Eredità di Enzo Melandri


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Italian Pages 114 [109] Year 2006

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Table of contents :
EREDITÀ DI ENZO MELANDRI
INDICE
Presentazione
Realismo fenomenologico e meccanica quantistica
Logica della complementarità e analogia
Il concetto fenomenologico di variazione: significato e percezione
L’oggettivismo fenomenologico tra Husserl e Aristotele
«Esiste un ’analogia tra l’epistemologia francese e l’antropologia? ».
Dialogo immaginario tra Enzo Melandri e un suo allievo
La noesis del noema.
Il problema dell ’a priori materiale in Husserl e Scheier
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Eredità di Enzo Melandri

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EREDITÀ DI ENZO MELANDRI a cura di Vittorio De Palma

Copyright © 2005 by Francesco Armezzani, Guido Cusinato, Vittorio De Palma, Vin­ cenzo Fano, Alberto Gualandi, Gino Tarozzi, Isabella Tassani.

Proprietà letteriaria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualunque mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autoriz­ zata.

INDICE

Vittorio De Palma, Presentazione

Vincenzo Fano, Gino Tarozzi, Realismo fenomenologico e meccanica quantistica Isabella Tassani, Logica della complementarità e analogia

p. 7

p. 11 p. 23

Francesco Armezzani, Il concetto fenomenologico di varia­ zione: significato e percezione

p. 43

Vittorio De Palma, L’oggettivismo fenomenologico tra Hus­ serl e Aristotele

p. 61

Alberto Gualandi, «Esiste un’analogia tra l’epistemologia francese e l’antropologia?». Dialogo immaginario tra Enzo Melandri e un suo allievo Guido Cusinato, La noesis del noema. Il problema dell ’a priori materiale in Husserl e Scheier

p. 79

p. 97

Vittorio De Palma

Presentazione

Il presente volume raccoglie gli atti del Convegno «Eredità di Enzo Me­ landri», tenutosi il 25 e 26 novembre 2004 presso l’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” per iniziativa di un gruppo di allievi di Melandri che lavorano nell’istituto di Filosofia “Arturo Massolo” dell’Ateneo urbi­ nate. L’intento dei promotori era quello di commemorare il maestro orga­ nizzando un incontro tra studiosi influenzati dal suo insegnamento, affin­ ché ognuno di essi mostrasse come il magistero di Melandri aveva inciso sul proprio itinerario di ricerca. Il convegno era naturalmente anche un modo di reagire all’oblio in cui la figura e l’opera di Melandri erano cadu­ te a più di dieci anni dalla sua scomparsa, nella convinzione che esse me­ ritassero molta più attenzione da parte della comunità filosofica italiana e non solo italiana. Ne è risultato un quadro certo non esaustivo, ma significativo della ricchezza del pensiero di Melandri e delle sue possibili direzioni di svi­ luppo: dalla sua originale interpretazione della fenomenologia (nell’ac­ cezione ampia in cui egli la intendeva, e cioè come quel movimento di pensiero che va da Brentano alla scuola fenomenologica nel senso più la­ to, in modo da includervi anche l’esistenzialismo) ai suoi contributi al di­ battito sull’epistemologia contemporanea, con le implicazioni ontologiche che ne derivano. I saggi che seguono testimoniano appunto questa ric­ chezza e i suoi possibili sviluppi in direzioni divergenti: un tratto che il pensiero di Melandri condivide con quello dei grandi filosofi. Il lavoro di Vincenzo Fano e Gino Tarozzi si propone di ricostruire la riflessione di Melandri relativamente al problema ontologico, prenden­ do le mosse dalla necessità di ricondurre ogni riflessione sull’essere al piano dell’esperienza. In particolare a partire dall’intenzionalità si evince il ruolo àeW analogia entis, intesa come paronimia. Di qui discende quel­ lo che Melandri chiama il «chiasma ontologico» tra una teoria della cono­ scenza come rispecchiamento e una come rappresentazione. Tale parados­ so diventa il punto di partenza per una riflessione sul problema della real­ tà nella fisica contemporanea. Il saggio di Isabella Tassani prende le mosse dall’analisi della no­ zione di «complementarità» introdotta da Bohr e recepita dai suoi allievi in modi diversi, riconducibili alle forme della «complementarità circola­ re» e di quella «parallela» individuate da Weizsäcker, per esaminare

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l’idea di una «logica complementare» in grado di esprimere le relazioni tra logica classica e logica quantistica, tra fisica e ontologia. La logica complementare è il presupposto di una distinzione tra ambiti del reale che è comune a numerosi teorici della scuola di Copenaghen. La circolarità della logica complementare si rivela così uno strumento utile all’analisi della razionalità sviluppata da Melandri (che ne La linea e il circolo si ri­ collega esplicitamente a Weizsäcker) attraverso il principio analogico, il quale mostra tuttora la sua fecondità. Francesco Armezzani dedica il suo contributo a una nozione che Melandri poneva al centro dei suoi lavori husserliani degli anni Sessanta e su cui non ha mai cessato di tornare: la nozione di «momento figurale», che Husserl elabora nella Filosofia dell’aritmetica contemporaneamente a Ehrenfels. Armezzani mostra come Melandri attribuisca al momento figu­ rale un ruolo fondamentale nella riduzione del noumeno al fenomeno, se­ condo il progetto di empirismo radicale già presente nella psicologia de­ scrittiva di Brentano e come il concetto di rappresentazione che ne deriva possa offrire una valida alternativa alle critiche al rappresentazionalismo compiute da autori come Putnam e McDowell. Nell’approccio proposto da Melandri si può infatti individuare un percorso che porta la rappresen­ tazione, laddove venga descritta a partire da ciò che è dato, ad essere svincolata da ogni relazione causale con l’oggetto esterno, evitando così di considerare l’oggetto di esperienza all’interno del «realismo ingenuo» di Putnam o della «seconda natura» proposta da McDowell. Il sottoscritto riprende due degli elementi più originali del pensiero di Melandri: la concezione della fenomenologia in chiave antitrascenden­ talista e «aristotelica» e l’interpretazione della Denkweise che è alla base della scienza moderna («galileiana») come intrinsecamente idealistica. A partire di qui, vengono messi in luce alcuni tratti comuni al pensiero di Husserl e di Aristotele e si abbozza, procedendo con e oltre Melandri, l’idea di un oggettivismo fenomenologico che considera reale in senso proprio solo la sostanza sensibile con le strutture a priori che essa possie­ de prima e indipendentemente dall’intervento del soggetto. Tale oggetti­ vismo fenomenologico si configura come un empirismo eidetico: quale forma abbia il mondo dipende in ultima analisi dai contenuti sensibili in specie che sono dati di fatto al soggetto, per cui tale forma non può essere ricostruita regressivamente dall’alto, ma solo constatata descrittivamente dal basso. Per mezzo di un serrato dialogo immaginario con la filosofia di Me­ landri, Alberto Gualandi propone un originale percorso interpretativo at­ traverso La linea e il circolo, dal quale traspare l’influenza esercitata dall’insegnamento melandriano sul percorso filosofico dell’autore, dagli studi sull’epistemologia francese compiuti sotto la direzione di Melandri

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alle tesi bolkiane e gehleniane sul carattere essenzialmente «neotenico» dell’uomo e al problema della struttura comunicativa dell’essere umano. Tappe centrali di questo percorso critico-teoretico sono le analogie kan­ tiane dell’esperienza e il problema del passaggio tra le grandezze estensi­ ve e le grandezze intensive, tra l’universo noologico della percezione e l’universo nontologico della scienza galileiano-newtoniana. Fortemente impegnata sul terreno di una critica dell’epistemologia neopositivista, la filosofia di Melandri parrebbe infine offrire in eredità alla nostra contem­ poraneità un modello insieme fattuale e normativo di una ragione analo­ gica e comunicativa utilizzabile criticamente anche sul terreno politico in alternativa al modello emancipatorio comunista, a cui lo stesso Melandri sembra restare fedele. Guido Cusinato, infine, utilizza l’espressione, cara a Melandri, «no­ esi del noema» per un ripensamento del concetto di a priori materiale. Scheier opera un’estensione all’ambito emozionale ed etico dell’istanza husserliana di un’intenzionalità che parta dalle cose stesse. Per Scheier i valori siano oggettivi in quanto espressione della capacità di orientamento dell’intenzionalità noematica. L’«etica materiale dei valori» non rimanda a un’etica restaurativa dei beni assoluti o al concetto tradizionale di valo­ re, bensì all’idea husserliana della legalità del dato: l’orientatività dei va­ lori è oggettiva in quanto espressione di una legalità noematica. In tal sen­ so, i valori non sono né convenzioni soggettive della volontà di potenza nietzschiana né oggetti oggetti ideali da cogliere in un atto di intuizione categoriale, bensì elementi di una struttura di orientamento in base a cui l’uomo prende posizione nei confronti del mondo e del proprio modo di esistere. Su questi presupposti Scheier sviluppa fra il 1912 e il 1913 il concetto di «a priori materiale», che implica da un lato una storicizzazione dell’a priori formale kantiano (funzionalizzazione, ardo amoris), dall’altro una messa in crisi e una temporalizzazione dell’evidenza apodit­ tica, così come viene teorizzata in Idee I. Non è questo il luogo per tentare una esposizione o un bilancio del pensiero di Melandri, che è stato senza dubbio uno dei maggiori filosofi italiani della seconda metà del Novecento. Augurandomi che il presente volume possa servire a documentare il fatto che tale pensiero è fecondo di ulteriori sviluppi e a ravvivare quindi l’interesse nei confronti di esso, mi limito a dare alcuni cenni bio-bibliografici su Melandri, utili per chi vo­ glia approfondire la conoscenza della sua opera. Enzo Melandri (Genova 1926 - Faenza 1993) dopo aver compiuto studi tecnici conseguì da autodidatta la maturità classica nel 1954 e si lau­ reò nel 1958 in Filosofia aH'Università di Bologna, dove ha insegnato dal 1963 fino alla morte. Le sue opere principali, attualmente in corso di ri­ pubblicazione presso la casa editrice Quodlibet di Macerata, sono: Logica

10 e esperienza in Husserl (1960), in cui viene proposta un’originale inter­ pretazione antitrascendentalista della fenomenologia come «empirismo radicale»; La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull'analogia (1968), lavoro imponente in cui a partire dal tema dell'analogia vengono ripensati i temi fondamentali della filosofia; L'an/alogia, la proporzione, la simmetria (1974); Sette variazioni in tema di filosofia e scienze umane (1984), che raccoglie saggi scritti a partire dagli anni Sessanta; Contro il simbolico (1989), che è la rielaborazione di un ciclo di lezioni di introdu­ zione alla filosofia. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta ha collabo­ rato con la casa editrice II Mulino, promuovendo tra l'altro le prime tradu­ zioni italiane di autori come Blumenberg, Schutz e Copi. Ha fondato e di­ retto gli Annali dell'istituto di Discipline filosofiche, poi trasformatisi nel­ la rivista Discipline filosofiche. Una bibliografia completa dei suoi scritti a cura di Salvatore Limongi è stata pubblicata in Studi su Enzo Melandri, a cura di S. Besoli e F. Paris, Faenza, Polaris, 2000, pp. 155-182, dove sono raccolti gli atti di un convegno dedicato a Melandri, e ristampata in appendice alla nuova edizione de La linea e il circolo, Macerata, Quodli­ bet, 2004. Desidero infine ringraziare Beatrice Mezzacapa per l’aiuto fornitomi nella formattazione del testo.

Vincenzo Fano, Gino Tarozzi (Università di Urbino)

Realismo fenomenologico e meccanica quantistica

1. Introduzione

Per parlare di Enzo Melandri, possiamo cominciare da un ricordo perso­ nale. Uno di noi, dopo essersi iscritto nel 1978 al Corso di laurea in Filo­ sofia dell’Università di Bologna, venne messo in contatto con l’altro, che si era laureato l’anno precedente nello stesso ateneo, e aveva già avviato le sue prime ricerche sui fondamenti della fisica. Si trattava di un incontro fra il neofita e il più esperto, affinché il secondo desse al primo un’indicazione sul piano di studi. E il consiglio, o meglio la raccomanda­ zione fu quella di seguire i corsi di Melandri, tra i più stimolanti ed effi­ caci dell’intera Alma Mater, ma poco frequentati perché tenuti a Magiste­ ro e non mutuati da Lettere, dato che presso tale Facoltà esisteva un’altra cattedra di Filosofia teoretica con un docente che si occupava di metafisi­ ca teologica. Vincenzo Fano trasse particolare profitto da questo consi­ glio, e si rese ben presto conto di quanto fosse stato per lui prezioso, tanto che di quei corsi ne frequentò ben dieci, fino al conseguimento del Dotto­ rato, ricevendone un’impronta indelebile nei suoi studi. Dopo tanti anni, riprendere in mano le opere di Melandri fa uno strano effetto. Nel lavoro filosofico siamo ormai abituati a uno stile “an­ glo-sassone”, in cui si prendono gli argomenti dagli autori, facendoli dia­ logare fino a ottenere una qualche conclusione, seppur parziale. Melandri, invece, parlava degli autori e dei libri che aveva letto - un’infinità - ri­ manendone fuori, dosandoli come elementi per realizzare una struttura molto articolata. Lo stile inconfondibile ti porta nella stessa pagina da Carnap a Spinoza, passando per Kant, Frege e Quine in modo impercetti­ bile, guidandoti in un complesso movimento che provoca una vera e pro­ pria “vertigine del pensiero”. In queste poche pagine vorremmo invece ricostruire in modo “an­ glo-sassone” - Melandri ne sarebbe inorridito! - le sue riflessioni lungo un trentennio sul problema della realtà, mostrando come esse abbiano agi­ to come prezioso elemento di stimolo e termine di confronto sui nostri studi di filosofia della fisica1.1 1 Mancano saggi comprensivi sul pensiero di Melandri. Per un primo incontro con

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2. L’intenzionalità Già nel suo primo lavoro importante Melandri (1960, p. 69) prende le di­ stanze, sulla scorta di Husserl, da quella che veniva chiamata la «teoria dei segni» (Zeichentheorie') e che, seguendo Bontadini e Agazzi2, possia­ mo chiamare «gnoseologismo». Secondo questa impostazione, ci sarebbe una cosa in sé non percepibile, che entra in contatto causale con il nostro sistema nervoso periferico, provocando una rappresentazione. Il problema della realtà sarebbe quindi quello di ricostruire la cosa in sé a partire dai «segni» che essa lascia nella percezione che ne abbiamo. Questa conce­ zione ha molti vantaggi, poiché spiega la «legge dell’energia specifica dei nervi», secondo la quale il contenuto della sensazione dipende più dalla natura dell’organo di senso, che da quella dello stimolo. Spiega inoltre le differenze di percezione che possono sussistere fra soggetti diversi; spiega infine le illusioni e rende ragione del fatto che molti oggetti supposti dalla scienza non sono percepibili. Essa va incontro però a una difficoltà in­ sormontabile: come è possibile inquadrare teoricamente un nesso causale fra una cosa in sé e una rappresentazione? Qui hanno gioco facile gli idea­ listi come Fichte, che negano l’esistenza della cosa in sé. Per contro, per affrontare il problema occorre negare ogni trascen­ denza e «ridurre il noumeno al fenomeno» (ivi, pp. 48 ss.). Per questa ra­ gione bisogna prendere le mosse dall’intenzionalità (ivi, p. 71), intesa come la capacità di rivolgersi verso un oggetto. Essa va considerata come un principio di analogia entis. Vediamo perché. Per Melandri, l’essere è irrimediabilmente equivoco; in questo egli si pronuncia contro i grandi progetti monistici di Platone, Spinoza e Hegel e a favore dell’aristotelico «l’essere si dice in molti modi». Ma questi molti modi sono uniti da un principio di analogia, ovvero sono tutti i cor­ relati dell’atto intenzionale. Non occorre intendere l’intenzionalità come qualcosa di soggettivo; basta accettare la celebre tesi di Brentano, secondo la quale non ci sono solo oggetti, ma anche capacità di rivolgersi agli oggetti, cioè “atti”. In un certo senso, il recupero brentaniano e husserliano dell’intenzionalità si configura come il definitivo svuotamento del Cogito cartesiano, già in parte operato dall’io penso kantiano. Non solo, come voleva l’autore della Critica della ragion pura, il Cogito è una funzione senza contenuto, ma esso non è neanche un’io, è semplicemente la capacità di intendere gli oggetti. In altre parole, Kant desostanzia il Cogito cartesiano, riducendolo l’autore, consigliamo Besoli 2000 e la relativa bibliografia curata da Salvatore Limongi. 2 Agazzi 1969, cap. X.

13 a una mera autocoscienza senza contenuto; l’intenzionalità brentaniana non presuppone nemmeno l’io, che dovrà essere ripensato in termini humeani come costituito da un insieme di atti. Ma qual è il ruolo dell’intenzionalità? Proprio perché è un correlato intenzionale «ogni individuo reale può essere considerato come giacente nell’orizzonte aperto formato dall’infinita molteplicità di tutti gli altri possibili enti che potrebbero subentrare al suo posto» (ivi, p. 59). Come a dire che l’intenzionalità investe l’oggetto di una sorta di “soffio” che lo fa diventare una fra le tante possibilità.

3. L’analogia

Ma cosa intendeva Melandri con la nozione di analogia entisl Prendiamo le mosse dal celebre incipit delle Categorie di Aristotele: «si dicono omo­ nime le cose delle quali soltanto il nome è comune», come “squadra” è detta sia la Juventus sia il righello. «Si dicono sinonime le cose delle quali il nome è comune e la definizione corrispondente al nome è la medesi­ ma». Ad esempio è detto animale sia l’uomo sia il bue. «Si dicono paronime quelle cose, che differendo per il caso, hanno la denominazione con­ forme al nome»3. Così grammatica e grammatico, coraggio e coraggioso. Su questo luogo aristotelico Melandri toma in diverse occasioni4; proviamo a formulare noi il suo pensiero in modo il più possibile “linea­ re”5. Dell’individuale non si dà scienza, per cui omonimia, sinonimia e paronimia vanno letti come rapporti fra genere e specie. La sinonimia è il caso in cui tale rapporto rispecchia l’articolazione delle cose: le due spe­ cie “uomo” e “bue” sono entrambe riconducibili al genere “animale”, il loro rapporto è univoco. Ma non esiste un concetto sommo di realtà a cui ricondurre tutto ciò che vi è. Ad esempio, le determinazioni spaziali e quelle temporali fanno parte di due specie che non hanno nulla in comu­ ne, secondo Aristotele. Per noi forse questo esempio non vale più, ma quale è il genere comune dei quadrati e degli elefanti? Se non è rintracciabile un genere sommo, gli accidenti della lingua6 3 Negli altri due passi abbiamo utilizzato la traduzione di Zanatta (1989); in quest’ultimo passo la traduzione è nostra. 4 L’intervento più significativo è però Melandri 1987, in cui esamina questa concezione aristotelica alla luce dell’interpretazione di Brentano. 5 Tralasciando cioè, per un momento, il “circolo”. La metafora platonica della linea e del circolo ha dato origine al titolo della sua opera maggiore (Melandri 1969). 6 Melandri attribuiva molta importanza alla distinzione fra “lingua” e linguaggio”. Si ve­ da, ad esempio, Melandri 1981, p. 269.

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possono portare a un rapporto fra genere e specie del tutto casuale, equi­ voco; così la Juventus e il righello sono entrambi una squadra. Tuttavia, nella maggior parte dei casi è possibile unire le diverse categorie di enti mediante la paronimia; così sia l’elefante sia il quadrato possono essere detti “freddi”; il quadrato perché ha solo spigoli, l’elefante perché ha la cute non riscaldata dal sangue. In questo caso l’uso del termine “freddo” non è univoco, né equivoco, ma analogico. L’analogia è il fulcro del pensiero di Melandri; ma non l’analogia proporzionale, del tipo a sta a b come c sta a d, bensì l’analogia attributi­ va del tipo a sta a b come c sta a b. L'analogia entis medioevale è di que­ sto genere: tutte le creature sono simili al creatore. L’analogia attributiva è quella che consente legittimamente la metabasis eis allo genos (passag­ gio in un altro genere), cioè è la guida nel labirinto della molteplicità dell’essere, che non porta quest’ultimo all’univocità, ma attenua la sua equivocità.

4. Ontologia e semantica

Melandri usava spesso citare il saggio di Carnap7 sulla semantica e l’ontologia, in accordo con il quale le questioni ontologiche vengono po­ ste necessariamente a partire da una cornice semantica. Con le sue parole: «Ne risulta che il concetto di semantica è più esteso che quello di ontolo­ gia: la prima fornisce il quadro, la seconda il riempimento del quadro» (Melandri 1969, p. 377). In questo modo vengono messe fuori gioco le questioni di contenuto, che Melandri chiamava “tematiche”, a favore di una soluzione “formale” dei problemi. Questa però, secondo il nostro au­ tore, non è l’intera storia. Se ci poniamo nell’ambito delle scienze formali, il termine “quadra­ to” assume significato solo da un punto di vista proposizionale, cioè esso viene definito implicitamente dagli assiomi che regolano l’uso di questo termine. Questo significato proposizionale si contrappone al significato nominale che il termine assume nel linguaggio ordinario. Infatti in questo contesto il termine “quadrato” si riferisce a qualcosa di effettivamente quadrato. Un discorso analogo vale per il termine “cerchio”. Ora, da un punto di vista nominale, possiamo dire che non esistono “cerchi quadra­ ti”. Però, se ci chiediamo la stessa cosa dal punto di vista proposizionale, la risposta sarà negativa, perché per gli assiomi di una topologia senza metrica sia il cerchio, sia il quadrato possono essere un modello. Ovvero, 7 Carnap 1950; ad esempio in Melandri 1969, pp. 377 ss.

15 il quadrato e il cerchio proposizionalmente definiti non è detto siano in­ compatibili. Questo significa che nella semantica proposizionale abbiamo un rovesciamento, in quanto l’ontologia può influire sulla semantica. Pro­ viamo a dirla con parole diverse. Secondo Quine8, che riprende un’osservazione di Frege9, l’esistenza si applica solo al riferimento dei predicati. Ovvero non ci possiamo chie­ dere se esiste qualcosa tout court, ma solo se esiste qualcosa che ha de­ terminate caratteristiche: in formule Ex.Fx (esiste un x, tale che x è f). Ora, a questa domanda possiamo rispondere solo dopo che abbiamo stabili­ to la cornice semantica all’interno della quale ci siamo posti: primato del­ la semantica sull’ontologia. Tuttavia tale semantica dipende dalle nostre scelte ontologiche: primato dell’ontologia sulla semantica. Analogamente, dal fatto che “l’uomo è mortale” e che “Socrate è un uomo” non possiamo dedurre che “Socrate è mortale”. O meglio, lo pos­ siamo fare solo se abbiamo stabilito di intendere i concetti di “uomo” e di “mortale” in senso distributivo. Infatti il celebre dicto de omni et nullo, secondo cui nota notae est nota res ipsius, vale solo nel caso in cui la prima nota viene presa in senso distributivo. In altre parole, “Socrate è mortale” solo se l’espressione “uomo” si riferisce effettivamente a ognu­ no degli uomini. Di nuovo, sarà la scelta degli assiomi che garantirà la correttezza dell’inferenza. Ma gli assiomi decideranno se il termine “uo­ mo” ha valore distributivo o collettivo, cioè stabiliranno l’ontologia. Dunque siamo noi che, scegliendo gli assiomi, scegliamo l’ontologia10.

5. Il chiasma ontologico

Melandri chiamava il modo di argomentare del paragrafo precedente il «chiasma ontologico», piegando alle sue esigenze un termine mutuato dalla retorica. Ecco la sua definizione di questa figura del pensiero: se l’individuazione del reale si fonda sull’univocità semantica del nome, allora il discorso risulta irreale perché equivoco; viceversa, se fondiamo l’individuazione del reale sull’univocità semantica della proposizione, al­ lora il riferimento nominale, in quanto equivoco, si fa irreale o relativo a mere parvenze (Melandri 1969, p. 217).

8 Quine 1948. ’Frege 1892,p. 67. 10 Queste osservazioni di Melandri sono precedenti ai moderni calcoli dei predicati che si pongono il problema dell’impegno ontologico.

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Solo i nomi propri si riferiscono univocamente al reale. Per cui presup­ porre l’univocità semantica del nome comune significa assumere 1’esistenza dei concetti. Allora il discorso non può che prendere atto dei nessi fra quei concetti già dati. In un certo senso qui l’ontologia dei con­ cetti precede la semantica. Tuttavia a quali nomi comuni far corrispondere un concetto lo stabiliamo noi, con un rovesciamento che ripropone il pri­ mato della semantica. Per contro, se è la proposizione che si connette uni­ vocamente al reale, allora, come abbiamo già visto nel paragrafo prece­ dente, la corrispondenza con la realtà dei nomi comuni viene stabilita dal­ la scelta degli assiomi; tale scelta ripropone il primato dell’ontologia che riemerge. Ricapitolando: la semantica nominale prende le mosse da ciò che vi è, fino a rendersi conto che è sempre la semantica che lo stabilisce. Inve­ ce, la semantica proposizionale stabilisce ciò che vi è, ma, così facendo, la scelta della cornice riporta il primato dell’ontologia. Dieci anni dopo Melandri toma sul problema ribadendo che: Da tutto ciò deriva, a nostro parere, una propensione a favore deìVautonomia della conoscenza rispetto a ogni possibile realtà esterna. Prima di stabilire che cosa c’è, bisogna precisare in che modo ci si impe­ gni a riconoscerlo (Melandri 1979, p. 230).

Qui la relazione non è fra semantica e ontologia, ma fra quest’ultima e la gnoseologia". Si noti che nel caso del rapporto fra semantica e ontologia rimaneva un lieve primato a favore della prima; in fondo è dalla dicoto­ mia fra semantica nominale e proposizionale che si prende le mosse. An­ che qui la bilancia pende lievemente a favore della gnoseologia. Questo dipende, dal fatto che ciò che possiamo significare è molto di più di ciò che possiamo conoscere e ciò che possiamo conoscere è molto di più di ciò che è reale, dove il termine “reale” va inteso nel senso dell’esperienza sensibile. Melandri tracciava a volte alla lavagna il seguente schema:*

11 Melandri pronunciava questa parola sempre alla greca scandendo la “g” dura e la “n”.

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dove si vede che la figura che rappresenta il dicibile è più ampia di quella che rappresenta il conoscibile, e si riduce a un punto quando corrisponde al reale. Tuttavia, come vedremo meglio dopo, ogni nozione ha le sue ra­ dici nella realtà sensibile, come Melandri12 affermava già nel 1960 sulla scorta di Husserl: «Nessun concetto è accettabile di cui non si possa mo­ strare la genesi empirica per astrazione da intuizioni sensibili». In queste pagine Melandri13 distingue fra due teorie della conoscenza contrapposte: quella del rispecchiamento, secondo la quale la nostra im­ magine della realtà è isomorfa alla realtà stessa, e quella della rappresen­ tazione, secondo la quale l’immagine della realtà è “eteromorfa”1415 alla re­ altà stessa; ovvero essa è autonoma rispetto al mondo esterno. Entrambe queste gnoseologie sono aporetiche: la prima perché non tiene conto del potere deformante dello specchio; la seconda perché non riesce a ricolle­ garsi a ciò che vuole rappresentare. La teoria del rispecchiamento corri­ sponde a ciò che prima avevamo chiamato “la semantica nominale”, men­ tre la teoria della rappresentazione a ciò che avevamo chiamato “semanti­ ca proposizionale”. Anche qui le due teorie della conoscenza si trovano in un chiasma ontologico fra gnoseologia e ontologia. Venti anni dopo Melandri (1989, pp. 69 ss.) si pone ancora la stessa questione, adottando quello che egli chiama «lo schema ontologico degli stoici»: 1. ti (il qualcosa indeterminato), outina (i non qualcosa) 2. on (l’ente), ouk onta (i non enti) 3. soma (corpo esistente individuale), asomata (i non corpi), preferendolo allo schema aristotelico della paronimia. Nel passaggio dal livello 1. al livello 3. aumenta gradualmente l’individuazione: il ti è com­ pletamente indeterminato, mentre Von è dotato di un principio di identifi­ cazione', infine il soma è del tutto individuato^. Si vede facilmente che questo schema è in corrispondenza biunivoca con quello precedente: il ti è connesso all’ambito del “significato”, Von a quello della “verità” e il soma a quello della “realtà”. A partire da tale schema, si può formulare in questa maniera il pro­ blema della realtà: non possiamo certo mettere nella nostra ontologia (li­

12 Melandri 1960, pp. 34-5. 13 Ivi, p. 228. 14 Melandri usava spesso con maestria un po’ maliziosa questi neologismi. 15 Si noti che questo schema Melandri lo riproponeva spesso a lezione fin dagli anni Set­ tanta.

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vello 2.) tutto ciò che possiamo pensare sensatamente (livello 1.), ma ne­ anche solo ciò che percepiamo (livello 3), poiché la fisica ci insegna che esistono molte cose che i sensi non sono in grado di percepire. Perciò an­ che lo schema stoico salta, così come era accaduto per la semantica pro­ posizionale e per la gnoseologia, in quanto ci sono enti non corporei che si comportano come se lo fossero. Ma, ci chiediamo noi, quali fra tutti gli enti introdotti dalla fisica hanno un corrispondente reale? Per rispondere a questa domanda, vale la pena leggere per intero il seguente brano di Melandri: Ora ciò che viene inferito appartiene al mondo sensibile per via di una proiezione che pone il soggetto senziente in condizione di osservare ciò che normalmente non può. Così il modello dell’atomo, in origine, deriva ingenuamente dal desiderio dell’osservatore di farsi tanto piccolo da ve­ derlo. In maniera più indiretta i modelli più recenti cercano non di visua­ lizzare, ma di chiarire con diagrammi la distribuzione delle forze intera­ genti, i livelli energetici o il senso dello spin. Ma fondamentalmente si tratta sempre di un’extrapolazione16, che più o meno furbescamente cerca di rispondere alla domanda: come vedremmo noi le cose, se fossimo al po­ sto di Dio? Se tale questione ammette, entro certi limiti, una soluzione confortante, è perché del mondo sensibile vengono conservate, per indu­ zione, nel passaggio a quello sovra- sotto-sensibile, solo certe proprietà noetiche considerate invarianti (Melandri 1989, p. 71).

Ed ecco che toma l’analogia entis'. fra tutti gli enti non corporei, possia­ mo attribuire realtà solo a quelli che un qualche essere senziente potrebbe percepire. O meglio, per Dio i veri e propri corpi e gli enti che hanno cor­ poreità solo inferita sono analoghi. Lo schema stoico si ribalta dunque in quello aristotelico della paronimia. Ancora una volta un chiasma ontolo­ gico.

6. Il realismo empirico Uno di noi17 ha schematizzato l’interpretazione realistica delle teorie fisi­ che nella maniera seguente:

I. Una teoria fisica è interpretata realisticamente quando i suoi termini te­ orici hanno un corrispettivo reale. IL Una teoria fisica è interpretata realisticamente quando le proprietà fisi­

16 Melandri utilizzava spesso questi latinismi e grecismi. 17 Tarozzi 1992,pp. 11-12.

19 che prevedibili sulla base di essa, senza interagire con gli oggetti portatori di tali proprietà, sono indipendenti dalla mente dell’osservatore. Il primo principio, che è il cosiddetto “realismo scientifico”, può essere riformulato affermando che:

Γ. una teoria fisica F è interpretata realisticamente se esistono Ti....Tn tali che F sia almeno in parte vera, dove Ti....Tn sono i termini teorici della teoria F. Questa forma di reali­ smo si può basare su quella che possiamo chiamare un’«inferenza parziale alla migliore spiegazione»18: Se una teoria è la migliore spiegazione di un certo dominio, allora essa è almeno in parte vera. Ma, se la teoria è almeno in parte vera, allora ai suoi termini teorici corri­ sponderà qualcosa di reale almeno in parte. Il secondo principio, che è strettamente legato al principio di realtà proposto da Einstein, Podolsky e Rosen nel 1935 (EPR), si raccomanda sulla base dell’osservazione fenomenologica secondo cui ciò che è ogget­ tivo nel campo percettivo si costituisce soprattutto sulla base dei nessi causali19. Anche qui un’ analogia entis fra ciò che percepiamo e ciò che inferiamo dalle nostre percezioni. Esso corrisponde a una formulazione dotata di senso empirico del cosiddetto “realismo metafisico”. Vediamo ora come, nel caso della meccanica quantistica, fra il pri­ mo e il secondo principio si instauri un vero e proprio chiasma ontologi­ co. La meccanica quantistica è senz’altro la migliore teoria a nostra di­ sposizione per quanto riguarda la descrizione dei comportamenti dei microggetti. Tra i termini teorici della meccanica quantistica troviamo la funzione d’onda. Dunque da I’. deduciamo che esiste una funzione d’onda tale che MQ è almeno in parte vera. Ora, consideriamo una funzione d’onda di singoletto che descrive una coppia di particelle elettrone-positrone, ognuno dei quali ha spin ο -Γ ο +Γ e la loro somma lungo la stessa direzione è 0. Separiamo le due par­ ticelle e misuriamo lo spin dell’elettrone lungo l’asse a. Sulla base del ri­ sultato e della conservazione dello spin possiamo prevedere il risultato 18 Su questo punto, vedi Fano 2005, cap. V. 19 A tal proposito vedi Fano 1996, cap. 3.

20 dello spin del positrone lungo lo stesso asse senza perturbarlo. Perciò, ri­ cordando IL, possiamo dire che il positrone ha un determinato spin lungo l’asse a indipendentemente dalla mente dell’osservatore. Se vale la relati­ vità ristretta, cioè se la velocità della luce è una velocità limite, la misura­ zione dello spin dell’elettrone non può avere influenzato il positrone in alcun modo, poiché quest’ultimo potrebbe essere arbitrariamente lonta­ no20. Ne segue che prima della misurazione dello spin dell’elettrone, il positrone aveva lungo l’asse a già lo spin che gli abbiamo attribuito me­ diante il principio II. Ma per il principio Γ. esiste una funzione d’onda che rende almeno in parte vera la meccanica quantistica e la funzione d’onda non è in grado di determinare lo spin del positrone prima della mi­ surazione. Dunque il secondo principio entra in conflitto parziale con il primo. Ci salva solo il fatto che la funzione d’onda rende la meccanica quantistica solo in parte vera. Questo significa che resta ancora molto da scoprire. Si noti che il principio Γ. è un esempio di semantica proposizionale, poiché è la teoria che determina ciò che è reale, mentre il principio IL è un esempio di semantica nominale, poiché noi attribuiamo realtà alle pro­ prietà che hanno certe caratteristiche, cioè la prevedibilità. Come Melan­ dri ci ha insegnato il principio Γ. si rovescia, in quanto spetta a noi la scelta della teoria e quindi delle entità a cui dare realtà, cioè anche a quel­ le suggerite dall’applicazione che abbiamo visto del principio IL Anche il principio IL si rovescia, perché ci porta a cercare una nuova teoria che de­ finisca nuove entità che forniscano una descrizione del mondo più com­ pleta21.

