965

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– 2015a – 2015b

Cortassa 1984 Cortese 2009 – 2019 Cosentini 1948

– 1952 Cossa 2018 Costa 1894

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Alessia Spina Cristaldi 2007 Crook 1955 Csillag 1968 Cugia 1947 Cuiacius 1618 Cursi 1996 D’Amati 2004 – 2016 D’Elia 1995 d’Ors 1980 D’Ottavio 2012 Dalla 1983 – 2000 Dalla Massara 2005 – 2007 – 2017 Daube 1955

– 1959 – 1972

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– 1966 Demougin 2003 Desanti 1995 – 1999 – 2003 – 2010 Di Lella 1972 Di Nisio 2017 Di Paola 1950 – 1959 – 1969 Di Porto 1984 Di Salvo 1973 Diaz Bialet 1971

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Alessia Spina Didier 1981 Dirksen 1871

Donatuti 1923 – 1940 – 1942 – 1951 – 1961 Dumézil 1882 Dursi 2019 – 2020 Eck 2020 Emunds 2007 Erman 1986 Esmein 1886 Fadda 1900 Falcone 1995 – 2008 Fanizza 1999 – 1982 Fargnoli 2001 – 2006

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Alessia Spina Fiori 2003 Fitting 1908 Fleury 2006 Flume 1932 – 1996 Fluss, 1940 Frezza 1962 – 1977 Frunzio 1996 – 2017a – 2017b Fuenteseca 1970 Fusi 2012a

– 2012b

Gade 2001 Gagliardi 2002 Galgano 2014 Gallo 1982 Gandolfi 1966 Garbarino 1989 García Garrido 1982 Garofalo 2000

R. Fiori, ‘De ea agatur’. I due modelli del processo formulare repubblicano, Milano 2003. H. Fitting, Alter und Folge der Schriften Römischer Juristen von Hadrian bis Alexander, Berlin 1908. P. Fleury, Lectures de Fronton. Un rhéteur latin à l’époque de la Seconde Sophistique, Paris 2006. W. Flume, Studien zur Akzessorietät der römischen Bürgschaftstipulationen, Weimar 1932. W. Flume, Zu den römischen Bürgschaftsstipulationen, in «ZSS» 113 (1996) 88-131. M. Fluss, s.v. 13) L. Septimius Severus, in «PW» II.A.2, Stuttgart 1940, 1939-2002. P. Frezza, Le garanzie delle obbligazioni. Corso di diritto romano. I. Le garanzie personali, Padova 1962. P. Frezza, ‘Responsa’ e ‘Quaestiones’. Studio e politica del diritto dagli Antonini ai Severi, in «SDHI» 43 (1977) 203-264. M. Frunzio, Sabino e l’usucapione delle ‘res furtivae’, in «Labeo» 42 (1996) 403-411. M. Frunzio, ‘Res furtivae’. Contributo allo studio della circolazione degli oggetti furtivi in diritto romano, Torino 2017. M. Frunzio, Il caso della sfortunata navigazione di Callimaco: D. 45.1.122.1 (Scaev. 28 dig.), in «SDHI» 83 (2017) 271-297. P. Fuenteseca, Reflexiones sobre la tricotomia ‘actio petitio persecutio’, in «AHDE» 40 (1970) 139-226. A. Fusi, Il romanzo. II. Le metamorfosi di Apuleio tra magia, favola e misteri, in A. Fusi, A. Luceri, P. Parroni, G. Piras (a cura di), Lo spazio letterario di Roma antica, VII. I testi: 2. La prosa, diretto da P. Parroni, Roma 2012, 462-504. A. Fusi, Gli epistolari. IV. Frontone e il gusto arcaizzante, in A. Fusi, A. Luceri, P. Parroni, G. Piras (a cura di), Lo spazio letterario di Roma antica, VII. I testi: 2. La prosa, diretto da P. Parroni, Roma 2012, 562-573. G.D. Gade, ‘Donationes inter virum et uxorem’, Berlin 2001. L. Gagliardi, Decemviri e centumviri. Origini e competenze, Milano 2002. F. Galgano, Trattato di diritto civile, I, Padova 2014. F. Gallo, Sul potere normativo imperiale, in «SDHI 48 (1982) 413454. G. Gandolfi, Studi sull’interpretazione degli atti negoziali in diritto romano, Milano 1966. P. Garbarino, Rec. a R. Stolmar. Die Genesis der utilis actio aus der Celsinischen Durchgangstheorie, in «SDHI» 55 (1989) 515-521. M.J. García Garrido, ‘Scaevola, Quintus Cervidius’, in «DJR», Madrid 1982, 318. L. Garofalo, Studi sull’azione redibitoria, Padova 2000. 300

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Alessia Spina Glück 1893

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Alessia Spina Messina Vitrano 1914 – 1924 Metro 1961 – 1980

Meyer 1928 Migliario 1999 Miglietta 2010 – 2012 Migliorini 2001 Milazzo 2014 – 2016

Milella 1987 Milone 1882 Minale 2020 Miquel 1970 Misera 1974 Mommsen 1870 – 1887 – 1889 – 1890a – 1890b

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Alessia Spina Orestano 1965c – 1969 – 1978 – 1982 Pacchioni 1935 Palazzolo 1965 – 1968 Palermo 1956 Palma 2016 Palmer 1978-1980 Parma 2007 Parra Martín 2005 Pasquino 2015 Pellecchi 2015 Perini 1998

