La strada per il Catai. Contatti tra Oriente e Occidente al tempo di Marco Polo 8862507739, 9788862507738

A partire dagli anni Quaranta del Duecento, diversi viaggiatori approfittarono della situazione di stabilità politica ch

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La strada per il Catai. Contatti tra Oriente e Occidente al tempo di Marco Polo
 8862507739, 9788862507738

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La via della seta Collana diretta da Elisa Giunipero realizzata in collaborazione con l’Istituto Confucio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore 1. Liu Xinru, La Via della Seta nella storia dell’umanità 2. Matteo Ricci S. J., Il castello della memoria. La mnemotecnica occidentale e la sua applicazione allo studio dei caratteri cinesi, a cura di Chiara Piccinini 3. Elisa Giunipero (a cura di), Uomini e religioni sulla Via della seta 4. Guido Samarani (a cura di), La Cina nella storia globale. Percorsi e tendenze 5. Alvise Andreose (a cura di), La strada per il Catai. Contatti tra Oriente e Occidente al tempo di Marco Polo

LA VIA DELLA SETA 5

© 2019 Edizioni Angelo Guerini e Associati srl via Comelico, 3 – 20135 Milano http://www.guerini.it e-mail: [email protected] Prima edizione: dicembre 2019 Ristampa: V IV III II I

2019 2020 2021 2022 2023

Publisher Sandra Cossu Copertina di Donatella D’Angelo Immagine di copertina: © Marilyn Shea, 2004, Univ. of Maine Farmington Per l’immagine a p. 58 l’editore ha fatto quanto nelle sue possibilità per rintracciarne i proprietari e rimane a disposizione di eventuali aventi diritto Printed in Italy ISBN 978-88-6250-773-8 Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

LA STRADA PER IL CATAI Contatti tra Oriente e Occidente al tempo di Marco Polo a cura di Alvise Andreose

GUERINI E ASSOCIATI

INDICE

9 PREFAZIONE di Alvise Andreose 13 DAI MERCANTI SOGDIANI A MARCO POLO di Rong Xinjiang 25 VIAGGIATORI E TESTI TRA EUROPA ED ESTREMO ORIENTE AL TEMPO DI MARCO POLO di Alvise Andreose 47 I DRAGHI ACCOVACCIATI E LE TIGRI CAMUFFATE DI MARCO POLO di Hans Ulrich Vogel 73 CONFINI. NOTE SULLA RELAZIONE FRA STORIA E DESCRIZIONE GEOGRAFICA NEL «DEVISEMENT DOU MONDE» di Eugenio Burgio 95 I COLLEGAMENTI MARITTIMI TRA LA CINA E IL GOLFO PERSICO AL TEMPO DI MARCO POLO di Dang Baohai 115 LE FESTE DEL GRAN QA’AN NEI RESOCONTI DI MARCO POLO E ODORICO DA PORDENONE di Ma Xiaolin

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131 TRA SAPERE TRADIZIONALE E OSSERVAZIONE DIRETTA: MARCO POLO E LA SALAMANDRA-ASBESTO di Samuela Simion 149 L’ITINERARIO DI MARCO POLO IN PERSIA NEL SUO VIAGGIO DI RITORNO

di Qiu Zhirong 163 LE SHUʿAB-I PANJGĀNA («CINQUE GENEALOGIE»): UN DOCUMENTO STORICO PERSIANO DI DIALOGO INTERCULTURALE AI TEMPI DI MARCO POLO

di Wang Yidan 175 LA GERARCHIA DELLE RELIGIONI NEI DECRETI PER I TEMPLI DELLA DINASTIA YUAN di Chen Xi 189 I GESUITI E MARCO POLO: «UN AUTORE DEGNO DI FIDUCIA» di Davor Antonucci 205 Indice dei nomi 215 Gli autori

PREFAZIONE di Alvise Andreose

Lo studio dei contatti tra l’Europa e l’Asia orientale in età medievale vanta una lunga tradizione, i cui primi importanti risultati maturarono in seno alla cultura coloniale francese e inglese otto e novecentesca, ma che, a ben vedere, affonda le sue radici nelle ampie raccolte odeporiche che accompagnarono e stimolarono le grandi esplorazioni geografiche europee d’età rinascimentale. A partire dalla metà del secolo passato, tuttavia, la platea degli studiosi che si sono occupati di tali tematiche si è via via allargata, dilatandosi ulteriormente negli ultimi decenni. Ai fondamentali lavori di ricercatori europei e nord-americani apparsi soprattutto a partire dagli anni Novanta, si sono aggiunte le notevoli indagini condotte da specialisti cinesi, coreani e giapponesi in tempi recenti e recentissimi. Il dialogo interdisciplinare e interculturale è divenuto irrinunciabile in un ambito di studi in cui si intersecano competenze e interessi molteplici e diversificati. Tali presupposti hanno ispirato il convegno internazionale La strada per il Catai. Contatti tra Oriente e Occidente al tempo di Marco Polo (Milano, 24-25 ottobre 2018), organizzato dall’Istituto Confucio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore in collaborazione con la Facoltà e con il Dipartimento di Scienze linguistiche e letterature straniere. I saggi raccolti in questo volume traggono origine dalle relazioni presentate in tale incontro. Dai primi anni del Duecento si aprì una fase particolare nei contatti tra Oriente e Occidente, che durò circa un secolo e mezzo. L’unificazione di gran parte dell’Asia e dell’Europa orientale sotto il dominio dei Mongoli portò alla formazione di un nuovo spazio per gli scambi diplomatici, religiosi, economici e culturali, che si

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estendeva dal Danubio alle rive del Pacifico. Per oltre un secolo ambasciatori, missionari, mercanti, esploratori si spostarono da Ovest verso Est e da Est verso Ovest percorrendo la Via della seta o seguendo la rotta marittima che collegava il Golfo Persico ai porti della Cina meridionale. I primi europei ad addentrarsi nel cuore dell’impero tartaro furono i francescani Giovanni da Pian di Carpine e Guglielmo di Rubrouck, e i domenicani Ascelino e Andrea di Longjumeau. Nei decenni successivi, altri frati minori si spinsero fino a Cambalec ‒ o Cambaluc, oggi Pechino ‒, la nuova capitale del Gran Can: Giovanni da Montecorvino, Odorico da Pordenone, Giovanni de’ Marignolli e altri ancora. I loro viaggi in Cina furono preceduti da quello, ben più celebre, compiuto da un giovane mercante veneziano, Marco Polo, che, insieme al padre Niccolò e allo zio Matteo, raggiunse il Regno di Mezzo attorno al 1275 e vi rimase per sedici anni. I ricordi delle cose viste e udite durante la sua lunga esperienza in Oriente furono raccolti in quello che è, senza dubbio, il più importante resoconto odeporico di tutti i tempi, il Devisement dou monde, altrimenti noto come Milione. L’eccezionalità dell’impresa di Marco e la straordinaria ricchezza della sua opera costituiscono il nucleo ispiratore e la chiave di volta dei contributi riuniti nel presente volume. Con gli uomini circolarono i beni materiali e le idee. Le informazioni che, a partire dal quarto decennio del secolo XIII, cominciarono a diffondersi in Europa modificarono profondamente l’immagine di un Oriente remoto e favoloso, ricettacolo di mirabilia et monstra, che il Medioevo aveva ereditato dalla classicità. Con la fine del dominio mongolo sulla Cina (1368), le relazioni tra l’Europa e l’Asia orientale subirono una netta battuta d’arresto. Ciononostante, i dati raccolti dai viaggiatori fino ad allora continuarono a godere di ampio credito in epoca umanistica, fondendosi talvolta con le scarne e confuse nozioni risalenti alla cultura greco-latina. La fortuna dei loro testi non si arrestò neanche quando, con l’età delle scoperte, ebbe inizio una nuova era nella storia delle relazioni politiche ed economiche su scala planetaria. L’obiettivo principale che il nostro libro si prefigge è quello di indagare i molteplici aspetti e le diverse dimensioni degli scambi intercorsi tra l’Occidente, il Medio Oriente e l’Asia orientale nei

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secoli XIII e XIV, e di metterne a fuoco la cornice storica e culturale. I saggi inclusi nella silloge confermano ancora una volta gli indiscutibili benefici che possono derivare allo studio dei contatti tra l’Europa e la Cina nel Medioevo da un approccio multiprospettico e trasversale, capace di far interagire e dialogare proficuamente saperi afferenti a discipline di diversa natura e tradizione: dalla filologia romanza e mediolatina alla storia occidentale e orientale, dall’archeologia all’iranistica, dall’ecdotica alla sinologia, dall’antropologia culturale alla comparatistica. Un risultato che non sarebbe stato possibile raggiungere senza il supporto e la collaborazione di Elisa Giunipero, direttrice dell’Istituto Confucio presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, cui desidero esprimere il mio sincero ringraziamento.

DAI MERCANTI SOGDIANI A MARCO POLO di Rong Xinjiang ᾂᮄ∳

In Cina, chiunque sia dotato di un po’ di buon senso sa che Marco Polo fu un mercante che si recò in Cina ai tempi della dinastia Yuan. Tuttavia, a causa della mancanza di testimonianze dirette nelle fonti cinesi, si è sempre discusso se egli si sia recato effettivamente in Cina. Per quanto riguarda quest’interrogativo, gli studiosi cinesi concordano tutti con la conclusione del professor Yang Zhijiu ἞ᖫ⥪. Nel 1941, lo studioso scoprì che i nomi di tre delegati citati in una sezione del Jingshi dadian ㍧Ϫ໻‫«( ݌‬Grande compendio per governare il mondo») che si conserva nell’enciclopedia cinese Yongle dadian ∌ῖ໻‫«( ݌‬Grande compendio del regno di Yongle») sono identici a quelli registrati da Marco Polo, dimostrando con ciò che il veneziano era stato indubbiamente in Cina1. Negli anni passati ho esaminato scrupolosamente la traduzione pubblicata da Arthur Christopher Moule e Paul Pelliot in Marco Polo, the Description of the World 2 con alcuni colleghi e studenti che condividono la mia stessa passione, nella speranza di tradurre il testo in cinese e di fornirne un commento dettagliato. Marco Polo si recò in Cina via terra nei primi anni della dinastia Yuan (seconda metà del secolo XIII). Taluni studiosi hanno supposto che tale collegamento tra la Cina propriamente detta e l’OcciYang Zhijiu ᴼᖫ⥪, «Guanyu Marco Polo lihua de yiduan hanwen jizai» 䮰 ᮐ侀ৃ⊶㕙䲶㧃ⱘϔ↉⓶᭛㿬䓝 («Un brano in cinese riguardante la partenza di Marco Polo dalla Cina»), Wenshi zazhi ᭛৆䲰䁠 (Giornale di letteratura e storia), I/12 (1941), pp. 47-52. 2 A.C. Moule, P. Pelliot, Marco Polo, the Description of the World, George Routledge & Sons, London 1938. 1

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dente fosse stato interrotto dai Tibetani e, più tardi, dai Tanguti, da quando la ribellione di An Lushan a metà del secolo VIII e l’affermazione del percorso marittimo al tempo della dinastia Song si sommarono al declino dell’itinerario continentale. Quale era, quindi, la via terrestre prima del viaggio di Marco Polo verso la Cina? Fu davvero interrotta, come ritengono alcuni? Vorrei ora suggerire tre modalità per giungere a una più completa comprensione della Via della seta prima della metà del secolo XIII. Innanzitutto, è opportuno comprendere la Via della seta dal punto di vista dei mercanti. Studio i mercanti sogdiani sulla Via della seta da molti anni. Le loro caratteristiche ci aiutano a capire Marco Polo, che era anche lui un mercante. Nella Cina tradizionale il governo considerava questa categoria con sufficienza, sicché le testimonianze al riguardo sono molto limitate. Testimonianze di provenienza sia orientale, sia occidentale, specialmente le fonti archeologiche portate recentemente alla luce in Cina, mostrano che i commercianti sogdiani furono i principali protagonisti degli scambi commerciali per via di terra dal III all’VIII secolo. Sono documentati quasi ovunque, dal mondo bizantino alla Cina3. Nonostante l’impatto negativo causato dalla ribellione di An Lushan e l’espansione araba verso est, i mercanti sogdiani e i loro successori, i mercanti uiguri, musulmani e semu 4, continuarono a viaggiare lungo la Via della seta nel periodo compreso tra la dinastia Tang e quella Yuan. Uno dei loro tratti distintivi era il coraggio nel superare le difficoltà: dove c’erano guadagni, ecco che arrivavano i sogdiani! I migliori esempi sono offerti dalle antiche lettere sogdiane ritrovate in una città fortificata lungo la Grande Muraglia nell’oasi nordoccidentale di Dunhuang. Un gruppo di mercanti sogdiani provenienti da Samarcanda si stabilì a Wuwei (Liangzhou), a oriente del Corri3 Per quanto riguarda il ruolo dei mercanti sogdiani sulla Via della seta, si veda Rong Xinjiang ᾂᮄ∳, «Sogdian Merchants and Sogdian Culture on the Silk Road», in Empires and Exchanges in Eurasian Late Antiquity. Rome, China, Iran, and the Steppe, ca. 250-750, ed. by N. Di Cosmo and M. Maas, Cambridge University Press, Cambridge 2018, pp. 84-95. 4 Etichetta con cui in epoca Yuan si indicavano vari popoli provenienti perlopiù dall’Asia centrale e occidentale.

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doio di Hexi. Il loro capo inviò rappresentanti ad Anyang (Ye City), Luoyang, Lanzhou, Jiuquan, Dunhuang, e probabilmente anche a Kroraina (Loulan), a Khotan perché scambiassero metalli rari, spezie e medicinali con prodotti cinesi come la seta5. Al termine dell’epoca delle Dinastie del Nord (seconda metà del secolo VI), alcuni capi sogdiani conducevano un’esistenza ricca e agiata in Cina, come si può evincere dalle raffigurazioni delle tombe di An Jia ᅝ ԑ e del Signore Shi ৆৯6. Il viaggio di Marco Polo verso la Cina fu rischioso quanto quello dei mercanti della Sogdiana. Anche lui dovette affrontare lungo il suo cammino popoli e potenze ostili di vario genere. Un’altra caratteristica distintiva di questi mercanti sogdiani era l’organizzazione di carovane itineranti, che viaggiavano da una regione all’altra per fare affari. Un documento rinvenuto a Tūrfān ce ne fornisce un’ampia testimonianza. All’epoca dell’imperatore Gaozong, appartenente alla dinastia Tang (seconda metà del secolo VII), un gruppo di mercanti sogdiani dal cognome Cao, proveniente da Kapūtānā («regno di Cao») in Asia centrale, intrattenne scambi commerciali con un mercante cinese di nome Li Shaojin ᴢ㌍䄍. I Cao arrivarono da Chang’an, capitale della dinastia Tang, nella città di Gongyue ᓧ᳜, a nord del Tian Shan. Successivamente alcuni di loro passarono per Kucha, in cui erano in corso guerre tra la dinastia Tang e il Tibet, e dovettero pertanto ritornare a Xizhou (Tūrfān). Due mercanti sogdiani di questo gruppo si diressero a ovest per praticare il commercio7. Da questo esempio si può concludere che i percorsi dei mercanti sogdiani furono molto ampi e che 5 N. Sims-Williams, «The Sogdian Ancient Letter II», in Philologica et Linguistica: Historia, Pluralitas, Universitas. Festschrift für Helmut Humbach zum 80. Geburtstag am 4. Dezember 2001, hrsgg. von M.G. Schmidt und W. Bisang, Wissenschaftlicher Verlag, Trier 2001, pp. 267-280. 6 Cfr. Rong Xinjiang ᾂᮄ∳, «The Illustrative Sequence on An Jia’s Screen: A Depiction of the Daily Life of a Sabao», Orientations, February 2003, pp. 32-35; Id., «The Sogdian Caravan as Depicted in the Relieves of the Stone Sarcophagus from Shi’s Tomb of the Northern Zhou», Chinese Archaeology, 6 (2006), pp. 181185. 7 Per l’intera vicenda, si veda Rong Xinjiang ᾂᮄ∳, «Further Remarks on Sogdians in the Western Regions», in Exegisti monumenta. Festschrift in Honour of Nicholas Sims-Williams (Iranica 17), ed. by W. Sundermann, A. Hintze and F. de Blois, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden 2009, pp. 399-416, qui pp. 401-403.

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essi utilizzarono le piccole e grandi città lungo la Via della seta come trampolini di lancio per fare affari a lunga distanza. Anche i Polo erano mercanti. E anch’essi avevano una missione, affidata loro dal Papa. Il loro lungo viaggio verso la Cina coincise esattamente con quello dei mercanti sogdiani. Le carovane dei sogdiani avevano le proprie modalità organizzative. Erano generalmente composte da più di duecento persone, guidate dallo s’rtp’w (cin. sabao 㧼ֱ «capo carovana»)8. I mercanti fondavano delle colonie nel corso del viaggio: alcuni vi si stabilivano, altri continuavano a spostarsi. Il costante allestimento di nuove carovane fece sì che lungo la Via della seta si costituisse una rete di colonie sogdiane, che servivano come centri per le merci e come ostelli per i mercanti. Alcuni capi carovana rimanevano nella colonia, diventandone i leader. I mercanti sogdiani controllavano il commercio sulla Via della seta in questo modo. La comitiva di cui faceva parte Marco Polo era qualcosa di più di un semplice gruppo di mercanti: egli aveva anche una missione diplomatica da portare a termine, compito che lo rendeva diverso dai mercanti sogdiani. Tuttavia, i Polo erano ancora in contatto con gli insediamenti mercantili e le comunità cristiane lungo la Via della seta, e viaggiarono con il loro aiuto. Dopo il suo arrivo in Cina, Marco visse là per sedici o diciassette anni. Se non fosse stato inviato alla corte dell’Ilkhan con la delegazione che accompagnava la Khatun («principessa») Kökächin, sarebbe probabilmente rimasto in Estremo Oriente. Si tratta proprio di un caso analogo a quello dei capi carovana sogdiani: una volta sistemati in Cina, servivano la corte cinese, conducevano una vita agiata e non ritornavano nella loro terra d’origine. Marco Polo servì l’impero Yuan in qualità di governatore di Yangzhou, proprio come l’An Sabao di Wuwei che divenne in seguito il comandante del Liangzhou9.

8 Sul significato del vocabolo si veda Rong Xinjiang ᾂᮄ∳, «Sabao and Sabo: On the Problem of the Leader of Sogdian Colonies during the Northern Dynasties, Sui and Tang Period», in Collection of Papers on Iranian Studies in China, ed. by Ye Yiliang, Peking University Press, Beijing 2009, pp. 148-162. 9 Rong Xinjiang ᾂᮄ∳, «The Migrations and Settlements of the Sogdians in the Northern Dynasties, Sui and Tang» (transl. by B. Doar), China Archaeology and Art Digest, IV/1 (Zoroastrianism in China), December 2000, p. 135.

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In secondo luogo, è necessario comprendere la Via della seta in quanto percorso di comunicazione. È stato spesso sostenuto che la Via della seta sarebbe stata aperta sotto dinastie unite e prospere come quelle Han e Tang, mentre sarebbe stata interrotta quando il Nord-ovest della Cina era in tumulto. Alcuni ritengono addirittura che, nel corso della storia cinese, la Via della seta sia rimasta chiusa per lunghi lassi di tempo. Per quanto riguarda il periodo successivo alla ribellione di An Lushan, si crede che l’occupazione tibetana del Corridoio di Hexi e delle regioni occidentali, cui fecero seguito la migrazione degli Uiguri, i conflitti tra Uiguri e Tibetani e l’occupazione tanguta del Corridoio, avesse reso impraticabile tale collegamento. Questa conclusione, tuttavia, deriva da un errore di prospettiva della storiografia cinese. Uno scrupoloso esame dei manoscritti di fonti letterarie provenienti da Dunhuang e dalla Cina rivela prove di scambi tra Oriente e Occidente attraverso il Corridoio di Hexi e il bacino del Tarim durante il tardo periodo Tang, quello delle Cinque Dinastie e l’epoca Song (secoli IX e X). In un articolo pubblicato nel 1991 ho avuto modo di illustrare vari materiali su monaci buddisti che si muovevano dalla Cina all’India tratti da manoscritti cinesi, tibetani e khotanesi ritrovati a Dunhuang, e ho dimostrato che la comunicazione tra la Cina e l’India lungo la Via della seta non fu mai sospesa tra il 786 e il 103510. Un documento di Dunhuang (S.5981), per esempio, indica che Zhiyan ᱎಈ, il monaco capo della corte Guanyin del tempio Kaiyuan a Fuzhou (contea di Fu, nello Shaanxi), visitò i siti buddisti a Dunhuang mentre si stava dirigendo in India. Egli portò a Dunhuang anche il manoscritto S.2659, che contiene, su un lato, il primo capitolo del Da Tang Xiyuji ໻૤㽓ඳ㿬 («Resoconto delle regioni occidentali del grande Tang»), lo Wangsheng lizan wen ᕔ⫳⾂䋞 ᭛ («Lode per la purezza della terra») e lo Shierguang lizan wen कѠ 10 Rong Xinjiang ᾂᮄ∳, «Dunhuang Wenxian suojian Wantang Wudai Songchu Zhongying Wenhua jiaowan» ᬺ✠᭛⥏᠔㽟ᰮ૤Ѩҷᅟ߱Ёॄ᭛ ࣪Ѹᕔ («La comunicazione culturale tra Cina e India nel tardo periodo Tang, all’epoca delle Cinque dinastie e al principio dell’impero Song nei manoscritti di Dunhuang»), in Ji Xianlin Jiaoshou Bashi Huadan jinian lunwenji ᄷ㕼ᵫᬭᥜܿक㧃 䁩㋔ᗉ䂪᭛䲚 (Saggi in onore dell’80° compleanno di Ji Xianlin), ed. by Li Zheng ᴢ 䣮, Jiangxi renmin chubanshe, Nanchang 1991, pp. 955-968.

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‫៎⾂ܝ‬᭛ («Adorazione e confessione ai dodici Budda della luce»). Il primo testo gli serviva come guida per il suo viaggio in India, mentre il secondo e il terzo erano destinati alla pratica del rito buddista. Per gli studi sulla Via della seta, l’altro lato del foglio è più importante, perché contiene uno degli inni fondamentali del manicheismo. Probabilmente Zhiyan utilizzò il verso di un codice più antico per copiare il Da Tang Xiyuji e le due opere di argomento religioso. Un altro esempio dimostra che nel quarto anno dell’era Qiande (anno 966), il governo dei Song settentrionali organizzò un pellegrinaggio in India alla ricerca di testi sacri del buddismo e 157 monaci partirono dalla capitale Kaifeng11. Alcuni monaci lasciarono a Dunhuang i testi buddisti che portavano con sé. Il BD13802 mostra che nel secondo mese del sesto anno dell’era Qiande (anno 968), uno di questi monaci, Jicong 㑐ᕲ, passò da Dunhuang e copiò il Miaofa lianhuajing zanwen ཭⊩㫂㧃㍧䋞᭛ («Lode al Sutra del loto») per Cao Yuanzhong ᳍‫ܗ‬ᖴ, capo del governo regionale Guiyi e re di Shazhou. Secondo il Fozu Tongji ԯ⼪㍅㋔ («Cronache del Budda e dei patriarchi»), Jicong rientrò dall’India nel terzo anno del periodo Taiping Xinguo (978). Non avrebbe potuto riuscirvi senza l’aiuto del regime Guiyi, proprio come Xuanzang non avrebbe potuto recarsi in India senza il sostegno di Qu Wentai 咈᭛⋄, il sovrano del regno di Gaochang all’inizio del secolo VII. La comunicazione non doveva essere a senso unico. I monaci indiani non smisero mai di divulgare il dharma buddista verso est dall’epoca della dinastia Han orientale, quando An Shigao giunse a Luoyang, nel 148 d.C. Il manoscritto P.3931 di Dunhuang testimonia che un insegnante buddista si recò in Cina e visitò il monte Wutai prima del 93812. All’inizio dell’epoca Song, i monaci dell’India settentrionale Shihu ᮑ䅋 e Faxian ⊩䊶 si recarono insieme in Cina, nel 986. Quando passarono a Dunhuang, furono trattenuti da Cao Yanlu ᳍ᓊ⽘, il re di Dunhuang, che era un convinto seguace del buddismo, proprio come Xuanzang fu invitato e trattenu-

Su questo avvenimento si veda Jan Yün-hua, «Buddhist Relations between India and Sung China», History of Religions, VI/1-2 (1966), pp. 24-42, 135-168. 12 R. Schneider, «Un moine indien au Wou-t’ai chan», Cahiers d’Extrême-Asie, 3 (1987), pp. 27-39. 11

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to da Qu Wentai. Tuttavia, alcuni mesi dopo, Shihu e altri fuggirono verso la capitale dei Song, portando con sé unicamente i testi sacri buddisti e null’altro. Sia Shihu, sia Faxian divennero famosi maestri di traduzione di scritture buddiste in Cina. Nel tardo periodo Tang, durante le Cinque dinastie e all’inizio dell’epoca Song, piccole potenze indipendenti lungo la Via della seta come il regno tanguto di Xi Xia, il regno uiguro di Ganzhou, il regime Guiyi, il regno degli Uiguri occidentali, il regno di Khotan e il khanato kharakhanide, non interruppero le comunicazioni, soprattutto non ostacolarono lo spostamento di monaci e mercanti. Diversamente dagli inviati ufficiali, di rado erano condizionati dalle mutevoli relazioni tra le autorità locali. Anzi, monaci e mercanti funsero spesso da messaggeri tra diverse potenze in un’epoca caotica. Gli storici cinesi hanno spesso trascurato le attività dei mercanti ordinari appartenenti alla società civile, limitandosi a registrare quelle dei mercanti inviati ufficialmente da entità politiche o sedicenti tali. Durante lo scontro tra la dinastia Song e l’impero Xi Xia, i mercanti riuscirono ancora a commerciare giada dalle regioni occidentali alla capitale dei Song tramite la via per Qinzhou ⾺Ꮂ䏃, che era al di fuori del controllo dei Tanguti. La morbida giada del Khotan era destinata a produrre il sigillo imperiale, che rivestiva un’importanza enorme per la corte tradizionale cinese13. Lo stesso regno Xi Xia non fu assolutamente isolato. Stando alla testimonianza del Tiansheng Gaijiu Xinding Lüling ໽ⲯᬍ㟞ᮄᅮᕟҸ («Codice di leggi tanguto dell’era Tiansheng») redatto fra il 1149 e il 1169, la dinastia Xi Xia trattò molto bene messi e mercanti di Tajik (musulmani dell’Asia centrale) e del regno degli Uiguri occidentali14. Monaci di Xi Xia viaggiavano verso l’India alla ricerca di letteratura buddista e altri monaci vennero dall’India nell’impero Xi Xia per pregare. Rong Xinjiang ᾂᮄ∳, Zhu Linshuang ᴅ呫䲭, «Cong Jingong dao Siyi: 10-11 Shiji Yutianyu de Dongjian Dunhuang yu Zhongyuan» ᕲ䘆䉶ࠄ ⾕ᯧ: 10-11 Ϫ㋔Ѣ䮤⥝ⱘᵅ┌ᬺ✠㟛Ёॳ («Dal pagamento di una tassa al commercio privato: il viaggio a est della giada di Khotan verso Dunhuang e la Cina propriamente detta, nei secoli X e XI»), Dunhuang Yanjiu ᬺ✠ⷨお (Ricerche su Dunhuang), 3 (2014), pp. 193-199. 14 Tiansheng Lüling ໽ⲯᕟҸ, tradotto e commentato da Shijinbo ৆䞥⊶, Falü chubanshe, Beijing 2000, pp. 284-285. 13

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Anche il regno della dinastia Liao ebbe contatti con le regioni occidentali. Il Qidan Guozhi ༥Ѝ೟ᖫ («Resoconto dell’impero Kitan») attesta che le autorità di Qocho (Gaochang), Qiuci (Kucha), Khotan, i samanidi, le autorità di Xiaoshi (piccola città in pietra a nord-est di Tashkent), Ganzhou, Dunhuang, Liangzhou (Wuwei) e altri poteri locali mandarono degli inviati nel regno Liao ogni tre anni. Tutte le spedizioni erano formate da circa quattrocento persone. Gli omaggi (merci, in realtà) comprendevano giade, gioielli, rinoceronti, ambra, armi in ferro, pellicce nere suγur, mandish, parnagan, nošdar, qars15. La ricompensa dei sovrani Liao ammontava ad almeno 400.000 guan16. Dopo la caduta della dinastia Liao, Yelu Dashi 㘊ᕟ໻⷇ e il suo popolo fuggirono in Asia centrale, poiché avevano avuto stretti contatti con questa regione da lungo tempo. I rapporti diplomatici tra il Nord-ovest della Cina – o anche l’Asia centrale – e la Cina vera e propria non possono essere considerati criteri per valutare approfonditamente la situazione della Via della seta. Gli inviati ufficiali, infatti, non erano gli unici viaggiatori. Mercanti e monaci si spostarono lungo quell’itinerario dopo la fine del grande impero dei Tang fino all’ascesa della potenza mongola. Non si deve, inoltre, restringere lo sguardo ai singoli viaggiatori che percorsero lunghe distanze, ma considerare anche i beni materiali e immateriali che le attraversarono. Lungo la Via della seta circolava la seta, come pure la giada e le spezie, ma anche il dharma. Anche se, nel I secolo, Gan Ying ⫬㣅 fu fermato mentre era diretto a Roma, tuttavia la seta dalla Cina vi arrivò. Quando si movimentavano merci e idee in quella direzione, la strada utilizzata era la Via della seta17. Marco Polo fu uno dei pochissimi viaggiatori che percorsero tutta la strada dall’Europa alla Cina. Si stratta di un caso molto raro, che si verificò nel contesto della Pax Mongolica. Turc. suγur «pelliccia di marmotta», pers. mandish «tappeto», medio pers. parnagan «broccato», pers. nošdar «clorammonio», turc. qars «vestito di peli di cammello o di lana». 16 Huang Shijian 咗ᰖ䨦, «Liao yu Dashi» 䙐㟛 «໻亳» («I Liao e i Dashi»), in Huang Shijian Wenji II 咗ᰖ䨦᭛䲚 II (Raccolta delle opere di Huang Shijian II), Zhongxi shuju, Shanghai 2011, pp. 16-30. Il guan era un’unità monetaria in uso nella Cina pre-moderna (lett. «filza di monete»). 17 Cfr. Rong Xinjiang ᾂᮄ∳, «The Silk Road is a Road of ‘Silk’», Silks from the Silk Road. Origin, Transmission and Exchange, ed. by Zhao Feng, Zhejiang University Press, Hangzhou 2016 (2017), pp. 22-30. 15

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In terzo luogo, è fondamentale il modo di comprendere le fonti che riguardano la Via della seta. La morfologia di molte regioni che si trovano lungo tale strada è caratterizzata da deserti e alte montagne. Diverse culture stanziate in queste aree non hanno lasciato alcuna testimonianza storica. Nemmeno le fonti provenienti da civiltà periferiche conservano molte informazioni su di esse. Di conseguenza, non dovremmo circoscrivere la nostra analisi alla letteratura storica tradizionale o a fonti in un’unica lingua, ma allargare i nostri orizzonti all’esame delle testimonianze materiali e di testi scritti in altri idiomi. I manoscritti scoperti lungo la Via della seta hanno enormemente ampliato la nostra conoscenza di questo percorso. I documenti e i libri ritrovati di recente a Dunhuang, come lo Wang Wutianzhuguo zhuanᕔѨ໽ノ೟‫«( ڇ‬Viaggio nei cinque regni dell’India») scritto da Huichao ᜻䍙18, la voce relativa alle Sei strade attraverso la regione del Lop Nor nello Shazhou tujing ≭Ꮂ೪㍧19 («Dizionario geografico illustrato di Shazhou»), la voce relativa alle Undici strade da Tūrfān ad altri luoghi nello Xizhou tujing 㽓Ꮂ೪㍧20 («Dizionario geografico illustrato di Xizhou») e lo Xitian Lujing 㽓໽䏃コ21 («La strada verso l’Occidente») forniscono informazioni dettagliate sui percorsi tra la Cina e l’India. I documenti rinvenuti a Tūrfān, inoltre, come il Contratto di acquisto di uno schiavo sogdiano da parte di Zhang Zu ᔉ⼪, risalente al 47722, l’Elenco delle tariffe registrate dalla corte interna del regno di Gaochang sotto la casata Qu, i Documenti di richiesta del passaporto da parte di Kang 18 W. Fuchs, «Huei-ch’ao’s Pilgerreise durch Nordwest-Indien und Zentralasien um 726», Sitzungsberichte der Preussischen Akademie der Wissenschaften, phil.-hist. Klasse, 30 (1938 [1939]), pp. 426-469; The Hye Ch’o Diary: Memoir of the Pilgrimage to the Five Regions of India, ed. by Jan Yün-hua, Yang Han-Sung, Iida Shotaro and L.W. Preston, Asian Humanities Press, Berkeley 1984. 19 Dunhuang and Other Central Asian Manuscripts in the Bibliothèque Nationale de France, vol. 34, Shanghai Chinese Classics Publishing House, Shanghai 2005, pp. 131-132. 20 Dunhuang and Other Central Asian Manuscripts in the Bibliothèque Nationale de France, vol. 1, Shanghai Chinese Classics Publishing House, Shanghai 1995, pp. 76-77. 21 Dunhuang Manuscripts in British Collections, vol. 1, Sichuan People’s Publishing House, Chengdu 1990, p. 170. 22 Rong Xinjiang ᾂᮄ∳, Li Xiao ᴢ㙪, Meng Xianshi ᄳឆᆺ (eds.), Xinhuo Tulufan chutu wenxian ᮄ⥆৤元⬾ߎೳ᭛⥏ (I manoscritti recentemente scoperti a Tūrfān), Zhonghua shuju, Beijing 2008, p. 125.

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Weiyiluoshi ᒋሒ㕽㕙ᮑ e altri del 68523, il Passaporto di Shi Randian ⷇ᶧ‫ ݌‬del 73224, il Rapporto sui prezzi dei prodotti al mercato di Xizhou (Tūrfān) del 74325, ci forniscono un ampio spaccato del traffico delle merci che circolavano lungo la Via della seta. Talvolta un piccolo pezzo di carta può colmare un grande vuoto nelle testimonianze storiche. Nel 1997, nella Tomba n. 1 del cimitero di Yanghai, nel Tūrfān, è venuto alla luce un importante documento cinese. Il verso del foglio contiene il registro della manodopera e dei cavalli forniti a delegati stranieri dal governo del regno di Gaochang. La testimonianza risale al 474-475 e conserva informazioni relative a funzionari che erano passati da Gaochang nel corso di quegli anni26. Fra gli inviati figuravano rappresentanti provenienti da Udyana (Swat, Pakistan), Brahman (Bangladesh), Zihe (Karghalik), Argi (Karashahr), dal territorio dei Song meridionali (Cina meridionale) e dal Khanato dei Rouran in Mongolia. Alcuni di loro attraversarono i monti Tian Shan fino all’Ordu dei Rouran; altri si mossero verso Argi, e poi verso altri regni del bacino del Tarim e dell’Asia centrale e meridionale27. Se segnassimo tutti i luoghi citati in questo documento su una carta geografica, potremmo tratteggiare un quadro sintetico della comunicazione interna lungo la Via della seta nella seconda metà del V secolo. Nello stesso periodo gli Eftaliti (o Unni bianchi) sconfissero l’impero persiano Sasanide e occuparono Kidāra in Battriana. Conquistarono poi la Sogdiana e, dopo aver attaccato Khotan e Karashahr, estesero la propria influenza al bacino del Tarim. I paesi meno potenti di quella zona, 23 Tang Zhangru ૤䭋ᅎ (ed.), Tulufan chutu wenshu ৤元⬾ߎೳ᭛᳌ (I documenti scoperti a Tūrfān), vol. 3, Wenwu chubanshe, Beijing 1996, pp. 346-350. 24 Tang Zhangru ૤䭋ᅎ (ed.), Tulufan chutu wenshu ৤元⬾ߎೳ᭛᳌ (I documenti scoperti a Tūrfān), vol. 4, Wenwu chubanshe, Beijing 1996, pp. 275-276. 25 E. Trombert, É. de La Vaissière, «Le prix des denrées sur le marché de Turfan en 743», in Études de Dunhuang et Turfan, textes réunis par J.-P. Drège, Droz, Genève 2007, pp. 1-52. 26 Rong Xinjiang, Li Xiao, Meng Xianshi (eds.), Xinhuo Tulufan chutu wenxian, cit., pp. 162-163. 27 Rong Xinjiang ᾂᮄ∳, «The Rouran Qaghanate and the Western Regions during the second half of the 5th century based on a Chinese document newly found in Turfan», in Great Journeys across the Pamir Mountains: A Festschrift in Honor of Zhang Guangda on His Eighty-fifth Birthday, ed. by Huaiyu Chen and Xinjiang Rong, Brill, Leiden 2018, pp. 59-82.

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probabilmente temendo la minaccia degli Eftaliti, mandarono dei messi a Rouran per chiedere aiuto. Perciò, non è corretto sostenere che la Via della seta fosse interrotta in periodi di conflitti. In fonti arabe e persiane si incontrano abbondanti informazioni sulla Via della seta. Per esempio, itinerari dalla Persia alla Cina sono registrati nelle opere della scuola classica di geografia irachena, come il Kitāb al-Masālik wa’l-Mamālik di Ibn Khurdādhbih e il Kitāb al-Kharāj di Qudāma ibn Ja‘far. Anche il Diwān al-lugāt al-turk di Mahmūd al-Kashgharī tratta dell’itinerario e della distanza tra il mondo bizantino e la Cina, e riporta informazioni sui popoli che abitano nelle regioni comprese tra i due territori. È sempre azzardato concludere che la Via della seta fosse interrotta in un periodo o in un altro. Dovremmo invece essere pronti a raccogliere una maggior quantità d’informazioni da fonti di vario tipo. Per compensare la carenza di documentazione è necessario formulare delle ipotesi coraggiose sulla base dei materiali pervenutici. Ritengo che la Via della seta non sia mai stata interrotta prima della spedizione di Marco Polo in Cina, nonostante la chiusura temporanea di alcune sezioni a causa di conflitti locali. La Via è sempre stata là, ma le limitazioni della nostra mente paiono maggiori degli ostacoli sulla strada. Quando Marco Polo si mise in cammino per il lontano Oriente, iniziò il suo viaggio verso la grandezza. Il racconto di questo suo viaggio ci ha lasciato una testimonianza incredibilmente dettagliata della Via della seta nel secolo XIII. Onore a Marco Polo, onore al Milione!

VIAGGIATORI E TESTI TRA EUROPA ED ESTREMO ORIENTE AL TEMPO DI MARCO POLO di Alvise Andreose

Non è possibile stabilire quanti viaggiatori europei, approfittando della situazione di stabilità politica che era venuta a crearsi a seguito dell’unificazione di gran parte dell’Eurasia sotto il dominio mongolo tra i primi decenni del Duecento e la metà del Trecento, intrapresero la via dell’Oriente, giungendo fino in Mongolia o in Cina. Il loro numero fu certo superiore a quello che si può ricavare dalle testimonianze – quasi esclusivamente occidentali – che ci hanno tramandato i nomi e a volte le vicende di missionari e mercanti che, in tale momento storico, ebbero modo di visitare le regioni più remote del continente asiatico. Se, da un punto di vista diplomatico e commerciale, la crisi della dinastia mongola degli Yuan e l’ascesa al trono imperiale della dinastia cinese dei Ming (1368) arrestò questa fase fruttuosa di relazioni, a livello culturale, gli effetti della cosiddetta Pax Mongolica si fecero sentire in Europa per tutto il secolo XIV e fino al XV, perdurando ben oltre gli estremi cronologici dell’Età di Mezzo. Le informazioni trasmesse dai viaggiatori medievali nei loro resoconti contribuirono gradualmente a delineare una «nuova» immagine dell’Estremo Oriente, profondamente diversa da quella che la cultura coeva aveva ereditato dall’antichità1. Questo bagaglio di notizie – molto ampio rispetto al passato, ma tutt’altro che sistematico – godette di vasta circolazione e intrise profondamente l’imma1 F.E. Reichert, Incontri con la Cina. La scoperta dell’Asia orientale nel Medioevo, Biblioteca Francescana, Milano 1997 (ed. orig. ted. 1992), pp. 15-69; J. Le Goff, «L’Occident médiéval et l’océan Indien: un horizon onirique», in Id., Pour un autre Moyen Âge. Temps, travail et culture en Occident: 18 essais, Gallimard, Paris 1977, pp. 280298; G. Zaganelli, L’Oriente incognito medievale, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997.

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ginario medievale, creando quel fertile humus che avrebbe nutrito e alimentato i progetti di navigazione transoceanica miranti a raggiungere il Catai che segnarono di fatto l’inizio di una nuova era2. Il contesto storico in cui maturarono questi momenti di contatto e di scambio tra mondo occidentale e orientale fu senza dubbio straordinario. La fondazione dell’Impero eurasiatico dei Mongoli comportò, oltre a massacri e distruzioni, l’eliminazione delle barriere politiche ed economiche su scala transcontinentale, e consentì ad ambasciatori, missionari e mercanti europei di raggiungere l’Estremo Oriente con relativa facilità, mettendo in rapporto due realtà che, fino ad allora, erano rimaste quasi del tutto estranee. Percorrendo le carovaniere dell’Asia centrale o solcando i flutti dell’Oceano Indiano per motivi diplomatici, religiosi o commerciali, questi inconsapevoli pionieri incontrarono popoli altrimenti ignoti all’Occidente, se non attraverso le confuse e oramai sbiadite narrazioni favolose d’età ellenistica e romana. La natura del tutto eccezionale di tale catena di eventi si riflette nella complessità delle vicende degli scritti che ci permettono di ricostruire, almeno parzialmente, questa importante pagina della storia globale. I viaggiatori europei in Estremo Oriente che lasciarono memoria delle loro esperienze mancavano infatti di uno specifico genere testuale – e finanche del necessario apparato retorico e stilistico3 – per dar conto in modo adeguato dei mirabilia di cui erano stati testimoni e delle incredibili avventure che avevano vissuto4. È stato osservato giustamente che 2 Sul ruolo giocato dal Devisement dou monde di Marco Polo nell’impresa di Cristoforo Colombo la bibliografia è oggi molto ampia. Mi limito perciò a rimandare ad alcuni lavori di sintesi: F.E. Reichert, Incontri con la Cina, cit., pp. 273-294; Id., «Columbus und das Mittelalter. Erziehung, Bildung, Wissen», Geschichte in Wissenschaft und Unterricht, 44 (1993), pp. 428-450, poi in Id., Asien und Europa im Mittelalter: Studien zur Geschichte des Reisens, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2014, pp. 405-428; C. Gadrat-Ouerfelli, Lire Marco Polo au Moyen Âge. Traduction, diffusion et réception du «Devisement du Monde», Brepols, Turnhout 2015 («Terrarum Orbis», 12), pp. 321-335. 3 Un’analisi complessiva delle strutture narrative e retoriche delle relazioni di viaggio relative all’Asia mongola è stata tentata da M. Guéret-Laferté, Sur les routes de l’empire mongol. Ordre et rhétorique des relations de voyage au XIII e et XIV e siècles, H. Champion, Paris 1994 («Nouvelle Bibliothèque du Moyen Âge», 28). 4 Per un inquadramento generale dei problemi posti dai resoconti di viaggio medievali, cfr. E. Menestò, «Relazioni di viaggi e di ambasciatori», in Lo spazio letterario del Medioevo, 1. Il Medioevo latino, dir. G. Cavallo, C. Leonardi, E. Menestò, vol. I: La produzione del testo, t. II, Salerno editrice, Roma 1993, pp. 535-600.

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l’elemento di scarto che separa i resoconti sull’Asia mongola dalla letteratura geografica e odeporica precedente (compilazioni enciclopediche, itineraria, peregrinationes e descriptiones) è rappresentato dalla «compresenza di una parte ‘narrativa’ – quella relativa al viaggio vero e proprio – e una parte ‘informativa’, di carattere geografico ed etnografico, nella quale venivano fornite informazioni sui paesi attraversati e sugli usi e i costumi dei popoli che li abitavano»5. Tale compresenza si tramuta spesso in indissolubilità e reciproca implicazione: la veridicità dei contenuti trova garanzia nell’autenticità del vissuto, che a sua volta diviene degno di memoria solo in virtù dell’eccezionalità dell’esperito6. Non fu facile per i viaggiatori medievali elaborare una forma testuale che fosse capace di combinare rigore testimoniale e ricchezza informativa, assecondando al tempo stesso la predilezione del lettore medievale per il meraviglioso7. Prova ne è non soltanto la struttura ibrida e spesso disorganizzata esibita dai loro racconti, ma anche la complessità dei processi che ne determinarono la genesi e ne caratterizzarono la trasmissione fin dalle fasi più antiche8. L’epistola fu il primo strumento che i missionari impiegarono per informare l’Europa delle cose viste e udite durante la loro permanenza in Oriente, ma questo tipo di testo si rivelò fin da subito poco idoneo a raggiungere una platea di lettori più ampia di quella dei destinatari originari. I primi scritti a veicolare notizie sull’Asia mongola furono le lettere del domenicano Giuliano d’Ungheria, che nel corso di due viaggi esplorativi negli Urali meridionali e in Russia (1234-1235, 1237) aveva raccolto impressionanti informa5 P. Chiesa, «Un taccuino di viaggio duecentesco: la genesi dell’‘Itinerarium’ di Guglielmo di Rubruk», Itineraria, 10 (2011), pp. 3-22, qui p. 4. 6 A. Andreose, «‘Ego frater Odoricus de Foro Julii de Ordine fratrum Minorum’: forme dell’autodiegesi nell’Itinerarium di Odorico da Pordenone», Quaderni di Storia Religiosa, XIII (2006), pp. 217-235, poi riedito – con il titolo «Forme e funzioni dell’autodiegesi nella Relatio» ‒ in Id., La strada, la Cina, il cielo. Studi sulla Relatio di Odorico da Pordenone e sulla sua fortuna romanza, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012 («Medioevo Romanzo e Orientale», 17), pp. 67-88 (da cui si cita), qui pp. 68-69. 7 Sull’argomento si veda il recente saggio di M. Di Febo, «Mirabilia» e «merveille». Le trasformazioni del meraviglioso nei secoli XII-XV, Eum, Macerata 2015. 8 Un’efficace panoramica generale sulla trasmissione dei resoconti di viaggio medievali è fornita da F.E. Reichert, Incontri con la Cina, cit., pp. 149-213.

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zioni sull’imminente invasione tartara9. La lettera fu impiegata anche nei decenni successivi, soprattutto dai francescani in missione in Cina (Giovanni da Montecorvino, Pellegrino da Città di Castello, Andrea da Perugia), ma la sua natura essenzialmente pratica ne limitò la circolazione10. La scelta di una narrazione di più ampio respiro si intravede dietro il resoconto – noto con il titolo di Historia Tartarorum – del domenicano Simone di Saint-Quentin, che nel 1247 accompagnò il confratello Ascelino in una missione diplomatica presso il generale mongolo Baiǰu, nel Caucaso meridionale. Della sua struttura originaria, tuttavia, possiamo farci solo un’idea parziale, perché esso ci è stato trasmesso in forma frammentaria da Vincenzo di Beauvais, che ne incluse vari estratti negli ultimi tre libri del suo Speculum Historiale 11. La prima opera dotata di un’intrinseca organicità e di una speci9 D. Sinor, «Un voyageur du treizième siècle: le dominicain Julien de Hongrie», Bulletin of the School of Oriental and African Studies. University of London, 14 (1952), pp. 589-602; G. Dörrie, «Drei Texte zur Geschichte der Ungarn und Mongolen. Die Missionreisen des fr. Iulianus O.P. ins Ural-Gebiet (1234/5) und nach Rußland (1237) und der Bericht des Erzbischofs Peter über die Tartaren», Nachrichten der Akademie der Wissenschaften in Göttingen, philologisch-historische Klasse, 1 (1956), pp. 125-202. 10 Sinica Franciscana, collegit, ad fidem codicum redegit et adnotavit p. A. van den Wyngaert O.F.M., vol. I, Itinera et relationes fratrum Minorum saeculi XIII et XIV, apud Collegium S. Bonaventurae, ad Claras Aquas (Quaracchi - Firenze) 1929, pp. 340-377. Vd. anche C. Gadrat, «Des nouvelles d’Orient: les lettres des missionnaires et leur diffusion en Occident (XIIIe-XIVe siècles)», in Passages. Déplacement des hommes, circulation des textes et identités dans l’Occident Médiéval, Actes du colloque de Bordeaux (2-3 février 2007), éd. sous la direction de J. Ducos et P. Henriet, Méridiennes, Toulouse 2013, pp. 159-172. L’unico testo di questo piccolo corpus che sembra aver goduto di una certa circolazione è la lettera inviata dal Montecorvino dall’India verso il 1292, che ci è giunta in una traduzione toscana di poco posteriore ed è citata da Pietro d’Abano nel Conciliator differentiarum quæ inter philosophos et medicos versantur (1310); cfr. F. Bottin, «Pietro d’Abano, Marco Polo e Giovanni da Montecorvino», Medicina nei secoli. Arte e scienza, XX/2 (2008), pp. 507-526; C. Gadrat-Ouerfelli, «‘Della chondissione dell’India’: notes sur la première lettre de Jean de Montecorvino», in Orbis Disciplinae. Hommages en l’honneur de Patrick Gautier Dalché, textes réunis par N. Bouloux, A. Dan et G. Tolias, Brepols, Turnhout 2017, pp. 527-536. 11 Simon de Saint-Quentin, Histoire des Tartares, publiée par J. Richard, Librairie orientaliste Paul Geuthner, Paris 1965. Sulla missione di Ascelino e Simone si veda G.G. Guzman, «Simon of Saint-Quentin and the Dominican mission to the Mongol Baiju: a reappraisal», Speculum, 46 (1971), pp. 232-249.

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fica finalità testuale che scaturì dal contesto della Pax Mongolica è la Historia Mongalorum del francescano Giovanni da Pian di Carpine (1190 ca.-1252)12. Per quanto concerne la dialettica tra ambizione informativa e necessità narrativa essa si rivela per molti versi già paradigmatica. L’Historia è il portato di un’ardua esperienza di viaggio attraverso l’Europa orientale e l’Asia centrale, che culminò nell’incontro con Güyük, da poco eletto qan («signore») dei Mongoli, presso Qaraqorum nell’estate del 124613. L’impresa era dettata in primo luogo da motivazioni diplomatiche: Giovanni e il suo compagno, Benedetto Polono, viaggiavano su mandato di papa Innocenzo IV e avevano il compito primario di consegnare all’imperatore la lettera Cum non solum homines, datata Lione 13 marzo 134514, con cui il sommo pontefice lo invitava a cessare le persecuzioni contro la cristianità e gli proponeva di concludere un trattato di pace. Ma non meno importanti erano le ragioni esplorative: si trattava di raccogliere informazioni su quel temibile e, fino ad allora, pressoché ignoto popolo guerriero che aveva seminato morte e distruzione in Russia, Ucraina, Polonia, Ungheria e nei Balcani negli anni 1236-1242, infliggendo pesantissime sconfitte agli eserciti feudali europei. Uno 12 Giovanni di Pian di Carpine, Storia dei Mongoli, edizione critica del testo latino a cura di E. Menestò, trad. it. a cura di M.C. Lungarotti, note di P. Daffinà, intr. di L. Petech, studi storico-filologici di C. Leonardi, M.C. Lungarotti, E. Menestò, Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1989. Il testo latino dell’Historia mongalorum si legge alle pp. 227-333. 13 E. Menestò, «Giovanni di Pian di Carpine: da compagno di Francesco a diplomatico presso i Tartari», ibid., pp. 49-67. Si veda anche L. Petech, «I francescani nell’Asia centrale e orientale nel XIII e XIV secolo», in Espansione del francescanesimo tra Occidente e Oriente nel secolo XIII, Atti del VI Convegno internazionale (Assisi, 12-14 ottobre 1978), s.e., Assisi 1979, pp. 213-240, in part. pp. 219-222; J. Richard, La papauté et les missions d’Orient au Moyen Âge (XIII e-XV e siècles), École Française de Rome, Rome 1977, pp. 70-78; C. Schmitt, «L’epopea francescana nell’impero mongolo nei secoli XII-XIV», in Venezia e l’Oriente, a cura di L. Lanciotti, L.S. Olschki, Firenze 1987, pp. 379-408, in part. pp. 379-390; F. Sorelli, «Per regioni diverse: fra Giovanni da Pian di Carpine», in I compagni di Francesco e la prima generazione minoritica. Atti del XIX Convegno internazionale (Assisi, 1719 ottobre 1991), Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1992, pp. 259-283; R. Michetti, «Giovanni da Pian del Carpine», in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LVI, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 2001, pp. 154-157. 14 K.E. Lupprian, Die Beziehungen der Päpste zu islamischen und mongolischen Herrschern im 13. Jahrhundert anhand ihres Briefwechsels, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1981, pp. 146-149.

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degli obiettivi fondamentali dei delegati papali – come si dichiara nel prologo dell’Historia – era quello di «analizzare tutti i fatti diligentemente»15 e di «essere in qualche modo d’aiuto ai cristiani o almeno, una volta conosciuta realmente l’intenzione e la volontà dei Tartari, poterla loro palesare, affinché in caso di un improvviso attacco non si trovassero impreparati e subissero una grande strage, come invece è accaduto in un’altra circostanza»16. Date queste premesse, non stupisce che l’opera che Giovanni compose al suo ritorno nel 1247 si presenti per due terzi come un trattato storico-etnografico, i cui singoli capitoli perseguono lo scopo di fornire un’illustrazione dettagliata di specifici elementi della civiltà mongola. La parte informativa dell’Historia si articola in due macrosezioni17. Nella prima si descrivono i caratteri dei Mongoli sotto vari aspetti: il territorio in cui risiedono (cap. I); le fattezze, l’abbigliamento e le pratiche matrimoniali (cap. II); la religione (cap. III); le abitudini, l’alimentazione e i costumi (cap. IV). Segue poi un’ampia parte di argomento storico-militare, che, dopo un circostanziato excursus sulla costruzione dell’impero da parte di Činggis Qan (Genghis/Gengis Khan) e sulla sua organizzazione (cap. V), esamina nel dettaglio le pratiche di guerra dei Mongoli (cap. VI) e le modalità con cui essi governano i territori sottomessi (cap. VII), e si conclude (cap. VIII) con alcuni consigli su come affrontarli in battaglia nel caso – ritenuto inevitabile – di una nuova campagna contro la cristianità occidentale. Nella parte finale dell’Historia, tuttavia, i contenuti didascalico-informativi lasciano il posto a un lungo capitolo di taglio autobiografico e di impianto propriamente odeporico, in cui l’autore descrive in modo succinto ma puntuale le esperienze vissute durante i viaggi di andata e di ritorno. Il tentativo di coniugare lo schema del trattato (capp. I-VIII) con quello dell’itinerarium (cap. IX), che conferisce all’opera un’indubbia struttura ibrida, parrebbe essere il riflesso di un processo elaborativo che si articolò in almeno due fasi distinte18. Le righe finali del Giovanni di Pian di Carpine, Storia dei Mongoli, cit., p. 338 (Prologo 3). Ibid., pp. 337-338 (Prologo 2). 17 C. Leonardi, «La via dell’Oriente nell’‘Historia Mongalorum’», in Giovanni di Pian di Carpine, Storia dei Mongoli, cit., pp. 69-78, qui pp. 75-77. 18 M.C. Lungarotti, «Le due redazioni dell’‘Historia Mongalorum’», in Giovanni di Pian di Carpine, Storia dei Mongoli, cit., pp. 79-92. 15 16

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capitolo IX ci offrono utili informazioni a tale proposito. Giovanni afferma che la circolazione dell’opera cominciò prima che la versione finale fosse licenziata: «poiché i popoli di quei territori per i quali siamo passati – Polonia, Boemia, Germania, Liegi e Champagne – apprezzavano il nostro racconto, lo trascrissero prima che fosse terminato e riordinato, dato che allora non avevamo ancora avuto un po’ di tranquillità per completarlo definitivamente»19. Specifica inoltre che, nella redazione finale, conclusa e rivista dopo l’arrivo presso la corte papale a Lione, «il racconto è più ricco e più corretto che nella precedente: infatti, dopo esserci presi un po’ di riposo, l’abbiamo corretto e rifinito, perfezionandolo rispetto al precedente, rimasto incompleto»20. Tale duplice processo redazionale è rispecchiato dalla tradizione manoscritta dell’Historia Mongalorum 21. Dei dodici manoscritti che ne costituiscono il testimoniale, otto tramandano un testo più breve, caratterizzato da numerose inesattezze. Tre testimoni recano una versione più lunga e corretta. Un manoscritto risulta, infine, dalla contaminazione delle due redazioni. Oltre a una serie di modifiche, di emendamenti e di addizioni più o meno cospicue volte a migliorare il testo precedente, l’elemento che maggiormente differenzia la seconda stesura dalla prima è rappresentato dall’inserimento della parte finale del prologo, in cui si rivendica la veridicità delle notizie contenute nell’opera, e del nono capitolo, che, come si è detto, fornisce un ampio resoconto dell’itinerario seguito dai due francescani attraverso i domini mongoli in Europa e in Asia. Mentre, dunque, i capitoli IVIII, seppure imperfetti, avevano sostanzialmente assunto la forma che poi avrebbe caratterizzato la stesura finale già nelle fasi conclusive del percorso di ritorno, e comunque prima dell’arrivo di Giovanni in Polonia, la sezione autobiografica venne elaborata ex novo dopo il suo rientro definitivo in Francia. Tali modifiche sembrano rispondere principalmente all’esigenza di corroborare la credibilità del testo, fornendo al lettore elementi contestualizzanti tesi a garantire l’autenticità dell’esperienza che ne è all’origine. Ma, vogliamo credere, anche la coscienza dell’eccezionalità dell’impresa Giovanni di Pian di Carpine, Storia dei Mongoli, cit., p. 400 (IX 52). Ibid. 21 E. Menestò, «Prolegomena», ibid., pp. 93-223, qui pp. 105-111. 19 20

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compiuta deve aver giocato un ruolo nel ripensamento della struttura dell’opera da parte dell’autore: degno di memoria gli appariva non solo lo straordinario popolo dei Mongoli, ma anche il viaggio difficile e rischioso compiuto per raggiungere il cuore del loro immenso impero22. Tale consapevolezza emerge in modo molto chiaro nel secondo grande testo nato dall’incontro di un occidentale con la civiltà mongola, il resoconto che il francescano Guglielmo di Rubrouck redasse nel 1255 al ritorno dal viaggio in Mongolia che lo aveva condotto a trascorrere vari mesi (dicembre 1253-luglio 1254) alla corte del qan Möngke, presso Qaraqorum23. Benché vari indizi suggeriscano che l’Historia Mongalorum dovesse essere ben nota al minorita fiammingo, la sua opera appare profondamente diversa, sotto il profilo strutturale e diegetico, da quella del confratello che lo aveva preceduto sulla via dell’Oriente tartaro. Il testo si presenta fin dal titolo – Itinerarium – come la cronaca di un’esperienza personale, piuttosto che come un trattato storico-etnografico. Tale impressione è confermata dalla suddivisione della materia, in cui predominano chiaramente le parti narrative su quelle descrittive e informative24, che – salvo che in un caso di cui si dirà – non beneficiano di sezioni autonome come nell’opera di Giovanni, ma sono inserite all’interno di un racconto autobiografico e autodiegetico che rispecchia il dipanarsi dell’itinerario dal punto di vista sia spaziale, sia temporale. Per tale ragione, la relazione di Guglielmo – forse unica tra le scritture odeporiche prodotte nel contesto della Pax Mongolica – merita a pieno titolo l’etichetta specifica di «resoconto di viaggio», anziché quella più generica di «discorso del/sul viaggio», con cui a volte si designa la variegata e multiforme galassia di documenti prodotti da missionari e mercanti che visitarono l’India e l’Estremo Un breve resoconto del viaggio fu realizzato anche da Benedetto Polono, che, di passaggio per Colonia, narrò le sue memorie a un ecclesiastico del luogo; cfr. Sinica Franciscana, cit., pp. 135-143. 23 Guglielmo di Rubruk, Viaggio in Mongolia (Itinerarium), a cura di P. Chiesa, Fondazione Lorenzo Valla - A. Mondadori, Milano 2011. Cfr. anche The Mission of Friar William of Rubruck. His Journey to the Court of the Great Khan Möngke 12531255, transl. by P. Jackson, intr., notes and appendices by P. Jackson with D. Morgan, The Hakluyt Society, London 1990. 24 P. Chiesa, «Un taccuino di viaggio duecentesco: la genesi dell’‘Itinerarium’ di Guglielmo di Rubruk», Itineraria, 10 (2011), pp. 3-22. 22

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Oriente tra i secoli XIII e XIV25. Come ha opportunamente suggerito Paolo Chiesa, questa peculiarità dell’Itinerarium, che lo distingue non solo dall’Historia ma anche dalla maggior parte dei sinica posteriori, va messa in relazione con le modalità di stesura del testo originario, che verosimilmente nacque «da una sistemazione degli appunti presi nel corso del viaggio, un vero e proprio taccuino che veniva aggiornato tappa per tappa e giorno per giorno»26. Il grande fascino che l’opera esercita sui lettori di oggi risiede proprio nella sua capacità di riportare, insieme ai mirabilia veduti e uditi durante il viaggio in Asia, le vicende quotidiane dell’io narrante e dei suoi compagni di viaggio – e, a volte, la loro stanchezza, i loro timori e le loro frustrazioni – con un tenore cronachistico e con un’attenzione per i dettagli del tutto inusuali nella letteratura odeporica del tempo. Data la scarsa diffusione manoscritta dell’Itinerarium, si può pensare che sia stato proprio questo tratto di modernità a risultare poco gradito alla sensibilità del pubblico coevo, avvezzo alle narrazioni di ascendenza greco-latina che avevano trasmesso alla tradizione medievale l’immagine favolosa e non di rado mostruosa di un Oriente tanto remoto quanto immaginario27. La necessità di bilanciare il peso della componente autodiegetica nell’economia complessiva del racconto dovette essere presente all’autore quando, al suo ritorno, si mise a sistemare le annotazioni personali per trasformarle in un testo compiuto, adatto a essere divulgato. La situazione in cui si trovò fu per certi versi complementare a quella di Pian di Carpine28. Se quest’ultimo aveva ritenuto opportuno introdurre nella versione definitiva dell’Historia un lungo capitolo di taglio narrativo relativo al viaggio, Guglielmo tentò di rafforzare la parte informativa della sua opera inserendo nella sezione iniziale una serie di capitoli (II-VIII) dedicati alle usanze dei A. Barbieri, «Marco, Rustichello, il ‘patto’, il libro: genesi e statuto testuale del Milione», in Id., Dal viaggio al libro. Studi sul Milione, Fiorini, Verona 2004 («Medioevi», Studi, 6), pp. 129-154, qui p. 129; A. Andreose, «Forme e funzioni dell’autodiegesi», cit., p. 68. L’espressione è mutuata dal saggio di F. Wolfzettel, Le discours du voyageur. Pour une histoire littéraire du récit de voyage en France du Moyen Âge au XVIII e siècle, Puf, Paris 1996. 26 P. Chiesa, «Introduzione», in Guglielmo di Rubruk, Viaggio in Mongolia, cit., pp. IX-LVI, qui p. XLII. 27 P. Chiesa, «Un taccuino di viaggio duecentesco», cit., pp. 20-21. 28 Ibid., pp. 4-5. 25

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Mongoli29. Vari riscontri testuali lasciano supporre che tale operazione sia stata ispirata dalla lettura della relazione del confratello umbro e che sia avvenuta non nella fase più antica di stesura dell’opera, ma in uno stadio elaborativo posteriore30. Anche nel caso dell’Itinerarium, infatti, è molto probabile che si siano succedute diverse fasi redazionali, benché nessun passaggio del testo lo documenti esplicitamente. Stando alle risultanze della tradizione manoscritta31, possiamo ritenere che Rubrouck compose una prima versione del racconto assemblando e rivedendo i suoi appunti di viaggio nella tarda estate del 1255, una volta giunto in Terra Santa, dove auspicava di ritrovare Luigi IX, re di Francia, che probabilmente era stato uno degli ispiratori della missione, se non proprio il mandante32, e che figura come destinatario dello scritto33. Dal testo si evince che Guglielmo inviò una copia del resoconto al sovrano – che durante la sua assenza era ritornato in Europa – tramite Gosset, il chierico che lo aveva accompagnato nella prima fase del suo viaggio in Mongolia34. Il fatto che diverse varianti – in genere brevi frasi di senso compiuto e di evidente autenticità – siano trasmesse alternativamente soltanto da uno dei due rami di cui si compone lo stemma, e che a volte si trovino inserite nei codici in punti diversi del testo, lascia supporre che Guglielmo, in una fase successiva, abbia introdotto delle annotazioni supplementari in margine a un esemplare manoscritto della prima stesura. Queste aggiunte dovevano figurare anche nella copia appartenuta a Ruggero Bacone35, che ne ricavò informazioni per alcune sezioni del suo Opus maius (1267) e Guglielmo di Rubruk, Viaggio in Mongolia, cit., pp. 18-47. P. Chiesa, «Testo e tradizione dell’‘Itinerarium’ di Guglielmo di Rubruck», Filologia mediolatina, 15 (2008), pp. 133-216, qui pp. 189-191. Cfr. anche Id., «Un taccuino di viaggio duecentesco», cit., p. 5. 31 P. Chiesa, «Testo e tradizione dell’‘Itinerarium’ di Guglielmo di Rubruck», cit., pp. 175-194; Id., «Nota al testo», in Guglielmo di Rubruk, Viaggio in Mongolia, cit., pp. LVII-LXX, qui pp. LVII-LIX. 32 Sulle finalità del viaggio di Guglielmo e sui rapporti con il re di Francia si veda P. Chiesa, «Un taccuino di viaggio duecentesco», cit., pp. 6-7 e nota 10; Id., «Introduzione», cit., pp. XXXI, XXXV-XXXVI. 33 Guglielmo di Rubruk, Viaggio in Mongolia, cit., pp. 6-7 (Prol. I 1). 34 Ibid., pp. 14-15 (I 10). 35 P. Chiesa, «Testo e tradizione dell’‘Itinerarium’ di Guglielmo di Rubruck», cit., p. 189. 29 30

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che, con ogni verosimiglianza, ebbe un ruolo decisivo nella diffusione manoscritta dell’Itinerarium a partire dal terzultimo o penultimo decennio del secolo XIII36. Se si considera, inoltre, che le supposte varianti marginali si concentrano soprattutto nella sezione etnografica iniziale37, l’ipotesi che tale parte sia stata inserita solo in una «fase di sistemazione (e forse sul modello dell’Historia Mongalorum di Giovanni)» ne esce rafforzata38. Dopo che i Mongoli ebbero terminato la conquista del Sud della Cina – il cosiddetto Manzi – ed ebbero spostato la capitale del loro immenso impero a Pechino (1274) – l’antica Cambalech/Canbalu(c) (turc. Ḫān-balïq, Khān-balïq «Città del Signore») ‒, i contatti tra Occidente ed Estremo Oriente si infittirono. Seguendo l’esempio di Giovanni e Guglielmo, altri missionari francescani raggiunsero il nuovo centro della potenza tartara. Anche gli scambi commerciali ne trassero beneficio. In tale contesto politico ed economico si svolse l’esperienza della famiglia Polo. Niccolò e Matteo, padre e zio di Marco, avevano intrapreso un primo viaggio verso il 1260. Dalla Crimea si erano diretti verso il bacino del Volga, allora parte dello Stato mongolo dell’Orda d’Oro, proseguendo poi per l’Asia centrale. Dopo aver raggiunto la corte del Gran Can Qubilai, erano ritornati in Italia nel 1269. Nel secondo e più importante viaggio furono accompagnati anche dal giovane Marco, allora diciassettenne. I tre si mossero dalla Terra Santa nell’autunno del 1271, attraversarono la Persia e l’Afghanistan, e, seguendo un ramo della Via della seta, giunsero nel 1274 o, più probabilmente, nel 1275 a Shangdu («capitale superiore», nell’attuale Mongolia Interna), residenza estiva di Qubilai, che li accolse con grandi onori e manifestazioni di gioia. Durante i sedici o diciassette anni che trascorse nell’Impero mongolo, Marco Polo ricoprì ruoli di responsabilità, che gli permisero di visitare diverse regioni della Cina. I ricordi dei viaggi di andata e di Ibid., pp. 191-193. Ibid., pp. 177-182. 38 P. Chiesa, «Un taccuino di viaggio duecentesco», cit., p. 5. Cfr. anche Id., «Testo e tradizione dell’‘Itinerarium’ di Guglielmo di Rubruck», cit., p. 191: «È possibile dunque che la rilettura di questo modello o il confronto con esso, effettuati in modo autonomo o su sollecitazione di altri, abbia portato Guglielmo a integrare il proprio resoconto originario aggiungendo dei particolari prima trascurati». 36 37

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ritorno e le informazioni raccolte durante il suo soggiorno in Oriente confluirono in quello che è senza dubbio il più importante resoconto odeporico di ogni tempo: il Devisement dou monde 39. L’opera – come si riferisce nelle prime righe – fu composta nel 1298 dal mercante veneziano in collaborazione con Rustichello da Pisa, già autore di un fortunato romanzo francese di argomento arturiano, mentre i due si trovavano prigionieri nelle carceri di Genova. A prima vista, il Devisement presenta una struttura simile a quella dell’opera di Pian di Carpine40. Anche nel libro poliano la porzione narrativa, ossia il racconto del viaggio di andata e ritorno, è relegata nella sezione iniziale dell’opera (capitoli I-XVIII)41, che funge da introduzione alla parte propriamente informativo-descrittiva del testo. Se si considera che questo segmento proemiale copre soltanto 18 dei 232 capitoli totali42, se ne può concludere che nel libro di Marco la percentuale di testo dedicata all’itinerario è molto minore che nell’Historia Mongalorum. La natura dell’opera poliana, in realtà, si rivela più composita di quella dei resoconti che l’avevano preceduta. In essa convergono e si intrecciano – non sempre in modo coerente e armonico – diverse tipologie testuali: la descrizione geografica, l’itinerarium, il trattato storico ed etnografico, la raccolta di esempi e di novelle, il romanzo cavalleresco, la compilazione paradossografica, il «libro di meraviglie», il manuale di mercatura. La sua intrinseca complessità si rispecchia nella molteplicità dei titoli con cui fu desi39 Sulla vicenda del viaggiatore e sulla storia della sua opera la bibliografia è sterminata. Un’ottima visione d’insieme è offerta da Ph. Ménard, Marco Polo à la découverte de l’Asie, Éditions Glénat, Paris 2009, e da G. Busi, Marco Polo: viaggio ai confini del Medioevo, Mondadori, Milano 2018. 40 A. Andreose, «Forme e funzioni dell’autodiegesi», cit., pp. 69-71. 41 Il manoscritto della Bibliothèque nationale de France fr. 1116, I. Testo, a cura di M. Eusebi, Antenore, Roma-Padova 2010; nuova edizione (da cui si cita): Marco Polo, Le Devisement dou monde, 1. Testo, a cura di M. Eusebi, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2018, pp. 36-47. Altre edizioni del testo franco-italiano erano state curate in precedenza da Luigi Foscolo Benedetto e Gabriella Ronchi: Marco Polo, Il Milione, prima edizione integrale a cura di L.F. Benedetto, Olschki, Firenze 1928; Marco Polo, Milione. Le divisament dou monde: Il Milione nelle redazioni toscana e francoitaliana, a cura di G. Ronchi, introduzione di C. Segre, Mondadori, Milano 1982 («I Meridiani»). 42 Il computo si basa sull’edizione del testo franco-italiano di Eusebi. Nell’edizione di Benedetto i capitoli sono 234, in quella della Ronchi 233 (si veda la nota precedente).