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Isabella Tassani (Università di Urbino)

Logica della complementarità e analogia

Il convegno in onore di Enzo Melandri si presenta come la cornice ideale per rivisitare, alla luce delle proprie direzioni di ricerca, tematiche scaturi­ te dal suo pensiero e dal suo insegnamento; in particolare, intendiamo condurre una riflessione sulla complementarità, condotta sulla scorta del contributo di Carl von Weizsäcker, fisico tedesco, collaboratore per molti anni di Werner Heisenberg a Lipsia1. Weizsäcker, non diversamente da Bohr, riteneva che la riflessione filosofica della nostra epoca non potesse esimersi dal confrontarsi con le nozioni derivanti dalle scienze. Per questo, nella conclusione alla raccolta di saggi pubblicata nel 1960 con il titolo L’immagine fìsica del mondo, l’autore esplicita la visione teoretica unitaria che accomuna i diversi scrit­ ti, elaborati in occasioni e tempi diversi, facendo un rilievo dal profondo significato filosofico: A scrivere questi saggi fili spinto, fin dall’inizio, dalla convinzione che con la fisica moderna è accaduto qualcosa d’importante al di là delle sin­ gole scienze. Oggi che si sono viste le conseguenze tecniche di questa fisi­ ca, questa sensazione è generalmente diffusa. Ma già trenta anni fa, essa poteva indurre un giovane dotato di interessi filosofici a studiare la fisica*i

1 C. F. von Weizsäcker, nato a Kiel nel 1912, manifesta sin dalla giovinezza interesse per la riflessione filosofica, ma si dedica alla fisica dopo il suo incontro con Heisenberg a Copenaghen nell’inverno 1926-27 (quando quest’ultimo è assistente di Niels Bohr), di­ ventandone allievo e in seguito stretto collaboratore a Lipsia. Lo scambio intellettuale tra i due fisici è costante, e se da un lato il giovane allievo ha modo di riavvicinare Heisen­ berg alla riflessione filosofica sulla fisica, dall’altro può approfondire grazie a lui in par­ ticolare la nozione di complementarità elaborata da Bohr. Dal punto di vista scientifico, Weizsäcker è noto per le sue ricerche sulla scissione nucleare condotte negli anni ’30 e sulla formazione del sistema solare. La partecipazione al cosiddetto “Progetto Uranio” (1939), il programma di ricerche sulle applicazioni della fissione nucleare di cui Heisen­ berg è coordinatore scientifico, pone anche la figura di Weizsäcker al centro del dibattito sulla mancata costruzione della bomba atomica, per la quale alcuni storici hanno persino avanzato l’ipotesi, molto discussa, di un boicottaggio da parte dei fisici tedeschi; si veda in proposito Jungk 1956, Powers 1993, Cassidy 1992 e Chevalley 1998. Numerose sono le opere di Weizsäcker a carattere epistemologico, nate sia dal tentativo di approfondire le conseguenze filosofiche dei suoi contributi teorici, sia dalla riflessione morale sulle responsabilità della scienza nell’era moderna.

24 come presupposto della futura meditazione filosofica (Weizsäcker 1960, p. 396).

Di lì a pochi anni, ne La linea e il circolo, Melandri cercava di mostrare come «vigesse un necessario rapporto di complementarità tra la linearità del calcolo logico e la circolarità dell’argomentare analogico», in un equi­ librio indispensabile per Γoggettivazione dell’esperienza2. A questo pro­ posito egli riprendeva la terminologia di Weizsäcker per parlare di «logica complementare» (Melandri 1968, pp. 526 ss.), osservando come una delle novità più importanti che la fisica ci avesse proposto come oggetto di in­ dagine, al di là dei contenuti sperimentali, fosse proprio una completa modifica dei saperi tradizionalmente oggetto di indagine della filosofia, non ultima la logica. L’autore che era doveroso citare in merito è in primo luogo Hans Reichenbach (ivi), che nel suo contributo su I fondamenti filosofici della meccanica quantistica (Reichenbach 1944), già negli anni ’40 traeva le conseguenze della teoria quantistica proponendo una logica a più valori di verità - il vero, il falso e l’indeterminato - meglio rispondenti agli aspetti teorici e ai risultati sperimentali dell’indagine microfisica, di quanto non potesse fare la logica classica3. E che risultati empirici possano, in genera­ le, avere la forza e il diritto di mettere in discussione principi logici è una sorta di punctum dolens che attraversa il dibattito neopositivista, rima­ nendo di fatto irrisolto4. Melandri mette in risalto il legame sottile ma ineliminabile che si instaura tra fisica e logica, tanto da rendere l’analisi dell’una indispensa­ bile per comprendere l’altra e viceversa. Infatti, ne L’analogia, la propor­ zione e la simmetria, l’autore riprende il tema della complementarità, sol­

2 Besoli 1993, p. 7. Cfr. Melandri 1968, pp. 1053-4: «Perché mai un ordinamento lineare dovrebbe esser preferito a uno circolare? Perché la linea e non il circolo? Solo il metafi­ sico può creder di dare una risposta razionale a questa domanda. [...] Ma possiamo con­ trapporre in maniera categorica il circolo e la linea, il mondo della mente e quello delle cose? Che i due criteri ordinatori abbiano un’origine comune, abbiamo già detto». 3 A questo riguardo, si veda in particolare Reichenbach 1944, pp. 228-9, dove l’autore sintetizza i vantaggi della sua nuova impostazione, in linea con il credo neopositivista: «Le questioni che riguardano 1’esistenza di enti fisici si trasformano così in questioni sul significato di proposizioni. Questo offre il grande vantaggio di poter discutere tali que­ stioni semplicemente come problemi logici al di fuori dell’atmosfera di concetti metafi­ sici». 4 Sulla possibilità di sostenere una filosofia empiristica per mezzo di procedimenti logici, come una delle due caratteristiche principali del neopositivismo, insieme al principio di verificazione, si veda Weinberg 1936, pp. 11 ss.. Sul rapporto tra leggi fisiche e leggi logiche si veda, tra gli altri, Selleri, Tarozzi 1978.

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levato nell’opera precedente, utilizzandolo come uno strumento concet­ tuale per la sua analisi teoretica e sostenendo; Che dopo tanto parlare di logica e di logiche si prenda qui in considera­ zione la fisica (che dopo tutto è una scienza empirica, non formale), può sembrare strano. Ma la fisica moderna è talmente astratta da porre pro­ blemi di principio anche alla logica. [...] Né d’altra parte siamo sicuri che la logica sia abbastanza astratta da escludere che i suoi postulati non siano empiricamente impermeabili (Melandri 1974, p. 149).

In altri termini, sembra che l’idea della complementarità, sviluppata nell’ambito della fisica, sia in grado di rendere conto delle caratteristiche del pensiero meglio di quanto non possano fare i concetti filosofici tradi­ zionali. In particolare, a Melandri preme indagare il tema della «comple­ mentarità di logica e analogia» (ivi, p. 107), come termini di quello che definisce «il chiasma ontologico»; «Indichiamo con chiasma ontologico l’inversione di prospettiva o meglio l’alternanza del senso della realtà che si può evidenziare riflettendo su certi usi linguistici contrastanti e tuttavia compresenti endemicamente nella complessa filosofia che regge il lin­ guaggio ordinario» (ivi, p. 48). Una simile prospettiva si rivela perfettamente in linea con quella onnipervasiva di Bohr, che aveva esteso il concetto di complementarità ben al di là della pura descrizione fisica. Ma la fonte diretta di Melandri è piuttosto la versione che della concezione di Bohr ci è stata tramandata da Weizsäcker, il quale, se da un lato non nasconde di avere talvolta travisato il senso autentico delle affermazioni del fisico danese5, dall’altro tuttavia mostra di essersi maggiormente appropriato delle tematiche filosofiche scaturite dall’insegnamento del maestro e manifesta una certa consapevo­ lezza delle discussioni a lui posteriori. E nostro intento seguire le diverse linee di pensiero e cogliere l’ispirazione che accomuna questi tre autori - Bohr, Weizsäcker e Melan­ dri - nella trattazione del tema della complementarità.

5 Weizsäcker 1955, p. 360. Weizsäcker non è presente alla conferenza di Como del 1927, in cui Bohr rende nota l’idea di complementarità, tuttavia l’apprende attraverso la testi­ monianza di Heisenberg, durante la loro lunga collaborazione, e mediante la lettura degli scritti di Bohr; alcuni anni dopo, Weizsäcker, temendo di avere travisato il pensiero del fisico danese, gli scrive per chiedere se la propria interpretazione corrisponda a ciò che lui avesse in mente, ricevendone una risposta negativa. In definitiva, è difficile stabilire che cosa esattamente in origine intendesse Bohr con la nozione di complementarità e ciò darebbe ragione agli storici della scienza che rilevano come negli anni la sua concezione sia mutata; si veda Jammer 1974, p. 90 e Faye 2002.

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1. Complementarità parallela e complementarità circolare Il saggio di Weizsäcker dedicato a «Complementarità e logica» - scritto nel 1955 in occasione del settantesimo compleanno di Niels Bohr - offre lo spunto per analizzare le modifiche al concetto di logica che la meccani­ ca quantistica ha introdotto. Ma l’aspetto che risulta più significativo co­ me fonte per Melandri non è tanto il lato logico della questione, quanto piuttosto quello della complementarità, che viene definita dal fisico tede­ sco come «la chiave per la migliore comprensione oggi possibile della te­ oria quantistica» (Weizsäcker, 1955, p. 314). Il principio di complementarità di Bohr, per come è comunemente formulato, consiste nell’affermare che, dato che i sistemi fisici microsco­ pici presentano simultaneamente comportamenti corpuscolari e ondulatori - che nella fisica classica erano stati descritti da teorie diverse, inconcilia­ bili e irriducibili l’una all’altra - le descrizioni corpuscolare e ondulatoria sono entrambe necessarie, ma mutuamente escludentesi. Il secondo aspet­ to della formulazione prevede poi l’impossibilità di offrire simultanea­ mente una descrizione causale e spaziotemporale dello stato di un sistema fisico microscopico, a loro volta entrambe necessarie ma incompatibili l’una con l’altra6. Storicamente, Bohr era giunto nel 1927 a formulare il principio di complementarità come atto finale di una disputa avvenuta all’interno del­ la scuola di Copenaghen tra i suoi allievi, divisi ideologicamente tra colo­ ro che - come Heisenberg - volevano far prevalere nella costruzione della nuova teoria l’immagine corpuscolare, discreta della materia7, e coloro che - come Schrödinger - privilegiavano invece l’aspetto ondulatorio, continuo. A mitigare gli animi era infine dovuto intervenire Bohr8, formu-

6 Per un’analisi recente del principio di complementarità e di come Bohr nel corso del tempo abbia modificato il suo significato, soprattutto dopo la pubblicazione del fonda­ mentale articolo di Einstein-Podolski-Rosen (1935), rimandiamo a Faye 2002 e Held 1994. Secondo questi autori, infatti, Bohr avrebbe inizialmente inteso la complementari­ tà di onda e corpuscolo, per accentuare solo in seguito quella tra le componenti cinema­ tiche e dinamiche dei sistemi fisici (causalità e descrizione spazio-temporale). 7 Si ricordi che per Heisenberg il principio di indeterminazione non era altro che la natu­ rale conseguenza del carattere discontinuo della materia; si veda al riguardo Heisenberg 1927. 8 II ruolo di mediatore svolto da Bohr è testimoniato da una lettera di Pauli a Schrödin­ ger, datata 12 dicembre 1926, citata da Cassidy 1992, p. 253. L’accettazione da parte di Heisenberg della mediazione, messa in atto da Bohr, tra la sua concezione e quella ondu­ latoria di Schrödinger è contenuta nella «Postilla alle bozze di stampa», in Heisenberg 1927, pp. 76-7. Su questo dibattito e sul ruolo svolto dalla complementarità anche per la comprensione delle relazioni di indeterminazione, cfr. Tassani 2004, pp. 57-61.

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landò quel principio di complementarità che valorizzava entrambe le rap­ presentazioni, capace di rendere conto sia della misurazione mutuamente esclusiva della posizione e dell’impulso (espressa dalle relazioni di inde­ terminazione), sia del dualismo onda-corpuscolo, sia del rapporto tra la descrizione causale e quella spaziotemporale. Per questo la complementa­ rità sarà riconosciuta da tutti i teorici di Copenaghen - non senza una for­ zatura ideologica9 - come la cornice epistemologica in cui far rientrare le enormi difficoltà concettuali emerse con la nuova teoria e come quadro interpretativo della realtà a tutti i livelli; Bohr ritenne infatti che tale prin­ cipio fosse persino esportabile in altre discipline, dalla biologia alla psico­ logia, dall’antropologia alla filosofia, compiendo uno sforzo di unifica­ zione concettuale non trascurabile, sebbene alquanto disinvolto1011 . Weizsäcker non manca di mettere in rilievo l’importanza storica di un simile riconoscimento da parte dei teorici di Copenaghen, sottolinean­ do però come le interpretazioni di tale principio siano in realtà numerose e molto diverse tra loro: «Ci stupirà il fatto che ancora oggi il concetto della complementarità non è usato affatto in un modo univoco» (ivi, p. 314). In altri termini, con la complementarità si verifica quanto accade con il prin­ cipio di indeterminazione di Heisenberg, per il quale non è stata elaborata una sola interpretazione11. Analogamente, le diverse concezioni complementari sono derivate dall’analisi di Bohr, ma sviluppate dai suoi allievi con modalità diverse, riconducibili alle seguenti: (1) Complementarità di posizione e impulso-, questa formulazione può essere attribuita a Wolfgang Pauli, che nel suo manuale di fisica af­ ferma: «Per questo motivo, se la possibilità di utilizzare un concetto clas­ sico si trova in una relazione di esclusione con quella di un altro, con Bohr noi chiamiamo questi due concetti (per esempio le coordinate di po­ sizione e impulso di una particella) complementari»12. In altre parole, la complementarità per Pauli è un nesso che si instaura tra due concetti, in particolare quelli di posizione e impulso13; Weizsäcker la definisce «paral-

9 Per un’analisi della stessa interpretazione di Copenaghen come «invenzione storiogra­ fica», nata dall’esigenza di una «ricostruzione razionale semplificatrice», rimandiamo a Giannetto 2004, p. 73. 10 Si vedano i saggi contenuti in Bohr 1931 e Bohr 1958, comparsi in parte in traduzione italiana in Bohr 1961. 11 Per le numerose interpretazioni del principio di indeterminazione, cfr. Jammer 1974, pp. 79 ss. e Fano 2004, che analizza in particolare quella perturbativa mettendone in ri­ lievo il retroterra operazionistico. 12 Pauli 1933, p. 89, citato da Weizsäcker 1955, p. 317. 13 Nella conferenza di Como Bohr non si riferisce alla complementarità di posizione e

28 tela», in quanto essi sono posti allo stesso livello. La particolarità consiste nel fatto che i concetti in questione (ad esempio, la posizione e l’impulso) sono di per sé classici, quindi in grado di fornire una rappresentazione in­ tuitiva del processo fisico e di far pervenire a valori definiti, ma diventano complementari solo quando si scende nella descrizione al piano micro­ scopico e si applica la meccanica quantistica. Un simile mutamento di prospettiva comporta che la determinazione dello stato di un sistema quantistico tramite posizione e impulso non possa avere un valore ogget­ tivo, perché a questo livello la misurazione della prima impedisce quella simultanea del secondo; Weizsäcker osserva appropriatamente che «la complementarità dei concetti limita la loro oggettivabilità»1415 . (2) La complementarità di posizione e di numero d’ondali è conse­ guenza naturale delle relazioni di indeterminazione di Heisenberg, che Bohr giustifica mediante il dualismo onda-corpuscolo. In quest’ottica, il fisico Friedrich Hund, collega di Heisenberg a Lipsia, sostiene: «Posizio­ ne e numero d’onda di un gruppo d’onde sono complementari l’una all’altro (nel senso di Bohr), mentre il numero d’onda può essere deter­ minato tanto più esattamente quanto è indeterminata la posizione (a causa impulso, né sembra farlo nei suoi scritti successivi, sebbene la versione di Pauli sia per­ fettamente compatibile con Γinterpretazione di Copenaghen; in Jammer 1974, p. 102, l’autore precisa come Tintento di Bohr fosse piuttosto quello di sottolineare le analogie tra la complementarità in senso fisico e le relazioni intercorrenti nella distinzione tra soggetto e oggetto di conoscenza, sulla scorta dell’influsso di William James e dei suoi Principi di psicologia', cfr. Pais 1993, p. 423. Attraverso un’analisi storicamente docu­ mentata delle radici della complementarità, in Holton 1973, pp. 115-161, l’autore mette in luce come, sebbene sia dubbia la data in cui Bohr lesse effettivamente i Principi di James - secondo Leon Rosenfeld ciò accadde non prima del 1932, quando il fisico dane­ se vi ritrovò numerosi motivi ispiratori comuni alla propria opera, di cui precedentemen­ te non era consapevole - tuttavia sia innegabile l’affinità di tematiche tra Bohr e James. Per la nozione di complementarità come contrassegno di un pensiero esente da contrad­ dizioni e atto a caratterizzare, in analogia con la fisica, la relazione psicologica tra incon­ scio e coscienza, si rimanda a Pauli 1949 e a Giannetto 2004. 14 Weizsäcker 1955, p. 318; l’autore non sottolinea a sufficienza come il concetto di og­ gettività impiegato sia ancora modellato sulla fisica classica. Più consapevolmente, in Weizsäcker 1971, p. 26, egli ribadisce che Bohr non chiarisce esattamente che cosa in­ tendere con il termine «classico», lasciando permanere una sorta di vizio di origine nell’interpretazione della teoria. 15 Weizsäcker 1955, p. 318: secondo de Broglie, l’impulso di una particella è congiunto all’onda coordinata mediante l’equazione p = h!λ , dove λ rappresenta la lunghezza

d’onda della particella; è possibile descrivere una particella localizzata per mezzo di un gruppo di onde, la cui lunghezza d’onda può essere definita mediante l’introduzione del numero d’onda, definito come k = l/λ, tale per cui p = hk, le relazioni di indeter­ minazione · X ■ · p · h possono pertanto essere riscritte nella forma: · x · · k · 1.

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dell’ampiezza del gruppo d’onde). Questa complementarità è una pro­ prietà dell’immagine ondulatoria intuitiva»16. Riguardo alla posizione espressa da Hund, Weizsäcker commenta: «Secondo questa interpretazione la complementarità compare già in una teoria classica, cioè nell’immagine ondulatoria intuitiva. [...] Tuttavia la complementarità, per la sua assunzione nella fisica classica nel senso delle rappresentazioni classiche, viene “disintossicata” dall’oggettivabilità» (ivi, p. 319). In altri termini a Weizsäcker preme mostrare che, se anche Hund nota appropria­ tamente che la complementarità compare già nell’immagine ondulatoria intuitiva della fisica classica, comunque non si deve dimenticare che ogni teoria ha limiti di applicabilità, come Bohr aveva sottolineato in più occa­ sioni: posizione e impulso appartengono all’immagine corpuscolare, posi­ zione e numero d’onda a quella ondulatoria. In secondo luogo, la complementarità dei concetti non dipende da una mancanza di completezza nella descrizione, bensì è conseguenza del fatto che la natura ha un carattere intrinsecamente probabilistico, per cui secondo quanto viene espresso dall’interpretazione probabilistica di Max Bom - i valori delle misurazioni su singole particelle possono essere pre­ detti solo con una certa probabilità. La complementarità dei concetti quantistici trova pertanto piena espressione nella natura probabilistica del­ la descrizione17. Secondo Weizsäcker, il fatto che l’interpretazione stati­ stica fosse già presente nella teoria classica delle onde, e di lì applicata al­ le particelle nella meccanica quantistica, fa sì che anche questo genere di complementarità, come il precedente, sia proprio dei concetti di una teoria classica, e venga esteso alla meccanica quantistica per una sorta di analo­ gia. (3) La complementarità di particella e onda si differenzia invece dalle formulazioni precedenti, in quanto i concetti impiegati non appar­ tengono a un’unica teoria, bensì a teorie classiche incompatibili. Nella meccanica quantistica la complementarità si trova dunque ad un livello superiore, in quanto è una caratteristica che pertiene alle teorie. Weizsä­ cker sottolinea quindi come vi sia un’ambiguità di fondo quando in lette­ ratura si fa riferimento alla teoria ondulatoria, intendendo indifferente­ mente sia la teoria classica delle onde reali, sia la teoria quantistica di par­ 16 Hund 1954, p. 44, citato da Weizsäcker 1955, p. 319. 17 Trascuriamo, per ragioni di spazio, lo storico dibattito inerente la corretta interpreta­ zione della probabilità, tra coloro che sostengono che essa sia mero effetto dell’analisi statistica condotta su insiemi di particelle, in analogia alla teoria classica delle onde, e coloro che invece ritengono che la necessità di ricorrere all’analisi probabilistica emerga nella teoria quantistica nella previsione del comportamento di una singola particella. Si veda in proposito, tra gli altri, Weizsäcker 1955, p. 320.

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ticelle individuali, sia l’«onda di probabilità» (ivi, p. 321). E nostro intento non tanto di analizzare filologicamente quale sia la concezione originaria di Bohr, né verificare quanto l’analisi di Weizsä­ cker se ne discosti, ma piuttosto di cogliere gli aspetti innovativi della ri­ flessione di quest’ultimo per la logica complementare. Significativo ci sembra il fatto che gli esempi riportati di «complementarità parallela» si differenziano di fatto dai casi tipici di quella «circolare» proposta origina­ riamente da Bohr. Sostiene infatti al riguardo Weizsäcker: Quando rilessi i lavori originali di Bohr per stabilire quali di queste inter­ pretazioni si avvicina di più alla sua concezione originaria, scoprii che es­ se possono bensì derivare tutte dalla sua concezione, ma che nessuna esprime più di un tratto determinante di questa concezione. I concetti che Bohr designa come complementari, non stanno affatto tra di loro in una re­ lazione «parallela», ma in una relazione «circolare». Ciò significa che essi non si trovano allo stesso livello, ma a un livello diverso, e si condiziona­ no reciprocamente. Questa relazione circolare non si può esprimere senza parlare della struttura della nostra conoscenza. Nessuna meraviglia, quin­ di, che si sia caduto nel vuoto tutte le volte che si è cercato di formulare la teoria quantistica senza esplicito riferimento ai problemi filosofici; d’altra parte, forse ora diventa più chiaro perché Bohr non potè mai interpretare in altro modo la teoria quantistica che in connessione esplicita con pro­ blemi filosofici (ivi, p. 315).

In altri termini, Weizsäcker sottolinea come gli allievi di Bohr, pur essen­ dosi appropriati della nozione di complementarità elaborata dal maestro, ne abbiano recepito ciascuno solo un aspetto parziale, incorrendo in errori che derivano dal non aver adeguatamente tenuto conto della riflessione filosofica sulla struttura della conoscenza; per intendere correttamente la complementarità bisogna quindi necessariamente non solo riferirla ai fe­ nomeni fisici, ma svolgere un’analisi teoretica della conoscenza18. La concezione originaria di Bohr può essere definita «circolare», nel senso che egli non introduce il concetto di complementarità mediante una definizione univoca e preliminare al lavoro teorico, ma si serve piuttosto di concetti che a loro volta mancano di una completa e precisa determina­ zione, in un regresso all’infinito che si caratterizza come processo sponta­ neo e quasi inconsapevole. È come se anche la definizione formale di complementarità condividesse le caratteristiche complementari proprie 18 A questo riguardo cfr. Weizsäcker 1941, p. 133: «La differenza decisiva della mecca­ nica quantistica dalla fisica classica è che essa non può enunciare le sue proposizioni, senza esprimere nello stesso tempo il modo di conoscenza. Questa considerazione è tan­ to naturale per la pratica della fisica, quanto è rivoluzionaria non solo per la fisica classi­ ca, ma anche per la filosofia».

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della realtà fisica a cui quei concetti si riferiscono19. Afferma infatti Wei­ zsäcker a proposito della metodologia utilizzata da Bohr in Teoria dell ’atomo e conoscenza umana’. La parola «complementare» si insinua quasi impercettibilmente in una proposizione, e allora c’è e viene usata. [...] Se si volesse parafrasare il suo sfondo metodologico, si potrebbe dire: «Ogni definizione presuppone un altro concetto non definito». Perciò la novità del concetto di comple­ mentarità, nel tentativo di definirlo rigorosamente, potrebbe venir dissimu­ lata solo nei concetti usati nella definizione; una siffatta definizione reste­ rebbe sempre circolare. [...] Noi dobbiamo, direi quasi, meditare tanto, finché avremo acquistata una coscienza viva della struttura della realtà alla quale essa [la complementarità] deve alludere. Il possesso di questa co­ scienza ha costituito la posizione singolare di Bohr nello sviluppo della fi­ sica quantistica (ivi, p. 323).

In altri termini, la «coscienza viva» della struttura della realtà, da un lato, e delle caratteristiche del pensiero, dall’altro, ha consentito a Bohr una definizione della complementarità non univoca, che continuamente si ac­ cresce su se stessa per abbracciare il reale e renderne evidenti aspetti co­ nosciuti altrimenti solo in parte. L’esempio tipico di «complementarità circolare», che secondo Weizsäcker è propria della concezione originaria di Bohr, è tra la rappre­ sentazione spazio-temporale e quella offerta dall’equazione d’onda di Schrödinger20, ovvero tra concetti classici e descrizione della natura per mezzo della funzione ψ . In questo caso diventa proficua la definizione di «circolo della conoscenza», perché, diversamente dai concetti coinvol­ ti nella complementarità parallela, qui essi non hanno alcun valore defini­ to in nessun modello classico, né forniscono una rappresentazione intui­ tiva della realtà fisica; da un lato, la descrizione spazio-temporale è ne­ cessaria per rendere comprensibili i risultati offerti dall’equazione di Schrödinger, dall’altro la funzione ψ consente di fare predizioni sui ri­ sultati sperimentali, quindi le due rappresentazioni stanno in una forma circolare di dipendenza reciproca (Jammer 1974, p. 103). La complementarità circolare mette in rilievo soprattutto il fatto che «la nostra conoscenza ha condizioni a priori, che tuttavia vengono retroat­ 19 In riferimento in particolare alla posizione di Bohr 1961, p. 13, cfr. Weizsäcker 1955, p. 323: «La natura della nostra coscienza determina una relazione di complementarità tra l’analisi di un concetto e l’applicazione immediata di esso». 20 Weizsäcker 1955, p. 321: «Uno sguardo ai primi lavori di Bohr sulla complementarità mostra che in realtà egli è partito da una concezione non “parallela” della complementa­ rità tra concetti classici e onde di Schrödinger».

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tivamente corrette e interpretate in maniera diversa in virtù delle cono­ scenze materiali acquistate col loro proprio aiuto» (Weizsäcker 1955, p. 326). Esempi ulteriori di questo tipo circolare di complementarità sono le relazioni tra la definizione di un concetto e il suo uso, tra il soggetto e l’oggetto di conoscenza, tra la biologia e la fisica atomica, in generale tra le leggi della vita e quelle della materia inanimata. In che relazione stanno la complementarità parallela e quella circo­ lare nella fisica quantistica? Secondo Weizsäcker, Bohr intende la com­ plementarità in senso prevalentemente filosofico, ritenendo che la prima sia espressione della seconda. Ma la distinzione netta tra complementarità parallela e circolare non viene in generale condivisa da Bohr; in una lette­ ra a Weizsäcker21, infatti, il fisico danese rigetta questa differenziazione, sulla base del riconoscimento irrinunciabile che il formalismo quantistico, e in particolare la funzione di Schrödinger, è a suo avviso un algoritmo e non un fenomeno fisico, pertanto non può stare in un rapporto di com­ plementarità con le osservazioni registrate; infatti, dato che il linguaggio della fisica classica rimane comunque sempre prioritario, a suo avviso «la complementarità può instaurarsi solo tra fenomeni, [...] tra quei concetti che denotano qualcosa di percettibile negli esperimenti», e non tra feno­ meni ed entità teoriche (ivi, p. 361). Una simile risposta lascia profondamente insoddisfatto Weizsäcker, per il quale «il formalismo della meccanica quantistica è più di un sem­ plice algoritmo», e che pertanto paragona Bohr a Colombo, messosi in viaggio sulla base di una teoria corretta ma del tutto inconsapevole dell’enormità del proprio errore di interpretazione (Jammer 1974, p. 104). Tuttavia, resosi conto delle divergenze con Bohr, Weizsäcker è disposto ad accettare un mutamento terminologico, riservando l’espressione di «complementarità» ai concetti strettamente fisici, e ad introdurre la no­ zione più generale di «relazione circolare», adatta agli esempi di comple­ mentarità al di fuori della fisica (Weizsäcker 1955, p. 361). Per meglio comprendere che cosa Weizsäcker intenda con il termine «circolarità», o forma circolare di ogni conoscenza, dobbiamo fare riferimento anche a un altro saggio, in cui l’autore ammette di aver tratto da Victor von Weizsä­ cker il concetto di «circolo della forma» come «intelaiatura concettuale» comune alle ricerche più disparate22. È solo in questa ottica che la nozione 21 Jammer 1974, p. 104; la lettera di Bohr a Weizsäcker è datata 5 Marzo 1956 (in rispo­ sta a quella di Weizsäcker del 17 Gennaio 1956). 22 Weizsäcker 1956, p. 363; per l’opera citata, si veda Weizsäcker 1940, il cui autore, medico ed epistemologo, persegue il progetto ambizioso di realizzare una riforma radica­ le dei fondamenti meccanicistici della fisiologia ottocentesca, sulla base di forme a priori individuabili a livello biologico. In particolare, con il termine di “Gestaltkreis” egli in­

33 di complementarità, sebbene emendata, si può estendere dall’ambito fisi­ co a quello antropologico, perché espressione della logica che sottende i diversi linguaggi.

2. Logica complementare e livelli di realtà Il senso della complementarità come nuova categoria logica proposto da Weizsäcker diventa praticabile se spostiamo la relazione complementare dal piano dei concetti a quello degli enunciati; in tale prospettiva, posi­ zione o impulso non sono più nozioni astratte, ma diventano predicati possibili di un sistema microscopico. La complementarità di posizione e impulso può allora essere riformulata dicendo che i predicati “x” e non possono essere attribuiti simultaneamente a uno stesso sistema fisico microscopico: gli enunciati “questo elettrone ha la posizione x” e “questo elettrone ha l’impulso p” non sono veri contemporaneamente. Le modifiche che i principi della meccanica quantistica impongono alla logica, inducendo Weizsäcker a proporre l’idea di una «logica com­ plementare» in sostituzione di quella classica, possono essere meglio inte­ se se facciamo riferimento al noto esperimento di interferenza di Young (figura 1).

Figura 1 - Esperimento di interferenza di Young

tende una struttura circolare, ma aperta e dinamica, che esprime la connessione esistente tra le diverse sfere che costituiscono il vivente: corporea, psicologica, sociale. L’aspetto dinamico costituisce infatti per Victor Weizsäcker una chiave utile sia per analizzare dal punto di vista biologico l’ambito della vita sia, più in generale, per costruire un’antropologia filosofica. Si comprende come il suo progetto teoretico faccia proprie anche le suggestioni provenienti dalla nuova fisica e dalle ricerche sull’importanza della meccanica quantistica per l’indagine del vivente; cfr. Bohr 1931.

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In questo dispositivo sperimentale vengono emessi da una sorgente Q elettroni, che passano attraverso due fenditure praticate su uno schermo S, giungendo infine su una lastra fotografica L posta dietro lo schermo. Se la radiazione emessa è così debole che viene inviato un singolo elettrone per volta, l’energia arriva in maniera puntiforme, come se si trattasse di un corpuscolo. È noto che il comportamento di ogni singolo elettrone varia a seconda che noi chiudiamo l’una o l’altra fenditura, oppure che le lascia­ mo aperte entrambe, manifestando nello stesso tempo quegli aspetti sia corpuscolari (arrivi sulla lastra L concentrati davanti alle fenditure) sia ondulatori (fenomeni di interferenza) di cui abbiamo già discusso. Ciò che risulta più interessante ai fini della considerazione della lo­ gica che sottende l’esperimento è il fatto che anche in questo semplice esempio noi possiamo rilevare come la logica classica a due valori di verità sia inapplicabile in simili circostanze, perché essa presuppone che non siano veri contemporaneamente i due enunciati: a,) l’elettrone è passato per la fenditura 1; a2) l’elettrone è passato per la fenditura 2; quindi se “ai è vero”, “a2 è falso” e viceversa. Nel caso della meccanica quantistica, invece, noi sappiamo che se “ai è vero” (o falso), non neces­ sariamente dobbiamo concludere che “a2 è falso” (o vero), perché, a causa della presenza dei termini di interferenza, può essere né vero né falso (ov­ vero indeterminato). I due asserti possono essere detti «complementari», non perché siano contraddittori, ma perché non si può determinare simul­ taneamente il loro valore di verità. L’alternativa semplice della logica classica non si applica alla mec­ canica quantistica, che deve ricorrere alla probabilità per rendere signifi­ cativi i due enunciati. Quindi, mentre Bohr tenta di conciliare tramite la complementarità i due aspetti, Weizsäcker mostrare invece come tale complementarità sia una proprietà della logica, che può essere così espressa: «se ci sono particelle, ci devono essere onde, e precisamente on­ de di probabilità” (Weizsäcker 1955, p. 339). Non ci addentriamo nei dettagli della logica complementare, che concorda con i risultati già ottenuti da Birkhoff e von Neumann. Vor­ remmo piuttosto notare come di nuovo si presenti la questione se sia legit­ timo che un esperimento empirico metta in discussione una teoria formale come la logica, fino a imporre un cambiamento di alcuni suoi principi23. Weizsäcker, per il quale il formalismo della meccanica quantistica non è solo un algoritmo valido per fare previsioni, ribadisce che le leggi della 23 Sul tema rimandiamo, in particolare, ai contributi di Selleri, Tarozzi 1978, Tarozzi 1982,1984,1985.

