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Una raccolta di scritti che ha la ricchezza di un repertorio di immagini, dove convivono i quadri di Rubens e di Alma-Tadema. gli affreschi pompeiani e le mostre fotografiche più provocatorie. l'esotismo delle giapponeserie e la ritrattistica russa: questi «incontri». così variegati e policromi, non rappresentano una mera giustapposizione di temi. ma confermano un gusto polivalente e una cultura onnivora. che sa tradursi in forma di saggio. Rinnovando una tradizione che ha nobili precedenti nelle lettere italiane. ma i cui esempi di valore si fanno sempre più rari. Mai di traverso è un susseguirsi di illuminanti aperçus in cui sarebbe vano cercare un filo conduttore puramente contenutistico. L'origine occasionale di gran parte di questi scritti non deve far pensare a essi come a semplici cronache o a resoconti. sia pure eruditi. Le ricognizioni di aspetti nuovi della cultura figurativa contemporanea (si pensi al saggio su quei «templi moderni» che sono i cinema o a quello sulla grafica dei dischi jazz e pop) e le ricostruzioni storiche. condotte con attenzione alla storia delle idee e del costume, sono sempre sorrette da un giudizio critico che coglie insospettate connessioni.
In copenina: Se bastian Stoskopff, / cinque sensi o Estaie ( 1633. olio su tela), Musée de l'ati, specie dal giardino; ma è una curiosità che, pensiamo, sarà difficilmente appagata. Quanto alla Villa Albani, essa è mantenuta in tutto il suo splendore da Casa Torlonia, che vi profonde ingenti somme, e che ne consente la visita dietro richiesta, privilegiando gli studiosi italiani e stranieri. Infelice è invece la situazione del Museo Torlonia, attualmente .::hiuso in depositi e non visitabile; però, un recente controllo non soltanto ha accertato che nessun pezzo ha subito danni, ma ha bensì rilevato l'esistenza di varie decine di sculture che non sono mai state catalogate, e che costituiscono un'autentica scoperta. A ogni modo, la condizione attuale del Museo Torlonia (oggetto di continui attacchi di carattere pretestuoso e demagogico) può definirsi positiva rispetto all'inqualificabile rovina dell' Antiquarium Comunale: se non altro, gli oggetti sono tutti conservati e in buono stato. Il panorama diventa poi tragico se si esamina lo stato in cui versa il Museo Nazionale delle Terme. Chiuso nel 1940 per la guerra, esso non è mai stato riaperto al completo; notizie, più o meno fondate, di furti si diffondono di continuo (giorni fa si sentiva dire che sono scomparse più di dieci statuette in bronzo); gli studiosi che vi si recano per ricerche nei depositi parlano di inaudita confusione, di caos indescrivibile. Ma l'aspetto più grave è la rovina dei reperti, alcuni di valore
70 sommo. Tempo fa, parte della volta di una delle aule delle Terme crollò, danneggiando in modo irreparabile un tesoro come il sarcofago di Pietralata, capolavoro della scultura del m secolo, e sin qui giunto a noi in condizioni di eccezionale freschezza. Si mormora persino che l'incomparabile gemma greca, firmata da Aspasios (che l'Italia si fece restituire dall'Austria dopo il 1918) è oggi manomessa per l'irresponsabilità di chi, facendola cadere in terra, l'ha scheggiata. E così via. In una situazione tanto grave, sarebbe ben triste se prevalesse il solito compromesso all'italiana, se si continuasse cioè a voler restaurare, rattoppare e puntellare le Terme di Diocleziano e gli annessi, insistendo a farne la sede di un vero Museo, mantenendo cioè l'attuale miscuglio di grandi opere d'arte e di frammenti secondari. Un museo Nazionale, degno della storia di Roma e della presente funzione di Roma capitale, dovrebbe avere un suo edificio, costruito ex novo, razionale, funzionale, bene illuminato, con sale per mostre temporanee e per conferenze; e per un edificio del genere il luogo che era stato scelto prima del 1889, alle pendici del Celio, è ideale. Ivi non manca lo spazio per un edificio basso ed esteso (e in parte anche seminterrato) in cui esporre le grandi sculture, l'Ara Pacis (tolta dallo scatolone che oggi la offende), la Collezione Ludovisi e il Museo Torlonia, quest'ultimo regolarmente acquisito nella sua integrità. Le attuali aule delle Terme e il chiostro grande potrebbero essere riservate alla funzione di Antiquarium, fondendovi anche quello del comune, il quale (e perché no?) potrebbe gestire l'insieme. Progetti utopistici? Può darsi, anche per le voci che circolano, e secondo cui si sta progettando non già un piano razionale, ma un vero e proprio smembramento, a cominciare dalla Collezione Ludovisi che, si dice, verrebbe sistemata nel Quirinale.
L'arte come un «giallo» \'EL 1946, studiando i dipinti del Museo di Palazzo Venezia a Ro:na, mi capitò di esaminare una tavola, raffigurante un santo a mezza figura, e databile verso la fine del secolo xv; e poiché non riu,,:ivo a identificare il nome del suo autore, effettuai una ricerca ::e! campo della Scuola ligure, cui, per evidenza di stile, il pannel:2 mostrava appartenere. ~el corso di questa indagine scoprii che il santo a mezza figu~ altro non era che il residuo di un San Vincenzo a figura intera, rubato (assieme ad altri dipinti su tavola) dalla chiesa di San Domenico a Taggia e mai riapparso. I ladri, al fine di rendere meno facile l'identificazione dell'opera trafugata, ne avevano mutato le dimensioni, privandola di tutta la parte inferiore. L'aspetto più inquietante della vicenda è che la refurtiva era riemersa in un Museo statale (e non importa se per dono o per acquisto), costituendo così una madornale prova dell'insufficienza dell'amministrazione delle Antichità e Belle Arti a espletare quelle finalità per cui è stata creata e per le quali essa assorbe non indifierenti somme di pubblico denaro. Nessuno si era accorto che un \1useo della Capitale era entrato in possesso di un'opera rubata :n provincia. Ma come sarebbe stato possibile che la centrale operativa del: ·amministrazione delle Antichità e Belle Arti si potesse render :onto di un fatto del genere? Bastava sapere chi ne erano i respons ;abili e quale fosse la loro estrazione: vecchi inetti arnesi della :0rte del quadrumviro De Vecchi riciclati grazie a un provvidenziale « antifascismo post-fascista ». Ma se allora la scoperta mi fe:e una profonda impressione, oggi non me ne stupirei affatto. ~e! 1958, trovandomi a Londra, vidi, in una vendita Sotheby's .:d 26 febbraio, un piccolo trittico portatile, non di eccezionale :,·elio qualitativo, comunque di notevole interesse storico e cul:·..:rale: vi riconobbi a colpo d'occhio un'opera del Museo Civico ::: Rieti, rubata, presumo, negli anni '20. Nessuno si era accorto ::,e questo dipinto, dopo il trafugamento, era entrato in una colle::one così celebre come quella di Stefan Von Auspitz a Vienna, :::e era stato illustrato nel catalogo, e che nel 1932 era stato per' ~o es'posto a Londra. \1a come la Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti po· :•a rendersi conto che un'opera rubata girava attraverso l'Euro:-i" A un controllo del genere mancavano i mezzi: nessuno sche:..ario generale, nessuno o pochissimi cataloghi e inventari a stam: .! . e soprattutto nessuna vera intenzione (salvo quella velleitaria
72 e propagandistica) di tutelare e di salvaguardare il patrimonio della nazione. A che punto siamo oggi? Un episodio accaduto in questi giorni illumina l'effettivo stato di fatto, ed è la campagna di stampa scatenatasi attorno a un trittico del pittore fiorentino Mariotto· di Nardo. Tale trittico, dipinto nel 1415 per lo Spedale del Bigallo a Firenze, scomparve dalla sua sede nel 1859-1860, durante cioè uno di quei momenti di intenso « patriottismo » (così utili a certi patrioti, specie di genere intellettuale) che risultarono, per Firenze, nella perdita di innumerevoli e insigni capolavori artistici, emigrati oppure occultati. La notizia che il trittico sta ora per essere venduto in una pubblica asta di Parigi ha suscitato un'ondata emozionale, accompagnata da una serie di interventi, di accorate suppliche, di lamentele patetiche sul saccheggio dei nostri tesori d'arte. Sotto il titolo Il « giallo » del Trittico che sparì cento anni fa, è apparso su la Repubblica del 28 novembre un articolo di Vittorio Mimmi, dove si rende noto che per il « prezioso » dipinto si stanno muovendo un po' tutti a Firenze, dal ministro Rodolfo Siviero (che ha rivolto un appello al Presidente del Consiglio Spadolini) alla magistratura fiorentina (che ha aperto un'inchiesta) mentre gli studiosi frugano gli archivi delle biblioteche per risolvere questo «giallo». Vi si parla di scoop da parte di Bernard Berenson (che pubblicò una foto del trittico nel 1931), di segnalazione del caso all'Interpol e alle autorità francesi (che hanno bloccato l'opera presso l'attuale proprietario, un ungherese che lo ha avuto in eredità da suo padre), e vi si riferisce dell'intenzione di riportare il trittico in Italia « con ogni mezzo ». Si ignora però il dato essenziale, e che cioè il trittico uscì dal1'Italia in perfetta legalità verso il 1919-1920, per apparire in una delle più importanti vendite all'asta di quegli anni, cioè l'asta della Collezione Raoul Tolentino, apprestata dalle American Art Galleries e tenutasi la sera del 26 aprile 1920 presso l'Hotel Plaza di New York. Tale vendita era provvista di un monumentale catalogo, nel quale il Mariotto di Nardo è riprodotto a piena pagina al numero 829, sotto il nome di Ambrogio Lorenzetti, e con una lunga nota di commento che vale la pena di riassumere. Vi si legge che il dipinto, sottoposto all'Ufficio Esportazione di Firenze, venne subito riconosciuto dalla direzione del Museo del Bargello per ciò che era stato rubato al Museo del Bigallo, ma che, essendo il furto caduto in prescrizione, il permesso di uscita era stato accordato. Vi si dice anche, per la paternità, che Federico Mason Perkins vi aveva ravvisato la mano di Mariotto di Nardo, mentre altri studiosi erano propensi ad attribuire le tre tavole al Lorenzetti o a Bernardo Daddi.
73 C'è da restare sconcertati che tanto rumore e tanta solerzia giunti sino all'Interpol e al Presidente del Consiglio dei Ministri) abbiano preso il via senza che sia stato interpellato uno storico dell'arte, o, quanto meno, un conoscitore della pittura fiorentina :e! Trecento. Da parte mia posso aggiungere che, dopo l'asta di 'ù;w York, il trittico passò a Parigi, dove apparve per due volte ?resso la Galleria D'Atri in Rue la Boetie: era in pessime condizioni, tali da farlo considerare una larva rifatta e pasticciata, sia nelle figure che nel fondo d'oro. Tutto ciò non toglie nulla ai meriti di Rodolfo Siviero, le cui lodevoli intenzioni, il cui coraggio e la cui opera positiva sono troppo noti per essere qui riaffermati. Ma egli (che è fiorentino e che quindi conosce Nicolò Machiavelli) sa certamente che i « profeti disarmati » vanno incontro a gravi delusioni: prima di muoversi entro un campo così complicato e così infido è bene effettuare accurate ricerche, appoggiandosi sulla documentazione oggettiva e concreta. Che figura ci fa l'Italia in vicende del genere? Lascio la conclusione ai lettori. Ma il caso del trittico « prezioso » di Mariotto di ~ardo non è il solo. Il 4 dicembre 1981 su Il Messaggero di Roma è apparso un articolo di Lucio Manisco, in cui si dice che noi italiani « esigiamo la restituzione », tra l'altro, di una ventina di e capolavori gotici e rinascimentali » della Collezione Contini Bonacossi, già venduti o in procinto di essere venduti a collezionisti, gallerie e musei degli Stati Uniti. Ora, l'esportazione dei quadri Contini Bonacossi è avvenuta in base a una precisa convenzione tra lo Stato Italiano e gli eredi di Alessandro Contini Bonacossi, convenzione firmata dal Presidente della Repubblica Italiana; e proprio in questi giorni gli eredi, assieme ad alcuni storici dell'arte e funzionari della pubblica amminis:razione sono stati prosciolti con formula piena dall'accusa di truffa ai danni dello Stato. Personalmente, ho sempre ritenuto che tale convenzione sia stata un colossale errore, e che lo Stato non avrebbe neppure dovuto prendere in considerazione fa proposta; credo anche che la scelta di dipinti, sculture e oggetti da donare allo Stato in cambio del!'esportazione di altri pezzi sia stata effettuata in modi tali e secondo tali criteri da suscitare non pochi e non piccoli interrogativi. \fa l'accordo intervenuto ha forza di legge, e reclamare oggi indietro i dipinti esportati significa soltanto coprire di ridicolo l'Italia, facendole perdere quel poco di credibilità che ancora possiede al!'estero.
C'è un satellite che scheda Giotto QUASI due mesi fa, al principio di maggio, è stato presentato, al comune di Assisi, il catalogo della locale pinacoteca, appena uscito presso le edizioni del fiorentino Centro Di, e dovuto a Filippo Todini e Bruno Zanardi. :È bene parlare del volume, e per due motivi. Il primo è la serietà della ricerca seguita nel preparare le schede dei dipinti, e la consistenza dei risultati raggiunti. Assisi, tra il Duecento e il Trecento, è stato (assieme a Roma) il centro dove si avverò la grande rivoluzione figurativa per cui l'arte dell'Occidente si staccò dal classicismo mummificato ed essiccato di Costantinopoli (che oggi viene chiamato « stile bizantino ») per recuperare il classicismo greco-romano, quello naturalistico, riscoprendo la terza dimensione, analizzando la realtà oggettiva e cercando un accordo equilibratore tra intuito e razionalità. Di questa immensa apertura (la cui vicenda si è chiusa solo nel nostro secolo) le testimonianze a Roma sono praticamente perdute, in seguito al rifacimento delle chiese e, soprattutto, per l'incendio del 1823 che distrusse la basilica di San Paolo fuori le mura. Invece ad Assisi (che fu un punto di incontro verso cui confluirono artisti romani, fiorentini, umbri e di altre parti d'Italia) la basilica di San Francesco resta il preziosissimo testo nel quale è possibile seguire le varie fasi del mutamento, dal Maestro di San Francesco a Giotto, dai romani a Simone Martini: tutti cioè i punti salienti per i quali il periodo che va dal 1250 al 1350 circa è per la pittura italiana il momento più alto e più ricco di conseguenze, l'equivalente cioè di quel che, in altri campi, si esprime nella stessa epoca con Tommaso d'Aquino, Dante, Giovanni Pisano e Arnolfo di Cambio. Quanto alla pinacoteca comunale di Assisi, le sue raccolte sono modeste rispetto a quel che ci si potrebbe aspettare in un centro di importanza così primaria; ma la secolare incuria, unita ai frenetici rastrellamenti effettuati nella zona da collezionisti e mercanti stranieri durante l'Ottocento (assieme alla volenterosa disponibilità degli italiani nell'alienare e nel disperdere il loro patrimonio storico e culturale) hanno gravemente diminuito la consistenza di quel che avrebbe potuto essere raccolto. Ma anche così, la pinacoteca assisiate include un buon numero di opere che aprono non indifferenti problemi storico-artistici, riguardanti la cerchia di Giotto e dei suoi più antichi scolari, e il loro seguito in Umbria e in altre parti d'Italia. Su questo punto, il lavoro effettuato per il catalogo è davvero eccellente, ricco di conclusioni e di spunti che non resteranno senza seguito. Ma il secondo aspetto sotto cui va considerato questo volume
75 :.Jnsiste nelle spinte che hanno reso possibile il suo concretizzarsi: : cioè l'iniziativa di un piccolo comune e dei suoi amministratori, Jnita alla serietà di lavoro di due giovani (Filippo Todini ha poco ?iù di venti anni). Ora, la catalogazione del patrimonio artistico italiano segue, da oltre mezzo secolo, una vicenda ridicola e penosa, che fa pensare alla tela di Penelope o alle visioni della fata ~organa. Prima che l'amministrazione delle Antichità e Belle Arti venisse inquadrata nella politica fascista (e fu un colpo micidiale, da cui non si è più ripresa) vedevano la luce due serie di volumi, quella degli Inventari degli oggetti d'arte, e l'altra, ammirevole, dei Cataloghi delle cose d'arte e di antichità. Ma non appena il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi (aiutato dai suoi «caporali») prese in mano le redini, le due serie vennero soffocate: la prima si fermò al nono volume, la seconda al decimo, bloccando la stampa persino di opere già in bozze, come la conclusione del Catalogo di Brescia, di Antonio Morassi. Dopo il 1945, invece di riprendere le due serie (e di schede pronte per la tipografia ce ne erano a centinaia di migliaia, includenti intere regioni d'Italia) si pensò di mutare rotta: gli Inventari vennero mollati, i Cataloghi furono ripresi, ma sotto diversa veste, per estinguersi dopo un solo numero, dedicato alle chiese di Vicenza. Vide però la luce una nuova collana, impiantata su criteri lodevoli, quella dei Cataloghi dei musei e gallerie d'Italia; ma anch'essa, dopo soltanto diciotto titoli \un po' pochini per il numero e la consistenza delle raccolte statali), sembrerebbe essersi arenata. Allo stesso tempo, funzionari della pubblica amministrazione si sono dedicati alla stesura
che, mentre una tela di Giorgio Morandi si vende per telefono, ~ accaduto che opere insigni del Rinascimento e del Barocco siano :imaste invendute per anni e anni; di esempi del genere se ne po:rebbero citare molti. La base essenzialmente mercantile su cui si muove la critica del: ·arte contemporanea è indicata dal tipo di prodotti che essa prenJe in considerazione, e da altri che, invece, vengono negletti, an~he quando si tratta di espressioni tra le più valide e le più straorJinarie dei nostri giorni: come è il caso, appunto, delle copertine o meglio, custodie) dei dischi microsolco. C'è qui in Italia chi le :-accoglie a fini di collezionismo o di studio? Sono rappresentate :ielle raccolte di grafica delle gallerie statali? Non saprei rispondere, conoscendo soltanto molte persone, ma solo negli Stati Uniti, -:he hanno iniziato da qualche anno a dare la caccia a questi proJotti, valutandone l'importanza e la qualità. I vecchi dischi a 78 giri erano in genere venduti senza custodia, o in busta che recava semplici indicazioni epigrafiche con il nome della casa produttrice. Questa fase arcaica della custodia (che inizia verso il 1910) subì una modifica negli anni '20 e '30, quando apparvero i primi disegni a contorno, che in genere raffiguravano scene di jazz o di danza; gli esemplari sopravvissuti sono assai rari, ma c'è oggi una tendenza al revival di queste buste (come in quelle della casa francese Harmonia Mundi, che spiega il basso prezzo dei suoi dischi con l'assenza della pochette illustrée). Ma il grande mutamento avvenne con l'introduzione del microsolco a 33 giri, nel 1939, quando la custodia cominciò a essere decorata a colori vivaci, stampati su uno strato di carta incollato al cartone. Di solito, queste prime custodie figurate mostrano il ritratto del cantante, ed è curioso che la loro struttura grafica sia in stretto rapporto con le aff iches e i manifesti cinematografici del1'epoca. Ma anche questo tipo è oggi quasi introvabile, sebbene esso sia stato mantenuto più a lungo nei dischi destinati a certe zone dei Caraibi, o alle danze a essi legate.
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E ancora, taluni grandi cantanti, come Elvis Presley, Frank Sinatra, Bing Crosby, hanno mantenuto tale tipo di custodia sino, si può dire, ai nostri giorni. Ma verso la fine degli anni '50, due artisti d'avanguardia, Andy Warhol (il santone della Pop-art) e Red Miles, specie nei dischi di Kenny Burrell, segnano l'apertura di un'epoca nuova, alla cui nascita hanno contribuito (tra il 1963 e il 1967) i Beatles, grazie alle invenzioni di quel geniale grafico che si chiama Robert Freeman. Ciò che è avvenuto dalla metà degli anni '60 in poi è storia di oggi, tuttora in svolgimento, ed è impossibile accennare anche a una semplice traccia di classificazione. Dal tipo psichedelico del design si è passati alle riprese dell'Art Nouveau e dell'Art Déco. Ma non è in queste varietà che bisogna riconoscere la straordinaria forza di impatto grafico e visivo delle custodie destinate ai dischi di musica pop, meno di jazz. Esiste un volume splendido, Album Cover Album (pubblicato nel 1977 dalla Dragon's World Book a New York, e curato da Storm Thorgerston e Roger Dean), che costituisce una prima e provvisoria antologia di quel che è stato prodotto negli ultimi due decenni. A dispetto della sua brevità, è un libro stupefacente, al quale è indispensabile rivolgersi per misurare l'ampiezza della rosa di possibilità grafiche oggi disponibile e l'inaudita varietà dell'invenzione di immagini. :t vano (anche inutile in assenza delle immagini) fornire una lista degli artisti e delle incredibili, inesauribili scoperte visive che a essi si debbono; credo che siano assai superiori a quel che si può trovare nel campo dei manifesti o, in genere, della grafica pubblicitaria contemporanea. Ma è singolare che, per i dischi di musica classica e di opera, nulla del genere sia stato prodotto. A ogni modo, chi sta raccogliendo le custodie dei dischi? Prego farsi vivo, anche per smentire che i collezionisti di arte contemporanea siano tutti legati al giro delle gallerie e dei loro fiancheggiatori e manutengoli.
Molto realismo e poco socialismo LA casa editrice Iskusstvo di Mosca ha da poco pubblicato un grosso volume di Irina Pruzham e Valentina Kniazeva, dal titolo Ruskii Portret, cioè Ritratto Russo. Si tratta di i.ma scelta di 127 ritratti (appartenenti a raccolte statali sovietiche) eseguiti dal 1890 circa al 1918, cioè durante il periodo cruciale per il destino dell'antico ordine zarista, e per il futuro svolgimento delle varie tendenze politiche a esso opposte. Stampato in modo ammirevole dalla tipografia Amilcare Pizzi di Milano, il libro comprende una breve introduzione storica, mentre le splendide e grandi tavole a colori sono ciascuna accompagnata da un commento; alla fine, è indicata una bibliografia per ognuno dei pittori scelti. Da Il'ja Repin (1844-1930) a Kuzma Petrov-Vodkin (1878-1939) la successione dei ritratti è di eccezionale qualità, e l'esemplificazione della società russa che ne risulta è straordinariamente evocativa. Accanto ai contadini di Nikolaj Kasatkin (1859-1930) o di Filipp Maliavin (1869-1940) figurano i sinistri personaggi del potere (tra cui lo sciagurato ministro Konstantin Pobedonoscev ritratto da Il'ja Repin); l'aristocrazia (si veda la principessa Olga Orlova di Valentin Serov) figura accanto a rappresentanti di quella classe borghese la cui scarsa consistenza non pervenne poi a sostenere la prima rivoluzione del 1917; Ivan Morozov (il grande collezionista d'arte moderna che Serov ha raffigurato contro uno dei suoi spettacolosi Matisse) e il critico d'arte Aleksandr Benois (colto, in un acquerello o pastello, da Léon Bakst cui spetta anche l'effigie di Diaghilev) passano sotto i nostri occhi accanto ai nomi di Tolstoj, Cechov, Aleksandr Blok, il cantante Fedor Saljapin, Mejerchold e la poetessa Anna Achmatova. Talvolta, questi dipinti invitano a confronti con certe contemporanee espressioni artistiche di altri paesi (come il ritratto di K. Sùnnerberg, eseguito da Dobuzhinskij nel 1905-1906 in modi curiosamente affini a quelli del nostro Boccioni, almeno sotto certi aspetti). Altrove, l'immagine rievoca un mondo scomparso con un lirismo che si ritrova alla medesima intensità in opere letterarie: si veda la Varia Adoratskaya di Nikolaj Feshin (1881-1955) del 1914, che a me pare l'equivalente visivo di certe pagine dell'autobiografico e bellissimo Speak, Memory di Vladimir Nabokov. Ma ciò che colpisce sempre (o quasi) è la straordinaria, dirompente vitalità che esplode da questa raccolta (specie nella fase del tardo Ottocento) e anche la precocità di certe soluzioni formali. A questo proposito, è addirittura sbalorditiva la data del 1914 per il doppio autoritratto (come Arlecchino e come Pierrot) di Vasilij Shukhajev (1887-1973) e Aleksandr Yakovev (1887-1938) che an-
174 ticipa, in modi di estrema esattezza, molte delle esperienze dell'Europa occidentale degli anni '20 e '30, quelle che abbiamo viste nella mostra (quasi incomprensibile senza tener conto di questi antecedenti russi) dei « Réalismes » al Centre Pompidou di Parigi. Vasilij Shukhajev poi esce da queste pagine come archetipo di episodi così diversi quali la fase neorinascimentale di Giorgio De Chirico, il Donghi e persino (alle debite distanze) lo Sciltian. Questa esaltazione della pittura russa suonerà (ne sono certo) indigesta a molti lettori, legati a un vecchio e solidissimo schema mentale come quello per cui tutto ciò che è arte moderna viene necessariamente da Parigi. « L'Art moderne c'est nous », mi disse una volta un celebre uomo politico francese, cui non pareva verosimile che, visitando assieme a me un museo di Vienna, io potessi sostare a lungo davanti a un quadro di Gustav Klimt. Avevo pronta sulla punta della lingua la risposta; ma poi pensai che sarebbe stata inutile. Gli volevo dire che con tutta l'ammirazione per ciò che la Francia ha prodotto nell'Ottocento e nel nostro secolo, ciò non esclude il resto del mondo. Che se poi le arti figurative vengono (come penso si debba) considerate uno degli aspetti di una cultura e di una società in senso più ampio, allora il luogo privilegiato della Francia cambia e assai: almeno a considerare la storia dei nostri giorni. Non sono il solo a credere che una cultura debba venir giudicata anche e soprattutto dal suo potenziale di sviluppo, in altre parole, dalla sua discendenza. E non sono il solo nemmeno a ritenere che le due grandi culture dell'Ottocento siano state quella anglosassone e quella russa: proprio le due che hanno pesato con minore intensità sull'Italia del Risorgimento e su quella unificata. Le due culture, insomma, la cui assenza nei tempi aurei si fa sentire nella nostra provinciale arretratezza, sulla nostra albagia, sulla nostra spocchiosa presunzione. Sarebbe impresa molto indicativa stabilire le date delle prime traduzioni in italiano di Puskin, Lermontov, Goncarov e, dall'altro versante, di Thackeray, delle Bronte, e persino di Symonds e dei suoi studi italiani; ne verrebbe alla luce una esatta radiografia dei nostri ritardi e delle nostre lacune. Ma, per tornare a questo volume di ritratti russi, credo che per leggerlo adeguatamente esso andrebbe accompagnato da una scelta altrettanto significativa del movimento astrattista. E infatti, sia il realismo che l'astrattismo sono presenti, come le due facce di un Giano bifronte, nella cultura figurativa russa dei primi due decenni di questo secolo: rispecchiando le radici più intime e profonde della forma mentis di quel grande paese, che è entrato nella storia formandosi su Costantinopoli, cioè sulla « seconda Roma », sulla capitale storica e culturale dell'Impero Romano d'Oriente.
175 E non è questo il luogo per sottolineare, con esempi ripetuti,
che l'arte figurativa romana, o meglio la « koinè » visiva dell'Impero Romano, oscilla tra il realismo e l'astrattismo, tra i ritratti che elencano ogni porro e ogni ruga all'immobile e astratto simbolismo di quella sorta di classicità congelata che· oggi viene definita « stile bizantino ». Per riscontro, si potrebbe anche sostenere che come quest'ultimo fu l'espressione artistica del totalitarismo dell'Impero Romano « restaurato » (quello, cioè, posteriore a Costantino e a Teodosio) il realismo socialista occupa una posizione analoga nel regime totalitario sovietico. Ma questi sono discorsi da seguire altrove; qui vogliamo parlare solo della stupefacente ricchezza della pittura russa prima della rivoluzione bolscevica nell'ottobre del 1917, di cui questo magnifico e straordinario volume non ci offre che un primo ma entusiasmante assaggio.