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gnata fin dalle fasi più antiche della sua trasmissione: «Libro di Marco Polo», «Libro delle meraviglie del mondo», «Libro del Gran Can» e altri ancora. La titolatura più frequente nella tradizione italiana – Il Milione – deriva probabilmente da un soprannome della famiglia Polo43. È necessario rilevare, tuttavia, che il titolo originale era, con ogni probabilità, quello che si conserva nella versione franco-italiana trasmessa dal manoscritto BnF fr. 1116: Le devisement dou monde, ossia «La descrizione del mondo»44. Come si dice espressamente nel prologo, il libro non vuole raccontare i viaggi di Marco Polo, ma intende descrivere «les deverses jenerasions des homes et les deversités des deverses region dou monde» e «les grandismes mervoilles et les grant diversités de la Grande Harminie et de Persie et des Tartars et Indie et des maintes autres provinces»45. Come ha sintetizzato efficacemente Arthur Christopher Moule, il Devisement «is a serious and invaluable description country by country and town by town of a large part of medieval Asia, relieved by a few well told stories – but they are not stories of Marco Polo’s travels»46. Più di un interprete ha suggerito che l’aspetto eclettico e multiforme del libro possa essere il riflesso delle differenti sensibilità e dei diversi scopi di Marco e Rustichello47. Il pisano, forse prendendo a 43 Sul titolo di Milione, con cui l’opera è designata spesso anche dagli studiosi moderni, si veda L.F. Benedetto, «Perché fu chiamato Milione il libro di Marco Polo», Il Marzocco, a. XXV, 14 settembre 1930; Id., «Ancora del nome Milione», Il Marzocco, a. XXV, 16 novembre 1930. 44 A. Andreose, «Il Devisement dou monde e il progetto editoriale di Rustichello da Pisa», in L’autorialità plurima. Scritture collettive, testi a più mani, opere a firma multipla. Atti del XLII Convegno Interuniversitario (Bressanone, 10-13 luglio 2014), a cura di A. Barbieri ed E. Gregori, Esedra, Padova 2015 («Quaderni del Circolo Filologico Linguistico Padovano», 30), pp. 443-460, qui pp. 458-460. 45 Marco Polo, Le Devisement dou monde, ed. cit., p. 35 (Prologo 1). 46 Marco Polo, The Description of the World, [by] A.C. Moule and P. Pelliot, 2 voll., George Routledge & Sons, London 1938, vol. I, p. 40. 47 V. Bertolucci Pizzorusso, «Enunciazione e produzione del testo nel Milione», Studi mediolatini e volgari, XXV (1977), pp. 5-43, poi in Ead., Scritture di viaggio. Relazioni di viaggiatori e altre testimonianze letterarie e documentarie, Aracne, Roma 2011, pp. 27-67; Ead., «Lingue e stili nel Milione», in L’epopea delle scoperte, a cura di R. Zorzi, Olschki, Firenze 1994, pp. 61-73, poi in Ead., Scritture di viaggio, cit., pp. 83-95; D. Rieger, «Marco Polo und Rustichello da Pisa. Der Reisende und sein Erzähler», in Reisen und Reiseliteratur im Mittelalter und in der Frühen Neuzeit, hrsgg. von X. von Ertzdorff und D. Neukirch, Rodopi, Amsterdam-Atlanta 1992, pp. 289-312; A. Barbieri, «Marco, Rustichello, il ‘patto’, il libro», cit., pp. 133-140; C. Segre, «Chi

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modello il Tresor di Brunetto Latini48, avrebbe cercato di trasformare in un’opera di taglio didattico-enciclopedico un testo che in origine era stato concepito dal veneziano come una serie più o meno ordinata di note di carattere geografico, economico ed etnografico, sull’esempio delle pratiche di mercatura49. Sebbene, nel passato, autorevoli studiosi abbiano respinto l’ipotesi che anche il Devisement sia stato oggetto di un processo di revisione autoriale50, l’opinione oggi prevalente è che la serie di corpose informazioni supplementari che si conservano in un ramo minoritario della tradizione – in particolare nella traduzione latina trasmessa dal manoscritto Zelada 49.20 dell’Archivio Capitolare di Toledo e nella versione italiana pubblicata da Giovanni Battista Ramusio nel 155951 – sia stata probabilmente aggiunta da Marco dopo il suo ritorno a Venezia52. Tale dato parrebha scritto il Milione di Marco Polo?», in I viaggi del Milione. Itinerari testuali, vettori di trasmissione e metamorfosi del Devisement du monde di Marco Polo e Rustichello da Pisa nella pluralità delle attestazioni. Atti del Convegno internazionale (Venezia, ottobre 2005), a cura di S. Conte, Tiellemedia Editore, Roma 2008, pp. 5-16. 48 V. Bertolucci Pizzorusso, «Enunciazione e produzione», cit., p. 32 nota 11. A. Andreose, «Il Devisement dou monde», cit., pp. 458-460. 49 È la nota tesi di F. Borlandi, «Alle origini del libro di Marco Polo», in Studi in onore di Amintore Fanfani, vol. I, Antichità e Alto medioevo, Giuffrè, Milano 1962, pp. 105-147. 50 A. Andreose, «The textual transmission of the Devisement dou monde: old problems and new insights», in Marco Polo Research: Past, Present, Future (Tübingen, 10-11 October 2017), ed. by H.U. Vogel and U. Theobald, Tübingen, in corso di stampa. 51 L.F. Benedetto, «Introduzione. La tradizione manoscritta», in Marco Polo, Il Milione, ed. cit., pp. IX-CCXXI, qui pp. CLVIII-CLXXIII. Si veda anche la panoramica di C. Gadrat-Ouerfelli, Lire Marco Polo au Moyen Âge, cit., pp. 95-102. 52 G. Mascherpa, «San Tommaso in India. L’apporto della tradizione indiretta alla costituzione dello stemma del Milione», in Prassi ecdotiche. Esperienze editoriali su testi manoscritti e testi a stampa (Milano, 7 giugno e 31 ottobre 2007), a cura di A. Cadioli e P. Chiesa, Cisalpino, Milano 2008, pp. 171-184; A. Andreose, «‘...io essendo giovanetto n’ho udito molte fiate dire…’. Alcune riflessioni sulle fonti dei Viaggi di messer Marco Polo di Giovanni Battista Ramusio», Quaderni Veneti, n.s., 6/2 (2017), pp. 31-44; G. Mascherpa, «Sulla fonte Z del Milione di Ramusio. L’enigma di Quinsai», ibid., pp. 45-64; S. Simion, «Tradizioni attive e ipertesti. Ramusio ‘editore’ del Milione», ibid., pp. 9-30; G. Mascherpa, «Una Venezia d’Oriente. Gli splendori di Quinsai nella tradizione del Devisement dou monde», in Predicatori, mercanti, pellegrini. L’Occidente medievale e lo sguardo letterario sull’Altro tra l’Europa e il Levante. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Sassari, 11-12 maggio 2016), a cura di G. Strinna e G. Mascherpa, Universitas Studiorum, Mantova 2018, pp. 63-88.

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be confermare l’idea che la prima stesura dell’opera avesse comportato uno sfrondamento di parte del materiale originario, che poi sarebbe stato recuperato dal viaggiatore in un secondo momento. Benché appaia del tutto probabile che la bi-autorialità abbia avuto degli effetti sull’assetto finale del testo, va comunque rilevato che sono rari i casi in cui è possibile distinguere con una certa sicurezza i diversi apporti dei due coautori alla costruzione dell’opera. È lecito presumere che l’organizzazione dei contenuti dei capitoli di impronta più marcatamente descrittiva (XIX-CCXXXII) secondo la successione delle tappe dell’itinerario rifletta la struttura originaria di quegli appunti che, con ogni verosimiglianza, Marco aveva preso lungo la strada e durante la sua permanenza in Oriente53. È innegabile, infatti, che l’articolazione del Devisement in tre macrosezioni54 – dedicate rispettivamente ad Armenia, Persia e Mongolia (capp. XIX-LXXIV), al Gran Can e alla Cina (capp. LXXVCLVII), e al Sud-est asiatico e all’India (capp. CLVII-CXCVII), con l’aggiunta di un’appendice sulle regioni settentrionali e sui Tartari del Ponente (capp. CXCVIII-CCXXXII) – rispecchi la scansione cronologica e spaziale dell’esperienza poliana in Asia: il viaggio di Marco, Matteo e Niccolò dalla Terra Santa alla Cina; la lunga permanenza nel Catai e le missioni compiute per volontà dell’imperatore; il viaggio di ritorno dei Polo, incaricati di accompagnare la principessa mongola Kökäčin al promesso sposo Arγun, signore (Īlkhān) della Persia. Non ci è dato sapere, invece, se la decisione di concentrare la componente propriamente narrativa nei primi diciotto capitoli sia da ascrivere a Marco o, come sembra più probabile, a Rustichello. La possibilità che essa sia stata ispirata dall’Historia di Giovanni da Pian di Carpine rappresenta un’ipotesi stimolante, ma non fondata su solide evidenze testuali. L.F. Benedetto, «Introduzione. La tradizione manoscritta», cit., pp. XXVI e XXX. Sulla questione si veda anche A. Andreose, «La stesura del Devisement dou monde: inferenze dall’esame dei toponimi orientali», Studi Mediolatini e Volgari, 61 (2015), pp. 5-23; Id., «Su un termine poliano di origine veneziana: peitere (Devisement dou monde, LXXXV, 11)», Quaderni Veneti, n.s., 6/1 (2017), pp. 27-42, Id. «Il greco di Marco Polo», in «La somma de le cose». Studi in onore di Gianfelice Peron, a cura di A. Andreose, G. Borriero, T. Zanon, con la collaborazione di A. Barbieri, Esedra, Padova 2018, pp. 127-136. 54 V. Bertolucci Pizzorusso, «Enunciazione e produzione», cit., pp. 60-61; A. Andreose, «Il Devisement dou monde», cit., p. 450. 53

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Un sicuro legame con la produzione odeporica precedente è invece riconoscibile nell’ultimo, grande, resoconto sull’Asia mongola, la Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, che il francescano Odorico da Pordenone compose al termine del viaggio in India e in Cina55. Partito per l’Oriente verso il 1318, percorse l’Armenia e l’Iran. Dopo essersi imbarcato a Hormuz, raggiunse il Catai via mare, seguendo la rotta marittima che collegava il Golfo Persico alle coste indiane e, finalmente, al porto di Quanzhou (l’antica Zayton), nella Cina meridionale. Trascorsi tre anni alla corte del Gran Can a Taydo (Dadu, nome cinese di Cambalech), intraprese la via del ritorno, forse viaggiando attraverso l’Asia centrale. Nel maggio del 1330 si trovava presso il convento di Sant’Antonio a Padova, dove dettò al confratello Guglielmo da Solagna il racconto della sua esperienza56. In realtà, dall’analisi della tradizione manoscritta emerge che l’elaborazione del testo fu molto complessa e comportò varie fasi redazionali57. Dopo la morte di Odorico (14 gennaio 1331), la relazione fu portata alla curia papale di Avignone da fra Marchesino da Bassano, che aggiunse nella parte finale del testo due episodi appresi dalla viva voce del viaggiatore friulano che erano stati omessi nella stesura primitiva58. Uno di questi brani – in una versione probabilmente autonoma da quella attestata nella compilazione di Marchesino – venne incluso in uno stadio seriore 55 Odorico da Pordenone, Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, a cura di A. Marchisio, Sismel-Ed. del Galluzzo, Firenze 2016 («Edizione nazionale dei testi mediolatini d’Italia», 41), pp. 197-198 (XXVI 12-19). Si veda anche l’edizione curata da p. Anastaas van den Wyngaert nei Sinica Franciscana, cit., pp. 413-495. 56 A. Andreose, «Odorico da Pordenone e la Relatio», in Id., La strada, la Cina, il cielo, cit., pp. 9-35. 57 P. Chiesa, «Per un riordino della tradizione manoscritta della Relatio di Odorico da Pordenone», Filologia mediolatina, VI-VII (1999-2000), pp. 311-350; A. Andreose, «Oralità e scrittura nella genesi della Relatio di Odorico da Pordenone: ipotesi sulla composizione e sulla prima circolazione del capitolo De reverentia Magni Chanis», in L’ornato parlare. Studi di filologia e letteratura per Furio Brugnolo, a cura di G. Peron, Esedra, Padova 2007, pp. 469-487, poi in Id., La strada, la Cina, il cielo, cit., pp. 37-52 (da cui si cita); A. Marchisio, «Introduzione», in Odorico da Pordenone, Relatio, cit., pp. 1-108. 58 Dalla cosiddetta recensio Marchesini dipende la rielaborazione che il francescano Enrico di Glatz realizzò a Praga nel 1340 – denominata dagli studiosi recensio Henrici o «redazione D» (P. Chiesa, «Per un riordino della tradizione manoscritta», cit., pp. 316-317, 327-328; A. Marchisio, «Introduzione», cit., pp. 73-77).

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della redazione di Guglielmo. A ciò si aggiunga che una serie di informazioni aggiuntive di probabile autenticità si leggono in una famiglia di volgarizzamenti italiani medievali dell’opera59. A livello strutturale, la Relatio presenta una manifesta affinità con il Devisement dou monde: la presenza di due sezioni chiaramente distinte, una dedicata all’India e al Sud-est asiatico, l’altra al Gran Can e alla Cina, precedute da un breve segmento su Armenia, Mesopotamia e Persia, richiama esplicitamente la succitata tripartizione del libro poliano60. Inoltre, anche nel testo di Odorico la componente informativa appare predominante, benché abbia un peso relativo minore che nell’opera del veneziano. Ma sono soprattutto i numerosi riscontri testuali – alcuni dei quali dotati di reale valore «congiuntivo»61 – a indurci a pensare che il frate friulano e il suo collaboratore abbiano assunto il resoconto di Marco come una sorta di modello nella stesura della Relatio. È suggestiva, benché indimostrabile, l’ipotesi che, già durante il suo viaggio in Oriente, Odorico si fosse avvalso di una copia del Devisement, in una delle sue traduzioni latine o volgari, per ricavarne informazioni sulle terre attraversate e sui popoli incontrati62. Un elemento che distingue però le due relazioni concerne il rapporto tra le parti dedicate alla descrizione di ciò che è stato visto e udito durante il viaggio e il racconto del viaggio vero e proprio. Il testo odoriciano non tiene distinte le due parti, come avevano fatto Marco e Rustichello (e, prima di loro, Giovanni 59 A. Andreose, «‘Lo livro dele nove e stranie meravioxe cose’. Ricerche sui volgarizzamenti italiani dell’Itinerarium del beato Odorico da Pordenone», Il Santo. Rivista francescana di storia dottrina arte, XXXVIII (1998), pp. 31-67; Libro delle nuove e strane e meravigliose cose. Volgarizzamento italiano del secolo XIV dell’ Itinerarium di Odorico da Pordenone, a cura di A. Andreose, Centro Studi Antoniani, Padova 2000. 60 Sui rapporti tra i due testi si vedano le analisi di L. Monaco, «Introduzione», in Id. (a cura di), Memoriale toscano di Odorico da Pordenone, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1990 («Oltramare», 5), pp. 21-79, qui pp. 42, 45-48, 58; A. Andreose, «Nota bio-bibliografica», in Libro delle nuove e strane e meravigliose cose, cit., pp. 17-43, qui pp. 18-19; V. Bertolucci Pizzorusso, «Le relazioni di viaggio di Marco Polo e di Odorico da Pordenone: due testi a confronto», in S. Conte (a cura di), I viaggi del Milione, cit., pp. 219-231, poi in V. Bertolucci Pizzorusso, Scritture di viaggio, cit., pp. 143-163; A. Andreose, La strada, la Cina, il cielo, cit., pp. 25-26, in part. le note 143 e 144. 61 A. Andreose, «Su alcuni orientalismi nei resoconti di viaggiatori medievali in Cina», Itineraria, 18 (2019), in corso di stampa. 62 Id., «Odorico da Pordenone e la Relatio», cit., p. 25.

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da Pian di Carpine), ma si presenta come un «itinerario» nel senso tecnico del termine, in cui le notizie di argomento geografico ed etnografico sono organicamente inserite all’interno delle singole frazioni del cammino o della navigazione. Tale caratteristica ricorda l’Itinerarium di Rubrouck, sebbene, nella Relatio, il ricorso alla narrazione autodiegetica appaia perlopiù orientato a fornire le coordinate spaziali dei luoghi visitati in termini di direzione e lunghezza del tragitto tra una tappa e l’altra, e solo raramente serva a dar conto delle esperienze personali dell’io narrante, dei suoi stati d’animo o delle sue riflessioni63. Le tracce di una conoscenza, da parte di Odorico, del testo del confratello fiammingo non mancano, ma sono invero assai tenui64. Se anche non si volesse ammettere una dipendenza diretta tra i due resoconti, si potrà pensare che su di essi abbia agito autonomamente il modello degli itineraria, che – come si è detto – rappresentò senza dubbio uno dei generi testuali di riferimento per la letteratura odeporica dei secoli XIII-XIV. Con il Devisement e la Relatio la letteratura odeporica medievale raggiunse il suo apice. La loro fortuna fu amplissima: il primo è conservato – nelle sue varie versioni e traduzioni ‒ da circa 140 manoscritti medievali65, la seconda ci è giunta in oltre 110 esemplari66. Le ragioni del loro successo dipesero sicuramente dalla peculiarità e dalla ricchezza dei loro contenuti: la raffigurazione dell’Oriente che queste opere trasmettevano era sì profondamente innovativa rispetto a quella ereditata dalla tradizione precedente, ma delineava pur sempre l’immagine di una terra di incomparabile prosperità e potenza67, ricettacolo di straordinarie meraviglie, anche se non proprio di mirabolanti prodigi e difformità. È possibile che a ciò abbia contribuito pure la loro struttura testuale che, accorId., «Forme e funzioni dell’autodiegesi», cit., pp. 71-74. Ibid., pp. 86-87 nota 66. 65 141, secondo il recente regesto di C. Gadrat-Ouerfelli (Lire Marco Polo au Moyen Âge, cit., pp. 357-381), che però presenta qualche lacuna, come evidenzia Eugenio Burgio, per cui «[s]arebbe più corretto parlare di 144 codici»: E. Burgio, S. Simion, «La ricezione medievale del Devisement dou monde (secoli XIV-XV)», Medioevo Romanzo, XLII/1 (2018), pp. 173-194, qui pp. 174-175 nota 8. 66 Il catalogo di Vladimir Liščák (Bibliotheca Odoriciana. Manuscripts, Printed Editions, Studies, s.e., Praha 2015) ne enumera 140, includendo però 24 «uncategorized or lost manuscripts». 67 P. Chiesa, «Un taccuino di viaggio duecentesco», cit., p. 5. 63 64

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dando preferenza ai dati sulla narrazione, compiaceva il gusto per le curiosità e le bizzarrie del pubblico desideroso di svago, oppure assecondava gli interessi pratici dei lettori del ceto mercantile. Dopo Marco e Odorico, nessun altro viaggiatore nell’Asia mongola si cimentò nell’impresa di tradurre le proprie memorie in un testo autonomo. Il francescano Giovanni de’ Marignolli, che fu l’ultimo personaggio a noi noto a recarsi in Cina in missione ufficiale (1338-1353)68, si limitò a inserire alcune notizie – frammentarie, vaghe, a volte inattendibili – sulla sua esperienza orientale all’interno di un’opera storica, il Chronicon Boemorum, che scrisse qualche anno dopo il suo ritorno in Europa (1355-1359)69. Di lì a poco, l’ascesa al trono imperiale cinese della dinastia Ming segnò la rottura di quell’unità politica eurasiatica che aveva reso possibile i contatti diplomatici, commerciali e religiosi tra Occidente ed Estremo Oriente nel periodo che va dagli anni Quaranta del secolo XIII alla metà del secolo successivo. Con ciò, anche il flusso di informazioni verso l’Europa venne meno. Cominciò allora una fase di rielaborazione e di sistemazione delle conoscenze accumulate in oltre un secolo di proficue relazioni. I resoconti dei viaggiatori medievali – in particolare il Devisement e la Relatio – continuarono a godere di grande fortuna, ma non di rado andarono incontro a fenomeni di revisione, rimaneggiamento, riduzione o – più raramente – di ampliamento che ne mutarono la fisionomia originaria70. In alcuni casi, si sentì la 68 Su tale figura si vedano in particolare P. Evangelisti, «Marignolli, Giovanni de’», in Dizionario Biografico degli Italiani, cit., vol. LXX, 2008, pp. 363-365; I. Malfatto, «Il viaggio in Oriente del frate fiorentino Giovanni de’ Marignolli (1338-1353)», L’Universo, 7 (2014), pp. 313-332; Ead., «Plus curiosus quam virtuosus: Giovanni de’ Marignolli e il suo resoconto di viaggio (1338-1353)», Itineraria, 12 (2014), pp. 55-81. 69 Irene Malfatto ha recentemente fornito un testo critico di tali sezioni, che sostituisce la precedente (e sorpassata) edizione inclusa nei Sinica Franciscana (cit., pp. 524-560): Le digressioni sull’Oriente nel Chronicon Bohemorum di Giovanni de’ Marignolli, edizione critica a cura di I. Malfatto, Sismel e-codicibus, Firenze 2013, Url http://ecodicibus.sismelfirenze.it/uploads/5/2/528/marignolli_malfatto2.pdf (ultimo accesso 19 settembre 2019). Sulla stesura del Chronicon, si veda I. Malfatto, «John of Marignolli and the Historiographical Project of Charles IV», Acta Universitatis Carolinae - Historia Universitatis Carolinae Pragensis, LV/1 (2015), pp. 131-140. 70 Per un’analisi complessiva della ricezione dei resoconti di viaggio nell’Europa dei secoli XIV-XV si veda lo schizzo tratteggiato da F.E. Reichert, Incontri con la Cina, cit., pp. 215-272.

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necessità di armonizzare la «nuova» immagine dell’Oriente trasmessa dai testimoni oculari con quella tradizionale, codificatasi tra l’età ellenistica e gli inizi del Duecento. Tale finalità probabilmente ispirò la stesura di quello che fu senza dubbio il testo sull’Oriente più diffuso nei secoli XIV-XVI, il Livre (o Voyages) de Jean de Mandeville. Composto originariamente in francese nel 1356 o nel 1357, venne rielaborato più volte, fu tradotto in latino e in gran parte delle lingue d’Europa (inglese, tedesco, italiano, spagnolo, nederlandese, danese, ceco, irlandese ecc.), diventando un vero e proprio best-seller della cultura europea tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna: non solo rappresentò uno dei testi capitali della geografia tardo-medievale, ma funse anche da grande serbatoio di mirabilia e stravaganze esotiche per la letteratura del tempo71. Si tratta, in realtà, di un’opera di difficile classificazione, perché mescola finzione e dati reali. Ormai è universalmente accettata l’idea che il suo autore non abbia viaggiato realmente in Oriente, ma si sia limitato a riprendere da opere anteriori (in particolare relazioni di viaggio trecentesche) singoli dettagli, brani più o meno ampi, a volte interi paragrafi, rielaborandoli e ricomponendoli in un testo 71 L’enorme diffusione dell’opera e le sue complesse vicende hanno impedito finora agli studiosi di allestirne un’affidabile edizione critica fondata su tutte le testimonianze superstiti. A partire dagli studi di J.W. Bennett (The Rediscovery of Sir John Mandeville, Modern Language Association of America, New York 1954) si riconoscono due redazioni, distinte da cospicue varianti macrotestuali: una «versione insulare», tràdita prevalentemente da manoscritti francesi confezionati in area inglese, e una «versione continentale», conservata da codici copiati sul continente – i due testi si possono leggere rispettivamente in Jean de Mandeville, Le livre des merveilles du monde, éd. cr. par C. Deluz, Cnrs, Paris 2000; e M. Letts, Mandeville’s Travels. Texts and Translations, 2 voll., The Hakluyt Society, London 1953. A quest’ultima redazione si ricollega il rimaneggiamento noto come «version liégeoise», che contiene ampie interpolazioni sulle imprese di Ogier le Danois ricavate da chansons de geste più antiche (M. Tyssens, R. Raelet, La version liégeoise du Livre de Mandeville, Académie royale de Belgique, Bruxelles 2011). Secondo i calcoli più recenti, il Livre de Jean de Mandeville – nell’originaria versione francese e nelle sue traduzioni ‒ sarebbe trasmesso da un numero complessivo di manoscritti compreso tra circa 260 e circa 300: cfr. C. Deluz, «L’originalité du Livre de Jean de Mandeville», in Jean de Mandeville in Europa. Neue Perspektiven in der Reiseliteraturforschung, hrsgg. von E. Bremer und S. Röhl, W. Fink, München 2007, pp. 11-18, qui pp. 16-17; S. Röhl, Der livre de Mandeville im 14. und 15. Jahrhundert. Untersuchungen zur handschriftlichen Überlieferung der kontinentalfranzösischen Version, W. Fink, München 2004, p. 206.

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autonomo72. La sua fonte principale è rappresentata dal corpus di traduzioni francesi di scritti due-trecenteschi relativi all’Asia realizzate entro il 1351 dal benedettino Jean le Long d’Ypres, monaco e poi abate dell’abbazia di Saint-Bertin, presso Saint-Omer73. Tutta la seconda parte del libro, comprendente le sezioni sull’Armenia, sulla Persia, sull’India e sulla Cina, ricalca – spesso in modo letterale – la versione medio-francese del resoconto di Odorico da Pordenone74. Ma anche nella prima metà l’influsso della Relatio è evidente. Il Livre de Jean de Mandeville si conforma all’opera odoriciana per ciò che concerne la modalità di narrazione e l’organizzazione generale della materia, in quanto dispone i dati concernenti le terre e i popoli esotici all’interno di una (fittizia) cornice autobiografica. Quel difficile equilibrio tra componente informativa e narrativa che si intravede dietro il Devisement poliano e si realizza, benché parzialmente e in via tendenziale, in Odorico diviene così il modello per quest’opera, sedicente odeporica, che si pone come punto di approdo della tradizione enciclopedica e paradossografica antica e medievale, e al tempo stesso esprime già le inquietudini e le ambizioni di un’Europa incamminata verso la stagione delle grandi scoperte75.

72 C. Deluz, Le livre de Jehan de Mandeville: une «géographie» au XIV e siècle, Institut d’études médiévales de l’Université catholique de Louvain, Louvain-La-Neuve 1988; Ead., «Le livre de Jean de Mandeville (1356), plagiat ou réécriture?», Comptes rendus des séances de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, 133/2 (1989), pp. 394-403; A. Andreose, La strada, la Cina, il cielo, cit., pp. 150-167. 73 Ibid., pp. 23-24, 101-107, 149-154. 74 Le Voyage en Asie d’Odoric de Pordenone, traduit par Jean le Long OSB, Iteneraire de la Peregrinacion et du voyaige (1351), éd. crit. par A. Andreose et Ph. Ménard, Droz, Genève 2010 («TLF» 602). 75 C. Deluz, Le livre de Jehan de Mandeville, cit.; I.M. Higgins, Writing East. The «Travels» of Sir John Mandeville, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1997.

I DRAGHI ACCOVACCIATI E LE TIGRI CAMUFFATE DI MARCO POLO di Hans Ulrich Vogel

In questo saggio presenterò una discussione introduttiva sui riferimenti a draghi e tigri fatti da Marco Polo. Dal punto di vista della storia culturale cinese, considerare questi due «animali» insieme ha senso, perché già con la fioritura del pensiero cosmologico durante la dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) – pensiero che s’incentrava sul concetto delle «cinque fasi» (wuxing Ѩ㸠) e sullo yin/yang (䱄䱑) –, il drago e la tigre divennero due dei «quattro animali divini» (si shenshou ಯ⼲⥌) che simboleggiano le quattro direzioni, o punti cardinali (il Drago verde rappresenta l’Est, la Tigre bianca l’Ovest, l’Uccello scarlatto il Sud e la Tartaruga nera il Nord). Secondo il pensiero taoista, il drago e la tigre erano i due animali divini responsabili rispettivamente della sfera dello yang (Cielo e Fuoco) e dello yin (Terra e Acqua)1. Il drago e la tigre costituivano anche dei simboli emblematici nell’alchimia pratica di laboratorio cinese, secondo quanto si afferma in un testo fondamentale composto tra l’VIII e il X secolo, la Scrittura dell’elisir d’oro del drago e della tigre ( Jindan longhu jing 䞥Ѝ啡㰢㍧). Qui, per esempio, un passaggio tratta specificamente dell’amalgama di forme affinate di piombo e mercurio, considerato come un processo chiave di alchimia per la produzione di un elisir: il drago e la tigre sono intesi come due controparti corporee rispettivamente del piombo e del mercurio. Essi erano inoltre collegati agli aspetti più importanti del co1 Sung Hou-mei (Song Houmei ᅟৢἷ), «Chinese Tiger Painting and its Symbolic Meanings; Part I: Tiger Painting of the Sung Dynasty», National Palace Museum Bulletin, 33/4 (1998), pp. 1-16.

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smo, cioè lo yang e lo yin e i loro molteplici correlati2. Tutto ciò aiuta a capire perché la coppia drago-tigre diventò un importante tema decorativo, specialmente nei templi taoisti, e spiega anche perché i pittori taoisti si specializzarono nel dipingere questi due soggetti3. Per i motivi che saranno spiegati in questo saggio, Marco Polo raccontò poco sui draghi, ma molto di più a proposito delle tigri. Pertanto si parlerà principalmente della Panthera tigris, focalizzandosi in particolare sulla Cina. Come è già stato notato da altri studiosi, nei riferimenti del veneziano a «leoni» presenti in Asia s’intendono per lo più delle tigri4. Prendendo in considerazione fonti primarie e letteratura secondaria dimostrerò, tramite alcuni esempi scelti, che non esiste assolutamente alcuna contraddizione fra le indicazioni contenute nella relazione di Marco Polo e i dati ottenuti dalle fonti cinesi e dagli studi generali sulle tigri in Cina. 1. Draghi Esaminando il resoconto poliano, si noterà che l’argomento del drago e quello della tigre sono trattati in modo differente, sia in termini quantitativi, sia qualitativi. Nelle sezioni relative alla Cina, i draghi sono citati solo in quattro passaggi, cioè come elementi tanto artistici quanto architettonici delle colonne del Palazzo di canne di bambù del Gran Khan a Shangdu (Ϟ䛑)5, come elemen2 L. Skar, «Dragons, Tigers, and Elixirs. Alchemy in Medieval China», in Hawai’i Reader in Traditional Chinese Culture, ed. by V.H. Mair et al., University of Hawai’i Press, Honolulu 2005, pp. 429-432. 3 Sung Hou-mei, «Chinese Tiger Painting», cit., pp. 1-2. 4 Si vedano, per esempio, le voci sulle tigri dell’indice in H. Yule, The Travels of Marco Polo. The Complete Yule-Cordier Edition (1903), ripr. Dover Publications, New York 1993, vol. 2, p. 657. 5 Tale dettaglio non si trova in F (la versione franco-italiana, tràdita dal ms. BnF fr. 1116), ma solo in R (la traduzione di Giovanni Battista Ramusio, pubblicata nel 1559). Si veda l’eccellente Ramusio Digitale: Giovanni Battista Ramusio, Dei viaggi di Messer Marco Polo, a cura di E. Burgio e S. Simion, Ca’ Foscari, Venezia 2015 («Filologie medievali e moderne», 5; «Serie occidentale», 4), Url http:// virgo.unive.it/ecf-workflow/books/Ramusio/main/index.html (ultimo accesso 25 luglio 2019), in R I 55 5, «dragone».

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Figura 1 - Il Palazzo del Gran Khan a Canbalu (odierna Pechino), con un dettaglio che mostra le decorazioni murali. Le livre des merveilles, secolo XV, f. 37r, BnF, Fr. 2810

ti decorativi sui muri del Palazzo del Gran Khan a Canbalu (l’odierna Pechino)6, come segno ciclico usato per la designazione degli anni da parte degli astrologi7 e, insieme ai «leoni», come uno Si veda il testo di F nell’edizione di Mario Eusebi: Marco Polo, Le Devisement dou monde, 1. Testo, a cura di M. Eusebi, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 20182 («Filologie medievali e moderne», 16; «Serie occidentale», 13) – disponibile anche nel Ramusio Digitale –, p. 104, «draghi». 7 Non in F, ma in Z, 44 13, «dracone», e in R II 25 7, «Dragone». Si veda Ramusio Digitale. 6

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dei disegni per i tatuaggi del popolo della provincia di Jiaozhi Guo (Ѹ䎒೟, cioè Annam, la parte settentrionale dell’odierno Vietnam)8. La consuetudine di utilizzare i draghi come elementi decorativi sulle colonne di palazzi e templi cinesi è ben documentata, sebbene finora non sia riuscito a trovarla esattamente nel modo descritto da Marco Polo. Dipinti o incisioni di draghi erano usati spessissimo per la decorazione di tutti i tipi di pareti in templi e palazzi, e lo sono ancora. Un altro uso artistico, ma allo stesso tempo apotropaico, della raffigurazione dei draghi è quello del tatuaggio, citato dal veneziano per quanto riguarda la provincia di Jiaozhi Guo. Tatuaggi che coprono ampie parti del corpo sono ben documentati, per esempio, presso il popolo Dai (‫ٷ‬ᮣ) che abita la prefettura autonoma Dai di Xishuangbanna (㽓ঠ⠜㒇‫ٷ‬ᮣ㞾⊏Ꮂ), ma anche nel Laos, in Vietnam, in Thailandia e a Myanmar9. Infine, è ben noto che il drago è uno degli animali dello zodiaco che vantano una lunga storia in Cina e che furono anche ereditati dai Mongoli. Già Yule notò che la sequenza di Marco Polo composta da «Leone», Bue, Drago, Cane ecc. non è corretta, ma si dovrebbe ordinare come segue: 1) Topo; 2) Bue; 3) Tigre; 4) Lepre; 5) Drago; 6) Serpente; 7) Cavallo; 8) Pecora; 9) Scimmia; 10) Gallo; 11) Cane; 12) Maiale10. In confronto a quelle relative al «leone» (cioè la tigre), in Marco Polo le citazioni dei draghi sono rare e non si riferiscono a veri animali. Anche i «grandi serpenti» del Caragian (attuale Yunnan), probabilmente dei coccodrilli11, non furono denominati «draghi» dal veneziano, anche se potevano apparire vicini all’immagine di quegli animali leggendari e divini. Quindi Marco Polo non pensò mai di aver visto un animale somigliante a un drago, e di conseguenza non sentì alcun bisogno di distinguere tra realtà e leggenda, come fece nel caso dell’unicorno, della salamandra e del mosco. Inoltre, i Marco Polo, Le Devisement dou monde, cit., p. 150, «drag» (CXXVI 7). Si veda anche l’indice in H. Yule, The Travels of Marco Polo, cit., vol. 2, p. 656, s.v. «tattooing». 10 H. Yule, The Travels of Marco Polo, cit., vol. 1, p. 454. 11 Si veda S.G. Haw, Marco Polo’s China. A Venetian in the Realm of Khubilai Khan, Routledge, London-New York 2006, pp. 135-137. 8 9

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Figura 2 - Tatuaggi di un membro della popolazione Dai (‫ٷ‬ᮣ) a Meng Ding (ᄳ ᅮ), nello Yunnan sudoccidentale, 1936. Foto scattata da Yong Shiheng (࢛຿㸵), nel febbraio 1936. Nankang, Taipei, Institute of History and Philology, Academia Sinica. Url http://ndweb.iis.sinica.edu.tw/race_public/System/frame_1.htm (ultimo accesso 25 luglio 2019). Per gentile concessione dell’Istituto di Storia e Filologia, Academia Sinica

draghi gli erano ben noti prima della partenza per l’Oriente e, pertanto, potrebbe aver ritenuto che non vi fosse bisogno di soffermarvisi. Benché avesse notato le rappresentazioni artistiche a scopo ornamentale, apotropaiche e astrologiche, a quanto pare Marco non era interessato o non ebbe ulteriore accesso alla ricca iconografia e alle antiche tradizioni su questo animale mitico in Cina. Tutta-

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via in almeno due occasioni mostra una certa consapevolezza – sebbene piuttosto inconscia – dell’accoppiamento di draghi e «leoni». Questo è vero per il citato brano relativo al tatuaggio, ma anche per quello sui segni zodiacali. In entrambi i casi, i «leoni» menzionati in tali passaggi sono chiaramente delle tigri. Anche osservando l’utilizzo del drago come elemento artistico e decorativo per ornare i muri del Palazzo del Gran Khan a Canbalu, possiamo presumere tuttavia che leoni e/o tigri appartenessero all’insieme di animali utilizzati a questo scopo. Mentre la versione F si limita a suggerire questa linea interpretativa, menzionando accanto a draghi e uccelli «autres deverses jenerasion des bestes»12, la traduzione V parla esplicitamente di «lioni»13. 2. Leoni Avviciniamoci ora gradualmente al tema delle tigri, che, sebbene sotto un nome diverso, sono menzionate e descritte frequentemente dal nostro viaggiatore come un animale reale, per quanto feroce e selvatico. Con riferimento al dominio del Gran Khan, ho trovato diciotto passi che includono «leoni», sedici dei quali si riferiscono sicuramente a tigri. Costituisce di sicuro un’eccezione il brano riguardante il ponte Pulisanghinz, nel quale i leoni di marmo decorativi («lion de marbre»)14 designano effettivamente dei leoni. Un’altra eccezione potrebbe trovarsi nel capitolo in cui si descrive come vengano offerti preziosi abiti da cerimonia per le festività ai «12.000 baroni». Qui, Marco Polo ricorda che durante le feste un grande «leone» addomesticato e senza catene è condotto al cospetto dell’imperatore e si prostra davanti al sovrano non appena lo vede, mostrando tutti i segni di venerazione del caso e comportandosi come se lo riconoscesse come suo signore: Et encore voç dirai une chouse, qui semble mervoille, que auques fait a conter en nostre livre: char sachiés qe un grant lion est moiné devant le Gran Sire, et le lion, tantost{o} qu’il le voit, se jete a jecir devant lui Marco Polo, Le Devisement dou monde, cit., p. 104 (LXXXIII 19). Si veda Ramusio Digitale, cit., V, 41. 14 Marco Polo, Le Devisement dou monde, cit., p. 126 (CIV 4). 12 13

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Figura 3 - Il ponte Pulisanghinz con i dettagli dei leoni di marmo che ne ornano i parapetti. Le livre des merveilles, sec. XV, f. 49r, BnF Fr 2810. In basso a destra, foto di un leone di pietra del Ponte di Marco Polo (Lugou Qiao) scattata dall’Autore, agosto 2014

et fait seingne ‹de› grant humilité et senble qu’il le conoisse por seingnor; il demore devant lui sanç nulle chaene, et ce est bien une couse que fait a mervoille15. Marco Polo, Le Devisement dou monde, cit., p. 111 (LXXXIX 10). Si veda anche la versione toscana: «Ancora vi dico una grande meraviglia: che uno grande lione è menato dinanzi dal Grande Sire, e quando egli vede lo Grande Sire, sì si pone a giacere dinanzi da lui e fagli segno di grande umiltade, e fa sembianza ch’egli lo conosce per signore; e è senza catene e sanza legatura alcuna, e questo è bene grande meraviglia» (Marco Polo, Milione. Versione toscana del Trecento, edizione critica a cura di V. Bertolucci Pizzorusso, indice ragionato di G.R. Cardona, Adelphi, Milano 19942, p. 139 [89 7]). 15

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Anche Odorico da Pordenone descrive una scena simile: Hoc facto, aliqui histriones ad ipsum accedunt et etiam aliquem histrionatrices, et ante ipsum tam dulciter cantant quod quedam magna iucunditas est audire. Deinde histriones faciunt venire leones, qui reverenciam faciunt magno cani16.

Thomas T. Allsen ritiene che fu un leone, piuttosto che una tigre, a prostrarsi in modo riverente e sottomesso di fronte a Kublai Khan17. La Cina non è l’habitat naturale dei leoni, ma essi furono indubbiamente importati nel Regno di mezzo già nei primi secoli dell’era volgare. Dopo la caduta della dinastia Han, le testimonianze continuano a menzionare il commercio di leoni dalla Persia durante la dinastia Wei settentrionale (386-535), mentre nel corso del periodo Tang (617-907) erano offerti come omaggi da Samarcanda, dai Tocari, dalla Persia e dagli Arabi18. Nel periodo Song (960-1279) i leoni provennero dall’India. Le importazioni proseguirono nell’epoca Yuan, durante la quale i dominatori mongoli li ricevettero, insieme con le tigri, dal loro alleato, cioè la corte mongola dell’Iran19. Il leone era chiaramente associato al potere supremo non soltanto in Cina, ma anche altrove. Pertanto i leoni addomesticati, insieme alle tigri e ad altri felini, servivano come animali domestici di corte già nell’antico Egitto e in molte altre corti in epoche successive. Un «leone» che si mostrasse rispettoso e sottomesso di fronte a 16 Odorico da Pordenone, Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, a cura di A. Marchisio, Sismel-Ed. del Galluzzo, Firenze 2016, p. 211 (XXIX 31-33). Nel volgarizzamento toscano trecentesco, il passo suona così: «E fatte queste cose, allora alcuni giocolari vengono dinanzi dal signore, e alcune giocolaresse ne cantano molto meravigliosamente. E alcuni di questi giocolari vanno e menano con loro leoni che fanno reverenza a questo imperadore Gran Cane»; Libro delle nuove e strane e meravigliose cose. Volgarizzamento italiano del secolo XIV dell’Itinerarium di Odorico da Pordenone, a cura di A. Andreose, Centro Studi Antoniani, Padova 2000 («Centro Studi Antoniani», 33), pp. 171-172 (XLII 31-32). Cfr. H. Yule, Cathay and the Way thither, Being a Collection of Medieval Notices of China, New Edition, Revised throughout in the Light of Recent Discoveries by H. Cordier, vol. II: Odoric of Pordenone, The Hakluyt Society, London 1913, p. 143. 17 T.T. Allsen, The Royal Hunt in Eurasian History, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2006 («Encounters with Asia»), p. 150. 18 E.H. Schafer, The Golden Peaches of Samarkand. A Study of T’ang Exotics, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1963, p. 85. 19 T.T. Allsen, Royal Hunt, cit., p. 236.

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un sovrano, come accadde nella descrizione di Marco Polo, costituiva un chiaro messaggio politico nel senso che il re o l’imperatore non esercitava soltanto la propria signoria sugli esseri umani, ma, grazie ai suoi poteri spirituali e magici, controllava persino gli animali e, dunque, la natura allo stato brado20. 3. Tigri In tutti gli altri sedici passaggi sui «leoni» che riguardano la Cina propriamente detta, il veneziano non si riferisce in realtà a leoni, ma a tigri. Per mezzo di paragoni, distinzioni e precisazioni, Marco Polo dimostra molto chiaramente in due occasioni di parlare di una bestia diversa dal leone. La prima volta avviene nel capitolo a proposito «des lionç et des liopars et de leus cervier qui sunt afaités a prendre bestes», in cui si spiega come gli animali feroci fossero usati dal Gran Khan per la caccia. Qui l’autore scrive che questi «leoni» sono più grandi di quelli di Babilonia e posseggono una pelliccia dai colori più belli e dai fianchi completamente striati di nero, rosso e bianco: Il ha plosors lyons grandisme, greingnors aseç qe celz de Babilonie: il sunt de mout biaus poil et de mout biaus coleor, car il sunt tout vergés por lonc noir et vermoil et blance…21

La seconda occasione corrisponde al passo in cui è descritta la spedizione di caccia di Kublai Khan a Cacciar Modun, con le due tende per il suo seguito e la tenda che egli utilizzava per dormire in quel luogo. Queste tende erano coperte da «cuir de lionz» («cuoia di leoni») recante lo stesso disegno e gli stessi colori. In altri termini, in entrambi i brani il motivo e i colori della pelliccia indicano con precisione che abbiamo a che fare con delle tigri. Ibid., pp. 148-150. Marco Polo, Le Devisement dou monde, cit., p. 112 (XCI 4). Si veda anche Marco Polo, Milione, cit., 91 (versione toscana): «De’ leoni e de’ l’altre bestie da cacciare», p. 141 (91 3): «Egli àe più leoni grandissimi, magiore assai che quegli di Babilonia: egli sono di molto bel pelo e di bello colore, ch’egli sono tutti vergati per lungo, neri e vermigli e bianchi…». 20 21

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3.1. Classificazione dei brani di Marco Polo sulle tigri I passi in cui Marco Polo parla delle tigri in Cina si possono classificare in tre tipologie principali, ovvero: raffigurazioni di motivi e significati cosmologici, magici, artistici e politici collegati alle tigri; presenza artificiosa di tigri; manifestazioni naturali di tigri. 3.2. Raffigurazioni di motivi e significati cosmologici, magici, artistici e politici collegati alle tigri Questa categoria di descrizioni di tigri lasciate da Marco Polo si può suddividere in cinque sottotipi: • la tigre come animale dello zodiaco; • le tigri raffigurate sui tatuaggi degli indigeni nella provincia dello Jiaozhi Guo; • le tigri probabilmente raffigurate in dipinti sui muri del palazzo del Gran Khan a Canbalu; • il disegno della tigre sulle tavolette dell’autorità; • la tenda in pelli di tigre della spedizione di caccia del Gran Khan a Cacciar Modun. Poiché il primo punto è già stato discusso in precedenza nella sezione dedicata al drago, ci soffermeremo brevemente sul secondo, la descrizione dell’usanza della gente dello Jiaozhi Guo di tatuare i propri corpi con «leoni», draghi, uccelli e altre immagini come un simbolo di eleganza che suscitava reciproca ammirazione. Data l’esistenza di tigri in questa regione, abbiamo certamente a che fare con immagini di tigri, e non di leoni. Oltre a costituire un’espressione di eleganza, possiamo anche presumere che la ragione per cui gli abitanti dello Jiaozhi Guo si tatuavano tigri sul corpo derivasse da esperienze con questi animali feroci nel loro stesso spazio vitale. Vista la possente immagine della tigre, queste raffigurazioni ebbero senza dubbio delle finalità religiose, magiche e apotropaiche. Il terzo punto riguarda la raffigurazione delle tigri in opere d’arte. Che Marco Polo fosse consapevole della presenza di immagini di animali nell’arte orientale è messo in evidenza da Brian J. Lévy, che

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fa riferimento a numerosi passi nell’opera del veneziano22. Abbiamo già menzionato in precedenza che almeno nella versione V sono esplicitamente citati dei «lioni» raffigurati sulle mura del palazzo del Gran Khan a Canbalu. Occupiamoci adesso del quarto punto, cioè il disegno della tigre sulle tavolette dell’autorità. Almeno per le tavolette cinesi, possiamo affermare con sicurezza che quelle che raffigurano la testa stilizzata di un felino furono concepite con riferimento alle tigri. Questa fu anche la ragione per cui i paizi ⠠ᄤ furono chiamati hufu 㰢ヺ «etichette di tigre», e non shifu ⤙ヺ «etichette di leone». Sotto la dinastia Yuan le tavolette per posizioni ufficiali, specialmente per funzionari militari, erano descritte come segue23: I miriarchi, chiliarchi e centurioni erano suddivisi in categorie superiori, medie e inferiori. Il miriarca è investito di una tavoletta d’oro di tigre. Nella parte inferiore della tavoletta è incisa una figura di tigre accovacciata e perle scintillanti sono incastonate nella parte superiore. E tali tavole si differenziano per avere una, due o tre perle incastonate in esse.

Un ulteriore elemento di discussione riguarda la capacità di Marco Polo di tracciare una netta distinzione fra tigre e leone, poiché le tigri raffigurate nei paizi cinesi potrebbero essere state estremamente stilizzate. Per quanto riguarda le tende in pelle di tigre allestite in occasione delle spedizioni di caccia del Gran Khan a Cacciar Modun, possiamo riferirci a una tenda di quel tipo, per quanto più piccola, esibita al Palazzo culturale delle nazionalità di Pechino nel 2014. Si dice che l’origine di tale manufatto possa risalire a circa seicento anni fa, cioè indubbiamente all’epoca della dinastia Yuan. La sommità di questo splendido e maestoso lavoro artigianale è circolare, e la parte superiore e i lati sono costituiti da 108 pezzi di autentiche pelli di tigre. 22 Si veda B.J. Lévy, «Un bestiaire oriental? Le monde animal dans Le Devisament dou monde», in Les animaux dans la littérature, édités par Matsubara Hideichi et al., Keio University Press, Tokyo 1997, pp. 170-171. 23 Si veda Dang Baohai ‫ܮ‬ᅱ⍋, «The Paizi of the Mongol Empire», Zentralasiatische Studien, 31 (2001), pp. 31-62, qui p. 41.

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Figura 4 - La tenda in pelle di tigre, risalente a seicento anni fa, donata al Terzo Dalai Lama Sonam Gyatso (1543-1588) dal sovrano mongolo a Lithang (Litang ⧚ฬ), Tibet orientale, nella provincia del Sichuan. La tenda è stata esibita al Palazzo culturale delle nazionalità di Pechino nel 2014. Tenzin Woebom, 11 novembre 2014, China Tibet Online. Url http://www.vtibet.com/en/calture/popular/201411/t20141116_255987.html (ultimo accesso 28 luglio 2019)

3.3. Presenza artificiosa di tigri A parte la possibilità che il «leone» indotto a presentarsi davanti al Gran Khan e a inchinarsi alla sua presenza potesse essere una tigre, questa categoria di descrizioni di tigri si concentra sul tema della caccia intrapresa con l’aiuto della Panthera tigris: • [durante le feste, un gran «leone» (tigre?) addomesticato e non incatenato è condotto in presenza del Gran Khan e si prostra al suo cospetto non appena lo vede]; • le tigri, insieme a ghepardi e caracal, erano utilizzate per le battute di caccia del Gran Khan; paragone con i leoni di Babilonia relativamente a dimensioni e tipologia di pelliccia; addestrate alla cattura di cinghiali e bestiame allo stato selvatico, orsi, asini selvatici, cervi e altre bestie grandi o feroci; trasportate in un carro coperto, ogni tigre accompagnata da un cagnolino; cacciano controvento.

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Questo importante passaggio del resoconto di Marco Polo descrive l’impiego dei felini per le battute di caccia del Gran Khan. Oltre ai ghepardi e ai caracal, vi furono utilizzate senza dubbio anche delle tigri, caratterizzate dalla loro tipica pelliccia striata a colori. Il veneziano ne fu particolarmente colpito, perché si diceva che le tigri avessero abbattuto bestie di ampia stazza, come orsi, bestiame selvatico, asini, cervi e cinghiali: … il sunt afaités a prandre sengler sauvajes et les buef sauvajes et orses et asnes sauvajes et cerf et cavriolz et autres bestes…24

Allo stato brado le tigri si nutrono prevalentemente di animali di grandi e medie dimensioni, preferendo ungulati nativi del proprio habitat, di almeno 90 kg di peso25. Fra le specie predate dalle tigri siberiane vi sono il wapiti della Manciuria, il mosco siberiano, il goral a coda lunga, l’alce, il capriolo siberiano, il cervo shika o nipponico, il cinghiale, talvolta persino l’orso nero asiatico di piccola taglia e l’orso bruno dell’Amur, nonché specie più piccole come lepri, conigli, pika e salmoni26. Tra le potenziali prede della varietà di tigri esistenti un tempo in Cina meridionale si contava il muntjac, il maiale selvatico, il capricorno, il cervo dal ciuffo e il sàmbar27. I cervi sàmbar, i maiali selvatici, i capricorni e grossi bovidi come banteng e giovani gaur costituivano la maggior parte della dieta della tigre dell’Indocina28. Dalla versione di Ramusio apprendiamo che le tigri si avvicinavano alla cacciagione ponendosi controvento, poiché altrimenti gli animali le avrebbero percepite grazie al loro olfatto. Si confronti 24 Marco Polo, Le Devisement dou monde, cit., p. 112 (XCI 4). Si veda anche la versione toscana: «e sono affatati a prendere porci salvatichi e buoi salvatichi e cerbi e cavriuoli, orsi e asini salvatichi e altre bestie» (Marco Polo, Il milione, cit., p. 141 [91 3]). 25 Si veda l’Url https://en.wikipedia.org/wiki/Tiger#Hunting_and_diet (ultimo accesso 28 luglio 2019). 26 Url https://en.wikipedia.org/wiki/Siberian_tiger#Feeding_ecology (ultimo accesso 28 luglio 2019). 27 Url https://en.wikipedia.org/wiki/South_China_tiger#Ecology_and_behavior (ultimo accesso 28 luglio 2019). 28 Url https://en.wikipedia.org/wiki/Indochinese_tiger (ultimo accesso 28 luglio 2019).

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questa osservazione con la dichiarazione che segue: «Se la preda avverte la presenza della tigre prima che essa esca allo scoperto, la tigre solitamente abbandona la caccia piuttosto che inseguire la preda o affrontarla di petto»29. Marco Polo notò anche che le tigri venivano trasportate in un carro coperto e che ciascun «leone» era accompagnato da un cane di piccola taglia. Poiché non ci vengono forniti maggiori dettagli sulle modalità con cui era praticata la caccia con le tigri, non sappiamo quale fosse la funzione dei cagnolini. Forse dovevano essere di supporto alla tigre nella caccia, correndo dietro alla cacciagione e spingendola in direzione della tigre stessa. Oppure erano addestrati in modo tale da ricondurre la tigre al cacciatore e padrone. Sebbene Allsen sembri ventilare qualche dubbio sull’accuratezza del resoconto del veneziano, ciononostante scrive che, se la storia fosse attendibile, allora la caccia con le tigri avrebbe avuto uno scopo dimostrativo, cioè quello di provare che un’esperienza simile poteva essere realizzata. Inoltre, ciò indica anche il livello di sperimentazione tanto spesso riscontrato tra i cacciatori reali30. In ogni modo, l’illustratore francese dell’inizio del secolo XV commette due «errori» nel dipinto che illustra l’avvenimento, poiché raffigura le linci da caccia (i caracal) come cani da caccia e, come accade in tutte le altre illustrazioni riguardanti l’Asia, rappresenta le tigri come leoni. Tanto il brano che descrive le tigri come compagne di caccia, quanto quello sul «leone» addomesticato e sull’uso delle pelli di tigre per le tende di Kublai Khan nel corso delle sue battute di caccia appartengono a quegli approfonditi passaggi del libro di Marco Polo in cui sono descritti la straordinaria ricchezza e lo stile di vita del sovrano mongolo. La tigre era il re delle «centinaia di bestie» che si trovavano in natura in Cina (baishou zhi wang ⱒ⥌П⥟): un’immagine che, in termini di correlazione, simboleggiava la supremazia del Gran Khan dei Mongoli sulle centinaia di nazioni dominate. In termini quasi pari al leone, la tigre rappresenta la potente autorità politica e la feroce forza militare, e fu spesso utilizzata 29 Url https://en.wikipedia.org/wiki/Tiger#Hunting_and_diet (ultimo accesso 28 luglio 2019). 30 T.T. Allsen, Royal Hunt, cit., p. 271.

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Figura 5 - Il Gran Khan a caccia con «lionç», «liopars» e «leus cervier». Le livre des merveilles, secolo XV, f. 42r, BnF Fr. 2810

in espressioni letterarie come hushi 㰢຿, huchen 㰢㞷 o hujiang 㰢ᇛ proprio con questi significati, per descrivere coraggiosi funzionaristudiosi o eminenti generali31. Possiamo trovare simili modelli simbolici anche in altre parti dell’Asia. I sultani musulmani di Giava, per esempio, tenevano tigri vive alla propria corte. Così facendo, intendevano dimostrare che loro, signori del regno e della civiltà, erano superiori al signore della foresta, o, in altre parole, della natura selvaggia e del caos. Le tigri erano considerate come dei rivali in prigionia che dovevano essere trattati con rispetto, perché erano di rango pari a quello del sultano32.

31 Sung Hou-mei, «Chinese Tiger Painting and its Symbolic Meanings; Part I: Tiger Painting of the Sung Dynasty (Continued)», National Palace Museum Bulletin, 33/5 (1998), p. 23. 32 P. Boomgard, Frontiers of Fear. Tigers and People in the Malay World, 1600-1950, Yale University Press, New Haven 2001, pp. 105-106, citato da R.B. Marks, «Asian Tigers. The Real, the Symbolic, the Commodity», Nature and Culture, 1/1 (2006), pp. 63-87, qui p. 73.

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3.4. Presenze naturali di tigri La presenza naturale di «leoni» è spesso menzionata nella relazione poliana33. Possiamo distinguere un primo gruppo di occorrenze che sono piuttosto concise (e, nel caso di Canbalu, probabilmente soltanto implicite), e un secondo gruppo che fornisce molti più dettagli, vale a dire quelle relative alla provincia del Tibet, alla provincia del Ciugiu e alla città di Fugiu, che trattano delle modalità di dissuadere, catturare e/o uccidere le tigri: • province di Cuncun34, Acbalac Mangi35, Sindinfu36, Gaindu37 e Nanghin38, le regioni a sud-est della città di Chengiu39 e a sud di quella di Cugiu40, e nel regno di Fugiu41: a eccezione della provincia di Sindinfu più o meno esplicitamente collegate alle attività di caccia della popolazione, in modo particolare Cuncun, Acbalac Mangi e Cugiu; • regione intorno a Canbalu42: a gennaio e febbraio grandi animali [tra cui, probabilmente, tigri] devono essere cacciati dalla popolazione nel raggio di quaranta giorni di viaggio da Canbalu; pelli e carne – la seconda ottenuta soltanto entro il termine da venti a trenta giorni di viaggio – devono essere consegnate al Gran Khan, che ordina che le pelli siano usate per le attrezzature dell’esercito; • provincia del Carajan43: tigri come prede di serpenti di grandi dimensioni;

33 I riferimenti che seguono possono essere facilmente rintracciati in F nel Ramusio Digitale, digitando «leone». 34 Probabilmente riferito a Hanzhong Lianfangsi (⓶Ёᒝ㿾ৌ), cioè Fengxiang (勇㖨), nello Shaanxi occidentale. 35 Hanzhong (⓶Ё), nello Shaanxi sudoccidentale. 36 Chengdu (៤䛑), nel Sichuan centrale. 37 Jiandu (ᓎ䛑), cioè Xichang (㽓ᯠ) nel Sichuan meridionale. 38 Anqing (ᅝᝊ), nell’Anhui sudoccidentale. 39 Quzhou (㸶Ꮂ), nel Zhejiang occidentale. 40 Chuzhou (㰩Ꮂ), cioè la città di Lishui (Б∈Ꮦ), nel Zhejiang meridionale. 41 La provincia del Fujian. 42 Pechino. 43 La regione di Dali (໻⧚), nello Yunnan occidentale.

