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Italian Pages 496 Year 2016
A
Massimo Ambrosetti Enzo Melandri sugli Stoici Prefazione di Maurizio Matteuzzi
Copyright © MMXVI Aracne editrice int.le S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Quarto Negroni, Ariccia (RM) ()
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I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: marzo
In memoria di Claudio Gianinazzi grande amico e insostituibile interlocutore
Avec le langage, la monotonie confuse de l’espace se fragmente, tandis que s’unifie la diversité des successions. Michel Foucault Les mots e les choses
Indice
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Abbreviazioni
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Prefazione
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Introduzione 1. Premessa, 19 – 2. Presentazione, 22 – 3. Interventi per agevolare la lettura, 24 – 4. Convenzioni tipologiche, 25 – 5. Cenni sui contenuti, 25
PARTE I Lezioni introduttive 31
Lezione I 1.1. La possibilità della spiegazione razionale, 31 – 1.2. Logica del concetto e logica della proposizione, 32 – 1.3. Teoria della percezione, 34 – 1.4. Sensazione e intelletto, 36 – 1.5. Semantica aristotelica, 38 – 1.6. Spiegare i modi dell’essere, 39 – 1.7. Il rapporto con il reale e la funzione dell’etica, 41 – 1.8. Articolazione del corso, 45
47
Lezione II 2.0. Premessa, 47 – 2.1. Semiologia e ontologia, 47 – 2.2. Semiologia e gnoseologia, 48 – 2.3. Gnoseologia e etica, 49 – 2.4. Aristotelismo vs stoicismo, 51
99
10 Indice Indice
PARTE II I predecessori 55
Lezione III 3.1. Introduzione alla filosofia antica, 55 – 3.2. Questioni di metodo, 61 – 3.3. Il triangolo di Ogden-Richards, 71 – 3.4. Le due vie della teoria della conoscenza, 77
83
Lezione V 5.1. L'emancipazione dal pensiero arcaico, 83 – 5.2. Eraclito, 87 – 5.3. Parmenide, 92 – 5.4. Gorgia, 95 – 5.5. Democrito, 104
113
Lezione VI 6.1. Ricapitolazione, 113– 6.2. L'emersione della teoria, 118 – 6.3. La dissoluzione Aristotelica, 131
149
Lezione VII 7.1. Pregiudizi storici, 149 – 7.2. Etica e politica, 153 – 7.3. Descrizione e spiegazione, 158 – 7.4. Rappresentazione e rispecchiamento, 162
179
Lezione VIII 8.1. Due logiche, 179 – 8.2. Semiologia, 184 – 8.3. Gestalt I, 190 – 8.4. Essere, esistere, sussistere, 199 – 8.5. Corporeo/mentale, 202 – 8.6. Gestalt II, 204 – 8.7. Ricapitolazione, 206
209
Lezione IX 9.1. Grammatiche, 209 – 9.2. Logos I, 214 – 9.3. Etica, 216 – 9.4. Movimento, azione, comportamento, 219 – 9.5. Scienze sociali e scienze naturali, 220 – 9.6. Conclusioni sul verbo, 225 – 9.7. Logos, 227 – 9.8. Logica, 230
Presentazione Indice 11 11
237
Lezione X 10.1. Modalità, 237 – 10.2. Determinismo, 247 – 10.3. Assiomatica, 255
259
Lezione XI 11.1. Logica e filosofia, 259 – 11.2. Logica e semiotica, 263 – 11.3. Logica e psicologia, 273 – 11.4. Ermeneutica, 283 – 11.5. Ricapitolazione, 286
289
Lezione XII 12.1. Lekton, 289 – 12.2. Connettivi I, 291 – 12.3. Categorie, 302 – 12.4. Verità, 312
319
Lezione XIII 13.1. Connettivi II, 319 – 13.2. Causalità, 320 – 13.3. Connettivi III, 327 – 13.4. Modalità II, 330 – 13.5. Cosmologia, 340
345
Lezione XIV 14.1. Epistemologia I, 345 – 14.2. Ermeneutica, 351 – 14.3. Epistemologia II, 354 – 14.4. L'Argomento Vittorioso I, 358
373
Lezione XV 15.1. L'Argomento Vittorioso II, 373 – 15.2. Modalità e gnoseologia, 377 – 15.3. Modalità e ontologia, 380 – 15.4. Fisica, 384 – 15.5. Determinismo, 388 – 15.6. La contaminazione empirica, 397
403
Lezione XVI 16.1. Il pensiero teoretico, 403 – 16.2. La negazione, 414 – 16.3. Connettivi IV: il condizionale, 424
12 Indice Indice
4353 Lezione XVII 17.1. Connettivi V, 433 – 17.2. Argomenti, 435
PARTE III Conclusioni parziali 459
Lezione XVIII 18.1. Logica e teoria della conoscenza, 459 – 18.2. Psicologia e teoria della conoscenza, 462 – 18.3. Psicologia e fisica, 472 – 18.4. Rappresentazione verità, 474 – 18.5. Percezione e linguaggio, 477 – 18.6. Fisica e etica, 482
485
Elenco dei diagrammi, delle figure, degli schemi e delle tabelle
487
Bibliograa
Abbreviazioni
Adv. math. I-VIII: Sesto Empirico, Contro i matematici I-VI, Contro i logici I-II, Laterza, Roma-Bari 1975 An. post.: Aristotele, Secondi Analitici, Opere, Laterza, Roma-Bari 1973 An. pr.: Aristotele, Secondi Analitici, Opere, Laterza, Roma-Bari 1973 Bocheński: Bocheński Joseph M., La logica formale, Einaudi 1972 ed or. Freiburg-Munchen 1956 Cat.: Aristotele, Categorie, Opere, Laterza, Roma-Bari 1973 De an.: Aristotele, Dell'anima, Opere, Laterza, Roma-Bari 1973 De caelo: Del cielo, Opere, Laterza, Roma-Bari 1973 De gen. et corr.: Aristotele, Della generazione e della corruzione, Opere, Laterza, Roma-Bari 1973 De int.: Aristotele Dell'Espressione, Opere, Laterza, Roma-Bari 1973 De motu: Aristotele, De motu animalium, nessuna traduzione in italiano DK: Diels-Kranz I presocratici, Laterza, Roma-Bari 1975 DL: Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza, Roma-Bari1975 Düring: Düring Ingemar Aristotele, Mursia, Milano 1976, ed or. Heidelberg 1966 Et. nic: Aristotele, Etica nicomachea, Opere, Laterza, Roma-Bari 1973 H+C: Hughes George. E., e Cresswell Maxwell J., Introduzione alla logica modale, Il saggiatore, Milano 1973, ed or. 1968 Kneale: Kneale William C. e Kneale Martha, Storia della logica, Torino 1972, ed or. Oxford 1962 LC: Melandri Enzo, La linea e il Circolo, Quodlibet, Macerata 2004, ed or. Bologna 1968 Mates: Mates Benson, Stoic Logic, Berkeley, Ca. 1953 Met.: Aristotele, Metafisica, Opere, Laterza, Roma-Bari 1973 NA: Abbagnano Nicola, Dizionario di Filosofia, Utet, Torino 1977, prima ed. 1971
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14 Abbreviazioni Indice
Pohlenz: Pohlenz Max, La Stoa, La nuova Italia, Firenze 1978, ed. or. Göttingen 1959 Pol.: Aristotele Politica, Opere, Laterza, Roma-Bari 1973 Pragmatologia: Melandri Enzo, Progetto di una pragmatologia intesa quale prolegomeno alla metodologia delle scienze sociali, ciclostile ad uso degli studenti dell'anno accademico 1974-75 Pyrr. hip.: Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, Laterza, Roma-Bari 2009 Top.: Aristotele Topici in Opere, Laterza, Roma-Bari 1973
Prefazione di Maurizio Matteuzzi
Il canone consolidato vuole che il periodo aureo della filosofia greca termini con Aristotele. Anzi, diciamo pure che la maggior parte delle letture di tutta la filosofia greca ruota attorno alla linea vincente, la triade Socrate Platone Aristotele, di cui ogni altra filosofia è vista come funzione, vuoi come anticipazione, vuoi come epigono, per non far troppo torto alla cronologia. È dunque, a ragione, quella, "la via classica". Diverse sono le ragioni che hanno portato a questa linea ermeneutica. Prima di tutto, l'enorme impatto dell'aristotelismo sull'epoca successiva. Poi il decadere politico delle poleis, Atene in primis. Il fatto che i pensatori successivi non sono più di lingua madre greca, o quanto meno attica. L'allargamento a dismisura dell'orizzonte geografico. Questo, e molto altro, portano in modo naturale a collocare la fine dell'età classica in quel 322 in cui, un anno dopo il suo non banale discepolo, Alessandro, muore Aristotele. Si deve poi tenere presente che il nuovo perno emergente della civiltà occidentale, la romanità, recepisce le filosofie immediatamente posteriori ad Aristotele, Stoicismo ed Epicureismo, esclusivamente nella loro componente pratica, in tono con la nuova mentalità. L'assimilazione della cultura, ma sopra tutto della teoresi greca avviene con lentezza, non senza forti resistenze, e comunque sempre in modo parziale. Quanto detto spiega abbastanza bene perché si forma un certo modo di pensare lo Stoicismo: in primis come filosofia della prassi; secondariamente, come filosofia della decadenza; in terzo luogo, come
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16 Prefazione Indice
commentario, come precisazione, di quello che è l'indiscutibile ed indiscusso nerbo del canone, la via classica, Socrate Platone Aristotele. Qui io mi riferisco al pensare volgare, naturalmente, alla lettura più ingenua; ma non manca qualche osmosi a danno della letteratura specialistica. Ecco dunque il perché di una “via non classica”. Melandri non ci sta, ribalta il tavolo, e va a vedere lo Stoicismo come una teoresi altrettanto degna di cittadinanza di quella aristotelica; contrapposta, certo, ma irriducibile ad essa, assolutamente originale, tutt'altro che un commento con sporadiche prese di distanza. Una teoresi capace di fondare una gnoseologia antitetica, una diversa spiegazione del problema semantico, di scoprire e formalizzare una logica non contrapposta a quella aristotelica (lettura che ha prevalso per secoli), ma una logica altra, che copre un altro sistema, sistema solo adombrato, in pochi passaggi marginali, nell'Organon. Soltanto con la breve ma fondamentale storia della logica proposizionale di Łukasiewicz si capirà fino in fondo che gli Stoici non contrappongono affatto la loro logica a quella aristotelica, non cercano nuovi sillogismi: essi concentrano il tiro su un sistema affatto diverso, quello del calcolo proposizionale, che nessun contrasto può presentare rispetto alla logica aristotelica, tutta incentrata sul calcolo predicativo. Una analoga rivoluzione avviene negli studi sul linguaggio. Se il triangolo semantico aristotelico poneva i pathémata tes psyches, cioè, in definitiva, il pensiero, come medio tra linguaggio espresso e reale, quello stoico colloca a tale funzione il lekton, l'espresso, l'effatum, come proverà a tradurre Seneca, ed esso media tra il segno (to semeion), o, più d'appresso, il segnato (to semainoumenon) e ciò che accade, il tynchanon. Melandri interpreta lekton a un dipresso come il logismos aristotelico, come ragione discorsiva. E questa lettura non si distaccherebbe poi troppo dal triangolo dello stagirita. E tuttavia ciò che è “espresso” è pur sempre materia linguistica, ancorché, nella terminologia stoica, asomaton, incorporea. E dunque il linguaggio si avvia per la strada che lo condurrà ad assumere funzione di medio; fatto epocale, di enorme importanza, che avrà conseguenze millenarie sugli studi di semantica. E che si apre alla visione moderna, alla problematica della “opacità del medio”, al medio come oggettivazione dell'esperienza a renderla intersoggettiva, perché l'altro possa cercare quell'atto riempiente, come dirà Husserl, a saturare l'atto donatore di senso.
Presentazione Prefazione 17 17
Ma se queste cose sono ben note agli addetti ai lavori, accanto ad una ampia rivisitazione di esse Melandri va oltre, e introduce un'ermeneutica del tutto nuova ed originale su più temi. Tutta la gnoseologia stoica è reinterpretata in parallelo, ma in modo contrastivo, a quella aristotelica: sensazione versus percezione, nous versus logos, l'immanenza del katholou verso l'irriconducibile trascendenza dell'asomaton. Il tutto, entro un discorso filosofico che, per affinare l'analisi, ricorre sistematicamente a tutta la filosofia moderna, ad Hegel come a Husserl, a Wittgenstein come a Kant. Come sempre nel suo stile, Melandri non confinò quel corso solo entro le ore ufficiali di lezione; per tutto quell'anno, il lavorio intellettuale sul pensiero stoico lo assillò, lo tormentò senza tregua; alle due ore canoniche di lezione del mattino facevano da inevitabile pandant le cinque o sei ore di discussione pomeridiana, il pensare e il ripensare, il “provare a trar fuori, a dire”, alla ricerca dei giusti lekta per il prosieguo di un esprimere difficile, reso arduo dall'inquietudine di una mai sopita esigenza di analisi ulteriore. Di tutta questa parte sono stato fortunato testimone, e persino, qualche volta, interlocutore. Il corso che io in quell'anno svolgevo, parallelamente, era su Leibniz, e faceva seguito a una serie di corsi sulla scuola di logica polacca tra le due guerre, e, in particolare, sui sistemi di Stanislaw Lesniewski. Il che può apparire come quanto di più remoto. Ma non era così. La scelta di questi due corsi monografici era stata concordata, e affondava le sue radici su uno stesso tema: connotazione e denotazione, intensione ed estensione, Sinn e Bedeutung: c'è spazio, accanto alla scelta dominante dell'estensione, per una semantica, per un'ermeneutica, per una logica, tutta “intensionale”, secondo la visione leibniziana?1 La logica stoica era estensionale o intensionale?2 Ecco, questo era uno dei focus, anzi, il leitmotiv, di quelle che potremmo chiamare lezioni pomeridiane, quelle destrutturare e facoltative. (Si era convenuto, con Melandri, di indirizzare in seguito entrambi i nostri corsi su Leibniz, con particolare attenzione alla dicotomia che s'è detto, il mio più dal punto di vista logico, il suo, ovviamente, teoretico; ma questo poi non lo facemmo mai). 1
Cfr. Gottfried W. Leibniz, Alcune difficoltà logiche, pp. 191-197, in Ricerche generali sull’analisi delle nozioni e delle verità, a cura di Massimo Mugnai, Edizioni della Normale, 2 Qui si deve intendere il termine "intensionale" nel senso più ampio, come duale di "estensionale", secondo l'accezione leibniziana, e non secondo l'accezione della logica moderna, che lo assimila a "modale".
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E quanto detto spiega perché sono stato forse in grado di dare qualche suggerimento utile all'epico lavoro di Massimo Ambrosetti, che per anni si è dedicato al certosino lavoro di recuperare quel corso, quella via non classica, a beneficio del lettore moderno. Per quanto il punto di partenza fosse promettente, la registrazione integrale, cioè, di tutte le lezioni di Melandri, giocavano contro vari fattori: l'inadeguatezza dei mezzi dell'epoca, le ampie parti svolte alla lavagna, la difficoltà di interpretare alcuni termini. Con un attento lavoro filologico, Ambrosetti dà conto nel testo che segue dei diversi gradi di affidabilità della trascrizione, e non si astiene da interventi originali suoi, a chiarimento dei passaggi più ostici. Questo è tutto quanto si può chiedere ad un lavoro onesto, quello di dichiararne i livelli di affidabilità. Quel che posso assicurare io, per parte mia, è che senza dubbio lo spirito complessivo del corso, i suoi messaggi fondanti, chiari suggerimenti per la prosecuzione della ricerca in modi alternativi al canone, tutto questo nell'opera c'è, senza ombra di dubbio. Maurizio Matteuzzi dicembre 2016
Introduzione
1. Premessa Il lavoro di recupero delle registrazioni di alcune lezioni tenute nell'anno accademico 1978/79 dal professor Enzo Melandri per il corso di laurea in filosofia teoretica si è svolto in due fasi: la prima di trascrizione delle registrazioni, la seconda di elaborazione del testo. Posto il grado di corruzione delle registrazioni metodologia e genealogia di questo lavoro di recupero sono strettamente connesse. Pertanto il modo più opportuno di procedere è di iniziare con una narrazione autobiografica, di proseguire illustrando i metodi adottati per la redazione del testo e di terminare con alcuni cenni ai contenuti. Nel 1978 decisi di frequentare filosofia teoretica. Ero al terzo anno e sapevo di andare incontro a qualche difficoltà. Il mio interesse per la filosofia era autentico ma il mio impegno nello studio era sempre stato modesto. La fama di Melandri non era quella di un professore eccessivamente severo negli esami ma era risaputo che i suoi corsi esigevano un impegno da parte degli allievi che non lasciava spazio a mezzi termini. Per presentarsi all'esame era obbligatorio passare al vaglio di Gabriele Franci che teneva un seminario di logica. Si consigliava agli studenti di frequentare anche il corso collegato di filosofia del linguaggio tenuto da Maurizio Matteuzzi (che in quell'anno era su Leibniz) e che contemplava lo stesso esame preparatorio di logica al quale si sommava l'insiemistica insegnata nelle sue prime dieci lezioni. Pochi capitavano per caso da Melandri e nessuno che non avesse intenzioni serie ci rimaneva. Alla mia prima lezione erano presenti una quarantina di studenti, alla seconda non più di venticinque. 19 19
20 Introduzione Introduzione
Nonostante capissi veramente poco di quello che diceva quel luminare bonario e ironico, la mia attenzione era catalizzata dal flusso del suo pensiero come all'inizio di un giallo ben scritto di cui si capiscono le parole senza intuire la trama e il mio sguardo lo inseguiva nel suo deambulare come si fissa incantati la gigantesca massa d'acqua di un grande fiume che avanza imperturbabile. Ogni tanto dal magma fluido dell'elocuzione emergeva un isolotto di luminosa materia semantica che coglieva la mia immaginazione. Quei pochi momenti erano stati sufficienti a scatenare una costanza e una tenacia che non mi ero mai riconosciuto e della quale ancora mi meraviglio. Non ero ancora consapevole degli abbagli della comprensione che, come avrebbe detto Melandri, procede come la composizione di un puzzle di cui a tratti si ha l'impressione che tutti i pezzi della phantasia coagulino per un momento, che tutto il disegno si stia per configurare, finché una nuova serie di tasselli lo scombina di nuovo. Ma poco importa, aggiungeva, se c'è il pathos teoretico si va avanti. A quei tempi circolavano a buon mercato piccoli registratori a pila di cui avevo deciso di servirmi nella speranza di compensare alle inevitabili lacune dei miei appunti. Fu subito chiaro che il risultato era scadente. L'ampia, alta aula dava su di un parcheggio interno che, sebbene poco trafficato, faceva talvolta vibrare per un intero minuto le lastre di vetro malferme delle enormi finestre. Il suono della voce, coperto a tratti anche da rumori interni come un colpo di tosse, una sedia che si spostava, quando il volume era sufficiente, si perdeva nel riverbero. A volte era difficile cogliere intere frasi per il vizio dell'oratore di calarsi nel profondo della riflessione smorzando il volume come in un monologo interiore sussurrato. Le campagne contro il fumo avevano ancora poco successo e in quell'aula rimbombava anche il rumore di un accendino. Non ricordo di aver mai visto Melandri seduto alla scrivania e nelle sue lunghe camminate non disdegnava ogni tanto una Nazionale Esportazione senza filtro che tratteneva tra le labbra mentre il discorso continuava a fluire. Infine, per colmo di stupidità, mi ero messo seduto in fondo all'aula pensando così di cogliere più uniformemente il suono la cui fonte era perennemente in movimento. Data la difficoltà dell'ascolto, durante l'anno trascrissi solo brevi passaggi da una lezione o dall'altra ma il risultato era troppo frammentario per riuscire a cogliere il senso complessivo di quell'insieme di argomenti che si presentavano ogni volta sotto forma un po' diversa. Il
Introduzione 21 21
filo logico che li legava, la contrapposizione di aristotelismo e stoicismo, era dichiarato e tangibile durante ogni lezione. Ma se mi mettevo da solo a cercare di collegare semiologia, logica, psicologia e ontologia i pezzi del puzzle non andavano mai assieme. Quando alla fine ebbi il coraggio di presentarmi da Franci, Matteuzzi e Melandri i loro giudizi si rivelarono più generosi delle più favorevoli aspettative e ciò contribuì alla formazione di un legame che negli anni mi riportò alla fine di nuovo a quel corso. Per ragioni che non starò a dire, non ultima delle quali il fatto che allora come oggi avviarsi alla vita accademica voleva dire votarsi ad un lungo e penoso precariato, una volta laureato presi una strada che si allontanava dall'università. Molti anni dopo però mi si presentò la possibilità di ricominciare a studiare e la colsi al volo. Ci volle un po' di tempo prima che mi accorgessi che non sarei riuscito a concludere nulla di buono se prima non mi fossi tolto il pensiero: dovevo tornare alle registrazioni e sbobinarle perché lì si era interrotto un percorso e da lì dovevo ricominciare. Se il lavoro fosse riuscito le lezioni avrebbero anche potuto essere pubblicate riportando alla luce un capitolo del pensiero di Melandri rimasto fino ad allora sepolto nei nastri magnetici. Sommando l'inadeguatezza acustica del luogo alle lacune della fonte sonora e alla scarsa qualità del registratore e del microfono si era ottenuto il pessimo risultato con il quale ho dovuto fare i conti. Le lacune andavano da singole parole a frasi intere. Mi ero dunque imposto un metodo: trascrivere in una prima fase tutto il possibile pedissequamente evidenziando con un preciso sistema grafico il grado di incomprensione dell'ascolto; una volta terminato il lavoro di trascrizione procedere con successivi aggiustamenti ad una ricostruzione plausibile del discorso. Faccio alcuni esempi delle difficoltà incontrate nella prima fase: una parola che rimaneva incomprensibile dopo vari tentativi di riascolto veniva sostituita da puntini di sospensione che dovevano indicare la lunghezza della lacuna e distinguersi dai puntini che segnalavano una sospensione nel parlato di Melandri. Ogni suono o sequenza di suoni poteva corrispondere con grado diverso ad uno o più significanti e nella lettura della trascrizione volevo che si capisse quanto azzardo avevo preso nel collegare un suono a un significante. Sovente la somiglianza tra un suono e un significante era forte ma non trovavo corrispondenza sul piano sintattico o semantico; oppure il suono non
22 Introduzione Introduzione
assomigliava per niente ad un probabile significante ma il significato sembrava non porre problemi. Talvolta dovevo segnalare due o più occorrenze dello stesso suono incomprensibile a breve distanza. Oltre alle difficoltà implicite nella corrispondenza tra piano acustico e piano semantico dovevo introdurre una punteggiatura, segnalare quando Melandri metteva in scena un dialogo immaginario, quando il piano del discorso era metalinguistico badando sempre a rendere riconoscibili immediatamente i miei interventi. Infine, formule, tabelle disegni alla lavagna venivano illustrati con i consueti deittici "qui faccio così", "qui metto questo" che ho potuto decifrare solo grazie agli appunti. Per farla breve, la media che ero riuscito a tenere era di un'ora di lavoro per trascrivere cinque minuti di registrazione. Finalmente, dopo quattrocento ore sentii la fatidica frase: "Bene, allora per quest'altra settimana cercherò di rimettere assieme il corso spostandomi di tematica". Tutta la parte logica, nel senso esteso del termine che si vedrà, era conclusa. O almeno potevo legittimamente ritenere che lo fosse. A questo punto presi le duecentocinquanta pagine di trascrizione e le portai a Maurizio Matteuzzi che nel frattempo avevo messo al corrente delle mie velleità. Il verdetto fu lapidario: "Così non si capisce niente, devi prendere in mano tutto e riscrivere il testo tu". In altre parole gli interventi per rendere leggibili le trascrizioni si profilarono tali per cui il passaggio dalla prima fase di trascrizione alla seconda fase di elaborazione implicava un cambiamento di autore. In conclusione, considerato il peso dell'intervento prospettato e l'inadeguatezza della mia preparazione, senza le garanzie di supporto di Maurizio Matteuzzi non avrei potuto affrontare il lavoro. Ne approfitto subito per ringraziarlo non solo di avermi stimolato nel momento in cui le speranze mi abbandonavano ma soprattutto della disponibilità a rispondere costantemente ed esaurientemente alle mie incessanti richieste di chiarimento.
2. Presentazione Il totale delle mie cassette, ciascuna per lezione, ammonta a trentanove. Le ultime tre sono state tenute da Melandri e Matteuzzi assieme sul problema dell'intensione e dell'estensione nelle logiche antiche. Le
Introduzione 23 23
ho giudicate troppo specifiche e troppo tecniche per tenerne conto ma potrebbero essere oggetto di uno studio ulteriore. La registrazione della seconda lezione è andata persa e mi rimangono alcuni frammenti di trascrizione che risalgono a un periodo in cui non avevo ancora assunto la veste di "sbobinatore" sistematico. Alla quarta lezione, per ragioni che non ricordo, ero assente; per indicare che la lezione era avvenuta ma non ho la registrazione ho mantenuto la numerazione delle lezioni inalterata. Nell'esposizione delle lezioni I-XVII la cronologia è per lo più rispettata. La lezione XVIII è una composizione di alcune parti delle successive tre lezioni. Il testo che presento si compone grossomodo di tre parti: la prima sulla filosofia preplatonica e platonico-aristotelica, la seconda sugli Stoici e la terza che consiste in una ripresa dei temi trattati con un occhio sull'etica e la fisica. In nessun momento nelle lezioni Melandri fa cenno a questa suddivisione e tantomeno a "lezioni introduttive" o a "conclusioni parziali" che sono ulteriori interventi di strutturazione del testo da me operati. Alcuni temi, come la psicologia della Gestalt o i connettivi della logica proposizionale compaiono in vari luoghi di più lezioni. Quando hanno avuto una trattazione dedicata li ho segnalati nell'indice. Ho scartato l'ipotesi di raggrupparli perché ciò avrebbe comportato una ristrutturazione completa del corso allontanandomi dall'obbiettivo di rimanere il più possibile aderente all'esposizione originale. Un compendio avrebbe evitato numerose ripetizioni ma avrebbe altresì nascosto il carattere di ricerca filosofica che nel corso è inscindibile da quello didattico. Per lo stesso motivo ho cercato di restituire la vivacità del discorso orale pur operando continui interventi necessari alla lettura. Per intendersi: ho mantenuto le espressioni colorite ma ho soppresso le ripetizioni e le riformulazioni quando le ho ritenute ridondanti. Il livello del discorso oscilla tra quello didattico della lezione universitaria e quello più teoretico della speculazione filosofica in atto. I miei interventi risentono dell'equivocità del destinatario essendomi impossibile spogliarmi della veste dello studente che cerca di capire il discorso in atto e al contempo trovandomi a compiere su quel discorso un'operazione esegetica quasi-filologica. Nell'intento di calare il lettore nel contesto della lezione, le brevi introduzioni d'apertura che appartengono al contesto del commento si presentano talvolta in tono narrativo.
24 Introduzione Introduzione
Procedendo nel lavoro, e avendo quindi avuto già modo di intervenire con commenti e note integrativi ed esplicativi, il conteso della lezione risulta meno interrotto. Inoltre, il diradarsi dei miei interventi è dovuto anche ad una maggiore familiarità e sicurezza nell'ottemperare alle lacune delle trascrizioni. Ne risulta così un andamento evolutivo che non ho voluto mascherare: dove all'inizio ho sentito il dovere di staccarmi dalla lezione per riformulare un contenuto a mio modo ho utilizzato massicciamente parole e frasi di Melandri. Al contrario, verso la fine, le capacità acquisite mi hanno consentito una più "neutrale" elaborazione della lezione mentre i miei commenti hanno acquisito più autonomia. Quando le trascrizioni si sono rivelate tanto lacunose da rendere inintelligibile il passo sono stato costretto a sopprimerlo. Con ciò qualcosa sarà andata persa, talvolta anche passaggi che intuivo come preziosi ma davanti ai quali mi sono dovuto arrendere.
3. Interventi per agevolare la lettura La regola generale adottata è di rimanere il più fedele possibile all'elocuzione di Melandri (il parlato) che ha un carattere spiccatamente non testuale. Il tono colloquiale consente ripetizioni, correzioni, riprese che disturbano nella lettura di un testo per cui quando l'ho ritenuto opportuno ho derogato alla regola. Nel contesto della lezione i miei interventi sul parlato riguardano sia la sintassi che la semantica. Nel primo caso gli interventi sono tutti dovuti alla trasformazione dal verbale allo scritto. A livello semantico ho sostituito le lacune che nella prima trascrizione erano state segnalate da puntini con parole mie. Le parentesi quadre che avrebbero costellato il testo segnalando i miei interventi sono state eliminate salvo in alcuni casi in cui, nonostante l'ascolto risultasse comprensibile, ho giudicato che la formulazione ellittica necessitasse di un'integrazione. Quando una frase della lezione inizia con la minuscola significa che è stata estrapolata dal conteso. Interventi di strutturazione del testo sono presenti a vari livelli. Il più elementare concerne la punteggiatura che ovviamente non ho potuto che inserire secondo il mio intendimento. Il più macroscopico riguarda la suddivisione del testo in paragrafi e la relativa titolazione.
Introduzione 25 25
Per quanto riguarda la disposizione degli argomenti, come già detto, non ho voluto sostituire alla progressione dei cicli tematici una sistemazione più compiuta. Tuttavia, talvolta ho giudicato opportuno interpolare parti di lezioni; talaltra ho districato l'argomento da una serie di digressioni che conducevano troppo lontano dal tema il discorso e in casi estremi mi sono permesso amputazioni dovute alla mia incapacità di ricostruire con un accettabile grado di attendibilità il contenuto. Infine: schemi, figure, tabelle e diagrammi, salvo indicazione specifica, si trovano tutti nei miei appunti e sono stati copiati dalla lavagna.
4. Convenzioni tipografiche Ho segnalato l’alternanza tra il contesto della lezione e il contesto del mio commento adottando due caratteri tipografici diversi. Durante la lezione Melandri parlava a ruota libera per la maggior parte del tempo. In altri momenti leggeva testi di autori oggetto delle sue riflessioni. Nel primo caso viene usato il carattere tipografico Avenir a 12 punti; nel secondo, la lettura è segnalata con una riduzione a 10 punti e un rientro dai margini. Il conteso del commento è presentato in Times New Roman a 12 punti. Le citazioni di testi di Melandri che compaiono all’interno del mio commento sono in corsivo a 10 punti con rientro dal margine. (Tutte le citazioni di altri autori compaiono virgolettate o in nota)
5. Cenni sui contenuti Per considerare il peso di Aristotele e quello di Frege nella storia della logica basta prendere l'indice dei nomi di un lavoro come quello di William C. e Martha Kneale e rilevarne il numero di citazioni3. Lo spazio occupato dalle occorrenze di questi due autori è visibilmente maggiore degli spazi occupati da tutti gli altri autori citati. Ora ci si chiederà "e dove sono gli Stoici"? Gli Stoici sono esattamente dove si troverà Frege ventidue secoli più tardi. Questa è fonda3 W. C. Kneale e M. Kneale, Storia della logica, Torino 1972, ed or. Oxford 1962 (di seguito "Kneale").
26 Introduzione Introduzione
mentalmente l'idea proposta da Łukasiewicz4 nel 1934 che Melandri fa sua per indagare sotto una luce diversa da quella solita il pensiero dell'antica Stoa e la libertà di interpretazione in cui si cimenta trova le sue buone ragioni nel carattere dossografico dell'intero patrimonio di frammenti degli Stoici. Il ragionamento di Melandri era il seguente: se scopriamo una nuova logica, allora dobbiamo scoprire un'adeguata teoria dei segni, una consistente teoria della conoscenza e infine una diversa nozione di etica. Come dire: se abbiamo letto male la logica stoica allora abbiamo frainteso tutto il resto. E che la logica stoica fosse stata fraintesa per secoli era diventato chiaro con il lavoro di Łukasiewicz. Melandri getta quindi un primo ponte ermeneutico che collega la logica fregeana a quella stoica; ne getta un secondo che collega la psicologia della Gestalt alla teoria della conoscenza stoica e ne getta un terzo che collega la teoria dei segni di Odgen e Richards alla semiologia stoica. Il ponte ermeneutico che collega la logica fregeana a quella stoica è sorretto da un pilastro centrale che corrisponde alla teoria medioevale delle consequentiae. Quello che collega la psicologia della Gestalt alla teoria della conoscenza stoica poggia invece su tre pliastri ossia il concetto cartesiano di rappresentazione, la nozione leibniziana di monade e la Idea degli empiristi inglesi, in special modo di Berkeley. Il ponte che collega le due semiotiche può esser visto come una lunga traversata negli arcipelaghi medioevali e moderni della teoria dei segni ma Melandri sceglie di presentarlo come fosse a gettata unica. Il triangolo di Ogden e Richards interpreta al meglio la semiologia stoica e ne ricalca quasi perfettamente anche la terminologia. Tuttavia, per quanto concerne il riferimento (referent, l’oggetto extralinguistico), che gli stoici chiamano Tynchanon, è piuttosto Wittgenstein a farsi specchio della concezione stoica. Poiché Tynchanon significa "ciò che accade" il pensiero non può che correre alla prima proposizione del Tractatus: "Il mondo è tutto ciò che accade". Ellittico e ironico Melandri commenta: "accade poco". All’operazione ermeneutica delineata, che sarà uno dei fili conduttori del corso, viene anteposta una lettura dei presocratici che mira ad 4
Jan Łukasiewicz, On the History of the Logic of Propositions, in Polish Logic, Oxford University Press, Londra 1967, ed. or. Varsavia 1934.
Introduzione 27 27
evidenziare la strategia di svalutazione della problematica gnoseologica messa in atto da Aristotele. Dalla distinzione di apparenza e realtà che emerge dalla filosofia arcaica del linguaggio sorge lo scetticismo gorgiano: né pensiero né linguaggio colgono il reale. Per oltrepassare la barriera che separa ontologia e gnoseologia Aristotele giocherà la mossa della transazione continua: la conoscenza non è un'istanza separata dal reale, dunque non si dà un problema della conoscenza. Il successo di Aristotele sarà tale da nascondere sia l'abilità insita in questa mossa eversiva, sia la ricerca di una soluzione diversa operata dal pensiero ellenistico. In questo corso, dopo averne tenuti alcuni su Aristotele, Melandri decide di giocare nel campo degli Stoici costringendo il punto di vista peripatetico sulla difensiva. Le posizioni megarico-stoiche vengono prese come punto di accumulo del pensiero ellenistico. Viste senza i pregiudizi degli storici della filosofia dell'Ottocento queste posizioni risultano in continuità con i predecessori della svolta platonicoaristotelica che finirà per dominare il panorama medioevale. Benché dal punto di vista della storia del pensiero potrebbe essere interessante indagare cosa sopravvive della sintesi di Boezio lungo il corso dei secoli, a Melandri interessa, a mio modo di vedere, soprattutto la persistenza delle problematiche legate al superamento dello scetticismo. Il fatto che i problemi si pongano all'inizio del secolo scorso quasi con gli stessi termini in cui venivano indagati nell'antica Stoa dimostra da una parte l'acutezza degli Stoici e dall'altra la rilevanza del loro modo di porre il problema della conoscenza. L’operazione messa in atto in questo corso di studi sulla teoria della conoscenza stoica non si limita tuttavia a riscoprirne la rilevanza lungamente misconosciuta. Il dubbio che viene insinuato è che anche l’etica dell’antica Stoa sia stata fraintesa. Melandri vi accenna soltanto e non è dato sapere quali risvolti possano esservi stati nel suo pensiero a questo proposito. Che il suo insegnamento fosse in grado di suggerire qualche direzione di ricerca era un’intenzione dichiarata. Presentando queste lezioni ho provato a rendere di nuovo disponibili i molti stimoli alla ricerca di cui era sempre pregno l'insegnamento di Melandri.
Parte Prima
Lezioni introduttive
Lezione I
1.1. La possibilità della spiegazione razionale Questa prima breve lezione (circa 45 minuti5) ha un andatura introduttiva e muove da alcune indicazioni di carattere metodologico. La storiografia filosofica è improntata alla linea vincente, quella platonico–aristotelica. L'assunto di partenza di Melandri è che per capire lo stoicismo è necessario abbandonare il quadro di riferimento canonico. La modalità del procedimento è la contrapposizione metodica di una visione classica della filosofia antica, intrisa di aristotelismo e dominante nella storia del pensiero fino agli ultimi manuali, ad una visione non classica che consente di rileggere la filosofia ellenistica, e come punto d'accumulo lo stoicismo, da un'ottica non aristotelica. Il "contrappunto" assumerà talvolta toni polemici e anche provocatori com'è il caso di questo esordio. Melandri si chiede perché quando leggiamo Prantl6, quando leggiamo Gomperz7 e altri tutto ciò che non è aristotelico ci pare incomprensibile, e finalmente irrazionale. La risposta è:
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Normalmente le lezioni duravano dalle 11.15 alle 13.00, talvolta le 13.15, senza pausa. Prima che la lezione avesse inizio succedeva che Melandri si intrattenesse in un angolo dell'aula con uno o più allievi o con altri docenti intorno a temi all'ordine del giorno. Scivolava poi all'interno della lezione senza apparente soluzione di continuità cosicché, come in questo caso, mancano i primi minuti di registrazione. 6 Karl Prantl, Geschichte del Logik Leipzig 1955-70. 7 Theodor Gomperz, Griechische Denker, Leipzig 1896.
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È il quadro di riferimento, non l'oggetto, che non si capisce. La possibilità della spiegazione razionale è data dal fatto che la razionalità è fornita dal quadro non dall'oggetto. La ricostruzione di questo diverso quadro di riferimento della non classical view passa attraverso spunti di cui Melandri offre in questa lezione un'anticipazione e che verranno man mano approfonditi. Ancora sul piano metodologico, Melandri procederà quasi sempre contrapponendo gli argomenti a matrice - come usava dire - ovvero secondo modalità di opposizioni mutuamente esclusive, e questo al fine di marcare con più forza le differenze implicite nelle due direzioni di pensiero, quella aristotelica e quella stoica.
1.2. Logica del concetto e logica della proposizione Il primo spunto è la contrapposizione di logica del concetto e logica proposizionale. La logica del concetto è quella aristotelica e corrisponde in termini contemporanei alla logica dei predicati. Per essere più precisi la teoria del sillogismo è riformulabile nei termini della teoria delle classi. "Logica del concetto", "logica del predicato", "logica predicativa", "logica del termine" sono espressioni che durante il corso - salvo indicazioni esplicite - vengono usate come equivalenti. La logica proposizionale è quella degli Stoici, in particolare quella parte della logica stoica detta teoria degli anapodittici, e corrisponde al nostro calcolo delle proposizioni. "Logica della proposizione o proposizionale", e "logica dell'enunciato" sono altrettanti sinonimi. A volte, per riferirsi alla logica matematica, Melandri userà il termine logistica. A titolo esemplificativo egli dice: Logica del concetto è "uomo"; logica della proposizione è "piove". Benché agli anapodittici verrà dedicato uno spazio proprio entro il quale Melandri approfondirà questa parte della logica stoica, la contrapposizione tra sillogismo e anapodittico come quella tra calcolo dei predicati e calcolo delle proposizioni ritornerà continuamente durante il corso.
Titolo del Capitolo I I 33 Lezione 33
In termini moderni si danno due possibili interpretazioni del rapporto tra i due calcoli, l'una che vuole il calcolo delle proposizioni incluso nel calcolo predicativo; l'altra che partendo dall'incompletezza del calcolo dei predicati del secondo ordine ne sancisce la distanza formale dal calcolo proposizionale. A questo fatto Melandri allude sin da qui come ad un segno della profonda differenza tra le due logiche, tanto profonda da corrispondere a due teorie della conoscenza altrettanto contrapposte che informano, da Aristotele e dagli Stoici in poi, tutto il pensiero occidentale. Il breve cenno a questo primo spunto si conclude con una battuta che, al di là dell'intento provocatorio, rivela chiaramente il tenore teoretico, ossia non storico, del pensiero di Melandri. Tutto è venuto dal fatto che Frege, sviluppando la logica proposizionale, credeva di aver scoperto i fondamenti della matematica mentre in realtà scoprì la logica stoica senza saperlo. Lo dico come boutade ma ci tengo molto. Allo stesso modo come Smith credeva di scoprire la matematica della morale e in verità scoprì l'economia politica. Prima di procedere al secondo spunto di riflessione sarà bene ricordare che gli Stoici dividevano la filosofia in logica, fisica, e etica8. All'interno della logica comprendevano la logica in senso stretto, ossia il calcolo logico, e la semiologia. In questo senso la teoria della conoscenza a cui fa riferimento il titolo del corso include quella parte della filosofia che gli Stoici chiamavano logica ma include anche la teoria della percezione. Si noti che tutti i frammenti sulla rappresentazione sono inclusi nella logica ma quelli sull'anima (psyche) e il pneuma appartengono alla fisica. Quanto dire che il processo è mentale, il processore è corporeo. Ricordiamo pure che una parte importante della logica in senso stretto, che oggi chiamiamo modale, ha origine nel pensiero megarico e viene ripresa dagli Stoici. Qui Melandri vi farà solo un breve cenno ma dedicherà molta attenzione al necessario al 8
Com'è noto non rimangono scritti degli Stoici ma molte fonti antiche ne trattano gli argomenti. Hans von Arnim, nel suo monumentale lavoro Stoici Antichi, Tutti i frammenti ha raccolto tutto quanto la tradizione ci ha sin qui convogliato. L'edizione di riferimento (di seguito VSF) sarà quella di Bompiani, Milano 2002 (ed. or. 1905). Molti sono i frammenti in cui compare la tripartizione della filosofia e non sempre nell'ordine qui menzionato.
34 Enzo Capitolo I sugli Stoici Melandri
possibile e al contingente, a partire dall'Argomento Dominante9, dove formulerà la sua interpretazione del determinismo stoico.
1.3. Teoria della percezione Il secondo spunto riguarda la teoria della percezione. La contrapposizione aristotelico/stoico viene qui formulata, in analogia con la psicologia moderna, in termini di opposizione in sede estesiologicopercettiva di sensazione e percezione. Voglio anticipare alcune frasi della terza lezione per mostrare come Melandri veda nella psicologia moderna un orizzonte che ripropone le vie contrapposte della sensazione intesa aristotelicamente e della percezione intesa stoicamente. L'opposizione è tra teoria della percezione gestaltica10 e teoria della percezione fisiologica. Nella prima la psicologia è un'istanza separata dalla fisiologia. Nella seconda invece l'emergenza psicologica si spiega come un trapasso continuo dalla fisiologia all'evento mentale. Se dite che la fisiologia risolverà alla fine il problema psicologico adottate la visione aristotelica. Se invece seguite la via gestaltista la psicologia ha a che fare con il problema del significato e non col problema dei neuroni. In questa prima lezione Melandri si limita a dire che: 9 Kyrieuon logos viene tradotto Argomento Dominante Kneale, p. 145 e sgg; viene tradotto argomento vittorioso in J. M. Bocheński, La logica formale, Einaudi 1972 ed or. FreiburgMunchen 1956 (di seguito Bocheński). Melandri durante il corso userà indifferentemente le due traduzioni ma in seguito, in Contro il simbolico, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 18, (ora in Quodlibet, Macerata 2007) tradurrà proposizione dominante. L'argomento è attribuito dalle fonti a Diodoro Crono, esponente della scuola megarica del IV secolo. 10 Il termine deriva dal tedesco Gestalt Psychology, talvolta tradotto "psicologia della forma" talvolta semplicemente "psicologia della Gestalt". La Gestalt Psychology nasce all'inizio del XX secolo principalmente per opera di Kurt Koffka, Wolfgang Köhler e Max Wertheimer. Tra i predecessori diretti troviamo due allievi di Franz Brentano, Christian von Ehrensfeld e Carl Stumpf (maestro di Husserl), ma le radici culturali della Gestalt affondano in quella scuola fenomenologia alla quale Husserl diede il massimo contributo. Per una panoramica sui debiti di Husserl e le correlazioni con la Gestalt si veda Enzo Melandri, Le "Ricerche Logiche" di Husserl, Il Mulino, Bologna 1990, Parte prima.
Titolo del Capitolo I I 35 Lezione 35
[normalmente] si considera la sensazione come un momento non indipendente dalla percezione11. La sensazione è il momento in cui io afferro qualcosa dell'oggetto reale. La sensazione di rosso è un momento non indipendente dalla percezione della superficie rossa. Secondo la Gestalt invece noi veniamo a percepire in un certo modo oltrepassando il dato sensibile: ciò che afferriamo non è l'oggetto perché l'oggetto è costruito dall'atto della percezione. Il dato sensibile, o sensazione, diventa un concetto al limite. Il sistema nervoso centrale opera in modo attivo nella percezione dell'oggetto. Opera in modo creativo e tuttavia cogente nel senso che questa creatività non è qualcosa di arbitrario. Gli psicologi della Gestalt hanno scoperto che l'oggetto è un atto interno del nostro mondo mentale ma che tuttavia è possibile su di esso fondare la conoscenza perché ha un grado di razionalità. L'oggetto non è dunque costruito con una presunzione di oggettività. Melandri vuol dire che oggetto costruito dalla percezione e oggetto reale non devono necessariamente assomigliarsi. Si delinea fin da ora quel filone della teoria della conoscenza che dopo l'antica Stoa rinascerà nella scienza dell'età moderna allontanandosi definitivamente dal modello aristotelico. Possiamo qui azzardare un'altra anticipazione che riguarda la contrapposizione tra quella che potremmo chiamare teoria della conoscenza come rassomiglianza e teoria della conoscenza come rappresentazione12. 11
"Momento non indipendente" è una nozione che Husserl nella Terza ricerca attribuisce a Stumpf, cfr. Edmund Husserl, Ricerche logiche, Il Saggiatore, Milano 1968, vol. II, p. 90, ed. or. Leipzig 1900-1901, n. 4 e n. 5. Il colore rosso e l'estensione sono tra loro connessi. In questo caso la parte (o contenuto) che non è rappresentabile indipendentemente dall'intero si dice momento non indipendente. Un altro esempio è il rapporto tra intensità e qualità del suono: non è possibile variare l'intensità del suono senza variarne la qualità. Si parla di "contenuto indipendente" quando esso è rappresentabile indipendentemente dall'intero e indicativamente lo sono le frazioni: "Che una cosa (o una frazione di una cosa) possa essere rappresentata in se stessa, significa che essa è ciò che è, anche se si annientasse tutto ciò che si trova al di fuori di essa"; ibid p. 92. 12 È interessante notare che Ilary Putnam in Ragione verità e storia, Il Saggiatore 1989, ed. or. Cambridge 1981, al capitolo intitolato Due prospettive filosofiche, paragrafo La teoria della rassomiglianza, scrive: " La relazione tra il fantasma [l'immagine mentale] e l'oggetto esterno
36 Enzo Capitolo I sugli Stoici Melandri
Non è probabilmente un caso che a questo punto si faccia riferimento all'arte: Tutta la pittura moderna dai post-impressionisti in poi è basata sulla ricerca di effetti che vanno oltre la verosimiglianza della realizzazione.13
1.4. Sensazione e intelletto L'aisthesis in Aristotele è collegata alla noesis, all'intelletto, all'atto intellettuale, senza soluzione di continuità. Qui inizia a delinearsi la teoria della conoscenza aristotelica. L'intelletto depura la sensazione da ciò che è accidentale. L'intelletto, che è passivo nell'ambito della sensazione, si fa attivo attraverso una gradazione continua. Anche se possono esserci vari gradini, i gradini non interrompono la continuità. Tutto il sistema aristotelico è costruito intorno a questo presupposto di continuità: continuità di potenza-atto, continuità di materia-forma. L'anima è forma, è energeia, attuazione, energia del corpo. Come la materia sta alla forma, la potenza sta all'atto e il corpo all'anima. Nell'uomo l'anima è la forma del corpo.
in virtù della quale il fantasma rappresenta alla mente tale oggetto, secondo Aristotele, è costituita dal fatto che il fantasma condivide una forma [corsivo nel testo] con l'oggetto esterno". Si badi che qui "condividere una forma" significa "assomigliare" mentre nella Gestalt Psychology il termine "forma" è usato per indicare la ricostruzione mentale attuata dalla percezione, ricostruzione che non necessariamente "assomiglia" all'oggetto. 13 Di nuovo, è difficile ignorare il riferimento ad un testo che in questo caso però era già stato scritto, Nelson Goodman, I linguaggi dell'arte, Il Saggiatore, 1976 (ed. or. Indianapolis 1971), testo in cui sin dalle prime pagine si delinea la contrapposizione assomiglianza/rappresentazione.
Titolo del Capitolo I I 37 Lezione 37
Essa è il movimento del corpo, l'attuazione delle sue potenzialità. Il De Anima contiene, com'è noto, la dottrina psicologica di Aristotele. Ma il quadro entro il quale si descrive il processo psicologico che produce conoscenza ha implicazioni teoretiche e conseguenze storiche che oltrepassano la sfera, se pur intesa in senso ampio, delle discipline psicologiche. Alla dinamica di una prima oscillazione del pendolo che va dalla materia potenziale del corpo alla forma attualizzata dell'anima seguono altre oscillazioni: ciò che è divenuto atto e forma diventa il punto di partenza per un successivo processo: a sua volta l'anima diventa materia per un'altra forma che è l'intelletto ed è potenza rispetto all'attuazione dell'intelletto, del nous. Vedete la gradazione? Corpo, anima, spirito, nous. Questo è uno schema di teoria della conoscenza dove, in fondo, un problema della conoscenza non si pone perché tutto è dato sin dall'inizio. È il punto di Melandri: se c'è un problema esso consiste nel riconoscere ciò che è dato, nell'orientarsi, nel mettere ordine. Non esiste un problema conoscitivo separato da ciò che è dato. Lo stesso schema si ritroverà il Plotino, in Tommaso, in Hegel e molti altri. La sintesi diventa tesi, la tesi sintesi. Cos'è la tesi? È la materia, è il potenziale; la sintesi? È il passaggio, è l'atto. Hegel se la prende con i filosofi come Kant perché sollevano il problema della conoscenza. Questo presuppone che sappiamo già tutto, che il problema della conoscenza è ozioso. È la via antifilosofica più sottile, comune tanto allo spiritualismo aristotelico-cristiano, come all'empirismo inglese che lo presuppone, all'idealismo tedesco e persino a tutte le filosofie pragmatistiche. Dite quello che volete, qui non c'è il problema,
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si tratta solo di marciare. Vi rammento ancora: non si tratta di interpretare il mondo: si tratta di cambiarlo14. E tutto si regge, a mio parere, sul fatto che il concetto di sensazione non è affatto rilucente, non è incolore, ha dei presupposti massicci perché nella teoria della sensazione c'è già l'idea della continuità tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto. C'è, in particolare, l'idea che qualcosa passi dall'oggetto conosciuto al soggetto conoscente, passi attraverso un continuum per cui i sensi sarebbero, non degli sbarramenti tra noi e il mondo fuori di noi, ma dei canali di comunicazione: passa magari qualcosa di immateriale come l'informazione, però passa.
1.5. Semantica aristotelica A riprova di quanto asserito Melandri mette in gioco la teoria semantica aristotelica. Ciò presuppone che ogni teoria della conoscenza debba avere una sua adeguata teoria semantica. Infatti durante il corso la semiologia stoica, e in particolare la teoria del significato, avrà grande spazio. Per ora però Melandri si limita a dare i fondamentali della teoria aristotelica che sono esposti nel De interpretatione15. Secondo Aristotele i suoni della voce e le lettere scritte sono simboli delle affezioni dell'anima e le affezioni dell'anima sono le immagini degli oggetti. Gli oggetti sono gli stessi per tutti, le affezioni dell'anima sono le stesse per tutti, i segni (suoni e lettere) non sono gli stessi per tutti. Mentre il rapporto tra i nomi e le cose è convenzionale, non è convenzionale il rapporto tra le affezioni dell'anima - le sensazioni che in questo caso Aristotele chiama pathemata perché sono subite dall'animo - e le cose al di fuori, i pragmata. Se si sostiene che le affezioni dell'anima sono le stesse per tutti si deve assumere che: 14 15
Il riferimento è alla celebre ultima tesi su Feuerbach di K. Marx. Aristotele, Dell'Espressione, in Opere, Laterza, Roma-Bari 1973 (di seguito De int.).
Titolo del Capitolo I I 39 Lezione 39
1) l'oggetto A uguale per tutti si ricostituisce nell'immagine A' uguale per tutti; 2) l'oggetto B uguale per tutti si ricostituisce nell'immagine B' uguale per tutti 3) la relazione R che sussiste tra l'oggetto A e l'oggetto B si ricostituisce nella relazione R' uguale per tutti che sussiste tra l'immagine A' e l'immagine B'. 1), 2) e 3) definiscono un isomorfismo di struttura ovvero una relazione che regge la corrispondenza sia tra gli elementi dei due insiemi {A,B} e {A',B'}, sia tra tutte le relazioni che sussistono tra gli elementi dei due insiemi. Se l'informazione del mondo esterno passa direttamente nel nostro animo vuol dire che passa anche l'ordine della relazione: la tesi è una tesi di isomorfismo16. È tutto basato sulla sensazione come continuum.
1.6. Spiegare i modi dell’essere Nei manuali di filosofia di stampo aristotelico come quello di Gomperz risultano incomprensibili molte cose dello stoicismo come ad esempio il fatto che gli Stoici fossero per un verso empiristi e nominalisti e per un altro verso materialisti e deterministi. Ciò deriva dal fatto che le filosofie aristoteliche sono attrezzate per spiegare i fenomeni dal punto si vista della teoria degli universali ovvero delle categorie mentre gli Stoici procedono nelle loro spiegazioni per casi paradigmatici e per assimilazione. Essendo questa una lezione introduttiva Melandri procede per cenni, per cui voglio anticipare ancora una volta quello che dirà in seguito17:
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Cfr. Putman, op. cit. p. 81. Si veda la Lezione III.
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"Spiegare" si dice in due modi principali: spiegare per sussunzione e spiegare per paradigma. Spiegare per sussunzione significa far rientrare il caso particolare in una legge generale, come il modus Darii18: tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, Socrate è mortale. Si spiega così: A: universale affermativa, tutti gli uomini sono mortali I: particolare affermativa, qualcuno è un uomo, qualcuno è mortale Questo modo di spiegazione è la sussunzione, sussunzione del particolare sotto l’universale. Poi c’è la spiegazione per caso paradigmatico. Caso paradigmatico è Socrate che beve la cicuta e muore. Se capita a lui che era il migliore di tutti gli uomini, il più nobile e degno, dice Platone nella chiusura del Fedone, allora povero popolo: il caso paradigmatico, è tale per cui ciò che vale in un caso vale per tutti i simili. Mentre la logica aristotelica del concetto individua classi di oggetti e fenomeni e li classifica attraverso l'operazione di inclusione ed esclusione arrivando infine a definire generi sommi ovvero categorie, la logica delle proposizioni stoica individua eventi singoli e li collega attraverso l'operazione dell'induzione. Il modo di spiegazione per paradigmi in epoca moderna è stato inaugurato da Cartesio e diventerà assieme all'induzione uno dei cardini del metodo scientifico19. Semplificando, il mondo aristotelico è fatto di classi di oggetti, quello stoico di sequenze di eventi. A ciascuno di questi mondi deve corrispondere sia una diversa logica sia una 18
DARII è la terza figura del primo modo del sillogismo. Il nome del sillogismo, nella sistemazione medioevale, ha una funzione mnemonica. Le lettere A I E O che compaiono nei nomi dei sillogismi derivano da AFFIRMO e NEGO: A sta per Affermativa universale (tutti gli A sono B); I: Affermativa Particolare (qualche A è B); E: Negativa universale (nessun A è B); O: Negativa particolare (qualche A è non B). Le consonanti indicano invece le trasformazioni che si devono attuare per ricondurre le altre figure alla prima. Per il quadrato delle opposizioni che risulta dalle quattro forme della proposizione aristotelica si veda gli Schemi 16.1. e 16.2. 19 Per un' analisi della concezione melandriana del passaggio dalla scienza aristotelica alla scienza galileiana cfr. LC §§ 89-91.
Titolo del Capitolo I I 41 Lezione 41
diversa semiologia e dunque una diversa teoria della conoscenza e una diversa ontologia. Per gli Stoici è essenziale che tutto ciò che esiste in quanto reale debba essere corporeo. Però non tutto è corporeo. Quindi il mondo si divide in due parti: il mondo degli oggetti corporei e il mondo del non corporeo. Del non corporeo fa parte la conoscenza cioè la logica e l'etica. È una dimensione irreale dell'essere perché non ha corpo. Però è un modo d'essere, è il modo d'essere dell'esistente incorporeo. Nella visione aristotelica tutti i modi d'essere devono avere una realtà. Allora si parlerà di realtà materiale, realtà ideale, di realtà rossa, realtà verde, realtà così e cosà, più intensa, meno intensa, c'è tutto un vastissimo quadro di modi d'essere. L'essere si dice in tanti modi, l'essere si dice sempre in categoria e ha tanti modi per quante sono le categorie. Di qui l'accenno alla logica modale di cui sopra. Se la realtà consta di enti in potenza e di enti in atto allora le modalità dell'essere saranno il possibile e il contingente per l'ente in potenza, il necessario per l'ente in atto. Ma se il reale è tutto corporeo come vogliono gli Stoici, allora non si danno modalità per il reale, esso è tutto in atto. La modalità compete alle proposizioni e si dice de dicto, in contrapposizione alla modalità aristotelica che si dice non della proposizione ma dell'ente ed è dunque de re.
1.7. Il rapporto con il reale e la funzione dell'etica Mentre l'oggetto aristotelico appartiene alla realtà ed ha bisogno solo di essere classificato, di trovare il suo giusto ordine nelle stratificazioni del sapere categorico, l'oggetto della conoscenza stoica non appartiene al reale, esso è già parte del processo conoscitivo.
42 Enzo Capitolo I sugli Stoici Melandri
Dove la conoscenza è un'istanza separata dal reale il rapporto con il reale è assicurato dall'etica. Questo è il prossimo punto di importanza capitale che spingerà Melandri a negare che, nell'interpretazione del pensiero antico, la via classica abbia capito qualcosa dell'etica stoica. Il rapporto etica/conoscenza va capovolto per essere giustamente inteso. Se tradizionalmente la conoscenza è intesa come strumento per l'etica, e ciò vale per Platone come per Aristotele e ancora per Epicuro, per gli Stoici l'etica è uno strumento per la conoscenza, o meglio, è una condizione necessaria del processo conoscitivo. Noi registriamo il successo e l'insuccesso in maniera pragmatistica, in maniera separata dall'oggetto. Mediante la logica diamo un ordine alle nostre idee che sono dei fantasmi che nulla hanno a che vedere con la realtà. Qui io interpreto: le idee non possono pretendere di avere per statuto una corrispondenza per rassomiglianza con la realtà. Non abbiamo mai garanzia che all'ordine delle nostre idee corrisponda un ordine reale, che a questo ordine di azione e reazione corrisponda alcunché di reale. Ogni azione e reazione del processo conoscitivo è un processo singolo, un paradigma che va confrontato con altri paradigmi simili attraverso la memoria e la logica. Però procedendo con ordine, metodo e coerenza abbiamo una guida sicura. In ciò consiste la funzione dell'etica: ci fornisce la garanzia della coerenza metodologica. È quello che oggi diremmo "onestà intellettuale". Vedete che è la teoria della conoscenza moderna, quale è esemplificata da Cartesio, oppure se volete dai pragmatisti, quella che ritroviamo qui ma bisogna intendere tutto ciò in
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senso molto teoretico. Noi ci facciamo delle idee arbitrarie delle cose al di fuori di noi, anzi questo "al di fuori" è solo un indicatore. Però abbiamo la capacità attraverso percezione e logica di dare delle risposte coerenti. Abbiamo inoltre la capacità di dare risposte coerenti agli stimoli che ci provengono dall'esterno e di verificare ciò che succede e valutarlo come aumento di conoscenza o meno. Quando si pensa agli Stoici, dice ancora Melandri, viene in mente Muzio Scevola che se ne sta lì col braccio sul fuoco senza un lamento. Questo tipo di coerenza morale esibita non ha a che vedere con la coerenza interna che è condizione necessaria – ma non sufficiente – a costruire una conoscenza valida del mondo20. Proprio perché la validità della conoscenza non ha nulla a che vedere con la proprietà di rispecchiamento del mondo la coerenza etica diventa necessaria, ma necessaria dal punto di vista gnoseologico, non dal punto di vista etico, perché se io sono incoerente alla fine non capisco più nulla. E qui Melandri, con la teoria dei quanti, propone un altro salto nel presente. È un tema ricorrente e a mio avviso sempre latente, come se si cercasse nella teoria della conoscenza stoica un appiglio per uscire dai meandri dell'epistemologia del Novecento. Nella teoria dei quanti vi è una verifica del fatto che l'oggetto conoscitivo non è un oggetto reale. Noi conosciamo veramente solo l'apparecchiatura che mettiamo in opera la quale è costruita con delle idee della fisica classica. Un ciclotrone, diciamo, è disegnato con la geometria euclidea e costruito con 20
Il successo in termini di storia della ricezione del Manuale di Epitteto basterebbe a giustificare l'idea passata nel canone interpretativo di uno stoicismo tutto volto all'individuazione delle condotte più efficaci al perseguimento dell'imperturbabilità. Il Manuale termina con le parole di Socrate: "Anito e Meleto possono mandarmi a morte ma non nuocermi" (Apologia, 30 c-d), un richiamo ripetuto dai vescovi-martiri del mondo greco del terzo secolo che accomunano Socrate e Cristo quali modelli di eroismo davanti alla morte. Per l'influenza dello stoicismo sul primo cristianesimo si veda il testo di Max Pohlenz di cui si dirà qui di seguito; interessante anche il capitolo su Clemente alessandrino in Peter Brown, Il corpo e la società, Einaudi, Torino 2010, ed. or New York 1988, cap. sesto.
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le regole della meccanica classica. Questa apparecchiatura, che fa parte dell'oggetto conoscitivo, porta a scoprire cose che non sono classiche, sono al di là di questo e possono perfino mettere in dubbio tutte le leggi della fisica classica. Chi conosce Melandri sa che, per quanto moderato, fondamentalmente era un realista per cui questo riferimento alle difficoltà teoriche insite nella fisica subnucleare e al principio di indeterminazione non mira certo ad istillare dubbi relativistici. È un monito invece a non propendere ingenuamente verso una teoria della conoscenza come rispecchiamento. Propensione che oggi, e ciò sarà detto esplicitamente, è ancora molto presente in tutte le scienze sociali. Ciò porta a dire che la via stoica alla conoscenza ha avuto successo nelle scienze empiriche non sociali o, detto in altri termini, la via aristotelica domina ancora il campo delle scienze umane. Se l'interesse per gli aspetti logico-epistemologici del pensiero stoico ha nel suo orizzonte le problematiche epistemologiche del XX secolo, interessa invece poco la fisica com'era concepita nel mondo antico. La fisica stoica, come quella di Aristotele, che pure fu un eccellente scienziato, non riveste per noi grande interesse. Le ragioni epistemologiche di questo disinteresse sono intrinseche alla teoria della conoscenza stoica: Per ciò che concerne la fisica stoica, nella tripartizione di logica, etica e fisica, questo è l'ordine giusto21, la fisica rimane una categoria residua. La conoscenza del mondo reale è un residuo perché ciò che conosciamo veramente è l'efficacia del nostro apparato conoscitivo. Un cenno alle ragioni di carattere ermeneutico, intorno alle quali si dirà meglio nell'ultima lezione di questa presentazione, è qui anticipato: 21
Vedi n. 3
Lezione I 45
Inoltre, non conviene tanto fare delle ricerche sulla fisica degli Stoici perché ne sapevano poco rispetto a noi come poco ne sapevano gli altri. Piuttosto converrà tener presente dove la scienza antica esisteva in maniera analoga a quella moderna. E i settori sono quelli dell'astronomia, quelli della musica, dell'acustica, e anche della linguistica e della retorica ovvero l'arte giudiziaria della discussione dei testi nei tribunali. Questi sono i campi di applicazione del modo di pensare astratto del pensiero antico. In altre parole non dobbiamo pretendere di trovarlo nelle applicazioni a cose che non conoscevano.
1.8. Articolazione del corso La lezione termina ricapitolando l'articolazione del corso: Primo semiologia; secondo teoria della percezione; teoria della proposizione, il lekton; teoria delle conseguenze; logica modale; alcuni problemi tra cui i paradossi. Come vedremo l'esposizione non seguirà un corso lineare e questo perché Melandri si trovava sempre a dover mediare tra il suo pathos teoretico e le esigenze della didattica. Di fatto, se da una parte durante tutto il corso Melandri procede contrastando pensiero aristotelico e pensiero stoico, nella prima parte mira principalmente a creare un ponte tra gli Stoici e i predecessori di Platone e Aristotele. Il fatto che a questa ricognizione sul pensiero preplatonico, peraltro piuttosto lunga, non si faccia cenno nell'articolazione di cui sopra, è sintomatico a mio avviso di un modo di procedere che riconosce man mano le proprie necessità. Il filosofare porta a formulare e riformulare. Ogni riformulazione è un tassello in più che si aggiunge al puzzle, cosicché la configurazione del disegno è un po' diversa ogni volta. Se il percorso tende ad essere circolare, la linea non si chiude però mai in un circolo dando origine piuttosto ad una spirale.
Lezione II
2.0. Premessa Purtroppo, come anticipato nell'introduzione, la registrazione della seconda lezione è andata perduta. Premetto che tutti i temi oggetto di questi frammenti saranno trattati nelle lezioni che seguiranno. Ho comunque deciso di proporre quanto segue avvalendomi degli appunti della lezione perché mi pare che lo schematismo della forma espressiva potrebbe essere un utile ausilio al lettore che incontrerà sovente le questioni che riguardano il rapporto tra semiologia e ontologia e quello tra gnoseologia e etica. Ho messo le mie attuali riflessioni tra parentesi quadre.
2.1. Semiologia e ontologia semainoumenon
semainon
tyncanon
Schema 2.1. Semiologia stoica
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48 Enzo Capitolo I sugli Stoici Melandri
Il rapporto tra semainon e tynchanon è mediato dal semainoumenon Tynchanon è "ciò che accade" e non "la cosa". Se la logica è concettuale il riferimento è all'oggetto denominato Se la logica è proposizionale l'oggetto del linguaggio deve avere carattere verbale e il riferimento è a ciò che accade. In Aristotele il discorso è vero quando i nomi hanno le cose corrispondenti; per questa concezione sono necessarie due condizioni: 1. che il mondo si fermi un momento 2. che il mondo sia diviso in cose "Questo è un tavolo": tavolo è un oggetto d'uso, è un oggetto ritagliato. "Questo è un albero": quand'è che un albero cessa di essere un albero? quando strappo una foglia … o le radici da terra? I confini delle cose naturali non sono dati, immaginiamo che ci siano perché il concetto di "cosa" deriva dall'oggetto d'uso. È difficile distinguere tra oggetto d'uso e oggetto di natura, esempio: le arance, vedi storia degli agrumi, sono il risultato di lunghe selezioni.
2.2. Semiologia e gnoseologia È oggettivo tutto ciò il cui sapere è accumulabile. La conoscenza esiste ma è un modo di esistenza non corporeo; è un'istanza separata dal reale.
Titolo del Capitolo I II 49 Lezione 49
Schema 2.2. Corporeo / mentale
In Aristotele l'essere si dice in molti modi, sempre analogamente, e la conoscenza non esiste come modo d'essere. Negli Stoici l'essere si dice in due modi e non analogamente: essere reale o corporeo essere irreale o mentale Il campo del significato non è quello dei corpi; posso usare un corpo per indicarne un altro; posso fare di un corpo un segno in quanto gli attribuisco un significato; nessuna cosa in sé è un significato. La conoscenza esiste come istanza dell'essere che non è reale.
2.3 Gnoseologia e etica L'etica va ricompresa dal punto di vista gnoseologico.
Schema 2.3 Fisica / Etica
50 Enzo Capitolo I sugli Stoici Melandri
[Con "posso farle, inventarle" Melandri intende porle, relativamente agli schemi precedenti, nel campo dei significati e nel campo del mentale. Il corporeo è tutto quanto rimane fuori dal campo del mentale, in questo senso si può dire residuo. Azzarderei che, nel senso dell'interpretazione melandriana della gnoseologia stoica, fortemente soggettivista, il rapporto tra logica ed etica da una parte e fisica dell'altra e pari al rapporto tra una classe – il mentale - e il suo complemento – tutto ciò che ne rimane fuori. In questo senso gli Stoici riformulano il problema platonico chorismos-methexis ossia di come raccordare il mondo delle idee al mondo empirico. Dove nel Fedro il medium è Eros, nel Parmenide è la methexis (partecipazione), negli Stoici questa funzione è svolta dall'etica che tuttavia rimane inclusa interamente nel campo mentale.] Con la logica ordino i miei fantasmi mentali:
Schema 2.4. Processo conoscitivo
Titolo del Capitolo I II 51 Lezione 51
[L'etica ha una funzione pragmatica come verrà detto in seguito. Anche qui prenderei un azzardo ponendo una analogia tra la semiologia di Morris22 e l'etica stoica nell'interpretazione melandriana: così come la pragmatica è il rapporto tra i segni e chi li usa, l'etica è il rapporto tra la logica e chi la usa. È garante del corretto uso della logica nelle successive fasi del processo conoscitivo, è – com'è già stato detto – l'onestà mentale.] 2.4. Aristotelismo vs stoicismo La tabella che segue non è di Melandri bensì una mia elaborazione fatta durante questo lavoro. Lo propongo come promemoria delle contrapposizioni intorno alle quali corre il filo del discorso in tutto il corso. ontologia gnoseologia
logica grammatica semiologia psicologia
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Si veda la n. 331
aristotelismo equivocità dell'ente: essere in potenza-essere in atto conoscenza in continuità col reale: isomorfismo logica del termine modalità ontologica priorità del modo sul tempo rapporto nome-cosa sensazione: transazione tra mondo e mente
stoicismo univocità dell'ente: tutto in atto conoscenza separata dal reale: eteromorfismo
logica delle proposizioni modalità semantica priorità del tempo sul modo Rapporto proposizione-evento percezione: rappresentazione mentale del dato ontico Tabella 2.1. Aristotelismo vs stoicismo
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Capitolo I
Titolo del Capitolo I
Parte Seconda
I predecessori
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Lezione III
3.1. Introduzione alla filosofia antica La lezione inizia con una critica ai manuali di filosofia antica che mira a riorientare lo sguardo dell'allievo fornito di una formazione liceale. Questa critica si colloca sulla scia della non classical view of ancient Philosophy che Melandri intende seguire e della quale darà durante la lezione alcuni esempi di metodo. Quando parlano dei presocratici, i manuali intendono non solo i filosofi del V, VI e VII secolo a. C., ma anche i sofisti e questo da luogo un po' a dei crampi mentali. Intanto, vedete, la filosofia presocratica comprende circa due o tre secoli ed è un periodo molto lungo. Inoltre non si possono considerare presocratici in senso concettuale i sofisti giacché Socrate medesimo veniva considerato un sofista, e per molte ragioni. Socrate appartiene alla stessa epoca dei sofisti benché la presentazione platonica della sua figura lo ponga in contrasto coi sofisti. Prosegue dando indicazioni di lettura che hanno un intento pedagogico e forniscono un ampio contesto introduttivo alle tematiche teoretiche che verranno affrontate. Ciò che Melandri non ci aveva anticipato esponendoci le linee generali del suo corso nella prima lezione era che ci avrebbe offerto una panoramica di storia della filosofia antica. Se di questa panoramica qualcosa è andato perduto con la mancante
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56 Enzo Capitolo I sugli Stoici Melandri
registrazione della seconda lezione, rimane il fatto che quanto segue ha l'andamento di un incipit di storia della filosofia. Io vi consiglio di leggere molto, e di leggere molto sia nei manuali sia degli autori, non cominciando però dai dialoghi platonici perché sono difficilissimi, se pure pare il contrario a qualsiasi principiante. I dialoghi platonici vanno affrontati in maniera sistematica. Non sono degli argomenti, sono degli schemi di argomento che ammettono delle variazioni. Probabilmente venivano recitati nell'Accademia con aggiunte, volta per volta, da parte dei singoli attori. Anche se il dialogo nei trattati di filosofia ha avuto una fortuna posteriore, noi non abbiamo una percezione precisa di che cosa fossero i dialoghi platonici. Voi vedete subito la differenza, se avete un pochino di cultura letteraria, tra i dialoghi posteriori, i dialoghi che trovate in Galileo, in Leibniz, in Berkeley. Questi dialoghi sono scritti per essere semplicemente letti; mentre il dialogo platonico io sono convinto che andasse recitato, cioè che ognuno dovesse studiarsi la sua parte per poi ripeterla, non meccanicamente, ma secondo come il dialogo si svolgeva. Era un po', il dialogo platonico, come i Sei personaggi in cerca di autore, oppure se volete, Questa sera si recita a soggetto: c’è uno schema di fondo, ognuno ha studiato la sua parte, però quando si va in scena ognuno dovrebbe anche improvvisare. La figura di Socrate ha segnato un punto di svolta ma anche senza Socrate e la sua morte la filosofia ellenistica avrebbe a mio avviso segnato un punto di svolta. Un punto di svolta, per dirla in breve, rispetto agli inizi della riflessione detta filosofica, quella dei filosofi Ionici. Se ciò che accumuna le riflessioni dei filosofi Ionici, di Eraclito, degli Eleati, di Democrito, di Empedocle e di Anassagora rispetto a quelle successive è un carattere negativo, ossia l'assenza di raccordo con l'elemento umano, allora il punto di svolta va ascritto ai sofisti che pongono l'uomo al centro della riflessione. Credo che ciò che vuole dire Melandri è che la svolta rispetto alla filosofia che sorge intorno alla ricerca dell'elemento primordiale che è a fondamento del cosmo si sa-
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rebbe prodotta anche senza l'arrivo nell'arena filosofica della riflessione sull'uomo e le sue relazioni sociali. E questo perché l'impostazione aristotelica del problema della conoscenza avrebbe comunque costretto le scuole successive ad una nuova ricerca, pena il decadimento dell'interesse gnoseologico. Melandri apre ora un breve excursus storico con una contestualizzazione storico-geografica della nascita della filosofia. Sapete qual è la Ionia vero? È la colonizzazione greca dell’Asia Minore, l’attuale Turchia, dallo stretto dei Dardanelli fin giù ad Alicarnasso. È il primo oltremare, al di là delle isole orientali dell'Egeo nell’attuale Anatolia. Questa è la prima colonizzazione greca. I greci sono sempre stati afflitti dalla mancanza di spazio, dalla mancanza di terra. La Grecia è molto arida, evidentemente c’è stato un aumento di popolazione e hanno preso sin dall’inizio la decisione di dedurre colonie oltremare. Dalla Ionia la filosofia si diffonde per riverbero sia sulla madrepatria sia sulle altre colonie che verranno dedotte in un universo ancora più distante, la Sicilia e la bassa Italia. L'Italia è il vero oltremare greco, perché in fondo la Ionia si poteva raggiungere navigando di isola in isola mentre per arrivare in bassa Italia e in Sicilia bisognava attraversare il mare aperto, tra Corfù e Capo Santa Maria di Leuca, che è la punta estrema della Puglia. Tutta la navigazione antica è una navigazione costiera. Solo in certi punti bisognava fare il salto. Uno di questi salti è quello appunto tra la Grecia e la bassa Italia ma anche quello tra la Sicilia e la Tunisia. Salti obbligati. Le colonie dedotte in bassa Italia e in Sicilia sono le più importanti. Per i Greci la scoperta dell’Italia meridionale e della Sicilia equivaleva alla scoperta dell’America. C’erano pianure immense, mai viste così: l’Italia era piena di boschi, l’Italia era verde, l’Italia era fresca. Questa seconda colonizzazione è importante perché vi troviamo gli Eleatici o Eleati ovvero Parmenide e Zenone di Elea,
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vicino a Capo Palinuro, esattamente ai confini tra la Campania e la Calabria. Troviamo i Pitagorici, dove viveva Pitagora? Vicino a Sibari, in Calabria. E avete Empedocle in Sicilia. Sono tutti in Italia. Però non si deve dire che sono filosofi italiani, erano Greci, parlavano greco e nemmeno sapevano di trovarsi in quella che sarebbe diventata l'Italia. Il guaio è che è stato detto che questa era italorum sapientia, e non solo da Vico23. Poi trovate l’Ateniese Anassagora, maestro di Socrate, e Democrito di Abdera, in Tracia. E infine avete Platone e Aristotele. Perché la filosofia è sorta in Ionia? Si spiega abbastanza bene con l’ipotesi di Toymbee24 secondo la quale sono i giovani che vanno a fondare queste colonie. Questi giovani trasportano idee meno convenzionali, più razionali, non trasportano gli usi e costumi della patria originaria se non nella misura in cui questi usi e costumi sono suscettibili di una razionalizzazione. Una parte della religione tradizionale viene a decadere e si valorizzano i momenti più razionali della medesima. Ciò è favorevole alla nascita della filosofia se accettate il punto per cui la filosofia non potrebbe nascere se la religione, qualsiasi religione, fosse imperante in maniera assoluta. La nascita della filosofia è collegata con un indebolimento della religione.
I filosofi Ionici, Eraclito, gli Eleati, Empedocle, Democrito e Anassagora vanno tutti alla ricerca della materia primordiale e della legge di composizione e scomposizione della medesima. Questo tipo di filosofia viene anche detta ingenua. Non è che sia ingenua, è puramente naturalistica, non c’è il raccordo tra la concezione della natura e quella della società e dell’uomo. Quindi sono speculazioni intorno alla natura che rimangono prive del raccordo con l'uomo. Si può dire che sono forme ingenue di pensiero se, con ingenuo, si intende l’aver dimenticato almeno metà di ciò che occorreva affrontare. Gli affari socia23 24
Giambattista Vico riferendosi a Pitagora in De antichissima italorum sapientia, 1710-1713. Cfr. Arnold Toymbee, A study of history, Oxford 1951, Vol II, in particolare cap. III.
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li ma anche politici e così via, non vengono nemmeno considerati; oppure vengono trattati sottoponendoli a un’indagine di tipo naturalistico. Parmenide ad esempio spiega l’origine del linguaggio con paragoni dal mondo degli animali. Ora, Socrate e i sofisti hanno avuto il merito di porre al centro della loro speculazione il problema dell’uomo in tutta la sua complessità. Giuste o sbagliate che siano queste opinioni è interessante notare come non si lasci fuori dal quadro nulla di ciò che è il reale. Dopo Platone e Aristotele avete gli ellenisti cioè Cinici, Stoici, Epicurei, Scettici, Eclettici, questi ultimi vengono un po' dopo, e infine avete quelli che chiamiamo neoplatonici ma ricordatevi che la dizione di neoplatonico è del secolo decimonono. Tutti questi filosofi, a cominciare da Aristotele, si rifanno a Socrate che è un punto di partenza. Parliamo del Socrate che appartiene ai dialoghi platonici. Aristotele fa suo il razionalismo di Socrate. I Cinici si rifanno a Socrate in quanto propongono un modo di vita povero che rifiuta le comunità; ne rifiutano altresì la cultura e credono di trovare nel suo insegnamento dei suggerimenti validi a questa loro filosofia morale. È una filosofia di rifiuto della civiltà. Per gli Stoici la figura di Socrate è una figura che rappresenta colui che segue il dovere imposto dalla vita e questo è facile da capire25. Gli Epicurei interpretano il vivere secondo natura come ricerca del piacere. Ma siccome la ricerca del piacere anche per gli Epicurei è una ricerca del piacere differito, non del piacere immediato e momentaneo, ecco che vedono in Socrate un teorico della loro posizione.
25 Diogene Laerzio tramanda la leggenda secondo la quale il padre di Zenone di Cizio, essendo commerciante, tornava spesso da Atene recando in dono al figlio ancora fanciullo molti scritti ispirati alla filosofia di Socrate. Cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza, RomaBari1975, (di seguito DL), Libro VIII.
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Gli scettici che cosa vedevano in Socrate? Vedevano colui che diceva di non sapere nulla, lo interpretano alla loro maniera. Le scuole ellenistiche, oltre a fare tutte riferimento alla figura di Socrate, avevano un loro pensatore di riferimento. Ad esempio per gli epicurei l’autore è Democrito. L’atomismo di Democrito diventa un sostegno per la filosofia di Epicuro, con qualche modifica. Gli Scettici si rifanno a Gorgia. Gli Stoici hanno come nume tutelare Eraclito. Il fuoco di Eraclito è il luogo in cui convivono tutte le contraddizioni. Il fuoco è l’immagine dell’unità della ragione nel sistema di tutte le opposizioni. Questo carattere, la ricerca di un ancoraggio nel passato, non è peculiare della sola filosofia antica. Vale lo stesso per il Rinascimento italiano e anche per la Renaissance francese e inglese. Ogni Rinascimento rappresenta l’incontro di due civiltà di cui la più nuova cerca di coprirsi con la più vecchia. I Rinascimenti sono legati al presupposto che noi, intanto possiamo dire qualcosa in quanto siamo eredi di ciò che è vecchio. Il nuovo non è considerato qualcosa di valido di per sé. È tipico della forma di civiltà rinascimentale l’esigenza di ritrovare il posto del nuovo in ciò che è antico. L’atteggiamento delle civiltà, sotto questo aspetto, è un atteggiamento regressivo. Questo tipo di incanto per cui il nuovo deve retrodatarsi nel tempo finirà col tardo Rinascimento. Noi possiamo datare la fine di questo movimento, con la cosiddetta querelle des anciens et des modernes, la questione degli antichi e dei moderni che quando si pone è già risolta nel senso moderno. I modernes dicono: sì gli antichi erano i giganti ma noi siamo come dei nani sulle spalle di questi giganti, quindi vediamo più lontano di loro. È un po' come fare un passo indietro per prendere la rincorsa. Questa è l’interpretazione progressista che noi abbiamo del Rinascimento.
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3.2. Questioni di metodo Forza leggere, leggere come romanzi! A questa esortazione seguono due riflessioni metodologiche. La prima mette in guardia sulle difficoltà insite nei "venticinque" secoli che ci separano dalla prima stesura dei testi di filosofia antica. Non bisogna aver paura di dire "non ho capito", occorre andare avanti perché in questo studio c'è sempre molto che non si capisce. Poi bisogna tornare indietro e cercare di eliminare le sacche di incomprensione. Se si usano criteri di interpretazione forti, se si rende il metodo più rigoroso, poi è naturale che si debba scartare molto di ciò che credevamo di aver capito e molto di ciò che si credeva di aver capito non si capisce più, per quanto uno abbia studiato l'alternanza di comprensione e incomprensione risorge continuamente. La seconda riflessione ribadisce la priorità del riferimento ad Aristotele in quanto modello di uno dei due modi di pensare alla conoscenza e alla filosofia che si riscontreranno lungo la storia del pensiero occidentale. Il modo classico di interpretare l'antichità è quello tramandato attraverso Platone e Aristotele e attraverso l'interpretazione aristotelica di Platone. Ciò che interessa scoprire in questo corso è l'alternativa al pensiero aristotelico e non solo per avere un quadro più completo che ci sfugge. Ma anche affinché si possa capire meglio Aristotele. Oggi noi ci accontentiamo troppo facilmente di dire che Galileo ha superato Aristotele, il che è indubbiamente vero per quanto concerne la fisica; ma ci dimentichiamo di tutto il resto, ovvero delle scienze sociali in cui il punto di vista aristotelico persiste e coesiste insieme all'altro, quello che ha il suo punto di forza nella filosofia stoica. L'esistenza di questa alternativa risale ad un momento anteriore ad Aristotele. Melandri si spinge a dire che il punto di vista non aristotelico era quello dominante e che Aristotele era visto un po' come un
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eretico. Questo spiegherebbe perché ai suoi tempi non fosse tanto famoso26. Il punto di vista aristotelico è così potente da non permetterci di scoprire l'altra parte, l'alternativa, l'altro modo di pensare. Questa è la ragione per cui l’ellenismo viene considerato un'epoca di decadenza della filosofia in cui la preoccupazione etica, il problema dell'essere e della conoscenza, vengono meno. Si tratta di un giudizio viziato di aristotelismo. Secondo la visione classica della filosofia: Dopo Aristotele il problema della conoscenza decade. Perché decade? Perché è stato Aristotele il primo tra i grandi filosofi a emarginare il problema della conoscenza. Quindi è chiaro che, essendo aristotelico, sono io che non vedo più il problema della conoscenza. Il problema della conoscenza così come la preoccupazione etica non è inferiore tra gli Stoici, gli Epicurei, gli Scettici e i Cinici di quanto lo sia tra i filosofi precedenti. Questa scoperta dovrebbe consentirci di capire finalmente Aristotele non dal punto di vista del senso comune che abbiamo ereditato. Dovrebbe consentirci di riconoscere l'originalità del suo pensiero nel momento in cui è sorto. Le fonti della filosofia, più o meno, sono la scienza e la politica. La politica ha a che fare con il problema dell’uomo, non l' 26
È verosimile che un contributo non trascurabile alla fortuna di Aristotele sia dovuto al suo rapporto con Alessandro il Grande. Il padre di Alessandro, Filippo II di Macedonia, aveva per medico il padre di Aristotele e nominò quest'ultimo precettore di suo figlio. Con la conquista dell'Egitto Alessandria diventò presto la sede principale della scuola peripatetica che irradiò il suo sapere e la relativa sistematizzazione dapprima sui tre regni post alessandrini, poi sul mondo romano e infine su quello arabo che a sua volta lo riverberò sull'Occidente medioevale. Per un approccio alla storia della ricezione delle opere aristoteliche si veda per es. l'ampia introduzione di Ingemar Düring, Aristotele, Mursia, Milano 1976, ed or. Heidelberg 1966 (di seguito Düring) e dello stesso autore Notes on the history of the transmission of Aristoteles writings, Göteborg 1950; Dimitri Gutas, Pensiero greco e cultura araba, Einaudi, Torino 2000, ed. or. Londra 1998.
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uomo singolo ma l’uomo sociale, il problema della civiltà, eccetera. La scienza ha a che fare con il problema della conoscenza. Svalutando il problema della conoscenza Aristotele svaluta la filosofia. La svalutazione del problema della conoscenza è una svalutazione dell'utilità della filosofia per la scienza. Il riferimento è dunque all'Aristotele maturo che si dedica alla ricerca empirica. Altrove Melandri esprime la distinzione che riguarda le fonti della filosofia sotto la forma delle due diverse relazioni ego-ego, ego-id 27. Laddove la svalutazione aristotelica della filosofia non ha avuto effetto, ossia nel campo delle relazioni ego-ego - detto altrimenti delle scienze sociali - l'aristotelismo domina tutt'oggi il campo e nel caso si presenti una linea di pensiero concorrente esso costituisce l'alternativa. Di seguito non mancheranno gli esempi. In Aristotele la cosa non appare nettamente perché nei manuali si dice che Aristotele difese la filosofia con un argomento che è rimasto classico. L’argomento dice: si deve o non si deve fare la filosofia? Ma per dire che non si deve fare bisogna usare la filosofia, quindi bisogna farla28. Ciò è quanto riportato da Stobeo nel V secolo d.C. ma se si pensa al Protrettico29 l'esortazione alla filosofia è più platonica: l'uomo non può vivere bene senza la ricerca della sapienza. Melandri capovolge questa esortazione del giovane Aristotele e la legge alla luce dell'Aristotele maturo, tutto preso nei suoi studi scientifici, nella classificazione delle piante e degli animali e ne fa emergere il senso della svalutazione del problema gnoseologico:
27
Cfr. Enzo Melandri, Progetto di una pragmatologia intesa quale prolegomeno alla metodologia delle scienze sociali, ciclostile ad uso degli studenti dell'anno accademico 1974-75 (di seguito Pragmatologia). 28 Stobeo in Bocheński 7.09 da Valentin Rose De Aristotelis librorum ordine et auctoritate commentatio, Berolini 1854. 29 Düring cap VII.
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"La filosofia si deve fare perché è il modo più indolore di non farla". Aristotele dice in sostanza che più uno studia la filosofia e meno la fa, pensate! Tornando alle indicazioni bibliografiche e di metodo Melandri ci ricorda che, nonostante i contributi di Benson Mates e di Jan Łukasiewicz siano stati determinanti per tutto quanto concerne la logica stoica, il testo di Pohlenz rimane un caposaldo sullo stoicismo antico e romano30. Molto di ciò che vi è contenuto, dice però Melandri, a noi qui non interessa. Non interessa il colore locale. Con ciò si intende che la filosofia antica è interessante in quanto si riesce ad attualizzarne i contenuti. Fare della storia non deve voler dire fare dello storicismo. Cosa si può dire dell'Inno a Zeus di Cleante?31 Sono cose che si perdono, risponde Melandri, è come: se io iniziassi la mia lezione rivolgendo la mia preghiera ad Apollo. Apollo è impassibile, colui che non ama i mortali: "Oh Dio dalla freccia d’argento noi chiediamo la tua misericordia tu che disprezzi i mortali, aiutaci con la tua luce a trovare il cammino …" queste cose purtroppo dobbiamo lasciarle perdere. E tuttavia Melandri coglie qui l'occasione per una gustosa digressione che è cosa tipica del suo modo di procedere: Apollo è il Dio che manda i sogni. Aristotele dice che i sogni vengono o dalla cattiva digestione o risultano dalle combinazioni delle vicende della vita quotidiane o ci sono mandati dal Dio. Aprite L’interpretazione dei sogni di Freud e leggete che i sogni vengono dalla cattiva digestione o derivano dalle faccende della vita quotidiana, o vengono dall’inconscio. Nessuno che abbia recensito la Traumdeutung ha notato che inizia come il libro di Aristotele32. 30 Benson Mates, Stoic Logic, Berkeley, Ca. 1953( di seguito Mates); Jan Łukasiewicz, On the History of the Logic of Propositions, op. cit.; Max Pohlenz, La Stoa, La nuova Italia, Firenze 1978, ed. or. Göttingen 1959 (di seguito Pohlenz). 31 Cleante d'Asso è il secondo caposcuola dopo Zenone di Cizio, cfr. Pohlenz p. 219. 32 Aristotele, Parva naturalia, 460 b 18 - 464 b 19, in Opere, op. cit.; Sigmund Freud, L'interpretazione dei sogni, Boringhieri, Torino 1973, 1 C., ed. or. 1899.
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Ecco, questi accostamenti credo che si possano fare; voi capite per un attimo cosa era Apollo, il Dio che mandava i sogni, è l’inconscio, ed ha anche il senso di inconscio collettivo. All'altro capo della scala dei viventi troviamo la bestia, e la bestia che cos’è? È il senso di colpa collettivo. Questi accostamenti credo che si possano creare perché sono attuali. La filosofia antica non è poi così difficile ma a me questo tipo di spiegazione interessa meno. Una digressione, dicevo, che riconduce il filo del discorso all'attualizzazione del pensiero antico. Un altro accenno dello stesso genere è il seguente: Prima ci accontentavamo di dire, che ad esempio, i presocratici cercavano di trovare un principio che spiegasse tutti i fenomeni naturali. E allora fate l’elenco: Talete dice che tutto è fatto d’acqua; Anassimene che tutto è fatto d’aria; Eraclito che tutto è fatto di fuoco, e poi dite "questa è una cosa antica". Dopo vi viene in mente che c'è una ragione per fare questo, e la ragione magari è analoga a quella che portava la chimica all’inizio dell’Ottocento a dire che tutto è fatto di idrogeno. Cercando le particelle elementari dalla composizione delle quali è fatto tutto l'universo vien fuori la teoria atomica moderna. Allo stesso modo se si dice: "Talete voleva spiegare l’acqua con l’acqua ma s’accorge di un altro principio che è la condensazione e rarefazione e quindi non risolve il problema" ecco che in questa formulazione non ricorro a parametri storici, detto così si deve capire subito. Un altro esempio addotto a titolo di avvertimento esemplificativo riguardo alla lettura di manuali e commentari della filosofia antica concerne il significato del termine "filosofia". Normalmente si cita l'aneddoto raccontato da Diogene Laerzio nel quale Pitagora, interrogato se fosse saggio, sophos, rispondeva di non essere saggio ma solo amante della
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sapienza, philo sophos. Questa etimologia non soddisfa perché va incrociata con altri due aneddoti che riguardano Talete. Il primo narra che il filosofo camminava guardando la luna e non si avvide di un pozzo cosicché ci cascò dentro e la serva che lo vede cascare nel pozzo lo deride. È il topos del filosofo sbadato che conosciamo anche noi e fa il paio con Newton che dovendo vedere quanto tempo ci metteva la cipolla a cuocere, buttò l’orologio nell’acqua bollente e guardò la cipolla. L'altro, sempre tratto dal personaggio leggendario di Talete, narra che, avendo previsto il tempo favorevole, si desse a fare incetta di torchi in modo che quando ci fu questa grande raccolta di olive ne trasse un lauto guadagno33. E qui scopriamo che il filosofo è capace, se vuole, di trarre un'utilità materiale dalle sue indagini. Secondo Melandri l'aneddoto pitagorico va letto come una risposta under statement ad una provocazione, come se la domanda "sei saggio?" contenesse una malcelata derisoria diffidenza. Il sapiente risponde allora con ironia restando al di sotto del giudizio, under statement: "non sono saggio, sono solo amante della sapienza". In greco si direbbe hypocrites, ipocrisia vuol dire "sotto giudizio"34. Collegando l'aneddoto del filosofo che casca nel pozzo guardando le stelle mentre qualcuno lo deride all'altro, quello del filosofo capace di trarre guadagno dalle sue speculazioni, si intravede una risposta di Talete alla derisione: " tu mi deridi perché sono distratto ma io so trarre benefici concreti dalla mia speculazione". I due aneddoti che riguardano Talete delineano due modi di intendere il sapere, quello volto a un fine pratico e quello volto ad un fine 33
Aristotele Pol. 11, 1259 a 10 e sgg: "Siccome, povero com'era, gli rinfacciavano l'inutilità della filosofia, dicono che, avendo previsto in base a computi astronomici un abbondante raccolto […] dimostrò che per i filosofi è davvero facile arricchirsi, se lo vogliono – e invece non è questo di cui si preoccupano". 34 Il sostantivo hypocrites viene dal verbo hypokrisis che significa recitare, avere la pretesa di, simulare; da hypokrinesthai recitare una parte ma anche rispondere; da hypo, sotto, e krinein decidere, vagliare; da krinein otteniamo anche krisis, separare, decidere, giudicare. (http://www.etymonline.com/index.php?term=hypocrisy).
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teorico. Se ci rappresentiamo un triangolo, gli angoli alla base rappresentano il sapere pratico e quello teorico; il vertice rappresenta l'amore per il sapere (collegato all'aneddoto su Pitagora). In questa rappresentazione la filosofa risulta essere amore della somma dei due saperi. Tuttavia alla conclusione del passaggio (che risulta tortuoso e di cattivo ascolto) Melandri pone come interpretazione della triangolazione la definizione di filosofia come: amore della sapienza per la sapienza ciò che contraddice l'ipotesi della somma dei saperi pratico e teorico avendo il sapere pratico quale fine l'utilità. Pensiamo allora ad Aristotele che nella sua veste di dossografo ci riferisce l'aneddoto su Talete: dapprima esprime nel Protrettico (ci ritorneremo oltre) il significato di "filosofia" come amore della teoria; ma in una fase più tarda della vita si dedica alla ricerca empirica, sezionando e classificando piante e animali. Il fine della sua ricerca empirica non è l'utile ma la conoscenza. Dunque la pratica interviene sì nella ricerca ma al fine della teoria e cioè sempre del sapere. Il sapere che Talete rivendica è solo una riposta difensiva rivolta a chi lo deride e che si presume non abbia in grande stima la speculazione teorica. Ecco perché a mio avviso Melandri riassume il significato ellitticamente incluso nella triangolazione dicendo: Filosofia è amore della sapienza per la sapienza. Quindi è il pathos teoretico. Questa interpretazione del termine "filosofia" introduce la questione del rapporto tra teoria e pratica35. Nelle "questioni normali", dice Melandri intendendo quelle in cui non domina il pathos teoretico, il rapporto è Pratica-Teoria-Pratica (P-T-P). C’è la pratica, poi a un certo momento la pratica non è più "pratica", non funziona più, si fa la teoria e allora viene fuori la
35
Vedi anche 7.4.
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pratica illuminata dalla teoria. Questa seconda pratica si può chiamare praxis.36 Provo a riformulare con parole mie. La pratica consiste nel procedere per prova ed errore. Trovato un procedimento che soddisfa lo si segue automaticamente con regolarità finché si incontra una nuova situazione alla quale il processo non offre soluzioni. Si entra nella fase teorica di ricerca di un nuovo procedimento che conduce ad una elaborazione di regole e procedure atte a far fronte a situazioni diverse. In questo senso la teoria è una riflessione sul procedimento abituale e la ricerca di soluzioni. Dalle soluzioni emerge una nuova pratica che si dice anche praxis, è la pratica della teoria. In Filosofia il procedimento è diverso, è Teoria-PraticaTeoria (T-P-T). Si elabora una teoria, se ne controlla gli eventuali riscontri con la pratica e di qui si ritorna, dopo ulteriore elaborazione, alla teoria. La teoria rimanda alla pratica e, diciamo, se ne serve quel tanto che basta per ridare forma alla teoria. Bisogna che insista su questa mediazione della pratica che non è vissuta come mediazione perché, se la teoria non riesce ad emanciparsi dal momento pratico, neanche la pratica riesce ad esprimere il suo potenziale. Bisogna cercare di capire che cosa volessero dire questi momenti di praticità, cosa significassero, cosa significa, tuttora, lasciare alla teoria il suo campo intero. È chiaro che nella versione greca c'è un elemento estetico che afferisce alla teoria: la teoria è bella. La risonanza platonica nell'ultima frase è evidente: la bellezza della teoria consiste nella conoscenza che si consegue attraverso le sue più alte espressioni che sono la matematica e la dialettica. Nella parole di Melandri sembra insita la tesi che il punto di vista platonico (e del 36
Il riferimento è ai canoni tipici del dibattito marxiano, con particolare riferimento al primo libro del Capitale, ai quali Melandri aveva dedicato i suoi primi anni di insegnamento a Trieste e successivamente a Bologna.
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giovane Aristotele che ne era allievo) fosse quello dominante. E tuttavia, nonostante la svalutazione platonica dell'esperienza, l'inalienabilità degli aspetti pratici dell'esistenza umana induce ad un'ulteriore considerazione. Sì, magari il filosofo casca nel fosso perché ha la testa in aria però, volendo, potrebbe fare anche le cose pratiche molto per bene. In questo senso sembra di capire che teoria e pratica si avvalorino reciprocamente lungo un asse diacronico. Ma da un punto di vista sincronico, nell'accezione di "filosofia" come attività del pensiero che ha a che vedere col problema della conoscenza, la priorità va alla teoria (T-P-T); ed è solo fatta salva la sua indipendenza che nel dispiegarsi del tempo i momenti della pratica (nelle "questioni normali") possono assumere priorità (P-T-P). Tutta l'argomentazione intorno al significato del filosofare sembra dunque condurre a due accezioni che rimandano, la prima alla visione platonica che ne avvalora il momento teoretico svalutando quello empirico alla quale si associa l'Aristotele giovane; la seconda alla dissociazione dell'Aristotele maturo il quale rivaluta il momento empirico svalutando al contempo il problema della conoscenza. Che Melandri si riferisse all'Aristotele maturo quando asserisce che lo Stagirita svaluta il problema della conoscenza è confermato da quanto segue. Se non esiste il problema della conoscenza, le scienze prese o insieme o separatamente sono tutto quello che occorre. La parte conoscitiva della filosofia viene a essere esaurita dall’accumulo delle conoscenze particolari scientifiche; al massimo resterà un problema di scienza unificata, di linguaggio comune; il problema può essere risolto da un sistema oppure da un’enciclopedia oppure anche affrontando volta per volta i singoli problemi particolari. In Aristotele, vi dicevo però, questo giudizio [che non si dia un problema della conoscenza] non compare espressamente, compare di fatto se riflettete su questo punto: che Aristotele,
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gli scritti teoretici, li ha scritti da giovane e poi nella sua maturità si è occupato solo di ricerca positiva. Anche qui Melandri apre una parentesi per dire che Alessandro mandava piante e animali raccolte durante le sue remote conquiste, opportunamente conservate sotto sale, e che Aristotele si occupava di classificare. Ritorna poi al tema principale ricordando ancora una volta come il giudizio che in Aristotele non compare espressamente compaia invece in Hegel quando asserisce che Kant, trattando il problema della conoscenza separatamente, commette un errore. Questa volta però Melandri aggiunge una riflessione nuova: Hegel non ha il problema della conoscenza, ha solo il problema del cominciamento. Curiosamente Hegel ha il problema del cominciamento e non ha il problema della conclusione perché la conclusione per Hegel si dà oltre. E vedete, il nostro punto di vista, non so se qui però ci intendiamo, è esattamente l’opposto. Dicendo "il nostro punto di vista" Melandri si riferisce alla tesi della conoscenza separata dal reale, che attribuisce agli Stoici, e che prevale nell'epistemologia contemporanea. La Fenomenologia dello spirito intraprende la via della esplicitazione del già noto, della ridefinizione, della messa in ordine di quello che già sappiamo attraverso un ampio riferimento culturale. Dunque il problema diventa quello di non escludere assolutamente nulla dal punto di partenza. Noi invece abbiamo dei dubbi circa la sintesi finale. È un diverso concetto di totalità. Per Hegel la totalità infatti è positiva, esprimibile, se pure coi mezzi della dialettica, che non è un linguaggio semplice. Per noi invece il totale rimane enigmatico. Questo è lo spunto per un altro discorso che riguarda il concetto di Dio.
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3.3. Il triangolo di Ogden-Richards Qual è la mossa con la quale Aristotele include tutto il possibile nel punto di partenza? Se per "punto di partenza" si intende la sensazione ecco che allora sensazione e pensiero debbono venire a coincidere nell'atto percettivo. Questa coincidenza avviene, come detto nella Lezione I, attraverso una gradazione continua che dall'aisthesis conduce alla noesis. In questo trapasso non deve andar perso niente37.
Schema 3.1. Processo di astrazione dell’informazione
L'astrazione è un processo di essenzializzazione che depura dai suoi accidenti la sostanza catturata dalla sensazione. L'informazione raggiunge così l'intelletto sotto forma di sostanza essenzializzata e ne viene inglobata. Il nous è una sostanza che si alimenta di essenze. La logica aristotelica è una logica concettuale: il riferimento è all'oggetto denominato. In Aristotele il discorso è vero quando i nomi hanno le cose corrispondenti; per questa concezione sono necessarie due condizioni: 1. che il mondo si fermi un momento 2. che il mondo sia diviso in cose 37
Gli schemi 3.1., 3.2., 3.3. sono miei (non si trovano negli appunti). 71
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Se diciamo: "questo è un tavolo", tavolo è un oggetto d'uso, in quanto tale è un oggetto ritagliato nel reale. Se diciamo "questo è un albero", albero è un oggetto naturale e i confini delle cose naturali non sono dati, immaginiamo che ci siano perché il concetto di "cosa" deriva dall'oggetto d'uso. Un tavolo senza una gamba non è più un tavolo perché ha perso la sua utilità. Un albero senza un ramo rimane un albero. Non è sempre facile distinguere tra oggetto d'uso e oggetto di natura: le arance sono un oggetto d'uso o un oggetto di natura? Sono esempi di Melandri e ne voglio ricordare un altro: gli aranceti della California sono paesaggio naturale o paesaggio artificiale?
Schema 3.2. Piano della semantica nominale
Lo schema semiologico della semantica nominale che risulta dalla lettura dal De interpretatione è rappresentato nello schema 3.2. Di qui otteniamo l'interpretazione classica del pensiero come specchio del mondo e del linguaggio come trascrizione del pensiero e per transizione del mondo. Tuttavia, se per i suoni della voce e le lettere scritte intendiamo il linguaggio e per le affezioni dell'anima intendiamo non le sole sensazioni ma l'intero processo che dalla sensazione va all'intelletto (lo vedremo meglio oltre), allora il linguaggio diventa strumento di mediazione del processo psicofisico che avviene nella psyche e va a collocarsi in un punto indefinito all'interno del pensiero38. 38 L'accusa di psicologismo va respinta perché le cose sono le stesse per tutti, così come le affezioni dell'anima, e il segno è sì arbitrario ma ha da essere univoco nel rapporto con il designato. A questo proposito si veda Maurizio Matteuzzi, La forma della teoria, Faenza editrici, Faenza 1981, Cap. II e La forma della teoria, Aracne Editrice, Roma 2012, Cap. II.
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Schema 3.3. La funzione teoretica del linguaggio
In questa interpretazione il linguaggio svolge una sua funzione teoretica nel senso che fa parte nel processo di produzione della conoscenza il quale processo tuttavia non fa che trasferire essenzializzandola l'informazione dalla sensazione all'intelletto. Cosa avviene del problema della conoscenza in uno schema di questo genere? Avviene che la distinzione tra – uso una categoria husserliana – oggetto di conoscenza e oggetto reale si attenua; perché l’oggetto di conoscenza, cioè l’apparato conoscitivo, il secondo sistema di riferimento, viene ad essere concepito in termini molto deboli, talmente deboli da permettere la transizione continua tra questo apparato conoscitivo e l’oggetto conosciuto. Tra oggetto di conoscenza e oggetto reale c'è transizione continua. E qui Melandri introduce una variazione terminologica che si discosta da quella di Husserl e che è bene tenere presente perché saranno termini usati sovente nelle prossime lezioni: Io mi esprimerei in termini di "conoscenza" e "reale", tralascerei "oggetto" perché "oggetto reale" mi disturba in quanto l’oggettività è un fantasma conoscitivo, fa parte del significato, non fa parte della cosa.
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Quindi in questa concezione: La conoscenza è il viaggio dell’informazione di senso fino all’inglobamento nel pensiero: viaggio, viatico, trapasso continuo. Se la conoscenza la ponete invece come un’istanza separata dal reale, se la mente non è il corpo, avete la via platonica. Melandri introduce ora la nozione di chorismos: Qui avete il raddoppio conoscitivo che consiste, nel caso di Platone, nel dire che la mente rappresenta la realtà ideale nei confronti della quale la realtà concreta viene svalutata come empirica. Questo raddoppio però, a parte l’interpretazione idealistica di Platone, è da segnalare perché esprime l’istanza conoscitiva come separata dal reale. Parimenti voi potete fare la versione materialistica di questo, come faceva Democrito. Non è stato Platone il primo che ha riconosciuto l'idealità del conoscere. Democrito ha riconosciuto l’idealità del conoscere e ne ha tratto una conclusione materialistica, Platone ha riconosciuto l’idealità del conoscere e ne ha tratto una conclusione idealistica.39 Dopo questo cenno al chorismos Melandri è pronto a reintrodurre la sua interpretazione della semiologia stoica come analoga a quella presentata da Ogden e Richards in The Meaning of Meaning40. La questione del significato del triangolo di Richards che è posto dagli Stoici è tale per cui tra il segno e l’oggetto non c'è rapporto se non attraverso il significato che è un’entità mentale. Al di sotto di questa linea ci sono solo corpi; il segno e l’oggetto a cui si riferisce sono corpi. Al di sopra c’è la mente 39
Si veda la Lezione V Charles K. Ogden e I. A. Richards, Il significato del significato, Il Saggiatore, Milano 1966, ed. or. 1923. Nello schema 3.4. la separazione tra mentale e corporeo è di Melandri (che in riferimento al triangolo in questione omette sovente di menzionare Ogden). 40
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che è un'istanza irreale. Intanto posso dire che questo è segno di quello, in quanto in mente li collego.
Schema 3.4. Il Triangolo di Ogden e Richards
Il campo del significato non è quello dei corpi. Il segno è un corpo, un oggetto materiale; ciò di cui è segno è ugualmente corporeo; posso usare un corpo per indicarne un altro; tuttavia nessuna cosa in sé è un significato. Di due oggetti corporei non è affatto chiaro che uno sia segno di un altro, se non lo dico, se non lo penso, non lo è. Posso fare di un corpo un segno solo in quanto gli attribuisco un significato. La terminologia stoica è molto interessante perché è formata da participi. I participi del verbo greco conservano un significato verbale più accentuato che in italiano. Cioè l'italiano conserva il significato verbale nel participio presente ma il participio passato tende a cambiare nella definizione. Gli Stoici dicono semainon che vuol dire significante, dicono semainoumenon che vuol dire significato e dov’è l’oggetto dicono tynchanon che è ciò che accade, quello che succede, was der fall ist.
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Tenendo presente la comparazione tra lo schema di Ogden e Ricards e lo schema stoico ritroviamo ora il pieno significato dell'attualizzazione del pensiero antico. Vedete, questa fraseologia ritorna in maniera abbastanza insistita nell’arco di più di duemila anni, senza che, è questo l’interessante, senza che chi la usa oggi si renda conto di continuare nella tradizione. Quando Wittgenstein dice Die Welt is alles vas der Fall ist41, il mondo è tutto ciò che accade, io sono sicuro che non si renda conto di usare il termine tynchanon. La tradizione del pensiero è una cosa molto tenace, tanto da dover riprodurre quasi le stesse formule verbali in lingue diverse. Qui non avete lo schema aisthesis-noesis bensì lo schema percezione-pensiero. Ora viene introdotto un termine squisitamente stoico che ricorrerà quale oggetto di indagine e riflessione. Katalepsis, catalessi, significa afferrare l'oggetto attraverso la percezione42. 41 Cfr. Ludwig Wittgenstein, Tractatus logicus- philosophicus, 1. Einaudi, Torino1979, L'edizione di riferimento è solitamente quella di Oxford 1959 ma la prima stampa è Leipzig 1921. 42 La nozione di katalepsis, o come vedremo oltre di kataleptike phantasia, tradotto generalmente con "rappresentazione catalettica" risale a Zenone. Pohlenz scrive: "Zenone, che amava gesticolare, rappresentò plasticamente il processo conoscitivo paragonando la rappresentazione alla mano tenuta aperta, la synkatathesis all'atto di ritirare le dita e infine la katalepsis al pugno serrato che tiene stretto l'oggetto", (VSF A 66), e oltre "Zenone definisce la rappresentazione 'catalettica', perché essa rende possibile una katalepsis, una effettiva apprensione dell'oggetto", pp. 111-112. Si noti che ad "apprensione" Melandri sostituisce "afferrare" e che il termine è usato da Husserl nel senso di contenuto afferrabile (in seinem ideal fassbaren Wesen, in The Hague, Boston, Lancaster 1984 p. 239), inteso come parte di un intero che emerge dallo sfondo o contesto, Le ricerche logiche, op. cit., p. 90; a p.103 Husserl scrive: "Con spazialità intendiamo qui il momento della sensazione [corsivo nel testo] la cui appercezione oggettiva costituisce la spazialità diretta – la spazialità che si manifesta. D'altro canto, possiamo [idem], intendere con spazialità anche ciò che è afferrabile come 'spaziale' nella cosa che si manifesta in quanto tale, sulla base della singola intuizione […]". Si noti anche che "appercezione" è termine che compare in Leibniz; secondo Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, Utet, Torino 1971-77 (di seguito NA): "[…] il significato specifico di questa parola è stato per la prima volta chiarito da Leibniz come consapevolezza delle proprie percezioni". Sempre secondo NA l'appercezione in Kant diventa "il principio originario della conoscenza in quanto condizione dell'uso empirico delle categorie".
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"Afferrare" come costituire l'oggetto, che è proprio la Gestalt no? L'oggetto afferrato si ricostituisce nella figurazione mentale attraverso una "elaborazione" operata dall'intelletto. "Intelletto" non va inteso tuttavia come il nous aristotelico bensì come logos. Ed è questa un'altra nozione fondamentale del pensiero stoico. Fondamentale ma equivoca perché assume più significati: logos come ragione, logos come principio generatore di ogni ente, logos come presenza in ogni cosa e, come accennato sopra nel richiamo eracliteo, fuoco come metafora del logos. La centralità di questa nozione insieme alla sua equivocità ne fa uno dei luoghi più difficili e controversi di interpretazione. Melandri vi getta immediatamente una luce tagliente. Dove per Aristotele c'è il nous per gli Stoici c'è il logos: Che differenza c'è? Il logos è una funzione mentre il nous è una sostanza. Il nous esiste, il logos non esiste come cosa: "è il doppio di" esiste? No, è una funzione.43
3.4. Le due vie della teoria della conoscenza Da qui ci si avvia alla conclusione della lezione che avviene in due fasi: la riaffermazione del metodo attualizzante e l'esemplificazione dell'opposizione riconosciuta nella scienza odierna. A questo punto va cercato, a mio avviso, un chiarimento. Quando Melandri parla di non classical view intende in prima istanza un approccio al pensiero antico svincolato dalla visione aristotelica che ha prevalso nella storia del pensiero occultando altre prospettive. La visione non aristotelica si sviluppa attraverso l'interpretazione degli Stoici presi come punto di accumulo del pensiero ellenistico, accumulo inteso sia come eredità, sia come sviluppo della filosofia "presocratica" e platonico-aristotelica. Questo approccio procede col metodo 43
Qui troviamo una prima eco di un libro molto amato da Melandri: Ernst Cassirer, Substance and Function, Dover Publication Inc., New York 1953, ed. or. Chicago 1923. Più complessa l'interpretazione che segue nella Lezione VI; si veda inoltre la IX dove viene mossa una critica agli elenchi "sconclusionati" di traduzioni di logos e la scelta di Melandri per il contesto stoico: "nel senso stoico logos è la connessione".
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delle contrapposizioni e mira ad una migliore comprensione sia di Aristotele sia del pensiero non aristotelico. Dal confronto emergono due teorie della conoscenza con le rispettive logiche, semiologie e teorie della percezione. In seconda istanza la non classical view è il riconoscimento del fatto che l'opposizione messa in luce attraverso la contrapposizione di pensiero aristotelico e pensiero stoico è un'opposizione che sussiste ancora oggi nelle scienze. Sorge allora la questione di chi siano i rappresentanti di questa non classical view. Possiamo pensare a Benson Mates e a Jan Łukasiewicz per quello che concerne la logica stoica ma andare oltre a questi due nomi è assai difficile per cui non mi resta che azzardare un'ipotesi44 e cioè che la non classical view fosse quella che stava sperimentando Melandri. Egli si rende ben conto dei rischi insiti nel proiettare sul pensiero antico la luce di teorie sviluppate tra il XIX e il XX secolo. E a suo modo lo dichiara. Vedete perché io mi senta autorizzato, dove ho avuto il coraggio, a dirvi "le cose stanno così", perché dove riesco a vederle non c'è né passato né presente. Ci riesco perché? Perché siccome sussiste ancora oggi questa opposizione, non è passato. E quindi non è storica. Da questo punto di vista, l'opposizione di cui vi parlo sorregge l'interpretazione attualizzante. Frege ha cercato i fondamenti della matematica e ha riscoperto la logica stoica. Gli psicologi della Gestalt hanno cercato di render ragione delle forme per cui la nostra percezione costituisce l'oggetto stesso. Hanno creduto di avere messo la psicologia su basi nuove, in realtà hanno riscoperto la dottrina della catalessi. Se quello che dico è vero, vorrebbe dire che non è passato niente, sono successe delle cosette, ma dal punto di vista del pensiero non è successo niente! "Il mondo è tutto ciò che accade": accade poco. 44
Questa ipotesi mi fu suggerita da Claudio Gianinazzi che mi convinse a frequentare queste lezioni di filosofia teoretica, fu mio compagno di corso e rimase, fino alla sua recente scomparsa, un indispensabile interlocutore intorno alle tematiche melandriane.
