I poeti del sogno. Piccola antologia 9788855291149, 9788855291156

Dodici poeti che vengono dal passato, che forse non si sono mai letti tra loro ma che sono uniti misteriosamente da un s

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Italian Pages 128 [120] Year 2020

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Table of contents :
Margini
Margini |
Presentazione
Lucio Faleno Magno
Testi
Estella Ruiz Blanco
Testi
Jules Tassard
Testi
Aldo Domenico Coviello
Testi
Olga Taraskova
Testi
Michael Bronson
Testi
Silvestra Bonetti
Testi
Irma Indovina
Testi
Carlo Gasperino
Testi
Marianna Concordia
Testi
Kevin Stafford
Testi
Gherardo Finzio
Testi
Postfazione
Indice
Margini
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I poeti del sogno. Piccola antologia
 9788855291149, 9788855291156

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Antonio Fiori

I Poeti del sogno Piccola antologia

Margini

Collana diretta da Filippo La Porta

Margini | 3

Antonio Fiori

I Poeti del sogno Piccola antologia Postfazione di Donato Angeli

© 2020, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Margini ISSN: 2612-7229 n. 3 – giugno 2020 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-114-9 ISBN – Ebook: 978-88-5529-115-6 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: concept of imagination and freedom of a small woman who wants to enter a fantasy book © Cristina Conti – stock.adobe.com

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Presentazione

Eccoli i dodici apostoli della poesia. Sono stati prescelti perché uniti da un sogno che li ha visitati tutti: un sogno enigmatico, nel quale, con poche varianti, sono interrogati senza comprendere la domanda o l’evento annunciato. Ma solo un paio di loro ne resta colpito, gli altri dimenticano. E se è quasi certo che nessuno dei poeti sapesse della diffusione del sogno, noi oggi, tirando le fila di caute ricerche, possiamo renderci conto dell’entità del fenomeno e del mistero. C’è chi sostiene ci sia sempre un sogno rivelatore nella vita di ciascuno di noi, un sogno del quale però nessuno comprende la lingua e di cui dunque nessuno riesce mai a decifrare il messaggio. Destino e giudizio, dovremmo saperlo, sono inconoscibili, scritti sulla sabbia; Gesù stesso scrisse sulla sabbia, davanti all’adultera, e quelle parole sono rimaste sconosciute anche all’evangelista, che non ce le ha potute tramandare (cfr. Gv 8,1-11). Ma se si rivelano inutili messaggi e messaggeri, perché questo inesausto ripetersi del sogno? Forse perché qualcuno tenta sempre – come nei déjà vu e nelle coincidenze – di parlarci da un’altra dimensione. Chissà allora che un giorno non sia la poesia, inaspettatamente, a tradurre questa lingua arcana,

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a rivelarsi oracolo del nostro destino. Certo, se accadesse, lo scopriremo in solitudine, leggendo un testo che all’improvviso c’illuminerà, magari leggendo una delle poesie di questa antologia. Antonio Fiori

Lucio Faleno Magno (Roma 63 a.C.-Roma 14 d.C.)

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Lucio Faleno Magno

Celebre in epoca augustea – anche per essere nato e deceduto negli stessi anni dell’Imperatore Augusto, come un predestinato alla gloria – apparteneva a una famiglia patrizia che oggi definiremo liberal, che lo crebbe nel rispetto della natura e delle arti, e nelle gentilezze del convivio e delle humanitas. Poeta delicato, fece un uso molto originale dell’epigramma con ricorrenza tematica della brevitas amoris. Come riferiscono più fonti concordi, raggiunta la maggiore età, iniziò la lodevole usanza di aprire alle principali festività la sua casa agli artisti romani e a quelli che a Roma giungevano in cerca di fama. Vale la pena ricordare la leggenda, giunta fino ai nostri giorni, del suo pranzo di buona fortuna, il 24 giugno, festa di Fors Fortuna, divinità maschile dell’antica Fortuna. Alla fine di tale pranzo musici, poeti e scultori facevano, davanti a tutti gli invitati, pubblica promessa d’un sacrificio e presentavano un loro allievo particolarmente promettente elogiandone le doti e affidandolo al dio. L’evento tramandatoci dimostra, al di là della opinata collocazione a casa di Lucio Faleno, quanto intenso fosse, nella Roma augustea, il legame tra l’arte e il mondo divino e quanto sentito fosse tra i cives il diritto dell’artista al giusto riconoscimento della propria opera. Ma c’è anche un

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altro evento leggendario nella vita del poeta: uno strano sogno nel quale un vecchio schiavo gli tagliava la strada sibilandogli alcune brevissime frasi in una lingua incomprensibile. Il sogno è stato considerato poco più che una curiosità dagli studiosi e non ve n’è traccia alcuna nei Fragmenta del nostro autore, ma qui, in questa antologia, ha una fondamentale importanza, perché ne scopriremo una misteriosa ripetizione nel corso dei secoli. Purtroppo di Lucio Faleno ci sono rimasti solo pochi frammenti di certa attribuzione e moltissimi, invece, a lui attribuiti post mortem, quasi certamente apocrifi, redatti probabilmente a scopo di lucro da buoni imitatori.

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Testi

Fragmenta, II, 1. T’amo e non t’amo, Clelia con te ho sempre accanto una trappola.

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Fragmenta, II, 12. L’otre trabocca alla festa di Fortuna – generosa come l’arte più sublime – t’inebria e ti fa dolce col suo vino.

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Fragmenta, III, 2. Il nostro amore folle finirà oggi, non appena cesserà il vento.

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Fragmenta, III, 4.* Non so cosa tu scriva alle bambine, Acilio ma so di certo che nessuna ti scrive.

Tutti i testi sono in Lucio Faleno Magno, Fragmenta, tr. it. di Lucia Canuli, Edizioni ExVoto, 1970.

* Su questo frammento, nel primo Ottocento, si accese una diatriba tra i filologi e gli storici della letteratura latina (cfr., da ultimo, Giorgio Cassano, La fine del fulmine, ancora su Faleno e Marziale, Enneadi, 2016): si può accusare Marziale di plagio (con l’epigramma 11,64) ai danni dell’ormai defunto Lucio Faleno? Ha egli carpito coscientemente il fulmen in clausula del suo epigramma III, 4, o s’è trattato di mera coincidenza? Ricordo che siamo in presenza di fulmen in clausula quando, nell’ultimo verso dell’epigramma, una situazione all’apparenza normale viene capovolta con una battuta improvvisa e inattesa. Questo il distico incriminato di Marco Valerio Marziale: Nescio tam multis quid scribas, Fauste, puellis: / hoc scio, quod scribit nulla puella tibi.

Estella Ruiz Blanco (Valenza 1510-Madrid 1554)

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Estella Ruiz Blanco

Estella aveva tredici anni quando a Valenza, nel 1523, scoppiarono le rivolte popolari. Figlia di un caballero della media nobiltà, vide il padre Juan prima fiancheggiare i ceti più poveri in rivolta poi, all’improvviso e inspiegabilmente, abbandonarli al loro destino, schierandosi con l’alta nobiltà vincitrice. Questa vicenda la segnò in modo indelebile portandola dapprima a tenere un diario, quindi, compiuti sedici anni e raggiunta a Madrid la nonna materna, alla scrittura poetica. A Madrid incontrò anche l’amore e nel 1531 sposò Placido Suarez, avvocato, di dieci anni più grande. Estella studiò da autodidatta, ma il marito, premurosamente, le fece seguire anche lezioni di teologia, latino e filosofia, impartitele a casa da eminenti professori dell’Università di Alcalà, da poco fondata ad Alcalà de Henares, a Est della capitale spagnola (dove nascerà Cervantes nel 1547). Inutile dire che poté condurre una vita agiata, allietata dall’arrivo di due figli maschi ad alcuni anni di distanza dal matrimonio. Rimasta vedova nel 1550, confidò solo allora, al figlio maggiore Alejardo, di aver scritto e conservato centinaia di poesie. Incoraggiata dai suoi ragazzi, che lessero i testi restandone affascinati, Estella si decise a pubblicare e nel 1552 fece in tempo a veder stampato Poemas encontrados, due anni prima

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di spegnersi per tubercolosi. Ed è durante uno dei suoi ultimi tormentati sonni che all’autrice appare un volto dalle sembianze divine che le rivolge la parola in una lingua sconosciuta. Ne parla ai figli e ne fa cenno in una pagina del diario, ma nulla di più si sa o si può dire del conturbante sogno di Estella. Quanto ai suoi Poemas, non trovarono subito l’accoglienza di pubblico sperata ma alla fine del secolo la loro ripubblicazione, fortemente voluta da Fernando de Herrera nel 1593, fu un vero successo, decretando Estella Ruiz Blanco tra i più grandi poeti spagnoli del Siglo de Oro.

