Alpi segrete. Storie di uomini e di montagne 9788842098133, 8842098132

Esiste un altro modo di raccontare le Alpi. Bisogna andarle a cercare nei sentieri (reali e metaforici) meno battuti. Fe

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Italian Pages 184 [187] Year 2012

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Alpi segrete. Storie di uomini e di montagne
 9788842098133, 8842098132

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Economica Laterza 613

Marco Albino Ferrari

Alpi segrete Storie di uomini e di montagne

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2012 Edizioni precedenti: «i Robinson/Letture» 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council Le cartine sono state realizzate da Alessia Pitzalis

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2012 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9813-3

Indice

Premessa

vii

Dall’alto 3 Elva, il paese che era

19

Il Badile e Riccardo

49

La Val di Mello e i suoi asteroidi

67

Le Dolomiti nascoste sopra Belluno

79

Le oasi e le isole della Valle dei Mòcheni

113

La «Via Eterna» delle Alpi Giulie

127

Il segreto di Dino: una favola esemplare

147

Glossario 161 Ringraziamenti 165 Indice delle cartine

169

Indice dei nomi

171

Premessa

Un giorno della tarda primavera del 1993 mi trovavo a passeggiare sul noto pratone costellato di massi erratici di La Vachey, in Val Ferret, qualche chilometro a nord di Courmayeur. C’era il sole, e i bucaneve vibravano nella brezza leggera del pomeriggio. Lingue di nevaio scendevano fin quasi sul fondovalle e gli choucas, i grandi corvi neri che volano fino alle alte quote, saltellavano tra i sassi. Ero in compagnia di Laura McCaffrey, l’allora direttrice della rivista inglese «Outdoor». Laura scriveva libri e teneva conferenze sulla cultura del viaggio e sulla wilderness. Parlava con il classico accento della upper class inglese, tutto sibili e finali di frase in crescendo. Aveva i modi misurati, un contegno quasi regale. E un lieve strabismo, che le conferiva un’espressione enigmatica. Si trovava da qualche settimana in visita sulle Alpi, per lavoro: era sulle tracce dei suoi connazionali britannici – così mi aveva spiegato – che erano stati i pionieri dell’esplorazione alpina, e tentava di ricostruire aneddoti e retroscena di quella stagione d’oro delle scalate. La conversazione era piacevole. L’aria frizzante e le luci crude abbagliavano la vista. Si capiva che l’estate era alle porte. Arrivammo in fondo al pratone, dove sorgono le baite del Fréboudze, proprio sotto l’imponente massa rocciosa delle Grandes Jorasses, uno dei colossi principali del Massiccio del Bianco, le cui cime, la Walker e la Whymper, erano state scalate per la prima volta, come attestano i loro toponimi, da alpinisti britannici verso metà Ottocento. vii­­­­

«Come mai, secondo te, gli italiani arrivarono in ritardo rispetto ai francesi e a noi inglesi nella conquista delle Alpi?», chiese Laura. «E soprattutto, perché in Italia la cultura delle montagne non è particolarmente diffusa neppure oggi? Così almeno mi è sembrato di capire. A parte gli alpinisti e chi le frequenta... fuori da questo àmbito sembra esserci disinteresse, un po’ di ignoranza. Mi sbaglio?». Lì per lì non seppi darle una risposta convincente. Ma la questione era interessante e tutt’altro che priva di fondamento. Perché noi italiani – pur abitando un territorio che per il 54 per cento è montuoso – abbiamo una così scarsa cultura delle terre alte? Perché solo gli alpinisti e coloro che lo frequentano conoscono il mondo delle montagne, la sua storia, la sua epica? Perché, ad esempio, certi grandi campioni dello sport del passato sono diventati delle glorie nazionali, come Fausto Coppi, Tazio Nuvolari, Primo Carnera e anche Zeno Colò, mentre pochi conoscono Giusto Gervasutti, Riccardo Cassin, Emilio Comici, che negli stessi anni raggiungevano i massimi livelli mondiali nel proprio campo, l’alpinismo? E ancora, perché nelle scuole della Gran Bretagna si studiano le esplorazioni antartiche e si leggono le vicende di Shackleton e della sua sfortunata spedizione a bordo dell’Endurance (così mi aveva raccontato Laura), mentre in Italia le imprese di Giacomo Bove o del Duca degli Abruzzi sono materia solo di pochi interessati? E infine, perché un esploratore etnografo della statura di Fosco Maraini ha avuto un vastissimo successo editoriale in Inghilterra, mentre da noi soltanto alla fine della sua vita è stato riconosciuto appieno? La domanda di Laura, in quel pomeriggio sotto il Monte Bianco, aveva iniziato a lavorare come un tarlo. E dopo qualche tempo mi era sembrato di cogliere il lembo di una matassa, che poteva, forse, portarmi a una risposta plausibile. Almeno, avrei potuto rispondere a Laura per iscritto. Negli anni in cui Whymper e i suoi colleghi esploratori conquistavano una dopo l’altra le cime delle Alpi, in Inghilterra si viii­­­­

diffondevano fabbriche tessili mosse dall’energia del vapore, si registravano impennate di produttività sul lavoro, e c’erano treni che sfrecciavano attraverso le campagne a velocità mai viste prima. Si era all’alba della seconda Rivoluzione industriale, che andava creando il terreno fertile per l’affermarsi della filosofia positiva, fondata in Francia tempo prima da Auguste Comte e Saint-Simon. La fiducia nelle «magnifiche sorti e progressive» dell’uomo si stava consolidando. E sul piano del pensiero si faceva strada l’idea che la conoscenza dovesse poggiare su fatti e dati misurabili, a differenza delle correnti filosofiche idealistiche che, al contrario, andavano alla ricerca di essenze o principi universali inattingibili dalle scienze. Si sa, positivo è ciò che appare reale, sperimentale, concreto, in contrasto con ciò che è astratto, metafisico, trascendente. Il Positivismo degli anni di Whymper e dei suoi colleghi riprendeva quel pragmatismo razionale illuministico, quella sete di conoscenza soddisfatta attraverso l’esperienza sul campo che aveva portato alla conquista del Monte Bianco nel 1786 dopo decenni di studi e incoraggiamenti da parte dello scienziato esploratore Horace-Bénédict de Saussure. Anche l’epopea della conquista dell’Everest è figlia del paradigma positivista, proprio come la conquista del Monte Bianco lo è di quello illuministico. A metà dell’Ottocento, in Himalaya, il Great Trigono‑ metrical Survey rappresentava l’ente della Corona con il compito di catalogare e misurare la catena di cime a nord dei domìni indiani. Misurare significava riconoscere. Per questo nel 1852, quando venne individuata a distanza la cima più alta dell’Himalaya attraverso un sofisticato sistema di calcoli trigonometrici, ebbe inizio l’epica della conquista del «terzo polo» (un’invenzione ancora una volta inglese). E non è un caso che il nome del «Tetto del Mondo» sia rimasto quello del cartografo britannico che diresse l’opera di classificazione e misurazione della catena himalayana, sir George Everest. Che cosa è arrivato a noi di quella cultura che vedeva nelle montagne un terreno di conquista delle conoscenze umane sulla natura? Forse il primo Club Alpino Italiano, fondato ix­­­­

all’indomani dell’Unità d’Italia da Quintino Sella, lo statista-scienziato sedotto dall’approccio inglese protestante e liberale. Un cai, però, destinato a forti trasformazioni. Per il resto ben poco, soprattutto – e qui veniamo al nocciolo della questione – dopo l’affermarsi della retorica militaresca della Grande Guerra e la riforma scolastica di Giovanni Gentile degli anni Venti del Novecento. Si sa, la riforma Gentile, che intendeva porre le basi per una nuova «cultura nazionale» – e della quale ancora sentiamo gli effetti –, privilegiava le materie umanistiche, le uniche in grado di elevare lo spirito umano, a scapito della matematica e delle scienze naturali (molta più Storia, dunque, e assai meno Natura). Il giudizio dello storico tedesco Jürgen Charnitzky sulla riforma Gentile è molto chiaro: «I nuovi programmi [introdotti da Gentile] stabilivano una gerarchia delle materie, che attribuiva una posizione di preminenza all’italiano e al latino davanti a storia e filosofia, mentre le discipline scientifiche, simili a ‘valletti’, dovevano accontentarsi dell’ultimo posto anche nel liceo scientifico». E accanto alla riforma Gentile, varrebbe forse la pena di citare anche il neoidealismo di Benedetto Croce e la sua reazione alla filosofia positiva. Sui principi di Croce e Gentile, che poggiavano a loro volta su tradizioni accademiche secolari, si basa ancor oggi la nostra scuola. È un retaggio antico. Dunque, se è vero, come abbiamo detto, che è alle filosofie illuministe e positiviste che si lega la storia dell’esplorazione alpina, forse non c’è da stupirsi della nostra «assenza» in materia di montagna e di avventura. Quella italiana rimane una cultura prevalentemente urbanocentrica, con la sua storia radicata nei comuni. Una civiltà culturale tutta libresca che si fonda per tradizione nel palazzo dell’accademia, nel canone, più che sull’avventura della ricerca individuale sul campo. E l’alpinismo romantico costruito sulla sacralizzazione della bellezza delle altezze, sulla lotta con l’alpe come forma di innalzamento spirituale? Che testimonianze ci ha lasciato? x­­­­

Intere biblioteche, certo, libri di memorie, autobiografie, che però in Italia non sono riuscite a incidere fino in fondo nella cultura nazionale. Troppo chiuse in se stesse, solipsistiche, votate al culto autoreferenziale del bello stile. Assai diverso l’effetto del racconto icastico, fattuale, nitido degli inglesi, rispetto al lirismo estetizzante e narcisistico dei più romantici alpinisti italiani che non è stato fino in fondo capace di «spiegarsi» al grande pubblico. In seguito l’alpinismo italiano avrebbe preso altre forme e si sarebbe ammantato di valori ben discordi da quello spirito anglosassone che l’aveva concepito nella sua forma moderna. Dopo il passaggio attraverso la stagione dell’Irredentismo, in cui le montagne entrano nella retorica militaresca della conquista, degli alpinisti «duri e puri» che piantano il tricolore sulle cime irredente (le Alpi confini della patria da difendere e onorare), non è difficile immaginare come il fascismo contribuì a esaltare gli eroi del sesto grado, gli eroi che nelle atmosfere magiche e ultraterrene delle alte quote non temono il vuoto e i rischi della scalata: la propaganda del regime li raffigurava come campioni di ardimento che glorificavano la razza italica, e li portava nel pantheon di spiriti prescelti. Non è un caso che alla fine degli anni Venti il Club Alpino Italiano fosse presieduto da Augusto Turati che era, contemporaneamente, anche segretario del Partito Nazionale Fascista. Certo, il positivismo anglosassone degli antenati di Laura McCaffrey con quella retorica rimaneva agli antipodi. La lettura dei testi di Julius Evola (teorico del fascismo occulto ed egli stesso alpinista) risulta interessante per calarsi in quel pensiero che disprezza la modernità, che si oppone alla razionalità, che immagina un sapere segreto raggiungibile solo da alcuni eletti, e che esalta la purezza dell’animo degli alpinisti, schietto, coraggioso, eroico. Cosa è rimasto oggi di quella cultura del Ventennio? Poco, anche perché il dopoguerra ha dato un colpo di spugna a tutto ciò che era rimasto dell’enfasi dei regimi. E se qualche retaggio di quello spiritualismo del rischio è rimasto, lo si trova in una certa assonanza ideale nel più grande divulgatore di «cose di xi­­­­

montagna» di oggi, Reinhold Messner. «Non la cima, la difficoltà, non il record mi interessano – scrive Messner –, ma quello che succede all’uomo quando si avvicina alla montagna. Il libro [di Evola] ci dà la risposta». Un po’ new age, un po’ incantatore di platee, Messner riesce in effetti a creare curiosità e ammirazione in un pubblico vasto, ma non può (per fortuna, e vedremo perché) colmare il vuoto culturale degli italiani nei riguardi della montagna. Quel vuoto che, per esempio, porta i giornali a parlare di terre alte solo quando si verificano tragedie, e a titolare i pezzi con il riduttivo «Montagna assassina». Ma se è vero che nel nostro paese esiste un vuoto culturale nei confronti della montagna, è altrettanto vero che in certi ambienti circoscritti c’è una grande consapevolezza, una grande preparazione. E qui siamo in presenza della tipica vocazione settoriale degli italiani: ci si chiude, in questo come in tantissimi altri àmbiti, in specifiche realtà dentro le quali opera una tensione collettiva che indica l’ideale condiviso. Il Club Alpino Italiano conta 316.000 soci, e al suo interno è diffusa una sentita cultura specifica, con i propri codici, le proprie regole, le proprie norme. Dentro c’è la grande famiglia di chi la montagna la ama e la conosce. Fuori il nulla, o quasi. Così, quando si dice «Alpi», oggi in Italia i più pensano subito alle solite (poche) cime famose: il Cervino, il Monte Bianco, il Gran Paradiso, le Dolomiti. Oppure pensano alle località turistiche più alla moda: Courmayeur, Cervinia, Madonna di Campiglio, Cortina. In realtà, questi luoghi dell’industria del turismo rappresentano spazi circoscritti che si sono guadagnati una notorietà grazie allo sci e a forti investimenti pubblicitari, ma non sono che rade isole disperse nel complesso arcipelago delle montagne. Oltre alle località da dépliant patinato, oltre alla montagna da cartolina, si apre il vasto «mare alpino», un mondo appartato, in gran parte sconosciuto, sempre più marginale e ormai semiabbandonato dopo lo spopolamento degli anni Sessanta e Settanta. Eppure, è un mondo denso di storie, di meraviglie eclissate, destinate all’oblio. Un mondo che per molti è ancora segreto. xii­­­­

Le storie raccontate in queste pagine sono state raccolte in occasione di diversi lavori sul campo, per la realizzazione di documentari, per la stesura di corrispondenze. E soprattutto per la realizzazione del periodico che fondai nel 2002, «Meridiani Montagne».

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Alpi segrete Storie di uomini e di montagne

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Dall’alto

L’elica del piccolo Cessna gira al minimo sulla spianata di cemento dell’aeroporto di Bresso, periferia nord di Milano, mentre iniziamo a muoverci lenti verso la pista di decollo. L’abitacolo è piuttosto ridotto: quattro sedili, due davanti e due dietro, circondati da finestrini di alluminio che sfiorano le spalle. Dal soffitto, a una spanna dalla testa, pendono i fili neri a spirale delle cuffie. Ci fermiamo. L’aereo ruota su se stesso fino a puntare il nastro d’asfalto grigio che sembra allungarsi fin sul‑ l’orizzonte. Di fronte a me le teste in controluce dei miei compagni di viaggio, poi il cruscotto punteggiato da leve, luci e potenziometri, e, oltre il parabrezza, le linee di fuga della pista che convergono fino a toccarsi in un punto lontano. Rimaniamo fermi, nel fremito del motore che scoppietta al minimo, in attesa del via sotto il cielo della giovane estate. A sinistra siede il pilota. Si chiama Renato Antonioli, ed è nato a Sondrio una cinquantina di anni fa. Ha fatto parte della Nazionale di sci al tempo della Valanga Azzurra. La sua specialità era la discesa libera e per sette stagioni ha gareggiato in coppa del mondo, ottenendo, nel suo momento di massima gloria, il terzo posto sulla pista di Kitzbühel: due minuti nel vuoto della Streif (appunto la leggendaria pista di Kitzbühel) a più di cento all’ora sulla neve gelata. Renato è guida alpina, maestro di sci, pilota di elicottero, di aereo, istruttore di volo a vela. Ed è arrivato primo ai campionati italiani di volo acrobatico di aliante. 5­­­­

A destra siede il fotografo, Jacopo Merizzi, un nome piuttosto familiare per chi conosce la storia dell’alpinismo. Negli anni Settanta è stato il capofila del movimento dei sassisti («sassismo» vuol dire scalate di alta difficoltà su massi erratici o brevi pareti a pochi metri da terra). Ed è lui uno degli scopritori di un vero eden dell’arrampicata libera nelle Alpi, la Val di Mello, gioiello di roccia tra Valtellina e Svizzera dove si affacciò quel circo colorato che fu il fenomeno del free climbing della prima ora, con rocciatori in costume hippy, le mani bianche di magnesite e la testa piena dei racconti di Carlos Castaneda, di Jim Bridwell e di Tom Frost. Jacopo è fotografo e guida alpina. Gira il mondo scalando pareti con generosi clienti, e scatta immagini in cui prevale la dimensione aerea della vertigine, che poi pubblica su libri e riviste. Asseconda gli impulsi di una vitalità incontenibile, come quando organizza cene a base di pesce fresco trasportato con l’elicottero su qualche pulpito naturale sospeso in mezzo a una parete, o piazza statue del Buddha come fossero Madonne sulla vetta delle montagne più alte. In genere Renato e Jacopo volano con un aereo minuscolo e molto più scomodo, un Avidflyer (autocostruito con un kit di montaggio) di 280 chili, dunque all’incirca quanto il loro peso più l’attrezzatura fotografica e i bagagli, e con un abitacolo talmente ridotto da costringerli a restare quasi immobili per tutta la durata del volo. Ma per l’uso che ne fanno l’Avidflyer è il miglior mezzo possibile: il punto di forza di quell’aereomicrobo sta nella possibilità di spalancare le porte in volo e di ridurre la velocità di stallo a soli 60 chilometri all’ora. Se si viaggia controvento ci si trova realmente fermi, sospesi in aria come su un elicottero. Così possono fotografare senza intoppi, prendendosi il tempo giusto per le inquadrature. Oggi, però, è un giorno di grandi comodità. Il viaggio sarà piuttosto lungo – si deve attraversare una buona fetta di arco alpino, fino alle estremità orientali delle Alpi Giulie – e così Renato ha preso in prestito da un amico un lussuosissimo Cessna, più veloce, più comodo, più spazioso dell’Avidflyer. 6­­­­

Voleremo a bassa quota, scenderemo anche rasoterra, lungo le creste, sui boschi, strisciando radenti alle cime degli alberi, e risaliremo morene e ghiacciai; e poi, se il tempo lo permetterà, arrischieremo una puntata fuori rotta, verso qualche cima famosa che aggireremo come intorno a una boa per poi riprendere la rotta; l’Adamello? l’Ortles? il Brenta? il Civetta? «Vedrai... arriveremo sull’aviosuperficie in erba di Osoppo verso il tramonto. Tu dovrai solo seguire il volo con l’atlante stradale in mano e riconoscere i luoghi, le valli, così da indicare la direzione. Tutto qui... nient’altro. Solo guardare dall’alto. E senza aver paura», dice Renato. Lo vedo che armeggia ai comandi. Alza levette, gira manopole, guarda attento in alto, in basso, corrugando la fronte osserva negli specchietti retrovisori il movimento dei flap e del timone. «Pronti?», chiede. E la sua voce passa attraverso i fili dell’aereo e arriva nelle cuffie che abbiamo calato sulle orecchie. «Pronti». Appoggia la mano destra sulla manetta del gas. La tira a sé lentamente. E l’aereo inizia a tremare più forte. Si scuote. Iniziamo a muoverci pigramente. Poi Renato dà fondo al motore. E si parte. Tutto vibra, tutto tira, tutto entra in tensione. L’aereo è un animale che urla nel massimo sforzo. Rimbalziamo sulla pista e ci sentiamo schiacciati all’indietro. Più veloce. Ancora più veloce. Affondiamo nei sedili e via, l’ultimo tocco con le ruote, e saliamo in un istante nel cielo inondato di sole. Lascia interdetti, ogni volta che il volo prende il largo nel cielo, quanto presto le nostre cose ci appaiano paurosamente lontane, ormai aliene. Basta un istante, e la materia del nostro mondo sprofonda in una estensione anonima e palpitante. Subito l’orizzonte si amplia fino a confondersi dietro il biancore della lontananza afosa, e le prime impercettibili foschie scivolano sotto di noi, mentre ci alziamo, ci alziamo finalmente liberi nella luce sempre più cruda delle altezze. 7­­­­

Arrivati a quota 5000 piedi (circa 1500 metri) Renato piega la testa verso sinistra. E insieme alla sua testa, le spalle, le braccia e le mani che stringono la cloche, anche le ali si inclinano nella virata. Renato è tutt’uno con il suo mezzo. Un quarto di giro, e puntiamo a nord-est, diritti verso le Alpi, mentre sotto di noi si spalanca la vastità complessa della grande pianura urbanizzata. Vediamo distretti industriali, centri commerciali, strade provinciali intasate di macchine in movimento come un liquido costretto in canali delimitati, tutto amalgamato fino a formare la grande distesa disorientante della cosiddetta città diffusa, lo sprawl urbano. Pare una geologia su più livelli, strati sovrapposti, edificati dagli interventi dell’uomo nell’«era dell’Antropocene». Dove un tempo si estendeva la campagna agricola, oggi domina il prolungamento incontrollato della periferia cittadina con capannoni e villette che si alternano ad aree in costruzione e a cinema multisala, parcheggi, fabbriche, centri commerciali, case in rovina, strade, cavalcavia, viadotti, discariche, cave. Sembra un paesaggio edificato senza regole (e in gran parte lo è), di sicuro partorito dalla casualità dell’iniziativa privata, proprio come la fantascienza dei romanzi di William Gibson aveva predetto per le megalopoli americane del futuro. Ma qui non siamo di fronte a megalopoli d’Oltreoceano, siamo sorvolando la Brianza, spicchio di un’unica grande coltre urbana che va dai parchi agricoli a sud di Milano fino alle prime alture delle Prealpi lombarde, le Alpi Orobie. Con il dito indice puntato sulla «carta uno a duecentomila», che tengo appoggiata sopra le ginocchia, seguo la nostra rotta sulla pianura urbanizzata, mentre le montagne, nostro miraggio, sembrano lentamente avvicinarsi oltre il cerchio opaco prodotto dall’elica sul muso dell’aereo. Ecco, riconosco subito il braccio azzurro del grande lago subalpino da cui si stacca il filo contorto dell’Adda. Laggiù riconosco Monza, Vimercate, la strada statale 342 che collega Lecco a Bergamo. Poi la distesa di case sembra diradarsi. Macchie di verde si alternano agli ultimi edifici, fin quando la nostra ombra pro8­­­­

iettata oltre mille metri più in basso supera veloce il confine. E di colpo passiamo dalla pianura alle prime alture. Stiamo sorvolando un altro mondo. Siamo sulle Alpi. Siamo entrati nella catena alpina in un punto imprecisato a ovest di Bergamo, proprio verso il cuore delle Orobie. E, naturalmente, la prima cosa che impressiona osservando dall’alto le montagne è il disordine del suolo terrestre, disordine che rompe la continuità conciliante del piano, disordine di vuoti e pieni in una successione di eccessi creati da misteriose forze invisibili. Ma su tutto dominano le distese compatte dei boschi, grande coperta silvestre che ricopre ogni cosa. Così doveva essere il mondo nel Medioevo, la pianura, le colline, le montagne prima dei grandi dissodamenti operati dai Cistercensi. L’Italia ha una superficie di 301.000 chilometri quadrati e oggi è ricoperta per circa un terzo da foreste, presenti soprattutto sulle aree montuose, ma nell’Alto Medioevo la penisola era quasi un’unica macchia di grande verde. Vicino al mare c’erano lecci e sugheri, più all’interno rovelle colossali e poi tigli, olmi, pioppi e salici lungo i fiumi. Le Alpi, invece, erano ricoperte da faggi maestosi e abeti, che potevano rivaleggiare con quelli delle foreste degli odierni Stati Uniti. Ora il ricordo di quei boschi che ricoprivano la penisola è visibile solo sulle Alpi. Ed è una fortuna che boschi e foreste siano rimasti, perché senza di loro le Alpi sarebbero probabilmente già sparite. Con le infinite radici di questo popolo vegetale che penetrano nella terra, che si aggrappano come tentacoli a ogni interstizio tra le rocce, che si ancorano nella profondità del terreno scosceso, artigli bramosi di terra, sono il grande adesivo naturale delle montagne. Fissano i pendii, bloccano la materia instabile che altrimenti l’acqua e il dilavamento presto trascinerebbero inesorabilmente verso il basso, fino a riempire i fondi vallivi, fino a colmare i vuoti levigando con crolli in successione gli angoli acuti delle cime. E se le montagne, come antiche rovine greche, tendono a sgretolarsi e a franare, le grandi foreste 9­­­­

agiscono da cemento, trattengono la valanga, la frana, conservano a lungo la neve ai primi caldi sotto l’ombra delle loro fronde, rilasciando lentamente acqua come spugne rigonfie. Prima dei grandi castelli di ghiaccio, prima delle alte pareti cui si tende a pensare non appena si parla di Alpi, e ancora prima dei grandi slanci luminosi delle cime, bisognerebbe pensare alle foreste, alle grandi e benefiche distese boschive. Le Alpi come le vediamo oggi dall’alto – specialmente se le sorvoliamo a bassa quota – sono soprattutto boschi. Sono il risultato della presenza dei boschi, immense coltri che nascondono l’impermanenza delle cose. Nei settori occidentali della catena, quelli dove insiste la cultura neolatina, le foreste hanno in genere dimensioni ridotte, perché sono state più sfruttate dalla mano dell’uomo, mentre a oriente, nelle zone di cultura germanica, si spalancano sconfinate superfici boschive che occupano vallate e vallate, come sul Lagorai, a Paneveggio, o a Tarvisio nelle Alpi Giulie. Oltre ai boschi cedui – boschi di latifoglie che vengono tagliati ogni quindici anni dall’uomo per sfruttarne le materie prime (oggi sempre meno presenti) – sulle Alpi crescono sette specie di aghifoglie, che anche dall’alto, in volo, un occhio esperto sa riconoscere: abete bianco e rosso, pino cembro, pino silvestre, pino nero, pino mugo, e soprattutto lui, il larice, Larix decidua, che a volte vive fuori dai boschi in condizioni estreme, ultimo albero lanciato come un pioniere solitario nelle alte quote. Lo si vede ergersi, aggrappato sul precipizio, col tronco segnato dalla lotta con gli elementi, asciutto, contorto, muscoloso. Può vivere addirittura fino all’inimmaginabile età di oltre duemila anni. E rimane solitario in cima a un burrone a 2400 metri: si àncora alla montagna e allo stesso tempo àncora la montagna. Come è finito lassù? Come è arrivato il suo seme su quello scoglio in bilico sulla voragine? Dopo un’ora di volo le cime più alte delle Alpi sono ancora lontane. Continuiamo passando di valle in valle, mentre sotto di noi si alternano altipiani, creste, fondi vallivi incisi 10­­­­

dal consueto filo d’acqua intorno al quale si ammassa il verde intenso di una più fitta concentrazione arborea. Ed ecco impennarsi improvvisamente verso di noi pendii più ripidi che terminano in creste smussate o affilate, per poi precipitare in un altro solco vallivo. Valli e valli, in una sequenza incessante che sembra non arrestarsi mai. È facile perdersi in questo cielo aperto, anche con la cartina in mano. La nostra ombra scivola sulla superficie verde scuro dei monti, si fa più grande poi più piccola, più vicina poi più lontana, perché Renato non segue l’andamento ondulato del territorio, non sale e non scende accompagnando i dislivelli della catena montuosa: ogni volta che la montagna si impenna e viene verso di noi, lui tiene imperterrito la stessa quota come su una linea retta. Così sfioriamo le creste, tanto da passare radenti alle chiome degli alberi. Fin quando, ed è questo l’attimo più impressionante, sotto di noi si spalancano le fauci di un nuovo vuoto. Questo è dunque il primo assaggio di Alpi per chi arriva in volo a bassa quota dalla pianura. Le Alpi, il luogo che ha mutato il nome, accorciandolo e trasformandolo, da Alpwirtschaft, cioè «alpeggio» nell’accezione culturale germanica. Dunque «Alpi» sarebbe, stando al rimando etimologico, un «rifugioin-quota-per-l’estate-dove-ricoverare-le-mucche». Significato concreto che ricorda il nomadismo verticale al seguito delle bestie verso le alte praterie. «Alpi» indica quindi un rapporto stretto con il bovino, la mucca, animale domestico per eccellenza del montanaro. Mucche + estate + spostamento ciclico: questa l’origine del breve e un po’ incantato toponimo femminile, Alpi. Ma le Alpi, in senso più ampio, ci ricordano anche il rapporto difficile e mai risolto tra uomo e ambiente. Le Alpi sono il luogo degli orizzonti inclinati, dei dislivelli. Del pendio, premessa costitutiva della montagna. E, come si sa, il pendio è simbolo dell’instabilità, dell’effimero: ogni cosa su un pendio tende a non esserci più e a crollare. Dunque, vivere in montagna, aggrappati a un pendio – lo vedremo più avanti –, 11­­­­

non può che essere il risultato di uno scontro, di un attrito, di una dialettica continua tra forze contrastanti. Come rapportarsi con una natura tanto ostile? Su cosa basare un’idea di Heimat, di patria, da parte del montanaro in un luogo così difficile? È uno scontro tra forze che vivono nelle cose, e si replica in àmbiti diversi. Anche quando in età moderna la montagna è diventata, dalla prospettiva del cittadino, il campo dell’avventura ludica, quando cioè il pendio si è trasformato in parete per i giochi dell’alpinista, questa collisione tra uomo e montagna si è ripresentata dando vita ad altre dialettiche in continua elaborazione, e mai risolte. Dalla prospettiva aerea a bassa quota si percepisce con facilità come negli ultimi decenni la montagna sia stata lasciata a se stessa. È facile vedere come dopo lo spopolamento degli anni Sessanta e Settanta – quando i giovani credevano alla promessa di una vita migliore in fabbrica e abbandonavano il lavoro dei padri negli alpeggi – nella maggior parte delle valli prevalga oggi l’abbandono. I segni sono evidenti. L’assenza dell’uomo è quasi una presenza tanto risulta visibile da quassù, seguendo le diverse sfumature di colore del bosco. Con la fine dell’agricoltura e dell’allevamento, e con essi del lavoro di mantenimento di una natura addomesticata, in molte zone avanzano di stagione in stagione nuclei di nuove piante. Il rimboschimento spontaneo è iniziato di colpo e nessuno l’ha contrastato. È una spinta inesorabile. Le foreste dilagano simili a un liquido che scenda verso valle. Chiazze di bosco più chiaro indicano come in una certa area l’avanzamento spontaneo degli alberi sia avvenuto senza incontrare alcun ostacolo; nuove associazioni vegetali e formazioni pioniere vanno a riempire gli antichi spazi vuoti. E intanto si dimentica quel paesaggio composito fatto di alternanza di prati e radure, boschi ben tenuti e terrazzamenti con muri a secco. È il processo di inselvatichimento della montagna che comporta come conseguenza diretta anche l’espansione demografica di animali selvaggi quali il cinghia12­­­­

le. Comporta il ritorno spontaneo del lupo e – lo vedremo – dell’orso. Un mondo alpino che ritorna a essere come appariva prima del Medioevo, prima dell’avvento dell’uomo e del suo incessante lavoro di dissodamento e di adattamento della natura. Queste sono, in gran parte, oggi le Alpi. Volando a bassa quota, dunque, le montagne sembrano più che mai un universo dimenticato, dove ritorna a regnare incontrastata la natura primigenia, forza dominante su ogni altra presenza. Con tutto il suo fascino: un fascino terribile e pauroso che sarebbe senz’altro piaciuto ai romantici americani di metà Ottocento. I trascendentalisti d’Oltreoceano con i loro memorabili sermoni laici, in piedi su cassette poste in mezzo alle strade polverose del Midwest, predicavano il mito della wilderness e della natura selvaggia del grande Ovest; tra loro, Ralph Waldo Emerson, Henry David Thoreau, John Muir. Ma questa stessa montagna abbandonata sarebbe piaciuta meno ai romantici europei di qualche tempo prima, come Albrecht von Haller o Jean-Jacques Rousseau, che vedevano, al contrario, nella somma uomo + natura, nell’«uomo naturale» e nella vita appartata delle popolazioni montane, la nuova arcadia della felicità e della vita incorrotta legata ai bisogni primari soddisfatti nel creato senza mediazioni. Per i romantici europei la montagna era poetica e attraente proprio perché abitata. Uomo e montagna davano origine a un nuovo paradigma etico ed estetico, il locus amoenus, che oggi, come è sempre più evidente, si va smarrendo in favore di un ritorno al selvatico, al disabitato locus horridus. Dunque, verrebbe da pensare che anche nelle Alpi, così come in pianura con il fenomeno della città diffusa e dello sprawl urbano, stiamo assistendo a una americanizzazione del territorio. Eppure, accanto a intere vallate semiabbandonate, accanto alla rarefazione della presenza dell’uomo e al ritorno allo stato primordiale e selvaggio, osserviamo un fenomeno diametralmente opposto; con concentrazioni sempre più fitte di tracce lasciate dall’uomo. Il sintomo è sempre più evidente, 13­­­­

per esempio là dove si è insediata l’industria agricola con le monocolture estensive (come quella della mela in Val Venosta), o dove ha attecchito l’industria del turismo. È soprattutto volando a bassa quota che si può apprezzare appieno questo fenomeno. Improvvisamente, laggiù verso sinistra, superata la vallata divisoria dell’Adige e chilometri e chilometri di alture disabitate del Lagorai dove si distende un trekking lungo sei giorni (sul Translagorai è necessario muoversi in autosufficienza per carenza di punti d’appoggio), si apre un’immagine che rompe la continuità con le compatte distese boschive viste fin qui. È San Martino di Castrozza. Il variopinto agglomerato sorge sotto le imponenti pale dolomitiche che come bastioni sorreggono il lato occidentale dell’Altopiano della Rosetta. San Martino è una concentrazione di case e alberghi che ha attecchito dove prima c’era un alpeggio. Un tempo, laggiù, abitavano in permanenza solo i monaci dell’ospizio dedicato ai santi Martino e Giuliano che accoglievano i viaggiatori in transito dal Passo Rolle, fra Trentino e Lombardo-Veneto, ovvero tra i centri della Val di Fiemme e le valli che discendono verso Feltre. Oggi l’alta valle appare come una composizione multicolore. Campi da gioco, campi da tennis, piste di sci, fili sospesi degli impianti di risalita, colate di cemento che impermeabilizzano il suolo. Eppure non c’è municipio, non ci sono scuole, non c’è ufficio postale, solo negozi di articoli sportivi, alberghi, pub, discoteche. Bisogna scendere circa venti minuti in automobile, nella conca di Primiero, per trovare i servizi. San Martino di Castrozza è un esempio di quegli spazi circoscritti dove l’industria del turismo ha plasmato il territorio. Luoghi spesso sfruttati poche settimane all’anno, che si svuotano al termine dell’alta stagione. Luoghi edificati sulle esigenze di una vita temporanea. Per mesi questi agglomerati urbani sono immersi nel silenzio surreale proprio dei paesi abbandonati. Per mesi si sentono solo gli operai addetti alla manutenzione degli alberghi e degli impianti di sci: voci che si richiamano, rumori di trapani, martelli che battono. Sembra 14­­­­

che sia avvenuta un’emigrazione di massa, una fuga improvvisa provocata da chissà quale calamità. Poi, questa quiete irreale cesserà all’improvviso, quando l’inverno riporterà la neve e gli impianti di sci torneranno a girare. Luoghi che il mito contemporaneo associa subito alla montagna alpina, ma che in realtà altro non sono se non la rappresentazione di una montagna immaginata, creata sulle aspettative del turista in una nuova estetica che tutto semplifica. Luoghi dove prevalgono il gusto del vecchio, gli chalet, l’edelweiss, il formaggio «tipico», la finta locanda antica dove la polenta è cotta nel vecchio paiolo di rame: stereotipi da cartolina per soddisfare un immaginario urbano che rincorre un’idea distorta della montagna. Eppure, così addobbata, la montagna risulta più comprensibile, gentile, accogliente. L’antica vita parsimoniosa degli alpeggi e la cucina povera che tutto riciclava sono diventate prodotti cari, esclusivi. È la montagna dove tutto è «tipico», anche se – sostengono gli antropologi – niente è veramente tipico (semmai tradizionale, e dunque in realtà mutevole nel tempo). Dicono i dépliant turistici che la polenta è «tipica» delle Alpi, ma la farina di mais si è diffusa solo pochi secoli fa; dicono che lo è la patata, che però è entrata nella dieta del montanaro ai primi dell’Ottocento comportando un’impennata demografica nelle vallate alpine con conseguenti disequilibri e nuove forme di insediamento. Le «Alpi tipiche», le Alpi-cartolina, le Alpi che «segrete» non sono, sembrano aver eliminato ogni problematicità diventando più rassicuranti, e dunque commerciabili. Ma sono, appunto, un’invenzione commerciale. «Al posto delle vacche nei rascard oggi mettiamo i turisti», mi ha detto una volta un anziano di Courmayeur i cui vecchi pascoli, affittati, sono oggi campi di golf. E di fronte alla vecchia stalla, dove è ospitato il ristorante, vengono parcheggiate automobili di lusso. Ma presto torniamo a sorvolare un nuovo grande mare verde, e non scorgiamo altro che boschi, e qualche raro pae‑ sino in pietra che si confonde con il versante pietroso della 15­­­­

montagna. La stazione sciistica rinomata è già lontana. E mi convinco di come sulle Alpi a ogni grande vuoto corrisponda un piccolo e densissimo pieno. Come la vita si sia ristretta a un pugno, circondata da un vasto «nulla» boscoso. Lunghe luci della sera ci colpiscono alle spalle nella parte finale del nostro passaggio verso oriente, quando l’aereo scende verso l’anfiteatro pianeggiante che porta a Osoppo. Abbiamo appena superato le grandi montagne di calcare grigio del Monte Coglians, della Creta delle Chianevate, dell’Antola. Chi le conosce, queste montagne fuori dalle rotte dei turisti? Sono le montagne segrete della Carnia. La Carnia, qua sotto di noi, è il mondo dello spopolamento per definizione, quello cantato da Pasolini o dal poeta locale Leonardo Zanier. Sotto di noi si inseguono paesi stretti nell’abbraccio del silenzio, dove in pieno giorno si sente rimbalzare indisturbato tra i muri della piazza principale il leggero brontolio di una fontana. Laggiù, il grande fiume della vita sembra aver smesso di scorrere, e sembra non andare neppure a singhiozzo come nelle stazioni turistiche. Renato ci avverte al microfono che iniziamo a scendere. Teniamo ancora gli occhi puntati verso il basso quando vediamo avvicinarsi la pianura tutt’intorno alla piccola pista d’atterraggio. La cartina che tengo sulle ginocchia dice che siamo arrivati, che poco oltre questo breve paesaggio industriale la terra riprende subito a sollevarsi. Si gonfia formando una serie di colline, poi precipita nell’incisione della Val Resia fratturandosi nel grande gomito delle direttrici tettoniche dell’Est alpino. Lassù si innalzano ancora pareti slanciate, bianche e grigie. Le melanconiche vele di calcare delle Alpi Giulie, sospese sulla più grande foresta demaniale d’Italia. Sono il Mangart, lo Jôf Fuart, il Montasio, poi il Triglav in Slovenia, lo Jalovec, e di nuovo verso la pianura friulana con il Canin dal quale, nelle serate limpide, si vedono brillare in lontananza le luci della costa adriatica con i cantieri di Monfalcone, alla foce dell’Isonzo. Siamo arrivati alle montagne più estreme delle Alpi, su una ter16­­­­

ra distante per definizione perché associata all’estremo, a quel confine dove per decenni l’Occidente e l’universo comunista si sono sfiorati. Le ruote del Cessna filano sull’erba tagliata, all’aviosuper‑ ficie di Osoppo. Chiudo la cartina che mi ha tenuto compagnia per tutto il giorno. Siamo arrivati all’ultimo spicchio della catena alpina o forse al primo, se pensiamo alla direzione del sole, la via eliodromica degli antichi geografi: ex oriente lux, «a oriente tutto ha inizio». E proprio lassù in Val Resia, a conferma del detto latino, resiste forse la più antica parlata delle Alpi. I 1100 abitanti della Val Resia (all’inizio del Novecento erano 5000) vivono sparpagliati in sei frazioni e il 70 per cento di loro si esprime in un misterioso idioma di ceppo slavo. È per questo motivo che dagli anni Ottanta sono divenuti oggetto di una serie di indagini non solo glottologiche, ma addirittura genetiche. Si realizzarono studi fisionomici, osservando la dentatura, misurando la lunghezza del naso, i contorni del viso. Si prelevarono campioni di sangue. E c’è chi afferma di aver riscontrato particolari fenotipi ematologici, forse derivati da quella ventina di persone originarie di tribù slave giunte qui alla fine del VI secolo. Ovviamente di questa loro particolare identità sono, oggi più che mai, orgogliosissimi. E anche loro rappresentano uno dei tanti gruppi etnici delle «Alpi segrete», che oggi tentano con successo di uscire dall’ombra e di farsi riconoscere. Queste sono appunto le «Alpi segrete», isole meno note di un grande mare alpino. Isole dove sopravvive la convinzione, come in Val Resia, che esistano tipi fisici speciali, o dove si trovano i segreti di vecchi alpinisti, o dove ricompare l’orso, o dove si riscoprono – come vedremo – antiche chiese con preziosissimi affreschi rinascimentali. Tutti luoghi che raccontano il rapporto difficile e mai risolto tra uomo e ambiente. Le «Alpi segrete» sono spazi sfuggiti a quel turismo che mira alla definizione di rassicuranti stereotipi. Le «Alpi segrete» sono conosciute da pochi. Sono invisibili perché, come si diceva, programmaticamente ignorate dalla nostra cultura nazionale. 17­­­­