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L'accento pessimista di questa boutade va collocato alla fine degli anni Settanta e cioè in un momento in cui il progresso nelle scienze, alla luce dei tentativi di unificazione non riusciti, sembrava aver rallentato il suo corso. Nonostante il gusto di Melandri per le battute provocatorie va tuttavia ricordato che più avanti egli afferma che il progresso nella storia dell'umanità è durato trecento anni e ormai la spinta sembra essersi esaurita. Sarebbe interessante sapere cosa penserebbe Melandri oggi alla luce dello sviluppo delle neuroscienze45. Le teorie della conoscenza moderna, che sorgono dalla fisica, non sono di tipo aristotelico. La fisica, già con Galileo ma soprattutto con l'ultima rifondazione della teoria dei quanti, deve distinguere tra l'oggetto di conoscenza e l'oggetto reale. Nella storia della scienza questa concezione ha trovato inizialmente molti ostacoli ad affermarsi. Il telescopio di Galileo è uno strumento contestato perché chi sostiene la teoria geocentrica vede lo strumento come un'intrusione tra l'osservatore e il cielo. Aristotelicamente infatti tra l'oggetto osservato e la sensazione dell'osservatore viene ad interporsi qualcosa di estraneo che disturba il principio della omogeneità tra conoscenza e reale. Occorrerà una teoria ottica per conferire validità allo strumento di osservazione (e questo, detto per inciso, è un esempio di processo della forma T-P-T) Nella fisica moderna si deve continuamente distinguere tra ciò che è parte dell'osservatore e ciò che veniamo scoprendo come realtà al di là. È fondamentale riconoscere che all'apparato conoscitivo non appartengono solo gli strumenti, ne fa parte integrante l'osservatore con i suoi processi cognitivi. Di qui l'importanza di affermare un teoria "dualistica" ovvero dove la conoscenza non è omogenea al reale bensì un'istanza separata. Le particelle elementari, le forme di energia sono caratteristicamente dei Restbegriff no? Queste particelle elementari, 45
Vedi 7.2.
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queste forme di energia, sono ciò che rimane delle traiettorie, sono categorie residue, voi non potete farvene un'immagine, è meglio non farsela! Non c'è definizione dell'oggetto, non c'è la sensazione, non c'è il trapasso diretto. E le scienze sociali, direte? E qui è un altro paio di maniche. Qui voi avete la possibilità di una doppia interpretazione. Seguono ora alcuni esempi che ricorrono più volte lungo tutto il corso. Mi scuso fin d'ora per le ripetizioni che ho ritenuto inevitabili proprio perché ogni volta l'argomento assume aspetti leggermente diversi come se Melandri volesse abituare l'osservatore-ascoltatore a ripetuti brevi spostamenti di prospettiva. Il primo esempio riguarda la presenza nelle scienze sociali di modelli di sviluppo. Melandri scegli come paradigma il marxismo che dice essere tra tutte le teorie sociali la teoria più compatta. Io sono più incline a interpretare Il capitale di Marx come un organo conoscitivo. Credo che non sia un organo che serva alla conoscenza nel senso di omogeneizzare i dati perché se il suo ufficio fosse solamente di presentare i fatti, non si capisce perché Marx avrebbe dovuto fare tutto quel lavoro, bastava poco, bastava molto meno dal punto di vista aristotelico. Credo che sia un oggetto conoscitivo come l'acceleratore di particelle, ossia qualcosa che debba essere fatto reagire sull'oggetto. Cosa che si esprime in altri termini quando si dice che il materialismo dialettico senza il materialismo storico sarebbe una vuota astrazione. In questo modo Il Capitale è piuttosto un'interpretazione dell'apparato conoscitivo come istanza separata dalla realtà. Io intendo questo passaggio così: interpretando Il Capitale dal punto di vista non aristotelico abbiamo il materialismo dialettico come parte dell'apparato conoscitivo che va fatto interagire con i dati storici. Da qui emerge il materialismo storico. E un altro caso di T-P-T. Chiaro che il problema è che i dati storici di per se stessi non dicono nulla. Come dice un personaggio di Pirandello, un fatto è come un sacco, se
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non lo riempi, da solo non sta in piedi. Il circolo ermeneutico insito nella conoscenza storica è irriducibile in via di principio e si esprime nella tensione tra oggettivismo storico (aristotelico) e soggettivismo storico (non aristotelico). Melandri formula questa tensione come segue: Naturalmente la realtà in questo caso è una realtà storica perché il modello prevede di parlare di sviluppi. Ma la teoria dello sviluppo è a priori o è a posteriori? Se voi dite che è a posteriori, cioè che lo sviluppo lo ricavo dai momenti storici usate lo schema aristotelico dell'astrazione. Se voi dite: no, intanto io posso parlare di storia in quanto ho il modello di sviluppo in testa, che però è completamente mio ed è abbastanza arbitrario, allora seguite l'altra via.46 L'opposizione viene posta in termini di contraddittorietà. Ma è solo una questione di metodo? Per evidenziare meglio una distinzione la si pone in termini mutualmente esclusivi di "bianco/non bianco" ovvero "aristotelico/non aristotelico": la contraddittoria è complementare alla tesi e prese assieme esauriscono l'universo di discorso. Ma l'opposizione aristotelico/stoico potrebbe essere intesa anche come un'opposizione di contrarietà del tipo "bianco/nero" dove tesi e contraria si escludono nel senso che non possono essere entrambe vere ma possono essere entrambe false; tesi e contraria non esauriscono quindi l'universo di discorso che contiene anche tutti i grigi. Prendere lo stoicismo come punto di accumulo presume che vi siano altre possibilità (epicureismo, cinismo ecc.); farle convergere sullo stoicismo implica il passaggio dall'opposizione di contrarietà all'opposizione di contraddittorietà. Non è chiaro se questa scelta della convergenza sia una scelta che risponde a un criterio euristico con fine gnoseologico-didattico. Nella prassi storiografica, aggiungo per inciso, l'opposizione è più verosimilmente quella di subcontrarietà, ovvero di "né bianco né nero" che in quanto tale considera tutte le possibilità intermedie e graduate dei grigi escludendo i poli in tensione tra loro. In altri termini il lavoro
46
L'argomento ritorna in 7.3.
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dello storico non può essere né completamente oggettivo né completamente soggettivo47. Da quanto segue direi che l'opposizione in termini di contraddittorietà non sia una scelta solamente a scopo didattico. È l'opposizione che c'è tra heghelismo e kantismo. Ma la stessa cosa [la possibilità della doppia interpretazione] si può ripetere a proposito di quello che dice Comte, di quello che dice Durkheim, Pareto, quello che volete. Credo che si ripeta dappertutto. Nella psicologia l'opposizione è tra teoria della percezione gestaltica e teoria della percezione fisiologica. La psicologia è un'istanza separata dalla fisiologia o no? Se voi dite che la fisiologia risolverà alla fine il problema psicologico adottate la visione aristotelica. L'emergenza psicologica si spiegherebbe in questo caso come un trapasso continuo dalla fisiologia all'evento mentale. Se invece seguite la via gestaltista, seguite la via per cui la psicologia è un'istanza separata, allora la fisiologia non c'entra niente, perché la psicologia avrebbe a che fare con il problema del significato singolo e non col problema dei neuroni. Quindi psichiatria neurologica e psichiatria psicologica dovrebbero essere separate, che è un po' quello che succede no? Voi avete la fisiologia del cervello che è una cosa, dall'altra parte avete la psicologia di tipo esistenziale che pretende di curare attraverso un cambiamento di significato. E non deve stupire che la psicologia sia divisa in due parti, vi dicevo, la conoscenza è già divisa! Questa distinzione dovrebbe ripercuotersi in tutte le scienze48.
47 Si veda lo schema 10.1. e lo schema 16.1 e 16.2. Per una considerazione più completa dal punto di vista logico-filosofico del quadrato delle opposizioni cfr. E. Melandri, L'analogia, la proporzione e la simmetria, Isedi, Torino 1979, § 3.2. 48 Si intenda le scienze sociali o più genericamente umane.
Lezione V
5.1. L'emancipazione dal pensiero arcaico In questa lezione vengono ripercorse le tappe che conducono la filosofia antica oltre l'arcaismo. È la riflessione intorno al linguaggio a segnare queste tappe. L'emancipazione dal pensiero arcaico si può connotare genericamente come aumento della consapevolezza linguistica, del rigore teoretico e del tenore logico del discorso; è denotata dalla tesi della convenzionalità del linguaggio, dall'insorgere della nozione di teoria nonché da una concezione meno autonoma del perseguimento della conoscenza. La presentazione dei filosofi che ne sono stati i promotori segue un ordine logico dal quale si ricava per negativo la nozione di "pensiero arcaico" e in positivo quella di "pensiero classico" denotata dalla riflessione platonico-aristotelica. Teniamo tuttavia presente che "arcaico" e "classico" sono predicati di pertinenza della Storia tout court che alla storia del pensiero calzano solo se letti in senso logico. Quando dico "logico" non intendo il termine in senso tecnico bensì in contrapposizione a "cronologico"49. Si tratta insomma di fare una genealogia del pensiero e non un albero genealogico dei pensatori. 49
La conoscenza della cronologia è presupposta nonostante lo scarso rilievo all'interno del discorso melandriano. Sarà bene dunque tenerla presente: Eraclito, Efeso, 535-475 ca; Parmenide, Elea, prima metà del V sec (515-450?); Zenone, Elea, 495-430 ca.; Gorgia, Lentini (Sira-
83
84 Enzo Capitolo I sugli Stoici Melandri
Se di logica in senso proprio non si può parlare prima del procedimento di reductio ad impossibile introdotto da Zenone di Elea50, è invece motivo di riflessione la questione della maggiore maturità del pensiero tra i due proto-antagonisti, Parmenide ed Eraclito, che anagraficamente, per quanto ne sappiamo, sono più o meno contemporanei. Puntualizzo perché Melandri si esprime nella Linea concordando con Santillana e in disaccordo con Hegel 51 il quale vorrebbe invertito l'ordine canonico che pone prima Eraclito e poi Parmenide. La successione verso la maturità che va da Eraclito a Parmenide è argomento anche di questa lezione. Tuttavia, per ragioni didattiche, si inizia sottolineando l'importanza ricoperta dalla distinzione parmenidea di epos e logos. Vediamo. Tenete presente, nel considerare le teorie del linguaggio, che gli antichi Greci in quest'epoca non avevano molta esperienza di lingue straniere. Questo spiega certe ingenuità nonostante invece la consapevolezza dei problemi linguistici fosse fortissima. Fino al terzo secolo voi non avete delle grammatiche di tipo moderno. Il merito di avere delle grammatiche come le conosciamo oggi spetta agli Stoici. Ha ragione Pohlenz quando rileva che le grammatiche forse non sarebbero sorte con gli Stoici se fossero stati di origine greca52. Infatti gli Stoici, per la maggior parte, non avevano il greco come lingua materna ma il fenicio e gli sforzi per apprendere un'altra lingua rendeva per loro urgente il compito di formulare una grammatica. La più antica distinzione sul linguaggio è quella tra nome e verbo, onoma e rhema.
cusa) 485-375 ca.; Protagora, Abdera 490-340 ca.; Democrito, Abdera 460-370 ca.; Platone, Atene, 427-347; Aristotele, Stagira, 384-322. La fondazione della Stoa da parte di Zenone di Cizio avviene vent'anni circa dopo la morte di Aristotele. 50 Cfr. ad es. Kneale, cap. I, § 3. 51 LC § 31. 52 Polhenz, p. 60.
Titolo del Capitolo I V 85 Lezione 85
Melandri avverte che, nella prima distinzione sorta tra onoma e rema, se traduciamo rema con verbo, non dobbiamo pensare al verbo come a quella parte del discorso che compare nelle grammatiche a noi familiari. Con verbo dovete intendere la proposizione, il logos. Dunque la prima distinzione tra onoma e rema va intesa come distinzione tra onoma e logos. La distinzione più perfetta si trova in Parmenide, è quella tra epos - anziché onoma - e logos. Qui epos vuol dire "tutte le parole", non solo i nomi53. Provo a riassumere: la più arcaica distinzione sul linguaggio tra nome e verbo muove un primo passo verso la consapevolezza della distinzione tra parole e proposizioni che riposa, questo lo aggiungo io, su di un'altra distinzione, ossia quella tra le parti e il tutto. Credo sia utile, prima di andare oltre, riportare qualche passaggio della Linea e il circolo. La consapevolezza esplicita […] nasce quando si contrappone logos e epos. La tensione fra i due termini diventa immediatamente intelligibile se con epos intendiamo la parola presa a sé, cioè il suo significato lessicale o, ciò che vale lo stesso, la rappresentazione che essa desta in noi indipendentemente dal giudizio di cui fa parte; e se con logos, per converso, intendiamo invece il senso della proposizione e quindi la variazione di significato che gli epea subiscono, una volta inseriti nel suo ordito54.
La consapevolezza della distinzione tra epos e logos pone le basi per un'altra fondamentale distinzione: Nella classificazione delle parole alcune parole risultano non avere riferimento nella realtà, sono le parole sincategorematiche o formative del discorso, parole come e, con, ad, o, non. Esse non hanno valore direttamente semantico, hanno valore, 53 54
LC cap. IV. Ibid, § 29.
86 Enzo Capitolo I sugli Stoici Melandri
si dice, sinsemantico, cioè "consignificano", significano insieme con le altre parti nominali del discorso55. Le parole sinsemantiche, gli Scolastici diranno sincategorematiche, sono quelle che servono a costruire la sintassi del discorso. Per gli antichi sono sinsemantici, o sincategorematici, anche i casi del discorso in quanto indicatori di posizione sintattica. Per ora non entriamo in questi particolari; mi basti ribadire questo punto: che la sintassi è qualcosa che non ha direttamente un oggetto corrispondente, un oggetto reale. Mentre noi potremmo sempre stabilire per ogni cosa un nome, per ogni qualità un aggettivo, non si sa bene che cosa debba corrispondere alla struttura sintattica del discorso. È chiaro che non avendo grammatiche articolate né Eraclito né Parmenide erano in grado di riconoscere nitidamente la "struttura sintattica" del discorso e tuttavia la consapevolezza del fatto che nel discorso compaiono termini privi di riferimento descrittivo doveva essere presente. In sede di filosofia del linguaggio è senz'altro evidente, sia oggi, sia allora, che ai nomi e agli aggettivi corrispondono rispettivamente oggetti e qualità sensibili; al logos non corrisponde niente, oppure la struttura dell'essere. La corrispondenza tra nomi e oggetti dà luogo alla semantica nominale; quella tra logos e struttura dell'essere alla semantica proposizionale. La prima fonda il significato sulle parti descrittive del discorso dove "nome" va inteso come unità elementare e con riferimento extra-linguistico; la seconda lo fonda invece sulle parti non descrittive, è il significato della proposizione intesa come totalità semplice, nonanalizzabile e non-definibile56. Quindi la sintassi è già ciò che allude a qualcos'altro, a un ordine tra le cose che va al di là dell'apparenza sensibile. La con55
Cfr. E. Melandri, Considerazioni critiche sui "syncategorematica", in Lingua e Stile, 1966. Vedi anche 12.2. 56 LC § 29.
Titolo del Capitolo I V 87 Lezione 87
sapevolezza della sintassi è il primo segno che la realtà si viene affermando, nel flusso della meditazione sul linguaggio, sia come realtà fenomenica, ossia quella che viene designata con gli aggettivi, sia come realtà trascendente, la realtà in sé, a cui allude la forma del discorso, del logos. 5.2. Eraclito Il significato delle parole, degli epea, è per natura o per convenzione? È physei oppure è nomo? Eraclito è ancora un pensatore arcaico in questo, crede che i nomi siano dati per natura. Noi sappiamo di questa convinzione di Eraclito da una dialogo platonico, il Cratilo. Per in inciso, Melandri avverte che il dialogo si presenta come se Platone fosse d'accordo con Eraclito: la cosa non è certa perché non è mai certo nulla di ciò che viene presentato da Platone nei dialoghi, quasi mai presenta la sua opinione. È in parte la sua opinione, in parte ciò che vuol criticare. Vediamo cosa si dice nella Linea a proposito del Cratilo57: […] come risulta dal Cratilo in cui Cratilo parla in suo nome, Eraclito può essere considerato il fondatore della "orthoepeia": la teoria secondo la quale ogni cosa ha il suo giusto nome, per natura cioè e non solo convenzionalmente. Perciò chi conosce i nomi conosce anche le cose. Il rapporto fra nomi e cose fa del nome un significante sintomatico della cosa. Infatti il nome non si limita a denotare la cosa, ma tende a manifestarne l'essenza. 58
L'attrazione naturale tra segno e designato è il fondamento del carattere sintomatico del rapporto fra i nomi e le cose. Un rapporto che ha dunque da essere invariabilmente biunivoco (ad ogni singolo segno corrisponde un singolo designato). 57 58
Platone, Cratilo, 435 d 5-6, Opere, Laterza, Roma-Bari 1974. LC § 30.
88 Enzo Capitolo I sugli Stoici Melandri
Un ben noto frammento eracliteo ci dice però panta chorei kai ouden menei59 tutto scorre e nulla resta: […] perciò il significato del singolo onoma varia col variare del riferimento e finisce con l'esser coinvolto nell'universale cangiamento delle cose.60
I frammenti di Eraclito sono tutti molto interessanti: o theos hemere eufrone il Dio, il divino, è giorno e notte; cheimon e theros, inverno e estate; polemos ed eirene, guerra e pace; koros e limos, sazietà e fame61. Questo è un esempio del modo in cui Eraclito esemplifica la persistenza del logos nel variare dei contrari. Di frammenti di questo tipo ce ne sono molti. Poi ci sono frammenti di un altro tipo, diremmo metalinguistici, dove Eraclito non solo dice delle cose, ma spiega quello che intende dire. Per esempio questo: ek panton hen da tutto uno, kai ex henos panta e dall'uno tutto62. Oppure quando dice palintropos armonie63 armonia dei contrari, sta descrivendo una struttura comune a tutti i suoi enunciati, quindi è metalinguistica o metateoretica se volete. È importante osservare lo sdoppiamento. Perché nel linguaggio oggetto si dice quello che è, nel metalinguaggio si dice la nostra opinione in proposito; il secondo livello è più soggettivo del primo nonostante sia più generale. È l'opinione contro la verità. Grazie a questa consapevolezza linguistica Eraclito formula per la prima volta la distinzione tra verità e opinione, distinzione che diverrà, nella forma di opposizione duale, il fondamento del pensiero parmenideo e della teoria delle idee di Platone. Ma torniamo ancora un momento sui nostri passi e ai frammenti. Quando Eraclito dice che per un verso bios vuol dire "vita" e per un altro "arma apportatrice di morte", non vuol fare un gioco di parole. Ogni parola, 59
Ibid.; DK, 22 A, 6; B, 91. Ibid. 61 Ibid.; DK, 22 B, 67. 62 Ibid.; DK, 22 B, 10 63 Ibid.; DK 22 B, 51. L'interpretazione di palintropos (o palintonos) armonie ha dato luogo a numerose controversie che qui Melandri aggira elegantemente spostando l'esegesi sul livello metalinguistico del frammento. 60
Titolo del Capitolo I V 89 Lezione 89
proprio in virtù di quella semantica nominale che ne regge l'uso, deve far riferimento a quel mondo fenomenico in cui tutto scorre e nulla resta: panta chorei kai ouden menei. Ciò fa sì che all'univocità del riferimento preso volta per volta corrisponda l'equivocità del senso universale del discorso64.
Altri enunciati, di un altro tipo ancora, di carattere più enigmatico e provocatorio sono famosi: "non è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume". La parola che non va bene è "stesso"65. "Lo stesso" sta per l'acqua e per il fiume ossia per il contenitore e il contenuto66. Altro enunciato dello stesso tipo è "il sole è nuovo ogni giorno"67, dove l'enigma è rappresentato dall'articolo "il": se è nuovo ogni giorno come faccio a chiamarlo "il" sole? Bisognerebbe dire "i" soli. Tutto ciò che noi abbiamo a disposizione come oggetti di conoscenza sono i significati delle singole parole. La contrapposizione degli epea mostra che le singole parole esprimono aspetti diversi e mutevoli della realtà; radicalizzando questo punto si giunge a mostrare come nella stessa frase possano comparire significati opposti espressi dalle parole e tuttavia rivelare l'identità del logos. Si può intendere questa identità, a mio avviso, in tre modi. La prima sta nel senso cosmologico dell'eterno mutamento che si configura ciclicamente e prefigura quell'idea del Grande Anno che si troverà in Platone come nello stoicismo: compiuto il ciclo di tutte le combina64
Ibid.; DK, 22 B, 48. Ibid.: "Perché mai non è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume? La semantica proposizionale si concentra qui sul valore non ostensibile di 'stesso'". 66 Si veda a questo proposito anche W.V. Quine, Il problema del significato, Ubaldini Editore, Roma 1966, p. 61, ed. or. Cambridge-Londra1953: "La verità è che ci si può bagnare due volte nello stesso fiume ma non nella stessa acqua"; in LC c'è un riferimento anche a Hermann Fraenkel, forse in A Thought Pattern in Heraclitus, in American Journal of Philology 59, 1938. 67 DK, 22 B, 6. 65
90 Enzo Capitolo I sugli Stoici Melandri
zioni possibili tutto ritorna dall'inizio68. Il logos in quanto espressione di un cosmo posto nella dimensione temporale rappresenta l'identità. La seconda sta nel senso collettivo del logos, esso è "tutte le parole", anche le parole che esprimono i contrari appartengono tutte a uno stesso logos. Una terza sta nel senso funzionale del logos che è tale proprio perché persiste identico a se stesso pur nella sua funzione di esprimere il mutamento. Per Eraclito l'identità, il logos, è come la fiamma, è qualcosa di inafferrabile. Immagine del logos è il fuoco. Infatti la fiamma è ciò che permane pressappoco identica, non perfettamente ma pressappoco identica, pur nel mutamento dei combustibili. Questa entità della fiamma è qualcosa di palpabile, qualcosa di più sottile dell'aria, infatti sale in alto, e in più contiene quell' elemento quasi misterioso per cui si fissa la fiamma senza sapere perché. È un'immagine della persistenza nel mutamento ed è simbolo del logos che è persistenza dell'identità pur nel cangiamento di tutti gli avvenimenti espressi dalle singole parole. Ma se ci fondiamo sul significato delle parole, sulla semantica nominale, e se i segni sono tenuti a variare sintomaticamente con il variare del loro riferimento allora la conoscenza addizionale dei segni non ci darà mai il significato complessivo, o proposizionale, del discorso. Il tempo ci gioca contro, per ottenere la somma dei significati il mondo dovrebbe fermarsi un momento altrimenti saremo sempre in ritardo con la nostra somma rispetto al mutamento. Lo spettro dell'eleatismo è all'orizzonte. Il logos rimarrà inafferrabile. E questo è quanto Eraclito riesce a dirci, più per allusione che letteralmente, così come può farlo la metafora del fuoco. Eraclito esprime la verità logica in termini di equilibrio dinamico di opposti in perpetuo divenire […]. La parola designa la cosa physei; ma siccome la cosa è soggetta a cambiamento, cambia di continuo anche il senso del discorso.69 68 69
Si veda la Lezione XIII e XV. LC § 33.
Titolo del Capitolo I V 91 Lezione 91
Di qui l'inafferrabilità del logos e l'incapacità degli uomini di coglierlo. L'unico modo per trarne una costante consiste nel fare della contraddittorietà una legge fissa. Ogni giudizio assume così la forma "x è non-x"; e qualsiasi nome "A" sostituibile a x nella formula predicativa che precede significa perciò tanto A che non-A.
E si capisce perché Eraclito contrapponga il logos agli epea kai erga , le parole e le opere, ovvero le azioni. 70
Non solo le parole ma anche le azioni vengono contrapposte alla fissità del logos. Perché le opere? Perché il logos esprime la legge profonda della natura laddove le parole indicano delle proprietà mutevoli, che sono i fenomeni, non le cose; inoltre le parole sono collegate agli erga, alle azioni, le opere, alle leggi non di natura ma alle convenzioni umane. Non a caso Eraclito è il nume tutelare degli Stoici: nel fatto di indicare non le parole ma i fenomeni, ciò che avviene, vediamo in prospettiva la semiologia stoica. Parimenti troviamo tracce di Eraclito nell'elaborazione di Crisippo della logica proposizionale che userà l'esempio "Dione cammina": il fenomeno comprende anche le azioni. Pur poggiando su piani diversi parole e azioni, la natura e la convenzione, appartengono entrambe alla sfera del mutamento e in ciò si contrappongono a pari titolo alla fissità del logos. Per cercare di chiarire ulteriormente vorrei citare ancora la Linea: L'endiadi "parole e opere" si spiega tenendo conto che logos significa a un tempo tanto 'legge di natura' che 'ordinamento divino' o norma. […]. In altri termini: gli epea stanno al logos puro e semplice (cioè non normativo) così come gli erga stanno al nomos (cioè, al logos in funzione regolativonormativa). E siccome Eraclito riprova il fatto che gli uomini siano inesperti nel logos, poiché non riescono ad afferrarlo nemmeno quando lo commisurano con gli epea e gli erga, se ne può concludere che il logos non è definibile mediante riferimenti estrinseci.71 70
LC § 30; DK, 22 B,1.
71
LC § 30.
92 Enzo Capitolo I sugli Stoici Melandri
In conclusione Eraclito mostra una sensibilità verso il linguaggio che lo distingue dai suoi predecessori. Rimane tuttavia vincolato alla convinzione arcaica che vuole il linguaggio, nella sua totalità e nelle sue parti, come espressione sintomatica della natura. Ciò lo costringe ad assumere la contraddizione quale correlato del divenire affidando al logos la funzione di contenitore permanente della coincidentia oppositorum. Questa mossa gli impedisce di sviluppare una logica. Sono i prodromi di quello che Melandri ha chiamato "chiasma ontologico": Eraclito fonda la semantica sul nome e nel far ciò scopre la contraddittorietà del logos. Con Parmenide succede l'inverso. Egli fonda la semantica sulla proposizione e nel far ciò scopre la contraddittorietà dell'epos. Ogni riferimento alle cose mediante i nomi è per principio condannato all'insignificanza. […] Si potrebbe a questo punto parlare di 'chiasma ontologico': se l'individuazione del reale si fonda sull'univocità semantica del nome, allora il discorso risulta irreale perché equivoco; viceversa, se fondiamo l'individuazione del reale sull'univocità semantica della proposizione, allora il riferimento nominale, in quanto equivoco si fa irreale o relativo a mere parvenze.72
5.3. Parmenide Il poema Sulla natura di Parmenide è diviso in due parti: nella prima si tratta del mondo intelligibile del logos; nella seconda, di quello puramente sensibile degli epea. Su Parmenide, importante è la distinzione tra epos e logos: l'epos è ingannevole, il logos è persistente; a partire dall'epos, si deve cercare di dire cos'è la verità; le parole che si può cercare di usare sono parole sinsemantiche (o sincategorematiche), parole non descrittive. Sarebbero dei trascendentali, si applicano alla realtà in senso transfenomenico, non descrivono, non danno indicazioni.
72
LC § 31 e § 64 dove nella nota 1 per il "chiasma ontologico" rimanda a Tullio De Mauro, Introduzione alla semantica, Laterza, Bari 1966; cfr. anche L'analogia, la proporzione e la simmetria, Isedi, Torino 1979, § 1.5.
Titolo del Capitolo I V 93 Lezione 93
Se Eraclito parte dai mutevoli epea per arrivare al logos e ne scopre l'inafferrabile identità, Parmenide fa il contrario, parte dalla persistenza del logos per determinare l'inattendibilità dell'epos. L'epos, abbiamo visto, comprende tutte le parole, quelle semantiche e quelle sinsemantiche. Le prime sono segni di cose o eventi del mondo sensibile; le seconde non hanno un correlato nel mondo sensibile, sono elementi della struttura grammaticale che costituisce il tessuto connettivo del discorso, il logos. Se le parole descrittive si riferiscono al mondo sensibile e soggetto al cambiamento, allora esse non ci possono aiutare a identificare il mondo persistente, permanente e immutabile dell'essere. All'essere va conferito il termine "realtà", mentre al mondo sensibile si conferisce quello di "apparenze". È importante capire la funzione delle parole sinsemantiche perché occupano, nella doppia dicotomia di logos/epos e realtà/apparenza, una posizione ambigua. Esse infatti fanno parte di "tutte le parole" dell'epos, ma se l'epos ha come correlato il mondo sensibile le parole sinsemantiche non dovrebbero farne parte. Come possiamo intendere questa incongruenza? A mio modo di vedere con "tutte le parole" si deve intendere " tutti i segni" intesi come significanti. Tutti i segni hanno una funzione ma non tutti hanno la stessa "funzione semantica": quelli descrittivi significano direttamente cose o eventi, quelli non descrittivi correlano i primi e determinano indirettamente quel significato proposizionale che allude al logos. La funzione connettiva delle parole sinsemantiche è costante ed è proprio in virtù di questa persistenza che aprono la via verso il logos, ovvero il correlato della realtà. Aggiungerei che Parmenide attribuisce alla funzione logica delle parole sinsemantiche la stessa capacità che Platone attribuisce alla matematica, ossia quella di traghettare il pensiero dal mondo sensibile delle apparenze al mondo intelligibile della realtà. Così quando Parmenide dice di volersi muovere dall'epos al logos per trovare la verità73 si deve intendere che la via da seguire parte dagli epea che descrivono il mondo sensibile e attraverso gli epea intesi come connettivi che alludono al logos si giunge alla verità. In questa indicazione metodologica si ravvisa l'origine del procedimento indut73
DK, 28 B, 8.
94 Enzo Capitolo I sugli Stoici Melandri
tivo, "la via che sale" eis ano to kato, e "la via che scende" del procedimento deduttivo eis kato to ano74: dal sensibile/particolare all'intelligibile/universale e viceversa. Per rilevare la presenza di un problema della conoscenza in maniera esplicita e forte, è importante vedere la distinzione parmenidea tra verità e opinione, essendo la verità relativa all'oggetto reale, l'opinione relativa al nostro modo di vedere il mondo sensibile. Questa distinzione tra due livelli, uno oggettivo e uno soggettivo è importante perché che l'essere sia come dice Parmenide va bene, ma gli avranno subito chiesto "tu come fai a saperlo?" Questa domanda istituisce il problema della conoscenza per cui Parmenide risponde dicendo che si muove dall'opinione, si muove dall'ingannevole epos al fido logos. Nella Linea Melandri fa notare che i correlati del logos sono alethes (il vero), on (l'Essere), nous (l'Intelletto) ecc., e sono sempre al singolare e preceduti dall'articolo determinativo; i correlati degli epea sono invece sempre al plurale e senza indicatori di unicità: doxai (opinioni), phainomena (fenomeni), onta (enti) ecc. La proposizione è infatti connessa al pensiero oggettivo, il noema; le parole, invece, con l'opinione […] e il sentito dire […]75.
Il logos esprime la struttura del reale. Non è mai convenzionale, convenzionale caso mai potrà essere questa o quella particolare forma sintattica, però in sé il logos è physei. Questo vale sia per Eraclito che per Parmenide. Invece per quest'ultimo, a differenza del primo, gli epea sono nomos, per convenzione. Qui abbiamo già una chiara formulazione del carattere simbolico del linguaggio: il fatto che i nomi corrispondono alle cose solo perché lo vogliamo noi. Questa visione è già di tipo 74
Cfr. Platone, Fedro, 265 d; Sofista 253 d e 226 a; Repubblica 533 c; Leggi 626 d, Opere, op. cit.; Aristotele Top, I, 12, 105 a 11 e An. pr., II, 23, 68 b 30. 75 LC § 32.
Titolo del Capitolo I V 95 Lezione 95
scientifico, moderna, tornerà con Aristotele, ma vedete che con Parmenide compare due secoli prima. La tesi della convenzionalità del nome va di pari passo con la tesi gnoseologica della svalutazione del mondo sensibile. Noi possiamo denotare il mondo sensibile attraverso nomi. […]nomi di cose cui spettino certe proprietà o nomi di proprietà pertinenti a certe cose.76
dire che i nomi sono tali per convenzione equivale, in sede di filosofia del linguaggio, a trattare ciò che nominiamo attraverso i nomi come fenomeni, cioè come realtà apparente. Il primo passo verso la tesi della convenzionalità del linguaggio è compiuto in concomitanza della distinzione categorica di apparenza e realtà. Una concomitanza che non è tuttavia sufficiente ad includere tutto il linguaggio nella tesi della convenzionalità.
5.4. Gorgia Adesso andiamo a vedere Gorgia. C'è un salto di un secolo, un secolo e mezzo, e Gorgia tra i sofisti è considerato il più scettico di tutti. Gorgia è anche il più rigoroso, il più logico tra i sofisti. Vi ricordo che Gorgia è il primo ad avere tenuto, nei suoi scritti Encomio di Elena e Apologia di Palamede, un'argomentazione fondata su premesse ripugnanti. Come se oggi uno facesse l'elogio di Satana o cose del genere. È cioè il primo ad aver notato che la correttezza del discorso dipende dal discorso stesso e non dalle premesse da cui si parte che possono essere indifferentemente vere o false. Possiamo farci forti di qualsiasi posizione e qualsiasi cosa passando da una tesi a quella contrapposta. Qui, evidentemente, il logos non è più inteso physei, anche il logos stesso è inteso come convenzione
76
LC § 31.
96 Enzo Capitolo I sugli Stoici Melandri
tant'è vero che possiamo rigirarlo come ci pare e piace. Gorgia è quindi forse il primo logico vero e proprio. Prima di procedere con Gorgia Melandri apre una parentesi su Zenone di Elea allievo di Parmenide. Pur non riprendendo la tesi della convenzionalità del nome Zenone contribuisce all'affermazione del pensiero logico introducendo un metodo tuttora valido. Ciò conferisce a Zenone una posizione, nel senso di una genealogia del pensiero, di predecessore rispetto a Gorgia. Zenone, dice Aristotele, impone la dialettica. Con "dialettica" in Zenone, si intende il procedimento aporetico di riduzione all'assurdo della tesi e quindi la ricostruzione della tesi contrapposta indirettamente77. Procedimento che si usa ancora in matematica e in logica. Questo è l'uso di "dialettica" che Aristotele fa in rapporto a Zenone di Elea. Un procedimento, vi dicevo, che è ancora in uso in matematica e in logica, è poi rimasto classico in tutta la filosofia. Voi potete tracciare una storia dell'evoluzione del pensiero in base al presupposto di ciò che rimane inconfutato; se tracciate un albero genealogico del pensiero da questo punto di vista, il filo conduttore viene dato dalla ricerca aporetica. Così come potete fare la storia della musica moderna tracciando lo sviluppo delle dissonanze. Con Zenone di Elea, in altre parole, cominciamo a vedere l'uso di un procedimento volto non tanto all'affermazione di una verità bensì allo smascheramento di una falsità. Sono i prodromi del procedimento socratico e di quello scetticismo accademico che condurrà la ricerca filosofica alla caccia di premesse fallaci sovente assunte inconsapevolmente78. 77
An pr. I, 23, 41 a, 23-40. Lo scetticismo accademico è quello professato nella Seconda Accademia (Melandri dirà "Media", vedi 7.2.; altri dicono "Nuova accademia", cfr. per es. Léon Robin, Storia del pensiero greco, Einaudi, Torino 1951, ed. or. Parigi 1923) nonché nella Terza Accademia. È il periodo in cui i successori di Platone, tra il III e il II secolo a.C., in contrapposizione agli Stoici, fecero proprie le tesi scettiche di Socrate. Nella Lezione XVIII Melandri ricorderà la distinzione antica tra dogmatici, scettici e scettici accademici; anticipo qui qualcosa che riguarda il suo pensiero intorno allo scetticismo accademico: "La situazione dello scettico accademico è quella di chi possiede la verità insieme a molte favole, quindi non è quella di chi non 78
Titolo del Capitolo I V 97 Lezione 97
In questo senso la dialettica di Zenone è una indiretta riflessione sul linguaggio che proseguendo la via iniziata da Parmenide condurrà a Gorgia e alla netta distinzione tra validità delle premesse e validità dell'inferenza. La tesi della convenzionalità del nome la ritroviamo in Gorgia il quale va oltre la svalutazione del mondo sensibile introducendo la svalutazione del logos e dunque anche della realtà transfenomenica. La svalutazione sia del mondo sensibile sia di quella che viene ritenuta essere la realtà in sé è la posizione dello scettico. Sesto Empirico, cui dobbiamo la massima parte delle nostre notizie intorno a Gorgia, ne fa il nume tutelare degli scettici. Come è formulata la tesi di Gorgia? Questo lo ricorderete anche dai manuali: a. nulla esiste b. se anche qualcosa esistesse sarebbe inconoscibile, tesi che riguarda la conoscenza c. se anche fosse conoscibile sarebbe incomunicabile dall'uomo La prima tesi è una tesi nichilista, la seconda è la tesi dell'inconoscibilità di qualcosa, la terza tesi è la tesi del solipsismo79. a. "Nulla esiste" significa che non possiamo fidarci della semantica nominale, è quello che già dice Parmenide, ma possegga nulla. Noi possediamo la verità solo che non riusciamo a distinguerla bene da tutto ciò che le si aggiunge. Vedete lo spunto che questo ha offerto nel Diciottesimo secolo per la lotta ideologica contro il pregiudizio. In fondo c'è un'idea del sapere secondo la quale bisognerebbe togliere da tutto quello che sappiamo e non aggiungere. È un idea molto antica. Ricorderete Socrate, vero, che la enuncia in maniera simile: "so di non sapere". Carneade [iniziatore della Terza Accademia] questo l'avrebbe citato a riprova della sua tesi; so di non sapere, io so tutto però non so distinguere, in quello che so, l'ipotetico dal certo. La scienza è possibile in queste condizioni? Sì, è possibile, solo che è tutta ipotetico-condizionale". 79 LC § 34: "(i) Nulla esiste; (ii) se anche esistesse, l'uomo non potrebbe capire; (iii) se anche lo capisse, non potrebbe né esprimerlo né comunicarlo a un altro. Nei nostri termini si potrebbe parafrasare all'incirca così: (i) la semantica proposizionale non ha senso ontologico; (ii) se per caso l'avesse, non potremmo tradurlo nei termini dell'altra semantica, che è l'unica a valere intersoggettivamente; (iii) se anche riuscissimo a farlo, non potremmo rendere espliciti i criteri di traduzione".
98 Enzo Capitolo I sugli Stoici Melandri
nemmeno possiamo fidarci della semantica proposizionale del logos perché questo logos è irreale, è anch'esso in fondo un prodotto della convenzione. Innanzi tutto si deve tener presente che in Gorgia la distinzione epos/logos vien riformulata nei termini di una bipartizione del solo logos. Il significato del logos è determinato da due fattori: uno estensionale, che sono i nomi che si riferiscono a cose [semantica nominale] e questo significato è dato dalle sensazioni, dall'aisthesis; l'altro è intensionale: l'intensione è data dalla semantica proposizionale, non nominale, è un prodotto della riflessione, della phronesis. La critica si svolge su due piani, sul piano della sensazione, con il riferimento estensionale; sul piano del logos interno con riferimento intensionale80. Per Gorgia il significato è dato non a cose ma a sensazioni le quali sono soggettive ovvero diverse sia da individuo a individuo sia nello stesso individuo in momenti diversi. Certo la sensazione è un sintomo rispetto alla cosa di cui è sensazione, non un simbolo. Ma quel sintomo può essere compreso solo dal punto di vista interno o soggettivo di una psicologia della percezione. Qui si delinea forse per la prima volta nella storia del pensiero semiologico il passaggio dalla relazione diadica nome-cosa (segno-riferimento) alla relazione triadica nomesensazione-cosa (segno-pensiero-riferimento)81. In Gorgia la sensazione, lungi dall'essere un filtro neutro come vorrà Aristotele, è una barriera che rende inafferrabile la realtà. Si può addirittura supporre che il riferimento non sia più alla "cosa". Torna un argomento anticipato nella Lezione III. I nomi hanno come riferimento degli oggetti sensibili e gli oggetti sensibili sono mutevoli, inoltre risulta arbitraria non so80 LC § 34: "Noi oggi preferiremmo forse dire:[invece di riferimento estensionale] i 'valori' volta per volta assunti dall'argomento di una funzione e [invece di riferimento intensionale] la 'funzione stessa. In ogni caso è chiaro che quando il logos si fonda sui nomi denotanti sensazioni […] esso resta puramente soggettivo: siccome l'ente sussiste al di fuori della rappresentazione, non sarà mai consustanziale ad essa. 81 LC § 33.
Titolo del Capitolo I V 99 Lezione 99
lo la corrispondenza tra il nome e la cosa ma risulta arbitrario anche definire cosa sia la cosa. C'è un difetto, nevvero, inerente a tutte le teorie che vogliono fondare il significato dei nomi sulle cose. Il problema è dato dal fatto che le cose in natura non esistono. Le cose sono un prodotto dell'astrazione nei confronti del mondo delle idee. Qui il riferimento, essendo filtrato da una sensazione che ne distorce i confini, assomiglia quindi più a un evanescente stato di cose o, meglio ancora, ad eventi inafferrabili dalla mente. Essendo il riferimento extra-linguistico qualcosa di instabile, la convenzionalità del riferimento estensionale, ancorché necessaria, risulta essere condizione insufficiente a fondare un principio di intersoggettività. E se ciò vale per la semantica nominale non v'è ragione per cui non debba valere per la semantica proposizionale. Perché mai la riflessione, la phronesis, dovrebbe essere un filtro più neutrale verso la realtà? Il celebre argomento di Gorgia si articola come segue82: Se è una proprietà delle cose pensate, degli oggetti di riflessione non essere reali, se questi noumeni intanto sono pensati in quanto non sono reali, sarà una proprietà delle cose reali non essere pensate, di necessità spetterà alle cose reali l'attributo di non essere pensabili; gli oggetti mentali, in tanto son mentali in quanto non sono reali, perché appartiene all'essenza dell'oggetto del pensiero il non essere reale e per converso del reale il non essere pensabile83. Gorgia si pone nel solco di quella teoria della conoscenza in cui la conoscenza è un'istanza separata dal reale. Questo solco, che ha origine nella scuola eleatica e si allargherà tanto da contenere Democrito e 82 LC § 34; il brano è tratto da Sesto Empirico, Contro i logici I. 77, Laterza, Roma-Bari 1975; (l'edizione che uso ha diviso Adversus mathematicos (di seguito Adv. math.) in due volumi: il primo intitolato Contro i Matematici I-VI; il secondo intitolato Contro i logici I-II, quest'ultimo corrisponde a Adv. math. VII-VIII. 83 In Aristotele An. pr. II. 53b 12: "In realtà, se è necessario che, quando A è, B sia, sarà necessario che, quando B non è, A non sia; nei termini della logica proposizionale, per la legge di contrapposizione: (P → Q) → (~Q → ~P); in termini di teoria degli insiemi: l'insieme del reale e l'insieme del pensato sono disgiunti, non si dà né inclusione (l'uno non contiene l'altro e viceversa) né intersezione (nessun elemento è comune).
100 Capitolo I sugli Stoici 100 Enzo Melandri
Platone, verrà interrotto da Aristotele. Nella visione non classica di Melandri si tratta dello stesso solco in cui fiorirà il pensiero stoico. La funzione di rottura di Aristotele, finché lo Stagirita fu in vita e forse ancora per una generazione, non costituì una barriera insormontabile alla pressione di una gnoseologia in cui la conoscenza è un'istanza separata dal reale. In seguito divenne invece una vera e propria diga. Melandri suggerirà di tornare a studiare Boezio per la funzione che ha rivestito nella rottura della diga84. Il chorismos posto dalla scuola eleatica viene portato alle estreme conseguenze da Gorgia: "nulla esiste" ouden estin significa che il logos è incapace, sia nella sua dimensione estensionale sia in quella intensionale, di identificare il reale. b. Se anche qualcosa esistesse l'uomo non lo potrebbe capire: ei kai akatalepton anthropo. Se anche il logos potesse identificare qualcosa del reale, l'uomo non lo potrebbe capire. La tesi nichilista non è tanto categorica da escludere il caso di una fortuita coincidenza di logos e reale. Il problema è che non ci sono gli strumenti per riconoscere quale corrispondenza tra la sfera del pensiero e quella del reale risponde a verità. La parola akatalepton ha la stessa radice di katalepsis. È un termine tecnico della scuola stoica che indica "afferrare l'oggetto", proprio il movimento della mano di afferrare l'oggetto85. Le parole corrispondenti esistono ancora, per esempio in tedesco greifen o begreifen; l'inglese to grasp. In italiano non c'è un termine corrispondente. Sarebbe apprehensio in latino ma il derivato italiano "apprendere" vuol dire un'altra cosa, non si può usare. Però vedete che anche in "apprendere" c'è il "prendere" alla radice. Della dottrina della catalessi si è già anticipato qualcosa ed è significativo per l'ipotesi della non-classical view che il termine venga usato già qui, con un secolo abbondante di anticipo. Ma non è per gusto 84 85
Vedi Lezione VII. Vedi Lezione III, VSF A 66.
Titolo del Capitolo LezioneI V 101 101
filologico che Melandri apre la seguente digressione bensì per l'attinenza del significato dell'afferrare alla teoria della conoscenza stoica e, in prospettiva, gestaltica. Alla radice c'è il prendere, cioè l'organo più importante è il tatto, non la vista e questo è un indizio86. Tenete presente questo piccolo spunto, la percezione si esprime nel parlare o in termini di vista o in termini di tatto, mai in termini di udito. Le parole derivate sono vedere e prendere. E vorrei aggiungere questo, la visione come senso nobile, è più prossima alle filosofie idealistiche, l'apprensione, il tatto, è un senso più basso ed è proprio delle filosofie materialistiche. Vista e tatto sono gli unici due sensi collegati allo spazio. Se volete percepire una forma voi usate la vista o in mancanza potete usare il tatto: l'udito non lo posso usare riguardo allo spazio, vero?87 Quindi è la maggiore dimensionalità degli organi di senso che costituisce la base referenziale. La conquista dello spazio attraverso i sensi è molto importante perché lo spazio ci permette di collocare contemporaneamente due percezioni contigue mentre la successione è data dal senso del tempo; la successione temporale è qualcosa di inerente al tutto; lo spazio può essere dato solo [per porzioni discrete collegate] attraverso la vista o il tatto. Akatalepton, se anche esistesse non lo si potrebbe afferrare. c. Se anche qualcosa fosse conoscibile, non si potrebbe comunicarlo. Questa è una tesi che radicalizza la prima perché se il logos è puramente convenzionale, anzi diciamo soggettivo, si dà la tesi del solipsismo. 86
In VSF, nel frammento A 60 Cicerone dice: "[…] La rappresentazione, una volta accertata e approvata, la chiamava 'comprensione' [comprehensionem], per analogia con quelle realtà che si prendono con le mani. […]". 87 Si potrebbe sollevare un'obiezione: l'udito serve, in mancanza di vista e tatto, a riconoscere la posizione e la distanza rispetto a chi percepisce. Ma è pur vero che rimane un'informazione indiretta e imprecisa. Ciononostante per molti animali è il senso principale al quale è affidato il compito di avvertire del pericolo.
102 Capitolo I sugli Stoici 102 Enzo Melandri
Anche la tesi solipsistica muove dalla premessa della inaffidabilità del logos. Cercando di trovare le ragioni del nichilismo in verità abbiamo trovate sia quelle dell'impossibilità della conoscenza attraverso il logos, sia quelle dell'impossibilità della comunicazione. Anche qui però bisogna intendersi: Di fatto, s'intende, la comunicazione esiste. Questo non l'ha mai negato nessuno, nemmeno Gorgia. Il nostro torto, secondo lui, sta piuttosto nel credere di poterne render ragione coi soli mezzi della logica del "discorso".88
E questo non è possibile perché la razionalità del discorso è illusoria89. Il discorso può essere usato per dimostrare l'assurdo come nell' Apologia di Palamede, e nell'Encomio di Elena. Un discorso ci appare razionale solo in virtù del suo potere di persuasione.90
La comunicazione non esiste, perché non può esistere la convinzione, io non posso convincere nessuno; le parole infatti persuadono, ma non possono convincere. Come persuadono le parole? Ci sono due casi limite: nella poesia le parole persuadono per un flusso più che altro estetico attraverso il rimando dei sensi; all'altro estremo le parole persuadono perché sono degli ordini, persuadono per quella parte di violenza che è insita nell'uso imperativo del discorso. Una cogenza puramente logica non esiste: ogni ananke [necessità/costrizione] è sempre o physei o nomos.91
Tra questi due estremi, la costrizione per natura e la costrizione per legge, ogni punto medio esercita la sua violenza parzialmente fisica e parzialmente normativa. È un equilibrio instabile, contingente, che dà l'illusione che le due forze si neutralizzino, una neutralità che ne paluda l'intrinseca violenza. 88
LC § 34. Ibid. 90 Ibid. 91 Ibid.
89
Titolo del Capitolo LezioneI V 103 103
Se la persuasione confida nella mozione degli affetti, nella sua magia evocativa essa trasmette uno stimolo, non un significato. E parimenti, se si fonda sulla coercizione normativa trasmette un ordine, non un significato. In ambedue i casi non c'è comunicazione. O per meglio dire, la comunicazione esiste ma la retorica, intesa come tecnica di persuasione, è irrilevante92. La radicalità delle tesi di Gorgia, se prese alla lettera, è scoraggiante. D'altronde sin da Platone si confuta lo scetticismo sulla base di un ragionamento che il Rinascimento battezzò consequentia mirabilis. Esso consiste nel confutare una proposizione mostrando che essa è una conseguenza anche della sua negazione. Nella fattispecie, lo scettico asserisce che non esiste una dottrina della verità (come secondo Protagora: verità = opinione); se l'asserzione è vera allora esiste una dottrina della verità; se l'asserzione è falsa idem93. Per capire Gorgia bisogna abbandonare il terreno della radicalità e inquadrarlo nel campo del dubbio e della polemica: In fondo Gorgia crede o vorrebbe credere all'esistenza del logos. Se voi accettate che non ci sia il logos, cade la forza che regge qualsiasi polemica. L'importante è vedere qui l'emergenza del tessuto polemico delle tesi filosofiche. Si vede che l'ambiente si è riempito, che le posizioni si reggono l'una contro l'altra. Non è possibile, io credo, distinguere ciò che si pensa per da ciò che si pensa contro. È una caratteristica della filosofia? Sì. Nella scienza conta meno. Dove sorgono le polemiche, guarda caso, si tratta di problemi non risolti e quindi di nuovo dell'emergenza del pensiero filosofico anche all'interno delle scienze. L'aspetto polemico, da Gorgia in avanti, non potremo trascurarlo. 92
Ibid. LC § 77 e Platone, Teeteto, Opere, op. cit., 170-171. La consequentia mirabilis, osservano i Kneale a pp. 204-205, trova una formulazione rigorosa per la prima volta tra gli schemi di inferenza stoici: "Se il primo, allora il primo; se non il primo, allora il primo; dunque il primo".
93
104 Capitolo I sugli Stoici 104 Enzo Melandri
Tenendo presente il ricollocamento di Gorgia della contrapposizione epea/logos all'interno di un logos il cui riferimento si bipartisce in estensionale/intensionale, possiamo ridurre alla tabella che segue l'evoluzione del pensiero arcaico verso la convenzionalità del linguaggio:
Physei/Nomos Epea Logos
Eraclito Physei Physei
Parmenide Nomos Physei
Gorgia Nomos Nomos
Tabella 5.1. Naturalità vs convenzionalità del linguaggio
Con il logos inteso in maniera non naturalistica possiamo dire che si conclude la vicenda della filosofia del linguaggio arcaica. D'ora in poi, dovendo rendere ragione del logos, si dovrà parlare di teorie a livello esplicito. La fondamentale distinzione logica tra verità delle premesse e validità dell'inferenza e il riconoscimento della completa convenzionalità del linguaggio sono le due condizioni che hanno reso necessaria una nozione di teoria. Ciò è quanto dire che, caduta la tesi della naturalità del linguaggio e della neutralità del rapporto linguaggio-mondo, per rendere conto di tale rapporto ci vuole almeno una teoria del linguaggio.
5.5. Democrito Ho iniziato il commento a questa lezione indicando tre stadi che segnano l'emancipazione dal pensiero arcaico: la tesi della convenzionalità del linguaggio, l'insorgere della nozione di teoria e una concezione meno autonoma del perseguimento della conoscenza. Vediamo il breve passo a proposito di questo ultimo punto. Voi sapete che Democrito aveva scritto moltissimo, ci restano solo i titoli dei suoi libri. Aveva scritto su tutti i campi del
Titolo del Capitolo LezioneI V 105 105
sapere, dalla matematica all'astronomia, all'origine del linguaggio94. In Democrito singolare è questo: è l'ultimo dei filosofi arcaici perché ha fatto tutto da solo. Platone e Aristotele si servono di specialisti nei vari campi del sapere. L'accademia è un'università, sono tante le materie di insegnamento, esistono specialisti in ogni campo. Dato il livello culturale raggiunto, essi non sono più in grado singolarmente di abbracciare tutti i saperi. Democrito è l'ultimo degli arcaici in questo, che ha fatto tutto da solo95. Secondo Melandri la ragione per catalogare Democrito tra i pensatori arcaici riguarda la sua pratica di ricerca. Un passo ulteriore vedrà l'organizzazione e la trasmissione dei saperi istituzionalizzarsi in scuole di pensiero. Questa considerazione di carattere storico-sociologico non deve tuttavia nascondere il fatto che il suo pensiero invece è anzi eminentemente "moderno". Per quanto concerne la convenzionalità del linguaggio Democrito, contemporaneo dei sofisti, procede nel solco sin qui tracciato della svalutazione dell'esperienza sensibile e parallelamente dell'inaffidabilità del logos quale strumento di conoscenza96. Con Democrito si opera per la prima volta un consapevole distacco sia dal linguaggio sia dalla realtà. La teoria deve essere espressa per mezzo del linguaggio ma il linguaggio è un 94
LC § 34: "Secondo Diodoro Siculo (come riporta Ecateo di Abdera) Democrito sostiene a tal proposito l'origine e la funzione sociale del linguaggio, negando con ciò validità ad ogni spiegazione di carattere naturalistico. In rerum natura è dato solamente il bisogno, da parte di ogni uomo, all'intesa e all'unione con altri uomini. La questione è, come si vede, puramente sociologica: rientra nel rapporto uomo-uomo, non in quello uomo-natura. E perciò il linguaggio va inteso non physei, bensì nomos". 95 In LC § 45 si legge anche: "Purtroppo Democrito è stato anche l'ultimo dei filosofi per il quale scienza e filosofia potessero davvero fare tutto in perfetta buona fede". 96 LC § 35: "Con Democrito la convenzionalità del logos si ritorce nuovamente contro l'epos, in una radicale ripresa della tesi Parmenidea. Ciò che vale per i nomi vale ancora di più per i loro denotati: i fenomeni sensibili. Siccome l'identificazione del fenomeno passa per il nome, e il nome non è un indicatore attendibile, […] il fenomeno non rappresenta mai una valida istanza, né confermativa né tanto meno confutativa. Quindi la verità poggia quasi per intero sulla sola teoria. Per questo Democrito degrada il fenomeno sensibile non solo a "qualità secondaria", (secondo l'accezione moderna) ma altresì a mera parvenza".
106 Capitolo I sugli Stoici 106 Enzo Melandri
veicolo esteriore per comunicarla, magari per fermarla meglio, non conta molto. La filosofia del linguaggio diventa così una parte della più generale filosofia della cultura o antropologia culturale.97
Melandri, in sintonia con Hoffmann secondo cui la filosofia antica nasce nel VI secolo come filosofia del linguaggio, individua in Democrito l'ultimo passo compiuto per liberare il logos inteso come pensiero-proposizione dal legame di dipendenza con la parola (Gebundenheit an das Wort)98. Se la semantica proposizionale – quella che, si dovrebbe qui dire, delle "leggi" o proposizioni scientifiche – deve rappresentare la realtà, essa va riformulata secondo le esigenze della teoria, non del linguaggio.99
La logica discorsiva, che aveva segnato sin dai tempi dei Milesi, il passaggio dalla religione alla filosofia, perde il suo ruolo di funzione prioritaria nella formulazione del pensiero. Se né epos né logos riescono a rendere conto del reale, bisognerà affidarsi a qualcosa di nuovo. La grandezza di Democrito come pensatore si desume anche dal suo disprezzo della logica discorsiva. Il modello atomistico esige il vuoto: quindi il vuoto esiste. Ma nel discorso non è possibile esprimere questo senza contraddizione, poiché il vuoto è un non-ente e del non-ente è meglio tacere. Tanto peggio per il discorso e la sua logica, ribatte Democrito. È il linguaggio che deve adattarsi alla idealità del modello e ricostruire su questo la sua logica; e non il modello subordinarsi al logos di quello.100
Della straordinaria attività che ha avuto purtroppo non ci rimangono che frammenti. Ve ne voglio ricordare alcuni: i fenomeni sono mera parvenza, dice Democrito, sono solo qualità secondarie, diremmo noi oggi101; nomo chroie, nomo glyky, nomo pikron; per conven97
Ibid. Ibid. 99 Ibid. 100 Ibid. 101 Anche qui è probabile che il riferimento implicito sia a Husserl ma non dimentichiamo che la distinzione tra qualità primarie e secondarie posta per la prima volta da Democrito viene ripresa in età moderna da Boyle, Galileo, Locke, e poi soprattutto da Kant, cfr. NA alla voce "qualità". 98
Titolo del Capitolo LezioneI V 107 107
zione diciamo colore, per convenzione diciamo dolce, per convenzione diciamo amaro102; ete d'atoma kai kenon 103, in realtà non ci sono che gli atomi e il vuoto: il mondo in cui crediamo di vivere è un mondo di parvenze. Ciò che percepiamo attraverso i sensi non esiste veramente e ciò che esiste veramente noi non lo percepiamo attraverso i sensi. Quella che confonde è la conoscenza diretta, la quale ha come fonte i cinque sensi […]. Il mondo fenomenico non svolge che una parte sussidiaria nella costituzione della conoscenza. La vera conoscenza può essere obbiettiva solo se nettamente separata da esso.104
Si vede bene come già nella Linea, che vede le stampe nel '68, Melandri proponga un'interpretazione della filosofia antica dove la conoscenza vada costituendosi come un ente separato dal reale. Qualche anno dopo tenne un corso su Aristotele e poi passò agli Stoici per mettere ancora meglio in luce come lo stagirita rappresentasse una novità, un'interruzione e un'eccezione negli oltre due secoli di fioritura che separano Eraclito e Parmenide da Zenone e Crisippo. Democrito è il primo pensatore scientifico di tipo, vorrei dire, moderno e questa modernità è sempre stata sentita. Questa modernità si ravvisa anche nel suo materialismo. "Materialismo" è un'espressione alquanto controversa, soprattutto per Democrito. Perché dico questo? Ma perché Democrito è il primo a dire che la conoscenza è qualcosa di ideale, che non corrisponde alla realtà. La parola "idea" nasce dagli atomisti, perché che cos'è l'atomo? L'atomo è un'idea: ma allora è reale o non è reale? No, bisogna che noi pensiamo che non è reale. 102
DK 68 B fr. 9 (da Sesto) e fr.125 (da Galeno). Nella traduzione di Giannantoni dove Melandri dice "per convenzione diciamo dolce" si legge "opinione è il dolce". Dico questo perché "opinione" e "convenzione" sono termini che appartengono alla stessa area semantica e benché non strettamente sinonimi si possono per quanto ci concerne assimilare. Infatti i binomi realtà/apparenza natura/legge, natura/convenzione, convergono tutti sul binomio greco physey/nomos. Cfr. anche E. Hussey, I presocratici, U. Mursia, Torino 1977, p. 115, (ed. or. 1972), dove si esprime il binomio nomos/physei come "convenzione sociale arbitraria/stato reale di cose" e si legge che "Democrito spiega la sua ontologia dicendo (fr. 9) che le qualità percettibili, quali la dolcezza o il colore, sono solo 'per convenzione esistenti'; la loro realtà è una questione di convenienza, mentre ciò che realmente esiste è atomi e vuoto. 103 LC § 35. 104 Ibid.
108 Capitolo I sugli Stoici 108 Enzo Melandri
Qui Melandri si discosta fortemente dalla tradizione ermeneutica che non ha mai pensato l'atomo democriteo come pura idea. Ma va pur detto che nella tradizione il rapporto tra atomo fisico e idea di atomo, sempre entrambi presenti, non si risolve mai chiaramente. Spostando il peso sull'idealità la soluzione che ne emerge è il penultimo passo verso il completo distacco di ontologia e logica che si compirà con Platone105. i) l'atomismo, all'epoca di Democrito, non ha alcun significato fisico; è un postulato logico matematico, il quale introduce nella scienza la nozione di una combinatoria universale; ii) la critica all'atomismo è anch'essa parimenti priva di significato fisico; quindi deve fondarsi sul riconoscimento che con la combinatoria non si risolvono tutti i problemi razionali.106 La nozione di una combinatoria universale è lo strumento teorico che Democrito escogita per render conto dello stato delle cose così come le percepiamo. Come spiegano l'atomismo? È il prodotto di un'analogia rimasta sempre in piedi fino a Gassendi, fino a Boyle, fino alla chimica di Lavoisier. L'atomismo è introdotto in maniera stupefacente con quest'analogia: così come con 25 lettere formiamo tutte le parole e tutti i discorsi, allo stesso modo, con alcune poche specie di atomi si può spiegare l'universo per combinazione dei medesimi107. È tutto lì, è stupefacente! Quest'idea è talmente brillante che può convincere per le sue proprietà intrinseche di idea. L'emergenza della nozione di teoria è connessa all'idealità della conoscenza che viene per la prima volta asserita, e con vigore: "In realtà ci sono solo gli atomi e il vuoto": questo è espresso con una forza straordinaria. La teoria viene sparata con la pistola. 105
LC § 34: "L'idealismo platonico sarà la conseguenza estrema della frattura tra ontologia e logica". 106 LC § 29. 107 Met., I, 4, 985 b 15 sgg.
Titolo del Capitolo LezioneI V 109 109
E vedete subito qual è la novità. In realtà ci sono gli atomi e il vuoto: e le parvenze no? Non è che le buttiamo via, non solo, ma in questo mondo di fantasmi noi pensiamo gli atomi vuoti, quindi c'è un bel pasticcio qui dietro. Platone lo risolverà dicendo: no, ci sono solo le idee. Ma l'idealismo di Platone deriva dal fatto che Democrito, pur essendo materialista, pone per primo la tesi dell'idealità della conoscenza. Come vedete, l'idealità del conoscere si può congiungere con il materialismo. Non vi dico che la cosa vada esente da contraddizioni, questo è sempre stato contestato. Però storicamente il materialismo è nato connesso con la tesi dell'idealità del conoscere. Non l'idealismo, ma il criterio della idealità della conoscenza è in Democrito prima che in Platone.108
Dei frammenti riguardanti la matematica, interessante è vedere che Democrito abbia sviluppato una matematica di tipo atomistico. E la cosa non dovrebbe sorprendere perché dopotutto la teoria fisica di Democrito non è che una matematica immaginaria. Gli antichi non potevano sapere dell'esistenza degli atomi, potevano solo immaginarla. Gli atomi sono sempre stati postulati, è solo con la scoperta della radioattività che abbiamo un fondamento per credere nella struttura corpuscolare della materia. Cosa che è poi anche controversa oggi, intendiamoci, perché sì, esistono gli atomi ma esistono in un contesto di relazioni che non è detto debba essere spiegato nei termini di una teoria corpuscolare. Interessante è vedere che Democrito ha prodotto una matematica coerente con la sua fisica. E anche questo l'ha fatto da cima a fondo. La matematica di Democrito è di tipo granulare, non ci sono grandezze continue. Questo sembra essere una risposta data da Democrito al problema degli irrazionali che sconvolge la matematica prima di Democrito, cioè la scoperta di grandezze che non si lasciano risolvere per sommatoria di elementi109. Per esempio √2: è dimostrato fin dall'antichi108 109
LC § 34. LC §§ 46-47.
110 Capitolo I sugli Stoici 110 Enzo Melandri
tà che il numero che la esprime non può essere né pari né dispari110. E ci si chiede se possa essere un numero dato che, anche gli antichi definirono il numero alla maniera di Russell111. Parafrasando Melandri112, se la correlazione tra grandezze e numeri non può essere biunivoca, ovvero se non si riesce a far corrispondere ad ogni singola grandezza un singolo numero, ne risulta quell'incommensurabilità che è all'origine della crisi degli irrazionali. Ma nel mondo antico il numero è sempre numero-di-qualcosa113, la fondazione ontologica del numero non è messa in discussione nemmeno dall'idealismo Platonico che sostituisce enti ideali a enti fisici ma non ne inficia la pre-esistenza. La scoperta degli irrazionali equivale alla dimostrazione che esistono dei rapporti non determinabili in maniera univoca e in base al principio di identità elementare. Se il lato del quadrato fosse commensurabile con la diagonale, dice Aristotele, lo stesso numero dovrebbe essere insieme pari e dispari, ovvero né pari né dispari. Perciò non può essere lo "stesso" numero.114
Un numero che non è né pari né dispari non può essere un numero razionale ovvero tale da soddisfare la legge di identità elementare (o di atomicità) che si può definire come la congiunzione della legge di identità (x = x) e di terzo escluso (Px V ~Px)115. La scoperta degli irrazionali è la scoperta di qualcosa di cui non possiamo render conto attraverso gli elementi. E Democrito produce questa matematica granulare che in epoca moderna è stata rifatta da Borel116.
110
An. pr., 41, 30 sgg; Euclide, Elementi, X. Bertrand Russell, La conoscenza del mondo esterno, Longanesi, Milano 1980, p. 195 (ed or. 1914): "Il numero dei termini di una data classe è la classe di tutte le classi simili alla classe data". 112 LC § 47.
111
113
Ibid,: "Questa concezione è propria del pensiero antico, ma ricompare anche in epoca moderna. La definizione del numero come 'collezione di unità' è parimenti ontologica poiché le unità su cui si fonda pre-esistono rispetto all'operazione di collezione. […] La definizione in termini di 'classe di classi simili' che compare nella linea Frege-Russell, non è molto diversa".
114
Ibid. Ibid. 116 E Borel, L'éspace et le temps, Paris 1922, cit. in LC § 46, n. 73.
115
Titolo del Capitolo LezioneI V 111 111
Per Democrito la diagonale non esiste, semplicemente. Perché se voi segate un quadrato o ci mettete dentro la diagonale o la mettete fuori, se accettate questo postulato gli irrazionali non saltano fuori. E lo stesso vale con un poligono; la sfera è anche quella granulare, la piramide è a gradini, molto piccoli, quanto piccoli? Quanto volete. È abbastanza bello no? Certo a noi disturba vedere una piramide a gradini, la sfera bitorzoluta, la vogliamo liscia ma Democrito avrebbe detto, beh fa parte dell'estetica, voi potete benissimo immaginare la sfera liscia se volete, è un fatto della scenografia dell'immaginazione. D'altra parte vedete, il processo al limite qui non si riesce a fare. L'argomento è questo. Il processo di suddivisione è illimitato e omogeneo. Nell'esposizione di Aristotele117 i due attributi paiono incongruenti. Il fatto che il procedimento sia illimitato garantisce la suddivisione all'infinito; d'altra parte la sua omogeneità impedisce di pervenire allo zero. Quest'ultimo aspetto costituisce il nerbo dell'argomento atomistico. L'omogeneità non può spiegare il passaggio al limite, poiché questo comporta il trapasso dall'essere al non-essere: da una grandezza piccola come si vuole, ma determinata, al limite di convergenza della sequenza, che è lo zero in assoluto.118
Mi interessava vedere l'emergenza della teoria, come all'improvviso si dia un salto, e anche Democrito è un pensatore che rientra nella linea che io chiamo non classica dell'antichità perché evidentemente qui la conoscenza è separata dal reale. Del reale se ne parla dal di fuori, con un processo immaginativo. Quindi per Democrito dovremmo parlare di primo sistema, secondo sistema. Secondo sistema sarebbe quello della realtà immaginata attraverso gli atomi che è tutto nel modello conoscitivo. La soluzione non è esente da contraddizioni come vedete però è il primo grande spunto verso la teoria nel senso moderno.
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De gen. et corr. I, ii, 317a 16-17. LC § 46
Lezione VI
6.1. Ricapitolazione Nella prima parte della lezione Melandri esegue una ricapitolazione. Procede elencando le opposizioni del dualismo già manifesto nelle posizioni filosofiche antiche sinteticamente espresso nel binomio aristotelismo/stoicismo. Recupera i punti essenziali della filosofia arcaica del linguaggio sorta tra Parmenide e Gorgia e infine torna alla nozione di teoria e alla sua emersione come nuova dimensione del pensiero. Iniziamo dalle opposizioni: • • • • • • •
•
logica del concetto vs logica proposizionale semantica nominale vs semantica proposizionale descrizione vs rappresentazione sensazione vs percezione astrazione vs teoria della conoscenza concretismo del singolo vs l'atomismo pluralità dell'ente (teoria dell'analogia dell'ente) vs univocità dell'ente (teoria cosiddetta materialistica secondo cui tutto ciò che esiste sono i corpi) etica politica (della polis o aristocratica) vs etica individuale (non aristocratica ma ecumenica)
Questo è il dualismo di cui andiamo a ricercare la genealogia.
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114 Capitolo I sugli Stoici 114 Enzo Melandri
Sull'onda di questa ricapitolazione, per evitare confusioni, vorrei chiarire che il termine "dualismo" compare in tre accezioni. Il primo dualismo risulta dalla persistenza nel pensiero occidentale di due concezioni filosofiche della conoscenza: quella che chiamiamo per antonomasia aristotelica implica una continuità tra conoscenza e reale; l'altra, che sorge prima della filosofia classica e prosegue con gli Stoici, considera la conoscenza come un'istanza separata dal reale. Il secondo dualismo è quello insito in una delle due concezioni, la seconda, ove la ragione per l'uso del termine consiste nella separazione dell'istanza del reale dall'istanza della conoscenza. Si tratta dunque, nel primo caso, di dualismo tra due teorie e nel secondo caso di dualismo interno a una teoria che ha origine con la distinzione parmenidea di opinione e verità. Infine il termine compare qui in una terza accezione per indicare, nel contesto della filosofia arcaica del linguaggio, la distinzione di onoma e rhema che prefigura quella tra semantica nominale e semantica proposizionale. La ricapitolazione che segue indica i punti principali in cui compaiono in modo embrionale alcune delle opposizioni di cui sopra. Lo scopo è di presentare la posizione aristotelica alternativa allo scetticismo in cui va a parare con Gorgia la filosofia arcaica del linguaggio. Nella filosofia arcaica del linguaggio tenete presente che la distinzione che ci mette sull'avviso è quella tra nome e proposizione, semantica del nome, nominale o dell'epos e semantica del logos o della proposizione. Dualismo che si ripete nella distinzione degli antichi grammatici del primo secolo tra onoma e rhema119, tra nome e verbo. Con verbo si deve intendere il logos, la proposizione. Dal verbo occorre scorporare la parte nominale e riportarla sul nome cosicché il verbo rimane una pura e semplice connessione120. Un altro spunto lo troviamo in Parmenide con la distinzione tra verità, a cui deve tendere il discorso, e metalogica ovvero l'opinione; tra il fondamento del giudizio in assoluto che è l'es119 120
Pohlenz, I, p, 81, 551-552. Vedi 9.5.
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sere, che però rimane sullo sfondo, e il punto di partenza che sono gli oggetti [del mondo sensibile] sui quali verte l'opinione, l'opinione vera o falsa. La via verso la verità, la mehtodos. In italiano si dice "il" metodo, etimologicamente è un errore, in francese si dice la méthode in tedesco die Methode e metodos in greco è femminile. Il metodo, la via attraverso cui si giunge alla verità. La via che va in su è la via che conduce alla verità; la via che va in giù è la via che invece porta lontano dalla verità, all'opinione, all'opinione che non è vera. La posizione di Parmenide come vedete è molto importante perché segna il culmine più alto che viene raggiunto nella filosofia arcaica del linguaggio. Come estrema propaggine si può considerare Gorgia che non va confuso con gli altri sofisti. Gorgia è un pensatore forte che propone una tesi scettica circa il linguaggio. Cioè che il linguaggio non ci permette di dire nulla intorno all'ente perché questo ente si sottrae alla pensabilità. Sembra una relativizzazione della tesi di Parmenide, una relativizzazione in negativo: che cosa significa "nulla esiste"? La spiegazione è data da un frammento: se è una proprietà dell'oggetto di pensiero non essere reale, sarà una proprietà del reale non essere un oggetto di pensiero. Una volta acquisita la tesi che la conoscenza è un'istanza separata dal reale, questa conclusione si dà con molta consequenzialità. Se è proprietà dei noumeni, degli oggetti pensati, il non essere reali, sarà una proprietà dei reali non essere pensati. "Nulla esiste" vuol dire che l'essere è ma non lo posso pensare. La seconda tesi è più facile: se anche qualcosa esistesse, non potrei conoscerlo: non si dà catalessi perché il logos è un'istanza convenzionale. La terza tesi è quella dell'incomunicabilità che coincide con la concezione della retorica di Gorgia secondo cui non è possibile convincere nessuno col discorso, è solo questione di persuadere o con la seduzione o con la forza. Potrebbe esserci un punto intermedio tra la seduzione e la forza in cui queste due
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forze si elidono e nel punto di annullamento emerge la possibilità della convinzione razionale. Tuttavia noi non lo sapremo mai. Questa tesi è molto radicale, mi spiace solo di non poterla rafforzare data la natura frammentaria di ciò che è rimasto. A questo punto, vi dicevo, si può considerare conclusa la vicenda maturata dalla filosofia arcaica del linguaggio compresa tra Parmenide e Gorgia. Per superare le tre tesi di Gorgia bisognerà ricorrere o a una teoria diversa del rapporto conoscitivo che sarà quella aristotelica, secondo cui la conoscenza non è un'istanza separata dal reale; oppure, mantenendo l'ipotesi arcaica della conoscenza come istanza separata dal reale, si dovrà ricorrere a una teoria della prassi che rimane al di fuori del quadro teorico. Aristotele è rimasto presumibilmente insoddisfatto della proposta platonica che riparte dall'ontologia parmenidea per rafforzare il chorismos, con relativa svalutazione del sensibile e rafforzamento ontologico del trascendentale. Lo Stagirita farà la sua mossa. Prima di presentarla Melandri ci ricorda l'altra possibilità, quella di mantenersi nel solco della filosofia arcaica. Una conoscenza attuabile solo a condizione di prescindere completamente dall'esperienza empirica è una conoscenza, sì separata dal reale, ma senza strumenti per raccordarsi con il mondo sensibile che per quanto ingannevole rimane lì: il risveglio dal sogno comporta l'accettazione del fatto che la caverna del mito platonico è lo habitat umano (al quale habitat peraltro Platone, nella Repubblica e nelle Leggi, si dà un gran da fare per escogitare le migliori forme di organizzazione della vita associata). Chi rimane nel solco di una teoria della conoscenza dualistica deve trovare una via di raccordo col reale e il primo passo consiste nel cercarlo al di qua dell'esperienza sensibile come suo correlato pronto a fornire o meno riscontri. Si veda di nuovo lo Schema 2.4. Tra le immagini della mente e la realtà di carattere pratico si dà un input e output. Con la logica ordino i miei fantasmi mentali. È la teoria che rifiuta la conoscenza come rispecchiamento o astrazione del reale e quindi mantiene la sua radicale dualità
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ma la supera attraverso una teoria della prassi, che non rientra nel quadro, è fuori dal quadro. Il quadro in questione è quello costituito dal secondo sistema di riferimento, quello dell'atto della percezione che si struttura attraverso una sintassi e una semantica in atto conoscitivo. Per controllare ciò che rimane fuori dal quadro si deve ricorrere alla pragmatica. Provo a riassumere per collazione di quanto detto in altre lezioni: il primo sistema di riferimento, è quello oggettivo ed è il sistema di riferimento più complessivo, quello che corrisponde al linguaggio ordinario, quello da cui partiamo nel riferirci all'esperienza quotidiana; il secondo sistema di riferimento è quello costituito dall'apparato conoscitivo121 che contempla percezione, memoria, logica e semantica; il terzo è quello della prassi che istituisce le correlazioni tra il primo e il secondo sistema. Per superare l'impaccio conoscitivo si deve ricorrere alla pragmatica che è il corrispettivo moderno dell'etica in senso stoico, etica intesa come inclusa nella teoria della conoscenza. Il confronto con l'epistemologia a noi contemporanea ribadisce la persistenza delle due impostazioni filosofiche contrapposte: I riscontri si fanno sempre puntuali col presente. È un salto un pochino vertiginoso: pensate come nel neopositivismo logico si è passati successivamente a considerare la teoria della conoscenza prima da un'impostazione sintattica, in Carnap con La Sintassi logica del linguaggio; poi a una posizione semantica coi i logici polacchi122, infine, prendete in esame le ultime tendenze dell'epistemologia, vedrete che questa ha un carattere, detto genericamente, sociologico, con Lakatos123, Feyerabend124. Non si può definire che cosa sia scienza se non si 121
Vedi Lezione III. L'apertura di questa impostazione è dovuta a A. Tarski The concept of truth in formalized languages, in Logic Semantic and Metamathematics Oxford University Press, 1956. 123 Imre Lakatos, La metodologia dei programmi di ricerca scientifici, Il Saggiatore, Milano1996, ed. or. Cambridge 1978. 124 Paul Feyerabend, Contro il metodo, Feltrinelli, Milano1979, London 1975. 122
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prendono in esame concetti come la comunità degli scienziati, degli esperti, le pratiche di accumulazione delle informazioni. Nel senso antico equivale a vedere l'etica gravare sulla logica o addirittura a considerare l'etica come una parte della logica nella sua applicazione alla conoscenza. Nell'impostazione aristotelica prima viene la conoscenza e la logica è uno strumento per raffinare il linguaggio con cui esprimiamo l'universale; nell'altra impostazione la teoria della conoscenza è una parte della logica. Questa concezione riemerge puntualmente nel neopositivismo logico. Non è molto un caso, vi ho già detto che Frege secondo me ha riscoperto la logica stoica. Schematizzando: stoicismo e neopositivismo includono l'etica nella teoria della conoscenza e la teoria della conoscenza nella logica; aristotelismo e filosofie neohegeliane includono la logica in qualità di strumento in una nozione di conoscenza debolmente teorizzata e intendono l'etica come sfera disgiunta dalla conoscenza.
6.2. L’emersione della teoria Quasi volesse trattenere ancora per un po' sullo sfondo l'incombente mole dell'alternativa aristotelica alle tesi scettiche, Melandri propone un excursus sull'emersione della teoria che include come terzo attore lo stesso Aristotele. Conclusa la filosofia arcaica del linguaggio con Gorgia, dobbiamo ora rivolgerci a un fenomeno diverso che non è contemporaneo, perché sorge prima della conclusione di questa congiuntura del pensiero, ed è l'emersione della teoria. Questa invenzione della teoria ci porta in un'altra dimensione del pensiero che non è più così vincolata al linguaggio come in precedenza. La teoria ha il compito di reificare il logos in una concezione descrivibile o presentabile. Una volta compiuta la separazione tra il pensabile e il reale il logos rimane sospeso tra l'attività umana e l'esistenza extra-umana. Per ri-
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trovare una sua propria consistenza ontologica ha bisogno di essere considerato come cosa in sé. La teoria esegue il suo compito di reificazione istituendo come proprie istanze costitutive la logica, il linguaggio e il mondo. Il logos si presenta allora come l'unione di una struttura (o reticolo o scheletro) e di un sistema di riferimento verso qualcosa che è al di fuori di esso e verso il quale vanno istituite regole di correlazione. È il periodo della filosofia greca classica nel senso più classico del termine. Comprende tre grandi personaggi, Democrito, Platone e Aristotele. Gli inizi si possono datare con Anassagora direi. Anassagora di Atene, maestro di Socrate, presenta una teoria del nous quale istanza separata dal reale125. Il nous è un ordinatore del reale che produce un ordinamento intelligibile. Il nous: la mente l'intelletto. L'accostamento di mente e intelletto forza l'interpretazione fuori dal canone che vorrebbe il nous di Anassagora piuttosto come un'istanza teologica: principio ordinatore in quanto principio divino. Ora, essendo il nous separato da tutte le cose dovrebbe trovarsi lontano anche dalla mente. Invece qui pare proprio che Melandri suggerisca una certa somiglianza tra il nous di Anassagora e il logos degli Stoici in quanto ambedue principi ordinatori ma che non necessariamente hanno una "sede" extra umana. Il loro essere separati come principio ordinatore implica un dualismo non topologicamente connotato. Un dualismo che può essere presente nella stessa mente umana. Detto in parole povere nous e logos possono essere intesi sia come principio divino sia come software126.
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DK 59 B, 12. Le controversie cristologiche dei primi cinque secoli sono pregne di una costante preoccupazione riguardo alla modalità di partecipazione del divino nell'umano. La storia del pensiero ama ricondurre quelle dispute al problema platonico della methexis ma le argomentazioni sostenute da chi intende Dio come distante e separato dall'uomo contro chi invece lo intende come trasfuso e pienamente presente nell'elemento umano ricordano anche le nostre due impostazioni: l'una propensa alla separazione delle istanze, vuoi che le si intenda come divino/umano, vuoi come incorporeo/corporeo, intelligibile/sensibile; l'altra propensa alla continuità delle istanze ma dove l'ordine e la relazione, in senso aristotelico, andrebbero piuttosto espressi così: umano - divino, corporeo - incorporeo, sensibile – intelligibile. 126
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Il nous è il principio ordinatore di tutte le cose, le cose sono composte di elementi piccoli quanto si vuole (perché del piccolo non si da mai il minimo ma solo sempre il minore127) che Aristotele chiama omeomerie128. Secondo la teoria delle omeomerie tutto è tutto. Ogni cosa è in ogni cosa. Da cui la domanda: come si distingue una cosa dall'altra giacché se tutto fosse senza limiti, per principio non ci sarebbe neppure un oggetto di conoscenza129. Anassagora risponde che ogni cosa è riconoscibile per la prevalenza in essa di un certo tipo di elementi. Il problema è che dividendo le cose non si trovano gli elementi, bensì dei frammenti; dividendo questi ultimi, dei frammenti più piccoli ancora130. Dalla mixis non si può isolare l'elemento. E una teoria non atomistica ma omeomeristica, non posso dire altro. La prima che propone quali ingredienti della riflessione sul mondo la nozione di mixis, della mistura delle cose; la divisione all'infinito e con i problemi che sorgono. La differenza tra la soluzione atomistica e quella omeomeristica si può riassumere dicendo che la soluzione atomistica coincide col tentativo di stabilire la finitezza stessa come principio131, quella omeomeristica coincide con la scelta della non finitezza132. In comune hanno la nozione di mixis e, fondamentale per quanto concerne l'emergenza della teoria, l'assenza di qualunque riferimento sperimentale133. Il modo di pensare che si può dire "costruttivismo teoretico"134, attribuito nella Linea a Democrito, ha i suoi prodromi in Anassagora.
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LC § 43; DK 59 B 3. De caelo, III, 3, 302 b 3. A quanto pare il termine "omeomerie" non è attestato in Anassagora, cfr. E. Hussey, I presocratici, Mursia, Milano 1977, p. 126, ed. or. New York 1972. 129 LC § 43; Filolao in DK 44 b 3. 130 LC § 43. 131 LC § 45. 132 Si veda oltre, Lezione XIII, una riflessione sull'ipotesi di una fisica del continuo. 133 LC § 38: "I fenomeni sono la manifestazione di ciò che non si vede". DK 59 B 21. 134 Ibid. 128
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Da ravvisare come fenomeno concomitante dell'emersione della teoria la scoperta degli irrazionali in matematica. Problema che era noto a Platone, a Democrito e a molti altri, problema che emerge già nel VI secolo ed è attraverso questo problema che i matematici cosiddetti pitagorici assumono una dignità filosofica135. I pitagorici noi li vediamo come una corrente indipendente dalle altre, ma tenete presente che i cosiddetti pitagorici, probabilmente sono nati come esperti nell'arte del calcolo. Il fatto che uno sia esperto nell'arte del calcolo non significa immediatamente che l'oggetto di questo calcolo, i numeri e le figure geometriche, abbiano di per se stessi la dignità di un oggetto del pensiero; occorre che succeda qualcosa, che se ne interessino altri ed è in questo consensus omnium che si viene definendo ciò che è oggetto di ricerca filosofica del pensiero. La capacità di maneggiare numeri e figure non conferisce di per sé uno statuto di filosofo. Come mai troviamo i Pitagorici collocati nel canone dei filosofi greci? Tradizionalmente la dignità di filosofi che viene loro attribuita deriva dal fatto di condividere, come tutti i pensatori da Talete in giù, di perseguire la ricerca di un principio unico che regola l'universo. La novità pitagorica consiste nell'aver abbandonato l'idea di una materia primordiale quale substrato di una legge universale. Il principio che regola l'universo essi lo ravvisano, secondo Aristotele136, nei numeri e nelle loro proprietà. Che la loro non fosse semplice abilità nel calcolo bensì l'origine di una gnoseologia intellettualistica andava riconosciuto137. L'ipotesi qui suggerita è che a portare l'interesse del "mondo culturale" di allora verso le teorie pitagoriche è qualcosa di nuovo: 135
I Pitagorici vivevano come una setta in comunità politiche chiuse, nel rispetto di tutta una serie di regole comportamentali ascetiche, dediti alla pratica di poteri magici "fondata sull'acquisizione di quella conoscenza e capacità soprannaturale accessibile solo allo sciamano iniziato"(cfr. E. Hussey, op. cit. p. 64). Di qui probabilmente derivano le fonti ostili a Pitagora, in particolare Eraclito (cfr. DK 22 B 40, 81). Non è tuttavia attestato quando e per opera di chi sia sorto il problema degli irrazionali, cfr. Carl Boyer Storia della matematica, Mondadori, Milano1980, Cap. 5, ed. or. John Wiley & Sons1968. 136 Met. I, 5, 985 b. 137 LC § 32: "Il rapporto logos/epos si riflette analogicamente in altri forse più familiari: uno/molti, intelligibile/sensibile, noumeno/fenomeno, universale/particolare e simili. […] la
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Io credo, è un'ipotesi alternativa, che fintanto che i pitagorici si limitano a studiare i numeri e le figure e dicono che tutto il mondo è composto da un'armonia espressa dal numero, questa setta, questo gruppo di sette, non riesce ad essere presa in seria considerazione, dato che l'asse portante della filosofia è di carattere logicistico piuttosto che matematico. Ed è solo dal momento in cui emerge il problema degli irrazionali che "la setta" viene presa sul serio. È un'ipotesi che si capisce se si tiene presente che il problema degli irrazionali sorge sì dalla geometria ma rimane fondamentalmente un problema logico fino alla sistemazione all'interno di una teoria dei numeri138. In filosofia ci sono varie cose che vengono a confluire insieme nell'epoca della teoria. L'asse portante è quello che va da Parmenide fino all'epoca classica. Certo trovate altre correnti, trovate correnti come quelle pitagoriche, trovate Empedocle, ci sono i medici ecc. Quand'è che confluiscono insieme? Solo nel periodo della teoria. Da questo momento in poi si forma una coscienza storica, una coscienza del pensiero che proietta all'indietro verso ciò che prima non stava assieme. È questa contingenza storica, che chiamo emersione della teoria, a fare confluire insieme vari modi di pensare e quindi a creare poi un oggetto composito. L'asse portante è il metodo di Parmenide. Ci sono tutti i requisiti. Prima di tutto quello della reduplicazione empiricotrascendentale del reale. distinzione tra i due momenti del rapporto e quindi lo sviluppo di una gnoseologia intellettualistica risale a Pitagora o ai primi Pitagorici". 138 Kneale Cap. VI, 1-2. Per quanto attiene all'asse portante della filosofia cfr. LC § 32: "Parmenide è il primo logicista. […] Secondo Karl Reinhart, la linea di pensiero scientifico va da Parmenide a Democrito senza rilevanti soluzioni di continuità; mentre un'altra linea, in contrapposizione armonica con la prima, sebbene priva di un'intrinseca continuità, va da Eraclito e i Pitagorici fino a Platone e Aristotele (Karl Reinhart, Parmenides und die Geschichte der griechische Philosophie, Bonn, 1916). Dal nostro punto di vista il principio che sorregge la seconda linea è l'analogia, in perfetto contrappunto con quello della prima, che è dato dalla logica.
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Il raddoppiamento empirico-trascendentale, che nella scuola eleatica è dovuto a un uso teoretico del linguaggio, assume una fisionomia stabile. Noi, accettando l'impostazione teoretica, finalmente riusciamo a stabilizzare delle suggestioni del pensiero che preesistevano in tante forme slegate fra loro. I pitagorici per dire che tutta la realtà è numero devono utilizzare un logos numerico che è al di là dell'apparenza sensibile. La semiotica medica deve distinguere tra il sintomo e la cosa di cui è sintomo. Bisogna distinguere tra il metodo empirico che si appoggia sulla sindrome e la spiegazione della malattia e della guarigione. La critica dei miti e della religione innesta i progressi eseguiti nella esegesi di Omero. Omero è depositario di un'antica sapienza oppure ci interessa perché presenta in forma seducente delle situazioni degne di essere contemplate? Comincia a esserci il distacco tra la poesia primitiva concepita in maniera sapienziale e la poesia antica che è vissuta in senso moderno come fatto puramente estetico. Noi parliamo di demitizzazione senza capire che in fondo essa costituisce il progresso che ci permette finalmente di liberare il mito dalla sua ossessione di dover parlare delle cause profonde, è la liberazione del acconto, la liberazione della fantasia dall'obbligo di dire la verità139. Senza questa reduplicazione non è possibile far confluire insieme pensieri di diversa ispirazione come sono quelli che ho indicato. La teoria è l'invenzione di una nuova dimensione del pensiero, e la capacità, la fecondità di questa invenzione è dimostrata dalla triade Democrito-Platone-Aristotele. Il raddoppiamento risulta dalla distinzione tra sensibile e intelligibile come modi di rapportarsi al mondo. Quello che era un unico modo di prodursi della conoscenza si raddoppia in due modi che funzionano attribuendo competenze e valore diverso a due diversi rapporti uomomondo. In quanto il rapporto tra sensazione e mondo viene svalutato, in tanto il rapporto tra intellezione e mondo risulta indipendente dal 139
Parmenide è l'ultimo dei filosofi greci ad esprimere il suo pensiero in esametri.
124 Capitolo I sugli Stoici 124 Enzo Melandri
primo. Al correlato inconoscibile della sensazione, deve corrispondere un correlato conoscibile dell'intellezione e questo correlato per essere pienamente distinguibile dall'altro deve, per così dire, assumere un sua propria fisionomia. Questa fisionomia gliela conferirà Platone ipostatizzando il correlato dell'intellezione nella nozione realista di "idea". È chiaro che, prima di degenerare in ipostasi ontologica, la distinzione fra mondo sensibile e mondo intelligibile è stata accolta per la sua funzionalità. È molto comodo in sede gnoseologica stabilire che l'oggetto di conoscenza sia prima di tutto intellettuale, e solo in un secondo tempo identificabile con qualcosa di sensibile. La filosofia e in generale il pensiero sorgono per mezzo di questa funzione reduplicatrice la quale dunque non dev'essere così insensata com'è potuta apparire a taluno in sede critica, giacché anche la scienza moderna opera in base a un tale presupposto bi-sociativo. 140
Forse vale la pena di aggiungere che questo quarto stadio del pensiero - mito, demitizzazione, filosofia arcaica del linguaggio, teoria - è quello a cui tuttora noi siamo. Ed è a questo punto che Melandri ritorna alla nozione di progresso che nella Lezione III avevamo visto oggetto di un certo scetticismo e forse pessimismo, chiarendo cosa vuole intendere con "progresso". La mia convinzione è che questo ordine raggiunto non abbia trovato il suo soffitto. Perlomeno noi lo dobbiamo ancora superare. Infatti le tre figure dei pensatori indicati danno luogo a modi di pensare che sono tuttora quelli presenti, se uno vuol pensare in maniera sistematica. Democrito è l'inventore del materialismo cosiddetto meccanicistico; Platone dell'idealismo; Aristotele dello spiritualismo141. In questo senso non c'è più stato progresso, se con progresso si intende la convergenza verso un'unica verità. E il fatto che tutto debba convergere verso un'unica verità e che il tempo dia ragione di questa aspettativa, è un modo di pensare che abbiamo, noi moderni oggi, preso dalla scienza naturale. Perché più o meno è successo questo. A un certo momento sembra darsi nella scienza naturale una procedura di decisione 140 141
LC § 43. Per questa dizione di "spiritualismo" vedi oltre.
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che si afferma e che tra teorie contrapposte ne preferisce una scartando le altre. Talvolta il processo non è lineare, talvolta sì. È lineare nel senso che tra le teorie di Lavoisier e quelle flogistiche la scienza ha scelto la teoria di Lavoisier. Non è lineare del tutto nel caso del dualismo tra corpuscolarismo e natura ondulatoria della luce in cui la scelta oscilla tra la prima propensione verso l'ondulatorio e poi un ritorno parziale verso il corpuscolare. Attenzione a non trasportare nel campo filosofico concetti desunti dal supposto andamento del progresso scientifico. Non c'è nessuna ragione di supporre che debba esserci un progresso nel pensiero filosofico nel senso di favorire definitivamente la filosofia materialistica a spese di quella idealistica e viceversa o a spese di altre forme. È interessante notare che in ciascuna di queste forme teoretiche, dal punto di vista metafisico, sussiste il progresso. L'aristotelismo oggi, se qualcuno lo volesse sostenere, sarebbe molto più perfetto di quello sostenuto da Aristotele; così anche per il platonismo, in una delle sue forme, la teoria dei modelli. Ci sono settori in cui oggi possiamo produrre un migliore risultato di quello di una volta. Però non c'è un progresso nel senso complessivo della decisione tra questi possibili spunti. In sintesi, se intendiamo progresso come progresso scientifico ovvero un procedimento verso una unica verità, un progresso c'è stato (anche se nella Lezione III veniva avanzata l'ipotesi che si fosse ormai fermato); se lo intendiamo come progresso filosofico siamo rimasti ai tre modelli teoretici di Democrito, Platone e Aristotele. Ma si deve intendere che qui il progresso non consiste nel procedere verso una sola verità. Consisterebbe piuttosto nel trovare nuovi modelli e questo non sembra essersi verificato. Questa nozione di progresso si differenzia da quella pertinente alle scienze perché lo scarto tendenziale delle alternative non deriva dall'accumulo delle conoscenze142. Posso aggiungere che questo genere di affermazione, come avverte Melandri talvolta, è plausibile solo a un livello molto astratto, livello 142
Per il rapporto scienza filosofia si veda anche LC § 42.
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possibile proprio in virtù di quello "stadio della teoria" che ci consente di far confluire pensieri diversi all'interno di un modello di interpretazione. La filosofia di Democrito esordisce con la metafora dell'atomo. Il fondamento di questa metafora sono le lettere dell'alfabeto con le quali, 25 in tutto, è possibile comporre, non solo le parole e le frasi ma addirittura i poemi. È possibile dimostrare che con una successione finita di lettere si possono produrre potenzialmente infinite combinazioni. La teoria viene per così dire sparata con la pistola. Torna la metafora della pistola: il proiettile non si cura di ciò che ha attorno, va determinato alla meta, il suo bersaglio è la soddisfazione di aver fatto rientrare ogni spiegazione all'interno della sua traiettoria. Caratteristica della teoria è di essere in prima istanza posta come ipotesi e in seconda istanza di essere adottata in virtù del solo potenziale esplicativo. L'unico criterio da far valere contro una teoria è quello della sua autocontraddittorietà. Ora, è facile mostrare come nella teoria di Democrito, come in ogni teoria materialistica, si dia un'incongruenza di fondo. Si tratta di capire però se questa incongruenza contenga o no una contraddizione. Troppo spesso nei manuali, data la grossolanità della logica di chi li scrive, si confonde l'incongruenza con un fatto psicologico, motivato sì, ma non decisivo riguardo alla contraddizione vera e propria. Qual è l'incongruenza della teoria di Democrito? È che questa teoria porta a postulare un netto dualismo tra il mondo come ci appare e il mondo come reale. "In realtà esistono solo gli atomi e il vuoto". Esiste l'essere dell'ente, l'essere del nonente è il vuoto. Tutto il resto è illusione. Illusione necessaria anch'essa perché prodotta dal movimento degli atomi nel vuoto. L'incongruenza sorge alla domanda: la teoria atomica è un'illusione anch'essa prodotta dagli atomi e dal vuoto? Come aveva già ben visto Gorgia il mondo del pensiero è potenzialmente altrettanto illusorio del mondo delle sensazioni. Ma se l'illu-
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sione è il risultato di un determinismo forte a che pro cercare di far valere qualsiasi ragione? I casi sono due: o i fantasmi del mondo illusorio sono necessitati dal legame degli atomi oppure no. Se sono necessitati la teoria atomica è altrettanto vera quanto la teoria che vi si contrappone, perché tutto quanto è necessitato è parimenti vero. Democrito poteva dire: "è pensabile che tutto sia determinato meccanicisticamente compreso il fatto che io ragiono in questo modo". L'obiezione: "ma perché allora ti dai tanto da fare per consegnare la tua teoria?" non entra nel merito della teoria e della sua coerenza interna, non c'è contraddizione, c'è incongruenza dal punto di vista psicologico perché noi, soprattutto come moderni, diamo molta importanza al fare. Allora, siccome nel fare, nel verificare, nel propugnare, nel far propaganda, nell'impegnarci investiamo tanta parte di noi stessi ecco che questa parte che viene investita assume un valore proporzionale all'investimento. In sé non c'è nulla da obbiettare nella visione meccanicistica, tanto è vero che può essere sostenuta ancora oggi. Qua e là emerge ancora talvolta dalla visione del mondo che hanno gli scienziati. Le contraddizioni non ci sono quasi mai, come regola grossolana. Dipende dalla capacità logica che noi abbiamo di stabilire differenziazioni e strutture più sottili. Ciò che preme rilevare è che a livello teoretico il criterio di verità è interno alla teoria. È la sua struttura logica a costituire o meno l'oggetto della contraddizione. A livello pragmatico possono invece sorgere incongruenze nel rapporto tra la teoria e le obiezioni metateoretiche, siano queste di carattere psicologico, sociologico o altro ancora che esorbita dal quadro di riferimento della teoria143. 143
A mio avviso Feyerabend è un maestro nel dar risalto a incongruenze pertinenti alla storia della scienza contrabbandandole poi come un modello di ricerca che conduce invariabilmente a contraddizioni interne alle teorie. Il fatto che questo genere di epistemologia autocorrosiva sia andato scomparendo non è dovuto solo alla incompetenza dei filosofi di oggi in materia di formalismi avanzati ma anche al fatto che, per quanto il progresso verso l'unificazione delle
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Se poi voi dite "no, ci deve essere libertà di scelta, non è detto che tutto sia deterministico, c'è il principio di determinazione, la volontà incide sugli eventi" allora avete lo schema aristotelico, cioè spiritualistico. Lo spiritualismo, nella dizione che do, è una concezione generale metafisica caratterizzata da una doppia polarità di forze: la causalità che spinge a tergo, la causa efficiente aristotelica, e la causalità finalistica che attira in avanti dall'alto. Queste due forze si combinano tra loro fornendo una spiegazione del mondo che è per metà razionale e per metà irrazionale. Per Aristotele sarebbe irrazionale la causa efficiente, il mondo che emerge dal caos, sarebbe razionale la causa finale in quanto il telos fornisce ordine al divenire. Oppure potete anche dire che ci sono due criteri di razionalità, uno fisico-matematico, uno finalistico-psicologico. L'essenziale è che ci siano due forze che si combinano tra loro. Nella mia dizione "spiritualismo" comprende anche, per intenderci, il cosiddetto materialismo dialettico. Provo a interpretare quest'ultima affermazione. Dal magma dei rapporti di una primordiale vita associata, il meccanismo deterministico della lotta di classe spinge a tergo. Il finalismo ispirato ad una visione escatologica della società senza classi (e dunque senza conflitti) attira in avanti calamitando fuori dal determinismo l'esito ultimo del processo. L'altra versione è quella platonica, secondo cui ciò che conta non è come stiano le cose ma come noi le pensiamo. È di nuovo un sistema chiuso, più o meno incongruente a seconda della psicologia tenuta a render conto dell'investimento che noi facciamo e che è unicamente nelle concezioni teoretiche. Voglio ribadire: non deve sfuggire a nessuno che nel formulare una teoria noi facciamo un massiccio investimento. Non risulta così una volta che l'abbiamo fatto, forse nemmeno quando lo facciamo, solo perché l'espressione ha il carattere della neutrascienze sia stagnante, le applicazioni tecnologiche delle singole discipline hanno dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, la fondatezza dei modelli teorici.
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lizzazione dell'emozione. Tuttavia, come un poeta in una poesia esprime il suo sentimento del mondo, allo stesso modo, nella teoria della gravitazione se ne esprime un altro144. La teoria è una specie di colossale congelamento dell'emozione. Potete vedere tutto sotto il profilo espressivo. Con l'emersione della teoria deve essere approfondita la distinzione tra l'empirico e il trascendentale, tra la realtà come sembra e la realtà come vogliamo concepirla noi. Finora la filosofia arcaica era al di qua del dualismo, solo con Parmenide si apre la prima crepa. State attenti a leggere Parmenide perché nei manuali si vede solo la mossa dogmatica, non si vede la contromossa scettica. Parmenide pone l'essere come essere in sé, ma subito dopo deve chiedersi, dato che come mortale è sempre legato all'opinione, "come si fa a dire con l'opinione la verità?" Il secondo movimento del pensiero non può essere distinto dal primo. Il primo, nello stabilire come è fatto il mondo attraverso un'ipotesi, è la risorsa della teoria in quanto pensiero dogmatico. Ma è chiaro che il momento dogmatico non va disgiunto dal momento scettico: il "come fai a saperlo?" Vedete la reduplicazione? C'è l'oggetto reale che per ipotesi sarà anche fatto così, ma c'è l'oggetto di conoscenza che acquista la sua autonomia nei confronti dell'oggetto reale. Fin che mi considero vincolato all'esperienza empirica, della quale ho imparato a non fidarmi, non farò mai un passo avanti. Allora faccio come se quei vincoli non esistessero e costruisco il mio mondo per mezzo di una teoria che lo esprime e la sparo fuori incurante delle obiezioni che avrebbero potuto bloccarmi in corso d'opera. A questo punto abbiamo un duplicato del reale: il primo sistema rappresenta quello del mondo che sta là fuori e che vorrei conoscere. Il secondo sistema è come me lo rappresento io. Per concepirlo a mio modo ho do144 Nelson Goodman direbbe che le teorie e le poesie sono modi diversi di fabbricare mondi. Cfr. Vedere e costruire il mondo, Il Saggiatore, Milano 1988, Indianapolis-Cambridge 1978.
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vuto prescindere dalle informazioni dei sensi e questo è il momento trascendentale. Abbiamo la teoria atomica e la teorie delle idee da un lato, dall'altro lato ci sarà l'indagine gnoseologica sui fondamenti della teoria atomica, l'indagine gnoseologica sui fondamenti della teoria delle idee. A livello metateoretico Democrito confeziona una dottrina della mente come scenografia del reale e si deve porre il problema di come la mente possa distinguere una scenografia che si avvicina al reale da una che è fonte di errore. Platone, allo stesso livello metateoretico, si deve porre il problema di come le cose siano partecipi delle idee ovvero della relazione tra il particolare e l'universale. Come il momento dogmatico non va disgiunto da quello scettico, così il livello della teoria-oggetto non va disgiunto dal livello metateoretico. Che a un primo livello teoretico ne segua uno metateoretico e poi un altro meta-metateoretico e via dicendo non è un problema, ci dice Melandri, basta distinguere due livelli per cogliere tutto quanto e chiamare il primo livello "oggetto" e il secondo "meta". Da tener presente che quando noi regrediamo dalla teoria oggetto alla metateoria, abbandoniamo il campo della certezza, seppur illusoria, per entrare nell'incertezza. Nello stabilire il dogma della teoria atomica o della teoria delle idee io ho il massimo di certezza ma è una certezza illusoria. Vedete che inversione: nel regredire dalla teoria alla metateoria io passo all'incertezza perché non condivido più la fiducia che avevo prima. Certezza illusoria della teoria, incertezza della metateoria ma sicura del metodo. La certezza della teoria deriva dalla sola coerenza interna. Il modello può essere perfetto ma risultare inapplicabile e in quanto tale illusorio. A questo punto ho bisogno di un metodo, di una via che mi conduca fuori dall'incertezza. Melandri ripropone il parallelismo con Hegel:
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tesi dogmatica, antitesi scettica e sintesi che si dà con una teoria della prassi145. Una nuova dimensione del pensiero come teoria incontra i suoi limiti. Il limite interno è dato dall'emergere dello scetticismo. In base alla teoria quindi si dà anche il problema gnoseologico, e con esso lo scetticismo. Lo scetticismo non come setta filosofica, lo scetticismo come figura generale del pensiero. Lo scetticismo si dà all'interno della scuola platonica, quella Media, come possibilità di raggiungere l'ente146. Nella maniera di Gorgia direi, non nella maniera di Pirrone, non è lo scetticismo pirroniano, è lo scetticismo accademico. La domanda circa la possibilità e il modo di conoscere l'ente conduce a porre l'oggetto del conoscere come separato dal reale. Scetticismo accademico. La teoria delle idee viene assorbita dal problema della methexis. Ciò che è problematico non sono più le idee ma la partecipazione. Ecco, qui si rende meglio comprensibile la divaricazione di cui vi parlavo. 6.3. La dissoluzione Aristotelica E di qui emerge l'originalità della soluzione aristotelica, che è l'aggiramento dell'ostacolo. C'è l'aporia, il "di qui non si passa", l'aporia scettica, e c'è l'aggiramento dell'aporia, "passiamo fuori di strada". Aristotele reagisce a questa sfida imboccando la via dell'essere. Nel poema parmenideo la dea della Giustizia pone due alternative di ricerca: "la via che è e che non è possibile che non sia" e "la via che non è e che è necessario che non sia". La prima "tiene dietro alla verità"; la seconda è "del tutto imperscrutabile"147. Il passo che Simplicio cita commentando la Fisica di Aristotele è uno dei più torturati frammenti presocratici. Alla luce di quanto sta dicendo Melandri mi pare 145
Vedi Lezione III. Vedi n. 78. 147 La traduzione è quella che compare in E. Hussey, op. cit. p. 79. 146
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che si possa intendere le due vie come quella dogmatica e quella scettica. Seguendo la via dello scetticismo e percorrendola fino in fondo si arriva all'imperscrutabile nulla ovvero a ciò che è necessario che non sia. La via che conduce invece alla verità conduce a ciò che è necessario che sia, detto altrimenti l'essere. L'espressione usata "Aristotele imbocca la via dell'essere" allude a mio avviso al fatto che per aggirare la via scettica, una via bloccata perché conduce al nulla, Aristotele non può che ripartire dalla via che conduce all'essere, una via affermativa, dogmatica. Ma questo beninteso è solo il punto di partenza perché il percorso non può che farsi innovativo, non può che passare fuori dalla strada battuta dai predecessori, altrimenti si parerebbe di nuovo al nulla. E di fatti la "fisionomia" dell'essere aristotelico sarà ben diversa da quella sia di Parmenide sia di Democrito sia di Platone. Da notare che a questo punto, se ho ragione, trova spiegazione il fatto che Aristotele inizi la Metafisica con una storia della filosofia. Viene spesso rimproverato ad Aristotele di essere l'inventore di una storia della filosofia che, come quella di Hegel, dimostra per progresso ed errore la necessità di ricorrere alla propria soluzione. Si rimprovera ad Aristotele l'abilità nel mettere in sequenza le concezioni precedenti per farle confluire sulla propria. Se quello che vi dico è vero, ad Aristotele non interessava tanto scrivere la prima lezione di storia della filosofia quanto tenere solidale a sé il pensiero precedente perché, imboccando una via nuova aveva bisogno come primo impulso di dire "quello che ho fatto io è il risultato di quello che è già stato fatto". Ha avuto bisogno di inventarsi una storia precedente. Quasi un albero genealogico di famiglia148. Perché guardate che chi inventa qualcosa di nuovo ed è consapevole di quello che fa, ci tiene talmente a questa sua scoperta da rinunciare alla paternità.
148
Ciò che sul piano filosofico è un bisogno di giustificazione sul piano psicologico è un bisogno di appartenenza e, se volgiamo, sul piano sociologico possiamo vederla, un po' proustianamente, così: Aristotele arriva da fuori Atene, approda all'Accademia e si afferma con un pensiero completamente nuovo. Nel mondo platonico è un parvenu che cerca di nobilitare le proprie origini inventandosi una genealogia.
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È un po' come dire che la radicalità di una novità nel pensiero si accompagna al timore di essere improponibile, di mettere in moto un meccanismo di esclusione che lo consegni al silenzio. Tanto più il pensiero devia dal corso della tradizione, quanto più è necessario richiamare il legame con essa mostrando che il flusso non poteva che procedere dove la nuova via aperta lo ha incanalato. La via di Aristotele consiste nell'indebolire il problema conoscitivo. A questa fase, in cui sorge la teoria dello scetticismo, bene io rispondo indebolendo l'oggetto di conoscenza in modo da tenerlo tanto basso che si confonda con l'oggetto reale. È la via della distruzione della filosofia dal suo interno. E qui Melandri ribadisce la sua interpretazione del Protrettico, ricolloca Hegel nel solco aristotelico149 e aggiunge all'elenco Croce: Croce scrive tre grandi libri teoretici per dire che poi sono banalità. Sono libri che dissolvono l'oggetto. La filosofia non ha un oggetto specifico. Come dice Wittgenstein, la filosofia è qualcosa che deve stare sopra o se volete sotto le scienze particolari, non accanto150. La filosofia non è una scienza particolare. Questa concezione è molto diffusa. Aristotele voleva che i filosofi finissero di cincischiare per darsi alla ricerca concreta. Ribadita questa visione non classica in cui Aristotele si pone come pensatore estraneo alla tradizione il discorso torna ad illustrare come i predecessori e i successori non aristotelici, nella fattispecie gli Stoici, considerano la filosofia. Dall'altra parte la filosofia è qualcosa che, anche se non si identifica con esso, ha perlomeno il suo punto di forza nel problema della conoscenza. La filosofia quindi ha un oggetto specifico che è il conoscere. Accanto all'oggetto generico, che può coincidere con quello aristotelico, ne ha uno specifico: il 149 150
Vedi Lezione III. Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, op. cit., § 4.111.
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problema della conoscenza. Doveva [lo stoicismo] radicalizzare il suo pensiero dicendo che la filosofia è, sissignori, una scienza particolare. Che poi questa scienza particolare venga usata come metateoria delle altre teorie va benissimo, però ha un oggetto specifico ed è il problema della conoscenza. È tutta lì la differenza. Ed è chiaro che Aristotele dissolvendo il problema della conoscenza si pone, non come soluzione, ma come anomalia nel solco della tradizione. Un'anomalia che ora costituisce il problema degli Stoici: "smettiamola di cincischiare" significa " facendo filosofia, non si arriva da nessuna parte". Ma vediamo più da vicino il quadro generale entro il quale Aristotele confina la conoscenza. Della conoscenza Aristotele parla in tre punti. Ne parla in De anima151, nella Metaphysica152 e nell'Organon, Analitica Posteriora II153, quando viene a parlare del sillogismo anapodittico e dice quali sono i primi principi, come si conoscono. Questa trattazione, come vedete, è occasionale e dà origine un po' a tutta la fenomenologia della conoscenza. Nei Secondi analitici Aristotele pone una alternativa alla dottrina della reminiscenza dei principi a priori. A differenza del maestro ad Aristotele il mondo fisico interessa. È tuttavia consapevole del fatto che il sapere non si possa interamente risolvere attraverso l'analisi dei sensi e della percezione: l'uomo è dotato di una capacità specifica volta a cogliere quanto non si presenta immediatamente alla porta degli organi di senso. Questa capacità è un'attività precipua dell'intelletto e i principi a priori o primi a cui si riferisce Aristotele sono quelli contenuti in proposizioni che devono essere "vere, prime, immediate, più facilmente
151
De an. III, 4-8. Met. I, 1. 153 An. post., II, 19.
152
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conoscibili, anteriori alla conclusione, e di questa devono determinare la struttura"154. Il punto in cui parla della conoscenza nel modo più diffuso è nel De anima, dove ne parla in termini psicologici155. Ne parla infine nella Metafisica dove di nuovo il discorso verte intorno alla relazione del conoscere. Tutto sommato Aristotele parla della conoscenza, questa è una spia molto forte, o in maniera passionale oppure in termini impropri, cioè come fatto psicologico. Quanto alla conoscenza dei primi principi, la gradazione presentata è la seguente156. È difficile riconoscere nello scritto aristotelico tutte le otto istanze di cui Melandri fa un elenco corredato da alcuni brevi commenti. In altri casi si limita alle quattro canoniche che sono sensazione, memoria, astrazione, intellezione. Ho cercato comunque di render conto delle quattro fasi poste tra la memoria e l'astrazione. Come considerazione generale rimane che Aristotele nel De anima tratta l'argomento in quanto materia di biologia. Il suo interesse per i processi psicofisici prende un andamento diverso, allontanandosi forzatamente dagli aspetti biologici, solo quando arriva ai capitoli sul pensiero. La fondamentale innovazione della quale si deve tener conto anche nell'analisi del capitolo 19 degli Analitici secondi consiste nel trattare non di parti dell'anima ma di funzioni. Questo spostamento ha forse un intento polemico riguardo alla tripartizione platonica ma forse è anche dovuto ai limiti che il biologo incontrava nell'indagine anatomica. Non è facile ravvisare in ogni istanza del processo conoscitivo la doppia veste di facoltà (o di funzione) e di supporto materiale quale risulta evidente nel rapporto sensazione-organo di senso. In fondo, 154 I, 1, 71 b 20. In questa citazione e nelle seguenti seguo - salvo esplicita segnalazione - le traduzioni di Düring. La mia scelta è dovuta sia all'alta stima in cui Melandri teneva il testo in questione sia alla qualità di un lessico più consono al lettore contemporaneo. 155 Scrive Düring a p. 643: "Aristotele è il primo che imposti biologicamente il problema [della psiche]; soltanto con lui la psicologia diventa una scienza indipendente. […]. Il trattato De anima è concepito come una ricerca di scienza naturale sui processi psicofisici; il pensiero non è però comprensibile biologicamente: nei capitoli da III, 4 in avanti, nei quali Aristotele discute la facoltà del pensiero, egli abbandona perciò il terreno della scienza naturale". 156 An. post. II B 19.
