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Italian Pages 129 [153] Year 2014
ETEROTOPIE N. 236 Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna
COMITATO SCIENTIFICO
Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina) Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi “Insubria” Varese) Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza) Maurizio Guerri (Università degli Studi di Milano) Salvo Vaccaro (Università degli Studi di Palermo) José Luis Villacañas Berlanga (Universidad Complutense de Madrid) Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis) Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)
ANGELO ROMEO
SOCIALMENTE PERICOLOSI Le storie di vita dei giovani nei Quartieri Spagnoli di Napoli Prefazione di Franco Ferrarotti
MIMESIS Eterotopie
© 2014 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana: Eterotopie, n. 236 Isbn: 9788857521862 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]
INDICE
PREFAZIONE di Franco Ferrarotti
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INTRODUZIONE
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I IL GIOVANE TRA INCERTEZZE E SFIDE 1. I giovani, una carta d’identità in mutamento 2. Giovani: definizioni e problemi 3. Generazioni di giovani e confronto familiare
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II IDENTITÀ, RELAZIONI E AMICIZIE GIOVANILI 1. Amicizie e identità giovanili 2. Giovani nomadi e incerti 3. I giovani, le scelte del domani e la vita nel gruppo
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III I QUARTIERI DI CHICAGO. PRIMO “LABORATORIO” SULLA CONDIZIONE GIOVANILE 1. Il giovane, la città e la vita metropolitana 2. I giovani nelle Teorie sulla devianza e i quartieri 3. Le ricerche sulla condizione dei giovani devianti
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IV GIOVANI MEDIATI E COMUNICATORI 1. I giovani e il mondo dei media ieri e oggi 2. Giovani connessi tra realtà e immaginario virtuale 3. Raccontare, raccontarsi. Storie di vita giovanili on line
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V I GIOVANI “SOCIALMENTE PERICOLOSI” DEI QUARTIERI SPAGNOLI 1. Introduzione: obiettivi e metodologia della ricerca 2. I Quartieri Spagnoli: descrizione e stili di vita 3. La paranza e a’cazzimma 4. La ricerca sul campo lungo via Montecalvario e Largo Baracche 5. Note introduttive alle storie di vita dei giovani “Socialmente pericolosi” 6. “Vorrei andare via e tornare da Re” La storia di Mariano Di Giovanni 7. “Napoli? È un presepe bellu, i pastura su malamente” La storia di Gennaro Masiello 8. “Non dare alla ruggine il tempo di raggiungere gli ingranaggi.” La storia di Carmine Monaco 9. “Non dare un pesce a un uomo per sfamarlo, piuttosto insegnagli a pescare per tutta la vita”. La storia di Gianni Savio 10. “Ai Quartieri Spagnoli c’è un solo binario” La storia di Giuseppe Schisano
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“CE LA FARÒ!”
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POSTFAZIONE di Fabio Venditti
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BIBLIOGRAFIA
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RINGRAZIAMENTI
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ARCHIVIO FOTOGRAFICO I QUARTIERI SPAGNOLI: VISSUTI E IDENTITÀ
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A Mario Sordi, amico e giovane collega, che mi sorride dal cielo.
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FRANCO FERRAROTTI
PREFAZIONE
Il libro di Angelo Romeo ha una sua peculiare validità e va segnalato per ragioni sia di metodo che di sostanza. In primo luogo, perché sfugge al “dolorismo” di tanti libri, inchieste, sceneggiati televisivi su Napoli e in particolare sui ghetti urbani della miseria. La letteratura sul Sud, così prona a piangersi addosso con poche, belle eccezioni (penso ai libri di Franco Cassano), trova nel testo di Romeo un antidoto salutare. Dopo una dotta introduzione, che solo in qualche passo rischia di farsi concettuologia, l’Autore riporta i risultati della ricerca sul campo. Il tema, l’oggetto della ricerca sono i giovani “socialmente pericolosi”. Tornano subito alla memoria le classi subalterne, considerate per definizione “socialmente pericolose”, durante tutto l’Ottocento e fino al termine della Seconda guerra mondiale, dalla Folla delinquente di Scipio Sighele a Masse e potere di Elias Canetti, tanto che del loro “benessere” e della “protezione sociale” doveva occuparsi il ministero dell’interno, ossia il ministro di polizia. Il contesto si presenta, oggi, profondamente mutato. Dallo Stato di diritto liberaldemocratico, elitarista e in mano alle poche grandi famiglie, vale a dire dello Stato monoclasse siamo passati allo Stato pluriclasse. In altre parole, siamo passati dallo Stato di diritto allo Stato dei diritti. Per il “benessere” delle classi subalterne esistono e funzionano, quanto meno sulla carta, uffici ministeriali appositamente costituiti. Ma ecco che la ricerca sul terreno, a questo punto, viene a svelare la situazione di fatto dietro il velame, spesso ingannevole, dell’ottimismo normativo. In Italia in bilico, elettronica e borbonica (Laterza, 1990) ho cercato di dar conto della doppia transizione dallo Stato monoclasse allo Stato pluriclasse e dallo Stato di diritto allo Stato dei diritti. La questione è tuttora aperta né bastano a risolverla le pur acute riflessioni di Ralf Dahrendorf sulla contraddizione fra “entitlements”, o richieste sociali, e “provisions”, o risorse finanziarie disponibili. Non si tratta solo di una questione e di bilancio. Con riguardo all’Italia e specialmente tenuto presente
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Socialmente Pericolosi
tutto il complesso problema del Mezzogiorno, occorre prender buona nota di una carente mediazione fra Stato e società. In Italia non sono solo le carenze a suo tempo individuate da Piero Gobetti a pesare (mancanza di una rivoluzione politica, come in Francia, e di una riforma religiosa, come in Germania). C’è di più e di peggio. Bisogna fare uno sforzo e andare a rileggere, sociologicamente, il codice Rocco, che solo recentemente ha subìto varianti procedurali di un certo rilievo con riguardo al processo penale. Vi spira una fredda, coerente aria di autoritarismo centralizzato assoluto, in cui la spaccatura classista della società viene esaltata come una funzionalità ritenuta nello stesso tempo necessaria e auspicabile. Ad Alfredo Rocco corrisponde, sul piano della scuola e su quello, più ampio, della cultura politica, Giovanni Gentile. Con la sua riforma, Gentile deliberatamente riserva il ginnasio e il liceo alle classi alte, vivaio per i futuri dirigenti in tutti campi, mentre alle classi popolari vengono indicati i corsi della “scuola di avviamento professionale”, secondo un disegno di autoperpetuazione delle élite al potere in cui l’intelligenza si suppone duramente condizionata dalle origini sociali e familiari. In questo libro, le storie di vita dei giovani dei “quartieri spagnoli” sfuggono ai limiti del bozzettismo pittoresco cui troppo spesso sono ridotte, quasi innocue appendici di contorno esornativo rispetto ai dati macro-statistici. Romeo ha il merito di ricordarci che, dietro al dato c’è il vissuto. Va da sé che i dati statistici sono importanti. Ci dànno i contorni oggettivi del contesto in cui vivono le persone. Ma non sono di per sé sufficienti. Di fronte alla comprensione specifica delle singole persone e dei gruppi primari informali sono muti o equivoci. Il libro di Romeo ci aiuta a capire che gli “oggetti” di una ricerca sociologica sul campo ne sono in realtà i “soggetti”. Bisogna dare loro la parola. Devono parlare in prima persona. Le storie di vita, in questo senso, lungi dal porsi come un sottoprodotto delle cronache giornalistiche, costituiscono la materia prima per comprendere la natura del disagio sociale e quindi, eventualmente, intervenire. I problemi dell’individuo non si esauriscono nei termini, psicologici, di una questione individuale. Chiamano in causa la società globale. Battono alle porte delle istituzioni plumbee. Gridano i loro bisogni alle burocrazie letargiche, che hanno quietamente operato lo “spostamento dei fini”, dimenticando gli scopi all’origine della loro fondazione e ponendosi come fini a se stesse, per la perpetuazione di privilegi ormai percepiti come inammissibili.
F. Ferrarotti - Prefazione
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I giovani vivono e sono vissuti, condizionati dal contesto. Prigionieri d’una rete di relazioni, costretti nei vicoli del quartiere. L’Autore tenta, ardimentosamente e per certi aspetti con effetti stimolanti, di elaborare una comparazione interculturale stabilendo un raffronto con i quartieri di Chicago e richiamandosi a quella famosa “scuola” degli anni ’30. Personalmente ho avuto la fortuna – probabilmente immeritata come tutte le vere fortune – di lavorare a Chicago nei primi anni ’50 del secolo scorso con Ernest W. Burgess, l’ultimo epigono della “Chicago School”, che aveva trovato nella capitale del Midwest il suo laboratorio per il “field work”. La comparazione è ardua a causa della marcata differenza fra i due contesti. Mentre il contesto italiano, e specialmente napoletano, appare caratterizzato da una a-legalità diffusa, tanto da giustificare il noto bon mot “governare gli italiani non è difficile; è semplicemente inutile”, il contesto nordamericano è rigorosamente vincolato a un “patto costituzionale” che costringe a rammentare la frase “dura lex, sed lex” e a condonare, ma non sempre, la “police brutality”, vale a dire l’osservanza ad oltranza delle norme di legge. Il contributo positivo di Romeo è da vedersi nelle storie di vita dei giovani dei “quartieri spagnoli” raccolte e interpretate dall’Autore in profondità tanto da trarne una serie di “stili di vita” e nello stesso tempo anticiparne tensioni e aperture verso un diverso, più libero avvenire. La speranza non è morta. Napoli, e anche i suoi “quartieri spagnoli” sono una realtà in movimento, capace di rinnovarsi. Non si creda con ciò che Romeo passi, senza soluzione di continuità, dal momento analitico a quello parenetico. In altre parole, il ricercatore sul campo non cede la parola al pedagogista in senso tradizionale vale a dire all’educatore essenzialmente interessato all’edificazione civile dei futuri cittadini. E tuttavia non sempre si riconosce nell’attività della ricerca sul campo tutta la densità teorica in essa implicita. Né si tratta di mettere a confronto l’impostazione strutturalistica con quella psicologica ad evitare la caduta nello psicologismo e quindi nella riduzione dei problemi oggettivi dei rapporti di forza alla labilità capricciosa di stati d’animo. A questo scopo avevo a suo tempo teso con tutte le mie forze mettendo a confronto le strutture rilevate in Roma da capitale a periferia (Laterza, 1970) e gli “stili di vita” in Vite di baraccati (Liguori, 1973). In questa prospettiva non avevo mancato, come corrente di consapevolezza teoretica, fin dagli anni ’50 del secolo scorso, le ricerche
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Socialmente Pericolosi
della “Scuola di Chicago”, troppo facilmente paghe e soddisfatte di far perno su un concetto, in verità alquanto vago, di “processualità”, forse anche, sospettavo, per non dover affrontare la spinosa questione della dialettica politica. Traducendo e pubblicando nei Quaderni di sociologia (1951) il suo The present State of American Sociology ho avuto con Edward A. Shils scambi polemici amichevoli e asperrimi. Di fatto, è incredibile come anche al ricercatore che parta ed esplicitamente riconosca il primato delle “pratiche di vita” riesca difficile andare al di là d’una concezione ancillare della ricerca rispetto alla teoria e rendersi conto come proprio dalla ricerca e quindi dalla conoscenza ordinaria, dalla doxa, la teoria come epistéme abbia da guadagnare nuovi spunti e stimoli, inediti, imprevisti orizzonti, e per questa via salvarsi dal diventare e consolidarsi in mera concettuologia. Nel momento in cui la ricerca è chiamata a convalidare o, come vogliono epistemologi à la page, a falsificare la teoria, la svegliano dall’eventuale “sonno dogmatico” e la ricongiungono alla pratica di vita del mondo umano. Entra in funzione quella che, in una lettera famosa Friedrich Engels definiva la “umwälzende Praxis”, vale a dire la “prassi della reciprocità”. Naturalmente, l’idea di Engels nasceva in un diverso mondo di pensiero, mirando a impedire un rapporto meccanicistico fra Unterbau e Überbau ossia fra struttura economica e sovrastruttura ideale. Il libro di Angelo Romeo mi sembra incamminarsi per questa strada. Ed è questa la ragione per cui lo considero un apporto positivo in una situazione di relativa stasi e, per così dire, di stanchezza teorica delle scienze sociali.
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INTRODUZIONE E ti diranno parole rosse come il sangue, nere come la notte; ma non è vero, ragazzo, che la ragione sta sempre col più forte. Roberto Vecchioni
Il volume nasce dalla necessità di proporre un’analisi della condizione giovanile con un approccio qualitativo della ricerca sociale, in uno spazio fisico talvolta conosciuto dall’opinione pubblica, solo come luogo di malvivenza e criminalità. Si tratta dei Quartieri Spagnoli di Napoli, caratteristici nella loro struttura urbanistica, ma anche nell’organizzazione della quotidianità dei suoi abitanti, che vivono all’interno rituali e dinamiche sociali, talvolta incomprensibili all’osservatore esterno. Camminare per i vicoli di via Montecalvario, passare per Largo Baracche, osservare i colorati panni stesi da un balcone all’altro, sentire le voci dei venditori ambulanti e i panieri riversarsi sulle strade, spingono quasi ad entrare dentro un set cinematografico d’altri tempi. Tornano alla memoria scene filmiche che hanno segnato la storia del cinema italiano, dentro uno spazio urbano, che è proprio un laboratorio sociale. Riguardando questi vicoli, appare quasi chiaro come per i registi che qui sono approdati, fosse semplice trovare ispirazione, in un luogo carico di tradizioni e caratteristiche. Eppure si tratta di un quartiere odierno, non disabitato, ma vivo nelle sue tradizioni, nei linguaggi e nei rituali. Addentrarsi nei “vasci” e fermarsi davanti agli altarini dei Quartieri Spagnoli, stimola la lettura dei testi di Walter Benjamin, che nell’analizzare Napoli, con le sue caratteristiche e contraddizioni, scrive: “la vita privata del napoletano è lo sbocco bizzarro di una vita pubblica spinta all’eccesso. Infatti non è tra le mura domestiche, tra moglie e bambini che essa si sviluppa, bensì nella devozione o nella disperazione. Nelle viuzze laterali, scendendo per scale sudicie, lo sguardo scivola su bettole, dove tre o quattro uomini a qualche distanza l’uno dall’altro siedono e bevono, nascosti dietro dei bidoni che sembrano i pilastri di una chiesa. In angoli come questi è difficile distinguere le parti dove si sta continuando a costruire da quelle già in rovina. Nulla in-
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Socialmente Pericolosi
fatti viene finito e concluso. La porosità non si incontra soltanto con l’indolenza dell’artigiano meridionale, ma soprattutto con la passione per l’improvvisazione”1. Sembra si tratti di una descrizione appena prodotta, eppure quello che scrive Benjamin a metà del secolo scorso, è la percezione che si vive nel momento in cui si fa ingresso ai Quartieri Spagnoli. Ogni elemento sembra essere in contraddizione e discontinuo rispetto a ciò che c’è fuori, nel contesto cittadino della Napoli più nota al napoletano, agli occhi del turista affascinato, da una città tanto ricca artisticamente, quanto colma di contraddizioni e usanze. Il focolare domestico si riconosce non solo dalle voci e dalle discussioni che si riversano dentro i quartieri, ma anche dagli odori delle cucine che nelle ore del pranzo e della cena, trasformano i vicoli in trattorie2, dove le famiglie si radunano intorno a un tavolo, riproponendo quelle usanze familiari, talvolta scomparse in molte realtà metropolitane. Dentro e fuori le mura di questo quartiere, si inseriscono i giovani, categoria, oggetto, del nostro lavoro di ricerca. I giovani, sempre più presenti nelle ricerche sociologiche, vivono momenti di trasformazione nella scelta lavorativa, caratterizzata dal loro sistema sociale3, che di per sé ne influenza gli atteggiamenti. Vivere dentro un quartiere, come quello analizzato nel nostro lavoro, comporta alcune riflessioni, che chiamano in causa una letteratura sul mondo giovanile, tanto legata all’incertezza e all’instabilità, quanto ai fenomeni di devianza e criminalità. 1 2
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W. Benjamin, Immagini di città, Torino, Einaudi, 2007, p. 7. Scrive Benjamin: “più povero è il quartiere, tanto più sono numerose le trattorie. Da cucine poste in mezzo alla strada, chi può, prende ciò che gli serve. A seconda del cuoco gli stessi cibi hanno un gusto diverso; non si procede a casaccio, bensì secondo ricette consolidate. Il modo in cui pesci e carni si presentano allo sguardo dell’esperto, ammucchiati nella vetrina della più piccola delle trattorie, rivela una sfumatura che va al di là di quanto richiesto dall’intenditore.” (W. Benjamin, op. cit., pp. 13-14). “I giovani stanno sperimentando nuove concezioni e modelli di vita, di moralità, di matrimonio, di procreazione, di educazione, di lavoro e così via, che fanno pensare ad una nuova configurazione valoriale e a nuove scelte che rifiutano categoricamente valori tradizionali come l’autorità, il lavoro duro, le relazioni interpersonali superficiali.”(M. Ferrari Occhionero, in M. Nocenzi, (a cura di) Disagio e speranze in tempi di crisi. Indagine conoscitiva sugli atteggiamenti socio-politici degli studenti di Sapienza Università di Roma, Roma, Nuova Cultura, 2012, p. 13.
Introduzione
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Sulla strada i giovani dei Quartieri Spagnoli, iniziano a costruire la propria identità, vivere le prime esperienze e i legami amicali, all’interno di un quartiere dove il tempo per certi aspetti sembra essersi fermato. Il volume tenta in una prima parte di proporre, anche se non vuole avere la pretesa di sviluppare in maniera esaustiva lo studio sulla condizione giovanile, le principali questioni che ruotano intorno al giovane. La trattazione sviluppata nei primi capitoli, ha lo scopo di introdurre infatti il lettore al lavoro di ricerca che segue nella seconda parte del testo. Gli studi e le teorie che vengono proposte dal primo al terzo capitolo sono pertanto una panoramica approfondita nelle parti scelte, che introduce e riapre questioni sul mondo giovanile mai concluse. Vedono una categoria in continua crescita, che non trova mai stabilità. Il giovane appare essere sempre alla ricerca di qualcosa, di un futuro in divenire, costituito da esperienze che la letteratura sociologica rileva essere caratterizzata dall’incertezza da un lato, dalla volontà di non lasciarsi andare dall’altro. A questi tre capitoli, ne segue un ultimo nella prima parte del lavoro, incentrato sulla funzione della comunicazione nel mondo giovanile. I giovani appaiono incerti sul futuro, ma non si può però negare che utilizzino i nuovi strumenti informatici e cellulari, con maggiore frequenza degli adulti. Frequentano i Social network, costruiscono relazioni, ascoltano musica e caricano video su You Tube. Sono attratti dal mondo dello spettacolo, sviluppano la loro creatività nei media digitali e trasmettono attraverso di essi i loro pensieri e umori. Questo quarto capitolo, fa da spartiacque rispetto ai primi tre, incentrati sulla figura del giovane, sulle sue relazioni e sul terzo, che ha come oggetto la Scuola sociologica di Chicago, primo gruppo di studio sulla condizione giovanile nei quartieri, che tocca tematiche di criminalità. È, potremmo dire, una premessa ai giovani dei Quartieri Spagnoli. Il loro vissuto biografico caratterizza la seconda parte del testo, rileggendo le teorie sociali sull’idea di giovane e sui rapporti che ognuno di loro instaura con istituzioni di socializzazione primaria come la famiglia e la scuola4. 4
Sulle funzioni e trasformazioni della scuola, è interessante riproporre quanto scrive Franco Ferrarotti a riguardo: “la scuola non può tradursi e ridursi ad un ufficio di collocamento, e non può subordinarsi alle esigenze immediate operative dei grandi interessi economici. La scuola deve mantenere l’autonomia di se stessa rispetto ai grandi interessi economici,
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Socialmente Pericolosi
Questi due agenti hanno un ruolo preponderante nei loro vissuti, talvolta sono assenti per questioni socio – economiche e comportano da parte di ognuno, un modo di considerarli ribaltato rispetto all’idea tradizionale di famiglia e scuola, che le scienze sociali ci tramandano. Si assiste tanto a una rilettura del ruolo svolto da genitori e insegnanti, quanto a una crisi valoriale, che però trova nella ribellione di questi giovani, una presa di posizione diversa. Un cambiamento di rotta che li conduce da comportamenti devianti ad attività formative, che siano in grado di garantirgli un futuro diverso dalla loro infanzia, in un certo senso, negata. I giovani dei Quartieri Spagnoli, oggetto del nostro studio, sono i Socialmente pericolosi. Il titolo non tragga in inganno, poiché la scelta di chiamare in questo modo l’associazione di cui loro fanno parte, è una provocazione e una scommessa. Nell’immaginario collettivo il socialmente pericoloso è quella persona che risulta essere un pericolo per sé e per gli altri. L’associazione fondata dal giornalista Fabio Venditti e dall’ergastolano Mario Savio, nasce invece proprio dall’idea di non piegarsi nei quartieri al volere della malavita e della camorra. L’unione di questi ragazzi con persone esterne che dedicano loro tempo, senza chiedere nulla in cambio, diventa il principio di base che li sprona a voler rompere quegli equilibri sociali dentro un sistema, per il quale le parole legalità, onestà, lavoro, appaiono concetti assenti o frutto di un’interpretazione distorta. Concetti che gli sono stati tramandati fin dalla nascita, mescolati a violenza, arroganza, spaccio di sostanze stupefacenti. In quei quartieri, dove il concetto di rispetto e di lavoro riguardavano l’osservanza di determinate regole imposte dai clan, oggi questi giovani tentano di costruire il loro futuro, attraverso l’arte cinematografica. L’associazione infatti si impegna fin dal primo giorno a voler trasmettere loro determinati ideali, quali il lavoro serio, l’acquisizione di formazione nel settore video, per costituire una scuola e un centro proprio in vista dell’innovazione e della produzione di quelle tecniche e di quei valori che apparentemente sono, per il momento, inutili. La cultura di per sé non può essere esaurita in un modulo utilitario: essa è un valore in sé, e come tale non può mai essere completamente asservita.” (F. Ferrarotti, Conversazioni con la sociologia, Roma, Armando, 2011, p. 24.)
Introduzione
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di produzione per la tv e il cinema. Nel 2012 e nel 2013 hanno partecipato al Giffoni Film Festival e attualmente stanno lavorando a nuovi progetti cinematografici5. Le loro storie, parte focale del nostro lavoro, sono spaccati sociali che vanno letti più volte e analizzati tenendo conto del tessuto socio-culturale ed economico dei Quartieri Spagnoli. Si tratta di una ricerca etnografica sul campo, che per essere già introdotta e portata avanti, deve spogliarsi, come tutti i lavori scientifici, che vogliano assumere una loro serietà, del giudizio di valore di cui Max Weber è maestro. Si tratta di una difficoltà non indifferente per chi fa ricerca e s’imbatte in un luogo che ogni giorno i media presentano come terreno di spaccio di droga, di omicidi, rapine, sede privilegiata dei clan camorristici. Proprio iniziando da queste difficoltà, l’analisi diventa più interessante e ha come scenario una salita, quella delle scale che portano lentamente l’osservatore su via Montecalvario per tutti i Quartieri Spagnoli. Spogliarsi dei possibili pregiudizi o delle idee pregresse che si hanno sulle vite di questi quartieri, diventa caratteristica della professionalità di qualsiasi studioso che voglia intraprendere una ricerca di questo tipo e analizzare in chiave sociale questioni esistenziali, che fino a questo momento sono state raccontate o tramandate solo dai media. Il giovane Socialmente pericoloso dei Quartieri Spagnoli mette a nudo la propria vita e consente a chi scrive, di entrarvi dentro. Un ingresso non sempre facile, perché segnato da dolore e traumi d’infanzia che lasciano cicatrici indelebili in ognuno di loro. A fatica, ma con volontà, ognuno sta cercando di mettere insieme i pezzi della propria vita per evitare di cadere nel baratro, ma soprattutto per consegnare l’idea di un giovane che non va semplicemente giudicato o stigmatizzato per la sua provenienza geografica e sociale. Il presente lavoro, come testo scientifico, non ha la pretesa di risolvere problemi o offrire soluzioni su questioni alquanto complesse e come prima precisato, non deve esprimere giudizi di valore. Vuole però mettere a conoscenza di un vissuto biografico talvolta tenuto nascosto. Dare voce agli interessati attraverso le loro testimonianze dirette raccolte dentro quei quartieri, che sono spazio di dif5
Mentre scrivo questa introduzione, i Socialmente pericolosi sono impegnati sul set del nuovo corto “Cane malato”.
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ficoltà ma anche di crescita. La strada è per loro “una scuola di vita”, dove ciò che prevale è la legge del più forte, dove maneggiare una pistola diventa arte fin da quando si è bambini. Ecco quindi che ci vengono incontro le teorie criminologiche più note, necessarie per rileggere le loro storie di vita, le loro appartenenze e identità. È nota la poesia di Lorenzo dè Medici che recita “Quanta è bella giovinezza, che si fugge tuttavia. Chi vuol essere lieto, sia: di doman non cè certezza”6. Ed è proprio al domani, che le storie dei giovani Socialmente pericolosi, guardano, con difficoltà, ma con l’auspicio che dalle loro esperienze e dall’adesione alle attività dell’associazione, molti nuovi giovani dei quartieri, ma anche di altre zone della città, siano in grado di dire no alla malavita e alla camorra. Ottobre, 2013 A.R.
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L. de’ Medici, Il trionfo di Bacco e Arianna.
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I IL GIOVANE TRA INCERTEZZE E SFIDE Il brutto della vita è che non ci sono le istruzioni per l’uso. (Alessandro D’Avenia, Bianca come il latte, rossa come il sangue)
1. I giovani, una carta d’identità in mutamento Immaginare una società senza i giovani è impossibile, è una fase della vita di ogni uomo complessa nel suo evolversi, osservata, studiata sotto vari profili, ma è al tempo stesso tappa imprescindibile per ogni essere umano. È quindi tanto una categoria presente nella vita di ogni società, quanto complessa da definire e da studiare. Eppure sottolinea Ferrarotti: “i giovani sono fotogenici. Tutti ne parlano. Nessuno li conosce. Ci si limita a proiettare su di loro i propri principi di preferenza”1. Chi sono i giovani oggi? Quale fotografia abbiamo di loro dagli studi prodotti dalle scienze sociali fino a questo momento? Sembrano lontani gli episodi della fiction Rai “I ragazzi del muretto”2, in cui giovani di ogni giorno facevano i conti con una realtà quotidiana colma di novità, problematiche, sempre alla ricerca di qualcosa che, in un modo o nell’altro, caratterizzava la società alla fine degli anni 80, specchio di un Paese con stili di vita considerati ormai superati. I giovani che condividevano esperienze e problemi quotidiani attorno a un muretto di Piazza Mancini nel Quartiere Flaminio a Roma, sono solo alcuni degli esempi dell’immaginario cinematografico, che affollano la nostra memoria mediale. Cinema, letteratura, web offrono diverse tipologie di giovane, con percorsi e aspettative, che, pur non rispecchiando quelle del passato, mostrano un desiderio di riscossa che era già presente nei giovani degli anni 70-80.
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F. Ferrarotti, La strage degli innocenti. Note sul genocidio di una generazione, Roma, Armando, 2011, p. 11. Fiction andata in onda su Rai due negli anni Novanta.
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La definizione della categoria giovanile, non sempre semplice pertanto agli occhi del ricercatore, ha seguito alcune tappe, che come tasselli cercheremo di riproporre, quale premessa al lavoro di ricerca sui giovani dei “Quartieri Spagnoli,” di Napoli, oggetto del nostro studio. Un’identità, quella giovanile, in continuo movimento che chiama in causa il contesto di crescita, le figure di riferimento, le esperienze biografiche di ognuno di loro. Ognuno di questi elementi diviene infatti necessario per definire il giovane ieri, ma anche oggi. Merico afferma infatti che: “la giovinezza non è più prerogativa di pochi (appartenenti agli strati superiori o maschi), ma diviene cifra costitutiva e tappa obbligata dell’esistenza dell’individuo”3. Gli studi sociologici da diversi anni concentrano la loro attenzione sullo studio della categoria giovanile, con ricerche empiriche in luoghi in cui il giovane viene osservato e studiato in riferimento ai processi relazionali, alle attività di formazione, di consumo e per questioni di disagio e devianza. Una fitta letteratura nelle scienze sociali, ma anche in discipline come l’antropologia e la psicologia, vedono nel giovane una categoria di analisi privilegiata. Canevacci dal canto suo sottolinea che: “è crollata la delimitazione chiara e fissa determinata dalle regole sociali oggettive o linguistiche (teen… ager) dell’essere giovani. Non si è più giovani in modo oggettivo o collettivo, bensì transitivo. Si transita lungo una condizione variabile e indeterminabile, la si attraversa secondo modalità determinate dalle momentanee individualità del soggetto giovane”4. In passato essere giovani significava entrare nel mondo del lavoro presto e vivere periodi con attività semplici, costruendo rapporti, che nella maggior parte delle situazioni, erano destinati a durare nel tempo. La formazione era riservata a chi, economicamente, apparteneva a una classe sociale agiata che poteva consentirgli di studiare e crescere culturalmente. Al contrario, chi non ne aveva possibilità, era solito seguire il mestiere di famiglia, il più delle volte non solo per volere, ma per necessità e per aiutare la famiglia, composta nella maggior parte dei casi da molti figli. 3 4
M. Merico, (a cura di) Giovani come. Per una sociologia della condizione giovanile in Italia, Napoli, Liguori, 2002, p. 3. M. Canevacci, Culture extreme. Mutazioni giovanili nei corpi delle metropoli, Roma, Meltemi, 1999, p. 31.
Il giovane tra incertezze e sfide
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Oggi, il tema dell’incertezza5, fa da sfondo all’analisi dei vissuti giovanili. Incertezza che si legge nella difficoltà di trovare una collocazione lavorativa, nella costruzione di un nucleo familiare, nel mantenimento di rapporti affettivi e relazionali stabili. Scrive a tal proposito De Lillo: “l’incertezza sul proprio futuro e la difficoltà di costruire un progetto di vita si riflettono sulle abitudini e modi di vita delle giovani generazioni. Di fronte a un mondo poco decifrabile e non controllabile la reazione più diffusa è rifugiarsi nella più stretta cerchia degli amici e dei familiari. Da qui derivano l’indifferenza o il disinteresse verso la collettività e le istituzioni, la chiusura verso gli estranei, ma anche la voglia di stordirsi, di divertirsi, di ampliare le proprie esperienze, di vivere intensamente l’oggi. […] Agisce in contesti differenti, conoscendo bene le regole che li governano, ma senza neppure tentare di conciliare gli uni con gli altri, senza la capacità e la voglia di ricondurre a unità i diversi ruoli e le diverse identità giocate”6. Pur tenendo conto delle difficoltà quotidiane, oggi l’odierna realtà giovanile vive continue trasformazioni, che si ripercuotono sia sulla durata dei rapporti, sia sulla capacità relazionale che si manifesta nei diversi contesti. Queste trasformazioni hanno comportato numerosi cambiamenti sugli stili di vita giovanili, sul loro modo di comunicare, così come sul modo di considerare cultura ed estetica. Se da un lato i giovani di oggi vivono un quotidiano caratterizzato da difficoltà economiche e professionali, dall’altro si rileva un aumento di possibilità di comunicazione, grazie all’utilizzo dei nuovi mezzi informatici, come gli spazi virtuali dei Social Network, che diventano luoghi d’incontro e di conoscenza. I cambiamenti socio-culturali hanno ridefinito quindi il modus vivendi del giovane e anche l’approccio relazionale. Prima, infatti, anche le possibilità di divertirsi, pur essendo caratterizzate da semplici attività, e vissute in luoghi non necessariamente sfarzosi, erano cariche di emozionalità, offrivano opportunità di sviluppare dialoghi importanti, tenendo in vita aspetti valoriali legati ai rapporti amicali e, soprattutto familiari. La famiglia era considerata il perno centrale delle diverse dinamiche relazionali, attorno al quale si sviluppava una fitta rete di rap5 6
L. Savonardo, (a cura di), Figli dell’incertezza. I giovani a Napoli e provincia, Roma, Carocci, 2007. A. De Lillo, in L. Savonardo, (a cura di), Figli dell’incertezza. I giovani a Napoli e provincia, Roma, Carocci, 2007, p. 14.
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porti. La nascita di nuovi stili di vita ha, pertanto, generato anche un nuovo modo di vivere le attività di svago, il tempo libero e ha modificato, la frequenza di alcuni luoghi di ritrovo, ma anche il rapporto con i valori e le istituzioni, la cultura e l’impegno civile. La vita quotidiana di molti giovani appare caratterizzata da un senso di noia, spingendo molti di loro a occupare il tempo con l’utilizzo di nuove tecnologie e con la costruzione di rapporti virtuali, come nel caso di chat e Social Network7. Una voglia di evadere dal reale, che li spinge talvolta a vivere la rete, non solo come “passatempo”, ma come “spazio abitato” d’integrazione, comunicazione, scambio di idee e di opinioni. Non una fuga dal mondo reale, ma un ponte tra due estremità, dove è possibile alleviare quel senso di apatia che li caratterizza e che altri di loro sfogano nei locali e in forme di devianza, note ai sociologi e agli psicologi esperti di realtà giovanili. Sono sempre più in aumento le percentuali di giovani che fanno uso di sostanze e di alcol per trovare sensazioni di libertà e di rottura con il mondo. In molti casi, si vivono situazioni di disagio comunicativo e la ricerca continua di emozioni nuove, a volte anche rischiose che spingono a forme di devianza, specialmente in quegli spazi urbani in cui sempre più complessa diventa l’organizzazione della vita quotidiana. Tale difficoltà apparentemente assente nei contesti più ristretti, spinge i giovani a ricercare la costruzione del proprio futuro nelle grandi città, in cui si intrecciano opportunità, conoscenze e scambi culturali, anche se caratterizzati da altre problematiche. In molti casi, dai quartieri di periferia e non, si spostano nelle zone centrali dove “c’è vita”. Gli studi Iard condotti in Italia hanno aperto un dibattito scientifico sulla crescita dei giovani in realtà a volte diverse da quelle di provenienza, che da un lato offrivano possibilità di confronto e di opportunità, dall’altro comportavano in alcuni casi, difficoltà d’inserimento e il confronto con una cultura e uno stile di vita diversi, che ne influenzavano le scelte e anche i gruppi amicali frequentati, non escludendo anche alcuni comportamenti devianti. L’interesse della sociologia per il mondo giovanile è cresciuto considerevolmente, specialmente quando il parlare di giovani ha riguardato i valori, le cerchie di appartenenza e gli stili di vita a essi 7
Cfr. C. Giaccardi, (a cura di) Abitanti della rete, Milano, Vita e Pensiero, 2010; A. Romeo, Società, relazioni e nuove tecnologie, Milano, Franco Angeli, 2011; M. Centorrino, A. Romeo, Sociologia dei digital media, Milano, Franco Angeli, 2012.
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collegati. Portare avanti uno studio che ha come protagonisti i giovani, vuol dire fare i conti con l’ interpretazione di tale categoria, che nel corso degli anni ha assunto sfaccettature diverse, influenzate dai cambiamenti socio- culturali, ma anche economici di un paese. I primi studi sulla categoria giovanile risalgono ai lavori della Scuola di Chicago8, agli inizi del novecento, ma è utile al nostro lavoro, intanto cogliere alcuni aspetti della “carta d’identità” del mondo giovanile. 2. Giovani: definizioni e problemi Livi Bacci9 proponendo una definizione di giovane utilizza quattro criteri: l’anagrafico – convenzionale; il bio- demografico (liberi da figli); il bio-sociale (figlio di padre vivente); e infine il bio – economico (liberi dal lavoro). Oggi pensando a giovani di trenta – quarant’anni si discute di individui che fanno parte di questa categoria, ma cos’è successo nella sua definizione? “La riflessione sociologica in materia ha chiarito come la nozione di giovinezza sia relativa e acquisti senso solo in rapporto al contesto storico e socio-culturale in cui viene adoperata”10. Fino a qualche anno fa quando si faceva riferimento al giovane, lo si differenziava dalle altre fasce d’età che evidenziava marcate differenze visibili agli occhi di tutti. L’idea di giovane come categoria sociale si svilupperà a partire dagli anni 60 con il boom economico che mette in discussione l’idea stessa che fino a quel momento era stata considerata. I giovani diventano portatori di una spinta culturale ed innovativa spesso non capita e con gli anni 70 si assiste alla nascita di subculture che diventano rappresentative della “Cultura giovanile”. Le subculture viste con occhio critico, sono state sempre considerate come le culture di un gruppo, subalterne, subordinate rispetto alla cultura nella sua interezza.
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Cfr. Cap. 3. M. Livi Bacci, Avanti giovani, alla riscossa. Come uscire dalla crisi giovanile in Italia, Bologna, Il Mulino, 2008. E. Amaturo, I giovani: problemi di definizione, in L. Savonardo, (a cura di), Figli dell’incertezza. I giovani a Napoli e provincia, Roma, Carocci, 2007, p. 47.
