Per respirare a due polmoni. Chiese e culture cristiane tra Oriente e Occidente. Studi in onore di Enrico Morini 8869234053, 9788869234057

"Colleghi e amici hanno voluto offrire un omaggio a Enrico Morini, studioso di fama internazionale, il cui rilevant

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Per respirare a due polmoni. Chiese e culture cristiane tra Oriente e Occidente. Studi in onore di Enrico Morini
 8869234053, 9788869234057

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DISCI

DIPARTIMENTO storia culture civiltà

Studi antropologici, orientali, storico-religiosi

Collana DiSCi Il Dipartimento di Storia Culture Civiltà, attivo dal mese di ottobre 2012, si è costituito con l’aggregazione dei Dipartimenti di Archeologia, Storia Antica, Paleografia e Medievistica, Discipline Storiche Antropologiche e Geografiche e di parte del Dipartimento di Studi Linguistici e Orientali. In considerazione delle sue dimensioni e della sua complessità culturale il Dipartimento si è articolato in Sezioni allo scopo di comunicare con maggiore completezza ed efficacia le molte attività di ricerca e di didattica che si svolgono al suo interno. Le Sezioni sono: 1) Archeologia; 2) Geografia; 3) Medievistica; 4) Scienze del Moderno. Storia, Istituzioni, Pensiero politico; 5) Storia antica; 6) Studi antropologici, orientali, storico-religiosi. Il Dipartimento ha inoltre deciso di procedere ad una riorganizzazione unitaria di tutta la sua editoria scientifica attraverso l’istituzione di una Collana di Dipartimento per opere monografiche e volumi miscellanei, intesa come Collana unitaria nella numerazione e nella linea grafica, ma con la possibilità di una distinzione interna che attraverso il colore consenta di identificare con immediatezza le Sezioni. Nella nuova Collana del Dipartimento troveranno posto i lavori dei colleghi, ma anche e soprattutto i lavori dei più giovani che si spera possano vedere in questo strumento una concreta occasione di crescita e di maturazione scientifica. Direttore della Collana Paolo Capuzzo (Direttore del Dipartimento) Codirettori Francesca Cenerini, Antonio Curci, Cristiana Facchini, Carla Giovannini, Giuseppina Muzzarelli, Francesca Sofia (Responsabili di Sezione) Comitato Scientifico Archeologia Mauro Menichetti (Università degli Studi di Salerno) Timothy Harrison (University of Toronto) Geografia Michael Buzzelli (University of Western Ontario) Dino Gavinelli (Università degli Studi di Milano) Medievistica Chris Wickham (All Souls College, University of Oxford) Giuseppe Sergi (Università degli Studi di Torino) Scienze del Moderno. Storia, Istituzioni, Pensiero politico Silvio Pons (Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”) Paula Findlen (Stanford University) Storia Antica Arnaldo Marcone (Università degli Studi Roma Tre) Denis Rousset (École Pratique des Hautes Études, Paris) Studi antropologici, orientali, storico-religiosi Nazenie Garibian (“Matenadaran”, Scientific Research Institute of Ancient Manuscripts – Yerevan, Armenia) Ruba Salih (School of Oriental and African Studies, University of London)

Per respirare a due polmoni Chiese e culture cristiane tra Oriente e Occidente Studi in onore di Enrico Morini

a cura di Martina Caroli, Angela Maria Mazzanti e Raffaele Savigni

Bononia University Press

Il volume è pubblicato con un contributo delle arcidiocesi di Bologna e Ravenna I saggi sono stati sottoposti a blind peer review

Bononia University Press Via Ugo Foscolo 7 40123 Bologna tel. (+39) 051 232882 fax (+39) 051 221019 © 2019 Bononia University Press ISSN 2421-0099 ISBN 978-88-6923-405-7 ISBN online 978-88-6923-551-1 www.buponline.com [email protected] I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. In copertina: Santi Pietro e Paolo, miniatura, sec. XII, Biblioteca Universitaria di Bologna, Ms. 2775, c. 216r (© Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, Biblioteca Universitaria di Bologna). Impaginazione: DoppioClickArt – San Lazzaro (BO) Prima edizione: maggio 2019

Sommario

Breve proemio Gennadios Zervos

IX

Prefazione XI Martina Caroli, Angela Maria Mazzanti, Raffaele Savigni La tarda antichità Osservazioni su di un passo di I Petri in Origene Antonio Cacciari

3

Una nota sulla possessione, il teatro e i santi folli per Cristo Luigi Canetti

23

La lunga durata della unzione sacra Antonio Carile

33

Protagonisti e istituzioni ecclesiali tra la Grande Persecuzione e il Concilio di Nicea. La Chiesa-una nell’evoluzione della storiografia eusebiana Davide Dainese

37

Materiali per uno studio della Vita di san Giovanni nel pozzo nella tradizione greca e armena Chiara Faraggiana di Sarzana, Francesco Moratelli, Anna Sirinian

63

Iconografie del Risorto nella basilica di Sant’Apollinare Nuovo di Ravenna Giovanni Gardini

87

Creato ad immagine. Un’indagine sull’uomo in Filone di Alessandria Angela Maria Mazzanti

107

Matrimonio e separazione dei coniugi nella Francia di Gregorio di Tours Valerio Neri

127

Straniero nel mondo straniero al mondo. La xeniteia del monaco tardoantico tra etica e antropologia Alba Maria Orselli

139

L’oratio continua in Barsanufio e Giovanni di Gaza Lorenzo Perrone

155

Girolamo e Paola ai loca sancta Francesco Pieri

179

La corrispondenza tra Costantino e Antonio. Linee di sviluppo della notizia da Atanasio fino a Sozomeno Fabio Ruggiero

199

Il Medio Evo Le componenti orientali della tradizione rituale ambrosiana Cesare Alzati

217

I due Sergi? Nota su papa Sergio IV Glauco Maria Cantarella

233

Batilde e gli altri. Costruttori d’imperi in terra come in cielo. Appunti sul regno di Ludovico il Pio (814-840) Martina Caroli

245

A War of Languages? Greek and Latin in the confrontation between Pope Nicholas and Patriarch Photius Evangelos Chrysos

261

Un sigillo di un nipsistiarios dalla Sardegna bizantina Salvatore Cosentino

279

L’ultimo abito. Vestizioni religiose in punto di morte nel basso Medioevo Francesca Fiori

285

Romeon gubernator. Tracce di polemica anti-bizantina nella Lettera del Prete Gianni 297 Marco Giardini The epopee of the Italo-Greek monasticism: From splendor to ruin and survival Ines Angeli Murzaku

315

I viventi dell’Apocalisse. Appunti sulla Pentarchia Nicola Naccari

373

Maria, Madre della Chiesa, nel monastero armeno di Axt‛ala: un percorso ecumenico tra liturgia e arte Riccardo Pane

389

Il contesto numismatico tessalonicese dopo la IV crociata. Influssi iconografici e rielaborazioni ideologiche tra Oriente e Occidente Margherita Elena Pomero

407

Elementi architettonici nella pieve dei Ss. Vito, Modesto e Crescenzio (Ferrara): considerazioni e ipotesi Paola Porta

431

I trattati “adversus Graecos” di Enea di Parigi e Ratramno di Corbie Raffaele Savigni

449

L’età moderna e contemporanea La sobornost’. Un altro concetto della conciliarità Angelica Carpifave

479

Per manum pontificis et presidentis Corcyrae et episcopi Citheree: Ο τίτλος του επισκόπου Κυθήρων και ο συμβολισμός του (1580) Chryssa Maltezou

487

Due esempi di devozione della sindone a Bologna nel XVI secolo: Gabriele e Alfonso Paleotti Flavia Manservigi

499

Il Libellus ad Leonem X e le Chiese cristiane orientali Umberto Mazzone Gli obelischi di nuovo innalzati e la Chiesa “imperiale” romana di papa Sisto V (1585-1590) Ramón Teja, Giorgio Vespignani

511

527

Autori 539 Tabula gratulatoria 545

Breve proemio

Sono particolarmente felice e mi congratulo con gl’illustrissimi professori Raffaele Savigni, Angela Maria Mazzanti e Martina Caroli, per la loro nobile iniziativa di dedicare un volume scientifico, di dedicare una preziosa raccolta di studi «incentrata sulla storia delle culture cristiane nel Mediterraneo» all’illustrissimo professor Enrico Morini, insigne specialista, molto noto per i suoi studi anche al di fuori dei confini nazionali, in modo particolare per le sue celebri opere sul monachesimo bizantino, sulla Pentarchia, opere apprezzate a livello mondiale. Si tratta di una straordinaria personalità, di un uomo di fede, di amore e di unità, nonché di speranza, che ha partecipato alle diverse fasi del Dialogo della Carità, prodromico al Dialogo Teologico. I cinquant’anni di studi, il suo carismatico impegno e la sua fiduciosa attenzione sull’importante tema dell’ecumenismo lo hanno presentato al mondo come una figura non solo nobile e colta, ma anche di preghiera e di unità. Le sue famose opere sulla spiritualità ortodossa, note per il rigore scientifico e senso di responsabilità per le ricerche storiche, per la diligenza nell’indagine su temi che riguardano le altre chiese cristiane, fanno sì che il professor Enrico Morini goda nell’Ateneo Bolognese di un singolare prestigio, di sincera stima e affetto per la sua intensa attività scientifica. Gli ortodossi, dal canto loro, nutrono nei confronti del chiarissimo professor Enrico Morini un sentimento di profonda considerazione e autentica riconoscenza per il suo lavoro storico-scientifico non solo come professore dell’Università di Bologna, ma anche per il notevole contributo scientifico e religioso nel mondo, nella società e nella vita tra i popoli. I suoi studi scientifici: Il monachesimo greco in Calabria… e i suoi insegnamenti Storia e istituzioni della Chiesa Ortodossa, Storia religiosa dell’Oriente Cristia-

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Breve proemio

no, altri sui santi e le reliquie, il suo interessamento per il governo della Chiesa, in particolare i suoi interventi-dibattiti su temi storico-dottrinali, come ad esempio Il Patriarca dell’Occidente, costituiscono da parte di un professore, per quanto non ortodosso, un contributo ricco di verità storico-teologiche che può contribuire alle ricerche storico-culturali o religiose, all’approfondimento del dialogo ecumenico, dialogo che sarà caratterizzato dagli eterni messaggi del Vangelo, se sarà illuminato dalla luce della Santissima Trinità, se avrà come meta la realizzazione della volontà del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo: “Che tutti siano una cosa sola”. Le sue opere storiche, come – ad esempio – La Chiesa Ortodossa. Storia, disciplina, culto, Gli ortodossi, Il Cielo sulla terra…, Identità delle Chiese Orientali Cattoliche, Elia lo Speleota costituiscono un’efficace chiave per aprire la porta del dialogo ecumenico, contribuire alla soluzione di problemi e difficoltà e spianare la strada dal fanatismo, dall’odio, dall’egoismo e dagli errori. Prof. Dr. Gennadios Zervos Metropolita-Arcivescovo Ortodosso d’Italia e Malta

Prefazione

Gli studi del collega ed amico prof. Enrico Morini sulla Chiesa ortodossa, sul monachesimo bizantino, sulla pentarchia sono noti ed apprezzati a livello internazionale per il loro rigore scientifico e per la forte attenzione al dialogo ecumenico tra le Chiese cristiane d’Oriente e d’Occidente. In occasione del suo collocamento a riposo (che non interrompe però la sua feconda ed appassionata attività di ricerca) abbiamo voluto festeggiarlo dedicandogli questa raccolta di studi. Abbiamo perciò coinvolto nell’iniziativa altri amici e i colleghi, che apprezzano l’intensa attività da lui svolta in quasi cinquanta anni di studi e l’impegno profuso per la promozione, in ambito didattico, di una disciplina presente in Italia solo nell’Ateneo bolognese. Siamo lieti di offrirgli questa raccolta di studi, incentrata sulla storia delle culture cristiane nel Mediterraneo, nella convinzione che una riflessione a più voci e di taglio rigorosamente storico sui percorsi spirituali ed istituzionali intrapresi dalle Chiese cristiane non possa che favorire un dialogo tra le diverse culture. Martina Caroli, Angela Maria Mazzanti, Raffaele Savigni

La tarda antichità

OSSERVAZIONI SU DI UN PASSO DI I PETRI IN ORIGENE

Antonio Cacciari

1 Pt 1,18-19 nelle opere e nel pensiero di Origene riveste, nel complesso, un ruolo di notevole importanza, tanto per il contenuto e il peso teologico attribuiti a questa pericope in se stessa, quanto per la frequenza e la pregnanza con cui essa viene impiegata, in funzione di supporto esegetico, nell’interpretazione di altri testi biblici1. Benché, come vedremo, i punti di vista – e conseguentemente le accentuazioni esegetiche – siano molteplici, si può in generale affermare che la pericope considerata acquista rilievo soprattutto nella vasta e complessa trattazione che Origene viene svolgendo sul tema della redenzione2. Impiegando largamente la terminologia dei rapporti economici e, in particolare, degli scambi commerciali, egli accomuna situazioni diverse, desunte da svariati contesti scritturistici, leggendole tutte nella prospettiva dell’offerta redentiva del Cristo3. Questo modo di rappresentare la salvezza cristiana (in termini appunto, per così dire, di “compra-vendita”) è stato definito lo “schema mercantile” della redenzione; si tratta peraltro di uno degli schemi metaforici (complementari, non alter  Repertorio dei testi in Biblia Patristica, III, Paris 1980; per il tema del “sangue” in Origene, si veda la carrellata (cursoria ma non superficiale) di Gribomont 1983, III, pp. 1095-1142, che, in una prospettiva originale e non di rado spregiudicata, mette in luce la concreta difficoltà, da parte di Origene, di integrare armonicamente le potenzialità rappresentative e simboliche connesse colla tematica del ‘sangue’ nel proprio sistema di pensiero; particolarmente ‘ambivalente’ è poi l’essere il sangue nel contempo «forza inferiore, carnale o addirittura demoniaca» (p. 1127) e, d’altro canto, attraverso la sua effusione nel sacrificio di Cristo, forza di salvezza. 2   A questo riguardo, cf. Gribomont 1983, p. 1134 s.; per la soteriologia origeniana, cf. ivi, p. 1097, n. 13 (bibliografia scelta). 3   Su ciò, cf. Alcain 1974, specialmente p. 177 ss. (in particolare su queIlo che viene definito «esquema mercantil»); Simonetti 1972, 3-41, ove ampio spazio è dedicato anche al ruolo esegetico del nostro testo in Origene (cf. spec. p. 26 ss.).

1

4

Antonio Cacciari

nativi) che negli scritti origeniani è possibile rintracciare con questa specifica finalità di rappresentazione. Per spiegare tale schema si può partire dalla considerazione secondo la quale noi tutti siamo «debitori» verso Dio: «Ma anche di Cristo, che ci ha comprati col proprio sangue, siamo debitori (ὀφειλέται), come pure ogni schiavo è debitore verso chi l’ha comprato (ὠνησαμένου) nella misura del denaro che è stato dato per lui»4. Tale sangue (come è detto contestualmente alla nostra pericope) costituisce il “riscatto” (λύτρον), l’essenza e la materia stessa della λύτρωσις: «(Il Verbo) ha dato infatti come riscatto (λύτρον) per noi il suo sangue prezioso, dopo essere divenuto agnello di Dio: egli infatti porta i nostri peccati e per questo soffre» (cf. infra: «egli medesimo (è) riscatto ed espiazione» (λύτρωσις / ἱλασμός)5. I supporti esegetici di tale argomentare sono, come si può vedere, Lc 1,686, richiamato esplicitamente, per il concetto di λύτρωσις (il nomen actionis corrispondente a λύτρον), e due passi giovannei, 1 Gv 2,2 e 4,107, inequivocabilmente, anche se implicitamente, richiamati per quanto riguarda il concetto di ἱλασμός (~ propitiatio: hapax nel N.T.) come predicato di Cristo. Insieme, λύτρωσις e ἱλασμός sono quindi impiegati come predicati di Cristo nel quadro di una teologia della redenzione mediante sacrificio che traspare più distintamente dal secondo di tali attributi (per questo concetto, cf. almeno Eb 2,17 [ἱλάσκεσθαι]; 9,7). Paralleli significativi con la Lettera agli Ebrei sono del resto evidenti allorquando, per esempio, viene sottolineato come il sacrificio dell’“agnello immacolato’ (cf. 1 Pt l,19) abbia reso inutili tutti i precedenti sacrifici, fatti “con sangue di pecore”8: «Quando   Orat. XXVIII, 3 (GCS 3, 377,1 ss.): ἀλλὰ καὶ Χριστοῦ ὠνησαμένου ἡμᾶς τῷ ἰδίῳ αἵματι “ὀφειλέται” ἐσμὲν, ὥσπερ καὶ πᾶς οἰκέτης τοῦ ὠνησαμένου ἐστὶν “ὀφειλέτης” τοῦ τοσοῦδε δοθέντος ὑπὲρ αὐτοῦ χρήματος. 5   FrPs 129, vv. 3-5 (Pitra III, pp. 327-328): Τὸ γὰρ τίμιον αὐτοῦ λύτρον ὑπὲρ ἡμῶν δέδωκεν αἷμα, γενόμενος ἀμνὸς τοῦ Θεοῦ· οὗτος γὰρ τὰς ἁμαρτίας ἡμῶν φέρει, καὶ περὶ ἡμῶν ὀδυνᾶται. Ἐποίησε δὲ καὶ λύτρωσιν τῷ λαῷ αὐτοῦ, κατὰ τὸν Ζαχαρίαν, καὶ κατὰ τὴν ἁγίαν Παρθένον· Ἀντελάβετο Ἰσραὴλ παιδὸς αὐτοῦ, μνησθῆναι ἐλέους. Δεῖ γὰρ ἐν τοῖς σκυθρωποῖς προσδοκᾶν ἐπὶ Κύριον· οὐ γὰρ μόνον ὅτε φυλακὴ πρωϊνὴ καὶ λαμπρὰ τὰ παρόν τα, ἀλλὰ καὶ μέχρι τῶν ζοφερῶν περιστάσεων· ἀλλὰ καὶ ἀνατείλοντος τοῦ ἀληθινοῦ φωτός, ὁ θεωρητικὸς νοῦς προσθήκην ἐκ Θεοῦ τῶν φαιδρῶν καὶ τῶν σκυθρωπῶν ἀπαλλαγὴν ἠλπίσατο· παραιτέω γὰρ ὡς ἐν πηγῇ, καὶ παρ᾽ αὐτῷ τῷ ἔλεος· τὸ αὐτῷ ὄντι λυτρώσει καὶ τῷ ἱλασμῷ τῷ ἱκανῶς πολλὰς τὰς ἁμαρτίας περικαθαίροντι. 6   Su Lc 1,68, cf. HLc X, 1-2 (SCh 87, 180). 7   Su ἱλασμός in 1 Gv 2,2; 4,10, cf. la voce corrispondente in TWNT III, 317-319 (= GLNT IV, 995998); Clavier 1968, pp. 287-304. Per la presenza e il ruolo di questi due testi negli scritti origeniani, cf. CCt I (GCS 33, 98.14 ss); CIo X, I, 240 (SCh 120, 178-179); I, 255 (pp. 186-187); I, 267 (pp. 192193); CC VIII, 13 (SCh 150, 202), ove si trovano citati insieme; per 1 Gv 2,2, cf. CIo VI, 285 (SCh 157, 344-345); VI, 305 (pp. 364-365); FrIob 35 (PG 17,96 B); HLev VII, 2 (GCS 29, 374.21 ss.); IX, 5 (427.14 ss); CRm III,5 (ed. Hammond Bammel 1990, p. 298; trad. Cocchini 2014, p. 299); Prin II,7,4 (SCh 252, 334); CC III,49 (SCh 136, 116); IV,28 (p. 250). 8  Cf. HNm XVII,1 (GCS 30, 155): «Et quidem, donec tempus patiebatur, sacrificia sacrificiis opponebantur; ubi uero uenit perfecta hostia et “agnus immaculatus”» (cf. 1 Pt 1,19), «qui “totius mundi tolleret peccatum”» (cf. 1 Gv 3,5; 2,2; Gv 1,29), «sacrificia illa, quae singillatim offerebantur Deo, iam superflua uisa sunt, cum una hostia omnis daemonum cultura depulsa sit». 4

Osservazioni su di un passo di I Petri in Origene

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vedrai […] altari non aspersi con sangue di pecore, ma consacrati col “prezioso sangue” di Cristo, […] allora dirai che Gesù dopo Mosè ha preso e tenuto il posto di capo»9. O, ancora, quando viene sottolineata l’unicità di tale atto sacrificale10: «Ma fin tanto che fosse dato il sangue di Gesù, che è stato tanto prezioso da bastare esso solo per la redenzione di tutti, fu necessario che quanti venivano formati nella Legge, ciascuno per sé donasse il suo sangue, quasi a imitazione della redenzione futura; e appunto per questo noi, per i quali è stato versato interamente il prezzo del sangue di Cristo, non abbiamo bisogno di offrire un prezzo per noi stessi, cioè il sangue della circoncisione. […] Infine occorre certo dire che, come erano necessari molti battesimi prima del battesimo di Cristo e molte purificazioni prima che avvenisse la purificazione per mezzo dello Spirito Santo e molte vittime prima che una sola vittima, Cristo, agnello immacolato, si offrisse come vittima al Padre, così anche vi è stato bisogno di molte circoncisioni fino a quando si trasmettesse a tutti una sola circoncisione, quella in Cristo, e l’effusione del sangue di molte persone ha preceduto fino a quando si compisse la redenzione di tutti per il sangue di uno solo»11. Tanto da poter concludere che, benché qui non esplicitamente richiamati, i testi della Lettera agli Ebrei costituiscono una filigrana ben riconoscibile e danno una precisa idea della prospettiva di lettura assunta da Origene in rapporto a questo tema. Da tematiche tipicamente giovannee è invece contornato il riferimento all’agnello (secondo 1 Pt 1,19): «prima che otteniamo la provvista del “pane celeste” (cf. Gv 6, passim) e ci saziamo delle carni dell’“agnello immacolato” (cf. 1 Pt 1,19), prima che ci inebriamo del sangue della “vera vite” (cf. Gv 15,1) … »12. Una definizione di riscatto sempre su questa linea, ma sensibilmente spostata verso un altro degli schemi redentivi identificabili nel pensiero origeniano, quello “bellico”, è sviluppata a margine di Rm 3,25: «Mediante – egli dice – la redenzione che è in Cristo Gesù […] Si chiama redenzione ciò che viene concesso ai nemici in cambio di quanti essi tengono prigionieri, perché li facciano ritornare a quella libertà che avevano prima. Presso i nemici del genere umano era dunque trattenuta in schiavitù l’umanità, soggiogata dal peccato come fosse una guerra: venne il Figlio   HIos II,1 (GCS 30, 296-297): «Cum uero uideris introire gentes ad fidem, ecclesias exstrui, altaria non cruore pecudum respergi, sed “pretioso” Christi “sanguine”» (cf. 1  Pt 1,19) «consecrari, cum uideris sacerdotes et Leuitas non “sanguinem taurorum et hircorum”» (cf. Eb 9,13), «sed uerbum Dei per sancti Spiritus gratiam ministrantes, tunc dicito quia Jesus post Moysen suscepit et obtinuit principatum, non ille “Jesus filius Naue”, sed Iesus filius Dei». 10   Per Eb 7,27 (τοῦτο γὰρ ἐποίησεν ἐφάπαξ ἑαυτὸν ἀνενέγκας) in Origene, cf. HLev IX,1 (GCS 29 [OW 6], 419,23); CRm VI,12 (ed. Hammond-Bammel 1997, p. 526): «quod hostia pro peccato factus sit Christus, et oblatus sit pro purgatione peccatorum, omnes Scripturae testantur, et praecipue Paulus ad Hebraeos scribens, cum dicit: “Hoc enim fecit semel, semetipsum offerendo hostiam”». Cf. Alcain 1974, pp. 250-251; inoltre, Sgherri 1980, pp. 201-202. 11   CRm II,9 (ed. Hammond Bammel 1990, pp. 172-174; trad. Cocchini 2014, pp. 209-213). 12   HIud VI,1-2 (GCS 30, 500): «Ante enim quam bella discamus, antequam pugnas Domini pugnare meditemur, a “principibus” angelis subleuamur; antequam “panis coelestis”» (cf. Gv 6,51) «consequamur annonam et “agni immaculati”» (cf. 1 Pt 1,19) «carnibus satiemur, antequam “uerae uitis”» (cf. Gv 15,1), «quae adscendit de radice Dauid, sanguine inebriemur». 9

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Antonio Cacciari

di Dio “che per noi è stato fatto da Dio” non solo “sapienza e giustizia e santificazione” ma anche “redenzione” (ἀπολύτρωσις): e diede se stesso come redenzione, cioè si consegnò ai nemici e versò il suo sangue a loro che ne erano assetati, e questa è la redenzione che fu compiuta per quanti credono, come scrive anche Pietro nella sua lettera dicendo … » (segue citazione da 1 Pt 1,18-19)13. Nella pericope paolina (Rm 3,24-25), oltre al tema del “sangue”, cui si aggancia appunto il riferimento al nostro testo di 1 Pt, troviamo il richiamo alla fede come componente essenziale dell’“offerta”14, e troviamo pure la coppia ἀπολύτρωσις / ἱλαστήριον (quest’ultimo solo due volte nel N.T., in questo passo e in Eb 9,5, ma solo qui col significato di ἱλασμός ~ propitiatio)15, già incontrata in un testo origeniano citato poc’anzi, come libero accostamento da parte dell’esegeta, che evidentemente pensava, pur senza citarlo in modo esplicito, proprio a questo passo di Rm. Vale la pena a questo punto di ritornare brevemente su di un testo già citato (CRm II,13) per illuminare un particolare non privo d’importanza, e cioè l’impiego del tema del “sangue” – materia del “riscatto”, della redenzione operata da Cristo – come collegamento esegetico fra la circoncisione (tematizzata nell’ambito dei testi di Rm oggetto del commento) e l’offerta cruenta di vittime sacrificali (su ciò, si vedano ancora una volta i testi di Ebrei): molte circoncisioni e molte vittime in contrapposizione all’unica vittima dell’unico sacrificio16. Un testo di indubbia centralità nella meditazione origeniana sulla redenzione è Mt 16,26 (… ἢ τί δώσει ἄνθρωπος ἀντάλλαγμα τῆς ψυχῆς αὐτοῦ;): a partire dal concetto di “contraccambio” (= a scopo di riscatto) viene sviluppato un più articolato discorso:   CRm III,4 (ed. Hammond Bammel 1990, p. 235; trad. Cocchini 2014, p. 287 s.).   Tale motivo è altrove più ampiamente sviluppato da Origene, ad esempio allorché interpreta il “siclo del Santuario” di Lv 5,15 come, appunto, la “fede”, offrendo la quale siamo lavati dal sangue prezioso di Cristo: «Et hic est “siclus sanctus”, probata, ut diximus, et sincera fides, id est ubi nullus perfidiae dolus, nulla haereticae calliditatis peruersitas admiscetur, ut sinceram fidem offerentes “pretioso Christi sanguine, tamquam immaculatae hostiae”» (cf. 1 Pt 1,19), «diluamur» (HLev III,8: GCS 29, 315-316). 15  Su ἱλαστήριον e la sua semantica nell’ambito degli scritti biblici, cf. almeno Manson 1945; Moraldi 1948; Morris 1950-51; Thornton 1968-69; inoltre, Büchsel 1938, TWNT III,319 ss. (= GLNT IV, 998-1012). 16   Per il tema della circoncisione, cf. CRm II,9 (ed. Hammond Bammel 1990, pp. 180-215; trad. Cocchini 2014, pp. 180-215; per un commento a questo lungo passo, cf. Cocchini 1983, III, pp. 1165-1174, che individua la lettura tipologica svolta da Origene in questo e in altri passi (ibid., p. 1168 ss). Particolarmente importante per il collegamento “circoncisione – effusione di sangue” è il testo di Es 4,24-26, preso in considerazione da Origene, fra l’altro, in CC V,48 e in CRm. XI,13: «Si può allora individuare in Es 4,24-26 la fonte scritturistica su cui Origene [nel passo cit. di CRm] ha probabilmente basato la sua interpretazione, che vede nel sangue della circoncisione l’immagine e il precedente del sangue redentivo di Cristo. Nel passo di Esodo egli ha infatti trovato il riferimento a un sangue umano versato come prezzo all’avversario di Dio» (art. cit., pp. 1170-1171 e note; per i precedenti di questa lettura tipologica nella letteratura cristiana, cf. ibid., p. 1171 ss. e n. 25, p. 1171). 13 14

Osservazioni su di un passo di I Petri in Origene

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La frase, poi: «O che darà un uomo in contraccambio per l’anima sua?» sembrerà da un lato poter indicare, (detto) in termini problematici, anche il dare un contraccambio per l’anima propria in seguito ai peccati, dopo aver venduto l’intero patrimonio per distribuire le proprie sostanze in cibo ai poveri, coll’intento di salvarsi grazie a ciò. E penso che d’altro lato indichi, in termini assertori, che l’uomo non possiede alcunché di tale per cui, dandolo in contraccambio per la propria anima, dominata dalla morte, egli la riscatti dalla mano di questa. Un uomo dunque non può dare un contraccambio per l’anima propria, mentre Dio come contraccambio per l’anima di noi tutti ha dato il sangue prezioso di Gesù, in quanto «a caro prezzo» (cf. 1 Cor 7,23) siamo stati comprati, riscattati non con cose corruttibili, argento od oro, ma col sangue prezioso, come di agnello irreprensibile e senza macchia, di Cristo (cf. 1 Pt 1,18-19)17.

Lo schema esegetico sotteso a tale testo passa attraverso 1 Pt 1,19, che serve specificamente a connotare la natura dell’unico ἀντάλλαγμα (e che quindi fornisce la chiave di lettura principale), per appoggiarsi poi ad altri due testi: uno è 1 Cor 7, 23 (cf. 6,20)18, ove l’incastro col nostro passo è garantito dalla parentela etimologica fra τίμιος e τιμή (nel testo di 1Cor per giunta τιμῆς non e solo ‘a prezzo’, ma ‘a gran prezzo’, ‘a caro prezzo’), e donde inoltre s’affaccia un’altra importante componente lessicale tipica del suddetto ‘schema mercantile’, cioe il verbo ἀγοράζω (= ‘compro’, lat. emo). Vedremo più oltre con altri elementi il ruolo giocato da questo termine. L’altro passaggio biblico che qui – come del resto in altri contesti affini – viene allegato a conferma di questa lettura è Is 43,319. Suggestioni interpretative simili emergono anche attrove. Nel commentare Sal 54,19-21, infatti, Origene spiega l’“umiliazione” dei nemici del salmista (Sal 54,19: εἰσακούσεται ὁ θεὸς καὶ ταπεινώσει αὐτούς) da parte di Dio in base a Mt 16,26; il successivo contesto del salmo offre in effetti l’opportuno aggancio, cioè il termine ἀντάλλαγμα (Sal 54,20: οὐ γάρ ἐστιν αὐτοῖς ἀντάλλαγμα, alla lettera: «poiché per   CMt XII, 28, su Mt 16,24-27 (GCS 40, 131): Τὸ δὲ “ἢ τί δώσει ἄνθρωπος ἀντάλλαγμα τῆς ψυχῆς αὐτοῦ;” δόξει μὲν ἐπαπορητικῶς εἰρη μένον δύνασθαι δηλοῦν καὶ τὸ δοῦναι “ἀντάλλαγμα τῆς ψυχῆς αὐτοῦ” μετὰ τὰς ἁμαρτίας ὅλην ἀποδεδομένον τὴν οὐσίαν, ἵνα ψωμίσῃ πένητας τὰ ὑπάρχοντα αὐτοῦ, ὡς διὰ τούτου σωθησόμενος. καὶ ἀποφαντικῶς δ᾽ οἶμαι δηλοῦν ὅτι οὐκ ἔστι τι τῷ ἀνθρώπῳ, ὅπερ δοὺς ὡς “ἀντάλλαγμα τῆς ψυχῆς ἑαυτοῦ” κεκρατημένης ὑπὸ τοῦ θανάτου, λυτρώσεται αὐτὴν ἐκ χειρὸς αὐτοῦ. “ἄνθρωπος” μὲν οὖν οὐκ ἂν δῴη τι “ἀντάλλαγμα τῆς ψυχῆς αὐτοῦ”, θεὸς δὲ τῆς πάντων ἡμῶν “ψυχῆς ἀντάλλαγμα” ἔδωκε τὸ τίμιον αἷμα τοῦ Ἰησοῦ καθὸ “τιμῆς” ἠγοράσθημεν, “οὐ φθαρτοῖς, ἀργυρίῳ ἢ χρυσίῳ” ἀπολυτρωθέντες, “ἀλλὰ τιμίῳ αἵματι ὡς ἀμνοῦ ἀμώμου καὶ ἀσπίλου Χριστοῦ”, καὶ ἐν Ἡσαΐᾳ λέλεκται τῷ Ἰσραήλ· “ἔδωκά σου ἀντάλλαγμα Αἰθιοπίαν καὶ Αἴγυπτον καὶ Σοήνην ὑπὲρ σοῦ, ἀφ᾽ οὗ σὺ ἔντιμος ἐγένου ἐναντίον μου, ἐδοξάσθης”. 18   Su 1 Cor 7,23 in Origene, cf. CRm II,9 (ed. Hammond Bammel 1990, p. 172; trad. Cocchini 2014, pp. 209-210); ibid., VI,9 (ed. Hammond Bammel 1997, 507; trad. cit., p. 183; FrCor 38 ( Jenkins 1908, 508.8 ss.); HEx VI, 9 (GCS 29, 200.14). 19   Cf. Is 43,3 LXX: ὅτι ἐγὼ κύριος ὁ θεός σου ὁ ἅγιος Ισραηλ ὁ σῴζων σε· ἔδωκα σου ἀντάλλαγμα Αἴγυπτον καὶ Αἰθιοπίαν καὶ Σοήνην ὑπὲρ σοῦ (dove peraltro è notevole la variante ἔδωκα  /  ἐποίησα: cf. l’ed. Ziegler 19833, p. 281; e, quel che più ci interessa, ἀντάλλαγμα anziché ἄλλαγμα: qui evidentemente per diretto influsso di Mt 16,26). 17

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loro non c’è un contraccambio»). Origene motiva pertanto la ταπείνωσις in base al fatto che essi non abbiano un contraccambio per la loro anima «Saranno umiliati, dice, poiché non hanno un contraccambio (ἀντάλλαγμα) alla loro anima: infatti, avendo una volta per tutte ripudiato il prezioso sangue di Cristo, dato in contraccambio (= riscatto) per la vita del mondo, non dispongono piu di un riscatto»20. Il termine λύτρον ci conduce a sua volta a uno scavo ancor più profondo tentato da Origene in relazione al processo redentivo. Commentando Mt 20,28 (ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου οὐκ ἦλθεν διακονηθῆναι ἀλλὰ διακονῆσαι καὶ δοῦναι τὴν ψυχὴν αὐτοῦ) egli fa ricorso ancora una volta a 1 Pt 1,19 e Cor 7,23 come coppia di sostegni interpretativi, e giunge poi, spiegando ψυχή come ‘anima’ (anziché ‘vita’, come propriamente il testo di Matteo richiederebbe; la stessa “forzatura” semantica è comune del resto anche altrove, ad esempio nel caso – già considerato – di Mt 16,26), ad affermare di conseguenza che l’offerta di Cristo consistette nella sua ‘anima’ (e non nelle restanti componenti antropologiche, ‘spirito’ / πνεῦμα e ‘corpo’ / σῶμα, previste nello schema tricotomico da lui prediletto)21: 20   FrPs (= Sel. in ps.) 54, 19-26 (Pitra, p. 58; sul problema dell’autenticità della vasta mole di materiale scoliografico raccolto da Pitra, cf. Devreesse 1970, pp. 7-88; Clavis Patrum Graecorum, I, n° 1426,5): Λυτρώσεται … διαθήκην αὐτοῦ. Τοῦτο εἰς τό· Ἐξέτεινε τὴν χεῖρα αὐτοῦ ἐν τῷ ἀποδιδόναι. Ταπεινωθήσονται, φησὶν, ἐπειδὴ μὴ ἔχουσι τῆς ψυχῆς αὐτῶν ἀντάλλαγμα· ἅπαξ γὰρ ἀρνησάμενοι τὸ τίμιον αἷμα Χριστοῦ, τὸ δεδομένον ἀντάλλαγμα ὑπὲρ τῆς τοῦ κόσμου ζωῆς, οὐκέτι εὐποροῦσι λύτρον. Δεξάμενος δέ μου τὴν δέησιν, οἷα Θεὸς, ἀσθενείᾳ περιβάλλει τοὺς ἐπιβουλεύοντας. Πάντα δι᾽ αὐτοῦ ἐγένετο. Καλῶς ὑπάρχειν εἶπε πρὸ τῶν αἰώνων· καὶ ἐντεῦθεν γινώσκομεν, ὅτι οἱ αἰῶνες ἀπὸ τοῦ μὴ ὄντος εἰς τὸ εἶναι γεγόνασιν. (In margine, Origene annota le differenti rese delle altre versioni greche a lui disponibili, cf. di sèguito: Οὕτως ὁ Σύμμαχος· Οὐ γὰρ ἀλλάσσονται, οὐδὲ φοβοῦνται τὸν Θεόν. Ὁρῶν, φησὶν, αὐ τῶν τὸν ἀμεταμέλητον τρόπον, ταῖς προει ρημέναις συμφοραῖς περιβάλλει. Ἐσηρ· ἐν ἀλιφωθλαμου. Ἀκύλας. Οἷς οὐκ εἰσὶν ἀλλαγαὶ αὐτοῖς. Ἑβραῖος. Οὐ γάρ ἐστιν ἀντάλλαγμα αὐ τοῖς. Σύμμαχος. Ὅτι οὐδ᾽ ὅλως ἀντάλλαγμα αὐτοῖς. Ἀκύλας· Ἀπέστειλε τὴν χεῖρα αὐτοῦ ἐν εἰρηνικοῖς αὐτοῦ). Si veda la traduzione del testo del salmo secondo i LXX a cura di Mortari 1983, p. 171: «perché non c’è per loro riscatto»; Mortari sottolinea anche come «il termine greco (scil. ἀντάλλαγμα), per lo meno nella Bibbia, non ha mai il senso di semplice cambiamento, bensì di ‘scambio’, di ‘riscatto’, di ‘qualcosa dato in cambio’» (ibid., n. 3, p. 172; cf. Sal 88,51 e n. 5 p. 228). 21   Viene qui toccato il problema, complesso e controverso, dell’antropologia origeniana. Esso ritorna variamente nelle opere dell’Alessandrino, che pure non lasciò nessuno scritto specificamente dedicato a questo tema (di trattazione pressoché obbligata per un maître à penser di età imperiale, cristiano o meno che fosse), fatta eccezione per Prin II,8, che va però comunque integrato con una folta schiera di testi sparsi in tutte le opere origeniane. La pluralità e la varietà dei contesti non facilita certo, ma anzi complica notevolmente ogni tentativo di inquadrare in uno schema coerente e sistematico le concezioni antropologiche di Origene; in realtà, anche in questo caso, ci troviamo di fronte alla tendenza – tipica dell’autore – a variare continuamente il punto di vista in relazione alle mutevoli esigenze contestuali, ricorrendo a soluzioni esegetiche a loro volta mutevoli; il che, se da un lato fa di Origene un pensatore e uno scrittore ancor oggi interessante e mai del tutto prevedibile, certo ostacola ogni schematismo ermeneutico che gli sia applicato. In particolare, l’affermazione secondo cui Cristo avrebbe offerto la propria anima (ψυχή) come riscatto per noi, non lo spirito né il corpo, si ricollega agevolmente allo schema tricotomico πνεῦμα / ψυχή / σῶμα, frequentemente adottato da Origene sulla base di 1 Ts 5,23 (cf. a questo riguardo Simonetti 1968, p. 74 ss; n. 32 p.

Osservazioni su di un passo di I Petri in Origene

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Nei detti del vangelo che sono stati esaminati, dunque, è scritto che il nostro Salvatore ha dato «la propria anima come riscatto per molti». D’altra parte, da Pietro è detto che «non con cose corruttibili, argento e oro, siamo stati riscattati dalla vana condotta di vita ereditata dai padri, ma col sangue prezioso»; anche l’apostolo poi dice: «a caro prezzo foste comprati: non siate schiavi degli uomini» (cf. 1 Cor 7,23). Dunque fummo comprati col sangue prezioso di Cristo ed è stata data come riscatto per noi l’“anima” del Figlio di Dio e né il suo «spirito» (in precedenza, infatti, egli lo aveva affidato al Padre dicendo: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito»), né il (suo) “corpo” (nulla di simile infatti abbiamo mai trovato detto al suo riguardo)22. 313, su Prin II,8,4 e passim; H. Crouzel, M. Simonetti, n. 14 a Prin II,8,2, SCh 253, 200; n. 30, 209210, su Prin II,8,4; Crouzel 1985 (trad. it., p. 129 ss.) e, soprattutto, Id. 1955, pp. 364-385, ove è ribadita l’importanza centrale dello schema tricotomico in Origene, accanto a quello dicotomico. I paralleli più importanti al testo qui considerato sono Dial 6-7: al dubbio – avanzato da Massimo – su come Cristo sia potuto resuscitare essendo già stato reso lo spirito al Padre (appunto seguendo Lc 23,46), Origene risponde riaffermando lo schema tricotomico (a partire naturalmente da 1 Ts 5,23), dalle cui componenti risulta l’essere umano in quanto σύνθετον, e specificando la destinazione riservata a ciascuna di esse dopo la morte: il corpo nella tomba, l’anima nell’Ade, lo spirito al Padre (il sostegno a ciò è fornito rispettivamente da Sal 15 (16),10; At 2,27; Lc 23,46). Le tre componenti saranno poi riunite al momento della resurrezione (τὰ τρία ταῦτα παρὰ τὸν καιρὸν τοῦ πάθους διηρέθη, τὰ τρία ταῦτα παρὰ τὸν καιρὸν τῆς ἀναστάσεως ἡνώθη: Dial 7,70.14 [ed. Scherer, SCh 67, Paris 1960]). Origene insiste poi sul particolare valore semantico del verbo παρατίθημι (in Lc 23,46; mentre il parallelo di Mt 27,50 ha ἀφῆκεν e quello dl Mc 15,37 ἐξέπνευσεν, entrambi col senso di ‘spirare’, e non diversamente Gv 19,30: παρέδωκεν τὸ πνεῦμα) rispetto ai sinonimi, parte dei quali impiegati dagli altri vangeli: mentre παραδοῦναι significa ‘rimettere’, ‘consegnare’, e χαρίσασθαι ‘donare’, παρακαταθέσθαι si differenzia in quanto ὁ παρακατατιθέμενος παρακατατίθεται ἵνα ἀπολάβῃ τὴν παρακαταθήκην, ed è quindi implicita la reversibilità del deposito fatto. Esso sarà ritirato da Cristo al momento della sua ascesa al Padre (οὐκοῦν ἀναβαίνει πρὸς τὸν πατέρα [secondo Gv 20,17]: ἕνεκα τίνος; τὴν παρακαταθήκην ἀπολαβεῖν [ibid., 8,72.16]). Sulla base di uguali premesse esegetiche si muove un altro importante testo, Prin II,8,4, ove il rapporto tra l’anima e lo spirito del Salvatore nel contesto della redenzione è risolto in questi termini: una volta assodato che si tratta di due entità ben distinte («…alia sunt quae ei sub animae nomine adscribuntur, et alia quae sub spiritus nomine deputantur»), cui corrispondono diverse caratteristiche («nam cum passionem aliquam uel conturbationem sui uult indicare, sub nomine animae indicat, cum dicit: “Nunc anima mea turbata est”» (cf. Gv 12,27) «et “Tristis est anima mea usque ad mortem”» (cf. Mt 26,38) «et “Nemo tollit animam meam, sed ego pono eam abs me”» (cf. Gv 10,18). «In manus autem patris commendat non animam sed spiritum» (cf. Lc 23,46), «et cum carnem dicat infirmam» (cf. Mt 26,41) «non dicit animam promptam esse sed spiritum»), giunge infine a dare un’importante definizione dell’anima come ‘medium quiddam’ («unde videtur quasi medium quiddam esse anima inter carnem infirmam et spiritum promptum»: Prin II,8,4 (SCh 252, 348.191 ss.; cf. il commento ad l. in SCh 253, 209 ss., nn. 29-30. Sull’antropologia origeniana va visto inoltre l’importante studio di Dupuis 1967, spec. 62ss.; sulla posizione centrale dell’anima di Cristo nella redenzione, cf. Chênevert 1969, 55.68; Simonetti 1972, pp. 19-22. 22   CMt XVI, 8, su Mt 20,25-28 (GCS 40, 499): ἐν μὲν οὖν τοῖς ἐξεταζομένοις τοῦ εὐαγγελίου ῥητοῖς γέγραπται ὁ σωτὴρ ἡμῶν δεδωκέναι “τὴν ἑαυτοῦ ψυχὴν λύτρον ἀντὶ πολλῶν”. παρὰ δὲ τῷ Πέτρῳ εἴρηται ὅτι “οὐ φθαρτοῖς, ἀργυρίῳ καὶ χρυσίῳ, ἐλυτρώθημεν ἐκ τῆς ματαίας ἡμῶν ἀναστροφῆς πατροπαραδότου, ἀλλὰ τιμίῳ αἵματι”· καὶ ὁ ἀπόστολος δέ φησι· “τιμῆς ἠγοράσθητε· μὴ γίνεσθε δοῦλοι ἀνθρώπων”. οὐκοῦν ἠγοράσθημεν μὲν τῷ τιμίῳ τοῦ Ἰησοῦ αἵματι, δέδοται δὲ “λύτρον” ὑπὲρ ἡμῶν ἡ ψυχὴ τοῦ υἱοῦ τοῦ θεοῦ, καὶ

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Un testo di straordinario interesse, facente parte di una raccolta di 29 Omelie sui Salmi, di sicura attribuzione origeniana, ci è stato restituito grazie a una scoperta assai recente che, sotto ogni profilo, si può ben definire sensazionale23. Commentando Sal 73,2b (ἐλυτρώσω ῥάβδον κληρονομίας σου), Origene parte proprio dal verbo λυτρόω per sviluppare – in quella che si configura come una sorta di ekphrasis – la tematica del “riscatto” operato da Cristo: «Hai riscattato la verga della tua eredità» (Sal 73,2b): i suoi familiari riscattano i prigionieri. Dio, dunque, «ha riscattato la verga della» sua «eredità», cioè ha riscattato lo scettro della sua eredità e del suo regno, dando il riscatto. Eravamo, infatti, sottomessi a nemici, ed era nemico il diavolo, e lo erano i suoi angeli. Costoro ci avevano fatto prigionieri e non volevano rilasciarci, senza un riscatto. E in nulla il Salvatore volle far violenza al diavolo, né prevalere su coloro che ci avevano fatto prigionieri, ma dice al diavolo: «Voglio riscattare i prigionieri che hai catturato: cosa vuoi prendere a riscatto, per restituirmi i prigionieri che hai catturato?». Ed egli rispose: «Voglio prendere il tuo sangue, muori! e se tu muori, dopo che il tuo sangue sia stato versato, ecco, io ho il riscatto, e ti restituisco quelli che volevi prendere». Il mio Signore e mio Salvatore, amante dell’umanità, e Cristo, ha versato il suo sangue e ci ha comprati «col sangue prezioso». «Non» infatti «con argento e oro fummo riscattati dalla nostra vana condotta ereditata dai padri, ma col sangue prezioso come di agnello irreprensibile e immacolato, Cristo» (cf. 1 Pt 1,18). E bene vien detto: «siete stati acquistati a caro prezzo» (cf. 1 Cor 6,20), non siate schiavi di uomini. Un gran prezzo, infatti, è stato dato affinché fossimo riscattati, e a motivo di tale prezzo il mio Signore Cristo Gesù, come è “giustizia”, è “santificazione”, è “sapienza”, è verità, così pure è “riscatto”24. οὔτε τὸ πνεῦμα αὐτοῦ (πρότερον γὰρ αὐτὸ παρέθετο τῷ πατρὶ λέγων· “πάτερ, εἰς χεῖράς σου παρατίθεμαι τὸ πνεῦμά μου”) οὔτε τὸ σῶμα (οὐδὲν γὰρ εὕρομέν πω τοιοῦτον περὶ αὐτοῦ γεγραμμένον). καὶ ἐπεὶ δέδοται ἡ ψυχὴ αὐτοῦ “λύτρον ἀντὶ πολλῶν”, οὐκ ἔμενε δὲ παρ᾽ ἐκείνῳ ᾧ ἐδέδοτο “λύτρον ἀντὶ πολλῶν”, διὰ τοῦτό φησιν ἐν πεντεκαιδεκάτῳ Ψαλμῷ τὸ “οὐκ ἐγκαταλείψεις τὴν ψυχήν μου εἰς ᾅδην”. 23   Per un resoconto completo riguardante la scoperta delle 29 nuove omelie origeniane, si veda la sezione monografica interamente dedicatavi in «Adamantius» 20, 2014, pp. 173-287. Dei testi è ora disponibile l’edizione critica di L. Perrone, M. Molin Pradel, E. Prinzivalli, A. Cacciari, de Gruyter 2015. 24   H73Ps I,5 (GCS  N.F. 19, 230,15-231,7): Ἐλυτρώσω ῥάβδον κληρονομίας σου· τοὺς αἰχμαλώτους λυτροῦνται οἱ οἰκεῖοι αὐτοῦ. Ἐλυτρώσατο οὖν ὁ θεὸς ῥάβδον κληρονομίας αὐτοῦ, τουτέστι τὸ σκῆπτρον τῆς κληρονομίας αὐτοῦ καὶ βασιλείας ἐλυτρώσατο τὰ λύτρα δούς. Ἦμεν γὰρ ὑπὸ πολεμίους καὶ ἦν πολέμιος ὁ διάβολος καὶ οἱ ἄγγελοι αὐτοῦ. Οὗτοι ἦσαν αἰχμαλώτους ἡμᾶς λαβόντες καὶ χωρὶς λύτρων οὐ θέλοντες ἡμᾶς ἀπολῦσαι. Καὶ οὐκ ἠθέλησεν οὐδὲν τὸν διάβολον βιάσασθαι ὁ σωτήρ, οὐδὲ πλεονεκτῆσαι τοὺς αἰχμαλωτεύσαντας ἡμᾶς, ἀλλὰ λέγει τῷ διαβόλῳ· “βούλομαι λυτρώσασθαι τοὺς αἰχμαλώτους οὓς ἔλαβες· τί βούλει λαβεῖν λύτρον, ἵνα μοι δῷς οὓς ἔλαβες αἰχμαλώτους”; Ὁ δὲ ἀπεκρίνατο· “βούλομαι λαβεῖν τὸ αἷμά σου· ἐκχυθήτω τὸ αἷμά σου, σὺ ἀπόθανε· κἂν ἀποθάνῃς σύ, τοῦ αἵματός σου ἐκχυθέντος, ἔχω τὰ λύτρα, ἀποδίδωμι οὓς ἐβούλου λαβεῖν”. Ὁ κύριός μου καὶ ὁ σωτήρ μου ὁ φιλάνθρωπος καὶ Χριστὸς ἐξέχεεν αὐτοῦ τὸ αἷμα καὶ ἠγόρασεν ἡμᾶς τῷ τιμίῳ αἵματι. Οὐ γὰρ φθαρτοῖς ἀργυρίῳ καὶ χρυσίῳ ἐλυτρώθημεν ἐκ τῆς ματαίας ἡμῶν ἀναστροφῆς πατροπαραδότου, ἀλλὰ τιμίῳ αἵματι ὡς ἀμνοῦ ἀμώμου καὶ ἀσπίλου Χριστοῦ. Καὶ καλῶς λέγεται· τιμῆς ἠγοράσθητε, μὴ γίνεσθε δοῦλοι ἀνθρώπων. Μεγάλη οὖν τιμὴ δέδοται, ἵνα λυτρωθῶμεν, καὶ διὰ τὴν τιμὴν

Osservazioni su di un passo di I Petri in Origene

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Partendo da uno sguardo complessivo all’umanità asservita al «diavolo e ai suoi angeli»25, Origene passa a introdurre un dialogo tra Cristo e il diavolo, in cui è Cristo stesso a interloquire per primo, chiedendo il riscatto dei prigionieri catturati dal diavolo; nella seconda battuta, il diavolo esige a sua volta come riscatto il sangue di Cristo. L’eccezionalità del testo riguarda anzitutto l’aspetto letterario: il dialogo fittizio – in forma di vero e proprio ‘contrasto’ – tra i personaggi è scandito da elementi che ne esaltano la cruda drammaticità, come, nelle battute messe in bocca al diavolo, «voglio prendere il tuo sangue» (βούλομαι λαβεῖν τὸ αἷμά σου), «muori!» (σὺ ἀπόθανε). A questa disposizione aggressiva, implacabile e sanguinaria da parte del demonio – che può ricordare i tratti dello Shylock shakespeariano –, segnata dal uerbum uoluntatis («voglio», βούλομαι) e dalla sequenza dei due imperativi (ἐκχυθήτω … ἀπόθανε), fa da contraltare la pacata risolutezza del Cristo (pure marcata dalla medesima espressione volitiva: «voglio» (βούλομαι). Il dialogo non è ambientato – come si potrebbe pensare – nel corso del descensus ad inferos del Cristo, di cui pure parla 1 Pt26, testo ben presente in filigrana nel passo qui considerato, ma, evidentemente, prima della sua morte, che è precisamente l’oggetto delle pretese del diavolo. Il modello letterario su cui è esemplato il dialogo è – senza dubbio alcuno, a mio parere – il racconto sinottico delle tentazioni di Gesù (Mt 4,1-11; Lc 4,1-13)27; in entrambe le versioni evangeliche – dove non è Gesù, bensì il diavolo a interloquire per primo –, la conferma è data dalla presenza degli imperativi all’interno del discorso di quest’ultimo (Mt 4,3 || Lc 4,3: εἰπέ; Mt 4,6 || Lc 4,9: βάλε), in perfetto parallelismo col testo origeniano qui considerato (cf. supra: ἐκχυθήτω … ἀπόθανε). Un procedimento per certi versi analogo a quello rilevato nel passo di H73Ps è presente nelle Omelie su Luca28 che commentano le tentazioni di Gesù (HLc XXIX, XXX, XXXI), da considerarsi pronunziate nel periodo di Cesarea29. In particolare, in una di tali omelie si osserva un procedimento di amplificazione parafrastica del dialogo tra Gesù e il diavolo, applicato sia alle battute attribuite a quest’ultimo («Dice allora il diavolo al Signore: “Per questo sei venuto, per combattere contro di me e strappare al mio potere tutti coloro che io ho ora come schiavi? Non voglio che tu ti misuri con me; non voglio che tu ti affatichi, che ti sottoponga alle difficoltà della battaglia. Ecco tutto ciò che io ti chiedo: prosternati ai miei piedi e adorami, e tutto il regno che mi appartiene sarà tuo” […]»), sia alla risposta di Gesù («Ecco perché gli risponde: “Sta scritto: tu adorerai il Signore Dio tuo e servirai lui solo”. Dice in sostanza: “io voglio, sì, che tutti questi uomini diventino miei sudditi, ma affinché ταύτην ὁ κύριός μου Χριστὸς Ἰησοῦς, ὥσπερ ἔστι δικαιοσύνη, ὥσπερ ἔστιν ἁγιασμός, ὥσπερ ἔστι σοφία, ὥσπερ ἔστιν ἀλήθεια, οὕτως ἔστι καὶ ἀπολύτρωσις. Trad. di L. Perrone (in corso di stampa), che ringrazio. 25   Cf. Mt 25,41. 26   Cf. in particolare 1 Pt 3,19-22. 27   L’assai più sintetica versione marciana (Mc 1,2-13) è esclusa, in quanto non presenta forma dialogica. 28   Di cui abbiamo il testo nella versione latina di Gerolamo e, in parte, nell’originale greco. 29   Per una discussione sulla datazione di HLc, cf. F. Fournier 1962, spec. pp. 79-81.

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adorino il Signore e servano lui solo. Questo è il desiderio del mio regno. Tu vuoi che da me cominci il peccato che io sono venuto invece a distruggere, e da cui desidero liberare tutti gli altri. Sappi e riconosci che io sto saldo in ciò che ho detto, cioè che sia adorato soltanto il Signore Dio, e tutti questi uomini li riporterò al mio potere e li prenderò nel mio regno”»)30. Relativamente all’insolita forma letteraria31, il testo sopra citato di H73Ps ha almeno un altro precedente ancora degno di menzione, nell’ambito delle opere origeniane giunte fino a noi; si tratta di un passo del Commento a Romani: Se dunque «siamo stati comprati a prezzo», come anche Paolo conferma32, senza dubbio siamo stati comprati da qualcuno di cui eravamo servi, il quale inoltre, per lasciare liberi dal suo potere quelli che teneva, ha richiesto il prezzo che ha voluto. Ora, colui che ci teneva era il diavolo, al quale eravamo stati venduti per colpa dei nostri peccati. Egli dunque chiese come prezzo per noi il sangue di Cristo. Ma fin tanto che fosse dato il sangue di Gesù, che è stato tanto prezioso da bastare esso solo per la redenzione di tutti, fu necessario che quanti venivano formati nella Legge, ciascuno per sé donasse il proprio sangue, quasi a imitazione della redenzione futura […]»33.   HLc XXX,3 (ed. cit., pp. 372-374; trad. Aliquò 1969, pp. 196-197): «Dicit ergo ad Dominum diabolus: “In eo uenisti, ut aduersum me dimices et tollas de imperio meo, quos nunc subiectos habeo? Nolo contendas, nolo nitaris, ne habeas ullam in certando molestiam; unum est, quod precor: “procidens adora me”, et accipe regnum omne, quod teneo”. […] Unde loquitur ad eum: “ ‘scriptum est: Dominum Deum tuum adorabis, et ipsi soli seruies’. Hos, inquit, omnes propterea uolo mihi esse subiectos, ut Dominum Deum adorent et ipsi soli seruiant; haec est cupido regni mei. Tu autem a me uis incipere peccatum, quod ego dissoluturus huc ueni, quod etiam a ceteris auferre desidero. Scito atque cognosce me in hoc manere, quod dixi, ut adoretur Dominus Deus solus, et hos omnes sub meam faciam potestatem meoque regnum subiciam”». Parte del testo è tràdita anche nell’originale greco (ed. M. Rauer, GCS 49 [OW 9], Akademie-Verlag, Berlin 19592, 173): Εἰ θέλεις, φησί, βασιλεῦσαι τούτων καὶ ἐπὶ τούτῳ ἐλήλυθας τοῦ ἀγωνίσασθαι καὶ ἀποστῆσαι τοὺς βασιλευομένους ὑπ᾽ἐμοῦ, μὴ ἀγωνίζου, ἓν ἀξιῶ· “πεσὼν προσκύνησόν μοι”, καὶ παράλαβε πᾶσαν τὴν βασιλείαν τὴν ὑπ᾽ ἐμέ. Ἀλλ᾽ ὁ σωτὴρ βασιλεῦσαι μὲν θέλει καὶ ὑποτάξαι πάντα τὰ ἔθνη, ἵνα δοῦλα γένηται δικαιοσύνης καὶ ἀληθείας καὶ πάσης ἀρετῆς, βασιλεῦσαι δὲ οὐ μετὰ ἁμαρτίας, οὐδὲ βούλεται ἀκμητὶ ὑποτάξας ἑαυτὸν ἐκείνῳ στεφανώσασθαι, οὐδὲ ἀκμητὶ λαβεῖν πάσας “τὰς βασιλείας τοῦ κόσμου” καὶ τὴν δόξαν αὐτῶν ὑποχείριον. Διό φησι πρὸς αὐτόν· “γέγραπται· κύριον τὸν θεόν σου προσκυνήσεις καὶ αὐτῷ μόνῳ λατρεύσεις”. Τούτους, φησί, πάντας διὰ τοῦτο θέλω ἄρχεσθαι ὑπ᾽ ἐμοῦ, ἵνα “κύριον τὸν θεὸν” προσκυνήσωσι “καὶ αὐτῷ μόνῳ” λατρεύσωσιν· τοῦτό ἐστι τὸ βούλημα τῆς ἐμῆς βασιλείας. Σὺ δὲ θέλεις τὴν ἁμαρτίαν ἀπ᾽ἐμοῦ ἄρξασθαι, ἣν ἐγὼ καταργῆσαι θέλω. 31   Nulla di simile è registrato, per esempio, nel ben documentato saggio di Lugaresi 2008, pp. 509-533. 32   Cf. 1 Cor 7,23. 33   CRm II,9 (ed. Hammond Bammel 1990, p. 172): «Si ergo pretio emti sumus ut etiam Paulus adstipulatur ab aliquo sine dubio emti sumus cuius eramus serui, qui et pretium poposcit quod uoluit ut de potestate dimitteret quos tenebat. Tenebat autem nos diabolus cui distracti fueramus peccatis nostris. Poposcit ergo pretium nostrum sanguinem Christi. Verum donec Iesu sanguis daretur qui tam pretiosus fuit ut solus pro omnium redemtione sufficeret, necessarium fuit eos qui instituebantur in lege unumquemque pro se uelut ad imitationem quandam futurae redemtionis sanguinem suum dare […]»; trad. Cocchini 2014, pp. 209-211. 30

Osservazioni su di un passo di I Petri in Origene

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Oltre all’originalità formale, il testo qui commentato non manca di fornire alcune preziose notazioni teologiche. La volontà, manifestata dal Cristo, di non «far violenza al diavolo, né prevalere su coloro che ci avevano fatto prigionieri» (οὐκ ἠθέλησεν οὐδὲν τὸν διάβολον βιάσασθαι ὁ σωτήρ, οὐδὲ πλεονεκτῆσαι τοὺς αἰχμαλωτεύσαντας ἡμᾶς) sembra coerente con l’idea, ravvisabile in Origene, secondo cui anche al diavolo stesso potrà essere concessa la salvezza, alla fine dei tempi34, idea che, pertanto, trova qui conferma. Il passo in esame si conclude con la citazione della pericope petrina le cui occorrenze nelle opere dell’Alessandrino sono oggetto di questa ricerca (1  Pt 1,18-19: Οὐ…φθαρτοῖς ἀργυρίῳ καὶ χρυσίῳ ἐλυτρώθημεν ἐκ τῆς ματαίας ἡμῶν ἀναστροφῆς πατροπαραδότου, ἀλλὰ τιμίῳ αἵματι ὡς ἀμνοῦ ἀμώμου καὶ ἀσπίλου Χριστοῦ… τιμίῳ αἵματι); il testo appare parzialmente adattato, mediante la modifica della 2a plurale, presente nel testo originale, in 1a persona plurale (ἐλυτρώθημεν al posto di ἐλυτρώθητε), con lo scopo preciso di sostituire, al tono parenetico dell’apostrofe petrina, un ‘noi’, segno della comune salvezza conseguita grazie al ‘riscatto’ operato dal Cristo. Il legame tra l’offerta di sé operata dal Cristo e lo stesso gesto compiuto da parte dei singoli credenti viene analizzato in un contesto di per sé orientato a questa problematica, la Exhortatio ad martyrium. Commentando ancora una volta Mt 16,24 ss. e paralleli, Origene interpreta il “perdere la propria ψυχή” (= ‘anima’) come possibile sostegno a una teologia del martirio: Da molto tempo avremmo dovuto «rinnegare noi stessi» e dire: «Vivo non più io»; (che) si veda ora se, “abbracciata” la propria “croce” abbiamo “seguito” Gesù; cosa che si verifica se “Cristo vive” in noi. Se “desideriamo salvare” la nostra “anima” per riaverla superiore a un’anima [come intelligenza], allora “perdiamola” con il martirio. Infatti se “la perderemo” per Cristo, gettandola nella morte per lui, le procureremo la vera salvezza. Se si verificherà il contrario, sentiremo che non “consegue alcun vantaggio” colui che “ha guadagnato l’universo” sensibile per la propria perdizione o per il proprio danno. Quando uno “ha perduto” “la propria anima” o ne “è stato privato”, anche se “guadagna” il “mondo intero”, non potrà darlo “in cambio dell’anima” perduta. Questa, infatti, creata “a immagine di Dio”, è più preziosa di tutti i corpi. Uno solo ha potuto dare un prezzo in cambio dell’anima nostra già perduta, colui che ci ha acquistati “con il” suo “sangue prezioso”.

Si veda anche il contesto di poco seguente: «Isaia, con espressioni più profonde, afferma: “Ho dato come tuo riscatto l’Egitto, l’Etiopia, Siene, per te; perché tu sei prezioso avanti a me”»35. 34   Cf. al riguardo Crouzel 1992, pp. 31-61, spec. 57-60; Monaci Castagno 2000, pp. 114-118, spec. 117-118. 35   Mart. 12-13 (GCS 2 [OW 1],12-13; trad. it. Noce 1985, pp. 115-116): πάλαι τοίνυν ὀφείλομεν ἀρνεῖσθαι ἑαυτοὺς καὶ λέγειν· “ζῶ οὐκέτι ἐγώ”· καὶ νῦν δὲ φανήτω, εἰ ἄραντες ἑαυτῶν τὸν σταυρὸν τῷ Ἰησοῦ ἠκολουθήσαμεν· ὅπερ γέγονεν, εἰ “ζῇ” ἐν ἡμῖν “Χριστός”. εἰ θέλομεν ἡμῶν σῶσαι τὴν ψυχὴν, ἵνα αὐτὴν

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Nonostante le possibili analogie, comunque, anche questo gesto estremo – il martirio – di per sé è naturalmente inadeguato a rimediare la eventuale “perdita” dell’anima che l’uomo abbia subìto; giacché, subito dopo si riafferma, «uno solo ha potuto dare un “contraccambio” …». Irrimediabile è dunque, per le capacità umane, la perdita dell’anima, quando questa sia avvenuta «una volta per tutte»: rimediabile soltanto dall’unico che sia stato in grado di dare appunto un «contraccambio», il suo «sangue prezioso»36. Compare poi ancora una volta uno dei paralleli piu classici, nell’esegesi origeniana, a Mt 16,26, e cioe Is 43,3, citato in questa occasione insieme col successivo contesto (v. 4: ἀφ’οὗ σὺ ἔντιμος ἐγενήθης ἐναντίον ἐμοῦ); con ogni evidenza, per un gioco di rimandi incrociati (ἔντιμος per affinità etimologica e semantica richiama τίμιον di 1 Pt 1,19). La terminologia redentiva ha poi uno sviluppo di singolare interesse nel seguente testo, tratto dalle Omelie sull’Esodo: Queste pietre dunque rimangono «finché passi il tuo popolo, Signore, questo tuo popolo che hai acquistato» (Es 15,16: ἐκτήσω, v.l. ἐλυτρώσω; latino adquisisti). Ma se il Signore stesso è il creatore di tutte le cose, bisogna vedere in che modo qui si dica che “ha acquistato” quello che non c’è dubbio è già suo – è detto anche in un altro cantico del Deuteronomio: «Non è egli il tuo Dio, che ti ha fatto, ti ha creato e ti ha acquistato?» (cf. Dt 32,6) –; giacché è evidente che ognuno acquista quel che non era suo. È per questo che gli eretici dicono del Salvatore che quelli che “ha acquistato” non erano suoi; infatti, pagato il prezzo, avrebbe comprato gli uomini che il Creatore aveva fatto. È cosa certa, dicono, che ognuno compra quello che non è suo; dice infatti l’apostolo: «Siete stati comprati a caro prezzo» (cf. 1 Cor 7,23). Ma senti quello che dice il profeta: «Per i vostri peccati siete stati venduti e per le vostre iniquità ho ripudiato vostra madre» (cf. Is 50,1). Vedi dunque che tutti siamo ἀπολάβωμεν κρείττονα ψυχῆς, καὶ μαρτυρίῳ ἀπολέσωμεν αὐτήν. ἐὰν γὰρ ἀπολέσωμεν αὐτὴν ἕνεκεν Χριστοῦ αὐτῷ ἐπιῤῥιπτοῦντες αὐτὴν ἐν τῷ δι᾽ αὐτὸν θανάτῳ, τὴν ἀληθῆ σωτηρίαν περιποιήσομεν αὐτῇ· ἐὰν δὲ τὸ ἐναντίον, ἀκούσομεν ὅτι οὐδὲν ὠφελεῖται ὁ τὸν ὅλον κερδήσας αἰσθητὸν κόσμον διὰ τῆς ἰδίας ἀπωλείας ἢ διὰ τοῦ ἑαυτὸν ἐζημιῶσθαι. ἅπαξ δὲ ἀπολέσας τις τὴν ἑαυτοῦ ψυχὴν ἢ ζημιωθεὶς αὐτὴν, κἂν τὸν ὅλον κερδήσῃ κόσμον, οὐ δυνήσεται αὐτὸν δοῦναι “ἀντάλλαγμα τῆς” ἀπολλυμένης “ψυχῆς”. ἡ γὰρ “κατ᾽ εἰκόνα θεοῦ” δεδημιουργημένη τιμιωτέρα ἐστὶ πάντων σωμάτων. εἷς μόνος δεδύνηται δοῦναι ἀντάλλαγμα τῆς ἀπολλυμένης πρότερον ψυχῆς ἡμῶν, ὁ ὠνησάμενος ἡμᾶς τῷ ἑαυτοῦ “τιμίῳ αἵματι”. Καὶ κατά τινας δὲ βαθυτέρους λόγους φησὶν Ἡσαΐας· “ἔδωκά σου ἄλλαγμα Αἴγυπτον καὶ Αἰθιοπίαν καὶ Συήνην ὑπὲρ σοῦ· ἀφ᾽ οὗ σὺ ἔντιμος ἐγενήθης ἐναντίον ἐμοῦ” […]. 36   Per quanto riguarda il valore redentivo del martirio, cf. Mart. 50 (GCS 2, 46,19ss.; trad. Noce 1985, pp. 157-158): «Sappiamo ancora questo, che ciò che e stato detto di Abele, ucciso da Caino, omicida ed ingiusto, si applica a tutti coloro dei quali ingiustamente è stato versato il sangue. Infatti l’espressione: “La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra” (cf. Gen 4,10) riteniamo che sia detta anche di ognuno dei màrtiri, la cui voce del sangue grida a Dio dalla terra. Probabilmente, come noi “siamo stati riscattati” “con il sangue prezioso” (cf. 1 Pt 1,19; Ap 5,9) di Gesù, che ha ricevuto “il nome che è al di sopra di ogni nome” (cf. Fil 2, 9), così alcuni saranno riscattati “con il sangue prezioso” dei màrtiri. Ed essi stessi sono più esaltati di quanto non lo sarebbero se fossero rimasti giusti e non fossero divenuti màrtiri». Per una rassegna di altri passi su questo tema, cf. Noce 1985, p. 185, n. 98.

Osservazioni su di un passo di I Petri in Origene

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certamente creature di Dio e ognuno poi è venduto per i suoi peccati e si è allontanato dal suo Creatore per le sue iniquità. Dunque siamo di Dio, per il fatto che siamo stati creati da lui; ma siamo diventati schiavi del diavolo per il fatto che siamo stati venduti per i nostri peccati. Ma «il Cristo», venendo, «ci ha riscattati» (cf. Gal 3,13), mentre eravamo schiavi di quel padrone al quale ci eravamo “venduti” noi stessi col peccato. E così sembra che abbia ricevuto come suoi quelli che aveva creato, che abbia acquistato come stranieri quelli che col peccato avevano cercato per sé un padrone straniero. Ma forse si dice rettamente che il Cristo ci ha riscattati, lui che ha dato il suo sangue come nostro prezzo; ma che cosa di simile aveva dato anche il diavolo per comprarci?… Siamo andati un po’ più avanti con la intenzione di spiegare come si possa dire che Dio “ha acquistato” quello che è suo e che Cristo «ha riscattato col sangue prezioso» (cf. 1 Pt 1,19) quello che il diavolo aveva comprato con la spregevole mercede del peccato37.

A partire dunque da Es 15,16 prende l’avvio una polemica contro ‘eretici’, i quali sostengono che il Salvatore dovette acquistare, col suo sacrificio, ciò che non era suo. Ciò sarebbe argomentabile – a loro avviso – proprio sulla base del τιμῆς ἠγοράσθητε di 1 Cor 7,23, testo peraltro centrale, come s’è visto, anche nella concezione origeniana del riscatto redentivo. A correzione di questa lettura deviante della pericope paolina, viene impiegato Is 50,1b (LXX: ἰδοὺ ταῖς ἁμαρτίαις ὑμῶν ἐπράθητε, καὶ ταῖς ἀνομίαις ὑμῶν ἐξαπέστειλα τὴν μητέρα ὑμῶν; nella traduzione latina [citata in nota]: «peccatis uestris uenumdati estis, et pro iniquitatibus uestris dimisi matrem uestram»), da cui risulta che già appartenevamo a Dio, ma siamo stati venduti al diavolo come schiavi a causa del nostro peccare. La stessa formulazione troviamo anche nel Commento a Giovanni: « … con il suo (scil. dell’agnel  HEx VI,9, su Es 15,15 ss (GCS 29, 200 ss; trad. Danieli 1981, p. 121 ss.): «Manent ergo lapides nunc, “donec transeat populus tuus, Domine, populus tuus hic, quem acquisisti’ (cf. Es 15,16). Sed si ipse Dominus creator est omnium, uidendum est, quomodo hic “acquisisse” dicatur, quae sua esse non dubium est – dicitur et in alio cantico Deuteronomii: “nonne hic ipse Deus tuus, qui fecit te et creauit te et acquisiuit te?” (cf. Dt 32,6) –; uidetur enim unusquisque illud acquirere, quod non fuit suum. Inde denique et haeretici dicunt de Saluatore quia non erant sui, quos “acquisiuit”; dato etenim pretio mercatus est homines, quos creator fecerat. Et certum est, aiunt, unumquemque illud emere, quod suum non est; Apostolus enim ait: “pretio empti estis” (cf. 1 Cor 7,23). Sed audi, quid dicit propheta: “peccatis uestris uenundati estis, et pro iniquitatibus uestris dimisi matrem uestram” (cf. Is 50,1). Vides ergo quia Dei quidem creatura omnes sumus, unusquisque uero peccatis suis uenundatur et pro iniquitatibus suis a proprio creatore discedit. Dei igitur sumus, secundum quod ab eo creati sumus; effecti uero sumus serui diaboli, secundum quod peccatis nostris uenundati sumus. Veniens autem “Christus redemit nos” (cf. Gal 3,13), cum seruiremus illi domino, cui nosmet ipsos peccando uendidimus. Et ita uidetur tamquam suos quidem recepisse, quos creauerat, tamquam alienos autem acquisisse, qui alienum sibi dominum peccando quaesiuerant. Sed fortasse recte quidem dicitur redemisse nos Christus, qui pretium nostri sanguinem suum dedit – quid tale autem, ut nos mercaretur, etiam diabolus dedit? […] Paulo latius progressi sumus, dum uolumus exponere, quomodo Deus, quae sua sunt, dicatur “acquirere” et “redimere” Christus “sanguine pretioso” (cf. 1 Pt 1,19), quos emerat diabolus uili mercede peccati». 37

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lo) sangue ci ha ricomprati da colui che ci aveva comprati, in quanto ci eravamo corrotti per i peccati»: qui il testo di riferimento risulta però Ap 5,9 (ὅτι ἐσφάγης καὶ ἠγόρασας τῷ θεῷ ἐν τῷ αἴματί σου; trad. CEI: «perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue …»), non 1 Pt 1,18-1938. La redenzione di Cristo è affermata mediante un altro testo, esso pure assai caro a Origene, cioè Gal 3,13 (Χριστὸς ἡμᾶς ἐξεγόρασεν ἐκ τῆς κατάρας τοῦ νόμου γενόμενος ὑπὲρ ἡμῶν κατάρα; lat.: «Christus redemit nos …»). Segue, subito dopo, il riferimento a 1  Pt 1,19 («… qui pretium nostri sanguinem suum dedit»). Gli eretici di cui si parla sono i Marcioniti: da Origene stesso apprendiamo infatti che Gal 3,13 era uno dei punti d’appoggio sui quali Marcione fondava le proprie costruzioni teologiche: «Marcione in questo passo s’insinua a proposito del potere del Creatore, che egli accusa (d’essere) sanguinario, crudele e vendicativo, sostenendo che noi siamo stati riscattati per opera di Cristo, che è il figlio dell’altro Dio, (quello) buono»39. Proprio sulla base di Gal 3,13, con ogni probabilità, Marcione leggeva anche Gal 2,20 (τοῦ υἱοῦ τοῦ θεοῦ τοῦ ἀγοράσαντος [anziché il tràdito ἀγαπήσαντος] με κτλ)40. Tracce della medesima polemica si trovano anche nel passo, già citato sopra, del Commento a Romani («…quelli che credono sì in Cristo, ma non accettano la Legge e i Profeti…»), con analoghe argomentazioni. Nel passo or ora citato, conservatoci da Gerolamo, Origene distingue tra il ‘comprare’ (emere), e il ‘ricomprare’/‘riscattare’ (redimere), ed è il primo a compiere questa distinzione in un’area semantica che, come s’è visto, data la sua fluida varietà   CIo VI, 53 (SCh 157, 338; trad. Corsini 1968, p. 369).  Origene ap. Gerolamo In Gal. II (PL 26, 385-386): «Subrepit in hoc loco Marcion de potestate Creatoris, quem sanguinarium, crudelem infamat et uindicem, asserens nos redemptos esse per Cbristum, qui alterius boni Dei Filius sit. Qui si intelligeret quo differunt emere, et redimere (quia qui emit, alienum emit; qui autem redimit, id emit proprie quod suum fuit, et suum esse desiuit) nunquam Scripturarum uerba simplicia in calumniam sui dogmatis detorqueret». Nello stesso senso anche Epifanio, Haer. XLII,12,3 ss (GCS 31, 156). Su Origene e Marcione, cf. Harnack 19242, 337*-340*; Rius Camps 1975, pp. 311-312; Cocchini 1979, p. 102 ss; Crouzel 1985, trad. it., p. 213. In particolare, per la differenza, secondo i Marcioniti, tra il Dio “buono”, padre del Cristo, e il Dio creatore, cf. Prin II,5,4 (SCh 252, 304): «Superest eis adhuc etiam illud, quod uelut proprie sibi datum scutum putant, quod dixit dominus in euangelio: “Nemo bonus nisi unus deus pater”, dicentes hoc esse proprium uocabulum patris Christi, qui tamen alius sit a creatore omnium deo, cui creatori bonitatis nullam dederit appellationem». Cf, il commento cit., ad loc. (SCh 253,169, n. 16) e la n. di Simonetti 1968, p. 272 ss.); inoltre, Harnack 19242, 225*-226* e 261*. Sull’antitesi fra Dio “giusto” e Dio “buono”, cf. Prin XI,7,1 (ed. cit., p. 328): «Nam ut concedamus Marcioni uel Valentino posse differentias deitatis inducere et aliam boni naturam aliam uero iusti deseribere, quid excogitabit aut quid inueniet, ut differentiam sancti spiritus introducat?»; cf. ibid., praef., 4 (p. 80): «Hic deus iustus et bonus, pater domini nostri Iesu Christi legem et prophetas et euangelia ipse dedit, qui et apostolorum deus est et ueteris ac noui testamenti». Cf. anche Phil. 27, ed. Junod 1976, 270, pp. 2627 (δίκαιον μὲν αὐτὸν εἶναι θέλουσι καὶ οὐκ ἀγαθόν, [= il dio creatore]; Harnack 19242, 262* s.; HIer I,16 (GCS 3,14 ss); XII, 4 (p. 91); CMt XV,11 (GCS 40,377-378); HLev XVI, 4 (SCh 87, 240 ss); CC VI,52 (SCh 147,308-311); ancora, Harnack 19242, 264*-265*.271*-272*. 40   Su Gal 2,20 in Marcione, cf. Harnack 19242, 72*-73*.288*; Orbe 1976, II, pp. 434-435. 38 39

Osservazioni su di un passo di I Petri in Origene

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si prestava a inevitabili forzature e distorsioni interpretative41. Sintomatico, in tal senso, un passo in cui Origene stesso legge 1 Pt 1,19 contaminandolo con Gal 3,13 (cf. 4,5) e impiegando ἐξαγοράσαντος anziché la corrispondente forma di λυτρόω42. In questo medesimo contesto viene sottolineato il bisogno, anche da parte degli apostoli, di chi li riscattasse ‘col suo sangue prezioso’: il sacrificio – altrove si afferma – vale tanto per chi crede quanto per chi non credeva: « … Ovvero l’espressione: “perché… ?” (ἵνα τί;) sta per: “che cosa hanno fatto di tanto buono le genti, perché il mio sangue prezioso fosse versato per loro e la salvezza venisse loro per la trasgressione d’Israele?” (cf. Rm 11,11)»43. La comune necessità del riscatto diviene così consapevolezza esistenziale: «E per questo, se talora la lusinga di una malvagia concupiscenza ti turba, memore di ciò che ora ascolti, corri incontro a quel nemico che esce da te stesso, cioè dal “tuo cuore” (cf. Mt 15,19) e resisti a lui con queste parole, di’: – non sono mio, sono infatti stato comprato a prezzo “del sangue di Cristo” (cf. 1 Cor 6,20 + 1 Pt 1,18 s)»44. A parte, infine, rispetto alla linea esegetica che delimita i testi origeniani finora presi in considerazione, va esaminato un testo in cui il “prezioso sangue” di 1 Pt 1,19 è inserito in una diversa prospettiva di lettura: «Del “prezioso sangue”, a causa del colore, è simbolo lo scarlatto. Tale, d’altronde, è anche quello ‘legato’ alla nascita di Fares (cf. Gen 38,28) e quello mostrato da Raab, la meretrice, agli esploratori come ‘segnale’ (cf. Gs 2,18ss.)»45. Il collegamento tra tali testi biblici ci   Su ciò, cf. Orbe 1966, pp. 607-608.   CMt XII, 40 (GCS 40, 158): εὖ οἶδα δ᾽  ὅτι τὰ τοιαῦτα πολλοῖς προσκόψει τῶν ἐντυγχανόντων, οἰομένοις οὐ κατὰ τὸ εὔλογον δυσφημεῖσθαι τὸν πρὸ μικροῦ μακαρισθέντα ὑπὸ τοῦ Ἰησοῦ ἐπὶ τῷ “οὐ σάρκα καὶ αἷμα, ἀλλὰ” τὸν “ἐν τοῖς οὐρανοῖς” πατέρα ἀποκεκαλυφέναι αὐτῷ τὰ περὶ τοῦ σωτῆρος, ὡς ἄρα ὁ Ἰησοῦς εἴη καὶ “ὁ Χριστὸς” καὶ “ὁ υἱὸς τοῦ θεοῦ τοῦ ζῶντος”. ἀλλ᾽ ὁ τοιοῦτος ἐπιστησάτω τῇ τοῦ Πέτρου καὶ τῶν λοιπῶν ἀποστόλων ἀκριβείᾳ, καὶ αὐτῶν δεηθέντων (ὡς ἀλλοτρίων ἔτι) τοῦ ἐξαγοράσοντος αὐτοὺς ἀπὸ τοῦ ἐχθροῦ καὶ ὠνησομένου αὐτοὺς τῷ “τιμίῳ” αὐτοῦ “αἵματι”. 43   Su Mt 27,48-49, CMtS 135, or. XI, 280, 6-13 (frr. catenari; GCS 41, 229): Ἐν εἰκοστῷ πρώτῳ ψαλμῷ γέγραπται· “ὁ θεός μου, ἵνα τί με ἐγκατέλιπες” (τὸ γὰρ “πρόσχες μοι”, οὐ κεῖται ἐν τῷ Ἑβραικῷ). τὀ δἐ ἵνα τί με ἐγκατέλιπες, ἵν’ ὁ μετὰ τοὺς προφήτας ἁμαρτὼν εἰς ἐμὲ τοσαῦτα λαὸς ἀξίως στερηθῇ τοῦ φωτὸς καὶ γένηται ἐν σκότει. ἢ τὸ ἵνα τί ἀντὶ τοῦ· τί τηλικοῦτο τοῖς ἔθνεσι κατώρθωται, ἵνα τὸ τίμιόν μου αἶμα περὶ αὐτῶν ἐκχυθῇ, “τῷ” δὲ Ἰουδαίων “παραπτώματι ἢ σωτηρία” αὐτοῖς γένηται. 44   HIos V, 5-6 (GCS 30, 320: «Et ideo, si quando te malae alicuius concupiscentiae pulsat illecebra, memor horum, quae nunc audis, occurre hosti illi, qui de te ipso, hoc est “de tuo corde procedit”, et resiste ei in talibus uerbis, dic quia: non sum meus, emptus enim sum pretio “sanguinis Christi” […]». 45   HLev VIII, 10 (GCS 29, 410): «Iungitur tamen ad emundationem leprae huius etiam “coccum tortum”, sociatur et “hyssopum”. “Coccum tortum” figuram sacri sanguinis continet, qui de eius latere per “lanceae” uulnus extortus est. “Et hyssopum”. Hoc genus herbae naturam habere medici ferunt, ut diluat et expurget, si quae illae pectori hominum sordes e corruptione noxii humoris insederint. Unde et necessario in expurgatione peccatorum huiuscemodi graminis figura suscepta est. Coccum uero quod saepe sumptum sit ad salutis subsidia, in diuinis referri uoluminibus inuenimus, sicut in partu Thamar, cum “unus” inquit “prior protulit manum. Accipiens autem obstetrix coccum alligavit in manu eius dicens: hic exibit prior”. Sed et Raab meretrix, cum exploratores suscepisset et pactum ab iis salutis acciperet, et illi: “et pones” inquiunt “signum resticulam coccineam, et alligabis eam in fenestra 41 42

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riporta ad antiche letture emergenti da raccolte di testimonia (già Clemente Romano, poi Giustino ravvisano, nel cordone scarlatto di Raab, il “sangue del Signore”); Origene ha ampliato la campionatura dei passi raggruppati intorno a questo tema aggiungendovi, originalmente, 1 Pt 1,19, che viene per di più a fornire la chiave di lettura principale46. Bibliografia Alcain 1974 = A. Alcain, Cautiverio y redención del Hombre en Orígenes, Universidad de Deusto-Mensajero, Bilbao 1974. Aliquò 1969 = S. Aliquò (a c. di), Origene. Commento al Vangelo di Luca, Roma 1969. BP III = Biblia Patristica III, Paris 1980. Büchsel 1938 = F. Büchsel, v. ἱλαστήριον in TWNT III,319 ss. (= GLNT IV, 998-1012), a c. di J. Herrmann, F. Büchsel, Stuttgart 1938 (trad. it., Brescia 1968). CC = P. Koetschau (a c. di), Origenes Werke, 1. Bd.: Die Schrift vom Martyrium, Buch I-IV gegen Celsus; 2. Bd.: Buch V-VIII gegen Celsus, die Schrift vom Gebet (GCS 2-3), Leipzig 1897-1899. Chênevert 1969 = J. Chênevert, L’Église dans le commentaire d’Origène sur le Cantique, Desclée de Brouwer, Bruxelles-Paris-Montréal 1969. CIo = C. Blanc (a c.), Origène. Commentaire sur saint Jean I-V, Paris 1966 (SCh 120); IV.X, Paris 1970 (SCh 157); XIII, Paris 1975 (SCh 222); XIX-XX, Paris 1980 (SCh 290). Clavier 1968 = H. Clavier, Notes sur un mot-clef du johannisme et de la soteriologie biblique: ἱλασμός, in «Novum Testamentum» 10, 1968, pp. 287-304. CMt = E. Klostermann (a c.), Origenes Werke, 10. Bd.: Matthäuserklärung, I: Die griechisch erhaltenen Tomoi (GCS 40), Leipzig 1935. CMtS = E. Klostermann (a c.), Origenes Werke, 11. Bd.: Matthäuserklärung, II: Die lateinische Übersetzung der Commentariorum Series (GCS 38), Berlin 1933. Cocchini 1979 = F. Cocchini, Origene, commento alla lettera ai Romani. Annuncio pasquale, polemica antieretica, L’Aquila 1979. Cocchini 1983 = F. Cocchini, Sangue della circoncisione e sangue della redenzione in Origene; dall’ombra alIa realtà, dal particolare all’universale, in: Atti della Settimana “Sangue e antropologia nella letteratura cristiana”, in F. Vattioista, per quam deposuisti nos”». Τοῦ δὲ τιμίου αἵματος διὰ τὸ χρῶμα τὸ “κόκκινον” σύμβολον. Τοιοῦτον καὶ τὸ “δεθὲν” ἐν τῇ γενέσει τοῦ Φαρὲς καὶ τὸ δειχθὲν ἀπὸ Ῥαὰβ τῆς πόρνης τοῖς κατασκόποις “σημεῖον”. 46   Sulla simbologia dello ‘scarlatto’, cf. De Lubac 1950, trad. it., p. 193; Daniélou 1958, trad. it., p. 148 ss.; Vattioni 1982, pp. 81-118.

Osservazioni su di un passo di I Petri in Origene

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Osservazioni su di un passo di I Petri in Origene

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UNA NOTA SULLA POSSESSIONE, IL TEATRO E I SANTI FOLLI PER CRISTO

Luigi Canetti

Empaizein toi kosmoi, prendersi gioco del mondo o meglio, dell’ordine1. L’espressione, fin dalla sua primitiva occorrenza nella Vita di Simeone il folle di Leonzio di Neapoli2, rinvia indubbiamente alla moria dia Christon (follia per Cristo) di paolina memoria (1Cor 4,10) – e poi ritorno sul punto. Ma è bene ricordare che, nell’agiografia e nella spiritualità bizantina e medievale, questo empaizein, questo burlarsi e deridere, e al tempo stesso venire deriso e sbeffeggiato, è una delle cifre, forse la più   Il verbo empaizein andrebbe inteso in primo luogo come riferito all’ambito della gestualità. Nei testi omerici paizo è usato per indicare il gioco con la palla delle ninfe e la danza. Paizo viene utilizzato da Platone (Leg. VII, 796c-d) anche per descrivere la danza/gioco dei fanciulli in onore degli dèi (pais, paizo, paideia hanno tutto la stessa radice). Il significato originario del verbo sembra proprio quello di ‘percuotere’, ‘salterellare sopra’, oltre a quello che poi ha assunto per estensione di ‘schernire’, ‘deridere’, ‘sbeffeggiare’ ecc. In molti luoghi biblici la traduzione greca dei Settanta rende l’ebraico śiḥaq, ‘danzare’, con paizein, evidenziando così la caratteristica del movimento nel gioco e nella danza (cfr. Bertram 1979). Varrebbe qui la pena di richiamare una riflessione di Remo Cacitti a proposito della polemica di Agostino contro i Circoncellioni e del legame etimologico del verbo latino insultare con quello di saltare, nel significato, appunto, di ‘saltare su o contro’, ma anche ‘esultare’ e ‘saltare di gioia’ (cfr. Cacitti 2006, p. 136). Non si dovrebbe pertanto escludere la possibilità che questa proverbiale espressione vada intesa nel senso di ‘prendersi gioco dell’ordine’, più che del ‘mondo’ in quanto tale, perché forse renderebbe meglio il senso originario: prendersi gioco dell’ordine, anche quello che governa i codici della gestualità, quindi saltare contro l’ordine gesticolando in maniera frenetica e scomposta. La venuta del Nuovo Canto, secondo Clemente Alessandrino, fa del mondo un kosmos ovvero il nuovo nomos musicale che deve regolare metaforicamente le danze dei corpi che compongono la nuova choreia cristiana (Clem., Prot. 1, 5, 1); cfr. Arcari 2016. Per tutta la questione rinvio alla tesi di dottorato (XXX ciclo) di Donatella Tronca (Christiana choreia. Un’antropologia cristiana della gestualità coreutica tra Antichità e Medioevo). 2   Leonzio di Neapoli, Vita di Simeone Salos [sez. III, cap. 10], in Rydén 1963, p. 142; cfr. Festugière 1974, p. 129; Cesaretti 2014, p. 99. 1

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intricata e intrigante, del demonio come tentatore. È il diavolo, con le sue insidie e con le sue trame, a prendersi gioco del mondo/ordine ma anche ad essere oggetto di scherno. Il repertorio folklorico e le indagini linguistico-letterarie su questo fronte sono molteplici3. Quello che più inquieta, allora, è proprio quest’affinità paradossale tra la santa follia e il gioco diabolico, la cifra meno addomesticabile del demoniaco, il suo lato grottesco e perturbante. Il coté demoniaco della santità fu ben rilevato cinquant’anni fa in un famoso saggio di Alessandro Bausani dedicato alla figura del malamati islamico, il pazzo sacro che nasconde la sua virtù ostentando comportamenti peccaminosi e mimando letteralmente Satana4. Lo scambio di vesti tra il santo esorcista e il posseduto è esplicito già a livello testuale fin dagli archetipi evangelici, laddove il Gesù esorcista e taumaturgo viene accusato dai Farisei di flirtare pericolosamente con Belzebù5. Diffusa, in effetti, doveva essere la percezione e in ogni caso la rappresentazione del folle come indemoniato, e la cosa non è riducibile a topos letterario. Fin dall’antichità cristiana la possessione è, per antonomasia la malattia dell’errore, e i suoi sintomi tipici sono quelli dell’erranza, dell’agitazione scomposta e in apparenza irrelata6. L’etimologia di jurodivyi (il santo folle della Russia ortodossa) riconduce anch’essa all’idea di errore fisico o psichico, quindi, ancora una volta, agli erranti come portatori di una verità di ordine superiore7. Certo è che la relazione tra follia e gioco diabolico è difficilmente componibile nei quadri di una razionalità teologico-filosofica: ed è precisamente questo, mi pare, il vero problema dei redattori delle agiografie così dei saloi come degli jurodivye e dei loro lettori: dei santi in vita, del Simeone vissuto a Emesa al tempo di Giustiniano, o del presunto Andrea vissuto a Costantinopoli cent’anni prima ma il cui montaggio letterario risalirebbe a Niceforo prete di Santa Sofia nella Bisanzio del Mille, ben poco, in realtà, possiamo dire; e ancora meno, se non per via analogica, sappiamo del loro autentico osservatorio urbano. Su scala differenziale, questa diffrazione tipicamente agiografica tra il vissuto, il percepito, il narrato (narrato in forma segmentale più che lineare e biografica) e il letto/ascoltato s’impone anche per gli epigoni russi dei santi folli siro-bizantini. Vista sul piano teatrologico, la diffrazione agiografica tra verità e finzione si enuncia e si articola nella stratificazione tra personaggio attore e performer, che il tipo del santo folle incarna in maniera emblematica8.   Basti il rinvio al penetrante studio di Beccaria 1995. Già Arturo Graf, nel 1889, aveva còlto da par suo la cifra comica e burlesca del diabolico (cfr. Graf 1980, pp. 110-126). Curiosamente, né Enrico V. Maltese (cfr. Maltese 2005) né Paul Magdalino (cfr. Magdalino 2007), nei loro bei contributi sul riso e la derisione a Bisanzio, hanno sfiorato il tema della santa follia né tantomeno il suo intersecarsi con il grottesco diabolico; lo ha còlto, invece, Domenico Devoti (cfr. Devoti 2007). 4   Bausani 1958, poi rifuso in Id. 2000, pp. 21-34. 5   «Ma i farisei, udendo ciò, dissero: “Costui non scaccia i demòni se non per l’aiuto di Belzebù, principe dei demòni”» (Mt 12,24); se ne veda il prezioso commento in Gaeta 2006, p. 904. 6  Cfr. Rousselle 1990, pp. 133-153. 7  Cfr. Maravić 2016, pp. 25, 92, 175. 8   Cfr. ivi, pp. 10-12. 3

Una nota sulla possessione, il teatro e i santi folli per Cristo

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Moria, stultitia è dunque la condizione del santo folle, dal V secolo tecnicamente salos, termine dalla radice siriaca (l’area di diffusione e attestazione più antica del modello ascetico-letterario del santo folle per Cristo), di cui più volte è stata richiamata l’etimologia radicata nell’idea di ondeggiare, scuotere, traballare. È la scelta di una condizione socialmente instabile e riprovevole, antropologicamente ambigua, che ripete e potenzia fino al parossismo il paradosso paolino della saggezza/follia, che già si stempera a cifra comune della sequela Christi fin dai primi secoli9. Tutti i cristiani sono chiamati alla santità, nella prospettiva di Paolo, e quindi tutti sono chiamati a trasformarsi e glorificarsi seguendo il folle logos del Dio incarnato crocifisso e risorto. I cristiani rifiutano il nomos della città per i suoi risvolti idolatrici; il folle amore del Cristo passionato li ha liberati dall’idolatria del sacro spingendo i più temerari ad accettare o addirittura a ricercare una morte infame in nome della dismisura della Croce. Essi non a caso appaiono come teatranti ed esibizionisti, infames (nell’accezione tipica del lessico giuridicosociale tardoantico, e riferito qui in primo luogo alla gesticolazione turpe degli attori)10, quando non stolti o addirittura folli, agli occhi dei pagani colti (sono celebri le invettive di Celso e di Marco Aurelio)11. La follia è dunque immanente a una santità ovvero a una condizione cristiana che è già in sé stessa il segno di una rottura sociale e una pietra d’inciampo (scandalo per i Giudei, appunto, e follia per i pagani). Ma la follia dei cristiani non può sconfinare nella mania, la pazzia furiosa dei medici e dei rituali estatici che i Greci associavano all’irruzione del divino12. Semmai può rappresentarsi nell’ossimoro rivelatore della sobria ebrietas (la methe nephalios di Filone)13, il paradosso della coesistenza di riposo e movimento, di discesa e di risalita (kenosis e theosis), di alternanza e di doppia (s)comparsa tra regime diurno e regime notturno, che riecheggiano nella macrodinamica esistenziale della santa follia. Non stiamo dunque ragionando di follia come invasamento demonico trasformato in possessione diabolica, che perciò stesso mostra il lato distruttivo del disordine e della duplicità insito nella figura di Satana: non più accusatore guardingo e insidente che provoca e mostra i nostri peccati, ma ormai Avversario e Nemico del genere umano, antagonista di Dio, epitome di un paganesimo che si vuole combattere e sconfiggere con le armi dell’ascetismo   Per tutto questo, oltre al recente lavoro di Maravić 2016 (con utili rassegne critiche, traduzioni di fonti e una ricca bibliografia), è doveroso il rinvio all’importante sintesi di Ivanov 2006. Isabella Gagliardi ha appena pubblicato (novembre 2017) una nuova sintesi sul tema della santa follia tra Oriente e Occidente, che si segnala, fra l’altro, per l’attenzione rivolta al sufismo islamico e alle fonti mediche, filosofiche e giuridiche bassomedievali (cfr. Gagliardi 2017). 10  Cfr. Neri 1998, p. 197. 11   Si veda almeno Ruggiero 1992, pp. 97-118, 149-159. 12   Si veda da ultimo Guidorizzi 2010, pp. 17, 20, 25-27, 63-68. Per le intersezioni con la riflessione medica antica è da vedere l’importante ricerca di Pigeaud 2010. 13   Cacitti 2001, p. 73; per un’utile rassegna delle principali occorrenze patristiche del motivo, vedi Meloni 2006. 9

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eroico, specialmente quando l’impero romano ormai si è ufficialmente ma solo superficialmente convertito a Cristo14. Il santo folle imita dunque lo stolto, l’idiota, si fa «stolto per Cristo»15 non tanto per mettere alla prova il raggiunto superamento della soglia dell’apatheia, dell’indifferenza alle passioni, reimmergendosi nel mondo. E non lo fa nemmeno per umiliare la propria intelligenza come forma di ascesi e quindi in vista di un mero perfezionamento individuale: se così fosse, si tratterebbe di un autentico inganno, una vera illusione/simulazione diabolica, perché attraverso la finzione il santo si servirebbe degli altri soltanto per edificare la propria virtù16. Il santo fa dunque ritorno nel mondo, dopo il suo apprendistato anacoretico, perché proprio attraverso la sua stoltezza vuol farsi beffe della ragione e dell’ordine di questo mondo, provocandone e insidiandone le certezze. Ecco allora la mimesi inquietante della cifra diabolica del tentatore e dell’accusatore: questo in effetti significa ancora shatan nel calco grecoebraico dei Vangeli, un agente della corte celeste al servizio di Dio17. Al tempo stesso il santo folle vuole ripetere nella propria carne muta e sofferente il paradosso della kenosis cristica, dell’abbassamento divino nell’umano, fino al punto di farsi umiliare e sbeffeggiare. Il riso e la derisione sono qualcosa che va oltre la razionalizzazione paolina della follia dei cristiani opposta alla ragione dei falsi sapienti, i filosofi pagani e i virtuosi Giudei che si scandalizzano per la follia della Croce e non comprendono il nuovo ordine di verità rivelata (cioè disvelata poiché incarnata) rivendicato dai cristiani. Il riso e la derisione sono qualcosa che va oltre la sopportazione delle percosse (così, in fondo, appare ancora nel Francesco dei Fioretti, il novellus pazzus dell’agiografia occidentale)18; sono qualcosa che va oltre la prassi diffusa di autoinfliggersi pene e torture corporali da parte dei virtuosi dell’ascetismo (si pensi agli stiliti, ai dendriti, ma anche ai penitenti e ai reclusi del nostro Medioevo). Riso e derisione rinviano, appunto, a una dimensione carnevalesca che anche in altre culture e in altre epoche della storia cristiana incrocia e attraversa in forma liminale (ma non perciò trascurabile) la sfera del sacro, e proprio per questo ha sempre creato disagio se non aperta condanna tra i depositari della morale ufficiale. Secondo la lettera del  Su tali dinamiche, già evidenti nel Tardoantico cristiano, si può vedere Canetti 2013. Ho da tempo in cantiere una monografia sui rituali di possessione nel cristianesimo tardoantico e altomedievale. 15   1 Cor. 4,9-10: «Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo [moroi dia Christon], voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati». E inoltre: «Noi annunciamo Cristo crocifisso! Scandalo [skandalon] per i Giudei e stoltezza [morian] per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio! Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Cor 1,23-25). 16   Faccio mie qui alcune riflessioni di Lanza 1997, p. 188. 17  Cfr. Monaci Castagno 1996, p. 31. 18  Cfr. Saward 1983, pp. 124-132; Gagliardi 1987, pp. 81-135; Piatti 2012, pp. 643-652; Gagliardi 2017, pp. 123-148. 14

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le Scritture, né Cristo né Paolo si sono mai abbandonati al riso e alla derisione19: è un leitmotiv dell’esegesi patristica e medievale, che dovette suggerire a Umberto Eco la borgesiana figura del monaco cieco Jorge, censore e custode occulto del perduto libro sul riso di Aristotele, e alter ego di Gugliemo da Baskerville, con la sua astuzia diversamente luciferina. Sono le figure istrioniche del buffone sacro, del trickster, del folletto, dello skomoroch, del clown, che si profilano dietro il chierico che si traveste durante le feste dei folli, dietro il predicatore che induce l’uditorio a ridere sguaiatamente raccontando storielle oscene durante il sermone pasquale20, o dietro il monaco girovago che si confonde con le schiere dei giullari, dei mimi e dei saltimbanchi21. Cos’è che accomuna queste figure mitiche e reali se non l’ambiguità del riso provocato e della derisione attratta dai folli sotto mentite spoglie? Mascherarsi, mimetizzarsi, confondere apparenza e realtà allo scopo di suscitare o la semplice illusione e l’intrattenimento (ciò che la chiesa condanna) ovvero, più sottilmente e paradossalmente, indurre una trasformazione dei cuori e delle regole del gioco sociale per smascherare l’ipocrisia delle convenzioni, anche e soprattutto di quelle degli ordini sacri e delle liturgie del potere ecclesiastico… Trovo illuminanti due aspetti, complementari, di questa affinità profonda tra il santo folle, il briccone sacro e il demonio nel suo volto comico-grottesco e perturbante. Da un lato, pur scontando il filtro letterario degli agiografi, il fatto che nella percezione di questi personaggi da parte degli ‘spettatori’ reali (e bisognerebbe insistere sull’idea di spettacolo, perché i tratti attoriali e performativi del paradigma della santa follia rilevano senza soluzione di continuità dal tardoantico all’epoca moderna) la loro santità fatta di miracoli e prodigi conviva senza apparenti contrasti teologici con la derisione della loro stoltezza (su un altro piano, si badi, sono i santi stessi che poi dànno ripetutamente dello scemo ai loro ignari osservatori). Dall’altro, il fatto che, come fossero maghi ossia manipolatori di forze occulte, i santi folli, molto più di quanto non accada per altre categorie di asceti d’Oriente e d’Occidente, si servono dei demoni e dei loro poteri occulti per compiere miracoli punitivi e, come dire, di ostentazione pubblica della potenza carismatica e taumaturgica che agisce attraverso di loro e fa dei loro corpi gli strumenti efficaci di una muta pedagogia del sacro22. Del resto, i protagonisti di queste storie predicano e magari convertono più con le azioni paradossali, violente, provocatorie e derisorie che non 19   Non tutti i cristiani, nell’antichità, la pensavano così: si veda in proposito il penetrante saggio di Stroumsa 2004; e inoltre, Mazzucco 2007; le querelles medievali sulla diabolicità del riso, e sulla possibilità che Cristo abbia riso, sono rapidamente evocate in J. Le Goff 2006; più distesamente in Id. 2001. 20  Cfr. Jacobelli 1990. 21   Sulle contiguità tra il comico e il diabolico, oltre allo splendido saggio di Lanza 1997, è ancora prezioso lo studio fondativo di Radin, Jung, Kerényi 1965; quindi Miceli 1984; per l’iconografia giullaresca, vedi Saffioti 2009. 22   Cfr. p. es. Leonzio di Neapoli, Vita di Simeone il folle [III, 20], in Rydén 1963, p. 154; cfr. Festugière 1974, p. 142; Cesaretti 2014, p. 120.

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con l’uso della parola suasoria, benché nelle vite degli jurodiviye, molto più che in quelle dei saloi, si manifesti, nella dialettica con il potere autocratico moscovita, una più netta connotazione profetica23. Come tutti gli asociali per natura (e non per casualità, come direbbe l’Aristotele politico), anche i santi folli, asociali per scelta, o sono sciocchi o hanno qualcosa di superiore all’umano. O forse, dovremmo dire, appunto, giocano a far gli scemi perché al tempo stesso appaia e resti occulto il lato sovrumano, cristico, della loro follia. I saloi – come ricordavo prima – vengono percepiti e, d’altra parte, sostengono tatticamente la parte di posseduti dal demonio24. Anche Gesù era stato preso per un indemoniato25, e il santo cristiano pratica l’esorcismo proprio perché, come uno sciamano, ha saputo domare e cavalcare i suoi propri demoni praticando la follia dell’ascesi. C’è allora una dimensione/funzione omeopatica che accomuna le due condizioni: si diventa folli e si diventa indemoniati per conseguire una terapia dell’anima attraverso la messinscena mimetica di un corpo passionato. Certo, la retorica agiografica e la teologia ortodossa presentano sempre la possessione come una condizione subita e tutt’al più favorita dall’apertura peccaminosa delle porte del cuore e dei sensi. Mai o quasi mai come condizione auspicata e strumento rituale di iniziazione e di superiore conoscenza, quale in effetti essa è stata e continua ad essere, anche se gli indemoniati non lo sanno e interpretano un copione antico e rassicurante perché da sempre ritenuto efficace. Ma la commedia rituale della possessione e dell’esorcismo, mettendo in scena attraverso i corpi il codice simbolico che ne governa la partitura ideologica (ossia la demonologia), induce nella persona sofferente lo stato di possessione ritualizzata e quindi agisce sul male operando sulla sua rappresentazione in termini demoniaci (ecco dunque la funzione omeopatica). Come strumento diagnostico e agente performativo, l’esorcismo svela dunque la natura paradossale del concetto di possessione, «strumento interpretativo» di una condizione anomala, e al tempo stesso «dato offerto all’interpretazione vissuta» di essa26. Fin dall’antichità cristiana, in effetti, il rituale esorcistico ha precisamente la funzione di «produrre e riprodurre quella possessione diabolica che esso stesso, poi, intende eliminare»27.   Così, persuasivamente, Maravić 2016, p. 99 («Rispetto alla “follia d’azione” bizantina, quella russa è piuttosto una “follia della parola”»). 24   Si veda ancora Leonzio di Neapoli, Vita di Simeone il folle [III, 22], in Rydén 1963, p. 156; cfr. Festugière, pp. 144-145; Cesaretti 2014, p. 124 («Qualunque cosa facesse, lo assimilavano comunque a quei tanti invasati che parlano e profetizzano dietro istruzione demoniaca»); vedi ora su questo punto anche Gagliardi 2017, pp. 38-39, 78-79. 25   Vedi nota 5. 26   Starobinski 1978, p. 98. 27   Talamonti 1998, p. 241. Esaminando le cose in questa prospettiva, «la possessione potrà essere interpretata come una sorta di rappresentazione di un ruolo (nel senso teatrale) che il dispositivo simbolico del rituale mette in opera. […] L’interpretazione del rito esorcistico come terapia deve quindi essere ampliata in rapporto al fatto che ciò che viene ufficialmente “curato” dal rito, innanzi tutto viene 23

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Il santo folle mette a nudo questa novità sconvolgente del cristianesimo come autentica teo-drammatica della storia (Hans Urs von Balthasar), dove tutti, insieme a Dio, sono attori e protagonisti e nessuno può più trastullarsi emotivamente nello sterile osservatorio dell’arena o della platea, dove ciò che viene mostrato non è quel che sembra; nessuno ormai, dopo che Cristo ha rivelato nella sua carne il mistero della storia, può più rinchiudersi nello sguardo irresponsabile dello spettatore antico28. Con la sua simulazione di follia, con il suo copione convenuto ma secretato, con la sua attorialità paradossale, il santo folle disvela la dimensione teatrica – falsa perché duplice e ingannevole come la simulazione attoriale – del mondo non ancora redento dalla follia di Cristo. La diabolicità perversa ossia la natura divisiva del peccato che governa il mondo e allontana gli uomini dal loro modello (il Cristo fatto Uomo) e dal loro destino di gloria (l’Uomo assimilato a Dio attraverso Cristo) viene disvelata proprio attraverso un uso funzionale, apatico e al tempo stesso controllato della maschera diabolica del folle (il dominio di sé è la cifra filosofica e sapienziale dell’ascetismo cristiano, anche nella declinazione dei saloi): non abbiamo però a che fare, lo ripeto, con la mania furiosa delle baccanti invasate da Dioniso (l’elemento dionisiaco fatico a ravvisarlo nella santa follia, se non nella vaga analogia sacrificale e nella dimensione attoriale della dissimulazione: Dioniso, come ci ha insegnato Vernant, è in effetti anche il dio della maschera29). Quello dei saloi, come avvertì de Certeau30, è il riso letteralmente utopico e spaesante dell’idiota, è il riso del fanciullo e dell’innocente, del vero sapiente che vuole sperimentare l’abbassamento nel peccato per raggiungere la pienezza teandrica della cristiformità, una pienezza che, da Origene fino alla moderna spiritualità ortodossa, non può escludere nemmeno il diavolo dall’economia della salvezza e dunque dalla redenzione finale: è questa una maschera cristica poco familiare all’Occidente latino, con il suo tendenziale dualismo appena velato dalle pudenda della demonologia, ma assai più familiare a Bisanzio e alla Slavia ortodossa fino a Dostoevskij e oltre. È una terza via rispetto alle secche del razionalismo teologico, con i suoi conti morali che tornano sempre (da qui anche il rilievo della tensione apocalittica che attraversa queste agiografie31), ed è al tempo stesso un’alternativa radicale, per quanto non rivoluzionaria nel senso moderno, rispetto al conformismo politico-ecclesiastico dei vari regimi di cristianità succedutisi nell’Oriente cristiano, da Costantino ai basileis bizantini fino ai loro ultimi eredi, gli Zar della Terza Roma.

determinato, creato, prodotto da esso stesso» (ibid.). Più distesamente, la tematica viene ripresa in Talamonti 2005, pp. 139-163. 28   Su questi temi è doveroso il rinvio ai fondamentali lavori di Lugaresi 2008 e di Bino 2015. 29  Cfr. Vernant 2001, pp. 180-212. 30  Cfr. De Certeau 1987, pp. 71-90 (nuova ed. 2008, pp. 33-51). 31   La rilevano bene le fini considerazioni di Maravić 2016, pp. 204-226.

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LA LUNGA DURATA DELLA UNZIONE SACRA

Antonio Carile

La cerimonia della unzione sacra, come segno della investitura divina, secondo Esodo 30,23-35 era stata dettata direttamente da Dio a Mosè con la prescrizione degli ingredienti del crisma, da utilizzare come unzione sacrale dei sacerdoti e dei vari elementi del tabernacolo. Il liberatore del popolo ebraico dall’Egitto era stato in realtà allevato come principe egiziano alla corte del faraone, per volontà della figlia del faraone che lo aveva rinvenuto neonato in una cesta galleggiante sul Nilo. Era uso egiziano di conferire ai bambini allevati come figli il solo nome di “Figlio” (ms – che forse si pronunciava moises – termine che figura ad esempio nei nomi teofori: Ra-mes, Thot-mes, cioè Figlio di Ra, Figlio di Thot). Mosè in quanto principe egiziano e in quanto sacerdote di Eliopoli con il nome di Osarsiph, secondo la testimonianza di Manetho1, conosceva bene il rituale di divinizzazione del faraone, vertice della gerarchia sacerdotale, che comportava una duplice unzione, come conosceva le unzioni rituali mattutine delle statue degli dei nei templi egizi: Plutarco (I-II sec. d.C.) – abituato alla ideologia della divinità dei re e degli imperatori del suo tempo – riporta la formula di Manetho circa la confezione del kifi, cioè dell’unguento sacro composto da sedici elementi, formula che non ci è pervenuta nell’estratto di Manetho ad opera di Giorgio Monaco Sincello,  Assmann 2000; Assmann 2002, pp. 252-259, 261-266, 269-274. Assmann analizza compiutamente le testimonianze antiche su Mosé come fondatore di una religione, come egizio e come capo politico, utilizzando principalmente Manetho, Filone, Strabone, Giuseppe Flavio e Tacito. Egli vede in Mosé un «subliminale ricordo di Amarna» (p. 251) piuttosto che l’erede e propugnatore dell’idea di Akhenaton circa il dio unico, secondo l’idea di Freud (Freud 1979), e vede nell’esodo ebraico la cacciata degli amarniani dall’Egitto, la cui nocività è dichiarata dalle fonti con il termine di “lebbrosi”, “macchiati”.

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morto poco dopo l’816. Era stato sincello del patriarca Tarasio di Costantinopoli. Secondo Plutarco, che estrae il testo direttamente da Manetho, a noi non pervenuto nell’estratto del Sincello: «Il kyphi è un composto formato da sedici ingredienti: miele, vino, uva passa, cipero, resina, mirra, aspalato, seseli, inoltre lentisco, bitume, giunco, lapazio, nonché entrambi i tipi di ginepro – quello denominato grosso quello denominato sottile – e infine il cardamomo e la canna. Tutti questi elementi vengono miscelati non casualmente, ma nel momento in cui vengono letti ai profumieri delle scritture sacre, mentre questi li mescolano»2. La moderna egittologia si muove ancora entro le linee cronachistiche escogitate dall’erudito Manetho (caro al dio Thot, il dio della scrittura) nel III secolo a.C., cioè un sacerdote di Sebennito odierna Samannud nel delta (Sincello, 72.16) che in una sua lettera a Tolemeo II Filadelfo, probabilmente apocrifa, presenta se stesso come «gran sacerdote e scriba dei sacri templi d’Egitto, nato a Sebennito e residente a Eliopoli». Sebennito era la egiziana Tjeb.nuter, cioè “città del sacro vitello”, forse rievocato nel vitello d’oro di Esodo 32, 1 Re 12,28 ss., ma soprattutto era la città che era stata visitata da Solone come centro di cultura, una testimonianza valorizzata da Assmann. Eliopoli ospitava l’albero sacro sulle cui foglie la dea Seshat, signora delle biblioteche e delle lettere, annotava nomi e imprese dei faraoni: era cioè un centro di memorie storiche egiziane. La testimonianza dell’Esodo è segno che questa simbologia rituale influenzò il mondo ebraico che ne desunse il termine di mesih, cioè unto, messia, poi passato al cristianesimo nel termine Christòs. Dio aveva dettato a Mosè gli aromi che componevano l’unzione sacra che secondo l’Esodo venne applicata ai sacerdoti. L’unzione ebraica era stata estesa dai sacerdoti ai re, ma interesserà anche il pagano Plutarco (46-120 d.C.) in tema di divinizzazione del sovrano. L’incoronazione del re-dio-sacerdote egiziano aveva comportato alcune cerimonie fra cui una delle più importanti era sugli aromi che dovevano comporre l’unzione sacra. La unzione regale veniva impartita al faraone dopo il conferimento delle due corone: la bianca dell’Alto e la rossa del Basso Egitto e dopo l’assunzione della veste regale. Da quale delle due tradizioni ebraiche, quella sacerdotale dell’Esodo, o quella regale del libro dei Re, deriva l’Hagion Myron del patriarca di Costantinopoli Nuova Roma? Il “santo balsamo” si compone di olio e di 36 elementi vegetali che simboleggiano le virtualità odorifere dello Spirito Santo. Il patriarca nella sua preghiera di consacrazione del balsamo invoca Dio affinché invii lo Spirito Santo perché tramuti l’olio «in balsamo regale, crema spirituale, filatterio della vita, atto a santificare le anime e i corpi, vestimento di incorruttibilità, sigillo di perfezione»3. Quando Davide riceve l’unzione sacra «lo spirito del Signore fu per sempre con Davide»4. Isaia afferma: «Lo spirito del Signore si è posato su di me, poiché il Signore mi ha  Plut. De Iside et Osiride, cap. 80: cfr. Plutarco, Tutti i Moralia, Milano 2017, p. 719.   Mayassis 1988, p. 381. 4   1 Re 16,13; Sal 89,21 s. cfr. anche 2 Cor 1,21-22. 2 3

La lunga durata della unzione sacra

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riempito della sua unzione»5. Secondo la concezione cristiana, fondata sul profeta, l’unzione conferisce lo Spirito Santo. La contiguità della unzione ebraica e poi cristiana con la unzione regale/sacerdotale faraonica, che costituiva il momento più alto e segreto delle cerimonie regali egiziane, al punto che il geroglifico che in egiziano significa neb cioè sovrano, signore, è rappresentato dalla coppa della unzione, che rapporto ha con il mondo ellenico e poi bizantino? È un resto preterintenzionale nella tradizione storica ebraica e cristiana o è una consapevolezza ideologica della regalità sacra, che aveva indotto Plutarco a estrarre il passo di Manetho sulla confezione del kifi cioè l’unguento sacro con cui viene unto il faraone e vengono unte le immagini degli dei? A questo proposito bisogna ricordare che il secondo Iconoclasmo bizantino fa divieto di ungere con il crisma le sacre immagini, una semplice cura devozionale, forse eco suggestiva dell’antico rituale egizio di unzione delle immagini degli dei e segno del concetto di divinizzazione conferita dalla unzione. Quel che più importa è che Manetho è un testo culturalmente attivo nella tradizione ellenica dal momento della sua confezione nel III secolo a. C. fino almeno al IX secolo d.C. cioè per oltre 1200 anni. L’unzione dei re in Occidente e a Bisanzio è un fenomeno tardo di imitazione biblica attorno all’VIII-IX secolo d.C. PS – Quando questo testo era già in bozze è comparsa la importante monografia di E.S. Mainoldi, Dietro Dionigi l’Areopagita. La genesi e gli scopi del Corpus Dyonisiacum, Roma 2018, che disquisisce ampliamente sul Myron e sull’unzione battesimale, cfr. pp. 299-308. Bibliografia Assmann 2000 = J. Assmann, Mosè l’egizio, tr. it. Milano 2000. Assmann 2002 = J. Assmann, Potere e salvezza. Teologia politica dell’antico Egitto, in Israele e in Europa, tr. it. Torino 2002 (ed. or. Wien 2000). Freud 1979 = S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti, Torino 1979. Mayassis 1988 = S. Mayassis, Mystères et initiations de l’Égypte ancienne. Compléments à la religion égyptienne, s.d., ristampa, Milano 1988.

  Is 61,1, da cui Lc 4,18.

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PROTAGONISTI E ISTITUZIONI ECCLESIALI TRA LA GRANDE PERSECUZIONE E IL CONCILIO DI NICEA

Davide Dainese

La Chiesa-una nell’evoluzione della storiografia eusebiana*

Introduzione Il paradigma della svolta costantiniana è la linea di demarcazione storiografica che, ciclicamente, coagula il confronto – quanto mai platonico – tra il mito di una Chiesa originaria incorrotta, una, divina e l’idea di una realtà erede di quel che, nei secoli, sono state le diverse percezioni di una Chiesa bizantina, cesaropapista, ortodossa, inesorabilmente umana. Eusebio di Cesarea, primo storico ecclesiastico e biografo di Costantino, ne ha pagate per primo le spese – un conto su cui, in verità, sono addebitati ancora oggi pesanti interessi. La recente enciclopedia, edita da Treccani, sulla genesi e l’impiego della figura dell’imperatore Costantino1 consente anche a un pubblico di non specialisti un calcolo piuttosto preciso di quanto le impostazioni di Edward Gibbon, Jacob Burckhardt e Franz Overbeck abbiano proiettato sullo storico e teologo di Cesarea l’immagine del «vescovo cortigiano»2, dell’«odioso […] panegirista»3, finanche dell’«arricciatore di corte della parrucca imperiale»4. Oggi si sa che Eusebio, per quanto seppe guadagnarsi la stima dell’imperatore5, non poteva certamente essere un vescovo di corte, data *  Desidero ringraziare gli amici Gianmarco Braghi (Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII) e Atria Larson (Saint Louis University) per i generosi suggerimenti ricevuti.  Cfr. Melloni, Prinzivalli, Ronchey 2013, in particolare il saggio di Prinzivalli 2013. Sul problema storiografico dei vescovi di corte, si veda Lizzi Testa c.d.s.a. Si vedano anche: Lizzi Testa 2014, Lizzi Testa c.d.s.b e Aiello 2013. 2  Cfr. Gibbon 1994, p. 577. 3  Cfr. Burckhardt 1957, p. 322. 4  Cfr. Overbeck 1892, p. 28. 5   Cfr. Eus., v.C. III 61, IV 36, IV 35. 1

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soprattutto la lontananza tra Cesarea, dove Eusebio operava attivamente, e la sede imperiale di Costantinopoli6. Inoltre nella “teologia politica” di Eusebio – e lo si potrà in parte constatare anche in ciò che segue – non viene mai meno una tensione, una dialettica tra sovrano e ceto episcopale, una certa concorrenza tra imperium e sacerdotium, tra ora ed eschaton. In questa complessa articolazione tematica, nella quale è ancora molto il lavoro che rimane da svolgere, il presente contributo intende fare il punto su un aspetto molto circoscritto, ma che consente un carotaggio nell’iceberg storico che sottende le incertezze relative alla “teologia politica” eusebiana. Più specificamente, mi atterrò a una analisi onomasiologica della nozione di unità – ἕνωσις – della Chiesa nella storiografia di Eusebio di Cesarea tra il 313 (concentrandomi fondamentalmente sulla Historia ecclesiastica) e la seconda metà degli anni ’30 del IV secolo (periodo per cui è la Vita Constantini la fonte di riferimento), cercando di evidenziare alcuni significativi mutamenti semantici. La Chiesa-una nella Storia Ecclesiastica Il brano di Eusebio di Cesarea che, in modo più esplicito e con maggiore incisività, esprime l’idea di Chiesa-una7, ricavabile dalla sua Historia ecclesiastica (d’ora in avanti h.e.), è conservato nel decimo libro di quest’opera, composto tra il 313 e il 316 d.C., all’indomani della liberalizzazione del culto cristiano sancita dall’Editto di Milano8. Colpisce, da questo punto di vista, che la principale preoccupazione di Eusebio al termine della Grande Persecuzione sia di mostrare la chiesa vittoriosa in quanto “unita”. Il testo in esame è inserito nel quadro narrativo che Eusebio riserva alla descrizione delle celebrazioni per la dedica dei nuovi (o nuovamente ricostruiti) edifici   Si deve tenere presente che, probabilmente, furono soltanto quattro le occasioni di un incontro diretto tra Costantino ed Eusebio (così Barnes 1981, pp. 261-275). Fu Eusebio, invece, a mostrarsi ai posteri e forse alla sua stessa comunità, più prossimo all’imperatore (così Van Dam 2011, pp. 56-61). Su questo punto rimando comunque a Prinzivalli 2013, p. 60. 7   Su questo concetto, nella cornice tematica (apologetica) della relazione del genos cristiano a Greci e “barbari”, si vedano, di recente, Johnson 2006, p. 17 e pp. 213-225 e Neri 2010. In generale cfr. anche Pieszczoch 2010. 8   Sull’Editto e sul suo significato, la bibliografia è sconfinata. Rimando a Marcone 2002, p. 59, Brandt 2012 e Brandt 2013. Per la più completa cronologia delle opere di Eusebio, a partire dal lavoro di Burgess 1997 (per la cui valorizzazione rimando a Perrone, Villani 2010) si veda Carriker 2003, pp. 38-39 (da registrare, sebbene dedicato soltanto a una sezione di h.e., è il saggio di Neri 2012). Sul decimo libro di h.e. in particolare, ricco di documenti che risalgono agli anni a ridosso della fine della Grande Persecuzione, si vedano innanzitutto i contributi di Junod 2012 e di Cassin, Debié, Perrin 2012 e inoltre: Grégoire 1938a, Cataudella 1970, Dupont 1971, Montgomery 2000, Ferguson 2003, Perrin 2011 (si vedano anche Maier 1992 e Kriegbaum 1992). 6

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religiosi, grazie alle risorse allocate dagli imperatori Costantino e Licinio9. Questo brano è seguito immediatamente dal celebre panegirico dedicato, verosimilmente da Eusebio stesso10, al vescovo di Tiro Paolino (h.e. X 4) di cui questo passo funge da introduzione11: 1. Fu allestito [συνεκροτεῖτο]12 lo spettacolo [θέαμα] da tutti noi invocato e desiderato: feste di dedica in ogni città, consacrazioni di oratori costruiti da pochissimo, assemblee [συνηλύσεις]13 di vescovi nello stesso luogo, concentrazioni [συνδρομαί]14 di persone che venivano da lontano ed erano originarie d’ogni dove, cortesie reciproche tra popoli diversi [λαῶν εἰς λαούς φιλοφρονήσεις], unione delle membra del corpo di Cristo componentesi in un’unica corrispondenza [τῶν Χριστοῦ σώματος μελῶν εἰς μίαν συνιόντων ἁρμονίαν ἕνωσις]. 2. Conformemente, dunque, a una previsione profetica che aveva prefigurato misteriosamente ciò che sarebbe avvenuto, si congiunse [συνήγετο] «osso a osso, articolazione [lett. corrispondenza, ἁρμονία] ad articolazione» [cfr. Ez 37,7], come era stato anticipatamente detto, vaticinato per enigmi ma senza inganno. 3. Una era la potenza dello Spirito di Dio, diffusa per tutte le membra, e così anche l’anima di tutti; uno pure era l’ardore stesso della fede e uno era l’inno concernente Dio che proveniva da tutti. Perché analogamente avevano luogo culti perfetti, riti sacri e divine ordinanze ecclesiastiche ora con salmodie e con le altre letture ascoltate [ἀκροάσεσιν] delle parole tramandateci divinamente, ora con servizi [διακονίαι] divini e misterici: simboli ineffabili della passione del Salvatore15.

Il contesto è, evidentemente, quello della fine della Grande Persecuzione dioclezianea (durata dal 303 al 313). Teoricamente, la “fine” della persecuzione decretata da Diocleziano e dal suo collegio imperiale è un processo più lento (311-313/14) di   Per una ricognizione generale sul tema del culto dei luoghi sacri si vedano: Taylor 1993, pp. 96112 (e almeno le osservazioni di Hunt 2000) e Canella 2016. Per il caso di Eusebio, soprattutto sotto il profilo lessicale, cfr. Doelger 1941. L’argomento è comunque di ben più ampio respiro e va interpretato alla luce della relazione tra l’evergetismo degli imperatori romani e gli interessi delle comunità cristiane locali, per cui rimando a Brown 2001 (e infra nota 26) e le specificazioni ricevute da Liverani 2001. Per quanto concerne il resoconto eusebiano sul collegio imperiale di Costantino e Licinio, si consideri comunque che i manoscritti B D M testimoniano la (sporadica) cancellazione del nome di Licinio (e di Crispo) in alcuni esemplari dell’opera, indice del fatto che h.e. deve essere intesa come un lungo work in progress. Cfr. Cassin, Debié, Perrin 2012, pp. 202-206. 10   Eusebio lo attribuisce a un «uomo piuttosto meritevole che aveva composto un discorso» e che «avanzò innanzi all’assemblea» (h.e. X 4, 1), ma gli studiosi sono concordi nell’identificare costui con Eusebio stesso. 11   Su quest’ampio discorso si vedano almeno: Smith 1989; Simmons 2001; Amerise 2008; Schott 2011. 12   Il verbo è tecnico nel lessico di Eusebio, cfr. Dainese 2011, pp. 894-918. 13   Altro verbo tecnico, ivi, pp. 878-893. 14   Il termine «συνδρομαί», a differenza dei precedenti «συγκροτέω» e «συνηλύσεις» non è tecnico, e ricorre due volte soltanto in tutta l’historia ecclesiastica. 15  Eus., h.e. X 3, 1-3. 9

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quanto non emerga dai resoconti di Lattanzio ed Eusebio. Esso va infatti compreso lungo il corso di un arco temporale di circa tre anni, precisamente dal 311 al 314, cioè tra l’editto di Galerio o di Serdica (30 aprile 311)16 e quello di Licinio e Costantino (313) e le cui conseguenze, nell’ambito dei rapporti impero-chiese locali avranno ripercussioni di lunga durata17. Nello specifico, per quanto concerne il testo di Eusebio che stiamo esaminando, mi sembra possa fissarsi al 313 il terminus post quem. Ciò che infatti contraddistingue l’accordo milanese del febbraio 313 siglato da Costantino e Licinio rispetto all’editto di Galerio, oltre che la legittimazione del culto cristiano in tutto l’Oriente, è soprattutto la restituzione, nella dioecesis Orientis, dei beni in precedenza requisiti alle comunità cristiane18. Si tratta di un fatto che, appunto, nella Palestina di Eusebio (e nella dioecesis Orientis in generale) è accaduto soltanto dopo il 31319. Va notato anche che il racconto eusebiano dell’evergetismo costantiniano20 (lo storico di Cesarea parla di «ricostruzione» e di «generosità» imperiale)21 che si   L’editto di Galerio garantisce ai cristiani di poter esercitare liberamente la loro religione. Pare sia stato scritto a Serdica dove, stando ad Anon. Vales., I 3, 8, Galerio risiedeva, mentre è stato pubblicato nella sede imperiale di Nicomedia (cfr. Lact., mort. pers. 35, 1; Eusebio invece parla più vagamente di “città”, cfr. Eus., h.e. VIII 17, 2). Tenuto conto della sua sostanziale incisività nelle regioni occidentali controllate da Costantino (Gallia e Britannia ma anche i territori massenziani, di fatto, cioè Italia Africa e Spagna), già favorevole ai cristiani, esso ha validità per i territori controllati originariamente da Galerio e retti, dopo la sua morte, rispettivamente da Licinio (in Occidente fino al Bosforo) e da Massimino Daia (in Oriente dal Bosforo fino alla dioecesis Orientis, cioè le dioeceses Asiana e Pontica). Si veda il saggio di Szidat 2013. 17   Sulle iniziative costantiniane prima del 313 (in forma di epistulae informative più che di veri e propri “editti”) si vedano: Corcoran 2000, p. 185; Brandt 2006, pp. 38-39 e p. 175, note 17-18; Herrmann-Otto 2007, pp. 70-71. 18   Cfr. Lact., mort. pers. 48, 9 ed Eus., h.e. X 5, 11. Su questa peculiarità si veda Drake 2013, p. 172. Massenzio invece si era già cominciato a muovere in questa direzione (Eus., h.e. VIII 14, 1 databile al 306 secondo Decret 1996, p. 138 e Corcoran 2000, p. 185, che però reputa credibile anche il 308), cfr. Marcone 2012; Girardet 2012; Brandt 2012. 19   La portata generale di cui parlò Salvatore Calderone in riferimento ai provvedimenti costantiniani di restituzione dei beni precedentemente requisiti alla Chiesa già a partire dalla fine del 312 (cfr. Calderone 1962, p. 136 e pp. 141-142) deve chiaramente ritenersi limitata ai territori non controllati da Massimino Daia, sconfitto da Licinio appunto nel 313. 20   Si veda il sopracitato Brown 2001, pp. 47-49. Per un esame complessivo della politica edilizia costantiniana mi paiono utili le considerazioni di Aiello 2012, pp. 436-446 e, in ogni caso, rimando a quanto già visto in Dainese 2016. Si consideri anche che il tema potrebbe essere ulteriormente approfondito alla luce di più o meno recenti precisazioni, utili a limare la pur valida intuizione di Brown in due sensi: l’attenzione per il ruolo dell’iniziativa indipendente di vescovi e finanziatori privati e la parziale attenuazione dell’evergetismo imperiale a partire dalla fine del IV secolo (sull’iniziativa dei vescovi, cfr. già Pietri 1989, p. 1043 e Duval, Pietri 1997, pp. 372-378; sul ruolo dei privati cfr. Haensch 2006, Hillner 2006 e già prima Caillet 1993; sulla solo parziale attenuazione dell’evergetismo imperiale dalla fine del IV secolo rimanderei infine a Aiello 2012, p. 431 e nota 19). 21   Eusebio in h.e. X 2, 1-2 parla di edifici «di nuovo innalzati dalle fondamenta» (αὖθις ἐκ βάθων […] ἐγειρομένους) e di «onoreficenze e donazioni di ricchezze» (τιμαὶ καὶ χρημάτων δόσεις). Sono notizie da mettere in relazione a quanto lo stesso Eusebio confermerà anche in v.C. I 42, 2, III 50, 2 e l.C. 9, 15. 16

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legge nella h.e., si accompagna a un esplicito riferimento ad «assemblee» di carattere conciliare. Lo prova innanzitutto il fatto che Eusebio, per descrivere la natura di queste riunioni, impiega i termini «συνηλύσεις» e «συγκροτέω», vale a dire un lessico che solitamente utilizza, nel corso delle sue narrazioni, per descrivere sinodi e riunioni di carattere liturgico22. Vi è poi un altro dato su cui occorre riflettere. Eusebio, nel descrivere l’unità della Chiesa, menziona aspetti della sua vita liturgica – una costante della natura assembleare della Chiesa quale emerge dalla descrizione eusebiana tra h.e. VIII e X23. Del resto, lo storico di Cesarea parla di «assemblee di vescovi» e «concentrazioni di persone» per esprimere l’«unione [ἕνωσις] delle membra del corpo di Cristo», che realizza la profezia di Ez 37,7 (immagine delle ossa spezzate che si ricompongono). Tuttavia la nozione di unità è richiamata dall’«una [μία] […] potenza dello Spirito di Dio […] e […] anima di tutti»24, dall’«uno […] ardore (μία προθυμία) […] della fede» e dall’«uno [εἶς] […] inno concernente Dio». Per quanto riguarda gli elementi liturgici, invece, essi sono esplicitamente menzionati in espressioni quali: «culti perfetti», «riti sacri», «divine ordinanze ecclesiastiche», «salmodie», «ascolti di letture», servizi divini e misterici legati alla passione di Cristo. È dunque difficile credere che Eusebio non stia descrivendo riunioni sinodali, tanto più che egli stesso mescola questi elementi liturgici all’atto deliberativo, tipico di decisioni assembleari («ordinanze ecclesiastiche», nel testo). Tutto ciò, evidentemente, deve aver avuto luogo in quegli edifici a lode dei quali si celebravano i festeggiamenti25. Pertanto, se si riunivano sinodi in occasione dell’inaugurazione di edifici, a sua volta esito della restituzione di beni ecclesiastici dopo la Grande Persecuzione, bisogna dire che, laddove – grazie a una più ampia documentazione conservataci (e mi riferisco alla Cartagine in cui deflagra lo scisma donatista)26 – è attestata una situazione simile (celebrazione di sinodi concomitante   Così ho cercato di mostrare in Dainese 2011.  Cfr. Dainese 2011, p. 923, in relazione alla caratteristica della κοινωνία e della vita assembleare a partire da h.e. VIII. 24   Cfr. anche h.e. X 4, 8 e 4, 71. 25   Sul legame tra sinodi e liturgia nella Chiesa antica si veda il volume di Bernardini 2009. Sul tema si vedano, in generale, Alberigo 2007 e, prima, Lanne 1971. Su questa scia, gli aspetti lessicali del resoconto di Eusebio sono stati trattati in Dainese 2011. 26   Le comunità cristiane del Nord Africa, dalla morte del vescovo di Cartagine Mensurio, si trovano divise da un problema ecclesiologico retrostante la questione del suo successore. Si era prodotto infatti uno scisma, tra il 307/309 (secondo Fischer, Lumpe 1997, p. 412, meno credibile è Shaw 2011, pp. 812-819) e il 311/312 (secondo Kriegbaum 1986, p. 99 e Kriegbaum 1992; Barnes 1975, pp. 1820; Corcoran 2000, p. 144 e p. 185) tra i sostenitori di Ceciliano, presidente del collegio diaconale all’epoca Mensurio ma consacrato da un vescovo lapsus (nonché malvisto da alcune frange della Chiesa locale, come ha mostrato Kriegbaum 1986, p. 101 e pp. 127-129), e quelli di Maiorino, lettore durante l’episcopato di Mensurio. Nel 309/310 (Kriegbaum 1986, pp. 106 e 149) o più probabilmente nel 312 (come ritennero Hefele, Leclercq 1907, p. 268 e, più recentemente, Brennecke 1989, p. 45) si riunì un sinodo. Risulta vincitrice la fazione di Maiorino in virtù dei principi dell’ecclesiologia 22 23

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con l’atto di restituzione di proprietà ecclesiastiche requisite in precedenza), non si trattò affatto di situazioni pacifiche come Eusebio sembra rappresentare nel brano che stiamo commentando27. Certamente, ogni caso ha le sue specificità ed è opportuno tenerne conto. Tuttavia, comparare tra loro situazioni contemporanee e contesti geo-politici analoghi non evoca ex machina teorie strutturalistiche, ma anzi offre quell’ampliamento di orizzonte di cui ha bisogno lo storico, che deve guardare oltre ciò che la fonte afferma esplicitamente e che deve cercare di comprendere quanto essa permetta di leggere tra le sue righe. A ben vedere, in effetti, Eusebio ha sotto gli occhi una situazione che non può non essere simile a quella della Cartagine di Ceciliano nel 312. Se non lo afferma, è perché non gli interessa dar voce a ciò che è già noto ai suoi interlocutori, ma piuttosto dichiarare la sua “scelta di campo”, prendere le parti di una delle fazioni in gioco, lasciare nell’ombra del silenzio – una sorta di damnatio memoriae – chi non è con Paolino. Non è un caso che per descrivere l’ἕνωσις, egli parli delle membra di Cristo citando Ez 37,7, cioè l’idea delle ossa rotte, e non – ad esempio – 1 Cor 12,12 (Chiesa-corpo di Cristo) ricorso proprio appena prima in X 3, 1. Ciò che è interessante è che Eusebio pone l’accento sulla “ricomposizione delle ossa” tacendo del tutto la loro “rottura”. Agli occhi del Cesarense, pertanto, «gente di ogni età, uomini e donne»28 – come aveva detto appena prima, nella sezione da cui è tratto il testo sopra riportato – si riunisce certamente al fine di inaugurare edifici sacri – o forse anche per stabilire chi, per la precisione, ne sia il “legittimo” proprietario o amministratore – «celebrando e ringraziando» Dio, ma si riunisce innanzitutto in quanto divisa. Divisa chiaramente in senso generale dallo spazio, ma non solo, perché le «ossa spezzate» di Ez 37 sembrano alludere anche ad altre, più specifiche ragioni. Ciò spiegherebbe il senso dell’endiadi di h.e. X 3, 1, passo in cui Eusebio menziona «persone che venivano da lontano» (informazione indubbiamente spaziale) «ed erano originarie d’ogni dove»29. Si può ritenere che Eusebio, qui, stia soltanto impiegando un’endiadi, oppure si può credere che intenda alludere a una differenza di e della teologia sacramentale cartaginesi e ciprianee, secondo cui la validità del sacramento (e dunque anche della consacrazione) dipende dalla qualità spirituale di chi lo amministra e non dal fatto che il sacramento in sé sia stato amministrato. Di fatto, quando dopo la battaglia di Ponte Milvio (28 ottobre 312) Costantino scrive al proconsole d’Africa Anullino per far sì che i «beni di proprietà della Chiesa cattolica dei cristiani», requisiti «nelle singole città o anche in altri luoghi» durante la Grande Persecuzione, «siano restituiti immediatamente alle medesime Chiese» (cfr. Eus., h.e. X 5, 15-17), probabilmente consigliato da figure come Ossio di Cordova, una questione di natura ecclesiologica (validità del sacramento ex opere operante/ex opere operato) diviene essenzialmente di diritto privato (restituzione di beni ai legittimi proprietari), in cui l’autorità civile, secolare, può intervenire. 27   Sulla comunanza delle questioni discusse ad Arles, Elvira e Ancira si può vedere Fischer, Lumpe 1997, pp. 461-462; per il concilio di Ancira, in generale, rimando a ivi, pp. 453-488; per Elvira cfr. Orlandis Rovira, Ramos-Lissón 1981, pp. 3-30. 28  Eus., h.e. X 3, 4. 29  Cfr. infra nota 38 per il velato riferimento alla Pentecoste.

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posizioni/prassi, che permetterebbe di rendere anche ragione del perché «popoli diversi» in queste occasioni, in questa ἕνωσις si scambino «cortesie reciproche». Cortesie, per l’appunto, necessitate da impliciti, precedenti dissapori. Nei confronti di chi, dunque, Eusebio elogia Paolino? Chi è il “convitato di pietra”, per così dire, del suo discorso? Credo che gli interlocutori impliciti di Eusebio siano determinate forme di “millenarismo” o “chiliasmo”. Intendiamoci su questo termine. Per “millenarismo” ritengo opportuno attenersi al punto fatto da Emanuela Prinzivalli e dal compianto Manlio Simonetti alcuni anni orsono, cioè alla «credenza», diffusa soprattutto presso alcune correnti teologiche, «che i giusti risorti godano con Cristo di una condizione felice in una dimensione ancora legata dal punto di vista spazio-temporale al precedente assetto terreno» a esegesi dei «1000 anni» menzionati da Ap 20, un periodo seguito a sua volta da «un nuovo assetto della creazione nella dimensione dell’eternità». È questo il nucleo concettuale rispetto al quale tutte le altre eventuali caratteristiche risultano fondamentalmente accessorie30. D’altra parte, è necessario contrastare il rischio di «sottovalutare l’incidenza del millenarismo […] in Oriente» per via della carenza di dati e di una relativa mancanza di fonti31. La documentazione letteraria a noi disponibile, infatti, è di natura essenzialmente elitaria e, in quanto tale, «non ci permette di raggiungere i livelli socialmente e culturalmente inferiori della società»32. Nello specifico, «è comprensibile che a livello popolare non pochi abbiano cercato conforto speranza e rivalsa nell’attesa del futuro regno millenario»33. Si pensi, per essere più chiari, ai “letteralisti” contro cui Origene muove in Prin II 10-11. Dobbiamo guardare a costoro muovendo oltre gli espedienti retorici che l’Alessandrino impiega per presentarli – cioè il motivo dell’avversario giudaizzante e culturalmente arretrato34. Si può invece scorgere con nitidezza che essi associavano la loro fede in Cristo alla fiducia nella realizzazione di promesse a chiaro sfondo edonistico, dopo la resurrezione dei morti, su questa terra. Per quanto concerne Eusebio, invece, non possiamo tralasciare che tra i fini stessi della sua produzione storica vi è l’obiezione al calcolo millenarista del tempo precedente la parusia del Cristo. Lo si legge chiaramente nella prefazione al Chronicon in cui il vescovo di Cesarea precisa: «Lo diciamo all’inizio pubblicamente: non è   Prinzivalli 1998, pp. 125-126, nota 2.   Simonetti 1998, p. 17. 32   Ibid. 33   Ibid. Cfr. anche ivi, pp. 14-15. Mi sembra significativo quanto osserva Simonetti a proposito di come Eusebio riporta il resoconto di Dionigi di Alessandria sul “sinodo” di Arsinoe in cui il vescovo egiziano discusse a lungo e con accanimento contro i millenaristi di Coracione. Simonetti nota che Eusebio tronca la citazione di Dionigi passando sotto silenzio la testimonianza relativa alla parte dei fedeli di Arsinoe che non si erano lasciati convincere da Dionigi, ma che, testualmente, sono implicati dalla presenza di un «οἱ μέν» e dall’assenza del correlativo «οἱ δέ». 34  Cfr. Monaci Castagno 1998, pp. 102-103 e Monaci Castagno 1987, pp. 97-100. 30 31

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possibile acquisire una conoscenza sicura dei tempi»35. Inoltre, il silenzio che l’opera di Eusebio getta sulla figura che, nell’Oriente degli inizi del IV secolo, meglio impersonava le credenze millenariste – ormai fortemente reintegrate all’interno di un paradigmatico spiritualismo di matrice origeniana – vale a dire Metodio di Olimpo36, da questo punto di vista credo sia un elemento su cui valga la pena riflettere37. Una prova, in tal senso, mi sembra possa essere reperita nell’esegesi di Ez 37, 7 con la quale Eusebio intende esprimere la ricomposizione della Chiesa concepita come corpo di Cristo in un’unica (nel senso di ἕνωσις) ἁρμονία38. Si potrebbe intendere tale ri-unione delle membra spezzate di Cristo come una vera e propria resurrezione, alternativa a interpretazioni di coloritura millenaristica conservateci, ad esempio, dall’esegesi di Metodio. In effetti Metodio, in res. III 9, aveva confutato l’esegesi allegorica di Ez 37, 1-14 attestata da Origene in un frammento d’ignota collocazione, ma probabilmente attribuibile al perduto trattato Sulla resurrezione39. Origene, nel testo criticato da Metodio, aveva inteso il brano di Ezechiele quale allusione al ritorno di Israele dall’esilio babilonese40, mentre altrove sembrava più incline a valorizzarne i riferimenti anatomici – cioè interpretando il passo come espressione escatologica41 della Chiesa42, «vero e più perfetto corpo di Cristo»43 secondo Ef 4,13 (CIo X 36) e a 1 Cor 11,3 (HLv  7,  2). A tale riguardo Metodio è inequivocabile. Fa infatti sua la proposta origeniana di riferire Ez 37 al corpo di Cristo, ma la corregge: «La parola [Ez 37,7] […] annuncia la resurrezione dei morti dalla tomba e da quelle ossa sparse, fornite però di tendini e di carne e di pelle e vivificate dallo Spirito Santo». Altrove, invece, Metodio si appropria dell’altra interpretazione origeniana e intende il brano come allusione a Israele, per la precisione a Israele che esce dalla terra d’Egitto (HEs 9,  Eus., chron. I praef. Cfr. Prinzivalli 2003, p. 101.  Cfr. Simonetti 1998, p. 15. 37   Cfr. le accuse, che Eusebio rivolge a Metodio, di tradimento in Hier., adv. ruf. I 11. Sul millenarismo di Metodio rimando a Prinzivalli 1998, pp. 126-128 (da riconsiderare alla luce del più recente volume di Mejzner 2011 e del contributo di Mejzner 2017). 38   Segnalo in questa sede la possibile allusione indiretta alla Pentecoste – per via del riferimento all’unico Spirito – che si può intravedere tra le righe del brano introduttivo al panegirico per Paolino: si tratta di un’immagine del tutto marginale nella descrizione eusebiana di assemblee sinodali. Ringrazio la collega Atria Larson per il suggerimento. 39   Il tema della resurrezione in Origene, per via del fatto che il corrispettivo trattato non ci è giunto, è un problema aperto. Si vedano: Dorival 1987, Prinzivalli 1994 e Zambon c.d.s. 40  Meth., res. III 9, 4: «Origene irragionevolmente le [cioè le ossa di Ez 37] applica all’esilio, nel senso che [il popolo] sarebbe stato liberato da quella pesante schiavitù come dalla morte». Per il testo di Metodio riprendo la traduzione dal greco e dal paleoslavo di Mejzner-Zorzi 2010. 41   Origene parla di «quello che [le membra di Cristo] saranno in futuro» (CIo X 36); in HLv 7, 2 di «ingresso nel santuario», figura, per Origene, della beatitudine escatologica (cfr. HCt 1, 1 e Lettieri 2001, pp. 154-155). 42   Esplicita in HLv 7, 2. Su ciò si veda Prinzivalli 2002. 43   CIo X 36. 35 36

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HNm 17 e 22). Ma anche in tal caso, la differenza tra Metodio e Origene è molto chiara e colloca Metodio nell’orizzonte di pensiero chiliasta. Mentre difatti per l’Alessandrino l’uscita di Israele dall’Egitto è allegoria dell’ascesa dell’anima, per Metodio essa indica il millennio di permanenza nella corporeità risorta precedente l’ascesa al cielo. Dice infatti Metodio: «Dipartita di qui e uscita anch’io dall’Egitto di questa vita, giungo dapprima alla risurrezione, la vera festa delle capanne e, dopo aver posto colà la mia capanna, ornata coi frutti della virtù nel primo giorno della risurrezione, il giudizio, celebro assieme a Cristo il millennio del riposo, i sette cosiddetti giorni, il Sabato vero44. Poi, ancora, seguendo colui che trapassò “nei cieli” [Eb 4,14], Gesù, giungo a mia volta […] ai cieli»45. Ora, quando Eusebio descrive la nuova era dell’“impero cristiano” lo fa con le immagini e i passi scritturistici con cui, nell’Oriente di Metodio, si era soliti caratterizzare il tempo intermedio, il millennio precedente l’eschaton. Quest’impressione è confermata da h.e. X 4, 46-47, passo in cui Eusebio parla della Chiesa del suo tempo, come beneficiante dell’economia del salvatore e afferma: 46. Bisognava infatti, logicamente [ἔδει γὰρ καὶ ἀκόλουθον ἦν], che anche questa godesse, analogamente, delle economie del Salvatore, dopo che il suo pastore e signore aveva subito una volta per tutte la morte per lei e che, successivamente alla passione, aveva trasferito il corpo […] nella luminosità e nella gloria e resa la stessa carne, dissolta per la corruzione, incorruttibile46. Infatti [ὅτι] avendo ricevuto da lui la promessa di beni di molto maggiori rispetto a quelli [καὶ τούτων πολὺ κρείττονα λαβοῦσα παρ’ αὐτοῦ τὴν ἐπαγγελίαν] desidera acquisire la gloria di molto maggiore della rinascita nella risurrezione di un corpo incorruttibile [τὴν πολὺ μείζονα δόξαν τῆς παλιγγενεσίας ἐν ἀφθάρτου σώματος ἀναστάσει] con la luce del coro angelico nel regno di Dio al di là dei cieli assieme allo stesso Cristo Gesù benefattore universale e salvatore, in modo durevole e per i secoli futuri. 47. Frattanto, nel tempo presente, colei che anticamente era vedova e abbandonata, ora è cinta di fiori per grazia di Dio […] e ha ripreso la veste nuziale e si è posta attorno la corona47 dell’onore48.   Sul millenarismo di Metodio si veda Prinzivalli 1985, pp. 43-49.  Meth., symp. 9, 5. Per l’interpretazione di questo brano si veda Prinzivalli 1998, pp. 130-133. Sulla resurrezione nell’escatologia di Metodio si vedano: Biamonti 1923; Buonaiuti 1921; Crouzel 1972; Dechow 1992; Mazzucco 1986; Mees 1986; Patterson 1993; Riggi 1985; Simonetti 1975; Vitores 1981. 46   «αὐτήν τε σάρκα τὴν λυθεῖσαν ἐκ φθορᾶς εἰς ἀφθραρσίαν ἀγαγόντος», e subito dopo viene ciò che, nella traduzione, ho inserito per ragioni di resa all’inizio: «καὶ τήνδε ὁμοίως τῶν τοῦ σωτῆρος οἰκονομιῶν ἐπαύρασθαι». 47   Sulla corona, si registra un’implicita, possibile oscillazione semantica: dalla simbologia militare (cioè del martirio, per il contesto storico della fine delle persecuzioni), a quella regale della sposa di Cristo, detto «benefattore universale e salvatore» in un contesto che è esplicitamente quello del «regno di Dio». 48  Eus., h.e. X 4, 46-47. 44 45

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A una prima lettura pare che la Chiesa godrà soltanto nel secolo futuro della beatitudine e della resurrezione: Eusebio parla, per il tempo presente, di tempo della «promessa» – nel senso che la realizzazione futura, escatologica del «tempo presente» è in qualche modo anticipata (promessa, per l’appunto) dalla resurrezione del corpo di Cristo. Lo schema promessa-compimento è senz’altro un perno del ragionamento di Eusebio. Il godimento delle «economie del Salvatore» è presentato infatti evidentemente come logica conseguenza delle promesse ricevute: la congiunzione causale ὅτι, il verbo δέω e l’avverbio ἀκόλουθον a correlare la passione-resurrezione di Cristo indicano proprio questo nesso prima-poi, ora-eschaton. Ciò non esaurisce, tuttavia, la ricchezza e la difficoltà del brano eusebiano. Lo schema promessa-compimento risulta infatti complicato da una serie di elementi. Eusebio afferma, innanzitutto, che la beatitudine futura è “solo” un’espansione della condizione attuale. Del resto parla, in modo inequivocabile, di «beni di molto maggiori rispetto a quelli» che la Chiesa già aveva e di «gloria di molto maggiore». La «gloria […] della rinascita nella resurrezione», inoltre, è confrontata con uno stato di beatitudine – che evidentemente è essa stessa, in qualche modo, resurrezione perché è solo in termini di intensità che si misura la differenza tra nunc e tunc – rispetto al quale essa è superiore perché è «in modo durevole e per i secoli futuri». Sembrerebbe allora che la beatitudine del tempo presente, che vede la Chiesa come la sposa «che, anticamente […] vedova e abbandonata, ora è cinta di fiori» sia già – seppure destinata a subire una trasformazione in senso di durata – caratterizzata da una condizione di risurrezione. Ed è forse per questo motivo che, sebbene il testo sia inserito in una cornice argomentativa relativa alla Chiesa, di fatto si parla della «carne di Cristo», dando l’impressione che il discorso di Eusebio oscilli in termini paolini tra Chiesa e corpo di Cristo. La Chiesa come corpo del Cristo, del resto, non può non essere partecipe della sua resurrezione e ciò avviene, in Eusebio, anticipatamente ora e compiutamente alla fine dei tempi. Il fatto che si possa parlare, per la Chiesa-corpo-di-Cristo, di una “parziale” resurrezione nel tempo presente e di una sua più piena realizzazione in quello futuro, avvicina molto lo schema, adottato da Eusebio, immagine-compimento – di matrice platonica – alla condizione del Millennio di Ap 20, quale è espresso dall’immagine del soggiorno di Israele in fuga dall’Egitto nelle capanne, offerta da Metodio in Symp. 9. Si tratta dell’idea di una condizione di resurrezione, legata in qualche modo a questa terra e a questo tempo, prima dell’avvento del secolo futuro. L’ἕνωσις con cui Eusebio pertanto descrive la Chiesa dopo il 313 sembra pensata appositamente per rappresentare, per far accettare a un uditorio millenarista la realizzazione, nell’impero cristiano di Costantino e Licinio, della resurrezione della Chiesa-corpo-di-Cristo nel secolo presente, destinata a compiersi alla fine dei tempi.

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Dal consenso all’ortodossia: l’unità della Chiesa nella vita Constantini Se nel decimo libro della h.e. il concetto di Chiesa-una era reso tramite il ricorso alla metafora dell’unione – dell’ἕνωσις, appunto – della Chiesa attraverso la ricomposizione delle sue parti, vale la pena riflettere sul fatto che, esaminando la ricorrenza del medesimo concetto nella vita [o De vita] Constantini, tale nozione è espressa dall’oscillazione tra due termini: ἕνωσις (letteralmente «unione») ed ἑνότης (letteralmente «unità»). L’impiego del sostantivo ἕνωσις sia nella h.e. sia nella vita Constantini [d’ora in avanti v.C.] non deve promuovere parallelismi ingenui tra questi due scritti. Si tratta infatti di due opere diverse quanto diversi sono i momenti, i contesti in cui esse sono state pensate e redatte. La v.C., nello specifico, è la prima biografia del “primo imperatore cristiano”, uno scritto di genere misto articolato in più libri (ufficialmente quattro, forse cinque) e attribuito a Eusebio di Cesarea – nonostante gli errori, le incongruenze49, gli anacronismi50, le difficoltà espressive e argomentative e i dubbi sull’autenticità dei documenti ivi riportati. L’opera è di composizione tarda, successiva alla morte di Costantino, probabilmente postuma allo stesso Eusebio51. In essa – tratto costante delle opere storiografiche di Eusebio – si alternano documenti e commenti eusebiani. Ora, per il presente ragionamento è di particolare interesse la lettera indirizzata da Costantino ad Alessandro di Alessandria e Ario52, un testo che va collocato probabilmente nell’ambito del concilio di Antiochia, di poco precedente a Nicea53. Si tratta di un documento edito in v.C. II 64-72, in parte54 riprodotto anche da Socrate in h.e. I 7, 3-20, e che venne originariamente affidato a Ossio di Cordova perché lo recapitasse ai due alessandrini contendenti. Infine, esso si presenta artico Cfr. Vittinghoff 1953, pp. 358-364.  Ivi, pp. 371-373. 51   Sugli errori della v.C. cfr. Franchi de’ Cavalieri 1953, dove l’autore confuta le posizioni di Grégoire 1938b, pp. 561-583 (cfr. anche Grégoire 1939, pp. 183-184). Le posizioni di Franchi de’ Cavalieri sono riprese e arricchite da Vittinghoff 1953, pp. 352-358 e da Vogt 1954, pp. 463471, in risposta a Orgels 1952, pp. 575-611 e alla reazione di Grégoire (H. Grégoire 1953, pp. 462-479) alla confutazione di Franchi. Per una ricostruzione del dibattito cfr. Vittinghoff 1953, pp. 345-358. Sulle difficoltà espressivo-argomentative della v.C. cfr. ivi, pp. 345-370 e l’introduzione di Winkelmann alla sua edizione, pp. LVII-LXIV. Le ultime posizioni critiche al proposito, risalgono a Cataudella 1963, pp. 553-571 e Id. 1970, pp. 46-83 e 229-250. Sull’autenticità dei documenti riportati in v.C. rimando a: Vittinghoff 1953, pp. 365-373; Dörries 1954; Kraft 1955. Con la scoperta di P.Lond. 878, anche la vexata quaestio dei documenti costantiniani dell’opera si può dire risolta. Risalente a poco dopo il 320 d.C., questo papiro riporta in forma originale l’editto conservato in v.C. II 24-42 e contiene frammenti tratti da v.C. II 27-29. 52   La nr. 16, secondo il repertorio di Kraft 1955. 53  Così Hall 1998, pp. 87-97. Sul sinodo antiocheno si veda il contributo di Dainese 2013b, pp. 151-152. 54  Eus., v.C. II 69-72. 49 50

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lato in quattro parti: introduzione, problema della divisione interna alla comunità alessandrina, esistenza di divergenze esegetico-dottrinali, invito a non perdersi in “questioni di secondaria importanza” e a preservare la concordia. Proprio a questo proposito, a un certo punto Costantino invita i due contendenti alla concordia e afferma: Per rinfrescare la memoria, con un piccolo esempio, alla vostra comprensione: di certo sapete che pure gli stessi filosofi è come se fossero tutti riuniti in un’unica dottrina [ἕν δόγμα], e benché spesso capiti che siano in disaccordo su qualche aspetto delle loro asserzioni, se anche si dividono sul valore da attribuire alla scienza, essi tornano a concordare tra loro in difesa dell’unità [ἕνωσις] della loro “dottrina” [δόγμα]55.

L’argomento qui impiegato da Costantino è già noto all’apologetica cristiana. Basti pensare che Clemente Alessandrino, più di un secolo prima, aveva domandato in modo retorico polemizzando con certi e non meglio identificati suoi interlocutori pagani: «Forse che chi è fisicamente malato e bisognoso di cure non accetterà un medico per via della molteplicità delle scuole di medicina [διὰ τὰς ἐν τῇ ἰατρικῇ αἱρέσεις]?»56. Questo perché la molteplicità era avvertita, nell’antichità, come segno di errore e di debolezza. Tra i “capi d’accusa” reciprocamente avanzati da pagani e cristiani nell’arco dei primi tre-quattro secoli della nostra era figurava infatti anche la pluralità di scuole/sette. La discordia interna a un gruppo che si identificasse con una determinata cultura filosofica o religiosa ne metteva in crisi la veridicità dottrinale57. Meike Willing ha sostenuto che anche in Eusebio l’unità della Chiesa è sempre contrapposta alla molteplicità e al disaccordo delle sette. Credo però che il  Eus., v.C. II 71, 2.  Clem., str. VII 15, 90, 4. 57   Cfr. Iust., dial. 2, 1-2; Or. CC III 12 e V 63. Cfr. anche Clem., str. I 13, 57 che accusa le scuole di filosofia di essersi comportate come le baccanti con il corpo di Penteo; è interessante registrare tale motivo anche in due filosofi pagani di poco precedenti a Clemente, cioè Attico (fr. 1, 14-32 des Places) e Numenio (fr. 24, 69-74 des Places), per i quali rimando a Dörrie, Baltes 1993, §§ 99-100; Mansfeld 1988, pp. 181-207. In realtà questa polemica è ben più diffusa nell’ambito della filosofia di tradizione platonica e lo si ravvisa nel motivo del rapporto tra la perfezione della dottrina di Platone e l’infedeltà dei suoi successori. Va ricordata la posizione moderata di Plutarco che, pur sostenendo la continuità di fondo tra la dottrina platonica (la cui eccellenza era stata affermata in Plut. De defectu, 47, 435f-436a), l’Accademia (come già prima era stata difesa da Filone di Larissa in Fr. 7 e nel commento anonimo al Teeteto, cfr. Anon. In Thaet. 54, 14 - 55, 7) e Aristotele, critica Colote per non aver compreso che i peripatetici – ma anche Senocrate – tradiscono gli insegnamenti di Platone. Allo stesso modo Plutarco accusa gli stoici di aver ignorato che nell’anima umana sono compresenti un elemento razionale e uno patibile, dottrina che invece Platone avrebbe ereditato con correttezza da Pitagora (cfr. Plut. De vir. mor. 3, 441e-442b). In questo contesto, la descrizione del platonismo mediante l’immagine di Penteo a opera dei sopracitati – platonici – Attico e Numenio è espressione di una posizione molto più acre nei confronti della propria scuola, rispetto a quella di Plutarco. Su Plutarco cfr. Zambon 2002, pp. 74-78; su Numenio cfr. pp. 173-176; su Attico, cfr. pp. 129-142. L’immagine del corpo la si trova anche in Origene, il quale invita ad accendere «la luce della conoscenza» (Os 10, 55 56

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caso di Eusebio sia più complesso, perché non credo che nella h.e. si rivolga ai pagani, bensì ai cristiani. Se si confronta l’uso del termine ἕνωσις in questo brano e nell’introduzione al panegirico di Paolino di Tiro, si può notare tra i due testi una sorta di spostamento di focus che li rende simmetrici e opposti. Nel precedente brano preso in esame, tratto dalla h.e., Eusebio si era rivolto a Paolino, guida della Chiesa locale di Tiro; dunque si trattava del discorso di un vescovo a un vescovo. Anche il Costantino della v.C., se visto con gli occhi di Eusebio – o meglio, con gli occhi con cui Eusebio vorrebbe che i suoi lettori guardassero – è un vescovo. Eusebio riporta infatti le parole in cui Costantino si definisce ἐπίσκοπος τῶν ἐκτός58 e l’incipit della stessa opera, quasi a fornire un’interpretazione di questa autodefinizione costantiniana, presenta un Costantino che è ἐπίσκοπος κοινός – vescovo comune a tutti i vescovi, sembrerebbe dire Eusebio59. Tuttavia, se anche in qualche modo “vescovo”, Costantino è pur sempre l’imperatore, l’autorità secolare suprema. Vi è uno scarto incolmabile tra i due contesti. Una differenza, questa, che al lettore odierno è ovvia, ma che tale probabilmente non era per l’antico lettore di Eusebio, per colui al quale, cioè, Costantino veniva presentato come una sorta di rex christianissimus, addirittura come «vescovo comune». È come se in Costantino, nell’uso che Eusebio fa della sua figura nell’opera che sta scrivendo, potessero essere distinti tre elementi: quello che è, quello che Eusebio gli fa fare e ciò che Euesbio gli fa dire – o meglio, ciò che Costantino stesso dice (dacché è impensabile che Eusebio falsifichi in modo sostanziale un documento storico), ma nella struttura letteraria in cui è inserito con un ruolo ben determinato. Quasi fossimo di fronte a un attore in cui si distinguono: la persona che realmente è, il ruolo che interpreta, le parole che pronuncia sulla scena. Detto altrimenti, dobbiamo interpretare le parole di Costantino alla luce della parte che Eusebio gli dà nella v.C. Sotto tale profilo, esse sono appunto parole del «vescovo comune» che nella lettera che si sta esaminando in questa sede si rivolge ai due contendenti al fine di preservare «il valore del sinodo [τὸ τῆς συνόδου τίμιον]» (v.C. II 71, 3, 6). È adesso, se si vuole cogliere il focus shift di Eusebio, che ci si deve chiedere cosa silenziosamente Eusebio, con tale operazione letteraria, ci mostri. In altri termini, è alla luce del Costantino-vescovo che si rivolge ad “altri” chierici 12 [LXX]) formando un corpo unitario (PA I praef. 10) e in CIo XIII 46 menziona il «corpo uno della verità». Su questi temi si veda il contributo di Zambon 2007, pp. 211-235. 58  Εus., v.C. IV 24. Su questa espressione sono stati scritti fiumi d’inchiostro. Per una sintesi, rimando alla recente messa a punto di Zecchini 2012. Probabilmente, Costantino intendeva definirsi custode, responsabile degli affari esterni alla Chiesa (così, con diverse declinazioni: Vogt 1949, p. 249 e Straub 1955; Mazzarino 1962, pp. 426-428 e Calderone 1962, pp. xxxviii-xlv; Grégoire 1930/1931 e Jones 1948, pp. 204-205), o delle persone esterne alla Chiesa (così Farina 1966, pp. 312-314 e De Decker, Depuis-Masay 1980 nonché, da ultimo, Zecchini 2012) o dell’impero (Fowden 1993, p. 91). 59   Così in Eus., v.C. I 44 e cfr. infra nota successiva.

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che dobbiamo capire “perché” Eusebio tratti, per tramite costantiniano, il tema dell’unità della Chiesa. L’intento della v.C. di Eusebio è ormai noto alla storiografia contemporanea: legittimare un impero cristiano guidato da un imperatore cristiano (e, aggiungo io, ritagliare un nuovo ruolo per i vescovi – tema per cui però rimando ad altra sede)60. Questo scopo è peraltro particolarmente evidente se si confrontano la vita e le laudes Constantini con il panegirico per Paolino. In h.e. X 4, infatti, era Paolino che, in qualità di guida della sua comunità61, era descritto come primo dopo il Figlio, «assimilatosi [ἀφωμοιωμένος]»62 a lui, «unico inter pares [εἵς μόνος τῶν ἴσων]»63 e tempio di Cristo64. Non c’era altro mediatore che il vescovo tra Cristo e la Chiesa. Di certo non era l’impero a mediare la sfera terrena e quella divina, giacché rispetto all’impero, per l’Eusebio della h.e., la Chiesa vanta una superiorità inderogabile. Nel terzo libro, infatti, emerge con chiarezza che è la Chiesa e non l’impero ad essere diffusa nell’ecumene, grazie agli apostoli e alla loro «successione»65, «in ogni luogo [κατὰ πάντα τόπον]»66. Gli apostoli e i loro successori, afferma Eusebio, «seminarono in tutto il mondo l’annuncio e i semi salvifici del Regno dei cieli [τὸ κήρυγμα καὶ τὰ σωτήρια σπέρματα τῆς τῶν οὐρανῶν βασιλείας ἀνὰ πᾶσαν είς πλάτος έπισπείροντες τὴν οἰκουμένην]»67, anche oltre i confini dell’impero romano («in terra straniera [ἀποδημίας στελλόμενοι]»68 e «gettarono le fondamenta della fede in luoghi stranieri [οὗτοι δὲ θεμελίους τῆς πίστεως ἐπὶ ξένοις τισὶ τόποις]»69), come unica istanza legittimata a intendersi sottoposta al Regno di Dio. Nelle sue opere “teologico-politiche”, invece, Eusebio pone l’imperatore, quale pio imitatore del Logos, come colui che è immediatamente subordinato al Figlio. L.C. 2 inizia esplicitamente con parole che sono inequivocabili: «Il Logos unigenito di Dio regnante assieme al Padre governa da secoli eterni nei secoli senza fine né limite; così a lui caro, sostenuto dalle emanazioni regali dall’alto e grazie alla potenza di una chiamata divina, esercita il suo potere sulla terra per lunghi periodi di anni»70. Di conseguenza non è più la Chiesa a godere delle economie del buon pastore come si è letto nel brano del panegirico a Paolino sopra  Cfr. Dainese 2013a, pp. 941-958 e Dainese 2016.   Cfr. Eus., h.e. X 4, 23-24. 62  Eus., h.e. X 4, 23 e cfr. anche X 4, 26. 63   Cfr. Eus., h.e. X 4, 23. 64   Cfr. Eus., h.e. X 4, 67. Per tutte queste peculiarità del vescovo cfr. Farina 1966, pp. 299-300 e l’interpretazione di Rizzi 2013, pp. 142-143. Il tema del vescovo in Eusebio è stato oggetto dell’indagine di Ginn 1999. Utili indicazioni di contesto sono fornite anche da Camplani 2006, pp. 67-114. 65  Eus., h.e. III 37, 1. 66   Ibidem. 67   Ibidem. 68   Ibidem. 69  Eus., h.e. III 37, 3. 70  Eus., l.C. 2, 1. 60 61

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riportato (h.e.  X  4,  46-47), ma l’impero cristiano: «Il Salvatore comune a tutti doma le potenze contrarie con una [potenza] divina e invisibile […], come il buon pastore tiene ben lontane le bestie selvatiche dalle sue pecore; così a lui caro rinsavisce i nemici manifesti della verità […] soggiogatili con la guerra»71. Ciò appunto avviene grazie a Costantino che «segue con azioni regali la filantropia dell’Onnipotente»72. Anche l’idea dei «semi del regno», di cui Eusebio aveva trattato nel terzo libro della sua h.e., per l’Eusebio “teologo politico” è sottratta alle prerogative della Chiesa e messa nelle mani di Costantino, privilegiato tra gli uomini creati «secondo l’immagine di Dio e secondo la somiglianza»73. Dice infatti Eusebio: «Lo stesso padre dei figli [il Logos, di cui sta parlando] non si sdegnò di giungere a incontrare i mortali. Coltivando i suoi semi e rinnovando le elargizioni dall’alto, annunciò a tutti che avrebbero partecipato al regno celeste […]; riempì con la potenza ineffabile della predicazione [κήρυγμα] tutto ciò che il sole illumini, modellando il regno terreno a imitazione [μίμημα] di quello celeste»74. Il senso dell’operazione di Eusebio, alla luce del confronto tra il Panegirico a Paolino da un lato e la vita e le laudes Constantini dall’altro, è stato spiegato da Marco Rizzi. In entrambi i casi, rispetto alla tradizione clementina e origeniana, in cui Eusebio s’inscrive, la Chiesa o l’impero cristiano non sono presieduti da uomini che siano immagine di creature celesti o angeliche, «in un difficile e mai aggiudicato rapporto tra sensibile ed intelligibile, tra storia ed escatologia»75. A capo di Chiesa e impero, con Eusebio, si trova il Logos stesso con i suoi diretti rappresentanti terreni. Non è più il fedele a costituire «l’ἄγαλμα spirituale innalzato al Dio invisibile, bensì il solo vescovo», prima, e poi l’imperatore «è portatore dell’immagine interiore del Logos»76. È in virtù di questa continuità logica tra Panegirico e vita-laudes Constantini nonché della presentazione di Costantino come vescovo – alla stregua del precedentemente elogiato Paolino – nella v.C. che si può dire che tra i due testi c’è una sorta di focus shift. Il soggetto di questo cambio di messa a fuoco è la nozione eusebiana  Eus., l.C. 2, 3.  Eus., l.C. 2, 5. 73  Eus., l.C. 4, 2. Dice infatti Eusebio (per questo passaggio riporto la traduzione di Amerise 2005): «Il Logos, padre degli esseri razionali, ha posto nell’anima dell’uomo un carattere secondo l’immagine di Dio e secondo la somiglianza; egli separò il genere regale da quello dei semplici viventi». 74   Ibidem. 75   Rizzi 2002, p. 290. 76   Ibidem. Rizzi si riferisce solo a Paolino e ritiene che il passaggio di questa logica dal vescovo al basileus cristiano si sia compiuto solo con «la successiva tradizione ideologica […]» tardoantica e bizantina (ivi, pp. 291-292). Tuttavia qualche anno più tardi non faticherà a riconoscere questo processo anche in Eusebio a uno stadio avanzato, cfr. Rizzi 2013, pp. 135-145. Va però specificato che ciò non rende assolutamente approssimabile Eusebio a un vescovo di corte (grazie alle dinamiche messe in luce da Dainese 2013a, pp. 941-958), come del resto Rizzi stesso era ben consapevole già nel 2002 (cfr. Rizzi 2002, p. 291). 71 72

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della rappresentanza terrena del Logos ed è in essa che si produce il transfer in favore di Costantino di quanto Eusebio aveva precedentemente attribuito a Paolino. Mentre nel Panegirico la messa a fuoco – cioè la teorizzazione della rappresentanza terrena del Logos – era tutta su Paolino, il quale rappresentava il Logos grazie al benestare degli imperatori che rimanevano sullo sfondo, con la vita e le laudes essa si sposta sull’imperatore e sono invece gli “altri vescovi” a rimanere sullo sfondo. Individuato questo focus shift, si è ora in grado di scorgere cosa emerga dall’accostamento tra l’uso eusebiano del termine ἕνωσις nel Panegirico a Paolino e quello presente nella v.C. Si è testimoni niente meno che di una trasformazione semantica: lo stesso concetto, quello di ἕνωσις, subisce un mutamento di significato, a cagione della mutata cornice in cui si trova inserito, tra la h.e. e la v.C. – e tra Eusebio e Costantino. Da espressione di una divisione intraecclesiale, ma che non è necessariamente eresia77 e che di fatto maschera una divergenza nell’approccio al secolo, all’impero, essa diviene espressione di una ortodossia dottrinale. A tale ortodossia si lega una «κοινωνία» – come recita esplicitamente il seguito della lettera costantiniana78 – che sembra avere meno a che fare con le «assemblee di vescovi nello stesso luogo» e con le «concentrazioni di persone» di cui Eusebio parlava in h.e. X 3. Nell’introduzione al Panegirico a Paolino, l’unità era riferita alla «potenza dello Spirito di Dio», all’«anima di tutti». Certamente anche all’«ardore […] della fede», ma tutto ciò era l’esito della constatazione di una unitarietà essenzialmente liturgica. Eusebio aveva detto, infatti, che «uno era l’inno relativo a Dio che proveniva da tutti» e ciò significava che «avevano luogo culti perfetti, riti sacri e divine ordinanze ecclesiastiche ora con salmodie e le altre letture ascoltate [ἀκροάσεσιν] delle parole tramandateci divinamente, ora con servizi divini e misterici: simboli ineffabili della passione del Salvatore». In bocca a Costantino, in una cornice come la v.C. in cui Eusebio dà voce all’imperatore per mostrarlo “capo della Chiesa”, l’ἕνωσις non è più liturgia, ma «l’una e la stessa κοινωνία»79 che significa un’«unica fede [μία πίστις]»80, un’«unica comprensione»81, un «unico accordo su colui che è migliore»82, un «unico giudizio [μία γνώμη]»83. Ciò mi sembra corrispondere pienamente al trasferimento del motivo apologetico – attestato, come si è visto, da Clemente Alessandrino – dell’unità   Anche se l’unità della Chiesa, per Eusebio, è argomento polemico contro la molteplicità delle sette e il Cesarense, nel riassumere le dottrine di Nepote (in h.e. VII 24, 1), minimizza molto la controversia creatasi attorno alle dottrine da lui propugnate quale sembra invece attestata da Dionigi. Cfr. Willing 2008, pp. 501-504. Ma questo significa che Eusebio ritiene la frattura apertasi con le posizioni millenariste, eventualmente rigoriste, come ricomponibile e cerca proprio di operare a tal fine, tentando di convincere – mi sembra – gli interlocutori della bontà dell’impero cristiano. 78  Eus., v.C. II 71, 6. 79   Ibidem. 80  Eus., v.C. II 71, 7. 81   Ibidem. 82   Ibidem. 83   Ibidem. 77

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della τέχνη medica all’interno di una molteplicità di αἱρέσεις, a un contesto infracristiano per definire l’unicità del δόγμα contro le molte eresie. Ora, è vero che si è portati a pensare che l’occorrenza del termine ἕνωσις sia accidentale ed estemporanea. In realtà, come accennato all’inizio di questo paragrafo, simili espressioni ricorrono anche in un altro documento costantiniano. Nella lettera di Costantino «alle Chiese»84, scritta nel 325 dopo il concilio di Nicea per le comunità che non avevano inviato rappresentanti al sinodo85, l’imperatore esorta a realizzare il suo «desiderio [= che si giungesse alla μία πίστις, alla pura ἀγάπη e ad un culto di giudizi unanimi – ὁμογνόμων – su Dio Onnipotente] […] che tutti i vescovi o la maggior parte di loro fossero convenuti nello stesso luogo […] per l’accordo dell’unità [πρὸς τὴν τῆς ἑνότητος συμφωνίαν]». Come si può vedere, dunque, la ricerca di un’armonica conformità di giudizio e di fede e soprattutto l’esplicito riproporsi del tema dell’unione – per quanto qui espressa come ἑνότης e non come ἕνωσις – sono elementi costanti nei discorsi costantiniani preservati e ricollocati nella v.C. Tuttavia – ed è questo il punto che il presente saggio intende fare – sono, queste, tematiche che nel segmento cronologico preso in esame compaiono, vent’anni prima che in Costantino, in Eusebio di Cesarea. Del resto il fatto che Eusebio, in occasione dell’inaugurazione della basilica di Tiro, abbia pronunciato il suo panegirico a Paolino «alla presenza di molti pastori che lo ascoltavano in silenzio e ordinatamente»86, può far pensare che i concetti da lui resi pubblici in quell’occasione possano aver avuto ampia risonanza, tanto da poter giungere alle orecchie dei redattori dei discorsi costantiniani. In ogni caso, sia stato questo o meno il milieu in cui si è prodotta, al netto di interventi da parte della cancelleria imperiale che gli studiosi non ritengono rilevanti, si può identificare, tra il 313 e il 336, il coagularsi di una sorta di osmosi tra ambiti diversi che comunicano con le medesime parole attribuendovi però significati differenti. È proprio in tale lenta, graduale osmosi che credo si collochi la lunga trasformazione della cosiddetta svolta costantiniana, la quale, con ogni probabilità, non termina nemmeno con la morte di Costantino. Conclusione: documenti o monumenti Nel 1978 Jacques Le Goff, in una splendida voce redatta per l’Enciclopedia Einaudi relativa al lemma «documento», insegnava a considerare il testo come fonte storica   v.C. III 17-20.   Si tratta di un documento riprodotto anche da Socrate (cfr. Socr., h.e. I 9, 32-46), Teodoreto (cfr. Thdt., h.e. I 10, 1-12) e Gelasio (Gel., h.e. II 37, 10-22) e articolato in tre parti, cioè ruolo di Costantino a Nicea, risoluzione controversia sulla data di celebrazione della Pasqua e polemica antigiudaica, esortazione ad applicare le decisioni prese in concilio. 86  Eus., h.e. X 4, 1. 84 85

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alla stregua di un «monumento», che qualcosa, di piccolo, afferma mentre mostra quanto di più grande ha alle sue spalle87. È in qualche modo la differenza tra il dire e il mostrare, cristallizzata nella nebulosa atmosfera mitteleuropea tra le due guerre nella settima ed ultima proposizione del Tractatus Logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein. La fonte ha il dovere di tacere quanto è ovvio a chi la elabora e lo storico ha l’onere e l’onore di vedere quello che non c’è e che in realtà è l’essenziale, il vero “elefante nella stanza”, per parafrasare un quanto mai eloquente idioma inglese88. Quando ci si accorge – come per il caso qui preso in esame relativo al concetto di “unità della Chiesa” o di “Chiesa-una” – del fatto che il “senso”, il “segno”, il modo con cui il linguaggio si riferisce alle cose, cambia di “significato”, è proprio allora che inizia il lavoro storico. Così, quanto visto in questo saggio intende essere l’avvio di una rilettura di Eusebio che eredita la consapevolezza della complessità della categoria storiografica della “età costantiniana”. Una categoria, appunto, che non è un monolite cronologico, bensì l’interpretazione maturata dallo storico di un segmento diacronico lontano nel tempo e soggetto a una indubbia trasformazione, ma che in quanto tale chiede di essere ricostruita e compresa, nella misura in cui è possibile, al di là o forse attraverso, guardando tra le linee non solo delle fonti in sé, ma anche e soprattutto degli usi che ne sono stati fatti per 1700 anni. Bibliografia Aiello 2012 = V. Aiello, Edilizia religiosa e finanziamento imperiale, in «Cristianesimo nella Storia» 33, 2012, pp. 425-448. Aiello 2013 = V. Aiello, Ossio e la politica religiosa di Costantino, in Melloni, Prinzivalli, Ronchey 2013, vol. 1, pp. 261-273. Alberigo 2007 = G. Alberigo, Sinodo come liturgia?, in «Cristianesimo nella Storia» 28, 2007, pp. 1-40. Amerise 2005 = M. Amerise (a c.), Eusebio di Cesarea. Elogio di Costantino: discorso per il trentennale – discorso regale, Milano 2005. Amerise 2008 = M. Amerise, Note sulla datazione del panegirico per l’inaugurazione della basilica di Tiro (HE X, 4), in «Adamantius» 14, 2008, pp. 229-234. Barnes 1975 = T.D. Barnes, The Beginnings of Donatism, in «Journal of Theological Studies» 26, 1975, pp. 13-22. Barnes 1981 = T.D. Barnes, Constantine ad Eusebius, Cambridge MA 1981. Bernardini 2009 = P. Bernardini, Un solo battesimo una sola chiesa. Il concilio di Cartagine del settembre 256, Bologna 2009.  Cfr. Le Goff 1978.   Reso celebre, nella storiografia costantiniana, da Brown 2013.