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salvo le funzioni collegate agli organi di senso, tutte le funzioni dell'anima individuate da Aristotele mettono capo a una fisiologia immaginaria della cui corrispettiva anatomia Aristotele non poteva dar conto157. È inoltre interessante rilevare che per parlare di quella funzione conoscitiva che solo spetta agli uomini (l'intellezione) il capitolo degli Analitici secondi procede elencando le funzioni conoscitive che spettano a tutti gli animali (la sensazione), solo ad alcuni animali (la memoria) ecc. mettendo dunque in relazione la scala dei viventi, ordinata per complessità biologica crescente, ai corrispondenti gradini del conoscere. Primo: aisthesis, sensazione Tutti gli animali hanno la sensazione. Il primo gradino della conoscenza è una capacità minima di discernimento insita nella natura di tutti gli animali158. Secondo: mneme, memoria Alcuni animali hanno la memoria altri no. La memoria trattiene le sensazioni e dà luogo agli abiti, habitus in latino. La memoria produce una persistenza, mantiene una traccia della sensazione nell'anima159. Il ripetersi della sensazione e l'accumulo delle tracce nella memoria danno origine a un habitus. Non è facile capire cosa intenda qui Melandri. Sul piano del comportamento habitus traduce il greco hexis che può significare disposizione costante ad agire in uno stesso modo160 oppure avere possesso di una qualità o facol-
157 Aristotele si chiede se le diverse facoltà, nutritiva, sensitiva, pensante e del movimento, siano anime diverse o parti di una stessa anima; e se sono parti se siano separabili e se lo siano solo con la ragione o per il luogo, De an. II, 413 b,12-15. La risposta non è in alcun modo una localizzazione della funzione, egli dice per esempio che se un insetto viene diviso ciascun segmento mantiene la sensazione e il movimento e ne deduce che l'anima è una in entelechia e multipla in potenza. Per quanto riguarda la facoltà del pensiero dice invece che la cosa non è chiara. E di fatti proverà a chiarirla nei capitoli 4-8 aprendo in tal modo un dibattito che non è mai stato chiuso, vedi oltre. 158 Ibid. 99 b, 34-36. 159 Ibid. 99 b, 36 e sgg. 160 Et. nic. II 5, 1105 b; vedi anche infra.
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tà161. Se ci spostiamo sul piano del processo psico-fisico possiamo pensare che significhi "facoltà di comparare e raggruppare le singole tracce colte dalla memoria". Terzo: habitus. Se non ci fosse l'abito non potremmo trattenere le sensazioni nella memoria. A questo punto si pone la connessione delle sensazioni e del logos. La prima affermazione sembra rafforzare l'interdipendenza di memoria e habitus. Come a dire che la funzione della memoria sarebbe sterile in assenza della funzione di associazione delle singole tracce. Di qui si intravede in prospettiva la funzione del logos prima di menzionare la quale Melandri ribadisce il principio generale che governa anche questo processo: Tutto il sistema aristotelico è costruito intorno a questo presupposto di continuità: continuità di potenza-atto, continuità di materia-forma.162 Quarto: Logos. Melandri non fa nessun commento in merito. Il termine usato da Aristotele è logismos che Düring traduce con "sapere razionale"163 e Colli con "nesso discorsivo"164. A distinguere la psyche del genere animale da quella della specie uomo, sembra dirci Aristotele in questo passo, è il logismos: "Se una persistenza [della traccia nell'anima] di 161
Cat. 4 e 15. Per dirla con Düring "La materia è una condizione necessaria ed è capace di diventare il contrario; una causa efficiente dà l'avvio allo sviluppo, il quale a sua volta conduce alla realizzazione del telos. Questo schema concettuale biologico viene qui applicato a entrambe i tipi di attività del pensiero. In ogni scala gerarchica ogni gradino è hyle per il successivo, fino a raggiungere il punto finale. Nell'uomo vivo dunque il nous patheticos è in un certo modo hyle del nous apathes". Se ogni gradino della scala è materia per il successivo anche l'immagine può dirsi materia. Rimane a mio avviso chiaro che il riferimento estensionale del presupposto anatomico è corporeo nel senso della sostanza intesa come unione di materia e forma. Ciò è quanto dire che esiste sempre un organo corrispondente alla funzione ma non sempre ha un nome che da essa lo distingue. 163 Düring, p. 127, il passo aristotelico è in An. post. 100 a. 164 Ibid. 162
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tal genere ha luogo più volte, si ha una differenza tra quelli [animali] in cui da ciò si origina un sapere razionale, e quelli in cui esso non si forma". In accordo con quanto abbiamo anticipato nella Lezione III sulla funzione teoretica del linguaggio credo che qui si debba intendere logos come facoltà di produrre una semantica nominale. Non si tratta di una funzione che produce un generico "sapere razionale" e tantomeno di un "nesso discorsivo" che in quanto tale connota piuttosto una semantica proposizionale. Questo quarto stadio, vorrei azzardare, corrisponde alla facoltà di denominare collezioni di tracce singole di memoria. Quinto: Empeiria, esperienza, conoscenza empirica. Per tentativi ed errore noi confezioniamo il collegamento col logos. A questo punto, se la mia ipotesi è corretta, abbiamo collegato la memoria al linguaggio compiendo il primo passo verso la sua piena funzione teoretica. Questo collegamento è avvenuto grazie a una serie di esperienze. Sappiamo che la sensazione è diretta a qualcosa di singolo "per esempio all'uomo Callia"165. Sappiamo anche che la sensazione è sempre vera ma che nel giudicare di che cosa è sensazione ci si può sbagliare. Dunque è solo per prova ed errore che arriviamo a riconoscere in esperienze successive la stessa occorrenza che riconosco come Calia. Ed è in virtù della forma di quella sostanza particolare che ora riconosco che posso usare il nome "Callia". In Callia tuttavia c'è anche la forma dell'universale: "quando qualcuna delle percezioni del senso si arresta nell'anima, si forma in questa il primo inizio di un rappresentazione universale"166. L'universale è già in potenza nel particolare ma il processo è all'inizio e deve continuare167. 165
An. Post. II, 100 b 1. Occorre qui fare chiarezza sulla terminologia. Laddove Melandri, in contesto aristotelico, parla di "sensazione" Düring parla di "percezione" e in questo caso traduce "percezione del senso". Come abbiamo visto, nel contesto della teoria della percezione Melandri riserva il termine "rappresentazione" agli Stoici in contrapposizione a "sensazione" che riserva ad Aristotele. Düring usa invece "rappresentazione" dove Aristotele parla di phantasma, termine sovente tradotto con "immagine". Melandri in questa descrizione del processo conoscitivo fa corrispondere, a mio parere, le fasi 2-5 alla formazione del phantasma. Il passo citato è in 100 a 15 e sgg. 167 Ciò che conta ritenere credo sia che l'universale "filtra" poco alla volta dalla sensazione al nous. Questo è l'argomento di Aristotele contro la teoria delle idee e l'anamnesi come proces166
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Sesto: epagogé, induzione. Induzione dell'universale. All'assenza di commenti posso rimediare con una citazione dalla Linea: In Aristotele la psyche svolge una funzione insostituibile per quanto riguarda la conoscenza: essa astrae la specie dall'individuale e quindi svolge quel ruolo che noi oggi assegniamo all'induzione.168
IL sesto stadio si attua nel passaggio dall'individuo Callia alla specie "uomo". Melandri concorda dunque con Düring e non con Ross dove afferma che l'oggetto della percezione del senso (per Melandri "sensazione" ) non è infima species bensì singolare169. Sembra più che plausibile che Aristotele cogliesse la differenza tra l'appartenenza di un singolo elemento a una classe e l'inclusione di una classe in un'altra classe. L'epagoge individua i tratti comuni di singole occorrenze e li ricomprende in una collezione. In questo senso l'induzione è solo il primo passo di un processo di selezione di predicati che conduce all'universale. Ciò significa che nel processo di formazione della specie alcuni predicati del singolo si "perdono" nel senso che predicati quali camuso o calvo, pertinenti ai singoli, non sono rilevanti nella determinazione della specie. Settimo: aphairesis, Astrazione Estrazione dell'universale: eliminiamo l'inessenziale Aristotele dice "dapprima si vede, per es., che questo è un animale di tale o tal natura, fino a che si afferra il concetto generale di animale"170. Operata l'induzione dall'individuo alla specie è il momento del passaggio dalla specie al genere. "In ugual modo, continua Aristotele, si procede poi per generi più elevati"171. so conoscitivo. L'universale è il risultato di un processo che ha inizio nella sensazione. La materia del dato sensibile contiene in potenza la forma, ovvero l'idea, l'eidos platonico, che prima dell'inizio del processo non sta da nessuna parte. 168 LC § 51. Va tuttavia specificato che in Aristotele l'induzione non è funzione del numero di esperienze come si desume da An. post. 90 a 25. 169 Düring p. 127, n. 391. 170 An. post. II, 100 b 2 e sgg. 171 Ibid.
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Ottavo: noesis, intuizione o intellezione L'atto del nous che intuisce l'universale. Lungo il processo che dall'individuo conduce attraverso l'induzione alla specie e attraverso l'astrazione all'universale si è operata la sussunzione del reale nell'essenza. L'organo di senso, dice Aristotele, è fatto per accogliere le forme sensibili senza la materia come la cera riceve l'impronta del sigillo senza il bronzo172. Si potrebbe dire che la noesis è fatta per estrarre l'impronta dalla cera. La noesis consente di pensare il concavo del naso camuso senza la carne del naso; pensare alla cosa che è incorporata nella materia come se non lo fosse173; il triangolo di bronzo e di legno senza il bronzo e il legno; la quantità degli oggetti matematici senza la materia di cui è quantità. Dunque partendo dalla sensazione si è giunti a cogliere l'uno dei molti, il concetto medio, l'universale o la 'causa' intesa come struttura senza "postulare l'esistenza di idee oppure di un uno oltre (separato da) i molti. È invece necessario che si possa asserire con verità un uno di molti, ossia c'è bisogno di un universale il cui senso è stabilito e che possa servire come concetto medio".174 E i principi primi, archai? Aristotele inizia col dirci che "non si può sapere mediante la dimostrazione se non si sono conosciuti i principi primi", e che l'intuizione si origina dalla percezione. Ripete che "dobbiamo conoscere i principi primi mediante l'induzione" e che "nessuna forma di sapere è più esatta della conoscenza intuitiva (dei principi primi)"175. Egli affida allo stesso processo descritto nel capitolo 19 e nel De anima la conoscenza sia degli universali che dei principi primi. E tuttavia non tutti gli universali sono principi primi. "Che cosa sono esattamente, si chiede Ross, quelle 'prime cose' conosciute mediante la ragione intuitiva?"176 Sono gli assiomi, le leggi della logica, o quelle "hypotheseis che appartengono alle scienze speciali e affermano l'esistenza degli oggetti semplici di queste scien-
172
424 a 18. 431 b 10. 174 An. post. 77 a 5. 175 An. post. 19, 100 b 176 William D. Ross, Aristotele, Feltrinelli, Milano 1976, ed. or. Londra 1923, p. 60. 173
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ze"177? Quando Aristotele dice che i principi sono le "premesse cui nessuna è anteriore"178 sembra pensare agli assiomi. Lo stesso si può dire dell'inizio del capitolo decimo, libro primo, degli Analitici secondi: "Principi in genere chiamo poi gli oggetti quali non è possibile dimostrare che sono"179. Poi però continua: "Ad esempio, che cosa significhi l'unità, o che cosa significhino le nozioni di retto e di triangolo noi l'assumiamo"180. E qui sembra pensare agli "oggetti primari della scienza"181. Ad ogni buon conto in entrambi i casi la conoscenza è affidata al processo conoscitivo aisthesis-noesis. La legge di non contraddizione, benché non sia detto esplicitamente, si evince dalla proposizione "questa cosa non può avere colori differenti nella medesima parte di se stessa", proposizione che ha il carattere del protocollo di osservazione182. Ricapitolazione: Tutti gli animali hanno la sensazione però ci sono animali inferiori e animali superiori, chi ha la memoria e chi non ha la memoria, chi ha la possibilità dell'esperienza e chi no. L'intuizione è solo nell'uomo dove anche la sensazione animale è intelligenza. L'intuizione intellettuale esiste a partire dalla sensazione che è già indirettamente permeata dal nous. La noesis, attiva la potenzialità dell'anima in modo che alla fine del processo si giunga all'universale astratto. In ogni stadio del processo di estrazione dell'universale l'intelletto è attivo nel depurare la forma dal suo substrato materiale. La memoria della sensazione è già conoscenza.
177
During p. 115. An. post. 72 a 3. 179 La traduzione è di Colli. 180 An. post. 76 a 30. 181 W. Ross, ibid. 182 Diciamolo con le parole di Matteuzzi: "Attraverso il nous, la regolarità, che è fatto naturale, si fa regola, cioè logos"., cfr. Maurizio Matteuzzi L'occhio della mosca e il ponte di Brooklyn – Quali regole per gli oggetti di second'ordine? in AA.VV. La regola linguistica, Novecento, Palermo 2000. 178
142 Capitolo I sugli Stoici 142 Enzo Melandri
"Ciascuno conosce secondo come è": l'oggetto della conoscenza collassa sull'oggetto reale. Guardate che sono curiosi questi schemi. Questo è il lavoro che ha dovuto compiere Aristotele per superare la teoria scettica, per dire cioè che la conoscenza non è un problema perché esiste già nell'animale a livello della sensazione e che ogni essere ha quella che gli compete secondo la sua natura. Potremmo anche dire che non c'è la teoria della conoscenza? No, questa è una determinata teoria della conoscenza anche se Aristotele fa di tutto per non farla sembrare tale. Quando Aristotele dice "Sappiamo qualcosa nel senso più pieno quando sappiamo non soltanto che la cosa è così, ma anche che non può essere in altro modo"183 sta rispondendo alla domanda "quando si può dire che sappiamo qualcosa?" Non è una domanda diversa da quella che si era dovuto porre Parmenide. Che questa domanda non venga mai formulata esplicitamente è una ben precisa strategia. La mossa aristotelica tanto è valida quanto è ipocrita. Deve essere fatta senza dirlo. Tanto più è valida quanto più passa al di sotto della soglia del giudizio. Quindi "ipocrita", il termine nella sua accezione vera no? Sotto il giudizio, sotto la soglia del giudizio. Dall'altro punto di vista, quello non aristotelico, anche questa transizione continua tra l'oggetto del conoscere e l'oggetto reale è una particolare forma di oggetto di conoscenza separata dal reale. Secondo questo punto di vista che io chiamo la via non classica, quella stoica, forse le cose si capiscono meglio. Forse si capiscono meglio anche i problemi dell'epistemologia moderna. Quindi ne faccio una impresa concettuale di chiarificazione, non una questione di partigianeria.
183
An. post. 71 b 9.
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Della conoscenza, nel De anima, Aristotele discute a lungo e, vi dicevo, ne discute psicologicamente. Perché dico che l'obiettivo è fallito se io discuto della conoscenza in termini psicologici? Perché un conto è discutere della conoscenza come fatto psichico, un conto è discutere della teoria della conoscenza che non è affatto un problema di ordine psicologico. Guardate che è solo da un punto di vista aristotelico che noi siamo psicologisti, cioè confondiamo l'oggetto del sapere con il modo della sua produzione in termini fisiologico-psicologici. Non dovrebbe essere difficile capire quello che vi dico. Infatti è del tutto evidente che la logica non ha niente a che vedere col pensiero in quanto produzione di pensiero ma ha a che vedere con quell'attività del pensiero in cui si stabilisce quali sono le regole a cui dobbiamo attenerci. Dal punto di vista psicologico è impossibile distinguere il pensiero giusto dal pensiero sbagliato. Quando noi pronunciamo una norma, questa norma deve essere introdotta a partire da concetti logici, non psicologici. Fate l'esempio di una macchina calcolatrice. La macchina calcolatrice funziona attraverso leggi elettroniche, leggi del reale; però queste leggi del reale devono essere inquadrate in modo da fornire delle risposte giuste non secondo l'elettricità ma secondo la matematica. Una calcolatrice funziona mediante le leggi elettriche ma ha per criteri le leggi matematicologiche. Sarebbe facile fare un calcolatore se non dovessimo stabilire la normativa logica al di sotto di quella fisica, basterebbe mettere assieme a casaccio dei fili elettrici che passano la corrente no? È questo il punto. Tutta la difficoltà nella costruzione dei calcolatori è nell'utilizzare le forze della natura in modo tale che obbediscano a quello che noi vogliamo che ci dicano. Certo la psicologia non è irrilevante per correggere i nostri errori, capite, è irrilevante rispetto alla teoria della conoscenza, mi spiego bene? Chiaro che a me interessa molto conoscere la psicologia, la fisiologia dell'apprendimento, e quant'altro. Se non portasse via molto tempo studierei giorno e notte queste
144 Capitolo I sugli Stoici 144 Enzo Melandri
cose. Perché? Perché conoscere com'è il funzionamento reale della mente vuol dire controllare le teorie più efficacemente. Quello che dico è che è irrilevante per la teoria della conoscenza. Invece Aristotele vi dice nell'Etica Nicomachea184 che le virtù si dividono in etiche e dianoetiche. Le virtù etiche sono la temperanza, il coraggio, la liberalità ecc. Le virtù dianoetiche stanno più in alto di quelle etiche perché la dianoia e la riflessione sono le virtù che derivano dall'intelletto, dal fatto che nell'anima umana agisce il nous. Fra queste virtù sono la giustizia e anche l'episteme, la scienza. Quindi la stessa conoscenza è una virtù dell'anima. L'espressione è un po' strana per noi, traducete "virtù" con "abito finalizzato allo scopo". "Facoltà dell'anima" dovreste dire, la scienza è una facoltà dell'anima, la conoscenza è una facoltà dell'anima. Aristotele viene a parlarci poi della scienza, quindi della forma oggettivata della conoscenza, come di qualcosa che esiste nella nostra psiche. Tenete presente che i termini antichi psyche e pneuma sono ambedue materiali: psyche è psiche ovvero anima; pneuma è spirito: sono entrambe materiali. Per quanto concerne il pneuma, Aristotele non ne parla nei testi presi qui in esame bensì nel De motu185 e in De generazione animalium186. Nel primo caso il pneuma è l'organo mediante il quale la volontà muove il corpo verso il fine; nel secondo caso il pneuma "è identico al calore vitale innato, il principio attivo dinamico-cinetico che si trova nell'embrione e nel seme". In altre parole il termine non è usato univocamente ma in ambedue i casi designa un corpo e una funzione. Per gli Stoici il discorso è centrale, appartiene alla fisica ed è assai complesso. Basti qui ricordare che esso compenetra tutto l'universo e che è responsabile dell'essere individuale di tutte le cose terrene187. Per quanto riguarda la psyche diciamo prima che nell'antica Stoa rappresenta un tema in qualche modo sussidiario a quello del pneuma. Von Arnim ha raccolto numerosi frammenti riguardo alla corporeità dell'anima, tutti pertinenti alla fisica. Anche qui il contesto è quello di 184
Et. nic. 1103 a, 1139 b 15. De motu, 703 a. 186 Cfr. Düring pp. 620-21. 187 Pohlenz p. 140 e sgg, 161-162, 167 e sgg. 185
Titolo del Capitolo Lezione IVI 145 145
una scala degli animali dove solo quelli dotati di percezione sensibile, che dalla rappresentazione arriva alla coscienza, ne posseggono una. Essa si forma sin dalla nascita: il pneuma temperato dall'aria fredda si indurisce e diventa appunto un'anima che inizia una vita propria188. Aristotele, nel primo capitolo del De anima, passa al vaglio le opinioni sull'anima di Democrito, dei Pitagorici, di Anassagora, Platone, Empedocle Eraclito Diogene e "altri" (in questo ordine). Democrito dice essere l'anima costituita di atomi, i Pitagorici di corpuscoli, Empedocle di tutti gli elementi; riguardo a Platone dice che "nel Timeo costruisce l'anima di elementi"189; Anassagora è messo a confronto con Democrito sulla questione della distinzione tra anima e intelletto ma nulla vien detto esplicitamente riguardo alla corporeità o meno. Dice poi che alcuni sono dell'opinione "che l'anima sia fuoco, perché è questo tra gli elementi il più sottile e il più incorporeo"190. E ancora, "per Diogene come per alcuni altri191 l'anima è aria giacché l'aria è la cosa più sottile". Aristotele riassume una prima volta quanto fin qui esaminato: "Tutti, dunque, per così dire, definiscono l'anima mediante tre caratteri: movimento, sensazione, incorporeità ciascuno dei quali è poi ricondotto ai primi principi"192. Atomi, corpuscoli, elementi, qualcosa di "più incorporeo" di "più sottile": come mai Aristotele attribuisce a tutti gli autori citati senza distinzione il giudizio di incorporeità? Poco oltre ripeterà il riassunto ma in modo leggermente diverso: " Tre sono i modi tramandatici per definire l'anima: gli uni la ritengono il motore per eccellenza, perché muove se stessa, gli altri il corpo più sottile e incorporeo di tutti […] resta da dimostrare con quale diritto si dica che essa risulti di elementi"193. Forse questa seconda dichiarazione deve indurci ad intendere la distinzione corporeo/incorporeo come una opposizione non categorica (delle due l'una) bensì di subcontrarietà (massimo di corporei-
188
Ibid. De an. 404 b 15, (cito qui e di seguito la traduzione Russo-Laurenti). 190 De an. 405 a 5; il riferimento è a Eraclito. 191 De an. 405 a 22; secondo DK, 64 a 20, il riferimento è ad Anassimene, Anassagora ed Archeolao. 192 De an. 405 b 10. 193 De an. 409 b 20; in questo passo Aristotele non menziona esplicita, mente la sensazione. 189
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tà/minimo di corporeità). L'anima è un corpo ma può essere tanto sottile da dirsi, per approssimazione, incorporea194. Aristotele sottolinea poi che Anassagora è il primo a distinguere chiaramente psyche e nous e, come abbiamo visto nel processo conoscitivo descritto, il nous è il supporto dell'ultima funzione, quella intellettiva. Si tratta di un supporto "anomalo", diverso da quello delle altre facoltà, un supporto che non ha corrispettivo anatomico e ciò Aristotele lo deduce dal fatto che mentre l'organo di senso viene fisicamente colpito dal sensibile e può rimanerne deformato o distrutto (come avviene con un suono troppo forte) il nous non subisce l'impatto del suo oggetto, ovvero l'intelligibile, e non ne rimane fisicamente deformato. In quanto aphathes il nous non può essere in nessun modo compromesso col corpo.195 E questo è quanto si deve ritenere in questo contesto riguardo alla non corporeità del nous196. Ma si capisce bene che la mia interpretazione di corporeo-incorporeo come concetti in opposizione di subcontrarietà è incompatibile con questa nozione di nous, perché nelle subcontrarie i limiti sono esclusi. Quindi nella fattispecie il 100% di materia e il 100% di forma sono concetti al limite. E invece sembra proprio che quella parte della psyche che Aristotele chiama nous sia qualcosa di incorporeo mentre l'altra parte della psyche, ossia il supporto del processo psicofisico che conduce la sensazione alle soglie del nous, sembra a tutti gli effetti qualcosa di corporeo. Il che ci pone di fronte al complicato (e annoso) problema di concepire o un aggregato di corporeità e incorporeità, o il nous come separato dalla psyche. Il nous è immateriale ed è anche immortale ma in questo senso particolare del termine: siccome non è un corpo non si vede perché debba morire. Esiste come funzione, è una sostanza che si individua come funzione.
194
Giancarlo Movia in L'anima, Bompiani, Milano 2001, n. 70, p. 258, scrive riferendosi al termine "incorporeità" (asomato): "come mera finezza o sottigliezza". 195 De an. 429 b. 196 Aristotele, in coda al passaggio dove dice che le passioni, il pensare e il conoscere si spengono quando qualche altra cosa interna si interrompe, cfr. 408 b 20 e sgg, aggiunge che forse il nous è qualcosa di più divino. Si tratta a mio avviso di un'osservazione occasionale e in ogni caso non pertinente al merito del discorso che come si è detto consiste in un'indagine naturale sui processi psicofisici.
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Anche qui occorre un chiarimento. Nella terza lezione Melandri aveva asserito "dove per Aristotele c'è il nous, per gli Stoici c'è il logos" definendo la distinzione così: Il logos è una funzione mentre il nous è una sostanza. Il nous esiste, il logos non esiste come cosa: "è il doppio di" esiste? No, è una funzione. Una prima precisazione riguarda il termine "funzione". La nozione di funzione che occorre in quest'ultimo periodo è chiaramente quella logico-matematica. Mentre quella che precede appartiene all'area semantica di "funzionamento", "facoltà" e relative manifestazioni. Credo che abbia ragione Matteuzzi suggerendo che forse Melandri nell'affermazione della terza lezione pensasse al Cassirer di Sostanza e funzione197 dove enuncia la distinzione tra thing-concept e relationconcept. Il nous esiste come cosa. "Cosa" connota la priorità logica e metafisica della sostanza sulle altre categorie senza denotare un corpo. Molto di più non saprei dire.
197
Ernst Cassirer, Substance and Function, op. cit., p. 5-6.
Lezione VII
7.1. Pregiudizi storici Questa settima lezione si tiene prima delle vacanze di Natale e ne chiude il primo ciclo dedicato ai filosofi arcaici e classici. Melandri inizia presentando alcune riflessioni critiche sulla storia della filosofia antica. Prosegue lungo la contrapposizione menzionata all'inizio della precedente lezione tra etica aristotelica ed etica stoica. Vorrei iniziare indicando le differenze tra l’etica classica e quella ellenistica. Accennavo ieri al fatto che l’opposizione tra i due gruppi di logiche è molto profonda, risale anche a prima di Aristotele, e comprende varie coppie di opposizioni fra cui quella fra l’etica di Aristotele, che è un’etica politica, e l’etica degli Stoici, che vien detta etica individualistica. Qui ci sono molti pregiudizi da lasciar evaporare. Si dice che la filosofia ellenistica è caratterizzata dal fatto che il problema morale è il problema principale mentre quello gnoseologico e il problema dell’essere non trovano posto. Credo di avervi detto che questa non è la mia opinione. Vien detto che in tutta l’etica ellenistica il problema morale è concepito in maniera individualistica e non politica. Anche questi sono pregiudizi da lasciar perdere. Intanto rappresentano una proiezione degli studiosi tedeschi del secolo sorso. È un po' come questa ammirazione per l’Atene di Pericle, democratica, e il disprezzo del periodo successivo dedito 149
149
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alla tirannide. Si dovrebbe subito pensare che è sospetto da parte di devoti sudditi del Keiser. A parte il fatto che l’Atene di Pericle non era democratica, perché Pericle esercitava una sorta di dittatura permanente, prima di dire che ciò che si autodefinisce democratico va bene e ciò che si autodefinisce tirannide va male, bisogna innanzi tutto fare lo sforzo di vedere le cose dietro alle parole. È un po' un pregiudizio dei nostri studi che il dibattito politico si segue fino a Platone e poi lo si abbandona perché dopo non c’è più democrazia ma ritorna nel mondo antico la tirannide; e pensare che in Platone c’è l’elogio della monarchia come forma di governo perfetto. Monarchia capite? Governo di uno solo! A chi non va bene la monarchia la chiama tirannide, ma non è che cambi molto. L’assoggettamento della Grecia porta la Grecia alla perdita della libertà. Cos’erano le libertà di cui godevano le polis greche? Andate a vedere, erano le libertà che avevano di farsi guerra ogni cinque o sei anni le une con le altre. Poi arriva Alessandro e toglie la libertà ai Greci! Sì, toglie la libertà di farsi guerra. È un po' come la storia dell’Europa: l’Europa ha perso la libertà, la libertà è stata conquistata dall’America e dalla Russia; era la libertà delle nazioni sovrane europee di fare una guerra mondiale ogni tanto. Non è che ci sia tanto da piangere. L’etica aristotelica è un’etica che dice come è il mondo antico. È un'etica in cui conta lo spirito di casta; quindi dire che quella è un’etica politica, e suggerire che sia democratica mentre invece è un’etica aristocratica, è un po' ingannarsi da soli. L’etica stoica è individualistica perché è ormai tramontato il mondo dell’aristocrazia e ciò che conta è sentire di essere cittadini di questo mondo politico; la politica perde di importanza perché non si fa più, è il periodo dei grandi imperi. Questo non va visto come decadenza. Magari arrivasse il giorno in cui un unico stato mondiale che abbracciasse tutta la terra ci impedisse di far politica perché non ci sono più problemi da risolvere. È come la storia del termine "borghese". Il termine "borghese" vien preso pari pari dalla letteratura dell’Ottocento in
Titolo del Capitolo I 151 Lezione VII 151
cui suonava come termine di disprezzo senza pensare che nel secolo scorso il termine veniva usato con disprezzo da parte delle classi privilegiate verso chi non aveva un'ascendenza nobile. E poi che cos’è questo disprezzo per l’individualismo? La cultura di sinistra usa questo termine senza pensare che è un giudizio che è stato emesso nell’Ottocento da professori tedeschi che si sentivano parte dell’aristocrazia. Ed era il punto di vista di chi, sentendosi parte dell’aristocrazia, disprezzava l’individualismo come un fatto borghese. Si sente dire "borghese individualista" con senso di disprezzo, starei attento a questo travaso di idee da una nobiltà fasulla a un altrettanto fasullo sentimento del volontariato. Questo lungo brano che ho cercato di riportare il più fedelmente possibile non ha bisogno di commenti. A titolo compendiario vorrei solo dire che nonostante l'andamento quasi lirico del discorso il tono di Melandri non fu affatto declamatorio ma pacato come sempre. L'etica stoica è un’etica al servizio della conoscenza perché la teoria della conoscenza concepita come una istanza separata dal reale in tanto può riportarsi alla realtà fuori dalla mente in quanto questo rapporto sia un rapporto pratico. L’unico modo di superare la teoria scettica è attraverso la pratica, è una teoria della praxis. Infatti in teoria lo scetticismo è insuperabile. Quindi l’etica viene ad essere una pratica analogica della gnoseologia. Siccome io conosco il mondo attraverso i fantasmi della mia mente i quali non riproducono la realtà, l’unico modo che ho per orientarmi nel mondo è mantenere l’ordine tra i fantasmi della mia mente. Per mantenere quest’ordine è necessario uno sforzo di carattere etico. Devo essere coerente con me medesimo perché altrimenti non mi raccapezzo più. C’è un rapporto con la realtà ma non è un rapporto di rispecchiamento, è un rapporto di corrispondenza. Cosa si intende con "etica come pratica analogica della gnoseologia"? Dire che cos'è La linea e il circolo è sempre riduttivo. Volendo
152 Capitolo I sugli Stoici 152 Enzo Melandri
essere selvaggiamente riduttivi si può dire che è uno studio sull'analogia intesa come l'altro modo, quello non logico, di indagare e argomentare. Ora, se lo scetticismo non è superabile in termini logici rimane l'altra possibilità, quella dell'analogia. Io intendo che la pratica analogica consiste nell'istituire una corrispondenza tra i fantasmi della mente e il reale. Melandri traduce letteralmente phantasma per evocare meglio della parola "immagine" l'autonomia della rappresentazione. Di questo si parlerà in esteso in seguito sia in questa lezione che altrove. Vorrei insistere su un punto. C’è una contraddizione nascosta nei manuali dove prima dicono che la filosofia ellenistica ha perso il problema dell’essere, ha perso il problema gnoseologico, si rivolge all’etica; e in secondo luogo dicono che ci si rivolge all’etica quando lo sfondo politico non ha più importanza e in quest’epoca si è persa di vista la politica. Essendo state le polis fagocitate nell'espansione alessandrina e stabilmente inglobate nei successivi imperi, la tesi storica sostiene che, venuta a mancare l'autonomia politica delle città, ne decade il relativo interesse speculativo sorto con Platone e Aristotele. Ma perché la mancata autonomia politica dovrebbe essere ragione di minor interesse per la teoria politica? Non potrebbe e forse dovrebbe essere il contrario? E poi perché mai la mancata autonomia politica dovrebbe essere una ragione per il decadere del problema ontologico e gnoseologico? Etica e politica per gli antichi sono termini correlativi essendo l’etica la politica dell’anima con sé stessa, la politica l’etica della collettività. Che ci si rivolga alla politica dell'anima in mancanza di interesse per la politica della collettività può essere plausibile. Ma allora come la mettiamo con la questione delle virtù? Le virtù non sono date anteriormente alla nascita, non sono ereditarie, sono date dall’educazione, dalla paideia, si apprendono attraverso l’esercizio. Qui c’è una contraddizione.
Titolo del Capitolo I 153 Lezione VII 153
La paideia è una forma di educazione "civile" nel senso proprio del termine, ossia della città, della polis intesa come territorio, popolazione e organizzazione sociale dotata di strutture politiche autonome. Com'è possibile asserire che la fine della polis conduce l'interesse filosofico sull'etica individuale, l'etica della condotta ovvero l'etica delle virtù se le virtù sono un prodotto della paideia? Che Melandri dissenta sostanzialmente dal pensiero "manualistico" è chiaro sin dal titolo del corso e in questa lezione affonda il coltello in molte piaghe.
7.2. Etica e politica In realtà la politica di epoca ellenistica è una politica ecumenica, prima sotto Alessandro Magno poi sotto i romani. L’ecumene è il mondo civile, governato da un’unica potenza. La politica delle singole città rimane quindi confinata al momento amministrativo. Le città non hanno più il diritto di muoversi guerra le une con le altre. I mezzi usati da Alessandro e dai romani furono mezzi terribili. Ci fu, per esempio, la distruzione di Tebe da parte di Alessandro per pacificare la Grecia. Ci fu da parte dei romani la distruzione di Corinto: 150.000 morti in pochi giorni. Esempi terribili in cui veniva imposta la pax romana. Ma non è che la politica decada con questo. Spero che non consista, la libertà politica, nel diritto di farsi guerra continuamente. Rimane la parte amministrativa. Si può deliberare su questioni già prestabilite. E poi tenete presente che il mondo antico non ha l’idea di progresso, anche perché non c’era nessun progresso, era un mondo chiuso, finito. Direte "è una cosa triste". Sì, una po' triste, ma non più triste della situazione in cui ci troviamo oggi, non ce ne accorgiamo ma probabilmente il progresso è finito da circa cinquant’anni. Se ci pensate, in tremila anni di storia umana il pe-
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riodo di progresso dura circa trecento anni. Bisogna abituarsi a essere senza pregiudizi nel vedere queste cose198. Gli stoici sono i primi a sviluppare un’etica dove l’uomo è cittadino del mondo, senza differenza di nazione o di razza; mi sembra una posizione abbastanza importante anche se è astratta e individualistica. L’individualismo prima [dell'età contemporanea] non era così spiccato ma non dovete vedere un regresso nel fatto che adesso ci sia l’individualismo e prima non ci fosse. Perché nel mondo antico la mancanza di individualismo è dovuta a strutture più arcaiche di carattere sociale. È la mancanza di individualismo che caratterizza la nobiltà, dove il sentimento di casta è più importante che non il sentimento individuale. L’individualismo è in un certo senso una invenzione borghese. Corrisponde alla sostituzione, fin dove si può, del diritto penale della legge del taglione, col diritto civile o contratto. Il senso del contratto è tipicamente borghese ed è individualistico perché uno deve impegnarsi personalmente a sostenere ciò che ha promesso. In genere, se è considerato questo un progresso, non vedo perché si debba fare un’eccezione per l’epoca ellenistica. Un elemento in più può anche essere costituito dalla provenienza semitica, come secondo Pohlenz, della maggior parte degli Stoici perché nel mondo semitico l’evoluzione dal diritto penale al diritto civile è avvenuto prima. Se leggete la bibbia, il Genesi, trovate il patto di Israele con Dio. Questo popolo nomade che ancora non ha città, matura una cultura da mercanti e stabilisce il rapporto con Dio sulla base di un patto. Dio dice: tu mi sei fedele e ti do un tanto; detto così fa un po' ridere ma in realtà è un passo verso la civiltà199. Anche con Dio non siamo soggetti come ad un tiranno, si stabilisce un patto: io ti 198
Vedi Lezione III. Secondo http://www.laparola.net/ricerca.php sono 20 i passi in cui si menziona un patto. Forse quello al quale pensa Melandri è in Genesi 15:18 "In quel giorno il Signore fece un patto con Abramo, dicendo: "Io do alla tua discendenza questo paese, dal fiume d'Egitto al gran fiume, il fiume Eufrate". 199
Titolo del Capitolo I 155 Lezione VII 155
do tanto tu mi dai tanto, guai a chi trasgredisce il patto. È stata la base del diritto civile. È importante sapere che la storia di Israele, che poi è anche la nostra storia cristiana, nasce con un patto. Non c'è Dio che si vendica dell’uomo, Dio non è il padre, è il partner di un contratto. La fede non è una credenza, è la fedeltà al patto. Che la fede non sia la credenza penso che sia pacifico. Se non lo è, è perché il cristianesimo primitivo, dovendo fare propaganda delle proprie idee, ha fatto un compromesso storico, che è rimasto, dando un contenuto alla fede, cioè creando la dogmatica che è un prestito dal pensiero greco. E vengono fuori tutte quelle favole che sapete, neanche coerenti fra loro. È il risultato dello sforzo di dover spiegare l'etica attraverso un linguaggio scientifico, qualcosa che non è né scientifico né etico: la credenza. Per esempio la nozione di anima individuale si collega a quella di individualità del corpo e della relativa risurrezione da cui: Guai se uno si taglia un dito, se uno si taglia un dito è meglio che se lo tenga e se lo porti nella tomba altrimenti quando risorge, risorge senza il dito. È la ragione per cui era proibita l’anatomia. E così via, queste sono credenze. La fede significa fedeltà, fedeltà a cosa? Al patto tra uomo e Dio, Dio è ciò che tiene insieme la comunità. Trascende l’uomo? Sì lo trascende, ma trascende l’uomo come fondamento del patto, non c’è bisogno di vedere in maniera superstiziosa le cose. C’è un solo Dio perché dire che gli dèi sono più di uno sarebbe come autorizzare ogni polis a essere separata dalle altre. In sé non c’è nessuna ragione perché debba esistere un Dio piuttosto che quattordici, dal punto di vista politico invece esiste una precisa ragione. Ed è il periodo in cui si definiscono gli attributi del Dio che sono anche gli attributi dell’imperatore, prima di Alessandro
156 Capitolo I sugli Stoici 156 Enzo Melandri
Magno, poi dell’imperatore romano non in quanto persona fisica ma in quanto rappresentante dell’ordine degli dèi. Quando è caduto l’impero romano i cristiani hanno approfittato dell’incidente per dare a Dio gli attributi che si davano all’imperatore, sono tutti attributi che trovate nelle litanie200. Ne sono menzionati tre. L'attributo di omnipotentia, che Melandri traduce dal greco pantocrator, era presumibilmente predicato di Alessandro o dei monarchi post alessandrini. Il termine è rimasto nelle rappresentazioni bizantine sia del Padre che del Figlio col significato di "sovrano di tutte le cose". Omniscientia, questo è curioso: Perché l'imperatore è onnisciente? Perché tutti gli vanno a riferire tutte le chiacchiere, sa tutto perché ascolta tutti Pontifex era la massima carica della gerarchia religiosa romana e venne assunta stabilmente dall'imperatore a cominciare da Augusto. Diventa la massima carica della gerarchia cristiana. Non sono riuscito a trovare il riscontro nelle litanie. Secondo Melandri ha il significato di sede della sapienza. Perché è la sede della sapienza? Perché è lui che emette gli ordini, è lui che stabilisce quello che è giusto e quello che non è giusto. Peraltro, aggiungo io, due dei predicati sostanziali dell'Impero erano l'unicità e la perennità, predicati che si ritrovano sia attribuiti a Dio che al suo Regno. Ma qui stiamo andando un po' lontano. Vi dicevo, anche a proposito dell’etica state attenti perché c’è un lungo lavoro di ricostruzione da fare prima di raccapezzarsi in queste concezioni per noi estranee. 200
Cfr. Hobbes, Leviatano, cap 47: "Il papato altro non è che lo spettro del defunto Impero Romano, seduto in trono sulla sua tomba".
Titolo del Capitolo I 157 Lezione VII 157
Così come gli antichi prediligono il fato e considerano la libertà come qualcosa di marginale e di inferiore, allo stesso modo nel periodo ellenistico la perdita della libertà viene vista in genere come un progresso. L’etica viene intesa come la condotta nella vita e riguarda tanto l’individuo quanto la comunità a cui l’individuo appartiene. Queste comunità d’ora in poi non hanno più un carattere mistico, hanno un carattere di società. Dovete aver presente la differenza che sussiste tra la comunità intesa come comunità primitiva o tribù e la comunità intesa come società. Nel secondo caso abbiamo un contratto sussistente tra individui ciascuno dei quali è cosciente di appartenere alla comunità per ragioni che sono sue ragioni e che non hanno nulla di mistico. Distinzione che è stata proposta con molta lucidità da Lévy Bruhl e da Durkheim laddove distinguono tra società meccanica e società organica, essendo meccanica la società tribale primitiva in cui l’uomo appartiene al gruppo involontariamente e società organica quella moderna in cui l’appartenenza a un gruppo è ancorata da un contratto201. State attenti al termine perché uno può pensare che la società meccanica sia quella capitalistica, società organica quella primitiva: no, nel significato tecnico società meccanica è quella primitiva in cui c’è un forte senso della comunità. Società organica è quella fondata su un contratto, un contratto sociale, vero? Presuppone l’individuo? Sì, lo presuppone e lo fonda. Siamo rousseauniani noi liberali. Chiaro che lo fonda perché bisogna che gli uomini attraverso il patto sociale riconoscano il diritto dell’individuo; diritto del cittadino, dell’uomo e del cittadino. L’uomo è presupposto dal contratto, il cittadino è ciò che risulta dove c'è il contratto. 201
Emile Durkheim (1958-1957) in La divisione del lavoro sociale, Comunità, Milano 1962, ed or. Parigi 1893, distingue il carattere della solidarietà meccanica fondata sulla coscienza collettiva nelle società primitive dalla solidarietà organica fondata sulla specializzazione dei singoli delle società moderne. La coesione sociale nel primo caso deriva dalla paura della sanzione, nel secondo dagli obblighi contrattuali. Lucien Levy-Brhul (1857-1939), insieme a Marcel Mauss (1872-1950), faceva parte di un gruppo compatto di collaboratori di Durkheim. Buona parte dei suoi studi riguardano le società primitive.
158 Capitolo I sugli Stoici 158 Enzo Melandri
Queste acquisizioni sono dell’epoca ellenistica come pure le prime leggi scritte, i primi regolamenti202. Qui entra in gioco il gene giuridico dei romani per perfezionare questo andamento. Qui non si tratta del gene della razza romana, si tratta semplicemente della capacità che ha una politica imperialistica di stabilire esplicitamente delle norme; direi che la mentalità giuridica dei romani è un prodotto dell’espansione imperialistica di Roma. Ecumenismo e imperialismo fanno tutt’uno è vero? Non facciamo caso alle parole.
7.3. Descrizione e spiegazione Dicevamo che nell’etica bisogna affrontare i problemi senza pregiudizi. Noi ci occuperemo dell’etica solo in quanto afferisce alla logica, alla teoria della conoscenza. Ora dovrei dire qualcosa intorno alla differenza tra sensazione e percezione. Qui di seguito il concetto di sensazione, collegato alla conoscenza come secondo Aristotele, viene posto in relazione al concetto di descrizione e spiegazione. Normalmente, anche nei trattati moderni di epistemologia, voi trovate il contrasto di descrizione e spiegazione: un conto è descrivere qualcosa, un conto è spiegarla. Vediamo prima il contrasto fra descrizione e rappresentazione. La descrizione fa perno sulla sensazione: io descrivo facendo corrispondere ad ogni proprietà rilevabile dalla mente un nome. Posso fare l’esempio della fotografia o del disegno descrittivo. Naturalmente nella descrizione, anche nella più perfetta, c’è sempre qualche elemento di arbitrarietà sia nel prescindere da certi particolari sia nel fatto che nel descrive in genere si compie una stilizzazione, una semplificazione nella descrizione ri202 S'intenda le leggi dei prodromi di un diritto civile; le prime leggi scritte risalgono all'inizio del VI secolo ma hanno carattere prevalentemente costituzionale.
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spetto a ciò che viene descritto, come pure c’è una scelta a priori in qualche modo delle categorie che voglio usare nella descrizioni. Ad ogni modo il fondamento della descrizione è l’esperienza sensibile, è la sensazione. Anzi, non diciamo "esperienza", lasciamo "sensazione" perché il termine esperienza è ambiguo, vuol dire avere fatto un’esperienza, fare esperienza o avere un’esperienza che può collegarsi a un momento dinamico. Diciamo "sensazione". Non mi sembra così difficile il concetto di descrizione. Pensate alla classificazione delle piante di Linneo: è una descrizione del cosiddetto regno vegetale condotta attraverso proprietà e differenze tra ciascuna delle specie. È un sistema tassonomico-descrittivo. Si dice tassonomico perché oltre alla descrizione c’è un criterio d’ordine della descrizione che vi permette, se sapete leggere la tassonomia, di provare a classificare le piante. Dico delle piante e non degli animali perché tutte le proprietà della classificazione delle piante sono proprietà visibili; la classificazione degli animali è più complicata, bisogna tener conto di considerazioni anatomiche, talvolta visibili solo al microscopio, e in più bisogna tener conto anche della fisiologia. Anche questa è una classificazione ma un tantino più complessa. Tutto questo Aristotele lo avrebbe capito benissimo, avrebbe capito benissimo la classificazione delle piante fatta da Linneo. L’avrebbe capita perché tutta la scienza aristotelica ha un fondamento descrittivo. Pensate alla teoria del sillogismo: i greci sono uomini, gli uomini sono mortali, i greci sono mortali; a che cosa serve? Serve a produrre una tassonomia delle proprietà sensibili. Il sillogismo è organo della scienza in quanto la scienza venga intesa fondata come descrittivamente. Attraverso il sillogismo voi capite quali categorie descrittive sono più generali e quali meno; quali sono i termini generici e quali sono i termini specifici. Proprio come nella classificazione tassonomica delle piante, dove ogni proprietà è una proprietà visibile. Possiamo aggiungere che Aristotele avrebbe capito anche la classificazione degli animali? Sì signore, Aristotele porta
160 Capitolo I sugli Stoici 160 Enzo Melandri
l’esempio: tutti gli animali dotati di bile sono longevi. Questa è una proprietà che richiede la vivisezione degli animali. Aristotele avrebbe capito benissimo anche la classificazione degli animali. Andando avanti possiamo chiederci: avrebbe Aristotele capito la teoria di Darwin?203 Io rispondo di sì perché la scienza aristotelica non si ferma alla descrizione ma va avanti con una sorta di esplicazione che comprende, non solo la sussunzione del reale sotto delle essenze, cioè l’intuizione intellettuale dell’universale nel particolare, ma anche la concezione della potenza e dell’atto che autorizza altresì a comprendere il divenire. La teoria dell’evoluzione di Darwin avrebbe non poco scandalizzato Aristotele data la sua convinzione dell’eternità delle specie, come non poco scandalo provocò nel XIX secolo. Tuttavia Aristotele, che non era un credente, penso che si sarebbe adattato subito all’idea che le specie immutabili non erano quelle che lui aveva visto bensì immutabile era questo disegno dell’evoluzione. Dunque vedete qui che dal momento descrittivo si passa a quello esplicativo in due maniere. Primo attraverso l’astrazione si mette in luce l’intuizione che l’intelletto ha dell’universale nel particolare. Questo procedimento astrattivo conduce, a partire dalla descrizione, all’essenzialismo. L’essenzialismo è prodotto sì dell’astrazione ma acquista valore esplicativo in quanto causa formale204. Come mai i pesci non dormono? I pesci non 203
L'argomento ritorna in 14.2. La dottrina dei quattro aitia (cause) consiste di quattro fattori che spiegano il cambiamento di un evento naturale, cfr. Düring p. 274. Il termine "causa" è applicato a quattro casi detti causa materiale, causa formale, causa efficiente, causa finale. Causa formale, cfr. Fisica, II, 3, 194 a 25, Met. 1013 a 25, corrisponde all'uso del termine aiton applicato "alla forma o modello, cioè alla formula di quel che deve essere la cosa in questione" (traduzione di Ross, op. cit.). L'esempio di causa formale è tratto dalla musica: il rapporto 2: 1 è la formula dell'ottava, cfr. Düring p. 275. Qualsiasi corda tesa, se pizzicata, produce una vibrazione che in quanto udibile diciamo "suono". Se dimezziamo la lunghezza della corda otteniamo un suono più acuto. Pizzicando le due corde in successione si dice che suoniamo un intervallo di ottava. L'intervallo tra due do successivi "suona come" l'intervallo tra due re successivi, e così via. Una volta nota la forma e definita nella formula 2:1 dell'intervallo di ottava, ogni volta che l'applichiamo otteniamo "lo stesso" fenomeno acustico. Il processo astrattivo determina la formula (o definizione) che a sua volta diventa spiegazione in quanto fa rientrare l'ottava particolare nel quadro di tutte le ottave (lo stesso vale per la trasposizione della "stessa" melodia
204
Titolo del Capitolo I 161 Lezione VII 161
dormono perché non devono pensare a niente (non so perché non dormono, dico così a casaccio); perché non pensano a niente? Perché in questa zona della scala zoologica non c’è il fenomeno del sonno. Questa spiegazione non è una vera spiegazione, è la sussunzione del particolare sotto il generale; il quale generale acquista valore esplicativo perché voi rispondete alla domanda del "perché" attraverso un ricorso al "quanto": lo spiegate perché ci sono tanti altri casi simili che rientrano in questa casella e questa casella presenta un certo ordine rispetto a un'altra casella. È chiaro che non si spiega niente in questo modo. Tuttavia viene accontentato il nostro bisogno di situare l’oggetto nel quadro. Quindi la spiegazione di carattere essenzialistico procede in due momenti: [primo] l’astrazione che è astrazione negativa e positiva, astrarre come estrarre l’universale dal particolare e astrarre come prescindere dalle peculiarità non essenziali; [secondo:] astrazione e intuizione dell’essenza, formulazione dell’essenza attraverso la definizione, uso di questa essenza come valore esplicativo, come causa formale. È chiaro cosa intendo come causa formale in questo caso? La causa formale non è una causa, è ciò che sorregge quel tipo di spiegazioni che operano mediante l’inserimento in un quadro; rientra in qualcosa che già conosciamo, assimilazione del meno noto al più noto. Quindi descrizione e spiegazione nel senso essenzialistico. Inoltre rientra in questo caso anche la spiegazione di tipo storico o evoluzionistico. Infatti anche la spiegazione di tipo storico non spiega nulla se ci pensate bene, perché non fa altro che riportare il caso particolare a un caso più generale che è la tendenza dei tempi o la controtendenza. Come vedete è il su scale diverse). Sul problema della trasposizione della "stessa" melodia studiato da Ehrenfels, cfr. E. Melandri, Le richerche logiche di Husserl, op. cit., p. 31 e sgg. Lo "stesso" intervallo suonato su scale diverse ha la stessa "forma" ma è composto da toni differenti; siccome ad ogni tono corrisponde sul piano fisico una sola lunghezza d'onda, risulta che noi riconosciamo come identiche due forme composte da basi materiali diverse. Vedi anche 8.6. e n. 568.
162 Capitolo I sugli Stoici 162 Enzo Melandri
tipo di spiegazione per caselle dislocata nel tempo. Come si spiega che fallisse l’ultima crociata? L’ultima crociata è fallita perché ormai i tempi per fare le crociate erano tramontati. Queste spiegazioni, e anche quelle che sembrano costruttive, in fondo si riconducono a questo giudizio, che una cosa non si fa più quando i tempi non permettono di farla. È una spiegazione di tipo essenzialistico: prima formulate la generalizzazione attraverso l’astrazione, poi inserite l'oggetto nella sua casella.
7.4. Rappresentazione e rispecchiamento Da qui in avanti Melandri riprende in esame la teoria della conoscenza stoica e la relativa dottrina della percezione il cui concetto centrale è la katalepsis. Cosa si intenda con katalepsis viene spiegato ricorrendo alla nozione di rappresentazione intesa come da Cartesio e in generale nella scienza moderna. Generalmente al termine catalessi (che compare normalmente nelle traduzioni di katalepsis) viene preferito "rappresentazione". Tuttavia, nel seguito del corso, Melandri userà ancora "catalessi". Ora dobbiamo parlare della percezione intesa come creazione dell’oggetto nel momento in cui lo percepite. Si tratta di una rappresentazione della realtà che non pretende si avere con il reale alcunché in comune. Il termine rappresentazione, in tedesco Vorstellung, deriva da Descartes e dalla geometria analitica cartesiana. Lo uso perché non si può usare il termine italiano catalessi per la katalepsis205. Si applica agli Stoici? No, questo no, però rammenta molto la catalessi stoica che ha certe proprietà essenziali. Io intendo qui che non si possa dire semplicemente "la katalepsis corrisponde alla nozione di rappresentazione della geometria analiti205
ca.
Il termine italiano, di pertinenza della medicina, nulla ha a che vedere con la nozione stoi-
Titolo del Capitolo I 163 Lezione VII 163
ca". Tuttavia quel processo di attualizzazione di cui si è detto nella lezione III è qui in atto. Si tratta di non dimenticare che il paradigma cartesiano ha funzione ermeneutica. Per un'esegesi fondata ci vuole, aristotelicamente, una buona miscela di coraggio e prudenza. Il coraggio serve a non fermarsi alla facciata offerta dal panorama storico e ad addentrarci, per così dire, nel palazzo per cercare di cogliere gli spazi nei loro rapporti funzionali206. Si tratta di "capire le cose dal di dentro" cosa sulla quale Melandri insisteva. La prudenza è l'onestà di verificare, in ogni modo possibile, la validità della trasposizione dal più noto al meno noto. Adesso vi dico in breve come si deve pensare una rappresentazione. Rappresentazione è un concetto eminentemente matematico: noi possiamo rappresentare geometricamente dei fatti fisici e inoltre possiamo rappresentare algebricamente dei fatti geometrici. Dal punto di vista aristotelico come definiamo l’aria? L’aria è una sostanza impalpabile, è calda – umida, è incolore, trasparente, è suscettibile di formare dei venti, è un elemento respirabile, l’aria può esistere nel ricordo, ecc. Vediamo dal punto di vista della scienza moderna, dal punto di vista cartesiano: chimicamente l’aria è un gas. Fisicamente che cos’è un gas? È tutto ciò che è compressibile. Come definiamo questa compressibilità? Mediante la legge di BoyleMariotte.207 Vuol dire che il volume e la pressione di un gas sono inversamente proporzionali. Tutte le volte che noi troviamo qualcosa che obbedisce alla legge di Boyle-Mariotte, che cioè presenta un volume inversamente proporzionale alla pressione interna, questo è un gas. Geometricamente lo possiamo rappresentare negli assi cartesiani mediante un’iperbole: a volume 1 corrisponde pressione 1, se la pressione aumenta, a pressione 2, il volume diventa ½, se diminuisco la pressione devo aumentare il volume. Così si costruisce la rappresentazione geo-
206
La metafora è di Melandri. Robert Boyle, 1627-1691, chimico e fisico irlandese; Edme Mariotte, fisico francese, 1620-1684.
207
164 Capitolo I sugli Stoici 164 Enzo Melandri
metrica della proprietà del gas detta compressibilità quale espressa dalla legge di Boyle-Mariotte. Come vedete questa curva non somiglia affatto a un gas, non somiglia a niente, è una rappresentazione perché non ha nulla in comune con ciò che è rappresentato. "Nulla in comune" significa nulla in comune nell'aspetto esteriore, nessuna somiglianza che si possa cogliere attraverso la sensazione e più precipuamente la vista. La corrispondenza viene asserita punto per punto per i valori rilevati onde costruire questa curva. Poi Cartesio va oltre e dà una rappresentazione algebrica: ponendo che il volume è in funzione della pressione, la funzione inversa V=1/P, si dà l’equazione dell’iperbole. Vedete com’è la catalessi? L’oggetto lo costruisco io con la mente e verifico se vi è una corrispondenza col reale. In realtà per rappresentare un gas non mi basta la legge di BoyleMariotte, devo tener conto della legge di Gay-Lussac la quale si esprime con una funzione lineare: in condizioni di pressione costante il volume di un gas aumenta linearmente con la temperatura208. Non basta, alle alte pressioni, prescindendo dal fatto che i gas si liquefanno, la legge non è più esatta perché interviene la comprimibilità delle molecole; alle bassissime pressioni di nuovo la legge non è più esatta perché le poche molecole rimaste formano degli ammassi modulari, non sono uniformemente distribuite nello spazio. Quindi vedete come la regolarità di questa legge sia un’approssimazione un po' inesatta che posso correggere e rendere esatta attraverso successive teorizzazioni. Comunque è chiaro che quel gas, quell’aria che noi percepiamo, non ha nulla in comune con queste formule perché non
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Prima legge di Gay-Lussac, chimico e fisico francese, 1778-1850.
Titolo del Capitolo I 165 Lezione VII 165
si tratta di una descrizione di ciò che è ma di una rappresentazione. La rappresentazione di un fatto fisico non è basata sulla rassomiglianza, non c’è nessuna fotografia o rispecchiamento della realtà. Quella figura che chiamo iperbole è chiara nella mia mente perché la costruisco e mi dice che la curva detta iperbole rappresenta una funzione inversa. Il momento esplicativo qui non c’è, è solo rappresentazione; il momento esplicativo interviene quando io, tenendo presente le proprietà del gas, voglio collegarle con altre proprietà di altre cose; allora devo considerare ciò che già so come se fosse un dato di fatto da presentarsi in altra maniera. Il momento esplicativo interviene quando le proprietà della caduta dei corpi, le proprietà balistiche di una palla di cannone, o di un razzo, vengono sussunte sotto un’unica legge di gravitazione universale; questa assume valore esplicativo perché la stessa forma basta per spiegare tutti questi fatti. In fondo vedete, anche qui non spieghiamo niente, troviamo la formula più generale in cui far rientrare i casi particolari. È una critica radicale del significato dello "spiegare". O spieghiamo nel senso della sussunzione e allora "non spieghiamo niente", o costruiamo una rappresentazione che non ha in sé valore esplicativo. C’è un passo successivo da fare ed è di capire che cos’è la pragmatica. È una canonica, è un canone, un sistema di regole per organizzare le vite, va bene? Mi trovo a mio agio? Sì signore, le ho fatte io! Questo periodo (il cui contesto è ancora quello del rapporto tra teoria e pratica e dove il momento della pratica ha valore di verifica e corrisponde, nel quadro della teoria della conoscenza stoica, all'etica) sembra un'interruzione della presentazione del concetto di rappresentazione. Ma non è così. A mio avviso Melandri sta dicendo che la nozione di "spiegazione" può essere pensata in funzione del concetto di rappresentazione solo come "pragmatica": un canone, un sistema di
166 Capitolo I sugli Stoici 166 Enzo Melandri
regole che configura una attività pratica. Attività di input e output i cui esiti vanno valutati sul piano della coerenza logica. La corrispondenza col mondo viene fatta punto per punto attraverso la misura. Attenzione che non c’è nulla di osservabile se non c’è la misura, la teoria delle misure209 e cosi via. Vedete che il rapporto col reale non è un rapporto di rispecchiamento a meno che con rispecchiamento voi intendiate questo, allora facciamo dei giochi di parole: con rispecchiamento intendo la riproduzione fotografica della realtà, cioè la descrizione. [La rappresentazione risulta da un output e un input:] L’output quale è? È l’esperienza, l’esperimento, l’esperienza come esperimento non l’esperienza come fare esperienza: io pongo delle domande e registro delle risposte. È ciò che corrisponderebbe all’etica, io mi comporto in un certo modo poi registro cosa mi succede, sempre nel campo dell’intelletto, non ne esco mai se non nel senso dell’attività pratica. In Cartesio la verifica è data dalla pratica. Il contesto di verificazione in Cartesio è quello che io chiamo pragmatico. Certo non è il pragmatismo di William James, d’accordo, però è pragmatico nel senso che è la nostra azione, la registrazione della risposta nella nostra mente il fondamento della verificazione, non la verosimiglianza. Credo si debba intendere che la verifica avviene a livello logico di coerenza tra input, e non a livello della presunta relazione interno esterno o mente - mondo, per mezzo di un criterio ancorato alla sensibilità e prioritariamente alla vista. Il termine "rappresentazione" è talmente geniale, talmente fuori dal quadro aristotelico, che può sfuggire. In questa affermazione ritorna la convinzione secondo la quale il nostro modo di ragionare è inconsapevolmente aristotelico e talmente radicato da renderlo "invisibile" a noi stessi. In questo caso il criterio 209
Per la teoria della misura cfr. Lebesgue in Carl Boyer op. cit.
Titolo del Capitolo I 167 Lezione VII 167
di verosimiglianza che sorregge il rapporto pensiero - mondo è invisibile in quanto criterio perché prendiamo ciò che ci è più famigliare come del tutto naturale, e in quanto naturale risulta esente da verifiche e confronti. Ad esempio, per quanto riguarda Spinoza, se cerco di dire che cosa significhi "idem" in una famosa frase "Ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum"210 sto cercando di dire che nella rappresentazione "idem" vuol dire corrispondenza punto per punto di valori. Attenzione: "idem" è una parola ambigua, perché "idem" in un contesto aristotelico significa somiglianza [di struttura]; "idem" in un contesto rappresentazionale non significa questo, significa che c’è corrispondenza, o meglio, che c’è stata, perché io non so poi se i gas sono così come vi ho detto, fino all’altro ieri credo di sì, ieri non mi sono occupato di gas, oggi potrebbe essere cambiato; se cambia ci vuole un’altra definizione che inglobi il cambiamento. Rappresentazione, in tedesco Vorstellung, in inglese Idea. Attenzione però: quale idea? In inglese ci sono almeno due diverse accezioni di "idea". Nel senso di Locke è "idea" come unità minima di sensazione che distingue poi in primarie, secondarie terziarie211. No, direi che corrisponde a "idea" nel senso dell’idealismo soggettivo di Berkeley, forse il più geniale dei filosofi inglesi. Sono più attratto da Berkeley che è il più rappresentazionalista di tutti: il mondo è una specie di sogno sognato da Dio, una cosa di questo genere, un’allucinazione permanente. L'unità minima di sensazione, ovvero l'idea semplice di Locke, è una copia dell'oggetto. Come vada inteso il rapporto di somiglianza è detto con una analogia che non lascia dubbi: "These simple ideas, when offered to the mind, the understanding can no more refuse to 210
Spinoza, Ethica, Bollati Boringhieri, Torino 1992, II, pr. VII: "L'ordine e la connessione delle idee sono identici all'ordine e alla connessione delle cose". 211 John Locke, Saggio sull'intelletto umano, II, cap. VIII, § 8 e sgg.
168 Capitolo I sugli Stoici 168 Enzo Melandri
have, nor alter when they are imprinted, not blot them out and make new ones itself, than a mirror can refuse, alter, or obliterate the images or ideas, which the objects set before it do therein produce".212 In Berkeley invece non si danno idee semplici che sono immagini specchiate di oggetti del mondo esterno. Nella sua critica della percezione la rappresentazione – in questo senso è usato il termine da Melandri – è sempre un oggetto complesso del quale la mente fornisce le correlazioni spaziali altrimenti inattingibili dai sensi. Ed è solo dall'analisi della rappresentazione che si può ricavare l'oggetto del mondo esterno. Ma questa operazione è di nuovo tutta interna alla mente. In ciò consiste il carattere allucinatorio della conoscenza nell'idealismo soggettivo di Berkeley213. Che cos’è l’oggettività dell’esperienza? È il risultato dell’oggettivazione che procede per rappresentazioni. Vedete come in questa teoria l’oggettività ha un carattere allucinatorio. Ciò che distingue le allucinazioni oggettive della scienza dalle allucinazioni propriamente dette è semplicemente il carattere ripetitivo e regolare delle prime. Perché si dia regolarità occorre che il mondo ce la confermi attraverso una serie di domande e di risposte. Ma vedete qual è il presupposto primo: occorre la regolarità nel nostro agire, è questo il fondamento etico dal punto di vista conoscitivo. Infatti passiamo un po' dall’altra parte del fosso. L’Etica nicomachea è un libro che se non avete letto vi consiglio di leggere, è forse il più bel libro di Aristotele o perlomeno uno dei pochi che sicuramente ha scritto lui per intero214. Aristotele considera l’etica così come io potrei considerare la pittura. Come comincia l’Etica? "Tutti gli uomini per natura tendono al bene", come se io dicessi "tutti i cani quando vanno fuori 212
Ibid. II, I, § 25, per testo inglese cfr. Oxford University Press 1924-1978. Cfr. Ernst Cassirer, Storia della filosofia moderna Einaudi, Torino1978, ed. or. Berlino 1906, Libro II, Tomo II, Cap. II, pag 327: " Il contenuto della coscienza non si esaurisce per lui [Berkeley] nei dati particolari dell'impressione sensibile della rappresentazione, ma sorge soltanto attraverso la loro reciproca connessione: la coscienza non è affatto per sua natura un sostrato statico e chiuso, bensì un processo rinnovantesi continuamente". 214 Düring p. 45: le altre opere "curate" da Aristotele sono i Topici e probabilmente la Politica, vedi 8.4. 213
Titolo del Capitolo I 169 Lezione VII 169
s’accorpano agli alberi", toh guarda un po' che razza di fissazione! Allora che cos’è il bene? Il bene viene definito attraverso l’analisi comportamentistica ovvero l’analisi delle virtù. Che cosa sono le virtù? Sono delle buone abitudini, i vizi sono le cattive abitudini, c'è chi frequenta le buone compagnie, chi le cattive: è tutto descrittivo. Interviene anche la normativa ma è una normativa blanda. Molto bello sotto questo aspetto. Sì, così come parlando del linguaggio si potrebbe dire: "tutti gli uomini quando sono adulti cominciano a parlare" e definire il linguaggio dicendo "c’è chi parla il greco, i disgraziati non parlano il greco, parlano il persiano, l’arabo" così no? È tutto descrittivo. Il termine massimo per Aristotele è il sapere, tutto viene subordinato al sapere e vedete la differenza che c’è tra il sapere e il conoscere. Uno degli organi del sapere è la logica, un altro è la retorica, un altro le buone maniere [ecc.]. Per gli Stoici vien prima la logica, un capitolo della logica è la teoria della conoscenza, e quindi anche il linguaggio è uno strumento della logica215. Noi oggi metteremmo ancora, come Aristotele, prima la conoscenza o il sapere e come strumento di questo la logica; però non metteremmo mai il linguaggio prima della logica. Qualcuno che è un po' eccentrico lo fa, ma noi metteremmo prima la logica, poi il linguaggio216. Gli Stoici mettono il problema della logica prima e in subordine a questo quello della conoscenza. E come mai? A questo punto Melandri avverte l'uditorio che quello che sta dicendo non è proprio "scritto così". Egli riconsidera la diversa impostazione dell'ordine di fondazione degli studi tra Aristotele e gli Stoici. Impostazione che risulta in ambo i casi dal rapporto conoscenza-reale sul quale va a fondarsi il concetto di teoria. In questi passi credo che si debba tener conto di quanto segue: da una parte "concetto", "imposta215
Vedi Lezione VI. Colgo il suggerimento di M. Matteuzzi secondo il quale Melandri si riferisce in modo ironico ai cosiddetti analisti del linguaggio della corrente oxoniense della filosofia analitica quali Ayer, Montefiore, il primo Searle e per l'Italia forse U. Eco.
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170 Capitolo I sugli Stoici 170 Enzo Melandri
zione", "teoria" sono termini che si accompagnano al predicato "aristotelico"; dall'altra si accompagnano al predicato "rappresentazionale" e non invece "stoico". Siamo stati avvertiti che la nozione di rappresentazione che si ricava dalla Geometria217 va proiettata sulla concezione della katalepsis e intesa nella sua funzione di strumento esegetico. Tuttavia va rilevato anche che l'uso di "rappresentazione" non è strettamente cartesiano, come si può evincere dal passo su Locke e Berkeley e come si vedrà in molti altri passi dove il termine in questione è usato nel senso della Gestalt Psychologie. Dunque l'avvertimento secondo me ha ancora carattere metodologico e riguarda la nozione di attualizzazione e le implicazione verso una non classical view. L’ordine degli studi, l’ordine di fondazione, prevede che ci sia prima la logica poi l’etica e poi la fisica218. Con fisica dobbiamo intendere la conoscenza del mondo reale, al di là della mente, è un concetto residuo; questo non lo dicono gli antichi ma lo dobbiamo tenere presente noi. In questa impostazione conoscitiva rappresentazionale il reale diventa residuale, se mai c’è. Che cos’è il reale? È il fondamento della rappresentazione. Certamente non è come ce lo rappresentiamo, questo lo sappiamo, però non ce ne importa niente dal momento che confidiamo di ritrovarlo dove l’abbiamo lasciato, in un punto della nostra rappresentazione. È l’argomento di Cartesio: se i nostri sogni fossero coerenti non potremmo distinguerli dalla realtà. Come vedete la differenza è la coerenza, e la differenza è di ordine logico. Il concetto di teoria è radicalmente diverso secondo che lo pensiate aristotelicamente o lo pensiate rappresentazionalisticamente. Dal punto di vista aristotelico la teoria è contemplare con l’occhio della mente. L’occhio della mente non è diverso dall’occhio della visione. C’è l’intuizione intellettuale per Ari-
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Il trattatello La Geometrie era stato concepito originariamente da Cartesio come appendice al Discours de la méthode, pubblicato anonimo nel 1637 ma fu sovente espunto dalle pubblicazioni successive. Cfr. C. Boyer, op. cit. p. 387. 218 Vedi Lezione I.
Titolo del Capitolo I 171 Lezione VII 171
stotele? C’è ma è indiretta perché dalla sensazione si passa all’intelletto attraverso le fasi che abbiamo visto219. "Teoria" nel senso rappresentazionalistico è diverso: il fatto è ipotesi che deve confermarsi in teoria; la teoria è costitutivamente non la realtà; l’universo del discorso della teoria non fa parte della teoria; l’universo del discorso della teoria è il sistema dei rimandi che serve come oggetto della teoria. Prima di tornare alla distinzione tra teorie rapresentazionalistiche e teorie transazionalistiche della conoscenza Melandri apre una parentesi su una prospettiva alla quale aveva già accennato e che ho cercato di sviluppare. Nell’impianto teoretico vi suggerivo di interpretare la formuletta di Marx: teoria-pratica-teoria; dove la pratica è la sperimentazione; il termine pratica indica la fuoriuscita dalla mente attraverso un atto, non attraverso un oggetto mentale; e ritorna alla teoria se la teoria è confermata. Questo è dal punto di vista teoretico mentre dal punto di vista complessivo, si dà uno sdoppiamento curioso che avremo modo di constatare più volte: la filosofia è il soggetto specifico della conoscenza la quale consiste nell’insieme delle teorie che noi usiamo per confrontarci con la realtà; però la filosofia non si identifica totalmente col soggetto specifico, perché appartiene di nuovo alla filosofia la teoria della praxis, la teoria complessiva. Dal punto di vista [più generale], ciò che Althusser chiama la teoria col T maiuscolo, la formula sarebbe invertita: PTP, è la pratica che si viene qualificando attraverso la teoria, cioè la praxis. È di nuovo mettere assieme tutto ma è generalissimo. Abbiamo dunque una prima formula che afferisce all'impianto teoretico: 1) T-P-T1 219
Vedi Lezione VI.
172 Capitolo I sugli Stoici 172 Enzo Melandri
dove T1 = teoria confermata una seconda formula più generale che qualifica la praxis 2) P-T-P1 P1 = praxis o pratica qualificata dalla teoria possiamo infine riformulare la 2) come già suggerito nella Lezione III in senso diacronico: 3) P - (T-Pi-T1) - P1 - (T1-Pii-T2) - P2 …Px - (Tx-Py-Ty) Pz Questa terza formula è una mia elaborazione e vorrebbe significare l'avvalersi da parte di una praxis di impianti teoretici (T-P-T) elaborati in successione come ad esempio la teoria astronomica di Newton e quella di Einstein; o parallelamente come avviene nei campi interdisciplinari (la biochimica ma anche la confluenza di molecolarismo e atomismo di cui sotto). La riqualificazione di P1 nei termini più generali di P2 rispecchierebbe sia l'evoluzione selettiva delle teorie scientifiche sia l'integrazione di teorie pertinenti a campi disciplinari differenti in pratiche di ricerca interdisciplinare. Sinteticamente si può esprimere: 4) P-TPT-P A me sembra che dicano qualcosa queste formulette; non dobbiamo dimenticarci che la più generale è la seconda. Vedete com’è il problema, è come la questione posta da Wittgenstein in termini aristotelici: la filosofia è qualcosa che deve stare sopra o sotto le altre scienze, non accanto. È la formula aristotelica o anche hegeliana. Melandri torna a muovere la sua obiezione alla tradizione aristotelica secondo la quale la filosofia non avrebbe, come invece hanno le scienze, un oggetto specifico.
Titolo del Capitolo I 173 Lezione VII 173
Io mi permetto di fare un’obiezione che muove da un altro punto di vista [quello della "tradizione" stoica]: la filosofia può avere un oggetto specifico che la pone più in alto della conoscenza e della teoria della conoscenza. Tuttavia è vero anche l’altro [punto di vista]. Io direi, è qualcosa che sta sopra, sta sotto e sta accanto alle altre scienze, dappertutto, molto in generale. Sorge una contraddizione nell'affermazione che la filosofia stia e non stia accanto alle altre scienze. Bisognerà distinguere: quando parlo di filosofia nel senso specifico mi muovo in questo momento della teoria fra virgolette, direbbe Althusser, in cui c'è teoria-pratica-teoria. Secondo la mia interpretazione il "momento della teoria" è quello interno alla formula più generale P-TPT-P e corrisponde alla filosofia (F) intesa come attività del pensiero che ha quale oggetto specifico la teoria della conoscenza. "Momento" potrebbe di nuovo rinviare alla Terza Ricerca, e dunque andrebbe a significare "parte" (TPT) di un "oggetto composto" (P-TPT-P) dove TPT va riletto come F, da cui: 5) PFP In generale invece bisogna invertire la formula: praticateoria-pratica. In questo modo togliamo ogni contraddizione. Nella mia interpretazione non si tratta di "invertire" ma di usare la formula più generale 4) Ciò significa che una pratica, per esempio di ricerca, si confronta con una filosofia che ha come oggetto specifico la teoria della conoscenza e da qui ritorna ad una prassi rinnovata e informata. In altri termini le pratiche scientifiche hanno un loro momento di confronto con l'epistemologia. In questo confronto la filosofia si pone accanto, ossia sullo stesso piano, delle altre scienze. Riassumendo:
174 Capitolo I sugli Stoici 174 Enzo Melandri
a) la filosofia in quanto ha come oggetto la teoria della conoscenza si pone sopra la teoria; b) la filosofia che si pone come termine di confronto epistemologico con una disciplina scientifica si trova a fianco della scienza. c) la filosofia si trova al di sotto della scienza, se così si può dire, quando il materiale di riflessione filosofica funge da humus per lo sviluppo di una disciplina scientifica220. In questo senso si può dire che le neuroscienze sono fertilizzate dalla filosofia della mente. Si ritorna ora alla contrapposizione tra teorie della conoscenza ponendole in una prospettiva storica. È rilevante che le due tendenze, nonostante i momenti in cui tendono a confluire, si mantengano distinte221. Esempi interessanti che danno molto da pensare sono quei momenti in cui le due tendenze della storia tendono a confluire. Penso alla condizione della logica antica, superata da Boezio, in cui l’eredità aristotelica e stoica vengono a confluire insieme222; ma penso a un’altra cosa interessante, che è la nascita della chimica moderna in cui confluiscono due tradizioni, il molecolarismo e l’atomismo, che hanno diversa nascita e ispirazione filosofica. 220
Cfr. Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino1995, ed or. Oxford 1953, § 126: "Filosofia" potrebbe anche chiamarsi tutto ciò che è possibile prima di ogni nuova scoperta o invenzione. 221 Vedi Lezione III. 222 Severino Boezio (470-524 d. C.) è il più importante pensatore della tarda antichità latina per quanto attiene alla trasmissione soprattutto del pensiero logico. Traduce in latino e commenta le Categoriae e il De interpretatione e probabilmente sono sue anche le traduzioni degli Analytica priora, dei Topica, e del De sophisticis elenchis. Scrive un trattato sul sillogismo categorico e uno sul sillogismo ipotetico dove tratta della logica stoica. Severino è un pensatore aristotelico ma chiare tracce di influenza stoica sono presenti sin dall'inizio del De syllogismo hypothetyco. I suoi scritti logici sono una inoppugnabile testimonianza della controversia in atto ancora nel VI secolo tra pensatori aristotelici e stoici. Altre tracce precedenti (inizio V secolo) si trovano per esempio in Marziano Capella che nel De arte dialectica menziona insieme Aristotele e Crisippo quali massime autorità nella logica. Le fonti principali per la logica stoica, secondo Kneale (cap. IV,1), sono nel II secolo Apuleio e Galeno e nel III secolo Sesto Empirico e Diogene Laerzio. Secondo Mates le uniche attendibili sono Galeno e Sesto. A nostro avviso anche i commentari di Alessandro di Afrodisia (II-III secolo) ad Aristotele nella loro costante polemica contro gli Stoici sono una fonte importante. Vedi anche 13.3.
Titolo del Capitolo I 175 Lezione VII 175
Nella chimica moderna molecola è ad esempio H2O; H e O, idrogeno e ossigeno, sono atomi. Ma la definizione di molecola è un po' diversa, la molecola è la più piccola parte di una sostanza che conserva le proprietà della sostanza visibile, palpabile. Quindi non sarebbe H2O, la molecola dell’acqua; sarebbe la più piccola quantità di acqua che potete ancora bere. In chimica la molecola è la combinazione di più atomi in una sostanza stabile, ma la vera definizione di molecola è quella aristotelica. Infatti la chimica, per un verso ha un’origine aristotelica attraverso le arti, e va a finire nell’alchimia; d’altra parte la teoria atomica ha origine in Democrito, Epicuro, Lucrezio, e le due tradizioni si incrociano, si saldano nella formazione della chimica moderna. L’esempio della chimica è più interessante [di quello della fisica] perché la pratica nella chimica è prassi di ogni giorno mentre non è così nella fisica: nella fisica una volta che avete fatto l’esperimento, che avete trovato la legge, non si sperimenta più, se non per far vedere come è stato fatto l’esperimento. In chimica bisogna sempre continuamente fare le analisi, c’è una pratica che continua [che consente di acquisire] un’impressione durevole. È peccato parlare della scienza senza praticarla mai no? In qualche modo questa ultima considerazione sulla pratica della scienza sembra dar ragione all'Aristotele scienziato maturo. Ricordiamo che Melandri, prima di studiare filosofia e laurearsi nel '58, si era diplomato come perito chimico e aveva iniziato come tale la sua carriera. Un percorso inverso a quello aristotelico ma che, al di là del confronto poco plausibile delle due biografie, ha in comune il fatto di essere in grado di fondare la praxis nell'effettiva pratica di ricerca.
Parte Terza Teoria della conoscenza
177
Lezione VIII
8.1. Due logiche All'inizio della lezione Melandri mette in luce la continuità di pensiero tra la suola megarica e quella stoica. Ci sono due ragioni per farlo: la prima è che la storia della filosofia che precede gli studi di Łukasiewicz e Mates, ci ha consegnato una (benché frammentaria e mal interpretata) logica stoica ma nessuna logica megarica. La seconda riguarda la consuetudine di parlare degli Stoici per dire "megaricostoici". Si dà invece una "completa seriazione storica" e lungo l'argomentazione della lezione (e il proseguo del corso) si capirà bene come la continuità di pensiero sia più profonda di quanto la sola logica lasci intendere. La contrapposizione delle due logiche, quella aristotelica e quella stoica, che è stata canonizzata già dagli storici antichi, muove infatti da due ispirazioni filosofiche diverse che sottendono ciascuna a una diversa psicologia, intesa come teoria della percezione, e una diversa semiologia. L'opposizione, se considerata in termini duali, definisce una matrice che restituisce il quadro di due opposte teorie della conoscenza. E questo spiega il titolo del corso di studi che stiamo esaminando. In ogni lezione, d'ora innanzi, predomina l'esposizione di una delle tre istanze che determinano la teoria della conoscenza stoica (in termini moderni la logica in senso proprio, la semiologia e la teoria della percezione) ma non vengono mai meno i collegamenti con le altre due istanze, dettando quindi quello che potremmo chiamare un andamento a spirale. In questa lezione Melandri parte da alcune note generali intorno alla logica e alla semiologia per dedicare poi il tempo rimanente alla psicologia, cercando di far luce sulla nozione di phantasia kataleptike
179
180 Capitolo I sugli Stoici 180 Enzo Melandri
attraverso una esposizione didattica dei fondamenti della Gestalt Psychologie. Infine inizierà un discorso sulla grammatica che continuerà nella Lezione IX. La lezione prende le mosse dalla lettura di un passaggio tratto da Bocheński. Dalle Vite e opinioni dei famosi filosofi di Diogene Laerzio, risulta che: a) la scuola megarica precedette quella stoica e b) i fondatori della Stoa, Zenone e Crisippo, impararono la logica dai megarici Diodoro Crono, Stilpone e Filone.223
Dunque questo è da mettersi in relazione con quanto vi dicevo intorno alla tradizione non aristotelica della logica che si precisa come alternativa rispetto alla concezione aristotelica nell'epoca degli Stoici ma che in realtà precede la logica aristotelica. Questo, vi dicevo, va tenuto presente anche per dare il giusto merito alla originalità di Aristotele la quale non è più appariscente ai giorni nostri giacché quello che dice Aristotele ci sembra appartenere al senso comune. Impressione questa che è una prova del successo che hanno avuto le concezioni aristoteliche. L'opposizione tra le due scuole si evidenzia molto bene nel settore della logica. Perché la logica aristotelica è una logica del termine, una logica del nome: mentre la logica stoica è una logica della proposizione. Opposizione che compare anche nella stessa logica formale moderna. Sebbene non sembri, c'è 223
Quando una citazione da Bocheński è preceduta da un indice numerico significa che l'autore sta citando un testo: nella nota relativa indico la fonte. Quando la citazione non è preceduta da un indice numerico significa che l'autore scrive di proprio. In questo caso Melandri legge un commento di Bocheński a Diogene Laerzio, cfr. Bocheński §18, p. 146; a p. 147 un albero genealogico della scuola megarico-stoica da Euclide di Megara (c. 400 a. C.) a Crisippo di Soli (281/78-208/205 a. C.); cfr. anche Kneale cap. III, §1, pp. 137-8. Diodoro Crono e Filone sono all'origine di una disputa sui condizionali di cui si dirà meglio nelle prossime lezioni. Basti qui ricordare che la distinzione tra condizionali torna ancora nella logica proposizionale del Novecento; Diodoro è anche all'origine di una riflessione sulla modalità di cui, ancora una volta, avremo modo di parlare in seguito; riguardo a Stilpone non è invece noto quale fosse il suo contributo alla logica megarica e di conseguenza quale influsso possa aver avuto sulla Stoa.
Titolo del Capitolo I 181 Lezione VIII 181
un'opposizione quanto al motivo ispiratore tra il calcolo proposizionale (o logica enunciativa) e la logica del termine (o calcolo predicativo). Le due parti, oggigiorno, sono inserite in maniera organica in un unico edificio della logica che, per il fatto stesso di essere trattato formalmente, non dà adito a dispute.224 Se sapete vedere qual è il motivo ispiratore delle dottrine logiche al di là delle formule, vi accorgerete che i due momenti sono diversi. Vengono aritmeticamente contemperati in un unico edificio che è quello della logica contemporanea, tuttavia il motivo ispiratore permane diverso. Questo è un punto su cui vi invito a riflettere: le formule da sole non possono dire nulla. Qui un logico, un logico formale direbbe: cosa significa questo appello che io faccio al "motivo ispiratore"? Per contestualizzare il termine in questione Melandri ricorre al principio di induzione, in senso logico-matematico, inerente ai due casi, quello della logica proposizionale in cui tutte le proposizioni sono decidibili, e quello della logica dei predicati del secondo ordine, in cui invece non tutte le proposizioni sono decidibili. Voi sapete che nessuna teoria è completa nel senso che in una teoria compaiono enunciati tipici della teoria, non compaiono mai tutti gli enunciati di quella teoria. Perciò quando io devo pensare attraverso una teoria, devo operare attraverso l'induzione per riempire i vuoti che la teoria ha per me e che io ho appresa attraverso degli enunciati tipici. È come se io possedessi una conoscenza per frazioni ma non una conoscenza
224
Ricordo che l'esame di filosofia teoretica era obbligatoriamente preceduto da un pre-esame di logica il cui seminario era tenuta da Gabriele Franci. I testi di studio (tra i quali almeno uno era caldamente suggerito studiare) erano: nella nuova edizione, Irving Copi e Carl Cohen, Introduzione alla logica, Il Mulino, Bologna 1999, Oxford 1953; Alfred Tarski, Introduzione alla logica, Bompiani1969, ed. or. Oxford 1965; André Blanché, Logica e assiomatica, La Nuova Italia, Firenze 1968, ed. or. Parigi 1957. Di fatto era presupposta negli allievi la conoscenza del calcolo delle proposizioni, del calcolo dei predicati del primo ordine nonché le basi della logica modale e un'infarinatura di insiemistica e di assiomatica.
182 Capitolo I sugli Stoici 182 Enzo Melandri
completa di tutto ciò di cui si parla. Il resto bisogna interpolarlo o estrapolarlo. Pensate, per esempio, a un ordinamento giuridico. Un ordinamento giuridico si esprime con leggi generali e con esemplificazioni di casi paradigmatici. Voi siete il giudice e dovete giudicare se nel caso particolare interviene questa o quella regola, se il caso particolare somiglia ai casi paradigmatici che avete già considerato. Si tratta di interpolare il sistema giuridico. Oppure si tratta di estrapolarlo: può darsi che i casi scelti non siano abbastanza tipici, allora bisogna uscire dal campo fin qui considerato per vedere dei casi nuovi che portano oltre il limite di un universo dato, di una data legge. E questo avviene nella logica, bisogna interpolare e estrapolare ciò che abbiamo appreso isolatamente o in generale o per casi paradigmatici. Ora, interpolazione e estrapolazione sono operazioni induttive, non deduttive. Un caso ancora più facile è quello della teoria dei numeri. L'addizione si presenta come un'operazione che segue una certa regola generale; si esemplifica con dei numeri, quanti volete, però non sono mai tutti i numeri. L'applicazione della regola dell'addizione comporta l'interpolazione dei casi noti a quelli non noti secondo la stessa regola, questo è molto facile. Ora, l'induzione che uno può compiere sulla base del calcolo proposizionale, che ha un carattere finitistico e risolubile, ha una procedura di decisione che però non sempre è applicabile nella stessa maniera al calcolo predicativo; soprattutto quando dal calcolo predicativo del primo ordine, che ha anch'esso un carattere finitistico, nonostante le incertezze della procedura di decisione, si passa al calcolo predicativo del secondo ordine dove i problemi non sono sempre decidibili225. 225
Melandri si riferisce ai tre requisiti di un sistema assiomatizzato che sono: consistenza, completezza e indipendenza degli assiomi. Nel senso più naturale si dice che un sistema assiomatico è consistente se nessuna tesi è la negazione di qualsiasi altra tesi; se così non fosse il sistema sarebbe contraddittorio ossia consentirebbe di dedurre da una tesi la contraddittoria il che equivale a "poter dire qualsiasi cosa" rendendo il sistema inutile. Nessun sistema assiomatico può prescindere dal requisito di consistenza. Si dice che un sistema assiomatico è completo se si può sempre dimostrare di ogni formula che essa è vera o falsa. L'indipendenza degli assiomi risponde a un criterio di economicità ovvero all'assunzione del minor numero di
Titolo del Capitolo I 183 Lezione VIII 183
Le ragioni che spiegano il diverso "motivo ispiratore delle due logiche" saranno più chiare quando si passerà allo studio degli anapodittici in parallelo al calcolo delle proposizioni, studio che avrà sullo sfondo la teoria del sillogismo aristotelico in parallelo con il calcolo dei predicati del primo ordine (che ai nostri fini possiamo ritenere equivalente alla teoria delle classi e ugualmente alla teoria degli insiemi finiti; e infatti ogni sillogismo può essere rappresentato con i diagrammi di Venn). Non è invece evidente quale fosse qui l'intenzione esplicativa di Melandri nel riferire i motivi ispiratori al principio di induzione e ai limiti che incontra quando si passa a calcoli per i quali non vale il requisito di completezza: intendo dire che sia la teoria degli anapodittici e il relativo calcolo delle proposizioni da una parte, sia la teoria del sillogismo e la relativa teoria delle classi (o degli insiemi finiti) dall'altra, sono decidibili (ed è questo che credo Melandri intenda con "avere un carattere finitistico"); è solo con il calcolo dei predicati del secondo ordine, con la teoria dei numeri per quanto attiene ai numeri irrazionali e in generale con ogni teoria complessa almeno quanto l'aritmetica che si pone il problema della decidibilità; ma non sono ambiti che riguardano la logica antica e i corrispondenti calcoli moderni. Per chi vuole approfondire la logica stoica c'è il libro di Mates226 che è un classico in materia. Non è tradotto in italiano. Qui interessante è vedere come la logica di Frege permetta di comprendere tutta la logica stoica soprattutto dal punto di viassiomi necessari per assicurare minori rischi di antinomie; tuttavia assunzioni eccessivamente economiche rendono talvolta il calcolo farraginoso per cui si preferisce aggiungere un assioma non indipendente a costo dell'eleganza del sistema; si tratta di scelte discrezionali e per questa ragione esistono più assiomatizzazioni di uno stesso calcolo. Dei tre requisiti il più problematico è quello della completezza. Il calcolo delle proposizioni e dei predicati del primo ordine (dove cioè la quantificazione vale solo per gli elementi dell'insieme) risponde al requisito di completezza. Ma calcoli appena più complessi come quello dei predicati del secondo ordine (dove cioè la quantificazione vale anche per i sottoinsiemi) o la stessa aritmetica non rispondono al requisito di completezza. In altre parole non è possibile stabilire che di ogni proposizione α e della contraddittoria ~ α l'una è vera e l'altra falsa o viceversa. Quando esiste una procedura meccanica per stabilire se una proposizione è vera o falsa (più precisamente: se una formula ben formata, fbf, è un teorema del sistema) si dice che il sistema è decidibile. Ad esempio nel calcolo delle proposizioni le tavole di verità sono una procedura meccanica per stabilire la verità di ogni proposizione. Quando si parla di una teoria non decidibile ci si riferisce, in termini propri, a un sistema assiomatizzato non dotato di una procedura di decisione. 226 Benson Mates, Stoic Logic, op. cit.
184 Capitolo I sugli Stoici 184 Enzo Melandri
sta della logica proposizionale. Il risultato è tanto più sorprendente in quanto Frege non intendeva certo, fondando la logica moderna, farne uno strumento per l'interpretazione della logica stoica. Un risultato di questo genere era completamente al di fuori dai suoi intenti e credo anche dai suoi interessi culturali. 8.2. Semiologia L'insistenza sulla coincidenza di pensiero logico stoico e fregeano si sostiene sia sulla comparazione della teoria degli anapodittici di Crisippo227 al calcolo delle proposizioni di Frege-Russell, sia sull'articolo fondamentale di Frege intitolato Über Sinn und Bedeutung228 che costituisce un punto di riferimento imprescindibile per la semantica filosofica del Novecento. Secondo Mates, per gettare una giusta luce sul pensiero stoico, è opportuno considerare le similitudini tra la semiologia stoica e l'articolo di Frege229. Possiamo definire per convenzione "triangolo semiotico"230 il rapporto tra i tre elementi della relazione segnica che compaiono già nella teoria dei segni degli Stoici e che ricompare in Frege per poi essere adottata dalla filosofia del linguaggio del Novecento. Da Frege in poi, pressoché ogni pensatore che ha espresso la sua posizione in merito al triangolo semiotico ha scelto termini diversi per i rispettivi elementi del triangolo. Ogni diversa terminologia corrisponde a una diversa concezione non tanto della relazione segnica implicata dal triangolo, quanto di uno dei suoi termini, per intenderci, quello che sta al vertice. Intorno al concetto di "segno" inteso come suono o segno scritto, spesso detto anche "significante", si può asserire che vige un generico accordo. Intorno a "ciò di cui è segno", altrimenti detto "ciò che esiste", "ciò che accade", "oggetto", "riferimento", "denotazione", "estensione" ecc. la discussione sorta ha connotati logico-ontologici di vario genere. Ma per quel che concerne il rapporto segnico, ovvero il fatto che il 227
Vedi Lezione XVII. In Gottlob Frege, Logica e Aritmetica, Boringhieri, Torino1977, ed. or. Jena 1893. 229 Mates p. 19. 230 Vedi Schema 3.4. 228
Titolo del Capitolo I 185 Lezione VIII 185
collegamento tra il segno e ciò di cui è segno non è diretto bensì mediato da una terza istanza, e cioè l'elemento che troviamo al vertice del triangolo, di nuovo il consenso è unanime. Tutto il problema ruota di fatto intorno a questa terza istanza, ciò che collega il segno a ciò di cui è segno. Rendere esplicite le posizioni assunte dai pensatori che hanno discusso "il problema del significato" durante tutto il secolo scorso va molto al di là dei miei limiti. Tuttavia ritengo utile, a questo punto, proporre una tabella riassuntiva (tabella 8.1.) dei termini in uso per questi tre elementi almeno in relazione alle occorrenze in questo corso. Melandri usa di volta in volta i termini che gli sembrano più congrui e non sempre li riferisce esplicitamente al pensatore che li ha divulgati. Così per esempio quando si riferisce a Richards traduce la triade Symbol-Thouth of Reference-Referent, come abbiamo visto nella Lezione III, con Simbolo-Pensiero-Oggetto. Altre volte parlerà di "intensione e estensione" senza per questo riferirsi esplicitamente a Carnap oppure userà il termine "significante" senza citare De Saussure. Per quanto concerne il mio commento, in caso di ambiguità userò la triade di Frege. Il termine "significato", essendo il più ambiguo proprio perché compare a seconda degli autori talvolta come Sinn, talvolta come Bedeutung, verrà da me usato (come finora) solo in modo generico ossia come correlato di Zeichnen, senza specificazione tra Sinn e Bedeutung. Benson Mates nel suo secondo capitolo dedicato alla dottrina dei segni231 intitolato Signs, Sense and Denotation presenta una suddivisione dei lekta232, termine che a suo dire rimane piuttosto oscuro ma che compare inequivocabilmente al vertice del triangolo semiotico. La classificazione dei lekta, come riportata da Mates (e da Bocheński e Kneale) è chiara solo nella sua prima partizione in autoteles ed ellipes, cioè completi o autosufficienti e difettivi o non autosufficienti: i lekta completi sono enunciati, i difettivi sono altri tipi di espressioni non 231
Melandri usa talvolta la dizione "dottrina dei segni" altre "semiologia"; Mates "semantica"; Kneale intitola il capitolo relativo La teoria stoica del significato e della verità, Bocheński intitola Semiotica. 232 Mates p. 16, Figura 2; cfr. anche Bocheński p. 153. La differenza tra semainoumenon e lekton non verrà mai specificatamente chiarita durante il corso e nemmeno lo è in Bocheński: entrambi sono al vertice del triangolo, entrambe sono incorporei ma non sono sinonimi. Si può intendere con semainoumenon la funzione di collegamento tra semaion e tynkanon; con lekton il contenuto di pensiero del collegamento.
186 Capitolo I sugli Stoici 186 Enzo Melandri
enunciative; le successive divisioni sono ipotetiche essendo le fonti contraddittorie; ai fini del triangolo semiotico interessano solo i lekta autoteles. La prima riga della tabella riporta i termini usati da Richards nel suo triangolo (tra parentesi la traduzione di Melandri). La seconda riga riporta i termini della semiologia stoica in Mates. Nella terza riga riporto l'intestazione di un'altra tavola di Mates233 che propone un paragone tra i termini della triade in uso presso gli Stoici (quarta riga), Frege e Carnap (righe 5, 6); Russell nell'ultima riga è una mia aggiunta234. Symbol (simbolo)
Thouth of Reference (pensiero)
Referent (oggetto)
The Sign to semainon (e phone) (The Sound)
The Significate to semainoumenon (to lekton) (The Lekton)
Denotation to tynchanon (to ektos hypokeimenon ) (The External Object)
Riga di intestazione della tabella comparativa di Mates
Sign
Sense
Denotation
Termini stoici
to semainon
to lekton
ta somata
Frege
Zeichnen
Sinn
Bedeutung
Carnap
Designator
Intension
Extension
Russell
Denoting phrase
Meaning
Denotation
I termini di Richards (e la traduzione di Melandri) I termini della semiologia stoica in Mates235
Tabella 8.1. Comparazione dei termini in uso per il triangolo semiotico
Ci sono altre convergenze non meno impressionanti per quanto riguarda la semiologia cioè la dottrina dei segni. Vi leggo da Bocheński: 233
Mates Tav. 1 p. 20. Per la redazione della tabella, oltre a Mates, cfr. Gottlob Frege, op. cit., Parte III, cap. III (ed. or. Ztschr. f. Philos. u. philos. Kritik, NF 100, 1892, pp. 25-50); Rudolf Carnap, Meaning and Necessity, p.118, n. 21, Chicago 1958 (ed. or. Chicago-London 1947); Bertrand Russell, On Denoting, Mind vol. 14, Basil Blackwell, Oxford 1905, trad. it. Sulla denotazione, in La struttura logica del linguaggio, a cura di Andrea Bonomi, Bompiani, Milano 1973. 235 I termini greci in Mates compaiono in alfabeto greco. Anche successivamente sono stati traslitterati. 234
Titolo del Capitolo I 187 Lezione VIII 187
19.04 Gli stoici dicono che questi tre sono connessi tra loro: il significato (semainoumenon), il segno (semaion), e la cosa (tynchanon)236.
Segno, significato e tynchanon, ciò che accade, ve l'ho già fatto vedere237. Il segno è il suono stesso, per esempio il suono "Dione", il significato è l’entità manifestata da [questo segno] e che apprendiamo in quanto coesiste con il nostro pensiero [ma] che i barbari non capiscono, sebbene odano il suono; la cosa è ciò che esiste all’esterno, ad esempio Dione stesso. Di questi, due sono corporei, e una è incorporea, cioè l’entità significata, il lekton, che [inoltre] è vero o falso.238
Voi avete il segno, il segno sta per la cosa, segno e cosa sono due corpi, sono due oggetti corporei; però il "per" di "il segno sta per la cosa", questo "stare per" è possibile solo se il segno viene assunto come significato della parola. Il concetto di significato è qualcosa di mentale e non di corporeo. Qualcosa di immateriale. Notate come qui l'accezione di "immateriale" e mentale vuol dire solo che non è corporeo, vuol dire solo che il significato è una dimensione irreale239. Quindi questa concezione mentalistica del significato è certamente compatibile, se uno vuole, con una filosofia materialistica. Del resto potete anche pensare all'idealismo platonico in termini semiologici. In genere suggerisco sempre di prescindere dal momento ideologico-metafisico per capire che cosa significhi stabilire una distinzione, per capire in senso tecnico. Voi non trovate questa semiologia in Aristotele, trovate la semiologia direttamente opposta. La semiologia opposta è quella enunciata nel De interpretazione, primo capitolo, dove dice che i segni della voce o i segni scritti stanno per le passioni dell'anima i pathemata. Questi pathemata, o passioni 236
Bocheński, p. 151; la citazione proviene da Sesto; in SVF B.l 166. Anche per quanto concerne Bocheński tutti i termini che compaiono nel suo testo in caratteri greci sono stati traslitterati. 237 Vedi Lezione III, si tenga presente il triangolo di Richards al quale Melandri fa riferimento dopo averlo tracciato alla lavagna. 238 Bocheński, ibid. 239 Vedi oltre § 4.
188 Capitolo I sugli Stoici 188 Enzo Melandri
dell'anima, si chiamano tali perché corrispondono alle cose del mondo esterno, sono impressioni delle cose sull'anima240. L'anima è vista come la camera oscura che registra ciò che vi è di fuori. Quindi questa tesi contiene una semiologia fondata su un doppio isomorfismo241: quello di cosa esterna e passione dell'anima; quello tra le sensazioni come impressioni dell'anima e i segni della voce o della scrittura. Dove, vedete, il momento problematico di questa semiologia non concerne il singolo segno o la singola impressione ma l'insinuazione, che con ciò vien fatta anche se non detta, che la struttura del mondo esterno sia riprodotta nella struttura dell'anima, la quale sia riprodotta ancora nella struttura del linguaggio. Finché si trattasse di stabilire una corrispondenza puntuale uno-uno tra elementi del mondo esterno, elementi della sensazione e elementi del linguaggio e della scrittura si potrebbe lasciar la cosa in un primo momento senza discuterla. Ma ciò che viene asserito è che le relazioni che ci sono tra le cose del mondo esterno sono le stesse relazioni che si danno fra le sensazioni dell'anima e sono le stesse relazioni che si danno tra i suoni della voce o le lettre del linguaggio242. Basta dire questo in chiari termini per vedere quanto sia inverosimile tutta la pre240 Cfr. Alcune note intorno all'Organon di Aristotele, Cooperativa libraria universitaria, 1964-65 (di seguito Note), Decima nota, Sugli elementi del discorso, p. 65: "Aristotele dice che 'i suoni fonetici sono simboli delle passioni', &c. Si noti il termine 'simbolo' (symbolon). Esso indica l'impostazione semiotica della problematica relativa agli elementi del discorso. E si rammenti che un segno si dice 'simbolo' quando entra a far parte di una relazione semantica, quando cioè diventa segno di qualcos’altro, designato per mezzo suo. I suoni fonetici sono poi simboli delle 'passioni', cioè di modificazioni che la mente subisce per opera di agenti esterni a essa. (Nella terminologia medioevale queste passioni, forse allo scopo di distinguerle dalle altre, quelle peccaminose, si chiamano affezioni; qui affectio viene da afficere e non ha nulla a che vedere col senso moderno e sentimentale di 'affetto', ma somiglia piuttosto al nostro 'riflesso condizionato' nella teoria dell'apprendimento). A differenza dell’impostazione semiotica moderna, si noti come la semantica aristotelica sia doppia, a due livelli. I segni linguistici sono simboli delle affezioni mentali, e queste a loro volta sono simboli della realtà esterna. La logica interagisce con la psicologia, e questa, alla [sic] sua volta, con l’ontologia". 241 Ibid. p. 66, "La relazione fra logica e psicologia qui postulata è un isomorfismo (corrispondenza biunivoca fra elementi e relazioni del pensiero e elementi e relazioni del linguaggio) che ha come tertium comparationem la struttura della realtà, l'ontologia, la quale di conseguenza deve risultare isomorfa rispetto alle atre due". 242 La critica di Berkeley all’empirismo in An Essay toward a New Theory of Vision, 1709, § 11, si articola sull’impossibilità della percezione sensoriale della distanza (che è relazione) tra gli oggetti e conclude all’intervento strutturante della mente.
Titolo del Capitolo I 189 Lezione VIII 189
supposizione. Ho detto "in un primo momento" potremmo lasciare senza discutere la presupposizione per cui si dà questa corrispondenza. In un primo momento, ma in un secondo momento credo che ognuno di voi si è già fatto la sua obiezione. L'obiezione è questa: non possiamo prendere il mondo come diviso in cose separate. Gli elementi del mondo esterno sono dati come elementi o sono costruiti come tali attraverso le nostre operazioni di corrispondenza? L'illusione che il mondo esterno sia composto da elementi separati tra loro, vi dicevo, secondo me rimanda al fatto che in fondo noi siamo abituati a considerare elementi del mondo esterno, statisticamente parlando, cose come i manufatti delle industrie umane, e questi manufatti sono fatti in modo da essere separati per ragioni di mercato. Noi comprendiamo il mondo naturale attraverso un apparato, vorrei dire, merceologico. E dov'è che troviamo qualcosa di naturale? Sono tutti oggetti già prodotti in un certo modo, già disposti in una certa maniera. Comunque l'obiezione più forte a questo punto è: gli elementi sono elementi dati o sono elementi costruiti? Perché se sono elementi costruiti la nostra tesi non dimostra nulla. Se l'isomorfismo risulta da un'operazione "non neutrale" della mente, il presupposto che il mondo sia così come esso ce lo presenta non tiene. Nell'impostazione stoica questo inconveniente non esiste perché non si dice che cosa siano le cose del mondo esterno. Qui anziché parlare di pragmata come fa Aristotele, cioè di cose fatte, si parla del tynchanon che è "ciò che accade". Questa enunciazione è così generale da non contenere per la sua stessa generalità alcuna difficoltà di principio. Così come [per lo stesso livello di generalità] la logica proposizionale viene considerata giustamente fondamento di quella predicativa in quanto diciamo che l'unità è data dalla proposizione stessa; e la proposizione diciamo che è tutto ciò che è suscettibile di esser vero o falso, senza comprometterci col dire cosa sia poi di fatto una proposizione. Senza dire che
190 Capitolo I sugli Stoici 190 Enzo Melandri
una proposizione deve avere un soggetto e un predicato. Gli Stoici non lo dicono mai. Che cos'è una proposizione semplice? È una proposizione che non può essere analizzata oltre. Quindi la proposizione può avere la lunghezza dell'Enciclopedia Britannica ed essere una sola proposizione. C'è una ragione di sobrietà che distingue in questo [il pensiero stoico] che è fondamentale. Non sono solo questi due punti [logica e semiologia] che distinguono il modo di pensare megarico-stoico da quello aristotelico. Ci sono anche altri punti che in parte esulano dalla logica. Nella logica ne troveremo parecchi, ci torneremo sopra. 8.3. Gestalt I È a questo punto che il discorso si sposta sulla psicologia. La teoria della percezione della Gestalt Psychologie rappresenta il termine di paragone su cui si regge la convergenza tra pensiero antico e moderno. Altri punti li troverei nella dottrina stessa della percezione. Anche qui noi possiamo confrontare sensazione e percezione. Vi dicevo, la dottrina aristotelica è una dottrina della sensazione, aisthesis, non della percezione, katalepsis. La dottrina della sensazione dice che fra noi e il mondo esterno c'è un continuo scambio, un'interazione effettiva in cui la comunicazione dal mondo esterno attraverso i sensi passa nell'anima, quindi viene presa dall'intelletto e codificata come essenza. C'è un passaggio continuo. È il passaggio fra l'estremo più concreto che è la sensazione e l'estremo più astratto che è l'essenza distillata dall'intelletto a partire dalla sensazione. È una conoscenza intesa come continuo dal concreto dell'esperienza sensibile alla parte più astratta della vita mentale. Non così nel teoria della percezione. La dottrina della percezione si fonda su una rappresentazione del mondo e non sulla sensazione del medesimo. La rappresentazione del mondo è tale per cui non è necessario assumere che la rappresentazione
Titolo del Capitolo I 191 Lezione VIII 191
abbia qualcosa di simile a ciò che è rappresentato. Esiste certamente un rapporto ma questo rapporto non è di somiglianza, non è rispecchiamento. Rappresentazione in greco si dice phantasia. Il contenuto di rappresentazione si dice phantasma. Questo termine mi pare che sia molto espressivo. La nostra vita mentale si organizza su questi fantasmi che sono rappresentazioni. La logica deve intervenire a un certo punto per organizzare i fantasmi secondo un modo di coerenza tutto interno alla mente che non ha nulla a che vedere con il modo in cui le cose sono nel mondo. Viene asserito solo un rapporto conoscitivo in cui si conoscono le uscite e le entrate ma non si conoscono le cose. Il rapporto è, da un punto di vista rigorosamente formale, completamente solipsistico. Dalla rappresentazione si giunge alla percezione per opera non dell'intelletto, bensì in maniera completamente passiva. Pensate alla psicologia della percezione della Gestalt. La percezione si dice strutturale in quanto l'intelletto non vi partecipa. Noi siamo costretti a vedere le cose in un certo modo. È possibile pensare che sia uguale per tutti? O che siano uguali anche per uno stesso individuo in tempi diversi? È possibile pensarlo? Sì, però non è possibile asserirlo. Infatti tutte le dimostrazioni di questo tipo avvengono paradigmaticamente. Gli psicologi della Gestalt non vi dicono che si deve per forza percepire in questo o quel modo. Vi dicono: è vero o non è vero che percepite così? È paradigmatico il sistema di dimostrazione, non è apodittico. Bene, sarà un caso ma questo è anche il modo con cui venivano presentate le questioni nell'antica Stoa. Che cosa cambia tra rappresentazione e percezione? Cambia questo, che nella percezione io ho l'oggetto. Il termine antico è phantasia kataleptike che vuol dire fantasia che prende oppure fantasia che è presa. Mentre phantasia è ciò di cui si disquisisce se sia impronta o modificazione e phantasma il contenuto sul quale ci si interroga se esista nel mondo o se sia allucinazione, percezione è l'insieme di una phantasia e del suo phantasma.
192 Capitolo I sugli Stoici 192 Enzo Melandri
C'è un senso passivo e un senso attivo del verbo. Ci sono state annose discussioni, se sia più giusta l'interpretazione attiva o l'interpretazione passiva. A mio parere la questione è salomonica, attivo e passivo non vogliono dire molto a livello della percezione. Voi potete vedere nella percezione un'attività che crea l'oggetto nel momento in cui rapprende le rappresentazioni in una Gestalt cioè in un quadro stabile, oppure potete vedere in questo fatto l'azione di un oggetto [che si impone]. Non dite: quale è la visione giusta? Si tratta di modi di dire che fanno di nuovo parte della phantasia. Se ci fosse un modo di scoperchiare una testa e vedere come funziona sarebbe bello. Si tratta solo di modi di dire. Nella psicologia della Gestalt, l'oggetto non è dato, l'oggetto è l'effetto della costruzione figurale. Solo quando la sintesi figurale così avvenuta entra in crisi ecco che nella vita psichica, già a livello della rappresentazione, a livello di raffigurazioni ambigue o anche in conflitto fra loro, deve intervenire, al di là della percezione, l'attività del pensiero per ristrutturare il campo in maniera non più figurale ma in maniera simbolica. Lo vedete questo passaggio? Io dapprima ho, come animale senziente, ho dei fantasmi che viaggiano nella mente, questi fantasmi, col crescere di numero, tendono a combinarsi fra loro in figure stabili, è la cosiddetta assunzione della costanza percettiva dell'oggetto (anche perché è un carattere utile nella conservazione della specie), i fantasmi tendono a coagulare in configurazioni più o meno stabili; di qui in poi, moltiplicando le operazioni avremo configurazioni di configurazioni, complicazione del campo psichico; fino a un certo punto va tutto ottimamente, da un certo punto in poi le configurazioni diventano ambigue. Avrete visto tutti quelle immagini in cui si vedono due profili, ad esempio la vecchia e la giovane. Questa è una configurazione ambigua che è prodotta per dimostrare qualche cosa ma avviene lo stesso anche nella vita psichica normale. Finché arriviamo al punto in cui questa ambiguità diventa un elemento di insicurezza, crea disordine mentale, conflitto. Sempre a livello percettivo, non parlo della vita psichica a livello di relazioni interpersonali. Allora, a questo punto, anche le
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strutture stabili acquisite tendono a entrare in crisi e l'attività del pensiero tende a destrutturare le figure della percezione normale. Vedete come a questo punto si ha bisogno del pensiero per ristrutturare il campo psichico in maniera esplicita e non in maniera passiva. Quindi la percezione è qualcosa di fondamentalmente passivo, senza escludere tuttavia che ci sia un momento attivo di collaborazione della volontà. Però, col crescere stesso della complessità, avviene un collasso della figuralità e a questo punto interviene il pensiero per ristrutturare questa destrutturazione. Potete anche pensare che l'attività del pensiero non sia così da un certo punto in poi ma, per l'esistenza stessa di funzioni cogitative, provochi nella percezione una crisi prima del dovuto, cioè che il pensiero destrutturi la percezione prima di quanto sia utile farlo, sì si può pensarlo. Capite cosa voglio dire quando dico che il pensiero interviene in maniera consapevole, interviene in maniera simbolica? Il simbolico è ciò che si oppone a "intuitivo passivo". Cioè io unisco gli spezzoni della mia fantasia per farne dei segni che devo combinare in un altro modo, segni che sono simboli perché non sono necessariamente segni di cose, sono segni collegati al significato. Ecco che il piano della teoria della percezione interseca quello della semiologia: nel momento in cui il pensiero interviene sulla percezione ristrutturando simbolicamente il campo psichico (come quando vediamo nella moneta il circolo invece delle molteplici ellissi, vedi oltre) entra in gioco la funzione teoretica del linguaggio. Ma qui non si tratta di denominare cose che stanno al di là della sensazione bensì di un'operazione di tipo combinatorio: attribuisco segni agli spezzoni di phantasia e ricombino questi segni che nella nuova configurazione rimandano a un significato. Forse sto forzando un po' il discorso ma mi pare che in questo modo venga alla luce di nuovo la contrapposizione di semantica nominale e semantica proposizionale. Ho presentato la questione del passaggio tra percezione e pensiero come una questione di "prima" e di "dopo" ma è un racconto che faccio, tanto perché ci intendiamo: prima
194 Capitolo I sugli Stoici 194 Enzo Melandri
avremmo la rappresentazione, poi la percezione dell'oggetto quando le rappresentazioni coagulano, formano delle Gestalt e queste corrispondono alla costanza percettiva243. Ad esempio la moneta io la vedo come tonda quando ha una posizione frontale nonostante che dal punto di vista della retina sia quasi sempre un'ellisse. Tondo è il fantasma nella mia mente perché il tondo nella sensazione non c'è quasi mai. Questa stanza la vedete come rettangolare, quadrata, non so, in realtà è tutto un sistema di trapezi che si intersecano chissà come dal punto di vista retinico. Fin qui il processo lo considero ancora abbastanza passivo è la percezione che stabilisce da sola, con i suoi mezzi, le condizioni della costanza percettiva. Segnatevi "costanza percettiva" su cui dovremo ritornare, che è indicazione di funzione, non un'indicazione di forma. L'indicazione di forma è la Gestalt. Cosa vuol dire Gestalt? Vuol dire "figura", il modo in cui io congiungo certi punti per formare una figura essendo più facile ricordare la figura che non la percezione dei punti. Immaginate se io dovessi ricordare un quadrato attraverso l'indicazione di tutti i punti magari con la latitudine e la longitudine. Il quadrato si ricorda da solo indipendentemente da come siano piazzati i punti. Poi, col crescere della vita psichica, io formo percezioni di percezioni, secondo, terzo ordine; a un certo punto però qualcosa frana. Allora si presentano alla mente spezzoni di altre Gestalt, [ad esempio altre figure geometriche]; parlo quindi di punti del quadrato perché questo mi permette di parlare dei punti di qualsiasi figura. Se la cosa mi sembrava dispersiva in un primo momento diventa invece sintetica in un secondo momento perché mi permette di dire che ogni figura è formata da punti. Questa rappresentazione del pensiero interviene quando si spezza la sintesi figurale e mi rimangono in testa solo gli spezzoni di rea243
Cfr. per es. Wolfgang Kohler, La psicologia della Gestalt, Feltrinelli, Milano1998 (ed. or. New York 1947) p.58 e sgg. "L'oggetto fisico per sé resta sempre lo stesso, mentre la stimolazione in arrivo al nostro occhio varia al variare della distanza, dell'angolazione o dell'illuminazione dell'oggetto fisico per sé costante. Ordunque, ciò di cui ci sembra aver esperienza concorda con l'effettiva assenza di variazioni nell'oggetto fisico molto meglio che non col variare della stimolazione. […]". La nozione di costanza percettiva comprende una costanza di grandezza, di forma, di velocità, di collocazione nello spazio, di luminosità ecc.
