Plastica. Alcune osservazioni su forma e figura a partire dal sogno formativo di Pigmalione 887726165X, 9788877261656

Con la Plastica di Herder la cultura moderna fu costretta a riconoscere definitivamente l'autonomia della scultura,

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Plastica. Alcune osservazioni su forma e figura a partire dal sogno formativo di Pigmalione
 887726165X, 9788877261656

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P l a s t i c a d iJ o h a n nGo t t f r i e dHe r d e r

Ae s t h e t i c a

Plastica Johann Gottfried Herder (1744-1803) è universalmente noto come uno dei fondatori della moderna coscienza storica e della filosofia del linguaggio e del mito. Meno noto è invece che egli nella seconda metà del Settecento, periodo cruciale in cui si definisce l'orizzonte dell'estetica moderna, intorno ad essa ha svolto una costante riflessione di grande originalità ed importanza, imprimendo un senso nuovo alle domande del proprio tempo. È il caso di uno dei suoi testi più intensi: la Plastica (1778). La prima ragione dell'interesse straordinario di questo saggio sta nel fatto che - dopo i Pensieri sull'Imitazione di Winckelmann (1755, già pubblicati in questa collana), che avevano (fra l'altro) decisamente richiamato l'attenzione sulla peculiarità della scultura classica, e dopo la Lettera sulla Scultura di Hemsterhuis (1769, qui d'imminente pubblicazione), che aveva posto le basi (fra l'altro) di una fenomenologia differenziale della percezione estetica - con la Plastica di Herder la cultura moderna fu costretta a riconoscere definitivamente l'autonomia della scultura, accettare la sua specificità fondata sul senso «oscuro» del tatto e liquidare il modo tradizionale di guardare alle arti figurative. Si tratta di un evento epocale già per il fatto che linearizza lo statuto «obliquo» della scultura, dalla teoria artistica prima sempre asservito a quello della pittura sulla base della loro comune natura immaginativa. Ma soprattutto perché la formulazione herderiana dell'autonomia della scultura, passando attraverso una critica dei fondamenti metafisici della genealogia della percezione scandita dalla configurazione della corporeità, comporta radicali sconvolgimenti dell'assetto estetologico. E dispiega decisive polarità di cui si nutrirà il dibattito successivo: la parvenza ottica del quadro e l'oscura origine tattile della presenza plastica, il variopinto illusionismo della modernità e l'ineffabile consistenza sublime dell'antico... Modi, insomma, di una «antropologia estetica» con i quali nella postmodernità la riflessione e la pratica delle arti continuano a fare i conti. Corredano il testo, qui presentato per la prima volta integralmente in lingua italiana con la puntuale cura di Giorgio Maragliano, esaustivi apparati esegetici, critici e bibliografici.

Plastica di Johann Gottfried Herder

Aesthetica

1994

()

Aesthetica edizioni

via Giusti 25

Progetto grafico dello Studio Maravigna

90144 Palermo

Indice

Presentazione, Plastica,

di Giorgio Maragliano

7

di Johann Gottfried Herder

Capitolo primo

39

Capitolo secondo

51

Capitolo terzo

67

Capitolo quarto

81

Capitolo quinto

93 107

Note

Appendice biobibliografica, Indice dei nomi

di Giorgio Maragliano

139 149

Presentazione di Giorgio Maragliano

Libro doppio, la Plastica. Essa è certo un saggio di teoria del­ l'arte figurativa, dove per la prima volta pittura e scultura vengo­ no considerate arti pienamente autonome l'una dall'altra, al di là delle preoccupazioni gerarchiche del "Paragone" cinquecentesco. Per quanto tuttavia Herder conosca e discuta, spesso tacendo le fonti, le tesi di autori seicenteschi come Junius, Bellori, De Piles, e di contemporanei quali Caylus, Falconet, Dandrè Bardon, Hem­ sterhuis, Hogarth, per tacere di Winckelmann e Lessing, il libro non è solamente un saggio di teoria dell'arte. Esso è anche un la­ voro di estetica, nel senso di teoria della percezione sensibile e del bello: bello che per Herder non è l'oggetto di una facoltà di­ stinta dell'anima, né è il frutto di una trascendenza ideale della forma, ma rimane nella sua caratteristica riluttanza all'analisi il segno certo della determinatezza sensibile delle nostre conoscen­ ze. Qui gli autori di riferimento sono Leibniz, Locke, Berkeley, Condillac, Wolff, Diderot. Berkeley e la distinzione tra idee della vista e idee del tatto; Leibniz, l'albero di Porfirio in cui la cono­ scenza si artico]a secondo i gradi della sua chiarezza, e la vis re­ praesentativa; Wolff, il sistema e la psicologia; Condillac e la me­ tafora della statua; Diderot e l'esempio della cecità; Kant e la cri­ tica del concetto logico di esistenza ... quest'elenco un po' carica­ turale di filosofi e concetti, sui quali dovremo ritornare, non basta certo a rendere ragione della novità del libro. I momenti di pen­ siero mediante i quali la filosofia del primo Settecento cercava di rispondere al problema della costituzione della soggettività ven­ gono posti al servizio di una domanda nuova, appunto quella che l'estetica filosofica cerca di formulare. Se i trattatisti del Seicen­ to non avrebbero mai pensato di dover fondare ex novo una dot­ trina della conoscenza per scrivere di Raffaello e Poussin, né Di­ derot né chiunque altro dei nomi sopra ricordati aveva posto le sue tesi sulla sensibilità al servizio di una nuova definizione del7

lo statuto delle arti figurative. Herder lo sapeva, quando scriveva

nel Giornale di viaggio 1769:

Qu11nto in Wolff è nient'altro che sistema, aggiustamento, forma, metodo! Una prova ne� l'estetica! Quanto ci sembra eli avet pensato, e quanto poco pensiamo! Ho elaborato

per c:�empio qualcosa sull'estetica, e credo sia veramente nuova, ma in quante poche cose? Nel principio, la vista vede solo superfici, il tatto non tocca che forme, esso è già noto in otdca

c

geometria e sarebbe una disgrazia se non fosse già stato dimostrato

1•

L'interrogativa sobrietà di questo passo, tratto da un mano­ scritto non destinato alla pubblicazione, non deve ingannare. Mo­ tivi esteriori hanno fatto sì che alcuni tra gli scritti più penetranti degli anni 1765-70, periodo in cui il progetto "estetico" era il fuoco virtuale del pensiero di Herder, siano rimasti allo stato di fram­ mento, oppure inediti sino a ben addentro l'Ottocento, come nel caso della quarta Selva. Non per questo la novità filosofica del progetto di Herder è meno chiara. L'estetica non è, come per Baumgarten, «ars pulchre cogitandi», essa non è sapere tecnico deputato al miglioramento della conoscenza sensibile, "arte" che educa dilettando. Né d'altra parte Herderpensa che la compren­ sione del bello possa esaurirsi in analisi delle sensazioni, come av­ veniva nel pensiero degli illuministi berlinesi Sulzer e Mendels­ sohn. Due sono gli effetti principali di questa impostazione. Da una parte, contro la pretesa coeva di ridurre tutte le arti e scienze ad un unico principio soggettivo produttivo o psicologico, sia esso l'imitazione o il sentimento di piacere e dispiacere, la condizione di chiarezza confusa che contraddistingue il bello viene ascritta al rapporto tra i sensi specifici e le arti che vi si rivolgono. Dall'al­ tra, l'irriducibilità al concetto che trovava espressione nel "non­ so-che" o nel "gusto" diviene proprietà della cosa bella, nel mo­ mento in cui rivela una formatività che si manifesta all'uomo sol­ tanto quando la cosa è già del tutto formata. L'unità indivisa del­ la figura bella orienta finalisticamente la percezione, senza che per questo l'esperienza estetica sia riconducibile ad una causali­ tà di cui si possa dare ragione. L'idea ancora viva nel Seicento di una poieticità originaria del­ la natura non è affatto estranea al pensiero di Herder. Essa attra­ versa tuttavia una trasformazione essenziale, nel momento in cui viene a cadere il riferimento ad un sapere insegnabile che orienta e informa l'attività dell'artista, offrendogli i modelli ai quali guar­ dare per riuscire ad attingere la naturalezza di ciò che agisce "de

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son bon gré", liberamente, al di qua delle costrizioni dovute al­ l'ambiente, all'abitudine e all'istruzione 2• Condizione, questa, alla quale l'uomo poteva avvicinarsi quando l"'arte" nel senso ampio di tecnica produttiva si tendeva al limite delle sue capacità, e ar­ rivava così a realizzare opere che nascondono la loro fattura. Ca­ duto il riferimento ad un "saper fare", ad una aristotelica episte­ me, lo stesso concetto di "arte" si svuota dall'interno, per assu­ mere il suo senso moderno. Nelle opere d'arte si manifesta un principio eccentrico all a intenzionalità tecnica, una "Bildung" au­ topoietica 3 che informa, nei suoi correlati semantici ( "bilden", formare; "Bildner", scultore), l'agire dell'artista. Herder recide così la complicità tra "arte" e "natura" che sottendeva l'idea, an­ cora presente in Winckelmann, di una imitazione della natura bella attraverso lo studio e l'imitazione normativa dell'antico. Le belle figure greche, che egli ha imparato a conoscere leggendo i testi di Winckelmann e visitando Mannheim e Versailles, sono alla lettera corpi viventi fermati nel marmo. Nessuna "arte" può riprodurre i corpi greci, poiché la loro bellezza dipende da con­ dizioni irriproducibili, quali ciò che egli chiama «carattere della stirpe». Non è questo il luogo per discutere le interpretazioni na­ ziste alle quali questo motivo ha dato la stura: ci basta notare che nella Plastica esso è funzionale ad un intento del tutto opposto a quello, attualizzante, della riproposizione di una classicità medi­ terranea o ariana. Proprio perché la bellezza greca è dovuta a condizioni contingenti, è impresa folle voler riproporre nella con­ temporaneità opere che mimano la funzione delle statue antiche. Come un adulto non può apprendere di nuovo ad esperire il mondo attraverso il tatto al pari di un bambino, così un artista moderno mai potrà produrre statue greche, poiché la sua stessa formazione ("Bildung") glielo impedisce. L'antico assume così una determinatezza temporale del tutto impensabile ancora nei primi venti anni del Settecento. Certo, la cesura temporale imposta da Herder viene preparata lungo il se­ colo dall'enorme trasformazione dello statuto significante attribui­ to ai resti dell'antichità che viene a giorno nei libri di Richardson, Caylus, Winckelmann. Trasformazione, questa, in cui la statua greca a figura intera emerge dall'insieme indifferenziato che a fine Seicento è designato come "antico", dove gemme, medaglie e pie­ tre incise greche e romane convivono con i resti statuari. L'osserva­ zione diretta dell'opera antica costituisce nella prima metà del secolo il veicolo essenziale di un'esperienza per nulla ovvia, se si