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MATERIALI PER UNO STUDIO DELLA VITA DI SAN GIOVANNI NEL POZZO NELLA TRADIZIONE GRECA E ARMENA*

Chiara Faraggiana di Sarzana Francesco Moratelli Anna Sirinian

Nella letteratura agiografica relativa ai primi eremiti del deserto la Vita di san Giovanni nel pozzo si segnala per alcune caratteristiche peculiari, non ultime la scelta da parte del protagonista di condurre la sua esperienza ascetica in Palestina rinchiuso in fondo a un pozzo, e la presenza di toponimi degni di attenzione. Di questo testo edificante si conoscono redazioni in greco (BHG 894z, 895, 895e), in armeno (BHO 520, 522) e in siriaco (BHO 521)1, mancano invece, per quanto ci risulta, tracce di una antica tradizione in latino o in copto, indizio che in epoca tardoantica il culto del santo deve essersi diffuso in un’area relativamente circoscritta. Uno studio complessivo della storia della trasmissione del testo è un desideratum, e le edizioni disponibili offrono un quadro riduttivo di un documento della letteratura ascetica antica tutt’altro che spregevole. Numerose questioni restano aperte – fra cui il paese d’origine del santo e quello del suo biografo, e l’epoca in cui sarebbero vissuti – per le quali lo status quaestionis attuale impone di astenersi dall’avanzare ipotesi che mancano di un sufficiente supporto documentario. Con i materiali qui presentati si vorrebbe offrire alla ricerca un aiuto, ancorché molto parziale, come si augurava p. François Halkin2.

*  Sebbene ogni parte di questo articolo sia stata discussa collegialmente, la premessa, il paragrafo “La trasmissione del testo in greco” e i dati relativi alla tradizione testuale greca forniti nelle note sono di Chiara Faraggiana; il paragrafo “Le due redazioni in armeno (BHO 520, 522)” e la prima traduzione in italiano (Arm A) sono di Anna Sirinian, mentre la seconda (Arm B) è di Francesco Moratelli.   Histoire de Jean le Siloïte 1909, testo trascritto dal manoscritto Oxford, Bodleian Library, Marsh 13, ff. 232r-243v, a cura di François Nau, con traduzione francese di Maurice Brière. 2   Halkin 1963, p. 262. 1

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La trasmissione del testo in greco Un censimento completo dei manoscritti greci che tramandano la Vita di san Giovanni nel pozzo è ancora da farsi. A quelli segnalati dai bollandisti e ad altri elencati dall’Institut de recherche et d’histoire des textes (IRHT) del CNRS francese nella banca dati “Pinakes”3 si deve aggiungere un nuovo testimone del sec. X, il manoscritto Crypt. B.α.XVIII (gr. 328), pervenuto a Grottaferrata solo in piena età moderna, mentre intorno al XVI secolo si trovava in Calabria in prossimità di Rossano, nel monastero – fondato da Bartolomeo di Simeri (ca. 1050 - 19 agosto 1130) – di S. Maria Odigitria (detto anche “del Patir” o “Patirion”)4. Del codice originario, tutto vergato dallo stesso copista, facevano parte anche i fogli 1-18 del Lond. Add. 118695. Questo antico γεροντικόν, la cui produzione sul fondamento della scrittura è stata attribuita alla Calabria6, è un testimone non trascurabile degli scritti dei Padri del deserto; trasmette fra l’altro la raccolta sistematica cosiddetta “normale” degli apophthegmata patrum in uno stadio evolutivo che Probekollationen realizzate nell’ambito del progetto “Apophthegmata Patrum” della Akademie der Wissenschaften zu Göttingen7 permettono di collocare in posizione intermedia fra lo stadio a e lo stadio b8. La relativa antichità di questa redazione apoftegmatica, la datazione del codice e il suo contenuto complessivo costituivano motivi sufficienti per sospettare che anche il testo della Vita di san Giovanni nel pozzo potesse riservare felici sorprese. Ciò ha spinto gli autori del presente articolo a condurre un primo esame comparato della tradizione del testo in greco e in armeno. Prescindendo dalle epitomi, il cui esame esula dagli scopi del presente contributo, le redazioni greche a oggi note si possono così sintetizzare: - “redazione AASS” (BHG 895)9: pubblicata la prima volta a Anversa nel 1668, è la trascrizione del testo trasmesso da un antico codice datato, il Vat. gr. 1660 (a.  http://pinakes.irht.cnrs.fr/presentation.html.   Le datazioni che si leggono nella banca dati “Pinakes” Nr. 17560 (sec. XII) e all’URL http://www. bl.uk/manuscripts/FullDisplay.aspx?ref=Add_MS_11869 della British Library (sec. XIII-XIV) devono essere corrette: cf. Lucà 1986, p. 51 e tav. XII; a questo studioso si deve anche l’avere individuato nel monastero del Patir il luogo di provenienza del codice: Lucà 2003, pp. 169 (nota 85), 202. 5   Cataldi Palau 1992, pp. 226-229 e tav. 8 [rist. Ead. 2008, pp. 373-377 e tav. VIII]; cf. Pinakes Nr. 38875. Questi fogli sono consultabili anche online: http://www.bl.uk/manuscripts/FullDisplay. aspx?ref=Add_MS_11869. 6   Lucà 2009, p. 194. 7   La documentazione è depositata presso la Patristische Kommission di questa istituzione. 8  Cf. Guy 1984, pp. 117-190. 9   AASS, pp. *35-*38,*40, con la traduzione latina del cardinale Guglielmo Sirleto, ivi, pp. 829-831. È possibile consultarne una trascrizione pubblicata online: https://www.heiligenlexikon.de/ActaSanctorum/ Anhang_Maerz_III.html (testo greco); https://www.heiligenlexikon.de/ActaSanctorum/30.Maerz. html (traduzione latina di Sirleto). 3 4

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916), ff. 256v-266r10; purtroppo non tiene conto della partizione del testo nel manoscritto, e presenta qualche refuso. Si tratta di una redazione abbreviata, dove è omesso il primo incontro fra Giovanni e Farmuzio11; conserva peraltro uno stadio testuale indubbiamente antico, come comprova la traduzione armena A. -  “redazione Halkin”12: trascrizione da un codice proveniente dalla Mεγάλη Λαύρα dell’Athos, il Mosq. Synod. gr. 161, ff. 285r-293r; la datazione finora accettata, che tuttavia non si è potuta verificare, è al sec. XI13. Si tratta di una riscrittura dotta, come traspare in modo evidente sia dal breve prologo sia dall’epilogo, oltre che dallo stile complessivo. È l’unica redazione a situare la vita di Giovanni durante il regno di Massimiano e Diocleziano (286-305) e – in accordo sia con la “redazione AASS” sia con la “redazione italogreca” – indica come terra d’origine del santo Cybistra (oggi Ereğli, in Turchia), città della Cappadocia non lontana dalla Cilicia e dalla Licaonia, situata da Tolemeo (Geogr. V 7,7) nell’Armenia Minore (Ἀρμενία Μικρά)14. Nonostante le ridondanze, preserva un nucleo testuale che ha numerose e precise corrispondenze sia con la “redazione di Grottaferrata”, sia con la traduzione armena A. Questo dato permette di affermare che essa si fonda su una tradizione palesemente antica15. La metafrasi stessa potrebbe essere di epoca alta, si colloca in ogni caso in un tempo e in un luogo in cui il culto del santo era particolarmente vivo. -  “redazione di Grottaferrata”, ampiamente mutila della parte iniziale: con questa definizione, che intende esclusivamente mettere in evidenza il luogo in cui è oggi conservato il manoscritto, indichiamo i ff. 33r-39v del Crypt. B.α.XVIII. Incipit mutilo (cf. “redazione Halkin”, § 6, lin. 33; Vat. gr. 1589, f. 174va) per la perdita di un intero fascicolo, il quinto quaternione del codice originario16. -  “redazione italogreca”: inedita, è trasmessa dal Vat. gr. 1589, ff. 173v-176v17. Questo pregevole manoscritto di contenuto agiografico, proveniente da Grottafer10   “Pinakes” Nr. 68291. Anche questo manoscritto è consultabile online: https://digi.vatlib.it/view/ MSS_Vat.gr.1660. 11   La sezione omessa corrisponde a Vat. gr. 1589, f. 174ra, lin. 17 - 174rb, lin. 11; “redazione Halkin” § 4, lin. 5-42. Non è chiaro il motivo di questa omissione, probabilmente dovuta alla negligenza del copista, perché il passo ha un contenuto in sé concluso e un’estensione corrispondente a poco più dei righi di scrittura di una pagina del Vat. gr 1660. Una lacuna dovuta alla caduta di un foglio nell’antigrafo sarebbe in teoria possibile solo se quest’ultimo fosse stato di dimensioni estremamente ridotte e avesse avuto trascritto sullo stesso foglio l’intero episodio del primo incontro fra Giovanni e Farmuzio. 12   Halkin 1963, pp. 261-282. 13   Cf. “Pinakes” Nr. 43786. 14  Probabilmente influenzati da questa testimonianza i primi Padri Bollandisti hanno indicato Govanni nel pozzo come eremita in Armenia: AASS, pp. 828-829; Halkin 1963, pp. 262, 264. 15   La valutazione di Albert Ehrhard, che la considerava «der griechische Originaltext», non rilevandone il carattere metafrastico, conteneva dunque un nucleo di verità: Ehrhard 1910, p. 617. 16   Lucà 1986, p. 51. 17   È consultabile anche sulle riproduzioni pubblicate online: https://digi.vatlib.it/view/MSS_Vat. gr.1589, cf. “Pinakes” Nr. 68220.

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rata (olim Crypt. 46), fu copiato in Italia meridionale intorno alla metà del sec. X18. La redazione del codice vaticano è caratterizzata da adattamenti forse intenzionalmente finalizzati a un uditorio italogreco. Ne segnaliamo due significativi. La sorella dell’eremita Giovanni è chiamata Domestiana, mentre nelle altre redazioni il nome è Temistia o Tesmesia; il funzionario provinciale incaricato di arrestare i cristiani è definito κόμης, laddove nel Vat. gr. 1660 è definito κορρήκτωρ (κορήκκωρ ms.), lectio difficilior certamente antica e con tutta probabilità originaria19; nel Crypt. B.α.XVIII deest; nel Mosq. Synod. gr. 161 è definito ἡγεμών. L’analisi comparata con le due redazioni greche dell’opera pubblicate a stampa, con la redazione italogreca inedita trasmessa dal manoscritto Vat. gr. 1589 e con le due traduzioni armene (v. infra) ha confermato il grande valore della “redazione di Grottaferrata”. Il Crypt. B.α.XVIII è infatti un testimone indipendente rispetto agli altri noti e tramanda uno stadio testuale di notevole antichità. I passi scelti che seguono – dove si riproduce la grafia dei manoscritti criptense e vaticano, errori ortografici e prosodici inclusi, mentre l’interpunzione è trascritta adattando i segni all’uso moderno – hanno il mero scopo di mostrare l’indipendenza della “redazione di Grottaferrata” rispetto alle altre tre redazioni. 1. Crypt. B.α.XVIII, f. 34r-v: δέωμέ σου ἄν(θρωπ)ε του θ(εο)υ, τέλειος εἶ ἀναχοριτῆς, ἠξῆλθες τῶν βιωτικῶν συμφορῶν, παντα ἐπίστασαι· σπλαγχνα μητρος, πόθον γνόρίζεις ἀδελφῶν, δούλων ἀναστροφὴν, χρήματων περιουσιαν, γένους ἀξίαν, φιλων ἐπηποθίαν· συμπάθησόν μοὶ ὡς πολλὰ παθόντι ἅγιε του θ(εο)υ. “redazione AASS”: Δέομαί σου, ἄνθρωπε τοῦ Θεοῦ, εἰ τελείως ἐξῆλθες ἀναχωρεῖν τῶν βιωτικῶν συμφορῶν, παντα ἐπίστασαι, σπλάγχνα μητρὸς, πόθον γνωρίζεις ἀδελφῶν, δούλων ἀναστροφὴν, χρημάτων περιουσίαν, γένους ἀξίαν, τύχην ἀγαθήν· οὕτως οὖν συμπάθησόν μοι, ὡς πολλὰ καμὼν, Ἅγιε τοῦ Θεοῦ. “redazione Halkin”, § 7, lin. 11-17: Δέομαί σου, ἄνθρωπε τοῦ Θεοῦ, εἰ τέλειος εἶ ἀναχορητὴς καὶ ἐξῆλθες βιωτικῶν συμφορῶν τε καὶ θλίψεων, δέξαι μου τὸν κλαυθμὸν καὶ πρόσσχες τῇ παρακλήσει μου. Οἶδας γὰρ γονέων στοργὴν καὶ πάντα ἐπίστασαι· σπλάγχνα μητρὸς, ἀγάπην ἀδελφῶν, δούλων ἀναστροφήν, χρημάτων περιουσίαν, γένους ἀξίαν, τύχην ἀγαθήν· οὕτως οὖν συμπάθησόν μοι [με ms.] ὀδυρομένῳ ὡς πολλὰς συμφορὰς καὶ πειρατήρια παθὼν καὶ ὑποστάς, ἅγιε τοῦ θεοῦ. Vat. gr. 1589, f. 175ra: δέωμαί σου ἄν(θρωπ)ε του θ(εο)υ, εἰ τέλειος ἀναχώρητὴς εἶ, τῶν συμφορῶν πάντα ἐπίστασαι, σπλάγχνα μ(ητ)ρ(ὸ)ς, πόθον ἀδελφῶν γνωρίζεις, δοῦλων ἀναστροφήν, χρημάτων περιουσίαν, γένους ἀξίαν, τύχην ἀγαθήν· οὕτως οὖν συμπάθησόν μοι, ὡς πολλὰ καμὼν, ἅγιε τοῦ θ(εο)υ.   Per la parte del codice di cui ci occupiamo si veda soprattutto Lucà 1991, pp. 324 (nota 24), 339.   Su questo prestito (dal latino corrector), attestato in un papiro dell’anno 386 d.C. (POxy LXIII 4385, 9) e indicante un governatore o alto funzionario di provincia, cf. LBG, s.v. 18

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2. Crypt. B.α.XVIII, f. 35r: συνεπνιγεν τὸν ἀιγυπτιον ὑπο τῶν λογισμῶν, καὶ οὐδε ευχὴν ἑαὐτῶ [leg. ἐᾷ αὐτῷ] ποιεισαι. “redazione Halkin”, § 8, lin. 8-9: ἔπνιγεν τὸν Αἰγύπτιον ὁ σατανᾶς ὑπὸ τῶν λογισμῶν καὶ οὔτε εὐχὴν αὐτὸν ἔασεν ποιῆσαι. “redazione AASS”, § 6, e Vat. gr. 1589, f. 175rb: συνεπνίγετο ὁ Αἰγύπτιος ὑπὸ τῶν λογισμῶν, καὶ οὐδὲ εὐχὴν ἐδύνατο ἐπιτελέσαι (ἐπιτελέσαι] ποιῆσαι Vat. gr. 1589). 3. Crypt. B.α.XVIII, f. 38r: ουδε μηποτε φανερῶ προσώπω συνανεστράφην “redazione Halkin”, § 9, lin. 48-49: οὐδέποτε φανερῷ προσώπῳ συνανεστράφην ξένοις ἀνθρώποις “redazione AASS”, § 9: οὐδέποτε φανερῷ προσώπῳ συνανεστράφην Vat. gr. 1589, f. 176 rb: οὐδέποτε συνἀνεστράφην μετα ξένων ἀν(θρώπ)ων 4. Crypt. B.α.XVIII, f. 38v: ὡς δε ἤρξατω φησιν κατασκευαζειν “redazione Halkin”, § 9, lin. 60: il passo è omesso. “redazione AASS”, § 9: ὡς δε ἤρξαντο παρασκεύαζειν Vat. gr. 1589, f. 176 rb: Ὡς δὲ ἤρξατο παρασκεύαζειν 5. Crypt. B.α.XVIII, f. 38v: εἳς τῶν δαιμόνων γελάσας λέγει· ναὶ ὅτη ολοι ὑμεῖς κατελθηται, … “redazione Halkin”, § 9, lin. 60-61: Καὶ λέγει εἷς τῶν δαιμόνων γελῶν· «Ναὶ ναί, καλὸν καλόν· ὅτε ὅλοι ὑμεῖς κατέλθητε, …» “redazione AASS”, § 9: εἷς τῶν δαιμόνων ἔλεγεν. Ὅταν ὑμεῖς κατέλθητε ὅλοι, … Vat. gr. 1589, f. 176rb: ἐβόησεν εἳς τῶν δαιμόνων λέγων· ὅταν ὑμεῖς κατέλθητε ὅλοι, … 6. Crypt. B.α.XVIII, f. 38v: καὶ συμπεριπλεκεται τῶ ϊωάννη, καὶ φησιν ησθιεν αὐτοῦ τας σαρκας. “redazione Halkin”, § 9, lin. 74-75: περιεπλέκετο τῷ Ἰωάννῃ καὶ λοιπὸν ἤσθιεν τὰς σάρκας αὐτοῦ. “redazione AASS”, § 9: καὶ συνπεριεπλέκετο τῷ Ἰωάννῃ, καὶ ἤσθιεν τὰς σάρκας αὐτοῦ. Vat. gr. 1589, f. 176 va: συνπερὶπλέκεται τῶ ιω(αννῃ), καὶ ἤσθιεν τὰς σάρκας αὐτοῦ. 7. Crypt. B.α.XVIII, f. 39r-v: ὧν ἐν τηνι ὕλη τῶν βορατινων “redazione Halkin”, § 10, lin. 3-4: ἐν τῷ ἕλει ὢν τοῦ Βορατινοῦ ὄρους “redazione AASS”, § 10: ὢν ἐν τῇ ὕλῃ τῶν Βαρατέων Vat. gr. 1589, f. 176 va: ὢν ἐν τῆ ὕλη τῶν μωραλέων

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Le due redazioni in armeno (BHO 520, 522) La tradizione armena della Vita di san Giovanni nel pozzo, finora poco studiata e foriera invece di lectiones uniche e di notevole interesse, consta di due redazioni che, pur seguendo una narrazione comune, si discostano in alcuni punti l’una dall’altra. Entrambe sono pubblicate sotto il comune titolo di «Vita del beato Giovanni del pozzo» (Vark‛ eranelwoyn Yohannu gbac‛woyn), alle pp. 113-127 del primo dei due volumi dei Vark‛ Srboc‛ Haranc‛ ew k‛ałak‛avarut‛iwnk‛ noc‛in əst krkin t‛argmanut‛ean naxneac‛ [Vite e condotta dei Santi Padri secondo la doppia traduzione degli antichi] editi a Venezia dai Padri Mechitaristi nel 185520. L’opera, uscita anonima, si deve alle cure del padre Nersēs Sargisean/Sarkissian (1800-1866), al quale si deve anche l’acquisizione di alcuni dei manoscritti serviti da base alla stessa, durante un suo viaggio tra le comunità armene dell’Impero ottomano avvenuto negli anni 1846-185221. I due testi, come accade anche per molte delle altre Vitae, si trovano disposti parallelamente nelle stesse pagine: in alto, in corpo maggiore, è pubblicato quello considerato come più antico (nominato Arm A nella nostra traduzione); in calce, in corpo minore, quello ritenuto di epoca più recente (Arm B nella nostra traduzione). Quest’ultima versione, prima dell’edizione mechitarista, era stata pubblicata due volte, ad Isfahan nel 1641 e a Costantinopoli nel 172122, mentre della prima quella veneziana rappresenta l’editio princeps. Una descrizione del lavoro compiuto dal p. Sarkissian è stata fatta dal p. Louis Leloir all’inizio dei suoi quattro tomi di Paterica armeniaca, ovvero della traduzione latina da lui realizzata di quella parte dell’edizione veneziana contenente gli apophthegmata patrum23. Dopo aver giudicato positivamente l’edizione del monaco mechitarista, rimarcando come essa si fondi su di una base manoscritta relativamente ampia (dieci codici) e solida, nonché su di un uso fedele delle fonti, il p. Leloir afferma l’urgenza di «une traduction de l’œuvre du P. Sarkissian, qui permette de se faire une idée exacte du contenu et des orientations des deux collections, de leurs sources, de leurs procédés stylistiques, de leur vocabulaire, de leurs relations avec les autres traditions orientales»24.   Nell’indice del volume a p. [13] il titolo è semplicemente “Vita di Giovanni del pozzo” (Vark‛ Yohannu gbac‛woy). 21  Cf. Mayr C‛uc‛ak 1998, coll. 628, 648, 657, 679, a proposito dei mss. 806 (cat. 1677), 1324 (cat. 1679), 1922 (cat. 1680) e 844 (cat. 1684). – Il viaggio del p. Sarkissian, sul quale si veda anche Čemčemean 1974, si inserisce nella più illustre tradizione mechitarista della ricerca del maggior numero possibile di codici sui quali basare le numerose edizioni a stampa curate dagli stessi monaci per l’elevazione culturale e spirituale dei loro connazionali. Si veda sull’argomento il contributo della compianta Gabriella Uluhogian, Uluhogian 1999, pp. 121-132. 22   Per entrambe le edizioni cf. BHO 522. 23   Leloir 1974, pp. III-XII. 24   Leloir 1974, p. VIII. 20

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Seguendo l’indicazione e la via tracciata per gli apophthegmata dal p. Leloir, abbiamo voluto preparare in questa sede la prima traduzione italiana – che è anche la prima in una lingua europea – di entrambe le versioni armene della Vita di questo santo presenti nell’edizione di p. Sarkissian. La traduzione è stata condotta in maniera il più possibile letterale, sia per mostrare le non trascurabili qualità narrative di questi testi, sia anche per evidenziare nelle note alcuni passi significativi che mostrano, in alcuni punti, la loro stretta aderenza alle varie redazioni del testo greco, da cui certamente le due versioni armene discendono25. Come accade spesso nel confrontare le antiche traduzioni armene con la tradizione manoscritta dell’originale da cui derivano, anche in questo caso entrambi i nostri testi mostrano di non seguire in modo costante nessuna delle quattro redazioni greche conosciute, segnalando di risalire a uno stadio della trasmissione manoscritta greca diverso e forse anteriore rispetto ai codici pervenuti. Esse si configurano dunque come testimoni essenziali per ricostruire la storia della multiforme tradizione della Vita di san Giovanni nel pozzo. Quanto al confronto tra le due versioni armene, ci auguriamo che la traduzione italiana letterale permetta inoltre al lettore di notare sia la reciproca vicinanza dei due testi sia le peculiarità stilistiche e di contenuto di ciascuna. Per quanto riguarda lo stile, concordiamo in generale con il giudizio di p. Sarkissian, secondo il quale Arm A è da ritenersi la versione più antica, più coesa dal punto di vista narrativo e letterariamente migliore. Alcune forme postclassiche che si riscontrano in Arm B, come ad esempio il genitivo/dativo k‛uroǰ del sostantivo “sorella”, assenti in Arm A, sembrano confermare tale giudizio. Tuttavia, anche il testo di Arm B è degno di considerazione, per alcuni particolari o alcune sequenze narrative sue proprie che meritano ulteriore approfondimento. Tra le differenze maggiori relative al contenuto, segnaliamo quella che vede Arm B ambientare l’infanzia del protagonista a Cesarea di Palestina, mentre Arm A omette il nome della città di origine del giovane. Arm B, inoltre, possiede un epilogo (§ 15), non attestato né in Arm A né in nessuna redazione greca, che sembrerebbe costituire – qui come in altri casi – uno sviluppo narrativo seriore. In questo epilogo è anche menzionato il 23 aprile come giorno della morte del santo, data che non trova tuttavia corrispondenza né nella tradizione liturgica armena né in quella greca26. Nei limiti, già accennati, di questo studio, vorremmo infine segnalare che la tradizione manoscritta armena dei Vark‛ Srboc‛ Haranc‛ o “Vite dei Santi Padri” è l’unica, a quanto ci risulta, a trasmettere un ritratto del santo: il ms. 285 della  Cf. Peeters 1910, p. 207.   Nella “redazione Halkin”, § 10, lin. 26-27, si legge il 18 settembre; ivi, p. 281 nota 33, si ricordano, tra le altre date attestate, quelle del 17 aprile e del 29 o 30 marzo; “Giovanni che morì nel pozzo” (Yovhannēs or i gbin katarec‛aw) è invece menzionato insieme con i Padri del deserto alla data del 1° dicembre nel cosiddetto “Lezionario di Drazark”, cf. Renoux, Sirinian 2018, p. 116. 25 26

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Biblioteca del Monastero di San Giacomo a Gerusalemme, copiato in Crimea, a Caffa, nel 1430, tra le sue circa cinquecento immagini – che ne fanno l’esemplare più riccamente miniato in assoluto27 – possiede una vivace miniatura di Giovanni che lo ritrae nimbato, in piedi, dentro il pozzo, abbigliato con la corta tonaca tipica degli eremiti del deserto, mentre fronteggia il serpente, dipinto a sinistra ravvolto in numerose spire – di cui una avvolge un piede del santo – e con le fauci aperte, dalle quali fuoriescono acute zanne (Fig. 1). Avvertenze Nella presente traduzione la numerazione dei paragrafi in cui è stato suddiviso il testo corrisponde alla progressione degli a capo nell’edizione del p. Sarkissian. I tempi al presente storico sono stati ricondotti al passato. L’uso delle parentesi è stato regolato dal seguente criterio: ( ) traslitterazione degli antroponimi o altri termini armeni, o aggiunta esplicativa richiesta dalla lingua italiana; { } espunzione, richiesta dalla lingua italiana, di un termine presente nel testo armeno. Nelle note si darà conto di una selezione di elementi significativi sia rispetto alla tradizione greca sia per quanto riguarda il rapporto fra le due redazioni armene.

  La decorazione del codice è stata studiata a fondo da Nira Stone, Stone 1997.

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Materiali per uno studio della Vita di san Giovanni nel pozzo

Fig. 1. Gerusalemme, Biblioteca del Monastero di San Giacomo, ms. 285, a. 1430: s. Giovanni nel pozzo (da Stone 1997, tav. 7, fig. 9; si ringrazia la casa editrice Peeters che ne ha concesso la riproduzione per questa specifica pubblicazione).

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VITA DEL BEATO GIOVANNI DEL POZZO28 Arm A29 1.  Una donna devota a Cristo30, cui era nome Giulia (Yulia), era molto ricca e aveva due figli: Giovanni (Yohannēs) e sua sorella Temestia (T‛emestia). A quei tempi vi fu un governatore31 empio che aveva ricevuto ordine dai re32 di uccidere con varie torture quanti trovava che credevano in Cristo. E la beata Giulia, avendo sentito che stava arrivando anche in quella città, si dava alla fuga in una piccola casa e là si nascondeva insieme con i figli per insegnare loro i precetti della religione33. E avvenne che quando Giovanni aveva circa quindici anni di età34, di nascosto dalla madre andava in chiesa e recitava le preghiere abituali. 2.  E un giorno un uomo, avendolo trovato in chiesa, gli domandò e disse: «Dimmi, fanciullo, tu a quale famiglia appartieni, ché in codesto modo da solo reciti le abituali preghiere?». [p. 114] E Giovanni disse: «Sono figlio di una donna vedova, ho una sorella piccola e siamo nascosti in una casa con (nostra) madre; e io, di nascosto da mia madre, vengo all’ora (giusta) in questa chiesa e non trovo nessuno con cui lodare Dio, poiché tutti i cristiani hanno avuto paura e sono fuggiti; ma io ho paura del re celeste, che in quel giorno (del Giudizio) mi darà il pegno dell’immortalità». Gli dice l’uomo: «E che bisogno hai a una tale età di combattere contro tali angustie? Ma se vuoi vincere le forze avverse, va’ nel deserto e separati dagli uomini e sii timorato di Dio, e vivrai come uno degli angeli; questa vita infatti è vana, e le cose e le tirannie del mondo (sono) come ombra, e i suoi poteri come fumo si distruggeranno35, e guai a quell’uomo che distrugge la ricchezza della sua anima!». E Giovanni, sentendo ciò, si rattristò e disse all’uomo: «E che cosa dovrei fare? Ho compassione per mia madre e per mia sorella, che è piccola, e mia madre ha molto faticato per noi perché imparassimo a leggere e scrivere e potessimo avere una casa, affinché non si perdessero i nostri beni». E l’uomo gli disse: «Migliori sono i beni che sono nei cieli»36. Gli disse Giovanni: «Allora andrò, dirò addio a mia madre   Il gr. ἐν τῷ φρέατι è reso in armeno mediante l’aggettivo gbac‛i «del pozzo» (gbac‛woyn nel testo), formato dal sost. gub «pozzo, fossa» + suff. -ac‛i indicante appartenenza e origine. 29   Vark‛ Srboc‛ Haranc‛, I, pp. 113-125. 30   Cf. gr. γυνὴ φιλόχριστος. 31   Rendiamo così il termine išxan. 32   Il plurale sembra alludere alla diarchia. Νella “redazione Halkin”, l’unica a specificare chi regnava, leggiamo i nomi di Diocleziano e Massimiano, v. supra, p. 65. 33   Cf. gr. εὐσέβεια. 34  In Arm B si specifica che Giovanni aveva dodici anni al momento della fuga nel nascondiglio, e circa quindici quando la madre si rallegrò per la devozione del figlio. 35   Sap 5,14; Is 51,6; Os 13,3. 36   Mt 5,3. 28

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e così mi metterò in cammino [p. 115] senza che si lamenti a causa mia, pensando che ho disprezzato la sua vecchiaia, ma se pregherà per me, partirò prendendo quella (preghiera) come grande viatico». E andò velocemente a casa sua. Gli disse sua madre: «Dove ti sei trattenuto per così tanto tempo, figliolo, e hai addolorato il mio cuore? Io, infatti, avendo disdegnato i beni di vostro padre, vi ho nascosto affinché non cadeste nelle mani dell’empio governatore, e tu vuoi farti scoprire e affliggere le mie infelici viscere?». Le disse Giovanni: «Sono andato in chiesa e lì mi ha trovato uno dei miei compagni di scuola e ha voluto trattenermi con sé. E io gli ho detto: “Non posso farlo senza il permesso di mia madre”, e gli ho dato la parola di andare col tuo beneplacito. Quindi congedami, madre mia, e prega per me, e se io mi tratterrò a lungo, tu sta’ in pace». E la madre disse: «Va’, figlio mio, in pace, e Dio sarà davanti a te». 3.  E Giovanni, avendo preso commiato dalla madre e avendo salutato la sorella, uscì e s’incamminò {e} subito dirigendosi verso il deserto, per dimorare colà. E, avendo attraversato il fiume Giordano e avendo viaggiato nel deserto due notti, {e} là trovò una grotta nella quale abitava un uomo egiziano e soggiornò presso di lui per quella notte. E il giorno dopo l’eremita gli disse: «Tu che cosa cerchi qui, fanciullo?». Ed egli disse: «Voglio vivere nel deserto perché mi piacque la vita degli anacoreti». Disse a lui l’eremita: [p. 116] «Non può un eremita stare con un altro, altrimenti non è come se vivesse nel deserto, ma come (se vivesse) in città». E Giovanni gli disse: «Padre, io voglio vivere presso di te per ascoltare da te discorsi di cui ho bisogno per vivere». E l’egiziano diede il permesso per sette giorni. L’egiziano soleva ricevere cibo da un angelo una volta alla settimana per provvidenza di Dio. Essendogli arrivato il cibo come d’abitudine, lo prese e non (ne) diede a Giovanni. E l’egiziano, dopo averlo chiamato, gli disse: «Va’, parti da qui nel deserto più interno, e cercati una dimora, e resta lì finché il Signore ti cercherà e ti darà del cibo, perché io non ho cibo dalla terra per nutrirti, ma neppure c’è l’ordine per te di vivere qui, altrimenti sarebbe stato portato del cibo anche a te»37. E Giovanni, sentendo ciò, si avvicinò38, baciò i suoi piedi e partì andò39 nel deserto. 4.  E mentre andava attraverso il deserto, lo trovò un angelo e gli disse: «Dove vai, fanciullo?». Ed egli disse: «Cerco un posto dove dimorare». E l’angelo gli mostrò dove andare. E camminando la strada di un giorno40 trovò un pozzo e, messosi a pregare, guardò in fondo al pozzo e, avendo alzato lo sguardo ai cieli, disse: «Tu che il terzo giorno tirasti fuori Giona dal ventre della balena41 e Daniele [p. 117]   Cf. Vat. gr. 1589, f. 174r a-b.   Cf. προσελθὼν nella “redazione Halkin”, § 4, lin. 39-40. 39   Giustapposizione di due verbi di moto, come è tipico dell’armeno classico. 40   Il passo “dove andare. E camminando la strada di un giorno” trova la massima rispondenza in ὅθεν πορευθῇ. Καὶ ἐπορεύθη ὁδὸν ἡμέρας μιᾶς della “redazione AASS”, § 2; lievemente diversi Vat. gr. 1589, f. 174rb e “redazione Halkin”, § 5, lin. 15. 41   Gio 2. 37 38

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dal pozzo dei leoni42 e Geremia dal pozzo di fango43 e il padre Giuseppe dal pozzo dell’iniquità44, Tu, Signore, manifestati anche ora in questo pozzo, perché mi ci getto dentro nel Tuo Nome, e questo luogo sarà per me abitazione, e Tu mi nutrirai, e non uscirò da qui per tutti i giorni della mia vita, che Tu hai stabilito per me sopra la terra». E avendo concluso la preghiera, si gettò nel pozzo e fu mantenuto incolume dall’angelo santo; e restava là dentro glorificando incessantemente Dio, e non mangiò né bevve per quaranta giorni. 5.  E quando i giorni giunsero al termine, venne l’angelo e portò cibo all’egiziano e gli disse: «Alzati, Farmuzio (P‛armut‛ios)45, e porta codesto cibo a Giovanni, perché sono quaranta giorni che non mangia né beve né piega le gambe né abbassa le braccia, ma prega solamente e supplica il Signore. E poiché è un bambino, il Signore mi ha ordinato di non portargli cibo perché non diventasse vanaglorioso e Satana lo tentasse, ma volle che gli fosse dato per mano tua; e quando gli darai il cibo, incoraggialo e confermalo con la parola del Signore». Ma Satana, che era sul punto di tentare l’egiziano, era là vicino e ascoltava tutto. E dopo che ascoltò ogni cosa, gridò e disse: «Venni qui pensando che Farmuzio fosse un vas electionis46 e che fosse una grande fatica per me ingannarlo, ma ora cos’è lui47? Uno che, se voglio, (lo) scuoto come una foglia al vento. Che farò, dato che anche i fanciulli mi muovono guerra? Andrò allora mentre è ancora giovincello e lo ingannerò con le mie molte macchinazioni: infatti, se si abituerà e non si angoscerà, non potrò più ingannarlo»48. 6.  E Farmuzio, avendo preso il cibo dall’angelo, andò da Giovanni, e restando in preghiera sul posto, lo chiamò: «Giovanni, servo di Dio, tu a cui (Dio) fece visita [p. 118] per la perseveranza delle tue preghiere, e ti inviò cibo affinché non ti indebolissi49, ricevi ora ciò che ti è stato mandato dal Signore». E Giovanni disse: «Se fosse stata la volontà del Signore di darmi del cibo, me lo avrebbe mandato qui, ma poiché Dio non mi conobbe, non mi ha neanche portato il cibo»50. Disse a lui Farmuzio: «Io sono Farmuzio, quello (di quando) venisti la prima volta là nella grotta». Ed   Dn 14,34-42.   Ger 38(45),6-13. 44   Gn 37,24-28, 41,40-44. 45   È nominato qui per la prima volta l’asceta egiziano presso la cui grotta Giovanni trova un primo riparo nel deserto. 46   At 9,15. In gr. sia la “redazione Halkin” § 6, lin. 17, sia la “redazione AASS” § 3 presentano invece il sostantivo σκεῦος accompagnato dall’aggettivo μέγα; il Vat. gr. 1589 omette il passo. Questa definizione è qui riferita a Farmuzio come in AASS, mentre nella “redazione Halkin” è riferita a Giovanni (cf. il commento dell’editore a p. 271 nota 18). 47   Il pronome è qui riferito a Giovanni. 48   Questo passo trova riscontro nella “redazione AASS” § 3, manca invece sia nella “redazione Halkin” sia nel Vat. gr. 1589. 49   Il passo «affinché non ti indebolissi» corrisponde esattamente a ὅπως μὴ ἀτονήσῃς di “redazione Halkin” § 6, lin. 30 e Vat. gr. 1589, f. 174va. 50   Nel passo «poiché Dio non mi conobbe, non mi ha neanche portato il cibo» la traduzione armena rispecchia fedelmente il testo del Vat. gr. 1589, f. 174va (ἀλλ’ἐπειδὴ οὐκ ἔγνω με ὁ θεός, οὐδὲ ἀπέστειλέν 42 43

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egli disse: «Benedici il Signore, e così dammi il cibo». E (Farmuzio) benedisse il Signore e avendo detto «Amen» gli diede il cibo51. E Giovanni, avendolo preso, si rifocillò e disse a lui: «Va’, servo di Dio, risiedi nella grotta e glorifica Dio, e ricordami nelle tue preghiere! Infatti il Signore è vivo, il quale non ha abbandonato la mia miseria52; non accetterò più cibo dalle mani degli uomini fino a quando lo spirito è in me; ma se io debbo vivere qui, il Signore mi farà visita e mi invierà del cibo: non uscirò infatti da questo pozzo né incontrerò uomo né mi ricorderò dei miei averi, ma questo (pozzo) sarà per me casa nella mia vita e tomba nella mia dipartita, e di tutto si curerà il Signore riguardo a me». 7.  Gli disse Farmuzio: «Ascolta, figliolo, abbi pazienza e glorifica Dio53, affinché tu non venga mai tentato da Satana, poiché è molto nemico di questa armata e in ogni momento combatte contro di noi e induce in noi angoscia e cattivi pensieri: la consuetudine di vita, l’abbondanza di beni, la compassione della madre, la nostalgia della sorella54, la supplica55 dei servi, l’amore della stirpe, l’amicizia dei coetanei, e la mente è soffocata dai (cattivi) pensieri e il cuore si indurisce e rende l’uomo sterile56. E di nuovo (Satana) induce parimenti altri pensieri57: lacrime e ingiusti pensieri e solitudine e l’estraniarsi dal mondo e il viaggio nel deserto e la fine della vita58 e la dipartita della morte, e distrugge la mente e inganna il cuore degli innocenti; ma tu sii saggio in tutto e sta’ in pace [p. 119] (per) essere custodito59 dal Signore». E gli disse Giovanni: «Ti scongiuro per la gloria di Dio: quando Dio si ricorderà di te e ti invierà del cibo, non portarmelo!». Ma Satana ascoltava tutti questi discorsi. 8.  E accadde che, dopo la partenza dell’egiziano, Satana cessò (dalle sue tentazioni) per un anno; e dopo quel (tempo), essendo apparso nella grotta nelle semμοι τροφήν); la “redazione di Grottaferrata” – che così inizia (f. 33r): lacuna] θεὸς, οὐδὲ ἀπέστειλέν μοι τροφήν – presentava certamente una lezione identica a quella del codice vaticano. 51   In questo punto la versione armena è vicina alla “redazione Halkin”, § 6, p. 272, lin. 47-49. Nelle altre tre redazioni greche (Vat. gr. 1589, AASS e Grottaferrata), è l’angelo, nelle sembianze di Farmuzio, a dare il cibo a Giovanni. 52   Cf. τὴν ταπείνωσίν μου nella “redazione Halkin”, § 6, lin. 56 e nella “redazione di Grottaferrata”, f. 33r. 53   Il passo «e glorifica Dio» manca nelle redazioni greche. 54   Cf. la “redazione AASS”, § 4: ἀδελφῆς. Vat. gr. 1589 (f. 173vb) e la “redazione di Grottaferrata” (f. 33v) hanno la lezione ἀδελφῶν, mentre nella “redazione Halkin” si riscontra una omissione. 55   Nelle redazioni greche (AASS, § 4; Vat. gr. 1589, f. 173vb e “Grottaferrata”, f. 33v) si legge invece φιλοστοργία, mentre nella “redazione Halkin” si riscontra una omissione. 56   Fino a questo punto i § 5-7 in Arm B coincidono. 57   L’espressione «altri pensieri» – che in questo punto non trova corrispondenza in greco – risulta pleonastica in rapporto a quanto segue subito dopo («ingiusti pensieri»). 58   L’espressione armena kenac‛ lucumn è esattamente corrispondente a ζωῆς ἀνάλυσιν, cf. redazione Halkin § 6, lin. 77-78 e “redazione di Grottaferrata”, f. 33v; la “redazione AASS” e il Vat. gr. 1589, f. 174vb hanno invece ζωῆς ἀνάπαυσιν. 59   Sia in Arm A che in Arm B si legge l’infinito passivo pahil al posto del gr. φυλαττόμενος, concordemente attestato da tutte e quattro le redazioni.

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bianze di un servo del padre di Giovanni60, abbracciò Farmuzio e s’inginocchiò davanti a lui piangendo e disse: «Ecco, sei diventato perfetto avendo rinunciato a questo mondo, e conosci tutte le disgrazie di questa vita: la compassione della madre, la nostalgia delle sorelle e dei fratelli, la vita dei servi, la moltitudine delle ricchezze, l’onore della stirpe; così dunque abbi compassione di me, santo di Dio, come uno che ha molto sofferto!»61. E Farmuzio, non sapendo che era una tentazione, iniziò a domandargli e a dire: «Forse sei un soldato o un servo che fugge da un padrone malvagio, oppure un uomo libero vessato da un potente?». E Satana disse: «Avevamo come padrone un uomo pio, e parimenti anche la padrona; e morì il nostro padrone mentre era ancora molto giovane, e lasciò la nostra pia padrona insieme con due fanciulli; ma suo figlio, nostro padrone ed erede dei beni del nostro padrone, se ne andò da qualche parte e non sappiamo che cosa gli è successo. Se uno spirito lo abbia traviato o se sia divenuto preda di una belva, non lo so, e la nostra padrona prova molto affetto, e quando sente che qualcuno è timorato di Dio, va da lui con grande sollecitudine. E ora venne da lei un uomo pio come te, e la nostra padrona gli chiese riguardo al figlio, ed egli disse: “Un fanciullo quale tu cerchi, io lo vidi dall’altro lato del fiume Giordano, ma dove se n’è andato [p. 120] non lo so”; e con molte lacrime, gemiti e suppliche la mia padrona mi mandò a cercarlo avendogli scritto una lettera, e il suo nome è Giovanni e oramai ha quindici anni; e ora Dio mi ha guidato in virtù delle preghiere della mia signora a trovare un uomo degno di Dio, il quale, in virtù delle preghiere, può mostrarmi dove è andato il mio signore». 9.  E l’egiziano, avendo visto le sue lacrime, ne provò compassione e disse: «Resta qui oggi, e domani io te lo mostro». E Satana rimase lì. E l’egiziano per tutta la notte era oppresso dai pensieri e non poteva62 portare a termine le preghiere, ma era in preoccupazioni e in affanni. E quando venne il mattino, Satana cadde ai suoi piedi stringendo(lo), e lo supplicava {e} conducendolo fuori dalla grotta con insistenza così che non gli permise neppure di terminare le preghiere. E recatosi l’egiziano al pozzo, cominciò a parlare con Giovanni e disse: «Per quanto bene compia un uomo e non curi i suoi genitori, esce infruttuoso da questa vita, e la sua fatica, che ha compiuto dalla sua giovinezza, sarà calcolata come niente; e avendo tu lasciato l’infelice tua madre, anche quello che tu consideri di aver compiuto qui di buono, lei lo distrugge con le lacrime. Dunque ascolta, figlio, e va’, cura tua madre, e prendi 60   Lezione propria di Arm A; Arm B ha una lezione analoga al greco della “redazione Halkin”, § 7, lin. 8-9 (σχῆμα ἑνὸς τῶν δούλων Ἰωάννου); nelle redazioni greche “Grottaferrata”, f. 34r, Vat. gr. 1589, f. 175ra, e AASS, § 5 si legge invece ἔχων σχῆμα ἑνὸς τῶν δούλων τῶν προσόντων τῇ μητρὶ τοῦ Ἰωάννου. 61   Il testo armeno lascia un margine di ambiguità che non permette di attribuire con sicurezza l’espressione «che ha molto sofferto» al diavolo travestito da servo oppure a Farmuzio. La parte seguente di questo paragrafo, fino alla fine, e i §§ 9-11 coincidono con Arm B. 62  Leggiamo karēr al posto di kamēr sulla base del verbo greco ἐδύνατο, attestato da “redazione AASS”, § 6, Vat. gr. 1589, f. 175rb. Per le redazioni “Halkin”, § 8, lin. 8-9, e “Grottaferrata”, f. 35r, v. supra, p. 67.

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per te i beni di tuo padre e dalli ai poveri63, e poi verrai qui: ecco, infatti, ti ha inviato anche un fanciullo»64. 10.  Disse a lui Giovanni: «O Farmuzio, tu che ti sei tanto affaticato, come non hai riconosciuto colui (scil. Satana) che opprimeva i tuoi pensieri e pervertiva la tua mente e rendeva schiavi i tuoi sensi e ti strappava dalle preghiere? Da questo dovevi sapere che codesto tuo cammino è in compagnia di malvagi, perché nel tuo venire qui non hai reso gloria a Dio, ma hai parlato come per stoltezza. Fatti il segno della croce e prendi in mano lo scudo della fede, riprendi il tuo senno, riconosci quello che hai detto e va’, siedi nella tua grotta, torna in te, affinché il Tentatore non si inorgoglisca contro di te!». Allora Farmuzio, avendo recepito l’ammonimento ed essendo rientrato in sé, ed essendo consapevole che l’intorbidamento era in lui, si gettò con la faccia a terra, gridò e [p. 121] disse: «Giovanni, figliolo, tu supplica per me il Signore affinché io riprenda consapevolezza di me, in modo che dopo così tante fatiche non perisca! Io infatti così pensavo, di aver ormai superato lo sviamento dell’Avversario». Allora Giovanni disse: «O Signore, Tu che conosci gli intimi pensieri e metti alla prova i cuori65, concedi di rinsavire al tuo servo che molto ha faticato per il Tuo nome, e respingi il nostro Avversario!». 11.  E Satana disse a Giovanni: «Quanto hai afflitto noi e te! Ecco, ho condotto questo santo servo di Dio e non lo hai ascoltato; dunque io vado via (e) racconterò, e l’infelice tua madre si affliggerà e vorrà venire qui66: so infatti che le sue viscere non sopportano di restare (là), ma viene sicuramente». E Giovanni non gli diede alcuna risposta, ma disse all’egiziano: «Tornatene, o padre67, e come hai tribolato fin dall’infanzia, allo stesso modo umíliati, affinché tu non perda il cibo spirituale». Ed egli, andandosene, diceva a Giovanni: «Io mi sono molto affaticato e sono gravemente caduto, ma tu intercedi per me presso il Signore». E Giovanni sentito ciò diceva: «Non perdere, Signore, la tua perla68, poiché avendo molto faticato mostrò a me (come) conoscere te». E Farmuzio se ne andava piangendo e lamentandosi diceva: «O malvagio Satana, quanto hai combattuto per ingannarmi, ma se (anche) hai sconfitto me rimbambito, il fanciullo invece ti ha vinto. Ma io, vecchio, ti farò guerra come un giovane e vincerò le tue insidie, perché hai pensato di eliminare attraverso me il bambino del Signore, che ti ha svelato e mi ha fatto tornare al Signore». 12.  {E} Satana dunque, dopo aver desistito per un certo tempo, avendo fatto ritorno prese con sé moltitudini di demoni maligni e si recò sul posto69 e, da lon  Mt 19,12; Mc 10,21; Lc 18,22.   In tutte e quattro le redazioni greche (AASS § 6, Halkin § 8, lin. 22, Grottaferrata f. 35v, Vat. gr. 1589, f. 175rb) il “fanciullo” – παῖδα inteso come “servo” – porta la lettera della madre. 65   Sal 7,10; 1 Cr 29,17; Pro 24,12; Ger 11,20, 17,10; Lc 16,15; At 15,8; Rm 8,27; 1 Ts 2,4. 66   I tre verbi resi qui al futuro sono nel testo armeno dei presenti. 67   «O padre», cf. “redazione Halkin” § 8, lin. 67. 68   Mt 13,46. 69   La lezione «sul posto» trova esatta rispondenza nella “redazione AASS” § 8: ἐπὶ τὸν τόπον. 63 64

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tano, assunte le sembianze della madre di lui, gridava e diceva: «O figliolo, quanto ho faticato per te, come ti ho allevato, come ti ho istruito a causa del mio molto affetto, per non [p. 122] perderti70! Sono rimasta chiusa71 in casa per molto tempo, come non provasti pietà di me vedova e senza un difensore72? Non ti sei ricordato del mio seno che hai succhiato, non ti hanno intenerito le mie viscere, né l’affetto di tua sorella né l’angoscia dei tuoi familiari né l’amore dei tuoi compagni né i beni di tuo padre, ma sei divenuto così folle errando per il deserto?». E avvicinandosi un poco al pozzo diceva: «Giovanni, figliolo, scenda il pentimento nel tuo cuore per la tua anziana madre, (per me) che ho faticato molte fatiche per te! Abbi pietà anche di tua sorella sventurata, perché ti chiamava come un padre! Ricorda i tuoi possedimenti paterni e risvégliati dal torpore del Malvagio! O spirito malvagio, che cosa ti ho fatto di male ché ti sei così rinvigorito contro di me e mi hai strappato mio figlio?». Allo stesso modo, avendo assunto anche le sembianze della sorella, gridava verso di lui e diceva: «Abbi pietà di me orfana e in pericolo, perché non ho nessuno che mi difenda, ma sono oppressa da tutti!». E di nuovo, nelle sembianze di molti servi, i demoni gridavano e dicevano: «Ahinoi, siamo senza padrone! Esci da lì, padrone, ti supplichiamo, e abbi pietà della nostra padrona e recupera le proprietà di tuo padre e regolale sotto dei curatori e amministratori e distribuisci(le) [p. 123] ai poveri, e concedi doni ai tuoi servi più ragguardevoli, e ritorna qui avendo portato bene a termine questa azione! Altrimenti, prendi giù anche noi, affinché anche noi moriamo con te». Avendo essi detto tutte queste parole, Giovanni non diede loro alcuna risposta riguardo a ciò, ma da solo glorificava Dio. 13.  E quando Satana vide che non c’era nessun varco per ingannarlo, cominciò a dire: «Non mi parli, figliolo? Non dài risposta? Non hai considerazione delle mie lacrime? Non hai compassione della mia canizie? Sai che mai andai in giro a volto scoperto, e ora come una bestia selvaggia ho percorso questo deserto? Degnami almeno di una voce, figliolo!». E dopo che ebbe molto gridato, e (anche) tutti i demoni, e si lamentarono molto e non udirono niente, Satana, affacciatosi al pozzo, gridava e diceva: «Lasciate che mi butti giù, ché almeno così lo veda e tocchi i suoi teneri arti necrotizzati dalla fame! Forse è già morto, e per questo non emette suono». E dunque lasciò (passare) un po’ di tempo, pensando che avrebbe dato risposta. E poiché non (la) diede, disse: «Orsù, portate delle corde, e caliamoci dentro uno ad uno!» E quando cominciarono a preparar(le), uno dei demoni gridò e disse:   La lezione «perderti» trova riscontro solo nella “redazione Halkin”, § 9, lin. 7-8 (ἀπολέσω σε); nelle altre tre redazioni (Grottaferrata, f. 37r, Vat. gr. 1589, f. 175vb, AASS, § 8) si legge «perdervi» (ἀπολέσω ὑμᾶς). 71   Cf. la “redazione di Grottaferrata”, f. 37r, e Vat. gr. 1589, f. 175vb: κατέκλεισα ἐμαυτήν. 72   Con il termine armeno «senza un difensore» il traduttore ha reso, con ogni probabilità, l’aggettivo greco ἀπερίστατος, che qui (AASS, § 8, Halkin § 9, lin. 10, Grottaferrata, f. 37r, Vat. gr. 1589, f. 176ra) tuttavia è senz’altro da intendere nell’accezione “privo di mezzi”: cf. LBG s.v., dove questo significato è segnalato in un testo agiografico del sec. VII, la Vita di s. Spiridone, 49, 16 (van den Ven 1953). 70

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«Quando tutti voi sarete scesi, chi calerà me?». E Satana, essendosi adirato poiché aveva rivelato il suo inganno, lo cacciò dalla sua schiera. E quando capì che i suoi piani erano stati svelati, diventò un serpente (višap) e si gettò giù, e avviluppando Giovanni, dilaniava le sue carni e sibilava e vomitava sulla sua faccia: ma anche così non poterono distoglierlo [p. 124] dalle preghiere. E quando furono trascorse molte ore senza che riuscisse ad ingannarlo, diceva: «Ahimè, volendo guadagnare uno solo, ho perso il mondo; lascerò costui e me ne andrò, trascinerò molti altri a me, affinché, andandomene, non trovi vuota la mia reggia!». E Giovanni, sentito ciò73, lo scongiurò per il Signore affinché non tornasse più in quel luogo, né presso di lui né presso chiunque altro volesse dimorare lì. E avendo (il serpente) giurato secondo il volere di lui, {e} quindi (Giovanni) lo lasciò andare. 14.  Ed essendo rimasto il beato Giovanni nel pozzo per dieci anni, venne il tempo della sua dipartita. Io, Criso (Krisos), ero nel deserto74 dei Baratesi75, vagando là per trent’anni, e andando secondo una visione nel deserto, diedi sepoltura a Giovanni. E quando mi avvicinai al pozzo, Giovanni mi salutò e mi disse: «Grande gioia è per me nel tuo arrivo, Criso, poiché hai sopportato molte prove fin dalla tua infanzia». E avendo pregato, lo scongiurai per la gloria del Signore affinché mi raccontasse la sua vita fin dalla sua infanzia, ed egli mi disse tutto. E quando ebbi trascorso là tre giorni, si sollevò la terra dalla profondità verso l’alto, e ci vedemmo l’un l’altro [p. 125] e ci salutammo76. Stava là presso il pozzo anche una grande pietra, ed egli, avendomi ordinato di collocarla sopra al pozzo, {e} si accomiatò da me e rese lo spirito. E io, avendo posto il masso sopra (al pozzo) come mi aveva comandato77, riempii la mia veste con molta sabbia e (la) portai, (la) gettai sopra la pietra, e immediatamente crebbe in quel luogo una palma piena di frutti, e faceva ombra al luogo78. E io, avendo visto ciò, glorificai il Signore, fiducioso che desse la ricompensa delle fatiche79. Ritornai da lì nel luogo dove ero prima con la guida del Signore80, e 73   Il traduttore si allontana dal testo greco, che in tutte e quattro le redazioni invece del verbo “sentire” ha il verbo κρατέω (“afferro”), riferito a Giovanni che vince il serpente. 74   Il termine armeno anapat “eremo, deserto”, che ritorna anche in Arm B, non ha corrispondenza nella tradizione greca, dove si ha il sostantivo ὕλη (“foresta”) nella “redazione AASS”, § 10, nel Vat. gr. 1589, f. 166va e nella “redazione di Grottaferrata”, f. 39r; nella “redazione Halkin”, § 10, lin. 5, si legge invece il sostantivo ἕλος (“palude”). 75   Su questo luogo cf. Halkin 1963, p. 262. 76   L’arm. segue in questo punto il Vat. gr. 1589, f. 176vb, nel quale sono presenti entrambi i verbi “vedersi” e “salutarsi”; i due verbi compaiono anche nella “redazione AASS”, § 10, dove però il verbo “salutare” è alla prima persona singolare (ἠσπασάμην). 77   Il verbo trova corrispondenza esclusivamente nella “redazione AASS”, § 10. 78   L’espressione trova esatta corrispondenza sia in Arm B sia nel Vat. gr. 1589, f. 176vb, mentre manca nelle altre redazioni greche. 79   Cf. la “redazione AASS”, § 10 (κόπων); nel Vat. gr. 1589, f. 176vb, si legge invece «frutti» (καρπῶν). Nelle altre due redazioni il passo è omesso. 80   Sia il Vat. gr. 1589, f. 176vb, sia la “redazione AASS”, § 10, hanno in questo punto «fui portato da una nuvola» (ὑπὸ νεφέλης ἠνέχθην).

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là avendo fatto venire un ministro della chiesa, un uomo pio e timorato di Dio, lo pregai di scrivere questo memoriale a esortazione e a consolazione di tutti coloro che sperano nel Signore, e riguardo al sant’uomo, affinché conoscessero quali grazie concede Dio a coloro che (Lo) temono81, a cui la gloria per sempre, amen. Arm B82 1.  Giovanni (Yohannēs) proveniva dalla terra dei Fenici, dalla città di Cesarea83. Aveva una madre vedova, {e} pia e benestante, e il suo nome era Giulia (Yulia); aveva anche una piccola sorella il cui nome era Temastia (T‛emastia). E in quei giorni dall’empio governatore Filicone (P‛ilikon)84 fu inviato il giudice Comobiano (Komobianos)85 a Cesarea, la città della Palestina; e uccideva con torture coloro che accertava essere cristiani, i quali non sacrificavano agli idoli. E la beata Giulia, avendo sentito ciò, presi i suoi due figli, si nascose fuori città in una dimora segreta stretta e angusta. E in quel tempo Giovanni aveva dodici anni. E la madre insegnava ai figli a leggere e a scrivere col timore (di Dio), e la fede della religione di Cristo. E (Giovanni) si recava ogni giorno in chiesa e recitava le preghiere abituali. Ma la pia sua madre temeva che il suo bambino potesse essere arrestato dagli empi carnefici; per questo rimproverava il figlio affinché non andasse in chiesa, ma pregasse in casa; da quel momento in poi Giovanni si recava in chiesa all’insaputa della madre, e non vi trovava nessuno, e dopo aver pregato da solo, ritornava da sua madre. E quando Giovanni ebbe circa quindici anni, anche le virtù (cristiane) crebbero con lui. E la madre sua beata, vedendo il bambino fervente nella devozione, se ne rallegrava molto; ma vedendo che non era intimorito dalle minacce degli empi, temeva che da un momento all’altro potesse essere arrestato. 2.  E un giorno Giovanni, uscito (di casa), si recò nel deserto più lontano e pregava; e un vecchio86, avendolo visto lì, gli disse: «Ehi tu, fanciullo, di dove sei87 o di quale stirpe?». Gli disse Giovanni: «Sono figlio [p. 114] di una vedova, ho una sorella più piccola di me e sono stato istruito da mia madre secondo il precetto divino; e io vado   Cf. la “redazione AASS”, § 10 (τοῖς φοβουμένοις αὐτόν).   Vark‛ Srboc‛ Haranc‛, I, pp. 113-126 in calce. 83   Resta una questione aperta la menzione, solo in Arm B, di Cesarea di Palestina come città di origine del santo, mentre in greco si legge Cybistra, città della Cappadocia sulla quale v. supra, p. 65. 84   Rispetto ad Arm A qui non si fa cenno agli imperatori, mentre compare questo “governatore Filicone” non altrimenti attestato. 85   Questo nome è con ogni probabilità la forma corrotta del greco Πομπηϊανός [pron. Pombianòs]. 86   Cf. “redazione Halkin”, § 2, lin. 5 (ἄνθρωπος γηραλέος). A differenza di Arm A, Arm B colloca l’incontro tra i due non in chiesa ma nel deserto. 87   La domanda «di dove sei» trova riscontro nella redazione siriaca, cf. Histoire de Jean le Siloïte 1909, p. 168. 81 82

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sempre in chiesa e non trovo nessuno colà col quale benedire Dio, perché tutti i cristiani hanno avuto paura e sono fuggiti a causa delle minacce; ma io ho più paura di quel re celeste che mi dà il pegno dell’immortalità»88. E l’uomo si stupì della risposta del bambino, e gli disse: «E che bisogno hai a tale età di combattere contro tali angustie? Ma se vuoi vincere la forza avversa e diventare perfetto, va’ nel deserto e sepàrati dagli uomini89 e sii con Dio e rimani (lì) come uno degli angeli, e non consegnarti ai tormenti delle torture, perché sei un fanciullo, e sarai un servo di Dio». Giovanni dice: «Che cosa dovrei fare? Ho compassione della vedovanza di mia madre». Gli disse il vecchio: «Va’, congedati dalla madre (tua) affinché anche lei acconsenta a ciò e tu possa partire avendo ricevuto la sua benedizione; e congedati anche da tua sorella e dai beni, e salverai la tua anima dalla morte, perché questa vita è di breve momento, e inganna molti e (li) fa perire». E Giovanni ebbe fiducia nel discorso del vecchio, e riconoscente a lui per i buoni consigli andò a casa sua e raccontò alla madre tutti i discorsi del vecchio uomo. E quando sua madre, la beata Giulia, ebbe ascoltato, si compiacque molto di quel colloquio sia perché sapeva che il fanciullo era ricolmo di amore divino, sia anche perché aveva molta paura che il fanciullo fosse arrestato dagli idolatri. Preferì [p. 115] inviarlo là nel deserto presso i monaci piuttosto che cadesse nelle mani dei carnefici. Per questo la madre disse: “Va’, figliolo, in pace e il Signore ti guiderà secondo la Sua volontà. È un bene per te quel consiglio, figliolo, perché quell’uomo non era un uomo, ma era un angelo di Dio; è un bene per me, figliolo, che tu viva là nel deserto piuttosto che cadere nelle mani degli empi». E (Giovanni) avendo ricevuto la benedizione si congedò dalla madre e dalla sorella con molte lacrime, come se non dovessero più rivedersi in questo mondo. 3.  E uscito di casa, s’incamminò dirigendosi verso il fiume Giordano e lo attraversò, e dopo un giorno giunse in quel deserto profondo e terribile, e in tale deserto compì un cammino di due giorni90. E lì lo trovò un vecchio egiziano che viveva in una grotta, il cui nome era Farmuzio (P‘armut῾ēos). E Giovanni, veduto l’anziano, gli si gettò ai piedi. E il vecchio disse: «Perché sei venuto qui, figliolo?». Disse Giovanni: «Perché, santo padre, voglio dimorare in questo deserto e ricevere la vita monastica». Disse il vecchio: “Non puoi vivere (qui), poiché tu sei molto giovane [p. 116] e non puoi resistere in questo deserto inabitato». Giovanni disse: «Io, padre, restando presso di te, imparerò da te ciò che comandi per la salvezza della mia anima». E Giovanni restò presso quell’uomo per sette giorni senza mangiare; e l’anziano Farmuzio lo istruiva e lo ammoniva a servire Dio con grande sacrificio. E il vecchio riceveva cibo dall’angelo del Signore una volta la settimana; e dopo otto giorni l’angelo portò il cibo al vecchio, e non ne portò a Giovanni. Disse il vecchio: “Giovanni, figliolo, va’ in un altro luogo e trovati una dimora, fino a quando il Si Cf. Arm A, “redazione AASS”, § 1 (βραβεῖον ἀθανασίας).  Cf. Arm A, “redazione AASS”, § 1 (ἐκχώρησον ἑαυτὸν τῶν ἀνθρώπων). 90   Cf. “redazione Halkin”, § 4, lin. 5-6, in particolare l’espressione ὁδοιπορήσας ὁδὸν ἡμερῶν δύο. 88 89

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gnore ti faccia visita e ti porti del cibo così come fa a me; se infatti Dio avesse voluto che tu abitassi presso di me, avrebbe mandato del cibo anche per te, e io non ho di che sfamarti». E Giovanni, ascoltato ciò, gettatosi ai piedi del vecchio91, lo baciò e si diresse da solo verso il deserto più interno. 4.  E gli venne incontro l’angelo del Signore e disse: «Dove vai?». Rispose Giovanni: «Cerco, Signore, un luogo in cui dimorare». E l’angelo del Signore gli mostrò il cammino. E, incamminatosi così nel deserto per un giorno, trovò un pozzo molto profondo92, ed egli pregò il Signore e disse: «Signore Dio Gesù Cristo, che salvasti Giona nel ventre della balena e Daniele [p. 117] in mezzo ai leoni e Geremia dal pozzo di fango e Giuseppe nel pozzo profondo nel quale lo avevano gettato i fratelli, salva anche me in questo pozzo e nutrimi con la tua misericordia, e io non uscirò da qui fino al giorno della mia fine». E fattosi il segno della croce, si gettò giù e l’angelo del Signore lo fece scendere incolume. E restava là dentro glorificando Dio incessantemente, e rimaneva a digiuno per quaranta giorni. 5.-6.= §§ 5-6 di Arm A 7.  [L’inizio di questo paragrafo coincide con quello del § 7 di Arm A]93 [p. 118] E di nuovo (Satana) induce allo stesso modo altri pensieri: espone con ingiusti pensieri l’essere in esilio, il rifiuto di tutti i beni, {e} giudicando negativa la solitudine e mostrando come detestabili l’estraniarsi dal mondo e il viaggio del deserto, e come gravose la fine della vita e la dipartita della morte; e in questo modo distrugge le menti e inganna i cuori degli innocenti; ma tu, figliolo, sii saggio in tutto con mente vigile, e sta’ in pace in tutto (per) essere custodito dal Signore». E Giovanni gli disse [p. 119]: «Hai fatto bene, santo padre, a mettere in guardia tuo figlio con le ammonizioni; che il Signore ti ricompensi con beni conformi al tuo amore di padre. E ora ti scongiuro, per la gloria del Signore: quando Dio si ricorderà di te e ti manderà del cibo, non portarmelo!». Ma Satana ascoltava tutti questi discorsi. 8.  E accadde che dopo la partenza dell’egiziano, Satana cessò (dalle tentazioni) per un anno, e dopo quel (tempo) assunse le sembianze di uno dei servi di Giovanni e andò da Farmuzio nella grotta, e dopo averlo salutato cadde ai suoi piedi e piangendo diceva: «Supplico te che conosci l’affetto dei genitori nei confronti dei figli e le premure dei servi nei confronti dei loro padroni, abbi misericordia di me e ascolta le mie preghiere e compatiscimi, o santo di Dio, come una persona che ha molto sofferto!» [La fine di questo paragrafo coincide con quella del § 8 di Arm A]. 9.-11. = §§ 9-11 di Arm A 12.  [p. 121] E Satana cessò (dalle tentazioni) per dieci giorni, e trascorso il decimo giorno prese con sé molti demoni e si diresse al pozzo da Giovanni, e da lontano, assunte le sembianze della madre di lui, gridava e diceva: «O mio dolce figliolo, con   Cf. “redazione Halkin”, § 4, lin. 40 (προσπεσὼν ὑπὸ τοὺς πόδας τοῦ μοναχοῦ).   Cf. “redazione Halkin” § 5, lin. 17 (βαθύτατον). 93   Fino a ew anptuł aṙnē zmardn «e rende l’uomo sterile». 91 92

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quanta fatica ti ho allevato e ti ho insegnato [p. 122] a leggere e scrivere perché tu divenissi erede dei miei beni, e a causa tua sono fuggita e mi sono nascosta in una dimora segreta stretta e angusta, e tu non hai avuto pietà di tua madre prigioniera e della tua giovane sorella, e nella mia vecchiaia mi hai fatto faticare per venire da te con un così lungo viaggio petroso e aspro nel deserto, e hai lasciato me senza un padrone e la tua giovane sorella orfana». Ed essendo andato sopra il pozzo, disse: «O figliolo, abbi pietà della canizie di questa vecchia e della tua giovane sorella, e torna a casa tua e prenditi cura di tua sorella, e distribuisci i tuoi beni ai poveri e ai religiosi, e ti guadagnerai le mie preghiere, e riceverai maggiori ricompense dal Signore Dio!». Ma Giovanni non diede assolutamente alcuna risposta. Poiché non parlò, (Satana) disse: «O malvagio Satana, come hai potuto strappare il mio unico figliolo dal mio petto, e portarlo nel deserto, e gettarlo in questo pozzo, e alla stregua di un morto far marcire la bellezza del suo aspetto, e oscurare i miei occhi?». E un altro demone, assunte le sembianze di sua sorella, gridava e diceva: «Dolce e compassionevole fratello mio, abbi pietà dei nostri lamenti e delle nostre lacrime, e ritorna da noi, e consegnami a un monastero di vergini, e pregherò per la tua anima! Non lasciare che mi perda nel mondo e che resti in te il rimorso!». E gli altri demoni urlavano dicendo: «Poveri noi, poveri noi, che siamo rimasti senza padrone, e tutti ci maltrattano e ci perseguitano! Esci da codesta fossa, e liberaci tu stesso, e dacci una parte delle tue ricchezze, e ti benediremo!». E di nuovo la madre gridava: «Dolce mio figliolo, [p. 123] se non ti sei mosso a pietà e non sei uscito, allora lascia scendere anche me da te perché ti veda e muoia vicino a te!». Ma Giovanni non cessava di pregare né rispondeva loro. 13.  Disse Satana: «Il mio figliolo è morto: per questo non emette suono». E per un momento cessò (di tentarlo), pensando che avrebbe risposto. E poiché non lo fece, disse: «Orsù, portate delle corde, e uno ad uno caliamoci dentro!». E quando cominciarono a preparar(le), uno dei demoni urlò e disse: «Quando voi tutti scenderete, chi calerà giù me?». E Satana si arrabbiò con lui, perché aveva svelato il suo inganno, e lo cacciò dalla sua schiera. E quando si accorse che i suoi inganni erano stati svelati, divenne un serpente (višap) e si gettò giù e avvolgendo Giovanni, dilaniava le sue membra e fischiava e vomitava sulla sua faccia. Tuttavia [p. 124] anche così non poté distoglierlo dalle preghiere, né incutergli spavento. Allora Satana gridò e disse: «O me sventurato, che sono divenuto lo zimbello di tutti i demoni, perché ho oppresso tutto il mondo e non ho potuto vincere questo giovane!». E Giovanni, rinvigorito dallo Spirito Santo, calpestò la gola del serpente e lo soffocava. E Satana giurò in nome dell’onnipotente e increato Dio che non sarebbe più andato in quel deserto, se solo gli fosse concesso di fuggire lontano da lui. E dunque (Giovanni) glielo permise e lo lasciò andare, e (Satana) divenuto come fumo fiammeggiante uscì dal pozzo e scomparve. 14.  E il beato eremita di Cristo Giovanni restò in quel pozzo per dieci anni, e si compirono i giorni della sua vita. Io, Criso (Krisos), ero nel deserto dei Ba-

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ratesi, percorrendolo per trent’anni. E il Signore mi rivelò la morte di Giovanni e io, avendo preso le bende funebri, andai in quel deserto con la guida di Dio. E quando mi avvicinai al pozzo, Giovanni mi salutò e mi disse: «Grande gioia è per me nel tuo arrivo, fratello Criso, perché hai sopportato molte prove fin dalla tua infanzia». E io, pregandolo, lo scongiurai per la gloria del Signore di narrarmi la sua vita dalla sua fanciullezza. E lui disse: «Certamente, fratello, farò ciò che mi hai chiesto, ma tu rimani qui fino al terzo giorno, e ci incontreremo l’un l’altro e quanto hai richiesto sarà compiuto». E non appena stetti lì per tre giorni, la terra si sollevò dal basso verso l’alto, e ci vedemmo l’un l’altro [p. 125] e ci abbracciammo e pregammo. E dopo le preghiere ci sedemmo, ed egli mi narrò ogni cosa a partire dalla sua fanciullezza. E là, presso il pozzo, c’era una grande pietra; mi ordinò e mi disse di collocarla sopra il pozzo. E dopo aver pregato a lungo mi disse: «La pace sia con te, fratello Criso». E, congedatosi da me, il beato Giovanni si distese e rese l’anima nelle mani di Dio. E io in lacrime e benedicendo raccolsi i suoi santi resti sopra il pozzo, e vi posi sopra la pietra come mi aveva ordinato; e la terra con il corpo del santo ritornò al suo posto, così come era prima, un profondo pozzo. Riempii di molta sabbia la mia tonaca e la portai, la gettai sopra la pietra, e immediatamente spuntò in quel luogo una pianta di palma piena di frutti e faceva ombra al luogo. E io, vedendo ciò, glorificai il Signore, fiducioso che Egli rende merito delle buone azioni. E da lì tornai nel luogo ove ero prima, con la guida del Signore. E là chiamai un ministro della chiesa, un uomo timorato di Dio, e lo pregai di scrivere queste memorie a edificazione e consolazione di tutti coloro che sperano nel Signore e a onore del degno uomo di Dio, affinché sappiano quali grazie a coloro che lo temono concede Dio, che è generosissimo di ogni misericordia, a cui la gloria nei secoli, amen. 15.  E un angelo del Signore apparve in una visione all’anziano eremita Crisione (Xṙiwsion), narrandogli del caro Giovanni e di tutta la sua vita fin dalla fanciullezza. Narrò anche della sua morte, che avvenne il 23 aprile. E l’anziano Crisione desiderava ardentemente vedere la santa tomba del beato. Allora l’angelo del Signore, apparso al vecchio, disse: «Vieni e ti mostrerò i resti dell’uomo di Dio». E, condottolo, mostrò a lui il pozzo e l’albero che faceva ombra e la pietra sopra la bocca del pozzo, che all’apertura era stretto e in profondità era stato scavato più largo. E l’anziano Crisione, chinando la testa dentro quel pozzo, vide il corpo disteso e una luce sfolgorante intorno al santo corpo, luminosa più del sole, e spirava un profumo inenarrabile, al punto che, estasiato e incantato, benediceva Dio che glorifica [p. 126] i suoi santi. E l’anziano, andato al monastero, scrisse l’ascesi del beato Giovanni esattamente come l’aveva ascoltata dall’angelo del Signore, a edificazione degli eremiti e a benedizione delle nostre persone e per la gloria di Cristo Dio nostro. E fu trovato uguale quanto era stato scritto dall’eremita Criso e (quanto era stato scritto) dall’anziano Crisione e l’uno conforme all’altro, per cui senza posa rendiamo gloria al Signore di tutti Gesù Cristo.

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Bibliografia94 AASS = Acta Sanctorum quotquot toto orbe coluntur, vel a catholicis scriptoribus celebrantur, quae ex latinis et graecis, aliarumque gentium antiquis monumentis colligere coepit J. Bollandus s.j, et G. Henschenius et D. Papebrochius, s.j. auxerunt, digesserunt et illustrarunt. Editio novissima cum animadversionibus extemporalibus D. Papebrochii nunc primum ex mss editis curante J. Carnandet, Martii tomus tertius, Parisiis et Romae 1865. BHG = Bibliotheca Hagiographica Graeca, troisième édition mise à jour et considérablement augmentée par F. Halkin Bollandiste, I-III, Bruxelles 1957 (Subsidia Hagiographica 8); Novum Auctarium Bibliothecae Hagiographicae Graecae, par F. Halkin Bollandiste, Bruxelles 1984 (Subsidia Hagiographica, 65). BHO = Bibliotheca Hagiographica Orientalis, ediderunt socii Bollandiani, Bruxelles 1910 (Subsidia Hagiographica, 10). Cataldi Palau 1992 = A. Cataldi Palau, Manoscritti greci originari dell’Italia meridionale nel fondo ‘Additional’ della ‘British Library’ a Londra, in «Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata» n.s. 46, 1992 [Miscellamea di studi in onore di P. Marco Petta per il LXX compleanno, IV, a cura di A. Acconcia Longo, S. Lucà, L. Perria], pp. 199-261 e 19 tavv. f.t. [rist. Ead., Studies in Greek Manuscripts, I, Spoleto 2008, pp. 345-410 e 19 tavv. f.t.]. Čemčemean 1974 = S. Čemčemean, Nersēs Sargiseani ułeworut‛iwně dēpi P‛ok‛r ew Mec Hayk‛, 1843-1853 (Il viaggio di Nersēs Sargisean nella Piccola e Grande Armenia, 1843-1853), Venetik-S. Łazar 1974 (Hayagitakan Matenašar, 6). Ehrhard 1910 = A. Ehrhard, recensione a [M. Brière], Histoire de Jean le Siloïte, extrait de la «Revue de l’Orient chrétien», 2e sér., 4, 1909, pp. 155-173, in «Byzantinische Zeitschrift» 19, 1910, pp. 617-618. Guy 1984 = J.C. Guy, Recherches sur la tradition grecque des apophthegmata patrum, 2e éd., avec des compléments, Bruxelles 1984 (Subsidia hagiographica, 36). Halkin 1963 = Inédits byzantins d’Ochrida, Candie et Moscou, publiés par F. Halkin Bollandiste, Bruxelles 1963 (Subsidia Hagiographica, 38). Histoire de Jean le Siloïte 1909 = Histoire de Jean le Siloïte, in «Revue de l’Orient chrétien», 2e sér., 4, 1909, pp. 155-173. LBG = E. Trapp et alii, Lexikon zur byzantinischen Gräzität, besonders des 9.-12. Jahrhunderts, I: A-K, Wien 2001. Leloir 1974 = Paterica armeniaca a P.P. Mechitaristis edita (1855) nunc latine reddita a L. Leloir, I: Tractatus I-IV, Louvain 1974 (Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium, 353. Subsidia 42). Lucà 1986 = S. Lucà (a c.), Manoscritti ‘rossanesi’ conservati a Grottaferrata. Mostra in occasione del Congresso internazionale su s. Nilo di Rossano (Rossano 28 sett. - 1° ott. 1986). Catalogo, Grottaferrata 1986.   Per la sitografia citata nelle note la data dell’ultimo accesso è novembre 2018.

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ICONOGRAFIE DEL RISORTO NELLA BASILICA DI SANT’APOLLINARE NUOVO DI RAVENNA*

Giovanni Gardini

Le ventisei scene cristologiche della basilica di Sant’Apollinare Nuovo, databili all’epoca teodericiana, sono iconografie decisive nello sviluppo dell’arte cristiana dei primi secoli, immagini che mostrano come Ravenna, tra V e VI secolo, sia stata un fecondo cantiere teologico e iconografico che ha accolto e sviluppato quel lessico figurativo che la prima comunità cristiana, fin dalle pitture delle catacombe, aveva iniziato a codificare1. Questi straordinari riquadri nei quali sono visivamente intrecciate parole e opere del Signore – scene pienamente accolte dall’arcivescovo Agnello quando la basilica nella metà del VI secolo fu consacrata al culto ortodosso – trovano spazio nel registro più alto della navata centrale in diretta corrispondenza con il registro mediano dove, solenni e austere, campeggiano trentadue figure maschili, sedici per parte, raffigurate in abiti togati mentre reggono preziosi codici dalle copertine purpuree, spesso gemmate, oppure rotoli, svolti o chiusi. Essi sono stati interpretati come i profeti veterotestamentari, i testimoni autorevoli della presenza di Colui che era stato annunciato sin dai secoli antichi. Entrambi questi registri testimoniano dunque la venerazione per le Sacre Scritture di Antico e Nuovo Testamento, testi che la comunità cristiana, da sempre, ha letto e interpretato in profonda unità, dove il primo Testamento è dato dai tren*  Per le Figg. 1-4 si ringrazia Sua Ecc.za Mons. Lorenzo Ghizzoni e l’Arcidiocesi di Ravenna-Cervia; la fotografia n. 4 è stata gentilmente concessa da Andrea Bernabini. Per la Fig. 5 si ringraziano i Musei Vaticani, per la Fig. 6 la Biblioteca Medicea Laurenziana, per la Fig. 7 la Bibliothèque Nationale de France.   Per uno sguardo complessivo alle ventisei scene cristologiche si rimanda ai seguenti studi e all’ampia bibliografia ivi citata: Ottolenghi 1955; Bovini 1958; Deichmann 1976, pp. 176-189; Penni Iacco 2011. Per la storia degli studi, delle interpretazioni e dei restauri, si veda: Ricci 1933.

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tadue profeti, il secondo dalle ventisei scene cristologiche. Essi vanno compresi unitariamente tenendo conto di quella sapiente lettura ermeneutica che può essere sintetizzata nel famoso adagio agostiniano: «Novum in Vetere latet, Vetus in Novo patet»2, perché, per usare le parole di Eusebio di Cesarea, «ormai è giunto il momento di dimostrare che lo stesso nome di Gesù e quello di Cristo erano stati già onorati dai profeti antichi cari a Dio»3. Al di sopra dell’annuncio profetico splende dunque la vita di Cristo proclamata in questo ineguagliabile ciclo cristologico4. Se le scene poste lungo la parete sinistra riassumono in modo mirabile la vita pubblica di Gesù, Signore potente in parole e opere, la narrazione lungo la parete destra presenta un vero e proprio ciclo legato alla passione e risurrezione di Cristo, immagini che partendo dall’ultima cena – significativamente posta in relazione con la rappresentazione delle nozze di Cana e la moltiplicazione dei pani e dei pesci nella parete opposta – hanno il loro apice nelle apparizioni del Risorto. Il racconto della passione, che culmina nelle tre straordinarie immagini di risurrezione oggetto del nostro contributo, ha inizio dunque con l’ultima cena, una raffigurazione che costituisce una tra le più antiche immagini di questo episodio evangelico5. Il riquadro è incentrato sul momento in cui si svolge il drammatico dialogo tra Gesù e i dodici: «Uno di voi mi tradirà»6, come lascia intuire il profondo gioco di sguardi che intercorrono tra i commensali e che si fissano rispettivamente su Gesù e su Giuda. Sulla mensa triclinare sono simbolicamente disposti pani e pesci7. Nel secondo pannello è rappresentata la preghiera nell’orto del Getsemani: Gesù è raffigurato nella posa dell’orante, come Colui che si affida totalmente al Padre, un’ico Agostino, Quaestiones 2, 73, PL 34, 623.   Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, Libro I, 3, 1, p. 56. 4   Una disposizione analoga a questa della basilica di Sant’Apollinare Nuovo, che porterebbe peraltro a riconoscere nei trentadue uomini togati figure di altrettanti profeti veterotestamentari, si rintraccia in altri monumenti ravennati. Nel battistero neoniano sedici figure maschili realizzate in stucco sono disposte tra le finestre – una collocazione che rimanda alla basilica teodericiana – mentre altre otto, in mosaico, sono poste nell’attacco degli archi inferiori. Queste figure reggono tra le mani un codice o un rotolo, aperto o chiuso, che le identifica come i custodi privilegiati e i testimoni delle Scritture, mentre al di sopra di esse sono i quattro evangelisti simbolicamente raffigurati nei quattro libri aperti, posti sopra ad altrettanti altari, sui quali iscrizioni latine riportano i nomi di Matteo, Marco, Luca e Giovanni. Anche nella basilica di San Vitale possiamo rintracciare lo stesso schema compositivo che accosta a figure veterotestamentarie – Isaia, Geremia, Mosè, Abele, Melchisedek, Abramo, Sara, Isacco – gli evangelisti rappresentati nel duplice aspetto della figura umana e del simbolo loro attribuito: l’angelo identifica Matteo, il leone Marco, l’aquila Giovanni e il toro Luca. La stessa disposizione, giusto per citare un esempio oltre Ravenna, si ha nelle splendide miniature del codice purpureo di Rossano dove le scene evangeliche sono precedute dalle figure di profeti che mostrano lungo preziosi cartigli quelle profezie che in Cristo si sono compiute. 5   Significativi confronti vanno stabiliti con il Codice purpureo di Rossano o la copertina eburnea dell’evangeliario del Museo del Duomo di Milano. 6   Mc 14,17-21. 7   Gardini 2016, pp. 109-127. 2 3

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nografia che si discosta nettamente dalla lectio del Codice purpureo di Rossano, che, in un sapiente e misurato equilibrio compositivo, evidenzia la solitudine del Cristo e il suo intenso dramma interiore. Seguono riquadri dove sono raffigurati il bacio di Giuda, Cristo condotto a giudizio e Gesù davanti al Sinedrio. La sesta e la settima scena hanno come protagonista assoluto Pietro: al riquadro in cui Gesù predice il rinnegamento dell’apostolo – sulla colonna al centro della scena è posto un gallo a ricordare le parole del Signore: «Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte»8 – segue quello in cui si consuma il tradimento di Pietro: alla serva che lo indica come uno dei discepoli di Gesù egli afferma perentoriamente, attraverso il gesto eloquente della mano, di non averlo mai conosciuto. A queste due scene petrine fa seguito quella in cui Giuda restituisce i trenta denari ai sacerdoti e agli anziani dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente»9. Il nono riquadro presenta Gesù condotto davanti a Pilato e all’incontro con l’autorità romana fa seguito la salita al monte Calvario: è il Cireneo a portare la croce che, significativamente, è realizzata in tessere dorate mostrandosi come preludio della gloria pasquale. Alla salita al Calvario, non fa seguito la crocifissione, ma la narrazione si apre a tre straordinarie scene che costituiscono un’epifania del Risorto: l’annuncio dell’angelo alle mirofore, il cammino dei discepoli di Emmaus, Gesù che appare agli apostoli nel cenacolo dove Tommaso lo riconosce Dio e Signore10. Le mirofore al sepolcro L’undicesimo riquadro è incentrato sull’annuncio della Risurrezione, un’immagine tanto sintetica quanto eloquente che, dopo le scene di passione, entra potentemente nel vivo delle iconografie pasquali (Fig. 1). Questa iconografia, coerentemente con i testi evangelici e la riflessione teologica, sottrae allo sguardo umano la potenza del corpo glorioso nell’attimo in cui risorge da morte e pone l’attenzione sulla tomba vuota11. Al centro della composizione è il sepolcro vuoto del Signore la cui lastra sepolcrale posta di traverso diventa segno eloquente dell’assenza, da questo luogo di morte, di Gesù. Il sepolcro di Cristo è rappresentato attraverso un edificio circolare, un evidente richiamo alla monumentalizzazione che a partire dall’imperatore Costantino aveva interessato il luogo nel quale il Cristo era stato deposto. Eusebio di Cesarea ricorda quella grandissima impresa che portò Costantino a far si che «il luogo sommamente benedetto della resurrezione del Salvatore a Gerusalemme apparisse   Mc 14,26-31.   Mt 27,3-10. 10   cfr. Gv 21,28. 11   Per un approfondimento sull’iconografia delle donne al sepolcro si veda: Perraymond 2000, pp. 168-169; Utro 2008, coll. 4513-4526. 8 9

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Fig. 1. Le mirofore al sepolcro, Ravenna, Basilica di Sant’Apollinare Nuovo.

a tutti illustre e venerando» ed evidenzia come «questa idea non gli si presentò alla mente senza un ausilio divino ma gli fu suscitata per ispirazione dello stesso Salvatore»12. Di questo luogo il grande biografo dell’Imperatore ci lascia una tanto sorprendente quanto preziosa descrizione: Adornò prima di tutto la santa grotta, che era il punto più importante dell’intero luogo: era infatti il sepolcro carico di eterna memoria, che recava in sé il trofeo della vittoria del grande Salvatore sulla morte, il sepolcro divino presso il quale un tempo l’angelo splendente di luce diede a tutti il lieto annuncio della resurrezione rivelatasi attraverso il Salvatore. Così dunque la munificenza dell’imperatore abbellì prima di tutto questo luogo, che era appunto il centro principale, adornandolo con colonne di gran pregio e con la massima eleganza, facendo risplendere la santa grotta di ogni sorta di ornamenti13.   Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, p. 279.   Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, p. 291. Molto interessanti sono alcuni passaggi di Cirillo di Gerusalemme nella quattordicesima catechesi: cfr. Cirillo di Gerusalemme, Le catechesi, pp. 296, 301, 309-310. Per l’iconografia del sepolcro del Signore si veda Spera 2000, pp. 276-278.

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Alla sinistra del riquadro è posto un angelo seduto su una roccia, giovane, imberbe, vestito con una candida tunica manicata e pallio; stringe nella mano sinistra un baculo aureo mentre la destra è alzata nel gesto della parola: «Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto»14. Alla destra della composizione, coerentemente con il testo del vangelo di Matteo, sono raffigurate due donne. Esse indicano la tomba vuota del Cristo un gesto, il loro, che traduce lo sguardo al luogo dove il Signore era stato deposto e che l’angelo, secondo la lectio matteana, aveva invitato ad osservare. Il cammino dei discepoli di Emmaus La dodicesima scena cristologica è incentrata sul racconto evangelico dei discepoli di Emmaus (Fig. 2). Secondo il racconto lucano essi sono dispersi nei loro pensieri d’incredulità ed è proprio mentre si stanno allontanando da Gerusalemme che il Risorto si manifesta loro come compagno di viaggio spiegando le scritture e spezzando il pane, facendo ardere loro il cuore. A seguito di questo meraviglioso incontro i due discepoli faranno ritorno a Gerusalemme dove, riporta il Vangelo, «trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!”. Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane»15. L’iconografia dei discepoli di Emmaus non appartiene a quelle immagini consuete e più volte rappresentate, così ricorrenti nel lessico dell’iconografia cristiana delle origini; essa è scena rara e tarda tanto che si può affermare come quest’immagine ravennate, che in ordine cronologico segue quella del portale ligneo di Santa Sabina a Roma, si ponga tra le primissime testimonianze di questo brano evangelico, un dato che conferma, se mai ce ne fosse bisogno, l’alto valore di questo ciclo teodericiano16. Al centro della scena compare il Cristo vestito di porpora, dal volto barbato secondo l’iconografia che lo contraddistingue in tutte le scene cristologiche della parte destra, il nimbo crucisegnato gli cinge il capo. Accanto a Gesù sono i due discepoli di cui narra il Vangelo di Luca, dei quali conosciamo solo il nome di uno dei due, Cleopa; essi sono vestiti di tunica bianca e di paenula colorata. Sulla sinistra della scena è rappresentata, in lontananza, una città cinta da mura, posta su   Mt 28,1-8.   Lc 24,33-35. 16   Bisconti 1990, pp. 83-98; Bisconti 2000, p. 171; Cascianelli 2012, pp. 11-46. In questo studio, nel quale l’autore riconosce nei due personaggi presenti nel frammento di sarcofago il Cristo e uno dei due discepoli di Emmaus, viene sottolineato come le raffigurazioni di questa scena presenti nel portale di Santa Sabina e in Sant’Apollinare Nuovo siano le uniche attestazioni sicure per l’epoca antica e, al tempo stesso, elenca alcune opere la cui attribuzione a questo episodio è incerta. 14 15

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Fig. 2. Il cammino dei discepoli di Emmaus, Ravenna, Basilica di Sant’Apollinare Nuovo.

un alto monte, dalla porta urbica ben definita, nella quale possiamo riconoscere la città di Gerusalemme. Cleopa e l’altro suo compagno di viaggio, sono «in cammino per un villaggio di nome Emmaus». Hanno lasciato la città di Gerusalemme nel giorno stesso in cui il Cristo è risorto: in quello stesso giorno, sottolinea il testo lucano, un’indicazione temporale nella quale convergono differenti tensioni. Quello stesso giorno è il tempo della gloria del Cristo, quello in cui gli angeli hanno annunciato alle mirofore la vittoria del Signore sulla morte e nel quale si registra lo stupore di Pietro che, chinatosi sul sepolcro, vide soltanto i teli; al tempo stesso è il giorno dell’incredulità sia di questi due viandanti che, stolti e lenti di cuore, non avevano accolto la parola dei profeti sia degli apostoli che avevano ritenuto un vaneggiamento quanto le donne avevano riferito loro17. È dunque in questo giorno, di gloria e d’incredulità, che questi due discepoli lasciano Gerusalemme, un allontanamento, il loro, che segna una distanza tragica non tanto da un luogo geografico quanto dalla città santa, considerata luogo teologico, nella quale il Cristo ha patito, è morto ed è risorto.   Lc 24,11.

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Questo passo evangelico è stato poco considerato dalla tradizione patristica: «Tralasciando alcuni rapidi accenni o brevi allusioni – scrive Cascianelli –, ci si accorge che soltanto gli apologisti – Tertulliano nell’Adversus Marcionem e Origene nel Contra Celsum – si soffermarono su questo episodio del Vangelo, al fine di confutare i dubbi avanzati dai pagani in merito alla resurrezione di Cristo». Tra i commenti a questo brano lucano vale la pena ricordare, visto il contesto ravennate oggetto di questo studio, quello del Crisologo nel quale, parlando del passaggio dall’incredulità alla fede, presenta il dialogo tra i due viandanti e gli apostoli: Nessuno critichi con asprezza il fatto che gli apostoli o non credono alle donne che portano l’annuncio della risurrezione del Signore o, come si narra, lo giudicarono un vaneggiamento. È profondo il dubbio di chi crede con maggiore profondità […]. Quando due discepoli, che dopo la resurrezione meritarono di avere compagno di viaggio Cristo, ritornati annunciavano di avere visto il Signore, gli apostoli non giudicano follia ciò che odono, ma cosa degna di uomini; porgono orecchio, inchiodano le bocche, aprono gli occhi, spalancano i cuori e affidano all’intelligenza ciò che viene detto, così che, dopo il bollore del dubbio, bevono rapidamente dal fiume, che la lingua dei colleghi riversava, le parole della fede18.

Il Risorto appare a Tommaso e agli apostoli nel cenacolo Il ciclo cristologico della parte destra si chiude con l’immagine degli undici apostoli nel cenacolo mentre accolgono il Cristo Risorto (Fig. 3). La critica ha voluto identificare in questa scena solenne il momento in cui, secondo la tradizione giovannea, Cristo appare ai suoi apostoli otto giorni dopo la Pasqua, alla presenza anche di Tommaso che, incredulo alle parole a lui annunciate di quando il Cristo, lui assente, era apparso nel cenacolo, aveva chiesto non solo di vedere, ma anche di toccare le ferite del Signore: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo»19. Coerentemente al testo evangelico il Signore è qui raffigurato nell’atto di mostrare le ferite del costato mentre Tommaso, prostrato e con le mani velate, lo riconosce Dio e Signore. L’apostolo Tommaso è raffigurato all’interno del gruppo degli apostoli a differenza di altri contesti iconografici, come ad esempio nel sarcofago di San Celso. Sulla sinistra della composizione, dietro agli apostoli Pietro e Andrea suo fratello, entrambi chiaramente riconoscibili per gli attributi iconografici che li contraddistinguono, è simbolicamente raffigurato il cenacolo le cui porte sono chiuse, come indica il quarto vangelo, che riporta questa precisazione per ben due volte all’interno dello stesso passo: «erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano per timore dei giudei» e, più avanti, ricordando il momento in cui è presente Tommaso   Pietro Crisologo, Sermone 79, 4.   Gv 20,25.

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Fig. 3. Il Risorto appare a Tommaso e agli apostoli nel cenacolo, Ravenna, Basilica di Sant’Apollinare Nuovo.

è detto: «Venne Gesù, a porte chiuse»20. Le porte chiuse di cui parla l’evangelista Giovanni rendono evidente, inoltre, la natura del corpo glorioso del risorto non più soggetto alla caducità del tempo. Un corpo in carne ed ossa, come precisa il parallelo lucano nel quale Gesù offre allo sguardo degli apostoli sconvolti e pieni di paura che credevano di vedere un fantasma, la visione delle sue mani e del suo costato, invitandoli a toccare il suo corpo risorto e mangiando davanti a loro pesce arrostito21. Pur tralasciando l’esegesi patristica in merito a questo passo evangelico, non va trascurato il breve passaggio che il Crisologo dedica all’apostolo Tommaso, un testo che pur non essendo in connessione diretta con il ciclo cristologico teodericiano risulta particolarmente interessante: Perché Tommaso – si chiede il Crisologo – cerca in questo modo le prove della fede? […]. Perché la mano di un discepolo si sforza di scavare nuovamente il fianco che la   Gv 20,19.26.   Lc 24,36-43.

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lancia di un empio soldato aveva aperto? […]. Tommaso provvedeva ad eliminare non solo il dubbio del suo cuore, ma anche quello di tutti gli uomini; e, accingendosi a rivelare queste verità tra i pagani, da scrupoloso indagatore cercava il modo per garantire il mistero d’una fede così importante22.

Il Cristo Risorto e la Vergine Madre I Vangeli non sono concordi né sul numero né sui nomi delle donne presenti alla tomba del Signore il mattino di Pasqua. Per l’evangelista Matteo due sole donne si recano al sepolcro di Cristo, Maria di Magdala e l’altra Maria – quest’ultima va identificata con la madre di Giacomo e di Giuseppe –, mentre la tradizione marciana ricorda oltre a loro Salome23. Anche il Vangelo di Luca riporta i nomi di tre donne e tra queste ritornano i nomi di Maria di Magdala e di Maria madre di Giacomo alle quali si aggiunge Giovanna; Luca, tuttavia, associa ad esse la presenza di altre figure femminili, anch’esse appassionate messaggere della grazia della risurrezione agli increduli e scettici apostoli: «Tornate dal sepolcro, annunciarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. Erano Maria Maddalena, Giovanna e Maria madre di Giacomo. Anche le altre, che erano con loro, raccontavano queste cose agli apostoli. Quelle parole parvero a loro come un vaneggiamento e non credevano ad esse»24. Il quarto vangelo, invece, ricorda esclusivamente la straordinaria figura di Maria Maddalena, colei che la tradizione successiva indicherà come l’apostola degli apostoli 25. Tra le mirofore citate dai vangeli ricorre più volte il nome di Maria – Maria di Magdala e Maria la madre di Giacomo e di Giuseppe – ma in nessuna di queste donne, secondo la testimonianza evangelica, va riconosciuta la Vergine Maria, la madre del Signore; eppure, un dettaglio importante del mosaico teodoriciano invita ad un piano di lettura più profondo che induce ad ulteriori riflessioni secondo il modo proprio dell’arte cristiana che sempre offre più livelli interpretativi non essendo mai una semplice illustrazione del testo biblico. La prima delle due donne indossa un abito purpureo, lunghe fasce d’oro decorano il vestito e i polsi sono arricchiti da galloni aurei; questa veste rimanda a quella della Vergine in trono posta nel primo registro, un’immagine anch’essa di epoca teodericiana, e porta ad identificare la prima delle due donne davanti alla tomba del Signore con Maria la Madre di Gesù (Fig. 4). Se questa lettura parrebbe insolita riguardo al nostro mosaico ravennate, va tuttavia ricordato che la tradizione ico  Pietro Crisologo, Sermone 84, 8. I Sermoni del Crisologo sono documenti preziosissimi per ricostruire il contesto teologico della Ravenna del V secolo. 23   Cfr. Mt 27,56.61; 28,1; Mc 16,1. 24   Lc 24,9-11. 25   Gv 20,1. Il vangelo apocrifo di Pietro cita esplicitamente solo il nome della Maddalena anche se nota come ella, recatasi alla tomba del Signore, «prese con sé le amiche», cfr. Apocrifi, p. 590. 22

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Fig. 4. Maria in trono, Ravenna, Basilica di Sant’Apollinare Nuovo.

nografica conosce altri esempi, datati al VI secolo, nei quali è messo in evidenza il mistero della Vergine in riferimento alla risurrezione del Cristo26. Un prezioso confronto iconografico è innanzitutto possibile con le scene cristologiche presenti sulla parte interna del coperchio di un reliquiario dei Musei Vaticani sul quale sono rappresentati i principali misteri della vita di Cristo: la nascita, il battesimo, la crocifissione, la risurrezione e l’ascensione (Fig. 5)27. In quattro di queste iconografie datate al VI secolo è raffigurata la Vergine, chiaramente riconoscibile per l’abito e il nimbo, oltre che per il contesto, perlomeno nella scena della natività e in quella della crocifissione dove la sua presenza è attesta dai testi evangelici. Nella scena dell’ascensione la sua presenza va ricondotta alla riflessione teologica dato il   In questo studio si tralasciano le iconografie della risurrezione presenti sulle ampolle.   Questo reliquiario (inv. 61883.2.1) proviene dal Tesoro della Cappella del Sancta Sanctorum. Si segnala l’ultimo studio in merito e si rimanda alla bibliografia ivi riportata: Utro 2017, pp. 180-181. 26 27

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Fig. 5. Coperchio di una cassetta reliquiario dalla Terra Santa con scene cristologiche, Città del Vaticano, Musei Vaticani (Foto © Governatorato dello S.C.V. - Direzione dei Musei).

silenzio in merito sia dei Vangeli sia degli Atti degli Apostoli28. Inoltre, la Vergine compare anche nella scena della risurrezione. Lo schema richiama la composizione ravennate, anche se l’angelo e le due donne sono disposti specularmente ad essa. La prima delle due donne, come già è stato osservato da Giovanni Morello e Umberto Utro, è chiaramente la Vergine e, secondo una consueta iconografia, veste un prezioso abito purpureo mentre il capo è cinto dal nimbo29. Un altro confronto è possibile con le miniature dell’evangeliario siriaco di Rabbula presenti nel foglio 13, una pagina che a prescindere dalla pur importante discussione sulla sua appartenenza o meno alla fase redazionale del Codex, viene unanimemente datata al VI secolo: su un lato sono riportate scene della crocifissione e risurrezione mentre nell’altro è raffigurata l’ascensione al cielo del Signore   At 1,6-11; Lc 24,50-53; Mc 16,19.   Sia Morello sia Utro, a commento di questa immagine, avevano messo in evidenza la presenza della Vergine: cfr. Morello 1996, p. 326; Utro 2008, col. 4517. 28 29

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Fig. 6. Tetravangelo di Rabbula, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Ms. Plut. 1.56, c. 13r (Su concessione del MiBAC. È vietata ogni ulteriore riproduzione con qualsiasi mezzo).

(Fig. 6)30. Come già è stato evidenziato dagli studi su queste celebri miniature, la Vergine Maria è presente nelle scene di crocifissione, risurrezione e ascensione dove è riconoscibile sia per l’abito purpureo sia per il nimbo che le cinge il capo31. Nella scena della crocifissione la Vergine è accanto all’evangelista Giovanni, mentre nella   Bernabò pur ritenendo che l’apparato iconografico non appartenga originariamente al codice di Rabbula e proponendo ulteriori considerazioni in merito al foglio 13, ritiene che tali scene siano databili al VI secolo. Egli addirittura, in merito al foglio 13, anticipa la datazione rispetto all’anno 586, un dato questo molto interessante: «Una datazione non posteriore al primo quarto del VI secolo appare, dunque, la più probabile per il f. 13 del tetravangelo laurenziano», Bernabò 2008, p. 20. In merito alla discussione sull’unitarietà o meno del testo rispetto alle immagini, oltre al già citato volume a cura di Bernabò si veda: Matta 2008, pp. 347-364. Per la discussione sul Codex si rimanda a questo recente studio: Matta 2016. 31   Se Myla Perraymond è cauta nel riconoscere nella donna al sepolcro Maria la madre, Umberto Utro scioglie ogni riserva evidenziando inoltre un confronto tra questa immagine del tetravangelo di Rabbula e le immagini del coperchio di reliquiario della Biblioteca Vaticana, cfr. Perraymond 2000, p. 169; Utro 2008, col. 4517. Su questo confronto già si era espresso Weitzmann: Weitzmann 1982, pp. 28-29. In questo saggio l’autore aggiunge un confronto interessante presentando un’icona del Si30

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Fig. 7. Codice Siriaco 33, foglio 9v, Paris, Bibliothèque Nationale de France.

miniatura sottostante la sua figura ricorre in due momenti distinti: precede la donna che con lei si era recata al sepolcro del Signore e, unitamente all’altra figura femminile, è prostrata ai piedi del Figlio, scene che traducono in immagine un’intuizione spirituale che, a partire dall’epoca patristica, riconosce nella Vergine Maria colei che per prima ha la grazia di incontrare il Risorto32. Maria regge in mano il vaso di unguento prezioso e con la mano destra pare indicare il crocifisso. Anche il Codice Siriaco 33, al foglio 9v, presenta la scena delle mirofore al sepolcro (Fig. 7). Anche qui le donne sono due. Esse sono raffigurate alla sinistra del foglio manoscritto: la donna in primo piano regge un turibolo33, mentre l’angelo è seduto sul lato destro della composizione; alle sue spalle si intravede l’edicola del sepolcro. Esse hanno entrambe il capo nimbato, anche se va notato che la prima tra le due donne ha un’aureola dorata diversa da quella della sua compagna, un dettaglio che insieme all’abito purpureo porta ad identificarla con la Vergine Maria34. nai, datata al VII secolo, nella quale la Vergine Maria, chiaramente identificabile anche grazie ad una iscrizione, incontra il Risorto. 32   Marinone 2007, coll. 3047-3048. 33   Nel codice di Rabbula è la donna che accompagna la Vergine che regge il turibolo. 34  Cfr. Perraymond 2000, p. 169. Si noti che il colore dell’aureola della seconda donna è il medesimo di quella dell’angelo.

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Se l’iconografia, nonostante il silenzio dei testi evangelici, recepisce la figura della Vergine Maria al sepolcro del Figlio è perché questo tema appartiene alla riflessione teologica dei primi autori cristiani che hanno meditato ed interpretato le Scritture nella sapienza dello Spirito, una tradizione poi accolta nella bellezza delle forme, dei colori e nella ricchezza della liturgia35. Diversi autori dei primi secoli parlano di Maria la Madre come colei che è stata la testimone privilegiata della risurrezione del Figlio secondo un’interpretazione dei testi evangelici che deriva innanzitutto dalla riflessione teologica nella quale il tema dell’incarnazione viene associato a quello della passione, morte e risurrezione36. Efrem il Siro unisce l’insondabile mistero della nascita a quello della risurrezione: «Fece uscire il suo corpo dal sepolcro, benché questo fosse sigillato; e il sigillo del sepolcro testimoniò in favore del sigillo della verginità di colei che aveva portato il suo corpo. Infatti, benché la verginità di sua Madre fosse sigillata, il Figlio di Dio uscì vivo dal suo seno, primogenito allora come sempre…»37; «Con la tua risurrezione le hai reso più comprensibile la tua nascita. Era chiuso il nido; il sepolcro era sigillato. Tu sei stato illibato nel nido e vivo nel sepolcro. Furono tuoi testimoni il tumulo e il sepolcro, che erano chiusi. Il ventre della Madre e gli inferi annunciarono con gioia la tua risurrezione: il ventre ti ha concepito mentre era chiuso, il sepolcro ti ha lasciato uscire mentre era sigillato. Contro le leggi della natura il ventre ti ha concepito e il sepolcro ti ha restituito»38; «Dal seno (della Vergine) la speranza per noi rifulse; dal sepolcro la Vita apparve per noi»39. «Un grembo intatto lo concepì, una tomba intatta lo accolse», dirà Massimo di Torino, riconoscendo come la Vergine partorì un corpo mortale, mentre il sepolcro un corpo immortale40. Attraverso la breve e non certo esaustiva antologia qui proposta, i cui testi cronologicamente precedono e in parte seguono le iconografie di cui si è parlato, si intende dunque mostrare come l’arte cristiana tragga linfa vitale dalla teologia e dalla liturgia. Nel IV secolo in merito alla riflessione mariana spicca autorevole e originale la voce di Efrem il Siro che nei suoi mirabili scritti descrive la grazia di Maria che, per prima, accoglie il Figlio risorto. Su due linee direttrici Efrem è pioniere in tema mariano: al natale e alla risurrezione. Egli è il primo tra i Padri che dà voce agli intimi sentimenti di Maria sulla culla del Figlio e «Interpretando a modo suo le “Marie” del Vangelo, Efrem ci offre la prima testimonianza (più tardi ripresa da alcuni Padri dei secoli IV-V e mantenutasi nella   Su questo tema si veda: Gianelli 1953, pp. 106-119; Gianelli 1963, pp. 175-188.   Anche ben oltre l’età patristica la tradizione cristiana continua a sottolineare come Maria sia stata presente alla risurrezione di Cristo, una lettura che anche l’iconografia continuerà a recepire lungo i secoli. 37   Testi mariani IV, p. 87. 38   Ivi, p. 100. 39   Ivi, p. 112. 40   Massimo di Torino, Sermoni Liturgici, Sermone 38, p. 244. Anche nel Sermone successivo prosegue questo confronto tra il grembo della vergine e il sepolcro. 35 36

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tradizione bizantina fino ad oggi) dell’apparizione di Gesù risorto alla Madre. La coscienza cristiana infatti avverte che Maria, come fu partecipe del dolore del Crocefisso, dovette per prima gioire della gloria del risorto: “Và, dì ai miei fratelli: io salgo al Padre mio e Padre vostro…”. Maria, come fu presente al primo miracolo (di Cana) così ebbe le primizie della risurrezione agli inferi»41. Nell’Inno sulla Verginità scrive: «Alla croce era a lui vicina, e alla risurrezione ella lo vide42.

Maria, inoltre, rappresenta l’immagine della Chiesa che attende la parusia: «Maria che lo vide è simbolo della Chiesa che per prima vedrà l’insegna della sua venuta»43. Anche Sedulio, nel Carme Pasquale, presentando Maria al sepolcro del Figlio, scrive: «Anche ora, immolando se stesso nello splendore del proprio trofeo, ci concesse di mantenere il diritto di primogenitura. Al sorgere di quel giorno la Vergine Madre, portando insieme con le altre madri un’offerta di prodotti aromatici, vennero piangenti al noto sepolcro e lo trovarono ormai privo del corpo, ma pieno di potenza…»44, e in un altro passo: «Il Signore si mostrò innanzitutto al suo sguardo quando si presentò apertamente nella luce, affinché la buona madre, divulgando i grandiosi miracoli, essendo stata un giorno la via per la sua prima venuta, diventasse anche il segno del suo ritorno»45. Una voce originale e preziosa, innanzitutto per il contesto ravennate, è quella di Pietro Crisologo, vescovo di Ravenna nella prima metà del V secolo, del quale ancor oggi possiamo gustare la memorabile predicazione attraverso i suoi sermoni. Commentando il passo evangelico delle mirofore concentra l’attenzione sul momento in cui le due donne vanno alla tomba del Signore e sull’interpretazione del loro nome, Maria, mostrando come in esso sia simbolicamente evocata la presenza della Madre del Signore: «stando al nome ne viene una sola», scriverà il Crisologo nel Quarto discorso sulla Risurrezione del Signore, ricordando le donne che di buon mattino si erano recate al sepolcro46. Nel Sermone 74, un commento al vangelo di Matteo, dopo aver evidenziato un parallelo tra Eva e la Vergine Maria, nuova Eva – una tema, quest’ultimo, caro all’esegesi patristica – esprime la visione della Madre di Gesù al sepolcro: 41   Testi mariani IV, p. 73; «È proprio Sant’Efrem – seguito poi da altre tradizioni ecclesiali – il primo che, con una trasposizione impensabile in un autore così attento e ligio alle Scritture, nel suo commento al Vangelo concordato sostituisce la Vergine Madre alla Maddalena, alla quale Gesù apparve per primo sotto le sembianze di un ortolano (Gv 20,11-18). Non crediamo che si tratti di una lezione variante dei manoscritti che usava, ma piuttosto che egli abbia voluto conciliare una sua interpretazione personale della “spada” predetta da Simeone (spada del dubbio, secondo Origene e l’antica tradizione greca) con l’intuizione d’animo che istintivamente capisce che il Figlio non poteva non mostrarsi per primo alla Madre, che fu con lui sotto la croce», ivi, p. 33. 42   Ivi, p. 113. 43   Efrem il Siro, Inni Pasquali, p. 284. 44   Testi mariani III, p. 425. 45   Ivi, p. 426. 46   Pietro Crisologo, Sermone 77, 4, p. 119.

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La sera del sabato, che risplende nel primo giorno della settimana, venne Maria Maddalena e l’altra Maria per visitare il sepolcro. Corre in ritardo al perdono la donna che era corsa rapidamente al peccato. Cerca Cristo alla sera quella che sapeva di aver tratto la mattina Adamo alla perdizione. Venne Maria e l’altra Maria per visitare il sepolcro. Quella che dal paradiso aveva preso l’incredulità, ha fretta di prendere la fede dal sepolcro, cerca sollecita di strappare dalla morte la vita, mentre aveva strappato dalla vita la morte. Venne Maria. Questo è il nome della Madre di Cristo; venne, dunque, nel nome la Madre, venne la donna per essere Madre dei viventi, mentre era diventata la madre dei morenti; e perché si compisse ciò che sta scritto: Questa è la madre di tutti i viventi. Venne Maria e l’altra Maria. Non disse «Vennero», ma: venne. Vengono in due con lo stesso nome per un mistero, non per caso. Venne Maria e l’altra Maria: venne essa stessa, ma un’altra; un’altra, ma essa stessa, perché la donna cambiasse vita, non il nome; la virtù, non il sesso, e fosse annunciatrice della risurrezione quella che era stata annunciatrice della caduta e della rovina. Venne Maria per visitare il sepolcro, affinché quella che era stata ingannata dalla vista dell’albero, fosse rinnovata dalla vista del sepolcro e quella che era stata attirata da una visione di seduzione, fosse risollevata da una visione di salvezza47.

Poco più avanti, il sepolcro è definito una nuova forma di utero, «Pietra beata, che meritò di rivelare e di nascondere Cristo! Beato chi apre i cuori non meno che il sepolcro! Beato chi, attestando che il corpo è risorto, risuscita anche la fede! Qui viene mutato l’ordine delle cose; qui il sepolcro divora la morte, non il morto; la dimora della morte diventa soggiorno di vita; una nuova forma di utero concepisce un morto, partorisce un vivo», anticipando così un tema, che sarà poeticamente ampliato nel Sermone successivo, pronunciato sempre a commento del medesimo passo evangelico48. Nel sermone 75 il Crisologo, ricordando la visita al sepolcro di Maria Maddalena e dell’altra Maria, evoca la presenza della Madre del Signore, riconoscendo innanzitutto, in queste due donne, la prefigurazione dell’unica Chiesa formata dal popolo dei giudei e dal popolo dei pagani: Maria, il solo nome della Madre di Cristo, è raddoppiata in due donne, perché qui la Chiesa, provenendo da due popoli, è rappresentata unica da due popoli, cioè dalle genti e dai Giudei, perché i primi saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi. Venne Maria al sepolcro. Venne all’utero della risurrezione, venne al parto della vita, perché Cristo nuovamente nascesse alla fede dal sepolcro, come era stato generato da un grembo di carne; venne per restituirlo alla vita eterna, chiuso nel sepolcro, come l’intatta verginità l’aveva portato alla vita presente. È una manifestazione della Divinità l’aver lasciato intatta la Vergine dopo il parto; è una manifestazione della Divinità l’essere uscito dal sepolcro col corpo. Maria e Maria vennero per visitare il sepolcro. Tu vedi che vennero non per vedere il Signore, ma

  Pietro Crisologo, Sermone 74, 3, p. 99.   Pietro Crisologo, Sermone 74, 5, p. 101.

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il sepolcro: né cercavano tra i morti uno che ormai era vivo, poiché credevano che il Signore fosse ormai risorto49.

Di notevole interesse è anche la tradizione apocrifa. Nel Vangelo di Gamaliele si racconta della Madre addolorata alla tomba di Gesù e del suo incontro con il figlio risorto: La vergine non si lasciò trattenere e la domenica, di buon mattino, si recò alla tomba. Giunta di corsa alla tomba, si guardò intorno e fissò lo sguardo sulla pietra: era stata rotolata dalla tomba. Allora esclamò: «Questo miracolo è avvenuto in favore di mio figlio. Ora mi domando con apprensione chi mai ha rotolato questa pietra dall’ingresso della tomba». Si sporse in avanti nell’ingresso della tomba, ma non vide il corpo del figlio. Quando spuntò il giorno, mentre il suo cuore era abbattuto e triste, dalla destra dell’ingresso penetrò nella tomba un profumo aromatico: pareva il diffondersi del profumo dell’albero della vita. La vergine si voltò e in piedi, presso un cespuglio di incenso, vide Dio vestito con uno splendido abito di porpora celeste50.

Anche nella Vita di Maria di San Massimo il confessore si racconta il mirabile incontro tra Gesù e la Madre al mattino di Pasqua: La Madre immacolata stava accanto al sepolcro, incapace di separarsene: vide e sentì tutto ciò che accadeva e si diceva. Vide il grande terremoto che risvegliò coloro che da gran tempo erano morti e fece addormentare le guardie e rovesciò la pietra; poi il risveglio delle guardie e la loro fuga verso la città. Le donne che se n’erano andate e che poi tornarono non poterono vedere tutto ciò; ma di tutto questo fu testimone oculare la beata Madre del Signore, che prigioniera d’amore, stava inseparabilmente accanto al sepolcro: ella vide la sua gloriosa resurrezione. Le altre donne videro la pietra rovesciata e l’angelo che vi si sedeva sopra; ma quando e come ciò fosse accaduto, esse non lo seppero assolutamente. Conobbe tutto soltanto l’immacolata Madre del Signore, che stava là. Per questo prima di tutti accolse l’annuncio della risurrezione e fu stimata degna di vedere, prima di tutti, il suo Figlio e Signore – visione divinamente bella, vertice di ogni bene desiderabile –, e udì la sua dolce voce e credette a tutti i misteri della sua divina economia: come aveva creduto a quelli dell’Incarnazione, ora credeva a quelli della risurrezione. […] Così dunque la santa Theotokos vide con i suoi occhi la risurrezione del suo Figlio Re, e colma di gioia se ne andò di là alla casa del discepolo prediletto, per attendere il momento dell’ascensione di Cristo51.

  Pietro Crisologo, Sermone 75, 3, pp. 105-107.   Apocrifi, pp. 788-789. Si veda anche: Testi mariani I, pp. 890-892. 51   Testi mariani II, p. 256. 49 50

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CREATO AD IMMAGINE

Angela Maria Mazzanti

Un’indagine sull’uomo in Filone di Alessandria

L’indagine ha preso avvio dalla lettura di un saggio: Panayotis Nellas Voi siete dei. Antropologia dei Padri della chiesa1. L’Autore aveva focalizzato lo studio sulla natura dell’uomo, sullo Ζωον Θεουvμενον, secondo la terminologia espressa nel titolo originale del volume. La definizione delinea, come scriveva T. Federici nella Prefazione, una teologia della storia: origine, fine, struttura ontologica e sofferto procedere verso la dimensione pleromatica dell’uomo, secondo i lineamenti propri della teologia ortodossa fedele alla Scrittura e ai Padri2. L’uomo “immagine” di Dio, in dipendenza dalla citazione genesiaca, è infatti il punto di riferimento basilare per approfondire la concezione antropologica nelle esegesi patristiche. L’argomento, oggetto di numerosi studi di grande interesse non solo in ambito occidentale ma, soprattutto, in quello bizantino, pone questioni che sollecitano ulteriori approfondimenti, come lo stesso Autore rilevava cogliendo le diverse valenze assunte dall’espressione “ad immagine” («Non sarebbe male se si riuscisse ad elencare tutte queste accezioni per poi analizzarle»3) nonostante la difficol  Il volume, pubblicato ad Atene nel 1981, è uscito in stampa tradotto da A. Fyrigos a Roma nel 1993 (Città Nuova Editrice). 2   Federici 1993, p. 17 scrive: «Il titolo nei due primi termini, è una teologia della storia: l’uomo è lo zôn, “il vivente” creaturale, che da questo inizio di grazia è destinato alla théôsis, la divinazione per pura Grazia dello Spirito Santo. La seconda parte è dichiarativa e programmatica, non senza una certa risonanza e distacco: solo dal «vivente divinizzato» si può comprendere come la teologia ortodossa, in fedeltà alla Scrittura e ai Padri (ma anche ai gradi Concilii e alla liturgia, e alla stessa vita spirituale e dossologica), concepisca l’uomo». 3   Nellas 1993, p. 38. 1

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tà ad avviare una ricerca semantica adeguata per la molteplicità dei riferimenti e dei contesti da considerare nell’esame di ogni singolo autore. L’ipotesi è quindi impegnativa, eppure, anche se in modo limitato, è possibile svolgere qualche approfondimento. Non è trascurabile, nella complessità della rilevazione, la premessa del volume che pone la questione su un piano di percezione esistenziale. «Ci sono momenti», scriveva P. Nellas indulgendo ad espressioni ben note in ambiti religiosi antichi e diventate familiari anche nella contemporaneità4, «in cui ci si sente veramente “gettati in un angolo dell’universo, costretti a vivere”» e continuava «Altre volte, ancora, avvertiamo un anelito estraneo, che però emana dal nostro interno e ci è proprio, elevarci al di sopra della necessità, donarci una sensazione di vera libertà e di gioia. I santi Padri della Chiesa, parlano diffusamente di questo anelito. Essi stessi lo collocano al centro della loro vita interiore, rapportano ad esso ogni azione della loro esistenza e si elevano alla condizione della permanente libertà di figli del Re dell’universo. E da quella altezza, indagano la natura dell’uomo. Comprendono e insegnano anche a noi che quell’anelito, quel “tendere verso Dio”, come lo chiamano, si deve al fatto che l’uomo è immagine di Dio, e cioè che l’uomo è nel contempo terrestre e celeste… un essere chiamato a diventare Dio5». Il teologo passava dall’accentuazione di un sentore esistenziale che eleva l’umana consapevolezza6 alla considerazione della natura dell’io. È chiara in questo argomentare l’individuazione dell’io come essere in relazione. L’uso greco di ειjκωvν che, secondo l’analisi semantica di H. Kleinknecht7, comporta accezioni in senso proprio e in senso metaforico, identifica significati polivalenti: in primis sono attestati “rappresentazione figurata”, “immagine degli dei” o “immagine naturale” e quindi “riflesso speculare”, “illusione ottica”, dal punto di vista traslato “immagine ideale”, “similitudine”. Indicativi sono anche i concetti di “riproduzione”, “immagine vivente” nel senso di “incarnazione”, “manifestazione” in cui possono essere insite le prerogative della visibilità della realtà rappresentata e della partecipazione essenziale8. La formulazione finale del Timeo platonico è paradig  Jonas 1991, p. 349, esaminando le tematiche gnostiche, si era soffermato sul termine “gettati” nel mondo attribuito agli uomini. Lo studioso riteneva che l’espressione fosse originalmente gnostica e rintracciabile sia in Pascal («gettati nell’infinita immensità degli spazi») sia, più recentemente, in Heidegger, come carattere fondamentale dell’autoesperienza dell’esistenza. 5   Nellas 1993, p. 31. 6   Si consideri il rilievo assunto dalla concezione di tale “anelito” che rinvia alle affermazioni dell’esistenza della religiosità naturale innata nell’uomo in ambito teologico. Si ricordino gli studi di fenomenologia religiosa che si basano su tali, peculiari, stati d’animo per esaminare il rapporto dell’uomo con Dio. Otto 1994, pp. 19-22 ne spiegava taluni dati fondamentali. 7   Kleinknecht III, coll. 160-164. 8   Larcher 1969, p. 383 registra, a partire da “rassomiglianza, similitudine”, la presenza di molte applicazioni del termine ειjκωvν nel greco profano e biblico: imitazione, copia, rappresentazione plastica o riproduzione naturale, manifestazione sensibile di una realtà invisibile, o modello, esemplare. 4

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matica in questa accezione: il mondo è definito come ειjκωvν sensibile dell’αυjτοζωον intellegibile9. Contenuti analoghi sono riscontrabili in Resp. 6, 509 in cui il Sole è visto come l’immagine del Bene. La concezione è presente negli autori di ambito ellenistico secondo varie accentuazioni sia in rapporto all’antropologia in generale, sia in particolari riferimenti: si pensi all’ideologia inerente alla regalità o all’esaltazione dell’uomo virtuoso10. La natura di immagine di Dio propria dell’uomo è affermata in alcune opere del Corpus Hermeticum: il trattato VIII enuncia una successione iconica concernente il mondo e, quindi, l’uomo (5), pur in un contesto che non presuppone un processo digradante11 e l’Asclepius, inoltre, riporta il concetto delle due immagini di Dio nel mondo e nell’uomo, precisando che la componente divina è costituita da elementi superiori, anima e intelletto, soffio vitale e ragione (10). La concezione dell’“essere creato ad immagine e somiglianza di Dio” nell’ Antico Testamento ha avuto rilevanti interpretazioni nel tempo12. Secondo von Rad13 la formulazione è singolare perché non corrispondente al dato centrale dell’antropologia che definisce l’uomo come creatura composta di terra e cenere. Mentre l’autore jahvista distingue nella creazione due elementi: materia terrestre e soffio che proviene direttamente da Dio, la fonte sacerdotale presenta l’origine dell’uomo al culmine di un processo che ha visto nascere le varie specie animali, come evento straordinario in cui opera direttamente Dio che attribuisce agli uomini una funzione di governo similare alla propria. Von Rad accentuava la connessione di questa nozione con talune espressioni della letteratura mesopotamica in cui l’uomo compare come “controparte” di Dio per constatare la corrispondenza con  ο}δε οJ κοvσμος ου}τω ζωον οJρατο;ν τα; οJρατα; περιεvχον, ειjκω;ν του νοητου θεο;ς αιjσθητοvς (92c). Van Kooten 2008, p. 94 dedica un capitolo del suo volume al tema dell’immagine di Dio nel paganesimo greco-romano. Soffermandosi sui passi platonici, deduce che, secondo Platone, l’uomo imiti il cosmo, modelli se stesso sul cosmo stesso e diventi simile alla realtà intellegibile. L’uomo è ritenuto il punto finale nella catena delle immagini che riflettono l’eterno. 10   Si rinvia per una disamina a ivi, pp. 95-124. 11   Mazzanti 1998, pp. 57-58. 12   Garrone 2010, p. 113-121, sintetizza lo sviluppo interpretativo di Genesi 1 nel tempo. Nella temperie segnata dal darwinismo si considerò l’uomo ad immagine identificabile con quelle facoltà spirituali che distinguono l’umanità dagli esseri animali. Con gli studi di Gunkel (1862-1932) si fece strada la prospettiva storico-religiosa: la valorizzazione delle mitologie vicino-orientali comportò l’affermazione della somiglianza fra il corpo umano e le sembianze della divinità antropomorfa. La teologia dialettica si allontanò dalla comparazione storico-religiosa e dall’attenzione ai contesti nel tentativo di comprendere la rivelazione. Lo sfondo antico-orientale e l’ideologia regia secondo cui il re sarebbe definito “immagine di Dio” è stato successivamente oggetto di analisi in riferimento a Gn 1 che attribuisce all’umanità intera le prerogative del sovrano. Gli attuali indirizzi di ricerca privilegiano la chiarificazione filologica e semantica dei termini relativi all’immagine, l’approccio comparativo e il tentativo di comprendere l’antropologia biblica senza considerare imprescindibili le presupposizioni dualistiche. 13   von Rad III, coll. 164-171. 9

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l’orizzonte culturale dell’antico oriente e porre dei distinguo su interpretazioni che focalizzano la somiglianza identificandola con la “personalità” dell’uomo, con la “libertà dell’io”, secondo formulazioni riconducibili a problematiche moderne. Sono comunque rilevabili anche contorni “negativi” o meglio, “critici”, in relazione al culto degli dei teriomorfi, come sottolinea V. Lossky14. L’espressione “a somiglianza”, fra l’altro, prevale nel probabile tentativo di ridurre l’importanza della locuzione “ad immagine” ed evitare quindi il confronto con il mito iraniano dell’“uomo celeste”. G.H. van Kooten, richiamando l’importanza della riformulazione della teologia monoteistica in ambito giudaico dopo l’esilio a Babilonia, nota tale enfatizzazione nel testo di Ezechiele (1,26-28) e sottolinea, a sua volta, fra le similarità cui dà adito la visione, in particolare la raffigurazione inerente alla definizione antropomorfica di Dio; la concezione della Genesi, la cui redazione è ritenuta posteriore al testo di Ezechiele, segnerebbe una corrispondenza, secondo un rapporto inverso15. L’immagine di Dio è connessa con la somiglianza e insiste particolarmente sulla funzione di dominio sul creato che l’uomo, ogni uomo, è chiamato a esercitare, ad imitazione di Dio, tema che si ritrova espresso con chiarezza in Qo 17,3 in cui si fa riferimento all’immagine16 e in Sal 817, in cui non c’è similarità di lessico rispetto al racconto genesiaco. Problematici sono altri riferimenti vetero-testamentari che si ritiene esprimano concezioni analoghe come Daniele 7,13 e 10,1618. Rimane irrisolta la questione se la somiglianza riguardi la parte fisica o spirituale dell’uomo. In Gn 5,1 ss., Gn 5,3, Gn 9,6 infatti, scriveva G. von Rad19, il rapporto è concepito come inerente alla somaticità, in altri (Sal 8,6 s.; Qo 17,3 s.) la distinzione non è a tema.   Si considerino le argomentazioni espresse da Lossky 1999, p. 166.   Van Kooten 2008, pp. 2-5 Lo studioso cita, a conferma di queste tesi, le analisi di alcuni studiosi. J. Milgroun ritiene la relazione iconica dell’uomo con Dio una concezione inerente all’affermarsi del monoteismo. La narrazione sacerdotale secondo A. Schüle è contemporanea ai giudizi sull’idolatria espressi dai profeti. Si afferma che l’uomo è l’immagine vivente. J.F. Kutsko si sofferma sull’analisi di Ezechiele e asserisce che il profeta si allinea alle teologia sacerdotale, si pone in contraddizione con l’ideologia mesopotamica e si astiene dal legittimare teorie politeistiche. 16   «Il Signore creò l’uomo dalla terra e ad essa d nuovo lo fece tornare. Egli assegnò loro giorni contati e un tempo definito, dando loro potere su quanto essa contiene. Li rivestì di una forza pari alla sua e a sua immagine li formò (κατ᾿ειjκοvνα αυjτου). In ogni vivente infuse il timore dell’uomo perché dominasse sulle bestie e sugli uccelli» (Qo 17,1-4). 17   «Che cos’è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna» (Sal 8,4-8). 18   «Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo» (Dn 7,13). «Ed ecco, uno con sembianze di uomo mi toccò le labbra» (Dn 10,16). van Kooten 2008, pp. 6-7 si sofferma ad enunciare le ipotesi di connessione fra i vari testi biblici che hanno qualche connessione con il tema dell’immagine genesiaca. 19   von Rad III, coll. 167-169. 14 15

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Il libro della Sapienza, scritto in greco verso la metà del I secolo a.C., riprende più volte il tema dell’immagine20, non “per caso”, sottolineava E. Lehmann considerando la rilevanza nel testo degli influssi ellenistici21. In Sap 2,23 l’ignoto Autore glossa Gn 1,26 eliminando la preposizione καταv e precisando la valenza di ειjκοvνα con la proprietà propria di Dio. Dopo avere affermato che Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità in riferimento quindi sia all’anima che al corpo, formula la definizione specifica. C. Larcher22 riteneva che il concetto di immagine fosse in questo caso comunque, nonostante la presenza del termine α[νθρωπος e, prioritariamente in relazione ad altri passi, riferito a ψυχηv, concepita come una realtà a cui è stato fatto il dono della proprietà distintiva dell’Essere divino (οJ θεο;ς ε[κτισεν το;ν α[νθρωπον εjπ᾿ αjφθαρσιvα και; ειjκοvνα της ιjδιvας αjιδιοvτητος εjποιvησεν αυjτοvν) e che quindi avesse già in sé originariamente quella connessione con la giustizia che, ratificata tramite l’uso della libertà, la destina all’immortalità. Orientato cioè sin dalla creazione all’immortalità, il protoantropo fu costituito come immagine vivente dell’immortalità divina (Gn 3,22b) e i suoi discendenti, in grado di scegliere il bene e il male, la vita e la morte (Sap 1,12-16), conservano la possibilità di avere tale prerogativa. Il significato dell’espressione inerente alla proprietà peculiare di Dio è problematico: C. Larcher considerava potesse designare l’essenza stessa del divino o l’Intelletto supremo, in rapporto con certe speculazioni sulla parentela dell’anima con Dio o sull’esistenza di uno spirito divino nell’uomo, o con concezioni inerenti ad un uomo ideale, intermediario fra Dio e il mondo, ma non ci sono nel Libro altri elementi che diano riferimenti corrispondenti. L’ampia disamina di van Kooten23 sulle interpretazioni del concetto di uomo ad immagine nel giudaismo antico conduce lo studioso alle conclusioni che tale nozione non sia rilevante nei vari scritti. Nella comparazione emergono alcuni elementi condivisi: l’antitesi fra l’immagine di Dio e le altre immagini in contrasto con l’idolatria, la comprensione spirituale o intellettuale dell’immagine di Dio che comporta   La definizione non è rivolta solo all’uomo ma è attribuita anche alla stessa Sapienza. Larcher 1969, pp. 383-388, si soffermava a esaminare il passo 7,26 in cui la Sapienza è indicata come immagine della bontà di Dio. Il termine ειjκω;ν non significa che la Sapienza sia la manifestazione visibile della bontà di Dio, dal momento che è presentata come una realtà trascendente. Lo studioso sottolineava la differenza di concezione rispetto alla formulazione delle “immagini” in Platone che designano copie sensibili del mondo intellegibile. Connessioni più evidenti sono ravvisabili in passi di Filone di Alessandria, in riferimento raramente alla Sapienza (Leg. 1,43), più di frequente al Logos. 21   Nygren 1943, p. 257 citava le opinioni di E. Lehmann. Lo studioso riteneva che la concezione dell’uomo creato ad immagine fosse estranea alla rivelazione e si trovasse nella Scrittura solo successivamente alla traduzione dei LXX e quindi alla diffusione della Bibbia in ambiti di cultura greca in cui le filosofie platoniche e stoiche erano ben attestate. Lossky 1999, pp. 165-166, ribadiva che non si potesse parlare di mera coincidenza della presenza del tema dell’immagine nei testi biblici in greco ma si chiedeva se questo ricorso a un certo vocabolario rispondesse a una necessità interna della rivelazione in prospettiva dell’uso che sarebbe stato significativo nel cristianesimo. 22   Larcher 1983, pp. 266-270. 23   Kooten 2008, pp. 1-47. 20

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una nozione di antropologia divina e che è controbilanciata dalla cognizione di una qualche fisicità dell’immagine stessa. Un’indagine su testi filoniani è ritenuta particolarmente interessante. Panayotis Nellas nominava l’Alessandrino nella sequenza delle teorie inerenti al tentativo di rispondere al quesito sulla natura della relazione fra Dio e l’uomo, definendola “la teoria del Logos”24. Sub voce ειjκωvν del Grande Lessico del Nuovo Testamento, H. Kleinknecht considerava che la linea di sviluppo del pensiero dalla cosmologia platonica conducesse a Filone25 e rimandava alla trattazione di G. Kittel26. Gli scritti dell’esegeta alessandrino sono infatti fondamentali per cogliere le interrelazioni fra mondo greco e giudaico27, o meglio, per comprendere giudizi e “uso”28 lessicale e concettuale e comprendere le prospettive. L’approfondimento sull’ειjκωvν di Dio è complesso perché Filone applica tale identificazione sia a Σοφιvα (Leg. 1,43)29, sia, in vari passi, al Λοvγος (emblematici Confus. 97 e 146-14730; Fug. 10131; Somn. 2,4532) sia, in modo singolare, secondo teorie aritmologiche, a numeri come il sette e l’uno33.   Nellas 1993, p. 45.   Si veda Kleinknecht III, col. 162. 26   Kittel III, coll. 176-177. 27   La questione inerente alle relazioni fra appartenenza giudaica e formazione greca di Filone è stata trattata ampiamente con accentuazioni differenziate da vari studiosi. L’Alessandrino talora è stato considerato secondo un’alternativa radicale che metteva in opposizione influenza greca o ebraicità; in altre interpretazioni, è stato identificato come un mistico, un filosofo o un esegeta, facendo riferimento alla caratterizzazioni preminenti della sua opera e, comunque, alle radici diverse della sua ottica basilare. Borgen 1997, pp. 1-13, nell’introdurre il suo saggio, sintetizza le varie posizioni assunte nel tempo dagli studiosi. 28   Secondo quali prospettive Filone “usò” il linguaggio della cultura ellenistica? É implicita la κριvσις nel lessico impiegato nelle opere? Il termine “uso” o più propriamente “retto uso” fa riferimento agli studi di Gnilka 2012 che ha indagato sull’idioma dei Padri della chiesa in rapporto con la terminologia propria della cultura classica. 29   Sulla configurazione di Σοφιvα e sui rapporti con il Λοvγος Radice 1994, pp. CXVIII-CXXI, si sofferma a considerare la possibile equiparazione ma insieme la non corrispondenza totale. 30   Rilevanti sono gli epiteti attribuiti al Λοvγος in questo passo: “dai molti nomi”, figlio primogenito, angelo-arcangelo, principio, nome di Dio, uomo a immagine, Veggente, Israele e immagine di Dio. Radice 1994, pp. 710-711 n. 50, commenta il passo. Sulle rappresentazioni del Logos si veda Calabi 2011, pp. 65-84. Il tema dell’ombra è esaminato in particolare (pp. 69-70). 31  Il Logos, immagine di Dio, trascendente, è considerato la Potenza che, superiore alle altre, risiede vicinissima a Dio senza la frapposizione di uno spazio intermedio. Filone cita Es 25,22, passo più volte menzionato (Her. 166; QE II, 68) con differenti esegesi e richiama anche la figura dell’auriga del Fedro platonico. 32   Filone afferma che Dio ha suggellato l’universo con il suo Logos identificata come immagine e idea. 33  In Opif. 100 Filone, seguendo teorie pitagoriche, come scrive esplicitamente, considera il sette immagine di Dio, affermando che per sua natura non genera né è generato. La inusuale terminologia è commentata da D.T. Runia 2001, pp. 273-275. In Spec. 3,180 è l’uno l’immagine della Causa prima. Il concetto è ripetuto in relazione alla monade in Spec. 2,176. 24 25

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Focalizzando lo studio sulla realtà antropologica identificata con l’essere ad immagine di Dio e sulle conseguenze di tale natura, può essere rilevante, in via preliminare, cogliere il significato di alcuni lemmi che l’Alessandrino accosta alla terminologia dell’immagine. In Leg. 3,96, in cui è a tema il Logos, l’ειjκωvν è la σκια,v l’αjπεικοvνισμα dell’αjρχεvτυπος e, a sua volta, il παραvδειγμα: L’ombra di Dio è il suo Logos di cui Dio si serve come di uno strumento nella creazione del mondo. Quest’ombra, in quanto tale, è in qualche modo una copiaarchetipo delle altre realtà. Se, infatti, Dio è il paradigma di quella immagine, che qui chiama “ombra”, questa medesima immagine diviene paradigma delle altre realtà, come anche la sacra Scrittura ha mostrato chiaramente all’inizio della Legge, dicendo: «E Dio fece l’uomo a immagine di Dio» (Gn 1,27). Come l’immagine è riportata a Dio, così l’uomo è rapportato all’immagine, che, dunque, assume il carattere di paradigma34.

Che significato identifica σκιαv? S. Schulz35, sottolineando l’importanza dell’uso traslato del lemma in Filone, affermava che nel nesso con la speculazione sull’archetipo-copia, in cui si coglie l’evidente innestarsi delle idee platonico-alessandrine con nozioni dell’Antico Testamento, è espresso il baricentro teologico della parola. La correlazione dei termini σκιαv, ειjκωvν, αjρχεvτυπος e παραvδειγμα in rapporto al Logos individua una nozione singolare. In altri passi infatti non si riscontrano le stesse connessioni semantiche. Il vocabolo σκιαv, cui corrisponde la valenza originaria di ombra, si differenzia da παραδειvγματα che definisce le nature archetipe della realtà36. Il significato predominante infatti inerente all’inconsistenza, alla parvenza accentua l’antitesi rispetto all’oggettività esistente37. Interessante è il concetto di riproduttività dell’immagine sottolineata dai termini αjπεικοvνισμα e παραvδειγμα. Il lemma αjπεικοvνισμα si ritrova spesso insieme a μιvμημα. Le due voci, in parallelo fra loro e in   Si fa riferimento nelle citazioni, in prevalenza, alla traduzione delle opere di Filone in Radice 1994. 35   Schulz, coll. 521-538 esaminava il lemma a partire dall’uso linguistico dei Greci fino ai testi neotestamentari rilevandone l’uso letterale e quello traslato secondo varie accezioni. L’analisi dei testi filoniani rende ragione di vari significati, di apporti e antinomie che potrebbero essere oggetto di ulteriori, interessanti approfondimenti. 36  In Somn. 1,206 Bezaleel, a cui si fa riferimento anche nel passo di Leg. citato in precedenza e identificato con l’“architetto artefice del tabernacolo”, è considerato in rapporto a Mosè secondo una diversa valutazione che riguarda il genere di opera prodotto: l’uno è artefice di “ombre”, l’altro di “nature archetipe”. La nozione è reperibile anche in Plant. 27: non solo le opere di Bezaleel e di Mosè hanno una natura diversa, ma gli stessi artefici sono qualificati in modo differente; l’uno infatti ha il secondo posto nell’ordine della chiamata, l’altro il primo. 37   Si vedano, come passi esemplificativi, in Leg. 3,103 e Somn. 1,188 in cui σκιαv è in antitesi rispetto a ει[δος. Nel primo si accentua la differenza fra il cogliere l’immagine di Dio direttamente o “tramite l’ombra”, nel secondo si considera negativamente l’interferenza delle ombre nella conoscenza del mondo che l’intelletto possiede, grazie all’idea archetipica insita in esso. 34

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relazione inversa rispetto ad αjρχεvτυπος e παραvδειγμα (Opif. 16; 25)38, scriveva W. Michaelis, attestano la rilevanza degli influssi platonici sulla concezione inerente alla corrispondenza fra mondo intellegibile e mondo sensibile presente nei testi filoniani39. Ulteriore attenzione merita il vocabolo σφραγιvς presente in Opif. 134 in relazione all’uomo («L’uomo fatto a immagine di Dio è un’idea, un genere, un’impronta») e in Opif. 25 in un contesto che ripropone il concetto di immagine e di imitazione dell’immagine in relazione al Logos: Ora se la parte è immagine di un’immagine (μεvρος ειjκω;ν ειjκοvνος) e se la forma intera questo nostro mondo sensibile tutto intero, posto che è maggiore dell’immagine umana è riproduzione dell’immagine divina (μιvμημα θειvας ειjκοvνος), ne risulta chiaro che il sigillo archetipo (ηJ αjρχεvτυπος σφραγιvς), che noi diciamo essere il mondo intellegibile, non può che identificarsi con il Logos divino.

G. Fitzer40 considera l’importanza dell’uso metaforico di σφραγιvς, sia come figura dell’archetipo o dell’idea secondo la quale si plasma il corporeo e ciò che è percepibile ai sensi concepiti quindi nella conformazione delle loro impronte (Opif. 129), sia come simbolo della potenza di Dio, che, dando forma alla realtà, non perde nulla della sua essenza (Spec. 1,47). In Platone non sono presenti analoghi tropi inerenti alla dottrina delle idee, similare può essere considerata solo la concezione della memoria paragonata alla cera in cui, scrive Filone, in potenza, ci sono tutte le impronte del sigillo (Leg. 1,100). Inoltre all’espressione “ad immagine”, in particolare, sono aggiunte ulteriori locuzioni o voci su cui è opportuno soffermarsi. L’uomo κατα; τη;ν ειjκοvνα και; τη;ν ιjδεαvν è una formulazione ribadita in Legum allegoriae (1,42; 1,53; 1,92). Il rilievo dato alla costituzione antropologica, alla luce della distinzione fra uomo ad immagine e uomo plasmato in corrispondenza alle esegesi delle due narrazioni genesiache (1,2627 e 2,7), insiste sulla derivazione dal Logos nella sua realtà di immagine esemplare di Dio e di idea. Al di là dell’individuazione del Logos come luogo delle idee o come insieme delle Idee nel loro complesso41, degno di nota è il radicare, secondo concezioni diversificate, l’uomo su un piano metafisico rispetto al livello della terrestrità che contraddistingue l’altro αvjνθρωπος. Una considerazione particolare merita il termine οJμοιvωσις che l’Alessandrino ritiene rafforzi, all’origine del processo creativo, la concezione inerente alla realtà   Si tenga presente anche il passo di Det. 83 in cui il lemma αjπεικοvνισμα insieme a μιvμημα è riproposto in riferimento al νους και; λοvγος dell’uomo. 39   Michaelis ha analizzato l’uso del termine anche in Filone (coll. 268-272). Più frequente del verbo che indica un’imitazione cosciente o un paragone, è presente il sostantivo con accezioni specifiche. 40   Fitzer, coll. 396-399. 41   Radice 1994, p. CIX, citando alcuni passi filoniani pone il problema se il Logos sia il luogo delle Idee o si identifichi con le Idee nel loro complesso e se, accettando la seconda ipotesi, l’identificazione debba intendersi come assoluta o parziale. 38

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della natura ad immagine, spesso non corrispondente all’archetipo, in funzione del conseguimento della perfezione iconica42: Poiché non tutte le immagini sono simili all’esemplare archetipo e molte se ne discostano, Mosè ha precisato il senso aggiungendo all’espressione “a immagine” l’altra “a somiglianza” per indicare una replica esatta che reca un’impronta ben chiara (Opif. 71).

La somiglianza è un dato originario e individuante (Leg. 1,33). Anche in Opif. 144, in cui si ravvisa nella εjξομοιvωσις la prospettiva perseguibile alla fine di un’esistenza vissuta seguendo il Padre e quindi percorrendo le vie delle virtù, è comunque affermata la costitutiva συγγεvνεια di Dio con l’uomo: Essendo congenere e consanguineo [il soggetto è l’uomo] della Guida sovrana, poiché il soffio divino era affluito copiosamente in lui, egli si studiava di dire e fare ogni cosa per compiacere il Padre e Re, seguendolo passo passo lungo le ampie vie aperte dalle virtù, perché è concesso di percorrerle solo alle anime convinte che la meta finale è quella di farsi simili a Dio che le ha generate43.

È opportuno notare la pluralità di lemmi che confluiscono a delineare la concezione di “immagine”: Filone usa termini appartenenti a radici semantiche differenti, introduce metafore connesse con ambiti culturali eterogenei focalizzando elementi analoghi ma non assimilabili. Indicativa è la capacità dell’Alessandrino di cogliere in vari contesti “segni” che esprimano la realtà antropologica fondamentale e, nel contempo, di rendere più chiara la comprensione di una nozione che ha varie prospettive. La paradigmaticità, pure preminente, non esaurisce la valenza del processo creativo “ad immagine”. Si tratta ora di incentrare l’indagine sulla natura iconica dell’uomo. Filone, in Opif. 69, affrontando il tema della creazione dell’uomo, interpreta l’enunciazione di Gn 1,26 come riferita al νους. L’α[νθρωπος κατ᾿ειjκοvνα και; ο;μοιvωσιν non identifica la realtà antropologica nella sua composizione che comprende anche la corporeità, ma solo il νους perché solo il νους può essere legato da εjμφεvρεια a Dio. Si legge infatti: Dopo tutti gli altri esseri, Mosè afferma che fu creato l’uomo a immagine e somiglianza di Dio. È un’affermazione giusta, infatti non c’è nulla di nato dalla terra che   Si consideri anche il passo di Fug. 12 in cui si fa riferimento alla perfezione della costituzione originaria. 43   Runia 2001, p. 233 e pp. 343-344, in relazione ai commenti di Opif. 71 e 144, segnala gli influssi platonici presenti nelle concezioni filoniane e i successivi sviluppi nei Padri che, la citazione riguarda in particolare Clemente, accentuano la distinzione fra immagine e somiglianza. Lo studioso nota che il termine οJμοιvωσις è usato da Filone nei rimandi al Genesi e ai passi in cui sono presenti influssi del Teeteto platonico, mentre in altri casi si trova εjξομοιvωσις. 42

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assomigli più a Dio dell’uomo. Ma questa somiglianza nessuno cerchi di immaginarla in base ai tratti corporei: Dio non ha la figura umana e il corpo umano non ha la forma di Dio. JΗ δε; ειjκω;ν λεvλεκται κατα; το;ν της ψυχης ηJγεμοvνα νουν. Infatti è sul modello di quest’unico e universale intelletto come archetipo che fu riprodotto l’intelletto individuale di ogni uomo, dio in qualche modo di chi lo porta e lo tiene in sé come un’immagine divina.

D.T. Runia44 afferma che in questo passo, diversamente da altri luoghi e, in particolare da Opif. 25, l’Alessandrino «virtualmente ignora la preposizione καταv» e omette quindi qualsiasi riferimento al Logos come intermediario. La preposizione è del tutto assente nella formulazione di Virt. 205 in cui è esaltata la persona di Adamo che «Non ebbe per padre alcun mortale, ma il Dio eterno, di cui è diventato in un certo modo l’immagine per quanto concerne il νους egemone nell’anima». Fondamentale è l’accentuazione del rapporto di paternità di Dio, ne consegue la prospettiva dell’eternità in contrasto con la provenienza umana e quindi con l’ontologia mortale. La realtà antropologica individuata è di nuovo l’intelletto45. Ribadita a più riprese è la formulazione del κατ᾿ειjκοvνα attribuita all’antropogonia. Ma quale “natura antropologica” è identificata da questa espressione? Quali ne sono le prerogative? Chiara nella formulazione della derivazione paradigmatica secondo una struttura graduata è l’esposizione in Quis rerum divinarum 231: Mosè chiama quello che sta sopra di noi «Immagine di Dio», e quello che sta in noi «impronta dell’Immagine». Dice infatti: «Dio fece l’uomo» non già “immagine” [di Dio], ma «secondo l’Immagine» (Gn 1,27), cosicché l’intelletto che è in ciascuno di noi, il quale, propriamente, è il vero uomo, è l’impronta del Creatore, che viene al terzo posto, in quanto il modello di questo è l’intelletto intermedio, che, a sua volta, è copia di quello di Dio46.

La distinzione nell’esegesi di Gn 1,26 e Gn 2,7 in De opificio mundi consente la cognizione di talune peculiarità:   Ivi, p. 225 lo studioso ritiene non adeguata l’ipotesi relativa ad un approccio al concetto non ancora approfondito (Tobin), né la constatazione che in questo contesto sia a tema piuttosto il rapporto fra uomo e Dio, considera invece, citando Winston, che in Filone il nome di Dio stesso indichi l’Essere in rapporto con il mondo, includendo quindi il Logos. 45   van Kooten 2008, pp. 57-62 considera che il passo di Filone abbia come obiettivo un giudizio critico sulle concezioni antropomorfiche del divino, proprie del paganesimo. L’opposizione è rivolta anche a taluni filosofi che, secondo lo studioso, «were willing to justify an anthropomorphic approach in this and they may well have influenced some Jewish and/or Christian authors in their view on man’s likeness with God» (p. 62). 46   Concezione analoga è espressa in QG 1,4. Radice 1994, p. 852 n. 112, sottolineava l’importanza della nozione sulla gerarchia di intelletti che anticipa elementi della metafisica medioplatonica del νους. 44

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Mosè disse poi: «Dio plasmò l’uomo prendendo il fango dalla terra e soffiò sul suo viso un soffio di vita» (Gn 2,7). Mostra così molto chiaramente la differenza profonda che esiste fra l’uomo ora plasmato e quello che era stato in precedenza generato ad immagine di Dio. L’uomo così plasmato è sensibile, partecipe ormai di qualità, composto di corpo e anima, è uomo o donna, soggetto a morte per natura; l’altro, fatto a immagine di Dio, è un’idea (ιjδεvα τις), un genere (γεvνος) o un’impronta (σφραγιvς), è intellegibile (νοητοvς), incorporeo (αjσωvματος), né maschio né femmina, immortale per natura (α[φθαρτος φυvσει) (Opif. 134).

Pur non trattando in specifico e rinviando ad altri studi la complessa questione inerente alla distinzione antropologica presente nelle esegesi filoniane di Gn 1,26-27 e Gn 2,7, in particolare, in De opificio mundi47, è opportuno considerare come l’immagine rimandi alla natura intellettuale, la cui unicità paradigmatica è rapportabile alla presenza specifica nei singoli individui, richiamata da quel γεvνος di cui D.T. Runia sottolinea la derivazione da concezioni platoniche48. La formulazione κατ᾿ειjκοvνα identifica, in questo caso, l’essere con ιjδεvα τις e σφραγιvς, senza ulteriori rilievi su entità intermedie. Le attribuzioni di intellegibilità, incorporeità, asessualità, immortalità connettono inequivocabilmente tale essenza alla sfera del soprasensibile.   I problemi sono vari: si tratta di identificare l’uomo ad immagine che, in questo passo, è delineato in contrasto con l’uomo plasmato, di comparare la formulazione con la concezione di Opif. 69 citato in precedenza, di comprendere la connessione fra la creazione ad immagine e l’insufflazione. Possono essere citati in sintesi alcuni studi che colgono la complessità del tentativo di raggiungere una cognizione chiara e incontrovertibile. Radice 1994, pp. 51-52 n. 24 e p. 54 n. 33 scriveva che l’uomo ad immagine potrebbe essere considerato o come l’idea generica dell’intelletto o come l’intelletto del singolo individuo o come l’idea dell’uomo nel suo complesso. Ogni nozione appare infatti confutabile se si mettono in rapporto i vari passi. L’interpretazione dello studioso, dopo varie analisi, è orientata alla considerazione che in Opif. 69 sia descritta la creazione dell’idea di uomo nella sua completezza ma che, nel contempo, l’individuazione come essere ad immagine, ponga l’accento sulla natura intellettuale e che la realtà corporea sia ritenuta come il luogo che ospita l’intelletto. L’α[νθρωπος κατ᾿ειjκοvνα è comunque concepito come il paradigma di ciascun essere individuale. La creazione dell’uomo che riceve il soffio ed è plasmato in Opif. 135 può essere intesa come l’individualizzazione dell’idea di uomo nelle due diverse componenti. Runia 2001 p. 322-323 alla luce della documentazione di vari commenti in cui era prevalsa l’interpretazione dell’uomo ad immagine di Opif. 134 come “Idea di umanità”, ritiene che non sia del tutto comprovata l’equazione fra la nozione inerente al νους creato in Gn 1,27 e la parte divina del composto empirico in Gn 2,7. La prima sarebbe una idealizzazione dell’essere umano vero. In Opif. 134 Filone non parlerebbe dell’idea di umanità nel senso tecnico, ma dell’idealizzazione dell’umana natura in termini di intelletto. Di qui si aprirebbe la questione della relazione con l’intelletto o l’anima razionale dell’uomo empirico. Insufflazione del pneuma e immagine riguardano la razionalità umana, visti in accordo con la filosofia greca Gli influssi platonici sono preferiti dal punto di vista teologico rispetto alle formulazioni stoiche. Si veda anche Mazzanti 1990, pp. 19-34. 48   Runia 2001, p. 322 nota che la terminologia scelta per indicare l’uomo ad immagine riconduce ai passi (16-35) che riguardano il giorno uno. Si considerino anche le riflessioni sul tema del genere e delle specie in pp. 242-243. 47

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Le Legum Allegoriae, proponendo la lettura di Gn 2,7, interpretano l’α[νθρωπος κατ᾿ειjκοvνα secondo un’ottica particolare e lo identificano con l’ουjραvνιος α[νθρωπος. Le concezioni si inseriscono in un trattato che, pur sviluppando approfondimenti del testo biblico su riferimenti che sono oggetto di riflessione anche in De opificio mundi ed elaborando tesi filosofiche affini, ha intendimenti differenti: in De opificio mundi prevale infatti l’esegesi filosofico-cosmologica, nelle Legum Allegoriae quella etico-psicologica49. In Leg. 1,31 il soggetto è l’α[νθρωπος la cui nascita ad immagine esclude qualsiasi rapporto con la sostanza corruttibile: «Dio plasmò l’uomo prendendo del fango dalla terra e soffiò sul suo volto un soffio di vita, e l’uomo divenne un’anima vivente» (Gn 2,7). Ci sono due generi di uomini: l’uomo celeste e l’uomo terrestre. Quello celeste, in quanto generato «a immagine» di Dio (Gn 1,26 s.), non partecipa alla sostanza corruttibile e, in generale, “terrestre”. L’uomo terrestre, invece, è costituito di materia qualsiasi che la sacra Scrittura chiama «fango». Per questo motivo non si dice che l’uomo celeste è stato “plasmato” (ουj πεπλαvσθαι), ma creato «a immagine» di Dio (κατ᾿ειjκοvνα δε; τετυπωσθαι θεου). L’uomo terrestre è, dunque, un impasto di terra prodotto dall’Artefice, e non una sua generazione.

In un passo immediatamente successivo Filone individua questo uomo con il νους secondo l’Idea e l’immagine mettendolo in relazione con il νους nato dalla terra e amico del corpo e chiedendo perché questo secondo νους possa essere considerato degno di ricevere il πνευμα θειvου (Leg. 1,33). Nella risposta in Leg. 1,42 la partecipazione al soffio cioè al πνευμα è distinto dall’emissione dell’alito definito πνοηv, che è quindi appannaggio dell’intelligenza nata dalla terra e amica del corpo. La Sacra Scrittura ha parlato di soffio e non di Spirito, come se fra i due termini ci fosse una differenza. Lo Spirito si distingue dalla forza, dalla tensione e dalla potenza; il “soffio” invece, è come una brezza e un alito placido e dolce. L’intelletto fatto «a immagine» e secondo l’Idea lo si potrebbe dire partecipe dello Spirito; il suo pensiero (λογισμοvς) infatti possiede vigore.

È opportuno notare anche il riferimento al λογισμοvς che assume potenzialità consequenziali rispetto alla genesi iconica50. L’Alessandrino procede ad una serie di distinzioni che, non corrispondendo neppure ai termini presenti nel testo bibli  Radice 2000 pp. 52-58 ritiene che non esista alcuna differenza strutturale fra i due trattati. Il De opificio costituirebbe «il preambolo della Legge, piuttosto che la Legge stessa» (la citazione è tratta da R. Arnaldez 1961, p. 125) e renderebbe comprensibili rilevanti temi teologici. Eppure, pur appartenendo ad uno stesso gruppo di opere nella classificazione abituale degli scritti filoniani, cioè ai commentari del Pentateuco, si nota una notevole differenziazione che nasce da una tradizione codificata inerente all’ esposizione della Legge nel De opificio e dal registro dell’allegoria, volto a comprendere la natura dell’uomo e la sua condotta in Legum allegoriae. 50   Sul rapporto fra νους e λοvγος si veda Mazzanti 2011, pp. 85-101. 49

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co, gli permettano differenziazioni di antropologie51. Ma le due dinamiche creative, la costituzione ad immagine e la ricezione del πνευμα, sono entrambe proprie dell’uomo celeste e sono quindi corrispondenti? La risposta è complessa. De plantatione 18-19, può essere citato come brano esemplificativo52. Filone propone una correlazione nell’interpretazione dei passi genesiaci, nel tentativo di contrastare concezioni filosofiche sulla genesi della razionalità umana dall’etere, dopo averla identificata con un’impronta autentica dello Spirito divino e invisibile, impressa e coniata dal sigillo di Dio, tramite il Logos: Afferma, infatti, la Sacra Scrittura «Dio soffiò sul suo volto un soffio di vita» (Gn 2,7), di modo che, necessariamente, chi riceve [il soffio] riproduce l’immagine di chi l’ha emesso. Per questo motivo, appunto, si dice che l’uomo è stato creato «a immagine di Dio» (Gn 1,27) e non a immagine di qualcuna delle cose create.

Dedurre che l’insufflazione coincida con la riproduzione iconica è difficilmente accettabile, alla luce dei passi di Gn 1,27 e Gn 2,7 la cui esegesi trattata in Opif. 69 e 134, già citati, pone dei distinguo fondamentali: a tema è sempre il νους, ma la creazione ad immagine è presentata come l’atto della costituzione dell’“uomo”; l’insufflazione interviene, invece, come è attestato in questo passo, sulla plasmazione corporea, secondo un’esecuzione successiva su quella corporeità che era stata esclusa a priori nella genesi ad immagine. Invocare l’incongruità delle tesi filoniane come caratteristica dell’esegeta che, per tale aspetto, quindi, non può essere qualificato come filosofo53, può apparire come un motivo utile per non approfondire. La consuetudine con la lettura delle opere rende accorti sulla coerenza in Filone di concezioni fondamentali: fra questi anche il rapporto fra νους e πνευμα .Van Kooten54 fa una disamina della questione analizzando vari testi dell’Alessandrino, conclude con la considerazione che talora emerga una sovrapposizione ma che i processi siano «near-synonyms but not fully identical»55. Affrontando direttamente il tema della   Si veda su questo passo, messo in comparazione con Deter. 81 il commento di Radice 2000, pp. 133-134. Filone pone particolare attenzione all’uso del termine πνευμα. 52   «Invece [Dio] non fece dipendere la sostanza dell’intelletto da nulla di ciò che è creato, e la rappresentò come insufflata da Dio. Dice infatti: “Il Creatore dell’universo soffiò sul suo volto un alito di vita, e l’uomo divenne anima vivente” (Gn 2,7); ed è per questo che si dice che ha ricevuto l’impronta secondo l’Immagine del Creatore» (Her. 56). 53   Sul tentativo di attribuire una caratterizzazione “al profilo fondamentale” di Filone si era soffermato, nell’Introduzione del suo volume Borgen 1997, pp. 9-13, come già si è accennato in n. 27 in riferimento alla relazione fra influenza greca ed ebraica. Si veda anche Calabi 2013, pp. 13-32 che pone la questione della connessione fra «Atene, Roma e Gerusalemme» in Filone con relativi rimandi sul tema della presenza di contenuti filosofici nell’esegesi biblica. 54   Kooten 2008, pp. 64-69, commenta le citazioni di vari passi in cui compaiono sia il riferimento ai due processi creativi sia il tentativo di connessione. Le concezioni presenti in Plant. 19 e 44-45, Her. 56-57, Det. 83, Virt. 204-205 non sono assimilabili. 55   Ivi, p. 68. 51

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dinamica dell’insufflazione in Leg. I, 36-38, Filone parla di una unione fra soggetto espirante, oggetto ricevente e soffio: L’espressione “soffiò dentro” equivale a “ispirò” o “animò” gli esseri senza anima… Questa espressione, dunque, rimanda ad un significato assai più profondo. Essa implica tre termini: ciò che è “ispirato”, ciò che riceve l’“ispirazione” e ciò che “ispira”. Ora Colui che ispira è Dio, chi riceve l’ispirazione è l’intelletto, ciò che viene ispirato è lo Spirito. Che cosa, dunque, si deduce da ciò? Si tratta dell’unione di tutti e tre gli elementi di Dio che protende la Sua propria Potenza attraverso lo Spirito fino all’oggetto.

L’intelletto è più propriamente il luogo di ricezione del πνευμα. Van Kooten56 ipotizza che tale connessione, in cui comunque il πνευμα ha una valenza maggiore o similare (ma l’attestazione è problematica) rispetto al νους, possa essere determinata dal tentativo dell’esegeta di fare riferimento a concezioni antropologiche diversificate. All’ontologia gerarchica indotta da influssi filosofici greci in cui sono identificati νους - ψυχηv - σωμα alla luce dell’esegesi, Filone sostituisce, in qualche modo, una tricotomia analoga in cui al primo posto è presente il πνευμα e che quindi si configura come πνευμα - ψυχηv - σωμα. In questa ottica è opportuno d’altra parte considerare l’intersecarsi dei riferimenti semantici: il πνευμα λογικοvς ha origine dal modello e dalla forma dell’immagine divina (Spec. 1,171) e conduce l’uomo che vi si uniforma ad una esistenza in relazione alla propria natura (Her. 57). La dissociazione prosegue anche nella narrazione della presenza degli uomini nel giardino. Se in Gn 2,8 era l’uomo plasmato ad essere posto nel giardino, l’esegesi di Gn 2,15 fa riferimento invece all’uomo ad immagine57. L’interpretazione di Filone trae elementi di caratterizzazione specifica: alla natura diversa si connettono consequenzialmente funzione e caratterizzazione etica. La sacra Scrittura afferma che Dio pose l’uomo che aveva plasmato nel giardino… Chi è, dunque, colui del quale più avanti di dice: «Il Signore Iddio prese l’uomo che aveva creato e lo pose nel giardino, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2,15) Ma forse qui si tratta di un altro uomo, quello generato «ad immagine e secondo l’Idea», cosicché, complessivamente, due uomini sono introdotti nel giardino: quello plasmato e quello a immagine. (Leg. 1,53)

L’uomo ad immagine, o l’uomo celeste, secondo Leg. 1,90, si contraddistingue per la cura e la salvaguardia del giardino che Filone identifica con la virtù58. Stabilità,   Ivi, pp. 278-280.   Radice 2000, pp. 143-144 si sofferma a considerare la duplicazione dell’uomo nel giardino. 58   «La virtù allegoricamente è detta “giardino” e il luogo che è proprio di questo giardino è detto “Eden”, cioè godimento. Alla virtù, infatti, si addicono la beatitudine, le buone disposizioni dell’animo e la gioia, e in queste si trova il vero godimento» (Leg. 1,45). 56 57

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permanenza e sollecitudine sono insiti in quell’intelletto ad immagine e secondo l’idea che «indipendentemente da ogni sollecitazione, ha già di per sé la virtù» (Leg. 1,92). «Al perfetto (Τω με;ν ου\ν τελειvω τω κατ᾿ειjκοvνα), cioè all’uomo ad immagine, non è necessario né comandare, né vietare, né fare esortazioni, perché non ha alcun bisogno di ciò» (Leg. 1,94). La vita immortale è una conseguenza che l’Alessandrino accentua nel paragone fra l’uomo formato dal soffio di Dio a sua immagine e l’albero della vita in De plantatione 4459. Ed è significativo che tale perfezione implichi comunque una relazione perché l’uomo non è μοvνος60 e che la suddetta relazione sia con Dio, in corrispondenza quindi con la natura propria dell’uomo «ad immagine», e nel contempo sia stabilmente presente come aspirazione, indicativa, quindi, di un dinamismo: È bene che nessun uomo sia solo. Ci sono infatti, due tipi di uomo, l’uno fatto «ad immagine», e l’altro plasmato di terra. Per l’uomo nato ad immagine non è bene essere solo (egli aspira all’immagine εjφιvεται γα;ρ της ειjκοvνος, l’immagine di Dio infatti è l’archetipo di ogni realtà e ogni imitazione desidera ciò di cui è imitazione e ad esso si conforma), a maggior ragione non lo è per l’uomo plasmato (Leg. 2,4).

L’esigenza di superamento della solitudine dell’uomo plasmato si precisa come connessione, in funzione di aiuto, con le sensazioni e le passioni. Ma la dualità, che si configura nel rapporto con una natura gerarchicamente inferiore e più recente, comporta che invece del sostegno emerga un’inimicizia, di cui in primis le passioni si rivelano fautrici (Leg. 2,10-11). L’ambiguità del ruolo esercitato da sensazioni e passioni è attestato chiaramente da Filone61. Rilevante è il passo di De opificio mundi   «La sacra Scrittura dice con precisione che ad essere introdotto nel giardino non è l’uomo foggiato “a immagine”, ma quello “plasmato”. E, in effetti, l’uomo che ha ricevuto l’impronta dello Spirito, secondo l’immagine di Dio, in nulla differisce, a mio avviso, dall’albero che porta il frutto della vita immortale, dal momento che sia l’uno che l’altro sono realtà incorruttibili e sono considerati degni della parte più centrale e predominante: la Scrittura, infatti, afferma che l’albero della vita è in mezzo al giardino (Gn 2,9)». 60  Scrive Radice 2000, pp. 189-190 che il ragionamento dell’Alessandrino presenta vari livelli: antropologico perché non spetta all’uomo per natura essere solo, cosmologico-assiologico perché Dio è solo prima e dopo la creazione, puramente ontologico perché Dio è semplice e la semplicità è condizione metafisica della immutabilità ed etico perché Dio è Bene. 61   «Nessuna creatura può fare a meno del piacere, ma lo stolto ne userà come di un bene perfetto, l’uomo virtuoso solo perché costretto: non v’è nulla, infatti, nel genere mortale che vada esente dal piacere… Certamente, dunque, Dio vuole rendersi conto e vedere come l’intelletto accoglie e chiama ciascuna di queste realtà [le ricchezze]: se beni, indifferenti, o mali; oppure, sotto un altro aspetto, come cose necessarie» (Leg. 2,17). Discute, alla luce della varie interpretazioni, questa complessa questione Radice 2000, pp. 194-198. Si veda Le Boulluec 1998, pp. 129-152 sul concetto di piacere in Filone in relazione a specifici influssi filosofici. 59

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151 in cui al protoantropo, nella sua eccellenza psicofisica, necessariamente, è preordinata l’esperienza della negatività inaugurata dall’ηJδονηv62. Non potendo considerare in questa indagine il tema inerente all’origine del male nell’uomo, è opportuno soffermarsi sulla connessione fra la genesi antropologica e l’esperienza esistenziale che si manifesta secondo opzioni etiche differenziate: [Il legislatore] non fece dipendere la sostanza dell’intelletto da nulla di ciò che è creato, e la rappresentò come insufflata da Dio. Dice infatti: «Il Creatore dell’universo soffiò sul suo volto un alito di vita, e l’uomo divenne anima vivente» (Gn 2,7) ed è per questo che si dice che ha ricevuto l’impronta (τυπωθηναι) secondo l’Immagine del Creatore. Così, ci sono due generi di uomini: quello di coloro che vivono fondandosi sullo Spirito divino e sul ragionamento (το; με;ν θειvω πνευvματι λογισμω βιουvντων) e quello di coloro che vivono fondandosi sul sangue, la carne e il piacere. Quest’ultimo genere è cosa plasmata di terra: il primo, invece, è impronta (εjκμαγειον)63 somigliante all’Immagine divina (Her. 56-57).

La dipendenza creaturale è riaffermata anche in questo passo, che ne coglie le prospettive esistenziali, contraddistinte comunque da quella capacità di διαιρειν και; διακριvνειν sul modello della funzione del Logos, la cui formulazione specifica è espressa in Her. 23664. L’Alessandrino considera che l’uomo possa procedere secondo una prospettiva tramite stadi nel riconoscimento del rapporto con il divino: il non essere degni di essere chiamati figli di Dio rende comunque auspicabile il riconoscimento dell’essere figli dell’immagine di Dio, del suo Logos (Conf. 147). E, rivolta ad Adamo, viene sottolineata l’esigenza di «conservare pura tale icona seguendo, per quanto possibile, le virtù di colui da cui aveva avuto origine» (Virt. 205)65. L’anima umana, scrive Filone, può essere priva dell’immagine divina quando si allontana ed «emigra per andare a risiedere altrove» (Spec. 3,207). La considerazione potrebbe difficilmente fare pensare ad un’instabilità di natura66, Filone rimarca il possibile “snaturamento” dell’immagine tutta intera, ad opera di colui che cade nell’ignoranza per la sua presunzione (Spec. 4,146). 62  In Mazzanti 1990, pp. 16-18 è analizzata la necessaria esperienza del male dell’uomo nell’ultimo stadio del processo creativo che comporta il possibile sviluppo generazionale. 63   Il termine sottolinea il ricettacolo dell’immagine e non l’immagine come sottolineava Harl 1966, pp. 254-255 n. 1, mettendo in corrispondenza questo passo con Her. 181 e 231. 64   «Il divino, essendo puro, indiviso ed assolutamente senza parti, è causa per tutto il cosmo di mescolanza, di fusione, di distinzione e della sua molteplice partizione; cosicché quegli enti che gli assomigliano, vale a dire l’intelletto che è in noi e quello che è sopra di noi, essendo anch’essi senza parti e indivisi, potranno, senza esitazione, dividere e distinguere ciascuna delle cose che sono». In Opif. 73 l’opzione del bene e del male contraddistingue l’antropologia rispetto agli altri esseri creati. 65   Si consideri anche l’esortazione in Decal. 101 a imprimere nelle menti quelle immagini e impronte che conformano, per quanto sia possibile, la natura mortale alla immortale. 66   Lossky 1999, pp. 158-159, considerando la nozione teologica di persona umana nei Padri, sottolinea le conseguenze dell’identificazione del nous come carattere dell’immagine nell’antropologia tricotomica.

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È ben chiara la valenza dell’essere umano in rapporto a Dio, così come è delineata a proposito della proibizione dell’omicidio: Niente è così sacro, così simile a Dio dell’uomo (lui che porta in sé un’effigie sacra), la replica bellissima di un’immagine bellissima, replica formata con l’aiuto del modello che costituisce l’idea archetipale razionale (Spec. 3,83).

Il passo di Det. 86-87 reputa l’immagine vantaggiosa per la creatura per la cognizione di Dio e quindi per il possesso della felicità e della beatitudine e, nel contempo, funzionale alla presenza nella realtà terrestre di Dio stesso, di cui è ribadita l’invisibilità: Pensando che sarebbe stato un grande beneficio per la creatura se questa avesse avuto la nozione del Creatore – perché è questo che determina la felicità e la beatitudine – insufflò dall’alto qualcosa della propria Divinità. La Divinità invisibile ha impresso nell’anima invisibile le proprie impronte, perché la regione terrestre non restasse priva dell’immagine di Dio. Ma l’Archetipo, naturalmente, era così assolutamente invisibile che anche la Sua immagine era invisibile.

Dall’essere costituita ad immagine dell’Invisibile deriva (Filone ne parla nella descrizione della grandezza di Mosè come legislatore) il dominio sulla natura visibile da parte dell’umanità: Sola fra tutte, [l’umanità] ricevette il dominio su tutto ciò che popola la terra essendo stata creata quale imitazione della potenza di Dio, immagine visibile della natura invisibile, riflesso mortale dell’Eterno (Mos. 2,65).

La questione antropologica in Filone di Alessandria è particolarmente complessa. La focalizzazione sulla costituzione dell’uomo κατ’ ειjκοvνα, indagata sulla base della presenza di tale semantica in relazione ad α[νθρωπος, pur essendo limitata, può attestare alcuni elementi interessanti nella prospettiva degli studi. I Padri trattarono ampiamente tale tema, tentando di comprendere quale fosse la natura originaria dell’uomo e se, in conformità con tale sostanza, fosse ipotizzabile, nella creazione storica di ciascun individuo, un progressivo, dinamico percorso per giungere alla più alta somiglianza ontologica con Dio, con l’intervento della grazia67. In Filone l’essenza “umana” è creata non come immagine ma secondo l’immagine. Pur nella diversità di talune accezioni, il prevalere di tale formulazione, rispondente al testo genesiaco, comporta l’accentuazione di una distanza ri67   Maloney 1973, pp. 187-192, sintetizza le concezioni dei Padri greci sull’immagine e la somiglianza con Dio dell’uomo, cogliendo la diversa formulazione della relazione fra natura e grazia.

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spetto al rapporto di esemplarità che ha come riferimento più diretto il Logos. L’accostamento al κατ’ειjκοvνα di voci come σκιαv e σφραγιvς segnala ulteriormente l’impossibilità di una compiuta conformità. Fondamentale è l’attestazione dell’identificazione della realtà antropologica con il νους (in rapporto talora con il λοvγος o il λοvγος tout court). Tale natura autentica è radicata nella relazione essenziale con il divino e comporta la presenza stabile dell’essere al quale sono ascritte attribuzioni congruenti quali intellegibilità, incorporeità, indistinzione sessuale, immortalità. Il tentativo di connessione fra tale processo creativo e l’immissione pneumatica coinvolge in modo più immediato la corporeità. Inerente alla struttura composita (Opif. 73) è il dinamismo che richiede il giudizio affidato al noetico che ha già in sé quella istanza all’unità con colui di cui è immagine e che diventa, nell’esistenza dell’individuo, tensione all’unicità e aspirazione alla felicità, come superamento della dualità. La trattazione di P. Nellas, citato in apertura, può essere menzionata nuovamente: è significativo fare un rapido accenno sui rilevanti mutamenti interpretativi connessi con l’emergere dell’annuncio cristiano. Nell’approfondimento sintetico su “l’uomo ad immagine dell’archetipo” nei Padri68, il teologo rileva la focalizzazione fondamentale su Cristo. Origine, struttura, finalità dell’essere umano hanno in Cristo, Dio incarnato, la rispondenza essenziale adeguata. La prospettiva teologica e antropologica sono mutate. «Il logos dell’uomo (ossia il suo essere razionale), precisa lo studioso69, si deve al fatto che [l’uomo] è stato creato “a immagine” di Cristo». Un passo dell’Incarnazione del Verbo di Atanasio 83, PG 25, 101B, ripreso da P. Nellas, ne attesta la concezione affermando che Dio creò gli uomini secondo la sua immagine, trasmettendo il suo Logos: conseguentemente, gli uomini, avendo connaturato alcune “ombre” del Logos, divennero logici e quindi, in grado di perseverare nella beatitudine. Talune prerogative umane, inerenti alla struttura antropologica, sono conseguenti: capacità di generare, dominio sulla natura, libertà, coscienza del creato. L’uomo è identificabile come persona e insieme come natura, chiamato, o secondo la citazione di Basilio espressa da Gregorio di Nazianzo «comandato a diventare Dio»70. L’essere «a immagine» è una potenzialità reale che conduce all’unione ipostatica, alla fusione delle nature umana e divina: «donazione e finalità, conquista e prospettiva» infatti si fondono e P. Nellas sostiene quindi che «L’uomo trova il suo contenuto ontologico nel suo archetipo»71.

    70   71   68 69

Nellas 1993, pp. 39-55. Ivi, pp. 40-41. Ivi, p. 109 n. 29. Ivi, p. 50.

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MATRIMONIO E SEPARAZIONE DEI CONIUGI NELLA FRANCIA DI GREGORIO DI TOURS

Valerio Neri

L’opera di Gregorio di Tours nel suo complesso, non solo le Historiae, ma anche le opere agiografiche, costituisce un testimonianza fondamentale non solo per la storia politica e militare del primo secolo della Francia merovingica, ma altresì della sua storia sociale attraverso la narrazione di vicende private di tutte le sue classi sociali, dai re ai mendicanti1. Tra di esse hanno un particolare rilievo le vicende matrimoniali e le relazioni sessuali di molti personaggi contemporanei. Gli scritti di Gregorio costituiscono dunque un punto di partenza obbligato per l’indagine che mi sono proposto di affrontare. Naturalmente, anche perché è difficile immaginarne uno, Gregorio non è un testimone neutrale, anche se spesso evita di intervenire direttamente nella narrazione esprimendo il suoi giudizio e la sua valutazione della vicenda narrata e sembra descrivere i fatti con il distacco di un cronista. Egli è anzitutto un vescovo con valori e modelli di vita matrimoniale cristiani chiaramente espressi, profondamente critico della corruzione e delle deviazioni, anche in questo ambito, della società contemporanea, soprattutto del clero e dei vescovi. La sua posizione deve dunque essere messa a confronto con le direttrici in questo campo dei numerosi concili gallici contemporanei e con la dialettica, talora conflittuale, che essi stabiliscono con i detentori del potere politico. Il confronto deve però estendersi anche alla legislazione merovingica contemporanea, il Pactus legis Salicae, e, a titolo comparativo, alla contemporanea legislazione barbarica, soprattutto in territorio gallico, la Lex Romana Visigothorum, che potrebbe essere stata vigente anche in qualche misura in periodo merovingico, nei confronti della popolazione gallo-romana, la lex Romana Burgundionum la Lex Burgundionum, e l’Edictum Theoderici, che sembra più probabile attribuire al Teoderico ostrogoto.  Cfr. Heinzelmann 1994; Shanzer 2002.