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• a ovest della città di Qenlifu44: tigri come pericoli per i viaggiatori via terra; • provincia del Tibet45: regione danneggiata dalla guerra, pericoli per i mercanti o per altri viaggiatori via terra e allontanamento delle tigri per mezzo di falò alimentati da canne di bambù verdi, che fungono da combustibile e da petardi rumorosi; • provincia di Ciugiu46: pericoli per gli abitanti e perfino per i viaggiatori sui corsi d’acqua; cavaliere a caccia di una tigre con l’aiuto di due cani, che uccide la bestia con arco e freccia; • presso la città di Fugiu47: la tigre è catturata in una trappola con un cagnolino bianco come esca, quindi viene uccisa o estratta viva dalla trappola; la carne è buona e si mangia e le pelli sono costose e vengono vendute. Per gli occidentali che viaggiano in Asia orientale ai giorni nostri, il fatto che un tempo le tigri vivessero in Cina costituisce spesso una sorpresa. Ciò è vero persino per gli stessi cinesi, come è confermato da Huang Hongzhao, che riporta delle testimonianze relative a disastri provocati dalle tigri nella regione di Xiangshan (佭ቅ), attuale Zhongshan, vicino a Macao. Come centinaia di altri luoghi, Xiangshan possiede un registro su avvistamenti di tigri, «improvvise devastazioni di tigri» (hubao 㰢ᲈ), «danni causati da tigri» (huhai 㰢ᆇ) o «calamità causate da tigri» (huhuan 㰢ᙷ). I resoconti partono dalla metà del secolo XV fino al principio del XX48. La Cina è senza dubbio terra di tigri. Sulle basi di analisi genetiche, si è ipotizzato che il Regno di mezzo sia stato il centro dell’evoluzione di questo felino49. I resti più antichi di un’estinta parente della tigre, che visse circa due milioni di anni fa all’inizio del PleiJianning (ᓎᆻ), nel Fujian centrale. Sichuan occidentale. 46 Xuzhou (ᬡᎲ), nel Sichuan sudorientale. 47 Fuzhou (⽣Ꮂ), nel Fujian orientale. 48 Huang Hongzhao 咗匏䞫, «Xiangshan guwenxian zhong guanyu huhuan de jizai» 佭ቅস᭛⥏Ё䮰ᮐ㰢ᙷⱘ㿬䓝 («Registro dei disastri causati da tigri negli antichi documenti di Xiangshan»), Aomen wenxian xinxi xuekan ▇䭔᭛⥏ֵᙃ ᅌߞ (Rivista di documentazione e informazione di Macao), 8 (2013), pp. 100-101. 49 Kang Aili et al., «Historic Distribution and Recent Loss of Tigers in China», Integrative Zoology, 5/4 (2010), pp. 335-341, Url https://onlinelibrary.wiley.com/ doi/abs/10.1111/j.1749-4877.2010.00221.x (ultimo accesso 28 luglio 2019). 44 45

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Cartina 1 - Distribuzione storica e attuale delle sottospecie di tigre. Luo Shu-Jin et al., «Phylogeography and Genetic Ancestry of Tigers (Panthera tigris)», PLoS Biology, 2/12, e442 (2004), p. 2276. Url https://journals.plos.org/plosbiology/article?id=10.1371/journal.pbio.0020442 (ultimo accesso 28 luglio 2019)

stocene e che si considera appartenere al taxon delle tigri contemporanee, sono stati scoperti nella provincia del Gansu nella Cina nordoccidentale50. Che la Cina sia stata una terra di tigri è chiaramente dimostrato nella cartina 2, che fornisce una distribuzione spaziale della documentazione storica sulle tigri dal 604 a.C. al 1990 d.C. Rappresenta un totale di 2.635 testimonianze sulle tigri, l’85 per cento delle quali riferisce di impronte di tigre, il 9 per cento di attacchi di tigri e il 6 per cento di caccia alla tigre. La maggioranza delle testimonianze storiche proviene dalla Cina centrale, centrorientale e sud50 J.H. Mazák et al., «Oldest Known Pantherine Skull and Evolution of the Tiger», PLoS ONE, 6/10 (2011), Url https://journals.plos.org/plosone/ article?id=10.1371/journal.pone.0025483 (ultimo accesso 28 luglio 2019).

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Cartina 2 - Distribuzione spaziale delle testimonianze storiche sulle tigri in Cina, 604 a.C.-1990 d.C. Cartina basata su Kang Aili et al., «Historic Distribution and Recent Loss of Tigers in China», Integrative Zoology, 5/4 (2010), p. 336. Url https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1111/j.1749-4877.2010.00221.x (ultimo accesso 28 luglio 2019). I grandi punti quadrati, che indicano le località in cui Marco Polo segnala la presenza di tigri, sono stati aggiunti dall’Autore

orientale51. In considerazione di una quantità tanto ingente di dati storici, non è sorprendente che le voci molto più selettive di Marco Polo sulle aree tipiche delle tigri possano essere facilmente integrate in questo quadro più generale. Per ragioni di spazio, presenterò di seguito solo un limitato numero di esempi di piena corrispondenza tra le informazioni contenute nel Devisement dou monde e i dati ricavabili da fonti cinesi. a) Caccia alla tigre ad Acbalac Mangi (Hanzhong ⓶Ё) Verso la fine della dinastia Song, quando Li Xin ᴢᮄ, uno studioso del Sichuan, viaggiò attraverso gallerie scavate nella roccia fra Han51

Kang Aili et al., «Historic Distribution and Recent Loss», cit.

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zhong e Meixian ⳝ㏷ nello Shaanxi, si imbatté in parecchie centinaia di persone che cacciavano le tigri. Erano attrezzate con armi, gong e tamburi, stendardi e bandiere, e il suono della caccia echeggiava tra le rupi e le valli52. b) Falò alimentati da canne di bambù verdi per allontanare le tigri in Tibet Il livello del rumore creato dalle canne di bambù che esplodevano fu certamente esagerato da Marco Polo, ma se si suppone che si trattasse di larghe canne di bambù maozhu ↯ネ – Phyllostachys heterocycla (Carr.) Mitford cv. Pubescens –, si può pensare che l’effetto sonoro fosse maggiore di quello provocato da tipi più piccoli di canne. Finora non ho ancora trovato una testimonianza storica che riferisca dell’uso di tali falò con bambù che esplodevano rumorosamente, ma abbiamo dei resoconti che raccontano dell’utilizzo di fuochi e di rumori per allontanare e scacciare le tigri. Un esempio proviene da un luogo presso Hanzhong (⓶Ё), cioè Acbalac Mangi, nello Shaanxi, risalente all’inizio del periodo Qing (1644-1911)53: Ogni volta che il buio scendeva, le tigri girovagavano per i mercati e seminavano il terrore nelle strade e nelle vie, ferendo [e uccidendo] persone e animali domestici. Bisognava percuotere i gong e accendere fuochi, e per tutta la notte, poiché solo allora se ne sarebbero andate.

c) Caccia alla tigre con i cani a Ciugiu (Xuzhou ᬡᎲ) Il viaggiatore veneziano descrive con una certa quantità di dettagli come, nella provincia del Ciugiu, un cavaliere accompagnato da 52 Li Xin ᴢᮄ, Kua’ao ji 䎼㶃䲚 (Raccolta degli scritti di [Li] Kua’ao), cap. 30, «Chihu wen» ⯈㰢᭛, citato da Cheng Minsheng ⿟⇥⫳, «Songdai laohu de dili fenbu» ᅟҷ㗕㰢ⱘഄ⧚ߚᏗ («Distribuzione geografica delle tigri durante il periodo Song»), Shehui kexue zhanxian ⼒Ӯ⾥ᄺ៬㒓 (Scienze sociali in prima linea), 3 (2010), p. 65. 53 Yao Xiaoxian ྮᬜ‫ܜ‬, Xixiang shengji lu 㽓䛝ࢱ䎵䣘 (Registri di bellezze naturali dello Xixiang), citato da Tao Yuzhi 䱊ஏП, «Hanzhong lidai huhuan gouchen» ∝ Ёग़ҷ㰢ᙷ䩽≝ («Alla ricerca di disastri causati da tigri a Hanzhong nel corso dei secoli»), Hanzhong shifan xueyuan xuebao (shehui kexue) ∝ЁᏜ㣗ᄺ䰶ᄺ᡹ (⼒Ӯ ⾥ᄺ) (Giornale del collegio degli insegnanti di Hanzhong [Scienze sociali]), 15/3 (1997), p. 51.

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due grossi cani riuscisse a cacciare e uccidere una tigre con arco e frecce. Sappiamo che questi animali feroci erano considerati pericolosi sia per gli abitanti, sia per i viaggiatori su vie d’acqua. Basti menzionare qui che la caccia con i cani fu uno dei metodi praticati più tardi dai Manciù, come testimoniato da un dipinto del secolo XVIII che mostra due cani alle calcagna di una tigre nelle riserve di caccia presso il Palazzo estivo di Rehe (➅⊇), nella Cina nordoccidentale. In quel caso si trattava certamente di una tigre siberiana e non di una indocinese, come nel caso del Devisement. Inoltre, i cani utilizzati nel Ciugiu erano con tutta probabilità mastini tibetani54 e, quindi, diversi da quelli mostrati nel dipinto di epoca Qing.

Figura 6 - Caccia ai «leoni» con l’aiuto dei cani nella provincia di Ciugiu. Le livre des merveilles, secolo XV, f. 61r, BnF Fr. 2810

Si veda l’Url https://en.wikipedia.org/wiki/Tibetan_Mastiff (ultimo accesso 29 luglio 2019). 54

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Figura 7 - Cani a caccia di una tigre nelle riserve imperiali della provincia di Rehe (➅⊇), periodo Qianlong (1736-1795). V.W.F. Collier, Dogs of China and Japan in Nature and Art, Frederick A. Stokes Company, New York 1921, p. 78

Figura 8 - Mastino tibetano degli anni Cinquanta dell’Ottocento. Stonehenge (John Henry Walsh), The Dog, In Health and Disease, Comprising the Various Modes of Breaking and Using Him for Hunting, Coursing, Shooting, etc., and Including the Points or Characteristics of Toy Dogs, Longman, Green, Longman and Roberts, London 1859, p. 142

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d) Tigri che attaccano viaggiatori nel Chengiu (Quzhou 㸶Ꮂ) e nel Qenlifu (Jianningfu ᓎᆻᑰ) Zhu Xi (ᴅ➍; 1130-1200), il grande compendiatore dei principi del neoconfucianesimo, racconta a seguito dei suoi viaggi attraverso lo Zhejiang occidentale55: Mentre viaggiavo per diversi giorni consecutivi attraverso le regioni di Qu[zhou] (㸶), Xin[zhou] (ֵ) e Jianning (ᓎᆻ), ho sentito anche che gruppi di tigri selvatiche vanno in giro in pieno giorno e che molti abitanti sono divorati da questi animali lungo le strade. Le persone continuano a piangere e lamentarsi reciprocamente, poiché non hanno nessun posto in cui recarsi a reclamare.

e) Trappola di tigre utilizzata vicino a Fugiu (Fuzhou ⽣Ꮂ) La provincia del Fujian fu particolarmente famosa per la sua popolazione di tigri. Marco Polo narra a proposito di quei luoghi che, grazie a un cagnolino bianco che funge da esca, le tigri vengono catturate e intrappolate in fosse, quindi uccise o tirate fuori ancora vive, e che la loro carne prelibata viene mangiata e le loro pelli preziose vendute. Si paragoni tale descrizione con un regolamento istituito nel settembre-ottobre 128456: In tutti i luoghi che sono afflitti da danni causati da tigri e leopardi, le autorità devono ingiungere severamente che soldati del governo e cacciatori [professionisti di tigri] le catturino [e uccidano] per mezzo di svariati metodi. Se fra loro vi sono persone che non hanno l’obbligo di catturarle, ma che sono in grado di allestire personalmente degli stratagemmi (she ji 䀁″) e catturarle, in tal caso la pelle e la carne delle bestie non devono essere consegnate ai funzionari, ma dovranno essere offerte agli abitanti come ricompensa…

Zhuxi ji ᴅ➍䲚 (Raccolta degli scritti di Zhu Xi), cap. 27, «Yu Zhou chengxiang shu» 㟛਼ϲⳌ᳌, citato da Cheng Minsheng, «Songdai laohu», cit., p. 68. 56 Si veda Yuanshi ‫ܗ‬৆ (Storia della dinastia Yuan), di Song Lian ᅟ▧ (13101381), Zhonghua shuju, Beijing 1976, p. 2686. 55

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4. Alcune conclusioni provvisorie Le tigri sono menzionate puntualmente da Marco Polo e, spesso, soltanto brevemente, seguendo un modello ricorrente, cioè nel contesto della descrizione di luoghi, paesaggi, popoli e prodotti. Tuttavia, oltre ai temi dell’abbondanza di risorse, o degli animali come beni economici e come ostacolo alla circolazione di uomini e prodotti, vi sono quattro passaggi che sono più lunghi e contengono informazioni nuove e più dettagliate. Queste non furono selezionate casualmente dal nostro viaggiatore, ma si riferiscono effettivamente a «zone calde» quanto alla presenza di tigri e, pertanto, celano uno schema non dichiarato, ma piuttosto sistematico. Si può certamente sostenere che Marco Polo assuma un proprio punto di vista autonomo nel descrivere le tigri. Il resoconto che fa di questi animali è neutro, oggettivo, realistico e corretto. Per il viaggiatore le tigri costituiscono un fenomeno naturale, che dev’essere descritto con una certa precisione e, di conseguenza, le sue annotazioni su questo argomento non contengono molte esagerazioni per quanto riguarda il numero, la dimensione, le tipologie e i colori. Non è in gioco alcuna antropomorfizzazione, demistificazione o confutazione, né sono attribuiti alle tigri simbologie o significati morali, didattici, religiosi. Analogamente a quanto riscontrabile per altri argomenti, il libro di Polo ci fornisce solo accenni alla dimensione politica, economica, sociale e culturale delle tigri nella Cina degli Yuan. Mentre la sua testimonianza contiene alcune informazioni sulle aree infestate da questi animali, sui provvedimenti presi contro di essi e sui loro significati di ordine cosmologico, magico, artistico, politico ed economico, il mercante non si esprime in merito alla ricca tematica delle tigri nei miti, nelle leggende, nel folclore, nelle favole, nella narrativa e nella letteratura storica della Cina. Di certo ciò fu dovuto alle sue preferenze personali nella scelta degli argomenti da trattare, ma anche al fatto che egli fu principalmente legato ai dominatori mongoli e ai loro amministratori politici, mentre ebbe pochi contatti con i loro sudditi cinesi e poche possibilità di conoscere la vita di questi ultimi. Non sorprende affatto, quindi, che mancasse di notare un altro importante tema connesso con le tigri che si incontra nella letteratura e nell’arte cinese nel corso del periodo Yuan, vale a dire

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l’idea secondo cui tali animali sarebbero una metafora dell’atrocità dei Mongoli. Sung Hou-mei ci informa che i dipinti che rappresentavano le tigri in Cina subirono cambiamenti radicali durante la dinastia Yuan. Privo del patrocinio imperiale, questo genere di pittura conobbe un netto declino, come molti altri soggetti pittorici del periodo Song. Inoltre, gli studiosi-pittori Yuan incorporarono nei dipinti delle tigri un nuovo simbolismo politico, che servì a manifestare la loro indignazione e frustrazione nei confronti del dominio mongolo. Le tigri, quindi, rappresentarono tipicamente il governo duro e crudele dei Mongoli e le macchinazioni delle «volpi maligne» (yaohu ཪ⢤), cioè degli alleati barbari al loro servizio. Un altro esempio evidente di tale metafora politica che allude alla forza distruttiva dei Mongoli si trova in un poema composto da Wang Xu (⥟ᯁ; 1245-1310)57: Contro il verde dirupo, il corpo [della tigre] appare come un paravento di broccato, i suoi occhi brillano come stelle dorate, scagliate dal sole luminoso. Ovunque passi, i sentieri sono segnati da impronte di zoccoli disordinate, ovunque ruggisca, il vento è permeato dall’odore di sangue. Gli ignari «spiriti delle vittime della tigre» (changgui ‫ה‬儐) sono al suo servizio, e le «volpi maligne» (yaohu) imparano a emulare la sua autorità. Quando smetterà di sorvegliare la porta celeste, e mi lascerà attraversare le nuvole per visitare la corte imperiale?

Tuttavia, mentre da un lato molti aspetti della cultura cinese della tigre sfuggirono o non furono accessibili al mercante veneziano, d’altra parte va sottolineato il fatto che la sua opera contiene informazioni uniche che non si troveranno in nessun altro testo, come i metodi per allontanare le tigri col rumore delle canne di bambù incendiate, o l’utilizzo delle tigri per la caccia. Un ulteriore elemento importante da sottolineare è che Marco Polo fu, probabilmente, il primo europeo a fornire dettagli rilevanti sul significato naturale, politico, economico e culturale delle tigri asiatiche. 57 Sung Hou-mei, «Chinese Tiger Painting and its Symbolic Meanings; Part II: Tiger Painting of the Yüan and Ming Dynasties (Continued)», National Palace Museum Bulletin, 34/1 (1999), p. 34.

CONFINI. NOTE SULLA RELAZIONE FRA STORIA E DESCRIZIONE GEOGRAFICA NEL «DEVISEMENT DOU MONDE»

di Eugenio Burgio

1. Accade di frequente, nelle edizioni moderne del Devisement dou monde, che il testo sia accompagnato da una rappresentazione cartografica1; le linee tracciate nello spazio bidimensionale che chiamiamo «Asia» danno forma visibile a un’ipotesi, basata sulla lettura del testo: ricostruiscono i movimenti di Marco e dei suoi parenti fra Venezia e l’Oceano Indiano negli anni 1270-1295, l’itinerarium nell’Asia unificata dalla Pax Mongolica che fornì a Marco e a Rustichello (il suo scriptor) il materiale per la composizione della «descrizione del mondo». La superficie della carta contiene due dati diversi: la rappresentazione bidimensionale di un territorio (l’Asia) e quella lineare del viaggio. Esse sono l’esito di due esperienze cognitive storicamente date e fra loro contraddittorie, che convivono sulla carta solo al prezzo di un equivoco che solo la nostra abitudine all’uso delle carte (e all’idea che il mondo coincide con la sua rappresentazione geografica)2 ci permette di non vedere. L’equivoco è dare come scontata la possibilità di rappresentare in termini cartografici l’«Asia di Marco Polo» (la «geografia» di cui parla il testo), a partire dall’identificazione/equivalenza dei toponimi poliani con quelli registrati nelle carte moderne3. Esso si nutre di due esperienze, diceUn esempio: la carta in Marco Polo, Milione, versione toscana del Trecento. Edizione […] a cura di V. Bertolucci Pizzorusso. Indice ragionato di G.R. Cardona, Adelphi, Milano 1975 (che riproduce quella di Marco Polo, La Description du Monde, texte intégral en français moderne […] par L. Hambis, Klincksieck, Paris 1955). 2 F. Farinelli, La crisi della ragione cartografica, Einaudi, Torino 2009, p. 18. 3 Cfr. P. Pelliot, Notes on Marco Polo, Imprimerie nationale, Paris 1959-1973; Ph. Ménard, «L’itinéraire de Marco Polo dans sa traversée de la Chine», Medioevo romanzo, 26 (2002), pp. 321-365. 1

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vo, contraddittorie. Da una parte, il disegno della carta, che dipende dalle regole post-tolemaiche della cartografia «moderna» (la «scala» e il dispositivo della proiezione)4; dall’altra, la realtà verbalizzata nel Devisement nella quale è inscritta la mappa (cognitiva) che chiamiamo «l’Asia di Marco Polo»: esito della trasformazione di un «mondo non scritto» in un «mondo scritto», riduzione della variabilità dei realia alla linearità della scrittura5. La scrittura propone insomma un’enciclopedia geografica, come indicano l’incipit del rubricario nel ms. parigino fr. 1116 (cest livre qui est appelé le divisiment dou monde), la formula adottata dalla rubrica della più parte dei capitoli descrittivi («Ci devise de + x [TOPONIMO])», e come è spiegato nella dichiarazione in limine (par. 1), rivolta a chi vuole «savoir les deverses jenerasions des homes et les deversités des deverses region dou monde»: si prennés cestui livre et le feites lire; et chi trover{er}és toutes les grandismes mervoilles et les grant diversités de la Grande Harminie et de Persie et des Tartars et Indie et des maintes autres provinces6.

L’enciclopedia deve la sua forma discorsiva a una «retorica» articolata in tre mosse: (1) nominare/classificare i realia (i luoghi del mondo, innanzitutto) e (2) descriverli; infine, (3) organizzarli in un frame (o meglio, un ordo), che da una parte utilizza i principi della dispositio, dall’altra funziona (nella filigrana del discorso) come manifestazione degli schemi di organizzazione dello spazio che governano l’esperienza di Polo. In quest’occasione vorrei avanzare alcune osservazioni sulle tre mosse che ho definito, e in particolare su un elemento specifico della terza, il ruolo giocato nella sua strutturazione dall’istituto (e dalla nozione) di «confine» (ingl. boundary/border; ted. Grenze; fr. frontière)7. Un lemma di difficile definizione, ma dalla funzione essenziale: F. Farinelli, Geografia, Einaudi, Torino 2003, pp. 10-14. Cfr. I. Calvino, «Mondo scritto e mondo non scritto» (1983), in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Mondadori, Milano 1995, vol. II, pp. 18651875. 6 Cito da Marco Polo, Le Devisement dou Monde, testo a cura di M. Eusebi, glossario a cura di E. Burgio, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2018. 7 Sulla «questione linguistica» tornerò nel par. 5, sub (3). 4 5

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L’idea di una definizione semplice di ciò che è un confine è assurda per definizione, perché tracciare un confine è per l’appunto definire un territorio, delimitarlo e così registrare la sua identità o conferirgliela. Ma reciprocamente, definire o identificare in generale non significa altro che tracciare un confine, assegnare dei confini (in greco horos, in latino finis o terminus, in tedesco Grenze, in inglese border o boundary, ecc.). Il teorico che voglia definire cos’è un confine è in un ginepraio, perché la rappresentazione stessa del confine è la condizione di ogni definizione8.

Con Mezzadri e Neilson si condivide qui un approccio cognitivo alla definizione: partirò dal presupposto che il «confine» sia (nelle sue forme referenziali e metaforiche) un «dispositivo epistemologico» la cui funzione è la «configurazione del mondo»9, sia «scritto» sia (e soprattutto) «non scritto»: I confini […] sono essenziali per i processi cognitivi, perché consentono di stabilire tassonomie e gerarchie concettuali che strutturano il movimento stesso del pensiero. Istituiscono inoltre la divisione scientifica del lavoro associata alla partizione della conoscenza in differenti aree disciplinari. In questo senso, i confini cognitivi si intrecciano spesso con i confini geografici, come succede per esempio nella letteratura comparata…10

«I confini cognitivi si intrecciano spesso con i confini geografici»: Mezzadra e Neilson definiscono una dittologia che ritroviamo nel titolo stesso dell’opus di Polo e Rustichello…11 Sotto questo profilo 8 É. Balibar, «Che cos’è una frontiera?» (1997), trad. it. in Id., La paura delle masse, Mimesis, Milano 2001, pp. 206-212, qui pp. 206-207. 9 «Configurazione del mondo» è definizione di Balibar, ibid., p. 208, ripresa da S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale (2013), trad. it. il Mulino, Bologna 2014, pp. 19 e 33 (e più in generale cfr. i capp. I-II). 10 Ibid., p. 34 (a commento del passo di Balibar cit. alla nota 8). 11 Devisement è deverbale da deviser < lt. *DIVISARE: indica l’atto della division, del partage, del suddividere per confini (Dictionnaire étimologique de l’ancien français, s.v.: https://deaf-server.adw.uni-heidelberg.de/lemme/deviser#devisement, consultato il 18 maggio 2019), o, più analiticamente, «sélection», «fait de sélectionner et d’ordonner des éléments (de toute sorte) en vue d’une réalisation», e ancora «description, discours portant sur un sujet précis, récit, narration» (Dictionnaire du moyen français, s.v. [di R. Martin]: Url http://www.atilf.fr/dmf/, consultato il 18 maggio 2019).

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un dato ben noto agli studiosi della tradizione del Devisement invita a un’altra considerazione preliminare, l’ultima. La versione latina redatta dal domenicano Francesco Pipino nel primo ventennio del Trecento – la più copiata e letta fino all’età moderna12 – divide il testo (di norma suddiviso solo in capitoli) in tre libri: il primo dedicato alle regioni asiatiche fra Costantinopoli e la Mongolia, il secondo all’impero cinese di Qubilai, il terzo alle Indiae. Questa suddivisione trova la sua giustificazione nel sistema di transizioni con cui lo scriptor (l’istanza elocutiva che governa il discorso) annuncia la conclusione di un tema e l’inizio del successivo (un sistema di «cerniere» discorsive descritto da V. Bertolucci Pizzorusso13, su cui tornerò nel par. 4). Pipino divide in tre parti la descrizione geografica dell’Asia14 perché, correttamente, riconosce l’importanza delle due «cerniere» collocate tra i capp. LXXIV e LXXV, CLVI-CLVII: XIX-LXXIV - ASIA CENTRALE (piccola Armenia → Ciandu) Explicit [LXXIV 51] «Or voç laison de ce et vos conteron des grandismes fais et des merveies dou grandisme seingnor des seingnors des tous les Tartars, ce est le tres noble Grant Chan que Cublai est apellés». LXXV-CLVI - CINA/IMPERO YUAN (Canbaluc → Çaiton) Incipit [LXXXIV 4-5] «Or voç ai contés et deviséç des palais. Or voç conterai de la grant vile dou Catai, la ou ceste palais sunt; por coi fui faite et comant. | Il est voir que iluec avoit une ansiene cité grant et noble qe avoit a non Ganbalu, que {a}vaut a dire en nostre lengaje la cité dou seingnor…»15.

12 C.W. Dutschke, Francesco Pipino and the Manuscripts of Marco Polo’s «Travels», Ph.D. Thesis, Ucla, Los Angeles 1993, fornisce la documentazione oggi nota. 13 V. Bertolucci Pizzorusso, «Enunciazione e produzione del testo nel Milione», Studi mediolatini e volgari, 25 (1977), pp. 5-43, poi in Ead., Morfologie del testo medievale, Il Mulino, Bologna 1989, pp. 209-241. 14 Che ha il suo inizio nel cap. XIX, con la Petite Armenie: cfr. la «cerniera» di XVIII 19 / XIX 1 «Or puis que je voç ai contéç tot le fa‹i›t dou prolegue, ensi com vos avés oï, adonc comencerai le livre. || [XIX] Ci devise de la Petite Armenie». 15 I capp. LXXV-LXXXIII sono dedicati alla descrizione della corte di Qubilai a Cambaluc. L’incipit di LXXV 1-2: «Ci devise tous les fais dou Grant Kaan qe orendroit rengne, que Cublai Kaan est apelés, et divise comant il tient cort et comant il mantent seç jens en grant justice; et encore dit de son conqist. | Or vos vueil comencier a cont{i}er en nostre livre tous les grandismes fait e toutes les grandismes mervoies dou Grant Kaan que aorendroit regne, qe Cublai Kaan est apeléç, qe vaut a dire en nostre lengaje le grant seingnors des seingnors».

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Explicit [CLVI 18-20] «Et si voç di toit voirmant qe mesire Marc y demore tant en Indie, e tant en soit de lor afer e de lor costumes e de lor mercandies qe a piece mes ne fu homes que miaus en seuse dir la verité. E bien est il voir qe il hi a de si merveliose couse que bien estront mervillant les jens qe les oiront. Mes toutes foies nos les metteron en escrip‹t› le une aprés le autre, ensint come meser Marc le disoit por verité. E conmençeron tout maintinant, ensi con voç porés oïr en ceste livre avant». CLVII-CCXIX - INDIAE + TURCHIA + RUSSIA EURASIATICA (Giappone → Mar Nero) Incipit [CLVII 1-2] «Ci comance le livre de Indie e devisera toutes les mervoilles que i sunt et les maineres des jens. | Or, puis que nos voç avun contés de tantes provences tereine, com vos avés oï, adonc nos laieron de tout celle matiere e comenceron a entrer in Y‹n›die por contere toutes les merveios couses que hi sunt…»16.

Il fatto interessante è che solo la seconda «cerniera» coincide in effetti con la valorizzazione di un dato geografico, il confine tra terra e mare (l’Oceano Indiano) a Çaiton; la prima è fissata dalla storia, non dalla geografia, perché riguarda i grandismes fais di Qubilai. Questo si ripete nella suddivisione interna della seconda parte: LXXXIV-CXXXVII - CATAI (Canbaluc → Ciugiu) Explicit [CXXXVII 7] «Et desormés, quant l’en passe ceste flun, adonc entre en la grant provence do Mangi, et voç conterai comant ceste provence dou Mangi le conquisté le Grant Chan». CXXXVIII-CLVI - MANGI (Coygangiu → Çaiton)17 Incipit [CXXXVIII 22-CXXXIX 2] «Et por ce noç lairon de lui et de sa feme e de ceste matiere et en torneron a cont{i}er de ‹la› provence dou Mangi, et diron de toutes lor maineres et de lor costumes et lor 16 L’explicit, in CCXIX 3: «E depuis qe noç avavames conmenciés dou Mer Greignor, si nos en pentimes de me{n}tre le en scrit, por ce qe maintes jens le se{i}vent apertement: e por ce en laron atant et comanceron des autres cousses, et vos diron des Tartars dou Ponent, des seingnor que reignent» (i capp. CCXXCCXXXII formano una «monografia» sui conflitti fra i principi mongoli in Asia occidentale). 17 Il cap. CXXXVIII è quasi interamente dedicato alla storia della conquista del Mangi da parte di Qubilai; vd. l’incipit (parr. 1-2): «Comant le Grant Kan conquisté la grant provence dou Mangi. | Il fu voir qe ‹de› la grant provence do Mangi en estoit seingnor et sire Facfur, qe mout estoit grant roi e poisant des treçor e des jens et des terres…».

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faites, bie‹n› et ord‹r›eemant, ensi con vos porrés oïr apertemant. Et nos comenceron dou conmençamant, ce est de la cité de Coigangiu. || Ci devise de la cité de Coycangiu. | Coygangiu est une mult grant cité e noble et riche qe est a l’entree de la provence dou Mangi…».

Qui la storia si sovrappone alla geografia: il «confine» che va superato per «entre[r] en la grant provence do Mangi» è il Qaramoran, il Fiume Giallo (CXXXVII 7), ma la descrizione della provence de Mangi inizia dalla sua eziologia storica, il racconto della conquista dell’impero Song da parte di Qubilai. Questi dati definiscono un tratto costitutivo della percezione geografica di Polo18. I geografi ci spiegano che i luoghi possono essere analizzati sia come portatori di caratteri fisici (montagne, pianure, deserti…), sia come come punti nello spazio (è quello che fa la cartografia), sia come territori, cioè come luoghi che gli uomini acquistano e trasformano19. La partizione interna del Devisement, con la sua enfasi sul dato storico, suggerisce che l’interesse «geografico» del viaggiatore veneziano riguardi più i territori che i luoghi in sé e per sé, più la descrizione delle relazioni tra uomini e ambiente che la definizione di una «geografia fisica». 2. I nomi e la loro classificazione. Osservano i geografi che disegnare una mappa (in senso effettivo, o metaforico) richiede innanzitutto dare un nome ai luoghi20. Nel corpus toponomastico di Devisement sono riconoscibili due tipi di lemmi: (1) i nomi relativi a luoghi noti (diciamo quelli tra Mediterraneo orientale e Levante crociato e musulmano, e quelli asiatici già noti alla tradizione antica), e (2) i nomi – ben più numerosi – che si riferiscono a luoghi dell’Asia fin allora 18 Tratto che – come è stato più volte segnalato – fa sistema con l’intreccio sistematico tra narrazione storica (a cominciare da quella, «autobiografica», del viaggio in Asia) e descrizione geografica nella struttura del Devisement: vd. V. Bertolucci Pizzorusso, «Enunciazione e produzione», cit.; C. Segre, «Introduzione», in Marco Polo, Milione – Le Divisament dou monde, a cura di G. Ronchi, Mondadori, Milano 1982, pp. XI-XXIX, qui pp. XIX-XXIV; A. Barbieri, «Un Veneziano nel Catai: sull’autenticità del viaggio di Marco Polo» (2000), in Id., Dal viaggio al libro. Studi sul Milione, Fiorini, Verona 2004, pp. 9-43, qui pp. 31 e sgg. 19 Cfr. F. Farinelli, La crisi della ragione cartografica, cit., pp. 14-15 (cfr. C. Raffestin, Per una geografia del potere [1980], trad. it. Unicopli, Milano 1981). 20 F. Farinelli, Geografia, cit., pp. 38-39.

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incognita. Le liste ricavabili dai repertori di Hallberg e di Pelliot21 permettono tre osservazioni. (1) La forma grafica dei nomi del secondo gruppo dipende dall’esperienza diretta di Polo, attinta da informatori locali; la trafila pare essere: fonte orale → trascrizione di Polo22 → «traslitterazione» nel francese di Rustichello. (2) L’esperienza diretta sembra la fonte privilegiata anche quando la tradizione culturale fornisce un’alternativa; in area vicino-orientale, Toris/ Tabriz è definita «une grant cité qui est en une provence qui est apelés Yrac» (XXIX 2): la collocazione della provence sotto l’etichetta «Persia», di tradizione antica, sarebbe stata corretta, ma Polo preferisce il toponimo «Iraq» – che dipende sicuramente dalla definizione araba della regione, Irāq ʿajamī («ʿIrāq persiano») –, fornendo così la sua sola attestazione nel lessico geografico medievale23. (3) Di fronte a queste informazioni di prima mano Polo fa i conti, inconsapevolmente, con i limiti della propria competenza linguistica, e in particolare con i toponimi cinesi: in generale, sfugge del tutto al viaggiatore che le sillabe -fu e -giu/-ciu di molti toponimi urbani rinviano a diverse definizioni di Prefectures ( fu, zhou)24. La citazione di Toris/Tabriz offre anche un esempio della formula con cui iniziano le corografie nel Devisement: la sequenza «X (TOPONIMO) + ESSERE + lemma classificatore + collocazione geografica». La tipologia di lemmi classificatori adottata da Polo è piuttosto semplice: cité, vile, provence, roia(u)me(s), rengne sono i più frequenti (e nelle Indiae dominano incontrastati, ovviamente); e poi, molto più rari: plain(e), contree, desert, deçert…; il lemma casteus, c(h)astaus appare solo in CVII, per classificare Caiciu, altrimenti è utiliz21 I. Hallberg, L’Extrême Orient dans la littérature et la cartographie de l’Occident des XIII e, XIV e et XV e siècles, Zachrisson, Göteborg 1906; P. Pelliot, Notes on Marco Polo, cit. 22 Cfr. F. Borlandi, «Alle origini del libro di Marco Polo», in Studi in onore di Amintore Fanfani, Giuffrè, Milano 1962, vol. I, pp. 105-147. 23 S. Cristoforetti, «Hirach», in G.B. Ramusio, Dei viaggi di messer Marco Polo, gentiluomo veneziano, edizione critica digitale a cura di S. Simion ed E. Burgio, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2015 (http://virgo.unive.it/ecf-workflow/books/Ramusio/lemmi/Hirach.html, consultato il 19 maggio 2019). Cfr. I. Hallberg, L’Extrême Orient dans la littérature et la cartographie, cit., p. 563 e P. Pelliot, Notes on Marco Polo, cit., n. 385, s.v. 24 Vd. D.M. Farquhar, «Structure and Function in the Yüan Imperial Government», in China under Mongol Rule, ed. by J.D. Langlois Jr., Princeton University Press, Princeton 1981, pp. 25-55, qui pp. 33-34.

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zato nella dittologia cités/viles + c., per descrivere l’urbanizzazione di un luogo. Si può inoltre osservare che provence è, rispetto a cité, parola usata più frequentemente nella descrizione dell’Asia centrale, ma il rapporto si inverte, in maniera progressivamente più decisa, nella descrizione della Cina Yuan: nel «Catai» sono registrate 13 provences e 16 cités, nel «Mangi» una sola provence (Nanghin: CXLIV) e 24 cités – a quanto pare, per Marco la Cina (meridionale) è essenzialmente il paese delle città. Quale significato dobbiamo attribuire a provence, lemma che, possiamo supporre, fu scelto da Rustichello da Pisa per tradurre il «provincia» di Marco? I dizionari on line dell’italiano e del francese antichi25 distinguono tra un uso specificamente riferito all’antichità (le unità territoriali dell’impero romano) e uno legato alla realtà istituzionale medievale, e in tal caso precisano un significato religioso (circoscrizione ecclesiastica, insieme di monasteri dipendenti da un provincialis) e uno laico (per estensione dell’uso latino: divisione territoriale); infine, riconoscono l’attestazione di un significato generico: «partie du monde, contrée», «regione, paese». Credo che questo sia il significato che il Devisement attribuisce a provence: per questo in XXXII 2 si può spiegare che «en Persie a .VIII. roiames, por ce qu’el est grandisme provence», e che Tebet «est grandisimes provence, qu’il hi a .VIII. roiames et grandisme quantité de cités et de castiaus» (CXV 3). E va notato che – secondo i repertori lessicali – l’uso generico è precoce in Italia rispetto alla Francia. 3. Descrizione. Polo è, in Asia, un outsider 26: arriva dall’esterno, e il suo sguardo «cerca di ridurre a quel che già conosce ciò che vede per la prima volta». Le sue parole definiscono un paesaggio: e il 25 Ho consultato (tutti per l’ultima volta il 19 maggio 2019): la base dati del TLIO - Tesoro della lingua italiana delle Origini, s.v. (http://gattoweb.ovi.cnr.it/(S(q444 jo45tresequcgzd04c45))/CatForm21.aspx); il Dictionnaire Étymologique de l’ancien français (https://deaf-server.adw.uni-heidelberg.de/lemme/province); il Dictionnaire du Moyen Français, s.v. «province» (http://www.atilf.fr/dmf/); l’Anglo-Norman Dictionary (http://www.anglo-norman.net/D/province). Cfr. G. Dupont-Ferrier, «Sur l’emploi du mot ‘province’, notamment dans le langage administratif de l’ancienne France», Revue historique, 160 (1929), pp. 241-267. 26 Secondo la definizione di D. Cosgrove, Realtà sociali e paesaggio simbolico (1984), trad. it. Unicopli, Milano 1990, pp. 38 e 246-247, ripresa da F. Farinelli, Geografia, cit., pp. 40-41.

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«paesaggio» «non si compone di cose ma è soltanto una maniera di vedere e rappresentare (di guardare) le cose del mondo»27. Il paesaggio è l’immagine mentale di un luogo. Il paesaggio dell’Asia, nel Devisement, ha poco o nulla a che fare con la geografia fisica e con la materialità dei luoghi; in generale l’indicazione di luoghi naturali (montagne, foreste, fiumi e laghi, deserti) è poco frequente, e la descrizione serve solo a indicare la reazione che a loro oppongono gli esseri umani28. Due esempi per tutti. La descrizione del deserto di Lop si concentra più sulla difficoltà dell’attraversamento – la difficoltà di trovare acqua, l’impossibilità di cacciare animali commestibili – che sulla natura «spaventosa» dei luoghi, che sono «toutes montagnes et sablon et valés, e ne i se trouve rem a mangier» (LVI 6-10); del fiume Qaramoran si enfatizzano larghezza (un miglio) e profondità solo in funzione della descrizione della grande quantità di navi imperiali (oltre quindicimila!) che corrono nelle sue acque (DM CXXXVII 6). In un certo senso, si potrebbe suggerire che la «natura» per Polo è una sorta di elemento indifferente, perché intermedio tra un territorio e un altro: un vuoto tra due pieni della civilizzazione del mondo, di cui importa segnalare solo la sua ostilità (o la sua disponibilità) all’azione degli uomini. Allo stesso modo, la descrizione delle provences e delle cités insiste meno sulle loro caratteristiche corografiche che sulle qualità della loro antropizzazione. Questo risulta particolarmente evidente nella descrizione dei luoghi del Mangi, la Cina Song conquistata da Qubilai nel 1279: lo sguardo di Polo si sofferma sulle attività degli abitanti (sono artigiani e commercianti), sulle pratiche funerarie (sono incineratori), sui prodotti (la seta ecc.), ma nulla dice sulla fisionomia esteriore di queste città. Il Mangi è in sostanza una lunga serie di toponimi urbani, in cui è possibile articolare un mondo, una realtà sociale sempre uguale. Le eccezioni sono rarissime, e giustificate da ragioni che hanno a che fare con la storia più che con la geografia. Tra le città cinesi, hanno diritto a una descrizione più dettagliata (talvolta anche dal punto di vista urbanistico/topografico): Canbalu(c), perché è la «Città nuova», la capitale voluta e proIbid., p. 41. Sulla questione, e da un rispetto più generale, vd. A. Barbieri, «Marco Polo e la montagna» (2004), in Id., Dal viaggio al libro, cit., pp. 177-194. 27 28

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gettata da Qubilai (LXXXIV); Quengianfu, perché è sede del palazzo del figlio di Qubilai, Mangalai (CX); e infine Quinsai, la città cinese che più ricorda a Polo la sua Venezia, e che conserva ancora le tracce di un glorioso passato, il palazzo imperiale dell’ultimo sovrano Song (CLI 7-8, 10-13, 28-31). 4. Il «libro» promette il devisement, la spiegazione partitamente analitica29 delle «grandismes mervoilles et […] grant diversités» dell’Asia, e promette di farlo in maniera ordinata: «si con notre livre voç contera por ordre apertemant» (prol. 1). I frammenti di CXXXVII 7, CXXXVIII 22 citati nel par. 1 indicano che nella struttura del testo l’ordine degli spostamenti fisici del viaggiatore coincide con l’ordine della descrizione: l’outsider attraversa il fiume, entra così nel Mangi e in tal modo può procedere nella descrizione, ordinatamente e dall’inizio, cioè dalla prima città che si incontra dopo il fiume. Nella composizione dell’enciclopedia corografica la sintagmatica della descrizione mima la sequenza temporale degli spostamenti «da-a», secondo un dispositivo della rappresentazione – ben noto nella letteratura poliana30 – che si fonda su tre componenti strutturali: (a) una struttura frastica che prevede l’indicazione della partenza da un luogo («Quant l’en s’en part de») e l’arrivo nel successivo, struttura in cui il/i verbo/i (per lo più di movimento) sono usati in funzione sia referenziale sia metaforica per indicare lo spostamento nello spazio del mondo sia «non scritto» sia «scritto»; (b) la quantificazione dello spostamento, misurato nello spazio-tempo attraverso l’unità delle journee(s); (c) l’orientamento della direzione, affidata a generiche specificazioni cardinali definite dai venti («ver le midi», «ver isceloc», «entre grec et levant»)31. Nella rappresentazione prende allora forma una mappa dell’Asia «pensata» da Polo in termini non bidimensionali, ma lineari: Vd. nota 11. V. Bertolucci Pizzorusso, «Enunciazione e produzione», cit. 31 Cfr. la seguente breve sequenza (XLV 13-XLIX 2): 29 30

DM XLV

[13] Et quant l’en s’en part de cest cité qe je voç ai dit desovre, l’en ala trois jornee que ne trove abitasion nulle, ne a mangier ne a boir, mes les viandant l’aportent cun elz. [14] Et a chief de trois jornee treuve l’en la provence de Balasian, et voç divisarai de son afer.

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essa non «rappresenta la superficie del suolo come vista da un occhio extraterrestre», ma è «il promemoria della successione delle tappe, il tracciato d’un percorso»; è «una immagine lineare» in cui – secondo una modalità pre-moderna – convivono il tempo e lo spazio, la geografia e la storia (innanzitutto, la biografia dei Polo): essa, «anche se statica, presuppone un’idea narrativa, è concepita in funzione di un itinerario»32. La linearità è modalità retorica del discorso e schema cognitivo. La percezione dello «spazio» è affidata alla «lunghezza» dei luoghi, misurabile nella durata delle journee(s)33: la Grande Armenia comincia DM XLVI

[1] Ci devise de la grant provence de Balascian. | [2] Balascian est une provence que les gens aorent Maomet et ont langajes por elz… [21] Or voç avun dit de cest roiame et en laiseron atant et voç conteron d’une deverse gens qe sunt ver midi, longe de ceste provençe .X. jornee.

DM XLVII [1] Ci devise de la grant provence de Pasciai. | [2] Il est voir qe .X. jornee ver midi loingne da Balascian a une provence qe s’apelle Pasciai… [8] Or laison de ceste et voç conteron do un autre provence, qe est longe de ceste .VII. jornee ver isceloc, qe a nom Chesinmur. DM XLVIII [1] Ci devise de la provence de Kesimur. | [2] Kesimur est une provence que encore sunt ydoles et ont lingajes por soi. [17] Or voç lason de ceste provences et de cest parties, e ne iron avant, por ce qe, se nos alaisomes avant, nos entreronmes en Yndie, et je ne i voil entrer ore a cestui point, por ce que, au retorner de nostre voie, vos conteron toutes les couses d’Ynde por ordre; et por ce retorneron a nostres provence ver Baldasciam, por ce que d’autre partie ne poron aler. DM XLIX [1] Ci devise dou grandisme flum de Badascian. | [2] Et quant l’en se part de Badascian, l’en ala douçe jornee entre levant et grec sor por un flum qui est do frere au seingnor de Badasciam…

I. Calvino, «Il viandante nella mappa» (1980), in Id., Collezione di sabbia, Garzanti, Milano 1984, pp. 23-29, qui pp. 23 e 24: Calvino sta parlando della «Tavola di Peutinger». 33 Sola eccezione è la descrizione del sistema postale imperiale (ianb: vd. XCVII): le sue stazioni sono a distanze indicate in miglia (ogni 25-30 è la norma – «en toutes .XXV. miles, ou ongnes .XXX., sunt ceste poste qe je voç ai dit, ce est en toutes les principaus voie que vunt a les provences qe je voç ai contés desovre» [XCVII 6] –, ogni 35-40 nelle zone più impervie). La misura delle miglia appare raramente nella descrizione dell’Asia continentale, per lo più riferita a fiumi, laghi e ponti; domina invece nell’isolario oceanico. 32

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dalla città di Arçinga (XXI 2); Gaindu, nel Catai, finisce sul fiume Brius (CXVI 16); i luoghi durano fino a un altro – l’estensione del dominio dei Tartari di Levante arriva fino a Balc (XLIV 5), la Russia fino all’Oceano (CCXVIII 6) – o misurano una «durata» che viene quantificata. Il discorso di Polo non pare comprendere la nozione di area, ma solo quella di perimetro: il deserto di Lop «est long{o}, selonc qe l’en dit, tant que en un a‹n› ne aleroit l’en au chef, et la o il est moin large, se poine a passer un mois» (LVI 6); nella provincia di Carajan si trova un lago che «gire environ bien .C. miles» (CXVII 12)34. 5. Per quanto concepito e presentato come una totalità, un oggetto basato sul continuum di un’esperienza concreta (perché al viaggio corrisponde l’itinerarium che sorregge il «libro» – «prennés cestui livre»: un testo e un oggetto), il monde di Marco Polo si offre al destinatario secondo i modi del deviser, della spiegazione articolata e analitica in una sequenza di unità testuali identificate dalle «cerniere» di cui s’è detto. La questione, a questo punto, è: cosa corrisponde fuori del livre, nello spazio esperito dal viaggiatore, alla segmentazione del continuum spaziale in territori che ne struttura il testo? In altri termini, ci sono nel livre, e quali sono, dei segni (lemmi, o strutture frastiche) che propongano l’esistenza di confini, ovvero di delimitazioni/articolazioni fisiche e cognitive nel corpo eurasiatico attraversato dai Polo, e con essa la loro appercezione consapevole da parte del viaggiatore? Un primo abbozzo di risposta può venire dal dominio lessicale: dalla presenza nella testura del Devisement di entrate che rinviino all’isotopia del confine come strumento di articolazione/distinzione territoriale. Gli esiti dello spoglio, condotto a partire dal glossario citato sopra35, sono sintetizzati nella tavola in appendice. Tre sono i fatti che mi paiono degni di analisi e commento. (1) Il primo afferisce alla variazione diatopica interna al lessico romanzo antico. L’uso lessicale del Devisement conosce solo termini riconducibili alla base FINIS: l’hapax (di natura metaforica) fin in II 34 Il verbo girer/çirer appare per lo più in contesti simili, nella misurazione di spazi circolari, città, isole o bacini acquei (XXII: il mar Caspio; CXIII: la città di Sindifu; CLXXII 2: l’isola di Seilan). Vd. Marco Polo, Le Devisement dou Monde, cit., glossario, s.v. 35 Cfr. la nota 6.

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11, e quindi il sost. confin, l’agg. confines, il verbo confiner; mancano attestazioni dell’antico/medio francese frontiere (ma presente pure nell’italiano antico) e delle occorrenze romanze di LIMES36. Il francese di Marco e Rustichello ricorre qui, con larga probabilità, a un italianismo: confine è bene assestato (e con ricchezza di sfumature semantiche) nella tradizione volgare, almeno dalla metà del Duecento, mentre gli esiti di FINIS in francese antico sono rari e tardivi, fra Tre e Quattrocento37. Sono diciassette occorrenze in tutto: un bottino non proprio numeroso. (2) Con qualche cautela, è possibile ricondurre le occorrenze a una griglia semantica che pare funzionare all’interno di una logica storiografica38. (a) Confin ecc. servono a definire la posizione di un oggetto corografico entro un limite spaziale: ciò vale per i pozzi di petrolio in Armenia [1], per il regno di Tonocain all’interno della Persia [4], per la miniera di andanico nella provincia di Chinchintalas (Turkestan orientale) [6], per la città di Acbalec Mangi [8], per Ouchacea/Oucaca (Ügek, sul Volga), città nel dominio dei Tartari di Ponente (l’Orda d’Oro) [11]. (b) I lemmi dell’isotopia di (CON)FINIS designano le articolazioni esterne fra unità territoriali, diremmo tra Stati. Il termine di riferimento pare essere sempre la posizione «politica» del territorio definito rispetto all’ulus mongolo (l’impero 36 Frontiere: vd. W. von Wartburg, Französisches Etymologisches Wörterbuch, Klopp, Bonn 1928-, vol. III (1949), pp. 818a-822b, s.v. «frons»; A. Tobler, E. Lommatzsch, Altfranzösisches Wörterbüch, Steiner, Berlin-Wiesbaden 1925-2005, vol. III (1954), col. 2309, s.v. «frontiere»; TLIO, cit. (consultato il 10 ottobre 2018). LIMES: L. Febvre, «Frontière: le mot et la notion» (1927), in Id., Pour une histoire à part entière, Sevpen, Paris 1962, pp. 11-24; D. Nordman, Frontières de France. De l’espace au territoire XVI e-XIX e siècle, Gallimard, Paris 1998, pp. 21-66; M. Pfister, «Grenzbezeichnungen im Italoromanischen und Galloromanischen», in Grenzen und Grenzregionen, hrsg. von W. Haubrichs und R. Schneider, Saarbrücker Druckerei und Verlag, Saarbrücken 1994, pp. 37-50. 37 Cfr. «Confine (1)» nel TLIO (consultato il 17 ottobre 2018); Französisches Etymologisches Wörterbuch, vol. II (1946), p. 1035a-b, s.v. «confinis» (la prima attestazione di confins è in Commynes, in pieno XV secolo); vol. III (1949), 561b, s.v. «finis». 38 Tutte le informazioni storiche a cui si farà riferimento sono desunte dalle note all’«Indice dei nomi» in Marco Polo, Le Devisement dou Monde, cit., vol. II, pp. 309-335 e dalle schede dell’edizione digitale del Milione ramusiano: «Achbaluch Mangi», «Armenia», «Bangala», «Caidu», «Caraunas», «Mien», «Naiam», «Regione delle Tenebre», «Thebeth», «Zagathai», «Zorzania», http://virgo.unive.it/ ecf-workflow/books/Ramusio/main/lemmario.html (consultato l’11 luglio 2019).

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di Qubilai innanzitutto, ma pure le entità asiatiche occidentali): l’Armenia, parzialmente indipendente dai Mongoli (il regno cilicio detto «piccola Armenia») [2]/[13]; la Persia ilqanide (o dei Tartari di Levante), divisa in otto regni (XXXII 3) [5]; la «Provincia dell’Oscurità» (Siberia), la Russia e Lac, tutte estranee all’ulus [15]/[16]/ [17]; il Tibet, sottoposto all’egemonia mongola dal 1240 in modo alterno e diseguale [12]; le regioni a sud-ovest dell’impero: Mien (Myanmar, conquistato tra 1277 e il 1287) e Bengala (rimasto indipendente da Qubilai) [9]/[10], segnalate a les confin dell’India Maior, il subcontinente del tutto estraneo all’egemonia degli eredi di Činggis (come risulta anche da [3], frammento che narra lo sconfinamento in territorio indiano di un re dei Caraunas, Nugodar, dopo essersi ribellato a Čaγatai – il secondogenito di Činggis, dal 1227 signore dell’ulus tra lo Xinjiang e l’Iran orientale, all’epoca confine dell’impero). La stessa logica pare presiedere alle indicazioni su partizioni «interne» all’Asia dominata dalla Pax Mongolica: confines in [7] serve a delimitare la bipartizione dell’impero Yuan tra Catai (la Cina settentrionale) e Mangi (il regno dei Song, la cui conquista si concluse nel 1276); confiner in [14] designa la prossimità tra il dominio dell’ilqan di Persia Abaγa (m. 1282) e le terre di Qaidu, il pronipote di Činggis (m. 1301), eterno avversario di Qubilai. (3) A quale reale rinvia questo lessico? In italiano «confine» e «frontiera» tendono alla sinonimia, ma nella letteratura geografica/geopolitica si tratta di due realia distinti: l’ingl. boundary (fr. frontière), una distinzione territoriale concepita come lineare; la frontier (fr. frange pionnière), una demarcazione del contatto/distinzione tra due poteri definiti in termini areali, come zona39. La domanda tematizza una questione di storiografia dibattuta fra i medievisti, su cui tornerò subito (nel par. 6). In apparenza, il secondo corno del dilemma pare più verosimile: nessuno dei passi in cui occorrono i lemmi relativi a (CON)FINIS rinvia o allude alla descrizione di articolazioni lineari, magari fissate da signa sul terreno; in CXXXVII 7 (cfr. par. 1) il Fiume Giallo non è definito un «confine»; come s’è detto (par. 2 e nota 24) il Devisement pare non avere notizia e com39 Cfr. P. Sereno, «Ordinare lo spazio, governare il territorio: confine e frontiera come categorie geografiche», in Confini e frontiere nell’età moderna. Un confronto tra discipline, a cura di A. Pastore, F. Angeli, Milano 2007, pp. 45-64.

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prensione dell’articolazione amministrativa delle regioni della Cina Yuan (e quindi delle sue distinzioni territoriali); il cap. CXI descrive come confines tra Catai e Mangi una zona che si attraversa in più di venti jornees di cammino; e si noti poi che il Devisement tace dell’esistenza di due tradizionali «confini» asiatici: non si parla del Don, che nella geografia dei clerici medievali divide l’Europa dall’Asia, e neppure della Grande Muraglia, il sistema difensivo nella Cina settentrionale considerato dagli studi moderni la linea distintiva tra le culture nomadico-pastorali turco-mongole e l’ordinata realtà socioeconomica cinese40.

40 Il riconoscimento del Don come border tra Asia ed Europa è un correlato della tripartizione dell’oikouméne in «Europa-Asia-Africa», certificata da Agostino in De civitate Dei (sulla scorta della triplice progenitura di Noè), accolta nelle mappaemundi di tipo «T-O» e ancora attiva nella Cosmographiae introductio di Martin Waldseemüller (1507: vd. W. Iwańczak, «Borders and Borderlines in Medieval Cartography», in Frontiers in the Middle Ages, ed. by O. Merisalo, Fiiém, Louvain-laNeuve 2006, pp. 661-672, qui p. 663). «The edge of the Mongolian plateau to the south, which overlooked China, was demarcated by the Great Wall. While the frontier here was linear, it was hardly fixed, for it straddled a transitional zone that could support either nomads or farmers. Yet it was not pasture which attracted the nomads, but the riches of China, making the border a magnet for tribes from all over the steppe»: T.J. Barfield, The Perilous Frontier: Nomadic Empires and China, 221 BC to AD 1757, Blackwell, Cambridge (Mass.) - Oxford 1989, p. 17, riassume un lungo dibattito sulla natura del confine settentrionale cinese, e sulla sua «porosità» nella bimillenaria relazione tra Impero e i nomadi del Nord, intessuta di conflittualità endemica e di importanti relazioni economiche e culturali. Vd. pure N. Di Cosmo, Ancient China and Its Enemies: The Rise of Nomadic Power in East Asian History, Cambridge University Press, Cambridge 2002, in part. pp. 13-43. Gli studi in questo ambito devono molto ai classici lavori di O. Lattimore, The Inner Asian Frontiers of China (1940), e Studies in Frontier History (1962): cfr. pure N. Berend, «Medievalists and the notion of Frontier», The Medieval History Journal, 2 (1999), pp. 55-72, qui pp. 60 e 63; C. Lamouroux, «Frontières de France, vues de Chine», Annales H.S.S., 58 (2003), pp. 1029-1039, qui pp. 1032-1033; H.R. Clark, «Frontier discourse and China’s maritime frontier: China’s frontiers and the encounter with the sea through early imperial history», Journal of World History, 20 (2009), pp. 1-34, qui pp. 5-6. Non va dimenticato che l’assenza della Grande Muraglia nel repertorio delle «cose viste» da Polo è tradizionalmente considerata una prova del fatto che il viaggiatore non giunse mai in Cina, e riferì nel Divisement solo informazioni di seconda mano; per tutti cfr. F. Wood, Did Marco Polo Go to China?, Secker & Warburg, London 1995, e le obiezioni (che condivido) di A. Barbieri, «Un Veneziano nel Catai», cit., pp. 26-27.

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6. I fatti allineati nel par. 5 inducono a un paio di considerazioni conclusive, che dalla percezione dello spazio (meglio, dei territori) esibita dal Devisement possono allargarsi al contesto «culturale» (in senso largo) in cui l’esperienza di/dei Polo era immersa. (1) La relativa povertà (in termini di occorrenze, e di loro frequenza) del lessico confinalis suggerisce che il tema della divisione spaziale del mondo (l’Asia, in questo caso) non fosse decisivo per l’auctor della sua «descrizione»; le occorrenze raccolte, poi, paiono rappresentare il passaggio del «confine» come un’azione che riguarda meno linee che zone. Questo può essere messo in relazione con la forma dell’esperienza che sorregge la «descrizione»; la tripartizione del livre (par. 1) risponde a tre modalità diverse: il viaggio carovaniero lungo la rete della «Via della seta»41, i movimenti nel tessuto urbano dell’ulus Yuan, lo spostamento marittimo dalla Cina meridionale fino al Golfo Persico; d’altra parte, l’insieme dei movimenti ha come riferimento un frame «politico» (e quindi cognitivo) unitario. Non va dimenticato che il viaggio dei Polo – come degli occidentali che si mossero in Asia tra metà XIII e metà XIV secolo, lasciandone referto scritto – fu reso possibile dalla Pax Mongolica, ovvero da condizioni esistenziali garantite dall’unificazione dell’Asia sotto una sovranità unica: concepita nella forma di una federazione di poteri (gli ulus: quello Ilqan, l’Orda d’Oro, l’Impero Yuan…) dotati ciascuno di ampi margini di autonomia (e disponibili alla reciproca conflittualità, più volte registrata nel Devisement), essa configurava al contempo una compatta «Eurasian Trade Sphere» di cui il viaggiatore riconosceva le evidenze – particolarmente in Cina – nelle infrastrutture comunicative e nella sicurezza dei loro percorsi, nell’utilizzo di «issued paper currency based on an empire-wide silver standard», e nel carattere multietnico della società e dell’amministrazione imperiale42. In tal senso si può registrare che l’uso Vd. D. Christian, «Silk roads or steppe roads? The silk roads in world history», Journal of World History, 11 (2000), pp. 1-26. 42 Come ricorda T.J. Barfield, The Perilous Frontier, cit., p. 198, «the Mongol conquest of China, most of southwest Asia and eastern Europe created a new empire of unparalleled power and extent. It united the eastern and western parts of Eurasia into a single political order, facilitating the flow of people, trade, and ideas». La cit. a testo è di D.M. Robinson, Empire’s Twilight: Northeast Asia Under the Mongols, Harvard-Yenching Institute, Cambridge (Mass.) - London 2009, pp. 48 e 41

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linguistico, da parte di Polo, delle categorie geografiche ha un fondamento storico: la totalità imperiale – che si invera nella celebrazione di Qubilai (capp. LXXV-CIII) – è la specola da cui osservare i territori che confinent all’esterno, e le macro-suddivisioni interne (Catai e Mangi sono due entità separate – riconoscibili attraverso le vie di comunicazione che vi conducono dai dintorni di Canbaluc, la capitale43 – perché la loro storia le distingue); le altre partizioni sono in qualche misura implicite nell’articolazione «a tappe» del viaggio. (2) La relativa indifferenza per la natura «lineare» dei confini di Polo è peraltro un dato di lunga durata nell’immaginazione medievale, almeno per quanto riguarda le grandi strutture politiche – «zonal frontiers were the norm when it came to larger territorial units»44 – e sgg. Vedi poi T.J. Barfield, The Perilous Frontier, cit., pp. 205, 219-220; J.D. Langlois Jr., «Introduction», in Id. (ed.), China under Mongol Rule, cit., pp. 3-22; M. Rossabi, «The Muslims in the Early Yüan Dynasty», ibid., pp. 257-295. 43 «Et quant l’en est parti de ceste ville et alés un mil, adonc treuve l’en deus voies, que le une ala a ponent et le autre a sciloc. Celle dou ponent est dou Catai et celle do siloc vait ver la grant provence dou Mangi» (CV 4-5). 44 N. Berend, «Medievalists and the notion of Frontier», cit., p. 69 (il migliore studio d’insieme sul tema – che continua: «… Indeed, one of the conclusions that recur whether scholars write about the Great Wall of China, Byzantine defence system of the seventh century, or medieval Europe, is that a linear border was never created in practice for large territorial units; these frontiers always remained imprecise and zonal in the pre-modern age»). La situazione è diversa su scala minore: B. Guénée, tra l’altro in «Des limites féodales aux frontiers politiques» (1986), in Les lieux de la mémoire, sous la direction de P. Nora, Gallimard, Paris 1997, vol. I, pp. 1103-1124, ha polemizzato contro il «mito» del carattere flou dei confini feudali francesi (fissato da P.G. de La Pradelle, La Frontière. Étude de Droit international, Les Éditions internationales, Paris 1928, pp. 33-36), mostrando come a livello locale durante il basso Medioevo amministrazioni religiose e laiche fossero perfettamente in grado di concepire confini lineari, ricorrendo a signa spaziali (fiumi, rocce ecc.) che ne permettevano la difesa nel caso di conflitto giurisdizionale (C. Constable, «Frontiers in the Middle Ages», in O. Merisalo [ed.], Frontiers in the Middle Ages, cit., pp. 3-28, qui pp. 9 e sgg.; P. Marchetti, De iure finium. Diritto e confini tra tardo medioevo ed età moderna, Giuffrè, Milano 2001, pp. 26 e sgg., 99-100). Nell’Italia comunale va ricordato il fenomeno dei libri terminorum redatti tra XIII e XIV secolo, con i quali le città-Stato manifestavano «la volontà di definire, addomesticare e riconoscere quella che era la loro identità spaziale» (G. Francesconi, F. Salvestrini, «La scrittura del confine nell’Italia comunale. Modelli e funzioni», in O. Merisalo [ed.], Frontiers in the Middle Ages, cit., pp. 197221, qui p. 216).