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pensa che Lessing non sentirà mai il bisogno di vedere il "Laoco­

onte", esperienza che incrina la compatta unità di resti ancora intesi come sussidio erudito. ll processo in cui si costituiscono le nuove discipline di archeologia e storia dell'arte non sarebbe in senso stato possibile senza la liberazione dei resti antichi a soggezione ai testi. Lo sforzo attributivo diretto alla diffe­ renziazione di originale greco e copia romana si accompagna qui all'isolamento "estetico" della statuaria rispetto alle opere di ana­ glifìca, quali medaglie e pietre incise 4• La formazione di uno sguar­ do che si dirige ad opere d'arte nd nuovo ed enfatico senso mo­ derno cerca in esse i segni formali di una temporalità autonoma: la storia deltarte è sin dall'inizio in un rapporto problematico e contraddittorio con una erudizione che intende i resti antichi co­ me documenti di una storia già scritta. Per una storiografia anti­ quaria che cerca nei documenti dell'antichità gli exempla ripetibili di una temporalità da cui è esclusa ogni protensione verso l'asso­ lutamente nuovo, massimamente significativi saranno quei resti, come le monete, in cui l'unione di immagine e scrittura può con­ fermare ciò che è già contenuto nei libri antichi, intesi come au­ torità indiscussa, testimoniale, nel senso greco-latino di "histo­ ria". La stessa accezione particolare del termine "Antique" a fine Seicento, per la quale esso designa come sinonimo di scultura «sia le statue che i basso-rilievi che le medaglie e le pietre incise» 5, manifesta uno statuto significante nel quale il valore di modello "naturale" delle statue antiche convive con il pregio documentale di oggetti doppiamente preziosi poiché recano su di sé i segni che li rendono leggibili 6, così esibendo quella continuità tra se­ gni della "historia" e della "natura" che è tanto caratteristica dd pensiero seicentesco 7• La storia dell'arte diviene possibile allora nel momento in cui l'opera antica perde la genericità erudita per la quale essa era allo stesso tempo espressione ed oggetto di un sapere, corpo di un significato enunciabile perché già enunciato. La temporalità contingente, e perciò aperta, nella quale anche i resti dell'antichità vengono ora inscritti s'instaura certo al prezzo dell'opacità muta di oggetti che divengono opere d'arte nel nuo­ vo sc:nso moderno quando l'unità continua di una "historia" fatta di azioni e uomini esemplari non è più l'orizzonte dal quale sorge il senso di ogni produzione umana. La sensazione di fastidio che molti di noi provano davanti ad un monumento celebrativo degli ultimi due secoli, nella sua ibrida condizione di opera rappresen­ tativa che tuttavia ambisce ad autonomia estetica, pone a giorno

d�llsto

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un'antinomia tra tempo e forma che ha la sua origine nella stes­ sa nascita del sapere moderno sull'opera d'arte. L'esigenza che il significato dell'opera d'arte si risolva nella sua forma entra in con­ traddizione con qualsiasi determinazione estranea, che in una sto­ ria ormai temporalizzata quale si afferma nell'ultimo quarto del secolo consuma rapidamente in semplice occasione la circostan­ za "storica" che la statua deve eternare. Ma d'altronde proprio nell'accelerazione temporale moderna l'eternità "estetica" dell'an­ tico diviene motivo di una seduzione tanto più forte quanto la sua conservazione museale pare ristabilire una continuità delle epoche. n nuovo senso estetico della statuaria antica, così come la nuova esigenza di un sapere positivo per la classificazione sto­ rica delle opere d'arte, sono allora due forme di una domanda che non trova conciliazione in un unico discorso, come poteva ancora essere per gli eruditi seicenteschi; tra un sapere che cerca di dare ragione di un'esperienza senza concetto, e una periodiz­ zazione delle opere secondo la loro forma visibile rimane la cesu­ ra lasciata da una presenza che è "bella" perché tiene in riserva il proprio significato, risolvendosi nella sua forma, e che tuttavia produce proprio per questo un'apparenza di eternità che non coin­ cide con la sua determinazione temporale. Nel momento in cui Herder pone nell'oscurità sensibile del tatto l'origine storica e an­ tropologica ad un tempo dell'esperienza plastica egli offre un'ar­ ticolazione di questa domanda che ha il non piccolo merito di impedire superamenti abusivi e mitizzanti di questa polarità tra forma e storia immanente al moderno. Ci si chiederà cos'abbia a che fare tutto questo con l'estetica. Molto, siamo anzi forse di fronte ad una delle sue condizioni. Herder ci dice che l'estrema manifestazione plastica della bellezaz è per noi un passato: ma la contingenza storico-eventuale in cui possiamo comprendere questa lontananza irrimediabile, che nes­ suna imitazione può colmare, è anche quella di un'epoca il cui eccesso di astrazione e di sapere oggettivato fa sì che la coscienza possa attingere la bella immediatezza sensibile incarnata nelle opere greche soltanto a posteriori, nella forma di un sapere. L'argomen­ tazione herderiana è scandita qui dal ritmo di un'analogia perva­ siva tra storia dell'umanità e genesi dell'individuo. Come nelle condizioni attuali la singolarità tattile della forma si dissolve nella parvenza, nello "Schein" dell'impressione visiva, così la genealo­ gia della percezione che restitu�ce al tatto i suoi diritti "plastici"

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può avvenire soltanto a posteriori, senza poter reintegrare la sta­ zione antropologica e quindi la posizione storico-eventuale d'ori­ gine:. La "Bildung" è un processo inarrestabile, che non concede la possibilità del ritorno, pur generando in sé il sapere che per­ mette di conservare la memoria del passato da cui si prende con­ gedo. È difficile non riconoscere qui i motivi essenziali di quella fascinazione lacerata per la grecità che contraddistingue l'intera temperie classico-romantica, da Moritz a Holderlin, dal primo Schlegel a Goethe e Schiller. Potremmo notare che il verdetto di Hegel, per il quale l'arte stessa è cosa del passato, contiene in sé risolvendola la polarità tra forma e concetto che Herder dispiega. Più urgente ci pare tuttavia, laddove questi temi continuano a trovare interpreti, comprendere perché una tesi apparentemente così innocua quale l'originaria determinazione tattile della scultu­ ra potesse diventare tanto cruciale per il moderno pensiero sul­ l'arte. A questo fine è necessario guardare indietro, nella trattati­ stica e filosofia del Seicento e Settecento.

Lo statuto obliquo della scultura è uno tra i fenomeni più enig­ matici della teoria artistica tra Cinquecento e Settecento. ll valore esemplare delle sculture classiche, come modelli per la raffigura­ zione pittorica dei corpi, si accompagna nell'intero Seicento al re­ lativo silenzio della teoria, come se l'opera d'arte a tre dimensioni non fosse degna dell'attenzione rivolta alla pittura. Così il conte di Caylus poteva notare nel 1759 81'assenza di trattazioni su un'arte che ali' epoca era ancora praticata da artisti che mai avrebbero potuto ambire alle cariche pubbliche ed agli onori destinati ai pittori di storia. Questo silenzio non è dovuto soltanto alla greve materialità del lavoro scultoreo, che sin da Leonardo è addotto a motivo del­ la sua inferiorità rispetto alla nobile pratica della pittura. Certo, l'apparente immediatezza e velocità del pittore nell'eseguire la sua opera fa sì che la sua attività si presti assai meglio ad essere inclu­ sa nel novero delle arti liberali. Ma questa stessa gerarchia assu­ me il suo peculiare significato all'interno di un'articolazione di pensiero ben più complessa, di cui dobbiamo qui limitarci a de­ scrivere i contorni più evidenti. Nel 1547 il dotto fiorentino Benedetto Varchi pubblica il ri­ sultato di un'inchiesta che ha promosso tra gli artisti più impor­ tanti del tempo, come appendice ad una sua «disputa quale sia più nobile arte, la scultura o la pittura» 9• Riferendo gli argomen-