Titolo del Capitolo I 195 Lezione VIII 195
le; cioè si destruttura il campo percettivo e io devo ristrutturarlo consapevolmente mediante operazioni di ordine e di verifica del tutto esplicite, di carattere simbolico, e non più intuitivo. Simbolico vuol dire che io collego questo con quello, una catena di collegamenti, non c'è più nulla di intuitivo. Ecco, dicevo, qui probabilmente non conviene prendere alla lettera [il significato passivo della katalepsis] ma si può bensì immaginare che il pensiero intervenga già a livello percettivo in funzione antagonista a quello della Gestalt. Si può immaginare che ci sia una retroazione. Del resto, scusate, la coscienza come la immaginate? Io la immagino come un circuito retrocollegato, un sistema di fili che viene collegato all'indietro. Quello che vediamo, il fantasma, è il quadro di controllo, non è il quadro del mondo. Sarebbe come se noi guidassimo l'automobile guardando solo il quadrante244. Non so se vedete la funzione del pensiero come funzione di ristrutturazione nel campo psichico a un altro livello. E qui si capisce bene come a ogni successiva ristrutturazione cambi la struttura. La struttura del pensiero non è affatto la struttura della percezione, credo che questo lo sappiamo tutti no? Allo stesso modo io direi che la struttura della percezione, anche se non lo sappiamo, non è affatto la struttura del reale. Ammesso che esista una struttura del reale.
244
È questa, a mio avviso, l’idea centrale per l’interpretazione della nozione stoica di hegemonikon; cfr. SVF B.f 834 e sgg; cfr. Enzo Melandri, Precomprensione di Leibniz, in Insegnare filosofia. Rivista quadrimestrale di didattica della filosofia, n. 1, Settembre 1996, 5 – 8, dove si legge al punto 3.3 in riferimento alla metafora del re-messaggero (si veda oltre, 7.2.): "L'anima usa i sensi come messaggeri, i cui rapporti non sono però accettati acriticamente dallo hegemonikon", cfr. VSF B.l 54. Sul significato della ricognizione intorno alla contrapposizione di catalessi attiva/passiva il cui esito, nella proposta di Melandri, è la coesistenza delle due istanze, si può forse azzardare una analogia con il campo dell'intelligenza artificiale. Nell'AI le due istanze, le due Weltanschaungen contrapposte, sono quella connessionista e quella simbolico-cognitivista. Matteuzzi, nella sua prefazione a A.A. Percezione linguaggio coscienza, Quodlibet, Macerata 2004, p. 6, distingue la prima per "l'emulazione di meccanismi fisiologico-darwiniani", la seconda per "l'aspirazione al livello della coscienza" e suggerisce che "i due livelli, quello del sub-simbolico, o fisiologico-percettivo, e quello del pensiero cosciente, della ragione discorsiva, del logos, appartengono entrambi a buon diritto alla nostra esperienza, sono parti entrambi della nostra Erlebnis.
196 Capitolo I sugli Stoici 196 Enzo Melandri
Dopo questo excursus sulla teoria della percezione gestaltica Melandri contestualizza la funzione gnoseologica dell'etica nel pensiero stoico. I requisiti sono l'ordine, la struttura delle idee, la coerenza, la disposizione del campo di pensiero a formularsi come domanda da cui la risposta che viene data sul piano percettivo e va a far scattare il meccanismo conoscitivo. Quindi la coerenza è duplice: è la coerenza del quadro delle rappresentazioni ed è la coerenza degli interventi successivi e delle domande da porre al mondo esterno. La seconda coerenza è di carattere etico e non logico. Come vedete si tratta di un'etica intellettualistica: è necessario essere coerenti nel comportamento perché altrimenti creiamo confusione nelle nostre idee, non perché [vi sia una ragione morale]. In Aristotele l'etica è fondata sui valori, qui invece è fondata sulla conoscenza. Per conoscere è necessario seguire un canone. Segue un avvertimento: la teoria della percezione stoica riletta nei termini della Gestalt è un'attualizzazione. Nei frammenti degli Stoici sulla teoria della conoscenza redatti da Von Arnim, per ognuno dei tre pensatori presi in considerazione (Zenone, Cleante, Crisippo furono i primi tre capiscuola), compaiono all'inizio della sezione quelli relativi alla phantasia. La ragione di questa priorità è in un frammento riportato da Diogene Laerzio dove si asserisce la priorità della rappresentazione in quanto kriterion (criterio, principio, fondamento) della conoscenza245. La natura della rappresentazione è secondo Zenone quella dell'impronta246. La metafora della cera e del sigillo compare insistentemente ed è fonte di critica. La questione discussa, riportata da diversi commentatori, riguarda il si-
245
DL VII, 49: "Gli Stoici concordano nel dare il primo posto alla dottrina della rappresentazione e della sensazione, in quanto il criterio, con cui si discerne la verità delle cose, è in generale rappresentazione, ed in quanto la teoria dell'assenso e della comprensione (appercezione: katalepsis) e dell'intelligenza (elaborazione logica: noesis) che precede tutte le altre, non può avere un punto fermo senza rappresentazione. La rappresentazione ha infatti la precedenza; ad essa segue il pensiero (dianoia) che in quanto è capace di enunciare ciò che riceve dalla rappresentazione lo esprime per mezzo della parola".; in VSF B.l 52. 246 SVF A 59, CA 484, B.l 53 e sgg.
Titolo del Capitolo I 197 Lezione VIII 197
gnificato di questa metafora247. La tesi del rispecchiamento, attribuita in alcuni frammenti a Zenone, a Cleante, e sovente agli Stoici in genere, è insita nella metafora stessa della cera e del sigillo. Più che di metafora in questo senso si dovrebbe parlare di paragone fondato su quello che Mates chiama "pansomatismo" della metafisica stoica248. Crisippo nega la tesi del rispecchiamento e afferma quella della modificazione o alterazione della rappresentazione ad opera dell'oggetto che ne è la causa. L'argomento principale è l'impossibilità di una compresenza fisica di impronte diverse dove la successiva cancellerebbe la precedente249. Il collegamento tra Stoicismo e Gestalt si regge sul ripudio di una teoria del rispecchiamento da cui l'adozione del paradigma cartesiano per la nozione di "rappresentazione". L'esempio che vi ho dato prima sulla vita psichica, sulla percezione e il pensiero, va da sé che non rappresenta la dottrina stoica, [è una mia interpretazione] in base a quello che si può pensare oggi. Per gli Stoici il problema viene posto nella maniera solita degli antichi, cioè come impossibilità di fondare la conoscenza sopra la percezione. È un diverso modo di inquadrare il problema e anche un diverso modo di discuterlo. Io sostengo che queste coincidenze non sarebbero comprensibili senza una teoria della conoscenza che ripudi la teoria del rispecchiamento. Qui non c'è rispecchiamento da parte della conoscenza del mondo esterno. C'è solo una rappresentazione, che è una cosa diversa. 247
Opinioni diverse in seno alla scuola sono testimoniate ad esempio da Sesto Empirico, Adv. math. VII, 228; Cfr. SVF B.l 56: "Per loro dunque la rappresentazione è un'impronta sull'anima. Ma su questo ebbero ben presto opinioni diverse. Cleante intese l'impronta come una depressione e un rilievo, simile all'impronta delle dita sulla cera". Tutte le traduzioni da SVF sono di Roberto Radice. 248 Mates p. 15; sulla inverosimiglianza dell'interpretazione letterale insisterà anche Alessandro di Afrodisia (De anima, 72,5-15) che pur essendo aristotelico (il suo massimo interprete tardo antico) è portato a chiarire una posizione stoica a quanto pare ancora discussa e fraintesa tra la fine del secondo e l'inizio del III secolo: "All'origine la percezione sensibile non ha una sua forma: e infatti qual è la forma del bianco, o in generale del colore? E qual è la forma dell'odore? Ma attraverso l'ambiguità di un nome predominante, noi chiamiamo 'orma' e 'traccia' l'impronta che è impressa in noi dalle sensazioni, usando in senso traslato il termine". Tutte le traduzioni del testo di Mates sono mie. 249 SVF B.l 56.
198 Capitolo I sugli Stoici 198 Enzo Melandri
Il concetto di rappresentazione in senso moderno è quello cartesiano. Nella filosofia cartesiana il concetto matematico di rappresentazione è tale per cui il mondo esterno può essere rappresentato prima geometricamente; secondo, il mondo geometrico dei diagrammi cartesiani può essere rappresentato algebricamente. Io posso fare i miei calcoli sul piano algebrico per poi riportare i risultati sulla geometria e quindi sul mondo esterno. Questo duplice sistema di rappresentazione, (rappresentazione geometrica del mondo fisico, rappresentazione algebrica del mondo geometrico) dice già da solo che non c'è nessuna rassomiglianza tra le equazioni e le curve da una parte, tra le curve e le cose esterne dall'altra. In atre parole non si assume nessun isomorfismo tra la struttura del reale da una parte e la struttura del linguaggio geometrico e matematico che esprime quel reale dall'altra. Nel sistema aristotelico si dà una terza istanza tra reale e linguaggio: i pathemata. Le passioni dell'anima, o affezioni, altro non sono che il primo stadio del processo conoscitivo che dalla sensazione arriva all'intelletto. Le sensazioni vanno intese in quanto primo passo di mediazione tra mondo e pensiero, mediazione lungo la quale interviene il linguaggio. Le rappresentazioni cartesiane non sono pathemata, non possono essere intese come istanza di mediazione in quanto già strutturate come linguaggio. La relazione tra mondo e pensiero non è mediata da un processo naturale che inizia nella sensazione, è istituita da regole di correlazione che sono del tutto convenzionali. Ed è proprio questo completo distacco dal dato sensibile che caratterizza il pensiero moderno iniziato da Cartesio. Un isomorfismo vale invece tra i due linguaggi intesi a rappresentare il reale, quello matematico e quello geometrico. Non c'è nessuna rassomiglianza, c'è solo una corrispondenza, una corrispondenza puntuale ma che non riguarda la struttura [del reale]. Un moto può essere rappresentato sugli assi cartesiani o con una formula algebrica. Che non vi sia somiglianza tra il moto di un oggetto e la curva/la formula che lo rappresenta mi pare pacifico, anche senza fornire una precisa definizione di "somiglianza". Che vi sia una
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corrispondenza puntuale tra il moto fisico dell'oggetto nel mondo e il disegno che lo rappresenta sugli assi cartesiani risulta dalla costruzione punto per punto dei corrispondenti valori nello spazio e nel tempo disposti sulla coordinata e sull'ascissa. L'assegnazione di valori determina altresì l'equazione che rappresenta il moto. Tuttavia la struttura delle relazioni tra l'oggetto in moto nel mondo reale e il resto dello spazio e dei relativi oggetti sfugge alla rappresentazione. 8.4. Essere, esistere, sussistere Alla domanda, come mai il mondo è suscettibile di trattamento matematico, sapete come Galileo rispondesse, il mondo è scritto in lingua matematica in cui le lettere sono triangoli eccetera e simili. Cartesio avrebbe risposto molto più drasticamente (se non avesse avuto paura del Sant'Uffizio): il mondo è suscettibile di trattamento matematico proprio perché non ha nulla a che vedere con la matematica. Io lo rappresento matematicamente. Considerate la questione: esistono i numeri? No, sussistono. Sussistono nelle cose in quanto queste sono al di là del numero. Sussistono i punti nella linea o le linee nella superficie? Sussistono, non esistono. Questo è il concetto di rappresentazione che è del tutto diverso da quello di sensazione o di riproduzione nel rispecchiamento. Un'altra contrapposizione interessante è quella che si dà tra essere ed esistere. Anche nel linguaggio ordinario si danno due usi linguistici secondo cui essere ed esistere per un verso sono sinonimi, per un altro verso invece diciamo che non sono sinonimi. La differenza tra dire "esistere" e dire "sussistere" è facile perché "sussistere" non è in fondo una parola del linguaggio ordinario, si sente che è un po' artificiale l'introduzione di un verbo come "sussistere". Vi dicevo, il verbo "sussistere" si
200 Capitolo I sugli Stoici 200 Enzo Melandri
adopera per tutto ciò che ha una esistenza ideale e non un'esistenza corporea, concreta. La differenza tra "essere" e "esistere" c'è o non c'è? Ecco vedete dal punto di vista aristotelico non c'è. Dal punto di vista aristotelico c'è l'essere o esistere in categoria. Che cos'è l'essere per Aristotele? L'essere si dice in molti modi. Secondo il modo corporeo, secondo il modo mentale, secondo il modo teologico, secondo questo, secondo quello. È la dottrina della pluralità dell'ente, detta anche dell'equivocità dell'ente, o se volete attenuare "equivocità", dell'analogia dell'ente. Ma l'analogia presuppone l'eterogeneità, quindi presuppone l'equivocità. La dottrina aristotelica è una dottrina che sussiste anche nella filosofia spontanea associata al linguaggio ordinario. Dico "sussiste" perché non voglio dire che il linguaggio ordinario abbia quella filosofia. Ed è il modo di dire per cui non riesce ostico pensare che un conto è l'esistenza fisica di una cosa, un conto l'esistenza giuridica, l'esistenza in senso morale, in senso matematico, in senso sociale e così via. Volta per volta essere ed esistenza si dicono in modo diverso. Essere ed esistenza in questo contesto non si distinguono nettamente. Si può trovare una differenza se nell'essere poniamo anche ciò che è possibile ma non è reale. Quindi si può distinguere tra essere e esistenza nel contesto aristotelico della pluralità dell'ente come coalizzazione tra l'essere possibile che è essere, e l'essere reale che è l'esistenza o essere necessario che è ancora di più, ancora di più dell'esistente. Se dunque "essere" e "esistere" sono sinonimi sul piano della dottrina dell'equivocità dell'ente - il quale ente si dice in categoria secondo la qualità, la quantità, la relazione ecc. - i due termini assumono una diversa valenza quando posti sul piano della dottrina della potenza e dell'atto, dottrina che ha il suo corrispondente logico nella dottrina delle modalità. L'essere riguarda il possibile, il reale, il contingente e il necessario, mentre solamente di ciò che è reale e di ciò che è necessario si dice altresì che "esiste". L'altra concezione per cui si distingue nettamene tra essere ed esistere, è quella per cui "esistere" indica il modo d'essere
Titolo del Capitolo I 201 Lezione VIII 201
corporeo. Dico "corporeo" e non "fisico" perché l'espressione "corporeo" è meno pregiudicata. Allora potete dire che esiste solo ciò che è corporeo. Dottrina della univocità dell'ente: l'ente esiste in quanto corpo. Vedete che è univoca qui la concezione dell'ente? Non si dice in molti modi, si dice in un solo modo. L'ente esiste solo in quanto è corporeo. E allora i miei pensieri, la percezione, i fantasmi non esistono. È un modo che è quello mentale e non corporeo. Non c'è contraddizione. Questa è la concezione alternativa. Vedete che qui lavoriamo a matrice vero? Tutto quello che vi ho detto oggi è costruito a matrice. Ci sono due concezioni e una è complementare rispetto all'altra. Quindi anche se ci mancano dei dati in un punto, li ricostruiamo sulla base di questa matrice. Il metodo di costruzione a matrice in cui si contrappone pensiero aristotelico e pensiero stoico ha un indubbio valore didattico ma la sua validità si fonda sulla efficacia ermeneutica. Dove infatti abbiamo per l'aristotelismo fonti dirette abbondanti e attendibili, per lo stoicismo non abbiamo che frammenti di seconda mano. È pur vero che le interpolazioni sopraggiunte nei secoli hanno dato adito a molte discussione riguardo all'autenticità del teso aristotelico. Sappiamo che in gran parte il testo aristotelico consisteva in origine di appunti per le lezioni talvolta organizzate in bozze per una eventuale pubblicazione250. Bozze sulle quali i successivi estensori e copisti hanno creduto bene intervenire al fine di quella che veniva ritenuta chiarezza. Tuttavia il lavoro di esegesi rimane infinitamente meno aleatorio avendo il conforto dei rimandi interni. Cosa che com'è ovvio non è dato avere nel caso del pensiero di Zenone, Cleante, Crisippo e dei successori della scuola stoica. Risulta quindi efficace il metodo a matrice perché dove sappiamo senza dubbi come la pensava Aristotele su qualcosa, possiamo ricostruire il pensiero stoico, per contrapposizione. La scommessa di Melandri consiste sia nel fatto di riuscire nella ricostruzione laddove i frammenti sono vaghi o contraddittori; sia nel ribaltare l'esegesi di frammenti che, se pur coincidenti, sono stati mal interpretati e hanno
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Düring, Introduzione.
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condotto ad una visione errata del tema trattato. Nel seguito del corso vedremo esempi di ambedue i casi. Si tratta poi di vedere se questa matrice che vengo costruendo, così, a priori, corrisponde in termini risolutivi ai dati storici. È un lavoro che si fa per approssimazione. Comunque, quello che comporta il metodo a matrice è che [il quadro contiene tendenzialmente] tutto ciò che è possibile. Infatti avete due sole dottrine, la dottrina della pluralità dell'ente o della equivocità o dell'analogia del medesimo, e la dottrina della univocità dell'ente. Non c'è altro che vi passa in mezzo. Ci sono diverse nozioni del principio dell'equivocità dell'ente la più importante delle quali è la dottrina dell'analogia dell'ente: in concreto l'ente si dice sempre solo in una categoria. Tuttavia l'ente si dice analogamente in tutti i generi e le categorie in cui si presenta. La dottrina dell'analogia attenua, ma non elimina, l'equivocità dell'ente. Dico l'ente univocamente solo dentro una categoria però nessuna di queste categorie è esaustiva del reale. È un po' come dire che mentre si pensa l'essere in una categoria lo si deve pensare anche sullo sfondo delle altre categorie cui appartiene. Melandri non usa la metafora di "primo piano-sfondo" ma mi pare che illustri bene la non esaustività della categoria in primo piano e quella interdipendenza con lo sfondo che rende difficile cogliere l'ente univocamente. 8.5. Corporeo/mentale Una nozione un po' delicata da trattare è quella di "corporeo" che dobbiamo per forza rispolverare per studiare gli antichi. Non possiamo infatti, per gli antichi, dire "fisico" nel senso moderno. Bisogna dire "corporeo" anche perché è più vicino al senso della fisica vera degli antichi. La fisica è la conoscenza dei corpi in movimento, anche del movimento del corpo nel senso del deambulare. Sì perché vedete, se diciamo "esisten-
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za" in senso fisico, come siamo abituati a dire in epoca moderna, per contrapporla a quella in senso psichico, si creano facilmente delle confusioni che non nei termini più generici di corpo e mente; la coppia corpo/mente è più generica, più concreta e meno esposta ad errori di quella di fisico/psichico. Perché il fatto psichico dopotutto è un fatto del mondo anche quello. Nella vita psichica bisogna distinguere gli atti psichici di pensiero, di memoria, di rappresentazione, dal loro oggetto. L'oggetto dell'atto psichico non è un fatto psichico. Se io faccio una somma, 1+1 fa 2, cosa c'è di psichico? C'è l'attività del pensiero e di rappresentazione necessaria a eseguire le somme, però 1, 1 e 2, [ossia] il fatto che vada bene che 1 e 1 faccia 2 non sono fatti psichici, sono [dati] oggettivi. Perché un fatto psichico sarebbe anche un'operazione sbagliata. Dal punto di vista dell'attività [psichica], il risultato non è più il contenuto dell'attività. Come lo spiegate? Si spiega dicendo che l'oggettività è un parametro mentale, e non psichico. In questo senso diciamo che lo psichico è corporeo e il mentale è non corporeo e parimenti che ciò che è psichico esiste mentre ciò che è mentale possiamo dire che sussiste. Per attività psichica va dunque inteso, io credo, l'attività neuronale. In questo senso "vita mentale" è un ossimoro. Bisogna dunque distinguere lo psichico, la psicologia dell'atto, da quella che è l'oggettività dei significati così suscitati. Allo stesso modo nel dire "fisico" risulta un po' un pasticcio perché è tutt'altro che materiale il mondo come se lo presenta la fisica. Di fisico cosa c'è nel mondo della fisica, non lo so, gli scambi di energia? E cosa dovremmo dire delle particelle elementari? No, è più semplice il criterio corporeo/mentale. L'estensione di "corporeo/mentale" non corrisponde a quella di "fisico/psichico". Tenendo presente che usiamo la coppia "mentale/corporeo" per il pensiero antico e "psichico/fisico" per quello a noi contemporaneo,
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possiamo dire quanto segue. L'estensione semantica di "mentale" ha certamente elementi in comune con quella di "psichico" ma non tutti. Lo stesso vale per le estensioni di "corporeo" e di "fisico". "Mentale" viene usato in riferimento al pensiero stoico come sinonimo di "non corporeo", asomaton: dunque nella sua area semantica non vi è nulla di corporeo. Nell'area semantica di "psichico" invece troviamo processi neuronali che possiamo dire fisici, processi come la percezione che possiamo dire psicofisici e processi come la rimozione che diciamo psichici. Nell'area semantica di "corporeo" troviamo per gli stoici (come per gli epicurei) le divinità che sono escluse invece dall'area semantica di "fisico"; e nell'area semantica di "fisico" troviamo enti come fotoni ed elettroni che tutto sono fuorché corpi. Cosa poi sia corporeo non si sa, cosa sia mentale non si sa, ed è anche giusto che non si sappia: tutto quello che conosciamo è l'ordine del nostro apparato conoscitivo. Sarà dunque il momento della prassi, ovvero l'etica in funzione gnoseologica, a garantire il corretto funzionamento dell'apparato, o meglio, che il funzionamento dell'apparato conoscitivo non subisca perturbamenti dovuti a un disordine nel computo degli input e degli output. 8.6. Gestalt II Vi dicevo prima, attenzione alla costanza dell'oggetto. Questo punto è molto importante. La nozione di costanza dell'oggetto dovrebbe spiegare il carattere della katalepsis, della percezione catalettica dell'oggetto. La dizione "costanza dell'oggetto" è tautologica. Vuol dire "costanza della costanza" o "oggettività dell'oggetto". Non so se ve ne rendete conto. Questa definizione della costanza è stata spiegata da Konrad Lorenz in termini compresi anche dalla teoria genetica moderna, in termini funzionali. Nel senso che, avere i meccanismi che producono la costanza dell'oggetto nella percezione è un carattere favorevole alla sopravvivenza. Di qui si ricava il so-
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lito repertorio evoluzionistico. Io scarterei questa soluzione fin dall'inizio, non perché non sia pertinente o vero l'evoluzionismo, ma perché non è sufficiente a spiegare. La spiegazione dell'evoluzionismo certamente è pertinente però il guaio è che non è una spiegazione. La costanza dell'oggetto bisogna che sia una proprietà formale, strutturale. Poi può darsi che una specie che non ha avuto questo meccanismo [della costanza percettiva] sia scomparsa. I dinosauri l'avevano? Non lo so ma non mi intessa. Peraltro potrebbe darsi che l'abbiano avuta ma non a sufficienza; possono darsi tanti casi, l'importante è capire in maniera non funzionale ma strutturale questo problema. Il fatto che la costanza di percezione sia utile ha un interesse limitato nella spiegazione del come mai ce l'abbiamo. Non è una spiegazione teleologica della finalità quella che cerchiamo, è una spiegazione a incastro, strutturale, non funzionale. È importante nel ricercare le spiegazioni nel settore che va dalla dottrina della percezione alla teoria della conoscenza e verso la logica, escludere le spiegazioni causalistiche. È importante escludere il "perché" e sostituirlo col "che". E questo si può ottenere solo attraverso la cosiddetta causa formale di Aristotele. O, ciò che vale lo stesso, con la nozione di causa materiale e non con la coppia causa efficiente-causa finale. È un po' il contrario di ciò che avete sempre sentito dire e cioè che la conoscenza comincia col chiedersi il perché. No, anche il perché va ridotto a una questione di incastro. Altrimenti non si capisce nulla251. Ecco un'altra cosa importante: dicevo prima, quando entra in crisi il carattere intuitivo che inerisce alla percezione e che inerisce anche a ciò che è passivo, deve intervenire il pensiero che non è più intuitivo. Nella sua essenza il pensiero è ricompositivo, non intuitivo. Non credo che nessuno di voi sostenga che esista l'intuizione intellettuale delle essenze. Bisogna liberarsi dalle brutte abitudini secondo cui il pensiero creativo è quello intuitivo e così via, anzi per portare il paradosso fino in 251
Vedi oltre.
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fondo, userei la coppia fantasia/immaginazione nel senso preciso in cui va usata, la fantasia essendo legata alla percezione cioè al momento passivo e l'immaginazione invece legata all'intelligenza. Fantasia è "farsi venire in mente"; immaginazione è "costruire volutamene un sistema". Quindi l'immaginazione è, dal punto di vista dell'intelligenza, il momento attivo che fa uso della meccanica, della meccanica combinatoria, che però non è meccanica [non è involontaria], è voluta; mentre la fantasia, che non fa uso della meccanica, per il fatto di essere passiva, è essa stessa qualcosa di meccanico [di passivo e involontario]. 8.7. Ricapitolazione In conclusione si ricapitola quanto fin qui detto intorno alla teoria della conoscenza in quanto fondata sulla sensazione oppure sulla percezione. Ci sono due diverse teorie della conoscenza secondo che la conoscenza si consideri fondata sulla sensazione o sulla percezione. Ed è duale questo sistema, o l'una o l'altra, non entrambe le cose. Quella della sensazione è quella aristotelica ed è quella della transazione continua dalla sensazione all'intelletto attraverso gradi di astrazione. L'operazione che l'intelletto compie più di frequente è quella astrattiva: evidenziazione delle essenze. Tra intuizione sensibile e intuizione intellettuale c'è solo differenza di gradazione, non c'è un salto. Dall'altra parte la teoria della conoscenza è fondata sulla percezione: gli elementi della rappresentazione si raggrumano in Gestalt. Le catalessi sono gli oggetti di percezione. Ciò che conta distinguere è che nel sistema aristotelico si danno da una parte "oggetti" e dall'altra "sensazioni". Nel sistema alternativo stoico gli oggetti fanno parte dell'apparato conoscitivo e, come è già stato detto, non se ne esce mai se non attraverso il momento pragmatico. Ma vediamo di nuovo.
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L'oggetto è semplicemente ciò che viene percepito quando assume il carattere della costanza percettiva. Pensate alla varietà delle rappresentazioni prospettiche e all'identità dell'immagine. Pensate anche alla frase nella melodia: nella melodia io non ricordo più i singoli toni, però ricordo la melodia che in questo caso rappresenta una costanza di percezione. Sapete che la melodia permane identica anche se io cambio la tonalità252. Questo dà l'idea di che cosa sia la katalepsis: L'apprensione dell'oggetto è la catalessi. Quindi dire "oggetto di percezione" è lo stesso che dire "la percezione una volta avvenuta", non si dà un oggetto prima e una percezione poi. Invece di "l'oggetto di percezione" sarebbe meglio dire "il percetto" o "il percepito". Naturalmente poi ogni volta che c'è un percetto esso può fungere da elemento di un'altra costruzione, quindi ci sono percetti di percetti e così via. Ma fino a un certo punto, perché poi la ricchezza stessa di queste combinazioni conduce allo sfascio. Anche perché non tutte le percezioni che noi abbiamo, oltre un certo livello, sono tra loro congruenti. Di qui si destruttura la vita psichica fondata esclusivamente sulla percezione. A questo punto gli elementi della vita psichica vengono a darsi in maniera diversa, come elementi non più strutturati ma destrutturati. In realtà si sta strutturando il sistema di elementi che io posso col pensiero organizzare in un'altra maniera. Vedete come destrutturazione e ristrutturazione intervengono nella complessità della vita psichica. Dove è diverso questo schema [emerso dopo la ristrutturazione]? È diverso in quanto la ristrutturazione operata dal pensiero non è più isomorfa con la percezione. Se tale fosse non ci sarebbe nessun bisogno che questa intervenisse. In tanto ristruttura in quanto ricava strutture diverse. Melandri reintroduce l'argomento funzionale ma subito avverte che ha uno scopo didattico e che sarebbe meglio ragionare facendone a meno perché: 252
Vedi n. 204.
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Non è il fatto che [la ristrutturazione serva a qualcosa] a spiegarne il funzionamento: una cosa non è fatta così perché serve, serve perché è fatta così. Parlare di "cosa" qui confonde le idee: se la cosa in oggetto appartenesse a una categoria merceologica, se fosse un manufatto, allora ci sarebbe ragione di spiegare come è fatta in funzione di ciò a cui serve. Ma si sta parlando di percezione e di ristrutturazione del campo psichico. Perciò io leggo qui una critica non alla teoria dell'evoluzione, ma a quelle errate interpretazione dell'evoluzionismo che dimenticano il carattere meccanico, nel senso di non-finalistico, sulla base del quale si compie la selezione. Una variazione nel corredo genetico si produce per un errore di reduplicazione della cellula. Se la variazione produce un fenotipo che favorisce la sopravvivenza in un ambiente dato, l'individuo si riproduce, la variazione si propaga e la specie evolve. La confusione è data dal termine "selezione" che include nella sua area semantica qualcosa di attivo, volontario e magari "creativo". La meccanica è una grande forza dell'interazione nei meccanismi inconsci, ma attenzione a non barare al gioco. Perché c'è tutta una retorica della creatività, di pensiero confuso ma generoso, che forse va bene in pedagogia ma qui io lo eliminerei. La meccanica è una grande risorsa del pensiero, è un grande trionfo della scienza e non va confusa con il meccanicismo. A questo punto della lezione Melandri lascia la teoria della percezione per dedicare alcuni minuti ad introdurre il tema "grammatiche" al quale aveva fatto cenno già in più occasioni e che si accinge a sviluppare. Cosa che farà soprattutto nella prossima lezione. Pertanto mi permetto di spostare l'inizio dell'argomentazione avanti di un passo.
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9.1. Grammatiche Il discorso intorno alle grammatiche inizia con due brevi premesse. Prosegue con una presentazione storica che approda alla diversa concezione della modalità come ragione fondante per la diversa classificazione del verbo, quella latina che risale ad Aristotele e quella greca che risale agli Stoici. Primo, nel descrivere le posizioni grammaticali intenderemo qui parlarne sempre dal punto di vista della filosofia del linguaggio, non dal punto di vista della grammatica; secondo, dobbiamo tener presente, l'avevo detto all'inizio del corso, che la dottrina del linguaggio dell'epoca, non conosceva ancora una grammatica molto elaborata; tutto quello che anteriormente agli Stoici veniva detto a proposito del discorso era semplicemente la distinzione tra onoma e rhema, tra nome e verbo. Solo con gli Stoici intervengono ulteriori distinzioni, quelle anche a noi consuete, che sono le parti del discorso, nome o sostantivo, aggettivo, verbo, avverbio, preposizione e così via; i casi che inizialmente non erano stati classificati: nominativo, genitivo, dativo, vocativo, accusativo; e inoltre la coniugazione del verbo. Tenete presente che nel verbo si esprime l'anima della proposizione.
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La coniugazione del verbo presuppone che uno faccia una classificazione del verbo: prendete i modi e li dividete in tempi, oppure partite dai tempi e dentro i tempi poi mettete i modi. Nelle grammatiche latine e italiane la divisione della coniugazione del verbo è data prima con la divisione dei modi e poi, nei modi, dei tempi. I modi sono indicativo e congiuntivo; l'indicativo si divide in presente passato futuro; il congiuntivo in presente passato futuro. Anche nel congiuntivo c'è il futuro, benché non abbia una morfologia a parte. L'altra classificazione, a noi meno famigliare, è quella che invece tutt'ora esiste nelle grammatiche greche. Per cui si dice che il verbo greco è diverso da quello latino perché si divide prima nei tempi poi nei modi. In una eventuale ricerca si tratterebbe di stabilire se questa inversione di rappresentazione grammaticale che si dà passando dal greco al latino sia dovuta a una moda grammaticale o sia dovuta a una qualche proprietà intrinseca della lingua stessa. I presupposti per fare questa ricerca sono la conoscenza del greco, anche se non molto fine, e quella del tedesco per la letteratura secondaria. Vi dico subito che non credo che le lingue portino scritte in sé i modi con cui vadano classificati i verbi. A me sembra che i verbi potrei classificarli in qualsiasi modo, per esempio potrei classificare i verbi secondo il numero delle lettere; qualsiasi ordinamento va bene. Quelli che hanno inventato il linguaggio non è che si sono messi lì un giorno e han detto: "bene adesso facciamo il verbo con tutte le sue coniugazioni". Io penso che si tratti di una diversa esemplificazione grammaticale e la prima sia una grammatica di derivazione aristotelica. La seconda si sa che è stoica. Perché è aristotelica la prima? Perché corrisponde a una concezione aristotelica dell'ente e l'ente si divide in possibile e reale. Se è possibile dovrei usare il congiuntivo, se è reale l'indicativo. Il modo indicativo è il modo assertorio. Per ciò che è vero o falso devo usare l'indicativo. Se invece di "modo indicativo"
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dite "modo assertorio" si capisce meglio; lo stesso se invece di dire "congiuntivo" dite "modo possibile". È proprio della concezione aristotelica vedere prima i modi e poi i tempi. Lo riprenderemo nella nozione di logica modale, vedremo come nel sistema aristotelico i tempi siano semplicemente sussidiari dei modi. Nella concezione stoica la modalità si spiega attraverso il tempo, essendo possibile ciò che non è ma sarà; essendo necessario ciò che è, poi sarà253. La concezione aristotelica è più moderna, questo credo di poterlo dire no? Le modalità dell'essere sono ontologiche, sono definite, su due categorie dell'ente che sono il possibile e l'attuale, la dynamis e l'energeia. Il passaggio dalla potenza all'atto è dato nel tempo. Il tempo è ciò che spiega e che serve a spiegare il passaggio dalla potenza all'atto. Diciamolo in maniera più filosofica: il tempo è il passaggio dalla potenza all'atto. Diciamolo in maniera linguistico-filosofica: il tempo è il passaggio dal congiuntivo all'indicativo, posto che i congiuntivo lo usiamo per esprimere il possibile, perché non sempre usiamo il congiuntivo per esprimere il possibile, usiamo anche il vocativo e il condizionale. Il congiuntivo è anche un modo obliquo che si usa o per riferire il discorso altrui o per introdurre una subordinata o per cambiare la modalità dell'asserzione, per esempio per indebolirla. L'altra visione, in cui prima si danno i tempi e poi i modi, è più interessante ed è quella della grammatica greca. Perché sarebbe stoica? Perché le prime grammatiche della lingua greca le hanno scritte gli Stoici e pour cause in quanto non erano di lingua materna greca254. 253
La logica modale, come già detto, è argomento che verrà approfonditamente trattato in diversi momenti ulteriori del corso; basti qui rilevare che le definizioni modali stoiche sono calate nella temporalità cosicché, ad es., la definizione della necessità è definizione della necessità-in-un-momento; cfr. Kneale p. 143. 254 Qui Melandri dice testualmente: " Cito: La loro lingua materna era l'aramaico, avevano le lingue semitiche come lingue materne". In La Stoa la citazione non si trova. Può darsi che Melandri citasse un'altra fonte che non ho a disposizione: Max Pohlenz Stoa un semitismus, Neue Jahrbücher für Wissenschaft und Jungendbildung, 1926. In La Stoa, p. 26, si legge che Zenone aveva come lingua materna il fenicio che probabilmente già in giovane età conosceva
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A questo punto si connette la tesi di Pohlenz che insiste molto sul carattere culturalmente e razialmente diverso dei filosofi ellenistici, in particolare gli Stoici, rispetto ai greci255. Prescindiamo dai Megarici, che sono greci (noi consideriamo tra i megarici Diodoro Crono e Filone di Megera). Zenone di Cizio è di origine fenicia, Cizio è nell'isola di Cipro; Cleante di Asso era greco ma degli Stoici antichi è anche il meno significativo; poi viene il più importante che è Crisippo di Soli, in Cilicia, di nuovo fenicio. Crisippo ha acquisito un carattere greco venendo ad Atene. Non desta meraviglia che non essendo gli Stoici di lingua materna greca, dovessero dedicare molto tempo allo studio di questa lingua così difficile e per loro indispensabile per fare filosofia, giacché la filosofia era legata, come lo è tutt'ora credo, agli studi superiori di lingua. Grammatica, retorica e dialettica, ricordate il trivio vero? La definizione medievale del quadrivio e del trivio risale fin qua. Gli studi superiori, [diciamo] universitari, non credo contemplassero più la grammatica ma certamente la retorica e la dialettica. La retorica perseguiva come campo di esercitazione riunito sopra i generi letterari, la critica letteraria, il commento di Omero e così via, dato che i testi di Omero erano assunti come pretesto per acquisire una cultura enciclopedica. Come del resto potete ancora vedere nella Commedia di Dante. La Commedia di Dante
il greco. Si legge poi, p. 39, che le monete di Tarso (Cilicia), città di origine della famiglia di Crisippo, e almeno in un caso di Soli (Cilicia), recano iscrizioni in aramaico. Da ciò si potrebbe evincere che la lingua materna di Crisippo fosse l'aramaico. Galeno scrive che Crisippo avrebbe imparato il greco in età adulta e che commetteva abitualmente errori di lingua, cfr. SVF B 24 1. 255 In tutto questo passo Melandri riassume e sintetizza il pensiero di Pohlenz espresso nelle pagine 25-47. La tesi sulla quale Pohlenz insiste in questo esordio dedicato alla personalità dei fondatori e ai problemi connessi all'esposizione della dottrina stoica è certamente centrata sulle origini semitiche di Zenone, Crisippo e di alcuni discepoli della Stoa; il suo intento è quello di "analizzare il sistema filosofico stoico per vedere se riusciamo a scoprire in esso elementi non ellenici e, in caso affermativo, domandarci se tali elementi si spiegano con quanto possiamo supporre intorno alle caratteristiche spirituali dei fenici"., cfr. p.47. Da ciò si evince sia un interesse verso una cultura diversa da quella ellenica, sia un interesse verso la Stoa quale "centro spirituale di quella società etnicamente composita che era il mondo ellenistico […]", cfr. p. 45. Questi interessi esorbitano totalmente dalla ricostruzione del pensiero stoico attuata in questo corso da Melandri.
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ha come sua motivazione, anche se non viene mai detto, quella di costituire un'enciclopedia dello scibile del suo tempo. Attraverso la Commedia voi acquisite tutta la cultura medioevale in maniera, secondo Dante, divertente. Lo vedete questo aspetto di divulgazione scientifica che c'è nella Commedia? Prescindendo dai fatti di cronaca del suo tempo, Dante tratta di tutto, dall'astronomia alla filosofia. Così erano letti anche i testi di Omero, come supporto in base letteraria per indagare su tutta la struttura dell'ente. Pohlenz dice che la forma fondamentale del verbo nelle lingue semitiche non indica né il modo né il tempo ma indica prima di tutto il carattere dell'azione, se l'azione sia durativa o perfettiva, continuata o non continuata. Nelle lingue semitiche non si indica il tempo, il tempo viene espunto dal contesto dell'azione. Nel leggere e nel pensare in una lingua semitica bisogna porre anzitutto l'attenzione al carattere dell'azione, quindi al tempo da espungere dal contesto e infine al modo che si espunge dalle prime due. La successione dunque è: carattere dell'azione, tempo e modo. Il bello è che corrisponde alle grammatiche greche dove avete la divisione del verbo in flessioni che indicano tempi determinati oppure tempi indeterminati e i tempi determinati si dividono in durativi e compiuti; i tempi determinati durativi sono il presente e l'imperfetto; i tempi determinati compiuti sono il perfetto e il piuccheperfetto; i tempi indeterminati, gli aoristi, sono nel futuro il futuro; nel passato l'aoristo. Inizia la lettura dal Pohlenz: Il tratto fondamentale di questo schema è che il principio classificatore non viene desunto dai tre tempi fondamentali (presente, passato, futuro), ma dall'"aspetto" dell’azione. Qui la dottrina di Zenone si contrapponeva a quella di Aristotele che nella poetica (cap. 20) aveva formulato la differenza del verbo rispetto al nome spiegando che le varie forme verbali indicano un determinato momento nel tempo, come il presente o il passato. Proprio in questo punto i grammatici, che per il resto accettarono la teoria dei tempi elaborata dagli Stoici, se ne allontanarono, preferendo la suddivisione basata sul momento
214 Capitolo I sugli Stoici 214 Enzo Melandri in cui avviene l'azione (cfr. Dioniso Trace, 53, 1). Il motivo che condusse la Stoa ad assumere, qui, una posizione isolata è evidentissimo: nelle lingue semitiche le forme fondamentali del verbo come (qatal e jiqtol) non indicano in realtà se non il carattere perfettivo o durativo dell'azione, mentre il fatto che essa si svolga nel presente, nel passato o nel futuro risulta solo dal contesto sintattico. Nessun dubbio che la concezione stoica della struttura del linguaggio sia stata determinata dal modo di sentire semitico; e non mancano indizi sicuri per stabilire che anche in questo caso la via fu tracciata dal fondatore stesso della scuola.256
Si ha l'impressione che la discussione intorno al diverso modo di classificare i verbi, tema al quale Pohelz, per quanto attiene alla classificazione stoica, dedica molto spazio, non abbia altro interesse per Melandri se non quello di collegare le due diverse classificazioni a un motivo ispiratore diverso e alle diverse dottrine della modalità che ne derivano. Si postula dunque un'influenza dell'aristotelismo sulle grammatiche latine mentre la codificazione di quelle greche è testimoniata257. La centralità del verbo in questo discorso sulle grammatiche diviene chiara qui di seguito aprendosi l'analisi alla nozione di "azione". 9.2. Logos I Bene, su questa tesi su cui insiste molto Pohlenz, sul carattere orientale della filosofia ellenistica, in particolare lo stoicismo, come vi ho detto pongo molta resistenza. Non mi sembra che spieghi molto. Tuttavia alcuni punti possono benissimo essere validi. 256
Pohlenz p.79. Ibid, p. 81 " Dioniso Trace [II sec. a. C.] derivò dal manuale di Diogene di Babilonia [III-II sec. a. C.] non solo il piano e la struttura della sua techne ma anche la terminologia, l'intera teoria della flessione nominale e molte altre cose. Il suo succinto manualetto divenne la pietra angolare su cui costruirono i grammatici greci delle età successive. E anche i romani risalirono a lui o a una trattazione analoga alla sua. Attraverso la mediazione romana la scienza della grammatica giunse all'età moderna ed ebbe un valore normativo per tutta la civiltà occidentale". Va osservato che nonostante l'influenza degli Stoici sulla codifica delle grammatiche sia latine che greche, per quanto attiene al verbo, secondo Melandri, i greci rimasero aristotelici. Aristotele, come si è detto, non portò un grande contributo in questo campo per cui non c'è da meravigliarsi se Dioniso, alessandrino, accogliesse il contributo stoico salvo nell'unica parte su cui si era pronunciato lo Stagirita. 257
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La concezione delle modalità, così diversa da quella aristotelica, può essere un punto. Altre concezioni per quanto riguarda il linguaggio, per quanto riguarda la teologia si potranno accertare. Per quanto riguarda però la filosofia in sé, non vedo che cosa c'entri. Anche perché a me risulta che la concezione stoica è molto ben inserita nel pensiero tradizionale greco. Gli Stoici si rifanno ad Eraclito, ma anche senza pensare a Eraclito, ho cercato di farvi vedere velocemente come la concezione stoica si inserisca in un processo di sviluppo del pensiero che parte dai fisiologi. Ho voluto mostrarvi come il concetto di logos derivasse da Parmenide. Il logos ha una grande importanza nella filosofia stoica258. Bisogna evitare di tradurlo con "ragione". Non si sa mai come tradurlo perché nei libri compaiono degli elenchi anche abbastanza sconclusionati di tutte le accezioni che assume questo termine. Non vi consiglio di fare l'elenco, logos vuol dire ragionamento, vuol dire discorso, vuol dire scienza, vuol dire ragione. Le mettete in fila e vien fuori un bel pasticcio. Nel senso stoico logos è la connessione, ed è quello che trovate in Parmenide e nella filosofia arcaica del linguaggio che dobbiamo considerare conclusa con Gorgia. La connessione del logos è quella sintattica tra i termini, è quella che lega i termini per fare delle parole un logos, un discorso dotato di senso, di unità interna e non semplicemente una sequenza di parole. È anzitutto l'unità sintattica del discorso. E poi rappresenta l'ordine del mondo. Come lo rappresenta? Secondo il concetto di rappresentazione per il quale ci siamo rifatti a Cartesio, e non secondo il concetto di rispecchiamento.
258 Pohlenz pp. 54-55: "Per Zenone come per Eraclito, il logos regna tanto nel cosmo quanto nell'uomo e fornisce la chiave per cogliere non solo il significato del mondo, ma anche quello della nostra esistenza spirituale […] il logos doveva dominare in tutte le sue parti la filosofia di Zenone […] era compito della fisica dimostrare come il logos in quanto principio creativo, dà forma al cosmo; dell'etica, come esso indichi all'uomo la meta della vita e costituisca la norma dell'agire. La base della fisica e dell'etica, come ogni altro lavoro scientifico, doveva però essere posta da una dottrina specifica, la 'logica' la quale indaga il logos in quanto principio della nostra esistenza spirituale, esamina le forme e le leggi secondo cui si attuano il pensare e il conoscere e utilizza risultati ottenuti per elaborare una propria metodologia".
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Inutile dire che questo significato di logos non compare esplicitamente nei frammenti. In SVF i frammenti in cui compare la parola logos sono quasi tutti rubricati da Von Arnim sotto la fisica e sono dunque di carattere ontologico piuttosto che linguistico. D'altronde, come dice Pohlenz, "gli Elleni [preplatonici] avvertirono dentro di sé la presenza di un intelletto che 'raccoglie' riunisce e 'somma' i diversi oggetti percepiti, le rappresentazioni, le impressioni, sì da conquistare, per questa via, la visione e la comprensione di un tutto; il logos (da legein) consisteva essenzialmente in un dialogo con se stessi e con gli altri [… e] la medesima parola [designa] anche quelle forme espressive che proprio allora stavano conquistandosi un posto accanto alla poesia ispirata […]". Il fatto che le stesse leggi governino sia il cosmo che il nostro pensiero (vedi nota precedente) legittima quindi il rapporto linguaggio-mondo come istituito da Melandri: per il polo del linguaggio, logos significa unità sintattica che conferisce senso al discorso; per il polo del mondo significa "cosmo" visto attraverso le sue leggi ossia la sua struttura. Che poi questo rapporto non sia di rispecchiamento è una tesi più volte argomentata nelle precedenti lezioni. 9.3. Etica Anche se penso all'etica non trovo queste somiglianze. L'etica stoica proprio non mi pare avere molto in comune con le concezioni orientali se prendiamo il solito esempio che tratta il Pohlenz, ossia la Bibbia. L'etica biblica è un etica patetica, nella Bibbia si insiste sulla coscienza come pathos e come luogo di conservazione di una certa emozione. La memoria conserva una certa emozione fondamentale che è quella del patto di Dio con Israele o è anche quella del pentimento, dell'avvilimento e così via. A noi queste cose sono famigliari attraverso l'etica cristiana. Ora, l'etica stoica non ha nulla di tutto questo, l'etica stoica è un'etica apatetica, insegna l'apatia, insegna l'atarassia, il non lasciarsi coinvolgere. È questo infatti un carattere molto greco, molto classico. Le virtù fondamentali dello stoico non sono il vincere sé stesso, anzi è il vivere secondo natura, secondo la natura profonda. Non è richiesto nessuno sforzo eroico per vi-
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vere secondo natura, vivere nascosto – che è più epicureo che non stoico259. La concezione della natura prescinde dal momento drammatico, la coscienza è semplicemente un luogo di registrazione. "Coscienza" va inteso nel senso in cui lo si usa oggi in psicologia. Noterete come il termine "coscienza" abbia due accezioni. Una accezione cristiana dove "coscienza" significa essere coscienziosi, agire in coscienza; e "coscienza" invece come camera oscura dove registriamo come viviamo, cosa facciamo eccetera. Questa doppiezza c'è in molte le lingue, anche nel tedesco Bewusstsein, nonostante in tedesco ci sia la parola Gewissen per indicare la coscienza come coscienza morale, bewusst vuol dire consapevole e vuol dire anche voluto. Poi pensate alle virtù. Non c'è molta compatibilità [col pensiero ebraico e/o cristiano] perché le virtù fondamentali per lo Stoico sono la tolleranza e il disprezzo. Non l'amore, l'amore è un sentimento inferiore per gli Stoici; i sentimenti superiori sono la tolleranza e il disprezzo. Si è tolleranti proprio per il disprezzo. Ancora una volta non si trova corrispondenza letterale nei frammenti ma non bisogna dimenticare il carattere di VSF è quello di una raccolta di fonti dossografiche disperse sull'arco di più di mezzo millennio e che scaturiscono da pensatori spesso molto lontani per sentimento e convinzione dal pensiero degli Stoici del III secolo. Quella di Melandri rimane un'interpretazione personale e in questo caso sintetica di molti frammenti catalogati nell'etica e nell'aneddotica. A mio 259
Quel "vivere nascosto" ovvero "liberarsi dal carcere degli affari e della politica", come si legge nei fr. 122 (= Sentenze Vaticane 58), dell'edizione a cura di Carlo Diano, Epicuro, Scritti Morali Rizzoli, Milano 1987, 123 (= Usener 554), e 124 (= S. V. 81) trova forse un parallelo nel rifiuto di Zenone di recarsi alla corte di Antigono, re di Macedonia, al quale inviò dei discepoli, cfr. VSF A 3. "Vivere secondo natura" è invece precetto sia epicureo che stoico. La diversa concezione della Natura, a mio avviso, è all'origine della conflittualità tra le due scuole rivali. L'atomismo epicureo contempla infatti un margine di casualità estraneo agli Stoici (vedi 10, 1.). Seguire una Natura che contempla il caso può giustificare una condotta senza regole. Nonostante ciò risulti del tutto contrario all'etica di Epicuro, il quale professa una forma estrema di continenza, proprio qui temo nasca quel fraintendimento già nell'antichità consolidato sul significato del termine "epicureo" inteso da allora come "dedito alla sfrenata ricerca del piacere".
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modo di vedere tolleranza e disprezzo possono essere intesi così: disprezzo per i beni materiali (disprezzo socratico che è in tutta la filosofia ellenistica) e le vicende umane e le passioni; tolleranza che scaturisce dalla capacità di tenere distanti le passioni collegate al disprezzo260. Disprezzo che genera la giusta distanza verso le passioni e dunque la capacità di tollerare da parte del prossimo comportamenti spregevoli. Non c'è nessun bisogno per lo Stoico di convertire gli altri261. Non c'è questo bisogno patetico di convincere gli altri, si parla per esprimersi senza nessuna preoccupazione che gli altri ci credano o no. Come vedete l'ispirazione è completamente diversa. Dal punto di vista psicologico è un'etica e una pedagogia che tende al rafforzamento dell'ego, è fortemente egocentrica. Inoltre non dà importanza alle persone, importante è il logos. È importante per esempio non essere menzogneri, non perché la menzogna sia un peccato ma perché nessuno merita la fatica di rispondere delle proprie azioni, è un po' diverso. Non si deve parlare di peccato perché non c'è nulla di cui si abbia bisogno al di fuori di quelle quattro cose necessarie per vivere. Così anche non c'è atteggiamento sessuofobico nell'universo perché il sesso è una stupidaggine qualsiasi262. L'erotismo, nel pensiero cristiano, viene coltivato attraverso la negazione, drammaticamente coltivato, come dimostra la letteratura dell'Occidente che è tutta quanta erotica. Adesso siamo giunti a una svolta, non sappiamo più cosa scrivere nei romanzi no? Anche qui c'è qualcosa di moderno che ritorna 260
Non so quanto l'aneddoto che segue possa essere pertinente ma è abbastanza gustoso da meritare una citazione: Antigono, ubriaco fradicio, dopo averlo infastidito con baci e abbracci, chiese a Zenone di esprimere un desiderio giurando che non avrebbe lasciato insoddisfatta la richiesta; Zenone gli rispose in modo serio e dignitoso "vattene a vomitare!", cfr. VSF A 289. Il disprezzo può esser letto verso la persona come verso il contenuto materiale dell'offerta. Peraltro Antigono, in quanto re invadente, può essere considerato un male necessario da tollerare. 261 Questa sembra invece diretta contro chi vorrebbe leggere nello stoicismo qualche affinità col cristianesimo. 262 Direi che qui il riferimento è non tanto all'etica dell'antica Stoa quanto a quella di un stoicismo più tardo. Per un confronto sulla sessuofobia nei primi secoli del cristianesimo si veda Peter Brown, Il corpo e la società, Einaudi, Torino 2010, ed. or. New York 1988.
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nell'antico, almeno se vedo giustamente la tendenza dei nostri tempi, la tendenza dei nostri tempi è nettamente antierotica, si è introdotta la liberalizzazione sessuale che sembra fatta apposta per generare sazietà e la sazietà è l'antidoto all'erotismo. 9.4. Movimento, azione, comportamento La distinzione di nome e verbo riflette quella tra cose e azioni. Per distinguere cose e azioni vengono introdotte le nozioni di scopo, movimento, comportamento. Volevo tornare, a questo punto, al linguaggio come espressione del logos: le grammatiche precedenti a quelle stoiche distinguevano nome e verbo. Non ci sono altre categorie per indicare la sintassi. Perché nome e verbo? Perché il nome sta per le cose e il verbo sta per l'altra categoria di denotati che sono le azioni. Tutti i denotati di cui abbiamo bisogno per parlare si dividono in due: le cose e le azioni. Non c'è altro? Non c'è altro. Tutto il mondo potete dividerlo, il mondo esterno dico, in queste due grandi classi: le cose - le cose vanno da cose grandi come l'Australia o anche di più a cose piccole come gli atomi e le azioni. Le azioni non rientrano nelle cose? No, le azioni non potete esprimerle con categorie cosali. Però l'azione ha in comune con la cosa di poter essere espressa da un nome. L'azione può essere individuale, può essere collettiva, io posso dare quindi un nome proprio a un'azione, un nome comune, un nome collettivo263; posso dare un aggettivo all'azione, si capisce. Però l'azione in origine è diversa dalla cosa. L'azione intanto è un movimento mentre la cosa può essere immobile, ma non basta il movimento a definire l'azione. L'a263
Nome proprio di azione: la corsa campestre di Vignola; nome comune di azione: corsa; nome collettivo di azione: sciopero.
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zione richiede una carta millimetrata di tipo diverso rispetto a quella delle cose. Richiede altri parametri. I parametri delle cose sono tempo e spazio o tempo e movimento, se volete; quelli dell'azione sono piuttosto lo scopo e l'azione stessa. La categoria di scopo, o di termine, è essenziale per l'azione perché altrimenti vuol dire movimento fisico e non azione. Che differenza c'è tra movimento fisico e azione? C'è che il movimento fisico posso esprimerlo come traslazione di luogo senza aver bisogno di pensare al fine del movimento. Aristotele doveva pensare anche al movimento fisico come azione quando diceva che il fuoco va in alto perché tende al suo luogo naturale. L'animismo è un modo per cui noi vediamo anche il movimento fisico come azione. Nell'azione ci deve essere la rappresentazione dello scopo. Per l'azione occorre il movimento fisico o no? Non occorre, perché l'azione per esempio di stare immobile, che è un'azione che richiede uno sforzo, non palesa alcun movimento fisico. L'azione di non piangere, non urlare, tutte le azioni che si esprimono al negativo non comportano un movimento fisico. L'azione è qualcosa che non ha un carattere fisico, parlo di azione in quanto interpreto qualcosa come se fosse voluta. L'animale gira, va a cercare il cibo: quando si parte da questo, in termini behavioristici, io mi chiedo se è movimento o azione. Nell'osservare il comportamento degli animali diciamo che l'animale evidentemente è in cerca di cibo perché ha fame. È azione vedete? Anche la nozione di comportamento è una nozione di azione o meglio mista di cose ed azioni. Il comportamento non è oggetto di pura osservazione perché richiede l'interpretazione del movimento come un agire. Tenetelo presente questo. 9.5. Scienze sociali e scienze naturali Nei discorsi sulle scienze sociali ci si deve abituare a vedere il mondo diviso in due grandi classi, la classe delle cose e la classe delle azioni, appunto perché tutta la scienza sociale co-
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glie un oggetto in azione. Altrimenti non avreste nessuna scienza sociale. Voi sapete che sul fondamento dell'azione scaturiscono tutte le scienze sociali, l'economia, la sociologia, tutto quello che volete. Se non c'è il fondamento dell'azione non si capisce nulla, cioè non si capisce nulla in senso sistematico, intendiamoci bene, in senso filosofico-sistematico non si capisce nulla. Sono tutte categorie di azione, tutto quello che va dall'economia all'etica passando per la psicologia come psicologia del comportamento, psicologia sociale, sociologia, teologia, mettete quello che volete, ha come base la categoria dell'azione, non della cosa. Mentre la scienza naturale voi potete farla senza categorie di azione. Come vedete scienze naturali e scienze sociali si dividono fin dall'inizio non per una qualche ragione metafisica ma perché hanno un diverso universo di discorso. Che è poi sempre lo stesso mondo ma una volta lo vedo come mondo di cose e di movimenti e una volta lo vedo come mondo di azioni. Se io confondo i due mondi finisco col rendere naturalistica la comprensione dell'azione e viceversa col rendere animistica la comprensione del movimento264. Il primo difetto è a noi più famigliare e si genera in una visione naturalistica di ciò che è l'azione o l'atto, come quando si parla di leggi dell'economia quali fossero leggi di natura; si può dire che noi vogliamo naturalizzare anche l'azione. L'altro difetto, l'animismo, era più consueto agli antichi, ed è consueto ai bambini che tendono a rappresentare tutto secondo una proiezione di sé. Questa proiezione di sé nell'altro che cos'è? È l'interpretazione del comportamento altrui secondo le categorie dell'azione. "Mettersi nei panni degli altri" vuol dire analizzare il comportamento altrui con categorie di azione; costruire un sistema che rende intelligibile il comportamento265. 264
Ricollegandomi al mio ultimo commento nella Lezione VIII posso proporre come esempio di fallacia animistica quella contenuta nell'espressione "sopravvivenza del più forte", espressione che induce a interpretare il cambiamento filogenetico attraverso la categoria dell'azione. 265 Un comportamento diventa intelligibile quando vi associamo una motivazione. Si tratta di un'operazione ermeneutica che si fonda sul principio di analogia. In LC § 11 si legge: "L'idea che si possa capire un altro (nella fattispecie un autore: ma siamo tutti autori in una maniera o nell'altra) meglio dell'autore stesso, si fa sempre più esplicita nella Romantik". L'antitesi alla
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La distinzione tra nome e verbo è una distinzione molto fondamentale. Quindi potete pensare il verbo non in relazione all'altra funzione che ha, la funzione copulativa, quella di unire insieme le parti del discorso, ma per il suo valore nominale. Il verbo in questa funzione si distingue dal nome perché il valore nominale del verbo è legato all'azione, non alla cosa. Lo schema fondamentale distingue tra le cose e le azioni; il passaggio tra cose e azioni è mediato dal fare, non dall'agire ma dal fare266. Tenete presente il sistema platonico-aristotelico perché su questo punto è di una precisione e una coerenza inarrivabile, non è mai stato superato267. Aristotele distingue tutte le scienze in pratiche e teoretiche. Teoretiche son quelle che contemplano l'oggetto senza modificarlo. Mentre pratiche sono quelle che hanno come oggetto l'agire. Il pensiero pratico è quello che mette in moto i mezzi per raggiungere lo scopo268 e analogamente le scienze pratiche sono quelle che perseguono la conoscenza in vista di uno scopo: l'etica persegue il fine della felicità, la politica l'organizzazione della polis, l'economia l'organizzazione della famiglia, la poietica la produzione di un oggetto; le tesi diltheyana del besser verstehen, als sich der Autor verstehen hat è l'assunto solipsistico alienum est ineffabile " cioè ognuno conosce solo i propri stati privati di coscienza. E si può evitare il solipsismo solo adottando il 'principio di analogia'. […] la possibilità del confronto analogico si fonda sul fatto che le differenze fra individui non sono mai così irreducibilmente qualitative da non potersi ricondurre a differenze di grado". 266 Pragmatologia: "0.5.1.2 – La distinzione tra l'agire e il fare può essere posta, classicamente, in questi termini: l'agire trova in sé stesso, cioè nella qualità dell'azione, il suo criterio di misura, che è l'osservanza della norma, e posto che questa osservanza non oltrepassi i poteri dell'attore, ossia del soggetto agente. (Per es., la norma 'non rubare' trova la sua piena attuazione nella rigorosa astensione dal furto da parte dell'attore, posto che quest'ultimo non si trovi nella necessità di rubare, poniamo, per sopravvivere.); 0.1.5.3 – Là dove il fare, il poiein (la poiesis) trova invece il suo criterio nella cosa fatta, cioè nella qualità dell'oggetto prodotto, e ciò indipendentemente dall'azione produttiva. (Per es., il valore di una merce è indipendente, per chi si limiti a usarla, dalla qualità delle azioni necessaria a produrla.)". 267 Platone, Politico, Opere, op. cit. 258 d-e: " Lo Str.: La scienza dei numeri, dunque, e certe altre congeneri ad essa, non [sic] sono prive di rapporti con l'agire e forniscono solo il conoscere? Socr.: È vero. Lo Str.: Mentre invece le arti che si riferiscono al costruire e al complesso dei lavori manuali hanno la relativa scienza connaturata e inerente all'azione, e col concorso di questa esplicano la loro attività nel dare compiutezza di essere ai corpi che esse producono e che prima non erano". 268 Et. nic. 1139 a 35.
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scienze teoretiche perseguono la conoscenza per la conoscenza e non in vista di un secondo fine e comprendono la filosofia prima che indaga le cause prime e i primi principi, la matematica e la fisica269. Nella Metafisica troviamo però una tripartizione, Aristotele dice "ogni attività del pensiero [dianoia e non episteme] è o pratica o produttiva o contemplativa"270. Di qui la tripartizione ripresa anche da Ross: "Le scienze sono divise da Aristotele in teoretiche, pratiche e poietiche; lo scopo immediato di ciascun genere è quello di conoscere ma i loro scopi ultimi sono rispettivamente la conoscenza, la condotta e la fabbricazione di oggetti utili e belli". 271 Questa tripartizione è ripresa nei Topici272. L'attività produttiva non risulta invece in un altro passo della Metafisica273, né è ripresa dai successori di Aristotele. Noi traduciamo episteme sia con "scienza" sia con "conoscenza" e di qui forse l'equivoco indotto nell' includere tra le scienze (come fa il Ross) anche le poietiche alle quali infatti Aristotele dà un nome diverso: technai (di fatto, salvo nella classificazione suddetta, il termine techne è tradotto con "arte, ma andrebbe ancora meglio "tecnica di produzione"; a questo proposito Melandri ricorda della distinzione in Aristotele tra arti e scienze che le arti hanno effetto sopra un oggetto in divenire, le scienze misurano ciò che del divenire permane identico). La continuità tra Platone e Aristotele consiste nel distinguere le scienze tra quelle che forniscono la conoscenza e quelle che sono in rapporto con l'agire. La discontinuità sta nel fatto che Aristotele include la conoscenza della natura tra le scienze che forniscono la conoscenza compiendo così quel passo fondamentale per il pensiero scientifico che consiste nella rivalutazione della conoscenza del mondo sensibile. La contemplazione dell'agire non è data, nel senso che se io contemplo l'agire, agisco contemplando, [quindi compio un'azione che modifica l'oggetto.]
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Met. 980 a e sgg. Met. 1025 b 25. 271 Op. cit p. 27. 272 Top. 145 a ma anche Et. nic. 1139 a 27. 273 Met. 993 b 18 e Et. eud. 1214 a 8-12.
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Nell'agire poi si distingue: l'azione, che ha come fine sé stessa ed è l'etica; qualcosa è etica quando ha il suo criterio in sé stessa; e la poietica, io tradurrei come arte produttiva; la definizione suona: ciò che ha il criterio nell'oggetto prodotto. Il criterio dell'arte del vasaio è il vaso che il vasaio produce e non la virtù del vasaio. Se io considero la virtù del fare i vasi indipendentemente dai vasi ne nasce qualcosa di etico, una capacità etica; se la capacità la esercito, allora l'oggetto prodotto viene a costituire il criterio dell'azione. Ecco, vedete c'è la distinzione ma c'è anche il passaggio fra le due cose, esattamente come facciamo noi oggi perché anche noi potremmo dividere le scienze in scienze teoretiche e scienze pratiche e mediare le due cose mediante un terzo tipo di scienze che sarebbero in questo caso tecniche, vero? Infatti è quello che succede: la medicina è una scienza poietica perché produce la salute, ma la medicina dovrebbe produrre l'effetto della guarigione attraverso l'azione del medico che utilizza la scienza a questo scopo. Quindi cos'è la scienza della medicina? È la biologia come scienza teoretica e la medicina come scienza pratica. Lo stesso per l'ingegneria, la parte teoretica saranno le leggi di fisica, la parte pratica quella di approntare dei marchingegni per la vita dell'uomo. Quindi non date retta a quelli che vi dicono "ma ormai le distinzioni tra le scienze sono superate, si va verso l'interdisciplinarità". La distinzione tra le cose e l'azione è una distinzione di fondo. Non si può superare se non per approdare nel vastissimo campo della confusione mentale. Non si può superare questo, e non c'è nessun bisogno di superarlo, ci mancherebbe altro. Al di là della nota polemica merita sottolineare quello che mi pare il nocciolo del pensiero: solo mantenendo ferma la distinzione tra cose e azioni, tra scienze pratiche e scienze teoretiche si può riconoscere il ruolo di mediazione che le tecniche di produzione attuano tra le due istanze.
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9.6. Conclusioni sul verbo Adesso vediamo di concludere la nota sul verbo. In Aristotele c'è nel De interpretatione la distinzione tra nome e verbo dove dice che il verbo, in più del nome, contiene il tempo274. La funzione del verbo guardando la grammatica, è triplice: c'è l'espressione del tempo da cui l'azione; c'è la qualifica dell'azione: il valore nominale del verbo; e c'è la funzione copulativa: il verbo tiene insieme tutti gli oggetti dei casi, nominativo, accusativo, dativo ecc. Prendiamo "il cane abbaia": "abbaia" contiene l'espressione del tempo: adesso; "abbaia" contiene il nome dell'azione: l'azione di abbaiare. Inoltre c'è la copula "è" la funzione del verbo che tiene insieme tutte le parole che compongono la frase. Sono tre funzione distinte. Perché sono distinte? Perché io potrei sempre distinguere: "il cane è un abbaiante" nell'ora x dove usando la copula esplicitamente intendo mettere in evidenza solamente i legami, non il tempo e nemmeno l'azione. Posso esprimere il tempo con una terna, quindi non ho bisogno di ricorrere alla coniugazione del verbo. Posso esprimere la qualità dell'azione attraverso un nome, un participio presente. Quello che occorre è che sia distinto il nome dell'azione dal nome di cosa e in questo nome d'azione, come "abbaiante", rimane sempre il carattere dell'azione. La qualità dell'azione la devo esprimere con una forma verbale apposta, non c'è niente da fare, anche se la stacco dal verbo è sempre una for274
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ma particolare, non c'è modo di esprimere l'azione attraverso nomi di cose. In Aristotele la questione è trattata molto male, il verbo in Aristotele si distingue dal nome semplicemente perché il verbo ha il tempo e il nome non ce l'ha, il nome, dice, è parola senza tempo275. No, non è questo, il tempo è proprio una determinazione estrinseca, la si può mettere da parte; quello che conta del verbo, a parte la funzione copulativa, è il fatto che deve esprimere l'azione. La funzione copulativa la potrei anche esprimere diversamente. Come si esprime per esempio in matematica? Mediante l'equazione e il segno di equazione. Se dico: a=b la copula è "="; "a" e "b" sono due nomi. Oppure posso mettere "y è in funzione di x nel tempo t": y = f(xt) la funzione "=f" vuol dire "è"; "è" è la copula; "X" e "Y" sono le variabili, che sono nomi, nel tempo t. Vedete la differenza tra la matematica e il linguaggio ordinario? Nella matematica non c'è l'azione. È interessante riflettere al perché gli antichi filosofi del linguaggio avessero bisogno di questa distinzione. Ne avevano bisogno perché per gli antichi era importante fissare il mondo delle cose indipendentemente dall'azione, onde evitare la fallacia animistica.
275
Ibid.
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9.7. Logos II Voi vedete come la Bibbia presenta il mondo: lo presenta come creazione. È così in tutte le antiche scritture. Non riescono a presentare il mondo come è, bisogna presentarlo come se fosse fatto. Vedete la coazione a vedere il mondo animisticamente com'era forte? Terra autem erat inanis et vacua, et tenebræ erant super faciem abyssi: et spiritus Dei ferebatur super aquas 276. Come descrizione del mondo è abbastanza misera. Per chi non conosceva la fisica tuttavia era il mondo. Perché è presentato come creazione? Proprio per questa coazione animistica. La visione primitiva è quella di vedere il mondo coinvolto nell'azione secondo la proiezione degli atti della vita quotidiana che ordiniamo in qualità. E invece fu una grande conquista riuscire a vedere il mondo alienato dalla creazione, come un mondo di cose. Noi oggi invece siamo continuamente esposti alla fallacia inversa, cioè a vedere come un mondo di cose anche quello delle azioni. Sono proprio due modi diversi con cui parlare del mondo. Fu una conquista non da poco riuscire a separare le acque del cielo da quelle della terra, per usare un'immagine biblica. Cioè riuscire a separare il mondo delle cose dal mondo delle azioni per poter studiare le cose. Per poter assumere finalmente un atteggiamento di stampo euristico laddove era invalso un atteggiamento acritico. Una delle conseguenze è lo squilibrio che salta fuori nel concetto di logos. Vi dicevo come l'iniziatore del pensiero scientifico sia Parmenide, non Eraclito. Il logos, eracliteo, che è un principio costante in mezzo a tutte le contraddizioni, è ancora troppo animistico per poter dar luogo a una visione scientifica. Che cosa vuol dire logos? Qui noi facciamo molta confusione. Il logos sembra essere un principio di ragione. Però, vedete, cos'è che è razionale? La parola "razionale" come la usate 276 Genesi 1, "In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque".
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voi? Vorrei costringervi a fare questa riflessione: usate la parola "razionale" per dire che l'atomo è razionale? Oppure usate "razionale" per descrivere l'azione? Io penso di non ingannarmi se rispondo per tutti che usiamo "razionale" piuttosto per un contesto di azioni. Perlomeno Kant avrebbe risposto così, avrebbe detto, la ragione, la Vernunft si applica al mondo morale, non al mondo delle cose. Il mondo in sé, inteso come natura, non è razionale, non è nemmeno irrazionale. È quello che è. La razionalità è una relazione che concerne soprattutto il rapporto mezzo-fine: quando giudico se qualcosa è razionale in realtà giudico se è funzionale rispetto al fine, non posso giudicare diversamente, altrimenti dico che è bello non dico che è razionale rispetto al fine277. E allora come indicheremo ciò che è regolare? ciò che si segnala per la proprietà di incastro, di regolarità, di corrispondenza? Possiamo dire che la razionalità è il criterio di efficienza del rapporto mezzo-fine. Non possiamo dunque dire che la regolarità sia razionale. Come qualifichiamo allora la regolarità che si riscontra nei fenomeni?
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Scrive Melandri nella Pragmatologia: 2.3-2.3.4 "Secondo Max Weber il codice significativo dell'agire sociale è dato dal suo tipo e grado di razionalità. Egli dunque fonda il Verstehen sulla razionalità (s'intende, 'pratica') dell'azione. [… L'agire sociale risulta] intersoggettivamente comprensibile quando è 'razionale-rispetto-allo-scopo' (o zweckrational): l'azione sta allo scopo come il mezzo sta al fine. […] razionale-rispetto-al-valore (o wertrational): l'azione dipende dal valore come una conseguenza dalla premessa, la quale qui funge da norma. […] irrazionale sia rispetto-allo-scopo, sia rispetto-al-valore […], ma che risulta tuttavia intersoggettivamente comprensibile in quanto affettivamente, in particolare emotivamente condizionato: l'azione è difettiva rispetto a qualsiasi criterio di razionalità, però il divario si rende comprensibile per empatia (o simpatia, positiva o negativa) con analoghe situazioni emotive di cui tutti abbiamo fatto esperienza. […] pratico-irrazionale, incomprensibile anche emotivamente e/o psicologicamente, ma che risulta tuttavia comprensibile, intersoggettivamente, in quanto tradizionalmente (per abito etnico-culturale) condizionato: l'azione è razionalmente difettiva [… però] si rende comprensibile mediante assimilazione mimetica del momento folklorico, selvaggio o anche storicamente alienato. […]". Cfr. Max Weber, Alcune categorie della sociologia comprendente (1913), in Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino1974, ed. or Tübingen 1922.
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Quante situazioni conosciamo in cui la ricerca si orienta a vedere la ragione nascosta del fenomeno, come volete chiamarla questa ragione nascosta? Quella che Aristotele avrebbe chiamato causa formale? È la ricerca, se c'è, della struttura, come modo razionale di spiegare i fenomeni. Ma allora è lo spiegare che è razionale. Perché la ricerca di struttura è un modo razionale di spiegare i fenomeni? E qui andiamo nell'ambito dell'economico: perché lo si ritiene utile, perché una volta capita la struttura la si è capita per sempre, per ragioni di questo genere. E sono ragioni economiche e le ragioni economiche sono di nuovo ragioni pratiche [volte] all'azione, non sono ragioni in sé. La regolarità, se c'è, si qualifica di per sé; la razionalità riguarda il rapporto tra i mezzi, le risorse che mettiamo in campo per riscontrarla e i risultati che otteniamo. La razionalità, in quanto criterio di efficienza mezzo-fine, è misura di utilità. La confusione è anche determinata dal fatto che nella versione aristotelica il nous, l'intelletto, è razionale nei due sensi. È razionale perché è lo strumento con cui il mondo si avvicina alla rappresentazione divina com'è esemplificata dalle sfere celesti; ed è razionale in quanto principio d'ordine del mondo stesso. Il primo senso connota un principio strumentale di avvicinamento al divino; il secondo rimanda a un principio di ordinamento che in quanto tale è un principio di ragione che ha tuttavia una utilità, un fine: Ma vedete, in tutt'e due le cose che vi ho detto prevale ancora il carattere dell'azione. L'intelletto è razionale perché orienta il mondo finalisticamente e agisce sul mondo. Come nous poietikos, attualizza la potenzialità di quest'azione che si dà nel mondo. Di nuovo abbiamo una visione cosmologica che è animistica.
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Negli Stoici, c'è lo stesso orientamento finalistico per quanto riguarda la cosmologia. La cosmologia degli Stoici è pressoché identica a quella aristotelica. La cosa non dovrebbe stupire perché questa cosmologia di cui parla Aristotele non l'ha inventata Aristotele, è il quadro sinottico della cultura astronomica, fisica eccetera di quei tempi. Quindi anche negli Stoici c'è lo stesso orientamento finalistico per quanto riguarda la cosmologia intesa in senso morale e fisico. Però in questo caso non si parla di logos, in questo caso gli Stoici non parlano di intelletto, parlano del fuoco, parlano di altri principi. Curiosamente il logos è invece interno alla logica. E allora non come razionalità ma come principio di ragione, principio di ragione sufficiente, principio di ragione necessaria, nel senso logico della parola ragione. In Aristotele no, infatti Aristotele non usa la parola logos se non per indicare, nell'Organon, il termine tecnico che indica la proposizione. Altrimenti lo usa come termine generale. 9.8. Logica Ora, sullo studio della logica, voi avrete già cominciato a leggere e imparare i manuali. Quello che è scritto nei manuali rimanda a testi dell'Ottocento. In questo i manuali spesso dicono cose che non sono molto aggiornate. I risultati del lavoro di Mates sulla logica stoica non sono ancora apparsi nei manuali278. C'è un ritardo dovuto a tante cose di cui la principale è che i manuali si copiano uno con l'altro e raramente vanno alle fonti per confrontare le idee. Sia Gomperz279 che Prantl 280, dicono che gli Stoici dipendono da Aristotele per la logica. Questo non è vero. Adesso vi leggo Bocheński:
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Melandri si riferisce ai manuali di filosofia, o meglio, di storia della filosofia, dove trattano la logica stoica, non si riferisce qui ai manuali contemporanei di logica simbolica e nemmeno alle storie della logica contemporanee quali quella di Bocheński e dei Kneale che invece hanno preso atto del lavoro compiuto da B. Mates e da J. Łukasiewicz. 279 Theodor Gomperz, op. cit. 280 Karl Prantl, op.cit.
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Non si può tuttavia dire che il loro pensiero logico si sia sviluppato fuori dall'influenza di Aristotele.281
Non si può dire che è fuori dall'influenza di Aristotele, tuttavia è indipendente da Aristotele. Non è al di fuori di Aristotele perché: Al contrario sembra che abbiano sviluppato proprio quelle idee che compaiono per ultime nell'Organon. Troviamo per esempio una formulazione più esatta delle regole usate da Aristotele nell'assiomatizzazione della sillogistica e da lui parzialmente formulate. Non si può neppure negare che svilupparono la propria teoria dei sillogismi che si fondano su un'ipotesi basandosi principalmente sul lavoro preparatorio di Teofrasto. E, in generale, rivelano comunque tracce, soltanto in forma più marcata, dello stesso spirito di Aristotele, cioè dello spirito della logica formalizzata.282
Un'altra novità è questa: In molte delle sue forme non analitiche Aristotele dipende direttamente dalle discussioni preplatoniche e platoniche, e questa dipendenza è ancora maggiore nel caso dei pensatori megarico-stoici.283
È questo che mi fa pensare, cioè che dei pensatori megarico-stoici non è possibile render conto senza Aristotele il quale però sembra dipendere da formulazioni più arcaiche. Accade spesso che traducano queste discussioni dalla logica dei termini alla logica proposizionale, e si può capire come siano stati loro, e non Aristotele, a farlo su tale scala. Aristotele rimase sempre in fondo, un allievo di Platone che cerca le essenze e quindi risponde alla domanda: "A appartiene a B?" I megarici invece partono dalla domanda preplatonica: "come si può confutare l’enunciato p?"284
Bisogna spiegare un po' meglio. Il carattere della logica arcaica e anche della filosofia del linguaggio che ho chiamato ar281
Bocheński § 18, C, p. 149. Ibid. 283 Ibid. 284 Ibid.
282
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caica, da Parmenide a Gorgia, è l'impianto proposizionale dell'interrogazione. Il logos e non l'epos, non la parola, è alla base della discussione. Posso chiedermi, come dice qui Bocheński: "A appartiene a B?" Oppure mi posso chiedere: "p?" Vedete la diversità di domanda? Nel primo caso io trascuro il discorso generale per entrare in merito ad A e B; sia il cerchio indicato con A rappresentativo dell'area semantica ricoperta da questo termine; sia il cerchio indicato da B rappresentativo dell'area semantica di B, dicendo "A appartiene a B?" mi chiedo se A sia incluso in B o se sia una parte di A che sia compresa in B.
Diagrammi 9.1-4. A appartiene a B? Io do già come assodato concetti come area semantica, inclusione, universo di discorso e così via. Cioè la domanda rischia di diventare viziosa proprio perché interviene già troppo sullo specifico. Mentre quando io mi chiedo, come dice qui
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Bocheński, "come si può confutare p?" la domanda verte sul vero e sul falso globalmente considerati. Avete capito perché dice che Aristotele rimane allievo di Platone, perché si pone questo tipo di domanda? Perché col diagramma di Venn della inclusione delle classi, io posso rappresentarmi la methexis platonica, la misura in cui le cose partecipano alle idee; se A è una cosa, B un'idea, la misura in cui A partecipa di B può essere espressa con una inclusione parziale no? È un modo un po' blasfemo di rappresentare l'idealismo platonico però dal punto di vista strutturale va bene. Perché dove c'è il problema della methexis c'è il problema di vedere due ordini di idee e c'è il pericolo di trascurare il punto della methexis stessa. Che cos'è la methexis ? Aristotele risponde che la methexis è l'appartenere. Non deve stupirvi che l'impostazione arcaica, quella ripresa dagli Stoici, diventi quella più critica, la più fondamentale. Non deve stupire questo. Oggi, quando si tratta di risolvere un problema che sembra insolubile lo sforzo è diretto al ricominciamento nel formulare il problema: si cerca di partire da premesse più povere. Quando un problema diventa insolubile perché è troppo sovraccarico, allora bisogna riformularlo, bisogna ritornare indietro e porre premesse più povere. Quasi sempre nei problemi teoretici si tratta di depotenziare l'apparato, partire da premesse più deboli. L'importante nelle questioni di logica, consiste nel pensare meno che si può. Il difficile è proprio questo, siamo abituati a investire più del necessario. Come nella teoria della relatività di Einstein, tutto il colpo di genio consisteva, nessuno ci aveva pensato, nell'andare a vedere se per caso il concetto di spazio e di tempo non contenessero più del dovuto. Contenevano di più, contenevano la presupposizione che lo spazio fosse identico rispetto a tutte le operazioni che noi compiamo. Chi ci dice che questo spazio dovesse essere invariato in maniera euclidea? Così era pensato ma non era detto che fosse così. Provate a pensarlo attraverso le equazioni di Lorentz e vedete che
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non salta più fuori il paradosso285. E perché non hanno voluto supporre che lo spazio e il tempo ubbidiscono alle equazioni di Lorentz? La risposta è molto semplice a mio parere, per non dover cambiare tutta la fisica. È una risposta politica. Conviene più pensare alla relatività dello spazio e del tempo che non dover cambiare tutta la fisica. Così si capisce bene cosa sia una proprietà interna, ovvero come siano lo spazio e il tempo una proprietà interna a un apparato teorico in questo senso più debole, cioè che richiede meno. Quando Aristotele dice: A appartiene a B, B appartiene a C, dunque A appartiene a C, fa il sillogismo in barbara, questa formula non è analitica. Ma quando dice che tutti i sillogismi in cui, se con questo succede quello, allora succede quell'altro, quelle son formule analitiche. La presenza della analiticità si rileva nel fatto che anche Aristotele deve usare il se, allora; questo però è un indizio abbastanza valido ma è empirico. Bisognerebbe dire: "tutte le volte che Aristotele esprime un giudizio logico, dovrebbe esprimerlo in forma ipotetica". Allora qui intervengono gli Stoici con molta più eleganza nel definire le formule analitiche che sono le formule di schemi di argomento. Questi schemi di argomenti devono essere condizionali. La formula del sillogismo in barbara è286: 285
La mia ignoranza in materia mi impedisce di capire a fondo l'argomento di H. A. Lorentz. Essendo l'ascolto di questo breve inciso abbastanza buono ho potuto comunque mantenerlo. A complemento cfr. per es. Dizionario Collins della matematica, Gremese editore 1998, Città di Castello alla voce: equazione della forza di Lorentz: "è un'equazione vettoriale che descrive la forza agente su una carica in movimento prodotta dalla presenza di un campo elettrico e da un campo magnetico. Tale equazione si può scrivere nella forma: F = q(E+vxB), dove F è la forza, q è la carica, E il campo elettrico, B il campo magnetico e v la velocità della carica. 286 " →" indica l'implicazione materiale (1011), si veda 17.1.; "" è il segno di deduzione; seguono nei miei appunti i tre diagrammi di Venn: Diagrammi 9.5-7.Sillogismo in Barbara espresso con i diagrammi di Venn:
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(x) [(Ax → Bx). (Bx → Cx)] → (x) (Ax →Cx) Ma per gli Stoici questa è una complicazione inutile. Gli Stoici dicono287: p→q p __________ q Oppure: pvq ~p __________ ~q
Gli schemi argomentativi stoici sono tutti molto semplici e noi ancora oggi vi ravvisiamo gli schemi fondamentali di ogni inferenza. Attenzione che quando gli antichi parlano di sillogismi, la parola syllogismos, tenete presente, sta per qualsiasi schema di argomento; mentre oggi noi chiamiamo sillogismo quello aristotelico dell'inclusione delle classi: logismos vuol dire "calcolo", syllogismos vuol dire "con calcolo". Gli schemi di inferenza verranno trattati nella lezione XVII. Qui Melandri si limita a qualche anticipazione. Segue la lettura di un altro passo di Bocheński: Quanto ai dettagli, la logica proposizionale ebbe origine con i Megarici e gli Stoici, e questo è il secondo grande contributo portato dai Greci alla logica: ed è proprio ciò che mancava completamente alla logica di Aristotele.288
Il fondamento proposizionale della logica corrisponde, come vi dicevo, alla interpretazione arcaica della logica che però non è stata codificata. E questa codificazione è appena di po287 288
Si veda oltre 17.3. Bocheński p. 149.
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co posteriore all'Organon aristotelico, tra la logica di Aristotele e questi scritti di logica non passano più di cinquanta anni. Gli Stoici sono i primi logici che intendono il formalismo. Qui Bocheński insiste sul fatto che anche Aristotele è formalista. Io ho i miei dubbi in proposito. Perché bisogna vedere che cosa si intende con formalismo. Aristotele usa delle formule ma a mio parere non è sufficiente usare delle formule per dire che si tratti di formalismo vero e proprio. Secondo me dipende dai criteri che uno può adottare: il formalismo implica che le formule vengano usate in un calcolo e Aristotele non risulta facesse questo. Il trattamento formalistico è evidente negli Stoici. Evidente è anche l'uso delle formule per esprimere delle variabili: una condizione necessaria per il formalismo è che nelle formule compaiano delle variabili, se no che formule sono? Se no sono delle abbreviazioni di scrittura. Anche questo argomento sta molto a cuore a Melandri e verrà ripreso nella Lezione XVI.
Lezione X
10.1. Modalità La distinzione tra modalità oggettiva, de re e modalità semantica, de dicto, risponde a due diverse concezioni, l'una che riferisce la modalità al reale, l'altra alle proposizioni. Questa distinzione non è esplicita in Aristotele e negli Stoici ma Melandri ne fa un motivo di contrasto in linea con le rispettive logiche e ontologie. Ritengo che l'importanza del discorso meriti un breve spazio introduttivo in cui provo a riassumere i termini della distinzione. La dizione latina de re e de dicto ha origine in una distinzione che troviamo già in Guglielmo di Champeaux e che verrà ripresa dall'allievo Abelardo. Guglielmo sosteneva che ogni proposizione modale è intorno al senso di un'altra proposizione: Possibile est Socratem currere era un predicare la possibilità del sensus della proposizione Socrates currit 289. Secondo Abelardo una proposizione genuinamente modale è invece quella che involge la modalità secundum expositionem de rebus. Dalla contrapposizione di expositio de sensu a expositio de rebus intravediamo la distinzione tra qualificazione esterna vs interna alla proposizione. Nella stessa linea di pensiero Guglielmo di Shyreswood distingue tra "proposizioni che attribuiscono modi (necessità, possibilità, impossibilità) a dicta, e proposizioni che attribuiscono modalmente (vale a dire in maniera qualificante) caratteri a soggetti che non siano dicta" 290. Tommaso, in De modalibus, dirà che 289 290
Kneale, cap. IV § 2. Kneale, cap. IV § 3. 237
237
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le proposizioni modali possono essere de dicto oppure de re. Tommaso fa rilevare che "una proposizione modale de dicto è sempre al singolare, avendo un dictum come soggetto, mentre una proposizione modale de re può essere universale o particolare secondo il segno di quantità"291. Come osservano i Kneale molti problemi di logica antica e medioevale sono stati risolti da Frege con l'introduzione dei quantificatori per vincolare le variabili. Ai giorni nostri la distinzione è stata ripresa all'interno del calcolo predicativo modale (LPC) dove "Una fbf α [formula ben formata] contenente un operatore modale (L [necessario] o M [possibile]) si dirà esprimere una modalità de re sse [se e solo se] il campo d'azione di qualche suo operatore modale contiene qualche occorrenza libera di una variabile individuale; altrimenti si dirà che α esprime una modalità de dicto".292 In altri termini, quando la quantificazione precede il funtore modale come in: (X) Lφx (per ogni x è necessario che x abbia la proprietà φ) la formula esprime una modalità de re; mentre se la quantificazione segue il funtore di modalità ed è posta direttamente davanti alla variabile vincolandola come in: L(X)φx (è necessario che, per ogni x, x abbia la proprietà φ) la formula esprime una modalità de dicto. L'ipotesi di un calcolo modale in cui ogni modalità de re possa essere eliminabile a favore di una modalità de dicto rimane tuttora aperta. Ai nostri fini conta rilevare che in una logica dei termini come quella aristotelica la modalità agisce all'interno della proposizione sul legame soggetto - predicato e quindi de re significa che la modalità riguarda il possesso di una proprietà da parte di una cosa293; mentre nella logica delle proposizioni la modalità agisce sull'intera proposizione e quindi de dicto significa che la proposizione è necessariamente (o possibilmente) vera. Ed è questa l'interpretazione del significato della necessità che Melandri propone in relazione al problema del determinismo stoico. Occorrerà distinguere modalità in senso logico e modalità in senso più largo. Ad esempio quando si parla di necessità fisica 291
Ibid. Cfr. G. E. Hughes e M. J. Cresswell, Introduzione alla logica modale, Il saggiatore, Milano 1973, ed or. 1968, p. 215 sgg. (di seguito H+C). 293 LC § 71 n.4. 292
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e si dice che un corpo cade necessariamente, oppure quando si parla dalla necessità normativa per cui si dice che qualcosa è necessario, nel senso che sarebbe desiderabile, o obbligatorio294. Inoltre bisogna distinguere in ognuna delle modalità il diverso senso che assume la modalità logica e la modalità di fatto: la modalità logica è la modalità de dicto, la modalità di fatto è la modalità de re. Con le parole della Linea: Noi oggi diremmo la modalità de dicto "semantica" o "meta-linguistica"; e, quella de re, "ontologica" o "oggettiva".295
Dal punto di vista logico, e in questo sta l'interesse della logica modale, noi possiamo isolare una modalità neutrale e intervenire successivamente in questo senso con diverse interpretazioni in modo da produrre il senso della necessità o possibilità richiesto. È possibile compiere operazioni in due tempi: prima definire lo schema dimostrato e poi attraverso successive interpretazioni farlo corrispondere ai diversi sensi. Ma potete anche pensare che noi possiamo trattare della modalità in maniera diversa, partendo dall'analisi del linguaggio alla maniera di Strawson, cioè osservando empiricamente che nei nostri usi linguistici ci sono certe regolarità e poi vedere quale logica si adatti meglio a mettere in rilievo queste regolarità296. Voi sapete che Strawson ha cercato di mediare lo studio della logica e quello del linguaggio compiendo un'operazione di compromesso tra le esigenze assiomatiche del modo di pensare logico e le esigenze ricognitive empiriche dell'analisi del linguaggio. La cosa è possibile, basta accontentarsi, bar294 Per un'interpretazione giuridico-normativa del calcolo modale si veda Oskar Becker, Calcolo modale, Quaderni di Parerga 1, Faenza Editrice, ed or. Einführung in der Logistik, vorzüglich in den Modalkalkül, Meisenheim am Glan, 1951, sez, II. 295 Cfr. LC § 71. 296 L'articolo che dà inizio a questa prospettiva di ricerca è pubblicato in Mind nel 1950; cfr. Peter Strawson, Sul riferimento, in La struttura logica del linguaggio, op. cit..
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camenarsi tra quelli che sono gli usi linguistici e quello che ne è la loro spiegazione razionale. È un punto un po' molto inglese questo appeasement. Quindi, volendo partire dall'analisi del linguaggio, noi sappiamo empiricamente che la definizione di sillogismo - il discorso tale per cui, poste certe cose altre necessariamente297 ne conseguono - può benissimo essere spiegata in termini di fenomeno linguistico. Anche chi non conosce una lingua straniera dopo un po' impara a individuare dove può esserci un sillogismo e a riscontrare una caratteristica dal punto di vista proprio di calcolo. In questo senso, volendo trattare così della modalità, noi possiamo osservare nelle lingue che conosciamo, dove ci siano degli usi abbastanza regolari riguardanti il necessario, il possibile, "questo si può", "questo si deve" e così via. Quando si impara una lingua, sapere distinguere i funtori modali, specialmente in inglese e in tedesco dove sono piuttosto complicati, cioè sono diversi dai nostri, è importante. Se vi piace di più si può fare anche in questa maniera. Tuttavia, io ci tengo a dirvi che non è l'indirizzo che noi qui seguiamo parendoci - non so se più razionale, ma più onesto - procedere in maniera dualistica e cioè immaginando uno schema astratto per poi vedere se può spiegare qualcosa circa gli usi concreti, non essendo la concretezza dell'uso il fondamento del modello che adoperiamo. Il modello è valido in sé stesso, caso mai il confronto con l'uso concreto ci dirà se questo modello serve a qualcosa, se usato in un certo contesto.
297
Il riferimento è alla definizione aristotelica in An. pr. I, 1, 24b 18 "Il sillogismo, inoltre, è un discorso in cui posti taluni oggetti, alcunché di diverso dagli oggetti stabiliti risulta necessariamente, per il fatto che questi oggetti sussistono. Con l'espressione per il fatto che questi oggetti sussistono intendo dire che per mezzo di questi oggetti discende qualcosa, e d'altra parte, con l'espressione per mezzo di questi oggetti discende qualcosa intendo dire che non occorre aggiungere alcun termine esterno per sviluppare la dimostrazione necessaria. Chiamo dunque sillogismo perfetto quello che oltre a quanto è stato assunto non ha bisogno di null'altro, affinché si riveli la necessità della deduzione, e chiamo dunque imperfetto il sillogismo che esige l'aggiunta di uno o di parecchi oggetti, i quali sono bensì richiesti necessariamente dai termini posti alla base, ma non sono stati assunti attraverso le premesse". Inoltre, An. pr. I, 32, 47 a 34: "Tuttavia la nozione di necessario è più ampia di quella di sillogismo: in effetti ogni sillogismo è qualcosa di necessario, ma non tutto quello che è necessario risulta un sillogismo ".
Titolo del Capitolo LezioneI X 241 241
Riassumendo: il modello epistemologico preferito è quello dello schema TPT; la teoria della logica che conviene è quella della formalizzazione che procede indipendentemente dagli usi linguistici. Prima di procedere mi intrometto di nuovo nel discorso di Melandri perché credo sia utile ricordare che cosa intenda quando farà riferimento al "solito quadrato aristotelico". Si tratta dello schema delle opposizioni che risulta dalla sintesi della trattazione aristotelica delle forme dell'asserto generale298.
Schema 10.1. Il quadrato delle opposizioni Si osservi che: • le contrarie possono essere entrambe negate (false) ma non entrambe affermate (vere) • le contraddittorie possono essere o entrambe negate o entrambe affermate • le subcontrarie possono essere entrambe affermate ma non entrambe negate
Sulla base del quadrato delle opposizioni viene costruito quello delle modalità.
298
De int. 10.
242 Capitolo I sugli Stoici 242 Enzo Melandri
Schema 10.2. Il quadrato delle modalità
• • • • • •
N,P,C, e ~ si dicono funtori. Le equivalenze statuiscono l'interdefinibilità dei funtori. A livello apodittico abbiamo l'opposizione contraria: Np è la contraria di N~p Nelle diagonali abbiamo le negazioni diametrali ossia le contraddittorie: Np è la contraddittoria di P~p. E simmetricamente a N~p troviamo la contraddittoria Pp A livello ipotetico abbiamo la subcontrarietà: Pp è subcontraria a P~p. Inoltre, il livello ipotetico è quello del contingente: Cp che significa possibile p e possibile non p299. I casi compresi fra questi due estremi sono innumerevoli e possiamo considerarli casi di contingenza A livello assertorio, a metà tra il necessario e il possibile, e tra l'impossibile e il non necessario abbiamo rispettivamente il vero e il falso Vp, semplicemente vero; ~Vp ossia Fp, semplicemente falso
Bisogna dire che lo schema non è precisamente quello aristotelico ma è quello aristotelico riproposto da Leibniz300 per-
299 A questa definizione di contingente generalmente si preferisce non necessario e non impossibile; tuttavia Pp. P~p equivale a ~Np. ~(~Pp); cfr. Becker op. cit. Sezione Quarta § 9. 300 Cfr. G.W. Leibniz, Ricerche generali sull'analisi delle nozioni e delle verità, e altri scritti di logica, a cura di Massimo Mugnai, Edizioni della Normale, Pisa 2008, § 2, 61, e 130-137. Matteuzzi riassume così le definizioni di Leibniz: "a) proposizioni impossibili – si può mostrare, in un numero finito di passi, che contengono una contraddizione: b) proposizioni contingenti false – non si può mostrare che sono [false] nemmeno in un numero infinito di passi. c) proposizioni contingenti vere – si può dimostrare che sono vere soltanto in numero infinito di passi. d) proposizioni possibili – si può dimostrare, in un numero finito di passi, che non contengono contraddizione. e) proposizioni necessarie – si possono ricondurre, in un numero finito di passi, a tautologie", cfr. Individuare per caratteri, op. cit. p. 20.
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ché nello schema aristotelico si dà una incongruenza in quanto compaiono due diverse definizioni di possibile301. L'apodittico è il necessario, che comprende anche l'impossibile perché l'impossibile è il necessario che non. L'assertorio comprende semplicemente vero o falso, senza sapere nient'altro. L'ipotetico comprende il possibile e il possibile che non ossia il non necessario La regolarità dello schema corrisponde esattamente alla regolarità dell'uso linguistico, solo che in questa regolarità il modello assume un carattere di rigidezza che è presente in ogni schema. Potete far le prove, questo schema di opposizioni è il fondamento della logica modale. Quindi una volta che l'abbiate in mente è facile ricostruirlo in maniera effettiva. In questo schema la contraddittoria, la cui specificità è che l'asserto negato posto assieme a quello affermato produce contraddizione302, risulta dalla negazione (diametrale) della proposizione soggetta all'operatore modale. L'altra negazione usata da Aristotele (steresis), che funziona per privazione di un attributo a un soggetto e che produce le contrarie e le subcontrarie, qui risulta negando la modalità preposta alla proposizione. Inoltre, anche nel quadrato delle modalità, i due asserti particolari si dicono subalterni agli asserti universali. Poi esiste l'opposizione per subalternazione nel senso che se qualcosa è necessario è anche vero, se qualcosa è vero è
301 In una definizione Aristotele include nel possibile il necessario come avviene nella logica modale odierna: ciò che è necessario è anche vero e ciò che è vero è anche possibile (v. nota successiva); nella seconda definizione il possibile esclude il necessario coincidendo col contingente. Si ritiene che l'esclusione del necessario dal possibile risponda alla metafisica della potenza e dell'atto. Vedi oltre. 302 Vale dunque sia il principio di non contraddizione sia il principio di terzo escluso.
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anche possibile303. Nel linguaggio stesso, se qualcosa è impossibile, allora non è vera, se qualcosa non è vera, allora non è necessaria. Poi c'è la contrarietà: se qualcosa è necessario, questo esclude l'impossibile, se qualcosa è impossibile, questo esclude che sia necessario; però può darsi che qualcosa non sia né necessario, né impossibile. Come vedete questa negazione di contrarietà è più debole di quella diametrale, nel senso che è possibile negare tutti e due gli estremi304. La negazione ancora più debole è quella di subcontrarietà. Per esempio il bianco e il nero potete organizzarli in una scala continua tra un massimo di nero e un minimo di nero, il bianco, e in mezzo concepire il caso intermedio, il grigio, come privazione dell'uno dei due termini esprimibili magari in percentuali. Non contraddice affatto che una cosa sia possibile il fatto che sia possibile che non sia, sono tutti i casi intermedi305. Adesso vi faccio lo schema riportandolo in questa maniera, per far vedere meglio i casi306:
Schema 10.3. Universo di discorso degli operatori modali
303
Cfr. Oskar Becker, op. cit., il secondo assioma nel calcolo modale di Becker, dice semplicemente che "la necessità è logicamente più forte della mera verità di una proposizione", p. 121, in formule Np → p. 304 In altri termini per le contrarie vale il principio di non contraddizione ma non vale quello di terzo escluso. 305 Vale dunque per le subcontrarie il principio di terzo escluso ma non vale il principio di non contraddizione. 306 Cfr. Oskar Becker, op. cit., sez. IV: lo schema di Becker è capovolto rispetto a quello qui presentato ma sostanzialmente identico. Si badi che in questo schema le opposizioni orizzontali rappresentano le contraddittorie; la diagonale da N a ~P rappresenta la contraria e da ~N a P la subcontraria.
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La lunghezza della linea orizzontale rappresenta volta volta l'universo di discorso. Il necessario copre solo il primo quarto. Il vero arriverà a ricoprire la metà dell'universo di discorso. In un universo di discorso qualsiasi il semplicemente vero e il semplicemente falso sono simmetrici, quindi ciascuno di essi ricopre la metà dell'universo. Il possibile ricoprirà invece i tre quarti dell'universo di discorso. Il contingente ricopre di nuovo la metà, la metà centrale. Non so se questo schema vi pone delle difficoltà di lettura, per me è molto chiaro. Potete immaginarlo - forse è necessario dirlo - come uno schema che si adatta a una interpretazione probabilistica o statistica delle modalità307 nel senso che: poniamo che un universo di discorso comprenda tutto ciò che si può dire in un dato linguaggio. Il necessario, per le proprietà inerenti al linguaggio stesso, sarà il 25% rispetto a tutte le frasi possibili. Ognuno di voi sarà abbastanza scafato per sapere che questo concetto di tutte le frasi possibili in un linguaggio non è ponderabile ma possiamo immaginare un universo di discorso che è formato da tutto ciò che si può dire in un linguaggio con una norma la quale impedisca di sconfinare oltre l'infinito numerabile, cioè oltre un universo esauribile mediante matrice308. Allora: vero e falso devono essere il 50%; l'impossibile è come il necessario il 25%; il contingente prende ciò che non è necessario e non è impossibile; quindi la definizione di contingente viene meglio che non prima: contingente p significa non necessario p e non impossibile p. Questo schema è applicabile indipendentemente da tutte le interpretazioni purché abbiano alla base il calcolo proposizionale L1, o il calcolo predicativo del primo ordine309. Vi dicevo 307
Cfr. Oscar Becker, op cit. sez. I. Un insieme si dice numerabile se esso è equivalente all'insieme N di tutti gli interi positivi. In altri termini un insieme D è numerabile se ogni suo elemento si può porre in corrispondenza biunivoca con un elemento di N; cfr. Abraham A. Fraenkel, Teoria degli insiemi e logica, Ubaldini Editore, Roma 1970, ed. or. Berlino 1968, cap. III. 309 Il calcolo proposizionale è detto anche L1. Il calcolo predicativo del primo ordine è detto anche calcolo predicativo inferiore (Lower predicate calculus LPC). In LPC sono assunti simboli e regole del calcolo proposizionale. Esiste un certo numero di sistemi di logica propo308
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che non siamo nella fortunata situazione di poter dire che il linguaggio L1 è l'albero generatore di tutte le logiche essendo dei calcoli ancora più deboli di questo310. Inoltre il linguaggio L1 ha una validità convenzionata. In geometria è concettualmente vero che la topologia regge tutto l'albero delle diverse geometrie, in logica quest'albero è un albero convenzionale, convenzionato, non è vero secondo l'oggetto, è così perché altrimenti non sapremmo come cavarcela. Così come per la fisica Melandri parla di un principio di conservazione della tautologia311, per i fondamenti della logica vale un principio analogo che non ha un nome ma che potremmo assimilare a un principio molto generale - la cui formulazione è di mia esclusiva responsabilità - dell'epistemologia melandriana e cioè che laddove non sappiamo come cavarcela si procede faute de mieux. Questo schema è uno schema neutrale, è la sfera del logico. Ora vedrete come coesistano diverse interpretazioni per diversi sistemi filosofici. In quello aristotelico il possibile non è più definito così. C'è incertezza tra possibile e contingente: le ultime due linee tendono a collassare, il possibile copre anche il contingente o viceversa. Nel sistema stoico scompaiono la riga uno e la riga tre e tende a rimanere solo il vero e il falso come modalità oggettiva. Nel sistema epicureo tende a rimanere solo il contingente312. Ma vedete, non è necessario cambiare lo schema, è sufficiente vedere verso quali forme avviene il collassamento. Naturalmente ci sono delle incertezze in proposito ma non sono sizionale modale e un certo numero di sistemi di logica predicativa modale, cfr. H+C. Nei primi compaiono simboli e regole del calcolo proposizionale, nei secondi simboli e regole del calcolo proposizionale e del calcolo predicativo. Non è chiaro se secondo Melandri il quadrato delle modalità, per ogni interpretazione possibile, debba fondarsi almeno sul calcolo proposizionale o anche sul calcolo predicativo. 310 Si veda per es. J. Łukasiewicz, The Equivalential Calculus, in Polish Logic, op. cit. pp. 88115, in cui compare come solo funtore l'equivalenza. 311 Vedi oltre, Lezione XI, 4. 312 Cfr. Oscar Becker, op. cit., sez. IV.
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le incertezze dello schema modale, sono piuttosto le nostre incertezze di interpretazione del pensiero di questi autori antichi. 10.2. Determinismo Un punto che tengo a ribadirvi è che io non son d'accordo con l'interpretazione data dai manuali secondo cui per gli Stoici tutto è necessario. Ed è, questo, un errore formidabile perché si deve a questo errore - come vedete mi esprimo un po' dogmaticamente - si deve proprio a questo errore il fatto che i manuali ritengano gli Stoici incongruenti: perché si dice: "se gli Stoici ritengono tutto il divenire necessario perché insistere tanto sull'etica?" Quindi diventa questa supposta contraddizione un motivo per disinteressarsi dall'approfondire il pensiero di questa scuola. Direi anche viceversa: il fatto che non si sia mai approfondito a sufficienza questo modo di pensare è responsabile dell'esistenza nei manuali di così grossolane interpretazioni. Ora, c'è una frase che ricorre non solo negli Stoici ma anche in Aristotele ed è una proposizione in cui si dice: tutto ciò che avviene è necessario313 in questa frase è il linguaggio che ci inganna e induce una cattiva interpretazione perché può avere due significati: può voler dire, come l'interpretazione suona normalmente, che tutto ciò che avviene, avviene necessariamente; oppure può voler dire che tutto ciò che avviene, necessariamente è avvenuto314. In formule si capisce molto meglio perché la frase di prima, quella incriminata, significa che:
313
Il passo potrebbe essere in De int. 9, 25 a: "Che ciò che è sia, quando è, e che ciò che non è non sia, quando non è, risulta certo necessario". 314 Per un'analisi delle conseguenze del mancato riconoscimento di questa distinzione da un altro punto di vista cfr. Gilbert Ryle, Dilemmi, Ubaldini Editore, Roma 1968, ed. or. Londra 1966, Cap. II.
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1) p → Np [leggi] p implica necessario p cioè dal fatto che sia: Vp [leggi] vero p dovremmo inferire che è Np Questo non è un teorema di logica modale. Perché è il contrario: se qualcosa è necessario, allora è vero315: Np → Vp I sistemi possono collassare in giù ma non in su. Quindi se io dico se p allora necessariamente p [=1)], posso dirlo per tanti motivi ma non certo per un motivo logico. Ma questo è il significato della frase ciò che esiste, esiste necessariamente. Se invece io dico: necessariamente ciò che esiste, esiste la formula è questa: 2) N (p → p ) [leggi] necessario che p implichi p Direte "è banale", sì, però è vero. Forse non era necessario dirlo, perché è banale. Però vedete come è debole questa affermazione di necessità? Perché sto dicendo che è necessario che qualsiasi cosa implica sé stessa316.
315
Abbiamo visto che l'inferenza tra subalterne va dalla modalità più forte alla modalità più debole, dall'apodittico all'assertorio dall'assertorio all'ipotetico, dal necessario al vero, dal vero al possibile. 316 La questione del passaggio dalla modalità esterna alla proposizione molecolare alla modalità internamente riferita alle componenti atomiche (nel nostro caso al conseguente di un condizionale) risulta più chiara se la proposizione molecolare non è una tautologia; si veda ad es. la distinzione analoga in H+C pp. 43-44 n. 17: "[…] L(p → q) significa che l'intera ipotetica è una verità necessaria; p → Lq significa che se p è vera allora q è una verità necessaria. […] Così qualcuno che dicesse "se piove per tutto dicembre deve per forza piovere anche il giorno di Natale" probabilmente intende dire che "pioverà il giorno di Natale" segue da "pioverà per tutto dicembre" (il che è vero dal momento che Natale è in dicembre); ma dalle sue parole si potrebbe anche intendere che se piove per tutto dicembre allora è una verità necessaria che pioverà il giorno di Natale (il che, anche se piove per tutto dicembre, è falso perché, quale che
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Che sia tutto determinato in sé non vuol dire che sia necessariamente determinato. Può essere anche contingentemente determinato. Ci sono situazioni conoscitive nelle quali invece è proprio il modo come noi lo conosciamo che viene a costituire l'evento: per esempio quando si dà interferenza tra il nostro apparato conoscitivo e l'oggetto stesso. Sono cose che conoscete vero, della fisica dei quanti, dove non possiamo capire la posizione e la velocità della particella perché per dirlo dobbiamo disturbare la particella. In questo caso la proposizione di probabilità, l'enunciato di probabilità in questo caso è oggettivo. Mentre nel caso di una distribuzione di campo, dove io non so dove sono andate a finire le particelle, l'enunciato di probabilità riguarda solo l'incertezza non l'oggetto, perché i giochi sono già fatti. Ora, nel pensiero antico questo vale anche per Aristotele, non solo per gli Stoici, vale il principio del determinismo nel senso debole. è necessario che se si dà p, si dia p317 significa che necessario è che se qualcosa esiste, esista. Però questo enunciato, per quanto banale, non è innocentino vero? "Banale" qui lo uso nel senso di tautologico-truistico: un enunciato è banale quando dice qualcosa che mi pare già di sapere. Infatti si dà un caso in cui non si applicherebbe, quello di una distribuzione di probabilità dell'evento in cui il fatto è un fattore conoscitivo. Quindi non è così banale come ci sembrava. Potrebbe esserci il caso di una esistenza fluttuante, gli intermundia318, e insomma, anche nell'antichità c'era un modo di sia il tempo, "pioverà il giorno di Natale" è sempre una proposizione contingente, non necessaria). 317 N (p → p ). 318 DL X, Epicuro saluta Epitocle. Saul Kripke si è occupato di modalità e mondi possibili sin dagli anni Sessanta; per la sua nozione di "semantica dei mondi possibili" si veda: S. Kripke,
250 Capitolo I sugli Stoici 250 Enzo Melandri
pensare probabilistico oggettivo vero? Gli intermundia di Epicuro, è un luogo in cui non vale il principio di contraddizione esclusa. Gli intermundi si trovano tra i mondi possibili, dove il concetto di possibile può essere tanto debole da non escludere più nulla. Sapete che per Epicuro il principio di non contraddizione non aveva validità individuale. Se "caso" vuol dir qualcosa, vuol dire che qualcosa è e non è. Questo non c'è negli Stoici e neppure in Aristotele. Per Epicuro ci sono vari mondi ciascuno dei quali ha una logica definita e in mezzo a questi mondi ci sono gli intermundia in cui non si dà nessuna logica definita. Quindi io potrei avere al limite in questa situazione, che è molto moderna, un mondo degli impossibili, cioè un mondo formato da cose che per noi sono impossibili. Ma tra noi e questo mondo ci sarebbero dei mondi intermedi tali per cui la scalata all'impossibile si dà attraverso possibilità alternative, finché alla fine i due estremi che includono l'impossibilità risultano impossibili l'uno per l'altro. Non so se mi son spiegato bene. Voi potete avere un universo con velocità superiore a quella della luce? Sì, perché se l'universo è una rifrazione, e se A si allontana da B con una velocità V, B da C e C da D voi mettete assieme un numero di mondi tali per cui gli estremi non si vedono più, perché la loro velocità di allontanamento relativa è superiore a quella della luce. Non è un paradosso perché la velocità della luce è il limite superiore della trasmissione di materia ma possono esistere velocità relative superiori a quella della luce. Allo stesso modo: sia la relazione tra i mondi A e B tale per cui il mondo possibile A contenga la possibilità di creare un mondo possibile B leggermente diverso da A e la stessa relazione valga tra B e C e tra C e D ecc.319
Considerazioni semantiche sulla logica modale, in Leonard Linsky (a cura di), Riferimento e modalità, Bompiani, Milano 1974, ed. or. Helsinki 1963; Identità e necessità, in La struttura logica del linguaggio, op. cit., ed. or. New York 1971; Nome e necessità, Bollati Boringhieri, Torino 1999, ed or. Oxford 1980. 319 Ho ricostruito completamente il passaggio corrotto.