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logica sottese agli esperimenti riflettono le strutture della realtà24. La logi­ ca complementare, dunque, non è solo la forma del pensiero o del lin­ guaggio che si confa alle osservazioni sperimentali, ma trova un corrispet­ tivo sul piano ontologico25. La riflessione sulla logica complementare consente inoltre a Wei­ zsäcker di distinguere due ordini del reale: infatti nella logica classica gli enunciati “a” e “ai è vero” sono equivalenti, ovvero sono simultaneamen­ te veri o simultaneamente falsi. Nella logica della complementarità, inve­ ce, essi non sono equivalenti e appartengono a piani diversi, in quanto l’assegnazione di un valore di verità a un enunciato lo pone a un livello logico più alto. Per questo si può concludere che la logica classica e la lo­ gica complementare non siano in contraddizione, in quanto appartengono a livelli logici differenti e stanno in una relazione che può essere definita essa stessa «complementare» (ivi, pp. 345 ss.). La distinzione tra livelli logici è conseguente alla «complementarità circolare di logica classica e logica della complementarità» (ivi, p. 356); infatti, se ammettiamo che le leggi della logica sottese agli esperimenti non sono soltanto utili strumenti concettuali ma riflettono la realtà, la strutturazione in livelli logici deve necessariamente trovare un corrispetti­ vo nella differenziazione tra diversi piani del reale, ciascuno con un senso

24 Jammer 1974, pp. 361 e 376, ricorda come a simili conclusioni fossero già pervenuti Herz 1935, Bachelard 1934, Gonseth 1936 e Picht; in particolare, in Picht 1953, pp. 623, l’autore analizza il rapporto tra logica e ontologia, concludendo che le leggi logiche riflettono la struttura dell’essere, secondo l’impostazione fatta propria anche da Weizsä­ cker 1955, p. 333, che ammette: «Picht chiama le proposizioni della logica non “leggi dell’essere conosciute”, ma “leggi dell’essere per un ente possibile”», che rappresentano «presupposti di ontologie». Perciò egli conclude (ivi, p. 357): «Noi supponiamo che l’origine della logica della complementarità stia in una proprietà ontologica dell’ente “reale”». 25 Per conciliare logica classica valida per i sistemi macroscopici e logica complementa­ re, inizialmente Weizsäcker fa propria la distinzione tarskiana tra linguaggio-oggetto (fi­ sica quantistica) e metalinguaggio (fisica classica); analogamente Bohr aveva ritenuto il linguaggio quantistico valido per descrivere la realtà microscopica, ma era convinto che se vogliamo “parlare di” meccanica quantistica, così come di sistemi fisici microscopici, dobbiamo utilizzare i concetti propri della fisica classica, perché sono i soli rispondenti alle forme della nostra intuizione e che ci consentono di leggere le registrazioni degli strumenti macroscopici. Si veda in Jammer 1974, p. 379, il riferimento alla lettera invia­ ta da Bohr a Weizsäcker (datata 20 Dicembre 1955), in cui il fisico danese ammette di temere che l’introduzione di una logica complementare possa oscurare ciò che è stato ottenuto mediante la logica classica e il linguaggio ordinario, a cui si deve comunque ri­ condurre ogni comunicazione dell’esperienza. Successivamente però egli giudica questa soluzione una scappatoia vacua e si propone di realizzare un lavoro in cui sostenere una logica unitaria (Weizsäcker 1960, p. 401).

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fisico ben definito: Questa teoria dei livelli è il senso dell’affermazione che la fisica è una lo­ gica ampliata. Si apre la prospettiva sulla possibilità che tutte le leggi della fisica siano conseguenze di una semplice determinazione fondamentale logico-ontologica, che noi stessi abbiamo parzialmente decifrato dapprima solo sulla base di indicazioni empiriche. Allora, la risposta alla questione: perché la materia soddisfa alla fisica? Sarebbe: perché essa soddisfa alla logica (Weizsäcker 1956, p. 393).

Se poi andiamo ad indagare l’origine di questa strutturazione in livelli della realtà, non possiamo esimerci dal riconoscere il forte influsso che deve avere esercitato su Weizsäcker il pensiero di Heisenberg, in partico­ lare quello espresso nel manoscritto intitolato Ordinamento della realtà (Heisenberg 1942), in cui l’autore si richiama alla filosofia di Goethe, servendosene per legittimare il proprio lavoro teorico: infatti, sebbene la natura si configuri come un tutto unitario, essa può essere espressa pie­ namente solo attraverso le diverse scienze, da quelle più oggettive (come la fisica classica e la chimica), in cui massima è la separazione tra sogget­ to e oggetto di conoscenza, a quelle in cui soggetto e oggetto sono stret­ tamente connessi (come nella meccanica quantistica e nella psicologia), fino ad arrivare all’ambito etico e a quello del genio creativo, espressione della massima soggettività. La fisica classica e la meccanica quantistica sono dunque entrambe necessarie e legittimabili, in quanto descrivono di­ versi livelli del reale, ciascuno dei quali tuttavia presuppone i precedenti e si invera in quelli successivi, secondo un movimento che Heisenberg stes­ so non esita a paragonare a quello dialettico26. Il richiamo a Goethe è dunque significativo, non solo perché agli inizi del Novecento il poeta romantico era ancora molto ammirato nella cultura tedesca, ma perché la sua filosofia della natura, seppure qualitati­ va, continuista, attenta al legame inscindibile tra soggetto e oggetto, si ri­ velava una fonte estremamente feconda di concetti per coloro che stavano elaborando una filosofia per la nuova teoria quantistica, disposti a mettere in discussione la fisica classica e a prendere spunto anche da quell’antinewtonianesimo che aveva accomunato Goethe a molti poeti romantici. La nozione di diversi livelli del reale, uniti tra loro da un legame in­ scindibile e confluenti in un’unità superiore, doveva perciò derivare da

26 Heisenberg 1942, p. 83. Per un’analisi dettagliata del manoscritto di Heisenberg, delle ragioni che ne sottendono la stesura e dei frequenti richiami al pensiero di Goethe, si ve­ da Chevalley 1998 e Tassani 2004.

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questa fucina di idee, far parte del patrimonio comune dei teorici apparte­ nenti alla Scuola di Copenaghen e avvicinare Weizsäcker ai suoi maestri. Egli infatti vede nella «connessione tra fisica e logica» l’espressione più piena di quel «circolo tra antropologia e fisica» che anche Heisenberg aveva a suo modo elaborato27.

3. Circolarità e analogia

Nella sua riflessione, Melandri fa tesoro dell’idea di circolarità elaborata da Weizsäcker, pensandola come un movimento del pensiero da accostare a quello lineare della deduzione logica, e pertanto precisa: «Fin qui ab­ biamo sempre contrapposto linearità e circolarità: deduzione lineare da certe premesse e retroazione ciclica dalle conseguenze alle premesse. Di fatto questa contrapposizione ammette sempre una certa complementarità, poiché non è verosimile che si proceda su una gamba sola disponendo di due» (Melandri 1974, p. 95). In particolare, egli si propone di analizzare la complementarità di logica e analogia, che a suo avviso rappresenta l’esempio più pregnante di «complementarità trascendentale» (ivi, p. 107). In altre parole, la com­ plementarità ci consente di accostare termini, come quello logico e quello analogico, che altrimenti si presenterebbero come forme inconciliabili della razionalità: Ci sono due e due soli modi di pensare: quello logico e quello analogico. [...] Il rapporto di logica e analogia è del tipo complementare: nel senso che, se un certo problema si risolve completamente con metodo logico, l’analogia non ha più luogo per intervenire; mentre per converso, se fosse mai possibile una soluzione perfettamente analogica, la logica dovrebbe adeguarvisi e ricomprendere in sé i principi di quella analogia. Ma in real­ tà non è mai possibile una soluzione completa né in un senso né nell’altro. [...] In altri termini: la spiegazione logica è perfetta; peccato, solo, che il mondo sia imperfetto. Per converso, la soluzione analogica è sempre im­ perfetta: il suo residuo inesplicabile riproduce l’analogia all’infinito (ivi,

27 Weizsäcker 1955, p. 394: «Secondo la nostra concezione attuale, la logica partecipa tanto della fisica attraverso l’ontologia, quanto dell’antropologia attraverso la dottrina del pensiero». Non è noto se Weizsäcker fosse a conoscenza dell’opera di Heisenberg, Ordinamento della realtà - redatta tra il 1941 e la fine del 1942 e rimasta inedita fino a dopo la morte dell’autore (avvenuta nel 1976) - ma regalata sotto forma di manoscritto ad alcuni amici come strenna natalizia nel 1942; si veda al riguardo Cassidy 1992, p. 481 e Chevalley 1998, pp. 10-1. Una lettura comparata dei due testi potrebbe comunque mo­ strare in modo evidente le ascendenze comuni ai due fisici; infine, in numerosi passi Weizsäcker cita espressamente Goethe.

38 p. 114).

Il richiamo all’analogia come strumento teoretico consente di esprimere il rapporto spinoso tra fisica e logica classica da un lato, e fisica e logica quantistica dall’altro. Infatti, secondo Melandri la logica classica sta alla logica della complementarità in modo analogo a quello in cui la fisica classica sta alla fisica quantistica:

Logica classica Logica della complementarità

=

Fisica classica Fisica quantistica.

Il carattere analogico della relazione tra le due logiche e le due fisiche ci suggerisce un metodo utile per affrontare la questione del rapporto tra on­ tologia e pensiero logico, che Weizsäcker risolve attraverso il ricorso ai diversi livelli del reale. Melandri invece è più interessato a indagare il metodo attraverso il quale cogliere questa relazione, che è appunto di tipo analogico: l’analogia infatti offre non solo la possibilità di mettere a confronto teorie diverse, o livelli logici o piani di realtà eterogenei, attraverso l’individuazione di alcune proprietà comuni, ma soprattutto ci consente di farlo non affermando la loro completa identità, bensì ammettendo una certa gradazione. Infatti, mentre per la logica vale il principio del tutto-onulla, per cui uno stato di cose esiste o non esiste, l’analogia funge invece da principio di «gradazione continua tra i due estremi del vero e del falso, dell’esistente e dell’inesistente» (ivi, p. 116). Per questo, già ne La linea e il circolo, Melandri concludeva: L’importante è notare come non sia affatto contraddetto, ma anzi corrobo­ rato dagli sviluppi più recenti, quel principio di identità indiretto, funzio­ nale e non-elementaristico che per brevità abbiamo detto «analogico». Al principio di identità logico si sostituisce insensibilmente quello analogico della identitas indiscemibilium: ma a patto di interpretarlo, naturalmente, come un principio differenziale, proporzionale e qualitativo-solo-rispettoa-una-certa-«soglia» (Melandri 1968, p. 558).

Ci preme mettere in evidenza soprattutto il fatto che Melandri, quando de­ finisce il «qualitativo solo rispetto a una certa soglia», si richiami espres­ samente a Weizsäcker. La comune ispirazione di fondo è tanto più evidente quanto più si considera che quest’ultimo, in un saggio intitolato «Continuità e possibili­ tà», si riferiva alla probabilità nella meccanica quantistica come a un «mediatore tra grandezze intuitive e non intuitive» (Weizsäcker 1951, p.

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271), con modalità non dissimili dalla funzione svolta dall’analogia. In altri termini, la probabilità viene introdotta allo scopo di ricondurre i comportamenti quantistici dei sistemi a quelli classici, e concilia diversi livelli del reale, così come l’analogia - medio tra la semplice univocità e la pura equivocazione28 - avvicina termini diversi, non sovrapponibili, ma che in ogni caso hanno in comune alcune caratteristiche significative. E si potrebbe aggiungere che a sua volta la complementarità agisca allo stesso modo29, creando un legame tra i diversi livelli della realtà o i diversi lin­ guaggi, avvicinabili solo con una certa gradazione30. La logica della com­ plementarità è dunque analogica per eccellenza31 e il principio analogico, seppur reinterpretato in senso moderno, sembra mostrare tuttora la sua fe­ condità.

4. Commiato

Nella ricerca dei presupposti metafisici che sottendono le teorie fisiche, che fa da linea guida al mio lavoro, ho tentato di mettere a frutto l’insegnamento di Melandri, che aveva la spiccata capacità di cogliere - e di rendere partecipi gli altri di questa impresa - gli elementi comuni a fi­ losofie tra loro apparentemente lontane, di utilizzare con disinvoltura strumenti concettuali attinti da discipline diverse, di riannodare in una vi­

28 Melandri 1974, pp. 19 ss. Per il ruolo svolto dall’analogia nel contesto teologico me­ dievale, si veda Melandri 1968, pp. 134-150. 29 In Weizsäcker 1956, p. 376, l’autore precisa che il rapporto tra la descrizione spazio­ temporale e quella causale appartiene al genere di complementarità circolare, anche per­ ché per indagarla «è necessario ammettere analogie, prima che si sia indagato se la parti­ colare natura dei campi posti a confronto lasci apparire plausibile l’esistenza di siffatte analogie». 30 Per l’analisi del principio della gradazione intensiva e della distinzione tra diversi or­ dini di realtà, si veda Melandri 1968, p. 542. Un’indagine sulla funzione dell’analogia nella fisica è condotta da Fano 1997. 31 Melandri 1968, p. 532: «Una “logica della complementarità” è analogica in due sensi: (z) perché la complementarità è fra contrari e non fra contraddittori, essendo la sua for­ mula^ = (zz) perché è una logica che non ammette che un’interpretazione intensiona­ le, dal momento che Γ interpretazione contraria, quella estensionale, ne costituisce la di­ retta Aufhebung. Γ Tutto sommato, si può riassumere l’intera questione dicendo che un’interpretazione è “estensionale” quando tien fermo l’oggetto e relativizza le funzioni connettive che possono sussistere fra gli oggetti: sono ammesse solo quelle che non ne modificano la natura (teoria delle “relazioni esterne”); mentre è “intensionale” nel caso contrario, quando cioè tien ferma la funzione -- o, al limite, l’identifica con la struttura e per far questo non si perita dal relativizzare l’oggetto (teoria delle “relazioni ester­ ne”)».

40 sione coerente i molteplici fili che la sua riflessione sapeva individuare e seguire in direzioni differenti. Scrive Weizsäcker a proposito di Niels Bohr, padre putativo di tutta una generazione di fisici che, con il loro operato, hanno modificato la no­ stra immagine della realtà microscopica: L'Istituto di fisica teorica di Copenaghen fu per venti anni il punto di in­ contro dei fisici teorici di tutto il mondo. Come nessun altro, Bohr ha for­ mato una scuola con mancanza completa di quelle qualità, che di solito di­ stinguono i capiscuola: il talento pedagogico e l’avidità di dominio. A molti accadde così: non lo si comprendeva, ma lo si ammirava, si sorride­ va di lui e lo si amava, e quando dopo molti anni si lasciò il suo Istituto, sulla fisica si sapeva qualcosa, che prima non si era saputo e che in nessun altro modo si sarebbe potuto imparare (Weizsäcker 1960, p. 290).

Mi piace pensare che, mutatis mutandis, lo stesso si addica a Enzo Me­ landri.

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Francesco Armezzani (Università di Macerata)

Il concetto fenomenologico di variazione: significato e perce­ zione

1. Introduzione

In questo intervento mi occuperò del «momento figurale» husserliano, in particolare delle interpretazioni che Melandri ne ha dato negli anni ’60, poi riprese e sviluppate in diversi interventi della fine degli anni ’80 e dei primi anni ’90. Aver posto l’attenzione sul «momento figurale» è proba­ bilmente uno dei meriti dell’interpretazione melandriana di Husserl, non­ ché, se prendiamo in considerazione in particolare l’articolo sui parados­ si1, uno dei temi in cui in Melandri l’interpretazione dei testi e l’originalità filosofica vera e propria raggiungono risultati di eccezionale interesse e valore. Su questo mi rendo contro di non dire nulla di partico­ larmente nuovo: Melandri è stato il primo in Italia a porre l’accento sull’Husserl cosiddetto pre-fenomenologico, così come a rendere accessi­ bili per primo in italiano testi chiave della nascita della fenomenologia1 2. Lungo questa linea di studi molti allievi di Melandri hanno contribuito nel corso degli anni a portare alla luce con studi, traduzioni e lavori compara­ tivi il giacimento ancora in parte sepolto degli autori che anticipano o par­ tecipano alla nascita della fenomenologia. In questo senso la rilevanza da­ ta da Melandri sin dagli anni ’60 ai rapporti Brentano-Husserl, alla rela­ zione tra psicologia, logica e matematica è tale per cui la ripresa del «momento figurale», che con tali temi è strettamente connesso, non è cer­ to in questo senso una novità da riscoprire o un aspetto in ombra da porre in evidenza. Il presente lavoro intende utilizzare le analisi di Melandri sul «mo­ mento figurale» in un contesto nuovo, che si basa sulla convinzione che i risultati di tali analisi siano in grado di svolgere un ruolo importante nella critica al concetto di rappresentazione, che tanta parte occupa nel pano­ rama filosofico contemporaneo, in particolar modo nel dibattito sulla na­ tura della mente. A grandi linee è nostra intenzione dimostrare come il momento figurale possa svolgere, senza ricorrere all’intellettualismo tipi­ 1 Melandri 1960b. 2 Si veda in particolare Melandri 1979.

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co di ogni posizione rappresentazionalista, la funzione di mediazione e sintesi tra i due momenti altrimenti separati e incomunicabili della sensa­ zione (o intuizione) e del concetto (o intelletto). Un ulteriore vantaggio della posizione che verrà qui sostenuta è di evitare complicate forme di realismo più o meno ingenuo, più o meno scientifico, che stanno al centro del dibattito filosofico contemporaneo.

2. Critiche al rappresentazionalismo

Per rappresentazionalismo s’intende qui in generale l’idea tipica della fi­ losofia moderna, da Cartesio in poi, per cui gli oggetti della nostra cono­ scenza non sarebbero gli oggetti esterni posti “fuori di noi”, nel mondo esterno, ma gli oggetti interni o mentali, le rappresentazioni appunto, me­ diante le quali ci raffiguriamo, tra le altre cose, la realtà dei corpi fìsici estemi. Putnam (1999, pp. 11-40) e McDowell (1996, pp. XI-XXV) hanno a più riprese cercato di demolire questo concetto di rappresentazione. Uno dei motivi fondamentali per cui Putnam ritiene che il concetto moderno di rappresentazione sia da superare consiste nelle “antinomie” del realismo dovute essenzialmente alla natura esclusivamente interna delle raffigurazioni soggettive del mondo esterno. In questo modo l’idea propria del senso comune, per cui conoscere significa avere a che fare con le cose del mondo come sono indipendentemente da noi, diventa del tutto ingiustificabile. Il soggetto finisce così con il restare intrappolato nel suo mondo di rappresentazioni interne, incapace di agganciare la realtà “di fuori”. Secondo Putnam il problema del realismo nella filosofia moderna nasce proprio dall’aver considerato gli input percettivi, cioè a dire le sen­ sazioni, «come il limite esterno delle nostre procedure cognitive di elabo­ razione; qualsiasi cosa si trovi oltre questi input è connessa ai nostri pro­ cessi mentali non già cognitivamente, ma solo causalmente» (Putnam 1999, p. 33). Questa posizione viene assunta in maniera del tutto esplicita da Davidson, che nega ogni valore cognitivo alla relazione causale tra og­ getti e soggetti. Davidson sviluppa questo argomento affrontando e cer­ cando di eliminare quello che a suo dire è il terzo dogma dell’empirismo, cioè il rapporto tra schema concettuale e contenuto sensibile. Secondo Davidson infatti ogni tentativo di porre il molteplice sensibile sotto il concetto intellettuale comporta il fatto che l’azione stessa del “porre sot­ to” è già implicita nel concetto. In questo senso Davidson sostiene che tra sensazione e concetto non c'è nessuna relazione cognitiva: la prima limita dall'esterno causalmente il secondo, senza che questa limitazione possa in qualche modo entrare nello spazio del concetto. I concetti, nella loro pre-

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tesa predicativa, non possono essere giustificati dalle sensazioni; essi piuttosto rimandano gli uni agli altri, secondo leggi logico-sintattiche di coerenza formale interne agli usi linguistici della comunità del parlante. In questo senso se la sensazione, kantianamente, limita e costituisce lo spazio delle ragioni, non può intrattenere con questo alcun rapporto fon­ dativo né tanto meno di giustificazione. Davidson pertanto può conside­ rarsi al sicuro dall’essere vittima del «mito del Dato», dall’idea duramente attaccata da Sellars: il mito consiste nella convinzione automatica per cui gli uomini sono portati a vedere nel Dato, nell’esperienza sensibile, data nella sua immediatezza, l’elemento ultimo, fondativo e limitativo allo stesso tempo, dei nostri giudizi. Come osserva McDowell: Ciò che chiedevamo era una rassicurazione che, quando usiamo i nostri concetti in un giudizio, la nostra libertà - la nostra spontaneità nell’esercizio del nostro intelletto - è vincolata da qualcosa di esterno al pensiero, e vincolata in un modo cui possiamo ricorrere per mostrare che certi giudizi sono giustificati. Ma quando assumiamo che lo spazio delle ragioni sia più esteso della sfera concettuale, tanto da poter incorporare in­ fluenze extraconcettuali provenienti dal mondo, il risultato è una conce­ zione in cui il vincolo esterno si applica al confine estremo dello spazio delle ragioni così esteso, in un modo che siamo obbligati a descrivere co­ me un impatto bruto dall’esterno (McDowell 1996, p. 8).

In questo modo il dato, lungi dall’offrire una giustificazione, chiarisce so­ lo il motivo per cui ci sembra irresistibile la tentazione di assumerlo come prova della giustezza dei nostri giudizi. Per questo motivo per Davidson il dato sensibile non può giustificare alcunché. Una volta che il dato entra a far parte dello spazio delle dimostrazioni o dei giudizi (spazio delle ragio­ ni), con ciò esso è a tutti gli effetti interno allo spazio dei concetti e uno schema concettuale non organizza un contenuto sensibile, più di quanto una lingua non costituisca sensazioni, impressioni ecc. L’idea che una te­ oria o un enunciato o un giudizio siano resi veri da un’esperienza, da un’irritazione esterna di superficie viene rigettata con forza da Davidson: «Che l’esperienza segua una certa direzione, che la nostra pelle venga ri­ scaldata o punta, che l’universo sia finito: questi fatti, se volgiamo chia­ marli così, rendono veri gli enunciati o le teorie. Ma si può dire la cosa meglio senza parlare di fatti. L’enunciato “la mia pella è calda” è vero se e solo se la mia pelle è calda. Qui non c’è alcun riferimento a un fatto, a un mondo, a un’esperienza, a un’evidenza» (Davidson 1984 p. 277). A sua volta il coerentismo di Davidson, secondo McDowell, lascia inesaudi­ to il desiderio di un controllo empirico, sia pur minimale, della nostra co­ noscenza. Se con Davidson riteniamo che le credenze possano essere giu-

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tesa predicativa, non possono essere giustificati dalle sensazioni; essi piuttosto rimandano gli uni agli altri, secondo leggi logico-sintattiche di coerenza formale interne agli usi linguistici della comunità del parlante. In questo senso se la sensazione, kantianamente, limita e costituisce lo spazio delle ragioni, non può intrattenere con questo alcun rapporto fon­ dativo né tanto meno di giustificazione. Davidson pertanto può conside­ rarsi al sicuro dall’essere vittima del «mito del Dato», dall’idea duramente attaccata da Sellars: il mito consiste nella convinzione automatica per cui gli uomini sono portati a vedere nel Dato, nell’esperienza sensibile, data nella sua immediatezza, l’elemento ultimo, fondativo e limitativo allo stesso tempo, dei nostri giudizi. Come osserva McDowell: Ciò che chiedevamo era una rassicurazione che, quando usiamo i nostri concetti in un giudizio, la nostra libertà - la nostra spontaneità nell’esercizio del nostro intelletto - è vincolata da qualcosa di esterno al pensiero, e vincolata in un modo cui possiamo ricorrere per mostrare che certi giudizi sono giustificati. Ma quando assumiamo che lo spazio delle ragioni sia più esteso della sfera concettuale, tanto da poter incorporare in­ fluenze extraconcettuali provenienti dal mondo, il risultato è una conce­ zione in cui il vincolo esterno si applica al confine estremo dello spazio delle ragioni così esteso, in un modo che siamo obbligati a descrivere co­ me un impatto bruto dall’estemo (McDowell 1996, p. 8).

In questo modo il dato, lungi dall’offrire una giustificazione, chiarisce so­ lo il motivo per cui ci sembra irresistibile la tentazione di assumerlo come prova della giustezza dei nostri giudizi. Per questo motivo per Davidson il dato sensibile non può giustificare alcunché. Una volta che il dato entra a far parte dello spazio delle dimostrazioni o dei giudizi (spazio delle ragio­ ni), con ciò esso è a tutti gli effetti interno allo spazio dei concetti e uno schema concettuale non organizza un contenuto sensibile, più di quanto una lingua non costituisca sensazioni, impressioni ecc. L’idea che una te­ oria o un enunciato o un giudizio siano resi veri da un’esperienza, da un’irritazione esterna di superficie viene rigettata con forza da Davidson: «Che l’esperienza segua una certa direzione, che la nostra pelle venga ri­ scaldata o punta, che l’universo sia finito: questi fatti, se volgiamo chia­ marli così, rendono veri gli enunciati o le teorie. Ma si può dire la cosa meglio senza parlare di fatti. L’enunciato “la mia pella è calda” è vero se e solo se la mia pelle è calda. Qui non c’è alcun riferimento a un fatto, a un mondo, a un’esperienza, a un’evidenza» (Davidson 1984 p. 277). A sua volta il coerentismo di Davidson, secondo McDowell, lascia inesaudi­ to il desiderio di un controllo empirico, sia pur minimale, della nostra co­ noscenza. Se con Davidson riteniamo che le credenze possano essere giu­

46 stificate solo da altre credenze, allora, argomenta McDowell, non faccia­ mo altro che ributtarci tra le braccia del mito del dato, e restiamo in balia dell’oscillazione permanente tra lo scetticismo intorno alla natura delle nostre credenze e il mito di una loro giustificazione extraconcettuale. In questo modo secondo McDowell il coerentismo davidsoniano finisce esplicitamente con l’assumere un tono “reclusorio”: il dato continua ad agire dall’esterno sui nostri sensi, causando eventi interni di cui siamo co­ scienti, mentre allo stesso tempo resta per noi irrimediabilmente irrag­ giungibile la loro origine esterna. Putnam, che sostanzialmente è d’accordo con McDowell nel ricono­ scere l’errore del rappresentazionalismo, ritiene che questa situazione ab­ bia finito con l’avere conseguenze catastrofiche per il realismo stesso, co­ stringendo i realisti ad assumere posizioni duramente e esplicitamente metafisiche e dogmatiche. Senza voler entrare nel merito delle soluzioni proposte, ci limitiamo qui a ricordare come Putnam proponga un ritorno all’analisi del concetto di percezione, con particolare riferimento a Austin di Sense and Sensibilia e, così facendo, riproponga un realismo naturale (un realismo aristotelico senza le essenze metafisiche), un realismo in cui gli oggetti sono dati al soggetto in maniera “diretta” e non indirettamente, cioè per mezzo di im­ magini mentali. Ma il superamento del rappresentazionalismo può avveni­ re, con McDowell, anche attraverso l’introduzione dello spazio dei con­ cetti già nello spazio delle intuizioni. Questa tesi molto discussa propone un ritorno a Hegel e all’idea che la natura e il mondo delle azioni umane siano storicamente costituiti e già da sempre intessuti di azioni e relazioni sociali. Il mondo in cui il soggetto si muove è costituito dalla storia cultu­ rale degli uomini, dalle reti linguistiche e dalle stratificazioni di usi e abi­ tudini concettuali storicamente determinati. Solo in questo modo per McDowell assisteremmo ad un superamento della divisione in due dell’esperienza, tra soggetto e oggetto: non si tratta quindi di ritornare ad un contatto diretto con l’oggetto d’esperienza, evitandone ogni forma di raddoppiamento, quanto di svelarne l’intima struttura storico-sociale, sul­ la base della quale la stessa divisione tra mente e mondo, perdendo ogni valenza dualistica, acquista un nuovo senso in una prospettiva sostan­ zialmente unitaria. In Melandri le cose stanno e si sviluppano diversamente: non si trat­ ta di condurre la critica al rappresentazionalismo in maniera apagogica, per scongiurare la crisi del realismo, del ‘robusto senso della realtà’ che Putnam intende preservare, e che il rappresentazionalismo finisce con il mettere a repentaglio, bensì si tratta di porre in luce la natura della rela­ zione rappresentativa, trovarne la sua interna forma costitutiva mettendola

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al vaglio dell’esperienza.

3. Il concetto fenomenologico di rappresentazione La fenomenologia per Melandri è innanzitutto e essenzialmente empiri­ smo radicale, cioè analisi del dato, di ciò che effettivamente risulta acces­ sibile alla descrizione dei contenuti di esperienza, escludendo ogni indebi­ ta intromissione, ogni pregiudizio ontologico, gnoseologico, sia pure del cosiddetto ingenuo senso comune. Questo non comporta che la fenomenologia non operi a sua volta una critica dell’empirismo classico britannico. In effetti, dice Melandri, ancora in Locke l’origine empirica delle idee prodotte in noi dall’azione causale dei corpi esterni non garantisce della loro veridicità, in quanto una volta formate dall’esterno in noi, possono essere rielaborate nella rifles­ sione e nei modi misti, quindi fuori dal controllo dell’analisi empirica. Il tema a ben vedere era già aristotelico, in quanto se le sensazioni proprie specifiche di ogni senso sono veritiere, i problemi si danno con la com­ parsa del senso comune, poi della memoria e, infine, dell’immaginazione. Nessun dato in quanto tale è dato una volta per tutte: ogni oggetto d’esperienza è incompleto, contingente, intenzionale. La parti mancanti, non presenti, nascoste, intraviste, vengono ri-presentate nella memoria o nell’immaginazione e continuamente poste nel cono di luce della prensio­ ne intuitiva presente, in una serie di adombramenti che continuamente ri­ mandano ai momenti trascorsi e anticipano fondandoli i momenti a veni­ re. La phantasia, tradotta anche con «rappresentazione», viene inclusa nella percezione. Ogni percezione (esterna) contiene pertanto in sé il ri­ mando rappresentativo o fantasmatico. Questo a sua volta se da una parte contribuisce a dare un’immagine dell’oggetto, dall’altra ha dei prezzi che comportano tra l’altro la iperproduzione di entità vane, fantastiche, non­ esistenti, con il risultato che a partire dalla sensazione o “percezione sem­ pre vera” si giunge necessariamente al rischio di incorrere in errori, allu­ cinazioni, inganni e verità apparenti3. Uno dei modi in cui nella filosofia contemporanea si è tentato di ri­ solvere questo problema è quello di operare una naturalizzazione dell’intenzionalità. Questo può avvenire in due modi, o attraverso la sua riduzione a fatti fisici, descrivibili nei sensi di leggi delle scienze naturali, oppure attraverso l’assunzione dell’intenzionalità e della coscienza come leggi naturali fondamentali, insieme a quelle della gravità, 3 Cfr. Melandri 1991, pp. 123-125, 128-130.

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dell’elettromagnetismo, della mitosi e della meiosi e della fotosintesi. Esponente autorevole del secondo modello è Searle, che se da una parte rivendica la centralità dell’intenzionalità nella spiegazione dei rap­ porti tra soggetto e mondo, dall’altra afferma che l’intenzionalità è una relazione che si svolge all’interno di un primitivo rapporto causale con il mondo esterno. Attraverso questa idea la rappresentazione in Searle si spiega in termini di “condizioni di soddisfazione”: se mi rappresento che piove, la rappresentazione è soddisfatta se e solo se di fatto piove. Anche Searle si schiera infatti contro il rappresentazionalismo, contro il raddop­ piamento di oggetto e contenuto. Tra rappresentazione e mondo c’è in questo caso un rapporto intenzionale diretto: ogni rappresentazione in quanto tale richiede condizioni di soddisfazione: nella percezione (espe­ rienza visiva) si impone il fatto per cui le condizioni di soddisfazione ri­ chieste devono essere la causa dell’esperienza visiva stessa. In altre parole nella percezione il contenuto deve essere causato dall’oggetto. Searle stesso afferma: «Il contenuto intenzionale dell’esperienza visiva deve es­ sere perciò reso esplicito nella forma che segue: ho un’esperienza visiva (che c’è là una giardinetta gialla e che ci sia una giardinetta gialla sta cau­ sando questa esperienza visiva)» (Searle 1983, p. 55). Per Searle è essenziale che il contenuto intenzionale della percezio­ ne catturi come è necessario che il mondo sia perché il soggetto abbia quella percezione, e inoltre il fatto che l’essere in quel modo del mondo è la causa della percezione. Alla luce di quanto detto, all’interno di un pro­ gramma di “naturalizzazione dell'intenzionalità”, Searle giunge ad affer­ mare che la percezione è una transazione causale e intenzionale tra la mente e il mondo (ivi, p. 56). In questa maniera una delle proprietà fondamentali della descrivibi­ lità dello psichico, posta per primo da Brentano, viene però di fatto elimi­ nata. Non tener conto della fondamentale distinzione tra psicologia gene­ tica e psicologia descrittiva, comporta la fine stessa del concetto di analisi fenomenologica. L’intenzionalità è una “quasi-relazione”, in cui solo uno dei due membri è necessario che sia dato, il soggetto, mentre il riferimen­ to alla cosa (res) resta del tutto intenzionale, cioè dato solo presuntiva­ mente. Oltre a questa fondamentale distinzione Melandri ne ricorda alme­ no altre due che vanno senz’altro citate. La prima è quella tra percezione interna e percezione esterna, la seconda è tra la concezione attualista o na­ turalista dell’esperienza. Nel secondo caso noi intendiamo per esperienza il risultato di un’azione causale dell’oggetto esterno sul soggetto, quindi ammettiamo all’interno del concetto stesso di esperienza quello di rela­ zione causale, nel primo caso invece consideriamo esclusivamente il dato empirico attuale, prescindendo da tutte le componenti ontologiche e gno­

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seologiche che siano implicite o esplicite poco importa. È solo in questo secondo senso che la fenomenologia può essere considerata un empirismo radicale, mentre nel primo caso ci troveremmo di fronte ad un’esperienza pesantemente pregiudicata in senso naturalistico4.

4. Il momento figurale

Se non si tiene in debita importanza la centralità del momento descrittivo non è possibile recuperare gli elementi invarianti, da intendere come ele­ menti a priori. È in questo contesto che il momento figurale emerge come il risultato assolutamente centrale dell’analisi fenomenologica, come il momento in cui inizia la riduzione del noumeno al fenomeno. Nella Filo­ sofìa dell’aritmetica sono essenzialmente due le operazioni compiute da Husserl nella definizione di numero: la negazione e la congiunzione. Me­ landri a questo proposito scrive: Spingendo al massimo limite la negazione degli attributi che li contraddi­ stinguono come questo o quel elemento individualmente inteso, otteniamo una serie di quid genericissimi e indeterminatissimi: i meri Etwas über­ haupt. Al carattere di «insieme» che gli elementi conservano pur nell’astrazione corrisponde invece la «congiunzione», cioè l’operazione collettiva che si esprime con la particella und. Tenendo presente il signifi­ cato privativo del «qualcosa», la formula generale della molteplicità di­ venta «Etwas und Etwas und Etwas...und...». Empiristicamente, dunque per spiegare l’origine del concetto di numero bastano una sottrazione e un’addizione. In ogni molteplicità data, la prima operazione riduce gli elementi a unità omogenee, mentre la seconda ricollega tali unità discrete nella superiore unità concettuale del numero. Come dice Euclide, il nume­ ro è l’unità di una molteplicità (Melandri 1960a, p. 19).