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Valerio Neri

Gregorio mette in evidenza in lunghi racconti encomiastici situazioni matrimoniali esemplari di lunga e concorde monogamia in un ampio spettro di ceti sociali. Nelle Historiae il nobile arverno Iniuriosus è convinto dalla moglie alla scelta di un matrimonio casto, che però non comporta la rinuncia alla convivenza ed all’uso dello stesso letto (multos postea in uno strato recumbentes annos, sed cum castitate laudabili)2. Il proprietario Bliderico, nell’opera sui miracoli di s. Martino, decide con la moglie, dopo trent’anni di matrimonio senza figli, di istituire erede delle sue proprietà la basilica del santo a Tours, ottenendone in compenso da Dio la nascita di un figlio, seguito poi da altri3. Altri episodi di coppie di pauperes uniti dalla sventura e dalla malattia compaiono nella stessa opera. Il vescovo di Clermont Ferrand Urbicus, ex senatoribus conversus, continua il rapporto matrimoniale ma non convive con la moglie iuxta consuetudinem ecclesiasticam4. Il vescovo di Tours narra però un numero considerevole di casi di rottura del vincolo matrimoniale con vicende diverse. In qualche caso si tratta evidentemente di una separazione consensuale. È questo il caso della richiesta fatta al re Chilperico dalla moglie visigota Galsuinda che, messa in difficoltà dalla posizione che continuava ad avere a corte la preferita del re Fredegundis, esprime al re il desiderio di ritornare libera in patria, lasciando a lui i tesori che aveva portato con sé5. Il re finge di acconsentire ma poi fa strangolare la moglie da un servo. In questo caso Galsuinda presumibilmente non aveva altre vie d’uscita che il tentativo di trovare un accordo con il marito, che viene concluso in termini a lei sfavorevoli sul piano patrimoniale. Il Pactus Legis Salicae non fa cenno al divorzio consensuale come in generale alle questioni di diritto matrimoniale, che invece la Lex Romana Burgundionum esplicitamente riconosce ai sudditi romani del regno. D’altra parte è evidente che in questa situazione Chilperico non accetta un divorzio consensuale, né vorrebbe presumibilmente ripudiare la moglie per le conseguenze sul piano politico e forse anche patrimoniale che il gesto avrebbe potuto avere, nonostante il fatto che la moglie, come abbiamo visto, sarebbe stata disposta a rinunciare ai beni preziosi che aveva recato in dote. Galsuinda infatti era figlia del re visigoto Atanagildo e sorella della moglie del re di Austrasia Sigeberto, Brunechilde. Abbiamo invece in Gregorio numerose testimonianze di separazione dei coniugi senza che si faccia accenno ad un atto formale di ripudio, per iscritto o alla presenza di testimoni come viene richiesto dalla Lex Visigothorum. Soprattutto dei re franchi, ma anche dell’aristocrazia barbarica, sono narrate vicende matrimoniali che ci appaiono, per così dire, disinvolte. Il re franco Theodebert, nonostante il fidanzamento con Wisigarda, sposa Deuteria, che era stata lasciata dal marito dopo aver avuto un figlio, ma poi dopo sette anni la abbandona, per sposare l’ex fidanzata, che poco     4   5   2 3

Greg. Tur., Hist. 1, 47. Greg. Tur., De mirac.sanct. Mart. 4, 11. Greg. Tur., Hist. 10, 44. Greg. Tur., Hist. 4, 28.

Matrimonio e separazione dei coniugi nella Francia di Gregorio di Tours

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dopo muore6. Il figlio del dux Beppolinus sposa una terza moglie avendone lasciate due ancora vive. Per la sua lussuria, come lo descrive Gregorio, egli aborre la vita matrimoniale, exorrens legitimum conubium, e passa da amori ancillari a successivi matrimoni7. Gregorio concede talora ampio spazio a casi in cui è la donna, di condizione regale o aristocratica, a prendere l’iniziativa della separazione per ragioni diverse, senza ricorrere però né alla giustizia ecclesiastica né a quella civile. Della vicenda della regina Galsuinda abbiamo parlato. La regina Basina abbandona il marito, re della Turingia, per sposare il re franco Childerico I, che era esule presso il re suo marito, dichiarando al nuovo marito che è venuta da lui perché lo considera l’uomo più valoroso e potente che conosca8. Questa storia è stata considerata non solo romanzata – e ne sono stati richiamati i paralleli con la successiva storia di Radegundis, principessa turingia, catturata come prigioniera di guerra e andata poi in sposa al re franco Clotario – ma addirittura simbolica dei rapporti fra regno turingio e regno franco. Sicuramente elementi di realtà ha la lunga storia della nobile Berthegundis, in cui il vescovo di Tours è personalmente coinvolto. Su istigazione della madre Ingitrudis9, che vorrebbe farla badessa del monastero femminile che ha creato a Tours, Berthegundis abbandona il marito semplicemente annunciandogli la sua scelta di castità ed invitandolo a tornare a casa ad occuparsi dei loro figli e della loro proprietà (regredere hinc et guberna res liberosque nostros)10. Nella storia di questa separazione ci sono interventi ecclesiastici che muovono in direzione diversa. Lo stesso Gregorio, quando la donna giunge a Tours, cerca di ottenere il suo ritorno dal marito, richiamando un canone ecclesiastico che condanna la scelta da parte della donna di abbandonare il tetto coniugale per una scelta religiosa di castità, se la convivenza matrimoniale è stata soddisfacente (si quis reliquerit virum et torum in quo bene vixerit). Il fratello invece della donna, che è vescovo di Bordeaux, le offre rifugio ed ospitalità quando Berthegundis, dopo un breve ritorno alla convivenza con il marito, abbandona ancora la sua casa. Viene coinvolto nella vicenda anche il re franco Gontram, che risiedeva ad Orléans, al quale si rivolge il marito accusando il vescovo di Bordeaux di avergli sottratto la moglie con le sue ancelle e di aver creato una situazione indecorosa per un sacerdote, di convivenza, che viene dichiarata adulterina, con ancelle altrui, come della sorella con i suoi servi. Anche il re non riesce ad ottenere nulla perché nel frattempo Berthegundis ha trovato rifugio nel monastero di Tours, dove resiste ad un ulteriore tentativo del marito di riprendersela. In questo episodio la donna riesce a resistere nel suo fermo proposito di separazione dal marito, dopo trent’anni di matrimonio, cercando la protezione di un vescovo e di un monastero. La questione non è discussa in un tribunale civile o ecclesiastico Greg. Tur., Hist. 3, 20. Greg. Tur., Hist. 9, 13. Greg. Tur., Hist. 2, 12. Cfr. Goffart 1988, pp. 210-211. Cfr. sul tema del rapporto madre-figlia in epoca merovingica, Hörmann 2006, p. 245 ss. 10   Greg. Tur., Hist. 9, 33.     8   9   6 7

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e Gregorio di Tours, come anche il re Gontram, intervenendo nella vicenda non lasciano intendere che la donna abbia gravi motivi che giustifichino la sua volontà di separazione, se non la scelta della castità. Anzi il re Gontram, richiamando la sua parentela con la donna, evoca al contrario la possibilità che essa si sia resa responsabile di qualche colpa durante la sua convivenza con il marito (si quicquam mali exercuit in domum viri sui ego ulciscar). Una vicenda in parte analoga è quella di Radegundis, la figlia del re della Turingia, presa prigioniera con il fratello dal re franco Clothario e poi divenuta sua moglie, che abbandona il re, dopo l’uccisione del fratello, e fugge per vivere una vita monastica e fondare un grande monastero femminile a Poitiers, resistendo ai tentativi del marito di riaverla con sé. Gregorio accenna in maniera fuggevole alle vicende di questa separazione, a differenza dalle biografie di Venanzio Fortunato e di Baudonivia, limitandosi a dire che, dopo l’uccisione del fratello, Radegundis, ad deum conversa, sceglie la vita monastica11. In questo silenzio si può forse leggere un certo imbarazzo da parte del vescovo di Tours nel giustificare la scelta della regina, dal momento che, nell’episodio che abbiamo richiamato di Berthegundis, egli si era espresso direttamente contro una scelta unilaterale di castità da parte di una donna sposata12. C’è infine la lunga e complessa storia di Tetradia, sposata al comes Eulalius, che, come Gregorio narra, si era reso colpevole di gravi maltrattamenti nei confronti della moglie e aveva scialacquato i beni di lei. Tetradia abbandona la casa, approfittando dell’assenza del marito, e progetta di unirsi al di lui nipote Virus, la cui moglie era morta. Questi temendo la vendetta dello zio, affida la donna al comes Desiderius, il quale, dopo la morte di Virus, essendo anch’egli vedovo, sposa Tetradia e con lei ha dei figli. Dopo varie vicende, sulle quali Gregorio si dimostra ampiamente informato, Tetradia viene giudicata da un tribunale composto di laici e chierici, sacerdotes et viri magnifici, e condannata alla restituzione al quadruplo dei beni che aveva recato con sé presso Desiderio13. Il suo secondo matrimonio viene considerato adulterio e adulterini sono giudicati i figli nati da esso. La donna però non subisce pene per il suo adulterio, né ritorna con Eulalius, ed anzi viene stabilito che, se avesse ceduto al marito i beni che era stata condannata a cedere, le sarebbe stato consentito di entrare in Arvernia e di godere dell’eredità paterna14. In un altro caso infine una donna di cui non viene fornito il nome, presso Parigi, è accusata di abbandonare il marito e di unirsi ad un altro uomo. Non viene mossa, almeno all’inizio della vicenda, un’accusa di adulterio. L’interesse del marito e della sua famiglia non è quello di ottenere una condanna pubblica o ecclesiastica della donna per adulterio ma piuttosto quello di restituire l’onore della   Greg. Tur., Hist. 3, 7. Cfr. Consolino 1988; Gäbe 1989.  Cfr. Joye 2005; Ead. 2012. 13   Greg. Tur., Hist. 10, 8. 14   Greg. Tur., Hist. 10, 8. 11 12

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famiglia macchiato dal comportamento della donna (ne stuprum hoc generi nostro notam infligat)15. Viene chiesto pertanto al padre della donna di convincerla a regolarizzare la sua situazione (idoneam redde filiam tuam). Il padre si impegna a dichiarare con giuramento sulla tomba di san Denis la non colpevolezza della figlia. Viene accusato di spergiuro e si accende un conflitto sanguinoso fra le due parti in causa. Anche per l’intervento del re e del vescovo di Parigi si giunge ad una riconciliazione fra le parti ed ad una loro riammissione nella comunione della chiesa. La donna viene chiamata in giudizio, non è detto se civile o ecclesiastico, ma si toglie la vita prima che il giudizio sia celebrato. Come abbiamo visto, con una relativa frequenza l’iniziativa della separazione dal coniuge viene presa dalla donna, ma si tratta di una fuga clandestina, non di un divorzio socialmente e legalmente riconosciuto, che ha poi bisogno di una serie di protezioni politiche o ecclesiastiche contro la reazione, spesso violenta, del marito e della sua famiglia. In ogni caso, quando si giunga ad un giudizio, vengono sempre riconosciuti i diritti patrimoniali e sui figli del marito. Bisogna, per avere una più precisa comprensione della condizione di uomo e donna nel matrimonio all’interno della società merovingia del VI secolo descritta da Gregorio di Tours, richiamare il fatto che era diffusa ed accettata, soprattutto per i re e le aristocrazie, una situazione di poligamia, non solo cioè la presenza di concubine, ma di mogli. È significativo il caso del re Clothario che aveva sposato Ingundis che, secondo Gregorio, amava unico amore, ma che poi, richiesto dalla moglie di trovare un marito adeguato per la sorella Aregundis, finisce con lo sposarla, giustificandosi con la moglie, e trovando la sua accondiscendenza, con il fatto che non aveva trovato un uomo migliore di sé stesso16. Il re Chilperico al momento di chiedere in moglie la visigota Galsuintha aveva parecchie mogli, plures uxores, che promette al padre di lasciare per sposarla17. Chariberto sposa una dopo l’altra due sorelle di umile condizione, figlie di un tessitore, e per questa ragione viene scomunicato dal vescovo di Parigi Germano18. È il momento ora di mettere a confronto le situazioni descritte da Gregorio di Tours con le situazioni previste dalla legge e quelle dei canoni della chiesa gallica contemporanea in materia di divorzio. Il Pactus Legis Salicae non riporta norme sulla questione del divorzio19. In territori che nel corso del secolo vengono acquisiti dai Franchi, e sui quali dunque si può presumere almeno una parziale continuità dei diritti barbarici precedenti, il divorzio è invece regolato, sia nelle leggi destinate ai sudditi barbarici, sia in quelle destinate ai sudditi gallo-romani. La Lex Burgundionum proibisce con grande durezza il divorzio femminile (si qua mulier maritum suum   Greg. Tur., Hist. 5, 31.   Greg. Tur., Hist. 4, 3. 17   Greg. Tur., Hist. 4, 28. 18   Greg. Tur., Hist. 4, 26. 19  Sul Pactus Legis Salicae, cfr. Ubl 2009; Poly 1993; Poly 2006. 15 16

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cui legitime est iuncta, dimiserit, necetur in luto)20 mentre, richiamandosi alla legge costantiniana riportata in CTh 3, 16, 1, la Lex Romana Burgundionum consente agli uomini il divorzio per i crimina di adulterio, maleficio e violazione di sepolcri21. Ma al di fuori di questi crimina, che sono soggetti ad una condanna penale, la legislazione burgunda non considera lecito lo scioglimento del vincolo nuziale per altri crimina, dunque per colpa della moglie, con le conseguenze patrimoniali che vi sono legate. La legge burgunda punisce tuttavia i mariti per un divorzio sine causa solo con un’ammenda pecuniaria a favore della moglie, consentendo di fatto la separazione intercorsa: il doppio della donazione nuziale più 12 solidi22. La Lex Romana Burgundionum consente, come abbiamo visto, il divorzio consensuale, mentre in caso di discordia dei coniugi, consente, sulla falsariga della legge costantiniana citata, un divorzio per crimina, in cui però per il divorzio da parte della donna, come nel precedente costantiniano, non viene contemplato il reato di adulterio del marito, che viene invece richiamato nella richiamata costituzione del 449 di Teodosio II. Nella Lex Romana Visigothorum emanata da Alarico II nel 506, un anno prima della sconfitta subita a Vouillé dai Franchi di Clodoveo, vengono riportate la legge costantiniana e quella del 421 di Onorio, che la segue nel Theodosianus, non, anche per ovvie ragioni cronologiche, quella di Teodosio II del 449, riportata nel Codex Iustinianus. L’interpretatio visigotica della legge costantiniana è sostanzialmente fedele al testo del Theodosianus, come nel caso della legge di Onorio23, ma è insolitamente dura nei confronti del marito che divorzi dalla moglie senza alcuna causa: in perpetuum solitarius remanebit. Nella Lex Visigothorum, una legge indicata come antiqua, risalente quindi presumibilmente alla codificazione di Leovigildo negli ultimi decenni del VI secolo, consente di fatto, come la Lex Burgundionum, il divorzio da parte del marito sine causa imponendo una sanzione puramente patrimoniale, la restituzione alla donna della donatio matrimoniale e di tutte le sue proprietà, e, come la Lex Burgundionum, richiama solo il divorzio da parte dell’uomo24. La successiva legge di Chindasvinth richiama la norma cristiana sul divorzio, accettando la separazione dalla moglie solo fornicationis causa, ma non facendo parola in questo caso della possibilità analoga di separazione da parte della donna, che molti autori cristiani richiamavano25. Aderente al testo costantiniano è anche sulla questione l’Edictum Theoderici, che più probabilmente è da attribuire al re ostrogoto26. 20   Lib. Const. 34. Cfr. Tac., Germ. 12, 1: «ignavos et inbelles et corpore infames caeno ac palude, iniecta insuper crate, mergunt». 21   Lex Rom. Burg. 21. 22   Lib. Const. 24, 2: «si quis uxorem suam sine causa dimiserit, inferat ei alterum tantum quantum pro pretio ipsius dederat et multae nomine XII solidos». 23   Brev. 3, 16, 1. 24   Lex Visig. 3, 6, 1. 25   Lex Visig. 3, 6, 2. Cfr. Neri 2014, pp. 189-210. 26   Sulla complessa questione della paternità dell’Editto di Teoderico, cfr. da ultimo Lafferty 2013.

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In un canone del concilio di Agde al quale parteciparono nel settembre 506 i vescovi delle otto province galliche sotto il controllo del re visigotico Alarico II, viene denunciata una situazione di abbandono delle mogli senza aver ottenuto da un tribunale ecclesiastico la condanna delle donne culpa graviore: chi ripudi la moglie senza una condanna da parte del vescovo è colpito dalla scomunica27. Questo canone potrebbe confermare la tendenza, che abbiamo rilevato nell’esame della testimonianza di Gregorio di Tours, ad una separazione da parte dell’uomo non solo senza una causa legalmente accettabile, ma anche senza una notifica formale del repudium. Gregorio, diversamente dalla legislazione barbarica contemporanea (lex Romana Burgundionum, lex Romana Visigothorum, lex Visigothorum, Edictum Theoderici), con l’esclusione della lex Burgundionum, non usa nemmeno i termini repudium/repudiare e designa in genere l’atto della separazione con il verbo relinquere. Le testimonianze giuridiche e canoniche che abbiamo richiamato, in parallelo con la testimonianza di Gregorio di Tours, potrebbero far pensare ad una diffusa difficoltà nel mondo germanico contemporaneo, non solo nella società merovingia, ad accettare limiti, con la sola eccezione della restituzione della donazione matrimoniale e della dote, alla possibilità dei mariti di lasciare la moglie per contrarre un nuovo matrimonio, senza dover provare una colpa da parte delle mogli, limiti che i legislatori tentavano di imporre richiamandosi soprattutto alla costituzione costantiniana del 331. La stessa cosa sembra valere anche per la formalizzazione, per iscritto o con testimoni, dell’atto di divorzio. La legislazione merovingia nel VI secolo, per quello che ne possediamo, non sembra aver intrapreso nemmeno questi sforzi. Una causa importante di separazione dei coniugi resta nel mondo germanico, come nel mondo romano, l’adulterio. Nella testimonianza di Gregorio di Tours l’accusa di adulterio è presentata in giudizio solo dall’uomo. Gregorio richiama solo un caso in cui l’accusa è mossa al marito, a Tournai, ma solo privatamente, dal fratello della donna e porta ad un conflitto che si conclude con l’omicidio del presunto adultero. L’accusa in giudizio è portata dal marito e comporta la condanna capitale della moglie giudicata adultera. Gregorio riporta nei Libri miraculorum due casi nei quali la donna, nonostante la mancanza di una confessione del delitto, viene condannata ad una pena capitale secondo una modalità particolare: viene gettata in un fiume, la Saona in un caso e il Rodano nell’altro, con una pietra molare al collo, ma miracolosamente si salva28. Questo genere di pena è stato interpretato, recentemente da Luce Pietri, come una modalità di ordalia, 27   Conc. Agath. a. 506, c. 25: «Hi uero saeculares, qui coniugale consortium culpa grauiore dimittunt uel etiam dimiserunt et nullas causas discidii probabiliter proponentes, propterea sua matrimonia dimittunt, ut aut illicita aut aliena praesumant, si antequam apud episcopos comprouinciales discidii causas dixerint et prius uxores quam iudicio damnentur abiecerint, a communione ecclesiae et sancto populi coetu, pro eo quod fidem et coniugia maculant, excludantur». 28   Greg. Tur., Libr. mirac. 68-69.

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la prova attraverso l’immersione in acqua fredda29. Tuttavia si può osservare che ad una persona gettata in un fiume con una pietra molare al collo non è data una possibilità anche minima di salvezza, mentre spesso, nelle testimonianze medioevali, coloro che vengono assoggettati a questo genere di prova, riescono a superarla e vengono assolti30. Quando lo stesso Gregorio di Tours narra che il vescovo Quirino fu gettato in acqua dai pagani con una pietra molare legata al collo, l’intenzione era evidentemente quella di ucciderlo, anche se poi miracolosamente il vescovo si salva, mentre, pure nelle Historiae, Gregorio racconta che Gundobado fece uccidere la moglie del fratello allo stesso modo31. L’immersione in acqua avviene in genere con mani e piedi legati, e, in caso di galleggiamento, l’imputato viene riconosciuto colpevole, in quanto respinto dall’acqua, in caso di affondamento, invece, viene riconosciuto innocente in quanto accolto dall’acqua, e tratto fuori. Nei casi descritti da Gregorio di Tours le cose vanno diversamente: la donna gettata nel Rodano galleggia (super aquas ferri coepit), e viene considerata innocente, mentre quella gettata nella Saona affonda e viene lasciata affogare. Quando i parenti della donna la ritrovano miracolosamente viva, mentre tutti credono che sia morta, la nascondono temendo che i giudici la facciano ancora immergere nel fiume. Il canone citato del concilio di Agde del 506 chiede che l’adulterio, come altre cause di divorzio, siano giudicate da un tribunale episcopale. Non ne abbiamo attestazioni in Gregorio di Tours. Per lo più, nella testimonianza di Gregorio le accuse di adulterio erano oggetto di conflitti fra le famiglie e si risolvevano talora con spargimenti di sangue. Una causa di separazione dei coniugi, sulla quale insiste particolarmente la chiesa merovingia nel VI secolo e la cui competenza viene riconosciuta alla chiesa anche dai re merovingi è l’incesto32. Un canone del concilio di Agde del 506 stabilisce, sotto pena di scomunica, il divieto di matrimonio con la sorella della moglie33, riprendendo un divieto sancito da una costituzione di Onorio e Teodosio II34, accolto e interpretato nel contemporaneo Breviarium Alarici35, con le differenza importante che il canone conciliare precisa che si tratta della sorella   Pietri 1995, pp. 475-508.  Cfr. Bartlett 1986. 31   Greg. Tur., Hist. 1, 35; 2, 28. 32  Cfr. Wood 1998; Shanzer 2002, pp. 406-408. In generale sulla proibizione dell’incesto in età romana, cfr. Moreau 2002; Puliatti 2001. 33   Conc. Agath. a. 506, c. 61: «Incestos uero nec ullo coniugii nomine praeualendos, praeter illos quod uel nominare funestum est, hos esse censemus: si quis relictam fratris, quae pene prius soror extiterat, carnali coniunctione uiolauerit; si quis frater germanam uxoris accipiat; si quis nouercam duxerit; si quis consubrinae subrinae que se societ (quod ut a praesenti tempore prohibemus, ita et ea quae sunt ante nos instituta non soluimus); si quis relictae uel filiae auunculi misceatur aut patrui, uel priuignae concubitu polluatur». Cfr. Fabritz 2009, pp. 64-65; Ubl 2008, p. 137 ss. 34   CTh 3, 12, 4 35   Brev. 3, 12, 3. 29 30

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della moglie sposata e abbandonata dal marito, relicta, non defunta, e che in esso manca il parallelo divieto del matrimonio della moglie con il fratello del marito defunto. Lo stesso canone inoltre considera incesto il matrimonio con la moglie del fratello, con la matrigna, con nipoti da parte di zii e cugini, oltre naturalmente ai casi più ripugnanti, di cui considera nefanda anche la sola menzione. Questi divieti vengono ripresi, con qualche variante, da una serie di concili gallici del VI secolo, dal concilio di Epaon in territorio burgundo nel 51736, da quello di Orléans del 53337, da quello nella stessa città del 53838, che per i neoconvertiti concede che il coniugio non debba essere sciolto, in considerazione della loro ignoranza della legge della chiesa, e da quello di Clermont del 53539. Nel decreto di re Childeberto, più probabilmente Childeberto I (511-558)40, aggiunto al Pactus Legis Salicae, il sovrano riconosce alla chiesa la prerogativa di convincere alla separazione coloro che sono uniti da questo genere di coniugio, e di fronte al loro rifiuto, di irrogare la scomunica, riservando però alla pena capitale l’unione con la moglie del padre, cioè la matrigna41. La Lex Burgundionum, invece considera l’incesto esclusivamente un reato penale, senza richiamare un giudizio del tribunale ecclesiastico, ma condanna l’uomo solo ad una sanzione patrimoniale, ad una multa di 12 solidi, e la donna a diventare schiava regia42. Il re Chilperico, nella narrazione di Gregorio di Tours, condanna il matrimonio del figlio Meroveo con la moglie dello zio paterno Brunichilde, celebrata nel 576, come contrario alle leggi del regno ed ai canoni ecclesiastici43 e rimprovera al vescovo di Rouen di aver accettato questo coniugio venendo meno alle proibizioni sancite dai canonum statuta44. La legislazione del regno alle quali il re fa riferimento potrebbe essere costituita sostanzialmente dal decreto di Childeberto I, che abbiamo richiamato poc’anzi, che condanna come incestuoso il matrimonio con la moglie, non però   Conc. Epaon. a. 517, c. 30.   Conc. Aurel. a. 533, c. 10. 38   Conc. Aurel. a. 538, c. 11. 39   Conc. Claremont. a. 535, c. 2. 40  Childeberto II era il figlio di Brunechilde e difficilmente avrebbe potuto condannare come incestuoso il passato rapporto della madre Brunechide, che era stata moglie dello zio paterno di Meroveo Sigisbert, con appunto Meroveo (uxorem patruo). 41   Pact. Leg. Sal. (Eckhardt), Cap. VI, 1, 2: «et de praeteritis coniunctionis qui incesti esse videntur per praedicatione episcoporum iussimus emendari. Qui vero episcopo suo noluerit audire ex, communicatus fuerit perenne conditione apud Deum susteneat et de palatio nostro sit omnino extraneus et omnes res suas parentibus legitime admittat qui noluerit sacerdotis sui medicamenta sustinere». 42   Lib. const., 36. 43   Greg. Tur., Hist. 5, 2: «Haec audiens Chilpericus, quod scilicet contra fas legem que canonicam uxorem patrui accepisset, valde amarus dicto citius ad supra memoratum oppidum dirigit». 44  Greg. Tur., Hist. 5, 18: «Cui rex ait: “Quid tibi visum est, o episcope, ut inimicum meum Merovechum, qui filius esse debuerat, cum amita sua, id est patrui sui uxore, coniungeres? An ignarus eras, quae pro hac causa canonum statuta sancsexissent?” [sic]». 36 37

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la vedova, dello zio paterno45. Le leggi ecclesiastiche, come i canoni del concilio di Clermont del 535 e di Orléans del 538, consideravano incestuoso il rapporto con la moglie ripudiata, relicta, dello zio paterno, anch’essi non con la vedova, com’era nel caso di Brunechilde, il cui marito Sigisbert era morto46. Chilperico fa dunque un’allusione non corretta alla legislazione ecclesiastica, come forse anche a quella statale, probabilmente in maniera intenzionale, per sostenere le sue ragioni contro il matrimonio del figlio. La successione cronologica dell’interdizione potrebbe dunque essere ricostruita in questo modo: decreto di Childeberto I (emanato nel 20 anno di regno, dunque nel 531) – concilio di Clermont 535 e concilio di Orléans del 538 – richiamo alla legislazione statale ed ecclesiastica sull’incesto da parte di Chilperico nel 576. Bibliografia Bartlett 1986 = R. Bartlett, Trial by fire and water. The medieval judicial ordeal, Oxford 1986. Consolino 1988 = F.E. Consolino, Due agiografi per una regina: Radegonda di Turingia fra Fortunato e Baudonivia, in «Studi storici» 29, 1988, pp. 143-159. Fabritz 2009 = P. Fabritz, Sanatio in radice. Historie eines Rechtinstituts und seine Beziehung zum sakramentalen Eheverständnis der katholischen Kirche, Bochum 2009. Gäbe 1989 = S. Gäbe, Radegundis, sancta, regina, ancilla. Zum Heiligkeitsideal der Radegundisviten von Fortunat und Baudonivia, in «Francia» 16, 1989, pp. 1-30. Goffart 1988 = W. Goffart, The narrators of barbarian history (A.D. 550-800), Princeton 1988. Heinzelmann 1994 = M. Heinzelmann, Gregor von Tours (538-594), Zehn Bücher Geschichte. Historiographie und Gesellschaft im 6. Jahrhundert, Darmstadt 1994. Hörmann 2006 = J. Hörmann, Die Historiae Gregors von Tours als Quelle für Geschlechterrollen und Geschlechterbeziehung im frühen Mittelalter dargestellt am Verhältnis der Eltern zu ihren Söhnen und Töchtern, in C. Ulf, R. Rollinger (eds.), Frauen und Geschlechtern. Bilder, Rollen Realitäten in den Texten antiker Autoren zwischen Antike und Mittelalter, Wien-Köln-Weimar 2006, pp. 245-276.

  Pact. Leg. Sal. (Eckhardt), Cap. VI, 1, 2: «decrevimus ut nullus incestuosum sibi sociari coniugio hoc est nec fratri suo uxorem, nec uxori suae sororem nec uxorem patruo aut parenti consanguineos». 46   Conc. Aurel. a. 538 c. 11, parla del divieto di matrimonio con la relictam avunculi vel patruo; cfr. Conc. Claremont. a. 535, c. 2. 45

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STRANIERO NEL MONDO STRANIERO AL MONDO

Alba Maria Orselli

La xeniteia del monaco tardoantico tra etica e antropologia

Sono numerose (è lapalissiano dichiararlo) le fonti testuali del Tardoantico cristiano attinenti al tema della ξενιτεία, al termine greco facendosi imperfettamente corrispondere il latino peregrinatio, con le quali il percorso di costruzione di questo munusculum per Enrico Morini mi ha condotta a confrontarmi – o a riconfrontarmi. Fonti tutte, per il mio intervento, greche e latine; però nella mia piena e impotente consapevolezza che uguale attenzione dovrebbe essere riservata, per un tale ambito tematico, a fonti a quelle coeve, redatte in altre lingue in uso nell’ecumene gravitante sul Mediterraneo, lo spazio dello “stagno” evocato dal Socrate platonico. Tra queste altre lingue, le varietà del copto, per i cui testi non poco ma solo in parte ci soccorrono le parafrasi o i corrispondenti in greco o in latino, nonché le traduzioni moderne nelle più accessibili lingue europee; e le lingue delle culture di Siria e Mesopotamia. Idiomi tutti di opzioni monastiche tra le più antiche e tra le più considerate nel dibattito storiografico. Non a caso la riflessione pionieristica elaborata nel 1968 da Antoine Guillaumont, scegliendo di riferirsi nel suo raffinato francese al sistema ideologico-esperienziale della ξενιτεία con la categoria del dépaysement1 si articolava anche su un nucleo di fonti siriache, subito avendo cura di sottolineare il gioco di rinvii e corrispondenze tra la famiglia lessicale greca della ξενιτεία e i suoi calchi siriaci esplicitamente designanti l’antico monaco cristiano e il suo monachesimo2. Pur da lui assunto nel titolo stesso del suo saggio, il termine dépaysement   Guillaumont 1968 = 1979. Il saggio del Guillaumont si apre con la citazione di un titolo-domanda di V. Monod: «Les voyages, le déracinement hors du milieu natal constituent-ils un des éléments déterminants de la conversion religieuse?» (Monod 1936). 2   Guillaumont 1979, p. 90. Insistenti le considerazioni sul punto specifico del più recente Berti 2010, specialmente pp. 149 e 156. Anche poi nel mio Orselli 2015, cfr. pp. 43-44, io stessa ragio1

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appariva al Guillaumont, così come l’analogo expatriation o il più complesso exil volontaire, non realizzare a pieno gli spessori di quella «notion essentielle de la doctrine ascétique du monachisme chrétien ancien» cui i greci hanno dato il nome di ξενιτεία: significante nella letteratura monastica il passo intrapreso dal monaco che sulle orme del genesiaco Abramo lascia la sua patria per andare a vivere in un paese in cui si sentirà sempre uno straniero3. Già prima Hans Fr. von Campenhausen aveva sintetizzato quel percorso nei termini di Asketische Heimatlosigkeit4. Seguendo, ipotizzo, il filo rosso – non sempre né facilmente rintracciabile ma riconducibile alla eredità aristotelica di Polit. 1324a. 15-16 –, del confliggere di due diversi modelli socioantropologici, quella antica notion essentielle ha potuto anche ora riproporsi alla riflessione per secoli del tutto prossimi ai nostri, con la persistenza della sua forza tradizionale ed esplicitando le sue implicazioni eticamente e socialmente contraddittorie, che non mi sono apparse facilmente avvertibili dietro le tensioni pedagogico-catechetiche dei testi tardoantichi; collocandosi al centro di preoccupazioni sociologiche della attualità. Ci si è di recente interrogati, in una attenta analisi del nuovo o rinnovato monachesimo occidentale dei secoli XIX-XXI, un’analisi che ha ben chiari i quadri storici di base, sulle «différentes valences contemporaines de l’extramondanéité monastique», e ci si è chiesti se quest’ultima addirittura non comporti una svalutazione della vita stessa cristiana in quanto tale nel mondo, arrivando a inquietarsi con la domanda «Pourquoi quitter le monde social où Dieu se révèle?»5. Pochi anni addietro, un monaco del nostro tempo, il superiore dell’attuale abbazia di Tournay, aveva anch’egli riconsiderato il tema della ricercata solitudine monastica – da molto tempo mi chiedo avendo in mente la definizione no sulla capacità del patrimonio lessicale siriaco di rinviare ai fondamenti teologico-antropologici del monachesimo cristiano, in particolare all’idea della unità-unicità dell’uomo monaco, univocamente orientato con la sua “semplicità” a realizzarsi quale immagine dell’unica sostanza divina. In un’ottica generale però molto sensibilmente attenta alle ricadute delle articolazioni linguistiche sulla dimensione della storia religiosa, cfr. Patlagean 1993. 3   Guillaumont 1979, p. 90. 4  Cfr. von Campenhausen 1930. Nella storiografia più vicina a noi il saggio del von Campenhausen è citato, con quello stesso del Guillaumont, come auctoritas impreteribile. Il Guillaumont da parte sua (Guillaumont 1979, p. 90 n. 2), dopo aver citato il saggio del von Campenhausen, rinviava alle pagine specifiche sul tema della grande storiografia tradizionale, da Reitzenstein a Heussi a Hausherr a Nagel. I nomi del von Campenhausen e del Guillaumont compaiono anche tra i suggerimenti di Colombás 1974 (tr. it., p. 135). I medesimi rinvii sono ora in d’Ayala Valva 2017, p. 295, n. 494; anche, a p. 121 n. 92 sono citati la classica monografia di Malamut 1993, e le pp. 147-159 dell’importante saggio di Th. Pratsch (Pratsch 2005). 5   Cito dalla intrigante monografia di Hervieu Léger 2017, pp. 385-399; una monografia della quale ho discusso nel mio intervento al VI Convegno Internazionale De re monastica, Roma-Subiaco, 9-11 giugno 2017, Il tempo dei monaci, in corso di stampa: A.M. Orselli, Il tempo del monaco fra metastoria e storia. Della monografia della Hervieu Léger 2017 segnalo anche l’attenzione, p. 412, al tema in stretta relazione con il nostro della clausura come “soglia” e come “muro di difesa” tra una e altra dimensione esistenziale. È anche questo tema per me di speciale significato, cfr. Orselli 2016.

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isidoriana: solitudine o singolarità? – nella sua insopprimibile dialettica con la urgenza della κοινωνία6. Il patrimonio di riflessioni delle mie fonti tardoantiche ha da parte sua ben chiaro che quel dépaysement, quella expatriation, è solo la rinuncia primaria, preliminare alla messa in atto di un complesso graduato di comportamenti cui, forse più spesso ancora che con la terminologia della ξενιτεία, ci si riferisce in greco con la famiglia lessicale della ἀποδημία, nella consapevolezza che il δήμος cui si allude non è quello di appartenenza politica del soggetto, perché siamo nell’ambito di un processo interiore pur con tutte le sue ricadute pratiche7, e che dietro quella famiglia lessicale c’è anche tutto uno spessore comunicativo incardinato nel greco del Nuovo Testamento8. Si osserva poi anche il ricorso al sistema idiomatico della φυγή, che subito ci viene incontro da uno degli Apoftegmi più spesso citati, nelle sue tradizioni greche come in quelle latine, l’Apoftegma celeberrimo di Arsenio: φεῦγε, σιώπα, ἡσύχαζε9, che ricostruisce il percorso perfettivo dell’asceta dall’abbandono del proprio contesto geopolitico alla conseguita capacità del silenzio in quanto dominio della lingua sino al raggiungimento della ἡσυχία, lo stato irrinunciabile per il seguace di un alto profilo monastico. Dove però gli spazi semici di φυγή, φεύγειν possono rinviare non semplicemente ad un allontanamento volontario, ma alla opzione per un vero e proprio “esilio” («l’exil volontaire» cui alludeva il Guillaumont), anche fondata a partire da un vero e proprio esilio politico, come si interpreta essere stato il caso di Pietro l’Ibero10. Se ha ragione Giorgio Agamben nel proporre una tale lettura per il passo conclusivo delle Enne  Chauvelot, Migliorino 2011, pp. 40-51.   Cito due voci autorevoli della ideologia ascetica tardoantica, Evagrio il Pontico e Diadoco di Foticea. Cfr. Evagr. Pont., Traité pratique ou le moine (Λόγος πρακτικός), edd. A. Guillaumont, Cl. Guillaumont, Paris 1970 e 1971 (Sources Chrétiennes 170-171), 61, p. 642: l’intelletto se non si corregge dall’interno non può avanzare né «ἀποδημεῖν τὴν καλὴν ἐκείνην ἀποδημίαν» che gli consente di pervenire «ἐν τῇ χώρᾳ τῶν ἀσωμάτων»; Evagr. Pont., À Euloge, un testo noto a Guillaumont ancora solo nella tradizione siriaca (cfr. Guillaumont 1979, p. 91 n. 3), ora però edito nella redazione greca: ed. Ch.-A. Fogielman, Paris 2017 (Sources Chrétiennes 591), con puntuali osservazioni sul clima culturale a pp. 48 e 53 ss. dell’introduzione: (con alternanza delle scelte terminologiche) 1, p. 272, la ξενιτεία è la prima dei «λαμπρὰ ἀγωνίσματα», specie quando «πρὸς ταύτην καὶ μόνος ἐκδημοίης πατρίδα, γένος ὕπαρξιν ἀθλητικῶς ἀποδυόμενος»; particolarmente suggestiva, 14, p. 370, la dialettica interna al cammino verso la vera patria di «πρακτικὴ ἐκδημία καὶ γνωστικὴ ἐνδημία»; Diad. Phot., Oeuvres spirituelles, ed. E. des Places, Paris 1997 (Sources Chrétiennes 5ter) usa esclusivamente le formule connesse con ἐνδημία / ἐκδημία, cfr. XIV, p. 91, XXXVI, p. 105, LVII, p. 117. 8   Cfr. 2 Cor 5,6; Hbr 11,13; 1 Pt 2,11. 9   Apophtegmata Patrum, Collezione alfabetica, Arsenio 2,46 in PG 65, col. 88C, cfr. la versione latina in PL 73, col. 801A; anche Collezione sistematica: Les Apophtegmes des Pères Collection systématique, ed. J.-Cl. Guy, vol I, Paris 1993 (Sources Chrétiennes 387), II, 4, p. 124; anche II, 15, p. 132 e 18, p. 134. La «φυγὴ τοῦ σώματος» come elemento definitorio della ἀναχώρησις si incontra in Evagr. Pont., Traité pratique, edd. A. Guillaumont, Cl. Guillaumont, cit., p. 618. 10  Cfr. Perrone 2008. Non toccano la nostra angolatura tematica le fini analisi di Strano 2007; Strano 2018. 6 7

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adi plotiniane (VI, 9-11): «questa è la vita degli dei e degli uomini divini e beati (i filosofi scil.), distacco dalle restanti cose di quaggiù, vita che non si compiace più delle cose terrene, esilio (φυγή) di un solo presso un solo»11. Il riferimento plotiniano all’«esilio di un solo presso un solo», un esilio che si consuma tutto nella dimensione della interiorità, ci facilita la comprensione di un atteggiamento che paradossalmente potrebbe a una prima lettura apparirci di segno opposto rispetto alla tensione allo spaesamento tradizionalmente inteso e con ogni evidenza messo in pratica: è la risoluzione iniziale dell’Antonio di Atanasio, sull’onda di una consolidata tradizione filosofica ellenistica, di προσέχειν ἑαυτῷ12; cui mi sembra corrispondere bene, nel latino di Gregorio Magno, la scelta del giovane Benedetto di habitare secum13. Il moltiplicarsi di tali possibili spessori semici – cui altri, non meno significativi, dovranno aggiungersene, come si verificherà nelle pagine successive – induce a concordare con l’opzione iniziale del Guillaumont quando non ritiene perfettamente adeguate a rendere ξενιτεία espressioni come dépaysement, expatriation, exil volontaire; aggiungerei errance, la parola che Elisabeth Malamut sceglieva nel 1993, e che Jean-Marie Sansterre avrebbe fatto propria nel 2000 per designare un percorso storico che è «l’essence même du monachisme à l’origine»14. Un fenomeno storico che ci si disegna come destino specifico del monaco bizantino, un percorso che è «s’exiler du monde clos des villes et des villages», ἔξω τειχῶν (i τείχη essendo il segno urbico delle strutture fisiche come dell’organizzazione di vita), «quitter sa patrie pour aller au loin et se retrouver inconnu et étranger sur une route d’aventure»15. Quel «voyage à part» così definito anche da Jacques Biarne16 che mettono in pratica donne e uomini della pars Occidentis non meno che della pars Orientis17.Quel viaggio che si vede iscritto, nella lunga durata, nell’etica di sag Cfr. Agamben 2014, pp. 298-304.  Athanas. Vita Antonii, ed. G.M. Bartelink, Paris 1994 (Sources Chrétiennes, 400), 3, 1, p. 136; anche con il medesimo significato 3.2, ibid. Fr. S. Pericoli Ridolfini, nella sua troppo spesso obliterata monografia Alle origini del monachesimo. Le convergenze esseniche (Pericoli Ridolfini 1966), p. 134 n. 26 rinviava a uno specifico testo di Giamblico. 13  Greg. M., Dial., edd. S. Pricoco, M. Simonetti, Storie di santi e di diavoli, Milano 2005-2006, II, 3.5, vol. I, p. 118. 14   Malamut 1993, p. 167. Inoltre Sansterre 2000. 15   Mi piace citare un testo latino tra i più autorevoli, dove ritengo nessun particolare sia casuale, ma tutto si iscriva in una costruzione coerente e tradizionale: Greg. M., Dial., edd. S. Pricoco, M. Simonetti, cit., III, 14.4, vol. II, p. 54. Il servo di Dio, cioè il monaco, Isacco, venuto dalla Siria a Spoleto, dopo avere miracolosamente liberato un energumeno è attorniato dai fedeli che lo vogliono loro ospite, offrendogli ricche donazioni, anche «ad construendum monasterium»; ma Isacco, senza accettare, «egressus urbem non longe desertum locum repperit ibique sibi humilem habitaculum construxit». 16   Biarne 2000, p. 371. 17   Per una presentazione recente di questo ricco ma non contraddittorio paesaggio ascetico mi permetto di rinviare alla mia lezione spoletina, Orselli 2017, in particolare alle pp. 91-97, 101-108. 11 12

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gi e maestri di culture religiose altre, seppure contermini a quella cristiana: il rabbi pio rappresentato come giusto errante dell’ebraismo tardoantico e medievale18, lo cheik musulmano di epoca mamelucca che peregrina alla ricerca del maestro in grado di rivelargli la sua identità spirituale19. È lungo questi percorsi che la greca ξενιτεία si incontra, però senza coincidenze necessarie, con la latina peregrinatio, afferente a un idioma che non è solo letterario e sociale (quello della definizione di Isidoro, Etym., X, 215: «peregrinus longe a patria positus sicut alienigena»), ma anche giuridico: evoco la figura istituzionale del praetor peregrinus con la sua capacità giurisdizionale specificamente destinata. Ed è nell’ambito del monachesimo cristiano latinofono tardoantico e altomedievale che ideologia e lessico della peregrinatio, in quanto itineranza ascetica che è autospaesamento, appaiono aver trovato il più largo spazio, a partire dall’anelito primitivo (che fu dei ceti dirigenti della fine del IV e della prima metà del V secolo) ad abbandonare famiglia e patria per raggiungere i luoghi che custodiscono le tracce memoriali e fisiche della storia della Redenzione, quelli che da allora si sono chiamati i Luoghi Santi. Quanto però al vocabolario e alle lingue stesse delle fonti che ci informano sulla sostanza dei comportamenti resta difficile e tanto più per i secoli del Tardoantico tracciare linee precise di demarcazione, all’interno di una cultura linguistica complessa, mentre restano le corrispondenze delle scelte e delle realizzazioni di forme diverse di πολιτεία. Di itineranti illustri come Paola e le sue compagne siamo informati dall’epistolario latino di Girolamo; dell’altrettanto illustre Melania ci informa il βίος greco attribuito a Geronzio (BHG 1241); il peregrinare nel VII secolo di Gregorio che sarà infine vescovo della nativa Agrigento, da una costa all’altra del Mediterraneo e sino a Costantinopoli e ritorno ci è minuziosamente descritto nel suo βίος (BHG 707), ed è nel βίος (BHG 2366z) che seguiamo il cammino di Fantino il Giovane (X secolo) da una sponda all’altra dell’Adriatico, poi dell’Egeo, dalla sua Italia che non a caso, credo, è un’Italia grecanica, a Tessalonica. Alla memoria di queste itineranze, afferenti all’ambito della Δύσις anche quando attestate in lingua greca, aggiungo la citazione di un itinerario che, pur toccando anche Roma, si sviluppa nei territori della Pars Orientis dell’ecumene bizantina: è quello di Basilio, che poi si chiamerà Biagio (BHG 287), che dalla nativa Amorion situata nel sud-est dell’Anatolia centrale si dirige a Costantinopoli, poi con un difficile percorso per mare e sui flutti del Danubio si attesta in Bulgaria, giungendo poi sino a Roma; Sottolineo come prima di arrivare a dedicare un’attenzione specifica al caso di Gregorio il Decapolita (Malamut 2004), la Malamut (Malamut 1993, passim) privilegiava l’esempio di Alessandro l’Acemeta, la cui storia è «d’abord, celle de l’alternance entre la péregrination et la stabilité». Per il βίος di Alessandro l’Acemeta si rinvia al testo greco (senza numero in BHG) con traduzione latina, ed. E. De Stoop, in PO 6/5 n. 30, Paris 1911 = Turnhout 2003. 18   Baumgarten 2001 (tr. it. 2007), p. 78 ss. 19  Jeoffroy 1995, p. 91.

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partitone viaggia con tappa a Metone nel Peloponneso per approdare di nuovo a Costantinopoli, al Monastero di Studios; di lì si recherà all’Athos tornando poi definitivamente a Costantinopoli20. Volendo però restringerci per ora alle fonti della Pars Occidentis, anche in questa i raggi delle destinazioni appaiono allargarsi nel segno di un progetto di vita che non muta. Nel V secolo Giovanni Cassiano, latinofono originario della Scythia Minor e familiarizzato con il monachesimo in Siria, si sposta nel Mediterraneo dagli insigni insediamenti monastici del Basso Egitto sino a Marsiglia, ed evocando la vocazione di Abramo sottolinea che “uscire” non è solo la rinuncia ai beni del mondo ma alla «omnis memoria mundi huius»21; un’aspra anacoresi nel deserto conduce Onorato con il fratello Venanzio ad approdare infine a quella Lerinum che la sua fondazione monastica trasformerà in un’«isola dei santi»22. La ricerca di quella che Cassiano definisce la «desiderata secedentibus sanctis solitudo»23 non appare aver condotto in Occidente a paradigmi estremi di isolamento ascetico, quali si collocano, in fonti ellenofone, in una geografia ancora intracosmica ma ormai “altra”. Li praticano gli «eremiti assoluti», che secondo l’insegnamento di Enrico Morini si spingono a dimorare in regioni oltre i limiti dell’ecumene, all’orizzonte dell’universo, alle porte del paradiso terrestre24. L’esistenza per quanto a noi nota di un Colombano si svolge tutta all’insegna dell’ideale della peregrinatio, ideale assoluto, funzione ed evidenza di una esigenza antropologica che supera i limiti non degli spazi ma della stessa esistenza terrena dell’uomo25. E però, nonostante tutto, Colombano è visto ergersi di fronte ai re, presentandosi come vir Dei26. Non mi soffermerò a proporre esemplificazioni dell’ideale e della pratica della peregrinatio dalle Vitae di Colombano stesso, di Gallo e dei primi abati bobiensi; mi limito a segnalare in nota pochi accenni al tema, non troppo banali, spigolati nelle agiografia latine di età merovingia e protocarolingia27.   Malamut 1993, pp. 258-260.  Io. Cass. Conl. III, ed. E. Pichéry, Paris 1955 (Sources Chrétiennes 42), 4 e 6, pp. 142 e 145. 22   Su questo da ultimo Orselli 2017, pp. 114-120. 23  Io. Cass. Conl. XI, ed. E. Pichéry, Paris 2005 (Sources Chrétiennes, 54 bis), 3.2, p. 194. 24   Morini 2008. 25  Cfr. Columb. Instructio VIII, ed. G.I.M. Walker, Dublin 1952 (Scriptores Latini Hiberniae II), 2, p. 96: «quasi peregrini semper patriam suspiremus […] (dobbiamo sempre riflettere sulla morte) quia sumus mundi viatores et peregrini». 26  Cfr. Diem 2007, in particolare pp. 524, 530, 531, 541, 544. 27  Cito Vita Eptadii (BHL 3576), ed. Br. Krusch, in MGH, Script. Rer. Mer. III, Hannoverae 1896, 8, p. 189; Vita Iohannis Reomaensis, ed. Krusch, ivi, 2, p. 507; Vita Menelei (BHL 6918), ed. W. Levison, in MGH, Script. Rer. Mer. V, Hannoverae et Lipsiae 1910, I.4, p. 138; Vita Fridolini (BHL 3170), ed. Krusch, ivi, 6, pp. 357 s.; Vita Condedi (BHL1907), ed. Levison, ivi, 1, p. 646; Vita Gregorii ab. Traiectensis (BHL 3680), ed. O. Holder-Egger, in MGH, SS. XV/1, Hannoverae 1887, 2-4, pp. 67-69. Vita Willibaldi (BHL 8931), 3-4, ivi, pp. 90-92; Vita Albarti (BHL 218), ed. W. Levison, in MGH, Script. Rer. Mer. VI, Hannoverae 1913, 5, p. 22. Da quest’ultima agiografia tarda (il protagonista si data all’inizio del secolo VIII, la composizione del testo è dal Levison collocata alla metà 20 21

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Certo le barriere isituzionali, statuite o consuetudinarie, vengono precisandosi dalla fine del Tardoantico: il Sansterre ne ha riassunto il percorso quanto alla peregrinatio latinofona (da lui senz’altro tradotta come errance), però non senza la cautela di rilevare che anche a Bisanzio, come nelle più larga misura in Occidente, sia pure con minore «acuité, […] également des voix s’élevèrent pour condamner cette pratique»28. Del contributo del Sansterre mi sembra poi particolarmente opportuna e scrupolosa la precisazione che, scontati le dure prese di posizione di RM I, 13-73, e di RB I, 4-11 contro i gyrovagi (termine non segnalato prima di RM), e il carattere soggettivo della distinzione tra il vagabondaggio e la peregrinatio, Benedetto non aveva condannato in termini assoluti la itineranza monastica, giungendo ad ammettere per altri monaci che non fossero i suoi propri ciò che però a questi ultimi restava tassativamente interdetto29. Ipotizzo che il processo di consolidamento istituzionale della sedentarizzazione cenobitica non abbia tolto ai monachi peregrini dell’Occidente – la definizione di Arnold Angenendt per Pirmino, Sturmi, Willibrordo, Bonifacio30 parendomi quasi antonomasticamente estensibile a gran parte dei flussi monastici, in particolare iroscotti e iro-franchi dei secoli VIII-IX, ma ancora a quelli di X e XI – l’autocoscienza del rapporto con le origini di cui il ricordo di Abramo ci appare uno dei denominatori. Lo suggeriscono, dopo le Vitae del gruppo di Colombano, tante pagine della Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda, in cui trascorrono monaci e gruppi di monaci di questa o quella provenienza insulare, monaci attivi nella missione evangelizzatrice e normalizzante, che sono detti essersi fatti esuli «pro aeterna patria», essere dediti a «peregrinam ducere vitam», capaci di voler ritornare «ad dilectae locum peregrinationis» dove peregrinatio correttamente si rende in italiano come “esilio”31. Neppure in questa sede mi sottraggo alla tentazione di iscrivere – seppure con i dovuti distinguo, che coglierei soprattutto nella diversa preoccupazione missionaria – nell’immaginario religioso dei monachi peregrini il patrimonio di testi che conosciamo come Navigatio Sancti Brendani, con l’errare del gruppo di Brendano per isole remote che si rivelano cetacei, con il suo approdare al monastero del silenzio, del XII), estraggo un’annotazione che mi appare felicemente riassuntiva: Albarto, con il coepiscopo e probabilmente fratello carnale Erardo, lasciano tutto, anche la patria e le sedes proprias, «non tam de regione in regionem pedum passibus progredientes, quam de regione in regionem gradibus virtutum proficientes». Sottolineo che nelle fonti qui citate (l’elenco non è certamente esaustivo) compare con regolarità il riferimento alla migrazione di Abramo, della quale il Guillaumont (Guillaumont 1979, p. 94) sottolineava la centralità per il tema, a partire dalla riflessione dei trattati filoniani. 28   Sansterre 2000, p. 221 con rinvio anche alla voce di Talbot 1991. 29   Sansterre 2000, p. 220. 30   Angenendt 1972. 31  Cfr. Beda, Historia ecclesiastica gentis Anglorum (Storia degli Inglesi), ed. M. Lapidge, tr. it. P. Chiesa, 2 voll., Milano 2010, III, IV, 1-2, vol. II, pp. 24-26, V, 1, p. 28, XIX, 7-8, p. 92, XXVII, 5, p. 144; IV, IV, pp. 186-188; V, IX, 1 e 4, pp. 358 e 362 («luogo del suo amato esilio», p. 363), X, 1-2, pp. 362-364, XIX, 2-10, pp. 410-420.

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spettrale perché già proiettato, con la sua perfetta κοινωνία, verso la dimensione di un altro mondo32. E però al di là delle petizioni di principio e delle formule letterarie neppure i monachi peregrini possono sottrarsi al richiamo sempre più pressante della stabilitas: come suggeriscono le Vitae studiate da Angenendt33 e i testi stessi di Beda cui ho fatto riferimento, i monachi peregrini finiscono molto spesso con l’approdare a monasteri, già esistenti o da loro stessi fondati, e ad ogni modo a forme di ritiri ascetici che sono in terre, queste sì, loro nativamente straniere. Si coglie così una dialettica che è molto più antica del monachesimo insulare e britannico, e del VI e VII secolo occidentale. È la dialettica fatta esprimere con forza già da Antonio. Nella scrittura di Atanasio, Antonio è presentato rivolgersi agli ascoltatori αἰγυπτιακῇ φωνῇ (affiancato per il greco da un interprete, forse Cronio), e aprire con il tema ormai tutto monastico della necessità di non rivolgersi indietro; «(la virtù spirituale non è lontana da noi). ῾´Ἔλληνες μὲν οὖν ἀποδημοῦσι καὶ θάλασσαν περῶσιν (cfr. Dt 30,13), ἵνα γράμματα μάθουσιν, ἡμεῖς δὲ οὐ χρείαν ἔχομεν οὔτε ἀποδημίας διὰ τὴν βασιλείαν τῶν οὐρανῶν οὔτε περᾶσαι θάλατταν διὰ τὴν ἀρετήν (perché il regno di Dio è dentro di voi)»34. Si osservi l’assenza del termine ξενιτεία cui si sostituisce ἀποδημία. Il quadro d’insieme ci si dispiega dunque sin dai testi più antichi, e da quelli stessi in lingua greca, cui ho inteso ricondurmi con la citazione della Vita Antonii, forse meno compatto di quanto si potrebbe ipotizzare se ci si allinei alla molto diffusa opinione che la ξενιτεία, in quanto autoestraniazione da luoghi e da contesti affettivi e sociali, sia in realtà indiscussa nella teoria e linearmente sempre riattuata nella pratica del monachesimo tardoantico. Il patrimonio degli Apoftegmi greci e latini editi a quella teoria e a quella pratica non appare infine riservare un troppo largo spazio, se non per riproporre scontate dichiarazioni generiche, «ξενιτεία (è) ἐκδημῆσαι πρὸς τὸν κύριον», e la ξενιτεία è il fondamento, il primo dei combattimenti ascetici35. Il filo della genericità si riavvolge nella lunga durata nella consapevolezza dei Padri di Gaza (VI secolo) che «ξένοι ἐσμὲν ξένοι γενώμεθα», qui verosimilmente a partire da uno sfondo reale di difficoltà di comunicazione con un destinatario che ignora il greco36 e scrive solo 32  Cfr. Navigatio Sancti Brendani, Alla scoperta dei segreti meravigliosi del mondo, cur. G. Orlandi, R.E. Guglielmetti, Firenze 2014, in particolare, per i temi citati, X, pp. 26-28 e XII, pp. 38-50. 33  Cfr. Angenendt 1982, pp. 57-63, 69-72. Cfr. anche Sansterre 2000, nota 14, p. 225. Nessun apporto significativo è emerso per il nostro tema nella peraltro brillante lezione spoletina di Meeder, c.d.s. 34  Athan. Vita Antonii, ed. Bartelink, cit., 20, 4, p. 188. La versione latina attestata dal codice del Capitolo di S. Pietro in Vaticano edita dal medesimo Bartelink, intr. Chr. Mohrmann, tr. it. P. Citati, S. Lilla, Milano 1974, p. 48, traduce ἀποδημία con peregrinatio; la versione latina da sempre conosciuta e circolante di Evagrio di Antiochia, in PG 26, coll. 871-874, ricorre a una perifrasi giocata sul verbo proficisci. 35   Cito dalla serie sistematica gli Apoftegmi III, 20 e VII, 8, ed. Guy, cit., I, pp. 160 e 338-340. 36   Barsanouphe et Jean de Gaza, Correspondance, 55, edd. F. Neith, P. De Angelis Noah, tr. R. Regnault, I.1, Paris, 1997 (Sources Chrétiennes, 426), p. 274.

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in lingua egiziana, alle certezze di Simeone il Nuovo Teologo (passaggio dal X all’XI secolo) che distingue la ξενιτεία autentica, «ἡ ὄντως ἀληθὴς ξενιτεία», che è l’uscita assoluta dal mondo, dalla «ἐκ τόπου εἰς τόπον μετάβασις», che è la ἀναχώρησις37. Se non che proprio i testi apoftegmatici sono anche capaci di aprirci una prospettiva che mi azzarderei a definire drammaticamente diversa. È quella che identifica la ξενιτεία con la capacità di dominare completamente la propria lingua38, in una costruzione che è antropologica piuttosto che disciplinare, e cui appunto sembrano apparentabili larghi stralci dei capp. 8 e 9 di RM piuttosto che il cristallino cap. VI di RB. Del quadro ricco e suggestivamente disomogeneo ci offre infine una visione complessiva, ancora in piena temperie tardoantica (passaggio dal VI al VII secolo), l’opera di Giovanni Climaco, «un ex-solitario che scrive per dei cenobiti, […] con uno scopo chiaramente spirituale e pastorale, piuttosto che didattico o normativo»39. A quest’ultimo proposito sottolinerei però come il più antico biografo di Giovanni, Daniele di Raito, afferente alla cerchia dei corrispondenti di lui, lo definisca “Nuovo Mosé”, che «ricevette la legge scritta da Dio raggiungendo attraverso gradi spirituali la contemplazione»40. Della Scala, di cui in anni non lontani si è indagata anche la ricezione in Occidente (però pervenendo a concludere che sicure attestazioni della conoscenza e della circolazione del testo climacheo in ambito latino non antecedono il XIV secolo dell’attività francescana)41, dopo i primi due “gradini” che trattano in apertura degli inizi della ascesa verso la perfezione, la rinuncia e il distacco, il terzo “gradino” è finalmente dedicato alla ξενιτεία (nella edizione della PG resa in latino con peregrinatio): che è abbandono definitivo di tutto ciò che ci riporta alla patria, comportamento alieno da qualsiasi familiarità, «sapienza sconosciuta […] vita nascosta […] abisso di silenzio». Nella sequenza non facilmente coordinabile delle successive suggestioni sul tema, che insinuano indirizzi di comportamento (e.g. «chi si è fatto straniero al mondo a motivo del Signore non deve più accostarsi al mondo», e già al “gradino” I si raccomandava che colui che è uscito dal mondo imiti «coloro che se ne stanno davanti alle tombe fuori della città», con un bel rinvio al rapporto dell’asceta con lo spazio e con i suoi spazi peculiari), spicca per la sua icasticità la definizione «straniero (ξένος)   Sym. N.Th., Chapitres I, 96, ed. J. Darrouzès, Paris 1996 (Sources Chrétiennes, 51 bis), p. 98. Anche III,15, pp. 126-128. 38   Cito della serie alfabetica greca un apoftegma di abba Longino in PG 65, col. 256C, e uno di abba Tithoe, col. 428B. Non a caso il tema del silenzio, σιγή/σιωπή, con tutte le sue implicazioni religiose e misteriosofiche, anche poi con i suoi spessori semici e teoretici specifici nella cultura monastica cristiana, si è posto ancora abbastanza di recente al centro di importanti riflessioni in sedi internazionali. Per l’area monastica tardoantica cfr. il mio Orselli 2012, con le indicazioni bibliografiche più significative a note 1 e 2, p. 109. 39   Cfr. l’introduzione di J. Chryssavgis a Giovani Climaco, La scala, traduzione e note a cura di L. d’Ayala Valva, Magnano (Bi) 2005, pp. 5-62, a pp. 13 e 15. 40   Daniele di Raito, Vita di san Giovanni Climaco (BHG 882), in PG 88, col 605A. 41  Cfr. Cortesi 2002. 37

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è solo chi vive, in piena coscienza, come un uomo di lingua straniera tra persone di un’altra lingua», «ὁ ὡς ἀλλόγλωσσος ἐν ἑτερογλώσσοις ἐν γνώσει καθήμενος». La ξενιτεία che fu perfetta di Abramo, nessuno può uguagliarla, neppure se chiamato «ἐν ἀλλογλώσσῳ καὶ βαρβαρώδει γῇ»42. Mi sentirei di avvicinare, salvandone le specificità, il tema della incomprensibilità volontaria all’altro della capacità dell’uomo santo di rendersi invisibile a quanti vorrebbero “vederlo”. Non solo devoti curiosi come la pia dama romana del celebre Apoftegma (sistematico) II, 1043 ma ἴδιοι cioè discepoli o ad ogni modo persone vicine all’asceta. Questi, uno dei personaggi di Giovanni Mosco, Ciriaco del Monastero di San Saba, prega Dio di non essere visto ed effettivamente apre la porta della cella ed esce senza essere visto, va nel deserto, e ritornerà alla cella solo dopo la partenza dei visitatori44. La testimoniata (e ovvia) presenza di poliglossia nelle più celebri aree monastiche45 è superata, o assorbita nel σιωπῆς βυθός per l’asceta che si sia fatto perfettamente ξένος, divenendo quasi una interruzione volontaria della comunicazione con gli altri uomini, forse condizione primaria per stabilire la comunicazione con il divino. Se la condivisione della lingua è avvertita come caratteristica della condizione umana, alienarsene può costituire superamento di quella dimensione, fondazione dell’Adamo isoangelico. Se i “limiti dell’ecumene” si propongono agli eremiti assoluti di Enrico Morini come frontiera ultima dello spazio e delle società, la ξενιτεία che si fa cessazione volontaria della comunicazione verbale oltrepassa ogni frontiera sociale e psicologica. Il monaco ξένος possiede un solo idioma, quello profetico, che riceve e trasmette da Dio, davanti al quale senza tempo, “oggi”, “sta”. Nella sola Pars Orientis? La mia esperienza delle fonti monastiche tardoantiche e altomedievali, un’esperienza sicuramente parziale, però sempre curiosa e confido attenta, mi suggerisce di rifuggire, anche per cronologie date, dalle diversificazioni marcate tra monachesimi d’Oriente e d’Occidente. Rinvio dunque subito al patrimonio che ho cercato di assemblare di fonti latinofone o afferenti ad aree latinofone sul tema della peregrinatio. Paola con Eustochio, e con le loro seguaci e imitatrici, e Girolamo stesso, e Melania   Per i passi citati si rinvia nell’ordine a Io. Clim., Scala, in PG 88, coll. 664B-D, 633D, 665C, 668C. Riassume bene i principali temi qui enunciati ma non tocca quello specifico della ξενιτεία come alloglossia il contributo di Kampridis 2002. 43   Les Apophtegmes des Pères Collection systématique, ed. J.-Cl. Guy, cit., II, 10, pp. 128-130. 44   Io. Mosch., Prato LIII in PG 87ter, col. 2908C. L’interessante segnalazione è in Palmer 1993, p. 290, anche con rinvio a un altro Apoftegma. Per l’autore del Prato, secondo la lettura del Palmer p. 297 con cui concordo, la ξενιτεία è esilio, o viaggio verso una terra straniera, o rinuncia ascetica alle cose del mondo. 45   Oltre che alle implicazioni del passo della Scala, e della lettera di Barsanufio citata supra a nota 36 si può rinviare al racconto già di Cassiano, Inst., V, 39, ed. J.-Cl. Guy, Paris 2001, II ed. (Sources Chrétiennes, 109), p. 252. Ricordo poi che Alessandro l’Acemeta raccoglieva intorno a sé sulle rive dell’Eufrate «τέσσαρας χώρους ἑτερογλώσσους», formati da «῾Ῥωμαῖοι, ῾´Ἔλληνες, Σύροι, Αἰγύπτιοι», cfr. Vita Alexandri, ed. De Stoop, cit., III, 26-27, pp. 677-678. 42

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e Piniano, e Giovanni Cassiano, e Onorato e Venanzio con i loro discepoli come Eucherio e i suoi, e Fulgenzio di Ruspe, e Severino del Norico, e il meno noto Antonio, la cui Vita composta da Ennodio ci informa del suo errare dalla nativa Pannonia sino all’Italia settentrionale poi all’ultimo approdo a Lerinum, viaggiano incrociando le loro rotte da una sponda all’altra del Mediterraneo, per lo più concludendo i loro itinerari sacri in una struttura monastica già esistente o cui essi stessi danno vita46; un avvio di quello che potremmo chiamare il “modello Sansterre”. Di lì a poco verranno Colombano e i suoi, e di lì a poco ancora i monachi antonomasticamente peregrini; e i monaci di provenienza insulare che popolano le pagine di Beda. Monaci che attuano prioritariamente la ξενιτεία fisico-psicologica e che non si limitano a stanziarsi, sia pure transitoriamente e con forme diverse di κοινωνία, nelle regioni piuttosto attraversate che raggiunte, ma che per la maggior parte, non sempre realizzando i propri intenti, puntano verso mete sempre più lontane, nella costanza della propria pratica ascetica, che può esercitarsi anche nella riconversione degli spazi naturali all’armonia della creazione, attraverso complesse e/o taumaturgiche operazioni di bonifica; però sempre dediti alla proposta della “parola di verità”, predicata sino ai confini dell’attuale Europa47. Nella sola Pars Occidentis? Quel compito assunto e assolto, quel ruolo, ci appaiono ugualmente attestati e sono storiograficamente celeberrimi per i monaci della Pars ellenofona, quanto alle missioni bizantine dei secoli IX-XII verso i Balcani e la Rus’ di Kiev. Ma già prima, e poi con serena costanza, li si coglie bene nel comportamento di altri asceti: cito quello capace di superare (ma non per le donne) l’apparentemente invalicabile distanza fisica degli insospettabili stiliti, già di un Simeone il Vecchio, con i loro ammaestramenti che non sono solo morali ma di vera e propria evangelizzazione, i loro miracoli, le loro benedizioni, accordati alle genti di ogni lingua ed etnia, Ismaeliti, Persiani Armeni a quelli soggetti, Iberi, Omeriti… e molti abitanti dell’estremo Occidente, Spagnoli, Britanni, Galli, accorse intorno alla colonna48. All’insegna di progetti che tutti si propongono di partecipare all’economia della salvezza, ci si configurano cioè stili monastici diversi, iscritti in contesti sociopolitici diversi (mi limito a citare le differenti articolazioni, tra Costantinopoli e Roma, degli ambiti di riferimento per la promozione e autorizzazione delle imprese missionarie); anche stili diversamente rappresentati. In queste diversità di stili e di rappresentazioni mi sembra infine di poter collocare la distonia tra la realtà del trascorrere, migrare, portando la Parola di tanti nostri protagonisti d’Occidente e d’Oriente, e quello che appare un reclinarsi dentro se stessi, dentro la propria “sapienza sconosciuta”, del perfetto ξένος della Scala; un reclinarsi attuato per le vie della non  Cfr. Orselli 2017, pp. 103-108. Cfr. ancora qui supra.   Orselli 2014, pp. 452-458, 463-477. 48   Ivi, pp. 479-488; sulla “catechesi permanente” dell’altro celeberrimo stilita, Simeone il Giovane, ivi, pp. 488-489. 46 47

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comunicazione, dell’alterità linguistica non tecnicamente ma eticamente concepita, quella di un «uomo di lingua straniera tra persone di un’altra lingua». Credo sia un corollario non insignificante da far valere nei dibattiti (in cui non mi compete addentrarmi) sulla dialettica tra comunicazione scritta e comunicazione orale, e sul rapporto tra comunicazione orale e vera e propria predicazione – ora fattosi anche dibattito più glottologicamente tecnico, su plurilinguismo e diglossia49. Ma è un complesso tematico che rinvio a competenze altre, a partire da quelle di un Michel Banniard e di un Patrick Henriet. In forma di chiusura richiamerò ancora una volta l’esempio di Pirmino50, capace, come poi si constaterà nelle fonti essere tanti altri, di adoperarsi per trasmettere la Parola in lingue lontane dalla sua lingua nativa e dalla koiné latina, lingue con cui non è facile familiarizzarsi. La tensione è evidentemente prima di tutto pastorale, e l’ambito latinofono ce ne offre esempi insigni, da Agostino a Beda ai concili carolingi51. Ma per lo storico del cristianesimo si configura come antropologica: potendosi individuare nella ricercata comunicazione delle lingue e degli idiomi una autentica ricomposizione pentecostale. Bibliografia Agamben 2014 = G. Agamben, L’uso dei corpi, Vicenza 2014. Angenendt 1972 = A. Angenendt, Monachi peregrini, Studien zu Pirmin und den monastischen Vorstellungen des frühen Mittelalters, München 1972. Angenendt 1982 = A. Angenendt, Die irische Peregrinatio und Ihre Auswirkungen auf dem Kontinent vor dem Jahre 800, in H. Loewe (a c.), Die Iren und Europa im früheren Mittelalter, Stuttgart 1982, I, pp. 52-79. Banniard 2013 = Banniard, Migrations et mutations en Latin parlé: faux dualisme et vraies discontinuités en Gaule (Ve-Xe siècles), in Plurilinguismo e diglossia 2013, pp. 89-117.

  Cfr. la raccolta di saggi Plurilinguismo e diglossia nella Tarda Antichità e nel Medio Evo (Plurilinguismo e diglossia 2013), di cui segnalo in particolare i contributi più direttamente connessi con l’ottica di questo intervento: M. Banniard, Migrations et Mutations en Latin parlé: faux dualisme et vraies discontinuités en Gaule (V-X siècle); P. Cuzzolin, Bilinguismo e diglossia nelle Isole Britanniche fra il V e il X secolo: il ruolo del latino; R. Sornicola, Bilinguismo e diglossia dei territori bizantini e longobardi del Mezzogiorno: le testimonianze dei documenti del IX e X secolo; e M.G. Cammarota, Latino, tedesco e anglosassone nell’area germanica continentale dell’VIII secolo. 50   Cfr. già Orselli 2014, pp. 463-465. 51  Aug. Enarr. In Ps. 138, 20, edd. E. Dekkers, J. Fraipont, in CChr. s.l. 40, Turnholti 1956, p. 2004; Beda, Ep. Ad Ecgbertum, ed. C. Plummer, Oxonii 1896, 5, t. I, pp. 408-409. Concilium Turonense, a. 813, ed. A. Werminghoff, in MGH, Concilia II, Concilia aevi Carolini. I, 1, Hannoverae et Lipsiae 1906, 17, p. 288. 49

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L’ORATIO CONTINUA IN BARSANUFIO E GIOVANNI DI GAZA*

Lorenzo Perrone

Introduzione: aspetti della prassi orante nel primo monachesimo egiziano e palestinese Sono molti i motivi d’interesse che suscita la straordinaria corrispondenza di Barsanufio e Giovanni, i due reclusi del cenobio di Serido, vicino a Gaza, nella prima metà del VI sec. Diversi studi hanno approfondito l’esperienza religiosa dei due Anziani e la loro prassi di direzione spirituale rivolta non solo ai monaci ma anche agli ecclesiastici e ai laici1. Restano tuttavia numerosi aspetti ancora bisognosi di approfondimento. Fra questi meritano attenzione le modalità della preghiera, che ovviamente costituisce una componente essenziale della vita monastica. Esse non si riducono all’apporto fornito dai Padri di Gaza allo sviluppo della “preghiera di Gesù”, ma riflettono uno spettro più ampio di espressioni che evidenzia l’intensità e la ricchezza della loro dimensione orante. In questo contributo cercherò di mettere in luce non solo la varietà delle forme dell’orazione ma anche la risposta data attraverso di esse da Barsanufio *  Queste note nascono da un seminario tenuto a Gerusalemme presso l’Israel Institute of Advanced Studies il 19 novembre 2015 («“Pray without interruption”: Performing prayer in Palestinian and Egyptian Monasticism of the Late Antiquity»). Mi permetto di dedicarle al collega e amico Enrico Morini ricordando, fra i molti motivi di stima e gratitudine che nutro nei suoi confronti, la memorabile visita da lui guidata presso la «Sancta Hierusalem Bononiensis», per me e i miei studenti, a margine di un corso sull’Itinerarium Egeriae (17 novembre 2005).   Hausherr 1955; Perrone 1988 e 2004b; Hevelone-Harper 2005; Bitton-Ashkelony, Kofsky 2006; Perrone 2007 e 2013; Filoramo 2017. Manca tuttora una monografia di carattere generale sui due Anziani e il loro milieu, anche se l’edizione della corrispondenza a cura di François Neyt e Paola Noah de Angelis (= C) offre importanti materiali per un’analisi. I testi dell’epistolario saranno citati con l’indicazione del numero della lettera e le linee dell’edizione.

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e Giovanni al bisogno di “pregare senza interruzione”, instillato nella coscienza del monachesimo antico dal fondamentale richiamo paolino di 1 Ts 5,17. Come Evagrio dichiara nel Pratico, «non ci è stato prescritto di lavorare, vegliare e digiunare di continuo, ma ci è stata fatta legge di “pregare incessantemente” (1 Ts 5,17)»2. Per arrivare a meglio comprendere il profilo distinto della testimonianza trasmessaci dalle lettere dei due Anziani conviene inizialmente rammentare l’articolarsi dei modi di preghiera nel loro contesto storico-ambientale più prossimo. Com’è noto, il monachesimo di Gaza trae radici e ispirazione, in primo luogo, dal monachesimo egiziano, di cui si fa tramite principale per le tradizioni delle Vite e dei Detti dei Padri del deserto3, mentre s’inserisce con la sua fisionomia autonoma nel panorama del monachesimo bizantino di Palestina tra V e VII sec.4. Ora, a leggere le classiche fonti monastiche di area egiziano-palestinese a partire dalla fine del IV sec., la prassi orante emerge come un fenomeno costitutivo in tutte le sfaccettature che la caratterizzano. Esse rinviano almeno a tre aspetti o dimensioni strutturali che, se non vado errato, raramente sono state oggetto di un’analisi comprensiva: 1) la temporalità; 2) l’oralità; 3) la fisicità. Ad una prima impressione, in assenza di studi più specifici, i nostri testi sembrano privilegiare specialmente il primo aspetto, dato che evidenzia più di tutti l’intensità e la frequenza della preghiera con il suo scandirsi nel tempo. Quanto alle dimensioni vocali, cioè alle parole delle preghiere (siano queste dette ad alta voce o recitate in silenzio), siamo molto meno documentati. L’oralità rinvia infatti a quella sfera più intima e personale del dialogo con Dio che per natura risulta più elusiva e sfuggente5. Tendenzialmente ne abbiamo traccia solo nella misura in cui l’orazione esige di essere comunicata ad altri o appare per qualche ragione esemplare. Si tratta insomma di un elemento che rende, almeno in parte, problematico qualunque tentativo di ricostruire approfonditamente una “storia della preghiera”6. Diverso è il caso della “fisicità”, la dimensione più direttamente afferrabile, dal momento che rimanda all’atteggiamento del corpo e ai gesti che accompagnano la preghiera. Su tali manifestazioni e sulla loro entità le fonti antiche ci forniscono a volte dettagli interessanti, a cominciare dalla prassi sempre più diffusa delle “genuflessioni” o “prostrazioni” di vario tipo7.   Prat. 49 (p. 610): Ἐργάζεσθαι μὲν διὰ παντὸς καὶ ἀγρυπνεῖν καὶ νηστεύειν οὐ προστετάγμεθα, προσεύχεσθαι δὲ ἡμῖν ἀδιαλείπτως (1 Ts 5,17) νενομοθέτηται. 3   Perrone 1997. 4   Perrone 2004a e 2012; Bitton-Ashkelony 2017. 5  Hausherr 1960, p. 167: «de toutes les politeiai secrètes, c’était la plus jalousement cachée, parce que la plus estimée. Nous sommes pas mal renseignés sur les jeûnes, les veilles, les chameunies et autres austérités de beaucoup de “viellards”, parce que ces “vertus somatiques” restent visibles et constatables. Mais comment pénétrer dans leur vie intérieure pour y saisir ce qu’elle a de plus intime, leur commerce avec Dieu?». 6   Hammerling 2008, p. 14. 7   Nel lessico monastico la stessa parola greca (μετάνοια) verrà usata ad indicare sia il significato originario di “penitenza” sia anche quello di “inchino” o “prostrazione”. Un inquadramento sulle disposizioni canoniche e la prassi liturgica è offerto da Radle 2016. 2

L’oratio continua in Barsanufio e Giovanni di Gaza

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C’è ancora un punto che complica ulteriormente il nostro quadro e richiede perciò di essere precisato in via preliminare. L’immagine della preghiera tracciata fin qui, in relazione alle tre coordinate strutturali appena menzionate, si rifà soprattutto alla prassi individuale, ma questa non può essere svincolata sempre e comunque da quella collettiva, anche per chi vive in solitudine. Ci sono contatti e interferenze con l’orazione comunitaria che contribuiscono a connotare e qualificare in determinati modi anche l’esperienza personale della preghiera. Mi riferisco naturalmente all’ufficio monastico e alla liturgia che strutturano, in particolare, le comunità cenobitiche, senza peraltro essere una loro esclusiva8. Tuttavia, la situazione è lungi dall’essere uniforme nel periodo che ci interessa più da vicino e che va grossomodo dal IV al VII sec. Senza dunque ignorare gli addentellati rituali e liturgici delle manifestazioni oranti, la mia indagine privilegerà l’ambito più direttamente personale, in conformità del resto con la direzione spirituale esercitata di norma dai due Anziani di Gaza a livello individuale. Nelle testimonianze del primo monachesimo l’attenzione rivolta alla temporalità della preghiera segnala la molteplicità degli sforzi per attuare una sua prassi intensificata e pervenire così ad assecondare il più possibile la raccomandazione dell’Apostolo a «pregare senza interruzione» (1 Ts 5,17). In questo senso bisognerebbe esaminare l’impatto del calendario annuale, dei ritmi festivi, settimanali e quotidiani. Detto in maniera alquanto semplificata, si può forse affermare che, mentre la cornice quotidiana esercita un impatto più determinante sulla preghiera dei cenobiti, quella settimanale sembra influire maggiormente sulla prassi orante degli anacoreti o dei lauriti (o semi-anacoreti). La collezione sistematica degli Apoftegmi ci presenta, ad esempio, la condotta di Arsenio, uno dei Padri del deserto più noti e rappresentativi, in occasione della domenica: la sera del sabato, stando in piedi con le mani verso il cielo e le spalle rivolte a occidente, Arsenio pregava fino a che il sole risplendeva sul suo volto9. Nondimeno, anche in un contesto cenobitico il ritmo domenicale e festivo comportava un’intensificazione dell’orazione. Come vediamo dall’esempio di Melania la Giovane nel suo monastero sul Monte degli Ulivi, la domenica e le feste la spingevano a raccomandare alle consorelle una salmodìa ininterrotta10. Se il ritmo quotidiano porta a sviluppare gradualmente anche in seno al monachesimo un sistema articolato di “ore di preghiera” che si dispongono nell’arco della giornata (come è già attestato da Giovanni Cassiano, agli inizi del V sec., fino ad un regime di sette ore)11, le fonti provenienti dagli ambienti eremitici o semianacoretici   Sugli sviluppi dell’ufficio monastico con la recita dei Salmi si veda, in particolare, Bradshaw 2008.   Ap. Syst. 12, 1 (p. 127). Il cap. 12 è dedicato specificamente all’oratio continua (Περὶ τοῦ ἀδιαλείπτως καὶ νεφόντως προσεύχεσθαι). 10   V. Mel. Iun. 47, 3 (p. 246). 11   Cf. Giovanni Cassiano, Instit. II-III. Al di là del canone di sette “ore di preghiera”, Cassiano sottolinea la grande diversità degli usi. Non bisogna poi dimenticare lo sviluppo dell’ufficio cattedrale accanto all’ufficio monastico. Ne abbiamo fra l’altro una vivida attestazione nell’Itinerarium Egeriae. 8 9

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sono attratte specialmente da altri tipi di performances oranti, come osserveremo fra breve, se non dalla ricerca di un atteggiamento interiore quale riflesso dell’oratio continua. Si spiegano in questo senso anche alcune riserve verso la consuetudine delle sette ore di preghiera che incontriamo sia in Cassiano sia nella tradizione apoftegmatica. Stando a un detto attribuito ad Epifanio di Salamina, «il vero monaco deve avere ininterrottamente nel suo cuore la preghiera e la salmodia», anziché pensare di aver esaurito il proprio compito con le ore dell’ufficio monastico12. In ogni caso, secondo quanto ci documenta questo stesso detto, la recita dei Salmi è una componente imprescindibile dell’esistenza monastica, anche per chi conduce vita anacoretica. Ne abbiamo una divertente illustrazione nella Vita di Saba di Cirillo di Scitopoli, dove l’agiografo ci racconta come il santo sloggi dalla sua grotta un leone mentre è intento a recitare i salmi nella preghiera della notte13. Una temporalità che sia interamente trasformata in preghiera (in base all’indicazione di 1 Ts 5,17) non può comunque non fare problema anche in seno al monachesimo, sebbene non manchino nella letteratura cristiana antica i tentativi per sviluppare un modello che unisca senza sosta preghiera e vita. Sia Clemente di Alessandria sia Origene si sono sforzati di assecondare l’ideale della preghiera ininterrotta nella loro riflessione eucologica. Ancorché non manchino le tracce della lettura di questi ed altri autori (specialmente Evagrio), non sappiamo fino a che punto i loro scritti abbiano potuto influenzare la maggior parte dei monaci14. È certo però che né il monachesimo egiziano né quello palestinese hanno alimentato l’idea che la preghiera dovesse essere l’unica attività del monaco. Diversamente dai messaliani, che insistevano per definizione sulla prassi orante come esclusiva di altri compiti, i monaci egiziani e palestinesi si sono generalmente sforzati di collegare la preghiera con altre attività, quali il lavoro manuale (ἐργόχειρον), la “meditazione” (μελέτη) intesa come ruminazione interiore e apprendimento mnemonico, e la lettura (ἀνάγνωσις)15. Anzi, la pervasività della dimensione orante è tale che anche i colloqui spirituali, che tanta parte hanno nella “saggezza” monastica, sono suscettibili di essere compenetrati dalla preghiera16, se non perfino il momento del pasto condiviso con altri17.   Ap. Syst. 12, 6 (p. 127): Φανεροί ἐστε ἀργοῦντες ἀπὸ εὐχῆς τὰς ἄλλας ὥρας τῆς ἡμέρας. Δεῖ γὰρ τὸν ἀληθινὸν μοναχὸν ἀδιαλείπτως τὴν εὐχὴν καὶ τὴν ψαλμωδίαν ἔχειν ἐν τῇ καρδίᾳ αὐτοῦ. 13   Cirillo di Scitopoli, V. Sab. 33 (p. 119). 14   Perrone 2011, pp. 195-198, 443-446, 535-537. Non bisogna comunque dimenticare che la cosiddetta “controversia antropomorfita” nell’Egitto di IV-V sec. investì anche il modo di pregare in reazione alle dottrine di Origene (cf. Camplani 2017). D’altra parte, Grillmeier 1985 ha sostenuto l’idea che la prassi monastica della “preghiera di Gesù” ha le sue radici nella “mistica di Gesù” di Origene. 15   Le poche eccezioni come Paolo di Ferme (Hist. Laus. 20, 1 [p. 102, ll. 4-7]), su cui v. infra, confermano la regola. 16   Ap. Syst. 12, 18 (cf. infra p. 7, n. 28). 17   Ap. Syst. 12, 8 (p. 127): οἶδα ἐγὼ ἀδελφὸν ἐσθίοντα μεθ’ ὑμῶν, καὶ ἡ εὐχὴ αὐτοῦ ἀναβαίνει ἐνώπιον τοῦ Θεοῦ ὡς πῦρ. 12

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Come dimostra la Scala spirituale di Giovanni Climaco, ancora nel VII sec. ci troviamo di fronte a forme molto diverse di partecipazione alle vigilie: c’è chi veglia con la preghiera a mani levate, chi con la recita dei Salmi, chi con le letture, chi con il lavoro delle mani e chi col rammentare il pensiero della morte18. In questo passo Climaco riconosce apertamente la consapevolezza dell’antica letteratura monastica quanto alla difficoltà di pregare incessantemente19. Del resto, secondo un detto della collezione sistematica, fra tutte le condotte praticate dall’uomo solo la preghiera non troverà mai “riposo” (ἀνάπαυσις) ma «esigerà una lotta (ἀγών) fino all’ultimo respiro»20. Nonostante ciò, l’abitudine di preghiera giunge ad impregnare profondamente l’esistenza del monaco, come vediamo dalla Vita di Teognio scritta da Paolo di Elusa nel VI sec. Questo monaco-vescovo del Deserto di Giuda, al dire del suo agiografo, era talmente abituato a pregare i salmi che la sua bocca li recitava anche quando dormiva…21. Teognio sembrerebbe così mettere in pratica l’insegnamento sull’oratio continua raccolto da Cassiano in seno al monachesimo egiziano con la formula pietatis, che consiste nella recita e meditazione ininterrotta di Sal 69,2 (Deus in adiutorium meum intende; Domine, ad adiuuandum me festina)22. È questa, agli inizi del V sec., la prima e compiuta anticipazione di quella “orazione di un solo pensiero” o “di una sola parola” (εὐχὴ μονολόγιστος), come verrà indicata due secoli dopo da Giovanni Climaco, e che consisterà per eccellenza nella “preghiera di Gesù”23. L’intento di Cassiano è di assicurare in tal modo per il monaco una temporalità ripiena della costante “memoria di Dio” (μνήμη θεοῦ), secondo un dettame largamente condiviso nella spiritualità antica24. Il contesto, sommariamente tracciato in questa premessa, lascia intravedere sia nel monachesimo egiziano che in quello palestinese tra IV e VII sec., per così dire, una “direzione di marcia” verso la semplificazione o “standardizzazione” delle forme di preghiera, col primato riconosciuto da ultimo alla “preghiera di Gesù” ai fini di   Scala 19, 1 (PG 88, 940 C); d’Ayala Valva 2005, p. 295.   L’aporia è già presente lucidamente in Origene, Hom. lat. in I Regn. (cf. Perrone 2011, p. 365 e n. 1096). 20   Ap. Syst. 12, 2 (p. 127): Καὶ πᾶσαν δὲ πολιτείαν ἣν ἂν μετέλθῃ ἄνθρωπος, ἐγκαρτερῶν ἐν αὐτῇ, κτᾶται ἀνάπαυσιν· τὸ δὲ εὔξασθαι, ἕως ἐσχάτης ἀναπνοῆς ἀγῶνος χρῄζει. 21   Paolo di Elusa, V. Theogn. 20. 22   Conl. X, 10, 2 (297, 22-26): «Erit itaque ad perpetuam Dei memoriam possidendam haec inseparabiliter proposita uobis formula pietatis: Deus in adiutorium meum intende: domine ad adiuuandum mihi festina (Sal 69 [70], 2). Hic namque uersiculus non inmerito de toto scripturarum exceptus est instrumento». 23   Scala 15, 51 (889 D); d’Ayala Valva 2005, p. 265 n. 36. 24   Conl. X, 10, 14 (302, 3-9): «Huius igitur uersiculi oratio in aduersis ut eruamur, in prosperis ut seruemur nec extollamur incessabili iugitate fundenda est. Huius, inquam uersiculi meditatio in tuo pectore indisrupta uoluatur. Hunc in opere quolibet seu ministerio vel itinere constitutus decantare non desinas. Hunc et dormiens et reficiens et in ultimis naturae necessitatibus meditare». Cf. Filoramo 1999 e 2000; Perrone 2011, pp. 595-609. 18 19

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assicurare l’attuazione dell’oratio continua. Tuttavia, a partire dalle lettere di Barsanufio e Giovanni, possiamo notare come tale fenomeno richieda un’analisi differenziata in relazione agli aspetti che seguono: 1) il conto delle preghiere come “misura” (μέτρον) o “regola” (κανών) dell’orazione (anche in vista di soddisfare il requisito di una temporalità orante la più estesa possibile); 2) il rapporto fra preghiere e recita o canto dei salmi, che rinvia, alla base, al legame fra orazione individuale e orazione comunitaria; 3) il passaggio dalle molte preghiere all’“unica preghiera”, con l’affermarsi graduale seppure non esclusivo della “preghiera di Gesù”. I. Il “conto” delle preghiere: virtuosismi oranti per l’oratio continua Una lettera indirizzata a Giovanni di Gaza da un esicasta del cenobio di Serido (C 143) presenta un ventaglio di questioni sulle modalità della preghiera che ricapitolano sostanzialmente le prospettive della nostra indagine. Poiché nelle Vite degli Anziani si legge che uno faceva cento preghiere, un altro altrettante, dobbiamo anche noi avere una misura per pregare o no? E come si devono compiere le preghiere: in piedi? O dire il «Padre Nostro che sei nei cieli» e sedersi al lavoro manuale? E ancora che cosa bisogna fare lavorando? Analogamente, riguardo ai vespri e alle veglie notturne, come si deve comportare un solitario? E bisogna dire le odi o gli inni?25

Il cenno alle Vite degli anziani (ἐν τοῖς Βίοις τῶν Γερόντων) rimanda in realtà alla Storia Lausiaca di Palladio26. Forse è tutt’altro che casuale, dato che si riferisce ad Evagrio Pontico e a Macario di Alessandria, uno dei maestri che l’hanno più influenzato. Nella breve biografia che Palladio dedica al Pontico, egli ricorda come fosse solito «fare cento preghiere» al giorno27, laddove egli fa dire a sua volta a Macario Alessandrino: «Io ho sessant’anni e recito ogni giorno cento preghiere fisse»28. Lasciando adesso da parte l’interrogativo su quali fossero tali «preghiere fisse» (τε25   C 143 (trad. leggermente modificata da Epistolario, p. 206). La lettera fa parte dell’ampio carteggio (C  139-160) intrattenuto da un esicasta, «che apprende a morire a se stesso» (SC  427, p. 715), alternativamente con entrambi gli Anziani. Il motivo della preghiera interviene a più riprese fin dalla lettera iniziale, in cui il monaco chiede a Barsanufio l’aiuto delle sue preghiere. Anche la seconda (C 140) domanda istruzioni sul modo di pregare: con il Padrenostro o alla maniera di Macario di Scete (Alph. Macario 19 [col. 269 C; infra, n. 37])? C 146 torna a chiedere lumi su come vegliare la notte in preghiera. C 150 tratta una questione sull’umiltà e la preghiera perfetta, che spinge Barsanufio a ritornare sul Padrenostro. 26   L’epistolario si serve di diverse espressioni per indicare la primitiva letteratura monastica, con particolare riguardo agli Apophthegmata Patrum: Βίοι τῶν Πατέρων (C 150); Ῥήματα… καὶ Βίοι (C 600); Βιβλία Γερόντων (C 605); Γεροντικά (C 185). 27   Hist. Laus. 38, 10 (p. 200, l. 86). 28   Hist. Laus. 20, 3 (p. 104, ll. 20-21): Ἐγὼ ἑξηκοστὸν ἔτος ἔχω τεταγμένας ἑκατὸν εὐχὰς ποιῶν.

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ταγμένας), la domanda posta dal solitario all’Altro Anziano (come la corrispondenza dei due reclusi è solita designare Giovanni per distinguerlo dal Grande Anziano Barsanufio) rinvia genericamente a computi analoghi di performances oranti. A dire il vero, le parole di Macario Alessandrino sono la replica a un monaco di Scete, Paolo di Ferme, che gli aveva confidato la sua angustia nel non riuscire a eguagliare, pur con le sue trecento preghiere «prestabilite» (τετυπωμένας), il virtuosismo di gran lunga eccezionale di una vergine adusa a recitare ben settecento preghiere al giorno29. Ora, l’ascesi di Paolo consisteva unicamente nel pregare senza posa ed egli, al fine di rispettare il numero esatto di trecento preghiere, aveva escogitato un curioso sistema per contarle, mediante altrettante pietruzze che separava via via dal mucchio ad ogni orazione. La Storia Lausiaca non è l’unica fonte a registrare le prodezze oranti dei primi monaci, come emerge ancora nel caso di Antonio e del suo discepolo Paolo il Semplice, sia pure riguardo al binomio di salmi e preghiere che esamineremo più avanti30. Anche la Storia dei monaci in Egitto evoca un monaco della Tebaide di nome Apollo, che era dedito lui pure a pregare ininterrottamente, stando in ginocchio, in modo da arrivare a recitare cento preghiere la notte e un pari numero di giorno31. Se Marco Diacono registra ugualmente nella sua Vita di Porfirio la statistica delle preghiere recitate dal vescovo di Gaza durante tutta la notte, in più dei cori e delle letture (sono trenta preghiere con un’eguale serie di genuflessioni), una storia della collezione sistematica ci offre ancora un calcolo delle preghiere che accompagnano in sottofondo il colloquio di alcuni monaci con degli anziani. Essi si meravigliano che alla fine dell’incontro gli anziani non recitino una preghiera come all’inizio; al che uno di questi ribatte che un fratello «ha fatto centotré preghiere» mentre sedeva e conversava32. L’elemento statistico ricavabile da questi conteggi sui virtuosismi oranti non è tanto importante di per sé, stante anche la grande varietà dei dati che essi ci trasmettono, bensì come indizio di una quantificazione e misurabilità della preghiera al fine sia di pervenire a quella misura (μέτρον) che meglio si attaglia alle condizioni particolari di un individuo o di una comunità, sia anche di corrispondere così al precetto dell’Apostolo sulla preghiera senza posa33. Dato che questa tendenza al   Hist. Laus. 20, 1-2 (pp. 102-104, ll. 6-17).   Hist. Laus. 22, 6-8 (p. 122, ll. 55-70). Palladio fornisce inoltre un conteggio delle preghiere di Macario Egiziano: quando questi si ritirava in una grotta attraverso un cunicolo per sfuggire alla folla, usava recitare ventiquattro preghiere all’andata e altrettante al ritorno. Cf. Hist. Laus. 17, 10 (p. 76, ll. 79-85): ἀπιὼν ἕως τοῦ σπηλαίου εἰκοσιτέσσαρας ἐποίει εὐχάς, καὶ ἐρχόμενος εἰκοσιτέσσαρας; Hausherr 1960, p. 191. 31   Hist. mon. 8, 38-41: τὸ δὲ ἔργον αὐτοῦ ἦν τὸ πανημέριον εὐχὰς τῷ θεῷ ἀποδιδόναι, ἑκατοντάκις μὲν ἐν νυκτί, τοσαυτάκις δὲ ἐν τῇ ἡμέρᾳ κάμπτων τὰ γόνατα. 32   Ap. Syst. 12, 18 (p. 127): Συγχωρήσατέ μοι, ἀδελφοί, μεθ’ ὑμῶν καθεζόμενός τις ἀδελφὸς καὶ ὁμιλῶν ἑκατὸν τρεῖς εὐχὰς ἐποίησεν. Quanto alla prassi orante del vescovo di Gaza, cf. V. Porph. 20. 33   Sull’importanza di tale criterio nel monachesimo di Gaza si veda Parrinello 2010. 29 30

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calcolo si manifesta fin dai primordi del monachesimo e, se crediamo al suo biografo, anche in chi come Evagrio si è sforzato di elaborare un elevato discorso sull’“orazione spirituale”, sarebbe sbagliato ritenerlo un fenomeno tardivo, riconducibile in certo senso a una forma di “decadenza” della prassi monastica. Per le generazioni più tarde, come avviene coi monaci di Gaza, si tratta semmai di un motivo che sottolinea l’intensità della consuetudine orante e il suo grado più o meno alto di “unicità” all’interno dell’esistenza monastica. D’altra parte, come avvertiamo anche nella domanda dell’esicasta a Giovanni, l’interesse a quantificare la preghiera risponde al bisogno di strutturare la propria esperienza ascetica e organizzare di conseguenza il tempo monastico, specie per chi si trova a vivere nella condizione di solitario. Non acquista dunque un rilievo particolare l’aspetto competitivo, sebbene le nostre fonti non lo ignorino del tutto, conformemente alla preoccupazione diffusa negli scritti monastici di stimolare l’imitazione delle condotte esemplari, raggiungendo traguardi simili o eventualmente più alti, purché non se ne tragga motivo di vanto personale. In ogni caso funge sempre da contrappeso agli elementi competitivi l’esigenza del discernimento spirituale che punta a fissare il “metro” di condotta più appropriato. È in questa prospettiva che si muove la risposta di Giovanni all’esicasta, sia pure invertendo di primo acchito l’ordine delle domande che questi aveva posto. Si tratta peraltro di una risposta-inventario, ancora più analitica della richiesta di indicazioni normative che l’ha sollecitata. Essa ci mostra come l’oratio continua non si esaurisca nella ripetizione di formule standard di preghiere, sebbene queste non manchino e siano anzi esemplificate espressamente. Giovanni, infatti, rimanda a una disposizione di spirito che si configura tendenzialmente come un atteggiamento orante pervasivo di tutta quanta la quotidianità monastica. D’altra parte, questa s’iscrive anche in una trama che, secondo il classico modello dell’ora et labora, è fatta di momenti di preghiera (vocale e silenziosa) e di attività manuale. Le ore e le odi ecclesiastiche sono tradizioni, e buone, ai fini dell’accordo di tutto il popolo; e la stessa cosa nei cenobi, per l’accordo della comunità. I monaci di Scete non hanno ore né dicono odi, ma in solitudine compiono lavoro manuale e meditazione e di tanto in tanto preghiera. Quando sei ritto in preghiera, devi invocare di essere riscattato e liberato dall’uomo vecchio, o dire «Padre Nostro che sei nei cieli» o entrambe le cose, quindi sederti al lavoro manuale. Quanto a prolungare la preghiera quando (uno) è ritto o prega incessantemente secondo l’Apostolo (1 Ts 5,17), non è necessario prolungarla ogni volta che si alza, perché tutto il giorno la sua mente è in preghiera. Se uno siede al lavoro manuale, deve recitare a memoria o dire dei salmi; alla fine di ciascun salmo prega, da seduto, così: «O Dio, abbi pietà di me miserabile». Se uno sta soccombendo ai pensieri, può aggiungere: «O Dio, tu vedi la mia tribolazione, vieni in mio aiuto». Se poi hai fatto tre maglie nella rete, alzati in preghiera. Inginocchiandoti e levandoti, analogamente, fa’ la preghiera suddetta. Per i vespri, gli Scetioti dicono dodici salmi e alla fine di ciascuno, invece della dossologia, dicono l’Alleluia e fanno una preghiera. Similmente la

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notte dicono dodici salmi e dopo i salmi siedono al lavoro manuale. Se qualcuno vuole, recita a memoria [la Scrittura], un altro esamina i suoi pensieri e le Vite dei Padri. Colui che legge, recita cinque o otto fogli e [fa] il lavoro manuale. Chi salmeggia o recita a memoria, deve salmeggiare con le labbra, se non c’è vicino a lui un altro che voglia seguire, così che nessuno sappia che cosa fa34.

Nel formulare le sue indicazioni sul modo di pregare Giovanni tiene conto più specificamente della condizione dell’esicasta, benché parta da un’osservazione sul sistema delle ore di preghiera e delle odi presentandole come «tradizioni ecclesiastiche» (ἐκκλησιαστικαὶ παραδόσεις), utili per la preghiera delle comunità cristiane come anche dei cenobi. Esse mirano infatti ad assicurare quella “concordia” (συμφωνία) orante che – come mostra la riflessione di Origene su Mt 18,19 e 1 Cor 7,535 – è condizione e garanzia dell’esaudimento divino. Ma il cenno iniziale serve anche a distinguere subito l’esperienza di preghiera dei monaci di Scete, quali Paolo di Ferme e Macario Alessandrino, nel racconto della Storia Lausiaca. La prassi egiziana richiamata dall’Altro Anziano è tendenzialmente il modello a cui anche l’esicasta dovrà attenersi per il proprio regime personale: anche se gli Scetioti non hanno un sistema di ore di preghiera, essi alternano però all’orazione il lavoro manuale e la “meditazione” (μελέτη). Come si è accennato precedentemente, non è facile rendere il significato di quest’ultimo termine, ma al pari del lavoro anch’esso articola un’agenda monastica di cui l’“orazione” (εὐχή) si presenta come una componente, sia pure strettamente collegata ad ambedue le altre attività36. Del resto, quanto la preghiera sia intrecciata al lavoro e alla meditazione, risulterà chiaro dalle affermazioni ulteriori di Giovanni.

  C 143 (trad. leggermente modificata da Epistolario, pp. 206-207).  Cf. Perrone 2011, pp. 488-493. 36   L’accezione di μελέτη (e μελετάω), alla luce della corrispondenza, si profila non semplicemente come “meditazione” ma anche come “memorizzazione”, nel senso di un’attività che implica sia la riflessione personale sia un esercizio di memoria, senza escludere peraltro la ripetizione a voce. Si veda C  47, 8-11, con la raccomandazione a “meditare” due versetti del Salterio: Ἀλλ’ ὀφείλεις μελετᾶν πάντοτε τὸν ἑκατοστὸν ἕκτον Ψαλμὸν ὅθεν λέγει· Εἶπε καὶ ἔστη πνεῦμα καταιγίδος, καὶ ὑψώθη τὰ κύματα αὐτῆς, ἀναβαίνουσιν ἕως τῶν οὐρανῶν καὶ καταβαίνουσιν ἕως τῶν ἀβύσσων (Ps 106, 25-26b). Καὶ πάλιν· Ἡ ψυχὴ αὐτῶν ἐν κακοῖς ἐτήκετο (Ps 106, 26c). Secondo C 431, 1-10, μελέτη può esigere una performance orale, mentre la sua forma silenziosa è riservata ai perfetti: Ἆρα οὖν καλόν ἐστι τό τινα ἐν τῇ καρδίᾳ αὑτοῦ διὰ παντὸς μελετᾶν ἢ προσεύχεσθαι, μὴ συνεργούσης ὅλως τῆς αὐτοῦ γλώττης. […] Τοῦτο τῶν τελείων ἐστὶ τῶν δυναμένων κυβερνᾶν τὸν νοῦν καὶ εἰς τὸν φόβον τοῦ Θεοῦ ἔχειν, τοῦ μὴ πλαγιάσαι καὶ βυθισθῆναι εἰς μετεωρισμὸν βαθύτατον ἢ φαντασίας. Ὁ δὲ μὴ δυνάμενος ἔχειν διὰ παντὸς τὴν κατὰ Θεὸν νῆψιν, ἁρπάζει καὶ παραδώσει τὴν μελέτην καὶ τῇ γλώττῃ. In C  177, 5-6 Giovanni respinge l’idea che la μελέτη prepari la “preghiera pura”: Ἀδελφέ, μὴ χλευασθῇς ἀπὸ τῶν δαιμόνων καὶ εἴπῃς ὅτι ἡ μελέτη παρασκευαστική ἐστι καθαρᾶς προσευχῆς. Καὶ πῶς μένουσι τὰ πάθη ἐν τῷ ἀνθρώπῳ ἔχοντι καθαρὰν προσευχήν; C 730, 7-9 la propone a un laico (in relazione alle Scritture): Πένθος ἐστὶν ἡ κατὰ Θεὸν λύπη, ἣν τίκτει ἡ μετάνοια. Τὰ δὲ τῆς μετανοίας γνωρίσματα, νηστεία, ψαλμῳδία, προσευχή, μελέτη τῶν τοῦ Θεοῦ λογίων. 34 35

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Per questa ragione non è necessario prolungare l’orazione quando si sta in piedi per pregare, onde conformarsi così alle indicazioni dell’Apostolo: l’orante, che l’Altro Anziano tiene qui presente, ha «tutto il giorno la sua mente in preghiera» (ἐν ὅλῃ γὰρ ἡμέρᾳ ὁ νοῦς αὐτοῦ εἰς τὴν εὐχήν ἐστιν). L’oratio continua si dà quindi per Giovanni nella forma di una costante disposizione interiore alla preghiera, chiamata a sostanziarsi nel corso del giorno e della notte con le parole e con i gesti che le danno più direttamente espressione. L’alzarsi in piedi per pregare dà poi luogo a orazioni diverse che sembrano voler esemplificare la condizione dell’orante e il suo rapporto con Dio, ritornando su un aspetto che era stato oggetto di un’altra domanda rivolta in precedenza al Grande Anziano (C 140). Il medesimo esicasta gli aveva chiesto in che modo occorresse pregare: con la Preghiera del Signore oppure con le parole di Macario l’Egiziano – «Signore come vuoi, abbi misericordia»? E nel momento della lotta bisogna dire: «Signore, come comandi, vieni in aiuto»37? La lettera si concludeva con la domanda: «Il Padre Nostro è solo dei perfetti»38? Nella sua risposta Barsanufio asseriva che la Preghiera del Signore «è stata prescritta sia perfetti che ai peccatori», anche se ad una ulteriore riflessione riteneva che con la sua quinta domanda («Rimetti a noi i nostri debiti») si addicesse di più ai peccatori. Inoltre, la sesta petizione («Non indurci in tentazione, ma liberaci dal male») equivaleva alle parole di Macario l’Egiziano39. Giovanni ribadisce la centralità della Preghiera del Signore come modello dell’orazione, ma essa è affiancata da espressioni che ricordano l’uso dell’εὐχὴ μονολόγιστος (la “preghiera di un solo pensiero”), riprese in parte nuovamente da Macario l’Egiziano. Questo accostamento lascia intravedere un’eco della riflessione di Barsanufio sul Padre Nostro: «invocare di essere riscattato e liberato dall’uomo vecchio (Ef 4,22; Col 3,9)»40 richiama implicitamente la quinta e la sesta petizione del Pater, su cui il Grande Anziano si era soffermato in precedenza (C 140). In una lettera successiva indirizzata allo stesso monaco, in risposta a una domanda sulla «preghiera perfetta» (C 150), Barsanufio indicherà la sesta petizione insieme alla terza come la quintessenza della Preghiera del Signore. In tal modo anch’essa risulta soggetta ad un’appropriazione di tipo formulare, a mo’ d’invocazione semplificata o di “giacula  Ap. Alph. Macario l’Egiziano 19 (col. 269 C): «Alcuni chiesero al padre Macario: “Come dobbiamo pregare?”. L’anziano rispose loro: “Non c’è bisogno di dire parole vane (Mt 6,7), ma di tendere le mani e dire: – Signore, come vuoi e come sai, abbi pietà di me. Quando sopraggiunge una tentazione, basta dire: – Signore aiutami! Poiché egli sa cosa è bene per noi e ci fa misericordia». 38   C 140 (Epistolario, p. 204). 39   C 140 (Epistolario, p. 205). 40   L’intero itinerario spirituale della vita monastica si può riassumere nel motivo del “deporre l’uomo vecchio” e “rivestirsi del nuovo”, come illustra C 49, 6-11 (Epistolario, p. 117): ἐγράφη σοι γὰρ ἀπὸ τοῦ ἄλφα ἕως τοῦ ὠμέγα, ἀπὸ ἀρχαρίου καταστάσεως μέχρι τοῦ τελείου, ἀπ’ ἀρχῆς τῆς ὁδοῦ μέχρι τοῦ τέλους αὐτῆς, ἀπὸ τοῦ ἐκδύσασθαι τὸν παλαιὸν ἄνθρωπον σὺν ταῖς ἐπιθυμίαις αὐτοῦ μέχρι τοῦ ἐνδύσασθαι τὸν νέον, τὸν κατὰ Θεὸν κτισθέντα (Ef 4,24; Col 3,10). Su questo testo e il carteggio in cui è inserito si veda Perrone 1988. 37

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toria”: «Non devi dire a Dio nella preghiera niente di più di questo: “Liberami dal Maligno” (Mt 6,13), “Si compia in me la tua volontà” (Mt 6, 10)»41. Nel nostro testo Giovanni porge una formularità di natura analoga, allorché suggerisce di recitare alla fine di ogni salmo le parole: «O Dio, abbi pietà di me miserabile» («Ὦ Θεός, ἐλέησόν με, τὸν ταλαίπωρον»). E ancora, quando si è tribolati dai pensieri, conviene pronunciare, alla maniera di Macario l’Egiziano, le seguenti parole: «O Dio, tu vedi la mia tribolazione, vieni in mio aiuto» («Ὦ Θεός, σὺ ὁρᾷς τὴν θλῖψίν μου, βοήθησόν μοι»). È una formula che peraltro sembra dover accompagnare il ritmo di lavoro del solitario, cioè oltre gli stessi momenti della prova, perché l’Altro Anziano prescrive ancora di recitarla dopo aver fatto «tre maglie nella rete» alzandosi a pregare, inginocchiandosi e levandosi. La risposta di Giovanni, mentre trama le manifestazioni dell’orazione attraverso le posture fisiche, alternando lo stare seduti all’alzarsi e inginocchiarsi, menziona anche in modo particolare la recita dei salmi. Si potrebbe dire al riguardo che, se vi è una pervasività della dimensione orante nella vita quotidiana del monaco, secondo l’immagine che ce ne fornisce la corrispondenza dei due Anziani di Gaza, essa dipende in larga misura dalla presenza e dal ricorso dei salmi. Questo si attua già nel momento del lavoro manuale, poiché tale attività deve essere svolta mediante la pratica della μελέτη, e dunque «col recitare a memoria o dire dei salmi» (ἀποστηθίζειν ἢ λέγειν ψαλμούς)42. Benché la memorizzazione si estendesse anche ad altri libri della Scrittura (e verosimilmente alla stessa tradizione apoftegmatica), come ci lasciano intravedere le nostre fonti, il Salterio vi occupava un posto tutto particolare43. Su di esso si imperniava infatti la formazione del monaco e l’ufficio divino, di cui anche la risposta di Giovanni, pur diretta a un esicasta, conserva tracce consistenti. Ciò ci spinge adesso a considerare il secondo punto della nostra indagine esaminando il legame fra preghiere e salmi, fra orazione individuale e liturgia delle ore. II. Preghiere e salmi: liturgia delle ore e orazione individuale Quantunque Giovanni avesse dichiarato preliminarmente – come abbiamo visto – che «i monaci di Scete non hanno ore né dicono odi», in seguito apporta delle   C 150, 15-21 (Epistolario, p. 210): Προσευχὴ δὲ τελεία, ἐστὶ τὸ λαλῆσαι τῷ Θεῷ ἀρεμβάστως, ἐν τῷ συνάγειν ὅλους τοὺς λογισμοὺς μετὰ τῶν αἰσθητηρίων. Ὁδηγεῖ δὲ εἰς τοῦτο τὸν ἄνθρωπον, τὸ ἀποθανεῖν ἀπὸ παντὸς ἀνθρώπου, καὶ ἀποθανεῖν τῷ κόσμῳ καὶ πᾶσι τοῖς ἐν αὐτῷ. Οὐδὲν δὲ περισσὸν ὀφείλει λέγειν τῷ Θεῷ ἐν τῇ εὐχῇ, εἰ μὴ τοῦτο· Ῥῦσαί με ἀπὸ τοῦ Πονηροῦ (Mt 6,13) καὶ Γενηθήτω ἐν ἐμοὶ τὸ θέλημά σου (Mt 6,10). Sulla terza domanda del Pater come “regola aurea” dei Padri di Gaza, cf. Perrone 2004b, pp. 141-144. 42  Secondo Hausherr 1960, p. 173, ἀποστηθίζειν implica i due significati di ‘ripetere’ e ‘memorizzare’: «ces deux sens se rejoignent, et parce qu’on n’apprend par cœur que ce qu’on se répète, et parce que les moines apprenaient par cœur précisément pour pouvoir se répéter des textes dans leurs allées et venues et pendant leurs travaux, sans recourir au parchemin ou au papyrus». 43   Si veda infra (n. 45) il passo di Cassiano e Perrone 2008, pp. 398-409. 41

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precisazioni importanti sull’ufficio divino degli Scetioti. Egli chiarisce infatti che anche per loro si dà una recita dei salmi in occasione dei vespri e delle vigilie: «Per i vespri, gli Scetioti dicono dodici salmi e alla fine di ciascuno, invece della dossologia, dicono “Alleluia” e fanno una preghiera. Similmente la notte, dodici salmi, e dopo i salmi siedono al lavoro manuale»44. Il quadro che si profila dalle parole dell’Altro Anziano corrisponde pienamente alla situazione descritta da Giovanni Cassiano nelle Institutiones a proposito del monachesimo egiziano di inizio V sec.: stando alla sua rassegna dettagliata, se si eccettuano i vespri e l’ufficio notturno, non ci sono riunioni di preghiera durante i giorni infrasettimanali, laddove i monaci si radunano il sabato e la domenica all’ora terza per ricevere la comunione45. Non è possibile ripercorrere la complessa panoramica sugli usi monastici relativi all’ufficio divino tracciata da Giovanni Cassiano nel secondo e nel terzo libro delle Istituzioni cenobitiche, se non per ricavarne qualche spunto di confronto con la risposta di Giovanni al nostro esicasta. Cassiano sottolinea la varietà degli ordinamenti, sia per i cenobiti che per gli eremiti, a seconda delle diverse regioni d’Oriente. Ad esempio, per gli uffici notturni, il numero dei salmi può variare da diciotto a venti o trenta, o anche di più46. A scapito di tale varietà, Cassiano ribadisce il modello rappresentato per lui dalla prassi monastica dell’Egitto e della Tebaide che prevede sia per i vespri che per le vigilie la recita di dodici salmi, seguiti da due letture (una dall’Antico e una dal Nuovo Testamento). L’autorevolezza di tale consuetudine si basa non solo sulla tradizione dei Padri più antichi ma anche sulla rivelazione ad opera di un angelo47. Cassiano pare riecheggiare un motivo che ritroviamo nella Storia Lausiaca a proposito della costituzione data da Pacomio alla propria comunità cenobitica, la   C 143, 30-33 (Epistolario, p. 207): Περὶ δὲ ἑσπερινῶν, δώδεκα ψαλμοὺς λέγουσιν οἱ Σκητιῶται, καθ’ ἕκαστον τέλος ἀντὶ δοξολογίας ἀλληλούϊα λέγοντες καὶ ποιοῦντες μίαν εὐχήν. Ὁμοίως δὲ καὶ τὴν νύκτα, δώδεκα ψαλμοὺς καὶ μετὰ τοὺς ψαλμοὺς καθέζονται εἰς τὸ ἐργόχειρον. 45   Inst. III, 2: «ita namque ab eis incessanter operatio manuum priuatim per cellulas exercetur, ut psalmorum quoque uel ceterarum scripturarum meditatio numquam penitus omittatur, cui preces et orationes per singula momenta miscentes in his officiis, quae nos statuto tempore celebramus, totum diei tempus absumunt. Quamobrem exceptis uespertinis nocturnisque congregationibus nulla apud eos per diem publica sollemnitas absque die sabbato uel dominica celebratur, in quibus hora tertia sacrae communionis obtentu conueniunt». 46   Inst. II, 2, 1: «Quidam enim uicenos seu tricenos psalmos et hos ipsos anthiphonarum protelatos melodiis et adiunctione quarundam modulationum debere dici singulis noctibus censuerunt, alii etiam hunc modum excedere temptauerunt, nonnulli decem et octo. Atque in hunc modum diuersis in locis diuersum canonem cognouimus institutum totque propemodum typos ac regulas uidimus usurpatas, quot etiam monasteria cellasque conspeximus». 47   Inst. II, 3, 4: «Igitur per uniuersam ut diximus Aegyptum et Thebaidem duodenarius psalmorum numerus tam in uespertinis quam in nocturnis sollemnitatibus custoditur, ita dumtaxat ut post hunc duae lectiones, ueteris scilicet ac noui testamenti singulae, subsequantur, qui modus antiquitus constitutus idcirco per tot saecula penes cuncta illarum prouinciarum monasteria intemeratus nunc usque perdurat, quia non humana adinuentione statutus a senioribus adfirmatur, sed caelitus angeli magisterio patribus fuisse delatus». 44

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quale includeva anche norme per il regime delle “preghiere”: un angelo gli avrebbe prescritto, fra l’altro, di «recitare durante il giorno dodici preghiere, dodici durante l’ufficio serotino, dodici in quello notturno e tre all’ora nona»48. È presumibile che la designazione di “preghiere” (εὐχαί) per questi uffici racchiuda implicitamente la recita dei salmi, sebbene Palladio aggiunga subito dopo che l’angelo avrebbe inoltre prescritto di «cantare un salmo prima di ciascuna preghiera» nell’accingersi a cenare. Com’è noto, il quadro della prassi pacomiana è assai più complesso di quanto risulti dall’immagine che ce ne dà Palladio, sia per il numero di preghiere sia per il rapporto fra queste e i salmi. Anche se dalle fonti pacomiane tardive si può trarre l’indicazione che le sinassi avessero per scopo di «recitare i salmi e pregare»49, all’inizio la salmodia non sembra avervi ancora occupato quel posto che essa vi avrà in seguito50. Anche l’aneddoto sull’addestramento alla vita monastica di Paolo il Semplice da parte di Antonio l’Eremita, tramandato ugualmente dalla Storia Lausiaca, tende a rispecchiare un regime in cui le “preghiere” si profilano in maniera più distinta accanto alla salmodia, collegandosi almeno in parte con questa mediante un abbinamento fisso. Per mettere alla prova il discepolo, Antonio al momento di cenare «intona un salmo che conosceva e lo canta per dodici volte», recitando quindi «per dodici volte una preghiera»51. Dopo aver cenato, Antonio si alza e recita nuovamente «dodici preghiere e dodici salmi», mentre interrompe il sonno a mezzanotte «per salmodiare fino a giorno»52. Benché l’ufficio notturno non menzioni più la presenza di preghiere lasciando spazio solo ai salmi, l’indicazione numerica per le preghiere e i salmi prima e dopo il pasto serale evoca la stessa quantità (una dozzina!) che in precedenza abbiamo visto indicare ripetutamente come l’unità di misura preferenziale. Ad ogni modo, il numero di dodici salmi previsto secondo Cassiano per gli uffici vespertini e quelli notturni corrisponde a quello indicato dall’Altro Anziano, seppure questi non ci rappresenti le stesse modalità di esecuzione almeno in un particolare: per Cassiano solo il dodicesimo salmo è concluso dall’Alleluia53, mentre per Gio48   Hist. Laus. 33, 6 (pp. 154-156, ll. 51-53): Ἐτύπωσε δὲ διὰ πάσης τῆς ἡμέρας ποιεῖν αὐτοὺς εὐχὰς δώδεκα, καὶ ἐν τῷ λυχνικῷ δώδεκα, καὶ ἐν ταῖς παννυχίσι δώδεκα, καὶ ἐννάτην ὥραν τρεῖς. 49   Pach. 84 (= Praecepta 141): «Nessuno cerchi pretesti per non andare alla sinassi, a recitare i salmi e a pregare». 50  Secondo Veilleux 1965, pp. 276-323, l’ufficio consisteva originariamente in una serie di letture, ognuna delle quali era seguita da una preghiera. 51   Hist. Laus. 22, 6 (p. 122, ll. 55-56) Anche se al § 7 (l. 59) si parla cumulativamente di «dodici preghiere» (μετὰ δὲ τὰς δώδεκα προσευχάς) il seguito del racconto induce a pensare al nesso preghiere + salmi. 52   Hist. Laus. 22, 8 (p. 122, ll. 68-70): Ἐγείρεται πάλιν καὶ ποιεῖ δεκαδύο εὐχὰς καὶ δεκαδύο ψαλμοὺς ψάλλει. Καθεύδει μικρὸν τοῦ πρωτουπνίου, καὶ πάλιν έγείρεται ψάλλειν μεσονυκτίῳ ἕως ἡμέρας. 53   Inst. II, 3, 5: «Cumque sedentibus cunctis, ut est moris nunc usque in Aegypti partibus, et in psallentis uerba omni cordis intentione defixis undecim psalmos orationum interiectione distinctos contiguis uersibus parili pronuntiatione cantasset, duodecimum sub alleluiae responsione consummans».

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vanni gli Scetioti «alla fine di ciascuno, invece della dossologia, dicono “Alleluia” e fanno una preghiera»54. Tuttavia, la menzione di una preghiera tra un salmo e l’altro è comune anche a Cassiano, il quale anzi ne rimarca l’importanza sottolineando il silenzio raccolto che l’accompagna in generale, a meno che non giunga ad interromperlo la preghiera che scaturisce dalle profondità più intime del cuore (conformemente alla ripresa, da parte di Cassiano, del motivo paolino dell’“orazione spirituale” secondo Rm 8,26, grazie all’idea della “preghiera di fuoco”)55. L’Altro Anziano non si sofferma invece su tale aspetto, ma preferisce da ultimo chiarire le modalità della salmodia, per cui chi salmeggia o recita a memoria, deve farlo a voce alta, sempre che non ci sia vicino qualcuno, in modo che nessuno sappia cosa sta facendo56. Questa raccomandazione conclusiva della risposta di Giovanni fa capire che per un esicasta (o semi-esicasta) anche la prassi della salmodia doveva essere vissuta in maniera intima e personale, senza istituire di necessità un legame coi modi della preghiera comunitaria. In realtà, la situazione del cenobio di Serido contemplava situazioni molto diverse e solo una parte dei monaci era dedita a un regime solitario o semi-esicastico. Anche per tale motivo conviene allargare lo sguardo al resto dell’epistolario, sia pure in forma sommaria data l’abbondanza degli spunti, per farci un’idea sul modo in cui la consuetudine col salterio compenetrava la vita orante della comunità, aldilà delle indicazioni tracciate dall’Altro Anziano nella lettera sotto esame. Singoli versetti potevano, ad esempio, costituire l’oggetto della “meditazione”, anche sulla falsariga del metodo per resistere ai “pensieri” esposto da Evagrio nell’Antirretico, come vediamo suggerire da parte di Barsanufio per due stichi di Sal 106. Il Grande Anziano raccomanda a Giovanni di Beersheva, un esicasta «caduto in una lotta di diversi pensieri», di meditare sempre i vv. 25-26b («Disse e si levò un vento di tempesta e si innalzarono le sue onde. Salgono fino al cielo e scendono fino agli abissi») e 26c («L’anima loro si struggeva nei mali»)57. La scelta non è per nulla fortuita, perché i versetti compendiano il combattimento spirituale del monaco in vista di pervenire «al porto del suo desiderio» (Sal 106,30), cioè alla mèta  Cf. supra, n. 44.   Inst. II, 3, 10: «Praeter illum, qui consurgens psalmum decantat in medio, nullus hominum penitus adesse credatur, ac praecipue cum consummatur oratio: in qua non sputus emittitur, non excreatio obstrepit, non tussis intersonat, non oscitatio somnolenta dissutis malis et hiantibus trahitur, nulli gemitus, nulla suspiria etiam adstantes inpeditura promuntur, non ulla uox absque sacerdotis precem concludentis auditur nisi forte haec, quae per excessum mentis claustra oris effugerit». Cassiano sembra alludere qui alla “preghiera di fuoco” (cf. Perrone 2011, pp. 602-605). 56   C 143, 36-39 (Epistolario, p. 207): Ὅταν δὲ ψάλλῃ ἢ ἀποστηθίζῃ, διὰ τῶν χειλέων ὀφείλει ψάλλειν, εἰ οὐκ ἔστι πλησίον αὐτοῦ ἄλλος, καὶ θέλει παρατηρῆσαι ἵνα μηδεὶς μάθῃ τί ποιεῖ. Sempre Giovanni, scrivendo a un altro padre esicasta in C 165 (Epistolario, p. 217), ribadisce il fatto che «quanto alla preghiera o alla salmodia, è necessario farla non solo con la mente ma anche con le labbra» a motivo di Sal 50,17 e Eb 13,15. 57   C 47 (Epistolario, p. 114). Cf. supra, n. 36. Per la traduzione italiana di Sal 106,25-26 LXX, si veda Canti, p. 456. 54 55

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della perfezione58. Barsanufio allude ancora a Sal 106,26a-b in un’altra occasione per insinuare a un fratello diacono coraggio e volontà di lottare: «Ahi! Monaco addormentato, mostra al diavolo che vivi per Dio, fuggendo presso di lui, unendo mani e piedi e tuffandoti nell’impeto delle ondate spirituali che salgono fino ai cieli e scendono fino agli abissi»59. Rispondendo ad un fedele laico avviato alla vita monastica che gli aveva chiesto se la compunzione si acquista con la preghiera, la lettura e la salmodia, il Grande Anziano illustra l’importanza della “memoria” (ὑπόμνησις), come “ricordo” (μνήμη) nella preghiera della propria condizione di peccatori e di debitori (di nuovo con trasparente riferimento alla quinta domanda del Pater), ma anche nella lettura e nella salmodia perché la mente accolga nella propria anima il significato delle parole. Se la durezza di cuore persiste, bisogna rammentarsi sempre delle parole di Sal 39,2 («Ho atteso, tanto atteso il Signore, e si è volto a me e ha esaudito la mia supplica»)60. La presenza diffusiva del Salterio affiora nelle circostanze più varie, senza che la richiesta di istruzioni sulla salmodia dia sempre adito a risposte in qualche modo normative. Lo si vede specialmente nel caso di monaci malati o che sono in situazioni particolari. Così Barsanufio evita di soddisfare la richiesta di una “regola” (κανών) per la salmodia, il digiuno e la preghiera che gli aveva presentato Giovanni di Beersheva, avviato ormai ad un regime di vita solitaria, e che doveva pertanto contare sulla sua personale capacità di discernimento61. Anche ad Andrea, un monaco anziano e malato, desideroso di conoscere «a quale misura appartiene la preghiera incessante», il Grande Anziano risponde che non deve preoccuparsi di avere una regola essendo infermo: «Così, quando ti viene da leggere, e vedi della compunzione nel tuo cuore, leggi quanto puoi; e così per la salmodia, il rendimento di grazie e il Kyrie eleison secondo le tue possibilità»62. Di conseguenza Andrea non deve affliggersi per il fatto che si addormenta, quando vuole recitare i salmi con la mente anziché con la bocca63. Un altro esicasta chiede invece conferma a Giovanni sul suo modo di pregare i salmi col Padre Nostro: «Quando salmeggio,   Il riferimento a Sal 106,30 compare anche in C 187 e C 199. Per tale motivo si veda Perrone 1988 e 2013. 59   C 240 (Epistolario, p. 273). 60   C 428 (Epistolario, p. 381); Canti, p. 156. Anche Evagrio raccomanda di servirsi di questo versetto «contro il pensiero dell’acedia che distrugge la speranza con cui perseveriamo, come se essa con il suo slancio non potesse convincere il Signore a usarci misericordia» (Antirrh. VI, 18 [p. 133]). Sui temi spirituali affrontati in questo carteggio diretto a un «laico con vocazione monastica» (C 399-449), si veda Perrone 2013, pp. 11-18. 61   C  23 (Epistolario, pp. 98-99). Invece in C 214 Barsanufio consiglia a un cenobita di rimettersi all’abate per quanto riguarda la salmodia e la veglia. 62   C 88 (Epistolario, pp. 158-159). Analoghe indicazioni gli offre Giovanni in C 85, 19-23 (Epistolario, p. 157): Οἱ γὰρ τέλειοι Πατέρες ἡμῶν κανόνος ὅρον οὐκ εἶχον, ὅλην γὰρ τὴν ἡμέραν κανόνα εἶχον μικρὸν ψάλλοντες, μικρὸν ἀποστηθίζοντες, μικρὸν ἐρευνῶντες τοὺς λογισμούς, μικρὸν σχολάζοντες περὶ τῆς τροφῆς, καὶ τοῦτο κατὰ φόβον Θεοῦ. 63   C 89 (Epistolario, p. 159). 58

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devo dire a ogni salmo il Padre Nostro? Oppure dire il Padre Nostro in un momento determinato e spendere il resto del tempo in suppliche?». L’Altro Anziano sembra ignorare la prima delle due domande e rispondere solo alla seconda, osservando che recitare il Padre Nostro e fare suppliche una volta sono la stessa cosa64. Più circostanziata è la risposta di Giovanni ad un cenobita al quale era stato affidato il compito di servire un anziano nella sua cella, lasciando la convivenza coi suoi confratelli nel cenobio: anche da solo dovrà praticare la salmodia notturna nel loro stesso modo, cioè «dicendo per ogni ode tre salmi e facendo genuflessioni» così da non diventare preda del sonno65. Non mancano poi gli esempi di un primo approccio per apprendere i salmi a memoria oppure delle difficoltà che sopraggiungevano a volte nel recitarli, sebbene per il Grande Anziano non si dovesse smettere di memorizzarli «perché essi sono una forza» e un aiuto incalcolabile66. Un monaco, ex-soldato, confessa a Barsanufio di essere stato assalito dal pensiero dei suoi cari, che erano venuti a trovarlo di recente, mentre se ne stava in disparte «per imparare un salmo» (ἵνα μάθω ἕνα ψαλμόν), al punto di essersi messo a sudare per lo sconforto67. Le difficoltà di accostarsi ai salmi possono essere anche di natura linguistico-culturale, come vediamo dalla richiesta di un monaco egiziano al Grande Anziano: non comprendendo le letture in greco, deve imparare i salmi in questa lingua68? Un altro monaco, che pone spesso domande sul modo di pregare, lo interroga a sua volta su cosa fare quando capita di distrarsi o di sbagliarsi nel recitare a memoria i salmi (ὅτε στιχολογῶ τοὺς Ψαλμούς). La risposta del Grande Anziano manifesta con la sua preoccupazione didascalica, diremmo quasi “mnemotecnica”, quanto acuta fosse presso questi monaci la preoccupazione di evitare, per quanto possibile, una prassi di preghiera disattenta e meccanica. La “distrazione” (μετεωρισμός) era infatti uno degli ostacoli principali sulla via dell’oratio continua. Se ti sbagli, riprendi il salmo che stai recitando dalle parole che ti ricordi e se, riprendendolo una e due e tre volte non riesci a ricordarti qualche parola, oppure se, ricordandola, non riesci ad andare avanti, ricomincia quello stesso salmo dall’inizio, poiché è scopo del nemico impedire la dossologia con la dimenticanza: il recitare di seguito è dossologia. Il non distrarsi è proprio di quelli che hanno i sensi puri; ma 64   C 176, 1-3 (Epistolario, p. 222): Ὅτε ψάλλω, ὀφείλω καθ’ ἕκαστον ψαλμὸν τὸ Πάτερ ἡμῶν λέγειν ἢ ἐν καιρῷ τὸ Πάτερ ἡμῶν καὶ τὰ λοιπὰ εἰς δεήσεις ἀναλίσκειν; Da notare che lo stesso padre esicasta chiede più avanti (C 178 [Epistolario, p. 222]) chiarimento sulle intercessioni per «la pace delle sante Chiese, dell’imperatore, dei principi, dei popoli, dei poveri e delle vedove, e di altre simili intenzioni», a conclusione dell’ufficio vespertino e notturno. 65   C 248 (Epistolario, pp. 278-279). 66   C 215 (Epistolario, p. 253). 67   C 495 (Epistolario, p. 418). 68   C 228, 2-5 (Epistolario, p. 260): Παρακαλῶ σε, Πάτερ, ἐπειδὴ ἀναγινώσκω τὸ ἑλληνιστὶ καὶ οὐ νοῶ τί λέγω, εὖξαι ἵνα ὁ Κύριος συνετίσῃ με εἰς τὴν ἀνάγνωσιν, καὶ εἰπέ μοι εἰ ὀφείλω μαθεῖν ἑλληνιστὶ τοὺς ψαλμούς.

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noi siamo deboli. Quando però ci accorgiamo della distrazione, vigiliamo subito per comprendere le parole che diciamo, affinché non siano a nostra condanna69.

Fra i cenobiti della comunità di Serido poteva pure capitare che uno dei fratelli presenti non sapesse cantar bene i salmi, a cori alterni, insieme agli altri. Ma per Giovanni, preoccupato anche lui di evitare le distrazioni, è preferibile che canti da dove sa piuttosto che limitarsi ad ascoltare col rischio di svagare la testa70. È sintomatico che la casistica circa gli atteggiamenti e le reazioni che si manifestano durante la salmodia sia particolarmente frequente e varia, a riprova del costante contatto col Salterio non solo nell’esistenza monastica ma anche nella vita dei fedeli legati al cenobio di Serido71. Ora c’è il rischio d’inorgoglirsi nel salmeggiare bene72, ora di abbattersi per il peso dei “pensieri” che a volte possono nascere dalle stesse parole del salmo73, mentre ci si sforza di comprenderle74. Affrontando nuovamente il problema di un monaco «infermo e incapace di fare la sua liturgia in piedi», il Grande Anziano dopo un’esegesi singolare che applica in chiave spirituale alla sua malattia il passaggio degli Israeliti attraverso il Mar Rosso e la sconfitta del faraone, gli spiega come realizzare la preghiera ininterrotta (ἀδιαλείπτως) del cuore, con una rinnovata eco di 1 Ts 5, 17. Sia che tu stia in piedi sia che tu segga, sia che tu sia sdraiato (Dt 6, 7), sia desto il tuo cuore per compiere la tua liturgia dei salmi, piegando le tue ginocchia in preghiera, cadendo con la faccia a terra davanti a Dio senza interruzione (ἀδιαλείπτως), sia di notte che di giorno; e allora si ritireranno confusi i nemici che combattono l’anima75.

III. Dalle molte preghiere all’“unica preghiera”: l’emergere della “preghiera di Gesù” Il richiamo di Barsanufio alla preghiera del cuore per compiere una «liturgia dei salmi» interiore e ininterrotta ci riporta nuovamente, per finire, al tema dell’oratio continua. Nel testo da cui siamo partiti, la lettera di Giovanni all’esicasta (C 143),   C 443 (Epistolario, p. 387). Diverso è invece il caso del laico che, mentre fatica ad apprendere il resto, impara velocemente i salmi, ma si preoccupa che ciò non sia un’astuzia del demonio (C 402 [Epistolario, p. 368]). Una preghiera per essere liberato dalla distrazione si trova in C  660, 7-10 (Epistolario, p. 524): «Κύριε, συγχώρησόν μοι διὰ τὸ ὄνομά σου τὸ ἅγιον, ὅτι ἐκ τῆς ἐμῆς ἀμελείας ἔφθασέ με τοῦτο, καὶ λύτρωσαί με ἀπὸ τοῦ μετεωρισμοῦ καὶ πάσης παγίδος τοῦ ἐχθροῦ, ὅτι σοῦ ἐστιν ἡ δόξα εἰς τοὺς αἰῶνας. Ἀμήν». 70   C 447 (Epistolario, p. 388). 71   Ad es., in C 711 (Epistolario, p. 544). 72   C 423 (Epistolario, p. 378). 73   C 424 (Epistolario, pp. 378-379); C 427 (pp. 380-381). 74   C 429 (Epistolario, p. 382). Si veda anche C 445 (Epistolario, p. 387). 75   C 511 (Epistolario, p. 429). Cf. inoltre C 519 (p. 434). 69

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figurava ancora uno spunto che merita di essere approfondito. L’Altro Anziano gli suggeriva anche di concludere i salmi con due formule brevi di preghiera, l’una delle quali («O Dio, abbi pietà di me miserabile») era indicata come l’espressione normale, mentre l’altra («O Dio, tu vedi la mia tribolazione, vieni in mio aiuto») era da pronunciarsi in circostanze di particolare difficoltà76. Benché l’epistolario dei due Anziani non ignori il ricorso a orazioni di più ampio respiro, influenzate dai testi della Scrittura e verosimilmente anche dal linguaggio della liturgia (come riscontriamo soprattutto nell’interessante carteggio dell’esicasta Eutimio con Barsanufio)77, la modalità più comune di pregare opta per formule corte, in generale sotto la forma di suppliche. Le si può dunque accostare alla formula pietatis di Giovanni Cassiano, non solo per la loro brevità, ma anche per il contenuto e per la funzione che sono chiamate a svolgere. Nella quasi totalità si tratta di domande d’aiuto a Dio o a Gesù, spesso sostenute da un riferimento biblico, salvo quando questo è utilizzato appositamente come espressione di preghiera. In molti casi tali richieste si presentano anche come preghiere penitenziali di chi si riconosce peccatore e bisognoso di aiuto. Solo in un’occasione risultano suscettibili di essere quantificate, il conteggio essendo ritmato stavolta sul numero delle genuflessioni fatte per respingere le tentazioni notturne: in questa lotta, secondo il consiglio di Giovanni, un monaco dovrà eseguire «sette volte sette genuflessioni, dicendo per ognuna: “Signore, ho peccato. Perdonami per il tuo nome santo”». Qualora non possa genuflettersi in caso di malattia o perché è domenica, egli dovrà ripetere comunque la stessa formula per quarantanove volte78. Si noti qui la menzione del “nome” (di Gesù) che, come vedremo fra breve, acquista particolare rilievo nella prospettiva dell’oratio continua. Come traspariva già dagli usi di Macario di Scete, una delle espressioni più ricorrenti è il Kyrie eleison. Ad Andrea che lo interrogava sulla “misura” della preghiera incessante Barsanufio rispondeva con diverse istruzioni su come impiegare la giornata in meditazione e preghiera con varie modalità più adatte alla sua condizione di malato, fra cui il Kyrie eleison79. L’invito a tener duro in questa supplica, sia pure «in base alle proprie possibilità», lascia intravedere un suo uso ormai tecnico o standardizzato quale manifestazione di una disposizione penitenziale e di supplica per la misericordia divina. Lo si nota anche dalla domanda di un altro esicasta che chiede se «sia bene applicarsi alla preghiera: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”, o piuttosto ripetere a memoria dalla divina Scrittura e recitare dei salmi»80. Con un altro monaco infermo, ansioso di «lavare le sozzure», Barsanufio non si fa scrupolo di esortarlo a gridare a Gesù fino a che la sua gola diventi  Cf. supra, p. 165.   Perrone 2010. 78   C 168, 18-19 (Epistolario, p. 219): Ἥμαρτον, Κύριε, συγχώρησόν μοι διὰ τὸ ὄνομά σου τὸ ἅγιον. 79   C 87, 18-19 (Epistolario, p. 159): τὸ «Κύριε, ἐλέησον» κράτει κατὰ τὴν δύναμίν σου. 80   C 175, 1-2 (Epistolario, pp. 221-222): Ἆρα καλόν ἐστι τὸ ἀδολεσχεῖν με εἰς τὸ «Κύριε Ἰησοῦ Χριστὲ ἐλέησόν με». 76 77

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rauca: «Maestro, salvaci, periamo (Lc 8,24)!», trasformando in preghiera le parole del racconto evangelico sulla tempesta sedata81. La preghiera intensa e ripetuta si conferma nuovamente come richiesta continua di salvezza in una delle esternazioni più appassionate del Grande Anziano, che accompagna l’appello pressante a «diventare Dio» per il Figlio di Dio, così come lui è diventato uomo per noi, con l’esortazione a «gridare incessantemente: “Salvami, Signore! E sarò salvo» (Ger 17,14; Mt 14,30)82. Sono voci che tramano una vita spirituale già animata dalla preghiera, ad esempio con la recita dei salmi, ma che rispondono al bisogno di resistere agli attacchi dei “pensieri” con un’orazione più immediata e filtrata dai testi della Scrittura: «Signore, sono nelle tue mani. Aiutami e strappami dalle loro mani!»83. Si capisce che qui e altrove abbiamo sempre a che fare con formule “di pronto uso”, facilmente memorizzabili e imitabili, come tende a insinuare anche il fatto che siano introdotte talora con espressioni simili da entrambi gli Anziani. La loro frequenza è sì un indizio dell’urgenza del combattimento spirituale, ma si configura anche come una risposta all’istanza dell’oratio continua, sia pure con un’approssimazione inadeguata e lontana dalla condizione dei perfetti «che possono pregare gli uni per gli altri». Giovanni lo ricorda a un fratello, mentre gli raccomanda di pregare così per sé: «Signore, strappami dai miei peccati e dalle passioni vergognose»; se poi gli verrà richiesto di pregare per altri, dovrà limitarsi a dire: «Dio abbia pietà di noi»84. Né viene mai meno la consapevolezza che pregare è difficile e soggetto alle distrazioni, ma qualora ciò avvenga, non si manchi di chiedere perdono: «Signore abbi misericordia di me e perdonami tutte le mancanze»85. Quasi tutte le orazioni che abbiamo ripercorso hanno come destinatario «il Signore», cioè Gesù Cristo, ma anche le due suppliche indirizzate a «Dio» nella risposta di Giovanni vanno intese ugualmente in riferimento a Cristo. Lo intuiamo anche dal fatto che, nonostante la varietà delle formule di preghiera, esse vengono ad essere riepilogate nell’«invocazione del nome di Cristo Signore», del suo   C 148 (Epistolario, p. 208).   C 199, 46-47 (Epistolario, p. 241): Ἀλλ’ ἐξ ἡμῶν ἐστι τὸ βοᾶν ἀδιαλείπτως· «Σῶσόν με Κύριε, καὶ σῴζομαι». 83   C 215 (Epistolario, p. 253). Più articolata è l’orazione che compare, con analogo intento, in C 543, 8-12 (Epistolario, p. 444): Ὅταν σφίγξῃ ὁ πόλεμος, σφίγξον καὶ σύ, κράζων· «Κύριε Ἰησοῦ Χριστέ, σὺ βλέπεις τὴν ἀδυναμίαν μου καὶ τὴν θλῖψίν μου, βοήθησόν μοι καὶ ῥῦσαί με ἀπὸ τῶν καταδιωκόντων με, ὅτι πρὸς σὲ κατέφυγον». 84   C 249, 11-14 (Epistolario, p. 279): Περὶ δὲ εὐχῆς λέγε· «Κύριε, ῥῦσαί με ἀπὸ τῶν ἁμαρτιῶν μου καὶ ἀπὸ τῶν παθῶν τῆς ἀτιμίας». Καὶ ἐάν τις εἴπῃ· Εὖξαι ὑπὲρ ἐμοῦ, εἰπὲ ἐν τῇ καρδίᾳ σου· «Ὁ Θεὸς ἐλεήσει ἡμᾶς», καὶ ἀρκεῖ. Si noti come in C 255, 16-17 (Epistolario, p. 283) Barsanufio suggerisca a Doroteo di Gaza una “preghiera continua” di tenore analogo: Ἀδιαλείπτως δὲ εὐχόμενος λέγε· «Κύριε Ἰησοῦ Χριστὲ σῶσόν με ἀπὸ τῶν παθῶν τῆς ἀτιμίας». 85   C 444, 8-9 (Epistolario, p. 387): εἰπὲ μετὰ κατανύξεως· «Κύριε, ἐλέησόν με καὶ συγχώρησόν μοι πάντα τὰ πλημμελήματά μου». 81 82

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«nome santo» o del «nome di Dio»: in questo senso, recitare il Kyrie eleison equivale a «invocare il nome di Dio»86. Nel carteggio spesso menzionato, a motivo della sua ricca casistica riguardo alla preghiera e alla salmodia, incontriamo la domanda se non sia bene «applicarsi all’invocazione del nome di Cristo Signore», anche quando siamo in pace e non sembrerebbe esserci bisogno del suo aiuto. La risposta di Barsanufio non lascia dubbi sul fatto che si tratti di un’astuzia demoniaca, affinché il cuore non si spinga a «invocare il nome di Dio»: i demoni «non ignorano infatti che sono snervati dalla sua invocazione. Sapendolo dunque, non cessiamo di invocare il nome di Dio in aiuto», secondo 1 Ts 5,17, cioè senza limite e misura87. La ragione dell’invocazione costante del nome di Dio è prima di tutto “antirretica”, o meglio protettiva e terapeutica: «invocare il nome di Dio incessantemente è un farmaco che sopprime non solo tutte le passioni ma l’azione stessa» (del peccato)88. Essa è anche il modo, come si è detto, più immediato e diffuso per praticare l’oratio continua per la maggior parte dei monaci. Siamo dunque giunti con ciò a quella “preghiera di Gesù”, diffusa dall’Egitto alla Palestina ed altre regioni del monachesimo antico e bizantino, di cui la Vita di Dositeo ci offre l’illustrazione esemplare presso i Padri di Gaza. Il giovane paggio, fattosi monaco nel cenobio di Serido e istruito da Doroteo a praticare un’obbedienza eroica, secondo l’ideale ascetico del “taglio della volontà propria” caro a questo monachesimo, conserverà fino all’ultimo la “preghiera del nome di Gesù” che gli aveva trasmesso il suo padre spirituale. Anche sul letto di morte, fin quando le sue forze lo consentiranno, Dositeo continuerà a recitare l’orazione insegnatagli da Doroteo: «Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me», o alternativamente «Figlio di Dio, aiutami», per potere così attuare ancora la costante «memoria di Dio»89. Forse non è un caso dovuto semplicemente alla tradizione manoscritta il fatto che l’ultima lettera della corrispondenza contenga una spiegazione proprio su 1 Ts 5,16-18, quasi a voler suggellare l’intero discorso spirituale dell’epistolario. Il passo paolino viene considerato qui come la quintessenza della nostra salvezza: mentre il «rallegrarsi sempre» (1 Ts 5,16) si può dare solo vivendo secondo giustizia e il 86   C 446, 17-18 (Epistolario, p. 388): Καὶ προσεύχου τὸ ἅγιον ὄνομα τοῦ Θεοῦ, λέγων τὸ «Κύριε Ἰησοῦ Χριστέ, ἐλέησόν με». 87   C 425, 17-20 (Epistolario, pp. 379-380): μὴ παυσώμεθα ἐπικαλούμενοι τὸ ὄνομα τοῦ Θεοῦ εἰς βοήθειαν, αὕτη γὰρ εὐχή ἐστιν, καί φησιν· «Ἀδιαλείπτως προσεύχεσθε», τὸ δὲ ἀδιαλείπτως πέρας ἢ μέτρον οὐκ ἔχει. 88   C 424, 25-32 (Epistolario, p. 379): Ἐπὶ δὲ τούτοις πᾶσι μανθάνομεν ὅτι τὸ ἀδιαλείπτως ὀνομάζειν τὸν Θεόν, φάρμακόν ἐστιν ἀναιρετικόν, οὐ μόνον ὅλων τῶν παθῶν, ἀλλὰ καὶ αὐτῆς τῆς πράξεως. Καθὼς γὰρ ὑποβάλλει ὁ ἰατρὸς τὸ φάρμακον ἢ τὸ ἔμπλαστρον ἐπάνω τοῦ τραύματος τοῦ πάσχοντος, καὶ ἐνεργεῖ μὴ εἰδότος τοῦ ἀρρωστοῦντος τὸ πῶς, οὕτω καὶ τὸ ὄνομα τοῦ Θεοῦ ὀνομαζόμενον ἀναιρεῖ, καὶ ἡμῶν μὴ εἰδότων τὸ πῶς, πάντα τὰ πάθη. Secondo C 709 (Epistolario, p. 543), invocare il nome di Dio «annienta ogni tentazione». 89   V. Dos. 10 (pp. 112-114): Εἶχεν δὲ ἀεὶ καὶ μνήμην Θεοῦ· ἦν γὰρ παραδοὺς αὐτῷ τὸ ἀεὶ λέγειν· «Κύριε Ἰησοῦ Χριστέ, ἐλέησόν με»· καὶ μεταξύ· «Υἱὲ τοῦ Θεοῦ, βοήθησόν μοι». Εἶχεν οὖν πάντοτε ταύτην τὴν εὐχήν.

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«rendere grazie in tutto» (1 Ts 5,18) è la prova manifesta del nostro amore per Cristo, il «pregare senza interruzione» (1 Ts 5,17) impedisce di compiere il male e non lascia in noi alcun posto per il diavolo90. Barsanufio non ignora affatto l’espressione più alta dell’oratio continua, quella attingibile solo ai perfetti con «la venuta dello Spirito che insegna all’anima ogni cosa» (conformemente a Rm 8,26), dal momento che essi sono giunti alla condizione d’impassibilità91. Tuttavia, il regime orante dei Padri di Gaza tende piuttosto a collocarsi ancora nello stadio “intermedio”, perché appare segnato costitutivamente dalla consapevolezza dell’esistenza monastica come perennemente agonica, sia pure sostenuta dalla costante «invocazione del Nome» di Gesù e dalla certezza del suo aiuto. Bibliografia Fonti Antirrhet. = Evagrio Pontico, Contro i pensieri malvagi. Antirrheticos, intr. di G. Bunge, trad. e note di V. Lazzeri, Magnano 2005. Ap. Alph. = Apophthegmata Patrum, PG 65. Ap. Syst. = Les apophthegmes des Pères. Collection systématique, ch. x-xvi, ch. xviixxi, a cura di J.C. Guy (SC 474, 498), Paris 2003, 2005. C = Barsanuphe et Jean de Gaza, Correspondance, ed. a cura di F. Neyt e P. de Angelis-Noah, trad. di L. Regnault (SC 426-427, 450-451, 468), Paris 1997-2002. Canti = I canti di lode dei Padri. Esapla dei Salmi, a cura della Piccola Famiglia dell’Annunziata, Bologna-Reggio Emilia 2009. Conl. = Iohannes Cassianus, Collationes, ed. M. Petschenig, editio altera supplementis aucta curante G. Kreuz (CSEL 13), Wien 2004. Epistolario = Barsanufio e Giovanni di Gaza, Epistolario, trad. intr. e note a cura di M.F.T Lovato e L. Mortari, Roma 1991. Hist. Laus. = Palladio, La Storia Lausiaca, intr. di Ch. Mohrmann, testo crit. e comm. a cura di G.J.M. Bartelink, trad. di M. Barchiesi, Milano 1974. Hist. mon. = Historia monachorum in Aegypto, ed. A.-J. Festugière, Bruxelles 1971. Inst. = Iohannes Cassianus, De institutis coenobiorum. De incarnatione contra Nestorium, ed. M. Petschenig, editio altera supplementis aucta curante G. Kreuz (CSEL 17), Wien 2004. 90   C 848, 4-12: Ἐν τοῖς τρισὶ τούτοις περιορίζεται πᾶσα ἡ σωτηρία ἡμῶν· Τὸ γὰρ «πάντοτε χαίρειν» (1 Ts 5,16) δικαιοσύνης ἐστὶ περιποιητικόν, οὐδεὶς γὰρ δύναται χαίρειν ἀληθῶς, εἰ δοκεῖ μὴ δικαίως ἐξάγων τὸν ἑαυτοῦ βίον ἀεί. Καὶ τὸ «ἀδιαλείπτως προσεύχεσθαι» (1 Th 5, 17) ἀποτροπή ἐστι παντὸς πονηροῦ, τόπον γὰρ καθ’ ἡμῶν οὐ δίδωσι τῷ διαβόλῳ. Καὶ τὸ «ἐν παντὶ εὐχαριστεῖν» (1 Th 5, 8) τῆς πρὸς Χριστὸν ἀγάπης ἀπόδειξίς ἐστι φανερά. Ἀμφοτέρωθεν τοίνυν κανονιζόμενοι, εὐχαριστῶμεν τῷ Κυρίῳ. 91   C 88 (Epistolario, pp. 158-159).

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GIROLAMO E PAOLA AI LOCA SANCTA

Francesco Pieri

1. L’Epitaphium Paulae tra gli Itineraria del IV secolo A seguito della morte di papa Damaso Girolamo concluse nel 385 la sua permanenza romana, per dirigersi assieme a Paola alla volta della Palestina, lasciando – dopo circa un triennio – quell’Urbe in cui non avrebbe fatto più ritorno1. Una volta stabilitisi a Betlemme, sito che si configurava agli occhi dello Stridonense quale vero punto focale della rete topografica dei loca sancta, i due sodali diedero vita all’insediamento monastico nel quale Girolamo avrebbe dimorato fino al 419, anno della sua morte. C’informa sull’iter (o itinerarium) compiuto da Paola e Girolamo l’ep. 1082, che in base alla tradizione manoscritta dev’essere più correttamente denominata Epitaphium Sanctae Paulae3: si tratta infatti dello scritto consolatorio ed enco  La migliore introduzione a Girolamo è attualmente Fürst 2003; cfr. inoltre Rebenich 1992. Sul nostro tema si vedano almeno Maraval 1988; Newman 1988; Perrone 1999; Weingarten 2005, il più completo studio d’insieme sulla “geografia” di Girolamo. Cfr. inoltre la nota 12 per altri titoli sulla genesi del pellegrinaggio cristiano. 2   Gran parte delle osservazioni raccolte nel presente contributo sono state sollecitate dalla lettura del recente, ricchissimo commentario di Cain 2013; in italiano esisteva già l’edizione con commento di Smit 1975. L’edizione resta quella di I. Hilberg in CSEL 54-56, Vindobonae 1910-1918, pp. 306351, tenendo conto delle numerose correzioni testuali proposte dallo stesso A. Cain. 3   Nel prosieguo ci riferiamo a questa opera come Epit. Paulae. Difende questa intitolazione Cain 2013, p. 98, rilevando anche come altri tre scritti dell’epistolario (epp. 60; 75; 77) siamo denominati epitaphium dallo stesso Girolamo; così d’altronde già lo stesso Hilberg. Weingarten 2005 presenta l’Itinerarium dopo le tre vite monastiche di Paolo, di Ilarione e di Malco, suggerendo con ciò stesso una certa assimilazione dello scritto al genere agiografico, e al contempo identifica in esso elementi delle convenzioni letterarie ascrivibili a quattro altri generi differenti: consolatio, propempticon (o iter), encomium, epitaphium. 1

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miastico che, con accenti accorati, Girolamo compose in occasione della scomparsa (404) della sua diletta patrona e discepola4. Nella sua parte centrale – l’excursus dei capp. 7-14, corrispondenti a circa un terzo dell’estensione complessiva dell’opera – viene descritto dapprima l’avvicinarsi di Paola alla Palestina, poi le altre visite compiute nel corso del suo lungo viaggio fino all’insediamento monastico di Nitria, nel Nord dell’Egitto, che essa raggiunse prima di stanziarsi definitivamente a Betlemme tra la fine dell’inverno del 385 e la primavera del 386. Il caso esemplare di Paola si colloca tra le non rare consimili intraprese, che nella seconda metà del IV secolo fecero della peregrinazione verso i loca sancta un nuovo costume cristiano, per quanto indubbiamente elitario. Il presupposto di tali viaggi risiede nella inventio topografica e archeologica della Terra Santa dei decenni precedenti, che costituisce uno dei fattori decisivi nella rappresentazione del nuovo equilibrio politico-religioso, successivo alla tolleranza verso tutti i culti promulgata da Costantino nel 313. L’imperatore, deceduto nel 337, aveva infatti dedicato gli ultimi anni della sua vita alla messa in opera in Palestina di un programma urbanistico ed edilizio funzionale alla memoria e alla liturgia cristiane5, proseguendo così idealmente l’opera della madre Elena che, già tra il 326 e il 328, si era fatta pellegrina alla ricerca delle vestigia della passione di Cristo. Nessuna inventio può dirsi del tutto priva di presupposti e la stessa monumentalizzazione in senso cristiano dei dintorni di Gerusalemme, messa in atto da Costantino secondo un preciso programma culturale e propagandistico, non nasceva evidentemente dal nulla: è al contrario ragionevole pensare che anche tra II e IV secolo dovesse essersi conservata un’ininterrotta, seppur tenue, continuità di memorie riguardanti quei luoghi che i fili della tradizione permettevano di ricollegare a Gesù. Su tale genere di memorie vennero a sovrapporsi i nuovi complessi basilicali cristiani. Se per l’epoca pre-costantinana rimangono assai rare e di interpretazione spesso incerta le tracce di natura archeologica relative a viaggiatori occidentali e cristiani in Palestina6, possediamo per contro una certa serie d’informazioni giunte per via letteraria; si tratta tuttavia perlopiù di notizie ricavabili da fonti posteriori7, in cui la motivazione prevalente del viaggio pare si rivolgesse all’esegesi e alla toponomastica biblica piuttosto che (pur con tutti i limiti che tale   Esponente di famiglia senatoria, Paola aveva preso nel 381 la risoluzione di conservare la vedovanza e dedicarsi alla vita ascetica, sotto la guida di Girolamo; cfr. Fürst 2003, pp. 200-201. 5   Per una disamina completa dei molteplici problemi legati all’operazione culturale costantiniana, si veda da ultimo Canella 2016; cfr. inoltre Salvarani 2013. 6   Salvarani 2013, p. 303 menziona la presenza sul sito del Golgota di una tavoletta dipinta recante l’iscrizione DOMINE IVIMUS (“O Signore, noi siamo venuti”). 7   Di prima mano sono le notizie su Pionio di Smirne e su Origene, sia prima che dopo il trasferimento a Cesarea; sono invece trasmesse da Eusebio quelle su Melitone di Sardi e Alessandro di Gerusalemme, mentre su Firmiliano di Cappadocia c’informa lo stesso Girolamo; cfr. Monaci Castagno 2018. Più sfumato sulla motivazione prettamente biblico-erudita è per contro Perrone 2013, p. 157. 4

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distinzione può avere nel caso di visitatori cristiani) a scopi prettamente devozionali. Nel caso di Alessandro, che divenne poi vescovo di Gerusalemme dopo essere stato a capo di altra diocesi, è possibile che il resoconto venisse condizionato dalla celebrazione post-costantiniana dei loca sancta e della loro ritrovata centralità simbolica. Troviamo negli anni Trenta del IV secolo la figura, piuttosto evanescente, dell’anonimo viaggiatore di Bordeaux (forse non un “pellegrino” in senso stretto, malgrado gli indubbi interessi religiosi) il quale lasciò del suo itinerarium un resoconto assai sobrio, essenzialmente costituito da annotazioni circa le mansiones e le mutationes compiute, con le relative distanze percorse8. Attorno al 378 Melania9 si era stabilita sul Monte degli Ulivi, dove nel 381 l’avrebbe raggiunta Rufino; i due avrebbero poi dato inizio, primi fra i latini in Oriente, a una fondazione monastica. Il più noto tra gli itineraria rimane comunque quello di Egeria10, che partendo – a quanto sembra – dalla Galizia si mosse verso Oriente tra il 381 e il 384. Il fatto che nel suo diario di viaggio la pellegrina si rivolga spesso a distanza a certe sue sorores ha fatto pensare che Egeria appartenesse a un circolo di donne di buona cultura e socialmente altolocate, unite da scopi religiosi, in altre parole che fosse una “monaca” o vedova in un senso non dissimile dal circolo aventiniano di Girolamo cui apparteneva la stessa Paola11. Doveva comunque trattarsi di una personalità insigne, data anche la facilità di accesso di cui essa sembra godere presso le più rilevanti figure ecclesiastiche del suo tempo. A rigore i casi del Burdigalense e di Egeria rientrano nella tipologia della Wallfahrt, un «pellegrinaggio compiuto sulla base di un espresso programma di rientro in patria», mentre quello di Paola e Girolamo (come già prima quello di Melania e Rufino, interrottosi nella primavera del 400 con il ritorno a Roma, forse inizialmente non previsto), rappresentano piuttosto una Pilgerfahrt, un «viaggio senza prospettiva di rientro, concepito come fase conclusiva dell’esperienza esistenziale, come conversio definitiva, con una forte componente escatologica»12. 8  Per l’Itinerarium Burdigalense ci si riferisce all’edizione di P. Geyer, O. Cuntz in CCL 175, Thournolti 1965, pp. 1-26. Pur non appartenendo al genere degli itineraria, anche le Catechesi di Cirillo sono costellate di accenni ai luoghi santi, all’attività edificatoria di Costantino, alla nascita di una liturgia stazionale e all’afflusso dei pellegrini sempre più numerosi a Gerusalemme: Cat 10,9 (Giordano, lago di Tiberiade, legno della croce, Getsemani, Golgota); 14,22 (Santo Sepolcro); 16,4 (Golgota, sala superiore della Pentecoste); 17,13.16 (Pentecoste). 9  Cfr. Fürst 2003, pp. 193-194; sulla partenza da Roma, che in un primo tempo potrebbe non essere stata intesa come definitiva, si veda più ampiamente Consolino 2006, in particolare le pp. 75-84. 10   Ci riferiamo alla edizione di N. Natalucci (ed.), Egeria. Pellegrinaggio in Terra santa, in Biblioteca Patristica 17, Nardini editore, Firenze 1991. 11   Cfr. il paragrafo seguente. 12  Cfr. Salvarani 2007, p. 12; inoltre Bitton-Ashkelony 2005, p. 67 suggerisce: «We can perceive his [ Jerome’s] journey as emigration rather than pilgrimage». Restano inoltre importanti i contributi di Maraval 2004; Wilken 1992.

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Un primo elemento di affinità tra la sezione di viaggio interna all’Epitaphium Paulae e l’omologo diario della Galiziana è proprio rappresentato dal frequente contatto con le figure ecclesiastiche – asceti, vescovi, presbiteri – incontrando i quali i pellegrini occidentali possono toccare con mano la persistenza di una memoria riferita ai singoli loca sancta, vivente nella tradizione e nel servizio liturgico caratteristico di ogni sito visitato. Questo rende ancora più intenso il loro ideale ricongiungersi agli eventi fondanti tale memoria diffusa. La descrizione assai dettagliata (seppure non esente da imperfezioni) fa ritenere probabile che tutte le tappe del viaggio siano state compiute insieme da Paola e dallo stesso Girolamo, fin dalla partenza dal litorale romano; poiché d’altra parte l’autore sembra porre una costante attenzione a non menzionare se stesso13, ciò ha indotto alcuni a congetturare che egli si sia invece ricongiunto con Paola soltanto ad Antiochia, dove sarebbe giunto in modo indipendente qualche tempo prima14. In realtà la spiegazione più plausibile sembra essere che Girolamo intenda concentrare l’intera attenzione del lettore sul personaggio celebrato, mantenendo perciò un tono costantemente encomiastico, obiettivo e impersonale. A parte il dettaglio (tutto sommato di scarso rilievo) della partenza in comune o meno dei due pellegrini, l’ampio spazio consacrato all’interno dell’Epitaphium all’excursus sulla peregrinazione verso Gerusalemme e Betlemme dimostra il chiaro intento da parte di Girolamo d’iscrivere la memoria di Paola – e al contempo la propria – tra le figure più rappresentative di quel flusso di pellegrini in Palestina che dal IV secolo spingeva sempre più i visitatori occidentali a intraprendere tale viaggio, i cui rischi e costi non dovevano tuttavia sembrare sproporzionati rispetto alla possibilità di compiere un’esperienza immediata, vivida e sensoriale, dei luoghi che erano stati scenario della storia sacra e dei misteri della vita di Cristo. 2. L’Itinerarium come avventura spirituale Circoscritti nella loro relativa autonomia tematica, i capp. 7-14 dell’Epitaphium Paulae costituiscono dunque un vero e proprio Iter Paulae (et Hieronymi) in loca sancta, la cui affinità formale con il più noto Itinerarium Egeriae traspare in modo   Soltanto in un momento di intensità narrativa ed emotiva tutta particolare, Girolamo fa capolino in uno scarno inciso come testimone – me audiente – della commozione quasi estatica di Paola davanti al sito della Natività: «Atque inde specum saluatoris ingrediens, postquam uidit sacrum uirginis diuersorium et stabulum, in quo agnouit bos possessorem suum et asinus praesepe domini sui… me audiente iurabat cernere» (Epit. Paulae 10,2). Apparentemente affini sono i brani (cfr. Epit. Paulae 12,1; 14,1) in cui Girolamo descrive il procedere dell’iter in prima persona, dando voce a un pellegrino generico, ma senza alcuna intenzione di attestare soggettivamente la propria partecipazione. 14   Così per esempio Fürst 2003, p. 200; d’altro avviso è Cain 2013, p. 211 il quale (sulla scorta di F. Cavallera) propende per un solo viaggio dei due pellegrini sin dall’Italia. 13

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evidente soprattutto nell’assiduo richiamo intertestuale alla Scrittura, che in questa sezione assurge a filo conduttore pressoché costante della rievocazione dei siti visitati, spesso inframmezzata a interpretazioni etimologiche e/o tipologiche dei nomi delle località e degli episodi che vi si ricollegano. Malgrado l’assunto di riservare la visita alle sole località rilevanti per la storia sacra sia esplicito fin dall’inizio (Epit. Paulae 8,1: Ea tantum loca nominabo quale sacris voluminibus continentur), esso conosce di fatto alcune eccezioni, per quanto in numero contenuto15. Se Egeria narra di tutto ciò che visita e incontra nella modalità esclusiva del “diario”, Paola è divenuta sotto la penna di Girolamo una “eroina” letteraria che si esprime normalmente attraverso il filtro del suo narratore e agiografo16. Tale differenza espositiva non impedisce la possibilità di alcuni accostamenti: l’entusiasmo che contraddistingue il procedere della pellegrina romana da un sito all’altro pare trovare una certa analogia nell’iperbole ammirata in prima persona che costella quasi tutte le descrizioni della galiziana; il fervido trasporto e l’emozione intensa con cui Paola procede di tappa in tappa del viaggio17 è un tratto della sua caratterizzazione psicologica che, oltre a essere evidentemente rivolto a celebrare la devozione della protagonista, non è forse privo di una certa tonalità benevolmente umoristica, riconducibile a precedenti consimili entro il genere dell’iter18. A ogni momento saliente del viaggio Egeria riferisce poi di letture bibliche, salmi e orazioni eseguite in relazione ai siti visitati e a essi particolarmente intonate19; anche tale metodo è talvolta riconoscibile in filigrana nell’iter di Paola: si pensi alle non infrequenti occasioni in cui un brano biblico fa da spunto a considerazioni di contenuto carattere storico-salvifico,   Girolamo menziona, per esempio, il sepolcro di Elena regina dell’Adiabene, situato a nord di Gerusalemme (Epit. Paulae 9,1); anche l’Egitto monastico – visitato sia da Girolamo e Paola (Epit. Paulae 14,1-2) che da Egeria come si deduce dalle testimonianze indirette della Epistola del monaco Valerio (VII secolo) e del Liber de locis sanctis di Pietro Diacono (XII secolo) – non attiene in senso stretto alla geografia biblica. 16   Ovviamente il filtro di tale elaborazione letteraria permane anche nei casi in cui Girolamo – come lasciando la parola alla medesima Paola – ne riferisce il commento in reazione alle suggestioni suscitate dai luoghi visitati: questo vale in particolare dell’encomium di Betlemme che la pellegrina pronunzia in Epit. Paulae 7,6-8; cfr. infra la nota 43. 17   Fin dal salpare della sua nave dall’Italia, Paola sembra lamentarsi con la natura stessa che il viaggio non possa procedere più spedito: «sumptis alias Hierosolymam et sancta loca ridere cupiebat; tardi ei erano uenti et omnino pigra uelocitas» (Epit. Paulae 7,1); «cuncta loca tanto ardore ac studio circumiuit, ut nisi ad reliqua festinaret a primis non posset abduci» (9,2). Cfr. inoltre 13,6; 12,5. 18   Lo suggerisce Weingarten 2005, pp. 231-235. 19  Cfr. i seguenti passi dell’Itinerarium Egeriae: «Fecimus ergo et ibi oblationem et orationem impensissimam, et lectus est ipse locus de libro Regnorum. Id enim nobis uel maxime ego desideraveram semper, ut ubicumque uenissemus, semper ipse locus de libro legeretur» (4,3); «Id enim nobis semper consuetudinis erat ut, ubicumque ad loca desiderata accedere valebamus, primum ibi fieret oratio, deinde legeretur lectio ipsa de codice, diceretur etiam psalmus unus pertinens ad rem et iterato fieret ibi oratio. Hanc ergo consuetudinem iubente Deo semper tenuimus, ubicumque ad loca desiderata potuimus pervenire» (10,7). 15

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oppure in tono moraleggiante, da parte di Paola forse dietro suggerimento di una lettura appropriata da parte dello stesso Girolamo20. Si è detto della nobilitas di Paola e del livello sociale probabilmente elevato della stessa Egeria, malgrado i contorni e l’ambiente d’origine di quest’ultima permangano per noi assai più imprecisi. I destinatari cui Girolamo intese indirizzare l’encomio di Paola e la sua commemorazione agiografica dovevano dunque essere quei cristiani di ceto abbiente – soprattutto del milieu romano – presso i quali egli era già stato convinto promotore della lettura spirituale e dello studio assidui della Scrittura: fulcro di una spiritualità biblica di chiara impronta origeniana, che sembrava trovare il suo naturale coronamento in quel pellegrinaggio verso l’Oriente cristiano di cui, soprattutto dopo lo stanziamento a Betlemme, egli si era fatto il promotore sempre più convinto. Sono infatti numerose le lettere scritte da Girolamo con il preciso intento di riversare sui suoi corrispondenti che aspiravano a un ideale di vita spiritualmente impegnata, l’entusiasmo per l’esperienza privilegiata che in quella terra era possibile sperimentare21. Peculiari di questo incipiente “ascetismo” latino sono i suoi caratteri aristocratico, urbano e prevalentemente femminile22: esso veniva a collocarsi nel solco di una lunga consuetudine di insegnamento filosofico che già a Roma si svolgeva tradizionalmente entro circoli privati, nei quali la presenza delle donne era normale e assidua. I nuovi maestri di esegesi cristiana e mentori spirituali dell’aristocrazia venivano di fatto a proporsi quali eredi intellettuali di Plotino e Giamblico, offrendo a donne e uomini la possibilità di esercitare e dimostrare anche culturalmente la propria eccellenza. 20   Così, per esempio, nel caso della strage dei beniaminiti in Epit. Paulae 8,3; dell’incesto delle figlie di Lot ibidem 11,5. 21   La prima è la ep. 46 a Marcella, già discepola del cenacolo aventiniano, che risale ai primi tempi dello stanziamento di Girolamo a Betlemme (386); in ep. 47,2 (databile al 393) Girolamo invita Desiderio a venerare le tracce visibili – …quasi recentia… vestigia – della natività, della crocifissione e della passione di Cristo; la studia in particolare Perrone 1999. Nella ep. 77 scritta ad Oceano per la morte di Fabiola (400 circa), troviamo una breve e intensa rievocazione (77,7) del pellegrinaggio che i due avevano compiuto alcuni anni prima. Cfr. Fürst 2003, pp. 169 (Desiderio), 190-191 (Marcella), 196 (Oceano). Due lettere fanno da sorprendente contrappeso alla linea di pensiero più abituale in Girolamo. Nella ep. 58,2-4 egli illustra (395) al presbitero Paolino di Nola, che intendeva votarsi insieme alla consorte a una condotta di impronta ascetica, come recarsi a Gerusalemme non sia indispensabile a una vita santa; similmente al prefetto Claudio Postumo Dardano scriverà (414) nella ep. 129 – argomentando in base a un’esegesi rigorosamente allegorica e spiritualizzante – che la vera terra repromissionis è quella celeste; cfr. ivi, pp. 203-205 (Paolino) e 168 (Dardano). Alle ultime due si può accostare la ep. 76 al presbitero Abigasio, che richiama le tappe fondamentali dell’Esodo utilizzandole semplicemente come metafora spirituale. Una più completa rassegna dei testi geronimiani sui loca sancta si può trovare in Newman 1988. 22  Cfr. Consolino 2006, pp. 72-74, che elenca una trentina di casi di clarissimae feminae di Roma (l’espressione è tecnica per designare le spose di membri del Senato) guadagnate da Girolamo a un qualche grado di ascetismo: il fatto tuttavia che lo stesso Girolamo rappresenti la nostra maggiore fonte di informazione su queste figure deve indurre a prudenza metodologica nel vagliarne le informazioni.

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Come ha sottolineato Peter Brown, l’offerta di un patrocinium a maestri ed esegeti celebrati tra i quali Rufino e Girolamo, consolidava il prestigio sociale delle famiglie romane, conferendo a esse importanza e sostenendo al contempo lo studio dei maestri: tale patronato rendeva infatti possibile, mediante la dispendiosissima copiatura di nuovi codici, la costituzione di vere e proprie biblioteche dalla cui disponibilità dipendeva strettamente la continuazione del loro lavoro intellettuale23. Alla luce del progetto di costituire a Betlemme uno stabile cenacolo monastico, presso il quale Girolamo avrebbe potuto dedicarsi appieno allo studio e alla predicazione, si può dire che la rievocazione dell’iter di Paola fosse e destinato a consacrare nella memoria non soltanto la peculiare relazione della discepola con il maestro, ma anche il profilo di guida della comunità monastica da lei svolto a Betlemme, prefigurato da alcuni accenni – nel corso della narrazione di viaggio (Epit. Paulae 11,5) e al suo termine (14,4) – che lasciano intravedere attorno a Paola la presenza di un gruppo di sorores, per quanto numericamente non definibile24. Il trasferimento di asceti occidentali in Oriente non era destinato a cancellare, ma semmai a rendere più acuta la necessità di sovvenzioni che sostenessero l’onere del loro assai esoso impegno intellettuale. Già alla fine del IV secolo il fenomeno della ricerca di ricchezze da destinarsi alle opere degli asceti e degli ecclesiastici aveva destato le preoccupazioni di papa Damaso, il quale nel 370 aveva ottenuto da Valentiniano I un editto che vietava a ecclesiastici e monaci di frequentare le case delle vedove: assai verosimilmente l’intenzione del papa era rivolta contro i suoi potenziali rivali economici, affinché quanto veniva donato alla cristianità romana pervenisse direttamente al vescovo, quale unico referente della comunità nel suo insieme25. Il problema si acuì negli anni successivi alla morte di Damaso, a motivo delle crescenti “emorragie” di risorse indirizzate dalle persone più facoltose agli stessi monasteri della Terra Santa e dell’Egitto, passibili evidentemente di andare a discapito delle comunità locali. Fu questo il motivo saliente nella polemica che, insieme all’altrettanto vivace discussione sul culto dei santi, fattosi sempre più sfarzoso e simile ai rituali pagani, oppose Girolamo al monaco aquitano Vigilanzio a partire dal 40626. 3. L’elaborazione retrospettiva della memoria e dello spazio Il lettore di Epitaphium Paulae 7-14 riesce difficilmente a sottrarsi alla sensazione che nel rievocare il lungo itinerario compiuto assieme a Paola una ventina di anni  Cfr. Brown 2014, pp. 381-389.   Nel secondo dei passi suddetti Girolamo accenna anche alla presenza tra esse di Eustochio, figlia di Paola, nominata anche in 6,4 come unico conforto per la madre al distacco dagli affetti familiari. 25  Cfr. Brown 2014, pp. 389-391. 26  Cfr. Pieri 2007. 23 24

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prima, Girolamo non stia semplicemente affidandosi a ricordi personali, ma utilizzando appunti e note di viaggio abbastanza dettagliati27. Ciò non impedisce che nel corso dell’esposizione sia possibile imbattersi qua e là in confusioni e omissioni; in particolare vi si incontrano inserimenti riguardanti le varie località che Girolamo può avere più probabilmente visitato in altre occasioni, o anche edifici ecclesiastici di più recente costruzione. Diamo comunque di seguito una ricognizione sommaria del contenuto dell’Iter di Paola e Girolamo, corredata da qualche annotazione28. a) Dall’Italia ad Antiochia Dopo un commosso distacco dai familiari a Porto, presso Ostia (Epit. Paulae 6,3) e un primo tratto di navigazione tirrenica, Paola fece sosta all’isola di Ponza, dove si conservava la memoria di Flavia Domitilla esiliata in quanto cristiana sotto l’imperatore Domiziano (Epit. Paulae 7,1); passato lo stretto di Messina e compiuta una sosta nell’isola messenica di Mothone, la nave proseguì fino al porto cipriota di Salamina, dove Paola fu accolta dal vescovo Epifanio e si trattenne una decina di giorni (Epit. Paulae 7,2), elargendo offerte ai monasteri locali in cui numerosi fedeli erano stati attratti dalla fama del santo vescovo29. Dal porto di Seleucia Pieria, Paola risalì a dorso d’asino verso Antiochia di Siria, dove fu per qualche tempo ospite del vescovo Paolino, parimenti in fama di santo confessore (Epit. Paulae 7,3)30. b) Da Antiochia ai dintorni di Gerusalemme Di lì Paola si avvicinò alla Palestina attraverso le due province di Siria, percorrendo dunque (sebbene la via costiera fosse più diretta e frequentata) l’interno della regione; a Zarepta di Sidone entrò nella turricula del profeta Elia (cfr. 1 Re 17,8-24); sul litorale di Tiro fece memoria della preghiera di Paolo (cfr. At 21,7) ed entrò nel territorio che era appartenuto ai Filistei attraverso la piana di Meghiddo, dove Giosia era caduto per mano degli egiziani (cfr. 2 Re 23,29) (Epit. Paulae 8,1)31. Presso 27   Un primo abbozzo di tale diario di viaggio si può riconoscere nel più conciso resoconto che Girolamo ne aveva fatto un decennio prima in Ep. adv. Ruf. 22 (ed. in P. Lardet, Hieronymi presbiteri opera. Pars III. Opera polemica. Contra Rufinum, CCL 79, Turnholti 1982, pp. 72-116). 28   Omettiamo nel seguito le numerosissime interpretazioni etimologiche dei toponimi, analoghe per lo più a quelle della traduzione/adattamento dell’Onomasticon eusebiano compiuta dallo stesso Girolamo tra il 389 e il 391 (ed. S. Timm, Eusebius. Das Onomasticon der biblischen Ortsnamen, GCS/ n.F. 25, Berlin 2017, che presenta su pagine affrontate il testo originale e la versione geronimiana), senza registrare sistematicamente gli spunti di esegesi allegorizzante pure qua e là riconoscibili; cfr. Weingarten 2005, pp. 251-256. 29   È un motivo ricorrente l’annotazione della distribuzione di beneficenze da parte di Paola ai poveri e/o ai monaci, dato che l’epiteto di fratres può riferirsi a entrambe le categorie: «refrigeria sumptuum fratribus dereliquit, quos amor sancti viri de toto illic orbe conduxerat» (Epit. Paulae 7,3); «pro facultatula sua pauperibus atqua conseruis pecunia distributa» (Epit. Paulae 10,1). 30  Durante il loro soggiorno a Roma, nel 382, i vescovi Epifanio e Paolino erano stati affidati all’ospitalità di Paola (Epit. Paulae 6,1). 31   La localizzazione della piana di Meghiddo e del confine del territorio filisteo non sembrano corrette; cfr. Cain 2013, p. 217 per i dati della discussione. Come in alcuni altri casi pare che una rappresentazione ideale e astratta della topografia possa avere interferito sui ricordi e appunti di viaggio di Girolamo.