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Testi

Corpo Mistico Siete voi, vestiti di cenci affamati ma con occhi dolci che non posso dimenticare Il mistero del corpo mistico non è per me più mistero dopo avervi visto, amici 1526

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Due distici Non avevo mai baciato oggi l’ho fatto Non avevo mai odiato oggi ho perdonato 1531

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Una domenica Non sono andata a messa stamattina però vorrei che m’apparisse Lui per dirgli grazie, inchinandomi gentile. Vorrei mi perdonasse ogni peccato che ad uno ad uno me li cancellasse perché nessuno mi deve confessare. E vorrei anche rivedere Placido il caro volto del mio amore partito per dargli il bacio promessogli nel pianto. 1551

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Notte Nella notte furiosa nessuno mi vedeva ché torcia non portavo e un manto mi copriva. Ma non temevo nulla perché nel cuore avevo – e certo mi bastava – la sua luce accesa. 1552

Da Estella Ruiz Blanco, Poesie ritrovate, tr. it. di Mirella Maggi, Biblio, 1962.

Jules Tassard (Nantes 1662-Orléans 1723)

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Jules Tassard

Jules Tassard, sin da giovanissimo, si batté per impedire la revoca dell’editto di Nantes del 1598, allora vera avanguardia del diritto. Con quel provvedimento Enrico IV stabiliva in Francia libertà di culto, diritto di accesso ai pubblici uffici, dignità, scuole, proprietà privata. Anche dopo le limitazioni del 1629, tale Editto restava infatti un baluardo di libertà, agli occhi degli spiriti liberi e delle nuove classi emergenti. A revocarlo definitivamente fu Luigi XIV nel 1685; Jules aveva 23 anni e fino ad allora era stato orgoglioso di essere cittadino di Nantes, luogo storico di emanazione dell’Editto. Fu dunque per la profonda delusione provata, prima ancora che per l’ordine di cattura emanato a suo carico, che fuggì dalla città dandosi alla macchia per quasi tre anni. Lo ritroveremo alla fine a Orléans: giuntovi sotto falso nome, troverà impiego come copista presso un ricco notaio. La sua iniziazione poetica avvenne proprio nel difficile periodo di vagabondaggio, quando – tra il marzo e l’agosto del 1686 – era nascosto nell’abbazia benedettina di Mont Saint Michel. Legge qui per la prima volta, con grande ardore, il Libro dei Salmi e si confronta coi monaci sulla libertà di pensiero del poeta e sul suo diritto a trattare temi civili e politici, pur se sgraditi alle autorità. Ai monaci riferirà anche di un incubo avuto in

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una delle sue notti in convento, quando, sprofondato da ore nel sonno, si ritrovò in una chiesa romanica affollatissima, dove si celebravano, sui numerosi altari, tante messe contemporaneamente, ognuna recitata in una lingua diversa e mai udita prima. I monaci non apparvero meravigliati e lo invitarono a dimenticare, per evitare il ritorno degli incubi e possibili intrusioni demoniache; lo aiuteranno in seguito a pubblicare, sotto lo pseudonimo di Paul Archer, due importanti volumi: Pensée et poésie (Tours 1696) e Sonnets de liberté (Orléans 1701). Tassard infatti, pur lavorando sempre, fino a età matura, presso il Notaio Claion di Orléans, terrà buoni e costanti rapporti con i monaci di Mont Saint Michel. Il poeta, che mai si sposò e fece vita molto ritirata, otterrà un decreto di proscioglimento da Luigi XV solo nel 1718 e potrà vivere in serenità, finalmente col suo vero nome, l’ultimo lustro della sua vita.

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Testi

Partire di notte Partire di notte, senza avvertire l’amico che dorme nella calda locanda. Questa è la strada che indica il destino che tu non scegli ma seguirai sorridendo. Percorrere sentieri guardandosi attorno e se guardia o brigante si nasconde nel bosco. Ma questa è la strada che hai avuto in sorte non puoi lasciarla, né puoi fermarti a lungo. Se un Dio esiste, t’assisterà sempre avrà pietà per le tue piaghe infette sazierà la fame che t’attanaglia e la sete. 1686

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Odio e Fraternità Abele fu maestro d’amore fraterno il primo ad amare un fratello di sangue. Fu disposto a morire per non colpire Caino disse solo – perché? mentre ormai era esangue. Così l’odio vinse, invece di soccombere o nascondersi muto, nella rabbia a montare poiché il popolo sempre ha diritto a difendersi senz’offrire la guancia, rispondere col sangue! A lui solo, al popolo, è concesso d’odiare e perdonato il peccato che per l’uomo è mortale. 1695

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Curiosità Stendo da anni con pazienza atti di servitute e testamenti, affidi di bambini in abbandono vendite e donazioni di terreni ma quanto oggi ho copiato ve lo giuro, supera la fantasia di Rebelais – Tale Francois Morran guitto a Tolosa, si dice erede d’un unicorno a Chartes e cerca tosto un mandriano fedele che l’accudisca e ne scopra l’età. 1698

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Una locanda La vidi nel rosso tramonto, appena apparire tra l’ombre e mai una lega di strada fu tanto leggera da fare. Fuggivo da solo da Nantes con due pesanti bisacce e tante notti nei boschi tutte da dimenticare. M’accolse la figlia dell’oste e mi lesse la vita negli occhi. Il giorno seguente partendo pagai lasciandole il cuore. 1698

Testi scelti da Jules Tassard, Sonetti della libertà, tr. it. di Biagio Conti Cordella, Edizioni ExVoto, 1981.

Aldo Domenico Coviello (Napoli 1779-Napoli 1840)

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Aldo Domenico Coviello

Aldo Domenico Coviello, di umilissime origini, nasce a Napoli il 4 settembre 1779, in Rione Sanità. Il padre, inumatore di salme nel nuovo cimitero rionale, lo porta spesso a visitare il mondo sotterraneo napoletano, specialmente le catacombe di San Gennaro e San Gaudioso e il già famoso cimitero delle Fontanelle, realizzato all’interno di una cava gigantesca sotto la collina di Materdei. Aldo bambino, anziché impaurirsi, ne rimane ogni volta estasiato e il mondo dei morti diventerà pian piano luogo fondamentale della sua esperienza poetica. Pur non potendo istruirsi regolarmente, impara a leggere e scrivere con l’aiuto degli scrivani che offrivano i loro servizi per strada. Uno di loro in particolare, Paolino Balzano, ne intuisce doti e potenzialità sia per il teatro che per la poesia. Lo segnala dunque a una delle tante compagnie girovaghe dell’epoca per provarlo in scena. Al Balzano il piccolo un giorno racconta di un sogno stranissimo nel quale un cavaliere gli si avvicina ripetendo inchini e riverenze per poi parlargli con parole incomprensibili, delle quali ricorda, al risveglio, solo le ultime due – Kope istanem, pronunciate dal cavaliere con un sorriso beffardo prima di scomparire. Lo scrivano ne rimane molto turbato ma non lo dà a vedere al ragazzo, che presto dimenticherà; Balzano in-

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vece, ancora molto scosso, ne riferisce alcuni anni dopo al Vescovo di Napoli in una lettera del 1793. Ha inizio intanto per Aldo Domenico un periodo felice di apprendistato e socializzazione, finché una sera il giovane viene notato da uno dei più famosi commediografi napoletani del ’700, Francesco Cerlone, che farà in modo che gli vengano affidati ruoli più significativi del teatro popolare e burlesco; l’intellettuale ne apprezza subito anche le precoci attitudini poetiche; nel 1799, grazie ai suoi buoni uffici, verranno pubblicate a Napoli, dalle Stamperie di Vincenzo Orsini, le prime poesie di Coviello: Co tutto ch’era vierno, per lo più tragicomiche e visionarie ma certamente molto originali e gradite dal pubblico. La sua produzione cresce pian piano: ’O fantasma ’nnamurato (1804), L’Aldilà che non si crede (1811) ’O sberleffo (1819) Mimmo Capasso figlio ’e nisciuno (1825) con testi principalmente in napoletano ma con la sorprendente introduzione – dal 1811 – anche di poesie in toscano moderno. Aldo Domenico Coviello si sposerà nel 1800 con una affascinante popolana di Portici, Santina Russo, dalla quale avrà tre figli e a cui dedicherà una bellissima poesia nel 1839, poco prima di morire: Assunta, non Santina.