Dieci in Battesimo, quattro in Flagellazione ANCHE per la storia dell'arte come per tutte le scienze storiche, è valido il vecchio dilemma, se cioè si tratti di un nocciolo di opinioni attorno a cui lo storico distende i fatti, o se piuttosto siano i fatti, raccolti a mo' di nucleo, a condizionare le opinioni che si distendono attorno a essi. Quale che sia la risposta (e io credo che la verità nasca da un rapporto dialettico tra i due estremi), è ovvio che per la ricerca storico-artistica è di fondamentale importanza (come per tutte le discipline analoghe) la raccolta e la classificazione del materiale specifico, e cioè dei dipinti, disegni, statue, architetture ecc.; e chiunque abbia una sia pur minima conoscenza in questo campo, sa bene che siamo ancora ben lontani dall'avere esaurito questa lunga e basilare fase primaria della ricerca storicoartistica. Opere d'arte, anche di estrema importanza, attendono di venire riesumate, e si tratta anche di testi dai quali l'attuale prospettiva potrà subire un deciso dirottamento. Non si vuole, con tale ovvia considerazione, implicare che tutta la storia dell'arte si esaurisca nella pratica classificatoria, alias nell'attribuzione a un autore, una scuola, un'epoca; ma· questa è una pratica fondamentale, senza cui ogni ulteriore passo rischia di vanificarsi, sperdendosi nei tortuosi meandri della fantasia sciolta dalle necessità della ragione. Nel secolo passato, a reagire in modi irrazionali contro le ricerche degli storici dell'arte positivisti furono i letterati; e Pater. Huysmans, D'Annunzio restano esempi insuperabili di un atteggiamento mentale radicalmente opposto a quello dei Cavalcaselle. Morelli, Berenson, Friedlander, e cioè ai ricercatori sulla cui opera si è fondato e si fonda ogni ulteriore progresso delle nostre conoscenze nel campo della storia dell'arte. Ai nostri giorni, nel risorgere dell'irrazionalismo (nei suoi due volti, quello religioso e metafisico, e quello secolarizzato) il ruolo che fu dei letterati è passato a certi iconografi e iconologi. Ripeto. è palese che classificare e attribuire non sono altro che il primo passo della ricerca; ed è altrettanto palmare che l'opera d'arte va letta a diversi livelli e sotto diverse angolature. Ma tali interpretazioni, una volta avulse dal contesto dei dati storicamente controllabili (o piuttosto, avulse dalla logica e dal raziocinio) finiscono col precipitare in una sorta di rosario farneticante, privo di inizio e di fine, dove una serie di nozioni erudite, estratte senza alcun nesso plausibile dalle più svariate fonti, divengono il casuale pretesto per elucubrazioni tortuose e inattese. La loro raccolta in un volume darebbe luogo a una insuperabile antologia dello humour grot· tesco e patetico, dove Cristo simboleggiato da un pollo arrosto non
177 sarebbe l'ultima delle enormità: si è persino giunti alla interpretazione simbolica di un dipinto basandosi sulla sua condizione (tuttavia neppure percepita dall'interprete) di evidente frammento. E così via. _ Considerazioni come queste vengono riproposte dal volume di Carlo Ginzburg che esce in questi giorni sotto il titolo Indagini su Piero, cioè Piero della Francesca (Einaudi editore, collana « Microstorie»). Carlo Ginzburg non è uno storico dell'arte, ma uno storico e basta, la cui opera è ben nota e giustamente apprezzata, anche per il suo potenziale polemico e provocatorio. Questa volta il tema della sua ricerca è Piero della Francesca, e precisamente tre dei più famosi dipinti del suo catalogo, il Battesimo di Cristo già a Sansepolcro e oggi nella National Gallery di Londra, il ciclo di affreschi nella chiesa di San Francesco ad Arezzo, e la Flagellazione nella Galleria Nazionale delle Marche in Urbino. Come avverte l'autore, i tre dipinti sono analizzati da un duplice punto di vista, la committenza e l'iconografia, mentre non si parla dei loro aspetti formali. Può una ricerca così circoscritta (si chiede Ginzburg) giungere a risultati rilevanti? Egli pensa di sì: ma a voler essere obiettivi bisogna dire che l'analisi del Battesimo merita 10, quella degli affreschi 8½, mentre per la Flagellazione non oserei spingermi oltre il 4. Intorno al Battesimo (che più di una volta è stato preso quale pretesto per inaudite divagazioni della fanta-iconologia) la lettura proposta nel nuovo libro di Carlo Ginzburg e le conclusioni che ne scaturiscono sono assai acute e assai convincenti. Il dipinto allude effettivamente al grande umanista Ambrogio Traversari, abate generale dei Camaldolesi, e alla sua azione per riconciliare la Chiesa di Roma con quella di Costantinopoli, chiudendo il lungo scisma. Ogni dettaglio del dipinto viene interpretato in modi rigorosi e coerenti, riaffermando la datazione del dipinto verso il 1440-45, come era stato già proposto da altri storici dell'arte ragionando essenzialmente su basi di stile. Per il ciclo di Arezzo, è di grande rilievo l'indagine sul committente, Giovanni Bacci, che viene combinata con l'analisi dell'iconografia. Da questa indagine intrecciata, viene proposta una esecuzione in due tempi per gli affreschi: questi sarebbero stati interrotti dopo il compimento delle due lunette che coronano le pareti laterali, per essere poi ripresi dopo il viaggio di Piero a Roma (1458-59). In questa stconda fase, lo stile del pittore appare modificato dalle cose viste nel corso del soggiorno romano e dall'incontro con gli umanisti della corte di Pio II, con l'Alberti e, forse, con il cardinale Bessarione: di ciò Carlo Ginzburg legge riflessi anche nell'iconografia di talune scene.
178 Un resoconto ben pm ampio meriterebbe la ricerca effettuata nell'ambiente di Giovanni Bacci e dei personaggi che egli conobbe: è certo che il suo ritratto è quello che appare nella Madonna della Misericordia di Sansepolcro, nella Flagellazione di Urbino e nel riquadro aretino della chiesa di San Francesco con la Esecuzione di Cosroe, dove è raffigurato accanto al padre Francesco e al nonno Baccio. :È doveroso aggiungere che su tutti questi punti la ricerca di Carlo Ginzburg è non soltanto positiva ma anche di grande respiro. Del tutto fuorviante è invece il discorso sulla celeberrima tavoletta urbinate, la Flagellazione, e la interpretazione che ne viene proposta scade nell'abusivo. :È questa la parte in cui si avverte l'assoluta inadeguatezza delle conoscenze storico-artistiche dell'autore. A parte certi errori (Sisto v non demolì il Patriarchio del Laterano per far posto, come si legge a pagina 70, alla nuova Basilica di San Giovanni, che non venne da lui neppure toccata), come è possibile credere che le quattro colonne di marmo della « mensura Christi » siano quelle oggi nel chiostro lateranense? Le colonne riprodotte a tavola 63, 66, 67 sono del Quattrocento, e del Quattrocento molto avanzato, forse persino posteriori al soggiorno di Piero a Roma. Così, è del tutto infondato suggerire che gli edifici alla destra della Flagellazione alludano al Laterano: con quel tipo di tetto e di mensole in legno? Né si vede come gli intarsi sul muro che chiude la piazza possano riecheggiare una decorazione cosmatesca. E ci sarebbe da dire molto sul modo con cui viene qui spiegato il rapporto tra Piero e Carpaccio (che certamente fu in Urbino), sul significato del cappello di Pilato, sulla colonna con la statuetta (e perché mai Piero si sarebbe ispirato ad avanzi di un bronzo colossale?), ecc. ecc. Ci si chiede anche come mai un gesto che a pagina 13, nota 1, significa pacificazione, diviene, a pagina 68, gesto di affermazione. Ma tutto si spiega con quel che si legge a pagina 8, che cioè le due regole dei puzzles iconografici sono (come ha indicato Salvatore Settis): a) che tutti i pezzi debbono andare a posto; b) che i pezzi debbono comporre un disegno coerente. Sotto l'assillo di queste due norme accade che la coerenza della interpretazione venga raggiunta a tutti i costi, anche barando in buona fede. Così come accade in certe sedute di parapsicologia, truccate innocentemente (ma pur sempre truccate) dal medium, ansioso di comporre un'immagine perfetta dei suoi poteri dell'aldilà.
.,:iserabili, vi disegnerò TRA le tante colpe di cui viene accusata la scuola media non è mai ;ompresa una delle maggiori: quella di rendere odiosi ai giovani : grandi scrittori e poeti del passato. Anche dopo decenni la personalità di Dante, poniamo, o di Leopardi resta legata al ricordo di insegnanti più o meno simpatici, di esami terrorizzanti, di fati;ose memorizzazioni; accade persino che i fatti oggettivi siano di:nenticati, mentre permane, appiccicata all'autore, un'aura scostan:e, che riemerge a ogni menzione del solo nome. Victor Hugo: beati coloro che il suono di queste quattro sillabe :1on riporta all'atmosfera sonnacchiosa del primo pomeriggio (le mie ore di francese cominciavano alle due). E che fatica, dopo decenni, scavare entro la montagna di retorica e di immagini impressionanti per scoprire le gemme di una grande, autentica poesia! Ma nel recupero di Victor Hugo, di questo sommo bardo del Romanticismo francese, debbo dire di essere stato indirizzato e aiutato dalla sua produzione grafica, che resta l'aspetto meno noto della sua attività. L'argomento torna oggi attuale: il 15 giugno [ 1981 J la Casa Sotheby ha messo all'asta, a Monte Carlo, cinquanta disegni dello scrittore, appartenenti a Jean Hugo, cioè al figlio di suo nipote. Victor Hugo considerava i disegni un aspetto importante e non marginale della sua opera; e nel lascito che fece alla Biblioteca nazionale di Parigi, assieme a manoscritti e a documenti, sono inclusi molti dei suoi fogli figurati. Altri passarono, ma in minore quantità, alla sua famiglia (e da essi proviene il gruppo ora venduto) mentre pochi pezzi vennero donati in vita dall'autore a vari amici; ma il nucleo più rilevante è quello che resta nella « Maison de Victor Hugo » a Piace des Vosges a Parigi. In complesso, il numero dovrebbe aggirarsi tra i 1000 e i 1300 pezzi, di cui i più antichi risalgono al 1817 circa, quando lo scrittore era appena quindicenne. In una produzione così vasta, non tutto merita una speciale attenzione. Spesso si tratta di appunti ai margini dei manoscritti, in cui lo scrittore visualizza, per così dire, o precisa in immagini quello che sta descrivendo a parole. Altrove sono caricature, anche di notevole efficacia, ma che, tutto sommato, non sono superiori a quelle che ci hanno lasciato altri scrittori francesi dell'epoca: Musset, Gautier, Merimée, George Sand. Le più pungenti caricature nascono intorno al 1835, e rivelano il forte influsso del ginevrino Rodolphe Topffer (del quale otto anni fa l'editore Garzanti pubblicò una serie di cinque volumetti in fac-simile). Ma il Victor Hugo disegnatore che interessa è ben diverso, è quello verso cui
180 si è rivolta da tempo l'attenzione di critici e storici dell'arte, tra cui l'inglese Kenneth Clark, e che rimane uno dei fenomeni più singolari del Romanticismo figurativo. Diceva Leonardo da Vinci: « Se tu guarderai... alcuni muri imbrattati di varie macchie ... potrai lì vedere diversi paesi... figure strane, arie di volti ed abiti e infinite cose ». E lo stesso Leonardo indicava come fonte di « invenzioni mirabilissime », oltre « le macchie dei muri », anche « la cenere del fuoco », le nuvole e il fango. Ora, le immagini di Victor Hugo nascono da un procedimento analogo: una goccia di inchiostro rosso e nero su un foglio, una macchia di caffè, l'impronta di un bicchiere sporco. Altrove sono schizzi di color seppia o nero caduti sulla carta, che poi, piegata in quattro o in otto, genera simmetrie non diverse da quelle « macchie di Rorschach » che vengono interpretate dai pazienti nelle ricerche neuropsichiatriche. Oppure, con le forbici, un foglio coperto di nero o di color bruno viene ritagliato, con profili assai suggestivi di edifici, monti, orizzonti. La tecnica ·di Hugo è dunque eterodossa; ma il risultato è, molto spesso, di estrema carica comunicativa, denso di un messaggio « strangely exciting » (stranamente eccitante) come ha detto Kenneth Clark. ~ il senso di un disfarsi della personalità umana entro l'universo della natura (« e il naufragar m'è dolce in questo mare», come cantava il Leopardi); un singolare rapporto con la luce (« Luce, più luce », come chiedeva l'agonizzante Goethe); ma soprattutto è un che di misterioso, che dal fiabesco sale sino all'esoterico e all'occulto. Durante il suo esilio dalla Francia (dopo il colpo di Stato di Napoleone III nel 1851) Hugo fu anche, nel 1853, nell'isola di Jersey; e qui venne iniziato alla pratica dello spiritismo, allora in voga con il moltiplicarsi dei medium e dei messaggi battuti nei tavolini. Assieme a sua moglie e al figlio Charles, Victor era un appassionato devoto dei procedimenti medianici; anzi, con una matita attaccata a un tavolo di piccole dimensioni, otteneva disegni eseguiti dagli « spiriti », di cui ne restano parecchi, assieme ai meticolosi resoconti delle sedute. Quale che sia il valore e la credibilità di tali documenti, importa notare come la tensione di quegli stati d'animo tipici della ricerca metapsichica siano stati fissati in taluni fogli, e con un'intensità praticamente unica. Impronte di tessuti e di corde sulla carta intrisa di nero, vedute di lontani castelli, boschi, tramonti, oppu re misteriosi geroglifici, trasmettono quel singolare timbro mentale che si realizza quando parrebbe manifestarsi la presenza di una realtà superiore ai sensi, sempre cercata e mai afferrata. Sono disegni nei quali circola sotterranea la presenza di un « quid » in-
181 definibile, tra il « corpo astrale » e l' « ectoplasma », tra la levitazione e la telecinesi. Sull'importanza di questi disegni per l'ulteriore storia della pittura francese ci sarebbe molto da dire. Il Simbolismo deve a essi molto, più di quanto non si voglia comunemente ammettere. Non c'è dubbio che li conobbe Odilon Redon; e certe immagini di Hugo sono proprio l'antecedente diretto delle sue misteriose apparizioni, dei suoi enigmatici geroglifici, dei suoi accostamenti tra negromantici e neopitagorici. E lasciando il debito verso Hugo di un Félicien Rops, si direbbe a volte che certe sue invenzioni siano state riprese anche da Magritte, rivedendole però al lume del dottor Freud.
Dalla cucina al disegno
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UN fatto risaputo che certe attività socio-culturali la cui nascita e la cui elaborazione avvennero in Italia sono poi continuate altrove, presso altri popoli e in altri Paesi. Una di tali emigrazioni è quella della cucina (un'arte cioè tra le più sottili e raffinate), scoperta nelle corti e presso l'aristocrazia italiana tra il Quattro e il Settecento, ma che, passata in Francia (e innestandosi su modi e tradizioni locali), è divenuta la cuisine francese; l'odierna « cucina tipica » italiana consiste nella sopravvivenza delle ricette dolciarie medievali (e non soltanto a Siena o in Sicilia) accanto a cui trionfa quello che un tempo era il ricettario dei poveri e dei contadini, cioè delle paste asciutte, del prosciutto con fichi o con melone (ma di certi piatti, come la bresaola, è forse lecito risalire a epoche preromane, aU'a,rea cioè della cultura celtica). In un raggio più strettamente figurativo, gli italiani furono i primi a raccogliere, studiare, ammirare i disegni degli artisti; ma questo aspetto del collezionismo e della ricerca storico-artistica, presto salito a insuperabili vette di compiutezza (basti pensare alla raccolta formata da Giorgio Vasari), cominciò spesso a scadere, già nel Seicento, verso aspetti da marchand-amateur, come in quel singolare personaggio che fu padre Sebastiano Resta (della cui collezione resta un importante nucleo nella Biblioteca Ambrosiana di Milano), per finire poi, tra il Sette e l'Ottocento, nella più sfrenata liquidazione a favore di mercanti soprattutto inglesi. E infatti, mentre nel Regno Unito andava crescendo la febbre per i disegni italiani (le collezioni formate da due pittori, Sir Joshua Reynolds e Sir Thomas Lawrence sono memorabili), qui da noi si faceva a gara per vendere, disfarsi delle raccolte di famiglia, con grande gioia di coloro che si trovavano sul posto forniti di denaro, come William Young Ottley o il pittore francese JeanBaptiste Wicar, che rastrellò Roma e l'Umbria dei disegni di Raffaello, per lasciarli alla sua città di Lille. Un siffatto atteggiamento di venale indifferenza continuò nel secolo scorso (allora emigrarono l'album di l acopo Bellini oggi al British Museum e il libro del Pisanello oggi al Louvre); e quanto agli storici dell'arte, si direbbe che considerassero il disegno come un fatto del tutto secondario, marginale, e non già quella spia di primaria evidenza per capire il significato e le intenzioni degli artisti nei momenti di assoluta sincerità, quando essi lavorano per se stessi e per chiarire le proprie intenzioni. Non sono certo mancate opere italiane dedicate al disegno; ma i grandi approcci critici, a cominciare da quello del Meder, le grandi raccolte di riproduzioni (i cataloghi dell'Albertina di Vien-
183 na, gli album della Vasari Society), le trattazioni monografiche (come quella dedicata a Gian Lorenzo Bernini del Wittkower), sono tutti stranieri. Una netta ripresa c'è stata qui da noi sin dagli anni '30 a opera di Carlo Ludovico Ragghianti, la cui azione di antesignano ha sortito una scuola di studiosi del disegno; e a sua moglie, Licia Collobi, spetta un'opera di grande rilievo, Il libro de' disegni del Vasari (stampato dal Vallecchi nel 197 4), mentre gli allievi della scuola pisana del Ragghianti hanno al loro attivo risultati non indifferenti. Ma il tema del disegno italiano viene ora riproposto da un'opera di vastissima apertura, e che resterà fondamentale per ogni ulteriore ricerca. t il Corpus der Italienischen Zeichnungen, 13001450, pubblicato dal Gebri.ider Mann Verlag di Berlino, e dovuto a Bernhard Degenhart, uno specialista che aveva iniziato il suo lavoro di ricerca prima del 1939; dopo la guerra egli si è affiancato ad Annegrit Schmitt, in un progetto di tale respiro da sgomentare anche i più temerari. Si tratta di una catalogazione critica, di sottigliezza capillare, di tutta la produzione italiana tra gli inizi del Trecento e la metà del Quattro; e non soltanto per i disegni dei pittori, sì anche di quelli dei ricamatori, fabbricanti di stoffe, scultori, orefici, ecc. senza contare le sinopie (cioè i disegni eseguiti a pennello sul muro prima di dare il via agli affreschi) e senza dire che molto spesso il disegno sconfina nella miniatura, costituendo il primo impianto, da finire con il colore. Bisogna dire che i disegni trecenteschi sono rarissimi; ciò non toglie che, grazie a una ricerca davvero ammirevole, i due autori hanno portato alla luce una quantità di esemplari sconosciuti o pochissimo noti, specie nel campo dei disegni eseguiti a commento di testi scritti. E qui non sono mancate le scoperte, anche grandi, come un esemplare di Simone Martini incluso in un manoscritto della Bibliothèque Nationale di Parigi eseguito per il cardinale Jacopo Stefaneschi (già noto come patrono dello stesso Simone e di Giotto). Né vanno taciute le curiosità, come i prodotti figurativi di Francesco Petrarca e di Giovanni Boccaccio, o come la ricostruzione di un libro di modelli decorativi (oggi disperso in varie collezioni e musei) dovuto a una bottega di artigiani di Venezia. C'è poi da dire che l'esposizione della materia non è pedante; e che il testo è gremito di materiale illustrativo di confronto, in quantità insolitamente abbondante. t ovvio che un lavoro di tale ampiezza lascia aperte molte ipotesi attributive, ed è prevedibile che molti punti saranno sottoposti, da parte di ulteriori studiosi, a revisioni e a discussioni; ma ciò non toglie che questi volumi resteranno nella 'letteratura sul
184 disegno italiano in una posizione attigua ai Drawings o/ the Fiorentine Painters di Bemard Berenson, e, quando la loro pubblicazione sarà ultimata, costituiranno uno dei più ricchi e singolari repertori figurativi per il periodo trattato. Ai quattro tomi già apparsi nel 1968, e dedicati all'Italia centrale e meridionale, si sono aggiunte poco fa altre tre parti, che riguardano Venezia e includono una serie di aggiunte e precisazioni relative all'area presa in esame in precedenza. Altri volumi, ora in preparazione, esamineranno l'Italia Settentrionale, mentre l'ultima parte riguarderà i disegni del Medioevo italiano. Davanti a un'impresa così gigantesca (che ricolloca gli studi storico-artistici di Germania al seguito della grande tradizione anteriore al 1933) bisogna dire che il bilancio nostrano risulta assai magro. Si è già detto di quel che ha raggiunto il Ragghianti con la sua scuola, e quanto alla ricognizione del materiale esistente nelle nostre pubbliche raccolte non sono mancate opere pregevoli, come il catalogo dei disegni della Biblioteca Reale di Torino, dovuto, per parte italiana, al compianto Aldo Bertini, e per quella straniera a Giovanni Carlo Sciolla, mentre è or ora apparso il primo volume dei disegni del Museo Correr di Venezia, di Terisio Pignatti, stampato da Neri Pozza. Una menzione a parte spetta poi al Corpus Graphicum Bergomense, tra cui è da segnalare il primo volume (con i disegni delle raccolte private bergamasche) a cura di Ugo Ruggeri, un altro allievo del Ragghianti. Ma accanto a queste e ad altre realizzazioni più o meno felici, resta il fatto che le grandi raccolte nazionali sono state studiate e catalogate soltanto in piccola parte, a cominciare da quella, davvero prodigiosa, degli Uffizi; in occasione di mostre monografiche o a soggetto, si sono stampati piccoli cataloghi (spesso di livello scientifico assai alto) includenti le sezioni esposte temporaneamente. Ma il corpo principale di talune raccolte maggiori rimane da esplorare e da classificare, particolarmente nelle sezioni del Sei e Settecento. E questo vale non soltanto per gli Uffizi, ma per Roma, per il Museo del Castello di Milano, mentre chissà mai cosa verrebbe alla luce da un'esplorazione sistematica di fondi considerati « minori », e anche in certe biblioteche. ~ di ieri la notizia che un disegno a sanguigna di Rembrandt è stato acquistato dal californiano Museo Getty per 573.000 dollari: la grafica dei grandi artisti è ormai considerata (e anche su un piano strettamente commerciale) allo stesso grado delle opere più elaborate e tecnicamente più finite. Non si direbbe che, salvo rare eccezioni, tale concetto stia prendendo piede anche da noi; lo indica il livello medio delle collezioni private formatesi negli ultimi decenni, poche di numero e deboli come contenuto. Eccellenti sono invece talune iniziative editoriali, di alta divulgazione e affidate
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a specialisti, come la collana dei Grandi disegni italiani della Silvana (di cui sono già apparsi circa dieci volumi) o l'altra dei Fratelli Fabbri, I disegni dei maestri, che si interruppe per la scomparsa improvvisa del suo curatore, Walter Witzthum, di prodigiosa, insostituibile conoscenza della grafica nostrana.-
E il rosa diventò odioso « LEI fuma troppe sigarette, e le aspira » mi disse il dottor Buschbaum durante una cena in casa di un famoso storico dell'arte a Princeton. « Quante al giorno? » « Credo sessanta », risposi. « Troppe, troppe. Cerchi di eliminare questo vizio, è molto pericoloso. » « Ho provato molte volte, ma non ci sono riuscito. » « C'è una clinica a New York che pratica un sistema infallibile. Ne domandi l'indirizzo al nostro comune amico Mario. » Non mi fu difficile avere i dati, e chiedere per telefono di essere ricoverato per un check-up e per liberarmi dal vizio del fumo. « Durerà un poco di più », disse la voce femminile, « e cioè dal lunedì mattina al venerdì pomeriggio. » All'ora fissata mi presentai e fui condotto alla stanza che sarebbe stata la mia dimora per quasi cinque giorni. Dalle due finestre la mid-town di Manhattan si vedeva secondo prospettive spettacolose; l'arredamento era semplicissimo ma piacevole,. tutto basato sul color lavanda su cui spiccava un grande mazzo di garofani rosa in un vaso di cristallo, oltre alla variopinta diversità delle scatole di sigarette che, di ogni tipo e nazionalità, erano accumulate in un grande piatto. Dopo una mezz'ora venne un'infermiera (di cui non mancai di notare il fisico superbamente plastico, accentuato dall'uniforme assai aderente); recava un bicchiere di liquido rosa. « Gli esami per il check-up cominceranno domani. Per ora beva questo e venga con me. » Un po' dolciastra, la bevanda non era però sgradevole; la mandai giù d'un fiato e seguii le ritmiche ondulazioni della nurse sino a molti piani più in basso, dove fui introdotto in una sala con uno schermo cinematografico di media grandezza e una sola poltrona, al centro. « Si sieda, prego », disse la nurse, poi mi lasciò solo; le luci si spensero e cominciò la proiezione. Nitida e severa, una voce maschile annunciò che si sarebbe visto l'effetto di anni e anni di fumo di sigarette sul fisico umano, mentre appariva un lungo corridoio di ospedale, poi una sala di attesa con alcune persone in preda a un'estrema angoscia, lacrime, singhiozzi. Ora, la sala operatoria, il paziente narcotizzato, un lenzuolo che lascia aperta una zona in corrispondenza del torace. Torace visto da vicino, mosso dal respiro, poi un bisturi che incide la pelle, col sangue che esce dilagando. La pelle viene rimossa, re-
187 stano i muscoli sotto cui l'impalco delle costole continua a sollevarsi e a scendere. La voce continua, ma non l'ascolto più. Vedo che i muscoli rossi sono tagliati, poi qualcosa di metallico, di estrema rapidità, tronca le costole, con un suono che scricchiola e ronza, mentre spruzzi di sangue ossa e cartilagini vengono proiettati all'intorno. Appare, mista a sangue, una sorta di pelle biancastra: è la pleura? Anch'essa viene incisa e sollevata, strappandola all'aderenza del polmone, nel rumore del distacco c'è come un che di lamentoso e di morbido. Il polmone, rosa, è mosso dal ritmo della respirazione lenta: il bisturi affonda nel rosa, taglia, rimuove, appare un'orrida palude di liquame nerastro, di ramificazioni dure e scure, dalle quali la lama fa spruzzare un bitume appiccicoso, schizzi e gocce oscurano la visione, poi tubicini di plastica, il rosa del polmone tagliato, ancora sangue, liquame, spurgo nero in una vaschetta bianca ... Quando le luci si riaccesero, serravo i braccioli della poltrona, mentre fissavo immobile lo schermo. La nurse entrò, senza dire una parola mi ricondusse alla mia stanza; era circa mezzogiorno. Mi portarono il vassoio con il pranzo, non toccai nulla, ma il filetto sanguigno, medium rare, mi riempì di disgusto; chiesi che il cibo venisse portato via. Restavo a occhi spalancati, davanti ai quali ritornavano le sequenze, accompagnate dai rumori e suoni penetranti. Non so quanto tempo passai in quello stato di assenza mentale; non mi accorsi neppure se l'infermiera che entrò a un certo momento fosse la stessa di prima; bevvi d'un fiato il bicchiere di liquido rosa (identico a quello del mattino) che lei mi porse poi la seguii docile sino alla sala già nota, dove la stessa pellicola mi venne proiettata una seconda volta. Adesso l'esperienza fu traumatica, anche perché ne conoscevo l'esatto svolgimento: i colori, specie il rosso e il rosa, possedevano una varietà di sfumature, di intensità e di modulazioni che non avevo mai conosciuto. Direi che i colori mi si rivelavano ora come qualcosa di nuovo, di infinitamente sottile e penetrante; i suoni erano altrettanto variegati, in una gamma straordinaria di timbri, tonalità, echi. Tornato nella mia stanza, chiesi che i garofani (rosa) venissero allontanati; poi, senza prender cibo, caddi in un sonno profondo e assai lungo. Dal giorno dopo cominciarono i test per il check-up; fui dimesso il venerdì pomeriggio, e richiesto di tornare la settimana seguente per ritirare i risultati delle analisi e discutere taluni dettagli relativi alla dieta prescritta. Il mercoledì, il dottore che mi aveva preso in carica era venuto nella mia stanza. « Vedo che non ha toccato le sigarette. Ma è pericoloso, dopo tanti anni, interrompere da un momento all'altro la razione di ni-
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cotina. Le farò portare i sigari; cerchi di fumarne non più di uno al giorno, e senza aspirare. » E questa è, da allora, la norma che seguo. Uscito dalla clinica, incontrai l'amico dal quale avevo avuto nome e indirizzo. Ridendo, mi chiese cosa pensavo del film, dei suoi colori, dei suoni. E quando gli risposi che ogni fotogramma era rimasto impresso nella mia memoria con una nitidezza quasi anormale, e che risentivo la colonna sonora passo per passo, mi disse qualcosa da farmi restare sconcertato prima, poi indignato. Nelle pozioni rosa, che avevo bevuto prima delle due sedute, c'era un miscuglio di tranquillanti, da cui era rimasta stemperata la mia possibilità di reagire; ma il miscuglio conteneva anche una piccola dose di mesca/, la droga dalla quale le mie percezioni cromatiche e sonore avevano sortito un'intensità e una sensibilità praticamente illimitate. « Ti hanno condizionato a non sopportare i colori rosso, e, soprattutto, rosa. » Ed è verissimo: anche giorni fa, sfogliando il bel libro di fotografie a colori di Fulvio Roiter, Firenze e la Toscana, giunto a tavola 211, la tenda rosa, da cui occhieggia la maschera, ha dato il via al processo meccanico (e contro il quale resto indifeso) che comincia col corridoio dell'ospedale, prosegue con parenti e amici che piangono, sale a vette supreme con la pelle incisa, le costole resecate, il pozzo nerastro in fondo al tessuto polmonare: il tutto accompagnato dal commento sonoro, netto, preciso, previsto. E a proposito della colonna sonora, il mio amico mi aveva rivelato un aspetto del trattamento da me subito che non avrei neppure immaginato. Ogni sera, nel cibo, mi era stato propinato un sonnifero; e mentre dormivo, un microfono, nascosto nel materasso o nella testata del letto, ripeteva, di nuovo e di nuovo, ogni notte, i suoni della colonna sonora del film, sì da inciderli nella mia memoria. Mi recai a ritirare i risultati del check-up, tutti positivi. Discussi i punti che mi interessavano, poi chiesi al dottore se credeva giusto trattare i suoi pazienti come cavie, drogandoli a loro insaputa, e sottoponendoli a qualcosa che pensavo fosse proibito dalla legge, come l'ipnopedia, di estremo pericolo: cosa potrebbe accadere se il nastro venisse sostituito con una sollecitazione a uccidere, o a eseguire qualcosa di criminale, insomma cosa non sarebbe possibile da una occulta strumentalizzazione di una pratica così delicata? Il dottore mi rispose con una domanda: non avevo forse chiesto di venir liberato dal vizio delle sigarette? L'esito era positivo. ~ in questo, aveva ragione. Sono passati diciotto anni, e oggi, se fumo, alla seconda sigaretta soffro di pruriti terribili, alla terza vengo afflitto da chiazze ros-
189 sastre su tutto il corpo. I sigari, invece, mi lasciano tranquillo. \1a quanto al mescal? Il dottore sorrise, e mi chiese di tornare per qualche ora, portando con me un disco di musica a me piacevole; a ogni modo nulla di oscuro, di engagé, di potenziale sconvolgen:e. Mi avrebbe offerto, aggiunse, un « omaggio della ditta »; pur esitante accettai, e tornai per tre ore alla clinica;· il disco era di Bach. Dovrei ora parlare di questa esperienza, relativa al mescal che mi venne-somministrato sotto controllo medico e in dose innocue. Se ne parlassi, dovrei tradire me stesso, come quando si rivelano segreti tra i più profondi. Dirò solo che fu un'esperienza religiosa, dalla quale la mia vita fu cambiata; fu l'esperienza più alta della mia vita, ineffabile. Ma non la ripeterei una seconda volta.