Pescani 1963 – 1965 – 1967 Pesce 1959 Pflaum 1960

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Alessia Spina Puliatti 2016 – 2020 Pulitanò 2009 – 2012 Purpura 2012

Quadrato 1974 – 1979 Querzoli 2000 Rainer 1987 – 1989 Randazzo 1998 Ratti 1926 – 1927 Reduzzi Merola 1989 – 1990 – 2011 Reggi 1958 – 1974 Reinoso Barbero 2010 Renier 1942

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A. Wacke, Die Rechtswirkungen der lex Falcidia, in Studien im römischen Recht, Max Kaser zum 65. Geburtstag gewidmet von seinen Hamburger Schülern (hrsg. von D. Medicus und H. H. Seiler), Berlin 1973 = «HR» 65 (1973) 209-251. A. Wacke, Zur Lehre vom pactum tacitum und zur Aushilfsfunktion der exceptio doli, in «ZSS» 90 (1973) 220-261. A. Wacke, Zur Funktion und Gefahrtragung bei der römischen Mitgift, in «TR» 43 (1975) 241-256. A. Wacke, Tilgungsakte durch Insichgeschäft. Zur Leistung eines Tutors oder Prokurators an sich selbst, in «ZSS» 103 (1986) 223-247. A. Wacke, Zur Beweislast im klassichen Zivilprozeß, in «ZSS» 109 (1992) 411-449. A. Wacke, Zur Folgen-Berücksichtigung bei der Entscheidungsfindung, besonders mittels deductio ad absurdum, in Mélanges F. Sturm I, Liège 1999, 547-568. W. Waldstein, Konsequenz als Argument klassischer Juristen, in «ZSS» 92 (1975) 26-78. L. Wenger, Zur Lehre von der ‘actio iudicati’. Eine Rechtshistorische Studie, Halle 1901. L. Wenger, Die Quellen des römischen Rechts, Wien 1953. G. Wesener, rec. a M. Meinhart, Die Senatusconsulta Tertullianum und Orfitianum in ihrer Bedeutung für das klassische römische Erbrecht, in «ZSS» 85 (1968) 531 s. L. Wickert, Vorbemerkungen zu einem Supplementum Ostiense des ‘Corpus Inscriptionum Latinarum’, I. ‘Cervidius Scaevola praefectus vigilum’, in «SPAW» 30 (1928) 36-70. F. Wieacker, Amoenitates Iuventianae. Zur Charakteristik des Juristen Celsus, in «Iura» 13 (1962) 1-21. F. Wieacker, ‘Rationes decidendi’, in «ZSS» 88 (1971) 339-355. F. Wieacker, Textstufen klassischer Juristen, Göttingen 1975. F. Wieacker, Juristen im Prinzipat, in «ZSS» 94 (1977) 319-358. F. Wieacker, Offene Wertungen bei den römischen Juristen, in «ZSS» 94 (1977) 1-42. H.J. Wieling, Testamentsauslegung im römischen Recht, München 1972. H.J. Wieling, ‘Privilegium exigendi’, in «TR» 56 (1988) 279-298. W. Williams, Individuality in the imperial constitutions: Hadrian and the Antonines, in «JRS» 66 (1976) 67-83. M. Wlassak, Anklage und Streitbefestigung im Kriminalrecht der Römer, Wien 1917. H.J. Wolff, Die Pupillarsubstitution. Eine Untersuchung zur Geschichte des ‘Heres’-Begriffs und der rö≠mischen Rechtswissenschaft, in Studi in onore di S. Riccobono, III, Palermo 1936, 437 ss. C. Wollschläger, Das eigene Verschulden des Verletzten im römischen Recht, in «ZSS» 93 (1976) 115-137. 323

Alessia Spina Zandrino 2010 Zanon 2013 Zanzucchi 1916 Ziebarth 1873 Ziliotto 1999 – 2004 Zimmermann 1996 Zoz 1978 – 1980

– 2009 Zülch 2001 Zwalve 2001

L. Zandrino, La ‘delegatio’ nel diritto romano. Profili semantici ed elementi di fattispecie, Napoli 2010. G. Zanon, La capacità patrimoniale della donna. Tra realtà e apparenza giuridica, Padova 2013. P.P. Zanzucchi, Sul c.d. ‘beneficium competentiae’, in «BIDR» 29 (1916) 63 ss. K. Ziebarth, Beiträge zur Textkritik und Exegese, in «Jherings Jahrbücher für die Dogmatik des bürgerlichen Recht» 12 (1873) 400 ss. P. Ziliotto, La ‘res de qua agitur’ nella formula ‘cum compensatione’, in «Index» 27 (1999) 493-510. P. Ziliotto, Studi sulle obbligazioni alternative nel diritto romano, Padova 2004. R. Zimmermann, The Law of Obligations. Roman Foundations of the Civilian Tradition, Oxford 1996, 434. M.G. Zoz de Biasio, I rimedi contro gli atti in frode ai legittimari in diritto romano, Milano 1978. M.G. Zoz, In tema di ‘Quarta Divi Pii’, in Atti del II Seminario Romanistico Gardesano promosso dall’Istituto Milanese di Diritto Romano e Storia dei Diritti Antichi. 12-14 giugno 1978, Milano 1980, 249-264. M.G. Zoz, L’evoluzione e la cosiddetta “consolidazione” del diritto imperiale romano da parte della giurisprudenza: brevi osservazioni, in «DS» 8 (2009) online. C. Zülch, Der liber singularis responsorum des Ulpius Marcellus, Berlin 2001. W.J. Zwalve, In re Iulius Agrippa’s Estate. Q. Cervidius Scaevola, Iulia Domna and the Estate of Iulius Agrippa, in Administration, Prosopography and Appointment Policies in the Roman Empire, Amsterdam 2001, 154-166.