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Testi

Assunta, non Santina Assunta, non Santina ti dovean chiamare ché impavida quel cielo stavi sempre a guardare. Eppure prima santa dovresti diventare, se no chi mai potrà chiamarti fino al Padre? Santina sei santissima e Assunta diverrai e non lo dico io ma gli Angeli, vedrai! Adoro il tuo bel corpo stupisco di te madre ma il nostro amore è troppo e non lo riesco a cantare. 1839

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Imprecazioni a Nigella* Te puozze nnammurà de no crodele Che te faccia ’nnaterno sospirare, E quanta pene haje fatte a mme provare Tanta voccune puozz’avé de fele. Comm’a na varca che pperze ha le bbele Puozze pe ccà e ppe llà sballottolare, E le ccarne te pozzano scolare Comm’a la Stà de sivo le ccannéle. E tanno, o Sgrata, puozz’avé confuorto, Quanno tornata ’nté, chiagnenno dice: Oh Micco mio, canosco ch’aggio tuorto! Tu mme voliste bene, e io schefìce T’aggi’ arredutto che staje miezo muorto! Ma pentuta già so!... Tornammo Ammice. 1798

* A lungo attribuito a Domenico Piccinni (1764 – 1837), questo sonetto è stato recentemente riconosciuto ad Aldo Domenco Coviello, dopo il ritrovamento, nel 2015, di un documento autografo in cui Piccinni ne attribui­sce la paternità al più giovane autore (si tratta di una lettera del Piccinni all’amico Salvatore Coppola, datata 6 aprile 1816, nella quale s’afferma: e mai ti dissi che il tal sonetto d’imprecazioni a Nigella invero l’ebbe a scriver Coviello, ’o scugnizzo poeta a Sanità; quanto al silenzio del nostro autore, è spiegabile forse con il regalo del testo al Piccinni, non appena composto, come s’usava talvolta per omaggiare i maestri; poco senso dunque avrebbe avuto la rivendicazione).

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’O fantasma ’nnamurato Anco di là domenica è festa patronale e sol da lunedì si puote lavorare, ma c’è chi non vuol cedere e s’ostina a cantare. E chi è, domanderete, colui che non s’arrende che non sente ragioni e s’aggira dolente? Ebbene lui è un fantasma d’eterno innamorato, ragazzo che a Posillipo, pensando alla sua amata morì subito dopo la prima serenata. 1803

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L’Aldilà che non si crede Andavan ridendo alla tetra seduta tra lor scommettendo su chi avea più fame. Seduta spiritica, una scusa assai brutta per fare piedino alle serve e alle dame. Ed eran ben pronti a cambiare la donna quando quel piede restava distante o se, titubando, lo copria con la gonna la dama impaurita col petto già ansante. Ma un giorno di maggio (o era notte, è lo stesso) un’anima giunta inattesa al consesso disse loro ridendo d’approntare il bagaglio – si va all’altro mondo e c’è San Tommaso! 1811

Tutti i testi qui riportati sono ora in Aldo D. Coviello, tr. dal napoletano di Vito Lorusso, Tutte le poesie, Cultus, 2018.

Olga Taraskova (Mosca 1801-San Pietroburgo 1877)

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Olga Taraskova

Olga Taraskova nacque a Mosca il giorno di capodanno del 1801. Di nobili natali, dovette assistere, bambina, prima all’invasione dell’Impero russo da parte di Napoleone Bonaparte (nel 1812), dopo alla riscossa delle armate di Alessandro I (1814) che inseguirono l’esercito francese fin quasi a Parigi. Olga fu scrittrice versatile e appassionata, non solo scrisse opere di poesia ma anche una trentina di racconti e due romanzi. Discendeva dalla famiglia nobile dei Taraskov, imparentatisi nel corso del Seicento con i tedeschi Von Staffen, che s’erano trasferiti nel XVI sec. dal Meclemburgo a Mosca. Nel 1826 sposò il poeta, scrittore e critico Sergej Brežovskij, col quale visse una felice ma breve vita matrimoniale (lui morirà infatti improvvisamente, quarantenne, nel 1835). Con la sua poesia amorosa e patriottica, Olga Taraskova influenzò molto, a metà del XIX secolo, gli intellettuali e gli artisti russi, specialmente moscoviti. All’inizio scrisse sotto pseudonimo, scegliendo improbabili nomi maschili, ma dopo la morte del marito decise di venire allo scoperto col proprio nome (e iniziò ripubblicando tutti i lavori fino ad allora usciti sotto pseudonimo: Patria ed esilio, raccolta poetica del 1825, Amori di viaggio, racconti d’esordio, 1827, La slitta di Fedor, poesie e pagine di diario, 1830).

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Come accennato, fu estremamente attiva nei salotti di Mosca e di San Pietroburgo, diventando in breve, negli anni Trenta e Quaranta, una importante figura di riferimento dell’élite culturale. I temi del sacro amore per la Patria e dell’altrettanto sacro amore umano, animavano le sue opere, mentre rari erano i riferimenti religiosi, tiepida come confessava d’essere riguardo alla fede. Ma c’è un sogno inspiegabile anche nella vita di Olga, sogno che, a suo dire, le metterà allegria, ma che certo al momento un po’ deve averla turbata: una vecchina s’affaccia dalla finestra d’un palazzo nobiliare di San Pietroburgo e, rivolgendosi proprio a lei che passava per strada, le chiede qualcosa ma senza emettere suoni; Olga pone subito attenzione al labiale, ma non riesce a capire le parole che le rivolge la vecchia. Rimarrà per l’autrice solo un episodio curioso. L’ultima raccolta di poesie pubblicata in vita dalla Taraskova fu Gite sul Volga, nel 1869. Morì a San Pietroburgo il 16 dicembre 1877, senza aver avuto figli, sola e amareggiata per essere stata dimenticata. La sua esile spiritualità infatti e altri aspetti della sua esistenza – diventata troppo libera e poco convenzionale dopo la morte del coniuge – fecero sì che questa voce intensa e originale della letteratura russa, già famosa e ossequiata, venisse ingiustamente dimenticata sul finire del secolo.

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Testi

Quel ponte sull’Oka Yuri fermo sul ponte, con le gambe ben larghe in divisa sgargiante era pronto a morire. Un tenente non trema, sa eseguire ogni ordine e i suoi uomini anche sono pronti a morire. Dopo ore d’attesa ecco il messo che arriva e consegna quell’ordine: istruzioni di resa! Yuri legge e non esita, salta in groppa al cavallo dà la carica ai fanti, tutti insieme all’attacco! Attraversano il ponte con eroico coraggio contro l’ordine andando perché andava fatto. Il nemico quel giorno ne ucciderà più di mille – solo in cento tornarono alle loro famiglie. 1825

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L’amore di Fedor Era mite l’inverno e Galina cuciva con la nonna materna, solo dodici erano gli anni che aveva. Il tempo era mite quando Fedor passava e gettava lo sguardo dentro quella dacia. Era mite davvero anche il giorno che Fedor andò a pianger con loro per la morte del padre. Fu Galina a invitarlo per il suo complenno quando al prossimo maggio avrà tredicianni. Fedor fu impressionato dal sorriso e l’ardire e promise che a maggio lui sarebbe tornato. Ma passò tutto il mese, tutto il mese di maggio e nessuno arrivò per quel compleanno. Poi si spense la nonna, nell’inverno ghiacciato. Ma Galina non pianse, era sempre sicura che sarebbe tornato. E dieci anni più tardi ecco Fedor che torna, malvestito e invecchiato. Si guardarono a lungo senza dire parola con i cuori impazziti ed i corpi di marmo, si sposarono, sì, ma attesero maggio. 1829

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Gli stivali Quando all’alba la steppa li chiamava già scalpitavano i cavalli neri e gli stivali i giovani kazaki non avevan bisogno di calzarli – tutta la notte ben saldi nelle gambe brillavano alla luna di settembre. Igor era forte allora e appassionato, quando per gioco lottava coi fratelli slogava braccia e lasciava il segno. Amava Irina ma Anna lo stregava amava il canto e i fuochi dei bivacchi e amava tanto i suoi stivali viola. Oggi ch’è vecchio e non ha più forze li guarda a lungo fino a lacrimare – li tiene lindi e pronti benché sappia che lui mai più li potrà calzare. 1867

Testi scelti da Olga Taraskova, Tutte le poesie, a cura di Fernando Poletti, tr. it. di Sonia Battistini, Cultus, 2011.