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ti proposti dai suoi amici artisti attorno alla disputa, Varchi rileva e discute in una chiave filosofica di nitida origine aristotelica i motivi che Herder porrà due secoli dopo al centro del suo libro. Ciò vale anche per il tema della certezza tattile offerta dalla scul­ tura, forse l'argomento principale rivolto, già nella metafora del cieco, contro i sostenitori del primato della pittura 10• Si potrebbe pensare allora che la riprt!l>a svolta da Herder di questi argomenti sia in diretta continuità con la tradizione 11• Ma non è così. Com­ prendiamo perché, quando osserviamo come la soluzione di com­ promesso alla disputa escogitata dal Varchi sia stata intesa dagli interpreti successivi in un senso che annulla le differenze specifi­ che di pittura e scultura a tutto vantaggio della prima. Le due arti sono in realtà una sola, poiché esse hanno il medesimo fine, «una artifiziosa imitazione della natura», e anche lo stesso prin­ cipio, cioè il disegno. I contorni della cosa raffigurata, che deli­ mitano la sua forma sostanziale permanente senza i suoi acciden­ ti, sono ciò che arti pur diverse mirano a riprodurre. Se in Var­ chi tale conciliazione risponde ad una intenzione filosofica più che assiologica, cosa che emerge dall'assenso che traspare nel suo testo alla tesi per cui «sa ognuno che il tatto trova in una statua tutto quello che l'occhio vi vede [ . ], dove in una pittura non ve ne trova nessuno», opinione ribadita lì dove egli scrive che l'ar­ tista non fa solo la forma, «ma la forma colla materia insieme» 12, gli autori dell'ultimo quarto del secolo amplieranno l'estensione del concetto di disegno in senso metafisica, sino ad assegnarvi determinazioni conoscitive ed etiche. L'eminenza della pittura vie­ ne fatta derivare dalla universalità dell'immagine interiore, per cui Francesco De Hollanda faceva dire a Michelangelo che «ben con­ siderando tutto ciò che si fa in questa vita, ciascuno senza saperlo sta dipingendo il mondo» n. Riconosciamo qui la dottrina di ori­ gine agostiniana della species intelligibile, secondo la quale la co­ noscenza avviene nel medio di un'immagine che riproduce la for­ ma della cosa 14• La vicenda del "Paragone" è nella seconda metà del secolo del tutto compresa nella progressiva ascesa del disegno a princi­ pio sommo di un'arte che proprio perché capace di rappresenta­ re la forma dd corpo nel contorno lineare del piano esposto alla vista lascia dietro di sé le pretese di chi lavora sul composto di forma e materia. La compiuta universalizzazione di questo con­ cetto del "disegno" sarà opera di Federico Zuccari, per il quale il concetto designa la «forma e f!gura senza sostanza di corpo» 1'. ..

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n concetto di disegno comprende per lui anche un altro signifi­ cato, presente ancora nella nostra lingua: intenzione, volontà di dire o fare qualcosa. L'oggetto del disegno non è tanto una for­ ma sensibile, quanto è questa a confermare la sua pura intenzio­ nalità rappresentativa. Nella complessa costellazione semantica del termine, questo momento intenzionale è deputato a porre in opera la finalità presente in quella che in Francia sino a metà Set­ tecento verrà chiamata "pittura del pensiero", il "disegno inter­ no", finalità verso la quale si dirige, senza esaurirla, la pratica del­ l'artista. A partire da qui è facile comprendere l'inferiorità teorica della scultura. Sotto la tutela del "disegno", la scultura diviene W1a parte della pittura, subordinata come tale ad W1'arte in cui la volontà dell'artista pare arrivare a riprodurre la forma stessa della cosa come noi la conosciamo, nella universalità della natura co­ mune a tutti gli individui di una specie 16• Potremmo ricordare qui come nel pensiero dell'epoca la for­ mazione dell'immagine sia intesa come W1a impressione della spe­ cies corporea, disegno al tratto di ciò che esiste in atto della cosa, mentre ai colori è ascritta W1a natura puramente potenziale e ac­ cidentale. Per Alessandro Allori dipingere è «dare con la spessez­ za delle linee rotondità e rilievo» 17, e il segretario dello Zuccari, Romano Alberti, scrive nel 1604 che la pittura, «figlia e madre del disegno», è «forza di chiari e di scuri» 18 • Questo classicismo conseguente non può apprezzare il colore proprio perché esso è mutevole, dipendente dalle condizioni della luce. La luce stessa, principio fisico e teologico, è di per sé incolore 19: chiave questa di una concezione del chiaroscuro lineare in cui al colore in quanto tale è negata qualsiasi determinazione costruttiva all'interno del quadro. E la maggiore o minore saturazione dei toni chiaroscurali a generare nel quadro il rilievo dei singoli corpi e il rapporto tra di essi e con lo sfondo. La scultura, certo, è l'arte del rilievo e del tutto tondo. Ma proprio perché la statua riceve la sua luce dalla natura, senza doverla produrre artificialmente, essa è di minore ingegno rispetto all'arte del pittore, che imita il rilievo in un me­ dium estraneo. L'argomento leonardesco è ripreso come tale da Galileo nella famosa lettera al Cigoli attorno al "Paragone". Si tratta di un documento affatto risolutivo, poiché mostra come l'ascrizione del chiaro e dello scuro ad essenza della pittura fos­ se propria alla cultura del primo Seicento, al di là di interpreta­ zioni attualizzanti che distinguono troppo nettamente lato scien­ tifico e teologico, ricerca di leggi immanenti dei fenomeni sensi-

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bili e loro esegesi simbolica. Per Galileo la pittura è «quella fa­ coltà che col chiaro e lo scuro imita la natura» 20• Nulla di nuo· vo; ma egli deriva la superiorità dell'arte in due dimensioni da quelle che gli sembrano le leggi stesse della visione. L'occhio per­ cepisce soltanto le due dimensioni della superficie, e non la pro­ fondità. L'insufficienza della vista, testimoniata dai fenomeni di illusione che sin dal Medioevo attestavano la sua inaffidabilità scientifica, diviene fondamento dell'esclusione delle qualità secon­ darie (quali il colore) dall'indagine volta a fissare le leggi quanti­ tative e matematiche dei fenomeni. Una certa cecità al colore è la condizione per una buona rappresentazione, il cui carattere intelli­ gibile è preforrnato nella schematicità chiaroscurale della visione. Ciò che è più importante per noi, la realtà potente della rappre­ sentazione compensa in operatività strumentale il residuo acci­ dentale che non rientra in essa. Galilei scrive così che la pittura è superiore alla scultura nella rappresentazione del rilievo «per­ ciocché quanto più i mezzi, co' quali si imita, son lontani dalle cose da imitarsi, tanto più l'azione è maravigliosa)) 21• Questa ri­ duzione in senso funzionale della vista al chiaroscuro impronta un pensiero per il quale il massimo effetto di presenza attinto dall'arte è prodotto per via di mediazione, dove il corpo solido deve essere tradotto, per manifestarsi pienamente, nell'apparen­ za del piano ottico del quadro. È chiaro allora perché la scultura abbia così poco corso nella trattatistica, sino a metà del Settecento. Se isolati autori 22 sosten· gono ancora a metà Seicento la qualità tattile ddl'opera plastica, essa non è più intesa come argomento a favore della supremazia della scultura, quanto nella veste di momento corrdativo ad una medesima origine disegnativa delle due arti sorelle. Perché l'argo· mento potesse tornare a valere, e la scultura diventare di nuovo problema e oggetto di attrazione in quanto tale, occorreva che la pittura venisse considerata come veicolo di effetti che non deri­ vano tanto dal disegno, con le sue connotazioni etico-metafisiche, ma dal colore. È ciò che avviene con il prevalere, a inizi Settecen­ to, della teoria pittorica di Roger De Piles. Nel momento in cui il colore diviene la differenza specifica dell'arte pittorica, la me­ diazione di secondo grado che relega la scultura nel ruolo ambi­ guo di modello funzionale da convertire sul piano non ha più ra­ gioni d'esistenza. Non a caso De Piles riprende con forza e pene­ trazione l'argomento tattile della scultura, con tutti gli esempi e le metafore avanzati dagli scultori e dal Varchi nel "Paragone"

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cinquecentesco, e ciò negli anni in cui prima Malebranche e poi Berkeley sottopongono ad una critica radicale le qualità eidet.jche ascritte al senso della vista. La domanda enunciata a chiare lettere nelle Conversations del 1677, «cosa appartiene al pittore e cosa allo scultore» 2-', inaugura un'epoca nuova; la ricerca delle rego­ le e dei principi propri a ciascuna arte riprende le ragioni del­ l'esperienza n dove erano state lasciate cadere. Una lettura della Plastica non può che partire da quello che lo stesso Herder considerava il nucleo originale dd libro, e cioè l'ori­ ginaria determinazione tattile dell'opera a tre dimensioni. Non si trattava di una scoperta assoluta; ma la radice del problema, co­ me abbiamo visto, non era tanto "estetica" nel senso dimidiato del termine, quanto conoscitiva. In questo senso Herder poteva a buon diritto sostenere l'originalità della scoperta di quello che con Alois Riegl verrà chiamato il momento "aprico" dell'opera di scultura 24, momento che non era per nulla ovvio né facilmente accettabile all'epoca in cui apparve il libro. L'unica recensione che esso ricevette certo non poteva dirsi positiva n, e l'autentico divieto che la generazione successiva lasciò cadere sulla mera pos­ sibilità che il tatto potesse svolgere una funzione nell'apprezza­ mento di opere d'arte indica quanto l'apparente ovvietà della sco­ perta herderiana non tanto fosse stata dimenticata, quanto rimos­ sa a forza. Leggiamo nell'Estetica di Hegel: «mediante il tatto il soggetto, inteso come una singolarità sensibile, si rapporta mera­ mente alla singolarità sensibile ed al suo peso, durezza, morbidez­ za, resistenza materiale; l'opera d'arte non è però nulla di mera­ 2 mente sensibile, ma lo spirito che si manifesta nel sensibile» 6• TI tatto, infatti, è senso che non permette ancora la distinzio­ ne tra interno ed esterno, tra affezione del soggetto e suo conte­ 27 nuto • Al "Gefiihl", tatto e "sentimento", nella feconda duplici­ tà che ancora appare nel testo di Hegel, manca proprio ciò che è necessario al soggetto per riconoscersi tale, e cioè la distanza. Distanza letterale, nel senso della lontananza spaziale in cui lo sguardo può attingere l'oggetto nella sua totalità, e metaforica, come momento necessario alla individuazione, al riparo dalla me­ scolanza empatica dei corpi. Pensare il "Gefiihl" come costitutivo della scultura è impossibile, se si assume a norma la distanza del­ l'io da sé e da ciò che gli si oppone come la condizione elemen­ tare della differenza tra soggetto e oggetto, distanza nella quale la stessa percezione dell'opera d'arte appare bisognosa dell'integra-