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le definizioni linguistiche, almeno in francese (lingua scelta da Polo per la stesura e la circolazione del Devisement): come ha dimostrato D. Nordman, rielaborando e arricchendo i dati raccolti da Febvre, la storia semantica di frontiere (mod. frontière) è la storia del progressivo assorbimento di un significato zonale in uno lineare: usato a lungo per indicare «linea di combattimento» formata da uomini o piazzeforti, progressivamente tra Quattrocento e XIX secolo il lemma indicò la «linea di divisione» tra territori45. Il fatto è che la tematizzazione e la prassi sulla natura lineare del confine come strumento di delimitazione di un territorio (uno spazio governato da un potere, che nella sua delimitazione definisce all’interno e all’esterno la propria identità) sono fatti moderni, connessi alla pax europea successiva alla Guerra dei trent’anni (1648)46; ed è alla territorializzazione della nozione di sovranità tra Quattro e Cinquecento che va attribuita la nuova curvatura semantica di frontiere, parallela alla definizione lineare del suo reale. Ma lo Stato feudale «résultait de l’addition, de l’agglomération de seigneuries en nombre plus ou moins considérable. Or, ces seigneuries étaient moins des territoires que des ensembles de droits», con l’effetto che una certa terra risultava parte di una contea «solo per il fatto che il suo signore rendeva omaggio a un determinato conte ed i suoi abitanti fossero giudicati in suo nome» – ma bastava un cambio di 45 L. Febvre, «Frontière: le mot et la notion», cit., pp. 22-24; D. Nordman, Frontières de France, cit., pp. 21-66 (anticipato in Id., «Frontiera e confine in Francia: evoluzione dei termini e dei concetti», in La frontiera da stato a nazione, a cura di C. Ossola, C. Raffestin e M. Ricciardi, Bulzoni, Roma 1987, pp. 39-55). N. Berend, «Medievalists and the notion of Frontier», cit., pp. 65-66 ha precisato il quadro: «the first appearance of the word ‘frontier’ (as a border, but not necessarily a state boundary) is traced to the twelfth century in Spain [frontera], to the thirteenth century in Italy and to 1312 in France». 46 «Les frontières sont des discontinuités territoriales, à fonction de marquage politique. En ce sens, il s’agit d’institutions établies par des décisions politiques, concertées ou imposées, et régies par des textes juridiques. […] Lignes de partages des souverainités, elles enveloppent […] des térritoires régis par une souveraineté étatique et formant le cadre de l’attribution et de la transmission d’une nationalité, d’une citoyenneté comme lien juridique d’un État à sa population constitutive. Pas d’identité sans frontières. […] La souveraineté […] doit être mutuellement reconnue, depuis 1648» (M. Foucher, L’obsession des frontières, Perrin, Paris 20122, pp. 19-20; e cfr. P. Sahlins, Boundaries: The Making of France and Spain in the Pyrenees, University of California Press, Berkeley 1989, pp. 2-3).

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omaggio per determinare una nuova «geografia politica». Se dunque il regnum era meno il governo del territorio che degli uomini, è chiaro che la definizione lineare del territorio risultava un’azione poco significativa47. (3) Su un piano più astratto, queste notazioni confermano un’osservazione di Aron J. Gurevič: «lo spazio dell’uomo del Medioevo non è astratto né omogeneo, ma è individuale e qualitativamente eterogeneo. Non è inteso come forma che precede la sensazione»48; su un altro versante, convergono con quanto s’è detto a proposito dell’esperienza di Polo nella rappresentazione del mondo (fondata sulla journee, unità irriducibile a criteri condivisi di misurazione)49, nel continuo piegare la classificazione dei fatti geografici all’azione umana nel tempo, e nella scarsa rilevanza attribuita ai confini territoriali. Questo non vuol dire però che il deviser di Polo sia privo di volontà distintiva: vuol dire semmai che la nozione di «confine» viene recuperata su un altro piano. Come registra Constable, «the primary sense of belonging was to a natio rather than to a regio»50; al dato territoriale si sostituisce una nozione essenzialmente culturale: il «confine», la «distinzione» che definisce l’appartenenza si misura sull’habitus, la religione e la lingua: «gentem lingua facit», secondo Mario Vittorino51. Ci muoviamo sul terreno, privilegiato dalla ricerca antropologica e sociologica più recente, della riflessione sulla differenza culturale come criterio di (auto)definizione di un Ethnic Group entro il tessuto sociale contemporaneo52: si tratta di un’esten47 Citazioni: L. Febvre, «Frontière: le mot et la notion», cit., pp. 18-19; P. Marchetti, De iure finium, cit., p. 31. Cfr. pure C. Constable, «Frontiers in the Middle Ages», cit., p. 9. 48 A.J. Gurevič, Le categorie della cultura medievale (1972), trad. it. Einaudi, Torino 1983, p. 91. 49 «Luoghi e giornate sono la stessa cosa, coincidono nell’esperienza del cammino, e gli uni servono da misura alle altre e viceversa. Si tratta di una misura relativa che muta di volta in volta, e che non ha nulla di metrico, di lineare, di standard» (F. Farinelli, Geografia, cit., p. 17). 50 C. Constable, «Frontiers in the Middle Ages», cit., p. 5. 51 Mario Vittorino, «In Genesim», in Patrologia Latina, t. LXI, col. 960, cit. da M. Kulikowski, «Ethnicity, Rulership, and Early Medieval Frontiers», in Borders, Barriers, and Ethnogenesis: Frontiers in Late Antiquity and Middles Ages, ed. by F. Curta, Brepols, Turnhout 2005, pp. 247-254, qui p. 248. 52 «The term ethnic group is generally understood in anthropological literature […] to designate a population which: 1. is largely biologically self-perpetuat-

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sione metaforica della nozione di «confine». Con tutte le cautele del caso, si potrebbe accostare a questo genere di tematizzazioni una prassi caratteristica del Devisement 53: buona parte delle schede corografiche inizia con una serie di informazioni sulla gens del luogo, che può comprendere in vario ordine: religione, sudditanza e lingua. Così, le jens di Mien «sunt ydres et ont langajes por eles. Il sunt au Grant Kan» (CXXIV 3); la stessa combinazione caratterizza le genti di Toloman (Yunnan E): «sunt ydules et ont langajes por elz, et sunt au Grant Chan» (CXXVIII 2); le genti di Basma (Pasman, a Sumatra) «ont lor langajes, mes il sunt jens qe ne ont nulle loi, se ne come bestes. Il se apellent por le Grant Chan, mes ne li font trëu por ce qe il sunt tant longe qe les jens dou Grant Kan ne i porunt aler» (CLXV 9-10). Per Marco, abituato a esprimersi con le formule della fedeltà feudale («sunt au» significa: «sono sudditi di, fedeli a»), il vincolo personale dei sudditi conta, nella definizione dell’identità etnica, più dell’essere radicati in un determinato territorio. Il confine culturale sostituisce quello territoriale; e nella realtà linguistica del livre, alla distinzione culturale di una jens si sovrappone, come marcatore che garantisce il «passaggio» attraverso il confine che le distingue, la formula-cerniera con la quale si annuncia la ing; 2. shares fundamental cultural values, realized in overt unity in cultural forms; 3. makes up a field of communication and interaction; 4. has a membership which identifies itself, and is identified by others, as constituting a category distinguishable from other categories of the same order» (F. Barth, «Introduction», in Ethnic Groups and Boundaries [1969], ed. by Id., Waveland, Long Grove [Ill.] 19982, pp. 9-38, qui pp. 10-11). Il saggio di Barth è la pietra angolare di una letteratura ricchissima, sui cui fondamenti teorici informa G.P. Cella, Tracciare confini. Realtà e metafore della distinzione, il Mulino, Bologna 2006, pp. 162 e sgg. Cfr. inoltre la messa a punto di D. Newman, «Borders and Bordering: Towards an Interdisciplinary Dialogue», European Journal of Social Theory, 9 (2006), pp. 171-186 (che segnala, a p. 176, la logica che governa la tassonomia del border: «The sociological categorization of borders is expressed through a series of binary distinctions which highlight the border as constituting a sharp edge and a clear line of separation between two distinct entities, or opposites. These have been expressed in a number of ways, such as: ‘Here-There’; ‘Us-Them’; ‘Include-Exclude’; ‘Self-Other’; Inside-Outside») e le antologie: Questioni di etnicità, a cura di V. Maher, Rosenberg & Sellier, Torino 1994; Ethnicity, ed. by J. Hutchinson, A. Smith, Oxford University Press, Oxford 1996; in prospettiva medievistica, Borders, Barriers, and Ethnogenesis, cit. 53 S. Gaunt, Marco Polo’s Le Devisement du Monde: Narrative Voice, Language and Diversity, Boydell & Brewer, Cambridge 2013, pp. 153-161.

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conclusione di una descrizione, e l’inizio della successiva: Ersatz metaforico di una realtà effettuale.

Appendice Il «confine» nel lessico del Devisement dou monde 1. FORME NOMINALI confin (sost.) [1] [XXI 8] Et a ceste confine dever Jorjens ha une fontane ke sorçe oleo en grant abundance […]. [2] [XXII 12] Or voç avo‹n›ç contés de les confin d’Armenie dever tramontane. Or voç volun conter de le autre confin qe sunt entre midi et levant. [3] [XXXV 17] Et quant il unt toutes cestes provences passé, il entrent en Yndie, en lo confin a une provence qui est apellés Dilivar. [4] [XXXIX 3] […] provence qui est apelés Tonocain […] est en le confin|{n}es de Persie dever tramontane. [5] [XLIV 5] […] jusque a ceste cité [Balc] dure la tere dou sire des Tartars do Levant et a ceste ville sunt le confin de Persie, entre grec et levant. [6] [LIX 6] Et a le confin de ceste provence [Chinchintalas] dever tramontane a une montagne en la quel a mout bone voine d’acer et d’ondan‹i›que. [7] [CXI 1] Ci dit des confines que sont entre le Catay et le Mangi. [8] [CXII 7] La mestre cité est apelés Acbalec Mangi, qe vaut a dire le une de le confin dou Mangi. [9] [CXXIII 5] Et quant l’en a desendue cest .II. jornee et demi [dopo Çardandan] adonc treuve l’en une provence qe est ver midi et est a les confin de Yndie: Mien est apelés. [10] [CXXV 2, 3] Bangala est une provence ver midi qe, as .M.CC.XC. anz de la nativité de Crist, quant je, March, estoie a la cort dou G‹r›ant Kan, encore ne l’avoit pas conquisté […] Il sunt a les confin de Ynde. fin (sost.) [11] [II 11] […] Ouchacea, qui estoit la fin dou reingne dou sire dou Ponent.

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confin (agg.) [12] [CXV 2] Tebet est une grandisime provence qe lengajes ont por elles; et sunt ydres et confines con les Mangi et co’ maintes autres provences […] 2. FORME VERBALI confiner [13] [XXI 7-8] La Grant Armenie […] confine dever midi enver levant con uns roiames qui est apelés Mosul […] Dever tramontane confine{s} con Jorgiens […] [14] [CCI 2] (Abaga, signore dell’Est) […] tenoit maintes provences e mantes teres. E seç teres confinoient con les teres dou roi Caidu, e ce estoit dever l’Arbre Sol […]. [15] [CCXVII 5] E si voç di que gens qui confinent con elz [gli abitanti della «Provence de Oscurité»], que sunt a la c‹l›arté… [16] [CCXVII 6] Et si voç di qe la Grant Rosie confine de le un chief con ceste provence [la «Provence de Oscurité»]. [17] [CCXVIII 4] […] en celle contree que je vos ai dit a une provence que est apellé Lac, que confine con Rosie […].

I COLLEGAMENTI MARITTIMI TRA LA CINA GOLFO PERSICO AL TEMPO DI MARCO POLO

E IL

di Dang Baohai ‫ܮ‬ᅱ⍋

Marco Polo è di certo il viaggiatore più famoso che, nel XIII secolo, raggiunse il Golfo Persico dalla Cina via mare. Nel 1291, seguendo una rotta marittima, scortò, insieme al padre e allo zio, la principessa mongola Kökejin dalla Cina alla corte dell’Ilkhanato, uno Stato mongolo corrispondente grosso modo all’attuale Iran, attraccando a Hormuz. Marco Polo descrive questa traversata nei particolari: Puis [Qubilai Qa’an] fist aparoiller .XIIII. nes, les quelç avoit chascune quatre arbres et maintes foies aloient a .XII. voiles: et voç poroie conter bien conmant, mes, por ce que trop{o} seroit longaine matere, ne le voç mentovrai a cestui po‹i›nt. […] Et le Chan fist elz doner la despence por .X. anç. Et qe voç en diroi? Il se mistrent en la mer et najerent bien trois mois, tant k’il vindrent a une ysle, qui est ver midi, ki a non Java, en la quel ysle a maintes merveuses couses les quelç voç conteroi en ceste livre. Puis se partirent de cel isle et voç di qu’il najerent por la mer de Indie bien .XVIII. mois avant ke il fuissent venus la ou il volient aler et trovent mantes grant mervoiles qe encore le voç conteron en ce{l} livre1. Marco Polo, Le Devisement dou monde, 1. Testo, a cura di M. Eusebi, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2018 («Filologie medievali e moderne», 16, «Serie occidentale», 13), p. 45 (XVIII 4-7). Si veda anche la versione toscana: Marco Polo, Milione. Versione toscana del Trecento, edizione critica a cura di V. Bertolucci Pizzorusso, indice ragionato di G.R. Cardona, Adelphi, Milano 19942, p. 24 (18 2-4). Per una traduzione inglese, cfr. The Book of Ser Marco Polo, the Venetian, Concerning the Kingdoms and Marvels of the East, newly translated and edited […] by colonel H. Yule, third edition revised throughout in the light of recent discoveries by H. Cordier, 2 voll., John Murray, London 1903 (1a ed. 1871), vol. I, pp. 34-35 («Prologue», chap. XVIII). 1

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Il porto di attracco dei veneziani è Hormuz, come Marco Polo spiega chiaramente quando ne parla di nuovo nel capitolo intitolato Ci devise de la cité de Curmos: Mes plus ne voç en conteron por ce qe noç vos en contames en nostre livre en arieres, e de cest e de Quis [l’isola di Kish] et de Cremain. Mes, por ce que nos alanmes por autres voies, il noç convient encore retorner ci; mes, ensi com je voç ai dit, por ce que noç voç avon contés tout l’afere de cest contree, noç en partiron et voç conteron de la Grant Torqie, ensi com vos porés auïr apertemant2.

Il viaggio di Marco Polo via mare trova riscontro nell’archivio ufficiale della dinastia Yuan e nell’opera storica in persiano Jami’u’t-Tawarikh redatta dal cancelliere dell’Ilkhanato Rashid al-Din3. Il viaggiatore e gli altri membri della spedizione partirono da Quanzhou ⊝Ꮂe navigarono alla volta di Hormuz per circa due anni. La fonte cinese dimostra, inoltre, che fecero una tappa intermedia nella regione del Ma‘abar (traslitterato in cinese 偀ܿ‫)ܓ‬, lungo la fascia costiera dell’India sudorientale. È probabile che, nel viaggio di andata, la famiglia Polo intendesse raggiungere la Cina da Hormuz per mare, ma che, a causa delle cattive condizioni delle imbarcazioni locali, abbia abbandonato il proposito iniziale, procedendo via terra4. Marco fu uno dei tanti che, in quest’epoca, navigarono tra la Cina e il Golfo Persico5. Nel nostro breve saggio forniremo anzitutto un panorama di questi viaggiatori, suddividendoli in tre categorie: inviati ufficiali, mercanti e immigrati, e missionari cattolici. Tenteremo, in seconda battuta, di individuare i motivi della fortuna dei trasporti via mare al tempo di Marco Polo. 2 Marco Polo, Le Devisement dou monde, cit., p. 231 (CXCVII 4). Cfr. anche Marco Polo, Milione, cit., p. 300 (194 3-4); The Book of Ser Marco Polo the Venetian, cit., vol. II, p. 452 (Book III, chap. XL). 3 Per maggiori dettagli, si veda F.W. Cleaves, «A Chinese Source Bearing on Marco Polo’s Departure from China and a Persian Source on His Arrival in Persia», Harvard Journal of Asiatic Studies, 36 (1976), pp. 181-203. 4 Marco Polo, Le Devisement dou monde, cit., p. 61 (XXXVI 13-15). Cfr. anche Marco Polo, Milione, cit., p. 51 (36 9-11); The Book of Ser Marco Polo the Venetian, cit., vol. I, p. 108 (Book I, chap. XIX). 5 Per gli studi precedenti, si veda R. Ptak, R. Kauz, «Hormuz in Yuan and Ming Sources», Bulletin de l’École Française d’Extrême-Orient, 88 (2001), pp. 27-75.

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1. Inviati ufficiali I primi esempi sono citati nella biografia di Abu Ali ϡ䰓䞠. Nel 1291 (il ventottesimo anno di Zhiyuan 㟇‫)ܗ‬, l’alto funzionario e potente mercante del Ma‘abar Abu Ali fuggì dal suo paese a causa dei conflitti politici e arrivò in Cina. Secondo il suo epitaffio, prima che vi giungesse, ci fu uno scambio di ambascerie tra gli Yuan e l’Ilkhanato che passarono attraverso il Ma‘abar. Dopo che i Mongoli ebbero sottomesso i Song meridionali, Abu Ali inviò ogni anno doni preziosi al governatore Yuan. Egli intrattenne buoni rapporti anche con l’Ilkhan Abaga 䰓ܿড় (che regnò dal 1265 al 1282) e con il principe suo nipote Ghazan જᬷ, che poi fu Ilkhan dal 1295 al 1304. Quando gli ambasciatori della dinastia Yuan e i due principi dell’Ilkhanato arrivavano via mare nel Ma‘abar, Abu Ali predisponeva sempre i vascelli per la loro tappa conclusiva6. Ciò dimostra che i contatti diplomatici tra la dinastia Yuan e l’Ilkhanato attraverso l’Oceano Indiano incominciarono molto presto. Il primo periodo può essere fatto risalire agli anni tra il 1279 e il 1291. Un secondo esempio è rappresentato dalle ambascerie tra l’Ilkhan Ghazan e l’imperatore Yuan Chengzong ៤ᅫ Temür. Sia fonti persiane sia fonti cinesi riferiscono di queste importanti missioni diplomatiche. Anche gli ambasciatori dei due Khan mongoli viaggiavano per mare. La storia di Vaṣṣāf al-Ḥaz̤rat, Tārīkh-i Vaṣṣāf (Tajzīya al-amṣār va tazjīya al-aʿsār), ne fornisce una descrizione precisa: 6 Liu Minzhong ߬ᬣЁ, «Bu-a-li shendao bei ming» ϡ䰓䞠⼲䘧⹥䫁 («Le iscrizioni della tomba di Abu Ali»), in Zhong’an xiansheng Liu wenjian gong wenji Ё ᒉ‫߬⫳ܜ‬᭛ㅔ݀᭛䲚 (Raccolta degli scritti del signor Liu Wenjian maestro Zhong’an), Shumu wenxian chubanshe, Beijing s.d., cap. 4, p. 302. Su tale argomento si veda inoltre Chen Gaohua 䰜催ढ, «Yindu Maba‘er wangzi Bo-ha-li laihua xinkao» ॄᑺ偀ܿ‫⥟ܓ‬ᄤᄯજ䞠ᴹढᮄ㗗 («Nuovo studio sull’arrivo in Cina di Abu Ali, il principe del Ma‘abar in India»), Nankai daxue xuebao फᓔ໻ᄺᄺ᡹ (Rivista dell’Università di Nankai), 4 (1980), poi in Id., Chengaohua wenji 䰜催ढ᭛䲚 (Raccolta delle opere di Chen Gaohua), Shanghai cishu chubanshe, Shanghai 2005, pp. 362364; Liu Yingsheng ߬䖢㚰, «Cong Bu-a-li shendao beiming kan Nan Yindu yu Yuanchao ji Bosiwan de jiaotong» Ңϡ䰓䞠⼲䘧⹥䫁ⳟफॄᑺϢ‫ܗ‬ᳱঞ⊶ᮃ ⑒ⱘѸ䗮 («I rapporti tra l’India del Sud, la dinastia Yuan e il Golfo Persico in base alle iscrizioni della tomba di Abu Ali»), Lishi dili ग़৆ഄ⧚ (Geografia storica), 7 (1990), poi in Id., Hailu yu lulu, zhonggu shidai dongxi jiaoliu yanjiu ⍋䏃Ϣ䰚䏃: Ё সᯊҷϰ㽓Ѹ⌕ⷨお (Vie di mare e di terra tra Oriente e Occidente), Beijing daxue chubanshe, Beijing 2011, pp. 20-31.

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Malik Mu‘azzam Fakhru-d din Ahmad (Fakhr al-Dīn Aḥmad) e Buka Elchi (Nuqāy īlchī) furono designati, per ordine del legittimo re Ghazan, nell’anno 697 h. (1298 d.C.), ambasciatori presso il Khan Temür, perché recassero in dono tessuti, gioielli, abiti sontuosi e leopardi da caccia, degni della sua regale accettazione, e furono dati loro dieci tuman (centomila pezzi) d’oro dal tesoro regale da usare come capitale nei commerci. Fakhru-d din ricevette tutto il necessario per il viaggio con navi ( jahāzāt) e giunche (jūng-hā-yi gasht), e le caricò con la sua stessa mercanzia e un’infinità di gioielli e perle e altre merci preziose, appartenenti ai suoi amici e parenti, adatte al paese del Khan Temür e a Shaikh-l Islam Jamalu-d din. Nel suo viaggio era scortato da un esercito di arcieri esperti, turchi e persiani. L’effettiva distanza da coprire crebbe di molto a causa dei continui pericoli a cui le loro vite e proprietà furono esposte durante la navigazione. Quando, infine, giunsero al porto della frontiera cinese, essi vennero guidati passo passo da ufficiali e funzionari di quel Paese secondo quanto istituito dal Khan, furono riforniti di vettovaglie e tende e non si dovettero preoccupare del pagamento di dazio alcuno. […] Gli ambasciatori si trattennero in Cina per quattro anni e furono congedati con tutti gli onori. […] Fu scritta un’amichevole replica per il Khan Ghazan, e dati doni in cambio insieme ad alcuni manufatti di seta preziosa di proprietà del Khan Hulaku [= Hülegü], ma che erano rimasti in Cina dal tempo del Khan Mangu [= Möngke]. Un ambasciatore prese in consegna queste cose su una giunca a parte, ricevendo l’incarico di esprimere segni di amicizia e di rispetto. Malik Fakhru-d din partì, assai soddisfatto dell’accoglienza ricevuta, accompagnato da legazioni e da ventitré giunche e da altri vascelli carichi di merci pregiate. L’ambasciatore del Khan perì in viaggio, […] e quando erano distanti appena due giorni di viaggio dal Ma‘abar, anche Malik Fakhru-d din morì. […] La sua tomba si trova nel Ma‘abar, accanto a quella dello zio. La sua morte occorse verso la fine dell’anno 704 h. (1305)7.

È evidente che Malik Fakhru-d din (o Malik Fakhr al-Dīn) e i suoi compagni arrivarono in Cina dal Golfo Persico. Erano provvisti del necessario per il loro viaggio «con navi e giunche». Dal momento che giunca è il nome delle più grandi imbarcazioni cinesi8, ciò significa History of India as Told by Its Own Historians, vol. 3: The Muhammadan Period, edited from the posthumous papers of the late H.M. Elliot by J. Dowson, Trübner and Co., London 1871, pp. 45-47. 8 Qiu Yihao 䚅䕊Ⱨ, «Jūngchuan kao: 13 zhi 15 shiji xifang wenxian zhong 7

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che dovevano esserci alcune giunche cinesi ormeggiate nel Golfo Persico cariche di mercanzie persiane. Alcuni studiosi hanno individuato un navigatore cinese e mercante ufficiale, di nome Yang Shu ᴼᵶ, che si recò nello Xiyang 㽓 ⋟ («i Mari Occidentali») e ritornò insieme a Noqai 䙷ᗔ, un emissario dell’Ilkhanato. Pelliot ritiene che Noqai altri non fosse che Buka Elchi, l’ambasciatore mandato dal Khan Ghazan presso l’imperatore Yuan Temür nell’anno 697 h. (1298) citato nel Tārīkh-i Vaṣṣāf. Buka è un’errata traslitterazione del nome mongolo Noqai 9, come è stato dimostrato da Qiu Yihao, che ha collazionato diversi manoscritti del Tārīkh-i Vaṣṣāf. Nel suo articolo si trova anche la traduzione cinese completa dei brani nel Tārīkh-i Vaṣṣāf riguardanti la missione in Cina di Fakhru-d din10. Secondo quanto si dice nel suo epitaffio, dopo aver accompagnato Noqai in Cina, Yang Shu fu lautamente ricompensato dal governo Yuan e ricevette ordine di riportare Noqai nell’Ilkhanato. Yang Shu e Noqai lasciarono la Cina nell’ottavo anno di Dade ໻ᖋ, vale a dire nel 130411. Se avessero navigato nella stagione dei monsoni, sarebbero dovuti partire alla fine del 1304 o agli inizi del 1305. Questa datazione si attaglia perfettamente alla data della morte di Fakhru-d din. Secondo il Tārīkh-i Vaṣṣāf, Fakhru-d din morì verso la suojian zhi Jūng» 䑸 (Jūng) 㠍㗗: 13 㟇15 Ϫ㑾㽓ᮍ᭛⤂Ё᠔㾕П Jūng («Uno studio su Jūng nei documenti occidentali dei secoli XIII-XV»), Guoji hanxue yanjiu tongxun ೑䰙∝ᄺⷨお䗮䆃 (Newsletter di studi internazionali sulla Cina), 5 (2012), pp. 329-338. 9 P. Pelliot, Notes on Marco Polo, vol. I, Imprimerie nationale, Paris 1959, p. 121. 10 Qiu Yihao 䚅䕊Ⱨ, «Dade er nian (1298) Yili hanguo qianshi Yuanchao kao: Faheluding ahema tibi de chushi jiqi beijing» ໻ᖋѠᑈ (1298) Ӟ߽∫೑䘷 Փ‫ܗ‬ᳱ㗗: ⊩ড়剕ϕ•䰓ড়偀•ᚩᖙⱘߎՓঞ݊㚠᱃ («Contesto e conseguenze del viaggio di Fakhr al-Dīn Ṭībī: un nuovo studio sul rapporto tra l’Ilkhanato e gli Yuan nel 1298 circa»), Zhongyang yanjiu yuan lishi yuyan yanjiu suo jikan Ё༂ⷨお 䰶ग़৆䇁㿔ⷨお᠔䲚ߞ (Bollettino dell’Istituto di Storia e Filologia, Academia Sinica), 87/1 (2016), pp. 15, 18, 43. 11 Huang Jin 咘②, «Songjiang Jiading dengchu haiyun qianhu Yang jun muzhi ming» ᵒ∳௝ᅮㄝ໘⍋䖤ग᠋ᴼ৯๧ᖫ䫁 («L’epitaffio del sig. Yang, chiliarca dei trasporti marittimi a Songjiang, Jiading e altri luoghi»), in Id., Jinhua Huang xiansheng wenji 䞥ढ咘‫⫳ܜ‬᭛䲚 (Raccolta delle opere di Jinhua Huang), Shangwu yinshuguan, Shanghai 1926, cap. 35. Si veda anche Huang Jin quanji 咘②ܼ䲚 (Opere complete di Huang Jin), collated by Wang Ting ⥟也, Tianjin guji chubanshe, Tianjin 2008, libro 2, p. 513.

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fine dell’anno 704 h. (1305)12. In generale, un anno era sufficiente perché le imbarcazioni cinesi coprissero la distanza tra i porti della Cina e il Ma‘abar. Il preciso riferimento al momento della partenza dalla Cina presente nelle fonti biografiche relative a Yang Shu e Fakhru-d din permette di stabilire quando i due vi fossero giunti. Secondo quanto si afferma nell’epitaffio di Yang Shu, benché piuttosto oscuro, Yang dovrebbe essere ritornato in Cina con Noqai e Fakhru-d din nel 1301, corrispondente al quinto anno di Dade. Numerosi studiosi, tra cui Pelliot, considerano il 1304 come la data di arrivo di Noqai13. Tale ipotesi non è sostenibile perché Vaṣṣāf al-Ḥaz̤rat afferma molto chiaramente che Fakhru-d din, Noqai e i membri della loro delegazione rimasero in Cina per quattro anni. Soltanto se fossero giunti nel 1301 avrebbero potuto rimanervi per quattro anni e ripartire nel 1304, data peraltro comprovata da fonti cinesi e persiane, come si è detto precedentemente. Le navi sotto la guida di Yang Shu erano imbarcazioni ufficiali facenti parte del Zhiyong yuan 㟈⫼䰶, un ufficio finanziario deputato al commercio marittimo e costituito nel 1298 per incrementare le entrate del governo. In generale, le navi del Zhiyong yuan destinate agli scambi via mare a lunga distanza erano di notevoli dimensioni. È possibile che, quando queste imbarcazioni fecero la loro comparsa nell’Oceano Indiano, siano state assimilate alle giunche. Sebbene l’ambasciatore del Khan e Malik Fakhru-d din fossero morti in viaggio, come racconta Vaṣṣāf al-Ḥaz̤rat, Yang Shu proseguì per la sua strada per portare a termine la missione affidatagli. Attraccò a Hormuz ᗑ剕῵ᗱ nel 1307 e rientrò in Cina l’anno successivo. Il suo viaggio durò complessivamente cinque anni, più di quello di Marco Polo14. Il terzo esempio è quello di un mercante anonimo. Prima dell’arrivo della missione diplomatica di Fakhru-d din, la dinastia Yuan aveva mandato alla corte del Khan Ghazan un mercante musulmano, la cui pietra tombale è stata scoperta nel 1953 a Quanzhou. Costui, History of India as Told by Its Own Historians, cit., vol. 3, p. 47. P. Pelliot, Notes on Marco Polo, cit., vol. I, p. 121. 14 Huang Jin, «Songjiang Jiading dengchu haiyun qianhu Yang jun muzhi ming», cit., p. 513. 12 13

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in qualità di inviato dell’imperatore cinese, si recò nella cosiddetta «terra di Hormuz» ☿剕≵ᗱ⬄ഄ, recando una tavola con un girifalco e iscrizioni dorate. Il grande sovrano Ghazan gli consegnò delle merci, tra cui sette tesori che egli portò alla corte Yuan, ricevendo una ricompensa. Morì a Quanzhou nel 1304. A causa della frammentarietà dell’iscrizione tombale, non si è potuto conoscere il suo nome né ricavare ulteriori notizie sulla sua identità15. Val la pena notare che la cosiddetta «terra di Hormuz» menzionata nell’epitaffio corrisponde all’Ilkhanato. Pelliot, che ha analizzato minuziosamente i riferimenti a Hormuz contenuti nelle fonti cinesi, non poteva conoscere l’iscrizione tombale perché fu scoperta qualche anno dopo la sua morte16. Un quarto esempio può essere quello del famoso ufficiale Yuan Bulad Chengxiang ᄯ㔫ϲⳌ. Le ambascerie tra la Cina e il Golfo Persico di cui si è parlato sono tutte documentate in modo incontrovertibile da fonti storiche o iscrizioni. Di altri corpi diplomatici non meglio identificati si parlerà più avanti. Nello Yuanshi («Storia degli Yuan»), al capitolo 123, si legge che Qubilai ordinò all’Alan (ovvero Asut) Hu-er-du-da ᗑ㗠䛑ㄨ di accompagnare il Noyan Bu-luo ϡ㔫 in una missione diplomatica a Ha-er-ma-mou જ‫ܓ‬偀ᶤ. Per decifrare tale toponimo, Bretschneider ipotizza che il carattere mou possa essere un’errata trascrizione del carattere sz’, di aspetto simile, e che pertanto il nome Ha-rh-ma-sz’ possa indicare Hormuz. Quanto al Noyan Buluo, poiché Rashid-ed din cita un eminente personaggio mongolo, di nome Pulad (= Bulad), incontrato in Persia, che gli diede molte informazioni sulla storia dei Mongoli, lo studioso suggerisce che potrebbe trattarsi del Noyan Bu-lo ᄯ㔫 dello Yuanshi 17. Se le ipotesi di Bretschneider sono esatte, il celebre dignitario mongolo Bulad deve essere arrivato in Iran dalla Cina via mare, sbarcando nel porto di Hormuz. Secondo Pelliot, Noyan Bu-luo potrebbe essere identificato con Bulad Noyan, ma Ha-er-ma-mou non corrisponderebbe a Hormuz. Queste le sue osservazioni: Yang Qinzhang ᴼ䩺ゴ, «Yuandai fengshi Bosi bei chu kao» ‫ܗ‬ҷ༝Փ⊶ ᮃ⹥߱㗗 («Studio preliminare sulla lapide di un inviato Yuan in Persia»), Wenshi ᭛৆ (Letteratura e storia), 30 (1988), p. 137. 16 P. Pelliot, Notes on Marco Polo, cit., vol. I, pp. 576-582, s.v. «Curmos». 17 E. Bretschneider, Mediaeval Researches from Eastern Asiatic Sources, vol. II, Trübner & Co., London 1888, p. 89, n. 850; p. 132. 15

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L’unico noyan Po-lo o Pu-lo al tempo di Qubilai è Bolod, in persiano Pulād, che di fatto fu inviato da Qubilai in Persia, dove giunse nel 1285 per rimanervi fino alla morte. D’altra parte, Hu-êrh-tu-ta sembra riferirsi a *Hurtuqta, e un Urtuqta, in effetti, arrivò alla corte persiana il 24 febbraio 1286, recando l’editto imperiale di investitura per Argγun da parte di Qubilai […]. Nonostante i diversi problemi che non posso analizzare in questa sede, i fatti fanno davvero pensare che Hu-êrh-tuta sia stato inviato in missione in Persia, ma da ciò non consegue che Ha-êrh-ma-mou sia Hormuz; tranne la r nella seconda sillaba, nessun altro carattere appare foneticamente accettabile a sostegno di tale ipotesi. Anzi, non so a quale nome maschile o di luogo si riferisca; a volte ma-mou traslittera Maḥmūd, che qui non ha senso; e non va dimenticato che il passo si trova in una biografia, ricavata con molta probabilità da un documento di natura privata. Al momento non è possibile giungere a una soluzione, ma Hormuz risulta molto inverosimile18.

A mio parere, il carattere mou ᶤ nel nome della località potrebbe essere un’errata trascrizione di un carattere simile, qi ݊, e il nome Ha-er-ma-qi જ‫ܓ‬偀݊ potrebbe designare Hormuz19. Nel 1283 (il ventesimo anno di Zhiyuan), Bulad fu mandato presso l’Ilkhanato a capo di un corpo diplomatico. A quel tempo, i principi mongoli delle famiglie di Ögödei e di Chagadai erano in lotta con la dinastia Yuan. L’itinerario via terra tra Cina e Iran era interrotto a causa della guerra. È molto probabile che Bulad e i suoi compagni abbiano raggiunto l’Iran dal mare, approdando a Hormuz, e che abbiano poi proseguito verso nord e incontrato il Khan Arghun a Saray Mansuriya, nell’Iran nordoccidentale, tra l’estate e l’inverno dell’anno 683 h. (ossia tra la fine del 1284 e l’inizio del 1285)20. Tenendo conto della complessa situazione in Asia centrale in quel periodo, l’eventualità che la delegazione di Bulad raggiungesse l’Ilkhanato seguendo una rotta marittima è tutt’altro che improbabile. P. Pelliot, Notes on Marco Polo, cit., vol. I, p. 581 (traduzione nostra). Si veda anche Su Jiqing 㢣㒻ᒐ, Daoyi zhilue jiaoshi ቯ་ᖫ⬹᷵䞞 (Collazione e annotazioni del Daoyi zhilue), Zhonghua shuju, Beijing 1981, p. 367. 20 Rashid ud din Fazlullah, Jami‘u’t-Tawarikh, Compendium of Chronicles, A History of the Mongols, translated and annotated by W.M. Thackston, Harvard University, Harvard 1998, p. 565; Wang Yidan ⥟ϔЍ, «Boluo Chengxiang Yili hanguo shiji tanze: jiyu Bosi yu wenxian de zai kaocha» ᄯ㔫ϲⳌӞ߽∫೑џ䗍᥶䌰: ෎Ѣ⊶ ᮃ䇁᭛⤂ⱘ‫ݡ‬㗗ᆳ («Su Boluo Chengxiang nell’Ilkhanato: un riesame alla luce di fonti persiane»), Minzu yanjiu ⇥ᮣⷨお (Studi etnonazionali), 4 (2015), p. 71, n. 3. 18 19

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2. Mercanti e immigrati I collegamenti marittimi tra la Cina e il Golfo Persico non si limitavano alle relazioni ufficiali. In primo luogo, va ricordato che numerosi mercanti e immigrati provenienti dall’Iran si erano stabiliti nelle città della Cina sudorientale. Dal momento che i centri in cui risiedevano erano porti marittimi, almeno una parte di loro deve esservi arrivata dal mare. Negli ultimi cinquant’anni, lo studioso Chen Dasheng ha scoperto, pubblicato e analizzato una serie di epigrafi di musulmani originari dell’Iran residenti a Quanzhou nei secoli XII-XIV. Nella tavola che segue riportiamo alcune informazioni su tali individui che si evincono dal suo studio. Tavola 1 Nome

Città d’origine

Anno di morte

Pagina

Ahmad b. Muhammad Quds

Shiraz

dopo il 1310-1311

Mansur b. Haji al-Qasim al-Jajarm

Jajarm

1277

30

Shams al-Din b. Nur al-Din b. Ishaq Shahr-Nasa

Shahr Nasa

1325

40

Naluwan Banan b. Ghasim Isfahani

Isfahān

1358

43

Biha al-Din Umar b. Ahmad al-Ami Tabrizi

Tabriz

1363

44

Ghutub Allah Ya’qub b. al-krm Allah b. Haji Jajarm

Jajarm

1310

56

Muhammad b. Abu al-Basli Gilani

Gilan

1351

57

4

Fonte: Chen Dasheng 䰜䖒⫳, Quanzhou yisilan jiao shike ⊝ᎲӞᮃ݄ᬭ⷇ࠏ (Iscrizioni islamiche a Quanzhou), with English translation by Chen Enming 䰜ᘽᯢ, Ningxia renmin chubanshe - Fujian renmin chubanshe, Yinchuan-Fuzhou 1984.

Hangzhou non è un porto marittimo, ma la Baia di Hangzhou (Hangzhou Wan ᵁᎲ⑒) è collegata al Mar Cinese Orientale. Nei secoli XIII-XIV, musulmani provenienti dall’Iran abitavano a Hangzhou. I dati biografici che riportiamo nella tavola 2 sono ricavati da uno studio di A.H. Morton:

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Tavola 2 Nome

Città d’origine

Anno di morte

Pagina

Shams al-Dīn Muhammad b. Ahmad b. Abi Nasr al-Isfahānī

Isfahān

1316

28

Khawāja ‘Ala’ al-Dīn b. Khawāja Shams al-Dīn Isfahānī

Isfahān

1327

57

Khawāja Mahmūd b. Muhammad b. Jamāl al-Dīn Qāsim (?) al-Khurasānī

Khurasān

1351

85

Mahmūd b. Muhammad b. Ahmad noto come Tāj Malih, al-Simnānī

Simnān

Epoca Yuan, in base allo stile dell’epigrafe

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Fonte: A.H. Morton, Hangzhou Fenghuang si cang Alabo wen Bosiwen beiming shidu yizhu ᵁ Ꮂ޸߄ᇎ㮣䰓ᢝԃ᭛⊶ᮃ᭛⹥䫁䞞䇏䆥⊼ (Decifrazione e commento delle iscrizioni arabe e persiane conservate nella moschea della Fenice di Hangzhou), Zhonghua shuju, Beijing 2015.

Nell’opera del grande viaggiatore Ibn Battuta vengono ricordati alcuni immigrati dall’Ilkhanato presenti a Quanzhou e Guangzhou. Ecco i dati che li riguardano: Tavola 3 Nome

Città d’origine

Città di residenza

Attività

Pagina

Tāj al-Dīn

Ardabīl

Quanzhou

Qadi

894

Kamāl al-Dīn ‘Abdallāh

Isfahān

Quanzhou

Sceicco

894

Sharaf al-Dīn

Tabriz

Quanzhou

Mercante

894

Burhān al-Dīn

Kāzarūn

Quanzhou

Sceicco

895

Abū Ishāq

Kāzarūn

Quanzhou

Sceicco

895

Auhad al-Dīn

Sīnjar

Guangzhou

Sceicco

896

Fonte: The Travels of Ibn Battuta, a.D. 1325-1354, translated with revisions and notes from the Arabic text edited by C. Defremery and B.R. Sanguinetti, by H.A.R. Gibb, vol. IV: The translation completed with annotations by C.F. Beckingham, Hakluyt society, London 1994.

Come si è detto in precedenza, è molto probabile che almeno alcuni di questi mercanti e immigrati, provenienti dai domini degli Ilkhan e stabilitisi nei porti cinesi, vi fossero arrivati dal mare.

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Si sa che Fakhr al-Dīn Aḥmad, emissario dell’Ilkhanato, era un noto mercante marittimo. Nell’opera del famoso poeta persiano Saʿdī, viene descritto un altro commerciante: Possiede centocinquanta cammelli, quaranta tra schiavi e servitori. Una sera mi invitò nella sua casa sull’isola di Kish e mi disse che aveva intenzione di vendere lo zolfo di Persia alla Cina (Chīn), poi di portare da lì porcellana a Rum [l’impero bizantino], da Rum vendere sete all’India, poi trasportare acciaio indiano ad Aleppo, vendere il vetro di Aleppo allo Yemen e vendere i tessuti dipinti dello Yemen alla Persia21.

Stando a quanto riferito da Saʿdī, quest’uomo faceva base sull’isola di Kish, quindi doveva praticare il commercio via mare. Nonostante le fonti al riguardo siano scarse, si possono trovare anche mercanti che dalla Cina navigavano verso l’Iran. Un decreto del governo Yuan stabiliva regole differenti per il pagamento dei tributi dei mercanti attivi in Cina o in Iran. Nel 1297 (il primo anno di Dade), alcuni mercanti riuniti in associazioni commerciali (ortaq ᭵㜅), tra cui Ala’ ud-din (䰓㗕⪺ϕ), Mahmud (偀ড়䇟) e Yusuf ( Ѻ䗳⽣), chiedevano ai funzionari delle tasse di Hangzhou (ᵁᎲ ⿢䇒ᦤВৌ) di essere esentati dal pagamento dei tributi in Cina perché erano in possesso di editti imperiali. Ma gli alti funzionari del governo centrale Yuan sottolineavano come gli editti imperiali garantissero detrazioni fiscali sul commercio solo se i mercanti delle associazioni risiedevano nella «terra dei musulmani» (Huihui tiandi ಲಲ⬄ഄ, espressione che si riferisce perlopiù all’Ilkhanato in epoca Yuan)22. Tale imposta, detta in persiano Bāj Badraqah (ba-chi-ba-dier-ha ᢨ䌸ᢨⱘ‫ܓ‬જ nella traslitterazione in caratteri cinesi), veniva versata al governo locale dell’Ilkhanato per ricevere protezione durante il viaggio23. Quando questi mercanti tornavano in Cina, eraTradotto e citato da Qiu Yihao, «Dade er nian (1298) Yili hanguo qianshi Yuanchao kao», cit., p. 108. 22 Gao Rongsheng 催㤷ⲯYuandai haiwai maoyi yanjiu ‫ܗ‬ҷ⍋໪䌌ᯧⷨお (Studi sui commerci d’oltremare durante la dinastia Yuan), Sichuan renmin chubanshe, Chengdu 1998, p. 177. 23 Yokkaichi Yasuhiro ಯ᮹Ꮦᒋम «Genchō orutoku seisaku ni miru kōeki katsudō to shūkyō katsudō no shosō» ‫ܗ‬ᳱ᭵㜅ᬓㄪȀȔȠѸᯧ⌏ࢩǽᅫᬭ⌏ ࢩȃ䃌Ⳍ («Alcuni aspetti delle attività commerciali e religiose nella politica degli ortaq sotto la dinastia Yuan»), Higashi Ajia to Nippon: kōryū to henyō ᵅȪɀȪǽ᮹ ᴀ: Ѹ⌕ǽໝᆍ (Asia orientale e Giappone: scambio e trasformazione), 3 (2006), p. 24. 21

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no tenuti a pagare le imposte sia che fossero in possesso di editti imperiali sia che non lo fossero. Va notato che i membri di queste potenti associazioni reclamavano i propri diritti a Hangzhou. In seguito, anche le amministrazioni delle province del Fujian ⽣ᓎ e del Jiangzhe ∳⌭ si occuparono del loro caso, per cui doveva trattarsi di mercanti che commerciavano via mare tra Cina e Iran. Prima di partire per l’Iran, ricevevano gli editti imperiali che li esentavano dalla Bāj Badraqah (l’imposta per la protezione in viaggio) nell’Ilkhanato. Al loro ritorno, erano costretti a pagare la tassa perché il diritto all’esenzione non vigeva in Cina24. I mercanti sopracitati, tra cui alcuni musulmani, avevano identità ufficiali. Sono documentati anche mercanti civili cinesi che si spostavano e operavano nell’Ilkhanato. Wang Dayuan ∾໻⏞ ne è un valido esempio. Viaggiò all’estero solcando i mari in lungo e in largo e fu di ritorno in patria nel 1339. Nel suo libro (Daoyi zhilue ቯ ་ᖫ⬹), concluso nel 1349, descrive molti luoghi dell’attuale Iran, tra cui porti e città del Golfo Persico. Se non li avesse visitati di persona, non avrebbe potuto conoscere tanti particolari della regione25. Le rinomate porcellane bianche e blu furono create nella città di Jingdezhen ᱃ᖋ䬛, nella provincia del Jiangxi ∳㽓, nel secolo XIV. Attraverso la rete navigabile dei fiumi interni, Jingdezhen è strettamente collegata ai porti marittimi. Rispetto agli itinerari via terra, il trasporto via mare presenta notevoli vantaggi26. Sulla base 24 Yuan dianzhang ‫݌ܗ‬ゴ (Istituzioni della dinastia Yuan), cap. 22, «Hubu» ᠋䚼 («ministro delle imposte») 8, «wotuo mei huowu na shuiqian» ᭵㜅↣䋻⠽㒇⿢ 䪅 («pagamento delle tasse sulle merci degli ortaq»), collated by Chen Gaohua 䰜催ढ et al., Tianjin guji chubanshe and Zhonghua shuju, Tianjin 2011, libro 2, p. 906. 25 Wang Dayuan ∾໻⏞, «Daoyi zhilue» ቯ་ᖫ⬹ («Una descrizione dei barbari delle isole»), in Su Jiqing, Daoyi zhilue jiaoshi, cit., p. 364. Cfr. anche l’introduzione all’opera (ibid., pp. 10-11). 26 Si veda Mikami Tsugio ϝϞ⃵⬋, Tōji no michi: Tōzai bunmei no setten o tazunete 䱊⺕ȃ䘧: ᵅ㽓᭛ᯢȃ᥹⚍ȧǴǯȂǻ(La via della ceramica: la scoperta dei contatti tra le civiltà dell’Est e dell’Ovest), Iwanami Shoten, Tokyo 1969. Si veda anche Mori Tatsuya Ể䘨г, «Yilang Bosiwan bei an jige haigang yizhi faxian de Zhongguo ciqi» Ӟᳫ⊶ᮃ⑒࣫ኌ޴Ͼ⍋␃䘫ഔথ⦄ⱘЁ೑⫋఼ («Porcellane cinesi ritrovate in diversi porti sulla costa settentrionale del Golfo Persico in Iran»), Zhongguo gu taoci yanjiu Ё೑স䱊⫋ⷨお (Ricerche sulle antiche ceramiche in Cina), 14 (2008), pp. 419-429.

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dei reperti conservati si può ipotizzare che almeno alcuni vasi persiani e colori per la pittura siano stati portati in Cina per mare. Ed è proprio grazie ai trasporti marittimi che le porcellane bianche e blu furono vendute in Asia sudoccidentale e occidentale27. 3. Missionari cattolici Nei secoli XIII e XIV alcuni missionari cattolici europei raggiunsero la Cina via mare. Nelle loro lettere e nei loro resoconti sono riportate utili informazioni. Il primo religioso ad arrivare in Cina via mare fu il francescano Giovanni da Montecorvino. Nella seconda lettera inviata dalla Cina, descrive le sue attività in Oriente con queste parole: Ego frater Iohannes de Monte Corvino de Ordine fratrum Minorum, recessi de Thaurisio civitate Persarum anno Domini M° CC° LXXXXI, et intravi in Yndiam et fui in contrada Yndie et in ecclesia S. Thome Apostoli mensibus XIII. Et ibi battizavi circa centum personas in diversis locis […]. Et ego ulterius procedens perveni in Kathay regnum Imperatoris Tartarorum, qui dicitur magnus Cham28. […] De via notifico quod per terram Cothay Imperatoris aquilonarium Tartarorum est via brevior et securior, ita quod cum nunciis infra V vel VI menses poterunt pervenire; via autem alia est longissima et periculosissima, habens duas navigations quarum prima est secundum distantiam inter Achon et provinciam Provincie, alia vero est secun27 Huang Wei 咘㭛, Huang Qinghua 咘⏙ढ, «Yuan Qinghua ciqi zaoqi leixing de xin faxian» ‫ܗ‬䴦㢅⫋఼ᮽᳳ㉏ൟⱘᮄথ⦄ («Nuovi ritrovamenti di porcellane Yuan blu e bianche del primo tipo»), Wenwu ᭛⠽ (Vestigia culturali), 11 (2012), pp. 79-88. 28 Sinica Franciscana, collegit, ad fidem codicum redegit et adnotavit p. A. van den Wyngaert O.F.M., vol. I, Itinera et relationes fratrum Minorum saeculi XIII et XIV, apud Collegium S. Bonaventurae, ad Claras Aquas (Quaracchi - Firenze) 1929, pp. 345-346 («Io, frate Giovanni da Montecorvino dell’Ordine dei Frati Minori, me ne venni via da Tabriz, città di Persia, nell’anno del Signore 1291 ed entrai in India e stetti in una regione dell’India e nella chiesa di S. Tommaso Apostolo tredici mesi. E lì in diversi luoghi battezzai circa cento persone. […] E io procedendo oltre giunsi nel Cathay, regno dell’Imperatore dei Tartari, il quale è chiamato gran Can»).

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dum istantiam inter Achon et Angliam, et posset contingere quod in biennio vix perficerent viam illam. Quia prima via secura non fuit a multo tempore propter guerras, ideo sunt XII anni quod de Curia romana et de nostro Ordine et statu occidentis non suscepi nova29.

Anche il celebre minorita Odorico da Pordenone giunse in Cina via mare. Per raggiungere la Cina da Hormuz, Odorico navigò fino in India su un’imbarcazione locale detta iase, una sorta di vascello legato solo con spago, poi prese una grande nave cinese da Kollam fino a Zaiton (vale a dire Quanzhou, nella provincia del Fujian): In hac contrata homines utuntur navigio quod vocatur iase, sutum solummodo spago. In uno istorum navigiorum ego ascendi, in quo nullum ferrum potui in aliquo reperire. In quod dum sic ascendissem in viginti octo dietis me transtuli usque ad Tanam […] Cum autem fuerimus in Polumbo [cioè Quilon o Kollam], ad portum ascendimus aliam navim nomine conchum ut in Indiam superiorem, sicut dictum est, iremus ad quondam civitatem nominee Caytan, in qua sunt duo loca nostrorum fratrum, ut ibi istas sanctas reliquias poneremus. In hac autem navi erant bene septingenti homines et mercatores30. 29 Ibid., p. 349 («Io dico che la strada attraverso la terra di Cothay, imperatore dei Tartari del Nord, è più certa e sicura, per cui, viaggiando con degli inviati, [eventuali rinforzi alle missioni] potranno arrivare in cinque o sei mesi. Ma l’altra via è più lunga e pericolosa poiché richiede due viaggi per mare, il primo dei quali copre circa la distanza tra Acri e la contea di Provenza, ma il secondo è pari alla distanza tra Acri e l’Inghilterra e può accadere che il viaggio sia completato a malapena in due anni. Ma il primo non fu sicuro per lungo tempo a causa delle guerre e per dodici anni non ho ricevuto notizie sulla Curia di Roma e sul nostro Ordine e sullo stato dell’Occidente»). Si veda anche The Mongol Mission: Narratives and Letters of the Franciscan Missionaries in Mongolia and China in the Thirteenth and Fourteenth Centuries, translated by a nun of Stanbrook Abbey, edited and with an introduction by C. Dawson, Sheed and Ward, New York 1955, p. 226. 30 Odorico da Pordenone, Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, a cura di A. Marchisio, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze, 2016, pp. 128, 150-151 (VII 19-21, VII, 154-156) («In questa regione gli uomini impiegano navi – che chiamano iase – cucite solo con spago. Io montai su una di queste navi, in cui non potei trovare alcun ferro. A bordo di questa, in diciotto giorni raggiunsi Tana d’India. […] Quando fummo a Quilon, nel porto salimmo su un’altra nave di nome conchum per andare in India Superiore, come si è detto, in una città di nome Caytan, in cui ci sono due conventi di nostri frati, per tumularvi queste sante reliquie. In quella nave, poi, c’erano ben settecento uomini e mercanti»).

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Il francescano Giovanni de’ Marignolli, a capo di una missione diplomatica in Cina su incarico papale (1338-1353), nel suo viaggio di ritorno in Europa percorse alcuni tratti di mare. Egli racconta la sua esperienza con queste parole: Primo namque cum nos dimissi a Kaam summo Imperatore cum donis maximis et expensis transire per Indiam temptaremus, alia via per terram clausa propter guerras et nullomodo pateret transitus, preceptum fuit Kaam, quod veniremus per Manzi, que olim maxima India vocabatur. […] Recessimus autem de Zayton in festo sancti Stephani et in quarta feria maioris ebdomadis pervenimus in Columbum. Deinde volentes navigare ad Sanctum Thomam Apostolum et inde ad Terram Sanctam ascendentes iunkos de inferiori India, que Minubar vocatur, in vigilia sancti Georgii tot procellis ferebamur, quod sexaginta vicibus vel amplius fuimus quasi demersi sub aqua usque ad profundum maris […]. Divina autem clementia nos ducente, die invencionis sancte Crucis invenimus nos perductos ad portum Seyllani nomine Pervily ex opposito paradisi…31

In genere, agli inizi del secolo XIV, le rotte marittime erano una valida scelta per i missionari cattolici europei che decidevano di recarsi in Cina. Nel 1320, Giordano da Sévérac (Jordan Catala de Sévérac), frate dell’Ordine domenicano, insieme a quattro francescani e a un giovane mercante genovese, decise di raggiungere la 31 Sinica Franciscana, cit., vol. I, pp. 536-537 («Prima, quindi, quando, una volta congedati dal Kaam, il potente Imperatore, con splendidi regali e donativi, avevamo intenzione di viaggiare attraverso l’India, dal momento che l’altra via di terra era chiusa a causa della guerra e non si poteva passare in alcun modo, fu ordinato dal Kaam che dovessimo proseguire attraverso il Manzi, noto in passato come India Massima. […] Lasciammo poi Zayton nel giorno di Santo Stefano e il mercoledì della Settimana Santa giungemmo a Columbum. Desiderando visitare il santuario di San Tommaso Apostolo e di lì imbarcarci per la Terra Santa, salpammo a bordo di certe giunche dall’India Inferiore chiamata Minubar. Ci imbattemmo in numerose tempeste, a cominciare dalla vigilia di San Giorgio, e fummo talmente trascinati da quelle, che per sessanta volte e più ci inabissammo nelle profondità del mare […]. Tuttavia, guidati dalla pietà di Dio, all’indomani della festa dell’Invenzione della Santa Croce ci trovammo condotti in salvo a toccare terra in un porto di Seyllan, chiamato Pervily…»). Cfr. anche Cathay and the Way Thither being a Collection of Medieval Notices of China, translated and edited by H. Yule, new ed. rev. throughout in the light of recent discoveries by H. Cordier, 4 voll., Printed for the Hakluyt Society, London 1913-1916, vol. 2, pp. 354, 356, 357.

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Cina via mare, con destinazione Zaiton (Quanzhou)32. Nella sua seconda lettera, datata gennaio 1324, Giordano racconta di essere partito da Tabriz per andare nel Catai, di essersi prima imbarcato per Quilon in compagnia dei quattro missionari francescani. Sorpresi da una tempesta, furono trascinati a Tana, in India, dove furono accolti dai cristiani nestoriani del luogo. Lì Giordano si separò dai suoi compagni e partì alla volta di Bharuch, dove sperava di predicare con successo, dato che aveva maggiore familiarità con la lingua persiana dei suoi compagni di viaggio. Mentre si trovava a Surat (Supera), venuto a sapere che i quattro francescani erano stati arrestati a Tana, tornò indietro per aiutarli, ma arrivò quando erano già stati messi a morte. Riuscì a recuperare i loro corpi grazie all’aiuto del mercante genovese e, dopo averli trasportati a Surat, li seppellì in una chiesa con tutti gli onori possibili33. In seguito Giordano cambiò idea e si trattenne in India anziché proseguire per Zaiton. Di lì a poco, si trasferì nel Sud, nel Malabar e poi nel Regno di Quilon, da cui, nel 1328, fece ritorno in Europa. Benché i missionari cattolici europei non fossero sudditi della dinastia Yuan e dell’Ilkhanato, i loro viaggi per mare mettono ugualmente in luce un aspetto importante dei collegamenti marittimi tra la Cina e il Golfo Persico al tempo di Marco Polo. Anche Ibn Battuta descrive queste rotte nel suo libro, ma dal momento che non viaggiò di persona dal Golfo Persico alla Cina, non prenderemo qui in considerazione la sua narrazione. 4. Motivi della fortuna dei collegamenti marittimi Benché, sotto i Song meridionali, il commercio d’oltremare conoscesse una fortuna senza precedenti, tuttavia solo raramente i merJ. Larner, Marco Polo and the Discovery of the World, Yale University Press, New Haven-London 1999, pp. 121-122. 33 Friar Jordanus, Mirabilia Descripta: The Wonders of the East, translated from the Latin original […], with the addition of a commentary, by colonel H. Yule, The Hakluyt Society, London 1863, pp. VI-VII. Cfr. anche C. Gadrat, Une image de l’Orient au XIV e siècle. Les Mirabilia descripta de Jordan Catala de Sévérac, édition, traduction et commentaire, préface de J. Richard, École des Chartes, Paris 2005, pp. 48-65. 32

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canti cinesi si spingevano fino al Golfo Persico. Molti di loro si fermavano a Quilon o a Calicut. Nel suo libro intitolato Lingwai daida ኁ໪ҷㄨ (terminato nel 1178), il funzionario dei Song meridionali Zhou Qufei ਼এ䴲 (1135-1189) descrive in che modo i cinesi raggiungessero la regione araba: Il paese di Gu-lin ᬙЈ [Quilon] confina con il paese di Da-shi ໻亳 [la regione araba]. Da Guangzhou ᑓᎲ un’imbarcazione impiega più di quaranta giorni per raggiungere Lan-li 㪱䞠 [Achin, sull’isola di Sumatra]; lì trascorre l’inverno e, l’anno seguente, un altro viaggio di un mese la conduce in questo paese. […] I mercanti cinesi che vogliono andare a Da-shi devono trasbordare qui su imbarcazioni più piccole per raggiungere le loro destinazioni. Anche se potrebbero arrivarci in un mese con l’aiuto del vento del Sud, ciononostante per il viaggio di andata e ritorno occorrono due anni34.

In un altro passo, Zhou Qufei parla dei mercanti arabi che raggiungono la Cina lungo la stessa rotta: Quando [i mercanti del] paese di Da-shi giungono in Cina, si dirigono a sud su piccole barche verso il paese di Gu-lin, dove trasbordano su grandi navi e sbarcano in Oriente. Arrivano nel paese di San-fo-qi ϝ ԯ唤 [Samboja, oggi Balenbang sull’isola di Sumatra], infine, nel corso dello stesso viaggio, da San-fo-qi in Cina35.

In un’opera composta nel 1225 (Zhufan zhi 䇌㬗ᖫ), un altro funzionario Song, Zhao Rukuo 䍉∱䗖, fornisce una descrizione analoga a quella di Zhou Qufei: Il Da-shi è a ovest e a nord (o a nord-ovest) di Quanzhou a una distanza talmente grande da questa, che per le navi straniere non è facile raggiungerla con un viaggio diretto. Dopo che queste imbarcazioni hanno lasciato Quanzhou, arrivano in circa quaranta giorni a Lan-li dove fanno i loro commerci. L’anno successivo tornano in mare, quando, con l’aiuto di un vento periodico, impiegano circa sessanta giorni Zhou Qufei, Lingwai daida ኁ໪ҷㄨ (Risposte dei delegati dalla regione al di là delle montagne), collated and noted by Yang Wuquan ᴼ℺⊝, Zhonghua shuju, Beijing 1999, cap. 2, n. 37, «Gulin guo», pp. 90-91. 35 Ibid., cap. 3, n. 52, «Hanghai waiyi», pp. 126-127. 34

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per completare il viaggio. I prodotti del paese sono per la maggior parte portati a San-fo-qi dove vengono venduti ai mercanti che li inviano in Cina36.

Gli Yuan ereditarono la politica marittima e l’arte della navigazione dai Song meridionali37, ma sotto il loro impero i collegamenti via mare tra la Cina e il Golfo Persico conobbero un grande sviluppo. Uno dei motivi principali di questo mutamento va ricercato nella situazione in cui vennero a trovarsi l’Impero cinese e l’Ilkhanato tra XIII e XIV secolo. Dopo il collasso dell’Impero mongolo, i regni mongoli sopravvissuti si divisero in due domini, uno sotto il controllo della famiglia di Tolui, cioè l’Impero Yuan e l’Ilkhanato, l’altro governato da discendenti di Ögödei e Chagatai ‒ comprendente in alcuni periodi anche l’Orda d’Oro ‒, sotto la dinastia di Jochi. Anche gli esponenti delle famiglie di Ögödei e Chagatai erano discendenti di Gengis Khan, tuttavia i principi della dinastia Yuan e dell’Ilkhanato avevano legami di sangue più stretti e si unirono in una forte alleanza politica contro i primi. Purtroppo, questi regni dell’Asia centrale detenevano il controllo delle vie terrestri tra Cina e Persia. Dagli anni Sessanta del secolo XIII al 1300 circa, il protrarsi del conflitto tra i due domini impedì i contatti via terra tra gli Yuan e l’Ilkhanato38. Così, per mantenere i loro fondamentali rapporti politici ed economici, i due regni mongoli dovettero potenziare i collegamenti marittimi. Pertanto, un numero sempre maggiore di imbarcazioni prese il mare tra la Cina e il Golfo Persico. Alcune di queste compivano 36 Zhao Rukuo, Zhufan zhi 䇌㬗ᖫ (Una descrizione di genti barbare), collated and noted by Yang Bowen ᴼम, Zhonghua shuju, Beijing 1996, cap. 1, p. 89. Traduzione inglese in F. Hirth, W.W. Rockhill, Chau Ju-Kua: His Work on the Chinese and Arab Trade in the Twelfth and Thirteenth Centuries: Entitled Chu-fan-chï, Printing Office of the Imperial Academy of Sciences, St. Petersburg 1912, p. 114. 37 Yuan dianzhang, cit., cap. 22, «Shibo zefa ershisan tiao» Ꮦ㠊߭⊩Ѡकϝᴵ («Ventitré norme per il commercio d’oltremare»), libro 2, pp. 874-875. Si veda anche Gao Rongsheng, Yuandai haiwai maoyi, cit., p. 198. 38 Liu Yingsheng ߬䖢㚰, Chahetai hanguo shi yanjiu ᆳড়ৄ∫೑৆ⷨお (Studi sulla storia del khanato di Chagatai), Shanghai guji chubanshe, Shanghai 2006, pp. 247-309, 359-474; si veda anche The Cambridge History of Inner Asia: The Chinggisid Age, edited by N. Di Cosmo, A.J. Frank and P.B. Golden, Cambridge University Press, Cambridge 2009, pp. 45-59.

