Platone [Reprint 2020 ed.] 9783112313107, 9783112301944


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Table of contents :
Il «Platone» Di Paul Friedländer: La Sua Importanza E La Sua Portata Storico-Ermeneutica
Notizia biografica
Cronologia delle opere di Paul Friedländer
Avvertenza del curatore
Nota editoriale
Platone
Dalla Prefazione Alla Prima Edizione (1928)
Prefazione 1964
Prefazione 1973
Libro Primo. Verità Dell'essere E Realtà Del Vivere
Parte Prima
I. Dal centro al cerchio
II. Daimon
III. Arrheton
IV. L'Accademia
V. L'opera scritta
VI. Il Socrate di Platone
VII. L'ironia
VIII. Il dialogo
IX. Il mito
Parte Seconda
X. Intuizione e costruzione. Un ponte verso Bergson e Schopenhauer
XI. Aletheia. Un confronto dell'autore con se stesso e con Martin Heidegger
XII. Dialogo ed esistenza. Una domanda a Karl Jaspers
XIII. Sulle lettere platoniche
XIV. Platone fisico atomico. Struttura e scomposizione dell'atomo nel Timeo
XV. Platone geofisico e geografo. Gli inizi della geografia del globo terrestre
XVI. Platone giurista (di Huntington Cairns)
XVII. Platone urbanista. Atlantide, la città ideale
XVIII. Socrate a Roma
Quadro sinottico dei contenuti del Libro primo
Libro secondo. Analisi E Interpretazione Degli Scritti Platonici
Sezione Prima. Dialoghi Giovanili L'ascesa
Gruppo A. I dialoghi aporetici della definizione: arete - philia - kalon
Gruppo B. Brevi dialoghi giovanili: filosofo - sofista - poeta
Gruppo C. Autoritratto e maschere del filosofo
Gruppo D. «Il logos resta fermo»
Sezione Seconda. Dialoghi Del Periodo Di Mezzo
20. Simposio
21. Fedone
22. Repubblica
Sezione Terza. Le Opere Tarde
Gruppo A. Dialettica. Teeteto - Parmenide - Fedro - Sofista Politico - Filebo
Gruppo B. Legge del cosmo e legge dello Stato. Timeo - Crizia - Leggi
Appendice. Sull'ordine dei dialoghi
Note Al Testo
Apparati
Indice
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Platone [Reprint 2020 ed.]
 9783112313107, 9783112301944

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BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE direttore

Giovanni Reale

segretari Alberto Bellanti Vincenzo Cicero Giuseppe Girgenti Roberto Radice

Paul Friedlànder PLATONE Introduzione di

Giovanni Reale Traduzione, note e apparati di Andrea L e Moli

IrÈl

BOMPIANI

W

IL P E N S I E R O O C C I D E N T A L E

Titolo originale: Platon (Voi. 1-3) Voi. 1 : © 1964 Walter de Gruyter GmbH & Co. KG, Berlin/New York Voi. 2: © 1964 Walter de Gruyter G m b H & Co. KG, Berlin/New York Voi. 3: © 1975 Walter de Gruyter G m b H & Co. KG, Berlin/New York

ISBN 88-452-1126-6

© 2004 R.C.S. Libri S.p.A., Milano I edizione Bompiani II Pensiero Occidentale settembre 2004

INTRODUZIONE

di Giovanni Reale

IL «PLATONE» DI PAUL FRIEDLÀNDER: LA SUA IMPORTANZA E LA SUA PORTATA STORICO-ERMENEUTICA

1. La figura di Paul Friedlànder come filologo e storico

Paul Friedländer è nato a Berlino nel 1882 e si è formato sotto la guida di professori di filologia classica di grande valore e fama quali Hermann Usener e Ulrich von Wilamowitz Moellendorff. Gli anni per lui più fecondi e più ricchi - sia nelle sue ricerche sia nel suo magistero - sono stati quelli trascorsi all'Università di Marburg dal 1920 in qualità di professore ordinario di filologia classica. A partire dal 1932 passò all'Università di Halle, dove potè restare solo per breve tempo. Infatti, in quanto era di origini semitiche, in conseguenza delle leggi emanate dal nazismo contro gli ebrei, già nel 1935 gli veniva tolta la cattedra e veniva rimosso dall'insegnamento. Dopo un breve periodo di tempo trascorso a Roma come bibliotecario della Gregoriana e della Vaticana, emigrò negli Stati Uniti, dove insegnò dapprima all'Università di Baltimora come lettore e successivamente all'Università di Los Angeles come professore di filologia classica. Morì nel 1968. Friedländer si formò soprattutto su basi filologiche e archeologiche nell'ambito dell'antichità, ma si occupò anche di letteratura moderna e scrisse - tra l'altro - un'opera sul Faust di Goethe ( R h y t h m e n und Landschaften im Zweiten

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Teil des Faust, Weimar 1953). Si occupò - tra l'altro - anche di arti figurative, con lavori che rimangono nell'ambito della loro tematica ancora oggi un punto di riferimento (Johannes von Gaza und Paulus Silentiarius. Kunstbeschreibungen justinianischer Zeit, Leipzig-Berlin 1912 e Spätantiker Gemäldezyklus in Gaza, in «Studi e testi della Biblioteca Vaticana», LXXXIX, 1939 (opere riedite anche insieme, Hildesheim 1969). Il punto focale degli interessi di Friedländer fu proprio Platone, dagli inizi fino al termine della sua vita. Incominciò con due volumi suW Alcibiade maggiore (Der grosse Alkibiades. Ein Weg zu Plato, Bonn 1921-1923), pubblicò anche vari articoli, ma la figura del grande studioso e interprete emerse soprattutto nella imponente opera generale Platone, dapprima edita in due volumi (1928-1930), successivamente in tre volumi (1957-1960), con la stesura definitiva della terza edizione sempre in tre volumi, del 1964. Qui viene presentata in modo unitario la traduzione dei tre volumi dell'edizione definitiva (fatta con grande acribia e competenza da Andrea Le Moli): il primo volume viene presentato come «Libro primo», mentre gli altri due volumi - che solo per ragioni editoriali erano divisi, ma sono fra di loro strettamente legati - vengono presentati come «Libro secondo». Nelle testatine, accanto alla paginazione di questa edizione italiana viene indicata anche la corrispettiva paginazione della terza edizione dell'originale tedesco. L'opera si impone come un vero e proprio classico nell'ambito della letteratura critica su Platone, e per molte ragioni si impone come un punto di riferimento per chiunque voglia comprendere Platone e la storia delle interpretazioni del pensiero del grande filosofo. Si potrebbe addirittura dire che - sotto certi aspetti - l'opera può essere considerata la più bella e accattivante nell'ambito del paradigma ermeneutico tradizionale, e in particolare una delle più rappresentative e significative sia nei suoi pregi, sia anche nei suoi difetti.

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I pregi di quest'opera stanno soprattutto in due dei suoi punti-chiave, di cui parleremo in maniera dettagliata più avanti, e che qui anticipiamo. In primo luogo, Friedländer ha compreso ed espresso meglio di tutti il nesso ideale strutturale che sussiste fra Socrate e Platone, e ha spiegato in maniera mirabile in che senso la figura di Socrate segni il "destino" di Platone. Ciò che in Socrate era prevalentemente "domanda" in Platone diventa anche "risposta"; ciò che in Socrate era soprattutto un "vissuto" in Platone diventa anche "dottrina". In secondo luogo, Friedländer ha compreso e spiegato meglio di tutti la ragione per cui la forma letteraria del "dialogo" si impone in Platone come una "necessità'", in quanto diventa una forma esemplare di "libro" che nello stesso tempo è un "non-libro", ossia sotto certi aspetti ricupera e supera il libro medesimo. Lo studioso scrive: «Così egli solo, anche se i riflessi del dialogo socratico dovettero prima di lui prendere carattere letterario, può chiamarsi creatore del dialogo filosofico come di un'opera d'arte alla pari con la grande tragedia e la grande commedia» {infra, p. 185). I punti deboli dell'opera di Friedländer dal punto di vista interpretativo sono soprattutto i seguenti. In primo luogo, lo studioso tratta le Idee in maniera riduttiva al massimo grado. Infatti, nega che in Platone ci sia una "dottrina delle Idee", e afferma che tale "dottrina" è una creazione degli interpreti. Tuttavia, nello stesso tempo Friedländer ammette che Platone «ha creato un mondo metafisico» e che il compito che ha assunto è «quello di farlo vedere agli altri con i suoi occhi» (cfr. infra, pp. 18, 197). Inoltre, è costretto ad ammettere che, sia pure nella tarda Lettera VII (322 D), Platone parla di «sapienza delle Idee» (TGÒV eiSóòv CTOcpia), e che già nel Fedone (75 B) si parla di «scienza dell'uguale in sé», ossia di «scienza dell'Idea dell'uguale» (ènioxfmri a\)xo\) to\) i'oov). In conseguenza della riduzione della dottrina delle Idee in Platone, Friedländer sottovaluta tutti i passi dei dialoghi in cui si fa riferimento alla dottrina medesima.

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In secondo luogo, dà alla problematica delì'arrheton, ossia all'"indicibile", un significato che eccede la giusta misura. Infatti, egli ritiene che Platone riferisse quel termine addirittura a tutta quanta la sfera del mondo delle Idee, e non solo alla sfera dei Principi primi e supremi e in particolare al Bene. Inoltre, nei testi platonici - come vedremo Yarrheton è riferito al Bene non in senso assoluto ma relativo: il Bene non è "indicibile" in sé e per sé, ma non è conoscibile e dicibile "come le altre cose", e dunque è conoscibile e dicibile seguendo una diversa via rispetto alla conoscenza delle altre cose. Queste prese di posizione "riduttivistiche" da parte di Friedländer si spiegano e si giustificano soprattutto come presa di posizione contro una diffusa tendenza - soprattuto in Germania, e in particolare a Marburg con i Neokantiani alla testa - di interpretare le Idee secondo canoni della filosofia moderna. Ma questo difetto comporta anche un pregio, ossia quello di mettere in guardia l'interprete dal cercare di fare emergere in Platone quelle convinzioni teoretiche e sistematiche che non sono di Platone ma appunto dell'interprete. Si deve tenere ben presente anche il fatto che Friedländer si è formato - come abbiamo sopra detto - come filologo e letterato, che alla filosofia è approdato studiando Platone, e che quindi proprio in conseguenza di questa sua formazione filologica egli tende a ridurre la specifica portata speculativa e lo spessore teoretico di certe affermazioni e di certe prese di posizione del filosofo. Ben si può dire che sia corretto il tentativo di cercare di leggere e intendere Platone ponendosi al di qua dei modi in cui lo hanno ripensato molti Platonici e i Neoplatonici. Tuttavia va subito precisato che una lettura di Platone che cerca di non chiuderlo in un preciso sistema categoriale, non può e non deve essere comunque una lettura di carattere "precategoriale" in senso totale. In effetti, c'è in Platone un preciso tracciato categoriale - nascente nei primi dialoghi e via via sviluppantesi nel corso dei dialoghi della maturità e della vecchiaia - che come tale va riconosciuto e chiarito.

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2. La corrente filosofica cui Friedländer si ispira Un certo clima culturale e una certa tendenza filosofica cui Friedländer si ispira sono ben identificabili. In primo luogo bisogna tenere ben presente il fatto che, proprio nel giro di tempo in cui nasceva e veniva pubblicato il Platone di Friedländer, vedevano la luce opere di portata epocale, scritte da uomini che il nostro autore ben conosceva e frequentava. Nel 1923 usciva di Ernst Cassirer la Philosophie der Symbolischen formen. Nello stesso anno Werner Jaeger pubblicava il suo Aristoteles. Nel 1927 di Martin Heidegger usciva Sein und Zeit. Nel 1928 Julius Stenzel pubblicava il suo Platon der Erzieher e Werner Jaeger (che con Stenzel rilanciava il programma del "terzo umanesimo") dava alle stampe il saggio Platon im Aufbau der griechischen Bildung, contenente il progetto eseguito nella grandiosa opera Paideia (il cui volume I doveva uscire nel 1933 e i volumi II e III prima in lingua inglese nel 1953 e 1944 e poi nel 1944 e nel 1947 in tedesco; il lettore interessato potrà vedere quest'opera raccolta in volume unico, da noi edita in questa stessa collana nel 2003). Ma la tendenza filosofica che Friedländer segue - pur risentendo influssi delle opere degli autori citati - sembra essere più vicina a quella tracciata dal "George-Kreis", ispirata a un particolare concetto di "Lebensphilosophie", o "filosofia della vita", che nell'opera di ciascuno dei grandi autori vedeva espressa la forma della vita dell'autore medesimo. Gli autori e gli scritti platonici ispirati al "George-Kreis" sono: Heinrich Friedemann, Platon. Seine Gestalt, Berlin 1914; Heinrich Barth, Die Seele in der Philosophie Piatons, Tübingen 1921 (si tratta del fratello del teologo Karl Barth); Karl Reinhardt, Piatons Mythen, Bonn 1927; Kurt Singer, Platon, der Gründer, München 1927. Ma Friedländer si colloca ben al di sopra di questi autori e delle loro opere, in quanto imprime al programma del "George-Kreis" un differente spessore, e lo trasporta su un piano superiore, sia dal punto di vista concettuale che da quello storico-ermeneutico.

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Lo stesso sottotitolo dato da Friedländer alla sua opera, ossia Verità dell'essere e realtà del vivere - inteso come equivalente e sostituibile con Idea ed esistenza - , è assai significativo, in quanto indica quel particolare concetto di Lebensphilosophie, in cui si configura la circolarità dinamico-relazionale fra "essere" e "vivere": la verità dell'essere viene cercata con la realtà della vita, o, per converso, la realtà del vivere è continua ricerca della verità dell'essere. Scrive Friedländer, dialogando con la filosofia esistenzialistica di Jaspers: «E così davvero il dialogo platonico è "esistenziale" in un senso più radicale di quel così ammirevole "chiarimento" dell'esistenza dello Jaspers. Perché quel che Jaspers compie è descrizione, analisi, sistemazione dell'umana esistenza, qua e là con una parola svegliando alla pura esistenza. Il Fedone, il Simposio e altri dialoghi sono drammi in cui questa umana esistenza si rappresenta. Ma essi non sono, o non sono soltanto, opere d'arte, di fronte alle quali si resta ammirati, ma sono una vita filosofica che invita il lettore a vivere insieme, a entrare nel dialogo, a contrastare e consentire. Essi non filosofeggiano sull'esistenza, ma sono - non dappertutto ma in gran parte - esistenza. Oppure, per non usare - e abusare - sempre dello stesso termine: sono la realtà del vivere, mentre cercano la verità dell'essere» {infra, p. 267). In effetti, eccetto Socrate, nessun altro filosofo greco si presta a essere inteso con questo criterio meglio di Platone. 3. Friedländer come maestro di Hans-Georg Gadamer Prima di entrare nel vivo dell'interpretazione di Platone fornita dal nostro studioso, c'è ancora un rilievo preliminare da mettere bene in evidenza, in quanto viene per lo più sottaciuto, se non addirittura ignorato da non pochi studiosi. La formazione metodologica e uno dei primi germi da cui è nata l'ermeneutica di Hans-Georg Gadamer dipendono proprio da Paul Friedländer. Per lo più Gadamer viene considerato un heideggeriano, e non viene riconosciuto il fatto che senza il pensiero classi-

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co e Platone le sue opere, e in particolare Verità e metodo (che il lettore interessato potrà trovare con testo tedesco a fronte in questa collana), risultano incomprensibili. Inoltre, non vengono spiegati il fatto e la ragione per cui Gadamer ha costruito il suo pensiero proprio sulle basi di carattere filologico acquisite alla scuola di Friedländer (fra i pochissimi autori che mettono in evidenza questo punto va segnalato Jean Grondin con la sua grandiosa opera Gadamer. Una biografia, uscita in questa stessa collana nel 2004, curata da G.B. Demarta). Da Heidegger (ben più che da Hartmann, con cui aveva sostenuto la sua tesi di laurea) Gadamer trasse l'ispirazione filosofica. In Maestri e compagni nel cammino del pensiero (Brescia 1980, p. 29) scrive: «Dall'incontro con Heidegger, per il quale ero andato un semestre a Friburgo e che ora seguivo a Marburgo, ebbi la prima conferma che quello che avevo praticato, con passione giocosa e solo con mezza soddisfazione, negli astratti esercizi intellettuali guidati da Nicolai Hartmann, non era ancora quello che io cercavo come filosofia. Lo stesso Nicolai Hartmann si era chiaramente accorto che seguivo il suo pensiero in maniera piuttosto imitativa e segretamente resistevo alla sua impostazione storica, per cui quando in Heidegger trovai confermata questa mia resistenza - soprattutto nei confronti dell'immersione interpretativa nella peculiarità storica dei testi filosofici - venne meno la fedeltà dell'antico scolaro verso Hartmann e mi incamminai sulle vie di Heidegger. Ma ogni nuovo inizio ha anche le sue difficoltà; rivelatasi insufficiente la mia preparazione e trovatomi troppo inferiore alle nuove esigenze dovetti sopportare una seconda volta la delusione del principiante. Furono anni di profondi dubbi sulle mie capacità scientifiche, ma insieme anche anni nei quali, finalmente, incominciai a lavorare sul serio. Divenni filologo classico, sotto la guida amichevole di Paul Friedländer». In Verità e metodo 2 (a cura di R. Dottori, Bompiani 1995, p. 462) precisa: «Che cos'è che mi attirava così verso Heidegger? Naturalmente allora non lo sapevo. Oggi la cosa mi si mostra così. In lui le forme concettutali della tradizio-

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ne filosofica diventavano vive, perché le si comprendeva come risposte a reali domande. La messa a nudo della storia della loro motivazione conferiva a tali questioni qualcosa di ineluttabile». Dunque, proprio per evitare di lavorare nel vago nel cercare di mettere in atto l'impulso che aveva ricevuto da Heidegger, Gadamer divenne filologo. In Verità e metodo 2 (p. 464) ribadisce: «Così iniziai un nuovo studio pianificato della filologia classica (sotto la guida di Paul Friedländer, in cui, oltre ai filosofi greci, mi attirò il poeta allora illuminato da un Hölderlin ridiventato accessibile, Pindaro), e dalla retorica, di cui capii allora la sua funzione complementare per la filosofia, che mi ha accompagnato-fin nella elaborazione della mia ermeneutica filosofica». E nei Maestri e compagni (p. 35) precisa: «Con Paul Friedländer, che allora stava preparando la sua grande opera su Platone, leggevamo molto il grande filosofo greco». Platone si impose in tal modo al centro degli studi di Gadamer, e fu l'autore in cui egli penetrò più a fondo. In Verità e metodo 2 (p. 486) dice: «Così, più che i grandi pensatori dell'Idealismo tedesco, hanno impresso un segno su di me i dialoghi platonici, che mi hanno sempre accompagnato. Essi sono una compagnia del tutto particolare, per quanto noi, ammaestrati da Nietzsche e da Heidegger, possiamo avvertire come un limite la pregiudiziale della concettualità greca, che regna da Aristotele fino a Hegel e alla moderna logica, come un limite al di là del quale le nostre domande restano senza risposta, e le nostre intenzioni insoddisfatte. Bisogna però riconoscere che l'arte platonica del dialogo ha prevenuto anche questa parvenza di superiorità, che noi crediamo di possedere, quali eredi della tradizione greco-cristiana. Certamente è stato proprio lui, con la dottrina delle idee e la dialettica delle idee, con la matematizzazione della fisica e l'intellettualizzazione di quel che chiamiamo etica, a porre le basi della concettualità metafisica della nostra tradizione. Ma egli ha al tempo stesso limitato mimeticamente tutte le sue asserzioni, e come Socrate sapeva fare con la sua solita ironia con i suoi partner del dialogo, così Platone deruba

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anche il lettore della sua propria parvenza di superiorità tramite l'arte della poesia e del dialogo. Filosofare con Platone, non criticare Platone: questo è il compito. Criticare Platone forse è altrettanto ingenuo che rimproverare Sofocle di non essere Shakespeare. Questo suona paradossale, ma solo per colui che è cieco rispetto alla rilevanza dell'immaginazione poetica. - Certo bisogna prima imparare a leggere mimeticamente Platone. Nel nostro secolo è stato fatto qualcosa del genere, in particolare da Paul Friedländer [...]». Proprio in riferimento a questo testo, e all'ammirazione più volte espressa da Gadamer per Hegel - che viene considerato da lui addirittura «il più grande successore dei Greci» - in una intervista che gli abbiamo fatto (per il Sole 24 Ore, domenica 17 settembre 2000), gli abbiamo domandato se amasse Platone più dello stesso Hegel. E la sua risposta è stata la seguente: «Certamente! Anzi, Le posso dire che amo Platone non solo più di Hegel, ma anche più dello stesso Heidegger». E il Platone che Gadamer ripensa e fa proprio ha fortissime tangenze con il Platone di Friedländer. Proprio il "dialogo", che secondo Friedländer è una "necessità" per Platone - nel modo in cui vedremo - , diventa per Gadamer l'asse portante della sua ermeneutica. La preminenza metodologica della "domanda" nel discorso filosofico è determinante a tutti gli effetti. Il saper "porre domande" è più importante, e nello stesso tempo più difficile che "dare risposte". La domanda, infatti, predetermina l'area in cui si colloca la risposta, nonché la dinamica e l'articolazione della medesima, e quindi predetermina il procedimento del discorso in generale (come Platone stesso dimostra nel Protagora e nel Gorgia). Questo Gadamer mette bene in evidenza, ma già Friedländer lo ha compreso e detto. Sorprendente è, poi, la sostanziale tangenza della interpretazione delle Idee platoniche di Gadamer con quella di Friedländer. Quest'ultimo nega - come abbiamo anticipato e come meglio vedremo più avanti - che in Platone ci sia una vera e propria "teoria delle Idee". Gadamer ribadisce pro-

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prio tale concezione, in modo marcato. Dopo aver messo in rilievo come sia essenziale in Platone il «rivolgersi all'Idea, che sta oltre le brutte figure del sapere apparente», precisa: «Ma questo non significa neanche che Platone alla fine abbia una dottrina che possiamo apprendere da lui: la "dottrina delle Idee". E quand'egli critica questa dottrina nel suo dialogo Parmenide, ciò non vuol dire che egli allora abbia smarrito la strada. Ciò vuol dire piuttosto che le ipotesi delle "Idee" non era tanto una "dottrina", ma indicava piuttosto una direzione di ricerca, sviluppare e discutere le cui implicazioni è il compito della filosofìa, cioè della dialettica platonica» (Verità e metodo 2, p. 487). Inoltre, proprio come Friedländer, Gadamer nega che Platone ritenga il Bene conoscibile ed esprimibile, in quanto «il pensare rimanda sempre oltre se stesso» {ibidem). Infine, ricordiamo che Friedländer sostiene la necessità di leggere e intendere Platone non come lo intendono «i Platonici». E Gadamer precisa: «Platone non era un Platonico» (Verità e metodo 2, p. 493). Su alcuni particolari avremo modo di tornare anche più avanti. Ma quanto abbiamo detto dimostra ad abundantiam la tesi che sopra abbiamo sostenuto, ossia che questa opera di Friedländer non è solo un classico della letteratura secondaria per l'interpretazione di Platone, ma che si impone anche come un documento essenziale per la comprensione dell'ermeneutica di Gadamer, ossia di uno dei capitoli più importanti della storia della filosofia del secolo XX. 4. Socrate come "destino" di Platone

L'asse portante principale dell'interpretazione che Friedländer propone - come già sopra abbiamo accennato - sta nella identificazione della figura di Socrate con il fulcro del pensiero e dell'opera di Platone. Socrate - egli dice - vive e parla in Platone. Proprio in Socrate Platone con gli occhi dell'anima «vede le Idee», e di conseguenza le intende e le esprime.

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Leggiamo alcune affermazioni di Friedländer particolarmente significative: «Platone si incontra con Socrate. Egli trova che il proprio volere, ancora del tutto indeterminato, "di dedicarsi subito alla vita pubblica", è guidato da quella ricerca in una particolare direzione. "Per me non c'è nulla di più urgente che divenire, quanto è possibile, virtuoso. E in ciò, credo, nessuno può aiutarmi più validamente di te". Così Alcibiade parla a Socrate nel Simposio, e così ha detto o sentito Platone di fronte a lui. E da Socrate egli ha inteso o creduto di dover intendere le parole che egli fa rivolgere da Socrate stesso al giovane Alcibiade in un altro dialogo: "tutti i tuoi piani non possono trovare il loro compimento senza di me; tanto io posso sulle tue faccende e su di te". Così vita e morte del maestro lo afferrano come suo proprio destino», {infra, p. 25) Friedländer precisa inoltre: «In Platone quello che in Socrate era domanda si è fatto domanda e risposta, quel che in Socrate era vita si è fatto vita e dottrina. Socrate chiede: che cosa è il giusto? Egli fa che gli altri vedano che non lo sanno. Cerca la risposta nel concetto, ma la dà infine soltanto con il suo vivere e il suo morire. Platone vede e dà forma a questa vita e a questa morte. Ma vede di più. Trova anche la risposta come filosofema, vede, attraverso la figura di Socrate, l'idea. "Il giusto" come eterna essenza, come modello originale, veduto e mostrato: questa è la risposta alla domanda di Socrate, letta nella stessa realtà che si chiamava Socrate», [infra, p. 78) Come si spiega, allora, il fatto che nei dialoghi dialettici Socrate cessa di essere protagonista, e che nelle Leggi risulta essere addirittura assente? La risposta data da Friedländer è fra le più acute e ingegnose; e dal punto di vista interpretativo risulta essere assai più convincente di altre date da vari interpreti, e in particolare di quelle che parlano di «superamento di Socrate» o addirittura di «allontanamento da Socrate». I ruoli svolti da Socrate nei dialoghi platonici sono i seguenti tre:

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1) in primo luogo risulta predominante il ruolo di protagonista in senso assoluto; 2) in secondo luogo, c'è il ruolo di colui che presenzia al dialogo, ma non entra in modo diretto nella questione discussa; 3) infine c'è anche un misterioso ruolo di "assente". In realtà, questa triplice funzione risulta essere differente solamente all'interno dell'ottica drammaturgica, non però nella sostanza. 1) Quando Socrate è presente e svolge il ruolo di protagonista, domina la problematica e la sua finalità in tutti i sensi. 2) Quando è presente ma non entra direttamente nella discussione, significa che la questione che viene trattata per quanto possa essere importante - non affronta direttamente i problemi essenziali e ultimativi della vita\ ma la presenza di Socrate risulta essenziale, in quanto indica che quei problemi che vengono discussi hanno un senso ultimativo solamente in riferimento ai problemi di fondo indicati da lui, e ribaditi appunto con la sua presenza. Friedländer scrive: «Così appunto nei dialoghi che apparentemente mettono Socrate in disparte o lo fanno sparire completamente, diventa più chiaro quali idee egli rappresenti in Platone e quali no. Sarebbe evidentemente errato dire che, invecchiando Platone, la figura del maestro appaia, grado a grado, sbiadita ai suoi occhi. A ciò contraddirebbe il fatto che nel Filebo Socrate ha un significato importantissimo, per non dire del Fedro che lo porta sulla scena nella sua più vivace freschezza. E che egli nel Sofista e nel Politico e nella seconda parte del Parmenide non sia presente soltanto per abitudine, dovendosi limitare a un indifferente ruolo di comparsa, appare chiaro se lo si immagina assente: subito tutto cambia significato, perde il suo sottinteso, se non è più trattato in sua presenza». Insomma: la via che si deve battere per giungere al fine che dà senso alla ricerca è quella che indica Socrate che non parla, ma è lì accanto che ascolta.

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3) L'assenza di Socrate nelle Leggi, infine, viene spiegata nel modo che segue: «Ma guardiamo ora anche l'altro lato! Nelle Leggi l'ospite ateniese riconosce esplicitamente che lo stato in cui domina la massima della comunione dei beni, donne e figli, è al primo posto, anche se sia adatto soltanto per dèi e figli di dèi, mentre la costituzione alla quale hanno messo mano solo si avvicina molto all'immortalità e tiene il secondo posto, questo certamente, essa sola (739 C e ss.). Quindi non è che lo stato prima costruito sia messo da parte; esso è anzi da "tenersi incessantemente presente come modello". E così si può ben credere a ragione che Socrate non sia spinto via dal centro della visuale platonica, anzi domini là con immutata potenza e soltanto che lo stato delle Leggi sia con tutto il lavoro dedicatogli troppo allontanato da quel centro per presentarsi ancora sotto quel grande nome». Si può quindi dire che "Socrate che parla", "Socrate che ascolta", "Socrate che è assente" simboleggiano «i gradi del pensiero di Platone» (infra, p. 162), vale a dire 1) il grado in cui Platone discute le questioni di fondo, 2) quello in cui tratta i problemi che non hanno un valore in sé e per sé, ma sono subordinati a un valore più alto, 3) e infine nelle Leggi quello in cui Platone per ragioni contingenti si allontana dalla "Città ideale" per trattare della "Città seconda", dalla quale Socrate rimane fuori di conseguenza, e alla "Città ideale" si fa solo un richiamo allusivo. 5. D "dialogo" come "necessità" per Platone Come abbiamo già sopra rilevato, secondo Friedländer il vero creatore del dialogo socratico quale opera d'arte anche se altri si erano dedicati a esso in precedenza - è proprio Platone. Senofonte, per esempio, presenta nelle sue opere socratiche numerosi dialoghi di Socrate, ma in essi sono quasi totalmente assenti quella energia vitale e quella forza purificatrice, nonché quel suggello imposto dall'aporia con tutte le sue implicazioni e conseguenze.

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Il "dialogo" fu per Platone una "necessità", in quanto ricreava la struttura stessa del pensare e del vivere di Socrate, sia pure portandola su un piano più elevato. Friedländer precisa: «Ma c'è ancora un ultimo punto di vista dal quale la forma dialogica appare come la forma necessaria per Platone, perché, a partire da quella, la struttura della visione del mondo platonico, benché su di un piano più alto, sembra ripetere la struttura del mondo socratico. Per Socrate la risposta alla sua domanda si dissolve nel non-sapere. Per Platone la via dialettica conduce su, a ciò che è "al di là dell'essere". L'epekeina non è conoscibile e quindi neppure comunicabile: qui la via soltanto può essere preparata. Perciò il dialogo è una guida, passo per passo a un fine che, dietro il socratico non sapere e dietro l'inesprimibile della più alta visione platonica, è garantito come realtà dalla vivente persona del maestro. E come è proprio della fisionomia del dialogo socratico finire con il non sapere, così è proprio del dialogo platonico fermarsi dinanzi al punto estremo senza farlo vedere se non da lontano. Questo appare chiaro perfino nella struttura della Repubblica, e tanto più in ogni altro luogo, a ogni attento osservatore» {infra, pp. 190 sg.). Il dialogo di Socrate è "natura", ossia una "forza di natura", "vita naturale". Il dialogo platonico diventa "opera d'arte", che non è semplice "immagine" di quel "modello", e quindi inferiore al modello, ma è come una icona che completa il modello e lo perfeziona a livello artistico. Nel dialogo di Socrate ci possono essere elementi casuali e contingenti; nel dialogo platonico, al contrario, tutto diventa "necessario", e l'elemento apparentemente casuale diventa coefficiente essenziale e necessario in funzione dell'intero. Di conseguenza, luogo, situazione e personaggi diventano elementi essenziali per il dialogo platonico e per la sua comprensione: «Così per la comprensione dei dialoghi dovrà essere esaminato, più di quanto perlopiù non avvenga, il luogo immaginato con gli atti materiali ivi raffigurati, per giungere al loro significato spirituale. Non come se si

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trattasse di allegorie nel senso dei neo-platonici - fra i quali tuttavia Proclo dirà cose molto assennate sullo scopo non semplicemente artistico né solo storico, bensì schiettamente filosofico del prologo nei dialoghi platonici. Quello che oggi l'interprete filosofo di Platone lascia al letterato e allo storico, deve essere compreso nel suo contenuto esistenziale. Perché quelle parti (prologo e discussione) non si trovano l'una di fronte all'altra per caso, già per il fatto stesso che gli scritti di Platone non appartengono a un ambito di arte naturalistica, ma di arte classica» {infra, p. 189). La filosofia in Platone a livello di "arte" - così come in Socrate a livello di "natura" - non è solo il contenuto, ossia l'oggetto trattato dal dialogo, ma coincide con il dialogo stesso. Pertanto, "forma letteraria" del dialogo e "contenuto filosofico" in Platone coincidono strutturalmente, e quindi non sono distinguibili. Tale coincidenza fra forma letteraria e contenuto del dialogo corrisponde alla coincidenza fra "realtà della vita" e "verità dell'essere", ossia fra "Idea" ed "esistenza". Particolarmente significativa è la netta opposizione di Friedländer alla presa di posizione di Hermann Bonitz (che non pochi anche oggi continuano a condividere, almeno implicitamente), secondo cui nella lettura del Fedone (e quindi anche degli altri dialoghi) si deve lasciare da parte tutto ciò che è proprio della rappresentazione artistica del dialogo e puntare solo sul contenuto dottrinale del dialogo stesso. In realtà - rileva Friedländer - «la filosofia in Platone non comincia soltanto dove è fissato il primo punto della discussione dialettica, ma subito, quando ancora crediamo di essere fra chiacchiere di nessun impegno e ancora quando ancora crediamo di essere nella plasticità del gioco o del serio che fa da cornice» {infra, p. 266). Dunque, i "dialoghi" di Platone coincidono con la "realtà del vivere", mentre cercano la "verità dell'essere". Friedländer rileva inoltre - a giusta ragione - come, nella trasfigurazione poetica del dialogo naturale di Socrate, in Platone emerga anche una forte presenza esistenziale degli avversari, e quindi come la lotta ingaggiata

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contro di essi esprima anche una lotta contro le contrastanti forze presenti in Platone stesso. Fra i molti esempi che lo studioso adduce, uno è particolarmente significativo: «Se non ci fosse stato in lui qualcosa di Callide, Vesprit fort, difficilmente l'avrebbe potuto presentare con tanta imponenza, tale cioè che ci saranno sempre persone, specialmente giovani, incantate più dall'avversario sconfitto da Socrate che da Socrate stesso» (infra, p. 195). Questo significa che «Platone aveva da vincere, più di quel che taluno pensi, una natura dotata in modo straordinariamente ricco. Ma portava in sé anche Socrate, e delle lotte e delle vittorie che egli ci mostra, quelle veramente decisive sono accadute in lui stesso» (infra, p. 196). Le conclusioni che Friedländer trae sono le seguenti: «Platone trovò ciò che Socrate "soltanto" cercava e insegnava a cercare. Ma si sa cosa vale la ricerca, se è ben condotta. "Nella domanda c'è la risposta, il sentimento che su di un certo punto si debba pensare qualcosa, qualcosa si debba correggere" dice Goethe. Dedicatosi alla dialettica socratica, a Platone si aprì la vista sulle forme eterne. Attraverso Socrate, e in Socrate, egli mirò il giusto in sé. Così sul nuovo gradino conquistato e appunto su quello soltanto poteva essergli dato questo compito: doveva accogliere la dialogica socratica, ma condurla oltre se stessa non a una fine scetticamente negativa, ma a rispondere alle domande poste e, se era possibile, alla conoscenza stessa dell'ente» (infra, p. 197). Le tangenze di tali affermazioni con l'ermeneutica di Gadamer sono veramente consistenti. 6. La grandiosa presentazione dei singoli dialoghi L'analisi e l'interpretazione dei singoli dialoghi sono veramente imponenti e di grande utilità, anche per chi non condivide il paradigma ermeneutico di Friedländer. L'autore non procede secondo un tracciato dei dialoghi disposti l'uno dopo l'altro secondo un criterio puramente

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cronologico, ma li raccoglie in gruppi tematici, pur rispettando - nei limiti del possibile - la presunta successione cronologica. Inizia con la trattazione di dialoghi giovanili, suddivisi nel modo che segue. Parte da un gruppo di dialoghi aporetici incentrati sulle tematiche di "areté", "philia", "kalón": Protagora, Lachete, Trasimaco (primo libro della Repubblica), Carmide, Eutifrone, Liside, Ippia maggiore. Prosegue con l'analisi di brevi dialoghi giovanili sul filosofo, sul sofista e sul poeta, che sono Ipparco, Ione, Ippia minore e Teagete. Passa quindi al gruppo dei dialoghi contenenti «autoritratto e maschera del filosofo»: Apologia di Socrate, Critone, Eutidemo, Cratilo, Menesseno, per concludere con Alcibiade maggiore, Gorgia e Menone, che vengono raccolti sotto il titolo «Il logos resta fermo». Segue la trattazione dei grandi dialoghi considerati come una unità ben articolata. Dopo i grandi dialoghi intermedi Simposio, Fedone, Repubblica -, vengono trattati i dialoghi dialettici (Teeteto, Parmenide, Fedro, Sofista, Politico e Filebo -, e a conclusione - sotto il titolo «Mitologia e Nomoteoria» - vengono trattati Timeo, Crizia e Leggi. Il compito che lo studioso cerca di assolvere - come già diceva nel primo volume della sua opera su)l'Alcibiade maggiore - è quello di tentare quelle di «concepire l'opera di Platone come un sistema stellare, su cui nessuna luce e nessuna forza può essere trascurata» {infra, p. 190). Un particolare colpisce il lettore: Friedländer rivaluta non pochi dialoghi che molti studiosi respingono come poco significativi, e che considerano spuri. Lo studioso afferma di seguire a questo proposito il principio metodologico di August Boeckh, secondo cui «soltanto la inautenticità e non mai la autenticità può essere dimostrata in maniera convincente - beninteso se mancano ragioni esteriori» (p. 270). Di conseguenza, la rivalutazione di dialoghi considerati spuri dai più è sempre accompagnata da affermazioni di carattere ipotetico. Ma, in realtà, la vera convinzione di Friedländer era invece che la cosa più difficile da dimostrare è proprio la non autenticità, salvo la presenza di precise ragioni esteriori.