Lorenzo Lotto e il ciclone Borgia ABITUALMENTE, le mostre d'arte antica che di anno in anno vengono organizzate nelle varie città e regioni d'Italia sono di due tipi: quelle a carattere monografico (dedicate cioè a un artista o ai prodotti figurativi di un determinato luogo) e quelle a carattere ricognitivo (vi si espongono cioè i risultati di scoperte, ricerche e restauri curati dalla locale Soprintendenza per i beni artistici e culturali). Le manifestazioni di questo secondo genere sono le più utili e le più interessanti, se non altro perché il denaro che viene speso serve alla conservazione del patrimonio artistico nazionale. Quanto alle prime, non è infrequente (sebbene oggi più improbabile) che esse si trasformino in un palcoscenico su cui un qualche astro della corporazione universitaria si esibisce con il balletto delle sue scoperte; ci sarebbe da scrivere un bel saggio su certe mostre monografiche tra il 1950 e il 1965, che vennero pretestuosamente utilizzate per lanciare e avallare una rosa di « bidoni » quasi sempre appartenenti ad anonime e misteriose « collezioni private». Di mostre a carattere ricognitivo se ne è aperta una assai notevole a Siena, e comprende opere restaurate nel Senese e nel Grossetano durante il 1979 e il 1980. Commentata da un bel catalogo, essa è dovuta al soprintendente Piero Torriti, cioè a un funzionario che è un autentico prodigio di efficacia, attività, intraprendenza. Ma di questa mostra spero di parlare ad hoc tra non molto. Vorrei invece far notare come in questa inquieta estate del 1981 si possa visitare un'altra manifestazione di grande interesse, i cui caratteri sono però (almeno secondo la tipologia suggerita) ibridi. Se ne è già occupato, in questa medesima sede, il professor Marco Rosei (9 luglio 1981) che ne ha commentato taluni aspetti sui quali non vorrei insistere; mi preme invece rilevare come l'impianto della mostra, allestita in tre edifici di Ancona, sia equidistante dal tipo dedicato a un singolo artista come da quello che presenta il consuntivo delle attività degli uffici statali. Il titolo della mostra è: « Lorenzo Lotto nelle Marche. Il suo tempo. Il suo influsso »; e, in un certo senso, esso risponde a quanto è stato raccolto e catalogato, nella chiesa del Gesù, in San Francesco alle Scale e nella Loggia dei Mercanti. Ma ultimata la triplice visita, ci si avvede che l'eco del Lotto sui pittori locali fu assai scarso e irrilevante, limitandosi qua e là ad alcune citazioni del tutto superficiali e fuori di ogni contesto logico: tra l'altro, nessuno tentò neppure di accostarsi alla tecnica lottesca, o di studiare il suo impasto e il suo incomparabile modo di servirsi del pennello.
191 Direi anzi che la mostra indica come _la presenza del grande artista nelle Marche fu del tutto casuale, e lo indica proprio con l'abbondanza delle opere esposte. E sotto tale aspetto, la rassegna è di grande interesse per lo specialista, che può persino rammaricarsi dei suoi limiti; a questi provvede in parte l'avere esposto, accanto a dipinti veri e propri, una serie di fotografie a colori. di cose non richieste o per la loro fragilità, o per essere particolarmente difficili a spostare; e ci provvede anche il bel catalogo, dove sono esaminati ulteriori aspetti della cultura pittorica della regione nei decenni in cui il Lotto era sul luogo. Ma sarebbe stato interessante rivedere qui, ad esempio, la grande pala della Pinacoteca di Sarnano, con La Vergine che appare a San Francesco, pala che fu esibita nel 1973 in Urbino (catalogo n. 63) sotto un battesimo inattendibile: non sarà il caso, come credo, di ravvisare in questo singolare dipinto la stessa mano di quegli affreschi di San Catervo a Tolentino che il presente catalogo discute alla scheda 5? Se così, avremmo nella tavola di Sarnano il pezzo più antico di una personalità abitualmente identificata con Francesco da Tolentino. Ancora, lo specialista avrà modo di suggerire talune precisazioni: il numero 59, la Madonna del Soccorso di una chiesa di Recanati (qui esposta come di ignoto), spetta certamente al perugino Baldo de' Sarofini, del quale esiste un dipinto firmato nella Galleria Nazionale delle Marche in Urbino. E ancora, il numero 33, la Natività e Santi del Museo Albani di Urbino, presentata come della bottega di Timoteo Viti, mostra caratteri romagnoli assai spinti: ci si chiede se non sia un prodotto di Benedetto Coda, la cui presenza in territorio marchigiano non è improbabile, dato che già si conosce una sua puntata da Rimini verso San Marino. Ma non è in queste trouvailles di minuta filologia che consiste il grande interesse della mostra; sarà necessario, per metterlo a fuoco, rivedere idealmente la situazione della pittura marchigiana del Quattrocento, confrontandola con il panorama che risulta dal1'odierna rassegna. ~ un confronto che il catalogo discute in un saggio di Pietro Zampetti, Antefatti marchigiani per Lorenzo Lotto, e che nelle ultime righe condensa l'aspetto essenziale della situazione: come cioè le Marche con la perdita delle autonomie locali abbiano perduto anche la propria autonomia figurativa. Quando la storiografia artistica parla di « Scuola Marchigiana del Quattrocento », essa indica, sotto tale generica etichetta, una serie di piccole scuole locali, ognuna con i suoi artisti, e con precisa fisionomia di stile e di cultura: Fabriano, Camerino, Urbino, Recanati, e altri centri, hanno avuto, per il secolo xv, una loro produzione limitata nel numero, e le cui vicende si sono spesso com-
192 plicate in una serie di scambi, di reciproci apporti, di riflessi talvolta assai complicati nelle fasi e nei ruoli. A un certo momento, tale koinè (non ampia di respiro ma assai riconoscibile) viene a interrompersi bruscamente; e ciò coincide con la soppressione, a opera del papato romano, dei piccoli Stati autonomi, delle signorie locali, specie per la decisa, spietata azione di Papa Alessandro VI e di suo figlio Cesare Borgia, tra gli ultimi anni del Quattro e i primissimi del Cinquecento. Ora, la mostra di Ancona indica quale fosse la situazione dopo il passaggio del ciclone borgiano: il dato precipuo che se ne ricava è la scomparsa di una cultura figurativa autenticamente locale, e le opere sono di importazione, quando non vengano eseguite da pittori di passaggio, provenienti da Venezia (Lorenzo Lotto, Antonio da Solario), dalla Toscana (Signorelli) o dall'Umbria (Eusebio da San Giorgio, Bernardino di Mariotto). Insomma, è una situazione, quella delle Marche della prima metà del Cinquecento, di apporti casuali, senza un reale, effettivo nesso reciproco; e oggi, che si parla tanto di committenza e di significati sociali in essa impliciti, fa un certo effetto constatare come le scelte dei committenti dipendessero non da valutazioni qualitative, ma da quel che si trovava a portata di mano. E così, il duca Giovanni Maria da Varano si serve, nel 1512, di Venanzo da Camerino e Pergentile da Matelica, due sgargianti artigiani di provincia, mentre nel 1547 il sindaco di Mogliano (un paesetto in territorio di Macerata) commetteva a Lorenzo Lotto un grande capolavoro, tuttora in situ. Ed è da far presente che lo stato di acculturazione è tale, durante questi decenni, che non hanno conseguenze non soltanto la lunga e ripetuta attività del Lotto, ma neppure l'arrivo di due capolavori di Tiziano nella città di Ancona, o i soggiorni di due autentici geni del Manierismo, come Pellegrino Tibaldi e Battista Franco. Certamente, non mancarono allora nella regione marchigiana episodi di curiosa elaborazione formale, come in Girolamo Nardini, il cui gentile patetismo da sagrestia di provincia è una delle sorprese della mostra. Resta però il fatto, assai evidente, che la ripresa di un linguaggio figurativo di sapore locale si ebbe soltanto nella seconda metà del secolo, e in chiave di un Manierismo di tono minore, sollecitato dalle nuove esigenze della Controriforma cattolica. In questo senso è assai tipico Simone De Magistris, al quale si sarebbero potuti affiancare Andrea Lilio (che tuttavia è visibile nella Pinacoteca) e Andrea Boscoli, con il quale, piuttosto che con il Gentileschi, si sarebbe meglio conclusa la mostra. Il vero significato di questa importante rassegna si rivela, forse,
193 soltanto dietro le quinte, ed è l'azione della gerarchia cattolica che in un primo tempo distrusse il tessuto culturale delle Marche, per ritesserlo poi a livello diocesano, sino alla rete capillare delle parrocchie; una prova dunque in chiave figurativa di quel che la gerarchia ecclesiastica ha significato per certe zone dell'Italia.
I favolosi Templi Moderni « LA città è addormentata nella notte, e le strade, così affollate alla luce del sole, sono ora deserte, percorse soltanto da qualche passante che si affretta nella penombra della scarsa illuminazione, tra un fanale e l'altro. Ma, nel silenzio generale, c'è un angolo dove si innalza il tempio della luce e della bellezza: sotto la sua facciata, scintillante di mille lampade, la folla si assiepa per entrare nella vasta aula, e assistere al rito dell'amore e del sogno, della speranza, dell'avventura e della consolazione ... » Potrebbe essere la descrizione di un qualche centro medievale in una notte di solennità religiosa, con il Duomo illuminato a giorno; ma essa si attaglia perfettamente a una delle tante città minori dell'Inghilterra e degli Stati Uniti tra il 1925 e il 1940, anzi, tra il 1920 e il 1981 per ciò che concerne l'America, dove la sala cinematografica costituisce il surrogato laico di quella che fu la cattedrale nelle società sorrette da un'ideologia religiosa, prima che si affermasse la grande rivoluzione industriale. II paragone non è azzardato, se si tiene conto chel'età d'oro del cinema segue la grande tragedia della prima guerra mondiale, che con la sua funerea messe di morte, distruzione e dolore, aveva riaperto la via (sin allora sbarrata dal laicismo illuminista e positivista) all'irrazionale e alla religione. Ci voleva l'ulteriore catastrofe della seconda guerra mondiale per innalzare verso inattese vette le tre grandi religioni « rivelate »; ed è sintomatico che il loro revival coincida con il declino del cinema, con quel fatto cioè di enorme portata sociale e culturale, di collettività, che esso era stato sino al fatale 1 settembre 1939. Sull'importanza sociale e culturale del cinema la letteratura è infinita. Recente è invece l'interesse sul suo riflesso architettonico, anche se non mancavano qua e là libri a carattere locale. Ora sono apparsi tre importanti volumi, Movie Palaces, di Ave Pildas con una premessa di King Vidor (Clarkson N. Potter, New York), Cathedral of the Movies, di David Atwell (The Architectural Press, London) e Architectures de Cinémas, di Francis Lacloche (Editions du Moniteur, Paris); dei tre, l'ultimo è il più dotto e storicizzato, con un respiro più ampio, anche se per il materiale illustrativo il titolo apparso a New York rimane eccezionale. Ma è eccezionale anche perché i monumenti più straordinari (e anche più conservati) sono quelli realizzati negli Stati Uniti, dove spesso costituiscono (per il visitatore provvisto dell'indispensabile preparazione visiva e culturale) scoperte emozionanti e inattese. Anzi, è da rilevare che mentre in Europa certi esempi assai antichi
195 di architettura cinematografica vengono realizzati secondo forme assai individuali, dettate dalla funzione specifica (come l'Electric Palace di Harwich in Inghilterra, del 1912 e poco fa restaurato a fondo), negli Stati Uniti prevale ben presto la scala grandiosa, il cui opulento fasto si rifà a certe mode culturali '(come il Regent Theatre di New York, del 1913, in puro stile neorinascimentale) per approdare negli anni '20 alle più sfrenate, colossali imitazioni di Versailles, o del teatro dell'Opéra di Parigi. L'era delle cattedrali del film è preceduta da quella delle regge, con uno scialo di scaloni, colonne, stucchi e affreschi tale da rivaleggiare con gli ambienti cari al re Sole o a Napoleone III. Ancor oggi, l'ingresso all'Upton Theatre di Chicago è un'esperienza che intimidisce, anche se gli architetti George e C. W. Rapp non vi sono pervenuti a toccare l'aulica scenografia del Fox di San Francisco (di Thomas Lamb) o l'atmosfera palatial che nell'Orpheum Theatre di Los Angeles finisce con lo sconcertare nel diluvio di tappeti Aubusson, cornici, velluti e broccati. Ahimè, molte di queste incredibili stravaganze ·stanno scomparendo (non so se abbiano già distrutto il Loew's Kings di Brooklyn, anch'esso di Rapp and Rapp) come sono svaniti certi colossi tra cui il Roxy di New York (6200 posti) che, già mezzo demolito, servì di sfondo a una serie di drammatiche fotografie con Gloria Swanson in atto di dare l'addio alla sala. Per quanto deplorevoli, queste distruzioni (imposte quasi sempre dall'enorme aumento di valore delle aree nelle zone urbane) non hanno in genere infierito su quelli che sono gli esemplari più pregevoli e più interessanti dell'architettura dei Movie Palaces, quelli cioè che non furono ideati in chiave accademica o neobarocca, ma che costituirono dei veri e propri fatti di avant-garde, esemplificati cioè allo stile del momento, che era (nei casi più clamorosi) l'art déco. · Agli studiosi di questo stile in architettura e nell'arredamento consiglio di vedere attentamente due edifici che, se non erro, costituiscono due capolavori di non comune ricchezza, ambedue in California, uno in scala minore, l'altro di proporzioni monumentali. Il primo è di non facile accesso, trovandosi nell'isola Catalina, al largo davanti a Los Angeles. È l'Avalon Theatre, costruito come sala privata nel 1929 da Weber and Spaudling per la famiglia Wrighley. È difficile descrivere a parole (senza il soccorso di grafici e piante) la curiosa atmosfera evocata dall'interno della sala, dove una sorta di foresta di motivi déco in arancione cede a una volta stellata color rosa ciclamino, con un singolare e suggestivo effetto di irrealismo stilizzato. Ma gli aspetti più notevoli di questa ricca ed elaborata struttu-
196 ra vanno cercati nei dettagli decorativi delle sale d'ingresso e di attesa, con pannelli dedicati ad aspetti della vita dei fondi marini e delle foreste vergini: in questi il déco (anche per la presenza di esseri fantastici, e mitologici) fa pensare alla resurrezione, in chiave cubista e novecentista, del gotico internazionale, di eleganza quasi estenuata e calligrafica. Ma quanto all'art déco nei suoi aspetti monumentali, penso che l'esempio più straordinario sia il Paramount Theatre a Oakland, davanti a San Francisco. Avendo speso ore e ore a esaminare questo splendido edificio, inesauribile nella ricchezza delle sue strutture e decorazioni, posso garantire della coerenza, quasi delirante, di ogni dettaglio, dai tappeti alle vetrate, dagli stucchi alle poltrone. Accanto a un altro esemplare di Città del Messico credo che questo tempio californiano costituisca la quintessenza di un certo stile architettonico e di vita; ma anche per esso la parola risulta insufficiente se non è accompagnata da un adeguato corredo grafico. Ci si chiede ora cosa abbia prodotto l'Italia; ma c'è da dire che da noi il cinema, sebbene importante, non ha mai assunto il rilievo che ha avuto nei paesi anglosassoni. Forse perché questi sono protestanti, quindi mancano del cerimoniale cattolico, delle sue feste e processioni? Può darsi. A ogni modo certe sale cinematografiche, costruite in Italia negli anni '20 e '30, sono state abbattute e devastate senza che le autorità delle Belle Arti se ne preoccupassero. E il caso del raffinato Corso Cinema di Roma, di Marcello Piacentini, che ha subito rinnovamenti deleteri, o del Ghersi di Torino, demolito già quasi mezzo secolo fa per l'allargamento di via Roma. In altri paesi, dove la tutela delle Belle Arti è meno reclamizzata ma più efficace, le cattedrali cinematografiche sono sottoposte a stretti vincoli: così, soltanto a Londra 14 di esse sono considerate monumenti da tutelare, altre 15 tra Inghilterra e Scozia. Altrove si sta procedendo a restauri e ripristini di talune di queste cattedrali, anche quando, per mancanza di spettatori causata dalla televisione, esse sono state trasformate in sale per lotterie e scommesse. Intatta, e fulgida in tutto il suo splendore, resta quella che può considerarsi la chiesa madre, il sancta sanctorum della capitale del cinema, e cioè il teatro cinese di Hollywood, il celeberrimo Mann's Chinese Theatre. Nel suo cortile d'ingresso, le lastre di cemento che recano le impronte di mani e piedi degli attori più famosi assieme alle loro firme tracciate col dito, sono le reliquie di un culto non meno intenso di quello che portava i pellegrini a baciare le impronte di Gesù nella pietra del « Quo vadis? » a Roma, o i sassi del Golgota di Gerusalemme.
Ex voto, Cappella Sistina dei poveri L'ASSESSORATO alla cultura del -comune -di Rimini, assieme al Museo Civico e alla Biblioteca Gambalunga, ha organizzato una mostra, « Figura, culto, cultura », il cui interesse evade dal giro strettamente locale. Vi è esposto, praticamente al completo, il corpus dei dipinti votivi della Diocesi di Rimini, cioè circa 130 ex voto che si scalano tra il Quattrocento e i nostri giorni, e che vengono presentati dopo un accurato intervento della Cooperativa Restauro e Conservazione di Imola. Il catalogo (che, anche per riprodurre tutte le opere a colori, resterà fondamentale nella letteratura sull'argomento) include saggi di quattro dei componenti il comitato scientifico, cioè Pietro Meldini, Angelo Turchini, Piergiorgio Terenzi e Alessandro Sistri. C'è da prevedere che la mostra sortirà un'eco notevole negli ambienti specializzati, ma sarà ignorata o depressa dagli storici dell'arte del mondo ufficiale. Costoro (o la maggior parte di essi) ubbidiscono a un concetto aulico, esclusivo, di casta, della storia dell'arte: gli ex voto dipinti rimangono per essi in una sfera marginale, quella della cosiddetta « arte popolare », o addirittura del « folklore », che va respinta dalle trattazioni serie, accademiche, scritte col pennino d'oro. E queste (anche quando si ammantano di velleitari panni anticonformisti) rimangono legate ai vecchi sotterfugi di chi fa gli interessi del potere effettivo: sfido a reperire, in una delle varie Storie dell'Arte oggi in vendita in Italia, un adeguato discorso sull'arte cosiddetta popolare, anche quando l'autore del testo appartenga alla troupe dell'opportunismo di sinistra. Non è che in Italia sia mancato chi, da molto tempo, si accorgesse dell'esistenza e dell'importanza della pittura di ex voto: basti pensare alle voci raccolte nel 1970 da Paolo Toschi nella sua Bibliografia degli Ex voto italiani, o all'ormai rarissimo Gli Ex voto italiani di Giuseppe Vidossi, uscito a Catania nel 1932. I contributi nostrani sull'argomento pur non essendo così numerosi o antichi come quelli tedeschi, svizzeri e anche francesi (alcuni dei quali risalgono alla metà del secolo scorso) costituiscono autentici atti di pionierismo, nati in una società le cui mosche cocchiere della élite colta vivevano (e vivono) sul disprezzo e sull'emarginazione del popolo e della classe contadina. Oggi, l'argomento si ripropone sotto aperture più ampie e variate di quanto non fosse la raccolta e la descrizione dei testi dipinti (e quanti di questi sono andati dispersi negli ultimi decenni!). Ci si chiede, innanzitutto, quando nacque tale speciale genere di pittura: in questa mostra riminese il Quattrocento è rappresen-
198 tato da due pezzi, il Cinquecento da uno solo, mentre il numero sale per i secoli XVII e xvm (rispettivamente sette e tredici), per sortire il momento di massima produzione dell'Ottocento, presente con ben settantacinque dipinti; ai nostri giorni si direbbe che l'uso degli ex voto dipinti sia in declino, dato che per tutto il Novecento non si sono reperiti che sedici numeri. In effetti, questo diagramma cronologico è all'incirca lo stesso che si conosce per altri luoghi, e fa nascere il sospetto che l'azione del tempo sia la causa della rarità di esemplari quattrocenteschi e della totale mancanza di prodotti più antichi. E questo è ben possibile, non potendosi escludere che molti, anzi moltissimi ex voto dipinti siano andati persi a causa della loro veneranda età; tuttavia ci sono buoni motivi per ritenere che essi non esistessero (o che la loro presenza fosse minima) per quel che riguarda il Tre e il Duecento. Personalmente anzi credo che la nascita dell'ex voto dipinto così come lo conosciamo avvenga nel secolo xv, e per ragioni diverse, sociali, religiose, economiche e tecniche; questo è anzi uno dei casi in cui l'indagine storica deve far ricorso al marxismo come uno strumento insostituibile. La nascita della tavoletta dipinta, relativa a un miracolo della divinità o del santo protettore, avviene in corrispondenza del declino dell'affresco votivo, l'intonaco dipinto steso sulla parete del· la chiesa e del santuario, e che celebra l'intervento dell'autorità miracolosa mettendo bene in evidenza il nome dell'offerente e, quasi sempre, la data. Di questi affreschi sono spesso piene certe chiese del Trecento. ma un'indagine rivela che, a partire dalla metà del secolo xv, essi si ritirano verso la campagna. Gli edifici sacri delle città cominciano a escluderli, sia per la mancanza di spazio, sia soprattutto per il sorgere di una classe borghese urbana che prende sotto la sua tutela chiese e oratori importanti del centro cittadino: si pensi a Firenze, e al rapporto delle dinastie dei Rucellai o dei Pucci con Santa Maria Novella o con l'Annunziata. C'è poi la dicotomia della religione, che ora (e qui il discorso sarebbe troppo lungo) si spacca in religione « colta » e religione « popolare »; nel Medioevo una tale frattura non esisteva, e la Cattedrale rappresentava l'intero corpo sociale, dal signore all'ultimo mendicante, così come l'offerta votiva del potentato rifletteva nella totalità la piramide formata dal vertice del potere e dai suoi soggetti. Nel Quattrocento si assiste invece all'affermarsi delle cappelle gentilizie, sotto il patronato di una dinastia particolarmente fortunata nella politica o negli affari: la massa anonima sposta altrove le sue pratiche religiose.
199 C'è poi il fatto tecnico ed economico legato alla pittura a olio, infinitamente più rapida e meno costosa dei procedimenti a tempera o ad affresco; e le tavolette dipinte cominciano ad affermarsi in parallelo al diffondersi di tale nuovo procedimento, che abbrevia spese e tempi. Beninteso, non sono mai mancati (dall'antichità classica in poi) ex voto sotto forma di oggetti, in metallo, terracotta, o in cera, spesso deperibili; ma qui si parla di dipinti e non di manufatti come se ne fabbricano ancora oggi in tutto il bacino mediterraneo. Ci sarebbe anzi da effettuare una curiosa ricerca sul rapporto tra ex voto dipinti (o di altri tipi) e il Concilio di Trento; ma non vorrei annoiare il lettore sull'esito di un'indagine del genere. Merita invece sottolineare l'enorme diffusione che il tipo che ci interessa sortì nell'Ottocento: perché? Si deve rispondere rammentando gli effetti della Rivoluzione francese, e l'affermarsi di una classe media che impose le proprie finalità anche ai fatti della religione: chi abbia visto le messe domenicali in certe chiese di Roma (ad esempio San Roberto Bellarmino) con il loro show di elitismo classista e di fasto economico, comprenderà cosa voglio dire. E l'Ottocento è anche il tempo in cui le città si dividono in quartieri « per bene » e in quartieri popolari (una spaccatura che non era mai esistita in precedenza), l'epoca cioè delle zone di villini e di borgate, secondo una topografia classista inedita, ripetuta anche nei luoghi di svago estivo o invernale, quelli scelti per la villeggiatura, dove si sono ripetuti gli schemi della città, con i suoi riti sociali e simbolici. t a questo punto che la religiosità popolare, sentendosi emarginata ed esclusa, trova compenso nelle pitture votive, donate a santuari speciali, che ora vengono ad assumere un ruolo in precedenza assai meno cospicuo. Il momento più intenso delle tavolette votive coincide con quella speciale struttura religiosa che riflette il tipo di concezione sociale all'opposto dell'estrema mobilità del tessuto socio-economico proprio ai Paesi protestanti di lingua anglosassone. Ci sarebbe poi da indagare se esista un rapporto tra l'ex voto figurativo ottocentesco e la fortuna del costume locale, che in molti luoghi viene a coincidere nel tempo. Sotto l'aspetto più strettamente figurativo, le tavolette votive sono di grande interesse, anche se apparentemente monotone; spesso mostrano singolari esempi di « spiazzamento », come quello del!'Aurora di Guido Reni che appare in un esemplare del 1923 a Villa Verucchio, sollecitato da un incidente di auto. Del resto, grandi artisti non disdegnarono di eseguire opere del genere; ne rammento una, attribuita al Pordenone, che fu nella Collezione di Vittorio Cini a Venezia, o un'altra, splendida, dovu-
200 ta a Gian Domenico Tiepolo e che passò nel 1979 in un'asta d.c Christie a Londra. Il rapporto tra ex voto dipinti e arte colta mi fa pensare alle Variazioni su una filastrocca del musicista ungherese Ernst vor. Dohnanyi, morto nel 1960, dove il motivo base (una sorta di ninna nanna popolare) suonato al piano con un dito solo, si trasforma in una successione di brani colti, nello stile di Brahms, Richarc Strauss, Dukas, divenendo di volta in volta valzer, marcia, passacaglia, fuga, e così via. Dohnanyi eseguì questo concerto come pezzo di bravura, di ironico divertimento; ma credo che esso nasconda una profonda verità, come è la stretta interdipendenza tra arte high-brow e arte « popolare », tra due poli cioè di un'unica sostanza che in nessun modo può essere considerata a settori, tanto meno isolati, meno che mai nell'esclusione reciproca.
Un favoloso collezionista DURANTE la mia prima visita a New York, verso la fine del 1957, ricevetti un'inattesa telefonata: era Carl Hamilto_n, il più grande collezionista americano degli anni '20, poi finito nel nulla, che mi chiedeva insistentemente di incontrarlo. Molto sorpreso (data l'aura favolosa che circondava quel nome), fissai l'appuntamento ma rimasi sconcertato dal luogo stesso dell'incontro, una stanzetta di un ospedale di secondo o terz'ordine, dove l'ex miliardario, ricoverato per un male ai reni, stava a letto circondato da complicate apparecchiature mediche. Notai che accanto a lui c'era una montagna di fotografie di quadri. Venne subito al motivo della chiamata: « Mi sto occupando della formazione di un Museo di Stato nella città di Raleigh (North Carolina). La Fondazione Kress ci ha promesso un dono cospicuo di quadri, questi qui » - indicando le foto ammucchiate - « sono i dipinti che ci vengono offerti e tra i quali dobbiamo scegliere. Le chiedo di estrarre le foto dei più importanti, formando un gruppo di quaranta o cinquanta pezzi. Mi fido di Lei. L'avverto che per questa prestazione non riceverà un soldo, dato che si tratta di cosa di interesse pubblico. Accetta? » Accettai, a condizione che il mio nome venisse citato nei cataloghi a stampa, e mi misi al lavoro. Scartai subito i quattro quinti delle foto, e ne presi con me un centinaio. Dopo tre giorni tornai a vederlo e gli sottoposi la mia scelta, esprimendo però i miei dubbi sull'eventualità che la Fondazione Kress acconsentisse a una richiesta così importante. « Non si preoccupi », mi rispose Hamilton, e aveva ragione. Tutto finì bene, e il Museo di Raleigh possiede oggi opere come il polittico di Giotto per la Cappella Peruzzi in Santa Croce a Firenze (in perfetto stato e che io considero il quadro del Trecento più importante negli Stati Uniti), le cinque tavolette del bolognese Jacopino di Francesco, una Madonna di Paolo Uccello, la Assunta di Massimo Stanzione, la pala del Domenichino già nel Duomo di Fano, oltre ad altri quaranta pezzi tutti assai notevoli. Ma il mio nome non è mai apparso nei cataloghi del Museo; pazienza! C'è invece da dire sul retroscena del dono, concesso dalla Fondazione, nata grazie a Samuel H. Kress, un minatore (così dicono) poi assurto alle vette della ricchezza grazie a una serie di negozi five-and-ten, cioè empori, sparsi in molte città degli Stati Uniti, e dove si vendevano soltanto merci che costavano cinque e dieci cents. Oramai ricchissimo, Kress aveva rivelato una passione insaziabile per i dipinti di alta epoca, mettendone insieme, dal 1928 in poi, circa tremila, alcuni di eccezionale importanza.
202 Per amministrare una raccolta così enorme, nacque la Fondazione, e, dopo vari progetti, venne deciso di distribuire i dipinti in vari Musei: una prima sezione venne donata alla Galleria Nazionale di Washington (aperta nel 1941), mentre gli altri gruppi si sarebbero dovuti donare alle città dove Kress aveva i suoi negozi. Tra esse non c'era però Raleigh; ma Hamilton, che era stato incaricato di occuparsi dei dipinti da esporre nel locale Museo (deciso nel 1947) giurava che Samuel Kress, durante una visita sul luogo molti anni prima, aveva promesso un grande dono di capolavori qualora fosse stato istituito un pubblico edificio capace di contenerli. Di tale promessa non esisteva prova scritta, né era possibile chiedere conferma a Samuel, oramai immobilizzato e privo di parola. Hamilton quindi cominciò a tempestare Rush Kress, che era succeduto al fratello quale capo della Fondazione, assillandolo senza tregua e recandosi persino a Tucson in Arizona, dove la famiglia Kress si trovava in vacanza. Fu lì, durante una cena, che l'ebbe vinta. Un commensale citò per caso un versetto della Bibbia, e venne redarguito da Hamilton, che, sottolineando un errore nella citazione, continuò recitando il seguito per molti minuti. Alla domanda di Rush sulle cause di tale conoscenza, Hamilton rispose di conoscere a memoria tutta la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento; e poiché i presenti erano scettici, portata una copia dei Sacri Testi, si constatò che, qualsiasi pagina si aprisse, dal primo versetto della Genesi all'ultimo dell'Apocalisse, egli era capace di recitarlo senza intoppo o limite. Fu così che Rush Kress venne persuaso di concedere il dono alla città di Raleigh: un uomo così non poteva certo mentire. Ma chi era Carl W. Hamilton? Nato nel 1886 in un piccolo villaggio della Pennsylvania, e rimasto orfano di padre (la madre si sosteneva facendo la lavandaia) era stato avviato a un duro e precoce lavoro nelle fonderie di Pittsburgh. Ben presto aveva attirato l'attenzione di un pastore protestante che prese a proteggerlo (onde la sua inaudita conoscenza delle Scritture), poi di Mrs. E. H. Harriman, la madre del celebre collaboratore di F. D. Roosevelt, Averell Harriman; e da lei fu inviato a studiare a Yale. Qui il giovane Hamilton si fece subito notare per il suo spirito intraprendente e la sua insolita capacità di far soldi; una delle imprese che ideò e portò avanti con successo fu una stireria-lampo per i vestiti degli studenti, di altre, non meno proficue, sarebbe lungo parlare. Nel 1915, quando la guerra impediva l'arrivo in America dell'olio di oliva con cui fabbricare il sapone, Hamilton pensò di estrarlo dalla mandorla delle noci di cocco, e si recò nelle Filippine; l'olio di copra fu il suo grande colpo, e divenne proprietario di una delle isole minori dell'arcipelago.