324

ABBREVIAZIONI

«AARC» «ACa» «AHDE» «AHSS» «AJPh» «AK» «Ann. Per.» «Annales (HSS)» «ANRW» «ARI» «AT» «AUBA» «AUPA» «BAPSL» «BIDR» «CAIBL» «CG» «CT» «CRAI» «DEAR» «DJR» «DNP» «DS» «ED» «HI» «HR» «IJ» «JJP» «JRS» «JS» «LeGH» «MEFRA» «MEP»

Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana Annali del Seminario giuridico dell’Università di Catania Anuario de Historia del Derecho Espanol Annales. Histoire, Sciences Sociales American Journal of Philology Archëologisches Korrespondenzblatt Annali della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Perugia Annales : histoire, sciences sociales Aufstieg und Niedergang der römischen Welt Atti del Reale Istituto di scienze, lettere ed arti Annali Trieste Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari Annali del Seminario Giuridico della Università di Palermo Bullettin de l’Académie Polonaise des Sciences et des Lettres Bullettino dell’Istituto di diritto romano “Vittorio Scialoja” Comptes rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres Cahiers Glotz Les cahiers de Tunisie Comptes Rendus des Séances de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres Dizionario epigrafico di antichità romane Diccionario de Jurisprudencia Romana Der neue Pauly: Enzyklopädie der Antike Diritto@Storia Enciclopedia del Diritto Historia et Ius Hamburger Rechtsstudien Irish Jurist The Journal of Juristic Papyrology The Journal of Roman Studies Journal des Savants Le genre humain Mélanges de l’École Française de Rome. Antiquité Minima Epigraphica et Papyrologica 325

Alessia Spina «MSCG» «NNDI» «OJR» «PIR» «PP» «QC» «QU» «RAL» «RCCM» «RD» «RDP» «RE» «RIDA» «RIL» «RISG» «RMP» «RPAA» «RSG» «SCDR» «SCO» «SDHI» «SEGCa» «SGr» «SPAW» «SSt» «StudRom» «StudUrb» «T» «TLL» «VIR» «ZgRW» «ZPE» «ZSS» «ZCP»

Materiali per una storia della cultura giuridica Novissimo Digesto Italiano Orbis Juris Romani Prosopographia Imperii Romani saec. I. II. III La Parola del passato: rivista di studi classici Quaderni Catanesi di studi antichi e medievali Quaderni Urbinati Rendiconti Lincei. Scienze morali, storiche e filologiche Rivista di cultura classica e medioevale Revue Historique de Droit Français et Étranger Rivista di diritto processuale Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft Revue Internationale des Droits de l’Antiquité Rendiconti dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche Rheinisches Museum für Philologie Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia. Serie III. Rendiconti. Roma, Pontificia Accademia Romana di Archeologia Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche Seminarios Complutenses de Derecho Romano Studi Classici e Orientali Studia et Documenta Historiae et Iuris Studi Economico-Giuridici pubblicati per cura della Facoltà di Giurisprudenza della R. Università di Cagliari Subseciva Groningana Sitzungsberichte der Preußischen Akademie der Wissenschaften. Phil.- hist. Klasse Studi Storici Studi Romani Studi Urbinati Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis Thesaurus Linguae Latinae Vocabularium Iurisprudentiae Romanae Zeitschrift für geschichtliche Rechtswissenschaft Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte - Romanistische Abteilung Zeitschrift für Civilrecht und Prozeß

326

GIURISTI CITATI

Africano, Sesto Cecilio 46; 46.11; 50; 52; 54; 54.50; 54.51; 54.52; 55; 59.82; 170.244; 203; 204; 210; 211; 248; 249.

Labeone, Antistio 49; 51 ss.; 126.21; 139; 147; 154; 182 ss.; 182.287; 226 230 s. Macro, Emilio 212; 212.427.

Alfeno Varo 175.247. Manilio, Manio 239.547. Aquilio Gallo 51 s.; 54; 203 ss.; 203.391; 207; 209; 216. Bruto, Marco Giunio 239; 239.547.

Marcello, Ulpio 21; 45; 45.4; 51; 54 s.; 55.54 ss.; 172; 177 s.; 181; 189 s.; 192; 198; 215; 239 ss.; 239.545; 252; 252.595; 255.

Cassio 10.49; 28; 51; 53.44; 54; 162; 169; 215.440; 216; 218.

Marciano, Elio 10; 49; 51; 56.60; 58; 155; 157.162; 158 ss.; 162; 236.529.

Celso, Publio Giuvenzio 30.52; 46; 50.30; 59; 136; 166; 166.212; 198; 226; 273; 273.692.

Meciano, Volusio 10; 21; 51; 54 s.; 55.59; 147; 232 s.; 233.513.

Fufidio 46; 46.8.

Modestino, Erennio 11.53; 40.