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Potete organizzare uno schema di mondi compossibili dove la catena, a un certo punto, non necessariamente all'estremità, contiene due mondi che sono reciprocamente escludenti tra di loro, nel senso che l'uno non può esistere dal punto di vista dell'altro e viceversa. Ci sono pensatori che adottando questa logica possono riuscire a dire che coesistono anche gli impossibili. Chiaro che si tratta di logiche in cui "possibile" ha un significato molto diverso da quello che qui adoperiamo. Quindi, ricordatevi, questo postulato del determinismo, per me queste due formule [1),2)] dicono molto, sono due diverse interpretazioni dell'enunciato tutto ciò che esiste, esiste necessariamente. Se voglio dire proprio che ciò che esiste deve esistere necessariamente allora uso la prima formula; se voglio dire che è necessario che ciò che esiste, esista, allora uso la seconda. La seconda formula, ripeto, benché più banale, non è per nulla innocente, perché è banale dal punto di vista interno del calcolo logico; dal punto di vista esterno, è suscettibile di una interpretazione che è quella che vi dicevo, secondo cui il determinismo avrebbe un altro significato, cioè il significato di considerare il mondo come determinato ma non determinato causalmente o determinato meccanicamente, è tutta un'altra cosa. In tedesco c'è il termine Bestimmt che vuol dire definito, forse sarebbe meglio dire [invece di "determinato"] "definito in sé". Come vedete in queste interpretazioni c'è la proiezione di una ontologia, c'è il fantasma mentale del pragma, di una struttura del mondo. Com'è fatto questo mondo? Qui intervengono le differenze più cospicue tra il sistema aristotelico e quello stoico. Nel sistema aristotelico il mondo si divide sempre in mondo possibile e mondo reale dove il possibile è inteso non più come dynaton ma come dynamenon. In Aristotele abbiamo il possibile e il reale secondo due sensi: de dicto e de re. Se de dicto, il possibile si dice allora dynaton; se de re si deve dire dynamenon. Lo stesso vale per il necessario:
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de dicto fa anankaion, de re dovrebbe fare ananke on, non so se esista ma comunque grammaticalmente si può fare. Da ciò discende una difficoltà nella nozione di possibile: ricorderete come nello schema neutrale noi includessimo nel possibile anche il necessario, perché? Perché dal necessario si inferisce l'esistente, dall'esistente il possibile. Aristotele talvolta dice questo, però spesso dice che il possibile deve escludere il necessario, quindi dà una definizione del possibile che si confonde con quella del contingente. Ricorderete che il contingente è diverso dal possibile proprio perché esclude il necessario. Perché [per Aristotele talvolta il possibile esclude il necessario]? Io penso che dipenda dal fatto che in Aristotele il dynamenon è definito come ciò che ha la potenza dell'essere, dell'on e anche del me on del non essere. È la definizione che Aristotele dà del dynamenon : cos'è l'ente in potenza? È quello che può esserci e può anche non esserci. L'immagine che sta dietro questa definizione è quella del seme, seme di pianta oppure seme animale. Infatti cos'è una ghianda? È una quercia in potenza: una ghianda è ciò che può diventare una quercia ma può anche non diventarlo perché può anche essere mangiata dal maiale320. In Aristotele c'è sempre un modello biologico che sorregge le sue spiegazioni. Evidentemente la sua filosofia ha un carattere animistico e ossessivamente mentale. Ora, questa definizione che si è data del dynamenon viene riportata anche sul dynaton e voi capite perché, se qualcosa ha la possibilità dei contrari, non può essere vero o necessario, ripudia a ogni definizione di "necessario" che sia necessaria una cosa come il suo contrario. Evidentemente per lui il necessario ha una portata, un impegno che non è solamente logico ma è anche ontologico. Dunque, vedete, lo schema aristotelico è sovraccarico di un impegno ontologico il quale fa si che al possibile debba corri320
Nella Tredicesima nota Melandri riassume così il pensiero espresso da Aristotele in De int. 13, 23 e sgg: "Le 'cose che sono in atto senza potenza' sono gli enti necessari (essenze reali, dèi, astri, entità celesti, anima del mondo ecc.); quelle 'in atto con potenza' sono gli enti contingenti (corpi inerti sublunari, corpi semoventi in linea retta, esseri viventi mortali, ecc.); quelle infine 'solo in potenza' sono gli enti possibili, ma non ancora individuati (il magma della 'materia prima', priva di forma)". Cfr, anche LC § 71.
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spondere l'ente possibile, il virtuale il dynamenon. Non solo c'è il dynaton, ciò che è possibile, nel senso di è possibile, ma c'è anche il virtuale in quanto oggetto e non solo forma di discorso, il dynamenon, cioè l'ente in potenza. La cosa non deve stupirci perché, come osservato altre volte, anche nella fisica moderna si parla di energia virtuale e non solo di energia attuale. Il concetto di energia potenziale è aristotelicamente un classico dynamenon. Aristotele, per dare una soluzione logica a problemi di antinomie o di paradossi sorti trattando l'infinito, è il primo a distinguere l'infinito in potenza dall'infinito in atto321. Secondo Aristotele l'infinito esiste ma esiste in potenza, non mai in atto. Però in potenza esiste l'infinito. Quindi dal punto di vista aristotelico salta subito agli occhi che l'ente, tutto ciò che è, si dice in generale in due maniere: si dice in potenza e si dice in atto, l'ente potenziale dynamenon e l'ente attuale energeion, l'esistente. Quindi il mondo per Aristotele si divide in ciò che esiste e ciò che può esistere ma che per il momento non esiste. Per gli Stoici esiste solo ciò che esiste. È l'alternativa. Per gli Stoici tutto ciò che esiste è attuale il che significa che esistono solo i corpi. Poi c'è un modo d'essere, non esistente, che concerne le entità mentali, ma queste non esistono nemmeno in potenza, semplicemente non esistono. Ci sono ma non esistono. Di qui discende molto coerentemente una diversa dottrina modale. Essendo l'ente esistente solamente ciò che è corporeo, evidentemente tutto ciò che esiste deve essere in atto. Una definizione di comodo sarebbe quella di "ente che è in atto". Quindi vedete che cosa vuol dire determinismo per gli Stoici, vuol dire che tutto ciò che esiste è in atto ed è corporeo. Questo è un determinismo molto debole, non si dice che qualcosa debba necessariamente esistere, si dice che, se esiste, allora deve essere così e il riferimento è al carattere fisico, si capisce.
321
Aristotele, Fisica III, 6.
254 Capitolo I sugli Stoici 254 Enzo Melandri
Sarebbe come se [le due scuole] si fossero divise tutte le possibili concezioni con un gioco a matrice. Aristotele occupa gli spazi della matrice che prevedono di parlare del mondo possibile e del mondo reale in sé; gli Stoici hanno scelto di parlare delle modalità solo nel senso logico e non nel senso ontologico. Quindi non è vero che riducono tutto al necessario, riducono tutto al vero e al reale. Il determinismo stoico è la riduzione del necessario al reale, non del reale al necessario. Certo, leggendo i frammenti di Von Arnim è difficile trovare riscontro alla tesi di Melandri ma bisogna tener conto del fatto che in tutta la sezione della fisica di Crisippo, che raccoglie 95 frammenti a proposito del fato e della necessità322, i pochi che fanno riferimento a specifiche questioni di modalità sono tutti di Alessandro di Afrodisia il cui pensiero logico aderisce completamente all'aristotelismo. In alcuni frammenti vi sono gli elementi per capire il determinismo stoico nel senso debole secondo cui la necessità riguarda il condizionale: N(p → p) necessariamente se qualcosa accade, accade; ciononostante l'interpretazione generale del determinismo stoico rimane quella forte: p → Np ciò che accade, accade necessariamente. Ad esempio nel fr. B.f 945 [1] si legge "[…] Pur essendo numerose le cause, per tutte – a loro giudizio – resta vero il seguente principio: è impossibile che a condizioni uguali sia della causa sia del causato gli eventi si realizzino a volte in un modo a volte in un altro […]" che andrebbe inteso nella maniera debole N(p → p); invece conclude "Sostengono inoltre che il fato, la natura, il Logos, secondo il quale il tutto è organizzato, sono dio, che è presente in ogni essere e in ogni realtà e che si serve della natura propria di ciascuno ai fini dell'economia del tutto": ecco che ogni evento di per sé contingente viene assoggettato con necessità ad un fine ultimo. Altro esempio, nel fr. 979: "[…] date certe circostanze ineluttabili, ciò che ha una certa natura non può avere altro movimento che quello che effettivamente ha. E infatti la pietra, se si butta da una rupe, non può non cadere in basso, a meno che qualcosa non la trattenga Anche qui dovrebbe esser chiaro che la necessità sta nel condizionale che interpreta una legge della fisica classi322
VSF Crisippo Fisica VI.
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ca (che come si sa è ipotetico-deduttiva). Invece poco oltre Alessandro ribadisce che secondo gli Stoici "date le circostanze non solo non potrà non muoversi, ma anche questo suo moto sarà necessario […]" trasferendo di nuovo la necessità dal condizionale N(p → q) sull'evento contingente q. Il problema che richiamavo era questo: la diversità di dottrina modale è una diversità esprimibile mediante un calcolo diverso oppure una diversità nell'interpretazione, la quale presuppone un solo schema? Io direi che la risposta giusta è la seconda. Come si dimostra che è una diversità che coinvolge le strutture? Si dimostra nel fatto che per ogni diversa strutturazione occorrono calcoli logici diversi. Questa è la prova che noi possiamo dare della diversità. Mi pare che sia convincente che noi in sede di teoria logica adoperiamo il calcolo logico come argomento dimostrativo. Questo è anche dire una cosa che probabilmente vi rassicura da qualche parte. Non è che coltiviamo i calcoli logici per fare dei gran calcoli. Ci basta il calcolo per trovare la coerenza di una certa posizione, per provare la coerenza e l'indipendenza di certe affermazioni. È uno dei campi del pensiero assiomatico323.
10.3. Assiomatica Kant, come ricorderete, se la cava molto semplicemente parlando di pensiero puro, usa questa parola "puro", "ragione pura", "intelletto puro". A Kant, per le esigenze che aveva, bastava parlare di un concetto puro qualora questo concetto non contenesse nessuna compromissione dal punto di vista empirico. Quindi il puro si distingueva dall'empirico in maniera del tutto intuitiva. A Kant bastava dire questo, perché gli bastava? Ma perché Kant porta un'unica logica quale fondamento della deduzione trascendentale e questa logica coincide con 323 IL testo di riferimento indicato da Melandri per un approccio all'assiomatica è il Blanché, op. cit., ma si veda anche Kneale cap. VI § 1.
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la natura, coincide con ciò che tutti sanno, coincide con la geometria euclidea. Kant dà per scontata la presupposizione che la logica ordinaria e la geometria euclidea, non contengano problemi, non contengano constatazioni empiriche. Sapete invece come nello sviluppo della matematica sia diventato dubbio questo punto, come non si possa giudicare a occhio se un postulato è esente da assunzioni empiriche324. Allora come si opera? Si opera sostituendo al concetto di puro, che oggi ci sembra abbastanza ingenuo, usato da Kant e da altri autori, il calcolo del pensiero assiomatico. Noi, invece di dire "puro", dobbiamo dire "assiomatico". Che cosa vuol dire assiomatico? Ci sono dei passi da compiere per poter definire un modo di pensare molto schematico, i quali consistono nel riprodurre un modo di pensare in cui tutti i teoremi derivano da alcuni assiomi325. Quanti? Quelli che occorrono. Per il calcolo proposizionale Łukasiewicz nel 1928 ha dimostrato che tutto è ricavabile da soli tre assiomi. Un sistema è assiomatico quando soddisfa i requisiti di coerenza di completezza e di maggiore semplicità possibile326. Il postulato della coerenza è facile da capire: in un sistema assiomatico non deve mai essere possibile dedurre a e non a. Quindi se a è un teorema, non a non può esserlo. Il secondo requisito è quello di completezza. Qualunque cosa si possa dire con un linguaggio formalizzato bisogna che si dimostri che è vera o che è falsa. Nessuna esclusa.
324
Ibid. Sinteticamente: per costruire un sistema assiomatico si procede assumendo: a) termini indefiniti (o primitivi): saranno ad esempio p,q,r, … che nel calcolo proposizionale valgono come variabili; ~, v, (, ),… che varranno come costanti logiche; b) regole di formazione: saranno quelle che ci consentono di discriminare tra sequenze qualsiasi di termini indefiniti quelle espressioni che chiameremo formule ben formate (fbf) e che saranno le sole ad interessarci; c) regole di derivazione (o inferenza o trasformazione): che saranno quelle che ci consentono di passare da una fbf a un'altra fbf; d) assiomi: saranno alcune fbf valide dalle quali inferiremo altre fbf valide che chiameremo teoremi o tesi. Il tema viene ripreso nella Lezione XVI. 326 Si veda la n. 225 e si tenga presente che "teorema" è usato con significato equivalente a "tesi". 325
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Terzo punto, bisogna ridurre al minimo gli assiomi perché un postulato che sia derivabile dagli altri è un'assunzione inutile. Per dimostrare l'indipendenza dei postulati si isola un postulato alla volta, poi si costruisce un modello in cui valgono tutti meno quello considerato. Se tale modello esiste, vuol dire che il postulato fatto cadere non è conseguenza logica degli altri, altrimenti varrebbe anche in quel modello. In questo modo si riesce a dimostrare se il postulato dubbio è o no indipendente. Questa prova dell'indipendenza è necessaria per poter capire se ci sono delle assunzioni inutili.327 L'importanza dell'assiomatica per lo sviluppo del pensiero scientifico va letta, nell'economia del pensiero melandriano, sullo sfondo dell'importanza che la logica riveste per la filosofia la quale, nel secolo XX, ha imparato ad avvalersi del rigore che alla logica è implicito. Rigore che ha innervato gli studi di "logica" nel significato esteso che usano gli Stoici e altresì quelli di un'ermeneutica di cui Melandri ci sta dando esempio. Mi sembra risulti ormai evidente che il procedere di Melandri, nonostante abbia un occhio di riguardo per la didattica, sia strutturalmente improntato alla ricerca. Ne abbiamo una ulteriore conferma con l'inizio della prossima lezione.
327 Nella storia della matematica l'indipendenza del quinto postulato di Euclide, riconosciuta nella prima metà dell'Ottocento, ha sempre suscitato sospetti e i tentativi di dimostrare che esso era derivabile dagli altri ha portato a meglio definire il procedimento per stabilire la condizione di indipendenza, cfr. Kneale, cap. Sesto, § 1. "La coerenza è il primo requisito di un sistema di assiomi. […]. Non altrettanto essenziale è la reciproca indipendenza degli assiomi: un sistema deduttivo non risulta privo di valore quando si scopra che un suo assioma può derivarsi da altri. Ma è manifestamente inelegante introdurre come assioma qualcosa che può dimostrarsi come teorema; e, a prescindere da ciò, sono richieste dimostrazioni di indipendenza per comprendere rettamente la struttura di un sistema. Ora, per dimostrare che un assioma è indipendente dagli altri assiomi di un insieme, è sufficiente mostrare che la sua negazione è coerente (compatibile) con gli altri assiomi, al qual fine il geometra si basa di nuovo sul metodo dell'interpretazione numerica", (pp. 441-42). Un'interpretazione numerica è un possibile modello, per esempio "un'interpretazione della geometria euclidea a due dimensioni, secondo la quale i punti sono coppie di numeri e le relazioni tra punti sono relazioni del genere studiato in algebra", (p. 440).
Lezione XI
11.1. Logica e filosofia Vorrei riprendere l'interpretazione della logica modale in un secondo momento. Riprendo da Bocheński, dalle origini, anzi dai fondamenti della logica megarico-stoica. Questo è un punto di interesse storico: c'è la questione se gli Stoici dipendano o no da Aristotele. Il Bocheński è molto incline a perorare questa tendenza interpretativa che trovate in tutti gli autori di storia della filosofia del secolo scorso. Sono gli autori che hanno dato la base alla storia della filosofia. Anche quella dei manuali che voi conoscete. In fondo i manuali di storia della filosofia italiani sono un riassunto di quei grossi manuali tedeschi fatti nel secolo scorso con in più qualche citazione. Sono grossi manuali di storia della filosofia e sono manuali sulle storie speciali: storia della logica, storia della grammatica e così via328. In tutti questi manuali si dice che gli analitici di Aristotele sono l'inizio della logica. Ora, questa opinione è assai discutibile perché d'altra parte la dipendenza degli Stoici da Aristotele attraverso Teofrasto, ricorderete che Teofrasto è il successore di Aristotele al Liceo, è in contrasto con l'altra opinione secondo cui gli Stoici dipendono dai megarici. Ora vedete, questa contraddizione non è chiarita a sufficienza in Bocheński. I megarici dipendono come capostipite da Euclide di Megara che fu allievo di Socrate. Se voi ricordate che Platone fu allievo di Socrate, questo Euclide di Megara che vive intorno al 400 a.C. è di almeno una genera328 Per la storia (ottocentesca) della filosofia Melandri cita sempre Gomperz, op. cit., e per la storia della logica Prantl, op. cit.
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zione più vecchio di Aristotele. Questo non è chiarito. Evidentemente la contraddizione è probabilmente più verbale che altro, però bisognerebbe chiarirla. Dico che bisognerebbe parlare chiaro sul fatto che ci siano due diverse tradizioni di logica e che una volta apparso l'Organon di Aristotele questa comparsa abbia influenzato anche i logici di altre scuole. Il motivo ispiratore della logica stoica e megarica è completamente diverso da quello aristotelico. Questo lo dico io, come sapete fa parte del canone interpretativo che io cerco di suggerire. D'altra parte è un fatto assodato da parte di Bocheński che la logica di Aristotele è una logica del termine, non della proposizione, è una logica del nome; mentre la logica megarico-stoica è una logica della proposizione, del logos329. E su questo punto non si insisterà a mio parere mai abbastanza perché da questa diversa impostazione della logica derivano anche due diverse filosofie del linguaggio e quindi anche due diversi modi di concepire la semantica, essendo la logica del termine orientata sulla semantica del nome, laddove una logica della proposizione o dell'enunciato come quella stoica è orientata sulla semantica della proposizione330. Questa differenza sembra di poco conto tuttavia a mio parere comporta delle conseguenze gravissime. Adesso cercherò di chiarire quello che sto dicendo 329 Il merito di questa fondamentale distinzione tra la logica aristotelica e la logica stoica va a Łukasiewicz, On the On the History of the Logic of Propositions, op. cit., il cui pionieristico lavoro è alla base di alcune convinzioni ribadite da Melandri. A p. 67 del testo inglese citato (che traduco) si legge: "La fondamentale differenza tra logica delle proposizioni e logica dei termini era sconosciuta a tutti i vecchi storici della logica. Ciò spiega perché, fino a oggi, è mancata una storia della logica delle proposizioni e, di conseguenza, non abbiamo avuto un quadro completo e corretto della logica formale. […] Una storia della logica nuova va completamente riscritta da storici che posseggono gli strumenti della logica matematica. In questo scritto toccherò tre punti fondamentali della storia della logica delle proposizioni. Primo, vorrei mostrare che la dialettica stoica, in contrasto con la sillogistica aristotelica, è la forma antica della logica proposizionale; e, concordemente, che al contributo, finora frainteso ed erroneamente giudicato, degli Stoici va riconosciuto il giusto onore. Secondo, vorrei provare a mostrare, attraverso alcuni esempi, che la logica stoica delle proposizioni sopravvisse e fu sviluppata in età medioevale, in particolare nella teoria delle conseguenze. Terzo, credo sia importante stabilire quanto pare sia comunemente ignorato anche in Germania, e cioè che il fondatore della moderna logica delle proposizioni è Gottlob Frege". 330 Si vedrà in seguito come l'interpretazione da parte di Melandri del lekton come significato proposizionale sia centrale per tracciare il quadro entro cui ad una logica delle proposizioni deve corrispondere una semantica del logos e una teoria della rappresentazione.
Titolo del Capitolo Lezione IXI 261 261
perché finora l'ho enunciato così in generale, vorrei però che voi, non dico confermaste quello che dico, ma per conto vostro studiaste, tenendo a mente questo criterio propositivo. Dunque sul concetto di logica e semiotica riprendo da Bocheński331. 19.01 Essi [gli Stoici] dicono che c'è una triplice partizione del discorso filosofico: una [parte] è quella fisica, un'altra quella etica, la terza quella logica.332
Questa è la famosa tripartizione che viene data in questo modo: fisica, etica, logica; oppure logica, etica, fisica. Una rappresenta un ordine ideale degli studi, l'altra rappresenta una propedeutica agli studi. Non si è molto in chiaro su questo punto, io preferisco considerare etica e logica come le parti mentali, non materiali del sapere, la fisica come il concetto residuo, vedremo poi che cosa significa questo. Vediamo un po' di passare alla parte più interessante. 19.02 Essi paragonano la filosofia a un animale, in cui la parte logica corrisponde alle ossa e ai nervi, l'etica alle parti carnose, la fisica all'anima.
Come vedete qui, che la logica sia l'ossatura e i nervi va bene, che l'etica sia la carne è un po' più strano, che la fisica sia l'anima è davvero sorprendente. Ma dovete pensare che con 331
Sul fatto che Melandri usi "semantica" quando si riferisce alla teoria dei segni di Aristotele e "semiologia" o "semiotica" quando si riferisce agli Stoici posso fare una congettura che mette capo alla definizione di teoria segnica come insieme di tre gruppi di relazioni che Bocheński implementa (p. 36-37) mutuandola da Morris (Fondation of the theory of sign, Chicago 1938): sintassi è relazione tra segni; semantica è relazione tra segni e significati; pragmatica è rapporto tra segni e chi li usa. Nella teoria dei segni stoica e nella relativa gnoseologia la funzione pragmatica sembra più presente essendo struttura del mondo e struttura del pensiero eteromorfi. Nella teoria aristotelica si istituisce un rapporto tra i segni e le cose dove la mediazione del pensiero è neutrale in quanto si limita a rispecchiare il mondo (tutto ciò che avviene all'interno del processo sensazione-intelletto è una transizione neutrale dell'informazione) e il rispecchiamento non necessita del momento pratico della verifica. 332 Bocheński §19.01-19.02; i brani citati rimandano a DL VII, 39-41; cfr. anche Pohlenz p. 51; in VSF il frammento B 38 [2].
262 Capitolo I sugli Stoici 262 Enzo Melandri
"fisica" gli antichi intendono la natura e non la fisica nel senso moderno333. O anche a un uovo, la [parte] logica essendo l'esterno [= il guscio]
poi il tuorlo sarebbe l'etica e così via. O anche a un campo fertile. Il recinto corrisponde in questo caso alla [parte] logica.
Il recinto no? Prima l'ossatura e qui il recinto, cioè il quadro; come vedete vengono fuori delle immagini che adoperiamo ancora noi oggi. Per esempio Wittgenstein dice nel Tractatus: la logica è il quadro dentro cui deve rientrare il mondo, la logica è, o la cornice, o ciò che non si vede nel quadro, non è però il quadro334. Quando parliamo di quadro oppure di reticolato, di griglia, di sistema di riferimento, usiamo dei concetti più precisi ma che hanno sempre alla base questa concezione della logica come facente parte del quadro ma non essendo un elemento del quadro. È la sua griglia, è la sua ossatura, è la cornice, oppure è la struttura fine della tela su cui è costruito il quadro ma non è il quadro. Oppure diciamo anche che è l'elemento a priori del conoscere, è la stessa cosa vero? L'elemento a priori è la carta quadrettata su cui voi potete scrivere qualsiasi cosa dove, della carta quadrettata, i quadretti non intervengono in merito, servono solo per piazzare meglio la struttura del disegno. Secondo alcuni la parte logica si divide in due scienze, la retorica e la dialettica. 333 Come si è visto al temine della Lezione VI in riferimento ad Aristotele, De an. 404 e sgg, la connessione tra anima e movimento era largamente condivisa nella filosofia preplatonica e non lo è di meno in quella ellenistica. Di qui, tenendo presente la sostanziale intersezione tra la nozione di anima e di pneuma nel pensiero stoico, risulta chiaro come il movimento prodotto dalla respirazione sia sintomo della vita e l'anima sineddoche della natura. 334 È difficile ricondurre questa perifrasi ad un paragrafo specifico ma si veda per es. § 5.61.
Titolo del Capitolo Lezione IXI 263 263
questo "secondo alcuni" è un'allusione ad Aristotele 19.03 […] essi definiscono la retorica come la scienza del parlar bene …335
quindi non ha a che vedere con la logica e la dialettica come la scienza della corretta discussione nel discorso, mediante domande e risposte. Onde la seguente definizione: essa è la scienza del vero, del falso, e di ciò che non è né l'uno né l'altro.
Bocheński, nel commento che segue al frammento citato conclude dicendo che l'oggetto principale della logica stoica è costituito dai lekta, e procede introducendo i relativi frammenti (19.04-19.07). Melandri ripropone il triangolo di Richards per giungere alla propria interpretazione dei lekta.
11.2. Logica e semiotica Dunque passiamo alla nozione di lekton. Qui viene fuori, vi dicevo, ed è sorprendente, il triangolo di Richards, Ogden e Richards, un testo celebre apparso nel 1923336, in cui si stabilisce che, nel triangolo della semiosi, il rapporto del simbolo con l'oggetto non è diretto ma passa attraverso il pensiero. Questo è in Ogden e Richards, 1923.
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Bocheński 19.03; i puntini di sospensione sono nel testo; la cit. proviene da DL VII 41-42; cfr. anche Pohlenz pp. 57-58; nel fr. 75 [2] in VSF di Cicerone si legge: "Ecco, vi espongo il pensiero di Zenone stoico: come già in precedenza aveva sostenuto Aristotele, egli riteneva che tutta l'eloquenza si dividesse in due parti: la retorica che era simile al palmo della mano e la dialettica che era simile al pugno: infatti i retori si esprimono in uno stile esteso, mentre i dialettici con più concisione". 336 Charles K. Ogden and I. A. Richards, Il significato del significato, op.cit.
264 Capitolo I sugli Stoici 264 Enzo Melandri
Schema 11.1. Il triangolo di Ogden e Richards (2)
In Saussure, Corso di linguistica generale337, e altri, compaiono considerazioni simili. Questa è peirceana338. Avrete anche voi sentito parlare del segno inteso come significante, del pensiero come significato e dell'oggetto come referente. A "referente" io preferisco "riferimento", utterance. Ora, quando noi passiamo agli Stoici, siamo nel III secolo a.C., al posto di segno trovate il termine semainon, l'ho già detto, lo ripeto, la cui traduzione esatta è significante perché è il participio presente del verbo semaino che vuol dire "io significo". Vedete un po' che strana coincidenza vero? Il semainon si riferisce all'oggetto che non è chiamato oggetto ma è chiamato tynchanon, la cui traduzione suona "evento" nel senso di ciò che accade o happening; la traduzione letteraria viene meglio in inglese o in tedesco Geschieht da geschehen, accadere. Differenza significativa rispetto a "oggetto" perché quando si dice oggetto, anche se non dovrebbe essere così, si pensa immediatamente alla cosa. La cosa in greco si chiama pragma, la cosa fatta339. Ma nella cosa manca il riferimento al tempo. 337
Cfr. Ferdinand de Saussure Corso di linguistica generale, Laterza 2009, ed. or. LosannaParigi 1916. 338 Si può dire che se all'origine del pensiero logico (che avrà il suo sviluppo nel XX secolo) abbiamo Frege all'origine di quello semiologico abbiamo Pierce; e parimenti, come il primo era inconsapevole di "riscoprire" la logica stoica, il secondo lo era della semiologia stoica. 339 In realtà in greco non esiste l'omologo del nostro "cosa". Si usa in genere l'articolo in funzione di pronome al neutro, di solito plurale. Per es. Aristotele dice: ta en te phone, le "cose" che sono nella voce.
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"Cosa" è già un concetto troppo specifico perché si pensa a qualcosa che si individua nello spazio e non nel tempo. È più corretto dire "evento". Gli oggetti sono gli eventi e non le cose essendo un evento definito da tre dimensioni spaziali e una temporale. Naturalmente nella relazione segnica, intesa in senso generale, un oggetto può essere anche un pragma: quando indichiamo verbalmente un tavolo intendiamo "la cosa fatta"; è solo nel senso della fisica della struttura fine della materia che un tavolo va inteso come evento atomico, mentre nel senso della quotidiana percezione – salvo fanatismi soggettivistici – si individua nello spazio e non nel tempo. L'insistenza di Melandri sul significato evenemenziale dell'oggetto mira a contrastare una semantica del termine che individua pragmata vs una semantica proposizionale che si presta ad individuare eventi. Il triangolo poi si completa: in alto abbiamo il semainoumenon che significa "significato" in senso verbale, "significato" come participio passato del verbo significare: "ciò che viene significato". Impressionante questa coincidenza, vero? Perché coloro che hanno mutuato la moderna teoria della semiosi non conoscevano gli Stoici antichi; la corrispondenza è stata constatata successivamente alla nuova teoria semiotica. Dovete tenere presente anche la riga che divide il triangolo in due parti. La parte inferiore è data dai corpi, la parte superiore è data dal mentale; difatti il segno è un fatto fisico e l'oggetto cui si riferisce è un altro fatto fisico, sono due corpi. La relazione segnica si istituisce solo mentalmente: sono io che dico che questo segno è segno di quella cosa lì340. Non è che ci sia scritto sulle cose quali sono segni e quali no. Qualunque cosa può essere segno di un'altra e la relazione viene stabilita mentalmente. Solo nel caso in cui il segno sia un sintomo, se legato causalmente, posso vedere un legame naturale; ma allora il rapporto non è di segno e significato, non è tra il segno 340
Lascio la dizione verbale benché a "cosa" andrebbe sostituito "evento" perché ciò testimoni, anche in Melandri, dell'invalsa abitudine di parlare di "cose" anche quando non si tratta solamente di pragmata.
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e l'oggetto attraverso il significato, se c'è un legame causale il rapporto sarà anch'esso causale: non è che la causa sia il segno dell'effetto. Ciò significa semplicemente che il rapporto simbolico è istituito necessariamente dal linguaggio341: Ai fini della nostra esposizione […] è sufficiente distinguere due modalità estreme: la "sintomatologia", in cui il segno è casualmente connesso con il suo designato; e la "simbolica", in cui ciò non avviene affatto.342
Questo dicono esattamente gli Stoici. Il significante è una voce, una parola è un suono, è un oggetto corporeo; un fatto è un altro oggetto corporeo, e il legame tra i due viene stabilito mentalmente in quella dimensione irreale dell'essere che è il significato. Quindi: distinzione netta tra ciò che io chiamo il mentale e il mondo fisico. Gli Stoici non usano la parola "mentale", la uso io tanto per intenderci, dicono che "non esiste", dicono che "non è". Qualche anno più tardi Melandri scrive: Il Lekton o l'"esprimibile", secondo la lezione di Bréhier relativa agli Stoici, fa parte degli enti incorporei, inesistenti in quanto asomata perché privi di individuazione spazio-temporale, ma per altro verso identificabili come onta, cioè qualcosa e non niente, nelle operazioni della memoria, della fantasia e del pensiero.343
In natura, dicono gli Stoici, alcune cose esistono altre non esistono. Come si fa a dire che una cosa non esiste? È possibile solo se l'essere non coincide con l'esistenza. L'essere, nella forma dell'essere mentale o dell'essere del significato, non è esistente. Qui, come vedete, è il fatto mentale che segna una cosa per un'altra, fa sì che una certa cosa sia un segno e un'altra il suo riferimento, il significato è tutto mentale. 341
Il capitolo V della Linea intitolato Sintomatologia è interamente dedicato all'uso empirico dell'analogia quale suo quinto luogo naturale. 342 LC § 13. 343 Cfr. Le "ricerche logiche" di Husserl op. cit., p. 194.
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Dunque:344 19.04 Gli stoici dicono che questi tre sono connessi fra di loro: il significato semainoumenon
che è il participio passato di semaino il segno semainon
il significante che è il participio presente e la cosa tynchanon
la cosa, l'evento: tynchano vuol dire "accadere". Il segno è il suono stesso, ad esempio il [suono] 'Dione', il significato è l'entità manifestata da [questo segno] e che apprendiamo in quanto coesiste con il nostro pensiero, [ma] che i barbari non capiscono, sebbene odano il suono;
qui non dovete pensare al disprezzo per i barbari, vuol dire che quelli che non capiscono la lingua non sanno quale sia il significato la cosa è ciò che esiste all'esterno, ad esempio Dione stesso.
questo è il riferimento ontico Di questi, due sono corporei, e precisamente il suono e la cosa, e una è incorporea, e cioè l'entità significata, il lekton, che [inoltre,] è vero o falso.
Secondo Sesto gli incorporei sono quattro: i lekta, il vuoto, il luogo e il tempo345. Melandri inclina ad una interpretazione secondo la quale la logica, intesa nel significato esteso in uso presso gli Stoici, appartiene globalmente al mentale. Tuttavia, come si vedrà poco oltre, la 344
La lettura che segue, e che Melandri interrompe per commentare, è tutta in Bocheński 19.04, da Sesto Empirico, Adv. math. VIII. op.cit.; VSF B.l. 166. 345 VSF B.f. 331.
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psicologia, in quanto studio dell'anima e del pneuma, appartiene alla fisica. Ciò determina un dualismo mente/corpo dove in fin dei conti risulta apparentemente inevitabile una gnoseologia soggettivistica. E tuttavia il tentativo di Melandri in questa esegesi del pensiero stoico pare proprio essere quello di far uscire dal soggettivismo e dal solipsismo una gnoseologia incagliata nello scetticismo gorgiano; e di riuscire a farlo senza postulare una transazione continua tra sensazione e intelletto. Io uso la parola "mentale" loro usano la parola "incorporeo", asomaton, è lo stesso. Naturalmente con questo uso che io faccio di "mentale" mi riferisco piuttosto al termine che riguarda la filosofia moderna soprattutto nei paesi di lingua inglese. Mentale va distinto da psichico, perché ciò che è psichico esiste mentre il mentale non esiste, c'è solo. Perché si realizzi un significato è chiaro devo compiere degli atti psichici, questi atti esistono, però il significato non esiste, è mentale. In prima approssimazione potremmo chiarire così: l'essere include tutto quanto è corporeo e tutto quanto è incorporeo, è un insieme bipartito. Una partizione contiene tutti e solo gli elementi corporei e di essi si predica l'esistenza; a questa partizione, sottoinsieme dell'insieme dell'essere, appartiene anche ciò che è psichico. L'altra partizione contiene tutti e soli gli elementi incorporei e di essi si predica la nonesistenza; al predicato "non-esistente" noi possiamo sostituire il predicato "mentale". Essere e esistere. Il verbo greco non esprime questa diversità, per cui gli Stoici dicono " è reale", "è corporeo", oppure "è incorporeo". Noi distinguiamo tra essere ed esistere dando a "essere" l'accezione più ampia. Va sottolineato che le coppie di termini somaton/asomaton346 esprime una complementarità mentre la coppia essere-esistere, nella mia interpretazione, esprime un'inclusione. 346
Mi permetto per semplicità di coniare il neologismo "somaton", aggettivo inesistente in greco.
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Questo è il modo più economico di cavarsela in questo tipo di teoria della conoscenza. Potete anche dire che "essere" e "esistere" sono sinonimi ma allora bisogna distinguere, come fa Aristotele, i diversi modi di essere e esistere; non è una soluzione più economica dell'altra la soluzione aristotelica. Per Aristotele l'esistere è l'essere in categoria; per gli Stoici potremmo dire che c'è una sola categoria, che è quella dell'essere corporeo e poi c'è una contro-categoria che non comporta l'esistenza e che è l'essere nella mente. Che cosa si può intendere per "contro-categoria"? A rigore, data una sola categoria, quella dei corpi che sono tutto ciò che esiste, tutto ciò che non vi appartiene, appartiene al suo complemento e viceversa. Il principio di complementazione esige che complemento e categoria assieme esauriscano l'universo del discorso (come A e non-A). Qui la formulazione mi sembra infelice e permango dell'opinione che la mia prima approssimazione sia corretta. Non si tratterebbe tuttavia di una situazione platonica, vuoi perché non si dà ipostatizzazione, vuoi perché non si dà una relazione necessaria (biunivoca, suriettiva o iniettiva, poco importa) come nella methexis tra elementi dell'insieme mentale e elementi dell'insieme dei copri. Così almeno parrebbe secondo interpretazione "neogestaltica" di Melandri che si fonda sull'assunzione di un diaframma tra mondo e mente che esclude l'ipotesi dell'isomorfismo. Dunque qui diciamo che l'entità significata, che è stata detta semainoumenon, viene anche detta lekton. Lekton in latino si tradurrebbe con dicendum, "ciò che si dovrebbe dire" nel senso di: ciò che si intende o si dovrebbe o si vorrebbe dire e che magari non viene mai adeguatamente espresso col linguaggio a partire, non dalla comprensione del medesimo, ma dalla emersione e combinazione dei suoi segni. C'è qui dietro, anche se questa è un'altra spiegazione, un'esperienza che certamente tutti avrete fatto, nelle discussioni o anche nel tentativo di spiegarsi, cioè un'esperienza per cui si dice: "ma non è quello che io intendevo dire"; quando l'obbiezione di un altro
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riguarda la cattiva formulazione che noi abbiamo dato al lekton che avevamo in mente. Non potrebbe essere più chiaro che il lekton concerne il senso dell'intera proposizione; è l'unità minima di significato proposizionale la quale si ottiene dalla composizione di segni semantici e sinsemantici. I primi rimandano a un mondo esterno che ci fornisce stimoli sensoriali per costruire le nostre rappresentazioni, i secondi strutturano (o ristrutturano) i primi in un quadro coerente con i dati accumulati dalla memoria. E quindi si risponde dicendo "per favore lasciamelo dire in un'altra maniera perché questo non è ciò che io intendevo dirti". Cosa che sarebbe incomprensibile se accettaste il presupposto che il significato è un atto mentale che non viene mai adeguatamente ricondotto a segni di per sé fisici; occorre uno sforzo di comprensione di ciò che si intende dire, che in qualche modo è sempre di regola destinato allo scacco. E questo è un problema grave! Insomma, avete tutti, credo, l'esperienza che il pensiero e il linguaggio non coincidono; il linguaggio dice di più o di meno di ciò che intenderemmo dire, ha una sua meccanica, ha una sua funzione media che non è quella che intenderemmo dare quando vogliamo dire qualcosa di importante o di preciso. È una cosa che fa dannare i logici, che pure dispongono di un linguaggio artificiale, il non potere nonostante questo, esprimere esattamente tutto ciò che intendono dire. Credo che forse ne abbiate un po' esperienza anche voi, il principio di sostituzione è un principio che non può essere formulato fino in fondo347. Ci si riduce, a volere riformulare tutto fino in fondo, ci si riduce a dover subire dei crampi mentali. A un certo momento bisogna capire, ma in questo "bisogna 347
Suppongo che Melandri si riferisca alla regola di sostituzione uniforme: "sostituendo uniformemente una qualunque variabile di una tesi con una qualunque fbf [formula ben formata, vedi Lezione VIII] si ottiene ancora una tesi"; cfr. H+C, p. 33. Nella maggioranza dei sistemi di logica proposizionale si assume tra le regole di inferenza (altrimenti dette di trasformazione) la regola di sostituzione. Sulle condizioni di una formulazione rigorosa della regola di sostituzione cfr. Kneale cap. IX § 2; per le difficoltà relative all'uso della regola di sostituzione nei contesti intensionali e in particolare nelle logiche modali cfr. Kneale cap. X § 3.
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capire" è implicita una mossa che non garantisce poi sempre i risultati. La verifica di aver capito o no qualcosa, sapete benissimo come sia dura. A un certo momento lo facciamo brutalmente. Supponiamo che io abbia capito, allora dopo tanti passaggi dovrei ritrovare questo risultato; se lo ritrovo mi rinfranco, se non lo ritrovo sono in alto mare; questa è un'esperienza che abbiamo tutti e che non deve essere affatto rimossa. Siamo ben lontani dalla felice illusione che il linguaggio contenga in sé intuizione ed espressione completamente isomorfe e trasparenti tra loro. Un conto è ciò che vogliamo dire, un conto è quel che riusciamo a dire, spesso sono cose molto differenti. In una concezione di questo tipo, per cui il significato è un fatto mentale, la difficoltà di far corrispondere i segni materiali al fatto mentale mi pare si chiarisca se pensate in questo modo. Ciò che a mio modo di vedere si chiarisce è che: a) nella tesi dell'eteromorfismo di intuizione ed espressione è insita quella del solipsismo: lo scacco al quale va soggetta la comprensione secondo la tesi del solipsismo è superabile solo assumendo un principio di analogia348; 348
In LC il paragrafo 11 intitolato Ermeneutica, ruota intorno alla tesi secondo cui una " 'logica dell'ermeneutica' deve fondarsi sul principio di analogia, poiché altrimenti resta esclusa a priori la possibilità di confrontare fra loro gli individui". Il paradigma centrale è la nozione di Verstehen di Dilthey, ovvero la 'comprensione che consiste nella "spiegazione simpatetica o, meglio, per assimilazione comparativa alla propria esperienza 'vissuta'" (p. 64); "L'alterità, che sfugge all'esperienza diretta, può allora essere indotta con un certo grado di verosimiglianza, facendo di sé non più l'io, ma un io qualsiasi o, meglio un universale, oggettivo e anonimo tertium comparationis. […] Ciò equivale in sostanza a sostituire uno schema 'sociologico' a uno 'psicologico'. Il solipsismo diventa allora insostenibile per il fatto che l'io stesso risulta un concetto derivato e non primitivo". (p. 62) Il testo di riferimento per Dilthey è Die Entstehung der Hermeneutik, opera del 1900 in Gesammelte Schriften, ora Göttingen 2006. Nella scoperta dei neuroni specchio si potrebbe ravvisare una spiegazione in termini neurologici del funzionamento della "logica dell’ermeneutica". Secondo alcuni neuroscienziati infatti l’attività dei neuroni specchio è il fondamento dell’empatia. Cfr. Christian Keisers, The empathic brain, Social Brain Press 2011; Marco Jacoboni, I neuroni specchio, Bollati Boringhieri, Torino, 2008; Anna Berti, Neuropsicologia della coscienza, Bollati Boringhieri, Torino 2010. Azzarderei che per Melandri ricomprendere il problema del solipsismo in termini neurologici sarebbe una mossa di tipo aristotelico volta a dissolvere il problema gnoseologico connesso al solipsismo, si veda 5.4. e 6.3.
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b) si debbono istituire corrispondenze tra il mondo mentale dei significati da una parte e quello fisico dei segni e di ciò di cui si pretende siano segni dall'altra; e queste corrispondenze vanno soggette alla verifica interna della memoria e della logica; c) non v'è garanzia né che le correlazioni stabiliscano delle costanti, né pertanto che determinino una comunicazione efficace. In altre parole dei tre "anatemi" di Gorgia si evita il primo in quanto assumiamo che, qualunque cosa sia, il mondo esterno esiste, anzi, è "tutto quello a cui si può attribuire esistenza". Si supera il secondo assumendo una relazione tra il corporeo e il mentale che si rifà al paradigma della rappresentazione cartesiana. Ci si affida, infine, a un principio di analogia per ovviare al terzo. Dunque, perché a un certo punto si introduce il lekton? Perché vedete, il semainoumenon è del tutto in generale, il lekton corrisponde alla concezione per cui, siccome il legame che stabiliamo tra gli oggetti è mentale, cosa deve essere il minimo atto di significazione mentale, come deve essere l'atto? Da questo punto di vista il minimo atto di significazione mentale è la proposizione, non il segno preso isolatamente, ma quel segno che corrisponde a un'interpretazione complessa ancorché semplice, che è la proposizione. Qui entriamo nel merito di una questione annosa che non mi pare sia risolta. Se cioè il semplice, ciò che consideriamo non più divisibile, sia elementare oppure complesso. Voi capite che possiamo dare due risposte, possiamo dire: il semplice in quanto indivisibile è elementare; oppure: il semplice è tale perché indivisibile ma in sé complesso. Semplice-elementare sarebbe il nome, perché dato che il nome corrisponde a una cosa, c'è un nome, una cosa e basta; ma il semplice-complesso è la proposizione. È semplice perché non possiamo suddividerla, tuttavia è molecolare. L'atomo è divisibile o indivisibile? Supponiamo che sia indivisibile, tuttavia è un composto complesso, c'è un nucleo, ci sono gli elettroni ci sono le orbite, c'è questo e c'è quell'altro; in realtà poi risulta divisibile. Ma sup-
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poniamo che fosse indivisibile: non per questo potrebbe essere alcunché di elementare. Quindi il lekton corrisponde a uno stadio dell'analisi del significato in cui non ci limitiamo più a parlare di segno e di evento ma in cui il significato si pensa essere articolato in maniera proposizionale. Questo è coerente con l'assunzione che la cosa di cui si tratti non sia una cosa ma un evento. Cioè un fatto complesso ancorché semplice che si sviluppa nel tempo e che non può essere consignificato se non da una proposizione. Capite la differenza vero? La cosa è per esempio l'elettrone ma l'evento è l'elettrone con una tale posizione con una tale velocità. È descritto nel suo comportamento, non è descritto come in una fotografia che lo collochi fuori dal tempo, è descritto in quello che fa e come si comporta. Cosa fa? Agisce, reagisce, subisce ecc. Se io dico questo vedete subito come uno stato di cose debba essere espresso mediante una proposizione.
11.3. Logica e epistemologia 19.05 Essi dicono che il lekton è ciò che sussiste secondo una rappresentazione razionale [kata phantasian logiken]349.
Secondo la rappresentazione logico-razionale, sì. E qui bisogna aprire di nuovo il discorso sopra la psicologia. Tenete presente quanto detto fin qui sul lekton. Ora, nelle interpretazioni precedenti alle scoperte della logica moderna si tendeva ad interpretare il lekton come un fatto psichico e a collegarlo con la psicologia. Qui il problema è complesso perché andiamo pari pari con la questione semiologica, cioè con la teoria dei segni, che non è di per sé una teoria logica, è un presupposto del discorso logico, ma non è logica; poi abbiamo a che fare con la logica come teoria della proposizione e dei predi349
Bocheński 19.05, da DL VII, 63 ma in VSF B.l. 187 da Sesto Adv math. VIII 70.
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cati, poi abbiamo a che fare con la psicologia. La psicologia per gli Stoici, non rientra nella logica, perché la psicologia ha a che fare con la realtà, la realtà degli atti psichici, quindi rientra nella fisica, va bene? Nel loro senso di "fisica" come conoscenza o scienza di ciò che è reale, corporeo, non di ciò che è mentale. Anche la vita psichica è qualcosa di corporeo perché essi intendono la psyche come la forma del corpo, come il movimento del corpo, e anche lo spirito, pneuma, non è altro che aria infuocata. Del resto, a parte l'arcaicità che queste rappresentazioni hanno per noi oggi, è perfettamente lecito supporre che la vita psichica sia qualcosa di corporeo. Come abbiamo già visto, la psicologia degli Stoici, cioè la dottrina che essi avevano intorno all'anima, alla psyche, si fondano non sulla sensazione ma sulla rappresentazione. La teoria della rappresentazione come base della vita psichica si contrappone alla teoria della sensazione che è quella aristotelica. La dottrina delle sensazioni si basa sull'aisthesis, sensazione, da cui, attraverso le facoltà dell'anima, le dynameis, facoltà dell'anima che sono principalmente due, memoria e astrazione, si giunge all'intelletto, al nous350:
aisthesis memoria
astrazione nous
La memoria ha la dynamis, la funzione, la facoltà, di conservare intatto il sensibile; il dato sensibile, se non ci fosse la memoria, si perderebbe; l'astrazione ha la funzione di distillarne l'essenza; mi piace questa espressione "distillare l'essenza" perché rende chiaro come l'intelletto, anche quando è attivo, non passivo, non possa produrre il dato, lo può solo concen350
Ritroviamo qui una versione coincisa di quanto esaminato nella Lezione VI. Lo schema era nei miei appunti.
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trare nell'essenza. È quasi un'operazione alchemica, l'intelletto è come l'ape, sugge le essenze ai fiori, produce il miele, ma il miele non è altro che quel liquido dolce concentrato con meno acqua, non aggiunge nulla. Quest'immagine mi pare chiara, vero? Aggiunge un po' di disinfettante perché le essenze si conservino nel miele, vero? Ci sono un po' di atomi grassi con funzione conservatrice; la memoria vedete, la suzione delle essenze, concentrazione, memoria, conservazione. Vedete anche come il processo di scambio tra la psyche e l'ambiente sia a senso unico, dalla sensazione all'intelletto e basta. Il feed back c'è anche qui. Sarà che l'intelletto organizza l'azione attraverso cui si farà l'esperienza di altre cose, va bene? Però lo scambio è dalla sensazione all'intelletto, dal basso all'alto, anodos la via che conduce in alto. Vedete altresì come dal mondo ambiente alla psyche si operi un trasporto materiale di informazioni: l'intelletto, distillando le essenze, conserva e depura quel dato inferendolo dalla sensazione. Quindi abbiamo in questo sistema, in questa teoria della conoscenza, il presupposto di una trasmissione materiale di informazioni dall'ambiente alla psyche. La comunicazione c'è, è effettiva ed è materiale. Non è simbolica, è materiale. Sto dicendo delle cose note con un'angolazione leggermente diversa. Ma vedete, presentato in questa maniera, non è più così ovvio come sembrava prima. Almeno a me non sembra. Le teorie transazionali del rapporto fra la vita mentale e il mondo presuppongono dunque un trasporto materiale di informazione dal mondo alla mente. È la tesi del rispecchiamento del mondo attraverso la mente; rispecchiamento che riproduce il mondo in maniera semplificata, essenzializzata ma che tuttavia ne rispetta i caratteri fondamentali, primo dei quali la struttura o compagine. Così come il mondo è, allo stesso modo, pur semplificandolo, io vengo riproducendolo. Isomorfismo a tre strati: dalle cose alle sensazioni, dalle sensazioni al linguaggio e al discorso. Il cambiamento del medio non inficia la conservazione della struttura che si dà in questa maniera. Due caratteri dunque della sensazione, trasmissione materiale di informazione e
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conservazione della struttura del mondo esterno: isomorfismo. Teoria della conoscenza come rispecchiamento. Questa teoria della conoscenza inoltre ha il vantaggio d'essere fatta in modo da togliere cogenza a ogni carattere problematico. È chiaro che se voi assumete l'isomorfismo, non c'è più un problema del conoscere; ci sarà solo un problema marginale che è quello di chiarire i presupposti di questa tesi. Siccome però la tesi appare verosimile, una volta accettata, noterete come manchi l'analisi dei suoi presupposti. Se noi, questi presupposti, li enunciamo in maniera esplicita, la tesi viene a perdere molto della sua felice verosimiglianza o plausibilità. Infatti non è molto accettabile che nel processo del conoscere si dia una trasmissione materiale di informazioni dall'oggetto conosciuto al soggetto ricevente. Quindi vedete come l'aisthesis, la sensazione venga concepita non tanto come un dato di fatto quanto come un canale di comunicazione di informazioni o dati di fatto, ma non è essa stessa un dato di fatto. Nella teoria della conoscenza stoica avete una cesura, e la vita mentale ha origine con le rappresentazioni, cioè quello che in greco si chiama phantasia. La cesura, il diaframma, si pone in prima istanza tra mondo esterno e rappresentazione ma, come si vedrà, Melandri postula un secondo diaframma tra rappresentazione catalettica e pensiero. Nel passo che segue si andrà distinguendo tra percezione e pensiero: la prima è oggetto della psicologia e dunque in termini stoici appartiene al mondo dei corpi, a quella "fisica" che si occupa della psyche; il secondo non appartiene alla psicologia e dunque nemmeno è oggetto della fisica bensì di quello che abbiamo chiamato "il mentale" che è incorporeo. Il momento della rappresentazione catalettica, phantasia kataleptiche, è psichico; quello che procede kata phantasian logiken, potremmo tradurre per rappresentazione logica, è mentale. Melandri dirà: Per me è evidente che il pensiero comincia laddove finisce la vita psichica come condizionata.
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In questo secondo e consecutivo momento gli elementi vengono trattati liberamente come simbolici mentre nel primo erano trattati come corpi e, per così dire, manipolati dalla psyche secondo leggi fisiche. Si dovrà quindi intendere la frase "la vita mentale ha origine con le rappresentazioni" nel senso in cui l'origine della vita mentale è nel passaggio dalla percezione al pensiero ovvero dalla rappresentazione catalettica a quella logica. Phantasia è la rappresentazione, Vorstellung, il quadro mentale; è, nell'immagine della caverna platonica, ciò che viene proiettato sullo sfondo. Quindi phantasia è la rappresentazione come capacità rappresentativa e i suoi elementi sono i fantasmi, le rappresentazioni. Questi fantasmi coagulano con la psyche, si riuniscono in unità e ne risulta la rappresentazione catalettica. La catalessi corrisponde al momento in cui le rappresentazioni coagulano tra loro in modo da formare quello che si dice la costanza percettiva dell'oggetto. La fantasia si chiama allora phantasia kataleptiche. Fantasia che prende l'oggetto oppure che è ossessionata, è presa dall'oggetto, i due sensi attivo e passivo vanno assieme. C'è stata in proposito una lunga discussione nel secolo scorso, se kataleptiche derivasse da katalepsis che è proprio l'apprensione, se si dovesse intendere in senso attivo, questa fantasia che prende l'oggetto, oppure in senso passivo. La cosa è del tutto indifferente se ci pensate bene perché l'oggetto non è che esista indipendentemente, si chiama oggetto l'effetto di questo quadro. È come nella psicologia della percezione: voi avete la percezione di un oggetto, di una figura come costanza, non appena le varie rappresentazioni si situano in un certo modo. Non è che esista un oggetto e la fantasia lo prenda, il fatto è che gli elementi fantasma si organizzano in un certo modo per produrre l'effetto, per così dire, tridimensionale da cui dipende l'oggetto. Quello che succede non oltrepassa la capacità della fantasia, della rappresentazione, semplicemente si ha un passaggio di grado. Tutta la vita psichica, considerata cognitivamente, consiste in rappresentazione, giudizio e sentimento, non c'è altro. Questa classificazione è quella di Brentano ma potrei risalire a
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Eraclito. Infatti io posso avere la rappresentazione, l'idea di qualcosa; se penso che ciò sia vero o falso do un giudizio ed è un altro gradino; quando dico che qualcosa nell'idea è vero o falso, istituisco il rapporto con l'oggetto. Poi c'è il sentimento che consiste nell'attrazione o repulsione verso l'oggetto così considerato. Tutti i sentimenti si organizzano come attrazione o repulsione. Non c'è altro? Non c'è altro. Per poter parlare della volontà in termini di sentimento, in termini dinamici sono necessarie teorie successive. Quindi non siamo molto lontani dal vero se noi supponiamo che la katalepsis corrisponde a un coagulo di rappresentazioni le quali hanno le proprietà di dare il senso dell'oggetto cioè la proprietà della costanza percettiva. Che questa proprietà sia un'invenzione si può riscontrare in mille modi, come vi dicevo per esempio con la moneta, che io mi raffiguro concettualmente rotonda, laddove invece, dal punto di vista dell'immagine retinale non lo è. Come scelgo una figura tra mille possibili quale rappresentante di tutte le prospettive in cui può apparire quell'oggetto? La scelgo in base a certe leggi che son leggi della fantasia, scelgo un'immagine tra le mille che ci dia la possibilità di rappresentare tutte le altre. Facendo questa operazione io creo un fantasma di secondo ordine nella costanza percettiva. Difatti una volta che è deciso che la figura è rotonda io la percepisco come rotonda anche se non la vedo mai così. E così via per tutti gli altri aspetti. Come vedete questa è un'invenzione del nostro apparato percettivo. Cos'è voi direte, questa ulteriore immagine, è un'invenzione libera o è un'invenzione in qualche modo necessitata? Io risponderei che non è un'invenzione libera. Salvo in casi marginali penso sia dimostrato che tutti gli uomini percepiscono più o meno alla stessa maniera. Però questo non è un grande argomento, è un argomento di carattere statistico, che più in là non ci interessa. Quello che ripeterei è che nella percezione c'è un'operazione in cui interviene anche l'intelletto, però questa operazione ha tutti i caratteri di una sintesi passiva. Il concetto di sintesi pas-
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siva mi sembra sufficientemente chiaro. È una sintesi che compiamo passivamente. Andiamo avanti. Noi possiamo complicare il quadro: una catalessi diventa un collasso di rappresentazioni; possiamo avere anche catalessi di catalessi, percezione di percezioni, il campo psichico si complica a dismisura. A un certo punto raggiungiamo quel limite oltre il quale la sintesi passiva comincia a diventare attiva, consapevole, voluta. Non siamo più legati passivamente a dover percepire le cose in un certo modo, ma via via che aumenta la ricchezza della vita psichica noi abbiamo la libertà di percepire un po' più a piacimento finché non è più la fantasia ma l'immaginazione che domina. Via via che aumenta la libertà diventa tutto sempre più arbitrario e sempre meno convincente. Dovete tenere presente che noi ci fidiamo della percezione quanto più è passiva. Par di capire che la ricchezza e complicazione della vita psichica avvenga per gradi. In questo senso il passaggio dalla sintesi passiva al simbolico dovrebbe risultare dal raggiungimento di una soglia oltre la quale si compie il passaggio qualitativo. Questa mi sembra l'ipotesi interpretativa più adeguata. Dunque: attraverso la stessa ricchezza di complicazione della vita psichica giunge un punto in cui anche le catalessi si disgregano; allora dobbiamo passare a un livello superiore che è quello del pensiero in cui frammenti di catalessi, che non sono più il fantasma originale, li evidenziamo in maniera simbolica. Non sono più rappresentazioni, non sono più indizi percettivi, sono elementi di un giudizio oggettivo. E allora dobbiamo inventare la logica come strumento per combinare questi frammenti e per [dar loro una nuova struttura]. Questo è il significato della frase kata phantasian logiken: secondo la fantasia logica e non secondo la fantasia catalettica. Siamo giunti qui alla spiegazione del frammento dal quale eravamo partiti: il lekton sussiste kata phantasian logiken, secondo una fantasia logica o, con le parole di Bocheński, secondo rappresentazione razio-
280 Capitolo I sugli Stoici 280 Enzo Melandri
nale351. Questa rappresentazione che potremmo dire di secondo grado è generata dall'intervento del pensiero. Si capisce anche allora che la distinzione tra un significato passivo e uno attivo non va attribuita alla rappresentazione catalettica bensì alla distinzione tra rappresentazione catalettica, che è una sintesi passiva, e rappresentazione razionale, che è il risultato di un intervento attivo del pensiero. Non siamo più guidati passivamente dalla percezione in cui forse un Dio pensa e percepisce per noi352 ma dal nostro arbitrio: dalla logica. Intendendosi per logica, in un senso vastissimo, la scienza generale delle strutture mentali. Il principio dell'ordine e della misura. Ora interviene il pensiero. Quindi la necessità della logica sorge per dare un ordine a ciò che, essendo svincolato dal condizionamento naturale, porterebbe di per sé alla follia. Non è concluso il mio ragionamento. L'esistenza di diaframmi pone due problemi: come si legano col pensiero i diaframmi, come si possa superare l'aporia, il problema insolubile che ne deriva dal punto di vista della comunicazione. Dunque come possiamo pensare che esistano dei diaframmi fra la vita psichica e il mondo esterno da un lato (anzi, come possiamo pensare che esista un mondo esterno) e tra il collasso catalettico e il mondo mentale? Questo secondo diaframma se volete potete anche non ammetterlo. Per me è evidente che il pensiero comincia laddove finisce la vita psichica come condizionata. Ma comunque, come cominciamo a pensare tutto questo? Lo scopriamo proprio all'interno della nostra vita psichica, noi scopriamo che a un certo punto la struttura della percezione non corrisponde affatto alla struttura del pensiero, noi scopriamo, ditemi se vi sembra che non sia vero, che il pensiero non è legato alle strutture percettive. Perché il pensiero opera un attività in cui si trattano gli elementi come simbolici, come piazzabili a piacere e come elementi che possono entrare in 351
È chiaro che qui "razionale" non è usato in un contesto di azioni come vien detto nella Lezione IX; forse proprio per questo Melandri dice " fantasia logica", scostandosi dalla terminologia di Bocheński. 352 Qui Melandri prende forse le distanze da Berkeley.
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una pluralità indefinita di strutture innovative. Non abbiamo proprio bisogno, col pensiero, di riprodurre le strutture percettive, anzi direi che, intanto pensiamo in quanto abbiamo bisogno di sostituire alla struttura percettiva un'altra più potente. Quindi noi abbiamo usato all'interno della nostra mente psichica l'esperienza di una destrutturazione e ristrutturazione secondo un diverso morfismo che è appunto il passaggio tra la percezione e il pensiero o se volete il passaggio tra la fantasia ancora legata all'immagine sensibile e l'immaginazione, che ha nei confronti della fantasia il vantaggio consistente nell'essere una libera combinatoria o un'attività le cui funzioni non dipendono dalle analogie dell'intelletto. Avrete sentito dire che la fantasia è proprio questo. No, io uso il concetto greco: con "fantasia" intendo quel gioco delle immagini che però non è legato al nostro intelletto; quindi è in qualche modo dipendente dalla percezione come sintesi passiva. Nell'immaginazione invece il procedimento è libero ed è tanto più arbitrario. Del resto quest'uso di "immaginazione" come modo superiore della fantasia è quello che trovate anche nei filosofi empiristi inglesi. La fantasia è qualcosa che è legato alla percezione, l'immaginazione è messa in gioco dall'intelletto che adopera le immagini della fantasia come simboli. Nella nostra vita psichica, nel passaggio tra la percezione e il pensiero, attraverso la destrutturazione e ristrutturazione, facciamo esperienza della caduta dell'isomorfismo. Nulla vieta di supporre, anzi, tutto suggerisce l'ipotesi che il mondo esterno non sia isomorfo con la rappresentazione che ne diamo. Quindi dovremo sostituire alla tesi dell'isomorfismo quella complementare dell'eteromorfismo. Eteromorfismo che cosa vuol dire? Vuol dire che la struttura cambia. Come lo concepiamo? Lo possiamo concepire perché una di queste fratture, quella fra il percepito e il pensato, passa attraverso la nostra vita psichica; ne abbiamo, direi, gli elementi, questo è il punto che volevo sollevare. Ciò fa supporre che ci sia un'altra frattura, forse ancora più grave, tra il mondo della rappresentazione e ciò che viene rappresentato. Si tratta di capire come avviene
282 Capitolo I sugli Stoici 282 Enzo Melandri
lo scambio di informazioni col mondo esterno. Vorrei fissare il problema a questo punto. Alla tesi del doppio isomorfismo tra oggetto e sensazione e tra sensazione e pensiero si contrappone specularmente la tesi del doppio eteromorfismo tra oggetto e percezione e tra percezione e pensiero. Siamo per l'isomorfismo o per l'eteromorfismo, siamo per il rispecchiamento o siamo per la rappresentazione? Potete anche rifiutarvi di scegliere, ma vi invito a pensare alla teoria alternativa [quella dell'eteromorfismo], poi non è che uno debba indossarla. A me pare un pochino più piccante questa seconda no? A parte l'aporia che non so se riusciremo a superare. Che non si dia isomorfismo tra rappresentazione e oggetto reale potete vederlo prendendo qualsiasi normale pubblicazione scientifica. Per esempio gli atomi: quando vengono descritti come palline colorate o argentee, fanno parte dell'ordine della realtà o ce li immaginiamo noi così? Ad un livello un po' meno ingenuo si può anche sostenere che gli atomi siano un punto dell'immaginazione che coglie la transizione tra le particelle elementari e le molecole, perché in mezzo qualcosa ci sarà pure, cioè un punto-istante che chiamiamo atomo per chiamarlo in un certo modo. Nulla di tutto ciò accadeva a Kant nel considerare lo spazio, cioè il contenitore del mondo esterno, come qualcosa che dovesse obbedire alle leggi della geometria euclidea. Adesso siete tutti più smaliziati, sapete che non è vero no? Però io vi faccio un'altra domanda: a me non va più bene la geometria euclidea. E va bene, lo spazio reale dovrebbe obbedire alle trasformazioni di Lorentz secondo cui lo spazio si contrae, nel senso della velocità, il tempo anche si contrae e la massa aumenta in rapporto alla velocità della luce. Ma come mai noi sappiamo che deve essere così lo spazio? È proprio così? Certo non lo vediamo, lo spazio non si vede, lo spazio è ciò dentro cui vediamo no? Il fatto è che non lo sappiamo. Noi dobbiamo postulare la correzione espressa dalle trasformazioni di Lorentz, dobbiamo postularla valida altrimenti ci tocca buttar via
Titolo del Capitolo Lezione IXI 283 283
tutta la fisica e ricominciare da Kant. Queste correzioni sono correzioni operate allo scopo di non buttar via tutto. Come vedete la conoscenza procede con un grande principio che però è totalmente arbitrario e che chiamerei il principio della conservazione della tautologia, il principio della conservazione della validità di quanto già è stato detto. È chiaro che non possiamo andare avanti conservando tutto quello che è stato detto, allora operiamo delle epurazioni fatte in modo che si conservi il più possibile di quanto è già stato detto. E non mi dite che questa è una legge di fisica. A me sembra una legge mentale non una legge di fisica.
11.4. Ermeneutica Come si fa entro questa teoria della conoscenza ad adottare il principio transazionale dell'informazione? Avevo detto, è opportuno tenere presente che questo quadro è solipsistico. Ma non è che non ci sia comunicazione con il mondo esterno. Solo che questa comunicazione non fa parte del quadro della conoscenza. È importante, per non cadere nell'aporia, tener presente che la conoscenza non è tutto; che la mente, il mondo mentale, ha due grandi momenti, il momento conoscitivo e il momento etico. Etica e logica vengono a incontrarsi e, nel senso stoico, l'etica è una parte della logica perché ha in comune con la logica il requisito della coerenza. Se risulta difficile credere alla tesi del rispecchiamento secondo la quale la struttura del mondo è isomorfa alla struttura della sensazione e questa a quella del pensiero, non sembra meno facile ammettere che il doppio eteromorfismo dal mondo alla percezione e da questa al pensiero consenta al linguaggio di rappresentare alcunché di non arbitrario. Il problema dell'eteromorfismo si presenta subito dal punto di vista teoretico e l'aporia non sembra facilmente superabile. Mentre dal punto di vista etico, attraverso quella praxis che è lo strumento di controllo del processo di output-input, emerge un
284 Capitolo I sugli Stoici 284 Enzo Melandri
tasso di efficienza (successo/insuccesso) nella serie degli atti di comunicazione. Qui si apre una breve parentesi che collega il rapporto logica-etica insito nella teoria della conoscenza stoica (e "post-cartesiana") al rapporto logica-etica così come risulta da una interpretazione deontologica della logica modale353. Sapete d'altra parte che anche formalmente è possibile interpretare il sistema dei divieti delle norme e dei permessi, mediante una logica deontica, una logica del dovere, del permesso, del consentito e così via, che è perfettamente identica nella struttura alla logica modale; semplicemente varia l'interpretazione. Anziché il necessario c'è l'obbligatorio, anziché il possibile c'è il consentito e così via. Questo accostamento dell'etica con la logica porta il discorso al di là della conoscenza. Al di là della conoscenza c'è l'interpretazione che noi diamo del mondo e del nostro vivere nel mondo e qui non è contraddittorio supporre che ci sia uno scambio, un output e input a livello però di comportamento globale, non come sensazione. Come interscambio di atteggiamenti. Anzitutto interumano; ma può anche essere etico il rapporto tra uomo e mondo, tra uomo e Dio, come modelli che permettono poi il comportamento interumano. In questo caso non abbiamo l'anodos cioè la via dalla sensazione all'intelletto, ma piuttosto la kathodos, dall'alto in baso. Qui ho aperto un nuovo capitolo, siamo oltre la conoscenza. Come chiameremo questo sistema di riflessione? Vogliamo chiamarlo ermeneutica? È come se ognuno di noi fosse chiuso in sé stesso con le proprie idee senza comunicazione. L'unico momento comunicativo è l'interscambio a livello di comportamento per cui io ricevo un premio o una punizione per quello che è il mio comportamento complessivo. Dopodiché cosa mi resta? Mi resta la riflessione all'indietro, quello che chiamo kathodos, la via dall'alto in basso. Il mio scarto pratico regredisce sull'organizzazione intellettuale e a 353
Cfr. O. Becker, op cit. Sez. 2.
Titolo del Capitolo Lezione IXI 285 285
sua volta sull'organismo percettivo. In questo caso io avrei la verifica, la conferma o la disconferma, in senso globale. Come vedete è possibile che la comunicazione avvenga a questo livello che è quello pragmatico. Conferma o disconferma nel senso globale del proprio comportamento, con un feed back che retrocede fino alle fonti dell'immaginazione, dove tutto viene ricalcolato. Dopodiché sono costretto attraverso lo scarto a riorganizzarmi in funzione dell'insuccesso. Non voglio aggiungere di più perché entro in un campo che mi è meno famigliare, mi basterebbe se vi avessi suggerito l'idea. E quest'idea non è troppo peregrina. In fondo è supporre che la comunicazione avvenga a livello globale. Mi pare che corrisponda di più anche all'esperienza che noi abbiamo. Non è che io, anche se mi esprimo bene, riesco a dire tutto quello che ho in testa o che voi quando imparate riusciate ad afferrare esattamente ciò che vi vien detto. Probabilmente la comunicazione presentata in questa maniera contiene degli elementi ingenui. Il fatto è che attraverso le parole i diagrammi, le funzioni, tutto quello che volete aumentano gli elementi del campo indicativo che però ognuno deve strutturare e ristrutturare per conto proprio. E poi non interessa sapere che sia passata esattamente quella comunicazione fatta così e così come io intendevo. L'importante è che abbia raggiunto il destinatario a livello globale. Moltiplicando gli elementi si moltiplicano le occasioni di strutturazione ma io penso che ognuno debba farsela a modo suo. E in fondo non mi stupirebbe se ognuno di noi avesse delle strutture, da poter paragonare, completamente diverse da quelle di un altro. L'importante è che noi possiamo costruire un campo comunicativo dove facciamo insieme qualche cosa. È la stessa cosa con l'esperimento dei cerchietti colorati: chi mi dice che voi vediate un rosso così come lo vedo io. C'è da ammattire se uno ci pensa vero? Ad ogni modo, se cambiassero tutti i dati percettibili, importante è che ci intendiamo quando diciamo: il complementare di questo è quel colore che messo nella ruota genera grigio, sparisce la qualità cromatica e vien fuori solo una qualità luminosa. Quindi per me è il verde voi magari intendevate il rosso e il rosso il verde, ma è lo stesso, aumen-
286 Capitolo I sugli Stoici 286 Enzo Melandri
tando gli elementi aumento anche la possibilità di strutturazione.
11.5. Ricapitolazione Infine Melandri ricapitola i punti essenziali della contrapposizione tra le due concezioni indagate. La tesi dell'isomorfismo presenta presupposti massicci da accettare; quella dell'eteromorfismo ha il problema dello scambio pensiero-mondo. La prima tende a procedere per verificazione puntuale e si fonda su una semantica del nome; la seconda per verificazione globale e si fonda su una semantica della proposizione. Nella concezione della sensazione come canale di comunicazione col mondo, la questione è apparentemente più semplice. Tuttavia i presupposti che noi dobbiamo accettare sono presupposti molto massicci se li esplicitiamo con un pochino di pazienza. Inoltre questi presupposti, non sembrano i più adatti per spiegare la teoria della conoscenza moderna almeno da Cartesio in poi. C'è anche un momento di arcaicità che rispunta sempre nella filosofia del senso comune. Quest'altra concezione è un pochino più scafata però è più difficile poi piazzare il problema dello scambio. Io penso che si debba partire, non tanto dallo scambio tra il soggetto e l'oggetto, tra la mia psiche e il mondo esterno, quanto piuttosto dallo scambio intersoggettivo. Penso che il problema della verificazione vada impostato anzitutto in maniera pragmatica. E non come verifica puntuale di questo e quel punto. Guardate anche tutte le teorie della verificazione come risentono di questo dualismo. A parer mio, per esempio nelle moderne teorie della conoscenza, di qua [cioè partendo dall'ipotesi dell'eteromorfismo] c'è poco vero? C'è solo la disconferma come fatto non tautologico. Dall'altra parte ci sono Carnap e pochi altri, i quali credono che la verificazione consista nel constatare certi particolari. Concezione troppo nominale a mio parere. E comunque voi pensiate questa concezione nominale non va bene
Titolo del Capitolo Lezione IXI 287 287
con quella proposizionale degli Stoici. Ecco questo è certo. Infatti la sensazione corrisponde al nome, lo vedete questo vero? Non so se vedete questo isomorfismo. Che una teoria semantica che abbia come presupposto una teoria della conoscenza aristotelica, debba fondarsi sul nome e che a ogni sensazione possa fare corrispondere un nome o un nome individuale oppure un aggettivo; mentre da quest'altra parte il nome non ha un'esistenza indipendente, il nome non è una finestra aperta sul mondo come sembra essere di qua [sul versante aristotelico]; qui il nome è semplicemente un costituente non indipendente della proposizione. Questa è una teoria più complicata ma che per un buongustaio della filosofia direi che rende di più. E con questa notazione un po' da gourmet concludo per oggi.
Titolo del Capitolo I
289
Lezione XII
12.1. Lekton Si è visto che nella Lezione X Melandri arriva a parlare della modalità in rapporto al determinismo ma interrompe il discorso nella Lezione XI. A mio avviso è perché sente l'esigenza di introdurre alcune nozioni di logica proposizionale (i connettivi logici) senza le quali non potrebbe rapportare la sua interpretazione della modalità stoica ai frammenti relativi (l'Argomento Vincitore). Muove dunque da quelle precondizioni ad una teoria logica che sono gli elementi di una teoria semiologica. E qui di nuovo però indugia approfondendo il rapporto tra semiologia, gnoseologia e ontologia. Infine arriva in questa Lezione XII ad una prima presentazione dell'uso stoico dei connettivi logici. Inizia riassumendo brevemente il significato dei termini in uso presso gli Stoici per esprimere la loro teoria dei segni e sottolinea come il significato letterale di questi termini sia il presupposto di una logica che può solo essere della proposizione, non del termine. Dunque stavamo parlando del lekton. Ricorderete che eravamo partiti dal triangolo semiotico in cui gli Stoici distinguono tra il significante, segno significante, semainon; il signficato, semainoumenon; e l'oggetto che si chiama tynchanon, ciò che accade. Dove il rapporto non è tra segno significante e oggetto, non c'è nessun rapporto diretto, essendo segno e oggetto dei corpi. Il rapporto viene istituito da un atto mentale che è il significato. Questo direi che sia molto chiaro, in realtà il mon-
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290 Capitolo I sugli Stoici 290 Enzo Melandri
do non possiamo dividerlo in cose che sono segni e cose che non lo sono; qualunque cosa, qualunque frammento di realtà può diventare segno di un'altra se noi pensiamo che ci sia un rapporto tra il significante e il designato chiamato "significato". Quindi vedete il mondo si divide in due parti: il mondo corporeo e il mondo mentale. Il mondo mentale è quello che è responsabile del significato, cioè di quella relazione per cui certe cose possono stare per certe altre. Vi ho accennato al curioso parallelismo che esiste tra la logica stoica e quella di Frege e poi vi ho detto che una specificazione di questo semainoumenon, o significato, nel senso di participio passato di significare, è il lekton354. Questa parola, che non si traduce e che è un gerundivo, vuol dire "ciò che si deve significare, ciò che si dovrebbe dire o si vorrebbe dire", quindi non lo traduciamo. Il lekton ha significato proposizionale. Questa è la novità di maggior rispetto nella logica stoica per la quale - così come l'oggetto designato non è una cosa, non è un pragma bensì un tynchanon, un happening, ciò che accade, ciò che succede - allo stesso modo il fatto segnico deve essere inteso come proposizionale. Non si tratta di un rapporto fra parole e cose, alla maniera di Foucault, anche se Foucault è abbastanza ironico nel modo di presentarla. Si parla del rapporto fra enunciati e stati di cose; tra frammenti di pensiero espressi dalla proposizione e frammenti di realtà che vengono designati dal lekton. Infatti ciò che è detto lekton si divide in completo e incompleto autoteles e ellipes355. Autoteles, cioè che ha il fine in sé stesso. Il significato completo è la proposizione intesa come axioma nella sua dimensione semantica di vero e falso, è un axioma tutto ciò che è vero o falso tutto ciò di cui si può dimostrare la verità; ove più si può dimostrare la verità, questo è un significato completo. Vedete che il 354
Ripeto: a mio modo di vedere semainoumenon è termine che si usa per indicare il significato all'interno della relazione segnica (segno-significato- riferimento); lekton è termine che si usa per indicare che nella relazione segnica il significato è proposizionale e fa riferimento a eventi. 355 Bocheński, § 19 C. p. 153, Fig. 6; Mates Cap. II Fig 2; Kneale Cap. Terzo § 4 e la nostra Lezione VIII.
Titolo del Capitolo I 291 Lezione XII 291
lekton ha struttura proposizionale; l'universo del discorso, detto in altri termini, del linguaggio interpretato come la filosofia del linguaggio degli Stoici, è un universo di discorso che ha struttura proposizionale. La proposizione qui si chiama Axioma: da axioo, axios vuol dire "degno". Altro tipo di forme proposizionali non aventi carattere proposizionale, sono gli imperativi, le domande, gli ordini, le preghiere e così via. Tutto ciò che grammaticalmente si costruisce come fosse una proposizione che però non è una proposizione perché non ha senso chiedersi se una domanda o un ordine sia vero o falso. Grammaticalmente anche la domanda è costruita come se fosse una proposizione però non lo è perché non si può applicare il criterio del vero e falso, non è axioma. Poi ci sono gli incompleti che vanno sul predicato e sul verbo356. Vedremo nella cosiddetta dottrina delle categorie che non hanno il significato di Aristotele.
12.2. Connettivi I Ora dobbiamo vedere, restando nell'analisi del discorso, tutto ciò che gli Stoici hanno messo in luce dal punto di vista logico, non dal punto di vista grammaticale. Perché dal punto di vista grammaticale sono stati i primi a dividere le parti del discorso distinguendone cinque357. E sono stati gli Stoici i primi a mettere in luce l'importanza delle particelle connettive. Cominciamo: cosa sono i connettivi logici? Sono quelle particelle come "e", "o", "con", "ad", tutte quelle particelle che servono a connettere o le parole nella proposizione oppure le proposizioni tra loro. Se risaliamo con l'immaginazione ai primordi della filosofia del linguaggio balza alla mente come nella filosofia arcaica del linguaggio si ragionasse di cose, del verbo 356
L'espressione di Melandri non è chiara ma si veda ad es. in Kneale p. 172: "Difettivi [incompleti] sono i lekta la cui espressione è incompiuta […] ad esempio, 'scrive'; infatti noi domandiamo: 'Chi?'. Completi sono i lekta la cui espressione è compiuta: ad esempio, 'Socrate scrive'". La citazione è tratta da DL VIII, 63. 357 Bocheński 19.09 da DL VII, 57; cfr. Pohlenz, Vol 1, p. 75.
292 Capitolo I sugli Stoici 292 Enzo Melandri
essere, della realtà, ma si trascurassero i connettivi. In effetti deve esserci voluto un notevole sforzo di riflessione teoretica per evidenziare nei connettivi del discorso un profondo problema logico. Dal punto di vista logico i connettivi sono particelle che servono a indicare la struttura logico-sintattica della frase. Questo è molto importante perché, siccome non danno problemi di traduzione queste particelle, avere messo in luce che si ottengono con un calcolo logico non è prestazione da poco. Prima di tutto consideriamo la negazione che non è un connettivo, è un funtore358. La negazione si distingue da "e", "o", "se, allora" per il fatto che non connette nulla da sola, serve solo a indicare l'operazione da svolgere, quindi è un funtore. Già Aristotele aveva dedicato la sua attenzione al problema della negazione; vi rammento che aveva distinto due sensi principali della negazione: quello diametrale o di contraddizione e quello privativo, non contraddittorio359. Qui per gli Stoici per la prima volta diventa evidente che dato p cioè data una proposizione, un enunciato, non p significa l'inversione del valore di verità in una logica a due valori di verità. Quindi se p è vero sarà falso non p e viceversa. Noi possiamo esprimerlo mediante una matrice dando tutti i valori di verità a p e non p. p ~p V F F V Tabella 12.1. Tavola di verità della negazione
Questo tipo di definizione a matrice è moderna, non si ritrova pari pari negli Stoici antichi. Vedete che il funtore si viene esprimendo applicandolo all'intera proposizione. Se infatti questo funtore viene applica358
Un funtore è un operatore logico monadico, ossia una costante che opera su una sola variabile; un connettivo è un operatore diadico, ossia opera su due variabili. 359 De. int. 10.
Titolo del Capitolo I 293 Lezione XII 293
to all'intera proposizione non sorge neanche il problema di distinguere la negazione nei suoi vari sensi; qui la negazione in una logica a due valori è sempre una negazione diametrale, non ci sono equivoci. È sempre la apophasis, la negazione di ciò che si è detto. (Apophasis, da non confondere con apophansis con la "n" che vuol dire "asserzione", apofantico.) Bocheński, dopo la negazione tratta l'implicazione ma noi la tratteremo dopo perché è più complicata360. La congiunzione, et in latino, in greco kai, viene definita come congiunzione di due proposizioni per cui si dà la matrice di p e la matrice di q, poi si definisce cosa sia p e q361 cioè le condizioni alle quali la congiunzione è vera; allora fate la matrice mettendo tutta la distribuzione dei valori e si dice che la congiunzione è vera quando sono vere entrambe le proposizioni, in tutti gli altri casi è falsa. p
.
q
1
1
1
1
0
0
0
0
1
0
0
0
Tabella 12.2. Tavola di verità della congiunzione
Poi abbiamo la disgiunzione che corrisponde all'aut in latino e che non è quella moderna362. Questa è quella alternativa363, quella moderna, che vedremo dopo, è quella inclusiva.
360
Bocheński Cap III § 20. Adottiamo il simbolo "." per la congiunzione. 362 Bocheński, p. 162, introduce la sezione dedicata alla disgiunzione così: "Intorno alla disgiunzione ne sappiamo molto meno. Probabilmente essa fu argomento dello stesso tipo di disputa che vi fu intorno alla definizione dell'implicazione. I nostri testi sono però pochi e oscuri. L'unica cosa certa è che furono riconosciuti due tipi di disgiunzione: la completa (esclusiva) e l'incompleta (non esclusiva), la prima delle quali è esemplificata bene". 363 I termini "alternativa", "esclusiva" e "completa" sono equivalenti così come lo sono i contrari "inclusiva" e "incompleta". 361
294 Capitolo I sugli Stoici 294 Enzo Melandri
Useremo il segno della spada per indicare la disgiunzione alternativa: p/q è falsa quando entrambe sono vere, è vera quando una è vera e la l'altra è falsa ed è falsa quando entrambe sono false: questa è la matrice del "o" alternativo nella logica stoica. p
/
q
1
0
1
1
1
0
0
1
1
0
0
0
Tabella 12.3. Tavola di verità della disgiunzione esclusiva
Mentre noi preferiamo definire prima la disgiunzione inclusiva anziché l'esclusiva. La nostra definizione di "o" è quella del vel latino, p v q364 è vera anche quando entrambe sono vere, è falsa solo quando entrambe sono false. p
v
q
1
1
1
1
1
0
0
1
1
0
0
0
Tabella 12.4. Tavola di verità della disgiunzione inclusiva
Con la disgiunzione inclusiva si può esprimere l'altra, quella alternativa: p aut q ossia p / q si può esprimere [equivale365] anche così: (p vel q) e non (p e q) ossia (p v q). ~(p . q)366 364 365
Adottiamo il simbolo "v" per la disgiunzione inclusiva. Adottiamo il simbolo "≡" per l'equivalenza.
Titolo del Capitolo I 295 Lezione XII 295
(p
/
q)
≡
(p
v
q)
.
~
(p
.
q)
1
0
1
1
1
1
1
0
0
1
1
1
1
1
0
1
1
1
0
1
1
1
0
0
0
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1
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1
1
1
1
0
0
1
0
0
0
1
0
0
0
0
1
0
0
0
Tabella 12.5. Ridefinizione della disgiunzione esclusiva
Vedete che riusciamo a dirlo lo stesso, escludiamo il caso in cui sono entrambe vere in maniera esplicita. A ragione occorre partire da definizioni più deboli anziché da definizioni più forti: perché se partite da un senso più debole è sempre possibile introdurre il senso più forte, con aggiunte, senza provocare contraddizioni nella definizione. Mentre se partiamo da un significato più forte è impossibile renderlo più debole dopo. Naturalmente fa parte del pensiero intuitivo partire da definizioni più forti perché si tengono meglio in mente. Questo non è un difetto. D'altra parte gli Stoici conoscevano anche il nostro vel, si chiama paradiezeugmenon. Diezeugmenon è l'aut, paradiezeugmenon il vel: ci sono tutti. Vediamo ora la questione del condizionale367. Il condizionale è quello che si esprime nella forma "se, allora", connette le proposizioni nella maniera che oggi indichiamo se p allora q e lo scriviamo: p→q Qui gli Stoici danno due definizioni: quella di Diodoro che è quella più forte che corrisponde all'implicazione formale368; tuttavia esiste anche questa369: 366
L'operazione procede meccanicamente all'attribuzione dei valori dalle proposizioni più interne verso quelle più esterne. 367 Bocheński e altri parlano di "implicazione". 368 Bocheński 20.08; se ne parlerà nella Lezione XVI, 2.
296 Capitolo I sugli Stoici 296 Enzo Melandri
p
→ q
1
1
1
1
0
0
0
1
1
0
1
0
Tabella 12.6. Tavola di verità dell'implicazione materiale (filoniana)
Il condizionale è vero nel caso in cui entrambe le proposizioni siano vere, è falso se l'antecedente è vero e il conseguente falso, è vero se l'antecedente è falso e il conseguente è vero, è vero nel caso in cui siano entrambi falsi. Questo modo di definire il condizionale, che a prima vista lascia un po' scombussolati credo, era già noto agli antichi. Voi non dovete interpretare il condizionale come se fosse un causale. La proposizione causale è una particolare interpretazione del condizionale; anzi, gli antichi distinguevano, gli Stoici stessi, un altro tipo di matrice. Il condizionale esprime semplicemente un rapporto arbitrario tra condizione e conseguenza, tra condizione sufficiente e condizione necessaria. Vi dicevo, per comprenderlo basterà pensare a una promessa, per esempio: se piove prendo l'ombrello connesso alla madre ansiosa alla quale si promette di non bagnarsi: va bene se piove e prendo l'ombrello; se non piove e prendo l'ombrello vorrà dire che ho preso una precauzione in più ma non ho trasgredito alla promessa fatta; se non piove e non prendo l'ombrello va bene; non va bene sono nel caso che piove e io non prendo l'ombrello. Vedete? È chiaro così? Questo connettivo gli Stoici lo chiamano synemmenon. La genialità consiste nell'aver capito che questi connettivi: primo sono importanti; secondo, devono essere definiti a par369
Questo condizionale è attribuito a Filone di Megara e corrisponde a quella che noi chiamiamo implicazione materiale, cfr. Bocheński 20.07. La controversia sui condizionali inizia nella scuola megarica tra Filone e Diodoro e continua nella scuola stoica includendo un terzo condizionale detto crisippeo, cfr. Mates, Cap IV e Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, Laterza, Roma-Bari 2009, (di seguito Pyrr. hip.), II, 110.
Titolo del Capitolo I 297 Lezione XII 297
tire dalle proposizioni che connettono e non a partire dal significato che assumono all'interno della frase; dall'aver stabilito il significato in termini di verità o falsità e non in termini di significato, cioè il significato è la verità o la falsità, e basta, in blocco370. E infine nell'averne dato una presentazione esauriente; in fondo i connettivi che vi servono in una sintassi semplificata son solo quattro o cinque. Dalla logica moderna sappiamo che potrebbe bastarne uno solo; è un po' complicato rendere il significato di tutti gli altri mediante uno solo, però è possibile371. A sua volta, avere capito che la definizione del significato dei connettivi deve essere intesa come relativa all'intera proposizione, la quale significa una sola cosa, o il vero o il falso, ha reso possibile una teoria della conoscenza che ha rotto con l'ipotesi che il conoscere sia un rispecchiamento del reale. Del resto, vedete, l'opposizione tra semantica nominale, relativa ai nomi come diceva Aristotele, e semantica proposizionale non potrebbe essere più netta considerando i connettivi. Perché io posso dire che il nome "Socrate" fra virgolette, sta per Socrate, pare intuitivo vero? Se volete togliere le virgolette possiamo fare il disegno di Socrate:
Figura 12.1. Rapporto speculare nome-cosa
Finché si tratta di nomi noi possiamo sempre istituire un rapporto speculare tra il nome e la cosa. Ora, supponete che io debba definire che cosa è "non". Cos'è in realtà il "non"? Se dico: 370 371
Si veda oltre 13.1. e Lezione XVII che riprende tutto il discorso. Si tratta dello stroke di Sheffer, vedi 10.3 e n. 325.
298 Capitolo I sugli Stoici 298 Enzo Melandri
- C'è Socrate in casa? - Adesso lo chiamo … no, non c'è. "non" significa "non c'è Socrate". Quindi il "non" richiede un'interpretazione semantica circostanziale, bisogna dire che "non è questo" ma è "tutto il mondo meno questo". Il "non" indica il buco rispetto all'aspettativa: c'è tutto il mondo ma non c'è quello, indica l'assenza.
Figura 12.1. Non-corrispondenza tra particelle sintattiche e frammenti di realtà
Cominciamo a essere un po' nei guai a dover dare un significato semantico a queste particelle no? Lo stesso è se devo indicare "e": che cos'è "e" - sono Socrate e un altro che si danno la mano allora "e" è come "con", cosa vuol dire: "insieme"? Sì, può voler dire questo ma come vedete alla particella non corrisponde un frammento identificabile di realtà a meno che io non parli di stati di cose complesse. E lo stesso se dico "se, allora" che cosa significa "allora"? Il suo senso come abbiamo visto è molto convenzionale, infatti alla matrice corrisponde abbastanza bene una certificazione mediante i termini di promessa, di fatti giuridici generali.
Titolo del Capitolo I 299 Lezione XII 299
Quindi vedete, sin dall'antichità, poi nel medioevo, si distinguono i termini in categorematici e sincategorematici. Categorematici sono i termini descrittivi come i nomi, gli aggettivi, quelli che hanno una corrispondenza col reale o che si può pensare che l'abbiano; sincategorematici sono quelli che non hanno significato da soli, ma solo nel contesto. Brentano con più semplicità distingue i termini del discorso in semantici e sinsemantici, intendendosi con semantici quelli che hanno significato presi nominalmente, sinsemantici quelli che non hanno significato se non attraverso i termini semantici che essi connettono. I connettivi presi da soli come sinsemantici non hanno significato. Non hanno significato nominale, intendiamoci bene, perché hanno un significato proposizionale espresso dalle matrici di verità. Vediamo ora quello che scrive Bocheński: 19.05 Fra gli assiomi non semplici c'è quello connesso [synemmenon = condizionale], o condizionale, come dicono Crisippo nella Dialettica e Diogene nell'Arte dialettica, che è composto mediante il connettivo implicativo 'e'; questo connettivo dice che il secondo segue dal primo come ad esempio 'se è giorno, c'è luce'.372
Io non parlerei però di "implicazione" perché la parola "implicazione" fa supporre che ci sia una qualche misteriosa ragione per cui l'antecedente implica il conseguente. È meglio dire "condizionale" per mettere in rilievo subito che se di implicazione si tratta, si tratta di implicazione fra le condizioni che noi stessi abbiamo stabilito. Questo connettivo dice che il secondo segue dal primo come ad esempio ' se è giorno, c'è luce '.373
372
Bocheński 19.15 da DL VII, 71 sgg. Il termine axioma che Bocheński traduce "assioma" è tradotto da Roberto Radice in VSF B.l 207 "enunciato" ma Melandri suggerirà tra poco che va tradotto "proposizione" secondo l'accezione moderna proprio perché il suo significato è il vero o il falso. 373 Ibid.
300 Capitolo I sugli Stoici 300 Enzo Melandri
Potrei benissimo dire "se è luce, c'è giorno", vedete, non c'è implicazione. Non c'è implicazione nel senso contenutistico. Un assioma inferenziale [parasynemmenon] è, come dice Crinide nell'Arte dialettica, un assioma che inizia e finisce con un assioma ed è composto [parasyneptai] mediante il connettivo 'poiché' [epei], come ad esempio 'poiché è giorno, c'è luce '.374
Questo è semplicemente l'inversione: se p allora q posso anche dire poiché q, p. Dipende se voglio mettere prima la condizione sufficiente e dopo la condizione necessaria o invertire l'ordine. Coerenza vorrebbe che usassi connettivi diversi secondo il diverso ordine, ma è solo una questione fraseologico-linguistica. Questo connettivo dice che il secondo segue dal primo e che il primo sussiste. Congiuntivo [sympeplegmenon] è l'assioma composto mediante il connettivo congiuntivo, come ad esempio 'è giorno e c'è luce'. Disgiuntivo [diezeugmenon] è l'assioma composto mediante il connettivo separativo 'o' come ad esempio 'è giorno o è notte'. Questo connettivo dice che uno degli assiomi è falso.375
"Uno degli assiomi", una delle proposizioni376. Poi c'è, anche se qui non lo dice, il disgiuntivo inclusivo, paradiezeugmenon che è quello nostro, il vel. Causale [aitiodes] è l'assioma composto mediante il connettivo 'perché', come ad esempio 'c'è luce perché è giorno'.377
È lo stesso come: "per il fatto che": perché q, p; solo che qui, nella aitiodes ha un senso causale. Cosa vuol dire un senso causale: direi innanzi tutto questo, che l'ordine logico dell'antecedente e del conseguente viene caricato di un senso temporale. La prima spiegazione che viene in mente circa l'inter374
Ibid. Ibid. 376 Vedi il mio precedente commento in nota. 377 Ibid. 375
Titolo del Capitolo I 301 Lezione XII 301
pretazione causale è questa: che all'ordine della scrittura del prima e del dopo che è puramente convenzionale, venga associato l'ordine temporale che non è più convenzionale. Dunque lo metterei così: se p in t1, allora q in t2 dove p è sufficiente e q è necessario; hanno un senso univoco nell'ordine della produzione. Se sparo una cannonata a un moscerino allora lo uccido, va bene? Se uno spara una cannonata per uccidere un moscerino ottempera alla condizione sufficiente anche se forse non era necessario. Comunque dal punto di vista produttivo va bene no? Produco l'effetto. Nell'ordine conoscitivo avviene che l'interpretazione sia l'inversa: poiché q in t2, p in t1 L'ordine conoscitivo è diverso dall'ordine produttivo nel senso che io osservo il movimento degli astri, non posso produrlo, per il momento. Prima osserviamo il movimento degli astri e poi diciamo che succede questo a causa di quello; ma in realtà ciò che poniamo come causa di ciò che avviene è puramente mentale dato che poi non abbiamo la forza di produrlo. È detto in modo schematico, mi scuso per la sua vaghezza ma l'interpretazione esatta di che cosa significhi la "causalità" è una faccenda complicatissima perché ogni civiltà e direi ogni pensatore di ogni singola civiltà l'ha interpretata a maniera sua. La confusione sta proprio nell'oggetto benché ci sembri che intuitivamente il nesso causale sia qualcosa di chiaro; non è affatto chiaro. Quindi questo discorso serve per illustrare il punto di come mai gli Stoici avevano bisogno di distinguere almeno tre connettivi diversi, uno che è il condizionale vero e proprio, uno che è il condizionale invertito dove c'è prima la condizione necessaria e poi quella sufficiente e infine uno che
302 Capitolo I sugli Stoici 302 Enzo Melandri
è causale vero e proprio378. Evidentemente di questi, in logica, vale solo il condizionale oppure l'inversione del condizionale.
12.3. Categorie Andando avanti, Bocheński, gagliardamente, intitola "La dottrina delle categorie".379 Direi che Bocheński, oltre a essere un prete cattolico è anche un tomista a oltranza. Insomma, intitolare "La dottrina delle categorie" un capitolo sugli Stoici è un pochino fuorviante. Perché se uno legge con attenzione si accorge che gli Stoici non hanno le categorie. Va bene, come spunto polemico potrà bastare. Dice: Secondo gli Stoici c'è dunque un summum genus. Questo è un passo indietro rispetto all'acuta anticipazione di Aristotele di una teoria dei tipi.380 19.19 Gli Stoici pensano però che i generi primi siano più limitati di numero [di quelli aristotelici] … Essi introducono infatti una quadruplice divisione in soggetti [ipokeimena], qualità [poia], cose che sono in un determinato modo [pos ekonta], e cose che sono in qualche modo in relazione con qualche cosa [ pros ti pos ekonta].381 378
È importante tenere presente che di questi "condizionali" solo il primo (synemmenon) è uno dei tre condizionali di cui parla Sesto Empirico, evidenziati da Mates (Cap. IV § 1) e ripresi poi da Kneale (Cap. Terzo § 3), ovvero quello diodoreo (synemmenon); essendo gli altri due, quello filoniano e quello crisippeo, entrambi condizionali logici; v. Lezione XVII. 379 Bocheński Cap. III 19 D. 380 Ibid, è un commento di Bocheński a due passi di Seneca tratti dall'Epistola 58 a Lucilio (Seneca, Tutte le opere, Bompiani, Milano 2000) e corrispondenti a VSF B.f. 332 [1] e [2]: "Il genere comune 'ciò che è' non ha nulla al di sopra di sé. Esso è l'inizio delle cose e tutto gli è inferiore. Gli Stoici vollero porre al di sopra di esso un altro genere ancora più grande", (19.17); "Ad alcuni Stoici 'essenza' sembra essere il genere primo; e dirò perché. In natura, dicono, alcune cose esistono, altre non esistono. Anche quelle che non esistono sono contenute in natura, precisamente quelle che si presentano nell'anima, come i centauri, i giganti e qualunque altra cosa che acquista un'immagine quando viene falsamente formata nel pensiero, sebbene non abbia sostanza", (19.18). Qui a mio avviso Seneca equivoca perché tra le cose che non esistono, ossia incorporee, asomata, ci sono tutti i lekta non solo quelli cui corrisponde una classe vuota come i centauri. Per quanto concerne il presunto genere sommo si veda oltre. 381 Bocheński 19.19: si tratta di una parte del fr. SVF B.f 369 di Simplicio, che parla esplicitamente di quattro categorie. Difficile non notare in Simplicio una propensione sincretica dominata dall'assimilazione al pensiero platonico-aristotelico. Peraltro lo stesso Pohlenz fa nota-
Titolo del Capitolo I 303 Lezione XII 303
Dunque, vi dicevo, secondo gli Stoici non ci sono categorie. C'è una divisione dell'essere in due parti: l'essere si divide in ciò che esiste, ciò che ha corpo e ciò che non ha corpo. Però queste non sono categorie, il piccolo particolare è questo. Il termine greco non permette di distinguere, cioè la lingua greca non permette di distinguere tra essere e esistere. Bisogna dire: "gli enti che sono corpi" e "gli enti che non lo sono", l'essere corpo e l'essere asomaton, senza corpo. Tutte le cose del mondo sono esistenti e sono corpi, quindi non è una categoria. Il principio della categoria impone che il mondo si divida volta a volta in due parti secondo gli oggetti che appartengono a quella categoria e quelli che non vi appartengono. "Categoria" è un termine che presuppone il complemento della categoria medesima. Ma se io dico che tutto ciò che esiste è un corpo, non c'è complemento, quindi non è categoria. C'è l'essere mentale, ma poi, per ogni corpo che esiste, esiste il suo essere mentale? Capite che non posso dividere le cose in quel modo. Credo qui si debba intendere che l'essere mentale dei corpi, a differenza delle idee platoniche, dipende dall'atto della percezione. Quindi non c'è categoria. C'è quello che è stato chiamato il materialismo stoico: tutto l'essere esiste in quanto corporeo. Però gli stessi autori che dicono "materialismo" a proposito di questa concezione trovano che è contraddittoria perché tratta
re che ai tempi di Simplicio (VI sec.) non esisteva più una scuola stoica e che "solo negli insegnamenti dei peripatetici e dei Neoplatonici veniva tramandata una 'dottrina' stoica […]", p. 129 n. 1. Di fatto dei "quattro generi dell'essere" aveva parlato Plotino nel Fr. B.f 371 "Ci sarebbe non poco da dire contro coloro che pongono quattro generi dell'essere (così distinti: sostrato, qualità, modi, e modi relativi) e vi sovrappongono il qualcosa come genere comune che li raccoglie tutti (e del resto assumono il qualcosa come un genere comune proprio perché è l'unico genere che sta sopra tutti gli altri). Questo loro 'qualcosa' ha un che di inintelligibile e di irrazionale, e assai poco adatto a designare corpi e incorporei. Né, d'altra parte hanno ammesso differenze con le quali differenziare il 'qualcosa' …[i puntini di sospensione sono nel testo]".
304 Capitolo I sugli Stoici 304 Enzo Melandri
del mentale in logica. Il fatto è che non bisogna usare le parole se uno non è sicuro di saperle usare. Credo che la nota polemica sia rivolta di nuovo agli autori ottocenteschi delle storie della filosofia. Ma il senso è chiaro sin dalla Lezione V dove Melandri dice "storicamente il materialismo è nato connesso con la tesi dell'idealità del conoscere". Non dovrebbe dunque stupire che il conoscere, che gli Stoici includono nel capitolo della logica, appartenga al mondo mentale e non a quello materiale. D'altronde l'insistenza di Melandri nell'usare "corporeo" e non "materiale" mira a smarcare lo stoicismo dal materialismo di origine democritea dove nasce sì l'idealità del conoscere, ma per finire reificata nel mondo platonico delle idee. Quindi tra le determinazioni di cui è suscettibile il discorso, che non sono categorie, dobbiamo distinguere quattro possibilità di articolazione. Qui stiamo dividendo il discorso al suo interno: c'è il soggetto della proposizione, che non è il soggetto aristotelico. Questo hypokeimenon significa "ciò di cui stiamo parlando"; hypokeimenon è subjectum nel senso che è ciò che sta supportando ciò che diciamo; hypokeimenon, subjectum etimologicamente, "gettato sotto", è ciò di cui stiamo parlando. Che cos'è questo "ciò di cui stiamo parlando"? È ciò di cui stiamo parlando. Come vedete è un lekton. La non classical view di Melandri si pone qui come diametralmente opposta all'interpretazione tradizionale del pensiero stoico. Scrive Pohlenz: "Aristotele aveva indagato sotto quali punti di vista un essere può divenire oggetto dell'enunciato e aveva conseguentemente fissato dieci 'categorie'382. Anche qui gli Stoici si riallacciano ad Aristotele. Ma poiché a loro interessano non gli 'enunciati', ma gli oggetti reali, fecero una suddivisione in 'generi dell'essere, distinguendone quattro […]". Il riferimento principale di Pohlenz qui è il già citato frammento B.f 371 di Plotino. Dopo aver elencato i "quattro generi dell'essere", alias "categorie" Pohlenz prosegue: "Per sostrato (hypokeimenon) intesero la sostanza delle cose, fatta astrazione da ogni qualità, e appli382
Pohlenz, p. 129.
Titolo del Capitolo I 305 Lezione XII 305
carono il concetto in senso proprio alla prima hyle, in quanto materia che sta alla base di tutto l'essere, e in seguito anche al sostrato sostanziale delle cose individuali"383. Tutti i frammenti di Crisippo in SVF Fisica 1, § 4-8, per la maggioranza di Simplicio, Plotino, Galeno e Alessandro, partono dalla supposizione che l'hypokeimenon degli Stoici sia l'analogo di quello aristotelico e cioè sia un sostrato. L'hypokeimenon aristotelico è un concetto logico-ontologico che nella fisica sconfina in quello di materia (hyle) e nella metafisica in quello di sostanza (ousia come substratum). L'hypokeimenon stoico è, secondo Melandri, il soggetto di una proposizione il cui significato va preso complessivamente come valore di verità rispetto a un evento o ad uno stato di cose. Il malinteso materialismo degli Stoici conduce a ritenere corpi anche le qualità dando quindi adito a pagine di confutazioni che i commentatori non avrebbero avuto ragione di scrivere se non avessero cercato di capire gli Stoici attraverso Aristotele. Poi abbiamo ta poia, le qualità, i predicati, verranno poi detti categorumena, qualia. Terzo, c'è il modo, il pos ekonta, stiamo parlando di qualcosa dicendo che ha certe qualità e che queste qualità ineriscono in un certo modo; è un'analisi dell'articolazione interna della proposizione, non è il caso di prenderla per più di quello che non dica; pos ekonta, quomodo res se habent se volete, come plurale di "perdurare", "come stanno le cose". Infine, pros ti pos ekontà: pros ti vuol dire relazione, in latino si dice secundum quid che tradurrei quomodo, in che modo, secundum quid, quomodo secundum quid; il termine latino secundum quid vuol dire "relativo", "relazione". Dunque abbiamo: ciò di cui stiamo parlando, dicendo che ha le qualità, connesse in un certo modo e poi parliamo anche della connessione con altri subjecta, con altri qualia che sono messi in un certo modo secondo una relazione che è messa in un certo modo. Lo schema come vedete è articolato sul minimo di postulati possibili ed è abbastanza, non informale, ma è 383
Ibid. p. 130.
306 Capitolo I sugli Stoici 306 Enzo Melandri
abbastanza fluido da contenere tutto quello che si vuol dire. Comunque questo non mette capo ad una analisi predicativa. Perché? Perché non ci sono categorie. Dunque qui metterei "La dottrina delle non-categorie", "La dottrina dell'insussistenza delle categorie", non ce n'è bisogno. Poi metterei: "Articolazione interna della proposizione" che si articola in quattro lekta che sono: 1) 2) 3) 4)
subjectum qualia quomodo res se habet (metto al singolare) quomodo secundum quid res se habent perché ce ne vogliono almeno due per fare una relazione, però res non esiste nel greco degli Stoici, esistono solo aggettivi al plurale.
ciò ci cui stiamo parlando
subjectum
le qualità
qualia
modo
quomodo res se habent
la relazione
quomodo secundum quid (relativo)
Tutti questi sono lekta
Vediamo adesso il commento di Bocheński: Queste quattro categorie non devono essere intese come generi supremi (al di sotto di 'essenza'): non è, cioè, che un essere sia un soggetto, un altro una relazione, ma tutte le categorie appartengono a ogni essere e ogni categoria presuppone le precedenti. Questa dottrina non ha una grande importanza per la logica.384
E qui non sono d'accordo! Primo, non si può dire "queste categorie non devono essere intese come generi supremi" perché le categorie sono appunto i generi supremi. E poi non 384
Questo è il commento di Bocheński al precedente frammento di Simplicio.
Titolo del Capitolo I 307 Lezione XII 307
si può dire che l'essenza sia unica se non dando un'interpretazione estremamente tomistica ed eccentrica385. "In questa dottrina ogni categoria presuppone le precedenti", significa che siamo in presenza del syndesmos, la connessione totale di tutto che è appunto la negazione della dottrina della categorie. Tenendo presente che secondo Bocheński le "categorie" stoiche non sono una pura e semplice articolazione della proposizione bensì portano un peso ontologico. Melandri rileva la contraddizione interna all'interpretazione tradizionale che muove dalla nozione di heimarmene, una forza che tutto regge secondo leggi fisiche, per approdare al determinismo inteso in senso forte. Ma se il mondo è una unità in cui ogni cosa è collegata in una catena causale386, se questa è la forma di determinismo che gli Stoici sposerebbero, allora non si dovrebbe dare nessuna categoria. Se l'essere è un tutto interconnesso non può lasciarsi predicare nelle categorie. Che non abbia importanza per la logica lo lascio giudicare a voi. Dobbiamo distinguere essere da esistere: "esistere" come "essere corporeo" e "essere" come "essere non corporeo" che vuol dire "non esistente". È uno dei due postulati che noi possiamo porre in logica. Anche qui "logica" non va inteso nel senso ristretto di "calcolo" ma nel senso ampio in cui gli Stoici vi includono la teoria della conoscenza intesa come rappresentazione eteromorfa al reale. Mentre per Ari385
Nell'epistola 58, in riferimento al to on di Platone, quod est ("ciò che è" nella traduzione di Bocheński), Seneca spiega che risalendo la scala dalle specie ai generi si giunge al genere primo, al più antico e universale, il to on; gli Stoici vogliono porre al di sopra di questo un altro genere più originario che chiamano il "qualcosa", quid (ti nel fr. citato di Plotino B.f 371) e che abbiamo visto Bocheński traduce con "essenza". Ciò che Melandri intende a mio avviso è che non si può tradurre il "ti" con "essenza" per significare qualcosa di unico salvo dove in Tommaso essenza e esistenza coincidono, ossia in Dio. 386 Nelle parole di Pohlenz: "[…] un'entità unitaria e continua, tenuta insieme da una forza pure unitaria, il pneuma: è un organismo vivo in cui, proprio come negli organismi vegetali o animali, tutte le parti si trovano per 'simpatia' tra loro in un rapporto di interazione e ogni cambiamento di una parte agisce sul tutto e quindi su tutte le altre parti", pp. 201-202.
308 Capitolo I sugli Stoici 308 Enzo Melandri
stotele la logica è strumento di una nozione di conoscenza intesa come descrizione isomorfa alla realtà. Oppure dall'altra parte, dobbiamo dire l'essere secondo la categoria, non ci sono altre alternative. O si è aristotelici o si è stoici su quel punto. Dicendo "questa dottrina non ha importanza per la logica" Bocheński già presuppone che la logica formale sia, alla maniera definita da Aristotele, qualcosa che vale in modo neutrale. Nella concezione aristotelica dove la conoscenza non si pone come problema la logica funziona come strumento neutrale. Il mondo si conosce per quello che è e la logica ha solo il compito di ordinarlo, di dire che cosa è incluso in che cosa e che cosa non lo è, fino ai generi supremi, ovvero le categorie. In altre parole il linguaggio individua il mondo per segmenti e la logica ha il compito di ricomporne il quadro e questa ricomposizione va soggetta alla legge dell'isomorfismo. Nella concezione stoica il linguaggio individua il mondo come insieme di eventi interconnessi e la logica produce la rappresentazione che lo individua. La corrispondenza col mondo non è data come presupposto. Non ci sono categorie nel pensiero che riflettono segmenti del mondo, ci sono rappresentazioni articolate in proposizioni la cui corrispondenza va verificata con lo stato di cose rappresentato sulla base di un criterio "tutto o nulla", o corrisponde o non corrisponde, non segmento per segmento ma nel senso complessivo espresso dalla connessione proposizionale. La presunta neutralità della logica aristotelica si può accettare, solo però che questo non corrisponde alla definizione degli Stoici dove la logica include la teoria della conoscenza. Cioè la logica viene a includere la dottrina della conoscenza, quella che noi oggi diremmo la "teoria della logica" distinta dalle teorie interne alla logica. Evidentemente non si può sostenere l'idea che la logica non abbia nulla a che vedere con la teoria della conoscenza. Una logica nasce dal nulla, senza nessun supporto oggettivo oppure ha bisogno di essere interpretata in una teoria che sta al di fuori della logica?
Titolo del Capitolo I 309 Lezione XII 309
Il significato della neutralità dello strumento aristotelico dovrebbe essere quello di non aver bisogno di una teoria all'interno della quale interpretarlo. A me pare di capire che anche la teoria delle categorie aristotelica è una teoria della logica; e infatti sorregge un diverso modo di articolare la logica stessa. Nella maniera aristotelica, predicando l'essere costantemente dentro una categoria, ho lo svantaggio di dover rendere pluralistica la nozione di essere ma ho il vantaggio di poter fondare la semantica sopra la corrispondenza nominale. Infatti se io predico l'essere sempre solo dentro una categoria determinata, dentro quella categoria io potrò sempre fare corrispondere i nomi a degli oggetti che sono già stati definiti dentro la categoria. Quindi la logica aristotelica va molto bene in un impianto scientifico il quale si preoccupi solamente di fare un inventario di ciò che esiste secondo le categorie. E allora io distinguerò gli esseri viventi, gli esseri non viventi, gli eventi della natura; quando poi arrivo al pensiero non ho nessuna difficoltà a classificare anche il pensiero come fatto psicologico anziché come essere mentale. Qui si intenda che il pensiero, il nous, è il punto di arrivo di un processo psicofisico continuo che parte dalla sensazione; mentre tra la prima fase di strutturazione della rappresentazione (phantasia kataleptike) e la seconda fase di ristrutturazione simbolica (phantasia logike) si passa dal corporeo al mentale senza continuità (donde il problema della verifica). In Aristotele: Non ho nessuna difficoltà perché volta volta io cambio le categorie per definire tutto quanto. E questo è senza dubbio legittimo, però non si venga a dire che è neutro nel senso che tutti quanti debbono accettarlo, perché è possibile l'altra alternativa, che consiste nel rifiutare le categorie, nel distinguere tra l'essere e l'esistere e nel dare a "esistere" il senso di essere corporeo. Secondo me questo è altrettanto neutrale del primo se volete ma è meglio dire, se chiaramente vogliamo fare i
310 Capitolo I sugli Stoici 310 Enzo Melandri
neutrali ad ogni costo, neutrale sarà la matrice che io vi ho delineato, secondo cui possiamo scegliere due diversi modi di comportarci in proposito; e questi due diversi modi esauriscono, per quanto ne sappiamo, tutte le impostazioni fondamentali in proposito. Io direi che sono due diverse nozioni di obbiettività, due diversi concetti scientifici che coesistono tuttora; perché vi facevo presente come nella situazione epistemologica di oggi coesistano impostazioni più descrittivistiche della scienza con impostazioni più teoreticistiche. Ecco, io non voglio a questo punto dire quali sono i campi, sennò divento aristotelico nel dirlo. Ad ogni modo, per intendersi, nel campo delle scienze fisico-matematiche prevalgono interpretazioni di tipo rappresentazionalista e non speculare, non di rispecchiamento; mentre nel campo delle scienze naturali e delle scienze sociali che sono di tipo descrittivo prevale l'impostazione aristotelica. Però mi guarderei bene dal fare di questo che ho detto a scopo esemplificativo, una divisione categorica. Perché altrimenti daremmo ragione ad Aristotele, tutto il sapere si divide in categorie, c'è la categoria delle scienze matematiche, matematicofisiche, la categorie delle scienze descrittive, qui applichiamo questo criterio, qui applichiamo quest'altro: Aristotele andrebbe bene anche adesso. Queste due concezioni a me paiono fondamentalmente diverse proprio sulla base di ciò che io chiamo teoria della conoscenza: la teoria della conoscenza come rispecchiamento è totalmente diversa dalla teoria della conoscenza come rappresentazione. La seconda è più mentale, e richiede un supporto preciso degli strumenti logico-matematici, appunto perché essendo mentale, se noi sbagliamo nell'impostare l'ordine e la misura delle idee, sbagliamo tutto. In un impianto invece di rispecchiamento l'errore è marginale. Perché noi ci troviamo sulla semantica nominale e forse non ci consentirà ardite speculazioni; tuttavia siamo ancorati a un buon senso comune che non ammette dei grandi errori.