L’azione del contare, dell’aggiungere indefinitamente unità a unità è e4 Melandri, 1960a, p. 35: «In questa seconda, più profonda accezione, fondare la logica sulla psicologia diventa un cimento di alto valore critico. Ma ciò risulta possibile solo a patto di riformare preliminarmente la psicologia depurandola da ogni intrusione in tal senso illegittima. Tale è, per es., la nozione volgare di causalità intesa come legge tra­ scendente che determina una dipendenza reale dei fatti psichici da parte di quelli fisici. Per questa ragione Brentano si preoccupa innanzi tutto di stabilire una netta distinzione fra i due modi di affrontare la questione. Abbiamo da un lato psicologia naturalistica­ mente intesa, cioè a carattere induttivo (o meglio: ipotetico-deduttivo), che egli chiama “psicologia genetica” (o fisio-psicologica, o psicofisica): questa deve essere messa tra parentesi. Dall’altro, invece, la psicologia fenomenicamente intesa, ciò che egli definisce “psicologia descrittiva” o “psicognosia”: a carattere esclusivamente analitico-descrittivo, quest’ultima, e tendente alla classificazione dei modi di pura datità»

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stema alle unita contate: l’addizione risiede esclusivamente nel soggetto, è associazione di idee. Ma questo processo ad un certo punto entra in cri­ si. Nel concetto di “molteplicità momentanee”, quali si vedono comparire nella contemplazione della volta stellata, delle folle oceaniche o delle zanzariere, «ogni qualvolta una pluralità indefinitamente numerosa viene appresa con un solo istantaneo colpo d’occhio» (ivi, p. 22). In questi casi il procedere discreto dell’aggiungere entra in crisi e con esso l’intento me­ ramente classificatorio della psicologia brentaniana. Bisogna aggiungere nei casi delle molteplicità momentanee «un terzo fattore costitutivo del concetto di molteplicità. Non si tratta, è chiaro, di postulare un ‘terzo in­ comodo’ da aggiungere per via di ipotesi ai due fattori già prima accertati (cioè: elementi e relazione collettiva), ma di mostrarne con tutta evidenza la presenza efficace. È ciò che Husserl definisce “momento figurativo” o “quasi-qualitativo”» (ivi). È uno dei punti fermi dell'interpretazione di Melandri vedere come Husserl intenda porre in relazione il momento figurativo con il tema della relazione tra “fenomeno” e “significato”. E in ciò che appare, nel come dell’apparire del fenomeno, che per il soggetto emerge il significato. Husserl, in netta e ribadita differenziazione critica con l’estensionalismo di Schröder (ma lo stesso discorso si può fare per Frege), per cui proce­ dendo attraverso il sistema della sottrazione e dell’addizione successiva si potrebbe giungere ugualmente alla definizione di classi (e di classi di classi), sottolinea la natura intensionale delle analisi condotte sia sulla ge­ nesi del concetto di numero, sia, più in profondità, sulla natura del calcolo proposizionale. Il significato ha essenzialmente una struttura intensionale, riguarda la struttura logica interna alle relazioni che intercorrono nel con­ tenuto dell’atta intenzionale. Ancora treni’anni dopo, nel suo Le «Ricerche Logiche» di Husserl del 1990, Melandri insisterà a lungo sul duplice carattere intellettuale e sensibile della natura del significato così come della natura della perce­ zione, cioè del come del darsi del fenomeno. Senz’altro uno dei risultati più decisivi per l’interpretazione husser­ liana di Melandri è aver progressivamente posto negli anni che vanno dal­ la Filosofìa dell’aritmetica (1892) alle Ricerche Logiche (1900) il tema del significato come il tema centrale delle analisi logiche e psicologiche sulla natura della relazione tra intuizione e concetto. Sempre negli anni che seguono la redazione della Filosofìa dell ’aritmetica il «momento figurale» svolge la funzione di approfondire il distacco dalle classificazioni brentaniane. Ma questo non tanto attraver­ so un abbandono della psicologia descrittiva del maestro, quanto attraver­ so un suo approfondimento, che in Husserl si sviluppa in maniera sempre

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più autonoma e consapevole proprio nell’analisi del tema del significato. Ricapitolando, il «momento figurale» viene visto da Melandri come progressiva definizione di una quasi “sintesi a priori”. Sono tre i momenti di assoluta importanza in questa fase pre-fenomenologica che conseguono dall’aver posto questo momento: 1) introduzione di categorie organicisti­ che nell’analisi della percezione contrapposte a quelle precedenti di tipo prevalentemente “atomistico”; 2) l’emergere di una forma di tipo gestaltico (Prägnanz, poi sviluppata dai gestaltisti) apprendibile tramite intuizio­ ne: il momento figurale è un momento unitario sensibile, un momento che prescinde dai contenuti empirici dati e che si rivolge alle relazioni tra essi; queste ora si sono fuse in una totalità, in una figura dotata di pregnanza intuitiva5; 3) l’inizio dell’approssimarsi di ciò che è “astratto” e ciò che è “concreto” e del loro distinguersi reciproco da ciò che è detto “simbolico” e “intuitivo”: per la fenomenologia nessun dato è mai assolutamente con­ creto, non è cioè mai dato “una volta per tutte”, il suo essere oggetto di intuizione ammette e implica necessariamente il rimando a relazioni con lo “sfondo”, con tutto, come dice Melandri. In questo senso è chiaro che ogni intuizione porta con sé anche un momento astratto e contribuisce a dare una versione completamente rinnovata dell’idea di rappresentazione. Il momento della totalità figurale è fondato sui contenuti empirici sensibi­ li, nel senso che rimanda ad essi, ma al contempo li supera, mirando al­ l'oggetto trascendente, all’intero rappresentato e non intuito, però tutto concreto anche se non presente interamente simultaneamente ai sensi. In questo senso la rappresentazione non solo è sensibile nel suo “contenuto” ma anche, seppur in maniera diversa, nel suo “oggetto”. L’oggetto rappre­ sentato va pertanto considerato come un “dato” anche se in maniera di­ versa del modo di essere “dato” del contenuto. In questa duplice modalità dell’essere dato dell’oggetto Husserl pur ribadendo la centralità dell’analisi psicologica dei modi di datità degli oggetti, si pone al di fuori della sfera dello psicologismo. L’oggetto trascendente è dato obiettiva­ mente a partire da intenzionalità fondate su datità sensibili.

5 «Il concetto è sempre l’“unità di una molteplicità”, in cui i contenuti empirici non han­ no importanza. Considerato in senso comprensivo (o intensivo), il concetto si può defini­ re “pregnante” quando le relazioni connettive fungano esse stesse da contenuto intuitivo. Il fatto che le relazioni originariamente non intuitive possano “fondersi” (come dice Stumpf) in una totalità a carattere non più meramente simbolico (o rappresentativo) ma semi-intuitivo, è spiegato dal momento figurale. La pregnanza intuitiva (o meglio “semiintuitiva”) è appunto l’effetto della tendenza che hanno le relazioni a congruire nel figu­ rale» (Melandri 1960a, pp. 25-26).

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5. L’intuizione eidetica L’approfondimento magistrale delle tematiche inerenti alla natura del momento figurale porta Melandri a cogliere in questo la genesi dell’intuizione eidetica. Se la rappresentazione dell’oggetto è il risultato di una sintesi operata al livello dell’intuizione sensibile, cogliendo come contenuti le relazione stesse tra i dati sensibili, Γ eidos viene posto al ter­ mine di questo processo come oggetto di una quasi-intuizione. Melandri usa Γeidos all’interno di un processo trascendentale mutuato da Kant che però alla fine si capovolge in maniera radicale contro Kant stesso. Se l’evidenza dell’intuizione sensibile dà luogo a giudizi assertori, limitati al dato attualmente presente, l’evidenza apodittica, mediata e complessa, ot­ tenuta per ragionamento, dà luogo a giudizi necessari, che superano la li­ mitata evidenza dei sensi. In questo senso l’evidenza assertoria è sempre controvertibile, contingente, contestabile e lacunosa. Lo schematismo tra­ scendentale kantiano aveva di mira il superamento di queste due differenti evidenze. A differenza di Brentano che cercava di ridurre l’apodittico all’assertorio, Husserl tenta invece una strada armonizzatrice che passi proprio per il momento figurale. Una volta stabilito che lo schema è «ogni funzione mediatrice e omogeneizzatrice delle due discrete fonti della conoscenza» esso può vale­ re sia come «condizione formale della sensibilità», come vuole Kant, ma anche come «condizione materiale della pensabilità», cioè come condi­ zione della fondatezza precogitativa dei nostri pensieri. Melandri giunge quindi a porre l’inerenza di un elemento estetico aH’intemo dell’analitico: Da un lato, nel campo associativo dei puri dati sensibili si evidenziano in senso apodittico linee di forza strutturali. Dall’altro, reciprocamente, i nes­ si relazionali che costituiscono ogni sistema apofantico si fondono insieme nei punti di intersezione rilevandosi come contenuti intuitivi. Anche l’apodittico ha dunque una sua evidenzialità offerente. Letteralmente: le idee si vedono (ivi, p. 54).

La Wesensschau si dispone come il momento figurale in tre fasi: mentre il secondo aveva elementi discreti dati singolarmente nell’intuizione sensi­ bile successivamente svuotati di ogni proprietà particolare, la prima inve­ ce ha un oggetto, non importa se reale o immaginato, che viene trasforma­ to (“formalizzazione”) in modello-guida. In seguito il momento figurale indicava la relazione intercorrente tra i singoli momenti come compietamente scollegata da loro (l’ecceterazione), quindi data come elemento di­ stinto, laddove la Wesensschau introduce il «procedimento seriale della variazione, che utilizza il modello-guida come termine di partenza per

53 produrre una molteplicità illimitata di varianti ad libitum» (ivi, p. 56). A questo punto (terzo momento) la Wesensschau si dispiega del tutto nella scoperta di un’unità a carattere semi-intuitivo che attraversa tutta la serie di variazioni compiute: questa unità è la struttura invariante o necessaria; anche nel caso del momento figurale questo si svolgeva nel terzo e con­ clusivo passaggio, attraverso il coglimento della struttura associativa stes­ sa, per cui le relazioni venivano liberate dai loro oggetti e elevate esse stesse a contenuti. Come abbiamo visto il punto di partenza dell’intuizione sensibile fa capo ad un dato non necessario, quindi contingente. E su questo dato che si esercita la variazione, essa stessa indica che il dato è incompleto, lacu­ noso, che può essere anche diversamente. Il modello-guida è un oggetto che in virtù della sua incompletezza viene modificato ad libitum fino al coglimento dell’invarianza, dell’essenza e della necessità ideale nel dato stesso, non fuori di esso o al di là di esso, bensì in esso anche se non coin­ cidente con esso. La variabilità del dato è contenuta implicitamente in esso sin dall’inizio, è in qualche modo assicurata dal suo essere un dato provviso­ rio, dipendente dal “come” dell’intenzionalità che si rivolge ad esso. Co­ me abbiamo visto e come verrà tematizzato nell’analisi della percezione e del significato nelle Ricerche Logiche, la struttura stessa della relazione intenzionale è caratterizzata dalla possibilità dell’oggetto della percezione o del significato di essere diversamente. Sia il percepito che il significato potrebbero essere messi in discussione permanentemente dagli atti suc­ cessivi. Da questa situazione Melandri fa emergere la differenza tra la concezione ontologica univoca di Brentano e quella husserliana invece equivoca. L’affermazione aristotelica per cui l’essere può essere in molti modi, potrebbe a sua volta essere ribadita da Husserl “in una serie infinita di modi”, in corrispondenza con le indefinitamente varie e diverse moda­ lità intenzionali. In Brentano l’univocità è caratterizzata dal modo presen­ te, dalla direzionalità attuale della percezione hic et nunc. Da questa ini­ ziale caratteristica ontologica brentaniana del dato, per cui l’essere corri­ sponde con l’essere dato “adesso”, nella percezione attuale, il distacco di Husserl nel senso di una più volte ribadita equivocità dell’essere, serve a Melandri per chiarire in maniera estremamente efficace alcuni elementi decisivi, che stanno a fondamento della sua filosofia fenomenologica.

6. L’infinito Alla luce delle analisi condotte sul momento figurale e sulla variazione

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risulta chiaro il motivo che porta Melandri ad affrontare il tema dell’infinito all’interno del problema filosofico più generale della datità. Il concetto matematico di grandezza infinita viene visto all’interno della psicologia descrittiva, come analisi del fenomeno psichico. Almeno que­ sta è la soluzione di Brentano per il quale il fenomeno psichico è sia fe­ nomeno che cosa in sé, quindi sia soggettivo che oggettivo. In questa ma­ niera vista l’assoluta veridicità dei giudizi che asseriscono l’esistenza del fenomeno psichico, in quanto oggetto della percezione interna, Brentano giunge a ridurre tutti i giudizi a giudizi esistenziali e a porre, come ab­ biamo visto, il predominio dell’assertorio sull’apodittico. Il primato del sensibile sull’intellettuale è in Brentano assolutamente centrale, anche il principio di contraddizione non è evidente di per sé, ma implica necessariamente un ragionamento, mentre l’esperienza immediata che il soggetto ha di sé non necessita alcuna dimostrazione, né riflessione particolareggiata. Secondo questa linea di pensiero l’infinito può esistere solo in po­ tenza, come relazione secondaria. Noi peraltro abbiamo già visto come Husserl messo di fronte all’apprensione momentanea di insiemi illimitati, la volta stellata, non potendo ovviamente risolvere l’esperienza corri­ spondente con l'intuizione di un numero infinito di stelle legate tra loro dalla relazione di addizione, non possa nemmeno aggiungere ad un nume­ ro finito di stelle l’espediente di dire “e così via”, una sorta di compensa­ zione simbolica di una relazione che di fatto non possiamo porre per tutti i casi. In questo caso non ci troveremmo di fronte ad un’intuizione sensibi­ le reale, bensì di fronte ad una rappresentazione puramente immaginativa o ripresentante. L’apprensione è simultanea e il tutto viene colto in un solo sguardo, sia pure puntualizzato preferenzialmente su una sola stella. Il problema che qui si affaccia ha evidentemente una portata più generale. Anche nel caso di un insieme illimitato non simultaneo dobbiamo già avere un’idea, sia pure vaga e confusa, di esso come totalità complessivamente data, per po­ ter dare un senso alle prescritte formalizzazioni e simbolizzazioni (Melan­ dri 1960b, p. 97).

Siamo già a conoscenza del fatto che questa funzione di totalità viene svolta dal «momento figurale» e che in matematica questo momento ha la funzione di dare una qualche concretezza anche alle più astruse operazio­ ni simboliche. La difficoltà a dare dell’infinito una più adeguata intuizio­ ne corrispondente non è pertanto legata ai limiti dell’intelletto umano. È la natura della “cosa stessa” ad essere per se stessa data secondo questa modalità; pretendere che essa sia data nella datità attuale delle cose finite

55 è fare violenza alla natura dell’infinito. Esso può pertanto essere dato solo in potenza, ma ciò nondimeno è dato. Questa situazione emblematica nel caso dell’infinito ci consente di verificare nel caso limite dell’esperienza dell’infinito le conseguenze più formidabili della scoperta rivoluzionaria del momento figurale. Uno dei postulati fondamentali della fenomenologia è che l’esperienza è sempre e necessariamente evidente. L’evidenza, infatti, come «esperienza in atto della verità», consiste in una coincidenza fra due momenti eteroge­ nei che si verifica sempre e in ogni caso. Uno dei due momenti ha la fun­ zione di anticipazione dell’esperienza. Può essere definito come un «a priori», come un’aspettativa o come un’«intenzione significativa»: in ogni modo esso serve a predisporre l’apparato categoriale orientandolo in un certo senso. L’altro momento ha la funzione della verificazione mediante l’esperienza. Può essere inteso come un «a posteriori», un «adempimento» o una «realizzazione» dell’intenzione. Esso fornisce a ogni esperienza at­ tuale della verità la sua caratteristica «pienezza». L’evidenza non è dunque né un criterio a priori né un fatto, ma piuttosto il risultato della coinciden­ za di entrambi. E la adaequatio rei ac intellectus nel senso più profondo e non banale dell’espressione: In questo senso si dice che l’evidenza è datità originaria (ivi, p. 100).

L’evidenza risulta pertanto essere il risultato di un rapporto dialettico e dinamico tra intenzione e intuizione. Il momento figurale è la struttura fe­ nomenologica che si è scoperta alla base della possibilità del riempimento intenzionale di tutti gli atti e di tutte le esperienze possibili. Ogni evidenza è autodatità, il fenomeno non occulta né nasconde una qualche inaccessi­ bile verità, una qualche presenza trascendente inarrivabile. Lo scoramento che proviamo di fronte all’infinito non consiste nella nostra incapacità a rappresentarcelo attualmente, ma risiede nella sua natura di inesauribile possibilità. La particolarità di quest’esperienza sta alla base delle ansie metafisiche e trascendenti con cui ci proponiamo di rappresentarci in mo­ di più soddisfacenti un oggetto tanto sfuggente. In questo senso Melandri trova il fondamento di ogni umana mania di trascendenza in questa aspet­ tativa mal riposta. In verità la forma adeguata di evidenza di questa parti­ colare esperienza è data completamente nella forma della possibilità. Nel­ le Ricerche Logiche le forme di questa relazione tra attesa intenzionale vuota e intuizione riempente verranno studiate più in profondità, però la struttura essenziale del rapporto resta la stessa. L’apparente falsità dell’affermazione per cui ogni esperienza è evi­ dente, quando invece nella nostra vita di tutti i giorni facciamo spesso esperienza del contrario, viene controbilanciata e resa meno paradossale dalla constatazione che ogni evidenza è sempre relativa. L’errore viene

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compiuto quando sulla base di un’evidenza formuliamo giudizi o pretese inadeguati al dato. L’esperienza risulterebbe pertanto sempre vera se noi non giudicassimo a partire da pretese superiori alla natura delle cose e dell’evidenza relativa alle modalità intenzionali con cui ci rivolgiamo ad esse. «L’esperienza può si deludere le mie aspettative, ma solo in quanto queste siano state concepite senza tener conto del carattere peculiare dell’esperienza stessa in gioco. L’errore nasce sempre come metabasis eis allo genos» (ivi). Ugualmente quando pretendiamo che la memoria ci fornisca evidenze irraggiungibili riguardo a oggetti o eventi passati, non è la memoria ad essere inadeguata, bensì è la nostra pretesa ad essere ecces­ siva e pertanto a ingenerare la falsità. L’errore in questo senso consiste nell’escludere la possibilità del “no”: il “no” va inteso come un vero e proprio riempimento, che se delude le aspettative fondate sui dati prece­ denti, rivela il carattere aperto e dialettico del processo percettivo. Trova quindi giustificazione Γ affermazione di Melandri per cui ogni evidenza è per l’appunto relativa. Nessuna esperienza è per ciò stesso più evidente, più assoluta o meno relativa di tutte le altre. Pur non escludendo esperienze del tutto adeguate, queste valgono solo per la coscienza, e in questo consiste il suo privilegio. Il fatto che ri­ flettendo sui nostri atti, abbiamo di essi immediatamente piena coscienza (percezione interna) ci porta a credere che l’idea di infinito possa in qual­ che modo stare con noi in una certa qual relazione privilegiata, ancorché indescrivibile, ineffabile e misteriosa. L’idea di infinito, come le idee che per definizione non possono che essere relative e inadeguate, come “io”, “natura”, “mondo”, “spazio”, “continuo”, “storia” ecc. non hanno niente di misterioso, sono piuttosto rappresentazioni eminentemente “immaginarie”, cioè con contenuti pos­ sibili, con contenuti che sono dati solo in maniera possibile. In questo senso il risultato per noi più importante è proprio la natura della rappresentazione dell’oggetto trascendente. In linguaggio fenomeno­ logico questo oggetto non è posto in qualche enigmatico posto al di là dell’esperienza, è invece un oggetto dato in maniera non completamente attuale, è un oggetto empirico, quindi dato attraverso un’intuizione sensi­ bile, che però è posto al di fuori l’orizzonte della realtà attuale. Il modo in cui un’intuizione sensibile comunica enti non attuali non è un’esperienza fuori dell’esperienza, bensì un atto che fornisce per definizione un’evidenza a priori relativa. La rappresentazione, e questo va considera­ to il portato fondamentale delle analisi fenomenologiche, soprattutto in relazione ai nostri interessi, ha sempre al suo interno una componente di questo tipo, una componente immaginaria o trascendente, di contenuti so­

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lo relativamente evidenti. Allo stesso tempo questa rappresentazione rivela e risolve la sua es­ senziale incompletezza, proprio nel ricorso sistematico alla variazione, al­ la possibilità di modificare all’infinito i processi di approssimazione rela­ tiva aH’oggetto. In questo senso la rappresentazione è l’oggetto stesso del­ la conoscenza, così come le idealità oggetto delle rappresentazioni sono costituite a partire dalla variazione infinita. L’affermazione melandriana per cui la fenomenologia lungi dal rigettare il regressus ad infinitum lo accoglie nel suo metodo come componente fondamentale è consistente con l’affermazione che la Wesensschau è parte integrante dello schemati­ smo trascendentale fenomenologico.

7. Conclusione

Abbiamo condotto l’analisi quasi esclusivamente sulla ricostruzione del concetto di momento figurale proposta da Melandri più di quarantanni fa. In queste analisi abbiamo cercato di isolare il concetto di rappresentazione o, quanto meno, le conseguenze che tali analisi hanno sul concetto feno­ menologico di rappresentazione. Abbiamo visto come la rappresentazione presenti al suo interno una struttura incompatibile con quella del rappresentazionalismo classico, che oppone ad un oggetto trascendente un contenuto immanente. Questo rad­ doppiamento dell’oggetto produce, oltre alle critiche segnalate all’inizio da Putnam e McDowell, il noto atteggiamento intellettualistico per cui i contenuti immanenti vengono assunti al di sotto dei concetti. In Kant que­ sta operazione di sussunzione piega il contenuto sensibile alle categorie a priori attraverso lo schema trascendentale dell’immaginazione. Abbiamo visto come in Melandri la funzione trascendentale venga svolta dall’eidos, cioè essenzialmente dal termine del processo intuitivo come è stato de­ scritto nella Wesensschau. In questo si vede il capovolgimento del processo trascendentale kan­ tiano: già a livello dei contenuti sensibili l’intuizione attraverso il proces­ so metodologico della variazione coglie le relazioni come elementi indi­ pendenti di una totalità figurale, della natura essenziale del processo di esperienza. In questo modo il contenuto immanente e l’oggetto trascendente non sono che due nomi diversi per uno stesso processo dialettico di cui la rap­ presentazione è di volta in volta il risultato terminale ancorché provviso­ rio. Il momento intuitivo è sempre parziale, contingente e lacunoso, il momento apodittico non si oppone ma è analogo a questo: l’intuizione ei­

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detica è una quasi-intuizione, è un momento in cui la relatività dell’evidenza delle singole intuizioni sensibili si fonda sulla loro infinita variabilità e sulla permanenza di un essenziale momento-invariante. In questo modo se Husserl da una parte supera la posizione di Bren­ tano, dall’altra resta assolutamente fedele al processo descrittivo fenome­ nologico: il dato è il punto di partenza di ogni processo apodittico, di ogni momento giudicativo, di ogni rappresentazione e quindi di ogni cono­ scenza. Il rimando al dato apre a sua volta il rimando all’immaginario, all’oggetto trascendente, al possibile: questi termini non sono altro che il risultato di un processo descrittivo che ha dato come risultato definitivo la relatività di ogni evidenza e quindi di ogni esperienza. Questa relatività vale come limite solo se in maniera arbitraria e dogmatica fissiamo il termine della conoscenza in un’evidenza assoluta e incontrovertibile e quindi in tutti i casi in cui questo risultato non può es­ sere raggiunto, viene posta la cattiva metafisica di un oggetto trascendente che supera infinitamente la nostra capacità dio conoscerlo. Emendarsi da questo errore significa non porre la rappresentazione come termine medio tra il soggetto e l’oggetto, eliminare l’oggetto tra­ scendente come appiglio naturalistico e considerare la trascendenza in un processo di datità intuitive sensibili in un libero processo di variazioni e di emergenze di strutture invarianti. In questo senso la rappresentazione diventa un processo aperto, dialettico, rivedibile, un processo che ammet­ te la delusione riempitiva, la possibilità del “no”. Un processo che anni dopo Melandri descriverà in maniera esempla­ re con le pagine dedicate all’oggetto incompleto di Meinong6 e che por­ ranno su un piano empirico descrittivo le tematiche ontologiche e gnoseo­ logiche corrispondenti, tenendosi ben al di sopra di indebiti e pregiudiziali atteggiamenti naturalistici o di consolatorie quanto dogmatiche assunzioni metafisiche.

Bibliografìa Davidson, D., 1984, Verità e interpretazione, Bologna, Il Mulino, 1994. McDowell, J., 1996, Mente e mondo, Torino, Einaudi, 1999. Melandri, E., 1960a, Logica e esperienza in Husserl, Bologna, Il Mulino. Melandri, E., 1960b, «I paradossi dell’infinito nell’orizzonte fenomenologico», in Omaggio a Husserl, a cura di E. Paci, Milano, Il Saggiatore, pp. 83-119. 6 Cfr. Melandri 1989, in particolare la lezione III.

59 Melandri, E., 1979, «Alla ricerca dell’oggetto inesistente», introduzione all’edizione ita­ liana di A. Meinong, Gli oggetti di ordine superiore in rapporto alla percezione in­ terna - C. von Ehrenfels, Le qualità figurali, a cura di E. Melandri, Faenza, Faenza Editrice, pp. 9-29. Melandri, E., 1989, Contro il simbolico, Firenze, Ponte alle Grazie. Melandri, E., 1990, Le “Ricerche Logiche" di Husserl, Bologna, Il Mulino. Melandri, E., 1991, «Su quel che c’è e quel che immaginiamo che ci sia», in Discipline filosofiche, I, 1, pp. 121-136. Putnam, FL, 1999, Mente, corpo, mondo, Bologna, Il Mulino, 2003. Searle, J., 1983, Dell’intenzionalità, Milano, Bompiani, 1985.

Vittorio De Palma (Università di Urbino)

L’oggettivismo fenomenologico tra Husserl e Aristotele La realtà ha una priorità ontolo­ gica su qualsiasi irrealtà, in quanto ogni irrealtà è per essen­ za riferita a una realtà reale o possibile. Husserl (Hua XVII, p. 177).

1. Melandri considerava i testi filosofici come «ciò-attraverso-cui» pensa­ re le «cose stesse» cui l’autore si riferiva scrivendo, dunque come un mezzo operativo, e non come l’oggetto tematico dell’interpretazione, che è costituito dai problemi, cioè dal «rimando oggettivo o comunque extra­ testuale» dei testi (Melandri 1960b, p. XI). Come egli amava dire, quando si affronta un problema filosofico va anzitutto elaborata una «topica», os­ sia una ricognizione dei luoghi in cui il problema è stato trattato nella sto­ ria del pensiero. Ma ciò è solo la premessa allo studio del problema, che nessuna disamina storica dispensa dal fare. Melandri seppe così ripropor­ re una via per fondere filosofia e storia della filosofia in un’epoca e in un paese in cui sembrava ci fosse spazio solo per la seconda. Dico ripropor­ re, perché questo metodo era già utilizzato dalla Scolastica medievale e da Aristotele. Ed è appunto Aristotele a fornire la chiave dell’interpretazione melandriana della fenomenologia che ho cercato a mio modo di proseguire. A ispirare quest’interpretazione fu lo studio di Brentano, non solo della Psicologia dal punto di vista empirico, ma anche delle opere giovanili sull’ontologia e sulla psicologia aristoteliche. Per Melandri la fenomeno­ logia è antitrascendentalista in quanto rifiuta il metodo regressivo della deduzione trascendentale: essendo materiali e non formali, le condizioni di possibilità dell’esperienza non vanno postulate, ma mostrate descritti­ vamente (ivi, pp. 109 ss.; Melandri 1968, pp. 64-5)1. L’originalità di

1 Nello studio più ampio e autorevole sul rapporto tra Husserl e Kant (Kem 1964), le di­ vergenze tra i due pensatori vengono ridotte al metodo, e precisamente al rifiuto del pro­ cedimento costruttivo da parte di Husserl. Ma tali divergenze metodologiche si fondano in realtà su una differente concezione dell’esperienza, cioè sul fatto che per Husserl non si può parlare di una soggettività che organizza l’esperienza mediante categorie tratte

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quest’approccio emerge se si pensa che ancor oggi, dopo mezzo secolo, Husserl è considerato quasi universalmente un filosofo rientrante a pieno titolo nella tradizione della filosofia moderna. Certo, Husserl stesso ha de­ finito la fenomenologia una filosofia trascendentale e ha indicato in Car­ tesio e Kant i suoi precursori. Ma attenersi a ciò significherebbe scambia­ re la forma e la sostanza. Se infatti è indubbio che in Husserl sono presen­ ti in modo non marginale motivi cartesiani e kantiani, è altrettanto indub­ bio che il suo pensiero è di fatto una riproposizione dell’oggettivismo ari­ stotelico contro il soggettivismo moderno, come ho cercato di mostrare nei miei lavori* 2. D’altro lato, proprio Brentano, che è più cartesiano che aristotelico, ha condotto Melandri a sostenere il primato della percezione interna e del­ la psicologia, e quindi a una forma di idealismo3. Ma la sua opera contie­ ne spunti importanti per una riproposizione dell’oggettivismo.

2. Ne La linea e il circolo Melandri riprende la dicotomia elaborata da Ernst Cassirer e Kurt Lewin tra scienza aristotelica e scienza galileiana. Nella prima il comportamento degli oggetti è determinato dalla classe a cui appartengono (morfologia}, i concetti sono sostanziali, il metodo è astrattivo (essenzialistico) e morfologico-ez/zpzrzco. Nella seconda il com­ dalla sua spontaneità. Come è stato sottolineato da parte idealistica, poiché per una filo­ sofia trascendentale è l’oggetto a regolarsi sulla conoscenza e non viceversa, essa può procedere solo costruttivamente, ossia mediante un'esposizione: descrivere l’appercezione significherebbe esporre l’esposizione, e trasformare quindi la filosofìa trascendentale in ontologia della soggettività (Eley 1982, p. 948). La filosofia di Husserl non è quindi una filosofia trascendentale. 2 Cfr. De Palma 1996; De Palma 2001a; De Palma 2002. 3 Melandri (1989, pp. 294-5) sostiene con Brentano che «la percezione esterna [...] non è vera percezione, ma semplice rappresentazione o costrutto simbolico» e che, «non es­ sendo il suo oggetto dato se non in obliquo, e forse nemmeno tanto, perché, in quanto esterno, non è una modificazione della presenza, non se ne può parlare che simbolicamente. [...] essa contiene il rimando immaginario a qualcosa di essenzialmente non dato, che è l’oggetto fisico misticamente esterno per se. È perciò contraddittorio parlare di percezione esterna. [...] La percezione interna è un nucleo di evidenze: quella esterna, correlativamente, non ne è che un’espansione sinsemantica». Così, in una percezione come «io vedo del rosso» ci sono due elementi: il «rosso» che vedo e il contorno che no­ to; che si tratti di una macchia di colore «lo “penso” io, non lo percepisco. [...] si tratta di un noumeno, di un’aggiunta del pensiero»; «potrebbe anche essere un segno conven­ zionale, una sprezzatura esornativa o un quadro informale» (ivi, p. 296). Melandri dice che si tratta di «non smarrire il filum Ariadnae dell’alternativa fenomenologica nel suo significato complessivo» (ivi, p. 297). A mio parere esso viene smarrito proprio confe­ rendo un primato alla percezione interna e misconoscendo il significato di quella esterna come modo di datità nell’originale degli oggetti reali. Sul carattere non aristotelico della teoria brentaniana della percezione, cfr. Hedwig 1978.

63 portamento degli oggetti è determinato dalla struttura del campo a cui ap­ partengono (sistematica}, i concetti sono funzionali, il metodo è relazio­ nale (coordinativo) e ipotetico-deduttivo (Melandri 1968, p. 489). Nella scienza aristotelica, «la divisione si dà per linee verticali e con rapporto disgiuntivo (le “categorie” e il divieto di metabasis), non per li­ nee orizzontali e con rapporto a senso unico (i “livelli” di leggi a com­ plessità crescente)», in quanto «la classificazione è fondata sulla morfolo­ gia: cioè sul “metodo” qualitativo di rilevare le identità e le differenze, non sul “sistema” che rende rilevanti certe identità e certe differenze e ir­ rilevanti tutte le altre» (ivi, p. 471). Nella scienza galileiana, al «procedi­ mento classificatorio in base al metodo delle somiglianze o dissomiglian­ ze morfologiche subentra il criterio strutturale di coordinazione fra i dati di fatto rilevanti»: ciò che conta è «l’invarianza funzionale delle leggi [...] non l’affinità tematica dei fenomeni ai quali esse si applicano. La dif­ ferenza dei due tipi di scienza è in gran parte [...] relativa al criterio di ri­ levanza considerato essenziale in un caso o nell’altro» (ivi, p. 498). Per la scienza galileiana un «dato di fatto è importante non per le sue qualità in­ trinseche [...], ma solo perché esso può valere quale argomento di una funzione, cioè di una struttura formale» (ivi). Di qui il significato della matematica. Un’esperienza è sensata «non in forza dell’evidenza empiri­ ca», ma «perché, per intenderne il senso, bisogna sapere prima di che co­ sa - di quale ipotetica funzione coordinatrice -[...] [è] una sensata, ossia intelligibile esemplificazione. Il mondo fisico è oggetto d’intellezione prima che di sensazione» (ivi). Perciò, «l’importanza del dato di fatto non risiede nel suo tenore fenomenico, ma dipende dal suo inserirsi nella ma­ niera prevista in un sistema di connessioni razionali (cioè calcolabili)» (ivi, p. 499). Mentre dunque nella scienza aristotelica «il linguaggio osservativo deve essere isomorfo con quello percettivo», e quindi a «ogni pro­ prietà osservata di una cosa deve [...] corrispondere una qualità significa­ tiva per il comportamento e viceversa», nella scienza galileiana il linguaggio osservativo non è isomorfo con la percezione, bensì con la teoria scientifica. È questa a decidere, indipendentemente dalla loro signi­ ficatività percettiva, quali dati siano rilevanti e quali no. - Un acido, per esempio, non è ciò che al palato si rivela tale; è qualsiasi cosa che in solu­ zione produca un’alterazione dell’equilibrio fra idrogenioni (H+) e ossidrilioni (OH-) a favore dei primi; ossia diminuisca il valore del pH+. [...] la percezione rimane pur sempre l’ultima corte d’appello. Anziché il palato, nel nostro caso si deve usare la vista per leggere sull’indice graduato del pH+-metro il valore dell’acidità. Ma lo spostamento da un senso a un altro rompe il presupposto dell’isomorfismo. Il valore del pH+ letto su un indice non è più un dato percettivamente significativo, come è invece l’acidità ri­ spetto al gusto o all’olfatto. Per recuperare il contesto significativo occor­

64 rerà passare attraverso la distinzione ermeneutica di qualità «primarie» e «secondarie» (ivi).