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Gadamer ci riferisce quanto segue in Maestri e compagni (p. 35): «Friedländer preferiva impartire il suo insegnamento attraverso il seminario, come pure era sua consuetudine sostenere con acribia l'autenticità di opere o versi sospetti. Della sua fatica si sentiva ripagato abbondantemente se ogni tanto qualcuno si dichiarava convinto delle sue argomentazioni. Da Friedländer si imparava soprattutto quanto sia difficile dimostrare l'inautenticità di un'opera e come abbia ragione Hegel quando dice: "Gli argomenti sono a buon mercato come le more". Non è certo che le argomentazioni di Friedländer rendessero più autentici i testi, attestano però, pur nella loro esagerazione, come da lui si imparasse in maniera incomparabile a disciplinare il proprio senso linguistico, quell'orecchio interno cioè, senza il quale non è possibile, in generale, alcun giudizio letterario». Si può ben dire che - proprio in qualità di filologo di alta classe - Friedländer capovolge radicalmente quella tendenza assai diffusa nei filologi tedeschi dell'Ottocento di contestare l'autenticità di tutta una serie di dialoghi, tanto che, a conti fatti, sono stati ritenuti autentici solo pochissimi. Zeller elencava come dialoghi non contestati solamente i seguenti sei: Protagora, Fedro, Simposio, Gorgia, Teeteto e Repubblica. Ma dopo Zeller si è tentato di atetizzare anche il Protagora. Dunque, si è dubitato perfino dell'autenticità di un dialogo come il Fedone. Inoltre, anche filologi di grande fama come Ueberweg, Schaarschmidt e Windelband - hanno negato l'autenticità del Parmenide, ossia del dialogo più studiato dai Neoplatonici. Le analisi più interessanti e motivate di Friedländer sono proprio quelle dedicate ai dialoghi minori e considerati inautentici, che, di conseguenza, dai più vengono considerati e studiati in una ottica in partenza scorretta. Richiamiamo qui - per ragioni di spazio - solo alcuni esempi, a nostro avviso particolarmente significativi. Sull'Alcibiade maggiore Friedländer si era già impegnato a fondo nei volumi del 1921 e 1923, di cui abbiamo già detto sopra. A giusta ragione lo studioso rileva - tra l'altro

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- che nel dialogo ci sono pagine che solo un Platone poteva scrivere. Anche sull'autenticità dell'Ipparco Friedländer ha pochi dubbi. Dopo attente e belle analisi egli trae le seguenti conclusioni: «Non ci sono ragioni per assumere in generale come possibilità che in questo dialogo sia all'opera un imitatore tardo finché non si sia in grado di trovare nel linguaggio, nella terminologia e nelle problematiche filosofiche, o nella forma artistica, il più piccolo indizio di un'epoca successiva di composizione. Intorno al 400 a. C. il dialogo risulta un prodotto naturale di un'epoca; intorno al 330 un anacronismo incomprensibile. Se l'opera è una di quelle scritte all'inizio così come la semplicità della struttura e il fatto che i motivi concettuali non siano ancora sviluppati indicano, è difficile pensare a un autore che non sia Platone, con le cui opere troviamo connessioni dappertutto nel dialogo. Non è forse, allora, l'ipotesi più probabile che Vipparco sia uno dei primissimi dialoghi di Platone?» (infra, pp. 530-531). Di grande finezza è l'interpretazione del Teagete, dai più considerato spurio, e su cui Friedländer trae invece le seguenti conclusioni: «In nessun luogo platonico si trova espressa più chiaramente l'educazione attraverso l'amore e la presenza immediata. Neppure potrà esserci (dove ci sia anche Socrate) un muto star seduti l'uno accanto all'altro. Il dialogo è una parte indispensabile della presenza socratica. In ogni caso non possiamo obiettare a quanti vedono la presenza di forze magiche e quindi considerano questi temi non platonici. Noi non vediamo qui nulla di magico, o quantomeno nulla che abbia a che vedere con quel tipo di magia che Faust voleva "rimuovere dal suo cammino". C'è solo la magia del grand'uomo e dell'educatore. Inoltre riteniamo che questioni del genere non possano esser decise solo con lo strumento della critica filosofica ma richiedano una certa ampiezza di vedute» {infra, p. 560). Dell'Ippia minore - che dagli studiosi non viene respinto come spurio solo perché Aristotele lo cita espressamente, ma che, come dice il nostro studioso, ha tutti quei caratteri

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per cui altri dialoghi analoghi sono respinti - viene fornita una delle più toccanti e penetranti esegesi: «In ogni caso Socrate, che qui vediamo "ingannare" il suo oppositore apparentemente alla maniera dei sofisti, è la testimonianza vivente del fatto che chi sa la verità può ingannare meglio di chi la ignora, e chi inganna come fa Socrate, "volontariamente", è migliore di chi lo fa involontariamente, e non solo nel senso di sfoggiare una maggiore abilità ma anche nel senso di essere più vicino sS^agathon. Così il dialogo in oggetto è il più puro ritratto del modo di esistenza socratico, tanto spesso descritto (insieme alle questioni più disparate) nei dialoghi giovanili come nelle opere più mature di Platone: il ritratto del maestro sovrano di tutte le tecniche sofistiche con lo sguardo rivolto al "Bene" o dell'ambiguo educatore con la mente rivolta allo scopo da raggiungere» {infra, p. 551). Per quanto concerne il Menesseno Friedländer offre la migliore interpretazione che finora abbiamo incontrato. La tesi interpretativa di fondo a nostro avviso è esatta: nel dialogo Platone dimostra di saper essere un vero e competente retore, e anticipa in piccolo quello che in grande, per quanto concerne la retorica, dimostrerà nel Fedro. Per quanto riguarda le analisi e le interpretazioni dei dialoghi minori e della giovinezza in Friedländer si trova di più di quanto si trova in altri interpreti in generale, con osservazioni e motivazioni spesso convincenti; invece, per quanto riguarda le analisi e le interpretazioni dei dialoghi maggiori si rimane spesso a bocca asciutta, e ci si aspetterebbe di più. Questo avviene a motivo della negazione dell'esistenza di una platonica "teoria delle Idee", e per una sorta di "riduzionismo teoretico" del pensiero di Platone tipico del paradigma ermeneutico di Friedländer. Va comunque detto che le analisi dei singoli dialoghi è sempre fatta con grande accuratezza; ma è spesso debole l'interpretazione dei passi vari metafisici e speculativi. Per rendersi conto di risultati ottenuti con differenti approcci derivanti da un differente paradigma ermeneutico si vedano per esempio: Thomas A. Szlezak, Platone e la scrii-

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tura della filosofia, Milano 1988; 19923 e Michael Erler, Il senso delle aporie nei dialoghi di Platone, Milano 1991. Va comunque detto che dalle analisi di Friedländer dei singoli dialoghi si ricava in buona misura il meglio che sia stato prodotto nell'ambito del paradigma interpretativo tradizionale di Platone. Inoltre, bisogna altresì rilevare che lo studioso ha fatto ciò che nessun altro è riuscito a fare con la stessa intensità: ha evidenziato numerosissime tangenze dei vari dialoghi fra di loro, ha indicato tutta una serie di richiami incrociati, mostrando davvero - per usare la sua stessa metafora come l'insieme degli scritti platonici sia come un sistema stellare, e ha cercato di riprodurre in modo magistrale le caleidoscopiche figurazioni che esso assume e le sue luci e controluci che si incrociano. 7. L'"ironia" in Socrate e in Platone Molto fini sono le pagine dedicate alla "ironia"; e giusta è l'affermazione di Friedländer secondo cui il problema da molti studiosi non è stato adeguatamente considerato, e solo pochi hanno mostrato di prendere coscienza del senso metafisico dell'ironia stessa. Friedländer ammette che l'ironia in Socrate e in Platone ha un valore "metodologico", ma egli prende soprattutto in considerazione il valore "esistenziale" di essa, e scrive: «Hegel ha considerato l'ironia socratica come un lato del "metodo socratico" (l'altro è la maieutica): "Quel che Socrate voleva ottenere era che gli altri si spiegassero, che esponessero i loro principi". Indubbiamente viene così individuato qualcosa di essenziale della sua opera. Ma si fraintenderà sempre il fenomeno - e nella letteratura filosofica della quale Hegel sembra avere determinato il concetto, questo fraintendimento non è raro - se si ritiene regola pedagogica intenzionale ciò che poteva educare veramente soltanto in quanto era necessariamente così. La pura ironia contiene in sé questo contrasto: se da un lato vela illudendo, dall'altro

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senza riserva esprime l'ente. Come non dipendeva da Socrate l'insieme del suo aspetto esterno di Sileno e l'interna bellezza, ugualmente non stava in lui di nascondere con un atto di arbitrio il suo sapere dietro un non sapere: l'uno e l'altro sono legati in un eterno moto circolare o in un'oscillazione di pendolo» {infra, pp. 170 sg.). In effetti, nell'"esistenza ironica" di Socrate il "sapere" nel suo essere "esistenzialmente incarnato" balza al di sopra dell'"ignoranza": il "non-saputo" nel logos è superato dal "saputo" nella vita. Pertanto, «a questo punto l'ignoranza si converte in un sapere che è l'estremo sapere; il non sapere nel logos era fondato infatti su di una esperienza vitale del non saputo. E dove può trovarsi un sapere più profondo di quando si è esistenzialmente, nel vivere e nel morire, proprio quello che nella parola non si è mai cessato di cercare?» {infra, p. 171). Che differenza c'è, allora, fra l'ironia incarnata da Socrate nella sua esistenza, e quella platonica? Ancora una volta si può dire che, mentre l'ironia socratica è "natura", quella di Platone è espressione ed evidenziazione articolata in dimensione artistica e metafisica di quella "natura". Lo studioso precisa: «Il Socrate platonico porta in sé il mistero socratico e l'ironia socratica che esprime ed esaspera quella antitesi fra il non sapere a parole e il sapere nella vita vissuta, ma porta anche in sé, andando innanzi negli anni con Platone e in Platone, il mistero platonico e l'ironia platonica» {infra, p. 174). Platone simboleggia spesso proprio mediante la stessa ironia ciò che ha di più elevato da dire. Dunque, l'ironia "vela" e nello stesso tempo "disvela" il mistero platonico. Come in una statua della grande arte greca la veste vela e nello stesso tempo mostra ciò che è velato, così, analogamente, l'ironia platonica vela e disvela le forme, e anche ciò che sta al di sopra dell'essere, ossia il Bene. In effetti, Platone in non pochi passi-chiave dei suoi dialoghi con la sua ironia si arresta davanti al punto estremo, ma nello stesso tempo in qualche modo lo indica e lo fa vedere da lontano.

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Pertanto, mediante l'ironia del "Socrate zetematico", Platone ci rappresenta ciò che nella sua esistenza si impone come "simbolo della realtà del bene" e ad un tempo della sua "ineffabilità". Le belle pagine di questo capitolo andranno però completate con le fini analisi fatte da Jan Patocka nel suo Socrate (Bompiani 2003), che approfondisce alcuni aspetti della realtà esistenziale della vita ironica di Socrate, e inoltre anche con quelle di Gregory Vlastos, che approfondisce invece il significato metodologico di quella che egli chiama "ironia complessa" (Socrate il filosofo dell'ironia complessa, Firenze 1998). 8. La teorìa delle Idee La posizione "riduzionistica" assunta da Friedländer nei confronti della teoria platonica delle Idee, che si spinge oltre i giusti limiti, proprio a livello critico-interpretativo, è stato messo subito in rilievo da alcuni studiosi. Adolfo Levi (che è stato uno dei maggiori studiosi italiani di Platone) in una recensione, pubblicata nella «Rivista di filologia e di istruzione classica» nel 1932, poco dopo l'uscita del secondo volume, scriveva: «Il punto più debole del volume mi appare il modo in cui esso parla (o, quasi, non parla) della teoria delle Idee. Già nel primo volume il Friedländer sosteneva che ciò che gli studiosi chiamano con questo nome è soprattutto una loro costruzione, di cui pochissimi elementi si trovano negli scritti platonici, che non offrono alcuna dottrina, alcun sistema; a suo parere, ciò risulta dalla Lettera VII, in cui Platone, riferendosi al mondo delle Idee, dichiara che non esiste e non esisterà mai alcuno scritto sulla propria dottrina, perché essa non è in alcun modo esprimibile. In questo volume, che rapidamente accenna alla stessa tesi (...) si può dire che delle Idee platoniche non si parla in modo preciso, sicché l'argomento rimane quasi completamente indeterminato. Senza ritornare alle osservazioni che ho fatto sulle affermazioni del Friedländer recensendo il suo primo volume [si veda il passo che riportiamo

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al paragrafo che segue], mi limito a notare che secondo Platone nessuna ricerca che miri seriamente alla scoperta del vero può esprimersi adeguatamente colle parole; rispetto alla teoria delle Idee le difficoltà sono maggiori che negli altri casi, in cui si considerano oggetti diversi, ma ciò non impedisce che il linguaggio scritto possa servire, sebbene in modo imperfetto, a tradurre l'apprensione intellettuale. Ciò del resto è provato dal fatto che Platone ha parlato del mondo ideale ben più largamente di quanto voglia riconoscere il Friedländer. Si astenne dall'esporre per mezzo di trattazioni scritte soltanto la sua ultima dottrina (la teoria delle Idee Numeri, non menzionata dal Friedländer, che doveva costituire una sistemazione organica della speculazione platonica)». Levi conclude con la giusta osservazione che, siccome Platone parlava di tali dottrine nei corsi di lezione all'interno dell'Accademia, doveva essere in ogni caso convinto che si potesse giungere alla conoscenza delle realtà supreme, sia pure dopo un lungo e faticoso processo di ricerca. L'affermazione che Friedländer fa sulla genesi della dottrina delle Idee ha certamente qualcosa di vero: Platone ha veduto l'eidos nella vita di Socrate, e in generale cercando il vero Stato, quindi cercando il nuovo uomo per il nuovo Stato. L o studioso scrive: «D'altronde non è un caso che Platone abbia parlato per primo, per quanto sappiamo, dell'occhio dell'anima, che egli lo faccia quando ha dinanzi a sé gli scopi ultimi del suo filosofare; e non casualmente, anche dove non impiega la parola, il suo linguaggio metaforico è mitico e appartiene allo stesso ambito. Egli dice chi gli abbia insegnato la via, ponendo nei suoi dialoghi Socrate come unica guida verso questo scopo. Anche nel mito della caverna, nella Repubblica, l'uomo che è riuscito a liberarsi dalle catene porta i tratti di Socrate. Infatti quando ritorna dai prigionieri e vuole "scioglierli e condurli fuori", ecco che lo ucciderebbero, solo che potessero averlo fra le mani. Platone non poteva dire più chiaramente chi lo ha convertito e condotto lassù dove, prima, ha imparato a conoscere vere ombre di cose vere, poi le loro

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immagini riflesse, poi quelle cose "in sé" e il "sole". Dunque per mezzo di Socrate e, per così dire, in lui, ha mirato con l'occhio dell'anima il "giusto in sé" o piuttosto ancora "il giusto" e anche "il coraggio", "la temperanza", "la saggezza", in generale "le virtù" e "la virtù". E vero che tutti già parlavano di essa, se fosse o no insegnabile e ciascuno intendeva qualcosa di diverso con quel chiuso nome, più volentieri quel che gli aggradava. Ma Socrate è l'unico che non solo la ricerca con parole - per quanto si eserciti in tale ricerca molto più seriamente e continuamente degli altri - ma che con la sua vita e con la sua morte garantisce che essa sussiste; e nell'essere socratico "l'occhio dell'anima" di Platone vede quelle immagini, quelle forme, quelle figure» {infra, pp. 28 sg.). Dunque, Platone ha veduto e trovato con l'"occhio dell'anima" ciò che Socrate aveva vissuto e insegnato a cercare. Si tratta, pertanto, di una intuizione e di una esperienza originaria di vita. Le conseguenze che lo studioso trae sono di grande importanza, e dimostrano anche la fallacia dell'interpretazione fornita da Aristotele nel primo libro della sua Metafisica, secondo cui l'Idea platonica deriverebbe dalla scoperta socratica del "concetto", e non sarebbe se non l'ipostatizzazione ontologica del concetto stesso: «L'idea ha una storia di più di due millenni e nessuna parola del linguaggio filosofico è stata tormentata di più dal pensiero dei secoli. Solo Veidos platonico non è filosofia nata dalla filosofia, come da Platone in poi, e essenzialmente per causa sua, ogni studio sulle idee. Appunto per questo è necessario rimetterne in luce il concetto, per così dire, nella sua innocenza» {infra, p. 32). Friedländer precisa: «Indubitabile è questo fatto di somma importanza e quasi sempre disconosciuto: che la sua filosofia non gli è data dai precedenti sistemi. Non appena gli occhi gli si aprirono all'eidos, tutte le forze del suo essere con la loro prodigiosa tensione furono applicate in quest'unico senso e per la prima volta ora Platone divenne, in un significato affatto nuovo, filosofo. Ed è assai più da cercare la legge secondo la quale intorno a quel punto di unità si cri-

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stallizzò la materia trattata, che non l'ordine storico in cui tutto questo accadde» {infra, p. 35). Platone non ha, comunque, tenuto per sé ciò che aveva veduto e sperimentato in Socrate, e ha voluto rivelarlo agli altri: ha voluto aprire anche agli altri gli occhi, perché essi pure lo potessero vedere. Ma se si ammette questo, come si può negare - come fa il nostro studioso - che Platone avesse una sua "teoria delle Idee"? Per comunicare agli altri ciò che aveva visto, doveva in ogni caso esprimere la sua visione mediante il logos, e quindi esprimere una teoria. In effetti, Friedländer stesso va contro se stesso, nel momento in cui mostra come, per esprimere mediante il logos la propria intuizione, Platone si è rifatto alla dottrina di Parmenide sull'essere: «L'intera costruzione del suo mondo dell'essere e delle forme di conoscenza corrispondente ai gradi è rigorosamente parmenidea» {infra, p. 38). Inoltre, egli chiama anche in causa Eraclito e la sua teoria dei nessi strutturali fra l'Uno e i molti e l'armonia dei contrari: «Ma c'era tuttavia una più alta veduta, nella quale questa dualità si riduceva all'unità. "Uno è il tutto", "Concorde e discorde, consonante e dissonante, da tutto uno e da uno tutto": così Eraclito. E Platone: l'idea, che è una e le cose singole che sono molte, si richiamano reciprocamente. L'idea fornisce alle cose partecipazione all'essere, esse a loro volta tendono alla perfezione dell'idea. Solo se l'una non è senza le altre "il tutto è collegato con se stesso". Non era questo eraclitismo più puro persino di quella annacquata e sofistica, abusata teoria del flusso di tutte le cose?» {infra, p. 40). Infine, lo studioso chiama in causa Pitagora, da cui Platone trasse il concetto di cosmos, ossia la concezione della ordinata compagine non solo dell'"Universo", ma anche della "Polis" e dell'"anima", e quindi una organica visione dell'uomo nel tutto inteso come un micro-cosmo in un macro-cosmo. Emerge, di conseguenza, un innegabile tracciato categoriale nascente, e quindi una griglia di concetti secondo cui

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quell'originaria intuizione del mondo delle Idee viene espressa. Del resto, le numerose pagine che dal Fedone in poi parlano delle Idee non solo per velate allusioni, smentiscono drasticamente l'interpretazione "riduzionistica" di Friedländer. Il lettore interessato potrà vedere la descrizione di tale griglia concettuale che si ricava dai dialoghi platonici nella nostra opera Per una nuova interpretazione di Platone (Vita e Pensiero, Milano 200321) con la relativa dettagliata documentazione (cfr. parti terza e quarta, passim). 9. La dottrina dell'anima e della sua immortalità

Come per la teoria delle Idee, Friedländer assume una posizione "riduttivistica" anche nei confronti della teoria platonica dell'anima. Egli ritiene che Platone sull'anima sia stato influenzato soprattutto dagli Orfici, al punto da affermare che egli possa in qualche modo considerarsi un «teologo orfico», e scrive: «Sulla sua essenza e sul suo destino parlavano il trasparente mito dei pitagorici e dei seguaci di Orfeo. La loro dottrina sull'anima, Platone l'ha accompagnata con la sua più forte simpatia e ce ne è tanta nei suoi scritti da render concepibile l'idea che egli sia stato, fra tutt'altre qualità, anche un «teologo orfico». In altri termini la dottrina dell'immortalità e dell'eternità dell'anima individuale, difficilmente potrebbe armonizzarsi con la dottrina delle idee-, cioè Platone in effetti avrebbe preso a prestito quell'articolo di fede dai teologi che glielo offrivano già pronto. Ma anche se qui fosse rilevata una contraddizione nel sistema, non è affatto buon metodo spiegarla unificando dottrine originariamente separate. Eppoi in Platone! Certamente egli stava sempre in ascolto cercando di cogliere affinità di toni, ma era il più restio ad adattare bene o male al suo sistema dottrine estranee. Troppo poco ci si è resi conto che Platone in generale nulla "insegna" direttamente dei destini dell'anima. Socrate ne discute all'interno di miti che sono parte integrante della

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drammaturgia platonica. E se si richiama ai sacerdoti dei misteri e ai teologi, vien così designata la derivazione di quelle rappresentazioni mitiche, ma in nessun modo è detto che cosa erano in sostanza per lui. Se qui è lecito avanzare un'ipotesi, si dirà che avevano una profonda realtà simbolica o eran per lui forme, immagini, espressioni di quello che preferiva dire nel proprio linguaggio. Ma si sbaglia se si fa di tutto ciò la base per una fisica o una storia platonica dell'anima» {infra, p. 43). E appena il caso di ricordare come i dati di fatto smentiscano la tesi di Friedländer, secondo cui la dottrina dell'anima e dell'immortalità «difficilmente potrebbe armonizzarsi con la dottrina delle Idee». Infatti, dal Menone in poi i testi dicono il contrario. Si può certamente affermare che Platone vide nella vittoria di Socrate sulla morte una garanzia dell'immortalità dell'anima, così come in lui vide Yeidos. Ma si deve dire, nello stesso tempo, anche che tutte le prove che Platone fornisce sull'immortalità si fondano proprio sulle Idee. Pertanto, la dottrina dell'anima in Platone non solo si armonizza con la dottrina delle Idee, ma è ontologicamente e strutturalmente inscindibile da essa. D'altra parte, lo stesso Friedländer in modo curioso smentisce se medesimo: pur affermando che nessuna delle prove a favore dell'immortalità raggiunge l'obiettivo, deve ammettere quanto segue: «Ma le prove dell'immortalità delle quali nessuna con buon fondamento giunge all'ultimo scopo, rendono evidente un'altra cosa. L'eternità dell'anima è garantita per Platone dall'essere dell'idea. Solo per 1'" amico delle idee" ha un senso parlare dell'immortalità. Se l'anima umana secondo la propria natura è così fatta da conoscere l'eterno essere, essa allora deve - perché l'uguale è conosciuto dall'uguale - avere un essere a guisa delle forme eterne» (pp. 44 ss.). Il capitolo dedicato ali 'eidos conclude addirittura con l'affermazione che l'anima diventa eterna in funzione delVeidos che ha visto, e che anima e eidos stanno fra di loro in rapporto di necessità.

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10. L'"arrheton", il suo oggetto di riferimento e il suo significato Friedländer ha poi incentrato la sua attenzione sul concetto di "arrheton" - ossia sull'"indicibile" e "inesprimibile" - facendo una serie di rilievi di grande finezza, ma nello stesso tempo cadendo in errori interpretativi di rilievo: 1) per quanto riguarda l'oggetto cui "arrheton" si riferisce e 2) per quanto concerne la determinazione dell'area semantica che il termine ricopre. 1) Come abbiamo già sopra ricordato, l'"arrheton" secondo Friedländer si riferisce al mondo delle Idee in generale. I motivi che egli adduce si connettono strettamente con la tesi che abbiamo sopra illustrato, secondo la quale non ci sarebbe in Platone una teoria delle Idee, vale a dire non ci sarebbe un sistema che presenti l'ordinamento delle Idee e ne chiarisca il rapporto con il mondo. Se si passa dalle trattazioni dei moderni sulla teoria delle Idee, nei dialoghi platonici si trova ben poco di quanto in quelli si legge. Scrive Friedländer: «Dopo aver studiato gli scritti dei moderni pensatori sulla "dottrina platonica delle idee", quando si ritorni ai dialoghi, per prima cosa ci si dovrà meravigliare considerando quanto poco si trova esposto a proposito di quel punto principale della filosofia platonica. Nei primi dialoghi, fino al Gorgia compreso, si posson cogliere solo accenni al fatto che c'è qualcosa come un bene in sé, un sommo amore, un bello veramente bello. Il Fedone accumula (almeno apparentemente) prove dell'immortalità che si basano su di un mondo delle idee, presupponendolo esistente. Nel Simposio si trova descritto il cammino che conduce su alle eterne essenze, nel Fedro un mito intessuto attraverso lo spazio sede delle idee, nella Repubblica si trova descritta l'ascesa attraverso le scienze e raffigurata con una grande metafora la via, l'essenza, gli effetti, nel Parmenide le aporie della dottrina, nelle altre opere della tarda età i suoi presupposti logici e le sue conseguenze sono discussi a fondo. Ma una "teoria" esposta in

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sé e per sé non si trova; nessun sistema che racchiuda in un ordine queste forme, che ne procuri la conoscenza scientifica, che chiarisca il loro rapporto col mondo del divenire» {infra, p. 78). Si può ben concedere che, in realtà, in certe trattazioni sulla dottrina platonica delle Idee di autori moderni si trova veramente "troppo tanto", ma si deve anche dire che in Friedländer si trova davvero "troppo poco": lo studioso commette infatti un errore uguale e contrario a quello commesso dagli avversari. Nei dialoghi citati nel passo sopra letto si trova ben di più di quanto egli crede di vedere. In particolare nei dialoghi dialettici e soprattutto nel Filebo - che non viene citato nel passo - delle Idee viene presentata addirittura la struttura ontologica in generale e in particolare. La posizione assunta dallo studioso si comprende bene dal punto di vista ermeneutico: il suo paradigma interpretativo urtava contro alcune precise pagine dei dialoghi citati, oltre che del non citato Filebo, le quali costituivano l'insuperabile ostacolo di un "controfatto". Di conseguenza, Friedländer ha cercato in vario modo di arte-fare quel controfatto fino al punto di dis-farlo, sia nella interpretazione generale, sia nelle analisi dei singoli dialoghi. Però bisogna ammettere che ha svolto questa operazione con grande intelligenza e abilità. In realtà, l'"arrheton" non riguarda il mondo delle Idee in quanto tale, ma solamente l'Idea del Bene. Dopo aver affermato che in Platone non c'è una teoria delle Idee presentata in maniera precisa, lo studioso scrive: «Perché sia così, ce lo dice la Lettera VII in quell'importantissimo passo a cui ci riporta sempre il nostro esame. Non c'è nessuno scritto di Platone, non può, né potrà mai esserci alcun suo scritto su ciò che nella sua dottrina è veramente serio per lui "perché in nessun modo è esprimibile come gli altri oggetti del sapere". Nessun dubbio che si tratta della sfera delle idee» {infra, p. 78). Invece, proprio la Lettera VII fa richiamo all'oggetto specifico delle dottrine non scritte, che non è la dottrina delle Idee ma la teoria dei Principi primi e supremi.

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I termini e le espressioni con cui Platone indica i contenuti cui fa riferimento in tale lettera sono inequivocabili, come per esempio i seguenti: l'«intero o il tutto» (TÒ ÖXOV); le «cose più grandi» ( x à n é y i a x a ) ; il «Bene» ( t ò àyaBóv); «ciò che riguarda i Principi primi e supremi» ( x à c x K p a K a i rcpcòxa). Si tratta, dunque, di espressioni che riguardano ben più che le Idee in generale, proprio i Principi primi e supremi (si veda quanto precisiamo in Per una nuova interpretazione di Platone, pp. 101 sg.). In conclusione, "arrheton" non si riferisce al mondo delle Idee in generale, ma ai Principi primi e supremi. Va altresì precisato che nella Lettera VII Platone non nega un suo scritto sulla dottrina delle Idee, ma appunto sui Principi primi e supremi. 2) Inoltre, anche il significato specifico di "arrheton" non viene correttamente inteso da Friedländer. In effetti, Platone scrive: «La conoscenza di queste cose non è affatto comunicabile come le altre conoscenze, ma dopo molte discussioni fatte su queste cose, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si accende da una scintilla che si sprigiona, essa nasce nell'anima e da se stessa si alimenta» (Lettera VII, C-D). Se viene letto con attenzione, il testo non dice che la conoscenza di tali cose (ossia dei Principi primi e supremi) sia affatto incomunicabile in sé e per sé, ma precisa che «non è affatto comunicabile come le altre conoscenze (cbq àXXa ^.aörpaxa)». E pertanto essa è di per sé comunicabile e scrivibile, anche se in maniera del tutto diversa, come viene puntualmente precisato. Inoltre, non si può affatto affermare che il Bene non sia oggetto di conoscenza. Infatti, in primo luogo Platone espressamente chiama quella del Bene «conoscenza massima» ( f i é y i C T X o v |j.d9r||ia). In secondo luogo, sempre nella Repubblica, si afferma senza mezzi termini che è dialettico solamente colui che sa rendere ragione dell'essenza di ciascuna cosa, e che questo vale anche per il Bene, e si precisa: «chi non è capace di definire l'Idea del Bene con il ragionamento, astraendola (cupe-

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A,ó>v) da tutte le altre», resterà addormentato in questa vita e terminerà il suo sonno nell'Ade (VII, 534 B 3-D 1). Si tenga presente anche il fatto che nel libro VI della Repubblica Platone non dice di non conoscere l'essenza del Bene, ma al contrario dice di avere convinzioni su di essa (cfr. 506 D 8-E 3; 509 C 3 sg.), e precisa di non volere comunicare il suo pensiero in tale sede. Afferma, inoltre, di volere pagare solamente gli "interessi" del debito. Di conseguenza, ciò che egli presenta è solamente il "frutto", ossia il "figlio"; però precisa di voler presentare gli interessi del debito in giusta proporzione. Ben si può intendere come dagli interessi pagati in giusta proporzione sia possibile risalire al capitale, ossia risalire dal figlio al padre. E Platone fornisce addirittura indicazioni di notevole portata che aiutano il lettore in questa risalita dal figlio al padre. Infatti, dopo la descrizione del figlio, ossia dell'immagine del Bene come Sole, Platone si spinge in modo cospicuo oltre l'immagine (pagando, oltre agli interessi, anche parte del debito): «E così anche ai conoscibili dirai che proviene dal Bene non solo l'essere conosciuti, ma che anche l'essere e l'essenza provengono loro da questo, pur non essendo il Bene essere, ma ancora al di sopra dell'essere, essendo superiore in dignità e potere» (509 B-C). Al che Glaucone risponde: «Apollo! Che divina superiorità». E "Apollo", come sappiamo da Plutarco e da Plotino, è simbolo pitagorico dell'"Uno". Pertanto il Bene viene indicato con allusione assai forte come «Uno» (tra l'altro, si tenga presente che solo in questo testo Apollo viene usato in forma esclamativa). Ma c'è ancora di più. Platone - mettendo in atto un gioco drammaturgico che consiste in quello che Friedländer chiama «dislocamento ironico del centro di gravità dell'opera {infra, p. 177)» (dislocamento ironico che lo studioso ha ben compreso per altre opere ma non per la Repubblica) - , nei libri IV e V indica espressamente l'essenza del Bene della Città - proprio ciò che il dialogo ricerca - appunto nell'Uno: indica il massimo

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Bene della Città in «ciò che la lega insieme e la fa una» e il massimo male in «ciò che la divide e invece di una ne fa molte» (cfr. IV, 422 E-423 B; V, 462 A-B). In conclusione, il Bene è "arrheton" in senso ben diverso da ciò che è ineffabile e indicibile in senso assoluto: è conoscibile e dicibile in maniera molto diversa rispetto alle altre cose. 11. Platone e la mistica Questa presentazione di Friedländer del pensiero platonico come tensione e come ascesa verso 1'"arrheton", e l'improvviso accendersi di quella luce nell'anima che fa vedere il Bene, poteva portare a concludere che nel nostro filosofo è presente una forma di "misticismo". Friedländer scrive: «Ciò che è sommo, "raramente si mostra, e a uomini rari". Si può bene indicare il cammino della scienza; è quanto avviene nella lettera. Ma altro è indicarlo, altro compierlo. E alla fine di esso c'è qualcosa di ineffabile. Potrebbe darsi che qui fosse accennato un ambito mistico e un personale mezzo di salvazione, purché sotto il misticismo non si immagini uno stato di ebrietà e di estasi e sotto la via di salvazione qualcosa di pretesco» {infra, pp. 79 ss.). Ma subito appresso egli approfondisce il problema del misticismo, per giungere alle conclusioni che «Platone non è un mistico», che anzi addirittura si distacca nettamente dal misticismo, e scrive: «Così il mistico conosce un cammino soltanto: allontanarsi dall'Aie et nunc, in cui al contrario l'uomo classico trova la sua compiutezza. E se Platone, da un punto di vista storico, col suo moto verso Yepekeina, avvia quella fuga ed è da cercare in lui l'origine di molta speculazione mistica, purtuttavia egli appartiene troppo al tipo classico, perché non debba esser veduto, in fondo, in contrapposto a ogni mistica. Si potrebbe infine ancora una volta chiarire questa opposizione confrontando le punte più alte della speculazione platonica e plotiniana, come abbiamo

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prima chiarito l'eros platonico commisurandolo a quello plotiniano» {infra, p. 100). Va però rilevato che per "misticismo" Friedländer intende una esperienza spirituale del tutto "a-razionale" o "iporazionale". Per la verità, il misticismo può assumere forme di questo genere, ma anche forme differenti in cui si manifesta come esperienza non irrazionale, ma piuttosto meta-razionale. E la perfetta esperienza mistica che assume forma di conoscenza iper-razionale avviene proprio mediante la unificazione di soggetto conoscente e oggetto conosciuto. Parlando di Plotino, Friedländer scrive: «In movimenti sempre nuovi è espressa l'unificazione, vien superata la contrapposizione: "Correndo là nell'intimo ha tutto, e lasciando addietro la percezione per timore di essere un altro, là è uno". "Bisogna abbandonarsi nell'intimo e in luogo di essere uno che vede, divenire spettacolo di un altro spettatore". Così dall'attività del contemplante è nata una situazione in cui egli si abbandona senza volontà alla emanazione e si fa prendere e emanare da essa. "Finché lo vede come un'altra cosa non è ancora nel bello; diventato quello, allora è massimamente nel bello". Dopo che si è veduta la energia di questa unione, ritorniamo ancora a Platone. Orbene in esso l'io e l'oggetto rimangono in rigorosa opposizione» {infra, pp. 101 sg.). E invece, nel finale del discorso di Diotima sull'Eros nel Simposio, si allude in modo chiaro a una forma di esperienza che può ben qualificarsi - come alcuni studiosi hanno opportunamente rilevato - proprio come una "esperienza mistica": la prima forma di esperienza mistica espressa a livello filosofico. In effetti, in tutta la grandiosa pagina del finale del discorso messo in bocca alla sacerdotessa Diotima di Mantinea, e soprattutto nelle espressioni «E questo il momento della vita che più di ogni altro è degno di essere vissuto da un uomo, quando contempla il bello in sé», e in particolare «contemplarlo solo e stare insieme a lui» e «contemplare e rimanere unito a esso», anticipano proprio quel-

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la che sarà chiamata "esperienza mistica", in cui il soggetto si unifica e fonde con l'oggetto. In riferimento al finale del discorso di Diotima, A.E. Taylor scriveva: «Nonostante tutte le differenze di propositi, il miglior commento all'intero racconto è fornito dai grandi scrittori che, in verso o in prosa, hanno descritto le tappe della "via mistica", mediante la quale l'anima "esce da se stessa", per trovarsi di nuovo trovando Dio. In sostanza, quello che Socrate sta descrivendo è lo stesso viaggio spirituale che descrive, per esempio, S. Giovanni della Croce nella nota canzone En una noche oscura, con cui si apre il suo trattato Notte Oscura, o quello a cui Crashaw accenna più oscuramente in tutte le pagine del suo The Flaming Heart, e che Bonaventura ci mostra con nitidezza nell'Itinerarium mentis in Deum. [...] Nella letteratura greca, a mio parere, questo discorso rimane senza eco fino a Plotino, con il quale la medesima avventura spirituale si ripete come tema essenziale delle Enneadi. Se non abbiamo in noi quel tanto di misticismo che è necessario per considerare l'annullarsi e il rinnovarsi dell'anima come il compito essenziale della vita, il discorso non avrà per noi un valore reale e non potremo far altro che considerarlo un "bel sogno" mitologico» (Platone, Firenze 1968, p. 351). E in riferimento a quel manifestarsi del Bello in sé "immediatamente" o "improvvisamente" (è^alcpvriq, 211 B) di cui parla Platone nel passo finale del discorso di Diotima, G. Krùger precisa: «Questo "lampo di una trepidante visione (ictus trepidantis aspectusY come lo chiama Agostino, proprio nel senso di Platone, è ciò che c'è di misterioso nel "mistero" dell'Eros: l'evento dell'illuminazione in cui ogni singolo è insostituibile. A chi non ne fa esperienza di persona non può spiegarlo né Platone né un interprete". E, insieme a Taylor, Krùger su questo atto di "esperienza mistica" ribadisce: "O uno lo possiede e ne è posseduto, oppure non lo possiede, e allora non c'è altro da dire» (Ragione e passione, Milano 1995, p. 208).