Elva, il paese che era

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Elva e la Valle Maira

La Valle Maira inizia dalla cittadina pedemontana di Dronero, a nord-ovest di Cuneo, e da lì sale penetrando la catena alpina per circa quarantacinque chilometri. Subito si restringe sormontata da alte pareti verticali: in alcuni punti diventa un vero e proprio canyon chiuso, dove la luce del sole entra di sbieco formando ombre taglienti nell’aria umida del fondovalle. Poi la Valle Maira torna ad allargarsi. All’altezza del paese di Acceglio forma un’ampia conca pianeggiante e sale alle case di Chiappera, dominate dall’inconfondibile sagoma aguzza della Rocca Provenzale che sembra un Cervino in miniatura. Da lì in poi il solco cambia nome e diventa Vallone del Maurin che si allunga verso nord-ovest fino al confine francese, dove spicca, tra pietraie e laghetti d’alta quota, la cima severa a 3389 metri del Brec de Chambeyron. Ma è a tre quarti della Valle, sulla destra, che si entra in uno di quegli angoli più singolari e meno conosciuti delle Alpi. Uno di quei luoghi senza fama, e noti solo a una minoranza attenta alla cultura alpina. Dal fondovalle, all’altezza del bivio di Ponte Marmora, parte la strada dell’Orrido di Elva, che in circa nove chilometri conduce all’omonimo paese. Elva è una costellazione di ventotto borgate sparse su un ampio anfiteatro glaciale a 1600 metri di quota, dominato da una cima imponente, il Chersogno. All’inizio del secolo scorso, vivevano lassù circa 1500 persone. Oggi sono rimasti in 36. A Elva, d’inverno, l’isolamento è totale: gli abitanti di quel Paese delle Nevi possono restare isolati per giorni e 21­­­­

giorni. Troppo complicato e oneroso riaprire la strada subito dopo le nevicate più abbondanti. E pensare che lassù, a picco sul precipizio, si trova il più importante tesoro d’arte fiamminga tardo quattrocentesca delle Alpi, testimonianza di un’antica civiltà locale, chiusa, lontana, eppure meta dei grandi maestri rinascimentali europei. Il tesoro è costituito dagli affreschi conservati nella chiesa parrocchiale: per la loro forza espressiva, per la loro maestosità, potrebbero essere paragonati – senza timore di esagerare – a quelli della Cappella degli Scrovegni di Padova. Una ricchezza artistica inimmaginabile a quelle quote e tra quegli anfratti vallivi che alternano ghiaioni, boschi e ampie radure pascolive dove per lunghi mesi invernali si abbattono tormente. Eppure, nonostante il suo inestimabile tesoro artistico, negli anni Ottanta Elva ha conosciuto il triste primato nazionale di comune più povero d’Italia. E il motivo c’è. È da imputare alla strada che giunge lassù dal fondo della Valle Maira. O meglio, alle due strade: entrambe troppo impervie, scomode, strette, persino pericolose. E visto che la distanza percepita tra le cose non è data esclusivamente dallo spazio che le divide, ma anche dagli ostacoli che si frappongono ad esse, Elva, dalla pianura, appare lontanissima, inarrivabile, sperduta, fuori portata. Troppo difficile da raggiungere. Troppo distante. Nessun imprenditore dello sci ha avuto il coraggio di investire lassù, nessun albergo pluristellato, nessun centro benessere sono arrivati in quel magnifico anfiteatro alpino dal quale si ha l’impressione di dominare il mondo. Ed è proprio questa separatezza dal mondo, oggi, la fortuna di Elva. Tempo fa avevo deciso di far visita alle borgate di Elva. Mi era capitato tra le mani un libro particolarmente curioso scritto una trentina di anni prima da un certo don Dao, prete di montagna rimasto a esercitare a Elva per decenni. Elva un paese che era (pubblicato da L’Artistica Savigliano) era stato scritto dall’anziano prete verso la fine della sua vita: si trattava 22­­­­

di una monografia di ampio formato, corredata anche da vecchie fotografie in bianco e nero. Nel libro veniva ricostruita la singolare microstoria del comune di Elva e delle sue numerose frazioni. Venivano azzardate ardite ipotesi antropologiche e, come suggeriva eloquentemente il titolo, vi si dichiarava la morte definitiva del paese. Cosa era rimasto di Elva, se il suo parroco ne aveva decretato la triste fine? La questione sembrava interessante. Dopo alcune considerazioni sull’orografia locale, mi ero convinto che doveva essere più interessante arrivare a Elva non per la strada che da San Martino di Stroppo transita per il Colle della Cavallina e si addentra nell’anfiteatro superiore dove sorgono le borgate, ma, piuttosto, salire direttamente per la carrozzabile tracciata lungo la vecchia mulattiera. Una strada, diceva don Dao, particolarmente suggestiva perché incassata in uno spettacolare orrido, anche se spesso pericolosa e impraticabile d’inverno per pericolo di frane, valanghe o crolli di stalattiti di ghiaccio. La strada corre sul fianco del canyon molto stretto chiamato Vallone d’Elva, e il ripido pendio sovrastante scarica pietre di continuo, da piccoli sassi a veri e propri macigni che si schiantano sull’asfalto. Era dicembre, i versanti a nord delle montagne tratteneva‑ no già tracce delle prime nevicate. Seguendo il fondo della Valle Maira, arrivai al bivio di Ponte Marmora senza incontrare nessuno, girai a destra per l’Orrido e, con stupore, vidi la sbarra d’accesso abbassata. La strada era chiusa. Pericolo di caduta sassi, diceva il cartello. Parcheggiai. Scesi dall’auto nell’aria pungente. Il cielo sopra il canyon, luminoso e limpido, era di un blu cobalto, ma il sole basso di fine autunno non riusciva a scendere fin giù nel fondovalle. Solo le cime delle montagne erano illuminate, e sembrava spiccassero ancora più irraggiungibili ad altezze vertiginose. Il torrente rimaneva silenzioso, nascosto com’era da strati di ghiaccio. Tutto, i tronchi degli alberi, le rocce intorno al parcheggio, l’asfalto per terra, appariva ricoperto da uno 23­­­­

strato di aghi di brina. Un velo bianco avvolgeva ogni cosa. Guardai l’ora: le dieci e trenta. E pensai che, dopotutto, otto chilometri a piedi in salita non erano un’impresa così proibitiva. Bastava stare attenti alla caduta di sassi nei punti in cui la strada è stata tagliata sui pendii più ripidi. E in massimo due ore sarei arrivato a destinazione. Così sarei potuto passare dove un tempo, quando ancora c’era solo la mulattiera, salivano gli abitanti del paese. Di Elva: il paese che era. Caricai lo zaino con il necessario per passare la notte nella locanda, e mi incamminai con passo lento. La strada tiene la sinistra orografica della gola, e sale dapprima in leggera pendenza seguendo con strette curve le ondulazioni del pendio. Affronta brevi rampe secche, passa da insenature, poi contorna promontori che diventano, addentrandosi nel vallone, sempre più alti sul fondo ghiacciato dove si nasconde il torrente. È un viaggio tridimensionale: destra, sinistra, alto, basso. Tutt’intorno montagna, spaccata come in una voragine tellurica. I miei passi scricchiolavano sulle lastre ghiacciate, ora ricoperte di brina, ora lisce e azzurrine. Poi, entrando in galleria, sentivo i tonfi sordi degli scarponi rimbombare nell’antro gelido e nero. Nessuno intorno. Nei tratti più esposti, dove il pendio alla mia destra scendeva quasi verticale, pietre precipitate dall’alto e spaccatesi nello schianto al suolo giacevano qua e là sull’asfalto. Stalattiti di ghiaccio scendevano dalle rocce incombenti, che erano rocce brune, quasi nere, ovvero carbonati antichi dieci milioni di anni su cui l’acqua ha scavato solchi verticali tagliando di netto il suolo. Dietro di me, la strada spariva serpeggiando e si nascondeva alla vista oltre una curva lontana. Davanti, invece, risaliva una serie di dossi fino a rimanere nascosta dietro il pendio. Ogni tanto, nel canyon, a circa metà della sua altezza, passava rapido il volo di un rapace, e l’eco di quel grido forzato rimbalzava tra le pareti, accentuando per un istante l’atmosfera gotica del luogo. È a circa metà strada verso Elva che in una nicchia nella 24­­­­

roccia si trova la statua della «Madonna del Vallone protettrice dei viandanti», una vera e propria mistà, come da queste parti sogliono chiamare le immagini sacre in montagna. Dal latino maiestas, termine usato nei primi secoli cristiani per indicare le raffigurazioni di Cristo in atteggiamento maestoso e solenne, nel tempo la parola mistà è stata adottata per denominare le immagini sacre poste fuori dalle chiese, sui piloni, sulle case, dentro nicchie ricavate nelle rocce, largamente diffuse in questo spicchio di Alpi. Al fianco della statua della Madonna del Vallone, si vedono lapidi di marmo bianco con scolpiti a futura memoria i nomi dei benefattori (con i relativi lasciti); e poi l’elenco di una quindicina di persone cadute sul lavoro durante gli scavi della carrozzabile o perite percorrendo l’Orrido. E c’è una targa che commemora un certo Carlino Dao, «Promotore instancabile della Strada del Vallone». La decisione di realizzare questa arditissima strada arrivò qualche decennio dopo l’Unità d’Italia, quando l’allora presidente del Consiglio Giovanni Giolitti volle aiutare i montanari della vallata cuneese non lontano da casa sua (anch’egli era cuneese, di Mondovì). Ma i lavori si trascinarono per decenni. Sul cantiere si alternarono diverse generazioni di operai. I picconi per scavare la strada negli antichi carbonati passavano di padre in figlio. E tra rallentamenti, morti bianche, frenate per mancanza di fondi e riprese, la strada pareva destinata a rimanere nella lista dei tanti «incompiuti» che costellano il nostro paese. Alla fine, con un ultimo guizzo, negli anni più energici della storia repubblicana i lavori vennero terminati e la via fu aperta alle automobili. Era il 1960, l’anno del «boom», della motorizzazione di massa, la stagione in cui l’Italia si apriva con fiducia al futuro. Ma in montagna – effetto ribaltato – era anche l’alba dell’emorragia di giovani verso la pianura. L’inizio dello spopolamento, del tramonto delle società tradizionali legate alla terra. Nel Cuneese entrava in esercizio l’industria, la promessa di una vita migliore. A quel punto, dopo solenni cerimonie di inaugurazione, la strada era pronta. Ma ora serviva ai montanari per lasciare la valle. 25­­­­

Indietreggiai qualche passo dalla grossa statua della Madonna del Vallone e mi guardai intorno: nessuno. Ripresi a salire. Ormai mi trovavo nella parte più alta del vallone. Vedevo avvicinarsi la linea di confine tra l’ombra e la luce del sole, e nel ritmo invariato della marcia mi lasciai trasportare dai pensieri. Il paesaggio che stavo per lasciarmi alle spalle, ai miei occhi tanto sinistro e tragico, avrebbe al contrario risposto in pieno ai canoni estetici tanto ricercati dai viaggiatori alpini di un paio di secoli prima. Erano proprio quei paesaggi un po’ tetri e inquietanti, quelle immagini ombrose degli orridi a mandare in estasi i primi turisti delle montagne. I più famosi vedutisti inglesi in viaggio sulle Alpi – su tutti William Brockedon e William Henry Bartlett, dei quali rimangono le inconfondibili acqueforti e le stampe da incisioni su rame o legno – cercavano esattamente quegli stessi fondali spaventosi che si vedono lungo la strada di Elva. Quel vortice nero che precipita sotto la Madonna del Vallone era, a pieno titolo, in grado di scatenare il senso di vertigine sublime tanto caro ai connazionali di Edmund Burke. Il fondatore dell’estetica romantica delle montagne, l’inglese John Ruskin, scriveva a proposito della Viamala, uno degli orridi più profondi e lugubri delle Alpi: «Questo canyon ci appare in tutta la sua magnifica spaventosità. Gradevole per gli iniziati, insopportabile per i profani». E pensare che gli antichi montanari credevano che negli orridi abitasse il demonio, e dunque, a scanso di rischi di fuoriuscite indesiderate, erigevano cappelle consacrate a san Michele, il santo che sconfigge il male. Nella fredda estate del 1816, Mary Wollstonecraft God­ win, futura moglie del poeta Percy Bysshe Shelley, si era lasciata incantare dall’estetica dell’orribile e si era sforzata di descrivere le brune masse rocciose e il grigiore chiaro delle colate glaciali in cui si muoveva il suo Frankenstein. C’è un brano del racconto che può far venire in mente proprio l’Or26­­­­

rido di Elva. È quando la storia si sposta sul Monte Bianco e sembra che per i protagonisti sia giunto il momento di superare la soglia verso l’ignoto. «Immensi ghiacciai scendevano fino alla strada», scrive la Shelley, «udivo il brontolio sordo della valanga, e distinguevo la scia che si levava al suo passaggio. Il Monte Bianco, il supremo e magnifico Monte Bianco, si ergeva sopra le vette circostanti, e la sua maestosa cupola dominava la vallata. [...] L’Arve impetuoso e le baite che ammiccavano qua e là tra gli alberi formavano uno scenario di singolare bellezza, accresciuta e resa sublime dalle Alpi possenti, le cui vette e le cui cupole, bianche e scintillanti, troneggiavano sopra ogni cosa, come se appartenessero a un’altra terra, abitate da un’altra razza di esseri». Pare proprio che l’autrice parli della strada dell’Orrido: una via tortuosa che porta a penetrare un luogo sempre più estraneo, oltre una soglia estrema, un altro mondo abitato, appunto, da esseri alieni. «Un’altra razza di esseri». Così aveva scritto, esattamente come qualcuno – e non certo l’ultimo arrivato, ma nientemeno che il parroco don Dao – aveva sostenuto abitassero lassù a Elva fino a pochi anni fa. A Elva «si poteva riscontrare la configurazione fisica della razza celtica: statura alta, snella, arti lunghi rispetto al dorso, viso oblungo, cranio relativamente piccolo, occhi bigi. [...] I caratteri psichici potevano rivelarsi variamente negli atteggiamenti di duttilità, prontezza e mobilità di riflessi, oppure di tenacia, di testardaggine e di estremo attaccamento alla terra e alla tradizione». Proprio così scriveva il parroco di Elva don Ettore Dao nel suo libro del 1985. Erano veramente gli elvesi «un’altra razza», dell’antica stirpe celtica? I Celti ormai li troviamo un po’ dappertutto, tanto che viene il sospetto che servano come un rifugio sicuro per chi azzarda ipotesi mitiche sulle origini di qualunque popolo. La favola di «una razza diversa» che vivrebbe tra le monta‑ gne, esseri insoliti perché appartenenti a un altro mondo, non è così unica e originale. Lo abbiamo già accennato per la Val 27­­­­

Resia, ai confini delle Alpi Giulie, dove vive una popolazione che parla uno strano idioma dai suoni nordeuropei e che, secondo qualcuno, avrebbe nelle vene particolari fenotipi ematologici. Ma non sono solo loro, gli alpigiani, su cui si indaga una presunta «diversità». Un tempo, anche sulle origini e sulla morfologia degli abitanti delle alte valli del Monte Rosa, i walser, si erano avanzate diverse ipotesi, tutte fallaci, arrivando a sostenere che fossero antenati di tribù celtiche sopravvissute in luoghi solitari. O addirittura – assecondando una versione ancor più mitologica – che fossero figli diretti dei boschi, un po’ come gli gnomi o come l’Homo Salvadego. Secondo questa bizzarra tesi (per fortuna abbandonata ormai da secoli), la parola walser, deriverebbe da waldser, in qualche antichissima lingua, appunto, «abitanti dei boschi». Ovviamente nessuna «razza» può essere ascritta, per origine, a una determinata zona alpina; idea che potrebbe al massimo scaturire da un mito romantico o addirittura da un mito neo-romantico, come forzatura estrema di quell’ideologia del localismo che imperversa in questi anni. In realtà, se in alcuni luoghi si riscontrano caratteri somatici ricorrenti e un’uniformità che la fisiognomica riconosce, ciò è dovuto alle particolari condizioni di vita e ai comportamenti adottati dagli abitanti nel corso dei secoli. L’alimentazione, naturalmente, ma ancora prima le consuetudini endogamiche. Sposarsi tra consanguinei – pratica diffusa un tempo in montagna, dove le condizioni di isolamento non permettevano relazioni allargate – ha portato ad alterazioni del carattere genetico con conseguenze anche gravi, a patologie come il cretinismo o il gozzo, o, più semplicemente, a particolari caratteri somatici, come la retinite pigmentosa o certe colorazioni epidermiche. Tra l’altro, don Dao si chiamava come Carlino Dao, di cui abbiamo letto sulla targa lungo la strada dell’Orrido la scritta: «Promotore instancabile della Strada del Vallone». Dunque Dao doveva essere un cognome particolarmente diffuso qui ad Elva. E così infatti è: dopo una breve ricerca mi accorsi che, indubbiamente, Dao era il cognome del luogo. In un 28­­­­

documento che riportava il censimento dei nati ad Elva tra il 1885 e il 1910 si contavano 211 Dao, molti altri Dao con secondo cognome (Dao Loste, Dao Ormena, Dao Lafont ecc.); tutti gli altri cognomi non costituivano che una minoranza esigua. Era evidente: il grado di consanguineità risultava altissimo ad Elva. Il cognome Dao, sempre secondo il prete-scrittore, sarebbe derivato da uno degli innumerevoli detti latini, Davus sum, non Oedipus, che tradotto letteralmente significa «sono Davo, non Edipo». Davo era un povero schiavo ingenuo, mentre Edipo era il re di Tebe: chi pronuncia quel detto allude a una presunta debolezza, per declinare offerte di incarichi troppo importanti. Ma il caso di cognomi che comprendono l’intera popolazione o quasi, come Elva un tempo, non è certo un caso isolato sulle Alpi. Altri esempi di comunità chiuse se ne trovano in quantità, come a Balme, a 1400 metri in Val d’Ala di Lanzo in provincia di Torino, dove oggi vivono una sessantina di persone, e quasi tutti si chiamano Castagneri. Anche lì, Castagneri è il cognome onnicomprensivo di un’intera popolazione che deriva direttamente dalla prima famiglia colonizzatrice del luogo, alla fine del Cinquecento. Relazioni così chiuse, è vero, possono aver consolidato all’interno della comunità un determinato tipo fisico, come pure alcune particolari disfunzioni e malattie genetiche. Verso il sesto chilometro dal parcheggio posto al fondo della Valle Maira, la strada dell’Orrido si fa via via più ripida e risale con ampi tornanti il pendio finale, lasciandosi definitivamente alle spalle il canyon. L’uscita in cima è emozionante. Avviene quasi di colpo. Sembra di emergere da un immenso imbuto, sopra il quale si spalanca la conca aperta, con il sole che, dopo tanta ombra, pare esplodere nel cielo scuro inondando l’altopiano di colori brillanti sotto cui si rincorrono onde di prato, radure, boschi. 29­­­­

La conca di Elva appare subito come un ambiente complesso, eroso dall’acqua, vastissimo, tutto luce. Negli avvallamenti meno esposti al sole persiste la neve, negli altri solatii dove sorgono le borgate, i gialli prati asciutti portano i segni di antichi terrazzamenti o muretti a secco che delimitano le proprietà di un tempo. Tutto è grandioso, primitivo. Intorno a questo immenso terrazzo naturale affacciato sulle ombre dei valloni che a raggiera precipitano nell’abisso, si eleva la linea bianca delle creste, oltre le quali c’è l’ampia apertura valliva di Sanpeyre, già in Val Varaita. A nord-ovest si erge glorioso il Pelvo contro il sole del primo pomeriggio, gettando il suo cono d’ombra in uno spazio dove non si vede cemento, nessuna bruttura, e niente offende la vista. Elva è un insieme di borgate con i diversi campanili che si susseguono sparsi qua e là, quello più vicino, quello appena visibile, tutti collegati da una rete di sentieri e strade, come nella versione plastica e autentica di un idillio arcadico, o del felice mondo alpestre dove Johanna Spyri avrebbe collocato volentieri la sua piccola eroina Heidi. Due ore avevo impiegato, e a quel punto mi dovevo dirigere verso la borgata di Serre Capoluogo dove sapevo essere una locanda aperta, mezzo rifugio alpino, mezzo gite d’étape alla francese: ottima per passare la notte. Camminai in piano, nel sole. E subito capii che mi trovavo in un luogo ormai deserto, quasi non più abitato. La trentina di persone che resistono quassù potrebbero spartirsi le borgate, una a testa. E invece, naturalmente, si concentrano in poche. Diverse frazioni sono dunque disabitate. La scuola elementare è stata chiusa, ed è la perdita più significativa (quella del 2009-2010 è stata l’ultima stagione in cui Elva ha avuto la sua scuola). Oggi i bambini del comune sono tre. Due, in età scolare, si sono iscritti alle elementari di Prazzo e i genitori li portano su e giù tutti i giorni. Un’altra bambina ha iniziato le medie al convitto di Stroppo e sta lì l’intera settimana. Anche le antiche peculiarità di Elva si sono perdute. Oggi 30­­­­

si allevano solo mucche, mentre un tempo c’erano anche moltissime pecore. Sono rimasti solo due allevatori di bovini, di cui uno però con un patrimonio piuttosto ingente di duecento capi. Anche la coltivazione della canapa è finita, mentre in passato era particolarmente diffusa: si otteneva una fibra tessile molto resistente che serviva a produrre non solo cordami e sacchi, ma anche lenzuola, indumenti (a Prazzo c’è un museo che ne conserva la memoria). Ma, si sa, la storia recente delle valli cuneesi ha riempito una pagina amara, non solo qui a Elva. Abbandono, spopolamento, fuga. Al momento dell’esplosione del «boom» economico, le valli marginali e «improduttive» di tutto l’arco alpino (soprattutto quelle liguri e piemontesi) iniziarono a scivolare in un inesorabile declino. Così la montagna, senza nuove generazioni, andava lentamente spegnendosi. E meno residenti significava anche meno voti, dunque minore capacità di essere rappresentati. I sentieri meno battuti vennero inghiottiti dalle sterpaglie; le borgate assediate dalla vegetazione e dagli animali selvatici; l’antica civiltà montanara, con i suoi codici, la sua cultura materiale, la sua umanità, tramontò nel giro di tre decenni. Poi, verso la metà degli anni Novanta, la fuga finì e si iniziò a registrare un pur timidissimo dietro-front: a partire dal 1996, l’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale ha calcolato lo 0,2 per cento in più di popolazione residente nelle zone montane. Ma è chiaro che ormai la continuità tra le generazioni e la linearità tra passato e futuro si sono interrotte. Ma ecco l’evento cruciale. L’uscita, nel 2005, di un film di grande successo che ha avuto come protagonista la Valla Maira, e di riflesso anche Elva: Il vento fa il suo giro. Da allora le cose sono iniziate a cambiare. Il film, di Giorgio Diritti, ritrae il lato oscuro, durissimo, della condizione di vita in montagna. Mette a nudo la montagna così com’è, staccandosi dagli stereotipi che in genere accompagnano la sua rappresentazione, e dando vita in modo imprevedibile a un fenomeno di riscoperta da parte di quella minoranza di estimatori della cultura alpina che rifugge tanto le edulcorazioni oleografiche 31­­­­

sulla montagna quanto le mete del turismo di massa. Intorno alla Valle Maira è «sbocciata» una nicchia di intenditori. Il vento fa il suo giro è stata una produzione a basso costo e anche per questo motivo è rimasta fuori dai circuiti delle grandi sale. Ma il cinema Mexico di Milano, modesta sala in una zona non centrale della città, lo ha replicato ad oltranza per oltre un anno. Il gestore della sala, da vero intenditore, aveva fiutato il possibile successo. E alla fine ha avuto ragione. Tutte le sere Il vento fa il suo giro. Il film, lanciato dal «passaparola», lo hanno visto decine di migliaia di persone. Lo sceneggiatore del film è un tipo dall’aria ascetica, con lunghi capelli bianchi e il pizzo penzolante sullo sterno. Si chiama Fredo Valla e vive non lontano in linea d’aria da Elva, alle pendici del Monviso. Il suo paese si chiama Ostana, e come Elva ha conosciuto la ferita dello spopolamento (il censimento del 1921 fissava gli abitanti di Ostana a 1187 unità, adesso sono circa 35). Quando ero andato a Ostana, Fredo mi aveva spiegato che la storia da cui tutto partì era realmente accaduta. E lui ne era stato il testimone diretto. Le circostanze vollero che pochi anni dopo i fatti, Valla si trovò a studiare insieme a Giorgio Diritti a Ipotesi Cinema, l’istituto per la formazione di autori coordinato da Ermanno Olmi a Bassano del Grappa. All’ombra del Grande Maestro si era delineato il progetto, che poi avrebbe visto la luce qualche anno più tardi in Valle Maira (anziché in Valle Po, dove sorge Ostana e dove, come abbiamo detto, avvenne la vera storia), coinvolgendo, per le parti dei comprimari, gli stessi abitanti del luogo. Una delle scene più azzeccate dal punto di vista dell’efficacia del racconto è la prima, il prologo, proprio nel momento in cui la vicenda si mette in moto. Si vede l’ex professore francese Philippe Hérault – appena giunto nelle valli cuneesi alla ricerca, per sé e per la sua famiglia, di un’esistenza secondo i ritmi della natura – mentre risale in macchina la buia strada dell’Orrido di Elva. Le riprese seguono la macchina da die32­­­­

tro, nel percorso sinuoso della gola innevata, con le cascate di ghiaccio ai bordi della strada. E, curva dopo curva, lo spettatore ha la sensazione di penetrare insieme al protagonista in «un mondo fuori dal mondo», un paese dove tutto potrebbe accadere perché parte di una realtà diversa e parallela. Come se, riprendendo l’astuzia narrativa di Mary Shelley, anche nell’inizio di Il vento fa il suo giro le pareti scoscese del vallone «troneggiassero sopra ogni cosa, come se appartenessero a un’altra terra, abitate da un’altra razza di esseri». E uomini «diversi», di fatto, attendono il protagonista. Va detto qui che la storia si sviluppa attraverso due entità antagoniste: il paese (chiamato Chersogno, come la montagna sopra Elva) e la famiglia del professore francese. Nonostante un primo approccio di reciproca curiosità, nel volgere di poco i rapporti cambiano fino a rompersi, in un crescendo di toni che porterà a un epilogo amaro. I montanari vivono isolati e vogliono continuare a vivere da soli, anche se lo spopolamento li conduce a un destino segnato. A molti abitanti della Valle Maira, però, il crudo realismo del film non è piaciuto affatto. E ciò non stupisce. Nella piazzetta – che, guarda caso, è intitolata a don Dao – di borgata Serre, il capoluogo di Elva, si nota subito un edificio ristrutturato su cui è stata issata una bandiera con la croce di Tolosa, gialla su campo rosso. Quel simbolo esibito ci dice alcune cose: che la casa ospita una locanda occitana, una delle decine che si trovano in Valle Maira e nelle convalli con il marchio di garanzia che le contraddistingue. E, soprattutto, ci dice che ci troviamo in Occitania, e che la Valle Maira è una delle sedici vallate alpine in Italia tra la provincia di Cuneo e di Torino nelle quali si riscontrano tratti della cultura occitana. Le valli occitane d’Italia partono a pettine penetrando parallele la catena alpina, dalle Marittime alla provincia di Torino (e sono: Corsaglia e Maudagna, Ellero, Vermenagna, Gesso, Stura, Grana, Maira, Varaita, Po, Bronda, Infernotto, Pellice, Germanasca, Chisone, alta Val di Susa). Tutte queste vallate fanno 33­­­­

parte di quell’area sovranazionale che dal Piemonte arriva in Spagna, nella Val d’Aran, passando per trentadue dipartimenti del Sud della Francia. Un territorio determinato dalla lingua in uso, la lingua d’oc, anche se con buona pace degli oltranzisti dell’Occitania non si può parlare di una vera unità linguistica, ma di una varietà di parlate: il guascone, il limosino, il linguadociano, l’alverniate, il provenzale, il delfinatese cui appartiene l’occitano delle valli italiane, detto anche provenzale alpino. Per chi conosce la storia occitana, al contempo locale e sovranazionale, quella bandiera con la croce di Tolosa simboleggia e racconta l’epopea dei trovatori, come Bernart de Ventadorn, Arnaud Daniel, Jaufré Rudel, poeti itineranti che componevano poesie d’amore e le declamavano accompa‑ gnandosi con qualche strumento pizzicato. Racconta la crociata contro i Catari, indetta da papa Innocenzo III, che portò per i successivi secoli alla decadenza dell’Occitania e della sua anima ereticale. Racconta la felice rinascita alla metà dell’Ottocento, grazie agli autori del Félibrige (il movimento nato in Provenza con lo scopo di salvare e promuovere la lingua e la letteratura occitane voluto da Frédéric Mistral, premio Nobel nel 1904). Racconta, quella bandiera, di come i sentimenti nazionalistici del fascismo avessero portato i vitoun (cioè gli «uomini delle montagne», termine ovviamente usato in senso dispregiativo) a vergognarsi della propria lingua, e del senhal, la marca di onta che durante il Ventennio si poneva sul grembiulino dei bambini scoperti a scuola a parlare occitano. E la bandiera con la croce di Tolosa, ci parla, più di ogni altra cosa, del vasto fenomeno della musica occitana, che attira migliaia di appassionati nei concerti sulle note dell’antico strumento della ghironda: ci sono oggi una cinquantina di gruppi musicali che nelle valli occitane recuperano e rielaborano il repertorio tradizionale. La locanda occitana nella piazzetta di Elva su cui è issata la bandiera – chiamata locanda Hans Clemer dal nome dell’artista che ha affrescato la parrocchiale lì di fronte – offre 34­­­­

una cucina tradizionale piuttosto curata, e anche compiaciuta nella retorica degli «antichi sapori del posto». Il gestore ha modi spicci, da montanaro, come è giusto che sia in un luogo dove l’industria del turismo non è mai arrivata con i suoi modi cerimoniosi e le strizzate d’occhio ai clienti. Offre camere calde, accoglienti. Nel bar ristorante ci sono pile di riviste di montagna, libri di letteratura di alpinismo. Non da ultimo, la locanda mette a disposizione le cuffie per la visita guidata agli affreschi di Santa Maria Assunta. Tre minuti a piedi dalla locanda occitana e si arriva al viottolo che in leggera discesa, costeggiando un antico muro, porta alla parrocchiale. Con questi ultimi passi verso l’edificio chiaro sormontato dall’alto campanile si ha l’impressione di andare verso uno spazio libero e aperto sul cielo: nella scelta del luogo si nota tutta l’astuzia dei costruttori medievali. Ci si trova sul ciglio dell’anfiteatro, proprio su un pulpito naturale proteso sull’abisso, che sarebbe ben adatto anche come trampolino per il volo a vela. E provenendo dall’alto, il campanile appare in tutta la sua solitudine mentre si staglia sul vuoto scuro dell’abisso. I passi scricchiolano sul pietrisco. La chiesa si avvicina, e il silenzio appare ancora più assoluto mentre ci si approssima alla grande porta strombata. Tutte le linee di forza conducono lì dentro. È evidente che la sapienza di chi disegnò la forma della porta, come un abbraccio, mirava a suscitare nel visitatore la rassicurante nostalgia di sentirsi avvolto, fino al momento di entrare. Dalla luce abbagliante dei 1600 metri e dallo spazio libero si accede, oltre la soglia, a una mistica penombra, calda, recondita. La mente lo sa, e spinge per entrare. Ma una sosta all’ingresso è necessaria. Già sulla porta appaiono elementi del medievale linguaggio dei segni, testimonianza di una fede popolare che gronda di paura e minaccia. Ci sono piccole sculture di contorno come testine antropomorfe che fanno da controcampo nel più vasto messaggio di benvenuto: Atlanti, donne-sirene e 35­­­­

demoni. C’è, nascosta tra le altre, una figurina in bassorilievo che rappresenta due diavoli mentre mettono a morte nell’acqua bollente un peccatore, esplicito messaggio di avvertimento diretto ai fedeli perché non si lascino indurre in tentazione dal peccato. Come solitamente avviene in questo tipo di minuta arte chiesastica, ogni scena è una allegoria, metafora della vita, commedia divina offerta ai fedeli. Lì, di fronte all’ingresso, ci si sofferma perdendosi nella cosmogonia fantastica raccontata sul portale. Si osserva l’orrore ammonitorio di questi messaggi di cui l’intimorito uomo medievale era il primo destinatario. Isolato e in perenne lotta con i rigori dell’alta quota, anche il fantomatico capostipite della famiglia Dao, così come tutti i suoi discendenti, immagino che dovesse vivere in una continua condizione di prova morale, assediato dalla paura, dalle tentazioni del demonio, in una lotta senza fine tra il Bene e il Male. E si entra. Quell’atmosfera ovattata, su cui persiste un antico odore di chiesa, incensi, legni, mani di generazioni e generazioni e generazioni di famiglie Dao che hanno sfiorato acquasantiere in pietra, riporta di colpo la mente a una segreta familiarità. Qualche passo all’interno, dove il giorno penetra attenuato. Si avanza nella penombra, sul pavimento consunto, e subito, sotto gli occhi spalancati dei santi, l’attenzione del visitatore è rapita dalla cascata policroma del grande affresco sul presbiterio. Il primo sguardo lascia interdetti, disorientati. Ci si avvicina. La testa si reclina all’indietro per abbracciare con lo sguardo l’insieme dell’affresco, dal pavimento al soffitto. E, come voleva l’astuzia creativa di quell’artista che qui lavorò più di mezzo millennio fa, si è accolti in un’atmosfera volutamente surreale. L’intero spazio intorno è affrescato, e si è afferrati dalla scossa che dà il colore, dalle forme dei personaggi, dai muscoli di un cavallo in primo piano che dinamizza l’insieme. Si distinguono scene della vita di Maria: la fuga in Egitto con i miracoli della palma e del grano, e la Dormitio Virginis con l’episodio dell’ebreo Jefonia, che ebbe 36­­­­

le mani mozze per aver voluto accertare che fosse morta toccandone il corpo. Le scene sono tratte dai Vangeli apocrifi. Appaiono come pagine del sovrannaturale che si osservano cercando di decifrarle a cominciare dai più minuti dettagli. Niente, o molto poco, ha mero scopo decorativo. Si sa, ogni particolare è un simbolo che allude ad altro, come sempre avviene in quest’arte dove tutto è reso esplicito, tutto comunica, tutto è un messaggio silenzioso. Ci si chiede, perché? Come è possibile che una tale esplosione di arte rinascimentale possa essere stata creata in un contesto così discorde, tra pinete e povere case di montanari? Qui non siamo a Siena, nel centro di Pisa o di Roma o di Vicenza circondati da palazzi e residenze di notabili. Siamo nell’ultimo avamposto umano sotto il mondo delle alte quote, un tempo abitato dai lupi e dagli orsi. Eppure, una ragione storica di tanto splendore c’è. Per forza ci deve essere. Hans Clemer fu pittore a servizio del marchese di Saluzzo (Ludovico II), tra il Quattrocento e il Cinquecento, e proprio in questo remoto angolo alpino la politica del marchesato volle lasciare la più alta testimonianza dell’arte del suo tempo. Hans Clemer, chiamato il Michelan‑ gelo del Monviso o il Maestro d’Elva a seconda della valle in cui lavorava, era partito giovanissimo dalle Fiandre per raggiungere le Alpi in un pellegrinaggio di studi artistici attraverso l’Europa, una sorta di «Erasmus ante litteram», con l’intenzione di giungere al culmine del suo viaggio tra gli splendori dell’arte italiana. Presto si era fatto una sua mano, e al soldo del signore di Saluzzo aveva potuto esprimersi come un grande maestro, andandosene in giro per le terre alpine del marchesato a dar vita ad affreschi, polittici, pale. Il marchese era contento: il suo protetto faceva risplendere la gloria terrena del marchesato. E con la forza dei suoi affreschi il giovane Hans contribuiva a tenere accesa la fede cattolica dei montanari, che così non si facevano corrompere dai movimenti ereticali autonomisti, una delle possibili minacce per il potere del marchesato. Dunque, anche questo affresco, oltre a mettere in scena Vangeli e demoni, respira di politica, di potere. Non 37­­­­

potrebbe essere altrimenti. E tuttavia anche gli eretici hanno lasciato in queste valli il loro bel contributo in nome dell’antica avversione per le immagini sacre: tracce della loro furia iconoclasta si possono ritrovare per esempio in Val Varaita, oltre la cresta a nord dell’anfiteatro di Elva, dove nelle chiese sono rimasti gli antichi sfregi sugli occhi dei santi. I marchesi, che volevano esser ricordati dai posteri come sovrani illuminati, si prodigarono nel mecenatismo su larga scala, e si deve a loro il proliferare di cappelle, piloni votivi, affreschi di santi. Tra i protetti, oltre ad Hans Clemer, Giovanni Baleison di Demonte, i buschesi Tommaso e Matteo Biazaci, attivi nelle valli Varaita, Maira, Grana e in Liguria; e Pietro da Saluzzo, autore delle Storie di San Giorgio, a Villar San Costanzo. Le loro opere sono chiamate in quest’area, come abbiamo visto, mistà. E «Mistà» è anche il nome di un progetto nato nel 2000, che ha come finalità il restauro e la valorizzazione di quest’arte diffusa in montagna. Quelli del Mistà, ragazzi ricchi di iniziativa personale, hanno già recuperato almeno venticinque beni del Trecento e del Quattrocento delle valli del marchesato di Saluzzo; si occupano dell’apertura al pubblico delle chiesette nel periodo estivo con visite guidate, e con i corsi di formazione per guide collaborano a rendere vivo il territorio e a contenere l’emigrazione dei giovani. Senza questa associazione le meraviglie rinascimentali diffuse nelle valli del Saluzzese rimarrebbero chiuse precipitando nell’oblio. Quando si trova un cartello o una locandina con l’effigie dell’arcangelo Michele (tratta da un affresco del nostro Hans Clemer nell’abbazia di Pagno), si è sicuri di trovarsi nel circuito Mistà; e da qualche parte ci sarà una locanda, un bar o qualcuno che ha l’incarico di fornire le cuffie per la visita guidata, come nella locanda occitana di Elva. Usciti dalla chiesa, e di nuovo nella luce, viene immediato fantasticare su come la potenza simbolica di quegli affreschi riuscisse a sprigionarsi in sentimenti contrastanti nelle 38­­­­