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viaggi di andata e ritorno diretti, segnando un netto cambiamento rispetto alla prassi adottata in epoca Song. Per poter disporre di una tecnologia avanzata e per avere una conoscenza approfondita delle rotte marittime, il governo Yuan promosse la raccolta di libri e mappe per la navigazione. Nel 1287, il governo centrale chiese ai funzionari locali del Fujian di acquisire dai marinai musulmani i rāh nāma persiani e arabi per le rotte marittime (ⶹ⍋䘧ಲಲ᭛ࠠ䙷 咏). Rāh nāma è un termine persiano con cui si indicavano i manuali di navigazione, le guide o le carte nautiche39. Le autorità del Fujian portarono a termine con successo l’incarico. Non è un caso che Zaiton (Quanzhou), il più grande porto dei secoli XIII-XIV, si trovi in tale provincia. In questo periodo, i marinai cinesi compirono grandi progressi nelle tecniche di navigazione oceanica e, grazie agli stretti rapporti tra la dinastia Yuan e l’Ilkhanato, incrementarono la loro conoscenza dell’Asia occidentale e sudoccidentale. Tale sviluppo può esserci d’aiuto per comprendere due fatti relativi alla storia della Cina. Il primo è il motivo per cui Zheng He 䚥੠ era in grado di andare in Asia occidentale e Africa orientale direttamente dalla Cina all’inizio del secolo XV. Grazie ai progressi in campo marittimo compiuti sotto la dinastia Yuan, raggiungere il Golfo Persico dalla Cina non era più un’impresa impossibile. Il secondo è la ragione per cui di rado i Cinesi si spinsero in Asia occidentale e in Africa orientale dopo i viaggi di Zheng He. Le cose erano ritornate a una situazione simile a quella dell’epoca Song. Infatti, i Cinesi non avevano più bisogno di andare tanto lontano. Dopo il crollo della dinastia mongola degli Yuan e la morte dell’ambizioso imperatore Yong-le della 39 Mishu jian zhi ⾬кⲥᖫ (Documenti della biblioteca di palazzo), ed. by Wang Shidian ⥟຿⚍ and Shang Qiweng ଚӕ㖕, Zhejiang guji chubanshe, Hangzhou 1992, cap. 4, «Zuanxiu» 㑖ׂ («compilazione»), p. 76. Si veda anche Chen Dezhi 䰜ᕫ㡱, «Yuandai haiwai jiaotong de fazhan yu Mingchu Zhenghe xia Xiyang» ‫ܗ‬ҷ⍋໪Ѹ䗮ⱘথሩϢᯢ߱䚥੠ϟ㽓⋟ («Lo sviluppo delle comunicazioni via mare sotto la dinastia Yuan e i viaggi di Zheng He nell’oceano Occidentale all’inizio della dinastia Ming»), Zhenghe xia Xiyang lunwen ji 䚥੠ϟ㽓⋟䆎᭛䲚 (Raccolta di saggi sul viaggio di Zheng He in Occidente), 2 (1985), poi in Id., Mengyuan shi yanjiu conggao 㩭‫ܗ‬৆ⷨおϯ〓, Renmin chubanshe, Beijing 2005, p. 422; Ma Jianchun 偀ᓎ᯹, «Yuandai dongchuan Huihui dilixue kaoshu» ‫ܗ‬ҷϰӴಲಲ ഄ⧚ᄺ㗗䗄 («Studio sulla diffusione della geografia musulmana sotto la dinastia Yuan»), Huizu yanjiu ಲᮣⷨお (Studi sugli Hui), 1 (2002), p. 17.

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dinastia Ming, i mercanti cinesi potevano trovare lo sbocco per i loro affari in Asia sudorientale e in Asia meridionale, esattamente come i loro antenati dei secoli X-XII.

LE FESTE DEL GRAN QA’AN NEI RESOCONTI MARCO POLO E ODORICO DA PORDENONE

DI

di Ma Xiaolin 偀ᰧᵫ

Tra i viaggiatori europei che percorsero la Via della seta nei secoli XIII e XIV, Marco Polo (1254-1324) e Odorico da Pordenone (ca. 1280-1331) sono coloro che ci hanno lasciato le descrizioni maggiormente dettagliate della Cina. Altri, come Giovanni da Pian di Carpine e Guglielmo di Rubrouck, si spinsero soltanto fino alla Mongolia settentrionale, fornendo resoconti frammentari sulle regioni cinesi. Vi sono alcune notevoli somiglianze tra Marco Polo e Odorico da Pordenone. Entrambi viaggiarono attraverso l’Eurasia seguendo sia la Via della seta, sia le rotte marittime. Entrambi riferirono dei loro viaggi una volta ritornati in Italia. Sia il Devisement dou monde di Marco Polo sia la Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum di Odorico si diffusero immediatamente in tutta Europa in numerose copie manoscritte. La differenza consiste nel fatto che il libro di Marco, più lungo ed enciclopedico, gli valse un’incredibile fama e, allo stesso tempo, suscitò dubbi, se non addirittura sospetto, come dimostra il volume di Frances Wood Did Marco Polo go to China? (1995). Tuttavia, nessuno studioso che abbia studiato attentamente il testo poliano pare concordare con le tesi della Wood. Più vengono condotte ricerche accurate sulla Cina mongola, meno incertezze rimangono. I recenti lavori di Stephen Haw (2006)1 e di Hans Ulrich Vogel (2012)2 hanno confermato la veridicità dell’opera poS.G. Haw, Marco Polo’s China: A Venetian in the Realm of Khubilai Khan, Routledge, London-New York 2006. 2 H.U. Vogel, Marco Polo Was in China: New Evidence from Currencies, Salts and Revenues, Brill, Leiden 2012. 1

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liana per quanto riguarda il paesaggio, l’organizzazione amministrativa e l’economia. In Cina, Marco Polo è stato considerato dai più una fonte attendibile fin dai primi anni Quaranta del secolo scorso, quando il professor Yang Zhijiu (traslitterato anche Yang Chih-Chiu ᴼᖫ⥪, 1915-2002) segnalò una fonte cinese che si riferiva alla partenza del viaggiatore3. In seguito, verso la fine del Novecento, Yang Zhijiu ha tentato di confrontare dettagliatamente il resoconto di Marco Polo con fonti cinesi4. In due brevi saggi, egli parla dell’attendibilità della descrizione che il veneziano fa delle feste della dinastia Yuan5. Ispirato dal lavoro del professor Yang, ho proseguito le ricerche su quanto si racconta nel Devisement circa rituali, costumi e credenze religiose6. Questo articolo tratterà delle feste del Gran Qa’an di cui parlano Marco e Odorico, da un lato, allo scopo di stabilire quanto i loro resoconti siano attendibili per la conoscenza della storia dei Mongoli e della dinastia Yuan e, dall’altro, al fine di sciogliere alcuni nodi in tali testi. 3 Yang Zhijiu, «Guanyu Makeboluo li hua de yiduan hanwen jizai» ݇Ѣ偀 ৃ⊶㔫⾏ढⱘϔ↉∝᭛䆄䕑 («Una fonte cinese che si riferisce alla partenza di Marco Polo»), Wenshi zazhi ᭛৆ᴖᖫ (Giornale di storia e letteratura), 1-12 (1941); cfr. anche Id., Makeboluo yu zhongwai guanxi 偀ৃ⊶㔫ϢЁ໪݇㋏ (Marco Polo e i contatti sino-esteri), Zhonghua shuju Ёढкሔ, Beijing 2015, pp. 37-44. Per una sintesi in inglese, si veda Yang Chih-Chiu, «A New Discovery Referring to Marco Polo’s Departure from the Chinese Source», Journal of the Royal Asiatic Society of Bengal Letters, 10-1 (1944), pp. 53-55. Per un brevissimo riepilogo in inglese, si veda Yang Chih-Chiu, Ho Yung-chi, «Marco Polo quits China», Harvard Journal of Asiatic Studies, 9-1 (1945), p. 51. 4 Yang Zhijiu, Makeboluo zai zhongguo 偀ৃ⊶㔫೼Ё೑ (Marco Polo in Cina), Nankai University Press फᓔ໻ᄺߎ⠜⼒, Tianjin 1999. Per una versione estesa, si veda Id., Makeboluo yu zhongwai guanxi, cit. 5 Yang Zhijiu ᴼᖫ⥪, «Makeboluo dao guo zhongguo ma? Cong ta suoji yuandai jieri he xingzhi tanqi» 偀ৃ·⊶㔫ࠄ䖛Ё೑৫?ҢҪ᠔䆄‫ܗ‬ҷ㡖᮹੠ߥ ࠊ䇜䍋 («Marco Polo è stato in Cina? Discussione sulle feste Yuan e le consuetudini penali»), Wenshi zhishi ᭛৆ⶹ䆚 (Conoscenza culturale e storica), 9 (1998), pp. 112-116; Id., Makeboluo yu zhongwai guanxi, cit., pp. 144-148; Id., «Makeboluo miaoshu de hubilie da han» 偀ৃ⊶㔫ᦣ䗄ⱘᗑᖙ⚜໻∫ («Descrizione fatta da Marco Polo del Gran Qa’an Qubilai»), in Id., Lou shi wen cun 䰟ᅸ᭛ᄬ (Carte conservate presso la mia umile dimora), Zhonghua shuju Ёढкሔ, Beijing 2002, pp. 356-364; anche in Id., Makeboluo yu zhongwai guanxi, cit., pp. 197-204. 6 Ma Xiaolin 偀ᰧᵫ, Makeboluo yu yuandai zhongguo: wenben yu lisu 偀ৃ·⊶㔫 ೼‫ܗ‬ҷЁ೑:᭛ᴀϢ⼐֫ (Marco Polo e la Cina Yuan alla luce di testi, rituali e credenze), Zhongxi shuju Ё㽓кሔ, Shanghai 2018.

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1. Due tipologie di riti I rituali imperiali incarnano l’ideologia di un impero. Attraverso i riti si dimostra il potere universale esercitato dall’imperatore su un vasto territorio e su popoli diversi, sottolineando, allo stesso tempo, la condizione di privilegio della classe dominante. Secondo la tradizione cinese, un impero era tenuto a istituire cinque tipologie di riti Ѩ⼐ (vale a dire, sacrificale ঢ়, funebre ߊ, militare ‫ݯ‬, di accoglienza ᆒ e celebrativo ௝), a cui venivano dedicati cinque distinti trattati nella storia ufficiale della dinastia. Tuttavia, i Mongoli la pensavano diversamente. Come si evince dal manuale dell’arte di governare Jingshi dadian 㒣Ϫ໻‫«( ݌‬Compendio per il governo del mondo», 1331) e dalla storia ufficiale Yuanshi ‫ܗ‬৆ («Storia degli Yuan», 1370), l’Impero Yuan celebrava essenzialmente due tipi di riti: 1) le feste, ovvero l’assemblea imperiale ᳱ Ӯ, il banchetto ᆈ亼 e la parata 㸠ᑌ, come viene descritto nella prima parte del Jingshi dadian e nel trattato su riti e musica ⼐Фᖫ dello Yuanshi; 2) le cerimonie sacrificali, come riferito nella prima parte del Jingshi dadian e nel trattato del sacrificio ⽁⼔ᖫ dello Yuanshi. È evidente che Marco Polo conosceva queste due significative tipologie di rito. La cerimonia dell’«aspersione con latte di cavalla» (in mongolo Saculi Qumis, tradotto in cinese con samanai ⋦偀ཊ) era il sacrificio più solenne nell’Impero mongolo, che si ricollegava al culto tradizionale di Möngke Tengri «l’Eterno Cielo» diffuso tra le popolazioni nomadi dell’Asia centrale7. Ogni anno, tutti i Gran Qa’an celebravano il rito dell’aspersione con il latte di giumenta alla fine dell’estate o all’inizio dell’autunno. A partire da Qubilai (ca. 1260-1294), il Gran Qa’an trascorreva l’estate a Shangdu – nell’odierna Mongolia Interna – o nei dintorni, rimanendovi per circa cinque mesi. Ho confrontato attentamente la descrizione che Marco Polo fa della cerimonia dell’aspersione con latte di giumenta8 con quella che si incontra nelle fonti cinesi. Mi sia lecito riprendere per sommi capi gli esiti più 7 Si veda Ma Xiaolin 偀ᰧᵫ, «Yuandai menggu ren de jitian yishi» ‫ܗ‬ҷ㩭 সҎⱘ⽁໽Ҿᓣ («I sacrifici rituali al Cielo dei Mongoli in epoca Yuan»), Minzu yanjiu ⇥ᮣⷨお (Studi etnonazionali), 9 (2018), pp. 84-91. 8 Si veda A.C. Moule, P. Pelliot, Marco Polo. The Description of the World, Routledge, London 1938, vol. I, pp. 187-188.

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importanti del mio precedente studio9. La traduzione italiana del libro di Marco Polo pubblicata da Giovanni Battista Ramusio (1559) conserva l’eccezionale notizia secondo cui il Qa’an versava dalle sue stesse mani gran parte del latte. Il fatto è confermato da una fonte cinese in cui si riferisce che erano «l’imperatore e l’imperatrice in persona a compiere il rituale» (Ᏹৢ҆П). Fonti cinesi avallano anche l’affermazione di Marco Polo che il Qa’an lasciava Shangdu lo stesso giorno in cui si svolgeva la cerimonia. Inoltre, Marco racconta che la data della cerimonia veniva scelta da astrologi e adoratori degli idoli. Le due categorie corrispondono rispettivamente agli astronomi imperiali ໾৆ e agli sciamani Ꮬယ. Val la pena notare che la data scelta da astronomi e sciamani per la cerimonia cambiava ogni anno. Nel racconto di Marco Polo, la celebrazione si svolgeva il ventottesimo giorno della luna del mese di agosto, che dovrebbe indicare il ventottesimo giorno del settimo mese lunare. Possiamo ricostruire la data della partenza di Qubilai da Shangdu da fonti cinesi. Soltanto l’anno 1276 sembra trovare perfetta corrispondenza con la data indicata da Marco Polo. Possiamo presumere che Marco Polo si trovasse a Shangdu nel 1276 quando si svolse la cerimonia del latte di cavalla. Altri studiosi in precedenza hanno ipotizzato che Marco Polo sia arrivato per la prima volta a Shangdu nell’estate del 127510, pertanto è ragionevole pensare che il viaggiatore si sia trattenuto a Shangdu per tutto l’anno successivo11. Odorico da Pordenone racconta di essere stato a Dadu o Khanbalik (l’odierna Pechino) per tre anni interi12. Pare che Odorico non abbia mai visitato Shangdu dal momento che cita Sandu (= Shangdu) soltanto una volta e la descrive come uno dei luoghi più freddi del 9 Cfr. Ma Xiaolin, «Notes on Marco Polo and the Kumiss Ceremony at Xanadu», in III International Congress of Medieval Archaeology of the Eurasian Steppes, Danlnauka, Vladivostok 2017, pp. 185-187. 10 H. Yule, «Introduction», in The Book of Ser Marco Polo, the Venetian, Concerning the Kingdoms and Marvels of the East, newly translated and edited [...] by colonel H. Yule, third edition revised throughout in the light of recent discoveries by H. Cordier, 2 voll., John Murray, London 1903 (1a ed. 1871), vol. I, p. 21; A.C. Moule, P. Pelliot, Marco Polo. The Description of the World, cit., vol. I, pp. 26-27. 11 Per ulteriori particolari, si veda Ma Xiaolin, Makeboluo yu yuandai zhongguo: wenben yu lisu, cit., pp. 63-73. 12 H. Yule, Cathay and the Way Thither, Hakluyt Society, London 1866, vol. I, pp. 132-133.

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mondo. È probabile, quindi, che non abbia avuto l’occasione di assistere alla cerimonia del latte di cavalla. Ciononostante, sia Marco Polo sia Odorico descrivono le feste alla corte del Gran Qa’an in modo dettagliato. 2. Le due feste di Marco Polo Per quanto riguarda le grandi feste tenute dal Gran Qa’an, Marco Polo ne descrive due mentre Odorico ne menziona quattro. Le fonti cinesi sono d’aiuto per spiegare questa differenza. Come ricorda la Storia degli Yuan, al tempo esistevano dieci riti, che si potevano distinguere in due gruppi. Il primo comprendeva il Capodanno ‫ܗ‬ℷফᳱҾ, il compleanno del Qa’an ໽ᇓ೷㡖ফᳱ Ҿ e il rituale Jiao volto a venerare il Cielo 䚞ᑭ⼐៤ফ䌎Ҿ13. In queste tre occasioni si compivano i rituali più solenni dell’impero. Riti analoghi, fatte salve alcune piccole differenze, si celebravano nelle altre sette ricorrenze che costituivano il secondo gruppo, tra cui l’insediamento dell’imperatore ⱛᏱेԡ, il conferimento del titolo onorifico all’imperatore Ϟᇞো, all’imperatrice ‫ݠ‬ゟⱛৢ, al principe ereditario ‫ݠ‬ゟⱛ໾ᄤ, alla grande imperatrice vedova ໾ ⱛ໾ৢϞᇞো, all’imperatrice vedova ⱛ໾ৢϞᇞো, e l’attribuzione di un titolo onorifico più lungo alla grande imperatrice vedova ໾ⱛ໾ৢࡴᇞো14. Come si può intuire facilmente, di queste dieci solo il Capodanno e il compleanno del Qa’an si svolgevano ogni anno. Di fatto, queste sono le due feste del racconto di Marco Polo. L’imperatore cominciò a celebrare di persona il rito del Jiao nel 1330, sicché né Marco Polo né Odorico poterono assistervi. Qubilai è noto per aver istituito nuovi riti imperiali. Le feste imperiali per il Capodanno e per il compleanno del Qa’an furono celebrate per la prima volta rispettivamente nel 1271 e nel 1272. Il rito di incoronazione dell’imperatore fu inaugurato nel 1294 quando Temür, il nipote di Qubilai, salì al trono. 13 Song Lian ᅟ▖ et al., Yuanshi ‫ܗ‬৆ (Storia degli Yuan), Zhonghua shuju, Beijing 1976, pp. 1666-1669. 14 Ibid., pp. 1669-1683.

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Marco Polo rimase in Cina dal 1275 al 1291. Durante quel periodo, il Capodanno e il compleanno del Qa’an si festeggiarono ogni anno; inoltre, il rito di conferimento del titolo onorifico all’imperatore fu celebrato a Dadu/Khanbalik all’inizio del 1284 per la prima volta in assoluto sotto l’Impero mongolo15. Si trattò senza dubbio di una festa grandiosa. Ciononostante, Marco Polo ricorda solo il Capodanno e il compleanno del Qa’an e ciò lascia supporre che non fosse a Khanbalik nel 1284. Dalle ricerche di Hans Ulrich Vogel sulla descrizione poliana del sistema di riscossione delle imposte a Hangzhou emerge che il veneziano probabilmente si trattenne in quella città negli anni 1285128716. Chen Dezhi suggerisce che Marco Polo si sia recato nello Yunnan ѥफ tra il 1280 e il 1281, ritornando a Khanbalik per un breve soggiorno, e che fosse a Yangzhou e Hangzhou negli anni tra il 1282 e il 128717. La nostra ricerca conferma le ipotesi di questi studiosi. Marco Polo non poté assistere al rito di conferimento del titolo onorifico all’imperatore a Khanbalik nel 1284 perché a quel tempo doveva trovarsi a Yangzhou. 3. Le quattro feste di Odorico Sebbene sussistano alcune incertezze sul suo itinerario, Odorico arrivò nella Cina meridionale probabilmente nel 1323 o nel 1324 e raggiunse poi Dadu/Khanbalik verso il 1325. Dopo esservisi trattenuto per tre anni, ripartì nel 1328 circa18, quindi poté assistere alle feste di corte sotto Yesün Temür (ca. 1323-1328). Ibid., p. 263. H.U. Vogel, Marco Polo Was in China, cit., pp. 289, 377. 17 Chen Dezhi 䰜ᕫ㡱, «Makeboluo zai zhongguo de lücheng ji qi niandai» 偀ৃ⊶㔫೼Ё೑ⱘᮙ⿟ঞ݊ᑈҷ («Il viaggio di Marco Polo in Cina»), Yuanshi ji beifang minzu shi yanjiu jikan ‫ܗ‬৆ঞ࣫ᮍ⇥ᮣ৆ⷨお䲚ߞ (Cronaca della storia degli Yuan e delle etnie del Nord), 10 (1986); Id., Mengyuan shi yanjiu conggao 㩭‫ܗ‬৆ⷨおϯ 〓 (Saggi sulla storia degli Yuan mongoli), Renmin chubanshe Ҏ⇥ߎ⠜⼒, Beijing 2005, pp. 430-447. 18 Si veda A. Tilatti, «Odorico da Pordenone», in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 79 (2013); V. Liščák (ᴢϪՇ), «‘Eduolike dongyou lu’ yu yuandai zhongguo» «䛖໮ゟ‫ܟ‬ϰ␌ᔩ» Ϣ‫ܗ‬ҷЁ೑ («Diario di viaggio di Odorico in Oriente e nella Cina mongola»), Shijie Hanxue Ϫ⬠∝ᄺ (Sinologia mondiale), 13 (2014), pp. 51-55. 15 16

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Il Gran Qa’an Yesün Temür salì al trono nel 1323 nella Mongolia settentrionale dove sembra che Odorico non sia mai stato. Cinque anni più tardi, alla sua morte avvenuta a Shangdu durante il settimo mese lunare del 1328, la lotta dei principi per la successione al trono diede il via a uno scontro tra le due capitali. La guerra civile divampò dalla seconda metà del 1328 fino all’inizio del 1329 attraverso tutta la Mongolia Interna e il Nord della Cina. Il figlio di sette anni e successore di Yesün Temür rimase disperso, o probabilmente ucciso, in una battaglia. Il vincitore, il principe Tuqtemür, fu incoronato a Khanbalik nell’ottobre del 1328, ma abdicò in favore del fratello maggiore Qoshla nel febbraio del 1329. Qualche mese più tardi, in settembre, Tuqtemür avvelenò Qoshla e si riprese il trono a Shangdu. Odorico non parla della morte di Yesün Temür né della guerra civile che ne scaturì e neppure fa cenno all’omicidio di Qoshla. Ciò si può spiegare sia postulando che abbia lasciato la Cina prima della morte di Yesün Temür, sia ipotizzando che la sua Relatio non volesse essere una cronaca della storia cinese, ma il resoconto della missione di un devoto frate francescano. Io propendo per la seconda ipotesi. Dopo tutto, Odorico non menziona neppure il nome di Yesün Temür. Odorico racconta che ogni anno il Qa’an dà quattro feste: una per il giorno della sua nascita, una per il giorno della circoncisione, e altre due non specificate: «Quatuor magna festa in anno facit iste canis, scilicet festum circumcisionis, eiusque nativitatis diem, et sic de reliquis»19. La versione breve in italiano pubblicata da Ramusio nel 1574 (cosiddetto «Ramusio minor»), sostituisce – banalizzando ‒ la circoncisione con l’incoronazione e menziona anche le ricorrenze delle nozze con l’imperatrice e della nascita del principe primogenito: «Oltre ciò il signore ogn’anno fa quattro feste: la prima è per il dì della sua natività, la seconda è dell’incoronazione sua, la terza è del matrimonio, quando menò per moglie la regina, la quarta è della natività del suo primogenito figliuolo»20. Il compleanno di Yesün Temür cadeva il ventinovesimo giorno del decimo mese lunare, periodo che di solito l’imperatore trascor19 Odorico da Pordenone, Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, a cura di A. Marchisio, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze 2016, p. 208 (XXIX 1). 20 Giovanni Battista Ramusio, Navigazioni e viaggi, a cura di M. Milanesi, vol. IV, Einaudi, Torino, 1983, p. 317; H. Yule, Cathay and the Way Thither, cit., vol. I, p. 141, nota 2.

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reva a Khanbalik. Odorico deve aver presenziato a tre di questi festeggiamenti. È interessante che la parola «circoncisione» diventi «incoronazione» nella versione breve di Ramusio21, forse perché non si credeva fosse possibile che un Qa’an mongolo si facesse circoncidere. Sarà da notare, tuttavia, che l’incoronazione o l’insediamento del Qa’an non potevano essere celebrati ogni anno. Quanto al riferimento alla circoncisione, condivido l’opinione di Antonio De Biasio, secondo cui in questo punto Odorico stabilisce un’equivalenza tra il Capodanno cinese e la festa della circoncisione di Gesù, che cadono nello stesso periodo dell’anno22. Le altre due feste meritano una disamina più attenta. Per quanto concerne l’imperatrice e il principe primogenito, va ricordato che le cerimonie di conferimento dei rispettivi titoli furono celebrate il terzo mese lunare del 132423. Tuttavia, non si trattava di riti annuali. Inoltre, è poco plausibile che Odorico si trovasse a Khanbalik in tale data. Festeggiare il giorno della nascita non appartiene alle tradizioni originarie dei Mongoli, che cominciarono a celebrare il genetliaco del Qa’an solo a partire dalla metà del secolo XIII24. Il compleanno del principe ereditario si celebrò dal 1308, come prova il fatto che, in tale circostanza, il re coreano cominciò a inviare ogni anno emissari per porgergli le sue felicitazioni25. Per tale occasione, i funzionari Yuan iniziarono a comporre lettere di auguri. Una missiva di questo tipo fu scritta nel 1324 a nome dell’Ufficio della Biblioteca di Palazzo26. E il principe a cui era rivolta era proprio il figlio mag21 Le Voyage en Asie d’Odoric de Pordenone: traduit par Jean le Long OSB – Itineraire de la peregrinacion et du voyaige (1351), édition critique par A. Andreose et Ph. Ménard, Droz, Genève 2010, p. 202. 22 A. De Biasio, Odorico da Pordenone in Cina. Rilettura dei capitoli cinesi della Relatio, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013, p. 171: «Odorico paragona il capodanno cinese, festa di primavera, al primo gennaio del nostro calendario, ricorrenza della circoncisione di Gesù». 23 Yuanshi, cit., p. 645. 24 Si veda Ma Xiaolin, Makeboluo yu yuandai zhongguo: wenben yu lisu, cit., pp. 74-95. 25 Zheng Linzhi 䚥味䎒, Gaoli shi 催Б৆ (Storia dei Goreyo), Xinan shifan daxue chubanshe 㽓फᏜ㣗໻ᄺߎ⠜⼒ - Renmin chubanshe Ҏ⇥ߎ⠜, ChongqingBeijing 2014, cap. 32, p. 1042. 26 Wang Shidian ⥟຿⚍, Shang Qiweng ଚӕ㖕, Mishujian zhi ⾬кⲥᖫ

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giore di Yesün Temür. Ne consegue che il compleanno del «primogenito figliuolo» dell’imperatore di cui si parla nella versione breve della Relatio trova effettivamente riscontro nelle fonti orientali. Al contrario, il compleanno dell’imperatrice Yuan non fu festeggiato fino al 135227 e non sussiste alcuna prova che l’anniversario del matrimonio sia mai esistito nell’Asia orientale pre-moderna. Pertanto non è possibile identificare alcuna usanza Yuan che corrisponda alla terza festa menzionata dalla traduzione di Ramusio. Poiché è probabile che le notizie relative alla terza e alla quarta festa non risalgano alla versione originale, ma siano state inserite in una fase successiva e piuttosto tarda della tradizione, possiamo provare a metterle da parte per formulare un’ipotesi più circostanziata sulle due rimanenti «magna festa» a cui allude il testo latino. Nella cronaca Yuan di Dadu sono elencate altre due occasioni annuali per una festa imperiale o per uno sfarzoso banchetto ໻㤊佁 a corte: la parata imperiale per la città ␌ⱛජ, nella prima metà del secondo mese lunare, e l’arrivo dell’imperatore a Dadu da Shangdu, in autunno28. Rappresentanti religiosi partecipavano a entrambi gli eventi e Odorico avrebbe potuto essere tra i presenti. 4. La grande assemblea e il banchetto Organizzati in origine dai popoli nomadi in determinati periodi dell’anno, la grande assemblea e il banchetto furono trasformati dall’impero Yuan in ricorrenze solenni. Nei documenti ufficiali degli Yuan la grande assemblea e il banchetto nel loro insieme erano considerati come uno dei tre eventi più importanti dell’impero. Secondo la tradizione cinese, il rito della grande assemblea fu introdotto dai consiglieri di Qubilai nel 1272. Un’efficace descrizione di questo rituale è offerta dalle fonti cinesi29. Tutti i convenuti, (Resoconti della Libreria di Palazzo), Zhejiang guji chubanshe ⌭∳স㈡ߎ⠜⼒, Hangzhou 1992, p. 148. 27 Zheng Linzhi, Gaoli shi, cit., cap. 38, p. 1191. 28 Xijin zhi jiy iᵤ⋹ᖫ䕥Ԯ (Raccolta dei testi del perduto Dizionario geografico di Xijin), Beijing guji chubanshe ࣫Ҁস㈡ߎ⠜⼒, Beijing 1983, pp. 214-216, 222-223. 29 Matsuda Kōichi ᵒ⬄ᄱϔ, «‘Jirinkōki’ ‘ō gen chōgi no zu’ kaisetsu»Ǎџᵫ ᑗ㿬ǎNjⱛ‫ܗ‬ᳱ‫۔‬Пೇnj㾷䂀 («Interpretazione dell’‘Illustrazione del rito del-

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eccetto l’imperatore e l’imperatrice, indossavano abiti di uno dei tre colori corrispondenti al loro lignaggio. Nel codice Yuan, gli appartenenti al ceto dei funzionari dal primo al quinto grado dovevano vestire di porpora ㋿, i gradi sesto e settimo di rosso intenso 㓃 e l’ottavo e il nono di verde 㓓30. Odorico afferma che i baroni portavano abiti di tre colori a seconda del ceto: il primo di colore verde («de viride»), il secondo di rosso scuro («de sanguineo») e il terzo «de croceo idest cano»31 ‒ dove cano non avrà il valore di «bianco», ma sarà da interpretare come un settentrionalismo (çano) per «giallo»32. Sebbene né il colore croceus né lo çanus corrispondano propriamente al rosso porpora o al rosso intenso, se interpretiamo i tre colori di Odorico dal basso verso l’alto, essi riflettono sostanzialmente l’organizzazione dei convitati in epoca Yuan. Nel corso dell’assemblea, il Gran Qa’an riceve i doni dai suoi sottoposti. Marco Polo dice che per il compleanno del Qa’an, tutti

l’assemblea dell’impero Yuan’ nel Jirinkōki»), in Seiki Higashiajia sho gengo shiryō no sōgō teki kenkyū: Genchō shiryōgaku no kōchiku no tameni, 13, 14 Ϫ㋔ᵅȪɀȪ䃌㿔䁲 ৆᭭ȃ㎣ড়ⱘⷨお: ‫ܗ‬ᳱ৆᭭ᄺȃᾟ㆝ȃǴȖȀ(Studio complessivo delle fonti plurilingui nell’Asia dei secoli XIII-XIV: la costruzione della storiografia della dinastia Yuan), Heisei 16 nendo–18 nendo kagaku kenkyūhi hojokin (kiban kenkyū B) kenkyū seika hōkoku-sho ᑇ៤ 16 ᑈᑺ-18 ᑈᑺ⾥ᄺⷨお䊏㺰ࡽ䞥(෎Ⲹⷨお B)ⷨお៤ ᵰฅਞ᳌ (Rapporto sui risultati del fondo per la ricerca scientifica di base [ricerca di base B] 2004-2006), ed. by Morida Kenji Ể⬄ឆৌ, s.n., s.l. 2007, pp. 3662. Id., «‘Jirinkōki’ ‘ō gen chōgi no zu’ kaisetsu hoi»Ǎџᵫᑗ㿬ǎNjⱛ‫ܗ‬ᳱ‫۔‬П ೇnj㾷䂀㺰䙎 («Supplemento all’interpretazione dell’‘Illustrazione del rito dell’assemblea dell’impero Yuan’ nel Jirinkōki»), 13-14 seiki Higashiajia shiryō tsūshin 13-14 Ϫ㋔ᵅȪɀȪ৆᭭䗮ֵ (Lettere sulle fonti dell’Estremo Oriente dei secoli XIIIXIV), 9 (2009), pp. 1-8. 30 Yuan dianzhang ‫݌ܗ‬ゴ (Statuti e Precedenti della dinastia Yuan), ed. by Chen Gaohua et al., Tianjin guji chubanshe ໽⋹স㈡ߎ⠜⼒ - Zhonghua shuju, TianjinBeijing 2011, cap. 29, p. 1110. 31 Odorico da Pordenone, Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, cit., p. 208 (XXIX 5). Diverso è il testo che si legge nella precedente edizione di Anastaas van den Wyngaert: «Diversimode autem isti barones sunt vestiti, de viridi sirico primi, secundi de sanguineo sunt induti, tertii vero de glauco sive cano» (B. Odoricus de Portu Naonis, «Relatio», Sinica Franciscana, collegit, ad fidem codicum redegit et adnotavit p. A. van den Wyngaert O.F.M., vol. I. Itinera et relationes fratrum Minorum saeculi XIII et XIV, apud Collegium S. Bonaventurae, ad Claras Aquas [Quaracchi - Firenze] 1929, pp. 413-495, qui p. 480 [XXIX 2]). 32 Desidero ringraziare il professor Alvise Andreose per aver condiviso questo parere per e-mail (7 ottobre 2015).

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i Tartari del mondo (tous les Tartarç dou munde) «et toutes les provences et region, qe de lui tenent tere et seingneuries, li funt grant present, chascun com est convenable a celui que l’aporte et selonc qe est ordree»33. La scena della consegna dei doni si ritrova nel racconto di Odorico: Deinde una vox clamat dicens: «Taceant omnes et sileant»; et sic omnes statim tacebunt. Post hec statim illi de parentela parati sunt cum equis albis. Exinde vox alia clamabit, dicens : «Talis de tali parentela, tot centenaria equorum paret domino suo»; ibique statim aliqui sunt parati ducentes illos equos paratos ante dominum suum, ita quod quasi incredibile est de tot equis albis qui huic magno cani exeniantur. Deinde sunt barones exennia portantes ex parte aliorum baronum; omnes etiam de monasteriis principales ad ipsum accedunt cum exennis, et suam benedictionem sibi tenentur dare; hoc idem nos facere oportet. Hoc facto, aliqui histriones ad ipsum accedunt et etiam alique histrionatrices, et ante ipsum tam dulciter cantant, quod quedam magna iucunditas est audire34.

Si distinguono tre gruppi di persone. L’espressione parentela designa la famiglia imperiale. I barones sono i funzionari addetti ai vari inca33 Marco Polo, Le Devisement dou monde, 1. Testo, a cura di M. Eusebi, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2018 («Filologie medievali e moderne», 16, «Serie occidentale», 13), p. 109 (LXXXVII 2); cfr. anche la traduzione toscana TA: «Tutti li Tartari del mondo e tutte le province che tengono le terre da·llui, lo dì fanno grande festa, e tutti ’l presentano secondo che si conviene a chi ’l presenta e com’è ordinato» (Marco Polo, Milione. Versione toscana del Trecento, edizione critica a cura di V. Bertolucci Pizzorusso, indice ragionato di G.R. Cardona, Adelphi, Milano 19942, p. 135 [87 1]). 34 Odorico da Pordenone, Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, cit., pp. 210-211 (XXIX 22-33). Cfr. anche la traduzione toscana trecentesca: «E allora grida una voce e dice: ‘Cotali di cotale parentado apparecchino cotante migliaia overo centenaia di cavalli al signore’. E allora sono apparecchiati certi che menano questi cavalli aparechiati dinanzi dal signore, di che è incredibile di tanti cavalli bianchi quanti ellino danno. E allora sono altri baroni che portano i presenti e doni da parte d’altri baroni. E allora tutti principali de’ monasteri vengono con doni e dannoli la sua benedizione. E quello medesmo conviene fare a noi frati Minori. E fatte queste cose, allora alcuni giocolari vengono dinanzi dal signore, e alcune giocolaresse ne cantano molto meravigliosamente» (Libro delle nuove e strane e meravigliose cose. Volgarizzamento italiano del secolo XIV dell’ Itinerarium di Odorico da Pordenone, a cura di A. Andreose, Centro Studi Antoniani, Padova 2000 [«Centro Studi Antoniani», 33], p. 171 [XLII 26-32]).

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richi e, infine, «omnes […] de monasteriis principales» sono i capi religiosi. Tale suddivisione trova conferma nella Storia degli Yuan35, che fa riferimento a tre gruppi di persone nel cerimoniale ufficiale della consegna dei doni: 1) l’imperatrice e le concubine ৢབྷ, i principi 䇌⥟, i generi dell’imperatore 偌偀; 2) il cancelliere che dà lettura delle missive augurali e delle liste di regali giunti dai vari uffici ϲⳌ䖯䇏৘㑻ᅬ㕆㸼ゴ⼐⠽Ⳃ, giacché alla maggior parte di questi veniva richiesto di redigere una lettera di felicitazioni e di inviarla alla corte in anticipo36; 3) i buddisti, i taoisti, gli anziani 㗚 㗕 e gli ospiti stranieri ໪೑㬗ᅶ. Odorico spiega anche che alcuni funzionari controllavano se qualche barone non fosse presente e che agli assenti venivano comminate pene severe37. Nel codice degli Yuan troviamo un’ordinanza imperiale del 1313 con cui si decretava che chiunque avesse profanato il rito sarebbe stato severamente punito e il *ǰasaqsun/ǰasaqulsun ᴁᩦᄭ («esecutore della legge, giudice») e il censore ⲥᆳᕵ৆ sarebbero stati responsabili dell’ordine durante l’assemblea38. All’assemblea seguiva il banchetto. Un ambasciatore coreano in visita a Khanbalik nel 1272 ci ha lasciato una testimonianza dei due eventi, che si svolgevano nel palazzo imperiale. Il rito dell’assemblea era simile a quello del regno di Corea perché entrambi si attenevano alla tradizione cinese. Poi, tutti i presenti, eccezion fatta per gli ospiti coreani, si cambiavano d’abito, indossando vestiti di foggia mongola per partecipare al banchetto nello stesso palazzo39. Come racconta Marco Polo, «le Grant Kaan se vest de noble dras a or batu. Et bien .XIIM. baronç et chevalers se vestent cum lui»40. L’eYuanshi, cit., pp. 1666-1669. Yuan dianzhang, cit., cap. 28, pp. 1006-1008. 37 Odorico da Pordenone, Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, cit., pp. 209-210 (XXIX 17-18). 38 Zhizheng tiaoge 㟇ℷᴵḐ (Statuti del periodo Zhizheng), Humanist Press, Seoul 2007, «Duanli» ᮁ՟ («Precedenti»), p. 189. 39 Li Chengxiu ᴢᡓӥ, «Bin wang lu» ᆒ⥟ᔩ, in Gaoli mingxian ji催Бৡ䋸 䲚, vol. 1, Sungkyunkwan University, Seoul 1986, pp. 617-626. Si veda anche Chen Dezhi 䰜ᕫ㡱, «Du gaoli Li Chengxiu Bin wang lu» 䇏催Бᴢᡓӥ «ᆒ⥟ ᔩ» («Leggendo Li Chengxiu’s Bin wang lu»), Zhonghua wenshi luncong Ёढ᭛৆䆎 ϯ (Rivista di letteratura e storia cinese), 12 (2008), pp. 67-68. 40 Marco Polo, Le Devisement dou monde, cit., p. 108 (LXXXVI 3-4). Cfr. anche il testo toscano: «Lo Grande Kane […] si veste di drappi d’oro battuto, e co lui si 35 36

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spressione mongola è jisün, che viene trascritto zhisun 䋼ᄭ in cinese e interpretato come yise fu ϔ㡆᳡ «abiti di un colore»41. I vestiti erano confezionati per la maggior parte con la stoffa preferita dai Mongoli, il nasij, un tessuto di origine islamica che fu poi prodotto anche nella Cina degli Yuan42. 5. La descrizione di Marco Polo della data di nascita di Qubilai È interessante soffermarsi sulla data del compleanno di Qubilai citata da Marco Polo. Nel manoscritto franco-italiano F, è il ventottesimo giorno della luna del mese di settembre («a les .xxviii. jors de la lune dou mois de setenbre»)43. Questa particolare espressione usata da Marco Polo deve essere intesa alla luce della differenza tra il calendario europeo e quello cinese. Va rilevato che la lezione viene spesso deformata nella tradizione manoscritta. La versione latina P reca una lezione semplificata: «die .XXVIII. septembris»44. Quella toscana TA («a dì .xxviij. di settembre in lunedì»)45 e la traduzione veneziana V («a dì vintioto de setenbrio, et fo de luni»)46 sembrano aggiungere un riferimento al giorno della settimana, ma di fatto si tratta, come ha giustamente rilevato Valeria Bertolucci Pizzorusso, di una traduzione errata dell’espressione «de la lune dou mois de setenbre»47. L’unica preziosa informazione in più vieveste .xij. baroni e cavalieri d’un colore e d’una foggia» (Marco Polo, Milione, cit., p. 134 [96 3]). 41 Yuanshi, cit., p. 1669. 42 Si veda T.T. Allsen, Commodity and Exchange in the Mongol Empire: A Cultural History of Islamic Textiles, Cambridge University Press, Cambridge 1997. 43 Marco Polo, Le Devisement dou monde, cit., p. 108 (LXXXVI 2). 44 Librum domini Marchi Pauli de Veneciis de condicionibus et consuetudinibus orientalium regionum (ed. di S. Simion), in Giovanni Battista Ramusio, Dei viaggi di Messer Marco Polo, a cura di E. Burgio e S. Simion, Ca’ Foscari, Venezia 2015 («Filologie medievali e moderne», 5; «Serie occidentale», 4), Url http://virgo.unive.it/ecfworkflow/books/Ramusio/testi_completi/P_marcato-main.htm, Liber II 14 1. 45 Marco Polo, Milione, cit., p. 134 (86 2). 46 Libro chiamado dela insti‹tu›zione del mondo (ed. di S. Simion), in Giovanni Battista Ramusio, Dei viaggi di Messer Marco Polo, cit., Url http://virgo.unive.it/ecfworkflow/books/Ramusio/testi_completi/V_marcato-main.html, 43 1. 47 Marco Polo, Milione, cit., p. 134 nota 2; V. Bertolucci Pizzorusso, «Nota al testo», ibid., pp. 323-487, qui p. 428.

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ne dalla versione latina LT48, che aggiunge il dettaglio secondo cui il compleanno di Qubilai cadrebbe nel giorno dei santi Lucia e Geminiano. Nel Medioevo, la leggenda dell’anziana vedova Lucia e del giovane Geminiano era popolare in Italia. Il giorno a loro dedicato era il 16 settembre, finché fu abolito nel 196949. È indubbio che «la lune dou mois de setenbre» di Marco Polo si riferisce al mese lunare, poiché è ben noto che Qubilai nacque il ventottesimo giorno dell’ottavo mese lunare dell’anno yihai Эѹ, vale a dire il decimo anno del regno di Gengis Qa’an50. Gli studiosi moderni hanno dimostrato che tale indicazione cronologica corrisponde al 23 settembre 121551, che è, come notano Moule e Pelliot, l’ottava della festa dei santi Lucia e Geminiano52. Tale equivalenza, però, è stata ricavata sulla base del calendario gregoriano, che entrò in vigore solo nel 1582, ma gli europei dell’epoca di Marco Polo usavano ancora il calendario giuliano. Secondo quest’ultimo sistema il compleanno di Qubilai corrisponde al 16 settembre. Nel secolo XIII, soltanto in tre anni il compleanno di Qubilai secondo il calendario cinese è coinciso con il 16 settembre, ossia nel 1215, nel 1280 e nel 1299. Durante la permanenza di Marco Polo in Cina il compleanno di Qubilai fu sicuramente celebrato seguendo il calendario cinese. Si trattava di una grande solennità per tutto l’impero Yuan. Non è verosimile che l’indicazione cronologica contenuta nel Devisement si riferisca alla ricorrenza del 1280 o del 1299, perché in tali anni il viaggiatore si trovava lontano dalla capitale. Poiché Marco dimostra di conoscere l’età esatta di Qubilai, è lecito ritenere che i suoi calcoli si basassero sul 1215. Presumo che, almeno mentre si trovava in Cina, il veneziano avesse sottomano un manuale per la conversione del calendario. 48 A.C. Moule, P. Pelliot, Marco Polo: The Description of the World, cit., vol. I, p. 220 (cap. 87). 49 The Book of Saints: A Comprehensive Biographical Dictionary, ed. by Dom B. Watkins on behalf of the Benedictine Monks of St. Augustine’s Abbey, Chilworth (formerly Ramsgate), 8th Edition, Bloomsbury, London 2015, pp. 444, 446. Calendarium Romanum, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1969, p. 139. 50 Yuanshi, cit., p. 57. 51 Hung Chin-fu ⋾䞥ᆠ, Liaojinyuan wuchao rili 䖑ᅟ䞥‫ܗ‬Ѩᳱ᮹ग़ (Calendario di cinque dinastie durante il periodo Liao-jin-yuan), Academia Sinica, Taipei 2004, p. 317. 52 A.C. Moule, P. Pelliot, Marco Polo: The Description of the World, cit., vol. I, p. 220 nota 3.

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Un altro elemento degno di interesse è che, dopo il 1300, il 16 settembre del calendario giuliano è equivalso al 24 settembre del calendario gregoriano. Se un uomo del Trecento avesse provato a convertire la data di nascita di Qubilai secondo il sistema occidentale, probabilmente il risultato non sarebbe stato la festa dei santi Lucia e Geminiano. L’analisi filologica ha dimostrato che la redazione LT fu composta sulla base di TA e P53. Chi fece la conversione del calendario, collocando il compleanno di Qubilai nel giorno dei santi Lucia e Geminiano? Tale problema impone di indagare con maggior attenzione sulle fonti di LT. 6. Conclusioni Il Devisement dou monde restituisce la descrizione di due tipi di riti, rispettivamente sacrificali e celebrativi, dell’impero Yuan. Le due feste descritte da Marco Polo corrispondono al Capodanno e al giorno della natività del Qa’an Qubilai, entrambe ben attestate nella documentazione orientale. Le quattro feste raccontate da Odorico possono essere interpretate alla luce degli eventi storici degli anni Venti del secolo XIV. Vari indizi hanno dimostrato che il numero di feste annuali dell’impero andò via via aumentando dal regno di Qubilai in poi. I dettagli forniti dalle descrizioni di Marco Polo e di Odorico delle feste del Gran Qa’an sono nel complesso confermati da diverse fonti cinesi. Ciò dimostra che i resoconti dei loro viaggi sono autentici e affidabili. Alcuni problemi irrisolti possono essere spiegati sulla base di argomenti filologici, linguistici e storici. Questi importanti rituali venivano celebrati in occasioni particolari. Creando un nesso tra la narrazione e il contesto storico, la descrizione di un determinato rito permette di collocare un viaggiatore in un preciso luogo e in un dato tempo. È il caso di Marco Polo. Possiamo supporre che si trovasse a Shangdu il ventottesimo giorno

L.F. Benedetto, «Introduzione. La tradizione manoscritta», in Marco Polo, Il Milione, prima edizione integrale a cura di L.F. Benedetto, Olschki, Firenze 1928, pp. LXXXIV-LXXXV, XCIII-XCIV; V. Bertolucci Pizzorusso, «Nota al testo», cit., pp. 335-337. 53

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della settima luna del 1276, quando Qubilai celebrò la cerimonia dell’aspersione con il latte di cavalla, e che mancasse da Khanbalik all’inizio del 1284, quando Qubilai fu insignito di un titolo onorifico cinese nel corso di un fastoso rituale.

TRA SAPERE TRADIZIONALE E OSSERVAZIONE DIRETTA: MARCO POLO E LA SALAMANDRA-ASBESTO di Samuela Simion

1. Introduzione Nel capitolo dedicato alla provincia di Chinchintalas (F LIX, Ci devise de la provence de Chinchintalas)1 Marco Polo descrive l’estrazione di un minerale, l’asbesto (o amianto)2, che nel testo è identificato 1 La provincia non è stata localizzata con certezza. Sulla base di fonti cinesi, Ma Xiaolin riprende uno spunto di Pelliot: «At last, the Yuanshi ‘‫ܗ‬৆’ (History of the Yuan) recorded that the Yuan court edicted an order in 1267 to mine asbestos in the Bié-qiè-chì (*Bäkäči) Mountain߿ᘃ䌸ቅ, which has been the only contemporary evidence for Marco’s description» (偀ᰧᵫ «ᮄߎ‫ܗ‬ҷ⷇ࠏ݇Ѣ偀ৃ·⊶ 㔫᠔䆄☿⌷Ꮧⱘॄ䆕», «偀ৃ⊶㔫 ·ᡀᎲ·ϱ㓌П䏃», ᕤᖴ᭛ǃ㤷ᮄ∳Џ㓪, ࣫Ҁ: ࣫Ҁ໻ᄺߎ⠜ ⼒, 2016ᑈ, 122-130义 = Xiaolin Ma, «A Contemporary Inscriptional Evidence on Marco Polo’s Salamander Cloth under the MongolYuan Dynasty», in Marco Polo, Yangzhou, The Silk Road - Make Boluo Yangzhou Sichouzhilu (偀ৃ•⊶㔫ᡀᎲϱ㓌П䏃), ed. by Xu Zhongwen ᕤᖴ᭛ and Rong Xinjiang 㤷ᮄ∳, Peking University Press, Peking 2016, pp. 122-130 (cito dall’abstract in inglese); l’altro riferimento è a P. Pelliot, Notes on Marco Polo, Imprimerie nationale, Paris 1959-1973, p. 611, e cfr. anche H.U. Vogel, Marco Polo Was in China. New Evidence from Currencies, Salts and Revenues, Brill, Leiden-Boston 2013, pp. 62-63; S.G. Haw, Marco Polo’s China. A Venetian in the Realm of Khubilai Khan, Routledge, London-New York 2006, p. 89. 2 La parola «asbesto», che userò d’ora in avanti, ha origine greca e significa «inestinguibile» ‒ poi nell’espr. (λίθος) ἄσβεστος «incombustibile». In italiano è più utilizzato il termine «amianto», da una forma greca significante «incorruttibile» (ἀ- privativo + μιαίνειν «insudiciare»), attestata per la prima volta in Dioscoride, De materia medica, V, 138 (cfr. R. Halleux, «Techniques et légendes de l’amiante. Note d’information», Comptes rendus des séances de l’Academie des Inscriptions et BellesLettres, 154/1 (2010), pp. 383-390, qui p. 385). Come indicato nel LEI (Lessico Etimologico Italiano, ed. by M. Pfister, vol. 3, Ludwig Reichert Verlag, Wiesbaden

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con la salamandra. Si tratta di uno dei brani del Devisement dou monde più citati dai commentatori moderni, sia dal punto di vista delle strategie retoriche impiegate per «volgarizzare» l’esotico, che per quanto riguarda la definizione delle categorie di verité e mervoille 3. Nei confronti del meraviglioso che si situa nel mondo naturale, Marco dà prova di un’attitudine «scientifica», o almeno fortemente empirica, confutando sulla base della propria osservazione diretta il sapere corrente, che aveva nei bestiari i suoi principali strumenti di diffusione4. L’excursus offre infatti l’occasione di correggere l’idée reçue che la salamandra sia un animale in grado di vivere nel fuoco, contrapponendo alla leggenda il referto autoptico e saldandolo alle informazioni (di ascendenza antica) sul minerale che circolavano nelle enciclopedie medievali. Attorno ai due nuclei di salamandra e asbesto, isolati o in combinazione, si erano in effetti cristallizzati dei complessi leggendari resistenti nello spazio e nel tempo. Una serie di motivi ricorrenti si trova stabilmente attestata a partire da Aristotele (per la salamandra) e da Strabone (per l’asbesto), giungendo fino alla piena età moderna5: mentre il mito dell’incombustibilità della salamandra inizia a essere contestato nel XVI secolo6, bisogna 1991, pp. 1526-1528, qui p. 1526), l’identificazione del lat. asbestos con l’amianto non ha però riscontro oggettivo nelle fonti. 3 A fronte di un’alta concentrazione di dispositivi veridittivi, nel brano non compaiono occorrenze legate al campo semantico della mervoille; come sottolinea Simon Gaunt, «when mervoille is not being used generically simply to reinforce a statement either positively or negatively (‘que c’estoit merveille’), it qualifies human customs or products, with only a minority of occurrences relating to nature» (S. Gaunt, Marco Polo’s Le Devisement du Monde: Narrative Voice, Language and Diversity, Brewer, Cambridge 20182, p. 118). 4 Cfr. le osservazioni di J.-C. Faucon, «La représentation de l’animal par Marco Polo», Médiévales, 32 (1997), pp. 97-117, qui pp. 108-111; B.J. Lévy, «Un bestiaire oriental? Le monde animal dans Le Devisament dou monde de Marco Polo», in Les animaux dans la littérature. Actes du Colloque de Tokyo de la Société internationale renardienne (Université Keio, 22-24 juillet 1996), édités par Matsubara Hideichi, Suzuki Satoru, Fukumoto Naoyuki et Harano Noboru, Keio University Press, Tokyo 1997, pp. 159-178, qui pp. 174-175. 5 A conferma dell’attrazione esercitata dai manufatti d’asbesto ancora nel XVIII secolo, Browne ricorda la vendita a Sir Hans Sloane di un tessuto di «Salamander Cotton» da parte di Benjamin Franklin; C. Browne, «Salamander’s Wool: The Historical Evidence for Textiles Woven with Asbestos Fibre», Textile History, 34/1 (2013), pp. 64-73, qui pp. 70-71. 6 Esemplare è la parodia che ne fa Rabelais (1494 ca.-1553), designando come

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attendere il XIX secolo, quando l’impiego industriale dell’asbesto diventa comune, perché il fascino dei tessuti ricavati da questo minerale scompaia dalle narrazioni. Sebbene la mole di testi antichi e medievali sull’argomento renda impossibile un loro regesto anche parziale in questa sede, è comunque possibile indicare alcuni snodi culturali e intrecci di fonti da tener presenti nella valutazione del modo in cui le parole (il bagaglio culturale e l’immaginario di partenza) e le cose (i fatti e i fenomeni reali) si incontrano nel racconto poliano. Questo contributo si propone quindi di fornire una scheda informativa sul binomio salamandra-asbesto, a partire dal ricco censimento di fonti occidentali e orientali messo a punto dai grandi eruditi tra la fine dell’Ottocento e la seconda metà del Novecento7. 2. Il testo Tra i notabilia della provincia di Chinchintalas che attirano l’attenzione del viaggiatore, uno spazio a sé merita una montagna sul confine settentrionale (F LIX, 6-13)8: «celeste Pantagruelion» un tessuto incombustibile detto anche «asbeston. […] E non venite a farmi il solito paragone della salamandra: è un inganno. Potrò ammettere che un piccolo fuoco di paglia la svegli e invigorisca; ma vi assicuro che in una bella fornace, anche lei, come ogni altro animale, soffoca e si consuma» (F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, a cura di M. Bonfantini, Einaudi, Torino 1973, Libro III, 52). 7 A. Wylie, Chinese Researches, s.e., Shanghai 1897; B. Laufer, «Asbestos and Salamander. An Essay in Chinese and Hellenistic Folklore», T’oung Pao, 16/3 (1915), pp. 299-373; Id., Sino-Iranica. Chinese Contributions to the History of Civilization in Ancient Iran. With Special Reference to the History of Cultivated Plants and Products, Field Museum of Natural History, Chicago 1919 («Fieldiana, Anthropology», 15/3), pp. 498-502; J. Needham, Science and Civilisation in China, vol. 3, Mathematics and the Sciences of the Heavens and the Earth, Cambridge University Press, Cambridge 1959, pp. 655-662; D. Canestrini, La salamandra, Rizzoli, Milano 1985. A questi si può aggiungere lo studio di Liang-ho Su, Zhong-jun Li, «Researches on the records about asbestos in ancient Chinese Literature», in Fourth International Conference on Asbestos (Torino, 26-30 May 1980), Istituto di Arte Mineraria del Politecnico & Associazione Mineraria Subalpina, Torino 1980, pp. 5-14. 8 Cito da Marco Polo, Le Devisement dou monde. Testo a cura di M. Eusebi, glossario a cura di E. Burgio, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2018, pp. 78-79.

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Et a le confin de ceste provence dever tramontane a une montagne en la quel a mout bone voine d’acer et d’ondan‹i›que. Et en ceste montagnes meisme se trouve une voine de la quel se fait la salamandre; et sachiés que salamandre ne est pas beste, come ve‹n› dit, mes est tes choses con je dirai desout. Il est verité que voç savés bien qe por nature nulle bestes ne nulz animaus ne pout vivre en feu, por ce qe chaschu‹n› animaus est fait des quatre alimens. Et por ce que les jens ne savoient la certance de la salamandre, le disoient en la mainere qu’il di encore: que salamandre soit beste: mes il ne est pas verité, mes je le voç dirai orendroit, car je voç di qe je oi un conpagnons que avoit a nom Çurficar, un turs que mout estoit sajes, qui demoroit trois anz por le Grant Chan en celle provence por fair traire celle salamandre et cel undanique et cel acer. Et toutes foies hi mande seingnor le Grant Chan por trois anz por seingnorejer la provence et por fer la besogne de la salamandre. Et mun conpains me dist le fait, et je meisme le vi, car je voç di que quant l’en a cavé des montagnes de celle voine que vos avés oï et l’en la ront et despece, elle se tient ensemble et fait file come lane. Et por ce, quant l’en a ceste lane, il la fait secher, puis la fait pistere en grant morter de covre, puis la fait lavere; et remaint celle fille que je voç ai dit, et la terre gete que ne vaut rien; puis ceste files, que est semblable a laine, la fait bien filere et puis en fait fer toaille; et quant les toailes sunt faites, je voç di qu’elles ne sunt mie bien blances, mes il la mettent en le feu et le hi laisent une p‹i›eces, e lla toaille devient blanche come noif. Et toites foies qe cestes toaille de salamandre ont nulle sosure ou bruture, l’en la met en feu et la hi lasse une pieçe et devient blance noif. Et ce est la verité de la salamandre que je voç ai dit, et toites les autres chouses qes’en dient sunt mensogne et fables. Et encore vos di que a Rome en a une toaille que le Gran Chan envoié a l’apostoille por grant present et por coi le saint suder de Nostre Seingnor Jeçucrit hi fust mis dedens.

Il nucleo del racconto è la definizione del minerale estratto dalla montagna, che Marco chiama «salamandre»; la leggenda che associa l’animale al fuoco viene liquidata come «mensogne et fables» e le autorità libresche sostituite dal sapere diretto, grazie alla forza di una duplice fideiussione: l’auctoritas di un turco di nome Çurficar, incaricato dal Gran Khan di sovrintendere all’estrazione della salamandra, e l’evidenza autoptica, gli occhi di Marco stesso: «je meisme le vi»9. Benché strutturato secondo uno schema argomentativo Il procedimento autoptico è stato oggetto di uno studio di V. Bertolucci Pizzorusso, «La certificazione autoptica: materiali per l’analisi di una costante della 9

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semplice, che procede dalla definizione in negativo («vi dico che x non è…») per poi arrivare a quella esatta («vi dico che x è…»), il passo è un unicum per quanto riguarda l’energia della dimostrazione: al di là dell’insistenza e del piglio didascalico con cui sono ripetute affermazioni come «Il est verité que voç savés bien», «mes il ne est pas verité, mes je le voç dirai orendroit», «car je voç di qe», «Et ce est la verité»10, questa è l’unica occasione in cui Marco, facendo ricorso a un testimone, lo nomina e lo qualifica, suggerendo così allo stesso tempo il particolare prestigio della fonte e l’interesse per il problema tassonomico affrontato, la natura della salamandra11. scrittura di viaggio», in Viaggi e scritture di viaggio, a cura di C. Bologna, L’uomo, 3 (1990), pp. 281-299 (poi in Ead., Scritture di viaggio. Relazioni di viaggiatori ed altre testimonianze letterarie e documentarie, Aracne, Roma 2011, pp. 9-26). Il topos dell’autopsia, di ascendenza erodotea, si può inquadrare, più in generale, in quella «storia dei rapporti tra l’αὐτός e l’aleturgia, tra l’io stesso e il dire-il-vero» definita da Foucault all’interno delle procedure di veridizione in cui rientra anche il racconto di viaggio: «già in Erodoto […] alcune cose sono state dichiarate vere perché ci sono stati dei testimoni e perché c’è stato un testimone che è stato testimone di ciò che qualcuno ha visto e, di testimone in testimone, questa catena di testimoni finisce per costituire la verità, sempre a condizione che questa alterurgia, questa manifestazione di verità, si riferisca a un αὐτός, a qualcuno che possa dire ‘io stesso’»; M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), Feltrinelli, Milano 2014 (ed. orig. fr. 2012), pp. 58-59. 10 Perfettamente in linea, peraltro, con la dichiarazione programmatica che apre il Devisement dou monde, in cui si afferma la volontà di distinguere tra realtà vista e realtà udita: «si con notre livre voç contera por ordre apertemant, si come meisser March Pol, sajes et noble citaiens de Venece, raconte, por ce que a seç iaus meissme il le vit; mes auques hi ni a qu’il ne vit pas mes il l’entendi da homes citables et de verité. Et por ce met{r}eron les chouses veue por veue et l’entendue por entandue, por ce que notre livre soit droit et vertables sanç nulle mensonge; et chascuns que cest livre liroie, ou hoiront, le doient croire, por ce que toutes sunt chouses vertables» (Marco Polo, Le Devisement dou monde, cit., p. 35 [Prol. 1]). 11 P. Pelliot, Notes on Marco Polo, cit., p. 610 ipotizza che il nome designi «a western Turk (from Russian Turkestan or even farther west)»; più prudentemente Cardona si limita a inferire un’origine sciita del personaggio (cfr. Marco Polo, Milione, versione toscana del Trecento, edizione a cura di V. Bertolucci Pizzorusso, indice ragionato di G.R. Cardona, Adelphi, Milano 1975, p. 761). Sulla base dell’iscrizione su una stele ritrovata a Pechino negli anni Ottanta del secolo scorso, Ma Xiaolin lo identifica in Gao Xin: «The inscription of the stele provides us the biography of Gao Xin 催ֵ (1219-1288) who spent half his life as vice director of the Yiyang Ju ‘extraordinary patterns bureau’ ᓖḋሔ, which was established to manage the production of royal textiles for the Yuan court» (cito dall’abstract).

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Nel brano compare anche, con riferimento all’immaginario divulgato dai bestiari, l’unica occorrenza del lemma fables12. Massiccio è poi, nel breve passaggio in cui viene descritto il trattamento del minerale immerso nel fuoco, il ricorso alla comparazione: «fait file come lane»; «ceste files, que est semblable a laine»; «e lla toaille devient blanche come noif»13, procedimento retorico necessario per rendere immaginabile e comprensibile una realtà così diversa da quella familiare al lettore. Anche la descrizione del trattamento del materiale, che può sembrare vaga, rispecchia in realtà un approccio tecnico ben attestato nei manuali degli artigiani giunti dal Medioevo fino a noi; confrontando la spiegazione di Marco con altri testi che trattano dell’asbesto è possibile apprezzarne la ricchezza di dettagli, che non si limitano, come avviene in genere, alla localizzazione e all’elenco di prodotti ottenuti dal minerale14. Il capitolo si chiude con una curiosità: il Gran Khan ha spedito una tovaglia di salamandra al papa, «por grant present et por coi le saint suder de Nostre Seingnor Jeçucrit hi fust mis dedens». Il testo latino di Z contiene in questo punto una variante significativa:

12 In F questo è «l’unico rappresentante della famiglia lessicale di favola, adoperato […] per essere enfaticamente respinto allo scopo di ribadire la veridicità di quanto esposto»: S. Marroni, «La meraviglia di Marco Polo. L’espressione della meraviglia nel lessico e nella sintassi del Milione», in I viaggi del Milione. Itinerari testuali, vettori di trasmissione e metamorfosi del Devisement du monde di Marco Polo e Rustichello da Pisa nella pluralità delle attestazioni, a cura di S. Conte, Tiellemedia, Roma 2008, pp. 233-262, qui p. 234. 13 Cfr. A. Barja López, «La racionalización de la maravilla: la salamandra y el unicornio en Il Milione», in Aspetti del meraviglioso nelle letterature medievali. Aspects du merveilleux dans les littératures médiévales. Medioevo latino, romanzo, germanico e celtico, études réunies par F.E. Consolino, F. Marzella et L. Spetia, Brepols, Turnhout 2016 («Culture et sociétés médiévales», 29), pp. 255-265, qui pp. 258-259. 14 Lo sottolinea B. Laufer, «Asbestos and Salamander», cit., p. 306: «the notes of the ancients are very plain, but deficient in facts. They give us the localities where asbestos was found, state the kind of products made from it, and point out its power of resistance to fire. We hear nothing, however, about the mode of mining the mineral, or preparing, spinning, and weaving its fibres». Data l’accuratezza della descrizione poliana, mi pare lecito avanzare qualche dubbio sulla certezza con cui Pelliot (Notes on Marco Polo, cit., pp. 610-611) dà per certo che «Polo never visited the place, and his association with Çulficar must have been occurred later on in China».

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manca del riferimento al sudario, ma aggiunge l’informazione per cui la tovaglia reca un’iscrizione15: Et Rome est unum gausape salamandre, quod quidem Magnus Can sumo pontifici pro magno dono transmisit. Et in eo sunt ista verba descripta: «Tu es Petrus et super hanc petram edificabo ecclesiam meam».

3. Il rapporto con la tradizione: tra scarto e continuità La fable che Polo si incarica di smentire ha ascendenti illustri e numerosi; inizialmente i due plessi informativi che ruotano attorno all’asbesto e alla salamandra si fissano separatamente l’uno dall’altro. 3.1. L’asbesto Oggi con il termine «asbesto» si fa riferimento a un gruppo di circa trenta silicati fibrosi16, ben noti grazie allo sfruttamento industriale di cui sono stati oggetto fino alla metà del XX secolo, prima che ne venisse accertata la nocività. Le proprietà del minerale erano conosciute nel mondo classico: Strabone (64 a.C.-19 d.C.), nella sua Geografia (X, 1, 6), scrive che nell’isola di Carystos si trovava una pietra 15 La lezione di Z è condivisa anche dalle redazioni V (veneziana) e L (latina), che aggiungono che le lettere impresse sono d’oro: V 32 19: «et in questa tovaia erano schrite letere d’oro le qual dixea: ‘Tu es Petrus et super anch patram edifichabo echlexiam mean’»; L 54 8: «Rome autem est ex tali lana unum manutergium, quod Magnus Canis misit pro solempni munere domino Summo Pontifici, ut Christi sudarium in ipso conservari deberet; eratque in hoc manutergio aureis litteris scriptum: ‘Tu es Petrus, et super hanc petram hedificabo Ecclesiam meam’». Cito da Marco Polo, Milione, a cura di A. Barbieri, Fondazione Pietro Bembo/Ugo Guanda Editore, Parma 1998 (Z); Marco Polo, Il Devisement dou monde nella redazione veneziana V (cod. Hamilton 424 della Staatsbibliothek di Berlino, a cura di S. Simion, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia in corso di stampa (V); «Redazione L», in G.B. Ramusio, Dei viaggi di messer Marco Polo, gentiluomo veneziano, edizione critica digitale a cura di S. Simion ed E. Burgio, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2015, Url http://virgo.unive.it/ecf-workflow/books/Ramusio/testi_completi/ L_marcato-main.html (22/06/2019). 16 C. Bianchi, T. Bianchi, «Asbestos between science and myth. A 6,000-year story», La Medicina del lavoro, 106/2 (2015), pp. 83-90, qui p. 84.