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12. Totale assenza di riferimenti alle testimonianze sulle "dottrine non scritte" di Platone e sul loro significato Già nel 1929, subito dopo la pubblicazione del primo volume del Platone, Adolfo Levi, in una recensione pubblicata nella «Rivista di Filologia e di istruzione classica», denunciava questo errore. Pur essendo legato ad alcune convinzioni del tutto superate dagli studi successivi (in particolare che nella Repubblica Platone non aveva ancor pensieri chiari sul Bene e che le dottrine non scritte risalgono alla ultima fase del pensiero del filosofo) e prima ancora che la questione delle dottrine non scritte emergesse in primo piano, Levi faceva giusti rilievi che mette conto rileggere: «[...] l'ultima espressione del pensiero platonico, la teoria delle Idee numeri e dei Numeri Ideali (di cui assai arbitrariamente l'Autore non tiene alcun conto), ponendo come elemento formale del mondo ideale l'Uno, concepito come equivalente all'Essere, mostra in modo chiaro come Platone cercasse di esprimere in termini esattamente razionali il supremo principio della vera realtà, superando anche in questo punto la cerchia delle convinzioni non giustificabili» (p. 537). In effetti, circa le dottrine non scritte si possono sostenere tesi di vario genere, ma nessuno può correttamente negare che ci siano state: di conseguenza non si può non parlarne. Inoltre, a partire almeno dal Simposio e via via in maniera più frequente nei vari dialoghi ci sono allusioni e rimandi alle dottrine non scritte sempre più forti, addirittura con allusioni assai spinte e con comunicazioni quasi scoperte dei concetti-base concernenti i Principi primi e supremi, fino alla esplicita affermazione nel Filebo che identifica il valore supremo con la "Misura" (il Bene è l'Uno, Misura di tutte le cose). Inoltre, in vari dialoghi si riscontrano accentuati riflessi della funzione e della dinamica dei due Principi primi del Bene come Uno e del Male come divisione e molteplicità disordinata. In effetti, la struttura bipolare del reale emerge da un capo all'altro degli scritti platonici, con al vertice Par-

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menide e il Filebo, come il lettore interessato potrà vedere, con la relativa documentazione, nella nostra opera Per una nuova interpretazione di Platone. Ma il silenzio su tali dottrine dipende da quella "chiusura ermeneutica" imposta dal paradigma interpretativo seguito da Friedländer, che, se fa vedere alcune cose molto bene, non ne lascia vedere altre. In che senso tale "chiusura paradigmatica" risulti determinante si può ricavare anche dal modo in cui lo studioso mostra di non aver compreso il messaggio dell'opera di Hans Krämer, Arete bei Platon und Aristoteles (1959), la quale presenta un nuovo paradigma ermeneutico alternativo, e che viene espressamente citata (cfr. infra, p. 158, n. 19; 168, n. 3; 204, n. 5). Il lettore interessato può vedere H. Krämer, Platone e i fondamenti della metafisica, Milano 1987; 20016, opera da noi tradotta e introdotta. 13. La cifra spirituale emblematica del "Platone" di Friedländer Degli assi portanti dell'opera di Friedländer abbiamo parlato sopra diffusamente, ma per concludere vorremmo richiamare quei concetti che - a nostro avviso - rivelano la cifra emblematica dell'intera opera. L'idea di fondo che rende unitario il discorso di Friedländer su Platone ci sembra questo: «Kosmos è la compagine così del mondo, come dello Stato e come dell'anima» {infra, p. 42), con il richiamo di Gorgia, 507 E sgg. Si tratta della struttura ontologica e metafisica simmetrica sussistente fra l'Universo, la Polis e l'Anima, che rappresenta nel modo più elevato e più perfetto una costante ricerca dei Greci di spiegare come l'uomo possa essere felice, collocandosi nel cosmo in giusta misura e in armonia. Lo studioso precisa: «appena si getta uno sguardo sul Timeo, il quale, ancora una volta, raffigura l'immagine dell'edificio statale, prima di erigere l'edificio cosmico, ecco che la simmetria di stato e cosmo diventa lampante. Quando

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nel Timeo viene detto (90 C D) che compito dell'uomo è imparare le armonie e i moti circolari dell'universo e assimilare quel che è da conoscere a ciò che è conosciuto secondo l'originaria natura ( k c c c ò c t t ) v àpxaiav cptioiv), ecco evidente la simmetria fra anima del singolo e cosmo. E sull'omologia di anima e stato riposa l'intera costruzione della Repubblica platonica. E significa davvero leggerla nel senso di Platone, quando nel mito finale si veda completarsi il nesso d'insieme: anima umana, stato, cosmo, concepiti come tre forme collocate in simmetria intorno allo stesso centro; e tuttavia non come sfere separate, per quanto tra di loro di ugual forma; ma come l'uomo, secondo la sua propria natura, appartiene allo stato, così sembra appartenere, secondo la sua propria natura, anche al cosmo. Come nel Fedone la sfera terrestre, così qui l'edificio del mondo appare costruito per procurare alle anime umane lo spazio adeguato a ciascuna di esse» {infra, p. 217). Ma Platone ha fatto questo solo in conseguenza dell'incontro con Socrate, che fu il suo "destino". In Platone è Socrate che rivive e parla: «Prova dell'anima e guida alla virtù e alla polis, è il dialogo d'amore per Socrate e Platone, i quali sono profondamente concordi al riguardo e da distinguersi meno che per qualsiasi altra questione. E una generale legge giunge alla più evidente forma nel Socrate platonico, per la quale ci si può richiamare alle sentenze di tre grandissimi: di Hölderlin: "Il meglio che il mortale può dare lo dà amando"; di Goethe: "In generale si impara soltanto da chi si ama"; di Nietzsche: "Soltanto dall'amore nascono le più profonde intuizioni". Questi detti si integrano in modo mirabile e Ernst Bertram nel suo libro su Nietzsche li ha ridotti a un accordo a tre: "Hölderlin si riferisce a chi insegna, Goethe a chi impara, Nietzsche a quel che nasce dalla loro unione". Tutti e tre questi elementi ritroviamo in Platone, e ora del terzo dobbiamo ancora parlare. Eros fa incontrare due persone e quando queste persone si chiamano Socrate e Alcibiade esse devono filosofare l'una con l'altra. Questo hanno visto gli altri. Ma Platone vede di più. Ha visto la forza di questo grande demone allargarsi in una

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nuova dimensione: non solo l'amatore insegna e l'amato impara, ma è appunto da questo amore che "nascono le più profonde intuizioni". Così esso diviene guida all'idea, ed è questa in primo luogo la svolta propriamente platonica. Anch'essa appare sempre come una interpretazione della figura di Socrate, ma conduce a una profondità di fronte alla quale il Socrate storico sarebbe forse rimasto meravigliato» {infra, pp. 66 sg.). Friedländer sarebbe favorevole al ricupero dell'autenticità della Lettera II, e ritiene che, comunque, alcune cose in essa contenute si impongano come delle verità incontrovertibili, in particolare in quelle parole in cui l'Autore della Lettera II caratterizza i dialoghi platonici come «pensieri di Socrate quando era bello e giovane» (314 C). E una affermazione, questa, che esprime in maniera perfetta l'interpretazione stessa di Friedländer, il cui Platone è appunto un Socrate giovane e bello, che ha visto nel Socrate vecchio la verità e l'ha espressa, esplicitandola, approfondendola e completandola. A proposito del passo della Lettera II, lo studioso scrive: «E anche se queste parole non dovesse averle scritte Platone, come molti ancora oggi pensano, tuttavia rimarrebbero sempre la più forte e, nella loro fantasticheria, la più propria espressione di ciò che anche per noi è il tratto peculiare dei suoi scritti» {infra, p. 157).

NOTIZIA BIOGRAFICA

1882: Paul Friedländer nasce a Berlino il 21 marzo. Il padre è uno spedizioniere di confessione evangelica. 1900: Dopo aver terminato le scuole a Berlino inizia a frequentare i corsi di Filologia Classica e Archeologia presso le Università di Berlino e Bonn, dove ha per maestri Hermann Usener e Ulrich von WilamowitzMöllendorff. Si laurea nel 1905. Dopo la laurea compie lunghi viaggi in Asia minore, Grecia e Italia. 1907-8: Usufruisce di una borsa di studio presso il Kaiserlichen Deutschen Archäologischen Institut di Berlino. 1909: Ottiene un posto di Oberlehrer presso 1 'Humboldtgymnasium di Berlino. 1911: Consegue l'abilitazione all'insegnamento presso l'Università di Berlino. 1914-15: Diventa professore straordinario. 1915-18: Entra volontario nell'esercito con il grado di tenente. Prende parte direttamente a numerose azioni belliche ed è insignito della croce di ferro di seconda classe. 1920: Professore ordinario all'Università di Marburgo. 1932: Chiamato a insegnare presso l'Università di Halle.

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NOTIZIA BIOGRAFICA

1935: Rimosso dall'incarico perché di origini ebraiche, è rinchiuso per sei settimane a Sachsenhausen. Liberato per intercessione di Rudolf Bultmann, dopo un breve periodo trascorso a Roma come bibliotecario della Gregoriana e della Vaticana, deve di nuovo emigrare per l'estensione all'Italia delle leggi antisemite. Nel 1939 raggiunge con la famiglia gli Stati Uniti, dove inizia ad insegnare presso la John Hopkins University di Baltimora. 1940-9: Si trasferisce all'University of California di Los Angeles, dove nel 1945 ottiene l'ordinariato in filologia classica e nel 1949 la carica onorifica di faculty research lecturer. 1968: Professore emerito di filologia classica, muore il 12 dicembre, a ottantasei anni.

CRONOLOGIA DELLE OPERE DI PAUL FRIEDLÄNDER

1. Argolica: Quaestiones ad Graecorum historiam fabularem pertinentes, Berlin diss., 1905. 2. Herakles: Sagensgeschichtliche Untersuchungen, in «Philologische Untersuchungen», n° 19, Berlin 1907. 3. Zum Plautinischen Hiat, in «Rheinischen Museum», LXII, 1907, pp. 73-85. 4. Zur Entwicklungsgeschichte griechischer Metren, in «Hermes» XLIV, 1909, pp. 321-351. 5. Persona, in «Glotta» II, 1909, pp. 164-168. 6. Zur Frühgeschichte argivischen in «Athenische Mitteilungen»,desXXXIV, 1909,Heraions, pp. 69-79. 7. Johannes von Gaza und Paulus Silentiarius: Kunstbeschreibungen justinianischer Zeit, Leipzig-Berlin 1912, rist. Hildesheim 1969. 8. Die Chronologie des Nonnos von Panopolis, in «Hermes» XLVII, 1912, pp. 43-59. 9. Prometheus-Pandora und die Weltalter bei Hesiod, in «Zeitschrift für das Gymnasialwesen», LXVI, 1912, pp. 802-803.

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10. Entwicklung des Chores in der nacheuripideischen Tragödie, in «Zeitschrift für das Gymnasialwesen», LXVI, 1912, pp. 806-808. 11. Hypothekai, in «Hermes» XLVIII, 1913, pp. 558-616. La Parte I, Hesiod, pp. 558-572, è stata ristampata in Wege der Forschung, vol. XLIV, Hesiod, Darmstadt 1966, pp. 223-238; la parte II è Theognis, pp. 572-603; la III Demokrit, pp. 603-616. 12. Kritische Untersuchungen zur Geschichte der Heldensage, in «Rheinisches Museum» LXIX, 1914, pp. 299341. 13. Das Prooemium der Theogonie, in «Hermes» XLIX, 1914, pp. 1-16, rist. in Wege der Forschung, vol. XLIV, Hesiod, Darmstadt 1966, pp. 277-294. 14. Die Anfänge der Erdkugelgeographie, in «Jahrbuch des Deutschen Archäologischen Instituts», XXIX/2, 1914, pp. 98-120. 15. Recensione a W. Aly, Hesiods Theogonie mit Einleitung und Kommentar, in Sokrates, «Zeitschrift für das Gymnasialwesen», nuova serie II, 1914, pp. 288290. 16. Recensione a A. Römer, Homerische Aufsätze in Deutsche Literaturzeitung 42/43, 1914, coli. 2264-2268. 17. Der Grosse Alcibiades: Ein Weg zu Piaton, parte I, Bonn 1921. 18. Recensione a U. v. Wilamowitz, Griechische Verskunst, in «Deutsche Literaturzeitung» 30/31, 1921, coli. 409-416. 19. Die Aufgaben der klassischen Studien an der Universität, in «Schule und Leben» n° 6, Berlin 1922, pp. 21-34.

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20. Recensione a Der Kranz des Meleagros von Gadara, a cura di A. Oehler, in «Deutsche Literaturzeitung» 29, 1922, coli. 623-627. 21. Der Grosse Alcibiades: Ein Weg zu Piaton, parte II: Kritische Erörterung, Bonn 1923. 22. Die griechische Tragödie und das Tragische, parti I e II, in Die Antike, I, Berlin 1925, pp. 5-35 e 295-318. 23. Die griechische Tragödie und das Tragische, parte III, in Die Antike, II, Berlin 1925, pp. 79-112. 24. Recensione a Altionische Götterlieder unter dem Namen Homers, a cura di R. Borchardt, in «Gnomon» II, 1926, pp. 344-349. 25. Die Philipps-Universität zu Marburg 1527-1927, in Zur Geschichte des Altphilologischen Seminar, Marburg 1927, pp. 695-701. 26. Piaton Bd. I. Eidos - Paideia - Dialogos, Berlin 1928. 27. Die Entdeckung der Erde durch die Griechen, in Mitteilungen, Marburg Universitätsbund, n° 11, 1928, pp. 2330. 28. Retractationes I, in «Hermes» LXIV, 1929, pp. 376-384. 29. Piaton Bd. II. Die platonischen Schriften, Berlin 1930. 30. Vorklassisch und Nachklassisch, in Das Problem des Klassischen und die Antike, a cura di W. Jaeger, Berlin 1931, pp. 33-46, rist. Stuttgart 1961. 31. Recensione a Hesiodi Carmina, a cura di F. Jacoby, in «Göttingische gelehrte Anzeigen», Göttingen 1931, pp. 241-66, rist. in Wege der Forschung, vol. XLIV, Hesiod, Darmstadt 1966, pp. 100-130.

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32. Retractationes II, in «Hermes» LXVII, 1932, pp. 43-46. 33. Statius: An den Schlaf, in «Die Antike» VIII, 1932, pp. 215-228. 34. Aristophanes in Deutschland (prima parte), in «Die Antike» VIII, 1932, pp. 229-253. 35. Aristophanes in Deutschland (seconda parte), in «Die Antike» IX, 1933, pp. 81-104. 36. Lachende Götter, in «Die Antike», X, 1934, pp. 209-26. 37. Polla ta deina, in «Hermes», LXIX, 1934, pp. 56-63. 38. Recensione a Die Dionysiaka des Nonnos, a cura di Thassilo von Scheffer, in Deutsche Literaturzeitung, 1934, coli. 683-687. 39. Recensione a Piatons "Symposion", a cura di J. Sykutris, in «Göttingische gelehrte Anzeigen», Göttingen 1935, n° 9. 40. Die Melodie zu Pindars Erstem Pythischen Gedicht, in «Berichte über die Verhandlungen der Sächsischen Akademie der Wissenschaften zu Leipzig», Phil.-hist. Kl. LXXXVI/4, 1934, pp. 1-53. 41. Pindar oder Kircher?, in «Hermes», LXX, 1935, pp. 463472. 42. Zur New Yorker Nekyia, in «Archäologischer Anzeiger», 1935, coli. 20-33. 43. Athanasius Kircher und Leibniz: Ein Beitrag zur Geschichte der Polyhistorie im XVII. Jarhundert, in «Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia», XIII, 1937, pp. 229-247.

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44. Geschichtswende im Gedicht: Interpretationen historischer Epigramme, in «Studi italiani di filologia classica», XV, 1938, pp. 89-120. 45. Dis kai tris to kalon, in «Transactions of the American Philological Association», LXIX, 1938, pp. 375-380. 46. Spätantiker Gemäldezyklus in Gaza: Des Prokopios von Gaza Ekphrasis Eikonos, in «Studi e testi della Biblioteca Vaticana», LXXXIX, 1939, rist. insieme a Johannes von Gaza und Paulus Silentiarius: Kunstbeschreibungen Justinianischer Zeit, Hildesheim 1969. 47. The Epicurean Theology in Lucretius' First Prooemium, in «Transactions of the American Philological Association», LXX, 1939, pp. 368-379. 48. Pattern of Sound and Atomistic Theory in Lucretius, in «American Journal of Philology», LXII, 1941, pp. 16-34. 49. Plato, Phaedrus 245 A, in «Classical Philology», XXXVI, 1941, pp. 51-52. 50. A New Epigram by Damagetus, in «American Journal of Philology», LXIII, 1942, pp. 78-82. 51. Heracliti fragmentum 124, in «American Journal of Philology», LXIII, 1942, p. 336. 52. Recensione a F. Solmsen, Plato's Theology, in «Philosophical Review», LII, 1942, pp. 507-509. 53. The Greek Behind Latin, in «Classical Journal», XXXIX, 1944, pp. 270-277. 54. Documents of Dying Paganism. Textiles of Late Antiquity in Washington, New York and Leningrad, Berkeley-Los Angeles 1945.

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CRONOLOGIA DELLE OPERE DI PAUL FRIEDLÄNDER

55. Socrates Enters Rome, in «American Journal of Philology», LXVI, 1945, pp. 337-351. Si trova anche in Platon Bd. I, 2° e 3° ed. 56. Recensione a T. Lucrezi Cari De rerum natura, a cura di W.E. Leonard e S.B. Smith, in «American Journal of Philology», LXVI, 1945, pp. 318-324. 57. Recensione a R. Robinson, Plato's Earlier Dialectic, in «Classical Philology», XL, 1945, pp. 253-259. 58. Epigrammata. Greek Inscriptions in Verse from the Beginnings to the Persian Wars, con H.B. Hoffleit, BerkeleyLos Angeles, 1948. 59. Recensione a Pindari Epinicia, a cura di A. Turyn, in «American Journal of Philology», LXIX, 1948, pp. 214217. 60. Structure and Destruction of the Atom According to Plato's Timaeus, «University of California Publications in Philosophy», XVI, 1949, pp. 225-248. 61. Erinnerung an Georg Loeschcke, cher», CLII, 1952, pp. 13-16.

in «Bonner Jahrbü-

62. Rhythmen und Landschaften im Zweiten Teil des Faust, Weimar 1953. 63. Platon. Band I. Seinswahrheit und Berlin 1954.

Lebenswirklichkeit,

64. Platon. Bandii. Die platonischen Schriften. Erste Periode, Berlin 1957. 65. Plato 1. An Introduction, a cura di H. Meyerhoff, New York-London, 1958.

CRONOLOGIA DELLE OPERE DI PAUL FRIEDLÄNDER

LV

66. Noch einmal zur Echtheit der Pindar-Melodie, in «Hermes», LXXXVII, 1959, pp. 385-389. 67. Adnotatiunculae: Die Melodie zu Pindars Erstem Mythischen Gedicht e Hestia Polyolbos, in «Hermes» LXXXVII, 1959, pp. 389-392. 68. Platon. Band III. Die platonischen Schriften. Zweite und dritte Periode, Berlin 1960. 69. Akademische Randglossen, in AA. W . , Die Gegenwart der Griechen im neuren Denken, Festschrift für H.-G. Gadamer, Tübingen 1960, p. 317. 70. Plato 1. An Introduction, a cura di H. Meyerhoff, Harper Torchbook reprint, 1963. 71. Platon. Band I. Seinswahrheit und Lebenswirklichkeit, Berlin 1964. 72. Platon. Bandii. Die platonischen Schriften. Erste Periode, Berlin 1964. 73. Plato. 2. The Dialogues, First Period, tr. By Hans Meyerhoff, New York (Bollingen Series LIX, vol. 2) and London, 1964. 74. Plato. 3. The Dialogues, Second and Third Period, tr. By Hans Meyerhoff, New York (Bollingen Series LIX, vol. 3) and London, 1969. 75. Plato 1. An Introduction, a cura di H. Meyerhoff, New York-London, 1969. 76. Studien zur antiken Literatur und Kunst, 1969.

AVVERTENZA DEL CURATORE

Il Platone di Paul Friedländer è un'opera «totale» che per estensione, completezza e ambizione, si colloca tra i grandi classici della critica filosofica. La sua elaborazione copre la vita dell'autore pressoché nella sua interezza, tanto da arrivare per lungo tratto a coincidere con lo sviluppo di quel «compito» che lo stesso Friedländer poneva alla propria missione di filologo, vale a dire il riportare alla luce i nessi vitali e storici che determinavano le opere della classicità per poterle restituire alla ricerca nella ricchezza vivente di ciò che in concreto le aveva alimentate. L'opera consta di tre volumi (oggetto di continue rielaborazioni e perciò pubblicati e ripubblicati anche a parecchia distanza l'uno dall'altro) la cui impostazione complessiva rimane però profondamente unitaria. Questo ha provocato la scelta, sicuramente più funzionale sotto tutti i punti di vista, da quello editoriale a quello della facilità di accesso al testo, di presentare il tutto in un volume unico che, per la complessità e vastità degli argomenti trattati e per lo spazio assegnato alla trattazione e all'approfondimento delle singole tematiche, si pone come una delle più imponenti monografie su Platone che mai siano state concepite. Per quanto riguarda quello che nell'edizione originale era il primo volume, nella presente edizione si è scelto di riproporre, integralmente riveduta e in diversi punti corretta e adattata alla terza edizione dell'originale tedesco, la traduzione condotta sulla seconda edizione da Dario Faucci per l'editore «La Nuova Italia» di Firenze nel 1979. Oltre alle variazioni squisitamente stilistiche, alle piccole precisa-

LVIII

ANDREA LE MOLI

zioni e alle necessarie integrazioni, le modifiche più evidenti hanno riguardato l'inserimento, come cap. XVI, del saggio Platone giurista di Huntington Cairns, apparso originariamente nella prima edizione tradotta in inglese e mantenuto dalla seconda edizione tedesca in poi, e la registrazione delle importanti variazioni subite dal cap. XI Aletheia. Un confronto dell'autore con se stesso e con Martin Heidegger nella seconda versione inglese (1958) e ancora nella terza edizione tedesca (1964). Il II e il III volume vengono invece presentati per la prima volta in italiano. Il sottotitolo del libro è «quasi» quello imposto da Friedländer a tutti e i tre volumi di cui il Platone si compone. Dico «quasi» perché egli ha oscillato tra quello che appariva nella prima edizione (1928) del solo volume I, Eidos - Paideia Diálogos, quello che fu scelto per la seconda edizione (1954) del medesimo tomo I e poi esteso agli altri, Verità dell'essere e realtà del vivere [Seinswahrheit und Lebenswirklichkeitì e quelVidea ed esistenza [Idee und Existenz] che l'autore in occasione della terza edizione (di dieci anni posteriore rispetto alla seconda) afferma essere benissimo sostituibile al precedente. Ho quindi deciso di avvalermi di quanto proposto da Friedländer mantenendo non il sottotitolo originale bensì quello del 1954 solo per il primo volume e assumendo L'idea e l'esistenza (con l'articolo) come specificazione generale dell'intera opera. Questo fatto, e la conseguente scomparsa del primissimo sottotitolo, Eidos - Paidea - Dialogos, in cui ci si era abituati a riconoscere in Italia l'opera di Friedländer, richiedono maggiori precisazioni. Quasi venticinque anni fa Dario Faucci affermava che «Paul Friedländer non è uno storico della filosofia, ma un filologo della letteratura classica che si è incontrato con la filosofia studiando un grande scrittore di uno speciale genere letterario, il dialogo, e ha così acquistato un posto eminente tra gli storici della letteratura greca»1 e giustificava il mantenimento della dicitura del 1928 per il fatto che «in effetto il Friedländer ha avvicinato e studiato Platone come poeta drammatico, e senza dubbio questa prospettiva tratta dalla "filologia", avanza la pretesa di esse-

AVVERTENZA DEL CURATORE

LIX

re l'unica per intendere lo scrittore che ha lasciato il più solenne documento di un pensiero filosofico in atto, come ricerca della verità. La filosofia non è oggetto del dialogo, al vera filosofia è dialogo. Non è dottrina, è atto educativo dove si parla in funzione del problema, che la vita volta a volta pone, per risolverlo. E su questa linea che ha origine dalla realtà esistenziale, che trovano il loro luogo logoi e miti come modi di persuasione per guidare alla vista del bene, idea o verità dell'essere»2. Non trovo nulla da eccepire a questa impostazione. Tuttavia la frequentazione con l'opera di Friedländer nel suo complesso mi ha condotto a pensare che per riassumere efficacemente tutto il percorso che egli descrive possano essere più correttamente sfruttati due concetti che non rappresentano tanto, come il dialogo o la paideia, «la necessità del progressivo farsi» del cammino, quanto «il compiersi effettivo dell'ascesa», quell'attimo che sta prima dell'accesso al regno in cui ogni parola, anche quella dialogica, ha termine, quindi, per così dire, anche i limiti descrittivi del sistema oltre che le sue coordinate interne. Nella concezione ultima di Friedländer, «Idea» ed «Esistenza» sono infatti le due facce della specularità costante tra la «verità», che appartiene al regno immutabile delle forme e dei principi (in breve: all'«essere») e la «realtà» che appartiene, indistintamente, a tutto ciò che chiamiamo «vita». A conclusione del suo percorso, Friedländer intendeva con questa formulazione indicare un'ulteriore possibilità di leggere quell'organizzazione gerarchica del Tutto in funzione della vicinanza al principio del Bene la cui elaborazione compiuta è il grande risultato della filosofia platonica. Egli riteneva che il rapporto tra Idea ed Esistenza fosse in certo modo quello di una «inter-dipendenza» in cui il principio (l'Idea, il Bene) determina strutturalmente tanto la costituzione d'essere quanto il «senso», cioè la «verità», della «cosa» (l'Idea come forma e struttura, il Bene come limite e scopo) e la cosa nella sua «realtà» «realizza» il principio, lo «fa essere» proprio come, nei dialoghi, i diversi personaggi agiscono come «incarnazioni» (l'espressione Verkör-

LX

ANDREA LE MOLI

perung ricorre molte volte) di singole virtù, di concetti generali o principi etici che solo per mezzo di essi e «in» essi riescono ad affermare la propria verità. Il sottotitolo Lidea e l'esistenza racchiude allora, anche se implicitamente, la registrazione di due movimenti che sottotitolo del primo volume rimanevano in qualche misura ancora in ombra: quello che, dalla multiformità della vita e dell'esistenza, si solleva fino all'Idea, all'Unità e al Bene e quello che, ritornando dall'I dea ali'esistenza testimonia la volontà di entrare in contatto con linguaggi diversi e gettare così «ponti» verso l'altro da sé senza annichilirsi ma arrivando a comprendersi nel cerchio del Tutto. Il tratteggiare Inesistenza, l'esserci» [Existenz, Dasein] come il luogo in cui la verità dell'idea si fa, in certo modo, «reale» è, per così dire, la «provocazione» del Platone di Friedländer che sintetizza e porta a compimento oltre un secolo di critica filologica (e filosofica) e simultaneamente apre il pensiero platonico alle nuove forze dell'intuizionismo, della filosofia della vita, dell'esistenzialismo e dell'ermeneutica. In questo poderoso sforzo di superare le contrapposizioni tra fronti diversi e spesse volte ostili (come la filologia classica di fine Ottocento e il Neokantismo, la tradizione metafisica e l'analitica esistenziale) sta il merito forse più alto di quest'opera nel suo genere straordinaria. Ed è stato altresì non senza entusiasmo che ho accettato l'invito di Giovanni Reale a tradurre integralmente un'opera che già conoscevo per i rapporti intercorsi tra Friedländer e Heidegger in merito all'interpretazione dei concetti platonici di idea ed aletheia3 ma che non avrei mai pensato potesse coinvolgermi al punto da dedicare, ispirato dal mondo che l'autore ricostruisce e dalle prospettive ermeneutiche che dischiude, al platonismo ed alle sue interpretazioni contemporanee tutta un'altra serie di studi e progetti4. E stato quindi in una disposizione d'animo assolutamente «di ricerca» che ho atteso al lavoro che mi permette di consegnare oggi al pubblico italiano un testo che si presta comunque a vari livelli di fruizione e può pertanto soddisfare tanto la curiosità del semplice appassionato quanto l'interesse analitico dello specialista.

AVVERTENZA DEL CURATORE

LXI

Ora che l'ascesa è compiuta, si può guardare indietro, al percorso e agli incontri che la hanno resa possibile. Un ringraziamento particolarmente sentito va in questo senso a Pietro Palumbo, Costantino Esposito e Marco Pensallorto per l'amicizia, la fiducia e la competenza con cui hanno accompagnato l'intera genesi di questa edizione, nonché ad Alberto Bellanti per la preziosissima opera di editing e revisione del testo. L'ultimo pensiero a mio padre Salvatore, mancato in questi giorni tristi di dicembre. Nobis ipsis silemus.

Monreale, fine dell'anno 2003 Andrea Le Moli

1 D. Faucci, Presentazione a P. Friedlànder, Platone. Eidos - Paideia Diálogos, La Nuova Italia, Firenze 1979, p. XI. 2 Ivi, pp. XI-XII. 3 Tali rapporti costituiscono una componente particolarmente significativa del percorso heideggeriano di attraversamento del platonismo che ho cercato di ricostruire nel saggio Heidegger e la teoria platonica delle idee. Aspetti ermeneutici e questioni critiche, in «Giornale di Metafisica», Tilgher, Genova, 2000, pp. 285-316 e, anche e soprattutto dal punto di vista storico-critico, nel volume Heidegger e Platone. Essere Relazione Differenza, presentazione di C. Esposito, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 92-93, 149 e 183, a cui mi permetto, pertanto, di rimandare. 4

Platone e l'essere in comune. Figure della relazione dal «Sofista» alle «Leggi», in «Studium Philosophicum», II, Palermo 2/2002, pp. 89-106; L'idea, l'unità e il problema del fondamento. La teoria platonica dei principi alla luce di alcune interpretazioni contemporanee, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», Milano 1/2003, pp. 89-124; Contraddizione e dialettica nell'«Eutidemo», in Fieri, Annali del Dipartimento di Filosofia, Storia e critica dei saperi, Palermo 1/2004, pp. 119-133.

NOTA EDITORIALE

Tra parentesi quadre [ ] accanto al numero di pagina è indicata la paginazione di ognuno dei tre volumi dell'edizione originale. All'interno del testo, sono indicate in neretto le sezioni in cui Friedländer suddivide i dialoghi (nei voll. II e III), mentre tra parentesi quadre [ ] e in corsivo riporto l'originale tedesco di alcune espressioni la cui specificità occorreva sottolineare (in genere traduzioni originali, o comunque significative, di parole greche o locuzioni particolarmente importanti). Le aggiunte al volume III, nell'edizione originale segnalate da asterischi e riportate in appendice, sono state incorporate nel testo. Le note che erano raccolte alla fine di ogni tomo sono state unificate mantenendo però la numerazione progressiva del volume cui si riferiscono. Anche la scansione dei paragrafi corrisponde quasi completamente a quella originale, salvo alcuni casi in cui si è privilegiata la fluidità del discorso italiano rispetto alle esigenze di partizione del testo tedesco. La nostra traduzione è stata condotta sulla terza edizione riveduta e aggiornata, Walter De Gruyter & Co., Berlin 1964 (voll. I e II), 1975 (vol. III) con otto tavole e in seconda di copertina: Platone (antica copia marmorea presumibilmente da un originale bronzeo di Silanion, metà del 4° secolo a. C. Da Robert Boehringer, Platon. Bildnisse und Nachweise, Leipzig 1935, Tavola 83). Di seguito presentiamo le date di pubblicazione delle principali edizioni dell'opera.

LXIV

NOTA EDITORIALE

Volume I: - Platon: Eidos - Paideia - Dialogos, Berlin-Leipzig 19281. Comprende quelli che sono rimasti i primi nove capitoli più due excursus, Platone Geografo e Platone urbanista, che dalla seconda edizione in poi costituiscono i capp. XV e XVII. - Platon. Band I. Seinswahrheit Berlin 19542.

und

Lebenswirklichkeit,

- Plato. 1. An Introduction, ed. by Hans Meyerhoff, Bollingen Series LIX: 1, New York-London 1958, ristampato nel 1963 dalla Harper Tochbook Reprint, senza sottotitolo. Vi era inserito il capitolo Plato as a Jurist di Huntington Cairns, che figura anche nella terza edizione tedesca. - Platon. Band I. Seinswahrheit und Lebenswirklichkeit, Berlin 19643. - Plato. 1. An Introduction, ed. by Hans Meyerhoff, Bollingen Series LIX: 1, rist. Princeton University Press, Princeton, N. J. 19692. - Platone. Eidos - Paideia - Dialogos, Presentazione e traduzione di Dario Faucci, La Nuova Italia, Firenze 1979 (traduzione condotta prevalentemente sulla seconda edizione del 1954). Volumi II e III: - Platon. Band II. Die platonischen Schriften, Berlin 19301. Contiene il commento a tutti i dialoghi. A partire dalla seconda edizione il contenuto sarà così ripartito: - Platon. Band II. Die platonischen Schriften. Erste [dal Protagora al Menone], Berlin 19572. 19643.

Periode

- Platon. Band III. Die platonischen Schriften. Zweite und dritte Periode [dal Simposio alle Leggi], Berlin I9602, 19753.

NOTA EDITORIALE

LXV

- Plato. 2. The Dialogues, First Period, tr. By Hans Meyerhoff, New York (Bollingen Series LIX, vol. 2) and London, 1964. - Plato. 3. The Dialogues, Second and Third Period, tr. By Hans Meyerhoff, New York (Bollingen Series LIX, vol. 3) and London, 1969, rist. in Inghilterra da Routledge & Kegan Paul, London 1969.

Platone

Cos'è che solo ci può risanare? Lo spettacolo della perfezione. Nietzsche, Appunti sul caso Wagner

UDALRICO DE WILAMOWITZ-MOELLENDORFF TQI AAIMONIÍ2I hoc opus manet dedicatum.

MDCCCCXXVIII MDCCCCLIII

MDCCCCLXIV

DALLA PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

(1928)

Quasi esattamente dieci anni fa - nei giorni indimenticabili dell'«Università tedesca di guerra in Wilna» l'autore ha per la prima volta parlato di Platone con la coscienza, ancora vaga, di aver qualcosa di proprio, eppure non semplicemente soggettivo, da dire. Per chi negli anni della guerra si è spesso ritrovato solo con le opere di Platone nelle trincee davanti a Ypres e nelle baite russe, questi drammi, questo mondo di Philia e Neikos, dovevano animarsi di una forza vitale sino ad allora sconosciuta. Con ciò non pensavo neanche lontanamente alla possibilità di un lavoro scientifico quando ogni futuro, anche quello scientifico, svaniva nell'incertezza. Eppure fu tutt'altro che un caso il fatto che, sul labile confine tra guerra e pace, fosse proprio Platone a farmi da guida e che questo lavoro, oggi ormai instradato su vie scientifiche, riuscisse in generale a rivolgersi alla scienza. Ho ricevuto molti e vari stimoli, attraverso colloqui o critiche su quanto avevo già scritto, soprattutto da Fritz Klingner, Nikolai Hartmann, Ernst Robert Curtius, Herbert Koch, Rudolf Bultmann, Martin Heidegger e Hans-Georg Gadamer. Li ringrazio tutti. Marburgo, 18 gennaio 1928. P. F.

PREFAZIONE 1 9 6 4

Perché ancora un libro su Platone in aggiunta ai molti che già esistono e a quelli che ancora continuano a essere scritti? Al tempo in cui scriveva l'autore si trovava tra due fronti. C'era chi accettava, a partire dal Neokantismo e da altre tendenze della tradizione filosofica, la tesi per cui l'elemento letterario e poetico in Platone non ha per i filosofi alcun valore essenziale ma è qualcosa di semplicemente accessorio, un lavoro di cornice al contenuto filosofico vero e proprio. L'altro fronte seguiva quel grande rappresentante della filologia classica a cui il libro era e sarebbe sempre rimasto dedicato: Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, il quale ha scritto la biografia di Platone e analizzato le sue opere lasciando però spesso ai filosofi quanto di autenticamente filosofico si trova in esse. Il compito che allora mi posi, e che ancora oggi mi pongo, fu quello di superare questa contrapposizione. «Verità dell'essere e realtà del vivere» recita pertanto, a partire dalla seconda edizione, il sottotitolo del primo volume. Vale anche per i volumi II e III. Si potrebbe sostituire con «Idea ed esistenza». Il testo e le note sono stati espressamente rivisti per la terza edizione; ciononostante essa non differisce sostanzialmente dalla seconda. Modifiche essenziali ha subito soltanto il confronto con Heidegger nel capitolo XI. Huntington Cairns ha permesso di ristampare qui, come capitolo XVI, il suo saggio «Platone giurista» che era già apparso nell'edizione inglese del voi. I. Insieme ai capitoli XIV, XV e XVII esso contribuisce a integrare l'"universalità" della figura di Platone. Los Angeles, California, 24 aprile 1964. P. F.

