Piccola filosofia dell'enunciazione
 9788825504583

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RIFLESSI DOCUMENTI DI LAVORO DEL CISS NUOVA SERIE

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Direttore Paolo Fabbri Università LUISS di Roma

Comitato scientifico Roberta Bartoletti Università di Urbino

Riccardo Cuppini Università di Urbino

Vincenzo Fano Università di Urbino

Dario Mangano Università di Palermo

Gianfranco Marrone Università di Palermo

Tiziana Migliore Università Ca’ Foscari Venezia

RIFLESSI DOCUMENTI DI LAVORO DEL CISS NUOVA SERIE

I “Documenti di lavoro” (Working Papers) pubblicano le ricerche del Centro Internazionale di Scienze Semiotiche dell’Università degli Studi di Urbino. Il CISS opera nello studio dei rapporti tra semioscienze nell’ambito delle relazioni tra scienze umane e scienze della natura. Un approccio interdisciplinare di teoria e di metodo nella ricerca sulle forme e i processi di significazione da un punto di vista interculturale.

I “Documenti di lavoro” propongono opere di alto livello scientifico nel campo degli studi di semiotica, anche in lingua straniera per facilitarne la diffusione internazionale. Quest’opera, approvata dal direttore, è stata anonimamente sottoposta alla valutazione di due revisori, anch’essi anonimi: uno tratto da un elenco di studiosi italiani e stranieri, deliberato dal comitato di direzione; l’altro appartenente allo stesso comitato in funzione di revisore interno. La revisione paritaria e anonima (peer review) è fondata sui seguenti criteri: significatività del tema nell’ambito disciplinare prescelto e originalità dell’opera; rilevanza scientifica nel panorama nazionale e internazionale; attenzione adeguata alla dottrina e all’apparato critico; rigore metodologico; proprietà di linguaggio e fluidità del testo; uniformità dei criteri redazionali. Quest’opera ha ricevuto una valutazione complessiva superiore a 8/10. Le schede di valutazione sono conservate, in doppia copia, in appositi archivi.

Pubblicazione realizzata con il contributo dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo – Dipartimento di Scienze della comunicazione, Studi umanistici e internazionali: Storia, Culture, Lingue, Letterature, Arti, Media.

Bruno Latour Piccola filosofia dell’enunciazione Con una nota di Jacques Fontanille

Aracne editrice www.aracneeditrice.it [email protected] Copyright © MMXVII Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale www.gioacchinoonoratieditore.it [email protected] via Vittorio Veneto, 20 00020 Canterano (RM) (06) 45551463

isbn 978-88-255-0458-3

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: luglio 2017

Indice

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Piccola filosofia dell’enunciazione Bruno Latour

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Petite philosophie de l’énonciation Bruno Latour

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Dagli atti di enunciazione ai modi di esistenza. A proposito della Piccola filosofia dell’enunciazione di Bruno Latour Jacques Fontanille

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Des actes d’énonciation aux modes d’existence. A propos de « Petite philosophie de l’énonciation » de Bruno Latour Jacques Fontanille

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Piccola filosofia dell’enunciazione∗ Bruno Latour Per Paolo, alla memoria della nostra comune amica Françoise Bastide

Spesso mi sono domandato, contemplando il fregio mutilo del Partenone, attraverso la nuvola nera dell’inquinamento o nella sala del British Museum dove sono conservati i marmi di Lord Elgin, a che cosa assomiglierebbe una moderna processione di Panatenee. Quali sarebbero i nostri rappresentanti? Di quanti generi o specie sarebbero composti? Quale etichetta seguirebbe la loro disposizione? Verso quali vaste mura di cinta confluirebbero? Quanti di loro avrebbero forma umana? Se dovessero parlare, giurare o fare sacrifici in comune, da quali riti civili o religiosi sarebbero chiamati a raccolta e su quale agorà? Se un canto dovesse accompagnare la loro marcia o un ritmo scandire le loro lunghezze d’onda, quali suoni si ascolterebbero e di quali strumenti? Possiamo immaginare tali Panatenee? Forse. . . se ci si prendesse la briga di ricercare ciascuna delle istanze che invia, delega, designa i suoi rappresentanti per la grande festa. Se questa indagine fosse possibile, allora il mondo in cui viviamo cesserebbe finalmente di essere moderno; sarebbe per tutta la terra un grande sollievo, e chiamerei queste schiere di mediatori teorie di delegati. 1. Partendo dalla semiotica È ormai tradizione chiamare “enunciazione” l’insieme degli elementi assenti, ma la cui presenza è presupposta dal discorso, grazie alle marche che aiutano il locutore competente a raccogliere questi elementi per dare un senso all’enunciato. È anche tradizione, almeno in Greimas, distinguere accuratamente l’enunciazione, così com’è installata o iscritta nel discorso, dall’enunciazione propriamente detta, che è sempre solo presupposta. Infine è ammissibile, sempre in Greimas, non considerare l’enunciazione come l’insieme delle condizioni sociali, economiche, materiali, psicologiche o pragmatiche che attorniano l’enunciato. L’enunciazione in quanto tale non rinvia alla pragmatica, all’atto di discorso (speech act) o a un fondamento sociale della comunicazione. Tutte queste rappresentazioni possibili al di là dell’enunciato sono fermamente installate in altri ∗

Testo originariamente pubblicato in italiano in Eloquio del senso. Dialoghi semiotici per Paolo Fabbri, a cura di P. Basso e L. Corrain, Costa & Nolan, Milano 1999. Nuova traduzione riveduta e corretta.

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enunciati. Il romanziere “in carne e ossa” non è l’enunciatore del suo romanzo. È un personaggio di un altro racconto, per esempio del racconto di uno storico, di un critico letterario o di un giornalista venuto a intervistarlo. Questo rifiuto di un al di là del discorso è stato fondamentale tanto per la semiotica quanto per la linguistica. È ciò che ha permesso loro di fondarsi come discipline sistematiche e di sbarazzarsi degli esseri in carne e ossa, che fino a quel momento volevano sempre intervenire nel funzionamento del codice. Non appena si nomina l’enunciatore, lo si designa, gli si dà un tempo, un luogo e un volto, comincia un racconto; detto altrimenti, “debrayamo” a partire dall’enunciazione verso l’enunciato. Passiamo dall’enunciazione marcata all’enunciazione inscritta o installata nel racconto. Le istanze assenti sono dunque al tempo stesso innominabili e marcate e, benché non possano essere afferrate direttamente, sono comunque reperibili. Occorre distinguere accuratamente due operazioni di ricerca dell’enunciatore n–1; confonderle, dalla svolta linguistica in poi, avvelena le relazioni fra le scienze del testo e le scienze sociali o naturali. La prima ricerca consiste nell’innestare un nuovo discorso, B, sul primo, A, e nel costruire la cosiddetta scena “contesto pragmatico di A”. Così come si ritrova Lucien de Rubempré in più romanzi di Balzac, allo stesso modo si ritrovano più Balzac nei suoi romanzi e nei libri di critica letteraria. Non si tratta certo di una semplice coincidenza, ma piuttosto di una costruzione di continuità (isotopia) che chiede degli innesti, del lavoro, degli allineamenti di fonti e di prove. Si va da un racconto all’altro, non si va da un testo al suo contesto. È un principio relativista che pone lo stesso genere di problema del trasporto di enunciati tra il bravo sperimentatore che si trova sul treno di Einstein e quello che si trova su una scarpata. Il contesto è come l’etere dei fisici, è un’ipotesi superflua (Latour 1998). La ricerca dell’enunciatore n–1 con i metodi e i mezzi scenografici degli enunciati qui non ci interessa. Cerchiamo l’enunciazione e non la denuncia del vero autore, dissimulato sotto le spoglie del narratore. Se l’enunciatore n–l non è il personaggio (individuale o collettivo) di un racconto di denuncia, è possibile però definirlo? La soluzione tradizionale, da Benveniste a Greimas, è sfortunatamente impraticabile. Consiste nel definire l’enunciazione come l’attualizzazione delle potenzialità del discorso; detto altrimenti, come il passaggio dalla langue alla parole. Questa soluzione era del tutto accettabile per un linguista o un semiotico, che aveva bisogno di considerare la lingua come un sistema e di prendere gli atti di parola come attualizzazioni individuali, per sbarazzarsi dell’esercito dei sociologi, degli storici, degli psicologi e dei critici che pretendevano di parlare direttamente del contesto del discorso. Dal momento che non vogliamo farci carico né del “sistema della lingua” né del “contesto sociale”, bisogna qui lasciare la semiotica. Certo, non faremo ritorno né alla natura né al contesto sociale, e dunque, in questo senso, non tradiremo il progetto di Greimas, ma andremo a prelevare da questo progetto ciò che ci è utile per conservare sia l’atto di enunciazione sia la nozione di mediazione, abbandonando l’idea di un’appropriazione della langue attraverso la parole. L’enunciazione è un atto di invio, di mediazione, di delega. È quanto dice la sua etimologia ex–nuncius, inviare un messaggero, un nunzio. Riprendendo la

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definizione data sopra, possiamo ora definire l’enunciazione: insieme degli atti di mediazione la cui presenza è necessaria al senso; benché assenti dagli enunciati, la traccia della loro necessaria presenza resta marcata o inscritta in modo tale da poterla indurre o dedurre a partire dal movimento degli enunciati. Le marche dell’enunciazione sono come il magnetismo che la lava rigetta dai vulcani e che le faglie della terra custodiscono raffreddandosi. Benché nulla dall’esterno tradisca il loro passato magnetico, è possibile, milioni di anni dopo, interrogare le rocce con il magnetografo per ritrovare le tracce, fedelmente custodite, dell’orientazione del polo magnetico, cosi com’era il giorno dell’eruzione.

2. “Ce qui se passe”: il primo regime d’enunciazione Passando dall’enunciato all’enunciazione non si incontra il sociale né la natura, ma, molto tradizionalmente, l’essere definito come esistenza. L’enunciazione, l’invio del messaggio o del messaggero, è ciò che permette di rimanere in presenza, cioè di essere, ossia di esistere. Non caschiamo pertanto su qualcuno o su qualche cosa, non ci imbattiamo in un’essenza, ma in un processo, un movimento, un passaggio, letteralmente un passaggio–trasferimento1 , nel senso che questa espressione ha nei giochi con la palla. La definizione dell’enunciazione come primo invio (débrayage attanziale, spaziale e temporale) non è inesatta, ma è troppo restrittiva, perché corrisponde a uno solo dei passaggi che impareremo a riconoscere. Questa definizione, abbastanza primitiva, è il solo postulato ontologico di cui avremo bisogno: partiamo da un’esistenza continuata e arrischiata — continuata perché arrischiata — e non da un’essenza; partiamo dalla messa in presenza e non dalla permanenza. Partiamo dunque dal vinculum stesso, ossia dal passaggio e dalla relazione, senza accettare come punto di partenza alcun essere che non sia sorto da questa relazione. Non partiamo dagli uomini né dal linguaggio — che è tardivo — né dalla comunicazione. Partiamo dalla relazione definita in maniera molto banale, fin dagli albori della filosofia, come una certa mescolanza di stesso e altro: A è B, tale è la predicazione primitiva della filosofia, è il passaggio, la trasformazione, la sostituzione, la traduzione, la delega, la significazione, l’invio, l’embrayage, la rappresentazione di A attraverso B. Tutti questi termini sono equivalenti, cioè designano a loro modo il movimento di passaggio che mantiene in presenza. Lo stesso, ossia il mantenimento nella presenza, è pagato con dell’altro, ossia un invio. Non si può essere molto più precisi, a parte il postulato ontologico summenzionato, né più banali. Questo permette di non distinguere più ciò che “è” da ciò che “significa”, ciò che “traduce” da ciò che “sostituisce”, ciò che “rappresenta” da ciò che “invia”. Il mondo del senso e il mondo dell’essere sono uno stesso e unico mondo, cioè quello della traduzione, della sostituzione, della delega, del passaggio — detto altrimenti del “vale a dire”. . . 1. D’ora in poi tradurremo passe con “passaggio–trasferimento” e passage con “passaggio”.

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Il nostro punto di partenza è molto semplice, conforme a tutta la tradizione antiessenzialista, ma ne sappiamo poco. Sappiamo soltanto che riconosciamo le tracce dell’essere solo al momento della sostituzione. Di ogni altra definizione di un’essenza diremo che è “spoglia di senso”, perché non ha i mezzi per mantenersi in presenza, ossia per durare. Posto ciò, non possiamo rimanere a lungo affascinati, a declinare la lista delle parole che si sostituiscono le une alle altre. Dobbiamo seguire gli insegnamenti della semiotica. Il suo grande vantaggio è stato quello di affrontare le questioni più difficili (la creazione letteraria, la costruzione del senso) senza per questo far ricorso all’ammirazione o all’indicibile. La semiotica non ha mai rinunciato a definire, a differenziare, a parlare del senso indicibile — salvo talvolta parlarne in gergo. Sul suo esempio dev’essere possibile caratterizzare le forme di enunciazione, perché restano marcate negli enunciati, cercando eventualmente di non parlare troppo in gergo. Fin qui ho parlato di enunciazione e non delle due figure che le sono sempre associate, l’enunciatore e l’enunciatario. Avevo delle buone ragioni per non fidarmi di questi due termini perché, se vi si aggiunge l’enunciato, ci si ritrova immancabilmente presi nella situazione di comunicazione: un locutore, un locutario, un messaggio. Ora, niente ci dice che abbiamo a che fare con degli umani, niente ci dice che si tratti di linguaggio e niente ci dice che si possano addirittura separare i corpi parlanti dai messaggi circolanti. Ciò nonostante, dobbiamo essere capaci di mantenere i termini enunciatore, enunciatario, enunciato e di non conservare alcuna traccia del loro antico legame con la situazione di comunicazione. Per farlo abbiamo bisogno di esplorare regimi di enunciazione apparentemente molto lontani da quelli della tradizione letteraria con cui la semiotica si è affilata le unghie. Già nell’approccio con il primo di questi regimi, capiamo subito di essere infinitamente lontani dall’umana comunicazione. Questo primo regime, infatti, non implica l’enunciato e nemmeno un enunciatario. Che cosa implica allora? Solo un enunciatore. Che cosa fa questo enunciatore? Chi è? Cioè, non dimentichiamolo, che cosa passa (trasferisce)? Sé medesimo. Un simile. Un quasi simile. Qual é il risultato del passaggio–trasferimento? Ottenere sempre un enunciatore in presenza, quasi simile a quelli che lo precedono. Paga il prezzo della durata con il passaggio a un quasi simile. Dove possiamo trovare una forma d’enunciazione così strana in cui manchi l’enunciato e l’asimmetria tra enunciatore ed enunciatario? Dappertutto. Sono i viventi. Dimentichiamo sempre che anche i viventi enunciano e che durano perché corrono il rischio di passare a un altro vivente simile a loro. Che cosa passano? Geni, citoplasmi, ecosistemi, forme vitali, l’eidon della loro specie? Forse tutto questo, ma per adesso ci interessa poco. Non vogliamo ancora trasformare in un messaggio che passa di corpo in corpo quel che è prima di tutto il passaggio, senza messaggio, da corpo a corpo. Chiameremo il primo regime di enunciazione “Riproduzione”. È caratterizzato dall’assenza di enunciati e dall’assenza di asimmetria tra enunciatore ed enunciatario. Quel che passa dall’uno all’altro è l’uno verso l’altro e questo altro è lo stesso, quasi lo stesso (bisognerebbe dire che è lo stesso a prescindere dal darwinismo, ma ciò significherebbe già considerare risolte tutta una serie di controversie. Accontentiamoci della nozione, perfettamente vaga, di “quasi simile”). Per un osservatore

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esterno — che non esiste ancora — il risultato del passaggio (trasferimento) è la durata: l’eucalipto gigante di fronte alla mia finestra è sempre là e lo scoiattolo che si annida tra i rami è sempre presente — a meno che non si tratti dei suoi discendenti. Accettando l’ipotesi di Whitehead dell’“inheritance”, si potrebbe estendere l’enunciazione, così definita, non solo ai viventi ma anche agli inerti. Anche gli inerti scelgono e passano ma, al contrario dei viventi, non passano a un quasi simile. Restano, scelgono di restare lo stesso, esattamente lo stesso (Whitehead 1929). Per un osservatore esterno — che non esiste ancora, perché l’osservazione e l’esteriorità appartengono a un altro regime di enunciazione — nessuna asimmetria è ancora discernibile. Si ha un’impressione di perennità. Possiamo dire, con Whitehead, che gli inerti sono viventi che scelgono di mantenersi in presenza senza passare per l’intermediario azzardato di un altro corpo. In questo regime di enunciazione chiamato, in mancanza di meglio, “Riproduzione”, non riconosciamo la forma familiare dell’enunciato — non passa niente che sia diverso da quelli che passano — ma non riconosciamo nemmeno la distinzione tra enunciatore ed enunciatario. O sparisce rapidamente nel caso dei viventi (il discendente diventa l’ascendente quasi simile) o non ha mai luogo perché l’inerte sceglie di rimanere simile. Gli inerti restano — se l’espressione ha un senso — gli stessi enunciatori che passano e si sostituiscono a se stessi. Di conseguenza noi non riconosciamo neanche la situazione familiare — che diventerà familiare in seguito — della dualità o del dialogo enunciatore/enunciatario. Né i viventi né gli inerti si trovano in situazione di dialogo, non perché siano muti, ma perché non sono mai soltanto due esseri diversi posti faccia a faccia. Sono sempre molto più numerosi e continui. Come riconosceremo allora, in assenza di tutti gli elementi familiari dell’enunciazione, le marche del passaggio–trasferimento e del passaggio–transito sopra riconosciute come i nostri unici mezzi per orientarci? È (forse) impossibile, nel caso dei viventi e degli inerti, formulare una definizione precisa dell’enunciazione come quella concepita dalla semiotica nel facile caso del testo narrativo? Al contrario. La marca del passaggio è accecante nel caso degli inerti ed è chiaramente discernibile nel caso dei viventi. Gli inerti, che perseverano nell’essere, non fanno mai differenza alcuna tra enunciatori ed enunciatari e sono numerosissimi; la loro enunciazione si traduce sempre nella continuità di una forza esercitata. Come dice sempre Whitehead, sono linee di forza. In un certo senso sono interamente una marca dell’enunciazione. Essere, per loro, significa esercitare una forza, è il loro proprio modo di passare. A causa della differenza, presto cancellata, tra enunciatore ed enunciatario, l’esistenza dei viventi non si confonde più con la marca di enunciazione, con il passaggio o l’esercizio di una forza. Però i viventi, che non fanno a lungo la differenza tra enunciatore ed enunciatario e tra enunciazione e enunciato, appaiono marcati quasi quanto gli inerti. Sono quasi delle linee di forza. Anzi sono stirpi o, se si preferisce, genealogie. Le linee di forza sono continue (la loro discontinuità va immaginata), le stirpi sono discontinue, pagano la loro continuità con il rischio sempre riproposto della discontinuità (generazione, morte e nascita). I viventi sono

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marcati completamente dal passaggio della generazione, dal rischio della morte, dalla loro sostituzione da parte dei quasi simili, ma ad ogni istante appaiono come qualcosa di più di questo passaggio — dicono qualcosa, sono qualcosa. Il loro corpo sono gli enunciati. Lontano dagli umani, lontano dal linguaggio, questo primo regime di enunciazione, la “Riproduzione”, è fondamentale. È un passaggio, un passaggio–trasferimento, sia che si tratti delle linee di forza degli inerti, sempre pressanti e sotto pressione, perseveranti nell’essere, sia che si tratti delle stirpi di viventi che riottengono la durata attraverso la generazione di quasi simili (a prescindere dal darwinismo). Un’analisi del senso che non sappia caratterizzare con precisione questo regime sarebbe accusata, a ragione, di essere antropo o logocentrica. Se con le cose stesse non si potesse stabilire un rapporto che faccia senso, che dia il senso, l’indagine sarebbe vana e sarebbe accusata, giustamente, di idealismo. Fin qui, invece, abbiamo caratterizzato questo primo regime con precisione tale da poterlo comparare agli altri, provando così che la semiotica può viaggiare infinitamente lontano dal suo territorio e che si può benissimo superare il fascino muto dell’essere in quanto essere, per sostituirlo con l’essere in quanto altro. Tenteremo ora di precisare gli altri regimi di enunciazione. 3. Sostituzione e credenza A differenza del primo regime di enunciazione, tutti gli altri che sorvoleremo sono caratterizzati dalla posizione degli enunciatori e degli enunciatari; tutti tranne due, molto particolari, che vorrei subito esaminare: Sostituzione e Omissione. In regime di “Riproduzione”, come abbiamo mostrato, non c’è differenza tra ciò che circola e i corpi che fanno circolare, ma c’è pur sempre qualcosa che mantiene in presenza a opera di questo passaggio: i corpi stessi, le linee di forza degli inerti o le lunghe stirpi dei viventi. Esiste un regime di enunciazione ancora più strano nel quale non è neanche possibile caratterizzare il mantenersi di un corpo grazie al passaggio. In questo regime si possono riconoscere solo passaggi–trasferimenti. A passare, però, non sono dei simili, ma dei dissimili, degli irriconoscibili, delle membra disjecta. Ci sono solo sostituzioni, da cui il nome che ho scelto di dargli. Ovviamente, in questo regime, non vi è enunciatore, non vi è enunciatario né una differenza individuabile tra piano dell’enunciazione e piano dell’enunciato. Il che ha tanto colpito i primi analisti di questo regime. Sembra un attore formidabile ma inumano, pericoloso, atemporale, prelinguistico; ecco il motivo per cui Freud chiama inconscio ciò che accade sotto l’egida di un simile regime di enunciazione, ma la parola stessa è ancora troppo razionalista e troppo antropomorfa, così come ancora troppo logocentrica appare la celebre definizione di Lacan “ça parle”. No, non parla in realtà, ma si enuncia, passa, si verifica assai stranamente, cristallizzando, condensando, smembrando, spostando, associando. Se si ristabiliscono i personaggi abituali della situazione di comunicazione — un locutore e un locutario umani, un messaggio, un codice e una volontà di comunicare — allora il senso di queste sostituzioni scompare. Il solo modo di dar loro