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che poteva essere pettinata e filata, molto utilizzata per produrre tovaglie, che immerse nel fuoco ne uscivano candide. I tessuti ricavati venivano usati anche come sudari per i re, perché assicuravano la separazione delle ceneri del defunto da quelle della pira. In genere, tra gli attributi dell’asbesto che rimbalzano da un testo all’altro troviamo: (1) incombustibilità; (2) struttura filamentosa che ne permette la tessitura; (3) uso per la produzione di tovaglie, sudari e/o stoppini per le lampade nei templi; (4) sbiancatura/lavaggio dei tessuti ricavati dall’asbesto attraverso l’immersione nel fuoco; (5) utilizzo di questi tessuti come dono e/o curiosità per stupire gli ospiti17. La fonte più importante nell’orizzonte medievale è Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), che nella sua Naturalis historia ricorda più volte l’asbesto18. Come materiale inattaccabile dal fuoco, detto «lino vivo», esso è presentato nel libro XIX, 4, dove confluiscono alcuni dei motivi che abbiamo richiamato: l’incombustibilità, l’impiego nella produzione di tovaglie e sudari, il lavaggio sbiancante nel fuoco, la preziosità: Inventum iam est etiam quod ignibus non absumeretur. Vivum id vocant, ardentesque in focis conviviorum ex eo vidimus mappas sordibus exustis splendescentes igni magis quam possent aquis. Regum inde funebres tunicae corporis favillam ab reliquo separant cinere. Nascitur in desertis adustisque sole Indiae, ubi non cadunt imbres, inter diras serpentes, adsuescitque vivere ardendo, rarum inventu, difficile textu Tra i vari esempi, B. Laufer, «Asbestos and Salamander», cit., p. 311, riporta un aneddoto contenuto nel Weiji 儣㋔: «General Liang-ki [Liang Ji], who lived under the Emperor Huan (147-57), had a costume made from asbestoscloth, which he used to wear on the occasion of great banquets. He would insist on declining the wine-cup till it was spilled on his suit; and then with feigned anger he would take it off, ordering it to be thrown into the fire. It blazed up as if it were reduced to ashes; but the stains being removed, and the fire extinguished, the cloth appeared bright and clean, as if it had been purified with lees». 18 Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, a cura di G.B. Conte, con la collaborazione di A. Barchiesi e G. Ranucci, 5 voll., Einaudi, Torino 1982-1988. 17

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propter brevitatem. Rufus de cetero colos splendescit igni. Cum inventum est, aequat pretia excellentium margaritarum. Vocatur autem a Graecis asbestinon ex argumento naturae. Anaxilaus auctor est linteo eo circumdatam arborem surdis ictibus et qui non exaudiantur caedi. Ergo huic lino principatus in toto orbe. […] Linteorum lanugo, e velis navium maritimarum maxime, in magno usu medicinae est, et cinis spodii vim habet.

3.2. La salamandra Anche il topos della salamandra si fonda su un plesso informativo che resta costante nel tempo, pur subendo alcune importanti modifiche nello spazio19. La salamandra compare infatti nel repertorio animale occidentale, arabo ed ebraico, mentre nelle fonti cinesi troviamo come omologo una creatura leggendaria, il «topo di fuoco», un roditore dal pelo lungo e setoso20. I motivi dell’incombustibilità e della velenosità dell’anfibio, già attestati nelle fonti greche, sono accolti dalla tradizione latina e da quella semitica. Nel secolo VII le Etymologie (XII, IV 37) di Isidoro da Siviglia riuniscono tutte le informazioni essenziali del mito, poi ereditate dalle enciclopedie e dall’iconografia medievali21. Secondo 19 Per un repertorio sostanzioso di testi che citano la salamandra cfr. Bestiari tardoantichi e medievali. I testi fondamentali della zoologia sacra cristiana, a cura di F. Zambon, Bompiani, Milano 2018. 20 I riferimenti a questo animale sono numerosi dal III secolo d.C.; il «topo di fuoco» ha le stesse caratteristiche e le stesse virtù della salamandra occidentale, e il suo pelo viene utilizzato per fabbricare tessuti ignifughi; cfr. B. Laufer, «Asbestos and Salamander», cit., pp. 313-314; J. Needham, Science and Civilisation in China, cit., p. 658; Liang-ho Su, Zhong-jun Li, «Researches on the records about asbestos», cit., p. 7. 21 Isidoro da Siviglia, Etimologie o origini, a cura di A. Valastro Canale, 2 voll., Utet, Torino 2004. Plinio dedica alla salamandra diverse pagine, nel libro sugli animali e in quello sulla farmacologia; Naturalis Historia, X, 67: «Sicut salamandra, animal lacertis figura, stellatum, numquam nisi magnis imbribus proveniens et serenitate desinens. Huic tantus rigor, ut ignem tactu restinguat non alio modo quam glacies. Eiusdem sanie, quae lactea ore vomitur, quacumque parte corporis humani contacta toti defluunt plis, idque, quod contactum est, colorem in vitiliginem mutat»; ibid. XXIX, 23: «Inter omnia venenata salamandrae scelus maximum est. Cetera enim singulos feriunt, nec plures pariter interimunt, ut omittam, quod perire conscientia dicuntur homine percusso neque amplius admitti a Terra; salamandra populos pariter necare inprovidos potest. Nam si arbori inrepsit,

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Isidoro, la salamandra prende il nome dal fatto di spegnere il fuoco; è la creatura più velenosa al mondo; avvelena gli alberi e i pozzi: Salamandra vocata, quod contra incendia valeat. Cuius inter omnia venenata vis maxima est; cetera enim singulos feriunt, haec plurimos pariter interimit. Nam si arbori inrepserit, omnia poma inficit veneno, et eos qui ederint occidit; qui etiam vel si in puteum cadat, vis veneni eius potantes interficit. Ista contra incendia repugnans, ignes sola animalium extinguit; vivit enim in mediis flammis sine dolore et consummatione, et non solum quia non uritur, sed extinguit incendium.

In genere, come ha rilevato Enrica Salvaneschi22, si può riscontrare una differenza quantitativa tra le fonti latine, che tendono a soffermarsi più sulla velenosità della salamandra, e quelle semitiche, che prediligono il tema dell’incombustibilità: il Talmud babilonese abbozza già il tema dei quattro elementi che sarà ripreso nel Medioevo dai bestiari e dalla poesia lirica, e che viene contestato da Marco Polo («por nature nulle bestes ne nulz animaus ne pout vivre en feu, por ce qe chaschu‹n› animaus est fait des quatre alimens», e non di uno solo). Partendo dall’assunto che la salamandra sia una creatura che nasce e vive nel fuoco senza consumarsi, il passaggio dal reale al simbolico è breve, e l’animale diventa l’emblema del saggio e della fede che il fuoco non può estinguere, già presente nell’anonimo Fisiologo greco23. omnia poma inficit veneno et eos, qui ederint, necat frigida vi, nihil aconito distans; quin immo si contacto ab ea ligno, lapidi crusta panis inponatur, idem veneficium est vel si in puteum cadat, quippe cum saliva eius quacumque parte corporis, vel in pede imo, respersa omnis in toto corpore defluat pilus. Tamen talis ac tanti veneni a quibusdam animalium, ut subus, manditur dominante eadem illa rerum dissidentia. Venenum eius restingui primum omnium ab iis, quae vescantur illa, verisimile est, ex iis vero, quae produntur, cantharidum potu aut lacerta in cibo sumpta. Cetera adversantia diximus dicemusque suis locis. Ex ipsa quae Magi tradunt contra incendia, quoniam ignes sola animalium extingat, si forent vera, iam esset experta Roma». 22 E. Salvaneschi, «Problemi di rideterminazione segnica nel ‘topos’ della ‘salamandra’», Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, 8/1 (1978), pp. 257-273, qui p. 259. 23 Ibid., p. 260; si coagulano quindi progressivamente «due tendenze, una scientifica-razionalista che nega o ridimensiona o si limita a riferire l’attributo

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I motivi che compongono il topos della salamandra sono dunque: (1) incombustibilità; (2) associazione col fuoco, fino a esserne assunta a simbolo; (3) velenosità; (4) potere di immergersi nelle fiamme spegnendole o restando incolume; (5) interpretazione morale o simbolica. Le due proprietà comuni dell’immersione nel fuoco e dell’incombustibilità sono alla base della progressiva sovrapposizione dell’animale e del minerale: la salamandra diventa, da creatura che vive tra le fiamme, un materiale dai poteri ignifughi24. In questo processo di contaminazione dei due realia gioca probabilmente un ruolo anche «the difficulty which ancient minds had in believing it possible that textile fabrics could be anything other than animal or vegetable»25. Inoltre, a partire almeno dalla Lettera del Prete Gianni (1165-1175), tanto nella letteratura romanzesca che nei trattati enciclopedici si dell’incombustibilità […], l’altra, […] mistico-letteraria, in cui questo attributo è elevato a simbolo metafisico». 24 La sovrapposizione semantica è evidente in arabo, dove il termine samandal viene utilizzato dai vari autori per designare di volta in volta la salamandra, un tipo di uccello, un topo, o l’asbesto: «Many authors identify it as a bird (al-Djāḥiẓ, Ibn Khallikān, al-Ibshīshī […]); only al-Damīrī, besides calling it a bird, describes it as a reddish yellow coloured animal (dābba) with red eyes and a long tail. AlKazwīnī mentions it in the chapter on mice. According to the Arabic Physiologus, the salamander is a stone that extinguishes fire ([…] cfr. samandal as a word for asbestos)»; cfr. The Encyclopaedia of Islam, ed. by C.E. Bosworth, E. Van Donzel, W.P. Heinrichs and G. Lecomte, vol. 8, Brill, Leiden 1995, pp. 1023-1024, qui p. 1024. Dalla «fusione dei significati ‘serpente che non brucia nel fuoco’ – ‘uccello che rigenera nel fuoco’ [...] per associazione paretimologica di samandal un (sabandal un) con sandal un, che designa un tipo di uccello» il mito della salamandra e quello della fenice si contaminano (E. Salvaneschi, «Problemi di rideterminazione segnica», cit., p. 263). Questo spiega perché in un filone di testi medievali la salamandra sia presentata come un uccello: cfr. ad esempio Richart de Fornival: «et salamandres de pur fu – c’est un blans oiseaus ki de fu se nourist et de qui plumes on fait les dras c’on ne leve s’en fu non» (Richart de Fornival, Li bestiaires d’amours, a cura di C. Segre, Ricciardi, Milano-Napoli 1957, p. 37). La tradizione sembra entrata in Occidente attraverso alcune redazioni del Fisiologo greco. 25 J. Needham, Science and Civilisation in China, cit., p. 658.

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trovano indicazioni di abiti, tovaglie e tessuti fatti di «pelle, pelo o lana di salamandra»26, naturalmente incombustibili: così, la tenda di Alessandro Magno è inattaccabile dal fuoco perché tessuta «del poil [...] d’une beste qui salamandre ot non» (Alexandre de Bernay, Il Romanzo di Alessandro, v. 1972); Gervasio di Tilbury (ca. 1152-dopo il 1220) afferma di aver visto una cintura di cuoio di salamandra lavata nel fuoco («Vidi equidem, cum nuper Romae essem, allatam a cardinali Petro Capuano corrigiam de corio salamandrae amplam, velut cinctorium renum, et cum ex contrectatione aliquas sordes contraxisset, in igne ipsam vidimus ab omni inquinamento purgatam, et in nullo corruptam»), e via dicendo27. 3.3. Salamandra-asbesto Si crea così una vera e propria «sindrome linguistica» della salamandra-asbesto28: una serie di motivi comuni che si ripetono di fonte in fonte, da Oriente a Occidente, e con piccole variazioni nella combinazione. La sovrapposizione con l’asbesto rende lo statuto del minerale, già incerto, sempre più labile (e lo stesso Plinio, del 26 La lettera del Prete Gianni, a cura di G. Zaganelli, Luni, Parma 2000 (cito dalla versione latina, parr. 42-43): «In alia quadam privincia iuxta torridam zonam sunt vermes, qui lingua nostra dicuntur salamandrae. Isti vermes non possunt vivere nisi in igne, et faciunt pelliculam quandam circa se, sicut alii vermes, qui faciunt siricum. Haec pellicula a dominabus palatii nostri studiose operatur, et inde habemus vestes et pannos ad omnem usum excellentiae nostrae. Isti panni non nisi in igne fortiter accenso lavantur». Cfr. anche Pierre de Beauvais, Bestiaire, III, LVI: «Phisiologes nos dist qu’ele est de tel naturre qu’ele vit de pur fu et si s’en paist. Et de lui naist une cose qui n’est ne soie ne lin ne laine, et de ce fait on chaintures et dras que les hautes gens portent. Et quant cil drap sont soillié, on les met el fu et iluec s’espurgent et levent et sont tot net» (Le Bestiaire. Version longue attribuée à Pierre de Beauvais, a cura di C. Baker, Champion, Paris 2010, p. 214 [e le note a pp. 384-385]). 27 Alexandre de Bernay, Il Romanzo di Alessandro, a cura di M. Infurna e M. Mancini, Rizzoli, Milano 2014, pp. 62-63; Gervase of Tilbury, Otia imperialia. Recreation for an emperor; ed. and translated by S.E. Banks and J.W. Binns, Clarendon Press, Oxford 2002, pp. 558-559. Altri esempi sono registrati da R. Halleux, «Techniques et légendes de l’amiante», cit., pp. 385-388. 28 L’espressione si deve a Contini, che la usa a proposito della fenice; cfr. G. Contini, «Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare», Sansoni, Firenze 1943, poi in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Einaudi, Torino 1970, pp. 5-31, qui p. 24.

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resto, lo descriveva sia nella sezione dedicata ai minerali e alle pietre preziose che in quella dedicata alle piante). Se nell’Occidente medievale il problema tassonomico è però tutto sommato secondario, le fonti cinesi sono al contrario molto attente a questo aspetto. Il campione di testi presentato da Laufer e Needham sembra suggerire che l’interesse rivolto ai prodotti ricavati dall’asbesto (detti «huo wan pu, ‘cloth washable in fire’ or fireproof cloth»; ma anche «shih mien, ‘stone fluff, stone down, stone cotton’; and shih jung, ‘stone floss, stone velvet’»)29 sia finalizzato a risolverne il problema di classificazione30. A questo riguardo, la notizia della natura minerale dell’asbesto-salamandra circola tra i Cinesi ben prima dell’arrivo dei Polo in Oriente. Anche in Europa, del resto, il veneziano ha dei precursori: la «lana di salamandra» viene infatti identificata con la «lanugo ferri» da Alberto Magno (1206-1280), nel De animalibus (XXV, 46)31, e l’ipotesi che l’animale viva nel fuoco viene stroncata («et hoc est falsum»): Dicunt quidam quod habet quondam lanam quae in igne non aduritur, eo quod in poros eius ignis non habet ingressum: tamen ego expertus sum quod illud quod ad nos defertur de huiusmodi lana, non est lana animalis: sed quidam dicunt quod sit lanugo cuiusdam plantae, quam etiam ego non sum expertus: expertus autem sum quod est lanugo ferri. Ubi enim magnae massae ferri confrabricantur, aliquando scinditur ferrum et evolat vapor ignis: et cum ille capitur panno vel manu, vel per se adhaeret tecto fabricae, est sicut lana fusca et aliquan29 J. Needham, Science and Civilisation in China, cit., p. 659; J. Cameron, «Asbestos cloth and elites in Southeast Asia», Indo-Pacific Prehistory y Association Bulletin, 19/3 (2000), pp. 47-51, qui p. 49. 30 La classificazione dell’asbesto tra i minerali data, nelle fonti cinesi, almeno al V-VI secolo: «Regarding the origin and the nature of the fabric resistant to fire, Ko Hung [Ge Hong] in 300 A.D. listed three types of fabrics. […] but in some later Chinese works, asbestos was correctly recognized as a mineral. Probably, the most ancient text of this type is the Tung Ming Chi [Dongmingji], plausibly datable to the 5th or 6th century» (C. Bianchi, T. Bianchi, «Asbestos between science and myth», cit.). J. Needham, Science and Civilisation in China, cit., p. 660, ricorda la testimonianza di Cai Tao 㫵㌯ (nel Tieweishan congtan 䨉ೡቅশ䂛[«Raccolta di conversazioni presso il monte Tiewei»], c. 1115), che esclude categoricamente l’origine animale della stoffa ignifuga («It has nothing to do with the hair of rats!»). 31 Albertus Magnus, De animalibus libri XXVI, nach der Cölner Urschrift, II Band, Buch XIII-XXVI, ed. by H. Stadler, Aschendorff, Münster 1920, p. 1571.

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do alba: et quod de illo fit et ipsa lanugo non aduritur igne: et hoc trutanni dicunt esse lanam salamandrae. Multi autem sequentes Jorach philosophum dicunt quod hoc animal vivit in igne: et hoc est falsum…

4. La toaille L’ultimo tassello del ragionamento riguarda la toaille inviata al papa. In questa parte del racconto sembrano depositarsi elementi leggendari riconducibili a una rete di interferenze piuttosto fitta e difficile da sbrogliare. Mi limiterò a toccare in forma di elenco i «fili» più semplici da dipanare, senza azzardare un’interpretazione dell’aneddoto. Il legame con i sudari: in base alla testimonianza di Plinio citata in precedenza – e supportata da ritrovamenti archeologici sia in Occidente che in Oriente32 – la stoffa d’asbesto era utilizzata per avvolgere i corpi dei re durante la cremazione, per non contaminarne le ceneri («Regum inde funebres tunicae corporis favillam ab reliquo separant cinere»). Il motivo del dono: la rarità dei manufatti di asbesto li trasformava in regali di grande prestigio; il geografo arabo Abū ‘Ubayd al-Bakrī (1014-1094) racconta ad esempio che Ferdinando I di Castiglia († 1065) aveva comprato da un mercante un tovagliolo di lana incombustibile appartenuto a un discepolo di Gesù, e ne aveva fatto successivamente dono all’imperatore di Costantinopoli perché lo riponesse nella chiesa principale della città, ottenendo in cambio una corona imperiale33. 32 Contrariamente a quanto riteneva Laufer (che su questa base postulava l’origine occidentale dei miti sull’asbesto), la produzione di sudari di asbesto fu presente anche in Asia, e in tempi remoti; frammenti risalenti al Neolitico sono tra i reperti archeologici rinvenuti in alcuni siti thailandesi; cfr. J. Cameron, «Asbestos cloth and elites in Southeast Asia», cit., pp. 47-48. Per un regesto dei frammenti di stoffa ritrovati in Italia cfr. F. di Gennaro et al., «Trattamento e restauro dei materiali d’amianto di natura archeologica», Kermes. La rivista del restauro, 21/72 (2008), pp. 64-69, qui p. 64. 33 L’aneddoto si legge nella vecchia edizione di El-Bekri, Description de l’Afrique septentrionale, a cura di W. Mc Guckin de Slane, Imprimerie impériale, Paris 1859, p. 392.

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La connessione con il sacro: le narrazioni slittano facilmente dall’ambito del mirabile laico alla sfera del miraculum; nello specifico, l’asbesto è al centro di un vivace commercio di reliquie. L’imperatore Gaozong (催ᅫ) – meglio noto come imperatore Wencheng (452-465) – avrebbe ricevuto in dono una veste di asbesto appartenuta a Buddha dal re di Kashgar34; per testare l’autenticità della reliquia, l’indumento viene sottoposto alla «prova del fuoco» per un giorno intero, nello stupore generale. In Occidente tessuti d’asbesto sono spesso al centro di frodi sacre; racconta il Chronicon Casinense che alcuni monaci di ritorno da Gerusalemme portano a Montecassino il panno usato da Gesù durante la lavanda dei piedi. Per convincere dell’autenticità della reliquia i confratelli dubbiosi, il panno viene gettato nel fuoco e ne esce candido e intatto35. L’associazione della tovaglia con il sudario di Cristo: senza entrare nel mare magnum delle immagini acheropite36, la ricezione immediata del Devisement dou monde sembra suggerire che alcuni lettori abbiano rapidamente associato il dono del Gran Khan alla Veronica: questa almeno è l’interpretazione data dall’anonimo autore del Baudouin de Sebourc (1350 ca.)37. Un anello di congiunzione ancora più semplice tra i due oggetti riguarda i paramenti sacri, e in particolare il Corporale, un panno di telo di lino di piccole dimensioni, usato durante la messa come supporto della patena contenente l’ostia e del calice con il vino. Esso rappresenta simbolicamente il suLaufer, Sino-Iranica, cit., p. 498. Leo Ostiensis, Chronica monasterii Casinensis: Die Chronik von Montecassino, hrsg. von H. Hoffmann, Hahnsche Buchhandlung, Hannover 1980 («Monumenta Germaniae Historica». Scriptores 34), vol. II, p. 649 (33). 36 Per il quale cfr. (anche per la bibliografia) E. Burgio, Racconti di immagini. Trentotto capitoli sui poteri della rappresentazione nel Medioevo occidentale, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2001, pp. 61-131; A. Nicolotti, Dal Mandylion di Edessa alla Sindone di Torino. Metamorfosi di una leggenda, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2011. 37 Il debito contratto dall’anonimo autore nei confronti del racconto poliano è stato messo in rilievo da E.-R. Labande, Étude sur Baudouin de Sebourc. Chanson de geste. Légende poétique de Baudouin II du Bourg roi de Jérusalem, Droz, Paris 1940, pp. 98-99 (da cui cito); durante una visita al Paradiso terrestre, l’eroe decide di portare con sé un uccello bianco per tesserne le piume, da cui sono tratte stoffe che non bruciano e che si sbiancano nelle fiamme: «Seignour, il se dist voir: puis en aportoit / Et en fist faire toile a Jherusalem droit, / Et au saint apostele de Romme l’envoio‹i›oit, / Le prist li aposteles qui adonkes regnoit, / Et le saint Vinrounike dedens envelepoit». 34 35

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dario con cui Giuseppe di Arimatea avvolse il corpo del Cristo morto, e per questa ragione, secondo la riflessione dei liturgisti, il Corporale «sta per» la sindone, e la sua funzione nella messa è quella di impedire che le briciole dell’ostia vengano disperse38. L’asbesto e i papi: Vincenzo di Beauvais, nello Speculum doctrinale, XXXI, 63, racconta che papa Alessandro III possedeva un vestimentum di lana di salamandra, sbiancato attraverso il fuoco39. Per quanto riguarda la variante di Z, che, rimosso il sudario, cita le parole incise sulla tovaglia, questa frase, che segna il momento fondativo della Chiesa romana e del Papato, è tratta da Mt 16, 18. Il gioco di parole tra Petrus e petram suggerisce ovviamente la fondazione di una comunità che, come un edificio, ha Pietro come pietra angolare; e, come una pietra, è in grado di resistere contro i nemici della fede. Se si considera che: (1) il testo parla della vena di una montagna, e di un minerale simile alla pietra, (2) il materiale non è intaccabile dalle fiamme; (3) secondo un’interpretazione morale corrente nel Medioevo la salamandra rappresenta il cristiano che attraversa incolume le prove della fede40, la citazione della frase evangelica risulta pertinente al contesto, sulla base di un’associazione semantica a maglie larghe. Certo ci si può interrogare sul suo gradiente di autorialità: l’inserzione di elementi scritturali nel Devisement dou monde si colloca, di solito, al livello dell’iniziativa di singole redazioni o copisti41. 38 Cfr. B. Montevecchi, S. Vasco Rocca, Suppellettile ecclesiastica, Centro Di Editore, Firenze 1988, p. 211; la simbologia che associa sindone e Corporale è già attiva con Silvestro I (papa tra il 314-335). Il legame si mantiene forte nel rito ambrosiano, in cui il Corporale è detto sindone; mentre nel rito bizantino il corpo di Gesù è impresso sul Corporale usato per la celebrazione eucaristica. 39 «Alexander papa, ut fertur, ex huius animalis lana vestimentum habuit, quod cum ad munditiam aliquando lavari deberet, non aliis aquis abluebatur, nisi quod in ignem proiiciebatur et per ignem candescebat»; Vincenzo di Beauvais, Speculum doctrinale, Liber XV, Cap. CXII (De salamandra et scorpione et situla et stellione), in SourcEncyMe (SOURCes des ENCYclopédies Mediévales, Url http://sourcencyme. irht.cnrs.fr/encyclopedie/voir/165?citid=cit_id397547565735 (consultato il 22 giugno 2019). 40 Sulla base specialmente di Dn 3, Is 43 2; Heb 11, 33-34. 41 Su questo aspetto cfr. E. Burgio, «Marco Polo e gli ‘idolatri’», in Le voci del Medioevo. Testi, immagini, tradizioni. Atti del VII Convegno Internazionale (Rocca Grimalda, 21-22 settembre 2002), a cura di N. Pasero e S.M. Barillari, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2006, pp. 31-62, qui pp. 52-55.

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5. Conclusioni Scrive Folker E. Reichert che il mondo orientale fu una sfida alle doti intellettuali degli osservatori. […] Proprio i resoconti più importanti sono un esempio di come supposizioni personali, osservazioni condizionate e il sapere tràdito si mescolassero dando vita ad immagini che non corrispondevano precisamente alle realtà che dovevano definire42.

Nel caso della salamandra-asbesto la sfida può dirsi, in fondo, vinta: esiste inevitabilmente un condizionamento culturale di partenza, per cui il metro di misura della novità è il «sapere tràdito», ma al tempo stesso le informazioni nuove, basate sulla visione diretta e sull’autorità di una fonte qualificata, fanno da contravveleno all’autorità libresca, permettendo un’energica rideterminazione del dato vulgato. Certo la demistificazione del bagaglio informativo «occidentale» ha qualche effetto collaterale: mentre la descrizione tecnica dell’estrazione e della lavorazione del minerale è sostanzialmente esatta, la ridefinizione onomastica del reale si fonda su una tradizione concorrente, dalle radici altrettanto antiche e in parte comuni.

F.E. Reichert, Incontri con la Cina. La scoperta dell’Asia orientale nel Medioevo, Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 1997 (ed. orig. ted. 1992), p. 123. 42

L’ITINERARIO DI MARCO POLO IN PERSIA NEL SUO VIAGGIO DI RITORNO

di Qiu Zhirong ∖㡱㪝

Marco Polo (1254-1324), uno dei più famosi viaggiatori della storia, è stato il primo europeo a lasciarci un resoconto del suo soggiorno in Cina. Il suo libro, intitolato Devisement dou Monde, non è soltanto la prima dettagliata testimonianza europea sul mondo cinese, ma costituisce anche la più ricca raccolta di informazioni sulla geografia asiatica nel Medioevo. Il suo valore storico è stato grandemente apprezzato da studiosi di tutto il mondo, soprattutto per quanto riguarda le sezioni concernenti la Cina dell’epoca Yuan. Moltissimi saggi e volumi hanno tentato di confermare e spiegare i dati riportati in quest’opera1. Ovviamente, l’itinerario seguito durante il viaggio e la relativa scansione temporale sono cruciali per una comprensione più approfondita del libro. Un problema è rappresentato dal fatto che, forse a causa delle rielaborazioni operate dal co-autore Rustichello da Pisa, il testo presenta di fatto l’assetto di un’opera geografica2, in cui poco spazio è dedicato alla descrizione dell’itinerario vero e proprio. Per ricostruire il tragitto seguito da Marco Polo è necessario, dunque, 1 Per esempio, Yang Zhijiu ᴼᖫ⥪, Make boluo yu zhongwai guanxi 偀ৃ⊶㔫 ϢЁ໪݇㋏ (Marco Polo e i rapporti tra la Cina e l’estero), Zhong Hua Shu Ju, Peking 2015; Takada Hideki 催⬄㣅‍, Marco Polo and Rustichello ɦɳȻ・ɥόɵǽɳ ɁɎȫȹɋɵ, Kindai Bungei Sya 䖥ҷ᭛㮱⼒, Tokyo 2016; H.U. Vogel, Marco Polo was in China: New Evidence from Currencies, Salts and Revenues, Brill, Leiden 2012. 2 A. Andreose, «The genesis of Marco Polo’s Devisement dou monde: old and new hypotheses», in Marco Polo, Yangzhou ant the Silkroad 偀ৃ·⊶㔫 ᡀᎲ ϱ㓌П䏃, ed. by Xu Zhongwen ᕤᖴ᭛ and Rong Xinjiang 㤷ᮄ∳, Peking University Press, Peking 2016, pp. 151-188.

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ricorrere ad altri documenti dell’epoca, redatti in cinese, in persiano e in latino. Yang Zhijiu (1915-2002) è stato il primo a identificare una fonte cinese (Yongle Dadian) che prova che Marco Polo lasciò la Cina partendo da Quanzhou (Çaiton) con le ambascerie dell’Ilkhan Arghun all’inizio del 1291. Nel 1941 lo studioso pubblicò un saggio intitolato «Una fonte cinese che si riferisce alla partenza di Marco Polo» ݇Ѣ偀ৃ·⊶㔫⾏ढⱘϔ↉∝᭛䆄䕑. Da quel momento altri studiosi come Paul Pelliot (1878-1945), Otagi Matuo ᛯᅩᵒ⬋ (1912-2004), John Andrew Boyle (1916-1978) e Francis Woodman Cleaves (1911-1995), servendosi di fonti storiche persiane, hanno ricostruito le principali coordinate temporali entro cui si colloca il ritorno di Marco Polo in Europa attraverso l’Oceano Indiano e la Persia. A causa della mancanza di studi specifici su questa sezione del Devisement, ma anche sulla situazione coeva dell’Ilkhanato, le ipotesi formulate nel passato sulla via seguita da Marco Polo in Persia nel suo viaggio di ritorno non appaiono credibili. Muovendo dagli studi precedenti, questo articolo cercherà di far interagire le ricerche storiche e filologiche più recenti al fine di ricostruire con precisione gli spostamenti del viaggiatore nella regione persiana. 1. Ricerche precedenti Come ha osservato Yang Zhijiu, all’inizio del 1291 Marco Polo partì da Çaiton (Quanzhou) alla volta della Persia per scortare la principessa (Khatun) mongola Kökächin, insieme a tre ambasciatori che erano stati inviati nel 1286 dall’Ilkhan Arghun (1258-1291) presso Qubilai Qa’an. Secondo il Devisement dou Monde, dopo tre mesi di navigazione da Çaiton, la comitiva si trattenne cinque mesi a Sumatra a causa delle condizioni del tempo3. Nel corso dei successivi diciotto mesi di viaggio attraverso l’Oceano Indiano, due ambasciatori morirono, sicché al seguito della principessa rimase il solo Coia (Khwaja)4. Doveva essere l’inizio del 1293 quando Marco Polo raggiunse Hormuz. A quel tempo Arghun era morto e suo fratello Gaikhatu era divenuto Ilkhan. Coia e Marco, una volta sbarcati, 3 A.C. Moule, P. Pelliot, Marco Polo. The Description of the World, 2 voll., Routledge, London 1938, vol. I, p. 373. 4 Ibid., p. 91.

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fecero due cose: conferire con Gaikhatu e inviare Kökächin a Ghazan, figlio di Arghun. Paul Pelliot5, Otagi Matuo6, Takada Hideki7, Huang Shijian8, John Andrew Boyle9, Philippe Ménard10 si sono basati, direttamente o indirettamente, sulla fonte persiana Jami’u’tTawarikh per verificare il resoconto di Marco Polo e trovare conferme sul suo itinerario in Persia. Le loro opinioni sono simili, ma differiscono su alcuni aspetti della cronologia, come si può evincere dallo schema riportato nella tavola 1. In generale, le ipotesi succitate sono pressoché identiche se non per alcuni dettagli minimi. Tutte presentano il grosso difetto di lasciare aperte due questioni decisive del problema. Per prima cosa, non specificano quando Marco Polo abbia lasciato la corte di Gaikhatu. In secondo luogo, vi è un consenso unanime sul fatto che Marco Polo abbia incontrato Gaikhatu prima di Ghazan, ma se esaminiamo il contesto storico del tempo, capiamo che questo ordine degli eventi è impensabile. Questo saggio prenderà le mosse dalla situazione politica dell’Ilkhanato sotto il regno di Gaikhatu, tra il 1291 e il 1295, e, analizzando le edizioni del Devisement dou monde utilizzate dai precedenti studiosi, tenterà di ricostruire nei particolari l’itinerario di Marco Polo in Persia. P. Pelliot, Notes on Marco Polo, vol. I, Imprimerie nationale, Paris 1959, p. 393. Otagi Matuo ᛯᅩᵒ⬋, Marco Polo Genjyou Jyuzai Taizai Nenji Kou ɦɳȻ・ɥ όɵ‫ܗ‬ᳱ⒲೼ᑈ⃵㗗 (Sul tempo che Marco Polo trascorse nella Cina Yuan), Bunka ᭛࣪ (Cultura), 15/2 (1951), pp. 31-44. 7 Takada Hideki 催⬄㣅‍, «Marco Polo Nenji Kou»ɦɳȻ・ɥόɵᑈ⃵㗗 («Gli annali di Marco Polo»), Osaka Kokusai Jyosi Daigaku Kiyo ໻䯾೑䱯ཇᄤ໻ᄺ ㋔㽕 (Bollettino dell’Università Internazionale femminile di Osaka), 25/1 (1999), pp. 209234; 25/2 (1999), pp. 383-411. 8 Huang Shijian 咘ᯊ䡈, «Guanyu make boluo de sange niandai wenti» ݇Ѣ 偀ৃ⊶㔫ⱘϝϾᑈҷ䯂乬 («Tre questioni sul tempo di Marco Polo»), Zhongwai guanxi luncong Ё໪݇㋏৆䆎ϯ (Storia delle relazioni della Cina con l’estero), 1 (1985), pp. 65-73. 9 J.A. Boyle, «Marco Polo and his Description of the World», History Today, XXI, 11 November 1971, pp. 764-765; Id., «Rashīd Al-Dīn and the Franks», Central Asiatic Journal, XIV (1970), pp. 62-67, qui p. 66. 10 Ph. Ménard, «Marco Polo et la Mer. Le retour de Marco Polo en Occident d’après les diverses versions du texte», in I viaggi del Milione. Itinerari testuali, vettori di trasmissione e metamorfosi del Devisement du monde di Marco Polo e Rustichello da Pisa nella pluralità delle attestazioni. Atti del Convegno internazionale (Venezia, ottobre 2005), a cura di S. Conte, Tiellemedia Editore, Roma 2008, pp. 173-204. 5 6

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Tavola 1 - Le ipotesi sull’itinerario di Marco Polo in Persia Studioso

Partenza da Çaiton

Arrivo a Hormuz

Incontro Incontro con Gaikhatu con Ghazan

Ritorno a Tabriz

Partenza da Gaikhatu

Pelliot

1291

Otagi

Dicembre 1290gennaio 1291

Inizio del 1293

Fine del 1293

Seconda metà del 1294

Takada

Dicembre 1290gennaio 1291

Inizio del 1293

Huang

Gennaio 1291

Febbraio- Dintorni marzo 1293 di Tabriz

Aprilemaggio 1293 Abhar

Boyle

Gennaio 1291

Inverno 1292-1293

Prima del maggio 1293 Arran

Primavera o inizio estate del 1293

1294

Ménard Febbraio 1291

Primavera del 1293 (aprile)

Tabriz

Autunno del 1293 Khorasan

Inizio del 1295

Prima del luglioagosto 1293 Abhar MarzoEstate aprile 1293 del 1293 Tabriz Abhar

Seconda metà del 1294

2. I conflitti tra Gaikhatu e Ghazan Va anzitutto osservato che se Marco e Coia avessero incontrato prima Gaikhatu, questi non avrebbe loro permesso di inviare Kökächin a Ghazan, perché era in atto una dura lotta tra i due signori mongoli, principalmente intorno a due aspetti: il titolo di Ilkhan e la questione del levirato. 2.1. La rivalità per il titolo di Ilkhan Innanzitutto occorre ricordare che Gaikhatu e Ghazan erano i due potenti eredi dell’Ilkhan Arghun. Arghun morì la mattina del 10 marzo 1291. Il 15 marzo, un Amir (pers., «ministro») fu inviato a

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Khorasan per convocare Ghazan; il giorno successivo, altri Amir furono mandati a Baghdad da Baidu e in Anatolia da Gaikhatu11. Ciò significa che il figlio di Arghun, Ghazan, suo fratello Gaikhatu e suo cugino Baidu erano tutti potenziali Ilkhan. Al termine di una serie di cospirazioni e conflitti, Gaikhatu salì finalmente al trono il 23 luglio 1291. Questa volta lo scontro fu per lo più tra Gaikhatu e Baidu, perché Ghazan era più giovane, si trovava molto lontano da Khorasan e, inoltre, non poteva contare su un adeguato sostegno12. Ma Ghazan non aveva intenzione di arrendersi a Gaikhatu. Marco Polo descrive in modo molto chiaro l’astio che sussisteva tra i due. Le seguenti citazioni sono tratte dall’edizione-traduzione inglese contenuta nel volume The Description of the World di Arthur Christopher Moule e Paul Pelliot. Il testo si fonda sulla lezione del manoscritto F (il codice francese 1116 della Bibliothèque nationale de France); le parti attinte da altre redazioni sono in corsivo: And when Argon was dead an uncle of his who had been real brother of Abaga his father, who had Quiacatu for name, as soon as Argon was dead he took the rule. And he can well do this because Caçan son of Argon was so far away as at the Dry tree. And yet it is true that when Caçan knows well that his father was dead and how Quiacatu had taken the rule, he had great vexation at the death of his father and he had even greater vexation at this that the uncle had taken the rule from the father. And he cannot depart from there for fear of his enemies, but yet he says that he will indeed go in time and in place in such a way that he will make such war and take quite as great vengeance on him as his father took on Acmat. And what shall I tell you of it? So this Quiacatu keeps the rule and all were obedient to him except only those who were with Caçan. He took the wife of his nephew Argon and keeps her for himself; and he took very great enjoyment with her and with the many other ladies, for he was a man of very great self-indulgence. And what shall I tell you about it? Quiacatu, he holds the rule for two years, and at end of two years he died, for you may know that he was poisoned with drink13. Rashid-al Din, Jami‘u’t-tawarikh: Compendium of Chronicles. A History of the Mongols, translated and annotated by W.M. Thackston, Harvard University, Harvard 1998, p. 576. 12 Ibid. 13 A.C. Moule, P. Pelliot, Marco Polo, cit., vol. I, pp. 467-468, cap. 214 («E quando Argon morì, un suo zio che era uno dei veri fratelli di suo padre Abaga, 11

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Secondo quanto si afferma nel brano riportato, Ghazan non si sottomise a Gaikhatu, ma era furioso per il fatto che l’avversario aveva preso il potere. Persino dopo essere rientrato a Venezia, Marco Polo ebbe notizia che Ghazan era in collera per la morte di Gaikhatu perché non avrebbe potuto vendicarsi di lui14. Anche Rashid-al Din racconta di queste contese in più punti della sua opera. Secondo la sua narrazione, per esempio, in occasione dell’elezione di Gaikhatu a Ilkhan, Ghazan gli inviò come suo emissario l’Amir Qutlughsha per «riferire della devastazione del Khorasan e dell’esercito laggiù». Qutlughsha giunse alla corte di Gaikhatu nell’Arran ed espose la situazione, ma «Gaikhatu era troppo preso da bagordi e giochi per prestarvi molta attenzione»15. 2.2. La questione del levirato Il levirato era un’importante istituzione nel sistema matrimoniale dell’Impero mongolo, secondo la quale una donna rimasta vedova doveva sposare il fratello o il figlio (avuto da un’altra donna) del marito defunto. Il levirato garantiva che la donna e i suoi beni rimanessero all’interno della famiglia16. Per la casa reale mongola, il levirato era molto importante, perché le Khatun avevano orde proche aveva nome Quiacatu, non appena Argon morì prese il potere. E poté ben farlo perché Caçan figlio di Argon si trovava distante tanto quanto l’Albero Secco. Ed è proprio vero che quando Caçan viene a sapere che il padre era morto e come Quiacatu aveva preso il potere, provò un grande tormento alla morte di suo padre e provò un tormento ancora più grande per il fatto che lo zio aveva tolto il potere a suo padre. E non può partire da lì per timore dei suoi nemici, ma tuttavia dice che vuole davvero andare per tempo e in quel luogo in modo da fare una guerra tale e prendersi una vendetta su di lui tanto grande quanto quella che suo padre prese su Acmat. E che cosa vuoi che ti dica al proposito? Così questo Quiacatu prende il potere e tutti gli erano obbedienti tranne soltanto quelli che erano con Caçan. Prese la moglie di suo nipote Argon e se la tiene per sé; e trasse grande piacere da lei e dalle numerose altre donne, poiché egli era un uomo di grande intemperanza. E che vuoi che ti dica su questo? Quiacatu, egli tiene il potere per due anni e alla fine dei due anni morì, perché, come tu forse sai, egli fu avvelenato con una bevanda»). 14 A.C. Moule, P. Pelliot, Marco Polo, cit., vol. I, p. 468, cap. 215. 15 Rashid-al Din, Jami‘u’t-tawarikh, cit., p. 603. 16 B. Birge, «Levirate Marriage and the Revival of Widow Chastity in Yüan China», Asia Major, 3rd s., 8/2 (1995), pp. 107-146, qui p. 115.

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prie. Per orda si intendono i «grandiosi palazzi-tende e accampamenti dei principi e imperatori mongoli che fungevano da nucleo del loro potere»17. Pertanto, l’orda era un centro economico e politico. Sposare una Khatun significava controllare la sua orda e accrescere il proprio potere. Quando Arghun morì, una delle sue mogli, la giovane Khatun Bulughan, fu costretta a sposare Gaikhatu18. Ciò infastidì non poco Ghazan, fatto di cui persino Marco Polo era venuto a conoscenza. Come mai? Perché per ordine di Arghun, la giovane Bulughan Khatun, che aveva sposato nel 1290, stava amministrando l’orda della vecchia Bulughan Khatun morta nel 1286. Il primo marito della vecchia Bulughan Khatun era Abaqa (1234-1282), mentre il secondo era Arghun19. Abaqa le aveva fatto crescere Ghazan come se fosse suo figlio e decise che l’orda di sua proprietà sarebbe passata nelle mani di Ghazan dopo la morte della donna20. Arghun stabilì inoltre che l’orda e le sue proprietà toccassero a Ghazan «per ordine del Khan Abaqa» quando avrebbe sposato la giovane Bulughan Khatun21. Teoricamente la giovane Bulughan Khatun e l’orda sarebbero dovute ritornare sotto il controllo di Ghazan alla morte di Arghun. Così, fu difficile per Ghazan tollerare l’ingerenza di Gaikhatu. Questo è anche il motivo per cui Ghazan sposò la Khatun Kökächin non appena si incontrarono ad Abhar. La giovane Bulughan Khatun era soltanto un’amministratrice, ma Kökächin era la legittima erede dell’orda. Nell’aprile del 1286, la vecchia Bulughan Khatun morì, quindi Arghun inviò ambasciatori presso il Qa’an perché scegliessero tra i parenti della moglie defunta una fanciulla che la sostituisse22. A causa della guerra in corso in Asia centrale, gli ambasciatori non tornarono in Persia in tempo, così nel 1290 Arghun dovette sposare la giovane Bulughan Khatun per amministrare l’orda. Per tale motivo, è impossibile che Gaikhatu abbia affidato Kökä17 C.P. Atwood, «Ordo», in Id. (ed.), Encyclopedia of Mongolia and the Mongol Empire, Facts on File, New York 2004, p. 426. 18 Rashid-al Din, Jami‘u’t-tawarikh, cit., p. 593. 19 Ibid., p. 561. 20 Ibid., p. 591. 21 Ibid., p. 593. 22 Ibid., p. 606.

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chin a Marco Polo perché la conducesse a Ghazan. Infatti, sia Gaikhatu sia Ghazan, che incontrò Kökächin per primo, l’avrebbero sposata immediatamente per diventare i legittimi detentori dell’orda. Poiché, stando al racconto di Rashid-al Din, Kökächin andò in sposa a Ghazan, dobbiamo concludere che Marco Polo abbia incontrato quest’ultimo prima di Gaikhatu. 3. Le notizie aggiuntive della versione di Ramusio Sebbene la narrazione di Rashid-al Din sia molto chiara, gli studiosi sono stati comunque indotti dalla versione del testo poliano pubblicata da Giovanni Battista Ramusio (1559) a pensare che prima Marco abbia incontrato Gaikhatu e poi che questi abbia inviato Kökächin a Ghazan. In realtà, in merito all’itinerario seguito dal veneziano in Persia nel suo viaggio di ritorno, la lezione del resto dei manoscritti del Devisement differisce notevolmente da quella ramusiana (= R). Di seguito si riporta il testo della redazione francoitaliana F: Et quant el furent la venu, il trovent qe Argon estoit mors, dont la dame fu doné a Caçan, le filz Argon. Et voç di san fail que quant il entrarent es nes il furent bien .VIC. persones sanç le mariners: tuit morurent for solemant .XVIII. Il treuvent ke la seingnorie d’Argon tenoie Chiato. I’les recomandent la dame et firent toute lor enbasee et lor mesajarie. Et quant mesier Nicolao et meser Mafeu et mesere Marc ont faites toutes la biçong‹n›e de la dame et les mesajerie ke le Grant Kan lor avoit enchargies, il pristrent conjé et se partirent et se mistrent a la voie. Et si sachiés tout voiramant qe Achatu done a celz trois mesajes dou Grant Kan, ce furent meser Nicolau et mesere Mafeu et meser Marc, .IIII. table d’or ‹dou› comandament: les deus de gerfauc et le une de lion et l’autre estoit plaine, ke disoient en lor letre qe cesti trois mesajes fuissent honorés et servi par tout sa tere comme son cors meesme, et qe chevalz et toute despense et toute escorte fuisent lor doné23.

Il manoscritto della Bibliothèque nationale de France fr. 1116, I. Testo, a cura di M. Eusebi, Antenore, Roma-Padova 2010; nuova edizione (da cui si cita): Marco Polo, Le Devisement dou monde, 1. Testo, a cura di M. Eusebi, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2018, p. 45. 23

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Secondo questa versione del racconto, quando Marco e i suoi familiari giungono in Persia e apprendono della morte di Arghun, affidano la principessa a suo figlio Ghazan. Successivamente i viaggiatori scoprono che Gaikhatu detiene la signoria di Arghun. Il testo non fa alcun cenno a un primo incontro con Gaikhatu, ma afferma solo che Marco, Niccolò e Matteo Polo «raccomandano loro» (les recomandent) la fanciulla e portano a compimento la propria ambasceria. La versione R riporta alcuni dettagli che non si incontrano nel resto della tradizione: Giunti al paese del re Argon, trovorono che ’l era morto, et che uno nominato Chiacato governava il suo reame per nome del figliuolo, che era giovine: al qual parse di mandare a dire come di ordine del re Argon havendo condutta quella regina, quel che li pareva che si facesse. Costui li fece rispondere che la dovessero dare a Casan, figliuolo del re Argon, il qual allhora si trovava nelle parti del’Arbore Secco, nei confini della Persia, con sessantamila persone, per custodia di certi passi, acciò che non vi intrassero certe genti inimiche a depredare il suo paese: et cosí loro fecero. Il che fornito, messer Nicolò, Maffio et Marco tornarono a Chiacato, percioché de lí dovea essere il suo cammino, et quivi dimororono nove mesi 24.

In sintesi, nella redazione R si trovano tre fatti singolari: 1. sembrerebbe che Marco Polo, in veste di ambasciatore del Qa’an, dovesse prima incontrare l’Ilkhan Gaikhatu, quindi, per suo ordine, inviare Kökächin a Ghazan; 2. Ghazan si sarebbe trovato nella regione dell’Albero Secco («nelle parti del’Arbore Secco»), vale a dire nel Khorasan25, e Marco Polo vi avrebbe portato Kökächin; 24 Giovanni Battista Ramusio, Dei viaggi di Messer Marco Polo, edizione critica digitale a cura di E. Burgio e S. Simion, Ca’ Foscari, Venezia 2015 («Filologie medievali e moderne», 5; «Serie occidentale», 4), libro I 61-63, Url http://virgo. unive.it/ecf-workflow/books/Ramusio/testi_completi/R_marcato-main.html (consultato il 16 settembre 2019). Si veda anche G. Mascherpa, «Il primo libro», in Giovanni Battista Ramusio «editor» del Milione. Trattamento del testo e manipolazione dei modelli. Atti del seminario di ricerca (Venezia, Università Ca’ Foscari, 9-10 settembre 2010), Antenore, Roma-Padova 2011, pp. 69-70. 25 P. Pelliot, Notes on Marco Polo, cit., vol. I, pp. 627-637, s.v. «Dry (Lone) Tree».

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3. i Polo sarebbero ritornati alla corte di Gaikhatu e vi sarebbero rimasti per nove mesi. La redazione R fu compilata in italiano da Giovanni Battista Ramusio (1485-1557) sulla base di diverse fonti. Poiché la sua tipografia venne distrutta da un incendio, è probabile che tutti i manoscritti usati nella sua edizione poliana siano andati perduti. Diverse analisi hanno mostrato che molti passi di R dipendono da un testo latino affine a quello tràdito dal codice Zelada 49.20 dell’Archivio Capitolare di Toledo (Z); altri derivano dalla traduzione latina di Francesco Pipino da Bologna (P), altri ancora dalle traduzioni veneziane V e VB26. Alcune notizie, però, non trovano riscontro nelle sue fonti note. È il caso del brano che narra dell’arrivo di Marco in Persia. Possiamo ipotizzare che, in questo punto, i dettagli trasmessi esclusivamente da R si basino sulle conoscenze storiche e geografiche di Ramusio. Non possiamo, dunque, seguire ciecamente la sua versione, ma dobbiamo soppesarne la testimonianza di volta in volta. Evidentemente, l’editore veneziano, o l’estensore della sua fonte, non aveva dimestichezza con la storia dell’Ilkhanato negli anni 1293-1294. Non era a conoscenza dello scontro tra Ghazan e Gaikhatu. La singolare notizia riportata al punto 1) non è esatta. Esaminerò qui di seguito le altre due notizie, comparandole con il racconto del Jami‘u’t-tawarikh. 4. Gli spostamenti di Gaikhatu e di Ghazan nel 1293 Secondo le abitudini delle popolazioni nomadi, i Mongoli non si stabilivano in un solo luogo, ma sceglievano località differenti in inverno e in estate. Ogni anno, al giungere della nuova stagione, il Qa’an mongolo sfilava in parata tra le due capitali. Anche gli Ilkhan avevano due accampamenti. Per esempio, Abaqa «fece di Tabriz la capitale e scelse Ala Tagh e Siyah Koh come suoi quartieri estivi e Arran e Baghdad come suoi quartieri invernali e talora Jaghatu»27. 26 A. Andreose et al., «Introduzione», in Giovanni Battista Ramusio «editor» del Milione, cit., pp. VII-XLVIII. 27 Rashid-al Din, Jami‘u’t-tawarikh, cit., p. 518.

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Durante il suo regno, Gaikhatu in pratica trascorreva l’inverno nell’Arran e l’estate nell’Ala Tagh28. È interessante il fatto che solo nell’estate del 1293 Gaikhatu si mosse tra Tabriz e l’area a est della città e non arrivò mai nell’Ala Tagh29. Quest’ultima regione avrebbe dovuto rappresentare il baluardo di Gaikhatu quando, nel 1293, il conflitto con Ghazan si inasprì. Secondo Rashid-al Din, nell’inverno del 1291, Ghazan si accampò a Sultan Duvin nel Khorasan. Nell’estate dell’anno seguente, «poiché Gaikhatu non stava inviando denaro per le truppe del Khorasan e molti soldati erano radunati lì», Ghazan decise di far visita a Gaikhatu nell’Ala Tagh. Dovette tuttavia cancellare il viaggio e si recò invece presso lo Shutur Koh per l’estate, quindi di nuovo a Sultan Duvin per l’inverno30. All’inizio del 1293, Ghazan decise di nuovo di recarsi da Gaikhatu. Rashid-al Din racconta che, a causa della fretta, procedette a tutta velocità. In una notte percorse 31 farsang (in persiano ‫ ﻓﺮﺳﻨﮓ‬, pari a 6,24 chilometri). Questa volta raggiunse Tabriz, sebbene Gaikhatu inviasse di continuo messaggeri per invitarlo a tornare sui suoi passi. Neanche questa volta, però, riuscì a incontrare Gaikhatu. La furia provocata da questo fatto potrebbe essere il motivo per cui si trattenne un mese a Yuz Aghaj, una città non lontana da Tabriz, per sposare la Khatun Eshil, nipote della vecchia Bulughan Khatun. Successivamente incontrò Coia e Marco Polo ad Abhar, dove si unì in matrimonio con Kökächin, e si recò nei dintorni del Demavand (vicino a Teheran) in estate. In autunno, ripartì alla volta di Sultan Duvin per l’inverno e, nel 1294, trascorse nuovamente l’estate vicino al Demavand31. In poche parole, durante il regno di Gaikhatu (1291-1295), ogni inverno Ghazan si accampava presso Sultan Duvin, ma d’estate si trasferiva a ovest del Khorasan. Ciò significa che i suoi domini non comprendevano soltanto il Khorasan, ma si estendevano anche ai 28 Honda Minobu ᴀ⬄ ֵ, «Ilkhan no toueiji, natueiji» Ȭɳɗɻȃ‫ހ‬ஊ ഄ・໣ஊഄ («I siti invernali ed estivi degli Ilkhan»), in Mongol Jidaisi Kenkyu ɪɻ ȼɳᰖҷ৆ⷨお (Studi sull’epoca dell’impero mongolo), Tokyo University Press, Tokyo 1991, p. 361. 29 Rashid-al Din, Jami‘u’t-tawarikh, cit., p. 583. 30 Ibid., p. 604. 31 Ibid., pp. 605-606.

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territori più a occidente. A causa dello spostamento di Ghazan verso ovest, Gaikhatu si rifiutò di incontrarlo nel 1293, spostandosi tra Tabriz e la zona a oriente della città per tenerlo d’occhio. Riepilogando quanto detto finora, all’inizio del 1293 a Ghazan premeva talmente di incontrare Gaikhatu da percorrere quasi duecento chilometri in una notte. A quella velocità avrebbe potuto raggiungere Tabriz in sei giorni. Facendo delle soste di qualche giorno, avrebbe potuto compiere il tragitto in circa due settimane. Quindi si trattenne a Yuz Aghaj per un mese, così da poter incontrare Marco Polo ad Abahar in marzo o ai primi di aprile. Comunque sia, di certo non si trovava nella regione dell’Albero Secco, nel Khorasan. Ne consegue che anche la notizia della redazione R riportata al punto 2) è inesatta. 5. L’itinerario di Marco Polo All’inizio del 1293, Marco Polo sbarcò a Hormuz e da lì si spinse fino all’estremità nordoccidentale della Persia. Poiché Ghazan giunse a Tabriz al principio dello stesso anno e vi si trattenne per un mese per le nozze con la Khatun Eshil, dovette incontrare Marco Polo sulla via del ritorno. Scrive Rashid-al Din: Un mese più tardi, lo stendardo reale partì alla volta del Khorasan. Ad Abhar, il Khwaja e gli altri emissari che il Khan Argun aveva inviato al Qa’an per riportare una delle parenti della vecchia Khatun Bulughan affinché ne prendesse il posto, arrivarono con la Khatun Kökächin e con oggetti preziosi della Cina e del Catai degni dei re. Il Khan Ghazan si accampò in quel luogo e sposò la Khatun Kökächin. Al termine delle nozze, egli mandò una tigre e molti degli altri doni a Gaikhatu. Poi partì per il Damavand32.

Ghazan sposò Kökächin e non prese nessuno degli oggetti preziosi inviati dal Qa’an, tranne una tigre e qualche altro dono per Gaikhatu. Un gesto molto sensato, dati i contrasti tra i due. In passato, molti studiosi hanno ritenuto che il momento in cui Marco Polo partì dalla corte di Gaikhatu fosse da collocare nella 32

Ibid.

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seconda metà del 1294. Tale cronologia è stata calcolata sulla base dell’ipotesi secondo cui Marco dapprima avrebbe incontrato Gaikhatu, poi si sarebbe recato nel Khorasan per vedere Ghazan e quindi sarebbe ritornato a ovest alla corte di Gaikhatu. Soltanto Ménard crede che la datazione della partenza debba essere posticipata all’inizio del 1295, perché le condizioni meteorologiche in Persia erano sfavorevoli a un viaggio invernale, ma non oltre il mese di aprile dello stesso anno, quando Gaikhatu morì33. Boyle, inoltre, ritiene che, poiché Marco non parla dell’uso della cartamoneta a Tabriz, i Polo debbano essere ripartiti per il viaggio di ritorno prima dell’inizio del maggio 1294, quando tale sistema fu introdotto nella città34. Due inesattezze storiche presenti nel Devisement forniscono altre prove indirette sulla cronologia dell’itinerario persiano. Innanzitutto, Marco afferma che Gaikhatu morì avvelenato nel 1294, ma sappiamo che invece fu ucciso da un Amir ribelle nel marzo 129535. In secondo luogo, nel testo poliano si dice che Ghazan era Ilkhan nel 1294, ma lo divenne solo nel novembre del 129536. Ciò induce a concludere che il viaggiatore veneziano non fosse a conoscenza della storia dell’Ilkhanato dopo il 1294, e che dunque debba aver lasciato la Persia in quell’anno, probabilmente prima del mese di aprile. Sulla base del nostro ragionamento, possiamo ora ricostruire l’itinerario di Marco Polo in Persia: • all’inizio del 1293: sbarca a Hormuz; • nel marzo o nell’aprile 1293: incontra Ghazan ad Abhar e assiste alle nozze di Ghazan con Kökächin; • verso il maggio del 1293: incontra Gaikhatu a Tabriz o nei dintorni, perché Gaikhatu raggiunge la città il 21 maggio 1293; • nell’agosto 1293: arriva all’accampamento invernale di Gaikhatu nell’Arran37; Ph. Ménard, «Marco Polo et la Mer», cit., p. 197. J.A. Boyle, «Dynastic and Political History of the Īl-Khāns», in Id. (ed.), The Cambridge History of Iran, vol. 5: The Saljuq and Mongol Periods, Cambridge University Press, Cambridge 1968, cap. 4, pp. 303-421, qui p. 375. 35 Rashid-al Din, Jami‘u’t-tawarikh, cit., p. 630. 36 Ibid. 37 Rashid-al Din, Jami‘u’t-tawarikh, cit., p. 583. 33 34

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• prima dell’aprile 1294: lascia la corte di Gaikhatu e prosegue il viaggio di ritorno. In breve, Marco Polo non giunse alla corte di Gaikhatu prima del maggio 1293 e non ripartì dopo l’aprile del 1294. Quindi, la notizia di R riportata al punto 3, secondo cui il viaggiatore si sarebbe trattenuto alla corte di Gaikhatu per nove mesi, è plausibile. 6. Conclusioni Nel ricostruire l’itinerario seguito da Marco Polo in Persia, gli studiosi sono stati indotti in errore dal testo di Ramusio e non hanno fatto un uso corretto della fonte persiana Jami‘u’t-tawarikh. Pertanto, si sono convinti che Marco Polo prima avesse incontrato Gaikhatu e poi, su suo ordine, avesse condotto Kökächin da Ghazan, che si sarebbe trovato nella regione dell’Albero Secco (Khorasan). Tuttavia, poiché Rashid-al Din ricorda chiaramente gli scontri e la rivalità tra Gaikhatu e Ghazan, è altamente improbabile che il primo avesse chiesto a Marco Polo di accompagnare Kökächin dal secondo. Nella prima metà del 1293, Ghazan si trovava ben lontano dal Khorasan e stava viaggiando nelle regioni occidentali dell’Iran. Questa è la ragione per cui gli ambasciatori incontrarono Ghazan ad Abhar mentre si dirigevano a Tabriz. Due delle tre notizie trasmesse esclusivamente dalla traduzione di Ramusio sono false, mentre una risulta verosimile: poiché Marco Polo arrivò alla corte di Gaikhatu dopo il maggio del 1293 e ripartì prima dell’aprile del 1294, è possibile che vi si sia trattenuto per nove mesi.

LE SHUʿAB-I PANJGĀNA («CINQUE GENEALOGIE»): UN DOCUMENTO STORICO PERSIANO DI DIALOGO INTERCULTURALE AI TEMPI DI MARCO POLO di Wang Yidan ⥟ϔЍ

1. Le Shuʿab-i Panjgāna («Cinque genealogie»): una breve panoramica Le Shuʿab-i Panjgāna («Cinque genealogie») sono un’opera genealogica persiana degli inizi del secolo XIV composta da Rashīd al-Dīn Fażl Allāh Hamadānī (1247-1318), uomo di Stato iraniano e storico della dinastia Ilkhanide (1256-1353). Rashīd al-Dīn fu autore di numerose opere di storia, teologia, medicina e agronomia, tra le quali spicca l’opus magnum di rilevanza storiografica Jāmiʿ al-Tavārīkh («Raccolta di cronache»), una storia universale delle tribù turcomongole e di altri popoli eurasiatici con i quali i Mongoli erano entrati in contatto. Si tratta, infatti, di una storia generale del mondo noto agli autori musulmani fino ai tempi di Rashīd al-Dīn, il quale, per questo motivo, è stato considerato «il primo storico globale»1. Secondo l’elenco dei libri di Rashīd al-Dīn, il Jāmiʿ al-Tavārīkh si compone di quattro volumi. Il volume I contiene la storia dei Turco-mongoli, compreso Genghis Khan (Činggis Qan) con i suoi antenati e discendenti; il volume II presenta le vicende dell’Ilkhan Ūljāytū (anni di regno: 1304-1316) e la storia di diverse nazioni del 1 H. Franke, «Some Sinological Remarks on Rašīd al-Dīn’s History of China», Oriens, 4 (1951), pp. 21-26; J.A. Boyle, «Rashīd al-Dīn: The First World Historian», Iran, 9 (1971), pp. 19-26; K. Jahn, «Rašīd al-Dīn as a World Historian», in Yádnáme-ye Jan Rypka, Academia, Prague 1967, pp. 79-87; K.H. Menges, «Rašidu’d-Dīn on China», Journal of the American Oriental Society, 95 (1975), pp. 95-98; D. Morgan, «Rashīd al-Dīn Ṭabīb», in Encyclopaedia of Islam, E.J. Brill, Leiden 1995 (nuova edizione), vol. 8, pp. 443-444.