203 Verso il 1920, Carl W. Hamilton (avevo dimenticato di dire che questo nome se lo era inventato, come spesso accade in America, quello vero non saprei dirlo) abitava in un lussuoso duplex al 270 di Park Avenue a New York, non lungi dalla Grand Centrai Station; e il suo appartamento era uno dei più straordinari Musei mai costituiti. A parte mobili, tessuti, sculture, oreficerie, alle pareti splendevano opere come la Annunciazione del Beato Angelico (ora a Detroit), la Crocefissione della bottega di Pier della Fran·cesca (oggi a Princeton), il meraviglioso Giovane col berretto rosso del Botticelli (Washington), una superba Madonna di Fra Filippo Lippi (che anni fa mi capitò davanti inattesa, in una banca di Zurigo), il San Giovanni Battista nel deserto, di Domenico Veneziano (Washington) e, soprattutto, uno dei più tonanti capolavori dell'arte italiana, il Baccanale degli Dei di Giovanni Bellini e Tiziano (Washington), eseguito per Alfonso d'Este, per non citare la Giuditta di Andrea Mantegna (Washington). Verso il 1927 (e cioè prima del « venerdì nero ») avvenne la catastrofe, e C. W. Hamilton si trovò a sedere nudo sul marciapiede. Perché? C'è chi dice che avesse garantito per un amico poi insolvente, ma altri sostengono che le cause furono diverse. Comunque, i dipinti furono venduti, uno dei principali acquirenti fu Sir Joseph (poi Lord) Duveen, che era stato in precedenza il loro venditore. Poi, dopo due o tre anni, la resurrezione; di nuovo Park Avenue, quadri come il Botticini e il Francia oggi al Metropolitan, e una splendida raccolta di primitivi russi; ancora il crollo, dal quale non doveva più risalire. Hamilton mi fu grato, a modo suo, per il lavoro condotto in pro di Raleigh. Saputo, nel 1963, che ero a New York, mi invitò a cena, facendomi conoscere quella meraviglia che era The Palm dove si serviva soltanto coda di aragosta alla brace; poi mi condusse al suo alloggio, in uno squallido alberghetto della 38a East. La camera, poverissima, era ingombrata di scatole di cartone; ultimo avanzo dei passati splendori era una minuscola armatura, completa di cosciali e celata, per un bambino del Cinquecento italiano. Aprì una delle scatole: « Ecco una delle creazioni d'arte più alte di tutti i tempi », disse, e cominciò a stendere davanti a me degli enormi fogli di pergamena, miniati, con meticolosità da lente di ingrandimento, da un monaco russo, sfuggito alla Rivoluzione da un monastero sul lago Ladoga. Ogni pagina era basata su uno stile diverso, con una ricca cornice che da (per così dire) neolitica, assira, egizia, greca, romana, barbarica, eccetera, giungeva a toccare lo stile del Rinascimento. All'interno della cornice era scritto qualcosa in caratteri del medesimo stile; ma nelle cornici, medaglioni di un realismo sfacciato mostravano sempre lo stesso giovanotto, in atto di giocare a ten-
204 nis, ballare, guidare l'auto, leggere. « Era una creatura superba e meravigliosa », disse Hamilton, « un incidente di auto l'ha fatta sparire. » In breve, i fogli erano la regola, mai completata, di una confraternita segreta che Hamilton aveva creato, in memoria di un giovane atleta della Yale University, campione di tennis. Mi furono allora chiari molti punti, dal pastore protestante all'occhiata (rapidissima ma densa di significato) che il portiere portoricano mi aveva lanciato mentre entravo con Hamilton nell'alberghetto. Ma su questo argomento non si ebbe seguito, come non l'ebbe il tentativo di portare la conversazione su temi religiosi: lo chiusi immediatamente dicendogli che sono d'accordo con Voltaire, che la teologia sta alla religione come il veleno al cibo. Carl W. Hamilton morì il 4 febbraio 1967; mi era venuto a trovare a Roma pochi mesi prima, pregandomi con le lagrime agli occhi di aiutarlo a vendere un dipinto che lui riteneva di Tiziano, in realtà una crosta senza valore. La parabola dell'astro era oramai giunta al tramonto completo; ed è per questa vicenda che, nonostante tutto, ho di lui un ricordo che, a pensarci, mi fa stare un po' a disagio, con una punta di rimpianto.
Quelle tele dipinte dall'Ecclesiaste LA Galleria Lorenzelli ha aperto il 18 settembre [ 1981] un'altra delle sue mostre di pittura antica dedicate al tema della « Natura morta » e dei suoi affini. La serie di manifestazioni prese l'avvio nel 1968, con « Natura in posa », che riguardava i pittori italiani di quel genere, e che fu seguita, nel 1971, da una seconda mostra dallo stesso titolo, ma che esponeva opere di artisti fiamminghi, olandesi, tedeschi, francesi e spagnoli. L'anno scorso, con « Inganno e Realtà», fu il particolare tipo di immagine, denominato abitualmente trompe-l'oeil, a venire investigato; e oggi è la Vanitas, cioè quella varietà di « natura morta», in cui viene svolto il tema del tempo, della caducità delle cose umane e dell'inevitabilità della fine di tutto ciò che costituisce il mondo fisico. Ciò che sorprende in queste manifestazioni promosse dai Lorenzelli padre e figlio è la quantità e la qualità dei dipinti che vi vengono esibiti, in particolare nelle due ultime occasioni; perché se è abbastanza (ma sino a un certo punto) facile riunire opere italiane o straniere come quelle che apparvero nelle due mostre più antiche, è davvero un'impresa reperire un tal numero di tavole e di tele che rientrino nell'« Inganno» o nella «Vanità», due soggetti inconsueti, o almeno di non comune produzione. Ma accanto al tono sostenuto c'è da ricordare i cataloghi, che la Galleria Lorenzelli affida a specialisti e che, per i saggi introduttivi, la discussione critica delle schede e le nutrite bibliografie, costituiscono veri e propri contributi ad alto livello, ai quali dovranno rifarsi anche i più minuti specialisti. Il catalogo odierno, affidato ad Alberto Veca, è una pietra miliare nello studio della « Vanità », oltre che per il testo anche per quasi duecento illustrazioni di accompagno (oltre quelle delle quarantotto opere esposte); i vari e numerosi sottotipi nei quali si svolse il tema ne risultano in modo assai evidente. Alla lettura di queste pagine, e, più ancora, davanti ai dipinti visibili in originale, non si può fare a meno di chiedersi a cosa fosse dovuta la nascita di una tematica così pessimista, così poco fiduciosa nei valori di successo materiale, di cultura, di potere; e la domanda diviene più insistente al constatare il favore che il tema della Vanità sortì in tutta Europa, favore che risulta a dir poco incomprensibile per chi, come noi, vive in una società industriale, il cui reddito ha avuto, in poco meno di una generazione, un aumento che in altri tempi non si immaginava neppure o che necessitava di secoli di svolgimento. f: un fatto ben noto che l'ambiente socio-culturale in cui viviamo (e per noi intendo i paesi industrializzati cui appartiene anche
206 l'Italia) ignora o cerca d'ignorare la morte. Nei casi estremi, cioè in certe città degli Stati Uniti, il decesso dell'individuo è divenuto l'occasione non più di una cerimonia funebre, ma di una vera e propria festa. Chi ha avuto modo di visitare una Funeral Church di New York o di altri tra i maggiori centri statunitensi non potrà mai dimenticare lo spettacolo (per fortuna non molto frequente) del defunto imbalsamato e vistosamente truccato, dal volto sorridente, e con il corpo messo a sedere su una poltrona o su un divano in un angolo di una sala, protetto da cordoni e circondato da canestri di fiori; nella sala accanto parenti e amici sono raccolti non già a pregare o piangere, ma per dedicarsi a una riunione a base di liquori e dolci, in mezzo a un cicaleccio assordante. È un vero e propro cocktail-party di addio; e nei cimiteri più vistosi (come l'incredibile Forest Lawns di Los Angeles) i lunghi e alti corridoi rivestiti di loculi innumerevoli sono abbelliti da statue marmoree molto spesso di tema sfacciatamente erotico, mentre le tombe sparse nei verdi e lussureggianti giardini sono quanto di più nascosto e discreto si possa immaginare: a Natale, quelle dei bambini vengono provviste di piccoli abeti agghindati a festa, né mancano altoparlanti che diffondono cori e canzoni allegri. La morte, dunque, vi è volutamente mascherata in ciò che essa ha di pauroso, di orrido, di rivoltante. Nell'antichità classica (e intendo il mondo greco-romano) non si era certo giunti a tali aspetti, ma anche lì la morte veniva considerata sotto un'ottica ben diversa da quella che poi si diffuse e divenne comune: basta vedere i monumenti funerari per rendersene conto. Il sepolcro greco mostra il defunto in un momento della sua vita quotidiana, oppure ne esalta gli atti di valore, di eroismo, di abnegazione, costituendo cioè un esempio morale per i posteri; e lo stesso si riscontra nei rilievi e nelle iscrizioni tombali romani, dove si insiste sul valore del defunto, sulle sue virtù civiche e familiari, sul suo cursus honorum, e dove, al massimo, il soggetto di certi rilievi di sarcofagi verte sull'ineluttabilità del fato e sugli aspetti irrazionali della dipartita. Tutto cambia nel III secolo, in concomitanza con la gravissima crisi politica, sociale, economica dell'Impero, con le terribili epidemie che lo devastarono, con le prime spinte esterne che poi diverranno le invasioni barbariche. È questo il momento di diffusione del cristianesimo e delle religioni orientali di redenzione; e al concetto di sopravvivenza dei romani (un po' vago e posto sotto l'insegna degli Dei Mani) si sostituisce quello della sopravvivenza assolutamente individuale, cui si augura la pace eterna. Ora, man mano che aumentano le preoccupazioni per l'aldilà, la vita sulla Terra viene considerata sotto una luce di effimera caducità, di vanità inutile ed epidermica, secondo un percorso men-
207 tale che tocca l'apice quando Roma (la capitale simbolo dell'intramontabile, eterno potere imperiale) viene invasa e saccheggiata dai goti di Alarico, nell'agosto del 410. t il momento delle riflessioni di san Girolamo, del suo considerare l'assoluta v_anità della vita, della preminenza del metafisico sul fisico; e il motto biblico diviene ora quasi il simbolo di un siffatto atteggiamento mentale: « V anitas vanitatum, et omnia vanitas ». t un'invocazione disperata, contenuta nell'Ecclesiaste, un libro scritto in un momento tragico per il popolo ebreo, sottoposto alla dominazione dei pagani Re seleucidi. Ma è lo stesso motto che doveva poi trovare nuove fortune al momento della nascita dell'Europa moderna, al tramonto del mondo feudale e della contrapposizione tra l'ascesa delle città e la crisi delle campagne. Oggi, con l'abbandono della ricerca storica intesa come successione di date, battaglie e monarchi (e con il crescere della ricerca basata su documenti vivi, dai quali emerge la realtà quotidiana in tutti i suoi vari aspetti), oggi dicevo, si comincia a intravedere l'aspetto tragico, quasi sconnesso, di quella società agitata da una profonda trasformazione. Non erano soltanto le guerre ad accentuare il contrasto tra gli elementi che componevano il tessuto sociale, e neppure la terribile esperienza della peste nera del 1348, a sollecitare una visione pessimista delle vicende umane; ascese e crolli di fortune, masse di contadini urbanizzati e spinti alla fame o al delitto, bande di criminali disposti a tutto, estrema severità della repressione: nessuna meraviglia che in un siffatto clima sia nato, in pittura, il tema della « Danza macabra », e che le espressioni figurative dell'Europa occidentale accolgano ora tutta una serie di motivi invitanti alla meditazione sulla fragilità della condizione umana e sull'inevitabilità della morte. Sono temi e motivi eh~ non tramonteranno per secoli, sortendo anzi nuova vitalità nel Seicento, in una congiuntura cupa come quella della Guerra dei Trent'anni e dell'avanzata turca, del tramonto dell'Impero spagnolo e della reviviscenza delle guerre di religione. t questo il momento in cui la Vanitas pittorica riprende vigore, anzi si definisce in tutti i suoi diversi e molteplici capitoli e nelle sue variazioni tematiche, bene discusse dal Veca nel saggio introduttivo; ed è curioso rilevare il revival che sortisce in certi momenti l'immagine di san Girolamo, ora rappresentato accanto a un teschio. Vorrei aggiungere che la V anitas si estingue, come tema morale e metafisico, nel Settecento, per sparire nel secolo scorso. Ma certi suoi spunti parrebbero ritornare, sebbene in chiave secolarizzata, nel pessimismo assoluto, totale di certa produzione contem-
208 poranea, ad esempio nella tremenda, inutile solitudine dei personaggi di Duane Hanson. In effetti, il tema figurativo della Vanitas è il riflesso di uno stato d'animo, lo stesso che in certa letteratura spagnola del Seicento ha toccato accenti di altissima poesia. Nel vedere i dipinti esposti nella Galleria Lorenzelli mi viene in mente la messicana Sor Juana Ines de la Cruz (1651-1695) e il sonetto da lei dedicato a un suo ritratto: nonostante l'« engafio colorido », e « los falsos silogismos de colores », una volta che lo si guardi bene a fondo esso « es cadaver, es polvo, es sombra, es nada ».
Berenson controluce ANNI fa, la RAI-TV decise (finalmente!) di occµparsi di Bernard Berenson; ma invece di elaborare qualcosa di nuovo e di originale (impresa per la quale non sarebbero mancate fra noi le persone adatte) ripiegò su un servizio, non freschissimo, dovuto alla BBC, e in cui fungeva da mentore Lord Clark. Si pensò anzi di aggiornarne la versione italiana affidandosi a uno storico dell'arte nostrano; per colmo dell'ironia la scelta cadde su un personaggio al quale Bernard Berenson aveva sempre vietato l'ingresso in casa sua, considerandolo (lui violentemente antifascista) un servo del regime mussoliniano, oltre che studioso di nessun valore. Ricordo anzi che verso il 1950 avendo io pronunziato per caso il nome di costui, Berenson esplose (lui così compito) con una violenza che non mi sarei mai aspettato, e adoperando una serie di aggettivi in lingua italiana che avrei pensato estranei al suo ricercato vocabolario. L'episodio della trasmissione televisiva appartiene, in fase postuma, alle sfortune che Berenson sortì nel Paese dove tuttavia visse per quasi tre quarti di secolo. :È vero che l'alta cultura italiana non mancò di riconoscere gli straordinari meriti dello studioso, del collezionista e del conversatore, basti pensare all'amicizia con Gaetano Salvemini, Benedetto Croce, Mario Praz, e, tra gli storici dell'arte, con Pietro Toesca e con Roberto Longhi; ma proprio il rapporto con quest'ultimo è significativo nel suo svolgimento e nelle conseguenze sul piano culturale. Non so se Longhi avesse incontrato Berenson già prima del 1920, ma è certo che dopo questa data l'amicizia tra i due segnò un continuo crescendo, sino ad accordarsi su un'edizione in italiano delle opere di Berenson, di cui Longhi sarebbe stato il traduttore e il curatore. Gli scritti in questione erano i quattro volumi che avevano reso celebre il loro autore nel mondo, cioè The Venetian Painters o/ the Renaissance (1894), The Fiorentine Painters (1896), The Centrai Italian Painters (1897) e The North Italian Painters (1907). Ignoro a che punto fosse giunta la traduzione del Longhi, sollecitata pare soprattutto da Mary Logan, la moglie di Berenson; ma verso il 1925 l'impresa si arrestò per un'improvvisa quanto clamorosa rottura, che doveva durare trent'anni. Quali che ne fossero le cause resta un mistero; Nicky Mariano (l'angelo tutelare di Berenson dopo la scomparsa della moglie nel 1945) sosteneva che era stata proprio Mary (dal carattere notoriamente pestifero) ad allontanare Longhi dopo averlo preso sotto la sua diretta pro-
210 tezione, esprimendo critiche pretestuose sul suo modo di tradurre, vilipendendo il suo stile letterario, sottoponendolo a una sorta di censura che Longhi non poteva in nesi,un modo tollerare. Ma credo che la ragione principale sia individuabile nell'eccezionale statura di studioso del Longhi, le cui enormi doti di conoscitore andavano affermandosi sul piano internazionale, sì da far ombra a chi si credeva da tempo the ultimate authority nel campo della pittura italiana dal Due al Cinquecento, e che non ammetteva rivali. Io stesso conservo una lettera scrittami da Berenson nel 1948, nella quale mi rivolge il consiglio di non occuparmi di territori « già arati da altri » (e cioè la pittura umbro-marchigiana del Tre e del Quattrocento della quale cominciavo a interessarmi) rivolgendomi invece a epoche e scuole più tarde, quelle che lui, Berenson, aveva lasciato fuori delle sue ricerche. E quando poi si accorse che non lo seguivo, mi chiese un giorno a muso duro se non mi fossero venuti a noia dei pittori, come i Quattrocentisti dell'Italia Centrale, che lui stesso deplorava di aver studiato quando era giovane e ingenuo. Comunque, nonostante la rottura, i rapporti tra Berenson e Roberto Longhi rimasero basati su una reciproca, altissima stima, anche se il secondo non mancava di sottolineare, con la sua incomparabile pungente ironia, taluni aspetti snob e collet monté della vita mondana che si andava svolgendo ai Tatti, la villa di Berenson a Settignano, divenuta, dal 1945 in poi, una sorta di palcoscenico rituale di quel mondo anglosassone che oggi è quello dei jet-setters. Ma dal punto di vista degli studi, mi sentivo spesso chiedere da Berenson cosa pensasse Longhi di questo o quel quadro, particolarmente difficile quanto all'autore, mentre i corsi universitari del Longhi erano gremiti di citazioni e di riferimenti a colui che egli riteneva il grande continuatore dell'opera del Cavalcaselle (non del Morelli, così amato dal Berenson e così disprezzato da\ Longhi). Nel 1950 accadde poi la vicenda della cattedra di storia dell'arte dell'Università di Roma, promessa al Longhi dopo un lungo lavorio di accordi e di contatti, e poi negata, all'ultimissimo momento, con una manovra in cui la vendetta personale si mescolava all'intrigo; Berenson mi fece chiamare (lui non parlava mai al telefono) pregandomi di esprimere al Longhi il suo sdegno per il tentativo (cito testualmente) di « offendere e deprimere un genio a favore di un insetto » (chi si insediò nella cattedra romana era un personaggio provinciale particolarmente deriso da Berenson). Ma torniamo alle opere del Berenson e alla loro pubblicazione in italiano; questa avvenne soltanto nel 1936, a opera di Emilio
211 Cecchi, con un ritardo cioè di almeno altri dieci anni, con quella sfasatura cronologica che è stata (e spesso è) tipica della cultura italiana nei confronti di ciò che veramente conta tra i prodotti stranieri. E anche questo è uno dei capitoli della sfortuna di Berenson in Italia, seguito poi dalla questione razziale (egli era israelita di nascita, ma si era presto convertito al cristianesimo, poi al cattolicesimo). Due sicofanti del regime (di cui Berenson faceva apertamente nome e cognome e che oggi, manco a dirlo, stanno a sinistra) tentarono, ne era certo, di fargli confiscare casa e collezione, e di espellerlo dall'Italia; nell'archivio dei Tatti dovrebbero trovarsi dei documenti di questa vicenda, e, nel caso, sarebbe bene renderli noti. Oggi la sfortuna continua, con la pubblicazione del volume di Meryle Secrest, Bernard Berenson, una biografia critica, già aspramente stroncato al suo apparire, nell'ottobre del 1979, da parte di molti storici dell'arte, tra cui Sir John Pope-Hennessy. Bisogna riconoscere che il lavoro di preparazione per queste pagine è stato enorme, come del resto era necessario trattandosi di una personalità dalla vita così inconsueta e dai rapporti così vari, molteplici e straordinari. Purtroppo, all'autrice sono mancati mente e mano per sintetizzare i dati, così che ne è venuto fuori un interminabile pettegolezzo, ben lontano dal delineare il profilo di un uomo fuori del comune, della sua formazione e della sua rete di amicizie (e a volte, come con Bertrand Russell, di parentela) con ciò che di più alto è apparso nella cultura della prima metà del Novecento. La trattazione di Miss Secrest è poi viziata da un assunto moralistico, del genere dissacrante, condotto in modi persino penosi: un conto sono le attribuzioni di quadri pronunciate a fini disonesti (ma chi è in grado di fare un processo alle intenzioni?), e altra cosa è gettare nel piatto anche quelle ipotesi di lavoro che sono alla base della ricerca storica. Miss Secrest pare ignorare quest'ultimo punto, non rendendosi neppure conto che il superamento di talune proposte (come quella relativa al cosiddetto Amico di Sandro, poi risultato essere il giovane Filippino Lippi) non è dovuto a frode o a incapacità, ma al continuo progresso delle nostre conoscenze. E facile demolire, alla luce del presente, i pensatori del passato: dobbiamo concludere che, ad esempio, Tommaso d'Aquino, Dante e Duns Scoto erano sciocchi o in malafede perché credevano che la terra stesse ferma e il sole le girasse intorno? Nell'edizione italiana (Arnoldo Mondadori) il mediocre libro è ulteriormente inficiato da una traduzione assai discutibile. Intanto, sarebbe stato bene correggere le sviste del testo originale: come
212 poteva Berenson, giunto a Firenze nel 1889, incontrare alle Cascine Vittorio Emanuele 11, morto nel 1878 (vedi pag. 115)? Così, Umberto I (pag. 197) non morì nel 1900 dopo un regno di soli due anni. A pag. 212 scopriamo i cassones, null'altro che i tradizionali cassoni nuziali di vetusta memoria italica; a pag. 389 l'aggettivo « apolloniano » è probabile stia per apollineo; a pag. 218 il pittore Allyn Cox è definito un « muralista »; a pag. 211 c'è l'aggettivo « intoccati », da leggere intatti. E così via. Infine, la traduzione tel quel può essere pericolosa: chiamare (pag. 184) il soggetto di un quadro del Perugino « Madonna con Bambino e uccello in mano » suona innocente se detto in inglese, qui da noi invece fa nascere cattivi pensieri.
È un gran pittore: sa far l'indiano LA grande mostra che il National Museum of. American Art di Washington ha dedicato al pittore George Catlin, intitolata « The Artist and the American Indians », spiega quale rapporto intercorse tra quell'artista (che in Europa è praticamente sconosciuto) e gli indiani di America, cioè i pellirossa. La mostra ha offerto una scelta di quasi 100 opere tra le 445 possedute dal museo; percorsa la rassegna, nasce, soprattutto nel visitatore europeo, una serie di domande sulla validità artistica di una produzione del genere, e sul modo corretto di leggerla (e, come si dice oggi, di fruirla). George Catlin (che nacque nel 1796 nel villaggio di Wilkes-Barre in Pennsylvania e morì nel 1872) fu dapprima un avvocato, praticando per vari anni la professione. Poi si dedicò alla pittura, eseguendo un certo numero di ritratti a olio e in miniatura. Secondo lui (ed era un suo vanto) si era formato da sé, da autodidatta, ma ci sono buone ragioni per credere in un rapporto tra i suoi esordi pittorici e i ritrattisti americani dell'epoca, sul tipo di Thomas Sully e John Neagle. Certissimo è invece che la sua cultura e la sua specifica forma mentale furono modellate, in modi decisivi, dall'Illuminismo, nell'accezione americana, quella cioè dei Padri Fondatori. In proposito, ci sono dei dipinti nel catalogo del Catlin che mi sembrano decisivi, e cioè taluni studi di espressione facciale ( Riso, Tristezza, Meraviglia, Paura) che sono quanto di più « illuminista » si possa reperire, rammentando (e molto da vicino) le dottrine fisiognomiche dello svizzero Johann Kaspar Lavater e i suoi Physiognomische Fragmente, ai quali collaborarono anche Goethe ed Herder. Ho anzi il sospetto che le incisioni del volume fossero ben note al Catlin. Notissimi dovevano essergli gli scritti di Jean-Jacques Rousseau, soprattutto in rapporto al mito illuminista del buon selvaggio. Non per nulla la sontuosa monografia dedicata al Catlin da William H. Truettner (1979) e pubblicata dalla Smithsonian Institution assieme al Museum of Western Art di Fort Worth nel Texas è intitolata The Natural Man Observed, A Study of Catlin's Indian Gallery, intendendo cioè che le opere relative agli indiani d'America costituiscono uno studio dell'« Uomo naturale », allo stato cioè di natura. Che gli indiani pellirosse costituissero invece una società provvista di una cultura assai ricca, varia e profonda, lo provano proprio le opere di Catlin. Nel 1830 Catlin, gettando alle ortiche la sua attività di ritrattista decise di dedicarsi alla rappresentazione degli indiani, dei loro costumi, del paesaggio in cui vivevano, conscio anche che si trattava di una civiltà sull'orlo della sparizione ma che si stava anco-
214 ra acculturando. Dopo aver persuaso il generale William Clark, governatore del Missouri Territory, a fornirgli l'indispensabile aiuto, per sei anni viaggiò a piedi, a cavallo o in canoa attraverso le grandi pianure, mescolandosi alla vita di ben 48 tribù. Spaziando dal North Dakota all'Oklahoma, Catlin ebbe modo di ritrarre volti, riti e costumi dei Sioux, dei Mandan, dei Comanche, e di molte delle tribù che poi sono divenute il materiale grezzo della mitologia letteraria e cinematografica del Far West. Qual è il livello artistico e qualitativo di queste opere, e come giudicarle? Non c'è dubbio alcuno che dal punto di vista documentario esse siano preziosissime, direi uniche e insostituibili. Ma sotto l'aspetto estetico, l'osservatore (intendo quello nostrano) resterà non poco sconcertato, mancandovi quei dati di stile e di elaborazione tecnica cui, secondo una certa ottica, è affidata l'essenza dell'Arte, quella con la A maiuscola. Si concederà, al massimo, che alcuni studi di cielo e di paese, e alcuni dettagli di fondo di certi dipinti rammentano il Turner nelle dissolvenze sfumate di colori impalpabili; ma nasce il sospetto (per me fondato) che la loro posizione vada situata in parallelo (anche se tardo) con il francese Valenciennes e con i suoi studi di cieli e di nuvole, e che quindi si tratti ancora di una conseguenza della cultura dei Lumi. Ma per il resto, in questi moltissimi ritratti di indiani, minutamente descritti nei loro costumi e ornamenti, in queste scene di caccia, di culto rituale (alcune di non comune efficacia descrittiva) l'occhio europeo rileva una secchezza fredda, persino venata di un certo qual falso primitivismo, alternata a rimandi (negli schemi compositivi e negli accenti psicologici) verso la pittura « colta » di Francia e Inghilterra della fine del Settecento. Sotto un certo aspetto, osservazioni del genere restano valide: gli indiani vengono molto spesso fissati da Catlin con la stessa fredda distanza che dirige l'occhio e la mano di un illustratore di testi botanici o zoologici. Tuttavia, ciò che effettivamente conta nella lettura delle opere figurative è il contesto entro cui sono nate; e per Catlin tale contesto è di immenso respiro, come è immenso il grande fatto del secolo xix, la spinta europea verso Est e verso Ovest. In una prospettiva più lontana di quella oggi possibile, il tramonto e la fine dell'Europa saranno un giorno individuati non già nelle due esiziali guerre mondiali, ma nella Rivoluzione francese e nell'Impero napoleonico. Il fatto più decisivo e più gravido di conseguenze risulterà allora la spinta, oltre i propri confini, degli eredi delle due sezioni dell'Impero romano; quelli di Occidente giungeranno sino al Pacifico, verso Ovest, quelli civilizzati da Costantinopoli arriveranno anch'essi sul Pacifico, ma da Ovest verso Est.
215 In effetti, la conquista americana del West si verifica negli stessi anni (e anche negli stessi modi) della conquista russa dell'Est. In ambedue i casi sarà una conquista europea, verificatasi nel corso del secolo xix, sotto la spinta di ideologie che, -a loro modo, riflettono gli antichi scismi del cristianesimo occidentale e di quello orientale, risalendo persino alla sistemazione dell'Impero voluta da Diocleziano (la « cortina di ferro » segue in molti punti il tracciato del 1v secolo). In questo processo di espansione, popoli e culture in fase di assorbimento (e di annientamento) vengono descritti con una schematica secchezza che è quella delle immagini di Catlin, ma che è anche quella di certe pagine dello storico del v1 secolo Procopio, quando parla dei barbari che stanno per irrompere nell'Impero Romano o che vi sono già entrati (per poi sparirvi) o, risalendo all'indietro, la essenzialità di Tacito o di Giulio Cesare, allorché descrivono coloro che si trovano fuori del « mondo civile ». ,e da notare che nei quadri di Catlin la materia pittorica è di estrema povertà quando descrive figure umane o scene di vita sociale; l'impasto si trasforma invece in modi più densi nelle vedute di fondo nei cieli. Così la figura umana viene trattata in modi di fredda anonimità che preannunciano i repertori illustrati della ricerca positivista dell'Ottocento: è da rilevare che tali modi traggono origine dal ripudio del pittoricismo tradizionale identificato da David con la grammatica del potere monarchico e della reazione. Sarebbe qui il momento di parlare degli equivalenti russi di Catlin, se fosse possibile averne conoscenza con altrettanta facilità. I loro documenti sono sepolti negli archivi di Mosca e di Leningrado, e quando verranno alla luce costituiranno una conferma per il parallelo delle vicende americane e russe dell'Ottocento, su cui si fonda l'attuale situazione del potere mondiale.