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un senso, adeguato a questo regime di enunciazione, è far sparire le figure tardive dell’enunciatore e dell’enunciatario. L’analista, in ascolto, sente l’innominabile che parla in maniera più ingarbugliata della Pizia sul suo tripode. Le marche di questo regime così particolare si trovano nelle ramificazioni imprevedibili che sostituiscono una forma a un’altra: motto di spirito, lapsus, lacanismi vari o, più seriamente, metamorfosi terrificanti. Senza questo regime tutti gli altri regimi umani, di cui parleremo, sarebbero impossibili. Mancherebbe loro, in un certo qual modo, la materia prima per creare, modellare, i personaggi e le forme dei loro regimi. Linee di forza e stirpi non potrebbero trasformarsi da sole in membra disjecta. Il movimento tracciato da questo regime, la scia che lascia dietro di sé, non ha la chiarezza di una linea di forza o la continuità di una stirpe. Chiameremo libere associazioni i percorsi che genera. Per chiudere con i regimi atipici che non somigliano affatto a ciò a cui la semiotica ci ha preparato, bisogna considerare quel che chiamo regime della “Credenza” o meglio dell’“Omissione”. Ritenerlo un regime di enunciazione è paradossale, visto che è caratterizzato dall’affermazione che non c’è affatto enunciazione. La definizione della “Credenza” è di partire dal piano dell’enunciato e di non considerare importante il piano n–1. A prima vista, dunque, è la negazione della presente indagine. Ma si tratta appunto di un regime di enunciazione, fra altri, che ha propriamente senso solo a condizione di non considerare il piano dell’enunciazione. Si comprende la Credenza, secondo il suo regime di appartenenza, soltanto quando gli si va dietro, quando ci si fa prendere. “Gli sono andato dietro per davvero”. “Ci credo fermamente”. Il risultato dell’indifferenza per la distinzione enunciazione/enunciato è che, nella “Credenza”, tutti gli altri regimi possono essere messi in disordine, combinati, ibridati. Questo punto di vista, che, per definizione, è indifferente all’enunciazione, ottiene effetti di credenza a partire da tutti i regimi, per quanto radicati in una struttura particolare dell’enunciazione. Qual è il passaggio–trasferimento proprio della “credenza”? La mancanza di passaggio–trasferimento, appunto: nessuno dice nulla a nessuno, dato che quanto viene detto non dipende in alcun modo da chi lo dice né dalla persona a cui lo si dice. Le cose sono. È così. Si sa. Le figure dell’enunciazione sono interamente abolite. Poco importa chi, dove e quando. Si ritrovano qui gli effetti di naturalizzazione contro cui i primi specialisti di semiotica come Roland Barthes si sono tanto battuti. Quali sono le marche particolari della “Credenza”? Il non avere marche particolari. L’enunciato circola senza le sue radici, è inassegnabile. Persino la distinzione tra l’enunciato e le “persone” dell’enunciazione è impossibile, da cui l’impressione formidabile che non ci sia niente di speciale da fare per mantenersi in presenza, alcun prezzo da pagare per ottenere, riottenere la durata. È al regime di “Credenza” che dobbiamo le essenze, questi insiemi che durano senza rischio e senza ripetizione. Il passaggio–trasferimento così particolare della “Credenza” traccia, se cosi si può dire, delle essenze, esattamente come la “Riproduzione” traccia linee o stirpi, e la “Sostituzione” libere associazioni. Ma ovviamente, per definizione, le essenze non conservano la traccia di questo passaggio. Il loro stesso nome non presuppone alcuna temporalità. Si capisce perché il postulato ontologico da cui sono partito fosse inevitabile. Partendo dalle essenze, avrei infatti selezionato uno

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dei tanti regimi di enunciazione, quello dell’“Omissione”, e il più scomodo per caratterizzare i vari regimi. 4. I regimi che si concentrano sul quasi–oggetto: Tecnica, Finzione, Scienza I tre regimi appena definiti sono, bisogna riconoscerlo, delle mostruosità per ogni studioso classico di semiotica. Ma conviene capire perché. Sono privi di enunciato — come nel caso della “Riproduzione” — o di enunciazione — come nel caso dell’“Omissione” — o di enunciatore — come nel caso della “Sostituzione”. Da dove viene allora la distinzione tra i piani dell’enunciato e dell’enunciazione che sembrava così primitiva agli occhi della semiotica? In realtà è molto tardiva e dipende inoltre dall’invenzione di un nuovo termine che Serres chiama quasi–oggetto (o “token”). C’è una differenza fondamentale tra i regimi sopra citati e gli altri sette che mi accingo a presentare: sono tutti regimi “a quasi–oggetto”, dove cioè è sempre possibile distinguere ciò che passa da coloro che passano. Questa distinzione ci proietta immediatamente in un territorio conosciuto perché qui, infatti, ci avviciniamo all’umano. Non è la parola, non è il corpo che caratterizzeranno questo minimo di umanità di cui avremo bisogno, bensì il fatto che nel passaggio–trasferimento passa qualche cosa in più del corpo. Questo supplemento è prelevato sulle linee di forza e sulle stirpi che le libere associazioni hanno ridistribuito. Non avrei potuto distinguere qualcosa che passasse dall’eucalipto ai suoi discendenti e che non fosse l’eucalipto stesso. Potrò ora distinguere tokens in movimento dai corpi che li fanno muovere. Questo supplemento non solo permetterà di distinguere il piano dell’enunciato dal piano dell’enunciazione, ma creerà anche un’asimmetria sufficiente per individuare le figure distinte dell’enunciatore e dell’enunciatario. ln questa sezione presenterò tre regimi di enunciazione che hanno come particolarità il fatto di concentrarsi sui quasi–oggetti, che sono, per cosi dire, centripeti in rapporto al token. Che cos’è un quasi–oggetto? Non è, non lo è ancora, un segno. È lo spostamento dell’enunciatore in un altro corpo, dissimile, che resta fermo, anche quando I’enunciatore si ritira e si assenta, e che si indirizza all’enunciatario che questo corpo tiene fermo. Ecco la caratteristica principale dell’enunciazione tecnica. Un cesto intrecciato, per esempio, non assomiglia all’intrecciatrice di cesti: sta in piedi e si regge da sé, molto tempo dopo che lei non c’è più. Raccoglie le mele selvatiche colte da qualcuno che non è necessariamente l’intrecciatore di cesti; mantiene, sotto un’altra forma, altrove e in un altro tempo, la presenza dell’intrecciatrice di cesti e la sua azione sul raccoglitore di mele. Questo débrayage attanziale che fa passare l’intrecciatrice in un cesto che non le somiglia ma che si mantiene in sua assenza, questa deviazione fondamentale che preleva e mobilita linee di forza e di stirpi — giunchi e vimini — al fine di far tenere assieme dei corpi — mele selvatiche e raccoglitori di mele — li chiameremo Tecnica. Come tutti gli osservatori hanno riconosciuto, è un regime fondamentale, perché aggiunge una moltitudine di non–umani alla continuità di una stirpe fra le tante: la stirpe umana. È solo a partire dal momento in cui i non–umani passano che si può discernere la differenza tra qualcosa che passa e i corpi che fanno passare questa cosa, questo quasi–

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oggetto. È solo a partire dal momento in cui i non–umani sono raggruppati, sistemati, prelevati per lo spostamento e la traduzione dell’enunciatore — nella fattispecie l’intrecciatrice di cesti — che si crea una sufficiente asimmetria perché l’enunciatario stesso si distingua dall’enunciatore. Il discendente diventa l’ascendente in regime di “Riproduzione”; ma in regime di “Tecnica” niente obbliga il raccoglitore di mele a essere intrecciatore di cesti, così come niente farà dello stesso cesto un’intrecciatrice di cesti o un raccoglitore di mele. Il regime di “Tecnica” permette di piegare la relazione tra stirpi di umani attraverso una relazione tra umani e tokens. Questa piega, ossia questo invio, questa sostituzione, questo spostamento, permetterà di staccare l’enunciatore da ciò che enuncia e invia. La semiotica dei testi, del linguaggio e della finzione ha omesso di considerare che la divisione stessa tra le grandi figure di enunciatore, enunciatario ed enunciato, era impossibile senza l’installazione di un altro regime di enunciazione. L’enunciatore esiste in maniera individuabile perché, fatta la deviazione, si assenta e perché il token, fedele o infedele luogo–tenente, sta fermo, occupa il suo posto. L’enunciatario esiste in maniera reperibile perché è tenuto fermo e circondato non più da corpi simili a lui, ma da luogotenenti dissimili, una delle cui origini, quella umana, si è momentaneamente assentata. Il mantenimento nella presenza si trova ora come pieghettato, poiché i fragili corpi umani si aiutano, per durare, con la durata, con l’ostinazione delle linee di forza e delle stirpi. Il passaggio–trasferimento tecnico è quel passo laterale che sposta un’interazione corpo a corpo tra simili verso un’interazione corpo a corpo tra dissimili. Chiamerò trecce o combinazioni la scia lasciata da questo passaggio–trasferimento, da questa imbastitura dell’umano e dei non–umani. Da molto tempo noi, umani, ci combiniamo a non–umani ed è in questo modo che ci manteniamo nella presenza e che, probabilmente, siamo diventati umani. Le marche di questo passaggio– trasferimento così particolare si ritrovano in tutti i débrayage, in tutte le interfacce, prelievi, sequestri, al tempo stesso sui corpi umani e sulle combinazioni di non– umani. Ma siccome, in questo regime, è caratteristico dell’enunciatario ritirarsi lasciando il quasi–oggetto continuare da solo il suo lavoro di significazione, bisogna individuare le marche tenui che permettono all’assenza di prolungarsi. Senza questo regime non avremmo mai potuto divergere nei nostri modi di mantenerci in presenza, saremmo una stirpe tra le tante, non quella che incrocia, combina, risistema e intreccia le altre. Il mondo vivente apparterrebbe alle stirpi, ma poiché nessuna divergerebbe, non ci sarebbe alcun “proprietario” e questa somma — “il mondo vivente” — nessuno potrebbe calcolarla. “C’era una volta un Principe azzurro che stava per ereditare il Paese delle Meraviglie”. Eccoci infine nel linguaggio, un terreno veramente conosciuto o, meglio, nel racconto, che gli studiosi di semiotica hanno esaminato molto dettagliatamente. Un enunciatore di cui non sappiamo nulla “si invia” in un narratore e chiede a noi, che passiamo dal ruolo di enunciatari a quello di narratari, di lanciarci al suo seguito in un altro spazio — il Paese delle Meraviglie — in un altro tempo — “C’era una volta” — e di identificarci con un altro personaggio — il Principe azzurro. Eccoci nella Finzione, termine che bisogna prendere nel senso forte di plasmare, immaginare, dipingere, raffigurare, sagomare e non nel senso di “falso”, che arriverà solo a confronto con un altro regime. Questo regime

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popola di figure, luoghi e tempi le relazioni dell’enunciatore e dell’enunciatario. Chi è l’enunciatore? L’insieme di tutti i ruoli che ha inscritto nei racconti. Chi è l’enunciatario? L’insieme di tutti i ruoli che i racconti gli hanno prescritto. Niente ci dice ancora se si tratta, in questo caso, di umani, di individui, di parolieri o se invece ciò ci viene detto, cantato, dipinto, scolpito, narrato. “Noi”, per quello che “siamo”, emergiamo a forza di discorso. È la grande scoperta della generazione che ci precede, quella di non partire da un’antropologia, Grande Narrazione fra le tante, al fine di definire chi parla e chi ascolta, ma di lasciare che le figure oscure dell’enunciatore e dell’enunciatario si generino, si raffigurino, si plasmino a partire dalla Finzione. Letteralmente — e letterariamente — “noi siamo i figli delle nostre opere”. Ci rimandiamo costantemente altrove, in un altro tempo e in altre figure; ci installiamo negli innumerevoli racconti, ci inscriviamo l’un l’altro ai posti richiesti; e cosi, a poco a poco, apprendiamo chi siamo; ci raffiguriamo chi noi siamo. Senza questo regime noi non saremmo niente. Incapaci di rimandarci ad un altro carattere, incapaci di raffigurarci altri interlocutori, saremmo limitati a un indefinibile “noi”, evanescente come un punto matematico. Il passaggio–trasferimento di questo regime di enunciazione è il débrayage o l’invio, definito da Greimas. Tuttavia, contrariamente a quanto potesse pensare la semiotica dei racconti e dei testi di finzione, l’invio è un passaggio–trasferimento molto particolare che non definisce l’enunciazione in quanto tale, ma solamente uno di quei regimi. Le marche lasciate da questo passaggio–trasferimento sono ben note e repertoriate, sono tutte quelle che rivelano e dissimulano, installano e inscrivono, le relazioni tra l’enunciato n e l’enunciazione n–1. Qual è la scia lasciata da tale passaggio–trasferimento? La chiamerò, in mancanza di meglio, popolamenti di figure, lasciando alla parola figura sufficiente vaghezza per comporre i personaggi antropomorfi e i dispositivi che chiamiamo, appunto, non figurativi. Ciò che conta nella Finzione è la formidabile ramificazione di innumerevoli delegati che vanno in tutte le direzioni, in tutti i tempi e luoghi trascinando dietro di sé narratori e narratari sbalorditi. A caratterizzare il regime di Finzione è l’invio, la disseminazione, il distacco a partire dalla materia del token e dalla connivenza dell’enunciatario. Il ritorno, il rimpatrio delle figure, l’ultimo réembrayage verso il livello n–1, non interessa molto questo regime. Ecco perché gli studiosi di semiotica, attenti ai racconti e ai testi di finzione, non hanno saputo distinguerlo da un altro regime di enunciazione, che si interessa in modo esclusivo all’invio e al ritorno delle figure, alla loro disciplina, al collegamento di queste figure con l’ultimo livello dell’enunciazione e ai rapporti dell’enunciatore e dell’enunciatario. Io viaggio nella Finzione, ma quando esco dal racconto, tra le mie dita non ho tracce di questo viaggio. In ogni momento ero altrove, ero un altro. Non ho mai occupato, allo stesso tempo e sotto lo stesso rapporto, i livelli n–1, n+1, n +n. Esiste un’altra forma di débrayage, profondamente diversa, perché invece di inviare, allinea l’enunciatore su ciò che egli designa, e occupa al tempo stesso il punto di partenza e il punto d’arrivo. Le due forme di invio sono state, per cosi dire, ad angolo retto, benché l’analisi le abbia sempre confuse, fino ai lavori della nostra amica Françoise Bastide (Bastide 1985). Nel regime di enunciazione che chiamo Scienza le “figurine” sono inviate in altri spazi–tempi — come nella Finzione — ma devono ritornare: non solo al livello n,

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come nel racconto letterario ben ordinato che si richiude su se stesso, ma in mano all’enunciatore, al livello n–1. Questa andata e ritorno permanente, più rapida degli angeli che salgono e scendono dalla scala di Giacobbe, permette all’enunciatore di essere nello stesso tempo e sotto lo stesso rapporto qui e là. In altri termini può agire a distanza. In mano sua si accumulano luoghi e tempi diversi raffigurati e rappresentati da delegati capaci di muoversi nei due sensi: invio e ritorno (Deleuze l991). Se la forma delle figurine e dei delegati somiglia a quella degli esseri inviati dalla Finzione, il loro movimento di andata e ritorno, la disciplina che gli si richiede, li modella, li profila e li disegna in maniera del tutto caratteristica. Sono per così dire aerodinamici, profilati per il lavoro di andata e ritorno. Sono finzioni addestrate, come i cani da caccia, a riportare la preda al loro padrone. Qualsiasi trasformazione subiscano, qualsiasi materia o forma attraversino, devono poter mantenere qualcosa attraverso queste deformazioni, per riportare all’enunciatore qualcosa che lo renda capace di arrivare lontano. Per quanto primitivi vengano scelti, questi delegati sono sempre ciò che chiamo moventi immutabili e combinabili — perché fanno l’andata–e–ritorno, perché mantengono una forma attraverso le deformazioni e perché localmente, nelle mani dell’enunciatore, si è elaborato un “modello ridotto” da ispezionare e modificare. Il passaggio–trasferimento particolare di questo regime consiste nel modificare la relazione tra l’enunciatore e l’enunciatario con l’arricchimento del token che permette di arrivare lontano. Se si seguisse questo passaggio–trasferimento, si troverebbe un enunciatore, poi si viaggerebbe al seguito dei delegati, poi si ritornerebbe su un convoglio di figurine mantenute stabili attraverso le più rudi trasformazioni, poi si ricapiterebbe sul mittente di partenza e si passerebbe allora in mano all’enunciatario. L’interessante, in questo regime, è che l’enunciatario e l’enunciatore devono poter essere confusi: il primo deve poter occupare il posto del secondo. “Se fossi al suo posto, vedrei e saprei le stesse cose. Prendete il mio posto. Vedo e so le stesse cose” (Fabbri e Latour 1977). Le marche di questo regime d’enunciazione sono rese riconoscibili dalla triplice questione dell’allineamento: allineamento dei diversi piani dell’enunciato gli uni agli altri (mantenimento dell’immutabilità nella mobilità); allineamento di tutti i piani dell’enunciato all’ultimo piano n–1; allineamento dell’enunciatario all’enunciatore. La scia di questo regime forma quello che chiamerò “riferimento” — parola che non appartiene al noioso dibattito sul realismo, ma che significa “riportare”, “riferirsi a”, “rimettersi a qualcuno”. Questo regime crea referenze in tutti i sensi della parola. L’accesso e l’azione a distanza sarebbero impossibili, così come l’allineamento dei diversi enunciatori/tari. I tokens si appesantirebbero di nuove trecce o combinazioni, godrebbero di nuove figure, ma non mobiliterebbero altri spazi–tempi per riportarli alle umane relazioni. Ciò che conta, in questi tre regimi, è creare un quasi–oggetto — per spostamento in un altro materiale — popolarlo di figure — con un débrayage attanziale, temporale e spaziale — rapportarlo ad altri spazi–tempi attraverso la mediazione di figurine disciplinate. Tutti e tre si concentrano sul token, sul quasi–oggetto, più che sul rapporto tra enunciatore–enunciatario, che diventa in un certo modo secondario. Nella Tecnica l’enunciatore deve potersi assentare, lasciando al token di

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stabilire legami con l’enunciatore; nella Finzione l’enunciatore non ha più importanza della materia del token, perché prima di tutto conta l’invio con la connivenza dell’enunciatario; nella Scienza le due “persone” dell’enunciazione devono essere sostituibili l’una all’altra. Il risultato di questi tre regimi presi insieme — dato che noi osserviamo solo i loro ibridi — è, in qualche modo, quello di prendere in carico i tokens che passano di corpo in corpo. I “passatori” si mantengono nella presenza attraverso l’intermediario moltiplicato dei quasi–oggetti. In fin dei conti si ottiene l’impressione opposta: dei corpi passano in un mondo di cose più vaste e più durevoli di loro. 5. I regimi incentrati sui quasi–soggetti: Religione, Politica, Diritto Abbiamo postulato che nessun essere possa rimanere il medesimo senza esistere, che debba quindi inviarsi, enunciarsi. Noi ricerchiamo le forme di invio. Quanti modi di passare ci sono al fine di restare in presenza, di rendersi presenti? Per raccapezzarmici, mi sono concentrato sulle “persone” dell’enunciazione e le forme di rapporto all’enunciato. Fin qui ne abbiamo riconosciute sei. Le prime tre, fondamentali e atipiche, fanno passare i corpi stessi (“Riproduzione”) o l’“accade” (“Sostituzione”) o ciò che nega che qualcosa accada (“Omissione”); le altre tre “prendono in carico” il quasi–oggetto. Esamineremo ora invece regimi che riguardano il token, ma in maniera inversa. Anziché costituire il quasi–oggetto, lo utilizzano per definire e regolare le relazioni tra enunciatori ed enunciatari. Definiscono quindi quelli che si potrebbero chiamare quasi–soggetti. Il quasi–oggetto diventa per essi come un pretesto. Esiste un regime per il quale il senso dell’enunciato resta incomprensibile finché non si costituisce il movimento che le “persone” dell’enunciato gli imprimono. È precisamente il regime con cui vengono attribuite le diverse persone: io, tu, lui, loro, noi, voi. Fin qui ho utilizzato, tra virgolette, l’espressione “persone dell’enunciazione” per designare l’enunciatore e l’enunciatario. Ma come abbiamo appreso che esistono questi personaggi canonici e che sono solo due? Nuovamente dalla semiotica dei testi di finzione che, di fatto, distingue molto facilmente un narratore e un narratario. Ma questa dualità è propria del regime di Finzione (e della tecnica del libro), che parte dal livello n e si disinteressa parecchio dell’enunciazione in sé. Dal momento in cui si esce dal cerchio ristretto dell’analisi dei libri di finzione, diventa chiaro che bisogna dapprima comporre le persone dell’enunciazione e decidere del loro numero. Non riempirle effettivamente con la certezza di essere qui, ora, per la prima volta, come nel seguente regime, ma assegnare, ripartire, contare, ridistribuire i diversi ruoli e funzioni. La circolazione dei quasi–oggetti, in questo regime, non prende di mira il quasi– oggetto stesso, ma il tracciato del collettivo che questa incessante circolazione permette di eseguire. Quanti enunciatori/tari ci sono? Chi è enunciatore? Chi enunciatario? Chi rappresenta chi? Chi parla a nome di chi? Chi si rivolge a chi e in quale ordine? Il collettivo non esiste da solo, questa è la grande scoperta della sociologia e dell’antropologia moderne. Non si regge da solo. Bisogna tracciarlo,