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mondo; il volume III è costituito dalle Shuʿab-i Panjgāna («Cinque genealogie»), descrizione delle genealogie dei sovrani di diverse popolazioni del mondo; il volume IV è il Ṣuvar al-Aqālīm («Rappresentazioni dei climi»), un compendio di geografia mondiale2. Dal momento che i manoscritti rimasti del Jāmiʿ al-Tavārīkh contengono soltanto il primo e/o il secondo volume citati, si è ipotizzato che il terzo e il quarto non siano mai stati portati a termine. Nel 1927 lo studioso turco A. Zeki Velidi Togan (1890-1970) ritrovò un manoscritto persiano nel Topkapı Sarayı Museum di Istanbul, catalogato con il numero 2932, dal titolo Ansāb-i Mulūk («Discendenze dei re»)3. Togan riconobbe in questo manoscritto l’opera genealogica che Rashīd al-Dīn cita nel suo elenco di libri, ossia le Shuʿab-i Panjgāna. Sulla base della grafia e dalla carta utilizzata, Togan concluse che il manoscritto doveva essere stato composto agli inizi del secolo XVI o attorno alla seconda metà del secolo XV in Māvarā al-Nahr (Transoxania) o nel Khorasan, e che un tempo era appartenuto a Qāsim Khān (1502-1532), sovrano dell’Astrakhan4. Fin dalla loro scoperta, le Shuʿab-i Panjgāna suscitarono l’interesse degli specialisti di studi sull’Iran e sulla Mongolia5, ma non furono 2 Rashīd al-Dīn Fażl Allāh, «Fihrist-i Kitāb-i Jāmiʿ al-Tasānīf-i Rashīdī», in Latā’if al-Haqā’iq, a cura di G. Ṭāhir, Intishārāt-i Dānishgāh-i Tihrān, Tehran 1978, vol. 2, pp. 13-14; M. Mīnuvī, «Tawżīhāt-i Rashīdiya», in Yādgārnāma-i Habīb Yaghmāyī, Intishārāt-i Farhang-i Īrān-zamīn, Tehran 1977, p. 354. Si veda anche É. Quatremère, Histoire des Mongols de la Perse, Imprimerie royale, Paris 1836 (ripr. facs. Oriental Press, Amsterdam 1968), pp. CLVIII-CLX. 3 A. Zeki Velidi Togan, «The Composition of the History of the Mongols by Rashīd al-Dīn», Central Asiatic Journal, 7 (1962), pp. 60-72, qui p. 68. 4 Ibid. 5 Per i particolari, si veda K. Jahn, «Study on Supplementary Persian Sources for the Mongol History of Iran», in Aspects of Altaic Civilization, Indiana University Press, Bloomington 1963, pp. 198-199; K. Jahn, «The Still Missing Works of Rashīd al-Dīn», Central Asiatic Journal, 9 (1964), pp. 113-122, qui p. 119; S.A. Quinn, «The Mu’izz al-Ansāb and Shuʿab-i Panjgānah as Sources for the Chagatayid Period of History: A Comparative Analysis», Central Asiatic Journal, 33 (1989), pp. 229-253; J.E. Woods, The Timurid Dynasty, Indiana University Research Institute for Inner Asian Studies, Bloomington 1990; Id., «Timur’s Genealogy», in Intellectual Studies on Islam. Essays written in Honor of Martin B. Dickson, University of Utah Press, Salt Lake City 1990, pp. 85-125; T.T. Allsen, Culture and Conquest in Mongol Eurasia, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 92-93; Masa’aki Sugiyama ᴝቅℷᯢ, «Some Remarks on the Shuʿab-i Panjgāna», in Proceedings of the 27th Meeting of Haneda Memorial Hall Symposium on Central Asia and Iran (August 30,

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pubblicate. Il manoscritto che le tramanda è ora conservato nella Topkapı Palace Library di Istanbul e reca il titolo di Kitāb-i Nasabnāma-yi Mulūk («Il libro delle genealogie dei re») sulla copertina e la segnatura III. Ahmed Kitaplığı, No. 2937, Topkapı Sarayı Müzesi6. 2. Contenuto e struttura delle Shuʿab-i Panjgāna Rashīd al-Dīn fu uno dei primi storici a utilizzare gli alberi genealogici come efficace strumento narrativo, inaugurando un genere a sé stante, per cui le Shuʿab-i Panjgāna sono state considerate un capolavoro della genealogia e una delle opere più importanti della storiografia ilkhanide e islamica7. Il manoscritto, formato da 228 fogli, presenta le genealogie dei sovrani di cinque gruppi di popolazioni eurasiatiche. Di seguito si riportano i contenuti e la struttura in dettaglio: 1) ff. 1b-8b: muqaddama «premessa» e dībācha «introduzione». In questa lunga parte introduttiva di 15 pagine Rashīd al-Dīn spiega perché e come ha composto quest’opera genealogica. Afferma che soltanto dopo aver completato il Jāmiʿ al-Tavārīkh comprese «la necessità di ricordare la storia e gli alberi genealogici di ogni nazione (qawm)»8. E prosegue: 1993) ㄀ 27 ಲ㖑⬄㿬ᗉ仼䃯ⓨӮ, Institute of Inner Asian Studies, Kyoto University, Kyoto 1993, pp. 3-11; Tsuneaki Akasaka 䌸ഖᘦᯢ, «Šuʿab-i Panjgāna and the Compilation of Jāmiʿ al-Tawārīx» ǍѨᮣ䄰ǎǽǍ䲚৆ǎ㎼㑖, Shikan ৆㾇 (Prospettiva storica), 130 (1994), pp. 47-61; Id., «Relations between the Šuʿab-i Muγūl in Šuʿab-i Panjgāna and Jāmiʿ al-Tawārīx», Bulletin of the Graduate Division of Literature of Waseda University ᮽ〆⬄໻ᄺ໻ᄺ䰶᭛ᄺⷨお⾥㋔㽕, 41/IV (1995), pp. 2741; Id., «The Šuʿab-i Muγūl of Šuʿab-i Panǰgāna and Manuscripts of ǰāmiʿal-Taxārīx» ǍѨᮣ䄰ǎɪɅȼɳߚᬃǽǍ䲚৆ǎ䃌‫ݭ‬ᴀ, Journal of Asian and African Studies, 55 (1998), pp. 141-164; Id., «About the Mention Concerned with Joci’s Sons in the Genealogical Materials», Shikan ৆㾇 (Prospettiva storica), 142 (2000), pp. 38-57; İ.E. Binbaş, «Structure and Function of the Genealogical Tree in Islamic Historiography (1200-1500)», in Horizons of the World: Festschrift for İsenbike Togan, ed. by İ.E. Binbaş and N. Kılıç-Schubel, İthaki Publishing, İstanbul 2011, pp. 465-544. 6 F.E. Karatay, Topkapı Sarayı Mϋzesi Kϋtϋphanesi Farsça Yazmalar Kataloğu, Topkapı Sarayı Mϋzesi, Istanbul 1961, p. 42; C.A. Storey, Persidskaya literatura, biobibliograficheskii obzor, rev. and trans. by Y.E. Bregel, Central Department of Oriental Literature, Moscow 1972, pp. 306-307. 7 İ.E. Binbaş, Structure and Function of the Genealogical Tree, cit., pp. 487, 489-490. 8 Rashīd al-Dīn, Shuʿab-i Panjgāna, Topkapı Sarayı Mϋzesi Kϋtϋphanesi, Istanbul, MS. Ahmed III 2937, ff. 1b, 4a.

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La disposizione di queste Shuʿab («Genealogie») è la seguente: come prime, le Shuʿab-i ‘Arab («Genealogie degli Arabi»); come seconde, le Shuʿab-i Mughūl («Genealogie dei Mongoli»); come terze, le Shuʿab-i Banī Isrā’īl («Genealogie degli Israeliti»); come quarte, le Shuʿab-i Nasārā va Afranj («Genealogie dei Cristiani e dei Franchi»); come quinte, le Shuʿab-i Khatāy («Genealogie dei Cinesi»). Poi tratteremo delle regole per classificare le summenzionate Shuʿab-i Panjgāna («Cinque genealogie»), ciascuna delle quali deve essere compilata in modo corrispondente alla nazione9.

Come vedremo in seguito, l’ordine dei contenuti nel manoscritto esistente delle Shuʿab-i Panjgāna differisce leggermente da quello sopra descritto, ovvero le Shuʿab-i Mughūl («Genealogie dei Mongoli») nel testo seguono le Shuʿab-i Banī Isrā’īl («Genealogie degli Israeliti»). 2) ff. 9a-64a: Shuʿab-i ‘Arab («Genealogie degli Arabi»), a partire da Adamo (Ādam), «Padre del genere umano» (Abī al-Bashar), fino ad al-Musta‘ṣim Billāh (anni di regno: 1242-1258), ultimo califfo degli Abbasidi (750-1258), comprese le genealogie di 49 antenati del profeta Maometto e dei suoi discendenti, dei quattro Califfati dei Rāshidūn, dei dodici Imam degli Sciiti, degli Omayyadi, dei Fatimidi e degli Abbasidi. 3) ff. 64b-95a: Shuʿab-i Banī Isrā’īl («Genealogie degli Israeliti»), contenenti le genealogie di Giacobbe (Ya‘qūb) e dei suoi dodici figli, a cominciare da Abramo (Ibrāhīm), fino a Beniamino (Biyāmīn) e al suo più giovane discendente Markhāy, il vazīr «primo ministro» dell’imperatore persiano Ardashīr Bābakān. 4) ff. 96a-148b: Shuʿab-i Mughūl («Genealogie dei Mongoli»), contenenti le genealogie di Genghis Khan (Jīnkkīz Khān), da Dūbūn Bāyān e Alānqūā, l’antenato dei Mongoli Nīrūn, a Genghis Khan e ai suoi quattro figli Jūjī, Chaghatāy, Ūkadāy e Tūlūy con la loro progenie fino all’Ilkhan Ghāzān (anni di regno: 1295-1304), comprese le rispettive «mogli» (khātūnān) e «concubine» (qumāyān), i «figli» (farzandān) e i «comandanti» (umarā). 5) ff. 149a-170a: Shuʿab-i Nasārā va Afranj («Genealogie dei Cristiani e dei Franchi»), comprendenti le genealogie dei papi e degli imperatori romani, di cui si tratterà in seguito. 9

Ibid., f. 4a.

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6) ff. 171b-228a: Shuʿab-i Khatāy («Genealogie dei Cinesi»), contenenti le genealogie degli antichi imperatori cinesi a partire dal primo leggendario re Pangu Ⲭস (Bankū), fino ad Altān Khān Shūdī Shūsū, l’ultimo imperatore della dinastia Jin 䞥 (1115-1234), per un totale di 36 dinastie e 305 imperatori. Per compilare gli alberi genealogici, Rashīd al-Dīn elaborò un complesso sistema che seguiva una serie di principi e di regole nell’uso di specifici schemi di colori e forme geometriche come il cerchio, il quadrato, il rettangolo e il triangolo per le diverse categorie genealogiche. Rashīd al-Dīn descrive le Shuʿab-i Panjgāna come «una parte del libro Raccolta di cronache» (juz’-ī az Javāmiʿ al-Tavārīkh)10, e le considera «un compendio e una riduzione» (ījāz va ikhtiṣār) del «libro originale» (aṣl-i kitāb)11. Ma ciò non significa che le Shuʿab-i Panjgāna siano un mero riassunto del Jāmiʿ al-Tavārīkh. Infatti, ciascuna delle cinque genealogie sopra citate contiene preziose informazioni che nel Jāmiʿ al-Tavārīkh mancano e pertanto possiede una sua rilevanza in quanto materiale storico originale. Per esempio, nelle Shuʿab-i Mughūl, i nomi di tutti gli avi e dei discendenti di Genghis Khan non sono riportati solo in persiano (in caratteri arabi), ma anche in mongolo (in caratteri uiguri), il che rende il documento di inestimabile valore per lo studio dei Mongoli. Inoltre, le Shuʿab-i Mughūl riportano vari particolari sui discendenti di Genghis Khan, sulle loro mogli e sui loro comandanti che non si trovano nelle sezioni corrispondenti del Jāmiʿ al-Tavārīkh. Quindi si può avanzare l’ipotesi che Rashīd al-Dīn abbia scritto queste genealogie non solo sulla base del Jāmiʿ al-Tavārīkh, ma anche di fonti mongole più ampie come il Libro dei Mongoli di Pulad Jinksank12. Un altro esempio si trova nella «premessa» (muqaddama) delle Shuʿab-i Khatāy («Genealogie dei Cinesi»), dove si parla di una «tavola» (jadval) del «ciclo di sessant’anni» (dawr-i sāl-hā-yi shaṣtgāna)13, che allude alla cronologia tradizioIbid., f. 1b. Ibid., f. 4a. 12 A. Zeki Velidi Togan, «The Composition of the History of the Mongols», cit., pp. 70-71. Si veda anche Masa’aki Sugiyama, «Some Remarks on the Shuʿab-i Panjgāna», cit., p. 3. Rashīd al-Dīn cita anche il «libro dei Mongoli» (kitāb-i Mughūl) nella premessa delle Shuʿab-i Panjgāna (f. 4b). 13 Rashīd al-Dīn, Shuʿab-i Panjgāna, cit., f. 173b. 10 11

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nale cinese in cui si calcolano le date sulla base di cicli di sessant’anni combinando le dieci «radici celesti» (tiangan ໽ᑆ) e i dodici «rami terrestri» (dizhi ഄᬃ). Questa tavola non è presente in nessuno dei manoscritti esistenti del Jāmiʿ al-Tavārīkh14. 2. Genealogie dei Cristiani e dei Franchi nelle Shuʿab-i Panjgāna Le Genealogie dei Cristiani e dei Franchi (Shuʿab-i Nasārā va Afranj) sono il quarto albero genealogico compreso nelle Shuʿab-i Panjgāna. Le notizie in esso contenute dimostrano una visione precisa e una conoscenza sistematica da parte degli intellettuali persiani del mondo cristiano all’epoca della dominazione mongola, durante la quale i contatti tra le società di tutta l’Eurasia si rafforzarono grazie alla nascita dell’impero universale dei Mongoli. Il termine Nasārā nel titolo è il plurale di Naṣrān, che significa «i Cristiani, i Nazareni», e Afranj significa «i Franchi»15. La prima citazione del nome proprio Afranj (o Afranja, Faranj, Farang) compare nelle opere geografiche arabo-persiane del IX-X secolo. Hudūd al‘Ālam (Regioni del mondo, 982), la più antica opera geografica persiana esistente, compilata da un anonimo, offre una descrizione concisa e accurata dei Franchi. Nel capitolo 42, intitolato «Trattazione sul paese di Rūm, le sue province e città», si legge: Il paese di Rūm si estende a ovest fino all’Oceano Occidentale (Uqiyānūs-i Maghribī) e la sua parte meridionale confina con la Spagna (Andalus). A settentrione confina con le Terre Disabitate del Nord e comprende alcuni deserti; in qualsiasi altro posto di Rūm non vi sono deserti, al contrario, vi sono terre coltivate dappertutto. Ifranja, una provincia di Rūm che si affaccia sul Mare di Rūm. Rūmiya (Roma), una città sulla costa di questo mare che fa parte della Per i particolari, si veda Rashīd al-Dīn Fażl Allāh, Tārīkh-i Chīn az Jāmiʿ alTavārīk (La storia della Cina nel Jāmiʿ al-Tavārīkh), a cura di Wang Yidan, Markaz-i Nashr-i Dānishgāhī, Tehran 1379/2000, pp. 85, 181-182; Wang Yidan ⥟ϔЍ, Bosi Lashite Shiji Zhongguoshi yanjiu yu wenben fanyi ⊶ᮃᢝᮑ⡍ «৆䲚gЁ೑৆» ⷨ おϢ᭛ᴀ㗏䆥 (Studio e traduzione della storia della Cina nel Jāmiʿ al-Tavārīk), Kunlun chubanshe, Beijing 2006, p. 121. 15 F. Steingass, A Comprehensive Persian-English Dictionary, Librairie du Liban, Beirut 1998 (ristampa dell’ed. London 1892), pp. 81, 1406. 14

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Ifranja. In un tempo passato la sede dei re di Rūm si trovava in questa Rūmiya16.

È risaputo che sono sopravvissute soltanto tre opere musulmane sulla storia dell’Europa occidentale risalenti al primo millennio dell’Islam. La più antica tra queste è Murūj al-Dhahab wa Ma‘ādin alJawāhir («Pascoli d’oro e miniere di gemme», 947) dello storico e geografo arabo al-Mas‘ūdī (896-956), la seconda è la Storia dei Franchi (Tārīkh-i Farang) di Rashīd al-Dīn contenuta nel Jāmiʿ al-Tavārīkh e la terza è la traduzione turca di una storia francese della Francia completata nel 157217. La voluminosa opera storico-geografica di al-Mas‘ūdī, Murūj al-Dhahab, considerata un’enciclopedia storica, fornisce un resoconto della cronologia degli imperatori romani e dei re franchi fino all’anno 332 dell’Egira (943 d.C)18. La seconda opera musulmana sulla storia dei popoli europei, la Storia dei Franchi di Rashīd al-Dīn, scritta trecentocinquant’anni dopo il testo di al-Mas‘ūdī, riporta una cronologia più dettagliata e sistematica delle popolazioni d’Europa, tra cui un resoconto sugli imperatori romani e sui papi della Chiesa cattolica di Roma19. Si 16 Anon., Hudūd al-ʿĀlam: «The Regions of the World», a Persian Geography, trans. by V. Minorsky, Oxford University Press, Oxford 1970 (2a ed.), p. 158. Per la versione persiana, si veda Hudūd al-ʿĀlam min al-Mashriq ila al-Maghrib, ed. by Manūchihr Sutūda, Ṭahūrī, Tehran 1983, p. 186. Qui si presume che Rūm (Impero bizantino) comprenda tutti i paesi che si affacciano sul Mare di Rūm (Mediterraneo). Si veda il commento di Minorsky in Anon., Hudūd al-ʿĀlam, cit., p. 424. 17 B. Lewis, «Masʿūdī on the Kings of the Franks», in al-Masʿūdī Millenary Commemoration Volume, ed. by S. Maqbul Ahmad, A. Rahman, Indian Society for the History of Science and Institute of Islamic Studies - Aligarh Muslim University, Aligarh 1960, p. 10. Si veda il suo saggio «The Use by Muslim Historians of nonMuslim Sources» in Historians of the Middle East, ed. by B. Lewis and P.M. Holt, Oxford University Press, London 1962, pp. 183-184. Si veda anche The Encyclopaedia of Islam, E.J. Brill, Leiden 1991 (nuova edizione), vol. 6, p. 788; J.A. Boyle, «Rashīd al-Dīn and the Franks», Central Asiatic Journal, 14 (1970), pp. 62-67. 18 Si veda El-Masʿūdī’s Historical Encyclopaedia entitled «Meadows of Gold and Mines of Gems», trans. from the Arabic by A. Sprenger, Harrison and Co., London 1841, vol. 1, pp. 32-33; Maҫoudi, Les Prairies d’or, Texte et Traduction par C.B. de Meynard et P. de Courteille, Imprimerie Impériale, Paris, Tome II, 1863, pp. 293355; Tome III, 1864, pp. 66-75. 19 K. Jahn, Histoire des Francs (Histoire Universelle de Rašīd al-Dīn Faḍl Allāh AbulKhair), E.J. Brill, Leiden 1951. Si veda anche Rashīd al-Dīn Fażl Allāh Vazīr Hamadānī, Tārīkh-i Farang az Jāmiʿ al-Tavārīkh (Storia dei Franchi nel Jāmiʿ al-Tavārīkh), a

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tratta invero di una novità di grande valore nella storiografia musulmana. Le notizie delle Genealogie dei Cristiani e dei Franchi nelle Shuʿab-i Panjgāna sono le stesse trattate nella Storia dei Franchi nel Jāmiʿ alTavārīkh, ma sono presentate sotto forma di albero genealogico. Questo stemma, che occupa ventun fogli, segue immediatamente la discendenza di Ghāzān Khan (f. 148b), l’ultimo Ilkhan delle Genealogie dei Mongoli. Sfortunatamente i primi fogli delle Genealogie dei Cristiani e dei Franchi sono andati perduti, per cui l’albero genealogico parte dal ventiseiesimo papa, Dīūnisīūs («San Dionisio», anni di pontificato: 260-268) e dal ventisettesimo imperatore, Valirīānūs («Valeriano», anni di regno: 253-260) nel primo foglio superstite, vale a dire il foglio 149a, e termina con il duecentoduesimo papa Biniṭikṭūs («Benedetto XI», anni di pontificato: 1303-1304) e il centunesimo imperatore Albirṭūs («Alberto I», anni di regno: 12981308) ai fogli 169b-170a. Le notizie sui primi venticinque papi e i primi ventisei imperatori contenute nei fogli mancanti possono essere completate rifacendosi alla Storia dei Franchi nel Jāmiʿ al-Tavārīkh, dove la genealogia incomincia con Gesù Cristo (Krīsṭūs Masīḥ) e Augusto (Ughusṭūs Qayṣar)20. Il tratto caratteristico delle Genealogie dei Cristiani e dei Franchi nelle Shuʿab-i Panjgāna, che le distingue dalla Storia dei Franchi nel Jāmiʿ alTavārīkh, risiede nella struttura dell’albero genealogico. In questo schema, ciascun papa e imperatore è numerato in successione, e i papi e gli imperatori tra loro contemporanei sono collocati nella stessa pagina, nella cui parte destra trovano posto i nomi e i ritratti dei pontefici, e nella cui parte sinistra, quelli degli imperatori. Per esempio, nel f. 149a, i papi dal numero 26 al numero 29 sono elencati a destra mentre gli imperatori dal 27 al 31 a sinistra. cura di M. Dabīr Siyāqī, Kitāb-furūshī-yi Furūghī, Tehran 1339/1960; K. Jahn, Die Frankengeschichte des Rašīd al-Dīn, Einleitung, vollständige Übersetzung, Kommentar und 58 Texttafeln, Österreichische Akademie der Wissenschaften, Wien 1977; Rashīd al-Dīn Fażl Allāh Hamadānī, Jāmiʿ al-Tavārīkh: Tārīkh-i Afranj, Pāpān va Qayāṣira (Jāmiʿ al-Tavārīkh: Storia dei Franchi, dei Papi e dei Cesari), a cura di M. Rawshan, Mīrāth-i Maktūb, Tehran 1384/2005. 20 Si veda K. Jahn, Histoire des Francs, cit., pp. 12-13 (testo persiano) e p. 26 (traduzione francese). Si veda anche Rashīd al-Dīn, Tārīkh-i Farang az Jāmiʿ alTavārīkh, cit., p. 13; K. Jahn, Die Frankengeschichte des Rašīd al-Dīn, cit., p. 93; Rashīd al-Dīn, Jāmiʿ al-Tavārīkh: Tārīkh-i Afranj, Pāpān va Qayāṣira, cit., p. 58.

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La descrizione del ventiseiesimo papa nella prima riga a destra è la seguente: Il ritratto di Dionisio (Dīūnisīūs) che fu il ventiseiesimo papa (pāp-i bīst u shishum). Dopo Sisto (Siksṭūs), sedette sul trono pontificio per due anni e tre mesi. Dopodiché patì la tortura e morì. La durata del suo regno fu contemporanea a Valeriano (Valirīānūs) e a suo figlio21.

E la descrizione del ventisettesimo imperatore Valeriano (anni di regno: 253-260) è collocata nella prima riga a sinistra: Il ritratto di Valeriano (Va[li]rīānūs) e di suo figlio Gallieno (Kalīānūs), che furono i ventisettesimi tra gli imperatori e sono stati menzionati sopra. Per la ragione secondo cui alcuni ritratti sono disegnati più volte in questa discendenza, la spiegazione è stata data in relazione al ritratto di Tiberio (Ṭipāryūs), il secondo Cesare, e sarà conosciuta da lì. I ritratti dei papi a lui contemporanei sono stati disegnati sul lato opposto, in modo che la loro posizione sia chiara22.

Questi ritratti non si trovano nel manoscritto e neppure quelli di tutti gli altri papi e imperatori, ma è stato lasciato un grande cerchio vuoto dopo il nome di ognuno di essi come spazio destinato al disegno del ritratto del relativo papa o imperatore. L’ultimo papa nelle Genealogie dei Cristiani e dei Franchi è il duecentoduesimo pontefice Benedetto XI (anni di pontificato: 1303-1304), papa al tempo in cui Rashīd al-Dīn stava compilando le Shuʿab-i Nasārā va Afranj: Il ritratto di Benedetto (Biniṭikṭūs) che è il duecentoduesimo papa. Egli è originario di Treviso (Tirifīs) ed è passato quasi un anno da quando è salito al trono pontificio. Oggi siamo nell’anno 705 dell’Egira, egli è ancora sul trono. Il suo regno è stato contemporaneo per 13 giorni al regno del Cesare Adolfo (Aṭulfus Qaysar) e dopo quello, finora, contemporaneo del Cesare Alberto (Ad Albirṭūs Qaysar)23. Rashīd al-Dīn, Shuʿab-i Panjgāna, cit., f. 149a. Ibidem. 23 Ibid., f. 169b. 21 22

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E l’ultimo imperatore è il centunesimo Cesare Alberto I (anni di regno: 1298-1308), della casa d’Asburgo: Il ritratto del Cesare Alberto (Ad Albirṭūs Qaysar) che è il centounesimo tra i Cesari. Egli ora siede sul trono di Caesarea. Nuove notizie su di lui saranno aggiunte in seguito24.

Oltre alla descrizione dei papi e degli imperatori, le Genealogie dei Cristiani e dei Franchi forniscono anche un resoconto degli avvenimenti sociali e religiosi occorsi durante i corrispondenti anni di pontificato o di regno, come l’espansione dei Franchi e l’ascesa dei Mongoli al tempo di Enrico VI (anni di regno: 1190-1197): Durante il regno del novantaquattresimo Cesare Enrico (Anrīkūs) che regnò per sette anni e cinque mesi, i Franchi (Farangān) conquistarono Costantinopoli, vi uccisero il re, compirono saccheggi e massacri e fecero molti prigionieri. Accadde nello stesso tempo che l’esercito mongolo insorse e incominciò a conquistare il mondo25.

In sintesi, la descrizione di Rashīd al-Dīn del mondo cristiano ci fornisce materiale molto significativo per lo studio del dialogo interculturale tra il mondo musulmano e quello cristiano ai tempi di Marco Polo, perché dimostra che gli intellettuali persiani dell’era mongola possedevano una notevole conoscenza della storia e della geografia occidentali26. 3. Conclusioni L’affermazione dell’impero universale mongolo nel secolo XIII allargò la portata degli scambi politici, culturali, religiosi e commerciali tra Est e Ovest. È noto che i signori mongoli in Iran intrattenevano rapporti diplomatici con l’Occidente. Le missioni diplomatiche presso i principi europei ebbero inizio con l’Ilkhan Abaqā (anni di Ibid., f. 170a. Ibid., f. 167b. 26 K. Jahn, Histoire des Francs, cit., p. 5 (introduzione). 24 25

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regno: 1265-1282) e continuarono con una certa frequenza durante tutta l’epoca ilkhanide27. Una lettera di Ghāzān Khan (anni di regno: 1295-1304), il mecenate di Rashīd al-Dīn, indirizzata a papa Bonifacio VIII (anni di pontificato: 1294-1303), datata 12 aprile 1302 e ora custodita nell’Archivio Segreto Vaticano, mostra gli stretti contatti tra l’Ilkhan e il Pontefice suo contemporaneo28. È in questo contesto che furono scritte le Genealogie dei Cristiani e dei Franchi delle Shuʿab-i Panjgāna. Secondo quanto afferma Rashīd al-Dīn nella premessa dell’opera, «ognuna di queste cinque genealogie si basa sull’albero genealogico (shajara) composto dai popoli stessi di queste cinque nazioni»29. Ciò significa che le Genealogie dei Cristiani e dei Franchi hanno una matrice cristiana. Per le possibili fonti della Storia dei Franchi di Rashīd al-Dīn, Karl Jahn (1906-1985) – un eminente orientalista ceco, che ha tradotto l’opera in francese e in tedesco – ha suggerito che forse le notizie sui Franchi in possesso di Rashīd al-Dīn gli siano pervenute tramite il popolare Chronicon Pontificum et Imperatorum («Cronica dei pontefici e degli imperatori») di Martino Polono (Martinus Oppaviensis, morto nel 1278)30. Solo un accurato confronto dei contenuti e della struttura delle due opere potrà confermare e precisare l’ipotesi di Karl Jahn. Lo studio dei rapporti tra il Chronicon di Martino Polono e il resoconto di Rashīd al-Dīn sui Franchi è ancora però tutto da compiere.

27 Si veda J. Richard, «Le Début des relations entre la papauté et les Mongols de Perse», Journal Asiatique, 237 (1949), pp. 291-297; L. Petech, «Les Marchands italiens dans l’empire mongol», Journal Asiatique, 250 (1962), pp. 549-574. 28 A. Mostaert, F.W. Cleaves, «Trois documents mongols des Archives secretes vaticanes», Harvard Journal of Asiatic Studies, 15/3-4 (1952), pp. 419-506, qui p. 471; J.A. Boyle, «Ghazan’s letter to Boniface VIII: where was it written?», in Proceedings of the XXVII International Congress of Orientalists (Ann Arbor, 13-19 August, 1970), Otto Harrassowitz, Wiesbaden 1971, pp. 601-602, e in Cambridge History of Iran, V, Cambridge University Press, Cambridge 1968, pp. 390-391. 29 Rashīd al-Dīn, Shuʿab-i Panjgāna, cit., f. 4a. 30 K. Jahn, Histoire des Francs, cit., p. 8 (introduzione).

LA GERARCHIA DELLE RELIGIONI NEI DECRETI PER I TEMPLI DELLA DINASTIA YUAN di Chen Xi 䰜Ꮰ

Come è noto, i governanti mongoli furono in genere tolleranti verso tutte le religioni e sostennero lo sviluppo sia di quelle locali, sia di quelle straniere. Per alcuni templi importanti, gli imperatori (o imperatrici, re ecc.) emanarono spesso decreti destinati a esentare i religiosi dalle corvée e a proteggere i loro diritti e la proprietà dei templi. La maggior parte di tali decreti era costituita da traduzioni letterali dal mongolo al cinese e presentava una struttura e un contenuto simile1. In questi decreti troviamo sempre la frase «I doyin, gli erke’ün, i senshing e i dashmand non assumono nessuna corvée» e l’ordine in cui sono elencate le religioni era quasi sempre lo stesso. Sembra che si tratti di una sorta di «schema prestabilito». Come si formò quell’ordine? Si verificò qualche cambiamento dopo quell’epoca? Il presente saggio tenterà di fornire alcune risposte a tali quesiti. 1. All’epoca di Ögödei Qan, il clero buddista era elencato per primo nei decreti riguardanti i templi Le iscrizioni «sino-mongole» di epoca Yuan sono state censite ed edite da Cai Meibiao. Il decreto sui templi più antico individuabile in tale corpus è trasmesso da un’epigrafe del 1238. Nel testo, tra le altre cose, si legge: Zu Shengli ⼪⫳߽, Funada Yoshiyuki 㠍⬄୘П, «Yuandai baihua beiwen de tili chutan» ‫ܗ‬ҷⱑ䆱⹥᭛ⱘԧ՟߱᥶ («Studio preliminare sulle iscrizioni ‘sino-mongole’»), Zhongguo shi yanjiu Ё೟৆ⷨお (Journal of Chinese Historical Studies), 3 (2006), pp. 117-135. 1

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… l’Imperatore aveva detto in precedenza: «Nella terra di Han, tutti i capi funzionari di città piccole e grandi, tutti i funzionari responsabili degli artigiani dovrebbero sapere che i più importanti esponenti del clero, fra cui i doyin nei templi, gli erke’ün negli ʼumra (chiese), i senshing nei templi taoisti, i dashmand nei masjid (moschee), hanno la responsabilità di pregare Dio. Non è permesso a nessuno di ostacolarli e non intraprendono nessun lavoro di corvée…»2.

In questo passo vengono citati quattro tipi di rappresentanti religiosi: i doyin 㛿಴ costituivano il clero buddista, gli erke’ün г䞠ৃ⑿ erano sacerdoti nestoriani, i senshing ‫ ⫳ܜ‬erano religiosi taoisti e i dashmand ㄨ༅㸏 erano esponenti dell’islam. La gerarchia dei quattro tipi di religione si formalizzò a poco a poco e fu mantenuta nei decreti successivi. La genesi di tale elenco appare facile da spiegare. Tuttavia, il motivo per cui il clero buddista apparisse per primo nel periodo di Ögödei Qan non è ovvio. Dopo tutto, il taoismo rappresentato dalla corrente Quanzhen (ܼⳳᬭ quanzhen jiao) aveva acquisito maggior potere dopo l’incontro di Qiu Chuji Ϭ㰩″ con Činggis Qan (Gengis Khan). A quell’epoca il taoismo prosperò e si sviluppò rapidamente, mentre il buddismo non fu favorito dai sovrani mongoli fino al periodo di Qubilai. Se si tiene conto di questa situazione, perché il buddismo venne collocato prima del taoismo nell’elenco? Se uniamo a queste considerazioni anche la data e il luogo di tale iscrizione, il problema sembra ancor più difficile da risolvere. Il testo reca la data del «mese intercalare di aprile nell’anno del Wuxu» (៞០ᑈ䭣ಯ᳜ wuxu nian run siyue), corrispondente al 1238, decimo anno del regno di Ögödei. In quel periodo non va sottovalutata l’influenza della corrente Quanzhen nei gradi più alti del regime mongolo. Il principe ereditario Qashi ড়༅3 dimostrò chiaramente la propria simpatia per la setta Quanzhen. Nel 1235, Song

2 Yuandai baihua bei jilu ‫ܗ‬ҷⱑ䁅⹥䲚䣘 (Raccolta di iscrizioni sino-mongole) ed. by Cai Meibiao 㫵㕢ᔾ, China Social Sciences Press, Beijing 2017, p. 14. 3 Cfr. Wang Xiaoxin ⥟Ო⃷, «Heshi shenfen ji xiangguan wenti zaikao» ড়༅ 䑿ӑঞⳌ䮰ଣ丠‫ݡ‬㗗 («L’identità di Qashi e relativi problemi»), Yuanshi luncong ‫ܗ‬৆䂪শ (Journal of Yuan History), 10 (2005), pp. 61-70. Liu Xiao ࡝Ო, «Ye tan heshi» г䂛ড়༅ («Uno studio su Qashi»), Journal of Chinese Historical Studies, 2 (2006), p. 146.

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Defang ᅟᖋᮍ cominciò a compilare il Canone taoista 䘧㮣, ricevendo il forte sostegno di Qashi. Nel 1239 fu attribuito a Song il titolo di «Piyun Zhenren ᡿䳆ⳳҎ»4, cioè «il Perfetto che disperde le nuvole». Nel 1238, Qashi ordinò di proteggere i diritti della setta Quanzhen. Il principe morì intorno al 12405. Dal 1235 al 1240, la corrente Quanzhen fu tenuta in grande considerazione dal principe ereditario. Oltre a Qashi, le mogli di Ögödei, Buraqajin ᄯࠠড় ⳳ e Turakina 㛿߫હ䙷, l’imperatrice consorte di Činggis Qan, nonché la madre di Qubilai Qa’an, emisero tutti decreti a protezione della setta Quanzhen6. Ciò dimostra l’influenza di tale corrente sulla corte mongola. Inoltre, poiché la dinastia Jin 䞥 (1115-1234 d.C.) era appena caduta, alcuni signori della guerra utilizzarono la setta Quanzhen per mantenere la stabilità sociale. I taoisti, pertanto, erano molto rispettati anche dal popolo7. Wei Chu 儣߱ descrisse la fondazione del tempio di Changchun (䭋᯹㾔 changchun guan). Dalla sua spiegazione, sappiamo che l’edificio, luogo in cui si trova l’iscrizione del 1238, era considerato come un tempio degli antenati dalla setta Quanzhen. Come mai, dunque, il clero buddista venne classificato prima di quello taoista, in un luogo così importante per il taoismo? È necessario valutare anzitutto quale fosse la situazione del buddismo all’epoca. A causa del crollo delle dinastie Xi Xia 㽓໣ (10381227) e Jin, lo sviluppo sia del buddismo tibetano, sia di quello cineIbid. Liu Xiao ࡝Ო, «Heshi zunian xiaokao» ড়༅दᑈᇣ㗗 («Ricerca testuale sulla data della morte di Qashi»), Journal of Chinese Historical Studies, 2 (2007), p. 50. 6 Cfr. Zhou Ying ਼䚶«Menggu hanting yu quanzhen dao guanxi xinzheng‒ ‒xin faxian de menggu guo shengzhi (yizhi, lingzhi) moya kaoshu» 㩭স∫ᓋ 㟛ܼⳳ䘧䮰֖ᮄ䄝‒ ‒ᮄⱐ⧒ⱘ㩭স೟㘪ᮼ (៓ᮼǃҸᮼ) ᨽዪ㗗䗄 («Nuove prove sulle relazioni tra i dominatori mongoli e la seta Quanzhen: iscrizioni rupestri scoperte recentemente»), Journal of Chinese Historical Studies, 1 (2013), pp. 136-140; Liu Xiao ࡝Ო, «Chengjisi han gongzhu huanghou zakao» ៤ঢ়ᗱ∫݀ Џⱛৢ䲰㗗 («Studio sulla ‘principessa-khatun’ che fu una delle imperatrici mogli di Činggis Qan»), Minzu shi yanjiu ⇥ᮣ৆ⷨお (Studi di storia etnica), 5 (2004), pp. 19-20. 7 Yi Gou ᓟᔔ, «Xuanmen zhangjiao qinghe miaodao guanghua zhenren yin zongshi beiming bing xu» ⥘䮼ᥠᬭ⏙੠཭䘧ᑓ࣪ⳳҎልᅫᏜ⹥䫁ᑊᑣ («Iscrizioni sul leader della setta Quanzhen Yin Zhiping»), in Daojia jinshi lüe 䘧ᆊ䞥⷇ ⬹ (Iscrizioni taoiste su bronzo e pietra), ed. by Chen Yuan 䱇൷, Cultural Relics Press, Beijing 1988, p. 568. 4 5

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se aveva conosciuto una fase di crisi. Al tempo di Ögödei, l’influenza del buddismo sul nuovo regime cominciò gradualmente a riprendere vigore. Alcuni funzionari del governo centrale erano in stretto contatto con monaci buddisti e professavano addirittura tale religione. Monaci famosi come Haiyun ⍋䳆 divulgarono certamente anche il Dharma fra le élite del sistema politico mongolo. Il buddismo, però, non era ancora in grado di soppiantare il taoismo. Come spiegare, quindi, la contraddizione tra il decreto e la realtà? Si possono individuare tre cause. In primo luogo, dobbiamo ragionare secondo il contenuto del decreto del 1238. Come già osservato, nel documento le parole dell’imperatore dovevano essere eseguite «nella terra di Han» (⓶ഄ han di). Si trattava delle aree a nord del fiume Huai (⏂⊇ huai he) che erano appartenute alla dinastia Jin. In altri termini, il decreto del 1238 era destinato alla popolazione di alcune regioni, piuttosto che a quella dell’intera nazione. Quando i sovrani mongoli presero in considerazione l’idea di spingersi a conquistare zone più ampie del territorio appartenuto alla dinastia Han (⓶ഄ han di), fu necessario garantire un trattamento privilegiato ai monaci buddisti, perché il buddismo era la religione predominante del popolo locale da secoli. I sovrani mongoli che desideravano controllare le aree Han dovevano assecondarne la tradizione religiosa. La scelta, in altre parole, dipese da un’esigenza pratica piuttosto che da una particolare inclinazione dei governanti. A tale proposito, non si deve trascurare il personaggio fondamentale che aiutò i dominatori mongoli a gestire i territori Han in quel periodo: l’astronomo Yelü Chucai 㘊ᕟἮᴤ. Chucai studiò il confucianesimo in giovane età e seguì il buddismo quando fu anziano8. Il suo atteggiamento nei confronti del buddismo era molto chiaro: «Il cammino di Buddha è così profondamente radicato da non poter essere sostituito»9. Al tempo di Činggis Qan, la corrente Quanzhen era dominante e i taoisti distrussero perfino delle statue di Buddha e fecero a gara con il buddismo per guadagnare proseliti10. Naturalmente ciò provocò l’insoddisfazione di Yelü Chucai.

Yelü Chucai 㘊ᕟἮᴤ, Xiyou lu 㽓䘞䣘 (Cronaca di un viaggio nelle regioni occidentali), ed. by Xiang Da ৥䘨, Zhong Hua Book Company, Beijing 1981, p. 14. 9 Ibid., p. 18. 10 Ibid., pp. 15-16. 8

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Quando Ögödei salì al trono, a Yelü Chucai fu assegnato l’incarico di promuovere la cultura e l’educazione e poté avvalersi di questa possibilità per rivitalizzare il buddismo. Egli divenne uno dei più importanti funzionari che supportavano l’imperatore nella stesura dei decreti. Xu Ting ᕤ䳚, inviato della dinastia Nan Song, scrisse che Yelü Chucai esprimeva le proprie idee nelle leggi perché l’imperatore non era in grado di leggere il cinese. Soltanto gli affari militari e la politica nazionale erano decisi da Ögödei e dai suoi figli11. Lo scopo dei decreti per i templi era quello di proteggere i diritti dei religiosi e la proprietà dei templi stessi e non aveva nulla a che fare con scelte politiche di ordine generale. L’imperatore non possedeva le conoscenze necessarie per elaborare il decreto, né tantomeno per attribuire alle religioni una particolare gerarchia. Inoltre, il decreto del 1238 era applicabile soltanto ai territori Han, che erano proprio sotto il governo di Yelü Chucai. Il suo atteggiamento verso religioni diverse dalla propria viene espresso attraverso la gerarchia fornita dal decreto. Un altro elemento che si deve considerare è che, a partire dal 1230, Yelü Chucai aveva incominciato a gestire la tassazione nelle aree Han. Nel decreto del 1238 si trova l’affermazione secondo cui al clero di una religione non era richiesto di assumersi alcuna corvée. Nell’antica Cina le corvée e le imposte erano di solito regolate dallo stesso settore del governo. Stando così le cose, si può supporre che, come funzionario delle imposte, Yelü Chucai abbia dato all’imperatore alcuni suggerimenti dettagliati a proposito dell’esenzione da obblighi vassallatici. In definitiva, è lecito ritenere che Yelü Chucai sia stato coinvolto in tale questione e che abbia esercitato una qualche influenza nel determinare la classifica delle religioni. Oltre al fatto che il decreto del 1238 riguardava gli affari delle aree Han, crediamo che l’attribuzione del primo posto al clero buddista sia stata influenzata anche dalla relazione tra il taoismo e i governanti mongoli. Nel 1230 il leader della setta Quanzhen, Yin Zhiping ልᖫᑇ, fu arrestato perché c’era qualcosa di sconveniente nei dipinti del tempio Baiyun (ⱑ䳆㾔 baiyun guan «Tempio della Nuvola Bianca»). Nella corrente Quanzhen si diffuse il panico. Dopo essere uscito dalla prigione, Yin disse ai correligionari: «DobPeng Daya ᕁ໻, Xu Ting ᕤ䳚, Hei Da shilüe 咥䶗џ⬹ (Profilo storico degli eventi relativi ai Tartari Neri), Zhong Hua Book Company, Beijing 1986, p. 7. 11

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biamo fare attenzione alla nostra condotta, perché da essa dipende la reputazione della setta Quanzhen»12. Sembra che si fosse reso conto che i sovrani mongoli non erano soddisfatti della politica espansionistica della sua corrente. Alcuni anni più tardi, Yin decise di costruire un altro tempio nello Shaanxi. Nel 1237, fu improvvisamente convocato a Pechino (➩Ҁyanjing) e, in seguito, abbandonò la guida della setta. Alcuni studiosi ritengono che la rinuncia di Yin possa essere connessa al suo comportamento durante il periodo di ricostruzione del tempio, che attirò l’attenzione dei Mongoli13. Sembra che il sovrano diffidasse del potere crescente di tale corrente. Nel 1240, quando il tempio era ormai costruito, Yin fu invitato a organizzare il funerale di Wang Chongyang ⥟䞡䱑, fondatore della scuola Quanzhen. Decine di migliaia di persone tra taoisti, funzionari e popolazione locale parteciparono ai funerali e alle iniziative a essi collegate14. Come sarebbe potuto passare inosservato un evento siffatto agli occhi dei governanti mongoli? Né va dimenticato che lo Shaanxi era appena stato occupato e la situazione sociale era ancora instabile. È facile comprendere l’insoddisfazione e la volontà di sorveglianza dei nuovi sovrani. Quindi, sebbene il taoismo fosse ancora al suo apogeo durante il regno di Ögödei, il suo rapporto con il potere politico era leggermente cambiato. Il predominio della setta Quanzhen non rispondeva più alle esigenze di mantenimento dell’equilibrio sociale espresse dai signori mongoli; a poco a poco, invece, diventò una potenziale minaccia per il nuovo regime. Tre mesi dopo che Yin aveva abbandonato il suo incarico, al tempio fu assegnato il decreto del 1238, la cui gerarchia delle religioni, probabilmente, riflette il colpo subito dal taoismo. I sovrani mongoli sostennero lo sviluppo delle religioni basandosi fondamentalmente su princìpi di praticità e convenienza. Činggis Duan Zhijian ↉ᖫෙ, «Qinghe zhenren beiyou yulü» ⏙੠ⳳҎ࣫␌䁲䣘 («Citazioni da Yin Zhiping nel Viaggio verso Nord»), juan 1, in Zhengtong Daozang ℷ㍅䘧㮣 (Canone Taoista dell’epoca di Zhengtong), vol. 55, The Art and Literature Press, Taibei 1977, p. 44449. 13 Liu Xiao ࡝Ო, «Quanzhen jiao Yin Zhiping jieren zhangjiao zhi mi» ܼⳳ ᬭልᖫᑇ᥹ӏᥠᬭП䃢 («Studio su come Yin Zhiping si affermò come leader della setta Quanzhen»), Daojia wenhua yanjiu 䘧ᆊ᭛࣪ⷨお (Rivista di cultura taoista), 23 (2008), p. 260. 14 Yi Gou, «Xuanmen zhangjiao qinghe miaodao guanghua zhenren yin zongshi beiming bing xu», cit., pp. 568-569. 12

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Qan aveva bisogno di utilizzare il taoismo per pacificare le regioni Han; diede allora a Qiu Chuji il potere di governare su tutti i seguaci di tale credo. Quando Ögödei cominciò a conquistare il Tibet e la Cina meridionale, si attribuì valore crescente al buddismo. Nel periodo di Qubilai, tramite l’incontro di Liangzhou (㰁Ꮂ᳗㽟 lanzhou huijian, oggi Wuwei) e il dibattito tra buddisti, taoisti e altre confessioni, si consolidò la posizione suprema del buddismo tibetano. Questo processo di cambiamento è in parte rispecchiato dai documenti coevi. Questo spiega perché il clero buddista viene elencato al primo posto al tempo in cui il taoismo era all’apice del successo. Sebbene il taoismo fosse ancora predominante, il rapporto tra la corrente Quanzhen e i governanti mongoli aveva cominciato a cambiare. La classifica delle religioni del 1238 rispecchia questa tendenza. Dobbiamo inoltre considerare che la gerarchia era molto meno importante per i sovrani che per i seguaci delle religioni stesse. Ciò permise di demandare a funzionari come il citato Yelü Chucai il compito di stilare la graduatoria. 2. La scomparsa dei dashmand (religiosi musulmani) dai decreti a metà dell’epoca della dinastia Yuan Come abbiamo anticipato, la gerarchia dei rappresentanti delle religioni si normalizzò gradualmente e rimase uguale per un certo tempo nei decreti successivi. Tuttavia, sopravvenne un nuovo cambiamento nell’ordinamento nella fase centrale dell’epoca Yuan. Nel periodo che va dal regno di Chengzong ‫ܗ‬៤ᅫa quello di Wuzong ‫℺ܗ‬ᅫ, non si trova menzione di dashmand in alcun elenco contenuto in decreti a favore dei templi15. Ovviamente, questo fatto non può essere semplicemente attribuito alla negligenza dei bitikchis o scrivani. Alcuni storici hanno studiato il caso e ritengono che l’imperatore Chengzong abbia manifestato una certa antipatia nei confronti dei mercanti musulmani appartenenti agli ortaq, potenti associazioni commerciali asiatiche16. Stando alla documentazione che Si veda la tavola alla fine del saggio. È il punto di vista espresso da Yokkaichi Yasuhiro ಯ᮹Ꮦᒋम, cfr. Gao Rongsheng 催ᾂⲯ, «Yuan shabuding shiji suokao» ‫≭ܗ‬ϡϕџ䐳㋶㗗 («Una 15 16

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abbiamo potuto esaminare, sembra che tale avversione si sia protratta fino all’epoca dell’imperatore Wuzong. Partiremo da tale dato per spiegare il motivo della mancanza dei dashmand nella classifica delle religioni. Innanzitutto andrà considerata la situazione dell’impero all’epoca di Chengzong. Questi seguì l’esempio del nonno e s’impegnò a mantenere l’equilibrio raggiunto nell’ultimo periodo del regno di Qubilai. Anche i funzionari centrali si conformarono a tale orientamento e la situazione sociale si mantenne relativamente stabile. Sotto sotto, però, si andava diffondendo rapidamente la crisi a causa della crescente carenza di risorse finanziarie. Oltre ai problemi irrisolti dovuti alla politica economica inadeguata dei tempi di Qubilai, si creò un nuovo deficit monetario. L’imperatore Chengzong spese molto per la corte imperiale e per i culti buddisti, e ciò portò all’utilizzo di fondi delle riserve statali destinati alla gestione della vita quotidiana del sovrano. Nel governo centrale, all’epoca, erano presenti molti fedeli dell’islam, detti «funzionari Huihui» (ಲಲᅬ વ huihui guanyuan). Questi ufficiali, abili a gestire il denaro, avrebbero potuto offrire all’imperatore un valido contributo alla risoluzione del problema finanziario. Durante il regno di Chengzong, nove funzionari Huihui entrarono nella Segreteria centrale (Ё᳌ⳕ zhongshu sheng)17. Sembrava che il sovrano fosse in buoni rapporti con i funzionari Huihui. Tuttavia, dallo Yuanshi ‫ܗ‬৆ («Storia della dinastia Yuan»), emergono indizi che suggeriscono una verità diversa. Nel 1294, all’inizio del suo regno, Chengzong rimproverò i funzionari della Segreteria imperiale centrale, accusandoli di aver rallentato il loro ritmo di lavoro e di essere addirittura peggiori di quelli assunti nel periodo di Sengge18. Sengge (ḥહ sangge) era stato un ministro dell’impero di Qubilai, che aveva goduto di una pessima ricerca testuale su Shihāb al-Dīn»), Mengyuan shi ji minzu shi lunji‒ ‒jinian Weng Dujian xiansheng danchen yibai zhou nian 㩭‫ܗ‬৆ᱼ⇥ᮣ৆䆎䲚‒ ‒㑾ᗉ㖕⣀‫⫳ܜع‬䆲䖄‒ ⱒ਼ᑈ (Miscellanea di storia del periodo mongolo Yuan e di etnostoria per il centesimo compleanno del prof. Weng Dujian), ed. by Hao Shiyuan 䚱ᰖ䘴, Luo Xianyou 㕙䊶ԥ, Social Sciences Academic Press, Beijing 2006, p. 305, nota 2. 17 Si veda Yang Zhijiu ἞ᖫ⥪, Yuandai huizu shigao ‫ܗ‬ҷಲᮣ৆〓 (Storia del popolo Hui sotto la dinastia Yuan), Nankai University Press, Tianjin 2003, p. 208. 18 Song Lian ᅟ▖ et al., Yuan Shi ‫ܗ‬৆ (Storia della dinastia Yuan), Zhonghua Book Company, Beijing 1976, p. 388, cap. 18.

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reputazione tra i funzionari Han (⓶ᮣᅬવ hanzu guanyuan), perché ritenuto incapace di gestire le finanze dello Stato. L’imperatore Chengzong paragonò i funzionari del governo centrale a quelli del famigerato Sengge, esprimendo la sua profonda insoddisfazione nei loro confronti. Sebbene l’imperatore non facesse alcun nome, era chiaro che si riferiva ai funzionari Huihui, a quel tempo effettivi detentori del potere. La severità delle critiche lasciava trasparire l’atteggiamento dell’imperatore verso tali figure. Erano stati assunti in posizioni importanti, ma ciò non significava che l’imperatore fosse contento di loro. Da atti ufficiali degli anni immediatamente successivi, si evince anche che l’imperatore Chengzong prese alcune misure per contenere lo strapotere dei funzionari Huihui. Da un lato, adattando i regolamenti di istituzioni amministrative di commercio oltreoceano, tentò di limitare la pratica dei mercanti musulmani di offrire ricchezze alla famiglia reale in cambio di laute ricompense. Dall’altro, cominciò a correggere la politica di gestione del personale e diede maggiori responsabilità finanziarie ai funzionari Han19. Ciò dimostra che l’imperatore Chengzong desiderava ridurre l’influenza dei funzionari Huihui negli affari economici dello Stato. In tale contesto politico, si giunse nel 1303 a un grande scontro tra i funzionari Huihui e l’imperatore. In quell’anno, membri di spicco della Segreteria centrale furono coinvolti in un caso di corruzione. L’imperatore Chengzong si adirò a tal punto da destituire dalle loro cariche otto funzionari Huihui in una volta20. È interessante notare che nello stesso anno uno dei primi ministri, Bayan (ԃ 丣 bo yan) perse il titolo onorifico di Sayyid (䋑‫݌‬䌸 sai dian chi), con cui veniva denominato nel prospetto dei primi ministri della dinastia Yuan prima del 1304. In precedenza, l’appellativo era stato appannaggio del nonno di Bayan ed era stato attribuito a quest’ultimo da Qubilai, in un gesto che rappresentava una speciale manifestazione di fiducia da parte dell’imperatore. Dopo quell’anno, tuttavia, il titolo onorifico non appare più nelle liste dei primi ministri21. Dal 1304 Bayan cominciò a scendere progressivamente nella gerarGao Rongsheng, «Yuan shabuding shiji suokao», cit., pp. 306-307. Yuan Shi, cit., p. 449, cap. 21. 21 Ibid., p. 2812, cap. 112. 19 20

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chia dei funzionari. Questi indizi suggeriscono che l’imperatore gli attribuisse minore considerazione rispetto al passato. In quanto figura rappresentativa dei funzionari Huihui, Bayan aveva avuto un ruolo chiave nel controllo della situazione politica. In una certa misura, l’atteggiamento del Qa’an nei confronti di Bayan fu un riflesso del suo atteggiamento verso i funzionari Huihui. Riteniamo che le restrizioni imposte ai gruppi Huihui abbiano esercitato un’influenza negativa sugli orientamenti del sovrano verso l’islam. In altri termini, la situazione politica si ripercosse sull’atteggiamento dei governanti nei confronti delle religioni. Oltre al desiderio dell’imperatore di contenere i funzionari Huihui, si dovrà tenere conto anche dell’atteggiamento dei funzionari Han. Questi si erano sempre opposti all’assunzione di esponenti Huihui per gestire le finanze e scrissero continuamente a Qubilai e a Chengzong per criticarne il comportamento. All’epoca dell’imperatore Chengzong, i funzionari Han lanciarono accuse molto gravi contro gli Huihui, incluso Bayan. Paragonarono Bayan ad Ahmad (䰓ড়侀 a he ma) o a Sengge, e avrebbero voluto che fosse ucciso a seguito di un caso di corruzione scoperto nel 130322. Le opinioni dei funzionari Han si sposavano alla perfezione con l’atteggiamento dell’imperatore Chengzong. La loro azione contribuì a controllare l’espansione del potere dei funzionari Huihui. Per tale ragione, in questo periodo la situazione politica non fu così incerta come quando Ahmad o Sengge erano al potere. Il cambiamento della politica imperiale fu probabilmente la chiave che giustifica la scomparsa dei dashmand nella classifica dei decreti per i templi. Durante il regno dell’imperatore Wuzong, poiché in precedenza i funzionari Huihui avevano preso parte a un colpo di Stato, la vigilanza che il re esercitò su di loro si inasprì. Quando l’imperatore Chengzong morì per una malattia, Ananda (䰓䲷ㄨ a nan da), re di Anxi (ᅝ㽓⥟ an xi wang), si alleò con la vedova del defunto per impossessarsi immediatamente del trono. Proclamò la sua fede nell’islam e ottenne il sostegno di funzionari Huihui come Bayan. Il loro 22 Cfr. «Wangshou zhuan» ⥟໑‫«( ڇ‬Biografia di Wang Shou»), in Yuan Shi, cit., p. 4104, cap. 176. «Liang Degui Zhuan» ṕᖋ⦾‫«( ڇ‬Biografia di Liang Degui»), in Ke Shaomin ᷃ࢁᖲ, Xin Yuan Shi ᮄ‫ܗ‬৆ (Nuova storia della dinastia Yuan), punctuated by Yu Dajun ԭ໻䟲, Jilin People’s Publishing House, Chang Chu 1995, p. 3120, cap. 207.

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piano, però, fallì. Non soltanto il nuovo imperatore, ma anche la corte imperiale e la popolazione divennero ostili verso i musulmani. Inoltre, l’imperatore Wuzong, che per anni si era occupato della difesa dei confini, non aveva dimestichezza con i funzionari del governo precedente, pertanto si affidò principalmente a propri uomini di fiducia per gestire gli affari dello Stato. Ciò costituì un oggettivo ostacolo per il ritorno dei funzionari Huihui ai vertici del potere. Il declino della loro importanza nel governo centrale giocò a svantaggio dei musulmani. Senza il sostegno di una forza politica era difficile assicurare un trattamento di favore ai rappresentanti della religione musulmana. La scomparsa dei dashmand dev’essere collegata a queste circostanze. Analizzando l’atteggiamento di Činggis Qan verso la setta Quanzhen, Yao Congwu ha sostenuto che i governanti mongoli trattarono tutte le religioni con rispetto a causa del loro credo politeista e che l’esenzione dalla corvée non può essere considerata come dimostrazione della condizione di supremazia di questa corrente23. Chen Yuan ha espresso un punto di vista analogo. Citando esempi dai registri storici della dinastia Yuan afferma infatti che per quanto riguarda le posizioni dei rappresentanti religiosi nelle celebrazioni reali, gli erke’ün si classificavano dopo i doyin e i senshing semplicemente perché il nestorianesimo era una nuova religione. Le posizioni non potevano essere considerate come segni d’onore o di perdita di favore24.

Senza dubbio, analogamente all’ordine occupato nei decreti, anche le posizioni occupate nei festeggiamenti reali non potevano provare direttamente lo status effettivo delle religioni a quell’epoca. TuttaYao Congwu ྮᕲ਒, «Chengjisi han xinren Qiu Chuji zhe jian shi duiyu baoquan zhongyuan chuantong wenhua de gongxian» ៤ঢ়ᗱ∫ֵӏϬ໘ᴎ䖭 ӊџᇍѢֱܼЁॳӴ㒳᭛࣪ⱘ䋵⤂ («La fiducia di Činggis Qan in Qiu Chuji contribuì a preservare la cultura tradizionale cinese»), Yao Congwu quanji ྮᕲ਒ܼ 䲚 (L’opera completa di Yao Congwu), Zheng Zhong Publishing House, Taibei 1982, pp. 8-12. 24 Chen Yuan 䱇൷, «Yuan yeli kewen jiao kao» ‫ܗ‬г䞠ৃ⏽ᬭ㗗 («Una ricerca testuale sulla religione Erke’ün sotto la dinastia Yuan»), in Chenyuan shixue lunzhu xuan 䱇൷৆ᅌ䂪㨫䙌 (Opere scelte di Chen Yuan), Shanghai People’s Publishing House, Shanghai 1981, p. 31. 23

186

via, in una certa misura, questi fenomeni e i loro mutamenti possono rispecchiare l’atteggiamento dei governanti nei confronti delle diverse fedi in un determinato periodo. Sia il fenomeno dei sacerdoti buddisti elencati al primo posto nei decreti, sia la scomparsa dei dashmand, manifestarono il cambiamento dei rapporti tra i sovrani e le religioni.

Appendice Tavola dei decreti suddivisa per tempio, senza i dashmand25 Anno

Nome

Testo

1295

Iscrizione del tempio Dajüe a Xingyang

៤ঢ়ᗱⱛᏱǃ᳜䈋⅍ⱛᏱ‫ⱛܜ‬Ᏹ ೷ᮼ䞠: «੠ᇮ↣ǃг䞠ৃ⏽ǃ‫ܜ‬ ⫳↣…»

1296

Iscrizione del tempio Bailin a Zhaozhou

៤ঢ়ᗱⱛᏱǃ᳜䯨⅍ⱛᏱᑩˈ㭯⽙ ⱛᏱ೷ᮼ䞠: «੠ᇮ↣ǃг䞠ৃ⏽ǃ ‫»…↣⫳ܜ‬

1296

Iscrizione del tempio Taiqing nella contea di Zhouzhi

៤ঢ়ᗱⱛᏱǃ᳜সৄⱛᏱǃ㭯⽙ ⱛᏱ೷ᮼ䞠: «੠ᇮǃг䞠ৃ⏽ǃ‫ܜ‬ ⫳↣…»

1298

Iscrizione del tempio Qilin nella ៤ঢ়ᗱⱛᏱǃ᳜স⅍ⱛᏱǃ㭯⽙ⱛ Ᏹ೷ᮼ䞠: «੠ᇮ↣ǃг䞠ৃ⏽ǃ‫ܜ‬ contea di Lingshou (decreto ⫳↣…» concesso dall’imperatore)

1298

Iscrizione del tempio Qilin nella ⱛᏱ೷ᮼ䞠: «੠ᇮǃг䞠ৃ⏽ǃ contea di Lingshou (decreto ‫»…⫳ܜ‬ concesso dall’imperatrice)

1298

Iscrizione del tempio Baoyan a Linzhou

៤ঢ়ᗱⱛᏱǃ᳜স䚟ⱛᏱǃ㭯⽙ ⱛᏱ೷ᮼ䞠: «੠ᇮǃг䞠ৃ⏽ǃ ‫»…⫳ܜ‬

1300

Iscrizione del tempio Yong ming a Pingshan

៤ঢ়ᗱⱛᏱǃ᳜স⅍ⱛᏱǃ㭯⽙ⱛ Ᏹ೷ᮼ䞠: «੠ᇮ↣ǃг䞠ৃ⏽↣ǃ ‫»…↣⫳ܜ‬

Questa tavola si basa sui decreti inclusi in Yuandai baihua bei jilu e Basiba menggu yuwen huibian ܿᗱᏈᄫ㩭স䁲᭛⥏ᔭ㎼ (Raccolta di documenti mongoli in alfabeto Phagspa), ed. by Hugjiltu ੐Ḑঢ়ࢦ೪ and Sarula 㭽བᢝ, Inner Mongolia Education Press, Hohhot 2004. 25

187

Anno

Nome

Testo

1301

Iscrizione del tempio Qilin nella contea di Lingshou

೷ᮼ䞠: ੠ᇮ↣ǃг䞠ৃ⏽ǃ‫⫳ܜ‬ ↣…

1301

Ordine imperiale dato ai buddisti nell’area di Gon-rgel

ǰiŋgis qan-u ba ökʻödeė qān-u ba sečʻen qān-u ba ǰarliq-dur doyid ėrkʻe•üd senšhiŋud aliba alba qubčʻiri ülü üǰen

1303

Iscrizione contenente il decreto ǰiŋgis qān-u qān-u sečʻen qān-u emanato dal re di Xiaoxue ėdü•e qān-u ǰarliq dur doyid ėrkʻe•üd senšhiŋud [tsʻaŋ tʻamqad-ačʻa] buši aliba alba qubčʻiri ülü üǰen…

1304

Iscrizione del tempio Ziwei a Jiyuan

1305

Iscrizione contenente il decreto ǰiŋgis qan-u ba ögedeė qan-u ba emanato dal re di Huaining sečʻen qān-u ba ǰarliq-dur doyid (cioè l’imperatore Chengzong) ėrkʻe•üd senšhiŋud aliba alba qubčʻiri ülü üǰen…

1309

Iscrizione del tempio Dajüe a Xingyang

໻೷ᮼ䞠: ੠ᇮǃг䞠ৃ⏽ǃ‫⫳ܜ‬ ↣…

1309

Iscrizione del tempio Ziwei a Jiyuan

៤ঢ়ᗱⱛᏱǃ᳜স⅍ⱛᏱǃϪ⼪ⱛ Ᏹ೷ᮼ䞠: «੠ᇮ↣ˈг䞠ৃ⏽↣ˈ ‫»…↣⫳ܜ‬

1309

Iscrizione del tempio Dajüe a Xingyang (decreto concesso dall’imperatrice)

៤ঢ়ᗱⱛᏱǃ᳜স⅍ⱛᏱǃ㭯⽙ⱛ Ᏹǃᅠ㗙䛑ⱛᏱǃⱛᏱ೷ᮼ䞠: «੠ᇮǃг䞠ৃ⏽↣ǃ‫»…↣⫳ܜ‬

1309

Iscrizione del tempio Dajüe a Xingyang (decreto concesso dal principe)

៤ঢ়ᗱⱛᏱǃ᳜স⅍ⱛᏱǃ㭯⽙ⱛ Ᏹǃᅠ㗙⾗ⱛᏱǃⱛᏱ೷ᮼ: «੠ᇮǃг䞠ৃ⏽ǃ‫»…↣⫳ܜ‬

1309

Iscrizione del tempio Chongsheng a Pingyao

៤ঢ়ᗱⱛᏱǃ᳜હৄⱛᏱǃ㭯⽙ⱛ Ᏹǃᅠ⋑プⱛᏱ೷ᮼ䞠: «੠ᇮǃг 䞠ৃ⏽ǃ‫»…↣⫳ܜ‬

1311

Iscrizione del tempio Yongming a Pingshan

៤ঢ়ᗱⱛᏱǃ᳜সৄⱛᏱǃ㭯⽙ ⱛᏱǃᅠ㗙䛑ⱛᏱǃ᳆ᕟⱛᏱ೷ ᮼ䞠: «੠ᇮ↣ḍᑩǃг䞠ৃ⏽↣ḍ ᑩǃ‫↣⫳ܜ‬ḍᑩ…»

1311

Iscrizione del tempio Chongsheng a Dali

៤ঢ়ᗱⱛᏱǃ᳜স⅍ⱛᏱǃ㭯⽙ⱛ Ᏹǃᅠ⋑プⱛᏱǃ᳆ᕟⱛᏱ೷ᮼ 䞠: «੠ᇮǃг䞠ৃ⏽ǃ‫»…⫳ܜ‬

៤ঢ়ᗱⱛᏱǃ᳜স⅍ⱛᏱǃϪ⼪ⱛ Ᏹ೷ᮼ䞠: «੠ᇮ↣ˈг䞠ৃ⏽↣ˈ ‫»…↣⫳ܜ‬

I GESUITI E MARCO POLO: «UN AUTORE DEGNO DI FIDUCIA» di Davor Antonucci

Il est cependant certain que ce Voyageur [i.e. Marco Polo], qui suivoit les Tartares Occidentaux, lorsqu’ils âchevoient la conquête de la Chine, n’a rien avancé que de vrai 1.