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Amaturo scrive infatti che: “è solo con la fine dell’ancien régime, dunque, che la nozione di gioventù si estende a strati più ampi della popolazione. Seguendo il filo di questo ragionamento, capiamo perché è proprio nel corso del Novecento che si assiste a una dilatazione temporale dei confini della giovinezza e a una sua marcata estensione nella stratificazione sociale, a seguito della scolarizzazione di massa e delle politiche di welfare; questo fa sì che mentre un ventenne di famiglia proletaria dell’Ottocento era già socialmente vecchio, in quanto il suo futuro sociale era ormai definito, un suo coetaneo del secolo successivo è giovane a tutti gli effetti, in quanto il significato del termine si estende fino a indicare chiunque sia già inserito nel mercato dei consumi, ma non sia ancora entrato in quello del lavoro o della produzione”11. I cambiamenti socio-culturali12 che la società vive sono infatti il presupposto della nuova idea di giovane, che trova, nella ricerca del lavoro e nel consolidamento della vita privata le fasi più importanti e decisive all’uscita da questo stato di giovinezza definito anche da Cavalli13 stato di moratoria. Questa riflessione chiama in causa “lo stile di vita” strettamente connesso al benessere o malessere economico di ogni categoria, così come alla conseguente distinzione che si viene a creare anche tra giovani della stessa età. Simmel evidenzia che è soprattutto il denaro che modifica lo stile di vita delle società, perché “ridefinisce lo scopo sociale delle professioni trasformandole in mezzi per guadagnare, in alcuni casi svuotandole di quel contenuto che ne faceva elemento di differenziazione nella divisione del lavoro sociale”14. La distinzione generata dall’appartenenza a 11 12
13 14
Ibidem, pp. 47-48. Cecilia Costa sottolinea che: “La condizione dei giovani del 2000 e delle agenzie preposte alla loro formazione è attualmente, quindi, particolarmente articolata, così come si sono complicati i meccanismi che consentono le tappe di crescita dalla fase biografica caratterizzata dall’inesperienza a quella più avanzata della consapevolezza. I nuovi fenomeni sociali, che attraversano il contesto socio-culturale ed economico – politico, si riflettono, in prima istanza, sui giovani, trasformando anche la stessa strutturazione dell’identità individuale e sociale e modificandone gli attributi, i modi con cui si esprime: la costruzione dell’identità, attualmente, è diventata una sperimentazione continua, che varia a seconda delle chances delle relazioni, delle sollecitazioni, degli scopi.”, Temi e problemi della complessità, Roma, Armando, 2008, p. 49. A. Cavalli, (a cura di), Il tempo dei giovani, Bologna, Il Mulino, 1985. F. Lo Verde, in V. Cesareo, (a cura di), La distanza sociale. Una ricerca nelle aree urbane italiane, Milano, Franco Angeli, 2008, p. 223.
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contesti specifici di una società, può essere in alcuni casi indice di differenze tra i giovani e può evidenziare anche in relazione al tenore di vita condotto, una permanenza più lunga nella fascia giovanile. Spesso, infatti, si fa riferimento a giovani che per situazioni familiari non particolarmente agiate, hanno dovuto abbandonare l’habitus di giovane per imboccare contrariamente alle loro aspettative iniziali, una vita da adulto dedicandosi ad attività che non si addicono alla loro personalità e alla loro identità. In questo caso si fa riferimento a persone che non hanno avuto modo di scegliere il loro futuro nell’incertezza del domani. In altre situazioni ci sono giovani, che grazie a un sostegno soprattutto economico, possono permettersi di costruire il loro futuro in maniera diversa e vivere un percorso giovanile più a lungo di molti altri loro coetanei. Hanno l’opportunità di scegliere e maturare esperienze che potranno essergli utili quando diventeranno adulti. Cavalli15 è stato uno dei primi sociologi in Italia a fornire una teoria sulle principali tappe del passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta. Queste fasi segnano i momenti principali che ogni individuo vive e di fatto risultano essere utili a comprendere, alla luce delle trasformazioni socio-culturali in atto, in che modo hanno subìto stravolgimenti determinati spesso dall’incertezza su cui si fondano i legami, il modo di affrontare la quotidianità caratterizzata da problemi relazionali, lavorativi ed economici. 1) La conclusione del processo formativo; 2) Il raggiungimento di un’occupazione relativamente stabile; 3) L’abbandono della casa dei genitori; 4) Il matrimonio o comunque un’unione di fatto; 5) La paternità/maternità.
Per delineare in un quadro d’insieme il percorso teorico sulla condizione giovanile, è utile anche ricordare il contributo di Giovanna Rossi ed Eugenia Scabini16, che hanno offerto una lettura del fenomeno giovanile negli anni Novanta, ponendo al centro del loro 15 16
Cfr. A. Cavalli, O. Galland, (a cura di), Senza fretta di crescere: l’ingresso difficile nella vita adulta, Napoli, Liguori, 1996. E. Scabini, G. Rossi, (a cura di), Giovani in famiglia tra autonomia e nuove dipendenze, Milano, Vita e Pensiero, 1997.
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studio una comparazione con i paesi dell’Europa centrale. Le studiose hanno inoltre sviluppato il concetto di “giovane adulto” ovvero il passaggio dalla giovinezza all’essere adulto non attuato come fase decisiva e conclusa nel momento in cui avviene, ma come esteso nel tempo, a partire dall’adolescenza e passando per l’essere giovane – adulto fino alla fase finale dell’adulto. 3. Generazioni di giovani e confronto familiare La condizione giovanile assume nel tempo un profilo nelle scienze sociali, a tal punto che da alcuni anni si è iniziato a parlare di sociologia della gioventù o sociologia della condizione giovanile17, anche in ambito universitario. Il giovane diventa per lo studioso, oggetto d’indagine specialmente in correlazione al processo di socializzazione e costruzione dell’identità. Ma non solo, il giovane viene tirato in ballo spesso nel confronto generazionale, in rapporto ai propri genitori, agli stili di vita di un tempo e alle difficoltà nel costruire rapporti duraturi anche dal punto di vista affettivo, oltre che a perseguire obiettivi e scelte lavorative in contesti tradizionali. Va alla ricerca di nuove professioni, laddove i settori tradizionali, come spesso accade, più frequentemente non gli consentano un inserimento e una crescita. Si inventa nuove mode, nuovi stili di vita, entrando talvolta in contrasto con i genitori, che a fatica in molte occasioni, riescono capirne i comportamenti. Il tema generazionale, insieme all’incertezza caratterizza ancora oggi l’analisi della condizione giovanile. “La generazione – è infatti – una categoria sociologica che deve essere pensata, in analogia con la classe, innanzitutto come una collocazione sociale. L’affinità tra gli individui dipende cioè dal disporre di uno spazio storico – sociale limitato di esperienze possibili che comporta la tendenza a comportarsi, sentire e pensare secondo modalità o stili specifici e riconoscibili […] L’aspetto cruciale diventa il tempo. Qual è allora il carattere del tempo? L’intervallo di tempo che separa una generazione dall’altra non è quello quantificabile in anni o decenni, ma quello di cui si ha un’esperienza soggettiva. La generazione è intesa, 17
Si vedano gli studi già citati condotti dal gruppo Iard e di Cavalli, Merico e Rauty, che hanno posto in Italia i primi significativi tasselli di una ricerca scientifica sulla cultura e condizione dei giovani.
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dunque, come unità storica. È la non contemporaneità del contemporaneo, il fatto cioè che non tutti coloro che vivono nello stesso tempo condividono la stessa storia (molti possono infatti risultare marginali, non essere cioè toccati dagli eventi che si presentano)”18. Il problema del tempo, posto in rapporto alla questione generazionale, diventa una chiave di lettura indispensabile per analizzare il mondo giovanile. Talvolta buona parte delle incomprensioni emerse dal confronto generazionale tra genitori e figli, nasce da un mancato esperire di determinate situazioni, che assumono significato solo se vissute pienamente e personalmente. Immaginiamo per un giovane di oggi cosa possa rappresentare il raduno di quasi un milione di giovani a Woodstock nell’agosto del 1969. Molti, forse non tutti, ricordano questo luogo e questo raduno dai racconti dei loro genitori, più vicini alla musica Jazz, altri ne ignorano totalmente l’esistenza. Eppure per un giovane di oggi, che non ha vissuto quel momento, come sottolinea Ferrarotti, è come se fossero passati venticinque secoli da quell’accaduto. Da quel raduno che segnò un momento storico per la cultura giovanile di allora e per il Jazz. “La cultura giovanile celebrava a Woodstock la sua presenza, si confermava auto-celebrandosi, ma nel quadro istituzionale e oggettivo di una società opulenta che poteva permetterselo, la cui permissività era perfettamente compresa e intellegibile all’interno di uno schema di produzione e di consumo caratterizzato da un alto indice di produttività e dall’illusione, così comune all’epoca, che sia il mercato che le materie prime di base fossero, ad immagine di Dio e dalla natura da Dio Creata, illimitati”19. Risulta chiaro dal vissuto quotidiano studiato nelle ricerche scientifiche che hanno come protagonisti i giovani, come molte incomprensioni quindi siano legate tanto all’appartenere a vissuti storico-sociali non esperiti direttamente, quanto quindi all’incapacità di riuscire per entrambe le generazioni a farne parte solo attraverso il racconto di altri. L’esperienza diviene pertanto la chiave di svolta nell’analizzare un confronto che non è solo quello tra genitori e figli, quanto quello tra datore di lavoro e dipendenti, docente e studente, tra membri di gruppi giovanili di età differenti. 18 19
L. Sciolla, in K. Mannheim, Le generazioni, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 10-11. F. Ferrarotti, Homo sentiens. Giovani e musica, la rinascita della comunità dallo spirito della nuova musica, Napoli, Liguori, 1995, p. 10.
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Karl Mannheim studia ampiamente il problema delle generazioni, il giovane nell’analisi dello studioso, viene identificato con il concetto di outsider20. A tal proposito scrive infatti lo studioso ungherese: “nel linguaggio del sociologo essere giovane significa soprattutto essere un uomo che vive al margine, essere sotto molti aspetti un outsider. Infatti […] essi non hanno ancora interessi investiti nell’ordine sociale esistente e non hanno ancora integrato il loro contributo nell’edificio economico e psicologico della società esistente. […] Questa posizione di outsider è un fattore più importante della fermentazione biologica nel favorire varie abilità e apribilità, e tende a coincidere con gli atteggiamenti outsider di altri gruppi e individui che per altre ragioni vivono al margine della società. […] Naturalmente, questa situazione outsider è soltanto una potenzialità e […] dipende in gran parte dal modo di maneggiare e dirigere le influenze che vengono dall’esterno, se questa potenzialità sarà soppressa o mobilitata e integrata in un movimento”21. Il giovane quindi viene considerato outsider, un individuo che vive al margine, guardando quasi con curiosità il mondo che lo circonda, i comportamenti degli adulti e dei suoi coetanei. Questo vivere quasi da “osservatore” dentro la realtà, determina ad ogni modo la nascita di comportamenti talvolta devianti, di allontanamento dal tessuto sociale, in altri momenti, diviene però fonte di creatività, ricerca di una cura e di una estetica esteriore, spesso compresa da pochi e dai membri dello stesso gruppo amicale. Pensiamo al linguaggio giovanile espresso nell’aerosol art, comunemente conosciuto come graffito e immagine su parete realizzata attraverso spray colorati. All’occhio del cittadino e dell’osservatore distratto, potrebbero apparire come semplici imbratti di pareti o di treni, eppure studi socio-antropologici, rilevano che dietro ogni realizzazione c’è un messaggio, si nasconde spesso l’identità giovanile del suo autore. C’è un grido che cerca aiuto, si tratteggia un momento che ha segnato la propria vita o di chi gli sta intorno. Nella fattispecie, “la straordinaria seduzione dell’aerosol art consiste nell’uscir fuori da un’educazione fondata sulla parola scritta, consiste nel liberare la possibilità creativa di ogni singolo individuo dalle catene dei ventuno 20 21
Per un approfondimento, cfr. M. Merico, Giovani e società, Roma, Carocci, 2004. Ibidem, p. 45.
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segni alfabetici che costituiscono le parole. Ma consiste anche nell’uscir fuori da una dimensione spazio-temporale schematica e ordinata per entrare in quella caotica dei ghetti e dei sobborghi metropolitani, una dimensione e una comunicazione completamente diverse. […] I writer, emarginati, miserabili, disagiati, vivono da primi attori lo spettacolo della modernità, senza lasciarsi mettere da parte; la loro arte ha contaminato il mondo intero, la loro poetica anonima – superficialmente ghettizzata dal marchio dell’illegalità e della criminalità- ha offerto uno spiraglio di luce a molte fragili identità moderne”22. Si tratta di linguaggi giovanili e non solo, di nuove espressioni d’identità che trovano nell’arte, nell’estetica una collocazione e una visibilità agli occhi di tutti, malgrado non siano facilmente chiari i messaggi latenti. Pensiamo a un’altra forma di comunicazione diffusa nel mondo giovanile, che non crea più scalpore alla vista: il tatuaggio23. Fino a qualche anno fa, osservare un tatuaggio sulla pelle di un giovane, poteva creare reazioni di attenzione esagerata, curiosità e in molti casi pregiudizio verso il tatuato. Oggi succede il contrario sempre più spesso, crea attrazione la vista di una rappresentazione particolare sul corpo di un giovane o una giovane. Siamo passati da un atteggiamento pregiudiziale a una ricerca del tatuaggio esteticamente più bello. Se torniamo indietro nel tempo, il tatuaggio era il marchio simbolico con cui venivano segnati gli schiavi e quella categoria di persone definite “delinquenti”. L’estetica odierna considera sempre più spesso invece il tatuaggio, in particolar modo nel mondo giovanile, una nuova modalità comunicativa. Ricercato, accurato, diventa parte del corpo dei giovani, esprime con colori specifici e forme precise, il loro modo di essere. Un secondo abito, in questo caso però fissato e parte della loro persona. Il corpo viene considerato in continuo divenire: “oggi si dovrebbe affermare che il 22 23
D. Lucchetti, Writing. Storia, linguaggi, arte nei graffiti di strada, Roma, Castelvecchi, 1999, pp. 66-67. “Il tatuaggio, come linguaggio, si è in qualche modo diluito e svuotato di drammaticità anche quando usa immagini forti che rimandano ad ideologie violente; forse parte della sua forza è passata ad altre forme di espressione che i giovani spesso gli affiancano, rifiutando la mentalità borghese soprattutto come mentalità dei genitori e degli adulti (aggiungeremo noi dell’establishment in generale) e, probabilmente la schiavitù a certo tipo di abiti e di moda sentiti come ipocriti perché capaci di mascherare, di fronte al tatuaggio che invece è vissuto come un disvelamento.” (P. Pardo, Le controculture giovanili, Milano, Xenia Edizioni, 1997, p. 34).
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corpo è l’ultimo tessuto espositivo, il prolungamento dell’anima. Le mode infatti sono arrivate a modificare la forma immutabile, cioè il corpo, con interventi della carne, come il piercing, il tatuaggio, ma ancora di più con interventi di chirurgia estetica che non solo tendono a ridurre le imperfezioni, ma rimodellano tutte la parti del corpo secondo il desiderio spesso influenzato dai media, di somigliare meglio a quell’attore, a quell’indossatrice, a quel modello che in quel momento sembra essere più amato, baciato dal successo e dunque dalla felicità”24. Queste modalità comunicative, per molto tempo, interpretate come forme di devianza ed espressione di un giovane ai margini rispetto alla tradizione, si sono trasformate nel tempo in elementi del tutto normali e hanno trovato una diffusione anche nel mondo adulto. La questione generazionale25 tratteggiata da Mannheim, si lega pertanto tanto all’esperienza, quanto alla sfida. Essere giovane, nell’analisi dello studioso, è da un lato caratterizzato dalla mancanza di esperienza, dall’altro diventa però il presupposto necessario per vivere situazioni ed esperienze che lo aiuteranno a maturare e che invece il vecchio non può più compiere. Il tema della sfida caratterizza i comportamenti di molti giovani, che ambiscono sia a traguardi di crescita formativa e professionale, 24 25
A. M. Curcio, La moda segno di appartenenza in una società di massa, in M. I. Macioti,(a cura di), Introduzione alla sociologia, Milano, McGrawHill, 2005, pp. 203-204. È interessante e utile in merito al tema generazionale, quanto scrive Cavalli: “il concetto mannheimiano è diverso, perché intende studiare le generazioni come quei gruppi d’età che, nella loro fase di formazione, cioè grossomodo tra i 15-20-25 anni, hanno intercettato una trasformazione storica del mondo esterno. Oggi possiamo parlare di una generazione che ha vissuto il crollo di un regime e gli albori di un altro regime, perché c’è stata una grande frattura. Il ’45 segna una grande frattura: queste fratture nella biografia degli individui hanno un peso molto importante. In qualche modo, la storia struttura le identità delle generazioni. […] In Italia, la stagione dei movimenti è durata un po’ più a lungo che altrove, è durata fino alla fine degli anni ’70. Direi che l’uccisione dell’onorevole Moro segna definitivamente la fine della fase storica in cui i movimenti giovanili sono protagonisti. Da allora in poi, questa è la mia ipotesi, non ci sono più stati movimenti giovanili. Per esempio all’inizio degli anni ’80, in cui i ventenni erano troppo giovani per avere memoria del ’68, le generazioni in senso mannheimiano scompaiono, perché non ci sono più cesure, non ci sono più discontinuità capaci di produrre fenomeni generazionali”.(A. Cavalli, in R. Rauty, (a cura di) La ricerca giovane. Percorsi di analisi della condizione giovanile, Lecce, Kurumuny Ed. 2008, pp. 19-21).
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sia nell’attuazione di comportamenti devianti, in cui la società e il quartiere diventano stretti alle loro esigenze e li spingono a chiudersi nelle cerchie di amici con cui condividere scelte e percorsi non sempre in linea con la legalità e il rispetto delle regole imposte dalla società. Talvolta il concetto di sfida viene quindi a inserirsi in una sorta di rottura con l’ordine sociale vigente, entrando in contrasto con istituzioni come la famiglia e la scuola, ripiegando tutta l’attenzione su cerchie di amici che diventano l’unico punto di riferimento. Cavalli in merito agli studi sulla condizione giovanile negli ultimi venticinque anni, sottolinea che non si sono verificati particolari mutamenti, anzi, la situazione appare in linea di massima stabile, se non per alcuni cambiamenti negli stili di vita. Piuttosto bisogna parlare delle trasformazioni che vive l’istituzione familiare,26 che appare radicalmente trasformata. “È diventata una famiglia nella quale i genitori, ad un certo punto, rinunciano a mettere dei paletti, degli argini; in realtà mettono in atto una strategia di contenimento, perché è proprio la presenza di paletti e di argini che induce la volontà di uscire dalla famiglia, di liberarsi da questi paletti e da questi argini. […] I giovani rispetto agli adulti sono più fiduciosi in se stessi. […] hanno meno fiducia nelle istituzioni, ne hanno meno degli adulti, e questo è un altro segnale preoccupante. Però, ad esempio, hanno più fiducia degli adulti nella scuola, la quale è anche l’unica istituzione che conoscono veramente. Nella scuola la fiducia dei giovani è più elevata rispetto alla popolazione adulta alla quale i media continuano a ripetere che la scuola è allo sfascio”27. Quanto evidenzia Cavalli, sottolinea l’importanza e il difficile ruolo di un’istituzione come la famiglia, centrale nel processo di socializzazione, che vive situazioni di crisi continue. Messa sotto accusa quando è assente, ancor di più quando troppo presente, quasi ad innescare da parte dei figli comportamenti di rifiuto. Ad ogni modo, la famiglia insieme alla scuola rimane la prima istituzione formativa, il cui compito spinoso si aggrava quando deve fare i conti tanto con il disagio economico, quanto con l’instaurare un rapporto solido con i figli, soprattutto quando questi ultimi, preferiscono ritrovarsi nelle cattive compagnie, facendo uso di sostanze stupefacenti di vario tipo, fuori 26 27
Cfr. C. Saraceno, M. Naldini, Sociologia della famiglia, Bologna, Il Mulino, 2011. A. Cavalli, in R. Rauty, (a cura di) La ricerca giovane. Percorsi di analisi della condizione giovanile, Lecce, Kurumuny Ed. 2008, pp. 23-24.
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dalle mura domestiche. Alla scuola spesso il compito di raccogliere i “cocci” di un vaso rotto già in famiglia, dove la figura dell’insegnante con sforzi notevoli, tenta di trasmettere quelle nozioni e quel rispetto delle regole, che diventano in molti casi imposizioni che influenzano i loro comportamenti solo per la durata dell’orario scolastico. Fuori, in molte realtà, la strada diventa lo spazio più frequentato da quei giovani che provengono da famiglie con disagi non solo economici, ma anche dovuti all’assenza di uno o di entrambe i genitori, essi stessi al margine del rispetto delle regole e incapaci di relazionare con i figli. Il loro rapporto è penalizzato pertanto se il ruolo dei genitori perde quella capacità di affrontare con lucidità i problemi quotidiani, dai più semplici all’interno del nucleo familiare. Una gestione che si costruisce già nei primi anni in cui il bambino vive la fase di socializzazione28 primaria, processo di crescita in cui i figli acquisiscono regole e norme di comportamento, che utilizzeranno nella loro vita da adulti. Il giovane che è, come già anticipato, una fase di transizione, datata o non rispetto al passato, risente di quell’apporto familiare che già nei primi anni costituisce la base per la costruzione della propria identità29. Un’identità che non rimarrà statica nel tempo, ma crescerà attraverso le esperienze biografiche che avrà modo di vivere, dove il passato, le presenze e le assenze familiari talvolta riemergeranno nelle scelte e nei comportamenti che il giovane affronterà.
28 29
Cfr. C. Dubar, La socializzazione, Bologna, Il Mulino, 2004. Maurizio Merico sottolinea che “la gioventù postmoderna si caratterizza, dunque, per una costante tensione tra sé e la società: laddove l’adolescente non ha ancora elaborato una precisa immagine di sé e sembra accettare la rappresentazione stereotipica assegnatagli dal senso comune, il giovane si pone il problema di rendere congruenti la propria identità e la società. Egli opera un percorso di cauta ricerca, attraverso la quale cerca di individuare la soluzione al conflitto tra le aspettative della società e le proprie attitudini. Ciò comporta, in genere, un rifiuto delle norme e dei valori sociali e l’emergere di identità e ruoli specifici, in contrasto sia con il più effimero entusiasmo adolescenziale sia con il più stabile impegno adulto. […] Infine condividono l’adesione a una controcultura giovanile, caratterizzata da una deliberata distanza dall’ordine sociale esistente, ma non sempre dall’attivismo politico o da una esplicita opposizione alla società.” (M. Merico, Giovani e società, Roma, Carocci, 2004, p. 51).
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II IDENTITÀ, RELAZIONI E AMICIZIE GIOVANILI “C’è più gente che crolla di fronte al mondo e fugge, di gente che riesce a viverlo” (Roberto Cotroneo, Per un attimo immenso ho dimenticato il mio nome)
1. Amicizie e identità giovanili “Siamo amici su Facebook no?” Questa domanda è ormai ricorrente tra i giovani, ma anche tra i meno giovani, frequentatori del più noto Social network, che nel giro di pochi anni ha conquistato il primato del mondo della rete. All’interno di questa domanda, non c’è solo un termine, ma un concetto che richiama un’analisi, che si presta a essere presentata facendo riferimento anche all’identità e al concetto di relazione nel mondo giovanile: l’amicizia. Sembra curioso, ma gli utenti registrati che hanno un profilo sul Social network, si chiamano amici. L’amicizia, da sempre considerata fondamentale nelle relazioni sociali, ha subìto nel corso degli anni, alcune trasformazioni e con essa, anche le relazioni nella loro interezza e l’identità. Identità, relazioni e amicizie tra i giovani vengono lette in chiave sociale differente. Per comprendere questo mutamento in atto, è opportuno risalire ad alcuni presupposti teorici, sviluppati da studiosi classici e contemporanei, in cui, il giovane immerso continuamente nel mondo dei media, in una società attenta all’estetica e all’apparenza, ne diviene protagonista centrale. Kracauer, autore vicino alla Scuola di Francoforte, nell’analizzare l’amicizia, scrive: “come il vero amore, l’amicizia dona fiducia nell’uomo. Essa rimane sempre un luogo in cui rifugiarsi quando la sventura si abbatte sull’individuo e questi viene abbandonato da tutti. Appoggiandosi all’amico egli può e anzi deve risollevarsi, imparando ogni volta attraverso di lui a credere di nuovo negli uomini. Finchè il suo essere può scaldarsi al calore di un altro, l’estrema amarezza che
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rende insensibili non ha potere su di lui. L’amicizia allarga lo spirito. Il varcare insieme quelle regioni in cui si rivelano le proprie inclinazioni tipiche dona agli uomini tesori che da soli essi non avrebbero potuto conquistare se non a fatica. […] Quando gli amici sono insieme, il dialogo è inteso come uno sprizzare di scintille, e la loro comunione produce spesso pensieri e azioni decisive1.” L’amicizia, così come viene presentata dallo studioso, tocca in questa citazione il concetto di condivisione, di essere parte di un percorso di vita comune, tanto nelle situazioni tradizionali, quanto nel percorrere tunnel di oscurità ai margini della correttezza e della legalità. Basta pensare come buona parte delle esperienze, è vissuta da un giovane in gruppo o con un amico, creando un legame e una relazione, che malgrado i propositi e gli esiti, rimarrà indelebile dentro di loro, e in molti casi rinforzerà il loro rapporto di amicizia. Spesso gli studiosi si pongono la domanda: “Qual è l’identità dei giovani?” Sciolla e Ricolfi sottolineano che: “le scelte attraverso cui si dipana il processo di formazione dell’identità, più che al perseguimento di obiettivi materiali e sociali precisi, sembrano orientarsi alla conservazione di un orizzonte il più ampio possibile di scelte future. L’apertura, in altre parole, tende a diventare un valore in sé, o meglio a diventare un criterio-chiave del processo di scelta: the future must not begin […] Se in passato la giovinezza poteva essere concepitasecondo quanto affermava Eisenstadt (1956) – come una sorta di apprendistato, come un intermezzo funzionale di transizione verso i ruoli adulti (nella famiglia, nelle istituzioni e nel sistema sociale complessivo) oggi tende a diventare uno stile di vita stabile, un modello cui anche chi ha superato l’età cronologica della giovinezza si può riferire per vivere con minore angoscia la situazione di incertezza che la moltiplicazione di chances oggettivamente introduce nella vita dell’individuo”2. È opportuno sottolineare che l’identità può essere considerata in continuo rapporto dialettico con la società, vive quindi e si modifica grazie alle relazioni sociali.
1 2
S. Kracauer, Sull’amicizia, Parma, Ed. Guanda, 2010, p. 59. L. Ricolfi, L. Sciolla, Fermare il tempo. Osservazioni su cultura giovanile e identità, in M. Merico, Giovani come. Per una sociologia della condizione giovanile in Italia, Napoli, Liguori, 2002, pp.192-193.
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Analizzare le identità umane significa quindi considerarle in un preciso contesto e periodo storico in quanto è la storia dei singoli individui che caratterizza il nascere di certe identità. Gli eventi storici sono dunque definiti dagli uomini portatori di diverse identità. Ricercare la propria identità è sempre stato uno degli obiettivi dell’individuo, un tempo affidata al gruppo, alla classe, alla religione. Con lo svilupparsi di una società dell’incertezza e la destrutturazione della società, in cui i valori fondamentali si sono trovati in crisi, in difficoltà si è trovata anche la ricerca e la formazione dell’identità. Simmel dal canto suo, aveva affermato che: “il singolo non può salvarsi contro la totalità; solo cedendo una parte del suo Io assoluto ad altri, unendosi altresì senza un’esagerata segregazione, senza durezza e senza un isolamento stravagante.”3 L’appartenenza diventa quindi un modo per costruire obbligazioni ma al tempo stesso dare vita a forme di socialità necessarie all’individuo nei suoi rapporti sociali. La società odierna forse in alcuni casi proprio perché offre all’individuo la possibilità di disporre di una molteplicità di gruppi4, crea fragilità nell’appartenenza, rendendola poco rilevante. Se da un lato comunque l’appartenenza a determinate cerchie limita le azioni degli individui che devono accettare le regole e gli obiettivi del proprio gruppo, dall’altro questa stessa appartenenza gli conferisce una identità ed un ruolo, utili nella vita che affronterà quotidianamente, fatta di differenze e dinamiche relazionali sempre in continua trasformazione. Sul concetto di appartenenza, un approfondimento merita la riflessione proposta da Norbert Elias5 il quale analizza il rapporto IoNoi alla luce delle trasformazioni socio culturali e politiche, che non consentono più di considerare il soggetto da una parte e l’entità statale dall’altra. Questo senso di appartenenza viene chiarito più che mai prendendo in considerazione l’importanza del processo comunicativo nella gestione della vita collettiva e nel rapporto appunto Io – Noi. “L’io si riconosce nella sua posizione tra altre posizioni, uguali e diverse: si identifica in una figura spazio-temporale tra altre figure analoghe. 3 4 5
G. Simmel, Sociologia, Milano, Ed. di Comunità, 1989, p. 39. V. Cesareo, (a cura di) Sociologia. Concetti e tematiche, Milano, Vita e Pensiero, 1998. N. Elias, La società degli individui, Bologna, Il Mulino, 1988.
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Tutto ciò è da ricondurre a quella facoltà distintiva dell’uomo che determina una sorta di effetto specchio, per cui ciascuno è in grado di vedersi, al tempo stesso, come un Io, un Tu, un Egli. Questo senso di reciprocità si acquista e si mantiene nella comunicazione, la quale esprime tutta la difficoltà del rapporto tra l’Io e il Noi, sia perché raccoglie e sintetizza la complessità dei processi interiori che sottendono le relazioni sociali, sia perché è, e resterà sempre un mezzo culturalmente variabile6.” Attraverso il processo comunicativo l’Io si confronta con gli altri, ha modo di relazionare e di acquisire informazioni, quindi comunicando Io e Noi, non si trovano in contrapposizione, anzi ne favoriscono il riconoscimento. Non può quindi esistere una società in cui non emerge il confronto, la relazione continua, essendo, l’elemento reciprocità, uno dei fondamenti utili a spiegare l’appartenenza ed un ingrediente base del processo comunicativo. Proprio su quest’ultimo aspetto Elias afferma che: “l’impulso all’individualizzazione che si riscontra nei paesi più avanzati trova numerosi esempi nei rapporti professionali, occupazionali intercambiabili, che contribuiscono allo spostamento dell’equilibrio Io – Noi a favore dell’Io”7. Il tema dell’appartenenza quindi, rimane nel tempo un concetto utile a comprendere le dinamiche relazionali all’interno della società. I giovani sono pienamente coinvolti in queste dinamiche, attuano un confronto fuori e dentro il loro gruppo amicale di riferimento, fuori e dentro la famiglia. 2. Giovani nomadi e incerti I cambiamenti culturali e le trasformazioni tecnologiche hanno modificato l’approccio relazionale tra gli individui, ma facendo un resoconto degli studi non solo sociologici, ma anche di altre discipline come l’antropologia, rimane forte l’attenzione a discutere sulla necessità dell’individuo di doversi relazionare8 e confrontare con 6 7 8
D. Pacelli, L’esperienza del sociale. L’emergenza persona fra relazioni comunicative e condizionamenti strutturali, Roma, Ed. Studium, 2007, p. 56. N. Elias, La società degli individui, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 204. Donati sottolinea che “le relazioni fra i soggetti (individuali o collettivi) che si muovono nella società non sono più viste e vissute come date per natura, ma sono considerate come storiche, quindi come mutevoli, produ-
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gli altri, ma soprattutto dedicare parte della sua quotidianità a momenti di socialità. Sul rapporto Io – Noi un riferimento lo si può riscontrare anche negli studi condotti da Alfred Schütz nel quale ritornano nuovamente il concetto di reciprocità e di interazione, riprendendo alcuni temi cari alla sociologia weberiana, afferma: “con interazione sociale, i sociologi intendono generalmente una serie di azioni interdipendenti di diverse persone reciprocamente riferite in virtù del significato che l’attore affida alla sua azione e che suppone verrà compreso dal suo partner. Per usare la terminologia di Max Weber, tali azioni devono essere orientate in un rapporto reciproco”9. Queste affermazioni sottolineano ulteriormente come reciprocità, interazione ed appartenenza siano concetti chiave utili a comprendere non solo il rapporto che un individuo instaura con i suoi simili in un determinato contesto, ma anche il nascere di nuove forme di socialità. Il discorso affrontato da Schütz racchiude oltre ai concetti che si fondano sulla reciprocità, un forte impatto comunicativo, specie quando sottolinea: “comunicare uno con l’altro presuppone la partecipazione simultanea dei partners a varie dimensioni del tempo esterno ed interiore, presuppone in breve il crescere insieme”10. Quest’ultima citazione dell’autore associa al processo comunicativo un’ulteriore funzione, ossia la possibilità di crescere, comunicando. Una crescita che può essere raggiunta attraverso la comunicazione, attraverso quindi il confronto. Un confronto che i giovani vivono in prima persona. Lo vivono in strada, nelle periferie, nei quartieri, come nel caso dei giovani dei Quartieri Spagnoli. I giovani nei loro comportamenti e dinamiche relazionali, vengono talvolta definiti “Nomadi”. Si tratta di un ulteriore aspetto utile
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cibili e riproducibili secondo modalità culturali di tipo artificiale. La distinzione fra ciò che caratterizza i rapporti sociali di scambio dell’uomo moderno e ciò che connota i rapporti naturalistici e ascrittivi dell’uomo premoderno va di pari passo con l’emergere di quella sfera sociale, primariamente il mercato, distinta dal privato (famiglia- parentela) e dallo stato (apparati burocratico amministrativi), in cui è all’inizio più evidente il carattere mutevole e artificioso delle possibili relazioni”. (P. P. Donati, Sociologia della relazione, Bologna, Il Mulino, 2013, p. 64). Cit. in D. Pacelli, Op. cit. pp. 122-123. A. Schütz, Making Music Together. A study in Relationship, pag. 178, cit. in D. Pacelli, L’ esperienza del sociale. L’emergenza persona fra relazioni comunicative e condizionamenti strutturali, Roma, Ed. Studium, 2007, p.130.
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da considerare, in un momento cui vita quotidiana e relazioni giovanili appaiono fondate su un’idea di incertezza e su un crescere di rapporti a volte definiti frammentari, deboli. Lo svilupparsi di queste forme di nomadismo11 non deve essere considerato come un decadimento delle relazioni, ma assume un significato singolare, caratterizzato dalla nascita di forme di tribù legate ad un nuovo modo di stare insieme e di vivere la socialità. Questa riflessione prende le mosse anche da una rivisitazione del concetto di individualismo. Maffesoli sottolinea che pur sviluppandosi nuove forme di socialità che assumono l’idea di nomadismo e la mancanza di un perno stabile, il gruppo di appartenenza ha una sua rilevanza nella loro nascita, fermo restando che esiste un aumento di rapporti sociali, che con la post modernità ha accentuato l’individualismo. L’incertezza, che sembra essere uno dei temi ricorrenti nella ricerca sulla condizione giovanile, avrebbe, secondo Maffesoli, comportato la nascita di nuove forme di appartenenza quindi nomade. Incertezza che si riscontra non solo nelle scelte occupazionali, ma che ha una sua importanza nella gestione della vita quotidiana e di conseguenza anche nei rapporti amicali e familiari. Basti pensare le risposte che vengono fornite talvolta dai giovani alla domanda “Cos’è per te il futuro?” Sono caratterizzate spesso da un alone di dubbio, da scelte che si fondano sulla voglia di vivere alla giornata, visto che la formazione scolastica ed universitaria non rappresentano unicamente il biglietto da visita per entrare nel mondo del lavoro con una specializzazione, forse più sicura come avveniva nel passato. Ecco che da questo punto di vista, ritorna il concetto di nomadismo di Maffesoli, la ricerca di nuovi spazi del sociale dove poter comunicare, dove si può con la libertà dell’errante, ricercare l’esperienza dell’essere, dove la vera caratteristica è: “esprimere una personalità forte che acquista senso solo in seno a un gruppo fortemente compatto”12. Quindi l’individualismo di cui parla l’autore non deve intendersi come un narcisismo dell’Io che prevale sugli altri, ma un modo di considerare la persona nelle sue forme relazionali, con un approccio tipico del nomadismo contemporaneo, adottando da altre culture e tradizioni, ciò che 11 12
Sul concetto di nomadismo e tribù cfr. M. Maffesoli, Del nomadismo. Per una sociologia dell’erranza, Milano, Franco Angeli, 2000. Ibidem, p. 75.