PREFAZIONE 1 9 7 3

Solo alcune settimane prima della sua ultima malattia, Paul Friedländer, con un'espressione mista di gioia e sollievo, mi consegnò il terzo volume del «Platone» dicendo: «è pronto per la terza edizione». Il lavoro era stato accuratamente riesaminato. Alcuni paragrafi erano nuovi, così come una serie di note, altri erano stati ampliati. Poco tempo prima aveva rivisto dettagliatamente la traduzione inglese del volume e in quest'occasione aveva analizzato attentamente il testo tedesco trovandovi ancora alcune cose che non sembravano soddisfarlo completamente, né per quanto riguardava la chiarezza del pensiero né per l'adeguatezza della forma. Egli aveva pertanto modificato un'altra volta, e in più punti, il testo in vista della presente edizione. Per ragioni di natura tecnica e di costi relativi alla casa editrice, si rese evidente che la nuova edizione si poteva realizzare esclusivamente attraverso una ristampa fotostatica in cui potessero venire inserite, per quanto possibile, tutte le piccole correzioni. Fu inoltre aggiunta al volume una serie di pagine che contenessero tutte le aggiunte e le correzioni più importanti. Le modifiche squisitamente stilistiche non vennero effettuate. Il rinvio alle aggiunte avviene tramite asterischi, un indubbio aiuto anche per chi già conosce il libro. Un caso particolare deve però esser menzionato qui. Nelle precedenti edizioni il termine fi8ovf) era stato tradotto con «piacere» (Lust). Paul Friedländer aveva però ritenuto che il significato di fiSovr) nelle opere tarde di Platone muti assumendo tratti più positivi. La nuova connessione che si istituiva quindi tra piacere e conoscenza dava origine a un tipo di piacere più elevato che poteva essere meglio indicato dal termine «godimento, gioia» (Freude). Questa correzione, che ritorna spessissimo, non poteva essere inserita nelle aggiunte; al lettore il compito di tenerla a mente e farla egli

PREFAZIONE

1973

stesso. Il risultato è, purtroppo, quello che i Greci chiamavano Sevtepoq jiXoOq. Solo in parte ho potuto metter mano alle correzioni previste, per quanto nel corso della lettura mi fossero apparse chiaramente la loro correttezza e la loro importanza. Ma la cosa più importante era per me dare al più presto alle stampe questo libro, che così a lungo aveva aspettato. Spero che attraverso le aggiunte apportate ora il lettore capisca quanto esso sia rimasto, nella sostanza, immutato. Concludo ringraziando il prof. Dr. H. Hoffleit dell'University of California, Los Angeles, che con amichevole premura ha rivisto queste annotazioni e in qualche caso mi ha offerto il suo consiglio. Los Angeles, California, Autunno 1973 Charlotte O. Friedländer

Libro primo VERITÀ DELL'ESSERE E REALTÀ DEL VIVERE

PARTE PRIMA

I DAL CENTRO AL CERCHIO

«Una volta, quand'ero giovane» - così scrive il settantacinquenne Platone nel suo manifesto letterario "Agli amici e parenti di Dione" - «accadde a me come a tanti altri: pensavo, appena fossi diventato padrone di me stesso, di dedicarmi immediatamente all'amministrazione della città. Quando ecco che mi capitarono, nel corso della mia vita politica, alcuni casi di questo genere. Poiché la costituzione della città era avversata da molti, si giunse a una rivoluzione. E in questa rivoluzione cinquantuno uomini conquistarono il potere: undici in città, dieci nel Pireo e trenta assursero alla più alta magistratura con autorità illimitata. Tra questi contavo alcuni parenti e conoscenti, cosicché mi chiamarono subito, come se toccasse anche a me prendere parte a queste faccende. In ciò mi accadde qualcosa che, vista la mia giovinezza, non deve stupire: credetti che costoro avrebbero condotto, sotto il loro regime, lo stato dall'ingiustizia alla giustizia. Così stavo molto attento a quel che facessero. Come poi vidi che quegli uomini, in brevissimo tempo, facevano sembrare aureo il precedente regime - tra le altre cose volevano mandare il mio vecchio amico Socrate, che io senza nessun timore potrei definire l'uomo più giusto del suo tempo, insieme ad altri a prendere con la forza un cittadino e condurlo a morte, manifestamente per renderlo complice del loro agire, che lo volesse o no (ma egli rifiutò di obbedire e preferì affrontare enormi rischi piuttosto che rendersi complice della loro empietà) - come dunque vidi tutte queste cose e altre di analoga gravità, ne fui disgustato e mi ritrassi da quella depravazione. Poco più tardi i Trenta caddero, e con loro tutto quel sistema politico. E di nuovo mi prese, anche se meno intensa, la voglia di avere a che

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PLATONE

fare con i pubblici affari. Tuttavia anche allora, in quello sconvolgimento, accadevano cose che potevano muovere a sdegno. E non c'era neanche più da meravigliarsi se, approfittando della rivoluzione, molti uomini mettevano a segno vendette contro i loro nemici. Ciononostante, il partito che in quella fase tornò al potere diede prova di molta moderazione. Se non che accadde una nuova disgrazia: certi uomini potenti citarono in giudizio proprio il nostro amico Socrate, lanciando verso di lui un'accusa quanto mai infamante, che certamente non gli si addiceva. L'accusa era infatti quella di vilipendio contro gli Dei della città e i giudici, ritenendola fondata, mandarono a morte lui, che non aveva voluto prendere parte all'arresto illegittimo di uno degli esponenti del partito che allora era bandito, quando essi stessi erano banditi e in miseria. Q u a n d o riflettevo su queste cose e osservavo gli uomini che avevano nelle loro mani gli affari, le leggi e i costumi dello stato, quanto più vi meditavo e andavo avanti nell'età, tanto più mi sembrava difficile condurre con giustizia le questioni pubbliche. Senza amici e compagni fedeli non era in generale possibile fare alcunché - e non era facile trovarli tra i vecchi conoscenti, dal momento che il nostro stato non viveva più secondo gli usi e costumi dei padri, ed era impossibile trovarne di nuovi se non a prezzo di gravi difficoltà - e d'altra parte la corruzione nella legislazione e nei costumi si diffondeva in modo impressionante. Tant'è che io, inizialmente pieno di ardore nell'affrontare la cosa pubblica, ero preso dalle vertigini quando assistevo a queste cose e vedevo tutto andare in rovina. Tuttavia non smettevo di riflettere intorno al modo in cui si sarebbero potute migliorare queste cose e con esse in generale tutto il sistema politico. Ma per agire attendevo sempre il momento opportuno, finché alla fine fui dell'idea che tutti gli stati attuali hanno, nell'insieme e ognuno in particolare, cattive costituzioni. Infatti con le loro leggi essi non possono essere risanati senza una attività intelligente che si congiunga in modo mirabile alla buona sorte. E così mi trovai costretto a fare le lodi della vera filosofia e dire che solo per suo mezzo è possibile conoscere ciò che è

DAL CENTRO AL CERCHIO

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giusto per lo stato e per la vita del singolo e che quindi le generazioni umane non avrebbero mai trovato fine ai loro mali se prima il genere di coloro che sono veramente e rettamente filosofi non fosse pervenuto al governo dello stato, oppure il genere dei potenti avesse cominciato, per qualche sorte divina, a coltivare veramente la filosofia. Con questa convinzione venni in Italia e in Sicilia quando vi giunsi per la prima volta»1. Così Platone, ormai vecchio, guardava al tempo del suo sviluppo spirituale tra il diciottesimo e il quarantesimo anno di età. Forse ha ragione Goethe quando dice che «nessuno può condividere il particolare punto di vista con il quale il singolo guarda alla sua vita passata», e noi accoglieremmo grati tutte quelle testimonianze che ci permettessero di integrare questa autotestimonianza o di considerare quanto vi è contenuto da un altro punto di vista. Ma per conoscere ciò che Platone è stato non possediamo in fondo nient'altro che questo brano di autobiografia - che certamente ha diritto al proprio posto anche a dispetto delle critiche di tutti coloro che, numerosi, si sono sforzati nel negare a Platone la paternità di questo manifesto letterario e alla scepsi di un Nietzsche, che «non avrebbe prestato alcuna fede neppure a una "Vita di Platone,, scritta da Platone stesso, così come a quella di Rousseau o alla Vita Nuova di Dante»2. Quel documento, tuttavia, contraddice le abituali rappresentazioni di Platone. I grandi pensatori dei secoli antichi lo hanno visto come il loro predecessore. Egli appartiene alla storia della metafisica occidentale. Nel quadro dello sviluppo del problema metafisico egli scopre verità sulla base di verità che già un Parmenide, un Eraclito, un Socrate hanno scoperto; altri filosofi perfezionano poi le sue problematiche. «Dopo le suddette filosofie venne la dottrina di Platone, che in generale le seguì, ma in alcuni casi fornì un contributo proprio, distaccandosi dalla filosofia degli italici». Si può restringere un tesoro di potenza creativa entro i ristretti limiti di una storia delle dottrine più di quanto non faccia qui (Metafisica, 16) Aristotele? Giacché è ad Aristotele che si deve far risalire quella costruzione teoretica. Certo

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ci si può chiedere, ascoltando quanto riportato da Socrate nel Fedone in merito al proprio sviluppo filosofico, se già lo stesso Platone non si vedesse in tale prospettiva. Ma la questione rimane senza risposta, e nella lettera, in ogni caso, di ciò non v'è traccia. Ora certamente lo scenario descritto nella lettera non è completo. Basterebbe a mostrarlo il concetto di «filosofia» che emerge alla fine, senza che in alcun modo venga detto come vi si sia giunti. Platone sa di essere lo scopritore di un mondo metafisico, e cos'altro è la retta filosofia di cui parla in questa lettera se non la conoscenza delle Forme eterne e del loro vero essere? Purtuttavia egli non rinunciò mai all'idea di realizzare questo nuovo mondo. Egli cercava lo stato, e fu cercando il vero stato che trovò il regno delle idee. Come ciò sia da intendere, e come non potesse essere altrimenti, diventa più chiaro considerando le condizioni storiche in cui Platone crebbe. Per il luogo e il tempo in cui nacque e per il ceto sociale da cui proveniva, egli non era destinato a condurre la vita di un filosofo al modo per cui ormai da secoli - in parte proprio a causa di Platone - l'uomo nasce già immerso nella grande corrente filosofica che attraversa il genere umano. «Quando entrai nella filosofia», scrive una volta Dilthey. Platone non avrebbe potuto dirlo. Completamente diversa era la situazione spirituale di un uomo nato da nobile stirpe in Atene al principio della Grande Guerra. L'Attica, una piccola terra di proprietari terrieri, contadini e marinai, era ancora all'alba del suo giorno nascente quando il sole di Omero già risplendeva sulla Ionia. Atene non fu toccata dall'ondata di scienza e metafisica che si alzò a Mileto e si riversò sulla terra delle colonie italiche. Mentre laggiù si calcolavano le eclissi di sole, si costruivano carte geografiche e globi terrestri e si indagava il principio essenziale del mondo, Solone e Pisistrato davano agli ateniesi il loro stato e introducevano le ricche arti dell'Oriente in quel giovane popolo. Mentre nella Ionia e nella Magna Grecia venivano innalzati alternativamente a dominatori dell'universo l'unico Essere, libero da contraddizioni, e la legge del-

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l'eterno, eternamente contraddittorio divenire e progredivano gli studi sull'ordine, la composizione e il senso del mondo, Atene fondava uno stato di liberi cittadini, sconfiggeva i persiani e regalava al mondo la tragedia. Certamente la filosofia ionica della natura trovò come suo primo grande rappresentante in Atene Anassagora, la cui nuova sapienza si guadagnava tanto il sovrano Pericle quanto il poeta Euripide. Ma egli era uno straniero, e stranieri furono anche tutti quei giovani «fisiologi» che incontravano ad Atene plauso, risa o ostilità. E venne presto il tempo in cui si trassero conclusioni scettiche dalle contraddizioni di questa fisiologia e dalle prime teorie «gnoseologiche». Anche i sofisti Gorgia e Protagora furono ospiti ad Atene. Da loro accorse la gioventù ateniese a intraprendere un nuovo metodo da usare nella gara prediletta e perché trovava a disposizione della propria brama di dominio armi finora sconosciute. Ma se il venditore di questa nuova merce era accolto con onore, nessun ateniese avrebbe potuto esercitare quella professione. «Non ti vergogneresti di presentarti come maestro di sapienza dinanzi agli elleni?» così, in Platone, Socrate chiede a un giovane ateniese impaziente di diventare scolaro dell'appena giunto Protagora. E la sua risposta «Si, per Zeus, mio Socrate, se devo dire quello che penso» sarebbe stata la confessione di ogni ateniese onesto (Protagora, 312 A).

Aristotele racconta, lì dove inserisce la filosofia del suo maestro nella successione dei sistemi metafisici (Metafisica, I 6), come Platone fosse stato, da giovane, in rapporti di familiarità con l'eracliteo Cratilo e avesse appreso da quello la dottrina dell'eterno fluire e dell'impossibilità di una conoscenza vera; come Socrate gli avesse poi mostrato che nei concetti etici era contenuto qualcosa che non apparteneva al mondo sensibile e come poi egli le avesse chiamate «idee». Non si può fraintendere in modo peggiore Aristotele che prendendo questa costruzione, che ha senso solo in rapporto alle sue peculiari problematiche, per un resoconto storico sul vero sviluppo spirituale di Platone. Certamente allora non è più difficile far precedere nella sua vita al periodo

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scettico anche un periodo materialistico. Basta solo prendere in senso biografico quanto Socrate racconta sul suo sviluppo filosofico nel Fedone e trasferirlo su Platone3. Ma, a prescindere da simili ipotesi moderne: noi non sappiamo minimamente quanto in generale possano essere penetrati in lui questi pensieri «filosofici», che gli giunsero forse attraverso Cratilo, ma certamente anche attraverso altri. E se pure egli fosse giunto a dubitare di ogni conoscenza - cosa che certamente suona meglio per il Doctor Faustus che per un uomo del mondo antico - , c'era ancora il mondo dell'attività pratica. E se avesse potuto agire, allora forse tutte le fantasticherie sarebbero svanite, non molto diversamente da quel che avvenne del dolore cosmico di Byron, della scepsi alla Feuerbach per il giovane Bismarck quando cominciò ad affrontare la vita. No, un ateniese nel cui albero genealogico c'era il nome di Solone, non poteva alla fine del V secolo che voler diventare un uomo politico. «Divenire uomo di governo nella Polis», questo vuole ogni uomo a vent'anni e anche prima: Alcibiade nell'omonimo dialogo di Platone, il fratello di Platone, Glaucone, nei Memorabili di Senofonte, Platone stesso nello sguardo retrospettivo della grande lettera. Unicamente con la differenza che per lui qui interferisce quella profonda problematica che porta una svolta nella sua vita. Quanto più la vita di un uomo si addentra nell'Essenziale, tanto più egli vede simbolicamente quanto accade intorno a lui. Platone vide immediatamente nella sorte di Socrate la decadenza di Atene. Se Atene non sopportava più il suo fedelissimo servitore, sempre pronto a morire per questa città e che realmente perì per le sue leggi - quando i rivoluzionari aristocratici lo avevano voluto rendere complice delle loro malefatte, lui che aveva sempre combattuto l'arbitrio della maggioranza momentanea e aveva sempre invocato il governo dei «migliori» - quando, con un inaudito sconvolgimento di ogni sensatezza persino la restaurazione democratica lo aveva condannato, lui che aveva rifiutato agli oligarchi di agire contro un democratico - allora non

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c'era più lo stato che gli antenati avevano creato e in cui avevano operato, ma il suo posto era stato occupato da traffici politici che si erano staccati dalle radici più profonde della tradizione. Essere uomo politico: questo era per Platone, quando era ancora deciso a diventarlo, qualcosa di più di una semplice professione staccata dalla sua vita. E in effetti Aristotele, con la sua definizione dell'uomo come di un «essere politico», ha solo tradotto in concetto l'esperienza che tutti vivevano. Come posso raggiungere Yarete e come posso divenire uomo politico: queste erano le domande che stavano di fronte a ogni giovane, e tutte e due erano in fondo una cosa sola. Non poter diventare politici non era quindi - come forse oggi - l'invito a scegliersi un'altra professione, ma la negazione dell'essenza stessa dell'uomo. Così quell'impossibilità che Platone vedeva raffigurata nella sorte di Socrate significava o la negazione della vita o l'esigenza di fondarla nuovamente su un piano del tutto diverso. Ciò però voleva dire dal momento che non era ancora giunto il tempo in cui il singolo sarebbe stato inserito nel tutto senza la mediazione della sua comunità - una rifondazione dell'uomo e insieme del suo stato. E non aveva proprio Socrate mostrato come si dovesse iniziare tale opera? Non bastava più rabberciare le istituzioni, bisognava rinnovare la sostanza. Senza che l'uomo fosse reso «virtuoso» non si poteva pensare alYarete dello stato. Poiché Socrate insegnava a ricercare la «virtù», egli aveva già iniziato l'opera di rinnovamento. Lui solo aveva capito cosa era necessario e per questo era stato l'unico vero uomo politico (Gorgia, 521 D). Se per bocca sua Platone avanzò la pretesa che i filosofi dovessero essere i governanti o i governanti dovessero essere filosofi, ciò non fu un «eccesso di presunzione filosofica» (Burckhardt)4, ma la convinzione, racchiusa in un epigramma, che lo conduceva all'uomo politico a partire dall'esperienza concreta di quel momento storico e dell'esistenza socratica in esso. Non possiamo quindi, in definitiva, far altro che «condividere la particolare maniera con cui Platone vede la sua vita passata»5. Certamente questa evoluzione oltrepassa il modo

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in cui una semplice formula cerca di descriverla. Certo la sua stessa opera dimostra che egli ha visto bene l'Essenziale. La Repubblica e le Leggi oltrepassano già in ampiezza tutti gli altri suoi scritti sui vari argomenti. L'analisi di tutta la sua opera letteraria nel suo complesso deve mettere al centro di essa la Repubblica ed è in base al loro contenuto essenziale che la maggior parte dei primi dialoghi vengono visti in connessione con essa. La sua costruzione è fin nell'intimo determinata dalla convinzione che i veri governanti e gli autentici filosofi siano una cosa sola e proprio nel mezzo del dialogo ritorna l'incisivo epigramma sui re filosofi della Lettera VII. Infine, la vita di Platone appare piena di tentativi sempre rinnovati di realizzare nello stato del suo tempo, nonostante tutto, quel paradosso. Ma cosa significava esso, in fondo? A questa domanda risponde una breve meditazione sull'essenza dello stato greco. Lo stato greco è originariamente legato alla divinità. In Omero è Zeus che concede ai re lo scettro e il potere di governare. Esiodo fa di Temi la moglie di Zeus e dà loro come figlie, accanto alle Moire, le grandi personificazioni della Sorte, che donano ai mortali il Bene e il Male, le tre Ore, nei cui nomi Eunomie, Dike, Eirene è espressa la legge della comunità umana, «statale». Anche chi, tiranno o delinquente, infrangeva la legge, riconosceva la sua divinità, quando pronunciava la parola Temi o Dike. Quando poi in luogo della primitiva e incrollabile fede religiosa nasce l'interrogazione e la ricerca, Eraclito fonda metafisicamente lo stato nel cosmo. Perché infatti «il popolo deve combattere per la propria legge così come per le proprie mura»? Poiché l'ordinamento dello stato è una parte del grande ordine del cosmo. «In verità tutte le leggi umane sono alimentate da un'unica legge, quella divina. Essa domina fin quanto vuole e come vuole, e basta per tutti (e per tutto) e ancora di più»6. Che Eraclito non abbia con ciò fatto alcun lavoro di fantasia si può ben credere. Anzi proprio quei primissimi pensatori, come in gara l'uno con l'altro, hanno trasferito la Dike dalla società umana all'universo. Anassimandro vede nella negazione di ogni realtà generata la punizione e l'è-

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spiazione ( 8 ì k t | v m i t i a w ) che le cose pagano l'una all'altra per r«ingiustizia» (à8iKÌa) del loro divenire. A Dike Parmenide affida le chiavi della porta da cui passano i sentieri del giorno e della notte, e le catene fra cui giace legato l'unico essere immoto e immutabile. Espressione di necessità cosmica - per dirlo in termini di pensiero moderno - è Dike anche per Eraclito. Essa cura tramite «i suoi ministri, le Erinni» ('Epivòeq Aìkt|£ ènÌKOupoi), che «Helios non oltrepassi i suoi limiti». E quando di nuovo Eraclito riconnette in unità le due potenze «diritto» e «lotta», traspare, allora, appena velata dalla veste mitologica, la sua visione superiore della legge universale della «armonia degli opposti». L'ordinamento giuridico dello stato si allarga così al Tutto e lo stato e la sua legge guadagnano nel pensiero quella dignità che cominciava a sfuggir loro in una realtà che andava lentamente spogliandosi del divino7. In effetti quei legami non erano così forti che l'opera di poche generazioni in rapidissimo progresso non fosse sufficiente a scioglierli. Il distacco dell'Io dalla comunità era aumentato continuamente, nel pensiero come nella vita. L'ampia veduta su molti popoli e sui loro diversi costumi aveva reso paragonabili le proprie istituzioni con quelle altrui e scosso, con la convinzione della loro peculiarità, la fede nella loro necessità. I grandi destini individuali dell'età tragica avevano messo in questione la giustizia, che fino allora era saldamente fondata sullo stato e sulla divinità. Ora i «discorsi doppi» del Sofista insegnavano che giusto e ingiusto erano lo stesso; che ciò che una volta è giusto un'altra volta può essere ingiusto; che ciò che è ingiusto può essere tanto buono quanto il giusto, anzi migliore di esso. Crizia immaginava - analogamente a Democrito, Epicuro, e agli illuministi dell'epoca moderna - una storia della civiltà umana nella quale singoli uomini dotati di senno superavano lo stadio primitivo e animale attraverso le leggi, «affinché il diritto sia signore assoluto e tenga in schiavitù la forza». E così umanamente, o troppo umanamente, il nomos diveniva per Antifonte ciò che viene posto, che si usa, su cui ci si

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accorda; e ciò che per Eraclito era stato una parte del grande ordine del cosmo, sta ora di fronte alla Physis come qualcosa di totalmente altro da essa, anzi spesso le si contrappone come una potenza ostile: «nella maggior parte dei casi ciò che è giusto per convenzione risulta contrario alla natura» e «quel che è indicato dalla convenzione come utile costituisce invece un impaccio per la natura»8. Pindaro onora il nomos come il «sovrano degli dei e degli uomini», il sofista Ippia (in Platone) l'odia come un «tiranno che fa molta violenza alla natura». Se esisteva ancora qualcosa dell'antico legame che univa mondo e stato, esso era divenuto ben fragile. Dei due fratelli, nemici nelle parole come nelle armi, che Euripide nelle Fenicie9 pone l'uno dinanzi all'altro, l'uno occulta la sua violenza sotto il titolo del diritto, che per lui non è più una divinità. L'altro si professa espressamente devoto della «più grande dea, la tirannia». Nessuna meraviglia che la madre non riesca a sanare il conflitto tra i due fratelli, dal momento che ella sa chiamare in soccorso solo la dea «uguaglianza». Isotes ha assegnato all'uomo peso e misura. Sotto la sua legge avviene che «l'occhio spento della notte e la luce del sole percorrano sempre lo stesso cerchio dell'anno». Così ella regna anche, si dice, sovrana tra uomini e stati, ella che «lega l'amico con gli amici, lo stato con lo stato, il compagno d'armi col compagno d'armi». Tuttavia, laddove ci si dimentica della divinità della Dike, Isotes non può che risultare una vana parola, che non ha più alcuna forza di costrizione sulle anime. Il sacro vincolo è interrotto, infranto, l'arbitrio è senza freno, l'«uomo tirannico» si scioglie dai legami con Dike. In Socrate, Dike trovò il suo difensore. Insegnare a trovare di nuovo la giustizia scomparsa, di fronte a questo compito lo poneva il momento storico in cui nacque. E solo per questo egli «ha scoperto il metodo induttivo e la definizione», ossia «ha fondato la scienza» - se e quando ha fatto ciò»10 - poiché nel logos, nel dialogo infinito egli ha cercato e si è interrogato su quale fosse propriamente l'oggetto del discorso, sul «che cos'è», su cosa fossero la giustizia, le virtù,

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l'unica «virtù». Egli la cerca; poiché come essa ha regnato nella città e nello stato dei padri, allora essa deve, quand'anche nascosta, sempre venire ritrovata. Anzi egli muore sotto il suo dominio, per ordine di questo stato che ancora nella sua decadenza testimonia della sua sovranità: dunque essa deve essere. Platone si incontra con Socrate. Egli trova che il proprio volere, ancora del tutto indeterminato, «di dedicarsi subito alla vita pubblica», è guidato da quella ricerca in una particolare direzione. «Per me non c'è nulla di più urgente che divenire, quanto è possibile, virtuoso. E in ciò, credo, nessuno può aiutarmi più validamente di te». Così Alcibiade parla a Socrate nel Simposio, e così ha detto o sentito Platone di fronte a lui. E da Socrate egli ha inteso o creduto di dover intendere le parole che egli fa rivolgere da Socrate stesso al giovane Alcibiade in un altro dialogo: «tutti i tuoi piani non possono trovare il loro compimento senza di me; tanto io posso sulle tue faccende e su di te». Così vita e morte del maestro lo afferrano come suo proprio destino. Platone possedeva ciò che a Socrate, senza che egli ne avesse bisogno, mancava: l'occhio plastico dell'elleno, un occhio simile a quello con cui Policleto vedeva il canone nelle corse e nel lancio del giavellotto delle palestre, e Fidia negli uomini divini (8101 àvSpeq) l'immagine dello Zeus omerico; e simile anche a quello che il matematico greco dirigeva verso le pure forme geometriche. Potrebbe sembrare che Platone fosse egli stesso cosciente di questo dono, che, fra tutti i pensatori, era toccato in massima parte a lui. O è soltanto per caso che è in lui che si incontra per la prima volta l'espressione metaforica «occhio dell'anima»11? Certo, prima di lui un poeta come Eschilo ha già una volta arditamente parlato di un intelletto che ha occhi (8cup.ovéaxaxov xoi> òvxoq, Repubblica, 526 E). Chi è giunto lassù si stima eudemonico (516 C), crede di abitare nell'isola dei beati (519 C). Così nella Repubblica. A colui che scorge il bello in sé Diotima attribuisce un'esistenza degna di essere vissuta (211 D) e lo chiama, ora che genera e nutre vera virtù, «caro agli dei» (212 A). Nel Fedro è il genere degli dei beati che mira nel suo viaggio le essenze (247 A). Benedetta la visione, felice il coro che ne partecipa (òxe cbv eí)8aí(j.ovi %opcp (¿aicapíav òi|/iv xe Kai Béav eiSov, 250 B). Il pensiero del filosofo indugia quanto le sue forze permettono là dove il dio soggiorna ed è perciò divino (jcpòq oicrcep 8eò a a \|/u%f|q t o h àpicxcot vostri, 248 B), per essa crescono le penne dell'anima. Se essa ha veduto qualche aspetto del vero, questo decide della sua sorte (249 B). Il filosofo sempre si sforza come può di conservare quei ricordi. Egli si distoglie (è^ioxà|j.£voq) dalle cure umane e quando così è presso la divinità, i più lo stimano demente e non sanno che è in rapimento (èvQouaià^cov, 249 D). Dappertutto è mantenuta rigorosamente la contrapposizione di anima e archetipo. Anche l'entusiasmo, la divina pazzia, non significa un trapasso dell'anima a un qualcosa del tutto diverso o l'irrompere di questo nell'anima, ma l'allontanarsi da ciò che gli uomini chiamano serie occupazioni (àv0p7uva anot)5ào|j.axa). Per Plotino invece, nello stesso punto del sistema, stanno esperienze completamente

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diverse. Quando si tratta del bello intelligibile ripete l'immagine del Fedro, cioè del corteggio degli dei e delle anime per mirare le forme eterne. Ma già qui vien meno la rigida contrapposizione di contemplante e contemplato (V 8, 10): «Giacché tutto qui risplende e riempie (di fulgore) coloro che son giunti laggiù, sicché divengono anch'essi belli, così come spesso avviene che delle persone, salendo su luoghi elevati, sono inondati dalla stessa luce dorata che tinge la terra, fatti simili al suolo su cui camminano». Il principio irradiante che emana energia, è più fortemente sentito. L'attività del contemplante sparisce, egli è avviluppato dalla forza che s'irradia di là. Di più: l'accoglie in sé, diviene «come ebbro di vino e tutto ripieno di nettare». La contrapposizione non sussiste più. «Non c'è più l'uno esterno all'altro. Ma chi ha la vista acuta ha in sé l'oggetto veduto, e come lo abbia il più delle volte non lo sa e guarda a esso come qualcosa che è al di fuori». «Tutto ciò che uno guarda come visibile, lo guarda come esterno, ma lo deve ormai trasferire in sé e mirarlo come se stesso come uno preso da un dio, da Febo o da una delle Muse, può produrre in se stesso la visione del dio, solo che abbia la forza di guardare il dio in sé». Ma è cercata anche una nuova espressione per dire più chiaramente questa esperienza, cioè l'unità del contemplante e del contemplato. «Ma se uno di noi (dapprima) incapace di vedere se stesso, preso da quel dio, scorge qualcosa di visibile, allora scorge se stesso e mira una più bella immagine di sé. Ma allora lascia andare l'immagine per quanto bella, diviene uno con se stesso e, non più scindendosi, è uno e insieme tutto, con quel dio che è presente in silenzio ed è con lui finché può e vuole». In movimenti sempre nuovi è espressa l'unificazione, vien superata la contrapposizione: «Correndo là nell'intimo ha tutto, e lasciando addietro la percezione per timore di essere un altro, là è uno». «Bisogna abbandonarsi nell'intimo e in luogo di essere uno che vede, divenire spettacolo di un altro spettatore». Così dall'attività del contemplante è nata una situazione in cui egli si abbandona senza volontà alla emanazione e si fa prendere e emanare da essa. «Finché lo vede come un'altra

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cosa non è ancora nel bello; diventato quello, allora è massimamente nel bello». Dopo che si è veduta la energia di questa unione, ritorniamo ancora a Platone. Orbene in esso l'io e l'oggetto rimangono in rigorosa opposizione. L'esperienza plotiniana riguardo al Bello si ripete in sommo grado rispetto al «Bene o l'Uno» (VI 9). Plotino non è mai sazio di ripetere che l'anima va fino a un oggetto privo di forma (eiq àvelSeov, § 3) che esso è privo anche di quella che è solo concepibile col puro pensiero (a|xopcpov 8è è k e ì v o m i fiopiprìq votixfjq, § 3) che è informe prima di ogni forma (àveiSeov rcpò eì'Soax; araxvxoq). Anche l'uomo ha bisogno di un peculiare metodo per raggiungere questo termine sommo. «Non mediante la scienza e non mediante il puro pensiero esso è raggiunto come le altre essenze intelligibili, ma in una presenza che sta al di sopra di ogni scienza». E per questo anche l'anima deve essere di una specie particolare, affine a quel che vuol comprendere, dunque anche essa senza forma e senza figura. «Come della materia si dice che deve essere libera da ogni determinatezza, se ha da ricevere l'impressione di tutto, così e ancora di più deve divenire informe l'anima se nulla in lei deve trovarsi che le sia d'impedimento a riempirsi e illuminarsi della più alta essenza». E appena ha raggiunto questo scopo «allora vede quello e insieme vede se stessa, secondo la legge: traluce in se medesima, piena di luce intelligibile o piuttosto essa stessa luce, senza peso, leggera, divenuta Dio o piuttosto essenza di Dio». Appena l'anima è divenuta uniforme come «l'Uno», solo allora si compie ciò che si deve chiamare non visione ma unificazione (dx; àv |xfi ècopa^ivov àXX' fiva>|xévov, § 11). Non si può allora parlare di chi vede e di ciò che è veduto, ma entrambi sono uno: «Allora il contemplante né vede, né distingue né si rappresenta due esseri, ma diviene un altro e non lui stesso e là non è padrone di sé, è divenuto proprietà di quell'altro, è uno come unendo centro con centro» 3 4 . E il processo si chiama «non contemplazione, ma un altro modo di vedere, estasi e semplificazione, abbandono di sé e brama di contatto, estasi e meditazione dell'unificazione» 35 .

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Quando Plotino chiama questo sommo Uno «il Bene», segue Platone di cui si sente come un esegeta (VI 8). E i'epekeina che il Socrate della Repubblica ha asserito di questo sommo Bene, ritorna sempre in Plotino: «Al di là di ogni essere non significa: questa cosa determinata; perché non la pone; e non esprime neppure un suo nome, ma vuol dire solo ciò: che esso non è questa cosa». Ma la differenza rispetto a Platone non è perciò meno chiara. La vecchia forma è penetrata da uno spirito del tutto cambiato. Che l'essere sommo fosse senza forma e figura, che l'anima dovesse perdere la sua figura per raggiungerlo. Di ciò in Platone non c'è nulla. In generale fa tacer Socrate su questo punto. Ma tali espressioni gli sarebbero sembrate una menomazione e si potrebbe, secondo il suo intendimento, piuttosto allargare quel paradossale superlativo che egli mette nell'espressione «al di là di ogni essere» al significato «al di là di ogni forma e figura». E quanto all'anima che si dissolve nell'informe, questo pensiero non gli è mai venuto in mente, non poteva mai venire in mente al cittadino di un mondo così plastico. E così infine non conosce l'estatica unificazione dell'anima coll'essere sommo. Certo che egli in generale tace di ciò e Plotino poteva interpretare il suo silenzio secondo il suo modo di pensare. E come è impensabile per Platone che uno non si formi per imitazione secondo il modello con il quale si trova insieme amando e ammirando, come dunque la vista di «ciò che è ordinato e si mantiene sempre nello stesso modo» necessariamente deve rendere l'anima simile a ciò che è contemplato, all'idea (Repubblica, 500 C), lo stesso deve ancora accadere ma in un grado sommamente elevato, quando essa si avvicina a ciò che è al di là di ogni essere. «Divenir Dio» è l'ardente ispirazione di Plotino: «la cosa difficile non è esser fuori dal peccato, ma esser Dio» (I 2, 6). In Platone lo scopo è indicato con le espressioni: divenir di forma divina, caro a Dio, divenir simile a Dio per quanto è possibile36. E non è una semplice differenza di espressione, ma in questo punto la via dialettica di Platone e la «scala» mistica di Plotino la quale troppo a torto prende a prestito il nome del primo, divergono affatto l'una

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dall'altra. Plotino dice più di Platone intorno al fine; ma bisogna sapere che qui non parla in nome di Platone. La strada di Platone conduce nel mistero attraverso il regno delle forme eterne. Come deve essere ben formata l'anima, perché essendo della stessa essenza dei prototipi che ha da contemplare si mantenga uguale a se stessa di fronte a essi ! E poiché questo è il suo cammino verso Yarrheton, anche quel sommo essere non è raggiungibile con la perdita di se stessi. Ma anche di fronte a esso l'anima deve in modo misterioso restar ferma, non effondersi 37 . Con ciò, per quanto possa esser divenuto chiaro quel che c'è di peculiare in Platone, mediante il confronto per contrapposizione con Plotino, sarebbe temerario voler spiegare quel che egli stesso ha dovuto tacere.