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l’antica “Torre di Stratone”, rinominata Cesarea da Erode il Grande in onore di Augusto32 Paola visitò la casa, trasformata in chiesa, che era appartenuta a Cornelio, primo tra i gentili a essere battezzato dallo stesso Pietro (cfr. At 10,1-18), oltre a quella del “diacono” Filippo e delle sue quattro figlie profetesse (cfr. At 21,9). Le città di Antipatride33 e di Lidda si ricollegavano alla memoria della guarigione del paralitico Enea (cfr. At 9,32-35)34 e della resurrezione di Tabita (cfr. At 9,36-42) operate da Pietro. Altre località nelle vicinanze ricordate da Girolamo sono il villaggio di Arimatea, da cui proveniva quel Giuseppe che mise la propria tomba di famiglia a disposizione della sepoltura di Gesù (cfr. Mc 15,43-46 et parr.)35, la città di Nob un tempo riservata ai sacerdoti (cfr. Sam 22,19), il porto di Joppe, da cui il profeta Giona si imbarcò per sfuggire al comando divino (cfr. Gn 1,3)36, il villaggio di Nicopolis identificato con la località di Emmaus (cfr. Lc 24,13-27), ove si trovava una chiesa ricavata dalla casa di Cleopa (Epit. Paulae 8,2). Nell’ultimo tratto di strada verso Gerusalemme, Girolamo menziona ancora il passaggio di Paola dalle località di Bethoron inferiore e superiore, fortificate da Salomone (cfr. 2Cron 8,5) e la vista delle rovine di Abalon e Gabaon, dove Giosuè aveva comandato al sole e alla luna, riportando la vittoria sui cinque re (cfr. Gs 10,1-14); a Gàaba Paola poté meditare sul peccato dei suoi abitanti e sulla vendetta degli Israeliti (cfr. Gdc 1920), tra i quali scamparono soltanto seicento uomini della tribù di Beniamino, da cui era destinato a sorgere l’apostolo Paolo (Epit. Paulae 8,3). c) A Gerusalemme e Betlemme L’arrivo di Paola a Gerusalemme iniziò con l’ingresso alla basilica del Santo Sepolcro37, la vista piena di devoto fervore del simulacro della Santa Croce e della pietra tombale ribaltata dall’angelo (Epit. Paulae 9,2); proseguì con la basilica della Santa   In questa città, indicata anche con gli epiteti di “marittima” o “di Palestina”, si trovava la biblioteca episcopale, lasciata da Origene e accresciuta grazie a Eusebio, dalla quale Girolamo attinse in seguito la sua approfondita conoscenza delle opere dell’Alessandrino, ampiamente utilizzate nei commentari biblici, così come dovette fare lo stesso Rufino per le sue numerose traduzioni origeniane; cfr. Andrei 2013, in particolare sulla biblioteca di Cesarea le pp. 15-17. 33   Omettendo però di ricordare che Paolo (cfr. At 23,31) vi trascorse una notte in prigionia. 34  Girolamo unifica qui topograficamente i due miracoli petrini narrati in sequenza dagli Atti, dimenticando come sia invece Lidda (menzionata poche righe più avanti) il luogo in cui il primo di tali eventi prodigiosi si svolse. 35   Anche Eusebio, Onom. 144 identifica Arimatea con la città di Rama, luogo di nascita di Samuele. 36   A proposito di Joppe, l’odierna Giaffa, Girolamo omette di ricordare la visione avuta da Pietro, in base alla quale i gentili sarebbero stati ammessi nella Chiesa (At 10,9-23); menziona in compenso la rupe da cui Andromeda fu liberata grazie all’intervento di Perseo (cfr. In Ionam 1,3,105-106). 37   Il recupero del sito della sepoltura di Cristo, profondamente alterato dalle sopraedificazioni di età adrianea, aveva permesso a Costantino l’edificazione della basilica del Martyrium e della rotonda dell’Anastasis su quello che era stato il settore nord nel foro di Aelia Capitolina. Sul terrapieno che occupava l’area del Golgota era stato infatti collocata una statua di Afrodite (cfr. Eusebio, Vita Constantini 3,26,3); Girolamo, ep. 58,3 ne menziona anche una di Giove sul luogo della resurrezione. Si può pensare che in entrambi i casi l’intento fosse stato quello di scoraggiare la venerazione di tali memorie da parte dei cristiani. 32

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Sion38, eretta sull’altura in cui Davide aveva posto la propria cittadella (cfr. 2 Sam 5,612) (Epit. Paulae 9,3); nel portico della chiesa – che commemorava la discesa dello Spirito a Pentecoste (cfr. At 2,1-4) – era stata inclusa anche una colonna considerata reliquia della flagellazione di Gesù (Epit. Paulae 9,4)39. Dopo la sosta alla tomba della matriarca Rachele (cfr. Gn 48,7), situata lungo la via per Betlemme (Epit. Paulae 10,1), il vero apice narrativo dell’itinerarium è costituito dall’ingresso di Paola nello specum della Natività40: Girolamo attesta personalmente41 come Paola vivesse in quel luogo un’esperienza immaginativa quasi estatica su tutti gli eventi della nascita di Gesù42 (Epit. Paulae 10,2); Paola prorompe quindi in un lungo e commosso elogio di Betlemme, in cui ricapitola i molteplici richiami biblici e spirituali legati a essa, per concludersi con la solenne risoluzione di eleggerla quale propria stabile sede (Epit. Paulae 10,3-7)43; la visita a Betlemme e ai suoi dintorni si concluse con la visita alla cosiddetta “Torre di Ader”44, presso cui la nascita di Gesù venne annunciata dagli angeli ai pastori, laddove un tempo lo stesso patriarca Giacobbe aveva piantato la sua tenda (cfr. Gn 35,21) (Epit. Paulae 10,8). d) Ebron e dintorni, Tekoa e Betania Lasciata Betlemme Paola prese la via di Gaza, lungo la quale l’eunuco della regina Candace ricevette il battesimo da Filippo, dal quale era stato convertito a Cristo (cfr. 38   Questa basilica era stata probabilmente edificata attorno al 336 su di una preesistente domus ecclesia; viene identificata da Girolamo con il sito della Pentecoste, ma non esplicitamente con quello della manifestazione del Risorto ai discepoli (cfr. Gv 20,25), come troviamo invece in Itin. Eger. 39,5. 39   Colpisce che in questa parte del resoconto non si trovi menzione dell’Eleona (Monte degli Ulivi) nonostante la sua importanza per la storia biblica, enfatizzata anche dalla presenza di una basilica costantiniana dedicata nel 333; è assai verosimile che proprio a tale complesso monastico appartenesse la cellula che diede ospitalità a Paola durante la permanenza a Gerusalemme (Epit. Paulae 9,2). Il silenzio di Girolamo potrebbe riflettere retrospettivamente l’ostilità creatasi con Rufino dopo il 393. 40   I vangeli canonici dell’infanzia non fanno menzione di una grotta come luogo del parto di Gesù; tale tradizione precocemente attestata nel II secolo dal Protoevangelo di Giacomo 17-19 venne ripresa da Origene (Contra Celsum 1,51-52), Giustino (Dialogo con Trifone 78) e naturalmente da Eusebio; cfr. Cain 2013, pp. 246s. Lo specum era situato nella cripta della chiesa costantiniana eretta verso la fine degli anni Venti del IV secolo, sotto un edificio ottagonale cui si aggiungeva un corpo basilicale a cinque navate: evidentemente per Girolamo è la grotta stessa, su cui s’incentra l’intera descrizione, priva di ogni accenno agli ambienti di culto sovrastanti, a rappresentare il vero santuario della Natività; cfr. Perrone 2013, p. 159. 41  Cfr. supra la nota 13. 42   Tale immaginazione doveva essere, almeno in parte, suggerita ad ogni visitatore da un ricco corredo iconografico, che possiamo presumere decorasse l’ambiente anche se nulla è stato a noi conservato. Il nesso che Girolamo stabilisce tra la visita dei pastori e la cristologia del Logos (Gv 1,1.14) rende anche la visita dei pastori e dei magi un vero e proprio atto di adorazione indirizzato alla divinità del Bambino. 43   In realtà tale scelta può ben essere stata presa prima dell’inizio stesso del viaggio, ma essa viene “drammatizzata” al massimo da Girolamo collocandola nella cornice narrativa del primo incontro di Paola con il luogo della Natività; Weingarten 2005, p. 220 considera il nucleo dell’itinerarium relativo a Betlemme alla stregua di un encomium della cittadina, analogo a quello che il contemporaneo Rutilio Namaziano riserva a Roma entro il suo Iter Gallicum. 44   Si tratta della località indicata popolarmente anche come “campo dei pastori”, non distante dal già ricordato monastero dell’egiziano Posidonio; per altri dettagli cfr. Cain 2013, p. 259.

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At 8,26-40), e di lì la via che discende verso Ebron (Epit. Paulae 11,1) fino alla valle di Escol, ove gli esploratori inviati in avanscoperta da Mosè raccolsero un grappolo d’uva d’inusitata grandezza (cfr. Nm 13,21-24) quale prova della straordinaria fertilità di Canaan (Epit. Paulae 11,2); a Mamre Paola poté entrare nella modesta abitazione di Sara e riconoscere quanto rimaneva della quercia presso la quale Abramo aveva ricevuto l’annuncio della miracolosa nascita di Isacco (cfr. Gn 18,10-15)45; salì poi a Kiriath-Arba (Ebron) il cui nome significa “città dei quattro uomini” a motivo delle tombe dei patriarchi e, secondo certe tradizioni ebraiche, dello stesso Adamo o, secondo altri, di Caleb46 (Epit. Paulae 11,3); preferendo non recarsi a Kiriath-Sefer (Debir)47, Paola andò ad ammirare le vicine sorgenti che Otnièl aveva ricevuto come dote da Caleb, sposandone la figlia (cfr. Gs 15,16-19; cfr. Gdc 1,11-13) (Epit. Paulae 11,4). Il giorno successivo si recò sulla sommità di Caphar-Barucha (Bani Na’im), che una tradizione locale identificava con il punto da cui Abramo contemplò, prima che fossero distrutte da Dio, le città di Sodoma, Gomorra, (cfr. Gn 18,16; 19,27-29); da lì rivolse lo sguardo alle città di Engaddi, celebrata per il balsamo pregiato che vi si produceva, e di Segor – già denominata Zoar e Bala – in cui Lot trovò rifugio (cfr. Gn 19,20-22) assieme alle sue figlie, recandosi infine alla caverna dove esse si unirono al padre e, ubriacandolo, riuscirono a concepire da lui i progenitori dei Moabiti e degli Ammoniti (cfr. Gn 19,30-39) (Epit. Paulae 11,5). Da Tekoa luogo di nascita del profeta Amos (cfr. Am 1,1) e dalla regione meridionale, la pellegrina tornò a rivolgere il suo sguardo verso Gerusalemme: sulla sommità del monte degli Ulivi era visibile una grande croce luminosa che indicava il luogo dell’Ascensione di Gesù (cfr. At 1,6-11); sullo stesso monte veniva annualmente celebrato dall’antico Israele il rito purificatorio della giovenca rossa, le cui ceneri dovevano essere asperse sul popolo mediante l’acqua (cfr. Nm 19,1-10)48; da questa altura Ezechiele vide i cherubini abbandonare il tempio (cfr. Ez 10,18-19; 11,2223)49 (Epit. Paulae 12,1); a Betania Paola entrò nella tomba di Lazzaro e vide la casa   Girolamo non menziona la basilica eretta in questo sito in memoria della teofania di Abramo e che rappresentava il quarto edificio per importanza (dopo il Sepolcro, l’Eleona e la Natività) tra le fondazioni chiesastiche di Costantino in Palestina. 46   Adamo sarebbe quindi il “quarto uomo” dopo Abramo Isacco e Giacobbe ad essere stato sepolto a Kiriath-Arba; cfr. Cain 2013, pp. 265s. Nella lettera a Marcella (Ep 46,3,2) Girolamo aveva invece riportato la differente tradizione giudaica della sepoltura di Adamo al Golgota (così già Origene, Comm MtS 126), da cui per contro prende le distanze già nelle opere successive al 386; cfr. Le Boulluec 2012. 47   Girolamo sottolinea come Paola abbia evitato di fare tappa in questa località, evidentemente posta lungo una traiettoria più agevole e prevedibile, giustificando tale scelta in base all’interpretazione etimologica che vuole questo toponimo equivalente a viculum litterarum (così Cain rettifica la lezione vinculum recepita invece da Hilberg), ovvero al senso letterale, in contrapposizione a quello spirituale riservato ai battezzati, cui può simmetricamente riferirsi la menzione delle sorgenti di Otnièl. 48   A questo rito arcaico fa riferimento anche Eb 9,13; non è tuttavia ben chiaro da dove Girolamo tragga l’informazione che esso avesse luogo sul Monte degli Olivi. 49   La trasmigrazione dei cherubini e della gloria del Signore dal Tempio annunciava in Ezechiele l’imminente cattività babilonese degli Israeliti; secondo quanto qui afferma Girolamo, essa prefigura e quasi mette in atto la nascita stessa della chiesa: «[mons Olivetus] in quo iuxta Ezechiel cherubin de templo transmigrantes ecclesiam Domini fundaverunt» (12,1). Più esplicitamente in Com Ez 3,11,22-23 l’episodio profetico viene attualizzato in riferimento alla distruzione del Tempio nel 70; già Origene 45

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di Marta e Maria (cfr. Gv 11,1-44; 12,1-2 et passim) e il villaggio di Betfage dove, prima del solenne ingresso messianico a Gerusalemme, il Signore si pose a cavallo di un giovane puledro (cfr. Mc 11,1-2 et parr.) (Epit. Paulae 12,2)50. e) Gerico e il Giordano Discendendo da Gerusalemme fino all’altipiano di Gerico Paola andava meditando l’episodio evangelico dell’uomo ferito soccorso dal samaritano (cfr. Lc 10,30-36)51; vide la salita di Adummim (cfr. Gs 15,7; 18,17), una pianta simile al sicomoro su cui montò Zaccheo (cfr. Lc 19,4) e la strada all’esterno della città sulla quale due ciechi furono guariti da Gesù (cfr. Mt 20,29-34)52 (Epit. Paulae 12,3). Entrò a Gerico, la città le cui mura erano state ricostruite dai figli di Chiel (cfr. 1 Re 16,34) e gettò uno sguardo a Gàlgala, laddove gli Israeliti si erano accampati e Giosuè aveva praticato loro la seconda circoncisione (cfr. Gs 5,2-7)53, erigendo le dodici pietre come memoriale (cfr. Gs 4,20-24); negli stessi dintorni si ricordava anche la purificazione delle acque operata mediante il sale dal profeta Eliseo (cfr. 2 Re 2,19-21) (Epit. Paulae 12,4). Dopo avere pernottato a Gerico, Paola proseguì di buon mattino per il Giordano, ancora commemorando il prodigio per cui i sacerdoti che portavano l’arca poterono attraversarlo all’asciutto (cfr. Gs 3,15-16), ma anche la divisione delle acque da parte di Elia ed Eliseo (cfr. 2 Re 2,8) e soprattutto il battesimo del Signore (Epit. Paulae 12,5). f ) Flavia Neapolis, Sebaste, Galilea In questa sezione l’itinerarium dei pellegrini volge decisamente a nord, attraverso la Samaria e in direzione della Galilea. Le località visitate sono la valle di Acor, in cui Dio condannò e ordinò di punire il furto commesso da Acan (cfr. Gs 7,22-26), la città di Betel, presso la quale Giacobbe sognò, appoggiandosi alla pietra54, la scala Fr Lam 109 (appoggiandosi esplicitamente su Giuseppe Flavio, Bell 6, 299) fonde e confonde le due distruzioni; cfr. Marchetto 2015. 50   Anche riguardo a questo episodio Girolamo fornisce immediatamente lo spunto allegorico: il puledro non ancora domato dalla cavalcatura, definito con sfumatura moraleggiante lasciviens, rappresenta i gentili fino ad allora soggetti al peccato, destinati a essere aggiogati dalla signoria di Cristo (Domini frena suscepit) grazie al servizio degli apostoli (apostolorumque stratus uestibus). 51   La parabola lucana del samaritano misericordioso è l’unica a essere ambientata in un luogo ben determinato – la via tra Gerusalemme e Gerico, attraverso il deserto di Giuda – e si presta pertanto a venire presentata entro l’itinerarium di Paola in modo non dissimile dagli episodi biblici che si riferiscono a episodi (ritenuti) storici della Scrittura. Girolamo accenna qui all’interpretazione che vede la locanda come allegoria della chiesa, chiave di volta dell’intera lettura cristologica della parabola. Per una presentazione più ampia dell’interpretazione patristica cfr. Pieri 2011. 52   Seguendo una delle linee dell’interpretazione origeniana di tale episodio, Girolamo accenna qui ai due ciechi che recuperano insieme la vista come misteriosa prefigurazione (sacramenta praemiserant) di Giudei e Gentili chiamati entrambi alla fede in Cristo; cfr. Cain 2013, p. 275. 53   Intesa come misteriosa (mysterium) prefigurazione del battesimo cristiano, sulla linea origeniana e come altre volte in Girolamo; cfr. ivi, p. 276. Tale accostamento è anche suggerito dalla vicinanza della località in cui si commemora il battesimo di Gesù. 54   Dai rapidi accenni a Zc 3,9 e Is 28,16 (cfr. anche Sal 117,22) sembra che Girolamo riconosca nella pietra di Betel, consacrata da Giacobbe mediante d’unzione, una prefigurazione del Tempio o forse dello stesso mistero dell’incarnazione.

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che si ergeva fino al cielo (cfr. Gn 28,12-17) (Epit. Paulae 13,1); la tomba di Giosuè a Timnath-Serach (cfr. Gs 24,29-30) e quella del sommo sacerdote Eleazaro a Gibeah (cfr. Gs 24,33), entrambe in territorio efraimita; sulla strada fra Betel e Sichem, ricordò il rapimento delle figlie di Silo (cfr. Gdc 21,15-25) (Epit. Paulae 13,2); presso Sichem – che Girolamo ritiene essere stata ricostruita da Vespasiano come Flavia Neapolis e il cui nome, erroneamente, considera essere la corretta ortografia di “Sicar” – Paola visitò la chiesa eretta sulle pendici del monte Garizim a custodire il pozzo di Giacobbe, presso il quale Gesù incontrò la donna samaritana (cfr. Gv 4,5)55 (Epit. Paulae 13,3); sempre nelle vicinanze di Sichem, Paola vide anche le tombe dei dodici patriarchi (cfr. At 7,16) e la città di Samaria, rinominata Sebaste in onore di Augusto e dove si riteneva fossero situate le tombe dei profeti Eliseo, Abdia e Giovanni Battista, e là ebbe anche alcuni terrificanti incontri con individui indemoniati (Epit. Paulae 13,4); alla memoria di Abdia si ricollegavano pure due grotte situate all’esterno di Sebaste (cfr. 1 Re 18,3-4)56; Girolamo accenna poi solo rapidamente alle principali località della Galilea – Nazareth, Cana e Cafarnao, il Mare di Galilea, il luogo della moltiplicazione dei pani (cfr. Mt 14,15-21 et parr.) – (Epit. Paulae 13,5) per concludere con l’ascesa di Paola al monte Tabor, su cui la tradizione situa la trasfigurazione del Signore (cfr. Mt 17,1-9 et parr.); da esso si poteva vedere la pianura di Galilea ove l’esercito di Sisara fu sterminato da Barach (cfr. Gdc 4,7-16); infine Girolamo menziona una cittadina non lontana da Nain (cfr. Lc 7,12-16), ove venne resuscitato il figlio della vedova (Epit. Paulae 13,6). g) Tra i monaci d’Egitto L’iter di Paola e Girolamo si conclude con la visita agli insediamenti monastici dell’Egitto, a sua volta già entrata della consuetudine dei pellegrini occidentali57. Lungo la strada verso Gaza Girolamo menziona, nei pressi di Succot, la fonte detta “di Sansone” (cfr. Gdc 15,15-19), Moreset città natale e luogo di sepoltura del profeta Michea sopra il cui sito era stata edificata una chiesa, il territorio un tempo abitato dagli Urriti, la città di Gat e le rovine di Maresa, la regione dell’Idumea e la città di Lachis, da cui presero la strada costiera diretta a Occidente, attraverso il deserto58; l’ingresso in Egitto è segnato dal fiume Sior, probabilmente un ramo orientale del delta del Nilo: le prime località che vengono successivamente menzionate sono le cinque città in cui si parla la lingua di Canaan (cfr. Is 19,18), la terra di Gosen e i campi di Tanae e la città di Noo, poi   Secondo Girolamo i “cinque mariti” più uno della Samaritana (cfr. Gv 4,17-18) rappresentano allegoricamente il Pentateuco mosaico, ossia la Scrittura degli scismatici samaritani, cui si era più recentemente aggiunto (I secolo a.C.) l’impostore messianico Dositeo; in questo caso l’interpretazione non pare derivare da Origene, dato che nell’Alessandrino i “cinque mariti” rappresentano piuttosto i cinque sensi corporali, quindi il senso letterale della Scrittura da cui la donna è chiamata a distaccarsi grazie all’incontro con Cristo; cfr. Cain 2013, p. 285. 56   Girolamo sovrappone evidentemente la figura del profeta Abdia all’omonimo servitore del re Acab che nelle grotte mise i profeti al riparo dalla persecuzione della regina Gezabele. 57   I casi affini a noi meglio noti sono quelli di Melania seniore, Egeria, Palladio e l’autore anonimo della Historia monachorum in Aegypto, tradotta dal greco in latino ad opera di Rufino. 58   Girolamo enfatizza qui retoricamente («per arena mollissima pergentium uestigia subrahentes latamque heremi vastitatem») l’attraversamento della penisola del Sinai, che in realtà dovette essere compiuto piuttosto lungo la via costiera che non percorrendo il deserto. 55

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rinominata Alessandria; infine la cittadella tutta dedicata a Dio (oppidum Domini) di Nitria (Epit. Paulae 14,1). In questo insediamento monastico Paola ebbe il privilegio di incontrare molte figure di monaci insigni – tra i quali Isidoro il confessore, Macario di Alessandria, Arsisio, Serapione – intrattenendosi con essi ed elargendo, secondo il suo solito, elemosine (Epit. Paulae 14,2); il ritorno all’agognata sede di Betlemme avvenne con viaggio marittimo dal porto egiziano di Pelusio a quello palestinese di Maiuma, nelle vicinanze di Gaza (Epit. Paulae 14,3); Betlemme sarebbe poi stata eletta come sua stabile sede e per i tre anni successivi i pellegrini sarebbero rimasti in un alloggio provvisorio, attendendo per quell’arco di tempo l’erezione del monastero maschile e femminile, cui si sarebbe aggiunto un alloggio per i pellegrini59 (Epit. Paulae 14,4).

4. Tra Gerusalemme e Betlemme Come ha bene osservato A. Cain60, la rappresentazione fortemente idealizzata di Nitria ha anche all’interno dell’Itinerarium la funzione narrativa di sfondo alla convinta elezione di Betlemme da parte di Paola (14.3), poiché caratterizza il futuro insediamento monastico come un capoluogo di autentica spiritualità cristiana, addirittura in grado di rivaleggiare con la reputazione già pressoché leggendaria del monachesimo egiziano. Anche quanto abbiamo esposto dell’Epitaphium Paulae ha già lasciato percepire – nei limiti di un sommario – la ben differente attenzione portata da Girolamo sulla basilica della Natività e lo speco di Betlemme (10,2-7) rispetto allo stesso Santo Sepolcro (9,2)61. Questo sorprende chi tenga presente la centralità del complesso gerosolimitano del Martyrium e dell’Anastasis che già nel IV secolo iniziava a essere fatto proprio dagli autori cristiani62 e che si sarebbe costantemente rafforzato trasmettendosi ai secoli successivi. Anche in altre opere la scrittura di Girolamo sottende un costante e percepibile – ancorché implicito – confronto tra i due principali loca sancta che, dopo la costruzione delle basiliche costantiniane, si configuravano ormai come eminenti anche dai punti di vista monumentale e della vita liturgica che vi si svolgeva63.   Si è già ricordato come i pellegrini occidentali costituissero una fonte primaria di sussistenza per la presenza di monaci e monache cristiane presso i loca sancta. Nel caso del diuersorium peregrinorum di Betlemme (14,4; cfr. anche 10,2 citato supra alla nota 13; inoltre ep. 46,11) esso sembra avere anche la funzione di riparare simbolicamente all’alloggio che Maria e Giuseppe non trovarono. Il termine diuersorium corrisponde, come nella Vulgata, alla resa standard di katalyma (cfr. Lc 2,7). 60  Cfr. Cain 2013, pp. 308 s. 61   Alla visita di Paola ai due luoghi sacri Girolamo dedica rispettivamente 7 (Sepolcro) e 45 (Natività) righe di testo, alle pp. 16-20 dell’edizione succitata. 62   Il tema patristico della centralità di Gerusalemme (cfr. per esempio Cirillo di Gerusalemme, Cat 13,28) si ricollega soprattutto al Golgota e rappresenta ovviamente una cristianizzazione dell’analogo motivo preesistente in ambito giudaico, come si può riscontrare in Giuseppe Flavio e nel Talmud babilonese; cfr. Weingarten 2005, pp. 197-199. 63   Nella stessa già ricordata ep. 46 (cfr. supra la nota 21) pur venendo elogiata con grandissima enfasi Gerusalemme – la città più nobile tra le province dell’Impero (46,9), sorgente di tutti i misteri della vita cristiana (46,3), in cui risuonano incessanti le preghiere dei fedeli (46,5) e le lodi dei monaci 59

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Anche l’attenzione al sito della Natività non rappresentava ovviamente una novità per i pellegrini occidentali. Attorno al 378/380 dimorarono per qualche tempo presso il monastero betlemita di Posidonio di Tebe il giovane Giovanni Cassiano e l’amico Germano; sempre presso questo monaco soggiornò attorno al 386/388 anche Palladio64, futuro vescovo di Elenopoli e autore della Historia Lausiaca. Ciò presuppone e conferma il rilievo simbolico-sacrale già attribuito allo speco della Natività, sul quale nel 327 il primo imperatore ufficialmente cristiano aveva fatto erigere una chiesa ottagonale, cui fanno accenno sia il pellegrino di Bordeaux che Egeria65. L’elezione della sede di Betlemme da parte di Girolamo e Paola, il frequente risuonare dell’elogio di tale luogo privilegiato negli scritti successivi alla loro installazione definitiva non poterono che rafforzarne significativamente la pregnanza simbolica agli occhi della cristianità occidentale. Non erano mancati a partire dal IV secolo i fautori entusiasti del sito della Natività, quanti cioè attribuivano a essa una centralità tale da rivaleggiare con il complesso del Martyrium e dell’Anastasis66; ci sembra tuttavia plausibile ipotizzare anche a proposito della predilezione geronimiana per Betlemme la persistenza di un influsso origeniano, con la centralità salvifica attribuita all’incarnazione del Logos. Anche sul versante apologetico, l’Alessandrino aveva attribuito un rilievo tutto particolare al sito della Natività: nel Contra Celsum egli si diffonde infatti nel richiamare l’attenzione del suo oppositore pagano sull’esatta corrispondenza tra antiche profezie e resoconti evangelici, che – a suo modo di vedere – proprio in quel luogo era soprattutto riscontrabile e gli aveva giustamente meritato una fama universale67. Per contro le notizie ricollegabili ai luoghi della crocifissione e risurrezione di Gesù si riducono essenzialmente, in ciò che dell’opera origeniana è a noi giunto, all’identificazione della roccia del Golgota con il luogo della sepoltura di Adamo68. L’incompletezza di cui la trasmissione delle opere origeniane (46,10) – è di nuovo la grotta betlemita della Natività a suscitare le espressioni della più intensa ammirazione (46,11), più dello stesso Santo Sepolcro (46,5). 64  Cfr. Fürst 2003, pp. 198-199. 65  Secondo l’Itinerarium Burdigalense, ibi basilica facta est iusso Constantini (25), con termini pressoché identici a quelli utilizzati per il Santo sepolcro (cfr. ivi, 22); da parte sua l’Itinerarium Egeriae presuppone l’esistenza dell’edificio basilicale di Betlemme menzionando la solenne liturgia che vi si svolge, con le veglie protratte dei monazontes nell’Epifania (25,8.12) e nell’ottava di Pasqua (39,1). 66   Il precedente più significativo tra gli autori del IV secolo è quello di Gregorio di Nazianzo; cfr. Cain 2013, p. 310. 67  Cfr. supra la nota 40. Evidentemente questa grotta era già identificabile da parte degli occasionali visitatori cristiani ben prima della monumentalizzazione costantiniana. 68  Cfr. supra la nota 46. Inoltre in Hom Ios 17,1 Origene allude probabilmente al pianto dei Giudei di fronte al muro occidentale del Tempio, il che – nella sua linea di esegesi spiritualizzante – costituisce una conferma della translatio alla Chiesa dei privilegi legati all’elezione di Israele: il dono della terra e la centralità cultuale di Gerusalemme; al motivo della translatio Girolamo accenna, tra l’altro, anche in ep. 46,4 («tunc omnes sacramentum Iudeae et antiquam Dei familiaritatem per apostolum in nationes fuisse traslatam») e in Epit. Paulae 10,4 (in cui è più chiaro il riferimento alla

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ha risentito suggerisce naturalmente la massima prudenza nel generalizzare tale conclusione69. A modo di conclusione ricorderemo come la tolleranza inaugurata da Costantino avesse la sua precisa traduzione simbolica nella nuova politica edilizia messa in opera in favore della chiesa cattolica: la riconfigurazione dello spazio tradizionalmente destinato al “sacro” fu forse l’esito più vistoso del profondo mutamento nell’assetto delle relazioni tra comunità cristiane e Impero che era andato gradualmente plasmandosi tra IV e V secolo. Lo stesso culto cristiano si era arricchito di luoghi monumentali e con essi di linguaggi celebrativi in precedenza non consueti70. La stessa Roma aveva conosciuto una prudente cristianizzazione del tessuto urbano, attenta a preservare la plurisecolare facies sacrale della zona del Foro e privilegiando a tale scopo zone liminali o periferiche del territorio dell’Urbe, per non alimentare l’ostilità della classe senatoria. Parimenti, ma con maggiore libertà, l’elezione dell’antica colonia dorica di Bisanzio – distrutta e ricostruita appena un secolo prima da Settimio Severo – quale Nuova Roma della pars orientis dell’Impero comportò la sua rifondazione in senso marcatamente cristiano71. La inventio dei loca sancta di Palestina implicava un nuovo tipo localizzazione del “sacro” cristiano, che trovava il proprio nucleo generativo non più – come a Roma e a Costantinopoli – nelle reliquie dei fedeli e dei martiri, ma negli eventi fondativi della storia della salvezza. Come la traduzione-adattamento dell’Onomasticon eusebiano da parte di Girolamo aveva costituito una tappa ulteriore (rispetto all’originale) ai fini della costruzione di una nuova topografia cristiana, parimenti l’Itinerarium di Paola costituì lo strumento complementare per una nuova narrazione in termini esistenziali, spaziali e quasi visuali degli accadimenti salvifici. Senza che Girolamo crisi definitiva con i destinatari giudaici della predicazione di Paolo e Barnaba, consumatasi secondo At 13,46 nella sinagoga di Antiochia di Pisidia). 69  Come notato da Newman 1988, persino in un’omelia tenuta in occasione della festa della dedicazione del Santo Sepolcro (Tr. Ps 95 [ed. Morin in CCL 78, pp. 154 s.]) Girolamo dimostra un sorprendente distacco riguardo alla celebrazione della reliquia della vera Croce, privilegiando invece l’approccio interiorizzante al significato dei vari loca sancta. 70   Canella 2016, p. 24 esemplifica la pertinenza della categoria di “trasformazione del paesaggio religioso tardoantico” ai secoli IV e V elencando eventi quali le eversiones dei templi dedicati ai culti tradizionali, tra cui spicca la distruzione nel 391 del Serapeion di Alessandria; le ricostruzioni giulianee, con il particolare rilievo simbolico dell’attentato ristabilimento del Tempio giudaico a Gerusalemme; la lotta nella Milano ambrosiana tra cattolici e ariani per la proprietà delle basiliche, la grande proliferazione dei santuari. Dalla fine del IV secolo si moltiplicarono soprattutto in Oriente gli episodi di spoliazione e distruzione dei santuari pagani, spesso per iniziativa monastica; cfr. anche Rinaldi 2016, pp. 191-193; 201-202. 71   Una rifondazione politico-urbanistica enfatizzata dalla nuova denominazione di Costantinopoli, anche se (come a Roma) gli spazi ampi e solenni riservati al culto cristiano coesistevano in essa con gli edifici e i monumenti dedicati alle divinità tradizionali; cfr. Falla Castelfranchi 2005, pp. 106-123.

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potesse ovviamente ignorare il nuovo fiorire dell’edilizia e della liturgia cristiana, si ricordi tuttavia come egli protestasse altrove il suo fastidio – se non proprio lo scandalo – per lo sfarzo che caratterizzava larga parte degli edifici ecclesiali di culto ormai diffusi in tutto l’orbe romano72. Nella forma dell’Itinerarium la centralità del dato biblico e dell’impegno spirituale restituiva in qualche misura alla stessa propaganda dei loca sancta una connotazione decisamente meno “politica” rispetto ai fasti della Chiesa costantinana e teodosiana: si trattava quindi di una veste letteraria decisamente più consona a ricongiungere idealmente l’autore e i suoi lettori alla radicalità della sequela Christi vagheggiata entro una cristianità sempre più esposta ad assestarsi sulla sicurezza e sul privilegio raggiunti in termini anche sociali. Bibliografia Andrei 2013 = O. Andrei, Ripensare Cesarea Marittima, in Ead. (a c.), Cesarea Marittima e la scuola origeniana. Multiculturalità, forme di competizione culturale e identità cristiana. Atti dell’XI convegno del Gruppo Italiano di Ricerca su Origene e la Tradizione Alessandrina (Arezzo, 22-23 settembre 2011), Suppl. «Adamantius» 3, Brescia 2013, pp. 9-23. Bitton-Ashkelony 2005 = B. Bitton-Ashkelony, Encountering the sacred. The debate on Christian pilgrimage in Late Antiquity, Berkeley-Los AngelesLondon 2005. Brown 2014 = P. Brown, Per la cruna di un ago. La ricchezza, la caduta di Roma e lo sviluppo del cristianesimo, 350-550 d.C., Torino 2014 [ed. or. Princeton 2012] Cain 2013 = A. Cain, Jerome’s Epitaph on Paula. A commentary on the Epitaphium Sanctae Paulae, Oxford Early Christian Texts s.n., Oxford 2013. Canella 2016 = T. Canella, Gli studi costantiniani. Questioni di metodo, in Ead. (a c.), L’impero costantiniano e i luoghi sacri, Testi e ricerche di scienze religiose n.s. 54, Bologna 2016, pp. 13-38 Consolino 2006 = F.E. Consolino, Tradizionalismo e trasgressione nell’élite senatoria romana. Ritratti di signore tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, in R. Lizzi Testa (a c.), Le trasformazioni delle élite in età tardoantica. Atti del convegno internazionale (Perugia 15-16 marzo 2004), Roma 2006, pp. 65-139.   Emblematica a tale riguardo è la lettera indirizzata attorno al 393 al presbitero e monaco Nepoziano (cfr. Fürst 2003, p. 196), che costituisce un’esaltazione della povertà clericale, con cui anche la sontuosità e la ricca ornamentazione dei luoghi di culto stanno in stridente contrasto: «Multi aedificant parietes et columnas ecclesiae subtrahunt: marmora nitent, auro splendent lacunaria, gemmis altare distinguuntur et ministrorum Christi nulla electio est…Tunc haec probabantur a Domino quanto sacerdotes hostias immolabant et sanguis pecudum erat redemptio peccatorum… nunc vero, cum paupertatem domus suae pauper dominus dedicarit, cogitemus crucem et divitias lutum putabimus» (ep. 52,10 in CSEL 54, p. 431 s.). 72

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Girolamo e Paola ai loca sancta

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LA CORRISPONDENZA TRA COSTANTINO E ANTONIO

Fabio Ruggiero

Linee di sviluppo della notizia da Atanasio fino a Sozomeno

1. La notizia della corrispondenza nella biografia antoniana La Vita di Antonio di Atanasio di Alessandria, seppure collocata nella cornice di una narrazione bio-agiografica1, ha come intento primario la lotta contro l’arianesimo, culmine e somma di ogni eresia e scisma, nonché in qualche modo riscrittura cristiana dell’errore pagano. Esplicitamente questo tema percorre tutta la seconda parte dello scritto, ma è a questo punto verosimile che anche la prima parte, apparentemente solo combattimento contro gli spiriti demoniaci, possa essere letta come preparazione spirituale a tale lotta, considerata l’alleanza in atto fra scismatici, eretici e pagani, da una parte, e demoni, dall’altra. Lo stesso Antonio è del resto prima di tutto un campione di quell’anacoretismo egiziano dell’epoca che, al servizio della Chiesa e fedele alla teologia nicena difesa con strenuo vigore dal grande arcivescovo alessandrino suo biografo, indefessamente combatte, conforme a un autentico discepolato di Cristo, le forze del Maligno sostanziatesi in tale eresia2. Lo scritto risale a un’epoca di poco successiva alla morte dell’eremita, ma non è possibile individuare con certezza il momento preciso della sua stesura, avvenuta comunque tra il 357 e il 362. Martin colloca la morte di Antonio in un tempo di poco   Cfr. l’analisi condotta da Monaci Castagno 2010, 5-7, che cita numerosa letteratura scientifica al riguardo, e, a tale proposito, Ruggiero 2014, pp. 408-409. 2  Questo giudizio, personale e insieme frutto di numerose letture, è debitore in particolare di Roldanus 1968, pp. 286-348; Schneemelcher 1980, pp. 381-392; Gregg, Groh 1981, pp. 131-159; Martin 1996, pp. 484-487. 1

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anteriore al febbraio 3563 e la composizione dello scritto in un periodo pressappoco compreso tra il 357 e il 3624. Certo è che la Vita viene redatta in un periodo in cui Atanasio sta rivalutando Costantino, che aveva criticato nella Seconda Apologia a scapito di Costanzo, con il quale i rapporti si stanno complicando fino alla svolta drammatica del 356-357: nella Storia degli Ariani Costanzo è ormai collegato all’immagine dell’Anticristo5. Ordunque, nella Vita si trova un breve testo, il capitolo 81, dedicato alla relazione che intercorre fra il monaco e la casa imperiale. Si tratta di un passaggio noto agli autori antichi e frequentato dalla storiografia e dalla cristianistica contemporanee. 1. Ebbene, la fama di Antonio giunse addirittura fino agli imperatori. Come Costantino Augusto e i suoi figli, gli Augusti Costanzo e Costante, vennero a conoscenza di queste cose6, presero infatti a scrivergli come a un padre, desiderando ricevere da lui risposte per iscritto. 2. Egli, però, non teneva in gran conto la loro corrispondenza e non provava piacere nel ricevere le loro lettere. Rimaneva, invece, proprio come era prima che gli imperatori gli scrivessero. 3. Quando dunque gli si portava la loro corrispondenza, egli convocava i monaci e diceva: «Perché vi meravigliate se un imperatore ci scrive: non è forse un uomo? Al contrario, meravigliatevi piuttosto del fatto che Dio ha scritto la Legge per gli uomini e ci ha parlato per mezzo del proprio Figlio». 4. Senza dubbio non voleva accettare la loro corrispondenza, sostenendo di non sapere rispondere per iscritto a cose di tal genere. Sollecitato, però, da tutti i monaci a considerare che gli imperatori erano cristiani e si sarebbero scandalizzati nel vedersi respinti, egli consentiva che la si leggesse. 5. E nel rispondere, da una parte li approvava per il fatto di adorare il Cristo, dall’altra offriva consigli per la loro salvezza: che non ritenessero importanti le cose presenti, ma piuttosto richiamassero alla mente il giudizio futuro e considerassero che il Cristo solo è imperatore vero ed eterno. 6. Chiedeva loro non solo di essere benevoli con gli uomini, ma anche di darsi pensiero della giustizia e dei poveri. Quanto agli imperatori, si rallegravano nel ricevere risposta. Cosi egli era amato da tutti, e tutti chiedevano di averlo per padre7.  Cfr. Martin 1996, p. 480, nota 111, con ampia bibliografia.  Cfr. Martin 1996, pp. 826 e 486, nota 129. Similmente Brennan 1976 pensa agli anni 356-362, mentre Barnard 1974, pp. 169-175 opta per l’arco temporale che va dalla fine del 357 all’inizio del 358. 5   Sono debitore di queste ultime informazioni ad Alberto Camplani, che ringrazio. Assai utile, per un inquadramento generale (con amplissima bibliografia) dei rapporti tra Costantino e Chiesa egiziana del tempo, Camplani 2013. 6   Si riferisce a prodigi operati da Antonio e a suoi discorsi volti a convertire filosofi greci. 7  1. Ἔφθασε δὲ καὶ μέχρι βασιλέων ἡ περὶ Ἀντωνίου φήμη. Ταῦτα γὰρ μαθόντες Κωνσταντῖνος ὁ Αὔγουστος καὶ οἱ υἱοὶ αὐτοῦ Κωνστάντιος καὶ Κώνστας οἱ Αὔγουστοι, ἔγραφον αὐτῷ ὡς πατρὶ, καὶ ηὔχοντο λαμβάνειν ἀντίγραφα παρ᾽αὐτοῦ. 2. Ἀλλ᾽ οὔτε τὰ γράμματα περὶ πολλοῦ τινος ἐποιεῖτο οὔτε ἐπὶ ταῖς ἐπιστολαῖς ἐγεγήθει. Ὁ αὐτὸς δὲ ἦν, οἷος καὶ πρὸ τοῦ γράφειν αὐτῷ τοὺς βασιλέας. 3. Ὅτε οὖν ἐκομίζετο αὐτῷ τὰ γράμματα, ἐκάλει τοὺς μοναχοὺς καὶ ἔλεγεν∙ Τί θαυμάζετε, εἰ γράφει βασιλεὺς πρὸς 3 4

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Il brano, nel suo insieme, si presenta sufficientemente chiaro. Tuttavia, dinanzi ad esso, lo storico rimane da subito perplesso. In primo luogo, nella costruzione dell’episodio, risulta evidente che l’intenzione dell’autore si concentra primariamente su Antonio, sulla sua santità, e non sulla relazione tra l’asceta e i regnanti. Si è così privati di informazioni atte a chiarire meglio il contesto effettivo, le reali circostanze8. In particolare, è la cronologia a sollevare problemi: mai, infatti, Costantino, Costanzo e Costante furono contemporaneamente Augusti. I figli assunsero questo titolo qualche mese dopo la morte del padre, il 9 settembre 337. Entrambi lo mantennero sino alla morte, che per Costanzo avvenne nel 361 e per Costante nel 350. Dunque, l’ipotesi che Atanasio, quanto ai titoli, sia influenzato dall’epoca di composizione della biografia, gli anni tra il 357 e il 362, non risulta convincente. Che senso ha allora la menzione di Costanzo e Costante? Che cosa vuole sottolineare, o nascondere, Atanasio nel nominarli? Una ipotesi plausibile di Wipszycka9 è che Atanasio voglia che il lettore pensi che si tratti di lettere ufficiali, teoricamente emanate dal collegio imperiale tutto intero, e ciò anche nel caso i co-regnanti si trovino in luoghi differenti e non siano quindi nemmeno nelle condizioni di potere essere consultati. Nel fare ciò, la studiosa ritiene che l’arcivescovo commetta tuttavia due ‘errori’. Il primo consiste nell’attribuire ai figli di Costantino il titolo di Augusto, mentre finché è in vita il padre sono solo Cesari. A mio parere, sull’esistenza di questo ‘errore’ c’è un margine di incertezza: esso potrebbe o non sussistere veramente, essendo Cesare talora una variante terminologica di Augusto, o essere dovuto più semplicemente alla tradizione manoscritta, a partire forse dallo stesso Atanasio. Non è quindi sicuro quanto afferma di conseguenza Wipszycka, secondo cui verosimilmente Atanasio vuole presentare i membri della casa imperiale con il titolo più prestigioso, anche a costo di anticipare i tempi. Il secondo risiede nel tralasciare di nominare gli altri due co-regnanti, Costantino iunior (poi Costantino II) e Dalmazio. Al primo era stato affidato dal padre Costantino il governo della Gallia proprio nel periodo in cui Atanasio era in esilio a Treviri. E poiché era cattolico, non ariano, aveva protetto l’arcivescovo d’Alessandria. Un silenzio che è stato spiegato riconducendolo a una sorta di damnatio memoriae: Costantino II sarebbe stato colpevole di avere attaccato nel 340 il fratello Costante per destituirlo, mentre Dalmazio, Cesare ἡμᾶς, ἄνθρωπος γάρ ἐστιν; Ἀλλὰ μᾶλλον θαυμάζετε, ὅτι ὁ Θεὸς τὸν νόμον ἀνθρώποις ἔγραψε καὶ διὰ τοῦ ἰδίου Υἱοῦ λελάληκεν ἡμῖν. 4. Ἐβούλετο μὲν οὖν μὴ δέχεσθαι τὰς ἐπιστολὰς, λέγων οὐκ εἰδέναι πρὸς τὰ τοιαῦτα ἀντιγράφειν. Προτραπεὶς δὲ παρὰ τῶν μοναχῶν, ὅτι Χριστιανοί εἰσιν οἱ βασιλεῖς, καὶ ἵνα μὴ ὡς προῤῥιφέντες σκανδαλισθῶσιν, ἐπέτρεπεν ἀναγινώσκεσθαι. 5. Καὶ ἀντέγραφεν, ἀποδεχόμενος μὲν αὐτοὺς, ὅτι τὸν Χριστὸν προσκυνοῦσιν, συνεβούλευε δὲ τὰ εἰς σωτηρίαν∙ καὶ μὴ μεγάλα ἡγεῖσθαι τὰ παρόντα, ἀλλὰ μᾶλλον μνημονεύειν τῆς μελλούσης κρίσεως καὶ εἰδέναι, ὅτι ὁ Χριστὸς μόνος ἀληθὴς καὶ αἰώνιός ἐστι βασιλεύς. 6. Φιλανθρώπους τε αὐτοὺς εἶναι ἠξίου, καὶ φροντίζειν τοῦ δικαίου καὶ τῶν πτωχῶν. Κἀκεῖνοι δεχόμενοι ἔχαιρον. Οὕτω παρὰ πᾶσιν ἦν προσφιλὴς, καὶ πάντες ἔχειν αὐτὸν ἠξίουν πατέρα. (Atanasio, Vita, ed. Bartelink 2004). 8   Cfr. le osservazioni di Wipszycka 2009, p. 231. 9   Essa è stata riformulata più ampiamente da Wipszycka 2009, p. 277.

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nel 335, sarebbe stato ucciso nell’estate del 337 su istigazione di Costanzo II, nel corso delle lotte per la successione al trono che seguirono alla morte di Costantino10. Tuttavia, anche questa soluzione non soddisfa pienamente: considerata l’epoca di composizione della Vita di Antonio e il mutato clima politico, aveva ancora senso questa damnatio memoriae? E perché allora non menzionare esclusivamente Costanzo, che a quel tempo era l’unico Augusto in carica e il solo stabile detentore del potere imperiale? L’interrogativo che sta a monte riguarda evidentemente la storicità dell’episodio11. Ripreso, come si vedrà più avanti, da altri autori antichi, esso si fonda essenzialmente su questa testimonianza atanasiana che, in linea con l’intera Vita, appartiene ormai assai più al genere bio-agiografico che a quello strettamente biografico. Che dalla casa imperiale siano state inviate, di propria iniziativa o come risposta a richieste di Antonio, una o più missive, è storicamente possibile; il resto naviga su un mare di incertezze ancora più grandi. Il capitolo parla di più lettere inviate da Costantino ad Antonio: lo sviluppo dell’episodio su questo punto non lascia dubbi. Inoltre Atanasio fa intendere ciò al lettore anche attraverso una variazione nell’uso dei tempi: «venuti infatti a conoscenza di queste cose, gli scrivevano come a un padre e desideravano ricevere da lui risposte per iscritto». In greco, l’impiego dell’imperfetto suggerisce inequivocabilmente che Costantino non abbia scritto soltanto una volta ad Antonio, ma più volte. Tuttavia, che interesse dovrebbe mai avere l’imperatore, a Costantinopoli, per un eremita che vive nell’interno del deserto egiziano? Costantino in effetti questo interesse può averlo, se consideriamo che convoca un concilio per l’unità e la pace della Chiesa egiziana da tenersi tra il 334 e il 335 coinvolgendo i monaci più importanti, coi quali intrattiene evidentemente rapporti12. Quanto ad Atanasio, che abilmente racconta e forse ‘costruisce’ la notizia, certamente lo ha. L’intero episodio, considerato sotto questa prospettiva, rappresenta un’ottima occasione per mostrare l’atteggiamento di sufficienza misto a ritrosia che il santo asceta assume dinanzi a un potere politico che, viceversa, apertamente lo onora come un padre ed è felice di accogliere i suoi consigli. La stessa trama letteraria del brano mette in piena evidenza tutto ciò: mentre l’inizio e la conclusione del capitolo sono contraddistinti dall’atteggiamento affettuoso dei sovrani, la parte centrale è lasciata alle perplessità del monaco che pare infine persuadersi a intrattenere rapporti con la famiglia imperiale più per non dare scandalo e quasi sottostare al parere dei confratelli monaci che per un proprio convincimento personale13.  Cfr. Wipszycka 2009, p. 278.   Cfr. in particolare Heussi 1936, pp. 90-93: analisi accurata di questo capitolo della Vita di Antonio, nella quale l’autore mette in luce tutti gli aspetti, a suo avviso, di storicità. 12   Su ciò, cfr. Camplani 2013, p. 873. 13   Si osservi, infatti, da parte degli imperatori: par. 1: «Come Costantino Augusto e i suoi figli, gli Augusti Costanzo e Costante, vennero a conoscenza di queste cose, presero infatti a scrivergli come a 10 11

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Atanasio fa muovere sulla scena il suo campione come se il vero protagonista non fosse l’attore ma l’autore. Più che Antonio, sembra Atanasio stesso in relazione con il potere imperiale, e forse potrebbe stare proprio qui il significato più autentico della menzione dei due Augusti, nel senso che la presenza di Costante (rimasto cattolico e per questo in contrasto con il fratello Costanzo) servirebbe solo a non fare apparire in primo piano colui che sarebbe il vero interlocutore di parte imperiale di tutto l’episodio, vale a dire Costanzo II. Naturalmente, questa interpretazione non contrasta – anzi, in certo qual modo s’associa – all’altra oggi prevalente, secondo cui il capitolo in oggetto manifesta una presa di posizione più generale verso il potere imperiale e la critica atanasiana è rivolta a tutti e tre i membri della casa imperiale menzionati14. A patto, però, che tali membri siano qui considerati nel loro complesso e non nelle loro individualità, e cioè come espressione, appunto, del potere romano sempre pronto a occupare (in ottica cattolica, non certo romana) “spazi” propri della religione e della fede. Certo il testo in esame, anche sotto il profilo teologico, è incentrato nella figura di Cristo in prospettiva antiariana. Non solo perché l’adesione al dogma niceno del monachesimo antoniano è all’epoca della composizione della Vita di Antonio cosa del tutto nota, ma perché la stesso Atanasio, nella sua biografia, ha cura di veicolare universalmente la notizia di un rapporto privilegiato tra sé e il grande asceta egiziano. Chi è dunque l’imperatore per l’Antonio di Atanasio? È un uomo, soltanto un uomo, che nulla ha di divino e che dunque non deve suscitare meraviglia se scrive a un semplice monaco; piuttosto occorre meravigliarsi del fatto che Dio ha scritto la Legge per gli uomini e ha parlato a coloro che credono in lui per mezzo del proprio Figlio15 (par. 3). È un cristiano, dunque un fratello nella fede, che rimarrebbe scandalizzato, sentendosi incomprensibilmente offeso e respinto, se, scrivendo a un monaco per dei consigli, non ricevesse risposta (par. 4). È dunque giusto rispondergli, lodandolo per le sue buone azioni, ma ricordandogli che «il Cristo solo è imperatore vero ed eterno» (par. 5). Parole, a ben vedere, molto nette, volte a ridimensionare le pretese imperiali, a ricollocarle in un ordine gerarchico cristiano assai definito. Assieme alle altre precedentemente richiamate, esse vengono a dire che l’imperatore è nella Chiesa, non al di sopra di essa, perché chi la guida è solo il Cristo, Figlio eterno e persona divina.

un padre, desiderando ricevere da lui risposte per iscritto» e par. 6: «Quanto agli imperatori, erano felici quando ricevevano le sue lettere». Da parte di Antonio: par. 2: «Egli, però, non teneva in gran conto la loro corrispondenza e non provava piacere nel ricevere le loro lettere. Rimaneva, invece, tale quale era anche prima che gli imperatori gli scrivessero»; par. 3: «Quando dunque gli si portava la loro corrispondenza, egli convocava i monaci e diceva: «Perché vi meravigliate se un imperatore ci scrive: non è forse un uomo?»; par. 4: «Senza dubbio non voleva accettare la loro corrispondenza». 14  Cfr. Martin 1996, p. 486, nota 129. 15   Il passo porta a pensare che qui il riferimento alla «Legge» sia un richiamo all’azione rivelatrice da Dio svolta nel quadro dei fatti narrati nell’Antico Testamento, mentre il riferimento al Figlio rimandi al Nuovo Testamento.

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2. Da Gerolamo a Prospero di Aquitania: la notizia si diffonde Gerolamo ci ha lasciato parecchie testimonianze su Antonio. Quelle più ampie, come la Vita di Paolo primo eremita e la Vita di Ilarione, seppure importanti, in prospettiva storico-agiografica e bio-agiografica, per i confronti che propongono tra figure e modelli di monachesimo, non dicono pressoché nulla a riguardo della notizia che è oggetto della presente indagine. Che il dotto esegeta voglia, con questi due scritti in particolare, rivaleggiare con Atanasio, è risaputo. Da un lato, infatti, l’Antonio di Gerolamo è nel complesso spiritualmente e culturalmente assai inferiore a Paolo primo eremita, e le stesse sfumature comiche che riguardano il campione di Atanasio servono appunto a sminuire fama e prestigio della sua santità; dall’altro, Ilarione esce dalle pagine del grande erudito romano come un degno successore del compianto eroe egiziano. Lo stesso discorso fatto per le due biografie monastiche può valere per il fugace cenno presente in Lettera 22, 36: Vengo ora a parlare della terza categoria, di coloro che sono chiamati anacoreti e che, lasciando i cenobi, non portano con sé nel deserto nulla in più del pane e del sale. Chi ha istituito questo genere di vita è Paolo, chi lo ha nobilitato è Antonio e, per risalire alle origini, chi ne ha offerto il primo esempio è stato Giovanni Battista.

Diversamente, le testimonianze più sobrie (tre succinte notizie della Cronaca16 e tre brevi schede de Gli uomini illustri17) toccano, più o meno direttamente, il tema qui studiato. Partiamo dalla Cronaca. All’anno 251 è fissata la nascita di Antonio (Antonius monachus in Aegypto nascitur), mentre al 335 si rinviene la notizia che più qui interessa: «Costantino assieme ai suoi figli invia ad Antonio una lettera in cui gli si rende onore» (Constantinus cum liberis suis honorificas ad Antonium litteras mittit)18. Occorre ricordare che tale notizia, nella esatta forma in cui la tramanda Gerolamo, figura nella Cronaca di Prospero di Aquitania (metà del secolo V), sempre per la stessa data, questa volta indicata però col nome dei consoli designati per l’anno19. Infine, al 356 Gerolamo data la morte del santo, trasformando la notizia in un’occasione propagandistica in favore del proprio scritto su Paolo primo eremita (Antonius monachus CV aetatis anno in heremo moritur solitus multis ad se venientibus de Paulo quodam Thebaeo mirae beatitudinis viro referre, cuius nos exitum brevi libello explicuimus).   Per l’edizione, si segue Eusebius Werke VII, ed. Helm 1913.   Per l’edizione, si segue A. Ceresa-Gastaldo 1988. 18   Il testo è di certo breve, ma la presenza del plurale litteras pone tuttavia un problema non del tutto irrilevante in sede storica, quello se si tratti di una o più lettere, visto inoltre che il valore singolare di litterae tende a sfumare nel latino tardo, specie in passi che in qualche modo e misura entrano in contatto con la sfera del greco. 19   Il testo infatti premette le parole Constantio et Albino. 16 17

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Quanto a Gli uomini illustri, sono più d’uno i ritratti che in qualche modo forniscono informazioni su Antonio. Dalla vita di Atanasio (n. 87) apprendiamo che l’arcivescovo compose «il racconto che contiene La vita del monaco Antonio» (historia Antonii monachi vitam continens), mentre dal ritratto dello stesso Antonio (n. 88) veniamo a sapere che il monaco compose in copto sette lettere, poi tradotte in greco, per forma e contenuto degne di un apostolo, e altro ancora, ma soprattutto che «egli fiorì sotto il regno di Costantino e dei suoi figli» (floruit Constantino et filiis eius regnantibus): un elemento, questo, che a mio avviso va senz’altro posto in connessione con la vicenda dello scambio epistolare tra il monaco e la famiglia imperiale. Infine, Evagrio di Antiochia (n. 125) è ricordato in quanto «tradusse pure dal greco nella nostra lingua la vita del beato Antonio di Atanasio» (vitam quoque beati Antonii de graeco Athanasii in nostrum sermomen transtulit). Risulta dunque chiaro che il solo testo geronimiano davvero significativo è quello che parla della lettera (più difficilmente si tratta di ‘lettere’) inviata dalla famiglia di Costantino ad Antonio nel 335, il cui contenuto è in buona sostanza una espressione di stima nei riguardi del monaco, a meno che quella di Girolamo non sia semplicemente una breve scheda riassuntiva del capitolo 81 della Vita di Antonio composta da Atanasio. Può infine forse costituire un motivo di qualche interesse notare come l’epoca (sempre che le cronologie siano esatte) sia la stessa del concilio di Tiro, un momento di aperta tensione tra Costantino e Atanasio che, secondo quanto ci racconta Sozomeno20, finisce col coinvolgere persino lo stesso Antonio, accusato di fatto di sostenere un vescovo messosi in una condizione indifendibile per lo spirito di fazione che lo anima e che lo porta inesorabilmente a dividere il corpo ecclesiale, dunque il bene cui il sovrano è più fortemente legato, sia per ragioni politiche, sia per convinzioni spirituali personali. 3. Rufino: il principe e il santo intercessore e profeta Eppure la svolta operata da Costantino ha avuto successo. Al suo regno – occorre ammetterlo – anche per la sua politica religiosa a tratti ambigua, sono seguiti, specie nelle aree orientali dello Stato, decenni di aspre lotte religiose tra cattolici, niceni e ariani. Ma poi, infine, è salito al trono Teodosio, il nuovo Costantino, capace di dare compimento all’opera avviata dal primo imperatore romano di fede cristiana. Rufino di Concordia, storico ecclesiastico di età onoriana, sottolinea apertamente questo dato, proponendo come criterio distintivo, nel proprio racconto troppo spesso pressoché solo agiografico, la pietà o l’empietà dei sovrani, dove pietà significa ortodossia nicena e sostegno al mondo monastico21.   Cfr. Sozomeno, Storia ecclesiastica 2,31,1-5. Testo riportato ed esaminato più avanti.   Giudico superfluo, in uno studio di questo taglio, richiamare con ampiezza le conclusioni cui è pervenuta la ricerca storico-letteraria precedente su Rufino, sin troppo nota per gli ottimi risultati 20 21

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Ora, agli occhi di Rufino, Costantino è imperatore pio per eccellenza. Sin dalle prime battute della sua Storia ecclesiastica, ha cura di mostrarlo sotto questa luce. Egli è anzitutto un sovrano religiosus, che omni studio et diligentia si occupa delle questioni della Chiesa (1,1). Al concilio di Nicea, da lui stesso convocato, anche se dietro suggerimento dei vescovi, compie un’azione admirabile, dando ordine che siano bruciati tutti insieme i libelli episcopali, pieni di reciproche lagnanze e quindi idonei a rendere manifesta la discordia che divide al proprio interno la Chiesa (1,2). Alle assise è presente anche il confessore e vescovo Pafnuzio che Massimino, al tempo delle persecuzioni, aveva condannato alle miniere, dopo avergli fatto cavare l’occhio destro e recidere il nervo della caviglia sinistra. Il vecchio dispone di un potere taumaturgico ed esorcistico pari a quello posseduto un tempo dagli apostoli del Signore. Costantino lo venera e lo ama di un affetto profondissimo. Spesso, chiamatolo a Palazzo, lo abbraccia e gli imprime ardenti baci proprio sull’orbita dell’occhio fatto oggetto di tanta violenza per odio alla fede (1,4). Non può quindi sorprendere che, sulla scorta del capitolo 81 della biografia atanasiana, trovi spazio nell’opera storica di Rufino anche il ricordo del rapporto intercorso tra il sovrano e il principe degli asceti, quell’Antonio che il nostro autore presenta ora come santo intercessore e profeta, ampliando l’orizzonte disegnato dallo stesso Atanasio per il proprio campione. La Storia ecclesiastica22 rufiniana, composta in latino al principio del secolo V23 come completamento dell’omonima opera eusebiana, vi allude in un passo piuttosto succinto, che si presenta tuttavia incastonato tra due testi parimenti significativi. Il primo è il racconto alquanto lungo del rinvenimento della Santa Croce da parte della religiosissima imperatrice madre Elena (10,7), di cui si trova un accenno anche nella seguente notizia su Costantino e Antonio (10,8), mentre il secondo è il completamento del ritratto che l’autore fornisce di Antonio (10,8). Qui mi limito a riportare per intero solo la parte relativa al principe e al monaco: Frattanto Costantino, forte del proprio sentimento religioso, sottomise pienamente con le armi nel loro proprio paese i Sarmati, i Goti e le altre nazioni barbare, eccetto quelle che avevano in precedenza raggiunto un accordo di pace mediante alleanze o conseguiti. Penso in particolar modo alle decennali ricerche di Françoise Thélamon, Giorgio Fedalto e Yve-Marie Duval, che le presenti pagine spero in certo modo riecheggino. 22   Per l’edizione, si segue Mommsen 1908. 23   La data in cui l’opera viene stilata è dagli studiosi usualmente desunta da alcuni elementi: 1) lo scritto di Rufino è dedicato a Cromazio, vescovo di Aquileia, che gli aveva richiesto di tradurre la Storia ecclesiastica di Eusebio e di aggiornarla sino ai tempi odierni: verosimilmente lo scritto è dunque precedente al 407, anno della morte di Cromazio; 2) al principio del proprio prologo, l’autore afferma di scrivere «in quel tempo in cui, fatte a pezzi le porte d’Italia per mano di Alarico, capo dei goti, si è introdotto un pestifero morbo, che in lungo e in largo ha devastato campagne, armenti e uomini» (tempore, quo diruptis Italiae claustris Alarico duce Gothorum se pestifer morbus infudit et agros armenta viros longe lateque vastavit): se Alarico, come pare, invade l’Italia due volte, negli anni 401/402 e successivamente nel 408 (data in cui però Cromazio è già morto), salvo incongruenze cronologiche è certo che lo scritto rufiniano risale alla prima invasione di Alarico.

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per essersi arrese. E quanto più egli religiosamente e umilmente si era assoggettato a Dio, tanto più Dio sottometteva a lui tutte quante le cose. Anche ad Antonio, che per primo abitò il deserto, inviò lettere da supplice come a uno dei profeti, perché questi levasse suppliche al Signore in favore suo e dei suoi figli. Così si dava ardentemente da fare per risultare gradito a Dio non solo per i propri meriti e per la religiosità della madre, ma anche per l’intercessione dei santi. E ora, dal momento che ho menzionato un uomo così grande quale fu Antonio, avrei voluto io stesso scrivere qualcosa delle sue virtù e dei suoi insegnamenti, e ancora della sua temperanza d’animo: essa fu tale che egli abbia goduto solo della compagnia di animali selvatici nel corso di un’esistenza vissuta in solitudine, tale che sia piaciuto a Dio più di ogni altro mortale per i frequenti trionfi riportati sui demoni, tale che abbia lasciato ai monaci fino ai nostri giorni luminosi esempi del suo metodo formativo. Mi ha però distolto da questo intendimento quel libro che, scritto da Atanasio, è stato pubblicato anche in lingua latina. Per questa ragione, rinunciando a trattare delle cose già dette da altri, io riferirò quelle che, pur avendo dalla loro la conferma dei fatti, una fama alquanto oscura non ha tuttavia permesso di conoscere a coloro che risiedono lontano24.

Questo testo offre alcuni dati di grande interesse: al lettore si propone la figura di Costantino, che, forte del proprio sentimento religioso, sconfigge tutti i nemici dello Stato, o con le armi o mediante trattati d’amicizia o tramite resa. Allo storico antico non resta che notare con soddisfazione che quanto più il sovrano si assoggetta piamente a Dio, tanto più questi sottomette a lui tutte quante le cose. A questo punto si inserisce il discorso su Antonio, primo abitatore del deserto, cui il sovrano invia lettere da supplice come a uno dei profeti, allo scopo che il monaco levi suppliche al Signore in favore suo e di suoi figli. Segue il commento rufiniano: così Costantino si dava molto da fare per risultare gradito a Dio non solo per i propri meriti e per la religiosità della madre, ma anche per l’intercessione dei santi, evidentemente con riferimento ad Antonio. Vorrei a questo punto sottolineare alcuni aspetti teologici. Anzitutto, nella concezione rufiniana delle cose, si dà un rapporto assolutamente privilegiato tra Dio e Costantino. Quest’ultimo, nella sua umile pietà religiosa, è lo strumento di governo di Dio Padre sul mondo, nel quadro di una interrelazione Dio-uomo che pare dav  «Interea Constantinus pietate fretus Sarmatas, Gothos aliasque barbaras nationes, nisi quae vel amicitiis vel deditione sui pacem praevenerant, in solo proprio armis edomuit. Et quanto magis se religiosius et humilius Deo subiecerat, tanto amplius ei Deus universa subdebat. Ad Antonium quoque primum heremi habitatorem velut ad unum ex profetis litteras suppliciter mittit, uti pro se ac liberis suis Domino supplicaret. Ita non solum meritis suis ac religione matris, sed et intercessione sanctorum commendabilem se Deo fieri gestiebat. Sane quoniam tanti viri Antonii fecimus mentionem, de virtutibus eius atque institutis et sobrietate mentis, ut in solitudine vitam degens usus solummodo consortio fuerit bestiarum et de daemonibus crebros agens triumphos placuerit Deo supra cunctos mortales utque institutionis suae praeclara usque in hodiernum monachis exempla reliquerit, volentem me aliqua exponere ille libellus exclusit, qui ab Athanasio scriptus etiam Latino sermone editus est. Propter quod nos omissis his, quae ab aliis iam dicta sunt, ea memorabimus, quae quamvis gestorum contineat fides, ab his tamen, qui longe positi sunt, obscurior fama subtraxit». 24

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vero assumere tratti ripropositivi della relazione trinitaria tra Padre e Figlio (10,8: et quanto magis se religiosius et humilius Deo subiecerat, tanto amplius ei Deus universa subdebat), così com’è propriamente cristologico il fatto che l’imperatore si dia tanto da fare per risultare gradito a Dio primariamente a motivo dei propri meriti (10,8: meritis suis … commendabilem se Deo fieri gestiebat). In secondo luogo, rimanendo sempre in questa prospettiva, il fatto che in tale ‘risultare graditi a Dio’ trovi spazio anche il sentimento di religiosità della madre (religio matris) porta ad azzardare l’idea che Costantino ed Elena, spesso associati nel culto e nell’iconografia a partire dal secolo IV, finiscano in qualche misura con l’essere, benché non ancora in modo distinto, figurae del rapporto tra la Madre di Dio e il Figlio Cristo (10,8: Ita non solum meritis suis ac religione matris …). Infine, il monaco di Concordia è il primo a riferire che il sovrano invia lettere ad Antonio suppliciter come a uno dei profeti (l’avverbio si rinviene nella Storia ecclesiastica di Rufino solo un’altra volta, là dove è la vedova del re degli etiopi a pregare suppliciter Edesio e Frumenzio di condividere con lei la preoccupazione del governo del regno25) evidentemente archetipo della figura biblica, che è a un tempo consigliere, guida e correttore del re d’Israele, e insieme nuovo ruolo storico-politico nella società cristiana, in cui assume un rilievo via via crescente anche quale preveggente di sconfitte militari del sovrano (si pensi solo ai casi di Martino di Tours, la cui Vita dipende dalla biografia atanasiana, e di Giovanni di Licopoli, di cui mi appresto a esporre) perché a sua volta levi suppliche in favore proprio e della propria famiglia. Si è dunque in presenza di una vera intercessione religiosa e insieme di un patronato spirituale sulla casa regnante. Che per Rufino si tratti alla fine di uno schema piuttosto rigido, se non fisso, lo prova il fatto che esso ricompare nel momento in cui lo scrittore deve presentare al proprio pubblico il rapporto che viene instaurandosi tra l’imperatore Teodosio e il monaco Giovanni di Licopoli. Egli dunque fece ritorno in Oriente e colà, come aveva fatto al principio del suo principato, con la massima cura e il massimo zelo espulse gli eretici dalle chiese e le consegnò ai cattolici. Nel trattare tale questione, poi, usò tanta moderazione che, lasciato da parte ogni sentimento di vendetta, provvide soltanto alla restituzione delle chiese ai cattolici, perché la retta fede, senza più impedimenti alla predicazione, potesse fare progressi. Si mostrò alla mano nei riguardi dei vescovi di Dio, e per fede, religiosità e generosità presentò a tutti un animo regale. Facilmente concedeva udienza e si presentava a colloquio con gli umili senza fare ostentazione del proprio stato di sovrano. Su sua esortazione e per mezzo di sue elargizioni, in molti luoghi le chiese furono bene adornate e splendidamente costruite. Distribuiva largamente a coloro che si rivolgevano a lui, ma più spesso era lui spontaneamente a offrire. Il culto degli idoli, che per disposizione di Costantino e da allora in poi aveva iniziato a essere trascurato e abbattuto, durante il suo principato andò in rovina. Per questi meriti fu talmente caro a Dio che la Divina Provvidenza gli assegnò un dono singolare. Essa,   Cfr. Rufino, Storia ecclesiastica 10,9.

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infatti, ricolmò di spirito profetico un tale monaco di nome Giovanni, che abitava nelle regioni della Tebaide, ed egli si rivolgeva ai suoi consigli e alle sue risposte per sapere se fosse meglio mantenere la pace o fare la guerra26.

Se quella di Rufino di Concordia è la posizione di un esponente di spicco della storiografia monastica occidentale, ‘teodosiana’ e cattolica, dunque volta al pieno recupero dell’immagine di Costantino, occorre non dimenticare che ben altre valutazioni si esprimevano, tra la seconda metà del IV secolo e l’inizio del V, sul rapporto sempre più stretto che si stava stringendo fra la classe intellettuale, da una parte, e il mondo monastico, dall’altra. E questo perché proprio tra i giovani preparati nelle scuole di retorica e di diritto si andavano a scegliere le nuove leve della classe dirigente di un Impero ancora vastissimo e bilingue. Basti un richiamo ad Ausonio e Rutilio Namaziano, due figure della tarda poesia romana e insieme voci autorevoli di questo crescente disagio. Fermamente pagani entrambi, entrambi impensieriti e infastiditi dal rifiuto della communio con gli altri che ai loro occhi esprime il modello di vita ascetico nel suo porsi in radicale contrasto con l’humanitas, che invece caratterizza la condotta del cittadino romano virtuoso. Pur partendo da vissuti differenti, essi s’incontrano sul terreno comune del giudizio sul monachesimo27. 4. Sozomeno: i ruoli in certo modo si invertono Pochi decenni più tardi, verso la metà del secolo V, lo storico di mestiere Sozomeno compone in greco una propria monumentale Storia ecclesiastica, fondata su documenti d’archivio, ma soprattutto su uno spirito non più così vistosamente di parte. Egli riconosce al monachesimo l’apporto fondamentale che ha saputo dare alla società, ma nondimeno si rifiuta di presentare la casa imperiale inetta e litigiosa per motivi vani. A partire dal capitolo nove del primo libro della sua opera comincia a richiamare le misure legislative prese da Costantino per meglio onorare la religione cristiana, e tra queste rammenta provvedimenti in materia testamentaria vantaggiosi per quanti, uomini e donne, vogliano votarsi alla vita consacrata. Passa poi a parlare dei confessori della fede sopravvissuti alle persecuzioni (capitoli 10-11), quindi affronta il tema della vita monastica (capitolo 12), presentata come una eccellente forma di filosofia pratica. Il lungo capitolo si chiude con un accenno ai fondatori di questo stile di vita e con un ammirato elogio degli asceti egiziani del tempo. Il capitolo successivo si apre con queste parole. Ma che siano stati gli Egiziani o altri a essersi fatti sin dal principio promotori di tale filosofia, questo però è concordemente attestato da tutti: che cioè il grande monaco  Rufino, Storia ecclesiastica 11,19.   Al riguardo, cfr. Pricoco 1983 e Corsaro 1981.

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Antonio, grazie a costumi ed esercizi appropriati, praticò siffatta maniera di vivere sino al culmine della disciplina e della perfezione. Mentre egli a quel tempo si distingueva nei deserti dell’Egitto, l’imperatore Costantino, per quanto era nota la virtù di quell’uomo, lo fece suo amico, l’onorava con lettere e l’esortava a scrivere in merito alle domande che gli poneva28.

Che si tratti, a ben leggerlo, di un passo importante, non è difficile comprenderlo. Sozomeno, infatti, ci racconta di come la fama di santità del monaco abbia per così dire attirato l’interesse del pio sovrano. Dobbiamo immaginare Costantino desideroso di poter essere amico dell’asceta egiziano e felice di ricevere da Antonio risposte sulle svariate questioni sottopostegli in qualità di santo e profeta. Il tenore del passo è recepito chiaramente da Cassiodoro, che ne offre una fedele versione latina in Storia ecclesiastica tripartita 1,1129. La notizia di Sozomeno ricalca nella sostanza Vita di Antonio 81,1 di Atanasio, là dove si riferisce che i regnanti «presero infatti a scrivergli come a un padre, desiderando ricevere da lui risposte per iscritto». È invece completamente assente la sezione atanasiana che tratta prima del disinteresse di Antonio a intrattenere con il sovrano relazioni e poi del suo atteggiamento critico verso il potere imperiale. La storiografia del V secolo, più in linea con l’establishment politico e rispettosa della nuova concezione dei rapporti tra Impero e Chiesa, tralascia di ricordare questi aspetti della notizia che certamente le erano noti. Nella penna di Sozomeno, lo scambio epistolare tra Costantino e Antonio acquista dunque un sapore assolutamente nuovo e differente. Il che non significa meno vero. Anzi, è probabile che il resoconto di Sozomeno sia nel complesso più affidabile. Come ad esempio quando mostra che non è sempre soltanto l’imperatore ad avere bisogno del monaco, ma qualche volta può essere il monaco ad avere bisogno dell’imperatore. Anche questa è una differenza di Sozomeno rispetto ad Atanasio. Una conferma di ciò viene dalla seconda testimonianza di Sozomeno relativa al rapporto tra i due personaggi. Il brano ci mostra la comprensibile severità di Costantino30 a seguito sia degli avvenimenti del concilio di Tiro (335) che Atanasio ha abbandonato in posizione perdente, sia del tentativo compiuto da quest’ultimo di   Ἀλλ’ εἴτε Αἰγύπτιοι εἴτε ἄλλοι τινὲς ταύτης προὔστησαν ἐξ ἀρχῆς τῆς φιλοσοφίας, ἐκεῖνο γοῦν παρὰ πᾶσι συνωμολόγηται, ὡς εἰς ἄκρον ἀκριβείας καὶ τελειότητος ἤθεσι καὶ γυμνασίοις τοῖς πρέπουσιν ἐξήσκησε ταυτηνὶ τοῦ βίου τὴν διαγωγὴν Ἀντώνιος ὁ μέγας μοναχός· ὃν τηνικαῦτα διαπρέποντα ἐν ταῖς κατ’ Αἴγυπτον ἐρημίαις κατὰ κλέος τῆς τοῦ ἀνδρὸς ἀρετῆς φίλον ἐποιήσατο Κωνσταντῖνος ὁ βασιλεὺς καὶ γράμμασιν ἐτίμα καὶ περὶ ὧν ἐδεῖτο γράφειν προὐτρέπετο (Sozomeno, Storia ecclesiastica 1,13,1). La sezione dedicata espressamente ad Antonio prosegue sino al paragrafo 11. 29   «Sed sive Aegyptii sive alii quidam huic ab initio philosophiae praefuerunt, illud tamen apud omnes constat, quia ad summam reverentiam atque perfectionem moribus exercitationibusque decentibus hanc conversationem usque perduxit Antonius maximus monachorum. Quem tunc in desertis Aegypti morantem propter gloriam virtutis eius imperator Constantinus amicum fecerat, litteris honorabat et, ut, pro quibus vellet, ei rescriberet, expetebat» (ed. Mommsen 1892). 30  Cfr. Simonetti 1975, pp. 110-134. 28

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riabilitarsi presso il sovrano lungo il cammino per Costantinopoli, dove però è stato accusato di un reato gravissimo, quello di avere affermato di poter impedire il rifornimento di grano da Alessandria alla nuova capitale. Vera o falsa che sia l’accusa, l’imperatore decide infine contro Atanasio. Pur risparmiandogli la pena di morte, lo manda immediatamente in esilio a Treviri, in Gallia, dal figlio Costantino. Il testo che segue suppone tali fatti come accaduti. 1. In realtà tuttavia, per quanto Ario fosse morto, non ebbe fine la controversia sulle dottrine che egli aveva elaborato né i suoi seguaci cessarono di cospirare contro chi aveva opinioni opposte. 2. E infatti, benché tanto il popolo di Alessandria continuasse a reclamare con grida e a implorare con suppliche il ritorno di Atanasio come il grande monaco Antonio avesse più volte scritto di Atanasio all’imperatore, supplicandolo di non prestare fede ai meleziani bensì di considerare calunnie le loro testimonianze, questi non si lasciò persuadere, ma scrisse agli alessandrini, accusandoli di dissennatezza e mancanza di disciplina, e ai chierici e alle sacre vergini, ingiungendo di starsene tranquilli; e con forza affermava che non avrebbe cambiato parere né avrebbe richiamato Atanasio, in quanto sedizioso e condannato da un giudizio ecclesiastico. 3. Ad Antonio poi replicò di non potere non tenere conto del voto espresso dal concilio. Se infatti anche pochi, disse, avevano giudicato per odio o per favore, non era certo credibile che una così grande folla di stimati e virtuosi vescovi avesse espresso uguale parere, ossia che Atanasio fosse insolente, altezzoso e causa di divisione e di discordia. Gli avversari del vescovo puntavano soprattutto su questi aspetti per screditarlo, sapendo bene che l’imperatore respingeva con disgusto oltre ogni misura gente siffatta. 4. Quando il sovrano apprese che la Chiesa era divisa in due parti discordi e che gli uni si mostravano rispettosi di Atanasio, gli altri di Giovanni, ne fu profondamente irritato ed esiliò proprio Giovanni. Questi poi era il successore di Melizio, e il concilio tenutosi a Tiro aveva a lui ingiunto di entrare in comunione con la Chiesa e disposto che lui e i suoi seguaci mantenessero gli onori dei loro propri uffici ecclesiastici. 5. Sebbene senz’altro per i nemici di Atanasio il provvedimento del sovrano arrivasse contro le loro aspettative, tuttavia le cose andarono così ugualmente, e di nessun vantaggio furono per Giovanni le decisioni prese da quelli riuniti a Tiro. L’imperatore era infatti troppo grande per ogni genere di supplica e di intercessione nei riguardi di chi era sospettato di incitare la massa dei cristiani alla discordia e alla divisione31.   1. Ἀλλὰ γὰρ οὐδὲ τούτου τελευτήσαντος τέλος ἔσχεν ἡ ζήτησις ὧν ηὗρεν δογμάτων, οὐδὲ ἐπαύσαντο οἱ τὰ αὐτοῦ φρονοῦντες τοῖς τἀναντία δοξάζουσιν ἐπιβουλεύοντες. 2. Ἀμέλει τοι καὶ τοῦ Ἀλεξανδρέων δήμου συνεχῶς ἐκβοῶντος καὶ ἐν λιταῖς ἱκετεύοντος περὶ τῆς Ἀθανασίου καθόδου καὶ Ἀντωνίου τοῦ μεγάλου μοναχοῦ πολλάκις περὶ αὐτοῦ γράψαντος καὶ ἀντιβολοῦντος μὴ πείθεσθαι τοῖς Μελιτιανοῖς, ἀλλὰ συκοφαντίας ἡγεῖσθαι τὰς αὐτῶν κατηγορίας, οὐκ ἐπείσθη ὁ βασιλεύς, ἀλλὰ τοῖς μὲν Ἀλεξανδρεῦσιν ἔγραψεν ἄνοιαν καὶ ἀταξίαν ἐγκαλῶν, κληρικοῖς δὲ καὶ ταῖς ἱεραῖς παρθένοις ἡσυχίαν ἐπιτάττων· καὶ μὴ μετατεθήσεσθαι τῆς γνώμης ἰσχυρίζετο μηδὲ μετακαλεῖσθαι τὸν Ἀθανάσιον, ὡς στασιώδη καὶ ἐκκλησιαστικῇ καταδεδικασμένον κρίσει. 3. Ἀντωνίῳ δὲ ἀντεδήλωσε μὴ οἷός τε εἶναι τῆς συνόδου ὑπεριδεῖν τὴν ψῆφον. Εἰ γὰρ καὶ ὀλίγοι, φησί, πρὸς ἀπέχθειαν ἢ χάριν ἐδίκασαν, οὐ δήπου πιθανὸν τοσαύτην πληθὺν ἐλλογίμων καὶ ἀγαθῶν ἐπισκόπων τῆς ὁμοίας γενέσθαι γνώμης· τὸν γὰρ Ἀθανάσιον ὑβριστήν τε εἶναι καὶ ὑπερήφανον καὶ διχονοίας καὶ στάσεων αἴτιον. Οἱ γὰρ ἐναντίως ἔχοντες πρὸς αὐτὸν περὶ ταῦτα μάλιστα διέβαλλον αὐτόν, 31

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Costantino si appella in sostanza all’unità del corpo ecclesiale come immagine dell’unità del corpo politico, per ciò stesso valore massimo e irrinunciabile. In gioco è la salvezza spirituale, culturale e territoriale dell’Impero cristiano. In questo senso, anche l’attaccamento di Antonio all’arcivescovo Atanasio può finire col suscitare instabilità e pericolo, per il potere carismatico e l’autorità spirituale di cui il monaco gode ad Alessandria e in altre aree dell’Egitto. Dinanzi alle sollecitazioni con cui da più parti di quella regione si reclama il ritorno di Atanasio, il sovrano è irremovibile. Ad Antonio stesso, che è uno di quelli che direttamente gli si sono rivolti, spiegando al sovrano il proprio punto di vista sulla situazione determinatasi, Costantino oppone il fatto che non è possibile che un giudizio sottoscritto da tanti vescovi possa essere ispirato da odio e risentimento. Nel desiderio di colpire i radicalismi di ogni fazione e nella speranza di favorire la pacificazione, l’imperatore decide di mandare in esilio pure Giovanni Arkaph, il capo dei meleziani, ma lascia per il momento vacante la cattedra episcopale di Atanasio, non nominando un successore ad Alessandria32. Egli non sostituisce Atanasio nella seconda città dell’Impero probabilmente perché pensa che un cambiamento improvviso possa provocare disordini. Se Costantino fosse vissuto più a lungo, verosimilmente si sarebbe dato da fare per preparare con tutta prudenza ma anche con autorità la successione di Atanasio. E l’imposizione di un nuovo arcivescovo per Alessandria avrebbe certo mutato la storia del cristianesimo del IV secolo. Bibliografia Atanasio, Vita = Athanase d’Alexandrie, Vie d’Antoine. Introduction, texte critique, traduction, notes et index par G.J.M. Bartelink (SC 400), Paris 1994, 20042. Barnard 1974 = L.W. Barnard, The Date of S. Athanasius’ Vita Antonii, in «Vigiliae Christianae» 2, 1974, pp. 169-175. Brennan 1976 = B.R. Brennan, Dating Athanasius’ Vita Antonii, in «Vigiliae Christianae» 30, 1976, pp. 52-54. Camplani 2013 = A. Camplani, Il cristianesimo in Egitto prima e dopo Costantino, in Costantino I. Enciclopedia costantiniana sulla figura e l’immagine dell’imperatore del cosiddetto editto di Milano. 313-2013, 3 voll., Roma 2013, I, pp. 863-882. καθότι ὑπερφυῶς τοὺς τοιούτους ὁ βασιλεὺς ἀπεστρέφετο. 4. Τότε γοῦν πυθόμενος διχῇ μεμερίσθαι τὴν ἐκκλησίαν καὶ τοὺς μὲν Ἀθανάσιον, τοὺς δὲ Ἰωάννην θαυμάζειν, σφόδρα ἠγανάκτησε καὶ αὐτὸν Ἰωάννην ἐξώρισεν. Ἦν δὲ οὗτος ὁ Μελίτιον διαδεξάμενος καὶ παρὰ τῆς ἐν Τύρῳ συνόδου προσταχθεὶς τῇ ἐκκλησίᾳ κοινωνεῖν καὶ τὰς τιμὰς τῶν ἰδίων κλήρων ἔχειν αὐτός τε καὶ οἱ τὰ αὐτοῦ φρονοῦντες. 5. Καίτοι γε παρὰ γνώμην τοῦτο ἀπέβη τοῖς Ἀθανασίου ἐχθροῖς, ἀλλ’ ὅμως ἐγένετο, καὶ οὐδὲν ὤνησεν Ἰωάννην τὰ δεδογμένα τοῖς ἐν Τύρῳ συνεληλυθόσι. Κρείττων γὰρ ἦν ὁ βασιλεὺς ἱκεσίας καὶ παντοδαπῆς παραιτήσεως πρὸς τὸν ὑπονοούμενον εἰς στάσιν ἢ διχόνοιαν ἐγείρειν τὰ πλήθη τῶν Χριστιανῶν (2,31,1-5 ed. Bidez 1983). 32  Su tutta questa intricata questione, cfr. Camplani 2013. Sono fra l’altro debitore delle considerazioni conclusive proprio ad Alberto Camplani, che ringrazio.

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Corsaro 1981 = F. Corsaro, Studi rutiliani, Bologna 1981. Eusebius Werke VII = Eusebius Werke VII. Die Chronik des Hieronymus / Hieronymi Chronicon, Erster Teil, Text hrsg. von R. Helm, Lipsiae 1913. Gregg, Groh 1981 = R.G. Gregg, D.E. Groh, Early Arianism. A View of Salvation, Philadelphia 1981. Heussi 1936 = K. Heussi, Der Ursprung des Mönchtums, Tübingen 1936. Martin 1996 = A. Martin, Athanase d’Alexandrie et l’Église d’Égypte au IVe siècle (328-373), Rome 1996. Monaci Castagno 2010 = A. Monaci Castagno, L’agiografia cristiana antica. Testi, contesti, pubblico, Brescia 2010. Pricoco 1983 = S. Pricoco, SEPOSITUS MONAXΩI ENI RURE (Auson., epist. 6,23 Prete), in «Orpheus» 4, 1983, pp. 400-412. Roldanus 1968 = J. Roldanus, Le Christ et l’Homme dans la théologie d’Athanase d’Alexandrie, Studies in the History of Christian Thought IV/2, Leiden 1968. Rufino, Storia ecclesiastica = Tyranni Rufini Historia Ecclesiastica X-XI, ed. Th. Mommsen, Eusebius Werke IX/2/2, Leipzig 1908, pp. 951-1040. Ruggiero 2014 = F. Ruggiero, A proposito di agiografia cristiana antica: rileggendo il volume di Adele Monaci Castagno, in «Adamantius» 20, 2014, pp. 408418. Schneemelcher 1980 = W. Schneemelcher, Das Kreuz Christi und die Dämonen. Bemerkungen zur Vita Antonii des Athanasius, in Pietas. Festschrift Bernhard Kötting, Münster 1980, pp. 381-392. Simonetti 1975 = M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, Roma 1975. Sozomeno, Storia ecclesiastica = Sozomène, Histoire ecclésiastique. Livres I-II, éd. J. Bidez, trad. A.-J. Festugière, annoté par B. Grillet et G. Sabbah, Paris 1983. Storia ecclesiastica tripartita = Prosper Aquitanus, Epitoma Chronicon, ed. Th. Mommsen, in MGH AA 9/1, Berolini 1892 (rist. anast. München 1981), pp. 385-485. Gli uomini illustri = Gerolamo, Gli uomini illustri, a cura di A. Ceresa-Gastaldo, Firenze 1988 (Bologna 20082). Wipszycka 2009 = E. Wipszycka, Moines et communautés monastique en Égypte (IVe-VIIIe siècles), Warszawa 2009.

Il Medio Evo

LE COMPONENTI ORIENTALI DELLA TRADIZIONE RITUALE AMBROSIANA

Cesare Alzati

1. Chiesa della città residenza degli augusti d’Occidente Già sedes Imperii all’avvio della Tetrarchia (quando fu stabilmente la città della Corte dell’augusto d’Occidente, Massimiano Erculeo)1, anche successivamente Milano godette a più riprese della presenza imperiale, con eventi anche importanti istituzionalmente, ma nel quadro di soggiorni del tutto temporanei. Soltanto dal 364, con l’ascesa di Valentiniano I l’insediamento della Corte assunse nuovamente un carattere di stabilità2. Con l’organico inserimento dei vescovi nelle strutture dell’Impero (realizzatosi con Costantino) le occasioni per l’episcopato di interagire con l’autorità imperiale si moltiplicarono enormemente. Nel 343 il concilio di Serdica – di fatto occidentale – venne fissando al riguardo una normativa molto rigorosa, che fece del vescovo della città residenza degli augusti il referente del restante episcopato per i contatti con l’imperatore3. Fu questa la condizione propria dei presuli milanesi negli anni in cui a   Con riferimento all’incontro tra Diocleziano e Massimiano svoltosi nell’Inverno 290/291, Mamertino, scrivendo alcuni anni dopo, aveva applicato a Mediolanum la qualifica di sedes Imperii, cui Roma per la circostanza aveva concesso «similitudinem Maiestatis suae» (Mamertinus, Panegyricus genethliacus Maximiano Augusto dictus, 12.2 ed. E. Galletier, in Panégiriques Latins, I, Paris 1955 [Collection des Universités de France (= CUF)], p. 61; per la datazione dell’episodio: ivi, pp. 41-42). 2   Esplicito in questo senso Ammiano Marcellino: «diuiso palatio, ut potior placuerat, Valentinianus Mediolanum, Constantinopolim Valens discessit» (Ammianus Marcellinus, Res Gestae, XXVI, 5.4, ed. W. Seyfarth [L. Jacob Karau, I. Ulmann], II, Teubner, Leipzig 1978 [Bibliotheca Teubneriana (= BT)], p. 10; cfr. Sordi 1991, pp. 37 ss.). 3   Per presentare istanze al vertice dell’Impero, i vescovi (a meno che non potessero disporre di speciali canali interni alla Corte) avrebbero dovuto preparare un’idonea documentazione, e trasmetterla 1

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Milano esercitarono l’episcopato Ambrogio, Simpliciano e – fino al 402 – Venerio. E in effetti in quegli anni vediamo rivolgersi a loro gli episcopati dell’Africa, della Spagna, delle Gallie, dell’Illirico4. Non è, dunque un caso se – come già aveva visto a suo tempo Louis Duchesne5 – tra il patrimonio cultuale della Chiesa milanese e le tradizioni rituali delle Chiese della praefectura Galliarum (che abbracciava Gallie, Spagna e Britannia) siano rilevabili alcune significative consonanze. 2. Elementi orientali nel patrimonio cultuale milanese: il modello aghiopolita Oltre alle consonanze con le Chiese della praefectura Galliarum, le forme rituali milanesi rivelano peraltro evidenti convergenze pure con modelli celebrativi propri dell’Oriente. In merito all’ordinamento della preghiera nel corso della giornata a Gerusalemme verso la fine del IV secolo abbiamo la preziosa testimonianza, latina, di Egeria. La pia pellegrina attesta anzitutto l’organica convergenza tra la preghiera dei monaci e l’officiatura ecclesiale realizzatasi nella Città Santa, dove le due forme rituali, compiutamente salvaguardate nella loro distinzione, si intrecciano e si alternano in modo singolarmente armonico6. Alla Domenica, dopo che la folla dei fedeli si è radunata come per Pasqua fuori dal martyrion, al canto del gallo scende il vescovo accompagnato dal clero e, insieme a tutti i fedeli, entra nell’area dell’Anastasis splendente di luci; si recitano tre salmi con le relative orazioni, seguiti dal ricordo di tutti. A quel punto si recano al vescovo della città preminente della loro provincia; quest’ultimo presule, dopo aver valutato la fondatezza delle richieste formulate dai colleghi, doveva corredarle con proprie lettere commendatizie e inviarle, tramite un diacono della propria Chiesa, al vescovo della città di residenza dell’imperatore, cui competeva farsi tramite ultimo nei confronti dell’imperatore stesso. Cfr. can. 9b (9a nella redazione greca): Discipline Générale Antique, I, 2: Les Canons des Synodes Particuliers (= CSP), ed. P.P. Joannou, Grottaferrata 1962 (Pontificia Commissione per la redazione del Codice di Diritto Canonico Orientale. Fonti, 9), p. 171; per l’analoga funzione riconosciuta al vescovo romano: can. 10a (9b): CSP, p. 172. 4  Cfr. Alzati 2007, pp. 232-239. 5   Duchesne 1925, p. 227. 6   Anton Baumstark aveva parlato di «rite monastique» e «rite cathédral» (cfr. Baumstark 1953, pp. 118 ss.). In realtà, con riferimento a quest’ultima tipologia, lo stesso Baumstark in Nocturna laus ritenne di dover ricorrere alla definizione, a mio giudizio più consona, di «Gemeindefeier» (Baumstark 1956). Per identificare quella stessa tipologia celebrativa, in tempi a noi più vicini, George Guiver, considerando chi vi prendeva parte, ha usato la definizione di «people’s office» (Guiver 1988, pp. 52-53). Personalmente ho preferito parlare di «officiatura ecclesiale», tenendo conto sia della Ecclesia che tale rito celebra, sia della ecclesia in cui abitualmente esso si celebra (ossia, secondo l’accezione tardo antica del termine, l’edificio di culto del complesso episcopale: Concilia Galliae. A. 511 - A. 695, ed. Ch. de Clercq, Turnholti 1963 [CCL, 148/A], pp. 323-326 [Synodus dioecesana Autissiodorensis. a. 692-696]; cfr. Alzati 2017.

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gli incensi, affinché l’intera grotta del Sepolcro si riempia della loro fragranza, e il vescovo procede alla lettura del Vangelo della Resurrezione; segue la processione alla Croce, la recita di un salmo con orazione, la benedizione e il congedo. Giunti poi all’ora del lucernare, ha luogo all’Anastasis la celebrazione vespertina, cui segue, come nei giorni feriali, la processione e i riti stazionali ad Crucem. Se la celebrazione domenicale al canto del gallo ha il tipico carattere di officiatura ecclesiale, nei giorni feriali assistiamo a un’organica combinazione tra preghiera salmica dei monaci (che si avvia con l’apertura del complesso dell’Anastasis al canto del gallo) e l’officiatura ecclesiale mattutina (che subentra con la prima luce del giorno, quando giunge in processione il vescovo scortato dal clero). Quanto alla celebrazione feriale vespertina all’Anastasis, essa si conclude – come alla domenica – con la stazione ad Crucem7. Se passiamo a considerare l’officiatura milanese, possiamo verificare il riproporsi in essa della tipologia nettamente ecclesiale dell’officiatura domenicale notturna, caratterizzata come a Gerusalemme da tre soli cantici veterotestamentari. In coda a tale officiatura troviamo inoltre l’Antiphona ad Crucem, un tempo con un ricco rituale processionale teso a proclamare il mistero della redenzione e la sua irradiazione cosmica8. Come a Gerusalemme, anche a Milano carattere nettamente diverso rispetto alla celebrazione notturna domenicale presentava l’officiatura antelucana delle ferie, che fino alla riforma postconciliare si concretizzava (con sensibilità tipicamente monastica) in lunghe salmodie, che riproponevano in lectio continua l’intero Salterio fino al Salmo 1089. Ma non meno rilevante è l’altro aspetto dell’antica officiatura aghiopolita che Milano ha perpetuato lungo i secoli, e questo nonostante il mutamento degli spazi cultuali determinato dalla edificazione del Duomo; il riferimento è ai riti stazionali  Egeria, Itinerarium, 24, 1-25, 6, ed. P. Maraval, Paris 20022 (Sources Chrétiennes [= SCh], 296), pp. 234-251. 8   Ampio commento spirituale nell’Expositio matutini officii sanctae Ambrosianae Mediolanensis ecclesiae edita a S. Theodoro archiepiscopo eiusdem ecclesiae (testo datato al X-XI secolo), ed. M. Magistretti, in Manuale Ambrosianum, I, Mediolani 1905, pp. 127, 128, 129. Cfr. altresì l’Ordo cerimoniale di Beroldo: Beroldus 1894, pp. 40-43; redatto attorno al 1130 (Forzatti Golia 1977. pp. 308-402), l’Ordo è trasmesso da un codice di poco successivo (Biblioteca Ambrosiana, ms. I 152 inf., a. 1140 c.: Ferrari 1977, pp. 302-307). Dell’Antiphona ad Crucem L(andulfus) parla come di «onore reso al mistero di Dio e gloriosa prerogativa della santa Chiesa ambrosiana»: L(andulfus), I, 13, ed. A. Cutolo, Bologna 1942 (RRIISS, e. a., 4/2), pp. 21-22 (cfr. edd. L.C. Bethmann, W. Wattenbach, Hannoverae 1848 [MGH, SS, 8], p. 43). Tale elemento rituale di origine gerosolimitana sussisteva un tempo pure in ambito greco (Symeon Thessalonicensis, De sacra precatione, 349-350, in Patrologiae Cursus completus. Series Graeca [= PG], 155, cur. J. P. Migne, Parisiis 1866, cc. 636-645); oggi si conserva nelle Chiese sire orientali (Mateos 1976, p. 431) e – naturalmente – a Milano (cfr. Navoni 1983, 1984). 9   L’assimilazione su questo punto ai criteri ordinamentali romani si è avuta con la Liturgia delle Ore secondo il Rito della Santa Chiesa Ambrosiana, 5 voll., Centro Ambrosiano di Documentazione e di Studi Religiosi, Milano 1982-1984. 7

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al termine di Lodi e Vesperi, nei quali i due battisteri, con il loro particolare valore simbolico, vennero assunti quali approdi di processioni, analoghe a quelle che a Gerusalemme si dirigevano, a seconda dei casi, alla Croce o all’Anastasis. Tale elemento rituale, un tempo ampiamente diffuso anche nella prassi rituale delle Chiese della praefectura Galliarum, si conserva tuttora a Milano al termine della celebrazione vespertina10. 3. Consonanze con l’Oriente costantinopolitano: le Grandi Vigilie Se la celebrazione, che s’avvia quando «già splendono le luci» della Pasqua, costituisce la Vigilia per eccellenza, in modo non molto dissimile le officiature vespertine vigiliari di Natale, Epifania (un tempo detta, popolarmente, la Piccola Pasqua) e Pentecoste, analogamente ai Vesperi in coena Domini, trovano il loro culmine nella liturgia eucaristica. Tali celebrazioni presentano una struttura nella quale agli elementi rituali vespertini si associa un’organica serie di letture vigiliari veterotestamentarie (a Natale, Epifania e Pentecoste: quattro, come nella Veglia Pasquale gregoriana; alla celebrazione vespertina, che apre il Sacro Triduo: il Libro di Giona), cui segue la celebrazione eucaristica, a sua volta seguita dalla conclusione dei Vesperi. Va osservato che una tipologia rituale affine nei suoi elementi costitutivi è presente anche nelle Chiese di tradizione costantinopolitana: a Natale, nell’Epifania e al Giovedì della Grande Settimana (oltre che al Sabato Santo). Queste Grandi Vigilie costituiscono una struttura celebrativa costantemente attestata nei libri di culto della Chiesa ambrosiana, dalla documentazione manoscritta11 fino ai nostri giorni12.  Cfr. Alzati 2009a, pp. 127-129.   I diversi elementi (in particolare musicali), da cui le celebrazioni di Natale, Epifania e Pentecoste si compongono, possono vedersi nel Manuale: Manuale di Valtravaglia (s. XII: Heiming 1952, pp. 214-215): Manuale Ambrosianum ex codice saec. XI olim in usum canonicae Vallis Travaliae, II, ed. M. Magistretti, Mediolani 1904, pp. 53-56, 84-87, 269-271. Le letture vigiliari sono debitamente censite nel Lectionarium: cfr. il cod. Milano, Bibl. Naz. Braidense, Fondo Castiglioni 16 (s. XII1), ritrovato da Patrizia Carmassi (Carmassi 1993-1994; Carmassi 2001, pp. 251-256), e a suo tempo edito in forma di capitulare da P. Cagin, in Codex Sacramentorum Bergomensis, e typ. Sancti Petri, Solesmes 1900 (Auctarium Solesmense, 1), pp. 193-207; si vedano segnatamente pp. 194a, 194b, 202b. Descrizione degli aspetti cerimoniali in Beroldus 1894; in particolare per le tre Grandi Vigilie in questione, si vedano le indicazioni offerte alle pp. 74-75, 120-122. 12   Cfr. l’ultima edizione del Missale prima della riforma: Missale Ambrosianum iuxta ritum sanctae ecclesiae Mediolanensis. Editio quinta post typicam, Daverio, Mediolani 1954: Repertorium, pp. 1-8, 79-83. Successivamente: Liturgia delle Ore secondo il Rito della Santa Chiesa Ambrosiana, cit., segnatamente I, 1983, pp. 451-460, 701-710; III, 1983, pp. 471-480; quanto alla celebrazione eucaristica vigiliare: Messale Ambrosiano secondo il Rito della Santa Chiesa di Milano. Riformato a norma dei decreti del Concilio Vaticano II. Promulgato dal Signor Cardinale Giovanni Colombo Arcivescovo di Milano, 10 11

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4. La celebrazione eucaristica ambrosiana: una vicenda complessa Le ricerche di Matthieu Smyth13 hanno documentato in antichi Padri della provincia ecclesiastica milanese, quali il bresciano Gaudenzio e Massimo di Torino, la presenza di formule rituali successivamente riscontrabili in anafore d’ambito gallicano e ispanico. Questo dato concorre ad avvalorare l’ipotesi che le reliquie eucologiche di tipo “gallicano”, conservatesi nella celebrazioni eucaristiche «in coena Domini» e al culmine della veglia pasquale, possano considerarsi testimonianze residuali del patrimonio eucologico un tempo in uso nella Chiesa milanese: si tratta con ogni evidenza di formule Post Pridie, perfettamente assimilabili al tipo comune di epiclesi attestato in ambito gallicano e ispanico, dove tale elemento della preghiera eucaristica si presenta indifferentemente con o senza riferimenti pneumatologici14. Matthieu Smyth ha parlato al riguardo di radicamento in un fondo molto antico condiviso con le Chiese delle Gallie e della Spagna, definibile «di tipo gallicano» nel senso di «non romano»15. Per quanto a noi qui interessa, va rilevato come si tratti di una tipologia di preghiera eucaristica in cui l’epiclesi si colloca dopo la narrazione dell’istituzione dell’Eucaristia. Così è pure nella gerosolimitana Liturgia di San Giacomo16 e nel modello di anafora delle Chiese di tradizione antiochena (testi nei quali peraltro l’elemento anamnetico assume un particolare rilievo, non riscontrabile nelle Gallie 2 voll., Centro Ambrosiano di Documentazione e Studi Religiosi, Milano 1976: I, pp. 95-97, 125126; II, pp. 202-203; cfr. Missale Ambrosianum iuxta ritum sanctae ecclesiae Mediolanensis ex decreto sacrosancti oecumenici concilii Vaticani II instauratum, auctoritate Ioannis Colombo sanctae Romanae ecclesiae presbyteri cardinalis, archiepiscopi Mediolanensis, promulgatum, Centro Ambrosiano di Documentazione e Studi Religiosi, Mediolani 1981, pp. 90-91, 116-117, 376-377; Messale Ambrosiano …, Milano 1986: I, pp. 95-97, 125-126; II, pp. 202-203; Messale Ambrosiano …, Milano 1990, pp. 88-89, 126-127, 370-371. Lezionario Ambrosiano. Secondo il rito della Santa Chiesa di Milano. Riformato a norma del Concilio Vaticano II. Promulgato dal Signor Cardinale Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo di Milano e Capo Rito, Milano 2008: Libro I, Mistero della Incarnazione del Signore. Festivo, pp. 167-173 (Vigilia del Natale del Signore), 233-240 (Vigilia dell’Epifania del Signore); Libro II, Mistero della Pasqua del Signore. Festivo, pp. 323-330 (Vigilia di Pentecoste), 155-163 (Celebrazione vespertina «nella Cena del Signore»), 189-204 (Veglia Pasquale); Libro II, Mistero della Pasqua del Signore. Feriale, pp. 22-27, 49-57, 78-83, 106-112, 138-143 (Venerdì di Quaresima. Vesperi. Anno I); 169-172, 194-199, 220-225, 246-251, 276-282 (Venerdì di Quaresima. Vesperi. Anno II). 13   Smyth 2003, pp. 45-47; e con particolare riferimento alle formule di embolismo al mandato eucaristico: pp. 422-423. 14  Tra tali elementi conservatisi nella celebrazione eucaristica in Coena Domini si segnalano, in particolare, la formula posta dopo il ricordo dell’istituzione dell’Eucaristia (Haec facimus, haec celebramus: Borella 1964, Appendice D, p. 473), nonché il testo introduttivo al Pater noster (Ipsius praeceptum est quod agimus: Ibidem). La seconda delle due formule è ripresa come Post Pridie nel gallicano Missale Gothicum, collocabile attorno all’anno 700: ed. Mohlberg 1961, n° 31, p. 11; per l’espressione Haec facimus quale introduzione al Post Pridie: Ibidem, n° 431, p. 106. Cfr. già Cagin 1912, pp. 91 ss.; Morin 1927, pp. 75-77; Morin 1939. 15   Smyth 2003, p. 103. 16  Ed. Mercier 1946.

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e in Spagna). In ogni caso siffatta tipologia gallicana della preghiera eucaristica a Milano fu scalzata dalla formula eucologica fissa, impostasi nelle Chiese d’ambito suburbicario e a Roma17. La recezione di quest’ultima forma di anafora da parte della Chiesa milanese non stupisce qualora si tengano presenti le vicende di tale Chiesa tra VI e VII secolo quando, dal 569 al 643 circa, il metropolita visse nella Liguria marittima sotto la tutela dell’autorità imperiale, che aveva quali privilegiati referenti ecclesiastici l’arcivescovo di Ravenna e il papa romano18. Del resto, il Missale Bobiense, che risale probabilmente alla prima parte del secolo VIII e la cui origine resta incerta, attesta un’analoga recezione del Canon actionis romano anche in un contesto pienamente gallicano19. Queste considerazioni, ovviamente, vengono ad avvalorare quella tenace tradizione filologica, che dal XVI secolo ha ritenuto di non poter annoverare il De Sacramentis tra gli scritti di Ambrogio20: e va ricordato che al riguardo Anton Baumstark aveva ipotizzato quale luogo di origine del testo un ambito non milanese, quantunque sensibile agli influssi milanesi, pensando in particolare all’area ravennate, amministrativamente annonaria, ma ecclesiasticamente suburbicaria21. Una struttura dell’anafora, che pone al centro dell’attenzione l’elemento dell’epiclesi, comporta naturalmente una serie di implicazioni sul piano della spiritualità, della ritualità e non solo22. Ma pure l’inserimento del Credo nella celebrazione eucaristica pone in ambito ambrosiano il problema dei contatti con l’Oriente. La recezione di tale elemento secundum formam orientalium Ecclesiarum è esplicitamente dichiarata dal concilio Toletano III del 589 per l’ambito ispanico, quantunque la collocazione a conclu  Sui caratteri strutturali della preghiera eucaristica romana, con doppia epiclesi (analogamente all’anafora alessandrina), cfr. ultimamente Mazza 2012. 18   Già il secondo successore di Onorato, autore della migrazione a Genova, ossia il «patriarca» Lorenzo II, recatosi a Roma, sperimentò quasi contemporaneamente a Severo d’Aquileia la sottomissione alla condanna dei Tre Capitoli (Gregorii I Registrum, IV, 2, ed. D. Norberg, I, Turnholti 1982 [CCL, 140], p. 218), vissuta peraltro non senza ambiguità (Gregorii I Registrum, IV, 37, CCL, 140, p. 257). 19  Ed. Lowe 1920-1924. 20   In merito al De Sacramentis già i riformatori del XVI secolo e, nel secolo XVII, il card. Giovanni Bona, come successivamente i Benedettini della Congregazione francese di San Mauro nella loro tormentata edizione, avevano avanzato dubbi intorno alla tradizionale attribuzione al presule milanese: cfr. B. Botte, Paris 19942 (2a rist.) (SCh, 25 bis), pp. 8-12. Nel XX secolo, tale paternità, difesa dagli editori Otto Faller (CSEL) e Bernard Botte (SCh), nonché da Christine Mohrmann (Mohrmann 1976), è stata decisamente negata da Anton Baumstark (Baumstark 1904) e da Klaus Gamber (Gamber 1967). Più recentemente, sia il Thesaurus sancti Ambrosii (Turnhout 1994 [Corpus Christianorum, Thesaurus Patrum Latinorum, Seres A: Formae, 8], p. XV), sia il CETEDOC Library of Christian Latin Texts (cur. P. Tombeur, Turnhout 2005), redatti sotto la guida di Hervé Savon, collocano l’opera citata tra i dubia ambrosiani. Cfr. ultimamente Savon 2012, pp. 23-45. 21   Baumstark 1904, pp. 54-55, 159-168. 22  Cfr. Alzati 2009b, pp. 153-161. 17

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sione dell’anafora si presenti del tutto peculiare23. Quanto a Milano, non abbiamo documenti che ne attestino l’introduzione, e tradizionalmente la si è collegata alle iniziative carolingie in funzione antiadozionista24. Tuttavia l’ubicazione, singolarmente consonante con l’alessandrina Liturgia di San Marco, potrebbe anche far pensare – come nel caso ispanico – a un’iniziativa autonoma e cronologicamente anteriore, caratterizzata da una diretta mutuazione dall’Oriente25. 5. Le consonanze nella prassi misterica con le Chiese delle Gallie e la Chiesa di Gerusalemme La diffusione della fede cristiana nelle aree rurali determinò nella prassi misterica, tanto nelle Gallie quanto a Milano, un particolare sviluppo degno di nota. Celebrandosi l’iniziazione cristiana fuori dall’ambito urbano, venne sistematicamente meno – in quanto rito, per la sua ascendenza tipicamente apostolica (At 8,14-17), esclusivamente episcopale – l’antica imposizione della mano (ai tempi di Ambrogio caratterizzata dalla invocatio e collocata dopo l’unzione crismale e la lavanda dei piedi). Tale caduta dell’impositio manus-invocatio (il termine signaculum spiritale sembra indicare il mistero che si compie, non un atto rituale) divenne tanto generalizzata da assumere valore paradigmatico per la stessa iniziazione celebrata nella città sotto la presidenza del vescovo: un trattatello mistagogico proveniente dalla provincia ecclesiastica milanese e datato alla metà del VI secolo non ha alcuna menzione di tale rito26. Joseph Levesque, analizzando i formulari presenti nei libri liturgici gallicani, ha mostrato come essi, su base cristologica e pneumatologica, concentrino nella crismazione, che segue il lavacro nel fonte, anche i significati e i contenuti misterici attribuiti dalla precedente tradizione patristica latina alla confermazione episcopale: «the rites celebrated were adequate and complete as a celebration of full Christian Initiation»27. Merita osservare come siffatta evoluzione nella prassi d’iniziazione, e nella sua esegesi, non sia stata fenomeno delle sole aree gallicana e milanese; il fatto che alla crismazione successiva al lavacro (non riservata al vescovo) venissero attribuiti contenuti propri dell’antica invocatio per il signaculum spiritale (rito esclusivamente   Concilium Toletanum III, cap. 2: ed. J. Vives (T. M. Marín Martínez, G. Martínez Díez), Concilios Visigóticos e Hispano-Romanos, Consejo Superior de Investigaciones Científicas. Instituto Enrique Flórez, Barcelona-Madrid 1963, pp. 125. 24  Borella 1964, pp. 170-171. 25  Cfr. Alzati 1978. 26   Anonimo Veronese, Omelie mistagogiche e catechetiche, ed. G. Sobrero, CLV - Edizioni liturgiche, Roma 1992 (Bibliotheca «Ephemerides Liturgicae». Subsidia, 66: Monumenta Italiae Liturgica, 1). 27   Levesque 1981. Cfr. anche Fisher 1965, pp. 53-57. 23

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episcopale) aveva un illustre precedente in Oriente: la prassi della Chiesa di Gerusalemme, quale è attestata tra IV e V secolo dalla catechesi mistagogica di Giovanni28. Ed è aspetto che ancor oggi vediamo riproposto nei rituali d’iniziazione delle Chiese di tradizione costantinopolitana. 6. L’uso del fermentato Fino al XIII secolo le fonti rituali ambrosiane attestano positivamente l’uso di celebrare l’eucaristia nelle maggiori solennità dell’anno consacrando, a fianco dell’azimo, pane fermentato29. Non si tratta, evidentemente, di un imprestito, ma di una consonanza con l’Oriente. Va peraltro segnalato come si tratti di una convergenza altamente consapevole, come chiaramente attesta il cosiddetto Landolfo Seniore. Questi – nel rimarcare la speciale consonanza ambrosiana con l’Oriente attraverso il ricorso all’indiscussa autorità di Ambrogio (ossia l’antico vescovo «decus totius ecclesiae, tam Latinae quam Graecae»30) – in una fase storica ormai segnata dalla polemica greca sull’azimo (drammaticamente espressasi a Costantinopoli ai tempi del Cerulario), non dubita di affermare – riprendendo probabilmente “materiale di scuola” – che fu Ambrogio stesso a lodare, confermare e stabilire nella Chiesa di Milano per la celebrazione eucaristica, a Pasqua e nelle grandi festività, l’uso del fermentato a fianco dell’azimo31. 7. L’ordinamento dell’anno rituale a. Il Sabato e il suo carattere festivo Tra gli altri elementi strutturali dell’ordinamento rituale ambrosiano consonanti con l’Oriente si segnala il carattere festivo del Sabato, che nettamente diversifica questo giorno dai comuni giorni feriali32. Lo si verifica dalla struttura dell’officiatura, che era speciale e con elementi propri, e se ne trovava un tempo tangibile 28  Ioannes Hierosolymitanus, Catechesis III, ed. A. Piédagnel, Paris 19661 (20042) (SCh, 126), pp. 120-132. 29  Beroldus 1894, p. 103; per la nuova redazione del 1269, con integrazione dell’Ordo all’interno di un Manuale: Forzatti Golia 1977, p. 330 ss. 30   Così il Sermo beati Thome: L(andulfus), II, 12, p. 38. 17-18 (MGH, SS, 8, p. 49. 43). 31  «Quin etiam sacrificium eorum, scilicet fermentatum, cum nostro, scilicet azymorum, in celeberrimis festivitatibus, maxime in resurrectione Domini, ad collaudandum et confirmandum atque roborandum, angelis administrantibus et sanctificantibus, benediceret, confirmaret et consecraret»: L(andulfus), I, 11, p. 19. 6-10 (MGH, SS, 8, p. 42. 39-41). 32  Cfr. Alzati 2009c, pp. 183-185.

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conferma nella disciplina quaresimale, che escludeva il sabato dal digiuno (con l’eccezione, evidentemente, del Sabato Santo)33. Al riguardo mi pare degna d’essere sottolineata la circostanza che il “greco” Nilo da Rossano, allorché si trovò a presentare la disciplina greca del digiuno quaresimale ai monaci cassinesi, nella difesa dell’assenza di digiuno al sabato, fece significativamente ricorso alle medesime ireniche parole di Paolo, che la Chiesa milanese proclama al primo sabato di Quaresima in difesa della propria analoga disciplina34. Sul fondamento di tale dato – compartecipato con l’Oriente (cfr. can. 64 degli Apostoli)35, ma attestato anche in Spagna – la Chiesa milanese viene ancora una volta riproponendo aspetti strutturali dell’antico modello aghiopolita. Egeria ci attesta che nell’antica Gerusalemme la celebrazione eucaristica era riservata alla domenica; soltanto in Quaresima la celebrazione si svolgeva anche al sabato, al termine di una lunga veglia, che si avviava con il Lucernario al tramonto del venerdì e si protraeva lungo la notte, concludendosi prima del levar del sole36. A Milano, fin dalle prime documentazioni, i sabati quaresimali prevedono la celebrazione eucaristica, presentano un ordinamento delle letture di struttura festiva, e sono preceduti dalle Vigiliae, che si aprono con il Lucernario al tramonto del venerdì37. b. Il Sacro Triduo e il suo archetipo gerosolimitano La relazione di Egeria e il Lezionario gerosolimitano degli inizi del V secolo, nella testimonianza del ms. 121 della Biblioteca del Patriarcato armeno della Città Santa38, ci permettono di seguire il dispiegarsi della celebrazione aghiopolita del Triduo. Avendo quale guida la narrazione dell’evangelista Matteo, la Madre di tutte le Chiese39, a cominciare dal tramonto della Feria V, sviluppava la propria intensa e, per i luoghi in cui si svolgeva, ineguagliabile celebrazione del Triduo, ponendosi alla sequela del Cristo, accompagnato nei vari momenti della sua Passione e, dopo l’attesa seguita alla deposizione nel sepolcro, accolto nella notte luminosa della Resurrezione. 33   In una tra le prime attestazioni della Quaresima in Occidente, così Ambrogio si esprime: «In Quaresima, eccetto il Sabato e la Domenica, si digiuna tutti i giorni»: Ambrosius, De Elia et ieiunio, X, 34, ed. C. (K.) Schenkl, Vindobonae-Lipsiae 1897 (CSEL, 32), p. 430. 34   «Colui che mangia non disprezzi chi non mangia; chi non mangia non giudichi male chi mangia: Dio infatti ha accolto entrambi. Ma tu perché giudichi il tuo fratello? Sia che noi mangiamo, sia che voi digiuniate: tutto facciamo a gloria di Dio»: Vita s. Nili junioris, LXXVI-LXXVIII, PG, 120, cc. 129-132, con riferimento a Rm 14,3.10.6. 35   CSP (cit. nota 3), p. 41. 36  Egeria, Itinerarium, 29. 1, 2, 3, SCh, 296, pp. 266-268. 37  Cfr. Alzati 2009d, pp. 273-275. Per il carattere vigiliare dell’officiatura vespertina nei venerdì quaresimali ancor oggi conservato, cfr. nota 12. 38   Renoux 1971. 39   La liturgie de saint Jacques, ed. Mercier 1946, p. 206.

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A Milano, fino ad oggi, con analogo ascolto della narrazione di Matteo, riproposta al versetto rispetto al modello gerosolimitano, la celebrazione misterica del Sacro Triduo si svolge, riproponendo per quanto possibile le scansioni celebrative gerosolimitane. Una tale continuità, non imposta ma spontaneamente conservata attraverso i secoli, ha già in se stessa qualcosa di straordinario e rappresenta di per sé un messaggio ecclesiale, sul quale non sarebbe inutile consapevolmente riflettere. c. L’Epifania Anche a Milano la manifestazione del Verbo nella carne ha dato vita a una duplice celebrazione (25 Dicembre e 6 Gennaio). Peraltro, l’inno per l’Epifania, Illuminans Altissimus, è stato giudicato – e, credo, non infondatamente – successivo ad Ambrogio40. In questo contesto il Battesimo del Signore costituisce l’evento epifanico e teofanico per eccellenza, attorno a cui si è costruita la celebrazione misterica della piena manifestazione del Cristo e, in lui, della divina Trinità. Che il Battesimo del Signore costituisse il nucleo originario della festa a Milano, non soltanto ci è suggerito dal patrimonio liturgico successivo, ma è espressamente segnalato dall’omiletica del comprovinciale Massimo di Torino41, nonché dai significativi parallelismi della testimonianza aquileiese di Cromazio42 e della documentazione manoscritta relativa alle Gallie43. Si tratta, dunque, di elemento che viene evidenziando, oltre alla ennesima convergenza rituale tra l’Italia Annonaria e le Chiese gallicane, una loro globale consonanza con l’Oriente “greco”44.  Ambroise de Milan, Hymnes. Texte établi, traduit et annoté sous la direction de J. Fontaine, Paris 1992, pp. 100-101, 337-343. 41   Cf. Maximus Taurinensis, Sermones: XIIIa extr., XIIIb, LXIV, LXV (3), C extr., CI extr., ed. A. Mutzenbecher, Turnholti 1962 [CCL, 23], pp. 43-46, 47-49, 268-271, 274, 397-400. 42  Chromatius, Sermo XXXIV, ed. J. Lemarié, Paris 1971, I, [SCh, 164], pp. 182-188 (cfr. SCh, 154, p. 84); cfr. ed. J. Lemarié, Turnholti 1974 [CCL, 9 A], pp. 155-157. 43  Cfr. Salmon 1944, pp. 59-60 [Mt 3,13-17 (Battesimo) + Lc 3,23a (Aveva trent’anni) + Gv 2,1-11 (Cana)]. 44   A Milano l’ordinamento carolingio (che si sarebbe conservato fino alla riforma postconciliare) prevedeva alla Vigilia: Mt 3,13-17 (Battesimo), in die: Mt 2,1-12 (i Magi): Valli 2008, pp. 289290; cfr. le considerazioni al riguardo sviluppate alle pp. 84-91. Tenendo conto della testimonianza di Massimo, sembra di poter dire che già l’ordinamento presente nel Codice di Busto fosse comunque frutto di una evoluzione prevedendo, oltre al vigiliare Gv 2,1-11 (Cana), per la celebrazione in die: Mt 2,1-12 (i Magi); il copista carolingio del codice, di fronte all’ordinamento arcaico della sua fonte, per la pericope vigiliare nell’Evangeliario si premunì di cancellare la rubrica: In vigiliis Epiphaniae, indicando: In Dominica II post Epiphania (F. Bertolli, Esplorazioni mirate, in Il Codice di Busto 2010, p. 78). Nel 1970 l’assunzione a Milano del Calendario riformato postconciliare romano – con l’inserimento della festa del Battesimo del Signore alla I domenica dopo l’Epifania – comportò di fatto in ambito ambrosiano la duplicazione della celebrazione liturgica della teofania al Giordano. Il Lezionario riformato del 2008 ha teso ad armonizzare e a configurare unitariamente la celebrazione dell’Epifania e della I domenica dopo l’Epifania: cfr. Alzati 2009, pp. 81-83, 221-223. 40

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d. L’era dei martiri alessandrina La più autorevole e organica testimonianza in merito all’ordinamento dell’anno liturgico ambrosiano in età precarolingia ci è offerta dall’evangelistario (che trova corrispondenze nel Libellus Missarum palinsesto del secolo VII45) e dal capitolare del Codice di Busto46. Fin da quei documenti, anteriori alla conquista franca, trova attestazione la presenza a Milano di una Dominica post Decollationem. Ciò significa che già nella declinante tarda antichità il 29 agosto era data marcante, all’interno del periodo dell’anno successivo alla Pentecoste. In effetti in quel giorno prendeva avvio il computo annuale secondo l’era dioclezianea (detta più tardi Era dei Martiri), vigente anche nella Milano di Ambrogio47. Al 29 agosto venne successivamente collocandosi la memoria del martirio del Precursore, ma l’originario significato “cronologico” del giorno si è conservato sia nelle Chiese di tradizione alessandrina, per le quali tuttora il 1° Tût (29 agosto, giuliano) segna l’inizio dell’anno ecclesiastico, sia indirettamente nelle Chiese che seguono la tradizione della Nuova Roma, per le quali il medesimo inizio si colloca al 1° settembre, ossia nella prima Calenda dopo il 29 agosto. e. La festa della Dedicazione antiochena Com’è ben noto, il Codice di Busto ci attesta pure la presenza a Milano, sul finire del ciclo dell’anno, di una solenne festa della Dedicazione (con riferimento oggi al Duomo). È il secondo momento marcante del periodo dopo Pentecoste, momento cui faceva da proemio una Dominica ante Transmigrationem, la cui pericope è censita anche nel Libellus Missarum sangallese del VII secolo48. La denominazione si legava alla solenne transmigratio che, nella festa della Dedicazione, si compiva dalla ecclesia aestiva alla ecclesia hyemalis49. Al riguardo va segnalato come a Gerusalemme si celebrassero annualmente, il 13 Settembre, le Encaeniae dell’Anastasis e del Martyrion50. Quanto alla pericope evan  Dold 1924, 1928, 1961. Il significato di questo testimone per la storia della liturgia milanese è stato recentemente posto in luce da P. Carmassi 2001b, pp. 106-130. 46   Già messi a frutto per lo studio del Santorale ambrosiano da Borella 1934, i testi del Codice di Busto sono stati successivamente presentati nei loro contenuti da Paredi 1967. Se ne è occupato in anni recenti, con riferimento al successivo e carolingio Libro delle pericopi per i cardinali diaconi della Chiesa milanese, Valli 2008, pp. 143-178, cui ha fatto seguito il volume Il Codice di Busto 2010, con saggi dello stesso Valli, Il Codice di Busto: un tesoro dell’Alto Medioevo per la storia della Chiesa e della liturgia ambrosiana (pp. 31-43), e di F. Bertolli: Approccio al codice (pp. 15-29), Esplorazioni mirate (pp. 63-138), Passaggio del codice da Milano a Olgiate Olona, a Busto Arsizio (pp. 173-193). Imprescindibili le considerazioni di Carmassi 2001a. 47   Cf. Ginzel 1906, I, pp. 229-231; III, pp. 321-327. Per il riferimento a tale computo del tempo ad opera di Ambrogio: Ambrosius, Epistula e. c. XIII (Maur.: XXIII), 14-15, ed. M. Zelzer, Vindobonae 1982 (CSEL, 82/3), pp. 228-229. 48   Carmassi 2001b, pp. 115-122. 49   Cfr. Beroldus, pp. 127-128, 115. 50  Egeria, Itinerarium, XLVIII-XLIX, SCh, 296, pp. 316-318; cfr. Schwartz 1987. 45

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gelica caratterizzante la celebrazione, sappiamo dal Lezionario armeno che agli inizi del V secolo essa era Gv 10,22 ss.: «Ricorreva allora a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno …»51. Ma a ciò deve aggiungersi che una solenne festa autunnale della Dedicazione fu propria anche della Chiesa d’Antiochia, come attesta Severo nel 51752 e quale elemento marcante nel ciclo dell’anno si ritrova presso tutte le Chiese, che in area orientale dalla tradizione di Antiochia hanno attinto gli elementi costitutivi delle proprie tradizioni cultuali, portandoli in tutta l’Asia e ancor oggi assicurandone la continuità dal Libano maronita fino all’India malabarese53. 8. La tradizione ambrosiana: da organico patrimonio ecclesiale a forma rituale Il ms. I 152 inf. dell’Ambrosiana, realizzato non dopo il 1140, probabilmente per il clero cardinalizio milanese, può essere riguardato quale testimone dell’evoluzione che – dopo la riforma ecclesiastica romana del secolo XI – avrebbe portato l’articolata e organica tradizione della Chiesa di Ambrogio a ridefinirsi in termini ormai esclusivamente cerimoniali e di culto. Ma resta pur vero che, se accostata con attenzione e ascoltata con consapevolezza, tale testimonianza resa attraverso la celebrazione del culto permette di intendere ancora l’inconfondibile voce della Chiesa che ne sta all’origine, una voce in cui si possono percepire anche le voci di altre Chiese, a cominciare da quella di Gerusalemme, segno vivente di una fattiva comunione cristiana concretamente sperimentata e mai dimenticata. Bibliografia Alzati 1978 = C. Alzati, La proclamazione del Simbolo niceno-costantinopolitano nella celebrazione eucaristica e la tradizione liturgica ambrosiana, in «Ambrosius» 54, 1978, pp. 27-48. Alzati 2007 = C. Alzati, L’attività conciliare in ambito ecclesiastico milanese nel contesto dell’Italia Annonaria tra tarda antichità e alto medioevo, in M. Mercenaro (a c.), Albenga città episcopale. Tempi e dinamiche della cristianizzazione tra Liguria di Ponente e Provenza. Convegno internazionale. Albenga, Palazzo   Renoux 1971, II, pp. 362 [224], 363 [225]. La pericope fa riferimento alla festa ebraica di Channukkah, celebrata – con un prolungamento di otto giorni – in memoria della purificazione e consacrazione del Tempio di Gerusalemme e della costruzione del nuovo altare, avvenute per iniziativa di Giuda Maccabeo ai tempi di Antioco IV Epifane: 1 Mc 4,36-59. 52  Severus Antiochenus, Homilia CXII de Encaeniis, ed. et vert. M. Brière, Paris 1935 (PO, 25), pp. 795-803; per la collocazione cronologica Brière 1960, p. 61. 53  Cfr. Janin 1955, pp. 376, 407. 51

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I DUE SERGI? NOTA SU PAPA SERGIO IV

Glauco Maria Cantarella

Sergio IV: Os porci. Non è un nome granché lusinghiero per un papa… Cioè, non sarebbe lusinghiero per nessuno, ma per un papa sembra proprio una condanna senza appello. Era così grasso? Così inguardabile? Si esprimeva in modo eccessivamente triviale? O con la bocca faceva cose inconfessabili sebbene a Roma note a tutti?1 Sergio IV, 1009-1012. Il suo regno coincide con gli ultimi anni del principato di Giovanni, figlio di quel Crescenzio senator che aveva ispirato e guidato la ribellione del 997-998 tanto duramente repressa da Ottone III e che per questo era stato punito con la pena capitale e la spoliazione di tutti i beni secondo il principio del crimen maiestatis. Giovanni resse l’Urbe con i titoli di patricius urbis o patricius senatus o patricius Romanorum fino alla sua morte (1012), a lui dovettero la loro elezione i papi che si succedettero dopo Silvestro II, Giovanni XVII detto Sicco (16 maggio - 6 novembre 1003), Giovanni XVIII detto il Cappone, un nomignolo non solo curioso ma assai intrigante (1003-1009), e appunto Sergio IV2. Chissà se un secolo più tardi Eutimio Zigabeno, Giovanni di Gerusalemme, Pietro III di Antiochia e il Niceta di Santa Sofia erano a conoscenza della graziosa onomastica di quei papi… Probabilmente no, o è presumibile che non avrebbero lasciato perdere un’occasione tanto ghiotta per esercitarsi in qualche forma di satira, seppur severa per il tipo dei loro scritti e per riguardo alla loro dignità «grondante di tradizione». E probabilmente no, perché non avevano accesso, né l’avevano cercato, alle fonti ufficiali romane come il Liber Pontificalis: il cosiddetto scisma dei due Sergi che evocarono (sia pure in forma talmente vaga da mettere in difficoltà la storiografia)  Cfr. Cantarella 2011, pp. 23-28.  Cfr. Cantarella 2017, pp. 17-23. Wickham 2013, p. 51.

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riguardava il problema dell’addizione del Filioque che suscitava la disapprovazione teologica ed ecclesiologica della Chiesa d’Oriente, ciò che era più che sufficiente; dunque che necessità avrebbero avuto di informarsi sui papi implicati a qualche titolo? Del resto, per quel che può valere, è da notare che la storiografia sul regno-impero, davvero come in uno specchio, non si cura affatto della questione, tant’è che il Weinfurter non cita nemmeno una volta Bernone di Reichenau. Bernone, «testimone oculare dell’incoronazione romana» di Enrico II (14 febbraio 1014) riferisce che l’imperatore volle inserire la clausola del Filioque nella liturgia eucaristica romana «nonostante l’opposizione del clero locale che vi vedeva sminuita l’indefettibilità nella fede della Chiesa di Roma». È opportuno vedere quanto scrive: Romani usque ad haec tempora divae memoriae Henrici imperatoris nullo modo cecinerunt […] Audivi eos hujusmodi responsum reddere, videlicet, quod Romana Ecclesia non fuisset aliquando ulla haereseos faece infecta, sed secundum sancti Petri doctrinam in soliditate catholicae fidei permaneret inconcussa: et ideo magis his necessarium esse illud symbolum cantando frequentare, qui aliquando ulla haeresi potuerunt maculari. At dominus imperator non antea desiit quam omnium consensu id domino Benedicto apostolico persuasit, ut ad publicam missam illud decantarent. Sed utrum hanc consuetudinem servent adhuc affirmare non possimus (sic), quia certum non tenemus3.

Dunque, a sentire Bernone, Benedetto VIII cedette alle insistenze di Enrico II di cui aveva bisogno tanto quanto il nuovo imperatore aveva bisogno di lui: era il primo dei Tuscolani e doveva all’appoggio di Enrico se si era insediato come papa, così come Enrico non poteva prescindere dal papa per cingere la corona imperiale. Ma Enrico doveva ai suoi grandi ecclesiastici se era re: e non si limitò a riconoscere l’inevitabile, cioè il ruolo centrale del suo episcopato, ma impersonò un ruolo di coepiscopus che gli garantì non solo la possibilità partecipare alle sinodi ma anche di presiederle con il consenso dei suoi prelati, nell’impegno al rispetto dei sistemi di regole che si erano date e continuavano a darsi le Chiese del regno; il re riconosceva che la vita delle Chiese del regno era a fondamento del suo regno, le Chiese riconoscevano che il re era la garanzia della loro vita e delle regole che si erano date. Di conseguenza Enrico non poteva evitare di rappresentarne anche le posizioni teologiche, se erano sentite come essenziali4. E Benedetto non poteva evitare di cedere, se voleva poter continuare a contare sul sostegno di Enrico anche dopo l’incoronazione imperiale. Ma con grande sobrietà e altrettanto acume politico Bernone ammette di non essere certo che dopo la morte dell’imperatore (1024) a Roma avessero conservato   Un sintetico ma efficace punto della questione in Morini 2016, pp. 11-15, la citazione a p. 14; Naccari 2016, p. 65. Bernonis abbatis Augiensis Libellus de quibusdam rebus ad missae officium pertinentibus, PL 142, coll. 1060D-1061A. 4  Cfr. Cantarella 2015, pp. 43-48; Weinfurter 2002. 3

I due Sergi? Nota su papa Sergio IV

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quell’uso; insomma, avrebbe benissimo potuto essere solo un cedimento occasionale, dettato dalla necessità e della contingenza. Come dice in maniera ineguagliabile l’antico e saggissimo adagio, passata la festa, gabbato lu santu … E allora, vista questa professione di serietà priva di qualunque orpello retorico, dovremmo dargli credito quando dice che fino ai tempi di Enrico II a Roma non c’era stato nulla del genere perché «secundum sancti Petri doctrinam in soliditate catholicae fidei permanserat inconcussa»: cioè Roma non poteva aderire a usi che, visti secondo il riferimento di san Pietro, potevano suonare come eresie. Teniamo presente questo punto, perché non solo ci assicura che Sergio IV difficilmente poté essere protagonista di uno scisma del genere (e quindi il problema non dovrebbe porsi) ma ci aiuta a entrare nell’ecclesiologia romana di inizio XI secolo; e tanto più ci aiuta in quanto è l’espressione di una view from afar, uno sguardo da lontano, pacato nell’espressione e senza la minima intonazione polemica: insomma, uno sguardo prezioso, che riconosce le particolarità romane e può introdurci a riconoscerle a nostra volta. Sergio IV. Solo tre anni di pontificato e solo qualche documento superstite. Qualunque tentativo di capire come vedesse il mondo e il ruolo della Chiesa che presiedeva non può essere altro che una estrapolazione. Al più, un’indicazione di lineamenti. I documenti di Sergio IV editi nella Patrologia Latina hanno una particolarità: nella maggioranza dei casi gli incipit compaiono per la prima volta (9 su 15, cioè il 60%) e non di rado (4 su 9, cioè il 44,44%; o il 26,67% del totale) sembrano all’origine di una tradizione. Si tratta di: Congruum valde, Manifestum est, Congruum atque utillimum, Apostolatus nostri, Si domus, Quoniam divina, Nobis clamor, Nostra cura, Quia mens humana. Congruum valde, Si domus, Nobis clamor, Nostra cura, Quia mens humana non ricorreranno mai più. Congruum atque utillimum si ritroverà nel 1086 in un documento di Clemente III (Wiberto) ( JL 5323); Manifestum est in un privilegio di Alessandro III ( JL 10724: 1162), si tratta di un caso di un certo interesse e vedremo subito di cosa si tratta; Quoniam divina in Alessandro II ( JL 4476: 1062). Cum constet è inaugurato da Benedetto VII, si ritrova una volta in Giovanni XV, è usato con Benedetto VIII e ripreso due volte un secolo e mezzo dopo da Alessandro III ( Jl 12969: 1160-1178; JL 13559: 1071-1080). Anche Tunc summae è usato con parsimonia, da Agapito II ( JL 3635: cc. 946) e da Leone IX ( JL 4172: 1049); Cum magna nobis è molto più frequente, parte con Stefano IV ( JL 2544: 817), arriva a Nicola II ( JL 4461: 1061) e comunque si trova nel Liber Diurnus Romanorum pontificum (LXXXIX); Notum esse volumus prende avvio con Giovanni VIII ( JL 3242: 879) e arriva fino a Gregorio VII ( JL 5155: 1080); Quia vestri accepti ha un solo precedente ( JL 3852: 994, Giovanni XV) e si ritrova in Benedetto VIII ( JL 4011: 1016; J 4032: 1012-1021). Quanto questi numeri possano essere indicativi di qualcosa, non sappiamo e non potremo mai sapere; si tratta delle rimanenze di un Registrum che verosimilmente era molto più corposo.

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Sembra paradossale e scontato e inutile dirlo, ma bisogna ricordare che la concessione dei privilegi aveva un costo, se non altro (a parte un “tariffario” non-ufficiale ma noto a tutti, almeno nel secolo successivo) quello del viaggio fino a Roma per ottenerli; e non ci si muoveva certo dalle regioni lontane come l’alta Catalogna e la Guascogna se non si fosse stati convinti dell’utilità, se non dell’efficacia, del privilegio apostolico. Da quell’area negli anni di Sergio IV si rivolsero a Roma il grande abate Oliva (forse conte di Conflent e Berguedà, garante della tutela e della diffusione dei costumi cluniacensi nell’alta penisola iberica che erano stati introdotti nel 965 da un suo zio, il conte di Cerdanya e Besalù, e che nel 1017 divenne vescovo di Vic, sede strategica e prestigiosa illustrata dalla presenza di Gerberto d’Aurillac, papa come Silvestro II) per i monasteri di Cuixà e Ripoll ( JL 3974, 3975, 1011)5, e il dominus di Castrum Scuria, ora Lescure-d’Albigeois ( JL 3967, 1010). Un caso molto interessante, quest’ultimo, per diversi motivi. Castrum Scuria era stato donato «regia munificentia» a san Pietro proprio nell’età di Silvestro II da Vediano, che ne aveva ricevuto «per manus ejusdem» il godimento «sub censu annuo docem (sic: ma decem) solidorum Raimundensis monetae» (cioè dei conti di Tolosa). Lescure si trovava nella diocesi di Albi, come alla fine del secolo XII registrano prima i Digesta pauperis scholari Albini e subito dopo (e ripetutamente) il Liber Censuum Romanae Ecclesiae, opera monumentale in tutti i sensi redatta a partire dall’ultimo decennio del secolo e che riporta anche il giuramento di fedeltà prestato al papa nel 1214 dai milites e tutti i probi homines del castello6; nel Liber Censuum in successione troviamo il documento di Sergio IV e quello di Alessandro III, un altro passaggio ribadisce il medesimo censo, mentre altri appaiono come passaggi successivi e hanno tutta l’aria di essere degli aggiornamenti o adeguamenti proprio del censo: due once d’argento per Albino, che nel secolo XIII diventeranno due marche d’argento sterling. Ovviamente non è il caso di seguire qui le stratificazioni di quell’opera complessa e che è stata oggetto di una recentissima ricerca, ma si tratta di prendere nota della costanza delle registrazioni nel lungo periodo7. Quella regione non era particolarmente “sensibile” solo nell’età di Innocenzo III e nei decenni successivi, ma lo era sempre stata per via degli equilibri delicati e mobili, le diverse aristocrazie, le contrastanti egemonie in quell’area di sutura fra la penisola iberica e il continente. Tutto poteva consigliare di mettere in salvo qualcosa della patrimonialità donandolo al Patrimonium beati Petri e tutelandolo con la protezione apostolica: e benché non sia Sergio IV a dirlo esplicitamente ma Alessandro III a chiare lettere, in questo caso (come lo sarà nel 1085 per la contea di Melguelh, donata a San Pietro dal padre di colui che sarebbe stato uno dei maggiori abati di Cluny, Ponzio)  Cfr. Cantarella 2010, pp. 142-143.  Cfr. Le Liber Censuum de l’Eglise Romaine, edd. P. Fabre, L. Duchesne, Paris 1901, II, p. 119; I, LXX, p. 344. 7   Ivi, I, CLXXVI-CLXXVII, pp. 430-431; p. 245; p. 203; per Albino cfr. II, loc. cit. Dumas 2017. 5 6

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il problema era costituito nientemeno che dalla potentissima casata dei conti di Tolosa che estendeva la sua ombra a nord fino in Alvernia, a est fino a Nîmes. Il documento di Sergio IV, è detto esplicitamente («sicut ex inspectione litterarum antecessoris nostri sanctae recordationis Sergii papae cognovimus»), fu esibito di fronte ad Alessandro III; il quale, pur nelle assai più elaborate forme cancelleresche della seconda metà del sec. XII, non solo ne riprende l’incipit ma anche alcuni passaggi (magari lo stesso era accaduto nell’età di Callisto II e Innocenzo II, come ricorda il medesimo privilegio: ma non possediamo i documenti e Alessandro si limita a menzionarli). Insomma, ad Alessandro dev’essere stato presentato tutto il dossier che era nelle mani dei domini del castello, e il papa ne ha riconosciuto e garantito l’autenticità; del resto si trovava a Montpellier e i domini di Lescure non dovevano fare troppa strada per presentarsi8. Non c’è nulla di Silvestro II: ma notiamo che neppure Sergio IV il 30 marzo del 1010 al Laterano aveva avuto in mano il documento del suo predecessore bensì una relatio («ut etiam vestra relatione comperimus»), e ciò nonostante aveva aderito alla richiesta per la quale gli interessati avevano affrontato l’impresa del viaggio ad limina. Una richiesta pressante, visto il peso (in tutti i sensi, anche o soprattutto economici) di quel viaggio. Il caso di Lescure appare particolarmente interessante perché è una delle testimonianze di quanto quell’area fosse presente nell’orizzonte dei papi della seconda   JL 10724 (Montpellier, 1162 maggio 29) = Alexandri III papae Epistolae et privilegia, PL 200, n° 76, coll. 150CD-151B: «Manitestum est castrum quod Scuria dicitur, temporibus beati Sylvestri, sicut ex inspectione litterarum antecesssoris nostri sanctae recordationis Sergii papae cognovimus, regia liberalitate per manus ejusdem beato Petro quondam fuisse collatum, et a Vediano quondam ejusdem castri domino, memorato praedecessori nostro papae Sergio, per innovationem sub annuo censu decem solidorum Raimundensis monetae fuisse recognitum et oblatum […] praefatum castrum sub beati Petri et nostra protectione suscipimus […] statuentes ut neque comiti neque alicui personae facultas sit castrum ipsum auferre, minuere, infestare, vel suis usibus vindicare, sed quietum vobis, sicut a jam dictis praedecessoribus nostri et nobis concessum est, et integrum sub beati Petri jure ac defensione consistat […] Si quis igitur clericus sive laicus temere (quod absit!) adversus ista venire tentaverit, secundo tertiove communitus, si non congrua satisfactione emendaverit, honoris et officii sui periculum patiatur, aut excommunicationis ultione plectatur. Qui vero conervator exstiterit, gratiam omnipotentis Dei, et beatorum apostolorum Petri et Pauli obtineat». JL 3967 (1010) = Sergii IV papae Epistolae et diplomata, PL 139, n° 2, coll. 1501D-1502A: «Manifestum est castrum quod dicitur Scuria temporibus beatae memoriae praedecessoris nostri papae Sylvestri ut etiam vestra relatione comperimus, regia munificentia quondam per manus ejusdem beato Petro fuisse collatum, et a te nunc per innovationem sub censu annuo docem solidorum Raimundensis monetae oblatum […] et idem protectione sedis apostolicae communimus. Statuimus enim ut nulli omnino ecclesiasticae saecularisve personae facultas sit idem castrum minuere, infenstare vel suis usibus vindicare, sed quietum tibi, sicut a nobi concessum est, et integrum conservetur. Si qua igitur icclesiastica saecularisve persona temere, uod absit!, adversus ita praesumpserit, secundo teriove commonita si non satisfactione congrua emendaverit, honoris et officii sui periculum patiatur, aut excommunicationis ultione plectatur. Qui vero conservator exstiterit, omnipotentis Dei et apostolorum ejus Petri et Pauli gratiam misericorditer consequatur». Cfr. Le Liber Censuum de l’Eglise Romaine, ed. cit., pp. 430-431. Cfr. Cantarella 2014a, pp. 62-64.

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metà del secolo X e dell’inizio del secolo XI. E, come si sa, lo sarà sempre di più. E anche di quanto Roma fosse presente nell’orizzonte di quella regione lontana, e lo sarà sempre di più. E perché, com’è noto e si è appena ricordato, Silvestro II proveniva dall’Alvernia dove si era formato ad Aurillac, ed aveva approfondito la sua formazione nell’alta Catalogna sotto la protezione del conte di Barcellona e del vescovo di Vic, al seguito del quale era giunto a Roma: dunque poteva avere tutte le conoscenze necessarie per intervenire (o accettare di farlo) in quell’area; e questa combinazione di circostanze difficilmente poteva essere ignota a Sergio IV, che oltretutto sottolineò sempre la propria continuità con Silvestro II, come si dirà brevemente dopo9. Ma, detto di questa emergenza della memoria, ritorniamo al problema generale. Dato che anche con la ricerca storica accade come con la vita, e dobbiamo ragionare e lavorare sul materiale che abbiamo e non su quello che vorremmo avere e sappiamo che non potremo avere mai, l’unica cosa che si possa sommessamente suggerire dai pochi pezzi superstiti è che il pontificato di Sergio IV si staglia con una discreta nettezza, una discreta consapevolezza; chiaramente espressa da Benedetto notaio, estensore dei documenti, ovviamente esperto del Liber Diurnus e a maggior ragione consapevole nelle innovazioni e nei distacchi dalla tradizione recente e passata: per esempio è il caso della formula «Ideo quia Christo distribuente Petri principis apostolorum vicem gestamus, hoc quod fecimus inconvulsum manere volumus», che evoca formule come «statuentes beati Petri principis apostolorum auctoritate, cuius nos etsi impares meritis divina tamen gratia suffragante vices gerimus […] haec quae a nobis compassione modo decreta sunt […] firma stabilitate inconvulsa perpetuis permanere temporibus definimus»; o dell’elaboratissima damnatio che si ritrova in un paio di casi, nell’ultimo dei quali si rinviene anche un’altra citazione quasi ad litteram, segno inequivocabile della padronanza di Benedetto10. E allora, le innovazioni apportate con Sergio IV e che con lui si spengono o vengono riprese  Cfr. Cantarella 2004, pp. 175-179.   Cfr. JL 3976 (1011, novembre) = Sergii IV papae Epistolae et diplomata, n° 7, col. 1516B (Liber Diurnus Romanorum pontificum, ed. Th. E. von Sickel, Wien 1889, XC, p. 119); JL 3975 (1011, novembre) = Sergii IV papae Epistolae et diplomata, n° 6, col. 1515D (Liber Diurnus Romanorum pontificum, ed. cit., LXXXVI, p. 113; CI, p. 135): «Si quis autem, quod non optamus, nefario ausu praesumpserit haec quae a nobis pro stabilitate jam dicti monasterii statuta sunt, refragare, aut in quoquam praesumpserit transgredi, sciat se nostri anathematis vinculo innodatum, et cum diabolo, et ejus atrocissimis pompis atque Juda traditore Domini nostri Jesu Christi aeterni incendii supplicio concremandum. At vero qui pio intuitu observator in omnibus exstiterit, custodiens hujus nostri privilegii statuta, benedictionis gratiam a misericordissimo Domino Deo nostro multipliciter consequatur et vitae aeternae effici mereatur particeps in saecula saeculorum»; cfr. JL 3985 (1012 febbraio 25) = Sergii IV papae Epistolae et diplomata, n° 13, col. 1524C; alla col. 1524A «ut dictum est tam pacis quam barbarici temporis firma stabilitate decernimus sub jurisdictione sanctae Eccesiae nostrae permanendum»; Liber Diurnus Romanorum pontificum, cit., LXXXVI, p. 112.: «ut dictum est, pacis quam barbarico tempore firma stabilitate decernimus sub iurisdictione sanctae nostrae ecclesiae permanendum». Si tratta delle parti risalenti alla fine del sec. VIII. 9

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solo dopo moltissimi anni (e sarebbe interessante chiedersene il perché), segnalano una personalità spiccata, diciamo così, o l’intenzione rendere evidente come innovativo quel pontificato. E il fatto che non siano state riprese rende abbastanza chiaro che quelle innovazioni non furono ritenute ricevibili – vennero confinate nell’esperienza solo di quel papa. Un incipit, come si sa, dice molte cose… molte più di quante non ne introduca procedendo nel corso del documento: la forma, in questi casi, è davvero sostanza. Qualora poi ad un incipit innovativo come Si domus fa seguito un complesso di frasi e affermazioni che solo uno sguardo frettoloso può considerare come scontate, allora bisogna prendere atto del fatto che Sergio IV aveva una densa consapevolezza del proprio ruolo di pontefice romano: Si domus excellentissimae speculationis sanctissimae matris nostrae Ecclesiae impellimur curam satagere, et ob studium divini cultus pro religione sacrorum locorum promovemur praecogitare illorum sublimitatem atque stabilitatem, ut soli Deo servitium valeant habitantes in ea impendere; hoc nobis decet pio labore assuescere, ut animae Christo dicatae, quae se in diebus vitae illorum servituti contradiderunt, perseverent, sub ejus militia imperturbatae, nec non et illa illic maneant per auctoritatem nostrae sedis apostolicae, auctoritate nobis concessa, sub ejus videlicet, cujus nos fruimur vice, fide tenus firma, quae votive a Christianis in Dei laudibus contradita sunt11.

Giacché cosa c’è di non convenzionale in questo passaggio? O meglio: cosa manca? Il riferimento al beato Pietro. È implicito, si dirà: ma appunto, è implicito; perché in explicito vengono nominati Dio e Cristo. Naturalmente non è affatto il caso di azzardare conclusioni che sarebbero soltanto estrapolazioni: anche perché, come vedremo subito, quest’assenza della menzione di Pietro appare come un ápax. E tuttavia non si può non prenderne atto. Come non si può non prendere atto del fatto che in Sergio IV compaia un’espressione che sembra, se mi si passa l’espressione, profumare di futuro: «nos tuis justis (etenim sicut sunt a nobis adjudicatae, nam justae sunt) annuentes precibus». Si tratta di un’espressione che, salvo errore, pur facendo seguito al Cum constet inaugurato da Benedetto VII, è una innovazione di Sergio IV, ricorre altre due volte in Benedetto VIII (ma si tratta di un unico episodio, il 26 gennaio 1017), poi scompare. E non avrebbe senso cercarne l’evoluzione in Alessandro III centosessant’anni più tardi, perché nel frattempo c’è stata la grande rivoluzione della Chiesa romana… E allora prendiamo atto del fatto che le decisioni del papa (nos) sono giuste solo per il fatto di provenire da tale fonte, e giustificano le richieste fatte al papa in quanto affidate alla decisione del papa12. Del resto è lo stesso pontefice   JL 3975 (1011 novembre) = Sergii IV papae Epistolae et diplomata, n° 6, col. 1514CD.   JL 3974 (1011, novembre) = Sergii IV papae Epistolae et diplomata, n° 5, col. 1510A. JL 4018 (1017, gennaio 26) = Benedicti VIII papae Epistolae et privilegia, PL 139, n° 19, col. 1608D; JL 4019 (1017 gennaio 26) = Benedicti VIII papae Epistolae et privilegia, n° 20, col. 1613C.; cfr. JL 3800 (979 dicembre 4) = Benedicti VII papae Epistolae et privilegia, PL 137, n° 15, coll. 334B-335C 11 12

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che inaugura un incipit, «Apostolatus nostri», e scrive che l’abate di Nonantola «nostram deprecatus est magnificentiam»: Benedetto VIII non solo modificherà l’incipit, ma non userà quell’espressione13. E ancora, seppure non si voglia sopravvalutarlo, non sarà solo un caso che il notaio Benedetto nel 1012 si renda protagonista di un altro unicum: «pontificatus domini nostri Sergii sanctissimi IV papae»14. Che non ricorrerà più nei suoi documenti rogati con il papa successivo. Si tratta di una sottolineatura fortissima della figura del pontefice, talmente forte che si potrebbe quasi pensarla come eccessivamente esclamativa se non finisse per risultare abbastanza coerente. Però non dimentichiamolo mai, non lo si sottolineerà mai abbastanza: ci troviamo di fronte ad avanzi, reliquie, relitti, frammenti sparsi di un universo di discorso. Saranno indicativi? Ma, alla fin dei conti, siamo pressoché obbligati a pensare che lo siano, visto che altrimenti non possiamo parlarne: insomma, dobbiamo comportarci come archeologi… Certo, più indicativo sarà il fatto che la menzione di Giustiniano ricorra due volte in così poco spazio, e sempre in processi verbali (la prima in riferimento a un processo verbale dell’età di Silvestro II, la seconda nel 1012), perché rende coerente questa testimonianza con l’insistenza giuridica del suo tempo15. In ogni modo non siamo autorizzati a sopravvalutare l’incidenza di quanto troviamo scritto. Al più, possiamo porci qualche domanda. Necessità di ribadire il primato, o meglio l’inattaccabile solidità dottrinale della Chiesa di Roma nella figura del suo pontefice, sia pure nell’ovvia condizione di collegialità ecumenica? Notiamo la pregnanza di un’espressione del 1012 nel privilegio in favore del monastero di Beaulieu: «ipsi sint ex auctoritate Patris, et Filii, et Spiritus sancti, et S. Petri apostolorum principis cui a Christo collata est potestas ligandi atque solvendi, ominumque sanctorum, et ex nostra auctoritate, omniumque episcoporum atque archiepiscoporum sanctae Romanae Ecclesiae, excommunicati atque anathematizati, sive maledicti»; il papa si occulta e si manifesta nella collegialità totale, la sua autorità si esprime in forza della «sinfonica concezione» che collega cielo e terra, la Gerusalemme Celeste e Roma. 1012, anno di sottolineature evidentemente, di toni più calcati. Quello è il suo penultimo documento, il 1012 fu il suo ultimo anno di vita16. A quei toni si era arrivati gradatamente, senza strappi, senza forzature, quietamente ma inesorabilmente.   JL 3971 (1011 maggio 27) = Sergii IV papae Epistolae et diplomata, n° 3, col. 1502D; JL 3993 (1012 dicembre 1) = Benedicti VIII papae Epistolae et privilegia, n° 3, coll. 1582A-1584D. 14   JL 3985 (1012, febbraio 25) = Sergii IV papae Epistolae et diplomata, n° 13, col. 1524D. 15   JL 3966 (1010, marzo) = Sergii IV papae Epistolae et diplomata, n° 1, col. 1501AB; JL 3986 (1012 aprile 14) = Sergii IV papae Epistolae et diplomata, n° 14, col. 1526A. Cfr. Cantarella 2011, p. 33; Cantarella 2014b. 16   JL 3987 (1012 aprile 14) = Sergii IV papae Epistolae et diplomata, n° 15, col. 1527D. Riprendo l’espressione da Naccari 2016, p. 59. 13

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Non c’era, a quanto si sappia, una necessità particolare di ribadire l’ovvio. Il patronato superiore degli apostoli Pietro e Paolo e la conseguente centralità di Roma non erano messi in discussione. Non si trattò né poteva trattarsi di una peculiarità dei papi crescenziani o dei successivi papi Tuscolani. Se Giovanni XVIII aveva scritto: «Sancta apostolica sedes, Romana scilicet Ecclesia, quia a beatissimo principe apostolorum capite Petro obtinet Ecclesiarum sua sanctae auctoritatis robore ligandi solvendique potestate», Sergio IV scrive (1011): «Tunc summae apostolicae dignitatis apex in hoc divini prospectus nitore dignoscitur praefulgere […] cum solo apostolo Petro legamus, omnium tam clericorum quam laicorum esse curam divinitus a Domino concessam, illius vicariam sua vice praesenti saeculi dispositione […] Nos ergo qui ejus, quamvis immeriti, vicem gerimus»17. L’autorità di san Pietro si trasmette alla Chiesa romana. Sergio IV lo sottolinea sempre nel 1011, come abbiamo già visto: «quia Christo distribuente Petri principis apostolorum vicem gestamus»18. Tutto viene reiterato nelle formule di corroboratio e damnatio: «sciat se auctoritate domini nostri apostolorumque principis Petri anathematis vinculo innodatum»; «ex auctoritate omnipotentis Dei, qui beato Petro apostolorum primo claves regni coelorum tradidit, et ejusdem primi pastoris ac nostra ipsius vice quamvis indigne gerentibus »; «sub tuitione ac patrocinio sanctae universalis cui Deo auctore deservimus Ecclesiae» (Giovanni XVIII, 1005, 1006); «de parte Dei omnipotentis sanctique ejus apostoli Petri, et nostra, qui ejus fungimur vicem» (Sergio IV, 1011); Benedetto VIII (1016-1020/23): «salutationem et benedictionem ex parte Dei omnipotentis et beati Petri apostolorum principis, et mea qui praesulatum, licet indignus, tenere videor apostolicae sedis», «ex parte Dei et sancti Petri, et nostra, vocamus ad resipiscendum […] Quod si fecerint, habeant gratiam, et benedictionem, et absolutionem Dei et sancti Petri, et nostram». Nel 1027 Giovanni XIX: «hujus sanctae sedis decreta pia fide a filiis matris Ecclesiae accipienda sunt, et veneranda, ut tanquam regulae canonum ab eisdem absque ullo scrupulo admittantur, utpote quae de omni Ecclesiae fas habeat judicandi»19. San Pietro, primo degli apostoli, e attraverso san Pietro, come in uno specchio, Dio, ricorreva in maniera monotona, che si potrebbe anche dire ossessiva. Non perché in quel quarto di secolo ci fosse una necessità speciale di metterla in 17   JL 3962 (1004-1009) = Joannis XVIII papae Epistolae et diplomata, PL 139, n° 13, col. 1491C. JL 3977 (1011, novembre) = Sergii IV papae Epistolae et diplomata, n° 8, col. 1517CD. 18   JL 3976 (1011, novembre) = Sergii IV papae Epistolae et diplomata, n° 7, col. 1516B. 19   JL 3946 (1005, luglio 21) = Joannis XVIII papae Epistolae et diplomata, n° 5, col. 1482C; JL 3950 (1005, dicembre. 2) = Joannis XVIII papae Epistolae et diplomata, n° 8, coll. 1486A, 1485B. JL 3973 (1011, novembre) = Sergii IV papae Epistolae et diplomata, n° 4, col. 1509; JL 3976 (1011, novembre) Sergii IV papae Epistolae et diplomata, n° 7, col. 1517A. JL 4013 (1016, settembre; ma cfr Méhu 2001, pp. 57, 68: «vers 1021-1023»; p. 237: «vers 1020») = Benedicti VIII papae Epistolae et privilegia, n° 16, coll. 1601B, 1606AB. JL 4081 (1027, marzo 28) = Joannis XIX papae Epistolae et diplomata, PL 141, n° 11, col. 1148CD.

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evidenza: nessuno contestava la posizione del pontefice romano, semplicemente perché nessuno poteva mettere in dubbio che di chiunque si trattasse e comunque si comportasse fosse il successore dei principi degli apostoli. Lo scrive il Glabro: «il pontefice della Chiesa di Roma è ritenuto degno di considerazione più d’ogni altro in tutto il mondo per l’autorità della sede apostolica»; lo mette in chiaro l’eminente canonista Burcardo di Worms (1015-1020) nell’elenco dei capitoli del primo libro della sua opera: «I. Quod in Novo Testamento post Christum Dominum nostrum a Petro sacerdotalis coeperit ordo. II. De privilegio beato Petro Domini vice solummodo commisso, et de discretione potestatis, quae inter apostolos fuit». Per cui, che quei papi fossero aridi, capponi, con la bocca da porco o affamati di denaro, insomma in qualche modo deformi e comunque indegni fisicamente o moralmente (come scrisse ancora il Glabro e si raccontò a Cluny e ripeterà Pier Damiani), tutto ciò non invalidava in nessun modo i loro atti: «Giacché… l’autorità di legare e sciogliere in terra e in cielo spetta per concessione inviolabile alla cattedra di Pietro», scrisse Guglielmo da Volpiano a Giovanni XIX20. È comunque da notare che Sergio IV, a parte il nomignolo del Liber Pontificalis romano, non fu mai chiamato in causa in questa serie di memorie infamanti. E, già che si è fatta menzione di Cluny, è anche da notare che a Sergio IV non venne mai chiesto di confermare i privilegi dell’abbazia: e certo non perché l’abate Odilone si tenesse fuori dai giochi, visto il suo stretto rapporto prima con Ottone III e Silvestro II e subito con Enrico II, e i suoi frequenti passaggi in Italia; semplicemente, pare che Cluny non sia interessata a stringere relazioni particolari con questo papa che del resto da parte sua, per quanto ne sappiamo, ben si guarda dall’avvicinarsi al mondo cluniacense (e questo non dipende dal naufragio degli atti di Sergio IV, ma dal fatto che non ce n’è memoria a Cluny); Cluny non ebbe bisogno di Roma a giudicare dal fatto che il privilegio ottenuto nel 998 fu rafforzato solo nel 1024, per essere messo in discussione subito nel 1025 (e nel 1027 Giovanni XIX chiuse la questione)21. Se Odilone fu presente all’incoronazione imperiale di Enrico II, negli anni di Sergio IV Roma e Cluny furono lontane. Comunque si voglia considerare la cosa, siamo forse al germoglio delle prime estraneità (se non già diffidenze) reciproche, quelle che esploderanno per la prima volta durante il pontificato di Gregorio VII. All’inizio del secolo XI la cattedra di Pietro sembrerebbe già mettere al riparo dalle debolezze e dalle turpitudini degli uomini che vi siedono sopra. Le sue 20   Rodolfo il Glabro, Cronache dell’anno Mille (Storie), a cura di G. Cavallo, G. Orlandi, Milano 1989, IV.7, p. 75 (modifico marginalmente la traduzione per renderla più aderente al testo latino); Burchardi Wormaciensis ep. Decretorum libri XX, PL 140: Index capitulorum libri primi, col. 541BC; e ancora Rodolfo il Glabro, Cronache dell’anno Mille (Storie), cit., II.6, p. 73; IV.2, p. 199; IV.3, p. 201. Per gli altri riferimenti e quanto precede rinvio ancora a Cantarella 2011, pp. 28-39. 21   Cfr. ancora Cantarella 2010, pp. 141, 146-147.

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prerogative sono fuor di dubbio. Il che non autorizzava quei papi a comportarsi in maniera dominativa, non perché non avessero coscienza del proprio ruolo ma semplicemente perché questo non era ancora previsto. È importante sottolinearlo, perché solo così si potranno apprezzare i veri e fondamentali punti di cambiamento nel governo di Gregorio VII e capire perché il suo regno costituì un punto di svolta epocale22. E allora torniamo a Bernone di Reichenau e alla sua testimonianza. Come avrebbe potuto Sergio IV aderire a ciò che a Roma era considerata una eresia, anche se lui stesso era alla ricerca di un rapporto di stretta vicinanza con Enrico II e magari era pronto a proporgli l’incoronazione imperiale? La ripetuta sottolineatura di continuità con l’operato del suo predecessore Silvestro II, e la conseguente necessità di rendersi garante della continuità nell’ortodossia, non gliene avrebbe neppure lasciato lo spazio. Appena eletto aveva commissionato il monumento funebre di Silvestro II, in Laterano: in questo modo, se ferita sanguinosa c’era stata (come c’era stata, e sanguinosissima) veniva sanata, nessuna frattura nella recente storia di Roma, continuità assoluta nel governo e nel magistero, che nel vicario del principe degli apostoli si identificano. Se anche il pontefice crescenziano avesse voluto continuare a blandire i risentimenti familiari del princeps Giovanni nei confronti del defunto Ottone III, la realtà gli imponeva di non trascurare buoni rapporti con il re attuale e di tentare di intrattenerli senza farsi condizionare troppo come era accaduto al suo predecessore23. Dunque perché non pensare che quei toni tanto acuti nel 1012 si dovessero piuttosto a una sottolineatura del ruolo del pontefice romano nei confronti del princeps più che del mondo ecclesiastico ecumenico (anche se naturalmente questo non può essere escluso per principio: sarebbe frutto di pregiudizio tanto escluderlo quanto affermarlo, la sospensione del giudizio è abbastanza inevitabile e adeguata)? Il fatto è che nel giro di un paio di mesi lasciarono entrambi la vita, il mondo e Roma… Sergio IV, interprete e garante dell’inattaccabilità dottrinale di Roma. Allora no, non poté esserci uno scisma dei due Sergi. Non solo perché è improbabile (cioè non può essere provato) ma anche perché è ragionevolmente inverosimile. Si potrebbe pensare magari che la memoria della Chiesa orientale si sia appiattita sul presente (l’«ossimoro storico», come è stato recentemente e felicemente definito) della fine del secolo XI e inizio del XII, proiettandone al passato i problemi; non si tratterebbe di una cosa inedita nella storia ed è anzi, come sappiamo, tutt’altro che infrequente (per così dire…). Ma non pare il caso che la storiografia scientifica vi si appiattisca a sua volta24.

  Cfr. ancora Cantarella 2011, pp. 31-33, 36-39 e ora Cantarella 2018.   Rimando ai brevi ma ottimi profili di di Carpegna Falconieri 2001 e Sennis 2000, Sergio IV. 24  Cfr. Naccari 2016, pp. 75-76, cui rinvio per le pregnanti e acute considerazioni. 22 23

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Glauco Maria Cantarella

Bibliografia Cantarella 2004 = G.M. Cantarella Una sera dell’anno Mille. Scene di Medioevo, Milano 20042. Cantarella 2010 = G.M. Cantarella, I monaci di Cluny, Torino 20106. Cantarella 2011 = G.M. Cantarella, W poszukiwaniu tosżamośzci? Papiestwo początków XI stulecia - A la recherche d’une identité? La papauté du premier XIe siècle, Instytut Historii Universytetu im Adama Mickiewicza w Poznaniu, thumacz. J. Kujawinski, kons. I. Kraszewski, Wikładi XI, Poznań 2011. Cantarella 2014a = G.M. Cantarella, «Come in uno specchio»? Di nuovo su Ponzio di Cluny (1109-1122/26), in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo» 116, 2014, pp. 61-91. Cantarella 2014b = G.M. Cantarella, Otton III et la «Renovatio Imperii Romanorum», in «Przegląd Historyczny» CV, 2014, pp. 1-20. Cantarella 2015 = G.M. Cantarella, Manuale della fine del mondo. Il travaglio dell’Europa medievale, Torino 2015. Cantarella 2017 = G.M. Cantarella, Imprevisti e altre catastrofi. Perché la storia è andata come è andata, Torino 2017. Cantarella 2018 = G.M. Cantarella, Gregorio VII, Roma 2018. di Carpegna Falconieri 2001 = T. di Carpegna Falconieri, Giovanni di Crescenzio, in Dizionario Biografico degli Italiani, 56, Roma 2001, pp. 1-4. Dumas 2017 = E. Dumas, Il Liber Censuum: creazione della memoria e rivoluzione amministrativa del papato tra XII e XIII secolo, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Dottorato di Ricerca in Storia, ciclo XXVIII, 2017. Méhu 2001 = D. Méhu, Paix et communautés autour de l’abbaye de Cluny [Xe-XVe siècle], Lyon 2001. Morini 2016 = E. Morini, È vicina l’unità tra cattolici e ortodossi?, Magnano 2016. Naccari 2016 = N. Naccari, Tra Roma e Costantinopoli? Pietro III d’Antiochia e la sua ecclesiologia nello scontro del 1054, in «Bizantinistica. Rivista di Studi Bizantini e Slavi», Serie Seconda, XVII, 2016, pp. 47-76. Sennis 2000 = A. Sennis, Sergio IV, in Enciclopedia dei papi, I, Roma 2000, pp. 128-130. Weinfurter 2002 = S. Weinfurter, Heinrich II.(1002-1024), Herrscher am Ende der Zeiten, Regensburg 20023. Wickham 2013 = C. Wickham, Roma medievale. Crisi e stabilità di una città, 900-1150, trad. it., Roma 2013.

BATILDE E GLI ALTRI. COSTRUTTORI D’IMPERI IN TERRA COME IN CIELO

Martina Caroli

Appunti sul regno di Ludovico il Pio (814-840)

Nel corso del IX e X secolo, i gesti di “dislocazione” e “rilocazione” delle reliquie sono stati caricati di significati non solo teologici e liturgici ma anche (e a volte soprattutto) ideologici e politici1. La scelta di questi due termini, dislocazione e rilocazione, sottolinea le analogie tra azioni diverse che si svolgono attorno ai resti terreni di un corpo che si ritiene appartenere a un santo, quindi a un qualcuno già assiso alla corte celeste, con la capacità di intercessione che questo comporta, e con la legittima aspirazione a rientrare in possesso del proprio corpo mortale alla fine dei tempi2. Questo gesto (cui non sempre corrisponde una formalizzazione del rito) può essere narrato e affermato come translatio – il trasporto di un corpo da un luogo a un altro –, come inventio – il rinvenimento miracoloso di una reliquia la cui memoria era perduta –, o come elevatio – la scelta di enfatizzare l’esposizione di una reliquia che già si possiede –, ma ha sempre come scopo quello di rendere più funzionale ed efficace il rapporto bidirezionale tra il fedele e il santo3. Se però questo rapporto è attestato e vivace e rilevante nella lunga durata – seppure con modalità e accenti diversi –, durante il regno di Ludovico il Pio (814-840)   Hermann-Mascard 1975; Heinzelmann 1979; Appleby 1989; Angenendt 1994 e 1995; Bozoky, Helvétius 1999; Caroli 2001; Canetti 2002; Deuffic 2005; Canetti 2012; Caroli 2016. 2   Cfr. il corpus delle pubblicazioni di Alba Maria Orselli, qui da Orselli 1965 a Orselli 2015. 3   Heinzelmann 1979; Caroli 2001: discussione a partire dalla presentazione di un ampio repertorio di fonti (a partire da questo catalogo, con una attenzione più specifica all’Italia settentrionale, si possono vedere anche i testi di Vocino 2008 e Veronese 2012). Sull’uso peculiare del furto come elemento della traslazione in equilibrio tra dimensione privata e pubblica, cfr. Geary 1978; Caroli 2007a. 1

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si assiste ad un uso sistematico delle opportunità offerte da questa gestualità per fini politici e dinastici. La ripetizione del gesto e la volontà di diffonderne la notizia fanno delle traslazioni reliquiali uno degli elementi che la corte ludoviciana considera strumenti efficaci della azione politica imperiale4. Questa ricerca è partita anni orsono da uno spoglio di annali, cronache e storie di età carolingia e ottoniana (dove con grande frequenza le traslazioni si incontrano nella forma di brevi notizie), di Gesta episcoporum e Gesta abbatum, di Libri miraculorum o sezioni conclusive di Vitae di santi, per finire ai veri e propri racconti di traslazione delle reliquie (il più noto dei quali è sicuramente la Translatio Marcellini et Petri di Eginardo)5, e ha portato alla costruzione di un repertorio di oltre 1500 notizie di traslazione. Di queste, alcune sono riportate da numerose e diversificate fonti, alcune sono uniche, alcune brevissime, alcune estremamente dettagliate e strutturate6. Ciascuna da leggersi nell’ambito della propria vicenda evenemenziale e testuale, con uno sguardo sempre attento alla scelta (o alla occasionalità) di disseminazione delle informazioni testimoniata dalla eco delle notizie nelle fonti annalistiche7. Volendo inserire le peculiarità del regno ludoviciano nel più ampio contesto della vicenda dinastica carolingia, possiamo osservare come si assista, negli anni immediatamente successivi l’unzione regale di Pipino e nel quadro dei primi significativi contatti tra i pipinidi e il pontefice romano (il legittimo proprietario del più grande deposito di reliquie a disposizione dell’occidente cristiano), all’arrivo da Roma a Saint-Denis delle reliquie di san Vito (nel 755-756) e all’arrivo a Gorze dei corpi dei santi Nazario, Naborre e Felice (765). Se la notizia della traslazione di Vito, della cui datazione si è occupato lo Stoclet8, ci è data a posteriori, sinteticamente inserita nella narrazione della successiva traslazione a Corvey (836) e poi ripresa da cronisti successivi9, il riferimento alla traslazione delle reliquie di Nazario,  Cfr. Caroli 2006b per lo spazio e il significato delle notizie di traslazioni reliquiali presenti nell’annalistica carolingia. 5   Heinzelmann 1979; Sot 1981; Appleby 1989; Caroli 2001, pp. 31-86; Duval 2006. 6   Caroli 2001, catalogo alle pp. 234-333, indici pp. 334-384: le traslazioni registrate sono datate tra IX e X secolo e riportate da fonti non posteriori al XII. 7   Caroli 2006b: si può senz’altro ipotizzare – e una ricerca andrebbe fatta per ogni singolo testo – che questa attenzione per le reliquie sia apparente, legata semplicemente a una casualità nella sopravvivenza delle fonti o a una scelta storiografica degli editori, ma se anche si immaginassero i manoscritti contenenti testi annalistici come testimoni di una tradizione complessa e condivisa e non come fonti dotate di una propria autonomia, ci troveremmo di fronte alla testimonianza di una volontà di conservazione della memoria. 8   Stoclet 1993, pp. 463-467, discusso in Caroli 2001, pp. 136-137 e nn. 26 e 27. 9   L’edizione di G.H. Pertz, Historia translationis sancti Viti (836) auct. monacho Corbeiensi, Hannover 1829, pp. 576-585 [MGH SS II], è stata superata da quella proposta da I. Schmale-Ott, Translatio s.Viti martyris (Veröffentlichungen der Historischer Kommission für Westfalen XLI, Fontes minores 1), Münster 1979. Le fonti annalistiche e cronachistiche finora individuate che riportano questa traslazione sono successive la Translatio Viti, e probabilmente hanno tratto da questa la notizia della prima traslazione. Cfr. Caroli 2001, p. 239. 4

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Naborre e Felice si trova in numerose fonti cronachistiche coeve10. Ancora da valutare e verificare appieno è quello che sembra essere il ruolo significativo di Fulrado di Saint-Denis in questi eventi, e dunque nella costruzione di una proposta di legittimazione della giovane regalità carolingia attraverso un supplemento di sacralità ulteriore rispetto al gesto liturgico dell’unzione di Pipino. Un supplemento che – nell’ambito di una relazione privilegiata di Fuldrado tanto con la corte carolingia quanto con quella pontificia – passa attraverso la promozione di questi movimenti di reliquie11. In ogni caso, sembra che l’ascesa al trono di Pipino e la sua unzione segnino uno spartiacque nella capacità del Pipinidi di prendere in carico le reliquie. Sempre durante il regno di Pipino, e caratterizzata dalla protagonismo assoluto del sovrano e della sua corte, si situa la traslazione di Germano di Parigi, per la quale fu composto da un contemporaneo un lungo ed accurato testo che descrive lo spostamento, nel 756, del corpo del santo dall’atrio della chiesa parigina di San Vincenzo e Santa Croce all’interno della chiesa stessa. La scelta di collegare un santo merovingio alla dinastia pipinide attraverso un evento pubblico e liturgico che vede protagonisti i nuovi potenti sembra bene iscriversi in questo quadro12. Se nel regno di Pipino questi gesti hanno trovato uno specifico spazio narrativo, Carlo Magno non sembra particolarmente coinvolto da questo gesto liturgico, nonostante il suo interesse per la costruzione di depositi reliquiali sia evidente. È, infatti, proprio Carlo ad ordinare ad Angilberto, negli anni immediatamente a ridosso della sua incoronazione imperiale, la ri-costruzione al contempo teologica e materiale di Centula (Saint-Riquier)13, un monastero destinato a conservare al proprio interno le reliquie di ogni categoria di santi (apostoli, discepoli, martiri, confessori, vescovi, ordinati secondo una sorta di lista di precedenza), donate da tutti i potentes laici ed ecclesiastici, e provenienti da tutte le parti del mondo. Un’operazione volta a costruire un depositum di santità sul quale elevare uno dei pilastri dell’impero, un depositum costruito, secondo le parole di Angilberto, ad onore della Trinità «Domino cooperante et praedicto domino meo Augusto juvante». Dunque, una costruzione di cui Angilberto è il manovale, ma i committenti sono i capi delle due corti, quella celeste e quella terrestre14.