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eseguirlo. Non si mantiene presente senza essere costantemente ripresentato. È un problema topologico insolubile: come fa una moltitudine a conservare la forma di un insieme? È un “singolare–plurale” che bisogna riparare costantemente risolvendo in ogni punto la questione Uno/Tutti. Io dico quello che voi dite, quindi vi rappresento. Voi dite ciò che io dico, quindi mi obbedite. Noi siamo diversi da loro. Lui è un altro. Tutto questo lavoro di definizione si fa a partire da enunciati che, di per sé, sono quasi completamente spogli di senso: il fatto è che il senso non viene dall’enunciato, ma dal tracciato del collettivo che la loro rapida circolazione permette. Bisogna sempre, con mescolanze e compromessi, confusioni e transazioni, regolare la bilancia dello stesso e dell’altro. Chiamo Politica il regime di enunciazione per mezzo del quale chi enuncia e la persona cui si rivolge si trovano definiti. Questo regime acquista tanta più importanza quanto più i tokens si moltiplicano. Le stirpi umane potevano definire le stirpi di ascendenti e di discendenti senza troppe difficoltà, ma se moltiplichiamo i non–umani, le figure e le figurine, allora la questione della composizione del collettivo va posta incessantemente e risolta a caldo. Il passaggio–trasferimento di questo regime è davvero particolare, perché dice, senza enunciare niente di chiaro e passando di mano in mano, “ecco chi siete, ecco chi siamo, tocca a lui parlare, tocca a te ascoltare, tocca a noi giudicare”. Senza questo regime non vi sarebbero accezioni di persone (che ora posso scrivere senza virgolette). L’ultimo resto della struttura di comunicazione, ossia la dualità enunciatore/enunciatario, è ora scomparsa. Spesso il numero di persone non si riduce a due e la loro ripartizione probabilmente non sarà mai così semplice quanto quella dell’enunciatore e dell’enunciatario. Le marche di questo regime sono difficili da individuare: qui, infatti, l’enunciato è quasi niente ed è proprio il suo carattere vago, insignificante, ambiguo, variabile che gli permette di circolare bene e di essere un buon tracciatore. Chiamo del tutto naturalmente assemblee o meglio raggruppamenti la scia di questo passaggio–trasferimento. Vista a partire dagli altri regimi, la circolazione politica si chiamerà menzogna o malafede, manipolazione, invenzione, perché non la si prende nel suo movimento proprio, che esige il compromesso e l’inconsistenza dell’enunciato per comporre il rapporto Uno/Tutti. “Ti amo”: questa è la frase che manifesta al meglio la necessità di regolare l’enunciazione se si vuol capire il senso dell’enunciato. È una frase molto inadatta a un lavoro di referenza, come tutti i commentatori della relazione dialogica hanno notato. L’“io” e il “tu” devono essere riempiti da persone realmente presenti. La frase, banale di per sé, non è che un pretesto. Se la prendo sul serio secondo un altro regime — quello della Scienza per esempio — e rispondo “me l’hai già detto sei mesi fa”, vuol dire che la relazione amorosa è in crisi, che non amo, che sono incapace di ripetere la messa in presenza delle persone dell’enunciazione; assumo la ripetizione nel senso che questa ha in un altro regime, il ritorno ad nauseam dello stesso. Se non è sempre la prima volta che pronuncio il “ti amo”, non amo. In amore il “ti amo” si ripete tutte le volte che la relazione tra due enunciatori si stabilisce come una relazione: questo e non altro, qui e non altrove, ora e non ieri o domani. Invece di un invio attraverso il token, si tratta di un ritorno al livello n–1, ma di un ritorno che non dice niente, che non riporta niente, se non questo: tu

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(nessun altro) e io (nessun altro) siamo, ora, per la prima volta, per l’unica volta, nella presenza. Le marche di enunciazione proprie di questo regime sono facili da notare, perché il senso degli enunciati, presi in sé, è del tutto incomprensibile, triviale, ripetitivo o assurdo. Una situazione normale: si tratta di enunciati che invece di preoccuparsi di se stessi, come nei regimi precedenti, tentano di designare ciò che per definizione è assente, sempre assente, ossia la presenza reale delle persone dell’enunciazione, ego, hic, nunc. È questo regime a subire più chiaramente il paradosso dell’enunciazione: gli assenti necessari al senso dell’enunciato vengono maldestramente designati da enunciati impossibili, fregiati, lacerati, contraddittori, spezzati, tutti diretti all’evocazione, all’invocazione della presenza reale degli assenti. Siate presenti e capirete quel che viene detto. Aggiungetevi voi, adesso, in fondo all’enunciato, al racconto, e allora apparirà il senso del racconto, questo passaggio– trasferimento così particolare da riempire e legare le persone dell’enunciazione (Latour 1998). Sì, siamo nella presenza, ora capiamo cosa vuol dire essere presenti, capiamo il senso degli enunciati irregolari che passano tra le nostre mani e che ripetevamo senza comprendere, apriamo gli occhi, sei tu, sono io, non passeremo più, siamo salvi ora, cosa che spesso è stata espressa così: non moriremo più. Ho scelto di chiamare Religione questo regime di enunciazione, ma avrei potuto chiamarlo amore, è lo stesso: il primo termine è più collettivo, il secondo più individuale, ma le religioni storiche che conosciamo meglio si sono spesso definite come religioni d’amore. In mancanza di questo regime, le istanze dell’ego, dell’hic e del nunc rimarrebbero vuote o debrayate a livello n, senza poter mai essere collegate al livello n–1. In mancanza di questo regime la nozione stessa di “mantenimento nella presenza con il rischio della relazione” sarebbe un enunciato o sarebbe un passaggio–trasferimento indiscernibile, e non come ora per te, lettore, per me, autore, la salvezza. Nel regime dela Religione gli enunciatori/tari si “risollevano”, per così dire, e rendono le loro relazioni di co–presenza, attraverso la mediazione dei tokens, l’oggetto unico di relazione. Sono tentato di chiamare “processione” la scia di questo passaggio–trasferimento, totalmente diverso dagli altri non solo per il Corpus Domini e per la pioggia di rose della nostra infanzia, ma per la parola processo con cui ho iniziato questa meditazione e anche per la tradizione passata di mano in mano che questa parola evoca. Gli enunciatori e gli enunciatari procedono disposti a mò di catena lungo la quale ciascuno è in uguale maniera ego, hic, nunc; e tutto ciò che passa in materia di enunciati è spoglio di senso finchè gli enunciatori/tari non si istallano al livello n–1. Quindi, noi ripetiamo parole povere per la milionesima volta, ma è la prima volta che una cosa simile accade. Un terzo regime di enunciazione rimane indifferente al token, ma al contrario del precedente, moltiplica le marche che facilitano l’aggancio dell’enunciazione all’enunciato. Se l’enunciazione è l’insieme degli assenti la cui convocazione è necessaria alla costruzione del senso dell’enunciato, allora questo regime è particolare, in quanto definisce proprio il modo singolare di convocare gli assenti e di designare in dettaglio di quali assenti si tratta. Sebbene indifferente al contenuto dell’enunciato, è straordinariamente preciso sulla forma di aggancio di tal enunciato a tal enunciatore o a tal enunciatario. In regime di Religione, la persona

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dell’enunciazione riempie con la sua presenza effettiva le parole vuote “io”, “tu”, “ora”, “qui”, che ripete per l’eterna prima volta. In regime di Politica, il numero, qualità, ruolo e opposizione delle persone dell’enunciazione si trovano definiti dai loro rapporti con il collettivo. Ma nulla in questi regimi permette di tenere insieme questo qui e questo enunciato qui. Vi è quindi bisogno di un passaggio–trasferimento particolare che moltiplichi dentro e attorno all’enunciato i marchi, le marche, le firme e i sigilli di riconvocazione degli assenti (Fraenkel 1992). Senza questo regime né le persone né gli enunciati sarebbero assegnabili o individuabili. Tutti circolerebbero a casaccio. Nessuna promessa sarebbe tracciabile. Nessun impegno sarebbe rispettato. Le successioni di tokens e le quantità di persone potrebbero non avere alcun rapporto. È per assicurare la tenuta, il seguito, l’allineamento di persone enuncianti e dei loro messaggi e messaggeri che lavora il regime che chiamo Diritto, scegliendo nelle connotazioni della parola il suo aspetto formale e positivo, piuttosto che il contenuto morale o giusto. Qui le marche di enunciazione sono evidentemente più facili da individuare, dato che gli enunciati non sono altro che marche di questo enunciatore o di quell’enunciatario, in quel preciso momento e in quel luogo preciso, collocato in tal situazione. Mentre in tutti gli altri regimi bisogna presupporre la presenza implicita delle istanze di enunciazione, questo regime fa il lavoro al posto dell’analista e designa esplicitamente quali sono gli assenti. Il passaggio–trasferimento particolare consiste nel conservare volontariamente la traccia di quel che accade e quel che passa dentro ciò che passa. Il risultato, la scia di questo regime, sta nel tracciare concatenazioni o catene che permettono di mantenere delle serie di enunciatori, di tokens e di enunciatari. Con evidenza i tre regimi appena individuati si collegano reciprocamente in modo stretto al pari dei tre regimi di tokens della sezione precedente. Come Scienza, Tecnica e Finzione sono quasi inscindibili per ornare, riempire, caricare di peso i quasi–oggetti che passano di mano in mano, così i regimi di Religione, Politica e Diritto sono complementari per definire, designare, individuare e riempire le mani, i corpi, le persone dei quasi–soggetti che si passano i tokens. Resta da spiegare, ma me ne manca lo spazio, altri regimi che stabiliscono relazioni tra i quasi– soggetti e i quasi–oggetti, che il senso comune spesso associa allle espressioni di organizzazione e di economia.

6. Conclusione: teorie di delegati Ho definito fin dal principio l’enunciazione come la ricerca degli assenti la cui presenza è necessaria al senso, presenza segnata direttamente o indirettamente nei messaggi o nei messaggeri enunciati. È quindi possibile avere un linguaggio preciso che parta dalle tracce, dalle marche e inscrizioni degli assenti, nel messaggio o nel messaggero. Questo linguaggio potrà indurre o dedurre esattamente il movimento degli assenti da raccogliere attorno al messaggio o al messaggero per dargli un senso, un movimento, un passaggio–trasferimento e farlo stare, restare, nella presenza.

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La grandezza dei filosofi dell’Essere in quanto Essere sta nell’averci sottratto all’oblio degli assenti. Ma è segno della loro indegna debolezza l’aver dimenticato, in seguito, che i messaggi e i messaggeri più umili conservano le chiare tracce di questi assenti che convocano sempre e sotto i nostri occhi per prendere senso. Noi non abbiamo mai dimenticato l’Essere. L’essenza si ripaga con spiccioli d’esistenza, l’Essere innominabile si traduce in innumerevoli delegati. Nessuno può ricordarsi l’Essere senza ritornare, chiaramente ed esattamente, sui messaggi e i messaggeri che, letteralmente, occupano il suo posto e si sostituiscono a lui. Bisogna riscattare l’Essere con i disprezzati spiccioli dei delegati: macchine, angeli, strumenti, contratti, figure e figurine. Sono poca cosa all’apparenza, ma da soli misurano esattamente il peso del famoso Essere in quanto Essere. Attenendoci ad alcuni regimi individuati fin qui, possiamo contare su un certo numero di delegati per la nostra processione di Panatenee. Che mondo è mai questo, che ci obbliga a prendere in considerazione, tanto per usare parole più comuni, al tempo stesso e d’un fiato, la natura delle cose, le tecniche e le scienze, gli esseri finzionali, le piccole e le grandi religioni, la politica, le giurisdizioni, le economie e gli inconsci? Ma è il nostro mondo. Semplicemente, smette di essere moderno da quando abbiamo sostituito a ognuna delle essenze, dei campi o delle sfere, delle forme di delega. Ecco perché non lo riconosciamo. Ha assunto un aspetto antico con tutti quei delegati, angeli e luogotenenti. È questo pullulare che fa del nostro mondo un mondo così poco moderno, con tutti quei nunzi, mediatori, delegati, feticci, figurine, strumenti, rappresentanti, angeli, luogotenenti e portavoce. La sua bellezza mi farà forse perdonare di aver un po’ violentato la semiotica illustrata dal nostro amico Paolo. Bibliografia Bastide F. [1985], “Iconografia dei testi scientifici. Principi d’analisi”, in Id., Una notte con Saturno. Scritti semiotici sul discorso scientifico, a cura di P. Fabbri, Meltemi, Roma 2001, pp. 167–213. Deleuze G. e Guattari F. [1991], Che cos’è la filosofia, Einaudi, Torino 1996. Fabbri P. e Latour B. [1977], “La retorica della scienza”, in AA.VV., Semiotica in nuce, 1, Meltemi, Roma 2000, pp. 260–278. Fraenkel B., La signature. Genèse d’un signe, Gallimard, Paris 1992. Latour B., “A Relativist Account of Einstein’s Relativity”, Social Studies of Science, 18, 1988a, pp. 3–44. ———, 1998b, “How to be Iconophilic in Art, Science and Religion ?”, in Aa.Vv., Picturing Science, Producing Art, a cura di C. Jones e P. Galison, Routledge, London 1998, pp. 418–440. Whitehead A.N. [1929], Il processo e la realtà, Bompiani, Milano 1965.

Petite philosophie de l’énonciation Bruno Latour Pour Paolo. A la mémoire de notre amie commune Françoise Bastide

Je me suis souvent demandé, en contemplant la frise mutilée du Parthénon, à travers le nuage noir de la pollution ou dans la salle du British Museum où reposent les marbres de Lord Elgin, à quoi ressemblerait une moderne procession des Panathénées. Quels seraient nos représentants ? De combien de genres et d’espèces seraient–ils composés ? A quelle étiquette obéirait leur agencement ? Vers quelle vaste enceinte concourraient–ils ? Combien parmi eux auraient forme humaine ? S’il fallait qu’ils parlent, jurent ou sacrifient en commun, quels rites civiques ou religieux seraient capables de les rassembler et sur quelle agora ? S’il fallait qu’un chant accompagne leur marche ou qu’un rythme scande leurs longues ondulations, quels sons feraient–ils entendre et sur quels instruments ? Peut–on imaginer de telles Panathénées ? Peut–être, si l’on se donnait la peine de rechercher chacune des instances qui envoient, délèguent, désignent leurs représentants pour la grande fête. Si une telle enquête était possible, alors le monde où nous vivons cesserait enfin d’être moderne, ce qui serait pour la terre entière un grand soulagement, et j’appellerais ces cohortes de médiateurs théories de délégués. 1. En « partant » de la sémiotique Il est devenu traditionnel d’appeler “énonciation” l’ensemble des éléments absents dont la présence est néanmoins présupposée par le discours grâce à des marques qui aident le locuteur compétent à les rassembler afin de donner un sens à l’énoncé. Il est également traditionnel, du moins chez Greimas, de distinguer soigneusement l’énonciation telle qu’elle installée ou inscrite dans le discours, de l’énonciation proprement dite qui est toujours seulement présupposée. Enfin, il est admis, toujours chez Greimas, de ne pas considérer l’énonciation comme l’ensemble des conditions sociales, économiques, matérielles, psychologiques ou pragmatiques qui entourent l’énoncé. L’énonciation ne renvoie pas en tant que telle à la pragmatique, à l’acte de discours (speech act) ou à un fondement social de la communication. Toutes ces représentations possibles de l’au–delà de l’énoncé sont fermement installées dans d’autres énoncés. Le romancier “en chair et en os” n’est pas l’énonciateur de son roman. Il est un personnage dans un autre récit, par exemple celui d’un historien, 25

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d’un critique littéraire, ou d’un journaliste venu l’interviewer. Ce refus d’un au–delà du discours fut fondamental pour la sémiotique comme pour la linguistique. C’est lui qui leur a permis de se fonder comme disciplines systématiques et de se débarrasser des êtres de chair et d’os qui voulaient jusqu’ici toujours intervenir dans le fonctionnement du code. Dès que nous commençons à nommer l’énonciateur, à le désigner, à lui donner un temps, un lieu et un visage, nous commençons un récit, autrement dit, nous débrayons à partir de l’énonciation vers un énoncé. Nous passons de l’énonciation marquée à l’énonciation inscrite ou installée dans le récit. Ces absents sont donc à la fois innommables et marqués. Bien qu’ils ne puissent être appréhendés directement ils sont néanmoins repérables. Il faut distinguer soigneusement deux opérations de recherche de l’énonciateur n–1 dont la confusion empoisonne, depuis le début du tournant linguistique, les relations entre sciences du texte et sciences de la société ou de la nature. La première recherche consiste à brancher un nouveau discours, B, sur le premier, A, et à construire une scène qui se dit le “contexte pragmatique de A”. De même que l’on retrouve Lucien de Rubempré dans plusieurs romans de Balzac, on retrouve plusieurs Balzac dans ses romans et dans les livres de la critique littéraire. Il ne s’agit pas bien sûr d’une simple coïncidence, mais enfin, il s’agit d’une construction de continuité (isotopie) qui demande des branchements, du travail, des alignements de sources et de preuves. On va d’un récit à l’autre, on ne va pas d’un texte à son contexte. Il s’agit là d’un principe relativiste qui pose le même genre de problème que le transport d’énoncés entre le brave expérimentateur qui se trouve dans le train d’Einstein et celui qui se trouve sur le talus. Le contexte est comme l’éther des physiciens, c’est une hypothèse superflue (Latour 1988). Cette recherche de l’énonciateur n–1 avec les méthodes et les moyens scénographiques des énoncés n’est pas ce qui nous intéresse ici. Nous recherchons l’énonciation et non la dénonciation du véritable auteur, dissimulé sous les apparences du narrateur. Si l’énonciateur n–1 n’est pas le personnage (individuel ou collectif ) d’un récit de dénonciation, est–il possible néanmoins de le définir ? La solution traditionnelle, de Benveniste à Greimas, nous est malheureusement fermée. Elle consistait à définir l’énonciation comme l’actualisation des potentialités du discours, autrement dit comme le passage de la langue à la parole. Cette solution était entièrement acceptable pour un linguiste ou un sémioticien qui avait besoin de considérer la langue comme un système et de prendre les actes de parole comme des actualisations individuelles, pour se débarrasser de l’armée de sociologues, historiens, psychologues et critiques qui prétendaient parler, sans autre forme de procès, du contexte du discours. Comme nous ne voulons pas nous encombrer du “système de la langue” plus que du “contexte social”, il nous faut quitter ici la sémiotique. Certes, nous ne retournons pas à la nature ni au contexte social, et donc, en ce sens, nous ne trahissons pas le projet de Greimas, mais nous allons trier dans ce projet ce qui nous est utile afin de garder l’acte d’énonciation ainsi que la notion de médiation, tout en abandonnant l’idée d’une appropriation de la langue par la parole. L’énonciation est un acte d’envoi, de médiation, de délégation. C’est ce que dit son étymologie ex–nuncius, envoyer un messager, un nonce. En reprenant

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la définition donnée plus haut, nous pouvons maintenant définir l’énonciation : l’ensemble des actes de médiation dont la présence est nécessaire au sens; bien qu’absents des énoncés la trace de leur nécessaire présence demeure marquée ou inscrite, de telle sorte que l’on peut l’induire ou la déduire à partir du mouvement des énoncés. Il en est des marques d’énonciation comme du magnétisme que les laves rejetées par les volcans et les failles de la terre gardent en se refroidissant. Bien que rien de l’extérieur ne trahisse leur passé magnétique il est possible, des millions d’années après, en interrogeant les roches au magnétomètre de retrouver la trace, fidèlement gardée, de l’orientation du pôle magnétique, tel qu’il était au jour de l’éruption.

2. Ce qui se passe – le premier régime d’énonciation En allant de l’énoncé à l’énonciation nous ne tombons pas sur le social, ni sur la nature, mais, fort traditionnellement, sur l’être défini comme existence. L’énonciation, l’envoi de message ou de messager est ce qui permet de rester en présence, c’est–à–dire d’être, c’est–à–dire d’exister. Nous ne tombons donc pas sur quelqu’un ou sur quelque chose, nous ne tombons pas sur une essence, mais sur un processus, sur un mouvement, un passage, littéralement, une passe, au sens de ce mot dans les jeux de balle. La définition de l’énonciation comme le premier envoi (débrayage actantiel, spatial et temporel) n’est pas inexacte, elle est seulement trop restrictive, puisqu’elle correspond à l’une des passes seulement parmi celles que nous allons apprendre à reconnaître. Cette définition assez primitive est le seul postulat ontologique dont nous allons avoir besoin : nous partons d’une existence continuée et risquée — continuée parce qu’elle est risquée — et non pas d’une essence ; nous partons de la mise en présence et non pas de la permanence. Nous partons donc du vinculum lui–même, c’est–à–dire du passage et de la relation, n’acceptant comme point de départ aucun être qui ne soit sorti de cette relation. Nous ne partons pas des hommes, pas du langage, ce tard venu, pas de la communication. Nous partons de la relation définie de façon fort banale depuis l’aube de la philosophie comme un certain mélange de même et d’autre : A est B, telle est la prédication primitive de la philosophie, c’est le passage, la transformation, la substitution, la traduction, la délégation, la signification, l’envoi, l’embrayage, la représentation de A par B. Tous ces termes sont équivalents, c’est–à–dire qu’ils désignent tous à leur façon le mouvement de passage qui maintient en présence. Le même, c’est–à–dire le maintien dans la présence, est payé par de l’autre, c’est– à–dire un envoi. On ne peut guère être plus précis, et, en dehors du postulat ontologique mentionné plus haut, guère plus banal. Cela permet seulement de ne plus distinguer ce qui “est” de ce qui “signifie”, ce qui “traduit” de ce qui “se substitue”, ce qui “représente” de ce qui “envoie”. Le monde du sens et le monde de l’être sont un seul et même monde, c’est–à–dire celui de la traduction, c’est–à–dire celui de la substitution, de la délégation, de la passe — autrement dit, du c’est–à–dire...