Gaio 54; 60; 159.175; 161; 169; 178; 186; 189; 212; 254; 277.

Nerazio Prisco, Lucio 51; 252 s.; 277. Ottaveno 58; 157; 159 ss.; 159.177.

Giavoleno Prisco, Lucio 28; 53; 149.126; 162 s.; 163.196; 226; 230 s. Giuliano, Salvio 21; 30.52; 45; 45.4; 47; 50 ss.; 52.41; 53 s.; 54; 54.48 ss.; 55; 55.58; 56.60; 57.71; 71; 143; 143.87; 144.95; 151; 161; 165 s.; 166.210 ss.; 167 s.; 174.244; 178 s.; 179.273; 181; 183 s.; 192 s.; 193.374; 194 ss.; 196.361; 198; 207; 209; 209.418; 210; 210.421; 211; 215; 217 ss.; 222; 223.476; 224 ss.; 226.486; 227 s.; 232 s.; 238; 244 ss.; 248 ss.; 258 ss.; 262; 270 s.; 271.682; 272 s.; 273.692; 274 s.

Paolo, Giulio 10; 20.7; 29; 47; 51; 54; 56; 56.60; 58; 152; 169; 171; 189; 203; 213; 216.450; 219 ss.; 223; 242 ss.; 249.585; 257; 259; 269; 271.682; 277; 280.729. Papiniano, Emilio 7 ss.; 8.30; 10.48; 47; 56.60; 57 s.; 135 s.; 172.239; 173 s.; 173.241; 176 s.; 187 ss.; 215; 215.436; 284.739; 285. Pedio, Sesto 127. Pomponio, Sesto 48 s.; 51; 55 ss.; 126 ss.;

327

Alessia Spina 126.21; 127.25; 175 ss.; 175.246; 201; 216.451; 257; 259; 259.634.

27.40; 56 s.; 56.63; 150.132; 172.239; 173 ss.; 191; 209.418; 264 s.; 280.729.

Proculo 51; 53.44; 215.440; 216.452; 226.483; 230; 253.

Saturnino, Claudio 158; 158.169.

Ulpiano, Domizio 4 s.; 10; 20.7; 22; 25.25; 26; 40; 49 ss.; 51.35; 52; 56.60; 57.64 ss.; 58; 58.72; 59 s.; 125; 127; 137; 141 s.; 146; 148; 151 s.; 154; 166.212; 167; 170 ss.; 179 s.; 180.276 s.; 182; 184; 186; 188 ss.; 192; 194; 204.397; 216.450; 221 s.; 234 s.; 235.519; 235.522; 236 ss.; 240.550; 241; 252; 252.595; 255; 261.638; 262 ss.; 267 s.; 271.682; 280; 281 ss.; 285.

Trebazio Testa 247 ss.

Venuleio Saturnino, Quinto 158.

Trifonino, Claudio 7; 10; 24; 24.22; 25.27; 27;

Viviano 51; 216; 216.450 ss.

Quinto Mucio Scevola 4.6; 201 s. Sabino, Masurio 51; 53.44; 169;178 s.; 181; 215.440; 216; 218; 236; 236.527.

328

FONTI ANTICHE

TRADIZIONE MANOSCRITTA

Apuleius Metamorphoses 1.5 2.3

60.93 60.93

Augustinus De coniugiis adulterinis 2.8.7

282

Aurelius Victor De Caesaribus 20.30

8.36

Basilicorum libri 18.6.41 29.5.29 42.3.36 44.19.77 48.7.5 48.7.6

154.149 162.191 242.556 229 272.686 272.686

Basilicorum Scholia Schol. 1 ad Bas. 29.5.29 Schol. 2 ad Bas. 48.7.5

164.202 273.688 329

Alessia Spina Cicero I. Orationes Pro Cluentio 147

280.729

IV. Opera philosophica De officiis 3.14.60

202.387

De finibus 1.4.12

239.547

Codex Theodosianus 4.4.3.3 9.7.7 9.9.32(33) 12.1.57

[T. 8]

16; 41 284.742 284.742 298.737

Corpus Iuris Civilis Institutiones 2.17.1 2.25.2 3.4pr. 3.4.3 3.9pr. 3.15.6 4.6.30

187.311 217.453 26.31 26.31 208 136.60 25; 149; 149.122; 150; 150.132; 170

Digesta 1.2.2.35 1.5.22 1.7.22.1 2.14.6.5 2.14.7.10 2.14.47 2.14.54 2.14.55 3.4.6.1 3.4.6.3

9.43 25.25 235.519 182.284 182 196.360 52.40; 196; 197; 198; 198.370 196.361 123.2 251.592 330

Fonti antiche 3.5.5 3.5.5.8 3.5.5.11 3.5.5.12 3.5.5.13 3.5.8(9)

[F. 2]

3.5.14 3.5.33 3.5.34

[F. 3]

3.5.34pr. 3.5.34.1 3.5.34.2 4.1.7 4.4.11.1 4.4.39pr. 4.4.39.1 4.5.5 4.8.43 5.1.21 5.2.20 5.3.5.1 5.3.5.2 5.3.8 5.3.16.3 5.3.27pr. 5.4.7 6.1.18 6.1.44 6.2.11.2 7.1.13.3 7.1.25.3 7.1.25.5 7.1.25.6