  Caroli 2001, pp. 84 e 340.   Fulrado abate di Saint-Denis, nato verso il 710 e morto nel 784, è stato un personaggio di primissimo piano nella cerchia di Pipino e ha lasciato notevoli tracce della sua attività all’interno di fonti letterarie diverse tra loro, come testi cronachistici, agiografici, epistolari e documentari. Cfr. Stoclet 1993; Caroli 2001, pp. 135-141. 12   Ho trattato altrove delle relazioni tra le due versioni della Translatio (Caroli 2007a e 2007b), che conto di riprendere a breve a partire dalle annotazioni relative al manoscritto Biblioteca Universitaria di Bologna (BUB 1702) pubblicate online (Caroli 2018). 13  Cfr. Rabe 1995; Caroli 2005. 14   Da ricordare come non sia la costruzione dell’abbazia ad essere successiva alla incoronazione di Carlo, ma la costruzione teologica e ideologica proposta attraverso il testo di Angilberto (databile all’804). 10 11

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Diversi nella modalità, ma non nell’orizzonte, sono gli episodi delle reliquie venute a Carlo da Gerusalemme, o del pellegrinaggio ai luoghi santi della Gallia che egli compì immediatamente prima del viaggio a Roma in cui venne incoronato, o dell’inventio del sangue di Cristo a Mantova nell’804 (una inventio che secondo alcuni annali richiese un vaglio da parte dell’imperatore): la presenza della corte celeste attraverso le proprie reliquie, durante il regno di Carlo, è costante ma non nella forma delle traslazioni. Il solo racconto che ci presenta Carlo partecipare attivamente a questo gesto liturgico è la sezione cosiddetta interpolata della traslazione di Germano di Parigi15 secondo la quale, nel 756, Carlo bambino di nove anni è presente e partecipe alla cerimonia. Ma, mentre il resto del racconto è ritenuto dal Krusch di poco posteriore all’evento, questa parte è da datarsi probabilmente al secondo quarto del IX secolo16, cosa che ci porta al regno di Ludovico e ad alcune traslazioni estremamente note, tra cui quelle delle reliquie di Uberto (825), Sebastiano (826), Marcellino e Pietro (827-828), Batilde (833), Alessandro e Giustino (834), Vito (836) e Castore (836). Con la sola eccezione di Castore (la cui traslazione viene però inserita come capitolo nella Vita di Ludovico scritta da Tegano17), si fa qui riferimento a testi narrativi estesi nei quali la corte carolingia assume un ruolo significativo. Le traslazioni di reliquie non accompagnano infatti con continuità il regno di Ludovico. I primi dieci anni non presentano particolari attestazioni di interesse per le reliquie, poi nell’arco di 3-4 anni assistiamo a tre traslazioni che vedono attivi e protagonisti Giona vescovo di Orlèans, Ilduino abate di Saint-Denis e il laico Eginardo18. Negli anni della crisi, 830-833, si assiste a un vuoto significativo e ad una eccezione (Batilde) ancor più significativa, e solo dopo il ristabilimento dell’autorità di Ludovico sembra fiorire un nuovo interesse per le traslazioni, che si accompagna però a significativi cambiamenti nella composizione e diffusione di annali e cronache, le cui testimonianze vanno lette con attenzione19. Ci si può dunque chiedere se vi sia un collegamento tra le crisi politiche del regno di Ludovico20 e la scelta (o possibilità legittima) di effettuare traslazioni di reliquie, o se non si tratti piuttosto di una casualità magari dettata da una moda legata alla novità proposta dalla narrazione einardiana, ma non va dimenticato come sia il   Translatio Germani interpolata. Cfr. Caroli 2007b, pp. 302-310.   Translatio Germani vetustissima. Il testo interpolato è presente nel ms. BUB 1702, dedicato interamente a san Germano e che contiene anche la versione metrica della Vita e della Translatio di Germano, di cui è testimone unico, cfr. Caroli 2018. 17  Tegano, Vita Hludowici imperatoris. Continuatio anonyma, pp. 254-256. 18  Cfr. Godman, Collins 1990; Depreux 1997; Savigni 2014; Depreux, Esders 2018. 19   Per la tematizzazione della crisi degli anni 829-833 si veda Depreux, Esders 2018. Con l’anno 829 si assiste anche ad una frattura nella scrittura della memoria carolingia, che sempre più prende la strada della cronaca locale, cfr. Caroli 2006b. 20  Cfr. Godman, Collins 1990; Boshof 1996; Depreux 1997; Wehis 2004; Depreux, Esders 2018; Savigni 2018. 15 16

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testo su Uberto di Giona21, che il testo su Germano e la sua interpolazione anticipino il resoconto einardiano (come forse anche la prima stesura della traslazione di Sebastiano). Occorre, dunque, innanzitutto chiedersi con quale modalità e attese una traslazione reliquiale possa essere collegata (ed essere funzionale) a un periodo di crisi, e soprattutto se vi possa svolgere un ruolo attivo. La risposta teologica è già stata affermata: è nel legame tra il santo e il suo corpo destinato alla resurrezione della carne alla fine dei tempi, è nella capacità mediatrice dei santi, è nel concetto, ancora teologico, della comunione dei santi e quindi della possibilità di una relazione bidirezionale tra i santo e il fedele. E questo in un quadro che può essere semplificato nella prassi fino ai limiti di un semplice do ut des. Solamente a partire da queste premesse condivise pubblicamente, e non necessariamente da ciascuno dei singoli coinvolti, è possibile sfruttare appieno le possibilità offerte da questo gesto liturgico che afferma una sympatheia tra il santo e chi ordina, organizza, celebra, o semplicemente partecipa a questa azione liturgica; nella consapevolezza però che questa azione per definizione giuridica necessita di una autorizzazione ufficiale allo spostamento di corpi morti, una autorizzazione che solamente l’autorità sovrana può concedere22. Infatti, se il sovrano è in qualche misura responsabile e/o garante di tutto il processo di traslazione, sia che questo ruolo sia esplicitato (come nel caso di Sebastiano o di Alessandro e Giustino) o che non si senta la necessità di farlo, questo ruolo si riverbera sul sovrano proprio in relazione alla bidirezionalità della relazione santo-reliquia23. Affermando che il santo sia in grado di effettuare scelte nel suo patrocinio anche attraverso i propri resti corporei, allora queste scelte possono essere considerate un giudizio (anche legittimante) su chi ha il potere di gestire i corpi santi. E quindi, per quanto riguarda il tema delle traslazioni, una traslazione riuscita o fallita può essere considerata un elemento di giudizio importante sulla sintonia tra il sovrano terrestre e la corte celeste24. Uno sguardo più attento verrà dunque riservato ad alcuni racconti di traslazione: Sebastiano da Roma a Soissons (826), Marcellino e Pietro da Roma a Selingenstadt (827-8), Batilde all’interno del monastero di Chelles (833), Alessandro e Giustino da Roma a Frisinga (834), Castore da Carden a Coblenza (836). Cinque traslazioni che vedono coinvolta direttamente la corte e che si svolgono nell’arco di un decennio, cinque traslazioni che sembrano disporsi quasi simmetricamente attorno agli anni delle ribellioni dei figli di Ludovico (830 e 833): due precedono le ribellioni e due le seguono, una si pone esattamente al centro di esse, al culmine della crisi25.   Per la figura e l’opera di Giona d’Orlèans, cfr. Savigni 1989.   Hermann-Mascard 1975; Caroli 2001. 23   Geary 1983: l’umiliazione delle reliquie è una modalità di relazione speculare a quella della elevazione delle stesse. 24   Caroli 2007b. 25   Non sono le uniche traslazioni avvenute in questi anni, né le uniche significative, ma quelle identificate come esemplificative nell’ambito di questo lavoro. 21 22

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È quest’ultima a darci una possibile chiave di lettura (non l’unica possibile) che possa giustificare la diversa attenzione a questa gestualità. Batilde è l’unica donna del gruppo, e anche l’unica apparente eccezione alla sedentarietà delle reliquie nel corso della crisi degli anni 830-83326, una crisi legata in maniera indissolubile ai problemi di successione causati dalla nascita di un quarto erede maschio, Carlo il Calvo, dopo che, con la Ordinatio imperii dell’817, Ludovico aveva suddiviso il regno tra i primi tre figli27. E non è secondario che questa eccezione significativa sia costituita dalle reliquie di una regina merovingia, moglie di Clodoveo, fondatrice e badessa dell’abbazia di Chelles28. Un resoconto dettagliato di questa traslazione ci è conservato dalla anonima Translatio Balthechildis29, che ritengo di poter datare alla tarda primavera dell’83330. Secondo questo testo, alla fine del gennaio 833, l’imperatore Ludovico si sarebbe trovato all’abbazia di Chelles e avrebbe mostrato interesse per la custodia della memoria dell’antica regina merovingia31. Lo stesso imperatore avrebbe chiesto e ordinato alla badessa di procedere a una traslazione delle reliquie della santa, una operazione svolta in tempi rapidissimi: l’elevatio è datata dalla fonte al 26 febbraio, mentre la repositio nella nuova sede a metà del mese di marzo. L’iniziativa di questa operazione è ascritta, dall’estensore del testo (che dimostra una buona conoscenza di Chelles e della corte), interamente a Ludovico. L’altro protagonista indiscusso di questa vicenda è Edvige (Hegilvich): badessa di Chelles e madre dell’imperatrice Giuditta, seconda moglie di Ludovico, definita in questa fonte Iudith augusta32. Agli inizi dell’833 Edvige era badessa da otto anni:   Si è discusso altrove (Caroli 2006b) della traslazione delle reliquie dell’apostolo Marco da Venezia a Reichenau nell’830 che mi sembrano porsi in una sfera di azione diversa da quella qui analizzata per ambiti territoriali e protagonisti. 27   Depreux, Esders 2018, pp. 9-12. 28   Su Batilde cfr. Nelson 1978, pp. 46-52, 60-72, 76-77; Papa 1989; Folz 1992, pp. 32-43; Schroeder 1998; Thiellet 2004; e anche Caroli 2016 per indicazioni bibliografiche. 29  La Translatio delle reliquie della regina Batilde è stata edita dal Gamans per gli Acta Sanctorum nel 1643, da J. Mabillon Acta sanctorum ordinis sancti Benedicti nel 1677 e, per excerpta, dallo HolderEgger per gli MGH nel 1887. È disponibile anche una traduzione commentata a cura di G. DuchetSuchaux e J.-P. Laporte nella quale, a partire da una rilettura del manoscritto Corbie 17, si propone una diversa suddivisione del testo, più simile a quella del Mabillon. Pur con tutte le attenzioni delle quali ho trattato in Caroli 2016, pp. 91-92, utilizzo qui le citazioni testuali dal testo più accessibile, quello proposto dai Monumenta Germaniae Historica. 30   Lo Holder-Egger (p. 747) propone come data post quem l’anno 856 ma ritengo di avere dimostrato come il testo sia stato composto prima dell’estate 833 (Caroli 2016). 31   Translatio Bathildis 2, p. 747. Cfr. Caroli 2016, p. 92. La necessità di un ordine da parte di Ludovico e di una ricerca da parte della badessa sembrano sottintendere come il testo non fosse immediatamente disponibile, ed è stato ipotizzato che in questa occasione sia stata letta la prima Vita. Cfr. Sanders 1982; Laporte 1988, pp. 151-55. 32   Translatio Bathildis 2, p. 747. Cfr. Ward 1990; Nelson 1990; Le Jan 2001; Koch 2005; Caroli 2016. Nel corso dell’estate 833 Giuditta verrà deposta: l’attribuzione ripetuta di questo titolo sembra invece sottolinearne la pienezza del ruolo. 26

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la sua nomina è quindi successiva alla nascita del nipote Carlo (823), e dunque al momento in cui il ruolo di Giuditta all’interno della corte è radicalmente trasformato dal suo essere madre di un erede maschio. Recandosi a Chelles33, Ludovico non visita una qualsiasi abbazia in possesso di un corpo santo. Ludovico si reca presso il corpo di una santa regina, conservato in una abbazia regale, governata dalla propria suocera, nel momento in cui la moglie Giuditta è considerata e descritta da Agobardo come causa di ogni male dell’impero34. L’imperatore sceglie, dunque, di affrontare direttamente la questione della legittimità del ruolo a corte di Giuditta, non mettendo in gioco solo il proprio ruolo, ma l’intera sequenza delle proprie scelte familiari e politiche. La madre di Giuditta ascolta ed esegue l’ordine dell’imperatore, cerca la Vita di Batilde e organizza in autonomia l’esumazione dei resti di Batilde. Il ruolo e l’autonomia della badessa nella gestione dell’evento sono descritti senza enfasi, ma sottolineano una autorità riconosciuta ma non scontata. Edvige viene descritta come colei che avendo pregato secondo le regole può procedere all’esumazione del corpo, che tocca le reliquie e che poi, durante l’esposizione del corpo, è in grado di rendicontare a Ludovico di due miracoli avvenuti presso il corpo santo35. Sarà però necessario attendere 17 giorni (un’eternità agli occhi dell’autore) e l’arrivo del vescovo Erchenrado di Parigi per la reposizione delle reliquie in un’altra chiesa dello stesso monastero36. Quindi sembra possibile ipotizzare come, nonostante abbia autorità per effettuare non poche operazioni nei confronti di queste reliquie, la badessa non abbia autorità per la repositio, per l’inumazione del corpo nella collocazione definitiva37. L’elemento peculiare che caratterizza questa fonte narrativa è il costante, ripetitivo, quasi fastidioso uso e riuso di termini che fanno riferimento a due campi semantici: l’uno è la fretta, l’urgenza, la corsa, la necessità di effettuare questa traslazione del più breve tempo possibile; l’altro è la gioia, l’esultanza, l’entusiasmo per la riuscita della traslazione e l’efficacia dimostrata dai miracoli. La notizia della riuscita dell’esumazione viene portata immediatamente alla corte dove ciascuno nel gioisce. «Exultat Caesar, iocundantur principes; laetantur omnes»38. Per rispondere ade33   A fronte del silenzio dell’annalistica, abbiamo testimonianza documentale della presenza a Chelles di Ludovico agli inizi dell’833. Böhmer 1908, II, pp. 362-363. 34   Agobardo di Lione, Libri duo pro filiis et contra Iudith uxorem Hludowicii Pii. Cfr. sulla figura di Giuditta: Ward 1990; Koch 2005; De Jong 2009. 35   Translatio Bathildis 3-4, p. 748. 36   Translatio Bathildis 8, p. 748. Per una riflessione sul ruolo dei vescovi in ambito carolingio, e in particolare durante il regno di Ludovico il Pio, si vedano i fondamentali lavori di Savigni 2014 e 2018. 37   Occorre notare come, in ogni operazione di traslazione, la distinzione tra due momenti sia costante: il primo, che sia apertura della sepoltura, scoperta, furto, può essere opera anche di laici o di donne, come in questo caso; il secondo, la reposizione, deve essere un gesto liturgico e pubblico, e come tale viene assai frequentemente, anche se non si può affermare una esclusività, legato alla figura del vescovo. Caroli 2007a, pp. 76-80 e Caroli 2016, pp. 101-103. 38   Translatio Bathildis 7, p. 748. Cfr. Caroli 2016, pp. 96-98.

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guatamente a una grazia così grande l’imperatore fa donazioni a Chelles, eleva la sua preghiera al Signore (non a Batilde: chi scrive mantiene costante la distinzione tra autore e mediatore del miracolo) e le sue preghiere sono «pro statu imperii eius ac pace, et coniugis ac filiorum eius sanitate»39. Ritengo che questo testo possa essere letto come una sorta di instant book, teso a rendere pubblica e conosciuta l’azione di Ludovico: la parte di questa azione che già aveva avuto successo, la traslazione e i miracoli, ma anche la motivazione e lo scopo di questa azione, sottolineati attraverso la preghiera di Ludovico per la pace dell’impero e la salvezza della moglie e dei figli. Il fallimento di queste preghiere e di questa speranza, la rivolta dei figli (gli altri) di Ludovico scoppiata nell’estate 833 e culminata con la pubblica penitenza di Ludovico nell’ottobre dello stesso anno40, può d’altra parte rendere ragione della mancanza di eco che questa traslazione ha avuto, un silenzio che la differenzia dalle traslazioni “imperiali” che l’hanno preceduta e alle quali possiamo riconoscere quantomeno una efficacia pubblicistica, se non politica. È evidente come, nell’imminenza della crisi, l’imperatore giochi – anche – la carta della traslazione reliquiale. Una carta che non vincerà perché la mediazione di Batilde non si dimostrerà sufficiente, ma il fallimento politico non fa perdere significato a questa messa in scena corale. La fretta e la gioia sottolineano come questa traslazione reliquiale sia stata messa in campo come uno degli strumenti di legittimazione che possono essere utilizzati in tempo di crisi. E questo rende necessaria una verifica relativamente ad un eventuale uso analogo in altre occasioni, questa verifica è ancora in corso e se ne anticipano qui alcune suggestioni, partendo dagli eventi successivi la crisi, per dare poi una lettura delle scelte che l’hanno preceduta. Il ricorso all’autorità sovrana è un elemento che si ritrova anche nel primo racconto di traslazione successivo alla riconquista del trono da parte di Ludovico il Pio: la Translatio Alexandri et Iustini sottolinea come i messi siano portatori di lettere del sovrano41. Questo sovrano però è identificato dal Waitz, ritengo correttamente, con Ludovico il Germanico, sovrano delle regioni orientali dell’impero per le quali si chiede un supplemento di legittimità e sacralità. Al pontefice romano si chiedono infatti le reliquie di un papa, che si sottolinea essere il quinto dopo Pietro42. L’ano  Translatio Bathildis 7, p. 748. Cfr. Caroli 2016, p. 93.  Cfr. De Jong 2009; Booker 2009. La mancanza nel testo batildiano di ogni riferimento allo scoppio e all’esito del conflitto, come poi al ruolo poi assunto da Carlo il Calvo, è uno degli elementi che supportano la proposta di datazione alta di questa fonte (Caroli 2016). 41   Translatio Alexandri et Iustini, p. 286. Il tema delle lettere del sovrano si ripresenta con grande evidenza in un testo più tardo, composto anch’esso nelle aree orientali dell’impero e dedicato alle reliquie di un altro Alessandro: nella Translatio Alexandri di Rodolfo e Meginardo di Fulda troviamo inserite per esteso tre lettere scritte da Lotario al figlio Ludovico, a tutta la corte in Italia e a papa Leone IV (Rodolfo e Meginardo di Fulda, Translatio Alexandri, pp. 677-678, per Rodolfo di Fulda cfr. Caroli 2006a). 42   Translatio Alexandri et Iustini, p. 287: Papa Alessandro I muore nell’anno 105, e l’interesse della fonte è a sottolineare la vicinanza agli apostoli di questa specifica reliquia, ma nondimeno questo 39 40

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nimo autore sottolinea la resistenza romana alla spoliazione delle reliquie («dicens non debere Romam martyribus usquequaeque destitui») e contestualmente anche il repentino e miracoloso mutare della posizione papale dopo pochissimi giorni dalla richiesta. L’attenzione alle caratteristiche della reliquia richiesta (identificata a priori, romana, autorevole, ottenuta con l’assenso dell’autorità preposta) sembra qui particolarmente significativa per contrasto. Infatti, questo testo non pone l’accento su ciò che costituisce invece il fulcro nelle fonti appartenenti al genere delle Translationes: la destinazione, la reposizione della reliquia. Qui le modalità dell’acquisizione della reliquia e la sua efficacia (si riportano i nomi e le vicende di alcuni miracolati) fanno passare in secondo piano la destinazione della reliquia, e il narratore non fa riferimento alcuno all’arrivo della reliquia a Frisinga43. Interessante è anche notare l’inserimento (quasi una insinuatio) di un breve racconto di traslazione all’interno di un testo non agiografico, i Gesta di Ludovico il Pio composti da Tegano di Treviri. I Gesta presentano alcune caratteristiche inusuali per una biografia: la narrazione si conclude prima della morte dell’imperatore (nell’anno 836), ma dopo aver affermato che questi ha riacquistato la pienezza della dignità imperiale. Il testo è favorevole a Ludovico e schierato contro i suoi avversari, e, pur con l’aggiunta di questa breve continuatio, non arriva oltre l’anno 837, cosa che fa ipotizzare una data di interpolazione piuttosto alta44. La traslazione narrata è quella di Castore a Coblenza nell’anno 836, e in questo caso l’iniziativa della traslazione non viene ascritta all’autorità imperiale (che è comunque sempre un tramite) ma ad un ordine divino («divino iussu istinctu») che impone anche il luogo della collocazione delle reliquie, un nuovo monastero da costruirsi ad opera del vescovo Ettone («sicut ei in visu praeceperat sanctus Maternus, qui erat tercius Treverensis archiepiscopus»)45. La presenza dell’imperatore è attestata nei giorni successivi, quando Ludovico con moglie e figli rende onore al santo: questo elemento sembra proporsi come un legame a doppio filo che garantisce un supplemento di autenticità e legittimità sia alla traslazione (inserita nella Vita imperiale), che all’imperatore (al cui regno rinnovato un altro santo dà la propria approvazione)46. È alla luce di questi – apparentemente piccoli – tasselli di legittimazione sacrale, e non a una più generica tendenza letteraria, che credo si debba leggere la scelta operata dato può servire a ricostruire la consapevolezza franca della successione apostolica. Cfr. Scorza Barcellona 2000. 43   Caroli 2000, 2007 e 2016: il luogo di destinazione è il perno attorno al quale ruota tutta l’operazione di narrazione dell’evento traslazione. In Caroli 2007a, riprendendo e ampliando Geary 1978, si evidenzia come anche l’acquisizione furtiva possa essere uno strumento funzionale alla legalizzazione sacrale del possesso della reliquia e come possa garantire la possibilità di una narrazione dell’arrivo delle reliquie in assenza di una narrazione della partenza delle stesse. In questo testo, invece, il riferimento all’arrivo a Frisinga è solamente nel titolo (il testo è conservato in un unico codice, il Monacense Lat. 13101). 44   Cfr. introduzione di E. Tremp a Tegano, Vita Hludowici imperatoris, pp. 23-24. 45  Tegano, Vita Hludowici imperatoris. Continuatio anonyma, p. 256. 46   Ibid.

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da Ludovico e dalla sua corte, negli anni 826-828, di effettuare due traslazioni di reliquie romane e di promuovere la diffusione delle notizie ad esse relative. Le traslazioni operate da Ilduino di Saint-Denis (Sebastiano)47 e da Eginardo (Marcellino e Pietro)48 avranno, entrambe, un resoconto letterario accurato e dettagliato, ma saranno anche citate in tutta l’annalistica e cronachistica contemporanea (oltre 30 citazioni per la prima e 20 per la seconda), in alcuni casi con la stessa rilevanza riservata all’incoronazione imperiale49. La singolare numerosità di queste notizie difficilmente può essere letta come una casualità, così come non appare casuale la scelta di reliquie romane, in particolare significativa per Sebastiano, il magister milutum della città di Roma, un difensore capace di proteggere il regno franco anche militarmente. Come si è già osservato, la problematica della revisione della Ordinatio imperii dell’817, così evidente nell’episodio batildiano, si acuisce quando iniziano le manovre per una revisione delle scelte ereditarie di Ludovico, ma è presente a tutta la corte dal momento in cui si comprende che Carlo il Calvo (823-877) sopravviverà alla primissima infanzia. La necessità di uno scudo di difesa ulteriore, di una costruzione della autorità di Ludovico fondata su tutti gli strumenti disponibili, è già evidente a Ilduino nell’826. E non può essere sottovalutata, in quest’ottica, la presenza di due successivi obiettivi nella traslazione: la spedizione parte con l’obiettivo di ottenere le reliquie di papa Silvestro, il papa del Constitutum Constantini, il falso ormai, a questo livello cronologico, composto e diffuso, ma a seguito di una visione rientra presso la corte e chiede l’autorizzazione imperiale a recarsi a Roma con la richiesta di altre reliquie, quelle di Sebastiano50. A una protezione di stampo giuridico se ne sostituisce una di stampo militare. Entrambi questi testi, in maniera diversa, sottolineano la stretta relazione tra l’imperatore e l’evento narrato. Nel caso delle reliquie di Sebastiano si evidenzia la   Translatio Sebastiani et Gregorii. Anche questa fonte, come la Translatio Bathildis, è stata edita integralmente da J. Chifflet per gli Acta Sanctorum nel 1643, e, solo per excerpta, dallo Holder-Egger per gli MGH nel 1887. Il testo è datato all’inizio del X secolo e attribuito al monaco Odilone, sembra però essere costruito attorno a un nucleo composto da Rodoino, uno dei protagonisti della missione a Roma, in un momento di poco successivo agli eventi, cfr. Lifshitz 1995; Caroli 2001, p. 161. Per la comprensione di questa fonte non è possibile il riferimento alla edizione Holder-Egger, in quanto le scelte effettuate, condizionate dalle sue scelte positivistiche, hanno eliminato parti significative del testo. Si utilizza dunque il testo pubblicato negli Acta Sanctorum. 48  Eginardo, Translatio et miracula sanctorum Marcellini et Petri. L’edizione di riferimento è ancora quella di G. Waitz per i Monumenta Germaniae Historica nel 1887: l’editore in questo caso pubblica il testo integralmente, comprensivo di miracoli e visioni, giustificandolo come un tributo alla capacità letteraria di Eginardo (p. 237). È disponibile anche una traduzione italiana, con commento e introduzione, a cura di F. Stella. Cfr. Heinzelmann 1997. 49  Cfr. Caroli 2001, pp. 81-85. Per quanto riguarda le fonti annalistiche e i problemi legati alle loro edizioni e alla possibilità di interpretare i dati presenti in queste fonti cfr. Caroli 2006b. 50   Translatio Sebastiani et Gregorii, ed. Chifflet, p. 644. Durante una sosta a Lione, Sebastiano appare in visione a un paralitico, si presenta («Ego sum Sebastianus») e pretende che le proprie reliquie vengano richieste al pontefice romano. La resistenza del pontefice e della curia pontificia vengono poi superate anche grazie a un nuovo intervento del santo. 47

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necessità di un ricorso all’imperatore per ottenere le giuste credenziali per la richiesta delle reliquie. Il testo einardiano rileva (anticipando quello batildiano) la costante e necessaria relazione tra la corte e le reliquie: se la traslazione ha origine da un incontro avvenuto a corte tra Eginardo e Deusdona, il dipanarsi della vicenda vede Eginardo in un continuo spostamento tra la corte e i luoghi in cui i santi vengono traslati51. L’intervento, in forma di visioni e di interventi soprannaturali, dei santi per affermare la propria volontà è riportato in più occasioni, come anche la fatica di Eginardo ad accettarlo, pur con l’intento di discernere la corretta azione da compiere52, perché l’obiettivo è chiaro, ed è quello di riconoscere la reale volontà di Marcellino e Pietro per ottenere il meritum di questa traslazione con i benefici che ne conseguono. Al tempo stesso appare, da questa stretta relazione con la corte e dalla eco di questo evento apparentemente locale, come questo non sia un obiettivo del solo Eginardo, ma come in qualche modo sia coinvolto l’intero gruppo dirigente. Eginardo scrive tra l’830 e l’831, e afferma di scrivere a proposito dei demoni che infestano l’impero: ma sono demoni sui quali proprio i santi possono ottenere vittoria53. Il testo einardiano si propone dunque con caratteristiche simili a quello batildiano, rispetto al quale sono evidenti parallelismi soprattutto in termini di affermazione di una potenzialità attiva dei santi nella vita politica contemporanea, e proprio la traslazione batildiana, con il suo lessico e il suo fallimento, credo ci offra la possibilità di guardare con sguardo rinnovato le aspettative legate a quelle che la precedono. Le traslazioni precedono, accompagnano e seguono le ribellioni dei figli di Ludovico. E numerose caratteristiche accomunano queste narrazioni: la vita della corte, le visioni che dichiarano la volontà dei santi sulle loro reliquie chiedendo spostamenti o indicando destinazioni, la struttura giuridica che accompagna questi eventi, la fretta e la speranza che ad essi si accompagna. Tutti questi elementi sembrano strutturarsi in una politica che trova un soggetto attivo in Ludovico, un imperatore che opera per sostenere e salvare il proprio impero anche attraverso modalità che percorrono coscientemente la via di un rafforzamento della protezione del proprio impero e della propria politica da parte di influenti personaggi della corte celeste. Con Batilde, nel breve periodo, questi strumenti sembrano fallimentari, ma dopo la rivolta dell’833 Ludovico riacquisterà la dignità imperiale e la conserverà fino alla morte. Forse con l’aiuto del suo manipolo di protettori celesti, sicuramente continuando a scommettere su questa opportunità.  Eginardo, Translatio et miracula sanctorum Marcellini et Petri, passim. Marcellino e Pietro, nel racconto di Eginardo, esprimono più volte – con visioni e interventi soprannaturali – la loro volontà di essere traslati a Selingenstadt e non a Michelstadt, dove Eginardo aveva già fatto costruire una chiesa per accoglierne le reliquie. 52  Eginardo, Translatio et miracula sanctorum Marcellini et Petri, 9 e 11, pp. 243-244. Le visioni sono accompagnate da minacce: «si non velit, ut huius facti meritum ad alium transeat, festinet eorum adimplere iussionem et ad locum quem ipsi elegerunt corpora illorum deportare non neglegat». 53   Heinzelmann 1997; Stella 2009. 51

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A WAR OF LANGUAGES? GREEK AND LATIN IN THE CONFRONTATION BETWEEN POPE NICHOLAS AND PATRIARCH PHOTIUS

Evangelos Chrysos

In AD 865 Emperor Michael III sent a letter to Pope Nicholas, with which he put an end to the soothing and submissive attitude of Constantinople that was initially applied towards the Pope’s refusal to recognize as canonical the election of Patriarch Photius, demonstrating in this form his claim to be the ultimate judge of all ecclesiastical affairs in East and West1. Unfortunately the emperor’s letter is not preserved2 and many attempts have been made to detect its content hypothetically by analyzing the extensive response of Pope Nicholas. The letter of response highlights and documents in a comprehensive way, as never before, the papal position in the ongoing rivalry and confrontation between Rome and New Rome3. In this response we observe the pope’s determined attitude, including insulting expressions against the East, and also with the frequent application of the difference between “we” and “you”, nos and noster versus vos and vester4. Apparently in his letter to Nicholas Michael had used some negative or insulting expressions which annoyed the pope, and therefore he remarks that the imperial letter was tota blasphemia, tota erat iniuriis   This letter was preceded by several inimical steps culminating in the official condemnation of Photius («omni sacerdotali honore et nomine alienus et omni clericatus officio prorsus exutus») and Ignatius’ restoration by Nicholas at a synod of Italy’s bishops in Rome in August 863. Apparently these decisions brought an end to the options for a conciliatory attempt to bring the dissent to an end. Cfr. Hergenröther 1867, p. 520 ss. and Dvornik 2000, p. 97 ss. 2   Dölger, Müller 2009, Reg. 464. 3   See the critical edition of the pope’s letter in Nicolai I. papae epistolae, 88 ed. E. Perels, in MGH Epistolae, VI, Epistolae Karolini aevi IV, Berlin 1925, pp. 454-487. Cfr. Böhmer 2012, Reg. 510; the letter of Nicholas, Reg. 525. [http://www.regesta imperii.de/fileadmin/user_upload/downloads/ RI_I_4_2_2.pdf ]. 4   Herbers 1993, p. 58 ss. 1

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plena5 and hence he felt obliged to refute them in extenso. Some of the expressions used by Michael, as reproduced by Nicholas, are revealing for the topic of this paper, and therefore we will briefly discuss them. The expression that seems to have particularly annoyed the pope, with the result that he insists on rebuffing it six times (!) is that the Latin language is “barbaric and Scythian”. Here are the six short extracts in free translation: 1.  «You have broken out into to such a fury that you are attacking the Latin language in your letter, calling it barbaric and Scythian, thus insulting the One who created it …»6. 2.  «We are sorry that your Excellency is not jeopardized by the fact that they are Christians, whose language you call barbaric and Scythian. Because the barbarians and the Scythians live like mindless animals, they ignore the true God and worship woods and stones7. 3.  «But if you call the Latin language barbaric because you do not understand it, think how ridiculous you are to call yourselves Roman emperors without knowing the Roman language»8. 4.  «Finally, if you call barbaric that language because it creates barbarisms when it is rendered by translators into Greek, the mistake, in our opinion, is not due to the Latin language, but to the translators who did not render sense-for-sense as they should, but impetuously word-for word»9. 5.  «Well, at the beginning of your letter, you call yourself a Roman Emperor, but you are not afraid to call the Roman language barbaric»10. 6.  «Stop calling yourself imperator Romanorum, because in your opinion barbarians are those whose emperor you claim to be. Indeed, this language is used by the Romans, which you call barbaric and Scythian»11.   Nicolai I. papae epistolae, 88, cit., p. 454, 33: tota blasphemia, tota erat iniuriis plena.   «In tantam vero furoris habundantiam prorupistis, ut linguae Latinae iniuriam irrogaretis, hanc in epistola vestra barbaram et Scythicam appellantes ad iniuriam eius, qui fecit eam» (ibid. p. 459, 5-8). 7   «Vel quia Christiani sunt, quorum linguam barbaram vel Scythicam appellatis, gloriam vestram quare non pudeat, obstupescimus. Cum enim barbari omnes et Scythae ut insensata animalia vivant, Deum verum nesciant, ligna autem et lapides adorent» (ibid. l. 14-19). 8   «Iam vero, si ideo linguam Latinam barbaram dicitis, quoniam illam non intelligitis, vos considerate, quia ridiculum est vos appellare Romanorum imperatores et tamen linguam non nosse Romanam» (ibid. l. 19-21). 9   «Ad extremum autem, si iam saepe nominatam linguam ideo barbaram nuncupatis, quoniam a translatoribus in Graecam dictionem mutata barbarismos generat, non linguae Latinae, sed culpa est, ut opinamur, interpretum, qui quando necesse est non sensum e sensu, sed violenter verbum edere conantur e verbo» (ibid. l. 21-25). 10   «Ecce enim in principio epistolae vestrae imperatorem vos nuncupastis Romanorum et tamen Romanam linguam barbaram appellare non veremini» (ibid. l. 25-26). 11   «Quiescite igitur vos nuncupare Romanorum imperatores, quoniam secundum vestram sententiam barbari sunt, quorum vos imperatores esse asseritis. Romani quippe hac lingua, quam barbaram vos et Scythicam vocatis, utuntur» (ibid. l. 30-32). For the use of utuntur as indicating that the Romans’s 5

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It would go beyond the scope of this paper to examine the validity of these arguments from a linguistic point of view. We can only assert that they are too technical to be part of a papal letter and they should be understood as belonging to the specific interests of Anastasius Bibliothecarius, the pope’s ghostwriter, the man who wrote or drafted the letter12, whose concern and expertise in questions of the theory and practice of translation is documented in several of his writings. It is therefore worth noting that Pope Nicholas left such large room to his secretary to include his own particular interest in a papal letter of immense importance. For the concerns of this investigation it is more interesting to uncover the author’s intentions within the ecclesiastical confrontation between Rome and Constantinople. The intense commentary on what the emperor had written concerning the Latin language with a set of arguments from several angles demonstrates that the issue was of central importance to the pope (certainly for his secretary!) and that he had a keen interest to elaborate on it. As we shall see further down, he may have discovered a point that he could develop for his own ends. From the quotations presented above, it is obvious that Nicholas had taken Michael’s comment personally because he dissented to the Latin language negatively with the intent of insulting it as a barbaric and Scythian language13. As we shall see, the comment touched upon a sensitive issue, manifesting the language as an essential factor of alienation between the two worlds. This calls for some historical reflection. We must start with the observation that however the emperor expressed himself and however insulting the expression really was, it was perceived as a rude attack on the Latin language. The superiority that the Greeks often felt and expressed about their language and culture compared to any other language, including Latin, and their attitude, when expressing it with disparaging comments, is more or less well documented, mainly by the notorious characterization of other languages as barbaric14. This arrogant attitude provoked naturally negative reactions especially in circles of high erudition in the West. But is this attitude really reflected in Michael’s letter? We must try to investigate as thoroughly as possible what constituted the emperor’s invective. Given the fact that until the sixth century Latin was the official language of the Roman Empire, both in the West and the East, and that besides the decline of language in 865 was still Latin see Banniard 1992, p. 565: «Le verte uti est à l’indicative présent: à Rome, on parle latin en 865, comme nous sommes déjà fort avanés dans le IXe siècle, ce testimonium indique (…) que le latin reste toujours la langue commune des Romains». 12  See Neil 2006, p. 17: «Michael’s description of Latin as a “barbarian” language was guaranteed to infuriate the pope, by challenging old Rome’s right to define barbarians as those speaking any language other than Latin. Michael’s use of the term recalls its Greek origins (barbaroi), and so challenges one of the very foundations on which Rome’s notion of its own superiority had long rested. The adjective “Scythian” is probably used in its classical sense of the stereotypical barbarian beyond the borders of empire, ironically much closer geographically to the new Rome than to its old rival». 13   Borst 1958, pp. 532-533. Cfr. Herbers 1993, p. 62. 14   Lechner 1955, pp. 292-306.

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its use later, it remained a respected language in the East too, applied partially at the imperial Court at ceremonial events and in the army’s technical terminology15, and as remnants in Byzantine legislation16, and this after Greek had become the official language of the court, a process initiated by the application of the imperial titles in Greek at the time of emperor Heraclius17. We may also wonder whether the characterization “barbaric and Scythian” is a syntactical construction of ἓν διὰ δυοῖν, a “two-dimensional” scheme, where the two components are used metaphorically to underline the low quality of the Latin language with the first word, “barbaric”, expressing its poor quality, and the second, “Scythian”, containing elements deriving from outside the circle of the civilized world. Steven Runciman voiced the suggestion that “it may be that Michael accused the Latin of the Papal Chancery as being barbarous and Scythian. That is to say, full of Teutonism”18. This means that the emperor’s reference to the language as “Scythian” reflected merely the linguistic reality of that time in the papal secretariat, where German elements were incorporated in the Latin language19. During the ninth century, the development of both Romance and German-Teutonic variants of Latin had in fact progressed to the effect that both, the Romance local tongues of the inhabitants of Italy, Spain, part of France as well as the German language (the lingua theodisca) in their variants were enriched with Latin elements that had entered the local dialects mainly through the sermons preached at the Divine Liturgy, which from the beginning of the ninth century was allowed to be held in the vernacular languages20.   Zilliacus 1935. Cfr. Kolias 1990, pp. 39-44; Πολεμική 1989.   Troianos 2000; Dmitriev 2018. 17   Dölger, Müller 2003, Reg. 199, pp. 168-169; Rösch 2003, p. 186. 18   Runciman 1953, pp. 596-602. 19   Indicative of how far “vulgar” Latin influenced the spoken language at the papal court is an episode reported to have happened hundred and fifty years earlier. When the missionary Wynfreth, known as Boniface, went to Rome to meet pope Gregory II in 722, after hearing the Pope’s oral Latin he decided to put his credo in writing in order to avoid dangerous variations due to the wording as he realized a discrepancy between the Latin spoken in Rome and the purer Latin taught and spoken in England: Boniface’s contemporary Willibald reports in his Vita Bonifatii that the saint said to the pope that «as a foreigner, I knew that I am not an expert in using your spoken language […] so give me the time and opportunity to expound my faith in a well-reasoned manner, in silent written form» («iam peregrinus, vestrae familiaritatis sermone, sed queso, ut otium mihi, tempus conscribendae fidei concedes, et muta tantum littera meam rationalibiliter fidem adaperiat», Vitae sancti Bonifatii archiepiscopi Moguntini, ed. W. Levison, MGH Script. rer. Germ., 57, 1905, pp. 1-58, on p. 28, 14-18. Cfr. Roger 2003, pp. 95-109. 20   At several synods that Charles the Great summoned in the spring of 813 at different regions of his empire, super statu ecclesiarum corrigendo, it was decided that the sermons during the Liturgy should be held in the vernacular language in order to be understood by the parishioners: see synod at Mainz, can. 25 (MGH, Concilia, 2, 1 p. 268, 3-4); synod at Reims, can. 15 (MGH, Concilia, 2, 1, p. 255, 17-18). In canon 17 of the third synod, at Tours, the vernacular language is specified «In rusticam Romanam linguam aut Thiodiscam» (MGH, Concilia, 2, 1 p. 288, 28-30). This stipulation 15 16

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Thus, in Italy, the local dialects, emerging from vulgar Latin, were used in parallel with classical Latin, which was handled by the educated, namely the clergy, in their written discourse21. With the prevalence of the Franks in Western Europe, the written language of official texts was developed, if not discovered, in schools under Frankish rule, the foundation of which, systematically funded by Charles the Great, with Alcuin as the main inspirer and organizer, was to consolidate a bilingualism in which the spoken language, the official Latin, covered a small percentage of the space in communication with correspondingly larger or smaller additions of popular elements expressing the lively language of the people and therefore evolving. It is not easy to understand Michael’s critical comment on the Latin language, because we only know about it from the pope’s multifaceted response under the fatal influence of his “éminence grise de la politique romaine”22, Anastasius Bibliothecarius. From the above-mentioned six quotations the most revealing is the second excerpt: «We assume that your excellency is not jeopardized by the fact that they are Christians, whose language you call barbaric and Scythian. Because the barbarwas verbatim repeated at the synod of Mainz in 847, can. 2 «Et ut easdem omelias quisque aperte transferre studeat in rusticam Romanam linguam aut Teotiscam, quo facilius cuncti possint intellegere, quae dicuntur» (MGH, Concilia, 3, p. 164, 14-16). For the historical context of these synods see Hartmann 1989, p. 128-140 (without reference to the stipulation concerning the sermons), which was later considered to be the official recognition of the local languages in the West. For the Divine Liturgy, on the contrary, only pure Latin (or Greek) was allowed. In order to define this matter more clearly Pope John VIII wrote a letter to the missionary of Moravia Methodios, archbishop of Pannonia «Audimus etiam, quod missas cantes in barbara, hoc est in Sclavina lingua, unde iam litteris nostris per Paulum episcopum Anconitanum tibi directis prohibuimus, ne in ea lingua sacra missarum sollempnia celebrares, sed vel in Latina vel in Greca lingua, sicut ecclesia Dei toto terrarium orbe diffusa et in omnibus gentibus dilatata cantat». This decision was transmitted to Moravia in 873 but was recorded only in a letter of the year 879 (MGH Epistolae, V, p. 161, 13-17). The use of the local languages was a crucial issue in which the missionaries Cyril and Methodius had disagreed with Rome, and insisted in transferring and imposing the Byzantine view on the subject: They had created and introduced the Slavic language and regarded it as a language permissible for the Liturgy. The position of the East was formulated later in a classical manner by Theodore of Balsamon as follows «Οἱ οὖν ὀρθοδοξοῦντες ἐν πᾶσι, κἂν ὦσι τῆς Ἑλληνίδος φωνῆς πάμπαν ἀμέτοχοι, μετὰ τῆς ἰδίας διαλέκτου ἱερουργήσουσιν» (PG 138, col. 957B). Cfr. further Ridder, Wolf 2000, p. 414ss. On the expression “transferre in romanam linguam rusticam” see Banniard 1995, p. 700. See infra, n. 24. 21   On the efficiency of the papal chancery in using Latin see Noble 1990, pp. 82-108. 22   Larchet 1998, p. 140 n. 67. Anastasius’ attitude to the Greek language is uncovered in the letter he wrote to Formosus of Porto in 868 as a preface to his own translation of the Life of John the Calibite. As remarked in Neil 2006, p. 46ss. Since Anastasius thought that John was a Roman and that his language was Latin, he wrote to Formosus «[you were] perhaps deservedly offended by the fact that Romans do not have an example of the righteous Roman (sc. John) and that one whom a foreign language preaches is completely unknown in his own tongue». In the process of alienation between East and West Greek is assessed by Anastasius a lingua peregrina (MGH Epistolae, VII, Anastasii ep. 4, p. 402, 13). Cfr. Wickham 1998, pp. 247-256, at p. 253: «The only people who really seem to have hated the Greeks were the Romans, at least in the period of Rome-Constantinople tension starting the 860s».

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ians and the Scythians live like mindless animals, they ignore the true god and worship wood and stones». It is obvious that the Byzantine comment, however it was phrased, was coined in a metaphorical sense. On the other hand, the commentary in Nicholas’ letter with the comparison to mindless animals takes the description of “barbaric and Scythian” literarily. Thus, the Latin-speaking Christians of the West are presented as being compared to, or even identified by Michael with the outside civilized world, living like mindless animals, and in addition as idolatrous23. This is an exaggeration in the polemical argumentation of the papal letter in contradiction to the fact that at that time the Byzantine missionaries Cyril and Methodios were involved in the development of the old Slavonic language and the translation of the liturgical texts, while the Roman attitude concerning the language in the Liturgy for the Christians in Moravia was to prohibit the use of the Slavonic language which Rome stilled called barbara, hoc est Sclavina lingua!24 It is therefore unlikely, in my opinion, that such a deeply offensive comment concerning the Latin language slipped into an official imperial document of high level sensitivity that could serve no other purpose than to offend the addressee25. 23   The phrase deos ligneos et lapideos colebant is familiar to Nicholas (and Anastasius) who used it two more times in the same letter! The first is an attribution to the pagan emperors’ religious behavior who worship “woods and stones” and the second to the pagan priests’ attitude who serve “woods and stones”: «Ante eum (sc. Constantinum) quippe pagani in respublica principes fuerunt, qui verum Deum nescientes deon ligneos et lapideos colebant et tame eorum sacerdotibus honorem maximum tribuebant. Quid igitur mirum, si christianus imperator very Dei sacerdotes honoret, dum pagani, ut praediximus, pincipes honorem impendere sacerdotibis noverunt, qui diis ligneis et lapideis serviebant» (Nicolai I. papae epistolae, 88, cit., p. 456, 5-9). However in order to understand this passage it is necessary to note that it is a verbatim quotation from a letter of Pope Gregory the Great to Emperor Maurice dated in June 595 (Gregorii Magni Registrum epistolarum, Liber V, Ind.: XIII, Epist.: 5, 36, MGH, Epistolae I, Greg. I, p. 318, 27-30). Furthermore it is worth mentioning that Anastasius Bibliothecarius, beside his appreciation for his achievement, did not hesitate to label John Scottus Eriugena a vir barbarus as an indication of his ethnically non-Roman origin from Ireland. «It is a wonder that a man so barbarian (ille vir barbarus) at the end of the world, as far removed from human converse as one could believe he was from the speaking of another language, was able to grasp such things by his intellect and to translate them into another language» (MGH Epistolae, VII, ep. 13, p. 431, 18-20). The translation is cited from Neil 2006, p. 87 with the following further reaching comment: “His reaction conveys more than a hint of xenophobia, and we may note that Nicholas had to defend the Romans against a similar charge of barbarity in his letter to Michael III. Anastasius criticised Eriugena’s work for being too literal and for conserving in Latin certain structures proper to Greek: «he did not presume to abandon the structure of word lest to detract in any way from the true meaning». 24   Iohannes VIII papae Registrum, ep. 201, ed. E. Caspar, Berlin 1928, MGH Epp. VII, p. 161. 25   The historiographical tradition, which dealt with Photius for centuries, was categorical in rendering the writing of the letter to the erudite patriarch. Cfr. Hergenröther 1867, p. 552: «ein kaiserliches, aber sicherlich von Photius redigiertes Schreiben». However Dvornik 2000, p. 105, disagreed: «It has been said that Michael’s reply had been written by Photius (with reference to Hergenröther), but there is nothing to prove it, nor does Nicholas seem to have thought so». Even more advanced is Beck 1980, p. 103, who expressively states: «Photius kommt als Stilist des Schreibens nicht in

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Moreover, as revealed by the fourth passage, it is obvious that the comment specifically referred to the letters of Nicholas that supposedly contained barbarisms, which the pope was eager to disregard as errors of the interpreters who had falsely applied the wrong method of translation. The following sentence reveals the author’s rationale: «If you call this language barbaric because it creates barbarisms when it is rendered by translators into Greek, the mistake, in our opinion, is not due to the Latin language but to the translators who did not work on the basis of sense-for-sense, as they ought to, but word- for-word»26. Throughout the Middle Ages reflections on barbarisms and solecisms, the identification of their nature and the mechanisms to avoid them have attracted the interest of specialists of Latin philology and rhetoric. The basic work of Aelius Donatus, the grammarian and teacher of fourth century rhetoric, De Barbarismo, was read and reproduced and obviously it was constantly used as a teaching manual27. In my opinion the reference to “barbarisms” in the Pope’s letter is of such a technical nature, that one should consider it as a concern for ghostwriters and translators. For this reason the question of identifying any linguistic imperfections leads me directly to the personal concerns of Anastasius Bibliothecarius, far beyond the spiritual and pastoral interests of a pope. On the other hand, the choice for a mode of translation between verbum e verbo and sensum e senso was indeed a real dilemma during the Middle Ages28. Particularly Anastasius Bibliothecarius, the close associate of the pope(s), who undoubtedly Frage». However, I cannot imagine that such an important document of great significance especially for Photius would be sent out without his knowledge and consent. In addition I should note that Photius was capable indeed to use not-diplomatic language, when he felt his case was threatened. In his encyclical to the Patriarchs of the East he described the Westerner missionaries in Bulgaria as follows: «ἄνδρες δυσσεβεῖς καὶ ἀποτρόπαιοι - καί τι γὰρ οὐκ ἄν τις εὐσεβῶν τούτους ἐξονομάσειεν; - ἄνδρες ἐκ σκότους ἀναδύντες - τῆς γὰρ ἑσπερίου μοίρας ὑπῆρχον γεννήματα» (Epistulae et amphilochia Photii Patriarchae Constantinopolitani, rec. B. Laourdas, L.G. Westerink, Leipzig 1983, vol.1, ep. 2, 5658). On Photius’ involvement similar is the opinion of Pheidas 1995, p. 109. 26   «Ad extremum autem, si iam saepe nominatam linguam ideo barbaram nuncupatis, quoniam a translatoribus in Graecam dictionem mutata barbarismos generat, non linguae Latinae, sed culpa est, ut opinamur, interpretum, qui quando necesse est non sensum e sensu, sed violenter verbum edere conantur e verbo» (MGH Epistolae, VI, p. 459, 21-25). Cfr. note 9. 27   «Barbarismus est una pars orationis vitiosa in communi sermone; in poemate metaplasmus, itemque in nostra loquella barbarismus, in peregrina barbarolexis dicitur» (Aelius Donatus, De Barbarismo). For the edition of Jim Marchand with English translation see: http://faculty.georgetown.edu/jod/ barbarism.html. Cfr. Murphy 1974, p. 32 ss. and his collected studies Murphy 2005. A copy of Donatus’ book was preserved in the library of the Abbey of Lorsch: Finch 1968. I thank Dr. Adelheid Wellhausen, editor in charge of Mittellateinisches Wörterbuch, in the Bavarian Academy of Sciences in Munich, for friendly offering me access to the dictionary in progress. 28   See the enlightening presentation of the subject by Chiesa 1987. See also Copeland 1991. It seems as though everything began when Hieronymus was forced to defend his method of translation with the categorical statement that «Ego enim non solum fateor, libera voce profiteor, me in interpretatione Graecorum, absque Scripturis sanctis, ubi et verborum ordo mysterium est, non

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controlled the Ars dictaminis29, more than anyone else in his times, faced the option of choosing between sensum e sensu or alternatively verbum e verbo during his long and rich career as translator from Greek to Latin. On every occasion he underlined the correctness of the sensum e sensu translation, despite the fact that in his own translations he was inclined to apply as more valid the mode of verbum e verbo30. It is hence of special interest to note that for his translation of the Acts of the Eighth Ecumenical Synod of 869-70 Anastasius was closer to a verbatim translation31. However, Anastasius himself, dedicating his translation of the Acts of the Seventh Ecumenical Council of 787 to Pope John VIII criticized the translations that had preceded his because, as he argued, they had applied a verbatim translation32, even though his own did not differ from them. The suspicion of Nicholas – and of Anastasius(!) – that papal documents were manipulated in Constantinople during their translation into Greek33 and his perverbum e verbo, sed sensum exprimere de sensu» (Hieronymus, Contra Joannem Hierosolytitanum Ad Pammachium Liber Unus, or Ep. 57, 5). See Bartelink 1980. See also Koltsiou-Niketa 2009. 29  On ars dictaminis see Murphy 1974, p. 194 ss. 30   Forrai 2008. Cfr. her article Forrai 2012, pp. 71-84. I thank Réka Forrai for her bibliographical support. 31   In the letter of dedication of his work to pope Hadrian II, which serves as preface in the edition of the Acts, he notes: «Interpretans hanc sanctam synodum verbum e verbo, quantum idioma Latina permisit, excerpsi; nonnunquam vero manente sensu constructionem Grecam in Latinam necessario commutavi» (Acta universalis octavae synodi quae Constantinopoli congregata est Anastasio Bibliothecario interprete, ed. C. Leonardi, A. Placanica, Firenze 2012, pp. 351-354). 32   «Non quod ante nos minime fuerit interpretata, sed quod interpres pene per singula relicto utriusque linguae idiomate adeo fuerit verbum e verbo secutus, ut, quid in eadem editione intelligatur, aut vix aut numquam possit adverti in fastidiumque versa legentium pene ab omnibus hac pro causa contemnatur» (Acta conciliorum oecumenicorum, Series Secunda, III, Concilium Universale Nicaenum Secundum, 1, ed. E. Lamberz, Berlin 2008, pp. 1, 8-12). Cfr. the editor’s comments in the preface, pp. XXXII-XXXVII and especially his article Lamberz 2002. I owe great deal to the erudition of Professor Erich Lamberz, an old friend and companion. 33   Apparently, the danger of deliberate corruption of texts was at that time a real one. It seems that in Pope Nicholas’ (or/and Anastasius’) mind the fear of falsification of his letters was dominating. Thus in his letter to Emperor Michael, dated 13 November 866, (MGH, Epistolae, VI, ep. 90, p. 492, 92ss.), Nicholas complained of falsifications in the Greek translation of his letter sent to the Emperor in 861 (MGH, Epistolae, VI, ep. 82, p. 433ss). However, the blame of forgery was traditionally applied as a weapon in Rome’s quiver against the East, because the thought was prevailing that their Byzantine counterparts were accustomed to, and enjoyed forging papal letters. Hence the expression falsata more Graecorum in the letter of Pope Nicholas I to Emperor Michael III, published by E. Perels, MGH Epistolae, VI, p. 457, 28. Anastasius Bibliothecarius did not hesitate in 871 to characterize Photius as a falsarius falsidicorum (MGH Epistolae, VII, p. 406, 26); cfr. Acta universalis octavae synodi, p. 12, l. 156. Erich Lamberz dates the changes in the letters of Pope Hadrian I to patriarch Tarasius in the critical years 861-871 and concludes that it was Photius’ initiative (Lamberz 2001, pp. 214 ss). The charge against the “Greeks” as being accustomed to falsifications went long back in history. An accusation of counterfeiting texts in the East had already being raised by Pope Gregory I in his letter of the year 594, when he denounced the East that «sicut Chalcedonensis synodus in uno loco ab ecclesia

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sistence on accuracy in translation led eventually to an unprecedented step. In the concluding sentence of the letter of 28 September 865 to the emperor Michael he stipulated that he would anathematize those who would not render it correctly34 Apparently, elementary confidence and trust were vanishing. This evidence leads me to wonder whether Pope Nicholas (or rather his notorious secretary) may have consciously misinterpreted Michael’s critical commentary on the Latin language and deliberately emphasized it so that it appeared as a general condemnation, in order to make use of it for his purposes. This hypothesis gains ground by the fact that in the third and the fourth quotation discussed above, the language in focus is not labelled Latin but Roman. Although it is true that occasionally in some sources reference is made to the lingua Romana, instead of the lingua Latina, these cases are quite rare. It seems to me that in this particular case the use of the adjective Romana instead of Latina, aims specifically at claiming Romanitas as the cultural and political asset of the West at the peak of the ideological cold war. The assumption behind this argument is that since the Byzantines despised the Roman language, they cannot safeguard Roman continuity35. If this explanation is correct, the view of late Steven Runciman that Nicholas simply misunderstood Michael36, does not suffice. I am inclined to think that the apparent misunderstanding was part of the calculation. Anastasius’ main concern was to present Nicholas’ demand, as it was pronounced in the sixth passage: “Stop calling yourself imperator Romanorum, because in your opinion barbarians are those whose emperor you claim to be. Indeed, this language is used by the Romans, which you call barbaric and Scythian”37. In order to reach this goal a logical leap was needed according to which errors in translation would lead necessarily to the conclusion that the language is barbaric, and consequently those who use it are barbarians. Some years later Anastasius repeated this argument in the letter he drafted for king Louis II addressed to Emperor Basil: «The Greeks for their cacodoxy, that is wrong thinking, have ceased to be Emperors of the Romans – not only have they deserted the city Constantinopolitana falsata est» (Gregorii Magni Registrum Epistularum, 6. 14, I, ed. D. Norberg, Brepols 1982, pp. 383, 32-33). I shall come back to this topic in my forthcoming paper on the role the Pseudo-Isidorian Decretals played as political instrument in the confrontation of Nicholas I with Photius. 34   «Quisquis autem hanc epistolam nostrum Contantinopoli legerit et Augustissimo filio nostro imperatori Michaheli quinquam ex his, quae in ea scripta sunt, occultaverit, si locum apud illum potst invenire sufficientem, anathema sit. Quisquis etiam interpretatus eam fuerit et ex ea quicquam mutaverit vel subtraxerit aut superaddiderit, praeter illud, quod idioma Graecae dictionis exigit vel interpretanti scientia intellegendi non tribuit, anathema sit» (MGH Epp. VI, pp. 487, 18-23). 35   As Réka Forrai phrases it: «If Roman equals Latin, very simply, a Greek could not be Roman, even if they called themselves Romans and Constantinople New Rome» (Forrai 2008, p. 33). 36   As in note 18. 37   «Quiescite igitur vos nuncupare Romanorum imperatores, quoniam secundum vestram sententiam barbari sunt, quorum vos imperatores esse asseritis. Romani quippe hac lingua, quam barbaram vos et scythicam vocatis, utuntur» (MGH Epistolae, VI, p. 459, 30-32).

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and the capital of the Empire, but they have also abandoned Roman nationality and even the language. They have migrated to another capital and taken up a completely different nationality and language»38. Two years later, in 867, the crisis reached its peak with an acute conflict of pious zeal, in particular because of the struggle concerning the mission in Bulgaria and the jurisdiction over this newly baptized land. Two rivaling groups of missionaries operated in situ and in their competition realized that they differed in certain aspects of ritus and even in elements of faith (filioque). The differences were magnified because of the current need to fight for the sake of the souls of the Bulgarians, with the consequence that Rome and Constantinople were taken to an open clash. A letter that Pope Nicholas wrote to Bulgaria’s ruler Boris-Michael with answers to his queries is revealing for Rome’s harsh attitude against the East39. Another letter of Nicholas, to Photius himself, was full of personal invectives. He called him a fratricide, a snake and a Jew40! The crash was apparently widening. Thereupon Photius decided to proceed to a major step escalating the conflict even further. He wrote to the eastern patriarchs inviting them to a council that he declared would be of ‘ecumenical’ validity in order to unanimously condemn the Western practices41. This help was given, although the conditions under which the Patriarchates of Alexandria, Antioch and Jerusalem lived under Arab rule practically could not allow them to offer more than a symbolic support. At the end Photius felt compelled to go further and take the desperate decision of declaring the deposition of Pope Nicholas42.  «Graeci propter kacodociam, id est malam opinionem, Romanorum imperatores existere cessaverunt, deserentes videlicet non solum urbem et sedes imperii, set Csed?) et gentem Romanam et ipsam quoque linguam penitus amittentes atque ad aliam urbem sedem gentem et linguam per omnia transmigrantes» (Ludovici II imperatoris Ep. ad Basilium I imperatorem Constantinopolitanum missa, ed. W. Henze, Berlin 1928, MGH Epp. VII, p. 390, 11-15). In Pullan 1971, copied by Neil 2006, p. 64, note 119, adds the word Latin in the phrase “abandoned Roman nationality and even the “Latin” language. I think that this addition is misleading for thus we miss the point of Romanness. 39  MGH Epistolae, VI, Berlin, 1925, pp. 568-600. Cfr. The Responses of Pope Nicholas I to the Questions of the Bulgars A.D. 866, translated by W. L. North: https://apps.carleton.edu/curricular/ mars/assets/Nicholas_s_Responses_to_the_Bulgarians_for_MARS_website.pdf 866. Cfr. Dennis 1958, pp. 165-174 and Herbers 2011, pp. 15-25. 40   Ep. 92, dated on 13 November 866 (MGH Epistolae, VI, pp. 533-540). 41   «Προθύμους καὶ συναγωνιστὰς γενέσθαι ἐπὶ τῇ καθαιρέσει τῶν δυσσεβῶν τούτων καὶ ἀθέων κεφαλαίων παραινοῦμέν τε καὶ δεόμεθα, καὶ μὴ λιπεῖν τὴν πατρῴαν τάξιν, ἣν ὑμᾶς οἱ πρόγονοι δι’ ὧν ἔπραξαν κατέχειν παραδεδώκασιν, ἀλλὰ σπουδῇ πολλῇ καὶ προθυμίᾳ ἀνθ’ ὑμῶν τοποτηρητάς τινας ἐλέσθαι καὶ ἀποστεῖλαι, ἄνδρας τὸ ὑμέτερον ἐπέχοντας πρόσωπον […] ἵνα καὶ περὶ τούτων τῆς ἁγίας καὶ οἰκουμενικῆς ἐν κυρίῳ συνόδου ἀθροιζομένης, τὰ τῷ θεῷ καὶ τοῖς συνοδικοῖς κανόσι δοκοῦντα ψήφῳ βεβαιωθείη κοινῇ, καὶ εἰρήνη βαθεῖα τὰς τοῦ Χριστοῦ ἐκκλησίας καταλήψοιτο» (Epistulae et amphilochia Photii Patriarchae Constantinopolitani, 1, ep. 2, l. 278-282 and 338-341, edd. V. Laourdas, L.G. Westerink, Leipzig 1983, p. 49 and p. 53). 42   This decision is recorded only in sources known for their anti-Photian attitude, as for instance the acts and the canon 6 of the council of 869. Cfr. see Dvornik 2000, p. 117 ss. The entire complex of questions concerning the authenticity of the Acts, that are preserved only in Anastasius Bibliothecarius’ translation, who was a leading partisan in the dispute, and the amazing fact that the 38

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Pope Nicholas felt compelled to react powerfully to this general attack from the orthodox Greek speaking East and decided to take an equally unprecedented initiative: He wrote to both Frankish kings of eastern and western Francia and to the archbishops and bishops of the West and asked them to study the document thoroughly and to express their solidarity to the Roman See by condemning the “Greeks” for their heresy and wrong practices43. Due to the letter Nicholas sent to the highly respected Archbishop of Rheims Hincmar, which is still preserved, we can follow closely the rationale and the arguments that Rome set up in order to persuade the addressees to make a comprehensive attack against the errors of the Greeks44. Hincmar reacted positively and without delay45. According to Flodoard, the local Church historian of Rheims who wrote his history some decades later by copying extensively from Hincmar’s correspondence, the archbishop received the pope’s letter in Charles the Bald’s palace in Corbenay, read it out in the presence of the king and many bishops, and immediately forwarded it to other archbishops46. Preserved are the letters Hincmar sent on the matter to Odo Bishop of Beauvais47 acts of the councils of 861 and 867 are completely missing, call for yet another effort to shed light on this obscure story. 43   Contra Graecorum heresim et illorum frivolas reprehensiones, praefatio of Acts of the synod of Worms, in Die Konzilien der karolingischen Teilreiche 860-874, ed. W. Hartmann, Hannover 1998, MGH Concilia aevi Karolini DCCCLX-DCCCLXXIV, p. 262, Praefatio 2. Cfr. Annales Fuldenses, a. 868 (MGH Script. Rer. Germ., 7, pp. 66-67). 44   Nicolai I. papae epistolae, Ep. 100, dated on 23 October 867: Nicolaus episcopus servus servorum Dei reverentissimis et sanctissimis Hincmaro et ceteris confratribus nostris archiepiscopis et episcopis in regno Karoli gloriosi regis ecclesias constitutes regentibus, cit. p. 601, 9-11. http://www.regesta-imperii.de/id/ d31eea74-9560-42bf-83b0-19d95d022051. The closing sentence is very indicative: «Tua vero, frater Hincmare, caritas, cum hanc epistolam legerit, mox ut etiam ad alios archiepiscopos, qui in regno filii nostril Karoli gloriosi regis consistent, deferatur, summopere agree studeat et, ut de his singuli in diocesibus propriis una cum suffraganeis suis, in cuiuscumque regno sint constitute, convenienter tractare et nobis quae repererint suggerere current, eos incitare non neglegat, ita ut eorum omnium, quae praesentis epistolae nostrae circumstantial continent, tu et strenuous executor illic existas et apud nos verax et prudens scriptorium tuorum serie relator inveniaris» (p. 608, 35-609, 4). The letter is preserved in the Annales Bertiniani, a. 867 (Annales Bertiniani, ed. G. Waitz, MGH Script. rer. Germ., 5, Hannoverae 1883, p. 89). Here it is referred that with the letter he informed them «that the Emperors of the Greeks and also the eastern bishop were laying false charges against the holy Roman Church, indeed against the whole Church that uses the Latin language» («sanctam Romanam ecclesiam, immo omnem ecclesiam quae Latina utitur lingua»). The English translation is by Nelson 1991, p. 141. 45   Since Nicholas’ letter is dated on 23 October 867, it is amazing that Hincmar reacted already on 20 December of the same year. 46   «Quam epistolam Hincmarus suscipiens in Corbinaco palatio consistenti regi Karolo cum pluribis episcopis relegit et per alios archiepiscopos, sicut in mandato acceperat, dirigere studuit» (Historia Remensis Ecclesiae, III, 17, ed. M. Stratmann, MGH Scriptores, 36, Hannover 1998, p. 253, 5-7). 47   Hincmari archiepiscopi Remensis epistolae, Ep. 201, dated 29 December 867, ed. E. Perels, München 1985, MGH Epistolae Karolini aevi VI, Die Briefe des Erzbischofs Hinkmar von Reims, Teil 1, p. 225

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and to John bishop of Cambrai48. Several political and ecclesiastical leaders in East and West Francia responded to the papal appeal: Thus Louis the German, the King of East Francia, summoned a synod of the bishops of his kingdom in Worms, at which a resolution «against the heresy of the Greeks was adopted»49. Also preserved are further, the essays adversus Graecos of two distinguished clergy of the Western kingdom, the Archbishop of Paris Aenaeas50 and the abbot of the famous Corbie monastery, Ratramnus51. Hincmar recorded his own critique against the “Greeks” in the second part of the Annales Bertiniani52, and in his letter to Odo Bishop of Beauvais53. It would exceed the limits of this study if we tried to analyze this debate in depth54 For our topic the most memorable thing is the sharp way in which the pope designated the boundary between the two parties of the confrontation. In contradiction to the traditional way of distinguishing the two Christian worlds in geographical terms as Eastern and Western, thus separating between occidentales and orientales, Pope Nicholas introduced deliberately a new criterion of distinction. Given the fact that the attack from the East was coming not merely from Constantinople but also from the three eastern Patriarchates, coming thus from the world of the Greci in general55, he decided to use as a key instrument of his argumentation 48   Hincmari archiepiscopi Remensis epistolae, Ep. 202, dated 29 December 867, cit., p. 226. Not preserved is another letter to Rothad of Soissons, see ep. 203, cit., p. 227, 29-35. 49   Responsio contra Gręcorum heresim de fide sanctę, in Die Konzilien der karolingischen Teilreiche 860874, ed. W. Hartmann, Hannover 1998, MGH Concilia aevi Karolini DCCCLX-DCCCLXXIV, pp. 292.2-307.14. Cfr. Hartmann 1977. 50   Liber adverus Graecos, PL 121, coll. 683-762. 51   Contra Graecorum opposita Romanam ecclesiam infamantium, PL 121, coll. 223-343. 52   Annales Bertiniani, MGH Script. rer. Germ., 5, p. 89. Cfr. Flodoardus von Rheims, who copied the quotation from the Annales Bertiniani verbatim: Historia Remensis ecclesiae, MGH Scriptores, 36, p. 252. 53  MGH Epistolae VI, ep. 201, p. 225, 22-23. Cfr. ep. 202, p. 226, 30-31. https://download.digitalesammlungen.de/pdf/1506075071bsb00000530.pdf 54   See instead in this volume R. Savigni, I trattati “adversus Graecos” di Enea di Parigi e Ratramno di Corbie. The two scholars, Aeneas and Ratramnus, undoubtedly expressed also the opinion of their colleagues in Charles the Bald’s kingdom. However, I wonder why the king did not take an initiative similar to Louis II who convened an ad hoc synod in Worms. Was it incidental, or was it a decision taken under the influence of theologians at his court such as John Scottus Eriugena, whose profound familiarity with the Greek thought determined their positive attitude towards the East. Cfr. McCormick 1994, p. 15-48; McGinn, Otten 1994; O’Meara 1988 and especially Jeauneau 1977-78. Hergenröther 1867, pp. 672-74, presents the case of John Scottus in the discussions provoked by the pope as a critical opponent of the papal attitude and underlines his friendliness to everything Greek and presumes that he would have taken the side of Photius if the reaction against him in the West was not so overwhelming, but avoids conclusions as to what the position of Charles the Bald was. It is quite probable that the absence of a synod in his realm, similar to the synod of Worms, was a deliberate decision of the king, supported by the Irish theologian at his court. 55   Nicolai I. papae epistolae, Ep. 100, cit., p. 605, 4: ad terram Grecorum, p. 603,8: Grecorum principes.

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the phrasing from the sixth of the quotations from his letter to Emperor Michael concerning Latin «Romani quippe hac lingua, quam barbaram vos et Scythicam vocatis, utuntur»56, and consequently identified those targeted from the East with all those who stand out because they use the Latin language. It is worthwhile to read carefully the two crucial quotations: In the first quotation it is stated: «Conantur enim tam nostram specialiter quam omnem generaliter, quae lingua Latina utitur, ecclesiam reprehendere, quia ieiunamus in sabbatis, quod spiritum sanctum ex patre filioque procedere dicamus, cum ipsi hunc tantum ex patre procedere fateantur»57. This sentence comprises all those who use the Latin language in general, and was cited verbatim by Hincmar in his appeal to the theologians in his jurisdiction58. The second quotation includes a seemingly insignificant variation: In his igitur explosis ceteris curis vos, fratres, summopere convenit desudare et, quia communia sunt haec obprobria, quae universali ecclesiae, in ea dumtaxat parte, quae Latina uti dinoscitur lingua, sicut praetulimus, ingeruntur, communiter omnes, qui divino sacerdotio inlustrari videmini, decertare debetis, quo paternae traditiones tantae derogationi non pateant, sed, quae pravi quique consueta contentione tam mentientes quam errantes maculare gestiunt, manu communis defensionis ab omni nevo blasphemiae funditus eruantur59.

Nevertheless the reference to the universalis ecclesia that aims at elevating the “chosen people” who happen to speak Latin, and the appeal to their latinitas, were meant to galvanize the addressees into strongly reacting against the accusations. In this sense I would read dinoscitur as bearing the value of a distinction as implying  Cfr. supra, note 11.  MGH Epistolae, VI, epist. 100, p. 603, 23-26. 58  «Domnus apostolicus communiter nobis et aliis episcopis regni domni nostri Karoli epistolam misit ita continentem, quod Greci tam ecclesiam Romanam specialiter quam omnem generaliter, quae lingua Latina utitur, conantur reprehendere, quia ieiunamus in sabbatis, quod spiritum sanctum ex patre filioque procedere dicamus, cum ipsi hunc tantum ex patre procedere fateantur» (MGH Epistolae, VIII, 1, ep. 201, p. 225, 2). Cfr. further the repetition in Flodoardus (Historia Remensis Ecclesiae, III, 17, MGH Scriptores, 36, p. 253, 5-7). Flodoard specifies further who the protagonists are (p. 252, 22), by using the ethnic name «dicentes ipsi Greci, reprehendentes nos Latinos». On the other hand Ratramnus, abbot of Corbie would phrase it in a similarly remarkable sentence «non solum Romanam, verum omnem Latinam ecclesiam» (PL 121, col. 227A). In an impressively constructed sentence with profound sarcasm against his opponents, Aeneas of Paris repeated the same phrasing as follows: «Itaque temporibus gloriosi et orthodoxi Hludowici imperatoris Grecia, quae se matrem verborum et genitricem philosophorum et omnium liberalium artium fautricem appellari contendit, de his superstitionibus superfluis, quae et nunc, Romanam ecclesiam, immo et omnem gentem Latina lingua utentem consulere temptavit, satisque mirandum in tam vilissimis quaestionibus occupatam, longevo ventilatis aevo et perspicue ad liquidum dilucidatis, quae totius peritiae ac facundiae se fore gloriatur auctricem, ut pelagus dialecticae subtilitatis expostulat, putans se posse veraciter distinguere vera a falsis» (MGH Epistolae, VI, ep. 22, p. 172, 24-30). 59  MGH Epistolae, VI, ep. 100, p. 604, 8-14. 56 57

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that the part of the universal church it was ‘set apart’ by its use of the Latin language was more distinguished60. By identifying the West as the Latin world he thus defended its superior and exclusive romanitas. I suspect that this distinction, once accepted, began to mark the Christian world as being deliberately divided according to a linguistic criterion, and this would have the result of petrifying a cultural collision. However, if this was so, it is important to underline that these words were, so far as I know, never repeated again in Latin medieval literature. It remained an ephemeral experiment, an expression of a strategic scheme that was doomed to have no future. Was it coincidental that for the first time in an antiheretical text, the opposing parties were not identified geographically as Westerners (occidentales) versus Easterners (orientales), but the Westerners were described as those «who stood out because they used the Latin language?». In my opinion this linguistic self-determination and identification was not accidental, nor was it due to a neutral rhetorical experiment, but was linked to Nicholas’s (or rather Anastasius’s61 scheme of denouncing the eastern Christians as “Greeks” and therefore not Romans, as analyzed above62. By identifying the West as the Latin world he thus defended   «In his igitur explosis ceteris curis vos, fratres, summopere convent desudare et, qui communia sunt haec obprobria, quae universali ecclesiae, in ea dumtaxat parte, quae Latina uti dinoscitur lingua, simul praetulimus, ingeruntur, communiter omnes, qui divino sacerdotio inlustrari videmini, decertare debetis, quo paternae traditions tantae derogationi non pateant, sed, qae pravi quinque consueta contention tam mentientes quam errantes maculare gestiunt, manu communis defensionis ab omni nevo blasphemiae funditus eruantur» (MGH Epistolae, VI, ep. 100, p. 604, 8-14). Cfr. the parallel quotation in Photius’ encyclical letter to the Patriarchs of the East to support the effort of defense against the assertions of the western missionaries in Bulgaria: «Τούτων τὴν γνῶσιν καὶ εἴδησιν κατὰ τὸ παλαιὸν τῆς ἐκκλησίας ἔθος ἀνενεγκεῖν τῇ ὑμετέρᾳ ἐν κυρίῳ ἀδελφότητι ἐδικαιώσαμεν∙ καὶ προθύμους καὶ συναγωνιστὰς γενέσθαι ἐπὶ τῇ καθαιρέσει τῶν δυσσεβῶν τούτων καὶ ἀθέων κεφαλαίων παραινοῦμέν τε καὶ δεόμεθα, και μὴ λιπεῖν τὴν πατρῴαν τάξιν, ἣν ὑμᾶς οἱ πρόγονοι δι’ ὧν ἔπραξαν κατέχειν παραδεδώκασιν» (Epistulae et amphilochia Photii Patriarchae Constantinopolitani, Amphilochiorum pars 1, edd. V. Laourdas, L.G. Westerink, Berlin 1988, ep. 2, 277-282). 61   We owe the phrasing with lingua utuntur with certainty to Anastasius’ pen. In his preface to the translation of the Acts of the seventh Ecumenical council, dated in 873, he used it again in the following sentence: «Ergo regulas, quas Greci a sexta synodo perhibent editas, ita in hac synodo principalis sedes admittit, ut nullatenus ex his illac recipiantur, quae prioribus canonibus vel decretis sanctorum sedis huius pontificem aut certe bonis moribus inveniuntur adversae, quamvis omnes hactenus ex toto maneant apud Latinos incognitae, quia nec interpretatae, sed nec in ceterarum patriarchalium sedium, licet Greca utantur lingua, reperiantur archivis: nimirum quia nulla earum, cum ederentur, aut promulgans aut consentiens aut saltim praesens inventa est, quanquam eosdem patres illas Greci promulgasse perhibeant, qui in sexta synodo sunt inventi, sed hoc nullis probare certis possunt indiciis» (Anastasius Epistolae sive praefationes, MGH Epistolae, 7, ep. 6, p. 417, l. 9, and now Acta conciliorum oecumenicorum, Series Secunda, III, p. 2, 3-5). 62  See supra, pp. 2 ss. Ratramnus is disarmingly clear when he refers to the Byzantine emperors in this way: «nisi forte putant Graecorum imperatores moderni, non illi Romanorum, quorum imperium totius Urbis provincias disponebat» (PL 121, col. 343D). 60

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its superior and exclusive romanitas. I suspect that this distinction, once accepted, began to mark the Christian world as being deliberately divided according to a merely linguistic criterion, and this would have the result of petrifying a cultural collision. However, if this was so, it is important to underline that these words were, so far as I know, never repeated again in Latin medieval literature. It remained an ephemeral experiment, the outcome of a strategic scheme that was doomed to have no future63. Bibliography Banniard 1992 = M. Banniard, Viva Voce. Communication écrite et comunication orale, Paris 1992. Banniard 1995 = M. Banniard, “Language and Communication in Carolingian Europe”, in R. McKitterick (ed.), Cambridge Medieval History, II, Cambridge 1995. Bartelink 1980 = G.J.M. Bartelink, Hieronymus, Liber De Optimo Genere Interpretandi - Epistula 57: Ein Kommentar (Mnemosyne, Suppl 61), Leiden 1980. Beck 1980 = H.-G. Beck, Geschichte der Orthodoxen Kirche im Byzantinischen Reich, Göttingen 1980. Böhmer 2012 = J.F. Böhmer, Regesta Imperii I. Die Regesten des Kaiserreichs unter den Karolingern 751-918 (926/962). Vol. 4: Papstregesten, 800-911, Teil II (844-872), Lieferung 2. 858-867 (Nikolaus I.), ed. Kl. Herbers, Wien-Köln 2012. Borst 1958 = A. Borst, Der Turmbau von Babel: Geschichte der Meinungen über Ursprung und Vielfalt der Sprachen und Völker, I-IV, Stuttgart 1957-63, vol. II.1, 1958. Bronwen 2006 = N. Bronwen, Seventh-Century Popes and Martyrs: the Political Hagiography of Anastasius Bibliothecarius, Turnhout 2006 (Studia Antiqua Australiensia 2). Chiesa 1987 = P. Chiesa, “Ad verbum o ad sensum? Modelli e coscienza metodologica della traduzione tra tarda antichità e alto medioevo”, in Medioevo e Rinascimento 1, 1987, pp. 1-51. Copeland 1991 = R. Copeland, Rhetoric, Hermeneutics, and Translation in the Middle Ages. Academic Traditions and Vernacular Texts, Cambridge 1991. Dennis 1958 = G. Dennis, “The ‘Anti-Greek’ Character of the Responsa ad Bulgaros of Nicholas I?”, in Orientalia Christiana Periodica 24, 1958, pp. 165-174. 63   I thank my colleagues and friends John Melville-Jones, Erich Lamberz and Laury Sarti for carefully and critically reading this article.

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Runciman 1953 = St. Runciman, “Byzantine Linguistics”, in Προσφορά εις Στίλπωνα Κυριακίδην, Thessaloniki 1953 (Ελληνικά, παράρτημα 4). Sode, Takács 2001 = C. Sode, S. Takács (eds.), Die griechische Version der Briefe Papst Hadrians I. in den Akten des VII. Ökumenischen Konzils, Novum Millenium. Studies on Byzantine History and Culture dedicated to Paul Speck 19 December 1999, Aldershot 2001. Troianos 2000 = S. Troianos, Η ελληνική νομική γλώσσα. Γένεση και μορφολογική εξέλιξη της νομικής ορολογίας στη ρωμαϊκή ανατολή, Athens 2000. Wickham 1998 = C. Wickham, “Ninth-Century Byzantium through Western Eyes”, in L. Brubaker (ed.), Byzantium in the Ninth Century: Dead or Alive, Aldershot 1998, pp. 247-256. Wright 2003 = R. Wright, A Sociophilological Study of Late Latin, Turnhout 2003. Zilliacus 1935 = H. Zilliacus, Zum Kampf der Weltsprachen im oströmischen Reich, Helsinki 1935.

UN SIGILLO DI UN NIPSISTIARIOS DALLA SARDEGNA BIZANTINA

Salvatore Cosentino

La pubblicazione per cura di Pier Giorgio Spanu e Raimondo Zucca dei sigilli rinvenuti nell’area della chiesa di S. Giorgio, nel territorio del comune di Cabras (Oristano), ha contribuito ad accrescere in modo determinante le nostre conoscenze sulla Sardegna bizantina. Sono venuti alla luce, a partire dal 19881, 78 sigilli «in occasione di arature del terreno»2, una circostanza che, in assenza di un rinvenimento dovuto a scavo stratigrafico, impedisce di comprendere se essi appartenessero ad un unico deposito. Tra quelli pubblicati, solo 3 provengono dalle vicinissime località di S. Salvatore e Sa Pedrera3. Ricerche archeologiche attorno all’area della non più esistente chiesa di S. Giorgio hanno rivelato che, nei pressi di essa, si estendeva una zona cimiteriale dalla quale sono emersi vari materiali, tra i quali un epitaffio in latino, lucerne, vasi in sigillata D e un elevato numero di fibbie in bronzo di varia tipologia4. A sua volta la chiesa era inserita in un insediamento rurale, probabilmen  Questo particolare si evince dalla presentazione di V. Santoni al volume di Spanu, Zucca, Sigilli, secondo il quale «il repertorio di sigilli plumbei […] entrò ufficialmente nel patrimonio della Soprintendenza archeologica delle province di Cagliari e di Oristano con sequestro, effettuato dal Comando dei Carabinieri di Oristano, nel marzo 1988, di importante materiale archeologico, tra cui spiccavano numerosi sigilli in piombo bizantini, derivati dal sito di San Giorgio di Cabras, all’altezza del bivio per Salvatore di Sinis» (p. 9). 2   Spanu, Zucca, Sigilli, p. 100. Di questi 78 sigilli, 72 portano legenda greca, o greco-latina, o, in una minoranza di casi, solo latina, e sembrerebbero datare ad una età che va dal VI all’VIII secolo; 4 sono sigilli con legenda in arabo (pp. 142-144, nn. 73-76); infine, 2 sono sigilli di arconti databili all’XI secolo. 3   Due sigilli (Spanu, Zucca, Sigilli, pp. 103-104, nn. 2-3) provengono dall’area della chiesa di S. Salvatore (distante circa 500 m dal sito della scomparsa chiesa di S. Giorgio); 1 (p. 108, n. 7) da località Sa Pedrera (distante circa 300 m dal sito della chiesa di S. Giorgio). 4   Spanu, Zucca, Sigilli, pp. 78-86; Panico, Spanu 2015; Del Vais et alii 2015. 1

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Salvatore Cosentino

te di fisionomia non accentrata, che comprendeva anche i vicini abitati dell’attuale San Salvatore di Sinis (sotto il quale si estendono le strutture di un ipogeo), Domu ’e Cubas (in cui è stato segnalato un complesso termale), le località Sa Pedrera e Sa Ferrera (presso la quale è stato individuato un impianto per la fabbrica di laterizi). Dall’abitato più prossimo a San Giorgio provengono una stadera in bronzo appartenente ad un grecofono, exagia ponderali, una tesserula di un vir excellentissimus di nome Porfirius e 72 monete, di cui 69 in bronzo e 3 in argento5. Alcuni resti della chiesa di San Giorgio potevano vedersi ancora alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso6. La intitolazione al Megalomartire della religiosità bizantina appare in uso sin dalla tarda antichità, giacché nell’Antiquarium Arborense di Oristano si conserva la matrice fittile di una eulogia per lo stampo del pane raffigurante il santo, datata al VII secolo, che proveniva da questo edificio7. Secondo Spanu e Zucca è difficile ipotizzare che l’archivio di documenti cui erano pertinenti i sigilli fosse stato allocato in origine presso la chiesa di San Giorgio. I due studiosi ritengono più probabile che vi fosse stato trasferito dal vicino kastron di Tharros, o dalla vicina sede vescovile di S. Giovanni di Sinis, per motivazioni che ora come ora non è dato conoscere8. Allo stato attuale delle ricerche si può comunque giungere alle seguenti conclusioni: 1) l’area in cui sorgeva l’insediamento (di origine punica) in cui fu costruita la chiesa di S. Giorgio era caratterizzata economicamente, in età tardoromana, dalla presenza di proprietà di pertinenza senatoria9; 2) l’abitato si era sviluppato in un luogo strategico per le vie di comunicazione della Sardegna romana, al bivio di due strade che conducevano a nord-ovest da Tharros verso Cornus e a nord-est da Tharros verso Othoca10; 3) la maggior parte dei sigilli, in considerazione del noto principio della scarsa mobilità di questi oggetti al di fuori del territorio di primario utilizzo11, dovrebbe riferirsi ad atti (disposizioni amministrative civili o militari delle autorità locali, disposizioni imperiali, documenti ecclesiastici o di privati di un certo livello sociale) emessi da enti che avevano sede in Sardegna o da individui che dimoravano o avevano interessi economici in essa12. I sigilli di cui gli editori hanno proposto una lettura si suddividono in 7 categorie (bullae di dignitari della amministrazione centrale, personaggi che portano un titolo di rango, militari, ecclesiastici, individui non connotati da alcuna qualifica, sigilli in arabo, sigilli arcontali13). Alle testimonianze della prima categoria appartengono   Spanu, Zucca, Sigilli, pp. 85-86; catalogo delle monete, pp. 86-100.   Ivi, p. 77. 7  Cfr. Dadea 1998. 8   Spanu, Zucca, Sigilli, p. 100. 9   Panico, Spanu, Zucca 2015, pp. 457-459; Spanu 2018, p. 189. 10   Spanu, Zucca, Sigilli, p. 77. 11   Cheynet, Morrisson 1989, p. 116. 12   Spanu, Zucca, Sigilli, p. 102. 13   Dignitari dell’amministrazione centrale: nn. 1 (sigillo dell’augusta Anastasia, moglie di Tiberio) - 6; individui che portano solo titoli di dignità: nn. 7-21; militari: nn. 22-27; ecclesiastici: nn. 28-35 5 6

Un sigillo di un nipsistiarios dalla Sardegna bizantina

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uno specimen della augusta Anastasia (578-593), moglie dell’imperatore Tiberio Costantino, e le bolle di Pantaleon βασιλικὸς μανδάτωρ, Georgios κουβικουλάριος, Theophylaktos (κουράτωρ) τῶν Μαρίνης e di un certo Georgios, il cui ufficio viene interpretato dagli editori come βεστιάριος14. Il titolo di bestiarios è rarissimo, comparendo, se non mi sbaglio, solo in un sigillo databile all’VIII secolo, che si riferisce ad un certo Eusebios βεστίτωρ καὶ βασιλικὸς βεστίαριος15. Tuttavia, sulla base della riproduzione fornita nel volume curato da P. G. Spanu e R. Zucca, è possibile proporre un’altra interpretazione delle lettere che compaiono nel recto della testimonianza in questione16:

Fig. 1. D/ monogramma cruciforme con l’invocazione ΘΕΟΤΟΚΕ ΒΟΗΘΕΙ; R/ [†] ΓΕΩΡ/ΓΙΩΝΙ/ΨΙCΤΑΡ/ΡΙΩ (Θεοτόκε βοήθει Γεωργίῳ νιψισταρίῳ: “Madre di Dio proteggi Giorgio nipsistarios”). Datazione: VII-VIII secolo (da Spanu, Zucca Sigilli, p. 105, n. 5).

La qualifica di nipsistarios (o, più comunemente, nipsistiarios) identifica una dignità di corte che comporta anche una funzione. È attestata quasi esclusivamente da testimonianze sfragistiche e si riferisce ad un ufficio che sembra avere operato dal VII almeno fino al X-XI secolo17. La fonte che trasmette maggiori informazioni su quali fossero le mansioni del suo titolare è il trattato di etichetta composto nell’899 da Philoteos, atriklinēs (o artoklinēs) del Grande Palazzo, cioè supervisore dei banchetti dell’imperatore. Dal trattato apprendiamo che la dignità (ἡ ἀξία) di nipsistiarios era la prima, in un ordine crescente, delle otto dignità che spettavano ai funzionari eunuchi, cioè i nispsistiarioi, gli spatharokoubikoulari, gli ostiarioi, i primikērioi, i prōtospatharioi e i praipositoi18. Ecco come Philoteos descrive la carica: e n. 36 (bolla sanctae ecclesiae Caralitanae); individui che non portano titolatura: nn. 37-49; sigilli di cui, a causa del precario stato di conservazione, non è stato possibile fornire una lettura: nn. 5072; sigilli in lingua araba: nn. 73-76; sigilli arcontali: nn. 77-78. 14   Spanu, Zucca, Sigilli, n. 5. 15   Zacos, Veglery, Seals, 1891; PMBZ, 1734; PBE (http://www.pbe.kcl.ac.uk/person/p2538). 16   La riproduzione del sigillo fornita in Spanu, Zucca, Sigilli è sfortunatamente a bassa risoluzione; il confronto con il disegno trae in inganno, perché da quest’ultimo sembrerebbe che nel braccio destro della croce monogrammatica vi sia un ‘ny’ (cosa che renderebbe impossibile, ovviamente, la lettura “Θεοτόκε βοήθει”), mentre invece si tratta di un ‘kappa’. 17   Bury 1911, p. 122; Guilland 1967, pp. 267-268; Oikonomides, Listes, p. 301; ODB II, p. 1488. 18   Oikonomides, Listes, pp. 125-129.

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α´. καὶ πρώτη μὲν ἐν αὐτοῖς ἡ τῶν νιψισταρίων ἀξία γνωρίζεται, ἧς βραβρεῖον, καμίσιον λινοῦν ὑποβλαττομένον σχήματι φιαλίου καὶ λόγος βασιλέως προσγινόμενος. Δίδωσιν συνήθειαν τοῖς πραιποσίτοις νομίσματα ιβ´, τῷ δευτέρῳ νομίσματα γ´, τῷ πριμικηρίῳ αὐτοῦ νομίσματα β´19. 1. La prima dignità riconosciuta tra di essi [sc. dei dignitari eunuchi] è quella dei nipsistiarioi, la cui insegna è una sopravveste di lino intessuta da un ricamo di porpora a forma di catino, aggiungendosi la nomina a voce dell’imperatore. Essi versano a titolo di consuetudine (per la loro nomina) 12 nomismata ai prepositi, 3 nomismata al deuteros, 2 nomismata al primicerio del nominato20.

La funzione cerimoniale dei nipsistiarioi era dunque quella di portare al sovrano un bacino e una brocca d’oro in cui questi si detergeva le mani prima di consumare i pasti. Nel De cerimoniis di Costantino Porfirogenito sono menzionati nel protocollo da osservare quando gli imperatori dal Palazzo si recavano in processione nella chiesa di Santa Sofia. I nipsistiarioi prendevano posto sotto la grande porta che conduceva nella corte dell’Augusteus, reggendo dei bacini d’oro per l’abluzione tempestati di pietre preziose (χερνιβόξεστα), e aspettavano di vedere sfilare i sovrani21. Il maggior numero di attestazioni relative a questi dignitari è fornito dalle fonti sigillografiche22. Un paio di menzioni, però, provengono anche da quelle narrative. Dalla lettura di queste ultime emerge che i nipsistiarioi, come tutti gli altri funzionari eunuchi al servizio dell’imperatore, erano impiegati anche in missioni di fiducia che esulavano dalla loro specifica sfera di competenza. Così il De cerimoniis riporta che Stephanos ὀστιάριος καὶ νιψιστιάριος, in occasione della spedizione di Costantino Gongylos contro Creta, nel 949, fu distaccato dalla flotta e, al comando di tre navi, inviato come ambasciatore presso il califfo spagnolo ‘Abdarrahmān23. Sembra che i   Ivi, p. 125, ll. 22-26.   La frase non è perspicua perché non è chiaro a chi sia da riferire αὐτοῦ. Sintatticamente, sembra da legare a deuteros, che era l’addetto agli oggetti e agli abiti preziosi dell’imperatore conservati in varie cappelle del Grande Palazzo, cfr. Oikonomides, Listes, p. 306. Si dovrebbe intendere, pertanto (come sembra pensare Oikonomides, Listes, p. 125, nota 76), che si tratti di un primicerio sottoposto allo stesso deuteros, che però ne aveva sotto di sé almeno due: quello dei diaitarioi e quello dei vestitores (cfr. Oikonomides, Listes, p. 131, ll. 17, 19). A senso, tuttavia, il pronome parrebbe piuttosto da riferirsi al primicerio di chi riceve la carica, anche perché sappiamo che i nipsistiarioi erano più di uno (cfr. De cerim., p. 9, Reiske), e potevano benissimo avere un primikērios; la frase però è retta da un soggetto al plurale (δίδωσιν), per cui mi chiedo se αὐτοῦ non sia da emendare in αὐτῶν. Moffatt, Tall 2012, p. 721 traducono il brano in questo modo: «recognized as first for them is the title of nipsistiarios, the insigna for which is a linen kamision under silks in the form of a phialion, and a nomination of the emperor accrues. He gives a customary gift of 12 nomismata to the praipositi, 4 nomismata do the deputy papias, and 2 nomismata to the primikerios». 21   De cerim. I 1, p. 9 (Reiske; Vogt, p. 6): «ἔνδοθεν γὰρ τῆς μεγάλης πύλης τοῦ αὐγουστέως ἵστανται οἱ νιψιστιάριοι, βαστάζοντες τὰ χρυσᾶ καὶ ἐκ λίθων τιμίων κατεσκευασμένα χερνιβόξεστα». 22   Kostantinos: PMBZ, 3742 (VII secolo); Ioannes basilikos nipsistiarios: PMBZ, 2819 (VII secolo); Scholastikios basilikos nipsistiarios (IX secolo): PMBZ, 6516; Stephanos: PMBZ, 27263 (metà sec. X); Niketas πριμικήριος καὶ νιψιστάριος τοῦ φιλοχρίστου δεσπότου: PMBZ, 25827 (X-XI secolo). 23   De cerim. II 45, p. 664 (Reiske); PMBZ, 27263. 19 20

Un sigillo di un nipsistiarios dalla Sardegna bizantina

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nipsistiarioi non fossero impiegati esclusivamente presso la corte imperiale; a partire dal IX-X secolo, servitori incaricati di espletare il medesimo compito sono attestati anche tra il personale domestico al servizio di famiglie aristocratiche. È il caso, questo, di Samonas, un prigioniero arabo eunuco che, tradotto a Costantinopoli, servì prima come nipsistiarios Stylianos Zaoutzes; poi, dopo avere denunciato all’imperatore Leone VI (886-912) un complotto ordito contro di lui dai parenti dello stesso Stylianos Zaoutzes, divenne un intimo dell’imperatore (morì dopo il 907)24. Ritornando al Georgios attestato a S. Giorgio di Sinis, è ovviamente impossibile precisare perché un suo sigillo si trovasse in Sardegna. In considerazione del fatto che, come si è detto, il Sinis sembra essere stata una regione ove si concentravano praedia senatorî25, tra i quali alcuni forse di proprietà della domus Marinae26, è possibile che il nostro Georgios fosse stato inviato colà in relazione agli interessi economici del tesoro imperiale. Che dalla corte costantinopolitana vi fosse un’attenzione per il retroterra di Tharros è confermato non solo in maniera evidente dal già menzionato sigillo di Theophylaktos kouratōr tōn Marinēs, ma anche da quelli di Pantaleon basilikos mandatōr e Georgios koubikoularios. Fonti e sigle De cerim. = Constantini Porphyrogeniti imperatoris De cerimoniis aulae byzantinae, rec. I.I. Reiske, I-II, Bonnae 1829 (altra edizione utilizzata: Constantin Porphyrogénète, Le livre de cérémonies, I-II, texte établi et traduit par A. Vogt, Paris 1935-1939). ODB = The Oxford Dictionary of Byzantium, a c. di A. Kazhdan, I-III, New York-Washington D.C. 1991. Oikonomides, Listes = N. Oikonomides, Les listes de préséance byzantines des IXe et Xe siècles. Introduction, texte, traduction et commentaire, Paris 1972. PBE = The Prosopography of the Byzantine Empire, ed. by J. R. Martindale, CD Rom, Ashgate 2001. PMBZ = Prosopographie der mittel-byzantinischen Zeit, I Abteilung (641-867), I-VII, Berlin-New York 1998-2001; II Abteilung (867-1025), I-VIII, BerlinNew York 2013. Spanu, Zucca, Sigilli = P.G. Spanu, R. Zucca, I sigilli bizantini della Σαρδηνία, Roma 2004. Zacos, Veglery, Seals= G. Zacos, A. Veglery, Byzantine Lead Seals, I, Glückstadt 1972.

  PMBZ, 26973.  V. supra, n. 9. 26   Spanu, Zucca Sigilli, n. 6, pp. 105-108; Cosentino 2008. 24 25

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Salvatore Cosentino

Studi Bury 1911 = J.B. Bury, The Imperial Administrative System in the Ninth Century, with a Revised Text of The Kletorologion of Philotheos, New York 1911. Cheynet, Morrisson = J.-C. Cheynet, C. Morrisson, Lieux de trouvaille et circulation des sceaux, in «Studies in Byzantine Sigillography» 2, 1989, pp. 105-136. Cosentino 2008 = S. Cosentino, A new evidence of the oikos tōn Marinēs: The seal of Theophylaktos kouratōr in C. Stavrakos, A.-K. Wassiliou, M.K. Krikorian (a c.) Hypermachos. Studien zu Byzantinistik, Armenologie und Georgistik. Festschrift für Werner Seibt zum 65. Geburtstag, Wiesbaden 2008, pp. 23-28. Dadea 1998 = M. Dadea, Due reperti bizantini dell’Antiquarium Arborense di Oristano, in AA.VV., La ceramica nel Sinis dal neolitico ai giorni nostri, Cagliari 1998, pp. 403-411. Del Vais et alii 2015 = C. Del Vais, S. Sebis, V. Chergia, M. Mureddu, E. Dirminti, P.F. Serreli, Il Sinis di Cabras tra tarda antichità e alto medioevo: primi risultati di una ricerca territoriale, in R. Martorelli, A. Piras, P.G. Spanu (a c.), Isole e terraferma nel primo cristianesimo. Identità locale ed interscambi culturali, religiosi e produttivi (Atti dell’XI Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana), II, Cagliari 2015, pp. 935-938. Guilland 1967 = R. Guilland, Recherches sur les institutions byzantines, I, Amsterdam 1967 (Berliner Byzantinische Arbeiten, 35). Moffatt, Tall 2012 = Constantine Porphyrogennetos: The Book of Ceremonies, translated by A. Moffatt and M. Tall, Leiden-Boston 2012 (Byzantina Australiensia, 18). Panico, Spanu 2015 = B. Panico, P.G. Spanu, San Giorgio di Sinis. I materiali metallici, in R. Martorelli, A. Piras, P.G. Spanu (a c.), Isole e terraferma nel primo cristianesimo. Identità locale ed interscambi culturali, religiosi e produttivi (Atti dell’XI Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana), II, Cagliari 2015, pp. 929-934. Panico, Spanu, Zucca 2015 = B. Panico, P.G. Spanu, R. Zucca, Ricerche archeologiche nell’ager Tharrensis. Gli insediamenti tardoantichi, in R. Martorelli, A. Piras, P.G. Spanu (a c.), Isole e terraferma nel primo cristianesimo. Identità locale ed interscambi culturali, religiosi e produttivi (Atti dell’XI Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana), I, Cagliari 2015, pp. 457-459. Spanu 2018 = P.G. Spanu, I clarissimi Probus e Venusta in un nuovo laterizio dell’ager Tharrensis, in R.M. Carra Bonacasa, E. Vitale (a c.), Studi in memoria di Fabiola Ardizzone, 1, Epigrafia e Storia, in «Quaderni Digitali di Archeologia Postclassica» 10 (2018), pp. 179-189.

L’ULTIMO ABITO. VESTIZIONI RELIGIOSE IN PUNTO DI MORTE NEL BASSO MEDIOEVO*

Francesca Fiori

Nella navata di sinistra della chiesa di San Francesco a Ravenna è collocata la lastra sepolcrale di Ostasio da Polenta (1389-1396)1 (Fig. 1). Il gisant è rappresentato adagiato su un letto funebre, con gli occhi chiusi e le mani incrociate sul ventre, ed è vestito con l’abito francescano2. Questo tipo di immagini appare spesso poco individualizzato, in relazione al proposito religioso che erano chiamate ad esprimere secondo il dogma cristiano della resurrezione dei corpi: l’aspirazione alla gloria ultraterrena contrapposta a quella mondana. All’osservatore tuttavia non sfugge la compresenza di istanze contraddittorie laddove l’artefice, grazie all’ausilio di una maschera funeraria, non si esime dal fissare per l’eternità i tratti perspicui del signore ravennate e ne ostenta le insegne nobiliari3. L’impiego del marmo rosso veronese, ad eccezione del volto e delle estremità del defunto, richiama la valenza simbolica *  Queste pagine costituiscono la prima parte di una ricerca che in un successivo lavoro prenderà in esame le fonti bizantine, a partire dal XII secolo, nelle quali si riscontrano numerose testimonianze sull’adozione dell’abito monastico in vita e in punto di morte da parte degli imperatori e dei membri dell’aristocrazia romano-orientale.   Su Ostasio (IV) da Polenta, figlio di Guido ‘Ultimo’ (1350-1390), cfr. Giovanni Di Maestro Pedrino Depintore, Cronica del suo tempo, cura di G. Borghezio, M. Vattasso, Città del Vaticano 1934, p. 409; Tabanelli 1974, pp. 209-210; Vasina 1993, p. 597; G. Rossi, Storie ravennati, a cura di M. Pierpaoli, Ravenna 1997, pp. 595, 608; V. Carrari, Istoria di Romagna. Dall’età preromana all’età di Dante, I, a cura di U. Zaccarini, Ravenna 2007, p. 148. 2   Panofsky 2011, p. 88. 3   Boucherat 2009, pp. 394-395. Riguardo alla presenza degli stemmi dei defunti, l’uso di contrassegni araldici fiorì in tutta Europa dopo le prime crociate, per trovare diffusione proprio nella seconda metà del XIII secolo anche alla corte dei papi e nei loro monumenti funebri (cfr. Herklotz 2001, p. 291). 1

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Francesca Fiori

Fig. 1. Lastra tombale di Ostasio da Polenta (1389-1396), chiesa di San Francesco, Ravenna.

del porfido e sottolinea lo status del personaggio4. Un tempo, nella parte superiore della lastra, erano presenti gli stemmi gentilizi del casato rimossi dai Giacobini nel corso delle campagne napoleoniche, mentre sotto i piedi, anch’essi asportati, doveva esservi uno scettro, simbolo della rinuncia all’esercizio dell’autorità5. Un’iscrizione scolpita sulla cornice della lapide si limita all’esplicitazione anagrafica del signore polentano tralasciando l’enunciazione delle sue benemerenze6. Nella memoria funeraria delle grandi personalità europee fra Duecento e Trecento, il testo subisce una forte compressione rispetto all’espressione figurativa e la cele  Del Bufalo 2013, pp. 125-267. Cfr., inoltre, Lorenzoni 1998, pp. 299-316.   Trerè 2006/2007, p. 33. 6  Il testo dell’iscrizione recita: «HIC JACET MAGNIFICUS DOMINUS HOSTASIUS/ DE POLENTA QUI ANTE DIEM FELIX OBIENS/ OCCUBUIT MCCCXCVI DIE XIV MENSIS/ MARTII CUIUS ANIMA REQUESCAT IN PACE». Il riferimento a una ‘morte felice’ rientra nelle espressioni stereotipate dei formulari funebri richiamando il più consueto obire/requiescere in pace, una formula che allude al distacco dalle passioni e dalle preoccupazioni terrene, qui espresso icasticamente dallo scettro posto sotto i piedi del defunto. 4 5

L’ultimo abito. Vestizioni religiose in punto di morte

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brazione del defunto si attiene a un preciso programma iconografico che si fonda sul ritratto realistico, «sulla sua raffigurazione solenne ed ufficiale di dormiente potente»7. Il monumento funebre rappresenta dunque un «segno di potere» per i personaggi eminenti e ciò ne legittima la distruzione nel momento in cui esso viene meno8. L’effigie del magnificus dominus Ostasio, tuttavia, non ha seguito la sorte degli altri sepolcri e della cappella di famiglia scomparsi dopo la caduta della Signoria nel 1440; ciò lascia supporre che la presenza dell’abito francescano abbia garantito per lui una sorta di inviolabilità o che gli stessi Minori si siano fermamente opposti alla profanazione della tomba di un confratello. I da Polenta e la comunità dei Francescani furono fortemente legati da interessi di natura spirituale e patrimoniale, relazioni che Ostasio, uomo d’arme e vicario per la sede apostolica dal 1391 al 1396, seppe mantenere e rafforzare9. Tuttavia, in assenza di un testamento e di ulteriori elementi prosopografici che ne attestino l’ingresso in religione, non è possibile stabilire se l’adozione della veste minoritica rappresenti, come suggerisce Jacques Chiffoleau, un’entrata simbolica nell’Ordine, un’adesione in extremis all’ideale di purezza e povertà dei frati, oppure un «suaire au pouvoir propitiatoire supérieur»10. La scelta di tale inumazione può significare una conversione alla vita religiosa, come nel caso di Galeotto Roberto Malatesta (1411-1432), signore di Rimini, che divenne terziario e condusse una vita casta fino alla morte senza rinunciare alle proprie funzioni istituzionali11 oppure, sull’esempio di Lamberto da Polenta (1275-1316), esprimere una precisa volontà testamentaria legata ai lasciti riservati ai Minori12. L’uso da parte dei sovrani e dei grandi signori di indossare la veste claustrale all’approssimarsi della morte, e la volontà di concludere l’esistenza in un monastero, manifestano una preoccupazione per la propria sorte ultraterrena assicurata anche dalle orazioni degli stessi confratelli. Presero l’abito sovrani come Ratchis (744757), Carlomanno (741-747), primogenito di Carlo Martello, e Arduino d’Ivrea (1002-1014) nel momento in cui decisero di rinunciare alla vita secolare o furono   Petrucci 1995, pp. 77-78; Id. 2004, pp. 551-566. Cfr., inoltre, Tomasi 2012, p. 107.   Herklotz 2001, p. 316. 9   Riguardo alle relazioni intercorse fra i da Polenta e i Minori si ricorda la fondazione del convento delle Clarisse a Ravenna nel 1268 per volontà di Chiara da Polenta (1247-1292). Lei stessa divenne monaca e contribuì alla diffusione del francescanesimo a Ravenna grazie alle sostanze personali e familiari e col sostegno del comune cittadino. Nei lasciti testamentari di Lamberto da Polenta, signore della città dal 1301 al 1316, egli destinò ai frati Minori la cifra di 25 lire ravennati, designando come esecutore delle proprie volontà il guardiano del convento; Lamberto chiese, inoltre, di essere sepolto avvolto «solummodo stamigna seu cilicio» e non dei «panni decentes militie et conditioni sue», che dovevano essere venduti e il ricavato distribuito ai poveri per la redenzione dei peccati. Cfr. Ricci 1891, p. 31; Vasina 1993, p. 566. 10   Chiffoleau 2011, p. 265. 11   Tonini 1848, p. 689; Donati 2004, pp. 59-60; Parmeggiani 2011, p. 279. 12   Vedi nota 9. 7 8

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costretti a farlo13. Una notizia, riportata da Orderico Vitale (1075-1142) nella Historia Ecclesiastica, riguarda il nobile condottiero Ansoldo, signore di Maule, il quale malato e prossimo alla fine scelse di unirsi ai Pauperes Christi, i monaci, divenendo uno di loro14. Tale prassi è invalsa tra i viri excellentes a partire dall’affermazione dei Mendicanti nel tessuto dei principali centri urbani e dal loro coinvolgimento in qualità di esecutori testamentari e depositari di statuti, privilegi e documenti comunali15. Nei rapporti che intercorrono fra i principi, i signori, i notabili e gli ordini religiosi, ai quali i primi si affidano per le competenze, la cultura e il prestigio, si inseriscono le garanzie per l’Aldilà, le preghiere e i suffragi, che si saldano strettamente «con i concreti vantaggi fruibili fin dal presente»16. A partire dalla seconda metà del Duecento, la pratica testamentaria, limitata all’inizio a pochi devoti, trovò ampia diffusione divenendo, secondo Antonio Rigon, «un vero costume sociale e uno dei tramiti principali di relazioni tra laici e Ordini mendicanti», collettori nell’esercizio della carità e intermediari necessari per accedere alla salvezza eterna17. Nel Trecento i legati agli enti religiosi si concentrarono soprattutto sui Mendicanti, sempre più presenti accanto ai testatori. Costoro erano soliti riservare compensi («le prix du passage») per le preghiere e le esequie in caso di morte18. Un esempio noto di beneficenza testamentaria è offerto da Enrico Scrovegni († 1336), cittadino di Padova e di Venezia, aristocratico ai vertici della dirigenza cittadina, il quale nei primissimi anni del Trecento commissionò la Chiesa di Santa Maria della Carità come oratorio privato e mausoleo di famiglia disponendo numerosi legati pro anima a favore di conventi padovani e veneziani dei cinque ordini riconosciuti19. Le celebrazioni post mortem attraverso l’istituzione di legati in denaro per le messe di suffragio assecondavano un imperativo sociale teso a scongiurare il timore del trapasso, nella consapevolezza di una continuità tra la vita e la morte, attraverso azioni e segni esteriori, opere di misericordia e atti di devozione, finalizzati alla remissio peccatorum e quindi ad una ricompensa ultraterrena20. Allo stesso modo, l’esigenza di simboli riconoscibili, come la sepoltura in abito monastico, attestava una professio in signis, rispondeva alla volontà di esternare una interiorità di fede da parte del defunto il quale rinunciava ai beni terreni per conseguire più agevolmente il premio celeste21. La relazione che intercorreva fra l’indi Cfr. Delogu 1980, p. 121; Jarnut 1982, pp. 60-61.   The Ecclesiastical History of Orderic Vitalis, edited and translated with introduction and notes by M. Chibnall, III, Oxford 1972, pp. 192-198. 15   Chiffoleau 2011, pp. 267-273; Rigon 1997, pp. 259-273; Parmeggiani 2011, pp. 277-279. 16   Miccoli 1987, pp. 63-64. 17   Rigon 1985, pp. 41-63; Id. 1997, pp. 271-272. Cfr., inoltre, Lorcin 1993, pp. 143-156. 18   Chiffoleau 2011, pp. 218-222. 19   Frugoni 2008, pp. 68-69, 75-79, 439-442. 20   Gatti 1985, p. 8; Rigon 1997, p. 271. 21   Vermiglio 2009, p. 387. Cfr., inoltre, Vauchez 1989, p. 113. 13 14

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viduo e l’abbigliamento conferiva pertanto a quest’ultimo una funzione di marker, di identificatore distintivo22. Per il testatore, la veste dei Mendicanti racchiudeva dunque un forte valore semiotico: la scelta di indossare l’abito di un determinato Ordine al momento del trapasso, allo stesso modo dell’elezione della propria sepoltura, rispondeva a fattori sociali e a modelli devozionali, come attesta l’esempio di Federico IV d’Aragona (1347-1377), che vestì l’abito carmelitano dopo la guarigione da una grave malattia in adempimento a un voto formulato a sant’Alberto da Trapani; legato dall’oblazione dei parenti alla veste carmelitana per tre anni, otterrà lo scioglimento anticipato dal patto votivo poiché chiamato a cingere la corona di Sicilia23. Gli atti notarili, che includono donazioni, contratti di enfiteusi e testamenti, rivelano aspetti interessanti sul sentimento religioso e sulla devozione dei fedeli alla cui generosità i Mendicanti si affidarono per costruire i propri edifici24. Nella stesura dei documenti testamentari, la presenza accanto ai signori di religiosi in qualità di interlocutori sul piano spirituale e politico, ci riconduce al «topos dell’umiltà determinato dalla scelta dell’abito francescano», che concorreva in particolar modo «a trasmettere una parvenza umile del potere signorile (e, al contempo, ad esaltare l’ordine)»25. I Mendicanti, in special modo i Minori, occupano una posizione di rilievo fra gli enti ecclesiastici beneficiati dai lasciti testamentari di Malatesta da Verucchio (1226-1312) e in seguito dei suoi successori, sotto la cui signoria il rafforzamento dei legami tra potere e Ordini mendicanti nella città di Rimini raggiunse l’apice. Le estreme volontà del signore riminese stabiliscono, in primo luogo, la sepoltura in abito da terziario francescano nella chiesa dei Minori e fissano la restituzione dei mala ablata sulla base delle disposizioni redatte dal proprio confessore, il frate minore Ventura di Paganuccio, al quale è destinato uno specifico legato26. In alcuni atti notarili del XIV secolo provenienti dalla città di Messina sono annotate offerte e donazioni alla chiesa di San Francesco e al suo convento da parte di nobili e notabili in suffragio della propria anima o di quella dei loro parenti27. Fra le testimonianze più significative vi è quella di Matteo Sclafani (1290-1354), conte di Adernò, il quale in un primo testamento del 1333, in seguito modificato, designa la   Moulin 1988, p. 106; Barthes 2006, p. 23.   Vita S. Alberti Confessoris Ordinis Carmelitarum. Hagiographica carmelitana ex codice Vaticano latino 3813, ed. F. Van Ortroy, in «Analecta Bollandiana» XVII, 1898, pp. 317-336. 24   Stanislao Da Campagnola 1985, pp. 31-32. 25   Parmeggiani 2011, p. 278. 26   Ivi, pp. 277-279. 27   Ciccarelli 2008, pp. 21-22: si tratta di attestazioni come quella della vedova di Federico de Castello che, nel proprio testamento del 16 agosto 1363, assegna una vigna nella fiumara di Zafferia come legato al convento per garantire processioni presso la propria tomba. Nel 1382 Angela Serafino, seconda moglie del notaio Nicolò Lardea, dispone di essere sepolta con l’abito francescano nella chiesa da lei beneficiata così come si legge nel 1386 anche nelle volontà di Giacomo Volta che lascia somme per il proprio altare in San Francesco. 22 23

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chiesa del Beato Francesco di Palermo per esservi sepolto con la veste francescana all’interno della cappella di famiglia28. Nello stesso periodo, un esempio illustre di monacazione in seguito alla vedovanza è quello riferito alla regina di Sicilia Eleonora d’Angiò (1289-1343). La frase «cui Sacra Clara dedit habitum» incisa sulla sua lapide, il cui sepolcro è andato distrutto nel 1683, lascia pensare ad una scelta avvenuta dopo la morte del marito. Tali parole non chiariscono, tuttavia, se la sovrana sia entrata a far parte dell’Ordine delle Clarisse a tutti gli effetti o abbia pronunciato i voti da Terziaria francescana. Quest’ultima appare l’ipotesi più convincente, poiché negli ultimi anni Eleonora avrebbe condotto una vita ritirata sulle pendici dell’Etna recandosi spesso nel monastero di S. Nicolò d’Arena dove partecipò alla vita claustrale e agli esercizi di penitenza. Qui morì e fu sepolta a Catania nella chiesa di S. Francesco all’Immacolata che ella aveva fatto erigere, insieme al convento, per la comunità francescana29. Nella rappresentazione di Giulio Antonio Acquaviva d’Aragona (14281481)30, duca d’Atri e conte di Conversano, e della moglie Caterina del Balzo Orsini, i cui ritratti occupano il registro mediano del monumento funerario ad essi dedicato all’interno della chiesa di S. Maria dell’Isola a Conversano31, i due coniugi vengono mostrati in abito francescano all’interno di una tenda a padiglione, i cui lembi sono scostati da quattro figure angeliche, e affiancati dalle statue di san Francesco e sant’Antonio32 (Fig. 2). Nella volontà di rappresentare i defunti vestiti con il saio si ravvisa il proposito di consolidare il prestigio della nobile famiglia, che si riflette innanzi tutto sul committente, legandone la memoria all’Ordine a cui essa è devota. Ugualmente, la predilezione per un santo titolare, la scelta dei programmi iconografici, le dedicazioni di altari e cappelle rispondono a istanze propagandistiche e, secondo Angelo Maria Monaco, divengono al tempo stesso  Russo 2006, pp. 57-60: il conte, in una successiva disposizione testamentaria del 1345, si esprime invece a favore della chiesa di S. Chiara a Palermo, di cui finanzia la costruzione, lasciando alla badessa un legato di 400 fiorini d’oro per realizzare il proprio monumento funebre; nel 1348 chiede che due frati Minori scelti dalla stessa celebrino messe perpetue a beneficio della propria anima e, per il loro sostentamento, i religiosi ricevono un «molendinum […] cum viridario et canneto». 29   Costa 2007a, pp. 15-24; Id. 2007b, p. 194: fonti seicentesche insistono sullo stato di terziaria francescana della sovrana basandosi «sull’inosservanza della clausura da parte di Eleonora, sulle sue donazioni, sull’elezione della sepoltura: tre atti di valore giuridico consentiti ai Terziari regolari, non alle moniales di stretta osservanza come sono le monache di S. Chiara». 30   L’appellativo d’Aragona verrà aggiunto al nome del casato a partire dal 1479, per concessione del re di Napoli Ferdinando I (1431-1494). 31   La chiesa fu edificata su committenza del conte nel 1462 e affidata l’anno successivo ai Minori che costruirono un piccolo convento. La testa del condottiero, decapitato nel 1481 durante la conquista turca di Otranto, venne inviata come trofeo a Costantinopoli e non sarà mai restituita, mentre il corpo fu sepolto nella chiesa di Maria SS. Assunta a Sternatia Nel 1523 il figlio Andrea Matteo III (14581529) decise di traslarne le spoglie a Conversano e commissionò un’opera monumentale a per celebrare i propri congiunti. Si veda: Fonseca 1986; Houben 2008. 32   Gelao 1996, pp. 303-348; Ead. 2004, pp. 11-53. 28

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Fig. 2. Cenotafio di Giulio Antonio Acquaviva d’Aragona (1428-1481) e della moglie Caterina del Balzo Orsini, chiesa di Santa Maria dell’Isola, Conversano.

un «documento visivo del rapporto privilegiato che si instaura tra il committente e il santo protettore»33. Lo stesso modello iconografico si ripropone nel cenotafio del principe di Taranto Raimondo Orsini del Balzo (1350/55-1406), il quale fece erigere a Galatina la chiesa di S. Caterina d’Alessandria (1385-90), insieme al convento-ospedale, come ex voto dopo il ritorno da un pellegrinaggio in Terra Santa, e in quello del figlio Giovanni Antonio (1401-1463): due angeli reggicortina collocati agli estremi dei gisant ne disvelano i corpi in vesti francescane34 (Fig. 3). Il patrocinio celeste che unisce la santa a Raimondo si concretizza nell’edificio, una sorta di duplicato dell’omonimo monastero sul Sinai, destinato ad accoglierne la reliquia di un dito sottratta da costui in occasione del viaggio. Sulla sommità del baldacchino, le cui cortine si aprono sulla salma del principe vestita con il saio, campeggia il suo doppio a tutto tondo, inginocchiato e orante, il quale indossa una cappa sontuosa rossa con una bordatura che richiama l’ermellino, attributo del potere35. La compresenza dell’effigie del principe morto e vivo,   Monaco 2013, pp. 601-602. Cfr., inoltre, Vetere 2006, pp. 2-23.   Monaco 2013, pp. 603-605: completata da Giovanni Antonio, la basilica ne accolse il monumento funebre e quello del padre, morto nell’assedio di Taranto nel 1406. 35   Piccolo Paci 2008, p. 212: fra XII e XV secolo emerge una nuova attenzione per le valenze simboliche dei colori e delle vesti, come ad esempio oro e argento, pellicce di vaio ed ermellino, «in una evidente volontà di esaltazione della casta e del valore cavalleresco». 33

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Fig. 3. Cenotafio Raimondo Orsini del Balzo (1350/55-1406), chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, Taranto.

probabile aggiunta cinquecentesca, evocherebbe la duplice natura fisica e mistica della regalità, conferendo alla rappresentazione funeraria una pregnanza accentuata, come ha scritto Marcello Fantoni, «dalla sua combinazione con altri elementi a forte connotazione simbolica quali il sito dell’edificio, il suo carattere ‘gestionale’, la sua dimensione cenobitica, il suo protettore celeste, l’importanza delle reliquie possedute»36. Un ultimo esempio significativo proviene dalla cappella di Sant’Orsola a Vigo di Cadore (metà del XIV secolo). In una scena del ciclo pittorico dedicato alla Passio della martire Orsola vengono mostrati inginocchiati al suo cospetto i committenti dell’edificio, Ainardo da Vigo (†  1346/7) e la moglie Margherita di Leisach37 (Fig. 4). Nel pannello immediatamente successivo la santa appare ad un personaggio sul letto di morte vestito da monaco (Fig. 5). Si tratterebbe forse dello stesso Ainardo, tuttavia il dubbio sull’identità della figura in questione può   Fantoni 2002, pp. 213-214.   Il notabile, figlio di Odorico da Vigo, podestà del Cadore dal 1313 al 1320 per conto dei feudatari della zona, i Caminesi, fece edificare la chiesetta dotandola nel 1345 di un beneficium. Gli affreschi risalgono ad un periodo successivo alla morte di Ainardo (1346-7) e sarebbero stati commissionati dal secondo marito della vedova, Pandolfo da Lienz, e dal cognato Josto in concomitanza con la traslazione delle spoglie del defunto nell’edificio. Cfr. Rapozzi 1958; Id. 1959; Franco 1985, p. 11. 36 37

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Fig. 4. Ritratto di Ainardo da Vigo († 1346/7) e della moglie Margherita di Leisach inginocchiati al cospetto di sant’Orsola, cappella di Sant’Orsola, Vigo di Cadore.

Fig. 5. Ritratto di Ainardo da Vigo (?) in punto di morte, cappella di Sant’Orsola, Vigo di Cadore.

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essere sciolto sia che la rappresentazione venga letta come un’effettiva adesione alla vita claustrale da parte del nobile alla fine della propria esistenza, sia che la scena si presti ad una interpretazione allegorica e alluda ad una scelta di vita ideale, al distacco dagli affari del mondo nell’imminenza degli aeterna. Bibliografia Barthes 2006 = R. Barthes, Storia e sociologia del vestito (1957), trad. it. in Il senso della moda. Forme e significanti dell’abbigliamento, Torino 2006. Boucherat 2009 = V. Boucherat, s.v. Gisant, in Dictionnaire d’histoire de l’art du Moyen Âge occidental, Paris 2009, pp. 394-395. Chiffoleau 2011 = J. Chiffoleau, La comptabilité de l’au-delà. Les hommes, la mort et la religion dans la région d’Avignon à la fin du Moyen Âge, Paris 2011 (1er éd. 1980). Ciccarelli 2008 = D. Ciccarelli, San Francesco all’Immacolata di Messina, Palermo 2008. Costa 2007a = F. Costa, S. Francesco all’Immacolata di Catania. Guida storicoartistica, Palermo 2007. Costa 2007b = F. Costa, Eleonora d’Angiò (1289-43), Regina francescana di Sicilia (1303-1343), in A. Musco (a c.), I Francescani e la politica (secc. XIII- XVII) (Palermo, 3-7 dicembre 2002), 2, Palermo 2007, pp. 175-222. Del Bufalo 2013 = D. Del Bufalo, I colori del potere nei marmi di riuso, in G. Cipollone, M. S. Boari (a c.), Riflessi di politica papale verso i Saraceni al tempo di Innocenzo III. Evoluzione di colori e significati: ‘croce disarmata’ (Pontificia Università Urbania, 26-28 gennaio 2011), Città del Vaticano 2013, pp. 125-133. Delogu 1980 = P. Delogu, Il regno longobardo, in G. Galasso (dir.), Storia d’Italia, I: Longobardi e Bizantini, Torino 1980, pp. 1-216. Donati 2004 = A. Donati, I beati di Verucchio. Giovanni Gueruli, Gregorio Celli, Bionda Foschi, Galeotto Roberto Malatesta, Villa Verucchio 2004. Fantoni 2002 = M. Fantoni, Il potere delle spazio. Principi e città nell’Italia dei secoli XV-XVII, Roma 2002. Fonseca 1986 = C.D. Fonseca (a c.), Otranto 1480 (Otranto, 19-23 maggio 1980), Galatina 1986. Franco 1985 = T. Franco, Gli affreschi della Chiesa di Sant’Orsola di Vigo di Cadore, Belluno 1985. Frugoni 2008 = C. Frugoni, L’affare migliore di Enrico. Giotto e la cappella degli Scrovegni, Torino 2008. Gatti 1985 = G. Gatti, Autonomia privata e volontà di testare nei secoli XIII e XIV, in «Nolens intestatus decedere». Il testamento come fonte della storia religiosa e sociale (Perugia, 3 maggio 1983), Perugia 1985, pp. 17-26.

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ROMEON GUBERNATOR. TRACCE DI POLEMICA ANTI-BIZANTINA NELLA LETTERA DEL PRETE GIANNI

Marco Giardini

Nella seconda metà del XII secolo cominciò a circolare in Europa una lettera redatta da un misterioso sovrano orientale, che nell’incipit si presentava con il nome di «Presbiter Iohannes, potentia et virtute Dei et domini nostri Iesu Christi dominus dominantium» (§ 1)1. Nei paragrafi iniziali di questo scritto, indirizzato a Emanueli, Romeon gubernatori, il Prete Gianni, sovrano sulle «tre Indie» (§ 12), dichiarava di possedere un regno immenso, che lo poneva, per potenza, ricchezza e virtù, al di sopra di ogni sovrano terreno (§ 9). Egli inoltre si professava un cristiano devoto, zelante nella difesa e nel sostegno elargito ai poveri e intenzionato a liberare il Santo Sepolcro dall’occupazione dei nemici di Cristo (§ 10-11); il Prete Gianni desiderava anche accertarsi che il proprio interlocutore si attenesse alla vera fede, dato che, sulla base di notizie a lui pervenute, Manuele si sarebbe allontanato dall’ortodossia, sino a farsi considerare dai propri Graeculi come un vero e proprio dio (§ 3-4). Dopo la parte introduttiva, la lettera si dilungava a illustrare le meraviglie di cui era ricolmo il regno del Prete Gianni, nonché i segni più eloquenti del suo potere ineguagliabile. A un lettore attento non sarebbe infine sfuggito la rivendicazione della duplice dignità regale e sacerdotale, desumibile dal confronto fra i paragrafi iniziali, nei quali il misterioso sovrano orientale si presentava con attributi regali tradizional  Per la ricostruzione testuale della versione latina della Lettera del Prete Gianni, comprensiva delle varie interpolazioni che sono venute ad aggiungersi al testo originale, gli studi di riferimento sono: Zarncke 1879, pp. 847-934, e, più recentemente, Wagner 2001. La Lettera, inoltre, fu oggetto di numerosissime traduzioni, fra le quali vanno menzionate, per la loro importanza, quelle francesi (studiate in Gosman 1982), dalle quali sarebbero a loro volta derivati rifacimenti in altre lingue volgari (cfr. Bejczy 2001, pp. 196-201), e quelle tedesche (studiate in Zarncke 1879, pp. 947-1028 e Wagner 2001, pp. 467-661).

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mente assegnati alla figura messianica2, e quelli finali, dove il Prete Gianni dichiarava esplicitamente di aver scelto per umiltà il più basso titolo della gerarchia ecclesiastica (quello di presbiter, appunto), nonostante la sua corte fosse ripiena di re-sacerdoti che si fregiavano di titoli superiori, pur restandogli sottomessi (§ 97-99). Come si può evincere da questi rapidi riferimenti testuali, la Lettera del Prete Gianni presenta notevoli implicazioni dal punto di vista teologico-politico, e rivela indizi piuttosto emblematici sulla sua possibile provenienza. In questa sede, intendiamo soffermarci sui risvolti storici e teologici dell’epiteto – gubernator Romeon – con il quale l’imperatore Manuele viene menzionato nel testo preso in considerazione. Come già diversi studiosi hanno rilevato, è possibile individuare in questa espressione fortemente spregiativa un richiamo alle correnti anti-bizantine che, con l’ascesa al trono di Federico Barbarossa, avevano ripreso particolare vigore in Germania3. Questo accostamento sembra effettivamente giustificato, se si tiene conto che negli anni Cinquanta e Sessanta del XII secolo, uno dei più accesi motivi di scontro riguardava proprio la titolatura. La questione centrale riguardava il significato da attribuire all’espressione “imperatore dei Romani”, tematica alla quale la Lettera del Prete Gianni, con l’epiteto assegnato a Manuele, si riallaccia direttamente. Tale problema ricorre a dire il vero per tutta la storia dei rapporti fra i due imperi; esso, tuttavia, ritornò prepotentemente alla ribalta all’epoca in cui il trono tedesco fu occupato stabilmente da membri della famiglia Hohenstaufen, nello stesso periodo in cui si assistette a Costantinopoli al lungo regno di Manuele Comneno. Com’è ben noto, i titolari di entrambi gli imperi erano tenacemente saldi nell’affermazione dell’unicità dell’impero romano, nella misura in cui a quest’ultimo era attribuito un carattere di universalità e di superiorità rispetto a tutti gli altri regni – indipendentemente dal fatto che questi tratti si discostassero in misura più o meno consistente dalla realtà dei fatti. La compresenza di due sovrani che rivendicavano la stessa dignità imperiale romana rappresentava perciò un’anomalia; essa poteva essere risolta solamente attraverso un ridimensionamento delle pretese dell’uno o dell’altro dei due contendenti. In tal senso una disamina più attenta di alcune lettere scambiate fra i due imperatori a partire dall’epoca di Corrado III ci consentirà di apprezzare il contrasto che cominciò ad emergere fra la corte tedesca e quella bizantina a partire dal 1139, quando sul trono costantinopolitano sedeva ancora Giovanni Comneno. In una lettera risalente a quest’anno, Corrado III, non ancora formalmente consacrato imperatore, si qualificava come Romanorum imperator augustus; l’affermazione della  L’espressione dominus dominantium ricorre cinque volte nella Lettera (§§ 1, 9, 49, 76 e 99; le ultime due occorrenze si trovano in due interpolazioni aggiunte a poca distanza dalla redazione del testo originale). Essa è tratta direttamente dal libro dell’Apocalisse, dove viene attribuita direttamente al Cristo (cfr. Ap 17,14 e Ap 19,16). Su alcune implicazioni di questa identificazione, vedi infra. 3   Cfr. in particolare Lamma 1957, pp. 125-126; Gosman 1982, pp. 36-37; e Carile 2000, pp. 65-66. 2

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propria superiorità rispetto a Giovanni era esplicitamente confermata nel seguito del testo, dove il rapporto fra Roma e Costantinopoli veniva chiaramente equiparato a quello fra una madre e una figlia4. In tutte le missive che seguiranno, indirizzate al successore di Giovanni, Manuele, Corrado III si arrogherà sempre una titolatura “imperiale”, nonostante egli non sia mai riuscito a ottenere la corona dell’impero da parte del papa. La netta presa di posizione di Corrado può essere verosimilmente spiegata come un tentativo di respingere qualsiasi insinuazione di inferiorità rispetto agli imperatori orientali; inoltre è lecito pensare che Corrado presumesse di detenere già “virtualmente” il titolo imperiale, sulla base del fatto che l’incoronazione da parte papale era stata solo posticipata per cause materiali5. Non è poi da escludere che Corrado, nonostante l’influenza di Wibaldo di Stavelot, convinto sostenitore dell’intesa fra papato e impero6, abbia concepito l’idea di svincolarsi dalla mediazione del papa per giustificare l’autonomia dell’impero7, posizione che verrà tenacemente sostenuta da Federico Barbarossa8. Ad ogni modo, è del tutto plausibile ammettere che il nipote di Corrado abbia sfruttato la rivendicazione imperiale del proprio predecessore, nonostante il suo defectus ordinis, come precedente autorevole per giustificare la teoria del Romanorum imperator electus, in virtù della quale l’atto formale della “creazione” del nuovo imperatore si esauriva nella elezione da parte dei principi, mentre l’incoronazione papale era considerata come accidentale9. Ciò naturalmente non presupponeva una concezione “laica” del potere temporale; l’elezione dei principi, infatti, non escludeva minimamente quella divina. In questo senso si inserisce il particolare recupero dell’espressione a Deo coronatus di origine carolingia da parte federiciana: l’imperatore è incoronato direttamente da Dio, senza alcuna mediazione da parte del papa, il cui ruolo è quello di “ratificare” sacramentalmente una realtà già esistente10. Tale posizione federiciana, che corrisponde  Cfr. Lamma 1955, pp. 36-37 e Koch 1972, p. 221.  Cfr. Ohnsorge 1958a, p. 376. 6  Cfr. Lamma 1955, pp. 243-250; Zeillinger 1970; Appelt 1975. 7  Cfr. Tounta 2011. 8   Le politiche contrastanti di Corrado e Federico furono sicuramente condizionate dalle posizioni nettamente diverse sostenute dalle personalità più influenti che operarono nelle loro rispettive corti: conciliante nei confronti della Curia romana Wibaldo di Stavelot, decisamente ostile invece Rinaldo di Dassel. Cfr. Appelt 1975; Grebe 1975; Zeillinger 1970. Più generalmente, sulla questione della titolatura imperiale all’epoca di Corrado III e durante i primi anni del regno di Federico Barbarossa, cfr. Herkenrath 1969. 9  Cfr. Ohnsorge 1958a, p. 377. A proposito di Corrado III, Ohnsorge ricorre al concetto di “stellvertretender Kaiser”, distinto da quello di imperator electus nella misura in cui «der “stellvertretender Kaise” sieht die Provenienz seiner Würde realiter in der Krönung durch den Papst, nur, daß er in gewissen Fällen zur Wahrung der Ansprüche des imperium den Defectus temporis überbrückend, in der Vorstellung die Krönung vorwegnehmend als Imperator in Stellvertretung auftritt» (ibid.). 10   Questa posizione si rispecchia in modo molto nitido nella letteratura tedesca contemporanea: cfr. Nellmann 1963. 4 5

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al periodo di maggiore contrasto col papato, all’epoca in cui Rinaldo di Dassel era arcicancelliere imperiale, trova un riscontro molto preciso in una famosa dichiarazione redatta in seguito alla dieta di Besançon del 1157, riportata da Rahewino: in risposta alla – presunta – affermazione dei legati papali di Adriano IV, fra i quali spicca Rolando Bandinelli, il futuro Alessandro III, secondo la quale l’impero sarebbe stato concesso come beneficium papale11, Barbarossa sosteneva che per electionem principum a solo Deo regnum et imperium nostrum sit12. Non veniva contestata la liceità dell’incoronazione papale, bensì la sua considerazione come atto costitutivo della dignità imperiale13; se di beneficium si poteva parlare, questo poteva essere solo divino14. Ritornando al carteggio fra Corrado III e i due Comneni, è interessante rilevare come, nel diverbio sulla titolatura, alla dignità dell’imperatore costantinopolitano non venga mai riconosciuto il carattere “romano” da parte tedesca15. Nella succitata lettera a Giovanni, questi viene indicato come imperator Costantinopolitanus16, e Corrado si rivolgerà sovente a Manuele con l’espressione ancora meno onorifica di rex Graecorum, ridimensionando quindi la sua pretesa alla sovranità universale “romana” a un dominio circoscritto a una nazione particolare, per di più di modeste dimensioni17. Tale prassi, che continuerà ininterrotta anche con Federico Barbarossa18 e sarà   In questo senso, la ricezione fortemente polemica da parte imperiale del discorso papale è in realtà frutto di una distorsione di Rinaldo di Dassel, che intese il termine beneficium in senso strettamente feudale: cfr. Maccarrone 1959, pp. 208-217; Grebe 1975, pp. 292-293; Heinemeyer 1969; Laudage 1997, pp. 88-93. Da notare, tuttavia, che i legati papali non contestarono di fatto l’interpretazione fornita da Rinaldo, ed anzi ad essa si appoggiarono con la famosa frase, riportata da Rahewino, A quo ergo habet, si a domno papa non habet imperium? Sull’intera questione, cfr. anche Lamma 1955, pp. 269-275; Schmidt 1995. 12  Rahewino, Gesta Friderici, in MGH SS XX, p. 423. La stessa idea veniva inoltre sostenuta in una lettera dei vescovi tedeschi ad Adriano IV: cfr. MGH Const. I, p. 233, n. 167. 13  Cfr. Grebe 1975, p. 294. Cfr. anche Maccarrone 1959, pp. 237-239. 14   Cfr. Rahewino, Gesta Friderici, MGH SS XX, p. 436: liberam imperii nostri coronam divino tantum beneficio ascribimus. 15   Da notare che, nello scontro sulla titolatura, assume forse maggior peso la qualifica “romana” rispetto a quella “imperiale” nella rivendicazione dell’autorità universale (cfr. Ohnsorge 1958a, pp. 369, 373-376). Sui molteplici significati della dignità imperiale romana all’epoca di Corrado e Federico, cfr. in particolare Schwarz 2003, pp. 81-85. 16  Cfr. Koch 1972, p. 221. 17  Cfr. Koch 1972, p. 222. Nelle versioni latine delle lettere indirizzate da Manuele Comneno alle cancellerie dei regni latini e del papato è frequente l’espressione imperator Romeon (cfr. Kresten 1992-1993, pp. 86-89); essa venne adottata in un’occasione anche da Wibaldo di Stavelot (Epistolae Wibaldi, n. 432; cfr. Junger 1874, p. 15, n. 4, citato da Ohnsorge 1958a, p. 374 n. 40). Il cancelliere imperiale, poi, indicò in un’altra circostanza Manuele come imperator Graecorum et Romaniae (Epistolae Wibaldi, n. 343; entrambe le lettere sono menzionate in Kolia-Dermitzaki 2014, p. 379, n. 98). L’epiteto gubernator Romeon utilizzato nella Lettera del Prete Gianni potrebbe quindi richiamarsi a una titolatura corrente attribuita nel XII secolo all’imperatore costantinopolitano, ovviamente modificata in senso sfavorevole a Manuele e ricondotta a un significato meramente “nazionale”. 18  Cfr. Herkenrath 1969. 11

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adottata anche da Manuele, ovviamente rovesciata in senso sfavorevole agli imperatori tedeschi19, non impedirà a Corrado di mantenere relazioni cordiali con l’imperatore di Costantinopoli. Lo scontro sulla titolatura rappresentava infatti un elemento di contrapposizione che però non comprometteva una più generale intesa, dovuta alla comune minaccia all’integrità e alla sicurezza dei rispettivi domini causata dalla presenza dei Normanni in Sicilia20. Tale intesa avrebbe addirittura portato a un accordo, conosciuto piuttosto impropriamente come “trattato di Salonicco”, in virtù del quale Corrado, di ritorno dalla disastrosa spedizione crociata, e in una posizione quindi di relativa debolezza rispetto all’imperatore costantinopolitano, avrebbe promesso di cedere a Manuele alcune parti dell’Italia come “dote” per l’imperatrice Irene21. I rapporti mutarono drasticamente con l’ascesa al trono di Federico Barbarossa, che sin dal trattato di Costanza del 1153 definì come punto fermo della sua azione politica l’inalienabilità di qualsiasi porzione del suolo italiano, in special modo nei confronti dell’imperatore costantinopolitano. La decisione di annullare gli accordi fissati a Salonicco da Corrado, i quali peraltro non erano vincolanti per il Barbarossa22, si inserisce nel quadro dell’intesa raggiunta con papa Eugenio III che, oltre alla minaccia normanna, aveva già manifestato al tempo di Corrado III tutta la sua preoccupazione per una possibile presenza bizantina nel Sud Italia23. Federico infatti prometteva che «Grecorum quoque regi nullam terram   Cfr. il saluto di Manuele a Federico in una lettera riportata dagli Annales Stadenses: «Manuel in Christo deo fidelis imperator porphirogenitus divinitus coronatus regnator potens excelsus et semper augustus et Romanorum moderator magnificus nobilissimo et gloriosissimo regi Alemanniae et imperatori» (MGH SS XVI, p. 349). Cfr. Ohnsorge 1958a, p. 375; Kresten 1992-1993, in particolare pp. 107-109, dove è contenuta una nuova edizione della lettera citata. 20   Per un inquadramento generale, cfr. Ohnsorge 1947, pp. 90-115; Lamma 1955, pp. 85-99; Ohnsorge 1958b, pp. 411-491; Lilie 1985; Zeillinger 1985; Georgi 1990; D’Alessandro 1990; Houben 1992; Lilie 1992. 21  Cfr. Lamma 1955, pp. 89-93; Vollrath 1977; Niederkorn 1986; Hiestand 1993; Niederkorn 2000; Tounta 2011, pp. 167-170. Il matrimonio fra Berta di Sulzbach, sorella di Gertrude, sposa di Corrado, e Manuele era stato celebrato proprio per suggellare l’alleanza tedescobizantina in chiave anti-normanna. Cfr. Georgi 1990, p. 8; Vollrath 1977, pp. 339-340. 22   L’affermazione di Giovanni Cinnamo, secondo la quale Federico sarebbe stato presente assieme allo zio a Salonicco e si sarebbe impegnato al pari del suo predecessore a cedere parti della penisola italica a Manuele (cfr. Johannis Cinnami Historia IV.I, p. 135), è probabilmente un tentativo di gettare cattiva luce sul Barbarossa, presentandolo come sovrano non rispettoso dei patti. Cfr. Georgi 1990, p. 12; Tounta 2011, p. 195. Non è questo, del resto, l’unico attacco di Cinnamo a Federico: cfr. a questo riguardo Johannis Cinnami Historia V.7, pp. 218-220, passaggio studiato in Lamma 1955, pp. 1-6; Lamma 1957, pp. 137-140; e Schreiner 1992, 578-580. Sullo sfruttamento del Constitutum Constantini in chiave anti-tedesca e anti-curiale, cfr. Gaudenzi 1919, pp. 77-81; Alexander 1978, pp. 18-25; Tounta 2011, pp. 207-208. 23   Le preoccupazioni papali erano state espresse in particolare in una lettera del cardinale Guido di Santa Maria in Portico indirizzata a Wibaldo di Stavelot nel 1150 (Epistolae Wibaldi, n. 198). Cfr. Vollrath 1977, p. 329; Tounta 2011, pp. 182, 187-188. 19

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ex ista parte maris concedet. Quodsi forte invaserit, pro viribus regni, quantotius poterit, ipsum eicere curabit»24. In questa dichiarazione, che riprendeva la titolatura consueta nella corrispondenza con gli imperatori costantinopolitani degli anni precedenti, si può probabilmente osservare la prima netta presa di posizione anti-bizantina da parte di Federico. Questi, infatti, pur ponendosi in continuità con la politica di Corrado all’inizio del suo regno25, mostrò nell’arco di pochi anni un atteggiamento vieppiù ostile nei confronti di Manuele, il quale, d’altro canto, non rinunciò mai nel corso del suo lungo regno a mezzi diplomatici, economici e militari pur di riguadagnare porzioni della penisola italica anticamente sotto l’autorità bizantina26. Questo tentativo, che si scontrava diametralmente con la ferma posizione del Barbarossa manifestata già a Costanza nel 1153, giunse a intrecciarsi nel 1159 con lo scisma inter regnum et sacerdotium e turbò per un ventennio intero le relazioni politiche e religiose della Cristianità latina. Dopo l’intesa dei primi anni, infatti, i rapporti di Federico con il papato giunsero rapidamente a deteriorarsi a causa di un paio di eventi strettamente collegati ad alcune questioni politiche e dottrinali che avevano condizionato le relazioni con l’impero bizantino: da un lato il patto di Benevento, siglato nel 1156 da Adriano IV e Guglielmo I, con il quale il papa di fatto si discostava dalla politica anti-normanna perseguita fino ad allora dall’impero tedesco e ratificata dal trattato di Costanza27; dall’altro, il già citato scontro sul beneficium del 1157, che di fatto offrì la possibilità a Federico di esprimere compiutamente una concezione imperiale nettamente differente da quella papale, e anzi su alcuni aspetti fondamentali, come la derivazione della dignità imperiale, ad essa nettamente contrapposta. In questo contesto, sebbene non facile da determinare con precisione, non sembra potersi escludere l’influenza di concezioni bizantine28; diversi aspetti dell’idea imperiale federiciana, infatti, 24   MGH, Diplomata Regum et imperatorum Germaniae, X/1, Hannover 1975, pp. 88-89. Per le conseguenze sui rapporti tedesco-bizantini dopo la dieta di Costanza, cfr. Lamma 1955, pp. 137-147. 25   In questo senso si può cogliere l’esortazione in punto di morte di Corrado al proprio successore, «ut amicitiam tuam fideliter amplecteremur et fraternitatis vinculum inter nos indissolubili vinculo necteremus, quatenus imperia nostra per dilectionem unum fierent et utrique idem amicus idemque hostis existeret» (Regesta Imperii IV, 1, 2, n. 788). 26  Cfr. Lamma 1955, pp. 149-242. Più specificamente, sui generosi aiuti economici elargiti alle città italiane in lotta contro Federico Barbarossa, cfr. Classen 1983, pp. 147-170; nonché Lilie 1984. Per quanto riguarda la presa di posizione a favore di Alessandro III nello scisma che lo opponeva agli antipapi federiciani, cfr. infra. 27  Cfr. Maccarrone 1959, pp. 141-158; Georgi 1990, pp. 27-33; D’Alessandro 1990, pp. 123-125; Laudage 1997, pp. 83-88; Tounta 2011, p. 206. Sui complessi rapporti fra Papato e Normanni, cfr. Déer 1972. 28   Cfr. in particolare Ohnsorge 1958a, pp. 364-386; Koch 1972, pp. 215-230; Tounta 2010b; Tounta 2011, pp. 170-173. La stessa rappresentazione del rapporto fra Roma e Costantinopoli, paragonato a quello fra madre e figlia (cfr. supra), presenta un richiamo alla concezione tipicamente bizantina in virtù della quale le relazioni tra l’impero e i diversi popoli erano descritte come vincoli

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a partire dalla sua indipendenza da qualsiasi forma di mediazione sacerdotale, sino al recupero di alcuni temi quali la diretta continuità con gli imperatori dell’antichità e la sacralità dell’impero29, potrebbero infatti essere maturati alla corte tedesca sotto l’impulso di influssi provenienti dall’impero costantinopolitano, dove tutti questi motivi erano consolidati da secoli30; e d’altro canto, proprio le intensificate relazioni diplomatiche fra tedeschi e bizantini all’epoca dei Comneni e degli Staufer incentivarono con ogni verosimiglianza l’appropriazione, da parte di entrambi i concorrenti all’unica dignità “romana”, di motivi dottrinali appartenenti alle rispettive concezioni imperiali. Durante gli anni Sessanta e Settanta del XII secolo, Manuele aveva colto nello scontro fra papato e impero occidentale un’opportunità non soltanto per recuperare porzioni di suolo italico, ma anche per risolvere in suo favore la controversia sulla titolarità dell’impero romano. A questo proposito, la sua presa di posizione a favore di Alessandro III, che innescò una serie di relazioni diplomatiche con la Curia romana volte a raggiungere la piena unità con la Chiesa orientale, consentiva a Manuele di proporsi come valido sostituto del Barbarossa al papa riconosciuto da tutte le nazioni della Cristianità latina in contrapposizione agli antipapi federiciani di volta in volta succedutisi (Vittore IV, Pasquale III e Callisto III). Alessandro, tuttavia, a cui il nesso fra questioni religiose e politiche nella gestione dei due scismi era ben noto, si mantenne sempre cauto, e non sembra aver mai realmente maturato l’intenzione di rimpiazzare il Barbarossa con Manuele, soluzione decisamente meno vantaggiosa anche sotto il profilo militare, limitandosi nel suo rapporto pur cordiale con l’imperatore costantinopolitano ad affrontare questioni diplomatiche di portata minore o relative alla riunificazione delle due Chiese31. È in tale contesto che, nel 1167, si pose probabilmente il momento di massima tensione fra i due imperi, allorché, in occasione della quarta spedizione militare di Federico Barbarossa in Italia, Manuele ritenne che fosse giunto il momento opportuno per la restituzione della corona imperiale romana (corona imperii Romani temparentali – con la figura imperiale identificata abitualmente come un “padre” al vertice della “famiglia dei regni” (cfr. Dölger 1976, pp. 34-69). D’altronde, nei loro scambi epistolari, i Comneni e gli Staufer faranno spesso ricorso all’immagine fraterna (cfr. Dölger 1976, pp. 46-48; Schreiner 1992, p. 569). 29   Sul significato “sacrale” attribuito all’impero nei documenti di età federiciana, cfr. Schwarz 2003, pp. 86-96. 30   Cfr. per esempio Koch 1972, pp. 111-135. Cfr. anche Pertusi 1990; Dagron 1996; Carile 2000; Carile 2002. 31  Cfr. Lamma 1957, pp. 195-201; Georgi 1990, pp. 150-185, 302-345; Tounta 2011, pp. 202203. In questo contesto, vale la pena ricordare la disponibilità di Manuele Comneno a sostenere anche dottrinalmente la Chiesa romana, posizione che suscitò inevitabilmente il disappunto del clero bizantino. Ciò è chiaramente osservabile in occasione del Concilio di Costantinopoli del 1166, dove peraltro lo scontro interno alla Cristianità latina fra alessandrini e federiciani ebbe modo di esprimersi sul piano teologico (cfr. Classen 1983, pp. 117-146).

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pus oportunum)32. Il fallimento della spedizione tedesca e la ricomposizione delle relazioni diplomatiche, pur tese, fra le nazioni coinvolte della Cristianità latina, a cui va collegato l’inizio di un lento processo di riavvicinamento di Federico alle posizioni di Alessandro III, culminante nella pace di Venezia del 1177, affossarono le ambizioni del Comneno, il quale anzi negli anni Settanta vide ridursi la propria influenza sulla penisola in maniera inesorabile. Sempre nel 1177, verso la fine del regno di Manuele, in seguito alla sconfitta bizantina di Myriokephalon, si situa lo scontro forse più noto sulla titolatura dei due imperatori. L’imperatore costantinopolitano, infatti, nella lettera in cui comunicava l’esito della battaglia (in senso ovviamente a lui favorevole) aveva ancora una volta rimarcato la superiorità della propria dignità rispetto a quella puramente “nazionale” del Barbarossa, ricorrendo alla inusuale espressione Romanorum moderator: «Manuel in Christo Deo fidelis imperator, porphirogenitus, divinitus coronatus, regnator, potens, excelsus et senper augustus et Romanorum moderator magnificus, nobilissimo et gloriosissimo regi Alemanniae et imperatori et dilecto fratri, imperii nostri salutem et fraterni amoris affectum»33. In tutta risposta, Federico, forte della riconquistata unità con la Chiesa di Roma, poteva esprimere una delle più esplicite rivendicazioni del potere universale romano in un senso nettamente anti-bizantino: «Fridericus divina favente clementia inclitus trumphator, Romanorum imperator, a Deo coronatus, sublimis, in Christo fidelis, magnus, pacificus, gloriosus, cesar, Grecorum moderator et semper augustus»34. Non soltanto Federico attribuiva a se stesso la dignità romana, riducendo Manuele a mero re nazionale, ma sottolineava altresì come l’inferiorità del rex Graecorum vincolasse quest’ultimo a un rapporto di sottomissione e obbedienza nei confronti del legittimo sovrano universale («non solum Romanum imperium nostro disponatur moderamine, verum etiam regnum Grecie ad nutum nostrum regi et sub nostro gubernari debeat inperio»)35. Si sarebbe tentati di cogliere in questa perentoria affermazione un richiamo alle concezioni apertamente ostili ai reges provinciales difese vent’anni prima da Rinaldo di Dassel; questi, durante il periodo del suo cancellierato, aveva più volte rimarcato la netta inferiorità dei regni nazionali, i quali potevano essere considerati alla stregua di “province” dell’unico impero romano. Si potrebbe obiettare che la dichiarazione del 1177 si pone in un contesto profondamente diverso, contraddistinto da un riavvicinamento della posizione federiciana a quella papale, e più generalmente da un ridimensionamento delle pretese universaliste di carattere nettamente anti-curiale che avevano caratterizzato l’arcicancelleriato di Rinaldo di Dassel. Sarebbe tuttavia   Liber Pontificalis, p. 415. Cfr. in generale Lamma 1957, pp. 123-143. Sul significato corretto da assegnare al concetto di corona imperii nella prospettiva bizantina, cfr. Kahl 1977; Classen 1983, pp. 171-185, 503-514. Cfr. anche Laudage 1997, pp. 175-180. 33   Riportato in Annales Stadenses, in MGH SS 16, Hannover 1859, p. 349. 34   Kresten 1992-1993, p. 108 35   Ivi, p. 109. 32

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eccessivo pensare a una drastica cesura fra queste due fasi, e sostenere che la concezione imperiale federiciana degli anni Cinquanta e Sessanta non debba avere alcun elemento di contatto con quella successiva. D’altronde affermazioni paragonabili relative all’universalità del potere imperiale – ancora una volta, indipendentemente dalla corrispondenza di queste affermazioni alla realtà effettiva – sono rintracciabili nella produzione canonistica contemporanea. Di particolare interesse, in questo contesto, una famosa affermazione di Uguccione di Pisa, la quale, pur redatta alla fine degli anni Ottanta, sicuramente fissava per iscritto interpretazioni giuridiche elaborate precedentemente; essa poneva chiaramente le questioni del rapporto fra l’impero romano e gli altri regni e dello statuto dell’imperatore greco, in termini non dissimili da quelli correnti presso la cancelleria federiciana dei decenni precedenti: «Scitote – unum regem, hic alibi appellatur iudex, ut VII q. I in apibus, videtur quod quelibet provincia debet habere suum regem, sed imperator non debet esse nisi unus, qui omnibus regibus debet prae-esse, ut VII q. I in apibus»36. Altrove, lo stesso canonista scriveva in modo se possibile ancora più netto: «imperator unus debet esse, hoc generale et revelare casualiter tantum quam aliter fit et forte male, ut di. XXI nunc autem (c. 7.) Quid ergo de greculo? abusive et sola usurpatione dicitur imperator, solus enim romanus dicitur iure imperator, sub quo omnes reges debent esse, quicquid sit»37. Tale assimilazione dei regni a province trovava precisi riscontri nei testi della cancelleria imperiale degli anni Sessanta del medesimo secolo38, anche se con una valenza spregiativa, a causa delle contrapposizioni perduranti durante lo scisma inter regnum et sacerdotium39. Per spiegare l’appoggio dato ad Alessandro III da parte dei regni nazionali europei, infatti, il notaio Burcardo scriveva: «Unde et omnes reguli timore et odio magis imperatoris quam intuitu iusticiae illum in papam suscipere presumunt»40; nella Chronica regia, poi, strettamente dipendente da Burcardo, compaiono le seguenti parole: «Itaque imperator et qui sub Romano imperio erant Victorem pro catholico papa habebant. Aliarum autem provinciarum reguli et populi Alexandrum pro apostolico, nescio an odio imperatoris an respectu iusticiae excolebant»41.   Mochi Onory, p. 145.   Mochi Onory, p. 165. I testi di Uguccione sono esaminati in Kirfel 1959, pp. 34-36. 38   Tale assimilazione, tuttavia, era ben radicata nella tradizione imperiale tedesca. Essa, infatti, si ritrova già nell’Ad Heinricum IV imperatorem di Benzone d’Alba: aliter vero coronatur imperator orbis terrarum, atque aliter reguli provinciarum (Benzone d’Alba, Ad Heinricum IV imperatorem libri VII, in MGH SS 11, p. 602). Cfr. Kirfel 1959, pp. 37-38. 39   In questo senso compare spesso il diminutivo regulum per rimarcare l’inferiorità dei reges provinciales. 40   Güterbock 1949, p. 57. 41   Chronica regia Coloniensis, in MGH SS 18, p. 107. Sulla questione dei reguli e dei reges provinciales nel notaio Burcardo e nella Chronica regia Coloniensis, cfr. Kirfel 1959, p. 42, 47-48, 65-69. Di un certo interesse è anche l’allusione a die armen künege (l’equivalente dei reguli) nella lirica imperiale in lingua tedesca Ich hôrte ein wazzer diezen di Walther von der Vogelweide (Walther von der Vogelweide 1936, I.9, vv. 13-15, p. 10): cfr. Kirfel 1959, pp. 67-68; Wolf 1975, pp. 319-320. 36 37

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Tutti i testi fin qui riportati ci restituiscono una rappresentazione molto chiara della rivendicazione universalista della corte federiciana, rivendicazione che inevitabilmente si scontrava con l’analoga affermazione di Manuele Comneno. Gli esiti antibizantini di questa contrapposizione sembrano trovare un preciso riscontro proprio nella Lettera del Prete Gianni, dove l’espressione gubernator Romeon richiama molto da vicino – accentuandole ulteriormente – le espressioni spregiative indirizzate a Manuele in alcune fonti prese in considerazione nelle pagine precedenti. Lo stesso epiteto Graeculi, oltre a sminuire il ruolo del Comneno a una dimensione puramente nazionale, compare in altre fonti di poco posteriori proprio in relazione alla questione dell’universalità del dominio romano rispetto al potere limitato degli altri regni terreni42; e anche l’insinuazione secondo la quale i Graeculi avrebbero considerato il proprio imperatore come un dio trova un riscontro in altre fonti di origine tedesca della seconda metà del XII secolo: secondo gli Annales Reicherspergenses, infatti, «praedictus rex [Isacco Angelo] superbe et arroganter angelum dei et originem nostrae fidei se nominans»43; un sentimento che doveva serpeggiare già nei decenni precedenti non solo in Germania, come attesta Odo di Deuil, che, sulla scia dell’esito disastroso della Seconda Crociata, non aveva esitato a bollare Manuele come Constantinopolitanum idolum44. D’altro canto, proprio la questione della regalità universale è centrale nella Lettera del Prete Gianni, non tanto in relazione alla pur vastissima estensione territoriale dei domini del monarca orientale, quanto alla dignità che egli rivendica, quella di rex-sacerdos da un lato e di dominus dominantium dall’altro, dignità non paragonabile a quella di nessun altro sovrano. In questo senso, se il confronto con il gubernator Romeon parrebbe in una certa misura rispecchiare, in forma letteraria, lo scontro che aveva animato i rapporti tra Federico Barbarossa e Manuele Comneno, da un’altra prospettiva il Prete Gianni sembra offrire un modello ideale di regalità universale al quale tendere e nel quale la polemica anti-bizantina, proprio come nella realtà di cui l’anonimo autore della Lettera era spettatore, si intrecciava con una netta presa di posizione anti-curiale: non soltanto, infatti, la duplice dignità di rex-sacerdos contraddiceva formalmente un assunto gelasiano, in virtù del quale nessun essere umano avrebbe mai potuto cumulare le due cariche senza usurpare una prerogativa riservata esclusivamente a Cristo45, ma nella misura in cui il Prete Gianni dichiarava di essere dominus dominantium, senza nessun’altra mediazione, egli di fatto stabiliva un’assimilazione fra la sua dignità e quella messianica, al quale   Questo termine compare esplicitamente in uno dei più importanti testi filo-federiciani, il Ligurinus (Guntheri poetae Ligurinus sive de rebus gestis Imperatoris Caesaris Friderici primi Augusti, ed. C.G. Dümgé, Heidelberg 1812, III.535, p. 68), oltre che nell’Historia de expeditione Friderici I imperatoris (MGH SS n.s. 5, p. 28) e nella Chronica de gestis Ricardi I. di Riccardo di Devizes (MGH SS 27, p. 77). Cfr. Kirfel 1959, p. 67, n. 91. 43   MGH SS 17, p. 510. Cfr. Schreiner 1992, p. 559. 44   Eudes de Deuil, La croisade de Louis VII, roi de France, ed. H. Waquet, 1949, p. 54. 45   Gelasii Tomus de anathematis vinculo, in PL 59, p. 109. 42

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questo epiteto è correlato in particolar modo nei testi apocalittici46. In tal modo, veniva implicitamente affermato uno stretto collegamento tra la figura regale e quella di Cristo, collegamento che era stato ammesso pacificamente nel corso dei secoli, e che la rivendicazione esclusiva da parte papale del titolo di vicarius Christi, proprio nel XII secolo47, aveva spezzato. In tal senso, l’intreccio tra polemica anti-curiale e polemica anti-bizantina potrebbe trovare un ulteriore riscontro nella documentazione storica in nostro possesso proveniente dagli ambienti della cancelleria federiciana. È infatti alla diocesi di Magonza, la sede episcopale di cui fu titolare Cristiano di Buch, successore di Rinaldo di Dassel alla carica di arcicancelliere, che è indirizzata nel 1173 una lettera nella quale l’epiteto messianico dominus dominantium viene – per l’unica volta, a conoscenza di chi scrive – esplicitamente collegato alla dignità imperiale in un documento ufficiale. L’imperatore, infatti, compare come il titolare di una «imperatoria maiestas, que regis regum et domini dominantium vice gerit in terris»48; e già all’epoca di Corrado III, per sostenere la funzione dell’imperatore in quanto vicario di Cristo, si era fatto ricorso all’epiteto rex regum, lo stesso che ricompare in diverse versioni successive della Lettera del Prete Gianni affiancato al biblico dominus dominantium49. D’altro canto, proprio in quegli anni Cristiano di Magonza era intensamente occupato in trattative diplomatiche dal forte sapore anti-bizantino50; esse avevano fatto seguito a un’ambasciata del 1169-1170, durante la quale l’arcicancelliere era stato invitato personalmente a Costantinopoli per cercare di riallacciare – invano – le relazioni con Manuele Comneno51; e in tal senso potrebbe non essere affatto casuale un’indicazione presente in alcune versioni tardive della Lettera del Prete Gianni, secondo la quale quest’ultima sarebbe stata tradotta dal greco al latino proprio da Cristiano di Magonza (liber sive Istoria presbiteri Johannis, quae translata fuit de Graeco in Latinum a Christiano Maguntino episcopo)52. Questo dato appare difficilmente attendibile, non soltanto perché si trova in versioni molto posteriori alle prime redazioni della Lettera, ma anche perché non è rimasta traccia di alcuna  Cfr. supra, n. 2.  Cfr. Maccarrone 1952, pp. 91-107 (che tuttavia non considera il precedente utilizzo del titolo Vicarius Christi, o altri affini, da parte degli imperatori nei secoli precedenti). 48   MGH Const. I, n. 240, p. 235. Tale espressione non può non richiamare nella sua parte finale quella utilizzata da Anselmo di Havelberg nei suoi Dialogi (PL 188, 1223A) in riferimento al papa: «solus Romanus pontifex vice Petri vicem gerit Christi» (cfr. Maccarrone 1952, p. 98); per altre espressioni del tutto analoghe in Gerhoh di Reichersberg, avversario degli ambienti ecclesiastici federiciani, cfr. Maccarrone 1952, pp. 101-102. 49  Cfr. Koch 1972, p. 184. Anche Rahewino si inserisce in questa tradizione, quando scrive: «Regi regum… complacuit…, ut quasi ministri eius et vestri regni gubernacula regeremus» (Gesta Friderici III, 32, p. 462). 50   Al punto che Manuele sarebbe giunto a considerarlo come il principale nemico del suo impero: cfr. Ohnsorge 1958b, p. 480. 51  Cfr. Ohnsorge 1958b, pp. 458-459, Georgi 1990, pp. 197-198. 52   Interpolazione E 42. Cfr. Zarncke 1879, pp. 901-903. 46 47

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versione greca di questa presunta missiva del sovrano “indiano”, la quale anzi attinge a fonti peculiari della tradizione medievale latina, in alcuni casi (come quello dell’enciclopedismo del XII secolo) del tutto aliene da modelli greco-bizantini53. Tuttavia, la menzione di Cristiano di Magonza rappresenta per noi uno dei numerosi indizi che consentono di stabilire un legame fra la Lettera del Prete Gianni e gli ambienti della cancelleria federiciana54. Tale legame ci permette di interpretare le inusuali affermazioni riguardanti la regalità universali contenute in questo testo alla luce delle concezioni imperiali sostenute all’epoca del Barbarossa; e in tale contesto, la polemica anti-bizantina sulla titolarità dell’unico impero romano sembra davvero costituire una precisa traccia che ci consente di ripercorrere la sorprendente concezione dottrinale dell’anonimo autore della Lettera55. Bibliografia Alexander 1978 = P.J. Alexander, The Donation of Constantine at Byzantium and Its Earliest Use against the Western Europe, in Religious and Political History and Thought in the Byzantine Empire, London 1978, pp. 11-26. Appelt 1975 = H. Appelt, Die Kaiseridee Friedrich Barbarossas, in G. Wolf (a. c.), Friedrich Barbarossa, Darmstadt 1975, pp. 208-244. Bar-Ilan 1995 = M. Bar-Ilan, Prester John: Fiction and History, in «History of European Ideas» 20, 1995, pp. 291-298. 53   Su questa questione, cfr. Giardini 2016a, p. 3, n. 5; Giardini 2016b, p. 103. Come ricorda Martin Gosman, quello della traduzione rappresenta «un cliché fort connu: celui où l’on prétend conférer de l’authenticité à un texte en le rattachant à un patrimoine culturel respecté, in casu, la littérature classique» (Gosman 1982, p. 539, n. 70). 54   Per altri indizi in questo senso, cfr. Knefelkamp 1986, pp. 51-53; Wagner 2000, pp. 244-253; Giardini 2016b. 55   In questo senso, i richiami testuali ad altri documenti redatti durante il cancellierato di Cristiano di Magonza potrebbero sollevare alcuni dubbi sulla possibile datazione della Lettera. L’ipotesi più plausibile è infatti quella del 1165, indicata da Alberico delle Tre Fontane nel suo Chronicon (cfr. MGH SS 23, pp. 848-849). Questa data consentirebbe di stabilire un legame diretto fra la redazione della Lettera e la traslazione delle reliquie dei Magi da Milano a Colonia, avvenuta nel 1164; tale accostamento è altamente significativo, dato che il Prete Gianni era considerato parente dei Magi sin dal celebre discorso del 1147 nel quale Ugo di Jabala menzionava per la prima volta il misterioso sovrano orientale (cfr. Ottone di Frisinga 2011, VII, 33, pp. 556-558). Ciò nondimeno l’ipotesi di una redazione attorno al 1173 non appare del tutto da scartare, anche se i richiami della Lettera a testi ed eventi risalenti al cancellierato di Cristiano di Magonza appaiono piuttosto generici, e i motivi “universalistici” e anti-bizantini ad essi correlati erano già ben radicati un decennio prima; al contrario, l’accostamento con la traslazione dei Magi assume un significato particolarmente pregnante alla luce della concezione imperiale elaborata all’epoca di Rinaldo di Dassel. Sull’elaborazione della leggenda dei Magi in Europa, cfr. Monneret de Villard 1952, pp. 182-236; sul culto dei Magi a Colonia, cfr. Hofmann 1975; Engels 1982; Stehkämpfer 1982; sul legame fra la regalità del Prete Gianni e quella dei Magi, cfr. Giardini 2016a, pp. 251-252, 276, 324.

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THE EPOPEE OF THE ITALO-GREEK MONASTICISM: FROM SPLENDOR TO RUIN AND SURVIVAL

Ines Angeli Murzaku

Most reverend Hera, you who often descending from heaven behold your Lacinian shrine fragrant with incense, receive the linen wrap that with her noble child Nossis Theophilis daughter of Cleocha wove for you1.

Greekness – Ingrained. Magna Graecia of the Occident The verse above is part of a signature-poem by the 3rd century B.C.E. woman epigrammatist, Nossis Thêlyglôssos, a representative of what scholars call the women’s tradition in Greek poetry. Possibly a dozen epigrams by Nossis, a native of Epizephyrian Locri in Calabria, have been preserved in the Greek Anthology2. Nossis’s home town was Locri, a Dorian colony in Calabria founded in the 7th century B.C.E.3. Locri provides iconographic material which after Athens is rivaled only by Corinth4, and Nossis might have been quite familiar with those sanctuaries. At Locri as in other Greek cities in Calabria, it was customary for young girls to present robes to female deities like Hera, Persephone and Aphrodite when they married. The sanctuary of Hera Lacinia in Capo Colonna in Calabria was one of the most venerated pilgrimage places among the Greeks of the Occident. It was erected in the 5th century B.C.E., on the ruins of an earlier temple, and was one of     3   4   1 2

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the most significant religious centers in Kroton, which is located only 152km from Locri, Nossis’ hometown. The spring festival of Hera was quite popular and well attended by the inhabitants, especially women of the region. Nossis’ self-identification through the maternal line and her collaboration with her mother in producing an artifact intended for the divine patroness of marriage was a cult-activity, related to a pre-nuptial-women-rite. The presentation of the linen artifact, indicative of the class status of Nossis, was part of this ritual. In Greek mythology Hera is one of the most important among the deities. She was queen of the gods, wife of Zeus and mother of sons Ares, Hephaestus, and daughters Hebe and Hecate. Hera was par excellence the protectress of women and of all aspects of femininity: from marriage and procreation to childbirth and nurturing5. However, Hera Lacinia was a polyvalent goddess: she was the protectress of nature and livestock, and navigation. Moreover, Hera was the liberator or the great Eleutheria, for the locals6. The sanctuary of Hera Lacinia, according to Roberto Spadea, was a place of refuge or asyla, which was quite typical for extra-urban sanctuaries. In fact, prisoners and slaves found refuge and freedom in this particular place7. One of the basic tenets of Greek religion was that everything inside sacred territory, as the sanctuary of Hera Lacinia, was owned by goddess and the possessions of divinities were taboo for human beings. Hence, every sanctuary, including that of Hera Lacinia, enjoyed the status of an inviolable precinct8. The Temple of Hera Lacinia, as archaeoseismic evidence illustrates, had a long tenure in the area. It survived for almost seven centuries, until it was destroyed by a disruptive earthquake in the 3rd-4th centuries C.E.9. The presence of coins dating 236 and later as evidenced by Maximinus’ sesterce and folles belonging to the family of Constantine, in the 4th century, evidence its survivability well into Late Antiquity10. The sanctuary was quite well-known to Roman historians, including Livy, who in his history of the Roman republic, referred to the temple of Juno/Hera as the noblest in that part of the world, a temple which neither Pyrrhus nor Hannibal had violated11. However, Lacinian Juno was angry with Fulvius Flaccus, who removed half of the temple’s roof to build Rome’s greatest temple, Fortuna Equestris. The senate, which was emphatically united against Flaccus12, requested a hearing and castigated Flaccus for sacrilege and ordered the restitution of the marble tiles back to Lacinia. The tiles returned but the roof of the temple was never restored. The local builders     7   8   9  

Spadea 1996, p. 33. Genovese 1999, pp. 208-209. Spadea 1996, p. 33. Marinatos, Hägg 1993, p. 90. Galli et alii 2006, p. 443. 10   Galli et alii 2006, p. 449. 11  Livy, Book XLII.3. 12   Jaeger 2006, p. 410. 5 6

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were not knowledgeable of the special building technique. As the Lacinian Temple, the life and career of Fulvius Flaccus was never restored to his splendor and victory either. Livy’s narrative suggests the transformation as well as the longevity of the Hera/Juno cult in the Roman world. The place which for so many centuries was revered and was sacred to the Greeks had retained and expanded its sacredness to the Roman world that succeeded the Greek civilization of Calabria. With the Roman domination of the region, the role of Magna Graecia was limited in the Italian landscape. It became, as Salvatore Settis wrote, retrospective13. With the coming of Christianity, the Sanctuary of the Madonna of Capo Colonna, located a quarter of a mile away from the Temple of Hera, became a place of fervent veneration. Every third Sunday in May, the locals celebrate the festival honoring St. Mary of Capo Colonna14. The Marian festival, one of the most celebrated, especially among the women of the region, has replaced the spring festival honoring Hera Lacinia15. The destruction of all but one, main (capo) column (colonna) from the Temple of Hera, symbolizes the triumph of monotheistic Christianity over paganism and the belief in many Gods. The visitor who visits the whitewashed sanctuary of St. Mary, and sees the 10th-11th century icon of Syrian-Byzantine style, cannot help but notice the profound unity of Kroton (Crotone) with the Madonna16. Thus, Hera Lacinia, Nossis, Livy, Flaccus, and the Madonna of Capo Colonna represent a few layers of an extraordinary Calabrian history, of a region which is historically charged, and of that peculiar Italo-Greek-Calabrian tradition, which was transformed and adapted while still preserving and bequeathing its Eastern characteristics. Greece was considered great by the ancients, not so much for its geographical extension but for the longevity of its cultural, political, and religious traditions still present in southern Italy. Calabria and Sicily had strong connections with Greece in antiquity, long before the arrival of Christianity. Southern Italy and Sicily comprised what in history is known as Magna Graecia, Μεγλη ‘Ελλς, or Great Greece. The connections of the region with Greece run very deep. The early Greek colonization of the region began during the 8th to early 7th century B.C.E. During this time Greeks began to plant colonies all around the hospitable coastline of Calabria. Homer, whose life still remains a shadow in the mists of ancient history, is believed to have given poetic flavor to the Greek navigations in the Mediterranean. The   Settis 2009, p. 15.   Lucia Chiavola Birnbaum in her study, Dark Mother. African Origins and Godmothers, indicates a continuum of the African dark mother of antiquity into the Christian era in the winged siren and seated sphinx of Crotone, which became the black Madonna of Capo Colonna. For more Chiavola Birnbaum 2001, p. 91. 15   Caligiuri 2001, p. 252. 16  For more of the Madonna of Crotone visit the official site of the sanctuary: . 13 14

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first book of The Odyssey speaks of the Greek city of Temesa, a town in Bruttium on the Sinus Terinaeus. Temesa was one of the most ancient Ausonian towns of southern Italy and was known for its copper mines. In fact, some of the Calabrian and Sicilian regions were so economically and culturally advanced as to be on the avant-garde of Μεγλη ‘Ελλς’s economy. Not only Bruttium, Lucania, and part of Calabria, but even Apulia had become completely Hellenized. In the first century B.C.E. Horace speaks of the inhabitants of Canusium in Apulia, a Greek colony by foundation, as bi-lingual, where Greek and Oscan were spoken17. Strabo18, a geographer and historian, Greek by descent but probably a Roman citizen, in his classic Geography, describes the splendor of the Μεγλη ‘Ελλς and the Greek city-states: «beginning from the time of the Trojan war, the Greeks had taken away from the earlier inhabitants much of the interior country also, and indeed had increased in power to such an extent that they called this part of Italy, together with Sicily, Magna Graecia»19. Strabo made the observation that gradually the entire country was barbarized20, and now all of them were Romans, with the exception of Taras, Rhegium, and Neapolis21. When other regions of Italy were Romanized after 90 B.C.E., Magna Graecia seemed to have benefited from its Greekness, due to the prestige that Greek language and culture enjoyed in Rome. Besides the cities that Strabo mentioned in his Geography, which have remained Greek, Sicily was profoundly and enduringly Hellenized. Genetic evidence testifies to an enduring Greekness of Sicily. Recent genetic studies have estimated the gene flow from Greece and North Africa to Sicily. The studies have proven that the genetic contribution of Greek chromosomes   «Coruinus, patriis intermiscere petita/uerba foris malis, Canusini more bilinguis», Hor., Sat. 1,10, 20-35. Here, Horace objected to Lucilius’ lack of linguistic refinement. However, a major point of Horace’s criticism was Lucilius’ peculiar mixture of Latin and Greek. See also Buck 1906, p. 103. 18   For more on Strabo, see Pothecary 1999, pp. 691-704. 19  Strabo, Geography, Book VI, Chapter 1, 2. accessed October 1st, 2018. 20   Throughout the Geography Strabo exhibits the mutually exclusive antithesis between Greeks and Barabaroi with an ethnic connotation. Strabo uses the word barbaroi as being non-Greek, but a native inhabitant of southern Italy. There is a multiplicity of meanings in Strabo’s use of the word and the concept barbaroi in his Geography. Strabo’s uses barbaroi not only in a context strongly related to the traditional Greek-barbarian antithesis, but also in the context of the history of this representation. In the tradition, the barbarians are expressly both the opposite and the complement of the Greeks. However, this representation is connected with, and restricted to particular situations and events, for example the Persian wars, where the Persians were classified as barbarians. Moreover, barbaroi for Strabo means also ‘Scythian,’ that is, nomadic. More generally, Strabo uses barbaroi to identify or as an identity mark of un-sophistication, simplicity, wretched existence, or more in terms with Horace’s simplex munditiis; who were forced to this lifestyle – savagery and robbery – by their poverty. For more see an excellent study on the use of Strabo’s Geography in the construction of ethnicity, Der Vlielt 2003, pp. 257-272, especially the chapter on Greeks and Barbarians, pp. 261-263. 21  Strabo, Geography, Book VI, Chapter 1, 2. 17

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is estimated to contribute to the Sicilian gene pool by a fraction reaching 37%. Obviously, according to these studies, there is a common genetic heritage between Sicilians and Greeks, and the time estimate to most recent common ancestor is about 2380 years B.P. (before present) which corresponds with the archaeological traces of the Greek classical era and the peak of Greek civilization in Mezzogiorno22. Palaeopathologic23 studies of thalassemia – a blood disorder passed down through families, resulting in excessive destruction of red blood cells, which leads to anemia – suggest that thalassemia originated in Greece and spread to Southern Italy between the 8th and the 6th centuries B.C.E. when the region was colonized by the Greeks. The twentieth century C.E. incidence of thalassemia, highest in Sicily, Sardinia, Calabria, Lucania, Apulia and the mouth of Po, where ancient Greek immigration was most intense, testifies to the enduring genetic similarities between southern Italians and Greeks24. Similarly, Greek culture and language has never disappeared from this area (Mezzogiorno)25. It is exactly this specific Greekness or what Salvatore Settis calls more boldly an extreme Greekness26 which was invigorated by continuous exchanges with the East and the West, by Eastern monasticism, and later by Italo-Albanians. The presence of the Greek-language and Greek-culture-inclined and exposed population in the regions where the peripatetic monks from the Christian Orient founded their monastic colonies, created a suitable abode in which this form of itinerant monasticism could settle. Consequently, Greek monasticism, which was inserted and flourished in a southern Italian society, impacted and was in turn impacted by the same, authentic Hellenic element existent in the region. Mezzogiorno’s peculiar history and continuous Greekness is documented by linguistic research through the study of the neo-Greek dialects of the region27. This further explains why the monks from the Christian Orient – Syria, Palestine, Egypt and Asia Minor, and at a later period from Constantinople – found their safe haven as well as their perfect environment in southern Italy and why they and their monastic establishments did not encounter any resistance from the inhabitants of the region. In southern Calabria, as linguistic evidence shows, the originally Greek-speaking population was Romanized or Latinized only in the Middle Ages. This is the case of a neo-Latinization which happened only with the arrival of the Normans28. However, Greek elements consistent with a pre-Roman origin   Di Gaetano et alii 2009, especially p. 98.   The term ‘palaeopathology’ refers to the study of traces of disease as found in fossils and mummified human remains by M.A. Ruffer (1913) when Professor of Bacteriology at the Cairo Medical School. 24   Ascenzi 1979, esp. p. 125. 25   Burgarella 1987, p. 20. 26   Settis 1987, p. 311. 27   Mosino 1988, pp. 9-52. 28   Otranto 2004, p. 509. 22 23

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of Magna Graecia, such as lexical and phonetic relics consistent with Doric29 rather than Attic30 origin, survived31. Linguist John Trumper, in a recent study, suggested that Doric-origin items which he analyzed were not direct survivors of the Doric dialects. Instead, based on the samples investigated, he determined a fossilized case of Doric elements which survived in lateral areas32. Thus, according to dialectal findings, Calabrian Romance owes much to the Greek (although fossilized) substratum. The Greek scholar Agapitos Tsopanakis considered the behavior of the sample cluster retention in southern Italy to reflect the archaism of Doric dialectical survivals33. There is no doubt of a persistence of Greek terminology in southern Italy, which resembles more closely ancient or pre-Roman than Medieval Greek34, this process has been linguistically described as the Doric-continuity-theory. So, the monastics from the Christian Orient and later from Greece were inserted into a social and regional culture which had experienced firsthand the Hellenic culture and the memory of ancient Greece made itself visible through the remnants of the Greek terminology in the contemporary local dialects and local toponomy. Moreover, William B. Lockwood concurred that in Sicily, Greek language appears to have been spoken along the east coast in later medieval times, while in Calabria an Apulia there are persistent pockets or enclaves of Greek speech and speakers to this day35. Greek is spoken in the extreme toe and heel of Italy in two tiny enclaves: Bovesia in Calabria and the villages of Calimera and Martano south of Lecce in Puglia36.

  Doric-speaking Greeks were found in the northwest of Greece as well as throughout the Peloponnese (except Arcadia) and the islands of the South Aegean (Crete, Thera, Rhodes, Cos) nearly all the Sicilian colonies and many cities in Asia Minor. Tsopanakis, A. G., See also Fowler 1903, p. 4; Michael McCormick, stresses Greek language of southern Italy as an identity forger of Italo-Byzantines. He indicated that the spoken and written Greek was a distinct characteristic in the southernmost regions of Byzantine Italy. Furthermore, McCormick commented that the Greek of Southern Italy preserved into the twentieth century features that link it with the ancient Doric dialect. This means some of its speakers must have displayed a distinct regional accent to the ears of other Greek speakers. For more, see McCormick 1998, p. 22. 30   Ancient Greek dialect that was the language of ancient Athens. 31   Trumper 1997, p. 355. 32   Trumper forthcoming, see also a recent study on the topic Nicholas 2007, especially the conclusions pp. 218-219. 33   Tsopanakis 1955, especially pp. 66-68 for sample clusters. 34   Gerhard Rohlfs (1892-1986), a highly regarded linguist and historian, in a number of studies has strongly argued for a direct continuation of the Greek spoken in Magna Graecia since pre-Roman times. The Greek-speaking colonies of southern Italy, were partly remains of Doric origin, and not later Byzantine importation. See on the topic Rohlf 1950, Rohlf 1964, Rohlf 1972. For a full list of Rohlfs’s publications on the subject see Casagrande 1987, pp. 533-536. 35   Lockwood 1972, p. 9. 36   Ostler 2006, p. 241. 29

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Greekness – Re-vitalized. Pre-Norman Italo-Greek Monasticism Byzantine civilization in Calabria is generally identified with ascetic, artistic, economic, and cultural movements, culminating in Eastern monasticism. Scholars’ consensus is that the re-Hellenization or the re-vitalization of the Greekness of Calabria and of Terra d’Otranto is attributed mainly to the spread of Greek monasticism, which in certain regions either accompanied or preceded the re-Hellenization process, thus preparing the way for what was coming next: the Byzantine domination of the region37. Biagio Capelli maintained that the first ascetic influx in the area followed the armies of the Byzantine general Belisarius and later those of Narses, who brought the campaign against the Arian Goths to a successful conclusion, a war which certainly had religious undertones38. However, Capelli did not specify the precise region from which these monks emigrated. This first migration of Eastern monks to southern Italy was followed by a second wave of migration, this time from the Balkan Peninsula, which by the end of the 6th century was devastated by the Avar invasions. Francesco Russo, a Calabrian native and noted ecclesiastical historian, provides the following general timeline of the ascetic movement in Calabria. He specifies that it originated by the end of the 6th century39 and the first half of the 7th century, and it slowly but definitely advanced to the point of eliminating every other similar Latin form of monasticism during the 8th and 9th centuries. It reached its zenith during the 10th and 11th centuries and began its course of regression in the 12th century, declining in the 13th century, which led to its complete ruin in the 14th century40, when hostility towards Byzantine elements was quite visible. The ascetic movement in Calabria had direct links to and was imported from the Christian East, monasticism’s original birthplace41. Undeniably, from the 8th to the 12th century southern Italy and especially Calabria became what Paolo Giannini calls the Terra dei Monaci [Land of the Monks], with thousands of monasteries which spread in the mountains, in the vicinities of the great cities and castles. Virtually everywhere the monks could find a peaceful place to build their monasteries to dedicate to prayer and service of God, a monastery was erected42. Calabria was considered the new Thebaid, a land that provided abundant opportunities to the   Cappelli 1961, p. 15.   Ibid. 39   From the 6th century the Calabrian Bishops did not participate in the Roman synods, and they introduced Greek rites in the liturgy in their dioceses. However, the presence of almost all Calabrian Bishops was documented in the 679 Council of Rome, convened by Pope Agathos at the special request of Emperor Constantine IV to discuss the Monothelite question. There were thirteen bishops from Calabria and Sicily in attendance. In 681 Bishops Abundantius of Tempsa and Giovanni of Reggio participated at the Council of Constantinople. See Allen, Neil 2002, p. 29. 40   Russo 1955, p. 43. 41   Russo 1977, p. 15. 42   Giannini 1987, p. 8. 37 38

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Byzantine monks to establish themselves43. However, Cappelli appropriately observed that the great ascetic migrations in southern Italy did not initiate, but instead completed what he calls the centuries-old process of Hellenization that southern Italy underwent44. Italo-Greek monasticism, originating in the Christian East, and its wide enculturation in the region, testifies to monasticism’s adaptability, but also to southern Italian region and culture, which was a locus of communication and in constant connection and exchange with the surrounding cultures and a suitable habitat accommodative to different monastic lifestyles, including hermit lifestyle and communal monasticism. The first influx of Greek monks from Syria, Egypt and Palestine took place in the 7th century45, more exactly from 636-638, due to the Arabs’ advancement. The second influx transpired in the 8th century from Constantinople and Greece46. During the 7th and 8th centuries it seems that it was monastic movement that sustained the increment as well as the invigoration of the Greek population especially in Calabria and Sicily, and less in the regions of Campania and Puglia where the gradual but continual Lombards’ integration succeeded in imprinting a distinctly Latin physiognomy on the region. In the 7th century, sources indicate47 the presence of Greek hegumenos-es or abbots and Greek monastic establishments in Sicily48. Francesco Russo in his various studies on Calabrian monasticism and more generally on the history of the Church in Calabria supports the thesis of the Melkite origin of Calabrian monasticism. It was only during the second stage of its development that the Calabrian ascetic movement was reinforced by Byzantine monks coming from Greece and Constantinople, to escape the persecution of the iconoclastic emperors. Mario Scaduto, a scholar of medieval history, in his sophisticated study on Sicilian monasticism, explains that the 7th century witnessed a convulsive period in history of the Mezzogiorno. In a few years, from 611-618, the Persians became masters of Syria, Palestine and Egypt. The invaders began a fierce campaign against the adherents of the Council of Chalcedon. The followers of Chalcedon were predominantly people of Greek language, who in Syria constituted almost half of the population and in Egypt all of the ruling elites49. In Pelusium50 (the gateway to Egypt) a city in the eastern extremes of Egypt’s Nile   Russo 1962a, p. 117.   Cappelli 1961, p. 19. 45   Capizzi 1992, pp. 19-20. 46   Sutton 1956, p. 6. 47   The sources which testify to 7th century migration of Eastern monks to Calabria are by no means sufficient and details are regrettably uncertain. 48   Martin 2002, p. 638. 49   Scaduto 1982, pp. XVIII-XIX. 50   For more on Pelusium’s troubled history see Stanley, Bernasconi, Jorstad 2008. This study presents the most recent data on the evolution of the city and its gradual decline which was influenced by warfare with Persians and other invaders coming from the East; the effects of the plague; 43 44

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Delta, for example, churches and monasteries were destroyed by the Persians and not far from Alexandria, Sasanian troops attacked a group of prosperous monasteries, murdered the monks, save a few who could save themselves, carried off goods and chattels as spoil, and reduced the monastic buildings to rubble and ashes51. In Syria, the Melkites were Orthodox followers of Chalcedon, and for the most part were of Greek or of European origins52. Lynn White concurs that the 7th century migration seems to have included almost no Coptic or Syriac-speaking refugees; it was a purely Hellenic movement. The Greek-speaking refugees, according to White, were part of the population of the larger cities, particularly along the coast, who had clung to Chalcedonian orthodoxy, whereas the indigenous Copts and Syrians tended to adopt the Monophysite heresy53. Moreover, the Mezzogiorno’s new immigrants had probably held important administrative positions or were high-level ecclesiastics or monks. Ruth Stiehl-Altheim explained a similar case with notable personalities who managed to flee Alexandria to Rhodes besides the praefectus Augustalis and dux Aegypti, Niketas, civil and military head of the administrative district of Aigyptos; They were the patriarch of the Chalcedonian church of Egypt who had been in office since 610 A.D., and John III Eleemon (the Almsgiver)54. The ecclesiastics like Eleemon brought with them to the Mezzogiorno their portable possessions, reliquaries, icons, ivories, and ecclesiastical ornaments. Furthermore, they brought with them from Syria, Palestine, and Egypt their native liturgical practices. Consequently, the Syro-Palestinian liturgy of St. James and the Graeco-Egyptian rite of St. Mark55 and not the liturgies of St. Basil or of St. John Chrysostom, which were employed in Constantinople, were first introduced in the Mezzogiorno56. Michael McCormick indicated that liturgical manuscripts of Sicily and Calabria have shown to derive in some significant respects from public worship in Syria and Palestine, while the Apulian point more to the sacred rituals of Constantinople. Clearly, the regional history of the liturgy preserves enduring evidence of differing periods of migrations in southern Italy57. Probably, more revealing to the Syrian or Palestinian legacy of the early Greek monasticism in Calabria is the 6th century Codex Purpureus or Rossanensis58. According and the diminished role of its commercial and trade activities which followed the construction of the city of Alexandria by the Greeks. 51   Stiehl-Altheim 1992, p. 90. 52   Butler 1902, pp. 45-46. 53   White 1936, p. 8. See also White 1938, pp. 16-17. 54   John III Eleemon or John the Almoner fled Alexandria to die in his native Cyprus. StiehlAltheim 1992, p. 91. For a history of the Church of Alexandria and its importance in the history of Christianity as well as in the Egypt’s national history see Hardy 1946, pp. 81-100. 55   Gobry 1999, p. 257. 56   Sutton 1956, pp. 3-4. 57   McCormick 1998, pp. 37-38. 58   Herbert 1908, p. 162.