menti dei montanari. Viene spontaneo pensare a come tutto quell’universo metafisico di bellezza e orrore, promesse e ammonizioni, dovesse condizionare l’esistenza di un’intera comunità; e a come la figura del prete, nell’isolamento forzato della piccola Elva, avesse rappresentato per secoli la più alta e a volte l’unica autorità terrena. Il prete – temporaneo custode di quegli affreschi – era il legittimo depositario delle consuetudini e delle memorie della civiltà montanara: lui rivestiva l’antico ruolo di defensor civica, dispensatore di ordine e legalità. Anche il nome della piazzetta principale del capoluogo, piazza Don Dao, è un ovvio segno della funzione di primazia che i preti hanno svolto a Elva; a Elva, come in quasi tutte le piccole comunità isolate delle Alpi. Nella parrocchia sono conservati, come in tutte le parroc‑ chie, gli archivi con gli Stati delle Anime, e anche i processicoli matrimoniali secretati, cioè gli interrogatori del parroco ai due fidanzati, separatamente, prima del matrimonio. E l’archivio segreto che custodiva tutti i fatti irriferibili, i peccati più gravi, gli aborti, gli incesti, gli atti più feroci tenuti nascosti nel privatissimo àmbito della famiglia e del confessionale. Il parroco era il depositario onnisciente della comunità, l’unico che sapeva tutto di tutti. Così per le infinite esistenze che si erano succedute. Ogni fatto di una certa importanza, privato o pubblico che fosse, veniva custodito nell’archivio del prete, perché niente, anche se tenuto nascosto a chiunque, andasse perduto. Un Archivum Secretum Apostolicum Vaticanum in miniatura era a disposizione del parroco. Don Dao, come i suoi predecessori, sapeva tutto. Tutto di tutti. Ed è stato proprio lui l’ultimo rappresentante di quella figura centrale della comunità che per secoli ha garantito l’ordine. Proprio negli anni del suo ufficio stavano venendo meno gli antichi equilibri, e don Dao deve aver visto la sua gente partire e abbandonare il paese. Lo dice in modo inequivocabile il nostalgico titolo del suo libro Elva: un paese che era. In quelle pagine, oltre a spingersi ad arditissime ipotesi sulla «razza» dei suoi compaesani, come abbiamo visto, l’autore racconta nel detta39­­­­

glio gli andamenti demografici della comunità, le nascite, le morti, le partenze, gli addii. L’emorragia è evidente, i dati riordinati non sono però ascrivibili ai ciclici andamenti di crescita e di decrescita della popolazione. Qui siamo di fronte, e don Dao lo capisce bene, al tramonto di un mondo che viveva quasi uguale a se stesso dalla fine del Duecento, anno della fondazione della chiesa (la stessa che sarebbe stata affrescata duecento anni più tardi da Clemer). Tutto finisce sotto gli occhi dell’impotente don Dao. Gli andamenti demografici nelle comunità isolate come quella di Elva costituivano fattori cruciali per la vita dei montanari. Dato che le risorse in montagna non possono essere illimitate e le coltivazioni estese a piacere, il rapporto uomoterritorio, popolazione-risorse, doveva essere conservato entro i limiti di un equilibrio stabile. Questo rapporto era fondamentale per il mantenimento della vita in montagna. Se la popolazione diminuiva, la forza lavoro per mantenere produttiva la montagna (taglio dei boschi, dissodamento, erezione di muri per impedire il dilavamento, lavori agricoli) veniva meno incrinando gli equilibri in un senso; al contrario, un eccesso di bocche da sfamare rappresentava una criticità stanti le risorse – limitate – della montagna. Tuttavia, esisteva‑ no tecniche per controllare gli andamenti demografici e regolare le nascite. Tecniche assimilate nelle specificità culturali del luogo, di cui i preti erano i custodi morali. Ed è qui che le cose si fanno interessanti. Nelle aree alpine di cultura germanica, come vedremo, si controllavano gli andamenti demografici attraverso l’antica regola del maggiorasco (divenuta legge nel 1770 sotto Maria Teresa d’Austria). Il maggiorasco, o la norma del maso chiuso (Geschlossener Höf), prevede che la proprietà delle terre resti indivisibile e spetti tutta al primogenito maschio, unico erede, mentre i fratelli possono restare a servizio o lasciar casa ricevendo un indennizzo. Questa è l’istituzione, ancor oggi vigente, che più ha contribuito a modellare nei secoli 40­­­­

l’ambiente alpino orientale, con proprietà fondiarie piuttosto vaste in grado di dare da vivere a famiglie allargate, garantendo in tal modo un saldo equilibrio uomo-natura. Nelle aree di cultura neolatina, come a Elva e nelle valli piemontesi, sono subentrate altre forme di controllo demografico, ad esempio il matrimonio tardivo, che portava a ridurre il numero delle nascite, o il celibato. Dunque se in Alto Adige le proprietà rimangono indivise, sempre uguali e ben delimitate con al centro il maso monofamiliare e autosufficiente, il modello occidentale prevedeva invece una mappa del territorio e un catasto variabili, quindi un più alto grado di collettivismo, con al centro la borgata, il campanile, la piazza della chiesa. Le case strette le une alle altre, muro contro muro, a formare la classica organizzazione microurbana del paese, e un più ampio uso di risorse condivise (come, esempi tra i molti possibili, il forno per panificare o la fontana con il lavatoio dove le donne in gruppo fanno il bucato). Ma su tutte le Alpi, dalle Liguri alle Giulie, esisteva la soluzione per eccellenza in grado di mantenere l’equilibrio vitale tra risorse disponibili ed esigenze della comunità: l’emigrazione stagionale. E per «stagionale» si intende ovviamente d’inverno, quando arrivava la brutta stagione, così chiamata dai vecchi montanari prima dell’avvento dello sci, e poi, al contrario, diventata il tempo del gioco, della spensieratezza sulle piste innevate, degli affari d’oro (dunque, per molti, la bella stagione). Dal momento in cui la neve iniziava a rivestire i pendii alpini e il lavoro all’esterno era reso impossibile, i ritmi si facevano immediatamente più lenti e si entrava in una dimensione di attesa, in cui anche il tempo assumeva un valore diverso. È «il tempo delle gerle», come lo ha definito l’antropologo Marco Aime: «La gerla, quello strumento in passato indispensabile per ogni montanaro, nasce d’inverno, nel calore umido delle stalle. Nasce quando il ciclo produttivo dell’agricoltura è fermo. ‘È roba che non vale niente’, mi dicevano gli uomini riferendosi alle gerle, ‘se uno doves41­­­­

se calcolare il lavoro, dovresti venderle a cinquanta, ma poi le vendiamo a dieci. Cosa vuoi, d’inverno non si fa niente e quindi questa è roba che non ha valore’. Un tempo povero, quello invernale, improduttivo, sterile, dal quale non può che nascere un prodotto che costa poco». «Il tempo è denaro» si dice nel modello capitalistico, ma non d’inverno nelle società alpine tradizionali. Come per qualsiasi cosa, anche il tempo – quando se ne ha troppo – non vale più niente. «Un tempo il lavoro migliore per l’inverno», mi disse una volta un anziano, «era quello di sedersi vicino al fuoco e stare attenti che non si spegnesse». D’inverno non rimaneva che costruire le gerle, oppure abbandonare il paese in cerca di lavoro. Così, di stagione in stagione. Fa riflettere come queste emigrazioni collettive abbiano, attraverso i secoli, portato alla nascita di nuovi mestieri, spingendo singole valli, singoli paesi, a un alto grado di specializzazione in particolari campi lavorativi. Era come se ogni comunità rappresentasse un piccolo distretto di specifici lavori manuali altamente perfezionati da esportare. Tutti insieme si emigrava; tutti, singolarmente, una volta arrivati a destinazione si offriva lo stesso lavoro. Anche questo fenomeno andrebbe ascritto agli esiti dell’isolamento, al rapporto dentro-fuori, comunità-alterità. Dentro la familiarità del paese si imparava ad affinare le tecniche che i più anziani avevano sperimentato all’esterno; fuori, nell’estraneità del mondo, si acquisivano esperienze da condividere una volta ritornati. Così, di stagione in stagione, dentro e fuori la comunità, partenze e ritorni in una ciclicità reiterata nel tempo. C’erano i gelatai della Val Zoldana, da dove partivano diretti in Germania e in Austria. C’erano i maestri comacini, muratori e stuccatori del Canton Ticino e del Comasco. C’erano gli acciugai (anchoier in occitano) delle valli cuneesi, che si spingevano fino al porto di Genova e, con il carretto pieno di barili di acciughe sotto sale in arrivo dalla Spagna, andavano a venderle in tutto il Piemonte meridionale. C’erano i pitores della Val di Fassa che partivano, con i 42­­­­

colori e il pennello, spingendosi fin in Austria, in Svizzera, in Baviera, in Ungheria: il loro grado di specializzazione aveva determinato un vero e proprio stile pittorico che prevedeva disegni su omogenee campiture di blu cobalto (conosciuto come fassanblaue) sulle superfici lignee dell’arredamento, come cassoni nuziali, armadi, culle, giocattoli e strumenti da lavoro. I pitores della Val di Fassa erano arrivati persino a codificare un catalogo di motivi decorativi naïf: piccoli animali, fiori e casette. Infine, c’erano mestieri ben più tristi e spesso tragici: gli spazzacamini della Val Vigezzo, le balie dei paesi sopra Feltre. E tanti altri ancora. Ogni valle, talvolta ogni paese, esprimeva la propria capacità di eccellere, e dunque di competere nel mondo. Molte di queste specializzazioni, se non addirittura tutte, sono oggi sparite per effetto dello spopolamento e per la fine dell’esigenza che le aveva originate: il mantenimento dell’equilibrio vitale tra risorse disponibili e bisogni della comunità. Mestieri che sono finiti nei musei. Musei degli antichi mestieri, musei etnografici che conservano cimeli, oggetti, attrezzi, e i patrimoni immateriali dei ricordi, delle biografie di significativi personaggi locali. Dagli anni Ottanta, su tutto l’arco alpino, c’è stata una vera e propria esplosione del numero di musei. Abbandonato il passato, superata la miseria, si sono innescati la nostalgia e «il bisogno di identità», come si dice oggi. Musei che, eccetto pochi, spesso non sono altro che depositi di robe vecchie che non producono alcuna elaborazione storico-critica. Ma fra tutti i mestieri alpini, fra tutte le innumerevoli specializzazioni, ce n’è uno che è forse il più singolare, il più impensabile, anche perché ha a che fare con il commercio di una parte del corpo umano. È quello dei raccoglitori di capelli. Mestiere che proprio qui ad Elva ha avuto un importante sviluppo. E naturalmente a celebrarne la storia c’è un museo: il Museo dei Pels. Il singolarissimo Museo dei Capelli si trova a pochi passi dalla locanda Hans Clemer, di fianco a piazza Don Dao, in 43­­­­

una casa chiamata «della meridiana», riconoscibile, appunto, per una grande meridiana che campeggia sulla facciata. È nato nel 2006. Prima, lo spazio espositivo in cui è oggi ospitato era una casa privata, frazionata in diverse proprietà e abitata fino alla fine degli anni Sessanta. Acquisita dal Comune, la «casa della meridiana» è stata ristrutturata nello stile originale con fondi europei e finanziamenti da parte di istituti di credito. E ora, da un paio d’anni, una coppia di ragazzi ha preso in gestione il Museo. Nelle diverse stanze sono ricostruiti gli ambienti della vita quotidiana di un tempo, quando la casa era abitata. Ci sono mobili, suppellettili, piccoli strumenti da lavoro. Dunque è anche questo, nella sua parte iniziale, uno degli innumerevoli musei etnografici della civiltà montanara che si trovano nelle Alpi. C’è, semplicemente, la «roba»: tutto quell’insieme di oggetti e strumenti che ai nonni di qui serviva per vivere. Vivere isolati, in quasi completa autarchia. Nella cucina, ripristinata come appariva una volta, tutto appare funzionale, pratico, razionale, semplice. Semplice sì, ma è chiaro che ogni cosa rappresenta il risultato di una cultura materiale perfezionata nel tempo. Ogni oggetto, pur elementare, è un prodotto a suo modo raffinato e ha una propria specifica funzione che l’occhio inconsapevole non riesce a cogliere. La conoscenza delle proprietà delle materie prime, legno e metalli, è l’abc per vivere. Qualche esempio: si utilizzava il legno di acero che non rilascia né odori né sapori per realizzare il classico mattarello; la pentola di rame per cucinare la polenta e quella in ghisa per scaldare l’acqua. Per costruire i secchi dogati si impiegavano larici cresciuti in alta quota e all’asciutto, perché quel tipo di legno resiste meglio all’azione dell’acqua e alla corrosione del sale: le bestie macellate venivano conservate nella neve oppure fatte a pezzi e salate in strati, fino all’orlo del secchio. L’intera comunità poteva vivere in una condizione di totale autosufficienza alimentare, pur rimanendo completamente isolata, con l’eccezione del sale che serviva anche a conservare il cibo. 44­­­­

La prima sala che si incontra lungo il percorso del Museo è la cucina. Una scala collega questo ambiente direttamente alla stalla, così il calore degli animali, che tende a salire, intiepidiva i locali sovrastanti. Si desinava con la luce tremolante di una candela, il fuoco che crepitava nella stufa e i miasmi della stalla che salivano. Un’altra scaletta sospesa al soffitto serviva a riporre i formaggi, così da tenerli areati impedendo al contempo l’accesso ai topi. Superata la cucina si entra finalmente tra i ricordi dei caviè. Un mestiere che portò una discreta ricchezza in paese, e fece di Elva addirittura uno dei centri mondiali della raccolta di capelli. Sull’origine di questo mestiere non si hanno testimonianze scritte. La tradizione orale riporta diverse versioni. Alcuni raccontano che nel Settecento un elvese andò a fare il soldato a Venezia, dove si imbatté in un commerciante di capelli. E dalla sua inventiva nacque tutto. Una storia che, prevedibilmente, si sviluppa, tra le mura del Museo, in forma di leggenda. Ed è normale: come ogni tradizione, anche quella dei capelli ha bisogno di una propria epica fondativa. La versione più accreditata, almeno negli ultimi tempi, narra invece di un elvese emigrato a Parigi come cameriere. Lì cominciò a vendere le trecce delle sue sorelle: pare che un commerciante francese lo pagasse molto bene. Rientrato nel paese d’origine, l’uomo decise di buttarsi nel business delle parrucche. Del resto, gli elvesi – riferiscono le cronache – sono sempre stati commercianti: dall’autunno alla primavera gli uomini emigravano nella piana carichi di mercanzie, con grandi zaini che, all’occorrenza, si trasformavano in vetrine da espositori. Commerciavano soprattutto tessuti e articoli di merceria. Ma gli elvesi continuarono a portare con sé i tessuti anche quando si resero conto che il capello rendeva molto di più, perché alle donne cui tagliavano i capelli non offrivano in cambio solo denaro, ma barattavano tovaglie, lenzuola, grembiuli. La rendita era doppia. Si spingevano fino in Veneto, in Friuli, le zone tradizionalmente più povere. Le forbici lavoravano 45­­­­

sulle povere donne che, senza più capelli, portavano addosso, visibile a tutti, il segno della propria miseria e umiliazione. Intanto, mentre i mariti erano in giro a rasare le teste di donne della pianura, a Elva le mogli si occupavano della lavorazione della materia prima. Solo la materia prima, perché a Elva non si confezionavano le parrucche, bensì ci si limitava a realizzare le mazze, la fase iniziale del manufatto, mentre il prodotto finale veniva confezionato altrove. A volte, quando i raccoglitori di capelli potevano tagliare direttamente le trecce, non era necessaria alcuna lavorazione particolare perché queste venivano rivendute così com’erano al caviè, che passava annualmente. Altre volte i mariti rientravano a Elva con semplici ciocche che andavano trattate attraverso un lungo procedimento. E ogni strumento, ogni fase della lavorazione, è ricostruito oggi nelle varie stanze della casa-museo. Questa era l’incredibile lavorazione: dapprima si usava una carda, molto simile a quella impiegata per la lana. Veniva fissata al tavolo con un chiodo o una morsa, la donna adagiava la chioma e la tirava a sé, districandola dai nodi e dividendo i capelli per estensione. Poi, venivano impiegati pettini con denti più o meno distanziati. C’erano pettini con denti ravvicinatissimi che servivano a rimuovere le lendini, le uova dei pidocchi (sì, anche questa operazione era prevista). La fase del lavaggio avveniva in vasche spesso rivestite di metallo, in una soluzione di acqua molto calda, con soda e sapone di Marsiglia. Le donne dovevano aver acquisito una certa abilità nel non bagnarsi le mani per evitare di danneggiare la pelle a causa degli effetti della soda. Infine, una volta puliti, i capelli venivano passati uno per uno (uno per uno!) per sistemarli in una treccia che avesse tutti i singoli bulbi da una parte. E venivano ripassati uno ad uno anche per la cernita del colore. In alcuni paesi di destinazione del prodotto, certe tinte erano più richieste di altre. Ma soprattutto – riferiscono gli anziani – era richiestissimo il bianco. Molto più raro da trovare, il capello bianco era un po’ come l’oro. Il maggior paese importatore era l’Inghilterra, dove gli acquirenti 46­­­­

più numerosi erano giudici e lord che, appunto, acquistavano parrucche bianche. Ma il bianco era il colore più difficile da individuare. Le donne lavoravano a lume di candela, aiutandosi con una carta molto chiara, quasi bianca: usandola per contrasto, potevano distinguere meglio il colore, separando i bianchi dai grigi. Selezionavano poi le chiome brizzolate, nelle varie sfumature di cui erano composte. Un lavoro lunghissimo. Si capisce, visitando il Museo, come d’inverno il tempo non mancasse. C’era anche una fase di piegatura, quando andava di moda il boccolo, per niente semplice da trovare in natura: i capelli, attorcigliati attorno a bigodini di legno, venivano fatti bollire nell’acqua calda e poi asciugati nei forni. Tutte queste operazioni non avvenivano all’interno di laboratori specializzati, ma all’interno delle mura domestiche, con le donne della famiglia che si dividevano tra le faccende di casa e la confezione delle matasse. L’epopea del capello a Elva durò fino alla fine degli anni Settanta. Poi lo spopolamento e l’avvento di materiali sintetici portarono a un rapido declino di questa attività. Ma anche se la lavorazione si è arrestata, alcuni discendenti dei vecchi elvesi continuano questa tradizione nel mondo. C’è chi ha fatto fortuna fondando imprese di confezioni di parrucche a Londra, a Parigi, in Canada. Tutto finito, dunque. Ma qualche pezzo di memoria materiale, anche fuori del Museo, lo si trova ancora. Pare che a Elva, quando si ristruttura una casa o si abbatte un muro, non sia difficile scovare batuffoli di capelli nascosti tra le pietre. Insieme ai morres de pèira o alle têtes coupées, testine zoo o antropomorfe in pietra che a volte si vedono incastonate di fianco all’uscio delle case con funzione apotropaica (forse retaggio di antiche usanze pagane quando si riteneva che la testa fosse sede dell’energia vitale), saltano fuori dai muri i capelli un tempo raccolti dalla spazzola per essere lavorati in seguito: un piccolo salvadanaio personale che le donne con47­­­­

servavano in segreto dietro una pietra. Pochi fili detti paezz del paenche, che venivano avvolti attorno alle dita. Fino a creare una piccola matassa.

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Il Badile e Riccardo

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Il Pizzo Badile

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Bagni d. Másino

L’imponenza di certe architetture rocciose – lo sa bene chi guarda le montagne con occhio attento – può a volte mettere in difficoltà l’osservatore. Può infondere sensazioni di stordimento, collegate a una vaga ebbrezza mista a inquietudine. Oltre Chiavenna, salendo sui tornanti della Val Bregaglia che portano al Passo del Maloja, appare di colpo, come uscita da una successione di quinte, la grande pala granitica del versante settentrionale del Pizzo Badile. È un attimo. L’occhio viene subito attirato nella direzione della grande montagna, e si comincia a fantasticare. Poche cime raggiungono un tale slancio, una tale convergenza di linee. Dalla strada sul ripido fondovalle, il Badile si delinea, tra l’insieme indistinto degli altri monti circostanti, come una montagna perfetta, esemplare, e sembra quasi impossibile che sia il casuale prodotto della orogenesi alpina, il frutto di caotici sconvolgimenti geologici. Le sue linee sono troppo regolari perché possano essere state generate dalla mano inconscia della natura. La cresta sommitale, pressoché orizzontale, costituisce la cima, e sui suoi fianchi corrono spigoli rettilinei che precipitano per quasi 1000 metri. Lo Spigolo Nord, tra le linee più eleganti delle Alpi, è una prua perfetta che taglia in due la massa grigia di serizzo della montagna. Ed è proprio per l’eleganza di quel salto repentino, per l’unicità di quella geometria verticale, e anche per la sua storia (drammatica), che il Pizzo Badile è stato elevato a montagna-simbolo di questa parte delle Alpi. Non molti però – e qui emerge in tutta evidenza il paradosso di cui si è detto 51­­­­

all’inizio – lo conoscono al di fuori della cerchia degli alpinisti. Il Badile rappresenta l’esempio perfetto di «Alpi segrete», di quel tipo di montagne che gli alpinisti mettono in cima ai loro sogni, ma che, di fatto, sono ignorate dal turismo di massa. Il Badile sparisce al confronto dei ben più popolari Cervino, Monte Rosa, Monte Bianco, Marmolada, Tre Cime di Lavaredo. Eppure, per i pochi cultori, non ha niente da invidiare alle cime più note delle Alpi. Dalla strada la testa grigia di questa colossale montagna appare improvvisamente, per poi subito scomparire dietro le altre cime più vicine e incombenti sul fondovalle. Per avvicinarsi alle sue pendici si passa dal paese di Bondo, porta della laterale Val Bondasca. Bondo, a circa 800 metri di quota, sorge schiacciato sotto alte pareti che chiudono la vista verso sud e condannano le case del paese a rimanere nell’ombra. In inverno, per diverse settimane, il sole non arriva mai. Ed è anche per questo motivo che a Bondo non si è mai sviluppata una tradizione turistica (cosa che oggi si rivela una vera fortuna): troppo incassato, troppo dimesso, troppo spaventose le montagne che lo sovrastano, troppo vicini l’Engadina e i luccichii di St. Moritz. Eppure Bondo vanta un passato di ingenti ricchezze che a prima vista possono apparire ingiustificate. Perché quelle case dall’aspetto così curato? La fortuna, per Bondo, è stata la sua valle ristretta e incassata, che ha costretto la strada di collegamento tra Grigioni e Lombardia a passare a ridosso delle case. Siamo di fronte all’ennesimo esempio di un’ovvia regola ricorrente su tutto l’arco alpino: dove passa una via di comunicazione cresce la ricchezza. E infatti, laggiù sotto il Badile, sono state edificate sontuose case contadine, che appaiono protette da spioventi in tegole dal gusto ancora meridionale. Si può persino trovare un palazzo con giardino all’italiana, proprietà della famiglia von Salis, discendente da tal Geronimo Salis che fu ambasciatore grigionese presso Buckingham Palace nella seconda metà del Settecento. Tra lo stupore del visitatore 52­­­­

che si addentra fra le vie del paese spiccano eleganti dimore borghesi risalenti al Cinquecento e al Seicento, ornate dagli sgraffiti che ammoniscono chi li legge con una inattesa retorica popolare: «La donna prudente edifica la casa, la donna falsa la distrugge». «Chi si fida di un amico senza fede, perde il tempo e la mercede». E un sapienziale «Vanitas vanitatum et omnia vanitas». Diversi anni fa ero arrivato da queste parti con il fermo proposito di tentare la salita dei 3308 metri del Pizzo Badile. Non avevo ancora vent’anni e con il mio amico Giovanni Bassanini (che più avanti sarebbe diventato uno dei più forti alpinisti italiani, guida alpina stimata da tutti e ingaggiata per scalate estreme) condividevamo l’ambizione di ripercorrere le vie più famose delle Alpi, specie quelle tracciate negli anni Venti e Trenta durante la cosiddetta «epoca d’oro del sesto grado» da un ristretto gruppo di alpinisti. Passavamo mesi e mesi in giro. Eravamo scanzonati, maldestri e, naturalmente, ci sentivamo invincibili quando ripercorrevamo gli itinerari tracciati dai nostri eroi solo cinquant’anni prima. I nostri miti di ventenni non erano Messner o Bonatti, che tutto il mondo conosceva, personaggi che ritenevamo troppo pubblicizzati e sui quali gli occhi di chiunque si posavano con ammirazione. I nostri riferimenti erano le grandi figure dell’alpinismo meno note al grande pubblico: Giusto Gervasutti, Emilio Comici e Riccardo Cassin. E fu proprio per emulare le gesta di Cassin del 1937 che volevamo salire il Pizzo Badile. Lasciammo l’automobile al parcheggio di Bondo. Camminammo un paio d’ore lungo la ripida salita nella foresta fitta e umida della Val Bondasca e a sera arrivammo alla capanna Sasc Fourà, posta al limite della vegetazione d’alto fusto, proprio sotto lo Spigolo Nord del Badile. La mattina dopo, l’aurora ci colse già in bilico sulla cengia in corrispondenza dell’attacco della via Cassin. Ci infilammo l’imbragatura, calzammo le pedule leggere da arrampicata e sbrogliammo le due corde da nove millimetri lunghe 53­­­­

cinquanta metri. Scrutavamo la pietra, un serizzo ghiandone magnifico. Si tratta di una roccia granitoide che racchiude una particolare diorite (il serizzo, appunto, in genere utilizzato per rivestimenti pregiati) che la rende ruvida, perfetta da scalare, solida e piacevole al tatto, e soprattutto luminosa, iridescente quando lambita dai raggi solari. La parete nord-est sopra di noi si innalzava per circa 800 metri. La pietra muta era ancora gelida, ma non appariva striata dalle colate di umidità, che su questa parete rappresentano il vero ostacolo per l’alpinista. Dall’alto l’acqua si infiltra nel cuore della montagna e poi riemerge nelle fessure, proprio dove passa la via rendendo la roccia scivolosa e quasi impossibile da scalare. Col bagnato, lassù non si passa. Lo sapevamo. Improvvisamente i primi raggi, che spuntano da dietro le creste più alte delle Alpi Retiche, colpirono la cima. Subito la montagna assunse un caldo color arancio, quasi paonazzo, poi la vetta iniziò a riflettere tinte più accese, e la luce prese ad avanzare, in discesa, sulla roccia. Era il momento di partire. Alzammo lo sguardo e vedemmo la linea tra ombra e sole che scendeva veloce sopra di noi. Giovanni partì per primo. Lui era il più forte scalatore che conoscessi. Saliva veloce, sicuro, senza esitazioni. Qualche tempo prima della nostra trasferta sul Badile, Giovanni aveva avuto un brutto incidente su una guglia del Monte Bianco. L’elicottero lo aveva portato all’ospedale di Chamonix, dove un intervento chirurgico sfortunato gli aveva lasciato un’invalidità permanente: Giovanni aveva una gamba più corta dell’altra. Ma se la sua menomazione diventava evidente quando camminava in piano, quando si trovava in parete a scalare ogni fastidio svaniva. E poteva esibirsi in uno stile elegante, potente, preciso. Era un piacere vederlo giocare sulla roccia... Quel giorno non eravamo propriamente felici. Per noi, avventurarci su quella parete, rappresentava quasi un dovere. Ci trovavamo appesi lassù perché cercavamo di uscire dalle normali consuetudini della vita, perché aspiravamo a tutti i 54­­­­

costi ad essere diversi, volevamo essere soli su una grande montagna e percepire il brivido della lontananza, in bilico so‑ pra centinaia di metri di vuoto. Riccardo Cassin era passato di lì, c’era scritto su tutti i libri di storia dell’alpinismo. Sapevamo che su quelle placche grigie erano morti i suoi compagni. E anche noi volevamo attaccarci a quelli stessi appigli nella luce inebriante dei 3000 metri. Che ci importava del pericolo? Ci alternavamo in testa alla cordata sulle lunghezze di corda di sesto grado, che con le nostre scarpette leggere e le moderne tecniche di arrampicata libera non rappresentava una difficoltà proibitiva, tutt’altro. Gridavamo gli ordini per le manovre di corda. «Molla!», «Vieni!», «Sasso!». E le nostre voci rimbalzavano sulle pareti vicine, sulla Ovest del Cengalo, ancora all’ombra e dall’altra parte della cascata di seracchi. Tutto sembrava procedere per il meglio. Ma improvvisamente la situazione cambiò. Era metà giornata, ormai ci trovavamo alti sulla parete, e fu a quel punto che vedemmo galoppare verso di noi un fronte di nubi nere. Non prometteva niente di buono. Il temporale lassù poteva diventare una trappola, lo sapevamo. Si doveva prendere una decisione, e in fretta. Le alternative erano due: scendere in corda doppia da dove eravamo saliti oppure compiere una difficile quanto incerta traversata verso destra che ci avrebbe portato sullo Spigolo Nord, cioè sulla facile via di terzo e quarto grado diretta verso il rifugio? Optammo per la seconda alternativa. E arrampicando in diagonale più veloci del temporale raggiungemmo con una lunga traversata verso destra lo Spigolo, che si rivelò, come avevamo previsto, relativamente sicuro: non essendoci nessuna parete incombente al di sopra, il pericolo caduta di pietre smosse dalla pioggia era ormai scampato. Da lassù scendemmo lentamente sotto una cascata d’acqua lungo lo Spigolo, che tra l’altro è una bellissima via classica (salita nel 1923 da Risch e Zürcher, dopo decenni di esplorazioni e tentativi da parte della guida Christian Klucker, del principe Borghese e dei fratelli Calegari). 55­­­­

Arrivammo fradici alla macchina. Ormai era buio e un lungo viaggio nella notte ci attendeva per far ritorno a casa. Riccardo Cassin lo avrei incontrato di persona una quindicina d’anni più tardi. Era un pomeriggio di inizio estate. Eravamo seduti a un tavolo sulla terrazza del rifugio Porta ai Piani dei Resinelli con due tazze di tè fumante, e vedevamo gli alpinisti partire sui sentieri verso le pareti calcaree della Grignetta. Avevo notato che quasi tutti si giravano verso di lui, cercando di non essere visti, e lanciavano un’occhiata furtiva al «re della Grigna», come molti da quelle parti lo chiamavano. Riccardo Cassin è stato tra i più forti della storia, le sue vie sulla Nord delle Grandes Jorasses sul Monte Bianco, quella sulla Nord della Cima Ovest delle Lavaredo e soprattutto quella sulla Nord-est del Badile – la più spettacolare – sono veri capolavori di intuito e determinazione, applauditi da tutti gli intenditori. Eppure lui non ha mai cercato le luci della ribalta. Con Reinhold Messner e Walter Bonatti è nel pantheon dei grandi della montagna. Ma a differenza di Messner e Bonatti, oggi gli unici alpinisti veramente noti a tutti, lui è rimasto in un’ombra discreta. Lui non ha mai inseguito il ruolo del personaggio pubblico, non ha mai pensato alle scalate in montagna come a una professione a tempo pieno. Per questo, fra tutti i grandi alpinisti, forse è proprio Riccardo Cassin il più indicato a incarnare quello spirito delle «Alpi segrete» che qui andiamo cercando. Cassin era originario di una terra dura e misera del profondo Friuli. Uno dei suoi primi, personalissimi, ricordi è di quando bambino, affamato e disperato, frugava nelle bisacce dei morti dopo la disfatta di Caporetto. Passata l’età della pubertà, già girava la manovella alla fucina del fabbro per nove ore al giorno. Emigrò nell’operosa cittadina di Lecco, dove iniziò a lavorare con il cemento e a tirare di boxe sul ring della palestra Nuova Italia. «Lavoravo dodici ore al giorno, poi, per allenarmi all’alpi‑ nismo correvo, ‘facevo jogging’ si direbbe oggi, e alla sera 56­­­­

andavo a scuola per prendere almeno il diploma di quinta elementare», mi raccontava quel giorno ai Piani dei Resinelli con la sua voce leggermente cavernosa guardando diritto davanti a sé. Quel pomeriggio Cassin si alzò dal tavolo e fece due passi verso le montagne. Aveva 85 anni, ma il fisico era ancora forte, prestante, compatto. Di statura bassa, con le mani nodose, lo sguardo acceso, la mascella pronunciata, esprimeva attraverso quel corpo fiero e disinvolto una dignità basata tutta sulla concretezza, su realismo e senso pratico. Riccardo Cassin era ancora un vero «uomo roccia», come lo aveva definito scherzosamente Fosco Maraini, suo vecchio amico e compagno di spedizione al Gasherbrum IV nel 1958. Capii presto che Cassin parlava poco e ascoltava molto. Dovevo essere io a parlare, di montagna, naturalmente. Dovevo intraprendere un discorso specifico, che poi lui approvava o disapprovava. Interveniva con le sue frasi assertive, lapidarie. Non cercava di affinare il discorso con giri di parole o abbellimenti formali, ma scaricava la sua sentenza, senza precisare o argomentare. Diceva quello che pensava. E poi taceva guardando nel vuoto, come se dopo le sue parole nulla più si potesse aggiungere. Diceva sorridendo: «Di soldi ce n’erano pochi, i chiodi da roccia me li facevo io in officina, e anche le pedule da arrampicata sotto le quali mettevamo il feltro pressato. Il sacco da bivacco, poi, era di iuta, di quelli che si usavano per le patate. Non ci crederai, ma quei sacchi ci hanno salvati durante l’ultimo bivacco sul Badile. Credimi, allora era così: non avevamo sacchi a pelo, ma sacchi di patate!». Aveva iniziato con qualche scalatina sulle rocce sotto la Grigna, insieme a un gruppo di giovani lecchesi, anche loro poveri in canna. «Andare in roccia» era un gioco divertente, che permetteva di far squadra con gli amici e di avere una scusa per viaggiare in cerca di pareti. Partivano la domenica prima dell’alba in sella alla bicicletta con zaini carichi di materiale per le scalate e ritornavano la sera cotti dal sole. Divenne capof57­­­­

ficina alla Cariboni, la fabbrica dove si producevano impianti di elettrificazione, e la sera, dopo il lavoro, si attardava nelle officine divenute silenziose per forgiare i chiodi da piantare nelle fessure lungo le pareti la domenica successiva. Intanto il consenso (o, meglio, la mancanza di dissenso) intorno al fascismo cresceva. La retorica del regime penetrava in ogni àmbito e arrivava anche sulle rocce delle Grigne. Degli alpinisti venivano esaltati la forza, l’ardimento, lo sprezzo del pericolo, lo spirito maschio e superbo di chi punta alla vetta, e le pareti delle Alpi diventavano la fucina di eroi disposti a combattere per la grandezza della patria. Era la fascistizzazione della montagna, attraverso i «treni della neve» che portavano decine di migliaia di sciatori sulle piste ogni fine settimana, e attraverso il nuovo Club Alpino Italiano, sempre meno elitario e più popolare, più militaresco. Di estate in estate, Cassin si faceva più forte: era stato eletto, pur rimanendo sempre nell’ombra della sua discrezione, al ruolo indiscusso di primo di cordata dell’alpinismo lecchese. E in tale veste, come fosse il padrone di casa, accoglieva gli scalatori più preparati che facevano visita alle rocce della Grigna. Memorabile fu l’arrivo del grande sestogradista triestino Emilio Comici (che incontreremo più avanti): insieme scalarono sul monolite del Nibbio, ai Piani dei Resinelli. Cassin e Comici erano i rappresentanti di due scuole alpinistiche in un certo senso antitetiche e rivali, gli Occidentalisti, abituati ai ghiacciai e ai difficili accessi alle pareti (Cassin), e gli Orientalisti, specializzati nei passaggi aerei e più tecnici delle Dolomiti (Comici). Entrambe le scuole credevano nella reciproca superiorità. Al Nibbio, quel giorno memorabile, le due scuole si confrontarono sulla roccia attraverso i reciproci assi. Su entrambi i campioni, e non poteva essere altrimenti, il regime aveva messo gli occhi. Cassin ricevette dalle mani del duce due medaglie al valore atletico per le scalate ardite sulla Cima Ovest di Lavaredo, al Badile e allo Sperone Walker. Comici, il ruolo di commissario prefettizio a Selva di Val Gardena. Ma Cassin non si lascerà mai irretire dal fa58­­­­

scismo: più tardi, nel capitolo più tragico del regime, si unì ai partigiani e combatté contro quello stesso regime che lo aveva innalzato agli onori del mondo. Quel pomeriggio ai Piani dei Resinelli, Cassin si appoggiò alla balaustra di legno e mise a fuoco le rocce argentee della sua Grigna. Erano passati sessantacinque anni da quando, lassù, nel santuario dell’alpinismo lombardo, aveva imparato ad arrampicare. Da quelle rocce era partito per un cammino che lo avrebbe portato a compiere 2500 scalate in molti paesi del mondo, dall’Alaska all’Himalaya, dal Mc Kinley al Gasherbrum IV. Ma soprattutto, nel suo cammino attraverso il Novecento, Cassin era stato testimone dei principali cambiamenti che avevano interessato il mondo della montagna. Come osservatore esterno – lui, cittadino di Lecco – aveva assistito al tramonto della tradizionale società alpina: aveva visto scomparire, schiacciata dal corso della storia, la secolare civiltà dei montanari. E, in senso contrario, aveva visto il sorgere di un’altra stagione, a lui certo più confacente, quella del primo turismo e delle villeggiature alpine che trovava nelle montagne una forma di educazione al rigore necessario alla vita, che inseguiva la fatica delle camminate, la solitudine delle notti in quota, il brivido delle cime, e che nobilitava il pericolo cercando il confronto diretto con la parete. Quella pagina era stata la sua vita. E infine aveva assistito a una terza stagione, a lui ormai estranea, quella del turismo di massa con l’invasione ciclica della montagna, con la furia edificatoria delle seconde case, con il cemento – monumento al Moderno – che colava dalle betoniere nell’irreversibile cavalcata verso il futuro. L’ultima stagione aveva anche portato al moltiplicarsi delle vie alpinistiche attraverso i chiodi a espansione (spit) che banalizzavano le imprese del passato, quando i chiodi si piantavano solo nelle fessure della roccia ed erano molto meno sicuri. Tutto questo aveva visto Cassin. Eppure alla fine della sua vita non aveva nostalgie di quando le montagne erano il terreno di conquista per pochi. 59­­­­