127.28 126; 126.21 127.28 127; 127.28 127.28 48.24; 55; 58.75; 60.88; 60.96; 60.98; 61.100; 61.101; 61.102; 64 s.; 124; 126 ss.; 182; 182.285; 201; 259 126; 126.21 47.16 28; 60.95; 61.101; 66 s.; 124; 129; 154 60.94 61.108 61.105 45.3 25; 47; 57.66; 263 264.651 12.61 207.412 196.160 247.577 29; 61.102; 68; 69; 137; 139; 140; 140.76; 141.80 137.64 137.64; 141.82 137.64 273 239 244 160 257.625 241 273 262; 262.645 59.77 26; 51.35; 68; 69; 137; 138; 141; 142; 143.90; 156; 261 273 239 223.476; 273 223.476 223.476 193.345

[F. 46]

[F. 5]

[F. 6]

7.1.29 7.1.68pr. 7.2.1.3 7.2.1.4 7.2.3 7.8.5 331

Alessia Spina 9.2.27pr. 10.2.2.1 10.2.36 10.2.37 10.2.51.1 11.7.8 11.7.12.2 11.7.14.12 11.7.14.13 11.7.14.15 11.7.14.16 11.7.32.1 11.7.45 11.7.46 11.7.46.2 12.1.1.1 12.1.17 12.1.25 12.1.37 12.1.38 12.1.39 12.1.40 12.1.41 13.1.8 13.1.18 13.4.2.2 13.4.2.3 13.4.2.6 13.5.18.1 14.6.1pr. 14.6.3 14.6.3.4 14.6.4

273 237.531 56; 242 56; 102; 103; 241; 242 244; 245 147.111 146 147.111 147.111 147.111 147.111 147.111 147 60.95; 61.105; 72 s.; 137; 145; 147 61.108 46.10 57.70 148.116 135 66 s.; 123; 126; 135 s. 136 197.366 179.271 61.107 56 s.; 80 s.; 172; 175; 176; 177 265 57.67; 59.77; 110 s.; 196.360; 267; 268.670 264.649 273 152 151 151 s. 56; 61.101; 74 s.; 137; 139; 150; 151 s. 152 56; 74 s.; 137; 139; 150; 151 s. 52; 154 154.152 226.484 226.483 227 26; 52; 74 s.; 137; 139; 152; 153; 154 25; 76 s.; 74 s.; 137; 148; 168

[F. 37]

[F. 8]

[F. 4]

[F. 17] [F. 48]

[F. 10]

14.6.5 14.6.6 15.1.7.5 15.1.7.6 15.1.9.2-3 15.1.17 15.1.37.1 15.1.51

[F. 11]

16.2.22

[F. 9]

[F. 10]

332

Fonti antiche 16.3.32 17.2.38pr. 18.1.43 18.6.10.1 18.6.11 18.7.10 19.1.43 19.1.48 19.2.61.1 19.5.5pr. 19.5.5.1 20.1.9.1 20.3.1.1 20.3.1.2 20.3.3 20.4.7 20.4.16 20.4.21 20.5.12.1 21.1.44pr. 21.1.56 21.2.39.4 21.2.69 21.2.69.1 21.2.69.2 21.2.69.3 21.2.69.4 21.2.69.5 22.1.28.1 22.1.48 22.3.25 22.3.29 23.2.43 23.2.57 23.2.59 23.3.75 23.4.1 23.4.29pr. 23.4.31 24.1.3.12 24.1.3.13 24.1.4 24.1.31.7 24.1.32.16 24.1.35

136.59 130.38 150.130 57.70 52.40 6; 23 s.; 25.27; 263.648; 264 47.15 245.568 11.52 47.15 47.15 159.175 158.166 49; 58; 76 s.; 155 ss. 47.16 223.476 47.16 245.568 56.61 183.288 47.16 144.95 26; 61.105; 70 s.; 137 s.; 143 144.93 144 144 54.51 60.85; 60.91 52.37; 240.548 196.360 47.15 25 57.69 26.32 26.53 27.39 28; 163 28; 163 28; 76 s.; 155; 162; 164 166.212 53; 165 s. 53; 165; 165.205; 166 ss. 166.209 280.729 219.463

[F. 12]

[F. 7]

[F. 13]

333

Alessia Spina 24.1.39 24.1.56 24.3.7pr. 24.3.39 24.3.43 24.3.47 25.4.1pr. 25.4.4 26.2.5 26.2.6 26.2.10.2 26.2.26.2 26.2.27pr. 26.2.31 26.4.3.2 26.5.19 26.7.2 26.7.2pr. 26.7.2.1 26.9.7 27.1.13.2 27.1.32 27.9.13pr. 28.2.12 28.2.13pr. 28.2.14pr. 28.2.19 28.2.23 28.2.23pr. 28.2.23.1 28.2.28.1 28.2.29

166.210; 166.211 53; 78 s.; 155; 164 s. 76 s.; 155; 162 284 52; 74 s.; 137; 139; 152; 154 28; 61.109; 118 s.; 279 s.; 283 ss. 27.34 235.523 204.396 204.396 206.404 57; 173 ss. 56; 173; 175 56; 62; 80 s.; 171 s.; 174 s. 263.648; 264.651 125.13 251; 255 251.592 255 104 s.; 250; 252; 254 s. 3.3; 4; 40 47.16 193.345 271.682 273 54; 210 29; 51; 58; 62; 189; 203 187 187 187; 189 187.311 29; 48; 51; 53.42; 54; 61; 88 s.; 199 ss.; 209 204.357 60.97 54 201 205; 205.402; 245.568 200; 201 60.97; 199 ss. 200 60.84; 208 208 200; 208 208