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to Russo, the codex is not a local, of either Calabrian or Italian production. Instead, its origin can be traced back to the Christian Orient, either to Syria or Antioch59. The codex was most probably brought to Calabria by the Syro-Melkite monks and was used in the Greek monasteries of Calabria. Furthermore, another piece of information that supports Russo’s hypothesis on the origin of the Calabrian monasticism is the 13th century Rotulus Liturgicus Rossanensis or Patiriensis60, which contains the liturgy followed by the Syro-Melkites i.e., that of St. James and St. Mark at a time when the Byzantines followed the liturgy of St. John Chrysostom or that of St. Basil. This document was probably copied from the Syrian Codex Purpureus61. The   Cavallo 1992, pp. 12-13, and 70-71; Russo 1951, p. 7, and BirrelL 1915, p. 109.   The majority of the Calabrian manuscript which is now in the Vaticana, were brought to Rome about the end of the seventeenth century. Only one part of the treasures of the Calabrian manuscripts with literary contents or other treasures from the Calabrian monasteries was taken to Rome. The manuscripts were removed from Calabrian monasteries under the instigation of the newly elected Superior General of the Basilians Pietro Menniti. Consequently the rotulus together with other Calabrian manuscripts were brought to Rome at the College of St. Basil de Urbe sometime between 1697 and 1699. The distinguished patristic scholar, Fr. Bernard de Montfaucon counted one hundred and fifty manuscripts of southern Italian origin and was much impressed with their calligraphic quality. Rotulus Liturgicus Rossanensis originally from the St. Mary of Patir library, is currently at the Vaticana, Codice Vaticano Greco 2970 (Vat. Gr. 2970). The manuscripts were removed from Calabrian monasteries under the instigation of the newly elected Superior General of the Basilians, Pietro Menniti. Consequently the rotulus was brought to Rome at the College of St. Basil de Urbe. In 1780, Pope Pius VI purchased the rotulus together with other precious oriental manuscripts. For more see Werner 1960, pp. 362-363; Russo 1952, pp. 12-13. 61   The question of the origin or provenance of the sixth-century Codex Purpureus Rossanensis is subject of debate among biblical scholars and ecclesiastical historians alike. Initially, it was thought of a possible Romanist origin of the codex. This hypothesis was dismissed and currently this hypothesis has no supporters. The second is the Oriental origin of the codex. Scholars who support this hypothesis think that the codex’s original home is the Christian East, and its provenance is from a special monastic Scriptorium. The third group thinks that the home of the Rossano codex is Syria, probably the cities of Antioch, Cappadocia or Ephesus. There is much consensus among scholars regarding the last hypothesis. Prof. Fernanda de’Maffei supported the thesis that the city-origin of the codex is Caesarea in Palestine. She specified that people with strong connections with the Byzantine court, or individuals connected with the imperial family or from high Byzantine aristocratic circles, either lay or religious, were the original owners of the codex. As for the composition of the codex and the material used it is believed that parchment in codexs’ production/copying had many advantages: first, it was stronger and more durable than fragile papyrus and secondly, raw-materials for making it, including animal skins, were abundant. The color of parchment usually ranged from white and off-white to varying shades of yellow. Expensive colored parchments were usually of blue, purple, and scarlet, as is the case with the Rossano codex. However, their use was generally limited to royal or very important and expensive manuscripts. This fact further supports the thesis of either royal or courtly provenance of the codex. For more on this debate see Russo 1952, p. 12; Russo 1953, pp. 51-53. Official web-page of the Archdiocese of Rossano-Cariati and the diocesan museum which houses the Codex Purpureus has an extensive explanation of the history and scholarly debate on the argument: Rossanensis: accessed on October 1st, 2018. 59 60

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immigration route followed by the Melkite monks towards the welcoming coasts of Mezzogiorno, to escape Arab raids, would have probably followed these patterns: westward from Mesopotamia to Syria, and then Palestine, Egypt, and Libya. From Libya it was easy for the monks to flee to Sicily and once Sicily was invaded by the Arabs, Calabria became the monks’ final destination. The monks from the East, who for the most part were anchorites, reached Calabria via Reggio. Reggio and Aspromonte, due to steep terrain and inaccessibility, were inhabited by ascetics who lived in natural mountain caves; the most famous was that of Melicucca, which is believed to be the last abode of St. Elia of Reggio62. The exact reasons which prompted Emperor Leo III63 to become so vehemently opposed to the image worship which consequently triggered the second, or the 8th century monastic migrations to southern Italy, cannot either be proven or explained by his Syrian origin and the well-known opposition the region presented to the Chalcedonian Orthodoxy. However, sources do not provide solid evidence that at an early age Leo entered into any discussions with Muslims over the question of image worship64. What is, then, the origin of Iconoclasm and its impact on the fleeing of monks from the East? The origin of the Iconoclastic controversy has been the subject of much discussion and divergence of opinions among scholars65. Further  Russo 1977, p. 16.   I am using here Leo III and not Leo the Isaurian, conscious of the scholarly debate about the authenticity of that epithet. As early as 1896 Karl Schenk indicated that the epithet ‘Isaurian’ attached to the name of Emperor Leo is a misnomer that was based predominantly on Theophanes’ Chronographia. Schenk explained that there is an error that stems from Theophanes’ geographic mistaking the Syrian town of Germanikia, which was Leo’s real birthplace, for Germanikopolis, a city in Isauria in southern Asia Minor. Constance Head presents an additional reason, the existence of a real-authentic Emperor Leo the Isaurian less than twenty years before Leo III’s accession is probably one more reason why the iconoclastic emperor who in fact was not an Isaurian was referred to as one. For more see Head 1971, pp. 105-108. 64   Barnard 1974, p. 15. 65   Leslie William Barnard’s understanding of the “emperor cult” referred to an imperial policy that focused on emperor honor or worship, in promotion of the emperor’s supremacy over earthly matters. Barnard maintained that the victories of Leo III re-assessed the imperial authority in a Christian environment. Barnard’s belief that the clue to Leo’s embracing Iconoclasm lay in a re-assertion of the emperor’s cult and the Imperial images or the re-establishment of the traditional view of the uniqueness of the Christian Emperor. Peter Brown, on the other hand, maintained that the use of Iconoclasm by imperial authority was a political act of re-affirming the official religious authority establishment over the holy man (the monk) and his ancillary the icon. Brown has also noted the centrifugal effects of the attention lavished upon holy men and icons during the seventh century. Brown also noted the imbalance between the authority of the urban bishops and that of the holy men as a result of the decline of the urban centers during the second half of the seventh century. J.F. Haldon, reconciles both stances, stating that Leo adopted an iconoclast policy not simply because it was in accord with his own beliefs, but because through it he could also strengthened imperial authority. Leo adopted an iconoclastic policy because he recognized not merely the need to remove the root of sin of the human race, the deep stain of error of idolatry but also the insecurity of his own position. So Leo thought of 62 63

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more, the sources that have survived are for the most part Iconodule in nature, while the writings of the iconoclasts suffered almost wholesale destruction at the hands of their opponents66. However, the picture derived from Iconophile sources is not seriously distorted67. Paul Lemerle’s observation on the Iconoclastic Vitae might be helpful as a reminder here: “these lives which have come down to us in great numbers are very difficult and sometimes dangerous to interpret. […] However, given the silence of other sources, this ‘literature’ is still important to us”68. Averil Cameron, in The Byzantines, explained that Iconoclasm was a movement driven from the top and there was little sign of popular support. Furthermore, this was not a movement of the corrupt clergy or the abuse of the ecclesiastical office, and the arguments on both sides focused closely on the religious status of images themselves69. The Church was not worried about the excess in icon-veneration as it was the Church who gave alarming signs of abuse70, and it was only on a second instance that the authorities intervened. It was what Alexander Schmemann called crude and sensual superstition that the Church had reacted against71. Thus, Iconoclasm was a religious movement, it is a dispute about the true religion, which called upon the Church to re-evaluate and re-contemplate its orthodoxy and drawing a clear line and separating orthodoxy from idolatry. Among the abounding miracles reported in connection to the icons there were some whose authenticity was highly questionable, like the miraculous images of lactating Mary where milk was poured into the image, as research has determined, from behind through a straw. There were cases when priests at communion would mix into the Eucharistic chalice some colored dust from the icon72. Indeed, there was an alarming concern of a come-back of the practices of idolatry, which called upon the Church to reassess anew the intricate theological distinction between dulia and latria. The first phase (726-780) of Iconoclasm was Christological, which brought into serious theological reflection the very existence of the icon. How can one venerate an icon of Christ without falling into the heresy of idolatry or infringing the second commandment? himself more in terms of a religious reformer. He felt he was especially assigned or called to intervene and straighten the corrupted religion of his time. He considered himself a priest-emperor who was called by God to sanitize God’s house from the evil of idolatry. For more see Haldon 1977, p. 183; Schönborn 1994, pp. 144-145; Barnard 1973, pp. 23-29. 66   Barnard 1973, p. 13. 67   For more see Alexander 1977, p. 258. 68   Lemerle 1986, pp. 108-109, in Hatlie 2007, p. 13. 69   Cameron 2009, p. 102. 70   The arguments the iconoclasts presented were by no means new to the Church. For an excellent treatment of the Christological debate especially in the works of Origen, Eusebius of Caesarea, Cyrill of Alexandria, and Maxim the Confessor, see the excellent work of Schönborn 1994, especially chapter two, Christological Foundations of the Icons, p. 45; Besançon 2000, especially chapter two The Image of God: Four Church Fathers, pp. 86-109. 71   Schmemann 1959, p. 22. 72   Schönborn, 1994, pp. 147-148.

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The iconophiles emphasized the notion of relative or relational veneration, because they thought that the iconoclasts had misunderstood and misinterpreted what an icon really was. The iconoclasts thought that an icon is somehow consubstantial with its original. Consequently, they argued that the only true icon of Christ is the bread and wine of the Eucharist73. Another crucial consideration, beside theological, in the understanding of Iconoclasm and especially the escalation of the controversy was economical or social, which is related to religion or to monasticism. The number of monks in Byzantium had reached 100,000 by the outset of Iconoclasm, which made up an incredibly high percentage of the population. Monasticism had turned out to be a burden on the economy of the empire, as tens of thousands of people were lost to the army, and monastic properties were exempt from state taxes. Furthermore, the monks appeared to be outside the state’s control74. The monks and nuns in particular paid a high price for their resolute loyalty to the holy images, a zeal and faithfulness to the point of martyrdom. Such was the case of Saint George Limniota75 (the one who lived in marshland), a monk of Mount Olympus. Limniota was martyred in 73076, because he protested the emperor’s decree and reprimanded the emperor. The monk had his hands amputated and his head burned77. Monk Theophilus, a member of a monastery in Asia Minor who followed the rule of Saint Benedict and a strong supporter of the icons, suffered martyrdom at the hands of the same emperor. He was thrown in prison in Constantinople, tortured and driven into exile78. The martyrdom of Saint Stephen the Younger (764), abbot of the monastery of Saint Auxentius near Chalcedon, is quite remarkable in illustrating the emperor’s stance on image breaking, removing or replacing, with one exception: his own image. Emperor Constantine V debated with Stephen whether a person who trampled on Christ’s image trampled on Christ. «No», Stephen replied. When Stephen brought a coin and asked how someone who trampled on the emperor’s image should be treated, the emperor expressed indignation that anyone should even think of such a thing, Stephen asked him why, if treading on the emperor’s image was so great a crime, it was all right to burn that of Christ79. That was enough for Constantine V to command that Stephen be scourged. The iconoclastic emperors   Cunliffe-Jones 2006, p. 196.   Schmemann 1959, p. 28. 75   He was canonized as a prominent figure in the struggle against Iconoclasm during the eighth century. 76   Butler, Cumming 1998, p. 237. 77   Gobry 1999, p. 251. 78   Benedictines 2003 p. 256. 79   During Iconoclasm imperial art replaced religious art in churches and in public buildings and places. This is illustrated by numismatic evidence in which both sides of coins show the emperor’s portrait whereas, before Iconoclasm, the reverse usually showed the cross or an image of Christ. Statues and other works of art depicting the emperors multiplied, particularly in the reign of Constantine V. Barnard p. 16; and Butler, Fawcett Thomas 1998, p. 215. 73 74

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wanted the cult of the emperor to perpetuate. That explains why they replaced the cross on the coins with their own image stamped on both sides of the coin80. Pope Gregory II reacted with harsh admonitions and two condemnatory letters81 against the imperial policy as he wrote in his two famous reproaching letters in 727: You (emperor) persecute us and vex us tyrannically with violent and carnal hand […] We, unarmed and defenseless, possessing no earthly armies, call now upon the prince of all the armies of creation, Christ seated in the heavens, commanding all the hosts of celestial beings, to send a demon upon you; as the apostle says: “to deliver such an one unto Satan for the destruction of the flesh, that the spirit may be saved” (1 Cor. 5:5) […] Knowing that we would have to render account to Christ the Lord for our office, we have done our best to convert you from your error, by admonition and warning, but you have drawn back, you have refused to obey us or Germanus or our fathers, the holy and glorious miracle-workers and doctors, and you have followed the teaching of perverse and wicked men who wander from the truth. You shall have your lot with them82.

Eventually, the Patriarch Germanus, who opposed the imperial policy, was deposed by the emperor, and was replaced with a more tame and submissive candidate, Anastasius, who was sympathetic to Iconoclasm83. In 731, in revenge against the Pope’s reprobation on the ban of the image worship84, the basileus retaliated by detaching the bishoprics of the theme of Sicily and the duchy of Calabria as well as Naples, Sardinia, Illyricum and the Island of Crete, from patrimonium St. Petri to the ecclesiastical jurisdiction of the Patriarch of Constantinople. This measure, which was ecclesiastical in nature, incidentally drew a new geography of Byzantine Italy, designating Sicily and Calabria as preferred areas of the Byzantine Empire85. After   Barnard 1973, pp. 13-29.   The authenticity of the two condemnatory letters to the emperor is questionable. Probably, parts of the letters are authentic. 82   Thatcher, McNeal 1905. 83   Schmemann 1959, p. 23. 84   According to Cardinal Caesar Baronius (Cesare Baronio), in the classical Annales Ecclesiastici, the pope excommunicated the emperor. Johann Joseph Döllinger in the chapter entitled Pope Gregory II and the Emperor Leo the Isaurian, while affirming the pope’s excommunicating of the emperor explained the meaning of excommunication for the time indicating the excommunication of a prince did not necessarily carry with it a release of his subjects from their allegiance. It did not even cut the prince himself off from all spiritual privileges. Instead, excommunication merely declared in solemn terms that the pope declined to communicate with him (the emperor.) However, in a second letter of Gregory to Leo, the pope expressly disclaims the power of interfering with the sovereign, while he denies in the strongest terms the right of the emperor to interfere with the Church. Vailhé 1912; Döllinger 1871, especially chapter VIII: Pope Gregory II and the Emperor Leo III pp. 253-261; and footnote 2, p. 259. 85   Burgarella 1987, p. 22. 80 81

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two years, in 733, the emperor increased the tribute from Calabria and Sicily and confiscated the patrimony of the Roman Church in those regions. However, the emperor’s anti-papal policy reinforced and gave a new impetus to the development of monasticism as well as the revival and re-invigoration of the Greek element in southern Italy. The turbulent events which were related to Iconoclastic controversy triggered a second monastic influx to Mezzogiorno, especially in 754 during the reign and monachomachy of Constantine V Copronymus, Leo’s son. This time the monks immigrated from Constantinople and Greece86, and not from the Christian Orient as before. Besides other reasons which triggered Iconoclasm, one thing was persistent: the fight against the monks and monasteries. In fact, at the time monks had become the leading stratum of the Church, or as Schmemann puts it, “her (the Church’s) model and her conscience”87. Moreover, Iconodule bishops and laymen were forced to flee, losing their property and sometimes suffering physical injury88. Vasiliev explained that Constantine V displayed extreme intolerance toward the monasteries and a similar fierce crusade against Iconodule monks as they were the most ardent and articulate image defenders. Imperial persecution was carried out by severe measures. Monks were forced to put on secular dress, and some were compelled, by force or threats, to marry. In one instance the monks were forced to march in file through the Hippodrome at Constantinople, each holding a woman by hand amid the sneers and insults of the crowd of spectators89. According to the Life of St. Stephen the Younger, which was written in 808, the emperor “declared war upon the monastic garb, called it the garb of darkness […] and called those wearing this garb Unmentionables and idol worshippers”90. However, Charles Diehl, in Historie de l’empire Byzantin explained that death sentences were rare. The monks resisted and suffered with courage91. Facing persecution and humiliation, the number of monastics and ecclesiastics who immigrated to Mezzogiorno seemed to have been much higher in this period as compared to the immigrations from Syria, Palestine, and Egypt of the previous century. Benedetti determined that in this period approximately 50,000 Greeks, including monks, priests and laypeople found refuge in Calabria and Puglia92. Although Benedetti’s numbers might be exaggerated and neither exact nor verifiable data is available, no scholar denies that there were monastic migrations from Greece to Mezzogiorno due to the iconoclastic persecution. However, due to the   Sutton 1956, p. 6.   Schmemann 1959, p. 28. 88   Barnard 1974, p. 7. 89   Vasiliev 1952, p. 262. 90   Alexander 1977, p. 243, Life of St. Stephen the Younger, PG 100, col. 1112 A; Theophanes, Chronographia, ed. de Boor, I, p. 443. 91   Diehl 1977, pp. 41-42. 92   Benedetti 1917, p. 15; Russo 1951, pp. 6-7. 86 87

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731 detachments of the bishoprics of the theme of Sicily and the duchy of Calabria by the pope’s jurisdiction, the migrating monks would have not been directed to the Mezzogiorno’s regions which were under the basileus as in these newly acquired lands of Byzantium, the same iconoclastic rules or monachomachy should apply. Teodoro Minisci commented on an iconoclastic bishop in the city of Otranto; the arrest of a pontifical messenger who was headed to Constantinople was reported in Sicily; and the deportation and detention of several iconodule monks in the Lipari Island93. Moreover, the fleeing monastics would have found much safer refuge in those areas of Mezzogiorno like the Lombard Duchy of Benevento – which included most of Mezzogiorno except for the heel and the toe of the boot – or the Roman Duchy of Naples, or even center-north including the city of Rome, where the Iconoclastic rules did not apply. In fact the Lombard Benevento at this time was to serve as a buffer zone94. The few and scarce monastic establishments situated in the Duchy of Benevento assumed particular importance during the iconoclastic persecutions. These establishments became the desiderata refuge, not only for the fleeing monastics from Greece but also for those who were suffering under the same pressure of iconoclastic persecution in the Terra d’Otranto (Land of Otranto), Sicily or of southern Calabria95. Cappelli assigned the establishment of the ascetic communities of Merkourion and those of Mount Bulgheria at the boarder of Calabria, Basilicata and Campagna, to the iconoclastic period and the re-enforcement coming from the fleeing iconodule monks96. Cappelli’s thesis is supported by the fact that between the Ecumenical Councils of Nicaea in 787 and that of Constantinople in 869, the monks of Calabria were almost all Greeks. These new monks-refugees, in contrast with the previous monastic migrations, brought with them to the Mezzogiorno the liturgies of St. Basil and St. John Chrysostom97, which greatly enhanced and enriched the Eastern liturgical varieties of the region. As a consequence of these reinforcements, as Filippo Burgarella explained, during the 7th and 8th centuries, Greek culture prevailed in both Sicily and Calabria. Consequently, the number of Greek prelates in Episcopal positions increased and monasticism was developed and organized following Eastern disciplinary and spiritual norms98. As the first monastics who sought and found refuge in Mezzogiorno in the previous century, the current monastics found the same hospitable and fertile elements of Greek civilization reminiscent of the Μεγάλη Ἑλλάς, a civilization that they appreciated and in turn re-vitalized. Geologically speaking, Mezzogiorno was similar to the places the monastics had moved from. Terra     95   96   97   98   93 94

Minisci 1958, p. 217. Noble 2009, p. 72. Cappelli 1961, p. 17. Ibid. Sutton 1956, p. 7. Burgarella 1987, p. 21.

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d’Otranto offered the same rugged rocks created by the forces of erosion or cave dwellings similar to what is otherwise known as Cappadocian tuff or fairy chimneys, which were dwellings and inhabited in Byzantine times99. The natural caves of the Gravina in Matera became favorite places for the hermits. Not to mention the Grotta-Riparo del Romito (Hermit), in the village of Papasidero in Calabria, considered one of the most important archaeological records of the Mediterranean Late Palaeolithic100, which in its long history of hospitality towards humans or its anthropogenic layers, hosted Italo-Greek hermits as well, as its name testifies. Thus this second ascetic immigration to southern Italy re-vitalized and sensitized the Greekness which has never disappeared from the region, or better they completed or concluded the multi-century process of the Hellenization of Southern Italy. Muslims were attracted to Sicily since 652 during the caliphate of Hadrat Othman, when the first attack on the Sicilian costs from Syria was recorded. Two more raids were recorded, one from Alexandria and the second from Qairowan in North Africa, in present-day Tunisia. This time the Muslims landed near Pantellarria, but later withdrew from the island. It was only in 827 when the Muslims captured the old port of Mazara del Vallo, situated at the mouth of the River Mazaro on the southern section of Sicily’s west coast to which they had come to stay. In 831, Palermo was captured, which resulted in the island being divided into two parts: the Muslims held the western part with Palermo as the capital and the Byzantines held the eastern part with the capitals first Syracuse and later Castrogiovanni101. By the year 840 almost one third of the island was under the Muslims. This was followed by the capturing of Messina in 853, which gave the Muslims easy access to other southern Italian cities. The conquest of Sicily was completed with the capture of Syracuse in 878 after nine months of siege, and Taormina in 901. The siege of Sicily caused fresh emigrations of the Sicilian population. Ex damno alterius, alterius utilitas, Sicily’s loss was Calabria’s gain. The invasion of Sicily caused the exodus of the people from Sicily to the mainland. The demographic movement, its exact numbers and nature are not clear and still remain inconclusive102, and there is evidence of the existence of monasteries and churches in Sicily after the Muslim siege103. No matter what the real numbers of people who came to Calabria to seek refuge, the fact is that the fleeing monks strengthened Greek culture and in turn re-vitalized Greek monasticism in Calabria the seeds of which were already planted by previ  Topal, Doyuran 1977, p. 175.   Ghinassi et alii 2009. 101   Singh 2005, pp. 215-216. 102   Giovanni Musolino, in a recent study on Italian-Greek hermits, explained that by the end of the 8th century the number of ecclesiastics who had escaped from Sicily to Calabria constituted only one fifth of hermits. Later on, with the change from the heremitical to the cenobitic lifestyle, the number of ecclesiastics grew into half of the number of the monks, and the other half was made up of deacons and lay people. Musolino 2002, p. 8; and Metcalfe 2003, p. 15. 103   Metcalfe 2003, p. 15. 99

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ous monastics escaping from Syria, Egypt and Palestine. Thus the Arab conquest halted what Agostino Petrusi called the byzantinization of Sicily to the advantage and byzantinization of Calabria, which coincided with its elevation from duchy to the theme of Calabria, part of the themata system, made up of three constituencies: Longobardia, Calabria and Lucania. This marked the splendor of Greek monasticism in Calabria, which happened simultaneously with the capture of Sicily by the Arabs, which was followed by the suppression of a number of episcopal sees in Sicily. In general, the demographic displacements and exodus towards the continental south was headed towards Calabria, Lucania, Campagnia as well as towards central-north, including the city of Rome104. Monastics from Sicily found fertile ground for growth in Calabria and acceptance from the local population. As previously stated, Calabria was open to a plurality of movements and ideas from the East and the Greekness has never disappeared from the area. Geek monasticism was present in Calabria, and it preceded the latest monastic migrations from Sicily105. Consequently, it was the monastic and more generally the ecclesiastical exodus from Sicily that caused the splendor of Italo-Greek monasticism in Calabria as the Bioi of saints testify. In fact the saints’ panegyrics, which are encomiastic discourses on the lives of the Sicilian saints fleeing to Calabria, are an important primary source of the period, despite their obvious limitations106. Saint Elias the Younger, otherwise known as Saint Elias of Enna (823-903), headed the first important monastic move from Sicily in 880. After wandering in Sicily, Africa and Greece, the saint reached the toe of the boot of Calabria and travelled all through Aspromonte107. In 884, he founded the Monastery of the Saline near Reggio, in the vicinity of Seminara. He lived in the monastery for more than three years with a few disciples, preparing them in asceticism. Saint Elias returned to Thessalonica, where he died on August 17, 903. His body, as he desired, was later brought to Calabria by his disciple Daniel and was buried at the monastery of the   Burgarella 1987, p. 57.   Ibid. 106   Père Hippolyte Delehaye, S.J., in his Les Légendes Hagiographiques, noted that hagiography favors the “performers” of the holy, that is, the saints, and aspires to exemplarity. According to Delehaye, a hagiography is every written memorial inspired by the cult of a saint and serves in the furtherance of the deeds and example of the saint. Peter Brown in his Cult of Saints explored in depth the political, theological and specifically cultural uses of hagiographic narratives. Marc Van Uytfanghe on the other hand, does not classify hagiography as a literary genre. Instead, he classifies it as hagiographic discourse which is characterized by the choice of a specific kind of hero, a specific relation between text and actuality, a performative scope, and a typical way of presenting the hero as a divine individual. In the case of Italo-Greek hagiography the hagiographic hero is a moral archetype, a metahistorical or a grand récit that gives meaning to the historical record. Italo-Greek hagiography is not a precise document of actuality, but more a vehicle of diffusion of a system of values, reproduced pedagogically in an idealized system of life. However, this does not mean that hagiography does not transmit particular historical events and deals with historical people, and this applies to Italo-Greek saints’ lives. 107   Morris 2003, p. 50. 104 105

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Saline108. Moreover, Saint Philaretus – closely associated with Saint Elias of Enna – moved to Calabria in 1040 and immediately after that he joined the Monastery of the Saline where he died on April 6, 1070. Since then, the Monastery was renamed Saints Elias the Younger and Philaretus and his remains were transported to the collegiate Church of Seminara. Another important saint of this period is Saint Christopher of Collesano, who was initiated in the monastic life in the monastery of Saint Philip Agira in Sicily. The saint arrived in Calabria with his wife Kali and sons Saba and Macario and daughter Catherine around 940, seeking refuge in the Merkourion where he and his sons, the future Saints Saba and Macario, diffused Greek monasticism not only in Cilento, which was on the borders of Merkourion, but to Salerno, Amalfi and Rome109. Saint Christopher is credited with the foundation of the monastery and the Church of Saint Michael, which he assigned to his son Saba; while Christopher became hegumenos of the Monastery of Saint Stephen. Saint Saba was distinguished for his zeal and persistence in building new monasteries, visiting old monastic establishments and in helping to keep up and enforce monastic discipline. He visited Rome, Amalfi, and Salerno, whose prince implored him to intervene for the liberation of his children, held hostages by Emperor Otto II. His mission to convince the emperor was successful and the good news of exoneration arrived to St. Saba before his death in the Monastery of Saint Cesareo in Rome on February 5, 995110. To the Sicilian hermits, who were searching for solitude and self mortification, as in the past, Calabria had much to offer. Geographically, Calabria was mountainous, secluded, abundant in natural caves or calcarenites including the one in Gravina, cave churches or hermitages, so called because they were excavated out of tuff soil. Moreover the cave churches did not require much wealth or subsidies from the local ecclesiastical authorities or imperial sustenance, which in turn would have required obedience of the monks towards respective authorities. The popularity of such cave-churches in Calabria serves as an architectural medium affirming a provincial-conservative monastic ideal111, which represents a more rigid or traditional form of monasticism. The earliest traces of the eremitic movement were recorded in the southern extremity of Calabria, exactly in the region of Aspromonte, where eremitism started off towards the north, reaching the north-western extremity, extending towards Merkourion, which a distinct number of celebrated hermits made their home112. Calabria was within the Byzantine political-administrative system, although a remote border of the empire, or as Filippo Burgarella specified, “it (Calabria) was part of an empire […] withdrawn in the jealous tutelage and custody of its     110   111   112   108 109

D’Agostino 2004, p. 141. Russo 1967, p. 211; Napolitano 1976, p. 117. Russo 2000, p. 165. Epstein 1979, p. 44. Russo 2000, p. 146.

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own political-cultural identity of Greek denominator”113, and this imprinted a character in its monasticism. More to this argument, if the empire’s center (Constantinople) – periphery (Calabria) interaction (which at the time was rather loose), and the geography of Calabria (which was quite accommodative to eremitic and other related forms of monasticism), are taken into consideration, the preservation of identity and in this case of the Greek identity, took precedence. Thus, Italo-Greek monasticism presents a compelling case of being provincial-peripheral, and conservative-adaptive, which are qualities which contributed to its longue durée. The history of Italo-Greek monasticism was an evolving history. It was part of a culture that was interactive and connected with other cultures in the region and part and parcel of a medieval European system that operated as a whole. Italo-Greek monasticism’s conservatism or traditionalism was a crucial force behind the re-vitalization process of the Greekness of Mezzogiorno. As mentioned above, the Sicilian monastics found themselves in customary settings and within the same Eastern-Byzantine ecclesiastical structures and part of the provinces of the Byzantine Empire, although these provinces were relatively remote from the center or were on the empire’s fringes. If until then Greek monasticism in Calabria can be characterized as intermittent and showing a high level of fluidity and liberty, the re-enforcements from Sicily contributed to communal-structured and shared life, or to probably more stability which laid the structural foundation of the coenobium. However, this structure remained open and accommodative to the individual rhythm of the hermits, and to a natural evolution from hermitic to coenobitic lifestyle; or the synchronicity of both monastic forms within the same monastery. In Calabria, the progression to an organized coenobitic monastic life or the evolution from anti-structured monasticism to structured monasticism came about quite naturally, without any trauma, as the need for communitarian expression grew due to membership numbers in the monastic communities as well as the continuous precariousness of the region and attacks from foreigners. However, the supreme ideal of the Italo-Greek monk was ἡσυχία – hesychia, contemplation in silence, fuga mundi and total submission to the guidance of the spiritual director. Agostino Pertusi’s argument that «only very slowly the Italo-Greek monk, and especially Calabrian monk, resigned to a coenobitical lifestyle regulated in almost every particular, including living and prayer»114, is valid and amply supported by Italo-Greek hagiographic literature. The monastic reform started by St. Theodore the Studite was polyvalent in nature and had an impact on Italo-Greek monasticicm. In fact this last proved to be an incredibly acceptive and innovative form of monasticicm, a faithful participant in and contributor to the Studite reform. Italo-Greek monasticm proved to be elastic and highly adaptive while being a tributary to the broad river of monastic tradition. Traditionally, Italo-Greek monasticism had hosted the solitary hermits and   Burgarella [1982], p. 57.   Pertusi 1994, p. 85.

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those who were more incline to a communal lifestyle, an accommodation which was favored more by monastic, civil and ecclesial leaders. What might have seemed a contradiction between two different monastic vocations, Italo-Greek monasticism was able to resolve innovatively and originally, thus contributing to the multiform regional monastic expressions. It combined what Enrico Morini called a re-vamping of a Studite cenobitic maximalism and Italo-Greek hesychia115. Thus, a structural integration otherwise known as micro-Asiatic or middle-byzantine synthesis, between the two monastic lifestyles, while integrating and preserving elements or assets of both, was reached. The life of Italo-Greek saints, including the Life of St. Neilos of Rossano, point to this original integration. According to St. Neilos’s Βίος, the saint practiced ἡσυχία as the hagiographer wrote: Our holy Fr. Neilos was advancing in the path of divine perfection. He had a great devotion to the solitary life, the mother of all virtues, yearning that through it (i.e. solitary life) he would acquire greater spiritual riches and a higher wisdom […] Not too far from the monasteries, there was a cave on the top of a cliff, and inside it was an altar dedicated to Archangel St. Michael, which made the perfect place for the lovers of solitude. This cave became the favorite place of the selfless (Neilos), who, armed with Elijah’s zeal, Eliezer’s strength, and all the saints’ patience, he dwelled in it with great joy and great fervor of spirit. He stayed in the cave all alone, not allowing anyone other than God to enter116.

The Studite structural integration provided institutional licitness to the eremitic lifestyle while providing a concomitant legitimate place either within or in the vicinities of the monastic community to those monks like St. Neilos who wanted to practice solitary life. Among the characteristics of the 10th-11th century Italo-Greek monasticim were corporal mortification, love of solitude, prayer and contemplation, but also a tendency to expand in the direction central-north, within the Italian peninsula as was the case of St. Neilos the Younger, but also beyond, including Belgium and Germany. Obviously, as the Italo-Greek monks moved to Germany, Eastern monasticism diffused along with them in the new lands, impacting or potentially modifying the religious landscape in the Latin Church. Calabrian monks may have contributed to the growth of an organized ascetic tradition in the Latin Church which found expression in the later 11th and early 12th century’s foundation of the Carthusian and Cistercian orders117. Moreover, it was recorded that between the 9th and 11th centuries there was a constant flow of people, most of them Eastern monks in pilgrimage to Rome. The Italo-Greek monks did not make an exception, as they, as the Italo-Greek clergy in general were spiritually inclined to the Church of Constantino  Morini 2013.   Giovanelli 1972, p. 61. 117   Hamilton 1965, p. 309; Millenaire du Mont Athos 1963, pp. 181-216. 115 116

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ple while recognizing a primacy of honor to the prince of the apostles or the apostolica sedes. The lives of the Sicilian saints from the 7th-9th centuries indicate this special honor the saints-monks reserved to the See of Rome, while following the Byzantine civilian and ecclesiastical central authorities118. Évelyne Patlagean, in her study on the life of Saints Gregory Bishop of Agrigento; Pancratios first Bishop of Taormina; Philip of Agira and others, commented on the spiritual primacy of the Church of Rome as shown in these saints’ lives119, an occurring leitmotif in other Italo-Greek saints’ lives including that of St. Neilos of Rossano. The martyria of the Apostles Peter and Paul were places of pilgrimage and prayer for the Italo-Greek monks, as for other Eastern monks in pilgrimage to Rome. On the other hand, people from the West were recorded in pilgrimage towards the spiritual and thaumaturgical elite of Eastern monasticism. These monastic exchanges and dialogue confirm what Enrico Morini called a mutual ecclesiastical hospitality between two parts of Christendom indeed existed and the estrangement and doctrinal-theological contentions had not entered the peoples’ consciousness120. Christendom and the Church were understood as one, undivided, and indivisible, East and West. By the end of the 10th century Empress Theophano121 [Latinized as Theophanu], wife of Emperor Otto II, brought with her to Germany a group of Italo-Greek monks, among them Giovanni Filagato from Rossano, who became the antipope John XVI (997-998) as well as Gregory of Cassano, a disciple of St. Pachomius of Cherchiara in the Merkourion. According to his Vita Posterior Gregory went to Rome where he met Theophano, who built in Rome the monastery of Saint Salvator for him, and made Gregory abbot of the Greek community122. Later, Gregory and his companions Andrew the deacon, Saba the priest and Syrus established in Burtscheid, near Aachen in northern Germany, a Byzantine monastery of Saints Apollinare and Nicholas, which became a center of Byzantine-Greek culture in the heart of Europe123. Eventually Gregory became the abbot of the monastery of   Pertusi 1994, pp. 76-77; The life of Saint Gregory, Bishop of Agrigento, proclaimed (2005) as the patron saint of archaeological conservation, speaks clearly of the primacy of honor and Pope St. Gregory’s final decision-making, which resulted in Gregory’s acquaintance and return to his diocese in Agrigento, after a long imprisonment in Rome. As a token of his respect to Rome and the pope, the bishop erected a church honoring Apostles Peter and Paul in 597. 119   Patlagean 1964, p. 579. 120   Morini 1988-1989, pp. 850-851. 121   For more on the controversy of Theophanu or Theophania, and the relations of this Byzantine princess to the imperial family, i.e., Theophanu, as the daughter of Romanus II and sister of Basil and Constantine; and the second hypothesis which rejected the first called Theophanu simply a Greek princess as there is no mention of her being “porphyrogenita” (πορφυρογέννητη), purple-born, nor are her parents identified. Both of these views are strongly argued and defended by many adherents. For more Vasiliev 1951. 122   Hamilton 1965, p. 283. 123   Penco 2002, p. 208. 118

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Burtscheid124, where he established a scriptorium for the copying of the Greek codices, which the monks brought with them from Calabria125. Calabro-Greek monasticism reached its zenith in the last half of tenth century, making Calabria a jewel of Byzantine culture in Mezzogiorno while minimizing the influence of the Latin culture. It was only during the Renaissance that the Latin culture of Calabria was accentuated and began to rule over the Byzantine culture126. Francesco Russo commented on the superiority of Byzantine culture, comparing it to the 10th and 11th centuries’ Italian età or epoca di ferro [iron age or epoch] and this without much help from the center of the empire, Constantinople. During the 10th century Calabro-Greek monasticism reached its zenith in the Eparchy of Merkourion, where literature, exegesis, liturgy, Byzantine musical composition, iconography, art and calligraphy were studied. The Merkourionese monks played a crucial role in the development and application of these fields, and this without help from Constantinople or annual subsidies. During the Byzantine rule in southern Italy, no monastery except for the monastery of Montecassino, received the annual imperial subsidy127. Scholars agree that the ascetic movement became the principal medium for the re-vitalization of Greek culture in Calabria, a Hellenization understood in terms of a fresh introduction of the language, culture, and Eastern monasticism. If Byzantine officials were pleasantly incapable of communicating to the peoples of the Occident the elements of the Byzantine-Greek civilization, which they represented, the Byzantine-Calabrian monks, because of their numbers, culture, spread and influence on the people, raised awareness and appreciation in the Latin Occident about the Byzantine civilization, thus performing an invaluable service to Christendom, which in today’s ecumenical terminology would be a multi-voiced and pluri-leveled dialogue, or more simply a dialogue of living. The pre-Norman Italo-Greek monasticism is characterized by fluidity of monastic states as well as a high level of mobility, as was the case with Saints Elias the Younger, Saba, Gregory of Cassano or Neilos of Rossano. It is hard, if not impossible, to discern the exact number of monastic establishments in Calabria in the pre-Norman milieu, as the Italo-Greek monks were constantly on the move, either founding new monasteries or caring for others already founded. The constant move and lack of stability both saved and ruined Italo-Greek monasticism. Moreover, the short life span of some monastic establishments due to various causes, including the continual regional precariousness, makes it hard to determine the exact number of monastics.

    126   127   124

125

Falkenhausen 1998; Ciggaar 1996, p. 253; and Hamilton 1965, p. 304. Russo 1962b, p. 18. Russo 1955, p. 44. Epstein 1979, p. 42 (footnote 58).

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Greekness – Suppressed. Norman Italo-Greek Monasticism In the early eleventh century southern Italy was divided into three distinct regions which included Apulia and Calabria, both ruled by the Emperor of Constantinople. The Southern part of Apulia and most of Calabria were inhabited by a Greek-speaking population. In the center and west of the mainland t were three independent Lombard principalities – Benevento, Salerno and Capua – as well as three petty coastal duchies – Amalfi, Naples and Gaeta – which had successfully resisted Lombard pressure and maintained their independence under purely nominal Byzantine suzerainty128. Religiously, since mid the 8th century Calabria had been under the jurisdiction of the patriarch of Constantinople; politically, as indicated earlier, southern Italy was part of the Byzantine Empire until (approximately 1071), when Bari was taken over by the Normans129, and Calabria and Apulia were permanently lost to the empire130. Southern Italy’s military distance from the empire’s center, or the center-periphery differences, became increasingly accentuated in the eleventh century, and this left an enduring mark on the history of the region and on Italo-Greek monasticism and Italo-Greek monks who began to be looked at as foreigners by Constantinople131. Thus, during the second half of the 11th century and the arrival of the Normans, a new page began to unfold in the history of Italo-Greek monasticism towards a more structured and regulated religious and material life, architecturally represented in the new structure or the new walling which encircled the church, tower, skeuophylakion rotunda, and the library, and the advent of the regulated typika. The Norman conquest of the Byzantine territories in Mezzogiorno began in 1040 and continued progressively in the following years. In 1057, when Robert the Guiscard, whom William of Apulia in his epic poem praised for excelling, “even Cicero was not as cunning or Ulysses as crafty”132 made his first appearance in Calabria; the Italo-Greek monks, as the Latin monks, suffered the same kind of treatment from Guiscard as they did from the Saracens in the past. Matthew Paris, the 13th century Benedictine monk and chronicler, quite unrivalled among medieval historians, gave the following account of the manner in which Robert the Guiscard captured the monastery of Monte Cassino and treated the monks: In the same year, the monks of Monte Cassino (where St. Benedict had planted a monastery), to the number of thirteen, came to the Pope in old and torn garments, with dishevelled hair and unshorn beards, and with tears in their eyes; and on being     130   131   132   128 129

Loud 1999, pp. 815-816. Falkenhausen 2007, pp. 95-96. Kazhdan 1985, p. 170. Hester 1992, p. 58. Gibbon 1900, vol. VII, p. 203. William of Apulia, Gesta Roberti Wiscardi, Book 2, lines 127-30.

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introduced to the presence of his Holiness, they fell at his feet, and laid a complaint that the Emperor had ejected them from their house at Monte Cassino. This mountain was impregnable, and indeed inaccessible to any one unless at the will of the monks and others who dwelt on it; however R. Guiscard, by a device, pretending that he was dead and being carried thither on a bier, thus took possession of the monks’ castle. When the Pope heard this, he concealed his grief, and asked the reason; to which the monks replied, “Because, in obedience to you, we excommunicated the Emperor”. The Pope then said, “You obedience shall save you”; on which the monks went away without receiving anything more from the Pope133.

Moreover, Guiscard’s love of war, aviditas dominationis (greed for domination), and lust for hegemony did not escape Dante’s attention either. In the Inferno, Dante gave examples of the most grotesque and dreadful thing on earth, which are war, and the suffering caused by war «and those who felt the pain of blows by withstanding Robert Guiscard»134. However, so powerful was his name, that Dante made the same Guiscard honored as a virtuous crusader in Paradiso with a place among the warriors for the faith in the heaven of Mars135. Because of Guiscard’s initial acts of rapine, sacrilege and attacks on monasteries as well as church properties, Pope Gregory VII excommunicated him from 1073-1079. The Normans became the typical exponents of Carolingian feudalism and in part the exponents and champions of religious Latin orthodoxy in southern Italy. Thus with the advent of the Normans a new political-legal chapter began to unfold for Mezzogiorno and with their arrival the Latin Church as the Greek Church and Italo-Greek monasticism would change their physiognomies. It was what G.A. Loud called the great formative period of the Medieval Latin Church: a time when the diffused, localized church of the early Middle Ages became the centralized and monolithic church of the Lateran Councils136. The Council of Melfi of 1089, presided over by Pope Nicolas II, confirmed Norman control over most of southern Italy and invested Robert the Guiscard and Richard of Capua with the Italian territories they had conquered, and received them as vassals of the Roman church137. Moreover, the synod recognized Robert Guiscard as the Duke of Apulia, Calabria, and Sicily. Part of the reason for this change was that Pope Nicholas II needed a strong, close-by ally in the neighborhood rather than a strong enemy, owing to a recent break with the Holy Roman Emperor. Furthermore, the Melfi Council’s representatives of the Church and the Normans discussed the regularizing or re-constitution of ecclesiastical affairs of Mezzogiorno and spe133   Matthew Paris, English History from the Year 1235 to 1273, vol. I, Elibron Classics, Adamant 2006, p. 171. 134  Dante, Inferno, Canto xxviii, 13-14. The Ninth Chasm: The Sowers of Discord. 135  Dante, Paradiso, Canto xviii, 48. 136   Loud 2007, p. 5. 137   Blumenthal 1991, p. 82.

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cifically the restoration of Rome’s ecclesiastical jurisdiction in Calabria and at a later time in Sicily, which were encroached by the Patriarch of Constantinople, and were a long aspiration of the Roman Church. Consequently, the local Orthodox bishops of southern Italy, who until then were under the Patriarchate of Constantinople, had to recognize the primacy of the Roman patriarchate. Moreover, the monastic and parish systems, which until then were regulated by the Constantinopolitan canonical law, were transferred to the Roman jurisdiction. Obviously, the Italo-Greek monks of Calabria were impacted by the consequences of this ecclesial re-organization and tensions with the Latin Church were accentuated. The Italo-Greek monastics were initially opposed by the new masters, as the Normans intended to fight any kind of nostalgia for Byzantium, and the monastics were their easy targets. First they were Eastern monks, and their spiritual center was in the Byzantine Empire, Constantinople, and secondly they had quite an influence on the local populace which they had “colonized” with their spirituality. What the Byzantine Empire was incompetent of procuring the Italo-Greek monasticism accomplished with its “converting” presence and influence on the people. People gathered around the monastery or sought after the hermit in the nearby valley and this was a common pattern of monasticism founded in other countries as well. Obviously, the Norman princes wanted their southern Italian acquisitions to be stable as well to secure their political position. The Normans concentrated their efforts to detach the Greek population of Mezzogiorno from an outside ruler – Byzantium and the Byzantine emperor. They regarded Hellenism and the allegiance to the Byzantine Βασιλεύς as the main obstacle to winning the people of southern Italy. They realized that a gradual but stable fight against the Greekness and Greek identity of the population and the Italo-Greek monasticism as its most visible representative, would gain their allegiance. This explained Normans’ initial opposition to Greekness, an opposition which later changed as the Normans were religious enough to appreciate what this diverse religious experience had to offer. After encounters with Italo-Greek monasticism and the Mezzogiorno’s Greek Church at large, the conquerors came to appreciate the impressive liturgical ritual, the mysterious iconography and the architecturally pleasant churches. After the death of Guiscard, the Normans changed tactics in regard to Italo-Greek monastics. They financed the rebuilding of several monasteries destroyed by the Arabs and helped build new ones138. They gave Italo-Greek monasteries land concessions, granted them generous benefits, and most importantly guaranteed them much-needed political protection. The changed Norman policy was reflected in a fresh Byzantine cultural revival and learning in the monasteries. The change of policy might have been caused by the great respect that the monks had on the local population which was by no means only spiritual. The monasteries were able to   Ferrante 1981, p. 82.

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provide economic incentives through land cultivation or agricultural employment to the local population, due to Norman donations. As for structured versus anti-structured monasticism, the Normans favored a stable and well-regulated form of coenobitic monasticism, which in turn would boost the local economy, which was based almost exclusively on agriculture and animal husbandry139, as well as would be more controllable by the Norman masters. This attitude explains the establishment of great coenobitic monasteries, which for the most part were established as a result of lavish estate donations by the Normans, and the monks were put in charge of digesting the economy of the large estates, something the Eastern monk was not accustomed doing. It was quod me nutrit me destruit (what nourishes me destroys me), it was a “nourishment” that at the end contributed to the deterioration of Italo-Greek monasticism. The Normans promoted a stable coenobitic monasticism, as the Typikon of New Hodigitria of Rossano, founded by Bartholomew of Simeri or otherwise known as Patir, prescribed, and the election of the new ἡγούμενος which was expected to be ratified by the king. Agostino Pertusi noted that in a document of 1130 King Roger confirmed to Luke, the newly-elected ἡγούμενος of the Monastery of the Neo Odigitria of Patir in Rossano, the properties assigned to the monastery. The document further specified that Luke’s investiture in the new role by his majesty the Norman prince, while the archbishop of Rossano, Cosma, under whose authority was the monastery, simply approved the prince’s endorsement140. Investiturstreit, different from the same period (1075-1122) in the West, did not have a precedent in the history of Italo-Greek monasticism, as the 1066 Theodore Psalter’s divine investiture scene illustrations. According to the Psalter, Abbot Michael’s authority came directly from God, and with his authority came responsibility for the monks who prostrated at his feet. Thus, the Studite monk Theodore made for Michael, his abbot, a work that stressed the virtues that would be ideal for an eleventh-century abbot141, and most importantly, how an abbot was to be elected. Besides all favors and economic incentives to the Italo-Greek monasteries, the Latin Church or Latin monastic establishments that were either newly-founded or re-invigorated had precedence in Normans’ design in Mezzogiorno. It was the Latin Church that was the Normans’ ally. Consequently, the Greek bishops were treated as second class citizens, and those who dared to oppose the Norman rule, were deliberately replaced by Latin counterparts. The Normans had the liberty to create, suppress or modify dioceses to benefit their political, economical, and administrative needs. The multifarious process of Latinization, which resulted in restructuring the design of Italo-Greek monasticism, was a slow but an ever-progressive process. This operation was reflected in the re-structuring of the Greek hierarchy as well. Agostino Pertusi explained that besides other reasons, the Apostolic See-Norman   Russo 1977, p. 19.   Pertusi 1994, pp. 86-87. 141   Anderson 1988, pp. 564-568. 139 140

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restructuring design was conditioned by a religious hierarchy that was either destroyed – as was the case in Sicily – or the vacant or deserted sees – as was the case in Calabria and Terra d’Otranto142. No doubt, the process of Latinization had a double effect on the region: on one hand it enhanced a feeling of estrangement of the Italo-Greeks towards the Roman Church and especially its canonical discipline, and on the other pertinacity in defending their Greek religious traditions, which caused a short-lived halt in the Norman Latinizing-re-structuring process. It was not before the advent of the Normans that the hallmark Basilian became an identity mark for the monks of Italo-Greek tradition, that differentiated them from the Latin tradition or Western monks. The term began to be used in the West and especially in Italy143. The Basilian Monks, as the name indicates, follow and profess asceticism following the “norms-rule-typikon” of St. Basil the Great. According to Cyril Korolevsky, a scholar of Eastern Christianity, it is in the charters accorded by the Norman kings that one finds for the first time the mention of an Ordo Sancti Basilii144, or a coinage made in the papal chancellery, probably under Pope Innocent III145, who was one of the most influential popes in papal history and likely the most influential pope of the Middle Ages. The classification ‘Basilians’ to identify the Italo-Greek monasticism is indicative of a typical Latin juridical mentality and was a way to structure and regularize Italo-Greek monasticism and make it part of Latin monasticism. The Italo-Greek monks, as all other Eastern monks, did not belong to any order or follow any particular rule. They followed the examples or the prescriptions of the Early Fathers of the desert and they are only indirectly linked to Saint Basil via Saint Theodore Studios. Thus their ‘rule’ was in accordance and in symphony with the prescriptions of all the fathers and mothers of early monasticism. Thus, it was with the coming of the Normans that Italo-Greek monasteries changed or better evolved to more Latin-style structure and lost their individuality. Structure and uniformity replaced the fluidity and the multiplicity of monastic experiences. The stress on the structured-communal lifestyle was followed by an organized system of liturgical typika, which governed all aspects of monastic life146. The process might have evolved as follows: the monastic typika were given to a specific monastery either by its new founder or by the Norman reformers. The Italo-Greek typika, as was the case with all monastic typika, were founders’ typika or Stiftungsurkunden, to use Krumbacher’s terminology, which were written by the founder of a monastery and contained his own personal rules, applicable only to a particular monastery. These typika can be seen as an expression of the founder’s last wishes, and they (typika) were accompanied by a brebion, which was an appendix     144   145   146   142 143

Pertusi 1994, p. 80. Giannini 1987, p. 5. Korolevskij 1927, p. 195. Falkenhausen 1983, p. 133. Hester 1992, p. 123.

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containing a list or inventory of all monastic properties147. The Stiftungsurkunden were made of three parts: liturgical; canonical and patrimonial. The liturgical Typika originating from Mezzogiorno are most interesting testimonies of the ecclesial life but also testify to the traditionalism of the region. The preservations of the Liturgies of Sts. James, Peter and Mark not recognized elsewhere in Byzantium were brought by Italo-Greek monks from to Mt. Athos in the later Middle Ages148. The most ancient Italo-Greek Liturgical Typikon originated from the monastery of the New Hodigitria of Rossano, founded by Bartholomew of Simeri, otherwise known as Patir, between 1130 and 1150. Gradually, the liturgical structure of Patir was adapted by other Italo-Greek monasteries; thus, the structure of the ‘mother house’ became the pattern to be followed by other monasteries. Furthermore, the Norman conquest brought about canonical changes to the Italo-Greek organized coenobitical monastic establishments. With a bull of February 1133, King Roger II of Sicily abolished the autonomy of the single monasteries, encouraging an artificial aggregation of single establishments under a mother house or head monastery, a policy that clearly followed the Western-Latin paradigm of structured monasticism149. The re-organization brought further structural changes within the coenobitic monastic communities, especially in Sicily, where the Normans were favoring the restoration of Greek-Sicilian monasticism applying Norman or Western rules, and this for primarily political reasons. Due to the new configuration or reform, the monasteries lost their autonomy, which resulted in a changed mentality and functionality of the monastic communities. In fact, the reform aimed at establishing a more direct royal juridical control over various communities of Greek monks, with only spiritual and patrimonial control to the specifically assigned archimandritate. This resulted in what Filippo Burgarella called consecutive homologation of what has survived from the Greek monasticism into congregations which were configured following Latin patterns150. Under the new structural reform the Italo-Greek monasticism continued to irradiate its particular spirituality and influence on Latin monasticism. This was the case of Joachim of Fiore, the future Cistercian abbot and mystic, who on his return from his pilgrimage to the Holy Land around 1070, stopped in Sicily on the slopes of Etna, and spent time in intensive prayer and fasting in a cave which was situated next to a Greek monastery. His anonymous biographer in the Vita Beati Joachini Abbatis noted that Sicily was the first stop of Joachim in his return from the Holy Land to his native Calabria151.   Krumbacher 1970, vol. II, pp. 314-316. See also Galatariotou 1987.   It was probably from the Athonite Slavic monks that a book containing these Liturgies fell into the possession, and worship, of the Cossacks and remained part of their liturgical worship until lately. 149   Ferrante 1981, p. 83. 150   Burgarella 2011, vol. I, p. 112. 151   “Peracto itaque Hyerosolimis modico tempore transfretavit et venit primo Siciliam. Ubi videns terram uberem et delicatam dolentis affectu cum plangeret super ipsam, in evicinio cuiusdam greci 147 148

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Several monastic establishments were particularly favored by the Norman kings and special reorganization arrangements were granted to them. The Monastery of the Holy Savior in Lingua Phari in Messina, founded by Roger in 1122, became the archimandritate or the motherhouse of all the depending Sicilian monasteries. The Holy Savior was exempt from the authority of the Archbishop of Messina. Consequently, the archimandrite promoted among the monks had to be confirmed by the king152. Moreover, Saint Bartholomew of Simeri, the abbot of Patir, was invited by the king to effectuate the new re-structuring design for the merger of the Italo-Greek monasteries under one major or motherhouse monastic jurisdiction. Consequently, 31 monasteries situated in Sicily and 14 in southern Calabria including the monasteries of Tuccio, Saint Pancrazio, Scilla, Saint Cono of Rosalie, Saint Dionigi of Catona, and Saint Fantino of Tauriana, were subjected to the Holy Savior Monastery of Messina153. At the same time, several other monasteries situated in northern Calabria were placed in a new structure and subjected to the jurisdiction of the Monastery of Patir in Calabria, another of Roger’s favorite monasteries. Usually the general abbots of the aggregated houses were elected by the members of their respective communities and enjoyed a certain amount of autonomy, but they were subject to the archimandrite of the head or mother monastery for the discipline. Under this new-developed structure and the feudatory system, the Italo-Greek monasteries of southern Italy flourished, built a considerable amount of wealth and became one of the most dynamic sectors of the rural-local economy154. More importantly, the new structure and stability encouraged the development of Italo-Greek scriptoria and monastic libraries, which were progressively enriched in books and material due to the monks’ travels in Constantinople and elsewhere, as well as Mezzogiorno’s constant exchanges. André Guillou recognized the existence of four centers of calligraphy in the south of Italy during the tenth and eleventh centuries. He differentiated among: one style of writing in eastern Calabria and inland, another along the west coast, from Reggio to Gaeta; a third, Greco-Lombardian, in Cosenza and Capua; and finally one in Otranto, at the end of the eleventh century, that is, after the departure of the Byzantine administration. The existence of models from the Constantinopolitan monastery of Studios during that same period had been recognized155. Moreover, beside home-productions, books from the Byzantine center were reaching Mezzogiorno. As was the case of Henricus Aristippus, archdeacon of Catania, who went as an envoy to the Byzantine cenobii prope Ethnam regressus specum latuit. Sacri ieiunii dies in abstinentia et oratione tribus feriis inpransus et incenatus expendit,” Burgarella 2011, vol. I, pp. 116-117. 152   Houben 2002, p. 58. 153   Ferrante 1981, p. 83. 154   For the role of the monasteries in local economy see Guillou 2009, pp. 72-73. 155   Guillou 1974, p. 101; For a general view of Byzantine scriptoria see Fonkic 1980-1982.

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court in 1158, and of Bartholomew of Simeri, who collected and brought home to Mezzogiorno many books for their monasteries. Aristippus and Bartholomew of Simeri were involved in what came to be known as the southern-Italian-translation-enterprise of translating Greek texts into Latin156. In the Merkourion scriptorium, for example, monks-scribes copied miniatures, Psalters, Gospels, ευχολογιον, liturgical hymns, and other spiritual works, while employing the art of calligraphy. André Guillou indicated – not surprisingly as he put it – that 77% of the works written in southern Italy during the Middle Ages were liturgical books; followed by 7% works of Basil the Great and John Chrysostom157. The development of Italo-Greek scriptoria proved to be a doubly beneficial monastic enterprise: first the monks-scribes returned to the sources of Eastern monasticism, and second they were ‘forced’ to extensive reading and copying of ascetic source material from Theodore the Studite. It was a renewal and re-sourcement, which resulted in strengthening ascetic-Eastern tradition. It was during this period that a notable quantity of codices was produced in the Italo-Greek monasteries. Unfortunately, many of the codices were either lost or dispersed. What survived lies in various European, Asian, and American libraries. In fact, Robert Grosseteste, one of the most learned men of the Middle Ages and Bishop of Lincoln, in his determination to learn Greek so he could read the eastern church fathers in their own language, made every possible effort to procure Italo-Greek codices of which Roger Bacon158, one of Grosseteste’s students, affirmed: “aliqui in Anglia usque ad haec tempora sunt superstites”159. Bacon af  Wilson 1983, p. 172.   “7 percent, the works of Gregory of Nazianzus, Andrew of Crete, Theodore the Studite, Symeon Metaphrastes, and Paterika; 2 percent, Lives of saints; 2 percent, the works of Ephraim the Syrian and John of Damascus; 2 percent, canonical texts, the Pandects of Antiochos of Saint Sabas, the works of Theophylact of Bulgaria, Christopher of Mitylene, Anastasios of Mount Sinai, Maximos the Confessor, Gregory of Nyssa, Mark the Hermit, Cyril of Jerusalem, the Lausiac History of Palladios, and an author of a later period, ‘Theophanes Kerameus’ (Philagathus of Cerami); 3 percent, secular works divided as follows: 2 percent, studies of grammar and lexicography (Dionysios the Thracian, Julius Pollux, two Pseudo-Cyril, one anonymous lexicon of the Iliad), and one collection of grammatical exercises; 1 percent, copies of ancient authors (two Homers, one Euripides, two Galens, a collection of medical precepts of various authors [Alexander of Tralles, Paul of Egina, Galen, and so on]), one copy of the latrika of Aetios of Amida, two compilations of minor scholia of the Iliad, one anonymous commentary on the Ainalytica and the De interpretatione of Aristotle, and another commentary on Hermo-genes’ Rhetoric, one Physiologus and one Bestiary. In this last one percent we also have two legislative compilations and an unidentified chronicle”. Guillou 1974, pp. 101-102. 158  Roger Bacon is primarily known as a scientist, mathematician, and philosopher. The most interesting part of Bacon’s admirable compendium of the sciences is the sixth part of the Opus Majus entitled De Scientia Experimentali, which Experimental Science, he tells us is the mistress of all that precede it. Experiment confirms the result of reading and tests the truth of the assertions of authors. For more see Taylor 1945, especially p. 139. 159   Russo 1957, p. 109. 156 157

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firmed that Grosseteste sent for both Greek native speakers and Greek books in southern Italy160, an example that Roger Bacon later followed. At this time, Greek culture of southern Italy produced personalities like the Italo-Greek-Calabrian John Italos, who in 1049 travelled to Constantinople with his father, as a part of a detachment of the Westerners to assist Constantine IX Monomachos to fight against Pechenegs. Italos, who became Michael Psellos’ successor and disciple, was a champion of the wisdom of the ancients, especially of the Aristotelian, dialectical thinking. Due to his thorough knowledge of ancient philosophy he was worth the dignity of Hypatos ton Philosophon and according to Anna Comnena, in Alexiad, Italos was very learned, and far cleverer than all others in expounding that most wonderful philosophic system, the Peripatetic, and especially the dialectics of it. But for other branches of literature he had not a very good head, for he stumbled over grammar and had never tasted the nectar of rhetoric161. It was exactly the knowledge of Aristotelian philosophy that brought him to trial on charges of heresy for his exaggerated use of ancient philosophy in general and, in particular, for holding Platonic views on the origin and nature of the world, or as Comnena put it in Alexiad, “for at this time the doctrines of Italus had obtained a great vogue and were upsetting the church”162. Thus, southern Italian learning, as Western learning, had taken a much more positive and open attitude towards ancient philosophy, which was different from Byzantium, which as John Meyendorff commented, solemnly refused any new synthesis between the Greek mind and Christianity, remaining committed only to the synthesis reached in the patristic period163. Obviously, southern Italy had very much to offer in the return of Greek thinking in Western culture. Probably, without southern Italy’s Greekness, the West would have not experienced the Florentine Rinascimento, which was based on the revival of Greek besides Latin learning. Returning to Italo-Greek monasticism and monks’ attitudes towards learning, it is worth pointing out that the focus of the Italo-Greek monk, as that of the Eastern monk in general, was not study-learning, but spiritual perfection. The scriptoria and monastic libraries where the codices were preserved and deposited, are not to be considered as learning nuclei but more as spiritual centers built to facilitate and assist the Italo-Greek monk in meditation and spiritual combats. Thus, the Italo-Greek monk’s focus was neither on philosophy nor on theology, with some rare exceptions like St. Neilos, founder of Grottaferrata, who ‘showed off ’ his meticulous theological and thorough knowledge of the Holy Scripture only when specifi  Mercken 1973, vol. I, pp. 34-35.   Comnena, Anna, Alexiad, Book VIII, accessed on October 1st, 2018; Conley 1998, pp. 53-54; Conley 2004. 162   Meyendorff 1987, p. 63. 163   Anna Comnena, Alexiad, Book VIII, accessed on October 1st, 2018; Meyendorff 1987, p. 63. 160 161

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cally asked. Instead, the aspiration of the Italo-Greek monks was spirituality, which for them was considered as the trustworthy philosophy. It was tending the heart and making it a place for the divine encounter that was the Italo-Greek monk’s main concern. This was illustrative of the orthodoxy of Italo-Greek monasticism, but it was a flexible orthodoxy that was able to elastically adapt to new circumstances. One facet of high adaptability can be seen in its evolution or northbound journeying to Rome, which guaranteed its survival. Regardless of Norman economic incentives to Greek monasteries the Normans were in favor of an organized, Latin-structured monasticism and encouraged Latinizing tendencies, which were slow but an ever-progressive process. He keenly encouraged the building of new Latin monastic foundations, which either competed with or substituted for the Italo-Greek monasteries; they favored a change of Greek ritual by encouraging the passage of entire Greek dioceses to the Latin rite. Moreover, while the Italo-Greek monasteries were progressively integrated into the Latin-structured-Basilian-system, and in Sicily a new diocesan system under the jurisdiction of the Roman Church and bishops of exclusively Norman origin were encouraged164, other non-Christian minorities were also marginalized or encouraged to convert165. Benedictine competing monasteries like the Benedictine Abbey of St. Mary of St. Euphemia were built by Robert Guiscard in 1060-62, to replace the ruined Byzantine monastery of Hagia Euphemia of Neòkastron. The new construction was entrusted to Robert de Grandmesnil, Abbot of Saint Évroult of Ouche from 1059-61, who escaped from Normandy for political reasons. The abbot was educated in France and was knowledgeable of the new architectonics which were experimented at Cluny and Bernay in Normandy. More Benedictine monastic establishments followed: the Abbey of the Holy Trinity of Mileto built by Count Roger between 1063-70, the Abbey of Saint Mary of the Twelve Apostles in Bagnara founded in 1085, and others, became important centers of Latin monasticism and learning in Mezzogiorno. With the Benedictine establishments, the Byzantine architecture of Calabria gave way to northern style ecclesiastical buildings, which were characterized by careful structural articulation. The models that were followed in buildings in southern Italy were the French models of Cluny, Bernay, and Saint Évroult of Ouche. The new Norman architectural structure spread from Calabria to the nearby Sicily, with the cathedrals of Catania, Messina, Cefalù and Palermo. Besides, the Normans appointed Benedictines to administer several Greek monasteries that served as Latinizing vehicles of the remaining Greek monasteries. In 1090 the dioceses of Saint Severina and Cassano passed to the Latin rite. This was followed by Tropea, Nicastro, and Squillace, which passed to the Latin rite in 1090, 1094, and 1096, respectively. The passings were not without reaction and opposition by Greek clergy and faithful. Archbishop Basil of Reggio was opposed to the   Lucà, Venezia 2010, p. 93.   Houben 2002, p. 109.

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changes, which caused him to lose his position and be replaced by the Latin Archbishop Arnolf in 1078. While in the city of Rossano due to a revolt by the people, the Normans were not able to install a Latin bishop166. Accelerating the process of Latin-style-restructuring, the Normans established the metropolitan sees of Reggio with thirteen suffrage dioceses and that of Saint Severina with four suffrage dioceses as well as the diocese of Mileto with jurisdiction over the Greek dioceses of Vibona, Tauriano, Catanzaro, Martirano and Saint Mark Argentano167. The new ecclesiastical re-organization brought about confusion within and between monastic communities, as well as increased frictions with the Latin Church and the newly assigned Latin bishops. The southern Italian testing ground, which in the past had created a unique living environment for Greeks, Latins, Normans, Lombards, and Arabs, was disintegrating. People would recall with certain nostalgia the times when the Arabs prayed apart, whereas Latins and Greeks each followed their own rites and spoke their respective languages, while still living next to each other168. Agostino Pertusi finds it difficult to prove that the Normans followed a real, organized and repressive religious policy in southern Italy. Instead, he commented that the Norman policy in southern Italy evolved gradually; it was neither violent nor carefully or meticulously planned. Moreover, according to Pertusi the Normans showed political tolerance and support towards the Greek tradition as well. If this was not the case, there would have been no long-term survival of bishoprics and Greek-rite in Crotone, Santa Severina, Oppido Mamertina, Rossano, Gerace, Gallipoli and Bova169. Santo Lucà characterized the Norman period in southern Italy as an important and quite lively appendix in southern Italian history, an almost nostalgic continuation of the Byzantine time, which was nourished by the last generation of the Italo-Greeks170. However, the short-lived Greek support and toleration neither hindered nor delayed the atrophy of Italo-Greek monasticism which by then had taken a hopeless course of decay. Greekness – Atrophied. The Angevins The advent of the Angevins brought about new changes to the physiognomy of Italo-Greek monasticism. The policy of the French Angevins who ruled the region from 1266 to 1442 was not in favor of the Byzantine tradition and by no means promoted the Italo-Greek monastic tradition or the Greek rite of southern Italy. The Angevin dominion signaled the next determining step in the decline of the     168   169   170   166 167

Musolino 2002, pp. 10-11. Musolino 2002, pp. 12. Russo 1977, p. 81. Pertusi 1994, p. 82. Lucà 1993, pp. 4-5.

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Italo-Greek monasticism in Mezzogiorno, a decline which precipitated in the next centuries. The Angevins’ anti-Byzantine policy caused reversed immigration. Many Calabrian Italo-Greek monks were forced to flee Calabria for Greece, where they founded several monastic establishments. It was due to the contacts and activity of the Calabrian monks that two new monasteries were established in Greece, one in Moreas, known as the Monastery of Calavrita, and the second in Thessaly, known as the Monastery of Rousianou. The name of the latter monastery indicates the founders’ origin, monks Nicodemo and Barlaam from Rossano171. The Italo-Greek monasteries, under the new structural changes, suffering from pressure and competition on the part of Latin-Benedictine monastic establishments, and with very limited contacts with the center-Constantinople, began to deviate from their centuries-old Eastern roots. Furthermore, the possession of great estates, which required more labor from the monks, was detrimental to their asceticism and spiritual life. The assignment of Italo-Greek monastic properties first to Latin abbeys and later to commendatory abbots caused the abandonment of several Italo-Greek houses. The commendatory system, which initially was thought of as beneficial in resolving the internal problems of the italo-Greek monasticism, proved to be inoperative and in many cases destructive. The commendatory abbots usually lived far away from their monasteries. They were not elected by the respective monastic communities and in several cases were insufficiently trained in the monastic life and discipline. They were often arrogant and greedy for wealth and the good of the monastery they had in commenda was by no means their priority. As the commendatory system became hereditary to several wealthy families, the monasteries taken in commenda, consequently, became part of families’ patrimony. Most of the revenues went to the commendatory abbot, but the monks were permitted to keep enough for their own livelihood and the upkeep of the buildings. In general, the commendatory system was a scourge, petrifying minor abuses and sapping the spiritual and material strength of a house172. The commendam system caused a further decline in the use of Greek language in the Italo-Greek monasteries as well as among the population at large. In the beginning of the 13th century, monastics’ contacts with Byzantium and the Christian East were severely curtailed, and the Greek element in the monasteries was progressively marginalized173. The number of the Greek-language monastics was either acutely reduced or substituted by Latin monks. In several other houses, the Greek element began to intermingle with the Italian surroundings, losing its identity. This trend was followed by a decline in the use of Greek language among the population at large. The structural changes were further reflected in the liturgy. For some monasteries the changes were more drastic and entire monastic houses   Russo 1955, p. 47.   Knowles 1969, p. 121. 173   Burgarella [1982], p. 69. 171 172

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passed into the Latin tradition altogether174. In 1217, Pope Honorius III authorized John, Bishop of Croton to celebrate the divine office both in Greek and Latin. The same pope in 1221 delegated John, Bishop of Croton, and Theodosius, Abbot of Grottaferrata, to pay a canonical visit to the declining Italo-Greek “Basilian” monasteries of Campania, Puglia, and Calabria, with the intention of proposing some possible remedies175, but this did not bring any results. As a result, in 1256, Pope Alexander IV, with a special bull ordered the annexation of the declining Italo-Greek monasteries either by the Benedictines or the Cistercians. However, due to popular upheaval these measures were only partly applied176. In 1284 the Synod of Melfi, under the direction of Cardinal legate Gerardo Bianchi of Parma, was convened. Horst Enzensberger observed, that the synod’s main concern was not the ritual differences between the Latins and the Greeks or the applications of the Council of Lions’ decisions. Instead, the synod discussed the possible application of taxation to provide financial assistance to the Angevin expeditions against Peter III of Aragon177, there were strong theological implications which were forced upon the Greek Church in Italy including the insertion of the Filioque in the Nicene-Constantinopolitan creed, or the suppression of the consecratory epiklesis in the Eucharistic anaphora, which now preceded the anamnesis, similar to the Western-Latin tradition178. These and other changes were declared as binding for the Greek Church. Furthermore, the synod tried to resolve the abuses and irregularities committed by the Latin clergy regarding the marriage status. The Latin clergy of southern Italy would marry after receiving lower orders and subsequently transfer to the Greek observance, and when consecrated into higher orders by Greek bishops continued in their marriages, thus they conveniently did not follow the celibacy requirements of the Latin Church179. Italo-Greek Monasticim’s Cygnea Cantio? In Plato’s Phaedo Socrates is made to say that although swans sing in earlier life, they never do this so much or so beautifully as at the approach of death180:   Giannini 1987, p. 16.   Monastero Basiliano di Mezzojuso 1936, pp. 128-129. 176   Ferrante 1981, p. 84. 177   Enzensberger 2000, p. 8. 178   Morini 2009, pp. 15-16. 179   Herde 2002, p. 238. 180   By the third century B.C.E. the phrase “to sing one’s swan song” had already become a proverb. W. Geoffrey Arnott demystifies the mystery of the dying-singing swan. He differentiated between two types of swans the mute and whooper swan. He attributed to the whooper swan, who has a remarkably shaped trachea, convoluted inside its breastbone, that when it dies the final expiration of air from its collapsing lungs produces a wailing, flute-like sound given out quite slowly. According to Arnott it is legitimate guess that one Greek hunter, at an indefinable time succeeded in shooting a whooper swan 174 175

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For they, when they perceive that they must die, having sung all their life long, do then sing more than ever, rejoicing in the thought that they are about to go away […] they (swans) sing and rejoice in that day more than they ever did before181.

The Italo-Greek monasticism’s cygnea cantio is connected with the names of Barlaam of Seminara and Leonzio Pilato, among the first teachers of Greek in West. The study of the Greek language from the Western school curricula had vanished with the end of the Roman Empire. It was revived only at the end of the 14th century, by external emigration from the dying Byzantine Empire. The trend began with Manuel Chrysoloras, a Constantinopolitan by birth, who is credited as being the first teacher of Greek in Italy. Federica Ciccolella indicated that the arrival of Chrysoloras in Florence represented a turning point in the West in regard to an increased interest in Greek thought, and the study of the Greek language was what Dean Lockwood called the master-key to the great storehouse of ancient knowledge182. However, it is difficult to estimate the degree to which and how directly this affected the cultural life of other areas of Italy like Rome, or southern Italy where the Greek element was present and had a long tenure. Rome was constantly receiving pilgrims from the East, the major part of which were pious monks who visited the graves of the apostles. Furthermore, monasteries in Rome, like the monastery of Saint Alessio, had made possible the development of an ambience of liberal humanism which was representative of the culturally and linguistically diverse monastic (Greek and Latin) community it housed. The authors of the lives of saints, like the author of the Vita Saint Adalberti, for example, show a good grip and high level of familiarity with The Odes of Horace, or the Eclogues and Aeneid of Virgil where quotations from these works are mixed with references from the Holy Scriptures183. The wisdom of the ancients had never been absent in Italy, as Greek scholarship in southern Italy had preserved the knowledge of the profane literature and this tradition was to make an important contribution to Greek studies in the Renaissance184. This was the reason why Petrarch and Boccaccio, promoters of the re-introduction of Homer and Euripides in the literary Florentine culture of the 14th century, were seeking after the remnants of Greek language and thinking in southern Italy which with all vicissitudes and Latinization had managed to survive in the monasteries due to linguistic affinities with the East. There were the monks from southern Italy who were called to contribute to the revival of Greek thought in the Occident by producing the first translations from Greek in the West. Federica Ciccolella indicated that and described the melancholy music that came from the dying swan. Consequently, Plato’s account of the legend at Phaedo turns out to be correct. For more on this see Arnott 1977. 181   Plato, Phaedo, accessed on October 1st, 2018. 182   Lockwood 1919, p. 123. 183   Hamilton 1965, p. 290. 184   Carne-Ross 1968, p. 549.

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the revival of Greek in the West may have occurred neither unexpectedly nor solely because of external factors. The survival of two medieval Greek grammars compiled in the West suggests that there was interest in Greek learning, and attempts were made to solve what the 13th century philosopher, sur-named doctor mirabilis, Roger Bacon, identified as the main problem in the study of Greek in the West: the lack of a grammar book suitable to teach the language to Western students185. Petrarch followed Roger Bacon’s program to learn Greek. He sought out a native Greek speaker among the Greek residents in Europe, although there is no indication that Barlaam was a trained grammarian. Between August and September 1342 he took some lessons in Avignon from Barlaam of Seminara186, a Calabrian native and a Greek native speaker, who was primarily known as a theologian, but also as a mathematician and astronomer. Besides modern Greek, Barlaam wrote with facility in ancient Greek187. Petrarch and Boccaccio described Barlaam as a man of diminutive stature, truly great in the measure of learning; a genius of piercing discernment, though of a slow and painful elocution. For many ages Greece had not produced his equal in the knowledge of history, grammar, and philosophy, and his merit was celebrated in the attestations of the princes and doctors of Constantinople188. According to Timothy Reiss, Petrarch knew Stoic teaching not through studying Augustine, but Petrarch’s first-hand Stoic teacher was Barlaam of Seminara189. Barlaam taught mostly in Greece, but in 1342 he was present at the pontifical court of Avignon, where Petrarch was his pupil190. Edward Gibbon, in his classic The Decline and Fall of the Roman Empire, indicated that Barlaam was the first who revived beyond the Alps the writings or at least the memory of Homer. In the court of Avignon, according to Gibbon, Barlaam formed an intimate connection with Petrarch, the first of the Latin scholars, and the desire of mutual instruction was the principle of their literary commerce191. However, the result was not that satisfactory. Petrarch never succeeded in reading the Greek codex of the Iliad and Odyssey that the Byzantine ambassador Nicholas Sigeros had given   Ciccolella 2005, pp. 1-2.   Roger Bacon’s two-step program was simple: 1. Seek out native Byzantine Greek residents in Europe, preferably trained grammarians. The latter were very few, of course, but might be found in the Greek monasteries of Southern Italy. 2. From these and from any other available sources let Greek books be sought. If this program were to be carried out, Bacon confidently prophesied that results would not be long in forthcoming. He himself (with pardonable exaggeration) guaranteed to impart the rudiments of Greek in three days, by which he probably meant the ability to copy and interpret sanely the Greek words of the Vulgate. For more, Lockwood 1919, especially p. 124; Ciccolella 2008 p. 97; and Francon 1936, p. 269. 187   Christidis 2007, p. 1231. 188  Giovanni Boccaccio, Genealogie Deorum Gentilium Libri, vol. II, Bari, 1951, p. 761. 189   Post 1937, p. 343. 190   Reiss 2003, p. 323. 191   Gibbon 1900, vol. VII, pp. 118-119. 185 186

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him, as he wrote to Sigeros in recognition of his gift: “Homerus […] apud me mutus, immo vero ego apud illum surdus sum. Gaudeo tamen vel aspectu solo, et sepe illum amplexus ac suspirans dico: ‘o magne vir, quam cupide te audirem!’” (“Homer is mute in my presence, or rather, I am deaf in his presence. However, I rejoice at the mere sight of him and often, embracing him and sighing: I say: ‘O great man, how eagerly I would hear you’”.) The reason might have been that the time of the private lectures was brief, as his teacher Barlaam departed to take up a bishopric in Calabria192. Furthermore, according to Federica Ciccolella it is likely that the Calabrian monks Barlaam and later Pilato taught Greek grammar through the fourth-century Introductory Canons on Inflection of Nouns and Verbs, which presented a sophisticatedly complicated classification of verbs, which was daunting to Westerners, who learned Latin according to the comfortable system of five nominal declensions and four verbal conjugations193. Most importantly, neither monk was trained to teach Greek as a foreign language to a Latin audience and both lacked an appropriate and teachable grammar that was accessible to Latin speakers. Very little is known of the Calabro-Greek monk Leonzio Pilato before he was invited to Florence by Giovanni Boccaccio. Leonzio Pilato taught Boccaccio Greek with a stipend from the Florentine authorities for about three years (1360-1362), and this marked the first known official teaching of Greek in an Italian city. Moreover, Pilato taught Boccaccio the love of travel, along with a love for Greek language and culture, which came naturally to the scholarly monk. This is how Edward Gibbon described Leonzio Pilato: The appearance of Leo might disgust the most eager disciple: he was clothed in the mantle of a philosopher, or a mendicant; his countenance was hideous; his face was overshadowed with black hair; his beard long and uncombed; his deportment rustic; his temper gloomy and inconstant; nor could he grace his discourse with the ornaments or even the perspicuity of Latin elocution. But his mind was stored with a treasure of Greek learning; history and fable; philosophy and grammar were alike at his command; and he read the poems of Homer in the schools of Florence194.

It was Giovanni Boccaccio who gave his teacher the most deserved recognition by writing in his Genealogie Deorum Gentilium “I was the first among the Latins who from Leonzio Pilato heard The Iliad”195. Pilato’s stay in Florence left substantial traces in the form of Greek learning and translations. He has the distinction of producing the first ad verbum Latin translations of The Odyssey, the Iliad, and   Kraye 1996, p. 15.   Ciccolella 2005, p. 5. 194   Gibbon 1900, vol. VII, pp. 120-121, and Giovanni Boccaccio, Genealogie Deorum Gentilium Libri, vol. II, Bari 1951, p. 762. 195  Giovanni Boccaccio, Genealogie Deorum Gentilium Libri, vol. II, Bari 1951, p. 766. 192 193

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about 1-466 lines of Euripides’ Hecuba196, commissioned by Boccaccio, and some of Plutarch’s Lives, done at the request of Coluccio Salutati, Chancellor of Florence197. Although Pilato’s literal translations were criticized by later humanists nobody can deny the Calabrian-Greek monk’s contribution to the diffusion of Greek thought in the West as well as his keen interest in Greek mythology, which stimulated Boccaccio in his future works. D.S. Carne-Ross, reflecting on the criticism that has been written about Leontius’ versions praised the Calabrian monk, observing that merely to produce a literal rendering of Homer, and to supplement it with a commentary drawing on the tradition of Byzantine scholarship, was a considerable undertaking in the 1360s. He praised Leontius for giving a substantially faithful account of the substance of his translations198. Both Barlaam and Pilato are recorded as the two main protagonists who contributed considerably to bringing to northern Italy the knowledge of the classical Greeks after seven centuries of exile from the West. Barlaam guided Petrarch to the knowledge of Plato, who later became the idol of Italian Humanism, and Pilato made Homer known and esteemed in the West199. Thus, the Calabrian monks, with the strong impulse they gave to the study of Greek language and literature, contributed a great deal to the revival of Italian literature. Boccaccio and Petrarch recommended the establishment of the first chair of Greek language in Florence200, and Leonzio Pilato was the first to hold such a chair in Western Europe201, inaugurating the teaching of Greek on the university-level. Thus, Barlaam and Pilato, through their Italo-Greek-Calabrian culture, provided the Occident with Greek thinking, a role that later on was provided by Constantinople. So, when the West felt the need for the revival of the ancient wisdom, it did not turn to Latin thinking only. Instead, as the case of Petrarch and Boccaccio illustrated, it turned to the remnants of Greekness in their backyard, to extract the most pure and genuine sources of classicism. This was southern Italy’s special gift to the West. However, pre-humanists, Italo-Greek monks Barlaam and Pilato, were representatives of the intellectual culture that flourished, but whose very roots were being pulled up at the same time. In the first half of the 14th century the disagreements between the Greek monastics and the ruling Latin clergy increased. The Bishop of Montecassino, Raymond of Cramat, who was also Count of Campania and Vicar of Pope John XXII, ordered that no bishop, archimandrite, hegumenos or priest recited the office in Greek, celebrated Mass with leavened bread, or grew a beard. Bishops Basil of Oppido and John Tirseo of Gerace vigorously opposed this interference     198   199   200   201   196 197

Wilson 1983, p. 163. Kraye 1996, p. 16; Ciccolella 2005, p. 5; Sowerby 1997, p. 45. Carne-Ross 1968, p. 549-550. Russo 1955, p. 53. Christidis 2007, p. 1231; Giannini 1987, p. 15. Geanakoplos 1974, pp. 118-119; Russo 1962a, p. 12.

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and delegated representatives to Montecassino to appeal to Rome for a revocation of such an insensitive measure. The bishops’ representatives returned home victorious, bringing with them letters in which the consent to conserve their centuries-old traditions regarding language, ritual, and customs was granted202. Pope Urban V made an effort to halt the decadence of Italo-Greek monasticism by introducing a disciplinary, doctrinal, and liturgical revival. In 1370 he assigned Bishop James of Itri the task of visiting the churches and monasteries in southern Italy, as well as conducting a close examination of the monastic discipline in the monasteries. Moreover, the bishop would conduct a close examination of the liturgical books used in the monasteries with the intention to remedy theological errors, especially in regard to the Eucharistic prayer. These were followed by other efforts from Roman Pontiffs to halt the progressive decadence of Italo-Greek monasticism. In 1419, Pope Martin V assigned Lorenzo Carella, Archdeacon of Ascoli, to continue the monastic disciplinary reform and remove the abuses and transgressions in liturgical practices. On February 14, 1446 Cardinal Bessarion, with the approval of Pope Eugene IV, organized in Rome in the Basilica of the Twelve Apostles the general chapter of the Abbots of Puglia, Calabria and Sicily. The general chapter’s main focus was regeneration and reform of the Italo-Greek monasticism203. Moreover, Bessarion anticipated that the compilation of monastic disciplinary rules modeled after the Regulae fusius tractatae of St. Basil the Great would remedy the state of decadence of Italo-Greek monasticism and would give a sense of unity, understood in terms of juridical unity and more unified and uniform structure to what was left of the Italo-Greek monasteries. The chapter, approved by Pope Eugene IV with the bull of December 14, 1446, took measures focusing on the religious spirit as well as the discipline to be observed in the Italo-Greek monasteries. Among the measures, the monks were forbidden to leave the monastery without the abbot’s permission, to bear arms, wear lay garb, and own property. Moreover, the abbots were held accountable for providing for their monks and were prohibited to either possess many servants and horses; or lavish household goods, or to prepare rich banquets204. However, the results of such measures were far from being satisfactory. In the 15th century Athanasius Chalkeopoulos documented a further step in the degradation of the Calabrian monasteries during his one-year-long visit from 1457 to 1458. He recorded 60 male monasteries with 140 monks, and 11 female monasteries. Furthermore, Chalkeopoulos indicated that religious life and monastic discipline were observed in the female monasteries, while only 10 male monasteries were safe from the general state of decadence. In the second half of the 15th century Pope Pius II made new attempts at toward revival, insisting on the teaching and learning   Musolino 2002, pp. 13; Garitte 1946, p. 31.   Oriente cattolico 1974, see Basiliani di Grottaferrata. Religiosi Italo-Albanesi. Monaci Basiliani d’Italia o di Grottaferrata, p. 510. 204   Rodotà 1760, vol. II, p. 142. 202 203

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of the Greek language by the monastics. Pope Sixtus IV allowed the celebration of the Latin mass in only one monastery. From Decay to Almost Extinction: Post-Tridentine Latin-inspired Re-structuring of Italo-Greek Monasticism The Council of Trent was to bring about major transformations in southern Italy, which, as John Faris in his study on the Byzantines of Italy stated, given the proximity to Rome, represented a special concern for the Holy See. The first step in the structural post-Tridentine transformation of Italo-Greek monasticism came about in 1573, when Pope Gregory XIII established the cardinalatial congregation de rebus Graecorum, which the pope entrusted with the reform of the Greeks and Albanians living in southern Italy according to the rite of the Greek Church for the Albanians and that of the monks and monasteries of the Order of Saint Basil for what has remained of Italo-Greek monasticism205. The union attempts with the Orthodox Church were a trait of the pontificate of Gregory XIII206. The Greek publication of the princeps of the Council of Florence in 1577 was considered an instrument for promoting of union with Orthodoxy and indicated Rome’s continued religious and political interest to get half of the Christian Churches back into the Catholic Church fold207. Moreover, the same pope ordered the publication of the Rules of Saint Basil in three languages: Greek, Latin and Italian, and instructed that the rules be diffused in all remaining Italo-Greek monasteries. The second step to a structured and organized monasticism transpired on the occasion of the Feast of Pentecost in 1579, where the first structured, Latin-inspired, general chapter of the Italo-Greek monks of Italy was held at the monastery of Saint Filarete of Seminara in the Diocese of Mileto. The chapter was presided over by the Benedictine Abbot Paul. The chapter elected Colantonio Ruffo, Abbot of Saint Nicholas of Butramo in the diocese of Gerace, as the Superior General of the newly structured Order of Saint Basil. At the event’s conclusion, the Bull Benedictus Dominus Deus of Pope Gregory XIII was promulgated and thirteen years later re-confirmed by the Bull Quae ad Restituendos of Pope Clement VIII of October 29, 1592. The bull approved and confirmed the election of the general superior of the Basilian Order and provided an outline of the statutes and disciplinary rules of the order. The new constitutions were approved and published in 1598. This was the final step in configuring the Basilian Congregation of Italy and Spain. Thus, the Byzantine monasticism of Italy received legal foundations of a structured “Order” following a Latin paradigm. Subsequently, the Italo-Greek monasteries of   Faris 2007, p. 91.   Peri 1975, p. 90. 207   Murzaku 2009, pp. 14-19. 205 206

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southern Italy, Spain and other provinces were regulated under the umbrella of the Italian Congregation of the Order of Saint Basil and were subjected to the Holy See. Furthermore, it was decreed that every three years a general chapter should be held, followed by the election of a general, visitors, a procurator-general, and other officers. All the provinces-branches, similar to Latin monasticism, were united to the Latin Church and were submitted to the superior general of the order208. The establishment of the Italian Congregation of the Order of Saint Basil, which followed the organizational pattern of the Cassinese Congregation of Saint Benedict, was the result of the reforms introduced by Abbot Ludvico Barbo of the Abbey of Saint Giustina of Padua in 1408. The Benedictine reform was triggered by the need to rectify the commendam system. To this end Abbot Barbo suppressed the autonomy of individual monastic houses and revamped the role of the abbot. Consequently, monks made their vows to the congregation and the authority invested in the general chapter, which was authorized to appoint superiors and could circulate monks and abbots from one monastery to another. Why were Pope Gregory XIII and other pontiffs who followed so keenly interested in the reform of the Congregation of the Order of St. Basil? The Roman Curia’s concern was that the newly established, Western-structured Order of Saint Basil would be a mediator with the ever-vital and impressive Eastern monasticism209. This fit into the pope’s unionist paradigm to win back Orthodoxy to the Catholic fold. However, Pope Gregory XIII’s plans for union met with disappointment in Italy, especially in Calabria, and in Greece. Additionally, the severe reforms and re-structuring proposed by the pope to remedy the Greek monasteries of Calabria, which were in decadence, provoked a rebellion which needed to be subdued by the use of force210. In other countries, especially those under the Turkish dominion, there was a diffused spirit of hostility against Catholics. According to a 1580 letter from the Dominican prelate Agostino Ghisolfo to Giulio Antonio Cardinal Santoro, who at that time was the Titular Latin Patriarch of Constantinople: “it was easier to convert a Turk than a Greek; even when some Greek calogeri (monks) demonstrated obedience (i.e., to Rome), they did it in exchange for alms. Additionally, the Greeks honored and had a greater familiarity with and devotion to the Turks than to the Latins”211. However, the application of Trent’s reforms in southern Italy brought about drastic and irreversible changes in the religious mosaic of Mezzogiorno. In the following centuries, the suppression of the Greek rite in the Calabrian and Sicilian dioceses was applied with various degrees of intensity. For example, in the villages of Saint John Minago and Papaniceforo the Greek rite endured until the middle     210   211   208 209

Currier 1895, p. 79. Peri 1977, p. 450. Bloise 1947, p. 31. Peri 1975, p. 98.

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of the 18th century212. In Gerace the Greek rite was suppressed in 1467 under the auspices of Bishop Athanasius Chalkeopoulos, a Greek by birth and tradition. This was followed by the suppressions of the Greek rite in the Dioceses of Oppido in 1472 and Bova in 1575. In the Archdiocese of Reggio Calabria the liturgical celebrations in Greek persisted for a little longer. Archbishop of Reggio Calabria, Annibale d’Afflitto, who was influenced by the Archbishop of Milano, Cardinal Charles Borromeo’s213 Catholic Counter-Reformation legislative model of episcopate214, undertook the application of the Tridentine reform in his dioceses. D’Afflitto was keen to apply a diocesan order and a system or principle of parochial conformity. He supported the code of parochial observance and thought that this code should be made watertight and universally reinforced. All streams of popular religion needed to be diverted into a single parochial channel215. Obviously, this system did not allow space for other religious practices, like the Byzantine-Greek Churches in his dioceses, which offered religious services that were competitive with the parish celebrations and were different from the Latin practices. Adrian Fortescue observed that d’Afflitto was not a friend of the Byzantine rite in his diocese and a champion of applying Trent’s liturgical and structural uniformity216. Pietro Pompilio Rodotà captured best d’Afflitto’s stance on the practice of the Byzantine rite in his diocese: He [Annibale d’Afflitto], abusing the exercise of his sacred ministry, artfully suppressed the Greek ceremonies, and introduced Latin instead in this church [Saint Maria della Cattolica], in order that, when no vestige/memory of the old rite remained, he could exercise jurisdiction over it and the clergy217.

In his long tenure as archbishop, d’Afflitto visited nine his dioceses nine times, making elaborate comments and notes. Reports from five of his pastoral visits have survived218. In his first one-year-long pastoral visit of his diocese from 1594 to 1595 the archbishop found 11 priests, 5 deacons, 2 sub-deacons and 15 Greek-rite-clergy and only one Latin-rite priest. However, his reports raised some serious concerns, regarding some of the presbyters in his diocese who according to d’Afflitto ignored the fundamentals of the Christian faith, and others who were illiterate and cele  Musolino 2002, p. 15.   Charles Borromeo, Archbishop of Milan from 1564 to 1584, was a model of Counter-Reformation Bishop. Borromeo believed that dioceses should resemble well-organized armies, which have their generals, colonels and captains, and much of his Acta Ecclesiae Mediolanensis, the legislative model of the Counter-Reformation episcopate, was concerned with bringing the Milanese fraternities within an all-embracing hierarchal scheme. For more on Borromeo’s Counter-Reformation paradigm, see Bossy 1970, especially pp. 59-60. 214   Luebke 1999, p. 94. 215   Bossy 1970, p. 47. 216   Fortescue 2001, vol. III, p. 106. 217   Rodotà 1760, vol. II, p. 406; Fortescue 2001, vol. III, p. 106. 218   Denisi 1981. 212 213

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brated Mass by heart219. The archbishop, with the intention of reorganizing and elevating the educational level of Greek clergy, instituted schools and requested that clergy needed to frequent the schools which were taught by a deacons220. This move on the part of the archbishop did not prove fruitful for the following reasons. First, the Greek clergy that needed the most the aggiornamento refused to frequent the school, and secondly the most educated among the Greek clergy decided to pass to the Latin rite, which they considered more adequate to their intellectual level. Neglect of monastic discipline and moral slackness was the situation in several monasteries. In 1581, the Abbot of the Saint Salvator of Messina stated that in a monastery he found “three deacons who were biological sons of three monks”221. However, the final suppression of the Byzantine rite in Reggio Calabria happened in 1628, under the guidance of Geronimo Cordova, who was educated in Rome and was successful in persuading other priests to follow his example222. The 17th century marked another stage in the decay of Italo-Greek tradition of Mezzogiorno. The remaining manuscripts and codices, which had a direct impact on the development of humanism in the West, were taken out from Calabria in great numbers. In fact, the manuscripts had been prey to speculators since 1400223. The Italo-Greek monasteries were among the monastic establishments to suffer the consequences of the October 15, 1652 Bull Instaurandae regularis disciplinae of Pope Innocent X, which resulted in the closure of 1, 513 houses of religious in Italy composed of fewer than six religious224. 16 of 42 monasteries “Basilian” monasteries were closed225. In the meantime, the decay of the remaining Italo-Greek houses was progressing. The lines of communication with the East due to historical circumstances were severely curtailed; its religious rites were suffering the pressures of Trent liturgical uniformity; and the monastic ascetic discipline was losing its Eastern peculiarity. It was under these desperate circumstances that the Superior General of the Basilian Order, Pietro Minniti, asked Pope Clement XI to suppress the Byzantine rite in all Italo-Greek monasteries in 1709, an appeal that the pope did not seem follow. The next major event was the May 26, 1742 promulgation by Pope Benedict XIV of the Bull Etsi Pastoralis. The bull served as a miniature code of canon law for the Italo-Greeks226, and remained in force until 1930227. Obviously, the document brought about new developments in regard to the Byzantine rite in southern Italy. Etsi Pastoralis determined 219   “Nesciunt rudimenta fidei; nesciunt legere et scribere; nesciunt legere, nesciunt scriber”, Archivio Arcivescovile Reggio Calabria, Visita Pastorale Annibale D’Afflitto, 3 Agosto 1595, pp. 339-340. 220   Fortescue 2001, vol. III, p. 106. 221   Bloise 1947, pp. 30-31. 222   Raschella 1925, p. 133. 223   Ferrante 1981, pp. 88-89. 224   Comparelli 2009, p. 8. 225   Boaga 1971, p. 75. 226   Faris 2007, p. 91. 227   O’Mahony 2008, p. 239.

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that: “Though the Greeks must believe that the Holy Spirit also proceeds from the Son, it is not necessary for them to acknowledge this in the Creed. However the Albanians of the Greek rite have commendably accepted the opposite custom. It is our wish that this custom be maintained by the Albanians and by all those other churches which have already adopted it”228. However, Etsi Pastoralis sanctioned the superiority of the Latin rite over all other rites. For example, the Latin-rite Catholic husband was strictly forbidden to embrace the Greek rite of his wife, and the Catholic Latin-rite wife was forbidden to shift to the Greek ritual of the husband. Consequently, children were expected to follow the paternal-Latin tradition and the Catholic Latin-rite mother was expected to educate the children in the Latin tradition229. The same second-class-treatment was suffered by what was left of the monastic Italo-Greek rite that was celebrated in the monasteries. Due to the spirit of uniformity as well as Latin-fashioned-centralization introduced by Trent, unleavened bread and Roman liturgical vestments were used in Italo-Greek liturgical celebrations. This was followed by the Latin-style architectonic building, vestments, altar cloths and holy vessels, which were all Latin borrowings230. The ritual ambiguity, hybridization and the irreversible decline of Italo-Greek monasticism forced the superior general of the Basilian Order Joseph del Pozzo, in 1746, to petition for a renewal of the 1709 abolition request of the Italo-Greek rite in southern Italy231. His petition was not received favorably in Rome. Mother nature did not collaborate either. The earthquake of February 5, 1783 destroyed numerous monasteries in southern Calabria where many Italo-Greek monks and nuns lost their lives. In Seminara, for example, 37 of 58 nuns were found dead after the earthquake232. In general, most of the remaining Basilian monks and nuns lost their lives under mountains of rubble after the seismic catastrophe. Even the institution of the Cassa Sacra by King of Naples Ferdinand IV, in 1784, into which were supposed to flow monies from Church properties for distribution among those affected by the earthquake, became a total failure and had a deleterious effect on the already miserable conditions of the people in Calabria, as well as the Italo-Greek monasteries. The monastic properties were confiscated while the destroyed buildings were left in ruins. The French rule of Southern Italy, which lasted from 1806 to 1814, inflicted the last destructive blow to Italo-Greek monasticism. The first article of the August 7, 1808 decree sanctioned the total suppression of a number of religious orders and the Basilians were no exception233. The following remaining Italo-Greek   Rahner 1975, p. 646.   Musolino 2002, p. 18. 230   Parenti 2008. 231   Croce 1990, vol. I, pp. 13-17. 232   Ferrante 1981, p. 89 (footnote 79). 233   “Art. 1. Sono soppressi in tutto il Regno i seguenti Ordini Religiosi: Domenicani, comprese le loro riforme, cioè Gavoti, e della Sanità - Minori Conventuali - Terzo Ordine di S. Francesco - Paolotti, o 228 229

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monasteries were suppressed by the Napoleonic legislation and were granted to the municipalities: Patir in Rossano; St. Nicodemo in Mammola; followed by that of Melicucca, Monteleone, Calamizzi in Reggio, and that of Rosarno. On November 30, 1808, the monasteries of St. Bartholomeo of Sinopoli, St. John Castaneto near St. Stephen in Aspromonte234, and other monasteries were closed. This legislation brought to an end the splendor of Italo-Greek monasticism in Calabria235. The Sicilian monasteries managed to survive until 1866, to be suppressed by the legislation promulgated by the Kingdom of Italy. Instead, the Monastery of the Mother of God of Grottaferrata in Rome was recognized as a national monument and was put under the custody of the monks. Notwithstanding, Italo-Byzantine monasticism left behind a unique reminder, which is still giving testimony to the splendor of the Italo-Greek monasticism and southern Italian or Mediterranean cauldron of different religious traditions. The Monastery of the Mother of God of Grottaferrata in Rome, founded by the Calabrian Greek Saint Neilos in 1004, is still preserving the memory of the glory of the Italo-Greek monasticism as well as what was left of the of the Byzantine monasticism in Italy. In 1862, Pope Pius IX instituted the Congregation De Propaganda Fide pro Nogotiis Ritus Orientalis. The April 12, 1882 decree promulgated by Propaganda Fide attributed to the monks of Grottaferrata the preservation of the Italo-Greek physiognomy. The same year Pope Leo XIII invited the Italian bishops, in whose dioceses resided Greek-rite faithful, to send to Grottaferrata potential candidates for religious life. This was followed by the 1918 foundation of the Pontifical Seminary of Grottaferrata, for the training of monks and priests. The existence of the Monastery of the Mother of God of Grottaferrata, just 20 kilometers outside Rome, marks the only survival of the once flourishing Italo-Greek monasticism of southern Italy. The monastery is living proof of what it takes to survive: renewal and conservancy, mutatis mutandis. Thus the centuries-old saga of the Italo-Greek monasticism, which is symbolized in the survival of Grottaferrata, was finalized in Rome, or as medievalist Filippo Burgarella put it, it was through a superior design that Italo-Greek monasticism was headed towards Rome. Saint Neilos refused to go to the capital of the Empire, whose subject he was, but he went to Rome instead236. It was thus the central-north-bound direction and especially the alignment with the apostolic see that saved this particular monastic establishment. Minimi di S. Francesco - Carmelitani calzati - Carmelitani scalzi - Frati del Beato Pietro da Pisa, detti Bottizelli - Serviti - S. Giovanni di Dio - Trinitarj della mercede, Spagnuoli e Italiani - Agostiniani calzati - Agostiniani scalzi - Di S. Spirito, o sia Silvestrini - Basiliani - Teatini - Chierici minori regolari - Crociferi - Chierici della Madre di Dio - Barnabiti - Somaschi -Rocchettini, cioè Lateranensi, e del Salvatore”, Testa 1976, p. 225. 234   Caldora 1960, p. 217; Ferrante 1981, p. 89. 235   Croce 1990, vol. I, pp. 347-351. 236   Burgarella 1982, p. 69.

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In conclusion, returning to the argument of structure versus anti-structure of Italo-Greek monasticism in southern Italy, the natural evolution or recourse to structure can be seen as both constructive and destructive. Initially, especially in the pre-Norman period, structure, or the organized Studite monastic life or what Robert Taft called the coenobitism of necessity237, was beneficial to the Italo-Greek monasticism and guaranteed its flourishing, stability and spread in southern Italy as well in other parts of Italy and Europe. Later on, especially in the post-Norman period, the structure imposed on Italo-Greek monasticism was by no means constructive. The same can be said for the post-Tridentine centralized re-structuring, which was forced and unnatural for the Italo-Greek monasticism. The recourse to structure was thought to be the only recourse to halt the progressive decadence which was conditioned by political-historical circumstances, and the results were unsuccessful. However, Italo-Greek monasticism has left behind a unique, 1015-year-old survivor – Grottaferrata. More than the imperfect structure, it was monasticism’s incredible resilience to the new circumstances mieux vaut plier que rompre (better to bend than to break), and in the case of Grottaferrata the alignment with the powerful Rome that guaranteed its survival and perpetuation. Italo-Greek monasticism via Grottaferrata used its centuries-old adaptive mechanisms, which were conservational – creative, and traditional – innovative. Grottaferrata has partly lost its Greek identity; its rite was Latinized and hybridized in the process, but this was probably its only option left for survival. The process is similar to Ulysses’ trial-by-sea-Sirenland, who opted for the lesser of two evils or the intermediate way, faced Scylla, and only lost a few men in the process. Ulysses took the least of the evils and his crew survived, so did the Italo-Greek monasticism and its only survival Grottaferrata: it opted for the least of the evils, but above all Grottaferrata was able to Compone Accomoda Supera Improvise (improvise, adapt and overcome). The Monastery of the Mother of God of Grottaferrata survived and it is servata fides cineri (faithful to the memory of one’s ancestors) unlike Virgil’s Dido238, keeping faith to the Italo-Greek monasticism, of Byzantine irradiation, while giving a constant testimony to the undivided Christendom and the exceptional richness of south Italy. It was a communion that neither political maneuvering nor religious surmise was able to break. Grottaferrata is a monastery that survived and calls for survival and revival of the memory of an ecclesia, which was once united, and breathed with both lungs, East and West. It is a monastery that gives testimony that unity in diversity can co-exist and prosper.

  Taft 1985, p. 118.   West 1983; and Ogle 1925.

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I VIVENTI DELL’APOCALISSE

Nicola Naccari

Appunti sulla Pentarchia

Il magistero e il governo della Chiesa di Roma da parte di Innocenzo III fu caratterizzato da molteplici aspetti: tra questi l’Oriente, il soccorso ai cristiani d’oltremare e la riunificazione di tutta la cristianità sotto il ministero del successore di Pietro rappresentarono alcuni tra i più importanti obiettivi che il papa volle perseguire fin dall’inizio del suo pontificato nel 11981. Tuttavia, a fronte della diversione della quarta crociata del 1204, molte cose cambiarono nell’orizzonte ecclesiologico di Innocenzo III. O meglio, la conquista latina di Costantinopoli ebbe l’effetto di manifestare pienamente le potenzialità e le contraddizioni dell’ideologia universalistica del papato. Innocenzo III fu il mediatore e l’interprete di tale processo, in quanto poté dispiegare i princìpi di un ecumenismo romano presenti da tempo, ma che in quel momento (in virtù della traslazione dell’impero e della Chiesa greci) poterono essere rielaborati e plasmati a partire dalle conseguenze della quarta crociata, proiettando il pontificato innocenziano in una costante tensione tra nuove autorappresentazioni primaziali e spinte politiche universalistiche. In altre parole, ciò che la conquista latina di Costantinopoli mise in moto nell’ideologia e nella politica innocenziana fu un grande rilancio della visione dell’universalismo papale che culminò nel canone V del concilio Lateranense IV. La sinodo generale del 1215 non ebbe apparentemente tra i suoi scopi diretti l’unione con la Chiesa greca; tuttavia, a mio parere, il concilio ricercò sia la necessità di canonizzare tale unione attraverso le proprie modalità canonico-sinodali, sia ambire ad un più ampio e diversificato respiro unionista attraverso una rielaborazione dell’organigramma pentarchico della Chiesa imperiale tardo-antica. Questa ridefinizione nacque da una visione ecclesiologica dalle forti speranze ecumeniche che Innocenzo III iniziò a coltivare proprio a fronte della traslazione dell’Impero bizantino nel 1204 e dell’inserimento di Costantinopoli nell’orizzonte giurisdizionale romano.   Si veda Maccarrone 1964. In generale rimando a Papadakis, Talbot 1972; Spiteris 2003, pp. 217-252.

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La triarchia petrina La retorica unionista dell’Evangelica docente Scriptura del gennaio 1205 aveva ripreso una teoria ecclesiologica ormai decaduta, la quale definiva la presenza nel mondo cristiano di cinque patriarcati: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Il testo della lettera è eloquente: Ceterum licet quinque sint patriarchatus in orbe, Romanus scilicet, Constantinopolitanus, Alexandrinus, Antiochenus et Ier(oso)limitanus, hic tamen tres tantum apostoli nominantur, videlicet Petrus, Iacobus et Ioh(anne)s, qui simili perhibentur stupore correcti, quia nimirum tres ex illis specialiter spectant ad Petrum, qui Antiochenam et Romanam ecclesias consecravit presentialiter per se ipsum, Alexandrinam vero per Marcum discipulum suum, quem illuc personaliter destinavit. Constantinopolitana vero ecclesia specialiter pertinet ad Ioh(ann)em, qui et Grecis predicavit in Asia et apud Grecos fuit Ephesi tumulatus; ecclesia vero Ier(oso)limitana proprie spectat ad Iacobum sive filium Zebedei, qui primus inter apostolos interfectus Ier(oso)limam suo martirio dedicavit, sive filium Alphei, quem apostoli Ier(oso) limorum episcopum ordinarunt. Et ob hoc forte tres istos apostolos Iesus assumpsit in montem excelsum seorsum et transfiguratus est ante eos, nec alienum a ratione videtur, quod, cum propter causam predictam Romanus pontifex habeat quinque patriarchales sedes in Vrbe, apud tres tantum illarum sollempniter coronatur2.

La citazione riporta una teoria ecclesiologica che vantava una tradizione secolare; ma nuova, dirompente, imprevista era la sua presenza in una fonte papale che, se già in epoca tardo-antica o alto-medievale sarebbe risultata alquanto originale, all’inizio del secolo XIII possiamo definirla quasi incredibile per come venne formulata. Non solo, infatti, Innocenzo III andò a riprendere l’antico ideale pentarchico che, seppur con modificazioni e distorsioni, si poteva già ritrovare nella tradizione latino-romana, ma lo ripropose al clero latino di Costantinopoli nella sua più classica, “greca” e misconosciuta (da parte di Roma) formulazione. Dare una definizione precisa di pentarchia è quanto mai arduo, poiché una chiara ed esplicita elaborazione non si è mai affermata nel vocabolario di diritto canonico e nel lessico ecclesiologico3. Inoltre, come tutte le istituzioni storiche, tale governo “a cinque punte” della Chiesa universale è nato e maturato nel corso dei secoli IV-V sec., ha avuto il suo periodo di massima operatività tra VI e VII sec., per poi lentamente declinare: esso è stato applicato senza essere teorizzato, successivamente teorizzato senza più essere applicato4. La pentarchia come lessema ecclesiologico di per sé non esiste, non è mai esistito; al contrario fu presente   Die Register Innocenz III, VII, 203, edd. C. Egger et alii, H. Weigl, Österreichischen Akademie der Wissenschaften (Publikationen des Österreichischen Kulturinstituts in Rom), Wien 1997, pp. 256-257. 3   Peri 1988, p. 209. 4   Dagron 1999, p. 169. 2

I viventi dell’Apocalisse. Appunti sulla Pentarchia

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un organigramma della Chiesa tardo-antica che si formò a partire dall’adattamento con le istituzioni civili dell’impero, trovando una sua forma prima a tre (canone VI del concilio di Nicea) e poi a cinque vertici (canone XXVIII del concilio di Calcedonia) affinché seguisse il principio di sovrapposizione con le istituzioni civili e imperiali5. È storicamente acclarato come Roma non avesse mai pienamente accettato l’istituzione pentarchica nella misura in cui essa aveva concesso quelle pari dignità e quegli stessi privilegi tra l’Antica e la Nuova Roma6. La ricezione del canone III del concilio di Costantinopoli del 3817 (normativa poi ridefinita nel canone XXVIII di Calcedonia del 451, ribadita nel canone XXXVI del Trullano II del 690/691 e nel canone XVII del Costantinopolitano IV dell’869-870), che attribuiva alla capitale imperiale l’ἴσα πρεσβεῖα della Vetus Roma proprio in quanto città ospitante l’imperium, fu immediatamente ostacolata dai pontefici romani. Essi consideravano l’ascesa costantinopolitana come una lesione alle prerogative della Chiesa romana e (di riflesso, strumentalmente) alle sedi che avevano conosciuto una fondazione petrina (Antiochia ed Alessandria). Così, a partire dai papi della fine del IV secolo fu sviluppata quella triarchia petrina che, attraverso una strenua difesa del canone VI del concilio di Nicea del 325, fu assunta come contraltare romano al canonico organigramma pentarchico. Tale “massimalismo” o “conservatorismo” niceno fu proposto e sviluppato in una duplice forma8: da un punto di vista canonico-disciplinare si manifestò nell’ossessiva difesa dell’organigramma stabilito dal canone VI di Nicea, mentre da un punto di vista ecclesiologico fu determinato a partire dalla forte difesa del principio di apostolicità (in antitesi al principio di adattamento). Infatti, a partire da papa Damaso e il concilio del 382, dal quale uscì il cosiddetto Decretum Gelasianum9, la regola della fondazione petrina fu assunto come discriminante per ambire alla dignità patriarcale e a una qualunque forma di primazialità all’interno dell’ecumene cristiana.   È ciò che il Meyendorff ha chiamato «principio di adattamento» (Meyendorff 1984, pp. 112125, in part. p. 124). 6   Rimando in particolare a Morini 2002; Alzati 2001. 7   Canone III del 381: «Al vescovo di Roma segue quello di Costantinopoli: il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d’onore dopo il vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma» (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, edd. G. Alberigo et alii, Istituto per le Scienze Religiose, Bologna 1991, p. 32). 8   Morini 2014, pp. 717-720. 9   Il concilio romano del 382 fu una vera e propria sinodo del patriarcato occidentale, alla quale parteciparono i maggiori metropoliti della pars Occidentis: Ambrogio di Milano, Valeriano di Aquileia, Brittone di Treviri, Anemio di Sirmio e Acolio di Tessalonica. Dal concilio, come la maggior parte della storiografia ha stabilito, uscì il nucleo centrale di quel documento che in seguito sarà attribuito erroneamente a papa Gelasio I (492-496). Il cosiddetto Decretum Gelasianum confluirà nel IX secolo nelle Decretali Pseudo-Isidoriane (Decretales pseudo-isidoriane et Capitula Angilrammi, ed. P. Hinschius, Lipsia 1863, p. 635), nelle quali troveranno posto altri due documenti romani apocrifi relativi alla triarchia petrina: lo pseudo-Anacleto (ivi, p. 83) e la Praefatio Nicaeni concilii (ivi, p. 255), oltre a due lettere di papa Leone I (ivi, pp. 610-611). Su questo rimando a Morini 2009, p. 154 n° 46; Maccarrone 1991.

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Era la triarchia petrina appunto, ovvero l’unione delle sedi di Roma, Alessandria ed Antiochia che avevano conosciuto o una diretta fondazione/evangelizzazione da parte del primo degli apostoli (Pietro per Roma e Antiochia) o da parte di un suo discepolo (Marco per Alessandria). E l’elaborazione di tale luogo ecclesiologico, assunto via via nel tempo come arma polemistica in aperto contrasto alle ambizioni primaziali di Costantinopoli10, fu reiterato a più riprese nella storia dei rapporti ecclesiali tra Latini e Greci da papi quali Leone I11, Gregorio I12, Niccolò I13 e Leone IX14 (solo per citare i più importanti). 10   Le “prerogative dell’onore” attribuite al concilio del 381 a Costantinopoli non comportavano una semplice precedenza onorifica: come ha dimostrato il Daley, esse si configuravano come un onore “sostanziale” (Morini 2014, p. 719) della Nuova Roma nell’Oriente cristiano sul modello del patronato tardo-antico. Si veda Daley 2016; Alzati 2007. 11   Papa Leone, nella lettera al patriarca Anatolio di Costantinopoli, espose chiaramente la propria difesa del quadro niceno come aveva, per altro, già anticipato in due missive all’imperatore Marciano e all’imperatrice Pulcheria (PL 54, coll. 1003-1007. Si veda la lettera 104 all’imperatore Marciano ivi, coll. 991-997, e la 105 all’imperatrice Pulcheria in ibid., coll. 997-1002). O come scrisse direttamente al patriarca Massimo di Antiochia riguardo alle prerogative della sede di Teopoli: «Dignum est enim te apostolicae sedis in hac sollicitudine esse consortem et ad agendi fiduciam privilegia tertiae sedis agnoscere, quae in nullo cujusquam ambitione minuentur: quia tanta apud me est Nicaenorum canonum reverentia, ut ea quae sunt a sanctis Patribus constituta, nec permiserim, nec patiar aliqua novitate violari» (ivi coll. 1040-1046). 12   Papa Gregorio I, nella sua lettera del luglio 597 al patriarca Eulogio di Alessandria, dopo aver esaltato la figura del corifeo degli apostoli, scrisse: «Ipse (scil. Pietro) enim sublimavit sedem, in qua etiam quiescere et praesentem vitam finire dignatus est; Ipse decoravit sedem, in quam evangelistam discipulum misit; ipse firmavit sedem, in qua septem annis, quamvis discessurus, sedit. Cum ergo unius atque una sit sedes, cui ex auctoritate divina tres nunc episcopi praesident, quicquid ego de vobis boni audio, hoc mihi imputo; Si quid de me boni creditis, hoc vestris meritis imputate, quia in illo unum sumus […]» (Gregorii I papae Registrum epistolarum, VII, 37, ed. P. Ewald, L.M. Hartmann, MGH, Epistolae, I, Berolini 1891, pp. 485-486). Su tale dottrina in papa Gregorio I cfr. Ludwig 1952, pp. 110-111. 13   Sarà solo papa Niccolò I nel IX secolo a utilizzare in modo più incisivo la triarchia petrina, guarda caso durante lo scontro che contrappose Roma a Costantinopoli durante il patriarcato di Fozio. Nell’866, nella disputa di giurisdizione sulla neoconvertita Bulgaria, alla domanda da parte del khan sul numero di patriarchi nell’ecumene cristiana, il papa così rispose a Boris-Michele: «Desideratis nosse, quot sint veraciter patriarchae. Veraciter illi habendi sunt, qui sedes apostolicas per successiones pontificum obtinent, id est qui illis praesunt Ecclesiis, quas Apostoli instituisse probantur, Romanam videlicet et Alexandrinam et Antiochenam […] Constantinopolitanus autem et Hierosolymitanus antistites, licet dicantur patriarchae, non tamen tantae auctoritatis quantae superiores existunt […] Porro quis patriarcharum secundus sit a Romano, consultis. Sed iuxta quod sancta Romana tenet Ecclesia et Nicaeni canones et sancti praesules Romanorum defendunt et ipsa ratio docet, Alexandrinus patriarcharum a Romano papa secundus est.» (Nicolai I. Papae Epistolae ad res orientales, 92, ed. Perels, MGH, Epistolae, VI, Epistolae Karolini Aevi, IV, Berolini 1925, pp. 596-597). 14   Così scrisse Leone IX a Pietro III d’Antiochia: «Pro cuius excellentia tertiam a Romana ecclesia dignitatem retinet Antiochena, quam te defendere summopere monemus, non tuae gloriae causa, sed pro sedis, cui ad tempus praesides, antiqua honoreficentia» (Will 1861, p. 169). Tra la vastissima bibliografia sugli aspetti ecclesiologici nello scontro del 1054 rimando principalmente a Petrucci 2001; Whalen 2007; D’Agostino 2008; Morini 2016; Naccari 2016a; Morini 2017.

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Tuttavia, al di là delle apparenze documentarie, come ha messo in luce il Morini in riferimento alla figura del papa come patriarca d’Occidente, nella «dottrina della Pentarchia, ciò che fa problema a Roma non è l’archia, cioè il suo inserimento in un collegio patriarcale, ma il pente, cioè l’inserimento in questo collegio di una sede – Costantinopoli nello specifico – che aveva posto ideologicamente alla base della propria primazialità – e contestualmente anche di quella romana – il principio di adattamento delle giurisdizioni ecclesiastiche su quelle civili, e non per utilità amministrativa, ma in virtù di una coincidenza ideologica delle due geografie, sacra e profana»15. Il 1204, il concilio Lateranense IV e l’evoluzione dell’ecclesiologia pentarchica in Innocenzo III Come si spiega, allora, la difesa di Innocenzo III non tanto della triarchia petrina, ma addirittura della pentarchia così come la tradizione del primo millennio l’aveva teorizzata e resa operativa? Riprendiamo il passo epistolare dell’Evangelica docente Scriptura sopracitato16. La formulazione pentarchica di Innocenzo III è definita a partire dall’apostolicità delle cinque sedi patriarcali. Tale definizione pentarchica trova una perfetta isotimia lessicale non solo nelle formulazioni greco-orientali del primo millennio (in cui persino l’Occidente poteva condividere tale gerarchizzazione, pensiamo ad Anastasio Bibliotecario17), ma anche nell’XI e XII secolo. Infatti, seppur il Duecento testimoni tanto a Occidente quanto a Oriente elementi di deformazione della teoria pentarchica18, attraverso le quali ogni autore greco aveva presentato una visione sostanzialmente personale della pentarchia in chiave anti-romana (ad esempio Nilo Doxapatris e Teodoro Balsamone19), continuarono a sussistere anche le sue canoniche idealizzazioni nella “corretta” esposizione del numero e della successione dei troni apostolici. Si pensi a Pietro III d’Antiochia durante lo scontro del 105420, al patriarca Nicola III Grammaticos21, e non da ultimo a Giovanni X Camateros che, nella sua famosa lettera del 1200 a papa Innocenzo III, aveva descritto il governo a cinque punte della Chiesa universale attraverso metafore sensoriali, matematiche e musicali22.   Morini 2009, pp. 155-156.   Die Register, VII, 203, ed. cit., pp. 356-357. 17   Anastasii Bibliothecarii epistolae, MGH, Epistolae VII, Epistolae karolini aevi V, Berolini 1928, p. 409. Si veda Leonardi 1987, pp. 59-192; Dvornik 1964, p. 93; Peri 1988, p. 273; Morini 2002, p. 920. 18   Morini 2002, pp. 924-935. 19  Cfr. Spiteris 1979, pp. 137-144, 226-243. 20   Will 1861, p. 211. Si veda Naccari 2016a. 21   Si veda la lettera del patriarca Nicola III in Holtzmann 1928, pp. 62-64. 22   Spiteris 2003, pp. 229-230. 15 16

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Al contrario, ritornando a Innocenzo III, la prolusione dell’Evangelica docente Scriptura sui cinque patriarcati con l’inserimento (ad un primo sguardo originale e stupefacente) della sede costantinopolitana al secondo posto dopo Roma, fu di natura più formale che sostanziale. O meglio, si citò l’organigramma pentarchico con l’inserimento della Nuova Roma solo a partire dal fatto che la cattedra di Costantinopoli era retta da un patriarca latino. Non fu allora (sarà forse banale affermarlo) un’adesione da parte del papa all’ecclesiologia pentarchica, ma tale idealizzazione fu possibile riprenderla e farla propria solo a partire dall’inserimento della Chiesa greca nell’orizzonte ecclesiale e giurisdizionale della Sede apostolica, e dall’appropriazione “romana” della storia del patriarcato costantinopolitano. La storiografia ha messo in luce come la retorica papale dopo il 1204 avesse enfatizzato la reductio costantinopolitana come un ritorno all’unione delle due chiese, e inserendola pertanto nell’escatologia latina in quanto ordinata all’economia di Salvezza come adempimento delle scritture (Gv 20,1-17 e Lc 5,3-10)23. Da ciò fu possibile per Innocenzo III rivalutare tanto la cristianità greca (apprezzandola nel suo carisma giovanneo, sebbene senza una reale valorizzazione del pensiero teologico e del patrimonio spirituale greci) quanto la dignità della Chiesa di Costantinopoli, ora divenuta latina. L’enfatizzazione delle sue prerogative e del secondo posto gerarchico dopo Roma fu allora legittimato solo in rapporto al riconoscimento del ruolo di guida della Sede apostolica, diventando molto utile alla politica innocenziana, tanto da un punto di vista politico quanto ideologico. Infatti, come hanno messo in luce il Chrissis e il Duba, la retorica di Innocenzo III (e dei suoi successori) fece largo uso dell’immagine e della reputazione di Costantinopoli per incitare il supporto alla difesa dell’impero latino d’Oriente dopo il 1204, giustificando tale retorica attraverso l’importanza religiosa e temporale della città, attraverso le sue ricchezze, le sue reliquie, il suo passato imperiale e la sua dignità patriarcale in quanto Nuova Roma24. Costantinopoli era «membrum…sedis apostolice speciale»25 e, dal momento che era ritornata all’obbedienza, «nunc…post apostolicam sedem inter ceteras meruit obtinere primatum»26. Ancora nel maggio 1205 il pontefice scrisse 23   Tali argomentazioni sono espresse in due importanti lettere di Innocenzo III: la Legimus in Daniele del 13 novembre 1204 e l’Evangelica docente Scriptura del 21 gennaio 1205. Su questo rimando a Bombi 2001; Naccari 2017b, pp. 184-213. 24   Chrissis 2012, pp. 20-37; Duba 2008. 25   «Quia ergo honor ecclesiae Romane non servaretur illesus, si Constantinopolitana ecclesia, que membrum est sedis apostolice speciale, in mutilatione possessionum suarum sustineat detrimentum […]» (Die Register, VII, 208, ed. cit., p. 367). 26   «Cum unigenitus Dei filius Iesus Christus beato Petro, apostolorum principi, pascendas commiserit oves suas, ita ut, qui eum non receperint in pastorem, ab ipsius censeantur ovibus alieni, nos, qui licet immeriti suscepimus in beato Petro vices ipsius gerendas in terris, ecclesiarum omnium sollicitudinem tenemur gerere generalem. Quia ergo Constantinopolitana ecclesia post apostolicam sedem inter ceteras meruit obtinere primatum, licet aliquando ab ipsius obedientia declinarit, nunc tamen ad eius abedientiam revertentis tenemur curam gerere specialem» (Ivi, VIII, 57 [56], Wien 2001, pp. 98-99).

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al patriarca latino di Costantinopoli Tommaso Morosini e al suo clero come la sede e il vescovo costantinopolitani avessero il primo posto dopo Roma e il suo patriarca fosse secondo solo al pontefice romano27. In altre parole, lo stesso Innocenzo III si fece garante delle prerogative della sua più preziosa figlia28; e la città sul Bosforo poteva davvero essere considerata la Nuova Roma29, una «nuova piantagione» 30 di cui aver cura, una «figlia rinata a nuova infanzia»31. La rinnovata primazialità della sede costantinopolitana sotto il patrocinio della Chiesa romana poneva la “sede di sant’Andrea” (secondo le costruzioni innocenziane) subito dopo Roma, ma ovviamente non al suo stesso livello. Non erano infatti riconosciute le medesime prerogative come voleva la classica ideologia romanoorientale: Costantinopoli aveva sì visto un riconoscimento del proprio primato, ma come membro speciale della Sede apostolica, del corpo ecclesiale su cui Roma era destinata a governare in quanto caput et mater omnium ecclesiarum. Tuttavia, si badi come il placet al rango di Costantinopoli unito alla formulazione pentarchica presente nell’Evangelica docente Scriptura siano (ancora una volta e al di là delle apparenze) da leggere alla luce del primato papale. Il 25 aprile 1205 In27   «Licet apostolica sedes, que mater est ecclesiarum omnium et magistra, nulli prorsus iniuriam faciat, cum utitur iure suo, nec minores ecclesie in suum debeant preiudicium allegare, cum quicquam in eis ex collata sibi celitus potestate disponit, utpote que sic vocavit alios in partem sollicitudinis ut sibi reservaret in omnibus plenitudinem potestatis, Constantinopolitane tamen ecclesie nuper providere volentes noluimus ex eo, quod te, frater patriarcha, eligere ac confirmare curavimus et tandem duximus consecrandam, auferre ipsi electionis canonice libertatem aut per factum nostrum eidem preiudicare inposterum, quominus, cum eam vacare contingeret, deberet et posset canonice ordinari, unde super hoc litteras nostras tibi concessimus ad cautelam. Ceterum cum eadem ecclesia primum locum obtineat post Romanam et antistes ipsius a Romano pontifice sit secundus ideoque quanto maiorem obtinet in ecclesia Dei locum, tanto cum maiori deliberatione ac maturiori et pleniori sit consilio eligendus, presentium auctoritate statuimus […]» (Ivi, VIII, 65 [64], pp. 109-110). 28   «Nos ergo, qui per gratiam Redemptoris ipsam Constantinopolitanam ecclesiam nuper ad obedientiam apostolice sedis tamquam ad sinum reduximus matris sue, privilegium dignitatis ipsius intendimus integrum conservare, ne inde nascantur iniurie unde iura nascuntur […]» (Ivi, VIII, 154 [153], p. 270). 29   Chrissis 2012, pp. 31-35. 30   Innocenzo III il 25 maggio 1205, chiedendo dei missionari da mandare nell’impero latino d’Oriente, scrisse al clero francese: «Ad maiorem etiam accedit affluentiam gaudiorum, quod vir christianissimus, karissimus in Christo filius noster B(alduinus), imperator Constantinopolitanus illustris, ad ea totis viribus satagit et intendit, per que possit et debeat christiana religio propagari, et ut edificium iam ex magna parte constructum non corruat, ardenti laborat studio et sollicitudine diligenti. Nuper siquidem devotionem suo plantatam in pectore in ramos bone operationis diffundens nobis humiliter supplicavit, ut viros religiosos et providos de ordine Cistertiensi, Cluniacensi, canonicorum regularium aliarumque religionum ad fundendam fidei catholice veritatem perpetuoque firmandam ad partes Constantinopolitanas faceremus transmitti […] per quos novella illa plantatio in disciplina Domini erudita fractum reddat suis temporibus oportunum […]» (Die Register, VIII, 71 [70], ed. cit., p. 130). 31   «Cum ecclesia Constantinopolitana in novam nunc quodammodo infantiam renascatur et tamquam parvula nec habens ubera officiosa matris sollicitudine noscatur plurimum indigere, ipsam uberibus consolationis nostre lactare disponimus et ex divittis nostris eius inopiam relevare» (Ivi, VIII, 26, p. 39).

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nocenzo III scrisse che Costantinopoli deteneva il primato dopo la Sede apostolica, quasi a voler intendere che sussistevano due tipi di primato: ovvero quello esercitato da Roma, reale, giurisdizionale, indiscutibile ed esclusivo, e quello a cui potevano ambire Costantinopoli o le altre sedi patriarcali (un primato ovviamente plasmato a partire dalle dignità onorifiche di fondazione apostolica). Non da ultimo è necessario rilevare un fatto: l’affermazione innocenziana che al mondo esistessero cinque patriarcati non fu più ripresa in qualunque altra fonte o lettera, quasi fosse stata una “svista” dettata dalla necessità di inserire a tutti i costi Costantinopoli entro i confini dell’ecclesiologia e dell’orizzonte ideologico romano. Forse si ricorse alla più pura tradizione pentarchica perché non si era elaborata una quadratura definitiva? Oppure, dato che l’Evangelica docente Scriptura era stata concepita come un sermone destinato al clero latino e alla città (e quindi anche alle orecchie dei Greci), voleva essere uno stratagemma retorico per intercettare la sensibilità orientale? Una risposta è difficile scorgerla. L’unica certezza è la singolarità di tale ripresa pentarchica, poiché successivamente Innocenzo III valorizzò sì la pentarchia dei cinque troni apostolici, ma modificandola in una tetrarchia orientale subiecta all’autorità romana. Cioè venne alienato il cosiddetto patriarcato romano dal novero dei cinque, elevandolo al di sopra del collegio e rendendolo “altro”, come in una forma di non comunicabilità ecclesiologica. Questa idea è presente in tre lettere di Innocenzo III. Essa fu abbozzata nella lettera del 30 marzo 1205 al patriarca Tommaso Morosini, definita metaforicamente nella lettera allo stesso del 24 novembre del medesimo anno, ed infine ripresa il 18 agosto 1212 in una missiva al notaio Martino. La prima lettera al patriarca latino iniziò con una veloce ma perentoria considerazione sul primato romano; da questa (strumentale alla costruzione logico-sintattica che doveva seguire) furono fatte allora derivare le dignità patriarcali e i privilegi che non spettavano di diritto a Costantinopoli, ma che Roma le aveva concesso: Sane cum eadem ecclesia, que tunc Bizanzena nunc autem Constantinopolitana vocatur, nec nomen nec locum inter sedes patriarchales haberet, apostolica sedes fecit ei nomen grande iuxta nomen magnorum, qui sunt in terra, et ipsam quasi de pulvere suscitatam usque adeo sublimavit, ut eam tam ecclesie Alexandrine quam Antiochene ac Ier(oso)limitane dignitatis privilegio anteferret atque post se pre ceteris exaltaret, ita quod, cum multe filie divitias congregarint, hec sola per matris gratiam specialem supergressa fuerit universas32.

Stando alle parole della cancelleria papale si legge come la Sede apostolica avesse fatto grande il nome della Chiesa costantinopolitana, resuscitandola dalla polvere, anteponendo la sua dignità alle sedi di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, ed   Ibid, VIII, 19, p. 32.

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inserendola di conseguenza al secondo posto, o meglio al primo. Con questo non solo la Nuova Roma venne collocata in una posizione che le era stata storicamente contestata da parte del papato, ma la dignità petrina che caratterizzava le sedi di Alessandria ed Antiochia (e che fu sempre ritenuta imprescindibile dall’ecclesiologia romana) fu totalmente scavalcata e resa inefficace per determinare l’organigramma triarchico. Nel pensiero innocenziano, infatti, la petrinità era prerogativa soltanto della Sede apostolica33, la quale era unica elargitrice di onori ecclesiali in virtù della sua plenitudo potestatis: come Roma poteva dare, così poteva togliere. E l’immagine che Innocenzo propose nella sua successiva lettera al patriarca Morosini del 24 novembre 1205 stava a suggerire tanto l’alienazione su base primaziale da una qualsiasi forma di isotimia con le altre quattro chiese, quanto l’apogeo del papato su tutta la cristianità, simboleggiata dalle quattro sedi apostoliche: Inter quatuor animalia, que secundum apocalipsim Ioh(ann)is in medio sedis et in circuitu existere describuntur, licet aquila ceteris postponatur, ipsa tamen aliis antecellit, quia, cum per huiusmodi sedem Rom(ana) ecclesia designetur, que usitato vocabulo sedes apostolica nuncupatur, et per quatuor animalia – videlicet leonem, vitulum, hominem atque aquilam – intelligantur quatuor patriarchales ecclesie – videlicet I(e)r(oso)limitana, Antiochena, Alexandrina et Constantinopolitana –, que in medio sedis tanquam filie continetur in sinu matris et in circuitu sedis tanquam famule in obsequio domine preparantur, licet Constantinopolitana ecclesia sit ultima tempore, ipsa tamen inter eas est precipua dignitate, ut, sicut Constantinopol(is) dicta est Noua Roma, sic Constantinopolitana ecclesia sesucnda sit a Romana prelata per matris gratiam ceteris sororibus suis privilegio dignitatis, ut secundum evangelicam veritatem fierent primi novissimi et novissimi primi34.

Sulla base di Ap 4,6-7 Innocenzo III espose la sua visione: le quattro sedi apostoliche di Gerusalemme, Antiochia, Alessandria e Costantinopoli erano simboleggiate dai quattro viventi dell’Apocalisse tramite un leone, un vitello, un uomo e un’aquila. L’esposizione segue un ordine temporale, in cui Costantinopoli fu messa in fondo alla lista, ma sebbene fosse stata «ultima tempora, ipsa tamen inter eas est precipua dignitate», era comunque la Nuova Roma! Tale immagine fu ribadita ed esposta più nel dettaglio nella lettera del 18 agosto 1212 al notaio Martino35. In quel documento la cancelleria di Innocenzo   Si veda la famosa lettera del 12 novembre 1199 al patriarca di Costantinopoli (Die Register, II, 200 (209), ed. cit. pp. 383-389) inserita nel ricco confronto epistolare del 1198-1202 con Alessio III Angelo e Giovanni X Camateros. Tra la vastissima bibliografia sull’ecclesiologia innocenziana rimando solamente a Spiteris 2003; Naccari 2017b, pp. 134-183. 34   Die Register, VIII, 154 (153), ed. cit., pp. 269-270. 35   Acta Innocentii Pp. III (1198-1216) ex registris vaticanis aliisque eruit, introductione auxit, totisque illustravit, ed. H. Haluscynskyj, Pontificia Commissio ad redigendum Codicem iuris canonici orientalis, Fontes, ser. III, vol. II., Città del Vaticano 1944, pp. 433-435. 33

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III fece confluire le argomentazioni pentarchiche esposte nell’Evangelica docente Scriptura e la metafora tetrarchica scritta al patriarca Morosini. In altre parole, si era arrivati ad una quadratura ideologica finale che riuscisse a conciliare il primato papale, l’inserimento di Costantinopoli nell’orizzonte ecclesiale romano e l’interpretazione escatologica della quarta crociata. I quattro viventi dell’Apocalisse, che stavano in obsequio al trono, erano le quattro sedi patriarcali, le quali stavano anche a simbolo dei quattro evangelisti. Alessandria, fondata da Marco, era ovviamente il leone; Antiochia era il vitello, alla quale spettava l’evangelista Luca, «in quo sacerdotalis hostia designatur, quoniam a sacerdotio inchoans evangelium de immolatione tractavit praecipue summi sacerdotis»; Gerusalemme era il vivente umano, destinata quindi all’evangelista Matteo che più di tutti trattò della natività umana di Cristo («principaliter humanam eius nativitatem ostendit»); infine l’aquila era Costantinopoli, alla quale era destinato Giovanni. Come l’aquila infatti (che precede tutti gli altri uccelli) vola alta nel cielo e riesce a scrutare la luce del sole, così l’evangelista Giovanni fu quello che più di tutti riuscì a scrutare la natura divina di Cristo; e come il suo vangelo era stato l’ultimo ad essere scritto in ordine di tempo, così Costantinopoli si era rivelata l’ultima delle quattro città a ricevere i suoi privilegi e le sue dignità. Tale regime ecclesiale doveva così essere assunto dal pontefice romano come vera eredità del ministero petrino, in cui si poteva finalmente dispiegare le piene prerogative del vicario di Cristo. E tale funzione governativa così teorizzata, e rinvigorita fortemente dopo il 1204, poteva e doveva ora essere canonizzata e applicata. Infatti sarà solo nel 1215 attraverso il famoso canone V sulla dignità dei patriarchi (De dignitate patriarcharum36) che si mise un sigillo canonico all’ecclesiologia ecumenica di Innocenzo e all’unione con la Chiesa greca37, rendendo norma della Chiesa romana le proiezioni che lo stesso papa aveva metaforicamente esposto nell’Evangelica docente Scriptura e nella lettera a Tommaso Morisini e al notaio Martino.   «Antiqua patriarchalium sedium privilegia renovantes, sacra universali synodo approbante sancimus, ut post Romanam ecclesiam, quae disponente Domino super omnes alias ordinariae potestatis obtinet principatum, utpote mater universorum Christi fidelium et magistra, Constantinopolitana primum, Alexandrina secundum, Antiochena tertium, Hierosolymitana quartum locum obtineat, servata cuilibet propria dignitate, ita quod postquam eorum antistites a Romano pontifice receperint pallium, quod est plenitudinis officii pontificalis insigne, praestito sibi fidelitatis et obedientiae iuramento, licenter et ipsi suis suffraganeis pallium largiantur, recipientes pro se professionem canonicam et pro Romana ecclesia sponsionem obedientiae ab eisdem. Dominicae vero crucis vexillum ante se faciant ubique deferri, nisi in urbe Romana et ubicumque summus pontifex praesens exstiterit vel eius legatus, utens insigniis apostolicae dignitatis. In omnibus autem provinciis eorum iurisdictioni subiectis ad eos, cum necesse fuerit, provocetur, salvis appellationibus ad sedem apostolicam interpositis, quibus est ab omnibus humiliter deferendum» (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, ed. cit., p. 236). 37   Sul concilio Lateranense IV, i suoi canoni, e l’unione con la Chiesa greca si veda Maccarrone 1964; Foreville 1968, in part. pp. 21-29; Garcia y Garcia 1978, pp. 169-186. In generale sul Lateranense IV rimando ai più recenti convegni Il Concilio Lateranense 2015; Concilium Lateranense 2015; Il Lateranense 2016. 36

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Si badi come l’organigramma delle sedi patriarcali del canone V sia il frutto dell’intersezione tra quella che era l’ecclesiologia pentarchica, tipica della sensibilità greca, e la teologia del primato romano. Pertanto venne abbandonata quella triarchia petrina che aveva conosciuto un grande utilizzo nella polemistica papale in chiave anti-costantinopolitana fino allo scontro del 1054. Al contrario, il concilio fissò canonicamente un’immaginaria tetrarchia subjecta a Roma in virtù sia dell’inserimento della sede costantinopolitana nell’orizzonte giurisdizionale romano, sia dalla necessità di rendere l’apostolicità petrina esclusiva e non condivisibile (si pensi alla translatio primati che Innocenzo III teorizzò nella sua lettera del 1199 al patriarca Giovanni X Camateros38). Da ciò, il bisogno di elaborare una dottrina ecclesiologica che contemplasse queste due direttrici vide la luce nella mappa organica del canone V: la Chiesa di Roma doveva avere la potestà ordinaria su tutte le chiese, comprese quelle di rango patriarcale. D’altronde, non era altro che la cristallizzazione canonica di elementi riscontrabili già in fonti quali la Donazione di Costantino39 («principatum tam super quatuor sedes, Alexandrinam, Antiochenam, Hierosolymitanam ac Constantinopolitanam, quamque etiam super omnes in universo orbe terrarum Dei ecclesias») e resi nella loro forma metaforica dallo stesso Innocenzo III a seguito della “riunione” con la Chiesa greca dopo il 1204. L’immagine dei quattro patriarcati come i viventi dell’Apocalisse ai piedi del trono di Roma aveva una valenza ecclesiologica fortissima, densa d’implicazioni e dalle infinite conseguenze, ma in perfetta coerenza con lo sviluppo della teologia del primato dei secoli XI e XII, e con le conseguenti elaborazioni circa la maternità ecclesiale di quest’ultima (mater fidelium ratione dignitatis). Non era, del resto, già stato teorizzato durante il discorso inaugurale del concilio Lateranense III nel 1179? Rufino, vescovo di Perugia e celebre decretalista, aveva parlato del primato d’onore delle cinque città reali poste al vertice della cristianità, alle quali erano destinati l’Occidente (spettante a Roma) e l’Oriente (alle quattro sedi orientali)40. Quasi ad anticipare il concilio Lateranense del 1215, Rufino argomentò come il papa fosse il patriarca supremo, Roma la “Città del Sole” che (con il richiamo a Is. 19,18) spiccava in modo unico e speciale tra le altre città reali; o come scrisse papa Adriano IV, essa era «tamquam splendidum solem». 38   «Qui licet postmodum ex revelatione divina ab Antiochia fuerit translatus ad Vrbem, non tamen concessum sibi primatum deseruit, sed secum potius cathedre transtulit principatum, cum Dominus eum nullatenus minorare voluerit, quem Rome previderat martirio coronandum. Sane cum ipse postmodum immo Dominus potius, qui se in eo pati asseruit “Venio” dicens ad eum “Romam iterum cruoifigis”, Romanam ecclesiam suo sanguine consecrasset, primatum cathedre successori reliquit, totam in eo transferens plenitudinem potestatis: pro patre siquidem nati sunt ei filii, quos Dominus principes super omnem terram constituit» (Die Register, II, 200 [209], ed. cit., Rom-Wien 19791983, p. 385). 39   Rimando a Naccari 2015. 40   Si veda Morin 1927, pp. 113-133, in part. pp. 116-120.

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Perciò è lecito pensare che il concilio Lateranense IV, nelle intenzioni di Innocenzo III, volesse recepire ed emulare il modello dei grandi concili ecumenici del passato nell’elaborazione di formulazioni ecclesiologiche (antica ideologia pentarchica) che abbracciassero un respiro decisamente ecumenico. Quest’ultima intenzione, accarezzata a partire dalla conquista di Costantinopoli del 1204, doveva riportare l’intera cristianità (almeno idealmente, a scapito di una reale pragmaticità) sotto il manto della Chiesa romana, in quell’ordine ecclesiale da ristabilire e vagheggiato almeno dai tempi di Leone IX e dello scontro del 105441. Ora, nei confronti della Cristianità orientale, Innocenzo III e il concilio nel 1215 potevano realizzarlo, o meglio: potevano almeno esprimerlo, scriverlo, sbilanciandosi in una retorica del “ritorno” e dell’unione dell’Ecclesia nella sua più universale accezione grazie alla scintilla che era stata l’unione con la Chiesa greca del 1204. Il Lateranense IV volle pertanto ridisegnare sulla carta l’assetto giurisdizionale della Chiesa universale, anticipando con basi ecclesiologiche ed escatologiche, attraverso l’organigramma pentarchico plasmato sulla dottrina del primato romano, il grande sogno innocenziano: cioè riunire tutta la cristianità sotto il segno di Pietro. Di conseguenza venne data nuova forma all’unitarietà ecclesiale e giurisdizionale dell’intera ecumene (o meglio venne sancita come mai prima a livello canonico) in modo da creare un forte precedente ideologico ed ecclesiologico. Era quindi necessario dare un nuovo corpo alla Primatstheologie, in modi ed elaborazioni che erano il punto di arrivo di una tradizione teologica di lunga durata. E per quanti pochi cambiamenti avrebbe determinato nella realtà (non sappiamo quanto Innocenzo III e il concilio avessero coscienza del divario tra teoria ed applicazione), il primato universale di Roma era stato nuovamente teorizzato, rielaborato, ribadito: sì, ancora una volta! Bibliografia Alzati 2001 = C. Alzati, Vescovo di Roma e comunione, tra canoni e principio petrino, in G. De Rosa, G. Cracco (a c.), Il Papato e l’Europa, Soveria Mannelli 2001, pp. 159-175. Alzati 2007 = C. Alzati, I processi di diversificazione ecclesiologica tra Latini e Greci e la “catastrofe dell’universo” del 1204, in G. Andenna (a c.), Pensiero e sperimentazioni istituzionali nella “Societas Christiana” (1046-1250), Atti della XVI Settimana Internazionale di Studio (26-31 agosto 2004), Milano 2007, pp. 69-97. Bombi 2001 = B. Bombi, La «Legimus in Daniele» (Reg. VII 154). Innocenzo III e l’unione con la chiesa greca nel novembre 1204, in A. Ambrosini (a c.), Studi sull’Europa medievale, Alessandria 2001, pp. 117-137.   Rimando a Naccari 2016a; Naccari 2016b; Naccari 2017a.

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Nicola Naccari

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I viventi dell’Apocalisse. Appunti sulla Pentarchia

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MARIA, MADRE DELLA CHIESA, NEL MONASTERO ARMENO DI AXT‛ALA: UN PERCORSO ECUMENICO TRA LITURGIA E ARTE

Riccardo Pane

Sebbene la letteratura armena presenti un numero preponderante di fonti teologiche, gli studi di teologia armena rimangono tuttora appannaggio di ristrette cerchie di specialisti; e quando gli studiosi occidentali hanno mostrato interesse per le fonti armene, non di rado essi hanno ceduto alla tentazione di inopportuni concordismi. Un caso emblematico, a tal proposito, è quello della mariologia, dove, negli ultimi decenni, si registra un numero relativamente elevato di lavori, che finiscono inesorabilmente per esprimersi pro o contro il dogma dell’Immacolata concezione e dell’Assunzione all’interno della teologia armena. Essi ignorano l’inopportunità di porre alla teologia orientale delle domande, facendo ricorso a categorie occidentali che non le sono proprie. Le risposte discordanti e a tratti contraddittorie dovrebbero essere sufficienti per sospettare che la domanda è mal posta1. È possibile distinguere le fonti mariologiche armene in due categorie ben distinte: quelle più propriamente liturgiche e quelle devozionali2. Le prime sono caratterizzate da un approccio teologico più sobrio: Maria vi appare soprattutto come Theotokos e come immagine della Chiesa. Le seconde indulgono maggiormente alla dimensione intima e spirituale: Maria diventa l’oggetto dell’amore, della devozione, della tenerezza filiale dell’orante. Ovviamente la mariologia armena si inserisce nel più vasto ambito teologico orientale, con il quale condivide gran parte delle immagini e dei modelli teologici. Tuttavia è possibile isolare alcuni tratti o accentuazioni originali, che andremo analizzando nel corso di questo studio.   Si veda in tal senso: Lanne 2006; Mimouni 1995, pp. 319-344; Dasnabédian 1995. L’approccio teologico più corretto, invece, è magistralmente inquadrato da Zekiyan 2008. 2  Cfr. Gugerotti, 2012a. 1

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Riccardo Pane

Nel canone dei santi Gioacchino e Anna, Maria viene definita come “Traduttrice della divinità”3. Il concetto di “traduttore” è teologicamente rilevante in ambito armeno4. Il culto che la Chiesa armena riserva ai santi traduttori della Bibbia (che vanno a costituire una vera e propria categoria agiologica), per quanto ci è dato sapere costituisce un unicum nel mondo cristiano. Ben due memorie sono loro dedicate e in particolare all’inventore dell’alfabeto, Mesrop Maštoc‛. L’inno liturgico o canone (in armeno šarakan) per la festa dei santi traduttori5, con un’analogia ardita, paragona l’invenzione dell’alfabeto addirittura all’incarnazione, e Mesrop alla Beata Vergine Maria: «[Dio] nel mistero della vera luce gloriosa dell’Increato ha foggiato per noi una scrittura viva nel grembo immacolato del grande Mesrop». Nella prospettiva dell’innografo, l’esperienza di Mesrop supera la rivelazione o la visione, per diventare un’esperienza mistica comunionale e feconda: il Verbo di Dio continua a incarnarsi nella storia hic et nunc, per generare nuovi popoli alla salvezza. Attraverso la visione del santo dottore Mesrop, Dio «ha donato ai figli di T‛orgom l’incorporeo contenitore del Verbo, la Sapienza scritta dello Spirito»: si tratta di un’espressione coraggiosa, perché paragona la scrittura/Scrittura al corpo di Cristo, all’umanità incarnata del Cristo. Come il corpo del Cristo costituisce l’arca che contiene e porta il Verbo di Dio, così la scrittura/Scrittura uscita dalla penna dei santi traduttori è portatrice incorporea del Verbo. La corda dell’analogia non avrebbe potuto essere tirata maggiormente: qui non si tratta di iperboli retoriche, o di immagini poetiche, ma di una vera e propria teologia della traduzione, del tutto originale nel panorama delle tradizioni cristiane. Definire pertanto la Madre di Dio come “Traduttrice della divinità” significa attribuirle un ruolo sostanziale nel processo di rivelazione di Dio: Maria traduce nel linguaggio umano il mistero ineffabile della Grazia divina, al punto che san Gregorio di Narek può affermare che attraverso di Lei noi possiamo avere accesso alla indivisibile Trinità6. È proprio in San Gregorio di Narek, dottore della Chiesa, vissuto nel X secolo, che la dottrina mariologica armena raggiunge la sua espressione più profonda7. Nel grande mistico armeno, Maria si trova in una relazione di contrappunto con l’orante peccatore. Come quest’ultimo innalza a Dio, con il turibolo della propria preghiera, il sacrificio di un’anima lacerata dal dolore e dalla compunzione per il peccato8, così Maria è come turibolo che emana, alla presenza dell’Altissimo, l’in  T‛argman astouacout‛ean, cfr. Matenagirk‛ Hayoc‛ 2007, p. 32.  Cfr. Pane 2016; Gugerotti 2012b; Mahé 1989. 5  Cfr. Matenagirk‛ Hayoc‛ 2007, pp. 335-337. L’autore è incerto: viene attribuito ora al kat‛ołikos Yovhannēs Mandakuni (V secolo), ora al più tardo Vardan Arewelc‛i (XIII secolo). 6   Matenagirk‛ Hayoc‛ 2008, p. 628. 7   Per un’introduzione alla teologia dell’autore e alla sua spiritualità si veda: Zekiyan 1999. Gli inni e i testi eucologici attribuiti all’autore sono stati tradotti recentemente sia in francese che in inglese, cfr. Mahé 2014; Terian 2016. 8   Cfr. Greg. Nar., Liber lament., Ban 1, Matenagirk‛ Hayoc‛ 2008, p. 51. 3 4

Maria, Madre della Chiesa, nel monastero armeno di Axt‘ala

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censo della propria verginità e santità9. A essa l’orante si rivolge, affinché intrecci il proprio amaro singhiozzo di peccatore con le suppliche felici e incensate10. Attraverso un processo di communicatio idiomatum, che sta alla base del titolo di Theotokos (arm. Astouacacin), le proprietà cristologiche sono frequentemente attribuite a Maria nei testi armeni11. Nel canone della Natività della Beata Vergine, ad esempio, Maria viene definita “Albero della vita piantato nell’Eden”12. Se il riferimento all’Eden rimanda alla tradizionale e universale tipologia Eva-nuova Eva, “Albero della vita” è un attributo generalmente cristologico, all’interno della tipologia albero dell’Eden-albero della croce; basti pensare al celebre Panegirico della croce di San Gregorio di Narek e ancor più alle caratteristiche croci di pietra (xač‛k‛ar), che costellano in ogni dove il territorio armeno, dando forma di croce fiorita e lussureggiante alla materia terrea13. Maria e la croce: entrambe portatrici del Verbo incarnato e datrici di vita; un nesso che prosegue nel medesimo canone della Natività, laddove la Vergine viene definita “Terra portatrice del Verbo” (erkir banawor) che genera senza seme la pianta celeste: è la materia terrea, la natura umana creata che riceve – così come la croce – la forma divina, generando al tempo e alla storia l’Uomo-Dio14. Accanto a titoli più comuni in tutta la tradizione cristiana, quali: “Tabernacolo”, “Arca”, “Tenda”, “Tempio celeste”15,   Cfr. Greg. Nar., Pan. in B. Vir., Matenagirk‛ Hayoc‛ 2008, p. 953. Sul Panegirico e in generale sulla figura di Maria in Gregorio di Narek si veda: Mécérian 1954. 10   Cfr. Greg. Nar., Liber lament., Ban 80, Matenagirk‛ Hayoc‛ 2008, p. 500. 11   Lo stesso impianto primitivo dell’anno liturgico armeno rivela tratti di accentuato cristocentrismo: ancora all’inizio del XI secolo, ad esempio, non vi è traccia di una festa autonoma dell’Annunciazione, ma si faceva memoria di tale evento ogni domenica, in associazione con la Risurrezione, tramite l’inno Mecac‛usc‛ēk‛ yarut‛ean Teaṙn (Matenagirk‛ Hayoc‛ 2007, p. 59), e con l’Epifania nel quarto giorno, cfr. Renoux 2005. Al contrario, la festa dell’Assunzione, celebrata in un domenica prossima al 15 agosto, fa parte del gruppo più antico delle feste armene, e come tale, trae origine dalla liturgia gerosolimitana. I testi liturgici inizialmente previsti per tale festa mostrano come essa fosse di fatto una celebrazione della divina maternità di Maria, confermando in ciò il carattere cristocentrico della mariologia armena, cfr. Renoux 1986. Nel successivo Canone per l’Assunzione della santa Madre di Dio, il tema vero e proprio dell’Assunzione al cielo appare comunque, ancora una volta, fortemente proiettato sull’evento cristologico dell’Ascensione: «Oggi gli apostoli videro la santa Vergine librarsi nell’aria e salire al cielo su un carro di nubi» (cfr. At 1,9.12), cfr. Matenagirk‛ Hayoc‛ 2007, p. 302. 12   Matenagirk‛ Hayoc‛ 2007, p. 29. 13   Manoukian 1970. Lo stesso san Gregorio di Narek utilizza ripetutamente l’attributo di “Albero di vita” in senso mariologico nel celebre Ban 80, interamente dedicato a Maria, cfr. Grégoire de Narek 2000, pp. 661-665. 14   Nell’inno di Gregorio di Narek per l’Assunzione, la beata Vergine diviene persino la natura umana per antonomasia, che si unisce al Verbo di Dio: «[lo Spirito Santo] aderì a te, unendoti al Verbo vivente di Dio con dei legami saldi, divinamente fissati», cfr. Matenagirk‛ Hayoc‛ 2008, p. 708. Tale tema viene sviluppato all’interno di un’omelia attribuita al kat‛ołikos Zaccaria, dove viene istituita un’analogia tra la natura umana assunta dal Verbo, che non viene assorbita da quest’ultimo, e la Vergine Maria; cfr. Dasnabédian 1992, p. 221. 15   Sulla linea della teologia giudeo-cristiana e filoniana (cfr. Philo Al., Conf. ling. 146), nel V secolo Ełišē vede nell’arca dell’alleanza una prefigurazione del Nome di Dio e dunque del Verbo di Dio (Eł., 9

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altri traggono la loro origine da quelli cristologici16: “Scioglitrice della maledizione”17, “Fugatrice della morte”, “Riconciliazione”18, “Calpestatrice della corruzione”, “Luce vivente”19, “Farmaco di vita”, “Testamento consacrato”20, “Via”21, “Oriente”22, “Nube che illumina la notte”23. Alcuni di questi titoli sono strettamente connessi con l’Eucarestia, come ad esempio: “Calice per il banchetto incorruttibile”24, “Campo vivente del Pane della vita”25, “Agnella senza macchia” che si sacrifica sull’altare di Dio, quale oblazione sacerdotale26, “Ministra del mistero di redenzione”, “Arca d’oro del Pane celeste”27. Il Canone per l’Assunzione riferisce a Maria il passo di Is 11,1-2: è la Vergine a essere prefigurata nel virgulto che spunta dal tronco di Iesse e sul quale si posa lo Spirito settiforme. Altri titoli traggono tutta la loro pregnanza semantica dal lessico tipologico, come: “Esempio (npatak) di verginità e modello (awrinak) di beatitudine”28, dove entrambi i termini non costituiscono semplicemente un modello morale, ma ontologico e costitutivo. Npatak è la causa finale, quella che Dante definirebbe “termine fisso”, mentre awrinak è uno dei vocaboli più diffusi della tipologia patristica, che conserva ancora, nel Narek, tutta la sua valenza ontologica, facendo di Maria, che sfuma ormai verso la Chiesa, il Regno di Dio portato a compimento29. Maria non è solo l’Albero della vita, ma addirittura, in San Gregorio di Narek, dove il linguaggio raggiunge il suo massimo punto di tensione, nel tentativo di raggiungere l’espressione dell’inesprimibile, essa è l’Eden stesso (Edem šnč‛akan)30, In Ios. et Iud. 2,5). Nella tradizione armena più antica, pertanto, il titolo di “Arca” è prettamente cristologico. 16   Tutti presenti in Greg. Nar., Liber lament. Ban 80, Matenagirk‛ Hayoc‛ 2008, pp. 499-502. 17   Cfr. Gal 3,13. 18   Cfr. Rom 5,1; 2 Cor 5,18. In un’omelia attribuita a Movsēs K‛ert‛oł, l’autore arriva ad affermare che «attraverso la Theotokos, la morte è morta e gli inferi sono demoliti, Satana è abbattuto e distrutto nell’Ade», cfr. Dasnabédian 1992, p. 222. 19   Cfr. Gv 1,4.9. 20   Cfr. Greg. Nar., Pan. in B. Vir., Matenagirk‛ Hayoc‛ 2008, p. 958, dove Maria è definita «Patto dell’alleanza scritto con indelebili condizioni e sottoscritto come documento». 21   Cfr. Gv 14,6. Si veda: Grégoire de Narek 2010, p. 279. 22   Matenagirk‛ Hayoc‛ 2008, p. 628. 23   Cfr. Es 40,36. L’interpretazione cristologica è assicurata da 1 Cor 10,1-4. Cfr. Matenagirk‛ Hayoc‛ 2008, p. 708. 24   Greg. Nar., Pan. in B. Vir., Matenagirk‛ Hayoc‛ 2008, p. 953. 25   Ivi, p. 954. 26   Ivi, p. 956. 27  Cfr. Matenagirk‛ Hayoc‛ 2007, p. 36. Si tratta del canone dell’Annunciazione, attribuito al kat‛ołikos Gregorio III (XII secolo). 28   Greg. Nar., Pan. in B. Vir., Matenagirk‛ Hayoc‛ 2008, p. 953. 29  Cfr. Dasnabédian 1998. 30   Greg. Nar., Liber lament., Ban 80, Matenagirk‛ Hayoc‛, 2008, p. 499. Cfr. anche l’inno per l’Assunzione, ivi, p. 706.

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dotata di quell’alito divino che la accomuna in armeno alla sacra Scrittura31. Ma è anche il “Luogo della beata promessa”, cioè quella Terra promessa che la tradizione cristiana ha sempre riferito tipologicamente alla Chiesa. Nel già citato canone dei santi Gioacchino e Anna, la natività di Maria viene definita come “mistero della santa Chiesa”, stabilito da Dio nella sua sapienza preveggente. È superfluo ricordare che il termine “mistero”, nel lessico teologico e liturgico, appartiene al campo semantico dell’ontologia. L’accostamento tra il mistero mariano e quello ecclesiale non rimane sul piano estrinseco di una similitudine, ma tocca l’essenza stessa delle due realtà. Maria non è soltanto la prima credente, ma è la Chiesa in nuce, l’umanità come era pensata dall’Altissimo fin dal principio, santificata in Cristo: «Questa madre, che mi ha amato come un figlio, è spirituale, celeste e luminosa; non è di questa terra, dotata di anima e corpo. Il latte delle sue mammelle è il sangue di Cristo. Vi si può trovare, senza empietà, la figura della Madre di Dio»32. Il nesso Maria-Chiesa, poi, tende a estendersi anche alla dimensione architettonica, cioè alla chiesa/edificio. Il canone per il primo giorno dell’Assunzione, ad esempio, recita «Sei stata costituita come stanza nuziale ad archi»33 e Gregorio di Narek la definisce “Palazzo del Magnifico”34. Sull’altare delle chiese armene, a chiunque esse siano dedicate, è tradizionalmente presente l’immagine della Theotokos, che richiama il mistero del Verbo incarnato che si fa Sacramento sull’altare sottostante, costituendo la Chiesa come corpo mistico del Cristo. È stato osservato che «Maria è nell’innodia armena ciò che è nell’iconografia bizantina, ove la Theotokos campeggia nell’abside delle chiese, non per il privilegio di una donna, ma perché in quella sfera, che è il simbolo del cosmo rinnovato […] ci può stare finalmente e senza vergogna l’umanità salvata»35. Contrariamente alla tradizione bizantina, quella armena è piuttosto parca nell’uso delle immagini sacre, benché esistano numerosi esempi di affreschi murali. Al confine con la 31   Astuacašunč‛, “soffio”, “respiro di Dio”. È questo il termine usato dalla tradizione armena per definire la sacra Scrittura, sulla scorta di 2 Tm 3,16. Šunč‛ è il soffio vitale che Dio trasmette all’uomo in Gen 2,7, facendone un essere vivente; quel soffio vitale di cui sono privi gli idoli inerti delle genti (Sal 134,17). Definendo in questo modo la Scrittura, la Chiesa armena ricollega il testo sacro alla creazione e ne fa la vitalità stessa della Chiesa: come Dio comunica la vita ad Adamo, insufflando nelle sue narici lo spirito di vita, così Egli continua ancora a comunicare la propria vita alla Chiesa, corpo mistico del nuovo Adamo, attraverso la sua Parola. 32   Greg. Nar., Liber lament., Ban 75, Matenagirk‛ Hayoc‛ 2008, p. 475. Nell’inno sull’Assunzione (ivi, p. 709), Gregorio rafforza il nesso Maria-Chiesa, definendola “Tempio non fatto da mani d’uomo”, cfr. Mc 14,58. Cfr. Dasnabédian 2009-2010. 33  Cfr. Matenagirk‛ Hayoc‛, 2007, p. 304. L’inno è attribuito a Movsēs Xorenac‛i, il padre della storiografia armena. 34   Greg. Nar., Pan. in B. Vir., Matenagirk‛ Hayoc‛ 2008, p. 953. 35   Gugerotti 2012a, p. 199 ss. Sull’iconografia mariana e le sue codificazioni si veda: Garib 1987.

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Georgia ortodossa, tuttavia, troviamo alcuni luoghi di culto in comunione con la Chiesa calcedonese, che risentono fortemente dell’impianto iconografico tipico dell’ortodossia bizantina. È il caso ad esempio del monastero di K‛obayr (XIIXIII secolo)36, ma soprattutto di quello di Axt‛ala (XIII secolo)37, che conserva il più straordinario ciclo di affreschi dell’Armenia, e versa purtroppo in un indecoroso stato di degrado, ignorato inspiegabilmente dai grandi circuiti turistici. La chiesa principale, costruita nel 1188, venne dedicata alla Beata Vergine. Inizialmente si trattava di un monastero non-calcedonese (scil. in comunione con la Chiesa armena), ma il signore della regione, Ivane Mxargrʒeli (morto intorno al 1230), passò alla confessione calcedonese a cavallo tra il XII e il XIII secolo, portando anche il monastero di Axt‛ala alla comunione con la Chiesa ortodossa di Georgia38. Agli stessi anni è da ricondurre anche il ciclo di affreschi, che ricopriva totalmente le pareti interne della basilica, e che rivela uno straordinario programma iconologico, frutto del lavoro di più pittori, incentrato sulla figura di Maria e sulla dimensione mistica della Chiesa39. Come si vedrà, esso rappresenta la più efficace traduzione iconografica della dottrina mariologica armena40. Al centro del catino absidale (ovviamente orientato) domina una gigantesca Theotokos in trono, solo in parte conservata (Fig. 1). Verso di essa converge non solo lo sguardo del fedele che entra in chiesa, ma è tutto l’impianto iconologico a trovare in essa il punto focale: nell’arco antistante l’abside, la figura dell’Emmanuele al centro, contornato da figure di patriarchi dell’Antico Testamento, mostra il convergere della storia salvifica verso l’incarnazione, e da essa poi si dipana tutto il resto del ciclo figurativo. L’idea centrale che governa l’impianto iconologico dell’abside è quella della liturgia, nella sua dimensione celeste (archetipica) e terrena (sacramentale): Maria, immagine della Chiesa, porta in sé il sommo sacerdote Gesù Cristo41. Dalla liturgia celeste, scendendo con lo sguardo, si passa, attraverso la comunione agli apostoli e la successione apostolica dei santi vescovi,  Cfr. Cuneo 1988, p. 288 s.   Ivi, pp. 311-313. Si veda anche Tadevosyan 2010. 38   Nonostante la sua adesione alla Chiesa calcedonese, Ivane continuò a sponsorizzare luoghi di culto della Chiesa armena, quali ad esempio l’importante complesso monastico di Hałarcin, segno della sensibilità ecumenica del sovrano zacharide. 39   Esiste uno studio magistrale sugli affreschi di Axt‛ala, pubblicato in inglese nel 1991, e poi recentemente ripubblicato e aggiornato in edizione bilingue russo-inglese, e con un apparato iconografico a colori: Lidov 2014. L’autore, insigne storico dell’arte bizantina, al quale siamo in gran parte debitori per l’analisi seguente, traccia un profilo dettagliato del programma iconologico, confrontandolo con analoghi cicli iconografici di area bizantina e con le principali fonti liturgiche bizantine. Più scarsa è la sua conoscenza delle fonti liturgiche e letterarie armene, alle quali non può accedere in lingua originale, e che saranno invece l’oggetto della nostra comparazione. 40   Una parte considerevole di affreschi è oggi perduta, ma è possibile ricostruirla attraverso il confronto con altri cicli coevi. La volta della cupola, ad esempio, presentava quasi certamente la rappresentazione dell’Ascensione. 41   Cfr. Eb 4,14; 9,11. 36 37

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Fig. 1.

all’altare materiale dove si consuma, hic et nunc, il sacrificio eucaristico, tipologicamente collegato a quello celeste (Fig. 2). Il legame tra Maria e la Chiesa, così presente nella liturgia, richiama anche l’altro legame, anch’esso già osservato nelle fonti liturgiche, tra Maria e l’Eucarestia. Essa siede su un trono ricoperto da un telo bianco, che allude al contempo al lino che avvolge il Signore nel sepolcro e alla tovaglia dell’altare. Il trono stesso richiama le architetture di un’edificio sacro, e la veste della Beata Vergine riprende i motivi ornamentali dell’epitrachelion sacerdotale, nonché i paramenti del sommo sacerdote veterotestamentario, così come descritto da Es 28,31-35. Maria, tabernacolo, tempio, arca, Chiesa, si pone come segno di continuità tra le due alleanze, mistero di quella Chiesa che nei Padri affonda le proprie radici ab Abel42. La sottostante raffigurazione della Comunione distribuita da Cristo agli apostoli si inserisce ancora nel tema della liturgia celeste, orientando verso quella terrena (Fig. 3)43. Cristo, sommo sacerdote, viene assistito da angeli, che indossano i tipici paramenti diaconali, con tanto di orarion e di flabelli, ampiamente utilizzati nella liturgia armena. Il ciborio che sovrasta l’altare, sul quale sono collocate le Specie eucaristiche, richiama le forme del Santo Sepolcro di Gerusalemme, isti  Si veda a tal proposito Congar 1952.   La Comunione agli apostoli è un tema particolarmente presente nella iconografia absidale armena, come si può ammirare anche nei resti dello splendido catino absidale di K‛obayr (XII secolo), non distante da Axt‛ala. 42 43

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Fig. 2.

Fig. 3.

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Fig. 4.

tuendo ancora una volta un nesso tipologico fra la Gerusalemme terrena e quella celeste, e collegando misticamente l’altare terreno con quello celeste, e sottolineando al contempo la dimensione sacrificale dell’Eucaristia. La simbologia prosegue nel piano inferiore, che fa da cornice all’altare materiale, con una teoria di santi vescovi, che evocano quella successione apostolica che collega la Comunione agli apostoli con il sacrificio eucaristico celebrato hic et nunc dal sacerdote sull’altare materiale (Fig. 4). Come osservato acutamente da Lidov44, è di grande interesse l’iscrizione greca che appare sul libro aperto retto da S. Basilio, che riporta le parole della protesi nella liturgia bizantina e armena: Ὁ Θεός, ὁ Θεὸς ἡμῶν, ὁ τὸν οὐράνιον Ἄρτον, τὴν τροφὴν… I santi vescovi, cioè, sono presentati nell’atto di officiare la liturgia celeste, e in questo costituiscono l’antitipo del sottostante officiante terreno che celebra il sacramento eucaristico. Ma non è tutto: la scelta stessa dei santi vescovi rivela un esplicito programma ecumenico: vi compaiono grandi padri della Chiesa greca, come ad esempio i Cappadoci, il Crisostomo, san Cirillo di Alessandria; padri della Chiesa armena, come san Biagio, san Gregorio Illuminatore (in una posizione di rilievo); ma anche padri della Chiesa latina, come san Silvestro papa, san Cipriano, sant’Ambrogio, san Clemente romano. Quella Chiesa che nella celebrazione del Sacrificio sacramentale   Lidov 2014, p. 370.

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appare divisa, nella celebrazione della liturgia celeste conosce perfetta comunione e unità45. Non deve stupire questa attenzione ecumenica, in una regione di transizione tra diverse confessioni cristiane, e in un monastero, la cui famiglia committente conosce al suo interno l’adesione a diverse confessioni. Sono gli anni, quelli della fine del XII secolo, nei quali lascia una profonda traccia, nella Cilicia armena, Nersēs di Lambron († 1198), vescovo di Tarso, autore di un celebre Discorso sinodale, che costituisce una pietra miliare del percorso ecumenico delle Chiese46. Nersēs accoglie e prosegue la strada intrapresa dallo zio, il kat‛ołikos Nersēs Šnorhali. Quest’ultimo aveva formulato alcuni principi che possono essere considerati veri e propri capisaldi di un movimento ecumenico ante litteram: - Non imporre a nessuno alcuna omologazione nei riti, nelle formule dogmatiche e nelle tradizioni liturgiche, laddove queste non compromettano l’ortodossia della fede. - L’unità deve essere il frutto della sinergia fra la grazia ottenuta dalla preghiera e lo sforzo umano della carità. - L’unità, per essere efficace e duratura, non può essere un’imposizione in vertice, ma deve essere espressione della tensione di un’intera comunità ecclesiale. - Il dialogo deve essere animato dal desiderio di far trionfare la verità e non dal desiderio di far prevalere le posizioni della Chiesa più forte su quella più debole. Nersēs di Lambron eredita questa tensione ecumenica, che va al di là di una semplice disposizione irenica, per cogliere tutto il dramma e la devastante contraddizione della divisione ecclesiale: Noi tutte nazioni cristiane adoriamo un solo Gesù Cristo, in diverse lingue: e noi, tutti cristiani, invochiamo una sola Chiesa di Gesù Cristo. Abbiamo un solo culto, espresso nella nostra celebrazione del sacrificio di Cristo, attraverso il quale lo imploriamo all’unisono per la salvezza di tutti. Bisogna dire che, come gli armeni implorano Dio nella loro lingua per la pace nel mondo, per il benessere della Chiesa, per la buona condotta di tutti e per il riposo delle anime dei fedeli, così fanno anche i cattolici romani nella loro lingua e i greci ortodossi nella loro. Poiché Cristo è uno, anche la supplica è una. Quando in Spagna i cristiani pregano, le loro preghiere sono anche per me, poiché io sono un cristiano come loro; e quando io prego in Cilicia, la mia preghiera è anche per loro, poiché anche loro professano la mia stessa fede. Dovunque il nome di Dio sia pronunciato, là è il nostro posto. Le loro preghiere sono le nostre e le nostre le loro. È ovvio che, come quando voi, con fede e con speranza, fate offerte a questa chiesa (la vostra personale), scoprite di essere in comunione con la Chiesa universale. Poiché non diciamo: «Abbi misericordia 45   Il programma ecumenico prosegue in tutte le pareti della chiesa, con la presenza di santi georgiani (ad es. san Šio Mγvimeli, san Ioane Šuamdinareli, santa Nino), greci (ad es. Costantino, sant’Elena, sant’Irene, santa Caterina di Alessandria), armeni (o armeno-greci come ad es. i santi quaranta martiri di Sebaste) e latini (ad es. san Benedetto, i santi Gervasio e Protasio) 46   Si veda l’introduzione e la traduzione italiana di B.L. Zekiyan, in Nersēs di Lambron 1996.

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Fig. 5. e soccorri il principe armeno, o il viaggiatore armeno, o la persona armena deceduta». La preghiera non è limitata solamente a noi stessi. Similmente i cattolici romani non pregano solo per loro stessi. Noi tutti preghiamo per la Chiesa di tutti i cristiani. Se come cristiano sei un (vero) credente, vivo o morto, e anche per l’altro è lo stesso, tutti e due siete compresi nelle mie preghiere47.

Dalla figura della Theotokos, che rappresenta il baricentro teologico di tutto l’impianto iconografico, si dipana il resto del ciclo di affreschi. Nelle lunette a sud e a nord troviamo affrontate rispettivamente la natività di Gesù (secondo i canoni iconografici bizantini) (Fig. 5)48 e quella di Maria, ampiamente ispirata al Vangelo armeno dell’infanzia e al Protovangelo di Giacomo, e mal conservata. È in particolare il ciclo dell’infanzia di Maria a destare un grande interesse teologico: la raffigurazione del rifiuto da parte del sacerdote dell’agnello sacrificale49 presentato da Gioacchino e Anna ribadisce ancora una volta il nesso cristologico ed  Nersēs di Lambron, Commento alla Divina Liturgia, cap. 56; cfr. trad. fr. e introduzione a c. di I. Kéchichian, in Nersès de Lambron 2000, pp. 239-240. 48   Sull’iconografia codificata della natività si veda: Garib 1995. La raffigurazione dei tre angeli, in abiti liturgici, oltre a richiamare il nesso – già osservato – tra la liturgia celeste e quella terrena, allude al mistero trinitario, mostrando come tutta la Trinità sia coinvolta nella storia salvifica che si prolunga nell’azione liturgica. 49   Si ricordi il titolo di “Agnella” attribuito dalla liturgia armena a Maria. 47

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Fig. 6.

eucaristico (Fig. 6): il sacrificio veterotestamentario è superato e si apre l’era del nuovo sacrificio e del nuovo tempio (richiamato dalla raffigurazione successiva della presentazione al Tempio di Maria). Ancora una volta la figura di Maria rimanda al mistero ecclesiale. Nella opposta scena dell’adorazione dei magi, Maria siede su un trono che assume le fattezze architettoniche di un tempio, richiamando in questo una simbologia già presente nell’abside. Le scene relative alla presentazione di Gesù al Tempio, al battesimo e alla trasfigurazione sono di fatto perdute, ma sopravvive il ciclo della passione, morte e risurrezione, proprio sotto i cicli della natività di Gesù e di Maria (Figg. 7, 8). Il nesso tra il mistero mariano, l’incarnazione e la pasqua appare ancora una volta enfatizzato dall’impianto iconografico che accosta i due eventi storico-salvifici. Ma anche il nesso liturgico è ribadito: già a partire dalle interpretazioni tipologiche di Teodoro di Mopsuestia, i riti di protesi, con l’ingresso dei diaconi che recano all’altare le oblate, sono interpretati alla luce della liturgia celeste: essi sono immagine della «liturgia delle potenze invisibili», il corteo angelico che scorta il Cristo per essere immolato sull’altare della croce. La liturgia diaconale della presentazione delle oblate, portate sull’altare del sacrificio, sta in rapporto tipologico (e non meramente evocativo) con il corteo angelico che accompagna il Cristo alla passione e lo veglia nel sepolcro

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Fig. 7.

Fig. 8.