Melandri osserva che un fenomeno naturale non è affatto un «“messag­ gio”» e che solo una «distorsione o curvatura ermeneutica» ci induce a trattarlo come tale (ivi, p. 761). Così, le leggi di natura diventano «codici interpretativi dell’universo fisico [...]. Quando Galilei dice che il gran li­ bro della natura è scritto in lingua matematica, esprime mediante un tropo qualcosa che non vuole essere inteso metaforicamente» (ivi). La stessa di­ stinzione tra qualità primàrie e secondarie si può «ridefinire in funzione semiologica»: «Una qualità si dice primaria quando, in base ai codici consci o inconsci che regolano la nostra semiologia, si lascia interpretare come segno sintomatico di un oggetto», e quindi il fenomeno che contie­ ne il segno è «latore di un messaggio di provenienza transfenomenica»; «secondaria quando, in base agli stessi codici, risulta indecifrabile e si può solo reinterpretare - ma allora per mezzo di altri codici - come modo, stato o affezione del soggetto interpretante. La qualità secondaria, rispetto al codice primario, non porta alcun messaggio proveniente dal di fiiori. Essa fa parte del rumore di fondo dell’apparato ricevente; la cui informa­ zione è irrilevante e anzi fastidiosa» (ivi, p. 765). Perciò, a ogni qualità primaria ne corrisponde una secondaria, ma non viceversa (ivi, p. 766). La scienza galileiana si fonda quindi sul presupposto che i dati sensibili vanno «selezionati, ordinati e valutati col criterio di un sistema di segni retto da leggi diverse da quelle percettive», in modo da potervi «distin­ guere [...] “veicolo” sensoriale e “tenore” rappresentativo» (ivi, p. 562). La distinzione tra qualità primarie e secondarie fornisce appunto «il crite­ rio semiologico [...] di trattare il fenomeno non per quello che è materialiter o significa come “vissuto”, ma come segno di qualcos’altro da esso, rappresentato in modo vicariale o formaliter e per mezzo di un sistema astratto, logico o matematico» (ivi). Quest’impostazione è intrinsecamente idealistica. Nella lettura er­ meneutica di Melandri, l’idealismo è «la tendenza a ridurre ogni questio­ ne ontologica a un problema di significato», e quindi considera le «idee» come «codice interpretativo» e le «cose» come «messaggio da decifrare» (ivi, p. 672)4. Ora, poiché «se tutte le cose fossero egualmente significati­ ve, allora tutti i messaggi sarebbero indifferentemente eguali, e cioè insi­ gnificanti», bisogna «introdurre un criterio di rilevanza, il quale dica quali cose sono significative e in che misura» (ivi). «Se la realtà coincide con il

4 Per Hegel, infatti, «tutta la fenomenologia del conoscere si riduce a una dialettica della significatività» (Melandri 1968, p. 555).

65 suo significato, allora tutta la realtà è mentale» (ivi, p. 560). Di qui la di­ stinzione tra qualità primarie e secondarie: ci sono fenomeni che valgono come «segni di una realtà d’altro genere» e fenomeni che non sono «su­ scettibili di lettura idealistica» e non possono quindi «prender parte all’oggettivazione dell’esperienza», per cui «degradano [...] da possibile messaggio a rumore di fondo»: «sono i fatti bruti, senza rimandi ad altre realtà e puramente autosemantici», ossia «interpretabili come segni di una realtà di altro genere, in questo caso “soggettiva”» (ivi, p. 672). Invece la «scienza di tipo aristotelico è inconciliabile con l’idealismo in filosofia», in quanto non permette «di ridurre il problema dell’esistenza o della realtà a uno di significato» (ivi, p. 482). Laphysis di Aristotele «non comprende tutto ciò che per noi fa parte della natura» (ivi): poiché molte cose avvengono per caso, rimane un «residuo che per principio - non per mero accidens - risulta inesplicabile» (ivi, p. 483). Il contrasto tra scienza aristotelica e scienza galileiana è riconducibi­ le a quello tra un modo di pensare che conferisce un primato all’oggetto sul metodo e un modo di pensare che conferisce un primato al metodo sull’oggetto. Il primato dell’oggetto è un primato delle determinazioni contenutistiche o sensibili, il primato del metodo è un primato del sogget­ to e delle determinazioni formali o intellettuali (hegelianamente: delle Denkbestimmungen)5, in cui l’esperienza viene dissolta. «La smaterializzazione dell’oggetto di conoscenza - nota Melandri, richiamandosi a Gil­ son - è una delle vie attraverso cui [...] si passa dalla gnoseologia scola­ stica a quella cartesiana» (ivi, p. 553). Per quest’ultima 1’«“ontologia” o “struttura della realtà esteriore” non è che un costrutto simbolico» (ivi, p. 560). Melandri osserva altresì che la scienza aristotelica è considerata una pseudo-scienza dal neokantismo e dal neopositivismo, mentre nella feno­ menologia e nella filosofia analitica «si può ravvisare una certa ripresa del 5 Per Hegel (Enciclopedia, § 246, Aggiunta) «l’insieme delle determinazioni di pensie­ ro» rappresenta «la rete adamantina nella quale portiamo tutto il materiale e mediante la quale lo rendiamo comprensibile». Il rifiuto del «modo materiale di parlare» e il tentati­ vo di sostituirlo con il «modo formale di parlare», teorizzati dal neopositivismo, condu­ cono a una dissoluzione della realtà in determinazioni intellettuali, cioè nel pensiero, analoga alla distruzione del sensibile compiuta da Hegel. Friedmann (2000, pp. XVII, 94 ss.) ha del resto notato l’affinità fra la logicizzazione matematica dell’esperienza teoriz­ zata dalla Scuola di Marburgo e il programma perseguito da Carnap ne La costruzione logica del mondo', poiché non si fonda nel materiale della conoscenza, ma nelle strutture logico-formali che vengono applicate a esso, l’oggettività viene ricondotta a definizioni che individuano i propri oggetti in termini puramente logico-formali, senza riferimento alle loro qualità intrinseche o ostensive; per Carnap come per Cassirer, la «costituzione della realtà» implica dunque la trasformazione dell’esperienza sensibile in una sequenza puramente formale di strutture logiche astratte.

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modo di pensare aristotelico», cioè un «prevalere del momento tematico sul momento strutturale» (ivi, p. 490; cfr. p. 294). Anche Melandri propo­ ne «una critica della scienza galileiana» (ivi, p. 515) e «un recupero par­ ziale della scienza aristotelica», e quindi della dianoia, ossia di «una ri­ flessione legata al suo contenuto, e non alla funzione o alla struttura in cui questo venga inserito», un «ritorno al pensiero tematico, in cui la morphe si presenta spontaneamente come sintesi di struttura e funzione» (ivi, p. 516; cfr. p. 295)6. Questo recupero della scienza aristotelica si ispira a Nortorp Frye e viene compiuto con riferimento alle figure retoriche, in coerenza con l’impostazione ermeneutica de La linea e il circolo. In quell’opera, Me­ landri sostiene infatti «la priorità dell’approccio ermeneutico», che per­ mette di ricondurre la razionalizzazione alla rimozione (Marramao 2000, p. 50). «La storia critica deve ripercorrere in senso inverso la “genealo­ gia” degli eventi di cui si occupa. [...] essa ha la funzione di una terapia mirante al recupero dell’inconscio inteso come “rimosso” storico. Ricoeur e Foucault [...] chiamano “archeologico” questo procedimento. Esso con­ siste nel risalire la genealogia finché non si giunga a monte della biforca­ zione in conscio e inconscio del fenomeno in questione» (Melandri 1968, pp. 65-6; cfr. p. 763). La linea e il circolo è appunto un «tentativo di ri­ conversione ermeneutica (e antitrascendentale) della fenomenologia» (Marramao 2000, p. 59). Melandri compie «una traduzione e ridefinizione in chiave “semeiotica” della filosofia husserliana, volta a trasformare l’intero impianto fenomenologico in una sorta di sintomatologia genera­ le» (ivi, p. 53). Ed è appunto in chiave ermeneutica che si giustifica la ri­ presa della psicoanalisi: sulla scorta di Ricoeur, Melandri (1968, p. 67) invita a non «confondere la questione epistemologica della verità delle te­ orie psicoanalitiche [...] con la questione ermeneutica del loro valore in­ terpretativo». Proprio questo approccio ermeneutico mi pare problematico dal punto di vista fenomenologico. Melandri critica il convenzionalismo (ivi, §§ 23, 55, 77) e il panlinguismo, soprattutto nella versione di Barthes, che subordina la semiologia alla linguistica (ivi, §§ 13, 22 ss.), ma considera la percezione «un’operazione interpretativa» (ivi, p. 770; cfr. pp. 600 ss.). Dal punto di vista fenomenologico, l’organizzazione è invece «un tratto autoctono dell’esperienza [...]. L’oggetto si presenta nella percezione sensibile in modo da non aver bisogno di alcuna attività di organizzazio­ ne, assimilazione o interpretazione» (Gurwitsch 1957, p. 87), il decorso 6 In tempi più recenti, una rivalutazione della scienza aristotelica è stata compiuta da epi­ stemologi come Feyerabend (1978) e van Fraassen (1980).

67 percettivo è un'auto-organizzazione delle apparizioni oggettuali nell’unità di un dato che «esibisce da se stesso la propria interpretazione» (Piana 1979, p. 32). Dubito inoltre che l’archeologia di Ricoeur e Foucault possa essere utilizzata fenomenologicamente. Foucault (1969, p. 65) specifica così il suo progetto archeologico: «Sostituire al tesoro enigmatico delle “cose” di prima del discorso, la formazione regolare di oggetti che si di­ segnano soltanto in esso». Il programma fenomenologico è esattamente opposto.

3. La strada che credo vada seguita sulla scorta delle indicazioni di Me­ landri è diversa dalla sua: riproporre la validità del modo di pensare ari­ stotelico senza rinunciare all’idea di filosofia prima7, intesa come chiarifi­ cazione concettuale in senso husserliano o metafisica descrittiva in senso strawsoniano. Come nota Lewis (1929, p. 9), i «criteri di classificazione» e i «principi di interpretazione» non possono essere fomiti da un accumu­ lo di dati scientifici, ma solo dall’analisi filosofica. La gnoseologia si oc­ cupa di questioni fondamentali e non può fondarsi sui risultati delle scien­ ze particolari (ivi, p. 37). Definire ad esempio i dati sensibili come conte­ nuti psichici legati con il sistema nervoso non ha senso: poiché «la cosa o lo stato mentale devono essere esattamente identificabili prima che questo legame possa essere stabilito», il legame è «superfluo» (ivi). Così pure negare l’esistenza della coscienza perché l’analisi dello psichico si può compiere solo in termini di comportamento corporeo è «uno sbaglio di analisi logica»: che ogni analisi del dato interpreti quest’ultimo nei termi­ ni della sua relazione con altro non significa che questo altro sia il dato stesso o la sua sostanza, ma solo il suo correlato o contesto di esperienza (ivi, p. 9). Anche il problema del significato intersoggettivo non è di competenza della psicologia, che deve comunque presupporre la sua esi­ stenza: per poterlo porre in relazione al comportamento, all’apparato mo­ torio ecc. bisogna prima identificarlo e per potergli attribuire differenze psicologiche bisogna prima identificarlo come comune a due soggetti, al­ trimenti non c’è base del confronto (ivi, p. 46). Solo l’esperienza fornisce un contenuto alla filosofia e solo nell’applicazione all’esperienza la verità filosofica ha il suo significato (ivi, p. 15). Non si tratta semplicemente di esprimere in termini precisi il senso comune: pur partendo da «ciò che è implicito nell’esperienza», la filosofia deve rigorizzare e correggere

7 Per Melandri (1968, p. 15) «la filosofia antica rappresenta [...] la filosofia per antono­ masia, rispetto alla quale ciò che segue, in specie la filosofia moderna, non è che un’estensione paradigmatica». In una lettera del 4. XI. 1987 a me indirizzata Melandri scrive che «è “filosofia” solo quella antica».

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l’interpretazione già presente, non formulare ciò che è ovvio (ivi, p. 16). Certa filosofia da Parmenide in poi considera l’esperienza apparenza e cerca al di là di essa «una realtà più salda», ma la Realtà che trascende ogni fenomeno è «una specie di fuoco fatuo filosofico»; «l’idea di “inte­ ro” si applica solo all’interno dell’esperienza e nessun intero può essere validamente scoperto, se non in quanto si pone in contrasto con qualche cosa d’altro e ha confini concreti»; al di là di ciò è kantianamente «un’idea inevitabile ma anche necessariamente vuota» (ivi, p. 11). Si trat­ ta di «stabilire i criteri in base ai quali l’aggettivo “reale” è applicato cor­ rettamente», ma sulla base di «ciò che non trascende l’esperienza ordina­ ria» (ivi). Si tratta cioè «di definire la “realtà”, non di mettere le brache al mondo» (ivi, pp. 11-2). Melandri nota che nella scienza moderna i concetti non si definisco­ no de re, ma de dieta'. Siccome le ipotesi causali - le esplicazioni significative nel contesto erme­ neutico - sono escluse dalla scienza, ne deriva che anche i concetti teorici non hanno che quel significato che è implicitamente definito dal calcolo; meglio: dal contrasto fra il calcolo e il dato anomalo in sede sperimentale. [...] rendere obiettiva l’esperienza vuol dire estraniarla dal suo immediato contesto significativo. [...] la matematica rappresenta lo strumento princi­ pe per conseguire l’obiettivazione sotto le specie di un’alienazione della significatività funzionale. I fatti «obiettivi» sono tali in un duplice senso: («) perché «in realtà» sono diversi da quel che sembrano; (h) perché sussi­ stono «indipendentemente» dalle nostre valutazioni. Questi due fattori, l’«in sé» e l’«assoluto», sono gli ingredienti di ogni obiettivazione. La ma­ tematica e la logica (presa in senso lato) ne costituiscono il requisito meto­ dico. Di conseguenza i concetti non si definiscono mai de re, ma solamente de dicto. [...]. Una sostanza si dice «solubile in acqua» non perché si sciolga immancabilmente, una volta immessa in acqua, ma perché la sua struttura chimica garantisce una rapida dissociazione in cationi e anioni, date le circostanze adatte (Melandri 1968, p. 503).

In Aristotele e Husserl, invece, i concetti di essenze reali si definiscono de re, non de dicto, e sono conoscibili solo nella misura in cui loro singolarizzazioni sono date nell’esperienza prima dell’attività intellettuale del soggetto. La conoscenza delle essenze reali ha un fondamento fattuale, a posteriori, poiché è conoscenza delle strutture dei contenuti sensibili, cioè di quelle strutture che si fondano sulla peculiarità di ciò che è dato, e non su abitudini, giochi linguistici o forme del pensiero. Aristotele dice che non si può sapere che cos ’è una cosa senza sape­ re che è (An. post., II, 1, 89b 34; II, 2, 89b 38-90a 1, 90a 22-3 ;'II, 7, 92b

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4-8; II, 8, 93a 20, 26-7; II, 10, 93b 33-5)8. Nel caso un nome indichi qual­ cosa di inesistente, la sua descrizione non è una definizione, cioè una de­ scrizione del che cos’è: posso sapere cosa significa il nome capricervo, ma non posso sapere cos’è realmente un capricervo (ivi, II, 7, 92b 5-8). Aristotele distingue il «discorso del che cos ’è» dal «discorso di che cosa significa il nome o altro discorso nominale» e sostiene che sapere cosa si­ gnifica un nome non equivale ad avere una definizione, cioè a sapere cos’è una cosa (ivi, II, 10, 93b 30-1; cfr. II, 7, 92b 26-30). Sapere cosa si­ gnifica un nome equivale a conoscere il significato linguistico, non quello contenutistico, per dirla con Lewis9, la definizione nominale, non quella reale, per dirla con Leibniz1011 . Una definizione, cioè una descrizione del che cos’è, presuppone che esistano esempi della cosa definita e che si sappia che essi esistono (ivi, II, 8, 93a 20-9; cfr. II, 10, 93b 32)11. Il pre­ supposto della conoscenza è il «contatto»: i termini semplici non sono oggetto di conoscenza predicativa, poiché nel loro caso non si può errare, ma solo coglierli o non coglierli, e quindi l’alternativa alla verità è l’ignoranza, non la falsità (Metaph., IX, 10, 1051b 17-33; De an., Ili, 6,

8 Esempi di essenze reali conoscibili solo a posteriori sono: la consonanza (An. post., II, 2, 90a 18-9), i colori (De sensu, 3, 439b 25-440a 6), caldo e freddo (De gen. et corr., II, 2, 329b 26-9), il perdere le foglie (An. post., II, 17, 99a 28-9), le specie animali (Hist, an., I, 1,487a 11; De part, an., I, 2-4). Cfr. Sorabji 1981, pp. 222-3. 9 Lewis distingue tra significato linguistico, consistente nel rinvio di un’espressione ad altre espressioni, cioè in una regola di sostituzione, e significato contenutistico («sensemeaning»), consistente nel criterio di applicazione dell’espressione a qualcosa di extra­ linguistico, cioè in una regola di designazione (Lewis 1946, p. 37) o «schema» (ivi, pp. 134, 162). Una persona che, non conoscendo un’espressione araba, impara col vocabola­ rio tutte le espressioni arabe che sono in un rapporto di analiticità con essa e continua a non sapere cosa significhi ognuna di esse, conoscerà il significato linguistico, ma non quello contenutistico dell’espressione in questione (ivi p. 132). Una distinzione analoga è alla base del paradosso della stanza cinese formulato da Searle. 10 Leibniz distingue tra definizione nominale, che illustra il concetto di una cosa senza spiegare se essa è possibile, e definizione reale, che può essere a posteriori o a priori. Nel primo caso descrive una datità, consiste di un genere e una differenza e permette di co­ noscere la possibilità della cosa solo se la realtà è nota mediante esperienza. Nel secondo caso scompone la cosa nei suoi elementi (Leibniz 1684, p. 164; Leibniz 1890, pp. 151-2; Leibniz 1907, § 24). 11 Sia Sorabji (1981, p. 219) sia Demoss e Devereux (1988, p. 142 n. 23) ritengono che ciò sia compatibile con la negazione del fatto che la formula definitoria abbia un’implicazione di esistenza (An. post., I, 2, 72a 18-24; I, 10, 76a 32-6). Demos e Deve­ reux (1988, p. 141 n. 19) ipotizzano che la restrizione delle definizioni agli esistenti ab­ bia «una motivazione antiplatonica»: dato il nesso tra definizione ed essenza (An. post., II, 3, 90 b 4-5; II, 10, 93b 29-30), ammettere definizioni di ciò che non esiste sarebbe una concessione alla visione platonica secondo la quale l’esistenza di un’essenza è indi­ pendente dall’esistenza di entità particolari che esemplificano tale essenza.

70 430a 26-b 6, 430b 26-30). La perdita di un senso comporta la perdita della rispettiva parte del sapere (An. post., I, 18, 81a 38): «è impossibile che chi non ha una sensazione sia condotto all’universale» (ivi, 8 Ib 5-6). «Poiché non c’è nessuna cosa [...] che esista separata dalle grandezze sensibili, gli intelligibili si trovano nelle forme sensibili [...]. Per questo motivo, se non si percepisse nulla non si apprenderebbe né si comprenderebbe nulla» (De an., Ili, 8, 432a 2-9)12. La percezione è l’unico accesso alla realtà e non può essere abbandonata come fonte di legittimazione della conoscen­ za a favore della visione parmenidea e democritea (ripresa dalla scienza moderna) secondo la quale ciò che appare non esiste e ciò che esiste non appare1314 . Le illusioni percettive non mettono in discussione l’esperienza sensibile nel complesso, ma singoli casi di essa e possono essere corrette solo sulla base dell’esperienza stessa. Se la conoscenza pretende di valere negando la propria base sensibile, affermando che i contenuti sensibili propriamente non esistono, l’intero edificio crolla su se stesso. Per Aristo­ tele «la ricerca della “profondità” che starebbe dietro le percezioni» è «as­ surda» in quanto essa «assume che il mondo sia diverso da quello che è (non soltanto da quello che sembra essere)» (Feyerabend 1978, p. 131)’4. Aristotele dice che i platonici, «mentre parlano di cose che sono og­ getto della nostra diretta esperienza, vengono ad affermare cose che con l’esperienza non s’accordano» e mentre «i principi han da essere sensibili per ciò che è sensibile», essi «per amore delle loro dottrine [...] accettano qualsiasi conseguenza, nella convinzione che i loro principi siano veraci, come se alcuni di questi non si dovessero giudicare [...] dal loro esito ul­ timo. Ma esito ultimo [...] della scienza naturale è quanto ogni volta vie­ ne incontestabilmente attestato dai sensi» (De caelo, III, 7, 306a 6-18). I Pitagorici «ricercano le ragioni e le cause non riportandosi a ciò che è og­ getto di osservazione, ma piuttosto riconducendo a forza i fenomeni a cer­ te loro ragioni ed opinioni, e tentando in questo modo di armonizzarli e condurli a un tutto ordinato. [...] la fede [...] la ricavano non

12 Aristotele pare sostenere che gli universali derivano dall’esperienza sensibile (An. post., II, 19, 100a 3-b 2). 13 Questo insegna la scienza secondo Brentano (1874, pp. 28, 173). 14 Le considerazioni di Feyerabend sono - per usare un eufemismo accademico - molto discutibili e anche - laddove contestano la validità universale del principio di non con­ traddizione - incompatibili col pensiero di Aristotele, per il quale da tale principio di­ pende la significanza di ogni discorso. Ma ciò non le rende prive di interesse e di utiliz­ zabilità. Feyerabend (1978, pp. 126-7) sostiene tra l’altro che Aristotele sarebbe stato in grado di affrontare «i problemi delle prime osservazioni telescopiche» ed era preparato, al contrario di quanto gli si rimprovera, «a conservare un’ipotesi empirica nonostante un fatto che la contraddice».

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dall’osservazione dei fenomeni, ma piuttosto dalle proprie argomentazio­ ni» (ivi, II, 13, 293a 22-30). «Partendo da questi ragionamenti, sorpassan­ do e ignorando la sensazione, in quanto occorrerebbe seguire solo la ra­ gione, alcuni dicono che il tutto è uno, immobile e infinito. [...] ora, se si seguono i ragionamenti, sembra che accada così; se invece si considerano i fatti, sembra quasi una follia» {De gen. et corr., I, 8, 325a 13-20). «E una malattia del pensiero pretendere che tutte le cose siano in quiete, e cercare una ragione di ciò lasciando da parte la sensazione, e si produce un’incertezza che si estende all’intero mondo e non solo a una sua parte» (Phys., VIII, 3,253a 31-5). Husserl si contrappone alla «degradazione» platonica, cristiana e ra­ zionalistica della sensibilità (Husserl 2001, p. 170) e al pregiudizio ideali­ stico che la sensibilità «non esiste in senso vero e proprio», poiché «verità deve significare verità definitiva» (Hua VI, p. 397). All’idea di un intel­ letto puro o produttivo, egli obietta che la sensibilità - in quanto «sostrato fondamentale di ogni coscienza superiore» - deve avere una legalità in sé: né la spontaneità intellettuale né la volontà possono «determinare il con­ tenuto del decorso o rendere ordinato qualcosa di prima disordinato», ma presuppongono «la legalità unitaria dei contenuti dati» e delle loro «pos­ sibili modificazioni»15. Vi sono leggi a priori fondate su rappresentazioni sensibili e valide con altrettanta apoditticità di quelle analitiche (Hua XXVIII, p. 403). Proprio in quanto materiale, in quanto cioè deriva dai contenuti sensibili in specie, questo a priori è «contingente»; vale in modo necessario, ma solo a condizione che si diano di fatto i contenuti corri­ spondenti, il che non è a sua volta necessario, ma appunto contingente (Hua XVII, pp. 32 ss., 379 ss.). La conoscenza delle leggi a priori mate­ riali ha un fondamento fattuale, in quanto presuppone la datità fattuale dei rispettivi contenuti: posso cogliere solo quei contenuti in specie o essenze le cui singolarizzazioni si presentano di fatto nella mia esperienza sensibi­ le, e quindi posso conoscere solo le leggi a priori relative a tali contenuti16. 15 Ms. B 14/4b, cit. in De Palma 2001a, p. 176 n. 62. 16 «Come so se non ci sono anche altre leggi dell’associazione e altre leggi formali della sensibilità oltre a quelle di cui io sono a conoscenza? Chi mi garantisce qui la comple­ tezza e il sistema? I fatti guidano ogni eidetica. Di ciò che non posso distinguere esem­ plarmente non posso ottenere neanche una distinzione eidetica e una formazione eideti­ ca. Anche questo è comprensibile eideticamente» (Ms. B III 10, p. 19, cit. in Holenstein 1972, pp. 23-4). «L’eidos “colore” può essere dato a un soggetto solo nella misura in cui di fatto singoli colori gli vengono in mente [einfallen] oppure gli capitano [zufallen] sot­ to forma di sensazione. Egli li ha nella passività originaria. Quindi può, “attraverso una libera messa in forma attiva”, cogliere “produttivamente” [’eidos “colore”. [...] è una necessità eidetica della formazione di idee materiali che prima siano date anzitutto singo­ larità materiali sotto forma di sensazione, quindi in datità tetica, e che le modificazioni

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Un cieco a cui viene spiegato il significato verbale di «colore» o la sua definizione fisica può farsene solo un’idea vuota, poiché non può avere un’impressione corrispondente. La definizione fisica o il significato ver­ bale non servono a capire cos’è un contenuto sensibile nella sua peculiari­ tà17. Che un soggetto percepisca il colore è un fatto empirico. Ma se il co­ lore viene di fatto percepito, esso viene allora percepito diffuso su un’estensione, e questo - cioè il come, non il che dell’esperienza del colo­ re - non è un fatto empirico, e quindi neanche qualcosa che dipenda dalla costituzione soggettiva, bensì una legge a priori fondata nella peculiarità del contenuto «colore», e valida quindi per ogni soggetto in grado di per­ cepirlo. Non avrebbe senso parlare di un colore senza una soggettività che può esperirlo nella sua peculiarità, distinguendolo dagli altri contenuti. Ma da questo non segue che il modo in cui il colore e gli altri contenuti sensibili sono dati dipenda dalla soggettività che li esperisce: dipende in­ vece dalla loro caratteristica strutturale, che prescrive il modo in cui essi

fantastiche siano possibili solo se prima sono date sensazioni corrispondenti (quanto al loro genere); per idee materiali trascendenti che siano sorte anzitutto appercezioni reali, ad es. di colori di cose sensibili, come esperienze di oggetti trascendenti, anche se non di oggetti che si mantengono coerentemente concordi, affin­ ché nella libera fantasia possano presentarsi oggetti colorati ed esemplari per la forma­ zione del genere colore (dove non devono appunto essere già comparse le differenze cromatiche esperite in precedenza)» (Hua XXXVI, pp. 147-8). 17 Per Schlick (1938, pp. 59 ss.) un cieco può conoscere il colore. Invece Leibniz - che alla pari di Schlick (1932) nega la sussistenza di un a priori non formale riconducendo le proposizioni a priori dotate di contenuto sensibile («il bianco non è il rosso», «il colore giallo non è la dolcezza») al principio di non contraddizione come sue applicazioni par­ ticolari (Leibniz 1765, pp. 78-9) - afferma che riconosciamo gli «oggetti particolari dei sensi» solo «per la semplice testimonianza dei sensi, non, in verità, mediante note che possano essere espresse; perciò non possiamo spiegare a un cieco che cosa sia il rosso, né possiamo chiarire tali cose ad altri, se non conducendoli in presenza della cosa» (Leibniz 1684, p. 161). Le qualità sensibili non si possono «né definire per mezzo di al­ tre nozioni, né designare per mezzo di parole»: «possiamo dire senza dubbio molte cose ad un cieco intorno all’estensione, alla intensità, alla figura e alle varie cose che s’accompagnano ai colori, ma oltre a queste distinzioni concomitanti c’è qualcosa di confuso nel colore, che il cieco non può concepire aiutato da alcuna nostra parola, se non gli sia dato una volta di aprire gli occhi» (Leibniz 1903, p. 277). Delle qualità sensibili non è possibile dunque dare «una definizione nominale», cioè enumerare «i requisiti suf­ ficienti a distinguere una cosa da tutte le altre»: un colore è qualcosa «che non possiamo spiegare a un altro se non mostrandoglielo» (Leibniz 1890, p. 151); «non si possono, per esempio, fornire dei segni per riconoscere il blu se non lo si è mai visto; pertanto il blu è segno di se stesso e perché un uomo sappia che cos’è il blu, bisogna necessariamente mostrarglielo. [...] invece si può far capire a un altro che cos’è qualcosa di cui si ha una descrizione o definizione nominale, pur se non lo si abbia a portata di mano per mostrar­ glielo» (Leibniz 1702, pp. 529-30).

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si danno a ogni soggettività possibile in grado di percepirli18. La sensibilità non è un «.medium ingannevole» che ci dà fenomeni invece di cose in sé (Husserl 2001, p. 172). L’ipotesi di una realtà che si sottrae all’esperienza possibile è assurda, poiché l’esperienza è la fonte di legittimazione di ogni posizione di realtà19. Ciò che è reale, è per principio esperibile. «Ciò che le cose sono, le cose su cui soltanto possiamo com­ piere enunciati, sul cui essere o non-essere, essere-così o esserediversamente soltanto possiamo disputare e deciderci razionalmente, lo sono in quanto cose dell ’esperienza. E questa soltanto che prescrive a es­ se il loro senso» (Hua III, p. 100). L’esperienza sensibile è «un regno di evidenze originarie» a cui «ogni verifica pensabile riconduce», poiché vi è dato «ciò che è realmente esperibile e verificabile in modo intersogget­ tivo», mentre ogni «sustruzione concettuale [...] può avere reale verità so­ lo riferendosi a tali evidenze» (Hua VI, pp. 156-7). La verifica scientifica «non consiste nel negare l’unica autorità possibile, quella dell’intuizione, o nel tentare di rimuoverla con mezzi indiretti che in realtà la presuppon­ gono» (Hua XX/1, p. 322). Gli oggetti della scienza non sono entità reali che stanno dietro gli oggetti dell’esperienza, ma il prodotto dell’idealizzazione di questi ultimi, in modo da superarne la relatività sen­ sibile20. Entità che stanno «dietro» il mondo dell’esperienza sono «vuote sustruzioni di un [...] pensiero privo di terreno» e «si distinguono dagli spettri solo per il fatto che gli spettri [...] in quanto realtà empiriche pos­ sono essere confutati dall’esperienza ulteriore, mentre le entità metafisi­ che non sono date mediante esperienza, e quindi non possono essere con­ futate da essa» (Hua XXXII, p. 216). Inoltre, ciò che è postulato non può comunque avere più certezza epistemica e più consistenza ontologica di ciò a partire da cui è postulato, ossia, in questo caso, dell’esperienza sen­ sibile. È appunto questo il nucleo della critica fenomenologica al proce­ dimento regressivo: «La certezza empirica che si può ottenere con un ra­ gionamento regressivo dal dato di fatto alle (supposte) condizioni di pos­ sibilità [...] non può mai superare la certezza empirica del dato di fatto da cui parte» (Melandri 1968, pp. 64-5). Un pensiero che si muove nell’astrazione senza regredire continuamente all’esperienza concreta è «privo di terreno» (Hua XXXII, p. 239). Lewis (1929, p. 36) nota che «la condanna delle astrazioni è la condanna 18 «Il presupposto empirico del constatare non è un presupposto della validità di ciò che esso constata» (Ms. D 13 II/l84a cit. in De Palma 2001a, p. 35 η. 11). 19 Cfr. Hua XVII, pp. 171 ss., 239 ss.; De Palma 2001a, pp. 71 ss., 221 ss. Si tratta del principio deir«intuizionismo fenomenologico», che coincide con quello deU’empirismo (Hua XXXV, pp. 288 ss., 471 ss.). 20 Cfr. De Palma 2001b.

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dello stesso pensiero». Ma come avverte Leibniz (1765, p. 52) le astra­ zioni sono legittime solo nella misura in cui ci si rammenta che c’è ciò da cui si astrae, ossia nella misura in cui le si tratta come astrazioni. L’idealismo, inteso come quell’atteggiamento che conferisce un primato ontologico alle entità ideali (teoriche), tende invece a spacciarle per la re­ altà. Lewis (1929, p. 236; cfr. p. 219) dice che «il solo genere di realtà che posso attribuire all’elettrone è la natura che gli attribuisco nello spie­ gare questa o quella esperienza specifica». Questa è esattamente la defini­ zione che Fichte (1797, pp. 190, 192, 193) dà della cosa in sé: «una per­ fetta chimera», «un prodotto del libero pensiero», «pna mera invenzione», poiché «non compare nell’esperienza», e quindi «non possiede alcuna re­ altà al di fuori di quella che le deriva dal fatto che solo per mezzo di essa è possibile spiegare l’esperienza»21. In senso proprio esiste solo la sostanza sensibile con le sue strutture. L’empirismo ha misconosciuto che i nessi strutturali tra i contenuti sono dati nell’esperienza allo stesso modo dei contenuti. L’oggettivismo feno­ menologico può esser definito empirismo radicale22 o materialismo23. Co­ me Melandri dice, fondendo il gestaltismo con suggestioni biochiane, la sensazione non fornisce solo il dato sensibile, ma «anche il contesto della sua interrelazione con gli altri dati», per cui la configurazione dei dati non dipende solo dalle «matrici intellettuali»: «La materia è il polo opposto dell’intelletto, ma è meno passiva e molto più intelligente di quanto non supponesse Kant» (Melandri 1968, p. 589). 4. Quanto detto finora si può compendiare con la frase di Husserl che si 21 Cfr. Hegel, Enciclopedia, § 44, Nota: «La cosa in sé [...] esprime l’oggetto in quanto si faccia astrazione da tutto quello che l’oggetto è per la coscienza [...]. E facile vedere quello che rimane: il completamente astratto, l’interamente vuoto, ormai soltanto più de­ terminato come al di là-, il termine negativo della rappresentazione, del sentimento, del pensiero determinato ecc. Ma è altrettanto semplice capire che questo caput mortuum è, a sua volta, il prodotto del pensiero, e propriamente del pensiero progredito fino alla pu­ ra astrazione del vuoto Io, che fa di questa vuota identità di se stesso il proprio oggetto». 22 «Per essere radicale, un empirismo non deve ammettere nelle sue costruzioni alcun elemento che non sia direttamente esperito, né deve escludere da esse alcun elemento che sia invece direttamente esperito. Per una filosofia di questo tipo, le relazioni che col­ legano le esperienze devono essere esse stesse relazioni esperite, e ogni tipo di relazione esperita deve essere considerata altrettanto “reale” quanto qualsiasi altra parte del si­ stema» (James 1904, p. 59, trad. legg. modificata). La prima parte di questo passo appare in epigrafe al I cap. di Melandri 1960b. 23 Piana (1979, p. 46) ha inteso «far valere una istanza materialistico-oggettivistica» me­ diante il riconoscimento del «fondamento contenutistico delle sintesi» sensibili, cioè del­ le «sintesi interne al materiale fenomenologico», e la riduzione della soggettività a mera «condizione formale della sintesi».