[F. 24] [F. 13] [F. 11] [F. 54]

[F. 16]

[F. 40] [T. 5]

[F. 26]

28.2.29pr. 28.2.29.1 28.2.29.2 28.2.29.3 28.2.29.4 28.2.29.5 28.2.29.6 28.2.29.7 28.2.29.8 28.2.29.9 28.2.29.10 28.2.29.11 334

Fonti antiche 28.2.29.12 28.2.29.13 28.2.29.14 28.2.29.15 28.2.29.16 28.3.3.1 28.3.3.13 28.3.8pr. 28.3.8.1 28.3.18 28.3.19 28.4.3 28.5.6.1 28.5.37pr. 28.5.56 28.5.61 28.5.75 28.5.82 28.5.83 28.5.84 28.5.86(85) 28.6.10.5 28.6.10.6 28.6.10.7 28.6.28 28.6.29 28.6.33.1 28.6.38.3 28.6.43 28.6.48 28.6.48.1 28.6.48.2 29.1.17.4 29.2.13.1 29.2.19pr. 29.2.21.2 29.2.42pr. 29.2.89 29.3.11 29.7.2.2 29.7.3.2 29.7.8.4 29.7.11 29.7.12

187.314; 200 s. 54; 60.98; 201; 246.573 59.82; 60.97; 209 60.89; 187.314; 235.523 54; 200 201.384; 206.404 206.404 186.307; 189 190.324 29; 84 s.; 186; 189 54; 58.75; 58.76; 59.80; 59.83; 92 s.; 199; 209; 211 30.49; 45.2 206.404 205; 209.419 277.715 277.711 203 47.16 110 s.; 265 s. 51.35; 116 s.; 263; 275 ss. 28 236; 238 22; 98 s.; 234 ss.; 238; 238.538 238; 238.540 53; 270 53; 112 s.; 265; 270; 272 54; 203; 204; 209.419 3; 3.2; 56; 220; 223 47.15 62 21; 52; 53.43; 209; 238; 238.541 205; 209 212 253.602 57.68 253.602 183.288 104 s.; 250 ss.; 254; 254.610; 257 217.453; 219.461 53; 217; 217.453 217.453; 218.455 56; 213 215.439 215.439

[F. 21] [F. 27]

[F. 47] [F. 52] [F. 35] [F. 50]

[F. 42]

335

Alessia Spina 29.7.13 29.7.14

215.439 48.22; 53; 56; 58.75; 60.87; 61.102; 61.103; 94 s.; 214 s.; 215.442; 217.453; 218; 220 ss.; 223.474; 230 215.438 234.457 150.130 223.476 223.476 45.2 221 ss. 253.604 235.519 56.60 157.162 28 219.460 54; 223 223 221; 223; 223.474 223.474 56.60 215.439 223.474 47.16 16 196.360 156; 156.159 28 245.568 56.60; 57.68 223.476 235.519 235.524 235.523 11 11.52 22; 22.18 235.524 7 25; 245.568 11.52 245.568 219

[F. 29]

29.7.15.9 29.7.16 29.7.20 30.1.34.10 30.1.84.12 30.49pr. 30.74 30.99 30.114.1 30.114.6 30.114.7 31.36.64(62) 31.44pr. 31.53pr. 31.53.2 31.61.1 31.77.15 31.77.24 31.77.29 31.82.1 31.83 31.88.1 31.88.3 31.88.5 31.88.7 31.88.14 31.88.16 32.1.80 32.2 32.7.5 32.34.1 32.35.1 32.35.3 32.37.3 32.37.5 32.38.4 32.39pr. 32.41.6 32.42pr. 32.98 336

Fonti antiche 33.1.21.3 33.1.21.4 33.2.26 33.2.34 33.4.2 33.4.10 33.5.11 33.5.18 33.5.22 33.7.18.3 33.7.27.1 33.7.27.2 33.8.6pr. 33.8.6.1 33.8.8.6 33.8.15 33.8.21 33.8.22pr. 34.1.13.1 34.1.13.2 34.2.5 34.3.28.4 34.3.28.5 34.3.28.12 34.3.31.2 34.4.30pr. 34.5.29pr. 34.9.1.1 35.1.26pr. 35.1.30.1 35.1.40.5 35.1.48 35.1.79pr. 35.1.80 35.1.81 35.1.109 35.2.1.13 35.2.11.2 35.2.16

11.52; 62; 62.115; 231.504 7 47.16 11.52 224 28; 54; 96 s.; 214; 223 253.604 104 s.; 250; 252; 254; 263 253 12.60 11.52 245.568 226; 226.487; 273 226.485 154.152 226.486 96 s.; 214; 225; 226.486; 227; 230 226 5; 22; 235.524 245.568 46.9 220.464 12.58 245.568 220.464 12.58 245.568 150.130 245.569 53 53; 230 45.2 229; 229.498 53; 62; 96 s.; 214; 228; 230 47.16 56; 56.63; 150.132; 245.568 223.474 215.436 29; 61.102; 78 s.; 156 s.; 168 s.; 170.230; 171; 268 s. 54; 56; 61.107; 62; 94 s.; 156; 199; 211; 213 55; 98 s.; 214; 231 ss. 55; 98 s.; 214; 233 s. 47.16