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Notre point de départ est fort simple, conforme à toute la tradition anti– essentialiste, mais il nous en apprend très peu. Nous savons seulement que nous ne reconnaîtrons les traces de l’être qu’au mouvement de substitution. De toute autre définition d’une essence, nous dirons qu’elle est “dénuée de sens”, puisqu’elle n’a pas les moyens de se maintenir en présence, c’est–à–dire de durer. Ceci posé nous ne pouvons rester longtemps, fascinés, à décliner la liste des mots qui se substituent les uns aux autres. Nous devons suivre les leçons de la sémiotique. Son grand avantage fut d’aborder les questions les plus difficiles (la création littéraire, la construction du sens) sans pour autant recourir à des appels à l’admiration ou à l’innommable. Elle ne renonça jamais à définir, à différencier, à parler de l’indicible sens – quitte à jargonner parfois. A son exemple, il doit être possible de caractériser les formes d’énonciation puisqu’elles restent marquées dans les énoncés – en essayant, si possible, de ne pas trop jargonner. Jusqu’ici j’ai parlé de l’énonciation, et non pas des deux figures qui lui sont toujours associées, l’énonciateur et l’énonciataire. J’avais de bonnes raisons de me méfier de ces deux termes, car si on leur ajoute l’énoncé, on se retrouve invinciblement pris dans la situation de communication : un locuteur, un locutaire, un message. Or rien ne nous dit que nous ayons à faire à des humains, rien ne nous dit qu’il s’agisse du langage, rien ne nous dit encore que l’on puisse même séparer les corps parlants des messages circulants. Pourtant, il faut que nous soyons capables de maintenir les termes énonciateur, énonciataire, énoncé, sans pour autant garder aucune trace de leur ancien lien avec la situation de communication. Il nous faut pour cela explorer des régimes d’énonciation apparemment fort éloignés de ceux de la tradition littéraire sur laquelle la sémiotique s’était d’abord fait les dents. Si nous abordons le premier régime d’énonciation, nous comprenons tout de suite que nous sommes infiniment éloignés de l’humaine communication. Ce premier régime, en effet, ne suppose pas d’énoncé, il ne suppose pas non plus d’énonciataire. Que suppose–t–il donc ? Seulement un énonciateur. Que fait–cet énonciateur ? Qui est–il ? C’est–à–dire, ne l’oublions pas, que passe –t–il ? Lui– même. Un semblable. Un presque semblable. Quel est le résultat de la passe ? D’obtenir toujours un énonciateur en présence, presque semblable à ceux qui le précèdent. Il paye le prix de la durée par la passe à un presque semblable. Où peut–on trouver une forme d’énonciation si bizarre qu’il y manque l’énoncé et l’asymétrie entre énonciateur et énonciataire ? Partout. Ce sont les vivants. Nous oublions toujours que les vivants énoncent eux aussi et qu’ils durent parce qu’ils courent le risque de passer à un autre vivant semblable à eux. Que passent–t–ils ? Des gènes, des cytoplasmes, des écosystèmes, des formes vitales, l’eidon de leur espèce ? Tout cela peut–être, mais peu nous importe en ce point. Nous ne voulons pas encore transformer en un message qui passe de corps en corps ce qui est avant tout le passage sans message de corps à corps. Nous appellerons le premier régime “énonciation Reproduction. Il est caractérisé par l’absence d’énoncés et par l’absence d’asymétrie entre énonciateur et énonciataire. Ce qui passe de l’un à l’autre c’est l’un vers l’autre et cet autre, c’est le même, presque le même (Il faudrait dire c’est le même “au darwinisme près” mais

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ce serait déjà supposer résolu tout un ensemble de querelles. Contentons–nous de la notion, parfaitement vague, de “presque semblable”). Pour un observateur extérieur — qui n’existe pas encore — le résultat de la passe est la durée : l’eucalyptus géant, devant ma fenêtre, est toujours là, et l’écureuil, qui niche dans ses branches, toujours présent — à moins que ce ne soient ses descendants. En acceptant l’hypothèse de Whitehead sur l’“inheritance”, on pourrait étendre l’énonciation, ainsi définie, non seulement aux vivants, mais aussi aux inertes. Les inertes aussi choisissent et passent, mais, contrairement aux vivants, ils ne passent pas en un presque semblable. Ils restent, ils choisissent de rester le même, exactement le même (Whitehead 1929). Pour un observateur extérieur — qui n’existe pas encore, car l’observation et l’extériorité appartiennent à un autre régime d’énonciation — aucune asymétrie n’est encore discernable. On a l’impression de pérennité. Les inertes, pourrait–on dire avec Whitehead, sont des vivants qui choisissent de se maintenir en présence sans passer par l’intermédiaire risqué d’un autre corps. Dans ce régime d’énonciation appelé faute de mieux Reproduction nous ne reconnaissons pas la forme familière de l’énoncé — rien ne passe qui soit différent de ceux qui passent — mais nous ne reconnaissons pas non plus la distinction entre énonciateur et énonciataire. Soit elle disparaît rapidement dans le cas des vivants (le descendant devient l’ascendant presque semblable) soit elle n’a jamais lieu puisque l’inerte choisit de demeurer semblable. Les inertes restent, si l’expression a encore un sens, les mêmes énonciateurs qui passent ou se substituent à eux– mêmes. Par conséquent, nous ne reconnaissons pas non plus la situation familière — qui deviendra familière plus tard — de la dualité ou du dialogue énonciateur / énonciataire. Ni les vivants, ni les inertes ne sont jamais dans la situation de dialogue, non pas parce qu’ils sont muets, mais parce qu’ils ne sont jamais au moins deux différents face à face. Ils sont toujours beaucoup plus nombreux et continus. Comment donc, en l’absence de tous les éléments familiers de l’énonciation, allons–nous reconnaître les marques de la passe ou du passage dont nous avons dit plus haut qu’elles étaient le seul moyen de nous repérer ? N’est–il pas impossible, dans le cas des vivants comme des inertes, de poursuivre une définition précise de l’énonciation commencée par la sémiotique dans le cas facile du texte de fiction ? Or c’est tout le contraire. La marque du passage est aveuglante dans le cas des inertes et clairement discernable dans le cas des vivants. Comme les inertes persévèrent dans l’être et ne font jamais de différence entre énonciateurs et énonciataires, qu’ils sont aussi nombreux que l’on voudra, leur énonciation se traduit toujours par la continuité d’une force exercée. Comme le dit encore Whitehead, ce sont des lignes de force. En un sens, ils sont tout entier marque de l’énonciation. Etre, pour eux, c’est exercer une force, c’est leur façon à eux de passer. Dans le cas des vivants, du fait de la différence, vite effacée, entre énonciateur et énonciataire, leur existence ne se confond déjà plus avec la marque de l’énonciation, avec le passage ou l’exercice d’une force. Mais comme ils ne font pas longtemps la différence entre énonciateur et énonciataire et que jamais la distinction énonciation/énoncé n’est discernable, ils apparaissent presqu’autant marqués que les inertes. Ce sont presque des lignes de force. Non, ce sont des lignées ou si l’on veut

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des généalogies. Les lignes de force sont continues (leur discontinuité doit être imaginée), les lignées sont discontinues, elles payent leur continuité par le risque toujours repris de la discontinuité (génération, mort et naissance). Les vivants sont marqués de part en part par le passage de la génération, le risque de la mort, leur remplacement par des presque semblables, mais à tout moment ils apparaissent comme étant plus que ce passage — ils disent quelque chose, ils sont quelque chose. Leurs énoncés, c’est leur corps. Loin des humains, loin du langage, ce premier régime d’énonciation, celui de la Reproduction est fondamental. Il est un passage, il est une passe, qu’il s’agisse des lignes de forces des inertes toujours pressantes et pressées, persévérant dans l’être ou qu’il s’agisse des lignées de vivants réobtenant la durée par la génération de presque semblables (au darwinisme près). Une analyse du sens qui ne pourrait pas caractériser avec précision ce régime, serait accusée, avec raison, d’être anthropo– ou logo–centrique. Si l’on ne pouvait pas établir avec les choses mêmes un rapport qui fasse sens, qui donne le sens, l’enquête serait vaine et serait accusée, avec raison, d’idéalisme. Jusqu’ici, au contraire, nous avons caractérisé ce premier régime avec assez de précision pour pouvoir le comparer aux autres, prouvant ainsi que la sémiotique pouvait voyager infiniment loin de son terroir et que l’on pouvait très bien dépasser la fascination muette pour l’être en tant qu’être pour la remplacer par l’être en tant qu’autre. Nous allons maintenant essayer de préciser les autres régimes d’énonciation. 3. Substitution et Croyance Tous les autres régimes d’énonciation que nous allons survoler vont être caractérisés, à l’opposé du précédent, par la position des énonciateurs et des énonciataires, tous sauf deux, très particuliers, que je voudrais examiner d’abord, Substitution et Omission. En régime de Reproduction, nous l’avons montré, il n’y a pas de différence entre ce qui circule et les corps qui font circuler, mais il y a bien quelque chose qui passe et se maintient en présence par la grâce de ce passage : les corps eux– mêmes, les lignes de force des inertes ou les longues lignées de vivants. Il existe un régime d’énonciation encore plus étrange dans lequel il n’est même pas possible de caractériser le maintien d’un corps grâce au passage. Dans ce régime on ne peut reconnaître que des passes, mais au lieu que ce soit des semblables qui passent, ce sont des dissemblables, des méconnaissables, des membra disjecta. Il n’y a que des substitutions, d’où le nom que j’ai choisi de lui donner. Bien sûr, dans ce régime, il n’y a pas d’énonciateur, pas d’énonciataire, et pas de différence repérable entre plan de l’énonciation et plan de l’énoncé. C’est ce qui a tant frappé les premiers analystes de ce régime. On a l’impression d’un acteur formidable mais inhumain, dangereux, atemporel, prélangagier, ce pourquoi Freud appelle inconscient ce qui se passe sous les auspices d’un tel régime d’énonciation, mais le mot lui–même est encore trop rationaliste et trop anthropomorphe, de même que la célèbre définition de Lacan “ça parle”, encore trop logocentrique.

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Non, ça ne parle pas, mais ça s’énonce, ça passe, ça se passe très bizarrement, en cristallisant, condensant, démembrant, déplaçant, associant. Si l’on rétablit les personnages habituels de la situation de communication — un locuteur et un locutaire humains, un message, un code, une volonté de communiquer — alors le sens de ces substitutions disparaît. Le seul moyen de leur donner un sens qui soit adapté à ce régime d’énonciation, c’est de faire disparaître les figures tardives de l’énonciateur et de l’énonciataire. L’analyste, à l’écoute, entend l’innommable qui parle de façon plus embrouillée que la pythie sur son trépied. Les marques de ce régime si particulier se trouvent dans les embranchements imprévisibles qui substituent une forme à une autre, jeu d’esprit, lapsus, lacanisme divers ou, plus sérieusement, métamorphoses terrifiantes. Sans ce régime tous les autres régimes humains, dont nous allons parler, seraient impossibles. Ils leur manqueraient en quelque sorte la matière première pour créer, mouler, les personnages et les formes de leurs régimes. Lignes de forces et lignées ne pourraient se transformer par elles–mêmes en membra disjecta. Le mouvement tracé par ce régime, le sillage qu’il laisse derrière lui, n’a pas la clarté d’une ligne de force ou la continuité d’une lignée, nous appellerons libres associations les parcours engendrés par lui. Pour en finir avec les régimes atypiques, qui ne ressemblent en rien à celui auquel la sémiotique nous avait préparés, il nous faut considérer ce que j’appelle le régime de la Croyance ou mieux de l’Omission. Dire que c’est un régime d’énonciation est paradoxal puisqu’il est caractérisé par l’affirmation qu’il n’y a pas d’énonciation du tout. La définition de la Croyance c’est de partir du plan de l’énoncé en ne considérant pas le plan n–1 comme important. C’est donc à première vue la négation de la présente enquête. Or, il s’agit bien pourtant d’un régime d’énonciation parmi d’autres dont la caractéristique est de n’avoir du sens qu’à la condition de ne pas considérer le plan de l’énonciation. On ne comprend la croyance selon son propre régime que lorsque l’on “marche”, que lorsque l’on “se fait prendre”. “J’ai marché pour de bon”. “J’y crois dur comme fer”. Le résultat de cette indifférence pour la distinction énonciation / énoncé, c’est que, en Croyance, tous les autres régimes vont pouvoir être brouillés, combinés, hybridisés. Comme ce point de vue, par définition, est indifférent à l’énonciation, il obtient des effets de croyance à partir de tous les régimes, aussi enracinés soient–ils dans une structure très particulière de l’énonciation. Quelle est la passe particulière à la Croyance ? Qu’il n’y a pas de passe, justement, que personne ne dit quoi que ce soit à qui que ce soit, que ce qui est dit ne dépend aucunement de qui le dit, ni à qui cela est dit. Les choses sont. Il y a. On sait. Les figures de l’énonciation sont entièrement abolies. Peu importe qui, où, quand. On retrouve ici ces effets de naturalisation contre lesquels les premiers sémioticiens comme Roland Barthes se sont tant démenés. Quelles sont les marques particulières de la Croyance ? Qu’il n’y a pas de marques particulières. L’énoncé circule sans ses racines, il est inassignable. Même la distinction entre l’énoncé et les “personnes” de l’énonciation est impossible, d’où cette impression formidable qu’il n’y a rien de spécial à faire pour se maintenir en présence, aucun prix à payer pour obtenir, réobtenir la durée. C’est au régime de Croyance que nous devons les

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essences, ces ensembles qui durent sans risque et sans répétition. La passe si particulière de la Croyance trace, si l’on peut dire, des essences, comme la Reproduction trace des lignes ou des lignées, et la Substitution des libres associations. Mais bien sûr, par définition, les essences ne gardent pas la trace de ce passage. Leur nom lui–même ne présuppose aucune temporalité. On comprend pourquoi le postulat ontologique dont je suis parti était inévitable. En partant des essences, j’aurais en fait sélectionné un régime d’énonciation parmi d’autres, celui de l’Omission, et le plus mal commode pour caractériser les divers régimes. 4. Les régimes qui se concentrent sur le quasi–objet : Technique, Fiction, Science Les trois régimes définis ci–dessus sont, il faut le reconnaître, des monstruosités pour tout sémioticien classique. Mais il convient de comprendre pourquoi. Ils n’ont pas d’énoncé — comme dans le cas de la Reproduction — ou pas d’énonciation — comme dans le cas de l’Omission, ou pas d’énonciateur — comme dans le cas de la Substitution. D’où vient donc la distinction entre les plans de l’énoncé et de l’énonciation qui paraissait, à la sémiotique, si primitive ? En fait, elle est fort tardive et elle dépend de l’invention d’un nouveau terme que Serres appelle quasi–objet (ou “token”). Il y a une différence fondamentale entre les régimes ci–dessus et les sept autres que je vais présenter : ils sont tous des régimes “à quasi–objet”, c’est–à–dire que l’on peut toujours distinguer ce qui passe de ceux qui passent. Cette distinction permet aussitôt de nous retrouver en pays de connaissance parce que, en effet, nous nous rapprochons de l’humain. Ce n’est pas la parole, ce n’est pas le corps, qui vont caractériser ce minimum d’humanité dont nous allons avoir besoin, mais seulement ceci : dans la passe, quelque chose passe en plus du corps. Ce supplément est prélevé sur les lignes de forces et les lignées que les libres associations ont redistribuées. Je ne pouvais pas distinguer entre l’eucalyptus et ses descendants quelque chose qui passerait du premier au second et qui ne serait pas l’eucalyptus lui–même. Je vais maintenant pouvoir distinguer des tokens en mouvement des corps qui les font bouger. Ce supplément va non seulement permettre de distinguer le plan de l’énoncé du plan de l’énonciation, il va aussi créer une asymétrie suffisante pour repérer les figures distinctes de l’énonciateur et de l’énonciataire. Dans cette section, je vais présenter trois régimes d’énonciation qui ont comme particularité de se concentrer sur les quasi–objets, qui sont, pour ainsi dire, centripètes par rapport au token. Qu’est–ce qu’un quasi–objet ? Ce n’est pas — ce n’est pas d’abord — un signe. C’est le déplacement de l’énonciateur dans un autre corps, dissemblable, qui tient en place, même lorsque l’énonciateur se retire et s’absente, et qui s’adresse à l’énonciataire qu’il tient en place. Telle est la caractéristique principale de l’énonciation technique. Un panier tressé, par exemple, ne ressemble pas à la tresseuse de panier : il se tient tout seul et tout droit, longtemps après qu’elle a disparu ; il rassemble les pommes sauvages cueillies par quelqu’un qui n’est pas forcément tresseur de panier ; il continue, sous une autre forme, ailleurs et dans un autre temps, la

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présence de la tresseuse de panier et son action sur le ramasseur de pommes. Ce débrayage actantiel qui fait passer la tresseuse dans un panier qui ne lui ressemble pas mais qui tient en son absence, ce détour fondamental qui prélève et mobilise des lignes de forces et des lignées — joncs et osiers — afin de faire tenir ensemble des corps — pommes sauvages et ramasseurs de pommes — nous l’appellerons technique. Comme tous les observateurs l’ont reconnu, il est fondamental parce que ce régime ajoute une multitude de non–humains à la continuité de cette lignée parmi d’autres, la lignée humaine. C’est seulement à partir du moment où passent les non–humains que l’on peut discerner la différence entre quelque chose qui passe et les corps qui font passer cette chose, ce quasi–objet. C’est seulement à partir du moment où les non– humains sont groupés, agencés, prélevés par le déplacement et la traduction de l’énonciateur — ici la tresseuse de panier — qu’une asymétrie se crée suffisamment pour que l’énonciataire lui–même se distingue de l’énonciateur. Le descendant devient l’ascendant en régime de Reproduction; mais en régime de Technique rien n’oblige le ramasseur de pommes à être tresseur de paniers, de même que rien ne fera du panier lui–même une tresseuse de panier ou un ramasseur de pommes. Ce que permet le régime Technique c’est de plier la relation entre lignées d’humains par une relation entre humains et tokens. Ce pli, c’est–à–dire cet envoi, cette substitution, ce déplacement, va permettre de détacher l’énonciateur de ce qu’il énonce et envoie. La sémiotique des textes, du langage et de la fiction, a omis de considérer que la division même entre les grandes figures énonciateur, énonciataire, énoncés était impossible sans la mise en place d’un autre régime d’énonciation. L’énonciateur existe de façon repérable parce qu’il s’absente, une fois le détour fait, et que le token tient en place, tient sa place, fidèle ou infidèle lieu–tenant. L’énonciataire existe de façon repérable parce qu’il est tenu en place et environné, non plus par des corps semblables à lui, mais par des lieutenants dissemblables dont l’une des origines, humaine, s’est momentanément absentée. Le maintien dans la présence se trouve maintenant plissé, car les fragiles corps humains s’aident pour durer de la dureté, de l’obstination des lignes de force et des lignées. La passe technique est donc ce pas de côté qui déplace une interaction de corps à corps semblables en une interaction de corps à corps dissemblables. J’appellerai le sillage laissé par cette passe, par ce faufilage de l’humain et des non–humains, des tresses ou des combinaisons. Depuis longtemps, nous, les humains, nous nous combinons aux non–humains et c’est ainsi que nous nous maintenons dans la présence et que, probablement, nous sommes devenus humains. Les marques de cette passe si particulière se retrouvent à tous les débrayages, interfaces, impacts, saisies, à la fois sur les corps humains et sur les agencements de non–humains mais comme, dans ce régime, il est de la nature de l’énonciataire de se retirer en laissant le quasi–objet continuer tout seul son travail de signification, il faut repérer les marques ténues qui permettent à cette absence de se prolonger. Sans ce régime, nous n’aurions jamais divergé dans nos façons de nous tenir en présence, nous serions une lignée parmi d’autres, et non pas celle qui croise, combine, ré–agence et tresse les autres. Le monde vivant appartiendrait aux lignées, mais comme aucune

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ne divergerait il n’y aurait pas de “propriétaire” et cette somme, “le monde vivant”, nul ne pourrait la calculer. “Il était une fois un Prince Charmant qui allait hériter du Pays des Merveilles”. Nous voici enfin dans le langage, en pays vraiment de connaissance, dans le récit étudié avec tant de détails par les sémioticiens. Un énonciateur dont nous ne savons rien, s’envoie dans un narrateur et nous demande à nous, qui passons du rôle d’énonciataires à narrataires, de nous envoyer à sa suite dans un autre espace — le Pays des Merveilles — dans un autre temps — “il était une fois” — et de nous identifier à un autre personnage — le Prince Charmant. Nous voici dans la Fiction — terme qu’il faut prendre dans le sens fort de modeler, feindre, peindre, figurer, façonner et non dans le sens de “faux” qui ne viendra que par comparaison avec le régime suivant. Ce régime d’énonciation peuple de figures, de lieux et de temps les relations de l’énonciateur et de l’énonciataire. Qui est l’énonciateur ? L’ensemble de tous les rôles qu’il a inscrit dans les récits. Qui est l’énonciataire ? L’ensemble de tous les rôles que les récits lui ont prescrit. Rien ne nous dit encore qu’il s’agit là d’humains, d’individus, de paroliers — ou plutôt, justement, on nous le dit, on nous le chante, on nous le peint, on nous le sculpte, on nous le narre. “Nous”, ce que “nous sommes” émergeons à force de discours. C’est la grande découverte de la génération qui nous précède de ne pas partir d’une anthropologie, Grand Récit parmi d’autres, afin de définir qui parle et qui écoute, mais de laisser les figures obscures de l’énonciateur et de l’énonciataire s’enfanter, se figurer, se façonner à partir de la Fiction. Littéralement — et littérairement — “nous sommes les fils de nos œuvres”. Nous nous envoyons constamment ailleurs, dans un autre temps et dans d’autres figures ; nous nous installons dans les récits innombrables ; nous nous inscrivons les uns les autres aux places requises ; et ainsi, peu à peu, nous apprenons qui nous sommes ; nous nous figurons qui nous sommes. Sans ce régime nous ne serions rien puisque, incapables de nous envoyer ailleurs dans un autre caractère, incapable de nous figurer d’autres interlocuteurs, nous serions limités à un indéfinissable “nous”, aussi évanescent qu’un point mathématique. La passe de ce régime d’énonciation c’est le débrayage ou l’envoi, défini par Greimas. Toutefois, contrairement à ce que pouvait croire la sémiotique des contes et des textes de fiction, l’envoi est une passe très particulière qui ne définit pas l’énonciation en tant que telle, mais seulement l’un de ses régimes. Les marques laissées par cette passe sont bien connues et bien répertoriées, ce sont toutes celles qui révèlent et dissimulent, installent et inscrivent, les relations entre l’énoncé n et l’énonciation n–1. Quel est le sillage laissé derrière elle par cette passe ? Ce que j’appellerai, faute de mieux, des peuplements de figures en laissant au mot figures un vague suffisant pour accommoder les personnages anthropomorphes et les agencements que l’on appelle justement non–figuratifs. Ce qui compte en Fiction, c’est ce formidable embranchement de délégués innombrables allant dans toutes les directions, temps et lieux, entraînant derrière eux des narrateurs et des narrataires éblouis. Ce qui caractérise le régime de Fiction c’est l’envoi, la dissémination, le départ à partir de la matière du token et la connivence de l’énonciataire. Le retour, le rapatriement des figures, l’ultime réembrayage vers le niveau n–1, n’intéresse pas