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zione riflessiva da parte dd contemplante. ll momento affettivo e inconsapevole nella percezione dell'opera plastica viene così su­ perato e conservato all'interno di un processo riflessivo, in cui si riconosce infine che «all'opera manca l'autocoscienza compiuta» 28• Sarebbe tuttavia fuorviante assumere il punto di vista hegelia­ no per una valutazione contemporanea delle tesi esposte da Her­ der. Possiamo infatti comprendere la Plastica soltanto se prendia­ mo sul serio il problema da cui essa muove. Sin dall'inizio, l'am­ bito estetico abbraccia per Herder sia la sfera ddla percezione sensibile che quella del giudizio sulla bellezza di un corpo o di un'opera d'arte. La bellezza, troviamo in un frammento giovanile sulla Aesthetica di Baumgarten, è parte della «conoscenza sensi­ bile » 29• Per questo motivo la ricerca sulle condizioni di giudizio sul bello deve procedere dalla costituzione sensibile del corpo, e distinguere le arti secondo i sensi rispettivi alle quali esse si diri­ gono. Questo significato originario dell'estetico, che precede la fondazione dell'estetica speculativa e la conseguente separazione tra sfera delle sensazioni e della contemplazione del bello, è il momento essenziale di una "antropologia estetica" il cui rilievo filosofico va ben al di là della sua posizione storica. Non è pos­ sibile qui neanche accennare ai fondamenti filosofici dell'interpre­ tazione che Herder compie dei testi di Wolff, Baumgarten, attra­ verso l'insegnamento decisivo di Kant, interpretazione che prese forma soprattutto nell'importantissimo frammento giovanile che reca il titolo Saggio sull'essere 30• Con una semplificazione obbli­ gata, Herder delinea lì i tratti di una critica della identità di esse­ re e pensiero, a partire da una considerazione "esistenziale" della originaria limitatezza sensibile della conoscenza che radicalizza le tesi del Kant pre-critico. Ciò che invece seguiremo è il petcorso inverso da quello compiuto da Herder: procederemo cioè dalle singole arti figurative alla critica delle loro condizioni estetiche leggi "percettive"- che viene compiuta nella Plastica. Presuppo­ sto della distinzione tra le due arti è evidentemente la distruzio­ ne dei presupposti del modello umanistico, in cui la pittura com­ prende sotto di sé la scultura. Cominceremo quindi dalla prima. La presenza di un unico punto di vista fa della pittura l'arte della visione in senso proprio. n quadro è un intero illusionisti­ co, dove l'artificio di luce e colore produce una parvenza (Schein) che è in sé occasione di godimento, al di là della bellezza dell'og­ getto rappresentato. Proprio qu�to carattere rappresentativo, nel

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teatrale e non conoscitivo che Herder sottintende usando il francesismo "Repriisentation", fa sì che la pittura non sia limitata nella scelta dei soggetti alla raffigurazione del corpo umano, legit­ timando cosi la dignità, immanente alle determinazioni della pit­ tura, che è propria al quadro dipaesaggio. La profondità dello spazio e la rotondità dei corpi sulla superficie della tela dipendo­ no, più che dal mezzo disegnativo del chiaroscuro, dall'accordo compositivo creato dall'accostamento delle tinte prime, che for­ ma il volume ed il rapporto dei corpi 31• Nessuna preminenza for­ male-eidetica del disegno, quindi, preminenza che sarà sostenuta ancora da Kant 32 e da Schelling 33, né, dall'altra parte, nessuna giustificazione etica di una normatività "bella" del corpo umano, in quanto esibizione di una forma che contiene in sé una finali­ tà sovrasensibile, che passerà in eredità dalla Critica del Giudizio a Schiller ed all'estetica idealistica. La domanda che presiede a tale concezione della pittura è sem­ plice: la percezione di un quadro corrisponde alle condizioni nor­ mali della visione? La vista coglie immagini piane, bidimensionali, dalle quali astrae immediatamente il volume, la posizione, la di­ stanza dei corpi? Una tradizione assai antica risponde positiva­ mente a queste domande. È soltanto tra la fine dei Seicento e gli inizi del Settecento che viene posto in questìone il fondamento filosofico di questa ascrizione al senso della vista del potere di giudicare il sito, la figura, la grandezza, la distanza. Queste deter­ minazioni spaziali, che la tradizione chiamava «sensibili comuni», avevano sempre offerto un caso di particolare difficoltà per la psicologia, dottrina delle facoltà dell'anima che comprendeva sino a Wolff i sensi esterni ed interni. La soluzione più corrente al problema del rapporto tra sensazione visiva e giudizio era quel­ la di attribuire alla vista, quale senso esterno più nobile, una pros­ simità anche anatomica al senso interno preposto alla compara­ zione e determinazione delle sensazioni esterne, il senso comune. Si trattava di spiegare in che modo la sensazione, di per sé sem­ pre singolare, potesse elevarsi alla universalità del giudizio, che discrimina la posizione del corpo nello spazio. Secondo questa tradizione, nel momento in cui la vista coglie il particolare, essa agisce in concordanza con il senso comune seguendo dei sillogi­ smi abbreviati, che le permettono di apprendere l'universale 34• Le difficoltà poste dalla sensazione visiva sono quelle di un pen­ siero che non conosce rigida differenza di natura tra sensazione e concetto, intesi come essi sono quali modi della percezione (persenso

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ceptio-Vorstellung), termine che abbraccia la singolarità della

sen­

sazione e la universalità del concetto. Esiste allora una "geometria naturale" dell'uomo, come pensava ancora Cartesio? Nella sua critica della dottrina della "species", il pensatore francese aveva paragonato il processo della visione alla percezione spaziale di un cieco, che riconosce la distanza dei corpi attraverso l'azione di due bastoni che egli tiene nelle mani: il raggio visivo che tocca il corpo a distanza secondo l'unità di misura metaforizzata dal ba­ stone permette così la riduzione del momento sensibile alle leg­ gi lineari e geometriche della rappresentazione. Non è un caso, allora, che la successiva discussione avvenga attorno all'esempio del cieco. Tale esempio, che ritorna nella riflessione filosofica del primo Settecento, da quando venne posto da Locke, e che costi­ tuisce l'argomento principale della Plastica, offre una base speri­ mentale per la discussione di una soluzione avvertita oramai co­ me insoddisfacente, ma infitta profondamente nel lessico tradizio­ nale della filosofia. Sottoponendo ad un esame regolato un cieco che ha appena riacquistato Ia vista, si tenta di porre a giorno se la sensazione visiva contenga già in sé la forma intelligibile della profondità e della distanza tra i corpi, o se piuttosto l'immagine visiva richieda a questo fine atti successivi di comparazione e di giudizio. Locke risponderà alla questione portando ad esempio il disco ombreggiato, che già Galileo aveva impiegato nella sua discussio­ ne del "Paragone": per il filosofo inglese sono l'abitudine (habit) e l'esperienza a far sì che l'immagine piana appaia come un cor­ po solido, che il disco sembri una sfera. La percezione della pro­ fondità è un risultato, frutto di apprendimento. Possiamo notare tuttavia come per Locke «le idee delle qualità primarie dei cor­ pi sono similitudini di esse, e che i loro moduli esistono realmen­ te nei corpi» 35• Le qualità analitiche, riducibili a misura numeri­ ca, dei corpi estesi sono così qualità dell'essere anche per il pen­ satore inglese; pensiero ed essere comunicano per via di una so­ miglianza, una immagine, per quanto tale immagine escluda le qualità secondarie, quali i colori, i sapori, ecc. L'autentico supe­ ramento di questa teoria della percezione di origine scolastica si avrà soltanto con Berkeley, la cui Nuova Teoria delkl. Visione muove appunto dal rifiuto di ascrivere alla vista la capacità di giudicare la distanza e la profondità dei corpi 36• Herder scrive in un fram­ mento giovanile, in cui pone a raffronto la teoria della conoscen­ za di Locke e di Leibniz:

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L'universo reale è qualcosa d'interamente diverso da ciò che appare. Descartes lo aff��tm6 ai suoi tempi contro le espèces intentionelles, che la luce e il colore non hanno nulla In comune con le idee che noi abbiamo di esse. Newton lo ha dimostrato, molto rempo dopo. attraverso la scomposizione dd raggio solare 17.