[F. 30] [F. 41]

[F. 31]

[F. 32]

[F. 29]

35.2.17

[F. 28]

35.2.19 35.2.20 35.2.22

[F. 33] [F. 34] 337

Alessia Spina 35.2.23 35.2.26 35.2.30.1 35.2.30.7 35.2.30.8 35.2.33 35.2.35 35.2.36.3 35.2.49pr. 35.2.49.1 35.2.73pr. 35.2.87 35.2.87pr. 35.2.87.4 35.2.87.7 35.2.88pr. 35.2.92 35.2.96 36.1.18[17]pr. 36.1.22pr. 36.1.23pr. 36.1.65.15 36.1.76[74]pr. 36.1.80.10 36.2.12.1 36.2.12.3 36.4.1pr. 36.7.21 37.1.13 37.4.3.9 37.4.8.7 37.4.8.8 37.4.17 37.4.20.1 37.6.10 37.7.1pr. 37.7.9 37.8.1pr. 37.8.1.1 37.8.3 37.8.6 37.9.1.13 37.10

[F. 49]

112 s.; 156; 156.157; 157; 169; 265; 268 30 232 273 233 s. 170 29; 57.70; 170 s. 171 169.226 269 169.225 232 55; 232 223.474 52.41 59.82 212 61.104; 213 56.60 57.70 4; 39 277.714 56.60 245.568 273 273 254.610 237.531 207.412 192.341 188 189 s. 192.340 191; 191.336 22; 48.24; 49; 61.107; 84 s.; 186; 190; 192 s. 23; 191 27.35 194.150 194.150 45.2; 193.347 53.43; 86 s.; 186; 193 193.347 137

[T. 4]

[F. 22]

[F. 23]

338

Fonti antiche 37.10.9 38.1.37.8 38.1.44 38.2.50.2 38.5.6 38.5.7 38.5.8 38.5.13 38.16.1.1 38.17.6 38.17.9 39.1.15 39.2.45 39.5.35 40.1.20 40.1.20pr. 40.2.25 40.4.17pr. 40.4.17.1 40.4.29 40.4.57 40.5.41.10 40.5.41.16 40.5.50 40.7.13.5 40.8.1 40.8.3 40.8.6 40.8.8 40.8.9 40.9.5 40.9.5.2 40.9.6

[F. 51]

40.9.24 40.9.30pr. 40.13.4 41.1.23.3

[F. 6]

41.1.33pr. 41.1.48.2 41.3.4 41.3.4.19 41.3.10.2 41.3.10.6

139 254 56; 82 s.; 172; 184; 186; 197 s. 183.288 53.46; 194; 195.357 53.42; 53.46; 86 s.; 186; 194 195 237.531 218.456 26 26.31 248; 250.590 51; 102 s.; 242; 245; 247; 247.577 220.464 263.648 25.25; 264.651 46.8 246.569 246.569 27 272.685 11 11 3.3 246.569 263.648 24.23; 263.648 263.648 25.25 25.25; 47.16 272 272.683; 274 51.35; 53.42; 54; 61.100; 114 s.; 272; 272.683; 274 s. 277.712 263; 263.448 47.16 26; 51.35; 68 s.; 137 s.; 141 ss.; 143.90; 156; 261 57.69 240.550 179.270 240.550 55; 57.65; 100 s.; 239 57.65

[F. 20] [F. 24]

[F. 39]

[F. 36] 339

Alessia Spina 41.3.34 41.3.35 42.1.4pr. 42.1.41 42.3.1 42.4.3.2 42.4.5.1 42.5.24.1 42.5.29 43.20.7 43.24.5.1 44.2.7.4 44.2.10 44.6.1.1 44.7.61pr. 44.7.61.1 45.1.29.1 45.1.49.1 45.1.56.8 45.1.63 45.1.66 45.1.88 45.1.91.3 45.1.122 45.1.122pr. 45.1.122.1 45.1.126.1 45.1.126.2 45.1.126.3 45.1.127

[F. 25]

45.1.129

[F. 38]

45.1.131 45.1.132 45.1.133 45.1.135 45.3.19

[F. 44]

46.1.15pr. 46.1.17 46.1.49pr. 46.1.49.2 46.1.57 46.1.71pr.

175.247 172.237; 178; 181 251.592 47.16 148.116 250.591 250.591 148.116 46.8 249.585 60.85 59.77 245.568 159.178; 161 245.568 12.59 55.57;198.371 56; 185; 185.301 198 54 153.143 56; 185; 185.302 198.369 245.566 11 11; 246 47.15 47.15 47.15 60.90; 60.98; 86 s.; 172; 185 s.; 195 ss. 54; 102 s.; 241; 245; 245.566; 246.571 53.42; 116 s.; 263.571; 268; 277 ss. 153.143; 259 61.106; 106 s.; 246; 250; 259 ss. 245.566 51.35; 61.108; 106 ss.; 141 s.; 143.90; 156; 250; 261; 263 254.610 255 255.610 278.719 116 ss.; 275; 276; 278 47.16

[F. 44] [F. 45]