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trova in epigrafe al primo saggio di Melandri (1960a): «Non serve filoso­ fare dall’alto». Ne La linea e il circolo Melandri afferma che l’analogia è comune a uomini e animali: il fatto che tra il comportamento animale e quello uma­ no c’è una proporzione «ci permette di usare il concetto di intelligenza in maniera esattamente analoga» (Melandri 1968, p. 34). «La storia dell’analogia è la storia del pensiero, umano e anche - c’è ragione di cre­ dere - sub-umano» (ivi, p. 15). Per Cassirer, invece, «un animale possiede al massimo un’intelligenza “pratica”, ma non “teorica”. [...] E l’uso dei simboli che contraddistingue l’uomo dagli animali, [...] la “cultura” dalla “natura”» (ivi, p. 34). Di qui l’impossibilità di «fare una storia naturale dell’analogia se si prescinde da quella del suo “spirito”. [...] Non il fatto dell’analogia avrebbe dunque importanza, in una ricerca del genere, ma il modo di prenderne coscienza; non Vuso, ma la sua esplicita, al limite ad­ dirittura grafica tematizzazione. Così, la “filosofia delle forme simboli­ che” di Cassirer mostra in questa sua regressione dalla prassi alla teoria, dalla teoria al mezzo simbolico e da questo alla sua forma intrinseca tutta la portata dei presupposti idealistici e dei pericoli che le ineriscono» (ivi, p. 35). «Il suo concetto di “simbolo” vuol discriminare la semantica dalla sintomatologia, nell’uso dei segni, ma [...] non riesce a dar ragione del rapporto fra queste due diverse modalità semiologiche» (ivi, p. 36). La te­ oria dell’uomo come animai symbolicum non regge dal punto di vista em­ pirico, perché gli animali giocano e in un’attività di gioco lo stimolo non agisce come causa, ma come segnale o attivatore semantico: «Dall’ameba all’uomo, tutti gli animali sono simbolici e quindi capaci di analogia; la differenza è nel grado, non nella qualità» (ivi). E non regge dal punto di vista teorico, perché la dicotomia tra natura e cultura, interpretazione di­ retta e riflessa dei fenomeni, «vien presupposta: non spiega il rapporto tra le due cose e, per di più, porta a considerare il punto di arrivo - il simbo­ lismo ormai del tutto consapevole, ideografico e manierato - come l’unico legittimo mezzo esplicativo, inclusivo perfino del suo opposto», lasciando fuori «il problema di una genesi di ima interpretazione riflessa, col conseguente sviluppo (regressivo) della sintomatologia in semantica: cioè il problema dell’“archeologia” dell’uso dei segni in funzione di sti­ moli-segnali» (ivi, pp. 36-7). A questo approccio Melandri contrappone una via «la quale ricon­ duce indietro, anteriormente a ogni predicazione, alle fonti originarie dell’esperienza» (ivi, p. 192): quella della «sintomatologia», vale a dire di una «semiologia fondata direttamente sui fenomeni e anteriore alla riela­ borazione linguistica», in quanto «il problema sintomatologico [...] è pre-

76 linguistico (pre-predicativo e pre-categoriale)» (ivi, p. 193)24. Infatti, come si legge in Logica e esperienza in Husserl, «“fondare” fenomenologica­ mente una conoscenza significa risalire dal pensato al dato, [...] dal nou­ meno al fenomeno. [...] il senso dell’analitico, dell’apofantico e del for­ male è da ricercarsi nell’estetico, nell’attuale e nell’antepredicativo» (Me­ landri 1960b, p. 46). In privato, Melandri si esprimeva in modo più incisivo sull’approccio di Cassirer. Ricordo che disse una volta: «Cominciare dal simbolo! Ma siamo matti?». L’oggettivismo fenomenologico può essere considerato appunto una terapia contro la follia idealistica, per dirla con Goethe {Maximen und Reflexionen, n° 428) contro le teorie elaborate per «sbarazzarsi dei fenomeni» ed inserire «al loro posto immagini, concetti o anche semplicemente parole». E ben vero infatti, che il primo per noi non coincide con il primo per natura, come dice Aristotele {Top., VI, 4, 141b 3-18; Phys., I, 1, 184a 16-25; Metaph., V, 11, 1018b 11; VII, 10, 1035b 12; XII, 2, 1077b 1; An. post., I, 2, 71b 32-76a 6), che «l’anatomia dell’uomo fornisce una chiave per l’anatomia della scimmia», come dice Marx (1903, p. 38). Ma l’idealismo vorrebbe farci credere che per questo «il figlio genera la madre, lo spirito la materia, il risultato il principio», come dice sempre Marx (Marx-Engels 1844, p. 187)25. Si tratta di una metabasis eis allo genos. Ed è appunto quest’ultima - nota Melandri (1960a,

24 Infatti, nella sintomatologia «i segni non sono più simboli astratti delle cose, ma vi si connettono intrinsecamente» (Melandri 1968, p. 14). Melandri distingue semiologia e semantica. La prima «è lo studio delle modalità dell’uso dei segni» e comprende anche «gli automatismi interpretativi e le reazioni inconsapevoli agli stimoli-segnale», nonché «il comportamento»: vi rientra quindi «tutto ciò che, in quanto è segno, funge da veicolo di un’esperienza “mediata”, vale a dire simbolica, indiretta e vicariale del mondo» (ivi, p. 759). Nella semiologia i segni sono quindi «sintomi di una realtà che si viene costi­ tuendo proprio in forza di quest’uso» (ivi, pp. 763-4). La semantica invece «concerne il solo uso simbolico dei segni» (ivi, p. 759) e, «siccome il rapporto simbolico è conven­ zionale, presuppone già la realtà e il suo articolarsi in cose discrete» (ivi, p. 763). «La priorità della sintomatologia sulla semantica [...] è data dal fatto che, siccome ogni cosa può fungere sintomatologicamente da segno per un’altra, la semantica deve occuparsi fin dall’inizio non di segni, ma di fenomeni» (ivi, p. 60). 25 Cfr. anche Marx 1903, p. 34: «Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determi­ nazioni, dunque unità di ciò che è molteplice. Nel pensiero esso appare quindi come pro­ cesso di sintesi, come risultato, e non come punto di avvio, benché sia il reale punto di avvio, e quindi anche il punto di avvio dell’intuizione e della rappresentazione. [...] Per­ ciò Hegel cadde nell’illusione di concepire il reale come risultato del pensiero che si riassume e si approfondisce in se stesso e che si muove per energia autonoma, mentre il metodo di salire dall’astratto al concreto è per il pensiero solo il modo in cui esso si ap­ propria del concreto, lo riproduce come qualcosa di spiritualmente concreto. Mai e poi mai è però il processo di formazione del concreto stesso».

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p. 22) - la causa prima dell’errore.

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78 Leibniz, G.W., 1702, «Ciò che supera i sensi e la materia», in Id., Scritti filosofici, 3 voli., Torino, Utet, 2000, vol. I, pp. 525-537. Leibniz, G.W., 1765, Nuovi saggi sull’intelletto umano, Roma, Editori Riuniti, 1982. Leibniz, G.W., 1890, «Sulla sintesi e sull’analisi universali», in Id., Scritti di logica, 2 voll., Roma-Bari, Laterza, 1992, vol. I, pp. 149-159. Leibniz, G.W., 1903, «Ricerche generali sull’analisi delle nozioni e della verità», in Id., Scritti di logica, 2 voli., Roma-Bari, Laterza, 1992, vol. II, pp. 271-325. Leibniz, G.W., 1907, «Discorso di metafisica», in Id., Scritti filosofici, 3 voli., Torino, Utet, 2000, vol. I, pp. 262-302. Lewis, C.I., 1929, Il pensiero e l’ordine del mondo, Torino, Rosenberg & Selber, 1977. Lewis, C.I., 1946, An Analysis ofKnowledge and Valuation, La Salle, Open Court. Marramao, G., 2000, «Logos e esperienza. Rileggendo La linea e il circolo», in Studi su Enzo Melandri. Atti della giornata di Studi Faenza 22 maggio 1996, a cura di S. Besoli e F. Paris, Faenza, Polaris, pp. 43-64. Marx, K.-Engels, F., 1844, La Sacra famiglia, in K. Marx- F. Engels, Opere complete, vol. IV, Roma, Editori Riuniti, 1972, pp. 3-234. Marx, K., 1903, Introduzione ai «Lineamenti fondamentali di critica dell’economia poli­ tica», in K. Marx- F. Engels, Opere complete, vol. XXIX, Roma, Editori Riuniti, 1986, pp. 15-44. Melandri, E., 1960a, «I paradossi dell’infinito nell’orizzonte fenomenologico», in B. Bolzano, Iparadossi dell’infinito, Bologna, Cappelli, 1979, pp. 7-40. Melandri, E., 1960b, Logica e esperienza in Husserl, Bologna, Il Mulino. Melandri, E., 1968, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Macera­ ta, Quodlibet, 2004. Melandri, E., 1989, «Sul concetto di descrizione nella psicologia fenomenologica», in Intersezioni, XI, 2, pp. 285-303. Piana, G., 1979, Elementi di una dottrina dell’esperienza, Milano, Il Saggiatore. Schlick, Μ., 1932, «Esiste un a priori materiale?», in Id., Forma e contenuto, Torino, Boringhieri, 1987, pp. 167-179. Schlick, Μ., 1938, «Forma e contenuto: una introduzione al pensare filosofico», in Id„ Forma e contenuto, Torino, Boringhieri, 1987, pp. 45-148. Sorabji, R., 1981, «Definitions: Why necessary and in what way?», in Aristotle on Science: The Posterior Analytics, ed. by E. Berti, Padova, Antenore, pp. 205-244. van Fraassen, B. C., (1980), «A Re-examination of Aristotle’s Philosophy of Science», in Dialogue, XIX, pp. 20-45.

Alberto Gualandi (Università di Urbino)

«Esiste un ’analogia tra l’epistemologia francese e l’antropologia? ». Dialogo immaginario tra Enzo Melandri e un suo allievo

1. Un dialogo doppiamente immaginario Vorrei iniziare il mio intervento con una breve premessa che ha il valore di avvertenza e scusa: l’obiettivo che mi ero prefissato al momento in cui ho proposto il titolo del mio intervento a Vittorio De Palma e a Vincenzo Fano non si è realizzato; ciò che oggi ascolterete non avrà la forma lettera­ ria di un dialogo, ma di una normale conferenza-monologo. Non vorrei ora dilungarmi sulle ragioni che mi hanno indotto a tentare di mettere in forma di dialogo il tema dell’influenza del pensiero e dell’insegnamento di Enzo Melandri sul mio percorso filosofico; e non vorrei neppure indu­ giare sui motivi - in parte contingenti - che mi hanno poi spinto a rinun­ ciare a questo progetto. Se, nonostante quest’ammissione, conservo anco­ ra una parte del credito e della benevolenza che ognuno di noi è chiamato a riporre nel proprio interlocutore, vorrei tentare di convincervi che le co­ se che vi racconterò oggi in forma monologica costituiscono pur sempre l’abbozzo o il risultato di un dialogo interiore, più volte interrotto e più volte ripreso, con il primo, vero Filosofo che ho incontrato sul mio cam­ mino e che, per un breve periodo, è stato anche «il mio maestro». La seconda cosa che vorrei premettere è che questo «dialogo imma­ ginario», che un giorno forse prenderà forma letteraria, o che rimarrà per sempre consegnato alla mia o alla vostra immaginazione, esprime un pos­ sibile percorso - non certo l’unico, ma quello da me scelto in funzione dei miei interessi e del mio lavoro - all’interno dell’opera più difficile, pro­ fonda e abissale di Melandri: La linea e il circolo. Nel progetto iniziale, questo dialogo astratto aveva ricevuto un’ambientazione famigliare: la li­ nea ferroviaria Faenza-Firenze. Le stazioni ferroviarie - traversate da un treno che sarebbe poi scomparso tra i monti dell’Appennino senza mai giungere alla meta - avrebbero scandito la successione quasi-musicale di alcuni temi di La linea e il circolo in cui il mio percorso filosofico entra in risonanza con quello di Melandri. Vorrei ora fornirvi una mappa d’insieme delle principali tappe percorse da questo dialogo ferroviario.

80 A partire dai problemi apparentemente tecnici posti dall’epistemologia francese di Brunschvicg e Meyerson - autori a cui fui iniziato dallo stesso Melandri all’epoca della mia tesi di laurea - il nostro dialogo sarebbe dovuto approdare alla questione della struttura comunica­ tiva dell’essere umano, questione su cui da diversi anni si concentra il mio lavoro. AH’intemo di questo percorso d’insieme la nostra discussione avrebbe poi toccato alcuni temi che considero di importanza cruciale per la comprensione dell’opera di Melandri: primo tra tutti il problema kantiano delle analogie dell’esperienza, problema che Melandri ritrovava giusta­ mente nel cuore delle epistemologie di Brunschvicg e di Meyerson, e che sviluppava in direzione di un’estesiologia fenomenologica, di una dottrina dello schematismo linguistico e, in ultima istanza, di un’ermeneutica semiologica. Una tappa obbligata del nostro viaggio avrebbe inoltre riguar­ dato il tema, strettamente connesso col precedente, del rapporto tra la co­ noscenza matematizzata della scienza e la conoscenza percettivolinguistica del senso comune. Questo tema ha un’importanza centrale nell’opera di Melandri perché è attorno ad esso che si dispiega la questio­ ne del rapporto tra scienza e filosofia nella società tecnologico-industriale moderna, e prende corpo la critica indirizzata da Melandri alle posizioni della filosofia della scienza neopositivista e della filosofia della cultura storicista e neokantiana (cassireriana in particolare). Infine il nostro viag­ gio avrebbe dovuto fare sosta in una stazione appenninica in cui questi temi epistemologici e teoretici avrebbero acquisito uno spessore più am­ pio e più calato nella nostra contemporaneità. In questa stazione di monta­ gna si sarebbe dovuto introdurre un tema tipicamente antropologicofilosofico: il tema della natura neotenica dell’essere umano e del divenire umano dell’uomo, per poi passare alla questione urgente delle conseguen­ ze storico-politiche, post-moderne o post-umane, del processo dialettico di ominazione. E sulla linea tracciata da questo processo di ominazione che si collocava infatti per Melandri l’unico, vero progetto di emancipazione della modernità: il comuniSmo. «Anche dal punto di vista naturalistico il comuniSmo è sulla linea del diventar uomini, nel senso della Menschenwerdung di Bolk» (Melandri 1968, p. 754); in altri termini, è soltanto nel comuniSmo che l’uomo diviene uomo. Ma nessuno può sapere - si affret­ tava ad aggiungere qualche riga dopo - quanto questo processo da cui di­ pende il futuro dell’umanità «possa essere attuato senza condurre alla di­ struzione della civiltà dell’uomo, così come noi la conosciamo» (ivi, p. 755). A questo punto del viaggio, dopo averci lasciato in eredità quest’inquietante questione, e dopo essere sceso per una super senza filtro o per uno stravecchio del bar, Melandri ci avrebbe salutato da lontano con

81 un cenno della mano... mentre il treno sarebbe ripartito per la sua incogni­ ta meta tra le brume invernali dell’Appennino tosco-emiliano.

2. Ilfuggevole intervallo tra l’uomo e il superuomo Il percorso attraverso La linea e il circolo che avrei voluto proporvi oggi avrebbe dovuto dipanarsi in modo serrato, intrecciando citazioni a parti di dialogo. Ma potete ben immaginare che per sviluppare con la dovuta pre­ cisione tutti i temi sopraccitati, il viaggio tra Faenza e questa oscura loca­ lità di montagna avrebbe dovuto beneficiare delle virtù paradossali dell’infinito attuale. Nei pochi minuti che oggi ancora mi restano dovrò quindi limitarmi ad illustrarvi quello che avrebbe dovuto costituire il filo conduttore del nostro dialogo: l’idea che non solo esiste effettivamente un’analogia tra l’epistemologia francese e l’antropologia, ma che la que­ stione dell’analogia conduce inevitabilmente Melandri nei dintorni di un’antropologia filosofica, intesa come disciplina al contempo storica e trascendentale. Melandri stesso mi pare infatti palesare questo intento fin dall’introduzione: «Non si tratta di arrivare al superuomo: siamo ancora così poco umani! Nel fuggevole intervallo fra la scimmia e il “superuo­ mo” - questo cattivo sostituto della teologia - si tratta di mettere un po’ meglio a fuoco la nostra essenza transeunte di animale razionale» (ivi, p. 4). Non mi pare quindi un caso che settecentocinquanta pagine dopo, Me­ landri tomi, come abbiamo osservato prima, sulla medesima questione a proposito del problema deU’ominazione e del futuro deH’umanità. Si potrebbe però obiettare che, per quanto significative, dichiarazioni d’intenti così generiche non bastano certo a comprovare che Melandri sarebbe stato d’accordo nell’identificare nell’ahtropologia filosofica la via d’uscita dalle aporie della filosofia contemporanea, e si potrebbe anche obiettare che la sua prospettiva analogica è ben difficilmente riducibile a una qualsiasi forma di trascendentalismo antropologico. Se condividete questa obiezione avete probabilmente ragione: Melandri non sarebbe stato d’accordo, ma durante il nostro improbabile dialogo mi sarei comunque dato daffare per tentare di convincerlo con degli argomenti più affinati che vorrei riassumervi qui. Il primo di essi riguarda le virtù analogiche dell’epistemologia francese.

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3. Le virtù analogiche dell’epistemologia francese Credo che non sia sbagliato affermare che Melandri provasse una certa simpatia per gli epistemologi francesi e che in un certo senso li prediliges­ se ai più rigorosi parenti viennesi e anglosassoni. Questo dipende dal fatto che negli epistemologi francesi le aporie dell’epistemologia divengono più evidenti e che il retroterra filosofico, ontologico, antropologico e gnoseo­ logico emerge con chiarezza al di là delle «razionalizzazioni e rimozioni» logico-formali dell’epistemologia analitica. Che cosa piace a Melandri di Meyerson e Brunschvicg? Direi soprattutto questo: che nonostante le loro apparenti opposizioni - opposizioni che riguardano il modo di intendere il rapporto tra la semantica logica e l’ontologia - «Meyerson e Brunschvicg in realtà dicono “la stessa cosa”», entrambi rimettono in gioco l’analogia (ivi, p. 305). Cerchiamo di capire che cosa Melandri intendesse esatta­ mente con ciò. In Meyerson l’analogia fornisce la mediazione tra l’identico raziona­ le e il diverso irrazionale. In Brunschvicg essa costituisce lo strumento flessibile di una ragione mobile che si destruttura e ristruttura in funzione della novità esperienziale. In Meyerson l’analogia prende il nome di senso comune, in Brunschvicg essa prende il nome di giudizio riflettente1. Die­ tro a queste due diverse accezioni dell’analogia, aristotelica la prima, kan­ tiana la seconda, la questione che si agita sullo sfondo è per Melandri tut­ tavia sempre la stessa: la questione delle analogie dell’esperienza, il pro­ blema cioè di come si operi il passaggio tra esperienza oggettiva ed espe­ rienza soggettiva, da un lato (prima analogia), e tra esperienza percettiva quotidiana ed esperienza scientifica, dall’altro (seconda analogia). Il pro­ blema rappresentato da questo doppio passaggio è per Melandri il pro­ blema teoretico più importante che Kant abbia lasciato in eredità alla filo­ sofia contemporanea; e, personalmente, credo che esso costituisca il cuore della stessa filosofia di Melandri, il problema centrale attorno a cui si di­ panano i fili teorici che conducono fino alla duplice analogia che dà il tito­ lo all’opera: la linea e il circolo. Esaminiamo più da vicino il senso di questo doppio passaggio iniziando dalla prima analogia dell’esperienza o analogia della sostanzialità.

4. Ermeneutica della sostanzialità1

1 Cfr. Meyerson 1908; Brunschvicg 1897; Brunschvicg 1922; Brunschvicg 1951; Gua­ landi 1998; Gualandi 2004.

83 La prima analogia dell’esperienza o «“analogia della sostanza” dipende [...] dalla necessità in cui ci troviamo di distinguere le qualità fenomeni­ che in primarie e secondarie, se vogliamo oggettivarle in una coerente se­ miologia» (ivi, p. 604). Per chi ha in mente roriginaria formulazione kan­ tiana della prima analogia2, questo riferimento di Melandri alla semiologia potrebbe apparire disorientante. Tuttavia non lo è se si tiene in conto la ri­ lettura fenomenologico-ermeneutica dei problemi kantiani, attuata da Me­ landri sullo sfondo di un’estesiologia che, a mio avviso, ha una forte con­ notazione antropologica. In questa prospettiva il problema kantiano della costituzione trascendentale della realtà è infatti ridefmito da Melandri nei termini di un processo ermeneutico operante all’interno di un «orizzonte estesiologico» che costituisce una sorta di piano di simmetria fenomenico, una sorta di membrana che «a una certa distanza dal corpo avvolge ogni essere senziente [...] costretto a interpretare i segni di vario genere - colo­ ri, forme, suoni, odori etc. - che compaiono e scompaiono su questa membrana. Con l’intervento della semiologia la membrana si trasforma in piano di simmetria fenomenico, giacché l’interpretazione conduce a tra­ scenderlo in due direzioni opposte e complementari fra loro» (ivi, p. 767). Nel corso di questo processo interpretativo, le qualità primarie ven­ gono assegnate alla sostanza-oggetto in funzione dei codici consci o in­ consci della nostra semiologia, mentre le seconde vengono assegnate al soggetto: in questo caso esse non veicolano nessun messaggio, ma fanno parte del rumore di fondo dell’apparato ricevente. In altri termini, questa distinzione “necessaria” tra soggettivo e oggettivo è per Melandri da in­ tendersi come l’effetto di una sorta di semantica trascendentale che prece­ de la costituzione di ogni ontologia formale scientifica3. E su questa di­

2 «In ogni cambiamento dei fenomeni la sostanza permane e il quantum di essa non viene nella natura né accresciuto né diminuito» (Kant 1787, B 224). 3 «La semiologia è una semantica trascendentale, in questo senso: dato un qualsiasi uni­ verso di qualia, essa porterà sempre a distinguervi i primari e i secondari» (Melandri 1968, p. 767, corsivo nostro). Come vedremo, questa distinzione «necessaria» risulta, secondo Melandri, sfalsata della «metafora assoluta» dell’ocularità e dalla concezione della temporalità che da essa deriva: l’eterno presente. Melandri sembra suggerirci quin­ di che tale distinzione non sia necessaria che in apparenza, che essa potrebbe apparire diversa se la semantica trascendentale di cui essa è l’effetto fosse diversa, che la scelta di una semantica alternativa non dipenda tuttavia da un’arbitraria scelta soggettiva quanto piuttosto da un sorta di «mutamento epistemico epocale». Nel ricostruire la genesi di questa distinzione, mi pare tuttavia che Melandri avrebbe potuto invocare delle ragioni di ordine più strettamente estesiologico, tenendo conto del modo in cui già Aristotele poneva il problema del rapporto tra i sensibili propri e i sensibili comuni. Le qualità che la modernità definirà primarie, e che Kant ritradurrà in «estensive» - come per esempio «la grandezza, la figura, il numero, il movimento» - non sono tali per effetto di una deci­

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stinzione che vengono infatti a innestarsi i due primi principi dell’intelletto - il principio delle grandezze estensive e il principio delle grandezze intensive - su cui si fondano a loro volta due modelli di mate­ rnatizzazione dell’esperienza d’importanza cruciale per la scienza moder­ na4. E dall’incomprensione della stessa distinzione discendono due model­ li semantico-ontologici di «comprensione» della scienza opposti e tuttavia complementari: il fiscalismo e il fenomenismo5. Prima però di affrontare il problema dell’analogia tra l’esperienza percettiva e l’esperienza scientifi­ ca vorrei farvi notare che la funzione trascendentale svolta da questa se­ miologia ermeneutica ha anche un fondamento concreto che io non esite­ rei a definire antropobiologico e che Melandri introduce così: «Il dato sensibile è per così dire il punto di equilibrio, di stasi momentanea fra l’azione dell’ambiente e la reazione dell’organismo o viceversa. Noi per­ cepiamo come qualità il provvisorio punto di arresto di un conflitto» (ivi, p. 768). In altri termini, la percezione è il risultato di un processo dialetti­ co a partire dal quale la psiche umana inverte il suo rapporto all’ambiente

sione semantico-ontologica, quanto piuttosto in ragione del loro essere «percepibili sia al tatto che alla vista» (Aristotele, De Anima, B 5, 418a 18). Tali proprietà «non sono pro­ prie di alcun senso», ma comuni a più sensi. Esse appartengono dunque a una regione deH’intersensorialità in cui i dati dei sensi si offrono vicendevolmente conferma per ana­ logia, acquisendo in tal modo maggiore “oggettività” (ivi, Γ 1, 425-b 4-12). Questo pro­ blema deH’intersensorialità è al centro delle argomentazioni che seguono. 4 Le analogie dell’esperienza stabiliscono infatti per Melandri - in ciò fedele all’intepretazione neokantiana - la giustificazione trascendentale e al contempo il riem­ pimento percettivo e semantico dei tre principi formali - altrimenti vuoti di «senso uma­ no», come Mach ha mostrato - che stanno alla base della dinamica newtoniana. 5 «Il progresso della conoscenza dipende dalla possibilità di ricondurre una differenza che di primo acchito appare qualitativa e assoluta a una che sia invece relazionale e rela­ tiva. Nella scienza galileiana ciò viene interpretato come riduzione del qualitativo al quantitativo. Il requisito, come si è visto, pecca per eccesso. È sufficiente che si dia una correlazione fra i due momenti, cioè una “analogia dell’esperienza”, la cui funzione è di integrarli e non di ridurre l’uno alTaltro. Il matematicismo (la riduzione al quantitativo) è quella specie di fiscalismo che più direttamente si contrappone al fenomenismo (la ridu­ zione al qualitativo). Entrambi peccano in questo: che, stabilendo una dicotomia radica­ le, rendono impossibile la comprensione della matrice da cui dipendono i termini del rapporto» (Melandri 1968, p. 792). Per Melandri è infatti possibile superare il dualismo che oppone il fisicalismo (riduzione del mondo all’estensivo-quantitativo) e il fenomeni­ smo (riduzione del mondo all’intensivo-qualitativo) grazie a un tertium comparationis, il principio di analogia, il quale ci permette di passare dalle grandezze estensive a quelle intensive, dall’universo estesiologico-percettivo all’universo noologico del sentimento e del pensiero, dall’ontologia scientifica alla nooologia fenomenologica. Quest’insieme di passaggi è in ultima istanza regolato dall’analogia fondamentale tra la linea e il circolo (cfr. ivi, pp. 786-796).

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e al suo stesso corpo6. Per Melandri, come per l’antropobiologia filosofica novecentesca, l’organismo umano non si limita infatti a reagire a uno sti­ molo esterno, ma interpreta questo stimolo come se fosse una risposta dell’ambiente al suo appello intelligente, inserendolo cioè all’interno di una struttura comunicativa costitutiva di ogni esperienza umana7. Questo fenomeno è comune ad ogni ambito d’esperienza e travalica quindi ogni distinzione tra mondo naturale e mondo umano, tra scienze della natura e scienze ermeneutiche del linguaggio: In origine l’ermeneutica è l’arte della decifrazione, per lo più di documenti scritti. Ma anche la natura, le cose e i fatti della vita possono essere visti come manifestazioni di una realtà accessibile solo a chi ne conosca il ci­ frario. Per la teoria deH’informazione ogni evento può essere equiparato a un messaggio. In tal modo l’ermeneutica si estende all’intero mundus phaenomenon. Nello stesso tempo il suo significato si fa più specifico: essa è sopra tutto invenzione di nuovi codici interpretativi [...]. È il codice che permette di vedere nel fenomeno il suo esser segno di qualcosa che come tale non si manifesta (ivi, pp. 758-59).

E in questo senso che per Melandri ogni sensazione può in ultima istanza essere interpretata come un messaggio inviatoci da un mittente sconosciu­ to - Natura, Essere o Dio - di cui non conosciamo il codice e il linguag­ gio, ma a cui siamo tenuti ad assegnarne uno per entrare con esso in co­ municazione·. «in rerum natura [...] si fa di ogni esperienza un messaggio, anche se per il momento non sappiamo come decodificarlo. Quel che non decifriamo oggi, non è detto che non sia decifrabile domani. Anzi, dob­ biamo ammettere che non solo lo possa, ma lo debba essere. Altrimenti non avrebbe senso alcuna attività scientifica» (ivi, p. 62)8. In conclusione, le posizioni di Melandri non ci paiono troppo di­ 6 Questa inversione dialettica appare per esempio chiara dal fatto che, come già Max Scheier, Melandri afferma che «[...] nella sua essenza, il modo d’essere psichico è la contestazione stessa del modo d’essere biologico» (Melandri 1968, p. 730). Per quanto riguarda i presupposti e le implicazioni generali di questa concezione dialettica dell’umano, rinviamo al paragrafo conclusivo. 7 «La tesi fondamentale, senza la quale l’esperienza umana in generale rimane incom­ prensibile, è la tesi del carattere comunicativo di quest’esperienza» (Gehlen 1940, p. 200). 8 Secondo Melandri, il procedimento induttivo e la credenza nella causalità criticati da Hume possono infatti venire giustificati nella pratica scientifica solo alla maniera illu­ strata dagli argomenti di Mill e Reichenbach: cioè solo a titolo di principi ermeneutici (Melandri 1968, p. 62). Ciò conduce Melandri anche a trascendere la distinzione tra scienze della natura e scienze della cultura così come è stata teorizzata da Cassirer (ivi, p. 34), e ad approfondire la revisione del kantismo già intrapresa da Brunschvicg in sen­ so fenomenologico-semiologico (ivi, pp. 25, 27, 64).

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stanti da quelle ricerche in cui il rapporto comunicativo tra il pensierolinguaggio e Γ essere-realtà ci ha fornito una chiave di comprensione dell’esperienza e della conoscenza umana9. Ma ritorniamo alle analogie dell’esperienza, e più precisamente alla seconda analogia o analogia della causalità.

5. Archeologia della causalità Abbiamo prima affermato che Melandri interpreta le analogie dell’esperienza come degli operatori di passaggio che mettono in comu­ nicazione le grandezze estensive e le grandezze intensive, l’oggettività e la soggettività, l’esperienza percettiva quotidiana e l’esperienza scientifi­ ca. La necessità di questo passaggio tra esperienza comune ed esperienza scientifica è anche dovuta al fatto che i principi e i concetti della meccani­ ca razionale (massa, azione a distanza, energia potenziale etc.) trascendo­ no il piano di ciò che è osservabile empiricamente: per Melandri come per Mach, ciò che è effettivamente osservabile è pura foronomia. «Perciò la Zweite Analogie10 non ha alcuna funzione critica: essa deve limitarsi a da­ re la giustificazione trascendentale dei principi della dinamica, cioè tra­ durne l’a priori in termini accessibili per analogia al senso comune» (ivi, p. 607). Questa correlazione tra il tempo e il senso dell’essere meccanico, che è la seriazione causale, è per Melandri tuttavia possibile solo per il fat­ to che noi possediamo un'innata tendenza all’analogia che ci porta a in­

9 Cfr. Gualandi 2002; Gualandi 2003. Il tema del rapporto comunicativo tra il pensiero e Γ essere-realtà costituisce una sorta di leitmotiv che La linea e il circolo giunge a svilup­ pare in una dottrina dello schematismo linguistico - ispirata alla teoria del linguaggio di Bruno Snell - in cui si delinea un’analogia tra principi dell’intelletto e le tipologie lin­ guistiche che regolano le nostre enunciazioni verbali. Secondo Melandri, i principi kan­ tiani dell’intelletto hanno infatti reso esplicito uno schematismo che opera già interna­ mente al linguaggio, all’interno della grammatica logica del nome, dell’aggettivo e del verbo (Melandri 1968, pp. 632-635). Il verbo è inoltre visto da Snell e da Melandri come il principio relazionale della sintesi, come un funtore di schematizzazione che media tra il soggetto e l’oggetto, tra l’«azione e la passione »: operatore di passaggio che - nei termini dell’antropobiologia del linguaggio - connette comunicativamente l’«appello del nome» e la «risposta del predicato» (cfr. Gualandi 2003). L’analogia tra principi kantiani dell’intelletto e le tipologie linguistiche definita da Melandri ricorda per certi versi l’analogia tracciata da Lyotard tra principi e categorie kantiane e regimi di frasi e generi di discorso (cfr. Lyotard 1983). Un’ulteriore ragione a favore di un confronto approfon­ dito tra la tradizione francese e la filosofia di Melandri. 10 «Tutti i mutamenti accadono secondo la legge della connessione di causa ed effetto» (Kant 1787, B 232).

87 terpretare la causalità e tutto ciò che nella natura è disposizionale, vetto­ riale etc. in termini di uno sforzo che perdura: «L’analogia della causalità media il passaggio dalla sensazione dello sforzo all’intuizione obiettiva della forza. Solo in questo modo il movimento può essere costretto a pre­ sentarsi quale effetto di una causa oggettiva della quale tuttavia nessun ri­ scontro si ritrova sul piano fenomenico» (ivi, p. 608). Da questa inevitabi­ le tendenza a interpretare la causalità in analogia con la nostra azione prende spunto la polemica di Melandri nei confronti di quelle filosofie della scienza (neopositiviste ma non solo) che fanno dell’eliminazione dalla scienza di ogni residuo di antropomorfismo e di animismo l’obiettivo principale delle loro metodologie normative. Queste metodolo­ gie, nota Melandri, sono costantemente disattese dagli scienziati che, me­ todologicamente ben più tolleranti, non trovano nulla di scandaloso nel far un uso «analogico e riflettente» dell’antropomorfismo. Per Melandri an­ tropomorfismo e animismo11 sono in effetti ineliminabili perché ogni espe­ rienza per risultare significativa ha bisogno di essere posta in connessione analogica con il nostro corpo e con il «nostro comportamento»11 12, primo tra tutti con quel comportamento comunicativo che ci dispone in ima sorta di attitudine dialogica originaria nei confronti della realtà: «La realtà viene anzitutto appresa simpateticamente, si direbbe attraverso le figure dell’ipotiposi e della prosopopea: la diretta Anrede o allocuzione provoca­ tiva e l’indiretta personificazione di ciò che, pur essendo radicalmente al­ tro da noi, risponde alle nostre domande» (ivi, p. 207). Questa polemica nei confronti di ciò che Melandri definisce l’«ascetismo metodologico dell’epistemologia» ha delle conseguenze mol­ to importanti per il rapporto tra scienza e filosofia: Nel nostro caso questo spiega perché non già la scienza, bensì la filosofia della scienza tende a intronare il sapere scientifico in una sorta di gelosa alterità, esclusiva di ogni antropomorfismo e sopra tutto distaccata dai suoi obiettivi pratici - A torto, ben s’intende. Dopo tutto la scienza è un’attività umana. Deve esserci quindi almeno un punto in cui gli interessi del sapere

11 «Quel che occorre sottolineare è che l’animismo - se si vuol usare questo concetto non conduce necessariamente a concezioni di carattere spiritualistico. Anzi, la sua stessa primitività indica in che senso analogia empirica e sperimentale siano fin dalle origini intimamente interconnessi. È propria dell’animismo la concezione della causalità come efficiente, nel senso del making something happen [...]» (Melandri 1968, p. 207). 12 « [...] ogni possibile teorizzazione della medesima [dell’esperienza quotidiana e scien­ tifica] va subordinata alla dinamica del nostro comportamento» (Melandri 1968, p. 608). Ma ciò significa anche che nell’esperienza umana non c’è nessuna spiegazione che possa prescindere completamente dal finalismo e nessuna fondazione della ragion teorica che possa prescindere dalla ragion pratica.

88 disinteressato coincidono con quelli pratici, di piena competenza del senso comune (ivi, p. 613).