Titolo del Capitolo I 311 Lezione XII 311
Difatti, vi dicevo, nella concezione aristotelica l'errore non esiste o è un errore marginale. Mentre invece nella concezione rappresentazionalistica l'errore è fatale: noi siamo legati solo alla matematica delle nostre idee le quali rappresentano qualcosa ma non lo rispecchiano. Sotto questo aspetto [le rappresentazioni] sono dei fantasmi, è proprio la dizione giusta, sono delle idee, delle idee mentali, non altro. Quando anche distinguiamo all'interno delle proposizioni, vi dicevo, soggetto, qualità, modo dell'attribuzione, modo della relazione, da tener presente è che si tratta di lekta e non di cose del mondo. Si tratta cioè di modi di significazione inerenti a ciò che crediamo sia la struttura interna della proposizione la quale corrisponde a una diversa strutturazione delle nostre idee nella nostra mente. Non rispecchia nemmeno le idee della nostra mente, è una strutturazione delle idee della nostra mente. Idee inteso nel senso soggettivo inglese, idea, il cui termine greco è phantasma, il termine tedesco Vorstellung, rappresentazione. Qui salta fuori il problema della verificazione: essendo il mondo conoscitivo tutto mentale come facciamo a verificare i nostri [lekta] proposizionali? La risposta è che la verifica non avviene mai attraverso il nome. La verifica aristotelica avviene distinguendo nella proposizione il nome, il termine. A questi termini corrispondono delle sensazioni, alle sensazioni corrispondono porzioni del reale. Qui niente di tutto questo. Non ci sono sensazioni ma rappresentazioni, è completamente diverso. La verifica avviene attraverso la praxis, attraverso l'etica in cui in blocco noi veniamo confrontando il successo e l'insuccesso del nostro comportamento. Qui dobbiamo valorizzare la portata realistica dell'insuccesso il quale costringe a destrutturare il campo mentale e a cercare una nuova ristrutturazione. È in seguito a queste destrutturazioni e ristrutturazioni che noi all'interno della concezione veniamo distinguendo ypokeimena, poià, pos ekontà, pros ti pos ekontà. Sono i modi in cui cerchiamo di giungere all'ordine e alla distinzione delle idee. Se potessimo accontentarci della percezione non ci sarebbe il
312 Capitolo I sugli Stoici 312 Enzo Melandri
pensiero. Il pensiero c'è perché la percezione ci porta fuori strada; ci porta fuori strada perché noi siamo come quelli della caverna di Platone che vedono le ombre ma non le cose; e attraverso le ombre, che sono mentali, dobbiamo ricostruire la rappresentazione giusta del mondo. Rappresentazione che non è una fotografia del mondo, non ha nulla a che vedere, è semplicemente uno schema di cui dobbiamo servirci per agire. Ed è attraverso l'agire, attraverso l'etica che noi verifichiamo in blocco ciò che siamo in quanto esseri conoscenti. Né più né meno.
12.4. Verità Continuo a leggere il capitolo successivo che riguarda la dottrina della verità: A parte la distinzione già menzionata fra ciò che è vero e la verità, sembra che gli Stoici abbiano usato la parola "vero" almeno in cinque sensi. A questo proposito Sesto dice: 387
La distinzione tra aletheia e alethes: aletheia significa proposizione vera, proposizione già data come vera; quindi è un termine ellittico, che non ha significato tecnico, è solo piattamente metaforico; dunque aletheia è proposizione vera. Alethes significa la relazione, indica che la relazione di rappresentazione tra l'enunciato e il suo hypokeimenon è giusta. Come facciamo a saperlo? Adesso non voglio rifare tutto il discorso, in realtà non lo sappiamo mai, lo assumiamo. Comunque alethes è un termine di relazione e non un aggettivo, indica la giusta relazione tra la rappresentazione e ciò che è rappresentato. L'importanza di distinguere i due significati di "verità" merita uno spazio che riempirò citando la Dodicesima nota:
387
Bocheński in apertura alla sezione E del medesimo §19 intitolata La verità.
Titolo del Capitolo I 313 Lezione XII 313
Con la parola "verità" noi intendiamo talvolta una proprietà e talvolta una relazione. Il primo uso è responsabile del fatto che, quando un enunciato sia stato riscontrato vero, noi ne parliamo come di una "verità". E questa verità, almeno in tutti i casi in cui un enunciato si riferisce a eventi contingenti (e ogni evento, in ultima analisi, è necessariamente contingente), è chiaramente una funzione del tempo in cui si è verificata l'esistenza o l'inesistenza dell'evento in questione. […]. Ma esiste un'altra accezione di "verità", meno famigliare benché logicamente più corretta, che è quella relazionale. Intesa in senso relativo, la "verità" è la relazione che sussiste, se sussiste, fra il senso dell' enunciato e lo stato di cose da esso richiesto per poter esser detto (nell'altra accezione) una "verità". Se lo stato di cose non esiste (ossia, non soddisfa le condizioni richieste dal senso dell'enunciato), allora tale relazione non sussiste (o non è adeguata), e l'enunciato diventa una "falsità". Ora, è evidente che questa relazione tra l'enunciato e il fatto, comunque la si voglia definire, non è una funzione del tempo. Anzi, per poter dire che certe "verità" (nel primo senso) variano col tempo, è necessario che la "verità" (nel secondo senso) non sia nel frattempo variata. Curiosamente, mentre la verità assoluta (cioè intesa come attributo di un enunciato) varia col tempo, la verità relativa (cioè, intesa come relazione enunciato-fatto) non è una funzione del tempo. 388 19.21 Alcuni di essi hanno collocato il vero e il falso nei significati [=lekta], altri nel suono, altri ancora nell'operazione della mente.389
"Il vero e il falso nel suono" non mi risulta affatto390; "nei significati oppure nelle operazioni della mente", ma le due espressioni sono sinonime, perché il significato è semplicemente il risultato dell'operazione della mente che consiste nel dare una significazione. Il significato è tutto mentale e consiste nel compiere un'operazione che è quella di assegnare un significato391. 388
Note, Dodicesima nota. Bocheński 19.21, da Sesto Empirico, Adv. math., VIII, 2.11: nel frammento il pronome personale "loro" non sta per "Stoici" ma per "Filosofi". Si veda la prossima nota. 390 Non risulta infatti che gli Stoici abbiano mai collocato il vero nella voce ma Sesto Empirico, ibid., dice: "alcuni hanno riposto il vero e il falso nella cosa 'significata', altri nella voce, altri, infine, nel movimento del pensiero. Della prima opinione sono portabandiera gli Stoici […]. Epicuro e Stratone il fisico […] sembrano perciò attenersi al secondo punto di vista. L'ultima opinione, infine […] pare essere una finzione messa su per esigenze scolastiche". 391 Anche Melandri sembra incappare nell'equivoco di Bocheński. Sesto Empirico non attribuisce "il vero riposto nelle operazioni della mente" (nella nostra trad. dell'op. cit. di Antonio Russo "movimento di pensiero") agli Stoici ma ad altri che Russo identifica così: "Sesto disprezza questa dottrina propria di un idealismo soggettivistico destinato ad avere seguaci più nel pensiero moderno che in quello classico". 389
314 Capitolo I sugli Stoici 314 Enzo Melandri
Per quel che riguarda la verità dei lekta, si può fare un'ulteriore triplice distinzione fra:392 1) la verità delle proposizioni 2) la verità delle forme proposizionali393 3) la verità degli argomenti Tutti questi sono lekta, ma Sesto fa riferimento a due ulteriori tipi di verità: 4) la verità delle idee 5) la verità degli enunciati
Qui non è possibile dire molto di più. "La verità delle proposizioni": ne abbiamo parlato finora; "la verità delle forme proposizionali": è un espressione molto ellittica, sembra indicare che ci siano forme proposizionali che si prestano a essere vere e forme proposizionali che in virtù della loro stessa forma non siano vere; "la verità degli argomenti": è quella che vedremo più avanti cioè ci sono argomenti i quali applicati garantiscono un risultato corretto, sono le forme argomentative, e via di seguito394; "la verità delle idee": questo non mi piace molto così come è messo, vorrebbe dire che una rappresentazione è una rappresentazione corretta ma la rappresentazione corretta si assume come [verità] proposizionale395; "la verità degli enunciati" è lo stesso delle proposizioni, insomma, se un enunciato è vero è una proposizione che dice qualcosa.
392 Ibid, Bocheński propone questa distinzione; nella terza "la verità degli argomenti" rinvia a un passo di Pyrr. hip.B 138; nella quinta "la verità delle forme proposizionali" rinvia a Adv. math. VII 243. 393 Nel testo Bocheński aggiunge tra parentesi: "cioè di ciò cui fanno riferimento le funzioni enunciative. Che i Megarici e gli Stoici attribuissero verità e falsità a tali forme proposizionali può essere rilevato dalla loro dottrina dei funtori (vedi sotto);" ibid. 394 Anticipo che per "argomento" gli Stoici intendono "un sistema di proposizioni composto da una premessa e una conclusione", cfr. Mates Cap. V. 395 Sesto Empirico, ibid. "[rappresentazioni] vere sono quelle su cui è possibile formulare un'affermazione vera, come, in questo momento, nel caso delle espressioni 'è giorno' oppure 'c'è luce'".
Titolo del Capitolo I 315 Lezione XII 315
Secondo le nostre fonti di informazione, il primo tipo di verità era fondamentale, in quanto presupposto in tutti gli altri.396
Cioè la verità delle proposizioni. Così, ad esempio, gli Stoici definivano la verità delle forme proposizionali mediante esso e con l'aiuto di variabili temporali, la verità degli argomenti in termini della verità delle corrispondenti proposizioni condizionali, mentre la verità delle idee e degli enunciati è riducibile in modo analogo a quella dei lekta, secondo quanto sappiamo della relazione fra di essi.397
Queste indicazioni servono solo - così come vengono lette e commentate potete farne a meno - servono solo per chi leggendo i testi degli Stoici nell'originale o nelle traduzioni si trovasse di fronte a delle complicazioni. Si deve tener presente che queste complicazioni esistono e i traduttori, probabilmente bravi in greco ma non bravi in logica, possono aver preso delle canocchie, come suol dirsi. E dunque "la verità delle forme proposizionali" o, meglio, degli enunciati con l'aggiunta di variabili temporali, è una questione molto semplice. Se io dico semplicemente "piove" è vero o è falso? Dipende se io intendo "piove" come una proposizione o se l'intendo come un enunciato: se l'intendo come una proposizione "piove" adesso è falso; se l'intendo come un enunciato, questo enunciato risulta ellittico. In termini approssimativi si intende per lo più che il termine "enunciato" vada riferito al contenuto concettuale e il termine "proposizione" al valore di verità. Mi scuso per l'indeterminatezza con la quale mi esprimo ma il significato dei termini metalogici varia secondo gli autori (e i traduttori). Ho riformulato il passaggio che segue in quanto di difficile ascolto e di per sé un po' contorto. La mia ipotesi interpretativa è che Melandri ponga un'equivalenza tra "forma proposizionale" e "enunciato" che sono asserti che contengono variabili (quelle che altrimenti si chiama396 397
Ibid. Ibid.
316 Capitolo I sugli Stoici 316 Enzo Melandri
no funzioni enunciative); mentre "proposizione" dovrebbe essere il termine per asserti che non contengono variabili. Per esempio se dico: piove nel tempo tx dove x è indeterminato, posso considerare questo come un enunciato, quindi è una forma proposizionale perché vuol dire mettere un f(x) senza dover specificare di che x si tratti piove è la funzione f; nel tempo x è la variabile. Chiaro che non è completo neanche questo enunciato perché devo mettere latitudine, longitudine, condizioni di osservabilità, stato fisico dell'osservatore ecc. Un enunciato le cui variabili hanno assunto un valore definito diventa una proposizione soggetta al vero o al falso. A sostegno della mia ipotesi cito dalla Dodicesima nota: In più si deve rilevare l'ulteriore equivocazione che sorge dalla confusione tra "proposizione" e "enunciato". […] Per es. "piove" a rigor di termini, non è una proposizione ma un enunciato, e per di più ellittico. Ora, è chiaro che la figura retorica dell'ellissi, se è vantaggiosa per il fatto che rende meno noioso il discorso, è tuttavia svantaggiosa poiché aumenta in proporzione i pericoli dell'equivocazione. Nel nostro caso la difficoltà viene rimossa rendendo l'enunciato più preciso ed esplicito, ossia facendo in modo che esso esprima le condizioni necessarie e sufficienti per individuare, nel caso volta per volta in questione, lo stato di cose, e solo quello, cui fa riferimento. Per es. invece di dire "piove" si dovrebbe dire "piove nel luogo x (latitudine e longitudine) e nel tempo t (data)"; dove il "piovere-in-un-certo-tempo-e-in-un-certo-luogo" va inteso come unico, indissolubile predicato. Con questa formula diventa evidente che il valore di verità in un enunciato espresso in maniera non ambigua non dipende dal tempo in cui avviene l'enunciazione. L'impressione contraria sorge dal fatto che normalmente non esprimiamo tempo e luogo per mezzo di coordinate assolute (per es. "latitudine longitudine" per il luogo, "data" per il
Titolo del Capitolo I 317 Lezione XII 317
tempo), ma per mezzo di coordinate relative o, meglio, autoreferenti (per es. "qui" e "là", "ora", "ieri", "domani" &c.) 398
Voi capite che un enunciato completo non esiste mai, dietro a ogni enunciato si sottintende qualcosa che non è mai detto e quindi dietro a un enunciato o una forma enunciativa c'è sempre la proposizione corrispondente. E questo genera complicazioni. Ciò è quanto dire che una proposizione è tale se e solo se è in grado di individuare un evento. Solo in questo caso la verità della relazione proposizione-evento è indipendente dal momento dell'enunciazione il che coincide con quanto dice Frege, ossia che tutte le determinazioni di spazio e di tempo (e di occasione aggiungerebbe Melandri) appartengono alla proposizione, la verità (intesa in senso relativo e non come proprietà) della proposizione non è invece funzione del tempo. Non distinguere enunciati da proposizioni così come confondere verità come proprietà e verità come relazione può complicare le cose. La considerazione finale di Melandri è la seguente: Bisognerebbe poter distinguere nettamente tutte queste idee, tutti questi stadi per evitare che gli argomenti a volte si facciano sofistici. Voi capite che basta indicare quali sono i termini di variazione del problema per adottare nel caso tutta la precisione che è richiesta. Io sono contrario a certe forme di pedanteria come non di rado si trovano nei testi di logica. Sarebbe a dire: distinguiamo l'enunciato e la proposizione come due modalità nel caso che ci sia bisogno di distinguerle. Non c'è bisogno di precisare continuamente tutto quanto. Tanto più che l'ideale della precisione è un ideale asintotico, non potete mai enunciare tutto, ma se necessario possiamo andare anche nel sottile. 398
cfr. Note, Dodicesioma nota. Cfr. anche G. Frege, Logica e aritmetica, op. cit., p.488 "Si può falsare di più il senso della parola 'verità' che cercando di includervi un rapporto con quelli che giudicano? Né mi si obbietti, per esempio, che la proposizione [Gedanke] 'io sono affamato' può essere vera per l'uno e falsa per l'altro. Dato che, nella bocca di un altro, la parola 'io' esprime un altro uomo che non sulla mia, anche la proposizione anzidetta, pronunciata da un altro, esprimerà un altro pensiero. Tutte le determinazioni di luogo, tempo, ecc., appartengono al pensiero di cui è in esame la verità; ma l'esser vero è fuori del tempo e dello spazio".
318 Capitolo I sugli Stoici 318 Enzo Melandri
Al di là del merito del discorso, scontato per molti ma che, ricordiamolo, ha qui un valore didattico, mi sembra di poter osservare che questa chiusura è improntata ad una metodologia pragmatica, fondata sul buon senso, che fa di Melandri un pensatore finalmente più aristotelico e meno stoico di quello che emerge spesso in queste pagine. Ma queste sono solo miei illazioni.
Lezione XIII
13.1. Connettivi II In questo inizio di lezione si mette in evidenza come proprio la interdefinibilità dei connettivi logici consente di riconoscere alla logica l'assenza di qualsiasi riferimento empirico. Ciò mette in chiaro una volta per tutte la differenza tra una "implicazione" in senso causale e una "implicazione" in senso logico. Lo spunto polemico che nasce da una incomprensione di Cicerone sulla natura dei condizionali indica anche come ogni asserzione di causalità non vada esente da un carattere empirico benché ancora oggi talvolta ciò non venga riconosciuto. Dobbiamo ora vedere la questione della interdefinibilità dei connettivi logici. Non la trovate in Bocheński però c'è in Mates399. È molto interessante, la scoperta di questo fatto si attribuiva a Leibniz o al massimo alla tarda scolastica, mentre invece risale a Crisippo. Di questo riferisce Cicerone in tono sarcastico. Crisippo, con riferimento al condizionale, raccomanda di esprimere il condizionale come congiunzione negata. Crisippo, con riferimento al condizionale materiale "se uno è nato sotto la stella del cane, non annegherà in mare" raccomanda di trasformarla in una congiunzione negata: "non entrambe: uno è nato sotto la stella del cane e annegherà in mare".400
In formule sarebbe: 399 400
Mates cap. IV § 4; Cicerone, De fato, VIII 15-16, Rizzoli, Milano 2008. La citazioni da Mates, ibid., è tradotta a braccio da Melandri.
319
320 Capitolo I sugli Stoici 320 Enzo Melandri
p → ~q e Crisippo dice che ciò è equivalente a dire: ~(p . q) che a sua volta equivale a dire: ~p v ~q Ora, l'argomento interessante è questo: se il condizionale può essere espresso mediante congiunzione e disgiunzione che sono connettivi simmetrici, cioè connettivi in cui l'ordine dei termini nell'enunciato o nella proposizione non ha importanza, cioè dove vale la proprietà commutativa, è chiaro che non possiamo dare al condizionale alcun senso causale perché le condizioni espresse in una proposizione causale non godono della proprietà commutativa. Vedete come si mette in luce molto semplicemente attraverso questo argomento il carattere non realistico della logica. Quindi, se nel condizionale abbiamo un antecedente e un conseguente, e nelle altre formule equivalenti non c'è più né antecedente né conseguente perché sono sincronici, significa che "antecedente" e "conseguente" [sono termini che], nel condizionale, andranno intesi con riferimento all'ordine della scrittura e non con riferimento al tempo. Sono equivalenti ad altri enunciati dove non esiste alcun ordine temporale.
13.2. Causalità Volendo analizzare un enunciato causale non potremmo convertirlo in un condizionale senza alterarne il senso. Bisognerebbe aggiungere degli altri postulati, e proprio queste aggiunte di ulteriori postulati renderebbero evidente il carattere empirico di ogni asserzione di causalità. Vorrei che questo argomento lo prendeste con attenzione.
Titolo del Capitolo I 321 Lezione XIII 321
Gli enunciati di causalità non vengono trattati tradizionalmente come enunciati empirici. Prova ne sia che per esempio Kant pone la causalità tra i principi a priori401, tra quei principi che l'intelletto presuppone validi anteriormente a ogni esperienza. Come vedete invece qui, se noi cerchiamo di vedere l'ossatura portante dell'enunciato causale, dobbiamo risalire indietro finché arriviamo a un enunciato condizionale. Ma un enunciato condizionale essendo equivalente a enunciati di tipo disgiuntivo e congiuntivo dimostra con ciò stesso di non avere nessun ordine. Quindi da solo il principio di causalità non si adatta a fungere da principio logico. Per analizzare l'enunciato causale occorrerà investire l'ossatura logica del condizionale di postulati aggiuntivi che mettono in mostra il carattere empirico dell'enunciato. La differenza tra un enunciato empirico e un enunciato logico-razionale è una differenza di complicazione: l'enunciato empirico ha bisogno di moltissime determinazioni. Crisippo raccomanda questo, tra l'altro, affinché la gente non sia fuorviata a supporre che un condizionale materiale vero indichi una condizione necessaria in natura402.
Vedete che lo scopo per cui Crisippo insisteva su questo argomento era quello di mostrare come il condizionale non comporti alcuna indicazione in natura. Cicerone commenta sarcasticamente: […] così il medico non dirà più che è certo della sua arte in questa maniera: "se le vene di un tale sono così eccitate allora costui ha la febbre "ma piuttosto dirà il medico "non entrambi: le vene di tizio sono eccitate e tizio non deve avere la febbre"; e così il geometra non dirà: "i circoli massimi sulla sfera si dividono in due parti uguali", ma piuttosto: "non entrambi: ci sono circoli massimi sulla sfera e questi non si dividono metà e metà". Quale proposizione vi è dunque in questo modo che non possa essere cambiata da un condizionale a una congiunzione negata?403
401
I. Kant, Critica della ragion pura, anal. trasc., I, II, II, § 26, Laterza, Roma-Bari 1975. Mates, ibid. 403 Qui Melandri traduce Mates, ibid., che traduce Cicerone, ibid. 402
322 Capitolo I sugli Stoici 322 Enzo Melandri
L' obiezione di Cicerone è un obiezione di senso comune e cioè che quello di Crisippo sembra un giochetto senza senso. In realtà l'argomento è molto più profondo e fino a Hume404 non avevamo capito quanto le relazioni di causalità fossero mal congeniate. Ed è ancora un fantasma che si agita nella nostra mente, quello della causalità concepita, almeno inconsciamente, come un principio a priori. La critica che segue del principio di causalità non si limita alla sua forma a priori ma si estende altresì alla sua forma empirica. Vi faccio due esempi, uno può essere tratto da Helmholtz, e uno da Lenin. Helmholtz dice che la nostra idea di mondo esterno può essere considerata come un'ipotesi conseguente a ragionamenti e raziocini inconsci. L'idea del mondo esterno quindi è un'ipotesi ben fondata e il fondamento di quest'ipotesi sono questi raziocini che appartengono alla storia dell'umanità e anche alla sua preistoria, alla sua evoluzione animale. Perché, dice, il presupposto della validità di questo ragionamento risiede poi unicamente sul principio di causalità. Helmholtz si rifà a Kant perché è abbastanza lucido da capire qual è il presupposto del suo ragionamento ed è abbastanza onesto da dichiararlo e lo dichiara, in questo caso ingenuamente, come se il richiamarsi a Kant in questa occasione fosse 404
David Hume, An Enquiry Concerning Human Understanding, IV, 1, ed. or. 1748; Treatise of human nature, III, 14. Hume ci fa notare che contiguità spaziale e temporale sono condizioni necessarie ma non sufficienti a determinare la causalità e che è l'esperienza attraverso il meccanismo dell'abitudine, a indurci a stabilire una connessione "causale". L'intuizione di Hume trova una conferma nelle più recenti scoperte di neurofisiologia secondo cui la comprensione della causalità non è processo unitario: la percezione di causalità e l'inferenza di causalità dipendono da processi distinti e implementati in aree diverse del cervello. "All'interno dei compiti di percezione di causalità, le aree del lobo temporale sono sensibili alle manipolazioni temporali, mentre le aree parietali sono sensibili alle manipolazioni spaziali. Anche in questo caso colpisce la dicotomia tra la sensazione unitaria che noi esperiamo quando cogliamo le relazioni causali tra gli eventi e la realtà cerebrale che, invece, mantiene separata l'elaborazione di queste esperienze", cfr. A. Berti, Neuropsicologia della coscienza, op. cit., p. 41 e sgg. In fondo nell'idea di Aristotele di un senso comune c'era già quella di funzioni cerebrali che creano collegamenti tra aree diverse del cervello; e nell'idea stoica dell'eteromorfismo tra reale e rappresentazione c'era quella di un intervento costruttivo del cervello nella strutturazione dell'immagine mentale.
Titolo del Capitolo I 323 Lezione XIII 323
una garanzia. In realtà il suo appello a Kant contiene un po' un richiamo [euristico]. Voi sapete anche che Kant potremmo leggerlo in tutt'altra maniera, considerare i principi validi a priori di Kant come principi validi per via di convenzione. L'interpretazione ricorrente è quella che definirei naturalistica, cioè quella secondo cui i principi validi a priori sono scritti nella mente per una sorta di legge di natura. Ma si potrebbe anche tentare di leggere Kant alla maniera di Cassirer secondo cui i nostri a priori sono convenzionali. È una lettura un po' più sofisticata di Kant quella che propone Cassirer; ma contiene, anche questa seconda lettura più sofisticata, degli inconvenienti: l'inconveniente per cui alla fine non si capisce più che cosa sia il trascendentale. Rimane l'a priori ma è un a priori che non è né universale né necessario. E allora il trascendentale dove va a finire? Non basta per il trascendentale nel senso kantiano che sussista l'a priori, ci vuole che l'a priori sia universale e necessario.405 Come vedete Helmholtz fa un ragionamento secondo cui l'immagine del mondo esterno è fondata e si basa, per entrare in questo ragionamento, sulla validità incondizionata, io la chiamerei metafisica, del principio di causalità. E qui avete il classico gioco di bussolotti che si ripresenta regolarmente in tutti questi argomenti. Perché se uno dubita della realtà del mondo esterno, io non credo che non dubiterà anche della validità del principio di causalità. Io dubito del mondo esterno però non dubito del principio di causalità? Psicologicamente mi sembra una posizione inverosimile. Perché dovrei dubitare di una cosa e non dell'altra? In realtà, se fate tutti i passaggi, questo argomento dimostra che il significato di "mondo esterno" è equivalente al significato di "principio di causalità". Ed è 405
Cfr. Ernst Cassirer, Storia delle filosofia moderna, IV, I, Einaudi, Torino 1978 (prima ed. it. 1958), ed. or. 1906-1957. In questo volume della sua monumentale opera Cassirer presenta il cosiddetto "ritorno a Kant" di cui Helmoltz è un antesignano. I due testi principali ai quali Cassirer fa riferimento sono Über das Sehen des Menchen Braunschweig 1986 e Handbuch der phygiologischen Optik, Leipzig 1896; Melandri in LC § 110 e in Le "ricerche logiche" di Husserl, op. cit., Introduzione, 2., p. 22, fa riferimento a Die Tatsachen in der Wahrnemhung (1879); per l'interpretazione genetica della teoria kantiana della conoscenza cfr. Cassirer Storia delle filosofia moderna op. cit. vol. II.
324 Capitolo I sugli Stoici 324 Enzo Melandri
equivalente a "prova irrefutabile dell'esistenza di Dio". È lo stesso no? Il principio di causalità è dimostrato dalla realtà del mondo esterno, e a questo punto ci vuol poco a dimostrare Dio. È che non si dimostra niente, è sempre la stessa cosa tirata una volta con la pancetta e il pomodoro, una volta col rosmarino. Sono equivalenti.406 L'altra fallacia si deve a Lenin in quello scritto che ha avuto solo un quarto d'ora di celebrità su marxismo e empiriocriticismo in cui se la prende con Mach perché tratta da scettico il principio di causalità e quindi anche l'idea di mondo esterno, le due cose vanno insieme407. E Mach aveva un problema ben preciso da risolvere, cioè il problema di depurare la questione scientifica moderna, quella della fisica classica (perché Mach non arriva oltre allo stadio epistemico del 1890) da inclusioni metafisiche408. E in particolare il principio di causalità come si presenta nella cosiddetta azione a distanza. Nella polemica fra cartesiani e newtoniani è emersa una questione assai importante fra i fautori del principio a contatto - per cui il movimen406
Non sono in grado di ricostruire i passaggi ai quali pensa Melandri ma credo che la prova dell'esistenza di Dio alla quale si riferisce sia quella cosiddetta "cosmologica" dove Tommaso d'Aquino asserisce la necessità di una prima causa alla catena delle cause causate, argomento che si basa su due assunzioni: che il mondo empirico sia governato dal rapporto causa-effetto e che alla serie delle cause si debba porre un inizio. La seconda assunzione qui non ci interessa ma si noti che ci sono serie infinite senza un inizio come ad esempio quella dei numeri interi negativi; la prima assunzione è nel mirino della critica di Melandri il quale accoglie il pensiero scientifico recente sul concetto di causalità, cfr. per es. Werner Heisenberg, The physical principles of the quantum theory, New York 1949, ed. or. 1930, Cap. IV, § 3 "Coordinare una causa definita a un effetto ha senso solo se ambedue possono essere osservati senza introdurre elementi estranei che disturbano la loro interazione. La legge di causalità può essere definita solo per sistemi isolati e nella fisica atomica nemmeno sistemi approssimativamente isolati possono essere osservati" (tdr.); in NA alla voce causalità sono citate le parole di Von Neumann, 1932, "[…] non v'è oggi alcuna ragione che permetta di affermare l'esistenza della causalità in natura e nessuna esperienza può darcene la prova"; e di Reichenbach (1949): "Lo sviluppo storico della fisica conduce al risultato che il concetto di probabilità è fondamentale in tutte le asserzioni circa la realtà, e che strettamente parlando non è possibile una sola asserzione la cui validità possa essere asserita con più che probabilità"; Nicola Abbagnano conclude: "Questo principio non viene più adoperato né nella sua forma classica né nella sua forma moderna: il concetto del sapere o della scienza come 'conoscenza delle cause è entrato in crisi ed è stato praticamente abbandonato dalla scienza stessa". 407 V.I. Lenin, Materialismo e empiriocriticismo, Editori Riuniti, Roma 1978, ed. or. 1909. 408 Cfr. Le "Ricerche" logiche di Husserl, op cit. Introduzione, 4.
Titolo del Capitolo I 325 Lezione XIII 325
to si trasmette a contatto come nel biliardo - e il principio dell'azione a distanza sostenuto dai newtoniani, giacché la forza di gravitazione, operando su scala universale, non esibisce la forma dell'azione a contatto. L'annosa polemica si risolse a favore dei newtoniani nel senso che quando arrivate a Laplace o alla meccanica di Lagrange, siamo agli inizi dell'Ottocento, Lagrange è un po' più in là, tutta la meccanica classica, la meccanica e la fisica classica risultano saldamente fondate in maniera asensoriale, quindi tutte le previsioni astronomiche si possono condurre facendo delle equazioni differenziali, ossia applicando il Calcolo. Questo metodo produce risultati esatti. Laddove i risultati sono discordanti è segno che c'è qualche altro fattore da prendere in considerazione. È qui che la questione metafisica entra in una fase di eclissi. C'è l'eclissi del problema metafisico, io la chiamo così perché non è che non esista più, ma non si vede più che è un problema metafisico. Come mai non si vede più? Perché si adotta la via facile scelta da Newton con l'hypotesis non fingo, non faccio ipotesi su cosa siano le forze, io ho semplicemente trovato il metodo matematico che applicato produce un certo risultato. È in questo modo che Newton ha vinto sui cartesiani, facendo finta che la metafisica fosse quella degli altri, non la sua, indicando positivisticamente nel metodo la capacità che questo aveva di risolvere i problemi. Quindi non si tratta qui di far ipotesi circa la natura delle forze che reggono il mondo, e neanche circa la natura della forza gravitazionale, si tratta semplicemente di prendere atto che lo strumento matematico è abbastanza potente da farci cogliere le correlazioni che sono nel reale. Come mai, non ha importanza. In questo dire "non ha importanza" il problema metafisico non risolto entra in eclissi per ripresentarsi prima o poi. Si ripresenta nell'analisi che Mach fa dell'argomento, dell'unico argomento con cui Newton cerca di dimostrare l'esistenza del moto assoluto. Se tutti i moti sono relativi, se a ogni azione corrisponde una reazione, e a ogni moto una forza che ne induce un altro, la questione dell'azione a contatto o a distanza non può essere elusa. Se tutti i moti sono relativi c'è un'indicazione forte a favore del cercare la spiega-
326 Capitolo I sugli Stoici 326 Enzo Melandri
zione della causalità in termini di azione a contatto. Ma Newton presenta un esempio di moto assoluto ed è il famoso esempio del secchio d'acqua.409 Mach cerca di spiegare che anche questo moto è relativo all'universo delle stelle fisse, le cosiddette stelle fisse410. E qui il problema è di determinare se la gravità sia l'unica forza che agisce a distanza anziché agire a contatto. Quindi azione a contatto e azione a distanza. E siccome il problema dell'azione a contatto e dell'azione a distanza è il problema di interpretare in maniera fisicamente corretta ed empiricamente verificabile che cosa sia la causalità, voi capite poi cosa ci sta dietro. C'è il problema del mondo esterno. Non "se esiste" il mondo esterno ma che cosa significhi "mondo", "esterno", "esistere il mondo esterno". Il problema consiste nell'assegnare un significato preciso a questi parametri. Già il dire "mondo" vuol dire moltissimo perché comporta un'operazione di totalizzazione, operazione che non è logica ma dialettica poiché contiene in sé una contraddizione, noi diciamo "mondo esterno", totalizziamo tutto fuorché quello che non è esterno, cioè l'interno, capite che operazione dubbia. Poi diciamo "mondo fisico" e allora cosa scappa fuori? Il mondo morale? È una totalizzazione che contiene in sé una contraddizione. Niente di male ma bisogna saperlo. "Esterno", che categoria è esterno? Esterno a cosa, agli occhi? Alla pelle? Al cervello? Poi cosa vuol dire "esterno"? È una categoria d'ordine? No, è una categoria topologica. Se risaliamo alle strutture matematiche del pensiero devo dire che "esterno" è una categoria topologica411. Esterno, interno. Perché? Chi l'ha
409
Cfr. Isaac Newton, Principi matematici della filosofia naturale, UTET, Torino 1965, pp. 104-108, 110. 410 Ibid. "Per Mach sono le stelle fisse che producono le forze apparenti nella rotazione intorno alla terra. Nella concezione di Mach, le forze fittizie e anche l’inerzia di un corpo (tendenza a perseverare nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme in assenza di forze) derivano da tutte le masse dell’universo. Queste ipotesi di Mach influenzeranno profondamente le ricerche di Einstein"; la teoria della relatività ha cancellato l'idea di spazio assoluto. 411 Le tre strutture matematiche alle quali sovente Melandri si richiama sono la topologica, quella d'ordine e l'algebrica, si veda la prossima Lezione; il suggerimento di Matteuzzi a questo proposito è che si intenda il pensiero di Melandri in relazione all'interpretazione bourbaki-
Titolo del Capitolo I 327 Lezione XIII 327
detto che si debba applicare al problema una categoria topologica? Mentre "causalità" sarebbe piuttosto un concetto che ha a che fare con categorie d'ordine dato che il tempo nella causalità interviene come un funtore d'ordine. Vedete quanto è complicato no? Quindi dubitare della realtà del mondo esterno non vuol dire dubitare del fatto che io ci sono o che ci siete anche voi, magari anche qualcun altro che deve venire, che è in ritardo, vuol dire assegnare un significato a questi parametri. E qui Lenin se la piglia con Mach dicendo, "questa non è la concezione dei lavoratori, bisogna partire dal presupposto materialistico che il mondo esterno è causa delle nostre rappresentazioni di esso". E questa è una tesi abominevole perché introduce il concetto di causa che invece si trattava di analizzare. Lo introduce in maniera metafisica. Voi non potete dire che il mondo esterno è causa delle nostre sensazioni nel momento stesso in cui state analizzando il mondo esterno come un sinonimo un po' complicato del concetto di causa che si tratta poi di analizzare. Se voi dite che il mondo esterno è causa delle sensazioni che abbiamo di esso, usate l'azione a distanza per spiegare l'azione a contatto. Diciamolo in termini newtoniani e machiani: non è solamente circolare l'argomento, è metafisico. Quindi vedete come questi esempi servano a capire quanto fosse progredita la discussione circa l'ente nel terzo secolo a. C. 13.3. Connettivi III Melandri riprende sui condizionali dalla lettura del testo di Benson Mates laddove tratta della interdefinibilità dei connettivi. Non è una lettura lineare e la traduzione è a braccio.
sta. A proposito si veda per esempio Bruno D'Amore e Maurizio Matteuzzi, Dal numero alla struttura, Zanichelli, Bologna1975, Cap. V, § 5.6.
328 Capitolo I sugli Stoici 328 Enzo Melandri Crisippo raccomanda questo argomento, tra l'altro, affinché la gente non si lasci fuorviare nel credere che un condizionale materiale vero indichi una connessione necessaria in natura 412.
Molto bello no? Da Galeno noi apprendiamo che la disgiunzione 'o è giorno o è notte significa lo stesso che il condizionale 'se non è giorno allora è notte413.
o è giorno o è notte, vale a dire se non è giorno allora è notte, vedete che si passa qui dalla disgiunzione all'implicazione. Il passaggio considerato, che è citato da Łukasiewicz per mostrare che gli stoici erano consapevoli della definizione (p v q) ≡ (~p → q) è come segue: "E una proposizione come 'o è giorno o è notte è chiamata una proposizione disgiuntiva dai nuovi filosofi", ma una proposizione disgiuntiva viene chiamata "protasi ipotetica discontinua" dagli antichi. La protasi discontinua sembra avere lo stesso significato in una asserzione come questa: "se non è giorno allora è notte" la quale se viene detta in una forma di discorso condizionale, è chiamata un "condizionale" da quelli che stanno attenti solo ai suoni, ma una disgiunzione, diezeugmenon, da quelli che stanno attenti alla natura di ciò che è significato. 414
Con Galeno siamo nel terzo secolo d.C., quindi il suo concetto di "nuovo" era un po' abbondante, comprendendo ciò che era venuto fuori negli ultimi sei secoli. Galeno è una fonte non molto attendibile per gli Stoici perché Galeno è piuttosto un aristotelico. Appartiene a un periodo in cui si delinea già il sincretismo tra le più grandi scuole di pensiero dell'antichità, ma questo sincretismo, dato che è ancora agli inizi, pende sempre dalla parte aristotelica. Aristotele ha avuto una fortuna postuma eccezionale e il sincretismo, sto parlando del fenomeno che si delinea verso la fine dell'antichità, produce una diminuzione dei contrasti in seno a tutta la cultura antica. Un 412
Mates Cap IV § 4, p. 55. Ibid. 414 Ibid.
413
Titolo del Capitolo I 329 Lezione XIII 329
particolare sincretismo che a noi interessa è quello della scuola peripatetica e stoica nel campo della logica che si racchiude nell'opera di Boezio. Boezio è questa figura straordinaria su cui si chiude il mondo antico e si apre il medioevo. E qui l'immagine non è sbagliata perché il tardo medioevo fino alla nuova scolastica ha studiato la logica, l'ars vetus, l'ha studiata sui libri di Boezio. Quindi presenta la sintesi dei due punti di vista con la prevalenza naturalmente di quello aristotelico. Però non è una prevalenza schiacciante, Boezio è una figura straordinaria, meriterebbe che si studiassero i suoi libri adesso, anche per capire meglio certe questioni di tradizione del pensiero medioevale. Perché la lezione che ha origine con Boezio, continua poi con l'ars vetus, da Abelardo fino a Guglielmo di Occam; in questa tradizione l'elemento aristotelico, se pur dominante, non è così forte da schiacciare l'altra fonte di eredità415. E infatti l'ars nova nella logica, che è totalmente aristotelica e troviamo per esempio in Tommaso d'Aquino, sorge quando i testi di Aristotele furono tradotti in latino dall'arabo. È la seconda tradizione aristotelica, [quella della traduzione] dall'arabo in latino. La terza sarà invece nel Rinascimento quando finalmente le opere di Aristotele vengono tradotte dal greco. Ci sono queste tre ondate, una che arriva dal tradizione antica, senza soluzione di continuità e la cui porta di ingresso è quella di Boezio; poi c'è l'ars nova, con Alberto Magno e Tommaso d'Aquino che traducono tutto Aristotele; infine la terza, quella del Rinascimento con la traduzione della poetica416. Bene, la stessa polemica che si viene istruendo sul terreno della logica tra autori dell'ars vetus nominalisti oppure concettualisti e i tomisti è un indice del fatto che la tradizione di Boezio non era così succube dell'eredità aristotelica. Questo dovrebbe bastare per l'argomento. Segue una breve Ricapitolazione: È ancora Łukasiewicz ad aver notato questa continuità. L'ascolto non è comprensibile per cui la mia ipotesi si basa sulle nozioni correnti riguardo al terzo ingresso di Aristotele.
415
416
330 Capitolo I sugli Stoici 330 Enzo Melandri
Vi dicevo, dato che i connettivi sono interdefinibili tra loro, è evidente sin dall'inizio che non possono avere un valore semantico. Non possiamo trattare i connettivi come fossero nomi che indicano qualcosa del mondo. D'altra parte, aggiungevo tra parentesi, non possiamo considerare il principio di causalità e quello che ne deriva come un principio metafisico perché è evidente dal punto di vista linguistico che la causalità si esprime mediante un "perché" o "poiché" o quello che volete, ed è evidente da questo punto di vista che fa parte dei connettivi. Quindi non c'è una dimostrazione dell'esistenza del mondo esterno trattabile come ipotesi verificabile. C'è piuttosto una presunzione, una presupposizione di qualcosa che è detto "mondo esterno", presupposizione che ha il suo valore, la sua necessità di caso interpretativo ma che si tratta di chiarire mediante un metodo analitico, chiarire quale sia il significato di questa presupposizione passando dal livello interpretativo a quello propriamente semantico. E il problema posto da Hume mantiene tutta intera la sua portata, non c'è modo di risolverlo facendo finta che non esista. 13.4. Modalità II Di qui riprende il filo del discorso sulla modalità interrotto alla fine della Lezione X. Si rifà il punto della distinzione tra modalità semantica (de dicto) e modalità ontologica (de re). Adesso dovremmo passare alla questione delle modalità. Io fin qui vi ho parlato della modalità in senso aristotelico. La teoria della modalità aristotelica con la correzione di Leibniz è tuttora la più completa che abbiamo ed è quella che appare ovvia anche a noi moderni. Lo ricorderete, il quadrato della modalità aristotelico-leibliziana417. Che differenza c'è tra Aristotele e Leibniz? Lo schema aristotelico è un po' asimmetrico ovverosia zoppicante perché Aristotele non distingue tra contingente e 417
Vedi 10.1.
Titolo del Capitolo I 331 Lezione XIII 331
possibile: talvolta sembra che il possibile equivalga al contingente, talvolta sembra l'inverso. Perché? Per una ragione che è connessa con l'interpretazione ontologica della modalità. Alla modalità noi possiamo dare due interpretazioni, una semantica ed una ontologica. Quella semantica è presto detta: quando diciamo necessario p la modalità viene considerata come un funtore, un funtore modale che viene premesso all'intera proposizione. Necessario p lo scriviamo così: Np e lo leggiamo: "è necessario che p". Possibile p lo scriviamo: Pp e lo leggiamo "è possibile che p". La modalità in senso ontologico è connessa alla logica dei cosiddetti predicati predisposizionali. Cos'è il predicato predisposizionale? È un predicato che contiene il possibile in senso forte ontologico. Vuol dire che la frase corrispondente a Pp non è è possibile che p ma p ha la possibilità di. È possibile che, dizione semantica del possibile; la tal cosa ha la possibilità di, dizione ontologica. "Avere la possibilità" si dice anche avere la facoltà, avere la potenza, la disposizione, la virtù, la virtualità. Per intendersi, interpretazione semantica della modalità: (1) è possibile che: "se x è un seme, x sarà un albero" interpretazione ontologica: (2) se x è un seme, è possibile che x diventi una pianta Avete presente il pendolo? Il pendolo quando è nel suo punto più alto, nell'attimo in cui si ferma tutta l'energia è contenuta in forma potenziale. Quando è al centro ha la massima velocità e tutta l'energia è attuale. Pare ragionevole presupporre che esiste l'energia in forma potenziale. Questo per dire che cosa è l'interpretazione ontologica delle modalità. L'ho
332 Capitolo I sugli Stoici 332 Enzo Melandri
fatto sul possibile perché mi sembra più chiaro. Si potrebbe anche pensare alla necessità intrinseca, invece di dire necessario che, si direbbe ha la necessità di; ma è meno distinguibile mi sembra. Chissà perché da un punto di vista psicologico è più facile distinguere l'essere possibile da l'avere la possibilità che non l'essere necessario da l'avere la necessità. Questi sono incidenti sul lavoro che capitano continuamente. Dunque, l'interpretazione ontologica delle modalità ha avuto un lungo dibattito nell'epistemologia moderna che si è conclusa dimostrando che è possibile non parlare della modalità in senso ontologico mediante gli enunciati riduttivi, cosa che può essere considerata geniale a seconda dei punti di vista418. Dal punto di vista del senso comune non si capisce bene cosa ci si guadagna nel non parlare più della modalità in un certo modo quando è evidente che poi tutti lo intendono in quel modo in cui vien detto che è proibito parlarne. Comunque il problema esiste e continuerà a esistere se non come problema logico in senso stretto come problema di interpretazione della logica. A ben vedere il problema non è solo interpretativo ma anche un problema interno alla logica. Perché noi possiamo sviluppare il calcolo logico modale, e cioè dimostrare che la logica modale è una logica distinta dalla sua interpretazione perché ammette un calcolo. In verità ammette una famiglia di calcoli affini e per ogni diversa interpretazione della logica modale, secondo che sia deontica o, statistica o normativa o altro ancora, è possibile anche variare il calcolo in funzione di ciò che si vuol dire, cambiando certi postulati. La famiglia delle logiche modali è abbastanza vasta, ce ne sono una ventina. Ora, quello che preoccupa è che l'interpretazione ontologica della 418
Ibid.; in H+C si legge a p. 217: "È stata fatta l'ipotesi da parte, per es. da parte di Von Wright [1951] che in una logica predicativa modale soddisfacente tutte le modalità de re sarebbero eliminabili a favore di modalità de dicto. L'effetto che questa proposta viene a ottenere è che per ogni fbf α, contenente una modalità de re saremmo in grado di costruire una fbf α' tale da non contenere modalità de re e da essere dimostrabilmente equivalente ad α, tale cioè che ⱶ(α ≡ α'). Ora, è quasi sicuro che persino nel più promettente dei sistemi da noi esaminati [i "sistemi esaminati" corrispondono a ciò a cui fa riferimento Melandri con "famiglia delle logiche modali"], questo risultato non si può ottenere – anche se non [sic] sembra che nessuno [sic] abbia effettivamente dimostrato questa impossibilità".
Titolo del Capitolo I 333 Lezione XIII 333
logica modale non rientra per ora in nessun calcolo. Tuttavia con dei postulati diversi dovrebbe essere possibile costruire un calcolo. Come vedete, se noi adoperiamo il concetto di calcolo come si fa di solito per distinguere ciò che è l'ossatura logica dalla sua interpretazione, il criterio di distinzione entra abbastanza in crisi. Perché dobbiamo variare anche il calcolo in funzione dell'interpretazione che diamo alla logica modale. Abbiamo un'ossatura generale? Sì è quella che vi ho indicato prima che si basa su due assiomi419. È molto semplice. Il primo assioma di logica modale nel senso aristotelicoleibniziano è questo: N(p . q) ≡ Np. Nq se è necessario p e q ciò equivale a dire che è necessario p ed è necessario q; poi c'è il duale, ma è tutt'uno: P(p v q) ≡ Pp v Pq se è possibile p o q ciò equivale a dire che è possibile p oppure è possibile q. Primo assioma. Ecco, vedete, il necessario si distribuisce sulla congiunzione e il possibile sulla disgiunzione. Anche questo è molto intuitivo. Il secondo assioma, è quello che regola i passaggi eterogenei di polarità e dice che dal necessario discende il vero, dal vero discende il possibile: Np → p → Pp se p è necessario, p è vero; se p è vero, p è possibile. Secondo assioma. 419 Mantengo la dizione di Melandri ma si tenga conto del fatto che non propriamente di assiomi si sta parlando poiché, come appena detto, l'interpretazione ontologica "non rientra in nessun calcolo" e quindi non si tratta di un'assiomatizzazione; qui "assiomi" vale come "presupposti".
334 Capitolo I sugli Stoici 334 Enzo Melandri
Sulla base di questi due emerge uno schema della logica modale. Poi può essere variato secondo le interpretazioni. Lewis e Langford hanno presentato la prima assiomatizzazione del calcolo modale nel 1932, poi ne sono seguite altre; si arriva per questa via fino alle nuovissime speculazioni intorno ai mondi possibili di Hintikka, Kripke e altri420. Vi dicevo, nella teoria aristotelico-leibniziana va tenuto debito conto di una differenza: Aristotele non è coerente perché sovrappone l'interpretazione semantica e quella ontologica. In senso ontologico il possibile è la dynamis, la potenza. Considerata la difficoltà di ascolto di questo passaggio preferisco ricostruirlo a modo mio. Aristotele definisce la potenza come ciò che è suscettibile dell'esistenza e della non esistenza, ciò che è suscettibile dei contrari. D'altra parte ciò che è necessario è sempre in atto. Ciò conduce Aristotele a escludere che dal necessario segua il possibile che non. E siccome il possibile implica il possibile che non, ne segue: primo, che dal necessario non deriva il possibile; secondo, che il possibile viene a coincidere col contingente (né necessario, né impossibile) e quindi manca di una definizione propria. A queste condizioni il quadrato delle modalità non si può costruire perché cade l'interdefinibilità di possibile e necessario. In sintesi Aristotele accetta che: Np → Pp e anche che Pp → P ~p ma non l'ovvia conseguenza Np → P ~p Per altro verso Aristotele ragiona in senso logico-modale consistente con il nostro secondo "assioma", ovvero con la sistemazione 420
Vedi n. 318.
Titolo del Capitolo I 335 Lezione XIII 335
leibniziana. Propongo la presentazione di un passo della Tredicesima Nota, che riassume il senso equivoco della modalità aristotelica. Aristotele si limita a stabilire che il possibile si dice per "omonimia" (cioè, che è un concetto "equivoco"), perché ammette i seguenti modi di ragionare: (a) l'esistente implica la sua possibilità (l'attualità implica la potenzialità); (b) il non-esistente-ma-non-impossibile implica la sua possibilità (l'ipotetico implica il non-impossibile, e il non-impossibile il possibile); (c) il necessario implica l'esistente, e questo, secondo (a) la sua possibilità; quindi il necessario implica il possibile; (d) il necessario esclude ogni contingenza, e quindi esclude il possibile implicato da ogni contingenza. Come si vede, il "necessario" di Aristotele compare in due diverse accezioni, una puramente logicomodale (a, b, c) e una ontologica (d).
A questo punto Melandri tenta di nuovo di entrare nel merito della modalità stoica ma qualcosa ancora lo trattiene, come se per proporre l'argomentazione sentisse il bisogno di trovarle un contesto più ampio dove inserirla. Ora, dobbiamo vedere la diversa via che la modalità assume negli Stoici. Insomma la portata di questo corpus di due concezioni alternative è molto vasta, sembra quasi che ci siano due politiche culturali che cercano di influenzare tutti i campi del sapere dell'antichità. La dottrina delle modalità non era una curiosità logica come può apparire adesso. Noi ritroviamo l'importanza del problema modale in certe questioni epistemologiche come quelle a cui ho accennato. Ma per gli antichi, la teoria modale doveva essere legata alla teorizzazione del linguaggio, all'analisi del linguaggio e quindi anche a quel grande veicolo di diffusione culturale che erano le grammatiche. E guardate che qui c'è un problema anche ideologico di grande portata. Le grammatiche aristoteliche sono le grammatiche che dividono i verbi prima in modi e poi in tempi, dov'è il modo indicativo avete la modalità dell'assertorio del vero e del falso, il congiuntivo è il possibile. Poi ci sono i gerundivi, col necessario e una differenza salta fuori nel modo di organizzare la grammatica del verbo. Se io divido il verbo prima in modi poi in tempi è diverso che se divido il verbo in tempi e poi in modi come avviene nelle grammatiche greche. Qui bisogna
336 Capitolo I sugli Stoici 336 Enzo Melandri
tener presente che l'opposizione è proprio tra grammatici alessandrini e grammatici pergameni e sarebbe interessante andare a vedere se è possibile reperire un'ascendenza ideologico-metafisica in questo modo di produrre le grammatiche. Non solo nella grammatica del verbo, ma la grande questione avviene a proposito dell'analogismo/anomalismo nella costruzione delle parole421. La costruzione di nuovi vocaboli, l'invenzione di neologismi, avviene per analogismo o avviene secondo altre regole? Analogismo e anomalismo si contendono il campo. L'altra questione è relativa all'uso delle figure, dei tropi o metafore. Anche qui abbiamo una definizione aristotelica che va in un certo senso e abbiamo un'interpretazione di altro tipo che io vorrei intendere come dipendente da un'altra scuola filosofica, anche se forse non potremmo chiamarla stoica perché è l'ipotesi che andiamo assumendo in questa lettura. Evidentemente qui si combattevano due grandi programmi culturali alternativi con implicazioni profonde. Abbiamo qui una nuova formulazione della tesi della non classical view dove la contrapposizione di due linee di pensiero che hanno origine nella filosofia preplatonica assume il peso di uno scontro culturale. Si è visto come questo scontro percorra, secondo Melandri, l'intero corso del pensiero occidentale all'interno della storiografia, della psicologia, dell'epistemologia e più in generale di ogni disciplina a prescindere da quelle formali. In questo ultimo passaggio si individua la traccia di questo scontro nella contrapposizione di due scuole filologiche, quella alessandrina e quella pergamena, e di due concezioni della retorica. Per quanto concerne la prima contrapposizione, in estrema sintesi la questione verteva sulla spiegazione dei fatti linguistici secondo principi di regolarità (analogia) o irregolarità (anomalia). Si trattava di qualificare le eccezioni come i verbi irregolari o l'assenza di corrispondenze tra genere naturale e genere grammaticale o la mancata corrispondenza tra alterazioni morfologiche e significati. Così Aristarco tra i grammatici alessandrini, dunque aristotelici, cercò di dimostrare che l'analogia è il principio dominante della flessione; gli anomalisti 421
LC § 12.
Titolo del Capitolo I 337 Lezione XIII 337
pergameni, che invece erano stoici, cercavano una spiegazione risalendo a Crisippo che aveva scritto quattro volumi sull'anomalia rispetto alla discrepanza tra forma fonetica e significato. Anche qui merita citare la Linea: Storicamente si è soliti far risalire il contrasto tra "analogismo" e " anomalismo" alla contrapposizione tra filologia alessandrina (aristotelica) e filologia pergamena (stoica). La prima opera con metodo comparativo, distribuendo le varie omologie e analogie nei distinti settori della grammatica, della psicologia e della storia. (Oggi diremmo: "struttura", "funzione" e "contesto"). La seconda opera fondamentalmente per "allegoresi", ciò che comporta una spiegazione simbolistica dell'anomalia, cioè il rimando a un altro linguaggio. (oggi chiameremmo l'allegoria "traduzione" in un altro linguaggio e spiegheremmo l'anomalia in termini di contaminazione di generi "letterari" diversi).422
E in nota Melandri aggiunge: L'allegoria tende alla generalizzazione: nel linguaggio tradizionale, a rapportare il sensibile (il dato-ma-non-compreso) al sovrasensibile (il compreso-ma-non-dato) o, se si vuole, il "fenomeno" al "noumeno"; nell'anomalia, invece, i due momenti entrano in corto-circuito e la traduzione risulta impossibile. Per razionalizzare l'anomalia, occorre farne un "simbolo": cioè un'allegoria ulteriore, a un altro, o a diversi altri, livelli o categorie. I generi letterari corrispondono a una teoria dei tipi (nel senso di Russell) semplice e ramificata, dei livelli e delle categorie allegoriche.423
Per quanto invece attiene alla ipotesi di due retoriche posso solo mettere in nota un'ipotesi, o meglio, una suggestione424. 422
LC §12. Ibid. n. 62. 424 I primi professori di retorica, secondo Barthes, furono Empedocle e il suo allievo Corace al quale dobbiamo una proto-retorica che muove dal piano della sintagmatica. Corace fissa le cinque grandi parti dell'orazione: esordio, narrazione, argomentazione, prova, epilogo. Barthes sostiene che la retorica è nata dai processi di proprietà. Si è cominciato a riflettere sul linguaggio per difendere il proprio bene. Riflessione che ha dunque uno scopo pratico. Ma sappiamo che un altro genere di riflessione sul linguaggio stava gettando le basi della futura filosofia del linguaggio, partendo dalla distinzione tra epea e logos che si ravvisa in Eraclito e di Parmenide. Si può allora dire che quella di Empedocle e Corace è la prima riflessione sul linguaggio a scopo pratico (il suo fine è l'azione), quella di Eraclito e Parmenide lo è a scopo teorico (il suo fine è la conoscenza). Il secondo passo della retorica, sempre seguendo Barthes, lo compie Gorgia inventando un nuovo genere di prosa: dopo quella giudiziaria e deliberativa nasce la prosa epidittica, la prosa delle cerimonie, una prosa-spettacolo in cui il linguaggio assume valore estetico. Platone pone 423
338 Capitolo I sugli Stoici 338 Enzo Melandri
Merita invece considerare l'ordine in cui, nel discorso di Melandri, si pone in questo caso la contrapposizione delle scuole di pensiero. Qui partiamo da tre discipline del pensiero. -
ontologia: essere in potenza - essere in atto vs tutto in atto logica: modalità ontologica vs semantica grammatica: priorità del modo sul tempo vs tempo su modo
Se dietro alla metafisica aristotelica c'è un pensiero fisicobiologico, dietro a quella stoica c'è un pensiero fisico-matematico (lo vedremo meglio nel prossimo paragrafo). Io volevo qui indicarvi una cosa che ho già detto e ripeto, la distinzione cioè tra modi e tempi. In Aristotele c'è prima il modo poi il tempo, e caratteristicamente il tempo vien dopo perché il tempo per Aristotele è ciò che media il passaggio dalla potenza all'atto, quindi vedete lo schema aristotelico è atemporale, il tempo interviene dentro allo schema, come un funtore ed è necessario per spiegare il passaggio dalla dynamis alla per primo la riflessione sulla retorica fissando la distinzione, mai tramontata, tra una retorica buona e una retorica cattiva. La prima praticata dai filosofi mira alla conoscenza della verità, la seconda, praticata dai sofisti, mira alla verosimiglianza e all'illusione. Ritroviamo qui una dicotomia basata sul fine che colloca la retorica filosofica entro il campo della dialettica e ne fa strumento euristico; mentre la retorica sofistica è collocata nel campo di quelle attività che hanno fine produttivo e si dicono technai. Per Aristotele la retorica appartiene interamente al campo delle attività che hanno un fine pratico. Egli la distingue dalla poetica che mira ad evocare, mentre la retorica mira a comunicare e persuadere. Recupera dal pensiero di Corace l'individuazione di un piano sintagmatico nel quale pone l'ordine, la dispositio degli argomenti; e sviluppa il piano paradigmatico, quello della elocutio, di quell'estetica del discorso che si attua attraverso le figure retoriche. Fa centrale la nozione di verosimiglianza: "val meglio raccontare ciò che il pubblico crede possibile, anche se è impossibile scientificamente, che non raccontare ciò che è possibile realmente, se codesto possibile è rigettato dalla censura collettiva dell'opinione corrente. Se la retorica è la facoltà di scoprire ciò che in ciascun argomento è in grado di persuadere, il verosimile ne è lo strumento principale", cfr. Roland Barhtes, La retorica antica, Bompiani, Milano 1972, ed. or. Parigi 1970. Questa linea di pensiero volta alla tecnica di produzione del consenso si srotola sul piano P-TP. Un'altra linea parallela recupera il piano sintagmatico del discorso e ne fa, come analisi filosofica uno strumento di conoscenza. È il piano T-P-T. Forse Melandri vede nello sviluppo della retorica filosofica (quella che parte da un'analisi sintagmatica e non quella connessa alla ricerca di metafore ad uso comunicativo) una riflessione sul linguaggio che giunge fino alla semantica filosofica del Novecento, una linea parallela allo sviluppo della logica che da Crisippo arriva a Frege.
Titolo del Capitolo I 339 Lezione XIII 339
energeia, è interno. Lo schema alternativo non è tempo-modo ma è piuttosto qualità dell'azione, contestualizzazione nel tempo-modo. Ed è la famosa distinzione senza la quale la grammatica greca risulta difficile da capire fra tempi determinati e tempi indeterminati. I cronoi orismenoi e i cronoi aoristoi425. I tempi determinati si dividono inoltre in durativi e compiuti; durativi sono il presente nel presente, il presente durativo nel presente, l'imperfetto nel passato; i tempi compiuti sono il presente, l'imperfetto, e il più-che-perfetto. Il presente è di nuovo distinto in durativo e non durativo, anche in italiano. Abbiamo i tempi aoristi, aoristoi cronoi che sono il futuro e l'aoristo, cioè il passato indeterminato che noi non abbiamo in italiano. Dicevo anche forse un esempio di questo lo avete con lo studio dell'inglese dove bisogna imparare a invertire un po' il senso letterale rispetto all'italiano, dove il tempo composto nel passato indica un'azione durativa nel presente; c'è questa complicazione della grammatica inglese rispetto all'italiano che sarebbe malamente messa in luce dallo schema di tipo aristotelico. Lo schema di tipo stoico parte dalla qualità dell'azione attraverso il tempo e poi il modo. Questa sarebbe una curiosità senza grande effetto se non corrispondesse ai presupposti dell'Argomento Vittorioso, del kyrieuon logos426, argomento con cui si dimostra l'impossibilità della contingenza. Perché questo argomento parte dalla definizione del possibile e del necessario attraverso un definiens che è il tempo. Viene considerato possibile ciò che è e ciò che sarà. Viene considerato necessario ciò che è stato e ciò che è. Il presente viene visto come limite incluso sia dal possibile sia dal necessario. Lo vedete, è un limite incluso nel verbo. Vice-
425
Vedi Lezione IX. VSF [CA] 489 [1] p. 213; Mates pp. 38-39; Bocheński p.156, 19.23 e 19.24. L'argomento di Diodoro si trova in Epitteto, Diss. II, 19.1. in Tutte le opere, Bompiani, Milano 2009; Kneale III, 2. Visto che l'argomento in questione è stato proposto da Diodoro Crono è bene ricordare che usiamo dire "stoico" per " megarico-stoico". 426
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versa viene definito impossibile ciò che non è e ciò che non sarà. E così via. L'argomento lo tratteremo un'altra volta. Viene il sospetto che, o Melandri non fosse ancora pienamente a suo agio con l'impostazione didattica che voleva dare dell'Argomento Vincitore (o Dominante), la cui trattazione verrà nella prossima lezione, o che intendesse allargare ulteriormente il contesto nel quale calare l'Argomento. 13.5. Cosmologia Dietro questa concezione ci sono supposizioni di carattere cosmologico, il mondo viene visto come un insieme, la somma di tutte le cose e di tutti gli eventi, cioè di tutte le indefinite combinazione di cose. Siccome il mondo è composto da un numero finito di corpi sarà finito anche il numero delle combinazioni che ne viene fuori; da qui risulta l'idea che il mondo a un certo punto, esaurite le combinazioni, ricominci da capo ed è la concezione del Grande Anno che non è specificamente stoica, è comune a Platone e ad altri427. Una delle dimostrazioni che colpisce è quella per cui il numero dei corpi deve essere finito. Questo argomento non si presenta più in epoca moderna, forse si presenta nella cosmologia più recente, ma era tenuto ben presente dagli antichi. In effetti qui c'è una questione, ed è il rapporto di simmetria che deve sussistere tra l'infinito in estensione e l'infinito in intensione. Questo problema è connesso in logica al problema del significato tra l'estensione e l'intensione. Il mondo in estensione può essere composto da un grande numero di atomi. Ci si chiede: ma finito o infinito? Bisogna che sia finito perché altrimenti l'infinità estensionale dovrebbe riflettersi su quella intensionale. Ma se l'infinità estensionale si riflette su quella intensionale non esistono più gli atomi perché diventano divisibili all'infinito. Vedete questo principio di simmetria? Non vi è nulla di necessario in quello 427
Sui periodi cosmici cfr. Pohlenz p. 144 e sgg.; in VSF B.f 599 e DB 28. Per Platone, Timeo, XI, Leggi X. Vedi anche 14. 4.
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che dico però è una concezione che esiste. Se l'infinità in estensione dunque presuppone l'infinità in intensione, l'atomo non esiste. Anassagora, con la dottrina delle omeomerie, è l'unico tra gli antichi che abbia varcato le colonne d'Ercole dell'infinito per arrivare però a una posizione che è stata subito confutata, anche da Aristotele428. L'infinito in intensione non è accettabile perché se esistesse tutto si confonderebbe con tutto e non sarebbe più possibile dimostrare l'esistenza di cose separate. È un argomento che non viene mai formulato con precisione tuttavia a me sembra un pochino più importante che non la questione del mondo esterno. Se la fisica del continuo dopo Anassagora e Leibniz ha sempre incontrato delle obiezioni è perché percettivamente io alcune differenze le vedo. Se tutto fosse in tutto come potremmo spiegare l'origine delle soglie di qualsiasi tipo di soglia? Questo è un problema che la fisica del continuo non riesce a risolvere. E guardate un po', tutte le volte che questo problema è stato formulato scientificamente, lasciamo perdere le filosofie romantiche, tutte le volte che è stato formulato scientificamente, la scelta è sempre caduta nel discontinuo. Vorrà pur dire qualcosa. Anche la scelta del discontinuo ha i suoi inconvenienti, anche questa ha le sue aporie profonde, lo sapete. Però per lo meno sembra di calcare in un terreno più solido. Intanto abbiamo stabilito qualcosa, abbiamo stabilito che questo qualcosa ha anche le sue aporie e le sue contraddizioni ma a partire dall'infinito in intensione - e l'infinito in intensione, mi permetto di dire così alla brava, che è il continuo - non è possibile spiegare più niente. Bisognerebbe presupporre la coesistenza di diversi continui che nei punti di intersezione producono gli effetti di soglia desiderati. Si considerino le teorie delle quattro forze fondamentali e così via per altre concezioni moderne. Quindi bisognerebbe operare con presupposti misti che siano insieme discontinui e continui; questa in fondo è la soluzione, non è vero? Solo che speculativamente come si fa a operare con presupposti misti? Ecco dove salta fuori la questione! E forse siamo in gra428
Vedi Lezione VI.
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do anche di riformulare questo problema degli antichi. Dato che in questo tipo di ragionamento ci muoviamo in un medio che è quello dell'assoluta speculazione, senza un briciolo di prova sperimentale, è chiaro che le regole di questo gioco bisogna che siano simmetriche. Non perché la natura ci costringe a tanto, ma perché non ne sappiamo niente, e allora in particolare varrà che se assumiamo l'infinito in estensione per lealtà dobbiamo assumerlo anche in intensione, ecco com'è l'argomento. Dato che però non siamo in grado di accettare le conseguenze dell'infinito intensionale – per quello estensionale sarebbe più facile - ecco che allora ritiriamo l'ipotesi e diciamo che il mondo è finito in estensione, il mondo ha un limite, anche se quel limite stando nel mondo non lo raggiungiamo, non c'è, come la illustrazione dell'omino che va al limite del mondo apre la finestra e guarda fuori no? E allora dobbiamo anche ammettere gli atomi, cioè il finito in intensione. Il concetto di atomo da dove sorge? Oggi sappiamo che, grossolanamente, ci sono gli atomi ma ancora oggi se uno volesse dare una definizione precisa di atomo non so se se la caverebbe. Gli antichi non avevano la possibilità della camera di Wilson delle particelle elementari. Non l'avevano nemmeno cento anni fa. Quindi, vedete, il concetto di atomo salta fuori per regolare questo traffico. L'altro grande supporto nel concetto di atomo è l'analogia con le lettere dell'alfabeto. Ma questo non è un argomento speculativo è una bassa analogia non è vero? Comunque le lettere dell'alfabeto contengono di nuovo un postulato finitistico che va dal finito all'infinito e non viceversa. Che il mondo debba essere finito in estensione perché deve essere finito in intensione secondo me è un argomento interessantissimo. Mi rendo conto che però qui facciamo della metafisica speculativa essendo consapevoli di che cosa significhi farla. Se c'è una soluzione di questo problema dovrà trovarsi attraverso informazioni non speculative, se c'è. Io dubito che possa esserci per il carattere totalizzante del medesimo. Solo vi dico, quando facciamo una speculazione stiamo attenti che stiamo facendo un gioco e dobbiamo stabilire le regole di questo gioco per poi
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accettare o non accettare il gioco. Le conclusioni di questo gioco non le accetterei mai. Tuttavia è interessante farlo per vedere come mai sono sorte certe concezioni. Questo è interessante. Comunque vedete che quella del mondo nella concezione del Grande Anno è tutt'altro che una concezione peregrina. Dato che, se il mondo è costituito da un numero finito di corpi e se tutti gli eventi del mondo si spiegano attraverso la combinazione di questi corpi (prendiamo la teoria atomistica come esempio minimo ma si possono concepire anche teorie più complicate), anche il mondo nel suo complesso ha un tempo, perché una volta esaurite tutte le combinazioni ricomincia da capo. Ricomincia esattamente nello stesso ordine o no? Dipende se ammettiamo il caso o non lo ammettiamo. I mondi epicurei sono già diversi tra loro, nascono continuamente in maniera leggermente diversa. Tuttavia, globalmente considerato, l'universo epicureo come sommatoria di tutti i mondi e degli intermundia direi che non cambia neanche quello. La concezione stoica del mondo unico è più teoretica, il mondo complessivamente non muta, ci vuol sempre una ragione per cui muti una delle sue parti. Dovrebbe rimanere aperta la possibilità di una mutazione nei cicli, cioè di un tempo dei tempi. Però vedete che questo tempo dei tempi [va soggetto allo stesso interrogativo:] ci si chiederebbe se si riproduce di nuovo come tempo dei tempi identicamente o diversamente. Se dite diversamente facciamo un terzo passaggio [e otteniamo] cicli di cicli di cicli [e via dicendo]. Comunque l'argomento di Diodoro Crono, l'Argomento Vincitore lo vedremo quest'altra volta. Volevo solo ricordarvi un piccolo spunto per la lettura del determinismo stoico. L'ho già accennato. Dire che il mondo è determinato ha due significati secondo che noi diciamo: p → Np [leggi] p implica necessario p
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questo è un significato, è il significato massiccio del determinismo meccanicistico, determinismo assoluto; oppure può voler dire che: N(p → p) [leggi] è necessario che se p allora p Questi due sono i due significati di "determinismo". Il primo è massiccio, è quasi sempre quello che si sottintende quando si sente dire di considerare tutti gli eventi come necessari. Vuol dire che p implica che è necessario p, piove implica che è necessario che piova. L'altra invece vuol dire semplicemente che è necessario che, se piove, allora piove. È molto debole e tuttavia è deterministico perché non ammette l'esistenza di variabili nascoste. Non ammette che uno giochi la carta poi la ritiri. Ha un significato talmente banale che non lo si coglie ma ha un significato anche quello. Il primo dice che quello che è, è necessariamente; il secondo dice necessariamente quello che è, è. È più debole. Ma non è così debole da risultare insignificante perché esclude il caso, esclude l'incertezza tra essere e nonessere. Forse così riesco a dirlo no? Riesco a dirlo un pochino meglio. Si dice meglio con le formule che non col linguaggio che è uno strumento grossolano; è come trattare gli ingranaggi dell'orologio con gli arnesi del fabbro. Queste ultime considerazioni sul determinismo coinvolgono una nozione modale ma è chiaro che la sua portata è ontologica, così come è chiaro che le formule hanno uno scopo puramente ausiliario.
Lezione XIV
14.1. Epistemologia I In questa lezione Melandri, dopo un'ampia introduzione di carattere epistemologico, entra nel merito della logica modale stoica e lo fa seguendo l'esposizione presente nel testo dei Kneale dell'argomento di Diodoro Crono detto Argomento Vittorioso429. Noi non siamo nella felice condizione di poter dire "non ce ne importa niente di quello che ha detto Aristotele perché noi possediamo la scienza in senso moderno". Non la possediamo questa scienza in senso moderno perché in alcuni punti siamo tributari della metafisica Aristotelica. Capite che cosa voglio dire no? Noi potremmo dire "non ce ne importa niente della metafisica aristotelica perché abbiamo la scienza moderna che è tutta positiva". Il fatto è che non è vero e se diciamo questo lo diciamo trasgredendo al principio dell'onestà del pensiero. Il pensiero ha da essere onesto. Non perché altrimenti Dio ci punisce. Il pensiero ha da essere onesto perché altrimenti inganna se stesso. Il pensiero o è onesto o non è pensiero. Lo dico in senso stoico non in senso moralista. È utile ingannare se stessi? No, è inutile.
429
Ricordo che l'argomento di Diodoro Crono, il kyrieuon logos, in Mates the Master, viene tradotto Argomento Vittorioso in Bocheński, Argomento Dominante in Kneale, Argomento Dominatore in VSF.
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Il pensiero aristotelico interviene nel nostro modo di pensare attraverso due ampie fessure. Una è quella della interpretazione ontologica delle modalità per cui il modo di pensare aristotelico interviene perfino nella fisica moderna sotto la questione dei predicati predisposizionali, questione non risolta anche se accomodata. È la finzione che compare sotto forma di energia virtuale, se vogliamo, senza la quale non potremmo fare la fisica. Compare inoltre sotto forma di principio di conservazione dell'energia senza il quale non potremmo impostare una, dico una, equazione di fisica. La condizione necessaria per il trattamento matematico della fisica è che io ponga le variabili che compaiono nelle misurazioni fisiche sotto forma di equazioni. Le leggi fisiche sono espresse sotto forma di equazioni. Io dico che la forza nell'equazione f vettoriale tra due masse m1. m2 è proporzionale al prodotto delle masse e inversamente proporzionale al quadrato delle distanze.
m1.m2 F= d2 Vedete, io esprimo le leggi sotto forma di equazioni ma la condizione di applicabilità dell'equazione è che il mondo costituisca una tautologia. Questa tautologia è stata espressa variamente nei secoli: tautologia della conservazione della materia senza la quale voi non potete fare la chimica di Lavoisier. Tautologia poi della conservazione dell'energia che in parte inficia la prima perché la materia non è che si conservi, si conserva il prodotto della materia per la velocità, cioè l'energia. Come facciamo a sapere che l'energia si conserva? Come facciamo a sapere che il mondo non perde nulla? La risposta è molto semplice: non lo sappiamo affatto. Lo dobbiamo presupporre affinché si possano applicare al mondo delle equazioni. Come facciamo a sapere che nulla si crea e nulla si distrugge? La risposta è che non lo sappiamo affatto, noi lo supponiamo per-
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ché se noi non lo supponessimo non potremmo dire nulla. Dobbiamo mettere il mondo in equazioni ma per mettere il mondo in equazioni dobbiamo fare del mondo una totalità nulla, la cosiddetta tautologia. Il mondo è quello che è dentro la bottiglia, cosa c'è dentro la bottiglia? Il mondo; come è fatto il mondo? È fatto così che non si possa aggiungere né togliere nulla. Per forza no? Abbiamo già detto che il mondo è il totale! Allora lo mettiamo in equazione. Questo vuol dire che noi possiamo solo guardare il mondo ma non modificarlo. Non possiamo aggiungere nulla. Vedete come la conoscenza sia un fatto arbitrario, altro che rispecchiamento, non si rispecchia niente al mondo! Ogni corpo persevera nel proprio moto uniforme, rettilineo a meno che, come dice Hamilton430, non faccia un'altra cosa. Perché se non persevera nel moto rettilineo dobbiamo supporre una forza che ne modifica la traiettoria. Hamilton lo dice molto bene, ogni corpo obbedisce alla legge di inerzia a meno che non voglia obbedire; solo che noi gli diamo una bella strigliata a questo moto, diciamo, o fai così o io presuppongo un'altra forza! Quale? Non importa quale, la rimetto di nuovo in equazione, va a vedere chi dura di più, in genere dura di più il moto, però non è detto. Non è una buona ragione. Capite quanto c'è di tautologico nel pensiero? La filosofia non consiste nel dire un'altra cosa rispetto a quello che dice la scienza, consiste nell'insinuare una lieve ondulazione del piano per cui uno pensa: ma com'è veramente? Forse è anche vero ma al minimo mi tocca riflettere su che cosa significhi "vero". E questo lieve squilibrio che voi introducete non è un'altra cosa rispetto alla scienza, è dire "guardate che voi fate della scienza ma fate anche della metafisica senza saperlo". Adesso ve lo dico brutalmente, non ci si esprime così direttamente, bisogna essere molto più sabotatori. È un lieve, un insensibile sabotaggio, per cui uno alla fine non crede più a niente. Oppure, se ci 430 Suppongo William Rowan Hamilton di Dublino (1805 – 1865) e non William Hamilton di Edimburgo.
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vuol credere ci crede, è chiaro che ognuno ci può credere, nessuno lo costringe. Avevamo detto, sulla dottrina delle modalità aristotelicoleibniziana, che è una bellissima dottrina perché chiarisce il pensiero. Adesso vi chiedo, molti di voi hanno studiato il latino vero? Quando si arriva a quel punto tremendo che è il periodo ipotetico ve lo ricordate? La teoria grammaticale latina del periodo ipotetico è chiarissima no? Quando andate poi a tradurre, addio! Perché? Perché è proprio lì che salta fuori la teoria modale nel periodo ipotetico, e salta fuori secondo la concezione aristotelica. La teoria aristotelica è molto chiara quanto a principi grammaticali, però vi lascia in asso quando dovete applicarla nei casi concreti di traduzione. Insomma, quando voi leggete la grammatica latina sul periodo ipotetico è chiarissima. Si usa il presente indicativo quando è una possibilità concreta, si usa il congiuntivo quando è una possibilità un po' così, si usa invece l'imperfetto del congiuntivo quando invece la possibilità è ideale; poi si va a tradurre e uno dice: "che cosa vuol dire?" Questo punto vi dà l'idea di che cosa sia un sistema aristotelico, un sistema aristotelico divide il mondo in reale e possibile, in modale o non modale e dal punto di vista concettuale è tutto chiaro però cosa poi sia il mondo, se rientri qui o dall'altra parte non si sa. Lo stesso accade nella traduzione. Voi avete chiarissimo in mente come dovrebbe funzionare la grammatica latina su certi casi ideali, però nel caso concreto non sapete come comportarvi, dipende come la pensa quello che vi correggerà il compito. Perché? Perché appunto la dottrina aristotelica è una dottrina modale che divide l'essere fin dall'inizio in essere reale, attuale, e essere possibile, potenziale. Intanto vedete che c'è una irregolarità perché le modalità sono tre, c'è il possibile, il necessario e l'effettivo. Mentre qualunque applicazione della teoria modale insiste sulla dualità, il difficile è capire la distinzione tra il reale e il possibile, non il necessario. Forse è per questo che nelle grammatiche greche compare ancora la distinzione non in modi e tempi ma l'altra, in tempi e
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modi, anche se poi non sappiamo come usarla, devo pur dirlo questo, è una confessione di ignoranza la mia che suppongo sarebbe scontabile se altri avessero il mio passo di sincerità. Cioè le grammatiche greche sono molto chiare su questo punto però direi che hanno un grado di chiarezza che va oltre la mia possibilità di comprensione. Ad ogni modo volevo insistere solo su un punto: il problema salta fuori quando andate a tradurre, e perché questo? Ecco la mia risposta è una risposta un po' tendenziosa che vi prego di non accettare se non siete convinti - è che le grammatiche latine sono aristoteliche, chiariscono l'essere del discorso da un punto di vista dell'essere, non lo chiariscono dal punto di vista del discorso. Azzarderei un'interpretazione: le grammatiche aristoteliche sono ontologiche non gnoseologiche, e in ciò si intuisce quanto anche nelle Note vien fuori, ossia che in materia di modalità Aristotele, in fin dei conti, non riesce a liberarsi da una concezione ontologica. Chiarire l'essere del discorso dal punto di vista del discorso significa subordinare l'ontologia alla gnoseologia, significa che per dire ciò che vi è si deve stabilire ciò che si conosce e a questa concezione corrisponde una modalità de dicto che impegna a stabilire la possibilità o l'impossibilità, la verità o la falsità non degli eventi ma delle proposizioni e quindi mirano a stabilire non l'esistenza ma la conoscenza. È un difetto che troverete spesso in ogni scienza di carattere aristotelico in cui per esempio sarà molto chiaro che cosa sia l'essere dell'economia ma non sarà mai chiaro a sufficienza che cosa sia economico; sarà molto chiaro che cosa sia il valore economico nella teoria del valore però non riuscirete mai a cavare una ragno dal buco se da questa teoria, dalle sue specificazioni, vorrete anche vedere se tra quindici giorni in Cile ci sarà Pinochet oppure no. Non ne caverete un ragno dal buco. Non saprete mai dirlo. Dopo che è successo direte perché è successo, mai prima. Credo di poter aggiungere che uno dei caratteri attraverso il quale si riconosce una scienza aristotelica, che vuol dire anche hegeliana, purtroppo vuol dire anche marxiana, in molti
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casi, è che mentre dà degli effetti brillanti per quanto riguarda la spiegazione del già accaduto, non altrettanto può dirsi quanto a previsione di ciò che deve accadere. Dunque uno dei caratteri è: forte capacità esplicativa, bassa capacità di previsione, come è del tutto ovvio se pensate a una scienza in cui il criterio esplicativo è fornito da un'essenza. Perché l'oppio fa dormire? Perché ha la virtus dormitiva; perché quell'uomo è morto? Perché l'uomo è mortale eccetera, va bene? Grande capacità di esplicazione bassa capacità di previsione. Posso prevedere che un uomo in quanto uomo morirà ma non quando. Spiego perché l'uomo è morto: perché è mortale. Se ricordate quello che dicevo ieri, vorrei impostarla così: p→q p = p1, p2, …. pn cosa vuol dire? Vuol dire che noi cerchiamo di riempire l'ipotesi, vuol dire ridurre p1 e p2 e … pn a p che era premesso a ipotesi. Ridurre a p è il "riempimento aristotelico". Perché dal punto di vista conoscitivo, in ogni teoria che vogliamo chiamare teoria teorica, non teoria pratica; in ogni teoria teorica e non pratica noi partiamo da q, dalla condizione necessaria e non dalla sufficiente. In una teoria pratica noi partiamo dal sufficiente, non dal necessario. Allora qui voi capite che si determina un'incertezza, sia un'incertezza conoscitiva, nel caso partiamo dalla conseguenza necessaria, sia un'incertezza produttiva perché potremmo produrre lo stesso effetto con una spesa minore. Questo è molto aristotelico. Cioè la risorsa aristotelica è il riempimento. Che equivale logicamente alla distinzione delle cose. Vedete il gioco tra intensione e estensione? Più io riempio l'ipotesi, più restringo l'estensione, lo vedete questo gioco che nel linguaggio dà luogo a degli inconvenienti linguistici, ma è molto chiaro no? Il rapporto tra intensione e estensione è governato da una simmetria per cui l'una è inversamente proporzionale all'altra: se aumento l'inten-
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sione diminuisce l'estensione e viceversa. Sul piano del linguaggio all'intensione corrisponde un insieme di predicati cui corrisponde un insieme di soggetti; sul piano logico-ontologico all'intensione corrisponde un insieme di proprietà cui corrisponde un insieme di oggetti. La distinzione delle cose ossia il processo di l'individuazione dell'oggetto si ottiene trovando le proprietà che lo distinguono da altri oggetti. Trovare le proprietà equivale a riempire l'ipotesi e come verrà ribadito, è questa una delle due vie possibili. Prima però la lezione passa da una digressione sull'ermeneutica che a mio avviso va letta come interpretazione del modello "riempimento dell'ipotesi". 14.2. Ermeneutica Aristotele avrebbe o no accettato la teoria di Darwin? Provate un po' questo problema qui. L'avrebbe capita? Sì, direi di sì, l'avrebbe capita. L'avrebbe accettata? È un po' difficile rispondere. Il problema ermeneutico è quello di chiedersi se il dato autore, in presenza di informazioni che noi abbiamo, senza dover cambiare il modo di pensare, accetterebbe o non accetterebbe l'ipotesi che facciamo, oppure capirebbe o no. È un problema ermeneutico, è un problema fantastico ma non per questo privo di significato. Voi capite che Leonardo avrebbe compreso benissimo il motore a scoppio, sarebbe rimasto lì ammirato senza fiato di fronte alla perfezione meccanica di questi pistoni che entrano nei cilindri, le fasce elastiche ecc., l'avrebbe capito? Sì, soprattutto i motori Diesel avrebbe capito, avrebbe capito i motori diesel perché non ci sono le candele; però di fronte all'elettricità che lui ignorava non possiamo dirlo, non solo perché non sta bene, ma perché dobbiamo stare all'ipotesi interpretativa. Il motore diesel, una volta avviato l'avrebbe capito perché non c'è candela elettrica, non c'è elettricità, l'elettricità prima del 1850 non la capiva nessuno. Se per ipotesi interpretativa si deve intendere quella che conduce Leonardo a capire il motore diesel allora il ragionamento di Melandri è questo: le conoscenze di meccanica di Leonardo sarebbero state suf-
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ficienti a capire il motore diesel ossia un oggetto che non aveva prodotto (inventato) e nemmeno mai visto. Di fronte all'oggetto misterioso dall'insieme delle sue conoscenze avrebbe tratto le ipotesi sufficienti a comprenderne il funzionamento. Essendo invece l'elettricità un campo di conoscenze completamente sconosciuto non avrebbe potuto individuare alcuna ipotesi esplicativa. Ma anche Newton non avrebbe capito l'elettricità, non c'era. Avrebbe capito il motore a scoppio soprattutto non quello a benzina ma quello diesel, non per la benzina ma perché non c'è la candela che deve accendere ogni volta. Allora ci poniamo il problema, Aristotele avrebbe capito l'argomento evoluzionistico? Questo argomento è un po' più difficile. Secondo me avrebbe capito benissimo l'argomento della selezione naturale; non so se avrebbe capito il fatto che la selezione naturale comporti il passaggio da una specie a un'altra. Perché qui andiamo a cozzare con uno dei presupposti del pensiero aristotelico. E badate, in questo campo non è semplicemente una questione di pregiudizio. Per noi stessi è difficile capire come mai la specie nell'evoluzione si fissi pur producendo la variazione della specie. Questo dal punto di vista classificatorio non si spiega bene. Lo spieghiamo oggi in maniera neodarwiniana con la distinzione tra genotipo e fenotipo, con le questioni inerenti alla genetica per cui sappiamo che, crediamo di sapere che un assetto molecolare sia informativo rispetto all'organizzazione dell'individuo e per questa ragione oggi possiamo abbandonare il concetto di specie. In fondo il concetto di specie, oggi, lo usiamo in maniera ipocrita perché non ci crediamo. È semplicemente un sostegno classificatorio. Quando dovessero sorgere questioni intorno la specificità di un essere vivente, dovremmo ricorrere al genotipo, a questioni di genetica. Ma questo però lo sappiamo noi, Darwin non l'avrebbe capito nel senso ermeneutico che vi dicevo, non perché fosse becero, non lo sapeva, non poteva saperlo. Darwin doveva basarsi sulla classificazione delle specie di Cuvier, e a questo punto si dava una contraddizione, restando merito di Darwin andare avanti pur restando la contraddizione. Io la
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metterei così: Darwin è andato avanti dicendo, sì la specie è fissa perché è una specificazione dell'asse evolutivo però non è fissa perché combina ancora. Guardate che è una cosa un po' balorda detta così. Naturalmente se voi andate a leggere la storia del darwinismo non vi accorgete che esista questa obiezione che muoviamo noi oggi. L'obiezione era: se l'uomo deriva dalle scimmie allora non c'è Dio. E allora i vescovi e tutti quanti a saltargli addosso, ignobile vero? Ma c'è una contraddizione seria nel darwinismo: come combini tu Darwin la fissità delle specie con il fatto che la specie invece cambi? Dov'è che cambia? Darwin se la cavava con l'immagine dell'albero: le foglie cadono mentre l'albero continua a crescere. Ma chi è che continua crescere? L'uomo? Che cosa? Non si capisce. La teoria darwiniana è, da un punto di vista logico, un assurdo. Non lo spieghi questo punto. Secondo me è molto debole concettualmente la posizione di Darwin, deve introdurre una piccola variazione ben sapendo che le specie tendono ad autoequilibrarsi. Insomma, Cuvier l'aveva dimostrato. Il fissismo di Cuvier, lo dice bene Foucault431, è molto più critico che non l'evoluzionismo di Darwin; perché Darwin deve contraddire il fissismo introducendo il principio evoluzionistico, che non è il trasformismo di Lamark. Non lo è, però Darwin è trasformistico perché deve dire che le mostruosità, una volta ogni tanto, sul piano morfologico sono creative. Darwin non ha il meccanismo con cui enunciare la sua teoria, la sua genialità consiste nell'aver saltato la difficoltà per dire: qualcuno lo spiegherà, io vado avanti così. Rispetto al paradigma illustrato nel paragrafo precedente ciò equivarrebbe a dire che in assenza di tutte le condizioni sufficienti (pur non riuscendo a riempire completamente l'ipotesi) Darwin assunse come determinata la condizione necessaria. Ovvero: pur non potendo spiegare la variazione all'interno della fissità completò la sua teoria dell'evoluzione. La genialità sta nell' intravedere la condizione neces431 Cfr. Michel Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, ed. or. Parigi 1966, Cap. VIII § 3.
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saria in assenza di tutte le condizioni sufficienti a determinarla e, credo si possa aggiungere, nell'avere il coraggio di andare avanti lo stesso. Io penso che sia questo il suo ragionamento; ma lui non può dirlo e non può dirlo alla Lamark perché c'è stato Cuvier. Come lo dice? Dice che le specie sono fisse ma mutanti; non dice come Lamark che la teratologia è la speranza dell'evoluzione, non può dirlo. Gli argomenti empirici a favore della specificità degli esseri viventi sono schiaccianti. Non è che uno possa fare una transizione tra la menta e la cipolla. E poi sapete qual era l'argomento, cioè le specie si definiscono come specie perché non è possibile la fecondazione. Che è un argomento un po' tautologico. Nei vegetali è provato abbastanza, però ci sono gli ibridi. Negli animali non è mai stato provato. Su gli esseri viventi, l'uomo e gli altri animali, è un po' difficile produrre questo effetto perché solo sotto condizione di violenza si può verificare una cosa del genere. Passare dal potenziale all'attuale significa individuare tutte le condizioni sufficienti (il possibile) a determinare la condizione necessaria (il reale). Il riempimento dell'ipotesi è la somma delle condizioni sufficienti a determinare il passaggio dal possibile al reale. Questo modello esplicativo che Melandri ha chiamato "teoria pratica" è quello a mio avviso sin qui applicato ai casi di ermeneutica che abbiamo visto. Ora si tratta di tornare al modello per osservarlo da un punto di vista critico e confrontarlo con l'altro modello, detto "teoria teorica". 14.3. Epistemologia II Chissà perché ci siamo così allontanati, eravamo partiti dalla considerazione della modalità in senso aristotelico-leibniziano. Nell'universo aristotelico, il possibile è un modo di essere accanto all'essere reale. Così come l'energia potenziale del pendolo al culmine dell'arco percorso è un modo di essere dell'energia accanto all'energia attuale che si dispiega nella ripresa della corsa.
Titolo del Capitolo I 355 Lezione XIV 355
È una caratteristica del modo di pensare aristotelico, data la scansione del reale in possibile e attuale, di dare delle spiegazioni di alto potere risolutivo come spiegazioni teoriche ma di basso potere previsionale. Questo potete collegarlo al fatto che per Aristotele il mondo si divide in possibile e attuale e che il modo di dare spiegazioni è quello del passaggio dalla potenza all'atto. Quindi quando voi avete dimostrato che qualcosa è possibile siete già stanchi. Qualcosa di possibile può capitare che sia reale o che sia irreale: se lo è va bene, se non lo è va bene lo stesso no? Un modo di spiegazione che parte dal potenziale e va all'attuale è un modo di spiegazione che spiega sempre la metà dei casi. I casi sono due: tutto quello che è possibile e reale e tutto quello che è possibile ma non è reale. Questo modo di pensare, che noi abbiamo abbandonato nelle scienze fisiche e matematiche, purtroppo persiste nelle scienze sociali e di altro genere. Quindi sarà bene adottare un criterio più sobrio, più asettico di spiegazione. È possibile pensare, come dicevamo prima, a un'altra approssimazione cioè aggiungere condizioni e supposizioni necessarie fino al traguardo per cui la somma di tutte le condizioni necessarie diventa la condizione sufficiente non solo per spiegare ma per produrre il caso. Penso che sarete d'accordo con me: quand'è che una spiegazione è completa? Quando, non solo enuncio tutte le condizioni necessarie, ma sono in grado di produrre i fatti, quando la somma delle condizioni necessarie è sufficiente non per spiegare i fatti, per farli. Vi sembra? Fin che io mi limito a spiegare una cosa senza farla, ci saranno obbiezioni. Nel punto in cui la condizione minima necessaria in più è sufficiente per produrre l'effetto, quella è il punto in cui l'insieme delle condizioni necessarie diventa la condizione sufficiente. Normalmente noi siamo in difetto, non siamo degli esseri matematici. Forse dovevamo capire prima che non siamo degli esseri matematici. Noi ci troviamo nella difficile condizione in cui o siamo teorici e enunciamo le condizioni necessarie però insufficienti a produrre il fatto; o siamo pratici e abbiamo le condizioni suffi-
356 Capitolo I sugli Stoici 356 Enzo Melandri
cienti però abbondanti rispetto alla spiegazione di fatti. L'esempio che vi propongo è sempre quello, scusate la mia mancanza di fantasia, è sufficiente per uccidere un moscerino sparare un colpo di granata del 115, forse non è necessario tirar giù tutta la casa, comunque è sufficiente. Su Aristotele mi viene da dire troppo: si può parlare male di Aristotele? Sì, per ora sì. Non siamo ancora una repubblica così reprimenda da non poter parlare male di Aristotele. Se ne poteva parlare male persino sotto il fascismo no? Quindi approfittiamone. Adesso dobbiamo pensare dall'altra parte, dobbiamo pensare come le modalità venivano trattate dal punto di vista alternativo rispetto ad Aristotele che è quello che io chiamo stoico. Guardate ragazzi, dico così per semplicità: il punto di vista aristotelico è quello secondo cui prima ci sono i modi dell'essere poi vengono i tempi; e il quadro Aristotelico è molto chiaro, perché i modi dell'essere, a parte la logica modale, sono sostanzialmente due, non tre: c'è il modo di essere possibile, la dynamis, il dynaton, la facoltà d'essere e poi l'energeia, l'atto, cioè l'essere in potenza e l'essere in atto. Che cos'è il tempo per Aristotele? È ciò che media dalla potenza all'atto. La risposta è sbalorditiva no? È semplice, molto bella. Però, vi dicevo, attenzione perché forse non funziona tanto bene nell'applicazione pratica. Questa dottrina delle modalità è quella che a noi oggi pare più ovvia. Grammatica o meno. Perché a noi pare più ovvia? Per tante ragioni alcune delle quali potremmo anche trovarle da esempi tratti dalla fisica moderna. Non dico dalla fisica einsteiniana, dico dalla fisica classica, quella di Galilei, di Newton, energia potenziale, energia attuale, cartesianesimo contro newtonianismo, vittoria del newtonianismo, della concezione dell'energia potenziale contro quella del movimento attuale. L'altro tipo di argomento parte invece dal tempo e dal tempo deduce il modo. Questo è difficile da capire: partire dal tempo per dedurre il modo è il modo di pensare alternativo.
Titolo del Capitolo I 357 Lezione XIV 357
La digressione che segue è importante a mio modo di vedere per l'economia generale del discorso ma purtroppo la difficoltà dell'ascolto mi ha consentito di renderne conto solo parzialmente. Come faccio a dire che è alternativo? Lo dico perché mi baso esclusivamente su una categoria d'ordine. Per quelli di voi che hanno lo sfizio logico dovrebbe bastare no? Definisco il modo di pensare alternativo quando inverto o la topologia o l'ordine. Tutti i modi di pensare secondo la filosofia della matematica odierna si lasciano classificare secondo tre criteri: • • •
categorie topologiche: dentro/fuori, classe/complemento categorie d'ordine: 1°, 2°, 3° … categorie algebriche: costanza dell'algoritmo, della funzione e variabile dipendente.
Queste ultime nel mio linguaggio le chiamerei categorie analogiche ma la dizione che trovate nella classificazione esatta è questa: categorie algebriche. Lo stesso algoritmo cambiando le variabili. Tre modi di pensare coesistenti in quella che è l'impresa più grandiosa e più ardua della nostra civiltà culturale che secondo me è la matematica. Dico secondo me ma sono in buona compagnia, se uno mi passi la modestia, vedi Platone, Democrito, Leibniz e altri. Qui vado sul sicuro. Sono di nuovo costretto dal cattivo ascolto a riformulare il seguito a modo mio. Esemplificazione della categoria topologica e del significato di "modo inverso": se a è interno ad A nel modo diretto, allora a è esterno a A nel modo inverso. Per la categoria d'ordine: se l'ordine è A-Z, il modo inverso è Z-A. Provo a ricostruire le esemplificazioni di Melandri. Data la coppia di nozioni interno/esterno appartenenti alla categoria topologica, Melandri fa l'esempio della coppia materialismo/idealismo come modi di pensiero inversi: per il materialismo reale è ciò che è esterno all'idea, per l'idealismo reale è ciò che è interno rispetto al mondo. Data la
358 Capitolo I sugli Stoici 358 Enzo Melandri
coppia di nozioni precedente/successivo appartenenti alla categoria d'ordine, nelle grammatiche aristoteliche il modo precede il tempo, in quelle stoiche è l'inverso. (Aggiungerei però che la contrapposizione delle due ontologie può essere letta in senso topologico: nel sistema aristotelico si danno due modi dell'essere, il possibile e l'attuale, all'interno dei quali il tempo media dall'uno all'altro; come dirà Melandri "il tempo è dentro la matrice"; nel sistema stoico si dà un solo modo dell'essere, l'attuale, e il tempo è un elemento esterno che contiene tutte le combinazioni fino ad esaurimento del ciclo. Riguardo alle categorie algebriche Melandri prosegue: Che cos'è l'inverso di una funzione? Io non lo so, se lo sapete ditemelo perché sarebbe importante saperlo. La funzione inversa? No, non è questo che intendo; se abbiamo la funzione y = f(x) è chiaro che la funzione inversa è x= f1(y) ma quello che vi chiedo è cos'è l'inverso del modo di pensare algebrico. Purtroppo anche qui il passo è troppo corrotto per capire cosa intendesse Melandri per "modo di pensare inverso della categoria algebrica" anche perché nei primi due casi non si è chiesto quale sia l'inverso della categoria ma quale sia l'inverso nella categoria. In ogni caso è da qui che il discorso sulle modalità riparte. 14.4. L’argomento Vittorioso I A questo punto credo sia opportuno premettere una breve esposizione che riassume quanto si evince in Mates, Bocheński e Kneale a proposito della logica modale degli Stoici. Come abbiamo già detto si usa attribuire agli Stoici tout court quanto è in parte di origine megarica. Per quanto concerne la modalità i due commenti che ci sono giunti
Titolo del Capitolo I 359 Lezione XIV 359
e che sono oggetto della nostra indagine fanno esplicitamente riferimento a Diodoro Crono432. La prima fonte menzionata da Mates è Alessandro433 che riporta la definizione di "possibile" di Diodoro: 1) possibile è ciò che è o sarà questa definizione, dice Mates, si ritrova in molte fonti antiche ma solo Boezio434 riporta le definizioni correlate di necessario, impossibile, non-necessario: 2) impossibile è ciò che essendo falso non sarà vero 3) necessario è ciò che essendo vero non sarà falso 4) non-necessario è ciò che o è falso o sarà falso Nella 1) a differenza di 2), 3), 4) manca il riferimento al valore di verità per cui Mates dice che è formulata ellitticamente e che per essere congruente alle altre dovrebbe essere 1) possibile è ciò che è o sarà vero sottintendendo con ciò una mancanza di Boezio. La stessa osservazione in Kneale è avvalorata da quella che viene ritenuta come la probabile fonte di Boezio e cioè Cicerone che dice appunto "dunque Diodoro vuole che sia possibile soltanto ciò che è o sarà vero"435. Secondo Mates Diodoro considera 2), 3), 4) come dipendenti dalla 1) e costruisce l'Argomento Dominante come giustificazione di questa sua convinzione. Diversi autori antichi menzionano l'argomento ma 432
Cfr. Mates pp.36-41; Bocheński 156-157; Kneale 142-153. Riporto "Dominante" e "Vittorioso", che traducono kyrieuon, come nei rispettivi testi. 433 Qui e di seguito mi limito a riportare l'edizione citata in Mates: Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Analyticorum priorum librum I Commentarium, Wallies ed. or. Berlino 1883 p. 184. Anche qui come sempre la traduzione dall'inglese è mia. 434 Severino Boezio, In librum Aristotelis de Interpretatione Commentaria, a cura di Carl Meiser, Leipzig 1877-80 p. 234. Di seguito menzionerò queste quattro definizioni in riferimento a Boezio. 435 Cicerone, de Fato, op. cit. 17.
360 Capitolo I sugli Stoici 360 Enzo Melandri
compare esplicitamente solo in Epitteto436. Esso è composto da tre proposizioni437 e dall'affermazione secondo cui le tre proposizioni non sono compatibili. I. II. III.
Ogni proposizione vera al/sul438 passato è necessaria Una proposizione impossibile non può seguire da una possibile Esiste una proposizione possibile che non è vera e non sarà vera439
Epitteto riferisce che secondo Diodoro la III non è plausibile e va dunque abbandonata a favore della definizione 1) del possibile "ciò che è vero o sarà vero". Continua riferendo che altri filosofi seguirono vie diverse per risolvere la questione: Cleante rifiutò la I. e Crisippo la II. Non interessa entrare qui nel merito della questione che ha suscitato diverse interpretazioni soprattutto riguardo alla inconsueta posizione di Crisippo la quale, non dimentichiamolo, risulta da fonti tarde e non necessariamente attendibili. Merita invece riferire il commento di Mates: "È considerevole il fatto che nessuno abbia mai posto in dubbio che le tre proposizioni siano incompatibili. La questione è: perché sono incompatibili? È ben difficile trovare evidenza sufficiente anche solo per indovinare una risposta". A questo proposito i Kneale dicono "Al lettore moderno, solo un asserto riesce ineccepibile in questo ragionamento. È la seconda proposizione, una ben nota tesi di logica modale, che, come abbiamo visto, era già nota ad Aristotele. È difficile comprendere perché il primo asserto sia stato generalmente accettabile, o perché si sia sostenuto che i primi due asserti comportassero la negazione del terzo". 436
Epitteto, Dissertationes ab Arriano digestae, ed. Schenkl, II, 19, 1; VSF CA 489. "Proposizioni" è il termine usato in Mates e Bocheński; in Kenale si preferisce il termine più neutrale "asserto" adducendo, p. 143, la seguente spiegazione: "La forma di queste definizioni palesa che ciò che Diodoro considera possibile, impossibile, necessario, nonnecessario, non sono gli eventi, poiché egli assume che gli aggettivi modali convengano agli stessi soggetti cui convengono i predicati 'vero' e 'falso'. È difficile nondimeno caratterizzare esattamente questi soggetti. Non sappiamo dire con certezza se, per Diodoro, ciò che è chiamato vero o falso, necessario o impossibile, sia un enunciato indicativo, o una proposizione in senso moderno, o un tertium quid distinto dall'uno e dall'altra. Il greco e il latino, con la loro libertà di usare come nome il neutro degli aggettivi (aggettivo neutro sostantivato), si presentano eminentissimamente a mantenere tale ambiguità". 438 A proposito di questa ambiguità si veda oltre. 439 In Kneale e Bocheński è omessa la quantificazione esistenziale. Kneale: ciò che né è, né sarà, è possibile; Bocheński: è possibile ciò che né è né sarà vero. 437
Titolo del Capitolo I 361 Lezione XIV 361
In testa alla breve sezione dedicata alle modalità Bocheński scrive: "Essa [la modalità] sembra essere un tentativo di ridurre la necessità e la possibilità alla semplice esistenza mediante variabili temporali, un procedimento pienamente consono al punto di vista empirico di questi pensatori". A proposito dell'Argomento Vittorioso Bocheński scrive: Sfortunatamente questo è l'unico testo realmente esplicito riguardante il celebre argomento vittorioso di Diodoro. Esso non ci permette di abbracciare l'intero problema perché non conosciamo il motivo per cui le tre proposizioni debbano essere incompatibili. Una cosa sembra chiara: che la possibilità era definita nel modo seguente: 1' p è (ora) possibile se e solo se p è vera o sarà vera in un istante futuro
Ciò che corrisponde alla nostra 1). Le tre altre proposizioni tratte da Boezio sono analogamente riformulate: 2' p è (ora) impossibile se e solo se p non è vera e non lo sarà mai 3' p è (ora) necessaria se e solo se p è vera e lo sarà sempre 4' p non è (ora) necessaria se e solo se p non è vera o non sarà vera in un istante futuro".
Due considerazione su Mates: - la prima: nell'inglese la I. è Every proposition about the past is necessay. Mates non si pone il problema posto da Kneale ossia se sia corretto intendere "ogni proposizioni sul passato" oppure " ogni proposizione al passato". Bocheński scrive "tutto ciò che è vero del passato" che assimilerei a "sul passato"; - la seconda: nella II Mates sostiene che Diodoro usa "segue da" intendendo la conseguenza logica non temporale poiché usa lo stesso termine (akolouthein) usato nella discussione intorno al condizionale. Mates fa notare la validità delle relazioni che intercorrono tra le quattro definizioni riportate da Boezio440. A titolo riassuntivo propongo un mio schema (14.1.) di interpretazione delle quattro definizioni temporali del possibile e del necessario all'interno dello schema tradizionale delle modalità aristotelico-leibniziano.
440
Mates p. 37.
362 Capitolo I sugli Stoici 362 Enzo Melandri
Si legga la proposizione p come vera in un certo momento t e t0 come presente, t1 come futuro. Altre brevissime considerazioni: - La concezione megarico-stoica è incompatibile con la modalità in senso moderno. Forse bisognerebbe dire che far dipendere il modo dal tempo è opposto alla modalità come la concepiamo noi secondo cui, per esempio, necessaria è una proposizione indipendentemente da qualsiasi cosa accada nel mondo in qualsiasi momento; - Nessuna delle quattro definizioni riportate da Boezio riguarda il passato. - La II. non contiene variabili temporali.
Schema 14.1. Quadrato delle modalità aristotelico-leibniziano e loro interpretazione temporale
Ciò detto ascoltiamo Melandri. Dovremmo adesso affrontare l'argomento di Diodoro Crono. Dal punto di vista aristotelico abbiamo l'essere e i modi dell'essere: possibile, reale; quindi il tempo come mediazione tra il potenziale e l'attuale441. Dobbiamo invece partire dal tempo per definire i modi. Leggo nel Kneale e Kneale442: 441 A proposito della ripetizione di questa premessa si legge in Kneale: "Secondo Aristotele, i megarici del suo tempo sostenevano non doversi distinguere tra potenzialità ed attualità. Nonostante la sua stranezza, questa tesi è abbastanza naturale tra gli eleati, poiché, come aggiunge Aristotele [Met. 1046 b 29], essa in pratica equivale a negare qualsiasi movimento. Ma se
Titolo del Capitolo I 363 Lezione XIV 363
Secondo Alessandro, Diodoro costruì l'Argomento Dominante per stabilire la propria definizione di possibilità, ma uno studioso moderno ha avanzato l'ipotesi che il titolo si riferisca al predominio del fato.
Lo studioso moderno sarebbe Schuhl443, ma è chiaro che lo studioso moderno è fuori strada. Perché vedete come si accordi bene quello che qui dice Kneale con quanto vi dicevo ieri, è una definizione del possibile dal verbo. Qui Melandri sostiene, non solo la tesi della definizione della modalità logica a partire dal tempo, ma anche quella della rilevanza della grammatica sulla definizione della modalità. La consapevolezza crescente degli usi linguistici (ricordiamoci che il greco non è la lingua madre di Zenone e Crisippo) avrebbe avuto un'influenza sulla concezione della modalità. Non si creda di ravvisare in ciò una propensione oxoniense. Semplicemente: chi vuole scrivere una grammatica è costretto a riflettere sul funzionamento del linguaggio. Non credeteci immediatamente, adesso bisogna sviscerare l'argomento444.
essa fosse corretta le parole 'possibile' e 'necessario' sarebbero parimenti superflue. Quindi, stupisce non poco trovare che i megarici della generazione dopo Aristotele discutessero molto seriamente di questioni di logica modale. 442 In corrispondenza al passo riportato nel Kneale a p. 144 di Epitteto Diss. II, 19, 1-4. che vedremo abbiamo in VSF il fr. CA 489 [1]) che riporto qui per completezza: "L'argomento del Dominatore sembra procedere da queste premesse. Le seguenti affermazioni sono in contraddizione reciproca: 'tutto ciò che nel passato si è veramente realizzato è necessario'; 'l'impossibile non deriva dal possibile'; 'c'è un possibile che non è vero ora, né lo sarà'. Avendo colto la contraddizione, Diodoro utilizzò la verosimiglianza delle prime due proposizioni per formulare l'affermazione: 'non c'è possibile che non è o sarà vero'. Qualcuno potrebbe, però tenendone buone due, formulare l'altra in tal modo: 'c'è qualcosa di possibile che ora non è vero e che neppure lo sarà in futuro'; 'l'impossibile non segue dal possibile; dunque 'non tutto ciò che è avvenuto in passato è necessario'. Questo sembrano sostenere i seguaci di Cleante, con il quale Antipatro era in perfetto accordo. Altri però mantengono le altre due proposizioni, formulando la seguente argomentazione: 'c'è qualcosa di possibile che ora non è vero e che neppure lo sarà in futuro' e 'tutto ciò che nel passato si è veramente realizzato è necessario': allora 'l'impossibile deriva dal possibile. Comunque non è possibile mantenere tutte e tre le affermazioni, perché fra loro c'è conflitto". 443 P. M. Schuhl, Le dominateur et les possibles, Presses Universitaires de France, Parigi 1960. 444 La separazione grafica e la numerazione le introduco io per facilitare le comparazioni che seguiranno.
364 Capitolo I sugli Stoici 364 Enzo Melandri Epitteto ce ne dà l'unica descrizione completa 445: L'Argomento Dominante sembra sia stato formulato movendo da premesse come quelle che seguono. V'è un'incompatibilità tra le seguenti proposizioni: i Ogni cosa, che è passata e vera, è necessaria ii L'impossibile non segue dal possibile iii Ciò che né è, né sarà, è possibile In considerazione di questa incompatibilità, Diodoro usò l'attendibilità delle prime due proposizioni per stabilire la tesi che è possibile solo ciò che o è vero, o sarà vero.446
Vediamo di formularla bene. Dunque avete capito, stiamo seguendo questa seconda ipotesi: definizione delle modalità, in primo luogo del possibile, a partire dal tempo447. L'argomento di Diodoro Crono detto Argomento Dominante, che non si sa cosa vorrebbe dimostrare e come minimo però definisce l'uso di "possibile", è il seguente. Prima proposizione: tutto ciò che è o è stato è necessario448 dunque "necessario" significa essere presente o essere stato. Controlliamo per vedere se va bene: [i'] ogni cosa, che è passata e vera, è necessaria449
445
Da qui i Kneale citano Epitteto. Per il commento relativo in Kneale si veda quanto sopra nella mia presentazione riassuntiva dell'Argomento. 447 S'intenda che la prima ipotesi è quella della modalità definita a partire dal modo per approdare al tempo. 448 Considerato come si è detto e ribadito più volte, che la modalità stoica riguarda le proposizioni, "ciò che è o è stato" va inteso come forma ellittica di "ogni proposizione su ciò che è o è stato". 449 Vale quanto detto nella nota precedente: per "ogni cosa" si legga "ogni proposizione"; si può riformulare così: "ogni proposizione sul passato vera nel passato e vera nel presente è necessaria". Si noti che la [i'] rende esplicita l'inclusione del necessario nel presente. 446
Titolo del Capitolo I 365 Lezione XIV 365
__ |_______________|)_______________| + 0 N presente Schema 14.2. Rappresentazione temporale della nozione di Necessario
vuol dire che definisco come necessario l'intervallo tra il passato e il presente incluso il presente. Va bene? Non ci sono obbiezioni no? Seconda proposizione: [ii'] l'impossibile non segue dal possibile Se x è possibile ne consegue che non è impossibile x; scusate è tanto banale che mi riesce difficile da dire, se qualcosa è possibile non è impossibile, la conseguenza viene interrotta450 Px ⎯/→ ~Px l'impossibile non segue dal possibile Potete anche fare così: Pp → ~(~Pp) se possibile p allora non impossibile p Cosa significa "possibile"? Melandri qui non illustra la terza proposizione dell'Argomento Vittorioso: ciò che né è, né sarà, è possibile, bensì la proposizione 1): possibile è ciò che è o sarà, e cioè quella che Diodoro (secondo Epitteto) avrebbe preferito alla terza ritenendo quest'ultima incompatibile con le prime due.
450
Le formule sono nei miei appunti.
366 Capitolo I sugli Stoici 366 Enzo Melandri
Significa essere presente451 o essere futuro; di nuovo voi avete la rappresentazione del tempo che non presenta alcun problema:
__ |______________(_|_______________| + 0 P Schema 14.3. Rappresentazione temporale della nozione di Possibile
il presente questa volta è un limite incluso nel possibile. Cos'è che è possibile? Possibile è ciò che è presente e inoltre ciò che è futuro. A questo punto Melandri passa alla definizione di impossibile negando diametralmente lo schema 14.3.: L'impossibile sarà la negazione di questo schema, ossia
~ [ _ ______________(0______________ +] P Schema 14.4. Rappresentazione temporale della nozione di Impossibile
se con essere presente mettiamo p, con essere futuro mettiamo q avremo: ~P = ~(p v q) = ~p . ~q452 ossia il non essere presente e il non essere futuro sarebbe l'impossibile. Però secondo la 2 noi non possiamo dire questo.
451
Di nuovo un'ellissi: essere presente = essere una proposizione vera nel presente. Questa trasformazione segue dalla seconda legge di De Morgan: Prima legge di De Morgan: ~( p . q ) ≡ (~p v ~q); seconda legge: ~ (p v q) ≡ ~p . ~q 452
Titolo del Capitolo I 367 Lezione XIV 367
Se Melandri con "la due" intende la seconda proposizione dell'Argomento Vittorioso (l'impossibile non segue dal possibile) ammetto di non capire perché non possa seguirne la definizione di impossibile come non vero al presente e non vero al futuro (che peraltro è identica alla definizione di Boezio: 2 e/o 2'). Andiamo oltre. L'argomentazione passa alla definizione di nonnecessario negando la [i'] e illustrando la negazione dello schema 1. Il non-necessario che cosa sarebbe? Sarebbe ~N = ~(p v r) = ~p . ~r non p vel r il quale equivale a non p e non r453. Da questo si deduce che: affinché dal possibile non segua l'impossibile non può esistere l'indeterminatezza espressa dai due contraddittori. Non so se lo vedete. Il passaggio formale non credo che sia possibile farlo. Aiutatemi voi se ci riuscite, non credo che sia possibile fare il passaggio formale perché non è contenuto nelle premesse, è contenuto nel sistema. Purtroppo devo ammettere che un'altra volta non vedo cosa intenda Melandri. La richiesta di aiuto rivolta all'ascoltatore durante la lezione valga come invito al lettore alla ricerca di un'interpretazione per la conclusione che segue: Secondo me tutto questo porta a concludere che: N (p → p) il senso debole del determinismo. Che il presente implichi se stesso come necessario, che il presente implichi necessità a se stesso. Il che viene a escludere ogni teoria del possibile come contingente.