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invece il razionalismo aveva in un certo senso messo da parte. Diviene così uno degli aspetti della socialità odierna e contribuisce al nascere di nuove identità, che assumono queste stesse caratteristiche. Si sviluppano quindi rapporti che si fondano su una prossemia13, su uno stare insieme che non necessariamente implica l’inizio di un rapporto duraturo, ma di un vivere una storia amicale o affettiva “alla giornata”. Aspetti che si muovono secondo la visione di Maffesoli, anche da un forte incremento dell’emozionalità, che ricopre ampio spazio nella vita collettiva e nel nuovo modo di concepire lo stare insieme. Viene a determinarsi il nascere di una socialità che coinvolge l’individuo nei suoi rapporti quotidiani. L’individuo si trova quindi ad assumere il comportamento di nomade vivendo esperienze diverse, frammentarie passando per gruppi piccoli o grandi che contribuiscono però con una forte emozionalità che le caratterizza, a determinare questa sua necessità di errare, andando oltre i limiti imposti dalle cerchie di appartenenza, come avveniva tradizionalmente. La nascita di queste forme di nomadismo ha determinato anche un nuovo modo di comunicare e di vivere il processo comunicativo, spesso provocando anche alcune influenze non indifferenti sul linguaggio stesso. Ne è un esempio il nascere di un gergo giovanile, spesso dettato dalla creazione di gruppi composti da giovani, che appartengono allo stesso quartiere o frequentano le stesse scuole e comitive del tempo libero. Nelle loro pratiche quotidiane, emerge la diffusione di alcuni rituali come il saluto o l’utilizzo di soprannomi che richiamano questo senso di tribalismo e di appartenenza a uno spazio e a un tempo, in cui si è continuamente alla ricerca di un qualcosa, il più delle volte di indefinito e poco chiaro. Lyotard14 evidenzia che in un’epoca in cui la cibernetica caratterizza buona parte del nostro modo di esprimerci, è evidente che i messaggi che gli individui si inviano non sono semplicemente portatori di un’informazione, ma sono differenti a seconda del contesto in cui vengono utilizzati, quindi risentono anche dei comportamenti, degli stili di vita degli individui che comunicano. Infatti, egli afferma: “per comprendere in questo modo i rapporti sociali a qualsiasi livello li si consideri, non basta una teoria della comunicazione, ci vuole una teoria dei giochi, che include l’agonistica fra i suoi presupposti”15. 13 14 15
Cfr. M. Maffesoli, Il tempo delle tribù, Roma, Armando, 1988. J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1981. Ibidem, p. 35.
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Se ci poniamo la domanda di chi sono i giovani oggi, dobbiamo anche chiederci come si vedono o che idea hanno di loro stessi. L’indagine Iard del 2007, rileva che: “più che anticipare quello che verrà, i giovani ci sembrano piuttosto rispecchiare lo stato attuale di una società ripiegata sul presente che evita di guardare e progettare il futuro. Ciò non vuol dire che non siano in atto dinamiche di cambiamento, ma queste vengono subìte piuttosto che pilotate e governate. I giovani registrano i cambiamenti senza esserne protagonisti”16. Anche sulla loro identità, va fatta una considerazione. Se arriviamo infatti agli studi contemporanei sull’identità17, non possiamo non prendere in considerazione Bauman, che con l’ormai noto esempio dell’identità intesa come puzzle, costruito con i pezzi di cui disponiamo, riprendendo una riflessione proposta da Levi Strauss, sottolinea che: “incastrare insieme pezzi e frammenti fino a ottenere una totalità coerente e coesiva chiamata identità non sembra essere la principale preoccupazione dei nostri contemporanei, […] un’identità coesiva, saldamente inchiodata e solidamente costruita, sarebbe un fardello, un vincolo, una limitazione alla libertà di scegliere. Presagirebbe l’impossibilità di aprire la porta quando un’altra possibilità busserà. […] Continuare ad incastrare insieme i pezzi, sì, non si può far altro. Ma incastrarli insieme una volta per tutte, trovare il miglior incastro possibile, quello che mette fine al gioco di incastro? No, grazie, questo è qualcosa di cui si fa volentieri a meno”18. Potremmo aggiungere al tempo stesso che identità e relazione vanno ad integrarsi, l’uomo fonda la sua esistenza sulle relazioni19 16 17
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A. De Lillo, in C. Buzzi, A. De Lillo, Rapporto giovani. Sesta indagine dell’Istituto Iard sulla condizione giovanile in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 28-29. Secondo De Vita: “il processo di costruzione dell’identità degli uomini risulta essere molto complesso, poiché rispetto agli altri esseri viventi, essi non sono solo genere, ma individui e persone. In questo processo, ruolo assai importante svolge la comunicazione. Infatti anche per Luhmann sviluppando le intuizioni di Parsons, la persona è un costrutto sociale separata dall’individuo e dal sistema psichico. Sistemi sociali e sistemi psichici sono distinti e le persone sono il prodotto della comunicazione. Ma la comunicazione contiene solo ciò che è comunicato, per cui l’identità diventa, e di fatto è, in funzione difensiva, un supporto non per la variazione ma per la permanenza.” (R. De Vita, Identità e dialogo, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 178). Z. Bauman, Intervista sull’identità, Bari, Laterza, 2003, pp. 62-63. Donati quando affronta l’analisi del rapporto tra relazione e identità, sottolinea che: “l’emanciparsi del concetto di relazione, e la valorizzazione
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ed è attraverso di esse che costruisce rapporti, si confronta, cresce e si forma quotidianamente. Ferrarotti aggiunge al tempo stesso che: “individuo e identità sono concetti correlativi. Un individuo si costituisce come tale, ossia come soggetto o come attore sociale relativamente autonomo, nella misura in cui può contare su una sua identità specifica. Per questa ragione, in un’epoca di grandi movimenti di massa da paese a paese e da cultura a cultura, ci si preoccupa di salvaguardare la propria identità. L’identità, già data per scontata, torna a porsi in termini problematici. Si ricercano e si rivalutano, talvolta con un pathos eccessivo, le proprie radici. La nozione di individuo si fonda sulla sua identità”20. 3. I giovani, le scelte del domani e la vita nel gruppo Come abbiamo già avuto modo di evidenziare, accanto alla nascita di nuovi comportamenti nomadi, si è venuta a diffondere sempre più frequentemente l’idea di un rapporto tra genitori e figli, in cui a volte i giovani non sono più consapevoli della loro giovinezza e del tempo che stanno vivendo, quasi carichi di responsabilità e di una vita, che corre troppo velocemente per le loro esigenze. A volte sono investiti di ruoli in maniera prematura, in altre circostanze invece vivono la loro giovinezza con ritardo, a causa di una mancata stabilità familiare, che li ha costretti troppo presto a farsi carico delle loro esigenze. I genitori dal canto loro, spesso si concedono spazi e comportamenti, che non hanno probabilmente tenuto nella loro vita da giovani, da un lato, dall’altro sono incapaci di entrare nel mondo dei loro figli e applicano metodi restrittivi a scapito di un dialogo costruttivo. A questo complesso rapporto, si aggiunge anche una sorta di prolungamento della giovinezza. Infatti, se nel passato, i giovani aveva-
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del suo ruolo sia nella dinamica sociale sia nella scienza, si può osservare nel fatto che la relazione, anziché essere vista solo come conseguenza dell’identità, sia invece considerata come costitutiva di quest’ultima. Laddove l’identità si costituisce non già per negazione di tutto ciò che essa non è, ma attraverso il relazionamento a un’alterità.” (P. P. Donati, Sociologia della relazione, Bologna, Il Mulino, 2013, p. 58). F. Ferrarotti, La strage degli innocenti. Note sul genocidio di una generazione, Roma, Armando, 2011, pp. 110-111.
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no chiaro come obiettivo il raggiungimento dell’età adulta, adesso tale obiettivo non risulta più essere il privilegiato. L’età anagrafica non è più infatti un deterrente a ricoprire determinati ruoli all’interno dell’universo giovanile e di conseguenza all’ingresso nella vita adulta. Sono ormai sempre più note le vicende di giovani, che vivono la loro giovinezza quando fanno ingresso nell’età adulta, pensiamo a quanti di loro riprendono gli studi che hanno interrotto o che non hanno proprio intrapreso, oppure pensiamo a quanti ricorrono all’aiuto della famiglia, perché escono da una relazione sentimentale finita male, a volte anche di convivenza, incapaci di poter gestire la quotidianità e non riuscendo a far fronte a spese di affitto di un appartamento e mantenersi da soli perché precari. Da questo punto di vista quindi, è come se al prolungamento della giovinezza e a una nuova concezione dell’essere giovani, subentrasse anche una visione dell’essere adulti modificata appunto da questa nuova condizione giovanile. Quindi, appare modificata tanto la condizione dell’essere giovane, quanto dell’essere adulto21. Questa nuova concezione della giovinezza e di conseguenza dell’essere adulto, ha le sue influenze sul modo di relazionare, considerare l’amicizia, assumere un’identità. Ognuno di questi tre elementi presuppone uno scambio, una condivisione, un processo comunicativo. Giovinezza, che non può non tenere conto dell’influenza che i media hanno sull’individuo nella costruzione del proprio sé, nel modificare le relazioni e, come dicevamo all’inizio di questo capitolo, nel riconsiderare e leggere il concetto di amicizia. Sottolinea infatti Silverstone: “l’azione più significativa dei media si svolge nel mondo ordinario: essi filtrano e incorniciano realtà quotidiane attraverso le loro rappresentazioni uniche e molteplici, ci offrono pietre di paragone e punti di riferimento per la conduzione della vita di tutti i giorni, per la produzione e il mantenimento del senso comune. […] I media ci hanno offerto parole e idee per esprimerci non in quanto forze disincarnate che agiscono contro di noi
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Merico a tal proposito sottolinea che :”la decisione di ridefinire la propria strategia biografica, anche quando questo incide su scelte decisive, non può dunque essere interpretata come un’infanzia o una giovinezza di ritorno o, tantomeno, come un processo di crisi psicologica che investe il singolo, in quanto costituisce una risposta alle richieste e alle sollecitazioni avanzate della società.”(M. Merico, Giovani e società, Roma, Carocci, 2004, p. 93).
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mentre ci occupiamo delle nostre faccende di tutti i giorni, ma in quanto parte di una realtà alla quale partecipiamo, che condividiamo e che manteniamo giorno per giorno attraverso i nostri discorsi e le nostre interazioni quotidiane.22 “I giovani si inseriscono pertanto con i loro dubbi, le loro relazioni, i rapporti con gli adulti e le esigenze del quotidiano, facendo talvolta uso di modelli che vengono veicolati dai media23 anche nella costruzione dei rapporti con i loro familiari e amici. “Si entra nel mondo – scrive Ruini – e può apparire facile cosa perché si è guidati da agenti, da istituzioni, nei quali ancora si ha fiducia e dai quali si attendono risposte. È quando le risposte non arrivano che il problema si pone. E allora il passaggio è un complicato gioco che alla emozione di un intervento sul proprio corpo spesso unisce le emozioni di comportamenti trasgressivi, di microcriminalità, di rifiuto sociale”24. A partire da quest’ultima analisi, si rileva un dato talvolta ricorrente nella condizione giovanile, come avremo modo di leggere nelle storie di vita dei giovani dei Quartieri Spagnoli: la mancanza di risposta da parte delle istituzioni e agenzie educative in primis, spinge troppo spesso i giovani a ricercare soluzioni alternative, che finiscono con il diventare soluzioni finali in un percorso di vita quotidiana, che deve far fronte a numerose problematiche da affrontare. Ecco, che, quando la famiglia non appare presente, o lo è in parte e la scuola perde il suo ruolo istituzionale soprattutto in quei quartieri che versano in difficoltà, il giovane allo sbando più totale, assume comportamenti devianti. Si verifica però, che spesso il giovane cresciuto in un quartiere, dove ogni giorno deve “lottare” per sopravvivere, cominci a indossare una maschera, che porterà con sé sempre e diventerà la sua carta d’identità. Inizierà, per utilizzare un termine caro ad Erving Goffman25, a essere attore su un palcoscenico teatrale fatto di esperienze al limite, 22 23 24 25
C. Giaccardi, La comunicazione interculturale, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 180. Cfr. Cap. 4. M. Ruini, (a cura di), Giovani. Percorsi di vita quotidiana, Roma, Nuova Cultura, 2011, p. 23. “Goffman afferma che quando individui e gruppi si incontrano in quella che egli definisce la scena sociale, quale ambiente di esperienza intersoggettiva controllato socialmente e culturalmente, essi tendono a comportarsi in modo da dare l’impressione di essere ciò che affermano di essere, cioè a muoversi come personaggi teatrali. La familiarità tipica del retroscena deve
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guardare gli anni dietro di sé che velocemente corrono, perdere gli amici per strada o facendoli uscire fuori da quel copione con forza di volontà e con l’aiuto di persone che credono nelle sue potenzialità. Ma, buona parte della sua vita, il giovane soprattutto in quei contesti metropolitani difficili la passa sulla strada all’interno di un gruppo26, con cui vive nella buona e nella cattiva sorte, quelle esperienze di vita, che rimarranno indelebili dentro di sé. In questo senso ritornano tanto il concetto di amicizia, quanto quello di appartenenza. Per i giovani infatti le dinamiche che si instaurano all’interno di un gruppo, diventano fondamentali nei loro comportamenti, soprattutto quando il gruppo amicale di riferimento risulta l’alternativa ad istituzioni come la famiglia e la scuola. All’interno del gruppo, il giovane relaziona, cresce, utilizza un linguaggio specifico, talvolta in codice. Usa espressioni dialettali, spesso sempre più diffuse in quei quartieri in cui non è solo la tradizione a mantenersi in vita, quanto un basso livello di scolarizzazione, che fa in modo che il giovane, per quanto anagraficamente più piccolo rispetto ai propri nonni, utilizzi maggiormente il dialetto locale che non l’italiano. Da questo punto di vista, l’utilizzo del dialetto nel gruppo giovanile, può essere analizzato tenendo conto dello studio di Goffman, quando nell’osservare le dinamiche all’interno del gruppo, definito dallo
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scomparire affinchè non venga meno il gioco delle parti e si realizzi in maniera conforme alle aspettative la messa in scena dello spettacolo. Ogni partecipante dell’interazione cerca di stare al proprio posto, mantenendo l’equilibrio di formalità e informalità stabilito per quel tipo di interazione. In tale situazione ciascuno tende a controllare la propria personalità per proiettare un’immagine di sé accettabile dall’altro e dal contesto”. (D. Pacelli, L’esperienza del sociale, Roma, Studium, 2007, pp. 66-67). Cavallaro analizzando il concetto di gruppo nello studio di Fourier, afferma che: “l’individuo di Fourier in realtà non si risolve nell’ambito di un solo gruppo, ma si alterna in gruppi diversi, occupando ruoli non sempre simili pur mantenendo, come costante dinamica, la socialità. Ed è proprio sfruttando questa polivalenza dell’individuo dell’agire continuo e differenziato che viene eluso il pericolo dell’alienazione. L’esercizio continuo alla socialità, sviluppato fin dall’infanzia, dilata la dimensione sociale dell’uomo che si trova ad essere quasi costretto alla vita di gruppo. Una costrizione che affonda le sue radici nella stessa natura umana per assolvere tra l’altro, a compiti di frantumazione della struttura in classi della società; proiettando la propria individualità all’interno dei diversi gruppi e della società globale.”(R. Cavallaro, La sociologia dei gruppi primari, Napoli, Liguori, 2003, p. 37).
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studioso, equipe, evidenzia come l’utilizzo di alcuni termini o l’ammiccamento per esempio, assumono un significato strategico, una sorta di codice linguistico per i soli membri, che ne fanno parte. Tale codice dialettale, condiviso solo da loro o da chi appartiene al contesto geografico, diventa un confine, tra chi sta dentro e chi li osserva dall’esterno. Diventa un linguaggio costruito da un lato dalle varie forme dialettali, dall’altro dai nuovi termini, che provengono dall’utilizzo del web e dai media tradizionali. Il tutto utilizzato con molta serenità e facilità. Infatti, sottolinea Tullio De Mauro: “la vita linguistica delle generazioni giovanili certamente non è stata e non è facile […] ma è una vita che esse affrontano con una certa ricchezza di mezzi espressivi e una serenità nelle difficoltà che le vecchie generazioni non sempre hanno avuto”27. Il dialetto quindi, potremmo dire, diventa per i membri del gruppo amicale, un lasciapassare in molti casi, ma che talvolta pregiudica l’inserimento del giovane fuori dal quartiere o in quei contesti in cui si conosce poco il dialetto o dove il livello di scolarizzazione è più elevato. La situazione diventa più complessa quando il giovane, che frequentemente preferisce il dialetto all’italiano per esprimersi, cambia regione e quindi si confronta con una nuova cultura, stili di vita ed espressioni dialettali differenti. La difficoltà d’integrazione è talvolta collegata all’utilizzo del dialetto come unica lingua e crea differenze anche tra giovani della stessa età, ma provenienti da città differenti. Potremmo affermare che l’uso del dialetto caratterizzi anche l’identità di un giovane. Nella collettività esistono infatti alcuni dialetti considerati “più simpatici” rispetto ad altri, che rendono la persona riconoscibile, più in vista e divertente. Questa situazione è riscontrabile non solo in un quartiere o in una periferia, ma anche nel mondo della scuola e dell’università, dove le espressioni dialettali del giovane emergono con facilità e naturalezza. Bisogna anche guardare a un altro aspetto nel rapporto tra il giovane e il gruppo: l’accettazione. Pensiamo a un giovane che vuole entrare a far parte di un determinato gruppo, di una comitiva da cui è attratto o viene colpito per la sua identità e per i membri che ne fanno parte. Utilizzerà tutte le opportunità per esserne accettato, an-
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T. De Mauro, cit., in A. A. Sobrero, (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo. Le variazioni e gli usi, Bari, Laterza, 2002, p. 199.
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che l’uso del dialetto, qualora fino a quel momento non era solito utilizzarlo con facilità o quotidianamente. Anche la difficoltà di essere accettato all’interno di un gruppo, può dare vita a forme di stigmatizzazione, concetto sviluppato ampiamente da Goffman, quando nel suo celebre saggio “Stigma”, analizzandone le varie tipologie, sottolinea che la presenza dello stigma è comune a tutte le società, in cui entrano in gioco regole morali e differenti identità. Del resto, “la sociologia – scrive lo studioso – sostiene talvolta che tutti noi parliamo dal punto di vista di un gruppo. La speciale situazione dello stigmatizzato consiste nel fatto che la società gli dice che è membro di un gruppo più vasto, il che vuol dire che è un essere umano normale, ma anche che è diverso in una certa misura e che sarebbe stolto negare tale differenza”28.
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E. Goffman, Stigma. L’identità negata, Verona, Ombre corte, 2003, p. 151.
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III I QUARTIERI DI CHICAGO. PRIMO “LABORATORIO” SULLA CONDIZIONE GIOVANILE “La felicità è il percorso più bello della libertà.” (Fabio Salvatore)
1. Il giovane, la città e la vita metropolitana Nello sviluppo del pensiero sociologico, un momento storico segna gli studi e le successive ricerche che saranno da quel momento realizzate nelle scienze sociali. Si tratta della Scuola di Chicago1 a partire dal 1892, anno in cui si costituì il Dipartimento di sociologia e antropologia culturale all’interno proprio dell’Università di Chicago. Autori come William Thomas (1863-1947) e Robert Park (18641944), vengono riconosciuti come i padri fondatori, che opereranno all’interno di un contesto urbano, che ha caratterizzato la ricerca sociologica di quegli anni, consentendo anche una nuova visione del rapporto tra teoria e ricerca empirica. Il lavoro di Thomas realizzato con Florian Znaniecki2, Il contadino polacco in Europa e in Ameri1
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Per un approfondimento sul percorso della Scuola di Chicago, cfr. R. Rauty, (a cura di) Società e metropoli. La scuola sociologica di Chicago, Roma, Donzelli, 1995 e D. Matza, Come si diventa devianti, Bologna, Il Mulino, 1976. “La dinamica concreta dell’agire sociale, come ricordano gli autori nella Nota metodologica premessa ai due volumi della ricerca, diviene ora oggetto di attenzione, prima e più che non i valori di orientamento dello stesso agire. Thomas preciserà in seguito che quel metodo esprimeva la volontà di non rinunciare alla fonte personale nella ricostruzione della vicenda degli uomini, nella consapevolezza che, pur all’interno di un’eventuale rappresentazione non veritiera dei fatti, il soggetto avrebbe comunque legato la propria interpretazione al complesso culturale e al retroterra che ne accompagnavano l’esistenza, e soprattutto avrebbe utilizzato quei processi di definizione della situazione che lo portavano a vivere come vera una realtà quando nella sua interpretazione interiore essa si presentava come tale. In quello che viene considerato come il Teorema di Thomas, egli afferma in-
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ca (1918-1920), comporta infatti all’interno della Scuola una tappa significativa. Per la prima volta, i due studiosi nel lavoro di ricerca sui contadini polacchi, inizieranno a fare uso delle lettere scritte tra i contadini e i loro parenti, facendo quindi riferimento alla testimonianza diretta. Scrive infatti Thomas: “il documento del comportamento (studio del caso, storia di vita, confessione psicoanalitica) rappresenta una continuità dell’esperienza nelle situazioni dell’esistenza. In una buona registrazione di questo tipo possiamo vedere le reazioni del comportamento alle varie situazioni, l’emergere dei tratti della personalità, la determinazione dei tratti concreti e la formazione delle scelte di vita nella propria evoluzione”3. Il contributo di Robert Park, non appena divenne direttore del Dipartimento, fu quello di inviare i suoi studenti e studiosi in giro per la città, a rilevare dati sui problemi urbani. La sua collaborazione con Ernest Burgess, portò allo sviluppo di una ricerca e di un volume divenuto un classico di questa scuola, scritto insieme a McKenzie dal titolo La città (1925). Proprio la città nell’analisi di Park diventa l’esempio della contraddizione, tra l’ordine e il disordine, tra il progresso e l’emarginazione. “La città – secondo Park – con i suoi locali notturni, con i suoi negozi di novità e occasioni, con i suoi luoghi di divertimento, e con i vizi e i delitti della sua malavita, e con gli incidenti, le rapine e gli omicidi che minacciano la vita e la proprietà, è divenuta la regione in cui l’avventura, il pericolo, l’eccitazione e il brivido, raggiungono le punte estreme”4. La città pertanto diventa un “palcoscenico” dell’innovazione, della crescita, ma al tempo stesso anche delle forme di devianza più estreme. Diventa opportuno richiamare quanto segnala Marieli Ruini, quando trattando lo studio delle città, scrive: “la città è in pieno sviluppo e si espande economicamente, ma assiste al tempo stesso ad altri importanti fenomeni. Da un lato il problema del controllo sociale si pone con estrema urgenza. La devianza si veste così o di indiffe-
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fatti che se un individuo definisce una situazione, una circostanza come reale, i suoi comportamenti, indipendentemente dall’effettiva realtà di quella situazione, saranno conseguenti alla sua valutazione della situazione stessa.” (F. Crespi, P. Jedlowski, R. Rauty, La sociologia. Contesti storici e modelli culturali, Bari, Laterza, 2000, pp. 255-256). W. I. Thomas, D. Swaine, cit. in F. Crespi, P. Jedlowski, R. Rauty, op. cit., p. 256. R. Park, E. Burgess, E. McKenzie, La città, Milano, Ed. di Comunità, p. 55.
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renza – fatto sociale che non si allontana dalla anomia durkheimiana – oppure appare essere un modello subculturale, del quale le bande giovanili diventano portatrici, o ancora risulta come l’effetto di quella massiccia migrazione che indubbiamente non trovando risposte, trasforma l’emarginazione in delinquenza. […] La vita urbana si dipana come in un ecosistema all’interno del quale i processi dell’esistenza si attestano sulla competizione, sulla lotta per la sopravvivenza, sulla invasione e sulla successione. […] Il grande teatro delle città vede dipanarsi sul suo palcoscenico la vita quotidiana e i protagonisti sono attori le cui componenti umane si plasmano secondo lo stile che il copione della vita impone loro”5. Sembra in un certo qual senso di leggere l’approccio drammaturgico di Goffman, in una città che appare in continua contraddizione e forse, la sua caratteristica fondamentale è proprio questa e non potrebbe essere altrimenti. Stiamo facendo riferimento a una metropoli come Chicago, nel caso degli studiosi in oggetto che tratteremo, ma si tratta di un discorso che è valido per qualsiasi città in cui il cittadino talvolta si sente perso, quasi inghiottito dai ritmi frenetici di una vita metropolitana, dove deve con forza imporre la sua presenza, la sua identità. Ciò si verifica soprattutto per chi proviene da un piccolo paese di provincia e si trasferisce in città, dove la vita scorre più velocemente, dove incastrare diversi impegni talvolta diventa complesso, se non impossibile, a causa di distanze e traffico. La stessa cosa potrebbe succedere invece a un uomo che dalla città si trasferisce in una provincia o campagna; si sentirebbe soffocare negli spazi e nelle opportunità di attività limitate a sua disposizione. Nella città, anche se l’individuo riesce ad affermare la sua personalità con più fatica, rispetto a un piccolo contesto urbano, Simmel sottolinea però che è libero. Infatti, scrive l’autore, “l’autoconservazione di unioni molto giovani richiede dei limiti severi e un’unità fortemente concentrata, e non può quindi concedere all’individuo nessuna libertà e nessuna particolarità di sviluppo, tanto interiormente quanto esteriormente. […] Contemporaneamente l’individuo guadagna una certa libertà di movimento che va ben oltre i vincoli imposti dapprima dalla gelosia del gruppo e sviluppa una specificità e una peculiarità che sono rese possibili e necessarie dalla divisione sociale del lavoro all’interno del gruppo ingrandito. […] Si ricorre alla particolarizzazione quali5
M. Ruini, (a cura di), Dentro e fuori la città, Roma, Ed. Nuova cultura, 2010, pp. 37-39.
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tativa per potere attirare su di sé l’attenzione del proprio ambiente: ciò finisce per portare all’eccentricità più arbitraria e alla stravaganza tipicamente metropolitana della ricercatezza dei capricci, il cui senso non sta più nei contenuti di tali condotte bensì solo nell’apparire diversi, nel farsi notare”6. L’analisi iniziale di Park, riferita a Chicago, trova piena corrispondenza con le più grandi metropoli come Roma, Milano, Napoli. Differenti stili di vita e culture, che però trovano un punto comune su cui convergere: la contraddizione che è riscontrabile non solo nelle periferie dei grandi spazi urbani, ma anche a pochi passi dal centro, a ridosso di una stazione ferroviaria, in un vicolo apparentemente disabitato, dove talvolta vivono individui anonimi agli occhi della società. La sua Teoria dell’uomo marginale considera l’individuo respingere il contesto di origine, ma al tempo stesso è un uomo in divenire dove convivono instabilità e voglia di aprirsi. “Per Park, la marginalità si coniuga sempre con l’innovazione. Con la categoria del marginal man, Park aveva tagliato fuori proprio la figura del vagabondo che sarà invece l’oggetto specifico della ricerca di Nels Anderson, voluta e incoraggiata dallo stesso Park. Il vagabondo, nel quadro interpretativo di Park, non ha la capacità di innovazione, ma è solo un escluso”7. Con la ricerca sull’ hobo,8 il vagabondo di Anderson, si inizia a parlare di giovani, quando lo studioso nel descrivere gli stili di vita di questi individui, sottolinea che fin da giovani9 sono più propensi ad atteggiamenti trasgressivi e di promiscuità. Si inizia a guardare da vicino nella città ai comportamenti dei giovani, dove vivono e come si rapportano ai loro gruppi amicali e alla società nella sua interezza. Per comprendere che tipi di studi furono affrontati sulla condizione giovanile, è necessario prendere in considerazione alcuni di questi lavori di ricerca. All’interno della Scuola di Chicago ebbero un loro contributo Henry D. McKay e Clifford R. Shaw, che con la loro teoria ecologi6 7 8 9
G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, Roma, Armando, 1995, pp. 46-52. R. Caccamo, Scenari infranti. Conformismo, marginalità, anonimato nell’America urbana, Roma, Carocci, 2001, p. 95. N. Anderson, Il vagabondo. Sociologia dell’uomo senza dimora, Roma, Donzelli, 1994. Cfr. M. Merico, Giovani e società, Roma, Carocci, 2004.
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ca, studiarono lo sviluppo della criminalità urbana. I due studiosi utilizzarono per la loro ricerca il modello delle aree concentriche10, evidenziando i livelli di criminalità in base alle zone urbane. La loro indagine evidenziò che i livelli di criminalità erano elevati soprattutto in due aree: la I Loop o area centrale degli affari (banche, grandi magazzini, negozi di lusso, amministrazione comunale, stazioni ferroviarie), la II Zona di transizione (fabbriche, case malfamate, ghetto, quartiere cinese, little Sicily). Come entrano i giovani a contatto con la devianza e la delinquenza in questi contesti urbani? Gli studi di Thomas in merito alle flapper, ballerine che con un abbigliamento abbastanza appariscente e sigarette si oppongono ai gusti e stili di vita della società, rappresentano come sottolinea Merico, da un lato l’evoluzione nei costumi di quella società, dall’altro il prodotto di una realtà in cui il consumismo prende sempre più piede, evidenziato anche nei primi cartelloni pubblicitari che ricoprivano la città. “Nelle ragazze l’ingresso nel mondo della delinquenza è in genere un impulso verso il divertimento, l’avventura, l’abbigliamento carino e alla moda, il richiamare l’attenzione, il distinguersi, la libertà all’interno del vasto mondo che presenta così tante seduzioni ed è dominato dalla competizione”11. I due studiosi sviluppando un progetto di riforma sociale il “Chicago Area Project” si impegnarono a progettare il recupero e il restauro della zone più degradate di quartieri di Chicago, stimolando i cittadini coinvolti in questo processo di cambiamento, a impegnarsi socialmente e politicamente, con lo scopo di migliorare la vivibilità del quartiere ed evitare che i giovani abbracciassero comportamenti criminali. I giovani studiati nelle prime ricerche della Scuola di Chicago, si affacciano quindi alla delinquenza, deviando dai comportamenti sociali della città, come forma di divertimento e perversione. La città viene considerata dagli studiosi di quell’epoca come una fonte di domande e in alcuni casi molti studiosi considerarono l’urbanizzazione e le città la causa di tanti problemi sociali. A queste iniziali problematiche, bisogna aggiungere un consistente aumento di ondate migratorie negli Stati Uniti provenienti da Europa meridionale e orientale. La difficoltà d’integrazione dei nuovi arrivati, da un lato fu complessa per le prime generazioni, semplificata per i figli degli immi10 11
Cfr. G. Marotta, Teorie criminologiche. Da Beccaria al postmoderno, Roma, Led, 2004. Thomas, cit. in M. Merico, op. cit., p. 34.
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grati, che però non si trovarono in difficoltà ad inserirsi nel contesto, ma furono in imbarazzo rispetto alle loro famiglie di origine, tanto da distaccarsene e a creare proprie bande. In questo contesto sociale, i sociologi si allontanarono dall’astrazione teorica che fino a quel momento era stata la privilegiata, per abbracciare un approccio etnografico, disciplina, l’etnografia, che fu fondata dallo stesso Thomas all’università di Chicago. Non più quindi un sociologo che sta solo in aula, ma sulla strada, che mangia e discute con i soggetti delle proprie indagini. Si iniziano ad ispirare quindi allo studio delle piante e della natura, creando una ecologia umana12, ossia studiare le persone dai loro comportamenti negli spazi urbani in cui si trovavano. Ai dati ufficiali, ossia censimenti e dati riferiti alla criminalità urbana, i sociologi della scuola aggiunsero le storie di vita. Attraverso i loro studi, i ricercatori evidenziarono che nelle città la vita sociale era superficiale e i rapporti tra gli individui deboli. La debolezza dei rapporti sociali tra gli individui venne studiata e letta come un processo di disgregazione sociale. 2. I giovani nelle Teorie sulla devianza e i quartieri Un altro contributo per studiare la delinquenza urbana fornita da McKay e Shaw, riguarda proprio il mondo giovanile in una teoria definita della trasmissione culturale. Secondo la loro analisi, la delinquenza dei giovani è legata alla disgregazione sociale del contesto urbano in cui crescono. Se i giovani vivono in questi luoghi, è probabile che entrino in contatto con più facilità con individui portatori di valori criminali e che delinquono. 12
“Per la teoria ecologica, pertanto, l’ambiente di vita è il fattore più importante nella genesi della criminalità, almeno nelle modalità più squalificate e povere di delinquenza comune, anche se è ovvia l’importanza di altri fattori, posto che non tutti coloro che risiedono nelle aree criminali diventano delinquenti. Inoltre, la teoria ecologica è una teoria a medio raggio, nel senso che non rende conto dei fenomeni più generali, per esempio il dilagare della criminalità in ogni ambiente, anche in quelli economicamente elevati: la teoria ecologica bene si presta a render conto solamente della delinquenza comune più povera, della manovalanza delinquenziale cosiddetta da strada, di quella degli emarginati e dei neoimmigrati ancora non integrati”. (G. Ponti, I. M. Betsos, Compendio di criminologia, Milano, Raffaello Cortina, 2008, p. 81).
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Scrivono infatti i due studiosi: “l’importanza della concentrazione della delinquenza può essere scorta più chiaramente quando se ne vedono gli effetti in una prospettiva temporale. La mappa che rappresenta la distribuzione della delinquenza per periodi successivi, indica che, anno dopo anno, queste concentrazioni hanno interessato sempre le stesse aree. Ciò significa che i ragazzi di queste zone non solo vengono a contatto con i delinquenti della loro stessa età, ma anche con quelli più vecchi, che a loro volta ebbero rapporti con quelli che li avevano preceduti, e via di seguito fino all’inizio della storia del quartiere. Questi contatti significano che le tradizioni delinquenti possono essere e vengono trasmesse di generazione in generazione di ragazzi, in una maniera del tutto simile a quelle che trasmettono il linguaggio e altre forme sociali”13. Da questo punto di vista quindi la delinquenza viene considerata trasmissibile da generazione a generazione, secondo quanto rilevato dalle ricerche degli studiosi della Scuola di Chicago, senza però voler esprimere giudizi di valore, facendo riferimento a ricerche ormai diffuse in vari contesti urbani, è opportuno precisare che non tutti gli individui che crescono in zone con un forte livello di criminalità, diventano delinquenti. Va però tenuto conto del contesto storico-sociale in cui si cresce, dei rapporti familiari, delle istituzioni educative e del modo in cui si riesce o meno a trasmettere valori saldi e duraturi nel tempo. Come avremo modo di leggere nei vissuti biografici dei giovani dei Quartieri Spagnoli di Napoli, il tessuto sociale e quindi la famiglia, le amicizie, nelle varie tappe del processo di socializzazione, svolgono un ruolo determinante tanto nel processo di costruzione dell’identità di un giovane, quanto nel suo ingresso o meno nel mondo della criminalità. La città quindi con le sue contraddizioni, il quartiere come “ghetto” ai margini del vivere quotidiano, vengono fotografati dai teorici della Scuola di Chicago, come i luoghi in cui i giovani iniziano a deviare, a far parte delle prime bande giovanili criminali. Il concetto di banda giovanile, venne analizzato da Thransher14, attraverso uno studio che durò circa sette anni, periodo di tempo in cui ha avuto modo di identificare circa 1313 bande nella città. Entrare a far parte di una banda, trova secondo lo studioso due spiegazio13 14
H. D. McKay e C. R. Shaw, cit., in F. P. Williams III, M. D. McShane, Devianza e criminalità, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 60. F. M. Thransher, The gang, Chicago, University Press, 1927.
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ni: da un lato l’insoddisfazione percepita nella famiglia e la necessità di vivere nuove esperienze, dall’altro il gruppo amicale, del quartiere o della periferia, consente di mettere in pratica quelle relazioni e quel confronto che spesso manca nella famiglia. Basta pensare, lasciando per un momento la realtà di Chicago e spostandosi nei Quartieri Spagnoli, oggetto della nostra indagine, come all’interno delle famiglie, il disagio economico ed esistenziale tolga fiato ad ogni possibile relazione, confronto tra i vari membri. Ecco quindi che il gruppo inizialmente amicale, dove i rapporti tra i suoi membri si fondano sul divertimento e sul gioco, come nel caso degli scippi e dei furti, in un secondo momento perdono quel significato ludico, introducendo il giovane nelle dinamiche organizzative di una vera e propria banda. Tutto questo, secondo le ricerche della Scuola, si attua frequentemente negli spazi interstiziali15, cioè intermedi, a metà tra il centro storico e le zone rurali, dove sono più evidenti le differenze culturali ed economiche. Quando tra i vari gruppi, iniziano a crearsi le prime rivalità, quando non ci si accontenta più del brivido e del gioco, ecco che avviene il passaggio16 dalla banda giovanile ad un vero e proprio clan. Un cenno merita all’interno di questo nostro lavoro, il concetto di anomia. Accanto ai comportamenti devianti, l’anomia risulta essere una chiave di lettura di molti comportamenti legati al mondo della 15
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“Pur non facendo esplicito riferimento al concetto di interstizio, Georg Simmel, in quella che può essere definita la sua sociologia dello spazio, delineata nel saggio Lo spazio e gli ordinamenti spaziali della società, sottolinea l’importante funzione sociologica dello stare fra, o meglio del senso del tra, riferito in modo particolare alle forme spaziali. In tal senso Simmel ci ricorda come anche la più semplice interazione tra due persone si inserisce nello spazio che esiste tra loro; quando un certo numero di persone abitano isolatamente l’una accanto all’altra entro determinati confini spaziali, ognuna riempie appunto con la propria sostanza e la propria attività, il posto che le è immediatamente proprio, e tra questo e il posto della persona più vicina vi è uno spazio non riempito, in pratica un nulla.” (E. Rossi, Le forme dello spazio nella tarda modernità, Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 55-56). “Sono proprio i conflitti tra gruppi rivali a determinare il passaggio dal gruppo amicale alla banda vera e propria e, quando ciò avviene, diventano prevalenti le attività criminose. A questo punto dovrebbero intervenire le agenzie di controllo, ma ciò accade spesso perché le attività delle bande sono facilitate dall’appoggio del gruppo sotto – culturale di riferimento che permette, copre e sostiene moralmente la loro attività (permissività, ricettazione, sfruttamento, ecc)”. (B. Barbero Avanzini, Devianza e controllo sociale, Milano, Franco Angeli, 2002, p. 59).