IV L'ACCADEMIA

Non dipendeva da Platone volere o non «creare una scuola». Aveva incontrato in Socrate una forza per la quale pensare e insegnare costituivano un'unità vitale tanto inscindibile che non si può parlare di una filosofia socratica che fosse inseparabile dal suo insegnamento. Platone è pensatore teoretico in tutt'altro modo che il suo maestro. In luogo dei momenti di profondo raccoglimento che nella vita del Socrate platonico stavano come qualcosa di singolarmente inesplicabile, devono esserci stati in Platone lunghi periodi di pensiero solitario in cui ricercava, contemplava, scriveva. Ma pure la nota fondamentale di Socrate è così radicata in lui, che filosofare e insegnare possono essere considerati come due componenti della stessa forza irraggiantisi da un unico centro. Infine, se è giusto dire che la sua volontà mirava al rafforzamento dello stato, come poteva riuscire a questo in altro modo che con l'insegnamento? Così egli fa dire a Socrate, suo modello e insieme suo ritratto, nel Menone (100 A), che solo è uomo politico chi sia in grado di fare di un altro un uomo politico, e in un passo famoso del Gorgia (521 D) gli fa dire di se stesso, con l'estremo paradosso, che è l'unico a mettere mano alla vera arte politica e solo fra gli uomini del suo tempo a occuparsi degli affari dello stato. Ciò dice quello stesso Socrate che neNApologia difende il suo star lontano dallo stato spiegando che «necessariamente chi voglia in realtà lottare per la giustizia, se voglia rimanere in vita anche solo per breve tempo, bisogna che sia uomo privato e non si occupi di affari pubblici» (32 A). Fino a tal punto l'educazione è diventata faccenda essenzialmente politica. Quel che per Socrate è un essere necessario è per Platone un'istituzione così necessaria come voluta. Socrate, andando

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in giro, si intrattiene con ogni persona e istruisce col suo dialogo indagatore tutti quelli che si vogliono fare istruire. Se uno stretto cerchio di giovani tra i migliori gli si forma intorno, questo accade, si potrebbe pensare, quasi come per una legge naturale. Platone lega la sua istituzione a un luogo, si cura del suo mantenimento esterno, sceglie un santuario delle Muse quale suo centro sacro. Gli scavi degli ultimi decenni nei pressi dell'Accademia hanno portato alla luce un portico, come ci si aspettava, e una inaspettata iscrizione, ancora del V secolo, quindi più antica della fondazione platonica, con nomi che ricorrono nel circolo di Socrate e nella famiglia di Platone. La domanda «che cos'era l'Accademia di Platone? 1 » non può essere certo soddisfatta dagli scavi. Una tale scuola, comunque si siano raccolti intorno a lui i primi aderenti, esige la scelta avveduta degli scolari adatti. Ciò è confermato dalla Lettera VII in cui Platone parla di sé e quindi dell'Accademia. Egli divide subito in gradi il cammino della scienza fino alle eterne forme, e prosegue poi (343 E): «L'andare attraverso tutti questi gradi, percorsi ciascuno avanti e indietro, produce con grande fatica la scienza di ciò che è buono (oggetto) in chi è buono (persona). Ma dove ci sia una cattiva natura (dacché l'animo dei più non è buono né a imparare né riguardo a ciò che si chiama carattere, in parte per originaria costituzione, in parte perché corrotto), uomini di tal genere neppure Linceo li può mettere in grado di vedere. In una parola, chi non ha affinità con l'oggetto, non gliela può dare né la facilità nell'apprendere, né la memoria, perché in una natura eterogenea quest'oggetto non può prendere posto. Quelli dunque che non hanno propensione e affinità per il giusto e in generale per ciò che è nobile, ancorché siano idonei a imparare in questo o quel settore e insieme forniti di buona memoria, oppure quello che hanno affinità, ma non sono idonei a imparare o sono senza memoria, non possono conoscere la verità intorno al bene e al male (per quel che in generale è possibile)». Facilità nell'apprendere, penetrazione nell'ascoltare e insieme una «inclinazione» alla «virtù», ritraendosi «dal

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piacere e da ogni sensualità», è anche quello che Platone, in un altro punto della stessa lettera (327 A e ss.), loda nel giovane Dione al tempo del primo viaggio in Sicilia, cioè poco prima della fondazione dell'Accademia. Esigenze intellettuali e morali del tutto simili determinano, nella Repubblica, la scelta degli idonei alla professione del re filosofo. «Bisogna prima conoscere la loro natura» (485 A)2. E come devono essere dotati per natura? Saranno dotati di buona memoria, di facilità nell'apprendere, di alto sentire, di armonia e di grazia (è^expoq m i ET>%apt k àneKpivaxo- à)|xoÀ,ÓYei yàp o t j k eìSévai); così Aristotele {Confutazioni Sofistiche, 183 B 7) ha ridotto l'esperienza socratica alla più breve formula e l'ha fondata contemporaneamente muovendo dal centro del pensiero socratico. In Platone Socrate, persino là dove deve tenere un discorso, sia che lo esiga la legge dello stato o la regola del convito, muta, per quanto è possibile, il fluire continuo di esso in sistema dialogico. Ci sono eccezioni anche in Platone, ma sono per lo più indicate esplicitamente come eccezioni: nel Protagora, nel Menesseno, nel Fedro. Nei grandi miti è certamente raggiunto il punto in cui il discorso del Socrate platonico, nel modo più decisivo, si innalza su quello del Socrate storico. Con Socrate entra nella vita spirituale greca, e quindi in quella occidentale, un movimento dialogico che prima non c'era per nulla. Si guardi solo in quali altre forme si esprimevano i primi pensatori greci3. Persino quello che dalle conversazioni e dalle controversie del V secolo penetrò come dialogo nell'opera scritta, è poco, paragonato con l'impulso che ha dato Socrate, e che soltanto a poco a poco e non mai del tutto è venuto meno4. Tutti suoi scolari si sa che in generale scrissero e composero dei dialoghi. Ma nessuno ha dedicato esclusivamente a questa forma la forza creatrice di una lunga vita come Platone. Per lui la poesia-dialogo socratico rappresentava una necessità estrema. In effetti gli altri socratici che hanno lasciato molte opere scritte, Aristippo, Antistene, Senofonte, non si sono limitati al dialogo

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e non tutti i loro dialoghi sono stati conversazioni socratiche. I pochi dialoghi composti da Euclide, da Fedone, da Eschine non si possono porre in alcun modo, né per estensione né per importanza, accanto a quelli di Platone. Così egli solo, anche se i riflessi del dialogo socratico dovettero prima di lui prendere carattere letterario, può chiamarsi creatore del dialogo filosofico come di un'opera d'arte alla pari con la grande tragedia e la grande commedia. La conversazione del Socrate storico è perduta per noi, e certo necessariamente: perché la caratteristica di questa conversazione consiste nell'essere orale. Solo dalla sua grande efficacia si può intuire qualcosa di ciò che in realtà fosse. Trattava assai più numerosi argomenti di quanti possiamo saperne da Platone. Che Senofonte, per la sua partecipazione alla spedizione di Ciro, chiedesse il consiglio del saggio uomo, è certamente un fatto storico (Anabasi, III 1, 5). NelYApologia platonica Socrate stesso ci dice che egli ha esaminato politici, poeti, artigiani. Non tutti questi ceti - e ve ne saranno stati ancora di più - sono rappresentati nei dialoghi platonici, sicché dobbiamo rivolgersi piuttosto a Senofonte per non sottovalutare l'abbondanza dei motivi e degli interlocutori. E tuttavia manca ai dialoghi senofontei quella energia, quella forza liberatrice e purificatrice che la nostra fantasia deve certo attribuire ai più socratici dei dialoghi di Socrate. I quali non erano istruttivi e «utili per tutti» nel senso senofonteo, ma lasciavano un più acuto pungolo, perché in essi il grande ignorante deve aver impresso in modo infinitamente più energico il suggello dell'aporia. Il dialogo platonico riflette il dialogo socratico, ma necessariamente si differenzia da quello nel principio più profondo 5 . Stanno di fronte l'uno all'altro come la rappresentazione artistica e la vita naturale. La natura è frammentaria in ogni singola parte; per questo il molteplice si completa nell'infinitezza dell'esserci. Un'opera d'arte è sottratta ai nessi naturali, è un tutto che deve compensare mediante la compiutezza e ricchezza di forma il suo difetto di essere capace soltanto di un unico e non qualsivoglia completamento. Ciò vale per il dialogo platonico, che usiamo pertanto conside-

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rare appieno un'opera d'arte. Il dialogo socratico nasce spessissimo da un motivo occasionale, in una cornice casuale, «come un discorso nascente dal contatto vivo del caso, condotto con l'arte di trattare le persone, e la presenza di spirito di una libera conversazione» (Karl Justi). Ma Platone non poteva tollerare nella sua opera niente di casuale. Doveva scegliere gli interlocutori e dar loro un posto secondo le esigenze dell'arte, intonare la scena all'andamento spirituale, liberare il luogo dal suo carattere casuale, per farlo divenire coefficiente dell'intera opera. «L'arte è perfetta allorquando ha l'aspetto che avrebbe se fosse natura (o storia)». E tale il trionfo della forza creatrice di Platone che noi accettiamo come realtà storica quel che egli ha inventato. Certo poteva Socrate incontrare un sofista forestiero, in una qualche pubblica piazza, accompagnato dal suo scolaro e insieme dal suo ospite ateniese. Ma che poi questi tre, come per caso, formino una graduazione in chiarezza e schiettezza della rappresentazione di sé, che lo scolaro sfrondi gli scrupoli morali del suo maestro a vantaggio di una coerenza maggiore, che l'ospite incarni perfettamente un immoralismo sfrenato, che pure appare soltanto come 10 sviluppo logico della posizione retorica del sofista: questa è invenzione di Platone nel Gorgia. Certo Socrate si è incontrato in molti luoghi con fanciulli e giovinetti, per strada, nelle case, nelle palestre. Ma che Platone, quando designa in generale il luogo, ponga soprattutto questo incontro in una palestra, e YEutidemo e il dialogo principale del Liside, per di più ancora, nello spogliatoio, questa è certo un'invenzione, per mettere in vista la ginnastica intellettuale e perché il progressivo spogliarsi intellettuale con cui Platone gioca volentieri6 abbia il suo visibile segno di corrispondenza; fors'anche perché l'ideale della sua educazione prenda consistenza nella congiunzione della disciplina del corpo con quella della mente. Il Protagora riunisce i sofisti in una casa in cui forse non si sono mai incontrati così. Inoltre li mette dapprima in luoghi differenti e non è per nulla un caso che 11 più importante di tutti, l'antagonista di Socrate, nel cortile d'ingresso vada su e giù, proprio come Socrate amava

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andare su e giù, mentre Ippia «sul suo seggiolone siede in fondo», Prodico giace in disparte in una stanza oscura sul divano. E soltanto Socrate che entrando fra loro unisce anche spazialmente nell'unico gruppo «dei sofisti» queste persone così diverse. Come, accanto al luogo, anche il tempo cooperi allo sviluppo drammatico e insieme filosofico, è evidente dall'introduzione dello stesso dialogo. Il giovane Ippocrate trova Socrate a casa sua ed essi si scambiano le prime parole nella camera da letto al buio. Ma poi vanno nel cortile, quindi all'aperto, e qui camminano su e giù. Nello stesso tempo il discorso scivola dalle persone ai concetti. E come due hanno combinato di aspettare, «finché faccia luce», così dopo un po', proprio quando Socrate fa la domanda decisiva, comincia a far giorno - certo perché si possa vedere che il giovinetto arrossisce; ma l'arrossire mostra pure che anche in un altro significato «comincia a farsi giorno»7. L'ambiente raffigurato nell'Eutidemo dopo che il movimento iniziale è giunto al suo termine si presenta così: sulla panca siede accanto a Socrate il giovane Clinia e sono entrambi, a destra e a sinistra, rinchiusi dalla coppia dei sofisti. Ctesippo, l'ammiratore di Clinia, che dapprima sedeva come quinto sulla panca, si è messo di fronte agli altri quattro. E in cerchio poi intorno stanno in piedi gli altri ammiratori di Clinia e i seguaci dei sofisti. Socrate sulla panca accanto al fanciullo: conosciamo questa scena dal Liside e dal Carmide. E il pescatore di uomini che ha attirato a sé il fanciullo, l'eiron che è sapiente non di fronte al discepolo ma accanto a lui. Ma ora il gruppo formato dall'uno e dall'altro ha ai fianchi i maestri di scherma sofistica. Così le due voci dominanti di questo lavoro in cui la melodia del dialogo educativo - del tipo del Liside - e quello del dialogo polemico - del tipo del Protagora - sono intrecciate l'una all'altra, trovano la loro espressione spaziale. Ma il contrasto per cui Ctesippo sta «di fronte» agli altri, mentre Socrate siede nelle loro file è, di nuovo, di particolare valore simbolico. Ctesippo si getterà poi in lotta aperta per il suo giovane amico contro gli eristici e condurrà questa lotta con sempre

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uguale veemenza anche se non sempre con successo. Socrate invece non abbandonerà mai quell'atteggiamento ironico col quale si confessa scolaro di Eutidemo e Dionisodoro insieme a Clinia. Così Ctesippo è raffigurato in contrapposizione a Socrate; contrapposizione che l'ordine dei personaggi nella scena esprime fin dal principio. Senofonte nel suo Simposio fa Socrate presente sin dal principio e lo fa partecipare al dialogo per tutta la sua durata. Con ciò ha rinunziato a tutto quello che nell'omonimo dialogo platonico dà alla scena una cosi forte duplice tensione: al fatto cioè che Socrate entra soltanto quando tutti gli altri sono a tavola da lungo tempo e che tiene il suo discorso di lode solo quando tutti gli altri hanno parlato. Così, per due volte, siamo costretti con serietà crescente ad attendere lui e riferire tutto a lui. Ma cosa significa il fatto che Aristofane, quando tocca a lui di parlare, né è impedito dal singhiozzo e che si fa sostituire dal suo vicino di tavolo, il medico Erissimaco, e soltanto dopo di questi prende la parola? Perché Platone non ha assegnato ai due personaggi il loro posto a tavola secondo l'ordine nel quale ha pensato di dar loro la parola? Cosa ha inteso realizzare con questo scambio? Ha cercato di far riposare, tra un discorso e l'altro, la fantasia, in un ameno giuoco di società, senza alcun scopo, e insieme di presentare in una situazione ridicola il comico, e il medico nella facile pedanteria dello specialista? Oppure ha voluto interrompere la monotonia del girare a destra, muovendo una volta in senso contrario? Sarà tutto questo e forse ancora qualcosa di più. Ma rimane ancora da rispondere all'ultima domanda. Il girare a destra, a chi mira se non a Socrate? Sappiamo certamente che alla fine egli parlerà, se gli altri gli avranno lasciato qualcosa da dire! Così l'interruzione dell'ordine indica questo ordine stesso, l'ordine che tende a lui. Quel che abbiamo quasi dimenticato per i lunghi discorsi di elogio, a cosa miri tutto questo, diventa a un tratto di nuovo evidente, quando con l'inversione ci si accorge del movimento e con il movimento del fine e così ci si accorge che egli è la istanza più alta, alla quale deve essere commisurato quello che gli altri sono e dicono.

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Così per la comprensione dei dialoghi dovrà essere esaminato, più di quanto perlopiù non avvenga, il luogo immaginato con gli atti materiali ivi raffigurati, per giungere al loro significato spirituale. Non come se si trattasse di allegorie nel senso dei neo-platonici - fra i quali tuttavia Proclo dirà cose molto assennate sullo scopo non semplicemente artistico né solo storico, bensì schiettamente filosofico del prologo nei dialoghi platonici8. Quello che oggi l'interprete filosofo di Platone lascia al letterato e allo storico, deve essere compreso nel suo contenuto esistenziale. Perché quelle parti (prologo e discussione) non si trovano l'una di fronte all'altra per caso, già per il fatto stesso che gli scritti di Platone non appartengono a un ambito di arte naturalistica, ma di arte classica. Questioni simili si pongono per la relazione di un dialogo con l'altro. Dei discorsi del Socrate storico, ben spesso l'uno poteva riferirsi, anzi doveva riferirsi, a un altro precedente. Così in Platone si vede Socrate non di rado rimandare al futuro sviluppo della discussione interrotta. Anche in Senofonte si legge che Socrate deve agire per ben tre volte sul giovane Eutidemo, finché non l'abbia curato della sua superbia (Memorabili, IV 2). Ma accanto stava il gran numero degli incontri con le più varie persone che dovevano, ciascuno per sé, essere lasciati al caso. Al contrario, nell'opera del grande artista regna la necessità. Si è una volta biasimato il fatto che Platone non metta insieme il suo maestro con artigiani, come certamente ha fatto Fedone di Elide nei suoi dialoghi per noi perduti9. Sarebbe ben più giusto riconoscere che egli sceglie soltanto quegli interlocutori e quelle situazioni che possono essere fertili per lui. Ora in effetti il muratore, il sarto, il falegname, il suonatore di flauto e ogni altra professione manuale, stanno a rappresentare nei suoi scritti il più incisivo esempio di chi ha imparato il mestiere che esercita ed effettivamente è capace di saper fare ciò che promette col nome della sua professione. Ma dietro l'artigiano come tale non si allarga nessun mondo spirituale che bisognasse difendere, nessuna fiorente forza da educare. E non poteva importare nulla della compiutezza del quadro di una

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realtà, in un certo senso, di esperienza media, a chi tendeva al profondo dell'essenza. Se dunque ci fu da una parte una scelta nella direzione del creare platonico, dall'altra ci fu una integrazione di ciò che si era scelto. Se il grande artista per tutta una lunga vita crea un numero di opere dominabile con lo sguardo nel loro insieme, non è di certo che da principio abbozzi un piano che esegue solo più tardi, ma molto meno ancora che ogni singola opera sia un frutto casuale, fuor d'ogni concordanza e motivo. In effetti, già al primo sguardo si presentano dei gruppi; così le opere del primo periodo per la loro forma aporética e la comune direzione a uno scopo prefisso, così la Repubblica, Timeo, Crizia da un lato, Teeteto, Sofista, Politico dall'altro per i comuni interlocutori e l'unitarietà dell'azione. E agevolmente visibili sono anche riferimenti espliciti, così dal Fedone al Menone, dalle Leggi alla Repubblica. Tutto questo si vede alla prima e si può essere sicuri che molte cose alla prima non si vedranno. E forse un compito che non si può assolvere, ma si deve tentare, «di concepir l'opera di Platone come un sistema stellare, in cui nessuna luce e nessuna forza può essere trascurata»10. A questo punto ci si può fermare e ricordare che - certo senza alcun nesso storico con il dialogo platonico - in tutt'altra parte del mondo spirituale, presso gli indiani, c'è una grande letteratura fatta di dialoghi filosofici. Anche questi sono l'immagine poetica di una vita trascorsa «dialogicamente», e nonostante ogni differenza fra loro e ogni contrapposizione alla forma greca, si possono paragonare ai dialoghi socratici in questo, che essi, in quanto opere letterarie, stanno di fronte al dialogo naturale come l'architettura alla roccia. Ma si potrebbe con questo aver già esaurito il confronto. Completamente diversa è la realtà di cui qui e là viene data l'immagine. Presso i greci l'unico sapiente-ignorante, il ricercatore, l'esaminatore, l'educatore; nelle Upanishad i molti saggi, a cui si rivolgono domande, che contrastan fra loro, che, dal profondo della loro saggezza, parlano in risonanti dogmi. Perfino se uno emerge, se Yajnavalkja nel torneo oratorio si afferma vittorioso contro tutti i brami-

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ni, egli ha uno spirito diverso dal socratico. E così poco conta la persona che in un'altra Upanishad. può darsi che l'asceta Aruni, ovvero il dio Prajapati, divenga portatore dello stesso annunzio di sapienza11. E certamente sembrano più vicine ai dialoghi socratici quelle conversazioni dottrinali e polemiche, quali se ne incontrano fra i discorsi di Gotamo Budda12. Là in effetti, per lo più, è solo l'eccelso uomo che ai suoi monaci, quando non li «incoraggia, li anima, li scuote, li innalza» e predicando, mediante una conversazione istruttiva, inculca loro il dogma del dolore, dell'origine del dolore e dell'annullamento del dolore, e della via che porta a ciò, oppure converte a questa dottrina un acuto e bellicoso avversario. Effettivamente si possono rilevare alcune somiglianze nella situazione e nelle forme della conversazione, con i dialoghi socratici. Ma, per tacere ancora della incomparabilità dei mondi che qui e là vengono raffigurati - per tacere del fatto, che Gotamo ha una dottrina fissata incrollabilmente fin nei termini verbali, che egli si attribuisce «penetrazione, approfondimento di sé, sapienza», che al suo avversario Saccako, perché non gli vuol più rispondere, uno spirito saettante minaccia di spaccare la testa in sette parti - in nessun luogo presso gli indiani un grande poeta coglie il ritratto del maestro, e ai molti discorsi dell'illuminato, come alle molte Upanishad, manca perciò necessariamente quella più alta unità organica che ci sta di fronte nell'opera complessiva di Platone. Ma con questo non si è ancora detta la cosa più importante, e appunto qui il confronto può rendere ancora più chiaro quello che dobbiamo esporre. In India l'autore del dialogo o del discorso non ha nulla da insegnare che non sia o non intenda essere la ripetizione della dottrina del maestro. E in ogni caso fra il suo atteggiamento mentale e quello che raffigura non c'è nulla che sia sentito come una contrapposizione; il mondo platonico invece sta di fronte a quello socratico come un altro mondo, con un proprio centro e un proprio ambito. Così il dialogo platonico si distingue infine e soprattutto dal dialogo socratico per il fatto che, oltre al rispecchiamen-

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to della vita socratica, vuole dare ancora - per dirlo in modo affatto provvisorio - una rappresentazione della filosofia platonica. Due scopi fondamentalmente distinti, come si vede, dei quali è da chiedersi come l'uno si concili con l'altro. È stato detto che l'uno impaccia l'altro. L'ironico, l'ignorante che sempre ricerca e indaga, che la venerazione verso il suo eroe comandava di mettere in luce, starebbe in continua lotta con il dogmatico che parla in Platone o piuttosto vorrebbe parlare ed è impedito di esprimersi pienamente dal freno che egli stesso si impone13. Platone avrebbe dunque scelto una forma (e tenuto fermo a essa fino alla tarda età) la quale doveva condurlo a un continuo conflitto con se stesso. E questo peso non avrebbe mai più scosso da sé, o soltanto nelle Leggi, dove certo Socrate non parla più, ma dove perciò l'ultimo aspetto della dottrina platonica, non soltanto non si chiarisce ma tanto più si nasconde di fronte al mondo? Ma, dopo quel che è stato chiarito innanzi, questo modo di vedere non può reggere perché Socrate vive in Platone e parla in lui. E da vedere piuttosto se i due scopi, che vanno apparentemente in direzioni così contrarie, non coincidano in profondità. Che significa dunque, in ultimo, il dialogo, soprattutto il dialogo socratico in Platone? Talvolta si trova espressa o anche tacitamente presupposta l'opinione che una volta Platone abbia cominciato a scrivere dialoghi socratici e sia poi rimasto a questa forma, quando era giunto il momento di gettarla via e di scegliere la forma della lezione, che i medici ionici avevano da lungo tempo perfezionata e di cui poi si servirà Aristotele14. Ma se è giusto questo, si dovrebbe essere conseguenti: allora la Repubblica, questa sua opera somma, è condannata. Quale mostro, infatti! Un dialogo rinarrato da Socrate tutto in una volta, che i posteri dovevano dividere in dieci parti e che nessuno può stare ad ascoltare tutto insieme. Un dialogo oltre a ciò, che per ampi tratti riferisce, o così sembra, una semplice esposizione della dottrina di Socrate e limita la parte dell'interlocutore a un sì, a un no o a un «cosa ne pensi?». Ma uno dei più grandi artisti si sarebbe ingannato sulla cosa più essenziale e dovrebbe

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farsi imputare il suo errore dalla posterità? Dove come assai spesso - per dirla con Schleiermacher - «soltanto è disconosciuta la ragione del sentimento e invece di ricercarla in colui che giudica, essa è posta in ciò che è giudicato». Che egli fosse in difetto di fronte alla comune realtà nessuno certamente sapeva meglio di Platone. L'inizio del suo Teeteto basterebbe di certo, se fosse necessario, a dimostrare che anche in teoria egli aveva ben chiari i principi della sua poesia dialogica. Come fa dire al narratore che egli ha reso il dialogo in una forma puramente drammatica per non diventare pesante intercalando indicazioni al suo racconto, così non avrebbe esitato a togliere di mezzo del tutto le interruzioni dei personaggi del dialogo. Ma l'intima costrizione al dialogo deve essere stata così forte da vincere tutti i dubbi e da imporsi per tutta una vita come l'unica forma. Su questa necessità si tratta qui di farsi un'idea chiara. Socrate viveva nel dialogo orale esclusivamente e senza oscillazioni interne, sicché egli non può mai aver pensato a scrivere di filosofia, anzi è molto dubbio se egli si sia fatta un'idea sul valore o non valore dello scrivere. Fa questo in Platone, già nel Protagora e ancora nel Fedro, ma perché lo fa Platone; quel che in Socrate era un semplice dato della sua vita, in Platone si prolungava come dubbio sul valore della scrittura, come convinzione della difficoltà, anzi della mancanza di valore, di ogni scrivere, di cui egli fa parlare Socrate in cui dialoghi e di cui persino parla nelle sue lettere15. E tuttavia era in lui vivo con infinita potenza l'impulso plasmatore dell'artista. Aveva bruciato le tragedie; ebbene doveva dar forma alla nuova esperienza di vita che ora si chiamava, non più Edipo o Filottete, ma unicamente Socrate. Ma se questo gli riuscì, se trovò il modo di innalzare lo stesso dialogo socratico all'altezza di una grande nuova arte drammatica, allora quel difetto del libro che è rigido e non sa rispondere e dà soltanto un unico timbro sonoro, come un recipiente di metallo percosso, era superato per quanto possibile. Dal dialogo scritto infatti il movimento dialogico perviene al lettore. A lui si rivolge la domanda di Socrate, quel sì, che Glaucone o Liside pronunziano, divie-

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ne anche il suo sì - o anche il suo no - e alla fine il moto dialogico continua a risuonare in lui. Il dialogo è l'unica forma del libro che sembra superare il libro stesso. Da Socrate passa in Platone anche la tesi che non si dà nessun sapere prontamente trasferibile, ma solo un filosofare il cui livello si determina volta per volta a seconda dell'avversario. Socrate fa una filosofia in un modo con uno e diversamente con un altro, questa è la legge fondamentale della sua educazione. «Un educatore non dice mai quel che pensa lui: ma sempre soltanto quello che pensa su di una cosa in rapporto all'utile di colui che egli educa»; così Nietzsche, con lo sguardo rivolto ancora, più che a se stesso, al suo meraviglioso modello Socrate16. Platone ha da trasmettere saggezza e dottrina; ma tanto è in lui dominante quella legge fondamentale socratica, che anche per lui si doveva chiamare «menzogna» un sapere che fosse uguale per tutti e sempre valido allo stesso modo. Si fa filosofia da un punto di vista continuamente mutevole, con l'ampiezza di orizzonte ora più piccola, ora più grande, a un'altezza e secondo una direzione sempre diverse. E allora l'umano sapere non è tale da permanere come intangibile, una volta che sia stato conosciuto. Come Socrate semplicemente attraverso la sua esistenza si creava gli avversari, così li evoca la nuova visione di Platone e se non ci sono li deve creare da sé. Filosofia è cosmo creato dal caos; ogni cosa eccelsa, ordinata, è eternamente minacciata e deve essere protetta contro le potenze che la mettono in pericolo e il bene è ben lontano dal sussistere per condiscendenza del suo opposto. Ma certo la luce non è conoscibile né denominabile senza l'oscurità. Anzi, di più: l'ordine umano si irrigidirebbe e snerverebbe se non avesse sempre di nuovo contro di sé la ribellione. Così nella sentenza proposta nel Liside e poi confutata, c'è certamente qualcosa di giusto, almeno nell'ambito umano, dicendosi che si aspira al bene e si lotta per esso, «a causa della presenza del male». Non c'è Socrate senza Callide in realtà. E neanche si tratta soltanto di vittoria (Callide è, alla fine, proprio «sconfitto»?). Più importante ancora che la vittoria è la lotta stessa che è, anche qui, madre

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di tutte le cose. «Rien ne nous plait que le combat, mais non pas la victoire» scrive Pascal (Pensées, n. 203): «...Nous ne cherchons jamais les choses, mais la recherche des choses». Così Platone deve presentare il suo sapere nella dialettica antitesi di tale lotta, nella quale soltanto tale sapere ha vita. E questa forma mentale del suo pensiero è, veduta contemporaneamente da un altro lato, la sua sensibilità drammatica. Perché si ha senso drammatico quando si sente il mondo immediatamente come lotta di forze contrapposte, di forze con una propria forma 17 . Così il dialogo dell'amore e della lotta è per Platone l'unica forma d'arte, quel dialogo in cui non è data una dottrina già compiuta, non è superato e sbrigato ormai ogni contrasto, ma che lega nel quadro lotta e superamento. Come Goethe è in Tasso e in Antonio, così Platone non è soltanto in Socrate - e negli scolari di Socrate, in Carmide, Teagete, Alcibiade - ma, in un certo grado e in una certa maniera, anche negli avversari di Socrate. Certo questo rapporto si vede incompiutamente, se ci si scorge soltanto l'opposizione a una natura, a un pensiero, a un attacco polemico che vengono dal di fuori. La polemica è lotta con se stessi: questa acuta formula di Novalis vale principalmente per Platone. Che il Socrate storico fosse in grado di obbiettivare i suoi avversari così come ha fatto Platone, può essere messo in dubbio. Poiché Platone è di tutt'altra natura: gli piace molto il discorso rimbombante e risonante, altrimenti non avrebbe portato sulla scena Agatone e Protagora. Si diverte a tutte le malizie e le astuzie della scherma verbale, quali son messe in caricatura, ma anche impersonate, negli spadaccini delYEutidemo. Se non ci fosse stato in lui qualcosa di Callide, l'esprit fort, difficilmente l'avrebbe potuto presentare con tanta imponenza, tale cioè che ci saranno sempre persone, specialmente giovani, incantate più dall'avversario sconfitto da Socrate che da Socrate stesso18. Non ha Platone come disposizione, e pericolosa, posseduto qualcosa di quella universale abilità dei suoi sofisti, addirittura di quella pretesca «pietà» del suo Eutifrone? «In Platone si annida molto di sacerdotale» giudicava, considerando il suo stile, un critico d'arte così fine come Demetrio

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di Falero 19 . E la lotta che egli sostiene nella Repubblica contro i poeti e soprattutto contro il loro archegeta Omero, non è, come già fu riconosciuto, una lotta contro la potenza che già lo aveva ammaliato (607 C), una lotta la cui asprezza nasce certo dalla bramosia schiettamente greca di dominio, ma anche dall'antico amore e dall'antico incanto? Dunque una lotta contro se stesso? Platone aveva da vincere, più di quel che taluno pensi, una natura dotata in modo straordinariamente ricco. Ma portava in sé anche Socrate, e delle lotte e delle vittorie che egli ci mostra, quelle veramente decisive sono accadute in lui stesso. Uno dei fondamentali motivi del dialogo socratico era distruggere nello scolaro la credenza di sapere, suscitare la consapevolezza di non sapere, non per farlo precipitare nella scepsi, ma per stimolare una comune ricerca del vero. Questa semplice disposizione si ampia nel mondo platonico e vi si distingue in gradi: per prima cosa deve essere estirpato l'errore, annullata la forza avversa, avanti che il vero possa essere mostrato, il nuovo regno fondato. Che la vittoria debba aver luogo mediante un comune lavoro, la lotta debba mostrarsi in tutta la sua dialettica inesorabilità, è chiaro, dopo quello che è stato detto. I dialoghi dell'età giovanile hanno (almeno apparentemente) soltanto quest'unico compito, per quanto anch'essi già preparino a quello che verrà. L'Alcibiade maggiore, il Gorgia e, nella misura più ampia, la Repubblica prima abbattono e poi costruiscono di nuovo. Ma anche la creazione del nuovo avviene mediante un filosofare in comune. E poiché, secondo la Lettera VII, soltanto «da una lunga vita comune intorno all'oggetto» nasce la scintilla che accende, e «il cammino» deve avere luogo attraverso tutti i gradi di conoscenza in su e in giù, così è necessario che anche qui ogni passo sia fatto da sé dallo scolaro e venga fatto nell'ordine determinato. Nell'ambito della vita filosofica questa scala è la «via dialettica», nell'ambito della poesia filosofica la sua immagine è il dialogo. Ma qui abbiamo toccato un'antitesi del filosofare socratico e di quello platonico. Platone non si ferma come Socrate

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al non sapere. Ha scoperto un mondo metafisico e il suo compito è farlo vedere agli altri con i suoi occhi. Come può, in vista di quest'antitesi, essere sufficiente la forma del dialogo socratico per esprimere quello che c'è di affatto nuovo? E di più: perché quella è l'unica forma in cui può essere espresso quel che c'è di affatto nuovo? La soluzione non si trova molto lontano. Platone trovò ciò che Socrate «soltanto» cercava e insegnava a cercare. Ma si sa cosa vale la ricerca, se è ben condotta. «Nella domanda c'è la risposta, il sentimento che su di un certo punto si debba pensare qualcosa, qualcosa si debba correggere» dice Goethe 20 . Dedicatosi alla dialettica socratica, a Platone si aprì la vista sulle forme eterne. Attraverso Socrate, e in Socrate, egli mirò il giusto in sé. Così sul nuovo gradino conquistato e appunto su quello soltanto poteva essergli dato questo compito: doveva accogliere la dialogica socratica, ma condurla oltre se stessa non a una fine scetticamente negativa, ma a rispondere alle domande poste e, se era possibile, alla conoscenza stessa dell'ente. Soltanto la «via dialettica» poteva sollevare questa conoscenza al di sopra di una visione soggettiva e irresponsabile, soltanto così Platone poteva diventare più che un «narratore di favole» come gli apparivano gli antichi fisiologi (Sofista, 242 C), solo così poteva, alla maniera socratica e tuttavia più che socratica, «render conto» della sua nuova visione e «legare con un ragionamento sulla causa» (Menone, 98 A) quello che aveva trovato, soltanto così poteva, al di sopra delle condizioni base (imoQéaeii;), innalzarsi all'incondizionato (àvxmóBexov) {Repubblica, 510 B; 511 B). Ma c'è ancora un ultimo punto di vista dal quale la forma dialogica appare come la forma necessaria per Platone, perché, a partire da quella, la struttura della visione del mondo platonico, benché su di un piano più alto, sembra ripetere la struttura del mondo socratico. Per Socrate la risposta alla sua domanda si dissolve nel non-sapere. Per Platone la via dialettica conduce su, a ciò che è «al di là dell'essere». L'epekeina non è conoscibile e quindi neppure comunicabile: qui la via soltanto può essere preparata. Perciò il dialogo

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è una guida, passo per passo a un fine che, dietro il socratico non sapere e dietro l'inesprimibile della più alta visione platonica, è garantito come realtà dalla vivente persona del maestro. E come è proprio della fisionomia del dialogo socratico finire con il non sapere, così è proprio del dialogo platonico fermarsi dinanzi al punto estremo senza farlo vedere se non da lontano. Questo appare chiaro perfino nella struttura della Repubblica, e tanto più in ogni altro luogo, a ogni attento osservatore. Se prima21 si è detto che il nome di Socrate designa nella raffigurazione del mondo platonico la zona centrale, ciò deve essere ancora completato: con quel nome parimenti è velato il termine estremo del mondo platonico. E questa la duplice funzione dell'ironico nell'opera platonica, come già ci è apparsa prima duplice la funzione dell'ironia22. E ben lungi dall'esserci qui una lotta fra il dogmatico Platone e l'ironico zetematico Socrate, Platone piuttosto ha veduto per tutto il tempo in Socrate, nel Socrate dialogico e dialettico, così il simbolo della realtà come della ineffabilità di quello che - molto semplicemente - ha chiamato «il Bene».

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Nella storia del mito greco, che come una linea fatale accompagna la vita del popolo greco, il quinto secolo è l'epoca più propriamente decisiva. Mentre esso ha raggiunto l'altezza più ardua nella tragedia, si è preparato, attraverso varie generazioni di riflessione critica, il proprio disfacimento. Negli ultimi decenni di Euripide che, creatore e insieme distruttore di miti, affondava le forze dissolutrici nelle radici stesse del mito, cadono gli anni della giovinezza di Platone. E bene ricordarsi che ammirato modello fu suo zio, Crizia, e che, al seguito di Euripide, lo stesso Crizia dal teatro ateniese mostrava il mondo degli dei come l'invenzione intenzionale di un uomo scaltro. Come si considerasse il mito nell'ambiente in cui Platone crebbe, si può sapere nel modo migliore da alcune espressioni dei dialoghi. Ippotale mette in versi, in onore del giovane Liside, le vittorie, famose nella città, riportate dagli antenati nelle corse dei cavalli e altre cose che sono «ancora più anticaglie» (KpoviKcóxepa, Liside, 205 C), cioè come una volta il capostipite, che si appoggia anch'esso a una genealogia mitica, abbia ospitato Eracle quale parente. Al verseggiatore che forse con tutto questo si sente seguace di Pindaro, una cosa del genere va abbastanza bene come ornamento della sua passione; per il freddo giudice si tratta invece di storie da vecchierelle (arcep ai ypatai a5ownv). Nel Fedro (229 B e ss.) il paesaggio dell'Ilisso richiama alla memoria la favola di Borea che rapisce Oritia, e Fedro chiede, come se in primo luogo e soprattutto gli importasse di questo, se Socrate creda alla verità di questa storia favolosa ((ru0oÀóyrma). Dunque le tradizioni mitiche sono divenute per la gioventù, di cui Platone ci dà il ritratto, canti da nutrice o materia di arguzie e di spasso per la critica.

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Socrate, o almeno il Socrate platonico, al contrario dei sofisti, non prende parte a questa dissoluzione del mito. Egli respinge la domanda curiosa del suo compagno perché gli importa di più utilizzare, anziché di distruggerlo, anche questo aspetto di vita per il suo unico compito: la conoscenza di se stesso. Ma ciononostante resta pure il fatto che Socrate cioè soprattutto il Socrate storico che così parla di sé all'inizio del Fedone - non è per nulla mitologo, non è per nulla narratore di storie. Il suo atteggiamento fondamentale, quello di chi esamina, interroga, è affatto contrario all'atteggiamento del poeta di fronte al mondo e all'uomo. Quando Platone fece suo il problema di Socrate, dovette bruciare le sue tragedie, ma il poeta che era in lui accanto al socratico, accanto a Socrate, non poteva essere estirpato. Doveva essere e l'uno e l'altro e per poter scorgere le forme eterne, e per creare la nuova drammatica filosofica. Forse si sarebbe difficilmente compresi oggi se si dicesse che egli, invece di dar nuova forma agli antichi miti del suo popolo, creò il mito di Socrate. Ma egli non avrebbe dato quel nome al bios cui egli dette forma; e soltanto tenendo conto del suo modo di pensare possiamo parlare qui di mythos1. Il mito sta in Platone in antitesi al logos2, è «storia» in contrapposto alla discussione concettuale, eminentemente storia antica, tradizione degli antenati, saga popolare, insegnamento per bambini, novella da nutrici, favola; porta il segno del falso, per quanto non gli manchi del tutto un contenuto di verità3. Così la parola inclina ad avere un tono un po' spregiativo e quel che di piuttosto solenne, che - fra l'altro - si è soliti di annetterle oggi, non si trova nel linguaggio di Platone, per quanto sia suggerito a noi moderni dall'uso che egli fa in realtà del mito. In ogni caso, favola, nel senso più vasto, è per lui una forma d'espressione che ha le proprie determinate esigenze. Nel Fedone (61 B) Socrate ricorda, come sembra, una generale concezione, cioè che il poeta, se voglia davvero esser poeta, debba creare «storie» non «discorsi». Poiché la stessa persuasione della precedenza della favola su tutti gli altri modi del creare poetico domina in Aristotele, deve essere stata vincolante anche per Platone. Ma soprat-

IL MITO

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tutto esiste per lui la mitica tradizione del suo popolo, ancora nonostante Euripide e Crizia, non completamente svalutata e su quel terreno egli passa per ultimo, prima che essa si irrigidisca del tutto in enigmi o si dissolva in un gioco pittoresco. Quei miti erano «numerosi e antichi» (Leggi, 927 A) e sembrava già per questo che avessero un contenuto di verità e un legame con le origini (Politico, 271 A). D'altro lato offrivano, con il loro ritratto assai criticabile degli dèi, seri pericoli ai quali occorreva andare incontro non soltanto con la critica, ma nell'agone del poeta contro i poeti 4 . Per Platone, interprete del mondo, era in questa leggenda un frammento della supposta spiegazione del mondo - ó cpiXó(a."u0oq ( p i l ó o o c p ó q Ttcoc; è c T i - frammenti di un grande mito semispento e lacerato dal tempo, che si trattava di purificare, ricollegare, rimettere in una nuova forma 5 . Nel fatto che Platone era un creatore di miti e Socrate apparentemente così lontano da ogni mito, più di qualunque altro greco, si mostra un'antitesi analoga a quella fra la visione delle idee platoniche e la domanda infinita di Socrate, fra l'arte dello scrivere propria di Platone e il discorso affatto orale di Socrate. Ma come si è prima mostrato che il pensiero di Platone, ancorché così antitetico, tuttavia aveva le sue radici in Socrate, sarà anche qui da vedere se il nuovo mito, per quanto si opponga al modo di parlare socratico, non sia nato in Platone a immagine del Socrate vivente. Forse la trasfigurazione mitica di Socrate comincia con quel gusto puramente greco del paragonar per immagini (eitcà^eiv)? A nessuno, rileva Alcibiade (Simposio, 215 A e ss.) è simile questo Socrate, né a uno degli uomini odierni né a un eroe; così «non ha un proprio posto, è senza luogo (àxoTtoq)» in un mondo in cui ognuno e ogni cosa appartiene al suo posto determinato. Ma somiglia ai sileni e ai satiri, già esteriormente nella sua filosofia. E più ancora: incanta con le parole gli ascoltatori, come il silenico demone Marsia con il suo suono del flauto. Tanto vicino dunque giunge questo Socrate all'esistenza mitica. Nel Fedro (230 A) egli si presenta nell'atmosfera del paesaggio attico, nonostante ogni scepsi, ancora impregnata di mito, come un mitico

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essere misto «più complicato ancora di Tifone», allo stesso modo che, in un luogo della Repubblica (IX 588 B e ss.), «forma con le parole un'immagine dell'anima», paragonandola a un mostro dalle molte teste nella serie delle creature mitiche. Come l'anima umana dunque, inafferrabile, Socrate, l'inafferrabile, non soltanto agli altri ma a se stesso, è quanto mai vicino a tali forme mitiche. Solo un passo di più ed egli dall'esser paragonato a Marsia diverrà «questo Marsia» stesso (Simposio, 215 E): il paragone si è trasformato in mito. Nel Simposio Diotima fa vedere un Eros miracoloso. «Non è già tenero e bello come i più credono» e come proprio avanti lo aveva descritto Agatone, ma «duro, squallido, scalzo, senza tetto, giace sempre sul nudo terreno senza giaciglio, dorme dinanzi alle porte e sulla strada al sereno». Che qui, almeno con le parole «squallido e scalzo» ( a ì ) % ) j . T p ò < ; m i àvi)7tó8r|TOaa%0r|poi). Lo stesso principio si deve applicare alle azioni di un individuo, dal momento che la giustizia è quell'elemento che determina l'ordine delle «parti dell'anima»19. b3. 352 D - 354 A. Il terzo assalto è diretto all'attributo «felice» (e'ùSoap.ovécxaxov). Perché? Perché Yeudaimonia è il fine di ogni azione e lo scopo ultimo della vita umana. Qui impariamo, se ancora non lo sappiamo, che cos'è Yeudaimonia. Ogni essente ha la sua propria arete, la possibilità di portare a compimento in maniera perfetta la sua «opera» particolare. La giustizia è Xarete caratteristica dell'anima,

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come si era mostrato precedentemente (350 C) quando giustizia, conoscenza e Bene erano stati posti da una parte di fronte all'ingiustizia, all'ignoranza e al male. Così, se l'anima sarà buona o giusta (potremmo dire «corretta») adempirà alla sua funzione più propria, vivrà bene (et) puócexai) e raggiungerà Xeudaimonia (espressioni diverse per la stessa cosa). Così la contesa contro il rappresentante della forma di vita tirannica ha ottenuto i seguenti risultati: in primo luogo la giustizia ha trovato posto fra il Bene e la conoscenza; in secondo luogo, essa si è rivelata una forza dell'anima, non una debolezza; per terzo, la giustizia (non il suo contrario) è risultata un mezzo per raggiungere Xeudaimonia. Quando Socrate dice che nel corso di queste indagini avremmo perso di vista la questione essenziale «che cos'è la giustizia?», sappiamo dal Lachete e dal Carmide (e più tardi anche dal Menane) che queste ironiche linee conclusive, caratteristiche dei dialoghi aporetici, sono le espressioni concrete dell'ignoranza socratica 20 . Con ciò è apparso anche chiaramente qual è ora il luogo geometrico della giustizia; sono state annullate le istanze della visione opposta e delineata l'area in cui dobbiamo insistere oltre nell'indagare e nell'agire. Ora apprendiamo una volta di più che dobbiamo indagare su «che cosa» è la giustizia, una questione che apre la dimensione del «giusto in sé»; infatti difficilmente sarebbe possibile porre la questione così nettamente alla fine di questa indagine se la risposta non fosse diventata almeno visibile in quanto tale. Questo è l'unico dialogo del gruppo aporético sul quale Platone sia tornato in un secondo momento, recuperandolo come capitolo di apertura della costituzione dello stato ideale. Ci sono naturalmente molti passi che rimandano da altri dialoghi aporetici al capolavoro di Platone ma la ricerca della giustizia, dopo tutto, era la via più diretta e quella in definitiva più strettamente connessa al compito più alto che egli aveva posto al servizio della propria capacità creativa, quello politico.