Michael Bronson (Filadelfia 1822-Charleston 1867)

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Michael Bronson

Michael Bronson nasce a Filadelfia il 24 maggio 1822, figlio di Oliver, ciabattino, e Martha Clarke, sarta provetta, che da lui ebbe cinque figli e diresse sempre la vita familiare con grande amore e saggezza. Erano entrambi bianchi, molto fieri della diretta discendenza dai primi coloni che fondarono la nuova Plymouth nel 1620. Il poeta ci racconta della sua infanzia felice nella prima raccolta, pubblicata a Filadelfia nel 1840 a spese dei genitori: Inside My Room. Ma l’ultima poesia di questa raccolta – A nightmare – si chiude con questi versi: A cart passed by me led by an old slob / he screamed scary words / that I could not understand / but those words were just for me (Mi passò a fianco un carro guidato da un vecchio bavoso / che urlava parole paurose / che non potevo capire / ma quelle parole erano proprio per me). Dunque apprendiamo direttamente dall’autore di quest’incubo giovanile, così terribilmente simile agli incubi e ai sogni degli altri poeti di questa antologia. Bronson studiò fino a sedici anni, poi proseguì nel lavoro paterno, che presto propose di estendere alla produzione vera e propria di calzature. Tra le numerose raccolte, ricordiamo: Poetic Portraits (1853), che riunisce oltre cento ritratti poetici di familiari, amici e grandi scrittori americani; Frontier Lands (1855), che rendiconta sul

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suo avventuroso viaggio verso l’Ovest, Wedding March (1857) che ci regala uno dei più bei quadri di vita familiare di tutta la letteratura americana; una poesia mai troppo compiaciuta, mai retorica, che utilizza già la lingua colloquiale; insomma, nella famiglia di Michael Bronson si specchierà subito, riconoscendosi, il piccolo ceto medio urbano degli Stati fondatori. Bronson scriverà poesie con ammirevole costanza fino agli anni della guerra civile, che invece, poeticamente, lo ammutolirà. La guerra dura quattro lunghi anni, dal 1861 al 1865, ma Michael Bronson farà in tempo a ritrovare la voce per onorare i morti di entrambe le parti – scriverà infatti la raccolta Honor to the Living and the Dead (Onore ai vivi e ai morti). Il poeta muore a Charleston il 4 ottobre 1867. Era lì con la moglie Elisabeth e il figlio Michael junior proprio per presentare il suo ultimo libro, aveva quarantacinque anni.

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Testi

Arrivano i nonni Un raggio di sole di marzo annuncia la visita attesa – il nonno entra ridendo, la nonna al suo braccio un po’ esita un passero sul davanzale ricorda ch’è già primavera. La piccola cugina Marilyn declama la sua poesiola ai nonni assorti e composti, la mamma lontano sorride mio padre stappa il buon vino che ha conservato per oggi. Vorrei fermare quest’ora, il tempo fermarlo davvero invece lui corre e non sa che lo vorrei prigioniero. 1840

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Ketty Arrivò sola dal Tennessee dentro una pioggia di primavera. Stanca dal viaggio, restava bella – Su Ketty, bevi – diceva Frank quel latte caldo ti tira su. Non ci fu uomo che non l’amò segretamente dentro di sé però nessuno osava chiederle se il cuore fosse libero o no. Ora è maestra giù a Ferguson ha due marmocchi e sempre è bella e canta in chiesa I Love my Lord. 1851

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Herman Melville Fosti marinaio vero, sotto i tuoi piedi ogni zolla era un’onda. Due oceani solcasti imperterrito per raccontarceli ora. Fu il mare a insegnarti ogni cosa con tutti sei stato sincero. Tremo ogni volta che sfioro la costa del tuo libro – la fiocina è sospesa in volo verso la balena irraggiungibile. 1853

Da Michael Bronson, Poesie scelte, tr. it. di Flavio Andreoli, Enneadi, 1954.

Silvestra Bonetti (Brescia 1900-Milano 1939)

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Silvestra Bonetti

Silvestra Bonetti, bresciana, nasce il 14 aprile 1900 in una famiglia agiata (il padre, Umberto, era un industriale del ferro, la madre, Giorgia Odorisi, apparteneva a una famiglia di grandi proprietari terrieri). Silvestra inizia a scrivere precocemente, a nove anni, con una poesia che ci è rimasta, di protesta contro il suo nome – No, no, no, non mi piace Silvestra / non ho scelto quel nome / mi piace più la minestra / che non piace e fa fumo / se mi chiaman Silvestra non rispondo a nessuno; la Bonetti ha infatti incluso questa poesia infantile nella sua prima raccolta, Via Degli Olmi, del 1920. La nostra autrice non ha bisogno di lavorare e dopo il diploma conseguito all’Istituto Magistrale, si sposa giovanissima, nel 1919, con Dario Gamba, appartenente a una famiglia di incisori e conosciuto sui banchi di scuola. Nascono due figlie, Clelia e Marina, amate da Silvestra in maniera morbosa e assillante; di questo difficile rapporto madre-figlie ci sono numerose testimonianze nella sua produzione poetica, che attinge costantemente dalla sua vita familiare. Questi i titoli delle raccolte di Silvestra Bonetti pubblicate in vita: Via Degli Olmi, 1920, Paura di perdersi, 1924, Odissea in giardino, 1929, Poesie per non morire, 1933. Postuma uscirà invece, nel 1946, la silloge Altre carte, dove in appendice la figlia Clelia, intervi-

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stata sulla personalità materna, racconta d’un sogno avuto da Silvestra nel 1935-’36, sogno dopo il quale non scriverà più – Era il giorno di Pasqua, sul sagrato del Duomo di Brescia le viene incontro un uomo elegantissimo, dai modi melliflui, che le si rivolge in una lingua che non conosceva ma che, affermava lei, poteva essere russo o qualche altra lingua slava; lei faceva continui segni col capo per dimostrargli la sua incomprensione, ma l’uomo insisteva e man mano s’alterava: prostrata, mia madre, dopo un tempo incalcolabile, riesce finalmente a svegliarsi. La poesia della Bonetti è stilisticamente aperta al nuovo, avendo l’autrice interiorizzato la poesia del primo Montale (lesse sicuramente Ossi di seppia nell’edizione torinese del 1928) e del primo Ungaretti (del quale possedeva l’edizione milanese de L’Allegria del 1931) e avendo anche assimilato quella dell’ori­ ginale e poliedrico Guido Gozzano, deceduto nel 1916. Le tematiche invece tendevano a escludere le questioni filosofiche e gli strascichi dolorosi della guerra, limitandosi all’amore, alla famiglia, al cinismo del tempo, alle gioie e delusioni amicali. Silvestra Bonetti morirà il 3 aprile del 1939 a Milano per un’infezione mal curata, a soli trentanove anni.