Non glorificava il passato, non rimpiangeva i tempi nei quali le pareti erano avvolte dal mistero e attendevano il loro primo salitore. Non demonizzava i nuovi alpinisti sportivi con i loro chiodi che bucano la roccia, come invece Bonatti e Messner che tuonavano contro lo spirito sportivo degli arrampicatori moderni. Anche in questa sua riservatezza nel giudicare, Cassin si è distinto. Cassin non dà giudizi, a parlare sono le sue vie. «Ho iniziato la mia carriera come escursionista e l’ho conclusa da escursionista. Non è mica una vergogna. Anzi, gli escursionisti sono spesso più alpinisti di tanti che arrampicano», disse quel giorno sotto la Grigna nel suo consueto stile lapidario, salvandoci dalla retorica che così facilmente sta in agguato dietro a ogni grande alpinista. Anche Cassin ha scritto il suo libro di memorie, com’è tradizione di tutti gli alpinisti di alto livello. Là dove la parete strapiomba è uscito nel 1958 ed è stato ripubblicato più volte nel corso di questo mezzo secolo divenendo un piccolo classico della letteratura di montagna. E se Cassin non è un uomo famoso in Italia, a Lecco, al contrario, è considerato una specie di eroe nazionale. Il 2 gennaio del 2009, giorno del suo centesimo compleanno, è stata una festa di popolo nella cittadina sotto le Grigne. Quel giorno fu una sorta di giubileo della montagna con mostre itineranti, manifesti sugli autobus, presentazioni di libri, tavole rotonde sull’annoso tema «dove va l’alpinismo». «Sono stato un uomo fortunato: ho conosciuto fame, povertà e guerra abbastanza per apprezzare cibo, agiatezza e pace. Ho lavorato sodo nella vita ma ho potuto inseguire e coronare tutti i miei sogni. Sono stato un uomo libero», disse. Quel pomeriggio ai Piani dei Resinelli gli chiesi di raccontarmi la sua avventura sul Pizzo Badile. Quante volte l’aveva già raccontata nella sua vita? Decine e decine. E mi sentii come un bambino che chiede al genitore di poter ascoltare an60­­­­

cora una volta la sua storia preferita. Mi vergognavo. «Ancora una volta», gli dissi. E lui, capendo, mi sorrise. Tutto iniziò la sera di martedì 13 luglio 1937. Cassin si trovava con i compagni di cordata Gino Esposito e Vittorio Ratti al rifugio svizzero Sciora, sotto la Nord-est del colosso delle Alpi Retiche, all’epoca una delle pareti più difficili e ancora inviolate delle Alpi. Erano diversi anni ormai che gli alpinisti più forti, tedeschi, italiani e francesi, tenevano d’occhio quei novecento metri di granito verticale. E il bilancio era già tragico: due tedeschi morti nel tentativo di scalata. Fondamentale, per essere i primi a salire la Nord-est – lo sapevano tutti –, era presentarsi puntuali all’appuntamento con la parete, né un giorno prima né un giorno dopo: il tempo doveva essere stabile, la roccia sgombra di neve e senza «colate» d’acqua che avrebbero impedito la progressione in verticale. Martedì 13 luglio 1937 è il momento giusto. E infatti Cassin e i suoi uomini non sono soli: al rifugio, in attesa di partire, c’è anche una cordata di italiani, i comaschi Mario Molteni e Giuseppe Valsecchi. «Ci conoscevamo dai Resinelli», racconta Cassin, «e sapevamo che stavano tentando da almeno due anni con grande accanimento. Ma erano male equipaggiati, e non avevano neanche i soldi per prendere una cuccetta dentro il rifugio, dovevano dormire nel locale invernale e mangiavano poco. Quel giorno, durante la ricognizione, avevamo visto tre puntini neri sul ghiacciaio: erano tre camosci investiti dalla valanga. Ne ho staccato un cosciotto. La carne era frolla a puntino e quando la sera l’ho cucinata nessuno si è tirato indietro». Molteni e Valsecchi, quatti quatti, partono subito prima dell’alba: vogliono la certezza di attaccare la parete prima del più veloce Cassin. Vogliono essere loro ad aprire la via, vogliono essere loro a portare a casa la prima salita della mitica Nord-est. Giunti ai piedi della parete e superata la grande bocca 61­­­­

spalancata della crepaccia terminale, Cassin decide di attaccare più a destra di dove sono i due comaschi: è convinto che quella sia la sezione più facile da risalire. E infatti lo è. I tre salgono rapidi una serie di lunghezze su diedri, placche e una cengia inclinata che costituisce il punto debole della muraglia. Cassin, in testa, corre controllando di tanto in tanto gli umori del tempo: un temporale in parete sarebbe pericolosissimo. La velocità sulla Nord-est è la chiave del successo. Nel cielo sgombro da nuvole, il sole procede lungo la sua parabola, fin quando la buia parete Nord-est, nel primissimo pomeriggio, è inghiottita nell’ombra. E la temperatura, come previsto, cala bruscamente. Si fermano su un terrazzo ampio, comodo, perfetto per prepararsi alla notte. E visto che è ancora presto, Cassin decide di attrezzare una cinquantina di metri di roccia con una corda fissa, così da velocizzare la salita per l’indomani. Molteni e Valsecchi, intanto, sono ancora bassi. Procedono lenti, ed è sera quando le due cordate si ricongiungono sul terrazzo. Trecento metri di vuoto li separano dal ghiacciaio. Notte senza luna. L’intero firmamento vibra sopra di loro fino alle luci dell’alba. Ed è a quel punto che tra le cordate si scoprono le carte: i due comaschi, già stanchi, chiedono a Cassin di unirsi a lui. «Da soli non ce la facciamo. Cosa dici?». Cassin dapprima esita. Poi accetta, e in questo modo compie uno dei più gravi errori della sua vita. «Fu un errore imperdonabile da parte mia», dirà. Ora sono in cinque, e sono molto più lenti. Iniziano la seconda giornata in parete issandosi sulle corde lasciate il giorno prima. Giunti sul punto più alto mai toccato, Cassin risale uno strapiombo, pianta un chiodo. Tutto sembra andare via liscio, quando, all’improvviso, un grosso masso si stacca dalla cresta sommitale e precipita sulla sporgenza dello strapiombo. «Tieni!» urla Cassin e, scivolando lungo le corde, si ripara sotto la sporgenza. Il masso rimbalza sulla parete esplodendo come una granata, lanciando ovunque 62­­­­

schegge di roccia. Finché rimane una nuvola di polvere che, lentamente, si dissolve. Solo Molteni, l’ultimo della cordata, è stato colpito: una scheggia gli ha squarciato lo zaino. Viveri, abiti di ricambio e attrezzi sono volati nell’abisso. «State calmi!», urla Cassin, «Ora si va via veloci!». Lo sa bene, dalla Nord-est si deve sgusciare via il più rapidamente possibile. Ogni minuto passato lassù è un minuto in più esposti al pericolo. Ora gli alpinisti arrampicano in silenzio, dosando le forze e tendendo l’orecchio all’eco delle urla lontane di Cassin che ordina le manovre di corda. «Mollaaa!», «Vieniii!», «Recuperaaa!». Alle due del pomeriggio hanno superato notevoli difficoltà. Nell’ombra già gelida, sarebbe arrivato il momento di prepa‑ rarsi al bivacco, ma terrazzi atti allo scopo non ce ne sono. Cassin avanza cercando di leggere la parete da basso. E finalmente giunge su una serie di ripiani e terrazzini dove potersi almeno sedere. Dopo un’ora si ritrovano tutti insieme, per la seconda notte in parete. I due comaschi si guardano negli occhi: sono stravolti, non hanno più viveri né indumenti caldi per la notte. Un’espressione interrogativa segna il loro volto. Ce la faremo? «Forza, domani usciamo in cima. Non temete!», li rincuora Cassin. Ma neppure lui sa che oltre la montagna sta arrivando ciò che nessuno di loro si augurerebbe. Dapprima compare la nebbia, poi scoppia il temporale. I fulmini si inseguono nel cielo, sopra e sotto di loro. È l’inferno. Cascate d’acqua li investono. Va avanti così fino a mezzanotte, quando i cinque capiscono che i tuoni si vanno indebolendo. Li sentono sempre più lontani, scaricarsi su altre cime, oltre la cortina nera delle nubi. Ma è a quel punto che arriva il vento, e con il vento il gelo. Ogni cosa è avvolta dal ghiaccio: vestiti, zaini, corde e – quel che è peggio – la roccia. Con il verglas arrampicare sarà impossibile. La terza alba in parete coglie gli alpinisti ormai stremati. 63­­­­

Solo Cassin è in grado di condurli in cima. Il sole li raggiunge: accecante e salvifico nel cielo blu scuro dell’alta quota. Cassin parte, sa che la vita di tutti è nelle sue mani. Mani che cercano gli appigli più sicuri nel ghiaccio che si sta sciogliendo. Un passo, un respiro. Un passo, un metro guadagnato verso la salvezza. Ma la cordata è costretta a rallentare per aiutare i due comaschi. Dopo la notte di gelo i loro volti sono due maschere di dolore. Ogni pochi minuti cadono in un sonno dolce e sereno, una sorta di limbo sospeso. Poi si risvegliano e si trovano di fronte alla realtà più nera: sotto i loro scarponi il vuoto precipita per più di seicento metri. Cassin li incoraggia, ma la cordata va avanti lenta, lentissima, verso l’ignoto della parete verticale. A mezzogiorno il cielo si vela di nuovo. In breve il sole scompare, e la luce si fa più scura. Cassin lotta su un nuovo difficile passaggio, nell’ultima sezione della parete: l’imbuto roccioso che porta alla vetta. Ed è a quel punto che inizia a piovere. Poi smette e scende la neve. Nell’imbuto si formano piccole valanghe che colpiscono gli alpinisti logorati dal gelo. Cassin sale grazie ai provvidenziali ramponi che ha deciso di infilare nello zaino. Alle 16 tocca finalmente i 3308 metri della cima nell’infuriare della tormenta. Ce l’ha fatta! Ma deve attendere l’arrivo dei compagni (ce la faranno?) e poi cercare la via di discesa sul versante italiano, più facile e sicuro, che li porterà alla capanna Gianetti. «Presto! Fate presto!», urla disperato. Ma cinquanta metri più in basso, ancora nell’imbuto, Molteni e Valsecchi sono allo stremo. Lottano disperati tra le allucinazioni. Alla fine, però, sono tutti insieme in cima al Pizzo Badile, una delle montagne più ardite delle Alpi, che da anni attendeva di essere salita da nord-est. Gioire però non ha senso, ora, nella tormenta. Due di loro sono in fin di vita e sanno che un’altra notte lassù potrebbe essere fatale per tutti. Bisogna scendere al rifugio sul versante italiano, costi quel che costi. «Tieni, bevi questo», urla Cassin nel vento a Molteni che 64­­­­

si è attardato, portandogli la fiaschetta di liquore alle labbra. Molteni lo guarda. Ha gli occhi vuoti, senza più luce. Il mondo, la bufera, il braccio di Cassin che lo sorregge sono ormai lontani. Molteni si accascia, la testa gli si piega sul collo. E muore. «Mario! Mariooo!». Quando Valsecchi vede arrivare Cassin da solo, capisce. E scoppia in lacrime. Ma non c’è tempo per piangere. Bisogna trovare la via di discesa, il più presto possibile. «Forza, prima che arrivi la notte», ripete Cassin. Poco dopo Valsecchi si siede su un roccione ricoperto di ghiaccio. Rimane lì, incurante della neve che lo avvolge. Sta scivolando in quel limbo di sogni che lo ha tentato per tutta la giornata. Troppo invitante quel mondo di silenzio e tepore per dirgli ancora di no. Valsecchi non fa più resistenza. Supera la soglia e abbraccia la morte. Cassin si avvicina al compagno ormai spirato quando il buio della notte li avvolge. Impossibile scendere. Ai tre superstiti non rimane che bivaccare accanto al compagno morto. È la quarta notte in parete. A mezzanotte la tempesta cessa e la mattina seguente i tre arriveranno al rifugio, dove sverranno sulle brandine. Cassin aveva portato in salvo i compagni, i lecchesi Esposito e Ratti. Cinquant’anni dopo, nel 1987, nonno Riccardo ritornò sulla sua via alla Nord-est del Badile, che nel frattempo è diventata una grande classica delle Alpi, ripetuta ogni estate da decine e decine di alpinisti. Voleva festeggiare l’anniversario della scalata e ricordare i compagni caduti. Aveva 78 anni, e lasciò tutti di stucco. C’erano manciate di giornalisti, e l’immancabile Reinhold Messner che faceva da speaker alla manifestazione Badile 87, cinquant’anni di leggenda. Cassin arrampicò con il maglione dei Ragni di Lecco, l’associazione alpinistica che oggi si onora di aver avuto tra i suoi iscritti uno dei più grandi di sempre. Lui, Riccardo Cassin, nato a San Vito al Tagliamento e arrivato nella laboriosa Lecco per farsi un futuro. Lui, che sarebbe diventato Grand’ufficiale della 65­­­­

Repubblica, decorato di croce al valor militare per la guerra partigiana, insignito di quattro medaglie al valor atletico. Lui che bivaccava nei sacchi di patate. Si è spento nel 2009, nella sua casa ai Piani dei Resinelli. E con lui se n’è andato l’ultimo testimone della stagione del sesto grado.

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La Val di Mello e i suoi asteroidi

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p.zo Badile

M. Sissone

p.zo Céngalo

L. Pirola

Rif. Gianetti p.zo del Ferro

VAL DI

L ME

LO

M. Disgrázia

Bagni d. Másino Rif. Désio

S. Martino

Rif. Bósio

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Filorera Cataéggio p.zo Mercantelli Córnolo

Búglio Cevo Villapinta

Pedemonte Postalésio

Ardenno

Caspano

Másino Dázio Valle Sirta

La Val di Mello

Fiume Ad d

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Nel 1977 erano passati nove anni dal «Maggio parigino», ma la rivolta studentesca sembrava avere un nuovo sussulto. Il brivido della contestazione serpeggiava per tutta la penisola, dalle Alpi al mare, dove abbondavano felici naturisti dall’abbronzatura integrale. Era l’anno delle avanguardie di massa, si organizzavano happenings di danze nudiste, gli indiani metropolitani si dipingevano il viso sventolando bandiere di denuncia contro ogni forma di conformismo. C’era chi alzava bastoni e puntava pistole (chi non ricorda la foto del ragazzo con passamontagna e P38 che spara in via De Amicis, a Milano?), ma anche chi gridava: «No alla violenza armata, sì a una grossa risata». E nella grande confusione, fuori dalle piazze urlanti, c’era chi, buttati alle spalle i vecchi scarponi da ghiacciaio, rinnegava la classica retorica alpinistica arrampicando con scarpe da ginnastica «truccate» con strane suole di Aerlite marrone, imbattibili per salire i graniti rugosi dei fondovalle. E fu soprattutto un angolo nascosto, proprio ai piedi del Pizzo Badile, che venne elevato a luogo-simbolo di questa rivoluzione trasportata in montagna. La valle in questione, la Val di Mello, è uno dei recessi più appartati e incantevoli di tutte le Alpi. Per raggiungerla, provenendo dal Lago di Como, si percorre la Statale numero 38 «dello Stelvio» che corre lungo la Valtellina. Si superano i paesi di Delebio, Morbegno, Talamona e all’altezza di Masino si devia verso l’omonima valle. Dopo una quindicina di chilometri si raggiunge San Martino, dove la strada si bi69­­­­

forca: a sinistra si entra nella Valle dei Bagni, a destra in Val di Mello, il paradiso degli arrampicatori su placche di granito. La Val di Mello corre rettilinea lungo un asse est-ovest – dunque un versante è costantemente esposto al sole – per circa cinque chilometri, e sul suo fondovalle, parallelo al torrente che forma pozze e laghetti d’acqua cristallina, si snoda un sentiero in parte lastricato e difeso da antichi muri a secco costruiti con solide rocce granitiche. Questo particolare granito grigio affiora ovunque, sotto forma di grossi massi erratici che costellano i prati o di compatte placche leggermente lisciate da antichi ghiacciai. Le automobili, per fortuna, non possono entrare. E chi cammina sul fondovalle penetra in un ambiente silenzioso nel quale, di tanto in tanto, spiccano le voci degli arrampicatori appesi in parete che si scambiano ordini per le manovre di corda. È una specie di valle-giocattolo, delicata e preziosa, dominata dal granito. Il primo vallone laterale che si incontra sulla sinistra è la Val del Ferro; poi, da una cascata all’altra, si arriva alla Val Qualido, alla Val di Zocca, alla Val Torrone e alla Val Cameraccio, sulle quali incombono vertiginose pareti solcate da fessure. Perfette per arrampicare. Sembra incredibile, eppure prima degli anni Settanta la Val di Mello non la conosceva nessuno. Semplicemente non esisteva. I visitatori di quella parte delle Alpi Retiche si spingevano nella laterale Valle dei Bagni per frequentare le antiche terme di acqua calda o per salire ai rifugi in alta quota, puntando soprattutto verso il rifugio Gianetti, ai piedi del Pizzo Badile. I pochissimi alpinisti che battevano la zona saltavano a piè pari la Val di Mello e si buttavano sulle cime più alte, incapaci di cogliere la serenità paradisiaca di quel fondovalle. Quella valle è rimasta per anni la più nascosta tra le valli sconosciute e segrete delle Alpi. Dice una leggenda consacrata tra gli arrampicatori locali che a scoprire (o a «inventare») la Val di Mello fu un certo Ivan Guerini, colto milanese dall’aria elegante. All’inizio degli anni Settanta, in compagnia di un amico ar70­­­­

rivò nel piccolo paradiso scendendo a piedi dal Passo di Mello e rimase talmente colpito da quell’ambiente bucolico e con tanto granito da far girare la testa, che non volle andarsene più. Lasciò temporaneamente Milano e cercò una baita sotto le pareti. La trovò nei pressi di Cascina Piana, un punto di partenza ideale per battere le rocce affioranti dalle faggete, rocce verticali o leggermente appoggiate su cui si poteva sperimentare il nuovo stile di arrampicata «in aderenza». Nella decisiva estate del 1977, Ivan aveva ventitré anni ed era, almeno nei modi, un figlio autentico del suo tempo. Le fotografie dai colori sbiaditi sui libri di storia dell’alpinismo ci mostrano un ragazzo con la barba incolta, gli occhi dolci, il saffi legato sulla fronte come all’epoca usava portare, che si faceva ritrarre in bilico su qualche strapiombo circondato da farfalle in volo. «Ivan era un po’ come il messia del nuovo verbo», disse più tardi Giuseppe Miotti, altro forte scalatore della prima ora, «parlava dolce e difficile, riferendosi a una specie di amore universale sulle rocce e con le rocce. Noi tutti attraversammo un periodo di profondo invaghimento, aiutati anche da un ambiente naturale bellissimo in una valle straordinaria». Nel ristretto ambiente alpinistico dell’epoca, presto si sparse la voce della scoperta di un nuovo eden, e in Val di Mello si affacciarono alcuni arrampicatori assetati di rocce vergini sulle quali tracciare la propria via. Fu quasi automatico che si formassero due fazioni, due gruppi di scalatori: i milanesi con Ivan Guerini da una parte e il nostro amico fotografo Jacopo Merizzi con i sassisti di Sondrio dall’altra. Si affinavano tecniche di arrampicata in aderenza su placche lisce e si sperimentavano nuove mescole per le suole delle scarpe da ginnastica che avrebbero permesso di superare inclinazioni ancora sconosciute. In quell’estate del 1977 Jacopo e il suo concittadino Antonio Boscacci avevano tracciato la via Nuova Dimensione al Trapezio d’Argento: 130 metri di placca inclinata dove per la prima volta veniva superato il settimo grado (difficoltà estrema per l’epoca) con protezioni assenti nel lungo passag71­­­­

gio più difficile. Un paio di mesi dopo avevano risposto Ivan e il suo compagno di cordata Mario Villa, che avevano salito lungo eleganti fessure un nuovo itinerario che tocca il settimo grado sulla muraglia granitica più spettacolare alle porte della Valle. Dopo dieci ore di viaggio su fessure inesplorate e lungo la «Grande tromba» al centro della parete, arrivarono in cima al tramonto. Sotto di loro erano rimasti centinaia di metri di aria e la valle sinuosa, avvolta già nella luce della sera. Si sdraiarono per qualche istante e sparirono nell’erba alta. Chiamarono la via Oceano Irrazionale, oggi tra gli itinerari su granito più famosi delle Alpi. Diedero anche il nome alla struttura rocciosa, che sarebbe diventata negli anni la paretesimbolo della Val di Mello: Precipizio degli Asteroidi. Ma oltre a tracciare itinerari in arrampicata di alta difficoltà, i ragazzi della Valle si lasciano alle spalle, negli atteggiamenti e negli scritti che pubblicavano su guide e giornali, una scia di quella retorica dal sapore post-psichedelico e filoorientalista che all’epoca andava per la maggiore: rincorrono le farfalle, stanno nudi sui prati in fiore, fanno il bagno nel torrente ghiacciato. Anche l’arrampicata è un gioco da prendere con leggerezza. Significa bellezza del gesto, piacere di fiutare la roccia: al diavolo i vecchi valori della cima e gli ideali retorici dell’alpinismo, la sofferenza, la lotta con l’Alpe. Intorno ai loro corpi magri, i moschettoni tintinnano confondendosi con le campanelle delle capre. Capita di partire senza una meta, di avventurarsi su pareti nascoste, di dormire in bilico su cenge lungo pareti immense, di non mangiare per giorni, di seguire gli animali. Il mito dello spazio come libertà, dell’arrampicata come fine e non come mezzo per guadagnare la cima. Ogni tanto, sul sentiero della Val di Mello, passa qualche raro alpinista vestito di lana pesante diretto al rifugio Allievi e a qualche via classica in alta quota. Loro stanno seminudi, un fiore in bocca, la magnesite nelle mani e guardano perplessi 72­­­­

la fatica di quei volti seri che rappresentano la retroguardia dell’alpinismo. «Eravamo protagonisti di una trasformazione epocale, è vero, ma non ce ne rendevamo conto», mi raccontò una volta Ivan Guerini (durante una chiacchierata che qui riporto), «bigiavamo gli studi, come molti in quell’anno, e andavamo a scalare pareti assolate in Val di Mello. Alcune cose che avevo scritto erano state pubblicate anche su ‘Lotta Continua’, ma io in verità non ero affatto impegnato in una causa politica. Forse ero, eravamo contagiati dal clima, dalla grande voglia di cambiamento, e abbiamo trasferito quelle energie in montagna (io le ‘canne’, però, non le ho mai fumate). Scoprii la Aerlite sempre in quell’estate del 1977, grazie a un calzolaio napoletano. Era una suola eccezionale per il tipo di scalata in aderenza della Valle. Quell’uomo, con fare esperto, mi disse: ‘Se riesco a incollarla ti posso mettere sotto questa... È molto porosa! La metto sempre agli zoccoli dei bagnini e delle donne perché sul bagnato non scivolino’. Quale fosse la strampalata intuizione che produsse nel calzolaio la bella pensata non me lo saprò mai spiegare. Qualche mese più tardi, all’uscita dell’Albero delle pere, una via di Antonio Boscacci, c’era ad attenderci Giuseppe Miotti con un amico: con la sua aria fintamente scazzata, ma sempre attenta nel carpire chissà quale segreto, insisteva per sapere che magica suola avessi messo mai sotto le mie pedule. Gliele feci provare dicendogli: ‘Non so nemmeno di che marca sia’. Miotti, sbalordito dall’eccezionale aderenza della gomma, notò che in certi punti la zigrinatura era stata cancellata, e questo gli fece pensare che fosse stata cancellata apposta per impedire ad altri di sapere il nome! Ma non era vero! Ovviamente Miotti raccontò la storia come una sorta di guerra fredda tra agenti segreti. Quello che mi interessava, dopotutto, non era la grande prestazione. I materiali ci permettevano di entrare in un mondo: l’idea non era quella di dominarlo ma di starci dentro». Dice la storia dell’alpinismo che i nuovi arrampicatori della 73­­­­

Val di Mello, in realtà, avevano scoperto l’Aerlite, avevano affinato una certa tecnica di arrampicata in aderenza, ma non erano stati loro a definire per primi lo spirito di un nuovo modo di salire le montagne. In diversi all’epoca si muovevano sull’onda lunga di una cultura formatasi dall’altra parte dell’oceano, sulle cime degli antichi indiani d’America e sul mito di una nuova generazione di alpinisti, «capelloni», hippy, o figli dei fiori. Dalla California l’onda si era anche propagata a Torino e nella Valle dell’Orco all’interno del Parco Nazionale del Gran Paradiso. Lì il fenomeno si era dato persino un suo specifico nome, «Nuovo Mattino». Ma aveva anche assunto coloriture misticheggianti ed esoteriche, come se nei prati, tra gli alberi e sulle rocce risiedesse un sapere immanente che poteva essere colto attraverso liturgie segrete, così mi aveva raccontato uno dei seguaci del movimento. «È lo spirito dell’alpinismo californiano. Lo scopo non è raggiungere la vetta e nemmeno affermare se stessi. L’arrampicata è un mezzo per vivere sensazioni più profonde», scriveva Gian Piero Motti, il vate del «Nuovo Mattino», considerato una figura profetica e quasi divinizzata da un gruppo ristretto di seguaci più giovani di lui. I suoi lo seguivano sulla roccia e anche in certi rituali misticheggianti nelle notti d’estate, come avrebbero riferito più tardi alcuni di loro. Si ritrovavano sui prati sotto le rocce e si cullavano in una suggestione di gruppo, immaginando di entrare in una fusione ideale con gli elementi della natura. Colto, i modi raffinati, il fare posato, Motti riusciva molto bene a divulgare le strane idee arrivate da Oltreoceano, e aveva iniziato a tradurre gli scritti dei nuovi arrampicatori. Sulle pagine di quello che allora era un vero e proprio laboratorio culturale nell’àmbito dell’alpinismo, «La Rivista della Montagna», pubblicò alcuni articoli che avrebbero avuto ampia eco e sarebbero rimasti nella storia della pubblicistica di montagna. Tempi Moderni, dal nome eloquente, fu una via di arrampicata e anche il titolo di un articolo di Motti. Dai suoi scritti emergeva anche un embrione di spirito ambientalista: ai classici chiodi alpinistici che invadevano le 74­­­­

fessure, si preferivano dadi d’acciaio facili da rimuovere, per non alterare la parete e lasciare la via nelle stesse condizioni anche per gli scalatori successivi: era nato in Italia il clean climbing, l’arrampicata pulita che aborriva l’uso dei chiodi a espansione (i moderni spit, oggi all’ordine del giorno, gli stessi che il profetico Cassin, come abbiamo visto, non ha mai condannato). Motti morì suicida nel 1983, asfissiato con il gas di scarico della sua macchina. A trovarlo fu uno dei suoi più vicini epigoni (lo stesso che mi raccontò le sue esperienze nelle notti d’estate insieme agli altri seguaci), proprio lì nel punto dove aveva detto sarebbe andato a morire, nella notte del solstizio d’estate. Intanto, negli stessi giorni del 1977 in cui Jacopo, Ivan e gli altri si rincorrevano lungo nuove vie di arrampicata di alta difficoltà, sui prati dei parchi e nelle piazze in città – soprattutto a Bologna, epicentro del movimento – i giovani dissacravano tutto, inventavano sberleffi, slogan «al contrario», convinti di snidare la retorica delle cosiddette «parole d’ordine»: «Più lavoro e meno salario», «Potere operaio» diventava «Godere operaio», sconfinando nella spettacolarità delle «spiritosaggini non spiritose», delle «metafore sconcertanti», della risata come soluzione: «Sarà un risotto che vi seppellirà». Anche in Val di Mello la fantasia non mancava e si rispondeva dando alle nuove vie nomi impensabili fino a poco tempo prima, quando gli itinerari alpinistici prendevano sobriamente il nome dell’alpinista che li aveva tracciati. Alle pareti e agli itinerari venivano affibbiati nomi che sembravano piccole e impertinenti note poetiche: Il Giardino delle Bambine Leucemiche alla Bastionata dei dinosauri, L’Albero delle pere, L’Alba di Nirvana (1976), Mixomiceto, Il Risveglio di Kundalini (1976). Nomi che travalicano l’assurdo, per vie che partivano da un prato e finivano su un altro prato. Dal punto di vista tecnico questi itinerari impongono spesso passaggi in arrampicata d’aderenza dove più della forza delle braccia conta l’equilibrio e la tensione del corpo, 75­­­­

la determinazione nei movimenti e la calma nella mente. È soprattutto la calma che bisogna mantenere su pareti provviste di pochi chiodi di protezione, secondo gli azzardi da integralisti del clean climbing e dell’arrampicata «eticamente» pulita. Così Jacopo, dopo avermi portato una volta ad arrampicare lungo il capolavoro di Antonio Boscacci, Luna Nascente, da molti considerata la via di granito più bella delle Alpi, mi consegnò un riassunto di quel tempo, un’immagine che mi parve dal sapore un po’ nostalgico: «Fuori il buio pesto lasciava intravedere la sagoma del Precipizio degli Asteroidi e, a dispetto del nome, le stelle restavano immobili dietro il suo profilo. Era tempo di trovare un posto per dormire: il giorno dopo, qualcuno di noi sarebbe salito sullo Scoglio delle Metamorfosi, qualcun altro più semplicemente metteva piede su Kundalini. Io puntavo agli strapiombi di fianco a Oceano Irrazionale. Si era in piena caccia all’oro, e come cercatori di tartufi si annusavano le pareti nella speranza di trovare la linea perfetta. La linea perfetta era l’itinerario che, a discapito della compattezza e verticalità della parete, permetteva una sorprendente salita. Cercavamo un’insolita serie di fessure, diedri, vene in risalto, funghi di biotite, una sequenza di graspole invisibili dal basso che avrebbero permesso una tranquilla navigazione in quell’oceano di granito verticale. Ecco che la luce radente fa risaltare una fessura, una linea di buchetti mai vista prima. Così nacque in Val di Mello una manciata di itinerari. Ed è probabilmente in questa logica che l’uso dello spit era inteso come un evidente bluff, un barare dei primi salitori, che non erano stati capaci di collegare il sotto con il sopra. Anch’io sono ricorso allo spit: grande onore a chi aveva la forza di tornare indietro rinunciando alla salita, ma non sempre si aveva questa magnifica determinazione». Alla fine dell’estate del 1977, in pianura, già stava tramontando il sole sulle fiammate della neoavanguardia: nelle piazze l’ala creativa non ebbe il tempo di realizzare una ela76­­­­

borazione teorica. E il fenomeno non lasciò tracce decisive. Le nuove avanguardie finirono con l’estate. In Valle, invece, il movimento ebbe più successo e lasciò una traccia: la sua elaborazione teorica Ivan la iniziò com‑ pilando una poetica guida di arrampicata dedicata alla «Valle più bella del mondo». Così scrisse poco tempo dopo nell’introduzione della sua bellissima guida: «Le forme delle rocce non sono una ‘sfida’, semplicemente ampi morbidi specchi dove il mondo vegetale si arresta e ne accarezza i contorni... Si è di fronte ad uno dei rari casi, in cui la predominanza del mondo minerale si innesta incredibilmente nell’ambiente che lo circonda. E si avranno sensazioni forti riguardo alla grandiosità del paesaggio. Abituarsi a vedere gli animali, seguirli, imitarli... correre liberi nei prati, senza abiti addosso... dove prorompono milioni di fiori in una incredibile pulsione policroma di energia. Aspirare il profumo minerale delle rocce, quello amaro del torrente, del ghiaccio, l’essenza diamantina della resina... il sapore della terra dopo i temporali, quello più secco del legno, e camminare senza una meta, senza un orario, senza una direzione, o per seguire un rumore! Saltare, giocare nel ritmo vitale degli elementi. Proteggersi in una baita da un improvviso acquazzone, oppure ridere a braccia aperte sotto la pioggia inzuppandosi fino al midollo! Arrampicarsi su un masso di pochi metri o su una parete di 500 metri, su una staccionata, sul muro di una baita... sulle immense placche di una sponda di un fiume... oppure non arrampicare affatto». La storia alpinistica della Val di Mello è continuata. Nei primi anni Ottanta arrivarono nuovi e ben più determinati protagonisti, meno inclini allo stile goliardico di Jacopo Merizzi e Ivan Guerini, e più attratti dall’ormai mitizzata «Valle dei sassisti». E cominciarono anche a rompere il tabù dei chiodi che bucano la roccia, aprendo nuove vie più sicure e percorribili da un maggior numero di arrampicatori. Poi ci si spinse sulle pareti più alte, sulle costiere del Masino, e venne77­­­­

ro tracciati nuovi itinerari su arditissime montagne verticali, come il Picco Luigi Amedeo o il Qualido, vie così estreme che per percorrerle è necessario persino dormire appesi su amache in mezzo alla parete. Ma nonostante la fama ottenuta negli anni, in Val di Mello, a differenza di altre celebri vallate alpine dove si è diffusa l’arrampicata, si è riusciti a conservare l’atmosfera idilliaca e sognante delle origini. Anche la Val di Mello fa parte delle «Alpi segrete», con la sua storia ricca di episodi, di figure significative e di elaborazioni teoriche, ma incentrata nello specifico della cultura di montagna. La Valle è conosciuta attraverso il «passaparola» e la pubblicistica di settore. Al di fuori di questi àmbiti, nessuno sospetta l’esistenza di questo piccolo paradiso alpino. Non ci sono alberghi a più stelle, non c’è lo sci, non girano dépliant patinati che la promuovono. Ed è la sua fortuna. Nella Valle arrivano arrampicatori, famiglie ed escursioni‑ sti consapevoli della storia del luogo. Lungo il sentiero di fondovalle, tre rifugi-ristoranti sono stati ricavati dalle vecchie malghe, tra Cascina Piana e Rasiga. E più giù, al paese di San Martino, è stato aperto il Centro Polifunzionale della Montagna, che offre camere per dormire, sale da pranzo, soggiorno e biblioteca per la lettura, sala convegni per tenere viva la cultura del posto. Da qualche anno, poi, è nato Melloblocco, il più grande raduno internazionale di bouldering (da boulder, masso), cioè di arrampicata sui massi erratici che costellano i prati del fondovalle: si cercano i passaggi più belli che impongono movimenti spettacolari, non importa se alti pochi metri. Due giorni dura la manifestazione. I nuovi sassisti sono ormai migliaia in tutto il mondo. Si comincia dai sassi alti pochi metri per poi approdare alle pareti alpine e, chissà, forse anche alle pareti più alte, magari dove scalava Riccardo Cassin verso la cima del Badile.

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Le Dolomiti nascoste sopra Belluno

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M. Castello

Agordo M. Agner S. Martino

M. Talvena

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Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi

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Il Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi

Belluno

Le Dolomiti, tutti lo sanno, sono le montagne più famose e fotografate del pianeta. Con le loro ampie vallate, le smisurate distese boschive e l’orografia intricata dei massicci di dolomia, occupano un’area vasta pari, per esempio, ai due terzi circa della superficie della Corsica. E la rete di strade che le ricopre viene percorsa ogni anno da milioni di visitatori provenienti da tutto il mondo. Nel 2009, dopo anni di pressione da parte di enti sovranazionali quali la Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi (cipra) e anche, nel loro piccolo, di associazioni ambientaliste come SOS Dolomites, Mountain Wilderness e altri, le Dolomiti sono entrate ufficialmente fra i beni tutelati dall’Unesco. Ma lo status di «monumento naturale» – è importante ricordarlo – viene attribuito esclusivamente alle aree più spettacolari di questa regione, quelle rimaste preservate dal cemento. Ossia le rocce e le cime maggiori. Dolomiti patrimonio dell’umanità, ma solo per le particolari conformazioni geologiche, per i ghiaioni, per gli altipiani carsici, per le pareti verticali che trattengono la luce dei tramonti. I fondovalle sono rimasti fuori. Troppo sfruttati dal turismo, troppo danneggiati: così hanno decretato i ventuno membri della Commissione. Eppure l’occhio da marketing della nuova Fondazione Dolomiti Unesco ha prontamente utilizzato il riconoscimento per creare un nuovo marchio utile da lanciare sul mercato turistico internazionale. Ovviamente omettendo spesso di specificare che solo le alte quote sono rientrate nei criteri 81­­­­

di valutazione e non l’intera area. Anzi, di più, puntando proprio a promuovere quei settori che hanno portato ad escludere le zone abitate alle basse quote. «Essere titolari del marchio Unesco per le Dolomiti», si legge in un comunicato della Fondazione, «permetterà anche di valorizzare ulteriormente le eccellenze della zona che sono l’ospitalità, l’enogastronomia ed i servizi per il turista». Le offerte turistiche sono diventate le «eccellenze», le rocce e il patrimonio geologico sono passate in secondo piano. Ma a parte le attrattive da campagne marketing e gli scenari da cartolina che fanno il giro del mondo sviluppando la già fiorente macchina del turismo di massa, nelle Dolomiti sono rimaste alcune cime e vallate di cui quasi nessuno parla. Cime e vallate che per diversi motivi sono sopravvissute a margine del grande clamore: come residuati di un antico mondo ancora libero, silenzioso e solitario, che contrastano in maniera disorientante con il resto dell’area dolomitica. A pochi chilometri dalle Tre Cime di Lavaredo, per esempio, si trova la zona del Comelico, con il bacino pietroso dove spicca il Monte Popera, grandioso, severo, circondato da alcune guglie verticali che furono nobilitate negli anni Trenta dalle vie alpinistiche del fuoriclasse triestino Emilio Comici. Ora, nonostante la maestosità di queste pareti dove il grande alpinismo ha lasciato la sua traccia, il Popera è del tutto ignorato dal grande pubblico. Eppure, cos’ha da invidiare alle vicine Dolomiti di Sesto? Lo stesso vale per i massicci d’Oltre Piave, sconosciuti ai più. E soprattutto l’oblio è caduto, più che altrove nell’area dolomitica, sui massicci ai confini meridionali: le Dolomiti Bellunesi. Qui si trovano addirittura zone classificabili all’interno dei ristretti parametri che connotano la wilderness. Zone che – come già accennato – sono molto rare sulle Alpi, perché rappresentano il risultato ambientale di uno spopolamento totale protrattosi nel tempo: solo dopo anni e anni di abbandono le vallate più nascoste possono trasformarsi in aree 82­­­­

che gli studiosi di scienze della Terra reputeranno di «natura selvaggia» (wilderness, appunto). Nel versante cisalpino della catena, si trovano solo piccoli territori dove le tracce dell’uomo sono del tutto scomparse, o addirittura mai arrivate. Per esempio, all’interno del Parco Nazionale della Val Grande in provincia di Verbano Cusio Ossola, o in alcune vallette sperdute nell’Alto Garda bresciano, o ancora nella Valmontina in Cadore. Ma è nel Gruppo dei Monti del Sole, fra la Valle del Cordevole e la Val del Mis, che si estende l’area selvaggia più grande del Nord-est d’Italia, proprio nel cuore del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi. Non sembra possibile, ma ai confini dei Monti Pallidi, ai margini della regione alpina più sfruttata delle Alpi, si nascondono aree del tutto selvagge. Nell’estremo lembo meridionale delle Dolomiti, non solo i Monti del Sole fanno parte di quel mondo alpino nascosto che qui andiamo cercando: silenzio e solitudine racchiudono quasi tutta l’area del Parco Nazionale. La bassissima densità di popolazione (88 persone su una superficie di 31.000 ettari, quasi una volta e mezza l’isola d’Elba) è dovuta principalmente all’ostica morfologia del territorio, che rende questi luoghi di difficile accesso se non del tutto impraticabili. Questo, come ovvio (lo abbiamo visto per il comune di Elva), è il presupposto principale affinché certi luoghi vengano percepiti in una dimensione di profonda marginalità. La catena delle Alpi Feltrine si divide in tre principali grup‑ pi con i relativi sottogruppi: il Pizzocco, il Cimonega e le Vette Feltrine. Sopra Belluno spicca il Gruppo della Schiara, cima maggiore di tutta l’area, dove prevalgono caratteri prettamente dolomitici, con pareti e rocce più compatte, minor estensione di ghiaioni e sfasciumi, abbondanza di acque superficiali, guglie affilate (come l’arditissimo gendarme roccioso alto una quarantina di metri della Gusella del Vescovà). Sono massicci un po’ misteriosi perché osservati da pochi intraprendenti camminatori. Vallette umide, rigogliose, assediate da una vegetazione tenace, potente, che risale le rocce, 83­­­­

si aggrappa ai pendii più ripidi, lasciando liberi solo gli ultimi salti verticali delle pareti. Nei punti più profondi delle vallette interne, giù nel sottobosco, custodito dentro vapori biancastri di umidità, si sprigiona un intrico lussureggiante di verde, vivo, vischioso, accanito. L’umidità avvolge i tronchi degli alberi assediati dai muschi e fa risplendere i fiori, tantissimi fiori. Se a primavera avanzata si arriva alla Busa delle Vette, partendo a piedi da Croce d’Aune, si vedrà che sotto la neve appena sciolta sboccia una distesa di crochi, come un unico immenso mantello bianco e violaceo. Per tutta l’estate si poserà un mantello multicolore di fioriture che appaiono infinite, nel cerchio di un vero santuario botanico. Proprio lassù, il primo timoniere del Parco, Cesare Lasen, aveva scoperto l’esistenza di un nuovo fiore che avrebbe preso il suo nome: Alchemilla lasenii. Nel Parco si sono contate addirittura 1400 specie floreali, ovvero un quarto di quelle presenti in tutta Italia. Molte di queste specie sono particolarmente interessanti perché presenti al loro limite di areale, come il giglio della Carniola o l’Alyssum ovirense. Ai confini meridionali del Parco, ampie distese boschive si diramano sulla destra orografica della Val Belluna, che è il grande solco esteso in direzione nord-est/sud-ovest, tra Belluno e Feltre, e percorso dal Piave. All’interno del Parco niente connota il territorio come le tracce lasciate dallo spopolamento. Niente è più evidente del vuoto generato dal congedo di un’intera società. E anche qui ritorna un tema che abbiamo già osservato nelle Alpi occidentali, in provincia di Cuneo e di Torino. Oggi è l’abbandono a determinare, più di ogni altro segno materiale, lo spirito di questi luoghi. Segni di un’esistenza mancata, di un conto in passivo. La strada che percorre la Val del Mis rimane pressoché deserta. Ed è la spia più evidente di come siano cambiate le cose quassù per chi viveva quella strada come un’importante via di comunicazione locale costantemente utilizzata, 84­­­­