4. CARMIDE

Socrate parla della sophrosyne con i due cugini Carmide e Crizia, che 25 anni dopo faranno parte del regime oligarchico dei Trenta. A dispetto di questa comune sorte e della stretta parentela, qui essi sono descritti come profondamente diversi. Nel Protagora Alcibiade e Crizia entrano insieme nel quartiere dei sofisti. Alcibiade è «il bello», Crizia il figlio dell'uomo dal nome strano, Callescro, il «bello-orribile» (ó KaÀ.A.aiaxpou). Forse si tratta di un semplice gioco di parole, forse c'è di più. Nel Carmide questo figlio di Callescro così è chiamato in causa e descritto talvolta - è menzionato accanto a Carmide, la cui bellezza crea l'eccitazione delle battute iniziali. Carmide è di fattura pregevole. Il suo essere interiore sembra corrispondere al suo aspetto esteriore, poiché possiede in egual misura talento filosofico e poetico. Così deve essere stato Platone e di questa fatta auspicava fossero gli uomini1. Carmide è puro, immacolato e totalmente devoto al maestro. Crizia è una persona di maggiore esperienza che ha le sue idee sui temi che sono oggetto di discussione; ha anche seguito un corso di semantica (163 C) presso i sofisti (probabilmente con Prodico) ed è capace di svelare i trucchi usati da Socrate nel condurre la conversazione laddove Carmide vi resta invischiato. Ma al cugino più anziano manca la purezza dell'altro: quando Crizia non sa più cosa ribattere di fronte alle argomentazioni di Socrate non lo ammette in presenza degli altri per non mettere in pericolo la sua reputazione (169 C). Questo tratto del carattere, unito a segnali di insofferenza nei confronti del suo giovane cugino e dello stesso Socrate (162 D, 166 C) indicano (e ogni lettore ateniese riconoscerà naturalmente in lui il futuro tiranno) quanto poco possegga la virtù della soph-

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rosyne (salute dell'anima, assennatezza, virtuosità, modestia, moderazione, autocontrollo) che è oggetto della discussione 2 . Questa qualità è contenuta nella sua forma naturale in Carmide, cui non a caso Socrate chiede di guardare dentro di sé (160 D) al fine di esprimere a parole il senso del concetto. Socrate rappresenta la sophrosyne nella sua forma perfetta, quella in cui la disposizione naturale si converte, attraverso la presa di coscienza, in arete e ciò è evidente da ogni parola da lui pronunciata nel dialogo. Degli altri presenti solo Cherefonte, il «fanatico» ( [ x a v i K Ò q ó j v , 153 B 2) discepolo di Socrate dice qualche parola all'inizio. Dopo aver salutato Socrate e averlo guidato al suo posto di fianco a Crizia, Cherefonte parla per gli altri, dicendo quanto tutti siano profondamente commossi dalla bellezza di Carmide, quando questi fa il suo ingresso. Cherefonte rappresenta quel tipo di disordine spirituale poco adatto alla discussione filosofica. E uno stadio preliminare dell'«esser-indemoniati» che nelle sue forme più alte riappare continuamente dallo Ione alle Leggi (719 C). Il dialogo è ambientato in una palestra. Un luogo dedicato alla cura della forza e della bellezza fisiche fa quindi da sfondo alla contesa intellettuale. E come nel Liside la scena si svolge nello spogliatoio di un ginnasio, qui si dice che Carmide deve spogliarsi per disputare un incontro di lotta e che Socrate procederà a spogliare la sua intima essenza (154 DE). Questo parallelismo tra esistenza fisica e spirituale (e la loro l'unità ideale) compenetra profondamente la discussione. La vicenda si svolge nell'anno 432 a.C., appena dopo la sanguinosa battaglia di Potidea, cui prese parte anche Socrate. Il giorno successivo al suo ritorno dalla guerra egli si reca nei luoghi abituali per incontrarvi gli amici, e ha appena raccontato lo stretto indispensabile a proposito della battaglia che passa al problema dello stato della «filosofia» e della gioventù in patria. Da qui in poi non verrà detta più una parola sulla guerra. Le questioni esterne recedono completamente in favore dell'unico compito che merita di essere perseguito. Il lettore però fa bene a meditare ancora per un attimo. Infatti ciò che era noto a tutti al tempo di Platone

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(e che noi conosciamo daWApologia e dal Simposio) è che Socrate si era comportato valorosamente nella battaglia di Potidea. Così egli è lì «coraggioso» qui «temperante». Ma questi due tratti non sono fra loro incompatibili? Il Protagora non fa precisamente i conti con la questione se il coraggio accompagni necessariamente tutte le altre «virtù» oppure no? E la conclusione del Politico (306 B e ss.) non evidenzia una contrapposizione tra coraggio e sophrosyne? Lì si tratta infatti della lotta tra le disposizioni naturali dell'uomo. Tuttavia nella Repubblica (410 D e ss.) vien fatto vedere come questo naturale antagonismo debba essere superato nell'unità delYarete, attraverso un'educazione egualmente ripartita in musica e ginnastica, e all'inizio del Teeteto questa unità viene raggiunta nel ritratto dal vero del giovane protagonista del dialogo, che ricorda Socrate anche dal punto di vista fisico. Pertanto è del tutto voluto che nel Carmide si mostri, nella e attraverso la persona di Socrate, come la sophrosyne, oggetto della nostra indagine sia legata alla caratteristica, a prima vista opposta, del coraggio. L'indagine concettuale si muoverebbe nel vuoto se non fosse radicata nell'«esistenza» e se la ricerca dell'essenza della sophrosyne non fosse fondata nella realtà della vita dell'uomo Socrate, che è la sophrosyne ed è al tempo stesso più della «sola» sophrosyne. I. 153 A - 159 A Socrate dà subito prova della sua sophrosyne distaccandosi dalle proprie esperienze e dai propri atti di guerra, che scompaiono quindi dal suo racconto. E allora l'immagine del giovane Carmide che inizia a essere evocata con intensità crescente. Dapprima lo sentiamo elogiare dagli altri, quindi lo vediamo entrare e sedersi tra Crizia e Socrate. Così egli occupa il posto tra l'uomo a cui ora appare interamente devoto e l'altro che (come tutti sapevano) più tardi seguirà nella direzione opposta. Ciò vuol dire che la sophrosyne che il giovane Carmide esibisce nella sua forma primigenia non si sviluppò in lui nella forma matura dell 'arete. Il preludio tratta del mal di testa del giovane. Socrate conosce un rimedio, ma sa anche che non si può curare la

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testa senza curare l'intero corpo. E neppure si può curare il corpo senza curare l'anima: questo lo ha appreso in Tracia, quindi i Greci, nonostante Ippocrate {Fedro, 270 C), apparentemente non ne sanno nulla! Come da un lato bellezza del corpo e sophrosyne dell'anima si corrispondono reciprocamente (157 D; 158 A e ss.) così è per la salute, che deve risuonare nella prima sillaba della parola so-phrosyne. Nel Gorgia (504 BD) viene detto che l'ordine ( t á ^ i q K a ì k ó onoq) del corpo è prodotto dalla salute, quello dell'anima dalla giustizia e dalla sophrosyne. Nel Carmide questo parallelismo agisce dappertutto. Anzi qui l'unità è ancora più forte: la sophrosyne dell'anima è tale da recare beneficio anche alla salute del corpo ed è un difetto comune agli uomini quello di cercare di tenerle separate tra loro (157 B). Così è all'unità corpo-spirito che si rivolge il lavoro educativo di Socrate. E buffo il modo in cui Socrate esamina Carmide per vedere se questi possegga realmente la sophrosyne, dal momento che gli chiede se ritenga o no di possederla solo dopo avere elogiato le sue molte qualità e aver così messo seriamente alla prova la sua modestia. Carmide supera brillantemente l'esame. Egli non rivendica, ma neppure nega il possesso di questa virtù. Così, dopo aver visto come la sophrosyne operi nella condotta di vita di una persona e dopo aver appreso che essa non soltanto corrisponde alla salute del corpo ma è in definitiva responsabile di questa stessa salute, si è ora pronti ad affrontarla concettualmente. Cos'è e di che natura è la sophrosyne (o t i ècxiv koù órcoiov)? Nella risposta non c'entra il «sapere», poiché se Carmide «partecipa» ((i£T£%£iv, 158 C 4) della sophrosyne o se essa è presente in lui (èvecmv, 159 A 2), essa deve essere «percepibile» e dobbiamo essere in grado di formarci un'opinione (5ó^a) sulla sua natura. L'obiettivo, allora, è quello di scoprire la natura e l'essenza della cosa, ma l'aspetttiva più alta, quella di riuscire ad affermare veramente questa essenza dal punto di vista concettuale in realtà sarà disattesa. II. 159 A - 175 D. La discussione ha luogo su due piani distinti per il fatto che Carmide risponde sul primo, Crizia

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sul secondo. In senso stretto questi due piani non sono separati l'uno dall'altro poiché il giovane, alla fine, introduce una definizione del cugino più anziano che più tardi verrà meglio difesa da questi. II la. 159 A - 160 D. Per iniziare, comunque, Carmide propone due definizioni che corrispondono alla sua natura. Dapprima, quasi a tastoni, elenca diverse attività. Questa procedura è analoga a quella del Lachete, del Trasimaco, dell'Eutifrone e deìì'Ippia maggiore. La differenza è che lì Socrate è il solo in grado di indirizzare correttamente l'indagine mentre qui è lo stesso Carmide a sintetizzare, con molto tatto, l'elenco in un giudizio generale: la sophrosyne è «una certa calma» (tranquillità, pace interiore, r)auxtÓTr|q iti;) e, dopo che Socrate ha confutato questa definizione, a fare un secondo tentativo: la sophrosyne è il «pudore» (timore, vergogna, ai5cbq). II lb. 160 D - 161 B. È evidente che queste formulazioni toccano solo certi aspetti della realtà di cui si è in cerca, ed è anche chiaro che Platone procede dall'esterno verso l'interno. In entrambi i casi la critica di Socrate mostra che tanto la calma quanto il pudore sono qualità che hanno un valore neutro, mentre la sophrosyne è detta invece essere qualcosa di «bello» o qualcosa di «buono» a seconda che si guardi al suo aspetto esteriore o alla sua natura intrinseca. La sophrosyne, in breve, deve essere in ogni caso qualcosa fornito di valore. II le. 161 B - 162 B. Carmide presenta la sua terza definizione come qualcosa che ha udito da qualcun altro, da Crizia, come sospettiamo subito. In questo modo la definizione oltrepassa il regno dell'esperienza di questo giovane uomo. E un «enigma», come ci viene detto più volte (161 C 9; 162 A 10; 162 B 4), una formula rituale che evidentemente può avere diversi significati3 e richiede di essere interpretata. La celebre formula recita: «fare il proprio» ed è evidentemente intesa come il contrario del vizio, tutto ateniese, dell'«impicciarsi di molte cose» (7toÀ.TJ7ipay(xovetv, 161 D 11)4. Socrate procede ad analizzare il significato di questa

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formula attraverso un metodo in cui sembra oscurarla, impiegando un trucco sofistico: egli sostituisce alla parola «fare» le parole «agire» e «produrre» (èpyà^eoGcu xe KCCÌ 7tpàxxeiv, 162 A 2) e alla fine si vede cosa ha in mente. Socrate immagina uno stato in cui ognuno si fa i propri vestiti, le proprie scarpe, la propria fiaschetta per l'olio, il proprio strigile - in breve, «fa le proprie cose» e quindi domanda se uno stato siffatto sia ben ordinato. Vien subito fatto di pensare all'Ippia minore, 368 C, dove Ippia stesso realizza tutte le cose appena menzionate e Socrate ammira questo traguardo con evidente sarcasmo. Proprio nello stesso senso Carmide risponde quindi di no alla domanda di Socrate: in effetti questo non sarebbe uno stato ben ordinato. Il giovane non è abbastanza allenato per svelare il meccanismo attraverso il quale Socrate ha trasformato il senso della tesi originale nel suo contrario. Ma un contrario getta luce sull'altro, così che siamo rimandati alle implicazioni «politiche» di questa tesi. Bisogna guardare avanti, alla Repubblica, dove questa formula determina la strutturazione della compagine statale. Lì sarà chiamata «giustizia», ma giustizia e sophrosyne sono spesso legate e stanno molto vicine l'una all'altra5. Inoltre, in Timeo, 72 A Platone usa la formula «fare il proprio» almeno in riferimento a una sottoclasse della sophrosyne, così che si può star sicuri che egli non la ha introdotta qui solo per poterla confutare. Piuttosto la formula ha di mira il senso politico della virtù indagata, e il fatto che essa sia associata a Crizia guarda nella stessa direzione. II 2. 162 B - 175 D. L'intervento di Crizia conduce su di un piano superiore, proprio come quello di Nicia nel Lachete e quello di Trasimaco nel primo libro della Repubblica. II 2a. 162 B - 164 C. Crizia ammette di essere l'autore di questa terza definizione, che non può essere soggiogata da un trucco sofistico perché egli ha studiato semantica e vede quindi attraverso la palese confusione dei termini. Socrate guarda in un certo senso dall'alto in basso le distinzioni semantiche. Le parole che usiamo sono meno importanti di ciò cui le parole si riferiscono. Puttosto ci si deve chiedere se

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Crizia stia applicando dawero opportunamente la sua arte o se invece, da vero sofista, non la stia confondendo con l'interpretazione poetica 6 . Alla fine l'interpretazione dell'espressione «il proprio» o le «ciò che ci pertiene» (tòt o ì k e ì o c ) per indicare ciò «che è fatto bene e utilmente» (xaX&q kcù ròcpeXip.(0(; 7 i o i o i » ( i e v o v ) è del tutto generica e arbitraria, anche se non falsa. La struttura di una politeia, tanto interiore quanto esteriore, che per Platone è connessa con la tesi dell' idiopragia, non viene in chiaro nelle parole di questo allievo sofista. Oltrepassando questo piano saliamo direttamente al livello più alto e generale, che viene da qui in poi formulato da Crizia in questo modo: sophrosyne significa fare il bene ( t f | v x c ò v à y a Q c ò v rcpà^iv, 163 E). Questa formulazione, evidentemente, orienta lo sguardo al «Bene» e accenna al punto focale del pensiero di Platone. Ma quanto detto è certamente ancora troppo generico; è più un modo per eliminare il problema che una nuova definizione 7 . Inoltre l'etimologia di sophrosyne suggerisce un richiamo all'«assennatezza» che nella sola definizione del «fare il bene» viene ignorato. Non possiamo fare quello che comunemente è chiamato «il Bene» se non abbiamo consapevolezza di ciò che stiamo facendo. L'«assennatezza», invece, prevede una tale consapevolezza, come Socrate suggerisce a Crizia che allora, rigettando tutte le sue affermazioni precedenti alla maniera del tipico discepolo sofista, propone una nuova definizione: la sophrosyne sarebbe la «conoscenza di sé». II 2b. 164 C - 175 D. Il «detto delfico», che per il Socrate di Platone ha sempre un significato importantissimo, viene ora esaltato da Crizia con alti accenti e proclamato ancora una volta, alla fine di un discorso sofisticamente infiorettato, come la meta cui si deve tendere e come nuova definizione di sophrosyne. «Conoscenza di sé» ( è 7 t i G T T i | i r | é a u T O Ì j ) è la formula sul cui senso si dibatte con grande ardore fino alla fine del dialogo. Questa formula viene modificata - correttamente, se intendiamo la «conoscenza di sé» in senso platonico piuttosto che in quello moderno - come «conoscenza della conoscenza stessa» (è7tumi|iT| èavrfji;) 8 e nel corso della discus-

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sione si chiarisce che essa significa «conoscenza di ciò che si sa e di ciò che non si sa (to eìSévai a te oÌ8ev m i a fifi oT8ev, 167 A), in quanto «conoscenza di se stessa e delle altre scienze» (èrtiarn(rr| èainfìg k o c ì t c ò v aÀ.A,cov èmaxriH-tòv, 166 C, 168 A). Ed è ancora Socrate che, esaminando la formula di Crizia, la trasforma e la manomette. Crizia obietta una volta, con tono di rimprovero, che Socrate ha prima considerato la questione di cosa la «conoscenza di sé» abbia in comune con le altre scienze e solo ora sta considerando il problema di come queste scienze differiscano tra di loro (166 B). In realtà l'obiezione mostra ancora più chiaramente che Socrate è alla ricerca di entrambe le cose: il generale e il particolare, il genus proximum e la differentia specifica (per usare i termini tecnici della logica che qui trovano la loro origine). Come tutte le altre branche della conoscenza, la conoscenza di sé deve necessariamente esser conoscenza «di qualcosa». Ma essa sembra diversa da tutte le altre scienze proprio perché non ha un oggetto che sia diverso da se stessa. In più appare non solo diversa dalle altre scienze (165 B - 167 A) ma anche da tutte le altre facoltà dell'anima (167 B - 168 A). E proprio questo sembra in verità darle - se una tale conoscenza esiste - uno statuto unico tra tutti gli altri legami relazionali concepibili (168 BE). Certo è ancora dubbio se una tale conoscenza esista e, se anche esista, se corrisponda alla sophrosyne che stavamo cercando (169 AB). Il lettore non deve dubitare del fatto che, nascosto dietro l'espressione «conoscenza di sé» ci sia un autentico dato di fatto che è molto importante decifrare. Non invano il dio delfico si fa garante, anche se non solutore, di questo detto (164 D e ss.). E meno chiaro se il detto definisca o meno la sophrosyne. In effetti se alla fine riconsideriamo l'intero dialogo si vede che esso traccia un cerchio in verità molto più ampio di quello della sola sophrosyne. Probabilmente in questa parte del dialogo vi sono altri aspetti che riusciamo a vedere nel dettaglio solo alla luce delle opere successive. Esiste un punto di vista o una visione (o\|nq) che è punto di vista e visione di se stesso e non di tutti gli altri (167 D)? Crizia risponde di no e Socrate non

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insiste. Ma non è certamente inappropriato guardare avanti, al «vedere della mente» di Simposio, 219 A e all'«occhio dell'anima» della parte centrale della Repubblica (VII 533 D) e se si fa questo si è autorizzati a dubitare della risposta di Crizia. Più avanti nel Carmide (168 E) Socrate farà cenno alla facoltà dell'automovimento come a quella dell'autopercezione e sottolineerà il fatto che queste relazioni al sé sono considerate impossibili da alcuni ma forse non da altri. Alcuni grandi uomini, prosegue, sentono il bisogno di verificare se, nell'universo degli enti, esiste qualcosa che per sua natura ha la facoltà di rapportarsi a se stesso. Platone non avrebbe fatto scervellare Socrate in modo così suggestivo se egli stesso non si fosse dibattuto intorno a questo problema prima di raggiungere le convinzioni espresse più tardi e più esplicitamente in altre opere: nel Fedro (245 C e ss.) egli parla dell'anima come «automovimento»; nel Timeo (89 A) dice che il movimento più perfetto è quello che muove se stesso e questo è il moto del pensiero e dell'universo; infine nelle Leggi (X 894 C), l'ultimo nella serie delle dieci diverse forme di movimento è quello che muove se stesso e qualcos'altro. Certo all'epoca del Carmide Platone era ancora ben lontano dallo sviluppare un tale sistema; ma era comunque volto in questa direzione e non era certamente così perplesso come il suo Socrate. Da questa difficoltà da cui «appare» solo sconfitto, mentre Crizia lo è effettivamente (169 C), il maestro esce dapprima lasciando aperta la questione se vi sia qualcosa come una tale conoscenza di sé. Una simile conoscenza (ammesso che esista) potrà mai darci un sapere concreto? Non sembra, perché le conoscenze specifiche che abbiamo rientrano nell'ambito delle scienze specifiche. Quest'altro tipo di conoscenza non appare in grado di dirci se un medico è buono o cattivo. Che utilità ha allora (171 D)? Se mettesse insieme la conoscenza concreta delle scienze particolari con l'abilità nel giudicare se una persona ha o no tale conoscenza, essa sarebbe allora di grandissima utilità. E Socrate evoca l'immagine di un governante che, in virtù del possesso di una tale conoscenza, dispone ognuno nella giusta collocazione e

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non permette a nessuno di fare qualcosa che non è incluso nella sua funzione e fa sì quindi - salta fuori di nuovo, legandosi con la nuova, la formula della definizione precedente che ognuno «faccia il proprio». Qui la «virtù» che stavamo cercando è estesa - anche se solo in forma di costruzione ipotetica - all'attributo autentico di chi deve guidare lo stato e le azioni belle e ben fatte (K(XA,CÙcàax(p cpixiei JtecpUKÒq òvojxa). In contrasto con la tesi sostenuta da Ermogene, i nomi sono fondati perché la forma e le sue copie sono viste come il prototipo della loro esistenza. E le differenze tra le parole nelle diverse lingue non dimostrano che il processo del nominare è affidato semplicemente all'arbitrio ma solo che queste differenze sono necessariamente dovute alla varietà del materiale usato nel processo. La parola in sé: una delle suggestioni più profonde nella «filosofia del linguaggio» di Platone. Dobbiamo guardare avanti alla similitudine della caverna della Repubblica dove i prigionieri incatenati odono attraverso l'eco dei muri ogni sorta di suoni che associano alle ombre delle cose che passano (515 B). Più in alto di questo «linguaggio eroico», si deve pensare, si trova il linguaggio reale di coloro che si muovono alle spalle dei prigionieri, lontano e più in alto rispetto a loro, assolutamente superiore in chiarezza e rapporto alle cose. Decenni dopo, il demiurgo del Timeo corrisponderà, agli occhi di Platone, al legislatore del Cratilo12. Nel Timeo si narra un mito che riguarda il mondo del divenire, del quale non si può avere alcun sapere, e che è pensa-

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to per rapportare le apparenze a quel regno del vero essere al quale in definitiva ogni conoscenza è diretta. Resta da fare un ultimo passo. Proprio come il fabbricante di utensili li passa ad altri esperti affinché questi li adoperino e li valutino, così il fabbricante di parole passa il suo lavoro a colui che «sa come si pongono le domande e come si risponde», vale a dire al dialettico. Siamo rimandati a un passo dell'Eutidemo in cui si ricercava la conoscenza più alta e la si trovava nel momento in cui il produrre (rtoieiv) e l'usare (xpiìaGoa) coincidessero. Lì si arrivava a una decisione quando diventava chiaro che il geometra, l'astronomo e il matematico passano le proprie scoperte al dialettico che sa come usarle (290 C). Qui nel Cratilo l'utile analogia con le arti ha condotto al punto in cui la «correttezza» del linguaggio è evidenziata dal fatto che il dialettico può fare qualcosa con esso o, più precisamente, dal fatto che Socrate sta usando ora il linguaggio correttamente, alla maniera di un artigiano esperto. Alla fine di questa discussione, quindi, come accaduto all'inizio con l'eristico e con il sofista, viene individuato il dialettico. E in definitiva tra questi tre che si combatte la battaglia. Il linguaggio è stato salvato dall'abuso sofistico e messo al sicuro come strumento del filosofo, che sa come usarlo rettamente e in modo oggettivo. Ma la sua vera messa in salvo ha luogo quando Xeidos, anche se da lontano e per via analogica, viene a tema. Quando alla fine Socrate dice che la conclusione corrisponde alla tesi di Cratilo, che riconosce come «vera» (390 D 9), l'ironica identificazione rivela che a una tesi vacua e pericolosa come quella sostenuta da Cratilo viene data sostanza e significato solo attraverso Socrate (in senso soggettivo) o il concetto di «forma» (in senso oggettivo). In altre parole è Socrate a rendere visibile Y eidos nella physis13. Il risultato della discussione (più precisamente della discussione che fa da sfondo) è che c'è una qualche «correttezza» delle parole. Ciò sembra confermare la tesi di Cratilo secondo cui nelle parole stesse cogliamo le cose. I 2. 390 E - 427 D. Qui risiede l'altra insidia contro la quale la dialettica deve operare una contromossa. Si dice, per essere precisi, che nei nomi c'è «una certa correttezza»,

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(391 A; 397 A). Se credessimo di poter sfruttare direttamente questo risultato per conoscere le cose, tuttavia, andremmo incontro a una delusione. Questo vien fatto vedere nella seconda parte della prima conversazione, dove Socrate riversa una quantità di interpretazioni etimologiche verosimili per dimostrare l'assurdità della pretesa, frettolosa e presuntuosa, di cogliere la natura delle cose attraverso le parole. I 2a. 390 E - 421 D. Lo stesso Socrate mette ripetutamente sull'avviso di fronte alla strana forza che agisce in lui. Dobbiamo usarla oggi, dice, solo per trovarci domani purificati come da un brutto sogno (396 E). Egli vi si richiama ironicamente come Eutifrone si richiamava alla Musa che lo ispirava sin dalle prime luci del giorno14. Non sappiamo se l'Eutifrone storico usasse o no le etimologie, eppure dobbiamo pensare che le soluzioni etimologiche potessero servirgli a difesa della sua cattiva teologia. Era certamente nelle intenzioni di Platone rimandare al dialogo che da lui prende il nome (come in precedenza ali'Eutidemó) e richiamare il contrasto tra la figura del dossosofo che dichiara di conoscere le cose divine e il filosofo tanto sapiente quanto ignorante, che si limita a ciò che è umano non per scetticismo, ma per rispetto verso gli dei. Così Socrate si oppone alla credenza che attraverso l'etimologia dei loro nomi si avrebbe conoscenza degli dei. Come guida del ragionamento prende l'affermazione che «non sappiamo niente sugli dei né sui nomi che essi stessi si danno»15. Ciò suona decisamente simile alla celebre affermazione di Protagora sugli dei, solo in un modo per cui le parole che seguono chiariscono del tutto l'opposizione a qualunque scetticismo distruttivo: «poiché è evidente che essi si chiamano con nomi appropriati». Nella nostra dotta ignoranza ci possiamo accontentare solo del costume rituale che lascia agli dei stessi «il come e il donde li si debba nominare». Al massimo si possono solo conoscere le opinioni che quelli tra gli uomini che danno i nomi hanno avuto sugli dei (400 D - 401 A). Questa la disputa teologica tra Socrate ed Eutifrone, e ora si può capire perché il tema continua a ritornare. Gli dei e i loro

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nomi: qui l'ambiguità interna alla pratica etimologica si mostra al massimo grado. L'etimologia non raggiunge la conoscenza della natura delle cose ma solo opinioni o al massimo intuizioni di uomini saggi, frammiste senza criterio a errori che facilmente si aggiungono a ogni sorta di dubbia fisiologia materialistica16. Così non è senza significato che, alla fine della lunga serie di etimologie dei nomi divini - circondata dall'insistente appello di Socrate, «per gli dei, basta parlare dagli dei!» (407 D 6; 408 D 5) - si trovino le interpretazioni di Ermes e Pan come rappresentazioni del discorso. La funzione di Ermes è, da un lato, quella di interpretare ed essere «messaggero» e, dall'altro, di ingannare, frodare e mercanteggiare. Non significa forse che le parole possono essere tanto degli intermediari che svelano la natura delle cose quanto veli che la occultano con l'inganno? Ancora più significativa la simbologia di Pan: divino e vero sopra, ingannatore e bestiale sotto, entrambi gli aspetti indissolubilmente congiunti in un'unica creatura. Non rivela forse questa scherzosa allegoria la natura ibrida del logos, in ispecie del logos etimologico? L'indagine sulla correttezza dei nomi inizia citando come maestro Protagora e collocandola così in buona compagnia, quantunque Ermogene sfiori solo per caso la «verità» di Protagora (391 C). Socrate suggerisce allora che possiamo imparare da Omero quello che egli dice sulla natura del linguaggio; tuttavia sappiamo sin dal Protagora che l'esegesi poetica non produce conoscenza. Ciononostante nel Cratilo l'aria è costantemente pervasa non solo di discussioni sul linguaggio degli dei ma di pericolose etimologie. Dagli arabescati affreschi emerge un risultato sostanziale: c'è una costanza nelle specie naturali, una costanza di generi (yévoq) indicati da uno stesso nome che contraddice la tesi dell'arbitrarietà delle parole. Non si può chiamare «leone» la prole del cavallo, né si può chiamar «giusto» l'uomo ingiusto (393 B e ss.)17. C'è una dimensione in cui la struttura del linguaggio rispecchia la struttura delle cose. Ricominciando da capo (àpì;ó)|j,e0a, 397 A 4), l'indagine lascia i poeti e procede, quasi con sistematica successione, a

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coglier la natura delle cose e soprattutto quella delle cose immutabili (xà àei òvxa KCXÌ 7 i e ( p U K Ó T < x , 397 B 7) attraverso il significato etimologico dei termini. Emerge così un sistema di interpretazioni basato sulla dottrina eraclitea del «fluire». A dire il vero, quando questa dottrina viene introdotta per la prima volta, Socrate nota come noi ne siamo ignoranti o, forse più precisamente, ne ignoriamo le applicazioni pratiche all'etimologia (401 D). Il lettore è così avvertito, così come accaduto in precedenza (399 A 4) quando Socrate si era raccomandato alla prudenza nel suo entusiasmo per l'etimologia. Tuttavia, immediatamente il flusso delle etimologie avvolge ogni cosa in una corrente senza freno. E lo stesso Socrate a riconoscere che l'interpretazione accelera e lo porta via (410 E), in qualche modo come nel caso dei trucchi sofistici neWEutidemo. E anche qui sono sparsi abbondanti segnali di pericolo18. È come se Platone avesse inteso far capire al lettore che, una volta che ci si è posti su di un percorso a senso unico, non vi è più modo di tornare indietro. Non è solo l'aria a essere qualcosa di fluido: anche virtù, conoscenza e giustizia sono comprese nell'eterno scorrere delle cose. In greco basta aggiungere una lettera all'«essere» (òv) per farlo diventare qualcosa di mobile (ióv). La «verità», senza bisogno di togliere o aggiungere lettere, è un «assemblaggio» di due parole «vortice divino» (àXt| 0eia) - e qui si conclude la serie etimologica19. Si è mostrato che, al contrario di quanto sostiene Cratilo, la correttezza delle parole che pure dobbiamo presupporre non può esser raggiunta per questa via. Inoltre, quando ci volgiamo dalle parole alle cose, tutta la dottrina del flusso, come dice Socrate, è una frottola che si aggira nelle teste dei «sapienti» i quali, fraintendendola, la applicano al regno dei fatti (411 BC). Nonostante tutto non mancano qui i germi di una vera e propria scienza linguistica. L'«etimo-logia» in senso proprio è limitata dall'elemento arbitrario (395 E) e con essa si intendono le «modifiche del suono» operate in particolare in vista dell'«eufonia» (eÌKTrofiia, 404 D; 414 CD). Certo l'uso che si fa di questa pratica di alterare le parole è ecces-

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sivo; da qui il commento sarcastico di Voltaire su di una scienza in cui le vocali non significano nulla e le consonanti poco, sembra essere giustificato. Socrate stesso fa notare la leggerezza con cui si pratica questa tecnica e raccomanda di esercitarla con moderazione e nel rispetto della verosimiglianza (414 E), perché ci si muove nel regno dell'incertezza. La riconduzione alle forme linguistiche arcaiche è riconosciuta quanto meno dal punto di vista metodologico, anche quando vengono confuse le antiche forme di scrittura e di discorso (410 C). Gli elementi «barbarici» di un linguaggio, vale a dire quegli elementi alle cui radici non si può più risalire, restringono ulteriormente i margini dell'interpretazione; nel contempo, troviamo qui i primi rudimenti di una linguistica comparativa (410 A) in cui linguaggi diversi sono messi l'uno a fianco all'altro e confrontati. Ma la cosa più importante è che l'imitazione simbolica dei suoni è vista come il principio attivo con cui si formano le basi originarie della lingua (426 A e ss.) e non esiste oggi principio migliore, nonostante il grande sviluppo della linguistica come scienza20. Certo, le interpretazioni e le intuizioni platoniche differiscono in ogni caso dall'odierna linguistica scientifica perché in definitiva Platone stesso non le prende per nulla sul serio. Talvolta è anche esplicito sotto quest'aspetto. C'è, dice Socrate (406 BC), una spiegazione seria e una scherzosa dei nomi di dei come Dioniso e Afrodite. Lasciamo ad altri le spiegazioni serie. Quel che Platone vuole è spiegare che la connessione tra le parole e le cose non deve né essere spezzata né considerata come infrangibile al punto da pensare che nelle parole risieda la natura delle cose. Sono le cose che contano. Platone illustra attraverso le sue etimologie le cose più importanti, ma fa vedere anche che occorre trattare degli dei, dell'anima e della giustizia in modo del tutto diverso rispetto alla semplice interpretazione delle parole. Una «sapienza demonica» lo ha afferrato, dice ironicamente Socrate, e tuttavia per Platone il demonico è il regno intermedio tra uomo e dio, tra conoscenza e ignoranza 21 . Così, fra queste etimologie, emerge spesso una suggestione che,

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pur non rivelando la natura delle cose, in fondo porta in quella direzione. In generale ciò accade perché la dottrina eraclitea del flusso si esaurisce nel nulla e per questo abbisogna di qualcosa che le resista e la limiti. Tuttavia Platone non avrebbe proposto questa massa di false etimologie (come non avrebbe dato spazio agli errori dell'Eutidemo) se non avesse pensato che esse erano, su particolari punti, istruttive. E il caso, per esempio, delle parole «giusto» o «retto», S Ì K O U O V (412 C e ss.), che sembrano derivare etimologicamente dalla velocissima e sottilissima forza che attraversa tutte le cose (8ioc-ióv) e rispetto alla quale tutte le altre cose mosse appaiono in quiete. Ora i più saggi tra gli uomini sono in disaccordo sulla vera natura di questa forza: alcuni dicono che è il fuoco, altri il sole; Anassagora la chiama «intelligenza» [Grài] ma anch'egli è, conclude Socrate, «in grande perplessità sulla natura della giustizia quando inizia a indagare» queste materie. Di fatto queste espressioni si riferiscono al modo in cui i filosofi naturalisti più antichi come quelli più recenti hanno reso qualità spirituali in termini di sostanze materiali, un modo di esprimersi dal quale persino Anassagora non riesce ad affrancare la sua «intelligenza» (Fedone, 97 D e ss.). Tuttavia la perplessità di Socrate (Cratilo, 413 C 8) mira ironicamente al fatto che la «natura della giustizia» può esser colta solo attraverso un radicale cambiamento di prospettiva che si volga via da ciò che è materiale e in continuo movimento22. Perfino riguardo al caso dei nomi degli dei, non c'è ragione di prestare seria attenzione al gioco etimologico2211. L'interpretazione comune di Ade come l'«invisibile» (òuSéq), cui si allude in altre opere di Platone, viene qui respinta (dopo essere però stata richiamata) in favore di un'altra interpretazione che lega il nome di Ade alla conoscenza (xà KaÀà ei5évou, 404 B). Ade è il perfetto maestro di saggezza (t£À.£o) viene alla mente che Aristotele cita la stessa identica frase quando inizia la discussione sulla natura dell'amicizia nell'Etica Nicomachea (Vili 2, 1155 a 15) e che nel dialogo stesso si parla delle forme di questa «dualità»: ora si parla di Socrate e Aristodemo, poi di Socrate e Agatone, infine di Socrate e Alcibiade. Dei vari stadi in cui viene presentata la medesima relazione fondamentale, questo è il primo. Ora vediamo Socrate nel suo isolamento e specialmente nell'effetto che il suo star fuori, perso nella profondità del pensiero, ha sulla compagnia festosa riunita all'interno e nella crescente tensione che questo fatto genera. L'uomo solitario: così è di nuovo descritto Socrate nell'encomio di Alcibiade (220 CD). Non è un caso che in questo dialogo sia rappresentato così. Senofonte vuol mostrare che il grand'uomo è capace anche di scherzare e giocare (èv TOCU; J t a i Siavq). Ma Platone ha sempre davanti agli occhi un Socrate a figura intera, così che a tratti evidenzia la sua indole socia-

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le, a tratti la sua tendenza a isolarsi. Pure il senso di questo episodio va oltre il semplice dato biografico. La «polarità di solitudine e comunicazione» è, secondo Jaspers63, un aspetto caratteristico dell'esistenza umana. In Socrate questa polarità si mostra più che in chiunque altro. 175 D - 176 A. Dopo che Socrate ha finalmente fatto il suo ingresso si assiste a un breve scambio di battute tra lui e l'ospite, incorniciato tra i due momenti in cui Socrate cambia posizione, prima seduto, quindi disteso7. Si parte da un problema concreto (dove deve sedersi l'ultimo arrivato?) e tuttavia la discussione scivola subito in un ironico dibattimento sul sapere e su come questo possa essere trasmesso da una persona all'altra. La buffa analogia proposta da Socrate per cui il sapere non fluisce da colui che ne ha a colui che non ne ha come l'acqua va dal recipiente pieno a quello vuoto, rinvia a un principio basilare dell'educazione socratica. Agatone, uomo sapiente, e Socrate, uomo ignorante, sono i poli di questo ironico contrappunto. 176 A - 178 A. Un breve interludio presenta i vari oratori del banchetto e conduce quindi all'argomento dei loro discorsi: l'Eros. Agatone e Socrate li abbiamo già conosciuti, ma ora che il convivio vero e proprio sta per cominciare in tutto il suo canonico rituale, il primo a prendere la parola è Pausania. Ci si ricordi di Protagora, 315 DE, in cui questo stesso Pausania ascolta Prodico proclamare il proprio esser sapiente mentre accanto a lui siede un giovane straordinariamente bello. «Mi sembra di aver sentito», osserva Socrate di sfuggita, «che il suo nome è Agatone, e non sarei sorpreso se egli fosse il favorito di Pausania». Questo episodio accade circa quindici anni prima della data del Simposio. Ma si tratta dello stesso Pausania che qui, in casa di Agatone, è il primo a parlare dopo l'ospite. Dunque la loro amicizia continua. Aristofane non ha bisogno di essere presentato a nessuno. E evidente, senza che vi sia bisogno di dirlo, il motivo per cui il famoso commediografo non può non essere invitato in casa di uno scrittore di tragedie che ha appena conquistato il suo primo alloro (si noti che, in conclusione del dialogo, 223 CD, i due poeti rimangono

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soli a discutere con Socrate che li «costringe a rispondere»). In aggiunta ad Aristodemo, la cui funzione si limita a quella di narratore, sono menzionati due altri ospiti: il medico Erissimaco e Fedro. Li ricordiamo nel Protagora (315 C) seduti ai piedi del «Professor» Ippia, discettare di problemi di scienza naturale. Così è anche naturale che Erissimaco qui indulga in affermazioni generiche sulla smodatezza nel bere e sia manifestamente amico di Fedro, dal momento che Fedro «è un noto seguace delle sue idee, specialmente riguardo alla medicina», ed Erissimaco ha «spesso sentito Fedro dire...». Ciò ci porta all'argomento dei discorsi. Nessun poeta ha mai composto un encomio in onore del gran dio Eros, e nessun oratore ha mai elogiato l'amore in un suo discorso; ciò deve accadere oggi. Che strano! Sia nelXAntigone che nell'Ippolito il coro rivolge un canto appassionato a Eros, e molto tempo prima il poeta Alceo aveva elogiato l'amore come «il più potente fra gli dei». Se Aristofane lamenterà successivamente nel dialogo (189 C) che non ci sono templi eretti al gran dio, è pur vero che Euripide ha già dato voce a una simile preghiera nel canto del suo coro: noi non onoriamo Eros in nessun rituale religioso. Così, ciò che si dice qui e che offre lo sfondo ai discorsi che seguiranno non è niente di nuovo. Che il rimprovero non sia in alcun caso giustificato è dimostrato anche dai canti corali che si facevano presso l'antico santuario di Eros a Tespi, dove ancora all'epoca di Platone doveva trovarsi la statua di Prassitele dedicata a Eros e persino presso il celebre altare eretto proprio all'ingresso dell'Accademia8. Platone conosceva meglio di noi quei canti corali e quell'altare; l'iscrizione che vi figura, risalente al tempo di Pisistrato e accenna aH'«Eros dalle mille astuzie», riecheggia nelle parole di Diotima (203 D 6). In questo modo un tema sociale di discussione viene inglobato nell'oggetto attuale del dibattito, così che quando Fedro si lamenta del fatto che «finora nessuno ha osato dedicare un inno adeguato all'elogio di Eros», il lettore non può pensare ad altri che a Platone e al nuovo compito che egli si è posto.