453 r = essere passato = essere una proposizione vera sul passato; la trasformazione sempre per De Morgan.
368 Capitolo I sugli Stoici 368 Enzo Melandri
L'esclusione del possibile come contingente varrebbe come soluzione dell'ambiguità aristotelica. Si è visto che Aristotele dà una definizione del possibile che talvolta esclude il necessario talaltra lo include. Dal punto di vista ontologico (de re) il possibile è definito come dynamenon. Nella lezione X, si diceva: il dynamenon è definito come ciò che ha la potenza dell'essere, dell'on e anche del me on del non essere. È la definizione che Aristotele dà del dynamenon : cos'è l'ente il potenza? È quello che può esserci e può anche non esserci [e] se qualcosa ha la possibilità dei contrari non può essere necessario. Mentre dal punto di vista logico (de dicto) il possibile è dynaton. Come si è visto in quello che abbiamo chiamato "schema neutrale" e che corrisponde al fondamento di ogni logica modale: dal necessario si inferisce l'esistente, dall'esistente il possibile. Diciamolo con le parole di Matteuzzi: "Aristotele si incarta sulla doppia accezione del possibile, che per un verso si vorrebbe comprendere il necessario, e per un altro coincidere con il contingente. Nel cap. 13 del Dell'espressione Aristotele vorrebbe che si desse: N(p) → P(p) e anche che P(p) → P(non-p) ma non l'ovvia conseguenza N(p) → P(non-p)"454
454
Da una comunicazione privata.
Titolo del Capitolo I 369 Lezione XIV 369
Se assumiamo che il possibile è ciò che è o che sarà, escludiamo il caso che il possibile non sia. Ciò avvalora l'interpretazione dell'Argomento Vittorioso secondo cui la proposizione incompatibile è possibile è ciò che né è né sarà e conclude: possibile è ciò che è o sarà. L'argomento ha un andamento sofistico nel senso che questa necessità del presente è una necessità del limite che abbiamo posto. Il presente una volta viene assimilato al passato nel senso che ciò che è passato non si può più modificare. Però il presente viene assimilato anche con il futuro nel senso che è possibile ciò che in qualche modo sarà nella continuazione dei tempi. Questa doppia implicazione del presente come limite incluso da una parte e dall'altra fa sì che il presente venga visto come necessario. Ma l'argomento non è sofistico, se guardate bene la differenza su cui attirare la vostra attenzione, perché un conto è dire che se p allora è necessario p, questo non viene mai detto; sarebbe come dire adesso se piove, è necessario che piova, che può anche essere vero ma bisognerebbe conoscere tutte le condizioni metereologiche455. Che poi diventa più dubbio se pensate agli umani. Io ho il gesso in mano ed è necessario che tenga il gesso in mano così, non così o così. Nei fatti di carattere umano, dove interviene la volontà, è più dubbio. Non voglio dire che sia una grande obiezione, voglio dire che il determinismo viene a cozzare con l'esperienza vissuta che noi abbiamo per cui ci sembra di esser liberi. Non c'è nessuna dimostrazione possibile da dare riguardo a se p allora è necessario che p; mentre necessariamente se p allora p è molto più sottile, sembra banale ma è sottile. Come argomento non è formalizzabile perché contiene il tempo e contiene l'esistenza. Si considera l'esistenza necessaria in quanto passata, possibile in quanto futura purché si realizzi. Queste sono presupposizioni di carattere non logico. Tuttavia, una volta che uno le abbia accettate, come potremmo consi455 Forse Melandri pensa a Leibniz per il quale il necessario deve essere calcolabile in un numero finito di passi mentre dal punto di vista umano il calcolo necessiterebbe di un numero infinito di passi essendo le condizioni in divenire. Solo Dio può prescindere dalla dimensione temporale.
370 Capitolo I sugli Stoici 370 Enzo Melandri
derarle? Potremmo considerarle come dei postulati empirici456. Una volta accettate la modalità è intelligibile. Nel modo come io ve lo presento, provate a rifarlo voi in altri modi, l'argomento di Diodoro Crono non dimostra la totalità degli eventi, sarebbe stupido se cercasse di dimostrare questo. Secondo me l'argomento di Diodoro Crono dimostra che è possibile definire le modalità a partire dal tempo. In particolare possiamo definire necessario ciò che è stato; possibile ciò che è attuale o futuro purché in qualche modo si realizzi, perché se non si realizzerà mai allora sarà l'impossibile. Lo vedete dalle definizioni reciproche457. Chiaro che qui noi stiamo partendo da presupposti di carattere complesso per definire cose semplici458. Quindi dal punto di vista logico nessuna meraviglia che non ci vada molto bene. Il modo aristotelico è più bello perché parte da una matrice atemporale, dove il tempo è dentro la matrice. Voi capite che il mondo si divide in due parti, quello che è possibile e quello che è reale. Nel reale ci saranno il necessario e il contingente, il tempo è dentro la matrice, serve solo a spiegare perché quello che è possibile non è reale. Lo spiega ma non lo prevede: è il prezzo da pagare per questa spiegazione. Voi potete spiegare perché quello che è reale è diventato reale ma non potete prevedere, d'ora in poi, cosa di ciò che è possibile sarà reale. Lo schema stoico parte da una presupposizione complessa; da questo complesso, che però per gli antichi poteva apparire più semplice, deduce la modalità. Il presupposto è più stretto. Noi qui tendiamo a dire che esiste ciò che rientra in un ciclo [di combinazioni]. Lo vedete? Non è che preveda molto di più data la povertà della scienza empirica [di allora]. Però vedete subito come questo corrisponda un po' a un modo di pensare in 456
È forse questo l'unico senso in cui, secondo Melandri, si può intendere il pensiero stoico come empirico ovvero laddove partire dal tempo per definire la modalità implica assunzioni metalogiche di carattere empirico. 457 Mates p. 37. 458 I presupposti di carattere empirico complicano, vorrei dire inquinano il pensiero logico; per citare di nuovo Matteuzzi (da una comunicazione privata): "un sistema logico sarà tanto migliore quanto minore è il così detto ontic commitment".
Titolo del Capitolo I 371 Lezione XIV 371
cui si azzardano previsioni in base a un calcolo combinatorio già dato. Noi diciamo per esempio che la luna girando intorno alla terra e al sole attraverso i moti delle maree perde una quantità di movimento. È molto poco però tra un numero n di anni, perdendo la capacità di moto, la luna in base alle maree della terra e all'attrazione del sole, sarà costretta a cadere pian piano sulla terra, finché arrivando a quello che è il raggio critico le forze combinate dell'attrazione terrestre e del sole la spezzeranno, un mucchio di detriti cadranno sulla terra e l'effetto complessivo sarà quello di un anello tipo Saturno. Noi questo possiamo prevederlo. C'è una legge di meccanica celeste che dice questo. Vedete che noi qui operiamo con un concetto di prevedibilità. Aristotele ci direbbe solo che se un pianeta è un pianeta deve stare da qualche parte e girare intorno [al suo sole], lo dice nei Secondi Analitici. Nei Secondi Analitici Aristotele, che ha tenuto conto del modo in cui deve dimostrare i teoremi, non entra in merito alla geometria, dice semplicemente che ogni giudizio corretto ha una forma valida. Se p allora q e, se p allora q allora r, allora r459. Aristotele non interviene mai in merito a cosa venga dimostrato nel teorema di Pitagora o in altri teoremi, dice solo che, dal punto di vista logico, quando le premesse contengono la verità delle conclusioni allora si conclude. Non si preoccupa nel modo dei geometri di dimostrare la verità, dice solo che dato che quelle sono le premesse e questa la conclusione, la verità delle premesse è sufficiente a concludere, del tutto in generale, senza entrare nel merito. È per questo che Aristotele non ha mai potuto dimostrare l'induzione matematica, se non attraverso il concetto di intuizione. C'è una notevole differenza, capite, perché in Aristotele la visione generale è data astrattivamente, non è data epistemicamente; non si riflette sul modo in cui i geometri pongono un certo teorema per ricavarne delle indicazioni che possono essere più generali, si riflette semplicemente sul fatto che, data l'ipotesi e date le tesi, va bene la conseguenza che ne vien fuori, non importa come. 459
(p→q) . [(p→q)→r]→r
372 Capitolo I sugli Stoici 372 Enzo Melandri
I Kneale commentano: Al lettore moderno solo un asserto riesce ineccepibile in questo ragionamento. È la seconda proposizione. È difficile comprendere perché il primo asserto sia stato trovato generalmente accettabile, o perché si sia sostenuto che i primi due asserti comportassero la negazione del terzo.460
Vi avevo detto che secondo me conclude così. Non ve l'ho dimostrato perché come vedete tutta la scienza ufficiale concorda con me nel dire che non si capisce molto bene questo argomento. Il secondo asserto è chiaro, per forza, è tautologico! Il primo e l'ultimo comportano assunzioni complesse intorno al tempo; però si può fare un piccolo sforzo di fantasia per dire: delle due l'una, o partiamo dal modo per definire il tempo o viceversa. Se partiamo dal tempo per forza ci troviamo a che fare con proposizioni complesse. Il fatto che a noi risultino ostiche vuol dire quanta strada ha fatto Aristotele dentro la nostra testa. Aristotele è strisciato dentro la nostra testa per cui ci risultano incomprensibili asserti leggermente diversi dai suoi. Ed è appunto con questo tentativo di opporsi ad Aristotele che vi invito a seguire le tremende lezioni che seguiranno.
460
Kneale p. 144.
Lezione XV
15.1. L’argomento Vittorioso II La lezione riprende dalla conclusione della precedente. Nell'argomento di Diodoro Crono il possibile (proposizione III e/o iii) viene definito come ciò che non è vero e non sarà mai vero; questa proposizione è incompatibile con le due che la precedono; se ne conclude che il possibile deve essere definito come ciò che è vero o sarà vero. Il cosiddetto kyrieuon logos l'Argomento Vittorioso dimostra ciò che vi ho detto, cioè che non si può parlare di possibile se non sottintendendo che ciò che è possibile o è vero o sarà vero e non si può assumere che il possibile sia dato da ciò che non è vero e non sarà vero. Il problema che si va affrontando è quello dell'asimmetria, o doppia valenza, del presente che compare come limite incluso sia nel possibile che nel necessario. Qui, vedete, c'è un primo problema dovuto all'asimmetria temporale. Però vogliamo vedere se riusciamo a capirlo meglio. Con asimmetria temporale intendo il fatto che il necessario vien definito in rapporto al passato e/o al presente; il pos-
373
374 Capitolo I sugli Stoici 374 Enzo Melandri
sibile vien definito in rapporto al presente e/o al futuro. Non capisco, non si capisce perché questa duplicazione della matrice. Dunque poniamo: t0 per indicare il presente t1 per il futuro t -1 per il passato461.
Schema 15.1. Passato presente futuro
Tutti i tempi, passato presente e futuro, li indicheremo con un t. Se voglio dire che il necessario è ciò che è vero in tutti i tempi indico Vt, ciò che è vero in tutti i tempi: N = Vt = Vt -1 . Vt0 . Vt1 Nella definizione di Diodoro Crono la prima formula è: necessario è ciò che è vero del passato, vero in t -1, oppure ciò che è vero nel presente, vero in t0. La prima proposizione dell'argomento come compare nella traduzione dei VSF "tutto ciò che nel passato si è veramente realizzato è necessario" ha una forte connotazione ontologica. Melandri la legge nel senso de dicto, come nella traduzione del Kneale: "Ogni cosa, che è passata e vera, è necessaria" dove per "passata e vera" va inteso, credo, "passata e vera al presente; e per "cosa" va inteso proposizione, come si vede di seguito; sviluppando completamente l'ellissi si avrebbe: ogni proposizione sul passato vera nel passato e vera nel presente, è vera; che è quanto giustifica Melandri nell'assumere il presente come parte della definizione del necessario. 461
Tutti gli schemi sono negli appunti.
Titolo del Capitolo I 375 Lezione XV 375
Questo "oppure" è puramente fraseologico perché risulta che se è necessario qualcosa nel passato oppure è necessario nel presente, allora è necessario nel passato e nel presente. Vt -1 v Vt0 = Vt -1 . Vt0 Dunque: N = Vt -1 . Vt0 Ora qui non si capisce bene perché in questa definizione venga omesso il futuro; se qualcosa è vero necessariamente deve essere vero anche nel futuro. Se c'è una restrizione conoscitiva, allora l'argomento forse va intonato su due diverse esigenze, una logica che imporrebbe di dire vero è ciò che è necessario in tutti i tempi e un'esigenza gnoseologica che ci costringe a restringere tutti i tempi al passato e al presente. Però la prima formula dovrebbe essere: N = Vt -1 . Vt0 . Vt1 Questa è la prima definizione dell'argomento detto Vittorioso. Ed è la definizione di che cosa significa "necessario". Distinguiamo dunque due definizioni: una gnoseologica, che è quella che compare nell'argomento di Diodoro: N = Vt -1 . Vt0 e una logica che eliminerebbe l'asimmetria temporale: N = Vt -1 . Vt0 . Vt1 È una definizione largamente accettata: ciò che è necessario è vero in tutti i tempi. Cos'è che è vero? Proposizione per pro-
376 Capitolo I sugli Stoici 376 Enzo Melandri
posizione, va bene? Per ogni proposizione una proposizione si dice necessaria se e solo se essa risulta vera in ogni momento del passato compreso il presente [e sarà vera nel futuro]. Non è difficile. La seconda premessa dell'argomento dice: dal possibile in ogni tempo consegue non l'impossibile in ogni tempo. Se una proposizione è possibile, il tempo bisogna specificarlo quindi mettiamo in ogni tempo, dal possibile non consegue l'impossibile; l'impossibile lo mettiamo come non possibile in ogni tempo. L'impossibile non segue dal possibile, lo metto in questa forma: Pt →~ ¬Pt462 Avevo fatto notare nella lezione precedente che la seconda proposizione non contiene variabili temporali e Melandri assume che nessuna specificazione temporale equivale a vero in ogni tempo. Potrebbe profilarsi un appiattimento della temporalità, un collassamento della logica temporale sulla logica atemporale. Ma vediamo. La terza proposizione. Non è che del possibile possiamo avere due diverse definizioni, o assumiamo quella secondo cui è possibile ciò che ora è vero o sarà vero oppure, l'altra definizione, quella secondo cui il possibile è ciò che non è vero e può anche non essere mai vero. Se applichiamo De Morgan alla terza proposizione dell'Argomento Vittorioso [ciò che non è vero e non sarà mai vero] abbiamo: 3)
P = ~( Vt0 v Vt1) = ~ Vt0 . ~ Vt1
La teoria sarebbe che è possibile ciò che, può non essere vero, e può anche non essere mai vero in futuro.
462
Rispetto gli appunti che riportano due segni di negazione diversi.
Titolo del Capitolo I 377 Lezione XV 377
Questa definizione del possibile è in pieno accordo con la nozione di dynaton di Aristotele e se Diodoro ritiene che sia questa la proposizione incompatibile con le altre due, allora Diodoro contesta la definizione di aristotelica. Siccome devo togliere il "può" dalla definizione di possibile (devo togliere al definiens ciò che appartiene a definiendum, se no vado in circolo) ottengo: possibile è ciò che non è vero e ciò che non sarà mai vero Nella lezione precedente: iii e/o III. L'argomento di Diodoro Crono dice: queste tre premesse sono incompatibili tra loro. Allora o neghiamo la seconda o neghiamo la terza, o se volete, neghiamo la prima463. La prima vien lasciata stare. Il problema è se negare la seconda o la terza. Gli Stoici464 dicono: è ripugnante negare la seconda quindi dobbiamo negare la terza. Negando la terza si ottiene la conversa: possibile è ciò che è vero o nel presente o nel futuro465 P = Vt0 v Vt1 15.2. Modalità e gnoseologia Ecco adesso credo di avervi mostrato qual è l'argomento. I punti dubbi sono tutti e tre volendo no? Perché non è detto che la necessità debba enunciarsi in questa maniera. Per fare un esempio, noi oggi non diremmo direttamente che necessario è ciò che è vero in tutti i tempi, diremmo un po' più para463 Come si è visto Cleante negò la prima, Crisippo la seconda mentre a Diodoro sembrano più plausibili le prime due, Cfr. Mates p. 38. 464 Gli "Stoici" sono le fonti che in generale attribuiscono a Diodoro questa scelta. Come si è detto Crisippo nega proprio la seconda ma l'argomento riportato in VSF Bl 202a sembra piuttosto sofistico e comunque Melandri non vi fa cenno. 465 Come si è già visto questa conclusione è identica alla definizione 1) di possibile in Boezio.
378 Capitolo I sugli Stoici 378 Enzo Melandri
frasticamente che necessaria è una conclusione dato che lo siano le stesse premesse, e questo lo metteremmo come valido in tutti i tempi. Diremmo che un satellite, a determinate condizioni non è più un satellite; che per un razzo, se lo sparate con una data velocità e posto che ci siano determinate condizioni, posto che tutto funzioni bene, necessariamente questo deve succedere. In tutti i tempi? Sì in tutti i tempi. In fondo non occorre nemmeno dirlo. Che cosa sia vero in tutti i tempi può non essere molto chiaro perché le nostre fondazioni deterministiche sono circostanziali, qui ci siamo? Poi vedete, c'è quel fatto che a me personalmente disturba a cui accennavo prima, il necessario è enunciato sul passato con l'inclusione del presente, non è enunciato sul futuro. E siccome la questione è di definire la modalità attraverso il tempo, la questione disturba, magari non c'entra niente però un po' disturba. Il fatto è che questa formulazione poi ha un seguito molto lungo, la formulazione "vero in tutti i tempi" non è famigliare a livello contemporaneo, però corrisponde a un'idea di Leibniz, quella dei mondi possibili: che ciò che è necessario sia vero in tutti i mondi. Definizione apparentemente tautologica che pure ha delle grosse conseguenze perché dipende da come si formula l'idea di mondo possibile, con quale tipo di cannocchiale logico andiamo a esplorare il mondo possibile. Questo ultimo punto, l'accenno ai mondi possibili, diventa rilevante per discutere la seconda proposizione: è vero o non è vero che dal possibile non segue l'impossibile? Nella teoria dei mondi possibili la questione risulta un pochino intuitiva perché se noi assumiamo una relazione di compossibilità abbastanza debole è possibile che, in successivi passaggi, quel che nel nostro mondo non è possibile sia possibile in un altro. Facciamo un esempio facile: se noi troviamo una relazione abbastanza debole come quella di essere-quasi-uguale nel tempo di due sassi, e che il quasi-uguale si debba giudicare a mano, tastando, posso dire che a è quasi-uguale a b, poi b è quasi-uguale a c, eccetera; quando arrivo a n può darsi che n-1 sia quasi-
Titolo del Capitolo I 379 Lezione XV 379
uguale a n ma che a e n siano molto differenti. Questo esempio è di Poincaré. Se noi assumiamo una relazione debole possiamo fare una catena di quasi-equivalenze i cui termini estremi son tutt'altro che equivalenti anche rispetto al nostro più grossolano strumento di misura. Se noi come relazione di compossibilità assumiamo una relazione che non sia totalmente riflessiva, che sia quasi-riflessiva466, è possibile che passando da un mondo a un altro, l'ultimo dei mondi così visitati non somigli più affatto a quello da cui eravamo partiti e in particolare può darsi che ciò che è impossibile nel mondo a non sia più tale nel mondo n. Dipende dalla debolezza logica della relazione che assumiamo come fondamento. E vi ho già detto diverse volte che dal punto di vista logico è molto più interessante studiare le relazioni deboli che non quelle forti. Perché se io assumo come criterio di compossibilità una identità rigida, autoriflessiva [come la relazione di equivalenza ], evidentemente non ha alcun senso parlare di mondi possibili perché tutti quanti collassano in quello che io conosco. È intuitivo anche questo. Se definiamo mondo possibile come M, assumendo la relazione di equivalenza avremo: M1 equivale a M2 … equivale a Mn-1 equivale a Mn. Se assumiamo invece che M1 è quasi-equivalente a M2 … e Mn-1 è quasi-equivalente a Mn avremo che Mn può essere molto diverso da M1 . Quindi la seconda proposizione dell'argomento Vincitore è abbastanza intuitiva se assumo che tutto il mondo è il mondo che io conosco. Va bene per gli Stoici, non andrebbe bene per Epicuro che è il primo teorizzatore di mondi possibili, gli intermundia, teorizzatore del mondo contingente persino nella sua logica. Quindi è tutt'altro che assodato [che la seconda proposizione sia indiscutibile]. Cosa diremmo? Diremmo che il principio per cui dal possibile non segue l'impossibile è valido date certe restrizioni. Non è valido in tutti i mondi possibili a 466
Mentre la relazione di equivalenza è riflessiva simmetrica e transitiva, la relazione di quasi-equivalenza è antiriflessiva, simmetrica e intransitiva.
380 Capitolo I sugli Stoici 380 Enzo Melandri
meno che non assumiamo una determinata definizione della relazione di compossibilità. Relazione che, a quanto mi risulta, da Leibniz è stata studiata come riflessiva e simmetrica, però non ci giurerei; quindi nel senso detto da Leibniz è tautologica e collassante nell'unico mondo che conosciamo; però non è detto che debba esserlo. È interessante notare che nemmeno per gli antichi era detto, vero? Perché c'è il controesempio della filosofia epicurea rispetto a quella stoica. Teniamo presente che gli antichi non avevano i nostri strumenti analitici, in particolare non avevano alcuna possibilità di pensare in maniera metalogica, le loro risposte erano sempre a livello oggettuale, sempre a livello –1467 per cui era molto difficile esprimere questioni così formali. Forse per questo, per compenso, erano molto più acuti di noi in certe cose. 15.3. Modalità e ontologia Il terzo punto e il secondo sono fortemente legati tra loro, nevvero, c'è sempre in questione il possibile. Il terzo punto sembra essere un'obiezione a Aristotele. Perché per Aristotele c'è un possibile che non è mai in atto, la materia no? La materia prima è pura dynamis, potenza allo stato puro, non è mai in atto la materia prima perché quando si attua non è più materia, non è più materia prima, è materia concretizzata, è qualcos'altro. Tanto più che la nozione aristotelica di dynamis come la possibilità di essere o la possibilità di non essere è una definizione che include la concezione del possibile come ciò che può non realizzarsi mai. Non è un caso, appartiene alla teoria delle categorie aristoteliche la concezione per cui le categorie non hanno bisogno di realizzarsi; in questo senso sono metastoriche, sono al di sopra del divenire. E con dottrina delle categorie intendo alludere a quella che propriamente non è una categoria, è una metacategoria: il modo d'essere possibi-
467 Cfr. LC § 28: "La semantica deve ammettere almeno tre livelli. C'è il livello 0 del linguaggio-oggetto, quello 1 del metalinguaggio e quello –1 degli oggetti extralinguistici".
Titolo del Capitolo I 381 Lezione XV 381
le, che si contrappone al modo d'essere in atto, reale468. È una categoria perché io posso parlare di enti possibili secondo Aristotele, per esempio posso parlare della ghianda come ciò che è in potenza una quercia. È una potenza relativa, s'intende, ma dentro il sistema è tutto relativo. Se parlo di una ghianda in atto è solo una ghianda, se parlo invece della quercia che vien fuori da quella ghianda, la ghianda è una quercia in potenza. Il passaggio dalla potenza all'atto è dato dalle circostanze ambientali: qualora siano date queste circostanze il passaggio è assicurato; quindi è l'atto che guida la potenza, dove con atto dobbiamo intendere le circostanze in atto. Io direi che non è scorretto parlare della dynamis in Aristotele come di una sorta di categoria, non si può dire così perché la distinzione tra dynamis e energeia, tra potenza e atto, attraversa tutte le categorie. È un po' uno statuto speciale. Però siccome il criterio della categoria è quello di dividere gli enti in due parti complementari, io lo posso applicare dentro ogni categoria e anche fuori dalle categorie per dividere tutto il mondo in ciò che è in atto e ciò che è in potenza e non in atto. La dottrina stoica, nella sua opposizione all'aristotelismo, porta a non prendere in considerazione la teoria delle categorie. Perché la teoria delle categorie è una dottrina della equivocità dell'ente, ed è mediabile al massimo nell'ente supremo come analogia dell'ente469. Ma ogni modo d'essere è in categoria e dentro ogni modo d'essere si distingue l'essere in potenza dall'esistere o essere in atto. La concezione stoica, che in questo è condivisa dagli Epicurei, dagli Scettici, dagli Empiristi, da tutti coloro che non sono nella tradizione accademicoperipatetica, è invece la dottrina dell'univocità dell'ente. Non avete altre scelte: l'ente o è univoco o equivoco perché le forme intermedie come l'analogia dell'ente appartengono 468
Cfr. Precomprensione di Leibniz, op. cit., al punto 2.3: "L’ente reale in senso ontologico (l’ontos on) o si dice in un modo solo, che è quello dell’esistenza corporea, esterna alla mente; oppure si dice in molti modi, secondo una distinzione qualitativa in categorie e/o anche secondo una differenza quantitativo-intensiva in modalità, tra un massimo e un minimo d’essere. 469 Per il riferimento a Tommaso d'Aquino e alla problematica dell'analogia dell'ente cfr. LC § 19-21.
382 Capitolo I sugli Stoici 382 Enzo Melandri
all'equivoco come le altre. È un sistema a matrice, o si è di qua o si è di là. La dottrina dell'univocità dell'ente deve abolire le categorie. Qui credo che abbiate accettato la mia correzione di quanto dice Bocheński sulla dottrina stoica delle categorie470: esiste un unico modo d'essere reale che è quello corporeo, ed è oggetto della fisica; abbiamo però anche un modo d'essere irreale che è quello mentale al quale appartengono la conoscenza, l'etica e altre cose di questo genere che però non esistono. E questa distinzione tra ciò che esiste e ciò che non esiste non è una distinzione di categorie. Difatti io non posso dividere il mondo nelle cose che esistono e quelle che non esistono. Altro è dire che etica, logica e teoria della conoscenza appartengono a ciò che non esiste. Il tavolo conosciuto è mentale oppure reale? E tutt'e due, è sempre tutt'e due, c'è il tavolo reale, quello conosciuto che è mentale ma non è che si dividono gli enti! È sempre quello: il solido buon materiale dell'albero, almeno noi speriamo che sia materiale. Il reale e il mentale sono fittizi, hanno valore per la conoscenza, però la conoscenza è fittizia471. Quanto dire che il dualismo ha valenza gnoseologica, non ontologica. Si può essere dualisti in termini di gnoseologia e dire che sia il tavolo che la rappresentazione del tavolo sono fonte di conoscenza; e si può al contempo essere monisti e dire che il mentale non ha uno status indipendente, ossia che senza cervello niente è mentale. Quindi vedete l'interesse che c'è a negare il possibile come categoria. In fondo ridurre il possibile a ciò che è o ciò che sarà, è un modo di sbarazzarsi del possibile come categoria. E qui l'argomento si trova connesso, ci scommetto la testa anche se non si trova nei testi, con l'argomento della battaglia navale di Aristotele. E non è che questo sistema sia deterministico e quello aristotelico no. In realtà il sistema aristotelico è più deterministico di questo.
470 471
Vedi Lezione XII. Il termine va inteso nel senso etimologico di formare, fingere, simulare.
Titolo del Capitolo I 383 Lezione XV 383
Si tratta poi di un determinismo razionale in Aristotele, ma anche negli Stoici quel tanto di deterministico che c'è è un determinismo dell'ordine razionale, oggettivo. Qui la tesi del determinismo, siccome debbo dire che è necessario che ciò che è sia, è alquanto più sottile. Non si ammette l'indeterminazione. È un po' diverso dal determinismo. Cioè la si ammette ma solo come intento da parte del soggetto conoscente, non come indeterminazione dell'ente reale. Tutto ciò che è, è determinato. Non è che tutto ciò che è sia necessariamente, [bensì] è necessario che ciò che è sia. Dal punto di vista della logica modale il sistema aristotelico, con o senza la correzione apportatavi da Leibniz, nella scala dei sistemi di Lewis è uno dei più potenti. Mentre questo sistema stoico è più debole. Se voi immaginate di fare la genealogia delle logiche modali secondo la maggiore o minore forza degli assiomi - il concetto di forza logica o di rapporti di forza logica va chiarito meglio, lo faremo un'altra volta – quello stoico è meno potente di quello aristotelico. Nella Dodicesima nota scritta una dozzina di anni prima Melandri scriveva: "Alle proposizioni concernenti i contingenti futuri perciò non si applica il principio di bivalenza. Sostenere il contrario vorrebbe dire ammettere la tesi metafisica del 'determinismo'. Aristotele non vuole ammettere questa tesi (sostenuta a suo tempo dai Megarici e forse a suo tempo dagli Atomisti; più tardi dagli Stoici), che contraddirebbe il criterio finalistico con cui egli spiega il divenire contingente".
La parola "determinismo" messa tra virgolette indica forse che Melandri non fosse completamente a suo agio con la tesi convenzionale del determinismo stoico. Ciò non implica tuttavia che pensasse già al determinismo stoico come ad un determinismo più debole di quello aristotelico. L'ipotesi più plausibile è che la maturazione di questa tesi sia venuta successivamente. La tesi del determinismo debole si accompagna a quella di un sistema modale più debole di quello aristotelico. Tuttavia, la ricostruzione dell'Argomento Vincitore non approda ad un "sistema modale" per cui mi pare che la debolezza (e il "peso"
384 Capitolo I sugli Stoici 384 Enzo Melandri
della debolezza) del determinismo stoico rimanga solo una supposizione che scaturisce da argomenti non ancora pienamente esprimibili. Rimane invece assodato (o quantomeno assai plausibile) che la tesi secondo la quale Diodoro con l'argomento Vincitore mirasse a definire il possibile come ciò che è o sarà, coincide col negare che l'ente esista in potenza. E ciò coerentemente con la cosmologia combinatoria degli Stoici così come la dottrina della potenza e dell'atto lo è con la metafisica biologizzante di Aristotele. Aggiungo che, al di là del sistema modale, il determinismo aristotelico a me non sembra più forte di quello stoico, vuoi perché sul fronte aristotelico nell'equivocità dell'ente sussiste l'indeterminazione del passaggio dalla potenza all'atto; vuoi perché sul fronte stoico la presenza di un tasso di indeterminazione fuori dal mondo, nello spazio vuoto, non si vede quale influenza possa avere sulla determinazione dell'ente; vuoi infine perché di fatto Aristotele arriva a sospendere il principio di bivalenza riguardo la determinazione dell'ente futuro. Probabilmente Melandri direbbe che Aristotele è costretto alla sospensione per salvare la sua dottrina della modalità mentre gli Stoici, partendo da premesse più deboli, non sono costretti ad alcuna deroga. Purtroppo non possiamo imporgli l'onere di darcene ulteriori dimostrazioni. 15.4. Fisica Vi dicevo come nel sistema stoico ci siano assunzioni che lo rafforzano psicologicamente. Il riferimento è alla lezione precedente dove si diceva: Si considera l'esistenza necessaria in quanto passata, possibile in quanto futura purché si realizzi. Queste sono presupposizioni di carattere non logico; sono presupposizioni (o assunzioni) che possono essere intese come postulati empirici che dal punto di vista psicologico:
Titolo del Capitolo I 385 Lezione XV 385
costituiscono una cognizione empiricamente nota e accettata però non consapevole. Per esempio c'è la questione che il mondo debba essere finito piuttosto che infinito, che tutti gli eventi del mondo siano analizzabili come combinazione di casi la cui formulazione più semplice è data dalla teoria atomica. Richiamo ancora la lezione precedente dove si diceva: nel sistema stoico tendiamo a dire che esiste ciò che rientra in un ciclo [di combinazioni]. Questo va bene sia agli Stoici che agli Epicurei. L'assunzione che il mondo sia finito era stata fatta da Anassagora. Io la suggerivo come linea di argomento che chiamo speculativa: non potendo sapere se il mondo è finito o infinito si fanno delle ipotesi in maniera puramente speculativa; ma operando in maniera puramente speculativa bisogna attenersi a un principio di simmetria. Se assumiamo che il mondo è infinito in estensione come numero degli atomi, dato che non ne sappiamo nulla, dovremmo anche assumere che il mondo è infinito in intensione e quindi abolire il concetto di atomo e considerare ogni atomo semplicemente come un insieme che ha infiniti sottoinsiemi. Ora da questo punto di vista l'unica teoria antica accertata è la dottrina delle omeomerie di Anassagora che però non ebbe seguito472. Non è difficile capire perché non ha avuto seguito. Da una divisione del mondo all'infinito in ogni singolo atomo consegue che la dottrina che deve spiegare ciò che appare, sia l'apparenza veritiera o ingannevole, deve operare per mezzo della mixis cioè della commistione e separazione di elementi - che poi non sono elementi. È facile capire come da questa teoria venga fuori la melassa, il mondo come melassa; sarebbe come mescolare il caffè nel latte e poi pretendere che a forza di girare per caso ritornasse tutto il caffè da una parte e tutto il latte dall'altra. Le conseguenze di una teoria di questo genere sono che non riusciamo più a spiegare nessuna diffe472
Vedi Lezione VI.
386 Capitolo I sugli Stoici 386 Enzo Melandri
renza. Quindi i casi son due: o ammettiamo una mescolanza di infinito e finito oppure dobbiamo attenerci al finito. Le teorie antiche stanno in questo enigma, o sono direttamene finitistiche oppure ammettono l'infinito come una sorta di possibilità che però [non si applica all'atomo ma al] cosmos. In una teoria finitistica si parte dagli elementi. Gli elementi possono essere atomici o meno ma questi elementi devono essere in numero finito. Gli elementi possono anche non essere atomici, possono essere qualità e non cose. La teoria atomistica è una conseguenza del finitismo applicato al concetto di cosa. Altre teorie, fra cui quella di Aristotele, e credo anche degli Stoici, considerano elementi una qualità sensibile reale, oppure supposta, dalla cui combinazione sorgono tutte le altre. In Aristotele c'è l'elenco delle qualità sensibili semplici che sono il caldo e il freddo, l'umido e il secco. Una specie di quark, se ne parla nella fusione della moderna fisica atomica. Gli elementi sono ricostruiti mediante combinazione a due a due: caldo-secco il fuoco; caldo-umido l'aria, freddo-umido l'acqua, freddo-secco la terra. Interessante è notare che le qualità sensibili sono teoriche ma diventano interpretabili a partire dal tatto, infatti il caldo e il freddo sono qualità tattili, si sentono con la pelle. E così anche umido e secco. Curiosa questa concezione di Aristotele del pensiero materialistico. Non è la visione, come in Platone, l'elemento conoscitivo primordiale, bensì il tatto. La vista non fa altro che confermare i contatti locali. Voi sapete che lo spazio non fa parte del luogo, lo spazio è occupato dalla geometria e cioè da uno studio delle proprietà astratte degli enti matematici. La stessa concezione la trovate fino a Leibniz vero? Distinzione netta fra spazio e luogo o situs, la monade è nel situs non nel luogo, e così pure ogni centro di energia. Il situs è categoria puramente topologica mentre lo spazio è categoria d'ordine che appartiene alla rappresentazione che ogni monade si fa degli altri siti. C'è questa difficoltà che vi segnalo come una difficoltà che non va superata, che non bisogna buttare via, perché probabilmente l'approfondimento di queste concezioni, oso dire, ci permetteranno un giorno di capire meglio questioni connesse con la relatività
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in fisica o con la fisica dei quanti. Fu con Cartesio e poi con la filosofia della fisica classica moderna che il concetto di situs fu abbandonato a favore di quello di spazio. Nella rappresentazione cartesiana lo spazio funge da spazio di rappresentazione e nello stesso tempo da categoria di situs. Però non bisogna dimenticare che i concetti son due e non uno. Oggi siamo costretti a riconsiderare queste vecchie nozioni perché lo spazio è diventato sempre più un'entità matematica per un verso, dall'altro un'entità fisica ma allora va soggetto a restrizioni che non si capiscono se assumiamo che lo spazio geometrico sia lo spazio fisico. Quindi si dissocia di nuovo e qui conviene un po' riflettere. Questa è una digressione sul concetto di spazio aristotelico, dello spazio inteso come situs. Dopo la digressione Melandri riprende. Possibile è ciò che è o sarà. Definito il possibile come ciò che è o sarà (nella forma esplicita una proposizione che è vera o sarà vera) esso si presta bene alla fisica stoica (e in particolare alla teoria dei periodi cosmici473 di cui si dirà ancora poco oltre) il cui fondamento è un numero finito di elementi che si combinano fino ad esaurimento delle combinazioni per poi ricominciare in un altro ciclo. In questa concezione cosmologica è chiaro che il possibile in ogni caso prima o poi dovrà realizzarsi. Volendo esprimere il possibile così concepito secondo la modalità de dicto bisognerebbe dire: data una proposizione p che descrive uno stato del mondo, in un tempo tra t0 e t1 p dovrà essere vera. Prendiamo degli esempi facili, per lo meno familiari, tratti dal presente. Noi siamo sulle soglie dell'era spaziale, si parla di colonizzare lo spazio, di trovare fonti illimitate di energia, è possibile? Sì è possibile. Se il mondo fosse finito questa possi-
473
Cfr. Pohlenz p. 144 e sgg.
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bilità avrebbe dovuto realizzarsi già infinite volte474. Supponete che ciò avvenga una volta ogni milione d'anni, si intende anni solari: vedete che con argomenti di questo genere curiosamente le concezioni antiche si lasciano un pochino illustrare. Finito o infinito: come può esserci una possibilità non realizzata in un mondo finito posto che il tempo sia infinito? Questi argomenti, che Kant vorrebbe risolvere dicendo che non si può dire né l'uno né l'altro, anche dopo Kant son venuti fuori. Voi conoscente la legge di Olbers475 che segna l'inizio di tutta la speculazione astronomica moderna. La legge di Olbers dice che se l'universo fisico fosse infinito e se in questo universo la densità media della materia fosse la stessa, di notte ci sarebbe luce. Quindi secondo la legge di Olbers delle due l'una: o che l'universo non ha la stessa densità di materia dappertutto; oppure dobbiamo andare a cercare altre ragioni quali l'infinitezza del mondo, l'espansione dell'universo e così via. Se assumiamo l'espansione dell'universo dobbiamo anche assumere l'inizio di questo universo estrapolando indietro l'espansione, cosa un po' strana perché poi ci chiediamo cosa c'era prima dell'inizio. Oppure dire che questo universo è un atomo di un altro universo. Vien fuori curiosamente la soluzione epicurea dove negli intermundia ci sono gli dèi che pasticciano a piacere con questi poveri frammenti di mondi. 15.5. Determinismo L'argomento del determinismo è complicato perché se ne parla in tre sensi: primo, quello meccanicistico, p implica necessario p, che in tanto ci sembra chiaro in quanto lo sorvoliamo sempre: si dice "ah beh ho capito, non mi interessa"; secondo, il determinismo razionale, finalistico: per determinismo razionale intendo quello teleologico (che può essere aristotelico, può essere cristiano) dove si valorizza l'elemento di iniziati474
Ciò presuppone che lo spazio inteso come situs sia finito e che il tempo sia infinito e risulta essere la concezione stoica. 475 Heinrich Wilhelm Matthäus Olbers, astronomo tedesco, 1758-1840.
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va; il terzo è il determinismo debole nel senso che necessariamente p implica p. Nel determinismo meccanicistico, dato p, una proposizione che descrive lo stato del mondo, la sua verità è necessaria. Il determinismo in senso debole è: è necessario che se p allora p. Gli Stoici sono fatalisti. Ma il fatalismo in tanto ha senso in quanto non sia deterministico nel senso meccanico. Va bene? Ora fin qui ci arrivavano anche loro nevvero? Si è visto, come in altre questioni, quanto tempo c'è voluto a noi barbari per recuperare quel briciolo di saggezza. Melandri ora propone una riformulazione del necessario come vero congiuntivamente in tutti i tempi e del possibile come vero disgiuntivamente in tutti i tempi. Questa riformulazione impedisce il collassamento della temporalità. Vediamo: Forse un'obiezione che può essere fatta è che se il necessario è ciò che è vero in tutti i tempi e il possibile è ciò è vero in ogni tempo, come si distinguono? Si distinguono solamente dal connettivo. La differenza è che nel necessario vige il connettivo congiuntivo, nel possibile quello disgiuntivo. Allora avremo che necessario significa vero nel passato e nel presente e nel futuro: 0) N = Vt-1 . Vt0 . Vt1476 possibile significa vero nel passato o nel presente o nel futuro.477 1) P = Vt -1 v Vt0 v Vt1 Allora la questione rimanda a che cosa? Rimanda all'esistenza o meno del caso. Nel necessario basta che una volta sia stata vera una cosa nel passato perché rimanga che sia vera per 476 477
Per essere precisi andrebbe detto: Vp in t-1, e Vp in t0 e Vp in t1. Ciò comporta l'assunzione non banale che ogni possibile si avveri.
390 Capitolo I sugli Stoici 390 Enzo Melandri
sempre. Deve essere sempre vera, momento per momento. La differenza è la differenza tra eventi casuali e non casuali. È la questione del caso. È il caso esterno o il caso interno? Il caso interno introduce l'indeterminatezza. Questo è escluso dalla formulazione debole del determinismo. Questa formulazione presuppone l'identità della verità di p. Una volta che sia vero p è necessario che sia vero p. La formula sembra tautologica, in realtà ha come presupposto l'identità di p. Ciò esclude che il caso sia una determinazione interna di ciò che è detto da p. Va bene fin qua? Quindi vedete che non è poi innocente quell'affermazione, che necessariamente p implichi p: presuppone l'identità. Però il caso può essere esterno. Anzi, se non è interno deve essere esterno. Gli Stoici ammettono che il caso sia esterno. Lo ammettono nella teoria del grande ciclo, perché c'è un elemento casuale in questa teleologia razionale del mondo ed è il fatto che il mondo abbia un ciclo478. Il mondo procede da un'età anteriore verso un età dell'oro, a cui segue la decadenza, la scomposizione e il ricominciamento: è il grande eone479. Pla478
Scrive Pohlenz: "Agli Stoici una simile idea [periodi cosmici, palingenesi e apokatastasis, vedi nota successiva] doveva riuscire tanto più accetta, in quanto per essi il logos opera necessariamente secondo una ferrea legge e non si poteva vedere per quale ragione, avendo una volta creato razionalmente e metodicamente il più perfetto dei mondi, avrebbe dovuto, in una successiva creazione, seguire una via diversa", cfr. Pohlenz p. 157; VSF A 98: "[…] Inoltre ritiene che in tempi fissati dal destino l'intero cosmo finisca per combustione, ma che poi, di nuovo, si riorganizzi. Il fuoco primigenio è una specie di seme che possiede le strutture razionali di tutte le cose, e le cause di ciò che si genera nel presente, nel passato e nel futuro. L'interrelazione e l'intreccio di queste cose altro non è che il destino e la verità e la legge della realtà nella sua natura ineluttabile e ineludibile. Così ogni realtà che si trova nel cosmo si compie nel modo migliore, come in una città ben amministrata". 479 Melandri usa qui il termine platonico "eone" (aion, cfr. Timeo, 39 d, tradotto "anno perfetto") invece di "Grande Anno" (o anno cosmico). Per gli Stoici il mondo, kosmos, è unico e sospeso nello spazio vuoto (VSF A 97, B.f 530-546). La sostanza universale (hyle) di cui è costituito è indivenuta e imperitura (A 87, B.f 597). (Va tenuto presente che "Il principio primo dal quale si sviluppa il nostro mondo non è la hyle priva di qualità, esistente solo come astrazione logica, ma è la materia, che ha già ricevuto dal logos la sua prima originaria qualificazione, è la sostanza primordiale totalmente ignea", cfr. Pohlenz pp.149-150). Il mondo attuale è uno stato transitorio della hyle il cui dispiegamento, o ordine attuale, chiamavano diakosmesis (B.f 528, 620). Esaurite tutte le successive trasformazioni delle parti del cosmo è compiuto il Grande Anno (B.f 599). Questi periodi si susseguono di continuo dall'eternità (ibid); così la diakosmesis che si è ripetuta infinite volte e infinite volte si ripeterà. La fine di un periodo cosmico è detta ekpyrosis. Dalla palingenesi si determina la apokatastasis, la reintegrazione del-
Titolo del Capitolo I 391 Lezione XV 391
tone metteva per il grande eone l'età di 15000 anni. Sembra poggiare sull'osservazione astronomica della evoluzione del sole intorno alle costellazioni dello zodiaco che probabilmente è l'orbita del sole rispetto alla galassia. Questa osservazione potevano anche farla gli antichi, perché no? Dunque il grande eone introduce un elemento di casualità nel mondo esterno. C'è ancora un momento di determinismo nel senso che nel ricominciamento il mondo rifà la stessa strada. L'eterno ritorno dell'eguale. Può essere l'eguale non l'identico. Qui Melandri introduce la distinzione tra uguale e identico, il primo come ripetizione di tutti gli eventi ma non esattamente nella stessa successione, il secondo esattamente nella stessa successione; allora un ciclo può ripetersi uguale al successivo ma all'interno di un ciclo di cicli dovrà ripresentarsi l'identico. Probabilmente ripugna considerare che il mondo ricominci esattamente con gli stessi eventi, con Adamo ed Eva il serpente e tutto quanto, no? Quindi mettete pure che ci sia una variazione degli eventi locali, il problema per noi diventa più comprensibile se introduciamo il "metaeone": dato che il mondo è finito, ci sarà una variazione anche nel modo in cui può ricominciare a proseguire; fate una matrice più grande, a un certo momento il metaeone è identico. Se vi ripugna questo fate una super matrice il meta-metaeone e a un certo punto, a un certo punto bisogna mollare è vero? Se le costanze di fisica, cioè le leggi fisiche fondamentali, variano nel tempo, se la legge di gravitazione varia nel tempo e così pure le proprietà dei raggi luminosi, la domanda che ci si pone è: con che tasso variano nel tempo? Se rispondete a questa domanda voi trovate una legge che diventa l'invariante del tempo, perché comprendiamo anche la valenza come una lo stato precedente (B.f 623-632). Secondo alcuni frammenti la reintegrazione può comportare differenze minori.
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funzione del tempo; e se voi dite che anche questo varia è possibile porsi sensatamente il problema rispetto a che cosa varia. Quindi torniamo sempre a un punto fuori dal tempo rispetto a cui questa valenza non ha più significato, è una legge di leggi, di leggi di leggi. Comunque la concezione stoica è che il mondo è unico però fuori dal mondo agiscono le forze del caso, quelle che noi non possiamo spiegarci, come responsabili della corruzione e ricomposizione del medesimo. Quindi il mondo ha una vita pulsante il cui principio non è contenuto nel mondo. Quella che Melandri chiama "vita pulsante", se capisco bene, nella teoria ufficiale è il logos che informa la materia primordiale delle prime qualificazioni: "[…] le singole forze germinative (le ragioni seminali, gli spermatikoi logoi480) dovevano necessariamente operare sempre nello stesso modo. Così gli Stoici arrivano a questa conclusione: nel nuovo periodo cosmico non riapparirà nella medesima forma solo il mondo nel suo insieme, ma anche gli individui481". Si tratta qui di leggi interne al kosmos. Il kosmos è la totalità finita degli enti corporei, to olon; ma l'universo inteso come totalità assoluta, to pan, è lo spazio vuoto che include anche il kosmos e non ha un sopra e un sotto, né peso, né parti, né movimento. Il frammento 522 di Crisippo, Fisica II recita: Per gli Stoici c'è una differenza fra "tutto" e "universo": il tutto racchiude anche il vuoto infinito, l'universo è invece il cosmo con esclusione del vuoto". Dunque Melandri pone il caso nello spazio vuoto dove di conseguenza va sospeso il principio del terzo escluso. Ma se e come questo abbia un'influenza sul Kosmos e dunque rilevanza rispetto al determinismo interno al mondo dei corpi non è chiaro. Nel sistema epicureo voi avete più mondi, gli intermundia, cioè il caso è distribuito all'interno del mondo inteso come insieme di mondi. Il caso si distribuisce negli intermundia, luoghi abitati da divinità, demiurghi, che possono anche intervenire 480 481
Pohlenz p. 151, SVF B.f 596, 618. Pohlenz p.157.
Titolo del Capitolo I 393 Lezione XV 393
sulle faccende umane482. Inoltre il caso si distribuisce anche all'interno di ciascun mondo perché gli atomi hanno un elemento di casualità intrinseco. Non come atomi ma come movimento483. E siccome l'atomo va definito come materia in movimento, c'è l'elemento di casualità del movimento che spiega come forse possa avvenire la trasmissione dagli dèi agli uomini di una volontà, razionale o no, poco importa. Sono le due alternative. O escludete il caso dal mondo, però questo caso è fuori dal mondo; o l'includete sia nel mondo inteso come insieme di mondi possibili, negli intermundia; sia, attraverso gli intermundia, nei singoli mondi e allora il caso diventa interno al mondo, anzi interno al singolo evento che è quello atomico. Aggiungete a queste concezioni quelle scettiche, però sempre con l'idea che l'essere anche per gli Scettici debba essere univoco; aggiungete l'idea eclettica, da quel poco che possiamo sapere un po' qui un po' là, e avete il quadro completo di tutte le possibili concezioni intorno al mondo, all'uomo e così via. Sembra che non rimanga fuori niente no? Dottrina dell'univocità dell'ente: Stoici, Epicurei, Scettici, altri minori; dottrina dell'equivocità dell'ente: Platone, Aristotele e Plotino. La scelta culturale è caduta sulla concezione fondamentalmente aristotelica, non però in maniera univoca perché c'è stata la trasmissione di Boezio del lascito antico che fortunatamente era un po' eclettica. 482
Anche qui Melandri prende le distanze dall'opinione corrente secondo la quale gli dèi di Epicuro non si occupano né del mondo né degli uomini e vivono beati negli "intermundi", affrancati da ogni passione, cfr. l'introduzione di Gabriele Giannantoni a Epicuro, Opere Frammenti, Testimonianze, Laterza Roma-Bari 2003 p. 22; si veda inoltre in Epicuro, Scritti morali, op. cit., nella traduzione di Carlo Diano, Sentenze e frammenti, 15: "Per ciò che riguarda i fenomeni del cielo: moti, ritorni, eclissi, sorgere e tramontare degli astri, e quant'altro è del genere, non bisogna credere che essi si compiano sotto la direzione di qualche essere che soprastia a mettere ordine al presente o intervenga in futuro, e che nel medesimo tempo conservi intera insieme con l'incorruttibilità la beatitudine". 483 Cfr. ancora l'introduzione di C. Diano in Scritti morali, op. cit., a p. 30: "A tale scopo [Epicuro] distinse negli atomi tre forme di moto: uno naturale di caduta sulla linea retta per effetto del peso; un altro forzato dovuto agli urti; e un terzo libero di "declinazione" (parenklisis, in latino clinamen) dalla linea retta"; in questo terzo moto va ravvisato l'elemento di casualità intrinseca di cui si parla e altresì, a mio modo di vedere, il fondamento del libero arbitrio presente in Epicuro.
394 Capitolo I sugli Stoici 394 Enzo Melandri
A questo punto Melandri torna all'Argomento di Diodoro per concludere e lo fa leggendo in Bocheński quanto già anticipato nella lezione precedente: 19.24 Il [problema de] l'argomento vittorioso sembra probabilmente aver avuto origine dalle seguenti considerazioni. Poiché le tre [proposizioni] sono incompatibili: [1] tutto ciò che è vero del passato è necessario, [2] l'impossibile non segue dal possibile, [3] è possibile ciò che né è né sarà vero – Diodoro, confrontando questa incompatibilità con la maggiore plausibilità delle prime due, ha tratto la conclusione che nulla è possibile che non sia né sarà vero.
Cioè: è possibile ciò che è vero o sarà vero. Sfortunatamente, questo è l'unico testo realmente esplicito riguardante il celebre argomento vittorioso di Diodoro. Esso non ci permette di abbracciare l'intero problema perché non conosciamo il motivo per cui le tre proposizioni debbano essere incompatibili. Una cosa sembra chiara: che la possibilità era definita nel modo seguente: 19.241 p è (ora) possibile se e solo se p è vera ora o sarà vera in un istante futuro. Da un testo piuttosto vago di Boezio (19.25) apprendiamo ulteriormente che le definizioni degli altri funtori modali dovevano essere più o meno le seguenti: 19.242 p è (ora ) impossibile se e solo se p non è vera e non lo sarà mai 19.243 p è (ora) necessaria se e solo se p è vera e lo sarà sempre 19.244 p non è (ora) necessaria se e solo se p non è vera o non sarà vera in un istante futuro484
La distinzione è tra usare o oppure usare e. Vedete il possibile è definito: p è vero ora o p è vero in futuro
484
Bocheński § 19 F. p. 157.
Titolo del Capitolo I 395 Lezione XV 395
il non-necessario è definito allo stesso modo: non è necessario p se e solo se p non è vero ora o non sarà vero in futuro negli altri casi, necessario e impossibile, si deve dire e: non è vero adesso e non lo sarà mai La distinzione è quella tra una distribuzione congiunta e una distribuzione disgiunta, è tutto qui485. Però questo fatto, usare la disgiunzione anziché la congiunzione, conduce l'argomento sul caso, caso esterno, caso interno. Da un punto di vista globale il sistema modale stoico si può ritenere collassato sul vero e sul falso486. A questo punto non posso esimermi dall'esprimere alcune perplessità. Vediamo di ricapitolare. È certo che i frammenti congiurano in massima parte verso la tesi del determinismo meccanicistico; ma per sostenere la tesi di un determinismo tanto debole da asserire solo la validità del principio di identità, perché di questo in fin dei conti si tratta, mi pare che le riflessioni intorno all'argomento di Diodoro non siano sufficienti. Primo: Melandri conclude, come già Diodoro stesso, che il possibile non può essere ciò che né è né sarà ma deve essere ciò che è o sarà; secondo: prova ad estendere i confini temporali limitativi nelle tre proposizioni (e nelle quattro di Boezio) per approdare a proposizioni sostanzialmente atemporali che si distinguono solo per il tipo di distribuzione, il che lo conduce, sia per le proposizioni originali che per quelle rivisitate, alla stessa conclusione e cioè che lo spazio per il caso 485
Si noti che l' osservazione intorno alla distribuzione congiunta o disgiunta che abbiamo vista sopra,1) e 2), riguardava la definizione del necessario come vero nel passato, nel presente e nel futuro, il possibile come vero nel passato o nel presente o nel futuro, ossia a definizioni che estendevano il significato di "possibile" e di "necessario" oltre i limiti temporali posti nelle proposizioni tramandateci da Boezio ora in esame. 486 Sostanzialmente è lo stesso giudizio che dà Bocheński, p. 156: "[la modalità] sembra essere un tentativo di ridurre la necessità e la possibilità alla semplice esistenza mediante variabili temporali […]"; giudizio anticipato nella Lezione X e che compare probabilmente la prima volta in Oscar Becker, op. cit.
396 Capitolo I sugli Stoici 396 Enzo Melandri
si trova nella disgiunzione delle possibilità; terzo: conclude che l'argomento di Diodoro è un tentativo di definire la modalità del possibile attraverso la temporalità e che l'intera dottrina collassa sul piano del vero e del falso. Per quanto concerne il primo punto, l'accordo con Diodoro, non c'è molto da dire nel senso che sembra perfettamente coerente con la tesi di fondo di questo lavoro esibita metodicamente nel contrasto tra aristotelismo e stoicismo. Come va intesa l'estensione dei limiti temporali delle proposizioni originali fino a comprendere tutti i tempi? È chiaro che non si tratta di un'ipotesi interpretativa perché negherebbe la tesi di fondo e cioè che le proposizioni in esame sono tentativi di definire la modalità attraverso la temporalità. Forse vuole essere un esercizio per verificare che in una logica atemporale si arriva alla stessa conclusione, ossia che necessità congiunte non danno spazio al caso, possibilità disgiunte sì. Ma cosa ha questo a che vedere con il determinismo interno o esterno? Non è che il regno del possibile sia lo spazio vuoto e quello della necessità il kosmos. Questa sarebbe caso mai la tesi tradizionale del determinismo meccanicistico. Sembra invece che Melandri voglia asserire che il determinismo stoico consista in null'altro che nell'assenza di indeterminazione presente nell'affermazione di identità: Np → p; e questo è veramente un determinismo debole. Che gli argomenti di riscontro nei frammenti gli diano torto non importa, si è già detto che i frammenti danno adito a vari sospetti in quanto letture partigiane da parte dei commentatori. Interno ed esterno non va inteso dunque nei termini della fisica. Tutto ciò che è o sarà significa che prima o poi l'evento si produrrà, non si scappa, è la meccanica combinatoria a volerlo. Non si dice però quando, perché la serie degli eventi non rispetta necessariamente la stessa successione. Quando però l'evento si realizza ecco che ciò che accade è accaduto e anche di qui non si scappa, l'identità dell'evento con se stesso è inviolabile in ogni tempo. Questo forse è il significato di "interno", la sua identità non è in balia del caso come vorrebbe Epicuro. Il caso dov'è allora? Nella sequenza di riproduzione degli eventi? Forse Melandri – sempre in opposizione ai frammenti – intende anche questo.
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15.6. La contaminazione empirica A questo punto della registrazione c'è un lungo intervento di un allievo ma il volume della voce è troppo basso per capire cosa dica. Il tema riguarda la presenza di elementi empirici nella logica modale stoica. La risposta di Melandri apre una digressione nella quale tocca diversi argomenti noti che rimandano a un più vasto contesto di conoscenze filosofiche (e non) richiamate sovente solo per cenni. Ed è nell'intento di fornire un quadro più completo aggiungendo cenno a cenno che riporto quanto detto. Io non direi, come obiezione, che ci sia contaminazione empirica, perché a loro volta, argomenti empirici in questo calcolo contengono dei funtori logici. Si capisce anche la fortuna dello schema aristotelico per il fatto di aver posto una separazione netta che consente poi per successive aggiunte di scendere sull'empirico. È proprio lì dove io ho i miei dubbi, cioè sullo schema astrazione-concretizzazione. Mi spiego: noi abbiamo uno schema neutrale delle modalità. Può sembrare che questo schema basti a tutti i bisogni: se parliamo del tempo, semplicemente aggiungiamo il fattore tempo; se parliamo di quest'altro aggiungiamo un altro assioma. Io ho i miei dubbi perché vorrebbe dire dare per buono il sistema aristotelico secondo cui il razionale si raggiunge per astrazione e poi il concreto per concretizzazione dell'astrazione. C'è un viavai abbastanza uniforme dall'alto in basso e dal basso in alto. C'è l'anodos e il kathodos. Proprio lì ho il dubbio. E il dubbio riguarda in primo luogo il fatto che uno schema come quello aristotelico proprio nella sua metafisica può essere empirico senza che uno se ne accorga. Il fatto che nello stoicismo l'elemento empirico sia palese non rende la dottrina modale meno razionale di quella aristotelica per due ragioni. La prima è che nelle assunzioni empiriche dello stoicismo troviamo un buon fondamento di razionalità; la seconda, è che nella dottrina della modalità aristotelica l'empirismo non è assente ma nascosto. 397
398 Capitolo I sugli Stoici 398 Enzo Melandri
Negli argomenti empirici come quelli relativi al tempo possono essere racchiuse delle genuine perle di ragionamento razionale. Qui dipende un po' se assumiamo l'astrazione come sistema di formalizzazione unico, che mi sembra una speranza un po' sorpassata, se mai è stata una speranza. Insomma, assumere la via kantiana o la via più pluralistica. Perché lo schema di astrazione mi funziona se attraverso di esso raggiungo dei trascendentali; e c'è dietro tutta l'illusione di poter dire che cosa è puro e cosa non è puro. La ragione pura: è lì il punto. Sa perché è irrisolto? Perché purtroppo lo schema hilbertiamo del formalismo matematico ricalca pesantemente il trascendentale kantiano. Tutta la teoresi meta è fortemente indiziata di kantismo e in Kant per noi è visibile quanto ci sia di empirico nel suo trascendentale, quanto sia naturalistica la sua logica. Del resto sì, è molto comodo partire da uno schema neutrale come idea della genealogia di tutte le logiche modali, che siano dimostrabilmente logiche, perché noi abbiamo un criterio per lo meno per dire che cosa è logico ed è la riproducibilità mediante un calcolo dei passaggi che facciamo, è la dimostrazione della compattezza, il pensiero assiomatico su questo va bene. Però l'assiomatizzazione non produce un albero genealogico, produce una ramificazione aperta. In geometria, dal punto di vista formale, potete presentare la genealogia delle geometrie partendo dalla topologia; anche nella logica facciamo uso del sistema della ramificazione ad albero però guardate che non è proprio un albero, è piuttosto una rete che ricopre tutto senza né capo né coda, è un sistema reticolato, il sistema dei mondi possibili, vedete perché saltano fuori queste cose? Non sono in relazione allo spazio, sono in relazione a esplorazioni ben più astronomiche che sono quelle della logica e i postulati del nostro modo di pensare. Quello che dice Melandri mi pare sia che attraverso l'assiomatizzazione il formalismo ottiene sì autonomia piena dall'empirico senza però approdare ad una fondazione formalistica che presume una genealogia delle logiche.
Titolo del Capitolo I 399 Lezione XV 399
Ci sono anche logiche temporali non modali, noi distinguiamo i due problemi. La questione diventa, dal punto di vista teorico, vogliamo ridurre l'una all'altra o le lasciamo indipendenti? Forse le lasciamo indipendenti in modo da studiare che interazione può esserci. Negli storicisti, in Croce, Meinecke e i suoi predecessori tedeschi, compare molto l'idea del presente come cuneo, l'idea si basa su un passato considerato necessario, salvo la nostra ignoranza, rispetto a cui il presente ha sempre una prevalenza perché è il presente che fornisce i criteri interpretativi; e il futuro come possibile non determinato perché poi il risultato della scuola storica è che non si può prevedere il futuro, dato il gran numero di circostanze che dovrebbero intervenire per poter definire che cos'è necessario. Ma vedete, il punto di vista storicistico è più affine a quello stoico che a quello aristotelico. La frase banale che è sempre ripetuta veritas filia temporis io vorrei che al di là della sua banalità facessimo lo sforzo di concepirla così, è quello sapete il suo significato487. Perché poi la storia moderna ha delle ascendenze stoiche molto evidenti. Pensate a Machiavelli. Machiavelli pretende di definire l'azione attraverso un computo delle alternative. Si potrebbe obbiettare che chiunque si trova davanti a una scelta procede a un computo delle alternative. Machiavelli però asserisce l'irrilevanza di qualsiasi altra considerazione, in particolare di quelle etiche. Lo stoicismo antico, secondo Melandri, considera l'etica come uno strumento della conoscenza: l'etica non fornisce i criteri che disciplinano le scelte bensì la garanzia di coerenza logica nel raffronto delle alternative. In questo si ravvisa la radice stoica della teoria politica di Machiavelli. Melandri prosegue la sua incursione nel pensiero occidentale alla ricerca di tracce di stoicismo antico. Sì, ci sono contaminazioni empiriche, però questo fatto di considerare l'empirico come fosse razionale non è banale. Qui 487 Cioè non nel senso che una volta che l'evento si è prodotto possiamo dire veridicamente che si è prodotto bensì che se ancora non si è prodotto è vero che basterà attendere.
400 Capitolo I sugli Stoici 400 Enzo Melandri
il tempo non è poi tanto empirico perché il tempo cos'è? Dando retta a Leibniz è una categoria d'ordine, della successione, quindi il tempo è un fantasma rappresentativo che noi stessi creiamo; nel creare il tempo quanta parte c'è di razionale e quanta parte c'è di dovuto all'empirico? È veramente esasperante la faccenda, serve solo per esemplificare. Certo che vedete, in astronomia si ragiona su un possibile che è indotto dal necessario, in modo da concludere al necessario488. Prendiamo l'annosa questione "tutti gli storicisti negano che le categorie siano metastoriche". Il Capitale di Marx che cosa descrive? La legge di sviluppo dell'uomo in generale oppure in quel particolare momento? La lettura più sensibile è quella secondo cui le categorie di merce di valore eccetera sono interne a un determinato sviluppo. Se le proiettiamo sul passato ciò non va senza rischio. Proibito proiettarle sul futuro. Anche se possiamo assumere che il passato, essendo più semplice del presente, si presta a un interpretazione teoretica di ogni tipo. Quindi negazione della metastoricità delle categorie usate in quell'analisi. Questo si rende più comprensibile dal punto di vista stoico perché non ci sono categorie. Mentre se ammettiamo la categoria è inevitabile pensarla aristotelicamente. Io ho sempre polemizzato sostenendo che una categoria, se la vogliamo come categoria, è fuori dal tempo. Il problema non è se le categorie siano storiche, perché allora non sono più categorie, il problema è se dobbiamo usare la categoria o no. Possiamo parlare dell'economia del mondo antico, dato che gli antichi non avevano la categoria "economia"? I casi sono due: o è una categoria e allora anche se non l'avevano gliela tagliamo addosso; oppure non è una categoria, è un modo d'essere del mondo moderno avere dei fatti che chiamiamo economici che sono esistenti. Allora possiamo dire che esiste il valore? È un brutto naturalismo quello che salta fuori. Possiamo dire che esiste storicamente in quel periodo in cui il computo del lavoro spiega quello che è successo: allora il valore è un corpo. È un curioso imbarazzo che troviamo a questo punto 488
Vedi l'inizio della 14.1. e 14.3.
Titolo del Capitolo I 401 Lezione XV 401
vero? Una visione sembra condurre a un crasso naturalismo, l'altra visione conduce nell'astrazione. Di nuovo si presenta qui un passo dall'ascolto alquanto torturato. Valeva la pena a mio avviso cercare di salvare qualcosa del parlato di Melandri perché al tema noto si aggiunge una considerazione nuova. Nel sistema aristotelico, dal punto di vista metafisico, è tutto chiaro. Allo stesso modo nelle grammatiche latine del periodo ipotetico, la consecutio temporum è chiarissima, perché i casi presentati dalla grammatica sono chiaramente paradigmatici però poi, quando andate a concretizzare, a tradurre, non si capisce più bene che cosa si debba fare. Probabilmente erano più utili quelle grammatiche che partivano, non dalla teoria aristotelica dei modi ma da un altro sistema, dalla qualità dell'azione, dal tempo. Questo punto mi ha sempre fatto riflettere. C'è un notevole divario tra la lingua come la si apprende dalla grammatica e la lingua come la si apprende attraverso l'imitazione. Eppure i criteri che abbiamo nell'imparare una lingua sono abbastanza precisi. Provate a metterli sotto forma di leggi, salta fuori un pasticcio. Melandri termina lanciando l'argomento della prossima lezione. Ora dobbiamo cambiare capitolo. Voglio trattare un pochino la negazione. La negazione è un funtore di una grande complicazione. Tant'è vero che tutta la dialettica si è fatta sulla polisemicità [sic] del funtore di negazione. La negazione è in logica qualcosa che sta tra la teoria delle modalità e la teoria logica normale o assertoria. È importante avere un momento di attenzione circa questa polisemicità del funtore di negazione, ma credo che per oggi ne abbiamo abbastanza.
Lezione XVI
16.1. Il pensiero teoretico Prima di entrare nel merito dei funtori proposizionali, che sono le costanti logiche del calcolo delle proposizioni, Melandri disegna un quadro entro il quale colloca il calcolo logico, le teorie logiche e le teorie filosofiche. Spiega quale sia l'utilità e quali i limiti del calcolo e dell'assiomatica per lo sviluppo del pensiero in generale e perché se ne debba fare uso anche in filosofia. In questo quadro la nozione di "pensiero teoretico" si pone sullo stesso piano di quella di "pensiero assiomatico" e con ciò va inteso che il pensiero teoretico vada improntato all'assiomatica. Nella seconda parte della lezione tratterà della negazione e del condizionale per riprendere il discorso sugli altri principali connettivi logici e terminare con lo studio degli argomenti (schemi di inferenza). Credo che ormai ci comprendiamo su almeno un punto, cioè come sia impossibile costruire la logica se non vi si applica il calcolo. Avete visto come sia difficile giudicare attraverso l'intuizione le questioni relative fondamentali. Io qui espongo le questioni teoretiche non quelle relative al calcolo. La parte relativa al calcolo è trattata nel corso di logica dal Professor Franci. Avete capito in che senso il calcolo è un potente ausilio per le ricerche teoretiche. Ricerche teoretiche, logica e a sua volta le ricerche di logica sono un potente ausilio per definire le posizioni filosofiche. C'è un triplice ordine di problemi, il problema logico vero e proprio, il problema della teoria logica e il problema della concezione filosofica che sta dietro alla teo403
403
404 Capitolo I sugli Stoici 404 Enzo Melandri
ria. I tre piani sono abbastanza indipendenti tra loro. Proprio perché sono indipendenti è possibile stabilire una interdipendenza. Una relativa interdipendenza presuppone infatti l'indipendenza di ciascuno di questi elementi. Vedete anche come sia difficile il problema della neutralità della scienza, anche solo nella logica. Avete visto come Bocheński proponga una filosofia della logica in Aristotele molto lontana da un concetto neutrale. Io cerco di farvi vedere come l'aspetto logico non sia sufficiente ad esprimere una posizione di pensiero; come alla logica corrispondano teorie logiche, che non fan parte della logica; e a sua volta come queste posizioni siano sostenute dal piano che io chiamo filosofico o metafisico. Si apre una parentesi per dire che non si dovrebbe parlare di neutralità bensì di obbiettività. Che differenza c'è tra neutralità e obbiettività? Un bombardiere che sgancia una bomba è un fatto obiettivo, però a nessuno verrebbe in mente di dire che è neutrale. La questione della neutralità è mal posta, la questione interessante è quella della obiettività. L'aspetto logico vero e proprio noi tendiamo a formularlo e a formalizzarlo come un calcolo. Il calcolo, come nello studio che facciamo, l'inferenza in logica, ha un significato diverso dal calcolo come viene usato, che so io, in ingegneria o in altre discipline, perché in queste discipline il calcolo serve per produrre dei risultati, sono calcoli per progettare. Nel nostro campo invece il calcolo serve come prova della coerenza della proposizione. Sullo sfondo di questa distinzione si staglia la critica a Bocheński: il calcolo è uno strumento obbiettivo se lo si usa per verificare la coerenza teoretica; se invece diventa uno strumento per produrre risultati, uno strumento euristico dal quale evincere posizioni filosofiche, chi lo usa non è neutrale.
Titolo del Capitolo I 405 Lezione XVI 405
In filosofia il suo uso è puramente teoretico: non potendo operare in maniera intuitiva, non potendo decidere in maniera intuitiva se una proposizione è coerente o meno, dobbiamo adoperare il calcolo. Una volta che i calcoli ci hanno dimostrato quanto le proposizioni sono coerenti, il nostro problema diventa quello di individuare delle teorie logiche che non fan parte della logica. Come faccio a dire che le teorie logiche non fan parte della logica? Lo posso dire allorché risulti che queste teorie non sono calcolabili. Cioè non sono deducibili. Hanno il carattere di presupposti e non hanno il carattere di dimostrazioni. Che il possibile debba definirsi in riferimento al tempo o in riferimento all'essere, questa è una teoria che nessun calcolo potrà mai decidere. Potremmo però decidere attraverso il calcolo se le assunzioni relative sono coerenti o no, se sono compatibili tra loro o no, questo è molto importante. Tutto il pensiero teoretico deve assumere il carattere di un pensiero assiomatico. Questa è la principale differenza che sussiste tra l'impegno filosofico teoretico del nostro secolo e quello precedente. Potrei dire anche di tutti i secoli che precedono ma diventa particolarmente vero, questo contrasto, fra il Diciannovesimo e il Ventesimo secolo. Perché il secolo scorso è stato molto ricco di impegno filosofico, di speculazione, di teoria, ma è anche il secolo più pasticcione che si conosca. È stato il secolo in cui tutto si giudicava a occhio. Nei confronti del secolo scorso il Diciottesimo secolo, pensate solo a Leibniz, presentava dei caratteri che sono più simili a quelli del Ventesimo secolo che non al secolo scorso. L'impegno filosofico di un Leibniz è più vicino a certe nostre cose che non quello di Kant e di Hegel. Un esempio di questa distanza l'avete anche nel Capitale. Marx per indicare alcune formule di correlazione impiega cento pagine dove a noi ne basterebbe una; attraverso il linguaggio ordinario deve discutere tutte le formule cambiando una variabile alla volta. Una fatica enorme da parte sua e una fatica che dobbiamo fare noi poi a rimetterle insieme. Laddove sarebbe bastato porre le variabili dentro una formula, che è lavoro di una pagina, per venire fuori con qualcosa che è più immediatamente comprensibile e meno fatico-
406 Capitolo I sugli Stoici 406 Enzo Melandri
so. Ma non c'erano le premesse nel secolo scorso per potersi esprimere in questa maniera. Dunque il pensiero teoretico lo si considera tale in quanto assume i caratteri assiomatici. L'assiomatica è una disciplina a parte che si è sviluppata nel campo della matematica e della logica matematica489. Il pensiero assiomatico obbedisce a tre criteri: il criterio di coerenza, in inglese si chiama self consistency; il secondo principio è il principio di completezza; il terzo principio è il principio di semplicità ovverosia della separazione degli assiomi tra loro. Il criterio di coerenza deve stabilire che nel calcolo corrispondente a questo pensiero, o almeno a una parte di questo pensiero, non devono mai spuntare contraddizioni. Una contraddizione non è semplicemente una macchia nel pensiero assiomatico, è una condizione rovinosa di tutto l'edificio. Il principio di completezza significa che nel linguaggio ben formato corrispondente, ogni formula ben formata di questo linguaggio deve essere o un teorema o la negazione di un teorema o un assioma; quindi tutte le formule costruite in un linguaggio assiomatizzato devono essere dimostrate. Questa è l'esigenza, non è detto che succeda sempre che si possa dimostrare tutto490. Il terzo principio è meno, come dire, il meno fondamentale ma forse il più importante di tutti gli altri. Consiste nel separare gli assiomi tra loro e vedere quali sono indipendenti e quali no. È un lavoro che al limite dovrebbe presentare il pensiero sotto forma di assiomi indipendenti. Quando questa situazione si realizza allora possiamo partire da un assioma, due assiomi, tre assiomi e vedere tutta la ramificazione degli assiomi che ci interessano. Cos'è avvenuto con la logica modale? Lo stato della logica modale è quello che vi mostravo ieri: c'è una concezione aristotelico-leibniziana che pretende di dare un quadro molto 489
Si veda anche la Lezione X. Com'è noto Gödel ha dimostrato l'incompletezza dell'aritmetica formale e di una classe molto ampia di sistemi formali. 490
Titolo del Capitolo I 407 Lezione XVI 407
ampio della modalità; c'è una concezione alternativa, che è quella stoica, in cui la modalità è legata al tempo. Questo è il quadro tradizionale che è rimasto pressappoco nella stessa situazione per duemila anni. I passi nuovi sono stati compiuti in questo secolo a cominciare dal lavoro pionieristico di Lewis del 1918 e poi da Lewis e Langford, 1932491, che presentano i primi sistemi di logica modale in cui risulta chiaro per la prima volta che la logica modale dal punto di vista del calcolo non è una sola ma sono diverse. Indipendentemente dalla teoria, indipendentemente dalla interpretazione filosofica, dal punto di vista del puro calcolo Lewis e Langford presentano cinque sistemi. Poi l'indagine si è arricchita di altri lavori per cui il quadro oggi è molto più complesso492. Inoltre, la questione se la modalità abbia o no relazione col tempo è stata risolta sviluppando indipendentemente dalla logica modale le logiche temporali493. Quindi dal punto di vista dei principi dobbiamo dire che ha avuto ragione Aristotele, nel senso che la logica temporale può essere trattata indipendentemente dalla logica modale. D'altra parte questo aver ragione non significa niente, perché non è detto che l'Argomento Vittorioso di Diodoro Crono volesse dimostrare che la modalità è legata al tempo. Semplicemente presenta un'analisi della modalità in cui il funtore modale è legato a quello temporale; si tratta di una concezione che dal punto di vista dei principi è più complessa, non è questione di sbagliare. Noi dovremmo 491
C.I. Lewis, A survey of symbolic logic, Berkeley 1918; C. I. Lewis e C. H. Langford, Simbolic logic, New York 1932. 492 Cfr. H+C. Per una presentazione articolata e coincisa dei sistemi S1-S5 di Lewis e Langford e degli sviluppi successivi si veda anche l'introduzione di Gabriele Franci a Oskar Becker, Calcolo modale op. cit. 493 Questo filone della logica si è molto arricchito in questi ultimi anni. Su segnalazione di Matteuzzi rimando a: D.M. Gabbay, I. Hodkinson, and M. Reynolds. Temporal Logic: Mathematical Foundations and Computational Aspects. Oxford Logic Guides. Oxford University Press, 1994. D.M. Gabbay, C.J. Hogger, and J.A. Robinson, editors. Handbook of Logic in AI and Logic Programming, volume 4 (Epistemic and Temporal Reasoning). Oxford University Press, Oxford, 1995. D.M. Gabbay and H.J. Ohlbach, editors. Temporal Logic. Proceedings of the First International Conference, ICTL'94, volume 827 of Lecture Notes in Computer Science, Berlin, 1994. Springer.
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essere in grado di ricostruire la concezione implicita nella logica stoica fornendo la correlazione tra la logica modale di un certo tipo e la logica temporale per poi vedere se questa unione costituisce un assetto stabile, coerente. Io questo lavoro non l'ho fatto ma lo si dovrebbe fare. Capite come bisogna operare? Il calcolo è strumentale per capire queste questioni. Non è che noi vogliamo trasformare il pensiero in un calcolo, per calcolare cosa? Ci serviamo del calcolo per dirimere certe questioni. Chiaro che attraverso il calcolo non possiamo andare più in là di quei tre punti che vi dicevo. I limiti del controllo del pensiero attraverso il calcolo sono i limiti del pensiero assiomatico. Voi non potete pretendere che il calcolo vi dia di più. Potete però pretendere che attraverso un calcolo si definisca cos'è coerente, cos'è completo, quali sono le assunzioni indipendenti. La coerenza è l'elemento più facile da predicare anche se si va incontro a delle fallace. Direi che il pensiero intuitivo afferra ciò che è coerente all'80%. La completezza già è più difficile da capire intuitivamente che non la coerenza. L'indipendenza degli assiomi tra loro, dal punto di vista intuitivo, è un problema insolubile perché in tanto il pensiero è intuitivo in quanto è sintetico, ossia mette insieme quello che poi è fatica tornare a separare. Un esempio paradigmatico è la storia del V postulato di Euclide che voi sapete quanto tempo si è trascinata prima che si sia riusciti a dimostrare che il V postulato di Euclide è indipendente494. È stata una storia lunghissima, non voglio dire duemila anni perché lasciamo perdere il medioevo, ma perlomeno da quando Euclide è rientrato nel giro della cultura, cioè dal basso medioevo, possiamo dire che la storia di questa ricerca dell'indipendenza è andata avanti. In verità si cercava la dipendenza no? Vedete com'è la storia? Si è sempre cercato di dimostrare che il V postulato di Euclide era contenuto negli altri quattro. Ora, per dimostrare questo, si è proceduto con la prova per assurdo. Cerchiamo di dimostrare che non è conte494
Si veda per es. Kneale Cap. VI §1.
Titolo del Capitolo I 409 Lezione XVI 409
nuto cioè che è indipendente, cosicché emerga la contraddizione: se salta fuori la contraddizione allora è dimostrato che in qualche modo il postulato è contenuto negli altri. E la storia è andata avanti un pezzo perché tutti quanti credevano di averlo dimostrato. Gerolamo Saccheri credeva di aver dimostrato che il V postulato era dipendente, cioè credeva di aver dimostrato che fornendo l'indipendenza saltava fuori la contraddizione. In realtà c'era un errore nei suoi calcoli, non un errore banale, un errore di impostazione del problema. Correggendo l'opera di Saccheri, si è capito che Saccheri involontariamente è stato il primo scopritore di geometrie non Euclidee, perché stabilire che il V postulato di Euclide è indipendente dagli altri vuol dire poterlo aggiungere o togliere a piacere e sostituire con altri, e di qui saltano fuori le geometrie non Euclide. E questa è una storia illustre, è una storia che è paradigmatica non solo per la matematica, è paradigmatica per il pensiero moderno. Ed è un po' sulla storia della geometria che tutte le altre storie teoretiche vengono ricalcate è vero? Lo studio delle logiche non crisippee e non aristoteliche e così via riflette proprio l'analogia con la geometria495. Solo che in geometria, a seconda delle definizioni che ammettete, vien fuori un certo albero genealogico: se fate a meno della nozione di retta ottenete la topologia; se l'aggiungete avete le geometrie non euclidee, se poi ammettete il V postulato avete la geometria euclidea. In logica la situazione non è così seriabile. Se voi assumete una logica non crisippea, cioè una logica che abbia più di due valori di verità, cambia tutto il quadro. C'è l'ulteriore complicazione delle logiche polivalenti, logiche a più valori di verità, che però vengono formulate a partire da una metalogica che è bivalente, è crisippea496. 495
Con "logica crisippea" Melandri non intende contrapporre la logica proposizionale alla logica dei termini aristotelica, quanto le logiche a due valori di verità alle logiche a più valori di verità; infatti con Łukasiewicz, Elementy logiki matematycznej, Varsavia 1929, sorgono logiche a più valori di verità e in questo senso vale la proporzione logica bivalente: logiche nonbivalenti = geometria euclidea: geometrie non euclidee. 496 LC § 73: "Nello sviluppare questo pensiero, lo scopo di Łukasiewicz non era quello di relativizzare la logica, ma esattamente l'inverso: si trattava di vedere quali teoremi di logica proposizionale risultassero n-invarianti portando a n il numero dei valori di verità. E ciò, a sua
410 Capitolo I sugli Stoici 410 Enzo Melandri
Una volta si diceva logica aristotelica no? Vi invito a correggere il tiro, bisogna dire logica crisippea perché in Aristotele c'è, almeno in un punto, la sospensione della validità del terzo escluso497. E questo non avviene mai negli Stoici. Noi diciamo logiche crisippee e logiche non crisippee e nelle logiche non crisippee rientrano le altre forme di logiche, quelle polivalenti, logiche modali, logiche probabilistiche, logiche col terzo incluso, logiche del continuo, logiche non vero-funzionali, ci sono anche logiche che sono puramente funzionali, non verofunzionali. Io farei corrispondere la parola "logica" al momento assiomatico del pensiero, così è più chiaro cosa vogliamo dire quando parliamo di logiche. Le teorie logiche non sono contenute nel calcolo. Che cosa si intende per teorie logiche? Sono i presupposti che stanno a fondamento del calcolo. Per esempio la teoria degli enti predicativi. C'è la teoria logica la quale dice che il predicato e ciò che vien predicato non possono stare sullo stesso livello; a un predicato di grado n posso assegnare un altro predicato, bisogna che mi porti a livello n+1. Altrimenti viene fuori un'antinomia. Mi chiedo se "impredicabile", che è un predicato, sia o no predicabile; se dico che non è predicabile lo sto predicando e viene fuori l'antinomia di questo tipo. Ora questa teoria secondo cui noi non possiamo predicare allo stesso livello non è a sua volta contenuta dalla logica, è una teoria che dobbiamo usare per vedere che non saltino fuori delle antinomie, degli inconvenienti. Però non esiste nessuna prova che si debba fare così. Si sa solo che non facendo così saltano fuori delle antinomie, ma è un espediente, come vedete, che non è logico, è fuori della logica, noi lo im-
volta, avrebbe dovuto servire a rendere assiomatico il calcolo universale e a giustificare, nella fattispecie, la scelta della logica bivalente in funzione di rappresentanza universale". Dopo aver elencato i tre teoremi considerati invarianti Melandri scrive: "Ma come si può stabilire se questi teoremi siano invarianti? Evidentemente, solo per costruzione; o, per meglio dire, attraverso una meta-logica bivalente che funga da sistema di coordinazione delle logiche-oggetto plurivalenti". 497 Il riferimento è ovviamente alla tesi dell'indeterminismo degli eventi futuri contenuta nel IX libro di De int. anche se, come fa notare Melandri in esordio alla Dodicesima nota, è assai inverosimile che Aristotele concepisse logiche con più di due valori di verità.
Titolo del Capitolo I 411 Lezione XVI 411
portiamo dalla teoria della logica. È la cosiddetta teoria semplice dei tipi di Russell. Lui usa il termine "tipo"498. Di queste teorie logiche, che non fan parte della logica ce ne sono molte, basta prendere un manuale di logica: l'introduzione, il modo di presentare la questione, la connessione tra gli argomenti fanno parte della teoria logica. Perché per esempio noi mettiamo prima il calcolo proposizionale poi quello predicativo? La ragione di questo si può spiegare: il calcolo proposizionale è completo e finitistico; quello predicativo pone dei problemi, per esempio i predicati del secondo ordine che non sono solubili attraverso il calcolo499. Però queste ragioni sono ragioni che non fanno parte del calcolo. Io chiamo queste teorie "teorie logiche", "teorie della logica", non sono interne al calcolo. Poi ci sono teorie filosofiche, che non sono teorie logiche, appartengono a un campo generalizzato più vasto e sono ancora meno precise, più opinabili. Per esempio il principio secondo cui è escluso dal pensiero teoretico un oggetto contraddittorio; vogliamo chiamarlo principio parmenideo? Non è affatto una questione di calcolo, non è nemmeno una teoria logica, è una teoria filosofica: qui noi escludiamo per esempio dal pensiero teoretico ogni considerazione dialettica, escludiamo che si possa parlare di oggetti intrinsecamente contraddittori. Questa non è nemmeno una teoria logica, è una teoria filosofica. Difatti si può dimostrare che non c'è nessun impedimento, dal punto di vista logico, a trattare oggetti in sé contraddittori, perché questo è un fatto di interpretazione. Per esempio, nella realtà politico sociale, se noi definiamo un oggetto della scienza in un certo modo, considerando come oggetto della scienza la collaborazione degli uomini a un fine comune, partendo dalla teoria dell'azione, è evidente che possiamo parlare di oggetti in sé contraddittori nel senso che la collaborazione ad un fine può essere contraddetta. Questo 498
Per una sintesi si veda per es. Kneale Cap. XI § 2. Come si è già detto il calcolo dei predicati del secondo ordine rientra nel novero dei sistemi di cui non si può dimostrare la completezza. 499
412 Capitolo I sugli Stoici 412 Enzo Melandri
non comporta nessun crampo logico, basta sapere di cosa si tratta, cosa intendiamo dire quando intendiamo certe cose. Dovete riuscire a capire l'autonomia di questi tre piani. Vi invito a farlo perché è utile. Il primo piano del pensiero teoretico è quello assiomatico, questo è facile da capire anche se forse non è facile capire come funziona il pensiero assiomatico, soprattutto le prove di indipendenza sono quanto di più estenuante possa esservi al mondo, è una delle prestazioni più difficili del pensiero. Ad ogni modo come concetto è chiaro che cosa sia questo primo piano: il piano del pensiero teoretico è quello logico intendendosi con "logico" l'assiomatico. Il secondo piano, anche questo nel concetto dovrebbe essere abbastanza chiaro, riguarda le teorie logiche; è da intendersi come "meta" rispetto a questo: sono le teorie senza delle quali non capiamo di che si tratti, però non sono parte dell'assiomatica. Nelle teorie logiche, ripeto, mettete pure la teoria dei livelli, quella dei tipi di Russell, mettete le distinzioni di calcolo proposizionale come fondamento del calcolo predicativo; tutte le questioni in cui sappiamo che sicuramente è così, però non sappiamo perché siano così. Queste sono teorie che chiamo teorie logiche. Se sapessimo il perché di una teoria, ciò inserirebbe la teoria dentro il calcolo nel qual caso possiamo costruire assiomaticamente un sistema formale. Se ci chiediamo il perché di una teoria logica questo perché è una causa formalis nel senso aristotelico, va bene? Chiedersi perché vuol dire inserire la cosa di cui ci chiediamo perché nel quadro giusto; è un problema di incastri, la mettiamo in un punto dove sappiamo che quella cosa fa sistema, lo fa combaciare, ma se è così è calcolabile; è elemento di una struttura, un elemento si dice elemento di una struttura quando è calcolabile. Il terzo punto, quello filosofico, nel concetto è un po' più difficile da dire ma credo che sia abbastanza facile e consiste in tutte quelle teorizzazioni cui voi potete contrapporne altre, sempre salvando l'onestà, la correttezza del ragionamento. Io faccio sempre questo esempio, se si possa o no stabilire che
Titolo del Capitolo I 413 Lezione XVI 413
un oggetto del discorso è in sé contraddittorio. C'è chi dice di no, c'è chi dice di sì. Chi dice che no dovrebbe avere l'onestà di dichiarare la sua adesione al principio parmenideo secondo il quale l'essere non contiene contraddizione. Se dice "io faccio la mia scelta teoretica" il punto è proprio che con la scelta siamo sul piano filosofico e non scientifico. Perché le questioni di scelta non si discutono, oppure si discutono ma non si discutono teoreticamente. Si discuterà politicamente, moralmente, ma non si discute teoreticamente. Quindi non è affatto vero che debba essere così, posso scegliere come unità del discorso elementi non contraddittori. Se sono parmenideo in assoluto devo sceglierne uno solo, perché con un solo elemento la contraddizione non salta mai fuori. Si può adottare la versione pluralistica del principio parmenideo, ne vien fuori un algoritmo in senso filosofico, è la pluralità dell'essere parmenideo, dove ogni elemento non si può più suddividere e il divieto di suddivisione dell'elemento corrisponde a una precauzione contro ogni sorta di contraddizione. Ma io posso anche scegliere che l'oggetto del discorso sia contraddittorio. Vi dicevo che chi sceglie sul serio il principio parmenideo io credo che non riesca a capire nulla delle scienze sociali, perché nelle scienze sociali, avendo come unità di riferimento del discorso l'azione, e non tanto l'azione individuale quanto l'azione collettiva degli uomini, la contraddizione può essere l'oggetto [stesso del discorso], anzi a me pare chiarissimo come possa consistere nell'oggetto, internamente all'oggetto la contraddizione, non solo il contrario, proprio la contraddizione. In senso letterale vero? Perché se io esamino il fenomeno di una collaborazione tra gli uomini, questa collaborazione è già un progetto e il progetto viene assentito da coloro che collaborano; quindi se qualcuno poi smette di collaborare contraddice quanto aveva assentito. Non voglio andare a dire che è una rescissione del contratto di lavoro ma dal punto di vista formale è così. C'è l'ulteriore problema se gli uomini, soggetti giuridici individuali del contratto, siano liberi o no secondo definizioni privatistiche.
414 Capitolo I sugli Stoici 414 Enzo Melandri
Anche nelle scienze naturali non è che si possa dire che l'oggetto è chiaramente parmenideo, privo di contraddizione. Le contraddizioni però non saranno nelle cose, saranno piuttosto nel modo come noi pretendiamo di conoscerle. Se per esaminare la struttura fine della materia succede che il tempo vada all'indietro, succedono delle cose stranissime, evidentemente noi siamo liberi di pensare che la natura in sé non sia contraddittoria, ma contraddittorio semmai è lo sviluppo dei principi con cui pretendiamo di conoscere le scienze naturali. Ma vedete che basta dire questo per capire subito che l'oggetto delle scienze naturali è un oggetto conoscitivo e la natura c'entra, sì c'entra ma in che modo c'entri dipende da cosa assumiamo; è molto tutto al di qua. Quindi cavarsela dicendo che la natura in sé non è contraddittoria, contraddittorie sono le nostre concezioni, non è una grande soluzione perché la scienza della natura è una conoscenza, l'oggetto è un oggetto della conoscenza, non sarà mica un oggetto d'arte! Melandri termina qui questo excursus sulle peculiarità del pensiero teoretico, sulla distinzione tra piano della logica, della teoria logica e della filosofia, ribadendo i limiti del pensiero intuitivo e la necessità di rifarsi al calcolo. L'Argomento dominante di Diodoro Crono, l'abbiamo piazzato o no? Ciò che ho voluto dimostrare è che la questione della modalità non si risolve facilmente con le risorse del pensiero intuitivo.
16.2. La negazione A questo punto inizia il discorso sui funtori proposizionali. La negazione è già stata parzialmente trattata nella Lezione XII (connettivi I) ma qui viene esaminata più in dettaglio e alla luce delle distinzioni tracciate sopra.
Titolo del Capitolo I 415 Lezione XVI 415
Adesso dovrei parlarvi ancora dei funtori proposizionali che sono negazione, implicazione, disgiunzione, congiunzione e equivalenza. L'innovazione introdotta dagli Stoici in proposito consiste nel trattare i funtori proposizionali come vero-funzionali ossia come funzioni di verità delle proposizioni a cui si applicano. E questa è una teoria logica. In base ad essa possiamo introdurre il calcolo proposizionale. Senza questa teoria non potremmo introdurre il calcolo proposizionale. Vedete come teoria logica e contenuto logico debbano essere interdipendenti. Bisogna dire subito: non è detto che la logica debba essere verofunzionale. Certamente non è nemmeno detto che non debba esserlo. Quindi se una proposizione p è vera, come facciamo a sapere che è vero p? non lo sappiamo. Secondo il principio di bivalenza abbiamo due valori: 1 e 0. Nient'altro? Nient'altro. Anche questa è un'altra teoria logica: la teoria della bivalenza definisce quali logiche siano crisippee e quali no. Quindi qui c'è un'altra scelta teoretica. Scegliamo la logica bivalente, la logica crisippea. Non è necessario, non è affatto detto che la logica debba essere così però può essere così. Chiamiamo questa logica "logica crisippea". Cominciamo dalla negazione. p ha i due valori di verità: 1 e 0 non p avrà i valori alternativi: 0 e 1 [si veda la tavola 12.1.] Ecco definita vero-funzionalmente la negazione: se p è vero non p è falso, se p è falso non p è vero. Per arrivare a questo però bisogna enunciare la teoria. E questo fanno gli Stoici, distinguendo tra: negativo, apophatikon negante, arnetikon privativo, steretikon
416 Capitolo I sugli Stoici 416 Enzo Melandri
Queste distinzioni, che apparentemente appaiono lessicali, introducono la teoria logica in questione500. L'apophatikon501, è un funtore proposizionale che corrisponde a quella che aristotelicamente si dice negazione diametrale, o contraddittoria, perché nel quadrato aristotelico corrisponde alle diagonali502:
A
E
I
O
Schema 16.1. Quadrato aristotelico delle opposizioni
universale affermativa [A], universale negativa [E], particolare affermativa [I], particolare negativa [O]; la negazione diametrale è quella per cui: A = non O
500
Cfr. VSF B.l 172-180; Bocheński § 20; cenni in Kneale p. 190; Mates non dedica uno spazio proprio alla negazione. 501 Ovvero la negazione corrispondente alla tabella 12.1. 502 Ricordo che le diagonali congiungono proposizioni contraddittorie (opposizione di contraddittorietà) mentre la linea orizzontale alta congiunge proposizioni contrarie (opposizione di contrarietà) e la bassa proposizioni subcontrarie (subcontrarietà); due proposizioni contrarie possono essere ambedue false, non possono essere ambedue vere; due proposizioni contraddittorie non possono mai essere né ambedue vere né ambedue false, dunque se l'una è vera l'altra è falsa e viceversa; due proposizioni subcontrarie possono essere ambedue vere ma non ambedue false. Inoltre, le proposizioni congiunte dalle verticali che vanno cioè dalle universali alle particolari si dicono subalterne (subalternazione). Vedi anche Lezione I, X e Bocheński § 12 p. 81.
Titolo del Capitolo I 417 Lezione XVI 417
e viceversa503. Ma in Aristotele, la definizione di contraddittorio è legata al quadrato, è legata a proposizioni categoriche, non è vero-funzionale, non definisce la negazione se non implicitamente attraverso la relazione di contraddittorietà tra enunciati di tipo categorico; quindi la definizione aristotelica non dice nulla di più ma è più complessa504. Questo è l'apophatikon, vuol dire "il togliere quello che si è detto", è la negazione diametrale, negazione per contraddizione. Infatti p e non p sono contraddittorie. L'arnetikon è la negazione interna alla proposizione, come quando dico nessun uomo è immortale ossia non-mortale oppure nessun uomo è santo ossia ogni uomo è non-santo. Questo non interno alla proposizione è l'arnetikon; diverso dal primo perché non dà luogo a contraddizione, è una negazione parziale, di tutto ciò che è interno alla proposizione. Abbiamo bisogno di questo concetto [nel calcolo vero-funzionale]? No, non ne abbiamo bisogno, basterà dire che la negazione, come funtore vero-funzionale, si applica a proposizioni intere, dall'esterno, tutto qui. Discende dalla proposta teoretica che è stata fatta: che la negazione debba definirsi come un funtore di verità, non come qualcosa che richiede un'interpretazione del senso. Vero-funzionale significa questo: in funzione della verità non del senso. Poi è chiaro che una volta definita così [la negazione] dovremo definirne anche una congruente per il calcolo predicativo. Questo è come si fa oggi. Gli antichi hanno un andamento di carattere diverso, lo vedete, non presentano una teoria in blocco ma presentano la teoria attraverso la distinzione di parole, la teoria viene presentata correntemente come fosse un fatto lessicale. Quest'uso poi nella scolastica medioevale è l'uso corrente, non credo che risulti nuovo. 503
E = non I La complessità è data dal fatto che Aristotele tratta enunciati che noi diremmo del calcolo predicativo; ad esempio esprime l'universale affermativa così: (X) P(x) → Q(x) ovvero per ogni x, se x ha la proprietà P, allora x ha la proprietà Q. Gli Stoici trattano l'enunciato aristotelico come una proposizione non analizzata e la considerano un tutt’uno. 504
418 Capitolo I sugli Stoici 418 Enzo Melandri
Lo steretikon corrisponde alla steresis aristotelica ed è la negazione intesa come privazione. Qui è puramente lessicale la questione, serve semplicemente a dire "attenzione, quando parliamo di negazione intendiamo la privazione". La privazione che cos'è? Se prendete bianco e nero con tutte le sfumature intermedie, ogni sfumatura del grigio può essere intesa come una privazione del bianco o una privazione del nero; prendete il miscuglio acqua-alcol, noi esprimiamo la steresis mediante la percentuale, alcol al 70%, vuol dire che il 30% è acqua. Qui non ci vediamo nessun problema logico nevvero? È solo un problema di misura e di determinazione. Comunque, nel linguaggio ordinario, questa distinzione puramente lessicale può servire a mettere sull'avviso allorché si discutono questioni complesse, si nega o si afferma; non c'è dubbio, per esempio, che si dia spesso una certa confusione a proposito. Cercheremo un po' di capire perché la negazione, tra tutti i funtori, sia quello con cui spesso si fa confusione. Intanto cominciamo a dire di che confusione si tratta. Vi faccio l'esempio di quanto dice Engels all'inizio della Dialettica della natura505, a proposito della dialettica. Dice Engels: ci sono tre leggi della dialettica che sono la legge del passaggio di soglia dal quantitativo al qualitativo e viceversa; la legge della compenetrazione dei contrari, in ogni fatto concreto noi ravvisiamo la compresenza di contrari; e, terza legge, la legge della negazione, la negazione che conduce all'affermazione. Se noi queste osservazioni le dovessimo tradurre in linguaggio logico, troveremmo che sotto alla nozione di dialettica vanno insieme confuse diverse negazioni. La legge del trapasso del quantitativo al qualitativo non so dove la metteremmo, la metteremmo nella steresis? Ma no, a me sembra una teoria complessa, una teoria che deve avere un supporto empirico ma che non presenta nulla di intrinsecamente logico, non vedo che cosa ci sia da negare dal fatto che 505
F. Engels, Dialettica della natura, Editori Riuniti, Roma 1968. Dialektik der Natur, scritto tra il 1873 e il 1886, fu pubblicato per la prima volta nel 1925 in USSR, poi in: Karl Marx Friedrich Engels, Werke, Dietz Verlag, Berlin/DDR 1962.
Titolo del Capitolo I 419 Lezione XVI 419
ci siano dei trapassi, è un problema di soglie. Certo partendo dal punto di vista hegeliano, ogni trasformazione, passaggio di soglia, viene visto come se fosse un movimento di negazione ma io il movimento non lo vedo. La compenetrazione dei contrari è il "non" della steresis. Anche questo è un fatto empirico: non mi si verrà a dire che in ogni cosa ci sono tutti i contrari [solo] perché laddove ci siano coppie di contrari io posso esprimere l'uno come la negazione privativa dell'altro! Si tratterà anche di stabilire, se sono contrari, in che senso e quale sia l'unità di misura della steresis. La terza legge, infine, è l'unica logica, la negazione della negazione diventa affermazione; cioè è l'unica rappresentabile in un sistema vero-funzionale: dato che i valori di verità siano due, dato che siano alternativi, è chiaro che non non p diventa p. Bisogna però soggiungere che questo è valido in una logica crisippea; perché in una logica intuizionistica è valido solo in un senso: l'affermazione di p implica la doppia negazione, ma la doppia negazione di p non implica l'affermazione di p; perché in una logica intuizionistica la negazione è definita in maniera diversa, leggermente diversa, ma abbastanza da non rendere più equivalente p alla doppia negazione506. Dunque, vedete, come alla negazione si colleghino confusioni in parte rimediabili lessicalmente - tenendo presente che nella logica crisippea la negazione è definita così e basta – in parte che non dipendono solo da questo, non dipendono cioè dalla confusione tra l'apophasis, l'arnesis, la steresis, ma dipendono anche dai vari livelli in cui gioca la negazione. Una negazione in un apparato metalogico non è lo stesso che la negazione dell'oggetto del nostro discorso. Nell'oggetto del discorso p e non p è una contraddizione. Nel metalinguaggio dico "essendo una contraddizione la cancello". Questo cancellare la contraddizione rappresenta un tipo di negazione che 506
L'intuizionismo, non assumendo il principio di terzo escluso, nega conseguentemente anche il principio dell'eliminazione della doppia negazione; volendo spiegare meglio si può dire che ciò discende dalla natura costruttivistica della logica e della matematica intuizioniste: l'incapacità di costruire non p non garantisce la costruibilità di p; cfr. Kneale Cap. XI § 3.
420 Capitolo I sugli Stoici 420 Enzo Melandri
ha un diverso significato dalla negazione che costituisce la contraddizione nel linguaggio oggetto. Quando nel calcolo si presenta la contraddizione e questa contraddizione è disgiunta rispetto alle altre, io faccio come in matematica quando ho +a e –a: cancello; nel calcolo logico, lo cancello. Se questa proposizione è congiunta con tutto il resto, cancello tutto il congiunto; se invece è una contraddizione in un contesto disgiuntivo, cancello solo quello e rimane il resto. Questa operazione però che faccio cancellando è diversa dall'altra, per cui bisogna stare attenti ai livelli; io decido usando il calcolo di cancellare la contraddizione, obbedisco a leggi di logica, però questa operazione è diversa dall'altra con cui ho stabilito la contraddizione. Come vedete, proprio la semplicità del funtore di negazione può mettere fuori strada, non è così semplice. La legge della doppia negazione nella logica aristotelica è ~~p ↔ p non non p se e solo se p la negazione crisippea è: p può essere vero o falso; non p sarà falso o vero. Vi voglio rifare il quadrato aristotelico507:
Schema 16.2. Quadrato aristotelico delle opposizioni con quantificatori 507 Nello schema 16.2, da me rielaborato, i simboli alfabetici A, I, E, O, sono riproposti nel simbolismo della logica dei predicati.
Titolo del Capitolo I 421 Lezione XVI 421
Abbiamo proposizioni del tipo: (A) universale affermativa: (x) fx si legge: per tutti gli x f di x; esempio: tutti gli uomini sono ricchi (E) la contraria è l'universale negativa: (x) ~fx per tutti gli x non f di x: tutti gli uomini sono non-ricchi (O) la contraddittoria dell'universale affermativa è l'esistenziale negativa: x ~fx esiste almeno un x tale che non f di x: qualche uomo è nonricco (I) la contraddittoria dell'universale negativa è l'esistenziale affermativa: x fx esiste almeno un x tale che f di x: qualche uomo è ricco La contraddizione diametrale corrisponde alla negazione crisippea. Però, applicandosi a forme predicative, ne vien fuori una complicazione. La complicazione rispetto all'uso della negazione crisippea è la stessa complicazione che si ha nell'uso della negazione nella logica proposizionale bivalente rispetto alla logica dei predicati. Nella contraddittoria si applica il funtore di negazione alla quantificazione per cui una universale diventa una esistenziale (o "particolare" in linguaggio aristotelico); nelle contrarie e subcontrarie il funtore di negazione si applica alla variabile predicativa, nel nostro caso f che sta per il predicato "ricco" diventa non f, non-ricco. In Aristotele la cosa non è così chiara come pare oggi dopo l'applicazione della tavola del negativo. In Aristotele si debbo-
422 Capitolo I sugli Stoici 422 Enzo Melandri
no dare anche i casi di subalternazione508 come inferenze valide nel caso che le universali siano vere: se tutti gli uomini sono ricchi allora anche qualche uomo è ricco se tutti gli uomini sono non-ricchi allora anche qualche uomo è non-ricco Però bisogna dire subito che le universali devono essere riempite, devono essere non vuote. E questo non è un pallino metafisico di Aristotele, è una teoria logica del sistema aristotelico che complica ancora le cose, perché il quadrato, se io lo riempio tutto, risulta incongruente: come faccio io ad assumere nello stesso quadro che tutti gli uomini sono ricchi e tutti gli uomini sono non-ricchi? Dove la definizione di contrarietà è che due proposizioni contrarie possono essere entrambe false ma non entrambe vere. Lo vedete che si dà una complicazione di lettura dello schema. E dipende dalla teoria logica509. Anzi direi che in Aristotele la teoria logica è talmente prevalente che non lascia mai comparire la logica come un dato. Lasciatemi dire il contrario di quello che dice Bocheński. Aristotele non è il fondatore della logica formale, è il fondatore della teoria logica, sì, anzi di un mucchio di teorie logiche. Ma se mi chiedete che calcolo salta fuori rispondo: nessun calcolo, non è formale, è formulabile, non formalizzabile. È evidente che la lettura logica di questo quadro impone che le universali debbano essere non vuote, se sono non vuote possono essere entrambe false, una può esser vera e l'altra falsa, va bene, ma se sono vuote non sta in piedi: il quadrato è troppo carico di teo508
Dalla universale affermativa alla esistenziale affermativa; dalla universale negativa alla esistenziale negativa. Nella logica dei predicati non valgono le inferenze dall'universale all'esistenziale: da tutti gli uomini sono ricchi non si può inferire esiste un uomo ricco; così come da tutti gli unicorni sono quadrupedi non si può inferire esiste un unicorno quadrupede. In altri termini ancora: le universali possono denotare classi vuote, le esistenziali no, quindi per inferire dall'universale l'esistenza bisogna assicurarsi che la classe denotata non sia vuota. 509 La teoria consiste nell'assumere che debba valere l'inferenza dalla universale alla particolare e per valere l'inferenza l'universale non può essere vuota.
Titolo del Capitolo I 423 Lezione XVI 423
ria, è sovradeterminato. È troppo carico di teoria, finalmente cominciamo a capire che cosa vuol dire sovradeterminazione, è un inconveniente che si dà quando la teoria finisce col produrre delle teorie. La relazione di contrarietà richiede che sia non vuota qualche volta. La relazione di subcontrarietà lo richiede sempre perché è qui che si applica la steresis chiaro? Quando l'uomo è più o meno ricco o più o meno povero allora facciamo le percentuali e poi la curva di Gauss, è lì sotto che sta di casa. Infatti la relazione più bella del quadrato è quella di subcontrarietà; ma è la meno logica. Vedete come è complicato lo schema aristotelico, come è genialmente semplice quello crisippeo? Spesso si sente sostenere che la logica aristotelica, depurata che sia delle sue complicazioni, diventa quella crisippea, che la negazione aristotelica non è diversa da quella crisippea e che se ciò non risulta è a causa della mancata formalizzazione. Distinguerei bene quindi anche a questo proposito i due diversi significati: "formulazione" e "formalizzazione". Quindi è Aristotele o no l'inventore della logica formale? Rispondete come vi pare, ma se la parola "formale" può significare che la logica aristotelica è formulabile, che si può mettere in formule, è una cosa; ma se si intende invece dire qualcosa di più, cioè che è formalizzabile, allora no. Con formalizzazione intendiamo non solo una messa in formule di una teoria logica ma intendiamo la logica vera e propria cioè il calcolo, il fatto che queste formule siano suscettibili di calcolo. Questa definizione è molto importante anche per noi, è importante nel calcolo delle scienze. Un conto è in matematica dove difficilissimo è capire la distinzione tra messa in formule, (formulazione) e formalizzazione acquisita, cioè sviluppo di una teoria. Andando a rivedere le cose scritte dai matematici, per esempio i tredici volumi di Poincaré e altri, sono tutti libri scritti in lingua matematica, e vedete quanto è difficile. I matematici cominciano a riempire due pagine dicendo "poniamo che, poniamo che, poniamo che" e poi salta fuori il piccione dal cilindro. E chi non è abbastanza scafato non capisce mai se è un trucco o se invece è una deduzione. Alle volte non lo capisco-
424 Capitolo I sugli Stoici 424 Enzo Melandri
no nemmeno loro, si può facilmente ingannarsi, io ho l'impressione che alle volte non capiscano nemmeno loro. È il problema dell'esistenza in matematica, ponete quello che vi pare, bisogna vedere poi come si deduce qualcosa, al di là di quello che si è posto. Se si deduce sul serio allora diventa una formalizzazione.
16.3. Connettivi IV: il condizionale Inizia qui l'ultima parte della lezione che tratta dei condizionali. Un accenno era stato fatto nella Lezione XII; ora il discorso si completa considerando le due nozioni di condizionale, quella filoniana e quella diodorea che sembrano essere state oggetto di un capillare (non cavilloso) dibattito nella Stoa e altresì di uno scherno dovuto all'incomprensione dei commentatori contemporanei e successivi. Com'è noto il dibattito ritorna vivo con la proposta di Lewis che mira a scansare i cosiddetti paradossi dell'implicazione e che approderà alla formalizzazione dei sistemi modali. Per la questione dei condizionali bisogna tenere presente che Bocheński usa la parola "implicazione" anziché "condizionale". Questa affermazione apparentemente neutra nasconde una polemica con Bocheński che ha ragioni filosofiche, o meglio, di teoria logica, di cui vedremo subito il rilievo.510 20.05. Tutti i dialettici dicono che una [proposizione] connessa è corretta [hygies] quando il suo conseguente segue [akolouthei]] dal suo antecedente – ma disputano sul come e quando essa segua, e propongono criteri rivali.511 510
Il termine greco synemmenon viene tradotto nei VSF da Roberto Radice con "sillogismo ipotetico"; da Antonio Russo in Sesto Empirico Contro i Logici (= Adv. math. VII-VIII) con "proposizione ipotetica"; in Kneale è tradotto "condizionale"; in Mates è tradotto "implication" (ma nella n. 20 a p. 45 citata oltre scrive "Philonian conditional" e "Deodorean conditional"); anche nella traduzione inglese di Łukasiewicz, On The History of the Logic of Propositions, op. cit., si usa "implication". 511 Cfr. Bocheński § 20 B; da AM VIII 112.
Titolo del Capitolo I 425 Lezione XVI 425
Perfino Callimaco, bibliotecario di Alessandria nel II secolo a. C., diceva: 20.06. Gli stessi corvi gracchiano sui tetti quali implicazioni siano corrette.512
Dice poi che gli Stoici non avevano l'idea del condizionale: […] evitando la parola "condizionale" perché l'idea di condizione era apparentemente estranea al pensiero megarico-stoico.
Qui di nuovo devo dissentire perché non capisco cosa intenda dire, non è un'implicazione se con implicazione intendiamo quello che suggerisce la parola. Dice Bocheński: "il concetto di condizione era estraneo", perché estraneo? Condizione ha vari sensi, condizione nella concezione vero-funzionale della logica ha il senso della tavola di verità che definisce il condizionale. Non capisco perché si debba dire di no, definito così "condizione" in questo contesto vuol dire quello. È meglio usare "condizione" che "implicazione" secondo me, perché rende di più l'idea del carattere artificiale della connessione che viene stabilita tra le proposizioni, non in base al significato che esse hanno, ma in base alla tavola di verità, questo è tutto. È chiaro che dove sussista implicazione nel significato deve esserci anche il valore di verità. Però non è vera la reciproca. Quindi ognuno può usare il termine che vuole, può dire tanto "implicazione" quanto "condizionale" ma mi sembra che sia più giusto dire "condizionale". Tanto più che il termine "condizionale" ci rammenta del condizionale della grammatica che non è senza rapporto con questo. È di nuovo la consecutio temporum di cui ho parlato. La consecutio temporum, nella scuola peripatetica contemporanea a Cleante, è già abitualmente considerata valida quando in un'implicazione condizionale antecedente e conseguente sono entrambi falsi. Come dire, l'implicazione: "se io non sono stanco allora sono un cinese "è valida, e non certo per il senso e nemmeno per la verità, 512
Ibid, da: AM I 309.
426 Capitolo I sugli Stoici 426 Enzo Melandri
sono tutte e due false, però è valida l'implicazione. Adesso vedremo perché. Quindi io tradurrei synemmenon con "condizionale". 20.05 Tutti i dialettici dicono che una [proposizione] connessa è corretta [hygies ] quando il suo conseguente segue [akolouthei] dal suo antecedente513
Non vedo questo "proposizione connessa", cioè un condizionale, non lo vedo. La parola hygies vuol dire che è sano, curiosamente la stessa espressione compare in inglese, sound sono argomenti che si dicono sound; in inglese hanno un determinato significato: un argomento è sound quando può concludere alla verità, ma può anche essere corretto quando non conclude alla verità. Il termine akolouthei è scelto perché si dà l'errore detto "anacoluto" o figura retorica detta "anacoluto" che vuol dire "non segue", "non conclude"; una frase si dice anacoluto quando non chiude, qui invece, quando il conseguente segue, si dice akolouthei. 20.07 Filone dice che il condizionale è vero quando non accade che esso cominci con il vero e finisca con il falso 514 […].
L'implicazione filoniana, è la più interessante perché l'implicazione filoniana è quella che è stata riscoperta da Frege. "Comincia " e " finisce": qui l'antecedente si chiama egoumenon e il conseguente legon. Egoumenon vuol dire "dominante" e egon "dicente". Sì, va bene, anche in grammatica protasi e apofasi sono i nomi del primo e secondo nella proposizione al condizionale.