La perduta civiltà dei campi GIÀ prima del 1910 l'etnografo Arnold Van Gennep affermava che ogni società generale comprende numerose società particolari, e che queste sono tanto più autonome (e i loro contorni risultano tanto più precisi) quanto inferiore è il grado di civiltà raggiunto dalla società generale. Ma applicando un tale punto di vista allo studio della società italiana si vanifica l'esemplificazione avanzata dal Van Gennep, secondo il quale nelle società moderne separazioni abbastanza nette esistono soltanto tra laicismo e religione, tra il profano e il sacro. Da noi invece più che di separazione è il caso di parlare di una frattura abissale (i cui inizi vanno forse posti verso la metà del Duecento, almeno in talune zone del territorio) una vera e propria polarità opposta tra società del potere e società contadina. Lo spazio vieta di accennare soltanto ai risvolti religiosi di tale alternativa, che, ad esempio, ha prodotto da un lato le raffinate immagini sacre di un Botticelli o di un Tiepolo, dall'altro gli ex voto, o che ai cori di Pierluigi da Palestrina e alla elaborata regia delle cerimonie cui essi erano destinati contrappone lo strusciare delle lingue sui pavimenti dei santuari. Ma, come sempre, è nel campo della letteratura che il fossato si dichiara nella sua enormità, e specie a partire dalla Restaurazione post-napoleonica, quando la grande paura di una rivoluzione autenticamente sociale ed economica affinò le menti di chi temeva di perdere la propria posizione. Non è a caso che le nostre scuole concedono tanto spazio alla « manzonilatria », al culto di un autore che, oltre a ripudiare l'Illuminismo laico, fornì il perfetto modello della « lingua alta », opposta a quella « bassa » dei dialetti, al mezzo cioè di espressione verbale delle masse sottoposte (nella stragrande maggioranza di estrazione contadina), al quale veniva negata ogni validità, dignità e potenziale qualitativo. Non che nell'Ottocento la frattura linguistica fosse, in Italia, una novità, perché l'ancien régime nostrano aveva prodotto qualcosa di analogo, da secoli; ma ora non c'erano più le Corti, e quella nefasta dicotomia serviva soltanto gli interessi di un'astuta oligarchia piemontese e lombarda, che pervenne a snaturare i moti risorgimentali, mascherando, sotto gli slogan di libertà e indipendenza, l'opera spietata di colonizzazione del Sud, spacciata per un processo di unificazione. Ci sarebbe da compilare una straordinaria mappa della letteratura italiana dal 1840 circa in poi come strumento alienante, avulso dalla vita di tutti i giorni, grazie alla progressiva decantazione di un'alchimia tematica e verbale sempre più spinta, che dai cesel-
217 li dannunziani fin de siècle è passata ai finti purismi e agli ermetismi degli anni '30, con il fenomeno del critico-prosseneta, sino all'odierno pullulare di premi e premiucci letterari, dove quasi sempre la fabbrica dei libri da dimenticare gratifica se stessa. E resta il fatto, innegabile, che in questo dopoguerra, i due autori che hanno rappresentato due autentici casi di validità, Giuseppe Tornasi di Lampedusa e Guido Morselli, sono ambedue morti nell'avvilita disperazione, per il rifiuto dell'establishment di dare alle stampe i loro scritti. Tutto ciò è triste; ma il panorama diviene tragico al considerare l'aspetto repressivo del potere « benparlante », anche a tralasciare quel tipico fatto di guerra contadina che fu il cosiddetto banditismo nel Sud unificato. Non sono né i politici di professione, né gli intellettuali parolai e utopistici a precipitare le vere rivoluzioni, bensì le scoperte scientifiche e tecnologiche; e quando (grazie agli enormi progressi economici e tecnici toccati nell'Ottocento) le masse contadine d'Italia cominciarono a uscire dal letargo, il rimedio prescelto per farle stare « al loro posto » fu la pura e semplice soppressione fisica. In realtà, la Grande Guerra fu una colossale strage contadina; e se è vero che lo fu non soltanto in Italia, è altrettanto vero che in nessun altro Paese l'intervento fu voluto e sollecitato da una esigua minoranza, contro il volere dei più, e senza scopi di guerra precisi: con il risultato di spezzare il democratico progresso degli italiani, e di aprire una crisi che dal 1915 a oggi non si è più chiusa. E anche qui, che temi di ricerca si aprono agli studiosi! Vedremo mai un repertorio illustrato dei Monumenti ai Caduti, con il loro sfoggio di retorica (donne alate e poppute che sorreggono il fante in mollettiere, astrusi simbolismi, riprese neo-michelangiolesche e simili), retorica destinata a fruitori che, relata refero, avevano un reddito annuo uguale suppergiù a quello dell'India dei nostri giorni: lo vedremo mai? Una pubblicazione del genere costituirebbe un perfetto, significativo punto di riferimento per leggere nella giusta luce un'altra opera, di grandissima importanza, uscita ormai da quasi un anno presso l'editore Longanesi, Il lavoro dei contadini di Paul Scheuermeier, che ha per sottotitolo: Cultura materiale e artigianato rurale in Italia e nella Svizzera italiana e retoromanza. L'autore era nato nel 1888 a Winterthur, e morì nel 1973; e nella valutazione del suo enorme lavoro deve anche esser tenuta presente, per noi italiani, la sua appartenenza a un paese che certo radical-chic e certa pseudo-sinistra nostrani amano vilipendere, offendere e calunniare (anche per ripagarlo, more italico, di quanto fece per i nostri profughi tra il 1943 e il 1945). L'opera, in due massicci volumi, è illustrata da 922 disegni e xilografie, e da 873 fotografie, i primi dedicati a strumenti e attrezzi di lavoro, le se-
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conde prese dal vivo durante numerosi viaggi in Italia, tra il 1919 e il 1935. Queste ultime sono di eccezionale interesse documentario, soprattutto oggi quando la meccanizzazione dei lavori agricoli e l'abbandono di molte tecniche e culture tradizionali hanno alterato e sconvolto per sempre un tessuto di artigianato, di ecologia e di costume che in molti casi risaliva anche a età preromana, conservando persino, come in certe ricette di cucina, le formule della civiltà celtica comune a tutto l'arco alpino (ecco un altro tema che attende un ricercatore). La struttura mentale di Paul Scheuermeier era quella di un positivista ottocentesco, e la sua metodologia seguiva quella dello Sprach und Sachatlas Italiens und der Siidschweiz, cioè dell'Atlante linguistico-etnografico dell'Italia e della Svizzera meridionale, pubblicato in otto volumi tra il 1928 e il 1940 da K. Jaberg e J. Jud; nell'economia generale di quest'opera monumentale, i due volumi del Lavoro dei contadini (Bauernwerk) avrebbero dovuto costituire la parte illustrativa. Ma l'eccezionale felicità e grandiosità del risultato finì con il conferirle un valore del tutto autonomo. C'è anche da dire che l'Atlante si sosteneva sulla convinta certezza che, in tutte le lingue, parole e cose hanno un rapporto di interdipendenza, quindi era indispensabile procedere parallelamente a una ricerca linguistica e a una ricerca materiale. E in questa, l'aver corredato disegni e xilografie (dovuti a Paul Boesch) con immagini fotografiche riprese durante l'uso diretto degli attrezzi elimina il rischio di proporre vuote astrazioni. 973 foto furono esposte nel giugno scorso presso la Calcografia nazionale di Roma, con un catalogo a cura di Maria Miraglia e con saggi suoi, di Elisabetta Silvestri e di Michele Falzone. E in questi due volumi editi da Longanesi tutte le attività del lavoro contadino ci vengono riproposte secondo una partizione tematica, dagli allevamenti alla raccolta dell'uva e delle olive, dalla fienagione all'aratura e agli attrezzi, dalle costruzioni tradizionali alla cucina, al focolare, ai costumi, al bucato e ai vari mestieri. Come dicevo, è un'opera cui si augura un seguito da parte nostra, seguito che oltre ai temi già accennati dovrebbe includere quelli del contadino nella letteratura e nelle arti figurative (dove la sua immagine è quasi sempre presentata secondo connotati negativi o di intento comico) nei proverbi (« scarpe grosse e cervello fino », cui non va fatto « sapere quant'è buono il cacio », ecc. ecc.), sino a giungere ai nostri giorni, quando la vicenda di depressione e di paternalismo non è terminata. Oggi i rampolli del potere « benparlante » (spesso incistatisi nei partiti di sinistra) hanno mutato tattica: non si imbiancano più la coscienza affermando « le virtù di nostra gente » ( « che è frugale », come si leggeva un tem-
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po nelle terze pagine dei quotidiani dell'élite, Corriere della Sera in testa) ma colpevolizzano le masse che dalla campagna sono passate alla città; così è accaduto di recente a proposito dei bronzi di Riace, con tecniche che ricordano quelle di teatini; scolopi e gesuiti. Gli odierni « nipotini di Padre Bresciani », come li chiamava Gramsci, vogliono farci credere di stare a sinistra, di essere marxisti veri e non una parodia del marxismo.
Che gioia, mi sento l'arte a fior di pelle TROVANDOMI in quinta ginnasiale, una mattina il professore di turno scoprì che sotto il testo di studio nascondevo un altro e ben diverso libro, che leggevo di nascosto e che fu subito sequestrato. Si trattava di un romanzo della (allora famosa) Principessa Bibesco, del quale non rammento il titolo; ne ricordo invece l'episodio principale, con il suicidio di una quindicenne, terribilmente sconvolta per aver visto i rigogliosi ciuffi di peli nei cavi ascellari di un facchino. Lo scandalo fu enorme, e sui due piedi venni cacciato senza appello dalla scuola (retta dai padri gesuiti); ma se il dramma dell'espulsione fu ben presto risolto con il passaggio a una scuola laica, non ha invece trovato risposta il quesito che da allora (e sono molti anni) mi pongo di continuo: i violenti moti di ripulsa o di attrazione che proviamo sono fatti di cultura o risalgono all'istinto naturale? L'orrore provato dalla giovanetta descritta dalla oggi dimenticata Principessa va messo in rapporto alla sua specifica educazione, alla cultura del suo ambiente, oppure c'è dietro a esso qualcosa di più intimo, direi innato, che non ha nulla a che vedere con il tessuto sociale e con i suoi principi estetici e morali? Talvolta la domanda trova una facile risposta, come per il rigetto che molti provano davanti alle statue di cera in forma umana: perché si tratta di un'estensione dell'orrore che, per puro istinto, si prova per il corpo inanimato ma intatto, per il cadavere imbalsamato, dal quale è uscita la vita senza che ne sia scomparsa la parvenza. Detto per inciso, la realtà può superare la fantasia, e né The Loved One di Evelyn Waugh né l'orripilante Lady in the Morgue di Jonathan Latimer pervengono a situazioni così repellenti come quelle che si verificarono durante l'apprestamento della mummia di Eva Peron, quando si dovette staccare la testa della Sefiora applicandola su un altro corpo femminile, quello suo essendosi, dal collo in giù, trasformato in un fantoccio nero, a causa di una forcina di plastica che era caduta per errore nel liquido anticorruttivo. Ma, per tornare in argomento, in altri casi la risposta non è facile: molte persone (io sono tra quelle) sono respinte dai tatuaggi, per ragioni che non è facile individuare. t ben vero che agisce ancora il vecchio pregiudizio positivista (e rimando alle pagine indimenticabili di Cesare Lombroso) per cui si tatua soltanto il criminale o il deviato mentale; ma anche superando questo diaframma resta il fatto che l'apparire anche di una semplice ancora o di un cuore trafitto sul polso dell'interlocutore incrina spesso il rapporto, conducendolo verso toni quantomeno di distaccato sospetto.
221 A riflettere poi su tale reazione (molto diffusa anche in strati sociali che non possono in nessun modo venir definiti « borghesi ») si scopre che tatuaggi e segni impressi sul corpo non destano nessun moto negativo quando appaiono su appartenenti a culture di antica storia: anzi, gli elaborati arabeschi di cui sono ricoperti gli abitanti di alcune zone (purtroppo sempre più scarse) dell'Oceania, o i segni rossi e azzurri che sottolipeano la fisionomia delle donne di certe aree interne della Tunisia e dell'Algeria (come la Cabilia) facilitano l'intrecciarsi di rapporti umani, anziché ostacolarli come accade quando il tatuaggio brilla sulla pelle dei bianchi o di appartenenti a culture che, in tempi recenti o remoti, furono a capo della colonizzazione. Perché tale diversa risposta? Uno dei primi provvedimenti del governo sovietico, già nel 1918, fu il divieto assoluto a farsi tatuare; in questo, era stato preceduto nell'vm secolo da papa Adriano 1, che nel 787 emanava, in modi rigorosi, la proibizione per i cristiani di farsi segnare sul corpo i simboli della croce, del pesce, dell'ancora secondo una consuetudine che risaliva sino ai primi tempi della Chiesa. E sebbene sia oggi risaputo che tutti i popoli e tutte le culture hanno avuto, in un capitolo della loro storia, la fase della pittura somatica e del tatuaggio, è anche noto che a tale momento è poi seguito quello del divieto, che ha conferito a quella pratica un sapore di cosa un po' perversa, carica di un senso di sfida, di non conformismo. Ma, come sempre, tutto dipende dal contesto sociale: il tatuaggio esibito da un re (come Edoardo VII, che mostrava sul braccio una minuscola croce di Malta), o da una gran dama (come la madre di Churchill il cui polso si fregiava di un finto braccialetto), ha un significato ben diverso dalle pittografie indelebili sul corpo di un marinaio, quasi sempre dovute a incultura, comunque a una mentalità assai rozza e primitiva. Spesso si ha il sospetto che i tatuaggi (soprattutto quelli più vistosi) siano il portato di scarsa sicurezza, di quel tipo cioè di poca fiducia in se stessi che si trasforma in aggressività. Ma oggi la pratica del tatuaggio sta prendendo l'aspetto di una vera e propria arte corporea, una sorta di body art di genere caldo, e non soltanto negli Stati Uniti. I suoi autori sono degli autentici virtuosi, come Lyle Tuttle, Beverly Lazonga (che opera nell'Oregon) o come Doc Forest, attivo in Svezia. Spesso i loro nomi d'arte assumono sensi ermetici, simbolici, esoterici: così Spider Webb (Ragnatela), Originai Sin (Peccato Originale), The Brooklyn Baron, o The Shadow (L'Ombra), operoso a Springfield nel Missouri. Spider Webb è anche orefice, autore di elaborati gioielli composti, ad esempio, di argento e ossa umane, come una collana in cui due costole sorreggono una composizione di rubini e turchesi; ma quel che di occulto è già implicito nei nomi è ripreso dai di-
222 segni dei tatuaggi, che alludono assai spesso a motivi dell'Oriente misterioso e ai suoi simboli per iniziati. Tutto, insomma, concorre a respingere, anche nel campo di questa curiosa body art, chi non è del gruppo, a respingere cioè sia sotto l'aspetto psicologico che culturale. C'è poi il dato sessuale, che in tale campo non è indifferente. Tutte le parti del corpo (meno i capelli e le unghie) possono essere tatuate, e c'è chi ricorre all'ago sottocutaneo per accrescere le attrattive del proprio fisico. E qui si entra in un campo i cui risultati sono persino incredibili per chi non li abbia visti di persona. La firma di Picasso esibita subito sopra un pube femminile è un caso tra i più pacati; perché altrove c'è la diavolessa-strega, armata di falce e di serpente, che esce scattante dall'apertura delle natiche, c'è il crisantemo che infila il suo stelo nella fessura vaginale, ci sono tatuaggi tra i più complicati (densi di simbolismi erotici) che coprono il corpo intero, così da apparire come calzemaglie, o deliranti costumi per balletti da incubo. A una mostra di tattoo art in una galleria di New York, la sera dell'inaugurazione apparve un tipo vestito con uno straordinario abito tutto nero e aperto sul retro in modo da mostrare la schiena, sulla quale, a opera di Spider Webb, era impresso un complicato tatuaggio: un sole, fiammeggiante, e una lotta tra un'aquila e un leopardo, stritolato tra le spire squamose di un dragone. Ma sul davanti, un'altra apertura rivelava un capezzolo circondato da una bocca aperta con la lingua penzolante; e più in basso ancora, il ventre ricoperto da una maschera di demonio giapponese, lasciava interdetti. La bocca del demonio, aperta, continuava con una lunga lingua, anch'essa tatuata, che scendeva sino a coprire il pene, giungendo sino all'ultima estremità, così da parere animata nei movimenti provocati da determinate situazioni e funzioni, come era facile intuire. Il rapporto tra corpo e tatuaggio (o, se si vuole, tra arte e vita) non potrebbe spingersi più oltre; non c'è che da rallegrarsi con il suo inventore e autore, l'incomparabile Spider Webb, al quale si deve anche un libro, Pushing Ink (eseguito assieme a Marco Vassi e pubblicato a New York da Simone Schuster), che rimane un documento sicuramente tra i più sconcertanti di un certo tipo mentale e di un certo livello di cultura.
Pittori del Seicento a Venezia la sfinge nei Paesi anglosassoni è divenuto un luogo comune affermare che l'unico e solo contributo italiano alla varietà tipologica delle strutture politiche è il fascismo. Sotto l'aspetto lessicale, della terminologia, ciò è indubbio, e in tutte le lingue; c'è invece da negarlo dal punto di vista storico, perché il fascismo fu la versione italiana di un fenomeno di portata internazionale, che assunse connotati e nomi a seconda delle situazioni e delle culture locali con cui venne a compromesso. Il grande, originale monumento della mentalità politica italiana è un altro, e ben diverso: è la struttura oligarchica cui (allo stato puro o sotto maschere più o meno ingannevoli) gli italiani riducono ogni e qualsiasi forma di governo. Lo stesso fascismo non rimase esente da tale deformazione, cui, grazie alla Curia, non è sfuggito neppure il cattolicesimo; e il regime democratico che oggi regge l'Italia è in realtà una tipica oligarchia (dove i partiti stanno al posto delle persone) in cui il finanziamento pubblico è un brillante, ingegnoso equivalente della Serrata del Maggior Consiglio o del Libro d'Oro che in altri tempi servivano a chiudere il potere in se stesso. La perfezione suprema di un siffatto ordinamento va studiata nelle vicende della Repubblica Veneziana, che ne percorse tutta intera la parabola, anche nella fine, dovuta (come accade alle oligarchie) non a intima corrosione ma a una spinta esterna. Sono secoli (lo si può ben dire) che il fenomeno di Venezia e delle sue vicende storiche e culturali attira ricercatori e studiosi tra i più svariati; ma, nonostante l'enorme numero di pubblicazioni e di contributi, al fondo delle nostre conoscenze della città dogale resta un che di enigmatico e di incomprensibile, anche a causa degli schemi mentali imposti dalla storiografia corrente. 1:. arduo percepire l'esatta posizione della Serenissima nel corso dei secoli bui, a metà strada tra l'Impero Romano (sopravvissuto in Oriente) e l'Occidente barbarico, e con il Patriarca in equidistanza tra quello di Costantinopoli e il Pontefice di Roma; né ci si rende facilmente conto delle fondazioni culturali e simboliche di uno Stato la cui cappella o chiesa di palazzo (la Basilica di San Marco) è un'esatta copia della Basilica dei Dodici Apostoli a Costantinopoli, del mausoleo cioè di Costantino il Grande e dei suoi immediati successori. Ma anche per periodi più tardi (e più vicini a noi) la sfinge veneziana resta problematica; se l'avanzata ottomana finì con l'escludere Venezia dal Mediterraneo orientale, è anche vero che l'estinguersi progressivo dei rapporti con il mare portò la Serenissima a un'azione di ridimensionamento e di adattamento secondo pararne-
SOPRATTUTTO
224 tri che solo ora cominciano a delinearsi nel loro complesso svolgimento. In questo senso, è di grande interesse il libro di William H. McNeill, Venice, The Hinge of Europe, che è apparso anche tradotto da noi (Venezia, Il Cardine d'Euròpa, Il Veltro editrice, Roma); ma resta aperta all'indagine la penetrazione della cultura veneziana nei paesi slavi, soprattutto nelle arti figurative: e non tanto nella vicina Slovenia, ma piuttosto in Polonia. Qui le testimonianze dell'apporto veneziano sono molte e assai cospicue, e non solo a Varsavia (dove la pala dell'altar maggiore della Cattedrale era, prima del 1944, di Palma il Giovane) o a Cracovia (sono ben note le molte cose veneziane in architettura, pittura e scultura sparse in tutta la città); ma un'accurata ricognizione nei centri minori, sin qui sfuggiti alla ricerca storico-artistica in chiave veneziana, porterebbe a molte scoperte, indicando che l'apporto non fu occasionale o casuale. Fu soprattutto con i suoi pittori che Venezia continuò, in queste aree slave, la sua azione, in un certo modo ereditata da Costantinopoli; purtroppo sul Seicento pittorico veneziano ha gravato (e grava ancora) un serio pregiudizio, come di produzione provinciale, infelice, spenta, che perde al confronto con le contemporanee vicende artistiche di Roma, Genova, Bologna o Napoli. La più pesante stroncatura in questo senso rimane quella espressa da Roberto Longhi nel suo Viatico; oggi però, con il progredire delle conoscenze e con l'apporto e la scoperta di nuovi testi pittorici ci si chiede se un giudizio tanto negativo non fosse dovuto (oltre che a motivi di gusto personale e di scelte di generazione) anche al misconoscimento della posizione di Venezia come centro culturale autonomo, e talmente solido nella coscienza dei propri valori da non potere e volere recepire dall'esterno se non quegli aspetti traducibili senza sforzo nella parlata veneta. E il prefisso basilare di questo linguaggio fu quello speciale impasto pittorico inventato da Tiziano (più che dagli altri grandi Cinquecentisti) e impiantato sulla preminenza del colore sul disegno; tale prefisso fu, per i pittori veneti, un punto di riferimento costante, direi una legge. Giudicare la Venezia posteriore al Cinquecento confrontandola con gli altri centri artistici italiani significa travisare la sua singolarissima essenza, ripetendo un errore storico e critico non dissimile da quello che giudica la pittura tardo-bizantina (le icone, per intenderci) sul metro del Rinascimento Italiano, del Barocco o del Rococò, tutti stili a essa contemporanei ma con essa incomunicabili, o appena tangenziali. L'intero problema, assai intricato, della cultura figurativa di Venezia posteriore a Tiziano è ora riproposto da un'opera assai importante, e che resterà a lungo un solido punto di riferimento per
225 ulteriori studi e ricerche. Si tratta di La Pittura Veneziana del Seicento di Rodolfo Pallucchini, che vede la luce per i tipi di Alfieri, e che consta di due grossi volumi, di cui il secondo ricco di 1301 illustrazioni. Sui ben noti meriti dell'Autore come storico, connaisseur e docente di pittura veneziana e veneta non è il caso di parlare; ma l'opera ora pubblicata rispecchia una ricerca durata molti decenni, come denuncia il materiale illustrativo, che molto spesso è non soltanto inedito, ma di estrema rarità. Il periodo preso in esame dal Pallucchini va dal 1571, l'anno della battaglia di Lepanto, al 1699, l'anno della pace di Carlowitz; e dentro tali termini vengono raccolti i dati di una vicenda che non è né semplice né lineare, presentando spesso svolte e personalità assai complesse, elaborate e ricche di richiami che puntano nelle direzioni più varie. Il solo appunto che vorrei avanzare riguarda l'inclusione dei pittori di Verona, una città la cui cultura artistica fu ben diversa da quella della capitale della Serenissima; anche non rientra nella pittura veneziana vera e propria la persona di Carlo Saraceni, nato a Venezia, ma appartenente a un capitolo assai speciale del caravaggismo romano. In effetti il Caravaggio non ebbe (né poteva avere) alcun seguito sulla Laguna, come prova anche la vicenda di uno dei tardi seguaci del suo stile, Nicolò Renieri, la cui attività matura in territorio veneziano è segnata da un netto dirottamento in senso accademico e classicheggiante. A Venezia, società, economia e religione si svolgevano su piani assai remoti da quelli della Roma del primo Seicento; vi si seguiva anzi un anticlericalismo così aperto che in ogni riunione del Gran Consiglio e di altri organi statali il grido « Papisti foras » escludeva dal consesso chiunque avesse parenti preti o in ordini religiosi. Ma questa Repubblica oligarchica, così gelosa dei propri valori e delle proprie tradizioni, era assai aperta alle novità non soltanto della Penisola, ma dell'intera Europa. Così, quello stile tra il Cinque e il Seicento, denominato dalla storiografia Manierismo Internazionale, o Secondo Manierismo sortisce a Venezia uno dei rappresentanti più felici e originali in Palma il Giovane, un grande pittore sottovalutato, che interpreta i temi di quello stile con piglio e acume. Forse egli è lontano dal gusto e dalla sensibilità odierni, certo è che, a modo suo, non la cede ai Milanesi o ai Romani, direi anzi che è più vario e ricco, senza dubbio più colto e ricettivo. Altra persona che si impone è Pietro Muttoni, detto Pietro della Vecchia, che per pigrizia mentale viene abitualmente depresso al ruolo di « imitatore di Giorgione ». I suoi virtuosismi di stesura pittorica sono superati dai temi misteriosi, stravaganti, splenetici
226 dei suoi dipinti, spesso bellissimi, che ne fanno uno dei pittori più ermetici del Seicento, in attesa di venir decifrato. Ma i due volumi propongono anche un ,esame dal punto di vista del soggetto, e nelle tavole si palesa, ad esempio, il livello assai alto della ritrattistica veneziana del Seicento, da Domenico Tintoretto al Renieri al Forabosco (altro artista di rilievo) al Bombelli. Sotto l'aspetto tematico risulta anche la scarsa o quasi nulla fortuna che a Venezia ebbe la « Natura morta »: forse perché questo genere veniva letto sulla falsariga di certi dettagli di Francesco e Leandro Bassano, e di conseguenza considerato come qualcosa di vecchio e fuori moda.
Scuole veneziane e miracoli d'arte NEL 1873 la Galleria Sabauda di Torino acquistò due grandi tele quattrocentesche, raffiguranti la Nascita della Ver.gine e l'Annunciazione e compagne di altre due, oggi in una raccolta privata di New York, con lo Sposalizio della Vergine e la Adorazione dei Magi. L'anno scorso, trovandomi in una piccola città inglese, venni informato che una famiglia abitante nell'adiacente campagna stava vendendo una biblioteca di storia dell'arte; quando giunsi sul posto, i libri erano già alienati, ma la mia visita svoltò, all'improvviso, in senso positivo. Passando dalla biblioteca, oramai vuota, in una sala attigua riconobbi a colpo d'occhio, risplendenti sulle pareti, cinque altre tele della stessa serie di Torino e di New York, come quelle di straordinaria rarità. L'intervallo piacevole della vicenda doveva tuttavia durar poco, perché i proprietari, da me subito informati della verità storico-artistica (che essi ignoravano completamente), da persone assai gentili si trasformarono in due draghi infuriati. In toni minacciosi e con un linguaggio denso di oscuri presagi, essi mi rifiutarono le fotografie delle cinque tele, vietandomi nel modo più esplicito di descriverle, commentarle o comunque farne oggetto di studio (cosa del resto impossibile senza un'adeguata documentazione grafica), e persino di rivelare il luogo dove esse si conservano (o forse, si conservavano). La mia carriera di conoscitore è gremita di episodi del genere, ma questo mi brucia in modo particolare, data la grandissima importanza che la serie di tele ha per la storia della pittura veneziana. Il pittore Natalino Schiavone, che all'inizio del secolo scorso possedeva almeno sei numeri dell'insieme (tra cui i quattro di Torino e di New York), asseriva che esse provenivano, grazie alle soppressioni napoleoniche, dalla Scuola di San Giovanni Evangelista a Venezia, la cui sala era stata in un primo tempo decorata da Jacopo Bellini, saldato, come indica un documento, nel 1465. Seguendo studiosi del livello di George Gronau e di Roberto Longhi, sono convinto che la serie di tele provenga effettivamente dal luogo indicato dallo Schiavone (e perché mai costui avrebbe dovuto mentire?) e che costituisca la primitiva decorazione della Scuola dell'Evangelista, poi sostituita con altre tele. I dipinti mostrano infatti i caratteri di Jacopo Bellini, inventore delle composizioni, ma l'effettiva stesura rivela la mano dei due figli, Gentile e Giovanni, ancora in età giovanile: è superfluo sottolineare l'enorme rilievo di testi pittorici come questi, di cui ogni brano andrebbe commentato con molta attenzione. Che si accetti o meno l'ipotesi belliniana (in cui credo) e la pro-
228 venienza dall'edificio che si è detto, non vi è però alcun dubbio che le nove tele (come denunciano le loro dimensioni, i soggetti e i dati tecnici) debbono essere state eseguite per uno di quegli edifici cui è dedicato il volume Le Scuole di Venezia, che vede la luce per i tipi della Electa. Un team di studiosi, altamente qualificati, ha condotto la ricerca, sotto la guida di Terisio Pignatti; il corredo illustrativo, assai nutrito, è spesso di raro interesse, anche per gli specialisti di arte veneta, che vedono riprodotti qui per la prima volta molti dipinti, specie dei periodi più tardi (qualche riserva è lecita per talune delle tavole a colori). Cosa è una « Scuola » veneziana? ,È un'istituzione destinata a fini di pubblica preghiera e religiosità, di assistenza caritativa, di punto di riferimento di minoranze etniche presenti nella città lagunare, di organizzazione dei vari tipi di artigianato, di tutela sociale. Si può affermare che la Scuola è, in un certo modo, l'equivalente veneziano della Confraternita diffusa in molte regioni d'Italia, ma un suo aspetto tipico è la singolare ricchezza decorativa di molte delle sue sedi, di cui parecchie ebbero a soffrire la spoliazione in seguito agli indemaniamenti e alle soppressioni napoleoniche. Le enormi tele di Gentile Bellini e Vittore Carpaccio con i Miracoli della Croce, che oggi costituiscono uno dei vanti della Galleria dell'Accademia di Venezia, sono parte della seconda decorazione della Scuola di San Giovanni Evangelista (di quella più antica si è fatto già cenno); e le celeberrime, splendide tele del Carpaccio, con la Leggenda di sant'Orsola provengono dalla Scuola dedicata a questa santa, i cui fini erano soprattutto assistenziali. Più o meno intatta è invece la decorazione della Scuola di San Rocco, che è tutt'oggi il massimo monumento dell'arte di Jacopo Tintoretto, e che il volume tratta in modo particolarmente attento ed esauriente. Ma il libro va considerato anche sotto un'angolatura diversa, come quella dei numerosi titoli, apparsi di recente, e che, nella tematica veneziana, si aprono secondo una tipologia e una rosa di argomenti tra le più ampie e diversificate. Le bellissime fotografie della città e dei suoi abitanti, già pubblicate nel 1965 in Svizzera da Albert Mermoud sotto il titolo Venise des Saisons, vengono ora ripresentate nell'edizione italiana da Fotoselex: il loro autore, Gianni Berengo Gardin, aveva comandato l'obiettivo con tale acume ottico e tale intelligenza che, nonostante gli anni trascorsi, nulla è invecchiato, al contrario. Sono proprio certi aspetti della moda femminile, oggi trapassati, a far risaltare l'immutabile definizione (consolante in un mondo come quello odierno) dello scenario lagunare: il titolo di questa edizior.e italiana, Una storia d'amore, Venezia, non potrebbe essere più appropriato. Ma è nel campo della storia culturale (e
229 soprattutto della cultura storico-artistica) che vanno segnalate certe recenti pubblicazioni. Alcune sono di tale importanza che sarà necessario occuparsene a parte; così è per i due massicci volumi nei quali Rodolfo Pallucchini cataloga, discute e storicizza uno degli aspetti della pittura di Jacopo Tintoretto, le sue Opere sacre e profane (i Ritratti erano già apparsi in precedenza nel 1974, presso lo stesso editore Alfieri, oggi nel gruppo editoriale Electa). e ancora il caso di un'impresa di vasto respiro e di coraggiosa ambizione, la Storia della cultura veneta, edita da Neri Pozza, e di cui sono già apparsi cinque volumi gremiti di saggi, molto spesso rivelatori, e di forte stimolo per un ulteriore approfondimento. Ma anche per argomenti più circoscritti, storia e arte di Venezia si ripropongono, anche sotto aspetti minori. Qui vanno segnalati i libri editi da Mario Fantoni, specializzato in temi artistici: a lui spetta la ristampa di un'opera vecchia di quarant'anni, Le antiche ceramiche veneziane scoperte nella laguna, di Luigi Conton, assieme a una novità, Le porcellane veneziane di Geminiano e Vincenzo Cozzi, di Francesco Stazzi, uno dei più sottili conoscitori dell'argomento. e ancora Fantoni a offrirci Le antiche vere da pozzo veneziane, di Gino Voltolina, dove questo aspetto singolare delle espressioni plastiche della Serenissima è studiato in una serie di tavole, accompagnate anche dai disegni di Jan Grevembrock, un pittore della fine del Settecento, disegni tra i quali sono riprodotti quelli relativi alle vere oggi scomparse perché o emigrate o disperse. C'è da chiedersi a cosa sia dovuto un siffatto, rinnovato interesse per Venezia, per il suo aspetto, la sua storia, le sue produzioni artistiche maggiori e minori. e vero che assistiamo, in tutta Italia, a una ripresa di studi in chiave locale e regionale, studi che molto spesso riflettono una coscienza delle autonomie culturali, anche come reazione al massiccio fardello di livellamento e di uniformità imposto dalla TV, dalla stampa quotidiana e settimanale e da certo cinema. Ma quanto alla storia dell'arte, la fioritura attuale di studi su Venezia, che pare in aumento, è il portato anche di un istituto come la Fondazione Cini, con il suo materiale bibliografico, la sua fototeca, i suoi microfilm, i suoi cicli di convegni e di conferenze. Tuttavia, c'è da osservare che infrastrutture e istituzioni rimangono isolate, come cattedrali nel deserto, se non sono accompagnate da quello che è stato, è e resterà il primo motore della ricerca, l'insegnamento universitario. L'attuale momento di studi veneziani è il portato dei docenti, che dalle cattedre di Venezia e di Padova hanno formato una generazione di studiosi e di ricercatori: così come è accaduto a Bologna e a Firenze, e come non avviene a Roma.