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criminalità. Durkheim, teorico del Funzionalismo, noto soprattutto per il suo testo “Il suicidio” (1897) fornisce un contributo significativo sul concetto di devianza e di anomia nella sociologia classica. Qual è la differenza tra questi due concetti? Luciano Gallino scrive in questo modo: “Anomia è la deficienza o assenza di norme atte a regolare il comportamento sociale di individui o collettività, (gruppi, organizzazioni, associazioni17)” Devianza è un “atto o comportamento o espressione, anche verbale, del membro riconosciuto di una collettività che la maggioranza dei membri della collettività stessa giudicano come uno scostamento o una violazione più o meno grave, sul piano pratico o su quello ideologico, di determinate norme o aspettazioni o credenze che essi giudicano legittime, o a cui di fatto aderiscono, e al quale tendono a reagire con intensità proporzionale al loro senso di offesa18. “L’anomia nell’analisi di Durkheim può essere intesa come una situazione transitoria, una fase che si verifica in un periodo particolare come il rapido sviluppo culturale o anche la crisi economica, momenti in cui l’individuo non vede l’esistenza di norme sociali condivise. Ritornando agli studiosi della Scuola di Chicago, in cui per la prima volta si iniziò a parlare di ricerca sul campo nel mondo giovanile, ricordiamo nella seconda fase della Scuola, accanto agli studi di Shaw e McKay, quelli portati avanti da Sutherland e Cressey con la loro Teoria dell’associazione differenziale. Sutherland si sofferma sul fatto che il comportamento criminale va inteso come appreso, frutto quindi di un processo di disgregazione di un contesto urbano in cui l’individuo vive e su cui agisce questa disorganizzazione che genera appunto un comportamento criminale. Barbero Avanzini in merito alla teoria di Sutherland, sottolinea: “il fatto che continui ad esistere un comportamento criminale nonostante che esso sia sanzionato da leggi penali significa che quel comportamento offende e danneggia alcuni gruppi o persone ma anche che esso risulta vantaggioso per altri. Il crimine, dunque, ha origine nelle contraddizioni sociali, che stimolano il conflitto attorno a talune norme che regolano e sanzionano i rapporti di potere”19. Il crimine quindi si sviluppa in quei contesti in cui emerge una contraddizione, tra chi fa parte di un gruppo e si sente ostacolato e dan17 18 19
L. Gallino, Dizionario di sociologia, Milano, Gruppo Ed. L’Espresso, 2006, pp. 55-56. L. Gallino, op. cit., p. 398. B. Barbero Avanzini, op. cit., p. 63.
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neggiato da quel crimine e chi da quel crimine trae guadagno; basta pensare all’organizzazione dei più noti clan camorristici e mafiosi, al modo in cui operano su determinati territori su cui prendono il sopravvento nella gestione della vita collettiva, danneggiando le relazioni di chi assume comportamenti che si fondano sulla legalità. Cressey dal canto suo sviluppa insieme a Sutherland in che modo gli individui di un determinato gruppo abbraccino o meno comportamenti delinquenziali. La spiegazione secondo lo studioso si può identificare nelle interazioni che gli individui instaurano con chi sta intorno a loro, dal modo in cui affrontano determinate questioni. “Un individuo diventa criminale quando le interpretazioni sfavorevoli nei confronti del rispetto della Legge sono più forti di quelle favorevoli. Questo costituisce il principio dell’associazione differenziale”20. Il riferimento alle interazioni chiama in causa quindi i rapporti interpersonali, basti pensare ai gruppi amicali, alle comitive nel caso di adolescenti e giovani, che diventano l’opportunità di confronto quando la famiglia e le istituzioni educative non sono in grado di far fronte alla costruzione di un dialogo solido, che mostri i pro e i contro di una determinata situazione. Come avremo modo di analizzare nelle storie di vita dei giovani dei Quartieri Spagnoli21, la frequentazione di determinate amicizie, il modo di vivere alcune esperienze in luoghi di ritrovo come la piazzetta del quartiere, la corsa in motorino per i vicoli, diventa in più occasioni il momento privilegiato dai giovani, che vivono insieme ogni momento della loro vita e quindi esprimono giudizi sulle istituzioni. Si fanno un’idea dettata dalla loro esperienza di vita, di che cosa sia la criminalità e se è il caso seguirla o meno. In questi esempi, è chiaro che va segnalato come le storie in oggetto chiariscono, insieme alle più comuni ricerche sulla criminalità, che il giovane vivendo dentro certe situazioni e senza un sostegno familiare e una determinata formazione culturale, difficilmente riesce a trovare una strada alternativa alla delinquenza. Si inizia quindi con il furtarello, con il piccolo scippo, per poi passare ad azioni illegali di livello più alto. L’unica alternativa all’ingresso nel mondo della criminalità per molti di questi giovani, diventa da un lato, la possibilità di incontrare 20 21
Sutherland e Cressey, cit. in B. Barbero Avanzini, op. cit., p. 64. Cap. V.
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chi crede nelle loro potenzialità aiutandoli, dall’altro chiudere i ponti con un quartiere o una città, in cui ogni giorno è difficile andare avanti e la semplice quotidianità diventa una lotta l’uno contro l’altro. Scrive inoltre Sutherland: “è facile constatare che ci sono non delinquenti emotivamente disturbati e delinquenti che non lo sono. Sarebbe forse stato possibile dimostrare un processo di questo tipo: i disturbi emotivi, alimentati dalle frustrazioni dell’ambiente familiare, spingono i ragazzi fuori casa alla ricerca di altre compagnie più soddisfacenti. Questo si verifica soprattutto in ambiti sociali deprivati, in cui appunto il tasso di criminalità giovanile è alto. La probabilità di contatti frequenti e pregnanti con delinquenti sarà dunque maggiore per questi ragazzi, rispetto a quelli che non subiscono frustrazioni in famiglia. […] È possibile che il disturbo emotivo giochi un ruolo significativo nella genesi del comportamento antinormativo, solo nel senso di favorire la frequenza e la pregnanza delle associazioni con modelli delinquenti, o nell’isolare l’individuo dai modelli di comportamento anticriminale”22. 3. Le ricerche sulla condizione dei giovani devianti Un altro contributo sull’analisi della condizione giovanile, che ci sembra utile considerare all’interno di questa trattazione, che chiaramente non può considerarsi esaustiva sulla Scuola di Chicago, ma una mappatura dei primi studiosi di quest’approccio sul mondo giovanile, è lo studio di Cressey su “Dance Hall.” Si tratta di un lavoro di ricerca che lo studioso porta avanti sulle devianze femminili delle ballerine a pagamento. Storie che trovavano la loro ambientazione in camere ammobiliate che non distavano troppo dalla zona centrale degli affari. Cressey analizzando queste situazioni, scrive in questo modo: “i clienti sono per lo più occasionali e di passaggio. Le ragazze, d’altra parte, hanno un rapporto economico definito e abbastanza stabile con quell’organizzazione. Nei loro contatti reciproci e in quelli con i clienti esse stabiliscono le modalità, forniscono uno schema della relazione e fissano i criteri immediati di comportamento, sia per le ballerine sia per i clienti. I gestori possono indicare regole esterne, 22
Sutherland, cit., in G. Ponti, I. Merzagora Betsos, Compendio di criminologia, Milano, Raffaello Cortina, 2008, p. 99.
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ma il controllo più diretto rimane al gruppo delle ragazze che hanno più autorità sulla vita della sala, e che hanno maturato codici e tecniche di controllo23”. Questa fu una delle prime ricerche che utilizzò l’osservazione partecipante e nella fattispecie l’osservazione di gruppo, attraverso il lavoro di un gruppo di osservatori inviati sul luogo da Cressey, che in una seconda fase controllavano l’attendibilità delle informazioni raccolte. Nel caso di questa ricerca, la Dance Hall24 rappresenta il primo studio da parte della sociologia della Scuola di Chicago sulle sale da ballo, anche se inizialmente si tratta di una sala da ballo normale frequentata da maschi e femmine, che solo in un secondo momento si trasforma quando le ballerine vengono noleggiate a pagamento dagli spettatori. In questo momento quindi gli studiosi iniziando a studiare la realtà delle sale da ballo, fanno breccia sul tema della prostituzione, della devianza femminile, che fino a quel momento era rimasto nascosto alle scienze sociali. Sul filone delle analisi proposte dalla Scuola di Chicago, ci sembra opportuno richiamare inoltre gli studi condotti da Cohen sulle gang e di Cloward e Ohlin25 sulle bande minorili. Nello studio di Albert Cohen, i giovani delle classi operaie finiscono con l’abbracciare la subcultura delinquenziale, perché rappresenta l’unica alternativa possibile ai problemi di status che occupano, anche perché le differenze di classe che vivono pienamente, li portano ad essere impreparati ai problemi della vita. Frustrati e de-
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25
Cressey, 1932, cit. in R. Caccamo, op. cit., pp. 108-109. Bisogna sottolineare che “un aspetto fondamentale delle Dance Hall è rappresentato dalla specificità del linguaggio e dei modelli di comportamento che in tali ambienti si sviluppano, i quali, oltre ad essere uno strumento di comunicazione e appartenenza comune, rappresentano anche uno strumento di identificazione, un mondo distinto con un suo modo di agire, di parlare, di pensare, dotato di un suo vocabolario, attività, interessi, significati. Quello della Dance Hall è quindi un ambiente a sé, soprattutto per le ragazze che, lontane dalla normale vita familiare e di vicinato, vivono in un ambiente morale completamente diverso dalle forme di vita convenzionali. Tale ambiente offre non solo vantaggi economici, ma permette alle ballerine di intrecciare relazioni amichevoli e amorose e di vivere esperienze eccitanti; nelle sale da ballo, quindi si svolge l’intera vita della ballerina, non solo lavorativa ma anche socio-affettiva”. (R. Caccamo, op. cit., p. 110). R. A. Cloward, L.E. Ohlin, Teoria delle bande delinquenti in America, Bari, Laterza, 1968.
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pressi, non riescono a reggere il confronto talvolta con le classi medie, a tal punto di entrare a far parte di una gang. La loro formazione culturale oltretutto non li aiuta ad affrontare queste situazioni di differenza e non riesce anche a porre freno a possibili scatti di aggressività, cui sono soggetti. L’ingresso in una gang, gli consente di ottenere pertanto quel ruolo e quella posizione sociale che il contesto urbano in cui hanno vissuto fino a quel momento, gli ha negato26. Come sottolinea Marotta27, gli studi condotti da Cohen hanno ricevuto alcune critiche soprattutto da parte di Sykes e Matza, i quali pur essendo concordi con lo studioso sul fatto che i giovani entrino a far parte di una banda, per questioni relative allo status, non sono d’accordo però sul fatto che rifiutino i valori della classe media. Secondo i due studiosi infatti da parte dei giovani appartenenti a una banda e con comportamenti criminali, nei confronti del concetto di legalità e dei valori portanti, la risposta sarebbe tipica delle tecniche di neutralizzazione, ossia prevale una negazione dell’evidenza. Come nel caso di un omicidio, la loro risposta può essere che si tratta di una morte meritata, oppure di uno scippo avvenuto perché aveva necessità di mangiare o di un motorino rubato, che risulta in genere sempre preso in prestito, oppure violare la legge, giustificando che lo fanno tutti, come non mettere il casco o passare con il semaforo rosso. Secondo Cohen inoltre i giovani vivono determinate situazioni di disagio, perché da sempre all’interno della famiglia hanno appreso sia i valori portanti, sia le amarezze, le rinunce e le frustrazioni dei genitori stessi, vivendo quindi una socializzazione incoerente. Vivono “tensioni, frustrazioni, risentimenti, colpa, amarezza, angoscia, disperazione: la storia di un atto deviante è il risultato di un processo di interazione, con un continuo scambio tra atti e risposte degli 26
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Gemma Marotta sottolinea che “se da un lato Cohen svolge un’analisi approfondita della non omogeneità delle gangs di una data classe sociale (come ad esempio avviene per i college boys della higher class o i corner boys della lower class), dall’altro trascura alcuni fenomeni macroscopici. Così tralascia di considerare l’aspetto conflittuale tra la cultura dominante e certe sottoculture che non rappresentano soltanto la soluzione a problemi collettivi di adattamento, ma anche unità che (proprio perché negativistiche) combattono contro la cultura egemonica: potrebbero, quindi esprimere, le ragioni di minoranze illuminate e questo, in una teoria generale della sottocultura, non dovrebbe essere dimenticato.” (G. Marotta, Teorie criminologiche. Da Beccaria al postmoderno, Roma, Led, 2004, p. 132). Ibidem.
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atti”28. Gli studi di Cohen vengono poi approfonditi da Cloward e Ohlin sulle bande minorili. A differenza dell’analisi di Cohen, i due studiosi sottolineano che i giovani accettano i valori della classe media, non sono frustrati e quindi non deviano per questa ragione, ma perché si rendono conto di essere esclusi dai mezzi legittimi, con cui poter raggiungere determinati obiettivi e posizioni sociali. La categoria giovanile appare quindi nell’analisi dei teorici della Scuola di Chicago e anche nei successivi studi che si muovono su quella linea, in continua evoluzione. Vengono studiati da vicino in quegli spazi urbani, che appaiono essere i luoghi privilegiati tanto allo sviluppo di comportamenti devianti, quanto crogiolo di espressioni di socialità. Il luogo, quindi il quartiere, i suoi esponenti diventano i punti di riferimento, in un certo qual senso modelli che i giovani cercano di imitare. Come talvolta la televisione ha generato alcuni “miti” così anche il quartiere costruisce l’idea del vip della strada, il più delle volte come emerge anche dalle storie dei nostri giovani di Napoli, non si tratta di persone che hanno compiuto particolari azioni agli occhi dell’opinione pubblica e del quartiere, ma che delinquono, costruendosi un insieme di regole di comportamento, che sono accettate a volte anche inconsapevolmente dalla gente del posto, pur di non vivere in uno stato di guerra perenne contro i clan e le famiglie malavitose. I boss, i capi diventano quindi proprietari di quartieri dettando leggi proprie e divenendo figure degne di rispetto da chi ogni giorno lotta per sopravvivere. Pertanto, è possibile sottolineare come scrive Kobrin, che “come i giovani delle classi medie aspirano a diventare banchieri o uomini d’affari in conseguenza dei rapporti stretti che intrattengono con queste figure sociali, alla stessa maniera i loro coetanei delle classi inferiori hanno come punti di riferimento un boss delle estorsioni e aspirano a imitarlo”29. La strada quindi di giorno e di notte nei quartieri si popola di giovani, che vi ruotano intorno, incerti del futuro, talvolta frustrati alla ricerca di un brivido, ma al tempo stesso di un’opportunità legale o illegale che sia per andare avanti.
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A. K. Cohen, Ragazzi delinquenti, Milano, Feltrinelli, 1955, p. 63. Kobrin, cit. in F. P. Williams III e M. D. McShane, Devianza e criminalità, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 106.
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IV GIOVANI MEDIATI E COMUNICATORI Ci mettemmo a ridere senza ritegno e mentre ridevamo gli feci segno che era stato davvero molto bravo, che l’alunno aveva superato il maestro (Sandro Bonvissuto, Dentro)
1. I giovani e il mondo dei media ieri e oggi I giovani appaiono ormai essere sempre più attratti dal mondo dei media, siano essi media tradizionali come la televisione e il cinema, sia essa la rete. Internet si popola infatti quotidianamente di giovani che “abitano” in ogni ora della giornata i Social network, consumano musica, scrivono post su blog, si incontrano, organizzano le proprie serate e così via. Ogni esperienza della vita collettiva, passa attraverso i media. I giovani, rispetto agli adulti, più aperti all’uso delle tecnologie, diventano quindi i protagonisti di un immaginario comunicativo, che si evolve velocemente, trasferendo soprattutto nella rete molte esperienze della loro quotidianità, testimoniate dalla foto della serata in un locale o cena con amici inserita in tempo reale, al tam tam di messaggi e discussioni in chat private o bacheche pubbliche di un profilo. Basta osservare You Tube, per rendersi conto di quanti filmati li abbiano come protagonisti e siano inseriti da loro stessi. Talvolta la loro presenza in rete diventa però quasi un grido, una protesta o una “filosofia” di vita, come nel caso degli Emo. Una delle recenti forme dell’apparire, in cui il termine deriva da emozione e la cui caratteristica principale è quella di riferirsi ai giovani che vivono la moda non come semplice appartenenza, ma come appunto una filosofia di vita. Un taglio di capelli che copre l’occhio destro, l’occhio sinistro esageratamente truccato, sono le caratteristiche più diffuse di un’estetica che sempre più spesso si trasferisce anche nella rete. Molti di questi giovani tendono infatti a filmare alcuni momenti a volte crudi di violenza fisica, per proiettarli su You tube o su altri portali. Nello scenario collettivo, se nel passato entrar a far parte del mondo catodico era il sogno di pochi, che con molta fatica nella sto-
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ria della televisione e del cinema riuscivano ad affermarsi, oggi invece risulta tra le professioni più ambite, determinando talvolta la nascita di modelli culturali, che identificano nei tronisti e nelle veline, le nuove figure professionali e i modelli giovanili dell’odierna società. Se ciò non è valido per tutti i giovani, ha comunque un peso non indifferente e chiama in causa quella teoria che Codeluppi1 definisce vetrinizzazione sociale2. I programmi televisivi ce ne danno una prova, è sufficiente fare riferimento all’elevato numero di reality da cui molti giovani vengono oggi attratti, per riuscire ad entrare nel mondo dello spettacolo, per comprendere come stia cambiando anche il mercato della musica, del cinema. Un tempo l’attore, il ballerino, il cantante venivano scoperti per il loro talento in un contesto naturale, come una scuola o accademia, un conservatorio o un locale dove si faceva un po’ di gavetta. Oggi, l’accesso alla televisione e al mondo della musica per molti giovani si apre non solo se hanno buone doti, ma ancor di più se provengono da un reality, che gli consente di avere quella popolarità mediatica in poco tempo. Popolarità un tempo raggiunta molto più lentamente, vista anche la mancanza del web, che è divenuto per molti giovani artisti, una vetrina perenne, attraverso social media e spazi web di vario tipo. In questo spazio, a metà tra il reale e l’immaginario, si inserisce la ricerca di spettacolarizzazione dei giovani. E se anche non si penalizzano i talenti, né si creano nuovi stereotipi, tali spazi del comunicare, hanno stimolato o accresciuto in molti giovani, la voglia di entrare a far parte del mondo dello spettacolo, solo per mostrarsi o perché dotati di un’apparenza estetica piacente o perché diversi e dalle caratteristiche particolari. Il mondo dello spettacolo ha sempre avuto un’attrattiva speciale sull’universo giovanile, anche nel passato. Sono piuttosto cambiate oggi le regole di accesso e le modalità di promozione della macchina dello spettacolo, emerge infatti il peso non indifferente della pubblicità e di conseguenza di un linguaggio diverso e che vuole spettacolarizzare 1 2
V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Torino, Bollati Boringhieri, 2007. Nell’analisi di Codeluppi, “Vetrinizzarsi non è un semplice mostrarsi, che comporta la possibilità di trattenere qualcosa per sé. È un atto che implica un’ideologia della trasparenza assoluta, implica cioè l’obbligo di essere disponibili a esporre tutto in vetrina. Non è più possibile lasciare sentimenti, emozioni o desideri nascosti nell’ombra.”(V. Codeluppi, op. cit., p. 17).
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qualsiasi evento. Scrive infatti Codeluppi: “La televisione moderna non cerca tanto la verità dell’enunciato – non cerca cioè di portare in televisione fatti considerati veri, come voleva la televisione verità – ma persegue la verità dell’enunciazione; non contano le cose mostrate, quanto piuttosto come esse vengono mostrate”3. Anche nel rapporto tra genitori e figli che aspirano a fare spettacolo, è rimasta potremmo dire immutata la situazione che accompagnava molte famiglie del passato, incredule che un figlio potesse entrare a far parte di questo mondo, ma c’è anche una presenza di famiglie che appoggia la creatività dei propri figli. Chi non ricorderà il film “Bellissima” in cui Anna Magnani interpreta il ruolo di una madre innamorata più della spettacolarizzazione, che delle reali aspirazioni della figlia. La stimola a provini e continui esami, per fare ingresso nel mondo del cinema. Non è cambiato molto oggi di ciò che cinematograficamente era stato rappresentato in quel film, basta recarsi davanti ai grandi studi televisivi di una città come Roma, in cui si tengono le selezioni per entrare a far parte di reality, per comprenderne il significato e cogliere la partecipazione di molti genitori alle scelte dei figli. Ciò che emerge è la sensazione di un universo giovanile che creda talmente tanto in questa realtà lavorativa, a tal punto da provare le selezioni addirittura anno per anno. Alla smaniosa voglia di entrare a far parte di questo mondo, si unisce anche una cura del corpo, a volte fuori regola da parte degli aspiranti artisti. “I media e la pubblicità – scrive Codeluppi – idealizzano costantemente dei modelli corporei di bellezza, ma soprattutto di magrezza, inducendo uomini e donne a cercare di seguirli, e questo a costo di fatica e sofferenza”4. I giovani finiscono quindi con l’essere immersi nel mondo dei media, vivono le esperienze della loro vita e le riportano attraverso video con smartphone e altri dispositivi sulla rete, si costruiscono talvolta un’identità “mediale” attraverso Facebook, Twitter, Instagramm. L’ingresso nel mondo dello spettacolo è per molti di loro, già spianato da una popolarità che hanno acquisito attraverso il cyberspazio. Uno spazio della rete, dove costruiscono le loro relazioni e mettono in piazza in molti momenti, emozioni e anche creatività. Diventa al tempo stesso uno spazio di integrazione, un ponte tra cit3 4
V. Codeluppi, op. cit., p. 58. Ivi, p. 40.
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tà, quartieri, classi sociali differenti, come nel caso dei giovani dei Quartieri Spagnoli, che utilizzano Facebook, sia per relazionare tra di loro, sia per poter costruire un rapporto con chi sta al di fuori del loro contesto geografico. 2. Giovani connessi tra realtà e immaginario virtuale In una recente ricerca5 sull’uso di Facebook come strumento di comunicazione e spazio relazionale, emerge che la rete è per molti giovani un deterrente al fiorire di nuovi rapporti, contatti, che altrimenti rischierebbero di morire, se addirittura non trovare una base per essere intrapresi. I media e nello specifico i media digitali, hanno costruito nuovi spazi d’incontro, contribuendo a rompere quelle barriere geografiche, distanze non solo fisiche ma anche sociali tra i membri di una determinata città o gruppo amicale di riferimento, segnando un percorso di crescita e apertura alla modernizzazione. Mario Morcellini sottolinea appunto che: “i media rappresentano innegabilmente un fattore strategico di induzione dei processi di modernizzazione, veri e propri battistrada dei fenomeni di scambio e circolazione delle idee, della scienza e dell’informazione, ma anche vettori di cambiamento dei gusti, dei consumi, delle mode e persino dei bisogni di emancipazione sociale e delle aspirazioni alla libertà. In questo senso, risulta sorprendente e perfino paradossale il fatto che nella storiografia italiana l’interesse per il ruolo dei mezzi di comunicazione si faccia notare soprattutto per la sua assenza, quasi che non venisse riconosciuta la loro capacità di incidere profondamente nella sfera culturale, psicologica, sociale, politica o economica. Naturalmente, queste riflessioni non devono neppure indurre ad adottare una visione radicalmente deterministica, anche perché non sarebbe possibile in alcun modo studiare lo sviluppo dei sistemi di comunicazione prescindendo da una loro contestualizzazione e dall’osservazione congiunta di processi storici e sociali più ampi6”. 5 6
A. Romeo, Società, relazioni e nuove tecnologie, Milano, Franco Angeli, 2011. M. Morcellini, La rivoluzione del quotidiano: la normalizzazione delle tecnologie comunicative, in A. Romeo, P. Canestrari, (a cura di) Dall’uo-
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Appare chiaro nell’analisi di Morcellini, come da un lato i media contribuiscano al processo di modernizzazione, dall’altro non si può prescindere dal considerare il contesto storico e sociale in cui essi operano. Pensiamo alle difficoltà di un quartiere, problemi economici e di sussistenza quotidiana accompagnano spesso il percorso dei suoi abitanti, come nel caso della nostra ricerca. In questi contesti i media tradizionali come la televisione e la radio sono presenti quasi in egual misura in tutte le famiglie, l’accesso alla rete e quindi l’utilizzo di computer e smartphone un po’ meno per i disagi economici evidenti. Anche in questo caso, la difficoltà nel poter avere un computer o cellulare di ultima generazione per alcuni giovani, può determinare una forma di digital divide, una distanza sociale tra chi può permetterselo e chi non. Laddove invece i giovani hanno la possibilità di avere accesso alla rete, Internet e nello specifico il Social network, diventa per molti di loro un’opportunità per accrescere le relazioni, ma anche un modo per imparare ad inserirsi in un dibattito, che non rimane nascosto, ma evidente agli occhi di tutti i naviganti. La rete, potremmo dire, nel caso di quei giovani che vivono in contesti di marginalità o anche di “periferia sociale,” perché cresciuti in spazi urbani segnati dalla povertà o dalla malavita, svolge un ruolo di alfabetizzazione, nel passato svolto dalla televisione. Attraverso il web, molti di loro, seppur con difficoltà linguistiche o anche inflessioni dialettali, si sforzano, quando non hanno avuto modo di raggiungere un determinato livello di scolarizzazione, di imparare a scrivere, esponendosi spesso anche al giudizio di chi legge i loro pensieri e poi li commenta. A tal riguardo Boccia Artieri sottolinea: “l’avvento contemporaneo di una cultura pubblica connessa mostra come le forme di produzione culturale individuale e interpersonale abbiano la possibilità di uscire da una condizione di marginalità per ridiventare un linguaggio pubblico, un linguaggio che partendo dal basso è capace di miscelarsi, stimolare, convergere o divergere con i linguaggi di massa. […] Si produce in tal senso un ambiente mediale dove forme di rappresentazione costruite professionalmente e dall’esterno (quelle mainstream) e forme di auto rappresentazione (quelle veicolate dai media non mainstream) convivono, in cui linguaggi di massa dai quali siamo stati costruiti come mo all’avatar e ritorno. Realtà e dimensioni emergenti, Verona, QuiEdit, 2010, vol. 1., p. 26.
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pubblici/consumatori entrano in risonanza con pratiche individuali e collettive ad alta densità, in cui senso macro (sistemico) e micro (individuale) coabitano in modi inediti”7. Si viene a creare quindi una miscellanea di linguaggi che provengono da giovani, i cui vissuti biografici hanno una determinata influenza sul modo in cui si espongono, sulle reazioni a determinate battute e la rete diviene in molti casi luogo di scambio verbale acceso, oppure possibilità per costruire un dialogo nonostante le differenze linguistiche e culturali. Linguaggio, relazioni, condivisione, diventano le principali chiavi di lettura per analizzare da vicino il rapporto dei giovani con la rete. “Il Social Network diviene uno specchio sociale in cui le trasformazioni culturali della società non appaiono estranee alle dinamiche interne della rete in questione, ma risentono sia del mutamento in atto, così come del nascere di nuovi linguaggi. La riprova di questa corrispondenza tra i due scenari (reale/social network) può essere letta facendo un confronto con la quotidianità in cui sempre più frequentemente si adoperano termini che ormai sono utilizzati nella rete, influenzando tanto il linguaggio scritto, quanto quello della conversazione orale. In questo modo si viene a creare un nuovo dizionario comunicativo anche nei termini utilizzati che influenzano il modo di comunicare dei singoli individui nella vita quotidiana, dando vita quindi ad una nuova pragmatica oltre che semantica. Rispetto ad altri ambienti virtuali, in cui le appartenenze e le interazioni non risentono delle inferenze provenienti dal mondo reale – (come nel caso del mondo virtuale di Second Life8) – nel Social Network le dinamiche comunicative e gli approcci relazionali risultano essere condizionati dagli usi e dai costumi differenti che nascono nel mondo reale, non esente da forme stereotipate”9. Un giovane infatti che comunica all’interno di nuovi spazi del web, non è esente dall’essere giudicato e stigmatizzato. L’uso di un determinato linguaggio, gli errori di ortografia e di inflessioni dialettali, possono infatti essere solo alcuni degli esempi che portano i
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G. Boccia Artieri, SuperNetwork: quando le vite sono connesse, in L. Mazzoli, (a cura di), Network Effect. Quando la rete diventa pop, Milano, Ed. Codice, 2009, p. 31. Cfr. P. Canestrari, A. Romeo, (a cura di), Second Life. Oltre la realtà il virtuale, Milano, Lupetti, 2008. A. Romeo, op. cit., p. 128.
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giovani a entrare a far parte di una condizione di “secondo livello”. Anche le esperienze giovanili narrate all’interno della rete, possono diventare il biglietto da visita per chi, giovane come loro, ha vissuto però all’interno di una famiglia stabile, ha avuto modo di formarsi, andare a scuola come tutti i comuni giovani. Se Bauman10 affrontando il concetto di liquidità, sottolinea che la vita scorre senza che ce ne rendiamo conto, che le nostre esperienze entrano a far parte di un frame che alla maniera goffmaniana si incorniciano e reincorniciano continuamente, questo discorso per la condizione giovanile diventa più complesso, essendo il giovane una categoria in divenire, uno stato momentaneo, parte di una questione sempre aperta e irrisolta. La comunicazione come processo è talmente facile se vogliamo ad aprirsi, ma al tempo stesso, difficile è che rimanga in vita se gli individui coinvolti nello scambio verbale o gestuale che sia, non condividono codici linguistici e situazioni. Spesso infatti si suole paragonare la comunicazione quasi a un gioco, costituito da ruoli e da regole da rispettare, affinché possa avere un inizio e proseguire per una certa durata di tempo. I giovani dal canto loro, adottano un tipo di comunicazione molto veloce, diretta e talvolta fanno uso di simboli di abbreviazione, che hanno iniziato a utilizzare anche fuori dai circuiti virtuali nella vita di ogni giorno, quasi creando una combinazione a metà strada tra linguaggio Sms e mondo virtuale. Meyrowitz11, analizzando in che modo i media elettronici12 hanno una loro influenza sui comportamenti sociali, richiama al fatto che le 10 11 12
Z. Bauman, Modernità liquida, Bari, Laterza, 2002. J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo, Bologna, Baskerville, 1995. Sulla categoria logistica e temporale dei media, Meyrowitz, propone uno studio, che riletto oggi in un’epoca in cui Facebook, Flick, Twitter spopolano, è interessante. Lo studioso infatti aveva già anticipato che le nuove tecnologie hanno contribuito ad eliminare l’esistenza dello spazio fisico, trasformando le nostre relazioni sociali e spaziali. I suoi interessi chiaramente rivolti ai media di prima generazione, hanno avuto il merito di sviluppare alcune motivazioni oggi utili e chiarificatrici ai new media, ossia: la nascita di nuovi media genera nuove situazioni, rende sottile, sennonché sfumata la linea di confine tra lo spazio pubblico e quello privato; incrementa la nascita di nuovi codici di accesso ai media. Quest’ultima motivazione diviene importante quando i media con cui ci rapportiamo non sono esclusivamente stampa, radio, tv e cinema, ma anche quelli che si fondano sull’interazione, partecipazione e condivisione attiva, che genera nuove forme di socialità.
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tecnologie hanno annullato per molte situazioni il concetto di spazio fisico. Il telefono, la televisione conducono l’individuo dentro il contesto dell’azione, anche se non si è mai stati in quel posto e vissuto una determinata esperienza. I media, nell’analisi dello studioso, ci portano se vogliamo per mano e ci fanno diventare protagonisti di un vissuto, anche se non siamo mai stati sulla scena. Analogo per certi aspetti allo studio di Meyrowitz è quanto sottolinea Rheingold13, quando analizzando l’uso del cellulare da parte dei giovani giapponesi, afferma che il cellulare, rispetto al telefono di casa controllato dai genitori, è un nuovo “spazio” d’incontro per i ragazzi, che possono utilizzare un linguaggio proprio attraverso gli Sms e darsi appuntamento anche se non vivono direttamente l’esperienza in un posto specifico. Oggi, quanto accadeva attraverso gli Sms, avviene in maniera più estesa, attraverso i messaggi inviati su Facebook, o attraverso WhatsApp14. Il giovane dell’epoca digitale, oltre a vivere le sue esperienze attraverso la frequentazione dei Social network più comuni come Facebook e Twitter, rende visibile il suo vissuto anche attraverso la fotografia. Se con Facebook, molti di loro rendono partecipe il mondo amicale della rete, di ciò che fanno quotidianamente, oggi c’è un ulteriore spazio virtuale a renderli oltre che protagonisti del vissuto fotografato, anche creativi nelle modifiche che apportano alle loro foto: si tratta di Instagramm. Quest’ulteriore Social media, insieme ai più comuni da loro utilizzati, crea situazioni in alcuni momenti quasi cinematografiche, dove il vissuto quotidiano poi inserito su Facebook, diventa un’istantanea che viene vissuta nel momento stesso in cui l’azione è esperita. Immaginiamo invece solo per un momento il significato della fotografia per i nostri nonni; si trattava di un momento quasi celebrativo in cui si immortalavano momenti familiari significativi, dal battesimo al matrimonio, che però venivano visti in tempi più lontani dallo scatto, visti i tempi e strumenti di produzione del passato. Torna alla memoria quanto sottolineava Benjamin15 sulla prima foto13 14 15
H. Rheingold, Smart mobs, Milano, Raffaello Cortina, 2002. Applicazione per Smartphone, che consente di inviare gratuitamente messaggi attraverso un collegamento internet. Antonio Rafele sottolinea sulla fotografia analizzata da Benjamin, che “presentandosi come primo medium, la fotografia mette in atto scenari, si-
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grafia, intesa come “incontro tra macchina e uomo”16. Nell’epoca dei Social media, il concetto e la funzione di fotografia appaiono ribaltate, frutto di un processo di digitalizzazione, che ha trasformato luoghi, modi e tempi di realizzazione e fruizione. I giovani dal canto loro partecipano attivamente a questo processo di digitalizzazione e di vivere il vissuto fotografato, vivono e comunicano le loro emozioni attraverso i media di nuova generazione, divenendo essi stessi i comunicatori privilegiati. Basta pensare al modo in cui buona parte di loro utilizzi Social network come diari personali, oppure costruendo propri blog, che diventano veri e propri spaccati di un vissuto sociale, fatto di relazioni, problemi, sogni e incertezze, da condividere con i propri contatti e followers. 3. Raccontare, raccontarsi. Storie di vita giovanili on line Ormai da alcuni anni il blog è diventato per molti giovani, una comunità, il cui significato non è poi così recente, ma richiama un’analisi di un tema caro agli studi di Rheingold17, ma prima di lui il
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tuazioni, pratiche e credenze direttamente proporzionali alle capacità tecnico-espressive di cui dispone. Allo stesso tempo crea uno scarto rispetto al modello rinascimentale di fruizione legato, da un lato, alle distinzioni tra cultura alta e cultura bassa e, dall’altro, alla concezione dell’opera come esperienza di senso, la cui durata ed esistenza si compivano quindi al di là del fruitore. Con la fotografia è il medium stesso ad attivare contenuti ed organizzazioni sensoriali, e lo fa non come strumento di idee o desideri estrinsechi, ma in virtù delle proprie stesse potenzialità. Da un lato il medium genera abitudini che l’io metabolizza e ripete, dall’altro la sua durata coincide con quella del suo stesso consumo. Il fruitore diventa un’articolazione organica del medium perché solo attraverso la ricezione e l’uso questo esiste o vive.” (A. Rafele, Figure della moda. Metropoli e riflessione mediologica tra ottocento e novecento, Napoli, Liguori, 2010, p. 46). W. Benjamin, I passeges di Parigi, Torino, Einaudi, 2002, p. 751. Per Rheingold le comunità virtuali sono “nuclei sociali che nascono nella rete quando alcune persone partecipano costantemente a dibattiti pubblici e intessono relazioni interpersonali nel Cyberspazio, inteso come spazio concettuale in cui le parole, le relazioni umane, i dati, la ricchezza e il potere vengono espressi servendosi della telematica.” (H. Rheingold, Comunità virtuali. Parlare incontrarsi, vivere nel ciberspazio, Milano, Sperling & Kupfer Editori, p. 333). La prima comunità virtuale per eccellenza è considerata The WELL, nata nel 1985 a opera di Stewart Brend e Larry Brilliant, con lo scopo di co-
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concetto è stato ampiamente trattato dai sociologi classici e oggi continua a essere di interesse anche se sotto diversi punti di vista. Ferdinand Töennies per primo nel 1887 propose la differenza tra Gemeinshaft (Comunità) e Gesellschaft (Società), dove la comunità è di natura primitiva e fondata su vincoli di parentela come quelli della famiglia, del villaggio e della tribù, la società si fonda invece su una volontà di tipo razionale. La società è infatti nelle parole dello studioso: “costituita da un gruppo di uomini i quali, vivendo e dimorando, come nella comunità, pacificamente gli uni accanto agli altri, non sono legati organicamente, bensì sono organicamente separati; mentre, nella comunità essi restano legati malgrado ogni separazione, essi sono, nella società, separati malgrado ogni legame”18. La definizione proposta da Töennies e poi rielaborata da molti studiosi contemporanei sul mondo digitale, mostra come di fatto la comunità sia uno spazio in cui prevale una condivisione di interessi, ma anche l’intenzione a voler intervenire in un dibattito che tra i giovani digitali, non è mai lasciato morire, ma viene alimentato da nuovi stimoli, battute, esperienze, che costituiscono vere e proprie storie di vita alla portata di tutti nello spazio digitale. In merito all’utilizzo di Facebook da parte di molti giovani, è utile richiamare quanto sottolinea Giaccardi, quando afferma che: “l’ingresso in Facebook svolge infatti, per molti, la funzione di rito di passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta (e traduce la volontà di avere un maggiore controllo sulla propria identità sociale), o dallo spazio ristretto degli amici intimi a uno spazio pubblico allargato, spesso a seguito di una svolta esistenziale (come l’accesso all’università). È una forma digitale di accompagnamento sociale del
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struire una bacheca dove poter scambiare messaggi tra utenti su temi di diverso tipo. Rheingold evidenziò che inizialmente le comunità virtuali erano utilizzate solo in ambito accademico, erano quindi i docenti che contribuivano a migliorarla usandola frequentemente. Con il passar del tempo, con l’aumento di utenti di Internet, ci fu un incremento anche delle comunità virtuali che iniziarono a convivere tra di loro arricchendosi di contenuti di utenti, che provenendo da diversi contesti culturali le rendevano sempre più nuove e diverse. F. Töennies, Comunità e Società, Milano, Ed. Comunità, 1963, p. 39.