513
Il frammento continua così: "ma disputano sul come e quando esso segua, e pongono criteri rivali". 514 Così il parlato di Melandri ma in Bocheński, ibid, si legge: "20.07 Filone diceva che [la proposizione] connessa è vera quando non accade che essa cominci con il vero e finisca con il falso".
Titolo del Capitolo I 427 Lezione XVI 427
20.07 […] Secondo lui vi sono quindi tre modi per ottenere un condizionale vero e solo uno per ottenerne uno falso. [1] Se comincia con il vero e finisce con il vero, il condizionale, è valido come per esempio "se è giorno, c'è luce"; [2] quando comincia con il falso e finisce con il falso è vero, il condizionale, come per esempio "se la terra vola, la terra ha le ali", esempi antichi; [3] analogamente per quello che comincia con il falso e finisce con il vero come per esempio "se la terra vola la terra esiste". È falsa soltanto quando, cominciando con il vero, finisce con il falso, come per esempio "se è giorno, è notte"; infatti, quando è giorno la proposizione "è giorno" è vera, e questa era l'antecedente; e la proposizione "è notte" è falsa, e questa era la conseguente.515
Quindi abbiamo qui, già con Filone di Megara, la definizione vero-funzionale del condizionale. Date due proposizioni p e q allora diremo se p allora q e otteniamo la matrice [si veda la tavola 12.6] Nel condizionale avviene che il condizionale sia falso solo se l'antecedente è vero e il conseguente è falso. Questo, bisogna precisare, è il condizionale definito unicamente sul valore di verità, non sul senso. Se lo dovessimo definire sul senso, cioè come implicazione di senso, le condizioni sarebbero molto più restrittive, ovviamente; e anche se dovessimo definirlo come implicazione stretta o formale516. Questa è 515
Anche in questa lettura Melandri apporta delle varianti al testo. In Bocheński, ibid, si legge: "20.07 […] Secondo lui vi sono quindi tre modi per ottenere una [proposizione] connessa vera e solo uno per ottenerne una falsa. Infatti, [1] se comincia con il vero e finisce con il vero, essa è vera, come ad esempio 'se è giorno, c'è luce'; [2] quando comincia con il falso e finisce con il falso è vero, essa è vera, come ad esempio 'se la terra vola, la terra ha le ali'; [3] analogamente per quella che comincia con il falso e finisce con il vero, come ad esempio 'se la terra vola, la terra esiste'. È falsa soltanto quando, cominciando con il vero, finisce con il falso, come per esempio 'se è giorno è notte'; infatti, quando è giorno la [proposizione] 'è giorno' è vera, e questa era l'antecedente; e la [proposizione] 'è notte' è falsa, e questa era la conseguente. 516 Per quanto concerne l'implicazione stretta si veda oltre. Quella che Russell chiama "implicazione formale" è stata introdotta da Peano e Pierce; essa coincide con l'applicazione del condizionale filoniano (implicazione materiale) al calcolo dei predicati; la sua forma generale nel nostro simbolismo sarebbe: (x) F(x) → G(x); cfr. Bocheński § 44 C. Tuttavia qui (come precedentemente nella Lezione XII) Melandri usa il termine "formale" in un senso più generale. Secondo Tarski i logici decisero di considerare l'uso di se … allora sensato "anche qualora non esista nessuna connessione tra i due elementi e fecero dipendere la verità o la falsità di un'implicazione esclusivamente dalla verità o falsità dell'antecedente o del conseguente" e questo per quanto concerne l'uso dell'implicazione materiale che si oppone a quello dell'im-
428 Capitolo I sugli Stoici 428 Enzo Melandri
l'implicazione detta materiale, che io chiamerei condizionale. L'esempio che vi suggerisco è sempre quello della promessa fatta alla madre ansiosa: se piove, prendo l'ombrello, sì va bene; se non piove, prendo l'ombrello, precauzione inutile ma va bene; se non piove, non prendo l'ombrello va bene; va male solo se piove, non prendo l'ombrello517. Come vedete questo è un condizionale puro, non c'è nessuna legge di natura implicita in esso; semplicemente rispetta le condizioni. Troviamo qualche esempio che è congruente coi nostri usi. Usi molto poveri no? Logicamente sono molto poveri, devono essere così, è giusto che sia così. Quindi qui tanto di cappello a Filone di Megara per aver detto queste cose nel terzo secolo a. C. L'implicazione Diodorea: gli antichi consideravano l'implicazione diodorea come contraddittoria di quella filoniana. [20.08] Diodoro dice che la [proposizione] connessa,
cioè il condizionale è vera quando finisce con il vero e né potrebbe né può finire con il falso.518 […]
Gli antichi, quasi tutti i nomenclatori del resto, hanno considerato l'implicazione diodorea alternativa a quella filoniana. Ma se leggete attentamente non è alternativa, semplicemente Diodoro si rifiuta di considerare il condizionale che non concluda con il vero. […] Ciò contraddice la posizione filoniana.
questo "contraddice" lo dice Bocheński519 plicazione formale nel cui caso la presenza di una certa connessione formale tra antecedente e conseguente è condizione indispensabile per la sensatezza e verità dell'implicazione. Il concetto di implicazione formale non è forse molto chiaro, ma in ogni caso è più ristretto dei quello dell'implicazione materiale; […]", cfr. Introduzione alla logica, op. cit. p. 49. 517 In questo esempio il vero sta all'asciutto come il falso al bagnato. 518 Il passo è tratto da Sesto Empirico AM VIII, 115 sgg.
Titolo del Capitolo I 429 Lezione XVI 429
Infatti la proposizione connessa "se è giorno, io converso" è vera secondo Filone nel caso in cui sia giorno e io conversi, perché essa comincia con la [proposizione] vera "è giorno" e finisce con la [proposizione] vera "io converso". Secondo Diodoro invece [essa è] falsa. Infatti, in un dato momento essa può cominciare con la [proposizione] vera "è giorno" e finire con la [proposizione] falsa "io converso", nel caso in cui io taccia […].
Come vedete la precisazione diodorea è una precisazione restrittiva rispetto al condizionale filoniano. La differenza fondamentale, come ci fa notare Mates, tra la concezione filoniana e quella diodorea del condizionale riposa sulla distinzione tra proposizione e funzione proposizionale: "Si deve sempre ricordare che antecedente e conseguente di un condizionale diodoreo sono funzioni proposizionali, e cioè contengono tacitamente una variabile temporale libera, mentre i costituenti di un condizionale filoniano sono proposizioni. Quindi, in corrispondenza di ogni condizionale diodoreo abbiamo un numero infinito di condizionali filoniani – uno per ogni istante. Il condizionale diodoreo è vero se tutti i condizionali filoniani sono veri; ma se si dà un tempo t tale per cui il corrispondente condizionale filoniano per t è falso, allora il condizionale diodoreo è falso. Si noti che in Sesto AM VIII, 245, è asserito che l'implicazione filoniana è alla base di tutte gli altri tipi, ossia, è la più debole"520. Melandri, sulla non contraddittorietà tra implicazione filoniana e diodorea, concorda quindi con Mates. Secondo me non è contraddittoria. Abbiamo piuttosto l'implicazione rigida o stretta in cui, qui per esempio, viene inserito il tempo. "Implicazione rigida" è traduzione equivalente a "implicazione stretta" della nozione di strict implication introdotta da Lewis. Per
519
Nel testo di Sesto Empirico tradotto da Russo la frase "Ciò contraddice la proposizione filoniana" non compare; compare invece nel testo greco consultato: Sexti Empirici, Opera, ed. J. Mau, Lipsiae 1958.
520
Cfr. Mates p. 45 n. 20; Kneale p. 158.
430 Capitolo I sugli Stoici 430 Enzo Melandri
chiarire il significato di questo paragone riassumerei come segue la distinzione tra implicazione stretta e diodorea. L'implicazione stretta di Lewis simbolizzata dall'amo, , comporta una nozione modale per cui non si può avere contemporaneamente p vero e q falso: ~P (p . ~q) ≡ N(p → q); in sintesi possiamo definire α β come ~P (α . ~β)521. Diodoro, ponendo il condizionale all'interno di un contesto modale, lo collega, come suo uso, a variabili temporali. La definizione di Diodoro è: "una proposizione condizionale è vera se non è e non è mai stato possibile per l'antecedente di essere vero e il conseguente falso"522; ciò equivale a dire che è necessario che una proposizione che abbia e abbia avuto un antecedente vero abbia e abbia avuto un conseguente vero; secondo il frammento tramandato da Alessandro di Afrodisia523 necessario è ciò che essendo vero non sarà falso; ne risulta dunque un'estensione della temporalità (abbia e abbia avuto) anche al futuro. Non è dunque inverosimile che Diodoro avesse in mente la stessa identica nozione di Lewis. In effetti né Diodoro, né Lewis dicono chiaramente cosa si debba ritenere di una proposizione il cui antecedente è falso il che, sospetto, sia la ragione per cui Melandri nella "tavola di verità" dell'implicazione stretta pone due punti interrogativi. Diodoro si rifiuta di considerare valido un condizionale i cui valori di verità varino nel tempo in modo che possano produrre l'antecedente vero e il conseguente falso. Qui è un'ulteriore complicazione, di modo che dobbiamo introdurre il funtore tempo ma per me non sono direttamente contraddittorie. Filone ha definito il condizionale secondo i valori di verità, senza preoccuparsi del modo in cui i valori di verità ci vengano dati. Evidentemente in Diodoro c'è la preoccupazione di quantificare le proposizioni e quindi di dovere riferire gli enunciati al tempo, mi sembra una costruzione ulteriore piuttosto che una questione di contraddizione.524 521
Cfr. H+C, pp. 43-44 e app. 2. Cfr. Mates p. 44. 523 Vedi 14.3. 524 Come dicono i Kneale "Diodoro è frustrato sia dalla sua appassionata determinazione di prendere i tempi grammaticali sul serio, sia dalle sue incertezze intorno alla natura dei soggetti cui egli applica i predicati "vero" e "necessario". 522
Titolo del Capitolo I 431 Lezione XVI 431
p
q
1
1
1
1
0
0
0
?
1
0
?
0
Tabella 16.1. Tavola di verità dell'implicazione stretta
C'è la questione del tempo e c'è un altro tipo di implicazione. Nel tipo di implicazione che presenta Diodoro, la synartesin, si ravvisa l'implicazione rigida. L'implicazione rigida è quella che si definisce vera nel primo caso, falsa nel secondo e negli altri casi punto interrogativo. È indefinita negli altri casi, non è che sia falsa, è indefinita525. Purtroppo le ultime frasi della lezione sono incomprensibili ed è quindi impossibile sapere se al di là del sostanziale accordo con Mates egli avanzasse ulteriori argomenti intorno alla distinzione illustrata.
525
Colgo l'analogia suggerita da Maurizio Matteuzzi secondo cui nel linguaggio di programmazione dell'informatica l'istruzione: if A then do B - ossia se si presenta A allora passa a B altrimenti procedi all'istruzione successiva - corrisponde all'implicazione di Diodoro; mentre l'alternativa: if A then do B else do C - se si presenta A passa a B altrimenti a C - corrisponde all'implicazione di Filone.
Lezione XVII
17.1. Connettivi V Nonostante la ridondanza ho valutato fosse meglio, al fine della scorrevolezza del discorso, non sopprimere le ripetizioni. Come si è già detto, in Melandri le ripetizioni fanno parte della ciclicità di un metodo di indagine che anche didatticamente ha il suo valore in quanto offre sempre nuove prospettive. Bocheński parla di disgiunzione completa e incompleta, congiunzione, equivalenza e altri funtori526. Invece di "disgiunzione completa", io preferisco e normalmente si usa "disgiunzione esclusiva", e invece di "incompleta" "inclusiva". Presso gli Stoici, presso gli Ellenici, direi anche nel linguaggio ordinario, la disgiunzione viene normalmente intesa come esclusiva non come inclusiva. Si chiama diezeugmenon e quella inclusiva paradiezeugmenon. Il latino distingue: la disgiunzione esclusiva viene espressa con l'aut aut, in italiano sarebbe col doppio "o"; la disgiunzione inclusiva in latino è col vel, in italiano non esiste una particella a parte, bisogna capire dal contesto se è inclusiva o esclusiva; si può anche mettere
526
Bocheński, pp. 162-164.
433
434 Capitolo I sugli Stoici 434 Enzo Melandri
"e/o" per dare l'inclusione. Anche in greco, come in italiano, non esiste un modo per indicare l'aut distinto dal vel. La matrice della disgiunzione esclusiva è molto semplice [si veda la tavola 12.3.] p o q [aut/aut] nel senso dell'alternativa, ossia nel senso della disgiunzione esclusiva: è falso quando entrambe sono vere; vero quando sussiste l'alternativa ed è falso quando sono entrambe false: non possono essere entrambe vere. Vel, la disgiunzione inclusiva, invece indica l'altra maniera [si veda la tavola 12.4.] p vel q è falsa solo quando entrambe sono false. Non credo occorra dire altro. Forse qui abbiamo un esempio di ciò che vi dicevo a proposito della comodità di uso in logica dei connettivi più deboli rispetto a quelli più forti. La definizione dell'alternativa come inclusiva è più debole dell'alternativa esclusiva e questo permette di esprimere quella più forte mediante un'aggiunta. Se io voglio esprimere l'alternativa in funzione del vel posso dare questa definizione: p / q significa per definizione (p v q) . ~(p . q) quella più debole riesce a esprimere la più forte. Mentre è meno naturale partire dalla alternativa esclusiva e introdurre l'inclusiva. Teniamo presente inoltre che noi abbiamo la congiunzione, e in italiano, et in latino, che ha il valore 1 0 0 0, cioè la congiunzione di due proposizioni è vera solo quando sono entrambe vere [si veda la Tavola 12.2.] Voi vedete il vantaggio di avere il vel duale rispetto all'et cioè sono duali tra loro. Questa relativa simmetria è una proprietà utile perché serve a mettere meglio in evidenza certi luoghi notevoli con le formule del calcolo. Dunque la congiunzione è il sympeplegmenon. Le parole sono tremende ma le cose sono semplici. La disgiunzione inclusiva, il vel, in latino si chiama disiunctum e questa traduzione è di Boezio ma credo che risalga a Cicerone. Il coniunctum o copulatum è la congiunzione.
Titolo del Lezione CapitoloXVII I 435 435
Resta da trattare l'equivalenza che viene intesa come un bicondizionale. L'equivalenza ha questa matrice: p
↔ q
1
1
1
1
0
0
0
0
1
0
1
0
Tabella 17.1. Tavola di verità del bicondizionale (o equivalenza)
p equivale a q: è vero quando le proposizioni hanno lo stesso valore di verità. Si legge se e solo se527. Salvo il diezeugmenon che viene preferito al paradiegzeumenon, il resto è uguale come nel calcolo proposizionale della logica moderna. Ci sono poi degli altri funtori, proposizioni composte attraverso la connessione causale e la connessione relativa; ma i funtori di queste connessioni rimangono grammaticali e non logici perché non sono definibili mediante funzioni di verità. Va bene? Siccome abbiamo impostato la logica sul calcolo proposizionale, tutti i funtori che non riusciamo a definire in questo modo cadono anche fuori da questa logica. Non è detto che non possano essercene altri ma non faranno parte di questa logica. Bene, qui non c'è da dire nulla perché le cose interessanti le abbiamo viste ieri sulla negazione e sull'implicazione filoniana e diodorea.
17.2. Argomenti A questo punto abbiamo finito i due primi capitoli della logica che vorrei ricapitolare per chiarezza in questa maniera. 527
"Bicondizionale" e "equivalenza" sono sinonimi che denotano la stessa tavola di verità. Si abbrevia anche "sse"; come segno grafico ho fatto uso di "≡" quando nel parlato era detto "equivalenza".
436 Capitolo I sugli Stoici 436 Enzo Melandri
Abbiamo fatto il primo capitolo intorno alla semiologia: il segno come semainon, il significante; il significato, il lekton. Questo capitolo della logica dovrebbe essere la semiologia, cioè la teoria dei segni. Insieme alla teoria dei segni abbiamo trattato, seppure di sfuggita, il problema della percezione e il rapporto tra percezione e pensiero; come si viene delineando la dottrina stoica della percezione e come anche dovremmo interpretarla modernamente per orientarci nella questione. Poi abbiamo visto il secondo capitolo che vorrei chiamare il calcolo proposizionale: tutto il calcolo proposizionale si regge sulla definizione delle costanti logiche per i funtori in senso verofunzionale. Data una proposizione semplice il cui valore di verità è espresso da una matrice, le proposizioni composte si danno come combinazioni dei valori di verità. Naturalmente se assumo una proposizione la matrice ha due valori, per definire la negazione ho la matrice di p che è vero e falso, una proposizione, 2 valori; due proposizioni 4 valori nella matrice, tre proposizioni saranno 23 fa 8 e così via. In genere tutto il calcolo proposizionale si esemplifica su due proposizioni. Non è necessario introdurre complicazione su tre, quattro proposizioni, sono sufficienti due proposizioni per capire la maggior parte dei problemi. Il numero 2 è un po' un numero magico in matematica e in logica perché esprime la connessione di due variabili. Qui Melandri omette di dire che un lungo capitolo è stato dedicato alla modalità. Ora, è chiaro che dai frammenti non si evince un vero e proprio calcolo e che una logica modale risulta solo da interpretazioni peraltro controverse. Tuttavia l'importanza del capitolo sulla modalità è strettamente connesso alla questione del determinismo, anzi, il determinismo, tema fondamentale in tutte le letture dello stoicismo sin dall'antichità, viene analizzato da Melandri con l'ausilio di alcune formule desunte dai frammenti. Inoltre, sia Mates sia Kneale sia Bocheński vi dedicano uno capitolo che segue la teoria dei segni e precede quella dei connettivi e degli schemi di inferenza (o argomenti). Per cui l'omissione non può essere attribuita che ad una distrazione.
Titolo del Lezione CapitoloXVII I 437 437
Da questa ricapitolazione risulterebbe la seguente classificazione interna alla logica Stoica: primo, teoria dei segni e della percezione528; secondo, calcolo proposizionale e modale; terzo argomenti. In linea di massima l'esposizione di Melandri della logica stoica segue i capitoli stabiliti nel lavoro di Mates che sono ripresi sia da Bocheński sia dai Kneale. Questi lavori sono di fatto studi di storia della logica che considerano la logica stoica, tenuto conto delle dovute cautele ermeneutiche, sotto la luce della logica moderna. Pertanto le classificazioni interne al capitolo della logica ivi comprese differiscono sia per ordine che per terminologia da altri lavori orientati all'intero complesso del pensiero stoico quali quello di Von Arnim e di Pohlenz. A mio modo di vedere l'esposizione di Melandri suggerisce la seguente classificazione. logica
etica
teoria della conoscenza
calcolo proposizionale
modalità
semiologia
condizionali
definizioni diodoree
percezione
altri connettivi
fisica
529
argomenti Argomento Vincitore
dimostrativi
indimostrabili
Tabella 17.2. I capitoli della logica stoica
Il terzo capitolo, che iniziamo oggi, è quello sugli argomenti: quali sono gli argomenti validi e quali non sono validi. Naturalmente questi argomenti sono diversi da quelli aristotelici per il fatto che sono argomenti fondati sulla proposizione e non sul significato, sono argomenti del calcolo proposizionale, non di quello predicativo. Qui vedete l'altra grande differenza tra l'impostazione aristotelica della logica e quella stoica. Per Ari528
Nel senso della phantasin logike¸ ossia del piano simbolico della percezione in cui interviene il pensiero. 529 La classificazione completa degli argomenti secondo Mates pp. 58-63 è la seguente: validi
non validi
veri dimostrativi
non dimostrativi
falsi indimostrabili semplici
derivati
Tabella 17.3. Classificazione degli argomenti secondo Mates
438 Capitolo I sugli Stoici 438 Enzo Melandri
stotele viene prima il calcolo predicativo, essendo la logica di Aristotele una logica, si può dire, del concetto. Dire logica del concetto equivale a dire logica basata sul calcolo predicativo. Qui invece abbiamo una logica basata sul calcolo proposizionale. Nulla vieta di unire le due forme di logica in una sola come facciamo noi oggi e come facevano già Galeno, Boezio e altri. Naturalmente rimane sempre una differenza secondo che si parta dal calcolo predicativo per includere quello proposizionale oppure si parta dal calcolo proposizionale per costruirvi sopra, come forma speciale, il calcolo predicativo. Le forme argomentative valide erano già un capitolo della logica aristotelica nella trattazione che Aristotele dà del sillogismo. Attenzione però che la parola "sillogismo" per noi oggi vuol dire solo il tipo di argomento aristotelico come Barbara, Ferio, Darii, ecc. In greco syllogismos è qualsiasi argomento. Logismos vuol dire calcolo in greco, syllogismos è una proposizione calcolabile. Gli Stoici usano una parola diversa. Non usano syllogismos per indicare qualsiasi argomento ma anche qui tendono a marcare la differenza parlando semplicemente di logos. Qui logos vuol dire ragionamento, argomento valido. Vi leggo: 21.01. Un argomento [logos] è un sistema costituito da premesse e da [una] conclusione. Le premesse sono le proposizioni accettate per la dimostrazione della conclusione, la conclusione è la proposizione dimostrata a partire dalle premesse. Ad esempio, nel seguente argomento: "se è giorno c'è luce; ma è giorno; dunque c'è luce", "c'è luce" è la conclusione, le altre proposizioni sono le premesse.530
Questo argomento è un modus ponens, poi lo vediamo; perché qui ancora non dice che il logos debba essere per forza un argomento valido. Il logos, così com'è data la definizione, è qualsiasi argomento di cui le premesse fungono da prova alla conclusione. Non si dice ora di che consista questa prova. 21.02. Alcuni argomenti sono conclusivi [sinakticoi] altri non conclusivi. Sono conclusivi quando la proposizione connessa che inizia con la 530
Bocheński, da Sesto Empirico, Pyrr. hip. B 135 sgg.
Titolo del Lezione CapitoloXVII I 439 439
congiunzione delle premesse dell'argomento e finisce con la conclusione è vera. Ad esempio, l'argomento citato in precedenza è conclusivo, perché dalla congiunzione delle premesse "se è giorno, c'è luce" e "è giorno", segue "c'è luce" nella proposizione connessa: "se: è giorno e: se è giorno, c'è luce, allora c'è luce". Non conclusivi sono gli argomenti non costruiti in questo modo.531
Perché dunque si dia conclusione sono necessarie due premesse, non meno di due, una premessa è di solito condizionale, non è detto che debba essere condizionale, l'altra premessa è assertoria. Questo è molto semplice. Dunque un argomento è ad esempio: [( p → q ). p] → q e si legge: se p allora q, e p; tutto questo [allora] q Per verificare se l'argomento è valido devono venire tutti 1. [( p
→
q)
.
p]
→
q
1
1
1
1
1
1
1
1
0
0
0
1
1
0
0
1
1
0
0
1
1
0
1
0
0
0
1
0
Tabella 17.4. Tavola di verità dell'argomento detto modus ponens
L'intero schema è una tautologia e quindi può servire come forma d'inferenza. Attenzione a distinguere la proposizione logicamente vera dallo schema inferenziale anche se coincidono. La proposizione che è sempre vera è questa: [( p → q ). p] → q
531
Ibid.; da Sesto Empirico B 137.
440 Capitolo I sugli Stoici 440 Enzo Melandri
questa è una verità logica. Non è ancora uno schema inferenziale. Per avere lo schema inferenziale devo pensarlo in quest'altra forma: se p allora q, e p, (due asserzioni); dunque q Ⱶp →q Ⱶp _______ Ⱶ q 532
La differenza è questa: che una proposizione tautologica è una verità logica, è un'asserzione intorno a quello stato di fatto che è lo stato espresso da quella formula, mentre uno schema inferenziale è un'operazione, è l'applicazione di un'operazione. Dunque, questo viene chiamato modus ponens, anzi meglio, modus ponendo ponens. Vuol dire che: dato il condizionale, asserendo la condizione sufficiente, si ricava q valido; si può staccare la conclusione. Un argomento è valido quando la conclusione può essere staccata dalle premesse. Io posso asserire q separatamente. Quando io invece ho un argomento in cui la conclusione rimane legata alle premesse, non la posso staccare dalle premesse, la dizione antica diceva a questo punto che l'argomento era probabile. È un uso di "probabile" che è alquanto, anzi totalmente diverso dal nostro. Ve lo rammento: trovare negli scritti antichi la parola "probabile" può dare dei crampi mentali. Va inteso, "probabile", in senso etimologico: è ciò che si può provare ma non si può staccare dalle premesse, "è probabile", non è prova; la parola "probabile" deriva da una diminuzione del carattere di prova. E questo "probabile" è in genere legato agli argomenti detti dialettici in cui noi non sappiamo se la premessa Il segno "Ⱶ" si legge "è una tesi"; il segno " " è il segno di deduzione. Di solito quando si presenta un sistema di logica proposizionale le regole d'inferenza sono presentate nella forma lineare. 532
Titolo del Lezione CapitoloXVII I 441 441
sia vera, cioè se sia asseribile separatamente, e allora operiamo attraverso un'alternativa di premesse. Di qui Melandri prosegue la lezione scrivendo alla lavagna i modi medioevali e i cinque anapodittici con l'indicazione per ciascuno del modo medioevale equivalente. Data la quantità di deittici di cui è infarcito il parlato è impossibile seguire la lezione e riproduco dunque quanto si trova nei testi. Come dice Łukasiewicz, "la sopravvivenza della logica proposizionale stoica nel medioevo è particolarmente evidente nella teoria delle consequentiae. Per consequentia i logici medioevali non intendevano solo una implicazione ma anche uno schema di inferenza"533. In Abelardo per es. consequentia significa "proposizione condizionale" ma, scrivono i Kneale, "nella discussione sulle consequentiae ha, come ovvio, occasione di usare varie regole di logica formale"534. Tra queste regole troviamo due schemi di inferenza che corrispondono ai primi due anapodittici di Crisippo. Sono quelli che nei trattati logici del Trecento verranno chiamati modus ponendo ponens e modus tollendo tollens. Altri due modi che compaiono come anapodittici sono detti, come noto, modus ponendo tollens e modus tollendo ponens (di seguito "modi medioevali"). Cominciamo dunque dall'elenco degli anapodittici contenuto in Bocheński535. 22.04 Il primo [indimostrabile], da una [proposizione] connessa e dal suo antecedente ne fornisce il conseguente, come ad esempio: "se è giorno c'è luce; ma è giorno; dunque c'è luce"; 22.05 il secondo, da una [proposizione] connessa e dalla contraddittoria [antikeimenon] del suo conseguente fornisce la contraddittoria dell'antecedente, come ad esempio: "se è giorno, c'è luce; ma non c'è luce; dunque non è giorno"; 22.06 il terzo, dalla negazione [apophatikon] di una congiunzione insieme con una delle sue componenti fornisce la contraddittoria dell'altra, come ad esempio: " non: è giorno ed è notte; ma è giorno; dunque non è notte";
Łukasiewicz, On the History of the Logic of Propositions op. cit., p. 212. Kneale p. 257. 535 Bocheński pp. 171-172. 533
534
442 Capitolo I sugli Stoici 442 Enzo Melandri 22.07 il quarto, da una [proposizione] disgiuntiva [completa], insieme con una delle proposizioni in essa disgiunte [apezeugmenon], fornisce la contraddittoria dell'altra, come ad esempio: "è giorno o è notte; ma è giorno; dunque non è notte"; 22.08 il quinto, da una [proposizione] disgiuntiva [completa], insieme con la contraddittoria di una delle [proposizioni] in essa disgiunte, fornisce l'altra come ad esempio: "è giorno o è notte; ma non è notte; dunque è giorno".
Di seguito riporto gli indimostrabili come in Kneale536: Degli schemi di inferenza validi, per Crisippo sono basilari cinque. Numerose fonti antiche537 li noverano sotto il nome di indimostrabili (anapodeiktoi tropoi). Essi sono: 1. 2. 3. 4. 5.
Se il primo, allora il secondo; ma il primo; dunque, il secondo. Se il primo, allora il secondo; ma non il secondo; dunque, non il primo. Non: e il primo, e il secondo; ma il primo; dunque, non il secondo. O il primo, o il secondo; ma il primo; dunque, non il secondo O il primo, o il secondo; ma non il secondo; dunque, il primo
Per facilitare il paragone tra anapodittici e modi medioevali li esprimo di seguito nella nostra notazione e sotto forma di tautologie: 1. [( p → q ) . p] → q 2. [( p → q ) . ~q] → ~p 3. [~( p . q ) . p ] → ~q 4. [( p / q ) . p ] → ~q 5. [( p / q ) . ~q ] → p Di seguito i quattro modi medioevali con a fianco indicato il corrispondente anapodittico: modus ponendo ponens: [( p → q ) . p ] → q
536 537
1°
Kneale p. 193. La nota è nel testo citato: Pyrr. hyp. II. 157 sgg. e Adv. math. VIII 224 sgg.
Titolo del Lezione CapitoloXVII I 443 443
modus tollendo tollens: [( p → q ) . ~q ] → ~p modus ponendo tollens: [( p / q ) . p ] → ~q
2° 3° e 4°
modus tollendo ponens: [ (p v q ) . ~p ] → q 5° Il modus ponendo tollens viene anche espresso così: [~( p . q ) . p ] → ~q si vede facilmente applicando De Morgan che le due formule sono equivalenti infatti: ~ ( p . q ) . p ≡ (~p v ~q) . p ≡ (p / q) . p quindi il terzo e il quarto anapodittico sono equivalenti purché si intenda la disgiunzione come esclusiva. Infine, il modus tollendo ponens può essere espresso come il 5° anapodittico: [ ( p v q ) . ~q ] → p poiché, come scrive Bocheński, "da una proposizione disgiuntiva completa [esclusiva], insieme con la contraddittoria di una delle proposizioni in essa disgiunte, fornisce l'altra". Secondo i frammenti risulta che la disgiunzione fosse anche qui intesa come esclusiva (completa). Lo schema tuttavia è valido anche con la disgiunzione inclusiva. Qui io farei alcune osservazioni. Come avete visto, per noi oggi esiste un'unica forma argomentativa che è il modus ponens; a questa formula noi possiamo ridurre tutte le altre; la dimostrazione è offerta dal calcolo. Per gli antichi, non avendo idea della logica come calcolo, per lo meno non in maniera moderna, si dava la necessità di dover registrare le varie forme argomentative secondo la forma enunciativa che esse assume-
444 Capitolo I sugli Stoici 444 Enzo Melandri
vano, e di qui la classificazione dei cinque argomenti non dimostrati come schemi argomentativi che a noi fa un po' l'effetto di una inutile complicazione. C'è un notevole divario tra la logica di Frege e la logica degli Stoici su questo punto perché noi non diremmo mai che questi argomenti sono non dimostrati. Potremmo dire al massimo che quando noi adoperiamo uno schema argomentativo lo adoperiamo senza provarlo, non c'è bisogno di provarlo tutte le volte. Ma in realtà lo schema argomentativo è ricalcato da una tautologia, da una verità logica, quindi è dimostrato, non è vero che non è dimostrato. C'è un divario nella teoria logica, evidentemente, nonostante i progressi fatti non era venuto in mente a Crisippo che le forme argomentative si potessero ricavare dalle proposizioni logiche. Qui segnalo l'impressione che nonostante tutto anche questo modo di pensare rimanesse troppo vincolato alla forma enunciativa. Nonostante negli Stoici la distinzione tra ciò che è grammaticale e ciò che è logico sia abbastanza curata, manca l'altra distinzione, tra ciò che è appartenente al linguaggio della logica e ciò che è della logica. Quando io stabilisco un'equivalenza, l'equivalenza è tra enunciati composti di linguaggio della logica; ma non è un'equivalenza della logica: in tanto c'è equivalenza in quanto essa esprime l'invarianza. Il fatto logico è l'invariante; l'espressione dell'invarianza è un fatto enunciativo, è un fatto linguistico e non logico, anche se si esprime nel linguaggio della logica. Infatti io potrei esprimermi con altri linguaggi, potrei esprimere le relazioni logiche con schemi bidimensionali, come faceva Frege; potrei esprimermi con lampadine che si accendono e si spengono, con dei travasi di liquidi colorati, basta mettersi d'accordo su cosa significhi ogni elemento e ogni relazione per avere dei risultati. Non è sufficientemente distinto questo fatto. Perché noi riusciamo a compiere questa distinzione con relativa agevolezza? Perché c'è a monte l'esperienza della matematica, ci sono alle nostre spalle almeno quattro o cinque secoli in cui l'uso della matematica nella fisica e in altri settori, ci ha abituati a distaccare il pensiero dal linguaggio ordinario per rendere conto dello sta-
Titolo del Lezione CapitoloXVII I 445 445
to di cose, senza più essere legati alle equivalenze enunciative. Noi abbiamo alle spalle un'esperienza di distacco dal linguaggio ordinario. Gli Elementi di Euclide erano presi come cospicuo esempio del pensiero matematico. Il punto che vorrei sottolineare è che gli Elementi di Euclide sono legati alla rappresentazione geometrica e le deduzioni che si compiono per provare il teorema si ottengono sempre tracciando le figure e tutte le trasformazioni su queste figure. Il momento da mettere in rilievo è la mancanza dell'algebra, più specificamente. L'algebra comincia col Seicento, è una acquisizione abbastanza tarda insomma. Ancora Cartesio e Galilei, che pure conoscevano l'algebra, si esprimono con figure geometriche. È fondamentale, nella storia del pensiero, il momento in cui ci si distacca dal linguaggio e si inaugura con l'algebra una nuova e più potente concezione del linguaggio, non più legata ai postulati del linguaggio ordinario e dell'immaginazione non intellettuale. Crisippo pone cinque schemi diversi, invece sono tutt'uno da un punto di vista logico, è sempre il modus ponens qualunque cosa voi scegliate vero? Il modus ponens e quello che chiamerei il sillogismo disgiuntivo538 sono verbalmente diversi ma logicamente identici, questo non si capiva. Se io dico: se p allora q, ma p (p→q).p devo concludere a q. Non si capiva che questa forma linguistica è logicamente equivalente a dire: i casi sono due: o p o q, se c'è p allora cancello q; siccome voglio concludere a q naturalmente qui dovrei dire:
538
Un altro modo di chiamare il modus tollendo ponens.
446 Capitolo I sugli Stoici 446 Enzo Melandri
o p o q, non p, allora q [ ( p / q ) . ~p ] → q Il fraseggio è molto diverso perché una volta adopero il condizionale, l'altra la disgiunzione; tuttavia la differenza è nell'enunciazione, non nello stato di cose logiche. È un po' penoso vedere questa descrizione empirica di argomenti validi perché dà l'idea di una teoria che non è giunta a compimento. Questa teoria è giunta ad esaurire nove decimi della questione ma l'ultimo decimo non è riuscito. Anche i Kneale scrivono: " […] è strano che egli [Crisippo] abbia considerato necessario trattare separatamente i ragionamenti condizionali e i ragionamenti disgiuntivi".539 Ciò pare a maggior ragione poco plausibile considerato che Crisippo, secondo Cicerone (De fato 15-16) riconosce l'interdefinibilità del condizionale con la negazione della congiunzione dell'antecedente e del conseguente. Nella lezione XIII Melandri sembra dia per acquisita da parte di Crisippo, nonostante non compaia nei frammenti, anche la seconda legge di De Morgan ed è inverosimile a mio avviso che non gli fosse nota. Com'è possibile riconoscere l'interdefinibilità dei connettivi logici e non la derivabilità dei quattro anapodittici dal primo? Melandri suggerisce, credo si debbano intendere così le sue parole, che ciò dipenda dalla incapacità di distinguere il piano puramente logico da quello fraseologico. Tuttavia va notato quanto si legge ancora in Kneale alla fine del capitolo dedicato alla logica stoica: "A giudicare dalle osservazioni di autori antichi come Cicerone, e dai titoli delle opere attribuitegli da Diogene Laerzio, Crisippo elaborò, a partire dai suoi cinque indimostrabili, un gran numero di teoremi, o modi derivati. […] Crisippo eseguì il proprio programma in stile rigorosamente formale, dimostrando anche teoremi che ogni altro avrebbe considerato pacifici. Quando nel XIX secolo lo storico della logica Prantl parlò del blödsinniger Formalismus degli Stoici, egli non faceva che riecheggiare le vecchie critiche dei seguaci di Aristotele. Alessandro, ad esempio, dice in vari luoghi che gli Stoici si preoccupavano troppo della forma e 539
Kneale p. 194.
Titolo del Lezione CapitoloXVII I 447 447
che essi, nell'analisi dei ragionamenti, spingevano il rigore oltre la misura in cui esso era utile per la vita quotidiana. E Galeno si duole che essi abbiano atteso più all'espressione che alle cose. Ai logici moderni, che dalla matematica hanno appreso l'importanza della forma e del rigore, queste critiche possono sembrare elogi; ma nella tarda antichità, quando la teologia e la retorica godevano di più stima che la matematica, queste critiche furono purtroppo di tanto danno che le opere di Crisippo sono tutte scomparse"540. A me pare che questo riconoscimento, che va di pari passo con quello di Łukasiewicz, di Mates e di Melandri, induce il sospetto che siano le fonti ad essere carenti piuttosto che l'intendimento crisippeo. Nulla esclude a mio avviso che Crisippo sapesse benissimo derivare dal modus ponens gli altri indimostrabili ma che ritenesse scomodo dimostrare tutti i teoremi partendo da una solo regola d'inferenza. La classificazione degli argomenti continua distinguendo argomenti conclusivi e non conclusivi541. Anche questa è una distinzione che dal punto di vista logico è irrilevante. Non conta vero, l'argomento è tale se è conclusivo, altrimenti non ha senso mettersi lì a classificare tutto ciò che può non concludere. Poi si distinguono argomenti conclusivi veri e argomenti conclusivi falsi542. Anche questo ha valore propedeutico, non ha valore logico. In sede di propedeutica, per esempio, può essere utile sottolineare alcune tipiche fallacie in cui può incorrere chi non sia esperto. Le forme argomentative valide sono: modus ponens [( p → q ) . p ] → q l'altra è: modus tollens [( p → q ) . ~q ] →~p può darsi che a uno venga in mente di dire:
540
Kneale p. 207. Bocheński 21.02; da Pyrr. hyp. B 135. Mates dice valid, invalid. 542 Ibid., 21.07; da Pyrr. hyp. B 138. 541
448 Capitolo I sugli Stoici 448 Enzo Melandri
[( p → q ). q ] → p Questo è non conclusivo, non va bene. Se non ci credete fate la tavola di verità. [( p → q ) . ~p ] → ~q anche questa non è valida, come vedete, non ha valore logico però ha valore propedeutico per chi inizi a studiare la logica. 21.09 Fra gli argomenti veri alcuni sono dimostrativi [apodeiktikoi], altri non dimostrativi.543
"Dimostrativo" si dice "apodittico", apodeichtichoi, logoi apodeichtichoi sono quelli dimostrativi. Anche questo, a meno che non sia accompagnato da una discussione di ciò che si intende con "probabile ma non provato", non ha molta importanza. Ci sono inoltre argomenti non sillogistici. 21.10 Sillogistici sono quelli che sono indimostrabili [anapodeiktikoi] o che vengono ricondotti all'indimostrabile in virtù di una o più regole [ton tematon] come ad esempio: "Se Dione passeggia, Dione si muove; ma Dione passeggia; dunque Dione si muove. […]".544
Questo viene ricondotto al modus ponens. Gli argomenti indimostrabili sono gli anapodittici. Questa dizione di "anapodittico" compare anche in Aristotele ma per Aristotele un sillogismo è anapodittico quando muove da due premesse vere545. Una premessa anapodittica è una premessa la cui verità è lampante. Negli Stoici invece anapodittico significa piuttosto ciò che non è dimostrabile, che assumiamo come punto di partenza. È una dizione più arcigna quella stoica, anche se la parola è la medesima.
543
Ibid., Pyrr. hip. B 140. Ibid., DL VII 78. 545 An. post., I, 2, 72b.
544
Titolo del Lezione CapitoloXVII I 449 449
Nello stesso frammento, tra gli argomenti conclusivi (perantikoi, valid) si evidenzia la distinzione tra linguaggio e metalinguaggio: Qui pare che ci sia una distinzione tra linguaggio e metalinguaggio per esempio in questo argomento: 21.10 […] "è falso che sia giorno e sia notte; ma è giorno; dunque non è notte".546
Dire "è falso che" o "è vero che" facendo seguire una proposizione richiede la distinzione per noi tra linguaggio oggetto e metalinguaggio, perché nel linguaggio oggetto è possibile enunciare una proposizione ma non è possibile allo stesso livello dire se la proposizione è vera o falsa. Lo si può dire solo nel metalinguaggio, altrimenti saltano fuori le antinomie. Che questa distinzione in qualche modo dovesse esserci è provato dall'argomento del mentitore. L'argomento del mentitore, lo pseudomenos, si trova, curiosamene, nella lettera di San Paolo a Tito: Leggiamo in San Paolo il seguente notevole testo: 23.02 Uno di essi, un loro proprio profeta, disse: "I Cretesi [sono] sempre bugiardi, male bestie, ghiottoni infingardi".547
Qui S. Paolo trova un modo per far la predica più lunga ma l'argomento è: Epimenide, essendo cretese disse: "tutti i cretesi sono bugiardi". Ci si chiede se dobbiamo dar retta o no a Epimenide cretese che dice che tutti i cretesi sono bugiardi. Sì, a San Paolo non interessava tanto la questione logica. La questione si risolve solo se introduciamo in sede di teoria logica la proibizione di parlare della verità della proposizione nella proposizione stessa. Quindi la soluzione è data dall'introduzione del metalinguaggio. Se voi introducete la nozione di metalinguaggio allora: 546
Bochenski; da DL VII, 78. Bocheński; da San Paolo, Lettera a Tito, I, 12, Nuovo Testamento; il paradosso è presente già negli Elenchi sofistici di Aristotele, 180 b 2-7.
547
450 Capitolo I sugli Stoici 450 Enzo Melandri
Epimenide cretese dice: "tutti i cretesi sono bugiardi" non dà luogo ad antinomia. Bisognerà vedere se in quel caso, quando parlo metalinguisticamente, è bugiardo anche allora, se è bugiardo anche allora … E qui purtroppo il volume è così basso che non si capisce se la frase resta in sospeso o meno. Potrebbe essere uno di quei casi in cui Melandri, dopo aver dato la soluzione ammessa dal coro, sembra si diverta a metterla in dubbio. Ma anche questo è un altro esempio di ciò che io chiamavo la teoria logica distinta dalla logica vera e propria. Il metalinguaggio fa parte di una teoria logica, non fa parte della logica. Noi sappiamo che introducendo questa distinzione non salta più fuori l'antinomia però non abbiamo nessuna assicurazione che si debba per forza fare così. Ci sono anche gli argomenti indiretti, per esempio: 21.13 […] "Dione dice che è giorno; ma Dione dice il vero; dunque è giorno".548
Gli schemi di inferenza, cioè gli argomenti validi, oltre che attraverso esempi, che sono quasi sempre "è giorno", "è notte" ecc. vengono anche espressi mediante variabili. Negli Stoici c'è il primo uso corretto delle variabili in logiche, cioè l'argomento viene espresso così: se il primo, allora il secondo; ma il primo; dunque il secondo Questo modo di esprimersi è ancora più bello del nostro uso di mettere p e q; "il primo" e "il secondo" sono puramente posizionali, sono variabili posizionali. Anche in Aristotele trovate delle formule: a un certo punto, quando si era stufato di scrivere "tutti i greci sono uomini, tutti i greci sono mortali", 548 Bocheński; da Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Analyticorum priorum, op. cit., 345, 27 e sgg.
Titolo del Lezione CapitoloXVII I 451 451
mette ["α appartiene a tutto β, β appartiene a tutto γ" ecc.] Possono considerarsi delle variabili di classe, variabili predicative, ma non è detto, rimane dubbio se α, β, γ, si debbano intendere veramente come variabili perché nessun calcolo logico è ammesso, nemmeno nessuna idea di calcolo logico è ammessa; α, β, γ, potrebbero anche essere numeri, ma non sono numerali, cioè non sono ordinali; la presenza dell'ordinale è un indizio a favore della formalizzazione. Talvolta l'argomento viene espresso in forma mista come ad esempio: 21.24 […] "se Platone vive, Platone respira, ma il primo dunque il secondo".549
Melandri prosegue la lettura di Bocheński e affronta l'ultimo tema di teoria della logica. Sulla assiomatizzazione e gli argomenti composti: La logica proposizionale stoica sembra essere stata assiomatizzata completamente con un a distinzione esplicita fra assiomi e regole di inferenza.550
Ecco, qui attenzione, bisogna andarci piano col dire che è assiomatizzata, perché nel senso moderno l'assiomatizzazione presuppone il calcolo, qui si parla di assiomatizzazione ma in maniera molto intuitiva nel senso che si distinguono le premesse dalle conseguenze e tra le premesse si cerca di dire quali siano gli assiomi nel senso dei principi. Una integrazione in merito è data dal fatto che gli anapodittici sono indimostrabili. 22.02. Vi sono anche alcuni indimostrabili [anapodeiktikoi] che non hanno bisogno di dimostrazione [e] mediante i quali viene costruito ogni altro argomento; secondo Crisippo essi sono cinque, sebbene secondo altri [il loro numero] sia diverso. Essi sono assunti negli [ar-
549 550
Bocheński; da DL VII 77. Bocheński § 22, p. 171.
452 Capitolo I sugli Stoici 452 Enzo Melandri gomenti] conclusivi, kon] ipotetiche.551
nei
sillogismi
e
nelle
[deduzioni
tropi-
Vi invito a sottolineare questo punto: un'ipotesi anche per noi è tale quando non sappiamo se sia vera. Poi si produce la nozione di teoria che sarebbe un'ipotesi verificata. Da un punto di vista logico un'ipotesi non può mai essere verificata, perché per verificare un'ipotesi devo servirmi di questa forma argomentativa: se p allora q e q dove p è l'ipotesi e q è la conclusione; da questo dovrei ricavare p ma logicamente non è possibile; io posso solo modificare le conclusioni e credere nel rafforzamento dell'ipotesi ma con un ragionamento di tipo induttivo. Dell'induzione si possono dire molte cose ma ricordatevi almeno questa: che a nessuno è mai riuscito di dimostrare che l'induzione sia una deduzione. Mentre tutto quanto il lavoro che si fa è questa fatica di Sisifo di cercar di vedere se per caso l'induzione non sia una deduzione. Se si riuscisse a dimostrare che l'induzione, cioè che l'ipotesi è probabile [nel senso che si può provare che sia vera], allora avremmo un metodo deduttivo, sarebbe bello. Non si può, quindi l'ipotesi è ciò che viene presupposto. La parola italiana è "presupposizione"; ipotesi è ciò che viene supposto: supponendo questo noi diciamo quest'altro. Se fosse direttamente verificabile non sarebbe più un'ipotesi, vedete perché no? Nel condizionale se p allora q, p è un'ipotesi proprio perché il fatto non è verificabile. Se infatti fosse verificabile p e dato che q lo è, io non vedo perché dovrei mettere il condizionale, saprei già tutto; se so che p è vero e q è vero, non dico se p allora q; dico p e q. In un mondo dove tutto fosse certo non avrei bisogno di usare altro connettivo che la congiunzione. È l'ipotesi di un mondo descrivibile con un solo valore di verità e a cui accennavo agli inizi, corrisponde all'ipotesi di Parmenide circa la natura dell'essere. Abbiamo vi551
Ibid.
Titolo del Lezione CapitoloXVII I 453 453
sto la visione di Parmenide dell'essere, c'è un'idea dell'essere in sé ma tutto il discorso si sposta sopra le opinioni, l'opinione vera che deve condurre alla verità. La logica di Parmenide è una logica a due valori di verità se io applico il concetto di opinione; presupporrebbe però risolvere tutto in una logica ad un solo valore di verità, come obbiettivo della ricerca. Chiaro che nella interpretazione ipotetica del condizionale p non è mai direttamente verificabile. Notate, vero, sempre la notevole differenza che c'è tra l'uso logico della parola ipotesi in teoria e l'uso scientifico più o meno corretto. Nella scienza si considera verificabile un'ipotesi con un certo metodo di concomitanza nei risultati. Dal punto di vista logico, per quanto verosimile possa essere una ipotesi accreditata, rimane sempre ipotetica. L'uso logico non fa riferimento a situazioni di credenza o di verosimiglianza. Melandri ritiene concluso il discorso sugli argomenti e le regole di inferenza. Bocheński prosegue con l'analisi di quelli che chiama "metateoremi" e che Kneale chiama themata mantenendo la dizione originale. Il discorso verte da qui in poi su di una questione di storia della logica che è un tema che attraversa l'intero corso e dà il senso alla nozione di non classical view. Infatti la nota storica fa da sponda per il rilancio della contrapposizione di teorie della conoscenza.
17.3. Teorie contrapposte della conoscenza Ci sono anche le questioni degli insolubilia, ciò che vedremo sono chiamati i problemi insolubili che comprendono antinomie e paradossi. In tutti i libri di logica medioevale l'ultimo capitolo è dedicato agli insolubilia. A questo proposito mi viene in mente un rilievo da fare. Tutti i libri di logica medioevale, dell'ars vetus e anche dell'ars nova, hanno lo stesso indice. Questo indice è in gran parte ricalcato sull'Organon ma risente anche della doppia eredità peripatetico-stoica come l'ha impostata Boezio. La fedeltà medioevale al testo per noi è abba-
454 Capitolo I sugli Stoici 454 Enzo Melandri
stanza strana, è una civiltà documentaria che ha dei caratteri propri. Per la mentalità medioevale è importante non solo conservare la Bibbia, questo è comprensibile se si crede che esprima la parola di Dio, ma anche i testi tramandati sempre allo stesso modo dall'antichità. Ora, la partizione della logica medioevale è nei seguenti capitoli: sui nomi, sulle proposizioni, sugli argomenti e sugli insolubili. Questa è la principale partizione. Si comincia dai nomi così come l'Organon aristotelico comincia con le categorie; sotto la dizione di nomi, o categorie, vanno anche le questioni preliminari della logica, cioè gli elementi di semiologia; lo schema semantico fondamentale viene trattato in questo primo capitolo. Nel secondo capitolo si presenta la proposizione e qui si sente l'eredità stoica più fortemente che non l'Organon di Aristotele. La seconda parte dell'Organon è il De interpretatione ma dovete tradurlo con de propositione: il De interpretatione è infatti l'interpretazione del logos come ciò che è suscettibile di vero o falso. Quindi nomi, proposizioni, argomenti; gli argomenti corrispondono agli Analitici e comprendono anche la teoria della dimostrazione. Poi gli analitici sono seguiti dai Topici che comprendono forme di argomento non conclusive o dimostrabili. Sostituite ai Topici l'altro capitolo che vi dicevo, gli Insolubili, e voi avete uno schema che rimane fisso552. Fin dove rimane? Beh, fino direi a Kant. Purtroppo Leibniz non ci ha lasciato un trattato di logica, non possiamo verificare quello che io suppongo, cioè che Leibniz l'avrebbe scritto in maniera diversa. L'impostazione non è innocente. Perché il fatto che si parta prima col definire il rapporto semantico sui nomi e poi si tratti delle proposizioni significa che l'ordine di fondazione è invertito e la logica predicativa viene prima della logica proposizionale creando una situazione che è perdurata fino a Frege e che contiene, beh non posso dire proprio un errore ma, contiene una evidente impressione dell'ordine di fondazione e soprattutto contiene una tendenziosità per cui non si capisce come 552
Gli "insolubili" sono negli Elenchi sofistici.
Titolo del Lezione CapitoloXVII I 455 455
uno studioso moderno qual è Bocheński possa dire che la logica aristotelica è neutrale, quella stoica no553. Intendere il rapporto semantico come fondato sul modello del rapporto nome-cosa, comporta i presupposti che abbiamo visto. Laddove invece intendere il rapporto semantico come rapporto tra proposizione e stato di cose, dove non si definisce nulla d'altro, a me sembra, non meno neutrale. Quando voi avete detto che la semantica si fonda sul rapporto tra nome e cosa, dicendo questo avete presupposto una teoria della conoscenza, avete presupposto molte cose che vanno al di là non solo della logica e della teoria logica, vanno già al di là della teoria della conoscenza, presuppongono addirittura il concetto di fisica. Per questa ragione io ho cercato quest'anno, come si diceva, di far giocare gli Stoici in casa, non sempre fuori casa come si faceva prima quando si parlava di Aristotele dicendo degli Stoici che la pensavano diversamente. Allora, lo sforzo qui è nell'assumere in funzione critica la partigianeria opposta, ma in funzione critica perché tutto il nostro modo di pensare, quando arriviamo alla lezione di logica, è fortemente influenzato da Aristotele in una maniera che non è neutrale. Voi capite che esemplificare la semantica sul rapporto nomecosa vuol dire fondare tutta la conoscenza sull'astrazione, vuol dire assumere filosoficamente o una filosofia empiristica di un certo tipo o una filosofia razionalistica, dove però lo schema conoscitivo rimane il medesimo. Per far vedere come non sia necessariamente così, come anche nell'antichità fossero diverse le concezioni a valere in proposito, quest'anno ho voluto fare gli Stoici; per mostrare come la teoria della percezione si opponga alla teoria della sensazione in una maniera molto sottile. E poi avrete anche sentito dire che Leibniz faceva le monadi senza finestre. A volte si sente dire senza porte e senza fine553
Bocheński § 19 B p. 152: "[…] nella Stoa il lekton è diventato l'oggetto principale della logica e l'unico oggetto della logica formale. Ciò getta a mare la neutralità aristotelica della logica e presuppone un punto di vista filosofico definito".
456 Capitolo I sugli Stoici 456 Enzo Melandri
stre: no, le porte ci sono vero? Sono la nascita e la morte. Le finestre non ci sono nelle monadi. Le monadi hanno solo degli apparati televisivi, che trasmettono il programma del mondo esterno. Perché le monadi non hanno finestre? Perché le monadi sono affidate alla percezione non alla sensazione. Immaginate che ci sia appunto uno schermo televisivo che trasmette esattamente quello che c'è di là. Dove la trasmissione non si sa bene su che principi si regga. Il problema della conoscenza può essere visto in due modi alternativi: nel primo c'è la conoscenza transiente del mondo, e allora la sensazione diventa un canale di comunicazione, questa è la conoscenza transiente, transazione dice Dewey, teorie transattive, c'è il passaggio comunicativo attraverso la sensazione, la sensazione ha il carattere di canale dove passa qualcosa. Nel secondo invece le teorie usano la percezione: l'interazione col mondo esterno avviene globalmente, non attraverso la sensazione, avviene come verifica del proprio comportamento che attraverso lo scacco è costretto a rianalizzare [il quadro inteso come rappresentazione globale] e quindi a far intervenire il pensiero. Attraverso lo scacco c'è il feed back, il ritorno indietro che rifà i conti e più rifà i conti meno si è sicuri della percezione. Questa è una teoria completamente diversa dalla prima: teoria di passaggio e teorie di non passaggio ma di verifica globale attraverso l'uso teoretico. L'etica è ciò che connette la conoscenza con la praxis. Il successo o l'insuccesso della nostra azione nel mondo si ripercuote sull'ordine delle idee. Qui l'etica fa parte della logica come teoria della conoscenza554. Anche qui l'etica è diversa no? È un'etica fondata sulla logica e non sul valore. Quella aristotelica è un'etica fondata sul valore. Oso dire che poi questa alternativa deve concepirsi con il carattere di una matrice. Non saranno gli Stoici a corrispondere esattamente al carattere non-aristotelico della matrice ma non importa vero? Perché c'è una varietà di posizioni che si 554
La tripartizione della filosofia in logica, etica e fisica presente in numerosi frammenti va riletta nel senso in cui l' etica funge da strumento di controllo della coerenza interna: "appartiene alla logica" in quanto funzionale alla teoria della conoscenza.
Titolo del Lezione CapitoloXVII I 457 457
possono più o meno ridurre ad una. Nella logica è importante che si possa partire dalla proposizione presa globalmente e non dal nome: bisogna partire dal vero o falso; questo è un curioso concetto del vero e falso perché non c'è riscontro. Il vero o falso inteso come coerenza, come completezza, come possibilità di analisi, non è la verità aristotelica intesa come adequatio che richiede la sensazione. Nella concezione stoica non si tratta della verità ma del vero. Prima di tutto il vero è il congruo e l'incongruo e per questo io sostengo che l'etica è legata alla logica, perché dare ordine alle proprie idee è anche dare ordine al proprio comportamento. Io adesso vorrei un po' concludere la parte tecnica. Il testo migliore sulla logica stoica sarebbe questo di Benson Mates555. Sopra Crisippo il testo migliore è quello di Gould, olandese, The Philosophy of Chrysippus556, che corregge una assunzione fatta da Von Arnim nella sua produzione dei frammenti stoici. Stoicorum veterum fragmenta557 è un testo glorioso no? L'assunzione di Von Arnim è che tutto ciò di cui non è specificato l'autore, nei frammenti degli Stoici, appartenga a Crisippo. Per dire questo si basa su alcune affermazioni degli antichi tra cui la famosa affermazione che Crisippo è stato il secondo conduttore della Stoa e la parte logica si deve interamente a lui e così via. Ora, sottoposte a critica filologica, queste affermazioni risulta che siano o di Cicerone, che nessuno può mai pigliare sul serio, oppure che sono molto tarde. Quindi il lavoro che fa Gould è quello di ricostruire Crisippo con criterio restrittivo, cioè con ciò che sicuramente le fonti indicano di suo. Ed è un lavoro notevole perché si poteva pensare che facendo la selezione esclusiva e non inclusiva di Crisippo rimanesse molto poco, invece rimane moltissimo. Poi que-
555
Op. cit. J. B. Gould, The Philosophy of Chrysippus, State University of New York Press, Albany 1970. Questo testo non era in bibliografia e d'altronde viene citato solo ora per cui non ho ritenuto di usarlo come riferimento al discorso melandriano. 557 Op. cit. 556
458 Capitolo I sugli Stoici 458 Enzo Melandri
sto finalmente è un lavoro moderno cioè non si perde tempo a commentare quello che non si capisce. Bene, allora per quest'altra settimana cercherò di rimettere assieme il corso spostandomi di tematica.
Lezione XVIII
18.1. Logica e teoria della conoscenza Il filo conduttore della lettura del pensiero antico secondo una non classical view è basato su una contrapposizione a matrice di aristotelismo e stoicismo. Sono temi che, come abbiamo visto, hanno percorso tutte le lezioni a cominciare da quelle dedicate alla filosofia preplatonica per finire con le lezioni più tecniche. In questa lezione Melandri ripercorre i temi principali di teoria della conoscenza che in termini stoici ricadono sotto il capitolo della logica e che è stato mio obbiettivo presentare e commentare. Nel contesto del presente lavoro la lezione vuole fungere anche da ricapitolazione. Pertanto mi sono avvalso di alcuni passaggi di altre successive lezioni per completare argomenti solo accennati. Diogene Laerzio distingue i filosofi in tre categorie: i dogmatici, coloro che asseriscono una tesi ovvero credono di avere scoperto la verità; gli scettici, coloro che ricusano l'assenso ovvero credono che la verità non possa essere appresa; e gli accademici, coloro che sono continuamente sulla via della ricerca della verità, soluzione quindi intermedia tra i dogmatici e gli scettici. Anche lo scettico Sesto Empirico propone questa suddivisione558.
558
Pyrr. hip. I, 1. 459
459
460 Capitolo I sugli Stoici 460 Enzo Melandri
Il principale lavoro di Sesto Empirico porta il titolo di Adversus Mathematicos che in realtà vuol dire adversus dogmaticos, contro il dogmatista. La parola dogmatico nell'antichità non ha il senso denigratorio che ha presso di noi oggi. Questo uso moderno di dogmatico si è formato attraverso il medioevo con le dispute teologiche ed ecclesiastiche e inoltre il significato di dogmatico si è rincarato dopo Kant, dopo cioè l'uso che Kant pone di "critico" in opposizione a "dogmatico". Presso gli antichi non è così marcato. Dogma per gli antichi significa dottrina quindi sarebbero dogmatici tutti coloro che fanno asserzioni intorno alla realtà. La nozione di dogmatico è più debole di quella che vale oggi. Noi chiamiamo dogmatico chi faccia asserzioni senza fondamento o chi sostenga certe tesi per partito preso. Come esempio di filosofi dogmatici Sesto Empirico cita Aristotele, Epicuro e gli Stoici. Quindi siamo capitati proprio in mezzo ai dogmatici. Questa distinzione mostra in che modo tutto può essere compreso sotto la logica: può essere compreso tutto sotto la logica se poniamo come problema il problema della verità. La teoria della conoscenza - come la dialettica e la retorica - secondo Crisippo è una parte della logica intesa in generale. La via degli Scettici è molto importante. Io qui ho indicato come criterio per comprendere la filosofia antica il dualismo tra Aristotele e gli Stoici. C'è però un altro dualismo che è quello tra gli Stoici e gli Scettici, molto interessante su questo punto perché entrambi hanno la stessa teoria della conoscenza, o quasi la stessa. Con ciò si intende che in Aristotele si dà una transazione dell'informazione dal mondo alla mente: l'informazione varca la porta della sensazione, viene elaborata in varie fasi e raggiunge l'intelletto sotto forma di un'essenza la quale mantiene con l'informazione originale un rapporto di isomorfismo. Stoici e Scettici condividono una posizione antitetica a quella aristotelica in cui l'informazione con cui si ha a che fare è già un prodotto elaborato dalla mente il cui rapporto con il mondo è eteromorfo. Per gli Stoici il problema della conoscenza con-
Titolo delLezione Capitolo I 461 XVIII 461
siste nello stabilire con quale criterio rapportarsi al mondo mentre gli Scettici negano che ve ne sia uno. La divergenza tra Aristotele e gli Stoici consiste in una diversa teoria della conoscenza, quella aristotelica fondata sulla sensazione, quella stoica fondata sulla percezione. La differenza tra gli Stoici e gli Scettici sta proprio nel criterio di verità, non nella teoria della conoscenza, perché la teoria della conoscenza è molto simile. Dovete anche considerare che la logica ha sempre assunto due accezioni, una più generale una più particolare. Ciò che noi chiamiamo logica oggi corrisponde alla logica minor degli scolastici, alla logica intesa come disciplina particolare. Anche per questo non corrispondono più le grandi divisioni. Ma gli scolastici, sempre in base all'eredità che essi traggono dal mondo antico, distinguono accanto alla logica minor o formale una logica major o trascendentale, la quale avrebbe un campo più ampio, comprenderebbe la teoria della conoscenza e anche i principi metafisici della medesima. È interessante vedere con quali figure, con quali metafore gli Stoici, e in particolare Crisippo, introducono il paradigma della conoscenza. La teoria della conoscenza è fondata sulla dottrina della univocità dell'ente. In questo, vi dicevo, si distingue radicalmente da quella aristotelica che dal punto di vista stoico è una dottrina della equivocità dell'ente, cioè della polisemia dell'essere. Il linguaggio stoico tende a formulare invece tutte le questioni intorno all'ente in modo che siano univoche, che abbiano un senso solo e non siano polisenso. Dunque teoria della univocità dell'ente da una parte, teoria della equivocità dell'ente dall'altra. Da notare che dal punto di vista aristotelico, questa divisione non vien rispettata. Aristotele propone non una bipartizione delle dottrine ma una tripartizione. Secondo gli Stoici se una dottrina non è univoca, intorno all'ente, deve essere equivoca. Ciò significa che l'ente si dice in molti modi e che questi sensi in cui l'ente si dice sono diversi tra lo-
462 Capitolo I sugli Stoici 462 Enzo Melandri
ro. L'equivocità è un particolare caso di omonimia. Non per nulla Aristotele invece comincia le Categorie col dire cos'è omonimo, cos'è sinonimo e così via. In questa dottrina dell'ente, come principio metafisico della conoscenza, si aggira già lo spettro nel pensiero antico. Aristotele propone una tripartizione. Ci sono coloro che intendono l'essere in maniera univoca, ci sono quelli che l'intendono in maniera equivoca; sono due opposte esagerazioni da intendersi come tesi e antitesi; poi c'è una via intermedia, la sintesi, che è la dottrina dell'analogia dell'ente. Perché in Aristotele esiste una dottrina dell'analogia. La quale regge la formazione delle metafore per analogia, come spiegherà poi nella poetica559. Curiosamente, vedete voi cosa succede, Aristotele, che teorizza l'analogia e le metafore per analogia, non ne fa mai uso o ne fa un uso molto sobrio. Mentre gli Stoici, i quali respingono la dottrina dell'analogia per loro non è che una dottrina dell'essere equivoco, non ci sono posizioni intermedie tra l'equivoco e l'univoco - fanno un uso alquanto selvaggio di metafore o analogie esplicative. La contraddizione è solo apparente, ne fanno un uso selvaggio proprio perché non ci credono, per loro metafore e analogie sono un mezzo per intendersi che però non ha valore teoretico, servono solo o retoricamente, per spiegarsi meglio e poi devono essere buttate via non appena siano usate. La famosa scala di Wittgenstein, è vero? Ci vuol una scala per salire sul solaio, ma una volta arrivati sul solaio si può buttare via la scala. Il solaio sarebbe la filosofia560. 18.2. Psicologia e teoria della conoscenza Vi dicevo, per gli Stoici la conoscenza non è fondata sulla sensazione, è fondata sulla rappresentazione. La conoscenza in
559
Aristotele, Poetica, 1457 b. Cfr. Wittgenstein, Tractatus, op. cit., 6.54 (penultima proposizione); Sesto Empirico, nell'ultima proposizione di Adv. math., VIII usa la stessa metafora della scala per dire che certe argomentazioni, dopo averne fatto buon uso, si possono buttare via.
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Titolo delLezione Capitolo I 463 XVIII 463
quanto rappresentazione non può rappresentare il rapporto col mondo esterno. Questo va messo in relazione con i paradossi della logica. Una proposizione non può contenere alcuna dichiarazione intorno al suo valore di verità. La rappresentazione esprime la visione del mondo ma non contiene il rapporto con ciò che esprime. Non è rappresentabile il rapporto con ciò che esprime. Questo assomiglia molto a Wittgenstein, Tractatus 4.12 e 4.121. La forma logica contiene il mondo, lo esprime ma non rappresenta il suo rapporto col mondo. Ed è una cosa molto antica che ogni tanto rispunta proprio perché se la conoscenza è chiusa in se stessa, sulla rappresentazione, evidentemente la rappresentazione non può contenere il rapporto col mondo esterno. È sempre collegata, questa dottrina, con la dottrina dell'essere univoco. Se noi cominciamo ad ammettere che ci siano sensazioni e così via dobbiamo ammettere che ci siano molti modi di dire l'essere. Ora, la metafora che viene usata dagli Stoici per illustrare la conoscenza è quella del messaggero e del re. La nostra mente è simile a un re il quale vive chiuso nel suo palazzo e deve informarsi intorno al mondo attraverso dei messaggeri. Mi pare molto chiaro questo messaggio. L'unico criterio che ha il re per sapere se i messaggeri dicono o no il vero è un criterio di non contraddizione. È un criterio di coerenza interno, interno a ciò che viene a sapere attraverso i messaggeri. Il criterio sarà duplice: coerenza sincronica dei messaggi tra loro, e anche coerenza diacronica attraverso la memoria di ciò che è emerso in passato. Nei termini della metafora messaggero-re, il re non si fida dei messaggeri ed esamina con cura ogni cosa che gli viene rapportata. Ecco, qui sorge il problema se questi messaggeri siano messaggeri di sensazione o di rappresentazione. Io sostengo che se questi messaggeri si potessero ricondurre alla sensazione, allora il re sarebbe in condizione di vedere da solo quello che succede nel mondo. Se intendiamo la sensazione come una trasmissione di informazioni materialmente, sarebbe come nella favola di Barbablù, la sorella che va in cima alla torre e vede avvicinarsi i fratelli. Se il re può andare in cima alla
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torre del suo palazzo per vedere che cosa succede nel suo regno non c'è più bisogno di messaggeri. Secondo me la metafora del messaggero significa che il re, chiuso dentro al suo palazzo, non può sapere nulla se non attraverso i messaggeri. Allora in questo caso il messaggero corrisponderebbe alla percezione o forse alla rappresentazione561. Zenone aveva definito la rappresentazione, phantasia, che in inglese si traduce presentation, come un'impressione dell'anima. I tedeschi traducono sempre Vorstellung cioè rappresentazione. Bisogna vedere che cosa si intende con "impressione dell'anima". "Presentazione", "rappresentazione", non c'è da far caso alla parola. Per Cleante l'oggetto si imprime sull'anima come un sigillo si imprime sulla cera562. Questo modello risale a Platone, modello che deve essere antichissimo e che potrebbe andar bene anche ad Aristotele, il quale Aristotele dice che le impressioni dell'anima sono segni del mondo esterno, solita immagine del sigillo, e che i segni del linguaggio sono a loro volta corrispondenti alle impressioni dell'anima. Bisogna stare attenti nel leggere gli antichi perché, vi dicevo, dal punto di vista moderno noi intendiamo la teoria della conoscenza come una specie di prodotto di logica e psicologia e in più magari aggiungiamo, molto sobriamente, un po' di metafisica. Per gli antichi la psicologia non ha uno statuto speciale, a sé stante, come avviene invece, o può avvenire per noi. La psicologia è una parte della fisica, ciò che noi sappiamo attorno al mondo esterno, ciò che sappiamo intorno ai corpi. I corpi sono animati o inanimati; i corpi animati avranno l'anima e quindi sono oggetto di studio della scienza dell'anima. Voi capite che un conto è studiare ciò che indichiamo con psicologia da un punto di vista dei corpi esterni che hanno un'anima o che hanno uno spirito, 561 Ryle, nel suo capitolo sulla percezione in Dilemmi, op. cit., p. 100, ricorre, forse inconsapevolmente, a un'immagine molto vicina a quella degli Stoici: "La convinzione che i nostri occhi, le nostre orecchie e il nostro naso siano corrispondenti esteri che ci inviano messaggi, che, al nostro esame, si rivelano spesso e forse sempre delle costruzioni artificiose, è enormemente in auge". 562 Vedi 8.2. e n. 247.
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questo fa parte della fisica in generale; un conto è invece trattare la psicologia dal punto di vista di una scienza mentale, non di una scienza corporea, ovvero di ciò che accade nella nostra mente indipendentemente dai fatti corporei563. Voi sapete che nella psicologia moderna, contemporanea, c'è sempre questa oscillazione tra un modo fisiologico e un modo mentalistico di trattare le questioni psicologiche. Incertezza, quest'ultima, che è caratteristica della psicologia moderna, perché gli antichi, la parte mentale della psicologia, l'avrebbero trattata sotto le specie della conoscenza e della logica. Questa incertezza che noi possediamo è un segno della maturità della riflessione su questo punto. Mi permetto di dire questo, non date retta a quelli che, nei manuali di psicologia, trattano come facilmente superato il problema fisio-psichico. Non è superato, così come l'abbiamo impostato non si vede come si possa superare. Tra l'altro non è detto che si debba superare per forza vero? Non è detto che dove a noi risulta che c'è una distinzione ben fondata dobbiamo per forza compiere un'operazione di livellamento. Dal punto di vista della scienza unificata sarebbe favorevole possedere un unico punto di vista anziché due, ma non si vede come potrebbe saltare fuori. La questione che stiamo discutendo è se la visione stoica sia veramente alternativa rispetto a quella aristotelica, che è la tesi che sostengo io, che voi non siete obbligati ad accettare, caso mai bisogna convincersi insieme in che modo farla valere. Ora, il punto non è quello di dire se ci sia o no la sensazione, certo ci sono i sensi, questo nessuno l'avrebbe negato, ci sono i sensi, i sensi comportano la sensazione. Il problema è un altro: il problema è se la sensazione abbia valore, se sia rilevante dal punto di vista della teoria della conoscenza. Il punto dubbio, e forse oggi più che mai, è se la fisiologia degli organi di senso sia rilevante per la teoria della conoscenza. Se lo mettete così forse diventa più chiaro il problema. 563
E di fatto ciò che abbiamo inteso con "teoria della percezione" e che negli stoici ricade sotto il capitolo della rappresentazione rientra nella Logica intesa nel senso più generale di una scienza delle strutture mentali.
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Se esistono gli organi di senso e se i sensi danno informazioni intorno al mondo esterno, come può questo non essere rilevante per una teoria della conoscenza? Infatti dal punto di vista aristotelico le due cose vengono tenute continuamente insieme e si cerca di compiere il passaggio tra fisiologia e psicologia in modo da conservare la transizione continua tra questi due poli. Io però faccio subito qui un'obiezione che avrebbe fatto anche Kant e chissà quanti altri. Per considerare rilevante la ricerca fisiologica intorno agli organi di senso io devo presupporre come valido lo spazio della rappresentazione in cui faccio i diagrammi del come funzionano gli organi di senso; e non solo devo presupporre lo spazio ma anche il principio di causalità e un mucchio di altre cose di questo genere che, aveva detto Kant, valgono per il fenomeno ma non per il noumeno. Valgono cioè all'interno della rappresentazione ma non valgono per spiegare il rapporto tra la rappresentazione e la realtà in sé, questo l'aveva detto Kant. Come vedete c'è una fallacia argomentativa nello stabilire questa transizione continua, perché io devo far vedere ciò che è interno alla rappresentazione, cioè al fenomeno avrebbe detto Kant, come transfenomenico, come spiegazione del rapporto tra il fenomeno e la realtà in sé. Se questo vi sembra un giochetto di tipo filosofico, mi rallegro con voi che non avrete più da perdere tempo con la filosofia. Vorrei mostrarvi il problema da un altro punto di vista, attraverso l'esperimento mentale di Wittgenstein. Supponete, dice Wittgenstein, che io possa spiegare completamente ciò che accade nel cervello, che io possa spiegare tutta la transazione tra psicologia e fisiologia. Supponete inoltre che io non spieghi ciò che accade in un altro ma spieghi ciò che accade in me stesso, e che con un sistema di specchi e di ingrandimenti, io riesca non solo a spiegare ma a vedere quello che succede nel mio cervello. Fate questo esperimento mentale. Aboliamo il rapporto con l'altro, poniamo il rapporto riflessivo, questo perché altrimenti, se io spiego quello che succede a un altro, l'altro può dire "non è vero niente!" Io spiego quello che succede nel mio cervello quando sto osservando quello che suc-
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cede nel mio cervello. E poi aboliamo anche la spiegazione, facciamo in modo che invece della spiegazione valga una visione diretta, come nello spaccato di un motore dove si vedono i pistoni, le bielle ecc. Bene, chiede Wittgenstein, a questo punto, quando avete visto tutto questo, cos'è che vedete, una cosa o due? Qui il paradosso della rappresentazione emerge chiaramente no? Io vedo il funzionamento del cervello mentre io guardo il mio cervello, cos'è che vedo? Vedo una cosa, il mio cervello che funziona in un certo modo, o vedo due cose: me stesso che osserva e il mio cervello osservato da me stesso che lo osserva? Una cosa o due? ne vedo due no? O una? Il paradosso è il paradosso della rappresentazione. Allora la psicologia della sensazione è inutile? È inutile dal punto di vista della teoria della conoscenza. Se voi credete che una teoria della conoscenza futura possa essere conclusiva sulla base del riempimento di tutti gli spazi vuoti, vi sbagliate. Perché abbiamo un ultimo passo da compiere che è il paradosso autoriflessivo che non si può compiere mediante questo postulato; anzi, viene ancora più messo in evidenza. È questa una dimostrazione che l'impostazione aristotelica non è valida? Attenzione, no. L'impostazione aristotelica dovrebbe tendere a eliminare il problema della conoscenza; se ci riesce non salta fuori il paradosso perché non c'è più il problema della conoscenza, chiaro? Se però accetto che ci sia teoria della conoscenza, se parlo di rappresentazione in questa maniera, la posizione aristotelica diventa insostenibile rispetto a questa. Sono incongruenti tra loro. Per eliminare il paradosso psicofisico dobbiamo impedirci di pensare che esista lo spettro nella nostra mente, the ghost in the machine cioè quella rappresentazione che salta fuori come tentativo di elucidare il paradosso della rappresentazione secondo cui dentro nel cervello c'è un omino piccolo così che guida dentro la testa, che ci guida come fossimo un sottomarino atomico. Bisogna eliminare the ghost in the machine, lo spettro dentro la macchina, come si fa a eliminarlo? Bisogna non pensarci. Bisogna eliminare il problema della conoscenza
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e rifarsi alle situazioni concrete dell'esperienza, paradigmatiche o meno, e poi non salta fuori il problema. Quindi l'essere si dice in molti modi. Ci sono dei modi proibiti e dei modi consentiti: i modi proibiti sono quelli che fanno saltare fuori il paradosso della rappresentazione. Vedete quanto di aristotelico vi sia nella analytical philosophy, nella filosofia analitica, dove i problemi metafisici vengono dimessi e considerati come casi linguistici. Quindi bisogna impedire che sorga la teorizzazione. Mi pare coerentemente aristotelico questo. Se però cominciate a teorizzare siete subito nei guai564. Insomma la soluzione consisterebbe nel non fare mai il re. Nell'andare sempre a fare i messaggeri: sostituire il re con uno scambio di messaggi tra i messaggeri. Soluzione alquanto repubblicana ed eroica ma insomma, se riuscite a immaginare che il compito sia quello, non di conoscere il paese, ma di scambiarsi i messaggi senza sfiorare il circolo decisionale, benissimo. Il divario che c'è tra la psicologia mentalistica e la psicologia non mentalistica viene in genere colmato attraverso lo sviluppo della nozione di comportamento. Tutte le scienze sociali, psicologiche, mentali, verrebbero liberate dal mentalismo adottando la nozione di comportamento, comportamento osservabile565. Io credo che questo sia un dispositivo metodolo564
Ciò va inteso nel contesto di una critica più ampia a tutta la cosiddetta analytical philosophy, che gli anglosassoni contrappongono alla continental phylosophy; secondo Melandri essi assumono inconsapevolmente paradigmi aristotelici. 565 In quanto segue si ravvisa un riferimento polemico alla filosofia di stretta osservanza analitica e al comportamentismo filosofico, ossia quella corrente di pensiero nata in ambito oxoniense che imputava le difficoltà del dualismo cartesiano mente-corpo ad un errore categoriale. Cfr. Gilbert Ryle, Lo spirito come comportamento, Laterza, Roma-Bari 1982, ora riedito come Il concetto di mente, Laterza, Roma Bari 2007, ed. or. 1949; L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi1967, ed. or. Oxford 1953; AA.VV. Consciousness and Causality: A debate on the nature of Mind, a cura di D. M. Armstrong e N. Malcolm, Basil Blackwell, Oxford 1984. Per citare ancora Dilemmi, pp. 110-111: "Mentre noi ordinariamente asseriamo con piena sicurezza di vedere la faccia della gente dovremmo invece, parrebbe, affermare di vedere delle cose che si trovano dietro la nostra stessa faccia, oppure, parlando con maggiore cautela, nella nostra mente"; ora, per evitare che salti fuori il paradosso della rappresentazione che cosa suggerisce il nostro Oxoniense? Egli dice di considerare il verbo "percepire" come il verbo "vincere": vincere non è un processo fisiologico: "il problema si risolve semplicemente nel rendersi conto dell'errore che facciamo nel ritenere che il percepire sia un processo o uno stato corporeo come il sudore; oppure che esso sia un processo o uno stato non-corporeo o
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gico abbastanza buono, però non ha nulla a che vedere col problema. La nozione di comportamento è una nozione mista in cui a un riferimento cosale viene associato un riferimento all'azione; si parte da una categoria mista di azione e di cosa per impedire che sorgano certi paradossi nella descrizione del comportamento. Però la nozione di comportamento è già mentalistica perché l'azione è un oggetto mentale. Molto semplice no? In passato avrete sentito, forse ora un po' meno, la critica spiritualistica al comportamentismo, come se il comportamentismo fosse un bestialismo vero? Si osserva il comportamento e basta. In genere la critica al comportamentismo si estendeva contro Wattson fino a Pavlov. No, questa critica non ha ragione di esistere perché il comportamentismo, e anche la riflessologia di Pavlov, rientrano tranquillamente nel mentale. Per dirla brutalmente anche la riflessologia e il comportamentismo sono filosofie idealistiche. Perché fare riferimento all'azione significa introdurre lo scopo, il cosiddetto "comportamento diretto allo scopo". Ma non guardate le parole, guardate il concetto, è quella che Weber chiamava Zweckrationalität. Questa visione dello scopo è puramente mentale, non c'è niente da fare. Quindi non valgono le critiche. La psicologia della Gestalt, la psicanalisi, la psicodinamica sono mentalistiche. Nonostante ci sia una ricerca di fondamenpsicologico […]" p. 111; e ci spiega già a p. 9 che: "Impariamo a usare gli occhi e la lingua ancora prima di essere in grado di porci il quesito di ordine generale sul loro eventuale servire a qualcosa; e continuiamo ad usarli senza lasciarci influenzare dalla dottrina generale secondo cui essi sono di qualche utilità o dall'altra dottrina generale secondo cui essi non sono di alcuna utilità"; e allora come si colma lo iato profondo tra teoria ed esperienza se non si può "disporre, di una prova sperimentale dell'esistenza di una qualche correlazione fra ciò che percepiamo e ciò che è realmente?" Come dice Melandri, ricorrendo alla soluzione aristotelica di negare che ci sia un problema: "Questo evidente conflitto pertanto non può essere rappresentato come un conflitto fra una teoria e una teoria diversa, bensì piuttosto come un conflitto fra una teoria e una convinzione ovvia; fra le deduzioni di taluni esperti e ciò che ciascuno di noi non può non aver appreso dall'esperienza; fra una dottrina e una parte del nostro comune bagaglio di conoscenza", p. 9; insomma, basta non interrogarsi sulla fondatezza del nostro comune bagaglio di conoscenze per non aver bisogno di controlli, di plance di comando, di re e e di fantasmi che guidano la mente.
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to fisiologico il rapporto tra psicologia e interpretazione è sorretto dalla sola parte dell'interpretazione. Se esiste un materialismo di Freud, dove la parola materialismo viene intesa come anti-idealismo, è però interno al mondo delle motivazioni, non è materialismo nel senso fisicale, non può esserlo. E qui troviamo un altro punto, sul quale vorrei riflettere un po'. Quando noi andiamo a trattare gli Stoici avendo in mente queste cose, i discorsi che fanno oscillano, a volte non capiamo niente ma talvolta ci paiono famigliari. Si ritrovano citazioni quasi dello stesso tipo in Hobbes, in Cartesio e in Hume e Spinoza. Qui più uno ne sa e più trova analogie con certe situazioni tipiche del pensiero moderno. Ad esempio, il punto del sigillo nella cera, che c'è anche in Cartesio, rimane ambiguo perché il sigillo, di nuovo, non può essere usato in maniera transempirica. Io posso dire che il sigillo si imprime nella cera ma siamo sempre all'interno della rappresentazione. La nozione di sigillo non posso usarla per il rapporto tra cosa in sé e fenomeno. Perché vedete, un'impressione è piuttosto una modificazione o alterazione dell’anima. La parola usata è heteroiosis: non c'è rapporto di continuità, heteroiosis, è eteronomo. Non c'è corrispondenza tra forma del sigillo esterno e l'interno. È interessante vedere come questi topici sono sempre legati tra loro, qui viene fuori il problema del sogno: come si fa a distinguere il sogno dalla realtà? C'è il problema di chi abbia avuto una visione da un Dio, quindi il problema del génie malin, il genio maligno di Cartesio; c'è il problema delle rappresentazioni illusorie, dei phantasmata e via di seguito; questi punti sono collegati fra loro. Perché in una teoria della conoscenza che non contempla il rapporto col mondo esterno, sorge il problema del sogno, di come facciamo a distinguere il sogno dalla realtà, il problema dell'illusione, il problema della rappresentazione che ci ha inviato un Dio. Noi oggi parliamo di paranoia, non crediamo più negli Dei ma crediamo nella psicopatologia, sapete che progresso che abbiamo fatto eh? È
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sempre lo stesso gioco se lo vedete strutturalmente. Tutto equivale a dire che se anche c'è la sensazione, il fatto che ci sia la sensazione, cioè lo stimolo esterno che vien trasmesso alla mente, se anche è una condizione sufficiente per avere una rappresentazione, non è una condizione necessaria; perché c'è il caso appunto del sogno, della visione, della paranoia, di tutto quello che volete. Quindi siamo sempre nei guai. Anche se ammettiamo la sensazione dobbiamo ammettere che ci sia il genio maligno, il diavolo no? Nella versione cristiana il fatto che possa esserci rappresentazione senza sensazione è legato alla assunzione del peccato566. Se i sogni, dice Cartesio, fossero coerenti fra di loro noi non avremo nessun criterio per distinguere il sogno dalla realtà. E certo, se ogni volta che ci addormentassimo noi riprendessimo esattamente lo stesso sogno dove l'abbiamo lasciato, se si trattasse di un unico sogno coerente, non so quanti di noi conserverebbero la sanità mentale. Come fa Cartesio a cavarsela? Con la teoria dell'evidenza: l'evidenza è un misto di coerenza e forza della rappresentazione. Quando dico "bisogna vedere se la sensazione è un problema rilevante per la teoria della conoscenza" intendo dire questo. Che ci siano le sensazioni va bene, ma noi non sappiamo quando partono da uno stimolo esterno e quando no, dal momento che dobbiamo registrare tutto nella camera oscura. Dobbiamo registrare tutto come rappresentazione e non come sensazione. Questo forse è più convincente dell'al-
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Il senso di persecuzione assunto dai movimenti più radicali del primo cristianesimo (vedi gli encratiti o i padri del deserto) hanno tutti una comune matrice nell'assunzione della punizione per il peccato originale, punizione che mette al bando ogni piacere dalla vita umana. Di qui le ragioni dell'astinenza sessuale e del digiuno. Nella sintesi agostiniana il contenimento dell'impulso sessuale è continuamente frustrato perché Dio ha punito l'uomo privandolo dell'autocontrollo. Se già è difficile controllare gli impulsi durante la veglia, nel sogno, ovvero dove la rappresentazione sorge in assenza dello stimolo sensoriale, è impossibile reprimerli e il sintomo inequivocabile dell'impotenza della volontà è l'eiaculazione notturna; cfr. P. Brown, Il corpo e la società, op. cit.
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tro esempio del paradosso riflessivo che vi ho dato ma è sempre la stessa cosa. 18.3. Psicologia e fisica Quando si parla della psicologia nel senso fisico bisogna stare attenti perché gli Stoici presuppongono una teoria transazionistica in cui i corpi interagiscono tra loro e quindi anche i corpi animati interagiscono attraverso l'animazione. Ma è tutto un altro ordine di spiegazioni. Ciò che noi dobbiamo pretendere da queste spiegazioni è che siano sempre intese in maniera da rispettare l'univocità dell'ente. Nei corpi si distinguono sempre l'attività e la passività. Gli esseri animati sono attivi oltre che passivi mentre gli esseri inanimati sono solamente passivi. Questo schema rammenta molto da vicino quello aristotelico della potenza e dell'atto, però attenzione, qui non abbiamo potenza e atto, qui abbiamo sempre tutto in atto. Solo che è passivo o attivo l'atto. Si tratta di un'azione a contatto non di un'azione a distanza per così dire. Ogni corpo che ne urta un altro è attivo rispetto all'altro che è mosso passivamente da questo, a sua volta attivo rispetto a un altro corpo: tutto il movimento è sempre in atto. Nel caso degli esseri animati c'è il principio che è l'anima, la psyche, che dà un maggiore spazio all'attività. Ma l'anima a sua volta è mossa dallo spirito, dallo pneuma, che è aria infuocata. È sempre un corpo che agisce su un altro e in cui non bisogna presupporre alcuna tesi di determinismo. Dobbiamo solo presupporre che sia sempre tutto in atto. Forse questo fa pensare al determinismo. No, è determinismo in quel senso speciale che vi dicevo ma non è determinismo nel senso di meccanicismo. Che ogni corpo agisca su di un altro non vuol dire che sia tutto predeterminato. Lo spirito è un po' una fonte di energia quasi illimitata che esiste al mondo, lo spirito è aria infuocata. La fonte dell'energia che noi andiamo cercando gli Stoici l'avevano nello spirito, nel fuoco. Questo fuoco è la causa di tutti i movimenti, di ordine spirituale come psichico. È una fonte di energia quasi illimitata.
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Non è illimitata perché il mondo ha dei cicli, alla fine tutta questa energia viene spesa e lo stato del mondo giunge a un collasso, la trasformazione di tutte le cose in un'unica palla di fuoco la ekpyrosis567, da cui ricomincia il ciclo. Anche la mia volontà è causa agente. Qui causa ed effetto sono da concepirsi come una catena compatta, sempre in atto. Ma queste, vi dico, sono concezioni di fisica. A volte somigliano a quelle aristoteliche e per forza, perché la cosmologia è quella dell'epoca, condivisa tanto dagli Aristotelici quanto dagli Stoici, solo che le spiegazioni sono un po' diverse. Ma il sistema cosmologico è quello dato. Sarebbe come per noi l'astronomia. Ecco, per esempio, se Schopenhauer e Hegel trattano l'astronomia, la trattano così come appare al senso comune dei loro tempi, poi magari le spiegazioni che danno circa il significato di queste cose è diverso ma è lo sfondo del quadro dell'epoca che rende chiaro il tutto. Fin qui ho tenuto un certo criterio, quello di prescindere dalle interpretazioni correnti circa il contenuto di questi autori. Non vorrei però che questo si prestasse a degli equivoci. Quando vi parlo della logica stoica mi viene naturale rifarmi a una interpretazione del pensiero stoico che però è moderna e che si può applicare agli Stoici perché coincide nei punti essenziali. Ora, quello che si fa con la logica, la teoria della conoscenza, in parte anche con la teoria della percezione diventa più difficile allorché si passi a dover illustrare argomenti come la fisica, l'astronomia, la concezione del mondo e la religione. Quel criterio di semplificazione di cui vi parlavo, non può essere applicato così spensieratamente giacché bisognerebbe prima dimostrare che quello che lasciamo perdere non altera quanto resta del pensiero. Su questo punto tornerò alla fine.
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VSF B.f 596 [1], 632 e vari altri luoghi.
474 Capitolo I sugli Stoici 474 Enzo Melandri
18.4. Rappresentazione e verità Si tratta ora di vedere come noi possiamo distinguere all'interno della rappresentazione ciò che si chiama la vera catalessi e la falsa. Insomma come si distingue l'illusione dalla verità. Per la teoria della conoscenza aristotelica il fatto che noi possiamo avere rappresentazioni fallaci viene considerato marginale. Nella concezione aristotelica noi partiamo dai cinque sensi e dalle informazioni ricevute da questi cinque sensi e attraverso la memoria e l'astrazione arriviamo al pensiero. In mezzo ci sono tanti gradini, ce ne sono tanti fin che si vuole per la concezione di Aristotele. Tuttavia non trovate la percezione, non si trova perché non ce n'è bisogno. Nella teoria aristotelica della conoscenza si può passare dalla sensazione al pensiero in maniera continua. "Continuo" qui lo uso in senso non matematico perché ci sono dei gradini. Tra questi gradini non c'è mai un salto qualitativo bensì una transizione, uno si collega all'altro, nella maniera della potenza e dell'atto. L'intelletto attualizza ciò che vi è di universale nella sensazione. La difficoltà è che ci sono cinque sensi. Prendiamo la vista e il tatto che sono i più importanti: quando io dico che questo è il tavolo, intervengono la vista e il tatto. La vista interviene per i parametri del colore e della forma, il tatto interviene per quello della durezza. La difficoltà sta in questo, che oltre alla vista al tatto e a tutti gli altri sensi bisogna postulare un senso comune, il sensus communis, cioè il senso comune ai cinque sensi. Come faccio a sapere che è il tavolo se la vista mi da informazioni visive, il tatto mi da informazioni tattili? Quindi ci sono cinque sensi più uno, che è già una difficoltà. Ci sono i cinque sensi, cinque, diciassette, quello che volete, non ha importanza, più uno che è il senso comune. Sensus communis è la traduzione della koine aisthesis, senso comune agli altri sensi. C'è un'altra dizione, quella del common sense, cioè del senso che è comune a quasi tutti gli uomini, tutti eccetto i forsennati. È l'uso di common sense inglese. L'antichità e il medioevo usano sensus communis come "senso comune ai sensi".
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Qual è la difficoltà? È che la tesi dell'isomorfismo la salviamo ma al posto di una pesante condizione: cioè noi dovremmo dire che il senso comune è quello nel quale l'idea del tavolo corrisponde al tavolo reale. Nulla c'è nell'intelletto che non ci sia nella realtà. Ma siccome nell'intelletto c'è il senso comune allora bisogna che nella realtà ci sia una realtà comune che gli corrisponde. È un po' un miracolo no? L'altra difficoltà è che se anche ogni senso dà le sue informazioni specifiche quando queste informazioni giungono al livello psichico sono probabilmente del tutto diverse. La difficoltà è quella delle soglie. Cos'è il problema della soglia? È che dalla vita fisiologica alla vita psichica vale il sussistere di un salto, il cosiddetto salto qualitativo. Comunque qui la teoria aristotelica se la cava meglio dicendo che in fondo le soglie non ci sono. O ce ne sono tante fin che si vuole. Ma se noi ammettiamo che ci sia una soglia, al di sotto della quale avviene la sensazione, al disopra della quale si produce il risultato della sensazione, quell'elaborato che è la rappresentazione, allora la teoria non vale più. Tuttavia questo non dimostra che debba esistere una soglia. Mentre nell'altra concezione le informazioni dei cinque sensi affluiscono alla mente dove non le ritroviamo più come informazioni specifiche, le troviamo sotto forma di rappresentazioni. Cioè le troviamo già elaborate. In particolare il problema della commistione dei sensi ci mostra da questo punto di vista che non è conservata la specificità. Quindi parliamo delle rappresentazioni in un modo in cui non c'entrano niente le sensazioni. Può darsi anche che lo scambio di informazioni col mondo esterno avvenga senza nessuna conservazione del dato specifico, avvenga attraverso mutazioni a partire dalle quali ci si trovi costretti a rianalizzare tutto il contenuto mentale fino a inventare in proposito le sensazioni stesse. Sarebbero rappresentazioni di sensazioni.
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Riassumendo, il ripudio della sensazione come elemento della teoria della conoscenza è dovuto a due difficoltà: l'isomorfismo e il problema della soglia. Nella dottrina della conoscenza stoica non si nega che esistano le sensazioni ma si nega che l'esistenza delle sensazioni sia rilevante per questa stessa teoria, per la teoria della conoscenza. Fondamento di ogni giudizio è la rappresentazione, la phantasia. Le rappresentazioni si attraggono tra loro in modo da formare degli assetti più stabili che sono le percezioni, le katalepsis. La katalepsis è la percezione che ha come fondamento la rappresentazione, non la sensazione, questo come linea generale. La teoria della conoscenza comincia con il giudizio percettivo cioè con la percezione. Infatti ogni percezione può esprimersi sotto forma di giudizio percettivo benché la percezione sia formata di sole rappresentazioni. La differenza tra rappresentazioni e la percezione è la differenza che c'è in logica tra un predicato e una proposizione formata con quel predicato. Ciò che vi è in più nella percezione rispetto alle rappresentazioni è la forma di un giudizio ossia dell'asserzione che contraddistingue la percezione rispetto alle rappresentazioni. Il materiale di cui sono fatti i giudizi percettivi, il materiale di cui sono fatti tutti i giudizi è il medesimo, sono sempre solo rappresentazioni. Per spiegare la katalepsis vi ho accennato al concetto di phantasia kataleptiké cioè di rappresentazione catalettica. Cos'è questa catalessi? Il significato di kataleptiké sta tra l'attivo e il passivo: katalepsis può voler dire prendere nel senso attivo, afferrare; oppure nel senso passivo può voler dire essere afferrati, essere posseduti, essere ossessionati. Nella vita psichica dovete immaginare un concorso di rappresentazioni su un punto che è l'oggetto percepito. Questo oggetto percepito è la phantasia che prende l'oggetto ed è posseduta da questa rappresentazione dell'oggetto. Il doppio movimento indica che la percezione si può distinguere dalla rappresentazione
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perché ha un oggetto ma l'oggetto della percezione è a sua volta un oggetto mentale formato da un concorso di rappresentazioni. In che modo si verrà delineando l'oggetto come uno speciale concorso di rappresentazioni da un insieme qualsiasi di rappresentazioni? Bene, è presto detto, l'oggetto esibisce una costanza, è un punto di accumulazione di costanza. Io l'argomento lo ricostruisco così perché ancora oggi ritroviamo la stessa problematica. L'esempio che mi viene in mente è quello della moneta: il disco, l'immagine retinica come sensazione dovrebbe quasi sempre apparire sotto forma ellittica. Mentre la percezione della moneta è di un qualcosa di rotondo. Quindi noi abbiamo rappresentazione nell'afferrare l'oggetto, la katalepsis, nella misura stessa in cui questa rappresentazione dell'oggetto ci ossessiona. Quindi il punto è non se le sensazioni esistano o meno, ma se il parlare di sensazioni sia rilevante in sede di teoria della conoscenza. Se io parto dalla percezione, gli elementi della percezione sono rappresentazioni, sono fantasie, sono già fatti psichici. La rappresentazione è un fatto di ordine psichico, laddove la sensazione è un fatto di ordine fisio-psichico. Se io parto dalla percezione debbo avere il coraggio di dire: la base della percezione sono le rappresentazioni cioè dei fatti psichici già interpretati. 18.5. Percezione e linguaggio Mi sembra che tutto il problema della Gestalt è saltato fuori perché è possibile trasporre la stessa melodia in due scale diverse dove i singoli toni sono tutti differenti ma l'arrangiamento è tale per cui si riconosce la stessa melodia568. 568
Cfr. Le ricerche logiche di Husserl, op. cit., p. 31: "Erhenfels invece riconsidera principalmente il noto fenomeno della trasposizione della "stessa" melodia su un'altra scala, e quindi con altri toni o note; egli ha facile gioco nel dimostrare che una forma riconoscibile come identica possa essere ricomposta su una base materiale tutta diversa. Questa forma immateriale che si dà a riconoscere in se stessa con un repentino stacco percettivo dalla sua materia è
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E questo fatto, che in sé può sembrare banale, dal punto di vista della teoria della sensazione offre delle considerevoli difficoltà di spiegazione. È qui che vien fuori il discorso che il totale non è uguale alla somma delle parti. In realtà i toni sono tutti differenti tuttavia il totale fa uno stesso effetto. E poi c'è un'ulteriore complicazione e cioè che per sentire una melodia dobbiamo ascoltare suoni che non sono contemporanei nel tempo e dobbiamo tenerli a memoria tutti quanti assieme e dobbiamo ridistribuirli secondo la sequenza che abbiamo udito. Salta fuori un concetto di tempo come durata. Non è più successione, è durata. Anche per percepire il movimento avete bisogno della memoria: se non ci fosse la memoria avreste sempre la sola sensazione del presente. Cos'è la durata? La durata è un'operazione psichica in cui noi per percepire il tempo abbiamo bisogno di andar fuori dal tempo. Lo vedete no, questo è un argomento abbastanza facile, bisogna pensarci su un momento, per percepire il tempo io ho bisogno della durata, di mantenere i momenti trascorsi contemporaneamente presenti anche se sono trascorsi. Per ascoltare e cogliere il senso del discorso bisogna fare come con la melodia, bisogna aspettare che la frase sia finita. È il problema della Satz Gestalt cioè la Gestalt della proposizione. È una difficoltà che si pone nell'apprendere una lingua straniera: quando ascoltiamo una frase, e anche nel caso in cui tutte le singole parole ci sono note, bisogna fare la Satz Gestalt. Devo capire quello che dice la frase e riorganizzarmi. Questo vale per l'udire ma certamente vale anche per il parlare, è l'operazione inversa. Udire e parlare sono due operazioni complementari. La proposizione è l'unità di durata del discorso. Ora, dentro la proposizione ho delle parti di discorso. Queste parti di discorso se sono nomi corrispondono a collocazioni spaziali, a figure dotate di contorno, se sono aggettivi quel che Ehrenfels definisce Gestalt (o rilievo figurale) e che egli estende a molti altri casi analoghi. […] (In termini aristotelici, l'efficacia del nous poietikos, dell'intelletto "agente" andava ricercata già al livello minimo di percezione)".
Titolo delLezione Capitolo I 479 XVIII 479
possono corrispondere a colori. In questo modo si riporta nel linguaggio tutto l'apparato conoscitivo in maniera assai complessa. La soluzione più facile e semplice sembra quella offerta dai nomi. Di fatto ai nomi faccio corrispondere delle cose che percepisco col senso visivo o tattile: una cosa è definita dal contorno, che è un dato molto importante, dai colori, però i colori possono sparpagliarsi su più cose, possono essere sfumati. Quindi sembrerebbe che tutta la proposizione si potesse analizzare in parti di discorso tra cui la più importante sarebbe il nome. Al nome corrisponde una porzione di mondo. Ma se voi provate a spiegare cos'è la proposizione attraverso la giustapposizione dei nomi non ci riuscite perché la proposizione è una Satz Gestalt, di nuovo il totale non è la somma delle parti come si dice con linguaggio metamatematico perché nella proposizione compaiono parole, o parti del discorso, che non corrispondono a nulla. Le parole che servono a connettere le parti evidentemente non sono parole che hanno un corrispondente nel mondo. Noi prendiamo porzioni di realtà e vediamo come può essere resa con linguaggi diversi. Prendete, non so, un attentato, questo può essere descritto con linguaggio fisico, con linguaggio sociologico, politico e così via. Questa è la tipica situazione in cui una stessa realtà per definizione viene colta e resa con diversi linguaggi. E qui vedete che i linguaggi in parte sono frutto di una costruzione intellettuale e le costruzioni intellettuali non è detto che debbano convergere verso un'unica teoria. Anzi direi che la situazione modernamente a noi più famigliare è che quanto più si imbocca la via delle teorie, maggiori sono i gradi di libertà e quindi anche tanto maggiori i dissensi che saltano fuori. Noi non siamo più nella situazione fortunata in cui un Aristotele poteva pensare che l'intelletto fosse unico per tutti, noi avremo torto, non so, ma noi non la pensiamo più così, sicuro non la pensiamo più in quel modo. E proprio lo studio, direi lo studio più importante che possiamo fare, è quello di esercitarci a parlare delle cose con più linguaggi.
480 Capitolo I sugli Stoici 480 Enzo Melandri
Gestalt vuol dire figura. Il concetto di figura è un concetto anzitutto di totalità, di una totalità qualitativa che pare non analizzabile come composizione delle sue parti. Nel caso della melodia è chiarissimo. Inoltre la Gestalt si caratterizza come pregnanza che significa che l'elemento totalizzante dinamicamente è tale da costringere all'assenso569. È il caso di quelle figure che appena la vedete l'immagine rimane lì, rimane ferma, ed è difficile staccarsi. È il caso delle figure ambigue, a volte non si vede, si fa fatica a capire la figura sottintesa ma una volta che l'avete afferrata, questa è la pregnanza, c'è una costrizione all'assenso. Curioso il parallelo tra questo concetto di pregnanza e quello di catalessi o di fantasia catalettica. Intanto una percezione si distingue da una sensazione in quanto è figurale, mette in rilievo l'oggetto. L'ambiguità è data dal concetto di oggetto di percezione, sembra che l'oggetto sia lì, solo che se la percezione non percepisce resta lì e invece se lo percepisce l'oggetto diventa di percezione. No. Intanto le rappresentazioni si combinano in quanto l'esito è la Gestalt. Solo in quel momento c'è l'oggetto altrimenti non ci sarebbe. La psicologia della forma ci aiuta a dire che cosa sia la percezione, non questa o quella percezione del particolare, la percezione in generale. Qui la sensazione sarebbe lo scarto della percezione. Invece di partire dalla semantica dei nomi per ricostruire la totalità della proposizione facciamo l'operazione inversa, partiamo dalla totalità e poi vediamo le parti. Alle sensazioni corrisponderebbero i nomi, alla percezione corrisponderebbe la
569
L'assenso, synkatathesis, è un elemento fondante della dottrina stoica della rappresentazione; cfr. Pohlenz p. 112, "[ …] la rappresentazione è un'affezione determinata dall'esterno, e solo con la synkathathesis entra nel processo conoscitivo un elemento attivo che garantisce l'autonomia del logos"; il passo va letto in riferimento alla figura zenoniana della rappresentazione come mano aperta, l'assenso come dita che si chiudono, la katalepsis come pugno chiuso, vedi n. 42; VSF B.l 97 "L'arte è un sistema di comprensioni, dove per comprensione si intende l'assenso dato a una rappresentazione catalettica […]"; anche B.l 90, 92, 115.
Titolo delLezione Capitolo I 481 XVIII 481
proposizione570. Infatti la forma minima di giudizio che posso dare è il giudizio percettivo. Consideriamo pure che il linguaggio rispetto alla percezione è una operazione più complessa, abbiamo qui però delle tracce di quella parte del linguaggio che potrebbe essere fatta corrispondere alla percezione. Si può fare? Sissignore, si può fare perché la percezione corrisponde al giudizio percettivo, la percezione è già un giudizio. Che differenza c'è tra giudizio e non giudizio? Il giudizio asserisce qualcosa, è asserzione. L'asserzione è il distacco di qualcosa dal contesto del dicibile come qualcosa che io dico, asserisco. Quindi proprio del linguaggio, della condizione conoscitiva, è l'asserzione. Nella rappresentazione c'è uno stacco. Che cos'è uno stacco percettivo? Abbiamo detto che questo stacco è dato dalla totalità qualitativa, dalla pregnanza e dal peso del contorno. Dobbiamo tradurre ciascuno di questi termini psicologici in termini logici. Purtroppo qui il filo del discorso prende un'altra strada, quella del logos apophantikos aristotelico, del suo essere vero o falso e della riduzione della proposizione alla semantica del termine. Si può immaginare per esempio che il distacco percettivo in linguaggio logico si traduca nella regola del modus ponens detta per l'appunto di separazione e che potremmo anche chiamare regola del distacco perché dall'ipotesi p → q e asserendo p otteniamo q e questa q noi possiamo asserirla separatamente, l'abbiamo insomma distaccata. Evidentemente tutta la filosofia del linguaggio si è mossa alla ricerca di un compromesso tra queste due opposte tendenze, la tendenza alla totalizzazione e la tendenza invece a ricostruire la proposizione attraverso il nome che conduce alla riduzione del significato proposizionale al nominale.
570
VSF C.e 169 [2] e 171.
482 Capitolo I sugli Stoici 482 Enzo Melandri
Segue la distinzione tra termini descrittivi e non descrittivi per la quale rimando alla Lezione V e XII. Includo tuttavia una distinzione assente nelle altre trattazioni che riassumo così: i termini descrittivi hanno una denotazione, o possono averla, in quanto aderiscono alla legge del contrasto dei significati. Per sapere se rosso è un termine descrittivo o no non è necessario andare a vedere se esiste qualcosa di denotabile che sia rosso, basta la teoria a contrasto del significato, basta cioè considerare che le cose del mondo si possano dividere in rosse e non rosse e che la classe del rosso non sia vuota. La teoria del contrasto del significato non si applica ai termini logici o ai trascendentali, come dice Kant. Non si possono dividere le cose del mondo in quelle che sono identiche e quelle che non lo sono, a tutto si applica il termine "identico", "diverso", "uno", "con", "poiché", "perché". La teoria a contrasto del significato va bene per i termini descrittivi, ma con i termini logici può provocare, piace dire a Melandri, dei crampi mentali. 18.6. Fisica e etica Bene. Ora io la prossima settimana debbo affrontare un po' descrittivamente le questioni cosmologiche. Quando andiamo a leggere gli antichi sulle questioni di fisica abbiamo una difficoltà che è data dal fatto che la loro religione non è la nostra. Non c'è neanche quella continuità culturale che a volte viene data per scontata. Sono questioni in cui io parlo sempre con un certo imbarazzo. Introdursi nella mitologia greca è una questione molto difficile perché c'è una sovrapposizione culturale che a noi, direi, è più di impedimento che di aiuto. L'antichità classica ha mantenuto questi simboli per tutto il medioevo. Pensate all'uso che fa Dante della mitologia antica. Poi viene ripresa dal Rinascimento. L'interpretazione rinascimentale presenta probabilmente ancora dei caratteri fideistici, direi, ma ho il sospetto che a noi non sia accessibile, dal punto di vista dell'esperienza vissuta, nemmeno l'interpretazione rinascimentale. Infatti l'ultima interpretazione che abbiamo avuto della mitologia greca risale all'Arcadia e al neoclassico dove è inconsapevolmente
Titolo delLezione Capitolo I 483 XVIII 483
vissuta come un'allegoria o un simbolismo esteriore ed è completamente svuotata dei contenuti originali. Non è assurdo pensare che quei contenuti riemergano ancora nel medioevo e nel Rinascimento. Probabilmente ci credevano anche perché queste credenze erano rese più facili dal fatto che la loro fisica non era la nostra. Pensate solo come si altera il quadro per il fatto che la loro fisica è una fisica animistica e non una fisica meccanicistica. Certo, qualcuno aveva l'idea di una fisica atomistica, meccanicistica, come Democrito, Lucrezio, fino a Gassendi. Ma anche lì è difficile ricostruire che cosa esattamente pensassero questi personaggi al di fuori della traccia di analogia con cui noi cogliamo le nostre percezioni. Ora, quella che si chiama immagine fisica del mondo ha difficoltà di interpretazione diverse rispetto al caso della religione. In qualche modo l'immagine fisica del mondo noi possiamo ricostruirla anche se non possiamo ricostruire il vissuto corrispondente a questa immagine fisica. Per me la difficoltà consiste nel non sapermi liberare dal sentimento che questi autori parlino in mala fede quando parlano della fisica. Mi riesce difficile pensare che parlino sul serio quando parlano di fisica. Questa impressione me la dà Aristotele e me la danno questi autori. È tutto da parte mia questo difetto? Può darsi. Ma il dubbio è motivato dal fatto che probabilmente gli antichi investivano meno esattezza, meno bisogno di verità nelle concezioni fisiche, se vedete ciò che voglio dire. Noi facciamo un investimento molto più massiccio su queste cose, guai se le nostre percezioni fisiche risultassero erronee, troppa parte della nostra verità dipende dall'esattezza di queste concezioni. Mentre per gli antichi non cambia molto che ci sia un errore nella concezione fisica, non comporta quasi conseguenze. Per gli antichi che i cieli fossero concepiti come vuoti o come pieni, che le stelle fossero sfere di cristallo o altro non ha conseguenze, non è che potessero mandare dei razzi sulla luna. È a questo punto che la differenza diventa importante. A noi interessa perché in realtà la questione può anche avere uno sbocco industriale. Quindi vedete noi investiamo molto di più nella
484 Capitolo I sugli Stoici 484 Enzo Melandri
certezza della concezione fisica del mondo di quanto facessero gli antichi. Ecco, questo è un sospetto al quale ho cercato di dare un corpo. Non è assurdo dal mio punto di vista ritenere che gli antichi non parlassero molto sul serio quando parlavano di questioni di fisica. Non è assurdo ma non posso dimostrare che sia così. È un impressione alla quale ho dato un po' di corpo e che ha delle sue motivazioni. Mentre invece quando parlano di medicina o di religione, in questo caso bisogna prenderli sul serio. Per forza, perché la medicina è legata all'intervento medico, alla salute, all'idea della salute571. Dunque la settimana prossima riprenderemo da qui. È inutile che tenti di mitigare il senso di incompiutezza che si prova lasciando questa lezione. Il corso non era terminato. A parziale consolazione posso solo aggiungere che alla fine dell'anno accademico non si provava una sensazione di maggior compiutezza proprio perché la ricerca era solo sospesa. L'anno successivo però Melandri non tornò sugli Stoici. Riprese a fare Husserl e a questo proposito gli interessati troveranno molto materiale, a cominciare dalla prima pubblicazione Logica e esperienza in Husserl, Il Mulino, Bologna 1960 per finire col citato Le "ricerche logiche" di Husserl. Legittima è la curiosità del lettore che vorrebbe sapere come continuarono le lezioni. Purtroppo la qualità dell'ascolto non solo non migliora ma peggiora. Quello che ho potuto ricavarne, aiutandomi un po' con i miei appunti, è stato parzialmente integrato in questa presentazione che, come ho spiegato nell'introduzione, se porta come autore il mio nome è solo a causa dell'impossibilità di proporre le lezioni attraverso una pura e semplice operazione di trascrizione. Per cui tutti i possibili errori di interpretazione e le relative interpolazioni vanno addebitati esclusivamente a me.
571
Bruno Snell, autore spesso citato da Melandri, in La cultura greca, op. cit. nel capitolo intitolato Sapere umano e divino pone le basi del metodo induttivo nella ricerca medica a cominciare da Alcmeone.
Elenco dei diagrammi, delle figure, degli schemi e delle tabelle572
Diagrammi 9.19.5-
A appartiene a B? Sillogismo in Barbara espresso con i diagrammi di Venn
Figure 12.1. 12.3.
Rapporto speculare nome-cosa Non-corrispondenza tra particelle sintattiche e frammen-
Schemi 2.1. 2.2. 2.3. 2.4. 3.1. 3.2. 3.3. 3.4.
Semiologia stoica Corporeo / mentale Fisica / Etica Processo conoscitivo Processo di astrazione dell’informazione Piano della semantica nominale La funzione teoretica del linguaggio Il triangolo di Ogden e Richards (1)
572 Ringrazio Mattia Gianinazzi per il lavoro di grafica operato su ciascun elemento di questo elenco.
485
486 Capitolo I 486 Elenco dei diagrammi, delle igure, degli schemi e delle tabelle
10.1. 10.2. 10.3. 11.1. 14.1. 14.2. 14.3. 14.4. 15.1. 16.1. 16.2.
IL quadrato delle opposizioni Il quadrato delle modalità Universo di discorso degli operatori modali Triangolo di Ogden e Richards (2) Quadrato delle modalità aristotelico-leibniziano Rappresentazione temporale della nozione di Necessario Rappresentazione temporale della nozione di Possibile Rappresentazione temporale della nozione di ImpossibiPassato presente futuro Quadrato aristotelico delle opposizioni Quadrato aristotelico delle opposizioni con quantificato-
Tabelle 2.1. 5.1. 8.1. 12.1. 12.2. 12.3. 12.4. 12.5. 12.6. 16.1. 17.1. 17.2. 17.3. 17.4.
Aristotelismo vs stoicismo Naturalità vs convenzionalità del linguaggio Tabella comparativa dei termini in uso Tavola di verità della negazione Tavola di verità della congiunzione Tavola di verità della disgiunzione esclusiva Tavola di verità della disgiunzione inclusiva Ridefinizione della disgiunzione esclusiva Tavola di verità dell’implicazione materiale (filoniana) Tavola di verità dell’implicazione stretta Tavola di verità del bicondizionale I capitoli della logica stoica Classificazione degli argomenti secondo Mates Tavola di verità dell’argomento detto modus ponens
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