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Nella battaglia dei discorsi si deve soprattutto far attenzione a Socrate. Platone gli assegna l'ultimo posto al tavolo. «Sarà più difficile per noi che abbiamo l'ultimo posto, ma dobbiamo essere contenti se quelli che ci precedono avranno parlato bene» (177 E). Capiamo allora che egli starà ad ascoltare e che dovremo giudicare attraverso i suoi criteri. Solo Socrate può essere giustificato nella formulazione di un giudizio negativo su quanto sarà detto dagli uomini intelligenti e brillanti che lo precedono. Altrettanto poco, trovandoci dal lato di Socrate, non potremo limitarci ad ammirare acriticamente tutto ciò che egli dirà9. Anticipiamo la trattazione di alcuni brevi interludi nei quali la dimensione dell'esistenza sociale emerge dall'interno di discorsi lunghi, quasi senza tempo. 185 C - E. Aristofane, cui tocca parlare per terzo, non riesce a farlo a causa di un attacco di singhiozzo. Ne nasce al proposito un breve scambio di battute tra lui e il medico, che quindi parla al posto del paziente. E stato fatto notare in precedenza10 quale significato abbia quest'interludio scherzoso rispetto alle finalità ultime del dialogo. 189 A - 189 C. Lo stesso gioco prosegue nell'interludio che ha luogo tra i discorsi dei due personaggi. 193 D - 194 E. Qualcosa di nuovo accade nell'intermezzo che si apre dopo il discorso di Aristofane e che prepara il terreno per il discorso di Agatone (ma anche per quello di Socrate). Socrate rompe il suo silenzio confessando di esser profondamente preoccupato di quello che gli resterà da dire dopo che tutti gli altri avranno parlato (un altro accenno al senso del dialogo). E quando coinvolge Agatone in una discussione sul rapporto tra il «saggio» e la «massa», il poeta non sa come andare avanti e tocca a Fedro, arbitro del certame, a metterlo in guardia sul lasciarsi fuorviare dal potere dialogico di Socrate. Si vede come le forze di Socrate stiano gradualmente mobilitandosi contro quel genere di «discorsi lunghi» che in definitiva non è adatto alla ricerca della «verità» e ci si può chiedere nuovamente, come avevamo fatto in precedenza (175 C e ss.), chi sia, in questa cerchia, il saggio e chi appartenga alla massa.

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Discorso di Fedro. I 1. 178 A - 180 B. Lo abbiamo incontrato nel Protagora tra coloro che ascoltavano Ippia. Dal dialogo omonimo lo sappiamo seguace di Lisia. Il suo discorso elogia l'amore in primo luogo per le sue origini tra la più antica genia degli dei, quindi per i benefici da esso recati all'umanità. Si tratta di uno schema retorico, e il discorso riflette chiaramente opinioni a lui contemporanee (quantunque si appelli a saggi e poeti antichi11) non solo per il fatto che attribuisce all'epoca degli eroi un tipo di Eros maschile a essa pressoché estraneo ma anche perché critica le figure mitiche del grande Eschilo in quanto si adatterebbero meglio al sistema che lui propone. Anche l'appello riformatore «si dovrebbe ...» (178 E 3) che lo porta a immaginare un esercito composto da amanti, si può considerare frutto di tale giovanile irruenza. Ma qual è il significato di questo discorso nel complesso dell'opera di cui è parte? Eros è un «gran Dio», una forza che crea i mondi, affine alle potenze primordiali: questa tesi non muterà in nessuno dei discorsi successivi, fatta eccezione per quello di Agatone, che opporrà all'Eros cosmogonico l'Eros giovinetto, non meno potente e perfetto. Tutte e due le immagini mitologiche sono necessarie per far si che, nel contrasto, la visione di Diotima possa sorprendentemente rivelare, per bocca di Socrate, che «Eros non è un Dio, ma un magnifico demone». In qualità di forza creativa universale, l'amore celebrato da Fedro abbraccia una sfera molto vasta e al tempo stesso ha un effetto profondo sulla vita dell'uomo. Solo l'amore (non la parentela, né la ricchezza) conduce alla vita ottima. Esso è spregio delle turpitudini, tensione verso le cose belle ( è r c ì T O t q KaÀ,oik òvxcoq) pur essendo «veramente» ( ò v t g x ; ) ciò che è. Essa perciò «è» in «qualche modo» (txco^)38. Si ricordi quanto era dispiaciuto a Eutidemo quando Ctesippo aveva definito chi pratica l'inganno come qualcuno le cui affermazioni dicevano l'essere «in qualche modo ma non come esso è veramente» (xpcmov ti va... (hqy' e%ei, Eutidemo, 284 C). Nel Sofista il significato di questo «in qualche modo» si riferisce ovviamente all'«intreccio» ((rup.7tÀ.OKT)) degli opposti (òvtax; o ù k òvtcoc;), ma non è chiaro a questo punto cosa questo intreccio significhi realmente e così, alla fine della sezione assistiamo alla contrapposizione diretta dei fronti. Da un lato il sofista che, supportato da Parmenide39, si aggrappa alla tesi che non v'è alcun inganno; dall'altro la constatazione dell'esistenza del sofista e, conseguentemente, che vi devono essere inganno e parvenza e che l'intreccio di essere e non-essere deve essere «in qualche modo» possibile. Preliminari. 241 C - 242 B. La discussione che segue deve esser diretta contro la tesi di Parmenide. La «potente» tesi non verrà abbattuta del tutto, ma saremo lieti se riusciremo a «tirarla un po' dal nostro lato». In altre parole si tratta di trasformare il concetto parmenideo dell'essere. Ci apprestiamo a muovere contro il Logo di nostro «padre», spiega l'Eleate, per necessità, non certo per mancanza di amore filiale, poiché la dottrina eleatica dell'essere necessita di una modifica dello statuto del non-essere per non concludere nella vuota eristica; intraprendiamo così l'indagine a lungo rimandata. II 1. 242 B - 245 E. La considerazione del non-essere riporta necessariamente all'essere poiché è sensato parlare del non-essere solo parlando dell'essere e viceversa. Cominciamo (àpxri, 242 B 6) discutendo quello che sembra scontato ma che in realtà costituisce una fonte di confusione e in particolare le dottrine dei primi pensatori su ciò che è, sulle forme di essere (xà òvxa), sul loro numero e i loro attributi.

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In verità i filosofi naturalisti ci hanno raccontato favole su tali questioni (242 C 8); dobbiamo tuttavia capire che cosa essi intendevano realmente per «ente» ed «essere» (xò òv, 243 D 3). II la. 243 D - 244 B. E questo il primo resoconto dossografico, ovvero la prima storia della filosofia, che Aristotele proseguirà, mosso anch'egli, come Platone, non da ragioni storiche ma dalla volontà di distinguere le proprie tesi ricollegandole al tempo stesso a quelle dei pensatori precedenti40. Vengono richiamati in prima battuta quei pensatori che avevano postulato due specie di realtà, per esempio il caldo e il freddo, così dice l'Ospite. In altre parole si giudicano le prime teorie speculative (ancora prive di ogni chiaro riferimento concettuale all'essere) sull'arche delle cose alla luce del preciso concetto di essere sviluppato da Parmenide. E l'essere (xò etvai) qualcosa che si aggiunge a quei due enti così da averne tre invece di due? Oppure solo uno dei due o entrambi insieme sono «l'essere», così che di nuovo non abbiamo che un essere? Nei sistemi filosofi precedenti, quando si domanda il significato dell'essere sorgono contraddizioni. Evidentemente l'essere non è qualcosa che vada aggiunto al caldo e al freddo come qualcosa della stessa specie, né tantomeno qualcosa da riservare all'uno o all'altro o designante la somma di entrambi. Nel pensare «l'essere» si ha a che fare con un concetto del tutto diverso, ma quale? «Siamo del tutto paralizzati da queste difficoltà», dice l'Eleate; quelle stesse difficoltà, potremmo aggiungere, che nel nostro tempo costituiscono il punto da cui parte Heidegger «per porre nuovamente la questione del senso dell'essere». II lb. 244 B - 245 E. L'Eleate sottopone a controesame la dottrina parmenidea dell'essere, cioè ne espone le aporie interne. «L'Uno» e l'«essere»: sono questi due differenti nomi per indicare un'unica e identica cosa come affermava Parmenide? Qual è allora il significato di questi due nomi? Ed inoltre: qual è il significato del «nome» in quanto tale per chi postula che c'è soltanto «l'Uno»? Incorriamo in contraddizione sia riguardo il nome sia riguardo l'Uno41. In

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questo modo l'Eleate rivela le difficoltà del sistema del suo maestro. Non si riferiva Parmenide sprezzantemente ai «nomi» con cui i molti designano la (apparente) moltitudine delle cose usando egli stesso dei «nomi» per riferirsi «all'Uno», l'unico essere reale? In altre parole il discorso stesso distrugge l'unità indifferenziata dell'essere che vorrebbe sostenere, in primo luogo perchè è costituito da una pluralità di «nomi» e in secondo luogo perché il parlare è sempre un parlare di «qualcosa». Ma Parmenide aveva parlato dell'Uno anche come di un «intero» (òÀov, Ttav), paragonandolo a una sfera perfetta. Una sfera tuttavia ha un centro e una superficie, vale a dire parti, e il concetto di «intero» è sensato solo se è un intero di qualcosa, cioè ancora una volta di parti. Perciò ciò che può essere diviso o divisibile può essere un intero e quindi «un» uno ma non può essere l'«Uno in quanto tale» o l'«Uno in sé» postulato da Parmenide. Per superare questa difficolta vengono prospettate queste due alternative: o lasciamo l'«intero» come qualcosa di reale fuori dall'Uno, in questo caso l'«essere unico» perde la propria perfezione e nel mancare di qualcosa diviene una specie di non-essere (inoltre l'«intero» al di fuori o accanto all'Uno ci darebbe ancora una volta due specie d'essere); ovvero, seconda alternativa, neghiamo che vi sia qualcosa come l'«intero», distruggendo così non solo l'essere stesso (privandolo della perfezione) ma anche il divenire (poiché tutte le cose nel mondo del divenire tendono a divenire un intero). Si riguardi il Teeteto (203 C e ss.) per comprendere come la distinzione tra la «somma» (raxv), composta di parti differenti e l'«intero» (òXov) che rappresenta una forma (etSo^) unica e indivisibile costituisca lo sfondo di questa discussione. Nel ripensare la dottrina parmenidea dell'essere incontriamo allora queste e «innumerevoli altre» difficoltà; e la dottrina stessa richiede un approfondimento del concetto di essere. Ma non è forse Socrate presente, silenziosamente, a questa discussione? Quello stesso Socrate che in Platone segue la via della conoscenza nel mondo delle forme eterne, descrive il metodo della continua interrogazione da cui ogni

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risposta è mantenuta in vita e onora tutto questo con la propria vita? Non ci conducono queste difficoltà nella direzione in cui Socrate potrebbe vedere una soluzione? Nell'unica unità reale Parmenide aveva inteso superare la «pluralità» delle cose (ovvero, in termini concreti, la variegata abbondanza della vita), da lui ritenuta una parvenza prodotta dal linguaggio. Ma egli poteva raggiungere questo scopo solo tramite un linguaggio che ribadiva la pluralità e contribuiva a produrla e che ora non può essere confutato poiché la confutazione è possibile solo attraverso di esso. Ora, è precisamente nel regno dei discorsi (év kóyoic,) che Socrate, come viene detto esplicitamente nel Fedone (99 E), scopre la via che conduce alla conoscenza dell'essere. Inoltre la dialettica del Parmenide mostra chiaramente che l'unità e la diversità non si escludono bensì necessitano l'una dell'altra, e questo tema di fondo può essere rintracciato in tutti i dialoghi a partire dal Protagora. Il Teeteto (204 A e ss.) infine stabilisce che «l'interezza» è un attributo necessario di ogni forma. In tal modo tutte le linee che qui nel Sofista non vengono sviluppate riportano ali 'eidos. II 2. 245 E - 250 E. L'indagine diventa ancora più radicale42. Sul primo livello le difficoltà sorte in merito al concetto di essere erano state discusse nel contesto dell'opposizione tra i primi filosofi della natura e il fondatore dell'ontologia. Sul secondo livello si ingaggerà una «gigantomachia» tra coloro i quali attribuiscono l'«essere» solo a ciò che è fisico e tangibile, disprezzando qualsiasi altra cosa da un lato e coloro i quali attribuiscono il vero essere alle forme intellegibili e incorporee dall'altro43. Nel Teeteto (155 E) ai «non iniziati» che credono sia reale solo ciò che «possono afferrare con le mani» si contrappongono i sostenitori della tesi per cui tutto è in perenne movimento (una tesi con cui secondo Platone ci si doveva confrontare). Lì i non iniziati sembravano servire solo a dar risalto ai fondamenti concettuali della dottrina del flusso, nonostante questa venisse combattuta. Ora la contrapposizione è concepita in modo più radicale. Da una lato vi è una concezione del mondo che per lo meno somiglia alla «teoria delle idee» di Platone (esposta nei dialoghi prece-

1000 [III 245-246]

PLATONE

denti) a tal punto da non poterne essere praticamente distinta44, dall'altro non c'è una dottrina filosofica45 (non all'inizio almeno e forse nient'affatto) quanto piuttosto una sorta di comprensione ingenua della realtà, secondo la quale soltanto ciò che è tangibile e concreto è reale. Questa concezione è ingenua al punto che chi la sottoscrive non vuole udire altro. Visti dalla prospettiva degli «amici delle forme» i corpi (e cioè le uniche cose che l'atteggiamento ingenuo considera reali) si dissolvono in un processo di continuo divenire (yéveaic, (pepo|j.évr|). Sembra tuttavia che le due tesi opposte abbiano, paradossalmente, un punto in comune. Non mostrano forse la stessa rigidità, la rigidità dei corpi che si scontrano con altri corpi da un lato e quella dell'intelletto fissato sugli oggetti intellegibili come unica fonte di realtà dall'altro, con il risultato che, nel primo caso, non è possibile concepire alcuna realtà intellegibile e nel secondo si deve riconoscere che tutta la realtà corporea è polverizzata (kcctòc ojxiKpà SiaBporóovceq, 246 C i ) ? Platone vuole esaminare le due tesi diametralmente opposte e vicine a un tempo rispetto al loro grado di comprensione dell'essere. La battaglia è di proporzioni gigantesche. Non si tratta della disputa tra due dottrine filosofiche ma di una lotta che è sempre esistita, una sorta di «guerra senza tempo» (246 C 3). II 2a. 246 C - 248 A. Non si otterrà eguale comprensione da entrambe le parti. Infatti ciò è impossibile per quanto riguarda quelli che «riducono al corpo ogni cosa» (246 C 9). Essi non possono dirsi pensatori46 poiché se usassero il logos dovrebbero riconoscere che esiste qualcosa di incorporeo. Dobbiamo quindi aiutarli a comunicare con noi. La cosa migliore sarebbe quella di correggerli nei fatti. Se questo non è possibile dobbiamo correggerli con le parole e i discorsi, vale a dire prestando loro i nostri (246 D; 247 C). Questo è della massima importanza, poiché mostra un'altra dimensione nascosta dietro l'indagine ontologica, la dimensione della condotta pratica, dell'obbligo morale, della vita e dell'«esistenza». Nella conversazione che segue Teeteto incarna una concezione grossolana della realtà, posta su di un livello in cui è

SOFISTA

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1001

in grado di essere discussa. I veri «autoctoni e figli della terra» (247 C) - coloro nei quali cioè questa concezione della realtà trova la sua espressione più cruda e irriducibile - non conoscono vergogna, così che ancora una volta un aspetto morale si combina con l'investigazione ontologica in quella che è più di una caratteristica formale del discorso. Essi sostengono con forza che tutto ciò che non si può stringere con le mani non «è». Ma se li correggiamo prestando loro le nostre parole sono costretti ad ammettere che non esistono solo i corpi; vi sono anche corpi animati; «c'è» quindi qualcosa come l'anima. Le anime inoltre possono essere giuste o ingiuste, sagge o stolte; quindi la giustizia, la saggezza e i loro opposti «ci sono». Siamo giusti nella misura in cui possediamo la giustizia, ovvero nella misura in cui la giustizia e presente nell'anima o aggiunta a essa. Di conseguenza, ciò che «è» deve significare ciò che è «capace (Suvaxóv), che può essere presente in, o «separarsi da» una cosa. Con il concetto di anima e ancor di più con quello di giustizia abbiamo abbandonato il regno del tangibile. Esiste una specie d'essere, o realtà, che è comune (croiicpuèi; yeyovóv). Ma cosa s'intende qui per «comunanza» ( k o i v c o v ì c O ? Questa è la questione cruciale che l'Eleate oppone agli amici delle Forme. Egli è disposto ad accettare il risultato della discussione con i materialisti interpretando questa «comunanza» come la capacità (Stivami) di agire e patire. Gli amici delle forme tuttavia vorrebbero restringere questa capacità al mondo del divenire non applicandola al mondo dell'essere, da quello nettamente separato, poiché ciò contraddirebbe la loro concezione dell'essere. Ma l'Eleate mostra che questa separazione è una sorta di rigidità, anch'essa eleatica, che gli amici delle forme non possono giustificare e che inoltre essa non è compatibile con il fenomeno della «comunanza». Se la percezione è una «comunanza», lo è anche il pensiero. Il pensiero e la conoscenza sono azioni; l'esser conosciuto è un patire (esperire) e quindi una specie di «essere mosso» (248 E). Passo dopo passo, sistematicamente, la rigidità di questo concetto di «essere» viene superata. Si deve pensare al mito del Fedro (250 C) in cui si legge dei «prototipi che sono completi, semplici, immutabili e divinamente perfetti»48 per avvertire la tensione ironica qui espressa quando l'Eleate domanda se «l'essere perfetto» (xò jtavxeA.©xcouoyio(i(òv 7tpoaKEÌ|i£vo|aev àei, kccA.óv xé tv Kaì àyaGòv Kaì n a a a ti ToicrittTi ovaia, 76 D. eljn náXiv èn' èiceiva xà jtoX.t)0púX.r|xa, 100 B. II V. cap. III

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12 Cfr. O. Apelt, «Die Taktik des platonischen Sokrates», in Platonische Aufsätze, Leipzig 1912, p. 105 e ss.; cfr. a proposito dell'ironia anche l'articolo di Apelt sull'humour di Platone, ibidem, p. 72 e ss. Anche H. Höffding, Humor als Lehensgefühl, Leipzig 1918, parla di humour in Platone e così E. Bethe, Die griechische Dichtung, Postdam 1929, p. 258. Ma lo humour presuppone un concetto del tutto diverso della personalità. A questo accennano le ultime proposizioni in Kierkegaard, Om Begrebet Ironi, cit. Inoltre R. Bultmann, Glauben und Verstehen, Tübingen 1933-52, II, p. 208 e ss., sull'humour come «secolarizzazione del senso cristiano del dolore». Cfr. Thomas Mann, Nachlese, cit., p. 166 e ss. 13 Su Diotima vedi W. Kranz, Diotima, «Antike» II (1926), pp. 31332, e Diotima von Mantineia, «Hermes» LXI (1926), pp. 437-44. G. Krüger, Einsicht und Leidenschaft, cit., p. 142 e ss.: «Diotima è incomparabilmente più di Socrate, come certamente la sapienza mistica è più che la domanda indipendente verso di essa». Tuttavia non è da dimenticare che Platone ci presenta Diotima solo attraverso il discorso ironico di Socrate. Kranz crede alla storicità di Diotima e il differimento della peste (Simposio, 201 D) suona in effetti come un dato storico (Krüger). Ma anche così «la reale figura della sacerdotessa è senza importanza per l'opera» (Kranz). Su Diotima vedi anche L. Robin, Le Banquet (Platon, coli. Budé, IV, 1949), p. XXII e ss. Il rilievo di una sacerdotessa attica, risalente circa al 420 a.C., in G. Fougères, Stèle de Mantinée, «BCH» XII (1888), p. 376, è stato identificato come Diotima da H. Moebius, Diotima, «JDAI» XLIX (1934), p. 58, e da K. Schefold, Die Bildnisse der antiken Dichter, cit., p. 66. Degno di nota anche se fantasioso è R. Godei, Socrate et Diotime, «Bulletin de 1'Association Guillaume Budé» XIII (1954), p. 3 e ss. 14

II Filebo è pieno di questi spostamenti ironici di peso. V. vol. III, cap. 28. 15 Wilamowitz, Platon, cit. I, p. 554 ricostruisce il presunto contenuto del Filosofo. E. Salin, Platon und die griechische Utopie, München 1921, p. 57, interpreta il fatto che Platone non scrisse il Filosofo come prova che l'essenziale era già stato da lui detto. Quanto al Filosofo «abbandonato» per il Timeo-, W. Theiler, in «MusHelv» IX (1952), p. 66, nota 7. Cfr. le mie osservazioni in Plato III. Vedi, infine, le ingegnose (talvolta troppo ingegnose) osservazioni sul Filosofo in Krämer, Are te bei Platon und Aristoteles, Heidelberg 1959, pp. 247 e ss., p. 316 e sss. Krämer non ha preso in considerazione la mia tesi della «ironia senza parole». La recente letteratura sul Filosofo è elencata dal Cherniss in «Lustrum» IV (1959), p. 146.

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NOTE

V i l i . IL DIALOGO 1 H. Grimm, Goethe'8, 1894, p. 322: «Gli antichi conoscevano il paesaggio solo come sfondo delle azioni umane: il concetto della solitudine in sé a loro mancava». G. Simmel, Rembrandt, Leipzig 1919, p. 77: «Gli elementi nei classici sono formati come se dovessero suscitare in un osservatore tipico un'impressione favorevole quanto a caratteristiche, bellezza, chiarezza... Un tratto generalissimo dei popoli del Mediterraneo consiste nel regolare il loro comportamento alla presenza di un osservatore». Vedi anche H. Schmalenbach, Zur Genealogie der Einsamkeit, «Logos» V i l i (1920), pp. 62-96 e il suo Leibniz, München 1921, p. 152 e ss. Per Sofocle cfr. il mio saggio Die griechische Tragödie und das Tragische, «Antike» I (1925), p. 303; II (1926), p. 94. 2

Fedone, 73 A. Cfr. il mio Der Grosse Alkibiades,

cit. II, p. 29.

Cfr. W. Kranz, Das Verhältnis des Schöpfers zu seinem Werk in der althellenischen Literatur, «Neue Jahrbücher für das klassische Altertum», 1924, p. 65 e ss. 3

4 Cfr. in generale R. Hirzel, Der Dialog, Leipzig 1895; K. Joel, Geschichte der antiken Philosophie, Tübingen 1921, p. 773 e ss., e il cap. «Dialog» in U. von Wilamowitz-Möllendorff, Platon, cit., II; e H.-G. Gadamer, Piatos dialektische Ethik, Leipzig 1931, cap. I § 5: «Der somatische Dialog». 5 Per quanto segue cfr. K. Justi, Die ästhetischen Elemente der platonischen Philosophie, Marburg 1860, p. 9 e ss. 6 Carmide, 154 DE; Alcibiade I, 132 A; Teetelo, 169 AB. Il mito del Gorgia (523 C e ss.) contiene un perfezionamento dello stesso motivo. 7 Si pensi all'uso metaforico di luce e tenebre in Platone, ad es. Fedro, 261 E: EI? (pwq ötyeiv; Leggi, 663 B: xò CKÓTOq àtpeXóv; 788 C: (pax; CKÓToq; poi alla Lettera VII, 341 D: èi;anò x&\ tfiq yfjq ini/riXotépcov (lEpcòv aK£7tó|ievov. 1 5 Cfr. ora anche J.O. Thomson, History of Ancient geography, cit. p. 114: «Il bacino è in realtà il vecchio disco concavo, posto però sulla superficie di un enorme globo». Cfr. A. Lesky, Thalatta, 1947, p. 79; E. Frank, op. cit., pp. 25 e 189, suppponeva che si fosse giunti alla teoria della sfericità della terra in seguito a un passaggio dalla forma concava alla convessa.

Che l'escatologia abbia una parte preponderante, è indiscutibile. Ma è forse questa una buona ragione per trascurare (come fanno A. Rehm in Gercke-Norden, op. cit. II, p. 12, H.W. Thomas, Epekeina, cit., p. 83 e ss., e R.St.H. Bluck, Plato's Phaedo, London 1955, p. 200) i presupposti geofisici del mito, in quanto Platone stesso non avrebbe «attribuito loro importanza»? Ecco in breve i nostri argomenti in contrario: 1) La rappresentazione geografica del Fedone ha alcuni tratti che non hanno nulla a che vedere con la sovrastruttura mitica, mentre sono importanti dal punto di vista geofisico. 2) Come il mito del Fedone ha il suo fondamento in un sistema geofisico, così quello della Repubblica si basa su una concezione cosmologica. La cosmologia ha subito, per potersi adattare al mito, alcuni mutamenti, ma non ha tratto dal mito la sua origine. 3) Il mito dell'Atlantide ha il suo presupposto in una determinata concezione geografica, e cosi pure il mito del Fedone. Le due concezioni geograficamente sono affini tra di loro; quella del Timeo è posteriore non solo cronologicamente, ma anche dal punto di vista dell'evoluzione delle idee scientifiche, come dimostreremo nella sezione III del presente capitolo. Di questi tre argomenti, il secondo e il terzo non sono stati nemmeno presi in considerazione dal Rehm e dal Thomas. A favore del valore autonomo della concezione geofisica del Fedone si potrebbe citare Aristotele, che la discute molto a lungo e da un punto di vista puramente scientifico (Meteorologia, II 2, 355 b 32). Col Rehm e col Thomas concorda, ad esempio, anche il Frutiger, Les Mythes de Platon, cit. p. 61 e ss. 16

Come Proclo (In Platonis Timaeum 1180) trascura questa differenza, così ancora H. Berger, Die Grundlagen des marinisch-ptolemàischen Erdbildes, «BerLeipz» 1898, p. 91 e ss., e E. Gegenschatz, Platons Atlan17

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tis, Zürich 1943, p. 48 e ss., accozzano insieme elementi contrastanti delle due concezioni. La sfera terrestre del Timeo non ha K o î X a . Sulla rappresentazione geografica del mito dell'Atlantide cfr. J. Bidez, Eos, ou Platon et l'Orient, cit., appendice II; J.O. Thomson, op. cit., p. 90 e ss. 1 8 Cfr. T.H. Martin, Études sur le limée, Paris 1841,1, p. 312; H. Berger, Grundlagen, cit., p. 98. Appartiene a quest'ordine d'idee anche il territorio esterno che circonda l'Oceano nella carta di Cosma Indicopleuste; cfr. The Christian Topography of Cosmas Indicopleustes, a cura di E.O. Winstedt, London 1909, p. 26 e tav. VII. 1 9 Tutt'altro che attendibile l'osservazione del Berger (Grundlagen, cit., p. 104), secondo cui il «vero continente» sarebbe un concetto «assolutamente mitico». Per uno strano errore, poi, egli considera il «vero continente» come un precorrimento della concezione geografica di Marino e Tolomeo, nella quale l'Oceano Indiano è un mare chiuso e l'Asia orientale è unita all'Africa orientale. 2 0 F. Jacoby, Fragmente der griechischen Historiker, cit. II, B, n. 115, frag. 75. Cfr. E. Rohde, Der griechische Roman und seine Vorläufer, Leipzig 1900, p. 219. 2 1 Risale a Platone anche ciò che Plutarco, De facie in orbe lunae, cap. 26, dice del «vero continente». Lo stesso si dica di MàpKeAAoç èv x o î ç AiGvojciKOÎç citato da Proclo, In Piatonis Timaeum, I 177. Le derivazioni moderne dal mito platonico dell'Atlantide sono innumerevoli. Il famoso astronomo e politico francese Jean Sylvain Bailly ha scritto le Lettres sur l'Atlantide de Platon et sur l'ancienne histoire de l'Asie addressées à Ai. de Voltaire, Londra-Parigi, 1779. Il lavoro più recente su questo argomento è quello di H. Herter in «RhM XCII (1944), p. 236 e ss. Un'ulteriore indagine andrebbe dedicata a fonti del tipo di quelle citate da P. Benoît nel suo romanzo L'Atlantide: «il viaggio all'Atlantide del mitografo Dionigi di Mileto» e «l'affascinante storia della Gorgona secondo Prode di Cartagine, citato da Pausania». 2 2 Di un sostenitore di questa tesi possiamo precisare il nome e l'epoca: Athinagoras Arimnisti inquit unum esse mare quod rubrum et quod extra Eracleas columpnas (Aristoteles, Ilepì xfjç xoú NeíXov) avaßaaecoq, in Aristotelis Fragmenta, ed. Rose, Leipzig 1886, p. 194). Atenagora espose questa teoria ad Artaserse Oco tra il 357 e il 349 a.C. Cfr. J.M. Partsch, Ueber das Steigen des Nils, «AbhLeipz» 1909, 572 (22), p.7. 2 3 Nella figura sono state tracciate le coste anche al di fuori della zona temperata, quantunque, secondo l'opinione degli antichi, la loro conoscenza diretta sia preclusa a ogni essere umano. 2 4 Un passo di Strabone (I 56) presenta, benché in un contesto completamente diverso, lo stesso problema di interpretazione letterale: xò 5fi "xevayiÇeiv xòv Xexôévta xónov awámovm xw xfjç 'EpuGpâç kó^jccù" avcpißoXöv ècmv, èrceiòri xó auvárcxeiv aTip.ai.vei Kai xò ouveyYÎÇeiv Kai xò \|/aí>£iv. Cfr. F. Sorof, De Aristotelis geographia, Halle 1886, p. 8.

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NOTE

25 Simplicio, (Simplicii in Aristotelis Physicorum libros commentarla, a cura di H. Diels, Berlin 1882-95, p. 548) osserva a questo proposito: ox> yàp ó(ioiÓTt|xa ttòv xóncov èjtiSei^ai PotiXexat róq oijxai 8 i à xoùytov àXXà yeixviaoiv. Ma vicinanza non vuol dire necessariamente continuità territoriale. E significativo il giudizio di A. von Humboldt, Kritische Untersuchungen iiber die historische Entwicklung der geographischen Kenntnisse von der Neuen Welt, Berlin 1836, I, p. 120: «L'acuta argomentazione che Aristotele trae dalla presenza di elefanti sulle rive opposte dell'Africa e dell'India si basa sulla piccola distanza tra le due masse di terra emersa, in quanto si presuppone che alle due estremità dell'ecumene si debbano trovare le stesse piante e animali». Non è lecito, dunque, servirsi, dell'argomento degli elefanti per indurne una continuità territoriale. Cfr. E.H. Berger, Erdkunde, cit., p. 318; O.J. Thomson, op. cit., p. 119. 26

Anche se si s'intende l'espressione «Mar Rosso» in senso più ampio (come recentemente il Partsch, op. cit., p. 569), le nostre conclusioni rimangono valide. 27

Berger, op. cit., pp. 305 e 320.