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cambiamento, nella delicata fase in cui, soprattutto in assenza di riferimenti forti, diventa facile perdersi”19. La rete e nello specifico il Social network, accompagna molti giovani lungo le tappe più significative del loro vissuto, ogni loro esperienza, per chi ne fa uso con una certa frequenza, sembra che lasci un segno nella rete. Diviene uno spazio abitato20 dove il confronto tra giovani non si esaurisce solamente nelle dinamiche interne alla rete, ma viene trasferito anche nelle pratiche offline della vita quotidiana e viceversa un confronto che inizia nel reale, viene trasferito frequentemente nella rete o vissuto nelle ore successive attraverso messaggistica di WhatsApp o Facebook. “[…] I nuovi ambienti di comunicazione mettono a disposizione un apparato meta comunicativo completamente diverso rispetto a quello che sperimentiamo nella comunicazione faccia a faccia, […] il Social network21 non ricostruisce solo una singola conversazione/rapporto, ma tende a ricostruire il nostro contesto in modo assai completo e dettagliato; tende a riportare la nostra vita nell’ambiente digitale: i nostri dati personali, le foto dell’ultimo weekend, le nostre idee politiche, i nostri luoghi di divertimento preferiti. Questa traslazione di mondi è operata da noi secondo l’idea che vogliamo dare di noi e, complementarmente, secondo l’idea che gli altri hanno di noi.”22 Da questo punto di vista ritorna nuovamente il concetto che abbiamo già sviluppato, ossia l’identità, considerata in questo caso in una prospettiva virtuale. Identità,23 che i giovani, nel Social network in particolar modo, 19 20 21 22 23
C. Giaccardi, (a cura di) Abitanti della rete. Giovani, relazioni e affetti nell’epoca digitale, Milano, Vita e Pensiero, 2010, pp. 24-25. Cfr. A. Romeo, Lo spazio abitato. Scenario e tecniche della comunicazione in rete, Milano, Paoline, 2010. Corsivo mio. L. Mazzoli, op. cit. p. 14. La rete diventa uno spazio che fa da collante tra l’individualismo e la società, che si presenta agli individui come un’ organizzazione complessa, dove la comunicazione alla maniera di McQuail organizza per gradi la vita collettiva in maniera piramidale, garantendo lo sviluppo di una comunicazione personale ed interpersonale e dove i mezzi di comunicazione, tradizionali e “nuovi” hanno il compito da un lato di trasmettere messaggi, fruiti da un pubblico, dall’altro partecipano alla vita collettiva, integrandosi a pieno titolo nella vita personale di ogni soggetto. Ciò avviene in maniera forse più forte con i “New media”, dove prevalgono da un lato l’effetto virale della comunicazione web, dall’altro un Embedding, ossia l’imposizione e la presenza nella vita di ognuno.”
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presentano e costruiscono a seconda del loro vissuto, delle esperienze che hanno archiviato fino a quel momento, del contesto in cui sono cresciuti e dei valori che gli sono stati trasmessi. Negli studi sulla rete talvolta la variabile geografica viene utilizzata non sempre in maniera costante proprio perché i media digitali, rispetto ai media tradizionali, consentono un accesso illimitato a prescindere dallo spazio in cui ci si trova. Ciò che serve nel loro caso, è un dispositivo e una connessione alla rete. L’uso di questa variabile, può però essere utile per proporre un’analisi diversa: ossia in che modo la frequentazione di certi quartieri o città, di determinati gruppi amicali e abitudini locali, può influenzare per esempio i giovani nel momento in cui costruiscono un profilo virtuale e quindi fanno vedere agli altri “chi sono” o quantomeno come vorrebbero essere visti dagli altri sulla rete. Come abbiamo avuto modo di sviluppare, non sempre però i giovani che vivono in determinati contesti geografici hanno la possibilità di accesso alla rete, per le condizioni economiche in cui versano, ma laddove invece hanno accesso alla rete e la possibilità di utilizzare uno smartphone o un computer, la variabile geografica e il nucleo familiare di provenienza, hanno una loro influenza e diventano da un lato opportunità di relazione ma anche di alfabetizzazione, come avremo modo di leggere nelle storie dei giovani della nostra ricerca. Il giovane da sempre ha affidato alla scrittura i suoi pensieri attraverso appunti, diari, poesie, che richiamano momenti particolari della propria vita. Affettività, relazioni ed esperienze particolari talvolta abbondano su taccuini, quaderni e muri delle città, dove i giovani trovano sfogo e ascolto, agli occhi in quest’ultimo caso degli attenti osservatori, talvolta però incapaci di comprendere il loro linguaggio o il filo conduttore che lega i loro pensieri. In questa nuova visione di una società che sempre più appare coinvolta nella rete, diventa necessario comprendere non tanto il tempo trascorso dai giovani nella rete in termini numerici e gli spazi occupati, ma come lo spazio e il tempo della rete si integrano con gli altri mezzi di comunicazione, come cambia quindi la figura dell’individuo e del comunicatore nella galassia della rete. Bisogna quindi guardare alla rete legata all’individualismo, che è divenuto “un modello sociale non una raccolta di individui isolati”24, un indi24
M. Castells, cit. in C. Bordoni, L’identità perduta, Napoli, Liguori, 2010, p. 129.
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vidualismo che può a volte essere scambiato in rete come una sostituzione della vita reale, “una sorta di spettacolarizzazione virtuale che ha, in più rispetto alla televisione il pregio di essere costantemente disponibile”25. La rete non rimane quindi un non – luogo astratto e immaginario, ma è costituita da relazioni tra luoghi fisici distanti che si mettono in comunicazione, è fatta di persone che la abitano e che la mantengono in vita. La scrittura e la creatività giovanile abbondano tanto sulla rete, quanto nei luoghi fisici. Basta osservare le pareti di città o quartieri non solo di periferia, ma anche del centro, i banchi di scuola, per rendersi conto di come la voce giovanile sia presente. Frasi come “Sei la mia vita” o “Non ti dimenticherò mai,” sono solo alcuni degli esempi di questa tipologia di pensiero giovanile. Ma non solo, i più grandi poeti e letterati, hanno lasciato alla nostra memoria, i loro taccuini e diari, oggi considerati pezzi di vissuto storico in un’epoca in continua evoluzione, dove talvolta la memoria del libro impolverato sembra essere passata di moda o obsoleta in un’epoca digitalizzata, dove Internet e le nuove tecnologie dominano lo scenario. C’è nel mondo giovanile, un ritorno a quella voglia e necessità di comunicare e scrivere, anche se in forme differenti rispetto al passato. Il Social network è uno di questi esempi, accanto a esso anche il blog. Se riprendiamo la definizione di blog fornita da Rebecca Blood, l’autrice ce li presenta in questo modo: “Alcuni forniscono descrizioni concise di link accuratamente selezionati. Alcuni contengono ampi commenti punteggiati qua e là da collegamenti alle notizie del giorno. Altri consistono di un’infinità di esternazioni sulla giornata di chi scrive. I link, quando ci sono, portano ad altri siti personali analoghi. Alcuni sono politici. Altri intellettuali. Altri ancora sono comici. Alcuni sono concentrati su un argomento specifico. Alcuni sono eccentrici. La maggior parte è senza fini di lucro, e tutti sono coinvolti appassionatamente dall’argomento di cui parlano26”. Il blog diventa il nuovo diario della modernità, un diario non più intimo e privato come avveniva nel passato, ma aperto e condiviso. Il tema della condivisione risulta essere infatti privilegiato all’interno delle dinamiche comunicative della rete, dove i giovani considerano la condivisione, principale chiave di svolta per aprire un dialogo, talvolta favorito dalla distanza fisica, dove la rete diviene 25 26
C. Bordoni, op. cit., p.130. R. Blood, Weblog il tuo diario online, Mondadori, Milano, 2002, pp. 1-2.
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terreno più fertile per affrontare questioni che in presenza risulterebbe più complesso introdurre e sviluppare. I giovani quindi alla luce degli studi empirici condotti negli ultimi anni e dalla nostra riflessione, emergono sempre più presenti nel mondo digitale, protagonisti e comunicatori tanto del loro vissuto negli spazi resi disponibili della rete, quanto produttori oltre che consumatori di informazione, musica, immagini, mettendo a frutto le proprie competenze e stimolando la loro creatività. I giovani hanno creato all’interno della rete nuove forme di narrazione, si raccontano e raccontano il vissuto intorno a loro, le loro amicizie, le loro esperienze, a volte diventano luoghi di sfogo dell’ego, come accade spesso in fatti di cronaca, dove molti giovani affidano ai Social network frasi che diventano oggetto di discussione, prima di un atto irreparabile, com’ è accaduto nel caso di giovani che si sono tolti la vita e dove la rete è divenuto luogo dove poter lasciare le loro ultime riflessioni e sofferenze. La rete è anche il luogo dove i giovani trovano spazio per condividere attività di svago e di impegno sociale. Sono numerose ormai le pagine di Social network e blog in cui si evince un’attenzione alle attività di volontariato e di condanna di azioni violente e criminali, promosse dai giovani, che trovano in esse coinvolgimento e azione diretta, trasferita in opportunità d’incontro come le manifestazioni Flash Mob27, che vedono una presenza di giovani superiore agli adulti, a favore di una determinata causa.
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Nel suo significato il termine che tradotto in italiano, significa veloce folla, sta ad indicare l’incontro di una folla, che si da appuntamento attraverso la rete per incontrarsi in un luogo fisico a favore di una determinata causa. Sono molto diffusi i Flash mob organizzati dai giovani.
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V I GIOVANI “SOCIALMENTE PERICOLOSI” DEI QUARTIERI SPAGNOLI Il silenzio, quando non è scelto, è pieno di echi sinistri, tracce di richiami falliti, di grida soffocate, di segnali di fumo che il vento ha disperso. (Dacia Maraini)
1. Introduzione: obiettivi e metodologia della ricerca Erving Goffman scriveva in uno dei suoi volumi più noti, “La vita quotidiana come rappresentazione”, che: “probabilmente non è un caso che la parola persona nel suo significato originale, volesse dire maschera. Questo implica il riconoscimento del fatto che ognuno sempre e dappertutto, più o meno coscientemente, impersona una parte… È in questi ruoli che ci conosciamo gli uni gli altri; è in questi ruoli che conosciamo noi stessi”1. Quanto lo studioso canadese scriveva, lui, che è considerato il teorico della concezione drammaturgica del vivere quotidiano, ci sembra sia uno dei modi più adeguati per introdurre il lavoro di ricerca all’interno dei Quartieri Spagnoli di Napoli. È proprio infatti all’interno di questi quartieri, spesso noti all’immaginario collettivo, come spazi di malavita, sede privilegiata di clan camorristici e spaccio di sostanze stupefacenti, che si snoda la nostra ricerca. Una ricerca di tipo qualitativo, attraverso le storie di vita di cinque giovani di età compresa tra i 20 e i 33 anni, che vivono all’interno dei quartieri. Qui sono nati e qui continuano ad affrontare quotidianamente l’evolversi della loro condizione giovanile. La scelta di studiare i Quartieri Spagnoli, rispetto ad altri contesti urbani della città di Napoli, è legata a un progetto di crescita educativa in cui i giovani intervistati, sono coinvolti pienamente all’interno di un’associazione
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E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1969, p. 31.
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che si chiama “Socialmente pericolosi”, ideata da Fabio Venditti, insieme all’ergastolano Mario Savio. Il nome stesso utilizzato per la creazione di quest’associazione, è infatti, il risultato potremmo dire, del suo progetto formativo: costituire un gruppo di giovani, che non si piega alle dinamiche della malavita, iniziando a produrre prodotti cinematografici che raccontano il loro vissuto quotidiano, le esperienze pregresse della loro vita da bambini e poi giovani cresciuti, al margine di una città, dentro un quartiere che diventa quasi una sorta di ghetto2. Un ghetto dove è più facile reagire con la violenza, che non con la legalità e la cultura. Per analizzare infatti la condizione giovanile degli intervistati, il concetto di spazio diventa rilevante, ai fini della ricerca in oggetto. Lo spazio fisico, del quartiere in questo caso, risulta la chiave di lettura del modus vivendi e di costruire le relazioni sociali dei suoi giovani. Al concetto di relazione, si aggiunge anche quello di distanza sociale, tra i membri di un determinato gruppo o quartiere rispetto ad un altro. In un recente lavoro sulla distanza sociale in alcune aree urbane italiane, quest’ultima è stata definita come: “l’indisponibilità e la chiusura relazionale di intensità variabile di un soggetto nei confronti di altri percepiti e riconosciuti come differenti sulla base della loro riconducibilità a categorie sociali”3. Il giovane, come abbiamo avuto modo di sviluppare nei precedenti capitoli, vive a seconda dei contesti urbani in cui è cresciuto, 2
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“Il ghetto è la forma tipica di organizzazione sociale della prima generazione di immigrati i quali non possono superare di colpo la distanza culturale tra il vecchio e il Nuovo mondo, tra vita rurale e vita urbana, tra società feudale e società industriale. L’impossibilità di comunicare con la popolazione insediatasi precedentemente, la necessità di alloggiare dove gli affitti sono più bassi, l’esigenza di trovare un minimo di struttura organizzativa che indirizzi verso le opportunità di lavoro disponibili, il bisogno di mantenere legami di tipo affettivo e comunitario che aiutino a superare lo choc psicologico dell’emigrazione – tutti questi fattori spingono alla formazione di ghetti di immigrati e contribuiscono al loro mantenimento. Questo fenomeno dura finchè il processo di assimilazione nella nuova società non ha raggiunto un certo livello critico oltre il quale il ghetto decade o diventa un ostacolo al compimento del processo. In questo senso il ghetto è una forma di organizzazione sociale temporanea, una tappa intermedia nel processo di migrazione e assimilazione”. (A. Cavalli, Introduzione a Louis Wirth, Il ghetto, Milano, Ed. di Comunità, 1968, p. XVI). F. Lo Verde, F. M. Introini, in V. Cesareo, (a cura di), La distanza sociale. Una ricerca nelle aree urbane italiane, Milano, Franco Angeli, 2007, p. 63.
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un rapporto differente con il proprio quartiere, con le piazzette, e con i luoghi di aggregazione. Ogni spazio, dai marciapiedi alle panchine di una via, diventano per lui la fotografia di un ricordo, talvolta, come accade ai nostri intervistati, caratterizzato però da eventi poco piacevoli alla memoria. La ricerca in oggetto segue alcune tappe specifiche: dopo una prima fase di osservazione dei Quartieri Spagnoli, contestualmente sono state reperite informazioni storiche attraverso la consultazione di dati provenienti dalla Municipalità, in merito al numero degli abitanti residenti. I dati disponibili consultati sono riferiti all’ultimo Censimento. Il reperimento di queste informazioni, per quanto non influenzi il nostro lavoro di ricerca qualitativa, ci sembra sia utile per ricostruire la descrizione di un quartiere e le sue dinamiche interne. Dopo questa prima fase, si è proceduto a chiedere disponibilità ai singoli giovani, per incontri individuali, che si sono tenuti nel mese di luglio nella sede dell’associazione “Socialmente pericolosi,” che ha sede proprio dentro i Quartieri Spagnoli. Ognuno degli intervistati ha dimostrato da subito la piena intenzione a raccontare la propria esperienza di vita. La presenza sul campo ha da un lato offerto la possibilità di vivere da vicino nel quartiere in cui questi giovani vivono tuttora, dove hanno vissuto esperienze tra loro differenti, a metà tra devianza e voglia di riscatto; dall’altro ha consentito di raccogliere quante più informazioni necessarie per ricostruire il loro tessuto familiare, il rapporto con la scuola e le istituzioni. Al tempo stesso, la possibilità di osservarli anche fuori dall’incontro fissato, ha reso più lucido il loro modo di vivere, le loro abitudini e stili di vita. Entrare a contatto con quella piazza “Largo baracche” dove loro solitamente s’incontrano, percorrere interamente via Monte Calvario, con i vari vicoli e i suoi abitanti, diviene fin dall’inizio una premessa indispensabile al lavoro di ricerca. Uno studio caratterizzato anche da un’osservazione partecipante, che ha consentito durante l’intera permanenza, un modo per sviluppare quei concetti che all’inizio del nostro percorso d’indagine erano sconosciuti o apparentemente lontani da un’analisi sociologica. Se è vero che da parte degli intervistati, si è avuta disponibilità all’incontro e a raccontare il proprio vissuto biografico, durante i colloqui non sono mancati in alcune storie, momenti di difficoltà emotiva legati a vicende forti del proprio passato.
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Dopo una prima fase di studio dei quartieri, il momento più complesso è stato la scelta di alcune linee guida su cui soffermare gli incontri; quali domande proporre a giovani che per la prima volta si sottoponevano a un’analisi sociale; in quale ordine porre le domande e stabilire con loro un contatto e una situazione, che li conducesse a narrare la loro vita, presentando le loro storie, audioregistrate e poi trascritte. 2. I Quartieri Spagnoli: descrizione e stili di vita Percorrendo la via Toledo da tutti conosciuta come via Roma la strada del lusso della città di Napoli, apparentemente nascosta agli occhi dei passanti e dei turisti, fissando lo sguardo sulle gradinate e iniziando a salire tra le palazzine della Napoli antica, comincia via Montecalvario. Da questo punto inizia quella zona della seconda Municipalità di Napoli, meglio conosciuta come i Quartieri Spagnoli. Secondo i dati statistici4 dell’ultimo Censimento della città di Napoli dell’anno 2000, il quartiere Montecalvario si erge su una superficie di 0,75 Kmq, i maschi residenti sono 10,987, le femmine 11,732, per un totale di 22,719 abitanti5. Prima di percorrere la lunga salita che conduce dentro i quartieri, è come se nulla lasciasse trasparire la vita degli abitanti di questo piccolo villaggio. C’è un sottile confine tra la strada del lusso che invita i turisti a Piazza del Plebiscito e alla Galleria Umberto I. Storicamente i quartieri nascono intorno al XVI secolo per accogliere i militari in attesa di successive destinazioni o per reprimere possibili rivolte nella città partenopea. La struttura di questi quartieri è caratterizzata da molti vicoli, in salita, quasi a voler riproporre la salita di un calvario, come il nome stesso della via principale. Si caratterizza ancora oggi per questi palazzi molto vicini fra loro, dove i panni stesi degli abitanti, fanno da coreografia e li rendono agli occhi del turista, occasione di visita e di curiosità. Durante la salita, fissando lo sguardo verso i palazzi, sugli abitanti affac4 5
Dati presenti sul sito del Comune di Napoli: www.comune.napoli.it Va segnalata inoltre una presenza non indifferente di immigrati e stranieri, che vivono nei quartieri.
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ciati, e sulle donne, sedute davanti all’uscio di casa, si scorgono ancora alcune attività artigianali. Non mancano i bar, i tabaccai e altri negozietti. Non mancano neppure i luoghi di ritrovo come le piccole piazzette, tra cui “Largo Baracche6” e la famosa trattoria, cara ai Napoletani di ogni parte e ai turisti “Da Nennella”. È significativo rileggere quello che Walter Benjamin scriveva di Napoli. “L’architettura è porosa quanto questa pietra. Costruzione e azione si compenetrano in cortili, arcate e scale. Ovunque viene mantenuto dello spazio idoneo a diventare teatro di nuove impreviste circostanze. Si evita ciò che è definitivo, formato. Nessuna situazione appare come essa è, pensata per sempre, nessuna forma dichiara il suo così e non diversamente. [...] Per orientarsi, nessuno usa i numeri civici. I punti di riferimento sono dati da negozi, fontane e chiese, ma neanche questi sono sempre chiari. [...] Queste vite, mai completamente messe a nudo, ma ancor meno chiuse all’interno dell’oscuro casermone nordico, si precipitano fuori dalle case a pezzi, compiono una svolta ad angolo e scompaiono, per poi prorompere nuovamente. [...] Irresistibilmente il giorno di festa pervade ogni giorno feriale. La porosità è la legge che questa vita inesauribilmente fa riscoprire. [...] Di giorno e di notte risplendono questi padiglioni contenenti i pallidi succhi aromatici attraverso i quali anche la lingua apprende cosa significa porosità. La vita privata è frammentaria, porosa e discontinua. [...] Le azioni e i comportamenti privati sono inondati a flussi di vita comunitaria. L’esistere, che per l’europeo del Nord rappresenta la più privata delle faccende, è qui, come nel kraal degli ottentotti, una questione collettiva. [...] Come l’ambiente domestico si ricrea sulla strada, con sedie focolare e altare, così, solo in maniera più chiassosa la strada penetra all’interno delle case.[...] Anche qui compenetrazione di giorno e notte, rumori e silenzio, luce esterna e oscurità interna, di strada e di casa. [...] Veri laboratori di questo grande processo di compenetrazione sono i caffè. La vita in essi non può sedersi per ristagnare”7. I quartieri agli occhi dell’osservatore, diventano una piccola comunità, che si caratterizza per usanze, stili di vita che si prestano a 6 7
Largo Baracche, è anche il titolo di un film ambientato nei Quartieri Spagnoli, per la regia di Gaetano di Vaio, ex spacciatore e malavitoso che ha pubblicato un libro dal titolo Non mi avrete mai, Milano, Einaudi, 2013. W. Benjamin, Immagini di città, Torino, Einaudi, 2007, pp. 6-15.
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un’analisi sociologica, dove si confrontano generazioni, con bassi livelli di scolarizzazione e giovani che con difficoltà la abitano. Suoni, voci di quartiere movimentano le strade a tutte le ore, fruttivendoli, venditori ambulanti di pagnottelle popolano gli angoli, un tempo scorci della storia del cinema italiano. Un quartiere, che fu fonte d’ispirazione per un maestro del teatro come Eduardo De Filippo e numerosi registi e scrittori. Un quartiere fatto di suoni, dove il rumore è quasi assente, infatti possiamo affermare come sottolinea Walter Benjamin che “la città è uniforme soltanto in apparenza. Perfino il suo nome assume suoni differenti nei diversi quartieri […] il confine passa attraverso le strade”.8 Lungo il percorso è impossibile non notare la presenza di “altarini votivi” a volte accanto al “basso”9 del quartiere, (in napoletano o’vascio), cioè piccole abitazioni al piano terra, il cui ingresso è proprio sulla strada, a volte invece molto grandi, coperti di fiori e illuminati di notte. Le donne si riuniscono non solo davanti l’uscio di casa, ma anche nelle proprie abitazioni a giocare a carte, oltre che a osservare dalle finestre i passanti per il quartiere. È come se ogni spazio dei Quartieri Spagnoli, fosse caratterizzato da un colore, da un’auto parcheggiata sempre nello stesso posto, da bambini che giocano forse in maniera insolita, rispetto a quelli di altri quartieri. Tra le usanze, potremmo dire anzi tra i rituali dei quartieri, c’è n’è uno definito “E’ cippo di S. Antonio” (il Ceppo di S. Antonio). Si tratta di una ricorrenza che cade il 17 gennaio e che vede la partecipazione dei giovani, i quali vanno alla ricerca degli abeti per creare un falò. Si tratta di un momento che vede il coinvolgimento del quartiere; le fiamme talvolta negli anni hanno rischiato di inondare i palazzi vicini. Sembra alquanto difficile immaginare che in una realtà come questa possa attuarsi un tale rituale10, che segna per così dire una ri8 9 10
W. Benjamin, I passages di Parigi, Torino, Einaudi, 2002, p. 94. Cfr. L. Argiulo, I Vicoli di Napoli, Milano, Newton & Compton Editori, 2004. Il rituale è oggetto di studio soprattutto dell’antropologia culturale, “per estensione esso designa tutti i comportamenti stereotipati, ripetitivi e compulsivi (tra gli animali si osservano riti di seduzione, di sottomissione, di marcatura del territorio). Il rito include giochi di ruolo, forme di comunicazione, sequenze di azioni, e anche mezzi reali e simbolici legati a
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valità tra i vari gruppi giovanili che fanno a gara a chi realizza il ceppo più bello. All’estremità del ceppo, viene posto un pupazzo che simboleggia S. Antonio, in questo modo si brucia tutto ciò che di vecchio c’è. A fare da cornice al ceppo, i giovani che ballano e offrono carne e altri alimenti a chi affolla la via. Tutto questo dentro il quartiere, al margine, al confine di una città i cui usi mutano già a distanza di pochi chilometri, se non addirittura di pochi metri. “Secondo Benjamin Napoli era unità di uomini e pietre, e nessuna forma (sia essa sociale o architettonica) era pensata per sempre. Napoli è soggetta a un continuo divenire, un transitare da uno stato all’altro che è proprio il contrario del tutto concluso di Berlino la città caserma”11. Camminare per i Quartieri spagnoli è, come sottolinea Benjamin, entrare dentro una dimensione quasi disconnessa con il resto della città, dove a renderli tali, sono i colori, le luci, i suoni anche gli stessi panni stesi, che li rendono particolari nel loro genere. 3. La paranza e a’cazzimma Nei vissuti dei giovani dei quartieri, emerge l’utilizzo di un linguaggio, per certi aspetti di “nicchia”, utilizzato dai membri del gruppo di appartenenza. Si tratta non solo di vocaboli tipici del contesto napoletano, ma al tempo stesso espressione di usanze, di un modus vivendi, che affonda le sue basi nella famiglia in cui si cresce e dove la strada diventa non un luogo passeggero e di transito, ma uno spazio in cui si passa più tempo, dove si gioca nei primi anni di adolescenza e dove si acquisisce quella maturità talvolta deviante. In strada, tra i vicoli e i vasci, i giovani iniziano a vivere le loro prime esperienze, vivono le diverse tappe della loro socializzazione, un tipo di socializzazione dove le istituzioni primarie della famiglia, scuola e chiesa, in molti loro vissuti, hanno un ruolo secondario se non addirittura assente. La strada diventa non solo uno spazio fisico: le piazzette, i vicoli, gli altarini ad ogni angolo, fanno da cornice a
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valori fondamentali che la comunità cerca di tradurre in comportamenti adeguati.”(C. Rivière, Introduzione all’antropologia, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 151-152). M. Serrao, Il ventre di Napoli, Milano, Rizzoli, 2011, p.12.