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Qui il deplorevole livello dell'insegnamento si riflette nella pochezza delle pubblicazioni di argomento locale (e sì che i temi non mancherebbero!) a dispetto delle Biblioteche dell'Istituto Nazionale di Archeologia e della Hertziana: i soli prodotti degni di venir citati spettano a studiosi stranieri o a coloro che si tengono lontani dalla locale, squalificata università.
Ma perché dimezzare Mantegna? IGNORO se qualcuno abbia mai fatto (o stia facendo) una precisa ricerca relativa alle somme spese dai Gonzaga per le loro raccolte d'arte, in rapporto a quel che sborsarono, per gli stessi fini, altre dinastie e magnati del Rinascimento italiano. Da un'indagine del genere, è prevedibile che i marchesi, poi duchi, di Mantova risulterebbero al primo posto, così come il loro palazzo fu il più grande e il più lussuoso, le loro ville le più stravaganti e fastose, le loro chiese le più vaste e ricche. A parità di moneta, c'è da scommettere che in tutta la sua vita Federico da Montefeltro ebbe in tasca solo una piccola frazione di quel che Isabella d'Este o suo figlio pagarono per una delle tante costosissime follie di cui amarono circondarsi. Ma a parte il duca di Urbino, i Gonzaga battono anche i duchi, poi granduchi, di Toscana, per non dire dei Della Rovere di Pesaro o di famiglie come i Farnese a Roma. Ciò che stupisce nella vicenda mantovana è che la presenza in loco di una tale quantità di opere (e anche di artisti in carne e ossa) non abbia dato luogo a una scuola pittorica vera e propria; sotto tale insegna non si possono certo collocare persone di terzo o quart'ordine come Lorenzo Leonbruno, Ippolito Costa e simili. La questione si fa più intricata al constatare il ruolo che artisti e opere presenti a Mantova ebbero per la cultura figurativa di città vicine, e non tanto Cremona quanto Verona, dove le immagini inventate da Giulio Romano per i Gonzaga sortirono un effetto quasi traumatico (lo stesso Paolo Veronese non si spiega senza lo studio in età giovanile, di quel che esisteva nella capitale del ducato). Varie sono le spiegazioni di una tale frattura tra arte « importata» e arte « locale »; la più plausibile è che committenti e fruitori della prima (cioè i Gonzaga) effettuarono scelte culturali aliene, senza alcun rapporto con la cultura locale; si tratterebbe dunque di un fatto elitario, di corte, privo di qualsiasi legame con la città, il popolo e le sue tradizioni. ~ curioso che a Ferrara una analoga scelta figurativa in chiave non locale (come quella che verso il 1450 chiamò Piero della Francesca, Roger van der Weyden, dopo Jacopo Bellini) fu il seme da cui nacquero Cosmè Tura e Francesco del Cossa. Ma che a Mantova i tesori artistici dei Gonzaga fossero un dato puramente dinastico lo prova anche la loro partenza verso Londra: che avvenne per una sorta di ragion di Stato, così come senza motivazioni radicate nel vivo del tessuto sociale mantovano era avvenuta la loro formazione. Anche sotto tale aspetto di collezionisti i Gonzaga costituiscono un modello, direi un archetipo, del-
232 la « classe agiata » di più tarde epoche, così come talune loro capricciose invenzioni (come i ritratti dei cavalli delle scuderie) furono riprese dalla leisured class anglosassone (non per nulla l'acquirente delle immense raccolte fu Carlo I d'Inghilterra). Si sperava che il collezionismo dei signori di Mantova e soprattutto la consistenza e l'aspetto della loro favolosa galleria di quadri venissero indagati e presentati almeno sulla carta nella mostra « Splendours of the Gonzaga », al Victoria and Albert Museum di Londra; purtroppo il risultato è men che deludente, e bisogna dire che di rado è occorso di vedere una manifestazione peggio preparata e peggio allestita di questa. E siccome è sempre consolante lo scoprire di non essere i soli a pronunciare un giudizio negativo, è con vero sollievo che ho letto, su la Repubblica del 12 novembre 1981, l'articolo di Guido Almansi, nel quale si legge tra l'altro: « Dopo averla visitata due volte [ ... ] non riesco ancora a capire a che serva una simile manifestazione». E una domanda che mi sono posto anch'io, percorrendo questa pasticciata kermesse, in cui accanto a oggetti inestimabili (come il vaso romano in onice oggi a Brunswick ma un tempo nella Grotta di Isabella a Mantova) si è obbligati a vedere un apice di cattivo gusto e volgarità come la ricostruzione (in foto a colori) della Stanza degli sposi in scala 1:2. E non parliamo poi dello schermo su cui vengono proiettate visioni a colori di Mantova e dei suoi monumenti, al commento di una voce alternata a suoni di liuti e mandole, e di canti suggestivi. Né basta il catalogo a riscattare l'insieme, visto che molte schede sono affrettate e superficiali; né si capisce la ragione per cui sono stati scomodati studiosi di altissimo livello, come Gombrich e Praz (che intervengono però con saggi più adatti a un convegno o a un Festschrift). Ho detto « kermesse », sebbene l'insieme stia tra l'iniziativa dell'ENIT, volta a promuovere il turismo, e la festa organizzata dalla Pro loco. E però motivo di estrema irritazione il constatare che per un'impresa di siffatto livello si sia fatto correre il rischio del viaggio a Londra a un dipinto come quello del Rubens (metri 3,70 x 4,62), una delle rarissime testimonianze rimaste in Italia di questo sommo artista.
Avori nell'antro del falsario L'INCONTRO avvenne per caso. Un mio amico, che aveva preso in affitto una sfilata di enormi saloni in un vecchio palazzo di Roma e voleva arredarli senza spendere troppo, era stato consigliato di rivolgersi a una sorta di mediatore in una piccola città umbra, tra le cui mani passava un po' di tutto, dai mattoni e le tegole ai mobili cadenti e alle cornici. Erano anni che desideravo visitare quella piccola città, celebre per i suoi monumenti e per il suo vino, e chiesi al mio amico di fargli da compagno durante l'escursione; arrivammo sul luogo che era ancora mattina, e, dopo una visita a un paio di chiese e al museo, bussammo alla porta della piccola casa situata tra muretti di orti e di frutteti. Ai due colpi di picchiotto, da una finestra aperta al primo piano (eravamo d'estate) si affacciò una donna di età indefinibile, ma di proporzioni colossali, pari alla sua abnorme grassezza: due immensi, traboccanti seni si posarono sul davanzale. « Teofrasto non c'è », disse, « tornate dopo le due. » All'ora convenuta, salita una piccola scala, fummo introdotti in un terrazzo assolato, pieno di vasi in terracotta e di vecchi barattoli, entro cui vegetava rigogliosa una folla di gerani, cedrine, basilichi e rosmarini. Notai subito che il Signor Teofrasto (mi limiterò a chiamarlo così per evitare noie con i suoi parenti tuttora vivi), mentre ascoltava il mio amico e gli rispondeva (una partita di mobili seicenteschi sarebbe stata disponibile di lì a qualche tempo in una vecchia villa), continuava a lavorare con le mani, attorno a qualcosa che, a un primo momento mi sembrò un pezzo di legno, aguzzato o scarnito con un temperino, quasi una matita di proporzioni singolari. I colpi si susseguivano fitti e regolari, ma dall'irrigidirsi delle dita, appariva che costavano un notevole sforzo, anche se Teofrasto, continuando a parlare, vi si dedicava con l'automatismo assente di una donna che esegue la calza. Ma quando mi accorsi che la materia intagliata non era legno, bensì qualcosa di duro e di biancastro, gli chiesi cosa mai fosse: con un mezzo sorriso mi porse un pezzo di avorio, che, abbozzato,' già rivelava una figura a mezzo busto. Forse perché gli ispirai fiducia, oppure per un moto, del resto spiegabile, di vanità e di orgoglio artigianale, mi domandò se mi piacevano gli oggetti « antichi », e ci fece entrare in casa: presi così conoscenza, e di prima mano, di uno dei più insoliti e inattesi falsari, che non imitava né quadri o sculture, bensì qualcosa assai
234 difficile a smascherare, come gli avori di scavo e quelli del Medioevo. La materia prima la recuperava da vecchie palle da biliardo: le zanne intere, mi spiegò, sono poi troppo difficili a patinare, bisogna che il pezzo da scolpire o da intagliare non sia troppo grande e che abbia già risentito e a lungo del contatto con la mano e le dita umane. Aprì un armadietto, e mi mostrò avori di stile classico e di stile medievale. I primi erano ammirevoli: gettoni da teatro, con su incise maschere tragiche o comiche, una figurina femminile di tipo minoico, una serie di placchette traforate, con motivi di animali e di vegetali stilizzati, a mezza via tra l'Etruria e l'Anatolia. In tutti i pezzi colpiva la patina, omogenea e perfetta, nascosta qua e là da avanzi di terriccio e di incrostazioni. Meno felici erano due o tre intagli di maggiori dimensioni, una valva di dittico « consolare », una statuetta di Minerva, un curioso busto di Imperatore, oscillante tra Augusto e Costantino. Feci osservare a Teofrasto che, nella base della Minerva, un fregio a rilievo rappresentava uno dei miti della dea in modi e sequenze che derivavano strettamente da studi di archeologi non anteriori al nostro secolo: mi rispose, un po' irritato, che ciò non importava, quello che è essenziale è la resa dell'insieme. Non replicai, ma chiesi come venisse ottenuta la straordinaria patina, tale da ingannare anche l'occhio più smaliziato. « ~ molto facile », disse; e mi guidò sulla terrazza affollata di piante. Prese un vaso e lo capovolse, colpendolo con la mano: la forma di terra uscì compatta, chiusa nelle maglie fittissime delle radici di un rosmarino. All'interno della rete, si intravedeva un piccolo busto di Giove: « Un paio d'anni così, e tutto è a posto ». Tornammo in casa, e da un armadio Teofrasto trasse una serie di piccole sculture di stile medievale: una pedina che sulle due facce mostrava un viluppo di animali e mostri, una Madonna in trono romanica, un pettine liturgico. Anche qui si notavano gli errori dovuti a un'eccessiva accumulazione di dati eruditi, sulla base della Madonna un fregio a intrecci era del tutto superfluo. Ma non dissi nulla, restando incantato dalla meravigliosa patina, bionda, liscia, omogenea, e di un tipo assai diverso da quella che caratterizzava gli avori, per così dire, « archeologici ». Non potei fare a meno di informarmi sul procedimento con cui veniva ottenuto il segno dei secoli e dell'uso continuo. « Cateri' », chiamò Teofrasto dopo avere aperta la porta della stanza, « vieni un po' qui. » Ciabattando e ansimando, l'enorme donnone entrò silenzioso. « Fà un pò véde alli signori dove tieni li tesori miei. » Senza dire una parola, Caterina abbassò lo scollo de: vestito, scoprendo l'enorme petto, il cui precipitare verso il basse
235 era impedito da una sorta di soutien-gorge di speciali misure. E in questo, due o tre sacche o borse lasciavano intravedere placchette, un minuscolo Redentore benedicente, un Gesù bambino in fasce, di tipo « pisano »: tutti intagli che la secrezione continua di sudore, con le sue componenti di fosfati alcalini, acido ippurico, e creatinina, trasformava da oggetti senza tempo 1n messaggi provenienti da epoche remote, e molto spirituali. Da quel giorno lontano, mi è capitato più volte di riconoscere la mano di Teofrasto: in una collezione di Milano (dove mi fu mostrato con orgoglio un pedone di scacchiera duecentesca), in un famoso Museo dell'Ohio (dove una placchetta « etrusca » gridava ad alta voce il suo nome), presso un antiquario di New York; ma il fatto è che nelle sue produzioni, perfette tecnicamente, mi ha spesso disturbato un eccesso di elementi formali e iconologici, accumulati con la mancanza di equilibrio che è tipica degli autodidatti. Teofrasto, in altre parole, non è stato consigliato da un archeologo o da uno storico dell'arte, così come invece lo fu l'autore di quel meraviglioso falso che è il Trono Ludovisi oggi nel Museo Nazionale di Roma. Per me, questo è l'apice della falsificazione, anche se taluni dettagli ne siano condizionati da una buona dose di ingenuità (si vedano le gambe della Flautista); non c'è dubbio che l'autore dovette essere assistito e consigliato da un archeologo professionista, che dall'aldilà deve divertirsi a sentire i commenti sulla sua creazione. Ma quanto vorrei conoscere il nome di questo meraviglioso falsario! Per me, egli dovette avere una personalità non molto diversa da quella di un altro fabbricante di marmi antichi, che ho conosciuto e che rimane nella mia memoria nello scompartimento dei fatti gradevoli: Gildo Pedrazzoni. Se ne parla (ad esempio nell'Enciclopedia dell'Arte Antica) soltanto come di « Gildo », senza neppure indagare sulla reale identità, sulla formazione e sui prodotti di questo ecceziona1e scultore. La sua esistenza mi venne rivelata dalla meravigliosa Stele attica esposta in una mostra a Palazzo Venezia a Roma nel 1945, come prestito di un privato collezionista: poco prima che le autorità aprissero la manifestazione, circolò una fotografia del marmo come era stato avanti che gli fossero stati inferti i colpi da cui avallare la sua antichità. I nasi vi apparivano interi, le mani erano presenti, nessun danno alterava la composizione: davanti a un'evidenza di tale portata, la stele venne tolta dall'esposizione, facendo nascere in me la curiosità di conoscere l'autore del capolavoro. Ma non fu cosa facile, nessuno voleva parlarne. Fu solo molti anni più tardi che potei incontrarlo nel suo studio all'angolo tra Passeggiata di Ripetta e via del Vantaggio, dove passai lunghe ore a incantarmi della facilità con cui estraeva da anti-
236 chi pezzi di marmo statue e rilievi, con la pacata tranquillità, serena e silenziosa, di chi si identifica con la pietra stessa. Ricordo di Gildo un meraviglioso Nettuno in stile arcaistico: sarebbe piaciuto ad Augusto o a Adriano, ma chissà dove è finito. Quando non lo trovavo nel suo studio (bianco di polvere di marmo) ero certo di poterlo raggiungere dal Bottaro, una vicina trattoria, dove egli amava rifocillarsi, e dove un giorno mi disse, terrorizzato, di avere un male incurabile. Si ritirò nella sua· Parma, poi tornò a Roma; ebbi il tempo di fargli restaurare due leoni marmorei rovinati durante un trasloco, e il suo scalpello fu così perfetto che ancor oggi non so quale sia la testa vera e quale quella falsa, quale la zampa rifatta e quale quella originale. Poi sparì, con la sua parsimonia di parole e con i suoi occhi celesti; lo rivedo di quando in quando nei restauri di qualche marmo romano o greco, che incontro a Roma, New York o Parigi.
E Roma imperiale fu fatta a pezzi ALLA gravissima, molteplice crisi che per buona parte del III secolo parve minacciarne la stessa esistenza, l'Impero Romano reagì in modi articolati e successivi l'uno all'altro, la cui organicità fu talmente radicale e profonda da mutare il carattere intimo di quell'immensa entità statale. Debellate le secessioni nazionaliste (Tetrico e Vittorina in Gallia, Zenobia a Palmira) con una fulminea serie di azioni militari (soprattutto grazie ad Aureliano) si procedé a una decisa ristrutturazione amministrativa e politica, che fu opera del genio di Diocleziano; ma i connotati finali dell'Impero « restaurato » spettarono a Costantino, cui si devono i caratteri principali e le previdenze che consentirono all'organismo creato da Roma di sopravvivere per altri undici secoli, sino cioè alla caduta di Costantinopoli nel 1453. Due furono i principali provvedimenti realizzati dal genio di Costantino: la creazione di una seconda capitale, posta sullo stesso livello di quella più antica e ricostruita secondo il suo modello (e la scelta caduta sull'antica Bisanzio non poteva essere più felice), e l'avvio a una religione di Stato, un ruolo che toccò al cristianesimo. Da espressione di minoranze contestatarie, quest'ultimo mutò completamente il suo ruolo sociale, divenendo l'infrastruttura ideologica di uno Stato che non fu più autoritario (come il vecchio Principato imperiale) ma totalitario nel senso più ampio del termine. Con un raggio d'azione sempre più vasto e profondo, da Costantino in poi la « sacra » autorità dell'Imperatore decide di questioni teologiche, si occupa della moralità dei sudditi, interviene in questioni tematiche nelle opere d'arte; e non è qui il luogo peristituire un confronto tra la posizione del cristianesimo nell'Impero post-costantiniano e quella del marxismo nell'Impero russo, dopo la crisi nazionalistico-libertaria tra Otto e primo Novecento, e dopo la restaurazione operata prima militarmente, poi in chiave di struttura, amministrativa e sociale, dal regime sovietico. Uno degli argomenti più complessi, poliformi e anche affascinanti della storia di tutti i tempi è la vicenda sortita, da Costantino in poi, dalla vecchia capitale dell'Impero, Roma: Caput mundi, meraviglia unica per l'inaudita ricchezza di monumenti e di ricordi storici, sede dei più insigni capolavori dell'arte greca e dell'architettura romana, gremita di tesori accumulati durante secoli, la metropoli subì una metamorfosi che, sebbene narrata più volte e in dettaglio, è ancora motivo di stupore. Offesa dalla creazione di una capitale gemella (per favorire la quale non si esitò a spogliarla), poi oltraggiata nel ripudio e nella persecuzione del paga-
238 nesimo (con cui era stata tutt'uno nella prodigiosa ascesa e nello splendore), saccheggiata dai goti di Alarico (410) e dai vandali di Genserico (445), sottoposta a un Regno ostrogoto, la Città Eterna doveva subire un colpo mortale nel VI secolo, nel corso delle guerre di riconquista, con cui Giustiniano eliminò i regni barbarici di Italia e di Africa: sino a ridursi a un'orbita vuota, i cui abitanti (a quel che sembra) non raggiungevano le poche migliaia. Ma nello sfacelo della Roma imperiale nasce un'altra Roma, quella sacra, la capitale del cattolicesimo; e l'aspetto fisico della città riflette questa metamorfosi, le cui conseguenze sono tuttora vive e operanti. Crollato, per le invasioni barbariche, l'organismo dell'Impero di Occidente, l'antica capitale venne ad assumere un prestigio ancora maggiore, di senso religioso, anche perché l'evangelizzazione dei popoli barbari fu il mezzo (operato sia da Roma che da Costantinopoli) per legarli alla storia e alla civiltà. Rome, Profile of a City, 312-1308 è il titolo di un volume assai importante, uscito nel 1980 a cura della Princeton University Press, e dovuto al massimo specialista della storia artistica della Roma medievale, Richard Krautheimer: oggi, con eccezionale tempestività, il libro è apparso in italiano, per i tipi delle edizioni dell'Elefante di Roma (Roma, Profilo di una città, 312-1308), e mi si consenta di dire che, una volta tanto, la versione nostrana non sfigura a paragone di quella originale, anzi forse la supera, per la traduzione e per la ineccepibile veste tipografica. Il periodo entro cui si svolge la complessa trattazione va dal 312 (quando Costantino vinse ai Saxa Rubra sulla via Flaminia il rivale Massenzio) al 1308 (quando la Curia pontificia si trasferì ad Avignone), ed entro questi termini Roma viene esaminata nella sua struttura urbanistica, nei suoi edifici sacri, nelle sue costruzioni profane. h del tutto impossibile fornire in questa sede un sommario dei temi e degli argomenti che il Krautheimer analizza ed espone con un linguaggio chiaro e semplice (quello cioè della vera scienza, così distante dai fumosi contorsionismi verbali di certi arruffoni nostrani). Dalle Basiliche costantiniane alle dimore private duecentesche, dalle innumerevoli chiese maggiori o minori ai palazzi del potere ecclesiastico, tutto è qui esposto con una sicura ricchezza di riferimenti, dati, notizie, bibliografia: a ogni riga si avverte che il crogiolo da cui è uscita questa materia ha fuso decenni di ricerche, e un'immensa quantità di dati, elementi, immagini. Ma l'aspetto più notevole di questo libro è che esso fornisce lo spunto per una serie, praticamente infinita, di approfondimenti e di ulteriori indagini. Talvolta, le domande che nascono al percorrere la Roma medie-
239 vale possono sembrare futili, ma esse hanno una loro ragione che forse potrà risultare non così superficiale. Ad esempio, come mai, con tante colonne a disposizione nelle rovine della città imperiale, nelle costruzioni profane duecentesche vengono adoperate quasi esclusivamente quelle di granito? f: probabile che -ciò fosse dovuto a una precauzione contro il fuoco, dato che tale tipo di pietra non risente del calore, a differenza del marmo; ma allora, perché adoperare fusti di misure superiori a quelle necessarie, e tali da richiedere un lungo e (con i mezzi di allora) faticosissimo lavoro di riduzione? E come mai, nonostante le migliaia di capitelli di ogni misura e dimensione a portata di mano, le nuove costruzioni privilegiano quelli di ordine jonico, anche a costo di falsificarli? C'è una ragione simbolica in tutto ciò, o semplicemente di gusto? Nel suo volume, Richard Krautheimer tratta della città viva, e quasi ignora la stupefacente metropoli morta e in progressivo annientamento: anche se la storia artistica e culturale di una città non consiste soltanto in ciò che si crea, ma anche in ciò che si distrugge. f: vero, come dice l'autore, che gli antichi monumenti molto spesso non interferiscono nel tessuto e nelle vicende della Roma che rinasce una prima volta nel XI, poi nel XII secolo; ma resta il fatto che importantissimi avanzi della città imperiale erano ancora in piedi in queste epoche, e che doveva esserci una vera e propria industria che si adoperava a distruggerle per recuperare perni in ferro, piombo e bronzo. Di ciò sono testimoni gli innumerevoli fori che costellano il Colosseo, e che sono dovuti a lunghissime azioni di scalpello, al fine di sottrarre i giunti metallici che tenevano uniti i blocchi di travertino; e la stessa, faticosissima opera si nota in tutti gli avanzi di età imperiale. E c'è poi la faccenda delle calcare: tutti gli edifici in marmo furono annientati per ottenere calce nelle fornaci; se qualche avanzo si salvò fu per essere incorporato in strutture di « spiazzamento», con funzioni cioè diverse da quelle originarie. Tre colonne del Tempio di Marte Ultore sopravvivono perché usate come fondazione di un campanile, lo spigolo del Serapeo (un edificio che gareggiava con il grande Tempio di Baalbek), poi demolito nel 1630, era l'appoggio di una torre; il Tempio di Minerva nel Foro di Nerva era conglobato in un granaio; e sospetto che il misero avanzo del Settizonio (distrutto da Sisto v) dovesse la sua sorte all'essere il campanile di Santa Lucia in Septem Solis. A ogni modo, nessun edificio di Roma medievale regge il confronto con ciò che scomparve nei secoli di ignoranza, superstizione, incuria, paura: neanche la Basilica Vaticana può essere, sia pure a distanza, paragonata con quella suprema meraviglia che fu il Foro Traiano. A rispetto della città imperiale, Roma del Medioevo è un agglomerato di tuguri, catapecchie, di chiese raffazzona-
240 te alla meglio, e abitata da un pugno di straccioni sporchi e analfabeti, sui quali dominava l'élite dei chierici (che sapevano leggere e scrivere). L'assurda, ridicola mitizzazione del Medioevo non appare mai così evidente come a Roma, dove si annientavano prodigi di tecnica, come gli obelischi del Circo Massimo abbattuti per recuperare i dadì di metallo delle basi. « I Romani sono senza dubbio quelli che amano di più la loro città, sempre premurosi di difenderne e salvarne il patrimonio artistico, affinché nulla vada perduto dell'antica gloria di Roma»: lo diceva Procopio, ancora, nel VI secolo, poco prima che una catastrofe storica senza uguale facesse inabissare un incomparabile patrimonio di civiltà. Ognuno è padrone delle proprie scelte, tra cui c'è quella di stare dalla parte di coloro che, nel naufragio, cercarono di salvare il salvabile, per trasmetterlo a epoche più felici.