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Testi

Lungo i filari All’ombra, lungo i filari le panche attendevano quiete gli ospiti rari. Niente di nuovo il cielo diceva solo settembre al suo solito e qualche tuono lontano. Antonio, con un ramo pescava ogni tanto da terra un lombrico, e sorridendo lo interrogava – con calma, come faceva in caserma. 1928

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Non sai Non sai se il canto che senti sia della tua bambina o d’altri esseri umani, né sai perché la nuvola di continuo muta e si perde. Ed hai scordato il compito che ti proponevi al mattino – non sai più s’era il bucato da stendere o il vino da prendere in cantina. Rapita, sfuggi le tue stesse domande stanca ma ferma aspetti che il tempo, semplicemente, passi e che ti tornino in mente presto le faccende dimenticate. 1929

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Una madre Sono una madre insana che vuol restituire le figlie – dar loro una madre più amabile o almeno più ligia al decoro. Non trova però le cicogne che un giorno portaron le bimbe e nemmeno sa dove siano le culle che le cullarono. Dovrà avere pazienza perché non può restituirle, dovrà chiedere aiuto ed esser più dolce con loro. 1930

Lungo i filari e Non sai appartengono alla raccolta Odissea in giardino, Biagini, 1929; Una madre è invece tratta da Poesie per non morire, Edizioni ExVoto, 1933.

Irma Indovina (Terracina 1910-Roma 1948)

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Irma Indovina

Nel panorama letterario italiano Irma Indovina rimane in una posizione appartata, sviluppando solo pochi legami d’amicizia, tenuti riservati fino a sfiorare la segretezza. Soltanto dopo la morte di entrambi, ad esempio, si è saputo dell’amicizia epistolare con Attilio Bertolucci. Fu molto stimata anche da Aldo Palazzeschi, ed è forse per il suo interessamento che Indovina poté pubblicare a Firenze il suo primo libro di poesia, dal titolo fantasioso: Sotto il sole di Knosso con un poeta latino, era il 1931. Irma Indovina nacque a Terracina il 12 novembre 1910 e quasi mai si mosse dalla sua città. Il padre Guido lavorava come magazziniere al Porto-canale di Terracina mentre la madre, Sabina Mancini, era maestra elementare a Gaeta. L’inadeguatezza, l’autoesclusione sociale, l’incontrollabiltà del sentimento amoroso, sono i temi della sua poesia. Irma, in realtà, pur non essendo particolarmente attraente, aveva davvero esagerato con lo sminuirsi e il rinchudersi in se stessa. Si era gettata così negli studi, frequentando con grande profitto la Scuola Tecnica Comunale e in seguito – dopo il diploma del 1928 e grazie all’interessamento di sua madre – andando a lezioni private per oltre due anni dal Prof. Alessandro Filosi, docente di Italiano e preside dell’Istituto. Irma scriverà e leggerà moltissimo, incoraggiata

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prima dal suo professore, quindi dagli scrittori con cui era entrata in contatto epistolare. Irma Indovina ha sempre vissuto in famiglia, lavorando solo saltuariamente come supplente di economia domestica. Dopo quella d’esordio, pubblica ancora due raccolte poetiche: Non lasciatemi sola (1934) e Diario breve (1938); sarà la sua ultima silloge: Irma infatti, tra il ’38 e il ’40 entra in crisi per una delusione amorosa che la lascia ferita e senza speranze. Morirà a Roma, suicida, il 15 maggio 1948, a casa di una zia che aveva tentato inutilmente di aiutarla. Ed è questa zia, Claudia Mancini, sorella della madre, che alla sua morte racconterà ai parenti di un sogno di cui le parlava Irma nell’ultimo anno prima di morire: un Angelo le era apparso tenendo in mano un libro aperto ma lei non conosceva la lingua in cui era scritto e se ne meravigliava. Un episodio che durerà pochi secondi, poi il risveglio. Irma ci scherzava, la zia disse anzi che quando ne parlava, per un po’ pareva s’alleviasse il dolore della ferita.

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Testi

Guerrieri Dovremmo diventare dei guerrieri altro che pecorelle e buon pastore, le nostre armi l’esempio e la parola fino alla morte, eroi, testimoniare. Ma la parola giace in agonia e quali esempi poi sapremmo dare? Possiamo solo chiedere perdono – confessarci prima di morire. 1934

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Rinuncia Impazziva il suo sguardo quella sera mentre esitava il passo sul sentiero – aveva scelto d’andarsene al tramonto appena incerto tra un ramo e un precipizio. Ma all’improvviso abbandonò l’impresa – aveva visto il corvo sulla quercia profeta d’ogni apocalisse. 1938

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La tua primavera Il tepore che ti ruba al presente con calma ti prende e seduce – soltanto alla sera ti lascia. Attendi ogni volta un’altra primavera e invece la stessa ripassa. L’afrore lentamente evapora. 1938

Guerreri è dalla raccolta Non lasciatemi sola, Rinuncia e La tua primavera sono invece da Diario breve (tutte ora in Irma Indovina, Poesie complete, Cultus, 2010).

Carlo Gasperino (Albertville 1913-Parigi 2000)

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Carlo Gasperino

Carlo Gasperino (Albertville, 11 dicembre 1913-Parigi, 15 agosto 2000) è francese solo per nascita e per morte. Ha vissuto in Italia, a Genova, ma ha abitato per brevi periodi anche a Cagliari, Milano e Roma, mutevoli sedi di lavoro del padre. Figlio di Antonio Gasperino, marchigiano di Porto San Giorgio, ferroviere, e di Maria Conti Passini, casalinga toscana, istruita e dai nobili ascendenti, ha pubblicamente coltivato la passione per il canto e per la scultura oltre quella, segreta, per la poesia. Dall’apri­le del 1937 al giugno del 1941 è corista, con voce di basso, nel Chorus Felix di Genova, per poi dedicarsi, finita la guerra, all’amata e impegnativa arte della scultura policroma con lavori in legno, giada e marmo rosa. Notato e valorizzato da Federico Seri attorno al 1970, Carlo Gasperino riuscirà pian piano ad affermarsi e a vivere dignitosamente dai proventi artistici fino alla morte, che lo coglierà a Parigi nel 2000, durante una breve vacanza con la moglie Piera Busetti. Ma il più grande evento da registrare in relazione all’arte del nostro è la straordinaria scoperta delle sue poesie nel 2010, a dieci anni dalla morte. Sono 76 le poesie rinvenute in un bauletto di effetti personali nel dicembre di quell’anno, bauletto che a sua volta è stato ritrovato nel palazzo fiorentino della famiglia materna.

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Di questa sua passione non c’è traccia né “sospetto” tra i familiari e gli amici, forse era celata alla stessa moglie, deceduta nel 2009. Si è poi saputo, solo pochi anni fa, da un nipote, che il poeta, prima di partire per il suo ultimo viaggio a Parigi, fece un sogno enigmatico: era stato rinchiuso in una stanza dove, ogni pochi minuti, entrava un uomo tarchiato e maldestro, che cercava di iniziare un discorso senza riuscirci; ogni volta proferiva qualche strana parola con tono gentile ma poi niente, voltava le spalle e usciva, chiudendo la porta con due giri di chiave. Carlo Gasperino ci aveva rimuginato a lungo, per alcuni giorni, ma poi la sua morte improvvisa a Parigi, distolse tutti, familiari e amici, dall’enigma del sogno. Come per Kavafis, anche per Gasperino non è il numero dei testi che conta ma la loro intrinseca, costante e irraggiungibile qualità letteraria. Si tratta di 74 poesie e 2 traduzioni (da Yeats, The Mother of God, e da Eliot, Morning at the Window). Le 76 poesie sono state pubblicate in esclusiva nel 2011 da Enneadi, per le cure di Alessandro File: Cerimonia del nulla, con ampia introduzione del curatore. E qui scopriamo che Gasperino, nel dicembre 1938, aveva inviato qualche verso, addirittura, a Benedetto Croce e che questi, in una pronta risposta del 3 gennaio 1939, affermava: Stavo per dirvi: “insistete, Signor Gasperino!” quando m’accorgo che quanto c’è da cercare Voi già l’avete trovato!; e tra la corrispondenza privata è stata rinvenuta anche una breve lettera di Francesco Flora del 1960, evidentemente anch’egli messo a parte di qualche verso dal nostro autore (Gentile poeta, sappia che erano anni che non m’infervoravo per la poesia d’un vivente…). Sono stati forse questi incoraggiamenti, rimasti peraltro segreti in vita, a deciderlo definitivamente per la poesia. Bisogna dire che la miglior critica si è subito occupata di questa raccolta, destinata, salvo ulteriori scoperte, a rimanere l’unica di Carlo Gasperino. Oltre ad Alessandro File, hanno scritto sulla sua poesia: Alfredo Cioni, Silvia Sama, Daniela Spinelli, Josef Corteanu, Davide De Francisci, Francesco Lori, Jean Urtis, Kevin Lowell. Per la

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poesia di Gasperino si è parlato di “manutenzione della metafisica” (Cioni), di “realismo visionario” (Sama), di “figurata pensosità” (Lori), a dimostrazione della sua densità e del suo ampio spettro estetico.