anche da un servizio quotidiano di corriere. Le due frazioni di Gena, ormai abbandonate, rimandano a una civiltà pastorale che ha resistito per secoli ai rigori del luogo, dove la vita, si sa, è più dura che in pianura. Ha resistito persino all’emigrazione e ai rastrellamenti della seconda guerra mondiale. Poi la costruzione di un bacino idroelettrico e l’alluvione del 1966 hanno dato il colpo di grazia convincendo gli ultimi a partire. Infine, il deserto. Ancora negli anni Cinquanta, le malghe erano monticate da circa quattromila capi tra ovini e bovini. Poi la fine. Nel 1994 le malghe attive erano solo due. Ma ora ne sono state rimesse in attività cinque: Casera dei Boschi (comune di Pedavena), Vette Grandi (Sovramonte), Erera (Cesiomaggiore), Pramper (Forno di Zoldo) e Pian dei Fioch (Belluno). Non stupisce che un tale disequilibrio tra presente e passato, una tale discontinuità con le generazioni precedenti, abbiano prodotto smarrimento, senso di perdita, provocando l’esigenza di ridefinire la realtà, di fissare una memoria in pericolo. Così su tutto, per chi ripensa a com’erano quei luoghi, riverbera il dominante, struggente, sentimento della nostalgia. Anche qui – come abbiamo visto a Elva – è nata l’urgenza di creare luoghi-simbolo del tempo andato, dove chiunque ha la rassicurante certezza che il ricordo dei nonni può essere riacceso. Su tutte le Alpi, negli ultimi vent’anni, c’è stato un proliferare senza limiti di queste case della testimonianza che un po’ impropriamente vengono definite «musei». Solo nell’area intorno alle Dolomiti Bellunesi ne sono nate una ventina. Per la verità, alcuni di questi musei, frutto dall’entusiasmo di piccoli gruppi e a volte di singoli, appaiono un po’ strampalati, ingenui, se non pretestuosi, e spesso imprigionati nei meccanismi di una retorica passatista. C’è il museo demoetno-antropologico degli attrezzi e degli oggetti del passato; il museo della pietra e degli scalpellini; il museo del ferro e del chiodo; quello incentrato sull’economia agro-silvo-pastorale in epoca storica; quello delle miniere della Val Imperina; quel85­­­­

lo della scuola che affronta il problema dell’alfabetizzazione in montagna; c’è il museo degli zattieri del Piave (che conserva la memoria dell’antico mestiere del trasporto merci su zattere verso Venezia), voluto da un estroso personaggio, Giuseppe Šebesta, che incontreremo più avanti. Quasi tutti poco più che depositi di anticaglie, con qualche didascalia e pannelli di introduzione al tema compilati nella consueta formulazione scolastica. Anche se quegli scatoloni strapieni – così come in certe soffitte con i ricordi di famiglia – hanno il merito di invitare la fantasia a volare all’indietro nel tempo. Ma, viene da chiedersi, a parte il pulviscolo di questi piccoli musei locali, quali sono allora le vere istituzioni museali delle Dolomiti e più in generale delle Alpi? Sul versante italiano dell’arco alpino non sono molte. Esistono quelle di carattere scolastico-pedagogico, come il Museo Nazionale della Montagna del Club Alpino Italiano di Torino o il Museo Archeologico dell’Alto Adige di Bolzano, e altri musei più spettacolari come quello ladino di Ciastel de Tor in Val Badia. Poi ci sono le mostre interattive, sul modello di quelle ospitate al Forte di Bard in Valle d’Aosta e nel Forte di Vinadio in provincia di Cuneo. Infine, tra i più visitati, ci sono quelli di Messner, che meriterebbero un breve discorso a parte. Sono cinque, tutti sulle Alpi orientali, e vengono contrassegnati con un azzeccatissimo logo disegnato dalla sapiente mano di un pubblicitario: le aste delle tre «M» di Messner Mountain Museum (questo il nome unificato dei cinque) diventano, sovrapponendosi in successione, altrettante cime di una catena montuosa: mmm. Pur definendosi «Museum», in realtà anche questi di Messner non sono veri e propri musei, ma collezioni private di cimeli e oggetti artistici incentrati sull’alpinismo e sulla cultura della montagna: oggetti d’arte che lo stesso Messner ha raccolto durante i suoi ripetuti viaggi in Himalaya. E già qui potrebbe sorgere una prima perplessità: esportare oggetti d’arte, anche se acquistati, rappresenta un’attività eticamente poco limpida, perché, si sa, l’arte non è 86­­­­

proprietà esclusiva di chi ne rivendica il possesso, ma è anche parte della società e dei luoghi dove l’oggetto è venuto alla luce (questa è l’elementare distinzione tra proprietà e possesso). Di questi cinque musei, quello di Juval, nel severo e magnifico castello che domina la Val Venosta – residenza estiva del grande alpinista – è uno dei più visitati. Sui cartelli che invitano a entrare per una visita guidata (15 euro!) è ritratto il suo viso che emerge come una nuvola lievissima dall’antro pauroso di un crepaccio, quasi fosse lui stesso lo «spirito delle montagne» a cui il museo è dedicato. Di spirito delle montagne si parla molto durante la visita, mentre si passa di fronte a reperti di finissima arte indiana, tra statue di Shiva e Kali, altri oggetti rari e reperti antichi dello stesso castello. Tutto è disposto con apparente casualità, come se a dominare fosse il dio del sincretismo, un po’ new age un po’ pop kitsch: ogni cosa, fianco a fianco, dall’Oriente alle Alpi, dal passato al presente, senza luogo, senza tempo. Perché – secondo quanto dicono i cartelli esplicativi e l’affascinate guida dai fluenti capelli biondi che accompagna la visita – a dominare deve essere lo spirito delle montagne nel rispetto dei popoli. Come ovvio, tutto ciò ha poco a che vedere con un’istituzione museale finalizzata a conservare e a divulgare un tema in un’elaborazione costante e senza finalità di lucro. Ma queste mostre sono allestite appositamente per attirare i turisti di passaggio, poco esigenti e ben disposti al plauso. E infatti non stupisce che siano visitatissime in tutte le stagioni, anche perché collocate all’interno di favolosi castelli, in punti strategici nel grande traffico delle Dolomiti. I musei di Messner, si sarà capito, non fanno certo parte delle nostre «Alpi segrete». Ben diverso è il Museo Etnografico della Provincia di Belluno e del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, ospitato negli splendori di una villa patrizia che affaccia sul Feltre e la Val Belluna. Insieme a quello della Gente Trentina di San Michele all’Adige in provincia di Trento, è uno dei due musei più seri e meglio gestiti delle Alpi. Qui il museo torna 87­­­­

a svolgere il suo ruolo di istituzione al servizio della società, che compie ricerche, acquisisce, conserva, comunica, elabora temi, e soprattutto espone a fini di studio, di diletto e non di lucro. E una visita riserva alcune sorprese indimenticabili e permette un passo avanti nella conoscenza della museografia alpina. Al suo interno sono conservati cimeli e reperti della cultura materiale del luogo, e beni materiali e immateriali del passato. Questo museo, direbbe un uomo di marketing, è «un vero gioiello». Eppure è sconosciuto e ignorato rispetto ai pubblicizzatissimi mmm. Per raggiungerlo, dalla vicina Feltre in Val Belluna, si imbocca una stradina in salita che porta alle pendici dei primi massicci delle Dolomiti Bellunesi. A un paio di centinaia di metri di dislivello dal fondovalle, la strada piega a destra e a mezzacosta percorre una piacevole dorsale panoramica, tra boschi e radure pascolive, tra cascine e piccole frazioni immerse nel silenzio. Si corre proprio sulla soglia del mondo dolomitico, sulle prime alture che separano montagna e campagna agricola. E netta è l’impressione di trovarsi su un confine, a un passo dai grandi boschi che sfumano negli ambienti più aspri delle vallate interne al massiccio dolomitico. Dopo dodici chilometri da Feltre si arriva a Cesiomaggiore, luminoso paese di mezza montagna dalle vie larghe e silenziose. Posto su un dosso a quasi cinquecento metri sul versante meridionale della montagna, è esposto al sole per tutta la durata del giorno: l’aria è secca, il clima ideale. E data la vicinanza al fondovalle, Cesiomaggiore non ha subito lo stesso spopolamento di altri centri più isolati: nel 1921 ci vivevano 6500 persone, oggi ne sono rimaste circa 4000. Ma bisogna sapere che il paese vanta una sua peculiarità: è stato consacrato, con grande consenso dei cittadini, alla bicicletta e ai miti del ciclismo. Molte vie sono intitolate a campioni del passato. E questo perché un abitante del luogo ha allestito, di sua spontanea iniziativa, un Museo Storico della Bicicletta (altro museo!): si tratta di 88­­­­

una mostra permanente che conserva 170 cimeli del passato. L’iniziativa è stata considerata meritoria, e il paese ha applaudito. Per avvicinarci al nostro obiettivo, si esce da Cesiomaggiore e si continua qualche chilometro costeggiando un intricato bosco di rovere, anticamente usato come approvvigionamento di legname per i cantieri dalla Repubblica di Venezia (si è calcolato che per la costruzione delle fondamenta della città di Venezia ci vollero circa dieci milioni di pali di rovere, olmo e castagno provenienti dai boschi delle Prealpi e delle Alpi più prossime alla pianura). Pochi minuti e, sulla destra, si affaccia sulla vallata con un belvedere naturale, una costruzione. È l’ottocentesca villa agricola dei conti Avogadro degli Azzoni che si erge bianca sui dolci pendii degradanti verso il fondovalle. La villa ha l’aspetto di una pacifica dimora familiare di campagna. Sobria, con qualche elemento classicheggiante, è suddivisa in due corpi distinti: quello principale, e l’altro, quello di servizio, dove oggi sono ospitati gli uffici del Museo. La dimora è circondata da uno spazio ricoperto di ghiaietta chiara che scricchiola sotto i piedi. Dentro le sue spesse mura, su cui spicca lo stemma araldico dell’antica famiglia nobiliare (cavallo e leone sorreggono uno scudo bianco e azzurro sormontato da una corona), da oltre vent’anni è ospitato il percorso espositivo ideato dall’antropologa Daniela Perco. Creatrice del Museo nonché grande vestale del mondo arcaico delle Dolomiti, la Perco ha il viso severo di una sacerdotessa; è una signora elegante, di mezza età, con i capelli biondi raccolti sulla nuca. Scruta negli occhi il suo interlocutore. Parla una lingua secca, decisa, con uno spiccato accento veneto. Ogni sua parola è talmente esatta e puntuale che immaginare sinonimi per lei risulterebbe impossibile. Da antropologa, e contemporaneamente da studiosa di museografia, il suo approccio alla conoscenza non poteva che incardinarsi sul metodo. Metodo per acquisire, metodo 89­­­­

per divulgare (ben lontano, dunque, dallo sbrigativo decisionismo che traspare negli mmm). A partire dalla fine degli anni Settanta, e per i trent’anni successivi, la Perco ha registrato con ferreo metodo classificatorio centinaia e centinaia di voci di quel mondo montanaro che stava tramontando: leggende, storie, fiabe, testimonianze personali, autobiografie e anche semplicemente suoni, rumori (rumori che oggi sono stati zittiti dalla storia). Tutto fissato dentro questionari, registrazioni, trascrizioni, classificazioni degni di un Linneo dei nostri giorni che si concentri sul patrimonio immateriale della memoria. «I miei nonni credevano che le anguane fossero fate dei laghi...». «Ai miei tempi...». «Mi ricordo che...». Così iniziavano a raccontare i montanari durante le interviste, in momenti ritagliati nella fretta del lavoro. La Perco ha registrato soprattutto voci femminili: le donne, «anello forte» della società contadina, come diceva Nuto Revelli alla fine degli anni Sessanta dopo la sua campagna di interviste con magnetofono (stesso metodo d’indagine etnografica) in cui fissò le voci di madri e nonne delle valli cuneesi. Donne che, traspare con evidenza dagli studi, hanno subito le condizioni peggiori che la miseria in montagna comportava. Tutta la caparbia metodicità della Perco si ritrova nel Museo di Cesiomaggiore, che appare oggi come un minuzioso atlante di quella cultura arcaica nell’estremo lembo meridionale delle Dolomiti. «Le Dolomiti sono considerate la culla di antichi miti. Sono il baricentro di un immaginario fantastico. Qui in Dolomiti ci troviamo in un vero paesaggio culturale pieno di segni simbolici. Basta saperli leggere. Pensi solo alle leggende dolomitiche, quante sono e che significato avevano...», sostiene la Perco. In effetti più che in ogni altra zona delle Alpi (e forse più che in qualsiasi altra porzione d’Europa), qui in Dolomiti si è sedimentata una vastissima ramificazione culturale, tutta concentrata all’interno di confini definiti, dalla Val Pusteria fin quaggiù nella Valle del Piave. Il mondo germanico, la cultura tirolese, il gotico del Nord e il barocco delle 90­­­­

influenze venete si mescolano con l’antica civiltà dei ladini. Le Dolomiti si sono rivelate un vero e proprio crocicchio di culture e, contemporaneamente, delle terre isolate: è qui che il generale si è sviluppato nel particolare. Convergenza e isolamento, come una grande isola al centro del mare. Come la Sicilia, come la Magna Grecia per il Mediterraneo. «Pio... pio... pio...», si sente, schiacciando l’apposito pulsante in una sala del Museo: è un suono di cui la Perco va particolarmente fiera. «Pio... pio... pio...», e l’immaginazione corre – in una disorientante discontinuità con gli affreschi patrizi della villa – alla donna montanara con il fazzoletto legato sotto il mento mentre si china a richiamare i polli nell’aia. «Fou... fou», modula invece un ragazzo di paese soffiando tra i due pollici uniti nel gesto del dugo per riprodurre il brontolio dell’allocco nelle serate più buie. In ogni sala del percorso viene svolto un tema nuovo; a volte, a titolo di esempio, sono esposti cimeli e oggetti della cultura materiale; altre volte si ricorre al messaggio metaforico delle istallazioni. E procedendo in una dimensione emotiva, ci si cala nella vita degli antichi alpigiani, immaginando come doveva essere quella moltitudine di strategie adattive messe in atto per resistere ai rigori della montagna. Lo spazio vitale dei luoghi alpini è il pendio, simbolo dell’effimero, a cui è dedicata una sala. Cosa significava vivere aggrappati a una terra dove tutto è instabile? Cosa comportava rimanere saldi dove ogni cosa tende a fuggire? Poi, improvvisamente, il flusso del racconto snodatosi di sala in sala pare arrestarsi. Entrati in una particolare sezione del Museo, affacciati su quelle teche, si capisce di essere arrivati al culmine del percorso. Qui è conservata la memoria di un’impensabile fase della vita di questi luoghi, una storia che chiunque ritiene, sbagliando, di conoscere almeno per sommi capi. Una vicenda rimasta dissimulata nello sviante candore che da essa riverbera. Ma è un abbaglio. Siamo di fronte a uno dei più tristi ed emblematici casi che la condizione femminile in montagna abbia mai affrontato. 91­­­­

Una madre è posta di fronte alla scelta di abbandonare il proprio piccolo di trenta giorni, privarlo della sua linfa materna e lasciarlo di fronte a un fondato rischio di morte, con lo scopo di allattare un altro infante, figlio di una signora benestante la quale non vuole occuparsene per non distrarsi dai suoi svaghi. Quale perverso equilibrio sociale può permettere di porre sullo stesso piano lo svago di una donna con il rischio di morte di un bambino? A una domanda così posta, non ci possono essere risposte. Inconcepibile mettere a repentaglio la vita di un bambino. Eppure, non più di un secolo fa non era affatto inconcepibile. E il rischio di morte per un bambino valeva un’occupazione stagionale. Sulle pareti della sala dedicata a quello che gli antropologi contemporanei chiamano il «baliatico mercenario», sono esposte gigantografie di donne dal seno enorme mentre sorreggono con mano sapiente un infante dalle palpebre assonnate, soddisfatto dopo la lauta poppata. Donne interamente vestite di bianco, che esibiscono un sorriso composto e vistosi gioielli, collane, anelli, orecchini. È il sorriso bonario e allo stesso tempo orgoglioso della ricchezza che il loro corpo sprigiona come una fontana di vita. In un angolo della stessa sala sono conservati dentro una teca alcuni breviari con ciocche di capelli trattenute da fiocchi colorati, lettere autografe, immagini di lattanti felici, passeggini, culle, cuffiette. Ricordi di un mondo finito per sempre e ora affidato, come in una scatola di conserva sottovuoto, al tempo immobile di questa parte del Museo. È grazie a Daniela Perco e alle sue sistematiche ricerche sul territorio, se in questi ultimi anni è emerso il fenomeno delle balie da latte in tutta la sua dimensione reale. Un fenomeno dai contorni poco chiari fino agli studi della Perco perché spesso tenuto nascosto sotto il velo della clandestinità. Un fenomeno triste, tristissimo, che ha avuto inspiegabilmente il centro nazionale proprio qui, nei paesi sopra Feltre, dove migliaia e migliaia di donne, dagli inizi dell’Ottocento, 92­­­­

hanno abbandonato il proprio figlio per allattare i rampolli delle famiglie altolocate in città. Una storia che è terminata solo una generazione fa, visto che l’ultima mamma che si è tolta il proprio bimbo dal seno risale al 1963. Dopo un mese dal parto, le donne lasciavano il paese, destinate ad allattare i piccoli delle famiglie più ricche, persino – dicono i documenti conservati nel Museo – di famiglie aristocratiche come i Savoia, i Borghese, i Castelbarco, i Visconti, i Torlonia, i Fürstenberg all’interno delle quali, come è noto, i genitori si preoccupavano di mantenere un dignitoso e pudico distacco dai figli. E allattare, col rischio di rovinarsi il seno, non era certo cosa da principesse, contesse, o marchese. La balia veniva tenuta all’oscuro della vita a casa, non poteva ricevere notizie per tutta la durata del baliatico, che durava in genere dai dodici ai quindici mesi. Dal suo paese niente, neanche un saluto: nessuna lettera, nessun contatto, nessuna eco del pianto filiale, per non alimentare la nostalgia e non subire traumi che avrebbero potuto provocare la perdita del latte. Il figlio di appena quattro settimane veniva affidato a qualche sorella, o al compare e alla comare di nozze (testimoni), che spesso erano anche i santioli (i padrini di battesimo) del piccolo. Tutto avveniva all’oscuro della madre naturale, anche i rischi dello svezzamento precoce erano rigorosamente minimizzati. Spesso i bambini si ammalavano di gastroenterite, e quando la madre tornava al paese scopriva che il proprio piccolo era morto. Particolarmente significativa è la testimonianza messa per iscritto da una balia di Anzaven (Cesiomaggiore), che aveva chiesto di essere intervistata dopo aver letto nella stampa locale della ricerca in atto. Mentre attendeva la Perco, aveva cercato di fissare con la scrittura i momenti più importanti delle sue esperienze emigratorie sulla scorta di un questionario ricevuto per prepararsi all’incontro. Così, nel suo linguaggio un po’ sgrammaticato, la vecchia balia racconta: «Io il mio primo posto è stato quando avevo venti anni e 93­­­­

andai a Cremona, ove mi trovai molto bene», si legge nella testimonianza raccolta alla fine degli anni Ottanta. «Pur troppo il mio bambino a casa morì e non mi le dissero solo dopo tre mesi, perché io ero in famiglia e che comandava e ci teneva schiavi tutti è sempre stato lo suocero. I signori fecero di tutto per straviarmi perché mi disse se fossero stati informato a tempo debito mi avrebbero portato a casa almeno per il funerale. Dal dolore che provai in un mese diminuii di undici chili. Allattai il baliotto per dodici mesi e ne feci ancora tre mesi e poi volevo ancora una altro figlio. Nel frattempo anche quella signora aspettava un altro figlio, ma purtroppo ho dovuto farmi tre mesi a letto per un’infesione di parto. I mii figli uno rimaneva in casa e l’altro a una donna che lo cresceva con il latte di mucca, a tre mesi quando lo lasciai pesava settemila duecento grammi. Come le ripeto non si poteva a fidare in famiglia, non ho mai saputo da che cosa è morto, non me l’hanno detto e non ho più voluto sentirne dire. Non voglio più sentirne parlare». Poi andò a Torino a servizio di un’altra famiglia dove «c’erano due figli, uno pieno di salute e la bambina mongoloide». Ebbe poi un altro figlio che, nonostante si fosse ripromessa di non abbandonare, fu costretta a lasciare a casa per un altro servizio: suo marito era stato richiamato alle armi e di soldi non ne entravano più. La nuova sistemazione era migliore delle precedenti: «Questo posto di nutrice fu a Parma, ove mi trovai bene, la bambina cresceva molto bene, nell’estate si andava a Salsomaggiore nella villa di famiglia. [...] Lì feci dieci mesi da balia da latte e prendevo 450 L. al mese che a quei tempi erano tanti. Mangiavo a tavola con loro e a sufficienza». Poi fece la balia asciutta per quattro famiglie: «Su tutte le famiglie, tutti gli effetti personali dei bimbi dovevamo noi balie a tenerli in ordine, così pure la nostra divisa. Di giorno due volte si doveva uscire e di notte quando i bambini dormivano si lavava e stirava, e libera uscita mai, ma non la pretendevamo. Gli elettrodomestici non 94­­­­

esistevano, io facevo anche le iniezioni a chi ne aveva bisogno. Con la signora di Torino andai anche a Capri, ogni tre mesi si cambiava aria per quella bimba mongoloide. Con quella di Milano, campagna e mare...». Se proviamo per un attimo a dimenticare il risvolto tragico del fenomeno (di fatto fu veramente tragico fino ai primi decenni del Novecento, quando le tecniche di allattamento artificiale erano ancora involute), le balie feltrine erano delle semplici migranti, così come lo erano i loro uomini che a migliaia partivano ogni inverno per trovare lavoro in pianura. Migravano e poi tornavano. Ma le partenze delle balie, a differenza di quelle dei loro mariti, non erano scandite da ritmi stagionali, obbligate dalle ore improduttive dell’inverno, il tempo delle gerle, bensì da intimi ritmi biologici. Ed era il loro stesso corpo, era la materia preziosa che ne scaturiva, la fonte della propria ricchezza. La fortuna stava dentro di loro. L’oro bianco era nel seno. E attraverso la mercificazione di una parte del loro corpo riuscivano a guadagnare addirittura il triplo degli uomini migranti. «Provata dal dolore per il distacco dai propri figli, sofferente per la forzata ritenzione del latte durante il viaggio, disorientata in un ambiente sconosciuto, la donna subiva un’imbarazzante visita medica», continua Daniela Perco, «a quel punto riceveva i suoi nuovi indumenti, sottoponendosi a una vera vestizione, come una specie di rito di passaggio. Doveva fare un lungo bagno per lavare ogni sorta di impurità e spogliarsi dei propri abiti grossolani». Poi le veniva affidato il bambino, lei tirava fuori il seno come un frutto miracoloso, e la nuova vita iniziava. Subito, però – si desume leggendo i resoconti delle interviste realizzate sul territorio intorno agli anni Ottanta –, la balia si trovava di fronte al primo urto con la realtà: il nuovo «figlio di latte» poppava in modo differente rispetto al figlio naturale e ciò le procurava una sensazione fisica straniante che si associava immediatamente al dolore dell’abbandono. Era la 95­­­­

bocca muta del lattante a parlarle. Ma alla nostalgia del figlio lasciato a casa c’era una contropartita. Le balie trovavano nelle sontuose dimore che le ospitavano un nuovo impulso di vita, un nuovo slancio. Si affezionavano al bambino in una sorta di compensazione psicologica per la mancanza del proprio figlio, un amore impulsivo, esagerato, istintivo. E questo slancio amoroso rischiava persino – intricato paradosso di una civiltà degli affetti che oggi ci sembra lontanissima – di incrinare il rapporto tra balia e madre del piccolo. «Ero dal conte Filippo Zanardi», ha raccontato alla Perco nel 1983 un’anziana di Caroera, reduce dall’esperienza del baliatico. «Loro vivevano di rendita, avevano una campagna e un castello che non le dico cos’era! C’erano centoquaranta stanze! Fino a mezzogiorno dormivano, dopo mezzogiorno avevano i loro capricci. Allora magari oggi stavano fermi perché erano stanchi; domani prendevano e andavano in Svizzera, stavano via otto giorni. Mi consegnavano il bambino, e basta, loro non si impicciavano più. Dopo otto giorni venivano a vederlo, se era a posto, se era cresciuto... ». La balia diveniva a tutti gli effetti madre del figlio che allattava – spiega la Perco – suscitando sentimenti contrastanti nella madre naturale che spesso ne era gelosa, ma la trattava con mille riguardi: ne sentiva l’inferiorità culturale, ma le dava piena fiducia. Tra il figlio di latte e la balia si instauravano rapporti affettivi profondi... E quando una donna protraeva la sua presenza in famiglia come balia asciutta, il legame si consolidava ulteriormente. Questo legame resisteva spesso negli anni. Alcune balie seguivano con apprensione la crescita del figlio di latte, partecipando alla sua comunione e alle sue nozze. In qualche caso venivano assunte, dopo molti anni, come balie asciutte per i suoi bambini... Tra le varie storie conservate nel Museo c’è anche quella di Maria Canova, balia da latte del piccolo Luchino Visconti di Modrone nel 1907. E poi balia asciutta per diversi anni, quasi il piccolo conte fosse diventato il figlio adottivo della donna feltrina. I due cuori, che non avrebbero potuto esser più lon96­­­­

tani per censo, per cultura, per origini, rimasero in contatto finché la vita glielo concesse. Si legge un saluto vergato su una cartolina spedita da Visconti, ormai adulto e avviato alla luminosa carriera di regista: «Alla cara balia, con amore di figlio. Luchino». Le balie, lo si vede dalle fotografie esposte nella sala, vestivano sempre di bianco ed esibivano una dignitosa fierezza che si concentrava nell’ovvio baricentro della loro stereotipata immagine femminile: il seno. Facevano di tutto per apparire eleganti, curate, floride, prosperose, belle. La ricca famiglia di città apriva loro le porte nell’intimità più preziosa ed esigeva che la nuova arrivata fosse all’altezza formale del ruolo assunto. Il rango e il decoro della famiglia, aristocratica o borghese che fosse, si esibivano anche attraverso la giovane donna giunta dai monti per il bene dell’erede. Era come un gioiello, una fonte di vita. E anche la balia ne beneficiava assimilando gradualmente modelli di comportamento, pose, atteggiamenti, espressioni della nuova famiglia, all’interno della quale condivideva una crescente intimità. Eppure, si legge in La vera signora. Guida pratica di belle maniere, un altezzoso librettino di tal E. Canino uscito nei primi anni Cinquanta: «Costituisce uno dei problemi più spinosi. Come trattare questa donna di cui danno fastidio la rozzezza, la completa indifferenza ai principi igienici, la stessa importanza che prende, la gelosia che desta e dalla cui tranquillità tuttavia dipende la floridezza del bambino? Non c’è che da pazientare su tutto, subire, e mandarla in giro con abbondanti sottane arricciate sui fianchi e vezzi di corallo». Che la balia arrivasse proprio dai monti non era un caso. Quelle più richieste non potevano che essere montanare. Il cliché fisico della balia da latte si attestava sull’immagine della donna robusta, operosa, sana. Una donna che venisse da quegli stessi paesi ridenti che da sempre producevano burro, formag97­­­­

gi, latte. Una donna che avesse sempre respirato aria buona, che avesse sempre bevuto acqua pura e che fosse stata al sole, magari sugli alpeggi con le stesse mucche alle quali veniva direttamente associata. Una donna-mucca di gran razza, dalla quale sgorgava un vero toccasana per i pallidi bambini di città. Ma perché il fenomeno si è concentrato soprattutto a Feltre e in parte a Belluno, più che in altri paesi di montagna? Sulle Alpi, di fatto, si ritrovano fenomeni analoghi – ma in proporzioni assai minori – solo nelle valli cuneesi e in pochi altri luoghi, e poi qualche caso ancora sugli Appennini e in Ciociaria (nel paese di Veroli). Le balie, però, sono per antonomasia quelle feltrine. Qui venne istituito un Ufficio del baliatico che si era premurato persino di comprare spazi sulle pagine del «Corriere della Sera» per pubblicizzare «l’abbondanza di latte ricco e corroborante, un vero toccasana per i pallidi infanti di città». Una risposta sul perché le balie arrivassero tutte da singoli paesi specifici, come fossero piccoli distretti del latte, forse, potrebbe esserci. Ma non va ricondotta a quel grado di specializzazione che, come abbiamo visto, si sviluppava in montagna per i diversi mestieri stagionali. Nel fenomeno del baliatico non c’è specializzazione. Non c’è merito, semmai c’è vergogna, senso di colpa. La Chiesa condannava il lavoro delle balie, definendolo con disprezzo «baliomania» e deplorandolo come un abuso funesto del corpo. La Chiesa puntava il dito sulle conseguenze drammatiche del baliatico, la distruzione delle famiglie naturali, il sacrificio di bambini innocenti. Ma partendo in tante dallo stesso paese, l’imbarazzo si placava, il peso dell’onta diveniva sopportabile, il peccato, forse, svaniva. Questo era il motivo per cui le partenze per il baliatico si concentravano in specifici paesi. L’Ufficio del baliatico si assumeva il compito di selezionare le ragazze. Il medico preposto si recava in visita nelle case per verificarne il decoro e la pulizia; ed era necessario, naturalmente, che ci fosse alto senso di moralità e candore a garanzia della salute della balia stessa. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Un particolare esame avveniva facendo stillare una 98­­­­

goccia di latte della candidata sull’unghia del medico, che ne controllava la vischiosità: se la goccia era densa e rimaneva compatta allora andava bene, se invece scivolava via non c’era nulla da fare: il latte era povero e la donna scartata. L’acme del fenomeno si ebbe durante il periodo fascista, quando in piena autarchia le frontiere erano state chiuse e l’emigrazione stagionale maschile – che abbiamo visto come in montagna fosse un fattore riequilibratore necessario nel rapporto popolazione/risorse – veniva fortemente penalizzata: a quel punto ricadeva sulle giovani madri il compito di supplire ai loro mariti, passando da una condizione di miseria al lusso della nobiltà cittadina in poche ore di treno. E per ragioni di igiene, tanto era diffuso il fenomeno, venne istituito anche il Registro del baliatico al quale tutte dovevano iscriversi. Ma molte disattendevano le disposizioni operando in clandestinità, anche per non subire la vergogna di una condanna che la morale cattolica infliggeva, accusandole di indifferenza, leggerezza, crudeltà nei confronti del proprio figlio. Ma erano veramente crudeli, indifferenti, leggere le balie feltrine? «Il prezzo pagato era alto e l’esperienza anche se breve lasciava tracce profonde nella vita di una donna, poiché rimetteva in discussione il suo ruolo di madre e di moglie e la sua stessa capacità di amare», spiega Daniela Perco. La storia delle balie feltrine ha segnato un solco nella storia locale, un insieme di sentimenti contrastanti. Le balie vivevano in una sfera di perenne intimità. Dare e acquisire, perdere e ritrovare, nel rischioso mondo degli affetti. Alla domanda sul perché una madre fosse disposta allo straziante abbandono del proprio figlio si potrebbe arrivare a dare risposta, con ovvia allusione, considerando le condizioni storiche e sociali all’interno delle quali il fenomeno si colloca. Ma rimarrà sempre la domanda più ingenua e radicale. Perché? 99­­­­

Come suggerisce il suo lungo e puntiglioso nome, Museo Etnografico della Provincia di Belluno e del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, il museo ideato da Daniela Perco rientra in parte nel patrimonio fondiario dell’area protetta più meridionale del territorio dolomitico. Ed era proprio dai paesi un tempo abitati, all’interno degli attuali confini del Parco, che partivano le balie per le città. Il Parco alle spalle della ottocentesca villa Avogadro degli Azzoni è una delle aree protette più interessanti della penisola, nata dopo le iniziative trentennali di Piero Rossi e gli ambientalisti storici del Bellunese. Racchiude un territorio piuttosto limitato, quattro volte più piccolo rispetto, per esempio, a quello dello Stelvio (che è di 130.000 ettari). Al suo interno insistono i territori di quindici comuni, eppure oggi ci vivono solo ottantotto persone. Il Parco delle Dolomiti Bellunesi, insieme a quelli del Gran Paradiso, della Val Grande e dello Stelvio, è uno dei quattro parchi nazionali delle Alpi italiane. La loro «ragione sociale» li indica tutti, appunto, come parchi nazionali, tutti inquadrati con gli stessi criteri legislativi, ma la loro gestione esprime sostanziali differenze, soprattutto nell’interpretazione e nel grado di protezione ambientale espresso al loro interno. Gran Paradiso e Stelvio sono le due grandi e storiche aree protette delle Alpi, nate sotto il governo fascista (il «Granpa» nel 1922, lo Stelvio nel 1935) secondo una concezione del valore ambientale molto diversa da quella attuale. Criteri, principi e metodi di protezione della natura che nel corso degli anni sarebbero maturati attraverso nuove elaborazioni culturali e scientifiche. E anche filosofiche sul tema cruciale di come porsi di fronte alla natura. Che cosa significa proteggere la natura? L’uomo come si deve rapportare con il mondo animale? In che modo le istanze dell’uomo e quelle dell’ambiente – spesso contrapposte – si possono equilibrare? All’epoca della fondazione dei primi parchi nazionali italiani, la cultura ambientale dominante aveva assorbito a pieno il neoidealismo di Gentile (origine, come abbiamo già 100­­­­

accennato, di un consolidato punto di vista degli italiani nei confronti del mondo naturale): la natura non ha valore in sé, nessun significato immanente risiede negli animali e nelle montagne. Il valore è tutto estetico, tutto astratto, e sgorga dalla sensibilità dell’uomo quando riesce a coglierne la bellezza. Una visione antropocentrica, tutta imperniata sull’appagamento spirituale dell’uomo. Il Parco del Gran Paradiso era visto come una sorta di «cattedrale della bellezza alpina», di ideale del «pittoresco montano», una estetica oleografica e incantata dello scenario naturale. La legge fascista del 1939 sulla conservazione ambientale era stata promulgata al fine di proteggere quelle località «che si distinguono per la loro non comune bellezza» e che «compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico tradizionale». Il mondo naturale visto dunque come un quadro da ammirare, come pura apparenza, facendo scivolare in secondo piano, o addirittura dimenticando, la sostanza rappresentata dalla natura, con le sue leggi, i suoi equilibri biologici e i suoi cicli da studiare e capire a beneficio della collettività. Il Parco dello Stelvio nasce con le stesse finalità, ma tra le ragioni fondative c’è un punto in più. A metà del Ventennio, un gruppo di alpini ex combattenti e soci del Club Alpino Italiano riesce a sensibilizzare il governo sull’ipotesi di istituire un parco nel cuore delle Alpi: il motivo della nascita del nuovo parco è certamente preservare le bellezze naturalistiche e particolari dell’Ortles-Cevedale, ma allo scopo di incentivare il turismo e di mantenere alta la memoria del glorioso fronte alpino del ’15-18. Istituire, recintare per richiamare turisti: sono i prodromi del moderno marketing. E le tracce dell’uomo vengono considerate parte integrante dello scenario naturale: da difendere, quanto animali, acque e boschi. Nel 1871 viene costituita a Torino, per diretto interessa‑ mento di Giuseppe Garibaldi, la Società Zoofila Piemontese, dalla quale nel 1938 deriverà l’Ente Nazionale per la Protezione degli Animali. A Roma, verso la fine dell’Ottocento, nasce l’Associazione Nazionale Pro Montibus e Sylvis (la 101­­­­

quale contribuisce all’istituzione, nel ’23, del Parco Nazionale dell’Abruzzo). E da lì in poi si alterneranno sulla scena altre associazioni, altre personalità che riusciranno a elaborare un nuovo rapporto culturale tra uomo e ambiente. Tra queste personalità, Renzo Videsott, celebre direttore del Parco del Gran Paradiso nel dopoguerra, che vince la sua battaglia in difesa dello stambecco nel Parco e accende la scintilla del Movimento Italiano per la Protezione della Natura riconosciuto dall’Unesco (dal quale nascerà Pro Natura), poi Antonio Cederna che fonda Italia Nostra, Alessandro Ghigi già presidente della Pro Montibus. Sono loro i padri dell’ambientalismo italiano grazie ai quali si arriverà, con il contributo di tante altre associazioni, all’elaborazione della legge quadro del 1991. La vera svolta. Da allora sono nate decine di nuovi parchi: i parchi nazionali, quelli naturali regionali, le riserve naturali, secondo la nuova classificazione delle aree protette di rilievo introdotta dalla legge. E tra questi, anche i due nuovi parchi nazionali delle Alpi, quello della Val Grande e, appunto, quello delle Dolomiti Bellunesi. Ma nel Parco dello Stelvio tra Lombardia, Alto Adige e Trentino si è affermato fin dall’inizio il concetto di «natura socializzata», di coabitazione tra uomo e natura. Al suo interno, infatti, vivono e lavorano da generazioni (e da molto prima dell’istituzione del Parco) intere comunità, circa 25.000 persone. E se il territorio dello Stelvio occupa ventiquattro comuni e sale dalla Val Venosta e dalle serre in cui crescono lamponi e fragole (anche se oggi nuovi confini ne riducono l’estensione verso valle), fino all’alta montagna dove ci sono laghi artificiali, impianti idroelettrici e interi comprensori sciistici (e persino gli impianti per lo sci estivo su ghiacciaio), nel Parco delle Dolomiti Bellunesi non c’è niente, solo qualche malga, qualche sentiero, qualche muretto a secco e qualche casa abbandonata a causa dello spopolamento. Però, va detta tutta, l’assenza di residenti al suo interno non è casuale: i confini del Parco, quando venne fondato all’inizio degli anni 102­­­­