n passo è importante per due ragioni, strettamente connesse l'una all'altra. La prima ha a che fare con il rilievo concesso alla scoperta newtoniana dello spettro luminoso. Potremmo ricorda­ re che sia Hegel- per il quale il colore è tuttavia mezzo prima­ rio della pittura - che Schelling rifiutano il risultato della scoper­ ta di Newton: per loro la luce rimane qualcosa di indiviso, e quindi puramente spirituale. Traendo le conseguenze dal modello new­ toniano, Herder sostiene una teoria della pittura in cui la luce modella il corpo attraverso il colore. TI quadro compone una par­ venza, non riproduce una forma essenziale, compito che la tradi­ zione del disegno assegnava alla linea che traccia i contorni ed incide le ombre del corpo. La presenza inapparente del colore all'interno della luce motiva una nozione "fenomenica" della pit­ tura. La seconda ragione riguarda direttamente la psicologia del tem­ po, ed in particolare il pensiero del filosofo più autorevole di me­ tà Settecento, Christian Wolff. L'argomento contro le "espèces" che Herder riprende da Cartesio tocca infatti il fondamento sco­ lastico della sua psicologia. Le sensazioni sono per Wolff imma­ gini (species-Bilder) la cui perfezione conoscitiva consiste nella so­ miglianza con il sensibile: la sensazione è ricezione della forma o specie intenzionale della cosa, al di là della materia di cui essa è composta. Non a caso egli poteva paragonare la perfezione del­ la rappresentazione ad un quadro che somiglia a ciò che rappre­ senta 38• L'emancipazione della sensibilità dal modello della similitudo è l'oggetto di un'intensa discussione filosofica, che all 'epoca di stesura della Plastica può dirsi pressoché conclusa. La discussione sul medio della percezione aveva investito il tema cruciale del rapporto tra sensazione e pensiero, oggetto del Trattato delle sen­ sazioni di Condillac come dei libri di Diderot, La Mettrie, Bou­ reau-Deslandes. La vicenda della statua di Pigmalione assume qui una pregnanza singolare, testimoniata dall'autentica moda che attraversa l'epoca dei Lumi. li motivo erotico dell'amore per la statua, che Herder introduce già nel sottotitolo del suo libro, ave­ va offerto la materia per opere musicali (Rameao, Ramler), ro­ manzi filosofici (Boureau-Deslandes, Bodmer), gruppi statuari (Fai-

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conet), ed infine, per una "'scéne lyrique" di Rousseau. La vicen­ da assume rilevanza sul piano estetico perché è intesa come una metafora delle condizioni sensibili proprie alla ricezione di un'opera d'arte. Pigmalione immagina la statua di una donna bellissima, ma questa rappresentazione che pure lo guida mentre scolpisce il blocco di marmo non contiene in sé, apparentemente, nemmeno un presagio dell'attrattiva destata in lui dalla forma finale del cor­ po, che 1o affascinerà sino all'innamoramento. Vi è uno iato tra la rappresentazione chiara e distinta del pensiero, quella chiara ma confusa, perché sensibile, della forma realizzata, e l'oscurità dd desiderio. Volontà e desiderio, pensiero e sensazione si dividono, sulla base della medesima rappresentazione: Pigmalione sa, pur senza esserne consapevole, che egli desidererà la forma bella che ha concepito? La vicenda attesta l'esistenza di forze che operano nell'individuo al di qua della coscienza, di percezioni che senza superare mai la soglia della riflessione determinano effetti potenti nell'uomo. Esse vanno determinate, separando l'oscurità del loro effetto estetico dalla loro posizione rispetto alla totalità delle per­ cezioni, che deve essere chiaramente definita: a questo fine, lo «stato mediano» (Herder) che decorre tra idee oscure e distinte, chiamato «nelle cose della conoscenza sensus communis, in quelle del giusto e dell 'ingiusto coscienza, e gusto rispetto agli oggetti del bello» 39 non può bastare. La statua senziente di Condillac è il tentativo di ripercorrere all 'inverso il processo di conquista del pensiero riflessivo, attraverso la combinazione delle sensazioni semplici, che si aggiungono le une dopo le altre al corpo inerte. In Germania, Sulzer e Mendelssohn tematizzano la potenza este­ tica delle percezioni oscure, che, nelle parole del primo, «posso­ no avere effetti assai notevoli>> , così che > perché era intesa come species intelligibile. t7 Scritti, cit., vn, p. 1945. 18 Ibidem, p. 2056. 19 Non ignoriamo che sin dal Trecento filosofi come Pietro d'Auriolo hanno tentato .

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di 1piesarc: ha trasmissione

a distanza del colore attraverso l'azione di una species coloris invisibile; anche la stessa unità di natura di luce e colore venne sostenuta da Durando di S. Porciano, per il quale >, scrive Ovidio, 252) e il desiderio che tale forma genera nell'artefice, dove la possibilitì di porre l'accento sul primo o sul secondo pone a giorno l'intreccio paradossale tra produzione e contemplazione che è alla base della narrazione di Ovidio, e che segna la successiva ricezione. L'autentica moda di Pig­ malione, che attraversa il secolo dei lumi, trova una connessione rivelatoria con la teoriz­ zazione filosofica sulla statua senziente nel racconto di André François Boureau-Deslan­ des Pigmalion ou la statue animée (A Londres, Chez Samuel Harding, 1742). Deslandes ipotizza la possibilità di un perfezionamento dei sensi che trova nel desiderio il suo punto nodale: la machin e del corpo potrebbe, per analogia tra moto fisico e affettivo, avere già in quanto materia l'ultimo attributo dell'uomo, il pensiero. Sono gli anni in cui la fasci­ nazione per gli automi costruiti da Jacques de Vaucanson fa scrivere a La Mettrie che è vicino il giorno in cui l'uomo potrà esser prodotto artificialmente, da un tecnico partico­ larmente capace. A Deslandes rispose Johann Jakob Bodmer con il suo Pigmalion und Elise (in Neue En;iihlungen verschiedner Verfasser, Frankfurt und Leipzig 1747, pp. 1 -70; poi assieme al racconto di Sulzer Damon oder die Platonische Liebe, Berlin 1749), dove egli offre una versione dela favola moralizzata in senso cristiano. I diversi modi in cui si esprime la settecentesca philia saranno calati nel mito di Pigmalione da altri autori e mu­ sicisti, tra i quali Ramler, nella cantata Pygmalion (Berlin 1768), Rousseau, nella "scène lyrique" Pygmalion del 1763 (edita solo nel 1 77 1 ) , Fontenelle, Rameau; ma è nella scul­ tura che troviamo ancora un esempio significativo. Nel 1763 Falconet espose al Salon un gruppo dedicato a Pigmalione e Galatea che trovò ricezione entusiasta in uno scritto di Didero! per la "Correspondance lettéraire" , rivista che veniva diffusa in pochissime copie nelle corti europee (ora in Salons, l, a c. di J- Seznec e J. Adhemar, Oxford 1957, pp. 24547). (Sul plesso !ematico si veda l'ottima ricerca di A. Bliihm, Pygmalion. Die Ikonogra­ phie eines Kunstlermythos zwirchen 1500 und 1900, Peter Lang, Fr. a. M!Bem/New Yorkl Pa.cis 1988). Herder conosceva con certezza il libro di Deslandes, che era tra i testi del­ la biblioteca alla sua morte (vedi BH, n. 6558), e anche il testo di Bodmer e la cantata di Ramler, come si evince dal Nachlass (vedi SW, VIII, p. 659); i due riferimenti a Falconet nella Plastik lasciano arguire che gli fosse perlomeno nota l'esistenza della scultura. Her­ der tornerà sul tema di Pigmalione negli ultimi anni di vita, con la poesia incompiuta Pygmalion. Die wiedergelebte Kunst, da "Adrastea" IV; IX, 1801-03, in SW Xxvnl, pp. 264 ss. Su Pigmalione e il mito dell'artista creatore si veda E. H. Gombrich, Art and Illusion, Oxford 1959; rispetto al Settecento letterario, H. Sckommodau, Pygmalion bei Franzosen und Deutschen im 18. ]ahrhundert (Sitz. ber. der Wiss. Geselischaft der J.-W. Goethe­ Universitat Frankfurt a. M., 8, 1970, n. 3), Wiesbaden, Steiner 1 970, pp. 47-80; su Bou­ reau-Deslandes e la ripresa del motivo nel pensiero francese, il Nachwort di Wolfgang ProE a Herder, W, II, pp. 1 1 45-50. La cit:p:ione greca è una testimonianza aristotelica