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Testi

Cerimonia del nulla Nel biglietto d’invito era ossequioso in ciascuno chiudeva: “L’aspetto fiducioso”. La festa era la sera degli Angeli, il due agosto. Quel giorno, all’ora del tramonto, tutto era pronto: accesi i candelabri, i tavoli imbanditi la piccola orchestra che prova gli strumenti il salone, al centro, già vuoto per le danze. Ma l’attesa fu vana, e fu snervante. A mezzanotte, insonne, aperte le finestre solo, ascoltava la voce delle onde. 1934

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Cerco ancora Cerco ancora un amore adolescente – trova le sue tracce nelle ragazze d’allora questa mente che non s’arrende. Passerà nel sonno dell’alba l’atteso volto – nel sogno c’è sempre una nuova avventura. 1970

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Con quali amici Con quali amici e cosa dirsi, oggi che il focolare è tiepido delle passioni e la memoria vacilla. Con quali parole, se fatichiamo a trovarle – se dobbiamo resuscitare addirittura quelle sepolte. Siamo nel gorgo e non ce ne accorgiamo – guardiamo in faccia quello che crediamo il mondo nuovo, e ne moriamo. 1991

Tutte le poesie sono tratte da Carlo Gasperino, Cerimonia del nulla, a cura di Alessandro File, Enneadi, 2011.

Marianna Concordia (Rimini 1936-Bologna 1996)

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Marianna Concordia

Marianna Concordia è una voce autorevole e imprescindibile della nostra poesia novecentesca. Nasce a Rimini il 4 marzo 1936 e, dopo un’adolescenza difficile, trova pian piano la sua strada artistica e sentimentale nella città di Bologna. Studia al Conservatorio Musicale Giovanni Lettimi di Rimini diplomandosi in Composizione nel giugno del 1955. Nel 1956, dopo l’ennesimo litigio con i genitori (Claudio e Isotta De Rossi, entrambi impiegati comunali), lascia Rimini e si trasferisce a Bologna. Inizia un periodo di ambientamento, nel quale si alternano due brevi convivenze e lunghi periodi di solitudine durante i quali sperimenta la scrittura poetica. Conosce il poeta e scrittore Roberto Roversi nel 1958 ed è resa da lui partecipe della gestazione della raccolta Dopo Campoformio (pubblicata da Feltrinelli nel 1962). Marianna sposerà nel 1960 un ferroviere emiliano, Giovanni Ferrini, dal quale avrà tre figli. Dopo brevi esperienze lavorative, saltuarie e insoddisfacenti, si dedicherà completamente alla militanza politica nel partito comunista bolognese e all’amata poesia (aveva infatti abbandonato presto l’idea di cercare una realizzazione in campo musicale). Sul finire degli anni ’60 escono, a breve distanza di tempo, le raccolte Colonia marina (1966), Artifici (1967), Convento laico (1969) che

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testimoniano come anche la fede religiosa, oltre quella politica, sia materia prima della sua arte poetica. Marianna Concordia raggiungerà notorietà nazionale negli anni settanta, quando fonderà a Bologna la rivista letteraria Contraltare (1972-1979) e vincerà la prima edizione del Premio Roma – Corazzini con la silloge Viatico per non partire, edita da Poletti nel 1978. Stilisticamente irrequieta, magmatica, spesso virante verso la sperimentazione di nuove forme espressive, la poesia di Concordia ha facilmente trovato un pubblico numeroso e molto variegato di lettori. Negli anni ottanta escono Saldi di gloria (1984) e Poesie ferroviarie (1986). Nel 1992 vengono pubblicate le Poesie complete, a cura della casa editrice Via Emilia, mai più però ristampate e divenute ormai introvabili. Marianna muore a Bologna il 7 febbraio 1996. Del sogno di Marianna Concordia s’è saputo solo di recente, quando l’anziano marito ne ha parlato nel 2017 negli uffici dell’editore Cultus, che sta curando l’edizione completa delle poesie e degli articoli apparsi in rivista. Si tratta d’un sogno avuto poco prima della nascita del terzo figlio, Alessandro, nel 1965. Marianna aveva raccontato di trovarsi in una vastissima biblioteca, molto affollata e disturbata da molti bisbigli, quando le si avvicina – lei china su un tomo settecentesco – un giovane studente che sembrava essere italiano il quale le si rivolge invece in una lingua incomprensibile. Marianna si alza per cercare l’aiuto di qualche altro studioso presente, ma s’accorge ben presto che lo studente è scomparso, svanito, e il sogno con lui.

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Testi

Trame Tramano contro il vicario del Signore sono nemici d’ogni volontario, tramano contro la propria religione amici finti che tendono la mano. Nelle omelie s’insinuano perfino e nei consigli di amministrazione ma sfuggir loro è sforzo sovrumano se noi per primi contro di noi tramiamo. 1969

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A Don Carmelo «Molti sono i chiamati, pochi gli eletti» (Mt 22,14)

Così concludeva ogni omelia senza più ricordarne la ragione un voto, un anatema – o solo un’ossessione, un suo puntiglio? Eppure, mai sospiro si levava a quella caparbia citazione aveva un uditorio solidale, aperto alla Parola ed al consiglio. E aveva poi un’altra fissazione: parlava dal pulpito in disuso aumentando il volume ad ogni frase, tenendoli così tutti nel   [pugno. Ma il piccolo suo popolo l’amava, ognuno sperando l’elezione decifrava paziente l’omelia, trovando sempre arcana    [redenzione. Non è dato sapere se quei pochi riuscirono ad essere gli eletti è certa solo l’adunata, puntuale ogni domenica in navata. 1972

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Senza più corpo Senza più corpo, quando saremo là – solo la voce, forse, ma fioca Eppure ci riconosceremo lo stesso scoppieranno improvvisi “Eccolo, Eccola!”, “Amore sono qui” Qualcosa di noi rimarrà, in forma diversa e al di fuori del tempo l’attesa sarà breve e tremenda – udremo il temuto verdetto affogando in vergogna e sorpresa. 1973

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Enigmistica e altro Colpi, corvi, corti, corpi – slitta una lettera alla volta in questo gioco dal respiro corto, attento a non ritrovarti presto nel corpo d’un imbecille. È come una condanna, alla fine non te ne accorgi Giovanni? Quel giornale è diventato un vizio più d’un fotoromanzo o del vino. – Su, vieni al ciclostile ad aiutarmi domani ho il primo tram del mattino. Ho già messo a letto i bambini. Alle otto al telegiornale dicono ch’è stato assassinato Pasolini. 1975

Tutti i testi sono in Marianna Concordia, Poesie complete, Via Emilia Edizioni, 1992.