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beaucoup ce régime. Ce pourquoi les sémioticiens, attentifs aux récits et textes de fiction, n’ont pas su le distinguer d’un autre régime d’énonciation, qui s’intéresse de façon exclusive à l’envoi et au retour des figures, à leurs disciplines, au rattachement de ces figures au dernier niveau de l’énonciation, et aux rapports de l’énonciateur et de l’énonciataire. Je voyage en Fiction, mais quand je sors du récit je n’ai pas de traces de ce voyage entre mes doigts. A tout instant j’étais ailleurs, j’étais un autre. Jamais je n’ai tenu en même temps et sous le même rapport les niveaux n, n–1, n+1, n+n. Il existe une autre forme de débrayage, profondément différente, parce qu’au lieu d’envoyer, elle aligne l’énonciateur sur ce qu’il désigne et tient donc à la fois le point de départ et le point d’arrivée. Les deux formes d’envoi sont, pour ainsi dire, à angle droit, bien qu’elles soient toujours confondues par l’analyse, jusqu’aux travaux de notre amie Françoise Bastide (Bastide 1985). Dans le régime d’énonciation que j’appelle Science les figurines sont envoyées dans d’autres espaces–temps — comme en Fiction — mais elles doivent revenir. Non seulement elles doivent revenir au niveau n, comme dans un récit de fiction bien ordonné qui se bouclerait sur lui–même, mais elles doivent revenir dans la main de l’énonciateur, au niveau n–1. Cet aller et retour permanent, plus rapide que les anges montant et descendant de l’échelle de Jacob, permet à l’énonciateur d’être à la fois et sous le même rapport ici et là–bas. Autrement dit, il peut agir à distance. Dans sa main s’accumulent des lieux et temps différents figurés et représentés par des délégués capables de se mouvoir dans les deux sens — envois et retours (Deleuze & Guattari 1991). Si la forme des figurines et délégués ressemble à celle des êtres envoyés par la Fiction, leur mouvement d’aller et de retour, la discipline qui est exigée d’eux, les moule, profile et dessine de façon tout à fait caractéristique. Ils sont, pour ainsi dire, aérodynamiques, profilés pour le travail d’aller et de retour. Ce sont des fictions dressées comme des chiens de chasse pour rapporter à leur maître. Quelles que soient les transformations qu’ils subissent, les matières et les formes qu’ils traversent, ils doivent pouvoir maintenir quelque chose à travers ces déformations de façon à rapporter à l’énonciateur quelque chose qui rende l’énonciateur capable d’atteindre le lointain. Aussi primitifs qu’on les choisisse ces délégués sont toujours ce que j’appelle des mobiles immuables et combinables — puisqu’ils font l’aller et le retour, puisqu’ils maintiennent une forme à travers les déformations et puisque localement, dans la main de l’énonciateur, un “modèle réduit” s’est élaboré qu’il peut inspecter et modifier. La passe très particulière de ce régime, c’est de modifier la relation entre l’énonciateur et l’énonciataire par l’enrichissement du token qui rapporte maintenant le lointain. Si l’on suivait cette passe, on trouverait un énonciateur, puis on voyagerait à la suite de délégués, puis on reviendrait dans un convoi de figurines maintenues stables à travers les plus rudes transformations, puis on tomberait à nouveau sur l’envoyeur de départ et l’on passerait alors dans la main de l’énonciataire. Ce qui est intéressant, dans ce régime, c’est que l’énonciataire et l’énonciateur doivent pouvoir être confondus ; le premier doit pouvoir occuper la place du second. “Si j’étais à sa place je verrais et saurais les mêmes choses. Prenez ma place. Je vois et je sais les mêmes choses” (Fabbri & Latour 1977). Les marques de ce régime d’énonciation sont rendues reconnaissables par cette triple question de l’aligne-

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ment : alignement des différents plans de l’énoncé les uns sur les autres (maintien de l’immuablitité dans la mobilité) ; alignement de tous les plans de l’énoncé sur le dernier plan n–1 ; alignement de l’énonciataire sur l’énonciateur. Le sillage de ce régime d’énonciation forme ce que j’appellerai des références — mot qui n’est pas la propriété de l’ennuyeux débat sur le réalisme, mais qui signifie “rapporter”, “se rapporter à”, “s’en rapporter à quelqu’un”. Ce régime crée des références dans tous les sens du mot. Sans lui, l’accès au lointain et l’action à distance seraient impossible ainsi que l’alignement des différents énonciateurs/taires. Les tokens s’alourdiraient de nouvelles tresses ou combinaisons, s’enchanteraient de nouvelles figures, mais ne mobiliseraient pas d’autres espaces–temps pour les rapporter aux humaines relations. Ce qui compte dans ces trois régimes c’est de créer un quasi–objet — par déplacement dans un autre matériau — de le peupler de figures — par débrayage actantiel, temporel et spatial — de le rapporter à d’autres espaces–temps par l’intermédiaire de figurines disciplinées. Tous trois se concentrent sur le token, sur le quasi–objet, plus que sur le rapport énonciateur–énonciataire qui se trouve en quelque sorte secondaire. En Technique, l’énonciateur doit pouvoir s’absenter, laissant à la charge du token l’établissement des liens avec l’énonciataire ; en Fiction, l’énonciateur n’a pas plus d’importance que la matière du token, car compte avant tout l’envoi avec la connivence de l’énonciataire ; en Science, les deux “personnes” de l’énonciation doivent être substituables l’une à l’autre. Le résultat de ces trois régimes pris ensemble — car, bien sûr nous n’observons que leurs hybrides — est, en quelque sorte, de charger les tokens qui passent de corps en corps. Les passeurs se maintiennent dans la présence par l’intermédiaire multiplié des quasi–objets. En fin de compte, l’impression contraire est obtenue : des corps passent dans un monde de choses plus vastes et plus durables qu’eux. 5. Les régimes centrés sur les quasi–sujets : Religion, Politique, Droit Nous avons postulé qu’aucun être ne pouvait demeurer le même sans exister, qu’il doit donc s’envoyer, s’énoncer. Nous recherchons les formes d’envoi. Combien y a–t–il de façons de passer afin de rester en présence, de se rendre présent ? Pour m’y reconnaître, je me suis concentré sur les “personnes” de l’énonciation et les formes de rapport à l’énoncé. Jusqu’ici nous en avons reconnues six. Les trois premières, fondamentales et atypiques, qui font passer les corps mêmes (Reproduction), ou “ça se passe” (Substitution), ou qui nie qu’il se passe quoi que ce soit (Omission). Les trois suivantes qui “ chargent ” le quasi–objet. Nous allons maintenant examiner des régimes qui, eux aussi, tournent autour du token, mais qui le font de façon inverse. Au lieu de constituer le quasi–objet, ils l’utilisent pour autre chose, pour définir et régler les relations entre énonciateurs et énonciataires. Ils définissent donc ce qu’on pourrait nommer des quasi–sujets. Le quasi–objet devient pour eux comme un prétexte. Il est un régime pour qui le sens de l’énoncé demeure incompréhensible tant que le mouvement que lui impriment les “personnes” de l’énonciation n’est pas

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reconstitué. C’est précisément celui par lequel se trouve attribuées les différentes personnes : je, toi, lui, eux, nous, vous. J’ai utilisé jusqu’ici, entre guillemets, l’expression “ personnes de l’énonciation ” pour désigner l’énonciateur et l’énonciataire. Mais où avons–nous pris qu’il y avait ces personnages canoniques et qu’il n’y en avait que deux ? Encore une fois à la sémiotique des textes de fiction qui, en effet, distingue assez facilement un narrateur et un narrataire. Mais cette dualité est propre au régime de Fiction (et à la technique du livre) lequel part du niveau n et se désintéresse plutôt de l’énonciation elle–même. Dès que l’on sort du cercle étroit de l’analyse des livres de fiction, il devient clair qu’il faut d’abord composer des personnes de l’énonciation et décider de leur nombre. Non pas les remplir effectivement par la certitude d’être ici, maintenant, pour la première fois, comme dans le régime suivant, mais allouer, répartir, compter, redistribuer, les différents rôles et fonctions. La circulation des quasi–objets, dans ce régime, ne vise pas directement le quasi– objet lui–même mais le tracé du collectif que cette circulation incessante permet de performer. Combien y a–t–il d’énonciateurs/–taires ? Qui est énonciateur ? Qui est énonciataire ? Qui représente qui ? Qui parle au nom de qui ? Qui s’adresse à qui et dans quel ordre ? Le collectif n’existe pas tout seul, telle est la grande découverte de la sociologie et de l’anthropologie modernes. Il ne se tient pas tout seul. Il faut le tracer, le performer. Il ne se maintient pas présent sans être constamment re–présenté. C’est un problème topologique insoluble : comment une multitude conserve–t–elle la forme d’un ensemble ? C’est un “ singulier pluriel ” qu’il faut réparer constamment en résolvant en tous points la question Un /Tous. Je dis ce que vous dites, donc je vous représente. Vous dites ce que je dis, donc vous m’obéissez. Nous sommes différents d’eux. Lui est un autre. Tout ce travail de définition se fait à partir d’énoncés qui, pris en eux–mêmes, sont presque tout à fait dénués de sens : c’est que le sens ne vient pas de l’énoncé, mais du tracé du collectif qui permet et que permet leur circulation rapide. Il faut toujours, par mélange et compromis, confusion et cote mal taillé, régler la balance du même et de l’autre. J’appelle politique ce régime d’énonciation par lequel se trouve défini qui énonce et à qui il s’adresse. Ce régime prend d’autant plus d’importance que les tokens se multiplient. Les lignées humaines pouvaient définir les séries d’ascendants et de descendants sans trop de difficultés, mais si l’on multiplie les non–humains, les figures et les figurines, alors la question de la composition du collectif doit être sans arrêt posée et résolue à chaud. La passe de ce régime est bien particulière puisque sans énoncer quoi que ce soit de clair elle dit, en passant de main en main, “voilà qui vous êtes, voilà qui nous sommes, c’est à lui de parler, c’est à toi d’écouter, c’est à nous de juger”. Sans ce régime il n’y aurait pas d’acception des personnes (que je puis écrire maintenant sans guillemets). Le dernier reste de la structure de communication, c’est–à–dire la dualité énonciateur/ énonciataire a maintenant disparu. Le nombre de personnes ne sera pas souvent réduit à deux et leur répartition ne sera probablement jamais aussi simple que celles de l’énonciateur et de l’énonciataire. Les marques de ce régime sont difficiles à repérer car l’énoncé n’est presque rien, et c’est ce caractère insignifiant, vague, ambigu,

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variable qui lui permet justement de bien circuler et d’être un bon traceur. Le sillage que laisse derrière elle cette passe je l’appelle fort naturellement assemblées ou mieux rassemblements. Vu à partir des autres régimes, cette circulation politique va s’appeler mensonge, mauvaise foi, manipulation, invention. C’est qu’on ne la prend pas dans son mouvement propre lequel exige le compromis et l’insignifiance de l’énoncé pour composer le rapport Un/Tous. “Je t’aime”, telle est la petite phrase qui manifeste au mieux la nécessité de régler l’énonciation si l’on veut comprendre le sens de l’énoncé. Cette phrase est fort mal adaptée pour un travail de référence, comme tous les commentateurs de la relation dialogique l’ont remarqué. Le “je”, le “toi”, doivent être remplis par des personnes réellement présentes. La phrase banale en elle–même n’est qu’un prétexte. Si je la prends au sérieux selon un autre régime – en Science par exemple – et réponds “Tu me l’as déjà dit il y a six mois”, c’est que la relation amoureuse bat sérieusement de l’aile, que je n’aime pas, que je suis incapable de répéter la mise en présence des personnes de l’énonciation. C’est que je prends répétition dans le sens qu’elle a dans un autre régime, le retour ad nauseam du même. Si ce n’est pas toujours la première fois que je prononce le “je t’aime”, je n’aime pas. En amour, le “je t’aime” se répète autant de fois que la relation entre deux énonciateurs s’établit comme une relation de celui–ci, et pas un autre, ici, et pas ailleurs, maintenant et pas hier ou demain. Au lieu d’un envoi, par le token, il s’agit d’un retour au niveau n–1, mais d’un retour qui ne dit rien, qui ne rapporte rien, sinon ceci : toi, et personne d’autre, et moi, et personne d’autre, nous sommes, maintenant, pour la première fois, pour l’unique fois, dans la présence. Les marques de l’énonciation propres à ce régime sont faciles à remarquer car le sens des énoncés, pris par lui–même, est complètement incompréhensible, ou trivial, ou répétitif, ou absurde. Cette situation est normale puisqu’il s’agit d’énoncés qui au lieu de se préoccuper d’eux–mêmes, comme dans les régimes de la section précédente, cherchent à désigner ce qui par définition est absent, toujours absent, la présence réelle des personnes de l’énonciation : ego, hic, nunc. C’est ce régime qui subit le plus clairement le paradoxe de l’énonciation : les absents nécessaires au sens de l’énoncé sont désignés, forcément maladroitement, par des énoncés impossibles, couturés, déchirés, contradictoires, brisés, tous dirigés vers l’évocation, l’invocation de la présence réelle des absents. Soyez–là et vous comprendrez ce qui est dit. Ajoutez–vous, vous, maintenant, en bas de l’énoncé, du récit, et alors le sens du récit apparaît, cette passe si particulière qui remplit et lie les personnes de l’énonciation (Latour, 1998). Oui, nous sommes dans la présence, nous comprenons maintenant ce que c’est qu’être présents, nous comprenons le sens des énoncés biscornus qui passent entre nos mains et que nous répétions sans comprendre, nos yeux se dessillent, c’est toi, c’est moi, nous ne passerons plus, nous sommes sauvés maintenant, ce qui s’est souvent exprimés sous la forme suivante : nous ne mourrons plus. J’ai choisi d’appeler religion ce régime d’énonciation mais j’aurais pu l’appeler amour, ce qui reviendrait au même – le premier terme est plus collectif, le second plus individuel, mais les religions historiques que nous connaissons le mieux se sont justement définies comme religions d’amour. Sans ce régime, les instances du

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ego, hic nunc demeureraient vides ou débrayées au niveau n, sans jamais pouvoir se relier au niveau n–1. Sans ce régime, la notion même de “ maintien dans la présence par le risque de la relation ” serait un énoncé, ou serait une passe indiscernable, et non pas cela, maintenant, pour toi, lecteur, pour moi, auteur, le salut. En régime Religion les énonciateurs/taires se “redressent” pour ainsi dire et font de leur relation de coprésence, à travers la médiation des tokens, l’objet unique de cette relation. Le sillage de cette passe totalement différent des autres, je suis tenté de l’appeler procession non pas seulement à cause des Fêtes Dieu et pluies de rose de notre enfance, mais à cause du mot processus par lequel j’ai commencé cette méditation, et aussi pour la tradition passée de main en main qu’évoque ce mot. Les énonciateurs et les énonciataires procèdent en longues chaînes au long desquelles chacun est également ego, hic, nunc et tout ce qui passe en matière d’énoncés est dénué de sens aussi longtemps que les énonciateurs /taires, ne s’installent pas au niveau n – 1. Alors, nous répétons de pauvres mots pour la millionième fois, mais c’est la première fois qu’une telle chose se passe. Un troisième régime d’énonciation demeure indifférent au token, mais contrairement au précédent, il multiplie les marques qui facilitent le rattachement de l’énonciation à l’énoncé. Si l’énonciation est l’ensemble des absents dont la convocation est nécessaire à la construction du sens de l’énoncé, alors ce régime est particulier en ce qu’il définit justement la façon singulière de convoquer les absents, et de désigner dans le détail de quels absents il s’agit. Indifférent au contenu de l’énoncé, il est extraordinairement précis sur la forme de rattachement de tel énoncé à tel énonciateur ou à tel énonciataire. En régime de Religion, la personne de l’énonciation remplit de sa présence effective les mots vides “je”, “toi”, “maintenant”, “ici” qu’elle répète pour la toujours première fois. En régime de Politique le nombre, qualité, rôle et oppositions des personnes de l’énonciation se trouvent définis par leurs rapports au collectif. Mais rien encore dans ces régimes ne permet de tenir ensemble celui–ci et cet énoncé que voici. Pour cela il faut une passe particulière qui multiplie dans et autour de l’énoncé les griffes, marques, signatures, sceaux, qui permettent la reconvocation des absents (Fraenkel, 1992). Sans ce régime, ni les personnes ni les énoncés ne seraient assignables ou repérables. Tous circuleraient au petit bonheur la chance. Aucune promesse ne serait traçable. Aucun engagement ne serait suivi. Les successions de tokens et les multiplicités de personnes pourraient n’avoir aucun rapport. C’est à assurer cette tenue, cette suite, cet alignement des personnes qui énoncent et de leurs messages ou messagers, que travaille le régime que j’appelle Droit, en choisissant dans les connotations du mot son côté formel et positif plutôt que son contenu moral ou juste. Les marques de l’énonciation dans ce régime sont évidemment les plus faciles à repérer puisque les énoncés ne sont rien que des marques de cet énonciateur–ci, de cet énonciataire–là; à ce moment précis, en cet endroit précis, entouré par telle situation. Alors que dans tous les autres régimes, il faut présupposer la présence implicite des instances de l’énonciation, ce régime fait le travail à la place de l’analyste et désigne explicitement quels sont les absents. La passe particulière à ce régime c’est, contrairement à toutes les autres, de garder volontairement la trace de ce qui se passe et de qui passe dans ce qui passe. Le

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résultat, le sillage de ce régime, revient à tracer des enchaînements ou des chaînes qui permettent de tenir des suites d’énonciateurs, de tokens et d’énonciataires. Les trois régimes que nous venons de repérer sont évidemment liés les uns aux autres aussi étroitement que les trois régimes à token de la section précédente. De même que Science, Technique et Fiction sont presque indissociables pour orner, remplir, alourdir les quasi–objets qui passent de main en main, les régimes de Religion, de Politique et de Droit sont complémentaires pour définir, désigner, repérer et remplir les mains, les corps et les personnes des quasi–sujets qui passent les tokens. Reste à déployer, mais la place me manque, d’autres régimes, qui établissent des relations entre les quasi–sujets et les quasi–objets, ce que le sens commun relie souvent aux expressions d’organisation et d’économie. 6. Conclusion : des théories de délégués J’ai défini depuis le début l’énonciation comme la recherche des absents dont la présence est nécessaire au sens, présence marquée directement ou indirectement dans les messages ou dans les messagers énoncés. Un langage précis est donc possible qui part des traces, marques et inscriptions des absents dans le message ou dans le messager, et qui induit ou déduit exactement le mouvement des absents qu’il faut rassembler autour du message ou du messager pour lui donner un sens, un mouvement, une passe et le faire tenir, maintenir, dans la présence. C’est la grandeur des philosophies de l’Etre en tant qu’Etre de nous avoir fait sortir de l’oubli des absents ; mais c’est leur indigne faiblesse que d’avoir oublié ensuite que les plus humbles messages et messagers gardent les traces claires de ces absents qu’ils convoquent toujours et sous nos yeux pour prendre sens. Nous n’avons jamais oublié l’Etre. L’essence se paie en petite monnaie d’existence, l’Etre innommable se traduit en délégués innombrables. Nul ne peut donc se rappeler l’Etre sans revenir, clairement et exactement, sur les messages et messagers qui, littéralement, tiennent sa place et se substituent à lui. Il faut racheter l’Etre avec la petite monnaie des délégués que l’on méprise : machines, anges, instruments, contrats, figures et figurines. Ils n’ont l’air de rien mais à eux tous ils pèsent exactement le poids de ce fameux Etre en tant qu’Etre. En nous en tenant aux quelques régimes repérés jusqu’ici, nous pouvons déjà compter sur pas mal de délégués pour notre défilé des Panathénées. Quel monde est–ce là qui au minimum nous oblige à prendre en compte, pour prendre des mots plus communs, à la fois et dans le même souffle, la nature des choses, les techniques, les sciences, les êtres de fiction, les religions petites et grandes, la politique, les juridictions, les économies et les inconscients ? Mais c’est notre monde. Il cesse simplement d’être moderne depuis que nous avons substitué à chacune des essences, des domaines ou des sphères, des formes de délégations. C’est pourquoi nous ne le reconnaissons pas. Il a pris un air ancien avec tous ces délégués, anges et lieutenants. C’est ce pullulement qui fait de notre monde un monde si peu moderne, avec tous ces nonces, médiateurs, délégués, fétiches, figurines, instruments, représentants, anges, lieutenants et porte–paroles. Sa beauté

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me fera pardonner peut–être d’avoir un peu violenté la sémiotique illustrée par notre ami Paolo. Bibliographie Bastide F., « Iconographie des textes scientifiques : principes d’analyse », Culture technique, n. 14, 1985, pp. 132–151. Deleuze G. et Guattari F., Qu’est–ce que la philosophie ?, Minuit, Paris 1991. Fabbri P. et Latour B., « Pouvoir et Devoir dans un article de science exacte », Actes de la Recherche en Sciences Sociales, 13, 1977, pp. 81–99. Fraenkel B., La signature. Genèse d’un signe, Gallimard, Paris 1992. Latour B., « A Relativist Account of Einstein’s Relativity », Social Studies of Science, 18, 1988a, pp. 3–44. ———, 1998b, « How to be Iconophilic in Art, Science and Religion ? », dans Picturing Science, Producing Art, C. Jones et P. Galison dirs., Routledge, London, 1998, pp. 418– 440. Whitehead A.N. [1929], Process and Reality. An Essay in Cosmology, Free Press, New York 1978.