Novanta, furono tracciati allo scopo di tenere il più possibile fuori dall’area protetta gli insediamenti abitati. Ciò sia per motivi meramente politici (non imporre nuove limitazioni ai residenti ed evitare così scontri e malumori), sia nell’intento di costituire un ambiente il più possibile garantito, isolato e solitario, senza scendere a compromessi tra le due necessità contrastanti: quelle dei residenti e quelle della protezione ambientale. Nel Parco delle Dolomiti Bellunesi si entra, come abbiamo detto, in uno degli ambienti più remoti delle Alpi. Si cammina per ore e ore senza incontrare la presenza dell’uomo. Se si segue il corso del torrente Mis, per esempio, si arriva al Passo Cereda passando attraverso una successione di microambienti inaspettati come i Cadini del Brenton che sono delle gigantesche marmitte di evorsione, la cascata della Soffia, la Val Falcina. I pochi sentieri rimasti dopo l’abbandono sono mantenuti puliti dal Parco. Molti però sono andati perduti. E ci sono alcune vie, spesso da cercare tra le rocce, che risalgono pareti quasi verticali. Vie ostiche e vertiginose, i cosiddetti viàz, che portano in ambienti duri e aspri. I viàz, un tempo terreno esclusivo di ungulati e cacciatori, superano difficili passaggi fra pietraie, cenge e ripidi versanti punteggiati dai mughi; attraversano archi morenici, stratificazioni di roccia, ghiaioni, macereti di frana, coni detritici. Percorrere un viàz, posto che si sia in grado di trovarne la traccia, è l’occasione di indagare una ricchezza di forme rocciose che pare non avere eguali altrove. D’inverno queste vie diventano un vero terreno d’avventura, tra escursionismo estremo e alpinismo. Ma a parte le avventure lungo i viàz, c’è un’altra attività più contemplativa in grado di rivelare alcune sorprese interessanti, e di far cogliere – come predicavano i romantici cantori della wilderness – un particolare spirito di concordia con la natura. Quando la neve lascia il Parco e le tracce nel sottobosco ritornano visibili, se si cerca attentamente è possibile imbat‑ 103­­­­

tersi nell’esile indizio di qualche antico sentiero. Quel gracile segno, ora semicoperto dalla vegetazione, può indicare una vecchia mulattiera, un tempo magari frequentata abitualmente anche da bestie da soma. Seguendo queste esili tracce abbandonate da anni è facile perdersi nel bosco in un intrico di alberi e dirupi, dai quali tornare indietro non è cosa banale. Ecco, procedendo su quel terreno, si entrerà in luoghi abbandonati, divenuti «natura selvaggia». E sarà proprio nell’idea di perdere l’orientamento, nella sensazione di smarrirsi che si coglierà l’estetica romantica della wilderness. Esserci senza esserci. «Ero parte di essa ed essa di me, e nella gloria trascendente della Natura mi dimenticai completamente di me come uomo», scriveva il barbuto John Muir, uno dei maggiori fautori del mito della natura selvaggia nella seconda metà dell’Ottocento. Grazie ai racconti delle sue camminate nei boschi della Yosemite Valley in California, John Muir era diventato una personalità sempre più ascoltata nella giovane nazione americana, un vero e proprio maître à penser del suo tempo. Al culmine di energiche campagne di sensibilizzazione era persino riuscito a portare l’attenzione del presidente Theodore Roosevelt sulle minacce che attentavano alla natura della sua amata Yosemite. Fu grazie a Muir che venne istituita una delle aree protette più importanti degli Stati Uniti: il Yosemite National Park. C’è un parallelo che si può proporre tra due figure di spicco nel dibattito sugli equilibri tra uomo e natura – da una parte all’altra dell’oceano e attraverso l’Otto e il Novecento. Si tratta dell’ingegnere statunitense John Muir e del medico udinese Giovanni Angelini. Due personalità emblematiche della cultura delle montagne. Anche se ciascuno in àmbiti e in momenti storici diversi, entrambi misero in luce i pericoli che incombevano sulle rispettive montagne d’elezione. Nella seconda metà dell’Ottocento, Muir, come detto, pose le basi per una nuova sensibilità nei confronti della natura, in particolare nei confronti delle montagne dell’estremo Ovest americano. Oggi, a lui è stato intitolato il lungo trekking, il John Muir Trail, che in trecentoquaranta chilo104­­­­

metri attraversa tutte le montagne della Sierra Nevada, della Yosemite Valley fino alla cima del Mount Whitney. Circa un secolo dopo Muir, Angelini individuò negli angoli più selvaggi delle Dolomiti Bellunesi il proprio terreno di ricerca, e anche a lui è stato dedicato un itinerario a piedi di più giorni: su queste montagne esiste oggi un impegnativo trekking, il Sentiero Angelini, che attraversa tutto il massiccio, dal rifugio Coldai fino al bivacco Grisetti, lungo zone pochissimo battute, dove regna un totale isolamento. Il Sentiero Angelini è terreno esclusivo di escursionisti esperti che lo percorrono anche perché attratti dalla cultura della montagna, e ai quali è nota l’opera di divulgazione e di recupero di antichi sentieri condotta da Angelini nel corso degli anni. Alla fine del proprio secolo, John Muir fondò il Sierra Club, che a differenza dei club alpini europei nati alcuni decenni prima (l’Alpine Club nel 1857, il Club Alpino Italiano nel 1863) ebbe un orientamento più ambientalista che sportivo. A Giovanni Angelini è dedicata invece l’omonima Fondazione, nata a un anno dalla sua morte, proprio negli stessi mesi in cui prendeva il via l’opera dell’Ente Parco delle Dolomiti Bellunesi (1991). Giovanni Angelini era nato a Udine nel 1905 da madre originaria della Val di Zoldo, e dal 1958 si era trasferito a Belluno dove svolgeva la professione di medico. Le fotografie che lo ritraggono in età giovanile ci consegnano un viso sottile e lungo, con un grosso neo sulla guancia destra; la fronte alta e spesso corrucciata gli conferisce un’espressione seria, concentrata, da uomo compreso nel proprio ruolo di studioso. Angelini era conosciuto come un camminatore instancabile e uno scrupoloso osservatore del territorio dolomitico. Aveva un fisico minuto e rispondeva con agilità e sicurezza ai terreni più impervi. Lo immagino di poche parole, con il taccuino sempre pronto, mentre percorre antiche tracce di sentiero. Anche lui, come avrebbe fatto la Perco qualche decennio più tardi (ma con metodi differenti), si dedicava allo studio delle antiche civiltà montanare e ne divulgava le testimonian105­­­­

ze, i miti, le credenze. Interpretava la geografia come una vera e propria materia «aperta». Materia che ingloba discipline apparentemente distanti tra loro: la geologia, la botanica, la cartografia, l’antropologia, la storia del paesaggio, l’arte locale. Tutto riunito in un unico edificio, proprio come la nobile materia di Strabone era alle sue origini. Si sa, nel suo significato originale la geografia comprendeva le fondamentali scienze della Terra, materie oggi dotate di nobilissima indipendenza, ma che spesso lo studioso dilettante (come di fatto era il medico Angelini) tende a racchiudere ancora in una sintesi onnicomprensiva. Uno dei risultati più significativi di Angelini fu aver aperto la questione sulla tutela degli antichi sentieri (tema poi recepito dall’Ente Parco, che ha recuperato alcune antiche vie nei boschi). A Belluno c’è ancora chi si ricorda di Angelini armato di piccone e cesoie mentre partiva alla ricerca di antiche tracce disperse nei boschi con l’intenzione di riportarle alla luce. I sentieri, gli antichi lastricati, i viottoli un tempo difesi da muretti a secco e ora ripresi dalla montagna costituivano – secondo Angelini – testimonianze materiali significative della cultura arcaica, perché in grado di svelare comportamenti e abitudini andate perdute. Un po’ archeologo, un po’ restauratore e un po’ geometra, Angelini proseguiva lento nella sua missione riportando alla luce tracce del lungo Medioevo montanaro, selvatico e pastorale, quando ogni spostamento nelle valli avveniva a piedi. Più in alto, quegli stessi sentieri oltrepassavano la soglia verso l’alta montagna, e usciti dal fitto dei boschi andavano a morire nel mondo dei grandi ammassi rocciosi e dei circhi scavati da antichi ghiacciai, in una natura sterile, inospitale, inutile, segnata dalla discontinuità col mondo rurale della media montagna. «Ogni sentiero ha la sua storia e, per così dire, la sua ragion d’esistere che può rimontare indietro nei tempi, fin dai primi insediamenti nelle valli», scriveva sedotto dal significato culturale che ogni sentiero esprime. E ancora: «Non molti che vanno sui monti 106­­­­

pongono mente alla vita dei sentieri, che pur vivono della vita degli uomini. Quanti si chiedono come un sentiero nasce e progredisce, si conferma e si consolida, ha deviazioni o varianti o interruzioni, ovvero decade, si deteriora, si smarrisce e si cancella, infine scompare?». A chi capiti di trovarsi a Belluno, consiglio di buttare un occhio dentro l’antico palazzo del Monte di Pietà nella piazza del Mercato, riconoscibile per i numerosi stemmi e rilievi che ne abbelliscono la facciata, fra i quali il severo Leone della Serenissima. Saliti gli ampi scaloni si accede alla sede della Fondazione Giovanni Angelini Centro Studi sulla Montagna, aperta al pubblico. Con un po’ di fortuna si potrà incontrare, sotto le volte con gli affreschi del Quattrocento che ornano la sala di lettura, l’animatrice della Fondazione, Ester Cason Angelini, nuora dello studioso. Ester è una signora dal sorriso aperto e dai modi eleganti, e il suo sguardo gentile e lievemente interrogativo sarà il viatico per una piacevole conversazione sulla cultura alpina locale. La Fondazione Angelini è la porta d’accesso più indicata al mondo segreto delle Dolomiti Bellunesi: una vasta biblioteca tematica, poi guide, cartine, documenti autografi; un sorprendente archivio di carte geografiche del XVIII secolo, poi collezioni di stampe e panoramiche a colori dell’Ottocento. Ci sono anche alcuni preziosissimi cimeli, che farebbero gola alle collezioni di oggetti appartenuti ai grandi alpinisti del passato esposte negli mmm. La signora Ester potrà mostrare l’altimetro, i diari e un fischietto appartenuti al grande scalatore ebreo viennese Paul Preuss, morto in montagna a 27 anni, accanito sostenitore dell’etica di un ferreo clean climbing ante litteram (condannava l’uso dei chiodi e persino della corda: «La misura delle difficoltà che un alpinista può con sicurezza superare in discesa senza l’uso della corda e con animo tranquillo, deve rappresentare il limite massimo delle difficoltà che egli può superare in salita», così diceva, anche se precipitò dallo spigolo nord del Mandlkogel, nel 1913). La signora Ester 107­­­­

aiuta chiunque dimostri interesse per la montagna. E consiglia la lettura dei libri del «Professor», come è chiamato qui Angelini, dove si possono trovare auliche descrizioni di quei luoghi che attendono di essere visitati. «Chi conosce questo andare per monti nell’autunno che avanza, quando anche di pieno giorno le foglioline sono orlate di brina e i rivoli incrostati di aghi e ricami di ghiaccio, quando nel bosco risuonano pochi richiami di uccelli che sono ‘di passo’ o ancora attardano, come noi, per amor di montagna fino al limite delle nevi [...], quando le tinte verdi smorte, gialle e rossastre non hanno più ritegno o nell’ultima esplosione di gioia più diffusa e malinconica: chi conosce allora la montagna non la dimentica e porta con sé molte ricchezze». Tra Angelini e Muir ci sono, indubbiamente, diversi punti di contatto. Ma anche differenze significative. Angelini contribuì al dibattito ambientalista da una prospettiva tutta europea: studiò e difese la montagna e la memoria dei suoi abitanti, amò la cultura alpina attraverso una consapevolezza scientifica, storica, etnografica. Muir preferiva invece la natura incontaminata, un quadro da ammirare dove sentirsi perduto. Vedeva i parchi come luoghi di natura selvaggia allo stato puro, addirittura senza animali domestici, senza alcuna presenza dell’uomo, senza sentieri, senza tracce. Puntava il dito sulle greggi di pecore, sulla pastorizia: la considerava un pericolo in grado di alterare il quadro di una natura intatta. Il suo era il primato della montagna sull’uomo, l’irrisolta contrapposizione tra cultura e natura. «La montagna parla, l’uomo saggio ascolta», scriveva. «Nessun tempio fatto dalle mani umane può competere con Yosemite». Altra consapevolezza poneva l’udinese Angelini, figlio di madre originaria della Val di Zoldo, che anzi vedeva cultura e natura fuse nell’equilibrio fondativo del mondo alpino. L’attuale direttore del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi si chiama Nino Martino. Non tanto alto, il viso paffuto, gli occhi castani e la fronte spaziosa, sulla quale avanza ineso108­­­­

rabile la calvizie. Tutto in lui, le pose, gli sguardi, la mimica, riflette lo stereotipo dell’uomo meridionale. Parla con uno strettissimo accento pugliese. Abita a Feltre ormai da diversi anni, ha sposato anche una ragazza del luogo, eppure non ha perso niente di quel mondo che si è portato da casa. E non dev’essere facile per lui operare come direttore del Parco, un parco dello Stato, che impone vincoli e restrizioni agli abitanti del luogo. Nino Martino non è un tecnico, non è biologo, né zoologo, né geologo: è un uomo politico, un amministratore. Si circonda di persone all’altezza del ruolo e tira le fila, anche nelle riunioni in cui si parla in stretto dialetto veneto. Conosco Nino Martino da anni, mi ha portato a visitare il Parco in diverse occasioni. «L’aquila ha raggiunto la decina di coppie nidificanti!», dice entusiasta. «Anche la lince arriva periodicamente nel parco dal vicino massiccio del Lagorai». Martino spiega che, fin dalla sua nascita, l’Ente Parco ha insistito sulle attività di ricerca scientifica. L’approccio scientifico e conoscitivo ha guidato le principali scelte di gestione dell’area. Perché, secondo lui, un parco moderno – a differenza di come veniva interpretato il protezionismo durante il Ventennio – deve diventare soprattutto un luogo di ricerca e uno strumento didattico pedagogico a servizio della collettività. In vent’anni il Parco ha varato circa duecento progetti di studio. Il territorio è stato analizzato, valutato, censito dal punto di vista geologico, faunistico, botanico. E, tra le altre realizzazioni, è stata reintrodotta la marmotta, estinta ormai da tempo immemore. La reintroduzione della marmotta era finalizzata a indurre il ritorno dell’aquila e nel contempo a preservare dagli attacchi dei rapaci specie pregiate come il gallo forcello. La marmotta, alimento base dell’aquila, si è così insediata e ha proliferato, e con lei i grandi rapaci e di riflesso anche i galli di montagna. L’operazione è stata un successo a catena. «Non è facile, non è facile amministrare un parco nazionale», dice Martino scuotendo la testa. Non è facile scegliere che tipo di governo dare a una terra che da un certo punto 109­­­­

di vista troverebbe un suo equilibrio nell’abbandono e nella solitudine, piuttosto che sotto le cure dell’uomo. Cosa fare? Intervenire per sviluppare il potenziale naturale o astenersi lasciando fare tutto alla natura? E se intervenire, quanto, in che modo, in quale misura? I fautori della wilderness – proprio come i sacerdoti di questa dottrina John Muir e Henry David Thoreau – si muovono su un piano ideale, assolutistico, che esclude ogni forma di intervento umano, optano cioè per un abbandono integrale dello spazio naturale: il territorio protetto deve essere un’area del tutto brada e lasciata a se stessa. La mano dell’uomo non è contemplata, neppure per aiutare la natura. E men che meno per introdurre altri animali (come nel caso della marmotta nel Parco delle Dolomiti Bellunesi). La natura si autogoverna. È Madre natura, dunque Dea che governa i ritmi della vita e della morte, del fuoco e dell’inondazione. Tutto si trasforma, si fonde in un ambiente impenetrabile dove vita e morte si attorcigliano, si aggrovigliano intimamente fino a divenire un tutt’uno. Quale grado di intervento è legittimo? In Italia un modello alternativo è rappresentato dal Parco Nazionale delle Cinque Terre, in Liguria, un ambiente del tut‑ to modificato dall’uomo nel corso dei secoli, con disboscamenti, ardite colture su pendii ripidissimi e magnifici terrazzamenti a picco sul mare. Modificato dall’uomo e proprio per questo prezioso. Alle Cinque Terre le categorie della conservazione o della protezione perdevano di senso, o ne prendevano un altro, perché nel parco ligure tutto è cultura, tutto è storia. E forse anche i più integralisti sostenitori della wilderness americani preferirebbero – almeno spero – visitare la natura antropizzata delle Cinque Terre piuttosto che, tra malerbe e rovi, un impenetrabile bosco selvaggio (in fondo il mondo selvaggio può essere anche noioso e uguale a se stesso, con buona pace di Muir e Thoreau). Nel luglio del 2008 proprio l’Ente Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi ha lanciato, durante un importante conve110­­­­

gno sul tema del protezionismo ambientale, la cosiddetta Carta di Feltre. La Carta di Feltre è rimasta nella memoria come un manifesto di diritti e doveri dei parchi italiani, aperto a tutti, associazioni, enti di gestione, semplici cittadini che con la loro adesione s’impegnano a sostenere il movimento culturale in favore del rafforzamento della rete dei parchi. Una sorta di lineaguida su cui basare il lavoro nelle aree protette: come collegarsi con il mondo dell’università e della ricerca, come migliorare il rapporto tradizionalmente difficile tra montanaro e parco. Ma a parte le reintroduzioni e gli ingressi artificiali, Nino Martino era sicuro che sarebbero arrivati spontaneamente anche altri animali, visto che quest’area così appartata, quasi un’oasi nella confusione delle Dolomiti, può funzionare da richiamo. Tra questi possibili ritorni spontanei si poteva addirittura sperare nell’orso, di cui gli studiosi del Parco avevano probabilmente già rinvenuto traccia. Il giorno in cui si fosse avvistato un orso nel Parco, il percorso professionale di Nino Martino avrebbe potuto arricchirsi di un grande successo. E lui ci sperava. Un giorno del 2009 ricevetti una telefonata da Nino Martino. Era raggiante. Aveva una notizia importantissima, una notizia che di lì a poco avrebbe avuto eco nazionale. L’orso di cui sospettava la presenza nel Parco era stato finalmente avvistato. E i suoi guardaparco gli avevano scattato una fotografia. Era la prova. E me l’aveva appena inviata. «Io lo chiamerei Dino», mi disse il direttore, «in onore di Buzzati». Lo scrittore bellunese, mi spiegò Martino, era un vero amante degli orsi, aveva dato alle stampe il celebre racconto illustrato L’invasione degli orsi in Sicilia, e aveva scritto da qualche parte: «L’orso è anche avventura, leggenda, storia, continuazione di una vita antichissima, cessata la quale ci sentiremo tutti un poco più poveri e tristi». E l’orso, adesso, era tornato. 111

Le oasi e le isole della Valle dei Mòcheni

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L. d. Piazze

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La Valle dei Mòcheni

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Se si vuole approdare su una delle «isole» più nascoste e marginali delle Alpi italiane, per vedere il massimo esempio di «Alpi segrete», ci si immette, da Trento, sulla strada statale «della Valsugana». Arrivati a Pergine, si svolta a sinistra per entrare nella valle che porta alle estreme propaggini occidentali del massiccio del Lagorai. La strada sale per circa quindici chilometri, e arriva ai 1350 metri dell’abitato di Palù del Fèrsina. Da qui, avendo tempo ed energie, ci si può spingere a piedi fino al Passo Rolle, in Dolomiti, lungo un trekking che in circa una settimana attraversa zone disabitate dove è molto facile perdersi e dove c’è la possibilità (non sempre gradita) di non incontrare nessuno per giorni interi. La catena del Lagorai è costituita da una roccia particolare, durissima, compatta, di colore violaceo che può dar vita, in condizioni di luce favorevoli, a uno speciale scintillio argentato. La roccia in questione è il vulcanico porfido, proprio quello usato sotto forma di cubetti per pavimentare le città. I geologi la chiamano «roccia metamorfica di origine eruttiva», o più tecnicamente «scisti costituiti da lave andesitiche, dacitiche, e riolitiche». Sono lave molto dense che al momento dell’eruzione, proprio per via della bassa fluidità, non si allontanarono dalla bocca vulcanica ma si addensarono tutt’intorno con spasmi eruttivi che diedero vita a vasti gradoni, che andarono a loro volta a formare le pendici della montagna. Tutto ciò avveniva 270 milioni di anni fa, e oggi l’occhio capace può leggere gli esiti inequivocabili di quell’orogenesi catastrofica. 115­­­­

Ampie vallate salgono a balzi posti in successione, che si alternano ad ampi pascoli orizzontali dove in genere si accentra la macchia blu scura di uno o più laghetti. Salendo progressivamente questi gradoni, passando cioè da altopiano ad altopiano, si arriva alla linea sommitale da cui emergono, come fossero espulse dal sottosuolo, piramidi rocciose di forma tozza con pareti solcate da diedri e fessure verticali. Nelle giornate di sole la luce su pianori tanto aperti si fa violenta, con il riverbero dei laghi e il viola della pietra che si alterna alle gradazioni verdi del mondo vegetale. Palù, dicevo, si trova sull’estremità occidentale di questa catena, in cima a un’ampia valle che alterna foreste a radure dissodate nei secoli dalle antiche popolazioni stanziali. Il suo nome più corretto dal punto di vista geografico è «Valle del Fèrsina», dal torrente che la percorre e che va a gettarsi nell’Adige. Ma è molto più nota come «Valle dei Mòcheni», la valle, cioè, di una comunità linguistica germanofona – i mòcheni, chiamati anche bersntolar – di origine medievale. Intorno al Trecento alcune avventurose famiglie di coloni provenienti dalla Germania si insediarono in questa parte di Alpi e rimasero isolate per secoli. Fu così possibile mantenere quasi inalterate lingua e cultura delle origini, formando una sorta di piccola patria autonoma. Aggirandosi da queste parti e osservando attentamente il paesaggio, si potrà constatare che molte cose quassù contrastano con le vallate vicine. Siamo in una valle di cultura germanica, e non più neolatina, come il resto del Trentino. Basterà esaminare alcune tracce salienti sul territorio e si capirà facilmente come quelle radure, quegli ampi pascoli circondati dai boschi e dai recinti di legno, quei pascoli grassi con al centro massicce case coloniche siano il frutto di una tradizione tutta particolare, che ben poco ha a che fare con le valli circostanti. Tanto per cominciare, nonostante ci si trovi in provincia di Trento, qui non si ha traccia del classico insediamento rurale di tipo neolatino o italico, con al centro il campanile 116­­­­

e le case addossate una all’altra a formare il paese (come, per esempio, abbiamo incontrato nella cuneese Elva). Qui domina l’insediamento diffuso di cultura germanica, il cui principale elemento caratterizzante è il maso, l’abitazione rurale isolata nei campi. Un paesaggio che non appare, neppure a prima vista, come il frutto di un’organizzazione basata su forme di collettivismo, bensì su un regime di indipendenza familiare. Lo dicono quei masi isolati simili a navi solitarie sulla rotta della prateria (praterie chiamate «il campo di casa», o Heimgrund), lo dicono le vaste distese boschive. Niente a che vedere con la cultura paesana, agricola, benevola e accogliente, quella dei cori di montagna e del vino all’osteria. La Valle dei Mòcheni è un luogo del tutto particolare. Anzi unico nell’italico Trentino. La Valle è suddivisa in tre comuni, Fierozzo, Frassilongo e Palù. In tutto si contano circa 1000 persone che abitano sulle sponde del fiume Fèrsina: ma solo il 60 per cento del totale, o forse meno, parla ancora la lingua mòchena. Sono i discendenti degli antichi pionieri. Poche centinaia di persone che testimoniano una comune e particolare provenienza. Molti di loro si sono ormai adattati al duro regime dei pendolari e tutti i giorni fanno avanti e indietro dalla Valsugana o anche da Trento, che dista una ventina di chilometri. Lavorano in uffici, nei cantieri, in fabbrica. A parte il peculiare dialetto, niente dei mòcheni di oggi – contrariamente a quanto sostiene un certo ideologismo localista – ci ricorda la loro arcaica provenienza, niente potrà mai definire un «tipo mòcheno». Ma quando la sera tornano a casa dal lavoro, ad attenderli c’è l’antica Heimat delle montagne, che, quella sì, porta nel grembo i segni evidenti di un originale passato. Eppure, fino a tre quarti di secolo fa «vestivano gonne di lana bruna con galloni rossi, blu o gialli alti un palmo e i fazzoletti che portavano in capo o incrociati sul seno erano di cotone stampato a disegni moderni, ma qualcosa nei colori e negli accostamenti riportava indietro nei secoli, ai lonta117­­­­

ni progenitori». Così scriveva dei mòcheni Robert Musil nel racconto Grigia (1924), ambientato nella Valle del Fèrsina. Nel paesaggio culturale della tradizione mòchena, al centro dei prati, dicevo, sorge il maso, perfetta macchina da guerra per fronteggiare le insidie della vita dell’alta quota, per far fronte all’inverno, alla scarsità delle risorse da conservare in luoghi sicuri nelle stagioni vegetative ridotte. Il maso è un’abitazione monofamiliare e polifunzionale. Al suo interno si trova, in un equilibrio perfezionato attraverso mille astuzie e strategie, l’intero apparato necessario alla vita: la dimora della famiglia, il fienile, la stalla, la zona della conservazione degli alimenti, la zona della trasformazione alimentare (come la tostatura, la trebbiatura), i depositi vari e, sul lato meridionale, lo spazio di terra dissodata per l’orto. Ogni parte della struttura di sassi e pietra con il tetto in scandole di legno è amalgamata in un insieme equilibrato dal sapiente utilizzo delle risorse e delle materie prime. Tutt’intorno al maso si estendono le ampie radure per i pascoli con pochi o addirittura senza alcun terrazzamento agricolo. Qui, sull’agricoltura, prevaleva l’allevamento: dunque gli antichi mòcheni prediligevano un’alimentazione basata sul latte e i suoi derivati. Si è calcolato che a parità di estensione del territorio, lo sfruttamento agricolo, anche in quota, sia in grado di dare apporti nutritivi maggiori rispetto all’allevamento (soprattutto dopo la diffusione della patata a partire dal primo Ottocento). Ma, si sa, l’agricoltura richiede più forza lavoro: dunque le popolazioni alpine che basavano il loro regime alimentare sui frutti della terra dovevano essere ben più numerose (addirittura, rivelano alcune ricerche condotte dal geografo Werner Bätzing, di tre o quattro volte superiori rispetto a quelle di cultura germanica che dimoravano su superfici più vaste). Qui, nella «germanica» Valle dei Mòcheni, si vedono infatti ampie estensioni solitarie con poche case disseminate qua e là sui pendii rivolti al sole. E l’«italica» Elva, con la sua costellazione di ventotto borgate poste su un anfiteatro terrazzato e con le sue chiese affrescate dai grandi artisti rina118­­­­

scimentali ingaggiati dai signorotti locali, vista da qui ci pare lontanissima. La vicenda storica dei mòcheni passa attraverso fasi di alterne fortune e sfortune, e si fa via via più curiosa. Quando intorno alla fine del Duecento sparute famiglie di coloni passarono dalla Valle del Fèrsina, si convinsero di aver raggiunto un piccolo paradiso terrestre, remoto e felice, soprattutto perché lo conobbero nel tepore del periodo chiamato optimum climaticum medievale, quando le nevi cadevano solo alle alte quote e il sole permetteva alle loro mandrie di pascolare a lungo (anche se oggi è in atto un revisionismo nella storia del clima che ridimensiona l’entità del fenomeno). In più potevano godere di una certa libertà amministrativa e di privilegi fiscali concessi dal potere dominante dell’epoca: vivendo in zone periferiche, zone che necessitavano di un continuo lavoro di dissodamento e deforestazione per permettere l’allevamento, i mòcheni venivano considerati come coraggiosi pionieri che occupavano un piccolo lembo di terra senza valore. A chi poteva interessare taglieggiarli con tributi che non avrebbero mai potuto regolare? Vennero scoperte anche delle miniere metallifere (una nuova tendenza storiografica afferma che non furono le miniere a richiamare i mòcheni, come si credeva fino a qualche anno fa), che richiamarono gente da fuori, ma che si esaurirono intorno al Settecento. Ma il vento della fortuna più tardi girò altrove. Ben diversa fu la sorte dei mòcheni nel secolo dei nazionalismi: quelle genti di montagna non appartenevano ad alcuna nazione, non potevano dirsi italiani e neppure tedeschi, visto che il loro dialetto assai poco aveva in comune con il Deutsch (o meglio con il Bibeldeutsch, utilizzato da Lutero per tradurre la Bibbia e che è alla base della moderna identità germanica). Alle città, dove si andavano progettando le nazioni, i mòcheni apparivano spuri, isolati, marginali: una comunità che avrebbe dovuto iscriversi a un’idea più ampia di identità rinunciando alla propria insulsa cultura delle origini. 119­­­­

Il punto più basso di legittimità venne raggiunto all’inizio del Novecento. Fu allora che i mòcheni si trovarono tra due fuochi: da una parte gli irredentisti, che cercavano nell’italianità del Trentino una ragione alla loro causa; dall’altra i pangermanisti, che al contrario volevano affermare l’unità della cultura tedesca anche a sud delle Alpi. Per tutti, i mòcheni rappresentavano un intralcio ideologico. E gli studiosi italiani e tedeschi arrivarono persino ad accapigliarsi su una definizione a priori da appioppare loro. «I mòcheni sono un’isola linguistica». «Nient’affatto, sono un’oasi linguistica». La questione dell’«oasi» o dell’«isola» infiammò gli animi: a ripensarci oggi il polverone terminologico rasenta il ridicolo, ma all’epoca accese un vero conflitto di argomentazioni incrociate. Per i tedeschi i mòcheni erano un’«oasi», cioè una porzione residua di un ambiente, in origine florido e più ampio, intorno al quale aveva preso il sopravvento il deserto culturale italiano; per gli italiani erano un’«isola», cioè qualcosa di marginale, appartato, remoto, sperduto, dunque irrilevante. Oasi o isola che fossero, i mòcheni dovettero di lì a poco fare i conti con un’altra calamità: il nazionalismo fascista. E poi, in età repubblicana, con il tramonto delle società tradizionali e con il mito della modernità, che riduceva le sopravvivenze culturali delle valli alpine a lumicini destinati a spegnersi nella corsa della storia. Cosa poteva dire quel mondo autarchico e un po’ imbambolato di vecchi coloni, così lontani dai moderni codici della vita, che si stringevano, famiglia per famiglia, in casolari sperduti al limitare del bosco? La storia, però, non è finita: il lumino dei mòcheni non si spense affatto. Nel tifo dominante per le culture locali, oggi la fortuna torna a girare in favore dei mòcheni. La legge n° 482 del 1999 per la tutela delle minoranze linguistiche storiche porta nuove prospettive di crescita a tutte le popolazioni alpine che possono innalzare una propria bandiera locale. La legge è stata voluta dal governo D’Alema, dunque in nome delle vecchie istanze della sinistra orientate a sostenere le ragioni 120­­­­

delle minoranze più deboli e svantaggiate. Ma quella legge piace molto anche alla destra leghista, che vede nei mòcheni l’orgoglio identitario dalle radici medievali e un po’ mitiche. I mòcheni, oggi, al contrario di un secolo fa, mettono tutti d’accordo, destra e sinistra. Come nel Medioevo. Grazie alla legge n° 482, l’Istituto Mòcheno (o meglio il Bersntoler Kulturinstitut) di Palù del Fèrsina ha potuto beneficiare di ampi finanziamenti che ne fanno oggi un polo culturale in pieno vigore produttivo. Il lavoro degli studiosi coinvolti si concentra soprattutto sullo studio del dialetto. E, per la verità, lo stesso si fa un po’ in tutto il Trentino seguendo da lontano le vecchie tracce dell’eroe nazionale, il geografo Cesare Battisti, che nel 1915 pubblicò la prima Carta dei dialetti di questa parte di Alpi. Ma nella Valle dei Mòcheni ci si dedica a compiti molto più ambiziosi che mappare le parlate locali. In questi anni felici, l’Istituto Mòcheno ha realizzato una grammatica e sta ultimando un vocabolario mòcheno-italiano. Fin qui niente di eccezionale: dal 1999 a oggi, vocabolari di lingua locale sono stati pubblicati un po’ ovunque sulle Alpi: nelle valli occitane, in quelle francoprovenzali, e poi tra i walser, i ladini, i cimbri, i friulani. Con la compilazione di questi vocabolari, le difficoltà maggiori si presentano nello stabilire parametri unici e fissi a quelle parlate che per loro natura sono ricche di sottodeclinazioni e varianti sempre più specifiche. Per esempio, l’Istitut Cultural Ladin della Val di Fassa ha unificato le cinque parlate ladine – il badiot, il ghërdeina, l’ampezan, il fodom, e il fascian – e ha creato il «ladino di sintesi», oggi denominato «dolomitano». Una sorta di esperanto pittoresco dei Monti Pallidi, che permette la realizzazione di giornali e di programmi televisivi in lingua (e persino di un correttore automatico per il computer). Ma nella Valle dei Mòcheni, come del resto nelle altre vallate dove è stata data espressione scritta unitaria alle diverse varianti, si sono ingenerati attriti e incomprensioni tra i diver121­­­­

si gruppi di parlanti. Ognuno dei quali, come prevedibile, ha rivendicato l’originalità della propria specifica variante. Ogni borgata ha la sua varietà, quasi ogni casa ha il suo «lessico famigliare», e tutti vogliono imporre la propria versione. La questione dei particolari si fa sempre più complessa a mano a mano che si scende nei dettagli minuti. Non si finirebbe mai di trovare differenze da difendere. E quando si compilano vocabolari dialettali, anche qui negli sperduti confini della catena del Lagorai, è spesso più facile litigare che festeggiare. Nella Valle dei Mòcheni viene pubblicata una rivista periodica chiamata «Lem», che in dialetto significa «vivere». Ogni due settimane appare sul quotidiano «Il Trentino» una pagina in parlata mòchena; ci sono programmi dedicati nella televisione tca. Si riscopre il carnevale tradizionale. Dal canto suo, l’Istituto Mòcheno persevera nella missione di allargare il più possibile il campo d’uso della lingua. Nella scuola media vengono preparate aree di intervento in dialetto; vengono curate le traduzioni delle insegne comunali e degli avvisi al pubblico. Sono gestite diverse sedi museali sparse nella valle (come quella in uno splendido maso); vengono formate guide turistiche che – dicono quelli dell’Istituto – «assumono la funzione di testimoni della lingua e della cultura mòchena». I concetti che più si sentono ripetere all’Istituto sono «tradizione», «lingua», «cultura locale», «radici», «territorio» e soprattutto «identità», termine ormai sempre più invocato. Il responsabile del settore linguistico dell’Istituto è Leo Toller, giovane studioso con i capelli a spazzola, che parla un italiano dallo spiccato accento trentino. Nel suo studio pieno di sole al primo piano dell’Istituto Mòcheno a Palù del Fèrsina, Leo mi racconta della piaga della perdita di autonomia culturale dei territori montani, mi spiega come l’omologazione che appiattisce ogni tratto distintivo dei luoghi rappresenti oggi una perdita dolorosa. Mi dice che bisogna salvare la lingua. Questa è la sua missione. In effetti, rifletto, sarebbe un peccato se la letteratura dialettale andasse perduta, se le poesie di Anna Maria Bacher in 122­­­­

walser titsch o quelle ottocentesche di Pietro Ruggeri in bergamasco non potessero essere più lette. Ma impostare corsi di grammatica del dialetto ai ragazzi nelle scuole è un’altra cosa. In fondo, il dialetto è la lingua degli affetti, lo si parla in famiglia e con gli amici al bar, e come tutte le tradizioni orali cambia nel tempo e nello spazio. Basta muoversi di pochi chilometri e già inflessioni, accenti e parole non sono più le stesse. La forza del dialetto, chiedo a Leo, non sta proprio nella sua spontaneità, nella sua autosufficienza dalle regole imposte coi libri? Istituzionalizzare il dialetto, cioè insegnarlo a scuola, non è la sua stessa negazione? Leo risponde di no, non è assolutamente detto che i dialetti stiano morendo. Dice che ci sono controtendenze che contrastano gli orientamenti generali di livellamento culturale. Dice che oggi c’è bisogno di trovare le proprie origini, le proprie radici, un’identità. Oltre a quella individuale, anche quella di gruppo. La cornice un po’ moralista e un po’ dottrinale che si stringe intorno alla difesa dei mille mondi antichi sparpagliati tra campagne e vallate è cosa recente. Ma calarsi nell’intimo di questo micropopolo di burberi montanari della Valle del Fèrsina è stato fatto – quando era ancora possibile – in modo non ideologico da una delle figure più interessanti dell’etnografia alpina. Il suo nome è Giuseppe Šebesta, uno studioso sui generis scomparso nel 2005 e oggi avvolto in un vero e proprio alone di leggenda. Šebesta fu pittore, scrittore, scultore, creatore di pupi animati, fotografo, cineasta, autore di cinema di animazione (nei primi anni Sessanta fu premiato al Festival di Venezia per un documentario realizzato con una tecnica innovativa di microfotografie). Šebesta era una personalità vulcanica e spesso scontrosa alla quale si deve una vera e propria rivoluzione nel campo della museografia alpina. Abitava in una casa costruita intorno a un albero, e la grande opera della sua vita, oltre a film e libri di fiabe (come il fortunatissimo Le dita di fuoco. 123­­­­

Venti fiabe delle valli trentine, del 1962), fu la fondazione del più significativo museo delle Alpi, quello già ricordato degli Usi e Costumi della Gente Trentina di San Michele all’Adige. Šebesta aprì le porte di quel «teatro della memoria», come lui stesso chiamava il suo museo, quando correva l’anno cruciale delle rivoluzioni studentesche e del Maggio parigino. E anche lui, uomo minuto dal viso spesso oscurato da un alone di stizza, portava la sua rivoluzione nel campo dello studio delle tradizioni alpine. Nato nel 1919 da un soldato cecoslovacco di stanza a Trento e da una ragazza trentina, Šebesta vive in una condizione di vero apolide, in continuo movimento tra le capitali europee dove gira diversi documentari. Fin quando, nell’immediato dopoguerra, si immerge nel totale isolamento della Valle dei Mòcheni. È lì che mette a frutto tutto il fervore individuale dello studioso autodidatta, ben riassunto nel motto esistenziale del suo ex libris: «Simboleggiare riconoscere schedare documentare verità etno-temporali». Una serie di curiose immagini conservate nel museo di San Michele ci mostrano un Šebesta motociclista, con gli occhi spalancati e un po’ luciferini mentre parte per i tornanti che lo portano nel suo mondo di studi in fondo alla Valle: porta baffi e pizzo sotto il mento tenuti lunghi, al posto del casco ha una coppola abbassata sulla fronte, e un’espressione ingrugnita, la stessa che chi l’ha conosciuto di persona riferisce avesse abitualmente. Šebesta impara il mòcheno e raccoglie le antiche leggende raccontate in quella lingua inaccessibile e piena di riferimenti alle antiche saghe germaniche. Spesso, in quei racconti, c’è al centro l’immensità paurosa del bosco. Quegli antichi montanari sanno bene che la natura selvaggia delle foreste è misteriosa, segreta, recondita, e sempre, sempre più oscura nel fitto dei suoi labirinti. Chi si annida là dentro? Chi si nasconde in quell’ombra? Il Bilmòn, che per i mòcheni, sotto altre vesti, è la figura dell’uomo selvaggio o Homo Salvadego ritrovabile un po’ ovunque sulla catena alpina (in Liguria si chiama Ommu Sarvegu, Salvagiòt in Piemonte, Homme Sarvadzo in 124­­­­

Valle d’Aosta, Pagà in Lombardia). Šebesta si imbatte nelle leggende delle graostane, del beatrìch, del bilmòn, delle zubiane, che trascrive, e ne trae spunti per nuove elaborazioni favolose messe poi in scena utilizzando pupi in legno da lui stesso costruiti. Tutto questo vuole che entri nel suo museo, la sua Arca di Noè, dove ogni cosa possa vivere ed essere spiegata. Il museo di Šebesta, ospitato nel bianco e turrito edificio che fu la residenza del prelato del monastero agostiniano di San Michele all’Adige a pochi chilometri a nord di Trento, è dunque il prodotto della vita di quel mezzo matto di Šebesta. E una visita attraverso le sale allestite sarà un passo indispensabile per conoscere quelle «Alpi segrete» che qui andiamo cercando. Nel nome ufficiale del museo si fa riferimento alla «Gente Trentina» in senso ampio, in senso sovralocale, ma il suo stesso attuale direttore, l’antropologo Giovanni Kezich, mi disse un giorno che «il museo, fin dal suo primo impianto, è mòcheno in tutto e per tutto: non tanto per la quantità relativamente esigua di materiali della Valle tradotti quaggiù da Šebesta, ma soprattutto per l’impianto austero, lineare, che mette in primo piano i contenuti dell’attività materiale, di quell’autentica autarchia tecnologica che lo stesso fondatore aveva tanto ammirato tra i mòcheni. Si tratta di un museo del lavoro manuale, e soprattutto dell’ingegno creativo che sottende l’autosussistenza agro-silvo-pastorale della montagna, nella sua forma più estrema, quella del colono contadino che all’occorrenza sulla base di antichissimi saperi che affondano le radici nella preistoria dell’uomo, sa anche farsi falegname, fabbro, mugnaio, carpentiere, calzolaio, tessitore, vasaio...». Il percorso espositivo è ancora quello originale voluto da Šebesta e il risultato è spettacolare nel senso più ampio del termine. Spettacolare anche se, dati gli anni del suo allestimento, non c’è alcun ricorso a moderni linguaggi multimediali. Si sviluppa nelle stanze poste tutt’intorno all’ombroso e austero cortile interno all’edificio. Il visitatore gira come in una spi125­­­­

rale per tre volte sopra il cortile, salendo dal primo al terzo piano. Incontra macchine di grandi dimensioni smontate e ricostruite da Šebesta stesso, come i torni, i mulini vitruviani, i pestini rotativi per l’orzo, la segheria, il maglio idraulico del fabbro, la nòria per l’alimentazione dei canali irrigui. E poi i più semplici oggetti della vita quotidiana, i vestiti, le suppellettili, i mobili. Ma ogni oggetto, ogni manufatto – imponente o minuto che sia – non si trova esposto come nei tanti altri musei etnografici delle Alpi, qui non c’è niente che non sia disposto secondo i ferrei principi narrativi dell’allestitore. Ogni cosa è parte di una storia che punta a ricostruire i principali processi produttivi del lavoro manuale, per restituire la vita, le difficoltà, la fatica dell’homo faber montanaro. Šebesta aveva pensato a vere e proprie linee di narrazione, i cosiddetti «canali chiusi», cioè le filiere del grano, del latte, della ceramica, del tessuto, del legno, del rame, del ferro. Dal reperimento della materia prima all’utilizzo finale. Così il Museo diventa una sorta di luogo magico della sperimentazione degli oggetti e delle macchine. «Ingenua e un po’ visionaria, quella dei vecchi diffusionisti alla Thor Heyerdahl e di tanti altri cercatori dell’arca perduta» è l’antropologia di Šebesta secondo il direttore Giovanni Kezich, «ma a fronte delle noiosaggini asfissianti del training antropologico corrente e del moralismo localista che ha ormai invaso senza più rimedio gli studi di tradizioni popolari, è bello ritornare a pensare, con Šebesta e i suoi pari, che il passato dell’uomo è ancora tutto lì, pronto a sussurrarci un segreto».