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Fig. 9.

dopo la sua immolazione50. Tale interpretazione è attestata in ambito armeno nel Commento all’Ufficio divino di Step‛anos Siwnec‛i (VIII sec.), che dedica il cap. VII alla “ora terza”, di fatto alla sinassi e all’Eucaristia51. In questo modo il regista del programma iconologico ribadisce la reciproca inerenza della liturgia terrena con quella della Gerusalemme celeste52. La parete occidentale presenta un grande affresco con il giudizio universale: è ciò che il fedele contempla, uscendo dalla chiesa, dopo aver partecipato ai divini misteri. La deesis, in alto (Fig. 9), richiama il tema che doveva essere rappresentato nella cupola crollata, vale a dire la gloria del Cristo. Scendendo con lo sguardo troviamo l’hetoimasia, con il trono vuoto in attesa del Giudice celeste. La croce e gli instrumenta passionis sono una chiara allusione alla dimensione sacrificale, e il vangelo collocato sul trono rimanda al vangelo che sempre è collocato sull’altare   Theod. Mops., Cath. mist. 15, cfr. Tonneau, Devreesse 1949. Sul rito del grande ingresso e della protesi si veda: Taft, Parenti 2014. 51  Cfr. M.D. Findikyan 2004. 52   Può stupire la collocazione marginale, sulla parete sud, della rappresentazione dell’evento pasquale. In realtà esso è ben presente anche nell’abside centrale, nella stessa posizione, al di sotto del mistero dell’incarnazione, attraverso la raffigurazione della Comunione agli apostoli e del ciborio, che richiama il santo sepolcro di Gerusalemme. 50

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delle chiese armene. C’è dunque un nesso tra i misteri celebrati sull’altare terreno e gli eventi escatologici. Ai piedi del trono sono prostrati Adamo ed Eva, rappresentanti di quella umanità in attesa di giudizio. La raffigurazione del paradiso, della Gerusalemme celeste, vede ancora una volta la centralità della Beata Vergine, rappresentata tra la figura del “seno di Abramo” (cfr. Lc 16,22) e il buon ladrone (cfr. Lc 23,42) (Fig. 10). Tante volte nella liturgia il fedele ha ripetuto la parola “ricordati” pronunciata dal buon ladrone, e uscendo dalla liturgia egli contempla la promessa del Signore realizzata: «Oggi sarai con me nel paradiso». A destra troviamo la porta del paradiso e Pietro che fa strada alle anime dei giusti: la liturgia è la porta di ingresso nel paradiso; quel paradiso, quella Gerusalemme celeste, che trova in Maria la sua icona perfetta. L’autore dell’affresco ha di fatto tradotto in forma figurativa quell’attributo di “Eden” e di “Terra promessa” espresso verbalmente da Gregorio di Narek. Lungo tutte le pareti della chiesa, soprattutto nei piani inferiori, teorie di santi richiamano il perpetuarsi del mistero salvifico nel popolo dei rendenti, nella Chiesa. Essi sono greci, armeni, georgiani, latini: quelle divisioni confessionali che il fedele presente nella basilica conosce bene e che incendiano la Chiesa terrena, impedendo la communio in sacris, nella Chiesa celeste sono superate nella comunione dell’unico corpo mistico di Cristo. Un’antica tradizione armena, tutt’ora viva, ancorché praticata senza cognizione, insegna a uscire dalle chiese all’indietro, senza voltare le spalle al presbiterio: ancora pellegrini sulla terra, dopo aver pregustato un anti-

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cipo di paradiso nella liturgia, siamo costretti a ritornare nell’occidente tenebroso di questo mondo segnato dal peccato, ma tenendo lo sguardo fisso sull’Oriente cristologico e mariano. Il fedele che usciva da Axt‛ala tornava a immergersi nel mondo contemplando la Beata Vergine Maria, immagine di quella Gerusalemme celeste già pregustata, ma non ancora raggiunta. Bibliografia Congar 1952 = Y. Congar, Ecclesia ab Abel, in M. Reding (a c.), Abhandlungen über Theologie und Kirche. Festschrift für Karl Adam zum 75. Geburtstag, Düsseldorf 1952, pp. 79-108. Cuneo 1988 = P. Cuneo, Architettura armena, vol. 1, Roma 1988. Dasnabédian 1992 = T. Dasnabédian, Une homélie arménienne sur le transitus de la Mère de Dieu et sur son image, in «Basmavep» 150, 1992, pp. 217-235. Dasnabédian 1995 = T. Dasnabédian, La Mère de Dieu. Études sur l’Assomption et sur l’image de la très-sainte Mère de Dieu, Antélias 1995. Dasnabédian 1998 = T. Dasnabédian, Marie dans les Évangiles apocryphes arméniens, in «Parole de l’Orient» 23, 1998, pp. 79-87. Dasnabédian 2009-2010 = T. Dasnabédian, Interprétations multiples du Cantique des Cantiques chez Saint Grégoire de Narek. Marie, figure de l’Église, in J.-P. Mahé, P. Rouhana, B.L. Zekiyan (a c.), Saint Grégoire de Narek et la liturgie de l’Église, «Revue Théologique de Kaslik» III-IV, 2009-2010, pp. 355-371. Findikyan 2004 = M.D. Findikyan, The Commentary on the Armenian Daily Office by Bishop Step‛anos Siwnec‛i († 735), Roma 2004. Garib 1987 = G. Garib, Le icone mariane. Storia e culto, Roma 1987. Garib 1995 = G. Garib, Le icone di Natale. Storia e culto, Roma 1995. Grégoire de Narek 2000 = Grégoire de Narek, Tragédie, Lovanii 2000. Grégoire de Narek 2010 = Grégoire de Narek, Commentaire sur le Cantique des Cantiques, Roma 2010. Gugerotti 2012a = C. Gugerotti, Maria negli inni armeni, in Id., Caucaso e dintorni, Roma 2012, pp. 194-205. Gugerotti 2012b = C. Gugerotti, Inventare l’alfabeto è fare teologia: Koriwn, in Id., Caucaso e dintorni, Roma 2012, pp. 3-39. Lanne 2006 = E. Lanne, Marie Immaculée dans le mystère du salut chez Grégoire de Narek, in J.-P. Mahé, B.L. Zekiyan (a c.), Saint Grégoire de Narek. Théologie et Mystique, Roma 2006, pp. 139-167. Lidov 2014 = A. Lidov, The Wall Paintings of Akhtala, Moscow 20142. Mahé 1989 = J.-P. Mahé, Traduction et exégèse. Réflexions sur l’exemple arménien, in R.-G. Coquin (a c.), Mélanges Antoine Guillaumont: Contributions à l’étude des christianismes orientaux, Genève 1989, pp. 243-255.

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Mahé 2014 = J.-P. Mahé, Trésor des fêtes. Hymnes et Odes de Grégoire de Narek, s.l., 2014. Manoukian 1970 = A. Manoukian, Morfologia, struttura e significato architettonico dei katchkar, in Documenti di architettura armena, vol. 2, Milano 19702, p. 10. Matenagirk‛ Hayoc‛ 2007 = Matenagirk‛ Hayoc‛, vol. 8, Antelias 2007. Matenagirk‛ Hayoc‛ 2008 = Matenagirk‛ Hayoc‛, vol. 12, Antelias 2008. Mécérian 1954 = J. Mécérian, La Vierge Marie dans la littérature médiévale de l’Arménie, in «Al-Machriq» 48, 1954, pp. 346-379. Mimouni 1995 = S.C. Mimouni, Dormition et assomption de Marie. Histoire des traditions anciennes, Paris 1995. Nersēs di Lambron 1996 = Nersēs di Lambron, Il primato della carità, Bose 1996. Nersēs di Lambron 2000 = Nersès de Lambron, Explication de la Divine Liturgie, Beyrouth 2000. Pane 2016 = R. Pane, Bibbia e liturgia nella Chiesa armena: il singolare culto dei santi Traduttori, in C. Baffioni, A. Passoni Dell’Acqua, R.B. Finazzi, E. Vergani (a c.), Bibbia e Corano. Edizioni e ricezioni, Milano 2016, pp. 99-107. Renoux 1986 = Ch. Renoux, La fête de l’Assomption dans le rite arménien, in La Mère de Jésus-Christ et la communion des saints, Roma 1986 (Bibliotheca Ephemerides Liturgicae, Subsidia 37), pp. 235-253. Renoux 2005 = Ch. Renoux, L’Annonciation du rite arménien et l’Épiphanie, in «Orientalia Christiana Periodica» 71, 2005, pp. 315-342. Tadevosyan 2010 = A. Tadevosyan, Akhtala. History and Reality, Yerevan 2010. Taft, Parenti 2014 = R.F. Taft, S. Parenti, Il grande ingresso, Grottaferrata 2014. Terian 2016 = A. Terian, The festal works of St. Gregory of Narek, Collegeville (Minn.) 2016. Tonneau, Devreesse 1949 = R. Tonneau, R. Devreesse (a c.), Les homélies catéchétiques de Théodore de Mopsueste, Città del Vaticano 1949. Zekiyan 1999 = B.L. Zekiyan, La spiritualità armena: Gregorio di Narek, Roma 1999. Zekiyan 2008 = B.L. Zekiyan, La Madre di Dio nel pensiero teologico e mistico armeno. San Gregorio di Narek, in «Theotokos» 16, 2008, pp. 115-140.

IL CONTESTO NUMISMATICO TESSALONICESE DOPO LA IV CROCIATA

Margherita Elena Pomero

Influssi iconografici e rielaborazioni ideologiche tra Oriente e Occidente

La vittoria crociata del 1204, che aveva portato alla perdita di Costantinopoli, generò nell’impero romano orientale una proliferazione ed un intreccio di nuovi poteri fondati sul controllo territoriale che caratterizzeranno tutto il XIII secolo1. Essi, nonostante il riacquistato controllo di Costantinopoli nel 1261 e l’ascesa della nuova dinastia dei Paleologi, perdurarono fino al termine della storia romanoorientale. La disparità della documentazione relativa al periodo della presa latina di Costantinopoli (1204-1261), tra le formazioni territoriali createsi, ha spesso catalizzato la maggior parte della nostra attenzione nei confronti dell’impero di Nicea2, dove l’attività culturale continuò ad avere vita attorno a quello che la storiografia tramanda come legittimo basileus, Teodoro I Lascaris, qui confinato insieme alla corte costantinopolitana. Nella penisola balcanica dell’antico Impero si originarono due formazioni politiche e territoriali, quella di Epiro3, rimasta nell’orbita bizantina, sotto il controllo del ramo imperiale dei Comneno Ducas, e quella di Tessalonica4, inizialmente sotto il controllo latino dei marchesi di Monferrato. Sulle coste del Mar Nero, per contro, in modo indipendente dagli eventi del 1204, ma cronologicamente contemporaneo   Sulla formazione di signorie territoriali dopo il 1204 si veda la seguente bibliografia generale: Carile 1978; Nicol 1993; Jacoby 1999, pp. 525-542; Angold 1999, pp. 543-568; Carile 2000, pp. 969-1026; Nishimura 2006, pp. 197-210; Patlagean 2007; Carile 2008, pp. 91-110; Laiou, Morrisson 2011. 2  Cfr. Angold 197; H. Ahrweiler 1975, pp. 21-40; Morrisson 2011b, pp. 5-13 e pp. 147-148. 3  Cfr. Nicol 1984; Osswald 2011; Morrisson 2011c, pp. 321-332. Sulle origini del despotato si veda in Stiernon 1959, pp. 90-126. 4  Cfr. Tafrali 1919; Vakalopoulos 1972; Bredenkamp 1996; Barker 2004, pp. 5-33; Osswald 2011, pp. 62-81; Morrisson 2011c, pp. 321-332. 1

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a questi, si era ormai rafforzato e distaccato un altro potentato territoriale che vantava discendenza imperiale, il principato dei Grandi Comneni di Trebisonda5. Tale frammentazione politico-istituzionale si riflette nella produzione monetaria tardo-bizantina6, che mostra una realtà molto variegata tra le zecche attive nel corso del XIII secolo, nella quale è anche attestata una circolazione di monete importate dall’Occidente (ad es. il ducato veneziano o alcuni denari come il tornese della Grecia franca). Se da una parte conserviamo, infatti, emissioni monetarie specificamente ascrivibili alla sovranità ufficiale dei Lascaris di Nicea, i quali utilizzarono principalmente la zecca di Magnesia, e le emissioni di imitazione bizantina prodotte dalla zecca di Costantinopoli allora in mano latina7, dall’altra ci è stata trasmessa anche una produzione legata ai principati locali sorti all’inizio del XIII secolo, proveniente dalla zecche di Arta in Epiro, di Tessalonica e di Trebisonda. All’interno di questo intricato panorama numismatico, che rispecchia le difficili vicende politiche del XIII e XIV secolo, se da una parte le zecche di Nicea, Arta e Trebisonda appaiono più ancorate alla tradizione, eleggendo come modello principale l’immagine dell’imperatore theòsteptos, ovvero incoronato da Dio (Fig. 1), Tessalonica, dall’altra parte, risalta per l’eccezionalità iconografica delle sua zecca. Per tali motivi, l’iconografia numismatica tessalonicese nel periodo in questione appare meritevole di uno studio specifico. Essa si presenta agli studiosi non solo come unica nel suo genere, ma anche di difficile interpretazione iconologica per la complessità del suo inserimento all’interno del panorama ideologico della propaganda imperiale bizantina. All’indomani della Quarta crociata e della partitio territoriale dell’Impero ad opera dei principi latini, Tessalonica fu assegnata a Bonifacio di Monferrato8. Questi creò un suo principato indipendente sul quale i marchesi di Monferrato deterranno il loro potere fino alla riconquista della città da parte dell’epirota Teodoro Comneno Ducas nel 1224, il quale, poi, nel 1227 assunse anche il titolo di imperator tramite autoproclamazione, in aperta sfida con i Lascaris di Nicea. Nel 1242 Giovanni III Vatatzēs, allora imperatore di Nicea, riuscì a prendere il controllo della cit Cfr. Miller 1926; Vasilev 1936, pp. 3-37; Bryer 1980; Karpov 2005, pp. 283-292; Savvides 2009; Karpov 2011, pp. 364-378. 6   Cataloghi di riferimento: Wroth 1966a; Wroth 1966b; Hendy 1969; LPC 1979; PCPC 1988; Sear 1987; Grierson 1982; DOC IV, 1 e 2; DOC V, 1 e 2; LBC 2009,2009. 7   Dell’impero latino di Costantinopoli sono noti i sigilli bilingui dove appare l’immagine del sovrano: su una faccia è ritratto alla maniera occidentale e spesso a cavallo, dall’altra è ritratto secondo i canoni bizantini. Non è, però, pervenuta alcuna moneta con il nome dei principi latini, escluso il tipo O in DOC IV, 2, nn. 15.1-15.16, pl. L, pp. 681-683, per il quale è stata avanzata l’ipotesi che possa essere attribuito a Giovanni di Brienne che nel 1231 fu incoronato imperatore latino di Costantinopoli, cfr. pp. 664-665; Hendy 1989; Morrisson 1997a, pp. 315-318. 8   Su Bonifacio di Monferrato e le sue ambizioni relative alla creazione di un principato regionale a Tessalonica cfr. Carile 1978, pp. 187-199, si vd. anche il capitolo sulla spartizione dei feudi a pp. 200-218. 5

Il contesto numismatico tessalonicese dopo la IV crociata

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Fig. 1: Esemplari rappresentativi dell’iconografia dell’imperatore theòsteptos. Zecche di Magnesia, Arta e Trebisonda: a. Magnesia. Hyperpyron (AV). Verso. Giovanni III Vatatēs (1221-1254). Rif. DOC IV, 2, n. 4 (Gorny & Mosch Giessener Münzhandlung [Auction 251 Lot. 5242]); b. Arta. Aspron Trachy (El.). Verso. Michele I Comneno Ducas di Epiro (1204-1215). Rif. DOC, IV,2, (1.1)* (Athens, Archaeological Museum); c. Trebisonda. Aspron Trachy (AR). Verso. Giovanni II Comneno di Trebisonda (1280-1297) (Birmingham, Barber Institute Coin Collection ET79).

tà dopo un lungo assedio, e i discendenti epiroti del ramo dei Comneno Ducas furono costretti a rinunciare al titolo imperiale accontentandosi del rango di despotai9, che ne sottolineava formalmente il rapporto di subordinazione. Con l’avvento dei Paleologi e la riconquista di Costantinopoli, Tessalonica continuò ad essere amministrata da governatori appartenenti alla cerchia imperiale che controllavano gran parte dei territori europei nel raggio di azione del potere imperiale. Non si dimentichi che, grazie ad una politica di alleanze matrimoniali particolarmente favorita dai Paleologi, la presenza di una discendenza “mista” all’interno del clan imperiale si era notevolmente intensificata10. L’iconografia monetaria tessalonicese nel corso di questi avvicendamenti dinastici si differenziò, quindi, notevolmente da quella ufficiale o anche da quella degli altri potentati territoriali per il suo carattere meno convenzionale e, soprattutto, per la presenza di modelli iconografici assolutamente estranei sia all’arte che alla numismatica bizantina11. Particolare attenzione destano le immagini alate, proliferate   Per quanto riguarda lo studio sulle attestazioni del titolo si veda: Guilland 1959, pp. 52-89. La denominazione δεσπότης si qualifica per la prima volta come titolo aulico solo a partire dal regno di Manuele I Comneno (1143-1180), sebbene non ancora ben delineata e codificata. Si trova traccia incontestabile della codificazione ufficiale del titolo aulico nel trattato sul cerimoniale di corte dello Pseudo Codino del XIV secolo: cfr. Pseudo-Codino (ed. Verpaux), in part. cap. I, pp. 133, v. 7, cap. II, pp. 141-147 e cap. VIII, pp. 274-275 e Pseudo-Codino (ed. Macrides, Munitiz, Angelov), cap. I, p. 26, cap. II, pp. 34-43 e cap. VIII, pp. 244-246. Riguardo allo studio delle insegne del despota: Failler 1982, pp. 171-186; sull’immagine pubblica (vestiario e insegne) si veda in Pomero 2019. 10  Cfr. Diehl 1927 (ed. 2007), pp. 447-481 e 482-497; Patlagean 2007, pp. 327-328. 11   La maggior parte di tali emissioni numismatiche, che potremmo definire “inedite”, sono state rinvenute nella penisola balcanica; un’altra loro peculiarità di notevole interesse è l’appartenenza ad una sola 9

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Fig. 2. L’imperatore alato. Tessalonica. Trachy (Bigl.). Verso. Giovanni Comneno Ducas. Rif. DOC IV, 2, n. 34 (Harvard Art Collection).

Fig. 3. Tessalonica. Stamenon (Æ). Verso. Michele VIII Paleologo. Rif. DOC V, 2, n. 171 (Washington, Dumbarton Oaks Collection).

Fig. 4. Tessalonica. Stamenon (Æ). Verso.Andronico II Paleologo. Rif. DO.BZC.2004.4 (Washington, Dumbarton Oaks Collection).

soprattutto nella monetazione di XIII secolo, come croci alate, braccia alate, teste di cherubini, semplici ali spiegate a pieno campo, fino ad arrivare alla rappresentazione dell’imperatore alato, nella sua prima versione su un esemplare che è stato attribuito a Giovanni Comneno Ducas (1237-1244)12, figlio di Teodoro (Fig. 2). Proprio quest’ultima immagine ricompare con maggior frequenza durante la prima fase dell’età paleologa, sulle emissioni di Michele VIII (1259-1282), Andronico II13 (1282-1328) e in qualche caso anche di Andronico III14 (1328-1341). (Figg. 3-4). categoria di numerario, ossia quello in rame o leghe di rame, comunemente denominato aspron trachy. Le due principali collezioni che conservano e raggruppano la maggior parte di tali esemplari sono il Dumbarton Oaks Institute di Washington D.C. e l’Ashmolean Museum di Oxford. Le altre collezioni bizantine che possiedono esemplari di emissione tessalonicese, e mi riferisco in particolare a quelle della Bibliothèque Nationale di Parigi, del Barber Institute di Birmingham e dell’’Archaeological Museum di Istanbul, conservano pochissimi esemplari caratterizzati da un design meno tradizionale, oggetto del presente contributo, come ad es. l’esemplare attribuito a Giovanni Comneno Ducas alato posseduto nella collezione parigina: BnF 955, lo stesso tipo edito in DOC IV, 2, n. 34, pl. XLIII. 12   DOC IV, 2, n. 34 p. 595, pl. XLIII; LBC, nn. 421-423, p. 170. 13   PLP, 9, 21436, pp. 81-82. 14   PLP, 9, 21437, pp. 83-84.

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Gli studi precedenti che si sono occupati di tali tematiche, tra i quali si ricordano primo fra tutti quello di Bertelè15 per la sua autorevolezza, poi quello di Cecile Morrisson16 e infine di Vaso Penna17, tendono ad accumunare il processo di formazione iconografico e ideologico che portò alla creazioni delle tipologie alate con l’immagine dell’imperatore alato18. Tuttavia sarebbe opportuno tentare di contestualizzare l’iconografia alata all’interno di tutto il programma iconografico monetale tessalonicese sullo sfondo dell’evoluzione del pensiero politico tardo-bizantino. L’analisi di Bertelè ebbe il pregio di aver individuato i più probabili modelli di tali soggetti iconografici meno comuni nelle consuetudini del mondo latino veicolate a Tessalonica19, verosimilmente tramite la presenza dei Monferrato. Tuttavia lo studioso italiano nell’analisi della semiotica delle immagini si concentra sull’iconografia dell’imperatore alato limitandosi ad individuare il più verosimile modello culturale nella tradizionale mimesi tra cielo e terra tipica dell’ideologia imperiale bizantina, ovvero la sovrapposizione tra il basileus pterophòros e il modello angelico. Anche Morrisson insiste sull’analisi della rappresentazione alata dell’imperatore giungendo a soluzioni interpretative di derivazione retorica e trasposte in ambito figurativo20. Formulazioni retoriche allusive al patronimico della famiglia imperiale   Bertelè 1951.   Morrisson 1997b, pp. 191-195; Morrisson 2003, pp. 173-203; Morrisson 2011a, in part. p. 161 e infine anche Papadopoulou, Morrisson 2013, pp. 75-98. 17   L’autrice se ne occupa in un breve saggio in cui si sofferma sulla spiritualità e sulla devozione di Giovanni Comneno Ducas imperatore e poi despotēs di Tessalonica. Cfr. in Penna 2002, pp. 135-136. 18   Su questo soggetto iconografico si veda anche il contributo di chi scrive: Pomero 2008, pp. 157-184. 19  In Papadopoulou, Morrisson 2013, pp. 75-98, si ritiene, invece, che in particolare l’immagine dell’imperatore alato sia un motivo iconografico di origine assolutamente bizantina, mettendo, quindi, in discussione l’ipotesi di Bertelè di una derivazione germanica dei modelli. Avvalorerebbe l’origine bizantina del tema sia l’assenza di testimonianze o rinvenimenti monetali che accertino una certa diffusione dei prototipi germanici in ambiente bizantino, sia la riproduzione del tema iconografico in un altro contesto artistico, come testimonierebbero, secondo alcuni, i lacerti di affresco di XIV secolo rinvenuti a Didymoteichon (cfr. Ousterhout, Gourides 1991, pp. 515-525; Ousterhout 1999, pp. 195-207). Sebbene non siano stati rintracciati “prototipi” germanici a Bisanzio si ricordi, però, della presenza latina dei Monferrato proprio a Tessalonica e della possibile diffusione iconografica (e non propagandistica) attraverso diversi canali di trasmissione quali, ad esempio, il Danubio e le zone ad esso limitrofe; in merito all’interpretazione dell’affresco di Didymoteichon, esso potrebbe rappresentare un imperatore alato assiso in trono, come intendono Papadopoulou e Morrisson, ma anche, come aveva già evidenziato tra le varie ipotesi Ousterhout, un imperatore assiso in trono alle cui spalle campeggiava l’immagine di un arcangelo. L’arcangelo compare alle spalle dell’imperatore anche sull’hyperpyron emesso da Michele VIII con l’imperatore in ginocchio al cospetto di Cristo (cfr. le emissioni costantinopolitane in DOC V, 2, nn. 1-25, pll. 1-2 e LBC, nn. 488-504, pp. 188-191 e gli hyperpyra in LBC, nn. 574-578, pp. 207-208 e nn. 603-606, pp. 215-216, attribuiti rispettivamente alla zecca di Tessalonica e a quella di Philadelphia) e su alcuni trachea tessalonicesi in cui sono rappresentati Michele VIII e il figlio Andronico II (cfr. in DOC V, nn. 212-215, pl. 13; vd. qui fig. 6). 20   Morrisson 1997b, pp. 191-195 e Morrisson 2003, pp. 185-186. Mentre nel più recente contributo di Morrisson in collaborazione con Papadopoulou si attribuisce alla presenza delle ali in 15

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Fig. 5. Tessalonica. Aspron Trachy (Bigl.). Verso. Giovanni III Vatatēs (1246-1248?). Rif. DOC IV, 2 (Type A, n. 3) (Washington, Dumbarton Oaks Collection).

sono riscontrabili, infatti, nel corso del XII secolo21 e in particolare all’epoca di Isacco II Angelo22 (1185-1195, 1203-1204), e poi anche in epoca paleologa al tempo di Michele VIII23, ma per quanto suggestive nella loro trasposizione anche nel contesto figurativo, esse non appaiono pertinenti al contesto politico di riferimento, non tenendo conto del processo di degradazione della memoria storica, avviatosi all’indomani della Quarta crociata, cui fu sottoposta proprio la dinastia degli Angeli. Alcuni trachea tessalonicesi, attribuiti a Giovanni III Vatatzēs mostrano una iconografia alquanto singolare in cui il sovrano è rappresentato nel verso stante o assiso in trono in abbigliamento imperiale, mentre in maniera marginale e del tutto slegata dalla composizione iconografica principale compare un’ala di dimensioni ridotte (Fig. 5)24. Ho già proposto in altra sede25 un’interpretazione per questo soggetto iconografico differente rispetto a quella proposta da altri studiosi26, i quali sostangenerale un significato teofanico e si rinvia, nel caso dell’immagine alata dell’imperatore, all’espressione simbolica dell’origine divina del potere imperiale, cfr. Papadopoulou, Morrisson 2013, p. 88. 21   Sulla letteratura encomiastica in generale cfr. Hunger 1978, pp. 120-132 ed in particolare pp. 126128 per la produzione panegiristica durante il regno degli Angelo-Comneni. 22   Per il repertorio retorico ascrivibile a Isacco II Angelo allusivo al mondo angelico si vd, in Pomero 2012, pp. 32-38. 23   Alcuni versi di Michele Holobolos scritti in onore di Michele VIII in occasione delle cerimonia della prokypsis, vd. in Heisenberg 1920, pp. 117-118, capp. VII, VIII, XII, XIV. 24   Per gli esemplari della collezione della Dumbarton Oaks, vd in DOC IV, 2, nn. 3.1-3.7, pp. 605606, pl. XLIV, (7 pezzi) e nn. 4.1-4.6, pp. 606-607, pl. XLIV, (6 pezzi), per quelli dell’Ashmolean Museum vd. in LBC, nn. 442-444, p. 175 e nn. 445-447, pp. 175-176. 25   Pomero 2013, pp. 493-506, in part. pp. 504-505. 26   Hendy motiva la presenza e le dimensioni ridotte di questo elemento come un segno della volontà nicena di sminuire la famiglia degli Angeli-Comneni, considerati rivali e quindi sconfitti in seguito alla riconquista di Tessalonica da parte di Giovanni III, cfr. DOC IV, 2, p. 474; Lianta, in linea con l’interpretazione di V. Penna (cfr. Penna 2002, pp. 135-136), adduce una motivazione più di carattere religioso che si manifesta nella monetazione tardo bizantina, nella preferenza per simboli quali le ali, da intendersi come allusione al divino, che andranno in seguito proponendosi come tipi specificatamente tessalonicesi, cfr. LBC, p. 42.

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zialmente accomunano questo tipo a quello dell’imperatore pteroforo. A mio avviso, invece, proprio in virtù della diversa composizione iconografica e della presenza di altre iconografie che propongono la raffigurazione di un’ala o di ali nello stesso contesto numismatico27, l’immagine andrebbe letta secondo un codice di lettura figurativo di tradizione romano imperiale e tardoantico, per cui attraverso la rappresentazione dell’ala isolata si vorrebbe rimandare, attraverso una sorta di sineddoche iconografica, all’immagine dell’aquila imperiale. Emblema di vittoria, infatti, l’aquila era un tema-simbolo imperiale ben noto28 ed utilizzato anche in età Paleologa, sia nel contesto iconografico sia in ambito retorico29, poi trasmesso ai regnanti che erediteranno la cultura romano orientale30. Non a caso nello stesso periodo in ambito occidentale Federico II pose proprio l’immagine dell’aquila sul suo celebre conio aureo, l’augustale31 (Fig. 6), emesso dalle zecche di Messina e Brindisi a partire dal 1231 fino alla fine del suo impero (1250), in cui il sovrano esprimeva l’ideologia di una renovatio imperii, facendosi rappresentare con gli abiti, i simboli e l’aspetto degli antichi imperatori romani32. Sul verso di questa moneta si trova, infatti, l’aquila imperiale, riprodotta come su alcune monete augustee con le ali spiegate ed il becco rivolto alla sua sinistra. Come è noto nel 1244 Giovanni III Vatatzēs sposò in 27   Cfr. ad es. la tipologia emessa sempre dalla zecca di Tessalonica in cui nel verso è rappresentata un’ala da cui fuoriesce un braccio che impugna una spada in DOC IV, 2, nn. 1.1 e (1.2), p. 600, pl. XLIV; LBC, nn. 433-434 oppure il tipo attribuito a Giovanni Ducas Comneno di Tessalonica in cui nel recto sono rappresentate due grandi ali spiegate all’interno delle quali nella sommità sono inscritte specularmene due teste umane in DOC IV, 2, n. (6)*, p. 585, pl. XLII e nn. (18.1)*-(18.2)*, p. 589, pl. XLIII; LBC, nn. 387-389. 28   Come ci tramanda Pachimere, cfr. Giorgio Pachimere, II, p. 631, vv. 4-5. 29   Per ricordare soltanto alcune delle fonti più tarde si veda ad esempio la satira di XIV secolo che presenta allegoricamente il tema del conflitto sociale tra i potenti, di cui sono descritti gerarchia e incarichi, rappresentando, però, la lotta di classe nella trasposizione di una lotta tra uccelli di ogni specie, che viene interrotta grazie all’intervento della massima autorità, “l’aquila grande”, metafora per indicare il vertice del potere nella gerarchia bizantina, dunque, il basileus: ‘Ὁ Πουλολόγος 1960, p. 65; ‘Ὁ Πουλολόγος 1987, p. 31 o in un poemetto in versi di Manuele File sulle proprietà degli animali sia nel proemio sia alla voce ΠΕΡΙ ΑΕΤΩΝ compare ancora l’associazione allegorica imperatore-aquila: Manuele File, pp. 53-54 e 227-229 per un commento. 30   Vespignani 2006, pp. 95-127. 31   Questa moneta con un fino aureo di 20,5 carati fu coniata nelle zecche di Messina e di Brindisi dal 1231 fino alla morte di Federico II nel 1250 e può darsi anche successivamente. Alcuni ritengono che, nonostante il limitato periodo di coniazione, esso ebbe una notevole diffusione anche a livello internazionale. Cfr.: CNI, XVIII, p. 196; Ricci 1928, pp. 59-73; Kantorowicz 1976, pp. 209-210 e pp. 705-711; Kowalski 1976, pp. 77-150; Spahr 1976, p. 195; Abulafia 1993, pp. 185-186; Claussen 1995, pp. 70-74; Fonesca 1995, p. 272; Panvini Rosati 1995, pp. 7577, in part. p. 76; Grierson, Travaini 1998; Travaini 1999 p. 659; Travaini 2005; Alram 2009, pp. 90-91, figg. 33a-33b. Si ricordino anche le coniazioni di Federico II con la testa coronata e l’aquila emesse dalla zecca imperiale di Donauwörth in Baviera cfr. Berger 1993, nn. 2668-2669 e 2672-2674, pp. 326-327. 32  Cfr. Vagnoni 2008, pp. 203-211.

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Fig. 6. Messina. Augustale (AV). Verso. Federico II di Svevia. (1231). Rif. Münzkabinett 261aα (Wien, Kunsthistorisches Museum).

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Fig. 7. Ulma. Bratteata (AR). Federico II di Svevia alato. Rif. CAHN 1911, n. 226 tav. X (Stuttgart, Württembergisches Landesmuseum).

seconde nozze Costanza di Hohenstaufen33, figlia naturale di Federico II e Bianca Lancia, a suggello dell’alleanza antipapale tra l’imperatore di Nicea e l’imperatore del Sacro Romano Impero e del regno di Sicilia. Viene, dunque, spontaneo chiedersi se la piccola ala riprodotta su alcune emissioni di Giovanni III Vatatzēs non possa avere, invece, un collegamento con questa iconografia di propaganda federiciana e semplicemente rimandare all’alleanza tra i due sovrani, legati oltretutto da vincoli parentali, piuttosto che, come era stato proposto da Hendy, considerare l’ala qui riprodotta di piccole dimensioni come un segno di disprezzo da parte dei sovrani niceni nei confronti della famiglia dei Comneno Ducas di Tessalonica, in virtù della loro reale discendenza dalla famiglia degli Angeli, casato a cui, però, né Teodoro né il figlio Giovanni Comneno Ducas rimandano nelle loro titolature ufficiali34. Inoltre un corrispettivo della rappresentazione dell’imperatore alato di emissione tessalonicese in Occidente potrebbe essere considerata proprio una brattea­ ta di Federico II coniata a Ulma35, che lo rappresenta alato, a mezzo busto e di tre quarti, mentre solleva il braccio destro e distende due dita della mano, in segno di benedizione, di allocuzione o giuramento36 (Fig. 7). Una lettera di papa 33   Dopo il matrimonio secondo la prassi romano orientale abbandonò il suo nome occidentale per quello greco di Anna. Cfr. Diehl 1927 (ed. 2007), pp. 432-446. 34   Cfr. ad es. l’esemplare in biglione di Teodoro Ducas Comneno in Hendy 1969, p. 271, (Type G), pl. 38.8. e DOC IV, 2, nn. 10a.1*-10d.2 (Type G), pp. 559-561, pl. XXXIX o il sigillo del figlio Giovanni Comneno Ducas in DO n. inv. 55.1.4356 con la seguente iscrizione nel verso: «Ἰω(ὰννης) ἐν Χριστῷ τῷ Θεῷ πιστὸς βασιλεὺς καὶ αὐτοκράτορ Ῥωμέων Κομνενὸς ὁ Δούκας» cfr. Nesbitt 2009, n. 100.1, p. 191, ma già edito in Zacos, Veglery 1972, n. 115. 35   Molto probabilmente la sua coniazione si colloca dopo l’incoronazione gerosolimitana del 1229. 36   Cahn 1911, n. 226, tav. X, descritta a p. 448; Nau 1983, pp. 64-69, fig. 1; Berger 1993, nn. 25962597, p. 319 e nn. 2602-2603, p. 321.

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Gregorio IX37 ed alcune testimonianze contemporanee, riservano per Federico II l’epiteto di “Cherubino”38; in altre testimonianze coeve, è attestato che Federico fosse talora chiamato “Angelo di Dio”39 e che egli fosse anche paragonato all’arcangelo Michele40. Il carattere angelico del sovrano medievale in ambito occidentale (e non solo) potrebbe alludere alla sua funzione protettiva di memoria veterotestamentaria o anche alla sua funzione giurisdizionale, come è stato proposto da alcuni studiosi come Kantorowicz41. C’è chi ha, poi, evidenziato che l’immagine federiciana alata della bratteata rappresentasse una idea mistica che aveva incontrato le aspettative escatologiche del XIII secolo, collegando l’incoronazione di Federico II a re di Gerusalemme nel 1229 ad una tanto rara rappresentazione42. Nel mondo romano orientale, invece, l’assimilazione del sovrano all’immagine di san Michele arcangelo, come anche la sua frequente associazione alla santità militare, sarebbe stata efficace da un lato per saldare il concetto di sacralità imperiale all’interno di un nuovo sistema di simboli religiosi, dall’altro, come è già stato evidenziato in altra sede43,   Scritto mistico di Gregorio IX inviato a Federico II, prima dei loro dissidi e poi della scomunica del 1227: vd. in MGH-EPP. PONT. (Epistolae saeculi XIII e regestis pontificum Romanorum selectae), I, n. 365, p. 278: «Ad ostendendam viam ligni vite errantibus in invio mundi huius posuit te Dominus quasi cherubin et versatilem gladium». Documento datato al 22 luglio del 1227, dunque, qualche mese prima della scomunica (29 settembre 1227). 38  Ranieri di Viterbo, monaco cistercense e poi cardinale (1216), definisce l’imperatore «quasi alter Cherub […]» cfr. Winkelmann 1880-1885, n. 1037, p. 709. Cfr. biografia in Carpergna Falconieri 2005. 39   Magister Tolosanus paragona, invece, Federico a un “angelus Domini” cfr. Tabarrini1876, in part. cap. 139, p. 692. Tolosanus era un cronista faentino, diacono della chiesa di Faenza. Scrisse il Chronicon seu historia Faventinae civitatis dall’anno 20 a.C. fino al 1219, che un anonimo continuò fino al 1236. Egli morì, infatti, nel 1226: cfr. F. Hartmann 2014: http://www.blonline.nl/entries/ encyclopedia-of-the-medieval-chronicle/tolosanus-SIM_02440/. 40   Orfino da Lodi paragona Federico all’arcangelo Michele, cfr. Orfino da Lodi (ed. 1869), pp. 27-94, in part. p. 36; Orfino da Lodi era stato giudice, nella prima metà del XIII secolo, presso le amministrazioni comunali e imperiali nell’Italia centrosettentrionale. Scrisse la sua opera intorno al 1245 ed era orientato verso una politica filoimperiale (fu al seguito di Federico d’Antiochia, figlio illegittimo di Federico II, vicario generale in Italia centrale dal 1245 al 1250). Cfr. biografia in D’Angelo 2005, pp. 423-425, vd. anche sito web: http://www.treccani.it/enciclopedia/orfinoda-lodi_(Federiciana)/. 41  Cfr. Kantorowicz 1976, p. 199. Secondo Kantorowicz l’imperatore come “angelus Dei” è in stretta relazione con l’immagine del “rex iustitiae”, ovvero come colui che è “uomo di Dio” ma anche “immagine di Dio”. Inoltre lo studioso evidenzia che nel manifesto di Gerusalemme l’imperatore sin dalle prime parole – “laudemus et nos ipsum quem laudant angeli” – si pone a lato degli angeli, cfr. MGH-CONST. (Constitutiones et acta publica imperatorum et regum), II, n. 122, p. 163. 42  In Nau 1983, pp. 64-69, in part. a p. 69 si legge: «In den Augen der Christenheit war er, der am 17. März 1229 in Jerusalem einzog und sich am folgenden Tag in der Grabeskirche zum König von Jerusalem krönte, der messianische Erfüllungskaiser, der nach der prophetischen Verheissung die heilige Stadt ohne Blutvergiessen befreit hatte». Si trattava dell’aspettativa del compimento di un’antica profezia che voleva un signore occidentale come liberatore di Gerusalemme: cfr. anche Kantorowicz 1976, p. 182 e ss. 43   Pomero 2008, pp. 157-184. 37

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Fig. 8. Tessalonica. Aspron Trachy (Æ). Verso. Giovanni Comneno Ducas (1237-1242) e san Demetrio. Rif. DOC IV, 2, n. 5 (Washington, Dumbarton Oaks Collection).

Fig. 9. Tessalonica. Aspron Trachy (El.). Verso. Teodoro Comneno Ducas. San Demetrio offre all’imperatore il modellino della città. Rif. DOC, IV, 2, n. 2.a2* (Washington, Dumbarton Oaks Collection).

denuncerebbe una riduzione del valore cristomimetico della basileía, professato dalla trattatistica ufficiale sin dagli albori della cristianizzazione dell’Impero44, sviluppando, in questo modo, una sorta di “declassamento” dell’immagine imperiale nel tradizionale confronto con la gerarchizzazione celeste. Le tipologie meno comuni in ambito tessalonicese non si limitano, però, esclusivamente ai soggetti alati. In generale la rassegna monetaria tra XIII e XIV secolo è infatti molto più ricca di soggetti iconografici che si possono inquadrare all’interno della categoria dei cosiddetti “inediti”. Tra i soggetti imperiali meno comuni si annoverano anche le tipologie che presentano il sovrano con un ramo di palma45 e il sovrano con il vessillo46 su alcune emissioni tessalonicesi della prima metà del XIII secolo, oppure il sovrano a cavallo47 che è attestato, invece, soltanto in epoca paleologa, mentre i tipi iconografici che fanno riferimento ai simboli urbici48 come   Si vedano alcuni esempi in Hunger 1964, pp. 58-63.  Manuele Comneno Ducas: DOC IV, 2, nn. 6.1-6.4 (4 esemplari), pl. XLI; LBC, nn. 356358; Giovanni III Vatatzēs e Michele II di Epiro: www.mcsearch.info/record.html?id=352700, Numismatica Ars Classica, Auction 56 (08.10.2010), lotto n. 835 (è lo stesso esemplare edito in Hendy, Bendall 1970, pp. 143-148 sebbene sia erroneamente attribuito a Giovanni III Vatatzēs e Giovanni Comneo Ducas di Tessalonica); Michele VIII Paleologo e Andronico II Paleologo: DOC V, 2, nn. 200-202, pll. 12-13; 46   Giovanni Comneno Ducas: Hendy 1969, pl. 41, n. 13; DOC IV, 2, pl. XLIII, 31a.1. 47   DOC V, 2, classe XIV, p. 171, pl. 22 e in LBC, n. 842; DOC V, 2, nn. 1258-1260, pl. 66 e in LBC, n. 891; DOC V, 2, n. 1598, pl. 80 e LBC, nn. 1004-1006 e 1028 e quelli riportati nel paragrafo dedicato a tale soggetto iconografico. 48   Sull’argomento si veda il recente contributo di Kontogiannis 2013, pp. 713-744. 44 45

Il contesto numismatico tessalonicese dopo la IV crociata

Fig. 10. Tessalonica. Trachy (Æ). Verso. Giovanni Comneno Ducas. L’imperatore con il modellino della città. Rif. DOC IV, 2, n. 30 (Washington, Dumbarton Oaks Collection).

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Fig. 11. Tessalonica. Trachy (Æ). Verso. Michele VIII Paleologo. L’imperatore e san Demetrio con il modellino della città sormantato da un giglio. Rif. DOC V, 2, n. 155 (Washington, Dumbarton Oaks Collection).

il sovrano con il modello della città49 o sulle mura50 o sotto ad un arco o alla porta cittadina51 sono tipologie ascrivibili sia al XIII che alla prima metà del XIV secolo (Figg. 10-11). Ad esse si aggiunga la presenza di vari elementi decorativi insoliti come il giglio (spesso, però, rappresentato come attributo o insegna imperiale) e, in particolare in epoca paleologa52, la stella, un fiore a sei o otto petali, e di alcuni 49   Teodoro Comneno Ducas: DOC IV, nn. 2 e 7, pll. XXXVIII e XXXIX; LBC 2009, nn. 321-322, 329-331, pp. 147-148, 150; Manuele Comneno Ducas (in cui sia l’imperatore che il santo appaiono assisi in trono mentre condividono il modello della città): DOC IV, 2, n. 9, pl. XLI; LBC 2009, nn. 364-367, pp. 158-159; Giovanni Comneno Ducas: DOC IV, 2, n. 27, pl. XLIII; LBC 2009, nn. 408410, p. 168; Teodoro II Ducas Lascaris (1254-1258 a Tessalonica): DOC IV, 2, n.1, pl. XLVI; LBC, nn. 467-468, p. 181; Michele VIII Paleologo (emissione tessalonicense): PCPC 1988, n. 69; DOC V, 2, nn. 155-158, pl. 10; LBC 2009, n. 589, p. 211. 50   Giovanni Comneno Ducas: DOC IV, 2, nn. 35, pl. XLIII; LBC 2009, nn. 424-427, p. 171; Andronico II Paleologo: LPC 1979, n. 15, pp. 214-215; PCPC 1988, n. 213; DOC V, 2, nn. 730731, pl. 41; LBC 2009, n. 671, p. 231. 51   Giovanni Comneno Ducas: DOC IV, 2, n. 36, pl. XLIII; LBC 2009, nn. 428-429, pp. 171-172. 52   Lianta sostiene che attraverso l’evidenza numismatica si comprende che la rappresentazione del giglio nell’apparato culturale bizantino non ebbe la stessa popolarità e soprattutto la stessa valenza iconologica se confrontata all’Occidente e al suo utilizzo in araldica, in particolare in Francia e a Firenze. Dalla sua limitata frequenza e dalla sua rappresentazione in numismatica si desume che in ambiente bizantino il giglio abbia avuto principalmente un valore simbolico legato alle insegne imperiali, diventando un elemento più frequente nelle emissioni tessalonicesi attribuite ai primi sovrani paleologi da Michele VIII fino ad Andronico III. Cfr. LBC 2009, pp. 43-44. Per l’accezione del giglio come insegna imperiale cfr. Khristova1979, pp. 13-17, dove, inoltre, è segnalata la presenza del giglio (come elemento decorativo del trono imperiale) anche su alcune emissioni bulgare attribuite a Costantino Asen (1257-1277) e su altre più tarde attribuite a Ivan Srazimir (1360-1369).

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motivi connessi alla simbologia imperiale53 come la beta che rinvia verosimilmente al tetravasilion54, la croce inscritta entro un clipeo55 o più raramente il motivo a reticolo56. Anche l’iconografia dell’imperatore con la spada, sebbene non si possa considerare un inedito, in quanto già apparso su alcune note emissioni di epoca comnena (si veda il celebre histamenon di Isacco I Comneno57), è un tema che in questo periodo trova una sua cospicua valorizzazione58 insieme ad una moltiplicazione delle rappresentazioni dei santi militari che accompagnano l’immagine imperiale, soprattutto proprio in ambito tessalonicese (Figg. 8-9). La monetazione medievale dell’Europa Centrale, in particolare dell’area germanica, a partire dal XII secolo, presenta numerose analogie con alcuni dei motivi icoNon si dimentichi che piccoli gigli decoravano il Tempio di Salomone ed in particolare i capitelli delle colonne descritti nell’Antico Testamento (1 Re 7,19) erano a forma di giglio e, considerando la frequente assimilazione dell’imperatore all’immagine biblica di Salomone nei panegirici indirizzati ai primi Paleologi (cfr. Angelov 2007, pp. 86-90 e table 2) è possibile che tale elemento sia stato assorbito in ambiente bizantino e reinterpretato con una valenza che avrebbe potuto evocare messaggi imperiali legati alla restaurazione del potere. 53   Ousterhout 2009, pp. 153-170; Pseudo Codino (ed. Macrides, Munitiz, Angelov), pp. 343-344. 54   Si vd., ad esempio, alcune emissioni di Giovanni Comneno Ducas: DOC IV, 2, nn. (12) pl. XLII, (24a) pl. XLIII, (31b) e (32); LBC, nn. 398-400 e 406. Il simbolo della beta, o la sigla con due o più beta, viene utilizzato in diverse varianti anche sulla monetazione di epoca paleologa di emissione sia tessalonicese che costantinopolitana, cfr. ad es. le emissioni sotto Andronico II e Andronico III: DOC V, 2, n. 573, pl. 34 (di fianco a Cristo nel recto), nn. 618-621, pl. 36 (croce nei cui quarti sono inserite quattro beta nel recto), n. 692, pl. 39 e n. 750, pl. 42 (due grandi beta nel recto), n. 759, pl. 43 e nn. 789-792, pl. 45 e nn. 926, 931-932, pl. 51 (due grandi beta affiancano l’immagine dell’imperatore nel verso). 55   Emblema posto su asta sulle monete di: Teodoro Comneno Ducas: DOC, IV, 2, nn. 1a.1-1c, 4.14.20, 6.1-6.5, pll. XXXVIII-XXXIX; LBC, nn. 320, 324-326, 328; Giovanni Comneno Ducas: DOC IV, 2, nn. 1*, 5*, (32), pll. XLII-XLIII; Giovanni III Vatatzēs: DOC IV, 2, nn. 11.1*-11.9, pl. XLV; Michele VIII Paleologo: DOC V, 2, nn. 147-150, pl. 9; LBC 2009, nn. 586-587; Emblema all’interno di una stendardo: Giovanni Comneno Ducas: DOC IV, 2, nn. 31a.1*-31a.2* e (32), pl. XLIII; LBC 2009, nn. 418-419; Emblema associato alle ali: Giovanni Comneno Ducas: DOC IV, 2, n.6* e 18, pll. XLII-XLIII e LBC 2009, nn.387-389; Andronico II Paleologo: DOC V, 2, n. 784, pl. 44, nn. 804-808, pl. 45 e LBC 2009, n. 677. 56   Si vedano ad es. alcuni esemplari niceni emessi dalla zecca di Magnesia di Giovanni III Vatatzēs: DOC IV, 2, n. 56.1, XXXIV e LBC nn. 281-282; ed in epoca paleologa l’esemplare emesso dalla zecca di Tessalonica attribuito ad Andronico II: DOC V, 2, n. 820, pl. 46. 57   Cfr. DOC III, 2, nn. 2.1- 2.8, p. 762, pl. LXIII. 58   Vd., ad esempio, alcune emissioni dell’impero di Nicea di Teodoro I Lascaris, in Kent 1985, n. 112 con san Teodoro, pp. 72-73; in DOC, IV, 2, nn. 2.1-2.4, (3)*, 4.1*-4.8, pl. XXVII, nn. 7.1-(7.2), nn. 8.1-8.3, pl. XXVIII, con un santo militare; e in LBC 2009, nn. 132-137 e nn. 186-187 o ad es. le emissioni nicene di Giovanni III Vatatzes in DOC, IV, 2, nn. (22)*, (23a)*-(23b)*-(29)*, pl. XXXI, in cui l’imperatore è rappresentato con la spada in abbigliamento imperiale, le nn. (42.1)*-42.2, pl. XXXIII. Vd., poi, le emissioni del regno di Tessalonica con l’iconografia del sovrano che impugna la spada ad es. sulla monetazione di Teodoro Comneno Ducas: DOC IV, 2, nn. 1a.1-1c, 3a.1-3c, 6.1-6.5, pll. XXXVIII-XXXIX e LBC, n. 328; di Giovanni Comneno Ducas: DOC IV, 2 n. 30*, pl. XLIII e LBC, n. 417; di Giovanni III Vatatzis: DOC IV, 2, nn. 10.1*-10.5, pl. XLV e LBC, nn. 457-459.

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Fig. 12. Braunschweig. Bratteata (AR). Enrico III duca di Sassonia (1142-1195). Rif. Berger 1993, n. 579 (Hannover, Kestner-Museum).

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Fig. 13. Nordhausen. Bratteata (AR). Adolfo II von Werden, abate di Helmsted (1160-1174). Rif. Arlam 2009, n. 32b (Wien, Münzkabinett des Kunsthistorisches Museum).

nografici tessalonicesi sopra menzionati, come notò per primo il Bertelè59. Si tratta in particolare di analogie riscontrate con le bratteate emesse nelle regioni di Slesia, del Brandeburgo settentrionale, e delle regioni del bacino danubiano, in particolare la Svevia e la Baviera meridionale. Le bratteate germaniche mostrano una produzione eterogenea e databile entro un arco temporale molto più dilatato rispetto alla produzione tessalonicese che sembrano precedere, esibendo un’ampia gamma di tipologie alate come croci, busti anonimi, corone, gigli, spade, lance, torri, animali come l’aquila o il leone, oppure semplicemente un’ala o le ali isolate60. Molte di queste, però, essendo anonime sono di difficile attribuzione e, dunque, di datazione approssimativa. La maggior parte della produzione, inoltre, presenta un designs privo del motivo “alato”, come edifici, torri o altri elementi architettonici, animali, busti, figure stanti o sedute in trono o all’interno di composizioni dove l’elemento architettonico assume un ruolo rilevante61 (Figg. 12-13). L’eterogeneità iconografica della monetazione germanica si deve attribuire al fenomeno di decentramento del controllo imperiale sulle zecche dell’Impero, processo già iniziato nella seconda metà dell’XI secolo nel corso del regno di Enrico IV, e abbastanza visibile nelle emissioni delle zecche sotto il controllo ecclesiastico, le quali gradualmente iniziano   Bertelè 1951, pp. 52-68.   Si veda nel repertorio proposto in Bertelè 1951, tavv. VII e VIII e il catalogo di Cahn 1911, tavv. III, VII, VIII, IX e X; cfr. anche Berger 1993, ad es. le nn. 2582-2583 (leone alato con testa d’aquila), 2586 (leone alato con testa umana coronata), 2619-2620 (testa alata), 2654-2655 (vescovo alato). 61   Cfr. ad es. il repertorio del XII secolo in Grierson 1991, pp. 81-86, nn. 168-183 e in Berger 1993, ad es. le emissioni del XII secolo della zecca di Brandeburgo, nn. 1658-1669, pp. 204-207, e dell’abbazia di Kempten nel ducato di Svevia, nn. 2507-2508, pp. 310-311, o le emissioni della zecca reale di Ravensburg del XII e XIII secolo, nn. 2533-2555, pp. 312-315. 59 60

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a omettere la presenza dell’autorità imperiale, rappresentata dall’immagine dell’imperatore, dalle loro coniazioni. Tale monetazione fa spesso riferimento all’effigie dell’autorità emittente, in vari casi quella del vescovo62, oppure, seppur in maniera meno frequente, ai luoghi stessi di emissione, per cui, talvolta, si rintracciano tipi con rappresentazioni di edifici reali in forma stilizzata63. Questa ampia gamma figurativa è stata interpretata come funzionale dal punto di vista tecnico per la necessità di trovare nuove tipologie iconografiche a causa del frequente rinnovamento monetario dell’area germanica a partire proprio dal XII secolo: i nuovi modelli servivano, infatti, a distinguere le emissioni più assidue. Dal punto di vista ideologico, inoltre, è stata avanzata l’ipotesi che molti degli elementi decorativi della monetazione germanica, privi di un contenuto politico-istituzionale o religioso, abbiano un carattere puramente ornamentale diffusosi sotto l’impulso della rivoluzione del pensiero scolastico dalla seconda metà del XII secolo e fino a tutto il XIII secolo in Europa centrale64. Per tale ragione nella maggior parte dei casi la monetazione germanica del XII secolo utilizza la propria iconografia monetale come un sistema capillare di decorazioni spesso con funzione araldica, come, ad esempio, la presenza dell’ala o delle ali, che richiamava in forma di sineddoche l’immagine dell’aquila, contribuiva ad indicare la regione o la città nella quale la moneta era stata emessa65. Ciò non si verifica nel mondo romano orientale dove la propaganda utilizza un linguaggio semiologico più complesso e ideologicamente strutturato anche in ambito numismatico. Come si è evidenziato poc’anzi le iconografie tessalonicesi tendono a valorizzare il carattere militare dell’immagine imperiale (ad es. il sovrano con il vessillo, il sovrano con la spada o successivamente il sovrano a cavallo) che trova la sua più eloquente espressione nella assimilazione dell’imperatore all’arcistratego militare celeste, l’arcangelo Michele. Inoltre in esse si assiste ad una sovrabbondante presenza della santità militare a discapito della tradizionale immagine di Cristo. A tale proposito è rilevante notare come l’occorrenza dell’immagine di Cristo confrontata a quella della santità militare risulti in netto calo nell’analisi delle frequenze iconografiche tessalonicesi tra XIII e XIV secolo (Fig. 14). Lo studio del pensiero politico tardo-bizantino ha messo in luce proprio in questi anni66 segni di continuità e discontinuità che emergono tra le righe di 62   Si veda ad esempio un tipo di denaro emesso tra il 1056-1075 dal vescovo Anno (1010-1075) a Colonia, cfr. Grierson 1991, n. 132, p. 66 o dalle emissioni del vescovo Filippo di Heinsberg (11671191), cfr. Stumpf 1993, nn. 100.1-100.4, p. 36, o ad esempio la monetazione emessa dagli arcivescovi di Salisburgo, come ad es. lo pfennig dell’arcivescovo Corrado I (1106-1147) del 1140 conservata nel medagliere del Kunsthistorische Museum di Vienna, cfr. in Alram 2009, n. 34b, p. 93. 63   Grierson 1991, pp. 66-67, 83-85. Si veda, ad esempio, il denaro di Treviri caratterizzato dalla rappresentazione stilizzata della Porta Nigra. 64  Cfr. Gebhart 1936, pp. 63-153, in part. p. 127 ss. 65   Bertelè 1951, p. 64. 66   Si vedano in particolare le monografie di Angelov 2007; Patlagean 2007; Carile 2008.

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Fig. 14. Indici di frequenza iconografica R/V. Zecca di Tessalonica (XIII e prima metà XIV secolo), da Pomero 2012.

un’apparente immutabilità retorica e panegiristica, senza alcuna corrispondenza fattuale nel gioco politico. Secondo le testimonianze delle fonti narrative la vittoria e la riconquista paleologa del 1261 non avrebbe realizzato l’impossibile ritorno all’unità imperiale del passato, che i Paleologi professavano nelle fonti ufficiali con velleità universalistiche. Questi ultimi dovettero, invece, scendere a compromessi con il sistema di potere signorile creatosi nel XIII secolo e di cui si

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trova già traccia nei secoli XI e XII67. La tendenza al separatismo della seconda città più importante dell’Impero, Tessalonica, è rintracciabile, infatti, non solo all’epoca della reggenza dei Comneno-Ducas nella prima metà del XIII secolo, ma anche successivamente nel corso di tutto il XIV secolo68, come denunciano gli eventi storici legati ad esempio alla figura di Irene Iolanda69, seconda moglie di Andronico II, e le rivolte zelote della metà del secolo XIV. Il principio della sovranità collegiale fu una pratica a cui i Paleologi si conformarono e che cercarono in qualche caso di stabilire: proprio nelle intenzioni di Michele VIII, come informa il Gregora, c’era la volontà, poi inattuata per la morte prematura di Michele, di affidare al figlio cadetto Costantino «la regione intorno a Tessalonica e la Macedonia» come principato imperiale autonomo70. Nel contesto del XIV secolo l’apparato burocratico di governo subisce le pressioni dei magnati locali e l’unica possibilità dell’imperatore, al fine di mantenere un controllo sulle periferie, era quella di mandare i membri più giovani della famiglia imperiale, con poteri viceregali, al comando di tali signorie regionali che manifestavano forme indipendentistiche71. Il clan imperiale, di per sé in crescita, è al centro di un’aristocrazia di origine militare72 che si affermerà fino alla fine dell’Impero come chiave di volta del sistema politico e sociale di Bisanzio, nonché come l’apparato deputato all’esercizio del potere73. L’esaltazione dell’aspetto militare dell’autorità imperiale, evidente nell’iconografia, come anche nelle formulazioni retoriche74 di   Si veda in Carile 2000, pp. 969-1026; Carile 2008, pp. 91-110; Patlagean 2007, in part. pp. 291-349. 68   Barker 2004, pp. 5-33. 69   PLP, 9, 21361, p. 67; A proposito delle pretese di Irene/Iolanda sulla spartizione dell’impero tra i figli di primo e secondo letto di Andronico II cfr. Niceforo Gregora, lib.VII, cap. 5, pp. 233-234 e sulle conseguenze dell’opposizione di Andronico II vd. in Giorgio Pachimere, IV, lib. XII, cap. 34, pp. 608-609; Nicol 1994, pp. 56-57. 70   Niceforo Gregora, lib. VI, cap. 6, p. 187, vv. 14-25. 71  Cfr. Oikonomides 1996, pp. 169-175. 72   L’aristocrazia formatasi tra XI e XII secolo era, infatti, una casta di origine militare, in quanto si generò attraverso gli ufficiali in seno al sistema tematico e probabilmente si consolidò in seguito al ristabilimento del culto delle immagini e la conseguente distruzione dell’aristocrazia iconoclasta. Oltre a Carile 2008, pp. 91-110, in part. pp. 99-102, cfr. studi di Cheynet 2000, pp. 281-322 e Cheynet 2001, pp. 413-440 [entrambi rist. eng. trasl. In Cheynet 2006]. 73   Patlagean 2007, pp. 318-321 e Carile 2008, pp. 102-110. 74   Come ad es. in Giovanni il Filosofo, p. 524. Cfr. anche i documenti di Giorgio Acropolite, II, p. 19, v. 11; Giorgio di Cipro, in P.G., CXLII, coll. 345-386, in part. col. 364B; Manuele Holobolos, p. 94, v. 3 e 5; Previale 1942, p. 23, vv. 15-16 e p. 30, vv. 10-11. Si noti come l’aspetto militare del potere sia evidenziato anche nel cerimoniale di corte di XIV secolo dello Pseudo Codino, dove ad es. vengono descritte in maniera puntuale le iconografie dell’imperatore a cavallo, o dell’arcangelo o di altri santi militari, rappresentate sugli stendardi e sugli scudi esibiti durante le cerimonie religiose, cfr. Pseudo Codino (ed. Verpaux), p. 196, vv. 1-21 e 273, vv. 12-15, e dove, inoltre, più volte è attestata la presenza della spada in associazione con l’immagine ufficiale dell’imperatore (11 volte nel testo), cfr. Ibid. p. 168, v. 3; p. 171, v. 8; p. 176, vv. 4 e 14; p. 190, v.21; p. 191, v. 8; p. 202, vv. 6 e 19; p. 203, vv. 67

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epoca paleologa, riflette, inoltre, una certa insistenza sul tema della gerarchizzazione del potere, ossia su motivi che sembrerebbero valorizzare il clan imperiale e più in generale il carattere dell’appartenenza imperiale al genos dell’aristocrazia militare. Il confronto tra gli ideali separatisti e l’ecumenismo dell’ideologia imperiale, in conclusione, potrebbe aver dato luogo, proprio a Tessalonica, dove probabilmente tale sentimento indipendentistico era particolarmente sentito e manifesto e dove maggiore era stato l’influsso occidentale75, alla creazione di tipi iconografici che sottolineassero una sorta di legame “feudale” tra l’imperatore costantinopolitano e i suoi governatori-despotai, a lui sottoposti e nello stesso tempo detentori di poteri autonomi. Era necessario mantenere, però, un legame con la tradizione, nozione tra impero terreno e impero celeste, e nello stesso tempo inquadrare l’immagine imperiale nell’ottica militare e cavalleresca dei secc. XIII e XIV. La soluzione fu, dunque, nel caso della rappresentazione del sovrano alato, quella di assimilare il basileus alla più alta figura della gerarchia militare celeste, l’arcangelo Michele, che si propose come immagine di mediazione nell’intento di accorciare a livello propagandistico la distanza tra il potere autocratico dell’imperatore e i poteri autonomistici locali dell’aristocrazia. In quest’ottica si innesta il florilegio di iconografie, più specificatamente tessalonicesi, in cui vengono celebrati i caratteri e le virtù militari nell’immaginario imperiale al fine di avvicinare ideologicamente i due poli di potere, quello autocratico e quello signorile. Allo stesso tempo viene enfatizzato il legame tra il potere signorile e la città attraverso la valorizzazione iconografica della simbologia urbica (le mura, la porta cittadina, il modello della città). Le iconografie proposte a Tessalonica (mediante l’influsso, certo, della forte presenza latina ormai presente nel clan imperiale attraverso la politica matrimoniale promossa dai Paleologi) esprimerebbero, in definitiva, il potere del regime autonomistico della città e il conseguente orientamento della propaganda imperiale a rappresentare iconograficamente un avvicinamento gerarchico e ideologico dei due poli di poteri. Il panorama numismatico qui esaminato mostra pertanto i segni di quel processo di decentramento aristocratico dei poteri pubblici, già iniziato nel corso del XII secolo e che la conquista latina avrebbe poi soltanto istituzionalizzato76.

20-21; p. 234, v. 19 ed in particolare a p. 202, vv. 6-7 si legge: «ὁ βασιλεὺς φέρων […], διὰ τῆς σπάθης τὸ ἐξουσιαστικόν», che il Verpeaux traduce abbastanza liberamente: «L’empereur porte […], l’épée, marque de son povoir». 75   Si ricordi Tessalonica come polo di attrazione commerciale durante la grande fiera di San Demetrio che si svolgeva in ottobre e convogliava un afflusso di mercanti da ogni luogo secondo la descrizione del protagonista (Timarione) di una anonima opera letteraria bizantina di XII secolo. Cfr. A. Ellissen 1860, pp. 46-48; Tafrali 1913, p. 119; Valdo Maltese 1995, pp. 69-92; Τιμαρίων ἤ περὶ τῶν κατ’αὐτὸν παθημάτων, in Romano 1999, pp. 99-175, in part. pp. 117-119, vv. 99-129. 76   Cfr. l’ampia disamina di Carile sulla peculiarità del “feudalesimo bizantino”, tenuta in occasione della XLVII Settimana di Spoleto nel 1999, in Carile 2000, pp. 1025-1026.

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ELEMENTI ARCHITETTONICI NELLA PIEVE DEI SS. VITO, MODESTO E CRESCENZIO (FERRARA): CONSIDERAZIONI E IPOTESI

Paola Porta

La pieve dei Ss. Vito, Modesto e Crescenzio in comune di Ostellato, più comunemente nota come pieve di S. Vito, che sorge a metà strada circa tra Ferrara e Comacchio, all’estremo nord della diocesi di Ravenna1, è una chiesa relativamente poco nota, ma di antica data e di complesse vicende architettoniche mai compiutamente indagate2 (Fig. 1). Dedicata a tre martiri delle persecuzioni di Diocleziano3, è menzionata per la prima volta il 6 gennaio dell’anno 952 in modo indiretto in una richiesta di concessione a livello conservata nell’Archivio Arcivescovile di Ravenna fatta all’arcivescovo Pietro4. È evidente l’importanza del documento sia per il riferimento cronologico, sia per i noti legami storico-religiosi, politici e culturali che il territorio ferrarese, quale retroterra immediato, ebbe con la capitale esarcale5, sebbene, escludendo   Sui confini settentrionali della diocesi ravennate si rimanda, per un completamento bibliografico, al recente lavoro di Andreoli 2016, p. 95 ss. Mentre in pieno XIII secolo S. Vito risulta appartenere alla diocesi di Comacchio, nel 1290 appartiene giuridicamente alla cattedra di Ravenna (Rationes Decimarum: Mercati et alii 1933, p. 49 ss.) e ribadita negli estimi del clero del marchesato estense (1410-1429: Samaritani 1980, p. 125 ss.). 2   Escludendo gli studi del Rivani (1927), del Giusberti (1956) e del Mazzotti (1957 e 1958), la letteratura critica sulla pieve si limita a menzioni talora ripetitive in relazione ad altre chiese del territorio ravennate (Rizzardi 1991, pp. 74-75; Budriesi 1999, p. 15; Uggeri 2002, pp. 341-343, n. 255; Patitucci Uggeri 2002, pp. 141-142, n. 227. Si ricordano anche le pagine riassuntive di Mingardi, 2002-2003, p. 99 ss.). 3   Bibliotheca Sanctorum, IV, col. 291; IX, coll. 523-524; XII, coll. 1243-1247. 4   Cavarra et alii 1991, pp. 452-453, n. 159. La chiesa, menzionata in seguito nel 1195, è citata nelle Decime del 1290 con la sola intitolazione ai santi Vito e Modesto (Rationes decimarum 1933, n. 41). 5   Sulle pievi del Ravennate: Vasina 1976, p. 79 ss.; 1977, p. 607 ss. Sul territorio ferrarese nell’antichità si rinvia alla bibliografia nel citato studio di Andreoli (cfr. nota 1), ricordando in particolare: 1

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Fig. 1. Pieve di S. Vito (FE): facciata attuale.

interventi nel secolo scorso, di cui si dirà, la mancanza di indagini architettoniche e di scavo non consenta di inquadrare esattamente l’edificio cronologicamente nel panorama dell’edilizia sacra ravennate. Tuttavia la presenza di alcuni elementi di arredo liturgico tardoantichi e altomedievali, quasi sconosciuti, oggetto specifico di questo contributo, offre spunti di riflessione su un monumento dal passato comunque ricco di arte e di storia. L’edificio, come anticipato, ha alle spalle non poche traversie edilizie difficili da ricomporre in sequenza cronologica per i motivi esposti. Sintetizzando l’argomento, le attuali forme romaniche risalgono al primo ventennio del secolo scorso quando interventi diretti da Giuseppe Rivani tra il 1925 e il 1927 per rimediare al degrado in cui versava, trasformarono in gran parte le strutture seicentesche che connotavano allora l’edificio il quale, stando a una lapide iscritta del XVII secolo, nel 1686 avrebbe sostituito una fabbrica eretta nel 1027. Venne anche capovolta l’originaria, canonica orientazione est-ovest verosimilmente per volgere la facciata e non l’abside verso la vicina strada6 (Fig. 2). Vasina 1977b, p. 421 ss.; Benati 1987, p. 107 ss.; Carile 1987, p. 377 ss.; Gelichi 1996, pp. 49-62; Patitucci Uggeri 2002. 6   Si rimanda alle fotografie pubblicate da Rivani (1927, figg. a pp. 5 e 22).

Elementi architettonici nella pieve dei Ss. Vito, Modesto e Crescenzio

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Fig. 2. Pieve di S. Vito: abside.

Il rinvenimento nel corso dei lavori del Rivani di resti antichi sotto la facciata barocca, di un tratto di fondazione del prospetto e delle tre absidi, servì da traccia per ricostruire la chiesa secondo severe e semplici linee architettoniche di XII secolo, per riportare il pavimento al livello originario e per ripristinare l’orientamento originario. Tuttavia l’eliminazione arbitraria delle strutture seicentesche ha reso difficile distinguere l’antico dal moderno; quanto poi all’alzato, il Mazzotti in uno dei suoi studi sull’architettura sacra ravennate la giudicò: «opera troppo arbitraria di ricostruzione»7. Dopo il 1927 seguirono interventi poco esaltanti se non peggiorativi, per dirla sempre col Mazzotti, fino a quelli straordinari, in tempi recenti, per arginare i danni provocati da eventi tellurici. La pieve (21 x 13 m), con murature in laterizio, è divisa in tre navate da cinque pilastri a T in cotto concluse da altrettante absidi (Fig. 3); sotto il presbiterio rialzato si articola la cripta moderna. In facciata, al di sopra del portale, si apre una bifora con colonnina intermedia di cui si parlerà più avanti, oltre la quale corre in orizzontale una cornice ad archetti pensili. Cornice analoga profila gli spioventi del tetto sotto i quali domina una croce in pietra in risalto sul cotto frequente, come rilevato,   Mazzotti 1957, p. 58.

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Fig. 3. Planimetria della pieve (disegno Rivani 1927).

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«nell’architettura ravennate a partire dal V secolo»; tuttavia, ed è anche il caso della pieve forlivese di S. Maria in Acquedotto, menzionata dal 965 (quindi poco dopo la nostra, con cui ha punti di contatto), la facciata ha ben poco di ravennate, adeguandosi piuttosto all’edilizia sacra padana di XII secolo8. Una fascia marcapiano ad archetti ciechi percorre anche la possente struttura quadrata della torre campanaria scandita da monofore e bifore in progressione, rimaneggiata in età moderna, che ora si innalza all’interno del perimetrale destro a filo della facciata. Un’epigrafe in cotto murata in chiesa, ma in precedenza al campanile, ne fissa la costruzione nel 1229 al tempo di Gregorio papa e di Federico imperatore9. Ma la pieve, come anticipato, vanta una storia ben più antica se alla metà del X secolo già esisteva. Il Rivani riferisce del rinvenimento sul fianco nord non lontano dall’absidiola di «un tratto di muro in laterizio, di circa 1 metro quadrato, compreso nel muro romanico […], e costruito con calcestruzzo diverso da quello che si trova in tutta la costruzione, perché oltre a risultare di calce bianca e forte, conteneva il lapillo, specie di pietruzze e sassolini, che si trovano mischiati alla calce nelle costruzioni di carattere ravennate che vanno dal VI all’VIII secolo»10. Resti che il Mazzotti nel suo studio sulle cripte di area ravennate assegna all’XI secolo11 e pone in un primo tempo in relazione all’edificio che, stando alla citata iscrizione, sarebbe sorto nel 1027. Datazione che pare accolta anche dal Gandolfo e che il Russo pone tra il Mille e i primi decenni dell’XI secolo, in linea con altre cripte simili di Ravenna, del Ravennate, e della stessa abbazia di Pomposa12. La cripta infatti è del tipo “a oratorio”, un ambiente semisotterraneo sotto il presbiterio, diviso in navate, che compare da fine X-inizi XI secolo in chiese dell’Occidente, urbane e rurali, monastiche e secolari, in relazione forse a esigenze liturgiche separate, come il culto delle reliquie o dei santi13. Riflesso di nuove tendenze architettoniche e liturgiche che improntarono l’edilizia del tempo, andarono a modificare l’area sacra anche di chiese di più antica fondazione, come, per fare un solo esempio, la basilica di S. Francesco a Ravenna, già Basilica Apostolorum di fondazione paleocristiana.   Russo 1993, p. 182.   Rivani 1927, pp. 18-19 (data il campanile al 1228); Mazzotti 1957, p. 63, nota 69; Patitucci Uggeri 2002, p. 142, fig. 78. Una foto prima dei restauri, pubblicata da Rivani (1927, p. 5), mostra il campanile sul lato della chiesa, accanto all’abside barocca. 10   Rivani 1927, p. 13. 11   Ibid.; Mazzotti 1957, pp. 56-59 e note 66-69. 12   Gandolfo 1987, p. 328; Russo 1984, p. 234. 13   Per le cripte di Ravenna e del Ravennate: Mazzotti 1957, pp. 28-63; Rizzardi 1990, pp. 402409. Per l’origine e la tipologia delle cripte romaniche: Magni 1979, pp. 41-85; Rutishauser 1993, pp. 37-52; E.A M., V, 1994, pp. 472-487; Klein 2011. Sul culto delle reliquie diffuso nella cristianità principalmente dal IV secolo: Kotting 1965; Sannazaro 2002, p. 241 ss. 8 9

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L’aspetto originario della cripta di S. Vito distrutta in età barocca si delinea nella Relazione degli Atti di Sacra Visita dell’anno 161314. L’attuale invece, è, secondo Russo15, una «ricostruzione veramente infelice» di età moderna basata sulle tracce dell’antica. Da parte sua il Mazzotti rileva che «l’alzato attuale è opera troppo arbitraria di ricostruzione» e nota al contempo che a sostegno delle volte sono stati posti non i pilastrini in cotto segnalati nella Relazione, ma colonnine in marmo o in pietra «di fattura non sempre attribuibile al sec. XI o a precedenti»16. Osserva infine che non essendo menzionate reliquie, l’ambiente verosimilmente servì per il solo culto. La storia architettonica della chiesa, in assenza di atto di fondazione, risente delle problematiche comuni a molte pievi del Ravennate. Ferma restando la datazione della cripta all’XI secolo, il Mazzotti nel suo studio Le pievi del territorio ravennate respinge, contro l’opinione del Rivani e del Giusberti17, la fondazione nel 1027 dell’edificio, che ipotizza precedente anche alla prima documentazione d’archivio, a motivo delle strette somiglianze notate tra i pochi resti superstiti della chiesa prima del rifacimento seicentesco e gli elementi decorativi del campanile eretto nel 122918. Questo edificio di XIII secolo, trasformato nel XVII, avrebbe ricalcato l’icnografia della chiesa più antica. Senza entrare nel merito della problematica, l’attenzione si rivolge invece ai materiali di epoche diverse, in parte recuperati dai dintorni, in parte rinvenuti dal Rivani demolendo la facciata barocca tra i resti della navata maggiore e della cripta, come anticipato: accatastati inizialmente nel corso dei lavori, sono stati impiegati talora in modo improprio nella pieve, soprattutto nella nuova cripta19. Nella muratura della chiesa sono utilizzati molti laterizi romani, mattoni manubriati e embrici, col marchio della nota fabbrica PANSIANA20. Un bollo rettangolare analogo è impresso su un frammento di embrice murato attualmente all’interno della pieve con alcuni mattoni sesquipedali manubriati di età imperiale21. Tra le altre testimonianze di età romana recuperate da aree cemeteriali non lontane si ricordano, ad esempio, un frammento di epigrafe funeraria murato accanto all’ingresso alla cripta22, dove come sostegno della mensa d’altare è utilizzato un sarcofago romano 14   Ecclesia tres habet naves, quarum media pilis lateritiis sustinetur; in ejus capite est altare lateritium […] ad illud septem gradibus ascenditur […] sub altare ab utroque latere sex gradibus marmoreis discenditur in locum qui dicitur confessio; est locus testudinatus inhaerens pilis lateritiis cum altare angusto. Archivio Arcivescovile di Ravenna, Sacra Visita, prot. n. 5, f. 704. 15   Russo 1984, pp. 234-235 e nota 89 che ricorda anche le critiche di Salmi (1966, pp. 35, 42 nota 22). 16   Mazzotti 1957, p. 58. 17   Rivani 1927, pp. 17-18; Giusberti 1956, pp. 43-44. 18   Rivani 1927, nota 69; Mazzotti 1958, pp. 66, 81. 19   Rivani 1927, figg. a pp. 5, 6, 22. 20   Ivi, pp. 5, 8, 14. 21   Cil, III, 3213, 2; V, 8110, 2; XI, 2, 6685, 1. 22   Al riguardo: Frizzi 1848, I, p. 293, n. 6; p. 304, tav. 6, 3; Patitucci 1972, pp. 60-66; Desantis 1997, p. 18; Pupillo 1999, n. 31; Uggeri 2002, p. 343.

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Fig. 4. Resti scultorei rinvenuti nel corso dello scavo (da Rivani 1927).

in marmo, trovato nel 1893 in un’area funeraria a sud di S. Vito (località Vescova di S. Vito), che ricorda nell’epigrafe (III secolo d. C.) la piccola Domizia Paolina, morta a quattro anni23. Sotto l’altare maggiore della chiesa è collocato il cippo sepolcrale in marmo greco di Camurio Prisco, anch’esso venuto alla luce nelle vicinanze nel 188424. Per quanto riguarda i resti di età più tarda (VI-VIII/IX secolo), rinvenuti dal Rivani e verosimilmente appartenuti all’arredo della pieve (Fig. 4), la decontestualizzazione dei pezzi e le incerte vicende architettoniche pongono il problema, sempre attuale in casi analoghi, della provenienza e dell’uso funzionale originari dei manufatti. Ci si chiede infatti se l’edificio non sia stato realmente fondato in precedenza, come suggerito dal Mazzotti, forse nel IX secolo, in un momento importante di rilancio e di capillare penetrazione pievana nelle campagne25, oppure se vennero utilizzati materiali più antichi appartenuti ad altri edifici secondo una modalità di trasmissione e una generalizzata consuetudine dei cantieri al reimpie  Rivani 1927, p. 7; Patitucci 1972, pp. 64-66; Desantis 1997, p. 17; Uggeri 2002, pp. 343-344. 24   Rivani 1927, pp. 6-7, fig. a p. 16; Patitucci 1972, pp. 62-66; Uggeri 1975, p. 113 ss., tav. IV; Desantis 1997, p. 17; Pupillo 1999, p. 174 ss., n. 7; p. 179 ss., n. 11; Uggeri 2002, pp. 339-341, fig. 188; pp. 343-344, fig. 189. 25   Vasina 1977a, p. 615. Sullo sfondo si pone anche il problema delle dinamiche del popolamento del territorio deltizio per cui: Andreoli 2007, p. 309 ss.; Gelichi 2007, p. 365 ss.; Grandi 2007, p. 417 ss. 23

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Fig. 5. Ferrara, base di colonna da Voghiera (da Farioli Campanati 1989).

go tra tarda antichità e medioevo causando in tal modo la dispersione dei pezzi, allontanati così dai siti originari26. Tra i più indicativi per la diretta influenza ravennate appare un plinto di base in pietra gessosa27, di ignota provenienza e più volte spostato – ultimamente affiancava l’ingresso della pieve –, che nella forma a dado schiacciato e nella decorazione che ricorre sulle quattro facce, a losanghe inscritte con foglie d’edera negli spigoli, si rifà in tono qualitativamente minore alle note, raffinate basi delle colonne in marmo del Proconneso della basilica di S. Apollinare in Classe a Ravenna, di età giustinianea (VI secolo), realizzate a Costantinopoli contestualmente alle colonne e ai capitelli. Scavato internamente, fa pensare a un riutilizzo secondario come acquasantiera, analogamente all’altra base simile da Voghiera, oggi a Ferrara (Fig. 5), anch’essa in marmo proconnesio, forse giunta in città in età postantica quando molti marmi furono trasferiti da Ravenna28. Riconducono all’alto medioevo due elementi architettonici del tutto simili, verosimilmente funzionali a un medesimo contesto, rinvenuti dal Rivani e collocati ora uno nella bifora di facciata della chiesa, l’altro nella bifora dell’adiacente canonica29, costituiti da colonnine frammentarie a fusto liscio, prive di base e   Sul problema dei reimpieghi, che ha sempre maggiore incidenza negli ultimi decenni, si citano qui solo alcuni principali contributi: Deichmann 1975; Settis 1985, pp. 309-317; David 1988, pp. 103-117. All’argomento è dedicata la XLVI Settimana del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo: Ideologie e pratiche del reimpiego 1999, in particolare i contributi di Esch (pp. 73-113) e della Cantino Wataghin (pp. 673-749). 27   Frizzi 1848, p. 304, tav. 6, n. 3; Zanotto 2000, p. 108. Un analogo elemento in marmo, riusato anch’esso come acquasantiera, è conservato a Modigliana, in diocesi di Faenza, nella Pieve di S. Stefano (Porta 1988, pp. 103-107, fig. 31). 28   Farioli Campanati 1989, pp. 77-78; Porta c.d.s. Anche per molti materiali in opera nell’abbazia di Pomposa viene indicato Classe come luogo di provenienza (Russo 1984, pp. 217-218; Farioli Campanati 1989, p. 570). 29   Rivani 1927, p. 21 ss., fig. a p. 23. 26

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Fig. 6. Pieve di S. Vito: colonnina reimpiegata nella canonica (foto A.).

provviste di sottile collarino cilindrico, in monoblocco coi capitelli cubici leggermente scantonati (Fig. 6). Sebbene l’altezza impedisca una chiara lettura e di rilevarne le misure, in ogni caso modeste, si riconosce nei piccoli capitelli la lontana origine corinzia nelle semplici foglie angolari lisce e allungate, a un solo ordine, leggermente incavate e cristallizzate sul fondo, con punte appena estroflesse dalle quali si staccano appendici a ricciolo rivolte verso l’interno. Da ogni faccia si innalza una schematica foglia arrotondata con innervature verticali, da cui caulicoli a V divergono verso gli spigoli dell’abaco corroso, a duplice listello. Sul significato strutturale e decorativo di questa tipologia di capitelli, sovente in corpo unico con la colonnina come nel nostro caso, si è espressa a suo tempo la Romanini analizzando i capitelli di spoglio di VII secolo di Pavia pertinenti alla primitiva cattedrale ariana e riutilizzati nella cripta di XI secolo della chiesa di S. Eusebio, che la studiosa considera di assoluta novità nella cultura artistica occidentale tra tarda antichità e alto medioevo rilevandone l’evoluzione rispetto al tradizionale corinzio, e per contro le strette relazioni con la tecnica dell’oreficeria alveolata diffusa in Occidente tra IV-V secolo in concomitanza con le prime migrazioni germaniche30. 30   Romanini 1969, pp. 232 ss., figg. 12-13; 1976, pp. 228-231, figg. 17-18 (forse relativi a suppellettile liturgica).

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Una formula figurativa nuova che si evolve da una radicata tradizione tipologica e che palesa un linguaggio autonomo in cui linea e geometrismo sono gli elementi fondamentali della sua espressività, sottolineando al contempo il peso che la scultura altomedievale pavese ebbe nello sviluppo della scultura medievale europea31. Ai prototipi di VII secolo riconosciuti a Pavia seguiranno numerose riprese nella plastica architettonica di arredo liturgico tra VIII e soprattutto IX secolo (ma con prosecuzioni nel X e XI32), impiegati a sostegno di arcate di cibori, di pergulae e di mense d’altare e per questo fusi con la colonnina. Una ricca serie di piccoli capitelli, di frequente riutilizzati in più tardi campanili, diffusi particolarmente nel Settentrione della penisola (Aosta, Aquileia e area padana) e nel Centro Italia, oltre che in paesi alpini e transalpini33, in cui lo schema è declinato in varie e originali morfologie in continuità col modello corinzio34, nei confronti dei quali la posizione della critica talora diverge in mancanza di riferimenti cronologici certi e per l’isolamento dei singoli manufatti. Per ampliare il discorso, in ambito strettamente territoriale si ricordano gli esemplari con forme più naturalistiche rispetto ai nostri impiegati nei campanili (XI-XII secolo) di S. Apollinare Nuovo e di S. Francesco a Ravenna35 (Fig. 7), cui corrispondono anche quelli nella cripta della pieve di S. Pietro in Trento (Forlì) menzionata per la prima volta nel 978, ma, secondo il Mazzotti36, riconducibile agli inizi del IX secolo. Sempre entro i confini culturali di Ravenna, in territorio appenninico, si ricordano solo un piccolo capitello di Galeata37 con duplice corona di archetti alveolati, databile in questo caso al secolo XI, e quelli montefeltrani della pieve di S. Leo, in specifico i quattro del ciborio del duca Orso (881-882)38.   Romanini 1976, p. 257.   Romanini 1969, pp. 256-257 e nota 76. 33   Si vedano, ad esempio, capitellini di Trento appartenuto ai due principali edifici antichi della città: S. Vigilio e S. Maria Maggiore: Porta 2001, p. 489, n. 64; Beghelli 2013, pp. 163-166, n. 33. Per l’Oltralpe si richiamano un capitello della cripta della chiesa di Tegernsee in Baviera (Dannheimer 1980, pp. 18-19, 36; pp. 70-71, n.35) e altri dell’oratorio dei Ss. Fabiano e Sebastiano ad Ascona in Canton Ticino (Roth-Rubi 2011, p. 235 ss., pp. 280-284). 34   Capitelli con intendimenti analoghi si segnalano, ad esempio, nella cripta della pieve di S. Stefano in Corleto in diocesi di Faenza (Ra) e in quella della chiesa di S. Lorenzo a Varignana (Bo): Porta 1982, p. 67 ss., figg. 1, 3, 7; 1984, pp. 32-34, figg. 17-18. 35   Olivieri Farioli 1969, p. 52, nn. 96-97, tavv. 94-95; Romanelli 2011, pp. 85-86, n. 30; p. 88, n. 32; p. 135, n. 71; Porta 2015, pp. 221-224, fig. 22. 36   Mazzotti 1958, p. 85, fig. a p. 87; Bentini 1987, pp. 89-92, p. 91, nota 260; Budriesi 1999, figg. 50 e 84. 37   Mazzeo Saracino 2005, p. 39 e fig.; Porta 2015, pp. 189, 190, fig. 7. Si possono aggiungere quelli dell’abbazia di S. Felice a Giano d’Umbria assegnati tra IX e X secolo (Serra 1961, pp. 3940, nn. 46, 49, tavv. XIX abc-XX b), e un capitello del Museo Cristiano di Brescia datato tra VI-VII secolo per «l’ancor viva tradizione ravennate» (Panazza, Tagliaferri 1966, pp. 95-96, n. 106, tav. XXXIV, fig. 104). 38   Valenti 2008, pp. 69-72, figg. 13, I-II. 31 32

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Fig. 7. Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo, colonnina reimpiegata nel campanile (da Porta 2015).

Fuori dal raggio ravennate si citano solo alcune analoghe presenze nel Settentrione della penisola (ma i richiami si potrebbero moltiplicare): a Sirmione39, a Brescia e nella sua diocesi40, nella stessa Pavia, a Milano con testimonianze di notevole qualità negli esemplari dal monastero di S. Maria d’Aurona, fondato tra 740 e 74441, nel Varesotto42 e infine a Cividale del Friuli43, dove uno degli esemplari (n. 437) si presenta come i nostri con la particolare variante delle due volute angolari a ricciolo affrontate e non divergenti. In diretta continuità tipologica e funzionale si pone la casistica, ricchissima, documentata anche in Italia centrale, da Roma a diverse aree diocesane44. Quanto all’impianto e alla soluzione decorativa, si osserva un’accentuata continuità formale e tipologica dei nostri con una serie di capitelli cubici in tutt’uno con la colonnina presso il Museo abbaziale di Bobbio45, datati al IX secolo, dove la geometrizzazione è però maggiore.   Lusuardi Siena 1989, pp. 93-123, p. 119, figg. 37 (a-b) e confronti.   Panazza, Tagliaferri 1966, pp. 96-97, n. 107; 99-100, n. 111; 143-144, n.180. 41   Ravaglia 2000, pp. 253-254. 42   Guiglia Guidobaldi 1998, pp. 453-486 (con ampia bibliografia e confronti). 43   Tagliaferri 1981, pp. 291-293, nn. 437, 439, 440-441, tavv. CL-CLIII. 44   Per i numerosi confronti documentati nelle diverse diocesi si rimanda ai Corpora della scultura altomedievale editi dal Centro Italiano di studi sull’alto medioevo (Spoleto) più volte citati. 45   Destefanis 2008, pp. 188-194, nn. 68-74. 39 40

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Fig. 8. Pieve di S. Vito: capitello della cripta (foto A.).

Circa l’originaria destinazione d’uso dei manufatti di S. Vito è ipotizzabile che, come osservato in precedenza e a motivo delle dimensioni, si integrassero nell’arredo liturgico: sostegno per mensa d’altare, elemento di ciborio o di recinzione presbiteriale. Accenno infine a un capitello in marmo rinvenuto coi due elementi precedenti46, sempre di piccole dimensioni (cm. 20 h. x 16 diametro) a forma tronco conica e in cattive condizioni (mancano collarino, parte terminale superiore e abaco), che sta in un angolo della cripta su un mattone romano (Fig. 8). Il manufatto è connotato da un triplice giro di elementi a triangolo col vertice in alto che aggettano in evidenza dal fondo con una sorta di fasce a zig-zag fortemente chiaroscurate. Se non si tratta semplicemente di un capitello corinzio scalpellato o in stato di abbozzo, piccole dimensioni e slancio verticale potrebbero richiamare, ma è ipotesi che si avanza con tutte le cautele del caso perché molte potrebbero essere le chiavi di lettura, uno dei capitellini imposta, lavorato a traforo, di età giustinianea dell’antica pergula di S. Vitale a Ravenna, in opera ora nel chiostro di S. Francesco, completo di colonnina o pilastrino e con decorazione continua di foglie di vite stilizzate47. Una accentuata astrazione geometrica che, nel prosieguo del tempo, connota i più tardi capitelli del S. Salvatore-S. Giulia a Brescia, anch’essi con accentuato sviluppo in verticale, assegnati al cantiere desideriano, nella fase finale quindi del   Rivani 1927, fig. a p. 22.   Olivieri Farioli 1969, p. 51, n. 90.

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regno longobardo (seconda metà VIII secolo)48, oppure anche uno dei capitellini, ornato da un’esasperata geometria di alveoli, riutilizzati nella succitata cripta di S. Eusebio a Pavia, esempi, come premesso, di nuove formule che nel VII secolo si evolvono dai temi tradizionali49. Un’analoga disinvolta, sperimentata originalità rispetto alla tradizione congela l’elemento vegetale anche nei capitelli della chiesa di S. Maria Maggiore (Sv. Marija Velika) presso Bale in Istria assegnati per definizione a un «Maestro dei capitelli di Bale», attivo in età carolingia (fine VIII – inizi IX secolo) in un atelier contestualmente operoso in altre chiese istriane50. Senza insistere oltre con altre possibili congetture e generalizzazioni, se la tipologia e la cronologia del capitello non sono valutabili, quanto all’utilizzo le dimensioni comunque modeste pur tenuto conto delle parti mancanti, suggerirebbero anche in questo caso una progettazione se non come sostegno di mensa d’altare sul genere, per fare un esempio, di quelli nella cripta della ricordata pieve di S. Pietro in Sylvis, nella struttura di un allestimento presbiteriale. Come molti antichi luoghi di culto e di cultura di cui è ricco il territorio esarcale, in questo lembo di terra ferrarese anche la pieve di S. Vito coi suoi pochi resti scultorei rappresenta una testimonianza di arte e storia che tanto ha da raccontare: sono quindi anch’essi brani modesti del nostro passato. Bibliografia Andreoli 2007 = A. andreoli, Cenni sul Delta tardoantico e cristiano, in Genti del Delta 2007, pp. 309-319. Andreoli 2016 = A. Andreoli, I confini delle diocesi a nord di Ravenna, in M. Tagliaferri (a c.), I confini delle diocesi di Ravennatensia. Tra storia e geografia, Atti XXXIII Convegno di Ravennatensia (Cesena, 26-27 settembre 2014), Cesena 2016, pp. 95-132. Beghelli 2013 = M. Beghelli, Scultura altomedievale dagli scavi di Santa Maria Maggiore a Trento. Dal reperto al contesto, Bologna 2013. Benati 1987 = A. Benati, Città e territorio tra Bizantini e Longobardi, in Storia di Ferrara, IV, L’alto medioevo, Ferrara 1987, pp. 107-129. Bentini 1987 = M.R. Bentini, S. Pietro in Trento ( fraz. di Ravenna). Pieve dei Ss. Pietro e Paolo, in M.R. Bentini (a c.), Pievi rurali nel ravennate. Alle radici della nostra cultura, Faenza 1987.

  Ibsen 2014, pp. 276, 305, B 22-23. Si ricorda anche un capitello di Leno (Panazza, Tagliaferri 1966, pp. 95-96, n. 106; Ibsen 2006, n.14). 49   Cfr. nota 28. 50   Bizantini, Croati, Carolingi 2001, p. 341, nn. IV. 4 ab, figg. a p. 310); Jurković 2002, p. 349 ss. 48

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Bertelli, Brogiolo 2000 = C. Bertelli, G.P. Brogiolo (a c.), Il futuro dei Longobardi. L’Italia e la costruzione dell’Europa di Carlo Magno, Milano-Ginevra 2000. Bizantini, Croati, Carolingi 2001 = Bizantini, Croati, Carolingi. Alba e tramonto di regni e imperi, Catalogo della Mostra, Brescia 2001. Budriesi 1984a = R. Budriesi, Ravenna e il Montefeltro: le sculture. Note di cultura tardo-antica, in «Corsi di Cultura sull’Arte Ravennate e Bizantina» XXXI, 1984, pp. 77-107. Budriesi 1984b = R. Budriesi, Entroterra “ravennate” e orizzonti barbarici, Ravenna 1984. Budriesi 1999 = R. Budriesi, Viaggio nelle pievi della provincia di Ravenna, Ravenna 1999. Cantino Wataghin 1999 = G. Cantino Wataghin, …Ut haec aedes Christo Domino in ecclesiam consecretur. Il riuso cristiano di edifici antichi tra tarda antichità e alto medioevo, in Ideologie e pratiche del reimpiego 1999, pp. 672-749. Carile 1986 = A. Carile, L’area alto-adriatica nella politica bizantina fra VII e IX secolo, in La Civiltà Comacchiese e Pomposiana, Bologna 1986, pp. 377400. Cavarra et alii 1991 = B. Cavarra, G. Gardini, G.B. Parente, G. Vespignani, Gli archivi come fonti della Storia di Ravenna: regesto dei documenti, in A. Carile (a c.), Storia di Ravenna. Dall’età bizantina all’età ottoniana. Territorio, economia e società, II, 1, Venezia 1991, pp. 401-548. Corpus Ravenna = Corpus della scultura paleocristiana bizantina ed altomedioevale di Ravenna, diretto da G. Bovini, I-III, Roma 1968-1969. Corpus Spoleto = Corpus della scultura altomedievale, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto. Dannheimer 1980 = H. Dannheimer, Steinmetzarbeiten der Karolingerzeit. Neufunde aus altbayerischen Klöstern 1953-1979, München 1980. David 1988 = M. David, A proposito del reimpiego nel cantiere del Duomo di Monza, in Monza, Anno 1300. La basilica di San Giovanni Battista e la sua facciata, Monza 1988, pp. 103-117. Deichmann 1975 = F.W. Deichmann, Die Spolien in der spätantiken Architektur, in «Sitzungberichte der Bayerische Akademie der Wissenscheften». Phil- Hist. Klasse, München 1975, pp. 1-101. Desantis 1997 = P. Desantis, Per una carta archeologica del territorio di Ostellato: appunti preliminari, in F. Berti (a c.), Percorsi di Archeologia, Migliarino 1997, pp. 15-31. D’Ettorre 1993 = F. D’Ettorre, La diocesi di Todi, Corpus Spoleto, XIII, Spoleto 1993. Eam = Enciclopedia dell’Arte Medievale, Roma. Esch 1998 = A. Esch, Reimpiego, in Eam, IX, 1998, pp. 876-883.

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I TRATTATI “ADVERSUS GRAECOS” DI ENEA DI PARIGI E RATRAMNO DI CORBIE

Raffaele Savigni

Nella prospettiva storiografica del teologo Congar, il secolo IX rappresentò una tappa fondamentale del processo plurisecolare di allontanamento progressivo tra la Chiesa di Roma e l’Occidente europeo da un lato e l’Oriente bizantino dall’altro1, causato tanto da fattori dottrinali (come la polemica sul Filioque, avviata, secondo una narrazione che lascia qualche dubbio, a partire dal concilio di Gentilly del 767)2 quanto da contrasti sul piano ecclesiologico e disciplinare. In età carolingia emerse in primo piano, nella polemica tra i teologi carolingi e quelli bizantini, la questione della legittimità della formula del Filioque, diffusa in area franca col sostegno decisivo di Carlo Magno e dei suoi teologi3, ma contro la volontà di papa Leone III, che non intendeva introdurre innovazioni senza il consenso della Chiesa universale4.   Congar 1968, pp. 319-393, in particolare 393 per la menzione del processo d’«estrangement» culturale ed ecclesiologico. Cfr. anche Pasini 2008, pp. 49-51. Per Piussi 1998b, p. 143 il concilio di Cividale (796) «ebbe una parte determinante nell’ormai avviato processo di estraniamento dell’Occidente e dell’Oriente all’interno dell’unica Chiesa». Sulle due tradizioni teologiche dell’Occidente e dell’Oriente cfr. le considerazioni, in prospettiva ecumenica, di Forte 1985, pp. 116-132. 2   La notizia fornita da Adone di Vienne, Chronicon, in PL 123, 125A: «quaestio ventilata inter Graecos et Romanos de Trinitate, et utrum Spiritus sanctus sicut procedit a Patre, ita procedat a Filio», è considerata da Gemeinhardt 2002, pp. 79 una proiezione retrospettiva delle polemiche dei tempi di Adone. Cfr. Noble 2009, pp. 144-145; Siecienski 2010, pp. 87-109. Sul ruolo di Adone (legato ad Anastasio Bibliotecario) tra i consiglieri di Carlo il Calvo cfr. Arnaldi 1990, pp. 89-90. Una posizione più vicina a quella dell’Oriente cristiano è espressa dall’Eriugena ( Jeauneau 2002). 3   Nagel 1998, pp. 203-226; Bullough 2004; Kelly 2009, pp. 437-452; Phelan 2014, pp. 148155. 4   Peri 1969, 1970, 1987; Bullough 2004, pp. 133-136; Herbers 2004, pp. 150-151. Anche il concilio di Santa Sofia dell’879-880 ribadì l’intangibilità del Credo niceno-costantinopolitano, rifiutando l’addizione del Filioque (Morini 2015). 1

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Raffaele Savigni

Solo nel 1014 la Chiesa romana recepì questa formula nel Credo5: la cosiddetta fides Leonis è in realtà opera di Alcuino, e la presunta lettera dei monaci della congregazione del Monte Oliveto a Leone III venne forgiata probabilmente da Ademaro di Chabannes6. Il contrasto sul Filioque esplose in occasione del concilio dell’809, i cui atti sono stati editi criticamente da Harald Villjung7. Esso si accentuò durante la crisi foziana: di fronte alle accuse di eresia indirizzate nell’867 da Fozio contro i Latini8, Nicolò I, per quanto malato (morì il 13 novembre 867), sollecitò l’intervento di Incmaro e dell’episcopato carolingio9, che si riunì a Worms nel maggio 868 per condannare «Graecorum haeresim et illorum frivolas reprehensiones»10. Per replicare alle accuse venne raccolto un ampio dossier di auctoritates bibliche e patristiche, di cui resta traccia tanto negli atti del citato concilio di Worms11 quanto nelle opere polemiche redatte adversus Graecos dal monaco di Corbie Ratramno12 e dal vescovo di Parigi Enea13. Nella sua edizione critica degli atti del concilio dell’809 Villjung evidenzia i punti di contatto tra i testi di Arnone di Salisburgo, Smaragdo di S. Michele e Teodulfo di Orléans, elaborati in tale circostanza, e quelli di Enea e Ratramno, di cui lo studioso sta preparando l’edizione14.   Si vedano i contributi raccolti in Palese-Locatelli 1999; Peri 2002; Gagliardi 2015, ma soprattutto l’accurata indagine di Gemeinhardt 2002 e Siecienski 2010. 6   Callahan 1992, p. 89. 7   Willjung 1998; Bullough 2004; Herbers 2011. Lausberg 1979 ha ipotizzato che in tale occasione Rabano Mauro, ancora diacono, abbia composto l’inno Veni Creator Spiritus, che compare in un manoscritto del X secolo insieme ad un’opera di Rabano. 8   Kolbaba 2008; Morini 2015. Sulla selezione dei testi patristici operata da Fozio cfr. Congar 1998, pp. 67-71. 9   Niccolò I, ep. 100 (867 ottobre 23), in MGH, Epist. VI, pp. 601-605. Cfr. Haugh 1975: Herbers 1993; Kolbaba 2008, pp. 131-140. 10   Worms (mai 868), praefatio 2, in MGH, Concilia, IV, ed. W. Hartmann, Hannover 1998, pp. 259-311, a p. 262 e 307. Per una accurata analisi delle vicende e del quadro storico-culturale cfr. Gemeinhardt 2002, pp. 188-234. 11   Professio fidei episcoporum, pp. 262-264 (che riprende la professione di fede del concilio toletano del 675, trasmessa anche sotto il nome di Eusebio di Vercelli); Responsio contra Graecorum haeresim de fide sanctae Trinitatis, pp. 291-307. Vengono utilizzate in particolare le ep. 36, 54-55 ed altre opere di Agostino, il Liber officialis di Amalario e la collezione canonica di Cresconio (testi in buona parte poi ripresi da Enea nel suo Liber: cfr. ad es. i capp. 96, 99, 104, 114). 12  Ratramni Contra Grecorum opposita, in PL 121, coll. 225-346. Su Ratramno cfr. Bouhot 1976; D’Onofrio 1996, pp. 208-224; Cristiani 1997, pp. 113-131; Otten 2000; Ricciardi 2005, pp. 72-73, 129, 161-180; 191-194; Matter 2006; Bisogno 2008, pp. 301-311; Phelan 2010; Pezé 2017a, pp. 30-34, 60-66, 250-251; Pezé 2017b. 13   Aeneae Parisiensis, Liber adversus Graecos, in PL 121, col. 683-762. Su Enea, imparentato con Lupo di Ferrières attraverso una sua nipote (ep. 119, p. 113), cfr. Ricciardi 2005, pp. 146, 148, 239, 251252. Sui due trattati cfr. Haugh 1975, pp. 103-120; Gemeinhardt 2002, pp. 210-227. 14   Villjung 1998, pp. 168-169, 211-212, 268, 282, 324, 327-340, 348-349, 359. Enea riprende soprattutto Teodulfo, ma anche Ratramno (p. 211). 5

I trattati “adversus Graecos” di Enea di Parigi e Ratramno di Corbie

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Gli opuscoli di Ratramno ed Enea (utilizzati, accanto a Paolino di Aquilea, da autori più tardi, come san Bonaventura)15 vennero redatti nel corso dell’868, ossia nel momento più acuto dello scontro, destinato a sfociare nel concilio costantinopolitano dell’869-70 e nella deposizione di Fozio, resa possibile dall’ascesa al trono di Basilio I16, mentre si sopirono i precedenti contrasti tra papa Niccolò I ed Incmaro di Reims17. Negli anni sessanta del IX secolo tra le due Chiese di Roma e di Costantinopoli si sviluppò una dura competizione per il controllo della nascente Chiesa bulgara18, e si consolidò quella rappresentazione negativa dell’altro che era già emersa nelle lettere papali del Codex Carolinus19 e che venne sviluppata nella lettera inviata nell’871 da Ludovico II a Basilio I (e redatta probabilmente da Anastasio Bibliotecario): Ludovico II auspicava un accordo tra i due imperi, stigmatizzando però l’abbandono di Roma, della lingua latina20 e dell’ortodossia dottrinale da parte di quelli che venivano polemicamente definiti imperatores Graecorum21 e ventilando la minaccia di una definitiva translatio imperii da Costantinopoli ai Franchi22. Anche Enea e Ratramno polemizzano con la cultura grecofona, in una prospettiva che tende a considerare la lingua latina più idonea ad esprimere la retta fede23.   Herbel 2007; cfr. Sieben 1979.   Bougard 2000, p. 7; Herbers 2008. Sulla complessa questione dell’ottavo concilio ecumenico (tradizionalmente identificato in Occidente col concilio antifoziano dell’869-870, mentre altri studiosi propendono per quello dell’879-880 che riabilitò Fozio) cfr. Peri 1976; Morini 2015; Morini 2018b. 17   Herbers 1993; Kolbaba 2008. 18   Simeonova 1998. 19   Herbers 1993. 20   Già nell’ep. 88, p. 459, indirizzata il 28 settembre 865 all’imperatore Michele, Niccolò I replicava all’accusa di barbarie rivolta contro la lingua latina osservando che è assurdo rivendicare il titolo di imperatori romani ed ignorare la linguam romanam: «ridiculum est vos appellare Romanorum imperatores et tamen linguam non nosse Romanam». 21   Hludowici II imperatoris epistola ad Basilium I, ed. W. Henze, in MGH; Epistolae, VII, Berolini 1928, pp. 386-394, a p. 390: «Graeci propter Kacodosiam, id est malam opinionem, Romanorum imperatores existere cessaverunt, deserentes videlicet non solum urbem et sedes imperii, sed et gentem romanam et ipsam quoque linguam penitus amittentes atque ad aliam urbem sedem gentem et linguam per omnia transmigrantes». L’espressione Graecorum imperatores (in evidente contrasto con la teologia politica bizantina: cfr. Carile 2000, pp. 50-52) compare ripetutamente in Ratramno (I 1, 225D; 5, 235B; II 1, 243B; 5, 266C; III 1, 273B, e 6, 302CD; IV 2, 308D, 310A; 3, 314D; 4, 320D; 5, 323A, 324C e così via). 22   Arnaldi 1963, 1981; Peri 1997, pp. 137-153. 23   Ratramno, III 1, 273BC; Enea, pref., 689B (= epistolae variorum 1925, ep. 22, p. 174): «Si enim ferrum ferro acuitur (Prov 27,17), congruum esset ut Graeca lingua a vero non discreparet, in quo Latina normam catholicae fidei indissolubiliter tenet». Cfr. Herbers 1993, pp. 62-65; Pasini 2008, p. 51: questa «incomprensione linguistica» provocò «un graduale, ma irreversibile estraneamento fra l’Occidente e l’Oriente». Sulla speculare convinzione, diffusa in Oriente, «della totale inettitudine della lingua latina ad esprimere nozioni teologiche» cfr. Morini 2015, p. 59. 15 16

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Raffaele Savigni

Ratramno fu monaco nel monastero di Corbie, che rappresentò nei decenni centrali del IX secolo un importante laboratorio culturale: qui vennero redatte anche le opere teologiche, esegetiche ed agiografiche di Pascasio Radberto, l’antagonista di Ratramno nella controversia eucaristica24; e vennero probabilmente forgiate le decretali pseudo-isidoriane25. Ratramno, che nei decenni precedenti aveva già fornito un apporto significativo al dibattito sull’Eucarestia, sulla predestinazione, sulla natura dell’anima e sulla visione beatifica e su questioni eticocanonistiche26 ed evidenziato il proprio interesse per la rappresentazione dell’alterità nella lettera sui cinocefali (l’interrogativo riguardava la loro appartenenza alla specie umana, e quindi la possibilità o meno di evangelizzarli)27, scrisse nell’868, su sollecitazione di Incmaro di Reims e di Odone di Beauvais (già abate di Corbie, e di cui Ratramno era probabilmente il segretario), «the most ambitious and the most theologically significant work against the Greeks», probabilmente letta dallo stesso Fozio28. Flodoardo di Reims ricorda le lettere inviate da Incmaro a Odone sulle Grecorum quaestiones e le risposte alle accuse dei Greci raccolte da Odone29. L’opera di Ratramno è trasmessa dal codice Vaticanus Reginensis latinus 151 (forse copiato a Corbie) e dal codice Parisinus latinus 2863 (IX sec.)30. Il Bouhot ha ipotizzato che quest’ultimo fosse l’autografo inviato a Odone, che avrebbe fatto eseguire il Reg. lat. 151 dopo aver ricevuto le osservazioni di Incmaro31. Enea, notaio di Carlo il Calvo e ben inserito nell’ambito del palatium, fu eletto vescovo di Parigi nell’856 su indicazione del clero parigino e dei monasteri della regione, col consenso del metropolita Guenilone di Sens e dei suoi suffraganei32, che nella lettera indirizzata al clero parigino mostrano di approvare tale scelta,

 Cfr. Ganz 1990, pp. 34, 56-57, 64, 78, 87, 91-92, 146 per i riferimenti alle opere di Ratramno e ai manoscritti. 25   Cfr. ivi, p. 92, che rileva l’utilizzazione delle false decretali da pare di Ratramno; Ubl, Ziemann 2015, in particolare Firey 2015. L’ipotesi, avanzata da Zechiel-Eckes, è discussa in De Jong 2014. 26   Come il testo sulla morte dei bambini soffocati nel letto materno e il frammento De propinquorum coniugiis (Schmitz 1982; Hoffmann-Pokorny 2011). 27   Matter 2006. 28   Haugh 1975, p. 107: «Ratramnus does not merely appeal to Scripture and the Fathers; he theologizes on every text he quotes. It is most probable that Ratramnus’ work, either in full or in part, reached Photius»; Simeonova 1998, p. 279. Per un primo orientamento sulle fonti patristiche dei due polemisti carolingi cfr. Haugh 1975, Appendice, pp. 179-205; Gemeinhardt 2002, pp. 210227, che non forniscono però un elenco sistematico dei passi citati. 29   Flodoardo III 23, pp. 307-308: «de responsionibus ad obiecta Grecorum, quas idem Hodo colligens descripserat et domno Hincmaro miserat»; Incmaro, ep. 201 (29 dicembre 867), in MGH, Epistolae, VIII/1, pp. 225-226. 30   Ganz 1990, pp. 57, 64, 146. 31   Bouhot 1976, pp. 60-64. 32  Incmaro, De praedestinatione, 2, in PL 125, col. 85: «Aeneas notarius sacri palatii et modo Parisiorum episcopus»; 5, col. 90; 24, 211; 27, 275. 24

I trattati “adversus Graecos” di Enea di Parigi e Ratramno di Corbie

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lodando il fervor in divinis rebus di Enea33, che morì il 27 dicembre 870. Il suo libello è trasmesso da un unico codice coevo (BNF, Paris. lat. 2864), proveniente dall’abbazia di Saint-Denis, ove l’opera venne probabilmente composta34, e certamente conservata almeno dal XIII secolo: lo suggerisce la presenza di un caratteristico punto interrogativo che costituisce una vera «marque de provenance»35. Il codice ne riporta il testo ai ff. 7r-101v, subito dopo l’epistola 100 di Niccolò I. Anche se l’opera non sembra aver conosciuto una notevole diffusione, non pochi canoni conciliari, decretali papali e testi patristici in essa citati furono recepiti verso l’anno mille in una collezione canonica di Abbone di Fleury (l’ep. XIV): la successione dei canoni e le rubriche rendono praticamente certa la dipendenza di Abbone da Enea36. Le accuse dei Greci e la replica di Ratramno ed Enea Su sollecitazione di Niccolò I, Incmaro inviò una lettera ad Odone di Beauvais e ai vescovi del regno di Carlo il Calvo, sintetizzando, sulla falsariga della lettera papale del 23 ottobre 867, le accuse rivolte dai Greci alla Chiesa romana ed all’intera Chiesa latina37. Esse riguardavano l’uso della formula del Filioque, la continenza imposta al clero latino, il digiuno del sabato, ma anche una serie di altre pratiche (vere   Lupo di Ferrières, ep. 92-93, vol. II, pp. 94-102, in particolare ep. 93, p. 100. Enea è destinatario di una lettera (ep. 122, pp. 186-188, databile tra l’856 e l’862) di Lupo, che gli chiede un favore personale. Cfr. Ricciardi 2005, pp. 146, 148, 239, 251-252; Pezé 2017a, pp. 205-207. 34   Bouhot 1976, p. 33 nota 23; Berschin 1980, pp. 145 e 155 nota 55. 35   Vezin 1980, pp. 183-185, 191. 36   Roumy 2010, pp. 219-226. 37   Incmaro, ep. 201, 29 dicembre 867, p. 225: «Domnus apostolicus communiter nobis et aliis episcopis regni domni nostri Karoli epistolam misit ita continentem, quod Greci tam ecclesiam Romanam specialiter quam omnem generaliter, quae lingua Latina utitur, conantur reprehendere, quia ieiunamus in sabbatis, quod spiritum sanctum ex Patre Filioque procedere dicamus, cum ipsi hunc tantum ex Patre procedere fateantur. Dicunt praeterea nos abominari nuptias, quia presbiteros sortiri coniuges prohibemus, et insimulare temptant, quod eosdem presbiteros chrismate linire baptizatorum frontes inhibemus. Quod tamen chrisma nos ex aqua fluminis conficere fallaciter arbitrantur. Reprehendere nihilominus moliuntur, eo quod octo ebdomadibus ante pascha a carnium et septem ebdomadibus a casei et ovorum esu more suo non cessamus.Mentiuntur quoque nos, sicuti per alia ipsorum conscripta indicatur, agnum in pascha more Iudaeorum super altare pariter cum dominico corpore benedicere et offerre. Quin et reprehendere satagunt, quia penes nos clerici barbas radere suas non abnuunt et quia diaconus non suscepto presbiteratus officio apud nos episcopus ordinatur, cum ipsi etiam illum, quem patriarcham suum nominant, ex laico subito tonsoratum ac monachum factum saltu ad episcopatus apicem imperiali favore ac brachio provehere, ut ipsi putant, minime formidaverint», che segue lo schema dell’ep. 100 di Niccolò I, pp. 603-604, così come l’ep. 202, pp. 226-227, indirizzata lo stesso giorno al vescovo Giovanni di Cambrai. Le accuse sono elencate, con poche varianti, anche in Ratramno, I 1-2, 226D-228A; Annales Bertiniani, ad a. 867 e nella Responsio del concilio di Worms (868), pp. 293, 298, 305-307. 33

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o presunte)38 della Chiesa romana e latina, come il taglio della barba, le modalità dell’unzione dei neofiti, la preparazione del crisma, l’offerta dell’agnello pasquale sull’altare more Iudaeorum. La questione del primato romano, non esplicitamente tematizzata, rimaneva sullo sfondo. Attraverso Incmaro papa Niccolò I chiedeva un coinvolgimento dell’intero episcopato franco per replicare alla imperatorum vesania (si noti come i veri interlocutori vengano identificati con i Graecorum imperatores)39 mediante la raccolta di testimonianze della Scrittura e della tradizione40. Con la lettera inviata a Odone si apre il codice Reg. lat. 151, che riporta l’opuscolo di Ratramno41. In entrambi i trattati assume un ruolo centrale la polemica sul Filioque, e solo la parte finale è dedicata alla discussione sul primato. Entrambi intravvedono una dialettica tra Oriente ed Occidente, tra Chiesa greca e Chiesa romana (e più in generale latina)42 ma tendono altresì a distinguere le ambizioni smodate della Chiesa di Costantinopoli, il cui vero capo è l’imperatore, dalle posizioni più variegate delle altre Chiese d’Oriente. Ratramno precisa che le accuse provengono da uomini «minus sacrae legis peritis» e dotati di potenza secolare, gli imperatori d’Oriente, ai quali non spetta il compito di discutere questioni dogmatiche e liturgiche e di insegnare, che è riservato al clero43, al quale è stato concessa la facoltà di legare e sciogliere, ossia il 38   Tali accuse sono definite da Ratramno, I 1, 225D, «vel falsa, vel haeretica, vel superstitiosa, vel irreligiosa». 39  Ratramno, I 1, 225D; 8, 242D; II 1, 244CD. 40   Incmaro, ep. 201, p. 226: «Unde unusquisque vestrum, qui metropolitana iura sortitus est, iunctis sibi fratribus et coepiscopis suis, qui sub se sunt, de his diligentem curam suscipiat et, quid invidis eorum detractionibus opponi necesse sit, rimari studeat […]. Quapropter, frater karissime, secundum domni apostolici commendationem de his per tramitem scripturarum et traditionem maiorum, quae illi rescribere convenienter possimus, quaerere et in unum colligere stude, ut, cum simul adiuvante Domino venerimus, quae quisque nostrum invenit singillatim, communi studio relegamus et, quae eidem domno papae a nobis inde scribenda sunt, ordinemus». 41   BAV, Reg. lat. 151, ff. 1r-2r (consultabile online: https://digi.vatlib.it/view/MSS_Reg.lat.151). Segue un foglio in cui sotto la dicitura Liber de fide è raffigurato un grifone (2v) ed una antifona per la festa della beata Sallaberga (3r) che, ricalcata su quella per Maria Maddalena, suggerisce un legame con Laon. Tra il terzo ed il quarto libro dell’opera (f. 97rv) è collocato un inno agli apostoli Pietro e Paolo attribuito a Paolino di Aquileia (Carmina, V, ed. E. Dümmler, Poetae latini aevi Carolini, I, Berolini 1881, pp. 136-137: Felix per omnes festum mundi cardines). 42   Ratramno I 1, 225D, 227A: «culpare nituntur non solum Romanam, verum omnem Latinam Ecclesiam»; 2, 228C; II 1, 243B, 244B; IV 3, 317C («Latinos sive Romanos»); 4, 320A. «tam Romana, quam Occidentalis Ecclesia» e 321C («in Occidente»); 5, 322A. 43  Ratramno I 2, 228A: «De sacris dogmatibus, de ecclesiastico ritu, non imperatorum, sed episcoporum fuerat disputare. Discendum illis, non docendum, in Ecclesia ministerium commissum est. Nam quamvis imperiali dignitate praecellant, res illis publica commissa est, non episcopale ministerium. Imperatores de saeculi legibus tractare debent; episcopi vero de divinis dogmatibus disputare». In questo passo si può intravvedere l’eco della lettera (la cui autenticità è discussa) inviata verso il 728 da Gregorio II a Leone III l’Isaurico, nella quale viene ribadito il principio per cui «i dogmi della Chiesa sono di competenza non degli imperatori ma dei vescovi» (Pertusi 1990, p.

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potere delle chiavi44. Egli rivendica la fedeltà della Chiesa romana alla tradizione della Chiesa indivisa, distinguendo la necessaria unità della fede (il riferimento è alla dottrina sullo Spirito Santo) dalla legittima pluralità di consuetudini per quanto concerne il digiuno, l’abito o la barba45. Le questioni sollevate dai Greci (giudicate cavillose e superflue) non riguardano i dogmi, in quanto sin dai primi tempi della Chiesa «consuetudines Ecclesiarum nec eaedem sunt omnes, ne ab omnibus possunt uniformiter haberi»46, e nelle stesse Chiese d’Oriente coesistono usi diversi, per cui a torto i Greci accusano i Romani di digiunare il sabato e di altre pratiche47, mentre non dovrebbero sorgere contese, in quanto ciascuna Chiesa dovrebbe poter seguire la propria consuetudine, fondata sull’auctoritas maiorum suorum48. Enea esordisce rivendicando l’origine apostolica della Chiesa di Parigi (fondata da Dionigi, discepolo di Paolo) ed evoca Gdc 2, 22; 3, 1-4 per presentare l’eresia, sorta in Oriente anche per la sottigliezza intellettuale dei Greci (propensi a sollevare questioni artificiose e superflue) e diffusa nella Chiesa di Costantinopoli, come una prova alla quale è sottoposta la Chiesa del suo tempo49, che può superarla ricorrendo 76; cfr. Savigni 2003, pp. 236-237 per una bibliografia sulla questione). All’epoca di Basilio I (che durante il concilio costantinopolitano dell’869-870 affermò che non era lecito ai laici ingerirsi in affari ecclesiastici) «si cercò di concretare in norme giuridiche le posizioni dei poteri del basileus e del patriarca nell’ambito dell’impero universale» (Carile 2008, pp. 21-22). 44  Ratramno II 1, 243D-244B: «Num Graecorum imperatoribus Salvator ligandi solvendique potestatem contribuit? Num illis dixit: Vos estis lux mundi? (Mt 5,14). Num illis mandavit docere omnes gentes […]?». Si potrebbe intravvedere qui una implicita polemica contro la rivendicazione del compito di «pascere il gregge dei fedeli» e di «sciogliere il legame di ogni ingiustizia» (perlomeno in senso metaforico) da parte degli imperatori iconoclasti Leone III e Costantino V (Pertusi 1990, pp. 72-74). 45   Ratramno I 2, 228CD: «In eadem fide tam Orientalis quam Occidentalis semper remansit Ecclesia […]Instituta vero majorum suis quibuscunque locis edita, sicut non omnibus ecclesiis eadem, sic unitatem fidei nullo modo divisere: nec propter alternae consuetudinis commutationem mutuae societatis amisere communionem. Quoniam aliud est de habitu, de conversatione discernere, et aliud de unitate fidei similiter sentire […]. Et primo de Spiritu sancto quae donaverit ipse dicamus: hoc enim et primum est et praecipuum, et ad catholicae fidei pertinens firmamentum. Ostendere namque est animo quod sic de eo sentimus et confitemur, sicut et Patres nostri senserunt et confessi sunt; et sic ipsi senserunt et professi sunt, sicut apostoli senserunt et docuerunt»; IV 1, 304C, 306BD; 3, 314B; 4, 318CD: «servanda est singulis Ecclesiis maiorum auctoritas, et consuetudo»; 5, 322B. 46   Ivi, IV 1, 304C. 47   Ivi., 306BC; 2, 308CD, 310A, e 3, 311D-312A. 48   Ivi, IV 3, 314D; cfr. 4, 317D-318D. 49   Enea, pref., 685, 686AC (= ep. 22, p. 172): «Graecia, quae se matrem verborum et genitricem philosophorum, et omnium liberalium artium fautricem appellari contendit, de his superstitionibus superfluis, quae et nunc, Romanam Ecclesiam, imo et omnem gentem Latina lingua utentem consulere tentavit […] Nec adeo mirum ab Asia, vel a finibus Europae, ubi sita Constantinopolis Graeciae metropolis habetur, tantarum fallaciarum oriri discrimina». La Grecia sarà invece presentata, in termini più positivi, come madre dell’eloquenza e dei filosofi nella Translatio Sancti Dionysiii Areopagitae in monasterio Sancti Emmerammi (sec. XII), ed. R. Köpke, SS 11, Hannoverae 1854, p.

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all’insegnamento dei Padri, ai canoni ed ai vescovi più autorevoli50. Alla Chiesa di Costantinopoli, che ebbe vescovi eretici (da Nestorio a Eutichio), viene contrapposta quella romana, fondata sulla fede di Pietro ed immune dall’eresia, anche se papa Liberio «non virtute qua debuit perfidis Arianis viriliter repugnavit»51. Il dovere della continenza per il clero si fonda per Ratramno sulla necessità che esso sia libero dalla sollicitudo mundi e ben distinto dallo stile di vita dei laici coniugati52. Enea, che dedica ampio spazio alla questione (capp. 95-168), osserva che se la castità è raccomandata ai laici (definiti vulgares, saeculares, carnales), tanto più deve essere osservata dagli ecclesiastici (definiti spiritales)53, richiamando numerosi testi (in parte utilizzati anche nella Responsio del concilio di Worms), tra cui varie decretali dei papi Siricio, Innocenzo I, Leone I54, numerosi decreti conciliari, le omelie origeniane sul Levitico tradotte da Rufino (Hom. III 3, V 3-4, VI 3 e 6), Ambrogio (De officiis ministrorum), Girolamo55, l’Ambrosiaster, Isidoro di Siviglia (De ecclesiasticis officiis II 5, 11-12 e 15; 18, 2), nonché la vita di Basilio di Cesarea, tradotta da Eufemio e trasmessa dal codice Pal. lat. 582, copiato alla fine del X secolo56. Per difendere il digiuno sabbatico, ricondotto da Ratramno all’apostolica auctoritas ed alla memoria della sepoltura del Signore57, Enea richiama l’epistola di Innocenzo I a Decenzio di Gubbio58, mentre per quello quaresimale evidenzia la varietà di usi regionali, disciplinata dalla Chiesa romana, che lo fissò in quaranta giorni59. 351: «Floreat ergo Athene, fandi et eloquentiae nutrix, philosophorum genitrix, theosopho illustrata Dionysio, Graecia tota tanti praesulis miraculis et doctrina». 50   Enea, 690AB: «defensio Patrum, concordia canonum, auctoritas et victoria excellentissimorum antistitum». Ratramno III6, 304A richiama l’auctoritatem della Scrittura e dei Padri. 51   Enea, pref., 686C-689C, che, richiamando Ambrogio, De fide IV 5, vede in Pietro il firmamentum Ecclesiae; 690AC. 52   Ratramno IV 6, 327BC. 53  Enea, 95, 721D-722D: «Et si talia in saecularibus laudantur, abundantius in ecclesiasticis honestiora esse videntur»; 102, 724D, e in generale 95-168; cfr. Ratramno, IV 6, 324D-332A, che intende salvaguardare la differenza «inter laicos et sacri altaris ministros» (332A). 54   Enea 97-121, che cita ad esempio 97-99, 723B-724A) la prima decretale di papa Siricio al vescovo Imerio di Tarragona (Zechiel-Eckes 2013). 55   Cfr. Enea, 148, 733BC, ove viene ripreso un passo dell’Adversus Iovinianum, I 34, in PL 23, 269, che con un richiamo implicito a 1 Cor. 7,5 stabiliva un nesso tra la preghiera continua del clero e il dovere della castità assoluta: «si laicus et quicunque fidelis orare non potest, nisi careat officio coniugali, sacerdoti, cui semper pro populo offerenda sunt sacrificia, semper orandum est. Si semper orandum est, ergo semper carendum matrimonio», anche se in I 40, 281 (citato poco oltre: 154, 734BC) Girolamo precisava che «virginitas sola non salvat». 56   Enea, 166-167, 738C-739B. Cfr. BAV, Pal. lat. 582, ff. 126r-139r, in particolare 129r, 130v-131r; Sankt Gallen, Stiftsbibliothek, 566 (sec. IX-X), ff. 157-212; Galli 1994, pp. 70-73. 57   Ratramno IV 3, 313A, 316B. 58   Enea, 170, 739C-740A: «propter passionem Domini». 59   Ivi, 175, 741D-742B: «De hoc etiam quod quaeritur, quare septem hebdomadibus ante Pascha ab esu casei et ovorum non abstinemus, sed tantummodo sex, dicendum breviter quia talis exactio

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Entrambi distinguono l’unzione sulla fronte, riservata ai vescovi chiamati ad amministrare il sacramento della Cresima, dall’unzione sul capo dei battezzandi, che sarebbe stata concessa ai presbiteri da papa Silvestro: Enea sottolinea la svolta epocale dell’età costantiniana, che segnò la fine di una fase di nascondimento e legittimò alcuni cambiamenti60. Il taglio della barba praticato dalla Chiesa latina e contestato dai Greci ha per Enea un valore ascetico61, e la tonsura è segno di rinnovamento spirituale62, mentre la prassi greca di nutrire la chioma more feminarum sembra contraddire il passo paolino di 1 Cor 11,14-15, anche se in linea di principio ogni popolo può mantenere le proprie consuetudini, se non sono in contrasto con la fede cattolica63. Richiamando Eugenio di Toledo, egli osserva ironicamente che se la barba rendesse santi, nessuno sarebbe più santo di un caprone64. superflua ex sanctis Scripturis non habet auctoritatem; nam per diversas regiones varius exercetur abstinentiae usus. […] Cum his et aliis modis per multa spatia orbis Quadragesimali tempore ordo abstinentiae confundatur, potissimum et optimum delegit Romana sedes continuare et extendere ante Pascha jejunium in numero quadraginta dierum». L’uso occidentale è considerato più razionale in quanto si osserva in modo continuativo il digiuno, per quanto per un periodo leggermente più breve (174, 741AB: «Quod etiam quaeritur cur non cessamus octo hebdomadibus ante Pascha a carnium esu, et septem a caseo et ovis; ad hoc breviter respondendum, quia in Quadragesimali jejunio nos perfectius Dominum imitamur, qui eosdem dies continuatim, ut ipse Dei Filius, jejunamus, non dirimentes, nec interrumpentes spatium abstinentiae et jejunii», che cita poi Gregorio Magno, Hom. in Ev. I 16,5. Sulle disposizioni del concilio Trullano (692) in materia di digiuno, contro le quali polemizzano gli autori carolingi, cfr. Brunet 2007, pp. 53-55 e 62-63, e più in generale Brunet 2011, pp. 129-193. 60   Ratramno IV 7, 334A, che dopo aver ripreso la cita epistola di Innocenzo I precisa, replicando ai Greci, che gli Occidentales episcopi non preparano il crisma «de fonte […], sed ex succo balsami, vel olivae liquore», come fanno tutte le Chiese; Enea 179, 744B: «Usque ad illud tempus non generaliter omnes baptizabantur […] ideo facile neophytis poterat occurrere episcopus, vel ipsi ad episcopum venire, quia adhuc Christianitas angusta erat et clanculo agebatur». 61   Cfr. Enea 183, 746A: «Barbam quippe radunt, qui sibi de propriis uiribus fiduciam subtrahunt», che richiama Gregorio, Moralia I 36, 53, mentre nel cap. 182 viene utilizzato il commento di Girolamo a Ezechiele, II 5. 62   Ivi, 185, 746-747. 63   Ivi, 186, 747C: «Cum ergo Graeci Latinos et Romanos redarguant cur barbas radant, qui ob munditiam utique hoc agunt, quam expressius ecclesiasticum expedit et deposcit ministerium; quippe cum diversae nationes suam observent consuetudinem in cultu corporis et vestimentorum indumentis, et hoc sine crimine, ita duntaxat ut non discrepet a catholica fide; convenienter et Latini vicem quaestioni rependunt, quare Graecorum laici more feminarum contra interdictum tonantis Pauli comas nutriant». 64   Ivi, 747D: «Dixit itaque quidam sanctitate et oratorum eloquio pollens; si aliqua sanctitas subintelligitur in corporalibus barbis, forte aliquem posset locum in grandioribus hircis». Cfr. il concilio di Worms, Responsio, p. 307, che richiama Eugenio di Toledo, Libellus carminum 89, ed. P.F. Alberto, in CC SL, 114, Turnhout 2005, p. 272: «Si barbae sanctum faciunt, nil sanctius hirco». Sul significato attribuito alla barba dagli autori cristiani e nelle diverse tradizioni religiose cfr. Bormolini 2009.

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La questione del Filioque Se papa Leone III aveva mantenuto l’antica professione di fede, resistendo alle pressioni della corte franca, nell’867 Niccolò I richiama, contro le accuse di Fozio, l’esistenza di vari scritti de processione Spiritus sancti, senza però scendere nei dettagli65. Come altri autori, Ratramno attribuisce ad Atanasio la formulazione del Credo Quicumque vult, il cui prestigio come sintesi della dottrina ortodossa fu in età carolingia assai alto66. Agostino aveva posto le premesse della dottrina del Filioque67, salvaguardando però l’idea che il Padre era l’origine principale del Figlio e dello Spirito Santo, per cui quest’ultimo derivava principaliter dal Padre. Questa preoccupazione, di cui si può ritrovare una traccia in Ratramno, verrà meno nel secondo millennio, soprattutto con Anselmo d’Aosta68. Ratramno raccoglie nei primi tre libri del suo trattato una serie di passi biblici e patristici per dimostrare la continuità tra la fede dei Padri, «tam Latinorum quam Graecorum»69, e quella attualmente professata dalla Chiesa latina70: una continuità spezzata dagli imperatores moderni, che, fondando una sectam, si differenziano da quelli ortodossi della tarda antichità, che regnavano non solo su Costantinopoli ma anche su Roma e sapevano riconoscere il catholicum dogma71. Egli ribadisce che la missio dello Spirito Santo deve essere interpretata come una processio e non come un semplice obsequium, se non si vuole ricadere nell’eresia 65   Ep. 100, p. 605: «Praeterea de processione spiritus sancti quis nesciat inlustres viros et praecipue Latinos nonnulla scripsisse, quorum fulti auctoritatibus istorum oppido sanum respondere possemus insaniae, si vel illis nos reprehendendi vel nobis eis contentiosa fauce gannientibus rationem reddendi consuetudo quaelibet extitisset». 66   Ratramno II 3, 247CD; cfr. Willjung 1998, pp. 237-238, 268, 334; Kelly 1964, p. 42. 67  Cfr. Simonetti 1975, pp. 362-367, 480-501, il quale osserva (p. 501 nota 115) che «è solo con Agostino che il problema della processione dello Spirito santo viene consapevolmente impostato in Occidente». 68   Ratramno, III 3, 282AB e 287D (da Agostino, De Trinitate XV 17 e 26). Cfr. Garrigues 1996, pp. 191-195; Lanne 1999; Cipriani 2015, pp. 110-112. 69   Ratramno II 3, 247C. 70   Ivi, I 2, 228CD: «sicut et Patrs nostri senserunt et confessi sunt; et sic ipsi senserunt et professi sunt, sicut apostoli senserunt et docuerunt»; II 3, 247D: «Hanc fidem ex illis temporibus […] usque ad nostra tempora occidentalis tenuit Ecclesia. Sed nec Graecorum abdicavit catholica»; 3, 253C: «semper et Orientalis et Occidentalis Ecclesiae similis eademque de Spiritu sancto fidei mansit professio»; 5, 266D-267A: «His sociemus quid per eadem tempora Romana sensit Ecclesia de Spiritu sancto, ut comprobaverimus novam non fore sectam quam praedicat, sed olim a Patribus commendatam, et per universum totius Ecclesiae corpus vindicatam». 71  Ivi, II 4, 258D-259A: «vestrorum maiorum, Romanorum videlicet imperatorum, pietatem evertitis, qui hanc fidem semper coluere, et pro ea decertantes multa veneratione dilexere»; 5, 266CD. Un’altra allusione polemica ai moderni Graecorum si ritrova ivi, IV 3, 316D; cfr. anche I 5, 238B: «Non igitur arguant Graecorum imperatores Latinos».

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ariana72. Ratramno replica alle accuse di Fozio sottolineando la legittimità di un arricchimento dei nuda verba della Scrittura e del Simbolo niceno-costantinopolitano (come era avvenuto al concilio Costantinopolitano I con l’aggiunta dell’inciso «procedentem a Patre») per combattere le eresie emergenti in quella confusio che investì la Chiesa dai tempi di Ario73: se il primo concilio di Costantinopoli ha potuto arricchire il Simbolo niceno con un riferimento allo Spirito, al di là delle nude parole della Scrittura, così anche ai Romani e alle Chiese latine va riconosciuto il diritto di precisare la dottrina sullo Spirito con l’aggiunta del Filioque (che del resto non è stata combattuta in passato dalla Chiesa greca)74, esplicitando ciò che in precedenza restava implicito75. La riflessione sullo Spirito Santo è condotta con l’ausilio di una serie di estratti di testi patristici in buona parte coincidenti con quelli utilizzati in occasione del concilio dell’809 da Teodulfo, e poi da Enea nei capp. 1-94 del suo trattato: il De Trinitate dello Pseudo Atanasio76; Gregorio Nazianzeno77; il trattato sullo Spirito Santo di Didimo nella versione latina di Girolamo78; testi di Cirillo e Ilario di Poi  Ivi, I 3, 229B; cfr. III 3, 278D: «Frequenter dictum est missionem Spiritus processionem esse». Sulla nozione di processio nella teologia latina cfr. Lanne 1999. 73  Ratramno II 2, 245BC: «respondemus hoc idem licuisse propter futuras haereticorum quaestiones», e 246AB: «eadem concedite Latinis Ecclesiis, ut licet nudis verbis Evangelia  non dicant de Filio procedere Spiritum sanctum, multis tamen modis ostendant Spiritum esse Filii, sicut est Spiritus Patris, et a Filio procedere, sicut procedit a Patre», ove appare significativa la nozione di Latinae Ecclesiae, così come l’idea di una esplicitazione della dottrina sollecitata dall’esigenza di combattere l’eresia; 3, 247D: «Quam fidei veritatem Latinorum praesules doctorum comprobantes, et adversus pravi dogmatis Ariani singulare munimen considerantes, et de Scripturis sanctis propagatam intellgentes, symbolo fidei superaddidere […] Hanc fidem ex illis temporibus, videlicet Constantini, […] usque ad nostra tempora Occidentalis tenuit Ecclesia. Sed nec Graecorum abdicavit catholica, quoniam noluit doctrinae veritatis aliena fieri». Sulla «teology of interpolation» di Ratramno cfr. Haugh 1975, p. 116: «Ratramnus accepts essentially the two criteria established by Paulinus for “legitimately” adding to the Creed». Sull’«arricchimento del Simbolo» cfr. Bux 2015. 74   Ratramno II 3, 253C (dopo la citazione di alcuni passi di Gregorio Nazianzeno già utilizzati da Arnone: Willjung 1998, p. 281): «verum semper et Orientalis et Occidentalis Ecclesiae similis eademque de Spiritu sancto fidei mansit professio». 75   Ratramno II 2, 245A-246A; Sieben 1979, pp. 183-187. 76   Ratramno, II 3, 247C (Quicumque); III 6, 297-302; Enea 1-19, 690D-701B. Su questi testi pseudoatanasiani, editi da V. Bulhart in CCSL 9, Turnhout 1957, cfr. Simonetti 1956; Simonetti 1975, pp. 455-458; Dattrino 1980; Müller 2010, pp. 19-23; Platon-Nicollet 2014, pp. 8385. Enea integra i passi presenti in Teodulfo (che fornisce i titoli introduttivi dei singoli capitoli) con altri attinti direttamente dalla fonte antica. 77  Ratramno II 3, 248BC, che riprende liberamente l’omelia XLI 9 In Pentecosten di Gregorio Nazianzeno (PG 36, 441AB) tradotta da Rufino e già utilizzata da Arnone (Willjung 1998, pp. 256257, 274-275, 281. Cfr. Moreschini 2015, p. 146, il quale osserva che il Filioque, non esplicitamente attestato dai Padri Cappadoci, poteva apparire a lettori posteriori «come una conseguenza, più o meno giustificata, della loro pneumatologia». 78   Ratramno II 5, 259-266; Enea 29-34, 704C-706A (Liber de Spiritu sancto, 25-26, 31, 38-39, 62), che riprende Didimo attraverso Teodulfo di Orléans, Libellus 17-22, in Willjung 1998, pp. 344-349. Sulle fonti di Enea e Ratramno cfr. Haugh 1975, pp. 179-205. 72

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tiers79; il De Spiritu sancto di Ambrogio80; il De Trinitate, il commento a Giovanni e il Contra Maximinum di Agostino81, nonché opere di Gennadio di Marsiglia e Fulgenzio di Ruspe82, Cassiodoro, Cesario e Fausto di Riez83, Gregorio Magno84. Ratramno utilizza sotto il nome di Agostino anche opere pseudoagostiniane, come il Dialogus quaestionum e l’Adversus quinque haereses85, mentre Enea cita anche Cassiodoro (Expositio psalmorum, L 14; LXI 2), Giuliano Pomerio, Isidoro (spesso citati attraverso Teodulfo), il De fide sanctae Trinitatis e le Quaestiones de sancta Trinitate di Alcuino86 e il concilio di Cividale del 796-797, il cui Credo, che includeva il Filioque, è considerato la professione di fede comune all’intera Galliarum Ecclesia87. A differenza di Enea Ratramno, pur fornendone diversi estratti, tende a rielaborare ed integrare più liberamente le sue fonti88. Egli cita correttamente il passo del De Trinitate agostiniano che pur affermando la duplice processione dello Spirito dal Padre e dal Figlio affermava che esso «procedit principaliter» dal Figlio89; ma non affronta la questione della mancata ratifica dell’introduzione del Filioque nel Credo da parte di un concilio ecumenico che coinvolgesse attivamente anche le Chiese d’Oriente. Inoltre il manoscritto Vat. lat. 151 di Ratramno modifica (errore dello scriba o variante intenzionale?) un   Enea 24-28, 702C-704C (da Teodulfo, 9-13).   Ratramno II 4, 253-258 cita Ambrogio, De Spiritu sancto, I 3, 44; 11, 119-120, 122; II 11, 118; 12, 130-131 e 134; III 1, 6; 7, 44 e 47; Enea 20-23, 701-702 De Spiritu sancto I 11, 127-125; III 1,8-III 3, 11; 19-20, 152-154; De fide, II 9. 81   Agostino è utilizzato soprattutto nei capp. 2-4 del terzo libro di Ratramno, coll. 273-294 (In Johannis Tractatus XCIX, 6 e 8-9; C, 4; De Trinitate, I 4-5, 12; XV 6-7, 17 e 19, 23, 25-27; Contra Maximinum II 4, 1; 5; 14, 1). Cfr. III 4, 294C, ove Ratramno afferma che chi contraddice Agostino sulla processione dello Spirito «hostis catholicae fidei reperitur». 82   Ratramno, III 5, 294D-297A (Gennadio, Liber ecclesiasticorum dogmatum, 1; Fulgenzio, ep. 14,21 e 28). Su Fulgenzio, che utilizzò per la prima volta l’espressione Filioque, e gli altri Padri latini cfr. Giuliano 2015. 83   Ratramno II 6, 266D-270C cita Fausto di Riez, De Spiritu sancto, I, sotto il nome di Pascasio («Ex Paschasio»). 84   Ratramno III 2, 274BC cita Gregorio Magno, Hom. in Evang. II 26, 2; Enea 56-59, 711-712 (attraverso Teodulfo 52-55) Hom. in Evang. II 26,2; Moralia II 65, 89-91; V 36, 65. 85   Ratramno III 2, 273C-274A; 4, 290A. 86   Enea 79-89, 718D-720C cita vari passi del De fide, I 5, 7, 13, 16; II 9, 11, 19-21; III 5, e delle Quaestiones de Trinitate, II, resp. 150 (ed. E. Knibbs, E. A. Matter, in CC CM, 249, Turnhout 2012). 87  Enea 93, 721A: «Item in fide catholica, quam die dominica decantat ad missam universalis Galliarum Ecclesia, sic canitur». Sul concilio di Cividale cfr. Piussi 1998b, p. 50; Grohe 2015, pp. 28-31. 88   Sulle sue fonti cfr. Ganz 1990, p. 92. Sul metodo di lavoro di Ratramno cfr. Pezé 2017b. 89   Ratramno III 3, 282A, che riprende De Trinitate XV 17 (testo già utilizzato da Teodulfo, Libellus de processione Spiritus sancti, 37, pp. 357-358); e 287D: «Filius autem de Patre natus est; et Spiritus sanctus de Patre principaliter, et ipso sine ullo intervallo temporis dante, communiter de utroque procedit», che cita De Trinitate XV 26. 79 80

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passo del De Trinitate agostiniano (XV 17) in cui l’espressione «insinuat caritatem» viene sostituita da «insinuat Trinitatem»90. Due ecclesiologie a confronto La controversia sul Filioque si intreccia con quella relativa al ruolo dei concili ed al primato romano, che tuttavia non emerge in primo piano negli scritti di Enea e Ratramno91. Reagendo alle accuse riportate nelle citate lettere di Niccolò I e di Incmaro92, essi tendono a enfatizzare, anche retrodatando (come nel caso dei canoni degli apostoli e della prefazione del concilio niceno) o interpretando in modo non corretto fonti antiche (come nel caso del concilio di Sardica e della Historia ecclesiastica tripartita), il ruolo del vescovo di Roma, ma non precisano la portata del suo ruolo dottrinale93. Pur dedicando solo l’ampio capitolo finale del quarto libro alla trattazione specifica del tema del primato94, Ratramno contesta ripetutamente le pretese della Chiesa costantinopolitana e dell’imperatore bizantino, sottolineando l’universalità della Chiesa e l’impossibilità di consentire ad una Chiesa di dettar legge alla Chiesa universale95, e ribadendo che Dio non concesse il potere di legare e sciogliere gli imperatori ma ai vescovi, ed in particolare ai successori di Pietro96. La concezione cristiana orientale del ruolo ecumenico dell’imperatore, chiamato a convocare i concili ed a garantire la comunione tra le chiese97, risulta ormai estranea all’orizzonte di Ratramno, che affida tale compito al pontefice romano, adducendo testimonianze anche di fonti greche, di cui fornisce un’interpretazione massimalista98. Egli non affronta esplicitamente la questione della legittimità di introdurre innovazioni nelle   Ratramno III 3, 281D (BAV, Reg. lat. 151, c. 70v).   Congar 1968, pp. 156: «la question de l’ordre des sièges ne se trouve pas au premier plan, mais au dernier» e 161-162. 92   Niccolò I, ep. 100, p. 604, ove il pontefice sottolinea che «numquam Hesperiae regiones […] a sede beati Petri in huiuscemodi quaestionibus dissonantes inventae sunt»; Incmaro, ep. 201, p. 226: «Et adhuc, quod est gravius et insanius, a missis nostris contra omnem regulam et praeter omnem consuetudinem libellum fidei, si se ab illis recipi vellent, exigere moliebantur, in quo tam ista capitula quam ea tenentes anathematizarent, necnon epistolas canonicas ab his ei, quem suum oecomenicon patriarcham appellant, dandas inprobe requirebant. Et ipse invasor Constantinopolitanae ecclesiae Photius in scriptis suis se archiepiscopum atque universalem patriarcham appellat. Et imperatores Grecorum legatos apostolicae sedis cum epistolis veneratione, qua debuerunt, recipere noluerunt». 93   Kennedy 1983. 94   Ratramno IV 8, 334A-346B. 95   Ivi, II 1, 244BD; III 1, 272C-273C 96   Ivi, II 1, 243D-244B. 97   Pertusi 1990, pp. 34-37, 65-77; Alzati 1991; Morini 2018a, pp. 17-46. 98   Ratramno IV 8, 336AB, e 341B «Chalcedonensem synodum videamus eius permissione fuisse collectam»; cfr. 357B, ove la ratifica papale appare necessaria per conferire validità ad un concilio: 90 91

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formule di fede, come quella relativa al Filioque, senza che venisse convocato un concilio ecumenico99. All’epoca di Niccolò I e di Giovanni VIII, il papato sviluppa la propria autocoscienza, proponendosi come vertice della Chiesa universale e, sul piano politico, della cristianità latina100, e riappropriandosi del proprio retroterra romano-mediterraneo anche in competizione con gli imperatori carolingi101. Ratramno, che ribadisce la volontà di restare fedele ai fidei termini stabiliti dalle Scritture e dai catholici Patres102, attribuisce alla Chiesa romana il titolo di caput omnium ecclesiarum, già utilizzato nelle lettere papali103, e pur ribadendo, contro il Graecorum tumor, la legittimità di diverse consuetudini e l’auctoritas dei Padri latini104, in quanto la Chiesa è diffusa in tutto il mondo105, considera la comunione con la Chiesa romana (Romana communio), che ha la responsabilità pastorale nei confronti di tutte le chiese (sollicitudo omnium ecclesiarum)106, come la precondizione necessaria per essere in comunione con la Chiesa universale107. Se Niccolò I aveva accusato i Greci di rivendicare un primato della Chiesa costantinopolitana come conseguenza della translatio dell’Impero da Roma a Costantinopoli108, e di pretendere lettere commendatitias, che solo la Chiesa romana aveva il diritto di chiedere in virtù del primato petrino109, Ratramno ribadisce che la dignità della Chiesa di Costantinopoli dipende soltanto da quella della capitale imperiale, la “seconda Roma”110, pur riconoscendo un pa«Quaecunque concilia eius sententia roborata sunt, rata manserunt; quae vero damnavit, pro nihilo reputata sunt». 99   Sieben 1979, p. 187. 100   Kennedy 1983, p. 116; Lapôtre 1978; Arnaldi 1990. 101   Arnaldi 1990. 102   Ratramno III 1, 271B. 103   Savigni 2017, pp. 37-38, 44-45. 104   Ratramno III 1, 272B, 273BC; IV 2, 311CD. 105   Ivi, 272BC-273B. 106   Ivi, IV 8, 341-344, con citazione delle lettere di Leone I ad Anastasio di Tessalonica e del patriarca Acacio a papa Simplicio (PL 58, 46AB; Hinschius 1863, p. 632). 107   Cfr. Ratramno, II 2, 246BC; 6, 271A-272A: «Et dum Romanos sua cupiunt communione privare, se pariter excommunicent a suorum societate maiorum: et nulli probentur Ecclesiae communicare catholicae, dum Romana communione sese faciunt alienos. Hoc factum cuius sit mali cito considerent, et errorem corrigere suum non differant; ne si Romanis communicare noluerint, ab universa catholica Ecclesia se paveant excommunicandos». 108   Ep. 100, p. 605: «Sed quid mirum, si haec isti praetendunt, cum etiam glorientur atque perhibeant, quando de Romana urbe imperatores Constantinopolim sunt translati, tunc et primatum Romanae sedis ad Constantinopolitanam ecclesiam transmigrasse et cum dignitatibus regiis etiam ecclesiae Romanae privilegia translata fuisse, ita ut eiusdem invasor ecclesiae Photius etiam ipse se in scriptis suis archiepiscopum atque universalem patriarcham appellet». 109   Ivi, p. 606. 110   Ratramno, IV 8, 344A: «Quam autem reverentiam Constantinopolitanus episcopus obtinere debeat, non suo merito, sed quia secunda vocitata sit Roma, testatur Justiniani pragmaticum imperatoris» (con rinvio alla Novella 131, 2 ed alla Historia ecclesiastica tripartita, IX 13,7, ed. W. Jacob et R. Hanslik,

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rallelismo tra il primato della città di Roma (honorabilior rispetto alle altre città dell’Impero) e quello del pontefice titolare di tale sede111. Se Cristo è capo di tutta la Chiesa, Egli ha trasferito il potere sulla sua parte terrena agli apostoli Pietro e Paolo, per cui la Chiesa romana è caput omnium Christi ecclesiarum, ed il suo vescovo è caput episcoporum112. Se i Greci si appellavano alla transmigratio Romanae sedis a Costantinopoli per legittimare il ruolo primaziale rivendicato dal patriarca113, in virtù di quello che è stato definito “principio di adattamento”114, Enea riprende la tradizione che collocava al econdo posto dopo Roma la sede di Alessandria115 e contrappone alla teoria pentarchica116 quella triarchica, che collocava al vertice della cristianità le tre sedi petrine di Roma, Alessandria ed Antiochia117. La praefatio Niceni concilii, trasmessa dalle pseudo-isidoriane e citata da Enea, stabiliva un preciso ordine delle tre sedi petrine, precisando che il primato romano non si fondava sui decreti dei concili ma sulle parole di Cristo (Mt 16,18-19)118, e che alla sede di Gerusalemme, per quanto onorevole, non era stato concesso il primato per evitare che venisse identificata con la vera sede di Cristo, che si trova invece in cielo119. CSEL, 71, Vindobonae 1952, p. 508: «Tunc etiam regulam protulerunt, ut Constantinopolitanus episcopus haberet honoris privilegia post pontificem Romanum, eo quod sit nova Roma»). 111   Ratramno, 339BC: «ut pote cum sit civitas haec domina omnium, et illi civitati quisquis praefuerit episcopus, ex antiquitatis constitutione princeps omnium habeatur ecclesiarum». 112   Ivi, II 2, 245C; IV 8, 335B-337B, 338C (che richiama l’ep. 2 di Adriano I, ed. K. Hampe, in MGH, Epist. V, Berolini 1899, p. 51). 113  Enea, pref., 689C (= epistolae variorum 1925, 22, p. 175): «Conqueruntur etiam de transmigratione principatus Romanae sedis, quam dicunt factam Constantinopoli (sic), unde et eam cum patriarcha suo caput dignitatis appellant». 114  Cfr. Petrucci 1966. 115   Cfr. Enea 1, 689D; 195, 751C. 116   Analizzata da Peri 1987; Herrin 2004; Morini 2014. 117   Enea 187, 748D. Cfr. Alzati 1986, pp. 506-508; Schieffer 1991; Savigni 2017, p. 63. 118   Enea 187, 748B: «Sciendum est sane ab omnibus catholicis quoniam sancta Ecclesia Romana nullis synodicis decretis praelata est, sed evangelica voce Domini et Salvatoris nostri primatum obtinuit, ubi dixit beato apostolo Petro: Tu es Petrus», che riprende la praefatio (Hinschius 1863, p. 255: in parte richiamata anche da Incmaro, Opusculum LV capitulorum, 15) piuttosto che (come ipotizzava Petrucci 2001, p. 35) l’epistola III dello Pseudo Anacleto (Hinschius 1863, p. 83), ove manca l’accenno a Gerusalemme. Cfr. Opus Caroli 1998, I 6, p. 133: «Sicut igitur ceteris discipulis apostoli et apostolis omnibus Petrus eminet, ita nimirum ceteris sedibus apostolicae et apostolicis Romana eminere dinoscitur. Haec enim nullis synodicis constitutis ceteris ecclesiis praelata est, sed ipsius Domini auctoritate primatum tenet, dicentis: Tu es Petrus». 119   Enea 187, 749A: «Itaque secundum antiquorum Patrum definitionem sedes prima in Hierosolymis minime dicitur, ne forte ab infidelibus aut idiotis sedes Domini nostri Jesu Christi, quae in coelo est, in terra esse putaretur. Est enim sedes ejus coelum, terra autem scabellum pedum ejus est, quoniam ipse est, per quem omnia facta sunt» (dalla stessa fonte, la praefatio). Anche Niccolò I ribadisce, nel cap. 92 dei Responsa ai Bulgari, che la vera Gerusalemme è quella celeste, e che i veri patriarchi sono i titolari delle tre sedi petrine (ep. 99, pp. 596-597; Herbers 1993, pp. 67-69). Sulle tradizioni di apostolicità cfr. Savigni 2017, pp. 32-33, 62-63.

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Per sottolineare l’origine divina del primato romano ed il ruolo universale del pontefice (definito nell’epistola prefatoria di Enea pater totius Ecclesiae)120, e ridimensionare nel contempo le pretese ecumeniche del patriarca di Costantinopoli (il cui ruolo è ricondotto unicamente al favore imperiale)121 Enea richiama numerose lettere papali di Leone I e Gelasio, nonché di Gregorio Magno, e fa riferimento anche alla deposizione (giudicata arbitraria) del patriarca Ignazio ed all’insediamento irregolare di Fozio, definito invasor e neophytus per la sua repentina consacrazione episcopale, nonostante fosse un laico coniugato122. La violenza con la quale egli giunse al potere è paragonata a quella che determinò la deposizione di papa Silverio (e il conseguente avvento di Vigilio) e l’ascesa al potere pontificale di Costantino II invasor apostolicae sedis123. Il singulare privilegium della sede romana (che precede in dignità quelle di Alessandria e di Antiochia)124 è corroborato, oltre che dai concili (le cui attestazioni sono definite unanimi) e dalle decretali papali125, dal Constitutum Constantini, di cui Enea attesta la presenza negli archivi delle Chiese delle Gallie: esso legittima il trasferimento al pontefice romano di uno ius regium su tutta la Chiesa126, al quale fa   Enea, pref., 690C (epistolae variorum 1925, 22, p. 175).   Ibid., 192, 750B: «quod urbs ipsa sit iunior Roma»; 209, 758CD. Per Ratramno il patriarca di Costantinopoli deve essere contento della «sui mensura honoris» (IV 8, 346AB). 122   Enea 209, 759C. Cfr. il concilio romano dell’863, c. 3 (in Conc. IV, p. 144) e Niccolò I, ep. 91, p. 521, ove Fozio è definito «neophytus et Constantinopolitanae sedis invasor». La polemica contro l’ordinazione episcopale di laici compare anche in Ratramno, IV 8, 334BD: «Graecorum imperatores, tam divina quam humana iura transgredientes, faciunt sibi de laicis subito tonsis episcopos», con citazione della Novella VI, 1 di Giustiniano. 123  Enea 209, 759BC: «Igitur quod Ignatius, Constantinopolitanae sedis episcopus, nuper apostolicam sedem juxta statuta Patrum canonice reclamans, indigne dicitur damnatus; et Photius neophytus in loco ejus contra regulam ecclesiasticam constitutus, non episcopus dicendus, sed potius invasor, a conjugio illico solutus et tonsoratus, quantum a ratione aberrat, aperte cognoscere valet, qui synodalium definitionum inscitia caret. Pro simili invasione olim miserabilis dispendii exitium passa est Romana Ecclesia, veluti sub temporibus Vigilii pontificis contigit, qui Silverii venerabilis  papae sedem ipso adhuc vivente et exsilio deportato turpissime vi arripuit; necnon etiam sub beato Stephano papa, a sancto Petro nonagesimo sexto evenit, quando dux quidam vocabulo Toto fratrem suum Constantinum subito tonsorari fecit, et alia die contra statuta canonum idem in diaconum consecratus, et proximiori Dominica non digne pontifex acclamatus, sed potius invasor apostolicae sedis judicandus, Romanam Ecclesiam discordiae cladibus et cruentis homicidiis foedavit». L’antipapa Costantino II era già definito invasor apostolicae sedis nel concilio romano del 769 (MGH, Concilia, II/1, ed. A. Werminghoff, Hannoverae et Lipsiae 1906, p. 85). Su queste vicende si vedano le voci dell’Enciclopedia dei papi, Roma 2000. 124   Enea 187, 748AD; 195, 751C; 205, 755CD. 125   Ivi, 758A: «De privilegio principatus apostolicae sedis pauca ex multis et diversis auctoritatibus Canonum et Romanorum pontificum collecta sunt, in quo omnia concilia sanctorum Patrum unanimiter concordare videntur, nec in aliquo aberrare dignoscuntur». Per ribadire il singulare privilegium totius principatus della Chiesa romana ed evidenziare «quanta dignitate cunctis per orbem Ecclesiis praepolleat» Enea richiama alcune lettere di papa Gelasio (195, 751B-752A). 126   Ivi, 758AC: «Postquam enim Constantinus imperator monarchiam mundani saeculi tenens, Dei inspirante clementia Christianitatis suscepit signaculum, et pro Dei amore et principis apostolorum 120 121

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da controaltare l’ambizione dei patriarchi della nuova regia sedes, Costantinopoli, che imitando la superbia di Lucifero tentano di usurpare il titolo di universalis papa127. Se in questo opuscolo non mancano letture anacronistiche e fraintendimenti delle fonti, Enea percepisce comunque, sulla scorta di Girolamo, il processo evolutivo delle istituzioni ecclesiastiche, sfociato nella netta distinzione tra i due ministeri del vescovo e del presbitero, inizialmente indifferenziati: mosso dall’esigenza di giustificare la prassi romana che ammetteva l’ordinazione episcopale di un diacono, egli, dopo aver confessato l’impossibilità di fornire una risposta razionale e di trovare un fondamento biblico128, sottolinea gli elementi comuni ai due ministeri (come il potere di consacrare il corpo e il sangue di Cristo) e sembra suggerire, con le parole di Girolamo (il quale aveva affermato che la superiorità dei vescovi sui presbiteri si fonda sulla consuetudine piuttosto che su una specifica disposizione del Signore), un governo della Chiesa fondato sulla collaborazione tra il vescovo ed il collegio dei presbiteri129, mentre Ratramno sottolinea piuttosto la «differentia non parva» tra vescovi e semplici sacerdoti130. Osservazioni conclusive: una svolta ecclesiologica Identificando negli imperatori d’Oriente i veri interlocutori, Ratramno intende ridimensionarne il ruolo teologico, proponendo ad essi di diventare fedeli filii honore sua sponte thronum Romanae urbis reliquit, dicens non esse competendum duos imperatores in una civitate simul tractare commune imperium, cum alter foret terrae, alter Ecclesiae princeps, tandem ut cunctis legentibus liquet Byzantium adiit, ubi ex suo nomine Constantinopolim construens, regiam sedem fecit. Proficiscens vero, Romanam ditionem apostolicae sedi subjugavit, necnon etiam maximam partem diversarum provinciarum eidem subjecit. Denique subrogata potestate, et solemniter regia auctoritate Romano pontifici contradita, loco cessit, et ob capessendum coeleste imperium Deo, sanctoque Petro honorem regni in posterum ampliandum reliquit. Itaque singulare privilegium et mirabile testamentum toto tunc orbe vulgatum apostolicae sedi conscribi jussit […] in quibus etiam inter alia specialiter continere voluit, ut apicem omnis principatus Romanus papa super omnem Ecclesiam ejusque pontifices perenniter velut jure regio retineret. Haec et alia quam plurima, et ad computandum copiosissima, in eodem releguntur privilegio, cujus exemplaribus Ecclesiarum in Gallia consistentium armaria ex integro potiuntur». Pochi anni più tardi il Constitutum è richiamato liberamente anche nella cronaca universale di Adone di Vienne, 92B. 127   Enea, 758C-759A, con rinvio a due lettere di Gregorio Magno (Registrum epistularum, V 39 e 44). La stessa accusa è rivolta da Ratramno IV 8, 335AB ai Graecorum principes, che «Ecclesiae sibi principatum usurpant». Sulla polemica scatenata dall’uso dell’appellativo «patriarca ecumenico» da parte del patriarca di Costantinopoli e sul suo significato originario cfr. Morini 2018a, pp. 73-78, 165-170, 268-284. 128   Enea 210, 760A e 762C: «non evidentior in praefata propostione potuit inveniri responsio rationalis, quae videlicet praestantior esset auctoritate docentis». 129   Ibid., 210, 759D-762C, che cita il commento di Girolamo alla lettera a Tito, in cui l’origine dell’episcopato monarchico è ricondotta all’esigenza di evitare i conflitti interni alla Chiesa. 130   Ratramno IV 7, 333BC.

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Ecclesiae, nel quadro di quella prospettiva ecclesiologica che era stata delineata, per i sovrani franchi, dall’episcopato carolingio soprattutto a partire dal terzo decennio del IX secolo131. In un periodo storico segnato dal diffondersi di traduzioni dal greco e dalla competizione missionaria in Moravia e in Bulgaria132, egli rifiuta decisamente l’idea di una superiorità della cultura teologica greca e di un ruolo speciale assegnato ai Graeci nella dinamica storica della Chiesa universale, per cui essi potrebbero imporre, come magistri, la loro osservanza all’intera Chiesa133. L’insistenza sulla polarità Occidentales-Orientales, Occidentalis-Orientalis Ecclesia, pur nel richiamo all’unità della fede della Chiesa dei Padri134, evidenzia la percezione di una crescente differenziazione dei percorsi teologici ed ecclesiali delle Chiese greca e latina135, di cui vengono considerati responsabili i moderni Graecorum imperatores, accusati di essersi allontanati dall’antica tradizione comune e di avere ristretto notevolmente il loro orizzonte geoculturale rispetto a quello ben più ampio degli antichi Romanorum imperatores136. L’espressione Graecorum   Ibid., I 8, 243A. Cfr. Savigni 1989, pp. 139-143; Dubreucq 1997.   Si intravvede un accenno all’eresia «figliopatrista» nella Vita di Metodio, 12, 1 (Tachiaos 2005, p. 219). Sulle oscillazioni nell’atteggiamento dei pontefici verso Cirillo e Metodio cfr. ibid., pp. 97-102. 133   Ratramno II 1, 244BD: «Num (Paulus) dicit, quod solis Graecis Christum praedicaverit, et Graecis solummodo imperatoribus Evangelii veritatem patefecerit? […] Nec paginae sanctae loquuntur […] vel Graecos totius Ecclesiae Christi fore magistros, vel ab ipsis monstrandum, vel discendum imperatoribus eorum, quid per totum Christi Ecclesiae orbem vel in habitu, vel in religione, vel dogmate debeat observari»; III 1, 272B-273C, ove viene riaffermata, contro l’orgoglio (tumor) dei Greci, l’universalità della Chiesa, per cui lo Spirito parla di se stesso anche in latino attraverso i doctores Ecclesiae. Per la polemica nei confronti dei Graeci cfr. Gantner 2013. 134   Ratramno I 2, 228C: «In eadem fide tam Orientalis quam Occidentalis semper remansit Ecclesia»; II 3, 253C; IV 2, 310A; 4, 317D; 6, 331BC; 8, 337B: «omnes Orientales Ecclesiae, simul et Occidentales». Il termine occidentalis Ecclesia, già utilizzato da Agostino, sembra designare lo spazio ecclesiale che fa capo al papa in quanto patriarca dell’Occidente (Morini 2009 = Morini 2018a, pp. 373-374), anche se quest’ultima espressione non compare esplicitamente in Ratramno ed Enea. 135  Cfr. Ratramno, I 5, 235B; II 1, 243B, 244B; IV 3, 311D-312A: «Culpant Romanos et Occidentales»; 4, 320A: «tam Romana, quiam Occidentalis Ecclesia» e D («vel Romanos vel Occidentales»); 5, 322A: «non tantum Romanorum, verum omnium Occidentalium Christi Ecclesiarum»; 5, 323A: «Romanos vel Latinos» e D; 6, 331D: «Romanos atque Latinos reprehendentes»; 7, 332B: «et apud Romanos, et apud Occidentales omnes». 136  Ibid., II 5, 266D: «Vos nunc imperatores moderni, novi sectam erroris instituentes»; IV 8, 343D-344A: «nisi forte putant Graecorum imperatores moderni, non illi Romanorum, quorum imperium totius orbis provincias disponebat, hoc sibi licere, quod illis non licuit: et Ecclesiam Romanam, quam illi tanquam matrem venerati sunt, pro libito suo disponere, et auctoritatem quam beato Petro tam Christus, quam omnis Ecclesia, totiusque mundi principatus contulit, immutare posse; quandoquidem civitatem Romam, quae cunctarum principatum Ecclesiarum obtinet, ab imperio suo vident remotam, et omnem Occidentem sibi sublatum, Africamque, et Orientem pene cunctum, praeter paucissimas, Europae, Asiaeque provincias, et paucarum ambitus insularum»; cfr. anche II 3, 253B; 4, 258D-259A: «vestrorum maiorum, Romanorum videlicet imperatorum, pietatem evertitis». 131

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imperatores (o principes) è utilizzata ripetutamente137 al fine di delimitare lo spazio di potere dei sovrani bizantini (accusati di esercitare una pressione tirannica sulle Chiese d’Oriente, che altrimenti sarebbero più in sintonia con le Occidentales Ecclesiae)138 e di svalutarne la funzione in una prospettiva di storia della Chiesa universale. La dichiarazione finale di Ratramno, che si dice pronto a recepire la correctionis censura del destinatario139, rientra nelle consuetudini della prassi epistolare carolingia140, ma lascia intravvedere il suo inserimento in una rete di relazioni con i vescovi Incmaro di Reims e Odone di Beauvais, che gli avevano sottoposto le questioni da analizzare. La riflessione di Ratramno, anacronisticamente evocato come un campione del cattolicesimo, oppure (con riferimento alle sue posizioni sull’Eucarestia e sulla predestinazione) come un precursore della Riforma protestante141, lascia aperto un interrogativo: la Chiesa romana è anzitutto custode della tradizione o ne è la fonte primaria?142 L’aggiunta unilaterale del Filioque è stata considerata come la spia di una concezione della Chiesa «come signora sovrana e non solo umile custode della Tradizione», e come un momento di quella «rifondazione occidentale del cristianesimo» che sarebbe stata avviata dall’Opus Caroli143. Ma un’analisi dei testi di Enea e Ratramno, pur confermando l’ipotesi di una «svolta ecclesiologica» intorno alla metà del secolo IX144, lascia intravvedere ancora una serie di sfumature e di varianti nell’ambito di quel processo di costruzione dell’identità della Chiesa latina che si concluderà soltanto nell’XI secolo.

 Cfr. ibid., I 1, 225D; 6, 235B: «Non igitur arguant Graecorum imperatores Latinos, quod confiteantur Spiritum sanctum procedere a Filio»; II 1, 243BD (Graecorum imperatores); III 1, 271B; 2, 274A (principes); 6, 302CD (imperatores); IV 1, 306BC: «Graecorum sapientes, vel certe principes»; 2, 310A, 311C; 3, 314D; 4, 320D, 5, 323A, 324C; 6, 327B, 328A, 329A, 331B (principes), 330C; 8, 334D. 138   Ivi, IV 6, 331BC; cfr. 8, 337B. 139   Ivi, IV 8, 346B: «Egimus velut potuimus, respondentes ad ea quae nobis scripta misistis. Quae si placuerint, Deo gratias agimus: sin vero displicuerint, vestrae correctionis censuram praestolamur». 140  Cfr. Ricciardi 2005, pp. 75 nota 27, 184-186. 141   Cavallin 1940 (criticato da Congar 1968, p. 156); Phelan 2010, pp. 272-273. 142   Kennedy 1983, p. 109: «to what extent Aeneas or Ratramnus considered the Papacy’s role as custodian of doctrine, or its source»; Willjung 1998, p. 212: «so fällt die Antwort […] nicht leicht». 143   Alberigo 1989, pp. 50 e 52. Sul contesto politico-ideologico (segnato dall’antagonismo francobizantino) nel quale venne redatta l’Opus Caroli (Libri carolini) cfr. anche Arnaldi 1979, 1981 e Ricciardi 2013, che sottovaluta però (pp. 665-667) il peso dei fattori teologici nella costruzione dell’identità franca. 144   Morini 2014 = Morini 2018a, p. 305: «non ci pare arbitrario anticipare alla metà del IX secolo, in oriente come in occidente, l’entrata in crisi della cosiddetta ecclesiologia del primo millennio». 137

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Raffaele Savigni

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L’età moderna e contemporanea

LA SOBORNOST’. UN ALTRO CONCETTO DELLA CONCILIARITÀ

Angelica Carpifave

Col ristabilimento del principio della sobornost’, il Concilio locale della Chiesa ortodossa russa del 1917-1918 fissò due principi ecclesiologici fondamentali: «che custode della fede è il popolo di Dio e che la libertà è nell’unità dell’Ortodossia»1. Il concetto della sobornost’ (cattolicità, conciliarità, comunionalità) è esclusivamente russo, basilare per la Santa Rus’, è alla base del pensiero russo e si irradia in ogni aspetto della vita esistenziale. L’ecclesiologia della sobornost’ è il fondamento della Chiesa ortodossa russa e trova la sua base nell’insegnamento cristiano sulla Chiesa, presente nel Simbolo della fede di Nicea che recita: «Credo nella Chiesa una, santa, cattolica, apostolica» (in russo: Veruju vo ediny, Svjatuju, Sobornuju i Apostol’skuju Cerkov’. Nell’enciclica dei patriarchi orientali del 1848 è scritto: «Noi crediamo che la testimonianza della Chiesa conciliare (kafoličeskaja) non ha meno forza della Sacra Scrittura, in quanto autore dell’una e dell’altra è lo stesso Spirito Santo. Fa lo stesso, apprendere dalla Scrittura o dalla Chiesa Universale […]. La Chiesa Universale […] non può in alcun modo né ingannare, né ingannarsi, né prendere un abbaglio, ma è infallibile in accordo con la Sacra Scrittura e ha importanza perpetua» (membro II). Nel Catechismo cristiano ortodosso si legge: «Perché la Chiesa è detta Sobornaja, o Kafoličeskaja, o Vselenskaja?» – risposta: «Perché non è limitata da nessun luogo, da nessun tempo e nessun popolo, ma racchiude in sé, nella verità, i fedeli di tutti i luoghi, tempi e popoli». Il metropolita Makarij nella sua opera La teologia dogmatica ortodossa scrive: «La Chiesa è detta sobornaja (d’ora innanzi sobornica), kafoličeskaja, o vselenskaja: 1. per spazio. Essa è stata predestinata ad abbracciare in sé tutti gli uomini, dovunque sulla terra; 2. per tempo. La Chiesa è predestinata a   Carpifave 2015, p. 119.

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condurre alla fede in Cristo tutti gli uomini e a esistere fino alla fine dei secoli: 3. per la sua struttura. La dottrina della Chiesa può essere recepita da tutti gli uomini […] non essendo legata a guisa delle religioni pagane e pesino dell’ebraismo stesso a nessuna organizzazione civile. “Il mio Regno non è di questo mondo” (Giov. 18,36) […]. Pure l’ufficio divino della Chiesa può essere compiuto secondo la profezia del Signore, non solo a Gerusalemme, ma ovunque (Giov. 4,24) […] il potere gerarchico in essa non è affatto assimilato come fu nella chiesa ebraica, a un ramo definito di un popolo defunto […] ma può essere comunicato da una particolare chiesa all’altra» (T. 3, § 180). Al centro dell’“idea russa” intesa come cultura intellettuale della Russia, c’è la visione della persona intesa come unione indissolubile del divino e dell’umano. Il pensiero russo è quindi antropocentrico, tende a ipostatizzare, a mettere in rilievo il carattere peculiare della persona. A differenza del pensiero occidentale, che è verticale e tende a suddividere e ad analizzare ogni singola parte, il pensiero russo è orizzontale, nel senso che tende ad allargarsi e ad abbracciare il tutto. Esso ha ricercato un’unità da dare al pensiero europeo, basato invece sullo spirito analitico dell’Occidente razionalistico, ritenuto frammentario. Per il pensiero russo quest’unità poteva essere ricercata solo in Cristo. La sobornost’ è la capacità di formare un sistema attraverso la tensione di elementi deboli verso un centro forte e spirituale. Alla sua base c’è l’interesse reale e concreto per la persona, per il suo destino, per la sua evoluzione. Persona intesa però non come mero essere umano, generato da un uomo e da una donna, appartenente ad una categoria biologica, ma come essere umano che si pone in relazione con l’Assoluto, con Dio e che appartiene quindi alla categoria dello spirito. Alla base della comunionalità di condivisione prevista dalla sobornost’ c’è la necessità di uscire dal proprio sé, la volontà di raggiungere l’altro, attraverso un moto d’amore, per il raggiungimento non di una comunità, ma di un’autentica comunione. «La Chiesa […] dal tempo degli apostoli, si basa sullo spirito di comunione, sull’unione degli uomini […]. Un Padre della Chiesa ha detto: “La mia salvezza è nel prossimo”, nell’altro inteso come prossimo. L’individualismo e l’isolamento, per principio sono contrari a tutto ciò […]. La nostra Chiesa […] predica da sempre la sobornost’, in tutti i significati di questo termine che copre più concetti, inclusa la vita in comunione di persone che, unite da una stessa fede, vivono in comunione tra loro» (S.S. Alessio II)2. La società ideale russa era quella in cui l’individualità della singola persona non era sminuita nell’ambito della vita sociale comune, basata sul principio di unione, in nome dell’amore tra le singole persone, e non sull’obbedienza ad un’autorità giurisdizionale o su altri interessi. Di per sé il concetto della sobornost’, nella sua essenza primordiale, non ha alcuna relazione con la fede ortodossa russa. Eppure, sia la Chiesa, sia lo Stato russi sono stati edificati secondo il principio   Carpifave 2003, p. 361.

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della sobornost’. La sobornost’ è il riflesso della cultura del popolo costituitosi in Nazione, e si oppone, quindi, all’omologazione che distrugge l’autenticità culturale e si contrappone a un’antropologia cristiana. Secondo un’analisi etimologica, il termine sobornost’ si avvicina in russo ai termini sobranie (raduno, basilica) e sobirat’ (riunire), la cui radice comune è il termine slavo sobor. Questa parola ha un duplice significato: 1) riunione, assemblea di persone scelte o funzionari, convocata per affrontare la soluzione di problemi; 2) tempio in cui il clero officia le funzioni religiose. Entrambi i termini stanno a significare unione, raggruppamento, concentrazione di un unicum, partendo da una varietà, da una diversità per tipologia o per qualsiasi altra proprietà, tratto comune di un tutto, nuovo per qualità. La parola sobor esprime l’integrità, l’interezza esclusiva. In essa è inclusa la dinamica dell’integrazione, dell’unione, della fusione, della qualità universale. Esiste una tradizione conciliare della Chiesa orientale, pure definita Chiesa dei sette concili, con rifermento ai sette Concili ecumenici. Esiste altresì una tradizione cristiana che associa unanimemente il concetto di concilio all’evento del cosiddetto Concilio degli Apostoli, riunito a Gerusalemme (At 15,1-29), al fine di trovare un accordo sulla questione dell’imposizione delle prescrizioni giudaiche ai gentili. Su quest’esempio, i vescovi successori degli apostoli, avrebbero riunito i sinodi o i concili per discutere le questioni d’interesse della Chiesa. Alla parola latina concilium (concilio) corrisponde in greco il termine synodos (riunione), entrambi associati al concetto di conciliarità. Nella lingua greca il termine synodos traduce sia il termine “concilio”, sia il termine “sinodo”, che nella lingua latina sono sinonimi. Nel mondo ortodosso invece il termine “sinodo” designa sia un’assemblea ordinaria di vescovi delle Chiese locali, sia un’assemblea episcopale di tipo straordinario, come il concilio. I due termini rimandano, comunque, a un’assemblea di vescovi. È importante notare che fin dall’antichità ad alcuni concili, ad esempio quello di Cartagine del 235 e il I Concilio di Nicea del 325, presero parte non soltanto i vescovi, ma anche chierici e laici. Le assemblee, pertanto, di fatto non erano riservate ai soli vescovi. Nel concetto della conciliarità e comunionalità ecclesiale ortodossa coesistono tre figurazioni bibliche della Chiesa, oggetto d’ampia considerazione da parte dell’ecclesiologia ortodossa del XIXXX secolo: 1) la Chiesa intesa come popolo di Dio; 2) la Chiesa intesa come corpo di Cristo, 3) la Chiesa intesa come tempio dello Spirito Santo. La Chiesa secondo l’espressione biblica è il popolo di Dio (laos tou Theou, 1 Pt 2,10; Cor 6,16). I cristiani della Chiesa madre riunitisi a Gerusalemme «avevano un solo cuore e una sola anima» (At 4,32). Costituivano una comunità unita in un cammino verso la patria celeste. Questa verità biblica è stata assimilata dal popolo russo delle comunità rurali dell’antica Rus’ ed è alla base del concetto della sobornost’, così come fu esso elaborato dagli slavofili nel XIX secolo. «I concetti di sobor e della sobornost’ sono esclusivamente cristiani e non significano l’atto in comune, con forze comuni, ma prima di tutto l’atto di comune accordo, in armonia, di concerto, l’atto

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capace di unire al massimo, di portare all’unione ciò che è eterogeneo»3. Più vicino al concetto di sobor troviamo il concetto di sobranie. Questo legame reciproco non è casuale, ha un significato spirituale, in quanto sobranie talvolta ha il significato di “chiesa”, dove i cristiani si riuniscono per adorare Dio, per pregare insieme, per ascoltare le Sacre Scritture e la predicazione, per ricevere i sacramenti. «“Non disertiamo le nostre riunioni come alcuni hanno l’abitudine di fare, ma esortiamoci a vicenda” (Ebrei 10,25), cioè non smettete di riunirvi coi vostri fratelli cristiani […] “perché diventino un’assemblea di popoli” (Genesi, 28,3)»4. Il termine sobornost’ deriva quindi dal termine sobor e anche dall’aggettivo che ne è declinato sobornyj, sobornico, con cui viene tradotto il termine greco katholiké (universale). La Chiesa sobornica non è limitata da nessun luogo, tempo o popolo, è per tutti gli uomini, per tutti i tempi, per tutti i luoghi. Rappresenta il livello più alto di universalità, integrità, pienezza. Nella parola sobor è implicita la dinamica dell’integrazione, dell’unione, della generalizzazione, qualità universale di ciò che è specificatamente intero, uno. La Chiesa sobornica è dunque la Chiesa che raduna, che unisce, concilia, è la «Chiesa conciliare» di cui parla Sergej Bulgakov5. La storia del significato teologico-filosofico dell’idea della sobornost’ ha inizio con Aleksej Chomjakov, che ha dato l’assetto logico a questo concetto, e dopo di lui l’idea della sobornost’ è divenuta il concetto basilare dello slavofilismo. Chomjakov riteneva che la traduzione slava del Simbolo della fede fosse giunta a noi dagli apostoli Cirillo e Metodio. Proprio loro «per la traduzione della parola greca katholiké scelsero la parola sobornaja […]. La parola katholiké nel concetto dei due grandi servi della Parola di Dio mandati agli Slavi dalla Grecia derivava da katà- e òlon, la Chiesa cattolica è la Chiesa tutta, o secondo l’unione di tutti i credenti, la Chiesa del libero consenso […] quella Chiesa profetizzata nell’Antico Testamento e che è realizzata nel Nuovo Testamento con la parola Chiesa come l’ha definita san Paolo […] Essa è la Chiesa secondo la comprensione di tutti nella loro unione»6. Anche Pavel Florenskij concordava nel tradurre la parola kafoličeskaja col termine sobornaja e al riguardo scriveva: «È straordinario che […] i santi Metodio e Cirillo hanno tradotto “katholiké” con “sobornaja”, individuando certamente la sobornost’ non nel senso della quantità delle voci, ma nel senso dell’universalità dell’essere, dello scopo e di tutta la vita spirituale che raccoglie in sé tutti, indipendentemente dalle loro particolarità locali, etnografiche ed altre ancora»7. Bulgakov su questo argomento esprimeva un’opinione diversa. Nel suo saggio La Chiesa una (Cerkov’odna, 1864) scrisse che la parola sobornaja manca nel testo greco del Credo e che praticamente la sua apparizione è dovuta «di fatto all’imprecisione della traduzione slava, se non ad un semplice  A.I. Burkin, Znamenie edinstava. Desjatina, n. 17-18, Moskva 09/1999.   Pol’nyj Cerkovno-Slavjanskij slovar’, vocabolario a cura di p. G. D’jačenko, Moskva 1993, p. 627. 5   Bulgakov 1932, p. 84. 6   Chomjakov 1990, II, pp. 325-327. 7   Florenskij 1976, pp. 129-130. 3 4

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errore del traduttore, errore che noi, tuttavia, dobbiamo ritenere provvidenziale». Tuttavia, lo stesso Bulgakov nel testo Tesi sulla Chiesa (Tezisy o Cerkvi, 1936), scritto in occasione del Primo Congresso di Teologia Ortodossa ad Atene del 1936, definiva la traduzione col termine “sobornaja” un’«autentica interpretazione della parola greca “katholiké”» (Tezis VI). Il termine “kafoličeskaja Cerkov” entra nell’uso ecclesiastico nella primissima letteratura cristiana. Per quanto noto, ad usarla per primo fu s. Ignazio di Antiochia, il quale nella lettera agli Smirnioti scrisse: «Seguite tutti il vescovo […] senza vescovo nessuno faccia niente che riguardi la Chiesa. Deve essere considerata autentica solo quell’Eucarestia celebrata dal vescovo o da colui a cui dal medesimo autorizzato. Dove sarà un vescovo, là dovrà esserci anche il popolo così come dov’è Gesù Cristo là c’è la Chiesa kafoličeskaja»8. Per sobornost’, nella tradizione cristiana ortodossa russa, s’intende l’unione dei cristiani nell’ambito della Chiesa, nell’amore, nella fede e nella vita. La Santa Rus’ diede nel corso del tempo al concetto di sobornost’ un significato particolare ed un’idea di universalità. «Siamo diventati una radice santa, un popolo eletto, un sacerdozio regale» (1 Pt 2,9). Quello russo, è stato l’annuncio del popolo a chiamare sé stesso, la sua Chiesa, il suo governo “Santa Rus’”. Quest’ultima si presentava come una grande famiglia composta di vari e numerosi popoli slavi, dapprima riuniti attorno a Kiev, poi a Vladimir sulla Kljazma e successivamente a Mosca. Scopo della Santa Rus’ era quello di realizzare una fratellanza cristiana dei popoli in una “tutt’unità”, attraverso l’influenza trasfigurante della bontà divina. Agli occhi dell’archimandrita Paolo di Aleppo, la Russia, intorno agli anni 1664-1666, appariva come un grande monastero dove si conduceva una vita comune perfetta, immagine di una “tutt’unità” sociale in Cristo, pur nella varietà della moltitudine. Questa “tutt’unità”, pure esaltata da s. Giuseppe di Volokalamsk, derivava dalla sobornost’ ed era alla base del ruolo messianico che i russi ritenevano di avere in rapporto all’umanità. La sobornost’ in Russia è stata il fondamento di tutta la vita sociale russa, e rimaneggiarla, secondo gli slavofili, non sarebbe possibile senza distruggere le basi più fondamentali della cultura russa, in quanto questa è la comunicazione basilare che definisce il contenuto e l’ordine delle forme sociali. L’ideologia sociale degli slavofili aveva un carattere popolare e ha rappresentato un passo avanti nella definizione della coscienza nazionale russa. La fratellanza, la comunanza d’amore nella Chiesa e nella società è stata riconosciuta essere il carattere proprio della cultura popolare russa. La sobornost’ è «l’unione libera spirituale di persone così nella vita ecclesiale, come nella vita della società laica, una relazione nella fratellanza e nell’amore»9. Quindi la sobornost’ è la coincidenza nell’amore della realizzazione della libertà di ognuno nell’unione con tutti, perché nella sobornost’ la libertà del singolo coincide con l’unione di tutti. Nella sobornost’ la libertà si differenzia dalle usuali categorie della libertà della volontà e della libertà di scelta presenti nella teologia e nella filo  Ignazio d’Antiochia, Lettera agli Smirnioti, cap. 8.   Lazarev 2010.