Dagli atti di enunciazione ai modi di esistenza∗ A proposito della Piccola filosofia dell’enunciazione di Bruno Latour Jacques Fontanille

Di che ci parla Bruno Latour nel suo Piccola filosofia dell’enunciazione? Apparentemente dell’Essere o, meglio, della sola maniera in cui è pertinente parlarne, cioè dell’Essere non in quanto Essere, ma dell’Essere in quanto altro. Parlare infatti dell’essere in quanto essere vorrebbe dire discutere di essenze, elaborare eventualmente una tipologia di essenze, a beneficio di una metafisica che continuerebbe a ignorare la nostra condizione umana, che non è quella di bagnare nell’Essere, ma di muoverci nell’esistenza. Antica questione, e già i filosofi presocratici scrutavano con attenzione cosa accade quando si transita dall’Essere all’esistenza: appaiono allora il tempo e lo spazio, l’intensità e la quantità, la frammentazione e l’assemblaggio, le figure sensibili del mondo naturale, il rischio e l’attesa, ecc. . . Appare, insomma, tutto ciò che ci invita a trovare e costruire del senso. Infatti, per considerare l’Essere in quanto altro, e mi si perdoni l’affermazione lapalissiana, non bisogna appunto restare nell’Essere, ma passare nell’altro: sono richiesti un “invio”, un “pass” ed è qui che interviene l’enunciazione. Ma l’enunciazione, malgrado l’apparenza della formula che sto usando, non conosce il singolare generico: si declina solo al singolare specifico, caso per caso o, in generale, al plurale. Ci sono dunque tante esistenze quanti invii possibili ed enunciazioni effettive. La piccola filosofia dell’enunciazione non precisa la posta in gioco strategica della distinzione tra essere in quanto essere ed essere in quanto altro. Viceversa l’Enquête sur les modes d’existence (2012) è più esplicita: il primo lavoro implica essenze, il secondo affronta i rischi dell’esistenza; il primo rinvia solo a sostanze, mentre il secondo richiede condizioni di sussistenza. Latour arriva allora a distinguere la “grande” (e cattiva) trascendenza e la “piccola” (e buona) trascendenza; la piccola trascendenza è quella dell’Essere in quanto altro ed è affine all’immanenza (Latour 2012: 172). In sé questa oscillazione è particolarmente rivelatrice di una delle possibili articolazioni tra filosofia e semiotica e soprattutto dell’avvenimento epistemologico ricorrente che accompagna il loro dialogo. Si ricordino i dibattiti organizzati da Greimas nel suo seminario sulle passioni alla fine degli anni Settanta: poiché la maggior parte dei filosofi ha concepito e proposto un suo sistema di passioni, la semiotica, nell’interessarsi di passioni, ha dovuto ripercorrerne i principi e le costruzioni filosofiche. Ma invece di nutrire la riflessione semiotica, questa rivisitazione dei ∗

Traduzione di Tiziana Migliore.

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sistemi filosofici sulle passioni ha accumulato perplessità, categorie, tipologie e arborescenze. Una delle aporie consisteva appunto nell’assenza dell’enunciazione, di enunciazioni passionali: come poteva la semiotica parlare in modo pertinente di passioni senza avere accesso alle esperienze sensibili che esse inducono e alle enunciazioni che suscitano? Di qui la soluzione a quel tempo adottata: lo studio semiotico delle passioni avrebbe riguardato la loro dimensione sintagmatica, la maniera in cui le passioni sono messe in discorso da enunciazioni. Inoltre la semiotica avrebbe rinunciato a stabilire un suo sistema delle passioni e avrebbe solo tentato di prevedere, nell’immanenza e sull’asse del sistema, le prefigurazioni (tensive e foriche) degli esiti somatici dell’esperienza passionale. In qualche modo la riflessione di Bruno Latour riproduce lo stesso scenario, ma in una prospettiva più generale e fondamentale: più generale perché non consacrata a un tema in particolare (come le passioni o le azioni) e più fondamentale perché attinge alla possibilità di un dialogo tra semiotica e metafisica. La risposta è dello stesso ordine, ma meno radicale. Se fosse stata radicalmente semiotica, avremmo avuto: fine dell’essere, nient’altro ci concerne se non il flusso dell’esistenza; fine delle essenze e delle loro tipologie, nulla vale quanto i processi di cui facciamo esperienza. La posizione latouriana non è così radicale: di fatto Latour mantiene un legame con il tema ancestrale della metafisica e lo ricorda in conclusione: La grandezza dei filosofi dell’Essere in quanto Essere sta nell’averci sottratto all’oblio degli assenti. Ma è segno della loro indegna debolezza l’aver dimenticato, in seguito, che i mes– saggi e i messaggeri più umili conservano le chiare tracce di questi assenti che convocano sempre e sotto i nostri occhi per prendere senso. Noi non abbiamo mai dimenticato l’Essere. L’essenza si ripaga con spiccioli d’esistenza, l’Essere innominabile si traduce in innumerevoli delegati. (Latour 1999, pp. 23–24)

La semiotica non ha nulla da dire dell’Essere in quanto Essere, a meno che non è l’essere che si oppone all’apparire, cioè, con le parole di Greimas, l’essere in quanto sistema immanente della significazione e l’apparire in quanto manifestazione significante. Ma soprattutto la questione di prim’ordine, per la semiotica, non è lo statuto metafisico, ontologia o simulacro, delle entità che manipola, ma le condizioni che permettono di cogliere e di costruire queste entità come significanti. Le teorie semiotiche divergono fra loro per molti aspetti, ma almeno su un punto convergono: il senso può essere colto solo in trasformazione, in traduzione, in trasposizione, in interazione, in alterazione. Alterazione cioè produzione dell’altro. Poco importa qui la natura esatta dell’operazione, che riattiverebbe le divergenze: qualcosa passa in qualcos’altro ed è in questo passaggio e in questa alterazione che il senso può essere colto e costruito. Fin da Semantica strutturale Greimas si è interrogato sulle condizioni di presa del senso. E poiché l’universo del senso nel quale siamo immersi è troppo vasto per essere appreso in maniera operativa, ha proposto di delimitare e definire dei “micro–universi del senso”, di taglia e di complessità minori, tali da poter essere vissuti e colti in un’unica “percezione sincrona”. Questi micro–universi sono segmenti di processi, organizzati attorno a un predicato di trasformazione

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accompagnato dai suoi attanti e globalmente colti nel loro condizionamento modale, che Greimas assimila a dei “modi di esistenza”: Occorre fissare, nell’utilizzo di queste categorie modali, una tipologia dei modi di esistenza, sotto la forma di strutture attanziali semplici, di micro–universi semantici, i cui contenuti [. . . ] costituiscono solo delle variabili. (Greimas 1966, trad. it.: 184)

È dunque vano cercare il senso dell’Essere, indivisibile e incondizionato, mentre è perfettamente legittimo e possibile cercare il senso non dell’esistenza in generale, ma di segmenti di esistenza e di modi di esistenza, a condizione di reperirvi alterazioni (l’apparire dell’altro sullo sfondo dello stesso), predicati associabili a queste alterazioni, divenire attanziali e condizionamenti modali. Bruno Latour qui è propenso a far questo dietro il paravento di una riflessione sull’enunciazione “in atto”. Latour tratta infatti l’enunciazione dandosi come orizzonte l’esistenza e i suoi rischi —soprattutto i rischi di interruzione e di soluzione di continuità — e come oggetto gli atti che, assicurando la continuità dell’esistenza, al contempo ne liberano il senso. Più di preciso è proprio per queste ragioni — rischi dell’esistenza, atti di mantenimento o di riconferma della continuità, liberazione del senso dell’esistenza — che tali atti possono essere descritti come atti di enunciazione. Al cuore del rischio esistenziale si trova l’incontro fra lo stesso e l’altro. È anche la definizione elementare dell’esistenza, prima di ogni considerazione sulla predicazione, sulla temporalità, il vivente, ecc.: l’esistenza è il luogo in cui lo stesso affronta l’altro e, potremmo aggiungere, dove fa esperienza dell’altro. Pur non evocando l’esperienza, Latour riassume così il concetto: A è B, tale è la predicazione primitiva della filosofia, è il passaggio, la trasformazione, la sostituzione, la traduzione, la delega, la significazione, l’invio, l’embrayage, la rappresentazione di A attraverso B. Tutti questi termini sono equivalenti, cioè designano a loro modo il movimento di passaggio che mantiene in presenza. (Latour 1999, p. 11)

L’enunciazione non si accontenta di presupporre l’esistenza: ne risolve il problema principale, che è di far fronte al rischio dell’alterità, per la persistenza. In una certa maniera la piccola filosofia dell’enunciazione è una piccola storia dell’altro, raccontata dalla prospettiva dello stesso, che conta appunto di persistere attraverso lui. Bisogna allora intendere l’“enunciazione” non nell’accezione linguistica tradizionale (l’appropriazione individuale del sistema della langue nella parole), ma nella sua accezione semiotica, come processo stesso della semiosi, della produzione di significazione. Su questo punto si può segnalare un’osservazione incidentale e marginale di Greimas e Courtés nella voce “Enunciazione” del Dizionario: Un’ultima osservazione per quanto sta a valle dell’enunciazione: in quanto atto, essa ha l’effetto di produrre la semiosi o, per essere più precisi, una successione continua di atti semiotici detta manifestazione. L’atto di significare ritrova qui le costrizioni della sostanza dell’espressione, che obbligano a mettere in campo procedure di testualizzazione (Greimas e Courtès 1979, trad. it.: 105)

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La connessione teorica è molto esplicita, ma è stata poco sottolineata e raramente utilizzata: (1) l’atto di enunciazione produce la manifestazione, (2) la semiosi è la riunificazione della manifestazione del contenuto e dell’espressione, (3) la semiosi si specifica, dal lato dell’espressione, grazie al processo di testualizzazione. L’espressione “atto di significare” è proposta qui come equivalente dell’“enunciazione in quanto atto”. Il “sistema” soggiacente resta presupposto (è il sistema immanente a partire dal quale la manifestazione è prodotta), ma la descrizione degli atti di enunciazione che questa osservazione incidentale ha sullo sfondo non è più concepita in termini di “appropriazione del sistema”, ma come doppia manifestazione e riunificazione del contenuto e dell’espressione, che sfocia nelle diverse possibilità della testualizzazione. Nel mettere a fuoco gli atti, Latour, da parte sua, non solo esclude la relazione con un presunto sistema della lingua, ma si rifiuta di rendere pertinente qualsiasi tipo di contesto pragmatico, di natura psico–sociologica e comunicativa. Gli atti di enunciazione non sono quindi operazioni psico–cognitive o psico–sociologiche. Il loro fine generale non è più la comunicazione. Latour, anzi, inverte il ragionamento ed elabora le condizioni e i ruoli che intervengono in ogni fase degli atti di enunciazione, mostrando come si precisano gli atti che rendono possibile l’eventuale comunicazione tra enunciatore ed enunciatario. Non restano allora che atti di enunciazione descritti come “invio, mediazione, delega” e così definiti: “insieme degli atti di mediazione la cui presenza è necessaria al senso”. Respinta anche una concezione di enunciazione come ciò di cui si può fare il racconto a livello n+1 (il livello pragmatico), Bruno Latour si impegna invece in una manifestazione che ha tutta l’aria di una narrazione epistemologica: racconta infatti la messa in campo progressiva delle differenti componenti e operazioni costitutive di una costruzione del senso. Descrive questa messa in campo in nove fasi (più due evocate rapidamente), ciascuna delle quali corrisponde a un tipo di atto di enunciazione, ma è anche e nondimeno una fase del racconto ragionato dell’elaborazione del senso. Su questo punto Latour tornerà in modo più solido nel suo Enquête sur les modes d’existence, dopo aver integrato il contributo di Etienne Souriau (Souriau 1943): i modi di esistenza, che includono e sussumono gli atti di enunciazione, non possono e non devono costituire l’oggetto di una deduzione e di un sistema, ma devono operare in maniera autonoma e, in linea di principio, non devono avere relazioni logiche gli uni con gli altri, ecc. . . Tuttavia, tanto per i modi di esistenza presentati da Souriau come per quelli difesi da Latour e anche qui, l’ordine di presentazione degli atti di enunciazione è tutt’altro che indifferente, perché invece i primi sono condizione di possibilità per i secondi e i secondi risolvono le difficoltà lasciate in sospeso o in crisi dai primi. Ecco perché, anche se ciascuno di questi atti va considerato e messo in opera separatamente, il discorso che li definisce e li presenta tutti in successione può essere letto come un racconto di instaurazione epistemologica del senso, in nove Atti. I primi tre Atti, 1, 2, 3, sono operazioni elementari e scene attanziali incomplete, dove mancano sia l’enunciato (1), sia l’enunciatore (2), sia l’enunciazione stessa (3). Si fa dunque l’esperienza elementare del “qualche cosa accade o capita (o non capita)”.

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Atto 1: La riproduzione non comporta “enunciati” ed è un modo di enunciazione minimale, che possono assumere sia i viventi sia i non viventi. Il vivente delega il vivente attorno a lui, è la riproduzione dello stesso nel suo più o meno simile. I “viventi” persistono attraverso altri corpi, soprattutto quelli dei figli, di generazione in generazione. I non viventi — gli “inerti” — scrive Latour sul solco di Whitehead — si accontentano di persistere in se stessi, nell’esistenza dei loro propri corpi, che resistono ad ogni tipo di interazione. Siamo qui alle radici dell’esistenza, dove il processo implica solo un’alterazione minimale dello stesso e in cui l’unico rischio può arrivare dall’interazione con un ambiente nefasto. A questo stadio la dissimmetria cara a Lotman, tra noi e loro, non è ancora reperibile. Ecco perché questo modo di enunciazione non distingue enunciati o enunciatari, ma giusto un quasi enunciatore che conferma se stesso ripetendosi con deboli alterazioni. Inerti o viventi, l’esistenza affonda nella durata in cui lo stesso incontra l’altro e lo riconduce allo stesso o al pressoché lo stesso. Atto 2: La sostituzione metamorfica è un’alternativa alla riproduzione. Non suppone alcuna istanza di produzione (alcun enunciatore) e dunque non ci sono corpi enuncianti come testimoni dello “stesso”; di conseguenza, al posto della riproduzione dello stesso nello stesso o nel pressoché lo stesso, l’invio enunciazionale produce una metamorfosi, una sostituzione imprevedibile, un’alterità irriducibile. La sostituzione ravviva e sfida il rischio di interruzione dell’esistenza, anziché eliminarlo. Fa correre un rischio chiedendo alla pura alterità di tenere accesa la fiaccola dell’esistenza. Capita, non si sa da dove viene e ancor meno dove va. Atto 3: L’Omissione e la Credenza cancellano qualsiasi traccia di enunciazione. Ci situano nell’esistenza incondizionata, che è ciò che doveva essere evitato per principio ovvero l’essenza. Ma l’essenza così definita è un’essenza negativa, non positiva, che risulta non da un’affermazione dell’essere, ma da una negazione delle condizioni di esistenza. In questo regime non c’è nulla da inviare, non ci sono débrayage né rischi né continuità da assicurare. Almeno apparentemente. L’omissione rifiuta il rischio dell’esistenza, sfugge alla “piccola trascendenza” dell’altro e si rifugia almeno provvisoriamente nella “grande trascendenza” dell’Essere. I tre Atti successivi, 4, 5, 6, raccontano l’invenzione progressiva dell’attante oggetto, grazie a una focalizzazione specifica sul quasi–oggetto: qualche cosa, che è in movimento e che si instaura indipendentemente dal corpo enunciante, permette di innescare la distinzione tra ciò che è enunciato e ciò che enuncia. È insomma il primo débrayage attanziale, seguito da débrayage figurativi (attori, tempi, spazi), grazie ai quali l’esistenza delle istanze enuncianti continua e si mantiene, in qualche modo a distanza, con una delega ai quasi–oggetti. Atto 4: La tecnica è ciò che produce dei quasi oggetti distinti dal corpo enunciante, il débrayage di attanti non umani che potranno interagire con attanti umani. Nella prospettiva della produzione di altri corpi sullo stesso asse, la tecnica impone una “piega” fuori asse, verso corpi dissimili. In una versione ulteriore, quella dell’Enquête, Latour porrà una stretta equivalenza tra piegatura tecnica e débrayage attanziale (Latour 2012: 235–237) : la piegatura del modo di esistenza tecnico non

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è che una descrizione più figurativa del débrayage, che proietta attanti differenti e distinti dell’attante di enunciazione. Atto 5: La finzione implica un passo successivo nell’autonomizzazione degli oggetti enunciati. Avvia infatti un processo di distacco dagli enunciatori e dagli enunciatari sotto forma di figure forgiate dal racconto e con cui gli oggetti sono invitati a identificarsi per il tempo che restano nel regime di finzione. Queste figure sono proiettate in tempi e luoghi differenti e multipli, accentuando la loro autonomia figurativa. Sono i débrayage attoriali, temporali e spaziali a produrre l’esistenza autonoma della finzione, con la connivenza dell’enunciatario. Potenzialmente queste deleghe sono in numero infinito, in ogni caso plurale. Nell’Enquête Latour abbandonerà la “connivenza” dell’enunciatario per sostituirla con il tema, preso in prestito da Souriau, della “sollecitudine” condivisa tra enunciatori ed enunciatari, che sostiene gli esseri di finzione e ne assicura la sussistenza (Latour 2012: 250). Atto 6: La scienza ha bisogno di quasi–oggetti costituiti e autonomi e di finzioni che li collochino dentro figure, luoghi e tempi debrayati. Impone inoltre un ritorno all’enunciazione, con un re–embrayage. Più precisamente, nel modo scientifico, le figure enunciate fanno ritorno all’enunciazione per assicurare un controllo a distanza dei quasi–oggetti e delle finzioni precedentemente debrayate. In più qui enunciatario ed enunciatore devono potersi scambiare di posto senza modificare queste finzioni. Il movimento dei debrayage e dei re–embrayage inventa così una catena di referenze proprie al modo di enunciazione scientifica. Gli ultimi tre Atti, 7, 8 e 9, sono a loro volta focalizzati sui quasi–soggetti: si tratta allora di regolare le relazioni tra le istanze enuncianti, enunciatore ed enunciatario, ed è soltanto a partire da questa tappa che si potrà parlare effettivamente di “persone” dell’enunciazione. Atto 7: Il modo politico definisce il perimetro e la costituzione del o dei collettivi permanenti — noi/loro — e la distribuzione delle differenti persone dell’enunciazione — io, tu, ecc. . . ; ne determina il numero, la maniera in cui si assemblano, i rispettivi ruoli in seno ai collettivi, come anche il ruolo di ogni collettivo rispetto a tutti gli altri. Il modo politico interviene dopo i tre modi sui quasi–oggetti, perché ha senso solo in ragione della gestione delle relazioni fra essi. È necessario proprio perché i modi precedenti hanno prodotto dei simili, dei quasi simili, dei dissimili, dei non–umani derivanti da umani ecc. . . e bisogna allora deliberare sulle differenti identità e sulle relazioni che intrattengono. Atto 8: La religione è un modo di enunciazione puramente fatico, a voler usare un termine che Latour forse non accetterebbe. Qui infatti conta solo la presenza degli attanti o piuttosto la loro compresenza intensificata ed enunciata; gli enunciati prodotti fuori da questa intensificazione della copresenza sono assurdi o ininterpretabili. Il re–embrayage sull’“io, qui e ora” si ripete indefinitamente, specie nella catena di ri–enunciazioni proprie alla tradizione, ma, ad ogni ripresa, la sua potenza di instaurazione della copresenza è sempre nuova e integra. Significa, da un altro punto di vista, che la focalizzazione sulla copresenza delle istanze di enunciazione

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embraiate neutralizza qualsiasi altra sorgente di senso, in particolare dal lato del contenuto degli enunciati e del valore dei quasi–oggetti. Atto 9: Il diritto moltiplica le marche e le identificazioni delle istanze di enunciazione: bisogna poter imputare enunciati e atti a delle persone; bisogna ricostituire ed esplicitare la catena delle enunciazioni. Questo modo enunciazionale coltiva il metadiscorso dell’identità: firme, sigilli, ecc. . . L’Enquête insisterà più particolarmente su come stabilire la catena delle enunciazioni, specie tra testi giuridici e allegati di vario tipo, il che si presenta concretamente come la ricerca e l’estrazione dei “mezzi del diritto” e delle migliori “procedure” enunciative. Questa insistenza mira soprattutto a distinguere saldamente il principio della prova scientifica dal principio del ragionamento giuridico: il primo poggia sul débrayage e sul re–embrayage dei quasi–oggetti, permettendo il controllo e la manipolazione a distanza degli enunciati della prova; il secondo consiste nel concatenamento canonico dei quasi–oggetti, permettendo di fissare senza iati l’insieme dei “mezzi del diritto” e di rapportarli ai fatti e agli allegati da cui muove la ricerca. La costruzione del racconto epistemologico appare ora più chiara: tre Atti servono a testare i prerequisiti di ogni enunciazione: qualche cosa capita a qualcuno; altri tre Atti servono a dispiegare questo qualche cosa che capita e gli ultimi tre Atti a deliberare sull’a qualcuno. Lungo tutto il percorso gli attanti si precisano e si complessificano: gli oggetti prendono autonomia, si distaccano figurativizzandosi, divengono attori localizzati nello spazio e nel tempo, poi in una catena referenziale. Parallelamente i soggetti si figurativizzano, si aggregano in collettivi e in reti, si ripartiscono i ruoli e possono anche coagularsi in una copresenza intensa che neutralizza tutti gli altri aspetti dell’enunciazione. Ma questo racconto non perde di vista l’obiettivo (o il valore) di base, cioè la sussistenza, una forma di persistenza nell’esistenza e di resistenza o di resilienza di fronte ai rischi dell’esistenza: l’intera teoria della delega, che produce così “teorie di delegati”, poggia su questa mira alla persistenza, e ogni tipo di delegato è una soluzione che permette di persistere enunciando: rimanere lo stesso, gestire l’altro, avvolgere e stabilizzare questi altri, fornire loro un’autonomia sufficiente a un mantenimento durevole, ecc. Dopo aver letto e utilizzato Etienne Souriau, Bruno Latour apporta due inflessioni importanti alla sua teoria. La prima e maggiore inflessione è ontologica. Nella piccola filosofia dell’enunciazione la focalizzazione sui processi esistenziali e sugli atti di enunciazione ha provocato infatti un vistoso distacco dall’Essere, pur mantenendosi sul suo orizzonte. La teoria della delega e i delegati che ne discendono sembravano sfuggire per statuto all’ontologia, almeno provvisoriamente. Se non altro, queste piccole ontologie plurali, confondendosi a volte con i piani di immanenza, sembravano conciliabili con un approccio semiotico. Al limite i molteplici “delegati” esistenziali potevano passare per simulacri efficienti. Al contrario, nell’Enquête sur les modes d’existence, non sono più gli atti di enunciazione ad esser messi avanti, ma i modi di esistenza in sé, cioè delle ontologie, certo necessariamente plurali e regionali, ma comunque ontologie. Ad essere molteplici e differenti non sono più gli atti di enunciazione e i delegati, ma diret-