Kevin Stafford (Limerick 1941-Dublino 1989)

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Kevin Stafford

Kevin Stafford nasce a Limerick il 2 agosto 1941. Studia Diritto all’Università di Dublino ed esercita per alcuni anni la professione di avvocato, che lascia nel 1975 per entrare come funzionario nell’ufficio legislativo del Parlamento irlandese. Particolarmente sensibile alle battaglie ecologiste, andrà a vivere a Lucan, nelle campagne fuori Dublino, subito dopo aver assunto il nuovo incarico. Non si sposa ma stringe una grande amicizia con Barbara Dockerty, collega di università, che gli contagia la passione per la poesia. Nel 1971 pubblicano addirittura insieme il primo libro, Caisleáin véarsaí (Castelli di versi), presentandosi come coautori di una raccolta di poesie naturalistiche in lingua irlandese. In seguito però i due amici proseguono autonomamente: Barbara, più intimista e devota ai grandi maestri della poesia irlandese, non cresce in originalità e si limita a una poesia compositiva, quasi esclusivamente ambientata in campagna; Kevin invece crescerà molto in sensibilità e qualità del verso. Una bella raccolta di testi è dedicata ai Fari d’Irlanda (è del 1973 ed è in lingua inglese), un’altra al rapporto sofferto tra legislazione formale e giudizio concreto (Questioni di coscienza, 1976). Nel 1980 Kevin Stafford pubblica Selected Poems, dove l’orizzonte si espande ulteriormente: per la prima

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volta troviamo la poesia d’amore e la poesia autointerrogante, oltre alla rivisitazione di temi religiosi e filosofici. Alterna il sonetto al verso libero, spesso dedica le poesie ad amici e poeti viventi e ama leggere in pubblico i suoi versi, in modo estemporaneo, all’improvviso, nei pub (“devo farlo, ne ho bisogno come l’acqua”, diceva). Riceve in patria numerosi premi letterari e a partire dal 1985 è tradotto in francese, italiano, polacco e in diverse altre lingue nordeuropee. Muore prematuramente a Dublino il 15 maggio 1989. Il sogno di Kevin viene raccontato da Barbara Dockerty in alcune interviste, successivamente alla sua scomparsa. Si erano conosciuti da poco a lezione di Diritto Internazionale, e una sera, improvvisamente, mentre erano seduti in un locale a bere qualcosa, Kevin le disse: stanotte ho sognato una cosa stranissima – ero a Londra, ad Hyde Park, qui sento una bella melodia e m’accorgo di un ragazzo che strimpella con la chitarra, mentre mi avvicino sembra riconoscermi e mi rivolge la parola, ma parla una lingua mai sentita, secondo me inesistente. Il sogno è tutto qui. Ma mi chiedo davvero cosa possa significare. Barbara confessa di essere rimasta più sbalordita di lui e di non aver poi più avuto l’occasione, o forse il coraggio, di riparlarne.

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Testi

Faro di Hook Head (XIII secolo) – Faro tra i primi del mondo mi dice Francis stanotte – Guarda non sembra aver dentro un cuore umano che batte? Non pare anche l’anima illumini se resti un minuto a guardare? – Sì, mi strega quel doppio colore la sua luce e il guardiano che sale la notte che muore nel giorno. Mi strega come fosse una donna mi strega come fosse l’amore! 1972

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Perché la poesia «Sorella minore, Cenerentola maltrattata» di te diceva il mio professore. Ma per me sei una Fata e chi t’ode è sì innamorato che mai più ti lascia. Con quelle parole forse sperava t’amassimo per compassione. Non capiva, il mio professore che il Principe che t’aspettava era solo il Lettore. 1979

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Notte insonne Chi devo ringraziare per questa notte insonne che senza luna splende di mistero? È lei a tenermi sveglio in queste ore – il suo volto dolce che riappare sottratto al tempo che impietoso scorre. È lei che ho accanto proprio ora – la sua pelle, bianchissima nel buio per miracolo è intatta, l’accarezzo. È lei che canta la melodia che sento – da un’altra età mi giunge ricantata. Se mi chiedessero – quando vuoi morire? risponderei che lo vorrei adesso. 1980

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Le ferite Anche se distenderai lo sguardo verso Nord o perlustrerai l’intero lago di Lough Inagh, anche se attraverserai l’altopiano di Burren o tutte le nove gole di Antrim, amico non riuscirai a vedere le ferite. Pulsano ancora sotto la mia terra che ai pleniluni trasuda il loro sangue. Esse s’aprirono per le carestie quando il dolore era troppo grande. 1982

Da Kevin Stafford, Poesie, tr. it. di Alessandro Ceni, Cultus, 2007.

Gherardo Finzio (La Spezia 1980-Alghero 2016)

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Gherardo Finzio

Il padre di Gherardo Finzio lavorava a La Spezia, all’Arsenale della Marina, la madre, Nadia Salerno, era casalinga. Il poeta nacque il 31 ottobre del 1980 e da ragazzo aveva soltanto la modesta ambizione di fare il mestiere del padre. Si laurea invece a Genova in Architettura e lavora nello studio di Renzo Piano fino alla morte, che lo coglie, a soli trentasei anni, ad Alghero, dove si trovava per un concorso universitario. Finzio esordisce come poeta nei blog letterari, siamo nei primissimi anni duemila. Pubblica in proprio il suo primo libro, Tribolazioni e altre tribolazioni, nel 2004. Viene così notato dalla miglior critica del momento e incoraggiato a proseguire con la scrittura poetica. Arrivano dopo qualche anno le due fondamentali raccolte: Versatile, nel 2008 e Campi minati, nel 2011. Con Gherardo Finzio, siamo di fronte a una poesia sofferta e ragionata, a volte cinica e amara altre volte quasi spiritosa, che ci conquista per l’alternarsi di sentenziosità e dolcezza, oltre che per la nitidezza del ragionamento. Nel suo verso libero c’è sempre un movimento stilistico inatteso, una ricerca continua di nuove espressioni e nuove mete. Ci sentiamo di dire che Finzio lascia un segno importante tra i poeti della sua generazione, una piccola grande lezione sul rapporto tra poesia e contemporaneità, tra Novecento

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imprescindibile e nuove aperture del verso e dello sguardo. Una piccola casa editrice sardo-romana ha appena pubblicato tutte le sue poesie. Sogna anche Gherardo, naturalmente, e il sogno lo racconta lui stesso nel 2014, nel suo profilo Facebook. Mentre sale su un sentiero di montagna, da solo, gli viene incontro un vecchio boscaiolo; siamo nei pressi d’Asiago e il boscaiolo gli ricorda Mario Rigoni Stern; ma l’uomo, avvicinatosi, lo delude: con fare burbero gli chiede più volte la stessa cosa, ma in una lingua incomprensibile, probabilmente inesistente. Su Facebook gli amici ci scherzano su, e alla fine anche lui. Noi no.

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Testi

Qui Qui non c’è traccia che di qualche pensiero perso – n’è indizio l’eco di parole sparse rimaste dentro dopo le brevi soste tra la nuca e la fronte. Quando, sempre più raramente ti capito davanti, le sento di nuovo parlarmi provare a ridirli i pensieri avuti che per un momento furono chiari e fermi. Invece non c’è traccia di quelli più convincenti che avrei dovuto, per te, trovarmi ancora in mente perché i primi a svanire sono proprio quelli – i pensieri che non sai dire, i più belli quelli che dimentichi. 2000

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Adolescenza Adolescenza, tempo inclemente sfida impossibile per fragili difese alle domande risponde col silenzio o con un fiume di discorsi inconcludenti. Età che non ci avverte di morire ci consegna innocenti alle tempeste e prima di lasciarci dolcemente illude     a volte uccide. 2001

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Confondere l’amore con l’amore Confondere l’amore con l’amore era così facile in città ma d’estate, nella casa di campagna le cose non restavano a metà. 2011

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Non solo droni Arriveranno a stormi ci guarderanno tutti i giorni fingendo di disperdersi nel cielo che invece li protegge. Ci cercheranno senza bisogno di decreti fin dentro il fondo delle notti grazie ai motori silenziosi. E anche se ci sentiremo più protetti avendo sempre addosso i loro occhi verrà l’ultimo giorno troppo presto. Scopriremo d’essere spariti dalla rete che nessuno risponde alle chiamate e che un’auto nera ci attende a luci spente proprio qui sotto, nella notte che splende. 2014

Tutti i testi ora in Gherardo Finzio, Pane quotidiano (Tutte le poesie), Nuovo Canone, 2020.