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riportata da Diogene Laerzio v, l , 20: «Cos'è la bellezza? Chiedilo ad un cieco! » . È da notare che nel testo la frase ha un senso completamente diverso, anzi opposto, poiché alla domanda posta ad Aristotele «Perché ci piace trattenerci a lungo con le persone belle?» il filosofo risponde: «Soltanto un cieco potrebbe fare questa domanda». Un chiaro esem­ pio di antifrasi . La citazione da Virgilio è una contaminvjone di Eneide, v, 88-89, «ceu nubibus arcus l mille iacit varios adverso sole colores>> : «sembrava l'arcobaleno che con­ tro sole rallegra le nubi di mille colori» , con Eneide, IV, 701, «mille trahens varios adverso sole colores>> : «brillanti contro sole di mille vari colori» {trad. di Cesare Vivaldi, Guao­ da, Parma 1962)]. 2 Lettre sur !es aveugles etc. [Denis Diderot, Lettre sur !es aveugles à l'usage de ceux qui voient (175 1), in CEuvres complètes, Idées II, Le nouveau Socrate, ed. a c. di Yvon Be­ lavai et al., Paris, Hermann 1978. n saggio di Diderot è l'ennesima presa di posizione sul tema della cecità, che rivesd per l'intera prima metà del Settecento un'importanza fùoso­ fica tale da poterlo considerare come un'autentica metafora assoluta del pensiero di quel tempo. Locke lo impose all'attenzione con la seconda edizione del suo Essay concerning Human Understanding (1693), libro n, cap. 9, §§ 9-10, ®ve riferisce il problema propo­ srogli dallo studioso di ottica William Molyneux. Nei termini originali, si domanda se un uomo nato cieco, e capace di distinguere al tatto un cubo ed una sfera di avorio, sareb­ be capace dopo aver acquistato la vista di riconoscere a prima vista i due oggetti, senza l'ausilio del tatto. La risposta negativa di Locke tendeva a porre in evidenza come la no­ stra idea visiva della figura non sia, in quanto tale, che l'immagine di una superficie piana, e che quindi la capacità di percepire i corpi solidi sia dovuta aD'abitudine e alla campa· razione dei diversi casi in cui la luce si rifrange sull'oggetto, dalla quale nasce un giudi· zio intellettuale inconsapevole, che accompagna ogni nostra successiva sensazione. Per una esposizione iniziale delle numerose prese di posizione sul quesito in Berkeley, Leibniz, Voltaire, Condillac, La Mettrie, Buffon, vedi John W. Davis, The Mo/yneux Problem, in uJoumal of the History of ldeas", 2 1 , 1960, pp. 392-408. Un buon esempio dei presup­ posti che guidavano la ricezione tedesca del problema è offerto dalla recensione anonima della Plastik nella "Allgemeine Deurscbe BibUothek • , cit., p. 504, dove il caso viene rivol­ to contro Herder; l'autore infatti afferma, riprendendo l'argomentazione di Leibniz, che il quesito non riguardava la capacità del cieco di riconoscere i due corpi, quanto la pos­ sibilità che egli desse il nome esatto all'oggetto che sino allora aveva percepito solo me­ diante il tatto. n problema concerne quindi il rapporto tra oggetto, significante e signifi­ cato; la designazione della cosa. Per questa impostazione in Leibniz, vedi Philmophische Schriften, ed. C. J. Gerhardt, v, rist. anast. Hildesheim-New York 1978, pp. 124-25.] 1 [Herder usa qui, come in rutto il libro, la parola "Gefiihl " per indicare il senso del tatto . Come ricorda il dizionario dei fratelli Grimm, questo è il significato originale del termine in tedesco, che solo successivamente era passato a designare il "sentimento" nel senso più ampio. D'altronde, la letteralizzazione compiuta da Herder diviene modo per avvalersi della duplicità per la quale il «tatto {Gefiihl ) è organo di ogni sensazione {Em­ pfindung) dei corpi», come trovianw nella quarta Selva (KW IV, p. 498). Nei frammenti preparatori della Plastik è espressa nitidamente l'opposizione che governa il libro: tatto è opposto a immaginazione, che a loro volta corrispondono a sensazione e vista {vedi Zum Sinn des Gefiihls, in W n, p. 249).] � [Nicholas Saunderson (1682-1739), matematico inglese rimasto cieco sin dal primo anno di vita, insegnò a Cambridge, dove meritò la stima di Newton. La sua opera prin­ cipale è Elements o/ Algebm in ten Books; to which are pref 1. the /ife and character o/ the author, 11. his palpable arithmetic decyphered, Cambridge 17 40, di cui Diderot nella Lettre discute in particolare le due introduzioni. William Hogarth, Ana/ysis o/ Beauty. Written with a view o/fixing the /luctuating Ideas o/ Taste, London, ]. Reeves, 1753, p. 107 (vedi anch e p. 93 ), aveva tratto dall'esempio di Saunderson conKguenze, chiaramente ispirate a Locke, sul tatto come senso della corporeità sensibile e come vicario della vista nella percezione della profondità: «[ .. .] l'occhio in genere dà il suo assenso allo spazio e alle distanze come sono state dapprima misurate dal tatto [feeling}, o calcolate altrimenti nella mente: misure e calcoli che sono in potere di un cieco, in modo uguale se non maggio-

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re dd nostro, come è stato dimostrato pienamente da quell'incomparabile mat�atico 1: meraviglia della sua epoca, il fu professar Saunderson,.. ll libro apparve in tedesco nel­ la traduzione di Christlob Mylius, Zergliederung der Schonheit, die schwankenden Begrif /e von dem Geschmack /estz.uset:t.en, London, Andreas Linde 1754, alla quale si aggiunse pochi mesi dopo un'edizione più economica e corretta con una nota preliminare di Les­ sing, Berlin und Potsdam, VoB 1754. L'espressione «calcolate nella mente» mostra come Hogarth si muova in un ordine di pensiero assai diverso da quello di Herder.] 5 [William Cheselden (1688-1752), medico e chirurgo londinese, eseguì la prima aspor­ tazione della cataratta. TI suo saggio An account o/ some observations mode by a young

gentleman who was born blind or lost his sight so early that he had no remembrance o/ ever having seen and was couch'd between thirteen and/ourteen years o/ age apparve nelle " PhiJ.

osophical Transactions" della Royal Society di Londra, 35, 1729. Anche il caso descritto da Cheselden era stato commentato da Diderot nella Lettre sur les aveug/es. Già Berke­ ley vi rimandava nel suo A/ciphron (1732, IV,15), dove la vicenda veniva assunta a prova llelle tesi sulla differenza tra idee del tatto e della vista enunciate nella New Theory o/ Vision. Nel lascito manoscritto di Herder è stata trovata la trascrizione del testo, che viene riportata in appendice nell'edizione Hanser dei Werke (cfr. vol. n, cit., pp. 1223-26) Egli venne a conoscenza del caso già all'epoca in cui seguiva a Konigsberg le lezioni di Kant sulla Metaphysica di Baumgarten ( 1762-64), come appare nei suoi appunti, ora in Im­ manuel Kant, Akademie-Ausgabe (d'ora in poi AA.), XXVIII, vol. 2, t. l , p. 852.] 6 Ottica di Smith. [Robert Smith, A complete System o/ Optics, Cambridge 1738, 11, 4. Herder usava l'edizione tedesca di Abraham Gotth. Kiistner, Vollstiindiger Lehrbegriff der Optik nach Herrn Robert Smiths Englischen mit Andenmgen und Zusiit:t.en ausgearbeitet,

Altenburg 1755, p. 40 ss.] 7 [Il termine tedesco "Begriff" rinvia nella sua radice, come d'altronde il nostro "con­ cetto." da capio, ad un verbo, grei/en , che significa "toccare, palpare, afferrare".] 8 [Herder allude allo scultore Giovanni Francesco Gonnelli (1603-forse 1664), nato a Gambassi in Toscana, che dopo I!Ver perso la vista nel 1632 esegui numerose opere tra le quali un busto di Urbano vm. Si veda la biografia in F. Baldinucci, Noti:t.ie dei professo­ ri del disegno, Vl, Firenze 1728, pp. 253-258. Gonnelli divenne famoso sotto il sopranno­ me di "il cieco di Gambassi"; come tale è ricordato da Roger De Piles, nel Dialogue sur le coloris (Paris, Chez Nicolas Langlois 1673, pp. 19-23). Ll il teorico francese narru eli un artista cieco che «faceva dei ritratti molto somiglianti,. tastando l'originale e la copia: «i miei occhi, diceva, sono sulla punta delle mie dita». L'esempio serve a difendere l'argo­ mento cruciale, che appare qui a p. 13: «Ditemi, [. . . ] sotto quale parte della pittura è compresa l'intelligenza delle luci e delle ombre? Sotto il Colorito, rispose PanH.Io, poiché nella Natura la luce e il Colore sono inseparabili». Una tesi che era all'epoca ben Iungi dall'essere comun�ente accettata, e che segna il trapasso dalla supr�azia descrittiva del "disegno" comune alla trattatistica del periodo di fondazione deii'Académie roya/e de peinture et de sculpture alla progressiva emancipazione teorica del "colore" in quanto medium specifico della pittura: «la storia di questo cieco ci fa vedere che la sua arte, che era turta nel disegno, gli aveva dato occasione di soddisfare il suo spirito, e di consolar­ si in qualche modo della perdita di un senso tanto prezioso quanto la vista, consolazio­ ne di cui sarebbe stato privato se fosse stato un pittore: la ragione è che il colore e le luci non sono oggetto che della vista, e che il disegno, come ho detto, � oggetto del tatto» ( Cours de peinture par principes, 1709, éditions Jacqueline Chambon, Nimes 1990, con una intro­ duzione di Thomas. Puttfarken, pp. 152-154). La percezione della fonna degli oggetti non dipertde quindi dalla intellezione di un "disegno" interno, che per il direttore della Aca­ démie Charles Le Brun è sostanza della pittura, nel suo passare clalla mente alla mano, da

• dessein" a dessin". Per De Piles Il disegno è sostrato, ma non sostanza della pittura, la cui differenza'specifica è il colore. L'equivocità per la quale "disegno" poteva significare "volontà di dire o fare qualcosa" e sua attuazione manuale viene ormai considerata sol­ tanto pericolosa. L'opera fondamentale su De Piles e la teoria dell'arte francese eli fine Seicento rimane il libro eli Bemard Teyssèdre Roger de Piles et les débats sur le colon! au siècle de l.ouis XIV, Paris, Bibliothèque des Arts, 1964. Più di recente sono apparsi Tho•