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tamente le esistenze stesse. Si passa così da una piccola filosofia dell’enunciazione a un’antropologia modale. E, per completare il dispositivo, l’operazione di “instaurazione” sembra1 aver preso il posto dell’enunciazione. Di preciso l’instaurazione è ciò che assicura la persistenza di un modo di esistenza e l’enunciazione può contribuirvi solo a condizione che l’instaurazione sia efficiente. L’instaurazione è quasi sempre indicata come “cammino” o “traiettoria” e si determina solo per ogni specifica alterazione, per ogni modo di persistenza o, in riferimento alla piccola filosofia dell’enunciazione, per ogni tipo di delegato, di soluzione e di riparazione della continuità. Latour assume e giustifica questa inflessione ontologica: si sforza di sfuggire al linguaggio e al segno per poterli meglio situare tra i modi di esistenza. A suo avviso i modi di esistenza e le loro instaurazioni non devono dipendere da un pensiero “linguistico”. Diventa allora più difficile ricostruire il tragitto (teorico) che porta dall’esistenza alla semiosi: oggi chi tentasse di far proprio questo tragitto dovrebbe dunque utilmente tornare al primo saggio di Latour, la piccola filosofia dell’enunciazione. L’altra importante inflessione è empirica: è quella dell’esperienza radicale, che tuttavia Latour non chiama esplicitamente “esperienza sensibile”. Anche qui la lezione di Souriau è decisiva, perfino nell’affiliazione a un empirismo radicale, esplicitamente rivendicato. Lo stesso Souriau adotta formule riprese direttamente da William James, quando spiega come e perché la nostra esperienza fondamentale consiste in alterazioni nel processo dell’esistenza: alterazioni che sono direttamente esprimibili ed espresse, secondo entrambi, da preposizioni e congiunzioni del linguaggio naturale (dunque, dopo, poi, soprattutto, come, ecc. . . ). I modi di esistenza, per Souriau, non costituiscono dunque uno spettacolo debrayato, una sorta di cinematografo che proietterebbe dei “mondi” alternativi sullo schermo dell’Essere. Non sono neanche uno spettacolo in cui saremmo immersi, ma mondi di senso che si aggregano e prendono forma direttamente intorno all’esperienza sensibile che facciamo delle alterazioni dei processi esistenziali e delle soluzioni che ne assicurano la persistenza. Latour rivendica questa eredità: “Nient’altro che l’esperienza, ma non meno dell’esperienza” (Latour 2012: 161). E associa direttamente a questa posizione di principio la classificazione dei modi di instaurazione nella forma di “preposizioni” (PRE), che definisce come: La presa di posizione che viene prima della preposizione e che detta la maniera di coglierla [...]. Ognuna di queste preposizioni è impegnata in maniera decisiva nella comprensione di ciò che accadrà, offrendo il tipo di relazione necessaria alla presa dell’esperienza del mondo. (Latour 2012: 69)

Anche se qui la semiosi non è chiamata in causa, c’è però del senso da cogliere ed è la preposizione a indicare come dev’essere colto. La preposizione è sia il 1. Questa precauzione modale segnala la difficoltà che si ha, nella lettura dell’Enquête, a decidere con precisione qual è il rapporto che lega, in ultima analisi, instaurazione ed enunciazione: stretta equivalenza? Palinsesto? Inglobamento? Causalità? Nemmeno una ricerca attenta delle diverse occorrenze di questi due concetti nel testo del l’Enquête ci ha permesso di arrivare a una risposta certa.

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nome della specifica alterazione di cui si fa esperienza, sia il nome del modo di instaurazione che essa richiede. Torniamo alla semiosi e all’enunciazione. Per ragioni sue personali Latour ha scelto, nell’Enquête, di distaccarsi da qualsiasi prospettiva linguistica. Il punto è che lo fa non solo accantonando il linguaggio e relegandolo in una parte dei modi di esistenza, ma anche riducendolo al linguaggio verbale: si tratta sempre per lui di “dire”, di “parlare” e non, in generale, di “significare”. Non è l’opzione della semiotica oggi, che si interessa invece di tutti i regimi semiotici, indipendentemente dai modi di espressione e dalle forme di testualizzazione. Certo, la terminologia utilizzata (enunciazione, enunciato, testualizzazione) testimonia l’ancoraggio di questa semiotica alle ricerche linguistiche in materia di teoria del linguaggio, ma la definizione, l’estensione e l’uso di questi termini non sono ridotti né riducibili al linguaggio verbale e coprono tutte le manifestazioni osservabili della significazione. Pertanto, se supponiamo che oggetto ultimo della semiotica sia il senso dei modi di esistenza, non dobbiamo dimenticare la prima domanda, che, per i semiologi come per Bruno Latour, riguarda le condizioni della loro presa. Questa presa è necessariamente sensibile: le alterazioni dell’esistenza influenzano l’esperienza sensibile e sono domande di senso perché l’esperienza dei sensi ne è affetta. È dunque per il fatto che l’esperienza è allacciata all’esistenza, e viceversa, che possiamo sperare di assistere all’emergenza del senso, che siamo in grado di sentire e di subire la “mancanza di senso” o la “domanda di senso” e, quindi, impegnarci a costruirlo. E costruirlo è necessariamente enunciarlo, cioè trasporre l’esperienza in un modo semiotico debitamente costituito, con espressione e contenuto. I sostenitori dell’empirismo radicale, da James a Latour, passando per Souriau, sembrano credere a una trasparenza perfetta tra queste esperienze di alterazioni e le significazioni indotte dai modi di instaurazione esistenziale: una “preposizione” copre le une e le altre e, come abbiamo evidenziato, preposizioni e congiunzioni delle lingue naturali sembrano manifestare direttamente le alterazioni dell’esperienza. Ma si può dubitare di questa perfetta trasparenza, se non altro perché i modi di esistenza, anche se molteplici, non sono in numero infinito e soprattutto non variano di continuo. Abbiamo già fatto notare che i fautori dei modi di esistenza, pur negando qualsiasi costruzione sistematica, presentano però questi modi sempre in un certo ordine e rispettano i principi di discontinuità e di distribuzione, che è quel che abbiamo chiamato “racconto epistemologico”. Ora, se qui siamo disposti a riconoscere dei “tipi” di instaurazione, delle “chiavi” di enunciazione, delle traiettorie ben distinte e preposizioni che non si confondono tra loro (anche se possono associarsi per costituire dei modi ibridi), dobbiamo ipotizzare un’istanza di mediazione tra l’esperienza e la sua trasposizione in una manifestazione e un’espressione semiotiche. In altre parole, per riprendere un paragone utilizzato da Latour nell’Enquête, se le instaurazioni e le preposizioni che le designano funzionano come “generi” e “istruzioni di lettura”, il loro inventario non può essere né molto ampio né asistematico né troppo aperto all’invenzione e all’imprevedibilità. Latour lo precisa: I libri che si sfogliano in una libreria e che portano nel colophon la menzione “romanzo”, “documento”, “indagine”, “docufinzione”, “memorie”, “saggio” giocano il ruolo di prepo-

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Dagli atti di enunciazione ai modi di esistenza sizioni. Sono ben poca cosa, solo una parola o due rispetto alle migliaia del libro che si è prossimi a comprare, eppure orientano in maniera decisiva il seguito della lettura. Ad ogni pagina, infatti, si prenderanno le parole che l’autore mette sotto gli occhi in un tono che cambia a seconda che si pensa che quella sia una “storia inventata”, un “documento vero”, un “saggio” o un “rapporto investigativo”. (Latour 2012: 69, trad. ns.)

Le “tonalità” modali che danno un’inflessione particolare all’interpretazione devono essere immediatamente riconoscibili e mobilitate in un insieme interdefinito e sufficientemente stabile da poterlo convocare in modo appropriato e tempestivo. Abbiamo dunque bisogno, tra l’esperienza e la sua trasposizione semiotica, di una mediazione che produca una grammatica di tipi. Questa istanza mediatrice dovrebbe essere come minimo di natura riflessiva, con una riflessività che permetta di delineare una grammatica di instaurazioni e di enunciazioni e, in generale, un processo di ingeneramento dei diversi tipi gli uni dagli altri. Proprio questa riflessività è implicitamente all’opera nel “racconto epistemologico” ed è essa a permettere inoltre a queste enunciazioni di tornare su se stesse, per mettere a fuoco l’una o l’altra costituente (enunciato, istanze, oggetti, soggetti, ecc. . . ) e le loro varietà. Chiudo con una proposta: la piccola filosofia dell’enunciazione, proprio perché si mantiene sull’orizzonte di un’enunciazione del senso dell’esistenza, può dar spazio all’esperienza sensibile. Certo, non è la strada scelta da Bruno Latour, ma è una via ancora percorribile: la teoria dell’enunciazione, che è già estesa e generalizzata a tutti gli avatar dell’esistenza, potrebbe anche essere estesa e generalizzata a tutte le sfaccettature dell’esperienza, che se ne fa carico e ne interroga il senso. E tra queste esperienze e queste enunciazioni un sospetto della riflessività permetterebbe di capire perché e come possiamo estrarne una grammatica, una sorta di sistema debole ma sufficiente a guidare le nostre interpretazioni. Anche se Greimas suggerisce di dover attendere l’inatteso, pure bisogna poterlo riconoscere quando accade! Riferimenti bibliografici Greimas A.J. [1966], Semantica strutturale, Meltemi, Roma 2000. Greimas A.J. & Courtés J., [1979], Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, a cura di P. Fabbri, Bruno Mondadori, Milano 2007. Greimas A.J. & Fontanille J. [1991], Semiotica delle passioni. Dagli stati di cose agli stati d’animo, Bompiani, Milano 1996. Latour B., Enquête sur les modes d’existence. Une anthropologie des Modernes, La Découverte, Paris 2012. Souriau E. [1943], Les différents modes d’existence. Suivi de l’œuvre à faire, précédé de l’Introduction “Le sphinx de l’œuvre” par I. Stengers e B. Latour, PUF, Paris 2009.

Des actes d’énonciation aux modes d’existence A propos de « Petite philosophie de l’énonciation » de Bruno Latour Jacques Fontanille

De quoi nous parle Bruno Latour dans sa « Petite philosophie de l’énonciation » ? Apparemment, de l’Être, ou plutôt de la seule manière dont il serait pertinent d’en parler, c’est–à–dire de l’Être non pas en tant qu’Être, mais de l’Être en tant qu’autre. Car parler seulement de l’Être en tant qu’Être, ce serait discourir sur les essences, éventuellement élaborer une typologie des essences, au bénéfice d’une métaphysique qui ignorerait encore notre humaine condition, qui est non pas de baigner dans l’Être, mais de nous mouvoir dans l’existence. La question est ancienne, et déjà les philosophes présocratiques scrutaient attentivement ce qui se passe quand on transite de l’Être à l’existence : apparaissent alors le temps et l’espace, l’intensité et la quantité, le morcellement et le rassemblement, les figures sensibles du monde naturel, le risque et l’attente, etc. En somme, apparaît tout ce qui nous invite à trouver et à construire du sens. Car pour envisager l’Être en tant qu’autre, justement, et pardon pour la lapalissade, il ne faut pas rester dans l’Être, mais passer dans l’autre : un « envoi », une « passe » sont requises, et c’est là qu’intervient l’énonciation. Mais l’énonciation, malgré l’apparence de la formulation précédente, ne connaît pas le singulier générique : elle ne se décline qu’au singulier spécifique, au cas par cas, ou, en général, au pluriel. Il y a donc autant d’existences qu’il y a d’envois possibles, d’énonciations effectives. La petite philosophie de l’énonciation ne précise pas l’enjeu stratégique de la distinction entre l’Être en tant qu’Être, et l’Être en tant qu’autre. L’Enquête, en revanche, est plus explicite : le premier implique des essences, alors que le second affronte les risques de l’existence ; le premier ne renvoie qu’à des substances, alors que le second demande des conditions de subsistance. Latour en vient alors à distinguer la « grande » (et mauvaise) transcendance, et la « petite » (et bonne) transcendance ; la seconde est celle de l’Être en tant qu’autre, et elle s’apparente à l’immanence (Latour 2012, 172). En lui–même, ce basculement est particulièrement révélateur de l’une des articulations possibles entre la philosophie et la sémiotique, et surtout de l’événement épistémologique récurrent qui accompagne leur dialogue. Rappelons–nous les débats organisés par Greimas dans son séminaire à la fin des années soixante–dix, à propos des passions : la plupart des philosophes ayant conçu et proposé chacun un système des passions, la sémiotique se devait, en s’intéressant aux passions, d’en parcourir les principes et les constructions philosophiques. Mais, au lieu de nour53

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rir la réflexion sémiotique, le parcours des systèmes philosophiques des passions accumulait les perplexités, les catégories, les typologies et leurs arborescences. L’une des apories tenait justement à l’absence de l’énonciation, des énonciations passionnelles : comment la sémiotique pouvait–elle parler des passions de manière pertinente sans avoir accès aux expériences sensibles qu’elles procurent, et aux énonciations qu’elles suscitent ? D’où la solution alors adoptée : l’étude sémiotique des passions porterait sur leur dimension syntagmatique, sur la manière dont elles pouvaient être mises en discours par des énonciations. Et en complément, la sémiotique renonçait à établir un système des passions, et s’efforçait seulement de prévoir, en immanence et en système, des préfigurations (tensives et phoriques) des ressorts somatiques de l’expérience passionnelle. D’une certaine manière, la réflexion de Bruno Latour rejoue le même scénario, dans une perspective plus générale et plus fondamentale : plus générale, parce qu’elle ne se consacre pas à un thème en particulier (comme les passions ou les actions), et plus fondamentale, parce qu’elle touche à la possibilité même d’un dialogue entre la sémiotique et la métaphysique. La réponse est du même ordre, mais moins radicale. Si elle était radicalement sémiotique, elle serait : foin de l’Être, rien d’autre ne nous concerne que le flux de l’existence ; fi des essences et de leurs typologies, rien ne vaut les processus dont nous faisons l’expérience. Car la position de Latour n’est pas aussi radicale : il tient en effet à maintenir le lien avec le thème ancestral de la métaphysique, et il le rappelle en conclusion : C’est la grandeur des philosophies de l’Être en tant qu’Être de nous avoir fait sortir de l’oubli des absents ; mais c’est leur indigne faiblesse que d’avoir oublié ensuite que les plus humbles messages et messagers gardent les traces claires de ces absents qu’ils convoquent toujours et sous nos yeux pour prendre sens. Nous n’avons jamais oublié l’Être. L’essence se paie en petite monnaie d’existence, l’Être innommable se traduit en délégués innombrables. (Latour 1997 : p. ?)

La sémiotique n’a rien à dire de l’Être en tant qu’Être, si ce n’est de l’être en tant qu’opposé au paraître, c’est–à–dire, dans les termes mêmes de Greimas, l’être en tant que système immanent de la signification et le paraître en tant que manifestation signifiante. Mais surtout, la question primordiale, pour la sémiotique, n’est pas celle du statut métaphysique, ontologie ou simulacre, des entités qu’elle manipule, mais des conditions sous lesquelles elle peut les saisir et les construire comme signifiantes. Les théories sémiotiques divergent sous bien des aspects, mais il est au moins un point sur lequel elles convergent : le sens ne peut être saisi qu’en transformation, en traduction, en transposition, en interaction, en altération. Altération, c’est–à–dire production de l’autre. Peu importe ici la nature exacte de l’opération, qui réactiverait les divergences : quelque chose passe à autre chose, et c’est dans ce passage et cette altération que du sens peut être saisi et construit. Dès Sémantique structurale, Greimas s’interroge sur les conditions de saisie du sens, et comme l’univers du sens dans lequel nous sommes plongés est trop vaste pour être appréhendé de manière opératoire, il propose de délimiter et de définir des « micro–univers de sens », d’une taille et d’une complexité moindres, de sorte qu’ils puissent être vécus et saisis dans une seule « perception synchrone ». Ces

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micro–univers sont des segments de processus, organisés autour d’un prédicat de transformation accompagné de ses actants, et globalement saisis sous leur conditionnement modal, et il assimile même ce conditionnement modal à des « modes d’existence » : Il faut établir, en utilisant ces catégories modales, une typologie des modes d’existence, sous la forme de structures actantielles simples, des micro–univers sémantiques, dont les contenus [...] ne constituent que des variables. (Greimas 1966, ed. 1986 : 133).

Il serait donc vain de chercher le sens de l’Être, indivisible et inconditionné, alors qu’il est parfaitement légitime et possible de chercher le sens, non pas de l’existence en général, mais de segments de l’existence et de modes d’existence, à condition d’y repérer des altérations (l’apparition de l’autre sur le fond du même), des prédicats associables à ces altérations, des devenirs actantiels et des conditionnements modaux. C’est ce à quoi s’emploie ici Bruno Latour, sous le couvert d’une réflexion sur l’énonciation « en acte ». Pour traiter de l’énonciation, en effet, Bruno Latour se donne comme horizon l’existence et ses risques (notamment des risques d’interruptions et de solutions de continuité), et comme objet, les actes qui, en assurant la continuité de l’existence, en délivrent en même temps le sens. C’est très précisément pour ces raisons (risques de l’existence, actes de maintien ou de rétablissement de la continuité, délivrance du sens de l’existence) que les actes en question peuvent être décrits comme des actes d’énonciation. Au cœur du risque existentiel, se trouve la rencontre entre le même et l’autre ; ce serait même la définition élémentaire de l’existence, avant toute considération sur la prédication, la temporalité, le vivant, etc. : l’existence est le lieu où le même affronte l’autre, et nous pourrions ajouter : et dont nous pouvons faire l’expérience. Sans évoquer l’expérience, c’est ce qu’ici–même Latour résume ainsi : A est B, telle est la prédication primitive de la philosophie, c’est le passage, la transformation, la substitution, la traduction, la délégation, la signification, l’envoi, l’embrayage, la représentation de A par B. Tous ces termes sont équivalents, c’est–à–dire qu’ils désignent tous à leur façon le mouvement de passage qui maintient en présence. (Latour 1997 : p. ?)

L’énonciation ne se contente pas de présupposer l’existence : elle en résout le problème principal, qui est de faire face au risque de l’altérité, pour persister. D’une certaine manière, la petite philosophie de l’énonciation est une petite histoire de l’autre, racontée du point de vue du même qui compte bien persister à travers lui. Il faut prendre alors « énonciation » non pas dans son acception linguistique traditionnelle (l’appropriation individuelle du système de la langue dans la parole), mais dans son acception sémiotique (le processus même de la sémiose, de la production de la signification). Sur ce point, on peut signaler une remarque incidente et marginale de Greimas et Courtès, à l’entrée « Enonciation » de Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage : Il faut enfin ajouter une dernière remarque concernant l’aval de l’énonciation : en tant qu’acte, celle–ci a pour effet de produire la semiosis ou, pour être plus précis, cette suite

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Des actes d’énonciation aux modes d’existence continue d’actes sémiotiques qu’on appelle la manifestation. L’acte de signifier retrouve ici les contraintes de la substance de l’expression, obligeant à mettre en place des procédures de textualisation. (Greimas et Courtès 1979 : 127, entrée « Enonciation », point 6)

La conjonction théorique est très explicite, mais elle a été peu remarquée et rarement exploitée : (1) l’acte d’énonciation produit la manifestation, (2) la sémiose est la réunion de la manifestation du contenu et de l’expression, (3) la sémiose est spécifiée du côté de l’expression, grâce au processus de textualisation. L’expression « acte de signifier » est proposée ici comme équivalent de « l’énonciation en tant qu’acte ». Le « système » sous–jacent reste présupposé (c’est le système immanent à partir duquel la manifestation est produite), mais si une description des actes d’énonciation peut être conçue sur le fond de cette remarque incidente, ce ne serait plus celle de l’ « appropriation du système », mais celle de la double manifestation et de la réunion du contenu et de l’expression, débouchant sur les différentes possibilités de la textualisation. De son côté, pour focaliser les actes, Latour ne se contente pas d’écarter la relation avec un supposé système de la langue : il récuse tout aussi bien la pertinence d’un contexte pragmatique, de nature psychosociologique et communicationnelle. Les actes d’énonciation ne seront donc pas des opérations psycho–cognitives ou psychosociologiques. Leur finalité générique ne sera pas non plus la communication, et Latour inverse même le raisonnement, en montrant comment, dans l’élaboration même des conditions et des rôles à chaque étape des actes d’énonciation, se précisent ceux d’entre eux qui rendent possible une éventuelle communication entre énonciateur et énonciataire. Il ne reste alors que les actes d’énonciation, décrits comme « envoi, médiation, délégation », et définis comme « l’ensemble des actes de médiation dont la présence est nécessaire au sens. » Après avoir également récusé une conception de l’énonciation comme ce dont on pourrait faire le récit au niveau n+1 (le niveau pragmatique), Bruno Latour s’engage néanmoins dans une démonstration qui a tout de même l’allure d’un récit épistémologique : il nous raconte en effet la mise en place progressive des différents composants et des différentes opérations constitutives d’une construction du sens, cette mise en place étant décrite en neuf étapes (plus deux évoquées rapidement), qui sont chacune présentées comme un type d’acte d’énonciation, mais qui n’en sont pas moins aussi chacune une phase dans le récit raisonné de l’élaboration du sens. Sur ce point, il reviendra plus fermement dans son Enquête sur les modes d’existence, (Latour 2012) après avoir intégré la leçon d’Etienne Souriau (Souriau 1943) : les modes d’existence (qui englobent et subsument les actes d’énonciation) ne peuvent et ne doivent pas faire l’objet d’une déduction et d’un système, ils doivent opérer de manière autonome, et en principe ils ne se doivent logiquement rien les uns aux autres, etc. Pour autant, que ce soient les modes d’existence présentés par Souriau, ceux défendus par Latour, ou, ici–même, les actes d’énonciation, leur ordre de présentation est loin d’être indifférent, car les précédents sont des conditions de possibilité pour les suivants, et les suivants règlent des difficultés laissées en suspens ou en crise par les précédents. C’est la raison pour laquelle,