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sofia occidentale. Per quel che riguarda la sobornost’ la libertà non solo non distrugge l’unione, ma la genera10. La tendenza filosofica alla rivelazione delle basi ontologiche dell’esistenza umana e della libertà dell’uomo è racchiusa sia nella tradizione filosofica occidentale europea, sia nella tradizione filosofica russa. Dal punto di vista ontologico, il principio della sobornost’ è il modo fondamentale del concetto di esistenza come unità libera al suo interno differenziato, alla cui base non c’è l’unione spontanea dei membri, ma il legame di ognuno di essi con il trascendente e l’Assoluto da cui questa unione ha origine. Questo legame ontologico personale con l’Assoluto si sprigiona e viene fuori come amore, in cui vive sia come più intima unione, sia come più profonda libertà. Nell’idea della sobornost’ si trova il principio dell’unione spirituale-materiale della persona col mondo. Quest’idea, riflettendo l’unione del mondo con la persona, ma con una persona che sia esiliata dal proprio io e in relazione-comunione con l’altro, contiene in sé anche il significato particolare dell’attività umana nell’attuazione di questa unità. Ma di quale attività si tratta? Di quella relativa alla continuazione di un’autentica celebrazione del sacramento dell’Eucarestia, che è sacramento della comunione, nella vita. La sobornost’ è centrata sulla persona intesa come comunione di varie individualità e alterità, nella libertà, comunione dei singoli nel riconoscimento dell’alterità. L’individualismo e il collettivismo hanno prodotto una sempre maggiore assenza di individuazione dei valori comuni, da condividere. Da questa assenza di valori morali e religiosi comuni oggettivi è derivato un relativismo etico, che rimanda ad una valutazione etica meramente individuale, in cui c’è quello che è il bene e il male “per te” e non per una morale universale. Ne deriva che l’individuo diviene così arbitro e giudice di sé stesso. L’unione piena è possibile solo nell’unità dei molteplici: è questa dell’“Io-sè” per raggiungere l’altro, l’attuazione della comunione con l’altro in una nuova unità, priva di singolarità, in cui le singolarità, con le proprie caratteristiche, vengono però mantenute. Il termine sobornost’ fu elaborato da Aleksej Chomjakov, il quale riteneva l’obščina, l’antica comunità russa, un esempio di realizzazione della sobornost’. Chomjakov non fu solo l’ideologo dello slavofilismo, ma pure teologo della chiesa e della società. Cercò di capire quale sia la natura della Chiesa una, definendo tale unità in riferimento all’unico Cristo e all’unica fede tramandata dagli Apostoli e dai Padri, la fede custodita nell’ortodossia. La Chiesa è concepita quale comunità capace di realizzare la società ideale ad immagine della Santissima Trinità a condizione però che viva secondo lo spirito del vangelo e confessi il dogma così come è stato trasmesso dalla tradizione della chiesa indivisa del primo millennio. Queste condizioni, secondo il pensatore, si trovano soltanto nella Chiesa ortodossa, in cui il concetto della sobornost’ si realizza, anche se non in tutta la sua interezza, ed è riconosciuto come il più alto fondamento   Lazarev 2003.

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divino della vita della Chiesa: «La Chiesa degli Apostoli nel IX secolo non è né la Chiesa kath’hékaston (secondo ciascuno) come presso i protestanti, né la Chiesa katà ton episkopon tēs Rhòmēs (secondo il vescovo di Roma) come presso i latini, ma è la Chiesa kath’hòlon (secondo l’unità di tutti) com’era prima dello scisma occidentale; poiché questo scisma, lo ripeto, è l’eresia contro il dogma dell’unità della Chiesa». Secondo la sua spiegazione la sobornost’ «è l’unità nella pluralità»11. In tal senso egli sostenne che la Chiesa ortodossa unisce in modo organico due principi, quello della libertà e quello dell’unità, in contrapposizione all’autoritaria Chiesa romana, dove c’è unità senza libertà, e alla Chiesa protestante dove c’è libertà senza unità. La Chiesa cattolica «è perciò la Chiesa che è secondo tutti, o secondo l’unità di tutto, la Chiesa dell’unanimità libera, dell’unanimità perfetta»12. Il concetto della sobornost’ designa quindi una Chiesa in cui non può esistere né individualismo, né alcuna facoltà di autorità e costrizione da parte dell’istituzione religiosa. Questo concetto evidenzia la dimensione collettiva della Chiesa, in cui tutto il popolo fedele, laico e non, gode degli stessi diritti. In questo modo la Chiesa è conciliare, non sinodale, non venendo a sussistere differenza tra Chiesa docente e Chiesa discente, in accordo con la Lettera enciclica dei patriarchi d’Oriente (1848), in cui era scritto: «Da noi, il custode della fede autentica è il corpo stesso della Chiesa, cioè il popolo che vuole mantenere la sua fede sempre immutata» (questa enciclica fu la risposta all’enciclica In Suprema Petri Apostoli Sede, che Pio IX indirizzò ai cristiani d’Oriente il 6 dicembre 1848). L’ecclesiologia della sobornost’ sostiene che «custode della fede è tutto il popolo di Dio e considera l’esperienza ecclesiale l’autentica fonte e criterio della verità»13. Chomjakov ha così descritto il rapporto tra popolo di Dio e gerarchia ecclesiastica: «La Chiesa non è un’autorità, allo stesso modo in cui né Dio, né il Cristo lo sono, perché l’autorità è un concetto esterno a noi […]. Noi non riconosciamo nessun capo della Chiesa, né spirituale, né temporale […]. L’infallibilità risiede esclusivamente nella sobornost’ della Chiesa, unita in un unico amore comune»14. L’unità della Chiesa è «l’unità interiore e vera, prodotto e manifestazione della libertà, l’unità basata non su una scienza razionalista, né su una convenzione arbitraria dell’istituzione, bensì sulla legge morale del reciproco amore e della preghiera, l’unità, in cui, quale che sia la scala gerarchica delle funzioni sacramentali, nessuno è asservito, ma tutti in eguale misura sono chiamati a partecipare e ad essere cooperatori dell’opera comune, infine l’unità per grazia di Dio e non per istituzione umana, tale è l’unità della Chiesa»15. Perciò Berdjaev dichiarerà: «La verità non è nel Concilio, ma nella sobornost’, nello spirito di comunione del popolo dei fedeli»16.     13   14   15   16   11 12

Chomjakov 1990, II, p. 312. Chomjakov 2006, p. 396. Chomjakov 1858, p. 103. Chomjakov 1990, p. 54, citato in Carpifave 2015, p. 119. Chomjakov 1858, p. 103. Berdiaeff 1946, p. 173.

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L’idea della sobornost’ è la costante nel tempo dell’autocoscienza nazionale e spirituale russa e ne è una qualità indissolubile. E questo si evidenzia in diversi aspetti della cultura e della spiritualità russa, durante il corso della sua storia. La cultura è l’espressione della vita di una nazione. «Nell’Eurasia la cultura politica ha prodotto una propria originale visione dei percorsi e scopi di sviluppo. I popoli euroasiatici hanno costruito una statualità sociale comune partendo dal carattere primario dei diritti di ogni popolo in una determinata forma di vita, garantendo in questo modo anche i diritti del singolo uomo. Nella Rus’ questo principio si è concretizzato nel concetto della sobornost’ e si è del tutto, rigorosamente, mantenuto»17. Nel tempo dell’attuale globalizzazione, seguita all’omologazione delle masse e alla massificazione, la sobornost’ rappresenta l’alternativa che rende possibile la comunione tra gli uomini, il superamento della solitudine e dell’emarginazione dell’uomo contemporaneo, la concretizzazione e il prosieguo nella sfera sociale del sacramento dell’Eucarestia: in nuce, un’antropologia cristiana, un nuovo modo di esistere nell’autentica comunione. Bibliografia Berdiaeff 1946 = N. Berdiaeff, Russkaja ideja, Paris 1946. Bulgakov 1932 = S. Boulgakoff, Orthodoxie, Paris 1932. Carpifave 2003 = A. Carpifave, Conversazioni con Alessio II, patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Milano 2003. Carpifave 2015 = A. Carpifave, Un Concilio nella rivoluzione. Religione e politica nella Russia del primo ’900, Bologna 2015. Chomjakov 1858 = A.S. Chomjakov, Encore quelque mot d’un chrétien orthodoxe sur les confessions occidentales à l’occasion des plusieurs publications religieuses latines et protestantes, Brockhaus, Leipzig 1858. Chomjakov 1990 = A.S. Chomjakov, Pismo….označenii slov “kafoličeskij” i “sobornij”, in Polnoe sobranie sočinenij, Moskva 1990. Chomjakov 2006 = A. Khomiakoff, L’Église latine et le Protestantisme au point de vie de l’Église d’Orient, Vevey 2006 (ed. orig. 1872). Florenskij 1976 = P. Florenskij, Ekklesiologičevskie materaly. Bogoslovskie trudy, Moskva 1976. Gumilёv 1992 = L.N. Gumilёv, Ot Rusi do Rossii, Moskva 1992. Lazarev 2003 = A.N. Lazarev, Ideja sobornosti i svobody v russkoj religioznoj filosofii, Moskva 2003. Lazarev 2010 = A.N. Lazarev, in Novaja flosofskaja enciklopedija, Moskva 2010.

  Gumilёv 1992, p. 225.

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Per manum pontificis et presidentis Corcyrae et episcopi Citheree:

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Ο ΤΙΤΛΟΣ ΤΟΥ ΕΠΙΣΚΟΠΟΥ ΚΥΘΗΡΩΝ ΚΑΙ Ο ΣΥΜΒΟΛΙΣΜΟΣ ΤΟΥ (1580)

Στις 24 Απριλίου του έτους 1580 ο βάιλος Κερκύρας και αναπληρωτής προνοητής και καπιτάνος κάλεσε τον Στέλιο Ρίκη, cittadino, καγκελλάριο και πρωτονοτάριο του πρωτοπαπά Κερκύρας, και ενώπιον του λατίνου αρχιεπισκόπου Suriano τον ανέκρινε σχετικά με τις δοσοληψίες που είχε με τον επίσκοπο Κυθήρων Διονύσιο1. Τα κυριότερα ερωτήματα που έθεσε ο βάιλος στον Ρίκη ήταν ποιές υπηρεσίες είχε προσφέρει ο τελευταίος στον επίσκοπο Κυθήρων, πόσοι και ποιοί ήταν οι ιερείς που ο επίσκοπος είχε χειροτονήσει, με ποιό τρόπο ο επίσκοπος υπέγραφε τις άδειες χειροτονίας (patenti) και εάν ο επίσκοπος έδινε στους ιερείς πινακίδες (tele) πάνω στις οποίες εκείνοι ορκίζονταν. Απαντώντας στις ερωτήσεις, ο Ρίκης ανέφερε α) ότι ο αρχιεπίσκοπος Φιλαδελφείας Γαβριήλ, όταν είχε έρθει στην Κέρκυρα, τον είχε χρίσει πρωτονοτάριο που είναι εκκλησιαστικό αξίωμα και ότι με την ιδιότητά του αυτή είχε υπηρετήσει τον επίσκοπο Κυθήρων και είχε συντάξει το κείμενο των αδειών χειροτονίας δώδεκα ή δεκατριών ιερέων· β) ότι δεν τηρούσε κατάστιχο με τα ονόματα των ιερέων που είχαν χειροτονηθεί, αλλά ότι είχε δώσει σημείωμα με τα ονόματά τους στον προνοητή· γ) ότι σύμφωνα με την επικρατούσα πρακτική ο ιερέας μετά τη χειροτονία του πήγαινε στον Ρίκη, ο οποίος συνέτασσε το σχετικό έγγραφο· ο ιερέας έδινε μετά το έγγραφο στον επίσκοπο, ο οποίος το σφράγιζε με τη σφραγίδα του που απεικόνιζε το οικόσημό του· δ) ότι, όπως μπορούσε να διαπιστώσει κανείς με αυτοψία, στην αρχή κάθε εγγράφου υπήρχε μνεία των επιστολών του αγίου Παύλου προς τον Τίτο και επίσης ότι ο ίδιος είχε εξακριβώσει, παρόλο που η υπογραφή του Διονυσίου ήταν περίπλοκη, πως υπέγραφε ως ταπεινός αρχιεπίσκοπος Κυθήρων Διονύσιος· ε) ότι είχε συντάξει έγγραφα χειροτονίας εξομολογητών, μεταξύ των οποίων κάποιου από τη Λευκίμμη· στ) ότι ο επίσκοπος δεν ήταν υποχρεωμένος να δίνει στους ιερείς πινακίδες, προκειμένου να ορκίζονται πάνω   Βλ.πιο κάτω, έκδοση του εγγράφου.

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σ᾽ αυτές· είχε δει καμιά δεκαριά πινακίδες διπλωμένες στο επισκοπικό γραφείο, χωρίς όμως να έχει διαβάσει το περιεχόμενό τους. Στη συνέχεια ο βενετός αξιωματούχος έδειξε στον Ρίκη μία πινακίδα και του ζήτησε να μεταφράσει στα ιταλικά τη φράση: Δια χειρός του αρχιερέως και προέδρου Κερκύρας και επισκόπου Κυθήρων κυρίου Διονυσίου. Ο πρωτονοτάριος ανέφερε ακόμη, πάλι μετά από σχετική ερώτηση, ότι είχε δει περγαμηνό έγγραφο με το οποίο η βενετική διοίκηση είχε επικυρώσει την εκλογή του επισκόπου, ότι ο επίσκοπος έφερε τον τίτλο του επισκόπου Κυθήρων, ότι αγνοούσε με ποιό τρόπο ο επίσκοπος είχε αποκτήσει τον τίτλο του προέδρου Κερκύρας, ότι είχε μάθει πως ο επίσκοπος είχε πάει στη Ζάκυνθο και όχι, όπως είχε νομίσει, στη Βενετία και ότι με βάση τα λεγόμενα του επισκόπου, ο τελευταίος είχε έρθει στην Κέρκυρα, όπου περίμενε τον προνοητή Κυθήρων, για να διευθετήσει ορισμένες διαφορές που είχε μαζί του. Λίγες ημέρες αργότερα, στις 28 Απριλίου, ο βάιλος και αναπληρωτής προνοητής και καπιτάνος κάλεσε ενώπιον των διοικητικών αρχών του νησιού και ανέκρινε τον Φιλάρετο Λογαρά από την Κύπρο, ηγούμενο της μονής της Παλαιόπολης, όπου ο επίσκοπος Κυθήρων είχε φιλοξενηθεί στη διάρκεια της διαμονής του στην Κέρκυρα2. Ο Λογαράς στις ερωτήσεις που του έθεσε ο βενετός αξιωματούχος απάντησε α) ότι ο επίσκοπος Κυθήρων είχε πάει στη μονή μαζί με τον πρωτοπαπά της πόλης και με τη συνοδεία πλήθους πιστών· ο πρωτοπαπάς είχε παρακαλέσει τον ηγούμενο να φιλοξενήσει τον επίσκοπο, γιατί ήταν «capo nostro», αίτημα που αποδέχθηκε ο Λογαράς, πιστεύοντας ότι θα έμενε στη μονή μόνο πέντε-έξι ημέρες, αλλά εκείνος έμεινε περισσότερες· β) ότι ο σκοπός της επίσκεψης του επισκόπου στην Κέρκυρα ήταν, όπως ο τελευταίος είχε αναφέρει, να περιμένει στο νησί τον προνοητή Κυθήρων και να μεταβούν μαζί στη Βενετία, για να λύσουν κάποιες διαφορές που είχε με τους βενετούς αξιωματούχους· όμως αργότερα ο επίσκοπος είχε πει στον Λογαρά ότι ο πατριάρχης Κωνσταντινουπόλεως τον είχε χρίσει αρχιεπίσκοπο και πρόεδρο Κερκύρας, επιδεικνύοντας το σχετικό πατριαρχικό έγγραφο και επισημαίνοντας ότι δεν είχε προς το παρόν δικαιοδοσία παρά μόνο τον τίτλο, καθώς δεν ήθελε ακόμη να αφήσει τη θέση του στα Κύθηρα· γ) ότι με βάση το πατριαρχικό έγγραφο ο επίσκοπος προέβαινε στη χειροτονία ιερέων και ότι ως αρχιεπίσκοπος και πρόεδρος Κερκύρας υπέγραφε τις άδειες χειροτονίας, τις οποίες συνέτασσε ο πρωτονοτάριος Στέλιος Ρίκης · δ) ότι ο επίσκοπος είχε δείξει το πατριαρχικό έγγραφο στον μισέρ Δήμο Τριβώλη και όπως υπέθετε ο Λογαράς και σε διάφορους άλλους επισκέπτες του· δεν γνώριζε αν είχε δείξει το έγγραφο του πατριάρχη και στον Ρίκη, αλλά προφανώς θα το είχε πράξει, γιατί ο Ρίκης ήταν γραμματέας του και συνεπώς ήξερε όλες του τις κινήσεις· ε) ότι εκτός από χειροτονίες ιερέων ο επίσκοπος είχε απονείμει το οφφίκιο του πρωτονοταρίου στον Ρίκη, αυτό του πρωτοσυγκέλλου και του αρχιμανδρίτη στον Λογαρά, και αυτό του χαρτοφύλακα Κερκύρας, που ήταν υπεύθυνος για την εξέταση περιπτώσεων καταπίεσης εις βάρος παντρεμμένου, στον παπα Χαμάλη· ς) ότι ο επίσκοπος είχε φύγει για τη Ζάκυνθο και ότι έλεγε πως θα πήγαινε στη Βενετία για την επίλυση των διαφορών του με τη βενετική διοίκηση· ζ) ότι η υπογραφή του επισκόπου   Ό.π.

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ήταν τόσο περίπλοκη που ο Λογαράς δεν ήταν σε θέση να τη διαβάσει επακριβώς· η) ότι ο επίσκοπος του είχε δώσει ενυπόγραφο και σφραγισμένο το έγγραφο, με το οποίο θα κυρωνόταν η απονομή του αξιώματος του πρωτοσυγκέλλου, με γραμμένη μόνο την αρχή του κειμένου, και ότι ο Ρίκης θα το συμπλήρωνε, χωρίς ωστόσο ώς την ημέρα της ανάκρισης να το έχει γράψει. ΤΟ ΕΓΓΡΑΦΟ ΤΗΣ ΑΝΑΚΡΙΣΗΣ A.S.V., Miscellanea Gregolin, b.36, 2 δίφυλλα, χ.αρ. Copia Adì 24 di aprile 1580 Constituto alla presentia del clarissimo signor bailo et vice provveditor et capitano, assistendo ancora il reverendo arcivescovo Suriano, Stellio Ricchi, cittadino di Corfù, nodaro et cancellier del reverendo protopapà di questa città, fu dimandato s’egli ha servito in conto alcuno il venerando Dionisio, vescovo di Cerigo, dopo che è venuto in questa città, rispose: «Ιo l’ho servito come protonotario che son di questa città». Dimandato che sorte di carrico è questo et chi gli l’ha concesso, rispose:«Quando fu in questo luoco il reverendissimo arcivescovo di Filadelfia domino Gavril, che al presente si trova in Venezia, salariato dalla Serenissima Signoria, Sua Santità Reverendissima mi ha creato per protonotario di questa terra, che è una dignità ecclesiastica». Dettoli che sorte di servitio ha prestato a questo venerando Dionisio, rispose: «Io ho fatto, così ordinato da lui, tutte le patenti dei preti fatti et ordinati da Sua Riverenza». Dimadato quanti preti ha ordinatο, rispose: «Io non vi so dir particolarmente, ma credo che siano da dodeci o tredeci incirca». Dimandato se ne ha tenuto registro di queste patenti, rispose: «Signor non». A lui detto mό non sete tenuto per debito et carico vostro a tener registro, rispose: «Io dico che non ho tenuto registro, ma si può veder quelle c’ho fatto nele mani di coloro». Dimandato chi sono questi preti creati et come si chiamano, rispose: «Io li ho dati in nota al clarissimo provveditor non hieri l’altro». Dettoli havendo voi data la nota di loro nomi di dove havete tirato essi nomi, rispose: «Per quanto la memoria mi ha servito, mi son raccordato di loro nomi». Dettoli con che sorte di sigillo voi sigillavi queste patenti dei preti, rispose: «Dapò che veniva creato il prete da esso vescovo, veniva da me et li facevo la patente et poi andava dal detto vescovo et la sottoscriveva et sigillava, che per quanto ho veduto in tre et quattro patenti, il sigillo è una sua arma». Dimandato in che forma esso notava queste patenti, rispose: «Τutte le patenti ch’o fatto sono di una medema forma, che facendo narratione del [κενό] di San Paolo nelle Epistole a Tito, segue poi l’ordinatione del prete, sicome si fa in forma, sicome da esse medesime si può vedere». Dimandato in che forma esso vescovo faceva le sottoscrittioni a queste patenti, rispose: «Ho veduto in alcune di esse che la sottoscrizione diceva a questo modo: L’humile arcivescovo di Citteria Dionisio, per quanto ho potuto comprender, perché esse sottοscrizioni sono scritte da lui molto intrigose».

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Dimandato se l’ha scritto in altra scrittura che nelle patenti solamente, rispose: «Ho fatto anco patente da confessori». Dimandato chi sono questi, rispose: «Ho fatto a un prete da Lefchimo et ad altri che non mi ricordo». Dimandato se questo vescovo ha fatto altra sorte di scrittura over lettere scritte in alcuna cosa, rispose: «Io non vi so dire, perché non ho veduto». Dimandato a questi preti che vengono fatti non li ha dato altr ordine overo alcun’altra cosa concernente nel consacrar, rispose: «Io non vi so dire che se gli faccia altro». Α lui detto come dicete che non se li fa altro, non vien loro data una tella scritta, sopra la quale debbono consacrare, rispose: «Il vescovo non è tenuto a far questo, ma ben quando alcuno gli la ricerca esso la fa». Dettoli havete voi fatta alcuna di queste telle scritte, rispose: «Signor non, perché non è carico mio ne mi posso ingerire poi che il medesimo vescovo con la propria mano convien scriver questa tella». Dimandato se questo vescovo ne ha fatto decine, rispose: «Credo che ne habbia fatto, perché mi ricordo di haverne vedute alcune piegate sopra il suo banchetto». Dimandato se le ha veduto et letto, rispose: «Signor non». Dimandato in che forma si scrivono queste telle, rispose: «Non vi so dir, perché non è carico mio di farle ne di vederle». All’hora li fa mostrata una di esse telle, scritta et vista et letta per lui, li fu detto poi di mano de chi è scritta questa tella, rispose:«Io non conosco ne la lettera ne la tella, perché non ho alcuna pratica et perché tra le altre sacre parole contenute in essa tella: Diachiros tu archierios che proedru Chircyras chie episcopu Chithiron chiriu Dionisiu, fu dimandato ad esso Stellio constituto quello che vogliono dir queste parole in lingua italiana, disse:«Per mano del primario di sacerdoti et di colui che ha la prima sedia di Corfù et vescovo di Cerigo domino Dionisio». Dimandato se ha vedute le fede et patenti di questo vescovo Dionisio, rispose: «Ho veduto diverse scritte in greco, ma non vi ricordo da chi siano state fatte et particolarmente ho veduto una della Signoria in carta bergamina». Dimandato che contenevano insomma queste patenti in greco, rispose: «Io non mi posso raccordar, so bene che quella della Signoria era la sua confirmatione di vescovo di Cerigo». Dimandato che titolo li veniva dato in esse patenti greche, rispose: «Per quello che mi ricordo veniva scritto vescovo di Cerigo et non di altri luochi». Dimandato mό in che modo egli si ha nominato primo de’preti et di sedia di Corfù, rispose: «Non vi so dire, ma credo che per mattiera sua si habbia voluto assumer questa autorità et dir queste parole». Dimandato dove si ritrova hora questo vescovo, rispose: «Io credevo che si fosse partito per Venezia, ma ho poi inteso che va al Zante». Dimandato a che fare era venuto de qui esso vescovo, rispose: «Lui diceva che era venuto per fermarsi et aspettar il provveditor di Cerigo, per assettar alcune sue diferentie». Dimandato se ha auttorità esso vescovo di ordinar preti, rispose: «Signor sì per quanto ho veduto nelle sue patenti, il quale del pò che fu de qui et stete da tre mesi, ne ha fatti d’i altri preti». Quibus habitis etc. Io Stellio Ricchi, cancelliero del reverendo protopapa et protonotario di Corfù, affirmo ut sopra.

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Adi 28 di aprile 1580 Fatto venir alla presentia del clarissimo bailo et vice provveditor et capitano il reverendo Filaretto Logarà de Cipro, igumeno del monasterio di Pagiopoli, nell’habitatione del quale era allogiato il venerando Dionisio, vescovo di Cerigo, et li fu dimandato in che modo è stato ad allogiar seco il detto vescovo, rispose: «Il protopapà di questa città è venuto a me insieme col detto vescovo, seguitato da molte genti, quando esso vescovo capitò de qui, pregandomi a doverlo allogiare et dicendomi che lo volessi far volentieri, perché colui era capo nostro et io per far ufficio di carità l’ho accettato con pensiero che dovesse stare cinque o sei giorni, ma lui è stato molti giorni di più». Dimandato che cosa è venuto a fare in questa città il detto vescovo, rispose:«In quel principio lui diceva che voleva aspettar de qui il provveditor di Cerigo, per andar seco a Venezia a far lite per alcune loro diferenze, ma dopo alcuni giorni esso vescovo mi disse che era stato creato dal patriarca di Constantinopoli per arcivescovo et presidente di Corfù, mostrandomi una patente che appareva fatta dal detto patriarca, con la quale veniva eletto da lui, come ho detto, arcivescovo et presidente di Corfù, ma non haveva però altra auttorità chel titolo solamente. Mi disse bene esso vescovo chel patriarca non li diede per hora altra auttorità, per causa che costui non volea riffiutar il carico suo di Cerigo, se prima non vedesse in che modo fosse stato accattato in questo luoco». Dimandato se questa patente era autentica di esso patriarca, rispose: «Io non posso affirmar detta patente per vera, ma bene pareva di essere di esso patriarca et haveva il suo segno al solito». Dimandato se esso vescovo, valendosi di tal auttorità, habbia fatto de qui alcuna operatione in virtù di essa, rispose: «Io so che havendo lui creato alcuni preti in questa isola nelle patenti che li ha fatto si sottoscriveva arcivescovo et presidente di Corfù e così fece anco sopra le telle da consacrare». Dimandato quante ha fatte di queste telle, rispose: «Io credo che ne habbia fatto una per uno a tutti quei preti che lui ha ordinato». Dimandato chi scriveva sopra esse telle, rispose: «Io ho veduto ch’esso vescovo con la sua propria mano scriveva in esse telle, ma le patenti le faceva Stellio Ricchi, cancellario del protopapà, del quale esso vescovo si serviva per nodaro et poi le sottoscriveva esso vescovo et le bollava ancora con uno suo sigillo». Dimandato se esso vescovo habbia mostrato ad alcuno altro questa patente del patriarca, rispose: «So che l’ha mostrata a me et ho anco inteso ma non visto che l’ha mostrata ancora a misser Dimo Trivoli». Dettoli da chi l’ha inteso, rispose: «Non so dirvi, perché non teniva conto di queste cose. Dimandato se l’ha mostrata ad altri, rispose: «Io credo che come l’ha mostrata a me l’habbia anco mostrata ad altri et massime a quelli di questi cittadini che andavano spesso a visitarlo». Dettoli se l’ha anco mostrata a Stellio Ricchi, rispose: «Io non l’ho veduto, ma credo de sì, perché lui era suo segratario et sapeva tutti i suoi fatti et è impossibile che non l’habbia veduta». Dimandato se esso vescovo, oltra le ordinationi d’i preti, habbia concesso ad altri alcuna degnità over immunità, rispose: «Io ho sentito che lui medemo diceva d’haver creato protonotario questo Stellio Ricchi et a me ha concessa gratia di protosingelo che è una degnità che spetta il carico di vescovo, che de qui occorresse di farsi et anco di

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archimandritta, che viene concesso ad ecclesiastici alcune spoglie straordinarie delle usitate da loro». Dimandato se ha fatto ad altri alcuna gratia, rispose: «Esso ha anco creato il reverendo papà Chamali, chartofilace di Corfù, che è carico di attender alle oppressioni tra i matrimonii». Dimandato se ha fatto così a lui, come a questi altri pubblice patenti, rispose: «A me ha fatto la mia et così credo c’habbia fatto agli altri». Dimandato in che modo si ha sottoscritto in questa patente a lui fatta, rispose: «E tanto intrigola la sottoscrittione sua che non la posso dechiarire et vi avertisco che questa mia patente non è scritta ancora, cioè la prefatione di quella, ma mi ha lasciato la carta vacua sottoscritta di sua mano et sigillata col suo sigillo, perché la sia estesa poi da Stellio Ricchi che per ancora non l’ho fatta fare ad esso Ricchi». Dimandato se ha lasciato delle altre a questo modo, rispose: «Νon vi so dire». Dimandato dove si ritrova hora il detto vescovo, rispose: «E partito per il Zante». Dimandato che vol dire che non è andato a Venezia, ma ritorna al Zante, rispose: «Con la nave che lui si ha partito de qui, essendo il provveditor di Cerigo sopra di essa, disse che andava con lui per diffinir a Venezia le sue diferentie et che si partiva ancora, perché era stato licentiato da questi signori». Relectum confirmavit cum iuramento approbavit, more sacerdotali, in pectore conscientia et in verbo veritatis. ΔΕΙΓΜΑ ΑΔΕΙΑΣ XEIΡΟΤΟΝΙΑΣ (ΕΛΛΗΝΙΚΑ ΚΑΙ ΙΤΑΛΙΚΑ) Ihesus Christus Matheus Vincit Ioannes Altare divinum et sacrum consecratum ac celebratum divina gratia sanctissimus spiritus per manum pontificis et pręsidentis Corcyrae et episcopi Cithereę domini Dionisii, ut possit perficere in eo loco divina sacrificia in nomine Sanctę Trinitatis et Virginis Marię et omnium sanctorum. Amen 1580. Nome del papà a chi li ho dato Lucas Marcus presbiter Philippus ’Ἰ(ησού)ς Χ(ριστό)ς Ματθαῖος Νικᾶ Ἰωάννης + Θυσιαστήριον θεῖον καὶ ἱερὸν ἁγιασθὲν καὶ ἱερουργηθὲν ὑπὸ τῆς θείας χάριτος τοῦ Παναγίου Πνεύματος διὰ χειρὸς τοῦ ἀρχιερέως καὶ προέδρου Κερκύρας καὶ ἐπισκόπου Κυθήρων κυρίου Διονυσίου τοῦ τελεῖν ἐπ᾽αὐτῷ τὰς θείας ἱερουργίας ἐπ᾽ὀνόματι τῆς Ἁγίας Τριάδος καὶ τῆς Πανάγνου Θεοτόκου καὶ πάντων τῶν ἁγίων, ἀμὴν. ˏαφπ ω Μαρτίου Λουκὰς Μάρκος παπα Φιλίππω

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Εκτός από τον Στέλιο Ρίκη και τον Φιλάρετο Λογαρά που εκλήθησαν να καταθέσουν όσα γνώριζαν σχετικά με τη δραστηριότητα που είχε αναπτύξει στην Κέρκυρα ο επίσκοπος Κυθήρων Διονύσιος, στο έγγραφο της ανάκρισης αναφέρονται ο βάιλος Κερκύρας που εκτελούσε χρέη αναπληρωτή προνοητή και καπιτάνου, ο προνοητής Κυθήρων, ο λατίνος αρχιεπίσκοπος Suriano, ο αρχιεπίσκοπος Φιλαδελφείας Γαβριήλ Σεβήρος, ο πρωτοπαπάς Κερκύρας, ένας παπάς από τη Λευκίμμη, χωρίς μνεία ονόματος, ο μισέρ Δήμος Τριβώλης και ο παπα-Χαμάλης, χαρτοφύλακας3 της Κέρκυρας. Ορισμένα από τα πρόσωπα είναι γνωστά, ενώ άλλα είτε μαρτυρούνται για πρώτη φορά στην αρχειακή μας πηγή είτε διαθέτουμε γι αυτά λίγες μόνο πληροφορίες Ο cittadino Στέλιος Ρίκης διετέλεσε από το 1572 ως τον θάνατό του, το 1601, νοτάριος και γραμματέας του Μεγάλου Πρωτοπαπά Κερκύρας4 και ο ηγούμενος της μονής της Παλαιόπολης Φιλάρετος Λογαράς, από την Κύπρο, ήταν μέλος της γνωστής οικογένειας Λογαρά5. Το έτος 1580, στο οποίο χρονολογεῖται η διενέργεια της ανάκρισης, Μέγας Πρωτοπαπάς Κερκύρας ήταν ο Φώτιος Παλατιανός (1577-1593)6, βάιλος του νησιού ήταν ο Agostino Moro7, και προνοητής και καστελλάνος Κυθήρων ο Girolamo Capello8. Στις πληροφορίες εξάλλου που διαθέτουμε γιὰ τὸν βίο καὶ τη δράση του μητροπολίτη Φιλαδελφείας Γαβριήλ Σεβήρου, ο οποίος εποίμανε την ελληνορθόδοξη εκκλησία της Βενετίας για σαράντα σχεδόν χρόνια (1577-1616), προστίθεται η μαρτυρία του εγγράφου μας ότι είχε απονείμει το αξίωμα του πρωτονοταρίου στον Στέλιο Ρίκη9. Για τους άλλους δύο Κερκυραίους που μνημονεύονται στο έγγραφο, τον Τριβώλη και τον Χαμάλη, γνωρίζομε ότι ο πρώτος ήταν μέλος της κερκυραϊκής πρεσβείας που είχε σταλεί στη Βενετία το 157210, ενώ Χαμάληδες μαρτυρούνται στα μέσα του 16ου αιώνα ως δάσκαλοι11 ή ως υπάλληλοι των βενετικών διοικητικών οργάνων12.   Για το εκκλησιαστικό αξίωμα του χαρτοφύλακα βλ.ΖΑΡΙΔΗ 1995, σ.28.   Για τον Στέλιο Ρίκη βλ.ΖΑΡΙΔΗ 1995, σ.81, και ΤΖΙΒΑΡΑ 2003, σ.124. 5  Ο Φιλάρετος Λογαράς πρέπει να ταυτίζεται με τον ιερέα του ναού του αγίου Γεωργίου της Βενετίας το 1575, συγγενή τού εφημερίου του ίδιου ναού Θεοφάνη Λογαρά. Με διαθήκη που συνέταξε το 1579, ο Θεοφάνης όρισε ως επίτροπό του τον συγγενή του ιερομόναχο Φιλάρετο·βλ.ΧΑΤΖΗΨΑΛΤΗΣ 19721973, σ.154,157. Για την οικογένεια βλ.KYRRIS 1967, σ.107-149, ΧΑΤΖΗΨΑΛΤΗΣ 1972-1973, σ.133-168. Ένας ναυτικός, ο Σίλβιος Λογαράς, κάτοικος Βενετίας μνημονεύεται το 1586 σε πράξη του συμβολαιογράφου Ioannes Petrus de Angelerii, η οποία σώζεται στο αρχείο του Ελληνικού Ινστιτούτου Βενετίας (βλ. Κώδικες 2001, σ.46). Για τη μονή της Παλαιόπολης βλ.ΠΑΠΑΓΕΩΡΓΙΟΣ 1920, σ.189, ΓΙΩΤΟΠΟΥΛΟΥ- ΣΙΣΙΛΙΑΝΟΥ 2002, σ.508 (μνεία ιερού του ναού), ΚΑΡΥΔΗΣ 2007, σ.224-226. 6   Για τη δραστηριότητα του Παλατιανού, ο οποιός είχε διακριθεί για την παιδεία και τη διοικητική του ικανότητα, βλ.ΠΑΠΑΓΕΩΡΓΙΟΣ 1920, σ.96-98· πρβλ. ΤΣΙΤΣΑΣ 1969, σ.168. 7   HOPF 1873, σ.394. 8   Ό.π., σ. 411, ΤΣΙΤΣΙΛΙΑΣ 1994, τ. 2, σ.273. 9   Για τον Γαβριήλ Σεβήρο βλ.APOSTOLOPULOS 2004 (όπου προγενέστερη βιβλιογραφία). Σημειώνεται ότι σύμφωνα με το συνοδικό πατριαρχικό γράμμα του Ιωαννικίου Β´, του έτους 1651, ο μητροπολίτης Φιλαδελφείας Αθανάσιος Βαλεριανός και ο εκάστοτε διάδοχός του είχε δικαίωμα να διενεργεί χειροτονίες διακόνων και ιερέων στην Κέρκυρα· βλ.ΜΑΝΟΥΣΑΚΑΣ 1968, σ.66, πρβλ. ΚΑΠΑΔΟΧΟΣ 1990, σ.62. 10   ΓΙΩΤΟΠΟΥΛΟΥ-ΣΙΣΙΛΙΑΝΟΥ 1982, σ.212, 223·πρβλ. ΤΖΙΒΑΡΑ 2003, σ.71 σημ.225. 11  ΤΖΙΒΑΡΑ 2003, σ.244, 246 σημ.17, 255, 258, 281, 282, 490, 491. 12   Στην κερκυραϊκή πρεσβεία του 1536 γίνεται λόγος για έναν cittadino Μάρκο Χαμάλη, λογιστή του Τελωνείου (l’offitio del scontro della dogana granda)·βλ. ΓΙΩΤΟΠΟΥΛΟΥ- ΣΙΣΙΛΙΑΝΟΥ 2002, 3 4

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Αλλά γιατί επιτέλους ο επίσκοπος Κυθήρων, Διονύσιος, είχε βρεθεί στο επίκεντρο της κινητοποίησης των βενετικών αρχών της Κέρκυρας και ποιά πράξη του είχε προκαλέσει τέτοια αναστάτωση, ώστε ο βάιλος να ανακρίνει ενώπιον του λατίνου αρχιεπισκόπου Suriano δύο ευυπόληπτα άτομα της τοπικής κοινωνίας; O Διονύσιος Στρογγυλός καταγόταν από τη Ζάκυνθο και είχε εκλεγεί από τον αρχιεπίσκοπο Μονεμβασίας επίσκοπος Κυθήρων το 157013. Στο έγγραφο με το οποίο ο δόγης της Βενετίας Pietro Loredan είχε επικυρώσει την εκλογή του Στρογγυλού ως επισκόπου Κυθήρων σημειώνεται ότι ο τελευταίος εἰχε άδεια να χειροτονεί ιερείς στην Κρήτη και στα Κύθηρα. Στην έκθεσή του προς τις αρχές της μητρόπολης Βενετίας ο βενετός αξιωματούχος Francesco Foscarini γράφει ότι ο Διονύσιος είχε γεμίσει τον κόσμο ιερείς και ότι σε κάθε χωριό χειροτονούσε 15-20 παπάδες, ζημιώνοντας το δημόσιο, καθώς οι κληρικοί απαλλάσσονταν από διάφορες υπηρεσίες που όφειλαν να προσφέρουν στη βενετική διοίκηση. Δέκα χρόνια μετά την εκλογή του, το 1580, ο Διονύσιος βρισκόταν στην Κωνσταντινούπολη, όπου είχε αφιερώσει βιβλίο στον Σολομώντα Σιωπικό, υπογράφοντας ως ταπεινός αρχιερεύς Κερκύρας και Κυθήρων14. Στην ανακριτική διαδικασία ήταν παρών, όπως ήδη έχει αναφερθεί, ο λατίνος αρχιεπίσκοπος Κερκύρας Surianο. Πρόκειται για τον βενετό ευγενή Bernardo Surianο (1577-1583), ο οποίος είχε δημιουργήσει με τη συμπεριφορά του προβλήματα στους ορθόδοξους κερκυραίους15. Επιδιώκοντας τον περιορισμό της πνευματικής δικαιοδοσίας του Μεγάλου Πρωτοπαπά Κερκύρας, ο Surianο είχε ταλαιπωρήσει τους Κερκυραίους, με αποτέλεσμα να παραβληθεί με μια μεγάλη και απειλητική για τον τόπο «πυρκαγιά». Μεταξύ άλλων είχε παρέμβει στη δικαστική διένεξη ενός αντρόγυνου, αφορίζοντας και διασύροντας γυναίκα που ονομαζόταν Ελένη Ράλλη. Είχε μάλιστα φροντίσει να τοιχοκολληθούν στις πλατείες του νησιού χάρτινες εικόνες που παρίσταναν τη γυναίκα γυμνή και περικυκλωμένη από διαβόλους· το όνομά της ήταν γραμμένο με κεφαλαία γράμματα και στα πόδια της υπήρχε σημείωμα, στο οποίο αναφερόταν ότι ο αρχιεπίσκοπος την είχε αφορίσει επειδή δεν ήταν πιστή στον σύζυγό της. Η κοινότητα της Κέρκυρας με αναφορά που απηύθυνε το 1580 στον δόγη της Βενετίας κατήγγειλε τη συμπεριφορά του αρχιεπισκόπου και έστειλε στον ανώτατο άρχοντα της Γαληνοτάτης αντίτυπο της εικόνας της Ελένης Ράλλη, για να διαπιστώσει και ο ίδιος με ποιό τρόπο αντιμετωπίζονταν οι fidelissimi corfiotti16. σ.238. Ακόμη, ένας Τζουάν Χαμάλης είχε καταδικαστεί το 1500 σε θάνατο για απάτη κατά την παρασκευή παξιμαδιών που προορίζονταν για τον στόλο (βλ.ΠΑΓΚΡΑΤΗΣ 2008, σ.16 σημ.8). 13   Για τον Διονύσιο Στρογγυλό βλ.ΑΛΒΑΝΑΚΗΣ 1909, σ.34, ΖΩΗΣ 1963, σ.619, ΤΣΙΤΣΙΛΙΑΣ 1994, σ.79- 81. 14   ΤΣΙΤΣΙΛΙΑΣ 1994, σ.81. 15   Βλ.για τον Suriano ΤΣΙΤΣΑΣ 1989, σ.35-36, Ο ΙΔΙΟΣ, 1969, σ.59,104. Mέλος της ίδιας οικογένειας ήταν προφανώς ο Pietro Suriano, προνοητής Κυθήρων κατά τα έτη 1572-1574, ο οποίος είχε αναπτύξει, σύμφωνα με καταγγελία των κατοίκων, παράνομη δράση στο νησί (βλ.ΤΣΙΚΝΑΚΗΣ 1994, σ.9,14). 16   ΤΣΙΤΣΑΣ 1989, σ.49-54, Ο ΙΔΙΟΣ 1969, σ.62-63 (όπου αναφέρεται το όνομα Μαρία αντί Ελένη Ράλλη).

Ο τίτλος του επισκόπου Κυθήρων και ο συμβολισμός του (1580)

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Το σπουδαιότερο ωστόσο ζήτημα που είχε εξοργήσει τον Bernardo Suriano ήταν ο τίτλος που όφειλαν να φέρουν οι Μεγάλοι Πρωτοπαπάδες Κερκύρας, επειδή στη θεώρηση που είχε ο λατίνος αρχιεπίσκοπος για τη θρησκευτική κατάσταση στο νησί ο τίτλος συνδεόταν με προνόμια του προϊσταμένου των ορθόδοξων κατοίκων της Κέρκυρας, επομένως οποιαδήποτε διεύρυνση της δικαιοδοσίας του έθετε σε κίνδυνο τα συμφέροντα της Βενετίας. Όταν λοιπόν ο Μέγας Πρωτοπαπάς Αντώνιος Σπυρής (1556-1572) και ο διάδοχός του Αλέξιος Ραρτούρος τιτλοφορήθηκαν αυτοβούλως χωρεπίσκοποι Κερκύρας, ο Suriano αντέδρασε έντονα, επειδή φοβήθηκε ότι ο τίτλος θα οδηγούσε με τον καιρό σ᾽αυτόν του επισκόπου17. Με το αίτημα της αναγνώρισης του τίτλου το Ιερό Τάγμα είχε στείλει αργότερα, το 1582, στη Βενετία πρεσβεία, στην οποία μετείχαν ο ίδιος ο Μέγας Πρωτοπαπάς Φώτιος Παλατιανός και ο σακελλάριος Στέλιος Ρίκης18. Όμως, η βενετική σύγκλητος απάντησε αρνητικά στο αίτημα, παρατηρώντας ότι η τυχόν αποδοχή του θα ήταν αντίθετη προς τη θρησκευτική πολιτική που ακολουθούσε ώς τότε, άρα δεν υπήρχε λόγος να γίνει κανένας νεωτερισμός (non si faci innovazione). Έληξε έτσι εις βάρος του ορθόδοξου κλήρου το ζήτημα του τίτλου του Μεγάλου Πρωτοπαπά19. Αν συσχετίσει κανείς το κείμενο της ανάκρισης, το 1580, από τους βενετούς αξιωματούχους της Κέρκυρας του γραμματέα του Μεγάλου Πρωτοπαπά και του ηγουμένου της μονής της Παλαιόπολης με το κλίμα που επικρατούσε τότε στα θρησκευτικά πράγματα του νησιού και με τη σκληρή απέναντι στον ορθόδοξο κλήρο συμπεριφορά του λατίνου αρχιεπισκόπου, εύκολα μπορεί να κατανοήσει το νόημα των ερωτήσεων που είχαν υποβάλει οι Βενετοί στoν Ρίκη και στον Λογαρά και την προσπάθεια των αρχών να αποσπάσουν πληροφορίες, με βάση τις οποίες θα ενοχοποιούσαν στη συνέχεια τον επίσκοπο Κυθήρων. Σε δύο σημεία είχε επικεντρωθεί η ανάκριση: στον τίτλο που χρησιμοποιούσε ο επίσκοπος Διονύσιος, και στη διαδικασία που είχε ακολουθηθεί κατά τη χειροτονία των ιερέων20. Τόσο ο τίτλος όσο και η διαδικασία της χειροτονίας ιερέων από τον επίσκοπο Κυθήρων ενδιέφεραν άμεσα τον λατίνο αρχιεπίσκοπο, ο οποίος επιζητούσε την περιστολή των δικαιοδοσιών του Μεγάλου Πρωτοπαπά και την καταπίεση του ορθόδοξου κλήρου. Καθώς οι βενετικές αρχές δεν επέτρεπαν στον Μεγάλο Πρωτοπαπά να χειροτονεί ιερείς, τους κερκυραίους παπάδες τους χειροτονούσε ο επίσκοπος Κεφαλληνίας και Ζακύνθου και αργότερα ο επίσκοπος Κυθήρων21. Όμως, ο Suriano, δυσχεραίνοντας την όλη διαδικασία, απαιτούσε οι υποψήφιοι ιερείς να εξετάζονται πριν από τη χειροτονία από λατίνους ιερείς,   Για τον τίτλο του χωρεπισκόπου βλ.ΤΩΜΑΔΑΚΗΣ 1976-1977, σ.21-25.   Για τον ιδιότυπο θεσμό του ορθόδοξου κλήρου της Κέρκυρας (σώμα 20 ιερέων με ορισμένες ο καθένας εκκλησιαστικές αρμοδιότητες) βλ.ΖΑΡΙΔΗ 1995, σ.27-32. 19  ΠΑΠΑΓΕΩΡΓΙΟΣ 1920, σ.98, ΓΙΩΤΟΠΟΥΛΟΥ- ΣΙΣΙΛΙΑΝΟΥ 2002, σ.88-104, 321, ΖΑΡΙΔΗ 1995, σ.32-33. 20   Βλ.γενικά για το ζήτημα της χειροτονίας των ορθόδοξων ιερέων στη διάρκεια της βενετοκρατίας ΤΩΜΑΔΑΚΗΣ 1959, σ.39-72, ΜΑΝΟΥΣΑΚΑΣ 1959, σ.95-147, Ο ΙΔΙΟΣ 1961, σ.149-233, Ο ΙΔΙΟΣ 1964, σ.317-330, ΤΩΜΑΔΑΚΗΣ 1969-1970, σ.21-38. 21  ΜΑΝΟΥΣΑΚΑΣ 1964, σ.317, 324, ΤΣΙΤΣΙΛΙΑΣ 1994, σ.80, ΖΑΡΙΔΗ 1995, σ.35. 17 18

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ενώ ο διάδοχός του Matteo Venier ανάγκαζε όσους ήθελαν να χειροτονηθούν να δίνουν ομολογία πίστης ενώπιόν του22. Το έγγραφο που παρουσίασα στη σύντομη μελέτη μου, την οποία πολύ ευχαρίστως αφιερώνω στον αγαπητό συνάδελφο και φίλο Enrico Morini, είναι ένα από τα πολλά τεκμήρια των διενέξεων ανάμεσα στους ορθόδοξους και τους καθολικούς, οι οποίες ταλάνισαν το νησί των Φαιάκων στις τελευταίες δεκαετίες του 16ου αιώνα, εξαιτίας των επεμβάσεων του εκπροσώπου της λατινικής εκκλησίας στα πράγματα του ορθόδοξου κλήρου. Η ειρηνική συνύπαρξη στο νησί των δύο τμημάτων της χριστιανοσύνης θα επιτευχθεί τελικά με την πρόοδο του χρόνου, επιτρέποντας έναν γόνιμο πολιτισμικό διάλογο που θα αφήσει το αποτύπωμά του σε αξιόλογα έργα τέχνης και λόγου. ΑΛΒΑΝΑΚΗΣ 1909 = Δ.Σ.ΑΛΒΑΝΑΚΗΣ, Η εκκλησία εν Κυθήροις.Ιστορικαί τινές περί αυτής ειδήσεις, «Κυθηραϊκή Επετηρίς» έτος Α´, 1909, σ.33-45. APOSTOLOPULOS 2004 = D.G.APOSTOLOPULOS (a c.), Gavriil Seviros, arcivescovo di Filadelfia a Venezia, e la sua epoca, Venezia 2004. ΓΙΩΤΟΠΟΥΛΟΥ-ΣΙΣΙΛΙΑΝΟΥ 1982 = Ε. ΓΙΩΤΟΠΟΥΛΟΥ-ΣΙΣΙΛΙΑΝΟΥ, Ο αντίκτυπος του Δ´ Βενετοτουρκικού πολέμου στην Κέρκυρα από ανέκδοτες πηγές, Αθήνα 1982. ΓΙΩΤΟΠΟΥΛΟΥ-ΣΙΣΙΛΙΑΝΟΥ 2002 = Ε.ΓΙΩΤΟΠΟΥΛΟΥ-ΣΙΣΙΛΙΑΝΟΥ, Πρεσβείες της βενετοκρατούμενης Κέρκυρας (16ος-18ος αι.). Πηγή για σχεδίασμα ανασύνθεσης της εποχής, Αθήνα 2002. ΖΑΡΙΔΗ 1995 = Κ.Φ.ΖΑΡΙΔΗ, Ο Μέγας Πρωτοπαπάς Κερκύρας Αλέξιος Ραρτούρος λόγιος του 16ου αι. (15014-1574), Κέρκυρα 1995. ΖΩΗΣ 1963 = Λ.Χ.ΖΩΗΣ, Λεξικόν ιστορικόν και λαογραφικόν Ζακύνθου, τ.1, Αθήνα 1963. HOPF 1873 = CH.HOPF, Chroniques gréco-romanes inédites ou peu connues publiées avec notes et tables généalogiques, Berlin 1873. ΚΑΠΑΔΟΧΟΣ 1990 = Δ.ΧΡ.ΚΑΠΑΔΟΧΟΣ, Η απονομή της δικαιοσύνης στην Κέρκυρα από τους Μεγάλους Πρωτοπαπάδες την ενετική περίοδο (1604-1797), Σύμφωνα με ανέκδοτα έγγραφα του Ιστορικού Αρχείου Κερκύρας, Αθήνα 1990. ΚΑΡΥΔΗΣ 2007 = ΣΠ.ΧΡ. ΚΑΡΥΔΗΣ, Ο αστικός χώρος και τα ιερά. Η περίπτωση της Κέρκυρας τον 16ο αιώνα, Αθήνα 2007. KYRRIS 1967 = C.P.KYRRIS, The Noble Family of Logaras of Lapethos, Cyprus: Some New Information about their Careers, Activities and Landed Properties, «Rivista di Studi Bizantini e Neoellenici», n.s.4, 14, 1967, σ.107-149. Κώδικες 2001 = Κώδικες και νοταριακά έγγραφα από το Βυζάντιο μέχρι σήμερα, Codices et documents notariaux de Byzance à nos jours, κατάλογος έκθεσης που οργανώθηκε στο Μουσείο της Πόλεως των Αθηνών, Αθήνα 2001.   ΤΣΙΤΣΑΣ 1969, σ.104.

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Ο τίτλος του επισκόπου Κυθήρων και ο συμβολισμός του (1580)

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ΜΑΝΟΥΣΑΚΑΣ 1959 = Μ.Ι.ΜΑΝΟΥΣΑΚΑΣ, Αρχιερείς Μεθώνης, Κορώνης και Μονεμβασίας γύρω στα 1500, «Πελοποννησιακά» 3, 1959, σ. 95-147. ΜΑΝΟΥΣΑΚΑΣ 1961 = Μ.Ι.ΜΑΝΟΥΣΑΚΑΣ, Βενετικά έγγραφα αναφερόμενα εις την εκκλησιαστικήν ιστορίαν της Κρήτης του 14ου-16ου αιώνος (Πρωτοπαπάδες και πρωτοψάλται Χάνδακος), «Δελτίον της Ιστορικής και Εθνολογικής Εταιρείας της Ελλάδος» 15, 1961, σ.149-233. ΜΑΝΟΥΣΑΚΑΣ 1964 = Μ.Ι.ΜΑΝΟΥΣΑΚΑΣ, Η χειροτονία ιερέων της Κρήτης από το μητροπολίτη Κορίνθου (Έγγραφα του ΙΣΤ´αιώνα), «Δελτίον της Χριστιανικής Αρχαιολογικής Εταιρείας», περ. Δ´, 4, 1964 = Στη Μνήμη Γ.Σωτηρίου, σ.317-331. ΜΑΝΟΥΣΑΚΑΣ 1968 = Μ.Ι.ΜΑΝΟΥΣΑΚΑΣ, Ανέκδοτα πατριαρχικά γράμματα (1547-1806), Βενετία 1968. ΠΑΓΚΡΑΤΗΣ 2008 = Γ.Δ.ΠΑΓΚΡΑΤΗΣ, Οι εκθέσεις των βενετών βαΐλων και προνοητών της Κέρκυρας (16ος αιώνας), Αθήνα 2008. ΠΑΠΑΓΕΩΡΓΙΟΣ 1920 = ΣΠ.Κ.ΠΑΠΑΓΕΩΡΓΙΟΣ, Ιστορία της Εκκλησίας της Κερκύρας από της συστάσεως αυτής μέχρι του νυν, Κέρκυρα 1920. ΤΖΙΒΑΡΑ 2003 = Π.ΤΖΙΒΑΡΑ, Σχολεία και δάσκαλοι στη βενετοκρατούμενη Κέρκυρα (16ος-18ος αι.), Αθήνα 2003. ΤΣΙΚΝΑΚΗΣ 1995 = Κ.ΤΣΙΚΝΑΚΗΣ, Έργα και ημέρες ενός βενετού προβλεπτή στα Κύθηρα. Η θητεία του Pietro Suriano τα χρόνια 1572-1574, εφημ. «Κυθηραϊκά», Ιούνιος 1994, σ.9,14. ΤΣΙΤΣΑΣ 1969 = Α.Χ.ΤΣΙΤΣΑΣ, Η Εκκλησία της Κερκύρας κατά την λατινοκρατίαν 1267-1797, Κέρκυρα 1969. ΤΣΙΤΣΑΣ 1989 = Α.Χ.ΤΣΙΤΣΑΣ, Βενετοκρατούμενη Κέρκυρα (Θεσμοί), Κέρκυρα 1989. ΤΣΙΤΣΙΛΙΑΣ 1994 = Π.ΤΣΙΤΣΙΛΙΑΣ, Η ιστορία των Κυθήρων, τ.2, Αθήνα 1994. ΤΩΜΑΔΑΚΗΣ 1959 = Ν.Β.ΤΩΜΑΔΑΚΗΣ, Οι ορθόδοξοι παπάδες επί ενετοκρατίας και η χειροτονία αυτών, «Κρητικά Χρονικά» 13,1959, σ.39-72. ΤΩΜΑΔΑΚΗΣ 1970 = Ν.Β.ΤΩΜΑΔΑΚΗΣ, Η θρησκευτική πολιτική της Ενετίας εν Κρήτῃ έναντι των ορθοδόξων Κρητών από του ΙΓ΄ έως του ΙΕ΄αιώνος, «Επιστημονική Επετηρίς της Φιλοσοφικής Σχολής του Πανεπιστημίου Αθηνών» 1969-1970, σ.21-38. ΤΩΜΑΔΑΚΗΣ 1976-1977 = Ν.Β.ΤΩΜΑΔΑΚΗΣ, Οφφικίων διάκρισις, Περί πρωτοπαπάδων, χωρεπισκόπων και των συναφών αυτοίς, «Αθηνά» 76, 1976-1977, σ.3-58. ΧΑΤΖΗΨΑΛΤΗΣ 1972- 1973 = Κ.ΧΑΤΖΗΨΑΛΤΗΣ, Το εν Ελλάδι και Κύπρω οικογενειακόν όνομα Λογαράς κατά την Βυζαντινήν και Μεταβυζαντινήν περίοδον, «Επετηρίς Κέντρου Επιστημονικών Ερευνών» 6, 1972-1973, σ.133-168.

DUE ESEMPI DI DEVOZIONE DELLA SINDONE A BOLOGNA NEL XVI SECOLO: GABRIELE E ALFONSO PALEOTTI

Flavia Manservigi

Il 14 settembre 1578 il Duca Emanuele Filiberto di Savoia, dopo aver trasferito la capitale del ducato a Torino, decise di traslare in questa città anche la reliquia dinastica più importante, la Sacra Sindone, che dal 1502 era custodita nel comune francese di Chambéry. Il trasferimento della reliquia dalla Francia al nuovo centro politico e amministrativo esigeva un pretesto plausibile onde evitare di generare uno scontro aperto con le autorità religiose del comune francese, e l’occasione fu trovata nel momento in cui l’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo manifestò il desiderio di recarsi in pellegrinaggio presso la Sindone, per sciogliere un voto fatto in occasione della peste che aveva flagellato Milano tra il 1576 e il 1577. Il motivo ufficiale del trasferimento della reliquia fu dunque la volontà di abbreviare il lungo cammino di Carlo, che il 10 ottobre 1578 poté venerare la Sindone nel corso di un’ostensione privata. Ma questo non fu l’unico pellegrinaggio del Borromeo presso la Sindone: nel giugno 1582, egli era presente a una seconda ostensione della reliquia. E questa fu anche la prima occasione che legò ufficialmente la città di Bologna al culto del Sacro Telo: ad accompagnare Carlo Borromeo nel suo secondo pellegrinaggio c’erano infatti Gabriele e Alfonso Paleotti1, che ricoprirono entrambi la carica di arcivescovo nella città felsinea. I due cugini si resero fautori di diverse modalità di devozione alla Sindone, la cui importanza può essere compresa appieno solo valutando il contesto e il momento storico in cui essi operarono in qualità di vescovi del capoluogo emiliano.  Cfr. Fanti 1983, p. 370. Sulla partecipazione di Gabriele e Alfonso al pellegrinaggio del 1582 cfr. inoltre Savio 1957, pp. 304-305 (anche se qui è indicato che l’arcivescovo di Bologna in quel momento era Alfonso, quando in realtà si trattava ancora di Gabriele). 1

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L’operato di Gabriele Paleotti come arcivescovo di Bologna: applicazione delle norme del Concilio di Trento Gabriele Paleotti (Bologna, 1522 - Roma, 1597) fu arcivescovo di Bologna tra il 1566 e il 15972; il suo episcopato è considerato una rappresentazione esemplare della «presa di coscienza della nuova pastoralità» promossa e proposta dal Concilio di Trento3, che pochi anni prima (tra il 1547 e il 1549) aveva visto una delle sue fasi svolgersi proprio a Bologna4. Dopo un periodo caratterizzato dalla lotta del papato per la conquista del potere temporale, dagli scismi e dalla formazione di Chiese territoriali nei paesi maggiormente interessati dalla Riforma protestante (eventi che coincisero in gran parte con le guerre promosse dagli Stati Nazionali per il predominio in Europa), ebbe inizio non solo un graduale ma significativo mutamento nelle logiche nepotistiche che avevano presieduto alla nomina delle più alte autorità ecclesiastiche nei secoli precedenti, ma anche un ritorno all’impegno nella cura delle anime. L’azione di Gabriele Paleotti, che al Concilio aveva preso parte in qualità di consultore e canonista5, s’inserisce appieno in questo contesto storico. Obiettivo primario del suo operato è stata innanzitutto la ricostruzione dell’idea di una Chiesa fondata sull’unità dei fedeli attorno al vescovo, che egli tentò di attuare mediante interventi di carattere simbolico e culturale, in un continuo richiamo al Vangelo e alle tradizioni6. Grande attenzione fu dedicata dal Paleotti alla formazione del clero7 e dei lai8 ci , nonché al tentativo di porre rimedio agli abusi che spesso venivano perpetrati a danno dei fedeli da parte di frati e monaci9. Decisivo fu anche il suo intervento nella regolamentazione del controllo delle monache di clausura, che il Paleotti riportò, non senza difficoltà, sotto il diretto controllo del vescovo10.   Sull’azione di Gabriele Paleotti a Bologna si v. in partic. Prodi 1959; Mazzone 1997, in partic. p. 218 ss.; Zarri 2008, in partic. p. 957 ss. 3  Cfr. Zarri 2008, p. 957. 4  Cfr. Alberigo 2008. 5  Cfr. Prodi 1959, p. 121 ss.; Mazzone 1997, p. 1021. 6   Le linee principali della concezione dell’ufficio episcopale propria del Paleotti si trovano nell’opera Archiepiscopale Bononiense sive de Bononiensis Ecclesiae administratione. Auctore Gabriele Paleoto, S.R.E. Cardinali, Romae, apud I. Burchionum et I.A. Ruffinellum, excudebat A. Zanettus, 1594; cfr. anche Mazzone 2008, p. 1021. 7   Si ricordi ad esempio la fondazione del seminario diocesano nella chiesa di S. Lucia, affidato alla gestione dei Gesuiti; la convocazione annuale di un sinodo per la formazione del clero e l’uso della visita pastorale come strumento non solo di controllo, ma anche di contatto con il clero e il laicato diocesano (cfr. Zarri 2008, pp. 958-959). 8   Paleotti istituì a tale proposito la congregazione della Perseveranza, ivi, p. 958. 9  Cfr. Mazzone 1997, p. 224 e ss. 10  Cfr. Zarri 2008, pp. 961-962. 2

Due esempi di devozione della sindone a Bologna nel XVI secolo

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Notevole fu inoltre l’attenzione del Paleotti verso le forme della pietà popolare, come dimostra l’istituzione da parte sua di diverse devozioni, come le processioni del Corpus Domini, la pratica delle Quarantore e la festa della Decennale Eucaristica11. Gabriele Paleotti dedicò grande cura anche al culto delle reliquie: a lui si deve, nel 1578, la traslazione nella cattedrale di S. Pietro dei resti dei santi Vitale e Agricola, considerati dalla tradizione i fondatori della comunità cristiana locale, come anche la traslazione, avvenuta nel 1586, delle reliquie dei primi due vescovi bolognesi Zama e Faustino sull’altare maggiore della cattedrale stessa (del cui restauro Gabriele era stato promotore)12. Gabriele Paleotti e la Sindone L’azione del cardinal Paleotti si sviluppò anche in relazione alla Sindone: la devozione di Gabriele al Sacro Lino appare connotata da caratteri che ben s’inseriscono nella fisionomia del suo operato pastorale, attento a far rientrare la Chiesa all’interno di un’ortodossia e di una moralità che nei decenni precedenti erano state seriamente compromesse. Questo suo atteggiamento apparve chiaro quando, nel 1578, dopo il pellegrinaggio di Carlo Borromeo, fu stampato a Milano un opuscolo commemorativo sul quale era riprodotta l’immagine della Sindone riportante l’effigie dell’intero corpo di Gesù, impressa anteriormente e posteriormente su un unico telo13. Il Paleotti, vedendo (probabilmente per la prima volta) questa immagine, si rese immediatamente conto delle incongruenze esistenti tra il racconto giovanneo della Resurrezione (in cui si dice che il corpo di Gesù venne avvolto nelle “bende” – οθόνια –, mentre sul suo capo fu posto un “sudario” – σουδάριον14) e l’immagine sindonica, sulla quale era visibile anche il volto di Gesù, che secondo il Vangelo di Giovanni sarebbe stato invece coperto da un sudario (e la cui immagine, di conseguenza, non avrebbe dovuto apparire sul lenzuolo)15. Così egli decise di sottoporre il delicato problema a monsignor Bonomi, vescovo di Vercelli16. Questi a sua volta avrebbe rimesso la questione al «padre e cavalier di  Cfr. Mazzone 1997, pp. 220, 224.  Cfr. Zarri 2008, pp. 964-965. 13  Cfr. Maragi 1978; Maragi 1983, pp. 381-392; Gentile 2007. 14   Nel Vangelo secondo Giovanni si dice che nel giorno dopo il sabato Pietro e Giovanni, dopo aver ricevuto da Maria di Màgdala la notizia che il corpo di Gesù non era più nel sepolcro, corsero alla tomba, e videro «le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte» (Gv 20,6-7). 15   «Venne in dubitazione di alcuni come potesse nella Sindone essere raffigurata la faccia, la quale pare che san Giovanni dica che fu coperta non dal lenzuolo ma dal sudario» (cit. in Maragi 1983, p. 384). 16   Il quale aveva partecipato al pellegrinaggio di Borromeo nel 1578 (Maragi 1978, p. 220). 11 12

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san Lazzaro» Pietro Cristini, ma il Paleotti, evidentemente non soddisfatto dalle risposte ottenute, chiese un secondo parere a una persona non identificata (che secondo Maragi sarebbe individuabile nell’Inquisitore di Bologna17) e infine un terzo, questa volta a uno dei più insigni scienziati della storia della città felsinea: Ulisse Aldrovandi, al quale il Paleotti inviò tutta la documentazione relativa a questo problema, compresa la relazione di un testimone che avrebbe assistito all’ostensione privata della Sindone concessa al Borromeo. Notizia di questo scambio di pareri è tramandata dai carteggi dello stesso Aldrovandi, nello specifico all’interno dei due volumi del manoscritto “30” del corpus attualmente conservato presso la Biblioteca Universitaria di Bologna18. Ciò che qui interessa sottolineare non è tanto la risposta di Aldrovandi alla domanda del vescovo19, quanto le modalità con cui il vescovo stesso interpretò l’immagine sindonica. L’osservazione della riproduzione dell’effigie impressa sulla Sindone da parte di Gabriele Paleotti non fu, infatti, passiva, ma fu al contrario caratterizzata da una grande attenzione nel cogliere gli elementi che in quella presunta reliquia potevano confliggere con la narrazione dei Vangeli. In questo, la reazione iniziale del cardinal Paleotti nei confronti della Sindone appare vicina in certa misura all’atteggiamento che era stato proprio di Pierre d’Arcis, vescovo di Troyes, che al momento della comparsa della Sindone a Lirey rifiutò di riconoscerla come reliquia, avversando anzi in maniera decisa ogni forma di devozione nei confronti di questo oggetto20. L’atteggiamento di Gabriele non fu così netto, e non si tradusse in un rifiuto netto e totale di questa reliquia21: ma anche il vescovo di Bologna era consapevole, al pari del metropolita francese, della responsabilità di essere a capo di un gregge sempre in pericolo (la Riforma della Chiesa era nel suo pieno svolgimento, e le minacce legate alla diffusione del protestantesimo e di forme di religione non consone all’ortodossia erano ben vive nella società del tempo e in misura considerevole an  Maragi 1983, p. 385.   La documentazione inviata dal Paleotti è contenuta all’interno delle prime 36 pagine del primo volume; le risposte di Aldrovandi sono in parte sviluppate in forma di glosse a questa documentazione, ma anche in una sorta di “trattato” (diviso in due parti intitolate rispettivamente De ritu sepeliendi apud diversas nationes e De sepulchris et condiendis cadaveribus) che inizia già nel primo volume e si sviluppa nel secondo, per un totale di 1900 pagine. La domanda del vescovo in merito a questo argomento aveva infatti suscitato un vivace interesse nello scienziato, che si è esteso oltre i limiti della domanda iniziale per passare a considerare in maniera diffusa le modalità di sepoltura di tutti i popoli del mondo. Sul trattato di Aldrovandi cfr. in partic. Maragi 1978 e Maragi 1983. 19   Nella prima risposta, Aldrovandi asserì che il sudario doveva essere stato collocato sopra al lenzuolo funebre in corrispondenza del volto di Cristo; nel resto del trattato, tuttavia, lo scienziato sembra propendere per considerare il “sudario” come un pezzo di stoffa usato come legamento-mentoniera (Maragi 1983, pp. 385 ss.). 20   Su questo argomento si v. in partic. Zaccone 2015, p. 29 ss. 21  Cfr. Zaccone 2010, p. 109 ss. 17 18

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che a Bologna22), e dunque tentò di comprendere a fondo questo oggetto, indagò e fece ricerche per capire se esisteva la possibilità che quell’immagine non fosse una contraddizione rispetto a quanto affermato nei Vangeli, secondo un procedimento molto simile a quello con cui il vescovo di Troyes aveva indagato nel momento della comparsa a Lirey di questo lenzuolo straordinario ma problematico, in quanto privo di un retroterra basato sulle Scritture. Sicuramente le conclusioni cui pervenne il cardinal Paleotti furono diverse rispetto a quelle a cui era giunto Pierre d’Arcis: non si fa infatti menzione nelle fonti di un rifiuto del culto della Sindone da parte di Gabriele, che anzi nel 1582 si recò con Carlo Borromeo a venerare questa reliquia. Probabilmente le spiegazioni fornite dagli “esperti” che aveva interpellato gli sembrarono abbastanza convincenti, tali da portarlo alla conclusione che quella reliquia-immagine poteva essere lecitamente venerata, in accordo con i contenuti dei Vangeli. La cautela del Paleotti nel rapportarsi alla Sindone derivò sicuramente anche dalla necessità di fare fronte al movimento iconoclasta proprio di alcuni rami del protestantesimo (in primis quello calvinista, che si era rivolto anche contro la Sindone): come giustamente osservato dal Maragi, «se non si fossero ben chiarite la natura, la funzione e la collocazione del sudario, si sarebbe corso il rischio di svalutare il culto della Sindone (che era di lunga data e di vasta diffusione), ma soprattutto di rendere insanabile la discordanza testuale tra vangeli sinottici e vangelo giovanneo»23. L’atteggiamento del vescovo bolognese nei confronti della Sindone fu quindi improntato a una legittima prudenza, richiesta dal particolare momento storico che la Chiesa stava vivendo; è interessante rilevare come la preoccupazione del Paleotti non sembri rivolta tanto a stabilire se la Sindone fosse “autentica” nel senso che solitamente si attribuisce a questo termine («intendendo con ciò la sua appartenenza al corredo funerario di Cristo e quindi contenente la sua immagine»24). Il vescovo sembrava più preoccupato di stabilire se la venerazione di quell’immagine non costituisse un elemento di dissonanza rispetto ai Vangeli e un potenziale punto di ancoraggio per i Protestanti per contestare i culti dell’ortodossia25.  Cfr. Dall’Olio 2008, in partic. p. 1105 ss.   Maragi 1983, p. 385; e ancora Maragi osserva come il Paleotti abbia voluto «vederci chiaro» ed «essere tranquillizzato, proprio per la sua veste di uomo di punta del Concilio di Trento e della Riforma cattolica […] Non si tratta di corroborare o scalfire il dogma della Resurrezione: si tratta di sapere se può essere consentito il culto di una reliquia, di un oggetto, di una immagine che una certa credenza ha diffuso in forme tanto ampie o addirittura clamorose per l’orbe cristiano; e un uomo come Paleotti non può non esser rimasto colpito dagli atteggiamenti iconoclastici dei Protestanti e dalle feroci espressioni usate, con specifico riferimento alla Sindone, da Giovanni Calvino», Maragi 1978, p. 218. 24   Zaccone 2010, p. 9. 25   È bene ricordare che una delle sessioni del Concilio di Trento aveva riguardato proprio la venerazione delle immagini sacre (sessione XXV, 1963); a questo proposito cfr. Alberigo 1978, pp. 712-714. 22 23

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In questo senso il Paleotti è perfettamente in linea con le modalità secondo le quali la Sindone è stata letta nel corso della storia, in cui ne è stato messo in luce principalmente il carattere di immagine e, in quanto tale, di strumento per meditare sulla Passione di Cristo, prima che, intorno al XIX secolo, la “fame di autenticità” diventasse la chiave di lettura preferenziale nell’analisi delle problematiche legate al Sacro Lino. Totalmente diversa fu la forma di devozione che il cugino di Gabriele, Alfonso, tributò alla Sindone. L’operato di Alfonso Paleotti a Bologna: misticismo e spiritualità Alfonso Paleotti26 (Bologna, 1531 - Bologna, 1610), dopo essersi laureato in legge civile e canonica e aver insegnato per qualche tempo presso l’Università di Bologna, si recò a Roma, dove operò come avvocato alla corte di numerosi cardinali; dopo una grave malattia, fece un voto alla Madonna, promettendo di entrare nell’ordine dei Teatini in caso di guarigione. Proprio in questo ambiente, egli ebbe occasione di conoscere una figura che sarebbe stata per lui fondamentale, ossia Giovanni Parenti da Bolsena (che Alfonso chiamava il “vidente”), un visionario laico considerato dotato del dono della precognizione, sulle cui capacità tuttavia le autorità ecclesiastiche mostravano un certo scetticismo27. Alfonso Paleotti fu sempre legato a questa figura, che gli avrebbe riferito quanto il Signore e la Vergine gli comunicavano circa la sua missione. Nel 1571 Alfonso fu ordinato sacerdote a Roma, e dopo alcuni anni si recò a Bologna, dove il cugino cardinale gli aveva offerto un canonicato; l’attività di Alfonso nella città felsinea fu intensa e varia, ed egli si fece promotore di diverse iniziative di pietà, non sempre accolte con favore da parte delle autorità ecclesiastiche locali, soprattutto in virtù del suo legame con il “vidente”. Nel 1585 Alfonso fu creato arcivescovo del Capitolo della cattedrale e nel 1597 succedette al cugino come arcivescovo di Bologna. L’attività di Alfonso come vescovo fu contrassegnata da uno spiritualismo mistico e visionario; analoghe tendenze al misticismo si accentuarono nel mondo cristiano tra la fine del Cinquecento e soprattutto nel Seicento, anche nell’ambito di una maggiore individualizzazione della vita spirituale, perseguita soprattutto attraverso l’esercizio della preghiera mentale e delle pratiche frequenti della confessione e della comunione28. Dal punto di vista del governo delle anime, la politica di Alfonso s’incentrò sulla volontà di introdurre in città alcuni nuovi ordini di chierici regolari, come i Ministri   Sulla vita e il vescovado di Alfonso Paleotti si è fatto riferimento in particolare a Fanti 1983 (in cui è trascritta parte dell’autobiografia di Alfonso, andata perduta durante le soppressioni napoleoniche e nota solo tramite copie) e Zarri 2008, p. 967 ss. 27   Sulle capacità del “vidente” si era dimostrato diffidente anche san Filippo Neri (Fanti 1983, p. 370). 28  Cfr. Zarri 2008, p. 969. 26

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degli Infermi, i Teatini, i Barnabiti e i Fatebenefratelli, anche se questa introduzione trovò ferma opposizione da parte degli organi amministrativi cittadini, avversi all’ingresso di nuove “religioni” mendicanti, che avrebbero gravato non poco sulle già difficili condizioni economiche della città29. Alfonso Paleotti e la Sindone Quale fu il rapporto devozionale di Alfonso Paleotti con la Sindone? Nel 1590 egli iniziò la stesura di un libro dal titolo Esplicazione del lenzuolo ove fu involto il Signore30, redatto in lingua volgare (in modo da renderlo fruibile a un più alto numero di lettori) e portato a termine otto anni dopo. L’origine di questo contributo è probabilmente ravvisabile nel già menzionato viaggio a Torino intrapreso da Alfonso nel 1582, in accompagnamento al cugino Gabriele e a Carlo Borromeo. Quest’opera nacque dunque all’interno del clima di acceso misticismo legato al suo rapporto con il “vidente”: è lo stesso Paleotti a indicare, nella propria autobiografia, come la Vergine gli avesse affidato, proprio tramite il Parenti, l’importante compito di parlare della Sindone per mettere in luce molti passi «incogniti» della Passione, in modo da «cavarne frutto per il mondo»31. Gesù, col favore di Maria, avrebbe mostrato chiaramente al “vidente” le ferite presenti sulla Sindone, e avrebbe affermato che «quella era la vera Sindone ove esso morto fu involto, e con esso sepolto», lasciata agli uomini «per lasciar questa mostra al mondo delle sue piaghe, et accioché per esse si chiarissero tutte le profezie e detti della Scrittura che della sua Passione ha profetato»32. Nell’opera del Paleotti è presente una dettagliata descrizione delle ferite presenti sulle mani e sui piedi del Cristo, descrizione in parte distante rispetto alla tradizione iconografica originale per quanto riguarda la localizzazione delle ferite stesse33.   Nell’ultimo decennio del Cinquecento si era verificata, nell’area bolognese, una terribile crisi alimentare, cfr. Zarri 2008, p. 970. 30   Titolo intero: Esplicatione del lenzuolo, ove fu inuolto il Signore, & delle piaghe in esso impresse col suo pretioso sangue confrontate con la Scrittura, Profeti, e Padri. Con la notitia di molte piaghe occulte, & numero de’ chiodi. Et con pie meditationi de’ dolori della B Vergine, Bologna, per gli eredi di Giovanni Rossi, 1598; a questa prima edizione ne seguirono numerose altre, in primis quella del 1599, dal titolo leggermente modificato: Esplicatione del sacro lenzuolo, ove fu inuolto il Signore, & delle piaghe in esso impresse col suo pretioso sangue confrontate con la Scrittura, Profeti, e Padri. Con pie meditationi de’ dolori della B. Vergine (Bologna, per gli eredi di Giovanni Rossi, 1599); per le successive edizioni (tra cui quella di Daniele Mallonio, che tradusse l’opera in latino, e l’ultima edizione di Fossati del 1975) cfr. Fanti 1983, p. 369 n. 2, e Gentile 2007, p. 145. 31  Cfr. Fanti 1983, p. 372. 32   Ibid. 33   Secondo Alfonso Paleotti, Cristo sarebbe stato appeso alla croce non per i palmi delle mani, ma «nella giuntura tra’l braccio & la mano, detta da gli Anatomici, Carpo» (Paleotti A. 1598, p. 102) e i suoi piedi sarebbero stati trafitti da due chiodi (ivi, pp. 119-126). 29

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Il libro del Paleotti non venne accolto con favore delle alte gerarchie ecclesiastiche, e i cardinali della Congregazione del Santo Uffizio praticarono una censura su questo scritto. Il Paleotti addusse a motivo di questa censura l’azione del diavolo, che a suo avviso venne però contrastata con forza da Maria che, apparsa al “vidente” «tutta splendente come mille soli»34 e con il libro in mano, avrebbe detto di aver ispirato papa Clemente VIII affinché desse libertà di diffondere il libro, salvo togliere la parte relativa alla collocazione delle piaghe delle mani e dei piedi. Così Alfonso, nel 1599, fece ristampare il libro con le dovute modifiche35. La censura applicata all’opera del Paleotti non dovette essere originata solo da motivi legati al rispetto della tradizione, bensì anche dalla mancanza di verosimiglianza di alcune sue descrizioni, e probabilmente un ulteriore e non secondario motivo delle censure fu anche il sospetto, da parte delle autorità ecclesiastiche, che dietro alla descrizione del posizionamento delle ferite sulle mani e sui piedi vi fosse la suggestione del “vidente”, e dunque la «diffidenza verso la fonte e i moduli interpretativi sottesi»36. La forma devozionale che Alfonso Paleotti tributò alla Sindone mostra caratteri di sostanziale differenza rispetto a quanto è stato possibile osservare nel caso del cugino Gabriele: quest’ultimo, come detto, aveva avuto un approccio al Lenzuolo caratterizzato da un iniziale scetticismo, dovuto alla discordanza tra quello che l’effigie sindonica mostrava (ossia l’immagine dell’intero corpo di Cristo) e quanto invece era possibile leggere nel Vangelo di Giovanni. Alfonso, al contrario, fece della Sindone un oggetto condizionato da un forte spiritualismo, come si evince non solo dai continui riferimenti alle indicazioni che Gesù e la Vergine gli avrebbero fornito attraverso il Parenti, ma anche alle visioni dei mistici della Passione, come santa Brigida37. Ciò non significa che Alfonso fosse uno sprovveduto o un credulone: la sua formazione e la sua intensa attività come avvocato a Roma ne facevano un uomo di solida cultura. La sua attenzione verso le previsioni del “vidente” sembrava essere motivata non tanto da una cieca accettazione, bensì dalla constatazione delle capacità paranormali di quest’uomo (si ricordi, ad esempio, che il Parenti gli avrebbe   Cit. in Paleotti A. 1598, p. 373.   Paleotti A. 1599. Gli interventi di rilettura riguardarono nello specifico i capitoli XVI (in cui è dichiarato che «facevasi […] entrar’il chiodo tra la congiuntura del braccio e della mano», mentre nell’edizione del 1599 viene indicato genericamente che erano presenti piaghe nelle mani, ma si evita ogni accenno alla posizione dei chiodi e al loro passaggio attraverso il carpo) e XIX (in cui sono spiegate le modalità con cui sarebbero stati fissati i piedi alla croce). Un’ulteriore censura sarebbe stata apposta alla parte in cui Paleotti asserisce che a Cristo sarebbero stati spezzati i denti a causa delle percosse, poiché ciò avrebbe portato a confutare la profezia per cui all’agnello pasquale «non sarebbe stato spezzato alcun osso» (Gv 19,37), ivi, p. 376. 36   Zaccone 2010, p. 199. 37  Cfr. Paleotti A. 1598, pp. 105-108. 34 35

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predetto le morti di suo fratello e di suo cugino, nonché il trasferimento a Bologna e l’ascesa alla carica vescovile). Non bisogna dimenticare che a Bologna non era infrequente trovare figure di eremiti urbani dai comportamenti molto simili a quello del Parenti, alcuni dei quali predicavano quotidianamente nella Piazza Maggiore, senza subire alcuna condanna da parte delle autorità ecclesiastiche38. In questo senso, l’atteggiamento di Alfonso s’inserisce appieno nel clima di misticismo che, come ricordato, costituì una delle facce della spiritualità cinque-seicentesca, legata a un approccio più individualistico alla vita religiosa39. Questo atteggiamento però non toglie valore alla sua opera sulla Sindone: obiettivo del trattato era quello di diffondere la conoscenza di questa reliquia a scopo catechetico e pastorale, per renderla uno strumento di meditazione sulla Passione di Gesù. Inoltre, nella sua analisi e descrizione della Sindone, Alfonso ha dichiarato esplicitamente di tenere costantemente presenti gli insegnamenti delle Scritture, dei Profeti e dei Padri40: la sua opera non si collocava dunque al di fuori dell’ortodossia. Conclusioni La ragione del diverso approccio dei due Paleotti rispetto alla Sindone può essere senza dubbio ricollegata al loro differente percorso religioso: Alfonso appare meno legato alle istanze del Concilio di Trento (al quale, a differenza di Gabriele, egli non aveva preso parte). Diversamente da suo cugino, Alfonso non pose al centro della propria attività di vescovo l’obiettivo di recuperare l’autorità episcopale dopo le deviazioni basso-medievali. Il suo vescovado era più orientato alla volontà di introdurre e sostenere nuovi ordini mendicanti, per molti aspetti legati alla sua stessa idea di spiritualità. Gabriele, al contrario, fece totalmente suo il compito di riformare una Chiesa alla deriva, obiettivo che di conseguenza condizionò tutte le sue azioni41 e non di   Si ricordi ad esempio il mistico Giovanni Maria Cicolini (cfr. Masini 1666, vol. I, p. 512), oppure Pudenziana Zagnoni Senior, terziaria francescana per la quale venne avviato anche un processo di canonizzazione (cfr. Zarri 2008, pp. 63-64). 39   Su questo argomento cfr. in particolare Zarri 1997, pp. 52-64. 40   «Per obedienza della mia Signora mi posi per 8 anni a volger Profeti, Scrittura, Evangelii e Padri», cit. in Fanti 1983, p. 372. 41   Sulla vasta attività di Gabriele Paleotti nell’ambito della riorganizzazione materiale e spirituale della diocesi bolognese cfr. in partic. Mazzone 1997, p. 224 ss., in cui è effettuata una dettagliata disamina delle iniziative intraprese dal cardinal Paleotti per la regolamentazione della cura delle anime (si fa riferimento, in particolare, alla preoccupazione per il mantenimento dell’austerità delle cerimonie, al tentativo di correzione degli abusi che spesso venivano perpetrati dal clero locale, alla gestione della giurisdizione episcopale e al controllo capillare delle varie strutture della diocesi, or38

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meno il suo rapporto con la Sindone, il cui culto, a suo avviso, poteva essere diffuso solo nel momento in cui essa non si dimostrasse in disaccordo con le Scritture. Queste due forme appaiono dunque come l’esito di due preparazioni spirituali differenti, una (quella di Gabriele) totalmente inserita nel contesto della Riforma e del Concilio Tridentino, l’altra improntata a un rapporto mistico e diretto con Dio, e quindi maggiormente indirizzata verso l’anima dei singoli piuttosto che verso un disegno più ampio di ricostruzione di identità ecclesiale. Ciò che resta saldo, in questi due atteggiamenti, è il modo di comprendere la Sindone: sia Gabriele che Alfonso considerarono il Sacro Telo come uno strumento per meditare sulla Passione di Cristo. In Alfonso questo aspetto appare maggiormente evidente, dal momento che obiettivo del suo libro era proprio quello di diffondere il culto di questa reliquia a scopo catechetico e pastorale. In Gabriele tale aspetto è ugualmente presente, anche se in modo meno palese: egli, infatti, considera la Sindone come un rimando e un supporto alla lettura della narrazione evangelica della Passione e della Resurrezione di Gesù; per questo motivo, era necessario che essa fosse totalmente in accordo con i racconti evangelici stessi, al fine di poter costituire un corretto strumento di devozione. L’atteggiamento di Gabriele e Alfonso Paleotti dovrebbe oggi rappresentare un modello per tutti coloro che si accostano alla Sindone: la loro visione, seppur in modi differenti – poiché differenti erano i loro obiettivi pastorali – fu scevra da ogni giudizio precostituito, poiché orientata a divulgare la conoscenza di questo oggetto e soprattutto dell’immagine impressa sul Telo basandosi su un’attenta osservazione di essa, che voleva essere considerata non come una prova definitiva di quanto narrato dai Vangeli, bensì come uno strumento di analisi profonda e di meditazione. Quelle dei due cugini Alfonso e Gabriele Paleotti costituirono due forme di devozione molto diverse tra loro, seppure all’interno della stessa città e della stessa famiglia; non per questo, tuttavia, una delle due forme fu inferiore all’altra, poiché entrambe costituirono una testimonianza fondamentale nell’ambito della storia della devozione di quel reperto tanto straordinario quanto misterioso che è la Sindone di Torino.

ganizzata in base a una precisa gerarchia, nonché, come già indicato, a una corretta preparazione del clero). È interessante, a questo proposito, l’affermazione di P. Prodi, che definisce Gabriele Paleotti «uno dei cardinali più rigidi e intransigenti nell’esigere e nel controllare l’esecuzione delle riforme già decretate», Prodi 1959, p. 223.

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IL LIBELLUS AD LEONEM X E LE CHIESE CRISTIANE ORIENTALI

Umberto Mazzone

Le figure dei due aristocratici veneziani Pietro (al secolo Vincenzo) Querini e Paolo (al secolo Tommaso) Giustiniani sono centrali nella vita religiosa della prima metà del Cinquecento1. Coinvolti in un lungo e profondo dibattito sulla riforma della Chiesa e sul valore della vita attiva e di quella contemplativa, una volta compiuta la scelta monastica ed eremitica entrano nella Congregazione camaldolese. Per seguirne gli interessi Querini e Giustiniani si recano a Roma nella tarda primavera-inizi estate del 1513, quando il nuovo pontefice Leone X, Giovanni de’ Medici figlio di Lorenzo il Magnifico pare aprire una stagione che si attende ricca di novità. Nella città eterna redigono, o completano, il Libellus ad Leonem X, vero e proprio programma di pontificato2. Vogliono dare centralità all’azione del papato e farne il   Un’accurata presentazione la offre Massa 2005. Si vedano inoltre Massa 1992; Massa 2006. Per un quadro complessivo cfr. Schnitzer 1926; Leclercq 1951; Leclercq 1955; Jedin 1953; Cervelli 1966; Alberigo 1974; Tramontin 1980; Minnich 1993; Bowd 2002; Alberigo 2004; Barletta 2012. 2  Vedi Alberigo 2004, dove il progetto è attentamente esaminato. Per il giudizio sulla sua importanza come testo chiave del Cinquecento religioso vedi Jedin 1957; Tramontin 1962; Jedin 1973-1981. Per il testo del Libellus sono a nostra disposizione, in assenza di un manoscritto autografo originale, il ms. Muraniano 1071 (copia apografa risalente al XVIII secolo, unico manoscritto noto prima della edizione a stampa) conservato nella Biblioteca del Monastero di Camaldoli, cc. 1r.-68v.; l’edizione a stampa del 1773 in Annales Camaldulenses di Mittarelli, Costadoni 1773a; una prima traduzione italiana, condotta sul testo degli Annales, Bianchini 1995; la successiva, seconda, traduzione italiana, migliorata e riccamente annotata, Barletta 2012. Anch’essa basata sul testo degli Annales, ad essa rimandiamo per le citazioni in questo contributo, secondo lo schema: Libellus, pagina. Vi è ora una traduzione inglese, con testo latino a fronte, dell’edizione degli Annales in Beall, Schmitt 2016. Si veda anche Lavenia 2013, Mazzone 2013 e Ronchi 2017. 1

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motore primo della riforma3. La loro articolata proposta si divide in sei parti, che riguardano rispettivamente il potere e i doveri del pontefice, gli ebrei, i maomettani, i cristiani orientali, lontani e divisi dalla Chiesa romana, la riforma in membris, il rinnovato esercizio spirituale del potere della Chiesa. Alle Chiese orientali è dedicata tutta la parte quarta4 dell’opera ma si trovano vari riferimenti al tema anche in numerosi altri passaggi5. Le pagine del Libellus che riguardano l’auspicata azione del papato nei confronti dei mai evangelizzati6, degli ebrei, dei musulmani e dei cristiani d’Oriente vanno lette in maniera unitaria e compongono una visione complessiva del mondo. Le argomentazioni sono conseguenti7 ad un progetto generale che coinvolge l’intera esperienza religiosa. Verso gli ebrei, superstiziosi che conoscono Cristo ma non lo accolgono, si deve avviare una pratica di conversione che, se non riuscisse, si dovrebbe trasformare in una politica di espulsione dalle terre cristiane8. Per chi, nelle regioni da poco scoperte al di là degli oceani, non ha ancora conosciuto la fede cristiana e vive, incolpevole, nell’idolatria, si deve aprire una stagione missionaria, dalla quale discenderanno facilmente ottimi risultati9. Gli unici veri eretici, nella trattazione del Libellus, sono i musulmani, che hanno abbandonato il cristianesimo dopo averlo praticato10 e vanno, di conseguenza, sconfitti con le armi. Si potrà avviare un nuovo sforzo verso l’Oriente cristiano solo dopo aver debellato militarmente i musulmani. Nell’azione avranno un ruolo determinante i cristiani caduti sotto il potere dell’Islam. Quando «sia apparso un qualche minimo indizio della vittoria dei cristiani, insorgeranno i cento milioni di cristiani che vivono in quelle regioni sottomesse all’impero dei Turchi e prenderanno le armi (di cui non hanno affatto penuria). E … vedrai tutto l’affare già interamente risolto da loro e più velocemente di quanto si sarebbe potuto credere»11. Durante le lotte con gli infedeli quei popoli cristiani avrebbero attaccato i nemici alle spalle, non lasciando loro via di scampo12.   Si pensi al trattato di Pietro Querini, Super Concilium generale, in Mittarelli, Costadoni 1773b, e si vedano Bowd 2002; Minnich, Gleason 1989. 4   Libellus, pp. 104-129. Massa 2005, pp. 338-362. 5   Libellus, pp. 41, 42, 69, 70, 76, 77, 100, 157, 158, 204. 6   Ivi, pp. 56 ss.; Jedin 1946. 7   Per alcuni rimandi bibliografici si veda: Von Den Brincken 1973; Fedalto 1984; Fedalto 1993; Fedalto 1995. 8   Libellus, p. 49; Di Nepi 2015, p. 99. Si consideri che Querini e Giustiniani ritengono eretici solo i musulmani, Libellus, pp. 124 s. Se, da parte loro, i greco-ortodossi definiscono i cristiani romani come eretici, i due camaldolesi non fanno mai proprio il ragionamento reciproco. 9   Ivi, p. 219, i compiti del papa sono: convertire ebrei e pagani, sconfiggere i maomettani, riunire i cristiani. 10   Ivi, p. 65. 11   Ivi, p. 100. 12   Ivi, p. 123. 3

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Per gli autori del Libellus si tratta di popolazioni che hanno un grande amore per la fede cristiana e per la libertà13 e che, una volta incoraggiate sulle possibilità di vittoria, avrebbero combattuto contro l’Islam con una foga inimmaginabile. Si tratta evidentemente di giudizi che manifestano una assai ottimistica, sin irrealistica, sopravvalutazione del numero (cento milioni), dell’armamento («di cui non hanno affatto penuria»), e delle intenzioni bellicose (debbono placare «la sete del loro odio smisurato»)14 dei cristiani d’Oriente sotto il dominio islamico. Dopo la distruzione dei musulmani si sarebbe aperto per l’Occidente un varco per giungere alle comunità cristiane orientali, di Asia e di Africa, ai cristiani «a noi ignoti»15. Tanto ignoti che non si conosce neppure sino a che punto condividano la fede con la Chiesa romana, infatti «sono decisamente molto di più gli uomini che, pur avendo il nome di cristiani, tuttavia (come sembra) della verità cristiana accettano alcune cose mentre non ne accettano altre, tanto che non siamo assolutamente in grado di dire se si trovino all’interno della Chiesa o fuori»16. L’Africa, secondo quanto scrivono i due monaci, dovrebbe custodire una forte presenza cristiana, così come l’Asia, distribuita in aree geografiche ben più vaste di quelle europee17. I cristiani d’Africa e d’Oriente sarebbero molti di più non solo di tutti i cristiani d’Europa ma anche di tutti i non cristiani del mondo18. Per Querini e Giustiniani sarebbe, dunque, certa per i cristiani la maggioranza assoluta tra le popolazioni del mondo. Oramai è stata tanto lunga la lontananza di quelle popolazioni, i rapporti si sono resi così precari che è difficile giudicare il loro grado di consonanza con l’insegnamento di Roma. Se è vero che il diritto canonico condanna chi si allontana dalla dottrina della Chiesa, non è però chiaro se i cristiani d’Oriente non valutino nella dovuta importanza i decreti romani per scelta volontaria o per ignoranza scusabile. Per i due camaldolesi probabilmente il problema non si è ancora neppure posto all’attenzione dei canonisti19. Addirittura quelle popolazioni potrebbero non ritenere certa l’esistenza di un pontefice romano e credere che non osservare le sue risoluzioni non significhi una separazione da Cristo e dal suo insegnamento, di conseguenza non si sono «permessi di dire se si trovino all’interno o fuori della Chiesa: per evitare di approvare incautamente coloro che la Chiesa condanna o di condannare temerariamente coloro che essa approva»20. È evidente in questo atteggiamento, che pare proporre una sorta di theologische Unklarheit orientale, il tentativo di attenuare il peso delle differenze dottrinali, che non potevano però essere ignote a Querini e Giustiniani, tanto più che lo stesso     15   16   17   18   19   20   13 14

Ivi, p. 100. Ibid. Ivi, p. 104. Ibid. Ivi, p. 105. Ivi, p. 106. Ivi, p. 107. Ivi, p. 108.

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Giustiniani aveva vissuto a Gerusalemme tre mesi, tra il 1507 e il 1508, dove aveva incontrato esponenti delle tradizioni cristiane orientali21. Il desiderio di riprendere le relazioni con quel mondo, di utilizzarlo contro i musulmani, e soprattutto di operare per una reintegrazione degli Orientali all’interno della comunione romana fece mettere in sordina le differenze (con l’eccezione dei greco-ortodossi, troppo vicini e troppo conosciuti, in particolare a dei veneziani, per poter essere presentati con eccessive reticenze). La sottovalutazione della profondità della separazione e il fervore nel promuovere un riavvicinamento all’Oriente cristiano lasciano quasi immaginare una componente di “orientalismo” nei due monaci, che assumevano il valore storico fondante del cristianesimo orientale riconoscendovi la matrice delle origini cristiane. La riforma della Chiesa d’Occidente e la sconfitta dell’eresia islamica, sarebbero potute accadere solo con un rinnovato incontro con le comunità orientali. Si rivolge poi una critica all’azione del papato, e l’allusione è palesemente al predecessore di Leone X, Giulio II, più interessato a recuperare il controllo politico su territori e città che alla conquista delle anime22. Sono noti a Querini e Giustiniani sette gruppi di cristiani che vivono nelle terre di Levante. In conseguenza dei contatti limitati, delle relazioni incerte, bloccate dalla interposizione musulmana, ritengono che siano sconosciuti a molti. I diversi popoli non sono neppure in grado di comunicare tra di loro, usano linguaggi e scritture molto diverse, hanno alfabeti composti da lettere differenti, e una parte scrive da sinistra a destra e l’altra lo fa in senso contrario23. A Gerusalemme, dove un punto di aggregazione di tutti i cristiani era la chiesa del Santo Sepolcro, si poteva calcolare che un terzo degli abitanti della città santa fosse rappresentata da cristiani orientali24. La prima Chiesa separata che viene ricordata è quella d’Etiopia25. A questa, monofisita di tradizione alessandrina e copta, appartengono le popolazioni nere residenti tra il Nilo e il Mar Rosso26. Sono gli Abissini, i Christiani nigri27, la sola popolazione africana mantenutasi, dai primi tempi in poi, integra come nazione cristiana. Seguono i Giacobiti28, definiti simili agli Abissini ma bianchi. Sono i monofisiti siriani o siro-occidentali, di tradizione antiochena, presenti nell’ampia zona che va da Antiochia ad Edessa, al Tigri e all’Eufrate.     23   24   25   26   27   28   21 22

Ivi, p. 113. Ivi, p. 110. Vedi anche p. 204 per l’auspicata partecipazione al concilio delle Chiese orientali. Ivi, p. 111. Ivi, p. 114. Ibid. Fedalto 1984, p. 115 s.; Fedalto 1993, p. 143. Kurt 2013, p. 12. Libellus, p. 114; Fedalto 1984, pp. 25, 117, 178; Fedalto 1993, pp. 149, 157.

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I Siri-giacobiti sono così chiamati a memoria del vescovo Giacomo Baradeo (490-578) il quale, opponendosi alla politica religiosa di Bisanzio, promosse la Chiesa siriaca monofisita, caratterizzata da una radicata tradizione monastica e che si era distinta per le traduzioni di testi greci, prima in siriaco poi in arabo e per le buone relazioni coi latini. Nel 1179 il patriarca Michele il Siro fu invitato a partecipare al concilio Lateranense III29. Al terzo punto sono menzionati gli Armeni30, che, convertitisi al cristianesimo già agli inizi del IV secolo e monofisiti, svilupparono un proprio alfabeto col quale tradussero dal greco e dal siriaco la Bibbia. Vengono poi i Georgiani31, che appaiono a Gerusalemme economicamente più benestanti degli altri, e ai quali, nella chiesa del Santo Sepolcro, è stato affidato il luogo in cui Cristo fu crocifisso. Si trovano come quinto gruppo i Siriani32, ovvero i fedeli della tradizione siroorientale, o di Persia, diffusa nel territorio della Persia sassanide. Come sesto gruppo sono richiamati i Maroniti, di derivazione antiochena e sirooccidentale che nel 1181 aderirono alla Chiesa latina e stabilirono rapporti duraturi con Roma. Si opposero ai monofisiti e giunsero ad accettare gli esiti del concilio di Calcedonia33. Infine troviamo i Greci, ovvero i fedeli della Chiesa greco-ortodossa, espressione della grande tradizione bizantina34 staccatasi da Roma nel 1054. Sui gruppi cristiani insediati a Gerusalemme ricordiamo come sia stata annotata, circa cinquant’anni prima della stesura del Libellus, da un pellegrino francese, il vescovo di Saintes Louis de Rochechouart (†1495/96), nel suo diario di viaggio del 146135 la presenza di «Latini, Greci, Armeni, Jacobite, Gorgiani vel Giorgiani, Syriani, Indi, qui alio modo dicuntur Abassis Marones, Nestoriani et christiani de Zona»36, aggiungendo poco dopo «Indi seu Orientales, sub dominio presbyteri Johannis»37. Secondo il vescovo francese entro le diverse comunità cristiane i rapporti peggiori sono tra i Greci e i Latini. I Greci manifestano un atteggiamento di odio e provocazione «et nos canes vocant»38. Gli Armeni hanno relazioni altrettanto dure con i Greci, mentre con i Latini i rapporti sono assai più sereni, vi sono similitudini liturgiche e   Perrone 2003, p. 112.   Libellus, p. 115; Fedalto 1984, pp. 26, 122; Fedalto 1993, p. 152. 31   Libellus, p. 115; Perrone 2003, p. 109; Fedalto 1984, p. 27; Fedalto 1993, p. 154. 32   Libellus, p. 116; Perrone 2003, p. 114; Fedalto 1984, p. 123; Fedalto 1993, p. 158. 33   Libellus, p. 116; Perrone 2003, p. 113; Fedalto 1984, p. 123; Fedalto 1993, p. 154. 34   Libellus, p. 117. Vedi Morini 1996; Peri 1981; Fedalto 1984, 1993, 1995. 35   Couderc 1893, pp. 168-274. 36   Ivi, p. 254. I cristiani de Zona abitano in Siria ma soprattutto nei dintorni del Monte Libano, vestono come i musulmani, cambiando solo il colore dell’ abito, ivi, p. 256. 37   Ibid.; Conte 2012, p. 213. 38   Couderc 1893, p. 255. 29 30

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custodiscono il luogo del Calvario, la chiesa di San Giacomo Maggiore e la casa di Caifa39. I Georgiani curano l’altare sul monte Calvario e il luogo della Santa Croce. Gli Orientali o gli Indiani sotto il dominio del prete Gianni, hanno molto in comune con i Giacobiti, fanno frequenti digiuni40 mentre i Maroniti oggi sono vicinissimi ai Latini e si deve notare solo la differenza nella lingua liturgica che è il siriaco41. Queste note del vescovo Louis de Rochechouart ci testimoniano come le affermazioni che troviamo nel Libellus siano basate su informazioni assai diffuse tra i pellegrini e sicuramente raccolte da Giustiniani in Terra Santa. Secondo i due eremiti il tratto comune di questi gruppi è il loro distacco da Roma e la decisione di non riconoscere il pontefice42 come la più alta autorità della cristianità. Questi cristiani lontani ritengono che Pietro non sia il principe degli apostoli ma un semplice apostolo come gli altri e che le loro Chiese, fondate da Giacomo, Bartolomeo e da altri apostoli, non siano inferiori ma uguali alla sede di Roma. La liturgia è celebrata con riti diversi da quello romano. Sono notazioni che rivelano una conoscenza degli Orientali che pare essere ben più approfondita di quanto concesso in precedenza43. Si conferma quindi come l’immagine sfumata con la quale vengono presentate le loro dottrine sia in realtà originata soprattutto dall’esigenza di favorire un’unione, non insistendo sulle differenze. Compito del papa è ora quello di «ricondurre queste popolazioni al grembo, all’obbedienza, all’unità e alla conformità della Chiesa romana»44. Dopo aver ricordato la grande devozione di quei popoli si presenta la loro tradizione scritturistica45. La composizione del Nuovo Testamento è uguale a quella dei cattolici, i quattro Vangeli sono disposti nello stesso ordine, così come gli altri testi dalle Lettere agli Atti degli apostoli, all’Apocalisse di Giovanni46. Una comunanza che rafforza la speranza di un nuovo incontro. Si è convinti dell’importanza delle relazioni e degli scambi personali tra le diverse tradizioni. Per ristabilire i rapporti reciproci è necessario innanzi tutto mandare a ciascun popolo cristiano orientale rappresentanti latini che siano ben qualificati per saggezza, dignità e dottrina. Si dovrebbero, inoltre, ospitare in Occidente vescovi e sacerdoti orientali affinché si possano avviare confronti diretti47.   Ibid.   Ivi, p. 256. Sull’importanza che ha il prete Gianni nel testo del Libellus vedi infra p. 518. 41   Couderc 1893, p. 257. 42   Libellus, p. 117. 43   Ivi, p. 108. 44   Ivi, p. 119. 45   Ivi, p. 120. 46   Ivi, p. 121. 47   Va notato come Querini e Giustiniani, come per altre iniziative che saranno della controriforma, anche qui anticipino i tempi: Heyberger 2014, p. 235 sottolinea come dopo la conclusione del concilio di Trento il papato abbia moltiplicato le attività in direzione dei cristiani orientali. Con Gregorio XIII e con l’età dell’applicazione del Tridentino si va anche verso la fondazione dei collegi nazionali, vedi Samir 2014, p. 250. 39 40

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I due eremiti già immaginano il papa dedicarsi operosamente all’impresa dell’unione, inviando ambasciatori, predicatori e invitando i loro vescovi a partecipare al concilio Lateranense V48. Se la via di una riunificazione con le altre Chiese orientali si può imboccare con ottimismo, più complesse appaiono le relazioni con i greco-ortodossi49. Sperano fortemente che «tutte quelle popolazioni – eccetto i Greci – torneranno all’unità e alla sottomissione alla Chiesa»50, ma una sollecita riunificazione appare meno probabile con gli ortodossi «per la loro ostinata superbia e la loro ignoranza decisamente crassa». È pur vero che si potranno correggere anche loro, sia pur con «cure mediche più potenti»51. È poi auspicabile che il pontefice avvii una riflessione su come «sia stato possibile che, dopo il concilio di Firenze, in cui era stata del tutto sopita ed eliminata ogni discordia tra Greci e Latini», la separazione si sia affermata di nuovo52. Ricordano con sdegno Giovanni Eugenico53 che aveva abbandonato il concilio di Firenze il 18 settembre 1438, «in preda all’ira per non essere stato insignito della dignità del cardinalato»54. Secondo Querini e Giustiniani bisogna andare nelle terre greche per capire quanto odio è stato sparso contro i Latini e come nella vita religiosa ortodossa vengano favoriti i sacerdoti che apertamente sono contro di loro. Questo accade in quanto «i sacerdoti da parte loro, siccome sono affetti non solo dall’ignoranza che hanno in comune con il popolo, ma anche da una grandissima povertà, per andare a caccia di aiuti da parte del popolo stesso osano dire, sui Latini, cose che noi non oseremmo dire nemmeno sui Giudei o sui maomettani»55. È dunque importante inviare nel Levante molti predicatori per contrastare l’ignoranza di clero e popolo. Vanno anche premiati economicamente e con incarichi della Chiesa romana i sacerdoti greci, anche quelli che non avanzano richieste, «non c’è niente, infatti, che attragga di più gli animi alla concordia e alla benevolenza quanto i benefici offerti a chi non li chiedeva»56. In passato i due eremiti avevano discusso approfonditamente sulla Chiesa ortodossa col vescovo di Cremona Girolamo Trevisan, cistercense57. Questi aveva vissuto presso i Greci e sarebbe stato bene affidargli il compito di guidare la trattazione dell’importante affare. Sembra quasi che Giustiniani avesse già interpellato Trevi  Libellus, p. 123.   Ivi, p. 122. 50   Ivi, p. 123. 51   Ivi, p. 124. 52   Sul concilio di Firenze vedi Gill 1967 e anche Fedalto 1984, p. 203. 53   Libellus, p125: «quell’empio». Vedi Gill 1967, sub voce. 54   Libellus, p. 125, vedi anche Fedalto 1984, p. 203. 55   Libellus, p. 125 s. 56  Ibid., p. 126. 57   Vescovo dal 1507 al 1523, Eubel III, p. 181, e DHGE XIII, coll. 1019-1021, sub voce: Crémone; Libellus, p. 127, Massa 2005, p. 348, n. 11. 48 49

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san, da lui definito nel 1510 «un de’ degni prelati de Italia»58, ricevendone l’assenso ad essere impegnato. Il vescovo di Cremona era ben noto anche al Querini che lo aveva valutato degno del cardinalato59. Giustiniani pensa inoltre di scrivere anche all’imperatore Massimiliano, ma ricorrendo all’artificio di firmare la lettera non col suo nome ma con quello dell’amico Pietro Querini che Massimiliano aveva già conosciuto come ambasciatore veneziano60, indicando così un mittente che aveva più possibilità di essere letto dal destinatario, certamente oberato dalla corrispondenza. Vorrebbe sottoporre all’imperatore, sempre nel 1513, un promemoria sull’Islam e sulle nazioni separate cristiane come quello contenuto nel Libellus61. Anche in questo caso suggerisce di inviare predicatori, monaci, di costruire monasteri62. Un interesse particolare emerge nei due eremiti camaldolesi verso la singolare figura del prete Gianni, già incontrata anche nella cronaca del viaggio del vescovo di Saintes Louis de Rochechouart63. Appaiono persuasi della concretezza di quel mito e della veridicità dell’esistenza di quel prete-re che anche per loro «è un personaggio ‘reale’ non immaginario»64. Il prete Gianni e la sua forza «domina sugli Abissini e i Giacobiti e tale potenza viene ritenuta senz’altro maggiore delle forze dei Turchi e dei Mori messe insieme»65. Una affermazione ribadita da una seconda citazione che ricorda come regni sugli Abissini66. La prima memoria scritta su questo misterioso e potentissimo personaggio, cristiano nestoriano, che regnava nell’Oriente estremo, che avrebbe tentato anche di soccorrere, contro l’Islam, la Gerusalemme cristiana ma che dovette rinunciare di fronte all’impossibilità di attraversare il Tigri con le sue armate, va collocata nel contesto storico dell’indizione della seconda crociata da parte del pontefice Eugenio III (1145-1153)67. Fonte primaria nel raccogliere e nel tramandare l’esistenza del prete è la Chronica sive Historia de duabus Civitatibus di Ottone, vescovo di Frisinga (†1158), completata nel 114668. Successiva di qualche anno è una Lettera in latino che il prete Gianni avrebbe inviato all’imperatore di Costantinopoli69   Ivi, p. 348.   Ivi, p. 347. 60   Ivi, p. 326. 61   Ivi, p. 326, n. 21. 62   Ivi, p. 327, note 30-32 e 35. 63  Cfr. supra p. 516. 64   Giardini 2016, p. 9. 65   Libellus, p. 112. 66   Ivi, p. 114. 67   Giardini 2016, p. 6. 68   Ottonis Episcopi Chronica 1912, e Gosman 1983, pp. 270-285. 69   Per una ricostruzione della complessissima vicenda filologica vedi Giardini 2016, p. 1 ss. Per una edizione del testo cfr. Zarncke 1879, per una versione recente cfr. Zaganelli 1992. È opi58 59

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intorno al 1165, durante la stagione del cancelliere imperiale Rinaldo di Dassel (1120-1167)70. Prende corpo così il mito del prete Gianni, e se ne mescolano le vicende con quelle di Alessandro Magno, di san Tommaso l’apostolo in India, delle dieci tribù perdute di Israele71. Durante il Medioevo molte incertezze vi furono su dove si situasse geograficamente la sua presenza, dall’Asia minore, all’India, all’Etiopia. Inizialmente prevalse una interpretazione che poneva il regno del prete Gianni genericamente in Asia e poi in India, come guardia della tomba dell’apostolo san Tommaso. Col tempo, a partire almeno dal 133972, lo si spostò nelle più recondite regioni dell’Africa73, generalmente note come Etiopia o India ultima o tertia. Già nel XIV secolo sono conosciute ambascerie etiopiche in Occidente74 e si ricordano inviati ad Avignone nel 1310, a Venezia nel 1402, a Roma nel 1404. È però nel Rinascimento che le relazioni con l’Etiopia si intensificano. Un importante momento di incontro è il concilio di Firenze del 1439-4275 durante il pontificato del veneziano Gabriele Condulmer (Eugenio IV, †1447). Sono menzionate altre ambascerie successive, una da collocarsi nel 1481, durante il pontificato di Francesco della Rovere (Sisto IV, †1484), una a Bologna nel 1530, in occasione dell’incoronazione di Carlo V, e un’altra, sempre a Bologna, durante il secondo incontro (dicembre 1532 - febbraio 1533) tra papa Clemente VII (Giulio de’ Medici, †1534) e Carlo V76. nione oramai diffusamente acquisita (Giardini 2016, p. 1) che si tratti di un falso, prodotto, con ogni probabilità, nella cancelleria federiciana. 70   Giardini 2016, p. 11. 71   Kurt 2013, p. 2. 72   Ivi, p. 5. 73   Brooks 2014, pp. 147-176. 74   Pennec 1999, p. 204. 75   Conte 2011, p. 45. Sulle delegazioni etiopiche al concilio, si veda Gill 1967, pp. 383 e 389 per i tentativi di stabilire relazioni con il prete Gianni da parte di Eugenio IV nel 1439. Un contatto dovette essere in qualche modo raggiunto e nel 1441, a fine agosto, giunsero a Firenze degli inviati tra quali vi erano tre ambasciatori del prete Gianni Conte 2011, p. 46. Al concilio di Firenze alla VI sessione 6 luglio 1439 si ebbe la bolla di unione con la Chiesa greca Laetentur Coeli, COGD II/2, p. 1212 ss., cui seguirono quella di unione con gli Armeni (VIII sessione, 22 novembre 1439, ivi, p. 1224 ss.), coi Copti (XI sessione, 4 febbraio 1442, ivi, p. 1271 ss.), e poi a Roma a S. Giovanni in Laterano, coi Siri (XIII sessione, 30 novembre 1444, ivi, p. 1310 ss.) e coi Caldei e i Maroniti di Cipro (XIV sessione, 7 agosto 1445, ivi, p. 1313 ss.). Sulle unioni vedi Fedalto 1984, p. 206. 76   Conte 2011, p. 49 n. 62 e si veda Franci 1991. Quando a Bologna, nel 1530, ebbe luogo l’incoronazione di Carlo V con la presenza del papa Clemente VII, furono esibite ad entrambi lettere inviate dal prete Gianni, Zaganelli 1992, p. 32, così come ricorda anche Dolce 1561, p. 43 s., «furono appresentate a Clemente et all’Imperadore lettere del Preteianni, grandissimo e potentissimo Re dell’Asia; il quale significava loro, come si era battezzato, et haveva abbracciata la Christiana fede, e proferiva all’Imperadore di dovergli essere leal vassallo et al Papa obediente figliuolo». Si conferma così come la persistenza del mito

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Gli anni intorno alla redazione del Libellus e all’ascesa di Leone X al papato (1513) vedono un intensificarsi dei rapporti tra Roma e gli Etiopi. Vi è quindi una sensibilità dell’ambiente curiale che potrebbe aver agito nella direzione di stimolare, da un lato, l’attenzione dei due monaci verso la Chiesa d’Etiopia e di rendere, dall’altro, il papa più attento alla sua esistenza e più recettivo verso le proposte del Libellus. Sappiamo che non era rara la presenza di pellegrini etiopici a Roma77. Due di loro furono ospiti nel 1516 della corte romana e uno «in Roma morì nel 1518, come priore della chiesetta vaticana di S. Stefano, presso la quale già dalla fine del Quattrocento avevano trovato ricetto i pellegrini “mori” o “indiani” provenienti da Gerusalemme»78. Come conseguenza della frase particolarmente feconda che vivevano in quegli anni le relazioni tra Roma e gli Etiopi va ricordato come79 la prima opera a stampa europea in caratteri etiopici sia stata pubblicata in Roma proprio alla fine di giugno del 1513, l’anno della redazione del Libellus e nella stagione della presenza a Roma dei due monaci. Era l’edizione dei Salmi e Cantico dei cantici curata dal tedesco Johann Potken per i tipi di Marcello Silber80 e lo stesso Potken testimoniava «di aver appreso i rudimenti della lingua “caldea” – come egli si ostina a chiamarla – dai pellegrini ospiti della chiesetta vaticana»81. L’Etiopia, che era l’unico regno africano cristiano al momento delle scoperte geografiche europee, viene presto integrata in un progetto di crociata antiislamica e, a partire dalla fine del XV secolo, è rapidamente inserita nella rete delle relazioni portoghesi, anche perché negli accordi di spartizione delle aree di influenza coloniale patrocinati dal papato tra Spagna e Portogallo, l’Africa e le importanti basi navali e commerciali dell’India (Goa) vennero a cadere sotto il controllo portoghese (Trattati di Tordesillas 1494 e Saragozza 1529)82. del prete Gianni sia stata lunghissima, anche quando le scoperte geografiche oramai avrebbero dovuto fare chiarezza, cfr. Olschki 1931, p. 5: «vier Jahrhunderte geographischer Erfahrungen, die dem Abendlande fast den ganzen Erdball erschlossen hatten, vermochten nicht die alte Fabel unglaubhaft zu machen und den Presbyter in eine mytische Figur zu verwandeln. Ebensowenig hat der in manchem so erfolgreiche kritische Sinn der Renaissancegelehrten im Briefe des Presbyters Johannes jemals eine Fälschung erblicken können». 77   Lefevre 1965, p. 17, ricorda come «i pellegrini etiopi da Gerusalemme sempre più frequentemente si spingevano a visitare i luoghi santi del cattolicesimo, Roma soprattutto». 78   Ivi, p. 18. La chiesa di Santo Stefano degli Abissini si trova dietro la Basilica di San Pietro, nella Città del Vaticano. Fu sede di un ospizio per i monaci abissini. Fu denominata in diversi modi sempre però con riferimento alla tradizione copta (Santo Stefano d’Egitto, dei Mori, degli Indiani, degli Abissini). Come ricorda Salvadore 2011, p. 593 l’Italia del Rinascimento divenne una destinazione non inusuale per monaci e dignitari etiopi. 79   Lefevre 1965, p. 22. 80   Impressum … ingenio & impensis Ioannis Potken … Rome per Marcellum Silber alias Franck, die vltima Iunij 1513. 81   Lefevre 1965, p. 22. Si veda anche Lefevre 1946, che presenta un importante regesto di documenti. 82   Pennec 1999, p. 204. Dal 1546 per iniziativa del sovrano Giovanni III il progetto di missione in Etiopia è affidato ad Ignazio di Loyola, ivi, p. 215 e dal 1554-55 gli obbiettivi diventano la conversione

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Ma tra la fine degli anni ’20 e gli inizi dei ’40 fu evidente la superiorità delle armi musulmane che, nonostante un piccolo aiuto dato ai cristiani da parte dei portoghesi, alla fine allontanarono i cristiani dalla costa del Mar Rosso. Il mito del prete Gianni allora implode e non potrà sopravvivere al diffondersi delle conoscenze della realtà dell’Etiopia83. Conclusioni La consapevolezza del carattere universale della religione cristiana e del fatto che al suo interno non possano riconoscersi degli eretici indica lo spirito profondamente aperto dei due camaldolesi. Il capitolo del Libellus dedicato all’Oriente cristiano è di non facile traduzione in pratica e non affrontabile solo con gli strumenti di una riforma religiosa. Dimostra tuttavia il grande spessore della proposta complessiva dei due camaldolesi. Riuscire a comprendere che i diversi aspetti del rinnovamento della vita religiosa, dall’esercizio del potere del papa alla ripresa della tradizione della cristianità orientale, sono intimamente connessi rappresenta una proposta straordinaria. Le vaste aspirazioni, il respiro universale, il desiderio di riforma, l’introduzione delle lingue volgari infatti facevano di quel testo del primo Cinquecento un documento straordinariamente premonitore delle possibilità che potevano aprirsi davanti alla Chiesa romana. Il Libellus inoltre, come mostra la sua attenzione agli Etiopi, coglie fermenti ben presenti a Roma al momento della sua stesura. Querini e Giustiniani vedono la ripresa di contatti con le Chiese cristiane orientali come premessa e come conseguenza della guerra col turco. Premessa perché il loro contributo sarebbe necessario per un successo militare, conseguenza perché una volta eliminato lo schermo islamico le relazioni sarebbero state assai facilitate. È palese come i due camaldolesi sopravvalutino sia il numero, sia la diffusione territoriale dei cristiani orientali sia la loro volontà di combattere l’Islam. Appaiono ben consapevoli, nonostante una certa reticenza nell’ammettere le divergenze, di quanto alcuni aspetti di dottrina non siano facili da ignorare, ma predomina uno spirito pacificatore. Un irenismo che porta ad evitare irrigidimenti. Dopo

del prete Gianni al cattolicesimo, uniformare i riti della Chiesa etiopica a quella romana e combinare la cattolicizzazione dell’Etiopia con la introduzione di elementi della civiltà europea. Si veda anche Pennec 2015, p. 853 che rileva come l’Etiopia si sia presentata come un possibile alleato potenziale nei progetti di riconquista della Terra santa. In realtà tutti i tentativi di coinvolgimento da parte occidentale, e in particolare dei portoghesi, dell’Etiopia in una guerra contro i musulmani furono sempre vanificati dal fatto che si basavano su informazioni vecchie di trent’anni e oramai ampiamente superate dagli eventi, ivi, p. 859. Si vedano inoltre Fritsch 2015; Cohen, Martinez 2006, Cohen 2009, Pennec 2003. 83   Kurt 2013, p. 23.

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tanto tempo di lontananza quello che importa ai due monaci è soprattutto la ripresa di un dialogo, mentre per affrontare le diversità si potrà attendere un tempo successivo. Il Libellus anticipa gli interventi84 dei papi della controriforma85 e vi si espongono molte di quelle riforme che presuppongono un governo centrale e un papato forti. Forse i due camaldolesi ci possono apparire più vicini, come visione strategica, alle aspirazioni che saranno impersonate da Gian Pietro Carafa, il futuro Paolo IV, che a quelle di Gasparo Contarini86. Si prefigurano correnti ecclesiologiche che, pur accomunate da un desiderio di riforma, ne declineranno la realizzazione in modi radicalmente diversi87. La morte prematura di Querini, giunta il 23 settembre 1514, quando si faceva assai probabile la sua elevazione al cardinalato, ha impedito di vederlo all’opera in altri ruoli, magari di rilievo nella curia romana, rendendo così solo indiziaria la comprensione dello spirito con cui era stato redatto il Libellus, che con questa incertezza interpretativa di fondo rimane, come dimostra il capitolo sulle Chiese orientali, ancora aperto ad ulteriori letture del mondo religioso degli inizi del XVI secolo. Bibliografia Abbreviazione Libellus = Barletta 2012. Alberigo 1974 = G. Alberigo, Vita attiva e vita contemplativa in un’esperienza cristiana del XVI secolo, in «Studi veneziani» 16, 1974, pp. 117-225. Alberigo 2004 = G. Alberigo, Sul Libellus ad Leonem X degli eremiti camaldolesi Vincenzo Querini e Tommaso Giustiniani, in P. Gilli (a c.), Humanisme et église en Italie et en France Méridionale, Rome 2004, pp. 349-359. Barletta 2012 = L. Barletta (a. c.), Un eremita al servizio della Chiesa (Il Libellus ad Leonem X e altri opuscoli), Prefazione di S. Pagano, Presentazione di F. Lovison, Cinisello Balsamo 2012. Beall, Schmitt 2016 = S.M. Beall, J.J. Schmitt (a c.), Libellus Addressed to Leo X, Supreme Pontiff by Blessed Paolo Giustiniani and Pietro Querini, Hermits of Camaldoli, Milwaukee (WI) 2016. Bianchini 1995 = G. Bianchini (a c.), Lettera al papa. Libellus ad Leonem X 1513, Modena 1995.

  Fragnito 1988, p. 100.   Ivi, p. 99. 86  Ivi, p. 100; Alberigo 2004. 87   Si vedano, solo come mero suggerimento per avvicinarsi ad una sterminata bibliografia, i contributi di Firpo 1990, 1992, 2006; Prosperi 1996, 2003; Romeo 2002; Del Col 2006; Black 2013. 84 85

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GLI OBELISCHI DI NUOVO INNALZATI E LA CHIESA “IMPERIALE” ROMANA DI PAPA SISTO V (1585-1590)

Ramón Teja Giorgio Vespignani

1. Obelischi a Roma: dagli augusti a papa Sisto V Tra il 1586 ed il 1589 papa Sisto V (Felice Peretti, 1585-1590) procedette con la operazione di recupero degli originali obelischi egiziani che gli imperatori romani avevano fatto trasportare ed innalzare a Roma e che allora giacevano in rovina, per re-innalzarli in luoghi giudicati di significato simbolico per la Chiesa romana particolarmente rilevante. Nel 1586, l’obelisco fatto trasportare da Ieropoli a Roma, via Alessandria, da Caligola (37-41) e poi posto da Nerone (54-68) al centro della spina del Circus Vaticanus, venne spostato di 2500 metri ca. perché assecondasse la nuova prospettiva della piazza antistante la basilica di San Pietro, frutto della sistemazione secondo il disegno dell’architetto Domenico Fontana. Nel 1587, l’obelisco fatto porre davanti al Mausoleo di Augusto da Vespasiano nell’anno 79 venne asportato e re-innalzato nella odierna piazza dell’Esquilino. Nel 1588 e nel 1589 toccò ai due obelischi posti sulla spina del Circus Maximus da Costanzo II nel 357 e da Augusto nel 10 a.C., essere recuperati e re-innalzati, rispettivamente, al centro della piazza antistante la basilica Lateranense, il primo, e il secondo al centro della odierna piazza del Popolo, anche se la sua definitiva sistemazione, col basamento e la fontana, appartengono al pontificato di Pio VI (1772-1799), altro pontefice particolarmente attivo nei confronti della operazione-obelischi (fece spostare nella odierna piazza Montecitorio l’altro obelisco fatto trasportare da Eliopoli da Augusto perché fosse innalzato nel Campo di Marte, come pure, nella piazza antistante il Palazzo del Quirinale, quello fatto portare a Roma da Vespasiano nell’anno 79)1.   Alle vicende degli obelischi egizi “romani” è dedicata una amplia, non ché variegata, bibliografia che data, almeno, come si vedrà più avanti, dalla stessa età sistina; per la quale si rimanda a Mercattili 2009 cui vanno aggiunti Curran 2009 e Sorek 2010.

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Si è già rilevato come le corse dei carri, fin dalla prima età imperiale, grazie ad un simbolismo del circo che arricchì l’originario insieme di riferimenti di àmbito agrario e riproduttivo propri della religione romana arcaica, impliciti nei ludi, con concetti di matrice solare e astrale, frutto del complesso processo di elaborazione compiuto dalla cultura romana dei culti orientali ed ellenistici, avessero assunto una funzione simbolica di metafora della aeternitas nella Vittoria in chiave di dominio assoluto sullo spazio e sul tempo, il circo stesso di uranoupolis e la pompa circensis di divorum concilium: al centro di tutto, si pongono l’Augusto e l’obelisco, divenuto da rappresentazione di pietra del raggio solare, simbolo più immediato ed efficace per rappresentare il rapporto privilegiato e “verticale” che lega il rex e pontifex maximus alla sfera del divino, per divenire veramente rector totius orbis e fatorum arbiter2. Termini stabiliti da Augusto nel 10 a.C., quando fece innalzare sulla spina del Circus Maximus un obelisco fatto provenire da Eliopoli (C.I.L. VI, 701), compiendo una scelta coerente di carattere politico e religioso (Soli donum dedit: Res gestae, XIX,1)3. Dopo di lui, Caligola e Nerone, altri Augusti avevano ripetuto la rituale operazione altamente simbolica facendo innalzare sulla spina di un circo il “proprio” obelisco: Elagabalo (218-222) su quella del Circus Varianus, Aureliano (270-275) su quella del circo adiacente al palatium degli Horti Sallustiani tra l’Esquilino ed il Pincio, Massenzio (306-312) su quella del circo della Villa lungo la via Appia, quest’ultimo, fatto re-innalzare da papa Innocenzo X (G. B. Panfili, 1644-1655), tra il 1648 ed il 1651, al centro della odierna piazza Navona nella sistemazione della fontana dei Quattro Fiumi del Bernini. Secondo uno studio del Grenier, l’obelisco, nei cui geroglifici si citano Domiziano (81-96) e la gens Flavia, venne fatto trasportare da Massenzio al centro del circo sulla via Appia dal complesso formato sul Quirinale dalla Domus gentis Flaviae e dalla Aedes gentis Flaviae, dove sanciva la glorificazione della continuità della gens Flavia al centro della aeternitas imperiale4. I geroglifici incisi sulle quattro facce del fusto dell’obelisco presentano un Domiziano sovrano dell’Egitto, re dell’Alto e del Basso Egitto, secondo la titolatura ufficiale faraonica quale risulta dal protocollo adottato ancora da Tolomeo Filadelfo (305-282 a.C.), Tolomeo Evergete I (246-222 a.C.) e Tolomeo Evergete II (145-116 a.C.), che, nuovo κοσμοκράτωρ, respinte le forze del χάος, regna in eterno. Le scene raffigurate nelle quattro facce del pyramidion dell’obelisco, la parte finale appuntita che era andata perduta e rinvenuta, in parte, nel 1650, attualmente conservata presso il Museo Gregoriano Egizio dei Musei Vaticani, mostrano Domiziano-faraone mentre, circondato dalle divinità, compie la corsa rituale che faceva parte dei riti di incoronazione, mentre riceve il simbolo   Su tutto ciò, Vespignani 2010, p. 67 ss., e quindi Vespignani 2018.   Sull’obelisco di Augusto del Circus Maximus, vd. la rassegna di fonti e bibliografia in Mercattili 2009, pp. 211-215. 4   Grenier 1999. 2 3

Gli obelischi di nuovo innalzati e la Chiesa “imperiale” romana

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dell’armonia divina Ma’at, quindi mentre riceve la corona del Basso e dell’Alto Egitto5. Costantino (306-337), intorno al 330, aveva ordinato di portare, via Alessandria, a Roma (o a Costantinopoli Nuova Roma?) l’obelisco che si trovava nel complesso del tempio di Amon-Ra di Karnak, presso Tebe, operazione portata a termine dal figlio e successore Costanzo II (337-361) intorno al 357, con l’innalzamento sulla spina del Circo Massimo accanto a quello di Augusto6. Possediamo la descrizione del trasporto e del monumento di Ammiano Marcellino (Res gest., XVII, 7: «est autem obeliscus asperrimus lapis in figuram metae cuiusdam sensim ad proceritatem consurgens excelsam, utque radium imitetur»), il quale si sofferma, in modo particolare, sui geroglifici (ivi, XVII, 7 e 4,13); al di là delle discrepanze che si riscontrano riguardo alla datazione della operazione (tra ivi, XVII, 4-13 e C.I.L., VI, 1163 e 31.249), al di là della reale destinazione del monumento e della importanza all’interno del quadro ideologico-politico nel quale inserire la politica edilizia di entrambi7, in questa sede va sottolineato il valore di legittimazione del ruolo di Roma nel segno della dinastia di Costanzo II, coerentemente con la sua politica di offrire al popolo costosi ludi 8. L’obelisco che Costantinopoli Nuova Roma aspettava lo ottenne tra il 390 ed il 391, quando Teodosio il Grande (379-395) fece trasportare da Eliopoli l’obelisco di Tuthmosis III (XV secolo a.C.), perché fosse innalzato sulla spina del Grande Ippodromo, contribuendo a sancire definitivamente, proprio nel luogo simbolicamente forte dell’Ippodromo, quel «contrat mystique liant l’empereur au peuple de la ville» (Dagron), completando il processo di reduplicazione magica da Roma a Costantinopoli Nuova Roma9. Non è qui necessario far coincidere l’insieme dei motivi iconografici rappresentati nei quattro pannelli della base con personaggi e con un avvenimento storico precisi: nel loro complesso, costituiscono uno σχῇμα βασιλικόν completo e coerente, la cui simmetria rispecchia quella della gerarchia tipica della regalità ellenistica e fatta propria da quella romana nel secolo IV, ed il cui insieme di motivi riprende la rappresentazione della aeternitas della Vittoria sul χάος del governo del male e dei nemici riportata dal βασιλεύς, quell’Augustus semper victor omnium gentium al centro del circo, cioè del cosmo, a garanzia della τάξις, l’ordine cosmico trascendente, nella βασιλεία dei Romani10.   Grenier 1987; Grenier 1999, pp. 226-228, e tavv. XLV-XLVII. Sui frammenti del pyramidion, vd. anche Del Moro 2000. 6   Per fonti e riferimenti toponomastici, cfr. Baviera 2012, pp. 421-445, in part. 437 ss. 7   Dibattito (Barnes, Fowden, Vitiello) riassunto in Henck 2001, in part. pp. 281-282, Mercattili 1999, pp. 233-239 e, infine, Liverani 2012. Forse tale “operazione obelisco” potrebbe complementare l’accurato repertorio redatto da Carile 2016. 8  «pieno di carri è l’Ippodromo per ogni vittoria e per ogni trionfo…»): Temistii EIΣ TON AYTOKPATOPA KΩNΣTANTINON H ΦIΛΟΠΟΛIΣ, 11, ed. Maisano 1995, pp. 251-252. 9   Dagron 1974, p. 311. 10   Vespignani 2010, pp. 163-182, quindi Vespignani 2016. 5

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Da notare qui come i rilievi inferiori della facciata sud-orientale del basamento mostrino scene della elevazione dell’obelisco – con tanto di macchinari – e del momento della sua inaugurazione11. Σχῇμα βασιλικόν figurativo che tornerà, con le poche modifiche del caso, nel bagaglio di immagini e simboli di un papato medievale in cerca di legittimazione “imperiale” raccolte e studiate da ultimo dal Paravicini Bagliani, nell’affresco della Loggia lateranense di cui si conserva anche copia in un codice del secolo XVII, dove il pontefice, ormai Augusto, è ritratto al centro di un pulvinar-baldacchino mentre, attorniato dai membri della curia e da uomini in arme, benedice una folla, nel registro inferiore, che compie inchini e gesti di devozione12, il tutto secondo un modello che non può essere che quello dei rilievi della base dell’obelisco di Teodosio; e, come Teodosio, proprio di fronte ad una Loggia delle benedizioni rinnovata Sisto V fece innalzare l’obelisco proveniente dalla spina del Circus Maximus. 2. La erezione degli obelischi nel programma urbanistico e ideologico-politico sistino Al di là della riscoperta degli obelischi egizi in pieno Cinquecento e del suo valore scientifico e collezionistico, la scelta di recuperarli e re-innalzarli da parte di Sisto V non è etichettabile come dettata da motivazioni ora devozionali (gli obelischi come colonne votive terminanti con una croce), ora «secolari» (sorta di miliari indicanti la via, come quello della odierna piazza del Popolo, principale entrata in città), di volta in volta distinguibili13, ma ben si inserisce in quella ideologia che il Carile, riferendosi alla città romano-orientale, ha studiato tra «spazio storico e spazio simbolico», cioè secondo uno stretto connubio di scelte monumentali e urbanistiche dettate – e non svincolabili – da motivazioni ideologico-politiche14, dove rientrano i concetti di evergetismo, di «uso della città» ai fini propagandistici e di scenografia del potere, tutti insieme nel segno di una renovatio urbis di marca pontificia secondo le modalità imperiali classiche, che si data nell’ultimo trentennio del Quattrocento, in una Roma che cominciava ad essere la nova civitas dei «dei papi re», nel suo divenire, nella pietra e nella ideologia, «teatro» sul mondo delle   Sulle fasi del trasporto dall’Egitto, vd. Effenberger 1996; Kiilerich 1998, p. 69 ss., quindi Wirsching 2007, p. 123 ss. 12   Vd. la miniatura del ms. della Biblioteca Ambrosiana di Milano F. inf. 227 (Immagini ossia pitture sacre e simboliche in Roma, sec. XVII), al f. 3r, riportata in Paravicini Bagliani 2005, fig. 33. 13  Così Simoncini 1990, pp. 133-136, per quanto riguarda la erezione degli obelischi, ma anche Cipriani 1993, p. 36 ss., ad es. 14   La terminologia e la lezione di metodologia sono esposte in Carile 1994a; Carile 1994b, pp. 75-102. 11

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ambizioni «imperiali» della monarchia pontificia15: non a caso, il progetto dello spostamento dell’obelisco Vaticano al centro della piazza antistante la basilica di San Pietro venne concepito – ed affidato ad Aristotele Fioravanti intorno al 1471 –16, durante il pontificato di Sisto IV (1471-1484), il primo papa che cercò di imporre un modello di Chiesa romana “imperiale” e universale attraverso un complesso ma coerente programma di renovatio Urbis e di imporlo grazie alla cura di cicli figurativi come quello dell’Ospedale di Santo Spirito in Sassia17. La “operazione-obelischi”, dunque, da un lato viene fissata nell’immaginario della età sistina grazie ad una reiterata esposizione nella pubblicistica contemporanea – dal saggio sugli obelischi di Roma pubblicato nel 1589 da Giuseppe Mercati18, alla cronaca dello stesso architetto Domenico Fontana (1590), responsabile, in particolare, dello spostamento dell’obelisco Vaticanus, nella quale si fa uso di una iconografia insistente sulla sacralità della scelta del progetto, in quanto manifestazione di volontà divina, mentre l’obelisco è innalzato nuovamente debitamente purificato dai demoni nascosti tra i geroglifici tramite preghiere ed esorcismi, e il cantiere di piazza San Pietro, con tutte le macchine e le fasi delle operazioni ben rappresentate, tra ingegneri e operai, appare benedetto dagli angeli19 –, nei cicli pittorici accuratamente confezionati del Palazzo Lateranense e della Biblioteca Vaticana20, nel complesso scultoreo del sepolcro del pontefice nella Cappella Sistina della basilica di Santa Maria Maggiore21, e nella medaglistica22.   Le espressioni sono tratte da Signorotto 2005 (con i riferimenti alle fonti letterarie), e i termini della questione sono discussi in Pellegrini 2010, pp. 7-25 in part. Sul concetto di monarchia papale, cfr. Prodi 1982, pp. 43, 96-97 e 111. 16   Oechslin 1976. 17   Vd. dai contributi compresi in Miglio et al. 1986, a Esch 2000. 18   De gli obelischi di Roma, di monsig. Michele Mercati protonot. apostolico, Roma 1589, seguito da Considerationi di monsig. Michele Mercati sopra gli auuertimenti del sig. Latino Latini intorno ad alcune cose scritte nel libro de gli obelischi di Roma…, Roma 1590. Una versione moderna: Michele Mercati, Gli obelischi di Roma, a cura di G. Cantelli, Bologna 1981. 19   Della trasportatione dell’obelisco vaticano et delle fabriche di nostro signore papa Sisto V. fatte dal cauallier Domenico Fontana architetto di sua santità, in Roma [Napoli] 1590 [1604], quindi Domenico Fontana, Della trasportatione dell’obelisco vaticano (1590), a cura di A. Carugo, Milano 1978, su cui cfr. Cipriani 1993, pp. 29 ss. Riproduzioni di stampe ed altre fonti d’epoca in Pittoni, Lautenberg 2002, in part. pp. 82 ss. per quanto riguarda lo spostamento dell’obelisco Vaticano. 20   Madonna 1993: agli obelischi sistini è dedicata la Sala degli obelischi nel Palazzo Lateranense (p. 106 ss.), ma l’obelisco Lateranense spicca anche nella Sala di Costantino (fig. 7, p. 8) e nel Salone Sistino della Biblioteca Vaticana (fig. 7, p. 82), come l’obelisco Vaticano (fig. 8, p. 8); tre obelischi fanno mostra di sé nel Salone Sistino del Palazzo delle terme di Villa Montalto (pp. 152 ss. e tavv. XX, XXI e XXIII). 21   Madonna 1993, opera di N. Pippi D’Arras e di altri: vd. in part. figg. 5, 6 e 10, pp. 375 ss., 380 e 385. 22   Madonna 1993, in part. gli esemplari, con relativa scheda, a cura di G. Alieri: nn. 7r (obelisco Vaticano, 1586), pp. 449 e 451; 13r (obelisco Vaticano, 1586-1587), p. 453; 22 r (obelisco Lateranense, 1589?), p. 458; 26r (quattro obelischi, 1590), p. 459. 15

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Dall’altro lato, si inserisce coerentemente nel quadro completo della attività di renovatio murorum nel quinquennio di pontificato sistino, segnato dalla risistemazione delle basiliche principali (Santa Maria Maggiore, San Pietro), dal progetto di costruzione di assi viarie rettilinee che dovevano tagliare il centro abitato, dal restauro dell’acquedotto, dalla costruzione di fontane, dalla valorizzazione delle colonne Traiana e di Marco Aurelio, dai lavori di sistemazione della Biblioteca Vaticana23. Proprio i cicli pittorici, tutti databili negli anni 1588-1589, divengono fonte preziosa per comprendere meglio la operazione-obelischi. Quello detto «dei concili ecumenici» del Salone Sistino della Biblioteca Vaticana e nelle sale ad esso attigue, presenta i primi otto concili: dal primo, Nicea I (325), dove Costantino assiste alle dispute seduto in trono, rivestito di ogni insigna regalia, ma con il capo voltato discretamente dalla parte opposta rispetto a quella dove si trovano i Padri, all’ultimo, quello di Firenze (1439), sul lato sud della seconda camera di passaggio, opera di Paolo Guidotti (1560 ca.-1629). dove il basileus Giovanni VIII Paleologo (14231448) appare seduto in uno scranno, come lontano, quasi che tutta l’importanza si sia voluta dare al braccio destro alzato nel gesto di indicare, come ad approvandola, la comunione impartita dal pontefice Eugenio IV ai suoi connazionali Greci, assieme agli Etiopi ed agli Armeni, a rappresentare la loro decisione di sottomettersi alla autorità della Chiesa romana (o piuttosto, il futuro rifiuto deciso dalla Chiesa ortodossa alla Unione con la Chiesa latina?)24, si tratta di rappresentazioni simboliche atte a falsare realtà e cronologia allo scopo di presentare gli Augusti seduti tra i Padri conciliari ma in disparte, per sottolineare il fatto che il potere temporale e civile non si mischiava in questioni ecclesiologiche25. Gli affreschi delle sale del Palazzo Lateranense arricchiscono l’analisi di questo programma iconografico per ciò che qui interessa. Nella Sala detta “degli imperatori”, spicca l’affresco intitolato Gli imperatori adorano la Chiesa, dove una serie di Augusti, vestiti di una semplice tunica, si genuflettono davanti alla Chiesa; nella Sala detta “di Costantino”, l’imperatore è ritratto in varie scene tratte dalla sua vita (la vita scritta da Eusebio), tutte didascaliche della sua particolare devozione verso la Chiesa – Costantino vede In hoc signo vinces prima della battaglia del ponte Milvio, Costantino riceve il battesimo, la donatio –, e verso il pontefice, in particolar modo nel ciclo di immagini tratte dagli Acta Sylvestri, la cui tradizione risale almeno al secolo XIII, se ci si attiene all’esempio del ciclo musivo dell’Oratorio di S. Silvestro della basilica dei Santi Quattro Coronati, tra le quali Costantino che conduce il papa a cavallo, dove il livello di superiorità tenuto dalla figura del pontefice rispetto   Un quadro generale in Gargano 2002, con la bibliografia precedente, ma per un repertorio completo degli interventi urbanistici sistini si cfr. Simoncini 2008, con tutti i riferimenti alle fonti. Gli obelischi cominciano a conquistarsi spazio anche nelle guide di Roma per lettori colti e viaggiatori: Cerutti Fusco 2011, in part. pp. 195 ss. 24  Cfr. Bernabò 2009, p. 131 e fig. 5. 25  Vd. Bock 1992, Zuccari 1993, in part. p. 73. 23

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a quella dell’Augusto, appare evidente attraverso la costruzione della scena e la postura dei personaggi. Nel complesso, il programma propagandistico che i cicli degli affreschi dei concili, degli imperatori e di Costantino è conseguenza del momento difficile in cui si dibatte la Chiesa romana nell’età di Sisto V, impegnata su più fronti nelle temperie tra Riforma e Controriforma, a cominciare dalle dispute contro Elisabetta I di Inghilterra, Enrico III di Francia e Filippo II; si propongono per tanto di indicare come valore assoluto per vincere la debolezza e lo sconcerto di quella contemporanea26, una forza ideale della Chiesa romana presente nei concili dei secoli della tarda Antichità, frutto di una mitica unità primitiva, quando non esistevano divisioni e contrasti tra pontefice e imperatore, anzi, l’Augusto era il braccio destro del pontefice accettandone il primato spirituale, ecclesiologico e anche civile, assumendo per sé il ruolo di defensor ecclesiae. 3. La renovatio Urbis sistina e Costantino La Chiesa romana di Sisto V persegue una renovatio verso una «età dell’oro» proponendo un primato spirituale ed ecclesiologico, ma anche temporale e civile, assoluto, del quale è esemplare la renovatio Urbis che toccò Roma – la Roma Felix sistina –, programma coerente di trasformazioni urbanistiche ed edilizie che riconduce direttamente ad altri propri degli Augusti romani grandi costruttori ed iniziatori di una nuova «età dell’oro» che legarono la propria memoria anche alla erezione di un obelisco. In questo senso, Sisto V è un nuovo Costantino, giusta la iscrizione posta sulla base dell’obelisco lateranense: CONSTANTINUS / PER CRUCEM / VICTOR  / A SYLVESTRO  / HIC BAPTIZATUS  / CRUCIS GLORIAM  / PROPAGAVIT. Nel processo che si è definito di “cattolicizzazione urbanistica” di Roma la erezione dell’obelisco di Constanzo II ebbe dunque una speciale importanza anche in quanto simbolo del “revival costantiniano” proprio dei pontificati di Gregorio XIII (1572-1585), Sisto V e Clemente VIII (1592-1605). Si può affermare che gli affreschi di Raffaello in Vaticano basati sulla Vita Silvestri e la Donatio Constantini rappresentino solo il prodromo dei numerosi richiami alla memoria di Costantino dopo Trento. Delle molteplici rappresentazioni costantiniane con Gregorio XIII si possono ricordare la riforma che condusse nel battistero del Laterano (1575) con il battesimo romano dell’imperatore, l’officium stratoris con Silvestro e la visione della croce. Precisamente, fu davanti al battistero dove, secondo la leggenda silvestrina, l’imperatore era stato battezzato, il luogo che per secoli era stato occupato dalla sta  Su tutti questi aspetti in part., tra i tanti sul periodo della storia della Chiesa preso in esame, il contributo più esaustivo ci pare quello di Venard 2001. Sui rapporti con Filippo II in part., vd. García Hernán 1994. Sulla politica di Sisto V in generale, vd. anche Giordano 2000.

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tue di Marco Aurelio, presumibilmente di Costantino, spostata secondo il progetto di Michelangelo sul Campidoglio nel 1538, dove Sisto V ordinò di elevare l’obelisco con la citata iscrizione. Lo stesso papa fece riprodurre la leggenda in altre due luoghi: nella Loggia delle Benedizioni del Palazzo lateranense e nella denominata Sala di Costantino. Qui appare, ancora una volta l’officium stratoris esercitato dall’imperatore, mentre il papa appare seduto sul cavallo bianco, la tiara sul capo e, sotto, la legenda che recita: Imperator Flavius Constantinus Maximum Christum Dominum in eius vicario agnoscens santum Sylvestrum in equo sedentem deducit. Poco dopo, nel 1597, Clemente VIII fece riprodurre di nuovo la leggenda di Silvestro negli affreschi della basilica del Laterano effettuati all’interno del programma di restauri previsti per l’imminente anno giubilare27. Il protagonismo di Costantino si era manifestato precedentemente in occasione di alcuni dei più importanti fatti politici del secolo XVI. Vanno ricordati i fasti della incoronazione di Carlo V a Bologna il 24 febbraio 1530 con Clemente VII. Il primo arco di trionfo che segnava il punto di partenza della grande sfilata era decorato con due colonne sulle quali svettavano le statue di Costantino e Carlo Magno28. Il fregio era adornato con tre scene della vita di Costantino riproducenti quelle degli affreschi della Sala di Costantino nel Palazzo Vaticano iniziati da Raffaello e terminati da Giulio Romano: la apparizione del in hoc signo vinces nel pieno della battaglia del Ponte Milvio, una scena della stessa guerra nella quale l’imperatore mise in fuga i nemici inalberando il labaro e il battesimo per mano di Silvestro, al quale Costantino offre lo scettro e la corona. Il messaggio lanciato da Clemente VII pretendeva indicare all’imperatore il cammino da seguire nelle relazioni con il papato e la cristianità29. La figura di Costantino non rimase assente neanche nel programma di commemorazioni durante il papato di Pio V (1566-1572) di quella che si volle considerare una grande vittoria militare della Cristianità sull’impero Ottomano, la battaglia di Lepanto (1571). Già prima della partenza verso il campo di battaglia, Giovanni d’Austria, in quanto comandante della flotta, ricevette dalle mani del papa uno stendardo con la iscrizione in hoc signo vinces. Al ritorno, gli venne concesso lo stesso onore che papa Paolo III nel 1536 aveva concesso a suo padre, Carlo V, cioè poter sfilare sotto l’arco di Costantino vicino al Colosseo. Le immagini con le quali si esaltò la “Crociata” per celebrare la vittoria sul Turco evocavano in tutto e per tutto Costantino: Lepanto venne vista come la occasione per riconquistare la città di Costantinopoli fondata da Costantino e per ricomporre la unità del mondo cristiano spezzata dai Turchi e dalla Riforma. Ma le circostanze erano cambiate: il corteo trionfale di Carlo V nel 1536 era stato visto come un richiamo all’equilibrio papato-impero; con Pio V,   Sulla importanza della leggenda costantiniana in questa epoca, cfr. Motta 2013, p. 120; Teja, 2017, con ulteriore bibliografia. 28   Vd. fonti, discussione e bibliografia in Righi 2000 e Sassu 2007. 29  Vd. Biasiori 2013, p. 19; Teja 2017, con ulteriore bibliografia. 27

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invece, l’arco venne adornato con una iscrizione che sottolineava quanto la posizione di Costantino, ed il successo della vittoria, spettassero ora esclusivamente al papa: PRIMUS ROMANORUM IMPERATORUM CRUCIS VEXILLO USUS  / CUM ACERRIMIS CHRISTIANI NOMINIS HASTIBUS  / FELICISSIME CERTAVIT ET PRIMUS ROMANORUM PONTIFICUM PIUS V EODEM SALUTARE SIGNO FULTUS  / VICTORIAM CONTRA MAXIMAM TURCARUM CLASSEM  / CONSECUTUS EST LAETISSIMAM, dove il papato si autorappresenta come l’autentico erede di Costantino e della Roma costantiniana30. Come già scritto, fu durante il secolo XVI che, nel mezzo del movimento umanistico e della Riforma protestante, da un lato, e della Controriforma, dall’altro, la figura di Costantino occupò il centro dei dibattiti religiosi e politici: la «questione costantiniana» era inseparabile da temi di tanto lunga tradizione quali le relazioni Chiesa-Stato e la istituzione del papato31. Bibliografia Baviera 2012 = Ch. Baviera, Regio XI Circus Maximus, in A. Carandini (a cura), Atlante di Roma antica. Biografia e ritratti della città, I. Testi e immagini, II. Tavole e Indici, Milano 2012. Bernabò 2009 = M. Bernabò, From Nationalism to Iconomania: Byzantine Art History, Renaissance, Counter-Reformation and Twentieth-Century Ideologies, in «Bizantinistica. Rivista di Studi Bizantini e Slavi» S. 2, 11, 2009, pp. 125-144. Biasiori 2013 = L. Biasiori, Costantino e i re della prima età moderna (14931705). Imperatore cristiano o re sacerdote? in Costantino I. Enciclopedia costantiniana sulla figura e l’immagine dell’imperatore del cosiddetto Editto di Milano, 313-2103, III, Roma 2013, pp. 17-30. Bock 1992 = A. Bock, Gli affreschi Sistini della Sala di lettura della Biblioteca Vaticana, in M. Fagiolo, M.L. Madonna (a cura), Sisto V, I, Roma e il Lazio, Roma 1992, pp. 693-716. Carile 1994a = A. Carile, La città bizantina fra spazio storico e spazio simbolico, in ΣYNΔEΣMOΣ. Studi in onore di Rosario Anastasi, II, Catania 1994, pp. 33-39. Carile 1994b = A. Carile, Materiali di storia bizantina, Bologna, 1994. Carile 2016 = M.C. Carile, Metafore di luce nella architettura e nel decoro da Costantino a Costanzo II, in T. Canella (a c.), L’impero costantiniano e i luoghi sacri, Bologna 2016, pp. 461-483. Cerutti Fusco 2011 = A. Cerutti Fusco, Roma moderna descritta e rappresentata nelle guide del Cinquecento: itinerari e paesaggi urbani, in G. Simoncini   Biasiori 2013, p. 20.   Cfr. da Teja 2006, pp. 63 ss., a Teja, 2017, con ulteriore bibliografia.

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(a c.), Roma. Le trasformazioni urbane nel Cinquecento, II. Dalla città al territorio, Firenze 2011, pp. 159-219. Cipriani 1993 = G. Cipriani, Gli obelischi egizi. Politica e cultura nella Roma barocca, Firenze, 1993. Curran 2009 = B.A. Curran, Obelisk, A History, Cambridge (Mass.) 2009. Dagron 1974 = G. Dagron, Naissance d’une capitale. Constantinople et ses institutions de 330 à 451, Paris 1974 (Bibliothèque byzantine. Études, 7). Del Moro 2000 = M.P. Del Moro, scheda n. 21, in Aurea Roma. Dalla città pagana alla città cristiana, Roma 2000, pp. 437-438. Effenberger 1996 = A. Effenberger, Überlegungen zur Aufstellung des Theodosius-Obelisken im Hippodrom von Konstantinopel, in B. Brenk (hrsg.), Innovation in der Spätantike, Wiesbaden 1996, pp. 207-283. Esch 2000 = A. Esch, Immagine di Roma tra realtà religiosa e dimensione politica nel Quattro e Cinquecento, in L. Fiorani, A. Prosperi (a cura), Roma, la città del papa, Torino 2000, pp. 5-29. García Hernán 1994 = E. García Hernán, La Curia romana, Felipe II y Sixto V, in «Hispania Sacra» 46, 1994, pp. 631-649. Gargano 2002 = M. Gargano, L’invenzione dello spazio urbano, in G. Ciucci (a cura), Roma moderna, Roma-Bari 2002, pp. 217-244. Giordano 2000 = S. Giordano, Sisto V, in Enciclopedia dei papi, III, Roma 2000, pp. 201-222, Grenier 1987 = J.-C. Grenier, Les inscriptions hiéroglyphiques de l’obélisque Pamphili: un témoignage méconnu sur l’évènement de Domitien, in «Melanges de l’École Française de Rome. Antiquité» 99, 1987, pp. 937-961. Grenier 1999 = J.-C. Grenier, L’obelisco, in G. Ioppolo, G. Pisani Sartorio et al. (a c.), La Villa di Massenzio sulla via Appia. Il Circo, Roma 1999 (Istituto di Studi Romani. I monumenti romani, 9), pp. 225-231. Henck 2001 = N. Henck, Constantius ό Φιλοκτίστης?, in «Dumbarton Oaks Papers» 55, 2001, pp. 279-304. Kiilerich 1998 = B. Kiilerich, The Obelisk Base in Constantinople: Court Art and Imperial Ideology, Roma 1998 (Institutum Romanum Norvegiae. Acta ad archaeologiam et artium historiam pertinentia. Series Altera, 10). Liverani 2012 = P. Liverani, Costanzo II e l’obelisco del Circo Massimo a Roma, in Ch. Thiers (a c.), Et in Aegypto et ad Aegyptum. Recueil d’études dédiées à Jean-Claude Grenier, Montpellier 2012, pp. 471-487. Madonna 1993 = M. L. Madonna (a c.), Roma di Sisto IV. Le arti, la cultura, Roma, 1993. Maisano 1995 = R. Maisano, Temistio. I discorsi, Torino 1995. Mercattili 2009 = F. Mercattili, Circo Massimo. Architetture, funzioni, culti, ideologia, Roma 2009 (Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma, Supplementi, 19).

Gli obelischi di nuovo innalzati e la Chiesa “imperiale” romana

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Miglio et al. 1986 = M. Miglio et al. (a c.), Un pontificato ed una città. Sisto IV (1471-1484). Atti del Convegno (Roma, 3-7 dicembre 1984), Città del Vaticano 1986. Motta 2013 = F. Motta, Costantino e la teologia “romana”. Figure della gerarchia dei poteri nella pubblicistica di parte papale (secoli XV-XVIII), in Costantino I. Enciclopedia costantiniana sulla figura e l’immagine dell’imperatore del cosiddetto Editto di Milano, 313-2013, III, Roma 2013, pp. 115-132. Oechslin 1976 = W. Oechslin, La fama di Aristotele Fioravanti, ingegnere e architetto, in Aristotele Fioravanti a Mosca (1475-1975), Atti del Congresso sugli architetti italiani del Rinascimento in Russia, promosso dalla Università di Bologna e dall’Istituto per la Storia dell’Arte Lombarda (Varenna, Milano, Bologna, 4-8 ottobre 1975), «Arte Lombarda. Rivista di Storia dell’Arte» n.s., 44-45, 1976, pp. 106-108. Paravicini Bagliani 2005 = A. Paravicini Bagliani, Le chiavi e la Tiara. Immagini e simboli del papato medievale, nuova ed. riveduta e aggiornata, Roma 2005. Pellegrini 2010 = M. Pellegrini, Il papato nel Rinascimento, Bologna 2010. Pittoni, Lautenberg 2002 = L. Pittoni, G. Lautenberg, Roma Felix. La città di Sisto V e Domenico Fontana, Roma 2002. Prodi 1982 = P. Prodi, Il sovrano pontefice, Bologna, 1982 (20072 e 20163). Righi 2000 = R. Righi (a c.), Carlo V a Bologna (1530). Cronache e documenti della incoronazione, Prefazione di E. Pasquini, con un saggio storico-critico di G. Sassu, Bologna 2000. Sassu 2007 = G. Sassu, Il ferro e l’oro. Carlo V a Bologna (1529-1530), Bologna 2007. Signorotto 2005 = G. Signorotto, Roma nel Rinascimento, in M. Fantoni (a c.), Il Rinascimento italiano e l’Europa, I, Storia e storiografia, Vicenza 2005, pp. 331-354. Simoncini 1990 = G. Simoncini, «Roma ritrovata». Rinnovamento urbano al tempo di Sisto V, Firenze 1990. Simoncini 2008 = G. Simoncini, Roma. Le trasformazioni urbane nel Cinquecento, I. Topografia e urbanistica da Giulio II a Clemente VIII, Firenze 2008. Sorek 2010 = S. Sorek, The Emperors’ Needles. Egyptian Obelisks and Rome, Exter 2010. Teja 2006 = R. Teja, El poder de la Iglesia Imperial: el mito de Constantino y el Papado romano, in «Studia Storica. Historia Antigua» 24, 2006, pp. 63-81. Teja 2017 = R. Teja, Auctoridad e Institución: visibilidad y ejercicio del poder del obispo en la sociedad tardoantigua (siglos II-IV), in F. Salvador Ventura, P. Castillo Maldonado, P. Ubric Rabaneda, A.J. Quiroga Puertas (a c.), Autoridad y autoridades de la iglesia antigua. Homenaje al profesor José Feranánedez Ubiña, Granada 2017, pp. 1-51.

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Ramón Teja, Giorgio Vespignani

Venard 2001 = M. Venard, La chiesa cattolica, in J.-M. Mayeur, Ch. e L. Pietri, A. Vauchez, M. Venard (dir.) Storia del Cristianesimo. Religione, politica, cultura, ed. it. a cura di G. Alberigo: VIII, M. Venard (a c.), Il tempo delle confessioni (1530-1620/30), ed. it. a cura di L. Mezzadri, Roma 2001, pp. 217-266. Vespignani 2010 = G. Vespignani, IΠΠOΔPOMOΣ. Il Circo di Costantinopoli Nuova Roma, dalla realtà alla storiografia, Spoleto 2010 (Quaderni di Bizantinistica, 14). Vespignani 2016 = G. Vespignani, Il «Princeps» ai «ludi»: vittoria eterna del bene sul Male, in J. García Cardiel, S. Montero (ed.), Los Dioses y el problema del Mal en el mundo antiguo, Sevilla 2016, pp. 257-266. Vespignani 2018 = Vespignani, I «ludi» pubblici nell’Oriente bizantino, in Il gioco nella società e nella cultura dell’alto Medioevo, Atti della LXV Settimana di studio sull’alto Medioevo (Spoleto, 20-26 aprile 2017), 2018, pp. 493-530. Wirsching 2007 = A. Wirsching, Obelisken transportieren und aufrichten in Ägypten und Rom, Norderstedt 2007. Zuccari 1993 = A. Zuccari, La Biblioteca Vaticana e i pittori Sistini, in M.L. Madonna (a c.), Roma di Sisto V. Le arti e la cultura, Roma 1993, pp. 59-76.

AUTORI

Cesare Alzati, già ordinario di Storia del cristianesimo e delle Chiese nell’Università di Pisa e nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è membro dell’Accademia Romena (Bucarest) e dr. h. c. dell’Università di Cluj. Antonio Cacciari insegna Letteratura cristiana antica e Filologia ed Esegesi neotestamentaria presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca vertono sulla Bibbia greca dei LXX, sulla letteratura neotestamentaria e protocristiana, sull’apologetica greca, sulla letteratura cristiana alessandrina, con particolare riferimento a Origene, su Agostino. Luigi Canetti, professore ordinario di Storia del cristianesimo e delle Chiese nell’Università di Bologna (Campus di Ravenna), si occupa principalmente di culto dei santi in epoca tardoantica e medievale intersecando la storia delle immagini, la storia culturale del corpo, della malattia e del sogno e l’antropologia storica dei rituali di guarigione e di possessione. Glauco Maria Cantarella, professore ordinario di I fascia, in pensione, dell’Università di Bologna, ha insegnato Storia dell’Emilia Romagna nel medioevo, Storia del pensiero politico medievale, Storia medievale, Storia dell’Europa medievale, e ricoperto diversi incarichi istituzionali. Membro del Consiglio scientifico dell’ISIME (Roma), del Consiglio direttivo della Fondazione del Centro di Studi Leon Battista Alberti (Mantova); dei Comitati scientifici di riviste in Italia, Europa, Argentina. Premio Borghese 2019 per Gregorio VII (Roma 2108).

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Antonio Carile è professore emerito dell’Università di Bologna e professore honoris causa dell’Università Statale Lomonosov di Mosca. Titolare della Cattedra di Storia bizantina presso l’Ateneo di Bologna dal 1976 al 2010, prima presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, quindi, dal 1996, presso la Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali (sede di Ravenna), ha servito l’Alma Mater Studiorum anche nella sua amministrazione, nella organizzazione culturale e degli studi; in particolar modo, ha ricoperto, tra i numerosi altri, gli incarichi di Preside delle Facoltà di Lettere e Filosofia (1989-1996) e di Conservazione dei Beni Culturali (1996-2001). È autore di oltre trecento pubblicazioni scientifiche. Martina Caroli, dottore di ricerca, ha incentrato le sue ricerche sul mondo carolingio, con particolare attenzione all’uso politico delle traslazioni reliquiali e alla tradizione manoscritta, e sui santuari cristiani in Emilia Romagna, dal medioevo all’età contemporanea. Attualmente lavora presso la Biblioteca Universitaria di Bologna. Angelica Carpifave è studiosa di storia, cultura e spiritualità russa. Ha diretto l’Istituto Italiano di Cultura di Mosca e ha costituito la Fondazione Culturale Helikon Onlus, con sede a Roma, che ha realizzato importanti scambi culturali tra l’Italia e la Russia. Tiene seminari di Storia della Chiesa e della spiritualità ortodossa russa all’Università di Bologna e di Storia della cultura e della spiritualità russa all’Accademia teologica di Mosca. È professore honoris causa dell’Università Statale Culturale di Mosca e visiting professor di alcune fra le più prestigiose università estere. Evangelos Chrysos is emeritus professor of Byzantine History at the University of Athens. Salvatore Cosentino è professore di Civiltà bizantina all’Università di Bologna. Le sue ricerche si concentrano sulla storia sociale ed economica della tarda antichità e della prima età bizantina, con una speciale attenzione all’Italia. Si interessa anche alla storia e archeologia delle isole del Mediterraneo medievale, come anche di epigrafia bizantina’ Davide Dainese, ricercatore di Storia del cristianesimo e delle Chiese presso l’Università di Bologna, si occupa prevalentemente di cristianesimo d’epoca patristica (storia dell’esegesi, gnosticismo e tradizione alessandrina in specie) e di alcune tematiche d’ampio raggio diacronico (storia conciliare, teologia politica, uso dei Padri della Chiesa in età moderna e contemporanea, guerre di religione). Chiara Faraggiana di Sarzana insegna Lingua e letteratura greca di età bizantina all’Università di Bologna. Le sue ricerche si sono indirizzate in particolare su autori di età tardoantica e sulla decifrazione di scritture abrase di codici palinsesti. Collabora da molti anni con la Patristische Kommission della Akademie der Wissen-

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schaften zu Göttingen per lo studio della tradizione manoscritta greca degli scritti dei padri del deserto. Francesca Fiori è dottore di ricerca in Storia bizantina presso l’Università di Bologna e si occupa dei ceti dirigenti dell’Italia bizantina con particolare attenzione alle fonti epigrafiche. Ha studiato, inoltre, i rapporti fra Venezia e l’Impero Romano Orientale attraverso la cronachistica veneziana. Giovanni Gardini insegna iconografia e archeologia cristiana agli Istituti Superiori di Scienze Religiose di Forlì, Rimini e Firenze. Per la Diocesi di Faenza-Modigliana ricopre gli incarichi di vice-direttore del Museo G. Battaglia e di vice-bibliotecario della Biblioteca Card. G. Cicognani. Marco Giardini ha ottenuto il dottorato di ricerca in Storia medievale presso l’Università di Milano nel 2011. I suoi principali interessi di ricerca riguardano le attese escatologiche e apocalittiche fra medioevo e prima età moderna, con particolare riferimento ai loro sviluppi leggendari e letterari. Fra le sue pubblicazioni, la monografia Figure del regno nascosto: Le leggende del Prete Gianni e delle dieci tribù perdute d’Israele fra Medioevo e prima età moderna (Firenze 2016). È attualmente post-dottorando presso l’École Pratique des Hautes Études di Parigi - sezione di Scienze religiose. Chryssa Maltezou è membro dell’Accademia di Atene, professore emerita dell’Università di Atene, ex direttore dell’Istituto Ellenico di Studi Bizantini e Postbizantini di Venezia. Nel suo campo di ricerca entrano i problemi dell’installazione dei Latini nelle regioni greche dopo la quarta crociata e in particolare le relazioni tra i Veneziani e la popolazione greca. Ha pubblicato più di 150 studi sulla storia dei Greci durante il periodo della venetocrazia. È stata insignita con la Croce d’Oro del Grande Ordine d’Onore dal Presidente della Repubblica Ellenica per la sua attività scientifica. Flavia Manservigi ha conseguito il dottorato di ricerca in Culture letterarie, filologiche e storiche presso l’Università di Bologna. È il Delegato per l’Italia settentrionale del Centro Internazionale di Studi sulla Sindone, e insegna Storia della Sindone nell’ambito del Diploma di specializzazione in studi sindonici in lingua inglese presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma. È componente del Centro RAM (Ricerche e Analisi Manoscritti) dell’Università di Bologna. Dal 2015 lavora al Museo della Città di Bologna, dove è coordinatrice del Centro Studi Sara Valesio, del Centro Studi sul Rinascimento e della Segreteria organizzativa del Festival della Scienza medica. Angela Maria Mazzanti insegna Storia delle religioni presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca sono rivolti

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all’indagine, secondo la metodologia storico-comparativa, di tematiche antropologiche e teologiche in ambiti filosofici e religiosi del periodo concomitante con gli inizi dell’era cristiana. Ha pubblicato numerosi studi sul giudaismo della diaspora e, in particolare, su Filone di Alessandria. Umberto Mazzone è docente di Storia delle Chiese e dei movimenti religiosi all’Università di Bologna. Si interessa all’età della Riforma e della Controriforma e alle problematiche della vita religiosa in età moderna. Si dedica anche a studi sulle relazioni tra Chiese e guerra nel Novecento. Fa parte del collegio del Corso di dottorato in Storie, culture e politiche del globale attivo presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna. Ha svolto attività didattica e di ricerca in Università e Istituzioni in Austria, Germania, Repubblica di Macedonia e Stati Uniti. Francesco Moratelli, laureato triennale in Lettere classiche presso l’Università di Bologna, sta attualmente terminando il corso di laurea magistrale in Relazioni internazionali comparate presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Da settembre 2018 svolge attività di ricerca per la preparazione della tesi presso l’Università Statale di Tbilisi (Georgia). I suoi interessi riguardano principalmente l’armenistica e le relazioni armeno-georgiane. Ines Angeli Murzaku is Professor of Ecclesiastical History and Director of the Catholic Studies Program at Seton Hall University (New Jersey, USA), where she teaches courses on Church history, theology, monasticism and ecumenism. Her research has been published in multiple articles and seven authored or co-authored books, the most recent Life of St Neilos of Rossano (Harvard University Press 2018) and Greek Monasticism in Southern Italy: The Life of Neilos in Context (Routledge 2018). Prof. Murzaku has won Alexander von Humboldt Research Fellowship for Experienced Researchers; Social Sciences and Humanities Research Council of Canada Grant (SSHRC); and has been selected three times for Fulbright Senior Research Scholar. She is a regular contributor and commentator to media outlets on religious matters including the Associated Press, CNN, National Catholic Register, Catholic World Report, Voice of America, Relevant Radio, The Catholic Thing, Crux, and others. Nicola Naccari è dottore di ricerca in Studi sul Patrimonio culturale presso l’Università di Bologna. I suoi studi si sono incentrati sull’ecclesiologia medievale e sulle relazioni fra Latini e Greci tra XI e XIII secolo, con particolare attenzione allo scontro del 1054, alla storia della Pentarchia e ai tentativi di affermare il primato papale nelle Chiese d’Oriente. Valerio Neri, già ordinario di Storia romana nell’Università di Bologna, ora professore dell’Alma Mater, si occupa prevalentemente di Tarda Antichità sotto varie

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prospettive, dalla storiografia alla storia sociale e culturale, alle interazioni fra cristianesimo e cultura classica, ai rapporti fra diritto romano e società. Ha pubblicato cinque monografie, tra cui si possono menzionare I marginali nell’Occidente tardoantico e La bellezza del corpo nella società tardoantica, e una settantina di articoli. Alba Maria Orselli, già ordinario di Storia del cristianesimo antico nell’Università di Bologna (sedi di Bologna e di Ravenna), ha orientato e continua ad orientare la propria produzione scientifica secondo le seguenti linee di ricerca: i processi di cristianizzazione della città tardoantica (l’istituzione episcopale e il ruolo del vescovo, l’organizzazione e sacralizzazione degli spazi, i culti dei santi civici e il loro patrimonio agiografico); le dinamiche evolutive del monachesimo tardoantico e altomedievale, latinofono ed ellenofono (secoli IV-XI); la formazione nella società cristiana tardoantica dei sistemi comunicativi, con particolare attenzione ai sistemi simbolici. Riccardo Pane è armenista e caucasologo, e si è occupato soprattutto di teologia ed esegesi nella tradizione armena. Ha tenuto corsi di patrologia, agiografia, storia dell’esegesi e lingue classiche in diverse istituzioni accademiche. Lorenzo Perrone ha insegnato Letteratura cristiana antica presso le università di Pisa e di Bologna. I suoi studi vertono sulla storia della Terrasanta e del monachesimo palestinese in età bizantina, sulla storia dell’esegesi e della teologia patristiche con particolare riguardo a Origene e la tradizione alessandrina. Francesco Pieri insegna Storia della Chiesa antica e Teologia patristica presso la Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Storia della liturgia antica presso l’Istituto di Liturgia Pastorale, presso l’abbazia di Santa Giustina (Padova). Si è particolarmente interessato di Origene, con speciale riguardo alla tradizione latina delle sue opere esegetiche, di Girolamo come esegeta e traduttore, nonché delle tematiche legate alla ritualità protocrisitana e alla ricezione in Occidente della Bibbia divenuta “cristiana”. Margherita Elena Pomero è dal 2014 assegnista di ricerca in Civiltà bizantina presso il Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna. Nel 2011 ha partecipato, come doctoral fellow, al Byzantine Numismatics and Sigillography Summer Program organizzato dal Dumbarton Oaks Center for Byzantine Studies (Washington D.C.) e nel 2012 ha ottenuto il titolo di dottore di ricerca in Bisanzio ed Eurasia presso l’Università di Bologna. La sua attività di ricerca è incentrata sulla storia sociale e l’ideologia politica del periodo tardo-bizantino con particolare attenzione alla numismatica e alla sigillografia, nonché all’iconografia e al cerimoniale di corte di età paleologa. Paola Porta insegna Archeologia e Storia dell’Arte del medioevo europeo nell’Ateneo bolognese. Al momento la sua principale attività di ricerca è volta al censimento

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e allo studio di materiali lapidei poco o mal noti di età compresa tra tarda antichità e medioevo dispersi in edifici di culto urbani e rurali del Norditalia. Fabio Ruggiero (Parigi 1959) collabora stabilmente con la Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (FTER) ed è membro del Gruppo Italiano di Ricerca su Origene e la Tradizione Alessandrina (GIROTA). Studioso di letteratura e filologia patristica, i suoi interessi ruotano principalmente attorno al rapporto tra cristianesimo e società e alla letteratura agiografica. Raffaele Savigni insegna Storia medievale e Storia del cristianesimo e delle chiese nell’Università di Bologna. La sua attività di ricerca è incentrata sulla storia della Chiesa medievale, delle sue istituzioni e della loro autocoscienza, con particolare attenzione all’ecclesiologia e al lessico politico-religioso. Anna Sirinian insegna Lingua e letteratura armena nell’ Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca sono rivolti in particolare alla letteratura armena antica e medievale, alle antiche traduzioni armene dal greco, ai manoscritti armeni e alla storia della presenza armena in Italia. Ramón Teja è professore emerito presso l’Università di Cantabria (sede di Santander), professore honoris causa dell’Università di Bologna, membro della Real Académia de Historia di Spagna, è studioso di Storia romana come di Storia del cristianesimo antico, ha edito e tradotto per la prima volta in spagnolo fonti di letteratura cristiana antica. Giorgio Vespignani è docente di Civiltà bizantina presso l’Università di Bologna, studia l’ideologia politica romano-orientale (secoli IV-XV) attraverso le espressioni del cerimoniale e il lascito nella formazione della ideologia politica veneziana medievale e dei territori altoadriatici.

TABULA GRATULATORIA

Alzati Cesare Assorati Giovanni Cacciari Antonio Canetti Luigi Cantarella Glauco Maria Carile Antonio Caroli Martina Carpifave Angelica Chrysos Evangelos Cosentino Salvatore Dainese Davide De Matteis Maria Consiglia Faraggiana di Sarzana Chiara Fiori Francesca Galetti Paola Gardini Giovanni Giardini Marco Lucchesi Mauro Lupi Maria Maltezou Chryssa Marcheselli Maurizio Mascanzoni Leardo Mazzanti Angela Maria Mazzone Umberto

Monservigi Flavia Moratelli Francesco Murzaku Ines Angeli Naccari Nicola Neri Camillo Neri Valerio Orselli Alba Maria Pane Riccardo Paolini Lorenzo Parmeggiani Riccardo Perrone Lorenzo Pieri Francesco Pio Berardo Pomero Margherita Elena Porta Paola Ruggiero Fabio Savigni Raffaele Sirinian Anna Teja Ramón Vespignani Giorgio Arcidiocesi di Bologna Arcidiocesi di Ravenna-Cervia

Collana DiSCi

Studi antropologici, orientali, storico-religiosi 1. Angela Maria Mazzanti, a cura di, Crisi e rinnovamento tra mondo classico e cristianesimo antico, 2015 2. Omar Bortolazzi, edited by, Youth Networks, Civil Society and Social Entrepreneurship. Case Studies in Post-Revolutionary Arab World, 2015 3. Davide Domenici, Il senso delle cose. Materialità ed estetica nell’arte mesoamericana, 2017 4. Ivo Quaranta, Massimiliano Minelli, Sylvie Fortin, edited by, Assemblages, Transformations, and the Politics of Care, 2018

Finito di stampare nel mese di maggio 2019 per i tipi di Bononia University Press