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un processo di crescita segnato dalla mancanza, come accade spesso nelle storie dei nostri giovani, di una famiglia solida in grado di sostenere i figli nel loro percorso evolutivo. Anche la scuola non svolge quel ruolo guida, che dovrebbe ricoprire specialmente nei primi anni di un bambino di questi quartieri. Uno degli elementi che caratterizza il racconto biografico dei giovani è la mancanza di un’adeguata formazione. La scuola, per loro, non è quella struttura che li forma per la vita e oltretutto, molti di loro provenendo da famiglie con una bassissima struttura economica, non possono permettersi di frequentarla fuori dai quartieri in cui sono cresciuti. C’è da questo punto di vista quindi, una forma di isolamento condizionato, potremmo dire dalla provenienza familiare di ognuno di loro. I giovani Socialmente pericolosi dei Quartieri Spagnoli si trovano a guardare la scuola non come un luogo in cui poter crescere e imparare per il futuro, ma quasi come una perdita di tempo, che insieme alle difficoltà economiche in cui versano le famiglie, diviene la principale causa dell’abbandono scolastico. Nelle loro storie, è ricorrente leggere che nel momento in cui frequentavano la scuola dell’obbligo, per nessuno di loro prevaleva l’interesse di continuare gli studi, dettato soprattutto dall’ambiente familiare in cui sono cresciuti, dalle notevoli difficoltà economiche dei genitori e talvolta dai problemi che uno dei due poteva avere con la giustizia. La scuola diviene quindi un luogo e una tappa della loro vita vissuta male, viene sostituita dalla strada. Quello che serve in quel momento è “faticà” cioè lavorare, avere soldi in tasca e pesare meno sulle spalle dei propri genitori, quando possono contare sulla presenza di entrambi o quando è la figura materna che deve svolgere anche il ruolo di padre, che sta in carcere o non è presente. Il ruolo della donna e della madre all’interno di questi nuclei familiari, diventa determinante nella gestione della famiglia, nell’accudire i figli anche fino a un’età adulta. Il giovane vivendo all’interno di questi tipi di famiglie, non associa quindi alla scuola quel ruolo e quell’attenzione che merita, anche perché vede nel modello familiare la sua assenza negli anni, crescendo dentro famiglie in cui nessuno o pochi l’hanno frequentata. La mancanza di formazione diventa quindi superflua, insignificante ed ecco che molti di loro l’abbandonano il prima possibile. Si river-
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sano nelle strade vivono nelle “paranze” cioè nelle comitive, all’interno dei loro gruppi di amicizie, gruppi che caratterizzeranno la loro crescita, la formazione dell’identità, l’entrare a far parte o meno di clan malavitosi. La strada alimenta quindi l’abbandono scolastico, l’ignoranza diventa un deterrente alla scelta dell’illegalità da parte di molti giovani che vivono queste condizioni. Così nella “paranza”i giovani si confrontano fuori dalle mura domestiche tra di loro, un confronto che per chi di loro non esce facilmente dai quartieri, diventa una sorta di isolamento dal resto della città di Napoli. I quartieri diventano nella loro esperienza, un villaggio, in cui prendono vita regole e comportamenti il più delle volte dettati dall’ignoranza dei giovani e degli adulti, succubi di chi, con la violenza e l’intimidazione, ogni giorno viene considerata come una persona rispettabile solo perché risolve i problemi con una pistola in mano e non lavorando onestamente. L’ignoranza all’interno dei quartieri garantisce il rispetto da parte di chi vi cresce, verso i boss ma anche verso chi non lavora quotidianamente. Nelle storie dei giovani, emerge che nella cultura del quartiere, è degno di rispetto soprattutto chi non lavora seriamente e con onestà. Se una persona fa anche il più umile dei lavori, viene talvolta considerata in maniera negativa rispetto a chi invece non fa nulla da mattina a sera e si guadagna il pane in maniera non legale. Comportamenti che sono il frutto di un’ignoranza dilagante, causata da condizioni socio-economiche molto complesse da gestire. La vita dei giovani passa dentro la “paranza” sulla strada, tra i vicoli e sui motorini. Molti di loro infatti passano il tempo girando per il quartiere in motorino, anche se il tragitto da percorrere è breve. Un giro in motorino che può durare fino a tarda notte. La vita di un giovane ai Quartieri Spagnoli, segue ritmi costanti quotidiani, dentro una struttura che può essere intesa come un villaggio, oltre il quale si trova via Roma, la via del lusso, dei negozi, la via del passeggio che porta a Piazza del Plebiscito. I giovani napoletani dei quartieri, sviluppano una cazzimma diversa rispetto agli altri loro coetanei di altre parti della città. Vivono inglobati dentro dinamiche che gli vengono tramandate fin dalla nascita. A’ cazzimma di difficile spiegazione, può essere intesa come il comportamento, ciò che si ha dentro e che spinge ognuno di loro a voler realizzare qualcosa. Si può avere a’ cazzimma di imparare un mestiere, così come si può avere a’ cazzimma di rubare. Un comportamento che è il frutto di un vissuto, che cambia a seconda della per-
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sona che si prende in considerazione. A’ cazzimma è diventata per i giovani socialmente pericolosi un corto cinematografico presentato al Giffoni Film festival del 2012, che li vede protagonisti e attori del loro vissuto dentro i Quartieri Spagnoli. Un giovane che vive ai quartieri e che viene assorbito dagli appuntamenti quotidiani con la “paranza” di riferimento si da appuntamento a Largo Baracche, su via Montecalvario, scandisce la sua giornata con incontri su via Roma. C’è un aspetto significativo che va rilevato nella loro quotidianità: il rapporto con altri loro coetanei della città. Talvolta emerge dai loro vissuti, una forma di pregiudizio nei loro confronti, che si lega al semplice fatto di essere cresciuti ai quartieri, a prescindere dalla famiglia o se hanno assunto comportamenti delinquenziali. Il quartiere diventa per molti di loro un biglietto da visita a Napoli in generale, così come in altre città, a cui si aggiunge la difficoltà di esprimersi in un corretto italiano, che provoca atteggiamenti di stigmatizzazione di natura goffmaniana verso molti di loro. 4. La ricerca sul campo lungo via Montecalvario e Largo Baracche I Quartieri Spagnoli per essere studiati vanno osservati, è necessario spendere alcuni momenti per comprendere da vicino gli stili di vita, le dinamiche comunicative dei suoi abitanti e la struttura stessa in cui vivono. Una delle principali tecniche d’indagine della sociologia e dell’antropologia culturale è l’osservazione, gli antropologi si servono di un tipo di osservazione definita partecipante. Si tratta della principale tecnica della ricerca etnografica, che consente al ricercatore di entrare direttamente nel gruppo che gli interessa, un quartiere, un villaggio, ecc., osservando i suoi membri e interagendo con loro. L’osservazione è stata una delle prime tecniche d’indagine utilizzate nella ricerca ai Quartieri Spagnoli ed è risultata essere necessaria intanto per cogliere da vicino il contesto sociale che fa da sfondo alle storie di vita dei giovani Socialmente pericolosi, al tempo stesso per delineare meglio l’impostazione delle domande nei colloqui con ognuno di loro. “Il ricercatore – operando come uno straniero professionista, assiste alla vita e alle attività compiute dai soggetti indagati, con lo scopo di cogliere il loro punto di vista su ciò che accade, attraverso
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l’esperienza personale, le osservazioni e le conversazioni. Nell’insieme, l’etnografia, è, dunque, un metodo che richiede una qualche conoscenza della lingua locale e la disponibilità a trascorrere una notevole quantità di tempo nel luogo di osservazione.12” Questo è stato il percorso intrapreso fin dall’arrivo a via Montecalvario, che segna tanto l’ingresso nei quartieri, quanto l’inizio dell’analisi del contesto della ricerca. Anche se il quartiere, oggetto del nostro lavoro, non si trova in una regione straniera, va segnalato che durante l’osservazione delle dinamiche relazionali dei nostri giovani, così come degli abitanti del quartiere, il dialetto napoletano, da sempre nell’immaginario collettivo definito non come un dialetto ma una lingua, caratterizza diverse loro conversazioni, anche se buona parte delle loro battute ed espressioni, appaiono di facile comprensione a chi ascolta e si abitua dopo una prima fase di inserimento nel gruppo. L’esperienza sul campo avvenuta nel mese di luglio 2013 ai quartieri consente di poter osservare ogni singolo giovane e di conseguenza ogni loro vissuto, inserito in quei luoghi da loro descritti durante gli incontri tenutisi presso la sede dell’associazione Socialmente pericolosi dentro i Quartieri Spagnoli. Non si tratta quindi di una semplice osservazione utile a inquadrare dove vivono, cosa fanno durante il giorno e come si rapportano con il gruppo amicale e familiare, ma consente a chi scrive, di rendersi conto da vicino il susseguire delle loro azioni, delle esperienze vissute quando erano bambini e poi dell’età attuale. Luoghi come gli spazi in cui avviene “E’ Cippo di S. Antonio,” o dove hanno vissuto le loro prime esperienze, cadendo in liti e azioni talvolta malavitose, diventano utili a ricostruire, la trama delle loro esperienze al fine di leggerle non come semplici interviste, ma come storie e vissuti di vita dentro il quartiere in oggetto. Molti di loro fino a poco tempo addietro hanno vissuto una vita dentro le mura del quartiere o al massimo spostandosi in altre zone della città, ma difficilmente se non quasi mai, fuori da Napoli a contatto con altre realtà e confrontandosi con persone di diversa matrice geografica e culturale. Ecco, quindi, che ogni singolo spazio del quartiere per tale ragione, diventa necessario da osservare e da studiare. Largo Baracche è una piccola piazzetta con due sculture, un po’ elevata rispetto al livello della strada, uno spazio di ritrovo per i 12
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giovani, ma anche un luogo di passaggio tra i vasci e vicoli. A fare da colonna sonora al Largo Baracche e ai palazzi che lo circondano, i venditori ambulanti, i motorini, le voci di bambini che giocano tra i palazzi, le donne che conversano da balcone a balcone. A questi elementi si aggiunge l’uso del tradizionale “paniere” per passare o ricevere qualcosa da chi sta sotto casa. Usanza ormai scomparsa in molti spazi urbani, ma ancora presente nei quartieri e nei piccoli paesi, così come l’uso di chiamare la persona che sta in casa con un fischio o un grido. Elementi tipici di un quartiere, dove il tempo a volte sembra essersi fermato, dove le dinamiche e i rituali quotidiani rimangono immutati. Alla prima fase, è seguita un’osservazione partecipante, utile a comprendere da vicino in diversi momenti della giornata, le attività svolte da ognuno di loro, ma è stata anche la possibilità per inserirsi nel loro contesto di vita, entrare attraverso la presentazione del fondatore dell’associazione Fabio Venditti, nel loro gruppo, dentro una comunità radicata tra le mura di un quartiere. In questo senso, la presenza di una persona già vicina al luogo e al gruppo, ha semplificato l’inserimento del ricercatore, esterno al luogo e mai visto prima di quel momento. 5. Note introduttive alle storie di vita dei giovani “Socialmente pericolosi” Gli incontri con i giovani Socialmente pericolosi, oltre che dentro il quartiere e quindi nei vicoli e nelle piazze, come Largo Baracche, si sono svolti nella sede dell’associazione omonima, posta nella parte alta dei Quartieri Spagnoli. Da parte di ognuno di loro è emersa una predisposizione a raccontare i loro vissuti biografici, con alcuni momenti in cui è possibile leggere forme di emozione, che hanno rallentato il racconto in un momento iniziale. In genere i momenti emozionali riguardavano i racconti legati alle vicende familiari, la perdita di un parente venuto a mancare per un omicidio in giovane età o il rammarico nel vedere la famiglia non riuscire ad affrontare le difficoltà economiche della vita quotidiana. I percorsi di vita di ognuno di loro, in una fase antecedente all’inserimento nell’associazione, fondata da Venditti e dall’ergastolano Mario Savio, che era legato alla camorra, sono caratterizzati da epi-
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sodi che si trovano a metà tra l’incertezza della condizione giovanile, tipica della loro età e l’inizio di prime attività di comportamento deviante. Va segnalato che ciascun giovane dei quartieri, si è aperto raccontando anche momenti che hanno lasciato ferite indelebili e hanno talvolta condizionato con traumi la loro vita da bambini. La loro apertura è stata giustificata dal far leggere i vissuti del loro passato e le difficoltà che ancora vivono, con una chiave interpretativa diversa. Dai colloqui informali oltre che dalle loro storie di vita emerge infatti la forza di volontà a far comprendere a chi legge, come spesso i media, le fiction, hanno diffuso nell’immaginario collettivo l’idea distorta di un giovane dei Quartieri Spagnoli, a prescindere dall’aver o non compiuto un omicidio, una rapina, fatto parte di un clan camorristico. La stigmatizzazione di chi nasce e cresce dentro i Quartieri Spagnoli, risulta evidente tanto nei racconti dei giovani, quanto dalla narrazione filmica e dal modo in cui i media talvolta presentano gli eventi accaduti all’interno di questa zona. Ciò non significa, come evidenziano i giovani, che all’interno dei Quartieri Spagnoli, non siano ricorrenti i fatti cronaca, che il livello di vita sia basso, che la scolarizzazione abbia influenzato molti fatti. Va, secondo quanto emerge dai loro racconti, precisato che non si può diffondere all’esterno dei quartieri, la sola idea che un giovane che vive in quel contesto, debba essere segnato a vita dalla sua famiglia e dall’essere nato in un posto, la cui collocazione, non è stata scelta da loro. Le domande che hanno caratterizzato i colloqui con i giovani ruotano intorno al confronto tra il passato e il presente di ognuno di loro, i rapporti con la famiglia, la scuola, gli amici dentro e fuori il quartiere. Ogni episodio da loro raccontato, da un lato evidenzia la difficoltà di crescita soprattutto legata a problemi economici e alla mancanza di una adeguata formazione, dall’altro gli eventi vissuti nel passato, vengono considerati una tappa che hanno chiuso, caratterizzata dalla voglia di inserirsi nel mondo del lavoro. L’associazione Socialmente pericolosi diventa uno stimolo a credere nelle loro potenzialità, che fino a quel momento erano state tenute in ombra; emerge in alcuni di loro infatti il rimpianto di non aver proseguito gli studi oltre la scuola dell’obbligo. La ragione di questa scelta, dettata come avremo modo di leggere nel-
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le singole storie, è legata all’importanza irrilevante assegnata alla scuola dalle famiglie, più impegnate a trasmettere ai figli la necessità di lavorare, piuttosto che stare sui libri. A questo si aggiunge il fatto che la bassa scolarizzazione nei quartieri è sempre stata una chiave d’accesso ai giovani da parte della camorra, capace di creare un corpus di regole illegali e forme di rispetto, che il ragazzo, spesso in bilico tra povertà, incertezza e ignoranza finisce col fare proprio. L’associazione ha quindi lo scopo di aiutare i giovani intanto a credere che il futuro esiste, che basta volerlo, rinunciando a piegarsi alla delinquenza e scegliendo strade alternative con forza di volontà. La domanda sul futuro è quella che più di tutte caratterizza, insieme alla vita iniziale nei quartieri, il percorso di questi giovani. Segna da un lato un’incertezza costante, che come abbiamo avuto modo di sviluppare nella prima parte del volume, caratterizza la condizione dei giovani in generale e che ancor di più si manifesta in un gruppo ristretto come questo, rispetto alla città nella sua totalità. Dall’altro, sulla difficoltà evidente in ognuno di loro, fa breccia, nonostante tutto, la voglia di dimostrare a chi li incontra, che non sono tutti delinquenti e camorristi e che il futuro ci può e ci deve essere, anche se a volte lo vedono un po’ buio. Le tre parole chiave utili da leggere nelle loro storie sono infatti: incertezza, buio, rinascita. Una triade che cerca di far convivere diverse contraddizioni, come il quartiere stesso lo è. I giovani Socialmente pericolosi sono Mariano Di Giovanni (33 anni), Gennaro Masiello (25 anni), Carmine Monaco (22 anni), Gianni Savio (22 anni), Giuseppe Schisano (20 anni). A ognuno è stata chiesta l’autorizzazione a rendere noti i loro nomi e da parte di ciascuno c’è stata la totale disponibilità a farlo. Le storie che di seguito vengono riportate, sono i colloqui integrali avuti con loro nei giorni di ricerca ai Quartieri Spagnoli. Come titolo per ognuno di loro è stata scelta una frase di loro creazione, che più di tutte caratterizza la loro vita di giovane dentro i quartieri, le loro esperienze pregresse e i sogni e progetti per il futuro. La trascrizione delle interviste non ha subìto modifiche da parte di chi scrive. Presenta un linguaggio semplice e talvolta influenzato dalle emozioni personali degli intervistati nel raccontare momenti forti del loro vissuto biografico.
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6. “Vorrei andare via e tornare da Re” La storia di Mariano Di Giovanni13 D: Mi racconti la tua vita di giovane ai Quartieri Spagnoli di Napoli? R: Io ho vissuto tanto i Quartieri Spagnoli, perché sono nato in un altro quartiere che si chiama “Il pallonetto di Santa Lucia,” però sono sempre stato affascinato dai Quartieri Spagnoli e quindi di farne parte, non so il perché di preciso però è sempre stato così. Poi, mia sorella conobbe un ragazzo di qua e ho iniziato anch’io a frequentarli di più. La mia vita da giovane è sempre stata una ricerca continua della felicità, la felicità per me è stata zero proprio… ho avuto traumi da piccolino, perché mia madre aveva divorziato da mio padre, sapevo che tipo di persona era mio padre e mi chiedevo perché dovevo vivere in queste difficili condizioni. Sono stato in diversi centri mentali, ho avuto tutta una serie di complicazioni. Poi crescendo, poco più grande dell’età di mio figlio, incominciavo a capire perché dovevo stare senza motorino, senza scarpe, nonostante mia madre abbia fatto una vita poco decente per portarci avanti. Ha venduto di tutto, sigarette, roba rubata, vendeva di tutto per guadagnare quelle cinquemila lire, per darci da mangiare... Man mano che son cresciuto, non sono stato dentro un clan, ma diciamo quasi alle costole di quelle famiglie, sono stato in grado però di uscire da questa dipendenza, però nonostante ciò, non ho fatto mai reati per loro, mai.. mai…e mai, però ne ero affascinato, perché vivendo in un contesto sbagliato non capivo quale fosse la via giusta e quella sbagliata. Allora, tutto quello che capitava lo prendevo per buono. Era talmente difficile capire quale fosse la strada… però mo’ sto riuscendo a capire. Praticamente, in gergo napoletano “non mi sognavo proprio niente”. Cioè, vedevo chi mi dovevo ammazzare, nel senso dovevo essere sempre superiore agli altri. Poi, ho capito che questa vita non mi apparteneva, perché ho avuto degli esempi in famiglia, gente che è stata in carcere, gente che non è uscita più. Ho visto mia zia, mio cugino, in carcere. Tutta la mia famiglia era sterminata. Poi ho capito dopo, una frase che mi disse mia nonna prima 13
Mariano di Giovanni ha 33 anni, è sposato e ha tre figli. L’incontro con Mariano è avvenuto il 15 luglio 2013 alle ore 18.00 nella sede dell’associazione Socialmente Pericolosi ai Quartieri Spagnoli, è durato circa quaranta minuti.
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di morire “Guagliò o suoni i cancelli, o suoni i campani”, cioè o vai in carcere e ti buttano le chiavi, o vai in chiesa che sei morto e suonano le campane. C’è un’esperienza davvero brutta e forte che poi mi ha segnato più delle altre: la morte di mio cognato. Lui aveva 31 anni…era uscito dal carcere dopo sette anni e mezzo, ci tenevo tanto a recuperarlo come persona perché non aveva nessuno, la storia di mia moglie è simile alla mia, senza padre, la madre vendeva gli accendini. Io cercavo di recuperarlo perché lo conoscevo già da bambino, avevo presente la sua vita. Quando è uscito dal carcere, stava bene, per me stava diventando una sorgente di vita, io potevo aiutare anche lui. Poi, la sera, è scappato di nuovo e lo abbiamo trovato morto14... Dopo sette anni di carcere. Vedevo la mia rivincita su di lui. Volevo aiutarlo, il mio cambiamento volevo riportarlo su di lui, la mia rivincita nei confronti della società. Anche se era un aiuto singolo, per me aveva un grande significato. Purtroppo non ci siamo riusciti. Sono gli ostacoli della vita. Voglio dire una cosa: se qualcuno vuole, qualcosa si può cambiare, perché si può cambiare. I Quartieri Spagnoli non sono quelli che mostrano solo i fatti di cronaca. Tu, che vieni da un’università di Roma, se ti sei avventurato a camminare per i Quartieri Spagnoli, che problemi hai, ti hanno fatto qualche problema? Purtroppo in tutti posti esiste la microcriminalità, se lo stato vuole, la può distruggere. Polizia più presente nei quartieri, controlli... Ci sono tanti modi per distruggerla, dando pure lavoro. Un ragazzo che di 18, 19, 20 anni cresce sempre in questo ambiente, coltivando questo modo di vivere, quando fa anche un piccolo sbaglio, nemmeno se ne accorge perché è il contesto che lo porta a sbagliare. Io vorrei portare il sindaco qui sopra per 24 ore di seguito a vivere per fargli capire come si vive e come si può distruggere. Compri i giornali e leggi: un poliziotto indagato, un prete pedofilo, qual è la via giusta da percorrere se già quelle figure che dovrebbero essere dei modelli per noi sono corrotti. Sono gli esempi che sono marci, la legalità non esiste più. Sono già le istituzioni per prime che non danno il buon esempio. Allora un giovane coltiva sempre quelle idee di rubare e tutto ciò… Questo è un quartiere turistico, si potrebbero realizzare centri turistici o delle guide turistiche con gente del posto per dare sicurezza pure ai turisti. Se tu prendi delle persone del posto e le porti a Spacca Napoli, oppure nel quartiere, noi saremmo in grado di garantire un ser14
C’è una pausa legata al ricordo della perdita del cognato.
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vizio verso chi viene da fuori, se ci siamo noi mica possono rubare. Con noi che siamo del posto. D: Il quartiere, la famiglia, le amicizie in che modo influenzano o hanno influenzato la tua vita? R: L’amicizia…frequentando quelle persone, non riuscivo a capire l’amicizia vera, la mia amicizia l’ho conosciuta l’anno scorso, all’età di 32 anni, perché ho conosciuto Giuseppe, Carmine, Fabio e sono riuscito a capire l’amicizia vera qual è. Prima l’amicizia non c’era, significava solo stare attenti l’uno con l’altro, di non fidarsi mai, perché era proprio quella vita che ti portava a non fidarti. C’era sempre qualcuno che ti poteva fare le scarpe. La famiglia, mi ha dato tanto. Oggi mia moglie mi fa capire tanto, è una donna esemplare, anche se a volte ci sono discussioni, come in tutte le famiglie, però mi ha fatto conoscere l’amore, i figli. Non avrei mai potuto immaginare una vita con i figli io. Io prima non lo pensavo proprio, pensavo di dover morire. Io dentro di me ero morto, sono rinato l’anno scorso. Mia madre mi ha accudito finchè non sono diventato ribelle, l’unica parola che ho nel cuore è mia madre, che per me è tutto, però siccome ero diventato troppo ribelle non sentivo più nemmeno la sua voce, un suo consiglio. Mo’ la sento invece… D: Quando ti sposti in altre zone della città o vai fuori Napoli, c’è una forma di pregiudizio nei tuoi confronti? Di che tipo? R: Non ci sono pregiudizi, perché ho avuto quella forza di essere affermato su qualche territorio, però il pregiudizio nasce sempre, in frasi per esempio “ah… tu sei dei Quartieri Spagnoli”, però ora che sono cambiato, rinato, quando sento queste frasi, rispondo perché dici queste cose? Perché non cerchi di migliorare il tuo aspetto, il tuo pregiudizio, tutto questo deve cambiare, perché i giovani di Napoli devono vivere. Non devono pensare alla Camorra. Devono pensare a costruirsi da soli, noi ci stiamo costruendo con le nostre mani. Tutti i quartieri… perché se aspettiamo che arrivi l’aiuto delle istituzioni, non succederà mai. Allora, il destino dobbiamo costruircelo noi con le mani nostre. D: Qual è la tua esperienza nei Socialmente pericolosi? R: All’interno della struttura mi sento un personaggio molto entusiasta perché secondo me è la prima opportunità vera che nella vita mi viene data, l’ho presa subito al volo perché non potevo mai
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immaginare una vita migliore di quella che adesso sto vivendo. Come per esempio stare a contatto con delle persone superiori a me. Non è che non le conoscevo prima eh, ho fatto pure politica nel passato. Stando accanto a quella gente, ho capito la politica cos’è. È veramente l’arte di imbrogliare la gente. Questo è. All’interno di Socialmente pericolosi, sto imparando tanto nella fase organizzativa, costruire un dialogo con persone, ho un’impronta molto organizzativa. Mi piace creare sempre nuovi progetti. Ognuno di noi ha un ruolo preciso. D: Cos’è per te il futuro e come lo vedi? R: Il futuro che io immagino è il desiderio di dare una vita più dignitosa ai miei figli, pure 1.200 euro, mi devi credere, firmerei un contratto per trent’anni. Vorrei non avere più problemi alla fine del mese, la stabilità della mia famiglia. Ce l’ho, però la vorrei più concreta, più affidabile. 7. “Napoli? È un presepe bellu, i pastura su malamente” La storia di Gennaro Masiello15 D: Mi racconti la tua vita di giovane ai Quartieri Spagnoli di Napoli? R: La mia vita di giovane è come tutti gli altri, cioè facevamo gli abeti, gli alberi di Natale, facevamo la raccolta degli abeti, eravamo una banda… ai Quartieri Spagnoli, ognuno di una via o di una piazza, formava un gruppo. Questo gruppo si impegnava a fare il falò più grande, perché la tradizione è che il 17 gennaio si fa il Cippo di S. Antonio, si festeggia con i fuochi, si buttano le cose vecchie nel fuoco. Dopo il Cippo, poi eravamo di nuovo amici, pure se con l’altro quartiere ci odiavamo, litigavamo, poi finito il Cippo, tornavamo a essere amici. Poi, quando eravamo piccoli, qualche furtino nei quartieri… per esempio sembra una cosa strana, ma io ho imparato a portare la macchina rubandola, altrimenti non imparavo, le Fiat uno vecchie no? Quando eravamo più piccoli, le prendevamo e imparavamo a guidarle. Oggi è diverso, sono cambiate parecchie cose, 15
Gennaro Masiello ha 25 anni vive ai Quartieri Spagnoli e sta per diventare padre. L’incontro è avvenuto nella sede dell’associazione Socialmente pericolosi il 16 luglio 2013 alle ore 12.00 ed è durato circa un’ora.
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quando eravamo piccoli, forse era più bello… perché non c’era quella cattiveria che c’è adesso, si cresce... si muore. Io per esempio ho perso un cugino ammazzato, aveva ventidue anni… sotto casa mia proprio... Prima pure se litigavamo, non capivamo, adesso c’è più cattiveria, come devo far capire… anche questi film: Il malese, il professore Vesuviano, Il clan dei camorristi, …chi fa la camorra oggi è perché non conosce la vita bella, la vera vita. Chi fa la camorra oggi, non conosce la vita. Oggi se uno vuole lavorare normalmente, guadagnare quei pochi soldi lo può fare, non è che io la mattina esco di casa, mi metto la pistola in tasca e vado in giro, faccio una rapina, oppure uccido a uno. Ci sono molte persone ignoranti, chi fa questa scelta di seguire la camorra è perché soprattutto è ignorante. Non è perché si vuole realizzare, perché non può magnà, per me chi fa sta scelta è perché è ignorante proprio... A Napoli si dice che “Comandare è più bello di fare l’amore”, cioè comandare piace a tutti, però la devi creare questa cosa, non è che metti la pistola in mano uccidi a uno, poi a un altro e vuoi comandare. Può comandare pure se gestisci un bar proprio e comandi sui tuoi dipendenti. Questo non è proprio comandare, ma gestisce lui. È direttore, dirigente, dirige lui…Io la penso così, poi ci stanno sti guaglioni di oggi che vedono i vecchi boss, che si son fatti 20-30 anni di carcere, c’è a chi piace questa strada, c’è chi invece sa che se vuole, può incontrare bella gente e si può divertire. Se uno poi alla fine ha guadagnato tanti soldi ma poi si fa 10-20 anni di carcere, alla fine che ha guadagnato? Ha perso una parte della vita sua. Si perdono le cose più belle della vita, un compleanno, passare del tempo con una ragazza, queste cose non tengono prezzo, questa è la rovina della Campania secondo me, c’è troppa ignoranza. Se io per esempio vado a lavorare nei condomini, le persone ignoranti, apprezzano di più una persona che cammina armata, piuttosto che me che faccio un lavoro onesto. Determinate persone… quelle più ignoranti di quelli che camminano armate. Ci sono fasce di persone divise che sono ignoranti proprio ed è quello che a noi ci frega ai Quartieri Spagnoli. È l’ignoranza. Poi secondo me le fiction che fanno in televisione danno un brutto messaggio come se tutto fosse così, perché noi pure vogliamo fare una fiction, però è chiaro che ci sono persone che seguono quella strada e persone, che invece non lo fanno. Io pure ho amici che hanno fatto reati… però hanno fatto strade diverse, loro sono in carcere e io sto qui a parlare con te. Io vorrei fare un film in cui si capisce questa cosa, che amo la vita bella, il divertimento, ma quello sano. I
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soldi sono fatti per essere guadagnati ed essere spesi, poi per crearti un futuro, una famiglia. Un film del genere mi piacerebbe fare, qual è il buono e qual è il negativo, invece le fiction che danno oggi fanno capire poco, solo il potere, chi si ammazza, ecc. invece dovrebbero fare film paralleli che indicano la vita del guaglione che fa una strada da camorrista che va in giro con la pistola e macchina nuova e il guaglione normale che può andare in un posto a divertirsi con un’altra ragazza, gli amici, andare a una festa, piuttosto che essere latitante ecc. tutte queste cose… D: Il quartiere, la famiglia, le amicizie in che modo influenzano o hanno influenzato la tua vita? R: Non è che hanno influenzato la mia vita, perché io non faccio nulla di male. Mio padre è un ex tossicodipendente, lui è stato in carcere per furto, ha fatto cinque anni di carcere, però lui mi ha sempre insegnato che quella strada non faceva per me, l’ho imparato… anche una mamma brava ci vuole accanto che non ti fa vedere il pericolo, non ti fa vedere le cose malamente, mio padre non mi ha mai fatto mancare nulla. Ci sono persone che rubano, che fanno delle cose… che lo Stato se le scorda, che non possono mangiare proprio, che non possono mettere la pentola sul fuoco... Lo Stato se ne dimentica, c’è quindi chi ha il coraggio di impiccarsi e si uccide, oppure chi ha il coraggio di andare a rubare pur di poter mangiare. Le amicizie restano, se l’amicizia è male, vuol dire che sola man mano se ne va. Se io e due, tre amici siamo buoni e altri fanno le rapine, i reati, noi evitiamo proprio di stare con loro che fanno un’altra strada. Tanti amici… son capitate cose brutte, brutte, brutte. Prima avevo un’amicizia forte e poi son capitate cose brutte… io, dopo la morte di mio cugino, non mi fido più di nessuno nella mia vita. Non è che prima mi fidavo, però ora è peggio. Ho perso la fiducia in tutto, di quello che fai, non ti devi mai fidare di nessuno. Qui per una litigata, se poi dici è tutto apposto, ti devi sempre guardare le spalle, devi sempre tenere gli occhi aperti, perché sono finti… è brutto. D: Quando ti sposti in altre zone della città o vai fuori Napoli, c’è una forma di pregiudizio nei tuoi confronti? Di che tipo? R: Io frequento molte persone di via Petrarca, Vomero, Posillipo, ho degli amici bravi che mi chiamano, vado a casa loro, vado a dormire da loro. C’è un’amicizia, c’è però pure chi ha pregiudizio, quello che per esempio non vuole parlare con me perché sono dei
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Quartieri Spagnoli, allora siccome sono dei quartieri, vedono tutto nero, solo cose brutte. Vede solo marcio e non vede buono. Pure in quelle zone ci sono persone ignoranti, anche che se sono laureate, diplomate… dicono quello è dei Quartieri Spagnoli ed è una persona non buona, battute del tipo “di dove sei dei Quartieri Spagnoli? Ah..anche tu camorrista.” Ma mica siamo tutti camorristi ai quartieri. Io a una domanda del genere da parte di una madre, risposi: “ma se io ero camorrista, me la facevo con vostro figlio?. Non penso proprio…” Ci sono persone che hanno pregiudizi verso i Quartieri Spagnoli, non solo ma anche verso il quartiere Sanità, poi ci sono altre persone che frequento normalmente, se ti comporti bene non c’è niente di male. D: Qual è la tua esperienza nei Socialmente pericolosi? R: Ma…la verità è che io cercavo un lavoro, perché qui lavoriamo in nero…lavoro così giusto per guadagnare duecento, trecento euro al mese, giusto per stare senza fare niente. Lavoro due, tre giorni a settimana. Ho conosciuto Fabio grazie a Mario16, abbiamo fatto “Socialmente pericolosi” una finta rapina e poi siamo stati al Giffoni Film festival, poi abbiamo fatto un corto con Gaetano Di Vaio, “Largo Baracche”. Abbiamo scritto un film nostro, abbiamo pure guadagnato qualcosa con Fabio, perciò stiamo… per un lavoro, per un futuro. Mi piace il cinema, ma basta che si lavora, a me piace fare tutto. Qui non sono tutte persone che vivono malamente, ma perché si trovano costrette, le scuole qui non sono quelle scuole come gli altri quartieri, per esempio negli altri quartieri, se tu vieni promosso ti comprano il motorino, qui invece pure se non vieni promosso, te lo comprano lo stesso il motorino, ma non hai imparato nulla… ci vuole una famiglia alle spalle che ti dice che se vuoi fare determinate cose, devi portare i risultati. La maggior parte dei problemi dipende anche dal contesto familiare, dagli stimoli e dalla possibilità economica, i valori, che hai. La famiglia qui deve pensare ad altre cose, non ti segue molto. D: Cos’è per te il futuro e come lo vedi? R: Eh… mo’ aspetto un figlio. Il futuro lo vedo duro, ma lo devo prendere come viene, devo lavorare, devo guadagnare di più, perché 16
Si riferisce a Mario Savio, ergastolano che ha iniziato con Fabio Venditti il percorso dell’associazione Socialmente pericolosi.
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adesso ho 25 anni e ho una famiglia pure io. Sono felice, anche se dobbiamo vedere quello che dobbiamo fare adesso. Questo progetto sta andando avanti, io lo seguo finchè si può seguire. Se c’è un futuro in questo progetto ben venga. Per me il futuro è un posto di lavoro fisso, solido, basta che guadagno… io prenderei pure la mia famiglia e me ne andrei. A Napoli si dice “senza soldi, non si cantano messe”. Voglio vivere la vita ogni giorno che passa con nuove emozioni. 8. “Non dare alla ruggine il tempo di raggiungere gli ingranaggi.” La storia di Carmine Monaco17 D: Mi racconti la tua vita di giovane ai Quartieri Spagnoli di Napoli? Allora, io abito sui Quartieri Spagnoli, quando ero piccolo diciamo che ero uno “scugnizzo”, stavo nella banda di ragazzi più pericolosi dei quartieri. Questa banda poi è andata a sfumare, perché c’era chi è morto, chi sta in carcere e per vari reati non uscirà più. Io credo che la colpa di tutto quello è che successo sia della situazione in cui viviamo. Quando ero piccolo, ho lavorato sulla pista di pattinaggio e ci lavoro attualmente, prima andavo sulla pista e rompevo le scatole a tutti, dando sempre fastidio, qualche volta facevamo qualche rissa…litigavamo sempre. Un bel giorno venne una persona di Roma, che si chiama Antonio, proponendomi di lavorare alla pista. Ci voleva tenere un po’ calmi. Io non andai perché non mi piaceva mettere la maglietta dello staff, sai per la nostra mentalità ignorante, a me piaceva vestire con una camicia, cose così. Ho fatto piccole cose, rubavo da bambino, però quel rubare, fortunatamente quando sei bambino è un gioco, non l’ho fatto diventare mestiere quando sono cresciuto. Vedevo i miei amici che entravano in carcere e non uscivano più. Quando ero piccolino, ho litigato di brutto con delle persone, anche a coltellate, mentre mi accoltellavano, io avevo con me una penna, ero piccolo andavo a scuola alla Tito Livio, stava un altro gruppetto di ragazzi, io stavo da solo. Una persona venne vicino, cacciò il coltello e mi colpì sulla mano. Ho ancora i segni sul dito... avevo questa penna in mano e gliela infilai in faccia e comunque lo aprii un 17
Carmine Monaco ha 22 anni, vive ai Quartieri Spagnoli. L’incontro è avvenuto nella sede dell’associazione Socialmente pericolosi il 15 luglio 2013 alle ore 17.00 ed è durato circa un’ora.
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po’. Io scappai, poi con questo ragazzo siamo diventati amici e l’ho messo a lavorare nella pista di pattinaggio. Prima eravamo due nemici e poi siamo diventati due amiconi. Poi ho conosciuto il progetto Socialmente pericolosi, che mi ha un po’ salvato. Ora sto facendo “Gomorra” la seria che uscirà su Sky nel 2014, faccio anche una bella parte di un personaggio che si chiama O’Track, che è un killer della camorra. La mia soddisfazione personale è che quando sono andato a fare il provino, il regista mi chiese che scuola di recitazione facevo, io risposi che la mia scuola di recitazione era la strada. Lui rimase molto colpito, perché per il mio ruolo si erano presentate duecento persone, ragazzi che andavano a scuola di recitazione, no scugnizzi. Questa, fu la mia prima soddisfazione. Quando ero piccolino ho visto anche morti ammazzati, persone spappolate… immagina, che avevo dieci anni per i vicoli di Napoli e vidi una persona stramazzata, fucilata ecc. Girai il vicoletto e vomitai... Avevo dieci anni e quella scena... ogni colpo che gli davano, vedevo che entrava dentro, che gli spaccava la testa, le dita, ecc. Questa persona che vidi morire si voleva coprire il viso con le mani, vedevo cadere le sue dita lungo la strada e poi ho visto vari episodi simili. Io come dicevo vivo sui Quartieri Spagnoli. Siamo tre figli, mio fratello Luca che è più piccolo di me e ha 19 anni, mia sorella che ne ha 26, io ne ho 22. Il fidanzato di mia sorella l’ha messa incinta e poi improvvisamente non la voleva più. Io ero più piccolo, avevo 16 anni e dissi per rabbia lo voglio ammazzare, sai, il mio sangue… quelle cose che si pensano da scugnizzo verso mia sorella che era incinta e lui non la voleva più. Lo vidi, avevo il coltello e lo colpii… sulle gambe e nel fianco. Ero piccolino, avevo 16 anni e sono fuggito. Con me è venuto qualche amico, che non ti dico chi è… a prendermi sul motorino ecc. La cosa è finita li, non l’ho più visto, se n’è andato da Napoli, lui non mi ha fatto più nulla anche perché lui non era un bravo ragazzo, era un camorrista… poi io ero un bambino e camorristicamente si usa che non devi denunciare, poi un bambino non si deve toccare anche se ha avuto il coraggio di colpirlo con un coltello. A 14 anni ho spacciato pure, vendevo l’erba, però non stavo con una persona, non ero il ragazzo di qualcuno. La vendevo io per me, io ho sempre odiato la cocaina e le altre droghe perché per me l’erba è un rilassamento, una droga minima, invece la cocaina ti distrugge. Io non venderei mai una cosa che distrugge l’essere umano. La cocaina ti porta a essere cattivo, a essere un po’ schifoso, dal mio punto di vista perché vedevo anche dei miei zii che si drogavano di eroina, di cocaina. Poi ho
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avuto mio zio che si è fatto 25 anni di carcere, si chiama Ginetto Tyson, all’epoca così lo chiamavano, 25 anni tutti in una fila… con lui quando lo andavi a trovare in carcere, non c’era alcun contatto fisico, solo attraverso il telefono. Mio padre mi alzava e chiedendo il permesso lo potevo abbracciare e quando dovevamo andar via, io non volevo lasciarlo, mi dispiaceva. Ero piccolo e non capivo, perché quando sei piccolo non ti spiegano che sta nella criminalità, mi dicevano che l’hanno trovato con un amico con una pistola, che non era sua. Però, già prima avevo capito mio zio che tipo era, ma non perché qualcuno me lo spiegava, io ero già uomo davvero. Un bambino di qualsiasi parte d’Italia, si vedeva i cartoni animati, a otto anni io rubavo e vedevo i film porno. Non facevo le cose da bambino. Io, Draconboll me lo son visto a cinque anni. Facevo le cose da scugnizzo, però il fatto di rubare, ti porta sempre… che io volevo avere il paio di scarpe, una certa maglietta. La mia famiglia non sapeva che io vendevo questa roba, non lo sa nemmeno ora… Mio zio per far capire perché lo chiamavano Tyson, mi diede due schiaffi che mi distrusse proprio, però io le cose le facevo lo stesso. Non mi hanno mai arrestato, perché ho fatto le cose da minorenne, 14-15 anni e fortunatamente questa persona di Roma, lui ci fece proprio scuola di vita, nel senso che ci consigliava di viaggiare, di vedere nuovi posti, imparare un’altra lingua e non stare sempre con la stessa mentalità dei quartieri. Io quella persona la amo, perché senza scopo, ha fatto qualcosa per noi. La prima volta che dovevo andare a lavorare sulle piste di pattinaggio, io non volevo, lui allora mi diede mille euro anticipate, io accettai, Mi diede questi mille euro a pezzi di dieci euro, perché mi disse che dovevo capire il senso dei soldi. Quando lui mi ha detto questa cosa, avevo 16 anni, però l’ho capita. Da quel momento cambia tutta la mia vita, oggi faccio parte dell’associazione Socialmente pericolosi anch’io e ne vado fiero. Il destino vuole che questo scrittore Fabio Venditti18 venisse da Roma, come Antonio il quale come dicevo non ci ha dato solo lavoro, ma ci ha fatto scuola di vita. D: Il quartiere, la famiglia, le amicizie in che modo influenzano o hanno influenzato la tua vita? R: Le amicizie… ma… eravamo un gruppetto di venti, diciamo che chi è marcio diventa marcio, nel nostro gruppetto, siamo tre, pri18
Coordinatore e vicepresidente dell’associazione Socialmente pericolosi ai Quartieri Spagnoli.