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mas Punfarken , Roger de Piles' Thevry o/ Art, Yale University Press 1985, e Jacqueline Li­ chtenstein, ù couleur éloquente, Paris, Flamm arion 1989.] 9 [Qui Herder compendia ed elabora motivi del pensiero del Seicento e Settecento sul rapporto tra tatto e vista. Già in Cartesio il tatto è il senso primo, il cui operare tramite il contatto dell'oggetto con i "petits fùets" che giungono sino al cervello fa da modello a tutti gli altri. Vista e tatto agiscono assieme, offrendo all'anima le sensazioni del sito, la figura, la distanza e la grandezza (vedi Traité de l'Homme, in CEuvres, XI, cit., pp. 142·59). Ma è alla fine del Seicento, con la problematizzazione del rapporto tra idee della vista e idee del tatto, e tra sensazion e e giudizio, che la questione ass ume rilevanza cruciale. Ma­ lebranche, come riconoscerà Condillac, sarà il primo ad affermare ciò che è la base del­ l'argomentazione herderiana, e cioè che alle nostre sensazioni si mescolano dei giudizi del­ l'intelletto, degli atti di comparazione (vedi Étienne Bonnot de Condillac, Traité des sen­ Jations, 1754, m, TV, in CEuvm philosophiques, l, a c. di G. Le Roy, Paris, Puf 1948). È Locke però ad offrire, nello Essay on Human Underrtanding (u, IX) la spiegazione che qui Herder riecheggia, seppur in forma caratteristicamente invertita: è l'abitudine a far sì che noi si prenda per un corpo tridimensionale ciò che in realtà vediamo come una superfi­ cie piana , una pittura quindi. Ma forse più che con i riferimenti francesi e inglesi, Her­ der dialoga qui con la parte della Psychologia rfltionalis di Christian Wolff dove il filosofo tedesco discute del tatto come senso vicario della vista, nella sua capacità di percepire in modo distinto la linea nella sua estensione, la superficie curva, il concavo e il convesso, il rapporto del corpo agli oggetti, gli angoli, e quindi, ciò che è più importante per Herder, i generi e le specie dei singoli individui. Da Wolff, che riprende da De Piles l'esempio dello scultore cieco, Herder potrebbe avere tratto la distinzione tra lentezza del tatto come senso della vicinanza, che proprio per questo ha molte più sensazioni della vista, e rapidità perlustratlva del senso della distanza visiva. Vedi Christian Wolff, Psychologia ra­ tionalis, cit., §§ 161-177. È chiaro che occorre considerare la critica kantiana alla deriva­ zione deli'esistenza dal possibile logico in Wolff e Baumgarten, che affiora qui nella pe­ culiare radicalizzazione per cui il tennine "verità• indica l'essenza del tatto.] 10 [D procedere dell'analisi, che dapprima scioglie i nessi e quindi unisce ciò che è di­ sgiunto, trova il proprio fondamento nel "concetto sensibile" ottenuto mediante il tatto; nd Versuch uber das Seilt (1762-64), in W, 1, p. 577, questa determinazione è prefigura­ ta, dove Herder afferma che «sensibile e oscuro già da lungo tempo si sono dimostrate espressioni che hanno lo stesso significato [ .. .] l'analisi non va all'infinito, poiché alcuni concetti sono sensibili. [. .. ] Sensibile e indecomponibile sono quindi sinonimi».] 11 [L'etimologia tedesca non ha ovviamente alcuna corrispondenza in italiano; in ogni caso Herder sovrainterpreta, poiché se "Schon", "bello", è affine a "schauen" , "guarda­ re", non lo è rispetto a "Schein ", "parvenza" .] u [I termini "chiaro" e "distinto" venivano usati, all'epoca in cui Herder scrive, nel­ l'accezione leibniziano-wolffiana. "Chiara" (klar) è una rappresentazione in cui siamo in grado di riconoscere l'oggetto in quanto diverso da un altro; la medesima diventa anche "distinta" (deutlich) quando riusciamo a discernere anche le parti di cui l'oggetto è com­ posto. Una rappresentazione chiara può essere tuttavia "confusa" (verworren), poiché è possibile che la si colga nella sua identità senza per questo poter risolveda per via d'analisi nelle sue parti. "Oscure" sono infine quelle rappresentazioni che non sono nemmeno ri­ conoscibili in quanto tali, ma che, nelle parole di Sulzer, «possono avere effetti assai no­ tevoli», cosi che .d'anima può essere occupata in faccende rilevanti, senza averne una co­ noscenza davvero chiara» (J. G. Sulzer, Zergliederung des Begriffs der Vernufl/t, l" ed. 1758, in Vermischte phi/osophische Schri/ten, 1nJ, p. 261). L'apparente paradosso di que­ st'esempio scompare, nd momento in cui ricordiamo che la divisione tra concetti dell'in­ telletto e sensazioni dell'intuizione si afferma soltanto con il Kant critico: all'epoca della citazione di Sulzer concetti dd pensiero e sensazioni prodotte dalla cosa sono allo stesso titolo " rappresentazioni" (Vorstellungen), secondo la duplicità presente nel termine lati­ no di perceptio" ancora usato da Wolff e Baumgarten. In tale prospettiva, la rappresen­ tazione chiara e distinta possiede un grado superiore di determinazioni conoscitive, gra­ do che nella psicologia contemporanea è associato al senso della vista.] •

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11 [D termine "fenomenologia" indica qui la dottrina della parvenza (ScheinJ, intesa nella definizione proposta da Johann Heinricb Lambert come il medio tra vero e falso. L'opera maggiore del filosofo alsaziano meriterebbe uno studio attento, per quanto riguar­ da i nessi con Herder; vedi Novum Organum oder Ged4nken uber die Erforschung urrd Be­ xeichnung des Wahren und dessen UnterscheUlung vom Irrtum und Schein, Leipzig, Wen­ dler 1764 (edizione a c. di G. Scbenk, Berlin-Ost, Akademie-Verlag 1990), vol rr, "Piùi­ nomenologie oder Lebre von dem Schein", 5 l; vedi anche KW IV, p. 534.] 14 [ll termine "Hillfsbegriff" sta per "Nebenbegriff" o anche "Nebenidee", che Her­ der impiega altrove nel senso di concetto secondario, generato dalla presenza di un o.ltro; si veda la nota 78.] 15 [Vedi KW IV, p. 500; Wilhelm ProB indica in nota come fonte di questa citazione ( W, II, p. 879) il Traiti de la formation mécanique des langues di Charles de Brosse. Pur­ troppo non ci è stato possibile controllare e specificare il rimando.] 16 [L'intero passo è svolto in modo più diffuso nel KW IV, pp. 510-513, e in Plastik 1 770, in W, II, pp. 415-17. Da questi brani di Herder emerge con chiarezza il rapporto genetico tra tatto e vista che si configura qui qdl.a differenza tra esperienza dell'opç.ra d'arte plastica e sua descrizione. La semplicità �'intero tridimensionale, in quanto riposa sulla sensazione indecomponibile del tatto, è proprio per questo irriducibile al carattere composito e derivato della visione, che come tale è una «abbreviazione, una supplenza di un senso più originario» (Plastik 1770, p. 415)_ L'entusiasmo dell'amatore per la forma plastica indica come l'illusione prodotta dall'«immaginazione tattile [ . . . ] priva di misura, di limiti» (ivi, p. 416) sia reintegrazione in una condizione di pienezza ineffabile, dove l'incapacità di descrivere la forma deriva dall'oscurità indecomponibile della sensazione tattile.] 17 [Vedi Iliade, l, 529-530, trad. di Rosa Calzecchi-Onesti, Torino, Einaudi 19807: «le chiome ambros.ie del sire si scompigliarono l sul capo immortale: scosse tutto l'Olimpo».] 18 [Apoll onio Nestoride è l'autore del Torso di Belvedere, forse l'opera antica che ha esercitato la più grande fascinazione, sin nel Novecento. TI torso riporta la firma dell' ar­ tista, che oggi si pensa sia vissuto ad Atene nel I sec. a. C.; si veda J. J. Winckelmann, Be­ schreibung Jes Torso im Belvedere zu Rom, in "Bibliothek der schi:inen Wissenschaften und der .freyen Kiinste", v, l, 1759, pp. 23-41, ora in Kleine Schriften, Vorreden, Entwur­ fe, a c. di W. Rehm, Berlin, de Gruyer & Co. 1968, pp. 169-173, e anche GK. XXI, p. 370, trad. it. pp. 265-66. Sulla storia della ricezione, si leggano Ch. Schwinn, Die Bedeutung des

Torso vom Belvedere fiir die Theorie und Praxis der bildenden K.iinste vom 1 6. ]ahrhundert bis Winckelmann, Frankfurt a. M/Bem, Lang 1973, e Haskell, pp. 462-68.] 19 [Ad Agasia di Efeso si attribuiva all'epoca il Gladiatore Borghese, oggi esposto al Louvre; vedi Winckelmann, GK, 11, p. 394, trad . it. pp. 280-8 1 ; Gedanken, p. 1 18, trad. it. P- 87. Per la storia della ricezione, cfr. Haskt!ll, pp. 32 1-27.] 20 I pensieri sulla scultura di Falconet sono l'ottima conferenza di un anista il cui fine

non è quello di sceverare in senso filosofico i confmi delle due arti. [Lo scultore france­ se Etienne Maurice Falconet (17 16-1791) fu uno degli artisti più apprezzati del suo tem­ po. Di lui si ricorda, oltre al gruppo Pigmalione e Galatea, il monumento equestre di Pie­ tro il Grande a San Pietroburgo, dove era stato chiamato come artista di corte. Falconet si distinse per il tentativo di elevare la dignità della scultura sul piano della riflessione critica: nei tre volumi delle sue opere troviamo un saggio sulla scultura equestre di Marco Aurelio assai critico verso Winckelmann, note polemiche su Lessing e Mengs, una tradu­ zione dei libri dedicati alle arti figurative della Naturalir Histon'a di Plinio, e appunto le Ré/lexions sur la sculpture (1 76 1 ) che vennero tradotte nella " Neue Bibliothek der scho­ nen Wissenschaften" , 1, 1765. Nel Denkmahl Winckelmanns del 1777 Herder difese lo storico dalle accuse di ignofanza che Falconet gli aveva rivolto (SW vm); ancora nel 1802 egli discuteva il gruppo equestre di Pietroburgo in U» suo ritratto di Pietro il Grande che comparve in "Adrastea" , m, l, pp. 83-88 (in SW XXIIJ , pp. 451-55). Su Falconet si veda Rudolf Wittkower, La scultura (1977), trad. di R Pedio, Torino, Einaudi 1975, pp. 25768, e più in esteso A. B. Weinsbanker, Falcone/: bis Writings and bis Friend Diderot, Ge­ nève 1966. D testo delle Ré/lexions è in CEuvres Complètes, Paris, Dentu 1808 (rist. anast.