Il ritorno degli antichi dei RARAMENTE Benedetto Croce si occupava di arti figurative, e nella sua sterminata, eccezionale quantità di scritti sono assai poche le occasioni in cui la sua prolifica penna verte su architettura, pittura o scultura (non parliamo poi delle cosiddette « arti minori »). Uno dei suoi interventi più singolari e anche significativi risale al 1946, e consiste nella recensione (o meglio stroncatura) di un volume che, apparso in lingua francese a Londra nel 1940 e poi tradotto in inglese nel 1953, è ben presto divenuto un classico della letteratura storico-artistica, e che soltanto oggi vede la luce in italiano, per i tipi dell'editore Boringhieri. Si tratta de La survivance des dieux antiques di Jean Seznec, cioè de La sopravvivenza degli antichi dei, pubblicato in origine come un decimo volume degli « Studies of the Warburg Jnstitute ». L'attesa edizione italiana di quest'opera fondamentale è accompagnata da un'introduzione dovuta a Salvatore Settis, e ci si consenta di riconoscere, con vivo piacere, che, una volta tanto, il saggio introduttivo nostrano è all'altezza del testo tradotto: le pagine del Settis sono molto acute, informate e dense di spunti, e proprio in esse viene ricordato l'intervento del Croce (che per altro fu l'unico e solo cenno di percezione, da parte della cultura italiana, all'apparire di un testo così importante). Cosa non andava al Croce nel libro del Seznec? In realtà il suo attacco non è volto al caso specifico, quanto a tutt'intera la ricerca warburghiana, in altre parole l'indagine iconografica e iconologica, la precisazione cioè dei « soggetti » delle opere d'arte figurativa, delle loro origini, dei loro rapporti con il contesto sociale, culturale, filosofico e letterario del momento in cui quelle opere sono nate. Al Croce non interessava, ad esempio, che la volta della sala della Galatea alla Farnesina di Roma raffigurasse il cielo stellato come appariva il 1° dicembre 1466, data di nascita di Agostino Chigi, che sollecitò la costruzione dell'edificio e la pittura di Baldassare Peruzzi nella sala in questione. Al Croce interessava esclusivamente « l'arte, alias il bello », senza preoccuparsi dell'allegoria, del contenuto, quello stesso invece ricercato dai contemporanei dell'artista; per il Croce, i critici non si dividono « in contemporanei o posteriori, ma unicamente in intendenti o no di arte, sensibili o no al bello ». Che si possa guardare a un quadro, una statua, un'architettura, senza che si sia in precedenza accertato il suo preciso messaggio simbolico e di contenuto letterario, suona oggi (1982) perlomeno azzardato; soprattutto quando si rammenti a quale messe di scioc-
242 chezze abbia dato luogo una tale lettura del « bello » inteso come un pallone aerostatico, senza alcun legame con il terreno sottostante. Un siffatto andazzo precipita fatalmente nel prevalere del commento sul dato di fatto concreto, aprendo la via ai gorgheggi e ai vocalizzi in chiave letteraria che sono stati uno dei più tipici aspetti della critica d'arte italiana per buona parte di questo secolo. Senza voler scendere al livello del Disegno della Pittura italiana, recente sforzo di Cesare Brandi (in cui la smania del commento in chiave formale, del bello, impedisce all'autore persino di accorgersi a pag. 4 72 che la Flagellazione del Caravaggio viene discussa non già sul testo originale, ma sulla copia in San Domenico Maggiore), senza spingersi tanto oltre, ricordiamo il caso di Ottavio Morisani, un crociano di stretta osservanza. Questi (Tino di Camaino a Napoli, 1945, pag. 86) a proposito di una scultura lignea del Museo di San Martino a Napoli (e che una sia pure elementare conoscenza iconografica individua per la Vergine adagiata di un gruppo della Natività) parlava di « figura femminile dolcissima ( ... ) pare un sepolcro provvisorio », un passo che pone il grave quesito del cattivo odore emanato da « sepolcri provvisori » in legno: il rifiuto del dato iconografico pone così problemi di altra specie e di diversa estrazione. Oppure (ed è uno degli esempi più macroscopici) le stranezze imprevedibili pronunciate da Lionello Venturi davanti alla tavoletta con il Viaggio dei Re Magi del Sassetta, già nella Collezione Griggs, oggi nel Metropolitan Museum. Ma qui (Pitture Italiane in America, 1931, tav. cxiv) l'indifferenza per il dato iconografico va di pari passo con l'assenza di ogni e qualsiasi ricerca filologica. Il pannello è in effetti il frammento superiore di una tavola ben più grande, che nella sua zona inferiore includeva l'Adorazione dei Magi già nella raccolta Chigi-Saracini di Siena, oggi nel locale Monte dei Paschi; e quando l'insieme venne segato in due pezzi (chissà per quale ragione), la cometa situata sulla capanna di Betlemme restò nel frammento superiore, con il viaggio dei Re Magi, facendo credere al Venturi che l'artista quattrocentesco (con un'invenzione degna piuttosto di Walt Disney) l'avesse spostata dal cielo in terra sì da indicare il percorso da seguire per giungere alla meta. , Mi si dirà che questi sono esempi minuti, secondari e sono anch'io d'accordo; ma i grandi complessi figurativi (dall'Arco di Costantino, alla Cappella Sistina, al Palazzo del Tè, alle Stanze di Raffaello) non sono mai stati indagati dagli italiani nel loro vero senso tematico, nel programma simbolico, nei significati che in essi leggevano i contemporanei. I risultati della ricerca del bello o della dissezione tra poesia e non poesia, effettuate sulla falsariga dell'idealismo crociano, pos-
243 sono essere controllati soltanto su esempi occasionali e frammentari, come quelli indicati. Né si vede come e perché le letture delle arti figurative dovrebbero limitarsi ai semplici valori formali; come dire che la Divina Commedia andrebbe letta giudicandone ritmi e suoni, ignorandone, oltre lo splendore dei versi, l'immenso e sconfinato intreccio di riferimenti filosofici, storici, religiosi. Nel volume del Seznec, sono appunto discussi, per ciò che concerne gli dei antichi, i diversi significati che questi vennero ad assumere tra il quarto e il diciassettesimo secolo; e la sua ricerca è quasi prodigiosa per ampiezza e capillarità, specie in un campo che quasi sempre è mal noto, singolare e appoggiato a testi difficilmente reperibili. Proprio tale aspetto del volume, estremamente elaborato, non consente di esaminare in questa sede gli innumerevoli interrogativi che propone la sua lettura; ma ce n'è uno, che è poi quello fondamentale, che comprende in sé tutto il seguito della vicenda, e al quale il Seznec accenna di sfuggita alla pagina 37. Non soltanto la dottrina cristiana racchiude alcuni elementi astrologici, ma nonostante le proteste e i tentativi di sostituzione, lo Stato cristiano mantenne gli appellativi pagani per i giorni della settimana. C'è poi il fatto, assai singolare, che verso la metà del quarto secolo il 24 dicembre, giorno genetliaco del Sole e data di nascita del Dio Mitra, venne accettato come giorno della nascita di Cristo. In altri termini (ed è un quesito che sollecitano moltissimi dati di varia estrazione) ci si chiede se la divinitas di Costantino fosse realmente il Dio dei cristiani, o se piuttosto non fosse un'entità risultante da un procedimento sincretistico, in cui il sol invictus, protettore dell'Impero e della sua eternità, era identificato con Cristo. Che in seguito, e già sotto Costantino, abbiano prevalso gli integralisti cristiani (dando luogo alla persecuzione della maggioranza pagana) è un fatto; ma resta aperta la domanda sul ruolo che le antiche divinità pagane vennero ad assumere nell'ideologia religiosa dell'Impero del quarto secolo. Forse divennero semplici simboli delle forze naturali, ma la loro presenza è continua nei monumenti e nei testi figurativi di Roma e di Costantinopoli, delle due capitali dell'Impero. E possibile che la sopravvivenza degli antichi dei cominci allora; è anche probabile che la lotta tra la fazione pagana e quella cristiana sia stata lo scontro tra due concetti estremi, quello dei tradizionalisti (capeggiati da talune grandi famiglie di Roma) e quello degli integralisti della Rivelazione evangelica, ma è certo che se il Potere Imperiale rimosse dal Senato la statua della Vittoria, in quanto divinità vera e propria, non cessò mai di rappresentarla come simbolo in sculture e monete. In tale contesto, c'è da indagare sull'origine del termine Papa e
244 dei suoi rapporti con il Pater Patratus (il settimo e sommo grado dell'iniziazione mitriaca), anche perché il Vaticano era il centro dei culti orientali di redenzione (in almeno due città dell'Impero V aticanum era il nome del quartiere che racchiudeva i templi di Mitra, di Cibele e di Attis). Ma il volume di Seznec riguarda i fatti dell'alta cultura; accanto a essi ci sarebbe da investigare la sopravvivenza degli dei al livello popolare e contadino (paganus deriva da pagus, cioè borgo, villaggio), livello che non può essere ignorato nei suoi continui rapporti con la città e con la Corte. Più che nella sua incomparabile raccolta di dati, testi, intuizioni e precisazioni, il merito maggiore di questo libro va individuato negli stimoli e nelle aperture che esso sollecita verso moltissime direzioni.
I maestri di Castel Sant' Angelo ~ COSA nota che il fascismo venne spesso presentato, nel periodo immediatamente posteriore alla sua caduta, come un semplice « incidente » nella storia italiana, non già quale apice di un lungo processo storico, dalle radici che affondano nello specialissimo condizionamento in cui le vicende di venti e più secoli hanno finito per cristallizzare la stragrande maggioranza degli italiani. La formula del fascismo inteso quale « brutta parentesi » (e non come portato di precise, vetuste ideologie religiose, di immobilismo sociale, di cultura intesa in senso elitario) fu divulgata soprattutto dall'idealismo crociano; oggi (quando la prospettiva storica vista a distanza e quando le ricerche consentono un giudizio meno artificioso) essa risorge in un campo inatteso, come è quello dell'urbanistica e dell'archeologia. I recenti, pesanti attacchi a « Mussolini urbanista », il progetto di cancellare la via dei Fori imperiali (presentata come il non plus ultra dell'aberrazione), la condanna senza appello degli architetti, urbanisti, archeologi che collaborarono a plasmare il volto della Roma mussoliniana sono tutti aspetti di un atteggiamento che andrebbe indagato nei suoi risvolti ideologici e nelle sue finalità, che restano oscure. Sarebbe una ricerca interessante, anche perché il pollice verso gridato con tanta virulenza, oltre a essere viziato da antistoricismo (cioè dal senno di poi, in quanto applica criteri odierni a fatti vecchi di mezzo secolo) non tiene in considerazione l'aspetto più evidente della questione: per quanto possano apparire detestabili sventramenti e prospettive realizzati nel tessuto urbano di Roma durante il ventennio, essi sono un nonnulla a confronto con quanto si fece tra il 1870 e il 1900, in quell'Italia liberale di cui si tacciono i misfatti, e cui la retorica dittatoriale apportò soltanto l'ultimo tocco. Non so se corrisponda a realtà quel trenta per cento della Roma pontificia che alcuni affermano essere stato demolito non appena la città ebbe la malasorte di divenire la capitale del Regno d'Italia; ma è certo che accanto alla distruzione quasi totale delle Ville patrizie non mancarono monumenti di età classica a venire cancellati o deformati in modi irreparabili: e tra questi il primo posto tocca al venerando Castel Sant'Angelo, sottoposto a un inqualificabile trattamento. Non si salvarono i due bastioni sul Tevere, né il portale di accesso; e persino il Ponte Elio (che aveva resistito intatto al Medioevo) fu in gran parte demolito e rifatto abusivamente: altro che « Basamento del Colosso di Nerone» e « Meta sudante »,
246 sulla cui sparizione negli anni '30 stride la protesta di Antonio Cederna! Lo scempio di Castel Sant'Angelo torna alla mente nell'accedere a una mostra inaugurata nell'interno del monumento il 16 novembre scorso [ 1981] , e che dovrebbe chiudersi alla fine di gennaio: ma c'è da augurarsi che essa venga prorogata, visto che si tratta di un avvenimento eccezionale, della mostra cioè più importante e più riuscita di quante non siano mai state proposte in Roma. Il suo tema è limitato, ma di grande interesse, ed è la decorazione ad affresco eseguita tra il 1543 e il 1548 sotto il pontificato di Paolo III Farnese, quando (anche per la buona prova di resistenza offerta dal Castello durante il sacco di Roma nel 1527) si decise di ammodernare l'appartamento pontificio. Del grande ciclo di affreschi che fu allora eseguito in vari ambienti, la superficie si presentava sinora in condizioni deplorevoli per ritocchi e intonaci fatiscenti; un primo, positivo risultato della mostra è di aver consolidato e pulito in modo eccellente tutto l'insieme, a opera di Gianluigi Colalucci e dei suoi collaboratori. Ma il risultato più notevole (e direi quasi unico) spetta a Filippa Alberti Gaudioso, che, oltre ad aver progettato e diretto la mostra, ha condotto assieme a Eraldo Gaudioso una ricerca capillare, la cui minuzia e durata (che presumo non sia inferiore al decennio) si riconoscono negli importantissimi due volumi del catalogo. Il tema dell'indagine era tra i più ardui per uno storico dell'arte, come è quello di distinguere le varie personalità dell'équipe cui fu affidata, sotto la direzione di un allievo di Raffaello, cioè Perin del Vaga, l'impresa, sorretta da un preciso programma iconografico (anche per la sede cui essa era destinata, in origine il mausoleo dell'imperatore Adriano). E non si trattava certo di personalità secondarie che venivano così a trovarsi in posizione di collaboratori, oppure di esecutori autonomi ma condizionati da una comune intenzione di modi stilistici; tra esse troviamo Gerolamo Siciolante, Marco Pino, e Pellegrino Tibaldi, cioè alcuni tra i protagonisti di quella che sarà la grande Maniera della pittura italiana, e la cui eco si sarebbe diffusa attraverso l'Europa. C'è poi il fatto che, nell'epoca in questione, il disegno preparatorio assume un'importanza primaria, anche se l'idea che se ne esprime debba essere affidata ad altra mano; ed è qui che la mostra di Castel Sant' Angelo costituisce un avvenimento di eccezione. I disegni ritrovati, che corrispondono agli affreschi di pareti o di volte, vengono esposti negli stessi ambienti per i quali furono concepiti; ed è ammirevole il modo con cui essi sono presentati, lungo l'alzata di tavoli che, nei piani, sono composti di specchi, tali da consentire la lettura delle volte senza essere costretti a guardare in alto, con un confronto diretto tra ideazione e realizzazione.
247 Il felice allestimento dell'insieme, dovuto all'architetto Roberto Einaudi, va d'accordo con l'apparato per il controllo climatico e con la bella illuminazione degli affreschi. Insomma, si tratta di un risultato sul quale non è possibile dilungarci qui per quel che riguarda la parte filologica; basti dire che la mostra viene a gettare un raggio di luce (è proprio il caso di dirlo) in una città come Roma, dove analoghe manifestazioni negli ultimi tempi sono state caratterizzate da un dilettantismo improvvisato, privo di una effettiva preparazione. Alludo soprattutto alla serie di mostre che nell'estate del 1981 hanno avuto lungo in Santa Maria del Popolo a Roma e in varie località del Lazio, tra cui Bracciano, Ostia, Fondi, Rieti. Tale cido è partito sotto la promozione dell'Assessorato alla Cultura del comune di Roma con la collaborazione dell'Assessorato alla Cultura della regione Lazio, con il patrocinio della Presidenza della regione stessa, ed è stato realizzato dall'Istituto di Storia dell'Arte dell'Università di Roma, con la collaborazione del Ministero dei Beni culturali. Nonostante una tal rosa di promotori e di patrocinatori, i risultati sono stati men che modesti, in taluni casi scandalosi: ad esempio a Fondi, dove la mostra ha assunto aspetti che preferisco non qualificare, ma che sono stati ben messi in luce da un brillante articolo di Antonio Pinelli, apparso su Il Messaggero di Roma del 25 agosto 1981. Altrove, i cataloghi rispecchiano un vacuo e inconcludente pressappochismo, specie da parte di un tal Roberto Cannatà, altrimenti ignoto. Ma almeno queste erano mostre che, in un modo o nell'altro, avevano un diretto rapporto con gli ambienti in cui erano allestite; sebbene impostate male, sono servite a rivedere e a rivisitare luoghi, ambienti e monumenti. Ben più grave è il vezzo, oramai diffuso a Roma, di allestire manifestazioni effimere in edifici famosi, che in nessun modo dovrebbero venire alterati per ospitare, sia pur per breve tempo, esibizioni talvolta di terz'ordine. Alludo a Palazzo Venezia, dove una parte del Museo è stata smontata per ospitare una mostra di scarso rilievo, dedicata al mediocre Oskar Kokoschka, degna al massimo di una qualsiasi galleria di mercanti (e non parliamo del catalogo, sul quale è meglio tacere). Alludo alla Curia del Senato nel Foro Romano, e soprattutto al Palazzo dei Conservatori in Campidoglio, ·dove il cortile (che racchiude alcuni dei più insigni pezzi della scultura romana) è stato tempo fa occupato da un padiglione per ospitare una raccolta di ori precolombiani. Lo stesso Palazzo dei Conservatori, nei meravigliosi saloni del piano nobile, è stato scelto come sede di una mostra di reperti archeologici, molto interessanti in sé, ma del tutto fuori posto in ambienti del genere. Accade così che monumenti famosi in tutto il mondo e per visi-
248 tare i quali la gente si sposta anche da paesi lontani, si presentano sotto aspetti anomali; e questo in una città come Roma dove il Museo Nazionale è chiuso, dove la Galleria Nazionale non riesce a unirsi nella sede di Palazzo Barberini (.acquistato dallo Stato da ben trentun anni), dove si procede a scempi di edifici, devastati da orride e insensate verniciature, come Palazzo Bonaparte in Piazza Venezia o come la chiesa di San Paolo in via Nazionale. E ci sarebbero da scrivere volumi sul degrado, quasi generale, di un patrimonio artistico che oramai sembra interessare soltanto come mezzo di propaganda o di retorica politicizzata.
Un bambino di marmo dai Romani all'America NEL mio mestiere di storico dell'arte (e di collezionista a tempo perso) mi è accaduto talvolta di trovarmi davanti a fatti così imprevedibili e talmente singolari che (se vi fossi inclinato per stampo mentale e per educazione) mi sarei da tempo convertito alla fede nella predestinazione, nelle premonizioni e nel destino; cioè sarei divenuto un cultore dell'astrologia. Invece quegli episodi bizzarri e apparentemente inesplicabili, senza intaccare la mia ferma credenza nella metapsichica e nei poteri extra-sensoriali, mi hanno insegnato a tener ben distinta la categoria del probabile da quella del possibile, e a evitare quella confusione tra di loro in cui siamo spesso portati a cadere nella nostra vita di tutti i giorni. Che un avvenimento sia improbabile, e anche estremamente improbabile, non vuol dire che non si possa realizzare: dovrebbe, questo, essere un assioma, ma il fatto è ,che soltanto l'esperienza diretta lo rende tale, o almeno così è stato per me. Debbo tuttavia aggiungere -che a volte sono tentato di passare all'altro campo, specie quando ripenso alle circostanze, persino inquietanti, in cui mi è accaduto più di una volta di effettuare delle scoperte o dei ritrovamenti di quadri, smarriti o ignorati da secoli, e che nel corso di una ricerca (e specie di « una certa » ricerca) mi è occorso di incontrare nei luoghi più impensabili, verso i quali ero stato condotto casualmente, e senza neppur lontanamente presagire che, una volta lì, avrei risolto l'indagine che mi stava assillando da lungo tempo. Ma di ciò sarà bene parlare in altra occasione; giudichino invece i lettori su due casi, segnati da estrema improbabilità che posso raccontare nei dettagli. Mio padre (grande medico, allievo di Guido Baccelli e titolare della cattedra di Patologia interna all'Università di Roma) amava preparare le sue lezioni in luoghi solitari, passeggiando da solo; uno di tali luoghi era la zona, assolutamente deserta allora, in cui sorge ai nostri giorni l'aeroporto di Fiumicino. Aveva ottenuto il permesso di recarsi in auto in quella pianura, tra il mare e la campagna romana, dai principi Torlonia, allora proprietari del vastissimo comprensorio, e io spesso l'accompagnavo. Avrò sì e no avuto dieci anni quando un pomeriggio, giuocando con la terra e la sabbia di un monticello, trovai un curioso oggetto, che mi portai a casa. Era una piccola placchetta di osso o avorio, di pochi centimetri di lato, con un'incisione; più tardi seppi che questa raffigurava una maschera teatrale tragica, e che la placchetta era una tessera, cioè una sorta di biglietto per accedere alle rappresentazioni teatrali, databile alla fine dell'Impero Romano. Ma quando lo seppi, leggendo un libro di archeologia, l'oggetto non
250 era più nelle mie mani: lo avevo scambiato, con un compagno di ginnasio, contro alcuni francobolli; e me ne ero disfatto anche perché, nelle mie tasche, l'avorio (o osso) si era rotto in tre pezzi orizzontali. Eravamo verso il 1932; due o tre anni fa, un mio conoscente dell'Italia settentrionale, nel corso di una visita a casa mia, mi disse che aveva per me un piccolo regalo: estratta dalla tasca una minuscola busta, ne tirò fuori un piocolo oggetto di osso (o di avorio). Era la mia placchetta con la maschera tragica, e con le tre rotture orizzontali riparate ma bene evidenti! Ora, è certo che tessere teatrali del Tardo Impero non sono frequenti, ed è anche certo che io non ho mai né raccolto né acquistato ossi incisi o avori del Tardo Impero; tra l'altro il dono mi giungeva da una località lontanissima da Roma, dove mi ero allontanato dalla placchetta. Tutta la vicenda aveva i connotati dell'improbabile, ma non dell'impossibile: da escludere astri o il Destino. Secondo episodio, anch'esso relativo a un oggetto romano. Ho sempre avuto una passione per la calligrafia e per le lettere dell'alfabeto, scritte, stampate oppure scolpite, e credo che le epigrafi dell'antica Roma, oltre a essere spesso delle grandi opere d'arte, rispecchiano fedelmente ia cultura, gli umori e i travagli della società che le ha prodotte. La prima epigrafe romana che mi è capitata sotto gli occhi l'ho vista, si può dire, da sempre: si trovava da tempo immemorabile in casa e oggi è murata a pochi metri dal luogo in cui sto scrivendo questo articolo. L'epigrafe è funeraria, e fa parte di un curioso monumento, di piccole dimensioni, dedicato a un bambino il cui ritratto a mezzo busto appare nella parte superiore, circondato da una conchiglia. Non è certo una scultura di qualità elevata, ma il suo fascino (se questa parola non è troppo forte) dipende proprio dal suo sapore popolare; è un prodotto cioè di quella corrente spontanea del· l'arte romana che continuò (cosa di cui non ci rendiamo conto nei modi dovuti) anche quando a livello ufficiale i prodotti figurativi si esprimevano « in toga », all'ombra dei prototipi greci. L'iscrizione, nel basso, suona: M. BAEBIO. MARINO. V. A. XI, M. XI, D. IX, H. 11x, cioè « a Marco Bebio Marino, [che] visse undici anni, undici mesi, nove giorni e otto ore». Bisogna dire che è molto raro che a un ragazzo del popolo (strato sociale denunciato dal tipo della scultura) venisse dedicato un monumento funerario con il ritratto, naturalistico o simbolico che fosse; rarissimo ancor più è che un siffatto monumento fosse accompagnato da una seconda epigrafe. Ma tre anni fa, nel 1979, trovandomi a Los Angeles, durante un pomeriggio libero trascorso assieme a un amico di Beverly Hills, lo accompagnai in un giro di acquisti e di faccende varie, tra cui la sosta presso un antiquario
251 di Rodeo Drive, al quale era stato affidato un portacenere in marmo che, rotto in due pezzi, doveva essere riparato. Mentre attendevamo, in una sala della galleria, notai per terra, appoggiata a una parete, un'epigrafe marmorea di non grandi dimensioni. Mi avvicinai e cominciai a leggerla: DIS. ·MANIBUS. (cioè gli Dei Mani dell'oltretomba) MINICIA FELICLA MATER. M. BAEBIO MARINO FILIO PIISSIMO, B.M., che in italiano suona « la madre Minicia Félicla [dedicò questo monumento] a Marco Bebio Marino, figlio molto affettuoso e benemerito ». « Ma guarda », mi dissi a questo punto, « esisteva anche un altro Marco Bebio Marino, come quello di casa nostra. » Ma continuando la lettura dell'epigrafe la sorpresa doveva cedere a un senso di sbigottimento incredulo, divenuto poi leggero malessere: sentivo come venirmi la pelle d'oca decifrando OUI VIXIT. ANNIS. XI. M. XI. DIES IX. H. IIX. Non potevo (e non posso) credere che siano esistiti due ragazzi dallo stesso nome, ambedue morti all'età di undici anni, undici mesi, nove giorni e otto ore. Chiesi all'antiquario dove mai avesse trovato l'epigrafe; veniva, mi fu risposto, dalla vendita all'asta di una vecchia dimora inglese. E poiché l'epigrafe era disponibile, riuscii ad acquistarla e (dopo non poche fatiche) a riunirla con il bassorilievo che mostra il ritratto di Marco Bebio Marino: e non c'è dubbio che le due iscrizioni spettano allo stesso lapicida. t-: assai insolito che una stessa persona (e per giunta un ragazzo) venisse onorato con un bassorilievo e con un'epigrafe; e il tipo della scultura indica che la madre Minicia Félicla (con ogni probabilità una vedova) apparteneva a un livello sociale non molto colto, forse anche non abbiente. Mi fa piacere pensare che la donna avesse speso tutto quel che aveva per onorare il suo (unico?) figlio; mi fa piacere riflettendo che è scomparso i'l Faro di Alessandria, che nulla resta dello Zeus Olimpico di Fidia, che il Palazzo degli Imperatori romani è divenuto un mucchio di mattoni e di fondazioni informi, che il Colosseo è un'orbita vuota, mentre il modesto monumento di Marco Bebio Marino, eretto da una povera madre disperata, è rimasto pra- · ticamente tale e quale, anzi, le sue sparse membra si sono potute ricongiungere dopo una separazione chissà quanto lunga. L'epigrafe infatti, emigrata in Inghilterra, deve essere stata acquistata a Roma da uno dei viaggiatori del Grand Tour, il viaggio sul continente europeo che i nobili inglesi intraprendevano alla fine della loro educazione scolastica, e dal quale ritornavano in patria recando con sé i loro acquisti, soprattutto effettuati in Italia: con ogni probabilità i due elementi iscritti sono rimasti lontani l'uno dall'altro per circa due secoli, per ritrovarsi infine casualmente nel loro luogo di origine, Roma (o i suoi immediati dintorni). Dovendo citare un caso di « estremamente improbabile », mi
252 sembra che quest'episodio possieda tutti i dati per accedere al grado del tipico e dell'esemplare; sarei anzi curioso di sapere se sia possibile calcolarne il livello di probabilità, secondo precise norme che tuttavia mi sono ignote. Certo è però che taluni connotati spingerebbero verso altre direzioni: la destinazione funebre dei due marmi, l'affetto materno, lo straordinario ricongiungimento fanno pensare a un disegno nascosto e misterioso. Preferisco rimanere attaccato alla spiegazione, per così dire, razionale; è molto fastidioso dover ammettere che il mondo in cui crediamo ha basi labili, convenzionali.
I marmi Ludovisi al Quirinale DA qualche mese circolava, e se ne era avuto anche un accenno sulla stampa quotidiana, ma ora la notizia è confermata a grandi ·titoli: si progetta (e non si sa neppure se si sia già passati alla fase esecutiva), si progetta dunque di sminuire uno dei massimi Musei archeologici del mondo, il Museo Nazionale Romano (detto anche Museo delle Terme), sottraendogli uno dei suoi più insigni elementi costitutivi, la Collezione Ludovisi. Questa dovrebbe essere tolta alla sede che occupava da un ottantennio, e trasportata a decorare il piano nobile del Palazzo del Quirinale: un articolo di Livio Colasanti, apparso sul quotidiano Il Tempo del 7 marzo 1982, si intitola Pertini dà il via: il Quirinale diventa anche museo e ospita la collezione Ludovisi. Data l'importanza della raccolta di marmi, e data anche la sua celebrità (pari a quella del Museo Nazionale cui appartiene) la prevista operazione è di grande momento, anche e soprattutto per il suo connotato controcorrente. Sino a oggi, nell'Europa moderna, si procedeva alla trasformazione in pubblici musei delle raccolte già ospitate nelle sedi del Potere; in questo caso si segue la via opposta, e i marmi Ludovisi dal Museo passano (o dovrebbero passare) nel Palazzo che ospita la massima carica della Repubblica Italiana. Il progetto va dunque commentato, e stupisce il silenzio della cultura italiana, degli archeologi, delle associazioni (cosa ne pensa, ad esempio, Italia Nostra?), davanti a una notizia che in taluni ambienti (specie in quelli stranieri) ha suscitato incredulità, stupore e, mi si consenta, anche indignazione. Personalmente, sono contrario, nel modo più assoluto, al progetto; ma debbo subito dire che il mio diniego non si rivolge al presidente Sandro Pertini, le cui intenzioni e il cui pensiero sono al di fuori di ogni sospetto, e che, non essendo né archeologo né storico dell'arte, va lodato nel suo intento di trasformare il Palazzo del Quirinale in un pubblico museo. Sotto tale aspetto, gli esprimo il mio più cordiale riconoscimento e plauso, anche perché egli si riallaocia a un proposito che venne a lungo discusso subito dopo la fine della guerra, poco prima del Referendum istituzionale. Prevedendo la caduta della monarchia sabauda (e credendo che la neonata Repubblica avrebbe scrupolosamente evitato di inserirsi nei luoghi simbolici del vecchio regime) due funzionari delle Antichità e Belle Arti, ambedue di grande valore e oggi scomparsi, il soprintendente alle Gallerie del Lazio, Aldo De' Rinaldis e l'ispettore centrale Emilio Lavagnina, progettarono di trasformare il Quirinale in un grande Museo, sul tipo del Louvre e dell'Ermitage.