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Postfazione

Quando lessi questa antologia, speditami dall’Editore, rimasi senza parole: non sapevo cosa dire, come definirla e cosa decidere in merito alla pubblicazione. Inizialmente avevo dato uno sguardo fugace all’indice e, senza ancora essermi accorto di niente, avevo intrapreso la lettura. Arrivato al terzo poeta non avevo resistito e, per togliermi di dosso il peso dell’ignoranza, ero ricorso a Google: tutti e tre i poeti letti fino a quel momento mi erano infatti sconosciuti. Scoprii così che si trattava di un’antologia di poeti immaginari. Ma non poteva finire qui, declinando l’invito. Mi resi presto conto che ciò che avevo letto era anche, realmente, quel che Antonio Fiori diceva che fosse, ovvero una suggestiva antologia di poeti scelti per aver fatto lo stesso sogno. Ed era anche, certamente, una sua personalissima scelta poetica, un modo originale per scrivere la sua poesia. Al lettore è allora richiesto il piccolo sforzo di almeno due letture: la prima fingendo di non sapere che i poeti sono immaginari, la seconda pensando a un unico autore che, come un romanziere, ha inventato i suoi personaggi (i poeti del sogno) e li ha fatti parlare (con le loro poesie) ma solo come pretesto, solo per riuscire a scrivere la propria poesia.

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A questo proposito, bisogna riconoscere fondatezza e utilità alla teoria di Balley, ovvero a quella sorta di stroboscopia applicata alla critica letteraria che consente di individuare se vi siano altre voci dentro la voce narrante, e quali e quante. Arthur Balley, in realtà, usa più precisamente il termine di authorial voices, voci autoriali, che si manifestano dentro la writing voice, la voce scrivente e che possono esprimersi sia alternativamente che simultaneamente durante la narrazione (cfr. A. Balley, The Multiple Author, Oxford, 1977). Orbene, senza volerci porre il problema del primato tra Opera e Autore, si può facilmente far riferimento a Balley anche quando ci si trova di fronte, come in questo caso, al fenomeno opposto, ovvero ad autori che artefattamente utilizzano più voci scriventi con la stessa voce autoriale. Non dobbiamo allora preoccuparci di individuarle queste voci – subito manifeste – bensì andare a verificare se ciascuna di esse riveli una personalità minima, autonoma e autosufficiente. Dovremmo insomma chiederci se Lucio Faleno Magno, benché frutto dell’immaginazione, non si ritrovi anche con una voce propria, una personalità minimamente autonoma che ce lo rende, alla fine, reale. Io credo che questo sia accaduto per molti dei poeti di questa antologia, per quanto breve sia lo spazio dedicato alle loro biografie ed esiguo il numero dei loro testi. I testi, per l’appunto. A una prima riflessione sembrano avere un che di mostruoso, poiché sono fatti di brandelli di carne e d’invenzione, scampoli di vissuto e di menzogne, autenticità e artificio. Dentro di loro davvero convivono più voci e più autori: nei poeti del Novecento, per esempio, gorgheggia anche il nostro; spesso il suo verso annaspa per farsi sentire, invoca aiuto, chiede di essere riconosciuto. Ma la sua presenza fantasmatica la possiamo avvertire anche nei testi dei secoli anteriori, in quelli di Jules Tassard, ad esempio, nascosta dentro una improbabile canzone secentesca. Ma è necessaria un’ulteriore riflessione, affinché il discorso sui testi possa trovare senso e

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compimento. Affermavo all’inizio che questa antologia, per Antonio Fiori, è solo un pretesto, un escamotage, per riuscire a scrivere la sua poesia; ne resto convinto ma credo anche che, in questo crogiuolo di storie, sogno e poesia in cui si è andato a cacciare, abbia voluto cercare il suo tempo interiore e, forse, nascosto sotto mentite spoglie, sorprendere e decifrare il proprio destino. Ma anche nelle biografie si agitano i sentimenti dell’autore. Come sinceramente invidia a Carlo Gasperino quelle lettere di encomio scritte da Benedetto Croce e Francesco Flora; come lo emoziona Assunta, la bellissima moglie di Aldo Domenico Coviello; quanto è partecipe dei fermenti del giovane Gherardo Finzio, dei ragionamenti e delle premonizioni che animano le sue poesie. Estremamente intrigante risulta poi il sogno e il suo linguaggio inesistente. Questo linguaggio infatti, incomprensibile al sognatore, non è tanto un linguaggio immaginario quanto invece un linguaggio ultraterreno, che solo per tale ragione non può essere tradotto. In questa antologia dunque si va oltre il suggerimento di Jorge Luis Borges (che invitava a esercitare l’immaginazione inventando opere immaginarie da attribuire ad autori reali o a inventare autori mai esistiti cui attribuire opere altrui) e ci si concede la rischiosa libertà di inventare sia l’autore che l’opera. Ma c’è un prezioso supplemento di libertà: quello offerto dalla possibilità di far dire a un poeta immaginario, in una poesia (apparentemente) immaginaria, quello che il poeta (vero) non riesce a dire quando scrive la sua poesia. Ecco, credo sia questa l’occasione che ci offre l’antologia: riflettere su quale “verità” si possa nascondere nell’immaginazione e nella scrittura e su quanto possa essere avventurosa la ricerca dell’autore. Avrei voluto intervistarlo, Antonio Fiori, ma è risultato impossibile. Si è sempre sottratto con scuse, devo dire, abbastanza ridicole, tanto che, non conoscendolo di persona e non creden-

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do alla timidezza di un sessantenne, sono arrivato a mettere in dubbio la sua esistenza, a pensare che, come i suoi poeti, anche Antonio Fiori non sia mai esistito. Donato Angeli

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Indice

Presentazione di Antonio Fiori

p. 9

Lucio Faleno Magno (Roma 63 a.C.-Roma 14 d.C.)

p. 11

Estella Ruiz Blanco (Valenza 1510-Madrid 1554)

p. 19

Jules Tassard (Nantes 1662-Orléans 1723)

p. 27

Aldo Domenico Coviello (Napoli 1779-Napoli 1840)

p. 35

Olga Taraskova (Mosca 1801-San Pietroburgo 1877)

p. 43

Michael Bronson (Filadelfia 1822-Charleston 1867)

p. 51

Silvestra Bonetti (Brescia 1900-Milano 1939)

p. 59

Irma Indovina (Terracina 1910-Roma 1948)

p. 67

116

Carlo Gasperino (Albertville 1913-Parigi 2000)

p. 75

Marianna Concordia (Rimini 1936-Bologna 1996)

p. 85

Kevin Stafford (Limerick 1941-Dublino 1989)

p. 93

Gherardo Finzio (La Spezia 1980-Alghero 2016)

p. 101

Postfazione di Donato Angeli

p. 109

Margini Collana di letterature e scritture non canoniche Diretta da

Filippo La Porta

1. Andrea Di Consoli, Diario dello smarrimento. 2. Aurora Bertrana, Paradisi oceanici. 3. Antonio Fiori, I Poeti del sogno. Piccola antologia.

I Poeti del sogno Dodici poeti che vengono dal passato, che forse non si sono mai letti tra loro ma che sono uniti misteriosamente da un sogno comune, nel quale vengono interrogati in una lingua inesistente. Da Lucio Faleno Magno, patrizio romano, a Gherardo Finzio – architetto e poeta – che del sogno da conto su Facebook, veniamo a conoscenza di autori dalla spiccata personalità, che hanno reazioni molto diverse davanti all'enigma del sogno. Ne conosceremo le biografie, la produzione poetica e alcuni testi scelti. Ma in questa antologia scopriremo soprattutto le capacità mimetiche della ‘verità’ letteraria e fin dove possa spingersi il poeta con l'immaginazione.

Antonio Fiori è nato a Sassari nel 1955. Nel 2004 è tra i sette poeti vincitori per la silloge inedita al Premio Montale Europa e nel 2019 ha ricevuto il riconoscimento ‘Per una vita in poesia’ al Premio Lorenzo Montano. Ha pubblicato: Sotto mentite spoglie (Manni, 2003), La quotidiana dose (Lietocolle, 2006), Trattare la resa (Lietocolle, 2009), In merceria (Delfino, 2012), Nel verso ancora da scrivere (Manni, 2018). Suoi testi sono apparsi su ‘L’immaginazione’, ‘Mathesis’ e ‘Gradiva’. Dal 2015 collabora come recensore al mensile ‘Poesia’. È stato giurato del Premio Letterario Internazionale Città di Sassari.

Margini | 3 € 6,00

Collana diretta da Filippo La Porta

ISBN ebook 9788855291156