Espunte dallo stato «puro» del sapere scientifico, le analogie dell’esperienza si ripropongono infatti per Melandri in quei momenti di passaggio e crisi, in quelle fasi di decisione iniziale da cui dipende tutto lo sviluppo assiomatico di una teoria, in quegli «stati critici» in cui, come notava già Brunschvicg, la scienza è obbligata a ricorrere nuovamente a un giudizio al contempo «riflettente e oggettivo» sulla natura (ivi, p. 615). L’eliminazione dell’antropomorfismo comporta inoltre per Melandri l’eliminazione della teleologia dalla scienza e la reintroduzione del finali­ smo dal «retrobottega», al livello cioè della tecnica (ivi, pp. 611-612). Es­ sa rivela cioè l’incapacità dell’epistemologia positivista di pensare in mo­ do unitario scienza e la tecnica - oltre che le scienze della natura e le scienze dell’uomo - nel contesto industriale e capitalista moderno: Il difetto più cospicuo del positivismo sta nel non aver compreso che quel che programmaticamente esso tende a chiamare «scienza», con esclusione della componente pragmatica, è parte non indipendente di un’«unità» più vasta - la «scienza industriale» - nella quale ciò da cui si intenderebbe prescindere rappresenta, come la parte sommersa di un iceberg, almeno i 9/10 del totale (ivi, p. 697).

Si può quindi affermare che per Melandri come per l’Habermas della fine anni ’60, l’epistemologia svolge in tal modo la funzione di ideologia per la società tecnocratica contemporanea13.

13 Cfr. Habermas 1968; Habermas 1973. In modo ancor più deciso che il primo Haber­ mas, Melandri include tuttavia nella sua critica del neopositivismo la critica della distin­ zione tra verità logiche e verità fattuali. A questa distinzione è riconducibile infatti se­ condo Melandri il dualismo tra «fatti» e «ragioni», dualismo in base al quale ogni cono­ scenza scientifica risulterebbe non decisiva per la scelta dei principi. Questa tesi conduce a una netta separazione tra scienza e filosofia, e implica quindi «l’indebita assolutizzazione di quest’ultima», allorché la filosofia dovrebbe invece avere una funzione di accusatrice della pseudoscientificità che è necessaria alla stessa scienza (Melandri 1968, p. 676). Il dualismo di cui sopra conduce poi a una regressione autoritaria che è implicita in ogni convenzionalismo, in tutte quelle posizioni per le quali «non c’è nessuna ragione obiettiva, scientifica e in ultima analisi fattuale per scegliere un principio piuttosto che un altro» (ivi, p. 677). Di questo tipo di errore sono però vittime anche filosofie progres­ siste come quelle di Carnap e, a mio parere, come quelle dello stesso Habermas. Questo autoritarismo implicito nel convenzionalismo non è infatti risolvibile, secondo Melandri, neppure “addolcendolo” in senso pragmatista, considerando cioè la scelta dei principi come una questione di «prassi» (libera e progressista alla Carnap o comunicativa, e «regolativamente democratica», alla Habermas). Il pragmatismo tenta cioè di ridurre la di­ stanza tra fatti e idee, ma non risolve, secondo Melandri, il loro dissidio; ai suoi concetti «intermedi» si può infatti sempre rivolgere l’obiezione del «terzo uomo». Il pragmati­

89 La questione è decisiva, ma vorrei ora attirare la vostra attenzione su un altro punto: quest’errore perpetuato dal neopositivismo ha per Melan­ dri la sua origine nell’incapacità kantiana di pensare fino in fondo il senso delle analogie dell’esperienza. Kant infatti è troppo impegnato nel fornire una giustificazione trascendentale ai principi della scienza. Egli non si ac­ corge così che le analogie che intravede dietro i concetti della scienza so­ no condizionate da delle «metafore assolute» che devono venire archeolo­ gicamente ricostruite e genealogicamente relativizzate. In ogni sistema di pensiero c’è infatti secondo Melandri un senso privilegiato che ha la fun­ zione di costituire un «piano di simmetria metaforico» capace di fare coincidere i due linguaggi: quello empirico e oggettivo (per es. qualità primarie) e quello soggettivo e trascendentale14. Questi sensi privilegiati (nei sistemi idealistici, l’occhio e l’udito) vengono poi proiettati e iposta­ tizzati a livello ontologico operando una sorta di sdoppiamento trascen­ dentale del significato: «perciò questi tropi non sono estrinseci ornamenti retorici, ma vere e proprie “analogie dell’esperienza” destinate in potenza a terminare in concetti formalmente ineccepibili e tecnici» (ivi, p. 274). Se

smo, del resto, ha sempre avuto poco successo tra gli scienziati. E non c’è da stupirsi di ciò perché il pragmatismo è una «filosofia della scienza intesa come tecnica, non della scienza considerata nella sua pura oggettività» (ivi, p. 680). Esso rappresenta quindi l’altra faccia della medaglia, opposta e speculare, rispetto al neopositivismo. Esso si vor­ rebbe democratico e ottimista, ma si rende spesso indistinguibile dal convenzionalismo che è invece chiaramente conservatore. Ciononostante la posizione di Melandri rispetto al pragmatismo è talvolta ambigua al punto da affermare che: «La gnoseologia moderna ha riconosciuto fin dagli inizi [...] che la condizione “pragmatistica” del conoscere è in­ superabile» (ivi, p. 685). Contrariamente a ciò che avrebbe voluto Γanticartesiano Peir­ ce, il merito di questo riconoscimento viene attribuito da Melandri a Descartes il quale ha profondamente criticato l’antica concezione realista del conoscere fondata sull’isomorfismo tra pensiero e realtà. La nostra rappresentazione del mondo non è infat­ ti una mappa isomorfa del reale; essa è fondata sui nostri bisogni, ed è questo riconosci­ mento che legittima secondo Melandri la correttezza della posizione pragmatista (ivi, p. 685). Questa ambigua valutazione del pragmatismo è secondo me dovuta al ruolo non chiaramente definito che Melandri assegna al tatto e alla metafora pragmatista della ma­ no all’interno del sistema estesiologico deH’intersensorialità: cfr. il seguito e le note 14 e 15. 14 «Fra le specie di sensi o di qualità sensibili ce n’è infatti sempre una che assolve la funzione del raddoppiamento semiologico dell’esperienza: in essa soggetto e oggetto coincidono concretamente quanto a “schema” (nel senso kantiano), pur conservando o meglio fondando - per ciò stesso - la loro opposizione “trascendentale”» (Melandri 1968, p. 273). «Possiamo così accorgerci come in ogni sistema di pensiero, concepito come ideologia meta-percettiva, ci sia sempre un senso o una coppia di sensi che funge da mediatore fra la semiologia dell’oggetto e quella del soggetto» (ivi, p. 274). «I c.d. “sistemi di pensiero” non sarebbero altro, da ultimo, che ideologie meta-percettive, pro­ prio nel senso degli idéologues» (ivi, p. 274).

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la prima analogia kantiana è infatti supportata dalla metafora dell’ocularità e dalla concezione della temporalità che ne discende: l’eterno presente, la seconda analogia è tutta intrisa dalla metafora della mano, e dalla concezione della temporalità che ne deriva: la seriazione ir­ reversibile nel tempo'5. Ciononostante, tutta la storia del kantismo nove­ centesco dimostra - e a questo proposito Melandri fa riferimento alle di­ scussioni tra fenomenologi e neokantiani, ma anche all’epistemologia brunschvicgiana di Piaget - che le analogie dell’esperienza sono irriduci­ bili alle due o tre metafore che presiedono alle distinzioni trascendentali kantiane; essa mostra che «le possibili analogie dell’esperienza sono infi­ nite» (ivi, p. 603) poiché infinite sono le potenzialità «metaforologiche» dell’uomo (ivi, p. 616). Da ciò consegue un profondo cambiamento per la filosofia, la definizione di un ruolo che Melandri non esita a definire «ri­ voluzionario»‘(ivi, p. 810). Il nuovo compito della filosofia non consiste nel descrivere delle strutture ideali già date, ma di crearne di compietamente nuove, d’inventare nuovi concetti o di inventare nuove analogie che - come il termometro15 16, l’orologio a lancette e, naturalmente, la «linea e il circolo» - permettono di passare dall’estensivo all’intensivo, dal microco­ smo soggettivo al macrocosmo oggettivo, dall’universo noologico della percezione e del pensiero all’universo ontologico della scienza, e vicever­ sa (ivi, pp. 780-782). Ora, io ho meno fiducia di quanta non ne abbia Me­ landri in questa funzione metaforicamente creativa della filosofia, e ri­

15 «Ora la tradizione filosofica, per inveterato vizio incline a sfuggire per la tangente dell’eterno presente, non ha mai sentito il bisogno di fornire al raddoppiamento empirico-trascendentale del tatto, allo schema bi-sociativo aptico/psaustico, un’adeguata esteti­ ca trascendentale. Abbiamo detto in che senso esso rappresenterebbe una “metafora as­ soluta”, una percezione originaria e quindi una “prima” - non “seconda” - analogia dell’esperienza nell’accezione di Kant» (Melandri 1968, p. 278). Ciò significa che il tat­ to - in virtù della sua intrinseca struttura estesiologica duplice: attiva e passiva, recettiva e riflessiva, aliocettiva e propriocettiva (ivi, p. 791) - fornisce per Melandri lo schema empirico-trascendentale fondamentale per la costituzione sensibile-intelligibile della re­ altà percettiva. Approfondendo criticamente le analisi antropobiologiche di Arnold Ge­ hlen, ho tentato di mostrare invece come lo schema intraso ggettivamente comunicativo del tatto - grazie a un sistema di rinvìi simbolici e di esoneri progressivi - si «superi e integri» dialetticamente nello schema intersoggettivamente comunicativo della voce­ udito, stabilizzandosi infine nella struttura proposizionale del linguaggio e della verità. Cfr. Gualandi 2002; Gualandi 2003. 16 «Ora il termometro è un apparato che serve a rappresentare come grandezza estensiva, per es. come lunghezza di una colonna di mercurio, la corrispondente grandezza intensi­ va, che è la nostra sensazione di caldo. Il termometro può essere preso come il paradig­ ma stesso della percezione, poiché serve a mediare analogicamente fra due grandezze eterogenee: una fisica, estensiva ed esterna; e una psichica, intensiva e interna» (Melan­ dri 1968, pp. 599-600).

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mango forse più ancorato di lui alla sua funzione tradizionalmente «verita­ tiva»17. Credo infatti che le analogie veramente rilevanti per la filosofia siano finite e non infinite, e che esse siano fondamentalmente riconducibi­ li alla sfera estesiologica deìV intersensorialità, al rapporto comunicativo che si stabilisce tra i dati eterogenei dell’occhio e della mano grazie alla funzione mediatrice della voce-udito. Non ho ora il tempo di sviluppare queste tesi con la dovuta precisione18, ma vorrei tuttavia fare emergere il

17 In questo senso, Melandri sembra ancora una volta avvicinarsi ai pensatori francesi post-bachelardiani i quali hanno trasformato la filosofia in una sorta di metaforologia o, meglio, in una «metaforogenesi». Particolarmente significativo è a questo titolo il caso di Deleuze, il quale alla fine del suo percorso di pensiero ha esplicitamente identificato l’attività filosofica con una «libera creazione di concetti» resa trascendentalmente possi­ bile dallo spazio d’indeterminazione che caratterizza intrinsecamente la natura umana. È nella mancanza di coordinazione tra uno stimolo percettivo e una reazione motoria che, come hanno mostrato James (1890) e Bergson (1896), si radica lo spazio di possibilità del pensiero umano (cfr. Deleuze-Guattari 1991). Ma il fatto che questo spazio di inde­ terminazione sia, come hanno mostrato Bolk e Gehlen, “fisiologicamente” oggettivo non significa che l’attività del pensiero possa e debba svincolarsi da ogni norma di verità per identificarsi con la sovrana libertà creativa, con la poiesis ingegneristica o artistica. Cfr. nota 18. 18 L’esempio del termometro può tuttavia fornirci l’occasione per alcune considerazioni generali sulla funzione che Melandri attribuisce all’analogia. Come abbiamo visto, l’analogia termometrica ci permette di passare dalla dimensione dell’esteriorità estensiva alla dimensione dell’interiorità intensiva. Il risultato di questa mediazione è la percezio­ ne ordinaria, cioè il nostro «senso della realtà» - il quale non può secondo Melandri es­ sere spiegato in termini puramente intellettuali-matematici, tramite cioè i due soli primi principi dell’intelletto: assiomi dell’intuizione e anticipazioni dell’esperienza. Affinché la nostra percezione della realtà costituisca un sistema coordinato c’è bisogno di una mediazione dinamica operata dalle analogie dell’esperienza. Fino a questo punto Melan­ dri parrebbe dunque accordarsi con Kant, divergendo però sul fatto di non limitare a tre il numero delle analogie fondamentali (la terza analogia - la Wechselwirkung - è per Melandri un’analogia di valore inferiore, introdotta da Kant per ragioni esclusivamente “architettoniche”: cfr. Melandri 1968, p. 616). Gli esempi e i paradigmi analogici par­ rebbero quindi moltiplicabili a piacere. Un altro esempio di “analogia tecnologica” po­ trebbe esserci infatti offerto dall’orologio a lancette il quale converte il nostro tempo in­ teriore in una grandezza estensiva spazializzata e matematizzata (ivi, p. 583). La filoso­ fia sembrerebbe dunque legittimata a concepire se stessa come un’attività altrettanto cre­ ativa dell’attività tecnoscientifica. Ecco cosa Melandri aggiunge però a questo punto: «Tuttavia è evidente che i termometri, di per sé presi, non percepiscono nulla; e che nep­ pure si potrebbe attribuire loro la responsabilità del passaggio dal quale al quantum. Siamo noi a fare del termometro un prolungamento dei nostri meccanismi percettivi, in base al fatto che esso opera analogicamente come questi. L’analogia consiste in una tra­ sposizione semiologica, per cui il dato sensibile, previa traduzione da un linguaggio qua­ litativo a uno comparativo, e quindi a uno quantitativo-intensivo, viene proiettato in un sistema di grandezze estensive, al quale si applica infine il linguaggio della fisica mate­ matica. La semplice lettura di un termometro implica dunque tutta una filosofia. Come

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mio amichevole disaccordo per mezzo di alcuni argomenti relativi alla na­ tura neotenica dell’umano e al divenire umano dell’uomo.

6. Dall’umanissimo al disumano Per Melandri, come per me, l’essenza dell’umano può essere compresa soltanto a partire dalla tesi bolkiana della «fetalizzazione», a partire dalla natura neotenica dell’uomo - un fenomeno di «fondamentale importanza per la comprensione della dinamica biologica, psichica e sociale» (ivi, p. 716). Secondo Bolk, l’uomo è il risultato di una tendenza regressiva (e non propulsiva) dell’evoluzione «che agisce nel senso dell’incremento dell’inibizione dello sviluppo [...]. Questo ritardo sistematico della cre­ scita provoca per un verso una nascita abortiva, anche se non letale; e, per l’altro, permette un più lungo periodo di sviluppo extra-uterino, con con­ seguente maggiore plasticità nei confronti delle esigenze ambientali» (ivi, p. 743). Lungi dal risultare l’effetto più riuscito dell’evoluzione, l’uomo appare quindi a Melandri come una «scimmia destrutturata», una sorta di aborto cronico o di parto prematuro in cui la «funzione» riesce ad avere dialetticamente la meglio sulla «struttura» (ivi, p. 729): «Il fenomeno “umano” comincia proprio là, dove il rapporto tra struttura e funzione s’inverte e al posto dell’omologia subentra la dialettica» (ivi, p. 732); «[...] il modo d’essere psichico è la contestazione stessa del modo d’essere biologico» (ivi, p. 730). Questa concezione dialettica dell’uomo che deriva dalla tesi della fetalizzazione produce secondo Melandri delle tutti i filosofi degni di menzione, Kant non è l’inventore di questa filosofia. Egli si limita a rendere esplicite le condizioni alle quali le nostre pretese di interpretare scientificamen­ te l’esperienza scientifica possono essere soddisfatte. La principale condizione è la vali­ dità delle analogie dell’esperienza. Queste analogie, in quanto sono fondamentali e non riducibili a rapporti di proporzionalità, si devono dire piuttosto “metafore”. E, come di­ mostra la lettura del termometro, la metafora su cui si fonda il codice interpretativo dei fenomeni fisici può esser tanto ovvia da rimaner celata» (ivi, p. 600). I grandi filosofi non «inventano» quindi delle analogie ma le «scoprono». Le analogie che essi portano alla luce sono delle analogie irriducibili su cui si fonda la semantica trascendentale, il codice interpretativo di ogni altro fenomeno. Le «analogie creative», tecnologiche, arti­ stiche o filosofiche, costituiscono soltanto un prolungamento di queste metafore origina­ rie che appartengono al dominio estesiologico. Il problema originario posto dal dominio estesiologico è quello deH’intersensorialità, il problema cioè di come i dati eterogenei dei differenti sensi si organizzano in un sistema analogicamente coordinato in funzione dell’azione comunicativa del tatto e della voce-udito. E questo problema che Melandri nonostante le sue profonde intuizioni estesiologiche, riguardanti anche la funzione privi­ legiata dell’organo fonico nella struttura neotenica dell’uomo (ivi, p. 716) - non riesce a mio avviso ad illuminare sufficientemente a fondo.

93 conseguenze filosofiche molto importanti relative all’essenza stessa della ragione e al divenire umano dell’uomo: «Ciò che rende razionale l’uomo non è la capacità di adattamento; è piuttosto il contrario. Vogliamo dire, la sua costituzionale inadattabilità: la quale lo porta sia a modificare l’ambiente, sia a modificare se stesso; ma non a modificare il contrasto [dialettico] di fondo» (ivi, p. 745). In breve, il processo dialettico di ominazione che si prosegue sul terreno del linguaggio e della cultura è un processo di progressiva trasformazione dell’ambiente esterno e di pro­ gressiva razionalizzazione della natura interna dell’uomo. Ma fino a che punto questo processo, si chiede Melandri nella citazione che abbiamo ri­ portato all’inizio del nostro percorso, «può essere attuato senza condurre alla distruzione della civiltà dell’uomo, così come noi la conosciamo» (ivi, p. 755)? La civiltà contemporanea pone per Melandri l’umanità davanti a un’alternativa epocale: l’alternativa tra la «desublimazione repressiva», indotta dal consumismo sfrenato della società capitalista, e 1’«autocontrollo» razionale che si compirà nel comuniSmo. O l’umanità sceglie di proseguire il processo storico-dialettico di ominazione verso la realizzazione dell’umano: verso il polo dell’«umanissimo», oppure sceglie di regredire verso il polo opposto: non verso la negazione animalesca dell’umano, negazione che coincide con Vinumano, ma verso la dissolu­ zione graduale dell’umano nel disumano (ivi, p. 623)19. La logica analogi­ ca che presiede all’attribuzione del predicato intensivo «umano» (ivi, pp. 19 Si potrebbe affermare che il polo dell’inumano coincide per Melandri con lo stadio evolutivo dell’insetto, mentre quello del disumano con il compiuto «divenire macchina» dell’uomo. Per spiegare la differente logica, estensiva e intensiva, che regola queste due sostantivizzazioni, negative (inumano) e privative (disumano) dell’umano, Melandri de­ finisce infatti due tipi di comparazioni. La prima riguarda la differenza tra i flessibili co­ dici interpretativi, analogici e comunicativi dell’uomo, e i rigidi codici percettivi (S-R) dell’insetto: «i codici interpretativi [umani], già a livello percettivo, sono diversi e non tutti congruenti fra loro. Se ce ne fosse uno solo, rigidamente prefissato come nel caso degli insetti, non potremmo apprender nulla dall’esperienza; in particolare, non potrem­ mo mai renderci conto che essa opera in noi e influisce sul nostro comportamento attra­ verso riduzioni analogiche» (Melandri 1968, p. 601). La seconda riguarda le differenze e i limiti dell’analogia tra le macchine cibernetiche e il sistema nervoso: «La seconda dif­ ferenza è data dalla plasticità degli esseri viventi, cioè dal fatto che il loro comportamen­ to destuttura e ristruttura, sia pure entro certi limiti, il meccanismo somatico che lo rende possibile» (ivi, p. 741). «Perché l’analogia con la cibernetica diventasse esatta, bisogne­ rebbe pensare a macchine che, di fronte a situazioni conflittuali, retroagissero modifi­ cando gli stabilimenti che le producono» (ivi, p. 742). La plasticità dell’uomo fa tuttavia sì che nella società capitalista e tecnologica contemporanea ci sia offerta anche la possi­ bilità di eteroregolare il nostro comportamento alienando la nostra essenza analogica e comunicativa nel miraggio epocale deW uomo-macchina

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621-624) non ammette per Melandri alternative per quel che riguarda il futuro dell’umanità: o comuniSmo o barbarie, tertium non datur (ivi, p. 623). Ma la stessa scelta di proseguire il processo di ominazione verso il polo dell’umanissimo è per Melandri una strada piena di incognite, o addi­ rittura un vicolo cieco che pare inevitabilmente portare alla distruzione dell’uomo così come lo conosciamo: Se lo sviluppo dell’umanità deve esser regolato estrinsecamente, per mez­ zo delle leggi di un’economia obiettiva che oltrepassi le esigenze umane, l’uomo perde la capacità di autocontrollo. Le macchine possono calcolare meglio di quanto egli non sappia quali siano le sue reali necessità. Se si accetta il sistema, se ne devono accettare anche le logiche conseguenze. Perciò la guerra non deve far paura, parziale o totale che sia. Molto di più dobbiamo temere la «pacificazione». Nei confronti delle sue premesse, la stessa estinzione della civiltà diventa un fatto irrilevante (ivi, p. 755).

In altri termini, la rivoluzione è per Melandri indistinguibile dall’estinzione; o, per far uso di un’analogia di proporzionalità, la rivolu­ zione sta all’apocalisse come la filosofia «artista», analogicamente creati­ va di Melandri sta alla filosofia dei grandi conservatori pessimisti come Nietzsche, Freud, Spengler, Gehlen. L’invenzione filosofica di nuove ana­ logie sembra insomma rivelarsi impotente nell’indicare strade alternative alla logica binaria fatalmente imboccata dalla contemporaneità. Ma se la filosofìa dell’analogia che identifica la ragione con l’immaginazione crea­ trice sembra incapace di fornire un antidoto sufficiente a contrastare i po­ tenziali distruttivi in atto nella razionalità storica, potrebbe comunque permetterci d’intravedere un’altra possibilità: quella di pensare il divenire dell’umanità non come un processo pragmatico di trasformazione di sé in funzione di un ideale tanto estrinseco da divenir autodistruttivo: il comu­ niSmo, ma come un processo in cui l’uomo diviene normativamente sem­ pre più aderente a ciò che già di fatto è: un essere che per vivere e pensare deve dialogare con se stesso e con il mondo come già di fatto dialoga con l’altro da sé. «Si può evitare il solipsismo solo adottando il “principio di analogia”» - afferma infatti Melandri (ivi, p. 49); e prosegue: «Se [...] si ritiene che bene o male (anche se più male che bene) sussista qualcosa come una comunicazione, allora è necessario ricorrere a un principio di analogia» (ivi, p. 156). In altri termini, la razionalità comunicativa e dia­ logica che costituisce l’essenza dell’umano è indiscernibile dalla logica dell’analogia che fin da sempre è in atto nella storia dell’umanità: una sto­ ria che si tratta oggi di tentare di orientare verso un «più bene che male» ispirato da una sua intrinseca, benché spesso disconosciuta, razionalità. In conclusione, questo principio di razionalità comunicativa rappresenta a

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mio avviso uno dei lasciti più importanti della filosofia di Melandri. Un lascito che può forse incoraggiarci a proseguire il nostro viaggio attraver­ so l’oscuro valico di montagna in cui ha fatto ormai il suo ingresso l’umanità.

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Guido Cusinato (Università di Verona)

La noesis del noema. Il problema dell ’a priori materiale in Husserl e Scheier

Conobbi Enzo Melandri all’inizio degli anni ‘80, durante i miei studi uni­ versitari. Avevo appena letto qualche opera di Max Scheier e il problema che avevo in mente era quello dell’a priori materiale. Scheier elabora un doppio a priori, un a priori correlativo: da un lato sotto l’influsso delle Logische Untersuchungen di Husserl è interessato ad un a priori riguar­ dante le strutture della datità; dall’altro - forse influenzato dal filosofo neokantiano Otto Liebmann, che fu suo professore a Berlino fra il 1895 e il 1897 - propone, con la teoria della funzionalizzazione, una dinamicizzazione e storicizzazione delle categorie dell’a priori kantiano. Scheier inoltre è uno dei primi e dei più fieri avversari della così detta “svolta ide­ alistica” esplicitata da Husserl con Ideen I: nel 1915 pubblica nella raccol­ ta Vom Umsturz der Werte il saggio Die Idole der Selbsterkenntnis che può essere letto come una critica a Ideen I e al tentativo di rincorrere la deriva cartesiana di Brentano tesa a ricondurre l’esperienza alla percezio­ ne interna, offuscando di fatto la prospettiva dell’a priori materiale. La duplicità di prospettive, fra realismo aristotelico e idealismo cartesiano, che caratterizzava il pensiero di Brentano e in una certa misura anche quello di Husserl viene decisamente risolta da Scheier a favore di un rea­ lismo fenomenologico'. Ed è in questo contesto che nel 1913 l’espressione «a priori materiale» assurge a concetto centrale della riflessione scheleriana e viene contrapposto, nella prima parte del Formalismus, all’a priori formale di Kant; Husserl invece se ne intuisce il senso già con le Logische Untersuchungen, valorizza appieno il concetto solo negli anni Venti dopo aver preso le distanze da Ideen I. Conoscendo meglio Melandri scoprii un Husserl diverso da quello criticato da Scheier. Non era lo Husserl imbalsamato nella svolta ideali­ stica e neppure quello messo all’angolo dalle facili mode del Novecento, piuttosto era lo Husserl che era sì ripensato costantemente attraverso le 1 Quello di Scheier è uno strano realismo fenomenologico in quanto nega realtà agli og­ getti ideali per attribuirla ad un tipo particolare di essenza, la Selbstgegebenheit, che fa parte del piano empirico, ma distinta e autonoma dalla Gegebenheit, cioè dalla sensazio­ ne.

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Logische Untersuchungen, ma rimanendo aperti ad incursioni anche nelle opere più tarde. A partire dalla dialettica fra Bedeutungsintention ed erfül­ lende Anschauung si ripensava quella fra noesis e noema, per immergersi nei problemi delle ontologie regionali, della fenomenologia genetica, del­ la coscienza interna del tempo, della dinamica fra protensione e ritenzio­ ne; lo statuto dell’oggetto intenzionato veniva riesaminato a partire da Brentano fino a Meinong, passando per Bolzano; inoltre la svolta trascen­ dentale non impediva a Melandri di ripensare il problema della coscienza in termini correlativi: l’intenzionalità era già la prova di un superamento di una vuota concezione solipsistica della coscienza. E intenzionalità vo­ leva dire soprattutto Brentano, voleva dire vom empirischen Standpunkt. Dietro Husserl Melandri cercava Γ antikantiano Brentano, e dalla doppia inclinazione di Brentano passava a Descartes e ad Aristotele, senza di­ menticare l’importanza dell’empirismo di Hume per la fenomenologia genetica. Fu durante una lezione che Melandri esplicito un concetto che ebbe su di me un forte impatto: la «noesis del noema», la tesi che in Husserl la materia fosse più “intelligente” di quanto supposto da Kant. Husserl ri­ mettendo in discussione la rivoluzione copernicana di Kant riafferma un’iniziativa che parte dal dato stesso, una intenzionalità del noema. È ri­ saputo che Scheier estende all’ambito emozionale e all’etica l’istanza fe­ nomenologica husserliana: ma cosa significa questo concretamente? Scheier riprende l’istanza husserliana di una intenzionalità che parte dal dato nel senso che l’etica e i valori non diventano altro che l’espressione della capacità di orientamento obiettivo implicita nell’intenzionalità noe­ matica; è solo partendo da questo assunto che è possibile comprendere che cosa significa in Scheier l’espressione «etica materiale dei valori»: il riferimento non è ad un’etica restaurativa dei beni assoluti o al concetto di valore criticato da tutto il pensiero postmoderno, piuttosto dietro l’etica materiale, dietro l’obiettività dei valori, c’è il problema husserliano della legalità del dato; l’orientatività dei valori risulta oggettiva perché espres­ sione di una legislazione noematica. Pur nella diversità di prospettive fu l’inizio di un dialogo in cui alle mie obiezioni Melandri rispondeva offrendomi strumenti concettuali di origine husserliana che mi permettevano di comprendere meglio non solo Husserl ma pure Scheier stesso, segno che dietro in molti casi il riferi­ mento era allo stesso nodo teoretico.

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1. A priori e formalismo kantiano La famosa affermazione di Scheier secondo cui «uno degli errori fonda­ mentali della dottrina kantiana consiste nell’aver identificato l’a priori con il formale» (GW II, 73)2 è inesatta dal momento che Kant stesso parla di un a priori non formale o di un a priori non puro oppure di un a priori connesso all’empirico. Essa mette inoltre l’accento sulla differenza con Husserl: mentre Scheier rifiuta esplicitamente il «formale» in nome del «materiale», Husserl contesta la rivoluzione copernicana di Kant come una legislazione antropologica su misura per l’uomo. È chiaro che poi Scheier stesso nella sua etica materiale prevede momenti formali3, ma il suo interesse si rivolge non all’aspetto normativo dell’etica, bensì al piano precedente: alla correlazione fra l’orientatività noematica riempiente (il piano oggettivo dei valori) e l’intenzionalità anticipante della persona, correlazione che non ha di mira un atto conoscitivo teoretico, ma la costi­ tuzione di un modo di posizionarsi nel mondo e di un certo modo di vive­ re, da cui la particolarità della filosofia scheleriana - che assegna un pri­ mato all’etica e che afferma l’orientatività dei valori come criterio ultimo - posizione che porterà Scheier, in contrasto con Kant, a riproporre espli­ citamente una «riabilitazione della virtù» e del tema della «giusta vita». La contrapposizione che Scheier stabilisce fra a priori materiale e formale in Husserl non sussiste: Scheier è allergico al formale perché è interessato alla vita, Husserl al contrario vede nel formale una grande oc­ casione per rimanere sempre e comunque sul piano dell’universalità ne­ cessaria. Quello che risulta vero nell’affermazione di Scheier è che Kant esclude un a priori riferito alla legislazione della datità, limitandosi a ri­ conoscere momenti di contatto fra a priori ed empirico, che a suo avviso danno origine a forme non pure dell’a priori. A proposito dell’«a priori non puro», ne\V Introduzione alla Critica della ragion pura Kant afferma che accanto alle «conoscenze a priori pure» esistono anche «conoscenze a priori non pure» in quanto «beigemischt» con l’empirico, e come esempio di conoscenza «a priori non pura» cita la proposizione «ogni cambiamen­ to ha una causa» {Kritik der reinen Vernunft, B 3). Parlando invece della fisica razionale Kant sostiene che questa pur essendo a priori non è tuttavia formale, il che lascia quindi supporre 2 GW = Max Scheier, Gesammelte Werke, I-XIV, Bem und München. 3 La tesi della «gerarchia assoluta delle classi di valori» altro non è che il momento for­ male dell’etica materiale scheleriana, quello che stabilisce che esiste una legge universa­ le e assoluta, cioè valida per tutti, secondo cui l’altezza di un valore corrisponde al grado di Weltoffenheit che esso riesce a realizzare (anche se poi la percezione dei valori perso­ nali non è apodittica ma storicamente condizionata e mediata da un processo culturale).

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1’esistenza di un «a priori non formale». Le leggi di natura hanno un ca­ rattere universale e sono da considerarsi «pienamente a priori» (Prolego­ mena § 15): tali leggi sono a priori e sono nell’esperienza, ma non posso­ no essere ricavate dall’esperienza. La soluzione kantiana è nota: le leggi della natura sono imposte alla natura dall’intelletto legislatore (ivi, § 36), cosicché esse sono impresse nell’esperienza, ma riconducibili in ul­ tima analisi all’attività legislatrice dell’intelletto. In altri termini anche l’ambito di un a priori non formale è riconducibile all’attività legislatrice dell’intelletto. Anche qui il dato tace, nella sua indeterminatezza costituti­ va. Kant si limita a mettere in luce casi di “contatto” fra «a priori» ed «empirico» anche a proposito della distinzione fra giudizi d’esperienza e giudizi di percezione: i giudizi di esperienza pur essendo empirici conten­ gono la funzione categoriale che dà loro validità oggettiva e che risulta quindi pura e a priori. Sempre in questa direzione muove l’ipotesi di un a priori non puro ricavabile a proposito della morale, la quale si fonda su di una conoscenza a priori che riferendosi al campo emozionale, per Kant, risulta automaticamente non pura. Piuttosto complesso è il problema delle «leggi empiriche» tanto che Mathieu afferma che tale questione «costituisce la principale pietra dello scandalo che minaccia di far inciampare il criticismo kantiano»4. Nella Erste Einleitung alla Critica del Giudizio le leggi empiriche sono presen­ tate come contingenti e irriducibili alla legislazione dell’intelletto, in quanto le leggi trascendentali offrono solo il quadro di riferimento gene­ rale. Ma di nuovo: tale contingenza è un limite del nostro intelletto, inca­ pace di dedurre la legge empirica dalla legge trascendentale, oppure effet­ tivamente la legge empirica è portatrice di un a priori materiale autonomo dalla legislazione dell’intelletto? Tutti questi esempi non mettono sostanzialmente in discussione la questione fondamentale implicita nell’affermazione scheleriana: il critici­ smo kantiano inciamperebbe su se stesso se ammettesse un a priori inteso come legislazione del dato. L’ipotesi di un a priori non formale sussiste anche in Kant, ma in definitiva si basa nuovamente sulla legislazione del­ la soggettività trascendentale o rinvia ad un aspetto contingente, cioè non spiegabile.