La «Via Eterna» delle Alpi Giulie

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Le Alpi Giulie

Gli alpinisti conoscono bene la comodità offerta dalle cenge. Se ne raggiungono una alla fine del tiro di corda, possono attrezzare la sosta e rimanere in piedi recuperando agevolmente il compagno. Le cenge sono porzioni orizzontali che interrompono la verticalità della parete: a volte si presentano poco più larghe di una spanna, e ricordano dei cornicioni su un muro. Altre sono tanto ampie da potersi sdraiare e bivaccare comodamente. Altre ancora si allungano sui lati, a sinistra e a destra, seguendo la stratificazione della roccia calcarea, e tagliano di netto la parete. Sono queste ultime le più spettacolari. Sono veri e propri corridoi sospesi, sui quali sembra di camminare nel vuoto. Le pareti alpine che presentano le cenge più lunghe e articolate sono quelle delle Giulie, all’estremo oriente della catena. E alcune di queste cenge non hanno eguali al mondo. Profondi solchi vallivi, nelle Alpi Giulie, si alternano ad altipiani e a gruppi montuosi isolati che non raggiungono mai quote particolarmente elevate: il punto culminante è posto ai 2863 metri del Monte Triglav, in Slovenia, mentre sul versante italiano la cima è lo Jôf di Montasio, a 2753 metri. Questo vasto complesso montuoso è cinto dai corsi del Fella, della Sava Dolinka e della Sava Bohinjka, e delimitato a meridione da Sella Carnizza in Val Resia e dal Passo Bogatin. Si raggiunge passando dai confini orientali della Carnia. In Val Canale, percorsa nel suo tratto iniziale dal greto bianco del fiume Fella (esile filo trasparente che può diventare, dopo i temporali estivi, un ciclone d’acqua limacciosa), si entra 129­­­­

nell’immensa selva di Tarvisio che con i suoi 23.000 ettari è la più vasta foresta demaniale italiana. Infine, superati gli abitati di Bagni di Lusnizza, Malborghetto e Ugovizza, ecco apparire sulla destra il candido paesino di Valbruna. Valbruna, a 800 metri, è l’approdo ideale verso le monta‑ gne, campo base di uno dei settori più imponenti delle Giulie: il massiccio dello Jôf Fuart. Tra le sue case bianche e le strade strette che si spalancano su improvvise piazzette aleggia un silenzio antico. Paese dimenticato, marginale, rispetto alla ben più turistica Tarvisio (a pochi chilometri verso il confine con l’Austria), Valbruna è stato il punto di partenza dei primi esploratori di fine Ottocento. All’epoca, meno di un secolo e mezzo fa, le Alpi Giulie erano ancora un’area pressoché sconosciuta. Quando sul Monte Bianco o sulle Dolomiti già ribolliva lo spirito di conquista degli scalatori e si salivano i versanti più nascosti, qui le pareti, le creste e le vallette interne dovevano essere ancora esplorate (anche se la cima del Triglav, strane contraddizioni della storia, venne salita prima del Bianco da un gruppo di sloveni che comprendeva alcuni scienziati). Le vie e le piazzette di Valbruna sono intitolate ai grandi alpinisti che tra queste case attendevano il bel tempo per partire: piazza Julius Kugy, via Anton Oitzinger, via Emilio Comici. Dalle ultime case di Valbruna si stacca la Val Saisera, che fa da sfondo oleografico al paesino, sormontata da quinte compatte che si innalzano da ghiaioni biancastri. Fino alla cima severa dello Jôf Fuart. Sulle Alpi Giulie, alle quote dove finiscono le distese boscose, si apre il fantastico groviglio delle rocce. È un paesaggio desertico, poroso, assetato, come non ce ne sono altri sul resto delle Alpi. Oltre i duemila metri tutto è roccia. Rocce formidabili, in particolare nella zona del Monte Canin. Grigie, bianche e rosse, formate da carbonati, cioè da carbonio, ossigeno, calcio e magnesio. Rocce che hanno una particolarità annidata nella loro stessa composizione chimica: sono altamente solubili all’acqua. Particolarità che ha determinato 130­­­­

gli aridi ambienti giuliani. Lo chiamano «carsismo»: il nome deriva dalla vicina regione del Carso, che a sua volta origina dal termine preindoeuropeo karra o garra, cioè roccia, pietra, sasso. Forse non è un caso che le tre regioni intorno alle Giulie, la Carnia, la Carinzia, la Carniola (cioè la parte regionale slovena che comprende queste montagne), abbiano tutte lo stesso prefisso ca-. Le Giulie sono, per eccellenza, l’area carsica d’alta montagna delle Alpi: ampie e compatte distese rocciose, costituite da antiche conchiglie e crostacei che cento milioni di anni fa iniziarono a depositarsi una sopra l’altra, strato su strato, sul fondo di un mare poco profondo. Dai e poi dai, sotto il loro stesso peso, si sono poi solidificate trasformandosi in pietra. Uscite dal mare in seguito alle spinte tettoniche, queste rocce sono state sottoposte all’azione delle piogge e della neve e hanno formato i colossi dello Jôf Fuart, del Canin, dello Jalovec, del Razor, della Skarlatica, del Triglav, del Montasio, del Mangart che a nord precipita con una delle pareti più aspre e impressionanti delle Alpi. È la pioggia, dunque, che ha creato le forme gigantesche, bizzarre e spettacolari che abbiamo sotto gli occhi. Lassù un arco naturale permette di vedere dall’altra parte della montagna, là un gendarme sormontato da un macigno in bilico sembra dover crollare da un istante all’altro. Pareti confuse e labirintiche che si articolano in un groviglio di gole, canaloni, diedri, torri, gendarmi, creste affilate e, soprattutto, incredibili cenge attorcigliate tutt’intorno alle montagne come spirali. E così come la roccia si impenna formando sculture ciclopiche, così si inabissa aprendo voragini nel terreno. L’acqua si è infilata negli interstizi, nelle pieghe più deboli del terreno roccioso e ha iniziato a scavare. Ovunque, sotto i piedi, si può intuire il lavoro compiuto da pioggia e gelo: scannellature, docce, canali, buchi, anfratti, cavità, grotte, pozzi, cunicoli, crepacci di roccia a volte ricoperti dal pietrisco biancheggiante in mezzo ai rovi. Sulla montagna regna un silenzio surreale, perché la vita non è lassù, bensì sottoterra. Nelle viscere della montagna 131­­­­

scorrono fiumi, rimbomba il boato delle cascate, si aprono laghi. Su, invece, non una stilla d’acqua. Si cammina sulle dorsali della montagna e si intuisce di star sopra una grande spugna rigida di roccia calcarea, al suo interno il mondo liquido, in superficie soltanto il vento che scivola nel deserto immoto delle rocce. È proprio per l’assenza di acqua superficiale che sulle Giulie regna un silenzio surreale. Sotto queste masse rocciose si trova il punto più profondo mai raggiunto dall’uomo dentro la terra: è l’Abisso Cehi II, che arriva alla stupefacente quota di meno 1533 metri, o il Led Zeppelin (meno 960 metri), o il Foran del Muss (meno 1110 metri). Grotte che arrivano a sviluppi planimetrici di oltre quindici chilometri. Tutto sottoterra, tutto tra le rocce, tutto tra ampie volte infernali da cui pendono stalattiti gocciolanti. Un terreno così articolato, bucherellato, irregolare, discontinuo e composto da rocce policrome è il presupposto per il verificarsi di alcuni effetti ottici che possono quasi spaventare. L’effetto più toccante può avvenire in certe notti estive, quando la coltre di neve si è sciolta e la montagna torna a essere nuda. Nelle notti di luna, luci soffuse al contatto con la pietra grigia e risplendente vibrano creando miraggi mutevoli: ciò è dovuto alle dominanze cromatiche della pietra e soprattutto alle mille pieghe che si ammassano e si intrecciano nella montagna. Ombre lunari annidate nelle infinite depressioni rocciose scavano i volumi, modellano le forme creando illusioni e scherzi visivi. La luna viaggia lungo il suo arco celeste e sullo specchio delle pareti, episodio parallelo, le luci vengono riflesse in negativo: così la montagna muta, si anima, si modella nel variare dei raggi lunari. Lasciata Valbruna alle spalle, fin dai primi passi sul sentiero in alta Val Saisera, verso lo Jôf Fuart, ci si accorge che siamo in una delle zone meno frequentate dell’intera catena. È uno spicchio alpino fortunatamente rimasto ignoto al turismo di massa, anche perché offuscato all’ombra di montagne 132­­­­

più famose, prime fra tutte le vicine Dolomiti. Solo un gruppo ristretto di scalatori triestini è tornato e ritornato per decenni elevando queste cime a terreno privato di esplorazioni alpinistiche. Nel 1886, quando Trieste era ben lungi dal diventare italiana e perciò in città non esisteva una sezione locale del Club Alpino Italiano, venne fondata la Società Alpina delle Giulie (oggi inglobata nel cai), che ancora esiste ed è anche un archivio storico e un centro di elaborazione culturale sulla montagna dove si organizzano mostre, incontri, letture. Alla fine del secolo tra gli alpinisti triestini e le Giulie nasce‑ va un legame privilegiato, dovuto in particolare a una novità che tutto facilitava: la ferrovia Pontebbana. Fatta costruire per accelerare gli scambi commerciali tra la capitale dell’Impero e il suo porto principale, collegava Vienna a Trieste via Tarvisio e permetteva di raggiungere le montagne in poche ore, scivolando comodamente sulle rotaie. Un lusso per l’epoca. In piena Belle Époque, in pieno fervore positivistico, il futuro correva sul treno a vapore attraverso l’Europa: l’Orient Express, in servizio dal 1883, attraversava il continente collegando Parigi a Istanbul, e con il ramo di Trieste passando da Lubiana o con quello da Tarvisio (la Pontebbana, appunto) formava una rete che teneva unito l’Impero dell’aquila bicipite. Al porto di Trieste sbarcavano i viaggiatori, salivano sulle elegantissime carrozze e si lasciavano dondolare tra il bel mondo della Mitteleuropa: di fianco a uomini d’affari austriaci, nobilastri ungheresi, elegantoni boemi e anche Re Magi ottomani con al seguito mogli velate sotto lo sguardo attento di giganteschi eunuchi, prendevano posto gli alpinisti triestini equipaggiati con grandi zaini di tela chiara diretti alla stazioncina di Valbruna (ora trasformata in casa privata). La lieta compagnia viaggiante, ben amalgamata nel mito efficientista e spensierato dell’Austria felix, era spesso intrattenuta da musicisti che eseguivano brani di Strauss, uno in particolare dal titolo emblematico: il celeberrimo Vergnügungszug (Treno del piacere). Scesi a Valbruna, il mondo della «Mitteleuropa ‘internazionale’», come ha scritto Claudio Magris nel suo 133­­­­

Danubio, «oggi idealizzata quale armonia di popoli diversi», era all’istante lasciato alle spalle e si precipitava nei silenzi delle Giulie, dove viveva l’orso, dove misteriose pareti attendevano ancora i primi salitori. Dal Molo Audace, di fronte a piazza Unità d’Italia, le Giulie si riconoscono distintamente all’orizzonte. Appaiono al di là del mare, al di là del golfo tutte spostate verso destra. Sono vicine, ma quella massa d’acqua frapposta è come se agisse sull’osservatore falsando la realtà: le Alpi Giulie sembrano rimanere sospese, sembrano non poggiare a terra, ma lievitare sopra il mare. Proprio a Trieste, città marinara, si è sviluppata una delle tradizioni alpinistiche più vivaci d’Italia. Sarà forse «colpa» di questo scorcio fantastico che chiude verso l’alto la marina oppure è solo la facilità d’accesso alle montagne? Alla fine degli anni Venti del Novecento venne fondata una compagnia leggendaria di giovani arditi delle rocce, il gars, Gruppo di Alpinisti Rocciatori e Sciatori, che adottò le vicinissime rupi carsiche della Val Rosandra come palestra per gli allenamenti in vista delle scalate esplorative sulle Giulie. Vladimiro Dougan, Riccardo Deffar, Giordano Bruno Fabian sono i nomi che si leggono nelle didascalie delle foto in bianco e nero sui libri di storia alpinistica locale o nelle relazioni delle prime salite su campanili rocciosi e pareti della valle. Oggi il rifugio Premuda, a 82 metri di quota in Val Rosandra, alle porte di Trieste, gronda di storia. Ma nella girandola di nomi a cui ogni roccia e ogni grande parete delle Alpi Giulie è legata, due soli possono rappresentare appieno l’epoca d’oro dell’alpinismo esplorativo delle Giulie: Julius Kugy e Emilio Comici. Julius Kugy, nato a Gorizia nel 1858, è considerato lo scopritore e il poeta delle Alpi friulane. E chiunque da quelle parti sa chi è stato Herr Doktor Kugy. Così come la sua immagine riprodotta in più e più fotografie, disegni e persino marchi e logo vari ce lo restituisce, Kugy 134­­­­

è rimasto nella memoria locale come appariva al culmine dei suoi anni: un elegante signore di città, il monocolo d’argento, il loden aperto sul panciotto dove spunta la catenella dell’orologio, il naso rotondo, le guance paffute, la pipa o il sigaro in bocca, lo sguardo assorto mentre si abbandona all’immagine delle sue montagne. Il suo ritratto stilizzato è diventato un marchio del Consorzio turistico del Tarvisiano per pubblicizzare alcuni eventi di «animazione turistica». In sua memoria sono state erette statue in bronzo, a lui sono state dedicate piazze e vie nei paesi ai piedi delle Giulie, una scuola elementare a Trieste, e poi festival, sentieri, persino camere d’albergo e menù tipici. Una vera gloria giuliana e friulana; eppure, fuori da quest’area di vecchie tradizioni regionali poco si sa del vecchio zio Julius. Pioniere, scalatore, instancabile camminatore, e ancora musicologo e dotto divulgatore di un alpinismo mosso da principi ideali, sale sul Triglav, o Tricorno, alla precoce età di diciassette anni, realizzando un’impresa per quei tempi degna di nota. Da quell’estate del 1875 è un susseguirsi di salite. Realizza centinaia di ascensioni. Esplora versanti ancora sconosciuti, e non c’è cima delle Giulie che non raggiunga. Sullo Jôf di Montasio apre addirittura otto vie. Una proprio sulla muraglia settentrionale: magnifica scalata che sale con grande intuito lungo un vero dedalo verticale. E che, anni dopo l’apertura, è diventata una via ferrata. L’Österreichischer Alpenverein (il Club Alpino Austriaco) per celebrare il vecchio esploratore decise, in un eccesso di entusiasmo inconsapevole, di piantare fittoni d’acciaio lungo tutto il percorso per facilitarne la scalata e attirare più emulatori possibile. Kugy si sarà rivoltato nella tomba: proprio su una sua via tutto quel ferro! Lui che non ha mai voluto piantare un chiodo e per questa ragione aveva rinunciato a tante prime salite. L’alpinismo di Kugy è del tutto atipico per i suoi tempi, quando la sfida alla difficoltà massima, il gusto dell’azzardo, l’ardimento esibito sono la stella polare dei più forti scalatori (come Paul Preuss, che abbiamo già incontrato). Kugy non cerca la sfida, cerca una vera e propria comunione con la 135­­­­

montagna: «Certe arrampicate disperate che oggi si usano», sentenzia, «sono contrarie al mio modo di sentire. Io amo l’equilibrio, la salute, in una parola il bene della vita». E ancora: «I monti non devono essere i nostri nemici». Sono concetti nuovissimi per quei tempi, e perfettamente in sintonia con la retorica panteista degli alpinisti capelloni e hippy della California di una cinquantina di anni dopo. Concetti – lo abbiamo già visto – che il «Nuovo Mattino» avrebbe elaborato con gli scritti di Gian Piero Motti («Lo scopo non è raggiungere la vetta, e nemmeno affermare se stessi. L’arrampicata è un mezzo per vivere sensazioni più profonde»). Ma nonostante le sue decine e decine di prime salite, Kugy è ricordato soprattutto come scrittore. Nella sua svolazzante calligrafia, stende testi che saranno stampati in centinaia di migliaia di copie, diverranno veri e propri best seller e faranno conoscere le Giulie in tutta Europa. «Per me andare in montagna», dichiara Kugy a commento della sua vita di esploratore, «è stato sempre questione di sentimento. Ho sentito un richiamo e l’ho seguito. Non potevo farne a meno. Non dico altro». Il suo libro più amato, una specie di Bibbia per gli alpinisti delle Giulie (in alcuni alberghi di Valbruna si trova sul comodino nelle camere da letto, come la Bibbia nei motel americani), è Dalla vita di un alpinista, che in Italia uscirà solo nel 1932 forse per una certa avversione da parte del fascismo nei confronti di Kugy, che nella Grande Guerra aveva prestato servizio come Alpiner Referent sul fronte asburgico. Autobiografia tutta intrisa di slanci, di elegie, di incanti grondanti miele, Dalla vita di un alpinista racconta come Kugy per anni e anni abbia cercato in montagna l’esemplare di un fiore mitico, un fiore inesistente destinato dunque a non essere mai trovato. Una storia centrale nella vita di Kugy che dimostra come si possa «andare in montagna» anche solo inseguendo un motivo pretestuoso. Perché, come avrebbero detto gli scalatori hippy californiani, «la via è la meta». «Da quando frequentavo la seconda classe del ginnasio», 136­­­­

scrive Kugy, «cominciai a dedicarmi intensamente alla botanica. Scorrazzavo per il Carso Triestino, m’inoltravo nelle macchie, nelle doline, e passavo pomeriggi interi sui versanti rivolti alla città». Un giorno il suo professore di botanica lo aveva convocato per mostrargli il disegno (immaginario) del fantomatico fiore. «Il mio vecchio professore Tommasini mi mandò a chiamare. Mi raccontò di una specie di scabiose che Mastro Hacquet aveva trovato sui monti della Val Trenta quasi cento anni prima; e siccome era una specie fino allora sconosciuta, l’aveva descritta minutamente e battezzata Scabiosa Trenta. Disse che molti botanici di grido l’avevano cercata, ma nessuno l’aveva trovata. [...] Poi aprì il volumetto alla tavola illustrata e per la prima volta ne vidi l’immagine. Piccola e modesta, circonfusa come da un alone di mito e di lontananza, la piantina era lì, sulla pergamena ingiallita, e dalla perfezione del disegno si intuiva la cura amorosa e l’intima gioia che lo scopritore aveva provato in tale bisogna. Scabiosa Trenta!». Molti decenni più tardi, ormai quasi sessantenne, Kugy venne informato da alcuni botanici che il mistero del fiore era stato svelato: la Scabiosa Trenta non esiste, o meglio si trattava della già nota Scabiosa leucantha. Così commentò la notizia che le sue lunghe ricerche erano state vane: «Ora, penserete che in quel momento mi abbia avvinghiato il dolore e si sia fatto intorno a me il vuoto di quando si perde una creatura cara? E che alle delusioni della vita io abbia aggiunto malinconicamente anche questa di aver inseguito per tanti anni una vana chimera? [...] Il mio cuore sorride in silenzio, il mio cuore la sa più lunga. Non prova né dolore né vuoto, non gli abbisogna alcun conforto. Crede ancora in lei, per quanto sia irraggiungibile, e la sua fede non vacilla. Il ricordo lo tiene in alto con funi tenaci. Lassù, nel silenzio e nella solitudine dei monti, nel sole radioso delle altezze, nel respiro estivo delle pendici, nell’acuto profumo resinoso dei pinastri, quante volte se l’è sentita vicina in segreto! Essa appartiene ormai a lui solo, non fiorirà mai per nessun altro. [...] Così alzo il mio sguardo alle tue altezze luminose, con fede e gratitudine. E, al 137­­­­

di là del tempo e dello spazio, ti saluto, dolce miracolo fiorito del mio cuore, Scabiosa Trenta!». Niente di Emilio Comici ricorda la figura placida e bonaria di Kugy. Kugy e Comici sono apparentemente uno l’opposto dell’altro. Kugy, anziano dottore intriso di cultura accademica; Comici, giovane figlio di un modesto operaio impiegato nei cantieri navali di Trieste, e anche lui assunto a quindici anni nei magazzini generali del porto. Kugy, riflessivo indagatore di segreti orografici; Comici, istintivo scalatore dotato di mezzi atletici fuori dal comune. I due, evidentemente, non possono entrare in competizio‑ ne: forse anche per questo tra loro si instaura un’amicizia tutta incentrata su faccende di scalate e montagne. Un’amicizia molto proficua: Kugy indica la via, Comici la realizza. Comici, nato a Trieste nel 1901, ci appare, nelle vecchie fotografie appese ai diversi rifugi alpini che portano il suo nome, come il prototipo del ginnasta, tutto nervi, muscoli e agilità. In certe immagini a torso nudo, mentre esibisce al fotografo il suo sorriso aperto e i suoi muscoli definiti, assume aggraziate pose femminili. Sulla roccia è un ballerino che si carica di leggerezza e stile, arte e grazia felina, come ci dicono soprattutto le immagini preziose del film che l’amico intimo Severino Casara gira durante alcune dimostrazioni di scalata. Un ballerino, è Comici, in anni in cui la mascolinità, l’ardore maschio degli alpinisti vengono esaltati come simbolo di potenza e autorità. Ma Comici si esprime in altro modo, da gatto. E scala slegato su difficoltà per l’epoca considerate estreme. Tanto ardimento non può passare inosservato al regime (lo abbiamo visto anche a proposito di Riccardo Cassin) che anzi glorifica Comici come una stella nazionale, vincitore delle vertigini e campione della potenza italica sulle rocce. Comici lascia il lavoro al porto, diventa guida alpina, accompagna illustrissimi clienti sui precipizi alpini (come re Leopoldo del Belgio), diventa uno dei pochi italiani a tener testa ai più forti sestogradisti della cosiddetta Scuola di Monaco, e stupisce il 138­­­­

mondo intero con una serie di imprese indimenticate, come quando sale da solo e slegato la via diretta sulla parete nord della Cima Grande di Lavaredo, da lui stesso aperta con i cortinesi fratelli Dimai. Fin dai suoi primi passi in montagna, però, Emilio è influenzato dagli insegnamenti sull’etica alpinistica che vengono dall’indiscusso Kugy (ma chi non lo è almeno lontanamente nei dintorni di Trieste?). Quando finalmente all’inizio degli anni Trenta esce anche in italiano l’autobiografia del suo maître à penser (nella traduzione dell’eminente germanista Ervino Pocar, che aveva appena terminato di lavorare su Der Zauberberg, La montagna incantata di Thomas Mann), Comici si butta sul libro e ne assorbe le liriche descrizioni. E in quelle pagine, con grande meraviglia, si imbatte in un episodio che nella prima edizione in tedesco del 1925 non compariva. È un’aggiunta. Comici trova se stesso come protagonista di una particolarissima impresa. Un’impresa tra le più originali e audaci delle Giulie. L’episodio descritto nell’edizione italiana di Dalla vita di un alpinista risaliva a un paio di anni prima. L’episodio prende avvio da un suggerimento che lo stesso Kugy, indicando le montagne in una sera d’estate a Valbruna, aveva passato a Comici. Grazie a ore e ore trascorse a osservare con il binocolo lo Jôf Fuart e le Madri dei Camosci, nelle diverse angolazioni del sole e in tutte le stagioni, Kugy pare sia riuscito a intravedere un possibile sistema di cenge costituito da minuscoli terrazzi sospesi e corridoi rocciosi che si infilano nelle gole e aggirano i promontori aggettanti delle pareti in pieno vuoto. Queste corsie orizzontali, secondo Kugy, devono svilupparsi a una quota costante intorno ai 2200-2300 metri e dovrebbero permettere l’abbraccio completo della montagna. È un miraggio? Se l’astuto indagatore di cime ha ragione, la via delle cenge sarebbe qualcosa di unico sulle Alpi. E forse al mondo. Riferisce Kugy nel suo libro: «Siccome si vedono sulle pareti di nord-est dello Jôf Fuart parecchi accenni di cenge e, a tratti, anche cenge vere e proprie, mentre dai muraglioni 139­­­­

orientali e settentrionali della Cima di Riofreddo viene fino alla gola di nord-est l’ormai famosa ‘cengia delle cenge’, la Cengia degli Dei, così m’è venuto varie volte il pensiero che si potrebbe forse combinare un anello di cenge intorno a tutta quell’immensa isola di roccia formata dallo Jôf Fuart coi baluardi della Cima de lis Codis e l’intera catena delle Madri dei Camosci». Nell’agosto del 1930 Comici decide di andare a vedere di persona cosa c’è effettivamente sullo Jôf Fuart. Con il suo compagno di cordata Mario Cesca si butta nel cuore della parete camminando in punta di piedi su immensi cornicioni che non sa bene dove possano portare. Oltre un certo passaggio, dopo una corda doppia penzolante nel vuoto, capisce che da quel punto tornare sui propri passi sarebbe impossibile. Il momento critico è arrivato. Bisogna andare avanti, nella speranza che l’intuizione dell’anziano alpinista sia esatta. Comici scriverà sul suo taccuino (che con altri ricordi sarà pubblicato in volume, grazie alla cura di un gruppo di amici, dopo la sua morte avvenuta nel 1940 per un banale incidente in una palestra di roccia in Val Gardena): «Una strana prerogativa di questa nuova forma di alpinismo sulle Madri dei Camosci è che non si arriva al termine mai! Dopo aver arrampicato orizzontalmente per 4500 metri superando le non lievi difficoltà del percorso, si arriva appena all’inizio. Si dovrebbe dunque ricominciare da capo». Comici si ritrova, insomma, allo stesso punto di partenza. Dunque l’intera scalata orizzontale si chiude veramente in un cerchio! Kugy aveva ragione. La «Cengia degli Dei», così l’aveva chiamata, esiste sul serio. Ed è una delle scalate più stupefacenti delle Alpi. Qualche tempo fa mi trovavo a percorrere la Cengia degli Dei in compagnia di Nives Meroi, la famosa alpinista che vive in una casa isolata nella foresta di Tarvisio e che ha scalato quasi tutte le quattordici montagne di oltre 8000 metri. In quell’occasione, la grande Cengia era diventata un 140­­­­

set cinematografico. O meglio era diventata la protagonista di un film di medio metraggio, destinato ai vari film festival della montagna che si tengono in giro per il mondo. Nives mi guidava lungo la via, eravamo attorniati da telecamere e da tecnici del suono e delle luci che preparavano le scene. Il regista Giorgio Gregorio, per individuare le inquadrature migliori, si muoveva come uno stambecco saltando da una roccia all’altra, e ci osservava attraverso la cornice prodotta unendo – nel consueto gesto – i pollici agli indici delle mani. C’era poi una seconda unità di ripresa che si spostava sulle cime di fronte a noi allo scopo di girare i campi lunghi e le riprese d’insieme. Elicotteri volteggiavano in aria, e guide alpine ci precedevano attrezzando la via. Con la pazienza maturata in innumerevoli scalate, Nives mi conduceva lentamente sui terrazzi ricoperti di pietrisco che tagliano le pareti, indicandomi, di tanto in tanto, dove posare piedi e mani nei passaggi più difficili in arrampicata. Grazie alle tecniche e alle attrezzature moderne, la Cengia degli Dei non risulta particolarmente difficile da percorrere, raggiunge al massimo il quarto grado. Ma è un itinerario spaventoso, soprattutto per il vuoto e per la sensazione di smarrimento che sopraggiunge quando ci si trova nel mezzo delle pareti. La vera difficoltà sta nel sapersi orientare: il continuo susseguirsi di cenge, che a volte vanno a morire direttamente nel vuoto, forma un vero labirinto sospeso nel quale sarebbe necessario, per procedere in sicurezza, poter disporre di una vista allargata sulla parete capendo così l’esatto punto raggiunto. Ma invece si è schiacciati nella roccia e ben poco da lì si può intravedere, se non la vertiginosa esposizione che si spalanca sotto i piedi. In più la roccia è talmente friabile che a volte non permette di attrezzare i necessari ancoraggi: in molti punti piantare chiodi nelle fessure significa demolire sotto i colpi del martello tutta la parte di roccia circostante. E spesso non si trovano neppure spuntoni solidi intorno ai quali cingere le fettucce. Passo dopo passo, si continua guardinghi e ammirati, cer141­­­­

cando di porre estrema attenzione a non scivolare sul ghiai­ no. A volte la cengia diventa molto stretta e si inclina dalla parte del vuoto. Allora sotto i piedi si vede l’immensa parete precipitare per centinaia di metri. Le pietre smosse inavvertitamente durante il passaggio cadono nel vuoto e dopo lunghi secondi si avverte l’eco dello schianto nelle gole alla base del precipizio. Sembra un controsenso, ma i passaggi più sicuri sono quelli più difficili. Proprio lì è necessario ricordarsi di fare attenzione: una scivolata, perché distratti, e la cordata vola giù. Intanto si entra nel cuore della montagna, in una stupefacente successione di piani e scorci panoramici: in certi punti si è obbligati a fermarsi per studiare – o meglio indovinare – il percorso successivo. A volte ci si trova davanti a più possibilità perché la cengia si biforca o addirittura si divide in tre: il ramo più alto porta magari a un terrazzo ampio accanto a una gola dalla quale non si passa; l’altro, quello intermedio, chissà? aggira uno spuntone che nasconde lo sviluppo successivo; e l’ultimo, più in basso, conduce nei pressi di una spalla che si proietta nel vuoto. Solo una di queste soluzioni è quella giusta. E sbagliare comporta perdita di tempo prezioso. Scrisse Kugy a proposito del fascino delle cenge: «Lo spigolo davanti a noi, intorno al quale la cengia gira e scompare, è un invito e un richiamo. Che ci sarà di là? Giriamo l’angolo, col batticuore, come se si trattasse di guardare un incerto avvenire. Una gola enorme si spalanca, e squarcia il monte in tutta la sua altezza. Vi pendono i nevai, rombano le acque dello sgelo; dall’alto, la minaccia dei muraglioni, in basso, la voragine senza fondo. I corvi corallini si levano a volo gracchiando. Dovunque si guardi, il terrore dell’abisso. Ed ecco, la nostra cengia s’interna piana e tranquilla nella gola, la passa calma e sicura, già la vediamo dall’altra parte alla stessa quota, mentre uscendo dall’ombra tetra s’avvia a un altro spigolo su cui splende il sole». Dopo la grande frana del 1979, che sconvolse un grosso settore della parete orientale, il famoso passaggio del pendolo 142­­­­

realizzato da Comici in prima ascensione e che indica il punto di non ritorno si è modificato: oggi si scende in corda doppia per venticinque metri da un pulpito aereo per raggiungere un minuscolo terrazzino che porta sulla destra verso il passaggio chiave dell’intero percorso, in un’ampia insenatura giallastra. Anche per questo motivo la Cengia degli Dei ha avuto pochissime ripetizioni: non più di una ventina di cordate in ottant’anni (e perciò rientra più che mai tra le nostre «Alpi segrete»). Ma una di queste ripetizioni, la più celebre, è stata compiuta proprio da Nives Meroi durante la stagione invernale. Sembra impossibile che una donna così esile, apparentemente fragile, dagli occhi azzurri che guardano con una dolcezza disarmante, riesca ad avere la forza e l’audacia necessarie a percorrere questo dedalo con la neve che sommerge i passaggi, disponendo di poche ore di luce al giorno e limitata da parecchi gradi sottozero. «In genere sulle altre vie alpinistiche si guarda verso l’alto, dove va la via...», mi spiegò Nives durante una delle soste lungo il percorso, «qui invece lo sguardo è più libero, e continua a mutare». Alla fine della giornata arrivammo su un punto panoramico, ideale per il bivacco. Era un ampio terrazzo che rientrava, per qualche decimetro alla sua radice, sotto la parete, formando una piccola insenatura. Appena oltre i piedi, che riuscivamo a tenere distesi, si apriva l’abisso. Ci infilammo nei sacchi a pelo e, acceso il fornello, iniziammo a preparare la cena: una minestra liofilizzata da sorseggiare calda. Solo qualche minuto dopo ci accorgemmo che il terrazzo era leggermente inclinato, e la sottile ghiaietta che lo ricopriva ci portava a scivolare verso il ciglio. Ci legammo, e ci sentimmo più sicuri. Il sole tramontò dritto di fronte a noi. Vedevamo l’ultimo raggio spegnersi, e immediatamente le rocce intorno a noi farsi incandescenti. La pur modestissima quantità di materiale che trattiene la luce nella composizione chimica della roccia calcarea, e soprattutto dolomitica, è 143­­­­

come se accordasse a quelle lavagne verticali e deserte alcuni istanti di vita propria: subito dopo il tramonto la montagna sembra entrare in fermento, sembra gonfiarsi e quasi tremare di luce. Il cielo iniziò lentamente a scurirsi. Di fronte a noi si stagliava la linea nera della cresta culminante su una cima posta più o meno alla nostra altezza, dove era sistemata la seconda unità per le riprese a distanza. Lassù, il compito dell’operatore era realizzare una sola inquadratura: una sola lunga, lunghissima zoomata che avrebbe dovuto partire dal luogo del nostro bivacco e finire con l’abbraccio totale della montagna. Spegnemmo il fornello. Il sibilo del gas cessò lasciandoci nel silenzio profondo della parete. Alcuni corvi planavano come ombre nere contro il cielo trasparente. La minestra era calda, scottava le labbra. Tutti i colori della volta celeste stavano mutando rapidamente: dai limiti del nero si proiettavano verso il violetto, il rosato, e ognuna di quelle tinte era destinata a virare nei gialli con l’arrivo imminente della luna. Si vedevano Venere, le prime stelle a oriente. E il primo gelo correva lungo la parete. «Per me il bivacco», disse Nives improvvisamente, a voce bassa come fosse una confessione (in genere si parla a voce bassa nei bivacchi, come se anziché sentirsi soli si sospettasse la presenza di qualcuno che origli nascosto), «è diventato quasi un rito, i gesti, le cose che devi fare sono sempre gli stessi. Questo è anche il momento più vuoto della giornata, quando il tempo non tende più a niente. Passata l’ebbrezza dell’azione, si sta zitti nel sacco a pelo a cercare un po’ di caldo. È questa, per me, l’essenza dell’alpinismo». Sorse la luna, grande palla di luce quasi abbagliante. E poco dopo iniziarono i miraggi tipici delle Alpi Giulie. Le ombre lunari in movimento sembravano presenze vive e indecifrabili. C’era una leggera brezza. L’aria riscaldata intorno alla roccia ancora tiepida dopo il tramonto saliva verso l’alto. Mentre dal cielo precipitavano i geli notturni formando leggeri vortici tra loro. 144­­­­

Scrisse Kugy che «non si conosce una montagna finché non si è dormito sopra». La frase mi sembrava un po’ categorica e definitiva, ma ripeterla durante un bivacco dà un senso compiuto al momento, una risposta al freddo e al disagio che si sta vivendo. Solo più tardi, quando potemmo vedere la zoomata del bivacco, ci rendemmo conto delle dimensioni della montagna. Il primo istante dell’immagine dinamica incorniciava due figure scure con le lampade frontali accese e la luce azzurrina del fornello, via via che l’inquadratura si ingrandiva le due figure si rimpicciolivano fino a sparire del tutto nel mare di roccia circostante. Piccoli frammenti invisibili nell’immensità verticale dello Jôf Fuart, una delle montagne più spettacolari e meno conosciute delle Alpi. Emilio Comici riferì nelle sue memorie: «Era la sera del 7 settembre 1930, quando io e l’amico Mario Cesca, dopo aver girato completamente la Cengia degli Dei, discendevamo a rotta di collo dal rifugio Pellarini in Valbruna per il timore di perdere il treno, e, più ancora, per la smania di annunciare al dottor Kugy che avevamo realizzato il suo sogno. Già vedevamo con soddisfazione brillare nel suo sguardo la contentezza, e ci pareva di sentire il suo elogio commosso. Ecco il premio più ambìto per un alpinista giuliano: essere lodato da Lui, che è stato il pioniere di queste meravigliose montagne. Egli ci accolse e ci intrattenne tutto raggiante, poi ci congedò con queste parole: ‘Addio, cari: avete fatto la Via Eterna’. Così il dottor Kugy battezzò quella via, che non termina mai».