28

E.H. Berger, op. cit. sostiene che la teoria di Cratete degli oceani circolari che si intersecano si trova già in germe nel Fedone. Questa tesi è dovuta a fraintendimenti di espressione e di contenuto. 29

E G . G . Sorof, De Aristotelis geographia, cit., p. 14; E.H. Berger, Erdkunde, cit. p. 321; P. Bolchert, Aristoteles' Geschichte der Erdkunde von Asien undhybien, Leipzig 1908, p. 44. 30 Con l'espressione f] è^co QàXaxxa Aristotele si riferisce sia al mare orientale che all'occidentale. Meteorologia, I 13, 350 b 13: Xpe(xétr|q ... eiq xòv e^co pei tìàXaxxav. 362 b 28: xà 8è xfy; 'IvSucfji; è^to Kaì xcov v (ictKapicov -te Kai KaXwv |ia9r|}j.àTO>v - ènei eßo\)X0|i.T|v äv. (Vorrei - con le dovute riserve - considerare quest'estensione del motivo come un indice del fatto che l'Apologia è posteriore al Teagete. 7

8

Pavlu, op. cit., p. 24, ritiene che l'autore del Teagete stia fraintendendo il Teeteto. Ma egli sostiene questa tesi rendendo grossolano il Teagete. In realtà i due dialoghi stanno in armonia l'uno con l'altro. Solo che nel Teagete ÉJtiSooiq indica quello che nel Teeteto è indicato da jxaöeiv f| 7ieiceiv. 9 Queste parole fanno pensare a Simposio 175 C. Agatone parla molto scherzando e prendendo le distanze, e Socrate prosegue su questo tono. Cfr. anche D. Tarrant, The Touch ofSocrates, «CQ» Vili (1958), p. 95 e ss. 10 Cfr. R. Boehringer, Mein Bild von Stefan George (MünchenDüsseldorf, 1951), p. 147. 11 Cfr. ad es. Stallbaum, Comm. p. 222: «Socratem vatidicae anus partes agere» e Bruns, p. 346, che parla di un «autentico oracolo privato» («...questo oracolo privato che può essere consultato anche dai suoi amici», Shorey p. 430, del tutto errato). Ma il senso di tutte queste storie non viene colto, e quando Bruns finalmente parla di un «certo Aristide» sembra avere completamente dimenticato il Lachete e il Teeteto. La dissertazione di Willing, De Socratis Daemonio («Comm. Jenenses Vili),

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ribatte sullo stesso punto (quae deliratio!). Per Schleiermacher (IL/3, p. 508), col quale concorda Cousin (V, p. 425), f) cpcovft i) xoi) 8a|xoviou (128 E 5) è dimostrata come spuria, perché in questo punto tò 8aip.óviov è riferito a una persona. Ma si cercherà invano nel discorso di difesa da qualunque altra parte ... qualcosa di simile». Schleiermacher deve avere dimenticato che la sentenza di Apologia, 40 A 4, fj yàp eitoGuià )xoi (tavx i k t ] [fi to\) 5ai|ioviou], si basa sulla sua stessa confutazione. «La lunga e vanagloriosa discussione del dono divino»: Hermann, p. 430. Analogamente Jaspers, p. 125. 12

J. Kirchner, Prosopographia Attica I (Berlin, 1901), coli. 6536, 3584. Una annotazione su JtoAAoiq 8è ouveivai p.èv oi> 8uxkcoXÌ)ei (129 E 6) poiché Pavlu (op. cit. [XI 4 ], p. 22) ha ritenuto le parole insensate a partire da Teefeto, 151 A 3: èvtou; [lèv tò yvyvó|ievóv p.oi 8at(xóviov àiioKto^.'uei ouveivai. Ma non è corretto aspettarsi il noXXovc, nel Teagete. L'oggetto presupposto è ovviamente jie. La differenza per cui nel Teagete il Daimonion decide sul primo incontro e nel Teeteto su una rinnovata accettazione del suo allievo disilluso, non può in alcun caso essere interpretata, con Schleiermacher II 3, p. 254, per indicare che l'autore del Teagete fraintendesse il Teeteto. Non c'è alcuna ragione perché entrambi i dialoghi non debbano essere nel giusto, e l'Alcibiade sta a testimoniare (a prescindere da ogni considerazione sulla sua paternità) che in questo caso non si deve immaginare alcun singolo fraintendimento da parte dell'autore del Teagete. Nell'occasione, nel Teagete la «forza del demonico» viene detta «assistere» (129 E 7); cfr. voi. I. Certamente si tratta di una sfumatura che altrove Platone tende a evitare. In forza di ciò, questa deviazione viene usata come un argomento contro la autenticità del Teagete; cfr. G. Kriiger, DerDialog Theages (Grefswald diss., 1935), p. 19 e ss. Posto che il Teagete sia un'opera giovanile di Platone, se ne deduce che Platone avrebbe in seguito evitato questa sfumatura. Cfr. Grote I, p. 440. 13

14 La questione delle ripetizioni in Platone - che affatica in modo particolare il dibattito sull'autenticità del Teagete - è stata affrontata da W. Eberhardt nelle sua dissertazione di Lipsia De iteratis apud Platonem, 1923, inedita. 15 Così dice Wilamowitz, II, p. 324. La sua conclusione per cui già gli antichi avevano respinto l'autenticità del Teagete è una conclusione e silentio. Ma anche così è errata. Plutarco e Albino, almeno, utilizzavano il Teagete. Plutarco, De genio Socratis, cap. 10 - jcp07t08r|YÒv è E, à p x f ì g t i va - molto probabilmente aveva davanti Teagete, 128 D: 7tapeJtó|xevov èie JtaiSòq àp^ó|xevov. Allo stesso modo il Nicia, 13, 9 di Plutarco si rifà a Teagete, 129 CD: la premonizione di Socrate della catastrofe siciliana (ha ragione G. Soury, La Demonologie de Plutarque [Paris 1942], pp. 118, 122). Albino (Eisagoge, cap. IV) riferisce, senza la minima remora critica, che «alcuni» cominciano a legegre Platone dal Teagete. Cfr. Diogene Laerzio, III 62.

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NOTE

16 Souilhé (Platon Bude XIII/2, p. 142) vorrebbe spostare la datazione del dialogo al secondo o terzo secolo, poiché Teagete ha il desiderio di «diventare un Dio». Non si misconosce completamente, in questo modo, l'ingenuità giovanile dell'aspirazione? E che ne è dello stile dell'intero dialogo? Gauss (1/2, p. 209), chiama il dialogo «una misera abborracciatura» e le storie del daimonion «del tutto fuorviami». Quando obbietta che «l'assicurazione del Daimonion si possa ottenere con sacrifici e preghiere» egli si dimentica che in questo caso (131 A) sta parlando il «giovinetto» Teagete. Kriiger, op. cit., punta giustamente sul fatto che nella discussione sulla tirannia alcune cose «sono progettate per un giovane». 131 A 6: eùxatoi te m i Guaiaiq. Quest'unico iota (eidetici) rivela l'inautenticità: C. Ritter, Neue Untersuchungen, p. 94. In verità occorrerebbe ascoltare il metro dattilico: il giovane mette in pratica ciò che ha imparato. L'unica critica recente che riconosce il valore del Teagete e crede alla sua origine platonica è quella di H. Gomperz, op. cit. p. 30 e ss. Su Teagete, 130 B e ss. Gomperz sottolinea che «.. .it is hardly possible to depict in a simpler and more convincing manner what today we might style the charm and the speli of a great and inspiring personality».

1 2 . APOLOGIA DI SOCRATE

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E. Horneffer, Der junge Vlaton I, Giessen 1922. J. Morr, Die Entstehung der platonischen Apologie, Reichenberg 1929. E. Wolff, Piatons Apologie (Neue Philolog. Untersuch. VI), Berlin 1929 (sulla quale cfr. H.-G. Gadamer, «GGA» 1931, p. 193 e ss.) Hildebrandt, p. 57 e ss. Coulter, The Tragic Structure of Plato's Apology, «Philol. Quart.» 12,1993, p. 137 e ss. R. Hackforth, The Composition of Plato's Apology, Cambridge University Press, 1933 (sul quale cfr. «JHS» 54, 1934, p. 225). E. Turolla, Una prima crisi spirituale di Platone riflessa nell'Apologia, Atene e Roma 5, 1937, p. 102 e ss. R. Guardini, Der Tod des Sokrates, Berlin-Bern 1945, p. 67 e ss. H. Schmalenbach, Macht und Recht: Piatons Absage an die Politik, Natur und Geist, Zürich 1946, p. 183 e ss. I. Düring, Socrates' Valedictory Words to his Judges, «Eranos» 44, 1946, p. 90 e ss.

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PLATONE

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1 Apprezziamo notevolmente il lavoro formativo di Platone anche in quest'opera come sono stati propensi a fare Burnet e Taylor. Nel contempo è evidente che non bisogna ascrivere a Platone alcuna «falsificazione di fatti fondamentali» (Taylor, p. 156). W.A. Oldfather, Socrates in Court, «CW» XXXI, 1937/38, p. 203 e ss., evoca con ampio sguardo e un forte senso della realtà la «confusione («hugger-mugger») del processo. 2 Per una bibliografia sull'autenticità dell'Apologia di Senofonte cfr. Shorey, p. 462. 3 H. Gomperz, Sokrates' Haltung vor seinen Richtern, «Wien. Stud.» 54, 1936, p. 32 e ss.; Oldfather, op. cit.\ A.D. Winspear, Who was Socrates? New York 1939, p. 72 e ss. 4 Arnim, Xenophons Memorabilien und die Apologie des Sokrates (Det kongelige Danske Videnskabernes Selsjab, Copenhagen 1923), P. 68, si oppone giustamente all'opinione diffusa (Zeller II/l, p. 529 n. 2; Ueberweg-Praechter, p. 218; Ritter I, p. 368, ecc.) secondo la quale l'Apologia sarebbe stata scritta subito dopo il 399 a.C. Diès, p. 291, la data attorno al 396; Arnim dice al massimo intorno al 392. La nostra collocazione è da intendersi più tipologica che cronologica. Rimane incerto quanto si possano trarre conclusioni relative alla cronologia 1) dai rapporti interni al gruppo dei dialoghi aporetici (il problema dell'unità delle virtù); 2) in particolare dalla relazione con l'Eutifrone, che di questo gruppo è uno degli scritti più tardi (il problema dell'ooiov sullo sfondo del processo); e 3) dalla stretta relazione tra l'Alcibiade maggiore, il Gorgia e il Critone, dialogo, quest'ultimo, difficilmente scindibile dall'Apologia. Le occorrenze verbali in questo caso non aiutano. Ma occorre comunque mettere in questione la communis opinio. E. Wolff, Platos Apologie, in «Neue phil. Unters.» VI (1929), p. 85, vede nél'Apologia «la prima opera scritta da Platone». Così fanno anche Geffcken, p. 40 e ss. e Gauss, 1/2. Ma di ciò non c'è dimostrazione.

NOTE

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5 Di contro cfr. ad es. M. Schanz, Sammlung ausgewählter Dialoge (Leipzig 1893), II, p. 101: scopo Ádi' Apologia è «giustificare il maestro agli occhi dei discepoli». Socher, p. 70, parla di «un elogio di Socrate indirizzato a tutta l'Eliade, alla posterità». Socher si richiama allo PseudoDionigi, Tecbne, Vili 8, dove l'Apologia è citata come avjiJtXoKti di difesa, attacco, panegirico e al suo sommo cpiAóaocpoq Gecapia. èvop.i.aq Gé|xevov) è un richiamo al Cratilo. Un altro, molto significativo, in 83 C. 13 La discussione se con ei8oq ci si voglia riferire alla dottrina delle idee deriva dalla concezione dottrinaria dell 'idea che stiamo cercando con ogni mezzo di superare. Cfr. Freymann, p. 119 e ss. 14

396 D; 399 A; 400 A; 407 D; 409 D; 428 C.

15

400 D: Ttepì Getòv oi>8èv io|j.ev oì3te Jtepì a m f i v o ì n e Ttepi xcòv òvo|xàxcov a i t a Jtoxè éamoiji; KaXoOcnv. Cfr. Protagora, framm. 4: 7tepì |ièv Gecòv o ù k Éxco ei5évai OÌ30' dx; eiaìv ou9' tbq o ù k eìaìv oì30' órcoToi xiveq i8éav. 16

Secondo Diimmler, Akademika, p. 129 e ss., tutta questa sezione è una polemica, da parte di Platone, contro una teoria monoteistica, panteistica e materialista che egli associa ad Antistene. E vero che Platone deve essersi imbattuto in un gran numero di queste etimologie, più o meno rischiose, e di concetti filosofici che teneva particolarmente in dispregio perché legati a esse. Ma questa tesi sottovaluta la capacità di Platone di farsi dei nemici al di fuori dei diversi orientamenti. La fragilità della tesi di Diimmler può essere rilevata solo prendendo in esame il Cratilo. Per Hestia (401 C) e Pan (408 B e ss.) Diimmler vorrebbe assumere che Platone ne avesse soppresso l'interpretazione etimologizzante (il riferimento al «tutto» in Pan). A parte il fatto che ciò non può essere dimostrato, non si capisce come tale soppressione dovrebbe far uscire dalla polemica. Inoltre Diimmler ha frainteso l'etimologia di Poseidone (402 E). Qui non si deve espungere òvo(xàoa jtàvxa [av] oTq Sei... 26 E. Hofmann, op. cit., p. 25, ritiene che qui si trovi una teoria spuria che può essere ricondotta a Democrito «dal momento che questa concezione poggia sull'assunto di una materia strutturata atomicamente». Non è tuttavia un problema di materia o atomi, ma di strutture generali dell'essere. Allo stesso modo, non si può concordare con quanto Hoffman dice dopo (p. 54 e ss.) su questa «teoria» e sulla sua «scomparsa». Cfr. Haag, op. cit., p. 47 e ss., 59 e ss.; Goldschmidt, op. cit., p. 150. 27 Schleiermacher (II/2, p. 9 e ss.) ha già parlato enfaticamente di sistema, anche se solo per accenni. Cfr. anche Shorey, Unity, p. 51; Apelt, Einleitung zur Uebersetzung, p. 25 e ss., sebbene in verità, non si possa accogliere la discussione di questi sul «misticismo logico» di Platone. Forse in questo contesto dovrebbe essere considerato anche il passo sul x é | x v e i v K a x à xf)v (pùaiv (Cratilo, 387 A). Qui x é j t v e i v riceve una sfumatura dal campo medico, per il Kàeiv che segue, mentre deve essere inteso innanzitutto in senso generale. Esso concorda allora con 5 i a x é j i v e i v Kax' àpGpa f) JtéiXriPe (12 A 9; 28 B 4). Per quanto posso vedere, npcÒTapxe senza co è usato da Socrate solo un'altra volta in 21 A 8. C'è forse in origine un co dietro al ov o al aoi in questo punto del manoscritto? Nessun giovane avrebbe omesso l'co prima di ZcÓKpaxet;. 11 Wilamowitz, I, p. 622 = I 2 , p. 629, osserva che «il nome non ricorre in Atene» (è così ancora oggi, si potrebbe aggiungere). Il nome non sembra nemmeno comparire fuori da Atene (verificato in un colloquio con B.D. Merritt). L'autore del racconto dell'asino, la cui tradizione Apuleio e Luciano (o lo pseudo-Luciano) seguiranno, chiama «Filebo» la sua caricatura di sacerdote di Cibele. E davvero improbabile che nello scegliere questo nome egli non abbia pensato a Platone, a prescindere da quanto il suo «amante dei giovani» possa essere stato diverso da quest'ultimo. G. Rudberg, Zur Personenzeichnung Platons, in «Symbolae Osloenses», VI, 1928, p. 29, commenta: «A prima vista la scena è più vivida che non nei dialoghi precedenti [...] ma il tutto è solo all'apparenza così». Non mi è del tutto chiaro. Cfr. l'edizione di Hackforth, p. 6 e de Vries, p. 168. 12 Le note che seguono nel testo sono dirette contro Wilamowitz I, p. 621 = I 2 , p. 628, con il quale concorda Philippson, Lustlehre, cit., p. 462. Cfr. anche Stenzel, Studien, p. 155, che considera Socrate, pur privo delle sue caratteristiche individuali, come il moderatore della discussione.

In Demosthenem, cap. 23, in Dionysii Halicarnasei Opuscula, a cura di H. Usener e L. Radermacher, V / l , Leipzig 1899, p. 178, 11, 21 e ss.; cfr. Shorey, Unity, cit., p. 63. Wilamowitz, I, p. 622, nota 3 = I 2 , p. 629, nota 3, cerca di screditare l'opinione di Dionigi. Tuttavia faremmo meglio ad apprendere da essa. Dionigi sembra conoscere particolarmente bene il Simposio, il Fedro e il Filebo, cioè bene per le sue finalità di critica stilistica. 14

H.-G. Gadamer, Ethik, cit., p. 83. La traduzione di Diès, «Philèbe est défaillant» non coglie la corretta sfumatura di 11 C 8. «La sordità mentale di Filebo» di Stefanini, p. 226, è forse un espressione troppo forte. In ogni caso si deve ricordare che il proverbio in realtà recita: nf| Kiveiv k c c k ò v e i ) Kei(ievov. Cfr. lo scolio a questo passo. 15

Gomperz II, p. 465: «L'assegnare a Filebo una parte più attiva nel dialogo avrebbe impresso sul suo personaggio il carattere di un vero e proprio conflitto di opinioni, rispetto al quale all'autore mancava l'inclinazione più che la forza». Una tesi più accurata si trova in Susemihl, II, 2. Singer, p. 234, caratterizza Filebo come «un libertino effemminato che non si dimostra nemmeno in grado, per capacità e attenzione, di difendere la sua stessa dottrina». Questa visione è troppo psicologistica e, persino dal punto di vista psicologico, non risulta formulata correttamente. Molto più centrato Schaerer, p. 204: «Philèbe est à la fois attentif et distant». Cfr. Diès, op. cit., p. VII e ss.

NOTE

1409

16 Wilamowitz, I, p. 622: «Non si capisce perché». Philippson, in «Hermes» 60, p. 461 nota 1, avendo frainteso le prime parole del dialogo fraintende l'intera situazione. La questione non è «quale delle due tesi di Protarco accettare» quanto piuttosto come formulare la tesi che Protarco sta per accogliere da Filebo. Così i tentativi di alterare il testo risultano ingiustificati. 17 Zeller considera Protarco quasi identico ad Aristippo. A. Mauersberger, Plato und Aristipp, «Hermes», LXI 1926, p. 209 e ss., giustamente si oppone a questa tesi. Dopo la discussione di Diès (in Platon, p. 332 e ss.) non occorre aggiungere alcun commento sul roman à clef che J. Eberz trovava nel Filebo e in altri dialoghi di questo periodo. 18

Schleiermacher, 11/3, p. 135, lo sosteneva molto tempo prima, quantunque considerasse insieme Gorgia e Teeteto. Cfr. inoltre Susemihl, II, p. 1 e ss.; Singer, pp. 232 e 234; Diès, Philèbe, p. XXXV e ss. 19 Rapporto con la Repubblica: Wilamowitz II, p. 267 e ss.; Diès, op. cit., p. XXXVII e ss. 20 Wilamowitz, II, p. 268 e ss., cerca di dimostrare che nella Repubblica «niente indica una polemica contro un'altra opinione», mentre il Filebo «riprende la figura di un filosofo che non era stato affatto preso in considerazione nella Repubblica». E vero che jifi a p a 7CEi0(óp.£0a (Repubblica, 584 C) non contiene necessariamente una polemica contro una persona precisa. Tuttavia, dal momento che oltre a una grande affinità di pensiero c'è anche corrispondenza verbale (in Filebo, 44 C si dice Jtóiepa 7tEÌ0eo0ai ou|iPov)Xe\)eiq) non si può accettare l'ipotesi di una differenza sostanziale tra le due opere. 21

Trendelenburg, De Platonis Philebi Consilio, Berlin 1837, p. 5, riferisce questa particolarità allo scritto perduto di Galeno nepì tcòv èv i>iVriPcp nexapàoecov. 22 Questo vale per ogni tentativo di analisi strutturale. Si deve in ogni caso confrontare la nostra analisi con quella di Ritter, Untersuchungen..., cit., p. 95, e chiedersi se questi, a prescindere dalle sue eeccessive schematizzazioni, non abbia mancato di rilevare i collegamenti principali. Né Susemihl, II, p. 1 e ss., con le sue sei divisioni, offre prove per questo. Molto più appropriata l'analisi di Apelt nell'introduzione alla sua traduzione (Leipzig 1912). La sua definizione della prima sezione come «indagine preliminare» e della seconda come «indagine principale» che anche altri accolgono con favore è però discutibile perché non riconosce lo «spostamento ironico di equilibrio». Cfr. le analisi di Gadamer, Ethik, cit., p. 81 e ss., Hackforth, Philebus, p. 10, Diès, Philèbe, p. X e ss. e CXIII e ss. {Pian scbématique du dialogue). 23

In ogni caso Jaeger, Aristoteles, cit., p. 401, ha forse ragione, anche se solo a certe condizioni, nell'asserire che «il problema dell'fi5ovf|» diventa indipendente nel Filebo. Posto che l'Accademia potrebbe aver

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PLATONE

letto l'opera in tal senso, per Platone si trattava solo di una nuova via verso la sua unica meta. 24 La tesi di Eudosso è nota. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, X 2 1172 b 9: 7C(XVT è considerato spurio da Bury, Burnet e Diès. Hackforth è giustamente contrario. La nostra discussione sottolinea l'enfasi con cui qui, per la prima volta, Platone fa usare a Socrate xò àyaGóv come sostantivo, poiché in 13 E 5 Socrate dice àyaOct e in 13 E 6 si dovrebbe probabilmente scrivere (come fa Burnet) àyaQóv e non ràya0óv (come fanno, seguendo il codice T, Bury e Diès). Ma se si lascia intatto quest'ultimo problema, niente di quanto abbiamo detto dev'essere cambiato. Per quanto riguarda 11 B 4, R.G. Bury, nella sua edizione del Filebo (Cambridge 1897, p. 2), dice: «I have no doubt that the omission of the article here is intentional» ma non ne vede chiaramente il motivo e in seguito (p. 215) modifica la sua opinione. Hackforth traduce: the good. Diès correttamente: «qu'est bon por tout ce qui vit la jouissance, le plaisir...». 21 Cfr. Parmenide, 129 CD; Sofista, 251 A e ss. Sulla questione di un richiamo ad Antistene cfr. E. Zeller e W. Nestle, Grundriss der Geschichte der griechischen Philosophie, Leipzig 1928, II, p. 131; Gomperz II, pp. 142-143; Wilamowitz II, p. 162; Cornford, Theory of Knowledge, cit., p. 143 e ss.; Hackforth, Philebus, cit., p. 17. 28 II difficile passo 15 B è stato considerato in diversi modi. A mio avviso l'unica analisi corretta è quella di Archer-Hind in «Jphilol» XXVII, 1901, p. 229 e ss.. Che ci siano tre parti (cfr. In Phil. Schol., ed. Stallbaum a questo passo e Susemihl II, p. 9) è evidente innanzitutto dalla struttura della frase; le parole eixa nthq ax> ... |ierà 8è TOUTO . . . ab . . . introducono una seconda e una terza parte. Il contrasto è intensificato da Hf|TE yéveovv [xf|xe òXeGpov 7tpoo8exo|iévT|v nella seconda parte e da èv ioti; yvyvonévoiq a i Kaì àrceipou; nella terza. Nessuno avrebbe interpretato questo passo in modo opposto all'impressione che il linguaggio provoca se la seconda parte non avesse fatto da ostacolo. Cfr. Gadamer, Ethik, cit., p. 93 e ss. E tuttavia, quantunque questa seconda parte sia for-

NOTE

1411

mulata solo brevemente, è del tutto intellegibile. xamat; sta per |iova8aq. Si differenziano per la nota forma di apposizione al singolare. Infatti sono dette essere |j.lav tamriv, ossia (xovàSat;. L'6|ia>o 8' àvoiac, vévr), t ò (lèv |iaviav, xò 8' àjiaBiav (=àvvoiav). Forse nel valutare correttamente l ' a - v o i a dovrebbe essere tenuto in considerazione il significato del voùq nel dialogo. Sembra che Hackforth e Diès non abbiano inteso correttamente 38 D 9-10. Il senso probabilmente è questo: che qualcuno vede qualcosa che in realtà è una statua considerandolo come qualcosa fatto dai pastori, come un mucchio di fieno o un fascio di paglia. 61 In 39 A si deve seguire molto da presso l'uso dei termini e il loro parallelismo. Chi scrive? Non fi (ivfpT| ma fi livfpri xaiq aia9f)oeoi ai)|im7rtovoa eìq xaùxóv. Per assicurare che il soggetto non venga preso come f| |ivr||!ri da sola, isolata da aic9f|CTeiq, viene aggiunto ìcàiceiva a 7tepi taiix' è o t ì xà Jta9fmaxa, dove si implica nuovamente la congiunzione di |ivfip.r| e ai'c0r|cn.naToq p.aviav - o oviinexpoq Jtpòq etepov (scil: |iéXoq) KaXàq. Il significato potrebbe essere che all'interno di una misura melodica esiste una relazione tra un tono e l'altro mentre i due toni possono essere corrotti nel loro essere in sé. 6 6 Si noti il passaggio a 53 C 4: xi 8è TÒ xoióv6e e a 54 E 1: Kaì |xf)v ai>xòq omoq. 6 7 La frase di 52 C è così malamente corrotta che può essere ricostruita solo approssimativamente. In generale la si può leggere come la

NOTE

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scrive Burnet, tranne che per il iry; di C 6 che deve, come fa Etienne (cfr. l'edizione di Diels), essere messo tra parentesi. Anche Ttòv èmiéxpcov in D 1 difficilmente è giusto (così anche Hackforth). I desideri forti hanno à | i £ T p i a , mentre i desideri opposti è p ^ e i p i a . Pertanto i primi appartengono al genere dell'àneipov e i secondi appartengono (o almeno dovrebbero) al genere del misto (dal momento che non sono puri Jtépaq). Invece di tgòv è|i|XÉTpa)v, che sarebbe tautologico, dovrebbe venire scritto forse Tot» ( x e i k t o Ì ) ? Non sarebbe eccessivamente azzardato, visto lo stato del testo. O forse Platone può aver lasciato al lettore il compito di ricordare il jieiKtóv e intende è n n e x p o v solo per riferirsi al Jtépaq della mescolanza, dal momento che si è appena citato l'arceipov? 68

II più recente a optare per Aristippo è Diès, Philèbe, p. LXII e ss., mentre Mauersberger, Plato und Aristipp, p. 208 e ss., opta per i Megarici. Per la letteratura più antica cfr. Stenzel, Kyrenaiker, in «R-E», XII, coli. 137 e ss. Si dovrebbe prendere nota delle importanti riflessioni di Stenzel riguardo le fonti, come per esempio: «Quanto più un particolare autore vive nel suo movimento filosofico essenziale tanto meno rilevante sarà per lui ogni possibile occasione che conduce al suo pensiero o ogni passo che lo ha preceduto». 69 Qui la musica scientifica non è espressamente indicata come lo è nella Repubblica. Piuttosto la musica è concepita come intrattenimento, come in Politico, 268 B; 306 D. Cfr. Filebo, 62 C. Il testo di 56 A 3 e ss. non può essere ricostruito con certezza. |ìouctikt| come il concetto che nella diairesi circoscrive deve precedere i concetti particolari - forse aùVtyciicf] ìcaì K i 8 a p i a i i K T | . Ttou aÙTÌjq non si adatta a questo stile, che evita lo iato (queste obiezioni sono dirette contro Diès, cfr. la sua edizione, p. 75). 70

Secondo Natorp, Ideenlehre, p. 327, le riflessioni esposte in 59 AD appartengono a uno stadio della filosofia platonica già superato a l t r o v e . Egli t r o v a un'esplicita contraddizione t r a 59 A (in questo mondo non si deve cercare ragione o conoscenza) e la tesi espressa prima in 28 B e ss., secondo la quale la ragione umana è derivata da quella del cosmo. Ma la contraddizione è s o l o apparente, poiché in 59 A (jtepì t ò v kóg|ìo xccùxth; lo è per la seconda parte. Il fatto che t o i a w a compaia nei manoscritti tanto prima quanto dopo XPT| è irrilevante (lo stesso vale per la mancanza di o v i a ) . La tesi di Diès è radicalmente diversa. Tuttavia il suo %pii vo|xi£eiv xivà t ì 8 i o v f|pfjo0ai suona fiacco, anche se si ammette xiv' fi6iov. 77 In 66 B 8 T e r a p i a non può essere cancellato o messo ipoteticamente da parte come fanno Jackson o Diès, poiché tanto i numeri che precedono quanto quelli che seguono compaiono sempre all'inizio, com'è naturale. In questo caso il secondo xéxapxa di 66 C 1 potrebbe essere espunto; xéxapxa ... xà Jtpòq xoìq xpioiv, con un grande spazio tra queste parole collegate, si adatterebbe forse al tardo stile platonico. Oppure potrebbe darsi che questo stesso stile tardo sia caratterizzato da un doppio xéxapxa all'inizio come enumerazione e poi una volta ancora alla fine dopo la lunga incidentale xà Jtpòq xoiq xpicriv? Nel linguaggio parlato ciò sembra ancora più probabile. 78

Sul ( x a v x e ù e a Q a i interiore in Platone cfr. Jaeger, Aristotele*, p. 163.

2 9 . TIMEO 1

Edizioni e traduzioni

recenti

O. Apelt, PhB 179, 2a ed. 1922. A. Rivaud, Platon BudéX 1925. A.E. Taylor, Oxford 1928. F.M. Cornford, London 1937. J. Moreau in L. Robin, Platon Oeuvres Complète*, Paris 1940-42. C. Giarratano con note di G. Manacorda, Bari 1950. R. Kapferer e A. Fingerle, Stuttgart 1952. Interpretazioni

recenti

W. Theiler, Zur Geschichte der teleologischen Narturbetrachtung bis auf Aristoteles, Zürich-Leipzig 1925, p. 68 e ss. Shorey, p. 329 e ss. J. Moreau, L'äme du monde de Piaton aux Stoiciens, Paris 1939, p. 3 e ss. G. Vlastos, The Disorderly Motion in the Timaeus, in «CQ» XXXIII, 1939, p. 71 e ss., rist. con aggiunte in Allen, cit., p. 379 e ss. T. Negro, La concezione platonica della scienza, Milano 1940. H.J. Pos, De Kosmologie in Plato's Timaios, in W.B. Kristensen e altri, Antieke en Moderne Kosmologie, Arnhem 1941, p. 29 e ss. Robin, Pensée, p. 231 e ss.

1420

PLATONE

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NOTE

Bibliografia Shorey, p. 612; Geffcken, note, p. 119 e ss.; Leisegang, coli. 2505 e ss.; Rosenmeyer, p. 190 e ss.; Cherniss, «Lustrum», p. 208 e ss.

2 August Boeckh, Gesammelte Kleine Schriften, III, p. 175. Su quanto segue cfr. Shorey, op. cit., p. 347 e ss.; R. Klibanski, The Continuity of the Platonic Tradition, London 1939. 3

Platos Lehren auf dem Gebiet der Naturforschung und Heilkunde. A questo proposito Lichtenstadt è molto critico contro Windischmann e il suo elogio della teoria corpuscolare matematica di Platone. Cfr. Voi. I, cap. XIV. 4

E la tesi di Wilamowitz, I p. 584 e ss., II p. 255 e ss. Già se si considera l'istruttiva proporzione Teeteto : Sofista + Politico = Repubblica : Timeo + Crizia, non si può dubitare del fatto che Platone intendesse riscrivere la sua Repubblica. Perché dovremmo augurarci questo se una ricapitolazione - come quella che appare all'inizio del Timeo - rende superflua ogni ulteriore revisione? 5 Era la tesi di Krohn, Pfleiderer, Rohde. Per contra Hirzel, cit., I, p. 257; Ritter, Untersuchungert, cit., p. 177; A. Rivaud, Timeé, Platon Budé X, 1925, p. 19 e ss.; F.M. Cornford, Plato's Cosmology, cit., p. 4 e ss. 6

Nessuna conversazione sullo stato aveva avuto luogo il giorno prima tra Socrate e gli altri quattro. Invece, secondo la finzione drammatica, Socrate aveva riportato loro, il giorno precedente, una discussione più antica, come indicato dalla lettera di Timeo, 17 C: t ò i v x>rì ènoù pT|0év"ca>v Xóycov Ttepì j c o X i t e ì c k ; e 20 B: ù|i&v 5eo|iévcov x à 7tepì t f ì q KoXixe'mc, 8ieX9eiv. Questo risolve la contraddizione tra le date. Per Wilamowitz, II, p. 255, lo scopo della differenza tra le date non è chiaro. Io non sono d'accordo. Attraverso questo Platone richiama espressamente l'attenzione sul fatto che sta analizzando discussioni differenti (o, quantomeno, resoconti differenti della stessa conversazione). Hirzel, I, p. 257, lo aveva già riconosciuto. La nota contenuta in Diogene Laerzio, III 37: Ewpopiciv 8è Korì n a v a m o t ; e i p f i K a a i jtoAAàiaq ècrtpamiévri ei>pijo0cu t t | v à p x v y xfjq no?aTEÌ.aq, si accorda con quanto dicono i retori (cfr. Wilamowitz, II, p. 257 e ss.). Per quanto possa esser vera la tesi di Diogene, tuttavia, essa non attesta una revisione troppo estesa. L'inizio del Teeteto offre ora un parallelo di quanto si può apprendere dai commentatori antichi. Si dovrebbe ammettere che la datazione delle Panatenee dopo la festa di Bendis - cfr. Proclo, In Timaeum Comm., I, p. 85, v. 26 - sia solo un tentativo di comporre l'incompatibile. Cfr. A. Mommsen, Feste der Stadt Athen im Altertum, Leipzig 1898, p. 52 e ss. Un accenno analogo a quanto dico si trova in Salin, Utopie, p. 270. Cfr. anche Rivaud, Timée, p. 19 e ss.; Cornford, Cosmology, p. 4 e ss.

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PLATONE

7 Dietro il tentativo di Ritter, Neue Untersuchungen, p. 178, c'è un fraintendimento spiegabile come segue: «Ciò che rimane fuori non è più nel cuore del filosofo, o non è più considerato corretto»

A partire dai Neoplatonici si è molto discusso sul téxapxoi; di 17 A 1. Cfr. Proclo, op. cit., I, pp. 9, 11, 13 e ss. La tesi di Ritter (Untersuchungen, p. 181) per il quale Platone, attraverso una quarta persona, si lascerebbe aperta la via per espandere la trilogia in una tetralogia risulta insoddisfacente. Come inaccettabile l'opinione di A.E. Taylor, A Commentar/ on Plato's "Timaeus", Oxford 1928, p. 45, per il quale dal momento che Timeo incarnava un pitagorismo impuro, egli appare come sostituto di un vero pitagorico. Rivaud, p. 18, e Cornford {Cosmologi, p. 3) seguono Ritter. 8

9 Per la tesi contraria cfr. Wilamowitz, I, p. 586, II, p. 256. La frase «Sebbene il Timeo contenga il rimando a un completamento del Crizia, Platone scrisse parecchie pagine di aggiunte che furono tratte più tardi dal lascito e pubblicate» deve forse essere rovesciata: Poiché il Crizia presuppone il Timeo così com'è, e poiché questo apre la via la Crizia così com'è, il Timeo deve essere stato scritto guardando al dialogo che sarebbe seguito. In questo modo la trilogia deve essere stata progettata fino al punto in cui il Crizia si interrompe. 10

Cfr. Voi. I.

Ingeborg Hammer-Jensen, Demokrit und Platon, in «AfGP» XXIII, 1910, pp. 92 e ss., 211 e ss., avanza la teoria per cui Platone avrebbe incontrato Democrito al tempo in cui stava scrivendo quella che è ora la pagina 45 del suo Timeo, e questo incontro avrebbe modificato la visione di Platone. Questa tesi è del tutto insostenibile, anche a prescindere da Democrito. Per questa opposizione è sufficiente richiamare Wilamowitz II, p. 258 e ss. Tuttavia, nonostante forti opposizioni, l'effetto di questa tesi è ancora forte, come nella nota 124 alla traduzione del Timeo di Apelt (Leipzig 1922). Qui Apelt afferma anche che Platone «non era completamente sicuro della sua fisica, né del posto che doveva occupare nel complesso del suo pensiero». Requisito preliminare per ogni valutazione corretta è naturalmente il fatto di non fraintendere l'ironia platonica (49 A: xóxe nèv oi> 8ieiXó)xe8a vo|iioav-ceq t à 6t>o e^eiv ÌKavcòq- vúv 8è ó Xóyoc, èoiKev eìaavayKà^eiv). Nella nostra prima edizione il capitolo sul Timeo era intriso di polemica contro Democrito più del necessario. Cfr. però Ahlvers, Zahl und Klang, cit., cap. 4, «Die Pythagoreer oder Demokrit?». Chiaramente non si deve opporre una unilateralità all'altra. 11

1 2 Se si ripensa al mito della creazione narrato da Aristofane nel Simposio (189 C e ss.) non si può tralasciare quest'elemento grottesco nella costruzione del corpo umano. Su quanto segue a proposito dell'immagine riflessa nello specchio cfr. Cornford, Cosmologi, p. 154 e ss. 13 Cfr. Wilamowitz, I, p. 581. In tutta onestà si deve dire che nel commentario di Archer-Hind al Timeo, l'importanza di Democrito per Platone non è affatto esagerata. Natorp (Platos Ideenlehre, p. 442) potrebbe senza

NOTE

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problemi esser detto precursore della tesi sviluppata da Hammer-Jensen. Evitando fraintendimenti più gravi come il paragone tra Platone e un allievo di Leucippo, tuttavia, non si sminuisce in nessun modo la grandiosa polistoria di Democrito. Inoltre, senza concordare completamente con tutto quello che Burnet, Greek Philosophy, I, cap. 2, riporta a proposito di Democrito, sono però d'accordo con quanto egli afferma sullo statuto «di seconda mano» del resoconto, suU'approssimatività della nostra conoscenza e sulla limitata originalità di questo pensatore. Nel suo Commentario anche Taylor protesta contro l'ipotesi-Democrito, ma la sostituisce con un'altra unilateralità: «We might say that the formula for the physics and the physiology of the dialogue is that it is an attempt to graft Empedoclean biology on the stock of Pythagorean mathematics». La tesi di Taylor 1. Che il dialogo rispecchi le teorie scientifiche dell'epoca in cui si svolge, la terza decade del quinto secolo a.C.; 2. Che non si può stabilire se Platone avesse inteso difendere pienamente l'una o l'altra delle teorie; e 3. Che il Socrate che compare anche qui è quello storico che, secondo Aristofane, si interessava anche di scienza - questa tesi è incompatibile non solo con la nostra concezione di Platone, di Socrate, del dialogo, del mito, ma anche con la datazione propria della storia della scienza (cfr. Frank, Pythagoreer, pp. 21, 233 ess., e passim). Anche così occorre ripetere quanto dobbiamo al commentario di Taylor. Tra coloro che si oppongono alla sua tesi di fondo ci sono Cornford, Cosmology, p. VII e ss., e Festugiére, Révélation, p. 94. 14 Cfr. Voi. 1. Nell'abbozzo per il suo commentario complessivo del Timeo, Boeckh, Kleine Schriften, III, p. 183, afferma: «Nam ut Platonis philosophia summa est veteris totius, sic etiam dialogus hic quidquid fere priores de natura philosophati sunt, docet nova et propria via». In quanto segue i richiami saranno accennati ma non elencati completamente. Nel reperire il materiale sono utili gli indici di Diels, Doxographi Graeci e Die fragmente der Vorsokratiker. 15

Per Leucippo, cfr. Vorsokratiker 67 [54] B 2. Per Empedocle Vorsokratiker 31 [21] B 17; 18; 19; 21; 115. In B 115 Neikos è detto appartenere all'ambito di Ananke. Si ricordi che nell'Iliade, XVIII v. 382, Efesto ha per moglie una certa Charis mentre nell'Odissea, V i l i w. 267 e ss., Afrodite. 16 L'iniziatore di questa ipotesi è T.H. Martin, Etudes sur le "Timée'de Platon, 2 voli, Paris 1841, II, p. 248, cui sono seguiti Archer-Hind e molti altri (tra cui all'apparenza Cornford, p. 220). Sul materiale cfr. il lessico di Kranz alla voce kóo(ìov (cioè vo(j,o0étai) eì'8t| 7tp0ti9É(i£V0i ¡¡tvcoooiv - descrivono la cosa opposta, l'agglomerato caotico. Questa caratterizzazione si adatterebbe, ad es., all'antica Gortyn; cfr. J. Kohler e E. Ziebarth, Das Stadtrecht voti Gortyn, Gòttingen 1912, p. 43. in 630 D 3 xoùq Ttóppco > vop.o0£Ta