4 V. Mathieu, La filosofia trascendentale e l’«Opus postumum» di Kant, Torino, Edizioni di «Filosofia», 1958, p. 145.

101 2. A priori materiale ed evidenza apodittica

Nelle Logische Untersuchungen le forme categoriali si danno in una mo­ dalità distinta dall’intuizione sensibile. E nella VI Ricerca logica che Scheier penserà erroneamente di vedere teorizzata quella forma di ricetti­ vità non sensibile che da tempo cercava come spettacolare messa in di­ scussione della coincidenza postulata da Kant fra recettività e sensazione. Quando Husserl afferma che le forme categoriali si danno nell’intuizione categoriale, Scheier pensa a riempimenti materiali distinti dalla sfera sen­ sibile; da questo punto in poi le strade di Husserl e Scheier si dividono: Husserl, con Ideen I, concepisce queste forme categoriali come essenze ideali, distinte dagli oggetti empirici, che si costituiscono nella coscienza pura; Scheier dietro questo riempimento non sensibile teorizza un ambito materiale puro, cioè oggetti non sensibili che non sono oggetti ideali, ma che fanno riferimento a particolari forme di datità non sensibile: le Selbstgegebenheiten. La Selbstgegebenheit non ha bisogno di rapportarsi alla datità sensibile in quanto è un ambito autonomo e indipendente di datità. L’ossimoro di un «a priori empirico» testimonia, più che un errore filoso­ fico, una radicale rottura nei confronti di una tradizione filosofica conso­ lidata e un profondo ripensamento, sulla scia di Schelling, del concetto di esperienza. L’a priori materiale di Scheier dà diritto di parola al mondo: se si ammette che le strutture dell’esperienza non sono prodotte kantianamente da una sintesi attiva trascendentale ma esistono indipendentemente dal soggetto, allora è teorizzabile una fenomenologia della Selbstgegebenheit dove è opportuno che l’ontologia, lasciando parlare il mondo, divenga metafisica descrittiva di quello che la Weltoffenheit ha da dire di sua ini­ ziativa, il che significa in modo non apodittico. È chiaro che Scheier in­ camminandosi su questa strada deve prevedere anche una fenomenologia della Gegebenheit, un a priori materiale non puro corrispondente all’oggetto sensibile, e infatti nel Formalismus, accanto all’a priori mate­ riale puro della Weltoffenheit colta dalla persona, viene teorizzato l’a prio­ ri materiale della sensibilità, costituito in carne e ossa dal corpo. La competizione, per Scheier, avviene fra empirismo della Gege­ benheit ed empirismo della Selbstgegebenheit, mentre l’aspetto noetico e noematico, la legislazione del soggetto e del dato, rimangono termini strettamente correlativi, là dove invece Husserl dà l’impressione di consi­ derarli termini in competizione fra loro, tanto che con la svolta trascen­ dentale il tema della soggettività viene riproposto a detrimento dell’a priori materiale. In Husserl la duplicità di riempimento, sensibile e cate­ goriale, non fa riferimento, come in Scheier, a due diversi ambiti empirici,

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ma viene reinterpretata - in sintonia con la contrapposizione brentaniana fra carattere evidente della percezione interna ed ingannevole della ester­ na - come distinzione fra empirico e ideale. La forma categoriale, più che un riempimento che si presenta alla coscienza pura, diventa oggetto ideale che si costituisce nella coscienza pura e capace di offrirsi in modo apodit­ tico, senza gli adombramenti che caratterizzano la percezione prospettica di un Raumding. Questa duplicità prospettica Γ la deriva cartesiana e l’a priori mate­ riale - più che espressione di una contraddizione è il risultato di un’ambiguità verso due questioni che Husserl non sempre è in grado di mantenere distinte. La soluzione che Husserl prospetta con Ideen I è quel­ la di spostare l’interesse dalla legalità del dato alla legalità della coscienza pura riconducendo l’intera esperienza alla percezione interna. Portata alle estreme conseguenze questa prospettiva arriva a sostenere che l’oggetto ideale non si offra come riempimento autonomo ad un atto della coscien­ za pura, ma che sia esso stesso un prodotto della legislazione della co­ scienza pura: il materiale apprensionale che si presenta alla coscienza è in sé amorfo e assume una forma solo in virtù di un atto della coscienza che lo anima e struttura; in tale estremizzazione l’oggetto ideale più che dato risulta costituito dalla coscienza pura. La differenza con Kant è che la le­ gislazione di questa psicologia pura varrebbe per qualsiasi soggetto cono­ scitivo, ma il prezzo che viene pagato è l’assolutizzazione della percezio­ ne immanente e l’assunzione di aproblematicità del dato immanente stes­ so. Su queste basi Scheier ha buon gioco nel criticare Husserl, tuttavia dalla tesi che l’oggetto ideale è costituito dalla coscienza pura non si può ancora inferire che le strutture della datità vengano prodotte dalla co­ scienza. Ma a Scheier - che non va oltre la lettura di Ideen I- mancavano tutta una serie di precisazioni e di distinzioni come quella fra «sintesi atti­ va» e «sintesi passiva». La critica di Scheier sarebbe valida se la coscien­ za pura determinasse la datità attraverso una «sintesi attiva» di tipo kan­ tiano, mentre Husserl, nelle elaborazioni successive a Ideen I, prevede un coglimento precategoriale, una «sintesi passiva»: la coscienza attraverso una serie opportuna di riduzioni è in grado di far emergere e di cogliere strutture essenziali della datità in sé già predeterminate nella sintesi tem­ porale e associativa della passività. La deriva cartesiana porta Husserl a teorizzare un oggetto ideale che nella misura in cui è un prodotto della sintesi attiva è un prodotto della soggettività trascendentale, ma che tuttavia emerge nello spazio della co­ scienza pura come oggetto ideale indipendente dalla coscienza individua­ le. Altro problema è quello dell’a priori materiale delle strutture della dati-

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tà che si offrono nella sintesi passiva: queste in Husserl si autocostituiscono autonomamente secondo proprie regole e secondo una legi­ slazione che non solo è autonoma, ma anche precedente la coscienza stes­ sa. Scheier con Ideen I ha a che fare con il primo problema: se il dato im­ manente si presenta apoditticamente, senza residui, senza possibilità di fraintendimenti, la coscienza husserliana è esonerata da qualsiasi fatica ermeneutico-interpretativa e il problema è solo quello di mettere fra pa­ rentesi Γinaffidabilità del mondo.

3. Metamorfosi dell’a priori kantiano Per Husserl Kant aveva erroneamente esteso il problema della sintesi atti­ va dell’a priori legislativo formale della soggettività trascendentale alfa priori legislativo materiale della datità, dove invece bisogna prevedere forme precategoriali di sintesi passiva. Tuttavia se possibile Husserl teo­ rizza categorie ancora più universali ed eterne di quelle kantiane in quanto vuole arrivare alle condizioni conoscitive di una soggettività trascendenta­ le non limitata al genere umano, ma assoluta. È da tale assolutezza che poi Husserl muoverà le critiche di soggettivismo antropocentrico anche a Scheier. Tuttavia secondo Scheier con tale “assolutismo” Husserl risulta insensibile ad un tema che invece Kant aveva, seppur in modo intellettua­ listico e aporetico, intuito: quello della Daseinsrelativität. Ed è per questo che Scheier rimane più vicino alla rivoluzione copernicana di^Kant che alla svolta trascendentale husserliana. Non esiste un modo unico, valido per qualsiasi soggetto, di percepire un determinato fenomeno in quanto la realtà si stratifica in diversi livelli; non esiste un unico piano fenomenico, ma una serie di piani dell’esistenza: il fenomeno si struttura e si dà in di­ versi gradi di esistenza. Tale Daseinsrelativität non è tuttavia indice di re­ lativismo o soggettivismo ma frutto della correlazione che si stabilisce fra un sistema vivente e il proprio ambiente. Con la teoria della Daseinsrelativität Scheier reinterpreta e supera la distinzione kantiana fra fenomeno e cosa in sé: non si tratta infatti di una differenza di livelli conoscitivi, di un gioco di specchi fra realtà e appa­ renza con il problematico rinvio ad un piano noumenico inconoscibile ma fondante, ma di diversi livelli di esistenza con pari dignità ontologica. Sia Kant che Husserl pensano di poter estrarre un a priori dell’atto conosciti­ vo, per Scheier invece noi abbiamo occhi, mani, orecchie, piedi ecc. non per considerare teoricamente gli oggetti del mondo, ma per entrare nel mondo e costruire un determinato modo di vivere: l’a priori a cui è inte­ ressato Scheier è quello in base a cui si costituisce lo spazio di una con­

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creta esistenza nel mondo. L’atto conoscitivo non è fine a se stesso: noi non viviamo per conoscere il mondo, ma conosciamo il mondo per vivere meglio. L’a priori scheleriano non è un a priori conoscitivo ma cerca di individuare le disposizioni fondamentali nei confronti dell’orientatività noematica in base a cui le varie forme di esistenza, dalle più elementari all’uomo, si posizionano nel mondo. Ogni disposizione, correlativa all’orientatività di una classe di valori, si traduce in un modo diverso di posizionarsi nei confronti del dato: più i valori sono alti, e quindi in grado di consentire Weltoffenheit, minore sarà il grado di tale Daseinsrelativität, fino ad arrivare all’uomo che in base alla propria excentricità è in grado di cogliere il fenomeno non come Gegebenheit, indice di una qualche Da­ seinsrelativität, ma come Selbstgegebenheit, in cui la Daseinsrelativität viene appunto annullata. L’interesse di Scheier, volto ad analizzare quel tipo particolare di a priori che permette di azzerare la Daseinsrelativität, non ha nulla a che fare con l’antropomorfismo: l’importanza della WeltOffenheit non dipende dal fatto di essere presente nell’uomo come animale mammifero bipede e con il pollice riverso (che per Scheier è solo una momentanea realizzazio­ ne dello Allmensch nel corso della storia cosmica) ma dal fatto che tale Weltoffenheit trascende ogni categoria antropologica e ha una sua rilevan­ za ontologica intrinseca. Anche per Scheier c’è dunque un modo “assolu­ to” di cogliere un fenomeno: tutti gli esseri capaci di Weltoffenheit, indi­ pendentemente dalla loro morfologia e struttura molecolare, sarebbero capaci di cogliere quel fenomeno nel modo della Selbstgegebenheit. Si tratta certamente di un piano diverso da quello di Husserl: tale Selbstge­ gebenheit non si dà in modo apodittico, ma decide appunto lei come e in che misura darsi; in secondo luogo anche gli altri gradi della Daseinsrela­ tivität mantengono una dignità ontologica: non sono invenzioni, forme soggettive o convenzionali, ma sono altri modi di posizionarsi nel mondo a cui corrispondono altre forme di esistenza. Se la prima differenza rispetto a Kant riguarda il fatto che le catego­ rie dell’a priori scheleriano non riguardano più l’atto conoscitivo ma il modo di posizionare le varie forme di esistenza nel mondo - per cui l’atto conoscitivo di un fenomeno è solo un caso particolare dell’interazione esistenziale con quel fenomeno - la seconda differenza è relativa al caratte­ re selettivo e non sintetico di tali categorie: trattandosi di un a priori cor­ relativo una volta determinato il livello esistenziale in cui avviene il posi­ zionamento nel mondo, il problema non è la sintesi del molteplice infor­ me (i contenuti di un determinato livello fenomenico della realtà sono già determinati autonomamente) ma il tipo di rilevanza che guida l’interazione fra sistema vivente e ambiente proprio: quali di questi con­

105 tenuti hanno una rilevanza e quali no. L’a priori di quel determinato si­ stema vivente predetermina un orizzonte esperenziale corrispondente ad un determinato raggio di rilevanza attraverso cui la datità circostante vie­ ne interpretata e selezionata in termini di valore. Ne deriva che esisteranno tanti tipi di a priori quanti sono i centri di rilevanza. L’a priori della percezione sensibile è il corpo, e più precisamente la struttura di orientamento che ne determina il raggio di rilevanza: la Triebstruktur. Dal momento che la percezione sensibile è propria di tut­ ti gli animali è evidente che a questo livello non si ha a che fare con cate­ gorie intellettuali, ma esclusivamente con categorie della vita. La Trieb­ struktur agisce come un a priori biologico, cioè capace di determinare le categorie dell’esistere proprie di ogni specie, capace di proiettare sull’ambiente circostante un raggio di rilevanza polarizzato su opposizio­ ni elementari di valore come positivo/negativo, piacevole/spiacevole. Il corpo getta una luce sul mondo che lo circonda alla ricerca di ciò che già Bergson chiamava le categorie dell’utile e del dannoso. Accanto a questo a priori biologico, Scheier individua nell’uomo un a priori emozionale che si suddivide nelle tre forme corrispondenti ai tre modi di posizionarsi nel mondo tipici dell’uomo: la disposizione naturale (o quotidiana), tecnico-scientifica e filosofica. L’uomo si situa nella realtà grazie a diversi tipi di sfondamento emozionale, ed ogni sfondamento emozionale è portatore di un insieme di interessi, di un orizzonte di rile­ vanza capace di aprire un determinato spazio all’esistere. Nella disposizione quotidiana l’esistenza dell’uomo è dominata dal­ la necessità di risolvere i problemi della sopravvivenza con gli strumenti predeterminati più o meno acriticamente dalla comunità in cui vive, tale a priori varia perciò da comunità a comunità, da nazione a nazione, da civil­ tà a civiltà e coincide con le varie forme di tradizione di questi organismi sociali. Tuttavia anche qui sarebbe riduttivo considerare tali differenze frutto di relativismo (tanto che Scheier con la sociologia della conoscenza dà un rilevante contributo alla sociologia dei vari fenomeni sociali, cultu­ rali e religiosi): il modo in cui imposta la propria esistenza un monaco buddista tibetano, uno imman sunnita o un gesuita spagnolo fa riferimento al modo in cui si posiziona nel mondo una determinata comunità religio­ sa, che ha sedimentato nel corso dei secoli un proprio modo di vivere in una determinata tradizione. Questa comunità è un organismo sociale vi­ vente che «funzionalizza» un determinato modo di esistenza: più che il convenzionalismo relativista la teoria scheleriana dell’ethos rilancia qui qualcosa dello spirito oggettivo teorizzato da Hegel. Nella disposizione tecnico-scientifica l’uomo è interessato alla struttura oggettiva della real­ tà, ai Sachverhalte (nel senso di rapporti oggettivi e indipendenti dalla

106 propria prospettiva corporale) per cogliere l’aspetto della realtà formaliz­ zabile in leggi universali a partire dagli strumenti offerti dalla conoscenza scientifica del momento; l’a priori viene a coincidere qui con le strutture della soggettività oggettivante. Infine nella disposizione filosofica (che propriamente per Scheier è il modo di posizionarsi nel mondo proprio del­ la persona e non una astratta teoria filosofica sul mondo) l’uomo è im­ merso nella Weltoffenheit ed è capace di cogliere l’altro come persona e non come oggetto', in questo caso l’a priori viene a coincidere con le strut­ ture costitutive della persona stessa, cioè con il suo ordo amoris. L’ordo amoris ha tre caratteristiche fondamentali: è un a priori per­ sonale che non ha nulla di universale ma al contrario risulta essere il vero principium individuationis della persona, quello che determina la sua fi­ sionomia e il suo stile di vita; è un ordine di valori che agisce interior­ mente, dal centro della persona «funzionalizzando» un’esperienza orienta­ ta alla Weltoffenheit e alla Selbstgegebenheit, capace di cogliere, in modo distinto dalla propria intenzionalità, la contro-intenzionalità che proviene dal dato stesso; infine è un a priori dinamico nel senso che la persona co­ noscendosi e facendo esperienza della Weltoffenheit avvia un processo di auto formazione (Bildung'), cioè un processo retroattivo di trasformazione del proprio ordo amoris-e, del proprio posizionarsi nel mondo. Con accen­ ti spinoziani il presupposto di Scheier è che Vhomo faber della modernità abbia decisamente esagerato il ruolo della soggettività e dell’arbitrio fino a teorizzare 1’esistenza umana come un processo di autoprogettazione o autodeterminazione solipsistica, quando nell’autoformazione di una per­ sona ben poco è lasciato all’arbitrio e alla convenzione: Vordo amoris di una persona non è un dato convenzionale come non è arbitraria e conven­ zionale la fisionomia di un volto o l’indole di una persona. V ordo amoris della persona è una funzionalizzazione anticipante non solo di conoscenze, ma anche di attività e di esperienze: preforma il modo di posizionarsi e di vivere nel mondo tipico di una persona. Vi è anche un risvolto conoscitivo e concettuale che si concretizza in uno spe­ cifico a priori culturale, ma anche tale a priori viene messo in pratica nel processo di autoformazione della persona e si sviluppa solo all’interno delle leggi dell’ordo amoris. Può darsi che una determinata persona legga Moby Dick o no, ma se leggerà questo romanzo di Melville si metterà in moto una certa dinamica ermeneutica che rimane intessuta dalla storia personale di quel lettore. Non è detto che un grande pianista debba per forza cimentarsi con il concerto per piano numero due di Rachmaninov, ma se lo farà la sua interpretazione sarà inevitabilmente fiinzionalizzata dal suo ordo amoris, e rifletterà un timbro inconfondibile. Quello che in Husserl decade nel soggettivo e nell’antropocentrico viene recuperato da

107 Scheier sul piano di una legge di funzionalizzazione dell’ontologia perso­ nale, priva certamente di caratteri universali e necessari, ma non arbitra­ ria: tale funzionalizzazione orienta i passi con cui quella persona avanza nel mondo e costruisce la propria esistenza. Se il processo di funzionalizzazione si fermasse qui s’imporrebbe all’individuo come un destino ineluttabile lasciando ben poco spazio ad una ontologia della libertà, invece quello fin qui descritto è solo la metà di un a priori correlativo che riguarda oltre alla struttura apriorica del sog­ getto anche quella della datità. Se quindi Vordo amoris dà luogo ad un processo di funzionalizzazione capace di anticipare e predeterminare le esperienze e le azioni future di quella persona, tale processo è quasi sem­ pre corretto, messo in crisi o anche seccamente smentito dalla controintenzionalità noematica. Questo non solo a livello di fatti bruti, come quando entrando al buio nella propria camera da letto si urta un oggetto che prima non c’era: anche la lettura di un libro o il colloquio con una persona possono sconvolgerci al di là di ogni aspettativa. E proprio di fronte a tali imprevisti e smentite la persona è in grado di esprimere al meglio la propria libertà come trasformazione retroattiva del proprio orda amoris, come Bildung, dando inizio a una funzionalizzazione che parte da un nuovo inizio. Questo polo controintenzionale dell’a priori correlativo, capace di sorprendere o smentire la funzionalizzazione anticipante, de­ termina le strutture generali della datità e orienta noematicamente il pro­ cesso di posizionamento nel mondo di cui si è già parlato; è un po’ come il campo magnetico terrestre che orientare la bussola: per essere libera di scegliere dove andare la persona deve prima sapersi orientare, altrimenti rischia di girare a vuoto su se stessa. Ma prima di passare a questo tema mi soffermo sulla critica di Scheier all’evidenza apodittica.

4. La critica di Scheier a Husserl: riduzione eidetica ed evidenza apodit­ tica

La presa di distanza da Husserl si precisa a partire dal saggio Die Idole der Selbsterkenntnis, composto fra il 1911 e il 1914, ma anche negli scrit­ ti successivi (compreso lo scritto Idealismus-Realismus) non viene preso in considerazione ciò che viene pubblicato dopo Ideen I. È importante sottolineare che quasi tutti i punti criticati da Scheier verranno ridiscussi e approfonditi dallo stesso Husserl negli anni successivi, per cui molte delle risposte alle obiezioni di Scheier si trovano già negli scritti husserliani degli anni Venti e Trenta (ad es. nella teoria della sintesi temporale si ri­ conosce che il dato immanente, al contrario di quanto affermato in Ideen

108 I, si dà per adombramenti temporali successivi). Questo se testimonia la parzialità della conoscenza che Scheier ha di Husserl (non bisogna dimen­ ticare che Scheier scompare improvvisamente all’inizio del 1928) mette in luce come le critiche di Scheier, al di là delle semplificazioni polemi­ che, colgano spesso reali aporie teoretiche. Due sono le tesi contestate da Scheier: la teoria della riduzione eidetica e quella secondo cui il dato im­ manente si dia, al contrario dell’oggetto esterno, in assenza di adombra­ menti temporali, cioè attraverso un’evidenza apodittica. 1. Relativamente al primo punto Scheier ritiene che il metodo della libera variazione eidetica risulti insufficiente ad ottenere qualcosa di di­ verso da una mera astrazione empirica, in quanto si basa sulla neutralizza­ zione del modo di darsi prospettico di un oggetto esterno immerso nelle coordinate spazio-temporali, ma senza tuttavia incidere sulla complessa struttura apriorica che rende possibile la stessa percezione sensibile. Pro­ prio la ricerca di una dinamica percettiva valida per qualsiasi soggetto imperirebbe a Husserl di tematizzare a sufficienza i reali presupposti par­ ticolari della sensazione, di non vedere ad esempio che il dato colto e in­ terpretato da un organismo in base alla propria Triebstruktur non è il dato colto da uno strumento scientifico entro un determinato contesto teorico, che la sensazione si costituisce cioè grazie ad una specifica carica di rile­ vanza biologica e non è un mattone neutrale di datità su cui poter costrui­ re un edifico teorico. Dietro quello che per Husserl è un atto percettivo neutrale Scheier scorge diverse logiche di rilevanza, espressione di speci­ fiche Triebstrukturen capaci di progettare forme di anticipazioni percetti­ ve conformi a determinate istanze biologiche. Negare queste differenze significherebbe neutralizzare sul piano noematico il problema della Da­ seinsrelativität. La questione fondamentale è quella di intendersi sul significato di a priori materiale: Scheier non mette in dubbio che sia possibile trovare un insieme di leggi universali e valide per qualsiasi soggetto, anche per Dio, per cui ad es. un colore non si dà senza estensione, la questione posta da Scheier è che un a priori materiale di tale tipo serve a ben poco e rimane su di un piano ancora troppo vuoto e astratto, anzi formale. Se vogliamo conservare un tale carattere universale all’a priori non possiamo poi pre­ tendere in base ad esso di sviluppare una fenomenologia della sensazione: la sensazione si costituisce infatti attraverso sintesi temporali e associative che non sono neutrali e universali, ma a loro volta poste nel contesto delle diverse Triebstrukturen del corpo5. 5 Husserl stesso tematizza negli anni Trenta una Triebintentionalität capace di interagire con la sintesi passiva, tuttavia anche qui Husserl sembra porre la questione non come

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È in base a tali presupposti che va interpretata la nota affermazione di Scheier secondo cui non basta mettere fra parentesi il giudizio di realtà, come fa Husserl, ma occorre mettere fra parentesi la realtà stessa: qui Scheier non dichiara la propria conversione ad un improbabile idealismo (l’eliminazione della realtà), ma invita a tematizzare i presupposti del di­ scorso husserliano. Non basta mettere fra parentesi il giudizio di realtà, perché occorre neutralizzare la stessa disposizione emozionale che con­ sente questo giudizio di realtà: occorre mettere fra parentesi lo stesso li­ vello di realtà in cui si costituisce l’oggetto della disposizione quotidiana per far emergere dall’oscurità gli altri livelli di realtà, per determinare una scansione dal nostro sguardo quotidiano. Le coordinate spazio-temporali in cui è immerso il dato sensibile (quelle che Husserl si prefigge di neutralizzare) sono per Scheier un pro­ dotto delle possibilità d’azione del corpo-vivente (Leib) e del suo punto di vista prospettico: di conseguenza la riduzione eidetica, pur raggiungendo l’invarianza eidetica, non neutralizza le coordinate spazio-temporali fino a quando non è in grado di mettere fra parentesi ciò che le costituiscono, e cioè la stessa Triebstruktur del corpo-vivenie. Ponendo, già negli anni Dieci, al centro della riflessione il corpo il concetto di riduzione viene profondamente trasformato: non è più un me­ todo per garantirci la purezza di un atto conoscitivo privo di presupposti e capace di cogliere intuitivamente un’essenza universale, ma diventa la duplice neutralizzazione sia della prospettiva percettiva aperta dalla Triebstruktur del corpo, sia dell’a priori emozionale fondante la disposi­ zione quotidiana, neutralizzazioni queste necessarie per permettere quel modo di posizionarsi nel mondo tipico della persona, che è la Weltoffen­ heit. Rovesciando la logica husserliana si potrebbe dire che la Weltoffen­ heit non è qualcosa di accessibile allo stesso modo per qualsiasi soggetto, tuttavia qualsiasi essere capace di Weltoffenheit, anche se privo di quei ca­ ratteri antropologici e biologici che caratterizzano l’uomo come mammi­ fero, dovrebbe essere automaticamente considerato un essere umano. Così facendo la riduzione diventa un problema squisitamente etico: diventa un movimento contronatura capace di determinate una scansione dal modo di guardare spontaneo; diventa il problema del passaggio dal modo di vivere

Scheier in termini correlativi, ma concorrenziali alfa priori materiale. Sul tema della Triebintentionalität husserliana cfr. N. I. Lee, Husserls Phänomenologie der Instinkte, Dordrecht, Kluwer, 1993; interessante anche R. Kühn, Husserls Begriff der Passivität, Freiburg/München, Alber, 1998, pp. 332-382. Devo l’attenzione al testo di Lee a Vitto­ rio De Palma.

110 orientato dall’ordine della quotidianità a quello orientato dall’ordine della phronesis (come messa fra parentesi dell’egocentrismo). 2. Secondo Scheier non esiste un’evidenza apodittica per il fatto che anche il dato immanente si dà per adombramenti (temporali) successivi, in tal modo la sua comprensione risulta sempre mediata da un processo di funzionalizzazione soggetto ad illusioni', di conseguenza non esiste una «intuizione d’essenza», ma solo una «comprensione d’essenza», tanto che per testimoniare questa convinzione Scheier sostituisce il termine husser­ liano di Wesensanchauung con quello di Wesenserkenntnis. Per questi motivi accanto ai quattro idola presi in considerazione da Bacone nel No­ vum Organum Scheier ne propone uno nuovo: «gli idola della percezione interna» di cui anche la svolta idealistica di Husserl sarebbe una illustre vittima. Fin dalle prime battute del saggio Die Idole der Selbsterkenntnis Scheier afferma: «Non c’è forse impedimento di principio maggiore per ogni tipo di conoscenza del mondo psichico dell’assunto [...] secondo cui la percezione interna a differenza di quella esterna per natura non potreb­ be ingannare, e che anzi qui gli Erlebnisse coinciderebbero con il sapere evidente ed adeguato dei medesimi Erlebnisse» (GW III, 215). Un sapere evidente ed adeguato significa per Husserl «apoditticamente evidente»: è la tesi della coincidenza fra essere e fenomeno: l’ipotesi che i vissuti im­ manenti alla coscienza siano dati in maniera apoditticamente evidente mentre gli oggetti fisici siano dati solo per adombramenti successivi, tesi che per Scheier contraddice quanto affermato da Husserl stesso nelle Lo­ gische Untersuchungen'. Husserl afferma che «nella sfera psichica non c’è distinzione fra fenomeno ed essere, ma noi non riusciamo veramente a comprendere come questa affermazione possa riuscire compatibile con le approfondite considerazioni svolte nelle Logische Untersuchungen (1900) a proposito della “percezione esterna ed interna” (p. 694) nelle quali non solo viene contestato il privilegio concesso all’evidenza della percezione interna su quella esterna (come lo teorizzano Descartes e Brentano) ma si dice espressamente: “per contro mi sembra che la percezione interna e estema [...] abbiano lo stesso carattere gnoseologico ecc.” (ibid. p. 703). Husserl ha qui mutato la sua opinione» (GW III, 246). L’apoditticità a cui fa riferimento Husserl rimanda per Scheier all’idea di un dato immanente che non ha profili da nascondere e pertanto si presenta per quello che è in modo definitivo perché compiuto: questo sarebbe possibile solo se il dato immanente rimanesse al di fuori di ogni possibile variazione temporale, quindi sul piano atemporale degli oggetti ideali. L’apoditticità permette a Husserl di neutralizzare il problema della smentita, cioè quel fenomeno dell’illusione della percezione immanente che Husserl in Ideen I nega. Scheier invece rifacendosi a Kant sostiene

Ill che la possibilità di illusione caratterizza anche la percezione immanente: anche gli oggetti colti nella percezione immanente mantengono una pro­ fondità prospettica dovuta al flusso temporale, il che significa che non so­ lo un albero o una casa possono essere visti da diverse prospettive, ma anche ΓErlebnis è un dato fluido, pluridimensionale, che ha più profili e quindi si dà per adombramenti temporali successivi, capaci di nascondere e dar luogo a giochi interpretativi estremamente complessi, decisamente più complessi di quelli della percezione esterna. Dietro questa tesi Scheier coglie una svalutazione etica del mondo esterno, una filosofia che guarda con troppo sospetto a ciò che è fuori di noi e con troppa fiducia a ciò che si dà in noi, tratto tipico della modernità egocentrica inaugurata da Descartes. Non solo: la tesi dell’evidenza apo­ dittica appare a Scheier qualcosa che finisce con il neutralizzare la portata rivoluzionaria dell’a priori materiale in quanto in essa si teorizza un dato che si consegna completamente allo sguardo della fenomenologia come scienza rigorosa: come un libro aperto tale dato non può nascondere più nulla, non ha più residui. L’evidenza apodittica inchioda il dato sotto i ri­ flettori dell’intelletto oggettivante privandolo di qualsiasi diritto e impe­ dendogli di assumere una qualsiasi iniziativa: gli viene concesso quel di­ ritto di parola che Galileo concede al dato interrogato con gli strumenti dell’esperimento scientifico. L’apoditticità husserliana blocca l’iniziativa del dato stesso: la datità apodittica non potrebbe decidere cosa dire o non dire, dovrebbe semplicemente consegnarsi in modo definitivo al pensiero oggettivante. Husserl negli anni Venti prenderà le distanze dalla tesi presente in Ideen I secondo cui il dato immanente si dà senza residui: con le analisi sulla coscienza interna del tempo e sulla passività come sintesi temporale e associativa per Husserl diventerà ora apodittico che il dato immanente si dia in modo non apodittico, e cioè per adombramenti successivi.

5. Reinterpretare l’etica materiale di Scheier attraverso il concetto di noesis noematica Scheier è il grande sconfitto della filosofia del Novecento: le sue teorie sulla «riabilitazione della virtù», sui valori e sulla «gerarchia assoluta dei valori» si sono prestate a facili strumentalizzazioni e sono state spesso ti­ rate per i capelli a livello della disputa ideologica sia da chi le ha difese sia da chi le ha criticate. Il suo realismo fenomenologico è stato deforma­ to in un inverosimile intuizionismo di oggetti ideali “reali”, o nella mi­ gliore delle ipotesi confuso con quello di Hartmann. Se questo era quello

112 che Scheier aveva da dirci non c’è molto da salvare. Tuttavia è possibile leggere Scheier in modo diverso se si focalizza l’attenzione proprio sul concetto di una noesis noematica·, l’etica materiale dei valori è obiettiva perché espressione di una controintenzionalità noematica. Con questo non voglio riproporre un superficiale accostamento fra l’etica di Husserl e quella di Scheier, qui anzi si registra forse la massima divergenza: mentre sulla rivoluzione copernicana è Scheier ad essere più vicino a Kant, sul problema del formalismo etico kantiano le posizioni s’invertono. Una volta esclusa l’intuizione categoriale dei valori Husserl ha bisogno del formalismo per garantire alla propria etica un carattere scientifico: dall’analogia fra la ragion teoretica e pratica Husserl deduce la possibilità di un’etica formale analoga alla logica formale. Niente di più lontano dall’etica materiale dei valori. Per Scheier i valori hanno una loro obiettività noematica (non sono costruzioni del soggetto trascendentale) ma non sono oggetti di un atto in­ tuitivo: vengono colti senza mediazioni intellettuali sulla base di un a priori biologico o nei casi più complessi di una funzionalizzazione emo­ zionale, quindi sulla base di presupposti di rilevanza biologica o emozio­ nale. La relazione al valore non è riconducibile ad una intuizione sensibile o intellettuale in quanto è indipendente sia dalla sfera sensibile che intel­ lettuale, dagli atti della rappresentazione e del giudizio: anche una pianta è in grado di rapportarsi ai valori. Una pianta è in grado di prendere posi­ zione nel proprio ambiente orientandosi alla luce del sole (di posizionarsi sul davanzale della finestra, diceva Plessner) cioè di interagire con il campo di valori del proprio ambiente: è in grado di recepire e reagire ai valori senza bisogno di rappresentazioni o di intuizioni. Nell’uomo il Wert-nehmen precede e pone le condizioni al Wahr­ nehmen, precisamente la relazione al valore è Fühlen come coglimento di un orientamento noematico di tipo oggettivo. Nel Fühlen non vi è ancora implicazione etica: il complesso degli atti del Wert-nehmen sono infatti in Scheier precedenti l’atto del giudizio. Il coglimento di valore non solo non è un atto intuitivo, in quanto mediato da un processo di funzionaliz­ zazione, ma non ha neppure un significato etico, livello che viene rag­ giunto solo dalla persona nel momento di costruire il proprio modo di vi­ vere attraverso una presa di posizione consapevole relativamente ai metavalori, la classe dei valori personali. Ad ogni livello della realtà corrisponde una struttura noematica di orientamento di tipo oggettivo, cioè una classe controintenzionale che parte dal mondo. Il riempimento, prima ancora che un riempimento di contenuti rappresentativi, è un riempimento di orientamento: la pianta che si rivolge verso una fonte luminosa non si dirige verso una rappresenta­

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zione ma verso un valore positivo. Interagendo con la struttura di orien­ tamento mondano gli organismi animali sono in grado di interpretare i contenuti della datità in termini di sensazioni; anche a questo livello si ha a che fare tuttavia con una struttura oggettiva', la percezione corporea del­ lo spazio, come l’utilizzabilità del mondo circostante, non sono frutto di convenzioni, ma dell’adattamento biologico. Così il corpo che si muove nel mondo circostante fa esperienza di una spazialità che certo non ha nul­ la a che fare con il concetto scientifico di spazio - quello di cui si serve invece un pilota guidando un caccia militare - essendo orientata secondo la prospettiva dell’alto-basso, vicino-lontano ecc., tuttavia è una spazialità che non è convenzionale, ma che permette all’animale di muoversi in mo­ do efficace nel proprio ambiente. Ad una leonessa che insegua la preda, secondo strategie anche molto complesse, un concetto scientifico di spazialità completamente avulso dalla prospettiva del corpo-proprio sarebbe del tutto inutile, mentre risulterebbe più pratica una forma di «fisica ingenua» che ritroviamo anche nell’uomo della «disposizione naturdleproblema etico nasce con la persona che fa esperienza della Wel­ toffenheit'. qui la struttura noematica di orientamento non si esprime più in modo univoco, come nell’istinto dell’animale, ma, con l’introduzione del­ la logica del differimento temporale del soddisfacimento (teoria scheleriana dell’eros), pone l’uomo di fronte alla scelta; non si esprime neppure in modo universale ed evidente, ma va essa stessa capita e interpretata a partire dalla propria prospettiva personale. Non essere apodittica significa che rimane inesauribile e che ogni persona può vederla e interpretarla da un punto di vista particolare, ma è proprio tale presa di posizione partico­ lare che di conseguenza riflette la fisionomia della persona e il suo modo di vivere. La correlazione si stabilisce fra funzionalizzazione anticipante (a questo livello anche rappresentativa) e controintenzionalità riempiente: l’anticipazione è orientata dall’ordo amoris della persona, che predeter­ mina lo spazio esistenziale della persona, lo anticipa dando una fisiono­ mia e predeterminando uno stile di vita, ma Γ ordo amoris viene conti­ nuamente corretto e smentito dalla controintenzionalità noematica obietti­ va del mondo a cui si apre la persona. Ne deriva una attività retroattiva di autoreinterpretazione coincidente con il processo di Bildung del «divenirpersona». È questa l’idea alla base dell’etica materiale dei valori: i valori non sono convenzioni soggettive della volontà di potenza nietzschiana ma neppure oggetti ideali su cui costruire le muraglie di una metafisica re­ staurativa, sono piuttosto espressione della capacità d’orientamento obiet­ tiva della contro-intenzionalità noematica. Ed è in tale orientamento ate­

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leologico («teleocline») che si esprime l’a priori materiale originario in base a cui si costituiscono da un lato i vari livelli della realtà (tanto più al­ ti quanto più fragili e impotenti) e dall’altro le varie forme dell’esistere (tanto più alte quanto più capaci di Weltoffenheit e di apertura alla Sel­ bstgegebenheit) .