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ma eravamo un gruppetto più affiatato. Diciamo che nel quartiere se tu fai un progetto di cambiamento, tutti quanti si chiedono “che vuole fare questo, vuole cambiare una situazione che esiste da sempre, dalle origini di Napoli?” Secondo me è proprio quest’ignoranza del quartiere, che fa rimanere il quartiere sempre così. Se tu chiedi a una persona se vuole distruggere la camorra, ti rispondono come si fa a distruggerla, già sono sconfitti prima ancora di iniziare. Io invece l’atteggiamento di sentirmi sconfitto non ce l’ho mai avuta, io rischio sempre fin quando non ce la faccio. All’inizio nessuno ci credeva, poi siamo andati al Giffoni, poi abbiamo realizzato vari cortometraggi con Gaetano Di Vaio. Io sono stato all’inizio dietro al progetto senza vedere i soldi, ma pensavo che dovevo crescere come persona. Già crescendo io mentalmente ne sto guadagnando. Quando io tornavo a casa e vedevo che loro parlavano solo di soldi, notavo la differenza tra me e loro. L’ignoranza però che loro hanno gli è stata tramandata da sempre, nell’idea che serve solo andare a lavorare, non serve andare a scuola, perché tanto a Napoli non serve. L’ignoranza pura… Io diciamo che sono stato fermo sulla mia idea e ci sono riuscito, ho partecipato ai cortometraggi, l’esperienza della serie “Gomorra”, poi ora abbiamo scritto un cortometraggio io e Gianni Savio e vari miei amici. D: Quando ti sposti in altre zone della città o vai fuori Napoli, c’è una forma di pregiudizio nei tuoi confronti? Di che tipo? R: Secondo me, vedi la differenza della città. Ognuno guarda il Napoletano come fosse…anche se non è vero perché non sono tutti così. A noi le opportunità sono state date da persone che non sono di Napoli, anche questa cosa mi ha un po’ ferito, perché io sono napoletano, non c’è qui una struttura solida anche per chi sta in carcere e una volta uscito si vuole inserire, non ti insegnano un mestiere. Una persona che dopo trent’anni esce dal carcere, cosa fa? Criminalità. Purtroppo se tu vuoi diventare camorrista a Napoli ci metti un secondo, se vuoi diventare avvocato già è difficile, al di là della tua bravura, ci sono i pregiudizi, cosa pensano le persone, le opportunità che ti danno, ti chiudono le porte. Per me nella vita bisogna incontrare persone valide, non devi incontrare persone che fanno solo chiacchiere. Anche quando sono stato per esempio a Roma, in altri posti, ci sono state persone che mi guardavano e mi facevano sentire basso, però mi sono sempre sentito non più alto di loro, ma allo stesso livello. Siamo uguali, ma ci sono state anche persone che non
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mi hanno dato il modo di pensare questo. Ci sono persone che ci hanno dato il cuore senza avere nulla in cambio, persone come Fabio, Antonio per esempio. D: Qual è la tua esperienza nei Socialmente pericolosi? R: Io nasco nei Socialmente pericolosi perché all’inizio sai non sapevo cosa fare, perché a dire la verità quando ero piccolino volevo fare il calciatore, ero anche bravo. Io andai a fare un provino con la Lazio e mi presero, in quell’anno però mio padre ebbe una brutta malattia, un tumore allo stomaco, ha avuto un trapianto e allora immagina un ragazzo di sedici anni che si trova fuori Napoli con il padre in quelle condizioni… sono ritornato quindi a Napoli. Fortunatamente mio padre sta bene. Io della mia vita non sapevo cosa fare, erano passati degli anni già a diciotto anni come calciatore non vali niente, sei già grande per loro, sono stato fermo quattro anni, allora sai… ora non gioco da parecchio. Nei Socialmente pericolosi, sono nato come un ragazzo che voleva cambiare le sue sorti qui a Napoli, facendo cortometraggi, stando su un palco puoi provare e dire, rispetto a quanto si pensa dei ragazzi di certi quartieri, non è come la pensate voi. Ce la faccio, ce la posso fare. Mi sono appassionato alla recitazione, dopo un po’ mi sono diciamo, come si dice in napoletano, “ingrippato,” mi sono messo quel chiodo in testa di fare l’attore, anche se so che è un brutto percorso e anche molto lungo. L’attore non lo fai così da un giorno all’altro, però io mi voglio arricchire. In “Gomorra” faccio la parte del killer, però vorrei fare anche la parte di un prete, che so… qualsiasi cosa. Faccio questa cosa in “Gomorra” e mi piace tantissimo, perché ci sono molti attori importanti, comunque mi piacerebbe anche con altri personaggi, mostrare quello che davvero io ho dentro. Vorrei spaccare, rompere quel muro di giudizio, perché noi Napoletani abbiamo sempre il vizio che: non abbiamo lavoro… non è così, se tu vuoi. Molti ragazzi di Napoli, sono usciti dal nulla e sono diventati grandi avvocati, artisti. Ma, sono poche le strade, le scelte da fare. Se poi da un giorno all’altro, non posso fare l’attore, io non so cosa posso fare, anche se non riesco però ci provo altre cento volte. Per me è solamente un lavoro, non penso il futuro, non penso a diventare un grande attore. Lavoro, basta. Quando vado a casa, vado a prendere un caffè con gli amici, vado a via Roma, cose che faccio sempre senza snobbarmi, montarmi la testa, perché per me è solo un lavoro.
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D: Cos’è per te il futuro e come lo vedi? R: Diciamo che io sono molto ottimista, il mio futuro lo vedo troppo impegnativo, devo studiare, ma soprattutto mi devo studiare perché ognuno di noi non si conosce a volte, io ho scoperto di essere attore non sapendolo. Quando mi sono rivisto in una scena di “Gomorra,”ho visto la stessa potenzialità che vedo in un attore normale. Nella mia mente ho pensato che io già ce l’avevo da piccolo questa potenzialità, perché ce la devi avere. La prima volta che ho fatto “Gomorra” non avevo nessuna scuola sotto, il regista era curioso di sapere quale scuola avevo fatto. Fortunatamente nei Socialmente pericolosi, ci siamo allenati, ma una base di attore non c’era, ma ci sono riuscito. Ho fatto uno spot per il clan degli artisti che ha un significato importante per me anche in merito a quello che dicevo prima. Nello spot dico questo: “Prima non ero nessuno, stavo solo io e non contavo nulla. Poi ho conosciuto dei ragazzi, guaglioni come me, li è nato tutto. Eravamo grandi e facevamo quello che volevamo noi. Poi siamo cresciuti e ci siamo guadagnati rispetto, mo’ siamo una cosa sola. Quello che siamo noi è più di una famiglia, un clan. Se stai da solo non conti niente, vieni con noi nel clan degli artisti”. 9. “Non dare un pesce a un uomo per sfamarlo, piuttosto insegnagli a pescare per tutta la vita”. La storia di Gianni Savio19 D: Mi racconti la tua vita di giovane ai Quartieri Spagnoli di Napoli? R: Io sono un ragazzo come tanti di Napoli, figli di strada, cresciuti più per la strada che in casa. Crescere quando si è piccoli qui, è un po’ difficile, non lo capisci finchè sei piccolo, poi piano piano con il tempo che passa, riesci a capire perché da piccoli in questo quartiere si è condizionati rispetto a quando si è grande, perché vedi ai quartieri Spagnoli, che le persone considerate più importanti, non sono quelle che vanno a lavorare, per lo meno questo era quello che capivo quando ero piccolo. Chi andava a la19
Gianni Savio ha 22 anni, vive a i Quartieri Spagnoli. L’incontro è avvenuto il 15 luglio 2013 alle ore 19.00 nella sede dell’associazione Socialmente pericolosi ed durato quasi un’ora.
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vorare, era una persona normalissima, chi invece faceva altre cose, cioè chi faceva il camorrista, diciamo era una persona degna di rispetto. Con il passar del tempo, ho capito che non era così. Mi sono successe tante cose, la mia storia è forse più particolare rispetto agli altri, perché ho avuto mio padre, un boss vecchio stampo. Io l’ho sempre visto in un’altra prospettiva, io fuori e lui in galera. Sono cresciuto così. Mi sono sempre dovuto guardare le spalle, perché a volte venivano dei ragazzi che ti invogliavano a fare delle cose sbagliate, però non perché volevano fare una determinata cosa e basta, ma perché volevano sfruttare me. Sapevano che io potevo farlo e loro no, loro sfruttavano me, il mio cognome e quello che succedeva. Io mi sono sempre trovato più chiuso, lupo solitario diciamo, perché in un certo senso mi sono sempre accorto di queste cose. Per mio fratello che è un po’ più grande è stato più difficile, perché essendo più cresciuto, ha vissuto questa fase di distacco da mio padre e ha dovuto affrontare la situazione con difficoltà. Lui voleva difendersi a tutti i costi, si chiudeva a riccio. Era, è più impulsivo di me, subito scatta… per quanto mi riguarda devo dire che mio fratello non è mai stato una persona cattiva d’animo. Non si vantava se faceva certe cose, se lui rubava per esempio non se ne vantava. Anche lui era un solitario, non voleva nessuno vicino, lui capiva che volevano sfruttarlo, però lui ha preso una decisione diversa, lui ha preso la strada che in quel momento doveva prendere perché in quel momento non sapeva cosa fare. Si è trovato solo, si è visto come il papà della situazione, io ero più piccolo, sfortunato da minorenne, lo hanno arrestato la prima volta per un reato che non ha commesso lui, però lui, non dico che è innocente, faceva dei reati, ma l’hanno arrestato per un’altra cosa. Poi, dalla prima volta che è uscito, da li non si è capito più niente. Diciamo che era come se lui sapeva più cose di quando era entrato in carcere. Per quanto riguarda me, io ho avuto l’esperienza di guardare lui, la strada che ha intrapreso e le conseguenze che ha dovuto pagare. Mi sono detto ma perché fare una cosa e poi alla fine ci ripensi e dici ma che ho fatto? Ho fatto una rapina si…e poi me li so spesi a poker. Mi so ubriacato, li ho buttati quei soldi. Da quel momento, ho capito queste cose e ho deciso di cambiare strada, ho incontrato una persona speciale che mi ha messo nella condizione di farmi credere nella mia persona, di andare avanti e guardare altre prospettive. Questa persona è un mio amico, si chiama Antonio Frattini di Roma. Cinque
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anni fa io andavo su una pista di pattinaggio, di ghiaccio. Stavo li, cazzeggiavo, ero un bambino un po’ irrequieto. Mi si avvicinò Antonio e mi disse: “mi dai una mano smontare?” Si doveva chiudere. Io gli diedi una mano a smontare, lui mi disse l’anno prossimo ti prendo a lavorare con me. Sai per me, si trattava di una prima proposta di lavoro. Quell’anno li ho pensato tutto l’anno a lui e alla sua proposta, finchè non era di nuovo inverno e si riapriva la pista. Non ci potevo credere che qualcuno mi proponeva qualcosa. Quando l’ho incontrato di nuovo, Antonio ha mantenuto la sua promessa, per me era una cosa grande. Che cos’è successo poi, in quest’anno io facevo la security, staccavo i biglietti. Un giorno un ragazzo mi chiede di entrare negli spogliatoi e io lo pregai di andare fuori, questo ragazzo si voltò, mi diede uno schiaffo e io partii alla cieca. Mi diede un colpo in faccia, lo presi per la maglietta e furono tutte botte… io in mezzo alle chiavi ne avevo una più affilata, nella rabbia gli ho aperto la testa. Poi, venne la polizia…questa persona, Antonio, mentre io mi stavo sfogando contro quel ragazzo, venne sotto e mi disse “ti prego smettila, ti stanno guardando tutti”. Io vidi lo sguardo di quella persona che mi aveva dato fiducia, l’avevo buttata via così come se niente fosse. Lascio stare il ragazzo e me ne vado a casa. Il giorno dopo Antonio mi disse che voleva fare due chiacchiere con me, io avevo paura che lui potesse chiamare la polizia per quello che avevo fatto. Parlandomi disse che io ero come gli altri ma che in me c’è qualcosa di diverso, ringraziandomi per non aver continuato e per avergli dato retta in quel momento di rabbia. Questa persona mi ispirò tanta di quella fiducia che pensai che non tutte le persone sono uguali, cattive. Non avevo bisogno di guardarmi, anche se tuttora mi guardo adesso attorno… lui mi ha aperto le porte, presentandomi nuove persone, da quel momento mi diede il cento per cento della gestione della struttura. Io, ragazzo di 16 anni dovevo gestire persone di 20-30 anni, lui si fidava molto di me. È grazie a lui che sono riuscito a cambiare, a essere quello che sono. È una persona che mi ha dato molta fiducia e questo mi ha fatto molto, molto bene. Poi è arrivato il progetto di Fabio20 e così via… le cose buone le prendo, quello che è cattivo lo lascio.
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Si riferisce al progetto dei Socialmente pericolosi, coordinato da Fabio Venditti.
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D: Il quartiere, la famiglia, le amicizie in che modo influenzano o hanno influenzato la tua vita? R: Dal punto di vista degli amici sono stato fortunato, perché su venti persone, amici stretti, sto parlando della “paranzeria”21, la maggior parte bene all’80%. Eravamo terribili, noi eravamo ragazzi che quando le persone ci guardavano, dicevano che quando saremmo diventati grandi, saremmo diventati macellai, cioè brutte persone... Eravamo scugnizzi al cento per cento, il gruppetto che faceva più paura rispetto agli altri ragazzi, però crescendo abbiamo avuto la fortuna che il 70- 80% è andata a lavorare, la maggior parte sono tutti baristi da piccoli, anche se tutti insieme abbiamo avuto una crisi, chi il padre si è lasciato con la madre, chi ha perso il padre o la madre... Tutte queste vicende vissute insieme ci hanno fatto crescere, poi questo gruppo si è diviso, siamo rimasti cinque di quelli iniziali. Gli altri però stanno lavorando, qualcuno è morto, qualcuno sta in galera. L’influenza è avvenuta molto quando eravamo piccoli, ognuno di noi aveva un ruolo ben preciso: c’era chi rubava, chi faceva il palo, però non si decideva chi doveva andare, era più qualcosa che nasceva per divertimento. Quando invece ci siamo trovati a farlo per soldi, per necessità, allora è stato più complicato… era rapina nel vero senso della parola non era più un gioco. Quando ero piccolo, stavo qui in un vicolo molto popolare, dove passano tutti i motorini, stavamo seduti una “paranza” di ragazzi accanto a un motorino e stavamo parlando, arrivò una volante dei carabinieri, eravamo una quindicina e ci fermò. Si avvicinarono a me e a un amico di colore e dissero “venite qui”, si avvicinarono a un motorino che stava li parcheggiato e chiese di chi fosse e tutti risposero che non era loro, io essendo l’ultimo a parlare dissi: “e mò fussi u mio?” A quel punto il carabiniere cacciò tutti e fece rimanere me e il ragazzo di colore. Disse che il motorino era nostro, che risultava rubato e ci voleva portare in questura, io ero piccolo e comiciai a fare casino, non volevo entrare nella macchina. Insieme a noi c’era un ragazzo figlio di un altro boss, evidentemente questo carabiniere aveva sequestrato a lui il motorino, io vidi che il padre di questo ragazzo aveva picchiato il carabinere, allora quando lui venne da noi, vide tutta la “paranza”, fece andare via il figlio di quel boss, perché lui evidentemente era stato preso a schiaffi dal padre, a causa di questo motorino ruba21
La paranza nel linguaggio Napoletano è la comitiva, il gruppo amicale di riferimento.
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to. Io mi infuriai perché fece andar via quel ragazzo e a me no. Mi accusarono di aver rubato questo motorino, insomma dopo quattro anni che già stavo lavorando durante l’udienza, in aula c’era un giudice donna, l’avvocato mio disse di confessare il reato come se l’avessi commesso, così avremmo ottenuto il perdono giudiziale. In quel momento rispondo all’avvocato, che non voglio farlo e che se anche mi devono dare la pena sospesa, io devo dire la verità. Io dissi al Giudice che se lei stava dicendo che il motorino era acceso e che stavamo sopra, dissi se sapeva quando è lungo un vicolo dei quartieri. All’incirca una decina di metri, il giudice rispose: “con ciò?” Io risposi: “signor Giudice, dico la verità, se io avevo rubato il morino me ne sarei scappato”. Il Giudice replicò: “Vorresti dire che non l’hai rubato tu il motorino?”. Io dissi che stava a lei decidere avendo da un lato la mia versione, dall’altra quella del carabiniere. Il PM mi fece tante domande una dietro l’altra e io risposi anche perché in quegli orari loro sapevano che io lavoravo alla pista di pattinaggio. Mi diedero il perdono giudiziale e questo per me fu una grande soddisfazione personale. Da quel momento, ho capito che la positività e la legalità premiano. D: Quando ti sposti in altre zone della città o vai fuori Napoli, c’è una forma di pregiudizio nei tuoi confronti? Se si, di che tipo? R: Diciamo che quando mi sposto in un’altra città, non me ne faccio proprio... Io vado e a volte non mi rendo conto di essere in un’altra città, parlo in Napoletano come se fossi qui e la gente ti guarda in modo strano. Però mi sto adattando anche a questo, vado spesso a Roma, a parte che poi ho viaggiato per tutta l’Italia, mi sono fatto tutte le carceri d’Italia per andare a trovare mio padre. A Napoli anche se vado per esempio in una zona per bene, è uguale. Da parte della gente, un po’ si, poi la gente di quartiere si chiude, perché non sa confrontarsi con le altre persone perché non sono istruite. Per esempio se viene una persona da Roma, non sono molte le persone che si aprono al dialogo, perché pensano di non essere compresi non avendo fatto mai scuola. Qui nei quartieri dall’età di 30 anni a salire, circa il sessanta per cento non è andata a scuola. Questo è il problema, manca l’istruzione alla base, alle fondamenta. Poi, per dire se io andavo a scuola mi scocciavo, perché a scuola al di là dello studio, il bambino vuole fare ginnastica, vuole disegnare, vuole coltivare la creatività. Noi queste cose non ce l’avevamo. C’era solo il laboratorio di artistica, poi per educazione fisica giocavamo al gio-
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co del fazzoletto. Quindi il bambino è più condizionato già da piccolo, vuole andare a divertirsi. Preferisce stare in strada invece di andare a scuola, perché non si diverte a scuola, non la prende come una cosa seria. Anche i genitori, le donne non lavorano proprio, solo se non sono sposate lo fanno. La donna rimane a casa, il marito va a lavorare per tirare a campare. Ormai bisogna lavorare in due a causa della crisi, qui però è diverso, sono poche quelle persone che lo fanno, perché di fatto non sanno confrontarsi. Poi, io quando ero piccolo per me è stato diverso, c’era un signora che ci voleva bene e ci portava nei campeggi, in giro. L’abbiamo conosciuta a via Roma mentre giocavamo. Allora ho avuto modo di vedere posti diversi, per questo ho una mentalità più aperta rispetto ai ragazzi dei quartieri. La vita di un ragazzo di quartiere è una vita organizzata in questo modo: la mattina dorme fino al tardo pomeriggio, si sveglia, mangia, si lava, scende e si fa il giro al quartiere. Poi, risale di nuovo. La sera di nuovo scende e si muove in motorino, non fa un passo a piedi. Abbiamo via Roma no? È bellissima. Io il motorino fin quando ce l’avevo, ero grasso, ora che cammino non sono più grasso. È tutta un’ignoranza, qui non ci vogliono istruire. Dove stanno i vigili nel quartiere? Allora rimane tutto così incasinato. Finchè con ci verrà data l’opportunità di sentirci come le persone normali in un quartiere, non cambierà nulla. Non ce lo fanno sentire… Devo dire la verità, ci sono delle persone brutte, ma come le ho viste a Napoli, le ho viste dappertutto. Ci facciamo condizionare da questo fatto noi, i ragazzi di Napoli devono aprirsi di più mentalmente, al confronto con gli altri. Se io conosco solo una strada, ma so che ce ne sono altre, io posso scegliere o divento camorrista, scippatore, o divento barista che prende 100 euro a settimana che porta il caffè nei palazzi, perché a Napoli non ci sono ascensori nei quartieri. A Napoli, gli unici lavori rimasti sono l’addetto all’abbigliamento, che non ti insegna nulla e il barista, che porta il caffè avanti e dietro. Vanno avanti più per le mazzette, cioè per le mance. A Napoli sono molto generosi da questo punto di vista. Qui proprio per la struttura dei quartieri, non si sono potuti costruire centri commerciali, ma solo piccole attività come l’epoca, a prezzi bassi e che non fanno mai lo scontrino. I negozianti ragionano così anche perché nessuno è mai andato a fare un controllo e poi nei quartieri hanno fatto la guerra a chi vende più poco, perché poiché qui nessuno riesce a vivere, a mangiare, è un quartiere molto povero, i negozianti devono vendere a poco, rispetto al mercato e per guadagnarci qualcosa. Il suo guadagno è l’Iva, le
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tasse, perché non le pagano. Qui in zona ci sono degli alimentari che vendono prodotti più bassi del centro commerciale. Tutto un giro sbagliato. D: Qual è la tua esperienza nei Socialmente pericolosi? R: Sono stato uno dei primi ragazzi arrivati nel gruppo, abbiamo fatto questo corto “A cazzimma”, che è andato al Giffoni. La prima volta è stata emozionante, sai la gente ti guardava sul palco, una bella esperienza. Poi devo dire la verità prima di andare al Giffoni c’era la perplessità, ma mo’ facciamo questo, chissà… che lo faccio a fare, poi dopo abbiamo visto che un po’ di potenziale in noi c’era, perché al Giffoni ce l’hanno dimostrato... Quando ci siamo girati, all’improvviso abbiamo visto che stavano tutti in piedi a battere le mani, qualcuno addirittura piangeva. È stata una grande emozione, soprattutto per me e per tutti i ragazzi che da quel giorno ho visto più convinti in ogni cosa che facevamo. Hanno visto una possibilità, vedere una persona che li applaudiva, mai vista una cosa del genere. Un ragazzo del quartiere che fa qualcosa, allora dici, non ci sta solo il male ma anche il bene. Finchè c’è una strada sola, è quella e basta, a volte le persone per necessità vanno a rubare, poi da quel piccolo prendono la mano, il vizio, come fumare per esempio. Io scendo, vado a rubare e via, quella diventa la mia azione quotidiana, hai capì? Questo è il concetto, non bisogna far entrare la persona in questa ruota, ma in un’altra posizione in cui può mettersi in cammino da sola. D: Cos’è per te il futuro e come lo vedi? R: È un po’ complicato sinceramente, senz’altro lo vedo… ci sarà un futuro per noi, però lo vedo in maniera particolare, soprattutto in quest’ultimo anno in cui il mondo sta cambiando, negli ultimi dieci anni il mondo si è evoluto velocemente, fino a dieci anni fa non si sapevano tante cose, non c’era il computer, o c’era per poche persone. Mo’ c’è internet, anche questa è una cosa importante. Il computer ha aiutato molto i quartieri, prima le persone non sapevano scrivere, il computer ha insegnato a scrivere, perché leggono, vuoi o non vuoi si mettono di mattina un po’ su Facebook, sul Social network, leggono, scrivono. Allora quella cosa di leggere e scrivere, aiuta. Apre la mentalità. Il computer ha salvato molte persone dal mio punto di vista. Internet ti da la possibilità di sapere tante cose in tempo reale che prima non si sapevano. Il futuro secondo me sarà sempre più tecnologico, poi una cosa evidente è che il mondo inve-
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ce di andare avanti nonostante la tecnologia, sta tornando indietro. Stiamo tornando alle campagne, perché abbiamo visto che se prendi una macchina e le fai fare quello che prima facevano cinquanta persone, queste cinquanta persone si trovano disoccupate. Siccome i potenti hanno sempre investito su ciò che piaceva a loro e non a far crescere una comunità, prima esistevano aziende che erano vere comunità, oggi la manovalanza non la vuole fare più nessuno. Poi c’è anche un altro fatto che penalizza la nostra città, anche se preciso che non voglio essere razzista, ed è la presenza di molti immigrati. Non li mettono a posto, ma tu prendi un immigrato, allora dagli la possibilità di lavorare regolarmente. Gli immigrati vengono in Italia, lavorano in nero, perché tanto per loro pure cinquanta euro, nel loro paese è come se fossero duecento. Bisogna prima dare lavoro a chi è del paese, dopo in un secondo momento se il cittadino rifiuta il lavoro che ha richiesto al collocamento, lo si da al secondo cittadino che non è italiano, come funziona in Australia, in altri paesi. Qui, invece è tutto fatto quasi per imbrogliare le persone, una cosa strudiata a tavolino, lo stato ma anche le istituzioni devono aiutarci, noi paghiamo la benzina con le tasse dell’ottocento... Ormai siamo Europa, l’Italia o cerca di diventare davvero parte dell’Europa o ci togliamo di mezzo… 10. “Ai Quartieri Spagnoli c’è un solo binario” La storia di Giuseppe Schisano22 D: Mi racconti la tua vita di giovane ai Quartieri Spagnoli di Napoli? R: Fino all’età di diciotto anni non è che abbia fatto chissà che cosa, ogni giorno scendi, fai le solite cose, vai a cercare il lavoro e non lo trovi, poi faccio parte di questo progetto che ci sta facendo riflettere su tante cose. La mia giornata di giovane: mi sveglio, scendo verso le dieci, non ho niente da fare. Ho interesse a cambiare le mie sorti qui, nei quartieri c’è poco di buono, anche se c’è meno brava gente, ci stanno più malviventi che altro, chi più lavora a nero, che si arrangia, chi vende la droga, anche se non è quello l’intento 22
Giuseppe Schisano ha 20 anni, vive ai Quartieri Spagnoli. L’incontro è avvenuto nella sede dell’associazione Socialmente pericolosi il 15 luglio 2013 alle ore 16.00 ed è durato circa un’ora.
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della sua vita, però è costretto a farlo. Non hai opportunità, visto che da adolescenti, non ti hanno dato opportunità di crescere in modo corretto, secondo me comunque poi te lo porti dietro. L’adolescenza è quella che conta di più secondo me. D: Il quartiere, la famiglia, le amicizie in che modo influenzano o hanno influenzato la tua vita? R: Il quartiere e la famiglia purtroppo non le scegli, se tu dopo vent’anni rifletti e metti insieme la famiglia, il quartiere e gli amici, allora ti poni una domanda che secondo me si fanno tutti i ragazzi qui, di come sarebbe stato se fossi nato in un’altra famiglia a Milano, o all’estero, sarei diverso sicuramente perché io qui vedo comunque un mortorio di niente, non hai binario… il binario è una cosa fondamentale e te lo da il quartiere e che te lo può trasmettere la famiglia. Però se la tua famiglia è nata qui e ha sempre visto quel binario, cioè un quartiere che sopravvive, non vive, per portare i figli avanti, per mangiare… su tutto, allora ogni cosa che capita a un tuo genitore lo fa per sé e per te che sei bambino. Alla fine io vedevo mio padre che era invalido, mo’ non ce l’ho più, allora cos’è successo, essendo invalido non poteva lavorare, prendeva una pensione minima di trecentocinquanta euro al mese, non credo che con una cifra del genere si può pagare un affitto o si può mangiare. Sarebbe una cosa bellissima se fosse così. Avendo già tre figli da portare avanti… tu vedi delle cose che rimangono impresse nella vita, quando cresci, nel senso che se tuo padre fa di tutto per darti da mangiare, allora è un principio che io assimilo e che quindi quando cresco devo fare di tutto per far crescere la mia famiglia all’età di 25-30 anni. Però crescendo a quell’età di diciannove, vent’anni, capisci che tu sarai uguale a tuo padre, tu vorresti cambiare, ma a te è stato insegnato così dal quartiere, dalla famiglia, dagli amici che ti circondano, perché poi tutti i ragazzi che conosci, non è che… qualcuno può pure stare meglio di te, poiché tu gli amici te li cerchi, sto parlando da piccolo. Fra questi magari c’è uno che ha soldi perché il padre li tiene, tu capisci che con questi non me la posso fare, per esempio. Poi ci siamo trovati cinque, sei ragazzi cresciuti insieme da adolescenti siamo cresciuti insieme e ancora ora siamo insieme perché abbiamo la mentalità di cambiare le nostri sorti in questo quartiere. Quando tu cresci, vedi la tua famiglia che ti manda a scuola e stanno: il figlio del camorrista, il figlio dello spacciatore e cresci in un ambiente di questo tipo, sono tutte teste bollenti, son tutti ragaz-
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zi svegli messi in una classe. Ma tu quando vai bene a scuola? Mai. Questa è una cosa voluta per me, perché io a un guaglione che viene da una famiglia di uno spacciatore non lo vado a mettere in una classe con altri figli di spacciatori o altri, perché un giorno se la possono fare insieme. Al figlio del boss non interessa andare bene a scuola, tiene la casa, il motorino, per mentalità perché al quartiere i soldi sono tutto. Se uno tiene i soldi tiene tutto, ma non è vero. Io un figlio lo farò solo se posso mandarlo a scuola, ma la scuola che gli insegni a parlare bene in italiano, non arrangiarsi come queste scuole qua… lo manderei nella scuola dove vanno i figli dei dottori, lo manderei a quella scuola li. Forse, mio figlio se lo mando a quella scuola, mi riesce buono, se tu un figlio che già ha la testa calda lo mandi dove ci sono tutti ragazzi disagiati, per me è destinato a vivere così… Io ora mi sono reso conto. I quartieri mi hanno solo insegnato ad aprire gli occhi, mi hanno insegnato a’cazzimma cioè se io vedo te che scrivi, mi sento spronato a imparare a farlo meglio, perché voglio evadere da questo quartiere, se voglio cambiare le mie sorti, io tengo a’cazzimma cioè il modo di fare, anche a rubare per esempio, quando hai un vissuto pieno di rabbia, di dolore, tu tieni a’cazzimma, perché hai tante cose dentro lo stomaco di quando eri piccolo. Quando vedi una persona che ti vuole mangiare perché ha più potere di te, tu devi in un modo o nell’altro capire come stare tu sopra di lui. È strano da capire però la strada ti insegna a capire molte cose, ti da quella sensibilità di vedere certe cose, però tutto il resto è una distruzione. D: Quando ti sposti in altre zone della città o vai fuori Napoli, c’è una forma di pregiudizio nei tuoi confronti? Di che tipo? R: Se devo essere sincero, il pregiudizio viene solo da una persona ignorante. Se non conosci in fondo la realtà di una persona, non la puoi giudicare. Io non posso giudicare una persona solo dall’aspetto, se io vado a Milano, o se un ragazzo napoletano non parla correttamente l’italiano, hanno pregiudizi secondo me. Però è un punto di vista, pure se ci sono persone così, secondo me se viene qui una persona di Milano, posso essere incuriosito dal suo modo di muoversi o di parlare, ma giudicare è solo legato all’ignoranza. Io non posso giudicare nessuno, poi ogni passato è vissuto. A me per esempio a volte è capitato che mi dicono “tu sei di Napoli, siete tutti quanti malamente”, però poi se tu sai il concetto che hai in testa, il punto di vista di vedere i quartieri, fai capire alla persona che si sta
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sbagliando, che ci possono essere malviventi ai quartieri, ci possono essere a Milano, a Brescia. In tutto il nord e tutto il sud ci sono persone buone e meno buone. Tu scegli il tuo percorso di vita, se sei buono scegli il tuo percorso di buono, se sei cattivo scegli il tuo percorso di cattivo. Mentre qui ai quartieri, se vedi sempre il male, il male, male, cresci dalla parte del male. Non vedi il bene, se io faccio parte di una “paranza” e vedo uno che uccide, tiene la pistola ecc., tu non riesci a capire altro finchè non diventi grosso, cioè che si “appiccica” con tutti, perché la paura quando sei piccolo non esiste. Paura è zero... Tu, qui quando sei piccolo e stai in strada capisci che è più una scuola criminale che una scuola statale o altro, il quartiere ti può insegnare più a delinquere che ad andare a scuola. Questo è il mio punto di vista, io sono stato sveglio a capire delle cose, poi è arrivato Fabio, mi sono successe cose ai quartieri che mi hanno insegnato a non fidarmi mai di nessuno, quando riesci c capire molti meccanismi, te ne vuoi uscire, poi se hai la capacità di inserirti in qualche associazione o progetto, lo fai perché hai la voglia di vedere cosa sta al di là dei quartieri. È questo che qui non ti fanno capire, se ci fossero dei centri sociali in grado di accogliere quei ragazzi che vogliono salvarsi, cinque o sei che siano, sarebbe diverso. D: Qual è la tua esperienza nei Socialmente pericolosi? R: È stata una vera e propria lezione di vita, fino a questo momento non avevo capito tante cose. Ho preso delle coltellate… ho vent’anni e già questi amici li conosco da quando ho nove anni, quindi undici anni per la strada ho fatto parecchie cose. A un certo punto ai quartieri i clan sono scomparsi, noi eravamo piccoli quando c’erano i clan, abbiamo visto sparatorie in diretta, ho visto morire una persona davanti a me e ti rimane quella cosa come se tu stessi guardando un film, però è una scena reale. Ti da quel senso di freddezza, c’è anche a chi piace, che è incuriosito da un fatto del genere, di chi era e come era successo perché stando in giro, anche se i quartieri sono grandi, tutti sanno tutto di tutti. Quando è arrivato Fabio e ha proposto il progetto, dopo tre mesi ho subìto delle coltellate alla gamba, hanno perforato la vena femorale, non lo so come ma sono vivo… perché potevo anche morire alla fine... Da quel momento da quando ho preso le coltellate, sono stato in ospedale, ho pensato ai valori, alla famiglia, io potevo anche scendere, impugnare una pistola, andare da chi mi aveva fatto questa cosa, non mi sarei fatto nessuno scrupolo perché tanto lui mi stava uccidendo. Men-
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tre immaginavo questa scena in cui mi sarei potuto vendicare, ho pensato anche alle cose buone che ho fatto. Non potevo immaginare che sarebbe successo in questo modo il giorno che sono stato accoltellato, c’era questa persona e poi un altro che si è inserito e che diceva di essere suo cugino e che mi chiese perché stavo litigando con suo cugino. Io poi, quando litigavo ero molto bravo a muovermi con le mani, mi disse che era suo cugino, però lui mi conosceva perché abitava di fronte casa mia. Io però sapevo che non era suo cugino. Alla fine s’incendiò un po’ la discussione, lui se ne andò e io pure per i fatti miei, poi di nuovo incontrai quello che disse “quello è mio cugino,” che non era vero, mi chiese di scendere un attimo in modo gentile che doveva dirmi una cosa, io scesi dal motorino e mi fecero questa cosa. Poi in ospedale ho iniziato a pensare a quello che sarebbe potuto succedere se io mi fossi vendicato, se non avessero trovato me poi alla fine potevano fare qualcosa a mio fratello più grande, perché ai quartieri funziona così, se devono fare uno sgarbo a te e non ti trovano, poi se la prendono con la famiglia. Che sarebbe successo se io mi fossi vendicato? Avrebbero fatto uno sfregio alla mia famiglia, sarei scappato e che senso avrebbe avuto la mia vita? È quello che devono capire prima di fare certe cose. Se io sparo a uno, che basta un attimo... dopo? È questo che il progetto mi ha fatto capire. Ho fatto belle cose che mi hanno dato emozione, fuori dal quartiere. Ho conosciuto persone che mi hanno capito e ascoltato. Ci hanno reputato persone con capacità, tu allora ti senti gratificato e che puoi farcela, che ti servono solo i mezzi per farlo. Ti senti rinato, a vent’anni hai più forza per andare avanti, acquisti fiducia in te stesso, vedi quello che spara e dici “guarda che è scemo.” Riesci a capire quelle cose che non sapevi quando eri piccolo, però te lo potevano far capire quando eri ragazzino, non bisogna aspettare di avere vent’anni, perché io poi alla fine ho incontrato Fabio e ho capito, ma chi non capisce? A chi non lo fanno capire? Ecco quello che l’associazione vuole fare, credere in noi e darci l’opportunità di lavorare, di guadagnare qualcosa per creare e portare avanti una famiglia. Una volta raggiunto quest’obiettivo, io voglio fare qualcosa per questi nuovi guaglioni, prendere i ragazzi che fanno queste cose e proporgli delle attività, perché alla fine scendono nel quartiere e non tengono niente da fare. Non hanno niente da fare, non tengono un campetto di calcio e giocano, stanno così… allora è normale che vedono quello che fanno gli altri, chi ha il motorino e chi non, chi magari se lo può permettere e chi non. Così si comincia a stare nelle di-
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scussioni, anche discussioni accese con coltelli, litigate e così via. È questo che i quartieri ti possono dare se vivi in questo modo. D: Cos’è per te il futuro e come lo vedi? R: Eh… questa è tosta. Il futuro io ancora no riesco ad immaginarlo, voglio fare tante cose ma non lo vedo convincente, infatti a volte mi chiedo che cosa devo fare… io devo guadagnare per campà, io devo lavorare e qui devi farlo sempre a nero, a questo punto lavoro solo io, perché ti faccio lavorare però tu le tasse a me non le paghi. Io ci sono andato a lavorare, a tredici anni, facevo il barista, ho anche il mestiere, lo so fare, ho imparato presto perché hai voglia di imparare di cambiare la tua situazione, però io ho lavorato quattro anni in nero, non tengo un contributo versato ora che ho vent’anni. Ho lavorato cinque, sei anni solo io. L’ho capito adesso, che so della questione delle tasse, a cosa servono le tasse, quando avevo undici anni non pensavo alla pensione, ai contributi… perché ci hanno chiuso dentro sta mentalità, allora io il futuro non me lo immagino, anche se vedo il progetto che sta andando avanti, spero di vedere il futuro nel progetto perché sto mettendo la mia anima e la mia volontà in questo progetto, ma ancora non vedo futuro, non vedo niente. Il mio futuro non lo vedo a Napoli. Fuori anche in Germania, in Europa, morirei a stare lontano dalla mia famiglia però è l’unica soluzione, però io ora sono fidanzato da un anno e mezzo… ci sono tante situazioni e ci penso tanto. Rifletto e dico: “ma io? Che faccio? Più passa il tempo, più ci pensi, ti senti un essere inutile”. Così si fanno le pazzie, le rapine, che si va in banca e si spara, le sparatorie. Perché a volte tu dici: “io che aggià fa?”A volte pensi che la vita è bella, piena di cose, altre volte invece che non vuoi fare nulla. È brutto, perché c’è stata tolta la possibilità di fare tante cose, di studiare. I diritti, che stanno nella costituzione, ce li hanno tolti. Qui c’è una realtà immaginaria, c’è un muro come se non si vedesse, trasparente, come un muro di Berlino. La scuola per me nei quartieri non è scuola, serve solo al fatto che una madre non tiene un figlio a casa in alcune ore, solo a questo. “A me per esempio in prima media hanno messo il sostegno e perché? Io non sono intelligente come un’altra persona?” È brutto, allora perché una famiglia non si può permettere di mandare un figlio a una scuola diversa, che si paga, è costretto a crescere così. Ci sono però pure persone che si sono diplomate e hanno lavorato, però non è giusto che uno per andare a scuola deve fare questo sacrificio perché è nato ai quartieri. Lo sta-
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to non ti aiuta, non ti agevola. Io per esempio non ho più mio padre, mia madre non tiene redditi, non ha niente, ma nessuno è mai venuto a bussare alla nostra porta e a chiederci come mangiamo? Questo è voluto, il problema non viene proprio posto, perché se è dallo stato che parte questa cosa, che sa chi è residente in certe case, dovrebbe capire come vivono queste persone, controllare ecc. Bisogna chiedersi perché certe persone a volte rubano, se una persona stesse bene non andrebbe a vendere la droga o altro. Sto facendo un esempio, non è la mia realtà. Mia madre va a fare le pulizie, o altro. Mia madre è un uomo perché pensa a me, mi compra un paio di scarpe perché io ancora non sono in grado di farlo da solo, però tu scleri quando pensi a queste cose. Se tu vai a scuola con la cartella e i quaderni brutti perché non puoi permettertelo, la vivi diversamente anche per queste cose. Un figlio mio non voglio farlo crescere così, non do torto a mio padre e a mia madre, però io non voglio farlo crescere così.