254 Furono a tale scopo ottenute le piante dell'enorme edificio, e si discusse a lungo (e io stesso, alle prime armi, partecipai aHe riunioni) sulla destinazione dei vari ambienti e delle diverse ali. Ricordo che la cosiddetta Palazzina del Fuga era destinata alla Galleria Nazionaie, che le sale monumentali e gli appartamenti di rappresentanza sarebbero restati più o meno quali erano, e che si parlò a lungo sulla possibile immissione, in ambienti della Manica lunga, con ingresso separato, del Museo Nazionale, inclusa la Col,}ezione Ludovisi. Si pensava anzi che nella Manica i piani superiori si sarebbero potuti adattare, in modi assai felici, per l'esposizione degli oggetti minori, cioè delle sezioni chiuse sin dall'l 1 giugno 1940; la vecchia sede del Museo, nelle Terme di Diocleziano, sarebbe restata quale Museo secondario, destinato al lapidario e ai reperti (colonne, cippi, frammenti vari) di puro interesse archeologico, una sorta cioè di deposito visitabile, da integrare possibilmente con l' Antiquarium Comunale già sul Celio. Questo progetto nacque fra il 1945 e il 1946; non se ne fece nulla poiché, contrariamente alle speranze, la Repubblica non ritenne opportuno dissociarsi dalla sede che era stata dei Papi e dei Savoia. Ma era un progetto che nasceva sul presupposto dell'assoluta separazione tra potere politico e Museo, su ciò che oggi, invece, viene ignorato. Portare fa Collezione Ludovisi al Quirinale significa soltanto riaprire, su scala macroscopica, quel saccheggio dei musei italiani grazie al quale i Savoia ornarono le loro regge, e di cui talune delle antiche capitali, specie Parma e Napoli, ebbero a soffrire in misura inammissibile. Tanto per restare nell'ambito del Quirinale, invece di trasportarvi una delle più insigne raccolte di sculture statali sarebbe bene toglierne ad esempio, gli arazzi della serie del « Don Chisciotte », che gli intrighi della Duchessa d'Aosta e il diktat mussoliniano sottrassero al Palazzo di Capodimonte, al quale dovrebbero tornare; oppure restituire a Firenze gli arazzi delle « Serie di Giuseppe », di cui il restante è in Palazzo Vecchio per il quale furono tessuti; o anche ricomporre il nucleo degli splendidi « Gobelins » di cui uno solo è ancora a Napoli. Lungi dall'offrire a Roma un Museo straordinario, il trasporto dei marmi verrebbe a costituire una anacronistica « appendice d'arte » alla sede del Potere, una sorta di versione nostrana, e per giunta repubblicana, delle « raccolte di corte», care all'ancien régime, e che sono scomparse dopo la Rivoluzione Francese, salvo nei Paesi retti dalla monarchia, come l'Inghilterra, dove è famosa The Queen's Gallery, cioè l'appendice di opere d'arte annessa a Buckingham Palace. Ma ciò che stupisce maggiormente nell'odierno progetto sono le
255 parole del soprintendente alle Antichità di Roma, il professor Adriano La Regina, che ha anche pubblicato un Programma della Soprintendenza a lui affidata, in seguito a un « Incontro di studio del Comitato per l'archeologia laziale ». Nell'opuscolo (che varrebbe la pena di commentare passo per passo) si legge 'Che si pone « l'esigenza di reperire la sede più opportuna per le collezioni storiche », e che « [ ... ] la Presidenza della Repubblica ha già manifestato la sua disponibilità a ospitare nel Quirinale la sezione del Museo Nazionale Romano destinata a raccogliere le collezioni storiche ». Questa faccenda delle « collezioni storiche », da staccarsi dal nucleo dei musei cui appartengono, suona strana e densa di prospettive inattese: dovremo prepararci non dico a veder staccata dal British Museum la collezione di Lord Elgin (collezione storica quanto altre mai), ma, per restare a casa nostra, la Collezione Farnese dal Museo Nazionale di Napoli. Sorprendente è poi il passaggio che segue, dove la traslazione della Collezione Ludovisi è presentata come « prospettiva di offrire a Roma un museo straordinario, che questa città può ben meritare, oggi; mentre a Parigi si porta a compimento la trasformazione del Louvre; dichiarato 'Museo della Repubblica' dalla Convenzione del 1793, il Louvre era stato già immaginato come Mouseion da Diderot: Encyclopédie IX (1765), s.v. 'Louvre' ». Par di sognare, perché, al fine di fornir una parvenza logica al suo progetto di smembramento del Museo delle Terme, il professor La Regina cita proprio quel che lo condanna. A parte il Diderot (che, come altri illuministi, auspicava la trasformazione del Louvre da Museo di corte in Museo del popolo) fu proprio la Convenzione a dichiarar decaduto il potere monarchico e a condannare il Re al patibolo, recuperando il Louvre ·come Museo Nazionale e non Reale. Tant'è vero che, dopo le riprese in senso contrario di Napoleone 1, della Restaurazione, della Monarchia di Luglio e di Napoleone 111, la Terza Repubblica ordinò la distruzione del Palazzo delle Tuileries, sede del Potere, proprio per isolare il Louvre, quale Museo, dalla residenza presidenziale, l'Eliseo. Si legga, il professor La Regina, i discorsi parlamentari di Léon Gambetta, e vedrà cosa vi si dice. Tuttavia, per tornare alla questione attuale, è anche vero che il Museo Nazionale Romano è chiuso e che potrebbe parer più opportuno rendere visibili i tesori a un pubblico sempre più numeroso, e sempre più affamato di cultura e di arte. Ma resta da stabilire se l'inettitudine di un'amministrazione incapace di riaprire integralmente il massimo Museo archeologico di Roma a più di quarant'anni dalla chiusura giustifichi lo smembramento del Museo stesso. E dico inettitudine anche perché il caso delle Terme non è il solo;
256 da più di trent'anni, infatti, Palazzo Barberini è stato acquistato dallo Stato per ospitarvi la Galleria Nazionale, e (a un terzo di secolo di distanza!) l'amministrazione delle Belle Arti è incapace di cacciarne il Circolo delle Forze Armate. Al contrario, l'aver riaperto nella vecchia sede di Palazzo Corsini un troncone della Galleria è stato presentato come fatto positivo; e proprio Palazzo Barberini è stato scelto come sede di un Convegno per i Musei. Ma forse siamo noi in errore, non essendo in grado di ·comprendere la profondità del pensiero del professor La Regina, come quando esprime parere favorevole alle sambe e a'1le bosse-nove con cui l'assessore Nicolini farà concorrenza ai Carnevali di Rio, di Nizza e di Viareggio, tra Colonna Traiana e Colosseo, tra Fori Imperiali e Arco di Costantino, tra quei monumenti venerandi dei quali il soprintendente alle Antichità di Roma ha un nuovo e per noi indigesto tipo di rispetto.
L'arte del saccheggio demagogico ~ STATO un mio articolo apparso su queste stesse colonne (La Stampa, 23 marzo 1982) e seguito da un'intervista pubblicata da L'Europeo del 5 aprile, a denunciare per primo l'assurdo, insensato progetto di trasferire nel Palazzo del Quirinale la Collezione Ludovisi di marmi antichi, sottraendola al Museo Nazionale di Roma. Pur rendendomi conto, sin dall'inizio, che la questione presenta caratteri di inaudita gravità, e di interesse non già locale ma nazionale, non avrei mai sperato che la denuncia si allargasse sino a toccare un'ampiezza davvero rara nel nostro paese, e che sta rivelando taluni aspetti di mentalità e di costume quanto mai sintomatici dell'aria che tira e di ciò che bolle in pentola. Non è possibile elencare in questa sede tutti gli interventi che si sono succeduti e che si succedono in vari organi di stampa; ma anche se la loro lista sarebbe troppo lunga, è possibile sintetizzarne i punti essenziali. Contrari al progettato trasferimento risultano, unanimemente, nomi che da secoli assicurano garanzie di competenza e di serietà: storici dell'arte (Giuliano Briganti), archeologi (Antonio Giuliano), studiosi di cose romane (Cesare D'Onofrio), alti funzionari (Italo Faldi), e persino la somma autorità nostrana nel campo della museologia che è Franco Minissi. Favorevoli al trasferimento (oltre alle mosche cocchiere di Italia Nostra) sono il professor Adriano La Regina, autore del discusso progetto, e alcuni archeologi di tendenza politica eguale alla sua, cioè di asserita sinistra. Ma (qui è il secondo punto che traspare dalle dichiarazioni) le ragioni invocate a favore dell'inaudito progetto sono di tal genere e così improbabili, da vanificare in partenza la sua validità. Non è, sotto questo aspetto, il caso nemmeno di discutere le affermazioni del professor Filippo Coarelli, lo stesso che, a suo tempo, affermava che di statue come quelle di Riace ne esistono a dozzine, e che oggi se ne esce col dire che « la Ludovisi al Quirinale esalta il centro storico », e che il trasferimento al Palazzo della Presidenza è « un tentativo di rivalutare criticamente una collezione di importanza eccezionale ». E neppure c'è da controbattere le affermazioni del professor Mario Torelli, che cioè « chi critica il Quirinale non ha capito il progetto ». In effetti, la sola cosa da capire è che il Palazzo del Quirinale è dato dal Demanio in uso alla Presidenza della Repubblica, con precisi vincoli di destinazione: i marmi antichi, una volta entrati nel suo recinto, saranno considerati oggetti di decorazione, né c'è da pensare a un loro rientro nel Museo Nazionale, così come non sono rientrati in sede né gli arazzi, né i mobili,
258 né gli altri oggetti che vi portarono i Savoia, sottraendoli alle loro sedi originarie. Anzi, un tentativo della Soprintendenza di Napoli per riavere la serie di arazzi del Don Chisciotte (quando si allestì il Museo Nazionale di Capodimonte) fece cilecca, come possono testimoniare gli autori della richiesta. Ma anche se una siffatta restituzione fosse possibile (e, ripeto, noq lo è) tutta la progettata operazione costituisce un ennesimo episodio di quel saccheggio dei nostri musei, depauperati per ornare le sedi del Potere, saccheggio cui viene dedicato il capitolo di apertura della mostra « La Città degli Uffizi », attualmente visibile a Firenze: e il capitolo si intitola appunto « Gli Uffizi dispersi », con una ben curata e allarmante documentazione sulle opere sottratte per ornare Parlamento, ambasciate, o per soddisfare la vanità di politici e burocrati nostrani. Così, tanto per osservare un principio di coerenza, il Ministero dei Beni culturali deplora a Firenze ciò che sta per commettere (e su scala macroscopica) a Roma; c'è soltanto da prenderne atto come documento di serietà. Ma ripeto, anche se la restituzione dei marmi del Palazzo del Quirinale al museo fosse sperabile, è motivo di protesta sentire il professor La Regina affermare che « l'ospitalità al Palazzo della Presidenza si può ridiscutere in qualsiasi momento e nulla vieta di riportarcele via ». C'è da chiedergli: e la spesa? E i rischi del trasporto per opere preziosissime e fragili? Non si può che rimanere allibiti nel ricordare che l'autore di affermazioni del genere appartiene all'amministrazione che non è in grado di impedire la rovina (con la scusa della mancanza di fondi) di tesori insostituibili, come Pompei, e che lamenta incessantemente l'impossibilità di avere adeguato personale di custodia per proteggere opere e monumenti. Le parole del professor La Regina dovrebbero esser fatte conoscere ai vari comitati, fondazioni, personalità straniere, continuamente assillati dal perenne accattonaggio italiano, sul tipo di « Save Venice » e simili. Nella medesima intervista (Il Messaggero di Roma, 18 luglio 1982) lo stesso La Regina, sostiene che « il trasferimento al Quirinale va fatto comunque, perché si devono fare i lavori al Chiostro », cioè il chiostro piccolo del Museo Nazionale in cui i marmi Ludovisi erano sin qui sistemati. Sulla pretestuosità di un tale discorso è inutile soffermarsi: in realtà, la struttura di quel chiostro (che è molto modesto come architettura) è lesionata soltanto in alcune campate, e i lavori di restauro sono certamente meno costosi del trasporto dell'intera raccolta al Quirinale. E poi, si è mai sentito che il restauro della sede museale implichi il definitivo trasferimento altrove delle raccolte del museo stesso? Par di sognare, mentre la realtà è un'altra. In effetti il deprecato progetto risponde a un'ideologia per cui
259 la collezione in genere è un fatto feudale e capitalistico e, come tale, da escludere dal museo per sbatterla altrove. Magari si trattasse di un'ideologia marxista, ispirata cioè a un marxismo vivo, aggiornato, attuale! Ma in realtà non è neppure il caso di parlare di paleomarxismo, sibbene di un sinistrismo alla giacobina, tipico di certa media e grossa borghesia nostrana e del suo più recente episodio di trasformismo. "È incredibile che in un pasticcio del genere sia caduto un ministro dc, come l'onorevole Scotti; più comprensibile invece che attorno a un simile progetto si sia formato un fronte sedicente di sinistra, per cui chi si oppone al trasferimento è « denigratore, in malafede », se non addirittura antidemocratico e, al solito, fascista. Ma per certe mentalità la discussione non esiste: « Accetto la polemica ma non la malafede », afferma il La Regina, ma ciò che egli non accetta è invece la critica razionale, che si oppone a un disegno che (oltre a frammentare in modo assurdo il Museo Nazionale di Roma) è contrario a qualsiasi principio di logica, di conservazione, di museografia, di cultura dei nostri tempi. Tanto per fare un esempio, per il Sarcofago Ludovisi è prevista una collocazione sotto i portici del cortile del Quirinale, per una cioè delle più alte espressioni della scultura romana, per un marmo, miracolosamente conservato, che all'aperto non è stato mai. Ma a quali livelli si scenda in Italia allorché si tenta di impiantare un dibattito serio e scientifico lo provano le parole di Antonio Cederna, responsabile della sezione romana di Italia Nostra (la Repubblica, 22 luglio 1982): la decisione di esporre i marmi Ludovisi al Quirinale è da lui definita « un'iniziativa opportuna (e forse appunto perché tale osteggiata da non pochi storici dell'arte, archeologi, romanisti, eccetera) ». A parte la scelta dell'anodino aggettivo « opportuno » (che evita ogni discussione) sarebbe nel torto chi evocasse, davanti a una frase come questa, intollerabile e inammissibile, il culturame di scelbiana memoria. Piuttosto c'è da dire che un linguaggio del genere lo si sperava sepolto per sempre, dopo la scomparsa di Achille Starace e di Roberto Farinacci, anche perché esce dalla penna di chi, come Antonio Cederna, non risulta avere acquisito particolari meriti scientifici né come storico dell'arte, né come archeologo, né, tanto meno, come conoscitore e come studioso di cose e problemi relativi a Roma.
L'universo trasfigurato DIECI anni fa, nel 1972, la Cornell University di Ithaca, nello Stato di New York, allestì una singolare mostra, intitolata « The Civilization of Llhouros », e consistente (si asseriva) nei reperti degli scavi eseguiti a V·anibo, Hundii, Draikum, e altri centri di una inaudita « cultura llhourosciana », fiorita in Asia Minore, nei pressi della Lydia. Il ricco catalogo non mancava di carte geografiche, bibliografia, e riproduzioni degli oggetti esposti, tra cui accanto a opere d'arte figurativa (sculture, affreschi), c'era una serie di strani oggetti (flauti nasali) oltre a manufatti (quali spremilimoni, chiavi inglesi, ferri da stiro) misteriosamente modificati e « spiazzati » verso funzioni a carattere sacro: il tutto commentato, con molta serietà, in senso archeologico. Ma l'intera raccolta (e l'idea stessa della « civHtà llhourosciana ») era il prodotto della fantasia di un artista, Norman Daly, autore dei pretesi reperti, e inventore molto spiritoso (sebbene talvolta greve di doppisensi a sfondo sessuale) di tutte le sovrastrutture descritte minutamente nel bizzarro catalogo. Il caso di tale mostra è forse estremo, ma non è un episodio isolato: molto probabilmente il tema dell,a « civiltà inventata » non era stato prima d'aHora condotto così a fondo, sino all'oggetto tangibile, né svolto secondo un registro di un umorismo così piccante. Ma è certo che, almeno nel campo letterario, è un tema che in Europa discende da un'antica tradizione: non è azzardato affermare che la prima origine ne vada individuata nella Repubblica di Platone. Che esso si specifichi poi nelle Utopie del Cinque e del Seicento, o che scelga per descriversi un luogo geografico (che può essere una Cina favoleggiata o un qualche altrettanto mitico popolo selvaggio come accade nel Settecento illuminista) si tratta sempre di un canovaccio che viene rielaborato in senso politico, morale, religioso o anche umoristico; anzi, è un vero e proprio genere, che nel nostro secolo è rifiorito, grazie alle visioni « futuribili » di Zamyatin, Huxley e Orwell, e che (sulla scia di Rabelais e delle sue pseudo-citazioni) ha sortito, sul registro letterario, le più sottili variazioni e modulazioni a opera di Jorge Luis Borges, o di Ernesto Bioy Casares. Tutto ciò viene alla mente guardando (non si può certo dire «leggendo») un'opera singolare e affascinante, or ora pubblioat, in due volumi dall'editore Franco Maria Ricci: i'I Codex Seraphinianus di Luigi Serafini, un giovane architetto romano che tra il 1976 e il '78 ha disegnato le centinaia di fogli che vengono ora diffusi grazie a una splendida resa tipografica.
261 Come definire quest'opera? Ho detto che essa sollecita un richiamo verso la tradizione della « civiltà inventata»; ma c'è di più, perché le sorprendenti, inesauribili immagini sono al seguito di una formula mentale di eccezionale ricchezza e varietà. Vi ritroviamo (allo stato di antecedenti) Arcimboldi e Bosch, le « macchine inutili » di Munari, i « Templi dell'Uovo » di Fabrizio Clerici, Gaudì, oltre che la letteratura di fantascienza, le alchimie verbali di Jules Laforgue, lo sfrenato meccanismo, di paradossale astrattezza, di Raymond Roussel, il surreale giuoco di metamorfosi di Alberto Savinio, e molte cose ancora. ~ verosimile che lo stesso Serafini non si renda conto del terreno, così vario e stratificato, in cui affonda la sua opera; viene il sospetto che questa sia il risultato non già di studi diretti, di scambi coscienti, di conoscenze precise e meditate, derivando invece da una sorta di « momento evoluzionistico » del dato psicologico e di quello culturale, intesi nel senso più ampio possibile, anche nei rispetti geografici. La struttura e le immagini del Codex sfiorano infatti un registro di intonazioni che è senza limiti né confini, oscillando dal capriccio al paradosso, dal sensazionale all'orrido, dal logogrifo alla battuta umoristica, dalla caricatura all'intuizione misticheggiante. Già lo stesso impianto dell'opera (che arieggia una Summa medioevale nella divisione per argomenti, per classi e sottoclassi) introduce in un clima di razionalismo trasfigurato, inventato, uscito da processi mentali diversi da quelli abituali; e la descrizione del1'« universo serafiniano » procede per via di immagini di puntigliosa precisione e nitidezza, e per via di una scrittura anch'essa fantastica, il cui corsivo impeccabile è e non è, mostrando tutti i connotati di una comunicazione calligrafica vera e autentica, specificata anche nei numeri, ma che poi resta nel chiuso del geroglifico indecifrabile, ermeticamente serrata senza possibilità di penetrazione. Dicevo della nitida precisione secondo cui è condotto il Codex; e parrebbe opportuno riprodurre almeno una deHe circa 400 pagine di cui sono composti i due volumi. Resta però, a negare la validità della esemplificazione, il fatto che solo la conoscenza complessiva dell'insieme ne rende adeguatamente il significato consentendo un giudizio di valore: è impossibile effettuare una scelta nel corpo di un colossale incendio, di cui ogni scintilla è un'invenzione, ogni fiammella una trovata allusiva e sconcertante. In effetti, le immagini che sin qui sono state scelte •a commento delle recensioni nella stampa hanno puntato su certi fogli che, sebbene carichi di humor, restano tra i meno significativi: come quello con la coppia che, nel corso di un amplesso, si trasforma in un coccodriHo, o l'altro, con i pesci che, emergendo dal pelo dell'ac-
262 qua, somigliano a occhi spalancati. E ancora, uno degli aspetti più singolari del Codex è la mescolanza dei vari fili del discorso, l'assenza di un qualsiasi rapporto discorsivo tra i molteplici toni, timbri e accenti che si presentano slegati, quasi casuali, proprio come i fatti della vita quotidiana, cui soltanto la memoria conferisce un significato di razionale svolgimento. Se il Codex è latore di un messaggio più intimo e profondo, lo si deve ricercare entro l'incessante intrecciarsi di immagini e di riferimenti, spesso ingannevoli, altre volte provvisti di una carica breve come quella del ca/embour, della battuta e del bisticcio verbale. Sotto certi aspetti, Serafini par proporre, mescolati alla rinfusa, i pezzi di un gigantesco puzzle, di cui si sforza, in modo provocante, a nascondere il vero senso ultimo, mascherandolo in mille modi, tra i più assurdi e impensati, forse per renderne più ardua (e più illuminante) la scoperta. Se tali intenzioni critiche sono reali, allora ha colto nel segno Italo Calvino, in quelia che è la più acuta recensione sin qui apparsa del Codex, pubblicata sul primo numero di FMR, la rivista d'arte di Franco Maria Ricci. Calvino ha posto in rilievo il rapporto tra due tavole, di cui una mostra una sorta di Pietra di Rosetta, dove la pseudo scrittura che accompagna le immagini è abbinata e messa al confronto con un'altra serie di segni, ben differente e simjle a misteriose particelle primordiali, le stesse che altrove appaiono uscire a sciami entro il raggio di luce di una lampada stradale, avvolta nell'oscurità della notte. Nasce quindi il sospetto che per Serafini la parola scritta (cioè il verbo che perviene a fissarsi e a provvedersi di potere comunicativo), sia eguale all'essenza della luce, che la luce sia l'origine stessa dell'intelletto, che pervade di sé tutto l'Universo. Forse mi sbaglio, ma molti indizi mi fanno pensare che, in questa cosmologia, le apparenti diversità, infinitamente varie, si rifacciano a un solo principio, che anima ,tutto, e che, in fondo, rimane identico a se stesso: perché, detto altrimenti, tutto è divino. Se è così, allora il Codex è l'espressione di una sorta di « amauricianesimo », più intuito che ragionato, espressione di un messaggio profondamente religioso, come le opere teatrali di Mozart (ed è questo un nome che ho sentito pronunciare a voce dall'autore). Certo è che ci •troviamo davanti a un testo figurativo eccezionale, anche per la sua eccentricità rispetto alla cultura artistica ufficiale dell'attuale momento italiano: tanto fuori della norma da far prevedere che i lugubri corifei deHa critica d'arte impegnata, politicizzata, accademica, finto-rivoluzionaria, tenteranno di ignorarla o di seppellirla, o almeno di appiccicarle un'etichetta stonata e fuorviante. Non c'è da essere profeti per presentire al Codex di venire spin-
263 to nello stesso carnaio in cui si è di volta in volta cercato di affogare De Chirico, Savinio, Clerici, Licini e tutti coloro che hanno posseduto un vocabolario visivo immune dai confini delia parrocchia, del quartiere, della sagra regionale, del provincialismo infetto che da quasi due secoli appesta la pittura italiana._
Capolavori perduti da ciechi burocrati CIRCOLA la voce, da qualche tempo, che l'amministrazione statale delle Antichità e Belle Arti stia preparando una mostra nazionale che ponga davanti al grosso pubblico e agli studiosi ciò che negli ultimi tempi è entrato a far parte del patrimonio artistico nazionale, soprattutto per acquisti. Una rassegna del genere, di ampiezza non esclusivamente regionale, non è frequente nel nostro paese; l'ultima, se ben ricordo, fu quella del 1932, allestita nella Galleria Nazionale d'Arte moderna, in occasione del« decennale della marcia su Roma », e riguardava gli accrescimenti di interesse artistico, storico e archeologico effettuati dopo il 1922. Non si conosce se la mostra attualmente (si dice) in preparazione osservi un preciso termine di partenza; tuttavia, sarebbe spiacevole dover rinunciare, a causa di un post quem troppo vicino (si afferma sia il 1970), a esporre nella Capitale la famigerata Madonna della Palma, acquistata nel 1968, e che continua a essere esposta nel Palazzo Ducale di Urbino sotto il nome di Raffaello, tra l'ilarità generale. Sarebbe poi opportuno che gli organizzatori della mostra la ampliassero con una sezione fotografica, dedicata aUe opere che lo Stato grazie all'azione dei suoi burocrati e del suo brain trust (già denominato Consiglio Superiore, ora Comitato di Settore) avrebbe potuto ma non ha creduto opportuno acquistare: tale sezione dovrebbe far perno sulla Natura morta e sulla Nascita della Vergine, ambedue di Zurbaran (tele passate, con tutti i crismi, alla Norton Simon Foundation di Pasadena in California), e suHa enorme tela del Goya, già nella Collezione Ruspoli a Firenze e oggi (per buona fortuna) in una raccolta presso Parma. Questo sommo capolavoro della pittura europea (che va annoverato tra i « dieci quadri da salvare », accanto alla Primavera del Botticelli, aHe tele del Caravaggio in San Luigi dei Francesi, a Las Meninas del Velazquez, all'Atelier du Peintre del Courbet e ad altre vette del genere) lo si sarebbe potuto acquistare per gli Uffizi o per Brera; ma tale passo fu impedito da un immarcescibile personaggio che da decenni ha un peso nei fatti delle BeHe Arti, e la cui assoluta incapacità di percepire i valori artistici, storici ed estetici gli fece condannare il sublime dipinto, sostenendo (si afferma) che « l'è tutto hol6r cioccolatte ». Da mettere bene in evidenza poi, in tale sezione degli acquisti « possibili ma non effettuati », ci sarebbe il superlativo Giardiniere del Van Gogh, un dipinto che ha dato luogo a certi sospetti, sin qui mai dissipati. Come è noto, Io Stato poteva assicurarsi (e a prezzo assai conveniente) questa rarissima, oggi inestimabile, tela.
265 che voci non controllate asserivano appartenesse al signor Sereno Freato. Quando il soprintendente Faldi ne propose 'l'acquisto, non gli venne dato seguito; anzi lo stesso Faldi asserisce (vedi La Stampa, 23 novembre 1980) che, avendo di nuovo e più volte insistito, egli fu « perentoriamente invitato a desistere ». Non è noto se l'autore di tali inviti sia stato l'allora Direttore Generale delle Antichità e Belle Arti, il dottor Guglielmo Triches (lo stesso che pochi giorni fa è stato arrestato per motivi valutari, nel corso di un'inchiesta su certi fatti avvenuti a Firenze); ma ci si chiede come mai non ci sia un Procuratore della Repubblica che voglia andare sino in fondo a questa nebulosa vicenda del Van Gogh chiarendone, nel caso, gli sconcertanti interrogativi. Ma per tornare agli acquisti di opere d'arte, c'è da segnalare che comincia a esser noto un genere di raccolte di cui si è sentito molto parlare negli ultimi due decenni, e che ben pochi conoscevano nella sua reale consistenza ed entità, cioè le collezioni formate da Banche e Istituti Bancari. Molte erano le dicerie che correvano su di esse, e spesso di tipo negativo; ma quel che è finora conosciuto sollecita un giudizio generalmente favorevole, anche per il ruolo che raccolte del genere potrebbero assumere in una prospettiva a dimensioni regionali. Già una decina d'anni fa, la Cassa di Risparmio di Genova e Imperia pubblicava un volume (dovuto a Piero Torriti) in cui era resa nota una parte della raccolta (dipinti, disegni, incisioni, majoliche e porcellane) che la Cassa possiede nella sua sede genovese: a parte poche eccezioni, si tratta di opere liguri, spesso di qualità assai alta. Recentemente poi, il medesimo Istituto ha effettuato un acquisto di grande importanza, una scelta delle tele genovesi che formavano la splendida collezione (purtroppo smembrata) del compianto dottor Angelo Costa, così come in precedenza aveva salvato da'1la dispersione alcuni dipinti già nella celebre Galleria Doria in via Garibaldi. Sono questi i due aspetti del collezionismo bancario che bisogna valutare in modo positivo: da un lato il recupero di opere d'arte espresse dalla cultura locale (sì da formare delle vere e proprie Gallerie), dall'altro la tutela di raccolte antiche e tradizionali, che molto spesso hanno un'enorme importanza per la cultura regionale, e della cui scomparsa burocrazia, accademismo universitario e storici dell'arte dediti all'estensione delle expertises si preoccupano ben ·poco. In tal senso, un posto di eccezione tocca al Monte dei Paschi di Siena, i cui dirigenti hanno ben intuito come investimenti accorti e sagaci non si pongono in contrasto con i valori della cultura. A·l Monte, infatti, va riconosciuto il merito non piccolo di avere
266 impedito (grazie a un vitalizio che per discrezione non chiamiamo fortunato) la fine della importantissima raccolta Chigi-Saracini, che in precedenza aveva già subito decurtamenti: sono così rimasti a Siena dipinti di alto valore storico-artistico, oltre a un nucleo di cose minori che tuttavia iHustrano in modo egregio l'arte senese tra il Cinque e il Seicento, nucleo che sarebbe impossibile formare altrimenti. Ma lo stesso Monte ha proceduto ad acquisti di eccezione, tra cui il rarissimo sant'Antonio Abate del Sassetta che fu esposto l'anno scorso nella locale Pinacoteca. Altri Istituti bancari di minor peso hanno proceduto ad acquisti di dipinti di innegabile interesse, sempre circoscritto alla storia delle espressioni figurative del ·luogo: così, una scelta delle cose entrate nella Cassa di Risparmio di San Miniato, in provincia di Pisa, si può studiare nel volume Tesori d'arte antica a San Miniato, edito dalla SAGEP di Genova a cura della medesima banca. In questi giomi poi sono apparsi due cataloghi, per i tipi della Electa di Milano. Il primo, intitolato La Galleria di Palazzo degli A/berti riguarda i dipinti in possesso del.la Cassa di Risparmi e Depositi di Prato: vi si ammira (stupendo dopo la recente pulitura) il Cristo incoronato di spine del Caravaggio, che fu già della Collezione Cecconi di Firenze, assieme al Crocefisso di Giovanni Bellini (già nella fiorentina raccolta di Niccolini di Camugliano), due gemme che, senza la Cassa, sarebbero finite chissà dove. ~ certo che due pezzi di tal calibro dovrebbero trovare stabile dimora nel patrimonio dello Stato italiano; ma tanto più grande è il merito di chi, al casuale dilettantismo con cui vengono effettuati gli acquisti per i nostri musei, provvede con un'oculata sorveglianza di quel che accade nel mercato. La medesima Cassa di Prato ha raccolto un magnifico nucleo di dipinti fiorentini (da segnalare due rari Coccapani) e sculture di Lorenzo Bartolini, tra cui alcuni ritrovati presso un mercante di Londra. Il secondo volume edito dalla Electa riguarda le Raccolte d'arte a Palazzo Koch in Roma, cioè della Banca d'Italia; purtroppo, nonostante il ruolo primario ed eccezionale dell'Istituto, si tratta di una coHezione eterogenea, e spesso di livello men che mediocre: quanto ai dipinti, a parte poche eccezioni (una tavola del Duecento fiorentino, una Prospettiva del Codazzi, e poche altre cose) non mette neppure conto di farne cenno. Né il catalogo dice quale sia stata la sorte di certi quadri di altissimo pregio, già nella ColIezione Gualino, che pure fecero parte del sequestro con cui tale raccolta (molto ineguale ma con talune cose non comuni) entrò in possesso della Banca d'Italia. Ma questa sezione di scarso valore è riscattata dallo splendido gruppo di opere dell'Estremo Oriente, unico in Italia, e da due
267 o tre marmi ritrovati durante gli scavi per erigere il superbo edificio dovuto a Gaetano Koch. Bisogna tuttavia riconoscere che le collezioni della Banca d'Italia hanno origini non pianificate, occasionali, senza un filo conduttore, quello che, ad esempio, sostiene le raccolte della Cassa di Risparmio di Bologna, illustrate nel 1972 in un volume di Andrea Emiliani, e di cui una bella scelta è stata giorni fa esposta nella locale chiesa di San Giorgio in Poggiale (assieme ad alcuni interventi di restauro operati dalla Soprintendenza con i contributi della medesima Cassa). Ancora una volta, questi cataloghi e volumi confermano il ruolo decisivo che, per costruire una collezione d'arte, spetta al consigliere, al conoscitore, che in nessun modo può essere sostituito dal fumismo astratto dei teorici.
È davvero una sedia da re QUESTA è la straordinaria storia di una reliquia: la Cattedra di San Pietro. Su tale antichissimo cimelio religioso, conservato (e perciò nascosto alla vista del pubblico) all'interno del monumento di Bernini che si trova in fondo all'abside della basilica vaticana, lungo i secoli sono fiorite innumerevoli leggende. Margherita Guarducci, archeologa ed epigrafista, ha avuto la possibilità di studiarlo in « presa diretta » e in un libro ne ha ricostruito l'affascinante storia. Per raccontarla, però, bisogna partire dal clima nel quale la leggenda della Cattedra di San Pietro nacque. Tra j testi di letteratura bizantina uno dei più singolari è un libretto intitolato Brevi note storiche (Parastaseis syntomoi chronikai). Si tratta di una sorta di guida di Costantinopoli, compilata verso il 760 al fine di iHust