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même si chacun de ces actes peut être considéré et mis en œuvre séparément, le discours qui les définit et les présente successivement peut être lu comme un récit d’instauration épistémologique du sens, en neuf Actes. Les trois premiers Actes, 1, 2, 3, sont des opérations élémentaires et des scènes actantielles incomplètes, où manquent soit l’énoncé (1), soit l’énonciateur (2), soit l’énonciation elle–même (3). On y fait donc l’expérience élémentaire du « quelque chose passe ou se passe (ou ne se passe pas) ». Acte 1 : La reproduction ne comporte aucun « énoncé » et c’est un mode d’énonciation minimal, que peuvent assumer aussi bien les vivants et les non vivants. Le vivant délègue du vivant autour de lui, c’est la reproduction du même dans son plus ou moins semblable. Les « vivants » persistent à travers d’autres corps, notamment ceux de la filiation, de générations en générations. Les non vivants (les « inertes », écrit Latour à la suite de Whitehead) se contentent de persister en eux–mêmes, dans l’existence de leur propre corps, qui résiste à toutes les interactions. Nous sommes ici aux racines de l’existence, où le processus n’implique qu’une altération minimale du même, et dont le seul risque viendrait d’une interaction avec un environnement néfaste. A ce stade, la dissymétrie chère à Lotman, entre nous et eux, n’est pas encore inventée. C’est pourquoi ce mode d’énonciation ne distingue ni énoncé ni énonciataire, et juste un quasi énonciateur qui se confirme lui–même en se répétant avec de faibles altérations. Que ce soient les inertes ou les vivants, l’existence est plongée dans la durée, où le même rencontre l’autre, et le ramène au même, ou au presque même. Acte 2 : La substitution métamorphique est une alternative à la reproduction. Elle ne suppose aucune instance de production (aucun énonciateur), et il n’y a donc pas de corps énonçant comme témoin du « même » ; par conséquent, au lieu de la reproduction du même en même ou en presque semblable, l’envoi énonciatif produit une métamorphose, une substitution imprévisible, une altérité irréductible. Au lieu d’éliminer le risque d’interruption de l’existence, la substitution le ravive et le défie, elle fait courir un risque en demandant à la pure altérité de reprendre le flambeau de l’existence à continuer. Ça se passe, on ne sait d’où ça vient, encore moins où ça va. Acte 3 : L’Omission et la Croyance effacent toute trace d’énonciation. Elles nous placent dans l’existence inconditionnée, c’est–à–dire ce qui devait être évité pour des raisons de principe, à savoir une essence. Mais l’essence ainsi définie n’est pas ici un être positif, c’est une essence négative, résultant non pas d’une affirmation de l’être, mais d’une négation des conditions de l’existence. Sous ce régime, il n’y a rien à envoyer, pas de débrayage, pas de risque ni de continuité à assurer. Du moins apparemment. L’omission refuse le risque de l’existence, échappe à la « petite transcendance » de l’autre, et se réfugie au moins provisoirement dans la « grande transcendance » de l’Être. Les trois Actes suivants, 4, 5, 6, racontent l’invention progressive de l’actant objet, grâce à une focalisation spécifique sur les quasi–objets, quelque chose qui est en mouvement et qui s’instaure indépendamment du corps énonçant, et qui permet d’engager la distinction entre ce qui est énoncé et ce qui énonce. En

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somme le premier débrayage actantiel, suivi des débrayages figuratifs (acteurs, temps, espaces), grâce à quoi l’existence des instances énonçantes est continuée et maintenue, en quelque sorte à distance, par une délégation aux quasi–objets. Acte 4 : La technique est ce qui produit des quasi–objets distincts du corps énonçant, le débrayage d’actants non–humains qui pourront interagir avec des actants humains. Dans la perspective de la production d’autres corps dans une même lignée, la technique impose un « pli » hors lignée, vers des corps dissemblables. Dans une version ultérieure, celle de l’Enquête, Latour posera une stricte équivalence entre pliage technique et débrayage actantiel (Latour 2012, 235–237) : le pliage du mode d’existence technique n’est qu’une description plus figurative du débrayage qui projette des actants différents et distincts de l’actant d’énonciation. Acte 5 : La fiction implique un pas de plus dans l’autonomie des objets énoncés, car elle engage un processus de détachement des énonciateurs et énonciataires sous la forme de figures façonnées par le récit et auxquelles ils sont invités à s’identifier aussi longtemps qu’ils restent sous le régime de la fiction. Ces figures sont projetées dans des temps et les lieux différents et multiples, accentuant leur autonomie figurative. Ce sont les débrayages actoriels, temporels et spatiaux qui produisent l’existence autonome de la fiction, avec la connivence de l’énonciataire. Potentiellement, ces délégations sont en nombre infini, en tout cas pluriel. Dans l’Enquête, Latour abandonnera la « connivence » de l’énonciataire, et lui substituera le thème, emprunté à Souriau, de la « sollicitude » partagée (entre énonciateurs et énonciataires) qui soutient les êtres de fiction et assure leur subsistance. (Latour 2012, 250). Acte 6 : La science a besoin de quasi–objets constitués et autonomes, et de fictions qui les insèrent dans des figures, des lieux et des temps débrayés. Mais en outre, elle impose le retour à l’énonciation, par un ré–embrayage. Plus précisément, sous le mode scientifique, les figures énoncées font retour sur l’énonciation pour assurer un contrôle à distance des quasi–objets et des fictions qui ont été préalablement débrayées. En outre, l’énonciataire et l’énonciateur doivent pouvoir, à l’égard de ces fictions, échanger leur place sans modifier ces fictions. Le mouvement des débrayages et ré–embrayages invente ainsi une chaîne de références propres au mode d’énonciation scientifique. Les trois Actes suivants, 7, 8, 9 focalisent à leur tour sur les quasi–sujets : il s’agit alors de régler les relations entre les instances énonçantes, énonciateur et énonciataire, et c’est seulement à partir de cette étape qu’on pourra parler effectivement de « personnes » d’énonciation. Acte 7 : Le mode politique définit le périmètre et la constitution du ou des collectifs pertinents (nous/eux), et la distribution des différentes personnes d’énonciation (je, tu, etc.) ; il détermine le nombre de personnes, la manière dont elles s’assemblent, leurs rôles respectifs au sein des collectifs, ainsi que le rôle chaque collectif à l’égard de tous les autres. Le mode politique intervient après les trois modes consacrés aux quasi–objets, car il n’a de sens qu’en raison de la gestion des relations entre ces derniers. Il est d’autant plus nécessaire que les modes précédents ont produit des

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semblables, des presque semblables, des dissemblables, des non–humains dérivant des humains, etc., et qu’il faut alors statuer sur les différentes identités et sur les relations entre ces identités. Acte 8 : La religion est un mode d’énonciation qu’on pourrait dire, dans des termes que Latour n’accepterait probablement pas, purement phatique. Seule compte en effet la présence des actants, ou plutôt leur coprésence intensifiée et énoncée ; en dehors de cette intensification de la coprésence, les énoncés produits sont absurdes ou ininterprétables. Le ré–embrayage sur ego, ici et maintenant se répète indéfiniment, notamment dans la chaîne des ré–énonciations propres à la tradition, mais à chaque reprise, sa puissance d’instauration de la coprésence est toujours neuve et entière. Cela signifie, d’un autre point de vue, que la focalisation sur la coprésence des instances d’énonciation embrayées neutralise toute autre source de sens, et en particulier du côté du contenu des énoncés et de la valeur des quasi–objets. Acte 9 : Le droit multiplie les marques et les identifications des instances d’énonciation ; il faut pouvoir imputer tel énoncé, tel acte, à telle personne ou à telle autre ; il faut reconstituer et expliciter la chaîne des énonciations. Ce mode énonciatif cultive le métadiscours de l’identité : signatures, sceaux, etc. L’Enquête insistera tout particulièrement sur l’établissement de la chaîne des énonciations, notamment entre textes juridiques et allégations diverses, qui se présente concrètement comme la recherche et l’extraction des « moyens du droit » et des meilleures « procédures » énonciatives. Cette insistance vise notamment à distinguer fermement le principe de la preuve scientifique, qui repose sur le débrayage et le ré–embrayage des quasi– objets, permettant le contrôle et la manipulation à distance des énoncés de preuve, et celui du raisonnement juridique, qui concerne l’enchaînement canonique des quasi–sujets, permettant d’établir sans hiatus l’ensemble des « moyens du droit » et de les rapporter aux faits et allégations qui déclenchent cette recherche. La construction de ce récit épistémologique apparaît maintenant plus clairement : trois Actes pour tester les prérequis de toute énonciation : quelque chose se passe pour quelqu’un ; trois autres Actes pour déployer le quelque chose se passe, et trois autres enfin pour statuer sur le pour quelqu’un. Tout au long du parcours, les actants se précisent et se complexifient : les objets prennent leur autonomie, se détachent en se figurativisant, deviennent des acteurs localisés dans l’espace et le temps, puis dans une chaîne référentielle. Les sujets se figurativisent parallèlement, s’agrègent en collectifs et en réseaux, se répartissent les rôles, et peuvent même se coaguler en une coprésence intense qui neutralise tous les autres aspects de l’énonciation. Mais ce récit ne perd pas de vue l’objectif (ou la valeur) de base, à savoir la subsistance, une forme de persistance dans l’existence, et de résistance ou de résilience face aux risques de l’existence : toute la théorie de la délégation, qui produit ainsi des « théories de délégués », repose sur cette visée de persistance, et chaque type de délégué est l’une des solutions permettant de persister en énonçant : rester le même, gérer l’autre, envelopper et stabiliser ces autres, leur procurer une autonomie suffisante pour un maintien durable, etc.

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Après avoir lu et exploité Etienne Souriau, Bruno Latour a apporté deux inflexions majeures à sa théorie. La première inflexion majeure est ontologique. En effet, dans la petite philosophie de l’énonciation, la focalisation sur les processus existentiels et sur les actes d’énonciation, tout en étant maintenus sur l’horizon de l’Être, s’en détachaient ostensiblement. La théorie de la délégation, et les délégués qui en découlent, semblaient, par constitution, échapper, au moins provisoirement, à l’ontologie. A tout le moins, ces petites ontologies plurielles, se confondant parfois avec des plans d’immanence, semblaient conciliables avec une approche sémiotique. A la limite, les multiples « délégués » existentiels pouvaient même passer pour des simulacres efficients. En revanche, dans l’Enquête sur les modes d’existence, ce ne sont plus les actes d’énonciation qui sont mis en avant, mais les modes d’existence eux–mêmes, c’est–à–dire des ontologies, certes nécessairement plurielles et régionales, mais des ontologies tout de même. Ce ne sont plus les actes d’énonciations et les délégués qui sont multiples et divers, mais, directement, les existences elles–mêmes. On est ainsi passé d’une petite philosophie de l’énonciation à une anthropologie modale. Et pour parfaire le dispositif, l’opération d’ « instauration » a semble–t–il2 pris la place de l’énonciation. L’instauration est précisément ce qui assure la persistance d’un mode d’existence, et si l’énonciation peut aussi y contribuer, ce n’est que sous condition que l’instauration soit efficiente. L’instauration est presque toujours évoquée comme « chemin » ou « trajectoire », et il n’y a d’instauration que pour chaque altération spécifique, chaque mode de persistance, ou, en référence à la petite philosophie de l’énonciation, pour chaque type de délégué, chaque type de solution et de réparation de la continuité. L’inflexion ontologique est assumée et justifiée : Latour s’efforce d’échapper au langage et au signe, pour pouvoir mieux les situer parmi les modes d’existence. C’est pourquoi les modes d’existence et leur instauration ne doivent pas dépendre d’une pensée « langagière ». Le chemin (théorique) qui conduit de l’existence à la sémiose devient de ce fait plus difficile à reconstituer : pour qui tenterait de l’emprunter aujourd’hui, il n’est donc pas inutile de revenir à ce premier essai, la petite philosophie de l’énonciation. L’autre inflexion majeure est empirique, c’est celle de l’expérience radicale, qui ne se dit pourtant pas explicitement « expérience sensible ». Là encore, la leçon de Souriau est décisive, y compris son affiliation à l’empirisme radical, explicitement revendiquée : Souriau adopte lui–même notamment des formulations directement démarquées de celles de William James, quand il explique comment et pourquoi notre expérience fondamentale est celle des altérations dans le processus de l’existence, altérations qui sont directement exprimables et exprimées, selon lui comme selon James, par les prépositions et les conjonctions de la langue naturelle (donc, après, dès lors, avant tout, comme, etc. . . ). Les modes d’existence selon Souriau ne constituent donc pas un spectacle débrayé, une sorte de cinématographe qui 2. Cette précaution modale signale la difficulté qu’il y a, lors de la lecture de l’Enquête, à décider précisément quelle est la relation qui, finalement, est retenue entre l’instauration et l’énonciation : stricte équivalence ? palimpseste ? englobement ? causalité ? Une recherche attentive des différentes occurrences de ces deux concepts dans le texte de l’Enquête ne nous a pas permis d’en décider avec certitude.

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projetterait des « mondes » alternatifs sur l’écran de l’Être. Ils ne sont pas même un spectacle dans lequel nous serions immergés : ce sont des mondes de sens qui s’agrègent et prennent forme directement autour de l’expérience sensible que nous faisons des altérations des processus existentiels et des solutions qui en assurent la persistance3 . Latour revendique cet héritage : « Rien que l’expérience, mais pas moins que l’expérience » (Latour 2012, 161). Et il associe directement à cette position de principe la classification des modes d’instauration sous la forme de « prépositions » (PRE), qu’il définit comme : [. . . ] la prise de position qui vient avant la proposition et décide de la façon dont on doit la saisir [. . . ]. Chacune de ces prépositions engage de façon décisive dans la compréhension de ce qui va suivre en offrant le type de relation nécessaire à la saisie de l’expérience du monde. (Latour 2012 : 69)

Même si la sémiose n’est pas ici invoquée, il y a bien du sens à saisir, et c’est la préposition qui indique comment il doit être saisi. La préposition, c’est à la fois le nom de l’altération spécifique dont on fait l’expérience, et celui du mode d’instauration qu’elle demande. Revenons à la sémiose et à l’énonciation. Pour des raisons qui lui sont propres, Latour a choisi dans l’Enquête de se détacher de toute perspective langagière, mais il le fait non seulement en « cantonnant » le langage dans une partie seulement des modes d’existence, mais également en le réduisant au langage verbal : il s’agit toujours pour lui de « dire », de « parler », et non, en général, de « signifier ». Ce n’est pas l’option retenue par la sémiotique aujourd’hui, qui s’intéresse à tous les régimes sémiotiques, quels que soient les modes d’expression et les formes de textualisation. Certes, la terminologie utilisée (énonciation, énoncé, textualisation) témoigne de l’ancrage de cette sémiotique–là dans les recherches linguistiques en matière de théorie du langage, mais la définition, l’extension et l’usage de ces termes ne sont pas réduits au langage verbal, et couvrent l’ensemble des manifestations observables de la signification. Dès lors, si nous supposons que l’objet ultime de la sémiotique peut être le sens des modes d’existence, nous ne saurions oublier que la première question qui se pose, pour le sémioticien comme pour Bruno Latour, est celle des conditions de leur saisie. Leur saisie est nécessairement sensible : les altérations de l’existence affectent l’expérience sensible, et c’est parce que l’expérience sensible en est affectée que les altérations sont des demandes de sens. C’est donc dans cet enlacement de l’expérience dans l’existence, et réciproquement, que l’on peut espérer assister à l’émergence du sens, que l’on peut ressentir et recevoir le « défaut de sens » ou la « demande de sens », et par suite, s’engager à le construire. Et le construire, c’est nécessairement l’énoncer, c’est–à–dire transposer l’expérience dans un mode 3. Nous avons déjà montré ailleurs (« Les modes d’existence : Greimas et les ontologies sémiotiques », Dilbilim, Université d’Istanbul, à paraître) que l’entrée dans les mondes du sens par les esthésies, telle que Greimas la propose et la met en œuvre dans De l’Imperfection, relève également d’un empirisme radical, comparable sinon identique à celui de James et de Souriau.

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sémiotique dûment constitué, avec expression et contenu. Les tenants de l’empirisme radical, de James à Latour, en passant par Souriau, semblent croire à une transparence parfaite entre ces expériences des altérations et les significations induites par les modes d’instauration existentiels : une « préposition » recouvre aussi bien les unes que les autres, et les prépositions et conjonctions des langues naturelles semblent, faisions–nous remarquer, directement manifester les altérations de l’expérience. On peut pourtant mettre en doute cette parfaite transparence, ne serait–ce que parce que, même si les modes d’existence sont multiples, ils ne sont pas en nombre infini, et surtout ils ne varient pas continument. Nous avons déjà fait observer que, même dans le déni de toute construction systématique, les tenants des modes d’existence les présentent toujours dans un certain ordre, en respectant des principes de discontinuité et de distribution, ce que nous avons appelé le « récit épistémologique ». Or, si nous reconnaissons ainsi des « types » d’instauration, des « clefs » d’énonciation, des trajectoires bien distinctes, et des prépositions qui ne se confondent pas les unes avec les autres (même si elles sont en mesure de s’associer pour constituer des modes hybrides), il nous faut supposer une instance médiatrice entre l’expérience et sa transposition en une manifestation et une expression sémiotiques. En d’autres termes, et pour reprendre une comparaison que Latour avance lui–même dans l’Enquête, si les instaurations et les prépositions qui les désignent fonctionnent comme des « genres » et des « instructions de lecture », leur inventaire ne peut être ni en en très grand nombre, ni asystématique, ni largement ouvert à l’invention et à l’imprévisible. Latour précise : Si vous vous trouvez dans une librairie et que vous feuilletiez des livres qui portent sur la page de garde la mention «roman», «document», «enquête», «docufiction», «mémoires», «essai», ces mentions jouent le rôle des prépositions. Elles sont bien peu de chose, juste un ou deux mots par rapport aux milliers de mots du livre que vous allez peut–être acheter, et pourtant, elles engagent de façon décisive la suite de votre lecture puisque, à chaque page, vous allez prendre les mots que l’auteur met sous vos yeux dans une tonalité tout à fait différente selon que vous pensez que c’est une «histoire inventée», un «document vrai», un «essai» ou un «rapport d’enquête». (Latour 2012 : 69)

Les « tonalités » modales qui infléchissent l’interprétation dans un certain sens doivent être immédiatement reconnaissables et mobilisables, dans un ensemble inter–défini et suffisamment stable pour être convoqué à bon escient et en temps utile. Nous avons donc besoin, entre l’expérience et sa transposition sémiotique, d’une médiation qui produise une grammaire de types. Cette instance médiatrice devrait a minima être de nature réflexive, cette réflexivité permettant d’ébaucher une grammaire des instaurations et des énonciations, et globalement un processus d’engendrement des différents types les uns par les autres. C’est précisément cette réflexivité qui est implicitement à l’œuvre dans le « récit épistémologique » ; c’est elle également qui permet à ces énonciations de se retourner sur elles–mêmes, afin de focaliser sur tel ou tel de leurs constituants (énoncé, instances, objets, sujets, etc.) et sur leurs variétés. Ce sera ma suggestion finale : la petite philosophie de l’énonciation, justement parce qu’elle se maintient sur l’horizon d’une énonciation du sens de l’existence,

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pouvait faire une place à l’expérience sensible. Certes, ce n’est pas la voie retenue par Bruno Latour, mais elle est ici encore envisageable : en même temps que la théorie de l’énonciation est étendue et généralisée à tous les avatars de l’existence, elle pourrait également être étendue et généralisée à toutes les facettes de l’expérience qui s’en saisit et qui en interroge le sens. Et, entre ces expériences et ces énonciations, un soupçon de réflexivité permettrait de concevoir pourquoi et comment nous pouvons en extraire une grammaire, une sorte de système faible mais suffisant pour guider nos interprétations. Et même si, selon la suggestion de Greimas, il nous faut attendre l’inattendu, encore faut–il pouvoir le reconnaître quand il advient ! Références bibliographiques Greimas A.J. [1966], Sémantique structurale, PUF, Paris 1986. Greimas A.J. et Courtés J., Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Hachette, Paris 1979. Greimas A.J. et Fontanille J., Sémiotique des passions. Des états de choses aux états d’âme, Seuil, Paris 1991. Latour B., Enquête sur les modes d’existence. Une anthropologie des Modernes, La Découverte, Paris 2012. Souriau E. [1943], Les différents modes d’existence. Suivi de l’Oeuvre à faire (précédé d’une introduction « Le sphinx de l’œuvre » par Stengers, Isabelle et Latour, Bruno), Paris, PUF.

RIFLESSI DOCUMENTI DI LAVORO DEL CISS NUOVA SERIE 1. Dario Mangano, Alvise Mattozzi (a cura di) La ricerca semiotica. Interventi dal II Simposio interdottorale del CISISM Contributi di Tatsuma Padoan e Arpita Roy isbn 978-88-548-4554-1, formato 17 x 24 cm, 76 pagine, 7 euro

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4. Algirdas Julien Greimas L’attualità del saussurismo Prefazione di Paolo Fabbri, traduzione di Gianfranco Marrone isbn 978-88-548-6814-4, formato 17 x 24 cm, 52 pagine, 6 euro

5. René Thom Salienza e pregnanza Nota introduttiva di Paolo Fabbri, postfazione di Giuseppe Bomprezzi, Vincenzo Fano, traduzione di Luigi Zuccaro isbn 978-88-548-7049-9, formato 17 x 24 cm, 64 pagine, 7 euro

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7. Paolo Fabbri (a cura di) Fenomenologie del linguaggio. Omaggio a Émile Benveniste Introduzione di Paolo Fabbri, postfazione di Francesco Marsciani isbn 978-88-548-9662-8, formato 17 x 24 cm, 52 pagine, 5 euro

8. Bruno Latour Piccola filosofia dell’enunciazione. Con una nota di Jacques Fontanille isbn 978-88-255-0458-3, formato 17 x 24 cm, 68 pagine, 5 euro

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