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Il segreto di Dino: una favola esemplare

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Tutto era iniziato il 16 aprile 2009, quando un guardaparco al comando di Nino Martino, nella zona più impervia del Parco delle Dolomiti Bellunesi, in fondo alla Valle del Mis, aveva avvistato un orso e gli aveva scattato una serie di fotografie. Ce n’era una in particolare nella quale si vedevano distintamente gli occhi dell’animale che fissavano l’obiettivo: presa dall’alto con una lente che schiaccia le prospettive, faceva apparire l’orso più piccino di quello che era. Nelle favole, o nei cartoni animati, l’immagine di un animale dai tratti antropomorfi e dal nome di uomo suscita subito un moto di simpatia: «umanizzare» gli animali trasporta in una dimensione infantile, onirica, immaginifica. Non so se Nino Martino avesse riflettuto sugli esiti che il nome «Dino», da lui affibbiato al suo orso, avrebbe comportato. Il nome del serissimo autore del Deserto dei Tartari, il nome del cronista di nera e dell’intellettuale impegnato accostato al muso peloso di un orso clandestino: ci avrà pensato? In ogni caso, il nome «Dino» era perfetto per una favola che avrebbe coinvolto centinaia di migliaia di persone. Dino appariva indifeso, timido, pronto a fuggire. L’im­ magine aveva preso a circolare, e si era sparsa la voce che un orso solitario aveva compiuto un’eccezionale migrazione dalla Slovenia. Aveva attraversato la foresta più vasta delle Alpi, quella di Tarvisio, aveva oltrepassato le Giulie, le Carniche, era entrato in Comelico e poi aveva proseguito giù giù lungo i confini delle Dolomiti, fino al Bellunese. Una favola bellissima. Cammina cammina, il protagonista era riuscito ad 149­­­­

attraversare strade statali, persino autostrade (dove erano state costruite apposite aperture sotterranee per il passaggio degli animali), aveva guadato fiumi, aggirato paesi, superato alti valichi alpini, ed era avanzato per centinaia di chilometri mantenendo una direzione costante fino a penetrare i luoghi più segreti delle Alpi. Come era riuscito in un’impresa tanto intrepida? ­– si chiedevano gli etologi. E perché lo aveva fatto? E ancora: in Slovenia vivono circa quattrocento orsi; perché proprio quell’esemplare, perché solo uno di loro, aveva deciso di partire? E seguendo quale istinto? Gli enigmi – che come premesse per una favola funzionano sempre bene – erano tanti e coinvolgevano scienziati e studiosi del comportamento animale. E anche, va da sé, un gran numero di zoofili. Perché l’orso Dino era partito? Cosa cercava? Ben presto, però, Dino si era fatto notare anche da una categoria di lavoratori che conosce gli animali da vicino, ma che con gli orsi, per millenaria tradizione, non è mai entrata in grande sintonia: gli allevatori e i pastori. E si era fatto notare nel peggiore dei modi: iniziando a sbranare pecore. A decine ne aveva uccise, e senza neppure mangiarle. Dunque per puro divertimento assassino. Semplicemente per il gusto di dare la morte. Soprattutto, sosteneva qualcuno, a Dino piaceva massacrare le pecore che avevano legato al collo il campanello di segnalazione: gli piaceva sentire quel suono che nella fuga si intensificava, gli piaceva infilare i denti nel collo di quegli animali bianchi, lenti, che belando si abbandonavano alla morte. Gli piaceva strappare, alle pecore, le arterie dalla gola, sporcarsi il muso con il loro sangue, fin quando quel maledetto campanello cessava di suonare. Forse a infastidirlo era proprio quel suono metallico che rompeva il silenzio primordiale dei suoi luoghi. E di pecore, nell’estate del 2009, ne aveva ammazzate a decine. Intanto, intorno alle carcasse degli ovini, gli studiosi avevano trovato tracce evidenti del plantigrado, e attraverso le analisi degli escrementi e l’esame del dna ricavato dai resti 150­­­­

dei peli, avevano accertato che – come del resto già si supponeva – quell’orso divoratore di pecore non apparteneva alla colonia trentina del progetto Life Ursus, non era uno dei figli dei progenitori Brenta, Daniza, Gasper, Irma, Joze, Jurka, Kirka, Maja, Masun e Vida prelevati dalla Slovenia e rilasciati nel Parco Naturale Adamello Brenta dopo che per decenni i loro antenati autoctoni avevano imboccato la via dell’estinzione. Come un tempo, oggi una colonia di orsi gira libera sotto le pareti del Brenta, ma è una semilibertà: molti di quei ventotto orsi del progetto hanno un radiocollare che trasmette la loro posizione e permette di seguirne gli spostamenti sul territorio. E a controllare sul monitor del computer c’è sempre qualcuno del personale dedicato: nessun orso di quelli sorvegliati era fuggito. Dunque, a meno di un’evasione dei pochi orsi senza radiocollare, i sospetti si accentravano su Dino. Dopo gli esami del dna arrivò anche la prova. Era lui il colpevole. Quell’orso risultava dunque un randagio predatore a cui piaceva attentare alla tranquillità degli allevatori e avrebbe potuto – chi si sarebbe assunto la responsabilità di negarlo? – attaccare anche qualche essere umano. L’uomo, si sa, scappa a gambe levate quando si imbatte in un orso. Anche l’orso non perde tempo e fugge via quando scorge l’ombra di un uomo. Tra le due specie corre un confine di terrore, una pulsione reciproca che li obbliga a starsene lontani. Uno di fronte all’altro si sentono entrambi dei malcapitati. Eppure c’è anche un’altra forza di segno opposto che si insinua tra loro. C’è anche uno strano magnetismo che provoca, come vedremo, gravi distorsioni nei reciproci comportamenti. Dopo le prime razzie, Dino era giunto nella zona del Primiero. E lì aveva dato il meglio di sé. Carcasse di pecore erano state trovate nella zona di Fossetta, poi verso Passo Cereda, in Val Giasinozza, in Val Noana, fino alle Valli del Vanoi. Ma la maggior quantità di sangue venne versata a Malga Cercenadura: sei pecore gra151­­­­

vide sgozzate. Un orrore. L’ostilità nei confronti di Dino, il predatore, era ormai crescente. Ed era la stessa millenaria ostilità che la cultura montanara riserva al mondo selvaggio, alle ingovernabili forze della natura, alla natura ‘inutile’ delle alte quote e dei ghiacciai. Era arrivato il momento di agire. Se non ammazzarlo, perché il Piano d’Azione per la Conservazione dell’Orso Bruno sulle Alpi Centro-orientali (pacobace) non lo permetteva, almeno spaventarlo. Catturarlo e terrorizzarlo a morte. Così che non si potesse più avvicinare qualora avesse avuto sentore della presenza dell’uomo. Venerdì 15 ottobre 2009. È l’alba. Una luminosa alba d’autunno. Siamo ai 1200 metri dei pratoni chiamati Cercenadura, in alta Val Canali, nel Parco Naturale Paneveggio Pale di San Martino. Il cielo già azzurro è come un abisso trasparente che si infrange sulle altissime torri. Su tutte, spicca la cima del Sass Maor inondata di rosso (dove proprio il giovane Dino Buzzati, alla fine dell’agosto 1929, aveva messo piede insieme all’amico Emilio Zacchi, dopo la lunga scalata). Presto sarà giorno sulle Dolomiti. Ma la notte ancora non ha lasciato la Valle. E nero e impenetrabile appare il fitto del bosco agli otto uomini in attesa. L’attenzione è tutta sulla porta della grande gabbia di alluminio a forma di tubo. La tensione è palpabile, mentre alcuni uomini del Corpo Forestale imbracciano fucili caricati con pallottole di gomma. Tutti attendono l’apertura della gabbia. La sera prima, al termine di lunghe settimane di paziente caccia, l’orso Dino era stato finalmente catturato dai forestali. Gli avevano teso una trappola utilizzando, come esca, una pecora sventrata. Dino ci aveva messo dentro il muso nel carnaio e zac!... gli era scattato il cappio intorno al collo. Sedato con una siringa di narcotici ad alto dosaggio, lo avevano sottoposto a una visita dettagliata. «Un giovane e sano esemplare di Ursus arctos», così avevano sentenziato i veterinari. Gli avevano posizionato delle marche auricolari e un radiocollare in grado di 152­­­­

emettere segnali radio e di fornire la posizione tramite Gps. Un radiocollare affidabile e a lunga durata, senza neanche il dispositivo di apertura automatica a tempo. La notte era passata tranquilla. E ora, con l’arrivo dell’alba, l’effetto del narcotico stava svanendo. Era arrivato il momento del rilascio. «Tenetevi pronti», ordinò il caposquadra. «Puntate!». Gli uomini tolsero la sicura ai fucili. E quando tutti ebbero fatto un gesto col capo, si sentì l’urlo: «Apri!». L’orso scappò in mezzo al prato: 175 chili di muscoli che fuggivano a 45 chilometri all’ora. I colpi dei fucili si propa‑ gavano nell’alba rimbalzando di parete in parete, di roccia in roccia. Fischiavano i proiettili di gomma che colpivano da dietro l’animale. E abbaiava una muta di cani Laika «anti-orso» fatta arrivare dalla Siberia per spaventare, per traumatizzare l’animale. Correva, Dino. Più veloce di tutti, sotto il tiro dei fucili. E spariva nel fitto del bosco tinto d’autunno. L’operazione fu un successo, dissero i forestali. Ma, si sa, anche i traumi più pesanti possono essere superati. Soprattutto dopo un buon sonno ristoratore. E davanti a Dino, in quell’autunno che avanzava, c’era ad attenderlo la lunga notte dell’inverno alpino. Dell’orso massacratore non si videro più tracce sul terreno. Solo i segnali luminosi sul monitor dei computer ricordavano che l’animale era ancora in vita. Poi, con le prime nevicate, vennero spenti anche quelli. Dino era caduto in letargo. Un antro sotto una pietra sporgente tra le montagne del Trentino meridionale ospitava il suo cuore rallentato. Tutto taceva sotto la neve. Il giorno del risveglio, quando i prati si ricoprirono di bucaneve, Dino uscì dalla grotta e riprese la sua missione solitaria. Viaggiare verso ovest seguendo il viaggio del sole, l’inconfutabile linea eliodromica. 153­­­­

Passò per il Monte Grappa, attraversò la Val Belluna superando strade, ferrovie, paesi abitati; scese su Bassano e risalì verso l’Altopiano dei Sette Comuni, e poi ancora a ovest, nei luoghi più impensabili, nella periferia più remota del nostro mondo. E poi ancora, qualche ora dopo, nei punti più trafficati, dove però, di notte, nessuno poteva vederlo. Aveva toccato le Piccole Dolomiti, il Pasubio, la Catena del Sengio Alto, il Gruppo della Carega, la Catena delle Tre Croci. Procedeva durante le tenebre. Oppure di giorno, silenzioso, invisibile con il suo manto scuro nei passaggi nascosti del sottobosco ombroso, o di corsa attraverso le radure. Aveva toccato Recoaro Mille e l’Altopiano delle Montagnole, poi era entrato nella regione della Lessinia. Se Dino di giorno e di notte era invisibile, sul terreno si vedevano però le tracce del suo passaggio. Non erano più gli ovini le sue prede preferite: ora la caccia si concentrava sugli asini (almeno dieci ne aveva ammazzati, con la furia di un giaguaro) e le galline. Aveva distrutto arnie per saccheggiare il miele. I contadini rilasciavano dichiarazioni ufficiali di protesta. «Non siamo mica nel Medioevo, non possiamo mica stare in balìa di un mostro che devasta le nostre terre». Ma altri – soprattutto abitanti delle città, Vicenza, Verona – iniziavano a prendere le parti dell’orso. L’associazione che tutela gli allevatori reclamava la messa di Dino in cattività; i bambini delle scuole erano tutti schierati in sua difesa. Comuni, Provincia di Vicenza e Comunità montana di Asiago incolpavano Dino dell’allarmante crollo dei turisti nella zona e gridavano vendetta contro di lui. Il consorzio turistico, viceversa, ribatteva piccato: «Macché calo; venite da noi, sulle tracce dell’orso!». Nelle televisioni private locali Dino era una presenza fissa. Sui giornali provinciali si aprivano dibattiti, addirittura assemblee, referendum sul da farsi: ammazzarlo, riportarlo a casa, assisterlo? Tutti parlavano di lui, ma nessuno lo vedeva. Dino era solo immaginato, proprio come il protagonista di una favo154­­­­

la. E più Dino avanzava nella sua marcia, più diventava un caso mediatico non solo regionale. Il ministro delle Politiche Agricole Giancarlo Galan era diventato un suo paladino, e aveva sposato tesi ambientaliste: «Sono contento che Dino abbia scelto la nostra terra. Dobbiamo recuperare la cultura della convivenza con questo meraviglioso plantigrado. Nessuno si sogni di usare le armi contro gli orsi, sarebbe un atto barbaro e inutile. La soluzione è rendergli l’accesso al cibo più difficile». Intervenivano associazioni di consumatori, scuole, sindacalisti, cacciatori. Persino diplomatici stranieri erano entrati in scena. Un console tedesco aveva dichiarato con accento paternalistico: «Mettiamo a disposizione i nostri servizi per ospitare Dino in Germania, se l’Italia non lo vuole». E a proposito di cibo, i toni tra sostenitori e detrattori si erano spinti così in là che la più importante azienda italiana produttrice di miele e marmellate biologiche aveva proposto: «Mettiamo a disposizione di Dino cinque quintali di miele, se mangia quello, forse lascerà perdere gli asini». Alla notizia che la Regione Veneto aveva accolto le lamentele di amministratori e allevatori, richiedendo al Ministero dell’Ambiente l’autorizzazione a catturarlo e portarlo altrove, un blog dedicato a Dino, ormai stella dei social network con oltre 25.000 fan, minacciava: «Prendete Dino e non compreremo mai più formaggio Asiago». La fotografia di Dino appariva su centinaia di magliette. «Se hai paura dell’orso Dino...» si leggeva sul davanti, mentre sulla schiena: «... allora sei un asino!». Nel frattempo i detrattori festeggiavano la decisione presa su altrettanti siti internet: «Estradare Dino in Slovenia!». A primavera inoltrata, Dino era arrivato fino alle porte di Verona: davanti al suo percorso si trovava ora la grande pianura industrializzata, l’immenso sprawl urbano dal quale era obbligato a tenersi alla larga. Fu lì che decise di fare dietrofront. E così come, inspiegabilmente, era partito seguendo verso occidente una misteriosa stella polare, ora, al contrario, 155­­­­

ritornava sui suoi stessi passi verso oriente. Verso la via di casa. Di nuovo procedeva attraverso le stesse montagne, gli stessi boschi e gli stessi altipiani. Attirato dalle luci dei paesi la notte, richiamato dal buio dei boschi di giorno. Dino vagava nel ventre più impenetrabile della macchia, nel profondo misterioso delle selve. Si era come dissolto, natura dentro la natura, giù giù nel sacro seme della terra. Eppure, in quei giorni, era anche l’essere vivente più pedinato che ci fosse. Suona paradossale, ma la bestia più selvatica, l’emblema stesso della natura primigenia – eletto nella cosmogonia dell’uomo alpino arcaico a incarnazione dell’imponderabile naturale, come un ciclope o un orco dei boschi – in quelle settimane era diventato l’essere vivente più controllato di tutta la catena alpina sui monitor delle guardie forestali. Dallo spazio un satellite indicava i suoi spostamenti, sulla rete dei computer si commentava il suo destino, le tecnologie più avanzate, i dispositivi più sofisticati che l’era del silicio metteva a disposizione si concentravano tutt’intorno all’abitante delle selve. Il primordiale con l’ipermoderno si fondevano nella misteriosa creatura. Tutti pensavano a lui senza averlo neanche mai visto. Era diventato un simbolo, c’era dove non era presente, era presente dove non c’era. Un simbolo, appunto, dove il materiale e l’immateriale convivono. Così su Dino si evidenziava, con le sue radicate contraddizioni, la vecchia polarizzazione tra due punti di vista sulla natura: quello del cittadino e quello del montanaro. Il cittadino tende a vedere nella montagna un luogo di «libera natura», un’immagine di pura bellezza, proprio perché alternativa alla grigia e sconsolante dimensione urbana. Per questo ogni più autentica espressione dei boschi e delle montagne, come l’orso Dino, dev’essere preservata. Dino è il vero abitante della montagna. «La vera domanda è che cosa ci facciamo noi uomini, a miliardi, a casa delle altre bestie», si 156­­­­

leggeva in un editoriale su «la Repubblica». È questo un ambientalismo di origine romantica (ancora una volta di matrice trascendentalista alla Thoreau, alla Muir) che ha difficoltà a calibrare il grado di tutela ambientale adeguato alle montagne alpine. Crede nel selvaggio e vede le Alpi come luoghi di pura natura. Ma si sbaglia. Le Alpi, così come le vediamo, sono il prodotto dell’uomo. Spesso le tracce del montanaro non si vedono ma ci sono: in una radura per il pascolo, in un boschetto a monte di una frazione per la difesa dalle valanghe, nella sopravvivenza di certe specie animali e vegetali piuttosto che di altre che si sono estinte. È un sistema levigato dai secoli come le rocce dei fiumi. Per il montanaro il punto di vista sulla natura, e dunque su Dino, è opposto a quello del cittadino. Per lui la natura ha sempre rappresentato la risorsa primaria della sua esistenza ed è per questo motivo che va preservata. Non per inseguire un’immagine di «pura bellezza». Lui stesso si è dovuto difendere dalle minacce della montagna, dai rigori delle alte quote e dagli imperativi ambientali (anche se oggi la «bellezza» delle montagne è diventata, attraverso l’industria del turismo, la sua principale risorsa: «Venite da noi, sulle tracce dell’orso!»). A questo punto, tutti noi uomini contemporanei ci senti‑ remmo più tristi se Dino sparisse, anche se non l’abbiamo mai visto, e sappiamo che non lo incontreremo mai. Il solo fatto di sapere che l’orso vaghi libero per le montagne ci dà la rassicurante sensazione che la natura viva ancora. Ci sgrava da un vago senso di colpa. Ci permette di sognare. Ed è come la questione del ritiro dei ghiacci, che ci rende «tutti più tristi», «tutti più poveri» (come diceva Buzzati), anche se su un ghiacciaio non ci andremo mai. La diminuzione della massa glaciale accende un turbamento nelle nostre coscienze: noi, esseri umani, siamo i soli responsabili del catastrofico deterioramento degli equili‑ bri naturali. Una natura sempre più Mater dolorosa che ingene‑ ra rimorso, pentimento, una nuova forma di devozione. La vita di Dino ci fa sentire tutti più assolti. 157­­­­

Durante il suo tragitto di ritorno, Dino passò di nuovo per l’Altopiano dei Sette Comuni, proprio accanto alla casa appartata di Rigoni Stern, a Valgiardini, nei pressi di Asiago, quella casa che lo scrittore si era costruito nei primi anni Sessanta grazie al milione di lire ricevuto in premio al «Puccini-Sinigaglia» per il suo secondo volume pubblicato, Il bosco degli urogalli. Il grande scrittore della natura, dei boschi, degli animali, degli equilibri millenari che la cultura montanara ha creato, aveva dato voce durante tutta la sua vita a una sintesi consapevole delle due visioni, quella dell’ambientalismo cittadino e quella dell’attitudine alla sostenibilità del montanaro. Rigoni Stern rappresentava la memoria della sua terra, le origini, la vita tradizionale alpina innalzata a esempio di moderazione e saggezza. Alla fine del maggio 2010 un editoriale di Michele Serra su «la Repubblica» si spinse a dire: «Credessi nella reincarnazione, direi che Dino ospita la buona anima di Mario Rigoni Stern». Chissà se Rigoni Stern avrebbe difeso Dino? Chissà se Mario Rigoni Stern, al quale veniva riconosciuto un ruolo di coscienza critica della sua terra, di sentinella morale dell’Altopiano, sarebbe stato ascoltato dai suoi conterranei? Già prima della sua malattia lo scrittore aveva espresso pareri che lanciavano echi di discussione. Chissà, mi chiedo ancora, cosa avrebbe detto a proposito di Dino? Quando lo andai a trovare, mi confidò che ormai non partecipava più alle questioni pubbliche. Si sentiva isolato. «Sto diventando sempre più un orso», aveva detto con un sorriso. Annuii, pensando che avesse gettato lì la solita battuta dell’uomo che sente premere la vecchiaia sulle spalle. Mario Rigoni Stern era cacciatore. Ma era anche un amante degli animali. Sintesi che sembra impossibile nella spartizione manichea degli animalisti. Un giorno aveva scritto: «Ho le api e produco il miele per la mia famiglia; ho l’orto dietro casa; ho il campo di patate; coltivo cavoli, sedano, erba cipollina; con la grappa che mi procurano gli amici faccio infusi di erbe; vado per i boschi e raccolgo funghi. Cerco, cioè, di fare una vita che sia il più possibile legata alla terra. Vado 158­­­­

anche a caccia nel bosco. Andare a caccia oggi sembra un controsenso... Ma a volte la caccia è necessaria per conservare l’equilibrio naturale». A due anni dalla sua morte, quando Dino era passato sull’Altopiano, tutti tiravano a proprio favore la memoria di Rigoni Stern: i cacciatori da una parte, gli ambientalisti dall’altra. Ma ad Asiago c’era chi era pronto a caricare il fucile. Una nuova cattura era già stata disposta. Mentre Dino, in silenzio, nascosto nel grembo ignoto delle selve, se n’era andato quatto quatto da dove era venuto. I segnali del radiocollare lo davano in partenza, finché anche quelli si spensero, e di Dino più nulla. Si erano perse le tracce. Strano, perché il collare che gli era stato infilato non aveva drop off, il dispositivo a sgancio automatico a tempo. Dove se n’era andato? Il «Giornale di Vicenza» aveva già dato l’annuncio che l’orso era stato ucciso a fucilate e poi «cotto e mangiato» dai cacciatori della zona: una notizia mai provata, anzi smentita dalle indagini successive della polizia e della Forestale. E difatti venne avvistato più avanti nelle Alpi Giulie. E poi, di nuovo, si persero le tracce. Alla fine del marzo 2011, appena risvegliatosi dal letargo, Dino è stato avvistato nuovamente. Si trovava in Slovenia, proprio dalle parti da cui era partito. Come aveva fatto a ritornare esattamente in quel punto, percorrendo a ritroso tutte quelle centinaia e centinaia di chilometri? Un senso dell’orientamento che lasciava stupiti. Quel mattino di inizio primavera se ne stava nel fondo di una delle foreste più vaste delle Alpi. Sopra la distesa dei pini svettava la piramide grigia del Triglav, montagna simbolo degli sloveni, sulla quale, come detta la tradizione nazionale, almeno una volta nella vita bisogna salire. Dino vagava solitario sulla montagna ancora innevata. Guardando attentamente nel binocolo, il tecnico del Mi­ 159­­­­

nistero delle Foreste, aveva notato che l’animale aveva un problema. Era magro, ben più di quanto avrebbe dovuto essere dopo il letargo. Deambulava male. Sembrava tramortito. Non c’era dubbio, era ammalato. Rabbia. Si trattava di rabbia, e perciò andava abbattuto. I forestali imbracciarono il fucile e presero la mira. Un colpo secco. Dino si accasciò a terra. Morto. Solo più tardi i veterinari si accorsero di cos’era accaduto veramente a Dino. No, non era stata la rabbia a sfiancarlo. Era stato il collare. Quella notte tra il 14 e il 15 ottobre 2008 gli era stato posizionato il radiocollare con tutte le cure del caso. Ma avevano stretto troppo la cinghia, senza tener conto che l’animale non era ancora adulto. Poi Dino era cresciuto. Era arrivato a pesare duecento chili e a misurare due metri di altezza. Il collare, a quel punto, gli stringeva la gola, gli impediva di respirare. L’animale non poteva più vivere con quella morsa. Aveva provato ripetutamente a strapparselo di dosso. Si strusciava contro le rocce, contro le cortecce degli alberi. Ma niente, solo gli apparecchi elettronici aveva distrutto: il collare non si staccava. In compenso si era lacerato la carne. E il sangue si era infettato. Quell’ultima mattina della giovane primavera, Dino era in fin di vita, e forse nessuno avrebbe più potuto salvarlo. Era stato un mostro per alcuni, un animale mitico per altri. Portatore di arcaiche simbologie dei boschi, che abitava nei sogni.

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Glossario

Aerlite  Speciale suola antiscivolo di gomma morbida, applicata ad alcuni modelli di zoccolo verso la fine degli anni Settanta. Quando venne scoperta da un gruppo di arrampicatori, questa suola rappresentò una piccola rivoluzione tra i materiali usati per scalare, perché facilitava il superamento di difficili passaggi in aderenza su placche di granito. Antropocene  Termine da poco entrato in uso ma non ancora riconosciuto ufficialmente dalla comunità scientifica internazionale, indica una nuova era geologica che avrebbe avuto inizio quando l’uomo è diventato il principale artefice dei mutamenti ambientali del pianeta. È stato introdotto per la prima volta da Paul Crutzen nel 2000. L’Antropocene seguirebbe, dunque, il Pleistocene. Apotropaico  Aggettivo attribuito a riti, gesti o monili ai quali è riconosciuta la funzione di allontanare influssi maligni. Un rito apotropaico scongiura il male; così, ad esempio, i fuochi di San Giovanni accesi in alcune vallate delle Alpi occidentali (Vallese, in Svizzera) per difendersi dagli spiriti maligni dei ghiacciai. Arco morenico  Punto di massima estensione di una lingua glaciale. Esso si forma, solitamente, quando un corpo glaciale nella sua avanzata verso valle trasporta una notevole

quantità di detriti precipitati dalle pareti di una montagna che vengono depositati sui fianchi e la fronte del ghiacciaio. Al ritiro dei ghiacci il materiale depositato nel punto più distante forma l’arco morenico. Arrampicata libera  Progressione nella quale l’arrampicatore non interpone alcun attrezzo tra sé e la parete (freeclimbing): mani e piedi si avvalgono esclusivamente di appigli e appoggi naturali; ma non è detto che l’arrampicatore proceda slegato (freesoloing): in arrampicata libera corde, moschettoni, chiodi sono previsti per garantire sicurezza in caso di necessità. Beatrìch   Figura leggendaria della tradizione orale trentina. Bilmòn  Versione trentina dell’Homo Salvadego (vedi Homo Salvadego). Biotite  Silicato, ossia minerale composto da silicio, alluminio e ossigeno; elementi che si uniscono al ferro, al magnesio e al potassio. Questi si legano formando dei «fogli», da cui il nome della classe cui appartengono le biotiti, «fillosilicati». Di colore scuro, si presenta con una forma lamellare. Carbonati  Famiglia di sali che deriva dall’acido carbonico. Tra i carbonati più noti, quello di calcio e quello di

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magnesio: il primo costituisce una grande quantità di rocce diverse, dai calcari al marmo fino al travertino; il secondo invece è l’elemento base delle dolomie che formano, ad esempio, una buona parte delle Dolomiti.

spesso una fessura. Esistono diedri molto lunghi e profondi che risalgono la parete: uno dei più famosi delle Alpi è il «Diedro di 90 metri», lungo la via «Diretta Americana» al Petit Dru, nel Massiccio del Bianco.

Cengia  Sporgenza, come un terrazzo, lungo una parete rocciosa. Spesso si forma quando, lungo la parete, vi è un cambiamento nel tipo di rocce. Questo fa sì che l’erosione agisca in modo differenziato causando sporgenze di vario tipo. Spesso le cenge vengono sfruttate per realizzare sentieri e sono utilizzate per riposarsi durante le ascensioni alpinistiche.

Diorite  Roccia magmatica che si forma per il raffreddamento di un magma sotto la superficie terrestre. Dal punto di vista chimico, è una via intermedia tra i graniti e i gabbri che si riflette macroscopicamente con una colorazione a metà tra il chiaro e lo scuro. I minerali che la compongono sono soprattutto plagioclasio, anfiboli, biotite e pirosseni. Direttrice tettonica  Andamento della struttura di uno o più corpi rocciosi conseguente a fenomeni geologici che hanno plasmato una certa area. Direttrici tettoniche possono essere le pieghe presenti nelle rocce oppure le fratture o altri elementi che indicano direzioni di forza a cui sono stati sottoposti i corpi rocciosi.

Cono detritico  Accumulo di detriti localizzato ai piedi di una parete rocciosa, spesso all’interno di un canalone. Le cause della formazione di questi accumuli sono l’erosione e la gravità. Talora i coni detritici si possono formare anche in seguito al trasporto di blocchi di roccia da parte delle acque dilavanti e si distinguono dai precedenti perché meno inclinati.

Dolina  Avvallamento nel terreno a forma di conca, derivato da uno sprofondamento delle rocce sottostanti in seguito all’azione del carsismo. Può capitare che le doline, se riempite di depositi argillosi, originino dei laghetti.

Corda doppia  Tecnica di discesa lungo una parete rocciosa. La procedura prevede che, con particolari freni o «discensori», ci si cali su una corda tenuta, appunto, doppia (nell’ancoraggio a monte, la stessa corda è stata fatta passare in un anello fino alla metà della sua lunghezza). Una volta arrivati al fondo della calata, tirando una delle due estremità, la corda si sfilerà dall’ancoraggio a monte e verrà recuperata. A quel punto sarà a disposizione per una nuova serie di calate.

Dolomia  Roccia sedimentaria composta da carbonato di magnesio e calcio. Generalmente le dolomie non si depositano in quanto tali, ma sono il risultato di «dolomitizzazione» di rocce calcaree che da queste si differenziano per un elevato contenuto di calcio. Dugo  Termine dialettale del Bellunese che indica il particolare suono prodotto soffiando tra i due pollici uniti per imitare il verso degli uccelli notturni.

Diedro  Particolare conformazione di una parete rocciosa. Il diedro è una rientranza nella roccia che forma un angolo, lungo il quale corre

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Fenotipo  Aspetto, manifestazione oggettiva, di un organismo nella sua complessità reale e definitiva. Il fenotipo è usato in contrapposizione al genotipo, l’insieme delle caratteristiche «in potenza» nella successione ereditaria.

zione vulcanica. I minerali che la compongono sono soprattutto plagioclasi, pirosseni e orneblenda. Se lo stesso magma fosse raffreddato in profondità darebbe origine ad una diorite. Si tratta di rocce che si formano da vulcani moderatamente esplosivi. Sono presenti sull’Etna.

Fittone  Corta asta di ferro infissa nella roccia all’interno di un buco artificiale. I fittoni sono ancoraggi particolarmente solidi e sicuri, utilizzati per attrezzare vie ferrate o soste lungo itinerari di arrampicata.

Lava dacitica  Roccia magmatica effusiva, composta prevalentemente da quarzo e plagioclasio. Si tratta di rocce che si formano da eruzioni di vulcani esplosivi. Se ne trovano in grandi quantità sulle Ande.

Gasherbrum IV  Conosciuto anche come G4, è una cima di 7925 metri nel Massiccio del Gasherbrum, in Karakorum, al confine tra Cina e Pakistan. Venne salita per la prima volta nel 1958 da una spedizione italiana guidata da Riccardo Cassin.

Lava riolitica  Roccia magmatica effusiva, composta principalmente da quarzo, feldspato e plagioclasio. È tipica di vulcani molto esplosivi. Se lo stesso magma dovesse raffreddare in profondità, darebbe origine a rocce granitiche.

Graostana  Figura leggendaria della tradizione orale bellunese.

Macereto di frana  Zona di accumulo del materiale franato da un versante montuoso. Si tratta di quella zona della frana in cui il materiale si trova a una quota superiore rispetto al versante che si aveva prima della frana.

Graspola  Termine gergale usato tra gli arrampicatori per indicare piccolissimi appigli o rughe sulla roccia, utili alla progressione. Homo Salvadego  Figura leggendaria della tradizione orale delle Alpi. Con nomi diversi, l’Homo Salvadego, o Uomo Selvaggio, è un personaggio ricorrente nelle leggende alpine. Vive da solo nei boschi, è amico degli animali e conosce i segreti dell’arte casearia. Ha un ruolo ambiguo, né positivo, né negativo: tutela la natura e punisce chi non la rispetta. Nell’interpretazione antro­pologica, l’Homo Salvadego svolge un ruolo di mediazione tra l’ordine sociale della comunità e il mondo selvaggio della montagna. Ed è un ponte simbolico nell’orizzonte bifronte, cultura-natura, dei montanari.

Marmitta di evorsione  Forma di erosione legata all’azione di caduta di acqua con moto vorticoso accompagnata da ciottoli che vengono fatti ruotare velocemente all’interno di conche naturali presenti nella roccia. Con il passare del tempo le conche si ampliano fino a formare «marmitte» con dimensioni che possono arrivare a superare il metro di diametro. Il nome deriva proprio dalla loro somiglianza a grosse marmitte che facevano pensare all’esistenza di fantastici giganti. Mugo  Cespuglio aghiforme sempreverde con corteccia grigio scuro a squame sottili. Scientificamente è chiamato Pinus mugo. Cresce spon-

Lava andesitica  Roccia magmatica effusiva, ossia prodotta da un’eru-

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Serizzo  Nome commerciale di una roccia metamorfica (ossia di una roccia che ha subito pressioni e aumenti di temperatura) derivata da rocce sedimentarie, di solito a composizione sabbioso-argillosa. Esso possiede la caratteristica di essere «occhiadino», ossia di presentare dei noduli di quarzo o feldspato di dimensioni superiori al resto dei minerali della roccia. Se i noduli assumono dimensioni di centimetri viene anche chiamato «ghiandone». In termini geologici è definito gneiss. È composto per lo più da quarzo, biotite scura e feldspato bianco con aggiunta di muscovite che dà alla roccia un aspetto scintillante.

taneo tra i 1500 e i 2700 metri di quota e predilige luoghi molto luminosi e freddi. È utilizzato per estrarne olio dai rametti. Orogenesi alpina  Insieme dei fenomeni geologici che a partire da circa 80-90 milioni di anni fa ha portato alla formazione della catena delle Alpi. Terminata circa 15 milioni di anni or sono, l’orogenesi è stata causata dalla chiusura della Tetide, l’oceano che separava l’Africa dall’Europa, avvenuta in seguito al movimento verso nord nord-est dell’Africa. Orografia  Studio dei rilievi terrestri. Orrido  Valle molto stretta e profonda, definita anche gola. Si forma per l’azione erosiva dell’acqua o dei torrenti in rocce facili da scavare verticalmente. Spesso all’interno degli orridi vi sono spettacolari cascate.

Sfasciume  Notevole massa di detriti accumulati per lo più alla base di pareti rocciose attraverso varie strade: dalla caduta per gravità di blocchi di varie dimensioni dalla parete sovrastante, fino al deposito di materiale legato al passaggio di corsi d’acqua.

Placca  Formazione rocciosa compatta e a volte liscia e priva di appigli. Spesso è il risultato dell’erosione glaciale.

Verglas  Fenomeno che si presenta a basse temperature. Si tratta di uno strato sottile di ghiaccio che ricopre la roccia e rende pressoché impossibile la progressione in arrampicata libera.

Scisto  Roccia metamorfica, ossia una roccia che ha subito una forte pressione e un’alta temperatura al punto che la «tessitura» diventasse scistosa con lamine sottili che si sfaldano con una certa facilità. Generalmente gli scisti sono il risultato della trasformazione di argille. Seracco  Corpo di ghiaccio dalle for-­ me più diverse (colonna, torre, fungo) che si forma all’interno di un ghiacciaio in seguito all’apertura di crepacci longitudinali o trasversali alla direzione del ghiacciaio stesso. Talora i seracchi si formano anche dove la parete sottostante il ghiacciaio cambia di pendenza in modo consistente, così da obbligare il ghiacciaio stesso a «spezzarsi» in vari blocchi.

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Zubiana  Figura leggendaria della tradizione orale trentina. Conosciuta anche come Anguana, vive in ambiente acquatico, da dove emerge mostrando una bellezza incantata. In genere, però, ha un difetto fisico che la distingue da tutte le altre donne; può avere una zampa di capra o una gobba sulla schiena. Seduce i viandanti solitari, finché cadono preda di un amore irresistibile, che può diventare pericoloso se non vengono rispettati determinati patti.

Ringraziamenti

Per il loro aiuto, che è stato indispensabile, tengo a ringraziare in particolare: Werner Bätzing, Alessandro Benzoni, Luigi Bignami, Paola Bonavia, Cristina Buttole, cai di Saluzzo, Ester Cason Angelini, Ivan Guerini, Giovanni Kezich, Claudia Marchesoni, Nino Martino, Jacopo Merizzi, Nives Meroi, Antonella Mott, Rosella Pellerino, Daniela Perco, Alessandra Ravelli, Angelo Recalcati, Marco Rolando, Annibale Salsa, Cristina Zerbi, Daniele Zovi.

Indici

Indice delle cartine

Elva e la Valle Maira, p. 20 Il Pizzo Badile, p. 50 La Val di Mello, p. 68 Il Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, p. 80 La Valle dei Mòcheni, p. 114 Le Alpi Giulie, p. 128

Indice dei nomi

Comici, Emilio, viii, 53, 58, 82, 134, 138-140, 143, 145. Comte, Auguste, ix. Coppi, Fausto, viii. Croce, Benedetto, x.

Aime, Marco, 41. Angelini, Giovanni, 104-108. Antonioli, Renato, 5-8, 11, 16. Bacher, Anna Maria, 122. Baleison di Demonte, Giovanni, 38. Bartlett, William Henry, 26. Bassanini, Giovanni, 53-54. Battisti, Cesare, 121. Bätzing, Werner, 118. Biazaci, Matteo, 38. Biazaci, Tommaso, 38. Bonatti, Walter, 53, 56, 60. Borghese, famiglia, 93. Borghese, Scipione, principe, 55. Boscacci, Antonio, 71, 73, 76. Bove, Giacomo, viii. Bridwell, Jim, 6. Brockedon, William, 26. Burke, Edmund, 26. Buzzati, Dino, 111, 152, 157.

D’Alema, Massimo, 120. Daniel, Arnaud, 34. Dao, famiglia, 36. Dao, Carlino, 25, 28. Dao, Ettore, 22-23, 27-28, 33, 39-40. Deffar, Riccardo, 134. Dimai, fratelli, 139. Diritti, Giorgio, 31-32. Dougan, Vladimiro, 134. Emerson, Ralph Waldo, 13. Esposito, Gino, 61, 65. Everest, George, ix. Evola, Julius, xi-xii. Fabian, Giordano Bruno, 134. Frost, Tom, 6. Fürstenberg, famiglia, 93.

Calegari, fratelli, 55. Canino, Elena, 97. Canova, Mario, 96. Carnera, Primo, viii. Casara, Severino, 138. Cason, Ester, 107. Cassin, Riccardo, viii, 53, 55-65, 75, 78, 138. Castaneda, Carlos, 6. Castelbarco, famiglia, 93. Cederna, Antonio, 102. Cesca, Mario, 140, 145. Charnitzky, Jürgen, x. Clemer, Hans, 37-38, 40, 43. Colò, Zeno, viii.

Galan, Giancarlo, 155. Garibaldi, Giuseppe, 101. Gentile, Giovanni, x, 100. Gervasutti, Giusto, viii, 53. Ghigi, Alessandro, 102. Gibson, William, 8. Giolitti, Giovanni, 25. Gregorio, Giorgio, 141. Guerini, Ivan, 70-71, 73, 75, 77. Hacquet, Belsazar, 137. Haller, Albrecht von, 13. Hérault, Philippe, 32.

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Heyerdahl, Thor, 126. Innocenzo III (Giovanni Lotario di Segni), papa, 34. Kezich, Giovanni, 125-126. Klucker, Christian, 55. Kugy, Julius, 134-140, 142, 145. Lasen, Cesare, 82. Leopoldo, re del Belgio, 138. Ludovico II, marchese di Saluzzo, 37. Lutero, Martin, 119. Magris, Claudio, 133. Mann, Thomas, 139. Maraini, Fosco, viii, 57. Maria Teresa, imperatrice d’Austria, 40. Martino, Nino, 108-109, 111, 149. McCaffrey, Laura, vii-viii, xi. Merizzi, Jacopo, 6, 71, 75-77. Meroi, Nives, 140-141, 143-144. Messner, Reinhold, xii, 53, 56, 60, 65, 86-87. Miotti, Giuseppe, 71, 73. Mistral, Frédéric, 34. Molteni, Mario, 61-65. Motti, Gian Piero, 74, 136. Muir, John, 13, 104-105, 108, 110, 157. Musil, Robert, 118. Nuvolari, Tazio, viii. Olmi, Ermanno, 32. Pasolini, Pier Paolo, 16. Perco, Daniela, 89-93, 95-96, 99-100, 105. Pietro da Saluzzo, 38. Pocar, Ervino, 139. Preuss, Paul, 107, 135. Ratti, Vittorio, 61, 65.

Revelli, Nuto, 90. Rigoni Stern, Mario, 158-159. Risch, Walter, 55. Roosevelt, Theodore, 104. Rossi, Piero, 100. Rousseau, Jean-Jacques, 13. Rudel, Jaufré, 34. Ruggeri, Pietro, 123. Ruskin, John, 26. Saint-Simon, Claude-Henri, ix. Salis, famiglia, 52. Salis, Geronimo, 52. Saussure, Horace-Bénédict de, ix. Savoia, famiglia, 93. Šebesta, Giuseppe, 86, 123-126. Sella, Quintino, x. Serra, Michele, 158. Shackleton, Ernest, viii. Shelley, Mary, 26-27, 33. Shelley, Percy Bysshe, 26. Spyri, Johanna, 30. Strabone, 106. Strauss, Richard, 133. Thoreau, Henry David, 13, 110, 157. Toller, Leo, 122-123. Torlonia, famiglia, 93. Turati, Augusto, xi. Valla, Fredo, 32. Valsecchi, Giuseppe, 61-62, 64-65. Ventadorn, Bernart de, 34. Videsott, Renzo, 102. Villa, Mario, 72. Visconti, famiglia, 93. Visconti, Luchino, 96-97. Whymper, Edward, viii-ix. Wollstonecraft Godwin, Mary, vedi Shelley, Mary. Zacchi, Emilio, 152. Zanardi, Filippo, 96. Zanier, Leonardo, 16. Zürcher, Alfred, 55.