Esordisce con queste parole la Description géographique, historique, chronologique, politique et physique de l’Empire de la Chine et de la Tartarie Chinoise pubblicata a Parigi da Jean-Baptiste Du Halde (1674-1743) nel 1735. L’opera del gesuita francese rappresentava al tempo la summa di tutte le conoscenze sulla Cina e la Tartaria fino ad allora acquisite grazie all’apporto dei tanti missionari della Compagnia di Gesù che avevano soggiornato nell’Impero di Mezzo a cavallo tra Sei e Settecento. L’opus magnum raccoglieva e integrava relazioni, lettere, descrizioni che i missionari avevano scritto negli anni, rappresentando ciò che di meglio aveva prodotto la Compagnia su quel paese. L’opera in quattro volumi avrà un impatto decisivo e profondo sulle conoscenze del pubblico e dei dotti occidentali sulla Cina, ed è quindi estremamente significativo che, fin dalle prime battute di quest’opera ponderosa, venga riconosciuta l’assoluta affidabilità di Marco Polo. Ma è soprattutto attraverso la lettura diretta delle opere e delle lettere dei gesuiti in Cina che emerge il rapporto stretto, quasi intimo, tra i missionari e il libro di Marco Polo: ne portano con sé le 1 J.-B. Du Halde, Description géographique, historique, chronologique, politique et physique de l’Empire de la Chine et de la Tartarie Chinoise, chez P.G. Lemercier, Paris 1735, vol. I, p. 2.

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copie, ne citano con doviziosa precisione i capitoli e i passi, giungendo persino a criticarne la traduzione latina perché non fedele all’originale2. Martino Martini nel suo celebre Atlante della Cina (Novus Atlas Sinensis, Amsterdam 1655) chiama in causa il mercante veneziano ben 95 volte, quasi sempre con l’intento di dimostrare l’esattezza delle sue descrizioni dei luoghi, oppure per giustificarne inesattezze ed errori3. Tutto ciò dimostra come durante l’intera impresa della Compagnia di Gesù verso Oriente, ed in particolare in Cina – il Catai del Milione di Marco Polo –, l’opera poliana sia stata presente e viva nelle menti e negli scritti dei missionari; un bagaglio non solo ideale, cioè frutto di letture più o meno approfondite, ma quanto mai concreto, rappresentato dal libro stesso che portavano seco. Nella biblioteca gesuitica di Beitang a Pechino vi era un’apposita sezione («Relations») che raccoglieva i diari di viaggio di vari autori ed epoche e, tra gli scrittori classici, troviamo alcune copie del Milione, a testimonianza che il testo rientrava tra i desiderata dei missionari4. Il rapporto dei missionari con l’opera del veneziano 2 Così Martino Martini nel suo Novus Atlas Sinensis: cfr. M. Martini S.J., Opera Omnia, vol. III: Novus Atlas Sinensis, a cura di G. Bertuccioli, Università degli Studi di Trento, Trento 2002, p. 642. 3 Non concordo pienamente con Michele Castelnovi quando afferma che «è sicuramente vero che Martini nomina con una certa frequenza quel ‘Marco Veneto’, ma quasi sempre solo per confutare le imprecisioni e gli errori», dalla lettura dell’Atlante mi pare al contrario che Martini dia ampio credito al «Veneto»; M. Castelnovi, «Dal Libro delle Meraviglie al Novus Atlas Sinensis, una rivoluzione epistemologica: Martino Martini sostituisce Marco Polo», in L.M. Paternicò, C. von Collani, R. Scartezzini (eds.), Martino Martini: Man of Dialogue, Università degli Studi di Trento, Trento 2016, p. 304. 4 Sulle biblioteche gesuitiche in Cina si veda la monumentale opera di N. Golvers, Libraries of Western Learning for China, 3 voll., Ferdinand Verbiest Institute, Leuven 2012-2015. Nel catalogo di Verhaeren della biblioteca di Beitang l’opera di Marco Polo compare insieme ad altri racconti in raccolte come quella del Ramusio (n. 3424), e nella Historia Sinensis Persice e gemino manuscripto edita…,1689 (n. 710), o in appendice a N. Trigault, Regni Chinensis descriptio. Ex varijs Authoribus, 1639 (n. 2995), cfr. H. Verhaeren, Catalogue of the Pei-T’ang Library, Lazarist Mission Press, Peking 1949. Golvers riporta inoltre che nel 1728 era disponibile presso la medesima biblioteca una copia dell’edizione di Saragozza (1601) e un’edizione del 1671; cfr. N. Golvers, Libraries of Western Learning for China, cit., vol. 3, p. 297. Tuttavia a mio avviso le copie potrebbero essere state molte di più nel secolo precedente. Infine è interessante notare che le prime copie del Milione in Estremo Oriente furono portate da Vasco de Gama.

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non si esaurisce però con la semplice lettura, o con il riconoscimento di questo o quel luogo citato nel testo, essi lo vagliano scrupolosamente, lo «testano» letteralmente sul campo, e ne diventano infine strenui difensori di fronte ai suoi detrattori, dimostrando in più occasioni l’assoluta affidabilità del racconto poliano. Un’attenzione così sistematica ‒ e non c’è opera di gesuiti sulla Cina che non contenga qualche riferimento al testo poliano, basti ricordare che Athanasius Kircher (1602-1680) nella sua riuscitissima China Illustrata dedica un apposito capitolo al viaggio di Marco5 ‒ non sarebbe comprensibile senza sottolineare come fosse mutata nel tempo la percezione dell’Oriente nell’Europa dei secoli XVXVI. Il Catai era ormai divenuto un luogo irraggiungibile e col tempo la dimensione onirica aveva preso il sopravvento, tuttavia esso continuò a vivere nel racconto e nelle mirabilia presenti nel Devisement dou monde, ma praticamente nessuno ebbe possibilità di raccontarlo per esperienza diretta: il racconto di Marco Polo infine aveva plasmato l’immaginario collettivo europeo su quei luoghi. Non c’è quindi da meravigliarsi se, nell’afflato missionario del XVI secolo che spingeva ad Oriente sempre più religiosi, il Milione appare un punto fermo; chiunque viaggiasse verso Oriente lo conosceva, e non poteva essere altrimenti, visto che, dopo la caduta dell’Impero mongolo, le notizie sul Catai erano divenute sempre più rare e misteriose. Il testo veniva letto nei refettori religiosi e dai futuri missionari; lo stesso Francesco Saverio, l’Apostolo dell’Oriente, probabilmente lo conosceva6. Secondo Pasquale D’Elia, Matteo Ricci (1552-1610), il fondatore della Missione gesuitica in Cina insieme a Michele Ruggieri (1543-1607), aveva letto Marco Polo, probabilmente nel secondo volume della raccolta del Ramusio7. Non 5 Ovvero il cap. VI, «Iter a Marco Paulo Veneto & Haytone Armeno in Cataium sive Sinas confectum», in China monumentis qua sacris qua profanis, nec non variis naturae et artis spectaculis, aliarumque rerum memorabilium argumentis illustrata [...], Amstelodami 1667, pp. 87-90. 6 Cfr. G. Schurhammer, Francis Xavier. His Life, His Time, The Jesuit Historical Institute, Rome 1973, vol. I, pp. 251-252. 7 Cfr. P. D’Elia, Fonti Ricciane: Storia dell’introduzione del cristianesimo in Cina, Libreria dello Stato, Roma 1949, vol. II, p. 392, nota 1. Una copia del Ramusio è ancora presente nella biblioteca di Beitang, vd. nota 4.

192

di rado nelle Epistolae e negli Avvisi che venivano inviati dai religiosi in Asia e stampati in Europa vi sono rimandi al «Paulo Veneto» quale fonte imprescindibile sul Catai, ne è testimonianza, ad esempio, l’Epistola Asiatica del gesuita Manuel Nóbrega del 15528. Quando i vascelli portoghesi giunsero sulle coste cinesi all’inizio del XVI secolo, sui medesimi vascelli viaggiavano i missionari giunti nuovamente per evangelizzare l’Oriente. I primi a stabilirsi sul suolo cinese, come è noto, furono i membri della Compagnia di Gesù. L’Impero dei Ming (1368-1644), chiuso al mondo esterno, era un luogo sconosciuto agli europei tranne che per il porto di Macao, base dei traffici commerciali portoghesi, i quali chiamavano il paese «China» (o «Sina»). Inevitabilmente, agli occhi dei missionari, almeno al principio, esso era un luogo totalmente diverso dal Catai (o dal Mangi) di Marco Polo: difficile era riconoscere i nomi di luoghi registrati nel Milione con quelli del Sud della Cina. Quale era dunque il rapporto dei gesuiti col testo poliano? Cosa cercavano tra le sue pagine? Sebbene nel Milione Marco Polo affronti numerosi temi e parli di numerosi aspetti del Catai9, leggendo le lettere e le relazioni dei gesuiti appare evidente che essi si concentrino in particolare su due aspetti del racconto poliano: le descrizioni geografiche e la presenza di cristiani in Cina. 1. «Marc Polo est un auteur digne de foi» 10 La fortuna che arrise al racconto di Marco Polo nei secoli non lo ha però risparmiato dalle critiche dei suoi contemporanei, che accordavano poca fiducia alle sue storie. Le meraviglie narrate da Marco Epistolae Indicae et Iapanicae de multarum gentium ad Christi fidem, per Societatem Iesu conuersione; item de Tartarorum potentia, moribus, & totius penè Asiae religione, Apud Rutgerum Velpium, Louanij 1570. 9 Su questo argomento vd. L. Olschki, L’Asia di Marco Polo. Introduzione alla lettura e allo studio del Milione, G.C. Sansoni, Firenze 1957. 10 G. de Magalhães, Nouvelle relation de la Chine, contenant la description des particularitez les plus considerables de ce grand empire. Composée en l’année 1668, par le R.P. Gabriel de Magaillans, de la Compagnie de Jesus, mißionnaire apostolique. Et traduite du portugais en françois par le Sr B., chez Claude Barbin au Palais sur le second Perron de la Sainte Chapelle, Paris 1688, p. 168. 8

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‒ il topos degli incredibilia – come anche la sua pretesa di avere avuto un’importante posizione alla corte del «Gran Can» avevano ingenerato nei suoi confronti non pochi dubbi. Sebbene Pietro d’Abano, altro contemporaneo, lo avesse definito «maior Orbi circuitor et diligens indagator»11, e Francesco Pipino avvertisse che nel testo si trovavano «inaudita multa atque nobis insolita» che «inexperto lectori incredibilia videantur»12, venne deriso e considerato alla stregua di un millantatore13. Anche dopo la stagione delle esplorazioni nei secoli XV-XVI che aveva riportato gli occidentali in Estremo Oriente si continuava a criticarlo poiché nelle relazioni dei viaggiatori portoghesi non vi era traccia dei nomi dei luoghi (Cambalu, Quinsai ecc.) da lui così ben descritti. Allo stesso modo, non si accettava il suo silenzio su altri elementi caratteristici della Cina come la Grande Muraglia, la stampa o l’uso del tè14. In questo nuovo scenario chi meglio dei gesuiti, uomini sul campo, aveva la possibilità e la preparazione per poter dimostrare, dopo più di duecento anni, la veridicità del racconto poliano? Invero non pochi missionari si sono spesi per affermare e comprovare che Marco Polo fosse del tutto degno di fiducia. Tuttavia, è bene ricordare che quando i primi missionari del XVI secolo partivano per l’Oriente si presupponeva da parte loro un atto di fiducia nelle parole e nelle mirabilia del veneziano, non avendo questi ancora visto nulla di quella terra incognita, parole che poi pian piano venivano comprovate (o smentite) sul campo. Ad esempio il Ricci, sebbene non lo asserisse apertamente, lo teneva in grande considerazione; le energie che egli spese per l’identificazione della Cina col Catai ne sono un riconoscimento (vd. infra). Dopo di lui fu soprattutto Martino Martini (1614-1661) nel suo Atlante a sostenere in 11 Marco Polo, Il Milione, Prima edizione integrale a cura di L.F. Benedetto, L. Olschki, Firenze 1928, pp. CCXII e sgg. 12 Citato in R. Ruggieri, Marco Polo e l’Oriente francescano, Rari Nantes, Roma 1984, p. 49. 13 Sulla questione cfr. L. Olschki, L’Asia di Marco Polo, cit., pp. 124-125, che rimanda all’edizione critica di Benedetto. 14 Cfr. G.B. Baldelli Boni, Il Milione di Marco Polo: testo di lingua del secolo decimoterzo, Da’ torchi di G. Pagni, Firenze 1827, vol. I, pp. LXXIV-LXXVII. Diversi secoli dopo Frances Wood ha utilizzato le stesse motivazioni, poi puntualmente demolite, per mettere ancora in dubbio la veridicità del racconto poliano: F. Wood, Did Marco Polo Go to China?, Secker & Warburg, London 1995.

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più occasioni non solo l’infondatezza delle accuse rivolte a Marco, infatti: «non pochi hanno tentato senza alcun fondamento di accusare di falso il Veneziano, al quale dunque devono rimanere l’onore e la lode che si merita»15, ma anche di aver reso giustizia alla Serenissima «avendo liberato un suo nobilissimo patrizio dall’accusa di falsità e da altre calunnie diffuse contro di lui da accusatori che sono stati ed ancora sono degni di biasimo, perché condannano con tanta leggerezza ciò che non capiscono»16. È stata, dunque, la mancanza di conoscenza dell’argomento a mettere sulla cattiva strada i detrattori di Marco. Come se non bastasse, Martini chiama a suo sostegno l’autorità delle fonti cinesi, poiché «esse contribuiscono non poco a comprendere meglio e di più quanto è stato detto da M. Polo»17. Una difesa dunque a tutto tondo. L’opera geografica di Martini, che ebbe una così grande diffusione e un così grande successo in Europa, descriveva per la prima volta in maniera approfondita, dopo Marco Polo, l’Impero di Mezzo. L’aver ribadito a più riprese la totale affidabilità delle sue parole avrebbe potuto metter fine alla lunga querelle, tuttavia i gesuiti continuarono anche successivamente a rimarcare la credibilità del testo poliano. Pochi anni dopo lo stesso Daniello Bartoli (1608-1685), nella sua storia della Compagnia, lo difende («… a cagion dell’historia di Marco Polo, ma hoggidì provata sì ad evidenza, che non riman luogo a dubitarne»)18, ma è soprattutto con l’opera del gesuita portoghese Gabriel de Magalhães (1610-1677) che la difesa assume una forma compiuta e articolata. Nella Nouvelle relation de la Chine il gesuita enumera cinque prove che dimostrerebbero in maniera definitiva la correttezza del racconto di Marco Polo. In primo luogo dimostra come i nomi delle città del Milione corrispondano effettivamente a quelle della Cina riportando una serie di esempi, tuttavia osserva come molti nomi siano cambiati ed altri non siano neanche cinesi, cosa che ha causato non pochi malintesi19. La seconda prova riguarda M. Martini, Novus Atlas Sinensis, cit., p. 657. Ibid., p. 814. 17 Ibid., p. 841. 18 D. Bartoli, Dell’historia della Compagnia di Giesu: la Cina terza parte dell’Asia, nella stamperia del Varese, Roma 1663, p. 88. Il Bartoli cita in molte occasioni Marco Polo, di cui sostiene l’affidabilità. 19 G. de Magalhães, Nouvelle relation de la Chine, cit., pp. 10-11. 15 16

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Pechino (la «Cambalu» del Milione) e il palazzo dell’imperatore, «puisque presque tout ce qu’il en dit est conforme à ce que nous voyons encore aujourd’hui»20. La terza prova riguarda il carbon fossile, le «pietre nere che ardono» di Marco21, sconosciuto in Occidente ai tempi, ma molto usato in Cina tanto per le stufe che per cuocere e scaldare l’acqua per lavarsi22. La quarta prova tratta della descrizione del famoso ponte nei pressi di Pechino, il cui fiume è chiamato nel Milione «Pulisanghinz», che Magalhães, come altri gesuiti prima di lui, identificano con il ponte Lugou qiao ⲻ⑱‟23. La quinta prova è che Marco parla dei due più importanti fiumi della Cina ovvero il Fiume Giallo e il Fiume Azzurro (dai missionari chiamato erroneamente «Figlio del mare»)24, e anche dell’importante città di Quinsai (ovvero Hangzhou), sulla quale dà molte notizie «qui toutes sont très véritables, à la réserve de quelques exagérations»25. In ogni caso, conclude Magalhães, se con la descrizione di Cambalu si dimostrava che il Catai era una parte della Cina, con Quinsai si provava che il Mangi di Marco Polo era un’altra parte dello stesso impero perché «a plupart de ce qu’il raconte, est entièrement conforme à ce que nous en voyons de nos propres yeux»26. Ecco quindi che i posti meravigliosi descritti da Marco assumono col tempo i contorni precisi di luoghi reali, proprio perché osservati tramite l’esperienza autoptica diretta dei missionari. Infine, come ricordato in precedenza, il riconoscimento definitivo dell’attendibilità del Milione avviene nelle prime battute della Description di Du Halde, summa delle conoscenze sulla Cina e testo di riferimento per tutto il Settecento e oltre. Da notare che il gesuita franIbid., p. 11. Cfr. il cap. CIII dell’edizione critica di Benedetto (Marco Polo, Il Milione, cit., p. 99). 22 G. de Magalhães, Nouvelle relation de la Chine, cit., pp. 12-13. Matteo Ricci fu uno dei primi a riportare l’attenzione sul carbon fossile; cfr. P. D’Elia, Fonti Ricciane, cit., vol. I, p. 24. Sul carbon fossile vd. anche L. Olschki, L’Asia di Marco Polo, cit., pp. 165-166. 23 G. de Magalhães, Nouvelle relation de la Chine, cit., pp. 13-18. Tra gli altri, Martini ne parla nel suo Atlante (Novus Atlas Sinensis, cit., pp. 350-351). 24 Su questo equivoco cfr. G. Bertuccioli, in M. Martini, Novus Atlas Sinensis, cit., p. 316, nota 82. 25 G. de Magalhães, Nouvelle relation de la Chine, cit., p. 19. 26 Ibidem. 20 21

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cese riprendeva, cambiandola leggermente, l’affermazione di un suo confratello, Jean-Baptiste Régis (1663-1738), che asseriva in un suo testo rimasto manoscritto che «Il est cependant maintenant certain que ce noble venitien disait vrai…»27. Régis, missionario in Cina, l’aveva percorsa in lungo e largo come membro di quel grande progetto di mappatura dell’Impero che Kangxi (r. 1661-1720) aveva affidato ai gesuiti; per tale ragione poteva ben sostenere che «On peut aisément le reconnòître dans ce qu’il rapporte de certaines Villes, qui subsistent encore telles qu’il les a décrites, et quelques fois dans le nom mesme»28. Il motivo, continua Régis (e con lui Du Halde), è dovuto in parte alla diversità della lingua tartara ed in parte alla corruzione dei nomi pronunciati dagli stranieri. Ecco dunque svelato uno degli interrogativi che più avevano occupato i detrattori di Marco: la non corrispondenza dei toponimi del Milione con quelli della Cina del tempo. Uno degli aspetti che più hanno impegnato i gesuiti nella lettura del Milione riguarda appunto i toponimi e il loro riconoscimento e identificazione, aspetto che parve fin da subito legato alla lingua. Inizialmente, infatti, era difficile poter associare i nomi del Milione con quelli della Cina: già il Ricci aveva osservato che, essendo i portoghesi giunti nel Sud del paese, la chiamavano China e la sua capitale Pechino; questi termini apparivano così diversi dal Catai e Cambalu dei Polo, che i geografi ne avevano concluso fossero due paesi diversi29. Successivamente altri gesuiti si adoperarono per svelare un mistero che poteva essere chiarito solo da chi avesse avuto una conoscenza approfondita della lingua cinese e del paese. Sulla scia di Ricci, il primo a intuire che probabilmente i termini usati da Marco non provenivano dal cinese, Martini non esita a chiarire al suo lettore che spesso si è indotti in errore poiché egli «ha cambiato la dizione dei nomi secondo la pronuncia dei Tartari, poiché questi non li pronunciavano affatto alla maniera cinese»30; in aggiunta J.-B. Régis, Nouvelle géographie de la Chine et de la Tartarie orientale, Bibliothèque nationale de France, ms. fr. 17242, f. 50r. Tutto il passo su Marco Polo di Du Halde è ripreso integralmente con lievi variazioni dal manoscritto di Régis. 28 Ibidem. 29 P. D’Elia, Fonti Ricciane, cit., vol. II, p. 28. 30 M. Martini, Novus Atlas Sinensis, cit., p. 657. 27

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Martini sostiene che Marco non conoscesse affatto la lingua e i caratteri cinesi31. Anche Magalhães, che all’inizio della sua opera si dilunga molto nello spiegare come differenti pronunce abbiano indotto gli stranieri ad attribuire i nomi più diversi alla Cina, sottolinea in particolare come la pronuncia corrotta di Marco Polo abbia portato fuori strada i suoi lettori. A sostegno di ciò presenta molti esempi a partire dalla spiegazione dell’errata resa poliana di Cambalu (che, secondo il gesuita, in base alla pronuncia tartara avrebbe dovuto scriversi «Hanpalu»)32, per proseguire poi con quella di Mangi: qui Marco avrebbe confuso un epiteto spregiativo (Manzi 㸏ᄤ = barbari del Sud, pronunciato Mangi dai Tartari), attribuito ai Cinesi del Sud dai Tartari della dinastia mongola Yuan, col nome di un regno, questo perché secondo il missionario «Marco Polo essendo uno straniero non riusciva a comprendere perfettamente la forza della lingua, e sentiva così spesso i Tartari chiamare i Cinesi del Sud Mangi, che pensava fosse il nome del regno e della nazione, e non un insulto»33. 2. Il Catai e i cristiani sperduti La varietà di nomi per indicare la Cina aveva dunque ingenerato grande confusione, che, unita alla mancanza di notizie, aveva fatto sorgere il dubbio che la Cina e il Catai di Marco Polo fossero due luoghi distinti. A questa confusione pose rimedio Matteo Ricci. Indubbiamente l’identificazione del Catai con la Cina dei Ming fu uno dei risultati più importanti ottenuti dai gesuiti a cavallo tra Cinque e Seicento; occorsero diversi anni a Ricci per provare i suoi sospetti, il primo riferimento risale al 1595. Durante il suo primo 31 Ibid., p. 814. Martini, a sottolineare la non conoscenza del cinese di Marco, afferma ancora: «Che M. Polo scriva Un invece di Iun non deve meravigliare affatto, perché non c’è nessun carattere cinese che suoni così», sullo stesso tema vd. anche pp. 643, 703. 32 G. de Magalhães, Nouvelle relation de la Chine, cit., p. 6. 33 Ibid., p. 8: «C’était sans doute la même chose au temps de Marc Polo, qui étant étranger ne pouvait pas entendre parfaitement la force de la langue, & qui entendant si souvent les Tartares appeler les Chinois du Midi Mangi, crût que c’était le nom du royaume & de la nation, & non pas une injure».

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soggiorno a Pechino, nel 1598, alcuni mercanti musulmani gli riferirono che la Cina era il Catai e che Pechino era Cambalu34; lo stesso avvenne in seguito durante il suo secondo soggiorno a Pechino (1601) quando altri mercanti musulmani «dichiararono anco più chiaramente esser la Cina il Cataio e quella città di Pacchino il Cambalù»35. Infine, grazie al lungo viaggio (1603-1607) del confratello Bento de Góis (1562-1607), che partito da Agra nell’Impero Moghul tentò di raggiungere il Catai, giungendo invece fino a «Suchou» ai confini occidentali dell’Impero cinese, Ricci ebbe la prova finale delle sue supposizioni, riuscendo a dimostrare che il Catai di Marco Polo era proprio la «Sina/China» dei portoghesi, ovvero l’Impero dei Ming. Grazie agli sforzi di Ricci e dei suoi confratelli non solo il «Cathay [...] finally […] disappear[ed] from view, leaving China only in the mouths and minds of men»36, ma egli fornì l’Occidente di descrizioni dettagliate di vari aspetti della civiltà cinese aggiornando un bagaglio di conoscenze fermo ai tempi di Marco Polo37. Una volta stabilita la corrispondenza tra Catai e Cina dei Ming, anche la percezione e l’uso del Milione tra i missionari ne risentono: esso diventa se non una guida, quantomeno una fonte cui attingere, e soprattutto da verificare tramite il confronto oggettivo della visita in loco che spesso risulta essere, come si ricordava poc’anzi, «interamente in accordo con ciò che vediamo con i nostri occhi»38. Già Ricci aveva iniziato l’opera di riconoscimento dei toponimi poliani con quelli della Cina partendo da Cambalu/Pacchino, anche se sottolineava, che questa non aveva il milione di ponti descritti da Marco, commettendo tuttavia un errore poiché questi si riferiva in realtà ad Hangzhou39. Nella sua opera geografica, il Novus Atlas Si34 P. D’Elia, Fonti Ricciane, cit., vol. II, pp. 26-27; vd. anche la lettera indirizzata da Ricci al preposito generale Claudio Acquaviva l’8 marzo 1608 da Pechino (M. Ricci, Lettere, a cura di F. D’Arelli, Quodlibet, Macerata 2001, p. 474). 35 P. D’Elia, Fonti Ricciane, cit., vol. II, p. 142. 36 H. Yule, Cathay and the Way Thither, Being a Collection of Medieval Notices of China, Printed for the Hakluyt Society, London 1866, vol. II, p. 530. 37 Cfr. A. Tamburello, «La Cina. Dall’eredità poliana a quella di Matteo Ricci», in Italia-Cina, un incontro di lunga durata: rapporti storico-politici, geoeconomici, culturali, a cura di L. Viganoni, Tiellemedia, Roma 2008, pp. 77-92. 38 Vd. nota 26. 39 P. D’Elia, Fonti Ricciane, cit., vol. II, p. 143.

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nensis, Martini interroga frequentemente il Milione, si dilunga spesso nelle spiegazioni e comparazioni col testo poliano di cui cita paragrafi o riporta interi passi; il missionario trentino non solo è il primo a identificare un gran numero di toponimi del Milione, ma ritiene utile aggiungere dettagli «per migliorare la comprensione dell’opera di Marco Polo veneziano»40. Se per Martini il Milione è una valida fonte, è comunque da escludere, come afferma Castelnovi, che «abbia attinto da Marco Polo qualche singolo elemento per tracciare la sua cartografia sinensis dell’Asia Estrema»41, infatti per sua stessa ammissione egli si basò principalmente su opere in lingua cinese. Interrogando il testo poliano, però, egli contribuisce a dirimere alcune incomprensioni che a suo dire, come accennato poco sopra, erano state causa di molti errori, spesso per non aver compreso affatto quanto scritto da Marco42, soprattutto da parte di chi parlava senza conoscere l’argomento. La lettura approfondita del Milione porta Martini anche ad avanzare delle ipotesi, come quando sostiene che Marco sia entrato in Cina al seguito dei Tartari non dal Nord, ma dalle province meridionali, motivo che giustificherebbe, secondo Martini, la mancata descrizione della Grande Muraglia43. Allo stesso modo Magalhães, nell’opera citata, dedica diverse pagine al riconoscimento dei toponimi «corrotti» presenti nel testo poliano, che egli contribuisce a disvelare, poiché spesso sono così cambiati che non solo non sono cinesi, ma non hanno alcuna relazione con questa lingua44. Nella dialettica tra i gesuiti in Cina e il testo poliano, non minor spazio è riservato agli «errori» che i gesuiti credono Marco abbia commesso nel suo racconto e che ritengono di dover emendare, se non giustificare. Questi riguardano non soltanto inesattezze su località cinesi, come scrivevano tanto Martini quanto Magalhães, ma gli vengono attribuiti, in questo caso da Antoine Gaubil (1689M. Martini, Novus Atlas Sinensis, cit., p. 586. M. Castelnovi, Il primo atlante dell’Impero di Mezzo: il contributo di Martino Martini alla conoscenza geografica della Cina, Centro studi Martino Martini, Trento 2012, p. 25. 42 M. Martini, Novus Atlas Sinensis, cit., p. 339. 43 Ibid., pp. 587, 837. 44 G. de Magalhães, Nouvelle relation de la Chine, cit., p. 11 «… dont les noms sont tellement changés, que non seulement ils ne sont pas chinois, mais que même ils n’ont aucun rapport à cette langue». 40 41

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1759), autore di una storia dei Mongoli da Činggis Qan alla dinastia Yuan, anche errori su titoli della burocrazia, date di battaglie, sul numero delle mogli di Qubilai Qan45 ecc. Tra i vari esempi possibili mi soffermo su due in particolare: i leoni e la carta moneta. Il leone è un animale di cui Marco fa diverse volte menzione nel suo racconto, non ultimo ne vide anche alla corte del «Gran Can»46; una delle critiche che spesso ricorrono nelle fonti gesuitiche è proprio verso l’abbaglio preso dal veneziano. Se Ricci riferisce soltanto che «non vi sono leoni, ma soltanto tigri»47, Martini sembra conscio che Marco si trovò spesso di fronte cose esotiche a lui ignote e lo giustifica utilizzando l’artificio della catechresis 48, ovvero ipotizzando che Marco avrebbe fatto ricorso a parole e concetti noti per indicare qualcosa di sconosciuto, in questo caso usando il nome «leoni» per le tigri. Ecco quindi che Marco cade in errore «quando prese le tigri per leoni, che qui, come del resto in quasi tutta l’Asia, non si trovano proprio»49. Anche Magalhães ritiene che il veneziano abbia confuso i due animali, e lo deduce dal fatto che egli descriva i leoni con strisce bianche, nere e rosse e più grandi di quelli di Babilonia50, cosa che si adatta perfettamente a tigri o leopardi che in effetti venivano di norma usati per la caccia dai principi dell’Asia51. Magalhães riprende Marco anche per l’affermazione sull’uso della carta moneta52. Infatti, secondo il missionario nelle fonti cinesi non vi è traccia di questo metodo di pagamento, ma poiché «Marc Polo 45 A. Gaubil, Histoire de Gentchiscan et de toute la dynastie des Mongous, ses successeurs, conquérans de la Chine [...], chez Briasson et Piget, Paris 1739, p. 171, nota 4, p. 207, nota 2, p. 238, nota 1. 46 Cfr. il cap. XCII dell’edizione critica di Benedetto (Marco Polo, Il Milione, cit., p. 85). 47 P. D’Elia, Fonti Ricciane, cit., vol. I, p. 20. Sull’argomento, si veda anche il saggio di Hans Ulrich Vogel nel presente volume. 48 M. Martini, Novus Atlas Sinensis, cit., p. 646. Sullo stesso argomento vd. M. Castelnovi, «Dal Libro delle Meraviglie al Novus Atlas Sinensis», cit., pp. 314-315; L. Olschki, L’Asia di Marco Polo, cit., pp. 150-152. 49 M. Martini, Novus Atlas Sinensis, cit., p. 641. 50 Cfr. il cap. XCII dell’edizione critica di Benedetto (Marco Polo, Il Milione, cit., p. 85). 51 G. de Magalhães, Nouvelle relation de la Chine, cit., p. 11. 52 Sul tema della carta moneta nel Milione vd. H.U. Vogel, Marco Polo Was in China. New Evidence from Currencies, Salts and Revenues, Brill, Leiden-Boston 2013, pp. 88-226.

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est un auteur digne de foi»53, egli ritiene di dover fornire una lunga spiegazione sul motivo di tale errore che deriverebbe, stando a Magalhães, dall’uso di soldi di carta bruciati per i defunti, o da una sorta di note di credito che nei tempi passati gli imperatori usavano quando erano a corto di denaro54. In realtà i Mongoli introdussero l’utilizzo della carta moneta, ma questa poi venne successivamente abbandonata55, quindi Marco Polo non era in errore. Altre volte al veneziano sono attribuite semplicemente esagerazioni, come ad esempio quella relativa ai dodicimila ponti che si troverebbero a Quinsai/Hangzhou, di cui Martini dice non discostarsi troppo dalla realtà, se si contano anche gli archi di trionfo56: questa iperbole poteva essere attribuita, per Magalhães, ad un peccato di gioventù «qui comme un jeune homme qu’il était, a amplifié les choses beaucoup au-delà de la vérité»57. Altrove ciò che ha detto Marco semplicemente non può essere confermato dato che i padri non lo hanno visto di persona, come ad esempio i miraggi diabolici e le apparizioni che il veneziano riferisce riguardo al deserto di Lop («de quo tamen nihil nostri Patres memorant»)58. Il riconoscimento dei luoghi descritti nel Milione, ci sembra di capire, non era un’operazione solamente fine a se stessa: va rammentato infatti che Marco aveva parlato in più occasioni di presenze cristiane nel Catai59, vale a dire dei nestoriani, di cui si trova menzione già nell’Epistola Asiatica del 155260. Prima e dopo i Polo, i francescani avevano introdotto il cattolicesimo in Cina e riferito di un certo numero di conversioni, ma pare si trattasse soprattutto di Mongoli e Onguti, mentre scarsi erano i convertiti cinesi61. Nell’ottica delVd. nota 10. G. de Magalhães, Nouvelle relation de la Chine, cit., pp. 168-171. 55 Vd. nota 52. 56 M. Martini, Novus Atlas Sinensis, cit., p. 641. Vd. anche A.C. Moule, Quinsai with Other Notes on Marco Polo, Cambridge University Press, Cambridge 1957. 57 G. de Magalhães, Nouvelle relation de la Chine, cit., p. 22. 58 Da una lettera di J. Grueber in J. Carlieri, Notizie varie dell’imperio della China e di qualche altro paese adiacente […], Firenze 1697, p. 105. 59 Cfr. L. Olschki, L’Asia di Marco Polo, cit., pp. 209 e sgg. 60 Vd. nota 8. 61 P. D’Elia, Fonti Ricciane, cit., vol. I, pp. LXXVI-LXXXII. 53 54

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l’impresa missionaria in Cina, trovare questi cristiani aveva una grande valenza ideologica, che non solo ne giustificava lo sforzo, ma dimostrava che i Cinesi avevano già da tempo conosciuto la dottrina cristiana. All’inizio l’interesse dei gesuiti si focalizzò sul Catai di Marco proprio perché esso era connesso con la ricerca di quei cristiani perduti nell’Asia estrema, in modo da poter «agiutar quei christiani se forsi gli mancasse qualche cosa della Fede cattolica»62. Quindi, fu per trovare dove fosse situato il Catai, e poter così dare aiuto ed assistenza spirituale a quei cristiani, che Bento de Góis compì il suo viaggio. Dopo l’identificazione tra Catai e Cina, e dopo il ritrovamento (1625) della stele nestoriana di Xi’an, i gesuiti si dedicarono soprattutto a dimostrare che la presenza cristiana in Cina risaliva a ben prima del loro arrivo. Diversi anni dopo la morte di Ricci, il gesuita portoghese Alvaro Semedo (1585-1658) nella sua lunga relazione sulla Cina intitolata Imperio de la China ha utilizzato Marco Polo come una delle sue fonti per dimostrare la presenza di cristiani in Cina durante l’Impero mongolo, ricordando che Paulo Veneto, tratando las cosas de allà (adonde es, cierto que anduvo largos dias, en los del Tartaro) assegura aver entonces muchos Christianos en aquel Imperio, con suntuosos Templos; i nombra las ciudades en que estavan. El escriviò con verdad; porque de lo que apunta permanecen oy muchas cosas, i de otras las ruinas63.

Lo stesso fa Martini in una lettera del 165564. Martini parla ancora dei cristiani nella Zarte di Marco Polo dimostrati dal ritrovamento di lapidi e croci cristiane, mentre Kircher ricorda come il veneziano sia stato testimone della fioritura del cristianesimo al tempo dei Mongoli «ita Crucis quoque venerationem et usum maxime floruisse, αὐτόπτης ipse testatur»65.

Ibid., vol. II, pp. 394-395. A. Semedo, Imperio de la China i la cultura evangelica en él, publicado por Manuel de Faria i Sousa, Madrid 1642, p. 217. 64 M. Martini S.J., Opera Omnia, vol. I, Lettere e documenti, a cura di G.G. Bertuccioli, Università degli Studi, Trento 1998, p. 293. 65 A. Kircher, China […] illustrata, cit., p. 36. 62 63

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Per i gesuiti la Cina non è più il luogo esotico e delle mirabilia di Marco Polo, ma un luogo reale e concreto, in virtù dell’opera di diffusione della fede cristiana. Il mondo onirico in cui era avvolta la Cina si è finalmente concretizzato, è divenuto luogo da percorrere e calpestare per raggiungere città e villaggi reali dove stabilire missioni, residenze, chiese; di qui anche la necessità del ritorno alla realtà. Marco Polo aveva avuto il grande merito di aver parlato per primo del Catai e dei suoi cristiani, ricorrendo certo ad iperboli, alla catacresi, spesso con l’intento di meravigliare i suoi lettori, secondo i canoni della letteratura odeporica del tempo; nella nuova situazione in cui vennero ad operare i gesuiti, invece, si richiedeva concretezza e precisione. Occorrevano informazioni utili a rappresentare in maniera puntuale la grandezza dell’Impero cinese, nella sua dimensione spaziale ma anche culturale, e, contestualmente, la grandezza dell’impresa missionaria. Il Milione era ancora una fonte riconosciuta e rispettata dai gesuiti, ma non poteva più assolvere il compito di punto di riferimento per i missionari del XVII secolo che, con la loro preparazione scientifica e con il loro bagaglio di conoscenze sulla Cina, acquisite tramite il ricorso alle fonti cinesi e all’esperienza dei tanti anni passati sul campo, si impongono come eredi e successori di Marco Polo nel restituire al mondo occidentale una nuova immagine della Cina, che divenne il nuovo punto di riferimento, reale e dettagliato, per i secoli successivi.

INDICE DEI NOMI

Abaga: vedi Abaqa Abaqā: vedi Abaqa Abaqa Qan/Khan/Khān (Abaqā, Abaga, Abaγa), 86, 94, 97, 153, 155, 158, 172 Abaγa: vedi Abaqa Abu Ali, 97 Abū Ishāq, 104 Abū ‘Ubayd al-Bakrī (El-Bekri), 144 Acmat, 153, 154n Acquaviva, C., 198n Adolfo di Nassau, 171 Agostino di Ippona, 87n Ahmad, 184 Ahmad, S. Maqbul, 169n Ahmad b. Muhammad Quds, 103 Akasaka Tsuneaki, 165n Alānqūā, 166 Ala’ ud-din, 105 Alberto I d’Asburgo, 170-172 Alberto Magno, 143 Albertus Caesar: vedi Alberto I d’Asburgo Albirṭūs Qaysar: vedi Alberto I d’Asburgo al-Damīrī (o Al-Damîrî = Kamāl alDīn Muḥammad ibn Mūsā al-Damīrī), 141n al-Djāḥiẓ (o al-Jāḥiẓ, laqab di Abū ʿUthmān ʿAmr ibn Baḥr al-Kinānī alFuqaymī al-Baṣrī), 141n Alessandro III, papa, 146 Alessandro Magno, 142

Alexandre de Bernay, 142 al-Ibshīshī (= Bahā al-Dīn Abu ’l-Fatḥ Muḥammad b. Aḥmad b. Manṣūr), 141n al-Kazwīnī (o al-Qazvin = Abū Yaḥyā Zakariyyāʾ ibn Muḥammad al-Qazwīnī), 141n Allsen, T.T., 54, 60, 127n, 164n al-Masʿūdī, 169n Ananda, 184 Anaxilaus, 139 Andrea da Perugia, 28 Andrea di Longjumeau, 10 Andreose, A., 27n, 33n, 36n-41n, 45n, 54n, 122n, 124n, 125n, 149n, 158n An Jia, 15 An Lushan, 14, 17 Anrīkūs: vedi Enrico VI di Svevia An Sabao, 16 An Shigao, 18 Ardashīr Bābakān, 166 Arghun: vedi Arγun Arγun (Argon, Arggun, Argun) Qan/ Khan, 39, 102, 150-153, 154n, 155157, 160 Argon: vedi Arγun Aristotele, 132 Ascelino, 10, 28 Aṭulfus Qaysar: vedi Adolfo di Nassau Atwood, C.P., 155n Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano, 170 Auhad al-Dīn, 104

206 Bacone, Ruggero, 34 Baidu, 153 Baiǰu, 28 Baker, C., 142n Baldelli Boni, G.B., 193n Balibar, É., 75n Banks, S.E., 142n Bankū: vedi Pangu Barbieri, A., 33n, 37n, 39n, 78n, 81n, 87n, 137n Barchiesi, A., 138n Barenghi, M., 74n Barfield, T.J., 87n, 88n Barillari, S.M., 146n Barja López, A., 136n Barth, F., 92n Bartoli, Daniello, 194 Bayan, 183, 184 Beckingham, C.F., 104 Benedetto XI, papa, 170, 171 Benedetto, L.F., 36n-39n, 129n, 193n, 195n, 200n Benedetto Polono, 29, 32 Beniamino, 166 Bennett, J.W., 44n Berend, N., 87n, 89n, 90n Bertolucci Pizzorusso, V., 37n-39n, 41n, 53n, 73n, 76, 78n, 82n, 95n, 125n, 127, 129n, 134n, 135n Bertuccioli, G., 190n, 195n, 202n Bianchi, C., 137n, 143n Bianchi, T., 137n, 143n Biha al-Din Umar b. Ahmad al-Ami Tabrizi, 103 Binbaş, İ.E., 165n Biniṭikṭūs: vedi Benedetto XI Binns, J.W., 142n Birge, B., 154n Bisang, W., 15n Biyāmīn: vedi Beniamino Blois, F. de, 15n Bolod: vedi Bulad Chengxiang Bologna, C., 135n Bonfantini, M., 133n Bonifacio VIII, papa, 173 Boomgard, P., 61n Borlandi, F., 38n, 79n

Borriero, G., 39n Bosworth, C.E., 141n Bottin, F., 28n Bouloux, N., 28n Boyle, J.A., 150-152, 161, 163n, 169n, 173n Bregel, Y.E., 165n Bremer, E., 44n Bretschneider, E., 101 Browne, C., 132n Buka Elchi (Nuqāy īlchī), 98, 99 (vedi anche Noqai) Bulad Chengxiang (Bu-luo, Bu-lo, Bolod, Pulad, Pulād, Po-lo, Pu-lo), 101, 102 Bulughan Khatun, la giovane, 155 Bulughan Khatun, la vecchia, 155, 159, 160 Bu-luo, Bu-lo: vedi Bulad Chengxiang Buraqajin, 177 Burgio, E., 42n, 48n, 74n, 79n, 127n, 133n, 137n, 145n, 146n, 157n Burhān al-Dīn, 104 Busi, G., 36n Cadioli, A., 38n Čaγatai (Chaghatāy, Chagatai), 86, 166 Cai Meibiao, 175, 176n Cai Tao, 143n Calvino, I., 74n, 83n Cameron, J., 143n, 144n Canestrini, D., 133n Cao Yanlu, 18 Cao Yuanzhong, 18 Capuano, Pietro, 142 Cardona, G.R., 53n, 73n, 95n, 125n, 135n Carlieri, J., 201n Castelnovi, M., 190n, 199, 200n Cavallo, G., 26n Cella, G.P., 92n Chagatai: vedi Čaγatai Chaghatāy: vedi Čaγatai Chen Dasheng, 103 Chen Dezhi, 113n, 120, 126n Chen Enming, 103 Chen Gaohua, 97n, 106n, 124n

207 Chen Huaiyu, 22n Cheng Minsheng, 66n, 69n Chengzong, 97, 181-184, 187 Chen Yuan, 177n, 185 Chiesa, P., 27n, 32n-35n, 38n, 40n, 42n Christian, D., 88n Činggis Qan (Gengis Khan, Genghis Khan, Jīnkkīz Khān), 30, 86, 112, 128, 163, 166, 167, 176-178, 180, 181, 185, 200 Clark, H.R., 87n Cleaves, F.W., 96n, 150, 173n Coia (Khwaja), 150, 152, 159, 160 Collani, C. von, 190n Collier, V.W.F., 68 Colombo, Cristoforo, 26n Consolino, F.E., 136n Constable, C., 89n, 91 Conte, G.B., 138n Conte, S., 38n, 41n, 136n, 151n Contini, G., 142n Cordier, H., 54n, 95n, 109n, 118n Cosgrove, D., 80n Courteille, P. de, 169n Cristoforetti, S., 79n Çurficar (Çulficar), 134, 136n Curta, F., 91n Daffinà, P., 29n Dan, A., 28n Dang Baohai, 57n D’Arelli, F., 198n Dawson, C., 108n De Biasio, A., 122 Defremery, C., 104 D’Elia, P., 191, 195n, 196n, 198n, 200n, 201n Deluz, C., 44n, 45n Di Cosmo, N., 14n, 87n, 112n Di Febo, M., 27n di Gennaro, F., 144n Dionisio, papa, 170, 171 Dioscoride, 131n Dīūnisīūs: vedi Dionisio Doar, B., 16n Donzel, E.J. van, 141n Dörrie, G., 28n

Dowson, J., 98n Drège, J.-P., 22n Duan Zhijian, 180n Dūbūn Bāyān, 166 Ducos, J., 28n Du Halde, J.-B., 189, 195, 196 Dupont-Ferrier, G., 80n Dutschke, C.W., 76n Elliot, H.M., 98n Enrico VI di Svevia, 172 Enrico di Glatz, 40n Erodoto, 135n Ertzdorff, X. von, 37n Eshil, 159, 160 Eusebi, M., 36n, 49n, 74n, 95n, 125n, 133n, 156n Evangelisti, P., 43n Facfur, 77n Fakhr al-Dīn Aḥmad: vedi Malik Mu’azzam Fakhru-d din Ahmad Farinelli, F., 73n, 74n, 78n, 80n, 91n Farquhar, D.M., 79n Faucon, J.-C., 132n Faxian, 18, 19 Febvre, L., 85n, 90, 91n Ferdinando I di Castiglia, 144 Foucault, M., 135n Foucher, M., 90n Francesconi, G., 89n Frank, A.J., 112n Franke, H., 163n Franklin, B., 132n Fuchs, W., 21n Fukumoto Naoyuki, 132n Funada Yoshiyuki, 175n Gadrat, C.: vedi Gadrat-Ouerfelli, C. Gadrat-Ouerfelli, C., 26n, 28n, 38n, 42n, 110n Gaikhatu (Quiacatu), 150-161 Gallieno, Publio Licinio Egnazio, 171 Gama, Vasco de, 190n Gan Ying, 20 Gao Rongsheng, 105n, 112n, 181n, 183n

208 Gao Xin, 135n Gaozong, 15, 145 Gaubil, A., 199, 200n Gaunt, S., 92n, 132n Ge Hong, 143n Genghis Khan: vedi Činggis Qan Gengis Khan: vedi Činggis Qan Gervasio di Tilbury, 142 Ghāzān: vedi Ghazan Ghazan (Caçan, Ghāzān) Qan/Khan, 97-100, 151-162, 166, 170, 173 Ghutub Allah Ya’qub b. al-krm Allah b. Haji Jajarm, 103 Gibb, H.A.R., 104 Giordano da Sévérac: vedi Jordan Catala de Sévérac Giovanni da Montecorvino, 10, 28, 107 Giovanni da (di) Pian di Carpine (del Carpine), 10, 29-33, 35, 36, 39, 41, 42, 115 Giuliano d’Ungheria, 27 Giunipero, E., 11 Góis, Bento de, 198, 202 Golden, P.B., 112n Golvers, N., 190n Gosset, 34 Gregori, E., 37n Grueber, J., 201n Guénée, B., 89n Guéret-Laferté, M., 26n Guglielmo da (di) Rubrouck, 10, 3235, 42, 115 Guglielmo da Solagna, 40, 41 Guglielmo di Rubruck (Rubruk): vedi Guglielmo da Rubrouck Gurevič, A.J., 91 Güyük, 29 Guzman, G.G., 28n Haiyun, 178 Hallberg, I., 79 Halleux, R., 131n, 142n Hambis, L., 73n Hao Shiyuan, 182n Harano Noboru, 132n Haubrichs, W., 85n Haw, S.G., 50n, 115, 131n

Heinrichs, W.P., 141n Henricus: vedi Enrico VI di Svevia Henriet, P., 28n Higgins, I.M., 45n Hintze, A., 15n Hirth, F., 112n Hoffmann, H., 145n Holt, P.M., 169n Honda Minobu, 159n Ho Yung-chi, 116n Huan (Han Huandi), 138n Huang Hongzhao, 63 Huang Jin, 99n, 100n Huang Qinghua, 107n Huang Shijian, 20n, 151, 152 Huang Wei, 107n Hu-er-du-da, 101 Hugjiltu, 186 Huichao, 21 Hulaku Khan: vedi Hülegü Hülegü Khan, 98 Hung Chin-fu, 128n Hutchinson, J., 92n Ibn Battuta, 104, 110 Ibn Khallikān (= Shams al-Dīn Abū l-ʿAbbās Ahmad Ibn Muhammad Ibn Khallikān), 141n Ibn Khurdādhbih, 23 Iida Shotaro, 21n Infurna, M., 142n Innocenzo IV, papa, 29 Isidoro da Siviglia, 139, 140 Iwańczak, W., 87n Jackson, P., 32n Jahn, K., 163n, 164n, 169n, 170n, 172n, 173 Jamalu-d din, 98 Jan Yün-hua, 18n, 21n Jean le Long d’Ypres, 45 Jicong, 18 Jīnkkīz Khān: vedi Gengis Khan Jorach, 144 Jordan Catala de Sévérac (Giordano da Sévérac), 109, 110 Jūjī (Joči), 166

209 Kalīānūs: vedi Gallieno, Publio Licinio Egnazio Kamāl al-Dīn ‘Abdallāh, 104 Kang Aili, 63, 65 Kang Weiyiluoshi, 21, 22 Kangxi, 196n Karatay, F.E., 165n Kauz, R., 96n Ke Shaomin, 184 Khawāja ‘Ala’ al-Dīn b. Khawāja Shams al-Dīn Isfahānī, 104 Khawāja Mahmūd b. Muhammad b. Jamāl al-Dīn Qāsim (?) al-Khurasānī, 104 Khubilai: vedi Qubilai Kılıç-Schubel, N., 165n Kircher, Athanasius, 191, 202 Ko Hung: vedi Ge Hong Kökächin: vedi Kökäčin Kökäčin (Kökächin, Kökejin), 16, 39, 95, 150-152, 155-157, 159-162 Kökejin: vedi Kökäčin Kublai: vedi Qubilai Kulikowski, M., 91n Labande, E.-R., 145n Lamouroux, C., 87n Lanciotti, L., 29n Langlois, J.D. Jr, 79n, 89n La Pradelle, P.G. de, 89n Larner, J., 110n Latini, Brunetto, 38 Lattimore, O., 87n Laufer, B., 133n, 136n, 138n, 139n, 143, 144n, 145n La Vaissière, É. de, 22n Lecomte, G., 141n Le Goff, J., 25n Leonardi, C., 26n, 29n, 30n Leo Ostiensis, 145n Letts, M., 44n Lévy, B.J., 56, 57n, 132n Lewis, B., 169n Liang Degui, 184n Liang-ho Su, 133n, 139n Liang Ji, 138n Liang-ki: vedi Liang Ji

Li Chengxiu, 126n Liščák, V., 42n, 120n Li Shaojin, 15 Liu Minzhong, 97n Liu Xiao, 176n, 177n, 180n Liu Yingsheng, 97n, 112n Li Xiao, 21n, 22n Li Xin, 65, 66n Li Zheng, 17n Lommatzsch, E., 85n Luigi IX, re di Francia, 34 Lungarotti, M.C., 29n, 30n Luo Shu-Jin, 64 Luo Xianyou, 182n Lupprian, K.E., 29n Maas, M., 14n Magaillans: vedi Magalhães Magalhães, Gabriel de, 192n, 194, 195, 197, 199-201 Maher, V., 92n Mahmud, 105 Mahmūd al-Kashgharī, 23 Mahmūd b. Muhammad b. Ahmad (Tāj Malih, al-Simnānī), 104 Mair, V.H., 48n Ma Jianchun, 113n Malfatto, I., 43n Malik Mu’azzam Fakhru-d din Ahmad, 98-100, 105 Mancini, M., 142n Mangalai, 82 Mangu: vedi Möngke Mansur b. Haji al-Qasim al-Jajarm, 103 Marchesino da Bassano, 40 Marchetti, P., 89n, 91n Marchisio, A., 40n, 54n, 108n, 121n Marignolli, Giovanni de’, 10, 43, 109 Markhāy, 166 Marks, R.B., 61n Marroni, S., 136n Martin, R., 75n Martini, Martino, 190, 193, 194, 195n, 196, 197, 199-202 Martino Polono, 173 Marzella, F., 136n Mascherpa, G., 38n, 157n

210 Matsubara Hideichi, 57n, 132n Matsuda Kōichi, 123n Ma Xiaolin, 116n-118n, 122n, 131n, 135n Mazák, J.H., 64n Mc Guckin de Slane, W., 144n Ménard, Ph., 36n, 45n, 73n, 122n, 151, 152, 161 Menestò, E., 26n, 29n, 31n Menges, K.H., 163n Meng Xianshi, 21n, 22n Merisalo, O., 87n, 89n Meynard, C.B. de, 169n Mezzadri, S., 75 Michetti, R., 29n Mikami Tsugio, 106n Milanesi, M., 121n Minorsky, V., 169n Mīnuvī, M., 164n Monaco, L., 41n Möngke Khan (Mangu), 32, 98 Montevecchi, B., 146n Morgan, D., 32n, 163n Morida Kenji, 124n Mori Tatsuya, 106n Morton, A.H., 103, 104 Mostaert, A., 173n Moule, A.C., 13, 37, 117n, 118n, 128, 150n, 153, 154n, 201n Muhammad b. Abu al-Basli Gilani, 103 Mustaʿṣim Billāh, 166 Naluwan Banan b. Ghasim Isfahani, 103 Needham, J., 133n, 139n, 141n, 143 Neilson, B., 75 Neukirch, D., 37n Newman, D., 92n Nicolotti, A., 145n Nīrūn, 166 Nóbrega, Manuel, 192 Noqai, 99, 100 (vedi anche Buka Elchi) Nora, P., 89n Nordman, D., 85n, 90 Nugodar, 86 Nuqāy īlchī: vedi Buka Elchi

Odorico da Pordenone, 10, 40-43, 45, 54, 108, 115, 116, 118-126, 129 Ögödei Qan (Khan, Khān), 175-181 Olschki, L., 192n, 193n, 195n, 200n, 201n Ossola, C., 90n Otagi Matuo, 150-152 Pangu, 167 Pasero, N., 146n Pastore, A., 86n Paternicò, 190n Pellegrino da Città di Castello, 28 Pelliot, P., 13, 37n, 73n, 79, 99-101, 102n, 117n, 118n, 128, 131n, 135n, 136n, 150-153, 154n, 157n Peng Daya, 179 Peron, G., 40n Petech, L., 29n, 173n Pfister, M., 85n, 131n Philippe de Commynes, 85n Pierre de Beauvais, 142n Pietro d’Abano, 28n, 193 Pipino, Francesco, 76, 158, 193 Plinio il Vecchio (Gaio Plinio Secondo), 138, 139n, 142, 144 Po-lo (Pu-lo): vedi Bulad Chengxiang Polo, Marco, 10, 13-16, 20, 23, 26n, 35-39, 41, 43, 47, 48, 49n, 50-52, 53n, 55-57, 59, 60, 65, 66, 69-71, 73-75, 77-82, 84, 85, 87n, 88-92, 95, 96, 100, 110, 115-120, 124, 125n, 126-129, 131, 132, 133n, 134-137, 140, 149-162, 172, 189203 Polo, Matteo, 10, 35, 39, 156, 157 Polo, Niccolò, 10, 35, 39, 156, 157 Preston, L.W., 21n Ptak, R., 96n Pulad (Pulād): vedi Bulad Chengxiang Pulad Jinksank, 167 Qaidu, 86 Qashi, 176, 177 Qāsim Khān, 164 Qianlong, 68 Qiu Chuji, 176, 181

211 Qiu Yihao, 98n, 99, 105n Qoshla, 121 Quatremère, É., 164n Qubilai (Khubilai, Kublai) Qa’an, 35, 54, 55, 60, 76-78, 81, 82, 86, 89, 95, 101, 102, 117-119, 123, 127-130, 150, 176, 177, 182-184, 200 Qudāma ibn Ja‘far, 23 Quinn, S.A., 164n Qutlughsha, 154 Qu Wentai, 18, 19 Rabelais, F., 132n, 133n Raelet, R., 44n Raffestin, C., 78n, 90n Rahman, A., 169n Ramusio, Giovanni Battista, 38, 48n, 59, 79n, 118, 121-123, 127n, 137n, 156, 157n, 158, 162, 190n, 191 Ranucci, G., 138n Rashid-al Din: vedi Rashīd al-Dīn Rashīd al-Dīn, 96, 101, 102n, 153n, 154, 155n, 156, 158n, 159-165, 167, 168n, 169, 170n, 171-173 Rashīd al-Dīn Fażl Allāh Hamadānī: vedi Rashīd al-Dīn Rashid ud din Fazlullah: vedi Rashīd alDīn Rašīd al-Dīn: vedi Rashīd al-Dīn Rawshan, M., 170n Régis, J.-B., 196n Reichert, F.E., 25n-27n, 43n, 147 Ricci, Matteo, 191, 193, 195n, 196198, 200, 202 Ricciardi, M., 90n Richard, J., 28n, 29n, 110n, 173n Richart de Fornival, 141n Rieger, D., 37n Robinson, D.M., 88n Rockhill, W.W., 112n Röhl, S., 44n Ronchi, G., 36n, 78n Rong Xinjiang, 14n-17n, 19n-22n, 131n, 149n Rossabi, M., 89n Ruggieri, M., 191 Ruggieri, R., 193

Rustichello da Pisa, 36, 37, 39, 41, 73, 75, 79, 80, 85, 149 Saʿdī, 105 Sahlins, P., 90n Salvaneschi, E., 140, 141n Salvestrini, F., 89n Sanguinetti, B.R., 104 Sarula, 186 Saverio, Francesco (Francisco de Jasso Azpilicueta Atondo y Aznares de Javier), 191 Scartezzini, R., 190n Schafer, E.H., 54n Schmidt, M.G., 15n Schmitt, C., 29n Schneider, R., 18n, 85n Schurhammer, G., 191n Segre, C., 36n, 37n, 78n, 141n Semedo, A., 202 Sengge, 182-184 Sereno, P., 86n Shams al-Din b. Nur al-Din b. Ishaq Shahr-Nasa, 103 Shams al-Dīn Muhammad b. Ahmad b. Abi Nasr al-Isfahānī, 104 Shang Qiweng, 113n, 122n Sharaf al-Dīn, 104 Shi (Shi Jun, «Signore Shi»), 15 Shihu, 18, 19 Shijinbo, 19n Shi Randian, 22 Shūdī Shūsū, 167 Siksṭūs: vedi Sisto II Silvestro I, papa, 146n Simion, S., 38n, 42n, 48n, 79n, 127n, 137n, 157n Simone di Saint-Quentin, 28 Sims-Williams, N., 15n Sinor, D., 28n Sisto II, papa, 171 Siyāqī, M. Dabīr, 170n Skar, L., 48n Sloane, H., 132n Smith, A., 92n Sonam Gyatso, 58 Song Defang, 176, 177

212 Song Lian, 69n, 119n, 182n Sorelli, F., 29n Spetia, L., 136n Sprenger, A., 169n Stadler, H., 143n Steingass, F., 168n Storey, C.A., 165n Strabone, 132, 137 Strinna, G., 38n Sugiyama Masa’aki, 164n, 167n Su Jiqing, 102n, 106n Sundermann, W., 15n Sung Hou-mei (Song Houmei), 47n, 48n, 61n, 71 Sutūda Manūchihr, 169n Suzuki Satoru, 132n Ṭāhir, G., 164n Tāj al-Dīn, 104 Takada Hideki, 149n, 151, 152 Tamburello, A., 198n Tang Zhangru, 22n Tao Yuzhi, 66n Temür Khan, 98, 99, 119 Thackston, W.M., 102n, 153n Theobald, U., 38n Tiberio, Giulio Cesare Augusto, 171 Tilatti, A., 120n Ṭipāryūs: vedi Tiberio, Giulio Cesare Augusto Tobler, A., 85n Togan, A. Zeki Velidi, 164, 167n Tolias, G., 28n Tolui, 112 Trigault, N., 190n Trombert, E., 22n Tūlūy, 166 Tuqtemür, 121 Turakina, 177 Tyssens, M., 44n Ughusṭūs Qayṣar: vedi Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano Ūkadāy, 166 Ūljāytū, 163 Urtuqta (Hurtuqta), 102

Valastro Canale, A., 139n Valeriano, Publio Licinio, 170, 171 Valirīānūs: vedi Valeriano, Publio Licinio Vasco Rocca, S., 146n Vaṣṣāf al-Ḥaz̤rat, 97, 100 Verhaeren, H., 190n Viganoni, L., 198n Vincenzo di Beauvais, 28, 146 Vittorino, Gaio Mario, 91 Vogel, H.U., 38n, 115, 120, 131n, 149n, 200n Waldseemüller, Martin, 87n Walsh, J.H., 68 Wang Chongyang, 180 Wang Dayuan, 106 Wang Shidian, 113n, 122n Wang Shou, 184n Wang Ting, 99n Wang Xiaoxin, 176n Wang Xu, 71 Wang Yidan, 102n, 168n Wartburg, W. von, 85n Watkins, D.B., 128n Wei Chu, 177 Wencheng: vedi Gaozong Wolfzettel, F., 33n Wood, F., 87n, 115, 193n Woods, J.E., 164n Wuzong, 181, 182, 184, 185 Wylie, A., 133n Wyngaert, A. van den, 28n, 40n, 107n, 124n Xiang Da, 178n Xuanzang, 18 Xu Ting, 179 Xu Zhongwen, 131n, 149n Yang Bowen, 112n Yang Chih-Chiu: vedi Yang Zhijiu Yang Han-Sung, 21n Yang Qinzhang, 101n Yang Shu, 99, 100 Yang Wuquan, 111n Yang Zhijiu (Yang Chih-Chiu), 13, 116, 149n, 150, 182n

213 Yao Congwu, 185 Yao Xiaoxian, 66n Yelü Chucai, 178, 179, 181 Yelu Dashi, 20 Yesün Temür, 120, 121, 123 Ye Yiliang, 16n Yi Gou, 177n, 180n Yin Zhiping, 179, 180 Yiyang Ju, 135n Yokkaichi Yasuhiro, 105n, 181n Yong-le, 113 Yong Shiheng, 51 Yu Dajun, 184n Yule, H., 48n, 50, 54n, 95n, 109n, 110n, 118n, 121n, 198n Yusuf, 105

Zaganelli, G., 25n, 142n Zambon, F., 139n Zanon, T., 39n Zhang Zu, 21 Zhao Feng, 20n Zhao Rukuo, 111, 112n Zheng He, 113 Zheng Linzhi, 122n, 123n Zhiyan, 17, 18 Zhong-jun Li, 133n, 139n Zhou Qufei, 111 Zhou Ying, 177n Zhu Linshuang, 19n Zhu Xi, 69 Zorzi R., 37n Zu Shengli, 175n

GLI AUTORI

ALVISE ANDREOSE, Professore Associato di Filologia e linguistica romanza presso la Facoltà di Lettere dell’Università eCampus (Novedrate). DAVOR ANTONUCCI, Professore Associato di Lingue e letterature della Cina e dell’Asia sud-orientale presso il Dipartimento «Istituto Italiano di Studi Orientali – Iso», «La Sapienza» Università di Roma. EUGENIO BURGIO, Professore Ordinario di Filologia romanza presso il Dipartimento di Studi umanistici dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. CHEN XI, dottoranda presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Pechino (Peking University - Pku). DANG BAOHAI, Professore Associato di Storia cinese presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Pechino (Peking University - Pku). MA XIAOLIN, Professore Associato di Storia cinese presso il Dipartimento di Storia dell’Università Nankai, Tianjin. QIU ZHIRONG, borsista post-dottorato presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Pechino (Pku). RONG XINJIANG, Professore Ordinario di Storia cinese presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Pechino e Direttore del Centro di Ricerca sulla Via della seta e sull’Asia interna (Peking University - Pku). SAMUELA SIMION, Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Studi umanistici dell’Università Ca’ Foscari di Venezia HANS ULRICH VOGEL, Professore Ordinario di Storia e società cinese presso il Dipartimento di Studi cinesi dell’Università «Eberhard Karl» di Tubinga. WANG YIDAN, Professore Ordinario di Lingua persiana presso il Dipartimento di Lingue straniere dell’Università di Pechino (Peking University Pku).

Finito di stampare nel mese di dicembre 2019 da Geca Industrie Grafiche - San Giuliano Milanese (MI)