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“CE LA FARÒ!”1 Note conclusive
Trarre le conclusioni alla fine di un lavoro di ricerca che vede protagonisti i giovani, non è mai tanto semplice. I giovani, lo abbiamo messo in evidenza fin dalle prime pagine di questo volume, sono una categoria sociale in fermento continuo. La giovinezza è una tappa della vita, che per quanto temporanea, segna il futuro di un individuo, soprattutto quando il percorso vissuto, è caratterizzato da episodi non sempre in linea con l’idea tradizionale dell’essere giovani, cioè vivere all’interno di una famiglia solida, frequentare la scuola, viaggiare, maturare e così via. Quando questi punti di riferimento e momenti vengono a mancare, diventa più complicata per chi la vive, ma anche per chi la vuole studiare, come abbiamo cercato di fare noi nelle pagine precedenti. Il titolo di queste note conclusive, che in realtà come per tutte le ricerche sociologiche, rappresentano non un punto di arrivo, ma di partenza per sviluppare ancora altri temi, è “Ce la farò”. Si tratta del titolo della canzone scritta dal cantautore Nino Forte, per i giovani Socialmente pericolosi dei Quartieri Spagnoli di Napoli, oggetto della nostra ricerca. Il titolo, riassume se vogliamo, l’analisi che emerge all’interno del testo nelle storie di vita dei giovani napoletani. Se da un lato il loro percorso di crescita in questi quartieri, è segnato fin dai primi anni di vita, dalla malavita e dalla presenza della camorra, che come una macchia li avvolge rendendo molti di loro impotenti o più vulnerabili a cadere nelle sue dinamiche. Dall’altro, rappresenta il grido di aiuto, ma anche di chi vuole farcela, nonostante i pregiudizi nei loro confronti. Non solo quindi una sfida, ma un guardare al futuro con la consapevolezza che anche se si tratta di una salita ripida, vogliono farcela. 1
Brano scritto da Nino Forte e Carmine Pagano e cantato con i giovani Socialmente pericolosi.
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Proprio nelle risposte sul futuro emerge quest’elemento di incertezza, ma anche di non voler tacere e dimostrare che nonostante la provenienza geografica, vogliono fare passi in avanti per migliorare la loro vita di giovane oggi e di adulto, domani. L’analisi delle loro storie di vita appare condizionata dal quartiere, che come abbiamo avuto modo di analizzare, sembra quasi essersi fermato a molti anni fa. Il tempo sembra fermarsi dentro i quartieri e con loro anche i suoi abitanti. Diverso appare il punto di vista dei giovani Socialmente pericolosi, che si ribellano all’ideale di giovane “malavitoso” diffuso fuori dai vicoli del quartiere, nella Napoli benestante e nel resto d’Italia. La speranza, per quanto si veli di dubbi e incertezze, spinge i giovani rispetto agli anni passati, in cui erano in balia della strada e della malavita, a guardare avanti dentro un progetto che ha come motto “abbandonare le pistole, per impugnare una telecamera”. Il cinema, i documentari, le testimonianze dirette in televisione delle loro esperienze di vita, diventano per ognuno di loro una scommessa, ma anche un impegno concreto a partecipare alla costruzione del loro futuro attraverso una macchina da presa, che diventa uno strumento, ma anche un pilastro a cui aggrapparsi. L’associazione ha infatti come scopo la creazione di una scuola di mestieri, che possa offrire al giovane di un quartiere disagiato, dove le alternative alla malavita da sempre sono inesistenti, una possibilità di crescita, guadagno e condivisione di valori fondati sulla legalità e sul lavoro onesto, anche attraverso la creatività cinematografica. Per loro, ogni confronto con l’esterno diventa un trampolino di lancio nella possibilità di un futuro migliore. Ogni persona2 che inizia a credere in loro, come Fabio Venditti, fondatore dell’associazione diviene l’apertura di dinamiche culturali e sociali da sempre ostacolate e chiuse nella logica del quartiere come ghetto. A queste possibilità di confronto, si aggiunge anche l’importanza di alcune esperienze di vita a loro simili, come quella di Gaetano Di
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Insieme a Fabio Venditti, altri professionisti hanno trascorso tempo con i Socialmente pericolosi, coinvolgendoli e credendo nelle loro potenzialità, come Marcello Masi, direttore di tg2 e Maria Concetta Mattei, giornalista tg2.
“Ce la farò!”
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Vaio3, ex delinquente di Scampia, che è riuscito a cambiare vita, divenendo un affermato produttore cinematografico, autore del volume “Non mi avrete mai” che può essere considerata una storia di vita da analizzare sociologicamente.
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Gaetano Di Vaio è oggi un affermato produttore del cinema italiano indipendente, con un passato di ex delinquente. E’ regista e produttore dei documentari “Il loro Natale,” “Interdizione perpetua,” “Largo Baracche”. Ha prodotto di recente “Take five”di Guido Lombardi. E’ autore del volume scritto con Guido Lombardi, Non mi avrete mai, Torino, Einaudi, 2013.
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FABIO VENDITTI1
POSTFAZIONE
Un incontro in carcere, una richiesta di aiuto: un ragazzo napoletano di 17 anni è già tra i migliori specialisti negli strappi di Rolex e il padre rinchiuso all’ergastolo può soltanto tentare di impedire alla disperazione di abbattere le soglie della resistenza. La vita dell’ex boss ormai è andata, persa nelle decine di anni di carcere fatti e da fare. Tramandare un’esistenza così a un ragazzo che è stato concepito e subito abbandonato tra una latitanza e una detenzione sarebbe la sconfitta finale. “Lascia perdere, con i ragazzi dei Quartieri Spagnoli non c’è niente da fare”. I consigli e gli ‘incoraggiamenti’ si moltiplicano. La ‘Buona società’ considera l’esclusione un dato genetico e immutabile, incontrovertibile, incontrastabile. Come una catastrofe naturale, come un terremoto o un uragano. E invece le persone non nascono come catastrofi naturali. Al massimo le subiscono o lo diventano. Angelo Romeo riporta la bellissima frase di uno dei ragazzi del progetto Socialmente Pericolosi: “Qui conosciamo un binario solo”. Questa espressione dice tutto. E spiega l’origine del nome provocatorio ma, soprattutto, di rivolta che abbiamo deciso per la nostra associazione. Il pericolo consiste nella determinazione a non essere come la ‘genetica sociale’ prevede da tanto tempo. Cioè, nella scelta di non tramandare il percorso criminale, come quel padre voleva (o diceva di volere) per suo figlio. Sincero o soltanto furbo, quell’appello è stato preso sul serio. All’inizio, il problema è conquistare fiducia. Già, perché chi è abituato a “un binario solo” ha grandi difficoltà a credere che si voglia fare una cosa per l’affermazione di diritti. È un termine privo di senso in un contesto come quello dei Quartieri, dove il diritto si conquista dimostrando di essere più “tuosto”. Viene massacrato il senso 1
Giornalista, ha lavorato a Mediaset e in Rai, è il fondatore e il vice presidente dell’Associazione “Socialmente pericolosi” ai Quartieri Spagnoli di Napoli. Ha pubblicato con M. Savio, La malavita. Lettera di un boss della camorra al figlio, Milano, Mondadori, 2006.
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vero della parola. Diritto diventa sottomissione dell’altro. Se l’idea è quella di conquistare la coscienza di sé come soggetto capace di affermarsi con strumenti completamente diversi dalla prevaricazione, bisogna, tanto per cominciare, dimostrare la propria buona fede. Quale può essere l’obiettivo di chi vuole convincere il ragazzo da un binario solo a scavare nel magazzino delle proprie capacità? Riserva che lui non sa di avere. Nessuno glielo aveva mai riconosciuto. A cominciare dalla “Buona società”. Poi subentra il concetto di insieme, nel senso della crescita collettiva e dello scambio. E qui bisogna buttare giù una muraglia di ghisa. ‘Insieme’ non esiste nella cultura dei vicoli, di quelli di “in miezz’ a via”. Esiste il concetto di clan o di paranza, con i capi e i comparielli. A fiducia zero l’uno verso l’altro. Conta soltanto l’interesse, il guadagno: il tradimento – l’infamità – può arrivare inaspettato in ogni momento se subentra un interesse superiore. L’egoismo non è un difetto, è un dato di fatto e di sopravvivenza. Le informazioni e le conoscenze non si condividono, e se si fa è sempre con quella componente di falso che preserva dal pericolo di un plusvalore per il destinatario della condivisione. Costruire insieme: una bella arrampicata. Una cosa molto socialmente pericolosa e straordinariamente nuova. Il piacere del conoscere. È la naturale tappa successiva. Chi non è mai andato a scuola (o se lo ha fatto è come se non l’avesse fatto) si lascia prendere dalla soddisfazione dell’imparare. Con il proprio lavoro e con la ricerca delle proprie abilità, comincia a usare altre parti di cervello in una forma del tutto spontanea. E gli si legge in faccia il piacere della scoperta. “Non riesco a capire – mi ha detto Angelo Romeo durante i suoi giorni nei Quartieri – perché nessuno abbia mai fatto qualcosa in un luogo così”. Perché bisogna essere socialmente pericolosi, mi viene da rispondere. Si suppone che sia un problema di ordine pubblico, di forze di polizia, di addetti alla sicurezza. È un problema loro. Si suppone che sia un gioco di appelli ai turisti perché vadano in giro senza gioielli. Si suppone che sia come quando si consiglia a un velista di non uscire con il vento o il mare troppo forti. Sempre nel concetto del confronto fra gli uomini e la forza della natura. Come se le persone dei Quartieri fossero la tempesta per definizione. E le ‘guardie’ il magico ombrello. La criminalità organizzata vive e vince di connivenze. Non esisterebbe senza la compenetrazione con gli apparati istituzionali. Sarebbe stata sterminata in un lampo. Non è una mia illazione: è tutto scritto in
F. Venditti - Postfazione
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una relazione della Commissione Parlamentare Antimafia di 21 anni fa (approvata all’unanimità, presidente l’on. Luciano Violante). Si capisce, dunque, perché il figlio del camorrista debba fare il camorrista: perpetuare questo equilibrio significa perpetuare una forza criminale che non è quella del boss di quartiere, ma di un sistema che attacca (e contemporaneamente gestisce) pezzi interi di potere pubblico. E tanti, tanti, tanti soldi. E Sistema va scritto con la maiuscola: a Napoli l’intreccio camorra-società si chiama così. La comunicazione su questo tipo di situazioni vive di grandi ipocrisie. Viene fatta passare una distinzione falsa e truffaldina fra il Bene e il Male. Serve ad evitare che qualcuno diventi socialmente pericoloso nel modo in cui lo intendiamo noi. L’obiettivo è creare un’azienda, dei posti di lavoro che restino. Esistono molti film con i cosiddetti attori di strada. Non è questo il traguardo che vogliamo raggiungere, visto che non crea futuro. Di solito è per una volta e basta. Mentre i ragazzi del progetto ‘Socialmente Pericolosi’ stanno imparando a usare la parola futuro. Con i volontari che ci aiutano e gestiscono i corsi, i giovani che partecipano al progetto vengono formati nei diversi mestieri della tv e del cinema. Per quanto mi risulta, una cosa del genere in Italia non esiste: un unico soggetto che cura, gestisce e produce tutto, dall’idea iniziale, alla scrittura, alla realizzazione tecnica, alla commercializzazione. Con un’offerta diversificata, che spazia dal prodotto di informazione a quello di finzione. A ben vedere, cosa esiste di più divertente e socialmente scombinato del fare un’azienda nel posto più assurdo – in natura – per quell’azienda? Tv e cinema si fanno a Roma e Milano, per lo più. Noi vogliamo farli in quella che è considerata una delle zone più senza speranza del nostro Paese.
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RINGRAZIAMENTI
Ringrazio in maniera particolare Fabio Venditti, fondatore dell’Associazione “Socialmente Pericolosi” nei Quartieri Spagnoli di Napoli. Lo ringrazio per avermi accompagnato in questo viaggio nei quartieri e per la grande disponibilità manifestata fin dal primo incontro. Un mio speciale ringraziamento ai ragazzi dei Quartieri Spagnoli: Mariano, Carmine, Gianni, Gennaro, Giuseppe e ai tanti volti che ho avuto modo di incontrare per le strade nella mia permanenza ai quartieri e le cui storie non sono contenute in questo testo. Grazie ai colleghi Maurizio Merico, Mariella Nocenzi, Emanuele Rossi, che hanno letto questo testo con accurata attenzione e mi hanno fornito preziosi consigli. Grazie alla Prof.ssa Anna Maria Curcio, a cui devo tanto, soprattutto per gli stimoli a fare sempre meglio. Grazie a chi mi sostiene nel privato: la mia famiglia e i tanti cari amici. Infine un doveroso ringraziamento al Prof. Franco Ferrarotti, che ha creduto in questo progetto e ha scritto per me pagine cariche di grande significato.
Archivio Fotografico I Quartieri Spagnoli: vissuti e identità
Foto n. 1 - I giovani Socialmente pericolosi impegnati nelle attività di produzione cinematografica a Largo Baracche nei Quartieri Spagnoli – foto di Fabio Venditti
Foto n. 2 - Altarino votivo dentro i quartieri – foto di Gianni Savio e i Socialmente pericolosi
Foto n. 3 - Interno Quartieri Spagnoli – foto di Gianni Savio e i Socialmente pericolosi
Foto n. 4 - I quartieri: le attività commerciali – foto di Gianni Savio e i Socialmente pericolosi
Foto n. 5 - Panni stesi da balcone – foto di Gianni Savio e i Socialmente pericolosi
Foto n. 6 - Largo Baracche, luogo d’ incontro giovanile – foto di Gianni Savio e i Socialmente pericolosi
Foto n. 7 - Venditore ambulante su via Roma – foto di Mariangela Sapio
Foto n. 8 - I quartieri dall’alto – foto di Gianni Savio e i Socialmente pericolosi
Foto n. 9 - Una mattina dei Quartieri Spagnoli – foto di Gianni Savio e i Socialmente pericolosi
Foto n. 10 - Particolare interno Quartieri – foto di Gianni Savio e i Socialmente pericolosi
ETEROTOPIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Salvo Vaccaro
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Nerozzi Bellman Patrizia (a cura di), Internet e le muse. La rivoluzione digitale nella cultura umanistica Vaccaro Salvo (a cura di), Il secolo deleuziano Berni Stefano, Soggetti al potere. Per una genealogia del pensiero di Michel Foucault Carbone Paola (a cura di), Congenialità e traduzione Marzocca Ottavio, Transizioni senza meta. Oltremarxismo e antieconomia Carbone Paola (a cura di), Le comunità virtuali Fadini Ubaldo, Principio metamorfosi. Verso un’antropologia dell’artificiale Mello Patrizia (a cura di), Spazi della patologia, patologia degli spazi Petrilli Susan, Ponzio Augusto, Fuori campo. I segni del corpo tra rappresentazione ed eccedenza Carmagnola Fulvio, La specie poetica. Teorie della mente e intelligenza sociale Deleuze Gilles, La passione dell’immaginazione. L’idea della genesi nell’estetica di Kant De Michele Girolamo, Tiri Mancini. Walter Benjamin e la critica italiana Riccio Franco, Vaccaro Salvo (a cura di), Nietzsche in lingua minore Carbone Paola, Patchwork Theory. Dalla letteratura postmoderna all’ipertesto Ferri Paolo, La rivoluzione digitale. Comunità, individuo e testo nell’era di Internet Foucault Michel, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie Bataille Georges, La condizione del peccato Carbone Paola (a cura di), eLiterature in ePublishing Dal Bo Federico, Società e discorso. L’etica della comunicazione in Karl Otto Apel e Jacques Derrida Deleuze Gilles, Istinti e istituzioni Paquot Thierry, L’utopia ovvero un ideale equivoco Pirrone Marco Antonio, Approdi e scogli. Le migrazioni internazionali nel Mediterraneo Ponzio Augusto, Individuo umano, linguaggio e globalizzazione nella filosofia di Adam Schaff Simone Anna, Divenire sans papiers. Sociologia dei dissensi metropolitani Vaccaro Salvo (a cura di), La censura infinita. Informazione in guerra, guerra all’informazione Artaud Antonin, CsO. Il corpo senz’Organi Moulian Tomás, Una rivoluzione capitalista. Il Cile, primo laboratorio mondiale del neoliberismo Thea Paolo, Il vero cioè il falso. Invenzione, riconoscimento e rivelazione nell’arte Amato Pierandrea (a cura di), La biopolitica. Il potere e la costituzione della soggettività Bertuccioli Manolo, Carlos Castaneda e i navigatori dell’infinito Bonaiuti Gianluca, Simoncini Alessandro (a cura di), La catastrofe e il parassita. Scenari della transizione globale
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Buchbinder David, Sii uomo! Studio sulle identità maschili Cozzo Andrea, Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa Deleuze Gilles, Fuori dai cardini del tempo, Lezioni su Kant Galluzzi Francesco, Roba di cui sono fatti i sogni. Arte e scrittura nella modernità Leghissa Giovanni, Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione Maistrini Maria, Il figurale in J.-F. Lyotard Montanari Moreno, Il Tao di Nietzsche Vaccaro Salvo, Globalizzazione e diritti umani. Filosofia e politica della modernità Bazzanella Emiliano, Il ritornello. La questione del senso in Deleuze-Guattari Fabbri Lorenzo, L’addomesticamento di Derrida. Pragmatismo/ Decostruzione Marcenò Serena, Le tecnologie politiche dell’acqua. Governance e conflitti in Palestina Piana Gabriele, Conoscenza e riconoscimento del corpo Prebisch Raul, La crisi dello sviluppo argentino. Dalla frustrazione alla crescita vigorosa Scopelliti Paolo, Psicanalisi surrealista. L’influenza del surrealismo su Hesnard, Lacan, Deleuze e Guattari Vaccaro Salvo, Biopolitica e disciplina. Michel Foucault e l’esperienza del GIP (Group d’Information sur les prisons) Vercelloni Luca, Viaggio intorno al gusto. L’odissea della sensibilità occidentale dalla società di corte all’edonismo di massa Caronia Antonio, Livraghi Enrico, Pezzano Simona, L’arte nell’era della producibilità digitale Dino Alessandra (a cura di), La violenza tollerata. Mafia, poteri, disobbedienza Rodda Fabio, Cioran, l’antiprofeta. Fisionomia di un fallimento Scolari Raffaele, Paesaggi senza spettatori. Territori e luoghi del presente Pastore Luigi, Limnatis G. Nectarios (a cura di), Prospettive del postmoderno Vol.1. Profili epistemici Poidimani Nicoletta, Oltre le monocolture del genere Pastore Luigi, Limnatis G. Nectarios (a cura di), Prospettive del postmoderno Vol.2. Profili epistemici Bellini Paolo, Cyberfilosofia del potere. Immaginari, ideologie e conflitti della civiltà Bazzanella Emiliano, Etica del tardocapitalismo Cuttita Paolo, Segnali di confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondo-frontiera De Conciliis Eleonora (a cura di), Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno Di Benedetto Giovanni, Il naufragio e la notte. La questione migrante tra accoglienza, indiffernza ed ostilità Pagliani Piero, Naxalbari-India. L’insurrezione nella futura “terza potenza mondiale” Vaccaro Giovanbattista, Per la critica della società della merce Vinale Adriano (a cura di), Biopolitica e democrazia Demichelis Lelio, Leghissa Giovanni (a cura di), Biopolitiche del lavoro Corradi Luca, Perocco Fabio (a cura di), Sociologia e globalizzazione Bellini Paolo (a cura di), La rete e il labirinto. Tecnologia, identità e simbolica politica
66. Dalla Vigna Pierre, A partire da Merleau-Ponty. L’evoluzione delle concezioni estetiche merleau-pontyane nella filosofia francese e negli stili dell’età contemporanea 67. Riccioni Ilaria (a cura di), Comunicazione, cultura, territorio. Contributi della sociologia contemporanea, 68. Pasquino Monica, Plastina Sandra (a cura di), Fare e disfare. Otto saggi a partire da Judith Butler 69. Bertoldo Roberto, Anarchismo senza anarchia. Idee per una democrazia anarchica 70. Del Bono Serena, Foucault, pensare l’infinito. Dall’età della rappresentazione all’età del simulacro 71. Dino Alessandro e Licia A. Callari (a cura di), Coscienza e potere. Narrazioni attraverso il mito 72. Farci Manolo, Pezzano Simona (a cura di), Blue lit stage. Realtà e rappresentazione mediatica della tortura 73. La Grassa Gianfranco, Tutto torna ma diverso. Capitalismo o capitalismi? 74. Dalla Vigna Pierre, La Pattumiera della storia. Beni culturali e società dello spettacolo 75. Palumbo Antonino, Vaccaro Salvo (a cura di), Governance e democrazia. Tecniche del potere e legittimità dei processi di globalizzazione 76. Vaccaro Giovanbattista (a cura di), Al di là dell’economico. Per una critica filosofica dell’economia 77. Meattini Valerio, Pastore Luigi (a cura di), Identità, individuo, soggetto tra moderno e postmoderno 78. Dino Alessandra (a cura di), Criminalità dei potenti e metodo mafioso 79. Scolari Raffaele, Filosofi e del mastodontico. Figure contemporanee del sublime della grande dimensione 80. Trasatti Filippo, Leggere Deleuze attraverso Millepiani 81. Manicardi Enrico, Liberi dalla civiltà. Spunti per una critica radicale ai fondamenti della civilizzazione: dominio, cultura, paura, economia, tecnologia 82. Vaccaro Gianbattista, Antropologia e utopia. Saggio su Herbert Marcuse 83. Trasatti Filippo, Filippi Massimo (a cura di), Nell’albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia 84. Franck Giorgio, Il feticcio e la rovina. Società dello spettacolo e destino dell’arte 85. Marzocca Ottavio (a cura di), Governare líambiente? La crisi ecologica tra poteri, saperi e conflitti 86. Grossmann Henryk, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista 87. Pullia Francesco, Dimenticare Cartesio. Ecosofia per la compresenza 88. Bazzanella Emiliano, Religio I. Senso e fede nel tardocapitalismo 89. Foucault Michel, La società disciplinare 90. Palano Damiano, Volti della paura. Figure del disordine all’alba dell’era biopolitica 91. Simone Anna, I corpi del reato. Sessualità e sicurezza nelle società del rischio 92. De Gaspari Mario, Malacittà. La finanza immobiliare contro la società civile 93. Ruta Carlo, Guerre solo ingiuste. La legittimazione dei conflitti e l’America dall’Vietnam all’Afghanistan 94. Frazzetto Giuseppe, Molte vite in multiversi. Nuovi media e arte quotidiana
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Bazzanella Emiliano, Religio II. La religione del soggetto Brindisi Gianvito, de Conciliis Eleonora (a cura di), Lavoro, merce, desiderio Casiccia Alessandro, I paradossi della società competitiva Castanò Ermanno, Ecologia e potere. Un saggio su Murray Bookchin d’Errico Stefano, Il socialismo libertario ed umanista oggi fra politica ed antipolitica 100. Tursi Antonio, Politica 2.0. Blog, Facebook, YouTube, WikiLeaks: ripensare la sfera pubblica 101. Lombardi Chiara, Mondi nuovi a teatro. L’immagine del mondo sulle scene europee di Cinquecento e Seicento: spazi, economia, società 102. Petrillo Antonello (a cura di), Società civile in Iraq. Retoriche sullo “scontro di civiltà” nella terra tra i due fiumi 103. Paolo Bellini, Mitopie tecnopolitiche. Stato, nazione, impero e globalizzazione 104. Palumbo Antonino, Segreto Viviana (a cura di), Globalizzazione e governance delle società multiculturali 105. Bertoldo Roberto, Nullismo e letteratura. Al di là del nichilismo e del postmoderno debole. Saggio sulla scientificità dell’opera letteraria 106. Ruggero D’Alessandro, La comunità possibile. La democrazia consiliare in Rosa Luxemburg e Hannah Arendt, 107. Tessari Alessandro (a cura di), Sindrome giapponese. La catastrofe nucleare da Chernobyl a Fukushima 108. Bonazzi Matteo, Carmagnola Fulvio, Il fantasma della libertà. Inconscio e politica al tempo di Berlusconi, 2011 109. Mario De Gaspari, La Bolla immobiliare. Le conseguenze economiche delle politiche urbane speculative, 2011 110. Bruni Sara Elena Anna, Colavero Paolo, Nettuno Antonio (a cura di), L’animale di gruppo. Etologia e psiconalisi di gruppo. Riflessioni gruppali da un seminario urbinate, 2011 111. Segreto Viviana, «Il padre di tutte le cose» Appunti per una pedagogia del conflitto, 2011 112. Alessandra Dino (a cura di), Poteri criminali e crisi della democrazia, 2011 113. Serena Marcenò, Biopolitica e sovranità. Concetti e pratiche di governo alle soglie della modernità 114. Cosimo Degli Atti, Soggetto e verità. Michel Foucault e l’Etica della cura di sé 115. Pascal Boniface, Verso la quarta guerra mondiale 116. Guido Dalla Casa, L’ecologia profonda. Lineamenti per una nuova visione del mondo 117. Il clown. Il meglio di Wikileaks sull’anomalia italiana, introduzione di Marco Marsili 118. Carlo Grassi, Sociologia della cultura tra critica e clinica. Battaile, Barthes, Lyotard 119. Friedrich Georg Jünger, Ernst Jünger, Guerra e guerrieri. Discorso 120. Emma Palese, Benvenuti a Gattaca. Corpo liquido, pedicopolitica, genetocrazia 121. Anna Simone (a cura di), Sessismo democratico. L’uso strumentale delle donne nel neo liberismo 122. Matthew Calarco, Zoografie. La questione dell’animale da Heidegger a Derrida 123. Luigi Vergallo, Economia reale ed economia sommersa nel riminese in prospettiva storica 124. Salvo Vaccaro (a cura di), L’onda araba. I documento delle rivolte
125. Valeria Nuzzo, L’immagine per il paesaggio e l’architettura. Percorsi didattici per la scuola 126. Félix Guattari, Una tomba per Edipo. Introduzione di Gilles Deleuze 127. Raffaele Federici, Sociologie del segreto 128. Luca Taddio, Global revolution. Da Occupy Wall Street a una nuova democrazia 129. Enrique Dussel, Indignados 130. James Tobin, Tobin Tax 131. Jean-François Lyotard, Istruzioni pagane 132. Delfo Cecchi, Cibo, corpo, narrazione. Sondaggi estetici 133. Mario Giorgetti Fumel, Federico Chicchi (a cura di), Il tempo della precarietà Sofferenza soggettiva e disagio della postmodernità 134. Spartaco Pupo, Robert Nisbet e il conservatorismo sociale 135. Giuseppina Tumminelli, Strategie di ri-produzione. Aziende agricole e strutture familiari nella Sicilia centro-occidentale 136. Iris Gavazzi, Il vampiresco. Percorsi nel brutto 137. Ferruccio Capelli, Indignarsi è giusto 138. Enrico Manicardi, L’ultima era. Comparsa, decorso, effetti di quella patologia sociale ed ecologica chiamata civiltà 139. Manuele Bellini, Corpo e rivoluzione. Sulla filosofia di Luciano Parinetto 140. Giovan Battista Vaccaro, Le idee degli anni Sessanta 141. Milena Meo, Il corpo politico. Biopotere, generazione e produzione di soggettività femminili 142. Massimiliano Vaghi, L’idea dell’India nell’Europa moderna (secoli XVII-XX) 143. Gianluca Cuozzo, Mr. Steve Jobs. Sognatore di computer 144. Paolo Cuttitta, Lo spettacolo del confine. Lampedusa tra produzione e messa in scena della frontiera 145. Emiliano Bazzanella, Religio III. Logica e follia 146. Emma Palese, La filosofia politica di Zygmut Bauman. Individuo, società, potere, etica, religione nella liquidità del nostro tempo 147. Emma Palese, Mostri, draghi e vampiri. Dal meraviglioso totalizzante alla naturalizzazione delle differenze 148. Matteo Bonazzi, Lacan e le politiche dell’inconscio. Clinica dell’immaginario contemporaneo 149. Eleonora de Conciliis, Il potere della comparazione. Un gioco sociologico 150. L’apartheid in Palestina. Il rapporto Human Rights Watch sui territori arabi occupati da Israele 151. Fulvio Carmagnola, Clinamen. Lo spazio estetico nell’immaginario contemporaneo 152. Francesco Pullia, Al punto di arrivo comune. Per una critica della filosofia del mattatoio 153. Maurizio Soldini, Hume e la bioetica 154. Gianluca Cuozzo, Gioco d’azzardo. La società dello spreco e i suoi miti 155. Andrea Gilardoni, Distruzioni. Potere & Dominio I 156. Andrea Gilardoni, (Dis)obbedienza. Meccanismi, strategie, argomenti. Potere & Dominio II 157. Nicoletta Vallorani, Millennium London, Of Other Spaces and the Metropolis 158. Giuseppe Armocida, Gaetana S. Rigo (a cura di), Dove mi ammalavo. La geografia medica nel pensiero scientifico del XIX secolo
159. Salvo Torre, Dominio, natura, democrazia. Comunità umane e comunità ecologiche 160. Tindaro Bellinvia, Xenofobia, sicurezze, resistenza. L’ordine pubblico in una città “rossa” (il caso Pisa) 161. Amalia Rossi, Lorenzo D’Angelo (a cura di), Antropologia, risorse naturali e conflitti ambientali 162. Augusto Illuminati, Teologia dei quattro elementi, Manifesto per un politeismo politico 163. Giovanni Leghissa, Neoliberalismo, Un’introduzione critica 164. Anna Sica, Alison Wilson, The Murray Edwards Duse Collection 165. Stefano Cardini (a cura di), Piazza Fontana. 43 anni dopo. Le verità di cui abbiamo bisogno 166. Isacco Turina, Chiesa e biopolitica. Il discorso cattolico su famiglia, sessualità e vita umana da Pio XI a Benedetto XVI 167. Felice Papparo, Perdere tempo 168. Ugo Maria Olivieri, Il dono della servitù. étienne de La Boétie tra Machiavelli e Montaigne 169. Giovanna D’Amia, Milano e Parigi. Sguardi incrociati. 170. Vittorio Morfino (a cura di) Machiavelli: tempo e conflitto 171. Andrea Gilardoni, Potere potenziale 172. Laura Sanò, Donne e violenza 173. Marilena Parlati, Oltre il moderno. Orrori e tesori del lungo Ottocento inglese 174. Damiano Palano, La democrazia e il nemico 175. Andrea Rabbito, Il moderno e la crepa 176. Pierre Dalla Vigna, Estetica e ideologia 177. Paola Gandolfi, Rivolte in atto 178. Chiara Simonigh (a cura di) Pensare la complessità. Per un umanesimo planetario 179. Carmelo Buscema, L’epocalisse finanziaria. Rivelazioni (e rivoluzione) nel mondo digitalizzato 180. Lidia Lo schiavo, Governance Globale, Governamentalità, Democrazia 181. Alessandra Vicentini, Anglomanie settecentesche 182. Francesco Saverio Festa, Un’altra “teologia politica”? 183. Daniela Calabrò, L’ora meridiana. Il pensiero inoperoso di Jean-Luc Nancy tra ontologia, estetica e politica 184. Mimmo Pesare, Comunicare Lacan. Attualità del pensiero lacaniano per le scienze sociali 185. Riccardo Ciavolella, Antropologia politica e contemporaneità. Un’indagine critica sul potere presente 186. Carlo Calcagno, Impotenza. Storia di un’ossessione 187. Marta Sironi, Ridere dell’arte. L’arte moderna nella grafica satirica europea tra Otto e Novecento 188. Gianpaolo Di Costanzo, Assi mediani. Per una topografia sociale della provincia di Napoli 189. Terrence Des Pres, Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte, a cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch 190. Francesca Nicoli, Giù le mani dalla modernità 191. Leonardo Vittorio Arena, La durata infinita del non suono 192. Anselm Jappe, Contro il denaro
193. Giovanni Comboni, Marco Frusca, Andrea Tornago (a cura di), L’abitare e lo scambio. Limiti, confini, passaggi, 194. Gianluca Cuozzo, Regno senza grazia. Oikos e natura nell’era della tecnica 195. Elisa Virgili, Ermafroditi 196. Flavia Conte (a cura di), Conversazioni sul postmoderno. Letture critiche del nostro tempo 197. Alessandra MR D’Agostino, Sesso mutante. I transgender si raccontano 198. Gianfranco La Grassa, L’altra strada. Per uscire dall’impasse teorica 199. Paolo Mottana (a cura di), Spacco tutto! Violenza e educazione 200. Licia Michelangeli e Vittorio Ugo Vicari (a cura di), Mode società e cultura nella Sicilia del secolo d’oro 201. Roberto Bertoldo, Istinto e logica della mente. Una prospettiva oltre la fenomenologia 202. Giuseppe Raciti, Ho visto Jünger nel Caucaso. Jonathan Littell, Max Aue e Ernst Jünger 203. Furio Semerari (a cura di), Etica ed estetica del volto 204. Leonardo Grimoldi, Storia e utopia. Saggio sul pensiero di Ignazio Silone 205. Laura Bazzicalupo, Dispositivi e soggettivazione 206. Oscar Ricci, Celebrità 2.0. Sociologia delle star nell’epoca dei new media 207. Rosanna Castorina, Gabriele Roccheggiani, Paradossi della fragilità. Critica della normalizzazione sociale, tra neuroscienze e filosofia politica 208. Antonio Tursi, Non solo cyber. Frammenti di un discorso mediologico 209. Roberto Festa e Gustavo Cevolani, Giochi di società. Teoria dei giochi e metodo delle scienze sociali 210. Fiammetta Ricci e Giuseppe Sorgi (a cura di), Miti del potere. Potere senza miti. Simbolica e critica della politica tra modernità e postmodernità 211. Viola Carofalo, Un pensiero dannato. Frantz Fanon e la politica del riconoscimento 212. Gary Snyder, Nel mondo poroso. Saggi e interviste su Luogo, Mente e Wilderness, a cura di Giuseppe Moretti 213. Luisella Feroldi, Tutta la realtà che possiamo. Immaginazione e simbolo nelle marche e nei media 214. Giovanni De Zorzi, Con i dervisci. Otto incontri sul campo 215. Raffaele Ariano, Vittorio Azzoni, Michele Maglio (a cura di), Che cos’è un soggetto. Tra comune e singolare 216. Letizia Bianchi, Le mamme vengono prima. Il lavoro e gli affetti delle educatrici di nido 217. Luisa Muraro, Il lavoro della creatura piccola. Continuare il lavoro della madre 218. Massimiliano Fratter, Biglietto di andata. Autocoscienza maschile, a cura di Marco Deriu e Gabriele Galbiati 219. Anna Sica, La Drammatica metodo italiano. Trattati normativi, trattati teorici 220. Andrea De Benedittis, Iconografie dell’aldilà 221. Antonio Tucci (a cura di), Disaggregazioni. Forme e spazi di governance 222. Didier Alessio Contadini, Il compimento dell’umano. Saggio sul pensiero di Walter Benjamin 223. Didier Alessio Contadini, Scioccanti verità. La critica della modernità in Poe e Baudelaire 224. Delio Salottolo, Una vita radicalmente altra
225. Roberto Miraglia, Intenzionalità, regole, funzioni. I fondamenti delle scienze sociali in Searle 226. Pietro Piro, Nuovo Ordine Carnevale. Conferenze, saggi, recensioni, esercizi di memoria 227. Cosetta Saba, Archivio, cinema, arte 228. Paolo Sensini, Divide et Impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente 229. Antonella Penati (a cura di), È il design una narrazione? Design e narrazioni 230. Antonella Penati (a cura di), Il design costruisce mondi. Design e narrazioni 231. Antonella Penati (a cura di), Il design vive di oggetti-discorso. Design e narrazioni 232. Fulvio Chimento, Arte italiana del terzo millennio. I protagonisti raccontano la scena artistica in Italia dei primi anni 2000 233. Emanuela Mancino, Farsi tramite. Tracce e intrighi delle relazioni eductive, con scritti di Emanuele Fusi, Benedetta Gambacorti, Federica Jorio, Stefano Landonio, Davide Rizzitelli e Chiara Nicole Zuffrano 234. Paolo Biscottini, Giovanni Ferrario, La radura dell’arte. Conversazioni sull’immagine 235. Andrea Pitto, Jung e Reich Freud e i suoi discepoli. Eresia, misticismo, energia, nazismo
Finito di stampare nel mese di gennaio 2014 da Digital Team - Fano (PU)