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�ève, Slatkine 1970), vol. m, pp. 146; esso servi da base per la voce "Sculpture" della 8fll:yclopédie, edita con tagli e aggiunte di Louis de Jaucourt, che è tradotta in AA. VV., L'estetica dei/'Encyclopédie, a c.. di Massimo Modica, Roma, Editori Riwùti 1988, pp. 205-

14. ]

21 [Segno naturale, in quanto opposto al segno artificiale o arbitrario, è nella tradizio­ ne filosofica dagli scettici ad Agostino in poi quello che ha in sé la facoltà d'indicare qual­ cosa, come il fumo il fuoco, il riso la gioia; dove invece il segno arbitrario designa la cosa per istituzione, divina (i sacramenti) o umana, come nd caso della scrittura, le parole, i segnali convenuti. Nella formulazione determinante per il primo Settecento, quella di Christian Wolff, al quale si riferisce anche Condillac nel suo Essai sur l'origine des con­ noùsances humaines ( 1746, 1, IV, n, S 27), il segno naturale può essere sia coesistente che successivo (vedi Philosophia Pnma sive Ontologia, Francofurti et Lipsiae 17362, in GW, 11 Abt., Bd. 3 , §§ 955-60). È una determinazione che per quanto elementare costituisce l'orizzonte di riflessione nd pensiero "estetico" tedesco di metà Settecento. A questo ri­ guardo la differenza essenziale tra i berlinesi ed Herder, che segna l'importanza seconda­ ria dei concetti di segno naturale e arbitrario in quest'ultimo, sta nd concetto d'immagi­ nazione, e in quello correlato di illusione. Se per Lessing il bello in un'opera d'arte «non lo trova il nostro occhio, ma, attraverso il nostro occhio, la nostra immaginazione» , e quindi «la stessa immagine può dunque essere suscitata nella nostra immaginazione attra­ verso segni arbitrari o naturali, e allo stesso modo ogni volta deve scaturire lo stesso pia­ cere, per quanto non nello stesso grado», in Herder l'effetto di presenza dell'opera d'arte è dd tutto specifico al medium sensoriale, alla percezione sensibile. Non è di poca impor­ tanza che, mantenendo la coesistenza spaziale a momento qualificante del senso dell a vista, Herder vi assegni uno statuto puramente immaginativo, nd senso di " fantasma" , "sogno", "inganno". Vedi Moses Menddssohn, Von den Quellen und Verbindungen der schonen Kiinste, in Gesammeite Werke, Bd. l, pp. 290-97; trad. it. della revisione edita nel 177 1 , Principi... , cit., pp. 35-37; e Lessing, Laokoon, cit. pp. 6 1 -62, ed. it. cit. pp. 47 ss. e p. 154. Sulla funzione dell'immaginazione in Lessing , si vedano le osservazioni di Wil­ fried Bamer nd commento al Laocoonte apparso in Werke 1 766-1 769, Bd. 5/2, cit., pp. 667 -68; sulla illusione, vedi Michele Cometa, in nota, a p. 123 dell'edizione italiana citata. Hcrder emette un giudizio critico implicito sulla derivazione dell'apprensiorte dei corpi c delle forme dal senso della vista sostenuta da Mendelssohn, quando scrive che tale opi­ nione «comune» è anche quella dd «più . fùosofiro Trattato sui principi delle belle arti»; KW IV, p. 496.] 22 [La distinzione tra le arti secondo i loro sensi appare originariamente nella quarta Selva ( 1769) pubblicata postuma nd 1846. Vedi KW IV, p. 508. Una differenza importan­ te tra il testo più antico e la Plastik è l'ascrizione ddle tre «classi di oggetti esterni», rome n vengono chiamate, alle tre dimensioni dello spazio. D nucleo concettuale della differenza tra pittura e scultura viene enunciato da Herder nd ]oumai meiner Reise, p. 130 (ci ser­ viamo con poche modifiche della traduzione italiana Giornale di viaggio 1769, a c. di M. Guzzi, Milano, Spirali 1984, p. 140) dove troviamo: «lo ho elaborato per esempio qual­ cosa sull'estetica e credo che sia veramente nuova, ma in quante poche cose? Nella fra­ se: la vista non vede che superfici, il tatto non tocca che forme, il principio è però già noto attraverso l'ottica e la geometria, e sarebbe una disgrazia se non fosse già stato di­ mostrato. A me non rimarrebbe dunque che l'applicazione: la pittura non è che per gli occhi, la scultura per il tatto, una scoperta che resta ancora povera e che, se la si esten­ de troppo, può dare conseguenze ridicole per come siamo ora, visto che usiamo e siamo abituati ad usare la vista al posto dd tatto».] 2 1 [Qu i è il punto che distingue la Plostik dalla stesura rimasta inedita ddla quarta Sei­ va. La difficoltà insita in una sistematizzazione delle singole arti operata a partire dai loro sensi specifici si risolve qui mediante il rinvio ai tre costituenti irriducibili dell'esperien­ za che Herder aveva desunto, raclicalizzandone l'intenzione, dagli scritti di Kant preceden­ ti al 1764. D terzo momento della serie, associato qui al tatto, diviene progressivamente in Herder il centro della teorizzazione "analogica" sull'uomo che è alla base della sua pro­ duzione. Si veda questo passo da Zum Sinn des Ge/iihis, in W n, cit. pp. 244-45, che te-

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stimonia le indecisioni di Herder attorno alla natura di questi tre momenti: «ForuJ: sareb­ be io penso; così opero nell'universo così sono corpo. Spazio: io tocco (fiih!e), cioè io sen­ to in una sfera ristretta . Tempo: io sento (empfinde), cioè penso in successione (Eins nach Eins)».] 24 [l tre termini, cosl nel testo.] 21 [Invenzione e disposizione designano nella retorica classica due parti essenziali della costruzione del discorso: "inventio" è la ricerca e scelta degli argomenti, "dispositio" la composizione delle parti discorsive in un ordine che va dal proemio all'epilogo. Sin dal· l'umanesimo italiano esse divengono determinazioni descrittive e normative della trattati­ stica sulla pittura; si vedano le voci in Luigi Grassi, Mario Pepe, Dizionario della critica d'arte, 2 vv., Torino, Utet 1978.) 26 [Pittura di paesaggio e figura individua sono gli estremi in cui per Herder le due arti figurative attingono la loro natura specifica, la pittura l'illusionistica profondità nel­ la superficie resa mediante contrasti di colore e di ombre, la scultura l'intero tattile del corpo. All'epoca in cui Herder scriveva, dopo che Roger De Piles per primo agli inizi del secolo aveva riconosciuto la legittimità pacitaria della pittura di paesaggio sulla..hase di un concetto del tab/eau hberato dai precetti narrativi della pittura di storia, dal 1750 circa la reazione "borghese" alla pittura abnosferica e franta di Watteau e altri artisti rococò con­ dusse a una svalutazione, in chiave morale, della pittura paesaggistica. Al proposito vedi l'imprescindibile libro di Michael Fried, Absorption and Theatrica/ity. Painting and Behol­ der in the Age o/ Diderot, Berkeley et al., University of California Press 1 980, in part. pp. 1 1 8-45. In Germania, è Lessing a fissare la gerarchia tra bellezza ideale del corpo umano e semplici manifestazioni della natura, determinazione questa che avrà conseguenze du· rature nell'estetica idealistica; in un frammento preparatorio al Laocoonte, si dice del «pit­ tore di paesaggi e di Sori» che «egli imita delle bellezze che non sono suscettibili di un ideale» (in Werke 1 766-1 769, cit. pp. 295-96). Ci permettiamo di rinviare anche al nostro Il soggetto e il paesaggio, Centro internazionale di linguistica e di setniotica, Urbino 1989.] n [TI termine impiegato da Herder è "Darstellung", che designa a rigore il venire da­ vanti agli occhi di qualcosa che si produce nell'atto stesso in cui appare. La parola deri­ va da un verbo che è ad un tempo transitivo e intransitivo, e che quindi può significare "presentar(si) di qualcosa o qnalcuno" o "pre&entare per qualcuno • . La traduzione del termine con il nostro " rappresentare", consueta nei casi in cui esso designa ad esempio la pratica dell'attore, che "rappresenta" una parte, non esaurisce il campo semantico duplice della parola, che non coincide con quello del termine fùosofico tedesco per "rappresen­ tazione " , "VorsteUung". Il valore semantico della parola , nel suo indicare qualcosa che viene a presenza da sé, è bene illustrato dal senso retorico per il quale essa traduce la greca "hypotiposis", figura di una descrizione in cui l'ascoltatore dimentica di seguire delle parole, e così vede davanti a sé l'oggetto o gli eventi descritti. In quanto tale, la "hypotiposis" era uno dei concetti centrali dell'" ars celare artem" posto alla base della pratica retorica. Dal 1770 in poi il termine tedesco assume una funzione rilevante nelle poetiche letterarie; per Klopstock Von der Darstellung, 1779, in Siimtliche Werke, Leip­ zig 1844, Bd. x, pp. 1 96, corsivi nostri), «il fine della Darstellung è l'illusione. Per otte­ nerla il poeta deve affascinare quanto � in suo potere, e !lOD destare l'attenzione. Guai a chi non vi riesce! La Darstellung dd poeta ha più potere di illudere, rispetto a quella del­ l'artista figurativo». n valore duplice del tennine è evidentemente proprio ciò che ne ren­ de possibile l'uso in sensi del tutto opposti. Per Herder infatti esso indica l'effetto estremo della presenza, opposto al carattere "onirico" della rappresentazione pittorica. Nella Kal­ ligone Herder riconosce nella "Darstellung " l'essenza dWa poesia, che la distingue dalla storia per la sua fedeltà allo svolgimento, ol!,re che alla fartualità di ciò che � narrato: «