[F. 53] 340

Fonti antiche 46.2.14pr. 46.2.34pr. 46.3.2 46.3.4.1 46.3.45.1 46.3.72 46.3.98 46.4.18.1 46.7.21 46.8 46.8.4 46.8.5 46.8.13pr. 46.8.13.1 46.8.18 46.8.22 46.8.22.2 47.2.14.14 47.2.15.2 47.2.20.1 47.2.36.3 47.2.43.2 47.2.44pr. 47.2.52.10 47.2.52.26 47.2.54 47.2.69 47.2.70 47.2.71 47.2.75 47.2.81.7 47.4.1.10 47.4.1.15 47.5.4 47.6.1pr. 47.6.4 47.6.6

55.57; 198.371 154.152 55.57 157.162 272.683 198.371 47.15 202.386 53.42 256; 258 106 s.; 250; 255; 259 259 257 257.622 257; 259.634 258 258 178.263 178.263 178.264 179.268 176; 176.256 176 168.264 154.152 179.268 55.56; 177; 181 53.43; 55; 83 s.; 172; 180 s.; 181.281; 182 55.56; 177; 181 178.264 57; 177 55; 82 s.; 172; 172.237; 177; 180 ss. 172.237; 179 ss. 183 181; 181.282 52 48; 52; 60.96; 82 s.; 172; 181; 184; 192 48; 48.24 137.64 207.412 281; 285 281; 285 283

[F. 43]

[F. 18]

[F. 18]

[F. 19]

47.6.6.1 48.1.2 48.1.2pr. 48.5.2.4 48.5.2.5 48.5.14(13).4 341

Alessia Spina 48.5.14(13).5 48.5.15(14).1 48.5.15(14).2 48.5.16.7 48.10.24 48.13.3 48.19.2.1 49.14.2pr. 49.14.22.2 49.15.11.1 49.15.12.8 49.15.22pr. 49.17.19pr. 50.1 50.1.19 50.3.1.1 50.7.5pr. 50.9.3 50.16 50.16.25 50.16.26 50.16.160.1 50.17 50.17.73.1 50.17.88 50.17.180 50.17.183

282 s.; 285 28; 279 s.; 283 ss. 235.523 280 220.464 207.412 207.412 160.182 160.181; 160.182 270.679 280.729 271.682 56.61 123 57; 64-65; 64 s.; 123 s. 125; 125.10 158; 158.169 20.5 48 240.549 48.23; 100 s.; 239 s.; 240.549 57; 125; 125.12 48; 196 202 48.23; 186; 195 s. 165.208 45.3

[F. 1]

[F. 36]

[F. 25]

Codex 2.13.2 3.44 4.31.14 4.31.14.1 4.57.2 4.57.3 5.13.1.3a 6.28.4.8 6.37.1 6.49.4 9.9.11 9.9.25(26)

206.404 145 149.123; 150 150.131 24; 263.648; 264.651 24; 263.648 224 207.413; 208 22.14 222.469; 223 281 281 s.

Epitome Gai 2.3.3

187.311 342

Fonti antiche Fragmenta Vaticana 92 182

247.577 13.72

Fronto Epistulae ad amicos 1.14 (Neber, p. 183)

29.47

Epistulae ad M. Caesarem et invicem 2.16 (Neber, p. 37)

29.47

Epistulae (rescriptum) magistro meo 2.17

29.47

Gaius Institutiones 1.37 1.47 1.122 2.4 2.55 2.134 2.138 2.140 2.141 2.154 3.119 3.119a 3.121 3.149 3.179 3.204 4.101 4.117a

276.706 276.706 258.629 146.104 178.265 206.404 186.306 186.306 206.409 46.8 195 254.607 276 145.100 198; 198.370 178.262 251.592 159.178; 160; 161; 161.189

Isidorus Hispalensis Origines 9.5

201.384 343

Alessia Spina Historia Augusta Marcus Aurelius 7.8 11.10 26.6

[T. 6]

23.20 4; 21; 41 23.20

[T. 7]

41

Commodus 7.6: Antoninus Caracallus 8.2-3 Antoninus Geta 2 2.3

8.36 10.46

Mamertinus (Claudius) Panegyricus (gratiarum actio de consulatu suo Iuliano imperatori) 11.20.1 4.6 Pauli sententiae 5.6.8 c

249.585

Symmachus orator Epistulae 3.23.2

4.6

Tituli ex corpore Ulpiani 22.19 23.2 23.3 26.7

206.404 187.311 187.311 26.31

344

Fonti antiche EPIGRAFI

CIL = Corpus Inscriptionum Latinarum VI.220 VI.12451 VI.1422 XII.3171a XII.3171b XII.3339 XII.3515 XII.4036 [T. 3] XII.5900 XIII.1801 XIII.1806 XIV, Suppl. Ostiense, n. 4502 [T. 1]

13.69; 16.90; 13.70; 16.90 13.72 13.75; 16.91 13.75 15 13.74 15; 16; 17; 38 15 13.71; 15 3.3; 6; 35

CLE = Carmina Latina Epigraphica 1112

15

ILS = Inscriptiones Latinae Selectae 412 1172 1172a 1173 2163 2164

17.69 13.71; 15 13.71 13.72 16.90 35

Tabula Banasitana = AE 1971, n. 534

[T. 2] 3; 6; 7; 10; 14; 35 ss.

345

Finito di stampare nel mese di dicembre 2021 per conto de «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Tipografia CSC Grafica s.r.l. via A. Meucci, 28 00012 - Guidonia - Roma